Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

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ANNO 2021

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

TERZA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

     

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE PRIMA PARTE

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Circo.

Superstizione e fisse.

Gli Zozzoni.

Le Icone.

Le Hollywood d’Italia.

«Gomorra», tra fiction e realtà.

Quelli che …il calcio.

I Naufraghi.

Amici: tutto truccato?

Il Grande Fratello Vip.

"I tormentoni estivi? Sono da 60 anni specchio dell'Italia".

Le Woodstock.

Rap ed illegalità.

L’Eurovision.

Abella Danger e Bella Thorne.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Volpe.

Adriano e Rosalinda Celentano.

Aerosmith.

Aida Yespica.

Afef.

Alanis Morissette.

Alba Parietti.

Alba Rohrwacher.

Al Bano Carrisi.

Alda D’Eusanio.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale & Franz.

Alec Baldwin.

Alessandra Amoroso.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Borghese.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Nivola.

Alessia Marcuzzi.

Alessio Bernabei.

Alfonso Signorini. 

Alice ed Ellen Kessler.

Alina Lopez e Emily Willis.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amouranth, alias Kaitlyn Siragusa.

Andrea Balestri.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sannino.

Angela White.

Angelina Jolie.

Anya Taylor-Joy.

Anna Falchi.

Anna Oxa.

Annalisa Minetti.

Anna Maria Rizzoli.

Anna Tatangelo.

Anna Mazzamauro.

Anthony Hopkins.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Mosetti.

Antonello Venditti.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Costantini Awanagana.

Antonio Mezzancella.

Antonio Ricci.

Arisa.

Asia e Dario Argento.

Aubrey Kate.

Baltimora.

Barbara De Rossi.

Barbara d'Urso.

Beatrice Rana.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta D’Anna.

Benedicta Boccoli.

Bill Murray.

Billie Eilish.

Björn Andrésen.

Bob Dylan.

Bobby Solo, ossia: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brandi Love.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Bruce Springsteen.

Camilla Boniardi: Camihawke.

Can Yaman.

Capo Plaza, nato come Luca D'Orso.

Cara Delevingne.

Carla Gravina.

Carlo Cracco.

Carlo Verdone.

Carlotta Proietti.

Carmen Consoli.

Carmen Russo e Enzo Paolo Turchi.

Carol Alt.

Carolina Marconi.

Catherine Spaak.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina De Angelis e Margherita Buy.

Caterina Lalli, in arte Lialai.

Caterina Murino.

Caterina Valente.

Cecilia Capriotti.

Chadia Rodriguez.

Charlotte Sartre.

Chloé Zhao, regista Premio Oscar.

Christian De Sica.

Claudia Koll.

Cristian Bugatti in arte Bugo.

Cristiano Malgioglio.

Clara Mia.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Motta.

Claudia Pandolfi.

Claudia Schiffer.

Claudia Koll.

Claudio Baglioni.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Santamaria.

Coma_Cose.

Cosimo Fini, cioè Gué Pequeno.

Corinne Clery.

Daft Punk.

Damon Furnier, in arte Alice Cooper.

Daniela Ferolla.

Dario Faini, Dardust e DRD.

Demi Lovato.

Demi Moore.

Demi Sutra.

Deep Purple.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dori Ghezzi vedova De André.

Dredd.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Vianello.

Eddie Murphy.

Elena Sofia Ricci.

Eleonora Cecere.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Pedron.

Elettra Lamborghini.

Elio (Stefano Belisari) e le Sorie Tese.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elena Anna Staller, detta Ilona (il nome della madre) o Cicciolina.

Elodie.

Ema Stokholma.

Emanuela Fanelli.

Emma Marrone.

Emily Ratajkowski.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Papi.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi: Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ermal Meta.

Eros Ramazzotti.

Eva Grimaldi.

Eveline Dellai.

Ezio Greggio.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Faber Cucchetti.

Fabio Marino.

Fabio Testi.

Fanny Ardant.

Federico Quaranta.

Federico Salvatore.

Filomena Mastromarino: Malena.

Fedez e Chiara Ferragni.

Fiorella Mannoia.

Flavia Vento.

Flavio Insinna.

Francesca Alotta.

Francesca Cipriani.

Francesca Giuliano.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Pannofino.

Francesco Sarcina.

Franco Oppini.

Franco Trentalance.

Frank Matano.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Lavia.

Gabriele Paolini.

Gabriele Salvatores.

Gene Gnocchi.

Gerry Scotti.

Giancarlo Magalli.

Giancarlo ed Adriano Giannini.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi D'Alessio.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Veronesi.

Giucas Casella.

Giulia De Lellis.

Giuliano Montaldo.

Giulio Mogol Rapetti.

Giuseppe Povia.

Greta Scarano.

Harvey Keitel.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hugh Grant.

Gli Stadio.

I Dik Dik.

I Duran Duran.

I Jalisse.

I Gemelli di Guidonia.

I Pooh.

I Righeira.

I Tiromancino.

Iggy Pop.

Ilaria Galassi.

Ilary Blasi.

Ilenia Pastorelli.

Irina Shayk.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

J-Ax.

James Franco.

Jamie Lee Curtis.

Jane Fonda.

Jean Reno.

Jenny B.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Drake.

Jessica Rizzo.

Joan Collins.

Jo Squillo.

John Carpenter.

Johnny Depp.

José Luis Moreno.

Junior Cally.

Justine Mattera.

Gabriele Pellegrini: Dado.

Giovanni Scialpi, in arte Shalpy.

Kabir Bedi.

Kayden Sisters.

Kasia Smutniak.

Kate Moss.

Kate Winslet.

Katherine Kelly Lang- Brooke Logan.

Katia Ricciarelli.

Kazumi.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kissa Sins.

Lady Gaga.

La Gialappa's Band.

La Rappresentante di Lista.

Lando Buzzanca.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Pausini.

Le Carlucci.

Lele Mora.

Lello Arena.

Leo Gullotta.

Liana Orfei.

Licia Colò.

Lillo (Pasquale Petrolo) & Greg (Claudio Gregori).

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Liza Minnelli.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Jovanotti Cherubini.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luca Barbareschi.

Luca Barbarossa.

Luca Bizzarri.

Luca Tommassini.

Luca Zingaretti.

Luca Ward.

Luce Caponegro: Selen.

Luciana Littizzetto.

Luciana Savignano.

Luciano Ligabue.

Lucrezia Lante della Rovere.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Maccio Capatonda (all'anagrafe, Marcello Macchia).

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Maitland Ward.

May Thai.

Malika Ayane.

Maneskin.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Castoldi in arte Morgan.

Marco e Dino Risi.

Marco Giallini.

Marco Mengoni.

Marco Tullio Giordana.

Maria Bakalova.

Maria De Filippi.

Maria Giuliana Toro: «nome d' arte», Giuliana Longari.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Luisa “Lu” Colombo.

Maria Pia Calzone.

Marianna Mammone: BigMama.

Marica Chanelle.

Marilyn Manson.

Mario Maffucci.

Marina La Rosa.

Marina Perzy.

Marisa Laurito.

Martina Cicogna.

Martina Colombari.

Massimo Boldi.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Massimo Wertmüller.

Matilda De Angelis.

Maurizio Aiello.

Maurizio Battista.

Maurizio Milani.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Pezzali.

Mel Brooks.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael J. Fox.

Michael Sylvester Gardenzio Stallone.

Michele Foresta, in arte Mago Forest.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosé.

Milena Vukotic.

Milton Morales.

Mikhail Baryshnikov.

Mina.

Miriam Leone.

Mistress T..

Mita Medici.

Myss Keta.

Modà.

Monica Bellucci.

Monica Guerritore.

Monica Vitti.

Nada.

Naike Rivelli ed Ornella Muti.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Naomi Campbell.

Nek.

Nicola Di Bari.

Nicolas Cage.

Nicole Aniston.

Nina Moric.

Nino D’Angelo.

Nino Frassica.

Nick Nolte.

Nyna Ferragni.

Noemi.

99 Posse.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Portento.

Ornella Vanoni.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino, meglio nota come Insta_Paolina.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Fox.

Paolo Rossi.

Paolo Sorrentino.

Paris Hilton.     

Pasquale Panella alias Vito Taburno.

Patrizia De Blanck.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Pedro Almodóvar.

Peppe Barra.

Peppino di Capri.

Phil Collins.

Pietra Montecorvino.

Pierfrancesco Favino.

Pier Francesco Pingitore.

Piero Chiambretti.

Pietro Galeotti.

Pino Donaggio.

Pio e Amedeo.

Pietro e Sergio Castellitto.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones Jr.

Rae Lil Black.

Rajae Bezzaz.

Raffaella Carrà.

Raffaella Fico.

Red Ronnie.

Regina Profeta.

Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Fabbriconi: Blanco.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Richard Benson.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Ora.

Robert De Niro.

Roberto Da Crema.

Roberto Vecchioni.

Robyn Fenty, in arte Rihanna.

Rocco Maurizio Anaclerio, in arte Dj Ringo.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Roberto Bolle.

Rodrigo Alves.

Rosalino Cellamare: Ron.

Rosario Fiorello.

Rowan Atkinson.

Sabina Guzzanti.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sal Da Vinci.

Salma Hayek.

Salvatore Esposito.

Sandra Milo.

Sara Croce.

Sara Tommasi.

Sarah Cosmi.

Scarlit Scandal.

Serena Autieri.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio Rubini.

Shaila Gatta.

Sharon Stone.

Shel Shapiro.

Silvio Orlando.

Simona Izzo e Ricky Tognazzi.

Simona Marchini.

Simona Tagli.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Sylvie Lubamba.

Sylvie Vartan.

Sophia Loren.

Stefania Casini.

Stefania Orlando.

Stefania e Amanda Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Stefano e Frida Bollani.

Stefano Sollima.

Steven Spielberg.

Sting.

Taylor Swift.

Teo Teocoli.

Terence Hill, alias Mario Girotti.

Terence Trent d’Arby, ora Sananda Maitreya.

Teresa Saponangelo.

Tilda Swinton.

Tim Burton.

Tina Ciaco, in arte Priscilla Salerno.

Tina Turner.

Tinì Cansino.

Tinto Brass.

Tiziano Ferro.

Tommaso Paradiso.

Toni Ribas.

Toni Servillo.

Tony Renis.

Tosca D’Aquino.

Tullio Solenghi.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Val Kilmer.

Valentina Lashkéyeva. In arte: Gina Gerson.

Valentina Nappi.

Valentine Demy.

Valeria Golino.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valerio Lundini.

Valerio Staffelli.

Vasco Rossi.

Veronica Pivetti.

Village People.

Vina Sky.

Vincent Gallo.

Vincenzo Salemme.

Vittoria Puccini.

Vittoria Risi.

Zucchero Fornaciari.

Wanna Marchi e Stefania Nobile.

Wladimiro Guadagno, in arte Luxuria.

Willie Nelson.

Willie Peyote.

Will Smith.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Figure di m…e figuranti.

Non sono solo canzonette.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed ultima Serata.

Sanremo 2022.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…scrivono.

Quelli che….la Paralimpiade.  

Quelli che…l’Olimpiade.

L’omertà nello Sport.

Autonomia dello sport? Peggio della Bielorussia.

Le Plusvalenze.

Le Speculazioni finanziarie.

Gli Arbitri.

I Superman…

Figli di Papà.

Quelli che …ti picchiano.

Quelli che … l’Ippica.

Quelli che … le Lame.

Quelli che …i Motori.

Quelli che …il che Ciclismo.

Quelli che …l’Atletica.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …il Calcio. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che ...la Palla ovale.

Quelli che …la Pallacanestro. 

Quelli che …la Pallavolo.

Quelli che …il Tennis.

Quelli che …la Vela.

Quelli che …i Tuffi. 

Quelli che …il Nuoto. 

Quelli che …gli Sci.

Quelli che …gli Scacchi. 

Quelli che… al tavolo da gioco.

Il Doping.

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Maccio Capatonda (all'anagrafe, Marcello Macchia).

Francesca D'Angelo per "Libero Quotidiano" il 16 dicembre 2021. Avete presente tutti quei meravigliosi discorsi su: la pandemia ci farà riflettere, tirerà fuori il meglio di noi, ne usciremo cambiati? Ebbene, se per il 99,999% dell'umanità si è rivelata una castronata, per Maccio Capatonda è andata invece esattamente così. Lui, da questi due anni pandemici (si è fatto pure il Covid...), ha tirato fuori una marea di cose, dalla sua prima autobiografia, dal titolo Libro, ai Podcast Micidiali su Audible, passando per una nuova società creativa e, prossimamente, Lol2. E ha pure cambiato città: da Milano a Roma.

Chi gliela l'ha fatto fare?

«Avevo bisogno di uno choch. Sentivo l'esigenza di avere nuovi stimoli, anche esterni, così sono andato a vivere in una città che fosse l'antitesi di Milano: un luogo meno efficiente, che mi mettesse più a contatto con il mondo e Roma sicuramente è più "reale" di Milano. Milano infatti è una bolla di efficienza, ti sposti da un punto all'altro senza goderti il viaggio. Nella Capitale invece devi spesso camminare, vivi lo spazio esterno...».

...nuoti nella spazzatura.

«Guardi che la spazzatura è una bella cartina tornasole perché è l'unica vera sostanza che noi umani produciamo. A Roma maturi una vera e propria coscienza a riguardo: vedi l'immondizia, ne senti l'odore, la trovi sotto casa, all'angolo, ovunque. Non è come a Milano che, una volta gettata, sparisce. Qui no, lei è lì e ti interroga. Inizi così a farti delle domande e a sviluppare una coscienza sociale».

Perché l'ha assalita tutta quest'ansia di cambiamento?

«Mah, sa, nessun artista vuole ripetersi e l'insoddisfazione è sempre stata una spinta creativa molto forte per me». 

Quando si vive di maschere, è facile perdere di vista se stessi?

«Cinque anni fa le avrei risposto che non sapevo chi fossi. La verità è che non volevo saperlo. Preferivo il mio mondo di fantasia a quello reale: è più sicuro, si soffre meno. A lungo mi sono concepito come un essere neutro: quando mi toglievo la maschera ero semplicemente in stand by, in attesa di riplasmarmi di nuovo a seconda delle esigenze. Nei video ero un figo, nel mondo reale semplicemente inconsistente».

Adesso invece?

«Ora sto cavalcando di più la mia versione reale. Non so esattamente cosa abbia fatto scattare questo click, ma sto capendo che sono "qualcosa" al di là delle maschere e sto portando questa identità dentro i miei video. Un po' come fece Carlo Verdone, mio grande mito: dopo i primi film di successo, fece Borotalco interpretando se stesso».

Una volta ha dichiarato: «Ho la sensazione che la scelta di fare il comico, o in generale l'artista, sia una via alternativa alla politica». Se dovesse fondare un partito come lo chiamerebbe?

«Il Partito del Boh». 

Sarebbe di destra o di sinistra?

«Boh». 

"Boh" è la perfetta sintesi delle risposte dei nostri politici?

«Ha presente il tormentone "dimmi qualcosa senza dirmelo"? Ecco, i politici dicono niente facendo credere di dire qualcosa. Il fatto è che non è facile dare delle risposte: la politica è un mestiere complicato! Fosse per me, creerei una scuola ad hoc: governa solo chi supera degli esami complicatissimi e delle prove pazzesche di onestà e integrità».

E il voto?

«Lo toglierei proprio, perché spesso premia le persone più furbe. Rimpiazzerei il sistema elettorale con la scuola». 

Fin dai tempi della Gialappa's ha raccontato l'uomo medio: crede che oggi questo essere mitologico si sia evoluto culturalmente?

«Di certo è più informato, ma non per questo più colto. Non so nemmeno se sia socialmente più impegnato, a meno di considerare il complottismo come una forma di impegno sociale. Il fatto è che siamo bombardati di notizie usa e getta, che scadono velocemente, e soprattutto non siamo in grado di processare correttamente le informazioni. Inoltre oggi le notizie sono diventate un prodotto da vendere a colpi di titoli sensazionalistici».

Ogni riferimento è puramente casuale?

«In tanti fanno titoli eclatanti! In parte poi ci sta: si legge un articolo se il titolo acchiappa. A proposito, mi raccomando: scrivete una cosa tipo "Maccio vuole che il mondo muoia" altrimenti chi mi legge? (ride, ndr)».

Il suo stile sposa il nonsense, la falsa testimonianza e la ricostruzione parodistica: ha mai pensato di chiedere i diritti d'autore agli estremisti no vax? La stanno copiando a mani basse...

«Un sacco di gente mi sta rubando il lavoro! (ride, ndr) Pensi che ieri è uscita una notizia sul "frenatore di treni": un tizio che saliva sui treni in modo seriale per tirare la leva di blocco. Molti pensavano fosse una mia storia invece era vero...».

Dove si schiera nel dibattito sui vaccini?

«No, grazie: tema troppo politico. Sono a favore della vaccinazione, anche perché ho fatto il Covid e non è stata una passeggiata. Però capisco le resistenze di alcuni». 

Ha scritto un'autobiografia, Libro, senza includere nemmeno un trauma: ormai sono la regola nelle autobiografie!

«Guardi che io ho avuto il trauma della calvizie! Non rida, sono serio: non sarà come un abuso ma è uno shock a lungo termine perché te lo porti dietro per anni. Io ho iniziato a perdere i capelli a soli 12 anni, a venti già mi rasavo. Poi però ci ho costruito su il mio successo: Capatonda...».

Da bimbo scriveva a Michael J. Fox? Vero?

«Sì, lo adoravo: è grazie a Ritorno al futuro se mi sono innamorato del cinema. Lui era il mio modello perché era un vincente (cosa che io non ero) e ribaltava le sorti della sua famiglia. Avrei voluto fare lo stesso con la mia... E poi scrivevo anche a Michael Jackson». 

Quella è stata una mossa più pericolosa...

«Lui non era ancora stato travolto dallo scandalo e, comunque, mi piaceva come ballava. Gli mandavo lettere del tipo: "Ciao, a me piace tanto Twin Peaks, e a te?". Non mi ha mai risposto, mentre Fox mi mandò una cartolina autografata: fui pazzo di gioia!».

Da piccolo faceva anche il chierichetto: è ancora credente?

«Mi definirei più che altro agnostico. La verità è che da piccolo ero goloso di ostie. Sono cresciuto con questo mito dell'ostia quindi, appena feci la prima comunione, ne mangiai un sacco: andavo a messa tutte le sere per poterne mangiare una al giorno. Mi piaceva proprio il gusto». 

Tra un George Clooney e un Bobo Vieri, Elisabetta Canalis si innamorò anche di lei...

«Siamo stati insieme solo tre mesi!».

Fa comunque curriculum. Però resta il mistero: come ci è riuscito?

«Secondo me lei era invaghita del mio personaggio artistico, poi mi ha conosciuto meglio e... dopo tre mesi è finito tutto (ride, ndr)».

Ultima domanda: la vedremo a Lol. Quali colleghi ha temuto di più?

«Il primo giorno di registrazione, quando mi sono visto davanti Virginia Raffaele ho pensato: "Ciao, qui è finita!". Poi è arrivato Corrado Guzzanti ed è stato un tuffo al cuore: è il mio mito da quando sono nato! Loro due, insieme al Mago Forest, sono quelli che ho temuto di più».

Nino Materi per "il Giornale" l'8 novembre 2021. A differenza del suo socio Herbert che «non regge l'alcol» (quando Maccio gli porge in mano una preziosa bottiglia di cognac, lui la fa cadere giustificandosi: «Te l'avevo detto che non reggo l'alcol...»), Capatonda l'alcol lo regge benissimo: tanto che, ospite in tv di Daria Bignardi, si è scolato una pinta di birra, per poi replicare nel programma di Alessandro Cattelan con vari shortini offerti e tracannati dopo aver vinto un incontro a «dito di ferro». Lo sbevazzatore in questione è, appunto, Maccio Capatonda (all'anagrafe, Marcello Macchia), il jolly della comicità demenziale e surreale che da anni sbanca la rete con milioni di visualizzazioni. L'astemio con le mani di ricotta è invece Herbert Ballerina (al secolo, Luigi Luciano), principale complice del boss nella banda di fuorilegge (e fuoriditesta) che ha germinato il «fenomeno Capatonda». Trattasi di una filosofia di vita che la «dottrina Maccio» sintetizza nella fuga dalla realtà attraverso la follia di personaggi mostruosi. E quando ci viene il sospetto che quei mostri - almeno in parte - siamo proprio noi, ormai è troppo tardi: il meccanismo della risata è già scattato, senza però farti capire se stai ridendo di te stesso o di un altro; il segreto del successo di Capatonda è saltellare sul filo elastico di questa ambiguità e lungo il piano inclinato delle nostre insicurezze. Senza cadere, o meglio, cadendo in continuazione, ma con una tale velocità da illuderci di rimanere sempre in piedi. L'ironia da laboratorio creativo di Maccio è perfetta per ritmi sincopati e i gusti liquidi dei navigatori social, specialmente i più giovani, che (e qui ci riferiamo al fronte maschile) a Maccio invidiano soprattutto il flirt avuto con Elisabetta Canalis. Il popolo della metropoli virtuale di Capa-Town è socialmente trasversale, ma con un'età da Generazione Millennial: quella che i libri non li bazzica neppure di striscio, fedele al precetto di Padre Maronno («E se poi te ne penti?»). L'unica eccezione l'hanno fatta per Libro (Mondadori Electa), l'autobiografia appena uscita di Maccio, ma solo perché Libro sta a un volume vecchio stampo come una concept car sta alla Trabant 601. In entrambi i casi ci troviamo dinanzi a un trash tanto trash da trasformarsi in puro genio visionario. Risultato: una, nessuna, centomila «capetonde», che tondeggiano su una capa tricologicamente sterile ma prolifica di idee. Un vulcano di immaginazione già in eruzione a 6 anni, quando al piccolo e ancora capelluto Marcello (il nome Maccio sarebbe arrivato più in là, dopo l'adolescenza) fu regalata la prima cinepresa. Iniziò così l'avventura di regista fai-(tutto)-da-te del baby Macchia che, in 40 annidi disonorata carriera, sarebbe passato dal «montaggio combinato» (nel senso di «combinato» grazie a due videoregistratori) alle tecniche super-evolute da provetto youtuber. 

Maccio, l'esordio fu horror?

«I video giovanili ambivano a terrorizzate lo spettatore. Ma chi li guardava, invece di morire di paura, rischiava di crepare dalle risate». 

Noir nelle vene, meglio del sangue blu...

«A 14 anni iniziai a girare in versione comica trailer di falsi film ispirati a vere pellicole spaventose». 

Il primo ciak di terrore?

«Il titolo era "Jason a Chieti". Avevo preso spunto dalla saga di "Venerdì 13". Raccontavo la storia di un tizio mascherato, Jason, che uccideva tutti, compreso il protagonista, e alla fine esultava da solo». 

Il cast?

«Gli amici Luca, Alfredo e Roberto. Oltre a fare il regista interpretavo il protagonista buono e anche l'assassino Jason, tranne nel finale in cui venivo squartato dallo stesso Jason». 

E come rimediò all'«inconveniente»?

«Nell'ultima scena l'assassino fu impersonato da Luca: infatti da uno stacco all'altro Jason divenne magicamente più longilineo». 

Sostieni di sentirti a tuo agio più nei personaggi che interpreti che nelle vesti reali di Marcello Macchia.

«Penso di vivere in una sorta di spazio in cui se non interpreto un personaggio non sono niente. E il niente mi fa paura». 

Come nascono i tuoi personaggi?

«Lo spiego in Libro. Sono già tutti parte di me, sedimentati sotto strati di vissuto, e sepolti per bene al mio interno. Per farli uscire ci vuole una scintilla, una scavatrice, una pala, o semplicemente un buon motivo come una richiesta esigente da parte di un committente». 

Tra i primi ci fu «Mirkos».

«Un cartomante che leggeva il futuro attraverso strumenti molto particolari come i sassolini, il mestolo e il pendolino. Mi ispirai a un cartomante visto in tv che aveva la schiettezza di dire le cose come stavano. 

Anche Mirkos diceva le cose come stavano ma portate all'eccesso, il suo cavallo di battaglia era: "Domani muori!"».  

I tuoi sono «mostri» di fantasia o figli della quotidianità di strada?

«Non c'è un personaggio che non si rifaccia a qualcuno che ho visto, incontrato o conosciuto, anche solo per un particolare». 

Tipo «Mariottide».

«Mariottide, il cantante più triste del mondo. A ispirarmi in questo caso è stata la voce e l'atteggiamento di mia nonna materna». 

E «Padre Maronno»?

«Padre Maronno è un mix tra un uomo delle caverne, il personaggio di "Totò che visse due volte" di Ciprì e Maresco e mia madre che imita mio padre». 

E «Piero Peluria»?

«Piero Peluria è l'espressione più becera e animalesca di me stesso». 

Personaggi catartici, liberatori.

«Che mi permettono di essere quello che nella vita reale non sono e non potrei mai diventare». 

Diventare Capatonda in risposta a un mondo che non quadra... Marcello Macchia nasce a Vasto nel 1978, ma cresce a Chieti dove inizia a realizzare i suoi primi sketch comici. Nel 2001 si laurea in tecniche pubblicitarie a Perugia. Dopo aver fondato a Milano la Shortcut Productions, partecipa a vari programmi tv. Nel 2013 è ideatore, regista e interprete principale della serie televisiva «Mario». 

Pezzo forte del suo curriculum la produzione di finti reality, caratterizzati da una vena ironico-demenziale. Una comicità riproposta sul piccolo schermo con la Gialappa' s Band che lancia il personaggio dell'attore fittizio, Maccio Capatonda, che recitava in una serie di video-parodia di famosi trailer cinematografici: veri e propri cortometraggi che hanno ottenuto un notevole successo fra gli spettatori, complice anche la diffusione su Internet, diventati oggetti di culto tra gli appassionati. 

Di culto anche i suoi due film «Italiano medio» e «Omicidio all'italiana». Per Mondadori-Electa ha appena scritto la sua autobiografia, dal titolo «Libro» 

«Ribadisco: i personaggi mi danno la possibilità di esprimere le sfaccettature del mio essere che una vita sola, con la sua categorizzazione identitaria, non basta a tirare fuori». Insomma, il solo Marcello Macchia non ti basta. 

«Dirò di più: ritengo che la mia identità quotidiana sia una versione neutra, un manichino nudo, insensibile, una versione in stand by di me stesso. Si dice che la tua è una comicità «surreale». 

Eppure nei tuoi video la denuncia sociale è evidente. Come si conciliano questi due aspetti apparentemente in contraddizione?

«Non vedo contraddizione. In Libro dedico un paragrafo al tema. Il mondo reale tende a inquadrarci e definirci in una particolare tipologia di individuo, ma grazie al mestiere dell'attore possiamo combattere e scardinare questa categorizzazione». 

L'ironia come atto di ribellione.

«La comicità per me è una lotta contro la realtà, un atto di ribellione nei confronti del mondo e allo stesso tempo un modo per rivelare e rivendicare la propria natura di esseri complessi». 

Un «trucco» per non farsi fagocitare dall'onda anomala del successo?

 «Non prendersi troppo sul serio, giocare e non porsi limiti. Questo ti permette di dare sfogo al tuo essere più intimo, più spontaneo e originale. Ed è proprio questa capacità di giocare che dev' essere presa sul serio. Bisogna difenderla in tutti i modi e non permetterle di essere ingab biata da sovrastrutture razionali o da timori». 

Avresti mai immaginato che «far ridere» sarebbe diventata la tua professione?

«Produrre sketch comici è sempre stata la mia passione. Parodie che facevamo con leggerezza col mio amico Luca. Ma non mi è mai passato per la testa che quello sarebbe diventato il mio lavoro. Perché per me era solo un gioco, uno scherzo, qualcosa che non aveva l'autorevolezza del "posto fisso" così come lo intendevano i miei genitori». 

A proposito di genitori. Hai definito il rapporto tra i tuoi genitori una «fantastica storia d'odio». È una battuta o la verità?

«La verità. Ma devo precisare due cose».

Prego...

«La prima è che il loro odio reciproco si trasformava in amore quando era rivolto verso di me, il che mi rendeva un bimbo ipercoccolato e benvoluto». 

La seconda?

«È che percepivo chiaramente la solidità del loro legame. Per questo nutro una profonda stima per i miei genitori che continuano ad amarsi odiandosi (o ad odiarsi amandosi) ancora oggi».

Finché morte non li separi.

«No: finché morte non li spari». 

Come condizione a questa intervista hai detto: «Ok. Ma niente politica». Eppure le parole «politica» e «politici» tornano più volte nel tuo libro.

«L'ho scritto e lo ribadisco. Ho come la sensazione che la scelta di fare il comico e in generale l'artista sia una via alternativa alla politica». 

In che senso?

«Anzichè scendere in campo e cercare di cambiare le cose, si sceglie di comunicare il dissenso attraverso l'arte, la destrutturazione dei linguaggi, la risata. Svelare le idiosincrasie del sistema, i nervi scoperti, deridere i meccanismi sociali e di costume in fondo è come fare comizi». 

«Comizi» sui generis.

«I comici che ottengono maggior successo sono quelli che riescono in fondo a creare una propria poetica e una propria visione del mondo». 

Quindi il comico potrebbe definirsi «un politico mancato»?

«Sì. Ed è forse per questo motivo che odio la politica. La rifiuto categoricamente perché i politici sono quelli che in qualche modo ce l'hanno fatta. Quelli che giocano la partita nel mondo reale». 

Il comico vive invece di fantasia?

«Il comico si rifugia nella fantasia perché la realtà gli sta stretta e gli fa male. Sotto certi aspetti penso di essere un vile, per non voler prendere parte alla battaglia politica della realtà. Ma in altri momenti mi sento rincuorato». 

Da cosa?

«Dal fatto che molti politici sono dei comici mancati». I giornalisti sono presenze costanti nei tuoi lavori: «Mario», «Oscar Carogna», «Salvo Errori»... «Il mondo dell'informazione mi affascina. Anche durante la segregazione domiciliare causata dal Covid, il "Tg40ena", che registravo nel chiuso di casa mi ha salvato dallo stress dell'isolamento».

Perché nel libro parli con toni sarcastici della città dove sei cresciuto?

«Non esiste luogo al mondo che può offrirti minor numero di accadimenti al di fuori di Chieti. E questa per me è stata una risorsa preziosa perché mi ha costretto a viaggiare con la fantasia».

Quindi se sei diventato quello che sei «lo devi» al fatto di essere cresciuto in provincia.

«A volte penso a quanto sarei stato improduttivo e serioso se fossi vissuto in una città piena di problemi e avvenimenti significativi come Milano, ma perché no anche New York o Caracas». 

Invece a Chieti...

«Devo essere grato alla pigrizia di questa città che mi ha stimolato a tirare fuori quello che avevo dentro. O comunque ad aggrapparmi a quello che c'era e farne qualcosa di grande».

Qual è il succo della tua poetica?

«Cercare di spettacolarizzare ciò che è spicciolo, ordinario, di poco conto». 

Ma se non ti avessero scoperto, e lanciato, quelli della Gialappa' s forse saresti ancora a Chieti.

«È vero. Infatti sono molto grato alla Gialappa' s. Ma anche a Chieti». 

C'è una battuta che gli abitanti di Chieti odiano?

«Sì: "Chieti, e ti sarà dato"».

Quanti nel nostro Paese prendono la «pillola per utilizzare solo il 2 per cento del cervello» (citazione tratta dal film «Italiano medio» ndr)?

«Non saprei. Ma certo io sono uno di loro».

·        Madame.

Chiara Maffioletti per corriere.it il 3 novembre 2021. È la cantante più celebrata degli ultimi tempi, ma fino a qualche mese fa era con ogni probabilità anche la più triste. A raccontarlo, con incredibile franchezza, è stata proprio Madame, co-conduttrice per una sera di «Le Iene», al fianco di Nicola Savino. Guardando dritto in camera, ha detto: «Questa sera voglio parlarvi di una cosa che, fino a qualche mese fa, non avevo. L’autostima. Autostima è amare se stessi. Comprendersi, accettarsi. Perdonarsi. Dobbiamo imparare ad amare tutto di noi. Anche le parti peggiori. Quelle che ci fanno soffrire e vorremmo cambiare. Ma se proviamo a cambiarle odiando ciò che siamo, facciamo un casino sbreghiamo tutto». 

Sono stata male per anni

La cantante è poi scesa nei dettagli: «L’assenza di autostima è una brutta bestia. Se non ce l’hai, senti di non valere nulla. L’anno scorso sono stata ospite a X Factor due volte. Prima di salire sul palco ero sola dentro il camerino. Piangevo disperata: “Cosa ci faccio qua?”, “Non me lo merito”. Non mi riconoscevo. Non mi amavo. La verità è che sono stata di merda per anni. Pure a Sanremo, e con il disco d’esordio in uscita. Stavo male. Sempre. Prendevo ansiolitici come fossero acqua. Lo stomaco chiuso. Non mangiavo. Non dormivo. Era un circolo vizioso. Dicevo: “Ma ca**o!” “Perché devo stare sempre così?”. A un certo punto è andata pure peggio. All’improvviso nella mia vita tutto era vuoto. Senza un senso. Mia madre. La mia casa. Il mio cane. La musica. Chiedevo alla gente: “Potete dirmi che senso date alla vostra vita?” Da sola non riuscivo più a capirlo. È stato orribile. Un dolore atroce». 

Il recupero

Da lì, la rinascita: «In quel momento ho scritto una delle mie frasi più belle: “Non ho paura di morire, ma ho paura di voler morire”. Poi mi sono detta: basta. Non puoi andare avanti così. Ho iniziato a lavorare ogni giorno per trovare un senso. Ho guardato in faccia l’ansia che mi aveva sempre accompagnata. E ho trovato il modo per eliminarla. Mi sono detta: “Prima o poi soffrirai, ma non devi avere paura. Perché se soffrirai, ti curerai. E se non lo farai, morirai. E sai cosa c’è? Che tutti, prima o poi, muoiono”. Non possiamo rovinarci la vita perché abbiamo paura di soffrire. O di morire. È una grandissima cag**a. Per me capirlo è stata una liberazione. Ho imparato a non essere schiava della fretta, a godermi i silenzi, il buio. Ho imparato a respirare. Ad accettare le cose che accadono senza che io possa controllarle. Ad accettare me. Se mi aveste conosciuto un anno fa, avreste detto: min***a, questa è grave. Adesso mi sono messa a posto. Ho trovato un senso nell’amore. E ho stima di me perché so comprendermi, accettarmi e amarmi. Insomma, sto bene. E anche se non ho trovato la cura per lo star male, ho curato la paura di star male». Un discorso forte e per molti inatteso, che ha mostrato il lato più fragile e forse anche più autentico di quella che fino a qualche ora fa era, forse troppo semplicemente, il nuovo talento della musica italiana.

Marinella Venegoni per "La Stampa" il 26 agosto 2021. Un soffio di gioventù si diffonde sull'imminente Notte della Taranta, la serata più attesa del Sud, che ancora una volta andrà in scena senza pubblico il 28 agosto, ma in differita su Raiuno il 4 settembre. I due maestri concertatori sono il maestro Enrico Melozzi e Madame: è lei l'ultima musa al centro dell'attenzione generale, avvolta dalla curiosità e prediletta dai ragazzi che si specchiano nei suoi 19 anni così unici. Da qualche giorno è a Melpignano per le prove. Nella vita si chiama Francesca, e risponde con allegria e serietà. Maestra concertatrice, dopo Carmen Consoli nel 2016. 

Come si sta preparando?

«Mi sto divertendo, ho provato i vestiti che qui mi hanno disegnato. Il mio compito è quello di dare al concertone una chiave di lettura mia, visto che hanno chiamato me. Mi sono occupata della parte testuale, con tema la libertà. Sarò Francesca al 100 per 100. Melotti ed io abbiamo unito la pizzica al rock, e riadattato la tradizione a una nuova forma di linguaggio. Come il mio cantautore preferito De André sono attratta da tutte le tradizioni: qui come altrove internet non ha cancellato nulla per ora».

In Salento la tradizione è agli antipodi rispetto a ciò che lei ha fatto finora.

«Ho in progetto un altro esperimento artistico nel quale comunicherò quel che voglio dire. Ciò che caratterizzerà il mio futuro è lo studio. Secondo me un artista per resistere deve studiare. Qui a Melpignano mi sono venute un sacco di idee, sto approfondendo e imparando lingue. Ho conosciuto gente da dovunque».

Come rivede tutto ciò che ha vissuto in questi mesi?

«Sto cercando di concentrarmi di più sull'hic et nunc. Ma se debbo ragionarci, capisco le cose due o tre anni dopo che le ho vissute. Non ho nemmeno avuto il tempo di metabolizzare, magari ci riuscirò a 20/25 anni». 

Cosa pensa quando si sveglia la mattina?

«Ora ci sono la fama e i soldini ma spesso le persone che fanno questo lavoro vivono di illusioni. Mi alzo e dico: perché debbo vivere oggi? Come impiego le mie energie? Come vivo i miei rapporti? La vita scorre, cambia». 

Lei cita Eraclito. Ha già scelto una facoltà cui iscriversi?

«Penso filosofia ma non so quando. Potrei farlo a 60 anni o anche domani. Dipenderà dalle mie esigenze, seguo molto il flusso naturale, e se domani vorrò farlo lo farò, se sarò chiamata a viaggiare viaggerò. Prima cosa, la patente: ho quasi 20 anni, so guidare, è ora». 

A chi pensa di dovere di più?

«Non so, ognuno ha avuto il suo ruolo. De André, la mia manager Paola Zukar. Non saprei a chi dare di più. Quando una persona mi dà, penso di ricambiare intensamente». 

I suoi genitori?

«A volte i genitori sono utili perché ci sono, a volte sono utili perché non ci sono. C'è l'età in cui c'è bisogno di scollarsi: se non ci fosse un po' di astio, farei più fatica a staccarmi. Ho preso casa a Milano e penso come organizzarmi una vita e la famiglia che mi sto costruendo, di amici e persone che mi vogliono bene». 

Per lei viene continuamente utilizzato il termine «fluido».

«Non mi dà fastidio. Io penso proprio che dipende tutto dal significato che diamo noi. La fluidità gliela spiegherei con la Taranta: vestitemi truccatemi, mi abbandono a voi. Un po' come fa l'acqua quando prende la forma del recipiente. Quel che dicono su di me, non mi importa: ho scelto alcuni che mi definiscano, gli altri non mi interessano». 

E' felice?

«Penso di essere felice perché ambisco alla felicità. "Felix" in latino significa "che dà frutto". Grandi problemi degli esseri umani sono la paura e il rifiuto, l'unico modo per sconfiggerli è avere una passione». 

Come mai tutti sono interessati alla sua sessualità?

«Direi ossessionati. Non so, forse riconoscono in me vibrazioni sessuali che li incuriosiscono: ma non sanno che non dipende da che tipo di genitali frequento». 

Cecilia Uzzo per "www.gqitalia.it" l’8 agosto 2021. «Calipso fai l'alta marea». Chi sia Madame, ormai lo sanno tutti, o quasi. La cantante, prima rapper donna sul palco del Festival di Sanremo (con il brano Voce), è ormai un vero e proprio fenomeno in costante ascesa. Di recente, ha vinto due riconoscimenti al Premio Tenco – come Miglior opera prima con l'omonimo album di debutto Madame e come Miglior canzone singola con Voce – raggiungendo anche il primato di essere l'artista più giovane a conseguire tale traguardo. Da poco, tuttavia, Madame ha conquistato per l'ennesima volta l'attenzione dei social perché ha spiegato il significato di Marea, il suo ultimo singolo. «Marea», la canzone di Madame. Pubblicata lo scorso 4 giugno per l'etichetta Sugar Music, la canzone è stata aggiunta all'edizione digitale del primo disco della cantante, intitolato semplicemente Madame. Il testo è opera della stessa artista – all'anagrafe, Francesca Calearo – mentre la musica e la produzione sono opera di Dardust, il deus ex machina di tante hit italiane (come Soldi di Mahmood). «Marea l’ho scritta un mese dopo Sanremo. Calipso era un pezzo che voleva essere un progetto artistico un po’ con un sound tribale. Poi era bello e l’ho trasformato in Marea, un singolo estivo», ha raccontato Madame su TikTok, quando ha spiegato il significato della canzone, dopo la pubblicazione del videoclip (diretto da Attilio Cusani). «marea è la narrazione di un sogno erotico. alla fine della canzone domando alla protagonista, che è il soggetto di questo sogno, di non trasformarlo mai in realtà, di lasciarlo lì dov'è. di lasciarlo un sogno. la bellezza dei sogni è che rimangono tali. e “marea” è esattamente questo».

«Marea», il significato erotico. Alle rime dirette e nel contempo poetiche di Madame, siamo abituati. Ma c'è più di un motivo per cui Marea, oltre a a essere un brano perfetto per l'estate, sta spopolando (soprattutto su TikTok). Si tratta, infatti, di una canzone molto sensuale sia per sonorità sia (e soprattutto) per il testo che, senza girarci troppo intorno, descrive un orgasmo. È quella la marea del titolo, non quella del mare, ma quella del piacere crescendo, che culmina poi in un orgasmo. Fin dalla prima strofa, comincia una descrizione un po' allusa (ma molto comprensibile) di un rapporto sessuale, con espressioni e termini che portano inevitabilmente a pensare alla passione tra due corpi. Il sud del corpo, che può essere come un'oasi in mezzo al deserto, è quello del partner. Forse una donna, dal momento che anche il termine labbra è inteso sia nel senso di parte del viso, sia dei genitali femminili. È stata la stessa Madame a svelare il significato della canzone su Tik Tok, in una sorta di spiegazione sexy che apre gli occhi (e le orecchie) anche ai meno maliziosi. «C’è una frase che ripeto all’inizio del brano che significa teoricamente ‘il sud del tuo corpo”, ovvero l’oasi il mezzo al sahara. capite da soli – dice madame – quando dico “samba con i tuoi occhi samba’ significa che i miei occhi iniziano a danzare con i tuoi occhi. ‘santa nei tuoi occhi santa’ ovvero sono così pura nei tuoi occhi. nel ritornello c’è una semi esplosione, calipso diventa mare, diventa marea. wow! […] poi diventa tutto più carnale fra tocchi, salti, danza...» 

La prima strofa di Marea recita: «Sarà l'oasi in mezzo al Sahara, sarà pioggia e nubi dal mare, sarà un corso d'acqua in salita»; qui Francesca si riferisce al sud del corpo di una persona, e immagina come potrebbe essere: un'oasi in mezzo al Sahara, appunto, o un corso d'acqua. La cantante prosegue con varie parole dal significato ermetico: caligo è una tipica nebbia genovese; mama è un sinonimo di baby; quando parla di labbra si riferisce, come lei stessa ha detto ridacchiando, "a tutte e tre le labbra". E ancora: quando Madame parla della samba sta immaginando un ballo fra gli occhi di due amanti, che guardandosi iniziano a danzare. Santa, invece, indica la purezza che si prova riflettendosi nello sguardo dell'altro. Passiamo ora al ritornello: l'artista cita la ninfa greca Calipso, che nel poema epico dell'Odissea tiene prigioniero per sette anni sull'isola di Ogigia l'eroe Ulisse. Nonostante quest'ultimo voglia far ritorno a Itaca, la sua terra natale, è incatenato all'amore della ninfa; Madame, allo stesso modo, si sente imprigionata dal desiderio dell'amata. In questa parte del testo c'è un'esplosione: la ninfa finalmente scioglie le acque e si libera dal karma - ossia, si libera dai blocchi e le paure del passato - ed esplode in mare e marea, abbandonandosi al piacere. E per Madame è ancora una volta un grande successo.

Da "liberoquotidiano.it" il 3 agosto 2021. Un elogio agli uomini è costato molto caro a Madame, cantante e paladina del cosiddetto gender fluid. Un suo pensiero lasciato sui social ha fatto arrabbiare le femministe più scatenate, che l'hanno accusata di essere anti-femminista. Nel messaggio "incriminato" di qualche giorno fa l'artista ha scritto: "Farò un elogio degli uomini per ringraziarli della loro bellezza, della loro fragilità, della loro forza, del loro amore. Ovviamente ce l'ho già, 'farò' inteso come in futuro sarà di tutti. Purtroppo involontariamente possiamo maturare una sorta di timore per gli uomini. Il terrore, a volte, dei loro occhi, dei loro pensieri. Ma far di tutta l’erba un fascio è sempre stato lo sport dei superficiali. Gli uomini sono bellissimi. Viva gli uomini, viva i loro corpi, viva le loro anime". A scatenare le polemiche sono state soprattutto le parole sul timore per gli uomini "maturato involontariamente". Alcuni le hanno punto il dito contro accusandola di aver fatto un elogio eccessivo dell'universo maschile. E per questo è stata giudicata perfino di non essere femminista. La replica di Madame, però, non si è fatta attendere: "Il problema di voi amici polemici è che non sapete parlare, ma nemmeno pensare alle cose, ai fatti, alle persone belle e positive che la vita vi mette davanti. Vi concentrate sul sesso, sull'orientamento, sulla provenienza... Non riuscite mai a parlare delle persone!". A chi le ha dato dell'anti-femminista, poi, ha risposto: "Ma voi giurati, sapete che il femminismo è la parità dei sessi? Che se non rispettate un uomo siete anti-femministi voi? Sapete che io sono una donna libera e posso elogiare un uomo bellissimo?". E infine: "Se volete sentirmi parlare di una donna perché è più safe alle vostre orecchie, c'è 'Marea', il mio ultimo singolo, 'Voce', 'Nuda' e tanto altro". 

Madame replica dopo le polemiche: “Il rapporto fan-artista è sacro”. Valentina Mericio il 20/06/2021 su Notizie.it. "Il rapporto tra fan e artista è sacro", così la cantante Madame ha spento le polemiche generate dal suo sfogo su Twitter. Con una serie di storie pubblicate su Instagram, Madame ha cercato di spegnere la forte scia di polemiche che un suo post pubblicato su Twitter, poi successivamente cancellato, ha generato sui social. Nel giro di poche ore sono state moltissime le repliche, più o meno ironiche tanto che la stessa cantante è diventata un meme. Ha quindi voluto fare luce su cosa sia successo esattamente quella sera, mettendo in evidenza come lo spazio su Twitter sia poco e quanto sia effettivamente difficile poter condensare tutto. La giovanissima artista ha iniziato subito il suo racconto volendo fin da subito mettere in chiaro cosa significa per lei avere un rapporto con i fan: “Buongiorno ragazzi questa mattina è scoppiato una polemica mediatica, partita da un mio tweet in cui avevo pochi caratteri disponibili e tanta rabbia da sfogare. Insomma è stato un errore mio, dovrei essere impulsiva se una polemica parte dalle mie parole è chiaro che sia in parte colpa mia. Quindi sono qui esattamente perché voglio chiarirmi, chiarirmi soprattutto per il mio pubblico a cui devo tantissimo e dovrò tantissimo per il corso della mia vita. In questi video vorrei parlare di due argomenti fondamentali, il primo il mio rapporto con i fan e quello che secondo me è un fan, il secondo il mio rapporto per il rispetto e quello che secondo è il rispetto.”

Madame ha poi proseguito parlando di ciò che per lei significa rispetto.

“Su Twitter cercavo appunto di spiegare cosa fosse per me un fan, e l’ho riassunto in tre frasi ‘o compri il disco, o vieni al concerto, o sai di cosa parlò. Chiaramente poteva continuare per ore, per anni, su Twitter i caratteri sono limitati, e io non volevo solo concentrarmi su quello, ma nessun problema abbiamo le stories Instagram. Dovete sapere che il rapporto fan-artista è un rapporto assolutamente sacro ed è un rapporto assolutamente personale, può esserci una persona che è stata colpita da una parola che ho usato, e può volermi bene per quella parola che l’ha colpita, o può esserci una persona che sa tutta la mia discografia a memoria, sono due rapporti diversi”.

L’artista ha quindi aggiunto: “Adesso parliamo anche un attimo di rispetto invece, io penso che un mio fan con cui ho un rapporto, non mi interromperebbe mentre mangio con la mia famiglia, per chiedermi una foto, io penso, e sono sicura che aspetterebbe che io finisca di cenare perché è un momento così intimo quando una persona sta con la sua famiglia che è veramente poco rispettoso interromperlo. Io in quel momento è evidente che non stia lavorando, è evidente che io in quel momento non sia Madame. Questo è il fatto.”

L’artista infine ha chiarito esattamente cosa è successo in quella sera e cosa l’ha portata a scrivere il post di sfogo: “Non sono Madame soprattutto se non mi segui, soprattutto se non mi ascolti. Ricordatevi ragazzi che un fan me lo fa sapere che è un fan, ci tiene a farmi sapere che è un fan, ci tiene a dirmi cosa l’ha colpito. Ci tiene a dirmi che c’è un rapporto tra me e lui. Un non fan, ironia della sorte, ci tiene a dirmi che non mi segue, è quello che mi è successo l’altra sera.”

“Io non ti seguo, cioè non so cosa fai, non mi piace il tuo genere, non ascolto quella roba lì, però ti ho vista a Sanremo, possiamo farci una foto?” 

“Vorrei aggiungere un ultimo particolare, alle persone che mi hanno chiesto una foto, mentre io cenavo, l’ho fatta. L’ho fatta perché mi reputo una persona educata, e rispettosa, e se tu mi chiedi una foto, io mi alzo, sorrido e faccio una foto con te. Chiunque tu sia. Come ho fatto, come continuerò a fare, quello che sto dicendo è un piccolo appello per ricordare alle persone che se non mi conosci, non mi segui, abbi almeno il rispetto per me.”

Madame polemica Twitter, il tweet di sfogo

Tutto è iniziato con la cantante vicentina che si è sfogata su Twitter, dopo essere stata disturbata da qualuno o qualcuna che le ha chiesto una foto in un momento inopportuno:  “Se non hai ascoltato il disco o se non hai preso il cd o il biglietto, o se non sai di che parlo, se non hai fatto nulla per me, non farmi alzare mentre mangio per una foto. Perché io sono Madame 24 ore solo per chi mi usa per la musica, per il resto sono una scorbutica veneta di 19 anni”. 

Madame polemica Twitter, il post di Ermal Meta  

Tra le persone a sbilanciarsi a favore di Madame, anche Ermal Meta che su Twitter ha scritto: 

”Franci, questo tweet verrà preso male come successe con il mio di qualche anno fa. (in effetti il mio fu un po’ una ca*ata) se stai passando una brutta giornata, dimentica Twitter”.

Madame polemica Twitter, il post di Selvaggia Lucarelli 

Oltre a Ermal Meta anche la giornalista Selvaggia Lucarelli si è espressa a favore della giovanissima artista vicentina su Twitter:  “Essere disponibili con i fan prevede un rapporto di reciprocità: io sono gentile se tu sei gentile. Se mi guardi mentre mangio tipo animale allo zoo commentando quello che faccio a voce alta e poi mi chiedi una foto mentre mastico, non sei un fan. Sei un maleducato”.

Paolo Giordano per "il Giornale" il 21 giugno 2021. Uno sfogo è uno sfogo e di certo non vale troppo clamore. Però Madame, che è l'artista italiana più rampante del momento, 19 anni, rapper/trapper di talento, neo fenomeno pop dopo Sanremo, ieri avrebbe potuto evitarselo. Riassunto. Forse esasperata dalle attenzioni di un fan, ha twittato testuale: «Se non hai ascoltato il disco o se non hai preso il cd o il biglietto, se non hai fatto NULLA per me non farmi alzare mentre mangio per una foto. Perché io sono Madame 24h solo per chi mi usa per la musica, per il resto sono una scorbutica veneta». Apriti cielo. I social sono subito diventati due curve ultras. Da una parte quelli che brava, giusto, così si fa. Dall' altra tutti gli altri, che definire un po' delusi è dir poco. Quindi pioggia di meme, emoticon e battute con sarcasmo ad alzo zero. Risultato: dibattito aperto e tweet cancellato dopo poco. Ovvio, un tweet è come un abito: non fa il monaco e bisogna andare oltre prima di stroncare o attaccare. Però è anche vero che ci sono abiti che sono sbagliati. Madame, al secolo Francesca Calearo dalla provincia di Vicenza, ha indossato per un pomeriggio (si spera solo uno) l'abito sbagliato. La sua discografica, che è l'illuminata Caterina Caselli, ripete spesso che non bisogna mai sottovalutare il pubblico perché, senza pubblico, puoi essere anche bravissimo, ma nessuno ti conosce. E nel pubblico c' è pure chi ti riconosce ma non conosce i tuoi dischi e comunque ti chiede l'autografo. Le superstar che restano nei decenni accettano il compromesso, magari controvoglia, magari borbottando. Ho visto Mick Jagger alzarsi da tavola e firmare autografi e foto dopo 40 anni e più di carriera. Mick Jagger dei Rolling Stones che hanno debuttato nel 1962, mica ieri. Vasco Rossi firma autografi e fa selfie anche a chi non ha mai comprato il suo disco o non lo ha mai visto dal vivo. Gino Paoli racconta che una volta ha firmato un autografo a un fan che credeva fosse Gianni Morandi....Lo sfogo di Madame è forse la conseguenza perversa della popolarità fulminea, non costruita passo passo cercando, sudando, sognando il pubblico concertino dopo concertino, disco dopo disco. Ora la frenesia impalpabile dei social espone i nuovi eroi del pop a una pressione senza precedenti. Ma i social sono un meccanismo perverso che, se si accetta, si accetta con i pro (tantissimi) e i contro (un po'). Per Madame stavolta è un no. Per essere una star, deve essere Madame h24 con tutti. E non solo quando fa comodo.

Giorgia Gobo per today.it il 21 giugno 2021. "Se non hai ascoltato il disco o se non hai preso il cd o il biglietto o se non sai di che parlo, se non hai fatto NULLA x me non farmi alzare mentre mangio per una foto. Perché io sono Madame 24 h solo per chi mi usa per la musica, per il resto sono una scorbutica veneta 19 yo" queste le parole della discordia pubblicate su Twitter da Madame. La cantante ha scatenato un vero e proprio caso mediatico con cui ha dovuto fare i conti e infatti ha deciso di spiegare questo tweet con alcune storie su Instagram. Secondo la cantautrice le sue parole sono state travisate, ma si prende la "colpa" per questa incomprensione. Il problema gira tutto intorno ai pochi caratteri che il social permette di condividere e quindi ha cercato con meno parole possibili di esprimere il suo concetto che non era il non voler fare foto con i fan, ma che esistono fan e fan. Su Twitter però queste frasi hanno scatenato la rabbia e il disappunto di molti che hanno sottolineato che essere personaggi pubblici ha molti privilegi, ma anche altrettanti doveri come ad esempio accontentare i fan. A difendere Madame è intervenuto Ermal Meta che qualche anno fa fu vittima di una situazione simile: Franci, questo tweet verrà preso male come successe con il mio di qualche anno fa (in effetti il mio fu un po' una ca*ata) se stai passando una brutta giornata, dimentica Twitter

La precisazione di Madame sul tweet: In un commento al post su Instagram pubblicato dalla pagina Trash Italiano Madame ha scritto: "Se un giorno vi dovesse capitare che 15 persone vi fotografano mentre mangiate un piatto di pasta dicendovi “ah ma tu sei quell* che ha fatto quellooo” facendovi sprofondare dall’imbarazzo perché 1 non sanno nemmeno cosa fate nella vita 2 state mangiando, allora capirete il mio tweet. Più che polemica è buon senso. 

PS. ascoltando i pezzi sulle piattaforme – per chi non lo sapesse – si aumenta il numero delle vendite del disco. Comunque grazie a tutti dei complimenti". 

Come anticipato sempre su Instagram la cantautrice ha spiegato la sua posizione: La relazione fan artista è molto personale, il rispetto sta nel fatto che secondo me un mio fan non mi interromperebbe mentre mangio con la mia famiglia, per chiedermi una foto. Io penso e sono sicura che aspetterebbe che io finisca di cenare perché è un momento così intimo cenare con la famiglia. È evidente che io non stia lavorando, che non sia Madame. Io non sono Madame in quel momento, in quel momento sono figlia di mia madre, di mio padre, sono sorella di mio fratello e zia di mia nipote soprattutto se non mi segui, se non mi ascolti. Un fan ci tiene a farmi capire che è un mio fan, che c'è un rapporto, un non-fan - ironia della sorte - ci tiene a dirmi che non mi segue ed è quello che mi è successo. 'Non mi piace il tuo genere, non mi piace quella cosa che fai, ti ho vista a Sanremo possiamo farci una foto?' questo è successo e io la foto con loro l'ho fatta, mi reputo una persona educata e se mi chiedi una foto io mi alzo sorrido e faccio la foto. Quello che sto dicendo è un piccolo appello per ricordare alle persone che se non mi conosci e non mi segui abbi almeno il rispetto per me. Ringrazio gli influencer che hanno alimentato l'odio nei miei confronti, non ho nulla da dirvi, solo che io personalmente non l'avrei fatto.

Dagospia il 21 giugno 2021. Dal profilo Instagram di Selvaggia Lucarelli. Madame ha scritto, forse in modo un po’ ruvido, qualcosa che è perfettamente lecito e condivisibile. La gentilezza non è dovuta ai fan in quanto fan ma alle persone gentili. Avere gratitudine nei confronti dei fan non vuol dire permettere ai fan di guardarti come un animale allo zoo, di abusare della tua cortesia, di disturbarti mentre mangi o stai facendo una telefonata. Soprattutto se non sono fan tuoi, ma della popolarità in senso generale. Dell’animale allo zoo, appunto, che sia una giraffa o una scimmietta. Io sono sempre gentile con tutti, o almeno ci provo, ma di scortesia ne vedo a palate. Chi mi chiede il selfie e pretende di decidere “però ti togli gli occhiali?”. Chi vuole che mi tolga la mascherina e se la toglie, per la foto. E io: no scusa ma la tengo. E lui: daaaaaai. Chi mi chiede la foto mentre mangio e io “ok”. E poi: sì però ti puoi alzare dalla sedia? Chi mi chiede la foto, io annuisco e “sì però puoi venire lì che lo sfondo è più bello?”. Chi non si piace nel selfie che hai appena fatto, ti rincorre e “la rifacciamo, scusa?”. Chi viene lì, ti comincia a guardare e ad alta voce, magari mentre mangi “ahoooooo’ aspetta chi è questa? ‘Ndo l’ho vistaaaa?”. E tu sei in imbarazzo. Poi qualcuno glielo dice e viene a chiederti la foto. Che è più o meno quello che è successo a Madame, se ho capito bene. Gente che non ti segue, che non apprezza il tuo lavoro, per cui una Madame vale un Albano o un Tommaso Zorzi. Mi è capitata perfino gente che mi ha chiesto la foto dicendo “ricordami il tuo nome?”. Ecco, non è che uno che ti chiede una foto sia gentile per forza e non è che la gentilezza sia dovuta comunque perchè “sei Madame perchè hai i fan”. No, sei Madame perché hai talento, i fan sono una conseguenza. Se poi non sei neppure un vero fan, ma solo una persona scortese che vuole postare la foto sui social con la giraffa, io non ti devo proprio niente. Madame l’ha scritto più ruvido, ma l’ha scritto giusto. E a 19 anni ha capito più cose della vita di quante non ne abbiate capite voi per cui se sei famoso devi solo baciare la mano di chi regge un telefono. #madame

Teresa Ciabatti per "corriere.it/sette" il 18 marzo 2021. Diciannove anni, nome d’arte scelto da un generatore di nomi per drag queen, è tra le poche donne rapper italiane, di certo la più famosa: Madame. Dopo la straordinaria partecipazione a Sanremo lodata da tutti, per il pezzo, Voce, in testa alle classifiche di ascolto, e per il discorso portato avanti sera dopo sera attraverso l’immagine (da madre a sposa: «Questa sera mi vesto da madre. Madre della mia voce». «Questa sera mi vesto da sposa. Sposa della mia voce») è in uscita col nuovo disco dal titolo Madame. Papà impiegato di banca (attualmente in pensione), mamma segretaria in un autoconcessionario, fratello maggiore di otto anni, Francesca Calearo, in arte Madame, nasce a Creazzo, provincia di Vicenza. E poiché i genitori lavorano dalla mattina alla sera, lei cresce coi nonni. All’età di cinque anni muore il nonno materno a cui è molto legata. Ecco il primo grande dolore della vita libera, ribelle di Madame, il primo dolore della ragazza che canta «l’ultimo soffio di fiato e sarà la voce a essere l’unica cosa più viva di me», quella ragazza che sembra non aver paura di niente, «la solitudine è un virus che non prendo mai».

Come riceve la notizia della morte del nonno?

«Ero in cucina, mangiavo un toast. Mia madre dice: “Nonno Giuseppe non c’è più”. Io rido non sapendo cosa significhi non esserci più».

Quando scopre il significato?

«A casa della nonna, la poltrona del nonno era vuota».

La morte è una poltrona vuota?

«A cinque anni sì».

I suoi genitori le dicevano la verità fin da piccola?

«Non mi hanno mai ingannata, tranne per Babbo Natale. Bisogna dire che sull’argomento ero scettica di mio, poi voci di corridoio all’asilo. Quindi metto sotto pressione mia madre che alla fine confessa».

Reazione?

«L’accuso di avermi ingannato per tutto questo tempo».

Cos’era «tutto questo tempo»?

«Avevo quattro anni».

All’età di undici anni i suoi si separano.

«Papà mi dice che vuole lasciare mamma. Eravamo per strada, davanti al portone. Appena salgo chiedo: “Quanto ami papà da 1 a 10?”.

E mamma: “Otto”. E io: “Lui si vuole separare”. Non ne sapeva niente, c’è rimasta malissimo, specie per quell’otto». 

I giocattoli preferiti da bambina?

«Wolfie, il mio cane. Un libro di poesie rosa carne di cui non ricordo il titolo. E il libro dei perché, fondamentale».

Motivo?

«Con quel libro imparo a fare domande a me stessa e agli altri».

Esempio?

«A mio padre chiedevo: “Perché esiste Dio?”. Oppure: “Perché siamo vivi?”».

E lui?

«Pensava fossi un genio».

A scuola?

«Il contrario, mi prendevano in giro. Per i denti, e per il fatto che non mi lavavo».

Non si lavava?

«A quattordici anni hai altro a cui pensare. Lavarsi è arrivato in seguito, prima ci sono state tante altre cose bellissime che mi hanno fatto crescere».

Il peggiore episodio di bullismo?

«Una volta sono svenuta, e loro, i miei compagni, mi hanno calpestata. Mi calpestavano per capire se fingessi».

Questo dolore l’ha resa forte?

«Debolissima».

Ma?

«Debolissima e libera». 

Nel senso?

«Anche di innamorarmi: maschio, femmina, giovane, vecchio».

Primo amore?

«L’allenatore di pallavolo. Io 14 anni, lui 30. M’innamoro, comincio a lavarmi, una volta ogni due giorni invece che una al mese. Mi trucco per andare a pallavolo». 

E?

«Gli scrivevo su WhatsApp, era l’unico che mi fosse rimasto, la mia persona di riferimento per capire il mondo».

Si dichiara?

«Molto tempo dopo, a quel punto lui era andato via dalla squadra».

Parole della dichiarazione?

«A diciotto anni potrò darti un bacio?».

Risposta?

«Dipende da chi amerò in quel momento».

Arrivati i diciott’anni?

«Già stavo da un’altra parte».

Dove?

«Innamorata della professoressa di matematica».

Una donna.

«Mai avuto problemi maschio femmine, semplicemente le donne etero sono più difficili da raggiungere, e quello era il mio scopo».

Quanto conta il grado di impossibilità?

«Innamorarsi dell’impossibile è una droga. O almeno era, purtroppo adesso mi innamoro due giorni, una settimana, fine. Penso: ti ho già raggiunto. Il problema di adesso è che raggiungo tutto troppo facilmente».

Meglio l’amore non corrisposto?

«L’amore corrisposto non esiste ».

Tranne?

«Tranne quello madre figlio, anzi no: nemmeno. Mia madre mi ama incondizionatamente, io però non posso riamarla nello stesso modo perché non l’ho cresciuta ».

Di chi è madre Madame?

«Della sua voce».

Tornando alla professoressa di matematica: le dice di amarla?

«Sarebbe stato uno spreco, lei era troppo fredda per capire. Se le dicevo ti amo, probabile che mi denunciasse».

Quindi?

«Prendo a scrivere testi miei, proprio per far vedere a lei che valevo qualcosa, che sarei arrivata in radio».

Eppure la musica esisteva da tempo per Francesca/Madame.

«Ho iniziato in camera mia, con i karaoke di Justin Bieber. A tredici anni sapevo a memoria tutte le canzoni di Fedez e Emis Killa. Finiti i karaoke rap, scopro i type beat. Allora compongo strofe mie. Bimbo è la prima vera canzone».

Di che parlano i primi testi?

«Della mia generazione, una generazione finta però, che ne sapevo io, sempre sola. Ho cominciato a scrivere cose mie, sentite, quando ho conosciuto la professoressa. Anna è una canzone per lei».

Funzionava da ispirazione?

«In quel periodo c’era un pezzo di Izy, Manco a me, e c’era un verso che mi faceva pensare a lei: “Come un veliero bianco che salpa verso il sole” (ndr: nel testo “Come un veliero bianco che salpa verso sud”)».

La professoressa era il sole?

«Sì».

Manifestazioni d’amore?

«Scrivevo di nascosto: lettere, canzoni, che le davo per il compleanno e per Natale. Una volta chiedo alla bidella di consegnarle in classe il cd Le onde di Einaudi, con tanto di lettera».

Conseguenza?

«Lei non capisce che sono io. Lo capisce parecchio dopo: tredici giorni dopo, e mi ringrazia. Era una donna di poche parole, e non molto dolci, insomma: la persona perfetta da amare».

Fine dell’innamoramento?

«Lei va in pensione, io vengo bocciata. Dovevo dimenticarla, per fortuna che avevo iniziato una vita nuova: amici, rapporti reali. Sesso regolare».

Amori?

«Persone che si affezionavano a me, a cui io non mi affezionavo, o viceversa. Situazioni destinate a finire».

«Mando un bacio a quelli che mi davano i bacini ma senza volere me»?

«Esatto».

Il momento della reciprocità?

«Capisco cosa significa avere un rapporto umano conoscendo Matilde. Ho 17 anni, e lei è la prima vera amica della mia vita».

In quel periodo arriva anche il successo.

«Mi scopre Eiemgei che mi fa togliere il video di Anna per ripubblicarlo sul suo canale. 150 mila visualizzazioni in pochissimo tempo».

Essere una rapper donna?

«Sono sicura che ci siano tantissime Madame non ancora esplose in Italia, tante Madame a cui manca il coraggio. C’è il pregiudizio che se sei femmina devi per forza fare pop romantico».

«Sarà che io sono tutto. Certe mattine mi sveglio più maschio, altre più femmina. Riesco a pensare come un maschio, per esempio Clito, l’ho scritta da maschio».

Chi è Madame?

«Per farle capire: non ho mai avuto una calligrafia mia, copiavo quella del compagno di banco, e siccome i compagni di banco cambiavano di continuo, i miei quaderni sembrano scritti da trenta persone diverse».

Lo stile di Madame?

«Mio, personale, come l’immagine del resto. Non mostro il corpo, forse perché ancora non ne sono fiera. E anche perché penso: chi si merita di vedermi nuda oggi?».

Chi lo merita?

«Di umani nessuno. Di animali Barney, il mio cane: io mangio, lui mangia, io vado in bagno, lui viene in bagno».

Cos’è la fama?

«Mia madre mi ha insegnato che della fama bisogna gioire per poco, sennò significa tirarsela e diventare cattivi».

Teme di diventare cattiva?

«Un po’».

In che modo è stato accolto il suo successo in famiglia?

«Non ce lo siamo goduti, a noi non piace godere di queste cose che piacciono a tante persone, ci piace godere di altro, tipo la natura, gli animali, quello che fanno».

La maggiore soddisfazione al termine di un lavoro?

«Non l’uscita del pezzo, quando magari fa tante visualizzazioni, ma quando lo faccio ascoltare ai miei, in macchina. Mio padre e mia madre davanti, io dietro».

Fastidi del successo?

«Il fatto che gente che non mi conosce mi critica. Perché devi parlare di me? Che ti ho fatto di male?».

Oggi la veste Maria Grazia Chiuri (Dior). Come si vestiva prima di diventare famosa?

«Jeans, felpe, molti fake, copie di marchi famosi. C’era un mio amico graffitaro che faceva anche magliette, gli ho chiesto di farmene una con la scritta enorme Gucci». 

Parliamo del nuovo disco.

«La cosa di svegliarsi ogni mattina e essere una persona diversa. Ecco, ogni canzone del disco è scritta da una persona diversa. Tranne tre pezzi scritti nella stessa settimana in cui mi sono svegliata sempre quella persona lì».

Ovvero?

«Femmina luccicante».

Tema ricorrente del disco?

«Il dolore».

Il dolore per Madame?

«Che sia l’amore non corrisposto o altro, di base quello che mi manca oggi. Adesso è troppo semplice, e io mi sento morta. Prima vivevo a pieno proprio per il fatto che fosse tutto irraggiungibile. La mia vera paura è non provare niente di intenso, gioia dolore, di rimanere così, anestetizzata».

Altre paure?

«La velocità».

Cioè?

«A quattordici anni mio padre mi porta a Gardaland. Andiamo sulle montagne russe e io sto malissimo, crisi di ansia, di panico, non so. Penso: ora mi sgancio da questo coso, volo via, mi schianto, muoio. Ma poteva finire così, a Gardaland?».

Non finisce.

«Ricordo che scesi da lì, abbiamo passato il resto della giornata sul fiume, nelle canoe. Tipo bambini di cinque anni».

Ci sono volte che ha ancora cinque anni?

«Quando entro in una stanza buia. Inizio a correre, cerco l’interruttore, non so stare al buio».

Come dorme?

«Ora che c’è Barney, benissimo. Lui sta sotto il letto, e io mi sento al sicuro».

Senza luce?

·        Maddalena Corvaglia.

Piero Degli Antoni per “QN - Il Giorno - La Nazione - il Resto del Carlino” il 13 aprile 2021.

Maddalena Corvaglia, mi fa il suo ritratto di famiglia in un interno?

«Mia madre era insegnante di sostegno, mio padre avvocato, amministrativista. Mio fratello Toni civilista e io, che ero la più tosta, sarei dovuta diventare penalista. Mio padre mi portava in tribunale a vedere le cause...»

Come è arrivata alla tv?

«Amici di mia mamma mi avevano organizzato un provino per Ok il prezzo è giusto, ma allora avevo l'esame di maturità - c'erano tre prove scritte - e non avevo tempo, così rinunciai. Poi arrivò quello di Striscia. Ma non decisi di andarci perché speravo di essere presa - ero sicura che non mi avrebbero scelta - ma perché ero rimasta delusa dalla votazione finale dell'esame e volevo sfogarmi in qualche modo. Riempii il mio zainetto e partii per Milano. Al provino c'era un mucchio di ragazze che ballavano, tutte bellissime e biondissime. Io rimanevo seduta in un angolo. Anche mia mamma me l'aveva detto: "Figurati se ti prendono"».

Quando incontrò Antonio Ricci?

«Antonio lo incontrai solo dopo. Eravamo rimaste in 12, e le videocassette venivano visionate dalle sue figlie. Antonio lo incontrai per la prima volta quando già stavo facendo le telepromozioni. Mi salutò e andando via sentii che diceva: "Queste ragazze hanno bisogno di imparare un po' di dizione"... Per me è rimasta una persona importante. Quando ho bisogno di un consiglio, mi rivolgo ancora a lui».

A cosa è sopravvissuta?

«Alla perdita di mio padre, e anche al divorzio».

Con il suo compagno è più geisha o più amazzone?

«Io vorrei essere geisha, ma nessuno mi prende sul serio! Mi vedono tutti come un'amazzone. Non mi è concesso di non essere forte».

Lei è un'appassionata di moto. Quale è stata la prima?

«Una Vespa Hp 50, avevo 12 anni. I miei si stavano separando e ne approfittai per estorcerla a mio padre, dietro la promessa che l'avrei usata solo in cortile. Finì che lui supplicò il maresciallo di sequestrarmela. Poi vennero: un'Aprilia Red Rose 50 a 14 anni, un'Aprilia Classic a 16, un'Honda Shadow 600 a 18, e tante altre. Mi piacciono anche le moto da cross, ma dovrebbero farle più basse!».

La velocità più alta mai raggiunta?

«Quando guidavo io, credo 190. Ma, seduta dietro a Randy Mamola, ho toccato i 320, una cosa pazzesca. Chiacchieravo con Valentino, che è un amico, e gli dissi che avrei fatto un giro con Mamola. Sei matta!, mi rispose lui, non ci andrei neanche io!».

Dopo Striscia venne Operazione Trionfo con Miguel Bosé. Come fu?

«Ricordo solo che Miguel piangeva sempre, aveva la lacrima facile».

Ha lavorato anche con Alberto Castagna.

«Ero terrorizzata, perché mi avevano detto che era cattivissimo e trattava tutti male. Facemmo una prova registrata e lui mi chiamò da parte. Ero preoccupata. Invece mi disse: 'Brava. Quando parli con una persona la ascolti, e non pensi alla domanda successiva o ad aggiustarti i capelli'».

Parliamo di Enzo Iacchetti, una relazione durata sei anni.

«È un uomo meraviglioso, una bravissima persona. Quando hai successo è facile cambiare, lui è rimasto sempre quello di Luino».

Fu un colpo di fulmine?

«Pian piano abbiamo scoperto che ci assomigliavamo. A vent' anni io ero già anziana, ero la più vecchia della coppia. Ci siamo lasciati perché lui era troppo piccolo per me».

Vasco Rossi ha officiato il suo matrimonio. Come è nato il rapporto con lui?

«Ero ospite a Scalo 76 e litigai con tutti quelli che c'erano. Dicevano che preferivano il Vasco degli esordi, io non ero d'accordo. Un mese dopo mi arriva un messaggio sul telefono: 'Ho appena ascoltato la trasmissione. Sono orgoglioso di conoscerti. Sei una delle poche persone che mi capiscono'. Era lui. Sono scoppiata a piangere. Siamo diventati amici».

Ha detto che tra i molti stalker che la perseguitano qualcuno dice di volere essere picchiato da lei. Ha mai malmenato qualcuno?

«Non volontariamente. Durante le lezioni di krav (un'arte marziale nata in Israele, ndr) mi è capitato di allungare qualche colpo di troppo. Allora faccio l'occhietto dolce e dico, oh scusami... Una volta però è successo che ho mollato una ginocchiata al di sotto della cintura, e l'istruttore, mio carissimo amico, è sbottato: ma vai aff... Non amo la violenza ma voglio potermi difendere».

Quanto è importante il denaro?

«Nella misura in cui riesco a far star bene mia figlia. Le mie scelte non sono mai state dettate dal denaro o dalla fama».

Non posso non chiederle quali sono stati motivi del recente dissidio con Elisabetta Canalis, sua amica da una vita.

«Preferisco non parlarne, è un grande dolore».

Oggi fa anche l'istruttrice di fitness sul web.

«Tengo lezioni sulla piattaforma LiveNow. Non è solo fitness, ma anche entertainment, noi lo chiamiamo entertraining. Vogliamo allenare ma anche divertire. Sono corsi interattivi, gli allievi possono fare domande e sono inquadrati da una telecamera. Da metà aprile terrò anche un corso per rimetterci in forma in vista dell'estate. Amo il fitness».

Sua figlia Jamie ha 10 anni. Come ha affrontato la pandemia?

«Cerco di vedere il lato positivo, posso darle una mano. Ma la scuola non è solo un posto dove si insegna, è una palestra di vita. I bambini si sono adeguati, dicono che bello, mi posso svegliare due ore dopo e vestirmi solo sopra, ma io non posso non chiedermi in che modo vivranno il futuro».

Maddalena Corvaglia ha debuttato su Motortrend, canale 59 del gruppo Discovery, con il primo magazine d’informazione quotidiana sui motori del canale dedicato alle due e quattro ruote. In onda ad aprile con una prima tranche di episodi che poi ritorneranno a primavera inoltrata. Prodotto da LaPresse per Discovery, “Motor Trend Mag” racconterà il meglio delle notizie legate al mondo delle automobili e delle moto in un appuntamento quotidiano veloce e accattivante.

·        Madonna.

Dagotraduzione da PageSix il 14 dicembre 2021. Lourdes Leon è unica nel suo genere. La figlia maggiore di Madonna, soprannominata Lola, è una stella emergente nel settore della moda. Oltre a fare la modella per Swarovski, Marc Jacobs e Savage X Fenty, ha recentemente abbellito la copertina di Vogue e ha fatto il suo debutto al Met Gala. Ma la ballerina/coreografa di 25 anni non cerca di seguire il branco quando si tratta del suo look. «Sento che c'è una tale mancanza di stile personale, uno stile attuale che non abbia a che fare con le tendenze o con TikTok. Perché quando c'è qualcosa lì dentro, tutti la indossano. O tutti quelli che sono alla moda, ma alla moda per le masse», ha detto a Paper Magazine. «A causa di TikTok e delle tendenze sui social media, ci sono così tante diverse iterazioni della stessa giacca o della stessa... È come se tutto fosse copiato da tutti». Una tendenza in particolare che Leon non indosserebbe mai? «Non posso entrare nella casualizzazione del blazer. Il blazer oversize. Perché non sono una ragazza blazer», ha detto, citando Hailey Baldwin come amante del look. Leon si è completamente trasformata per il suo servizio fotografico su Paper, sfoggiando un trucco pesantemente glassato e capelli biondi con riflessi grossi e una parrucca rosso fuoco con frangia spuntata. Si è anche spogliata per indossare bikini sexy con top a foulard, stivali di pelliccia, micro minigonne e un vestito con la schiena completamente aperta e con le spalline. E la star è pronta a difendere il suo caratteristico stile sensuale contro i critici dei social media. «Penso che sia un po' ridicolo che le persone vivano ancora in questo mondo in cui identifichiamo il mostrare la pelle con il volere attenzione. Lascia che ognuno che indossi quello che vuole», ha detto. Leon ha anche altri motivi per evitare Instagram. «Ho una relazione complicata con [i social media] perché vedo solo persone che hanno un certo aspetto o vivono un certo stile di vita, e mi confronto solo con quelle persone. Non è salutare per nessuno», ha detto, aggiungendo che il suo racconto è più spensierato che serio. «Ho uno strato di base di odio perché così tante persone amano odiare mia madre: sono la figlia maggiore, vedo la fine di quell'odio. Quindi tutto ciò che faccio di negativo, è definito “Tale madre, tale figlia”», ha detto Leon. «Siete tutti così poco originali».

Ottavio Cappellani per “La Sicilia” il 28 novembre 2021. Madonna ha la variante Zeta. Come si sa, anche se non ve lo diciamo, le varianti del Covid non si evolvono secondo le lettere dell’alfabeto greco, anche perché i Virus non conoscono l’alfabeto. La variante Zeta è in circolo da secoli, essa attacca il cervello, che si riduce alla ripetizione delle azioni sociali così come un hardware ubbidisce a un software. Come si dice, l’uomo è finito: restano soltanto i suoi sintomi. E Madonna - incastrata sotto il letto con il sedere all’aria, che solletica la fantasia dei nipoti che vorrebbero stuprare la zia (se non la nonna) mentre cerca di recuperare le pillole per la pressione cadute sotto al letto – sta soltanto ripetendo quelle fantasie sessuali in voga negli anni Ottanta (quando, ussignùr, si scoprì il BDSM, pratica di nicchia che intorno ai Duemila diventò mainstream – non c’era ventenne ascoltatrice di noise che non volesse essere strapazzata a scudisciate, magari da una band postpunk), che all’epoca le donarono il successo. Ella agisce come gli zombie di George Romero che, nella cronaca dei suoi anni (solo gli imbecilli possono scambiare la cronaca per profezia), mise in scena i morti viventi che continuavano imperterriti ad andare al “mall”, al centro commerciale, seguendo le regole sociali del consumismo. Perché diciamoci la verità, a me la foto di Madonna col frustino sul letto un po’ siculo in ferro battuto, suscita più che eccitazione una domanda: perché qualcuno dovrebbe desiderare di farsi prendere a frustate da una donna in probabile osteoporosi che potrebbe anche slogarsi un polso durante la pratica? Adesso, io lo so che non bisognerebbe fare body-shaming o age-shaming, ma io oramai sono un anziano bacucco arteriosclerotico e anche se mi guardate con disprezzo sociale sono troppo vecchio per tutti questi sceming. E quindi scrivo quello che voglio della vecchia culona arrapata che è diventata Madonna. Anche perché, se vuoi fare la vecchia culona, apriti il canale youporn o una roba del genere, perché almeno prima facevi anche le canzoni. Ma comunque, anche i Maneskin faranno la stessa fine, dopo avere copiato il rock antichissimo (oramai) dei Rage Against The Machine, faranno le foto mezzi nudi con Damiano grasso e il culo flaccido alla Berlusconi (citazione) e Victoria con le minnuzze svuotate come calzini mentre si fanno l’orgetta bisecchisi all’ospizio. E comunque non stavamo parlando di questo: parlavamo della variante Covid Zeta, che è già in circolo almeno dall’anno Mille A.C. quando in realtà iniziò l’Apocalisse dei giorni nostri così come annunciato dai millenaristi: chi l’ha detto che l’Apocalisse avviene all’improvviso? Essa è come il vino buono: ha bisogno di decantare per secoli prima di essere degustata. Quello che vi teniamo nascosto, noi poteri forti, noi grandi vecchi, è, come detto, che sia noi, che il Covid, partiamo dalla fine (la zeta), poi torniamo al principio (l’alpha) e poi rimescoliamo le carte tanto voi siete destinati a non capirci niente, e noi invece siamo gli eletti che si stanno degustando la fine dei tempi ridendo a crepapelle del politicamente corretto e di Madonna che fa la gatta sul letto che scotta come il brodino di semolino tiepido, e che fa scandalizzare soltanto Zuckerberg (che le ha censurato il capezzolo), ma a lui ci piace la categoria “oriental teen”, almeno così dicono (nel film, mica io).

Da repubblica.it il 26 novembre 2021. Qualche mese fa era accaduto a Pedro Almodóvar e al poster del suo film Madres paralelas che mostrava il seno di una madre con una goccia di latte, in quel caso Instagram aveva rimosso il post ma poi si era scusato e aveva fatto marcia indietro. Questa volta le cose non sembrano andare in quella direzione e la polemica esplode tra Madonna e il social di Zuckerberg. Ricostruiamo: la popstar pubblica sul suo canale social, seguito da 17 milioni di follower, una fotografia che la ritrae sdraiata su un letto in calze a rete e lingerie, niente di particolarmente nuovo per Madonna che da sempre ha scelto look di questo tipo per concerti, copertine di dischi e servizi fotografici. In questo caso però l'immagine non passa il sistema di controllo di Instagram e viene rimosso in quanto mostra un capezzolo. Allora l'artista ripubblica l'immagine (oscurando il capezzolo con un cuoricino) e attacca il social con un lungo post: "Sto ripubblicando fotografie rimosse da Instagram senza preavviso o notifica. Il motivo che hanno dato al mio manager che non gestisce il mio account è che una piccola parte del mio capezzolo è stata esposta - scrive -  Mi stupisce ancora il fatto che viviamo in una cultura che consente di mostrare ogni centimetro del corpo di una donna tranne un capezzolo. Come se quella fosse l'unica parte dell'anatomia di una donna che potrebbe essere sessualizzata. Il capezzolo che nutre il bambino. Il capezzolo di un uomo non può essere vissuto come erotico. E che dire del culo di una donna che non viene mai censurato da nessuna parte". Madonna poi aggiunge una sorta di chiosa finale con riferimento alla giornata di Thanksgiving celebrata negli Stati Uniti: "Ringrazio di essere riuscita a mantenere la mia sanità mentale attraverso quattro decenni di censura, sessismo, discriminazione sull'età e misoginia. Perfettamente in sintonia con le bugie con cui siamo stati educati a credere che i pellegrini spezzassero pacificamente il pane con gli indiani nativi americani quando sbarcavano a Plymouth Rock. Dio benedica l'America".

Dagotraduzione dal Daily Mail il 26 novembre 2021. Le foto hot pubblicate su Instagram da Madonna hanno scatenato i fan: ieri, dopo aver condiviso gli scatti in calze a rete e lingerie nella sua camera da letto, è stata inondata da commenti ironici e meme. C’è chi ha scritto «Scoperta una nuova specie di ragno. Le gambe lunghe della nonna!». Un altro: «Life Alert, Help! Sono caduto e non riesco a rialzarmi!». E ancora: «Madonna camaleontica ha adottato ancora una volta un nuovo personaggio per noi fan più anziani e io sono qui per questo!». La presentatrice televisiva Anneka Rice ha twittato: «Io e Madonna abbiamo esattamente la stessa età. Presumo che stia cercando il caricatore del telefono. Se ci provassi non sarei mai più in grado di rialzarmi». Piers Morgan, 56 anni, ha semplicemente twittato: «Rock Bottom». Madonna è stata anche costretta a ripubblicare i suoi scatti censurandoli perché Instagram li aveva rimossi ravvisando una violazione delle sue linee guida: Madonna aveva infatti condiviso le foto con i capezzoli ben visibili. Con una lunga didascalia, Madonna ha bollato le rigide politiche sulla nudità della piattaforma di social media come "sessiste" e ha paragonato lo stigma sociale incrollabile attorno al capezzolo femminile a quello delle "bugie" raccontate sul trattamento "pacifico" dei pellegrini dei nativi americani al Ringraziamento. «Sto ripubblicando fotografie censurate da Instagram senza preavviso o notifica... La ragione? Una piccola parte del mio capezzolo era stata esposta», ha iniziato. «È sorprendente per me che vivo in una cultura che consente di mostrare ogni centimetro del corpo di una donna tranne un capezzolo. Come se quella fosse l'unica parte dell'anatomia di una donna che potrebbe essere sessualizzata. Il capezzolo che nutre il bambino!». «Il capezzolo di un uomo non può essere vissuto come erotico??!! E che dire del culo di una donna che non viene mai censurato da nessuna parte. Ringrazio di essere riuscita a mantenere la mia sanità mentale attraverso quattro decenni di censura... sessismo... età e misoginia». «È perfettamente sincronizzato con le bugie che siamo stati educati a credere sui pellegrini che spezzavano pacificamente il pane con gli indiani nativi americani quando sbarcavano a Plymouth Rock! God bless America», ha concluso la star prima di aggiungere l'hashtag #artistsareheretodisturbthepeace.

Madonna, la diva sempre giovane che ama l’Italia. Angela Leucci il 24 Agosto 2021 su Il Giornale. Madonna nutre da sempre un grande amore per l'Italia, anche in forza delle origini familiari: è uno dei simboli della generazione degli over 60, tra provocazione e creatività. Madonna sceglie ormai da cinque anni l'Italia per festeggiare il suo compleanno. L'artista statunitense raggruppa amici e musicisti e, dopo aver accuratamente prenotato un resort dello Stivale, a ridosso del 16 agosto trascorre circa una settimana tra balli e festeggiamenti senza sosta. Una consuetudine che non deve però stupire: si tratta solo dell’ennesimo capitolo di un amore infinito che la popstar nutre per il nostro Paese, terra d’origine di suo padre, e che fu siglata anche dalla scritta su una provocatoria t-shirt, “Italians do it better”. “Mi piace venire in Italia a esibirmi, perché amo tanto i miei fan italiani”, dichiarò la cantante nel 2015 in un’intervista rilasciata a Silvia Toffanin per Verissimo. Madonna è per l’anagrafe una over 60, ma è nei fatti senza età: adorata trasversalmente da persone molto diverse per la sua musica, il suo personaggio e a volte anche per le sue provocazioni, è l’irriverente testimonial della sua generazione, con la sua capacità di reinventarsi, di stupire e di ammaliare.

Le origini italiane di Madonna. I nonni di Madonna, Gaetano Ciccone e Michelina Di Iulio, erano di Pacentro, una località in provincia de L’Aquila. Qui tutt'oggi risiedono i parenti della cantante - la quale, dopo il tragico terremoto del 2009, ha donato alcune centinaia di migliaia di dollari per la ricostruzione. Nel 1919 Gaetano e Michelina arrivarono a Ellis Island, com’era usanza a quei tempi, alla scoperta di quel “mondo nuovo” ricco di opportunità che erano gli Stati Uniti. Gaetano e Michelina ebbero lì nel 1931 Silvio Anthony, papà dell’artista, e Madonna venne alla luce il 16 agosto del 1958 a Bay City nel Michigan. Neppure 20enne, la giovane artista si trasferì per approdare a New York, solo con un sacco pieno di calzamaglie e tanti sogni.

Da Torino alla Puglia, un amore senza fine. La prima grande volta di Madonna Louise Veronica Ciccone in Italia fu nel 1988, quando si esibì a Torino nell’ambito dell’“Who’s That Girl Tour”, in un concerto memorabile in cui sfoggiò i suoi corpetti disegnati da Jean-Paul Gaultier e qualche parola in italiano. Iconico divenne il suo saluto al pubblico: “Siete pronti? Siete già caldi? Ànch’io”. Da allora si annoverano per Madonna diversi tour in Italia, alcune pregevoli apparizioni televisive e perfino un’ospitata al Festival di Sanremo 1995 dove, accantonando la sua aura di provocatrice, si presentò con un abito vintage da gran dama della canzone. Dal 2016 Madonna, in occasione del suo compleanno che cade il 16 agosto, trascorre le vacanze in Italia, ospite in un resort di Savelletri in Puglia. Questo le ha permesso di visitare le bellezze artistiche locali, attraverso delle passeggiate nel centro di Lecce, ballare la pizzica insieme a gruppi folk locali e, nel 2021, anche di prendere un treno storico, mostrando al mondo cosa significhi turismo lento e intelligente. Con lei anche l'amica di sempre, l’attrice Debi Mazar.

Madonna, la carriera musicale. Nel 1978 Madonna lascia il Michigan per New York. Studia danza e coreografia, ma la vita è dura non solo dal punto di vista economico: viene derubata e anche abusata. Durante un’esperienza di lavoro in Europa, viene però notata da alcuni produttori, ma decide di tornare a New York, dove collabora con due band. Qui, all’inizio degli anni ’80, inizia a scrivere le canzoni che la porteranno a realizzare il primo album che porta il suo nome. Il grande successo però giunse con il secondo album, “Like a Virgin”: nella titletrack uno dei suoi primi atti d’amore per l’Italia, con un video ambientato a Venezia, in cui Madonna - di bianco vestita come una vergine sposa - incontra un vero leone che fa riferimento al simbolo della Serenissima. Dal 1983 al 2019, Madonna ha inciso 14 album in studio, tutti sotto l’ombrello della pop music, anche se l’artista non ha disdegnato di spaziare strizzando l’occhio all’hip hop, alla musica latinoamericana e alla house. Per lei i colleghi hanno scritto canzoni ispirate e meravigliose, da Lenny Kravitz che immaginò “Justify My Love” alla collaborazione con Bjork per “Bedtime Story”. Reinventando continuamente la sua musica e i propri look, Madonna è riuscita a non tradire nel tempo le aspettative dei suoi fan e la propria antica formula: provocare, stupire, far riflettere ma anche e soprattutto far ballare. “È impossibile farmi stare zitta - ha detto Ciccone a Vanity Fair - Infatti mi hanno sempre criticata, messa sulla graticola, fatta a pezzi. Parlare, affrontare argomenti controcorrente, esporsi: oggi è una cosa che spaventa tutti. [… ] Oggi sono tutti chini e persi nello schermo del telefono. È una catastrofe. A livello sociale ma anche creativo. Come fai a sviluppare una tua personalità, un tuo talento con tutto il rumore che c’è là dentro? Alla fine della giornata, quello che oggi ti invade è una pressione che ti porta a vestirti in un certo modo, a essere quieto, a diventare perbene”.

Madonna, la carriera nel cinema. La carriera cinematografica di Madonna è fortemente connessa con la sua musica, sebbene la cantante abbia esordito nel 1979 con un thriller b-movie che uscì nel 1985, quando lei era già famosa, “L’oggetto del desiderio”. È nel 1985 che la popstar fa il suo vero grande esordio nella settima arte, con la pellicola “Cercasi Susan Disperatamente”, in cui sebbene sia la Susan del titolo non è la protagonista. Ma tanto basta a inserire nella colonna sonora il brano cult “Into the groove”. Lo stesso anno, Madonna appare in una scena del film d’amore con Matthew Modine “Crazy for You”, ed è una scena in cui canta sul palco l’omonima canzone. Successivamente è la volta dello sfortunato “Shanghai Surprise”, accanto all’allora marito Sean Penn, dopodiché è protagonista in due film che affiancano la promozione di due dischi, “Who’s That Girl” e il cinecomic “Dick Tracy”. In un decennio, dal 1992 al 2002, Madonna appare in diversi film d’essai, da “Ombre e nebbia” di Woody Allen a “Body of Evidence” accanto a Willem Dafoe, passando per “Girl 6” di Spike Lee dove è in un cameo, il film a episodi “Four Rooms” e il remake “Travolti dal destino” dell’ex marito Guy Ritchie. Tra i suoi personaggi più memorabili ci sono sicuramente quello di Mae Mordabito, giocatrice baseball durante il Secondo conflitto mondiale in “Ragazze vincenti” di Penny Marshall, e naturalmente Evita Peron nel musical “Evita” di Alan Parker, nel quale canta e recita.

Le opere filantropiche. Nel tempo Madonna si è dedicata a diverse opere filantropiche, come la succitata donazione per l’Abruzzo. Quella di più lungo corso è però Raising Malawi, fondata nel 2006, che si occupa di aiuti a vario titolo per gli orfani di questo Paese africano. Paese da dove provengono tra l’altro quattro dei suoi figli: David, Mercy, Stella ed Estere. "A portarmi da quelle parti - ha raccontato Ciccone a Vogue - logicamente, è stato l’enorme numero di bambini rimasti orfani per colpa dell’Aids. All’inizio volevo fare qualsiasi cosa fosse in mio potere per aiutarli, che si trattasse di istruzione e cure mediche, di ricostruire degli orfanotrofi e fabbricare scuole, di portare personale medico e volontario. Sentivo che, avendo una vita privilegiata, era mio dovere rendermi utile”.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Madonna lascia la Puglia, viaggio e festa sul treno storico. Il Quotidiano del Sud il 22 agosto 2021. Pubblicando un video a bordo di un treno storico della Fondazione Ferrovie dello Stato, con i suoi amici, la famiglia e il fidanzato, Madonna saluta la Puglia dove è arrivata nei giorni scorsi. La star ha visitato la sua regione preferita girovagando spesso a piedi come una comune turista, dopo aver festeggiato il suo 63esimo compleanno, il 16 agosto, in un resort di lusso nel Brindisino. “Ciao Italia, ciao Puglia”, dice la pop star nel video, affacciandosi dal finestrino del treno. Durante il viaggio si balla e si canta, mentre alcuni si baciano negli scompartimenti. Le immagini, pubblicate sul profilo Instagram di Madonna, sono accompagnate dalla musica di Claudio Villa. Madonna ha preso il treno da Fasano (Brindisi), vicino al resort di Savelletri, dove ama soggiornare. Prima di salire a bordo le è stato donato un mazzo di rose. Il viaggio inizia in musica, con alcuni chitarristi che suonano in treno per accoglierla. Poi, la star sale a bordo e si siede con il suo giovane fidanzato, il 26enne ballerino Ahlamalik Williams. Da qui ha inizio la festa. Madonna, conquistata dalla bellezza del treno storico, si esibisce anche in alcune pose nell’ultimo vagone, mentre alle sue spalle si vede il paesaggio scorrere via accanto ai binari. Nei giorni scorsi, a bordo di questo treno, ha raggiunto Lecce dove ha visitato il centro storico e il Duomo. “La star internazionale Madonna – sottolinea la Fondazione Fs – ha scelto ancora una volta il nostro paese per trascorrere le vacanze tra le bellezze del patrimonio storico e culturale. Questa volta, in Puglia, ha arricchito la sua permanenza con l’esperienza di un viaggio a bordo di un treno storico della Fondazione Fs, diventando così ambasciatrice per un giorno del turismo dolce e sostenibile, tra le bellezze artistiche del barocco leccese”. Madonna ha condiviso sui social anche la visita a Ostuni di due giorni fa, questa volta raccontandola sulle note di ‘Nel blu dipinto di blu’ di Modugno. Con il fidanzato, i figli e il suo staff, Madonna ha cenato nella ‘città bianca’ e ha cantato ‘Bella ciao’ con il gruppo di musicisti locali "Terraross".

Patrizia Monaco per "movieplayer.it" il 16 agosto 2021. Ancora una volta, Madonna ha scelto di festeggiare il suo compleanno in Italia, esattamente in Puglia, nel resort di Borgo Egnazia, a Savelletri (Fasano). Diverse foto ed alcuni video apparsi sui social mostrano la cantante circondata dai suoi amici che le cantano Tanti Auguri in uno scenario assolutamente da sogno. Proprio oggi, lunedì 16 agosto, Louise Veronica Ciccone compie 63 anni. Un'occasione speciale che merita una location speciale: quando si è trattato di scegliere il luogo in cui festeggiare il proprio compleanno, la star americana, nota a livello mondiale semplicemente come Madonna, non ci ha pensato due volte. La scelta definitiva non poteva che ricadere sull'Italia, il suo paese di origine che, nel corso degli anni, le ha dimostrato sempre affetto incondizionato, riservandole un trattamento speciale ogni volta che la cantante ha raggiunto il Bel Paese per i propri concerti o semplicemente per godersi un periodo di vacanza. Nelle ultime ore, diversi scatti condivisi sul web ritraggono Madonna mentre festeggia il suo compleanno, circondata dai suoi amici più cari. In un video, invece, possiamo anche sentire i presenti al party mentre intonano Tanti Auguri. Lo scenario, in cui il calore delle candele si sposa con il bianco delle strutture circostanti, lascia percepire tutta la magia del momento. Per l'esattezza, Madonna ha scelto di festeggiare nel resort di Borgo Egnazia, luogo a cui ormai si è affezionata e dove torna spesso. Era successo, ad esempio, anche nel 2017, quando la cantante aveva raggiunto l'Italia in compagnia dei suoi figli. Risale al 2015, invece, la sua prima visita a Savelletri, frazione del comune di Fasano di cui si è innamorata sin da subito. All'epoca, Madonna condivise sui social la foto di un tramonto, con scritto "la strada per il paradiso". 

Danilo Barbagallo per leggo.it il 5 giugno 2021. Un tenero messaggio di auguri da parte di Madonna al padre Silvio Anthony Ciccone, detto Tony, di origini abruzzesi, che spegne novanta candeline. Un evento che Madonna ha voluto celebrare con una dedica social al padre, a cui ha regalato un video della giornata di festa trascorsa insieme: “Mio padre è un sopravvissuto – ha scritto su Instagram -  è cresciuto come immigrato italiano negli Stati Uniti e ha affrontato diversi traumi, ma ha sempre lavorato duramente per guadagnarsi tutto ciò che ha avuto. Mi ha insegnato l'importanza del duro lavoro e l'importanza di trovare la propria strada nella vita. Ti ringrazio ancora. E’ stato così speciale aver potuto trascorrere il tuo novantesimo compleanno insieme e con i miei figli nel tuo vigneto. #happybirthday #ohfather #thestrangers @cicconevineyard”. La grande star Madonna non dimentica la famiglia e per i novanta anni del padre Silvio Anthony Ciccone, di origini italiane, lascia gli impegni nel mondo dello spettacolo e trascorre la giornata con lui. Madonna ha anche condiviso un post in onore di Silvio Ciccone, con un video che racchiude i momenti di festa e una tenera didascalia: “Mio padre è un sopravvissuto – ha scritto su Instagram -  è cresciuto come immigrato italiano negli Stati Uniti e ha affrontato diversi traumi, ma ha sempre lavorato duramente per guadagnarsi tutto ciò che ha avuto. Mi ha insegnato l'importanza del duro lavoro e l'importanza di trovare la propria strada nella vita. Ti ringrazio ancora. E’ stato così speciale aver potuto trascorrere il tuo novantesimo compleanno insieme e con i miei figli nel tuo vigneto. #happybirthday #ohfather #thestrangers @cicconevineyard”. Madonna ha trascorso la giornata di festa assieme ai figli. La cantante ha ha sei, di cui quattro adottati: ha avuto la prima nel 1996, Lourdes Maria, nata dalla relazione con il personal trainer Carlos Leon. Nel 2000 sposa il regista Guy Ritchie, dal loro matrimonio lo stesso anno nasce Rocco John e poi nel 2006 adotta un bambino originario della zona del Malawi, David Banda. La cantante ha poi adottato Mercy James nel 2009 e le gemelline Stella e Estere Mwale nel 2016. All’appello nel party in famiglia per i novanta anni di Silvio Anthony Ciccone mancava solo Rocco John Ritchie.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 29 marzo 2021. Il corpo di Madonna è al centro delle polemiche in questo periodo e adesso lei ha buttato altra benzina sul fuoco. A metà marzo una fotografa e esperta digitale australiana, Amelia Goldie, ha accusato la popstar di averle rubato uno scatto social. La Ciccone avrebbe sovrapposto la sua faccia al corpo della ragazza 28enne, pubblicando poi l'immagine modificata sul suo profilo Instagram. I fatti risalgono al 2015, per il lancio di Rebel Heart, ma Amelie se ne sarebbe accorta solo ora. "Quando Madonna pubblica una sua foto su IG per promuovere il suo album ma in realtà è il tuo corpo (non sto scherzando)", ha scritto la giovane in un video su TikTok, diventato virale in pochissime ore. L'immagine incriminata è, al momento, ancora visibile sulla pagina social di Madonna e lei non ha commentato il fattaccio. In seguito allo scandalo però l'icona della musica ha postato una serie di fotografie che non sembrano essere proprio casuali. "E ora in un momento di riflessione personale... Madame X", ha scritto la Ciccone. Madame X è l'alter ego della popstar, nato in occasione della pubblicazione dell'album omonimo nel 2019. Nei selfie l'artista si ritrae con un completo intimo d'ispirazione bondage, svelando il corpo quasi nudo. Slip in pizzo, reggiseno nero con dettagli in pelle di Agent Provocateur e un cappello fetish con catena di Ruslan Baginskiy. A 62 anni Madonna si mostra senza vergogna, del resto lei nella sua lunga carriera ha fatto della libertà di espressione un portabandiera. Chi non ricorda i suoi look iconici? La sposa di Like a Virgin, il famoso corpetto con le coppe a punta di Jean Paul Gaultier, il corvo di Frozen, il periodo da cowgirl, solo per citare alcuni suoi famosi momenti fashion. Adesso è una Madame X sexy e consapevole. Senza etichette, camaleontica e irriverente, ha rimesso Amelia Goldie al suo posto con tre scatti al naturale, dimostrando di avere ancora un corpo che parla benissimo da sé.

·        Maitland Ward.

Barbara Costa per Dagospia il 6 giugno 2021. La signora ha 2 milioni di dollari. Netti. Se li è fatti quasi tutti lavorando duro e sudando altrettanto. E ogni tanto orgasmando. Se li è fatti col porno. In soli 2 anni, guadagnandosi già col suo primo porno, il sadomaso "Drive", l’Oscar quale miglior attrice protagonista. A oggi i premi sono diventati 11, compreso quello come Miglior porno personalità social. Perché Maitland Ward, milfona 44enne, conta più di 2 milioni di followers tra Instagram e Twitter ma, molto più interessante, ha 700.000 abbonati al suo canale OnlyFans. Tutti fans disposti a pagare contenti per i suoi video porno. Denaro sonante che porta la signora a intascarsi – parole sue, a "TMZ" – mensilità pari a 6 cifre, e solo per il porno che rilascia su questa piattaforma. Stando così le cose, non ci sono dubbi: Maitland Ward ha vinto. Ha avuto ragione lei. Ha vinto e ha avuto ragione a fare quello di cui di lei si parla, sparla, si disapprova: Maitland ha fatto bene a lasciare Hollywood per il porno. A lasciare il cinema mainstream per fare il cinema quello porno, cioè per il cinema dove ogni atto sessuale non è falsato, e pene e lingua e mani entrano davvero, e dove il sesso è vero. Ma così Maitland è diventata – in quanto donna – agli occhi e pensiero dei benpensanti, una m*gnotta. Dai, senza giri di parole: cosa hanno detto o meglio rimproverato a Maitland quando ha annunciato di buttarsi nel porno? Che era una pazza, una sconsiderata, e che Hollywood non gliel’avrebbe perdonata: col cinema "tradizionale" avrebbe chiuso. Per sempre. Che per lei non ci sarebbe stato mai più spazio, o una chance di ritorno. E a dire che Maitland non ha scelto i film a luci rosse perché negli altri nessuno la chiamava più, essendo come attrice fallita. No. Maitland ha lasciato Hollywood perché arcistufa del cliché in cui quel mondo l’aveva racchiusa. Il cliché della figliola innocente dai verdi occhioni romantici. Non ha avuto ragione lei, a vederla oggi che, a erompere corpo e occhioni nel porno, lavora tanto, con sommo gusto e soddisfazione? “Mi sento fiera, potente: niente è off limits per me”, dice Maitland al "Daily Star", e come contestarle che mai aveva raggiunto un pubblico così vasto (ammiratore e non). Mai aveva vinto tanti premi. E parliamoci seriamente: col porno ci ha guadagnato tanti quattrini. Dice Maitland: “Il porno è come Beautiful!”. Lei lo può ben dire, ché in questa soap ha recitato anni, e però coglie una importante verità: come Beautiful, e le soap opera in generale, “il porno è un settore cinematografico a sé, separato dal mainstream, e malgiudicato da esso, ma è, come Beautiful, molto visto e molto popolare”. La rossa Maitland, da outsider del porno, manda del porno in crisi preconcetti e idee errate: il porno è pieno di persone, attori e attrici, disperati, sbandati, senza morale? E lei snocciola nomi e esempi concreti della maggioranza di lavoratori porno che sono integerrimi tipi casa e famiglia. Se poco convincente, pone come esempio lei stessa. Lei è passata al porno restando la signora Baxter, sposata a Terry, con lui formante da 15 anni una coppia solida, monogama, tranne quel che di sesso Maitland fa con altri sui set. Per lavoro. Non è vero che il porno è approdo di persone minate da radici familiari "discutibili": lei è figlia di mamma e papà etero, sposati da 50 anni, che tuttora vivono nella casa in California dove Maitland è cresciuta stabile e protetta. Il porno è un lavoro speciale per gente normale, e alla normalizzazione del porno punta con decisione Maitland. Lei è pioniera, apripista di uno switch – dal cinema mainstream al cinema porno – che secondo lei devono con disinvoltura fare altri ex colleghi attori veri e "seri". Ex colleghi mica tanto tali, visto che al momento Maitland alterna le riprese di "Muse" (e qui non è gonzo, non è porno di sola azione, qui non è solo meccanica, qui si recita, sul serio: qui si fa cinema. Sessuale. Maitland, con Muse, ha vinto 3 Oscar. Lo strepitoso successo ha dilatato Muse in una porno-serie) a quelle non porno di "The Big Time", sitcom "pulita", di cui Maitland Ward è sia protagonista che produttrice. Ha ragione Maitland, ha vinto Maitland: è il cinema mainstream che si è piegato a lei, ricercandola e richiamandola. Maitland lo ammette senza indugi: il salto nel porno le ha ricostruito una carriera. Basta con la storia che far porno degrada umanamente e professionalmente: il porno professionale a una donna – specie a una donna – concede guadagni e possibilità che altrove poco trova. Misoginia è “pensare che le donne si debbano vergognare per come vogliono usare i loro corpi e la loro sessualità, e come, se vogliono, scelgono di fare i soldi con essa”. Chiaro? Maitland Ward, non solo ha allungato di 2 anni il contratto in esclusiva che la lega al super porno brand "Vixen", ma sta con Vixen sviluppando progetti di script e regia, oltre a quelli già in cantiere da pornostar. Ci aspettano, con Maitland, nuovi porno, trame carnose, anche in serial, “stile Netflix”, dice lei. Non solo: nel 2022 esce "My Escape from Hollywood: Why I left to Become a Porn Star", il suo libro di memorie, presso la prestigiosa casa editrice Simon & Schuster, i cui diritti inglesi sono già venduti. Più vittoriosa di così. È davvero così "sozzo", il porno? No, ma stancante sì. Svela Maitland Ward: “Per riprendermi, dopo una giornata di sesso intenso sul set, devo dormire 10 ore!”. E lei si è stancata, nel girare il suo primo porno anale, con Manuel Ferrara, e si è stancata, a sc*pare col collega Pressure, su quel tavolo, al punto che, nell’ardore, mentre giravano, non si sono accorti del caffè rovesciato, macchiante, colante sui loro vestiti, e della sedia che nella foga hanno spaccato, e sedia che Maitland, affarista sopraffina, si pente di non aver messo all’asta su eBay.  

·        May Thai.

Barbara Costa per Dagospia il 10 aprile 2021. Lei si chiama May Thai, è italiana, ha 23 anni, e si diletta in triple anali. Lei le fa, lei le vuole fare, lei si diverte a farle. E ti spiega pure come: si mette in doggy-style, un uomo sotto di lei, un altro sopra, e un terzo che si deve "infilare" nel mezzo, oppure due uomini distesi, a forbice, entrano dentro di lei sopra di loro a cavalcioni, e un terzo uomo che si… o insomma, si fa prima a vedere un triplo anale di May Thai che a scriverne, una tripla anale è più facile a farsi che a dirsi, ma che dico, facile non lo è per niente, come non è per niente sicuro e assolutamente NON consigliato provarci in privato. Le triple di May Thai sono sua abilità porno, farle per lei è sì divertimento ma è un lavoro, che lei fa sì per sua scelta e convinzione, ma pure perché ha metodo, allenamento, e sa i "codici", ovvero le basi e regole e "trucchi" che permettono a una pornoattrice di recitare e realizzare in modo naturale ciò che naturale non è. May Thai è nata a Trieste, da madre thailandese e padre italiano: ha vissuto e studiato nella località di Muggia, ha la maturità classica e dopo il diploma si è trasferita a Praga, odierna capitale del porno europeo. Qui May ha iniziato a fare la modella porno per poi passare ai set, e lei racconta che, al contrario di gran parte delle sue colleghe, ha scelto di darsi subito all’hard più estremo, sezione penetrazioni multiple. Lei ci si trova a suo agio, le riescono, e tale sua valenza l’ha portata a diventare nome di punta di "LegalPorno", casa di produzione di porno estremo tra i numeri uno in Europa e fuori. May Thai dice che ha scelto il porno quale lavoro per pagarsi gli studi: è infatti inscritta alla facoltà di Medicina, e ha intenzione di diventare chirurgo plastico. Queste sue ambizioni, associate al candore con cui ne parla e ne dà prova, hanno lasciato di stucco persino sua maestà Rocco Siffredi che, ammaliato dall’esoticità di May, l’ha convocata da lui a Budapest, sapendo nulla di lei, men che meno fosse sua compatriota. È fenomenale la faccia di Rocco quando scopre che May Thai è sì italiana, ma che è una amante di doppie e triple! Se è infatti inusuale che una ragazza così giovane si butti a far porno tra i più complicati, è ben più singolare trovarne una che te lo fa con la stessa nonchalance e professionalità di May Thai. Sue specialità sono anche le gang-bang 10 a 1, dove in generale il suo corpo ma nello specifico il suo ano, è preda di 10 uomini che la possiedono a turno, in fila, senza sosta, e senza darle (apparente) tregua. Forse stupisce che una ragazza dall’aspetto dolce e soave e naïve come May Thai possa sfrenarsi in anali e doppi e tripli: spero che ciò non sia legato al cliché della donna orientale passiva e docile. Sebbene May abbia fatto anche porno massage, ormai la figura dell’asiatica legata unicamente a questo genere porno sta scemando, e meno male! Forse May Thai dovrà rallentare i suoi studi perché nell’ultimo periodo la sua ascesa nel porno ha subito un’accelerazione: se nel suo curriculum spiccano collaborazioni con grandi studios USA come pure un porno per "Dorcel", nome storico del porno francese e internazionale, la stella May Thai brilla ed è cercata da sempre più porno-brand di grido. Di pari passo è la sua ascesa social e in special modo onlyfansiana, insieme al numero dei suoi fan. Ecco, tra i suoi fan erge la massima parte innamorata pazza, ma c’è e fa rumore qualcuno che critica e non scusa i suoi minuscoli seni. Al di là delle mire medico-professionali di May Thai, io non tifo affinché modifichi un centimetro di ciò che madre natura le ha dato, come non giustifico, e qui fermamente, chi sui social la canzona per come pronuncia la S! C’è chi spiffera e marca che May Thai sia figlia d’arte, in quanto sua madre 20 anni fa era una ballerina e si esibiva in un night club di Trieste: il nesso tra fare la ballerina e l’attrice porno, per giunta di triple anali, non so a voi, ma a me sfugge. Ma come deve essere, nel privato, nella realtà, l’uomo ideale di May Thai? Ce lo deve avere plus-size, o… normale? “Lo deve saper usare!”, risponde semplicemente May, e se lo dice una per lavoro abituata a prenderne tre alla volta…!

·        Malika Ayane.

Mattia Marzi per "il Messaggero" il 4 marzo 2021. In un momento storico in cui l' obiettivo principale degli artisti sembra essere quello di sbandierare i propri successi sui social, vantandosi del Disco di platino appena vinto o del primo posto in classifica, la schiettezza di Malika Ayane è quasi disarmante: «Il mio ultimo disco? È andato malissimo. X Factor? Non mi hanno richiamata», dice la cantante. L' album al quale fa riferimento è Domino del 2018, il meno venduto di una carriera cominciata dieci anni prima con successi come Feeling Better e Come foglie, la canzone con cui si fece conoscere dal grande pubblico partecipando tra le Nuove proposte al Festival di Sanremo 2009 (arrivò seconda dietro ad Arisa e alla sua Sincerità). All' Ariston Malika, vista nel 2019 dietro al bancone dei giudici del talent di SkyUno, torna quest' anno per la quinta volta: in Ti piaci così, che ha cantato ieri sul palco, è meno posata rispetto al passato, ma comunque raffinatissima.

Dalle ballate a un brano con la cassa in quattro: che fa, ora cede alla furbizia?

«Diranno che mi sono data al commerciale perché sono vecchia (ride). Ma chi mi conosce sa che in passato non sono stata sempre l' interprete elegante di Ricomincio da qui. Nel 2015 sbancai in radio con Senza fare sul serio: fu un tormentone involontario, a un certo punto fummo costretti a ritirarlo perché le emittenti continuavano a passarlo rifiutandosi di trasmettere gli altri miei singoli».

Addirittura?

«Sì. Sembra incredibile, ma quella fu la canzone di maggiore successo della mia carriera: conquistò tre Dischi di platino, l' equivalente di 150 mila copie vendute. La gente veniva ai miei concerti, ascoltava Controvento, Feeling Better e non sapeva nemmeno fossero mie: i risultati che ti guadagni sul campo sono i più belli».

Il disco successivo, però, non fu affatto un successo: cosa non funzionò?

«Le radio si rifiutarono di passarlo: dicevano che in quei pezzi non c' era la Malika Ayane classica, che avevo osato troppo mischiando jazz, pop, elettronica».

Andò in crisi?

«Sì. Anche perché pensavo di aver fatto un disco di successo: invece fu un flop. Mi dissi che forse serviva del tempo per capire cosa fare dopo. Invece che fare duetti improbabili o far uscire un singolo dietro l' altro, scelsi la tv».

Perché non l' abbiamo rivista a X Factor?

«Perché non mi hanno richiamata. Non nascondo di essermi sentita a disagio. Lì ho capito che le polemiche non fanno per me. A meno che l' oggetto della polemica sia: È meglio un assolo di Chet Baker o di Miles Davis?. Da ragazzina sceglievo i fidanzati in base alla risposta».

Ammette i suoi insuccessi con sincerità: sa che oggi non è così comune tra i cantanti?

«Basta travestirsi da fighi pazzeschi: bisogna dire le cose come stanno. Io sono serena quando dico che l' ultimo album è stato un disastro e che a X Factor non è andata bene».

Va d' accordo con i suoi discografici?

«Non sempre. Quando feci Naif, il disco del 2015, ci fu un po' di scetticismo da parte loro (incide per la Sugar di Caterina Caselli, che omaggerà nella serata delle cover con Insieme a te non ci sto più, ndr). Se si va troppo d' accordo. qualcosa non funziona».

In Ti piaci così si guarda allo specchio: cosa vede?

«Una donna che a 37 anni ha imparato ad accettare anche le imperfezioni e le debolezze. In passato mi sono sentita sempre un po' in colpa a non essere sempre sgargiante».

Il nuovo album?

«Uscirà il 26 marzo. Dentro ci sono la Malika di ieri e oggi, raccontata da autori come Colapesce e Dimartino, Leo Pari e Pacifico. Chissà se l' abbandono apparente della raffinatezza mi farà bene o mi farà soffrire».

Malika Ayane a Sanremo: "Ora che mi sono sfogata posso tornare al Festival". Ernesto Assante su La Repubblica il 21 febbraio 2021. Quinta partecipazione per la cantante, in gara all’Ariston con "Ti piaci così": "Mi farà l’effetto che mi ha fatto tornare in Marocco, invece dei taxi con le Fiat Uno ho visto le macchine elettriche cinesi".

Sanremo ha segnato molto la sua strada: il suo esordio al Festival nel 2009 con Come foglie, scritta da Giuliano Sangiorgi, ha trasformato il suo sogno di diventare una delle più apprezzate cantanti italiane in una realtà. Malika Ayane a Sanremo è tornata altre volte, ha vinto il premio della critica, ha accumulato successi. Di certo, però, non si può dire che il suo sia stato un percorso "sanremese", anzi, tra canzone d'autore, flirt con il jazz e il pop più raffinato, le sue presenze nella "città dei fiori" sono state più delle tangenti che delle necessità. Nel 2021, dopo ben sei anni di assenza dal Festival, Malika a Sanremo ci ritorna, e con una canzone, Ti piaci così, che, spiega lei, "è sulla consapevolezza di sé, sullo scoprirsi risolti, sull'avere voglia di vivere con gusto. Arriva un momento in cui comprendi che giudicarsi severamente non ha senso, ma chiaramente nemmeno giustificarsi a prescindere", dice Malika, "Questa canzone può essere considerato un invito ad accettarsi: ballare scalzi, cantare a squarciagola o scegliere di cambiare strada per scoprire qualcosa di nuovo. Un invito a celebrare se stessi per il solo fatto di essere al mondo".

L'ultima volta a Sanremo è stata nel 2015. In questi anni sono cambiate tante cose.

"È cambiato moltissimo, tanto il festival, quanto il mondo e tantissimo la musica. Tornare a Sanremo mi farà l'effetto che mi ha fatto tornare in Marocco dopo tanto tempo, dove invece di vedere i taxi con le Fiat Uno ho visto le macchine elettriche cinesi. Un bel colpo se vai in un posto che pensi di conoscere bene...".

E quest'anno, con le regole della pandemia e l'assenza di pubblico sarà davvero particolare.

"Sarà molto strano. Già lo è, direi. Ho fatto la prima prova e c'ero solo io e il pianista nella green room. È ovvio, sul palco con l'orchestra e i tecnici è diverso, c'è il solito marasma, ma non si può fare finta che non sia strano, sembra il giorno dopo la festa o appena prima, tutto ha il senso di malinconia delle commedie che presentano al Sundance. Speriamo che nei giorni del Festival ci sia almeno un po' di traffico, se non altro per dare un senso di riconoscibilità alle cose".

Anche la sua canzone è diversa dal solito.

"Questo brano rappresenta la voglia di divertirsi, è nato in modo animalo, una session con un dj e un'autrice, Alessandra Flora che ci metteva un giro e io che improvvisavo con la voce. È un brano in cui sto molto bene, mi sento libera e leggera. Del resto cosa devo dimostrare ancora? Sono adulta e faccio musica, mi piace da morire e ho voglia di cantare a braccia aperte, come quando canto a squarciagola mentre guido. Il testo quindi è una necessaria didascalia, un contorno per spiegare meglio uno stato d'animo in cui mi sento molto bene. Ho un bel lavoro, faccio dischi, concerti, posso ritenermi soddisfatta della mia vita e di me stessa. Penso ad essere felice, quindi, senza colpevolizzarmi o lodarmi troppo".

E anche il testo risente di questo cambiamento?

"Proprio perché ho lavorato con tanti autori molto in gamba ho fatto un lavoro diverso, mettendo delle parole che fossero davvero mie. Volevo dare senso al mio bisogno di osservare le cose, di sentirle, senza cantare troppo o troppo poco, concentrandomi sull'uso di parole troppo ricercate per esprimere qualcosa che invece ha la sua poesia proprio nella semplicità".

Le piace la nuova scena italiana?

"Mi piace, anche se, di fatto, la musica è sempre stata in cambiamento. È vero che c'è un ricambio generazionale, ma è interessante a patto che non proclamiamo il miracolo a prescindere. Sembra che tutto debba essere per forza una figata, ma è anche vero che non dobbiamo buttare via tutta la trap solo perché qualcuno non la capisce. E comunque a Sanremo c'è anche un buon numero di 'giovani vecchi', come Dimartino e Colapesce o Willie Peyote, che finalmente sono dove devono essere. Perché non esiste più solo il mainstream, e molti si sono affermati da soli, con lo streaming, con il passaparola, con il live, con canali diversi e senza l'ossessione della classifica. Il che dimostra che chi semina bene raccoglie benissimo. È un momento bello anche perché il pubblico ascolta con curiosità tante cose diverse".

E cosa è cambiato per lei da 'Domino' del 2018 a oggi?

"Ho attraversato un periodo importante. Domino è un disco che ho amato alla follia ma che ha venduto pochissimo, non aveva dei singoli considerabili 'forti'. Ma è andato benissimo nei concerti, non come quando hai un singolo primo in classifica, ma molto bene. In quel tour ho fatto teatri e club, ho iniziato a cambiare suono, mi sono espressa, ho soddisfatto il mio bisogno di fare ricerca, perché avevo nelle mani un disco superpop, ma allo stesso tempo il più sperimentale dei miei lavori. Quindi mi sono sfogata, ho fatto quello che ho voluto e la gente è venuta, restando, attenta, quasi tre ore nei teatri e due nei club. Vedevo le signore nei club punk e mi sono ricordata di me stessa, avevo capito che correvo il rischio di non riconoscere più la bellezza, quindi dopo molta paura mi sono rilassata e mi sono sentita pronta per fare un lavoro sul filo dell'autenticità e semplificare le cose. Un lavoro d'appartamento, un bello studio dove suonare tutti insieme nella stessa stanza, forse di nicchia ma credibile e convinto, con il giusto bilanciamento di suoni freddi e caldi, di armonie e melodie, di ritmi e colori. Non vedo l'ora che il pubblico lo ascolti". 

Cosa l'ha ispirata di più?

"Il clima che si è creato nella musica italiana. I ragazzi che arrivano in scena adesso non chiedono il permesso a nessuno, alcuni esagerano, altri sbagliano, ma comunque non si pongono nessun problema, vanno dritti al dunque. Io invece consegno un lavoro, controllo se ho sbagliato qualcosa, se non piace ai discografici mi chiedo cosa posso cambiare per migliorare. Invece il nuovo ha l'arroganza di non chiedere, che è un atteggiamento molto positivo, non permettono a nessuno di entrare con una valutazione che rischia di ledere una creazione con argomenti che con l'arte non c'entrano niente. Il disco che uscirà è pieno di brani forti da un punto di vista emotivo, è un disco intenso e carico. Penso che la libertà ce la dobbiamo prendere anche se è faticoso, e so che quando ci sono state interferenze l'unica a pagare sono stata io, e la musica alla fine non veniva bene, non arrivava all'ascoltatore nella maniera giusta. Quindi ho deciso di fare di testa mia".

E cosa sarà dopo Sanremo?

"Per ora nessuno di noi lo può sapere per certo, con le condizioni attuali. Per me, devo dire che alle volte ho paura e mi sembra di camminare sulle uova. Ma appena mi ricordo chi sono, che so cantare e che con questa voce ho fatto tutto quello che ho, la paura mi passa e penso che continuerò sempre a cantare, anche senza microfono...".

Ritorna Malika Ayane: "Al Festival il Malifesto della mia musica". La cantante interpreterà anche un classico della Caselli: "Amo la sua determinazione". Paolo Giordano - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. Il bello di Malika Ayane è che la riconosci subito: la sua voce ha una eleganza d'altri tempi e nel pop porta impertinente le sue tracce di jazz e soul. Ritorna al Festival di Sanremo con Ti piaci così, brano che è un manifesto della sua nuova consapevolezza e un anticipo del suo nuovo disco, che si intitolerà Malifesto e uscirà a marzo. «La canzone è nata un anno fa, prima che ci trovassimo dentro una pandemia ed è il risultato delle domande che mi stavo facendo in quel periodo, una specie di bilancio nei giorni del mio compleanno». Una musica senza tempo che potrebbe diventare un classico e che è nata una sera con un deejay e la bravissima autrice Alessandra Flora. Poi il sempre più sapiente Pacifico ha contribuito alla scrittura definitiva. E le parole rendono davvero lo stato dell'animo di questa artista 37enne che a Sanremo ha iniziato a decollare nel 2009 e da allora ha cambiato con stile tante rotte musicali diverse: «Mi sono accorta di aver passato troppo a pensare a cosa avrebbero pensato gli altri di me. Mi sono concentrata troppo su di una sola missione: come non deludere le aspettative di altri». È una attitudine comune a tanti artisti (ma non solo), specialmente ai più sensibili: «Il focus di Ti piaci così è la consapevolezza di sé, lo scoprirsi risolti e l'aver voglia finalmente di vivere con gusto». Dopotutto, «arriva un momento in cui comprendi che giudicarsi severamente non ha senso, ma chiaramente non ce l'ha nemmeno il giustificarsi a prescindere». Adesso più che giustificarsi, Malika Ayane si riconosce. Ed è una sensazione molto diffusa dopo un anno di isolamento, pandemia, insicurezza. Come sempre, la musica diventa terapia, aiuta a capirsi e Ti piaci così può essere realmente la fotografia di uno stato d'animo oggi necessariamente sempre più comune. E che a Sanremo arrivi una Malika più consapevole e serena lo conferma anche la scelta della cover che interpreterà nella serata del giovedì: Insieme a te non ci sto più, musica di Paolo Conte, parole di Vito Pallavicini, voce di Caterina Caselli anno di grazia 1968. «Sono molto legata a Paolo Conte, che scrisse per Caterina. L'idea di rendere omaggio a entrambi con una sola canzone mi piace molto. E mi piace farlo su di un palco che anche per me rappresenta moltissimo». Malika Ayane ha debuttato all'Ariston con Come foglie, firmata da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro ed è tornata per l'ultima volta nel 2015. Da allora, conferma, «tutto è cambiato e la musica è cambiata più di tutto». Ci si è messa anche la realtà a cambiare drasticamente, visto che per la prima volta in settant'anni al Festival non ci sarà il pubblico in sala: «Forse sembrerà di essere in quelle piazze quando è stata smantellata la festa e comunque si sentirà molta malinconia, specialmente facendo il confronto con i Festival del passato». Lei, che anche quando parla nelle interviste conserva il calore della voce, arriverà all'Ariston dopo aver camminato in lungo e in largo per l'Italia con i brani sofisticati del disco Domino, che non hanno avuto grande risultato commerciale ma si sono presi una rivincita dal vivo: «La gente è venuta ai miei concerti, è rimasta attenta nelle tre ore di spettacolo che facevo nei teatri e anche nelle due ore della mia scaletta nei club». Un tour che l'ha aiutata a lavorare per sottrazione, a togliere gli orpelli e gli ammennicoli che spesso riempiono un testo o uno spartito. E il risultato si ascolterà nei nuovi brani di Malifesto, titolo calembour che però a occhio e croce rende bene l'idea della nuova Malika. E anche, a dirla tutta, la scelta di una cover di Caterina Caselli è uno specchio confortante: «Con lei sento di avere in comune la determinazione nel portare a termine i propri progetti e la capacità di riconoscere che le imperfezioni sono comunque una forza o che possono diventarlo». Sono due donne simbolo di due tempi diversi. Ma il trait d'union è proprio quello, la determinazione di chi ha un talento e riesce a usarlo tutto.

Chi è Claudio Fratini, fidanzato di Malika Ayane: la carriera. Alice su Notizie.it il 24/02/2021. Claudio Fratini è il manager con cui Malika Ayane sembra aver ritrovato la felicità. Tutto quello che c'è da sapere su di lui. Archiviata la fine del suo matrimonio con il regista Federico Brugia e in seguito a una storia d’amore importante con Cesare Cremonini, Marika Ayane ha ritrovato la felicità accanto al fidanzato manager Claudio Fratini. Malika Ayane oggi è più felice che mai accanto al manager Claudio Fratini, a cui è legata dal 2018. La cantante, diventata mamma giovanissima della piccola Mia, è stata sposata con Federico Brugia e, precedentemente, ha vissuto un’importante storia d’amore con il collega Cesare Cremonini. Lei e Fratini si sono conosciuti grazie ad amici comuni durante una festa e oggi si dividono tra Milano e Berlino. “Se non hai la fortuna di incontrare subito una persona con cui stare tutta la vita, è sacrosanto cercare di essere felici, di non accontentarsi”, ha dichiarato la cantante, che oggi sarebbe più innamorata che mai del suo nuovo compagno. Fratini lavora come manager nel mondo dello spettacolo ed è molto geloso della propria privacy (sui social, infatti, i suoi profili sono privati). Quando i due si sono incontrati per la prima volta Malika Ayane stava affrontando la difficile separazione da Federico Brugia. Durante la relazione con il regista la cantante ha perso una gravidanza. Malika Ayane ha anche rivelato alcuni retroscena riguardanti la sua storia con Cesare Cremonini, iniziata nel 2009 e durata per circa 4 anni: “Ho già una figlia di sette anni, non potevo permettermi un fidanzato bambino…E quando è uscita la notizia del mio matrimonio, Cesare ha reagito come un bambino”, aveva rivelato Malika Ayane, che con il cantante avrebbe mantenuto un buon rapporto d’amicizia.

·        Maneskin.

Simonetta Sciandivasci per la Stampa il 28 dicembre 2021. La nostra droga è il lavoro benfatto. Damiano risponde così al giornalista delle Iene che chiede ai Måneskinse se la fama dia dipendenza. Ethan dice di no, Victoria dice che bisogna essere bravi a gestirla, Thomas che «è come una conseguenza». È dicembre, quasi Natale, quasi 2021, un anno che nessuno di loro immagina quanto lontano li porterà e quanto velocemente. Damiano è il solo che, se pure non lo immagina, lo sa. All'origine del suo magnetismo c'è questo vaticinio che sempre, e dall'inizio, ha negli occhi, nelle parole che dice, nei movimenti che fa, sacerdotali e geometrici: noi ce la faremo, è solo l'inizio, ci prenderemo tutto, vedrete. Vanno ripetendolo da prima del 2017, quando arrivarono secondi a X Factor: da allora, e fino all'anno scorso, hanno camminato a passo sostenuto, un buon pezzo dopo l'altro, gradino dopo gradino, un traguardo alla volta. Poi, però, hanno cominciato a correre: sono saliti sul palco di Sanremo, si sono presentati al Tea Party italiano, il pubblico di Rai1 che in parte li conosceva già e, inguainati in tutine fluid, hanno cantato «E buonasera, signore e signori, fuori gli attori, vi conviene toccarvi i coglioni, vi conviene stare zitti e buoni». La Rai non censura il verso - il primo a cantare quella parolina, su quel palco, è stato Marco Masini, nel 2009; secondi Lo Stato Sociale; terzi, lo stesso anno, Måneskin e Willy Peyote. Su quel palco, quel festival, il primo in pandemia nonostante la pandemia, lo vincono, e piangono, si abbracciano, dicono molte parolacce e molti «no vabbè», filano in camera e twittano: «Abbiamo fatto la rivoluzione». Chi li odia (molti soloni da bar e da rivista indie), li rimprovera come se si fossero intestati la presa del Palazzo d'Inverno: voi non avete idea di cosa sia la rivoluzione, non vi siete inventati niente, siete soltanto dei copioni, furbetti, figli di papà, inventati a tavolino. Poiché i Måneskin non arrivano da periferie degradate (si sono incontrati a scuola a Monteverde, quartiere benissimo di Roma), non parlano di disagio, sono belli, carismatici, ben vestiti, giovanissimi e felici, detestarli è facile e insultarli è lecito: non rimanda ad alcun crimine culturale di quelli ai quali abbiamo imparato a essere sensibili. Avendo vinto Sanremo, vanno di diritto all'Eurovision, a Rotterdam. Il regolamento mette al bando «imprecazioni o altri linguaggi inaccettabili nei testi o nelle esecuzioni delle canzoni» e così «vi conviene toccarvi i coglioni», diventa «vi conviene non fare errori». Suonano davanti a 180 milioni di spettatori la loro Zitti e buoni corretta. Vincono, di nuovo. Finiscono immediatamente tra i primi dieci brani più ascoltati di Spotify, nella classifica mondiale. È la prima volta che succede a una band italiana. Il New York Times scrive: «Hanno vinto l'Eurovision, possono conquistare il mondo?». Girano per le radio e le tv di mezzo mondo, insegnano a dire panettone e spaghetti, indossano la nostra migliore sartoria. Iggy Pop li chiama per incidere un pezzo con loro, I wanna be your slave, contenuto nel loro ultimo disco, Teatro d'ira, e che è un omaggio al pezzo suo e degli Stooges, I wanna be your dog. A novembre, aprono il concerto dei Rolling Stone a Las Vegas. Pochi giorni dopo, a Budapest, trionfano nella categoria Best Rock agli MTV EMA: è la prima volta per una band italiana. Dicono: «Quest' anno, in particolare, bisogna andare fieri del nostro paese, per i risultati raggiunti da tanti sportivi e personalità della cultura. Peccato per i diritti civili, dove continuiamo a rimanere indietro e invece per noi sarebbe stata la vittoria più importante». Il senatore Pillon scrive su Instagram che questi Måneskin si lamentano delle discriminazioni, e però poi si presentano su un palco in giarrettiere e culottes, e inseguono il «politicamente corrotto», e sarebbero stati trasgressivi se si fossero esibiti in smoking. E allora loro, prontamente, agli Ama, gli American Music Award, suonano in papillon e smoking Gucci, annunciati da Cardi B., rapper, seduta a un tavolo da trattoria, davanti a un piatto di spaghetti - Lapo Elkan s' infuria per la riduzione a stereotipo. Non vincono niente, qualcuno subito parla di «declino dei Måneskin». Loro ridono. La loro cover di Beggin, un pezzo dei Four Season del 1967, sarà una delle canzoni di Capodanno - sarà anche la canzone del 2022 del ministro Maria Stella Gelmini, che così ha detto in un'intervista natalizia al Foglio. L'ascolta già tutto il mondo, da mesi. È italian style diverso, se non nuovo. L'Italia è un paese di vecchi, ma può essere un paese per giovani, beneducati, benvestiti, di successo, di talento, che non rottamano niente e nessuno e anzi sanno recuperare il passato, talvolta migliorandolo. 

Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 10 dicembre 2021. I wanna be a Måneskin. È un cerchio che si chiude quello che va in scena al Forum di Assago. Un X Factor al quadrato. Il gruppo simbolo scoperto da Manuel Agnelli, che quattro anni fa partecipava al talent show musicale perdendo la finale per un soffio, «torna a casa», dopo aver fatto il giro del mondo: Sanremo, l'Eurovision di Rotterdam, l'apertura dei Rolling Stones a Las Vegas con Mick Jagger che li ringrazia in italiano «Grazie mille ragazzi!», le interviste alle tv americane e la vittoria nella categoria Best Rock degli Mtv European Music Awards fino all'esibizione come ospiti d'onore accanto ai Coldplay.

E in mezzo c'è stata pure la pandemia. Il sogno di tutti quelli che a X Factor hanno partecipato in quindici anni di trasmissione. Ma anche di tanti dei 5.600 che ieri sera hanno riempito il tempio coperto della musica milanese come non accadeva da due anni. «È un'emozione grandissima per tutti noi assistere al loro ritorno, che non è solo un ritorno dove la loro luce si è accesa, ma è il loro grande rientro in Italia - dice Eliana Guerra, curatrice del programma targato Fremantle -. La cosa che unisce i Måneskin a tutti i nostri concorrenti è che la loro storia racconta che la musica è una cosa seria, una professione che richiede tempo, fatica, attenzione, dedizione.

Non è un tutto subito anche se poi le cose esplodono come in quest' anno meraviglioso in cui abbiamo fatto tutti il tifo per loro. Tanti hanno talento. La differenza vera la fanno la personalità e l'identità, che non è solo il saper stare sul palco: sta nella testa, nel saper stare al mondo, nel restare concentrati». Antonio Filippelli, produttore di Eros Ramazzotti e di Levante, è il direttore musicale di X Factor 2021.

Ammette che dall'anno scorso c'è stato un indubbio «effetto Måneskin» che ha avvolto lo spettacolo. «Cosa bisogna avere per sfondare come hanno fatto Damiano e gli altri? Il carattere, la determinazione e l'inclinazione al sacrificio, la fisicità che ti incolla lo sguardo e una voce che ti trasmette emozioni, la scrittura. I ragazzi di quest' anno uscivano dal periodo di lockdown e l'aver vissuto una porzione della loro vita senza contatti li ha segnati tantissimo. Questa cosa la esprimevano nei testi e in tanti hanno scritto e trovato rifugio nella musica».

Laccio e Shake, i direttori artistici dello show, sottolineano che ogni storia è una storia a sé: «I Måneskin sono uno dei più grandi successi di XF, un punto di riferimento per molti nostri ragazzi. Ma la gara è come una tavolozza bianca che ogni volta si colora in modo nuovo, diverso, senza mai ripetersi».

Prima che tutto cominci, prima che Damiano, Victoria, Thomas e Ethan, facciano esplodere il palazzetto suonando le prime note di Beggin'e mostrando ancora una volta il loro mix unico di semplicità, presenza scenica e capacità di comunicazione, fuori dai cancelli di Assago parlano tutti di loro. «Sono un prodotto molto funzionale ed equilibrato - riflette da discografico consumato Edoardo Braghin, in arte Edo, concorrente di queste edizione eliminato agli home visit -. Sono completi a livello di personalità: sono un gruppo, fanno rock e sono estremamente liberi. Al di là dei gusti musicali oggi abbiamo tutti bisogno della loro libertà».

«Che qualcuno riesca a vivere di musica è bello per tutti», conferma la danzatrice Miriam Maso, 21 anni, mentre corre a recuperare i suoi biglietti. È come un gioco degli specchi generazionale. Ognuno prova a declinare l'effetto Måneskin nella propria vita e nel proprio ambito professionale per vedere l'effetto che fa. «A Londra sono tutti stupiti che un gruppo italiano faccia una musica così fruibile anche all'estero - racconta Andrea Guerini, 30 anni, attore di Civitavecchia che vive e lavora in Inghilterra -. Fanno un rock molto semplice e classico ma hanno una bella storia da raccontare. Hanno un background simile a tanti di noi che facciamo gli artisti e che siamo partiti dalla strada e dalla gavetta».

 «Non c'è tanto da girarci intorno - interviene l'amica e insegnante di ballo Laura Farina -. L'ambizione di tutti è arrivare dove sono arrivati loro». La milanese Anna Dattolo, 25 anni, è una super fan: «Li seguo da quando erano qua dentro e a ho visto venti loro concerti, sia in Italia che all'estero. La loro carta vincente è che sono loro stessi e fanno quello che vogliono». Ad applaudirli, ieri sera, c'era anche Lorenzo Licitra, il tenore che nel 2017 li superò e che da allora sta ancora cercando la sua strada. «I Måneskin sono fantastici, sono molto contento di quello che stanno vivendo e di quello che li aspetta in futuro. Anche per me tornare qui è incredibile.

Ricordo la paura che diventa gioia. La gente mi ha conosciuto per le cover ma sto lavorando al mio nuovo progetto discografico, frutto del lavoro di introspezione che ho fatto nei mesi del Covid. Non voglio snaturarmi o aggrapparmi alle mode, ma portare la qualità della mia musica al pubblico. Voglio restare fedele a me stesso e al mio percorso». I wanna be a Måneskin. ( Ha collaborato Luca Dondoni) 

I Maneskin dividono la Lega. Pillon li critica per il look, replica il lombardo Senna: "Abbiamo diverse sensibilità, noi del Carroccio siamo anche altro". Valeria Forgnone su La Repubblica il 18 Novembre 2021. Dopo le critiche del senatore leghista sul look del frontman Damiano della band rock romana vincitrice anche agli MtV Ema a Budapest, interviene il consigliere regionale della Lombardia: "Forse non ha ancora capito la differenza tra rock vita reale. Puntualizzare sempre non giova". Il look dei Måneskin sfoggiato sul palco degli MTV Europe Music Awards continua a far discutere. E questa volta, la discussione si è accesa tra due leghisti. Il consigliere regionale lombardo GianMarco Senna ha attaccato sui social il senatore Simone Pillon, da sempre contro il ddl Zan. Che ora non ha apprezzato l'abbigliamento stravagante del frontman della band rock romana, Damiano, in reggicalze e sospensorio borchiato, esibito durante lo spettacolo di alcuni giorni fa.

Il Doge per Dagospia il 23 novembre 2021.  Scazzo online tra Lapo Elkann e la rapper Cardi B. con di mezzo di Maneskin. Iera sera agli American Music Awards la presentazione dei Maneskin - la band italiana che sta conquistando l’America e la cui canzone “Beggin’” era tra le cinque finaliste nella categoria Favorite Trending Song - è stata infatti oggetto di polemiche a causa dell’utilizzo di stereotipi e luoghi comuni. A presentare la band c’era Cardi B, famosa rapper statunitense, seduta davanti un piatto di pasta e una bottiglia di vino su una tavola imbandita con la classica tovaglia a scacchi rossa e bianca. Su Twitter Lapo Elkann ha risposto al video dell'American Music Award ribadendo come l'Italia non sia solo spaghetti e vino, ma molto di più. L'Italia è, solo per citarne alcune, bellezza, cultura, opera, da Leonardo da Vinci, alla Ferrari. Quindi, prima di presentare gli artisti italiani, sarebbe bene studiarne la cultura, così da non utilizzare stereotipi italo-americani. Dopo poco è arrivata la risposta di CardiB. "Volevi che facessi un'intera lezione di storia in uno spettacolo di premiazione? Forse dovrei portare una Ferrari sul palco? Ho persino fatto battute sulla mia città natale. Penso che le persone vogliono essere indignate senza motivo, non c'era modo che io stessi cercando di essere offensiva." Lapo ha poi replicato direttamente alla cantante americana dicendo: "TU combatti contro il razzismo e gli stereotipi delle minoranze e hai il mio massimo rispetto. Però penso che alimentare gli stereotipi vada proprio contro i valori che cerchi di condividere con i tuoi fan. Tutto qui. Tu e la tua famiglia siete i benvenuti in Italia e mi piacerebbe ospitarvi nel Bel Paese." Dopo l’elegante risposta di Lapo, CardiB ha deciso di eliminare il suo tweet.

Luca Dondoni per "la Stampa" il 15 novembre 2021. «La gente spesso ci diceva che non ce l'avremmo fatta con la nostra musica. Beh, pare che vi siate sbagliati». La conquista del mondo continua: dall'Italia all'Europa dell'Eurovision Song Contest agli Stati Uniti e ritorno in Europa, questa volta quella di Mtv e dei suoi European Music Awards consegnati ieri a Budapest nella Papp Laszlo Sportarena con 180 Paesi del mondo collegati. Damiano, Victoria, Ethan e Thomas sono diventati i primi artisti italiani nelle 28 edizioni della storia degli Mtv Ema a vincere in una categoria internazionale e a esibirsi live. E il palazzetto esplode quando cantano loro, iI quattro ventenni di Roma che hanno sbaragliato la concorrenza di nomi come Coldplay, Foo Fighters, Imagine Dragons, King of Leon e The Killers. Il titolo del loro ultimo singolo Mammamia campeggia sullo sfondo mentre Damiano David vestito come Frank-n-Furter di Rocky Horror Picture Show in un paio di slip di pelle luccicanti, si mangia il palco. Nell'edizione della rassegna che sfida i diritti negati da Orbàn alla comunità Lgbtq+, a partire da quella legge che vorrebbe vietare i contenuti ritenuti promuovere l'omosessualità e il cambiamento di genere in televisione in prima serata, a loro basta essere come sono, bandiera del gender fluid, nemici di ogni confine. I Måneskin oggi sono quattro ragazzi consapevoli che il loro messaggio musicale, inizialmente considerato di nicchia, è stato recepito globalmente. «È il bello del nostro lavoro, arrivare a così tante persone, aver coinvolto un pubblico diverso da quello che ci aspettavamo creando una corrispondenza meravigliosa».

Da cittadini e artisti globali quali ormai siete, com' è l'Italia vista da fuori?

«Quest' anno, in particolare, bisogna andare fieri del nostro Paese per i risultati raggiunti non soltanto da noi, ma da tanti sportivi e personaggi della cultura. Peccato però per i diritti civili, dove continuiamo a rimanere indietro: e invece sarebbe stata la vittoria più importante».

Venite da un'esperienza americana talmente eccitante da lasciar senza fiato. I Rolling Stones, Jimmy Fallon, Miley Cyrus o l'attrice Drew Barrymore pazzi di voi. Come ci sente ad essere accettati dallo show business Usa?

«Questi mesi sono stati una corsa senza freni e inimmaginabile. Essere ospiti nel nostro show preferito che ha tenuto a battesimo molti dei nostri eroi, aprire una data così importante come quella di Las Vegas per gli Stones: da pazzi! C'è da dire anche che l'America è sempre stata l'obiettivo da raggiungere, ma la risposta degli americani va oltre ogni più rosea aspettativa, si dice così vero?

«Diciamo anche che abbiamo sempre creduto in noi stessi, ma così è tutto quasi surreale. E poi fino a questo momento è stato un viaggio indimenticabile. Ma siamo entusiasti di essere tornati in Europa per gli Mtv Ema. Suonare qui è un onore e ci manca molto cantare e fare show da questa parte dell'oceano, per questo possiamo dire che il significato di essere qui è più forte di quanto avessimo preventivato. La performance che abbiamo portato è la più sexy e divertente che abbiamo mai fatto e la gente lo ha capito. Avevamo fatto una promessa ai nostri fan. Cercheremo di fare del nostro meglio e di farvi divertire e noi le promesse le manteniamo sempre». 

L'Ungheria però non ha un governo amichevole con la comunità LGBTQ+ che voi invece avete sempre supportato.

«Noi siamo da sempre schierati da quella parte, sia sul palco che nella vita privata e lo dimostriamo tutti i giorni».

 C'è un aneddoto sulla cosa più folle che vi è capitata in questi mesi all'estero?

«Sì, la sfida di danza fra Thomas e Florence Welch di Florence and The Machine... ma vi rendete conto»? 

Tornerete negli States fra pochissimo e chissà per quanto visti gli impegni, la promozione in giro per gli Stati principali: non avete paura di perdere le vostre radici?

«Mai, l'Italia rimarrà sempre e per sempre casa nostra... qualsiasi cosa accada».

I Maneskin vincono gli Mtv Ema nella categoria Best Rock. (ITALPRESS il 15 novembre 2021) – I Maneskin hanno vinto gli Mtv Europe Music Awards, a Budapest, nella categoria Best Rock. Si tratta del primo successo italiano in una categoria internazionale nella storia degli Ema. Erano in nomination con Coldplay, Foo Fighters, Imagine Dragons, Kings of Leon e The Killers. Per il gruppo romano è il coronamento di un 2021 pieno di successi, dal Festival di Sanremo all’Eurovision Song Contest. “Complimenti ai Maneskin! Il premio ‘Best rock’ agli MTV Europe Music Awards 2021 è un’ulteriore conferma del loro talento e una vittoria per tutta la musica italiana”, commenta il ministro della Cultura, Dario Franceschini.

I Måneskin hanno vinto gli Mtv Ema, nella categoria Best Rock: «Grande anno per l’Italia, peccato per i diritti civili».  Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2021. Nuovo trionfo per i Måneskin, che battono Foo Fighters e Coldplay: non era mai capitato prima che artisti o band italiani vincessero uno dei riconoscimenti assoluti assegnati dalla rete musicale. Damiano: «A chi diceva che non ce l’avremmo fatta con la musica... vi sbagliavate». La prima volta mancarono il bersaglio. Nel 2017 i Måneskin vennero sconfitti nella finale di «X Factor». Da allora non ne hanno sbagliata una: Festival di Sanremo , Eurovision Song Contest e ieri sera il «best rock» agli Mtv Ema . Non era mai capitato prima che un artista italiano vincesse uno dei premi della rete musicale. E con questo risultato — se la giocavano con Coldplay, Foo Fighters, Imagine Dragons, Kings of Leon e Killers — la band romana si conferma uno dei fenomeni musicali mondiali di questo 2021. «Siamo molto felici che il nostro messaggio sia uscito dalla nicchia e sia arrivato a tantissime persone. Il bello della musica e del nostro lavoro è riuscire a coinvolgere il pubblico e creare una corrispondenza con lui», hanno commentato i quattro, che alla serata alla Papp László Sportaréna di Budapest si sono anche esibiti, in oro e nero, con una trascinante versione di «Mammamia». Il loro 2021 è stato una crescita continua, partita a maggio con la vittoria all’Eurovision, proseguita quando in estate «Beggin’» è arrivata al vertice della Top200 Global di Spotify, la classifica dei brani più ascoltati in streaming sulla piattaforma, e quindi con l’accoglienza calorosa negli Stati Uniti dei giorni scorsi, le ospitate tv da Jimmy Fallon ed Ellen DeGeneres , i concerti a New York e Los Angeles e l’invito ad aprire lo show dei Rolling Stones a Las Vegas. «L’America é sempre stato “l’obbiettivo” da raggiungere per chi fa il nostro mestiere. Siamo felici di come quel Paese stia ripagando il nostro lavoro. Questi mesi sono stati una cavalcata folle che è andata oltre qualsiasi sogno. Il debutto americano, gli show televisivi dove una volta vedevamo i nostri eroi. E aprire gli Stones? Dai, è una roba folle. Abbiamo sempre creduto in noi stessi, ma questo è qualcosa di surreale». Agli Ema ha vinto il collettivo. Ad aggiudicarsi il maggior numero di riconoscimenti è stato un altro gruppo, i coreani BTS. A loro le categorie pop, K-pop, gruppo (e qui fra i nominati c’erano anche i Måneskin) e fan. Ed Sheeran è nella lista come miglior artista e canzone («Bad Habits»), «Montero (Call Me by Your Name)» di Lil Nas X è il miglior video. Le statuette di categoria vanno alla rapper Saweetie (emergente), Nicki Minaj (hip-hop), Maluma (latin), Yungblud (alternative), Olivia Rodrigo (push, gli artisti spinti dal canale), «Kiss Me More» di Doja Cat feat. SZA (collaborazione), David Guetta (elettronica), Billie Eilish (Video for Good, ovvero quelli con un messaggio positivo). La scenografia è un omaggio al Danubio che attraversa Budapest: acqua e isole che sembrano galleggiare. La serata, trasmessa dai canali Mtv-Viacom in 180 Paesi, è stata aperta da Ed Sheeran con un’ambientazione di luci al neon per «Overpass Graffiti». Maluma ha tamarreggiato come al solito presentando il suo nuovo singolo «Mama Tetema». I laser sono stati il tema dell’esibizione rock degli Imagine Dragons e dalla monumentale piazza degli Eroi (show registrato sabato) ecco gli One Republic. Spazio agli emergenti con le performance di Kim Petras, prima artista trans degli Ema, Griff e la norvegese girl in red. A parte la conduzione affidata a Saweetie, il rap è finito in un angolino. E dire che in passato Mtv lo aveva spinto con spirito colonialista anche quando in Europa non era mainstream. Drew Barrymore ha consegnato a 5 attivisti per i diritti LGBTQ+ i Change Award, il premio sociale degli Ema. Uno schiaffo al governo ungherese di Orbán che sul tema è sotto osservazione della comunità internazionale. «Siamo sempre schierati da quella parte sia sul palco che nella vita privata», commentano i Måneskin. E il loro sguardo internazionale gli fa dire che anche l’Italia non ha il passo giusto: «Quest’anno, in particolare, bisogna andar fieri del nostro Paese per i risultati raggiunti non solo da noi ma da tanti sportivi e personalità della cultura. Peccato per i diritti civili, dove continuiamo a rimanere indietro e invece per noi sarebbe stata la vittoria più importante».

L'Italia sul tetto d'Europa: i Maneskin vincono gli Ema. Francesca Galici il 14 Novembre 2021 su Il Giornale. Ennesimo successo per i Maneskin, che a Budapest conquistano il premio nella categoria best rock: sono i primi italiani a riuscire nell'impresa. Inarrestabili, i Måneskin hanno trionfato anche agli Mtv Ema awards nella categoria best rock. La band romana, arrivata a Budapest con tre nomination, ha conquistato il premio nella categoria più prestigiosa. I quattro ventenni, Damiano, Victoria, Thomas e Ethan, hanno surclassato band come i Colplay e gli Imagine dragons, solo per citare due delle formazioni che concorrevano in quella categoria. Per la prima volta nella storia di questo premio, un gruppo italiano riceve e vince in una categoria internazionale, segno che i Maneskin hanno definitivamente superato i confini nazionali per diventare una band di respiro mondiale, come già avevano certificato i concerti in America e l'apertura dell'evento dei Rolling stones. Sono numerosi i record infranti dai Maneskin a Budapest. Per altro, tra le altre cose, loro sono stati i primi italiani a esibirsi dal vivo nel corso degli Mtv Ema awards. Questo riconoscimento si mette in fila a tutti gli altri ottenuti dai Maneskin nell'ultimo anno. Il 2021 ha segnato la loro definitiva affermazione da quando la band romana ha trionfato al festival di Sanremo e, successivamente, all'Eurovision. "Complimenti ai Måneskin! Il premio 'Best rock' agli MTV Europe Music Awards 2021 è un'ulteriore conferma del loro talento e una vittoria per tutta la musica italiana", ha commentato Dario Franceschini, ministro della Cultura, subito dopo la notizia della vittoria della band romana a Budapest. Partiti come artisti di strada lungo le strade di Roma, i Maneskin hanno prima ottenuto visibilità sul palco di X-Factor, il programma che per primo li ha portati davanti al grande pubblico italiano. Poi per alcuni anni hanno continuato a suonare ma il loro era un pubblico di nicchia, finché Amadeus non li ha chiamati nella categoria big del festival di Sanremo, dove hanno conquistato pubblico e critica con la loro Zitti e buoni. Il sound internazionale e le scelte stilistiche, che per qualcuno sono la vera chiave del loro successo, hanno fatto il resto e così è iniziata la marcia trionfale della band che svetta nelle classifiche mondiali e conta fan in tutto il mondo. Prima di salire sul palco, i Maneskin hanno colto l'occasione per accodarsi al messaggio in favore della comunità Lgbtq lanciato dalla conduttrice. La band romana, come riporta la Repubblica, ha sollevato nuovamente il tema del ddl Zan: "Quest’anno, in particolare, bisogna andar fieri del nostro Paese per i risultati raggiunti non solo da noi ma da tanti sportivi e da tante personalità della cultura. Peccato per i diritti civili, dove continuiamo a rimanere indietro, e invece per noi sarebbe stata la vittoria più importante". Le altre categorie nelle quali i Maneskin avevano ricevuto una nomination erano: Best group, premio che poi è andato alla band coreana Bts, e Best italian act, che invece è andato al rapper napoletano Aka 7even, protagonista dell'ultima edizione del programma Amici di Maria De Filippi.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Primo successo italiano nella storia degli Ema. Måneskin inarrestabili, miglior rock band al mondo per Mtv: “Grande anno per l’Italia, peccato per i diritti civili”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Novembre 2021. I Maneskin trionfano anche agli Mtv European Music Awards (Ema): non bastavano il Festival di Sanremo, l’Eurovision, il record di streaming, il featuring con Iggy Pop, la fortunata tournée negli Stati Uniti, il live da apripista ai Rolling Stones, le storiche ospitate negli States. Evidentemente no: la band romana – prima buskers quindi concorrenti del talent show X Factor – non si ferma più. I Maneskin hanno vinto agli Mtv European Music Awards il premio per la migliore rock band. Ormai sono un fenomeno mondiale: non era mai successo che artisti italiani trionfassero nelle categorie internazionali nella storia degli Ema. “Siamo molto felici che il nostro messaggio sia uscito dalla nicchia e sia arrivato a tantissime persone. Il bello della musica e del nostro lavoro è riuscire a coinvolgere il pubblico e creare una corrispondenza con lui”. A Budapest, a contendere il titolo, c’erano band del calibro di Coldplay, Foo Fighters, Imagine Dragons, Kings of Leon, e The Killers. I quattro – il frontman dei Maneskin Damiano, la bassista Victoria, il chitarrista Thomas e il batterista Ethan – hanno infiammato il pubblico della nuovissima Papp László Budapest Sportarén con il loro ultimo singolo Mammamia. Sul palco si sono presentati vestiti in nero e oro, con il frontman Damiano in slip di pelle luccicanti, stivali e reggicalze. L’evento si è svolto in un paese come l’Ungheria nel mirino della comunità internazionale per il mancato rispetto dei diritti della comunità Lgbt+. E i Maneskin, come spesso quasi sempre fanno, e come avevano fatto anche in Polonia, non hanno mancato di lanciare il loro messaggio: “Quest’anno, in particolare, bisogna andar fieri del nostro paese per i risultati raggiunti non solo da noi, ma da tanti sportivi e da personalità della cultura. Peccato per i diritti civili, dove continuiamo a rimanere indietro e invece per noi sarebbe stata la vittoria più importante. Siamo sempre schierati da quella parte sia sul palco che nella vita privata”. Quanto alla gara, ad ottenere il maggior numero di premi con quattro riconoscimenti tra cui “Best Pop”, “Best K-Pop”, “Best Group” (battendo anche i Maneskin) e “Biggest Fans” è stata la band sudcoreana BTS. Lil Nas X è stato premiato per il “Miglior video” con “Montero (Call Me By Your Name)”, mentre Nicki Minaj ha vinto il premio “Best Hip-Hop”. Il “Best Italian Act” è andato, invece, al rapper Aka 7even che l’ha spuntata su Caparezza, Madame, Rkomi e proprio i Maneskin. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Trionfo Maneskin agli Ema, sul carro dei vincitori solo posti in piedi. Carlo Antini, Testi e musiche come ascisse e ordinate, su Il Tempo il 15 novembre 2021. I Maneskin salgono sul tetto del mondo. Agli Mtv Ema vincono nella categoria «Best rock» e parte la santificazione. Come al solito, tutti si affrettano a salire sul carro dei vincitori. Ma proprio tutti! Compresi i principi. Ma andiamo con ordine. Tra Salvini, Franceschini e la Boschi è coperto quasi tutto l’arco parlamentare. Il primo a prendere la parola è il ministro della Cultura. «Complimenti ai Måneskin! Il premio “Best rock” agli MTV Europe Music Awards 2021 è un’ulteriore conferma del loro talento e una vittoria per tutta la musica italiana», dichiara subito Franceschini. Gli fa eco la Maria Elena Boschi che si tira giù il cappello. «Ancora un successo per i Maneskin - scrive su Twitter la parlamentare di Italia Viva - Vincono come miglior band rock agli #MTVEma! Per la prima volta nella storia l’Italia vince in una categoria internazionale. Giù il cappello per questi ragazzi che non hanno mai smesso di sognare». E non poteva mancare l’esternazione da destra con la risposta di Salvini che non si è fatta attendere. «Complimenti ai Maneskin che si impongono come miglior gruppo rock agli #MTVEma di Budapest. Successo storico. Viva l’Italia che vince!», esulta su Twitter il leader della Lega. Ma l’eco di Budapest arriva lontano, molto lontano. Persino nelle stanze dell’aristocrazia. E così a esultare troviamo anche il principe Emanuele Filiberto che, effettivamente, di showbiz se ne intende eccome. «Sempre più alti, sempre più su! #Maneskin #mtvmusicawards», scrive su Twitter. E sotto al post un foto con la band romana che alza il trofeo di Mtv. Meno male che ci sono i Cugini di Campagna che su Facebook lanciano nuove accuse alla band di Damiano e Victoria. Questa volta nel mirino c’è l’outfit a quadri di Thomas Raggi che viene affiancato in una foto a una tuta con gli stessi quadri indossata dal biondo dei Cugini, Nick Luciani. «Cari Maneskin - il messaggio piccato pubblicato sul profilo dei Cugini - potevate venire nel nostro studio. Vi avremmo dato i nostri costumi...E avreste risparmiato, di gran lunga, tempo e denaro». Viva la faccia!

Da ilmessaggero.it il 6 dicembre 2021. Dietro la bassista che sul palco non si ferma mai e ha una energia fuori dal comune, c'è una giovane donna che ha visto da vicino la sofferenza. E quella sofferenza non l'ha respinta, anzi. L'ha cullata, conservata e poi trasformata in musica. È questo uno dei segreti di Victoria De Angelis, della band dei Maneskin. Ed è stata la nonna materna, Elin Uhrbrand, a raccontare alcuni retroscena sulla vita della ragazza al settimanale «Dipiù»: «Mia nipote Victoria ha sofferto molto, ha visto morire la sua mamma. Jeanett, mia figlia, quando ha capito che avrebbe perso la battaglia contro il male che la stava consumando chiese di andare in Danimarca. Victoria volle seguirla e le rimase vicino fino alla fine. Victoria aveva solo 15 anni, per tre mesi ha vegliato sulla sua mamma, per tre mesi le ha tenuto la mano. Fino all'ultimo giorno. Fino a quando le ha detto addio. È stato terribile». 

Victoria De Angelis e la mamma morta quando aveva 15 anni

De Angelis è nata il 28 aprile del 2000 a Roma. Adesso di anni ne ha 21 ma nonostante il tempo, quella ferita non si è mai rimarginata davvero. E anche l'adolescenza non è stato un periodo facile: «A 14 anni soffrivo di attacchi di panico. Ero una ragazza spensierata, poi mi sono ritrovata a non voler più uscire di casa, ho perso un anno di scuola. C’era qualcosa di rotto in me e non sapevo come ripararmi. Prima me ne vergognavo, ora non ho più bisogno di nasconderlo», aveva raccontato. «Mi dispiace tanto che mia figlia Jeanett non abbia potuto vedere il successo che Victoria sta riscuotendo in tutto il mondo insieme con i Måneskin», ha raccontato la nonna della bassista. Ora si ritroveranno per le feste di Natale, prima del tour in giro per il mondo: «Verrà in Danimarca e staremo insieme».  

Il metronomo della band che ha sconvolto il mondo. Chi è Victoria De Angelis, la bassista dei Måneskin: “Mi riconosco nel dualismo di cose opposte”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Novembre 2021. Victoria De Angelis è il metronomo dei Maneskin, un po’ l’anima della band si potrebbe azzardare: è la bassista del gruppo che in questo 2021 d’oro dopo aver vinto il Festival di Sanremo, l’Eurovision Song Contest, dopo i record di ascolti e nella Top20 Global di Spotify, la clamorosa accoglienza negli Stati Uniti, le ospitate nelle trasmissioni tv da Jimmy Fallon ed Ellen DeGeneres, i concerti a New York e Los Angeles e l’apertura al concerto dei Rolling Stones a Las Vegas; ecco, dopo aver fatto tutto questo il gruppo romano si è aggiudicato anche il premio come “best rock” agli Mtv European Music Awards a Budapest. La band che ha sconvolto l’Italia e la musica italiana e, a questo punto, anche il mondo, se la giocava con gruppi del calibro di Coldplay, Foo Fighters, Imagine Dragons, Kings Of Leon e Killers. Tutti gruppi anglofoni, e anche statunitensi: e quindi il titolo equivale a un premio alla migliore band rock dell’anno. Clamoroso: è ilprimo successo italiano in una delle categorie internazionali nella storia degli Ema. “Quest’anno, in particolare, bisogna essere fieri del nostro paese – hanno commentato i Maneskin – per i risultati raggiunti non solo da noi ma da tanti sportivi e da personalità della cultura. Peccato per i diritti civili, dove continuiamo a rimanere indietro e invece per noi sarebbe stata la vittoria più importante“. Un riferimento nemmeno troppo velato alla bocciatura al Senato del ddl Zan, il disegno di legge contro “discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. I Maneskin palco si sono presentati vestiti in nero e oro, con il frontman Damiano in slip di pelle luccicanti, stivali e reggicalze. L’evento si è svolto in un paese come l’Ungheria nel mirino della comunità internazionale per il mancato rispetto dei diritti della comunità Lgbt+. La band si sono spesso esposti sul tema. Era successo qualcosa di simile in Polonia quando Damiano Davis e Thomas Raggi, cantante e chitarrista, si erano scambiati un bacio sulla bocca in diretta tv. “Pensiamo che a tutti dovrebbe essere permesso di farlo senza alcun timore. Pensiamo che tutti dovrebbero essere completamente liberi di essere chi ca..o vogliono. Grazie Polonia. L’amore non è mai sbagliato”, aveva detto David in inglese dopo il bacio e alla fine dell’esibizione. È anche in questo, e non solo nella musica, nello stile, nell’energia, nell’approccio, nel look che Victoria De Angelis è l’anima della band che nel giro di dieci mesi nemmeno ha sconvolto il mondo. “Soffrivo di certe rigide distinzioni tra maschile e femminile: a sei anni avevo proprio il rifiuto per tutte le cose ‘da bambina’: facevo skate, tenevo i capelli corti, mi vestivo da maschio. Non indossavo gonne, non perché non mi piacessero, ma per reclamare la chance di essere me stessa. Il rock ha incarnato quello slancio di libertà”, ha detto De Angelis in una lunga intervista a Elle. È lei che ha fondato il gruppo composto da Ethan Torchio, Thomas Raggi e Damiano David. “Nei look, lei ci direziona un po’ tutti”, ha confermato Thomas Raggi che con De Angelis faceva il liceo scientifico J. F. Kennedy e che con lei ha fondato i Maneskin. Damiano, classe 1999, faceva il linguistico Montale. Ethan Torchio è arrivato rispondendo a un annuncio su Facebook. E sempre lei ha scelto la parola: il nome del gruppo che in danese vuol dire “chiaro di luna”. Sua madre è danese. C’è tutta una mitologia delle bassiste donne nel mondo del rock nella quale De Angelis sembra voler innestarsi: da Melissa Aud de Maur delle Hole e degli Smashing Pumpkins a Tyna Weymouth dei Talking Heads; da Simone Butler dei Primal Scream a Kim Deal dei Pixies fino a Roberta Sammarelli degli italiani Verdena (una band istituzione del rock alternativo). Su tutte, almeno per De Angelis, spicca la bassista dei Sonic Youth Kim Gordon. “In quegli anni il rock era un mondo maschile, lei se n’è sempre fregata, ha mandato all’aria ogni stereotipo di bellezza, nel suo modo di stare sul palco c’era qualcosa di aggressivo, sguaiato, ma ha conquistato migliaia di persone attraverso il suo strumento”. De Angelis è nata il 28 aprile del 2000 a Roma. Ha 21 anni. Durante le scuole medie aveva frequentato una scuola di musica cominciando nel frattempo con il basso. Da piccola il suo idolo era Avril Lavigne, la cantante pop-punk americana che per alcuni anni fu un fenomeno mainstream in tutto il mondo. Ha raccontato anche di un periodo difficile nella sua vita: “Attacchi di panico. Ero una ragazza spensierata, a 14 anni mi sono ritrovata a non voler più uscire di casa, ho perso un anno di scuola. C’era qualcosa di rotto in me e non sapevo come ripararmi. Prima me ne vergognavo, ora non ho più bisogno di nasconderlo”. Ad aiutarla a superare quel momento la terapia, i genitori e la musica. Appena prima del successo a Sanremo che ha cambiato la vita a tutti i Maneskin, De Angelis si definiva in un’intervista, a Sette de Il Corriere della Sera, bisessuale. “Mi riconosco nel dualismo di cose opposte. Ognuno di noi tende a farsi un’idea di sé e a bloccarsi lì. Invece si può avere piacere a pensare ed essere cose opposte, pur restando sé stessi. Senza forzare altri o sforzarsi per cose che puoi apprezzare dopo, ma per cui ora non ti senti pronto”. Vic dorme, a quanto pare, in camera con Damiano quando sono in giro a suonare: e il gossip ci ha marciato. Loro non hanno mai confermato una presunta love story e invece il cantante recentemente ha rivelato la sua relazione con Giorgia Soleri. Quindi gossip, e pettegolezzo, e vociare rimane. Lei è invece sempre stata più cauta su una sua possibile relazione. È diventato virale il suo siparietto sul palco dell’Ariston di Sanremo: durante la premiazione alle parole del conduttore direttore artistico Amadeus la bassista replicava a parolacce, ancora sconvolta dalla vittoria.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da today.it il 27 dicembre 2021. E' bastata una foto a far scoppiare la discussione social di Natale. Giorgia Soleri si è mostrata con i peli sotto le ascelle in un post, "per non farsi mancare argomenti di discussione con i parenti bigotti". A bacchettarla, invece, sono stati i follower. "Nella caption avevo fatto questa previsione, ma sui parenti, cioè persone che si presuppone abbiano una certa età ma soprattutto che ti conoscono da quando sei nata, quindi hanno la confidenza per dirti certe cose" ha commentato tra le storie, stupita da tanto rumore: "Sono state dette le peggio cose - ha continuato -. Io vorrei sapere se queste persone vanno sotto tutte le foto degli uomini a scrivergli che i peli sotto le ascelle sono brutti e antigienici". La fidanzata di Damiano dei Maneskin ha risposto così a certe critiche: "Ho semplicemente i peli sotto le ascelle. I peli esistono perché hanno varie funzioni molto importanti, una di queste, specialmente in alcune zone, è proteggere dai batteri. Ma tralasciando questa parte, raga io porto le unghie lunghe da tipo 10 anni. Nessuna persona è mai venuta a dirmi 'lo sai che sono antigieniche?' e vi assicuro che sono la roba più antigienica sulla faccia della terra, vanno pulite, lavate, curate tutti i giorni più volte al giorno perché sotto si infila lo schifo". Gusti personali, scelte che non possono essere criticate, come ha sottolineato Giorgia Soleri. L'influencer ha poi mostrato i peli sulle gambe: "Ce li ho in tutte le parti del corpo, l'unico punto in cui ancora me li faccio è in mezzo alle sopracciglia. Tutto il resto del mio corpo è ricoperto dai naturali peli che si hanno senza depilazione. Ho una quantità di peli che non si vedono in foto - ha detto ancora - Se mi faccio una foto i peli sulle gambe non si vedono, ma li ho. Ci sono x motivi per cui una persona può smettere di depilarsi. Può essere gusto personale, può essere 'mi infiammo in quella zona', oppure 'sto affrontando un percorso di decostruzione perché mi depilo solo per paura del giudizio sociale'". E ha concluso: "Il vero problema è che vi danno fastidio i peli sui corpi delle donne e nel quasi 2022 sono ancora argomento di discussione estremamente divisivo. Ma per me la cosa più assurda sono le persone che la sera della Vigilia e il giorno di Natale stanno sotto le mie foto a litigare per dei peli di una persona che manco conoscono".  

La fidanzata di Damiano dei Maneskin Giorgia Soleri sbotta ancora contro i giornalisti: "Non rispettano i patti". Tempo il 12 novembre 2021. Giorgia Soleri sbotta di nuovo. La fidanzata di Damiano David dei Maneskin stavolta va all'attacco de La Stampa che, a suo dire, non avrebbe rispettato gli accordi presi prima dell'intervista uscita nei giorni scorsi sul quotidiano torinese. "Avevo chiesto di visionare l'articolo prima della stampa - scrive la modella milanese su Instagram - mi è stata mandata l'intervista completa ma senza titolo e senza occhiello. Inoltre non sempre è possibile vedere i pezzi finali, per esempio il primo articolo in cui è erroneamente citata @nonunadimeno (un'organizzazione contro la violenza maschile sulle donne, ndr), non è stato rivisto da nessuno perché è stato chiuso in nottata. Far visionare gli articoli prima è una buona prassi che non tutti i giornalisti e le giornaliste seguono". La compagna di Damiano aveva espressamente chiesto prima dell'intervista di non fare riferimento alla sua vita privata. Non ha mai detto di essere "guarita", anche perché non si guarisce dall'endometriosi, come le era già capitato di spiegare in passato. Ha fatto un'operazione e i sintomi si sono attenuati, ma si tratta di una malattia cronica: un'infiammazione degli organi genitali femminili. Stavolta, come si lamenta nelle sue stories di Instagram, La Stampa le ha fatto leggere l'articolo prima della pubblicazione ed era arrivato il suo ok, ma non le hanno mandato in anticipo titolo e occhiello della pagina, dove sono emersi due problemi secondo Giorgia: un errore e un dettaglio - il fatto di essere fidanzata di Damiano - che lei aveva espressamente chiesto di non sottolineare.

Manuel Agnelli: “I Måneskin? Sono i Beatles italiani”. Valeria Rusconi La Repubblica l'8 novembre 2021. Parla il giudice di 'X Factor', voce degli Afterhours, che li ha guidati nella sua squadra nell'edizione 2017 del talent, dove sono arrivati secondi: “È una band unica, l’Italia ne sia orgogliosa. Ma questo dev'essere solo l’inizio”. Se c’è qualcuno che sa cos’è il rock, questi è Manuel Agnelli: una vita a suonarlo con il suo gruppo, gli Afterhours, e gli ultimi anni passati a divulgarne il verbo attraverso il suo ruolo di giudice a X Factor. I Måneskin sono stati la sua band ed è da lì che è iniziato tutto. Poi, una scalata velocissima e irresistibile: l'incredibile vittoria a Sanremo dello scorso marzo; quella all'Eurovision a maggio; la benedizione di chi del rock'n'roll rappresenta l'essenza stessa, Iggy Pop, nel pezzo-omaggio I wanna be your slave. 

Da "adnkronos.com" il 9 novembre 2021. Maneskin ancora star negli Usa e ancora un tripudio social dedicato alla rock band romana. Dopo aver aperto il concerto dei Rolling Stones a Las Vegas il 6 novembre scorso, Damiano, Victoria, Ethan e Thomas sono stati ospiti nello storico show guidato da Ellen DeGeneres, che nell'ultima edizione ha voluto regalare agli spettatori l'ennesima spettacolare performance del gruppo sulle note di 'Beggin', la cover che ha scalato le classifiche americane. E, come ormai di consueto ad ogni esibizione, è tripudio sui social per i quattro italiani sbarcati in America. "Incredibili", "che botto, non si fermano più", "ragazzi straordinari", "ce l’avete fatta, è tutto vero" e il tormentone "MANESKIN WORLD DOMINATION" i commenti più quotati fra i connazionali. Ma non ci sono solo gli azzurri a tifare, tantissimi i commenti anche dagli utenti Usa che sembrano apprezzare molto ogni nuova apparizione del quartetto: "Grande gruppo, grande voce, volate alto che il rock 'n roll non morirà mai!", scrivono.

Da tag43.it il 16 novembre 2021. Cugini di Campagna vs Maneskin, ci risiamo. La band romana ha appena trionfato agli Mtv Ema Awards nella categoria Best Rock, battendo band del calibro di Coldplay, Foo Fighters, King of Leon, Imagine Dragons e Killers. Si tratta della prima volta per un gruppo italiano, l’ennesimo trionfo per i Maneskin reduci dall’apertura del concerto dei Rolling Stones a Las Vegas. Ma ecco la nuova accusa di “plagio”. Si parla di vestiti, naturalmente. I Cugini di Campagna tornano all’attacco: «Cari Maneskin vi avremmo dato i nostri costumi» Per l’esibizione di Budapest il look del chitarrista Thomas Raggi – a rombi neri e dorati – ricordava innegabilmente quello indossato dai Cugini durante la cover di Zitti e Buoni in un concerto a Terni. «Cari Maneskin», recita il post del gruppo di Anima mia, «potevate venire nel nostro studio. Vi avremmo dato i nostri costumi…e avreste risparmiato, di gran lunga, tempo e denaro».

Gli abiti a stelle e strisce del concerto di Las Vegas

La stessa accusa era stata rivolta a Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan dopo il concerto di Las Vegas. Anche in quel caso i Cugini dai social avevano rivendicato la paternità del look a stelle e strisce: «Basta copiare i nostri abiti». Ivano “Napo” Michetti, Silvano Michetti, Tiziano Leonardi e Nicolino “Nick” Luciani non hanno dunque pace. Già nel 2017 li aveva “copiati” persino Lady Gaga. E proprio per la tuta a rombi che avrebbe copiato anche Thomas. «Anche lei si è ispirata e ha copiato i nostri outfit. Le avevamo scritto una lettera nel 2017, e abbiamo dovuto persino bloccarla sui social, ma resta una grande artista», hanno recentemente spiegato a FQMagazine. Nel post di allora i Cugini per assicurarsi che il messaggio arrivasse chiaro alla destinataria, lo avevano persino scritto in inglese: «Dear Lady Gaga, everybody knows about your skill and we too much appreciate you, but after some photos on our Social Network we wanted to invite you to stop wearing identical dresses to ours, aware that you certainly do not need to imitate us. With estimates, Country Cousins». Già Country Cousins. 

I Maneskin, la fluidità di genere e il messaggio a Orban (e all’Italia)

Tornando al look dei Maneskin sul palco degli Ema, con il suo costume di scena Damiano – con reggicalze, guanti e tacchi – ha lanciato un messaggio potente proprio nella Ungheria di Viktor Orban dove da luglio una legge vieta la diffusione nelle scuole di informazioni circa l’omosessualità e il cambio di sesso. «È stato un anno ricco di trionfi per il nostro Paese. Grazie a noi, ma anche ai tanti sportivi», ha detto Damiano prima di salire sul palco. «Sui diritti civili, tuttavia, continuiamo a rimanere indietro. Per noi sarebbe stata la vittoria più importante. Noi siamo sempre schierati da quella parte sul palco e nella vita privata».

Da rollingstone.it il 10 novembre 2021. I Cugini di Campagna all’attacco su tutti i fronti, dai Måneskin a Lady Gaga. Dopo l’accusa ai rocker italiani che hanno aperto il concerto di Las Vegas dei Rolling Stones, Ivano “Napo” Michetti, Silvano Michetti, Tiziano Leonardi e Nicolino “Nick” Luciani tornano a parlare di Gaga, che da tempo accusano di averli imitati: «Anche lei si è ispirata e ha copiato i nostri outfit. Le avevamo scritto una lettera nel 2017, e abbiamo dovuto persino bloccarla sui social, ma resta una grande artista», hanno spiegato a FQMagazine. Il post risale all’11 maggio 2017, pubblicato in doppia versione in italiano e inglese. Vale la pena leggere quest’ultima versione maccheronica, frutto evidentemente di una traduzione automatica: «Dear Lady Gaga, everybody knows about your skill and we too much appreciate you, but after some photos on our Social Network we wanted to invite you to stop wearing identical dresses to ours, aware that you certainly do not need to imitate us. With estimates, Country Cousins». Il post era accompagnato da alcune immagini in cui i “Country Cousins” indossavano costumi vagamente simili a uno usato da Gaga. Chissà se la popstar ha mai letto quel messaggio e qual è stata la sua reazione, fatto sta che i Cugini di Campagna hanno ottenuto un risultato: far sì che si tornasse a parlare di loro. Per quanto riguarda i Måneskin, nell’intervista i Cugini hanno raccontato come è stato scoperto il “plagio”. «Di ritorno da un nostro concerto, ci sono arrivati centinaia di messaggi dai nostri follower di Facebook che ci informavano di questo look dei Måneskin, che era uguale al nostro. Siamo andati a vedere le foto e, con grandissima sorpresa, abbiamo constatato che erano incredibilmente uguali a noi», hanno detto al mensile del Fatto Quotidiano. Il gruppo di Anima mia assicura che non parla per invidia del successo della band di Zitti e buoni, anche perché lo considera passeggero: «Siamo fan della loro gioia e della loro giovinezza, ma ci ritroveremo tra sette o otto mesi a chiederci: “Ma ti ricordi quella canzone che ha vinto Sanremo?”. Non farà la storia».

Da “Ansa” il 9 novembre 2021. Mick Jagger in posa insieme a Damiano, Victoria, Ethan e Thomas, ovvero i Maneskin. Il frontman dei Rolling Stones ha postato sulle sue pagine social uno scatto con i quattro ragazzi romani che hanno aperto il suo concerto a Las Vegas, sabato sera. "Great night in Vegas with Maneskin", ha scritto accanto alla foto. Tra i commenti, non manca quello dello stesso Damiano, con tre emoji increduli. 

Luca Dondoni per "la Stampa" il 9 novembre 2021. Ivano Michetti è lo storico chitarrista dei Cugini di Campagna e subito dopo lo tsunami di complimenti che sono piovuti sui Måneskin da tutta Italia per aver aperto il concerto di Las Vegas dei Rolling Stones, è sbottato e ha postato sui social una dichiarazione totalmente controcorrente. I ragazzi hanno peccato di lesa maestà. Nel post su Instagram ha scritto: «Måneskin, basta copiare i nostri abiti»! Ivano, era serio o è stato un colpaccio per avere un po' di visibilità? «Il milione e trecentomila followers che abbiamo sui social, dopo l'esibizione dei Måneskin mi ha riempito di messaggi che ho letto finito il nostro concerto vicino a Napoli. Invece di riposarmi sono andato a vedere di cosa si trattasse e in effetti i Måneskin si sono vestiti come noi negli Anni 70. Decidemmo quel look per celebrare l'America, stelle e strisce della bandiera per far capire che anche se eravamo molto romantici c'era una punta di soft rock nel nostro Dna, come quello degli Eagles per intenderci». Il loro look è una bomba e dire che vi hanno copiato tanti anni dopo sembra quasi quello che gli americani chiamano "fishing for compliments". Piuttosto, sta facendo rumore il fatto che abbiate criticato anche la loro musica. Lei ha detto: «Ha venduto più Orietta Berti di loro». «Non si può fare il primo tour in America e cantare una cover di una band, americana, di un sacco di anni fa. Ragazzi stiamo scherzando? Attenzione io sono contento e orgoglioso del fatto che ci abbiano copiato e questo mi onora. Loro hanno una grande immagine ma si vede che sono stati studiati a tavolino. Sono quattro ragazzi, uno più bello dell'altro, e con i ragazzini belli le cose funzionano meglio. Sono favolosi, intendiamoci, ma se parliamo di musica è vero ciò che ho detto: ha avuto più successo Orietta Berti di loro. Lo dico perché Renzo Arbore e Gianni Boncompagni mi dicevano sempre che si devono scrivere canzoni che si possano ricantare e non quelle tipo Zitti e Buoni che non si capisce niente, manco 'na parola».

Lei dice anche che rispetto ai Cugini di Campagna i Måneskin dovrebbero crescere musicalmente.

«Fanno un minestrone di cose, un po' rap e un po' di rock e un po' di roba così così. Damiano si toglie le giacchetta e si mette in mutande, ma quando parliamo di vestiti non giochiamo, le cose sono diverse. Se mi ha copiato in questo modo e sembra uno dei Cugini di Campagna ciò significa che io ho inventato qualcosa di importante». 

E quest' anno festeggia i 50 anni di «Anima Mia» e i 52 anni della nascita dei Cugini di Campagna. Tra poco farete una maxi tournée negli Usa. Vi piacerebbe fare i supporter dei Rolling Stones?

«Ma no, non se ne parla. Io farei da supporter agli Eagles non ai Rolling Stones. Amiamo delle altre cose e poi i Måneskin sono bravi, bravissimi ma sono dei bambini ai quali sono affezionato e hanno vent' anni; se avessi l'opportunità li vorrei aiutare. Vorrei conoscere i produttori dei Måneskin perché sono eccezionali. Hanno fatto quattro singoli uno più forte dell'altro e questo vuol dire che il team produttivo è eccezionale, ma la bella musica, me lo faccia dire, è un'altra cosa». 

Che cosa augura ai Måneskin per il loro futuro?

«Che trovino un grande arrangiatore per diventare ancora più internazionale di quello che sono perché devono poter uscire alla gabbia di una cover come Beggin che tutti stanno idolatrando ma è un pezzo di un altro gruppo. La musica è tutta un'altra cosa. Ecco spero che trovino la loro strada» 

Maneskin, i Cugini di Campagna e la polemica del look: "Basta copiare i nostri abiti!". La Repubblica l'8 novembre 2021. Sui social è battaglia tra camicie a stelle e strisce. Secondo i Cugini la band romana li avrebbe copiati per aprire il concerto di Jagger a Las Vegas. Un solo commento sotto il post di Fb li racchiude tutti: "Vi ha copiato tutta l'America con la bandiera. Giustizia per i cugini di campagna!". Non è un caso, perché Damiano David (voce), Victoria De Angelis (basso), Thomas Raggi (chitarra) ed Ethan Torchio (batteria), al caso non lasciano neanche il rimmel scolato. Sul palco dell'Allegiant Stadium, davanti a un pubblico in delirio, i Maneskin si sono presentati con un look a stelle e strisce. Un omaggio alla bandiera americana sarebbe perfino banale, o questo è quanto pensano i Cugini di Campagna seppure di rock abbiano poco, fasciati di pop italiano anni '70, fodati una una Roma che non c'è più. Gli anni dei pantaloni a zampa, delle camice attillate, e dei falsetti che li hanno resi famosi. Il look scelto dai Maneskin per aprire il concerto dei Rolling Stones a Las Vegas ha scatenato la polemica social. Secondo i Cugini gli artisti avrebbero infatti copiato loro. Sulla loro pagina ufficiale Facebook scrivono: "I Maneskin si sono esibiti negli USA, prima dei Rolling Stones, imitando, nel vestire I cugini di campagna. Basta copiare i nostri abiti". Sotto un unico commento che li contiene tutti: Luigi Mario Favoloso "Vi ha copiato tutta l'America con la bandiera. Giustizia per i cugini di campagna!". Il look non è proprio uguale. Infatti i cugini rilanciano, e sfidano chi resta al di fuori di ogni sfida ora. Primo, cliccando sul post si arriva a una foto dei cugini in un terrazzo romano. L'lelenco di chi sono sotto, che cita: Sivano Michetti: Unico FONDATORE del gruppo, Ivano Michetti: Autore di TUTTI i successi, tiziano Leonardi: Arrangiatore dalle DOTI ECCELSE e Nick Luciani: La VOCE INEGUAGLIATA dei CUGINI DI CAMPAGNA". E poi la sfida. "Fate qualcosa di meglio, come noi abbiamo fatto con la vostra "zitti e buoni ". I  romani, sanno scherzare. Soprattutto tra cugini.

Marco Molendini per Dagospia l'8 novembre 2021. «Hanno conquistato l'America» (Corriere della sera), Trionfo e delirio a Las Vegas (Il Giornale), Maneskin nell'Olimpo del rock (Il Messaggero), Jagger incorona i Maneskin (Ansa), Tutta l'America canta Mammamia (QN), I Maneskin stravolgono Las Vegas (Il Fatto), I Maneskin stregano Las Vegas (Il Tempo). Breve rassegna stampa  sull’ultima impresa dei quattro ragazzi romani partiti da Monteverde e arrivati sulla luna del successo in un batter d'occhio. Gloria ai Maneskin, nell'alto dei cieli.Viva il rock, viva l'Italia, viva gli artisti italiani che si fanno notare all'estero che sono da sempre una specie rara. Viva l'entusiasmo, viva la strada lastricata di iperboli in cui si sostiene che sono la via nuova del rock, che sono i nuovi Beatles, che hanno ridato glamour a un genere moribondo, o che (da parte di quelli che amano scavare a fondo) il loro essere fluidi interpreta perfettamente le incertezze sessuali del mondo contemporaneo (in parte probabilmente vero). La loro via è senza dubbio costellata di medaglie sorprendenti, Sanremo, Eurosong, la versione della canzone Beggin’ che è piaciuta dovunque, Little Steven che li incensa, Miley Cyrus che non perde l’occasione di abbracciarli davanti ai fotografi, Jimmy Fallon che li chiama al suo talk show, e adesso i Rolling stones che li hanno accolti a Las Vegas come opening act. Mi è venuto un dubbio, però (e spero che mi venga perdonato): la grancassa non sta suonando troppo forte? Le iperboli (hanno sbancato, stravolto, conquistato, stregato), i complimenti, gli osanna non sarebbe meglio calibrarli e non investire quei ragazzi con una tempesta di aggettivi rigonfi di orgoglio patrio? La cavalcata dei Maneskin, per essere giudicata una rivoluzione, non avrebbe bisogno come minimo di qualche conferma temporale, fuori dalla lunga scia promozionale che l’ha accompagnata finora? Storicizzare il loro successo, attribuirgli un valore assoluto li mette in competizione con mostri sacri del passato che sarebbe meglio lasciar riposare in pace (assieme alle controproducenti esternazioni fatte di giovanilismo purchessia). Meglio, forse, stare coi piedi per terra (non c'è dubbio che la scena rock sia afflitta da una povertà endemica e abbia bisogno di nuove energie). Accontentarsi del fatto che Spotify abbia creduto in loro (altro segnale che in giro non c'è poi così tanto su cui puntare), che li abbia spinti prima in Europa (Eurovision) e poi in America dove hanno condito il loro sbarco con una serie di uscite promozionalmente azzeccate (i due spettacoli di New York e Los Angeles in club e alcune partecipazioni mirate come Gucci). Meglio incassare il successo di Beggin’, magari senza stare a fare caso che si tratta di un pezzo che ha una sua forza accattivante segnata da un passato di consensi a cominciare dalla prima uscita di Frankie Valli e dei Four seasons (1967), in un arrangiamento non molto diverso, e che ogni volta che è stato ripreso ha ottenuto ottimi riscontri, da ultimi i Madcon, duo hip hop norvegese, che nel 2007 ne ha fatto una versione che ha sfondato in tutt’Europa (in Italia sono entrati nella top ten al decimo posto). Non c’è bisogno di raccontare di deliri a Las Vegas o di America conquistata, tanto sappiamo tutti che è una finzione retorica, almeno per ora. Come sappiamo che  i Rolling Stones in ogni data del loro  tour prevedono un gruppo di spalla, tutti nomi non celeberrimi, che remano da anni in cerca di notorietà, come The Zac Brown band, The Ghost Hounds, blues rockers di Pittsburgh convocati per più date, come i texani Black Pums, come The Glorious sons. Che poi i Maneskin siano piaciuti, che abbiano sorpreso piacevolmente il pubblico di Las Vegas con i luccichii dei loro abiti, con la baldanza della loro presenza sul palco, va a loro vantaggio. Ma se vogliono crescere la strada da fare è ancora tanta. Non sarebbe meglio, prima di costruire monumenti di aspettare qualche prova diluita nel tempo, evitando  di esporrli al rischio di bruciarsi le ali con il calore di incontenibili lodi emotive? PS. I Cugini di Campagna protestano: “A LasVegas ci avete copiato il look”

Da “tgcom24.mediaset.it” l'8 novembre 2021. I Maneskin stanno incassando elogi in tutto il mondo e i Rolling Stones li hanno voluti per aprire il loro concerto a Las Vegas, di fronte a una folla adorante. In patria, però, c'è chi non risparmia critiche alla rockband. I Cugini di Campagna via social, mettendo a confronto il look "americano" di Damiano David e quello di Nick Luciano, hanno infatti tuonato: "Basta copiare i nostri abiti". Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi ed Ethan Torchio si stanno godendo il meritato successo oltreoceano, tra fan in delirio e celebrità di Hollywood che fanno la fila per incontrarli. I Cugini di Campagna, però, hanno rovinato la festa e messo in dubbio la loro originalità. Sui profili social ufficiali hanno infatti messo a confronto l'outfit a stelle e strisce sfoggiato da Damiano sul palco dell'Allegiant Stadium di Las Vegas con quello di Nick Luciani: "I Maneskin si sono esibiti negli Usa, prima dei Rolling Stone imitando nel vestire i Cugini di Campagna. Basta copiare i  nostri abiti". Ovviamente i fan dei Maneskin non sono stati zitti e buoni. Tra ironia e frecciatine hanno accusato i Cugini di essere invidiosi del successo dei ragazzi e di essere solo in cerca di visibilità. Il completo sotto accusa si compone di una doclevita blu tempestato di stelle argentate e un paio di pantaloni a strisce bianche e rosse. Il look un chiaro omaggio alla bandiera degli Stati Uniti e di certo Nick e Damiano non sono stati certo gli unici artisti ad aver indossato la Stars and Stripes sul palco. "Anche Capitan America aveva copiato i Cugini di Campagna", ricorda qualcuno mentre un altro commenta: "I Cugini di Campagna hanno chiaramente copiato i Pan di Stelle." Poco dopo, sempre via social, i Cugini di Campagna hanno rincarato la dose e condiviso su la loro cover di "Zitti e buoni", lanciando il guanto della sfida alla giovane band: "Fate qualcosa di meglio, come noi abbiamo fatto con la vostra Zitti e buoni". Ormai e scontro aperto: i Maneskin risponderanno o continueranno a godersi il loro soggiorno da rockstar negli Stati Uniti? 

Da today.it il 7 novembre 2021. "Buongiorno Las Vegas". Così Victoria dei Maneskin ha voluto salutare i follower di Instagram una volta arrivata nella città americana dove si sarebbe dovuta esibire con la band in apertura di concerto dei Rolling Stone. Uno scatto super sexy per celebrare il mattino di una giornata speciale per la ventunenne, quella in cui avrebbe realizzato il suo "sogno americano". Una foto rock in cui la ragazza si mostra in déshabillé alle prese con un selfie allo specchio. Camicia bianca trasparente, topless e intimo, Victoria si fotografa nella sua stanza d'albergo mentre è seduta sul letto. Smalto blu elettrico alle unghie e lunghi capelli biondi lasciati sciolti sulle spalle. Oltre un milione di like per l'audacia della fotografia. Dall'alto dei suoi ventuno anni, Victoria non può desiderare di più dalla vita. I Maneskin sono ormai lanciati verso una fama mondiale dopo la vittoria all'Eurovision Song Contest con Zitti e Buoni: proprio ieri hanno mandato in delirio la folla dell'ultimo concerto dei Rolling Stones, che li hanno voluti per il pre-opening dello show. Non solo, anche la vita sentimentale della giovane romana andrebbe a gonfie vele: al suo fianco da tempo ci sarebbe infatti una ragazza, una sua coetanea, con cui è stata pizzicata proprio di recente.

Maneskin, Victoria De Angelis da bollino rosso: a pochi minuti dal concerto senza reggiseno, pazzesca. Libero Quotidiano l'08 novembre 2021. Victoria De Angelis, la sensuale bassista dei Maneskin prima del concerto a Las Vegas con i Rolling Stones, ha postato sul suo profilo Instagram una foto osè molto rock. Eccola infatti in ginocchio sul letto della camera d'albergo con una camicetta bianca sbottonata e aperta, senza reggiseno e solo con un paio di slip, bianchi anche quelli. Victoria è quindi a seno nudo, con i capezzoli appena coperti dalla camicia per evitare la censura dei social, e due collane con il simbolo della croce, e ammicca ai fan con un selfie bollente che, neanche a dirlo, fa il pieno di like. A corredo dello scatto scrive: "Buongiorno da Las Vegas". Ma i commenti dei fan sono tutti di elogio alla sua bellezza e sensualità. "Bellissima", "meravigliosa", si legge in moltissime lingue. Del resto, ormai, Victoria e i Maneskin sono amatissimi in tutto il mondo. Hanno aperto domenica 7 novembre il concerto dei Rolling Stones all'Allegiant Stadium, davanti a migliaia di fan. Damiano, Victoria, Ethan e Thomas hanno suonato i loro brani più celebri, da 'In nome del padre' a 'Zitti e buoni', che ha trionfato a Sanremo e all'Eurovision Song Contest. Due canzoni in italiano adatte a rompere il ghiaccio. "Hello Las Vegas! E' un onore essere qui ed avere la possibilità di suonare sul palco di una delle band più grandi di sempre", ha esordito Damiano, che si è esibito per l'occasione, come il resto della band, con un look a stelle e strisce. Lo show del gruppo italiano sui social americani convince critica e appassionati, ma la "benedizione" più importante arriva, a fine concerto, direttamente da Mick Jagger. "Grazie mille ragazzi".

I Maneskin aprono il concerto dei Rolling Stones a Las Vegas e incantano. Jagger li ringrazia. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2021. La band romana ha conquistato il pubblico di Las Vegas con la loro musica e energia. Mezz’ora di rock (anche in italiano) senza alcun timore, che ha convinto tutti. I Maneskin hanno conquistato Las Vegas. La band italiana, vestita con paillettes a stelle e strisce, ha aperto venerdì sera lo show dei Rolling Stones. Damiano, Victoria, Ethan e Thomas hanno conquistato l’enorme platea dei fan degli Stones con mezz’ora del loro rock, in cui hanno suonato da «Zitti e Buoni» a «I Wanna Be Your Slave». La folla ha decisamente apprezzato, invocando a più riprese il nome del frontman Damiano. Una performance spavalda, senza alcuna traccia di timore reverenziale. «Hello Las Vegas! È un onore essere qui ed avere la possibilità di suonare sul palco della band più grande di sempre», ha detto Damiano. Poi, solo musica per scaldare l’atmosfera dell’Allegiant Stadium. Pubblico in delirio, poi, alle prime note di «Beggin’», il brano che li ha resi famosi anche negli Stati Uniti e grazie al quale hanno già ottenuto il disco di platino negli Usa. A chiudere lo show, appunto, «I Wanna Be Your Slave», «la nostra canzone preferita». Sui social è subito un tripudio di complimenti ai ragazzi romani: «Amazing boys!», «Sono stati grandiosi, fantastici, emanano energia positiva», «Mi piace come combinano rock, funk e R&B». E c’è chi scrive: «Ero venuto per i Rolling Stones, ma ho scoperto di essere qui per i Maneskin». E anche Mick Jagger ha ringraziato la band romana per aver aperto il concerto: «Voglio ringraziare i miei amici Maneskin», ha detto. Aggiungendo anche, in italiano: «Grazie mille». 

I Maneskin incantano Las Vegas sul palco degli Stones. Jagger li saluta in italiano: "Grazie mille, ragazzi!". I quattro ventenni romani, vestiti a stelle e strisce, partono con In nome del padre e Zitti e buoni. Poi una decina di pezzi fino al tripudio di Beggin', il più amato negli Stati Uniti. La Repubblica il 7 novembre 2021. "Hello Las Vegas! È un onore essere qui ed avere la possibilità di suonare sul palco della band più grande di sempre". Con queste parole Damiano ha salutato la folla stipata nell'Allegiance Stadium nell'appuntamento finora più importante della carriera dei Maneskin: il set di apertura del concerto dei Rolling Stones. A seguire, mezz'ora di musica vibrante, capace di andare oltre qualsiasi barriera, dalla lingua al gap generazionale, conclusa dagli applausi convinti del pubblico delle Pietre Rotolanti. E alla fine, l'ennesima medaglia da appuntare sul petto: Mick Jagger che sale sul palco al termine dello show della band per renderle personalmente gli onori, anche in italiano: "Thank You, grazie mille ragazzi!". La band romana, vestita a stelle e strisce, è partita con due brani in italiano, tratti dall'ultimo album Teatro d'Ira: In nome del Padre e Zitti e Buoni, con cui hanno vinto l'ultima edizione del festival di Sanremo.  Poi un'altra decina di pezzi eseguiti da Damiano, Victoria, Thomas e Ethan, che hanno suonato, cantato e dato spettacolo facendo ballare la folla. Fino al tripudio di Beggin' - il brano che li ha resi famosi negli Stati Uniti e grazie al quale hanno già ottenuto il disco di platino negli States - che ha incantato l'Allegiant Stadium. Molto apprezzata anche Mamma mia. In tutto mezz'ora di puro rock. L'ultimo brano è I Wanna Be Your Slave. "È la nostra canzone preferita", spiega Damiano dopo l'omaggio alla leggenda del rock Iggy Pop con I Wanna Be Your Dog. Tutto questo prima di introdurre sul palco gli Stones e prima di raccogliere il saluto di Mick. È la definitiva consacrazione della band italiana negli Stati Uniti. La partecipazione al concerto degli Stones era d'altronde stata annunciata in un programma popolarissimo come il Tonight show di Jimmy Fallon. Poi è arrivata l'esibizione al Bowery Ballroom a Manhattan. Non solo Stati Uniti, comunque. Oltre alla tournée italiana, che culminerà nell'appuntamento al Circo Massimo del 9 luglio, i Maneskin saranno protagonisti tra febbraio e marzo di vari concerti nel resto d'Europa.

Giuliana Matarrese per “il Messaggero” il 5 novembre 2021. Il glam rock è tornato di moda, e i responsabili sono quattro ragazzi di Roma. L'ascesa dei Maneskin che domani saliranno sul palco dei Rolling Stones, di cui apriranno il concerto a Las Vegas passa, in effetti, anche per l'armadio. E nel loro guardaroba c'è stata un'evoluzione stilistica che ha colto alla perfezione lo spirito dei tempi e la filosofia di molte maison del lusso, tra genderless e riscoperta del corpo, inserendosi in un discorso globale, comprensibile ben al di fuori dei confini nazionali: non è un caso che il quartetto abbia riscosso l'interesse e l'ammirazione di star globali, da Ed Sheeran a Miley Cyrus, passando per Iggy Pop. Andando a ritroso nel passato, e cercando immagini degli esordi, prima di approdare come concorrenti a X Factor, nel 2017, si fa fatica persino a riconoscerli: in jeans sdruciti e t-shirt, pantaloncini cargo e Converse, la loro carriera è iniziata facendo la necessaria gavetta, esibendosi per le strade e nei locali della Capitale. I prodromi di quello che sarebbe divenuto poi il look identificativo dei Maneskin, sono apparsi durante la competizione musicale di Sky Italia: camicie paisley, fedora con tesa larga, cappotti in suede con frange. Damiano David (22 anni, voce) Victoria De Angelis (23 anni, bassista), Thomas Raggi (20 anni, chitarrista) ed Ethan Torchio (21 anni, batterista) avevano chiari i loro riferimenti musicali che affondano le radici nel rock e nelle sue iterazioni, dal punk al glam, da Iggy Pop a David Bowie meno quelli stilistici. Un'incertezza comprensibile, considerata la giovanissima età: a vedere il loro potenziale ci sono stati però diversi padri putativi. Se in ambito musicale il giudice Manuel Agnelli li ha presi sotto la sua ala arrivando a esibirsi sul palco con loro a Sanremo, in una cover dell'iconico brano dei CCCP, Amandoti le maison del lusso hanno subito intravisto la capacità, in 4 ragazzi giovani ed energici, di tramutarsi in un fenomeno da hit-parade, capace di dettare le tendenze non solo nelle classifiche superando a giugno i Beatles su Spotify, in quanto a numero di ascoltatori mensili ma anche nell'armadio. A rompere le righe è stata Veronica Etro, che ha deciso, vedendoli gareggiare a X Factor dove sono arrivati secondi, scalzati dal podio da Lorenzo Licitra di volerli vestire per il programma: è nata così una collaborazione che ha scavato nell'iconografia del rock, da David Bowie a Jimi Hendrix, dai body neri in pizzo con scolli profondi ai pantaloni pitonati, passando per le tutine trasparenti con ricami piazzati ad arte che guardava invece ai costumi di scena di Freddie Mercury con le quali hanno trionfato a Sanremo 2021. Un percorso di crescita guidato anche dalla mano di Nick Cerioni, già stylist di Achille Lauro, che ha permesso al quartetto di portare in vita, e indosso, l'immagine di sé che desideravano proiettare all'esterno. Androginia, look lontani dalle definizioni di genere, zatteroni per lui e smoking per lei, un flirt persistente con un certo immaginario legato al mondo BDSM (bondage, dominanza, sadismo e masochismo) già sdoganato negli Anni 70 e 80 dal punk e dal glam, dai New York Dolls ai Sex Pistols i Maneskin sono così arrivati sul palco dell'Eurovision con gli occhi del mondo (della moda) puntati addosso, e non hanno deluso le aspettative. Le tute-corsetto in pelle laminata, con borchie applicate in metallo brunito sempre realizzate da Etro hanno amplificato visivamente la potenza musicale di Zitti e buoni, permettendo loro di finire sul gradino più alto della competizione, che l'Italia non vinceva dal 1992 (Insieme, di Toto Cutugno). Mezzo per esprimere posizioni anche sociali il superamento delle definizioni di genere, la condanna della transfobia, l'inclusività i vestiti sono così diventati biglietto da visita di una band che ha superato i confini europei, entrando nel cono di attenzione della maison che, dal 2015 ad oggi, si è fatta pioniera degli stessi messaggi: Gucci. Testimonial della campagna della collezione Aria, voluti personalmente dal designer Alessandro Michele, la band ha compiuto così la metamorfosi finale, tramutandosi in fenomeno dalla portata globale. Boa di struzzo alla maniera del fondatore del glam rock, Marc Bolan, completi sartoriali dai profili affilati, come Tom Petty, a loro agio in glitter e lustrini, i Maneskin sono così approdati, la settimana scorsa, sul palco del Tonight Show with Jimmy Fallon, dove si sono esibiti con Beggin'disco di platino negli Stati Uniti. Presenti alla sfilata losangelina di Gucci, all'after party hanno improvvisato il ritornello di Beggin', forse per scaldare i motori in previsione del concerto dei Rolling Stones. Arrivare secondi, in fondo, non è così male.

Carlo Massarini per “La Stampa” l'1 novembre 2021. Seduto di fronte al computer guardo il clip di due sere fa, quando i Måneskin hanno fatto il debutto americano alla Bowery Ballroom («Con i miei fratelli e sorella italiani che ieri hanno distrutto la Bowery Ballroom. Stanno riportando da soli il Rock nel mondo mainstream», ha twittato con foto backstage Little Steven, non proprio l'ultimo della fila sul tema), e mi sale una voglia di essere lì, in platea nel delirio, i cellulari protesi e la Progress Pride Flag che sventola. «Beggin', begging yoouuu! »...Damiano vestito di viola, alla faccia, che fa le sue mosse, appena accennate non serve di più, e non deve implorare nessuno, sono loro che lo implorano... Victoria incerottata come sempre sulle tette che salta dietro al suo basso Danelectro Longhorn, lo stesso di My Generation degli Who (che è in gran spolvero nei negozi di strumenti - la gente torna a suonare, non è questa una notizia?), Thomas in pantaloni di pelle viola e camicia rossa che sembra sempre stia per svenire ma intanto spara un riff dietro l'altro sulla seicorde, e laddietro Ethan che pompa e spinge e rulla e non sbaglia un tempo. È solo rock' n'roll, ma ci piace (quanto ci piace?). Adrenalina pura, e io qui a casetta. Malimortè. La Bowery... Lì, a due passi, nella zona a Sud Est di NYC che quando ci vivevo era veramente malfamata - e molto rock' n'roll, di quello sgarrupato degli anni 70 - c'erano il Mudd Club, il club minuscolo nero e trendissimo frequentato da Bowie e Zappa, e il celebrato CBGB' s, appena più grande, sempre pareti nere e un palchetto striminzito dove hanno tagliato il nastro inaugurale i sindaci alt. di New York (Ramones, Television, Blondie, Talking Heads). Un isolato più su, a St. Mark' s Square, la chiesa sconsacrata dove Patti Smith aveva debuttato ancora prima con Lenny Kaye leggendo poesie, «Jesus died for somebody' s sins, but not mine...». Non so chi abbia scelto di farli debuttare lì sul suolo americano, ma a naso non è stato fatto a caso, e la scelta è da applauso. È lì che hanno cominciato tutte le band della nostra generazione, è così che si fa. Memorie in biancoenero di allora, flash in tempo reale di adesso. Non so nulla dei Måneskin non li ho mai incontrati, solo per caso la loro zia che probabilmente adesso se li starà coccolando perché vive a New York, chissà se ha mai pensato che un giorno... Non sono il solito addetto ai lavori, quindi, che sa tutto quello che è successo dietro le quinte in quest' ultimo anno, solo uno che li ha visti in tv, come tutti. Ma quando la notte di Sanremo hanno vinto, e nessuno se lo aspettava perché «che vuoi che vinca un gruppo rock seminudo a Sanremo?», qualcosa del ventenne rokkettaro che non ne aveva viste ancora di cotte e di crude, di stelle e di stalle, si è acceso. Ho fatto un post su Fb, più stringato del solito, anzi, telegrafico. «What The Fuck, yeah!» (traducibile con un «Ecchecca**o, sì!»). Ma finalmente! Le giurie social si erano davvero impossessate di Sanremo, e invece di far vincere «le strofe languide di tutti quei cantanti/ con le facce da bambini e con i loro cuori infranti», come cantava Eugenio, avevano vinto dei lontani discendenti del Finardi e della mitologica Musica Ribelle (non sono così sciocco da non sapere che il Movimento milanese degli anni 70 e X Factor non siano nemmeno confrontabili, ma il tiro dei due pezzi - mutatis mutandis, 45 anni dopo, è lo stesso). Il secondo «WTF, yeah» l'ho ripostato all'Eurofestival, e il 3°, ormai un serial, vedendoli alla tv americana. Che non sarà il '56 di Elvis né il '64 di Beatles prima e Stones poi, ma sempre un certo effetto lo fa. I commenti (mai avuti tanti) una spaccatura epocale: di qui «bravo!», e di là «proprio tu!, ma sei fuori di testa?» (sì, ma diverso da loro). Ma ragazzi (anzi, «signori e signore» perché ai ragazzi non va spiegato nulla, loro sono in target), abbiamo una band (ripeto, band, non trapper con autotune) che nel giro di nove mesi sbanca a sorpresa Sanremo, spacca a sorpresa (all'ultimo voto, come una rete scudetto al 95') sul palco dell'Eurofestival, viene chiamata in tutte le tv e i Festival estivi in Europa, fa un miliardo di stream (UN MILIARDO, quello con 9 zeri) con Beggin'nelle charts alt. rock (il rock alternativo, quello fico dei due), appare al Jimmy Fallon Show con due brani (due, in genere anche per le star è uno) con lui che fa una gag di due minuti per presentarli (la parte più bella: «they' re Italians!» «whaaat??? !!!» dalla spalla fuori campo) e annuncia che apriranno per gli Stones a Las Vegas il 6 novembre (mi sa che Mick in Sicilia nel lockdown un po' di Rai1 se l'è vista), è candidata agli American Awards e a quelli di Mtv Europe come migliore rock band, e stiamo ancora a discutere? Di cosa, poi? Nell'ordine, del fatto che: «non sono vero rock, vuoi mettere gli Zeppelin», «ai miei tempi sì che c'era la musica vera, vuoi mettere il prog», «sono raccomandati» (da chi? e a chi? mica siamo al ministero), «chissà chi c'è dietro» (c'è il management e la Sony dietro, chi volete che c'avessero dietro i Beatles e gli Stones e tutti quelli che hanno fatto successo? Gente che sapeva lavorare, mica leoni da tastiera), «quanto ti han dato?» («poco, mi mandi qualcosa tu?»), «domani non se li ricorderà più nessuno» (dai Beatles in poi, non si è detto di ogni artista nuovo?), «non mi fanno emozionare» (lo so, capisco, ci sta pure, ma chiedilo a tuo figlio/a), «non sono patriottico, la musica non ha frontiere» (intanto però al numero 1 non c'andavamo dai tempi di Volare, nel pleistocene). Ogni era ha i suoi eroi, ha quelli che sanno intercettare i desideri, i sogni, la voglia di evadere, di spaccare tutto, di sentirsi diversi, di essere il più fico, di avere successo, di andare in tv e di avere mille persone (che magari, come per gli Stones, un giorno saranno 100 mila) che cantano e saltano e sudano con te. Questo è il sogno ad occhi aperti di ogni ragazzo che fa musica, guarda le facce dei Måneskin sul palco della Bowery, e capisci. Ascolta Marlena Torna A Casa, Vent' anni o Coraline, magnifici testi per due grandi rock ballads, e capisci perché i Måneskin sono in contatto con la loro generazione (e anche che sanno comporre). La stoffa c'è, dategli tempo (e voi, please, non perdete la testa). Godere per i Måneskin oggi è come vedere Jacobs che vince i 100 metri quando nessuno se lo aspettava, e i rosiconi pensavano fosse dopato, «ma come è possibile che uno sconosciuto vinca le Olimpiadi?». E come è possibile che una band de Roma, che 4 anni si montava gli strumenti e suonava a Via del Corso in mezzo a gente che neanche si fermava, sia «on top of the world» di colpo, così, senza che nessuno ti abbia avvertito?, che screanzati. È possibile perché siamo nell'era dei social, in cui il verbo e le note e il look fluido per arrivare in Argentina o in Corea (dove hanno già la loro cover band - in Corea! ) ci metti un click, in cui migliaia di ragazzi/e italiani/e hanno invaso YouTube e Tik Tok e hanno fatto da megafono e hanno persino tirato fuori un brano di tre anni fa, Beggin appunto, e hanno fatto sì che quella cover dei Four Seasons del '67 diventasse la canzone più ascoltata del pianeta, dall'Australia al Canada. Non bastano i soldi, non basta la fortuna, non basta il talento, non bastano, pensate, neanche le raccomandazioni. Serve che le stelle siano tutte allineate, che il momento si presenti, e che tu sia abbastanza bravo da essere al posto giusto nel momento giusto. Carpe diem, come dicevano quelli che a Via del Corso passeggiavano in mezzo alle lire e alle cetre duemila anni fa. Cogli il momento. I Måneskin l'hanno colto. WTF, yeah!

Marinella Venegoni per “La Stampa” l'1 novembre 2021. Gli ultimi in Italia ad esibire tonnellate di sfrontatezza vera prima dei Måneskin sono stati, 40 anni fa, i CCCP- Fedeli alla Linea di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni. Nascita del punk Made in Italy, intessuto di ideologia, rapidamente dimenticato dai più e non credo proprio oggetto di osservazione dei Måneskin che al mondo italiano non hanno mai guardato, presente o passato che sia. Hanno comunque lo stesso imprinting iniziale, ma bisogna pur lasciar parlare loro, i Måneskin, e di sicuro hanno invece guardato e ascoltato tutti gli dei del rock Anni Settanta, cosa che fanno da tempo molti nostri adolescenti: altrimenti non si capirebbe perché certi personaggi continuano ad essere al centro dell'immaginario, vivi o morti che siano. La carica vitale, la mancanza di ogni soffio di timidezza fino al limite del ridicolo della band romana hanno molti precedenti, e certo da questo punto di vista il movimento punk primigenio, nel senso di Sex Pistols, è stato ampiamente scrutato: rimane un'attitudine di fondo, l'appendersi a un vitalismo sfrenato poi sparigliato da altri interessi. Intanto il glam rock, dal quale discendono tutti i nipotini del David Bowie giovincello bello come un dio nei panni di Ziggy Stardust, alieno che viene a salvare la Terra e invece trova il rock' n'roll, androgino e seminudo quanto Damiano & i suoi fratelli (e pure la sorella). Ma poiché la dimensione del fenomeno Måneskin è soprattutto fisica, e musicale, e sono approdati a testi slogan da ricantare in tutte le lingue, l'intellettualismo di Bowie va a farsi benedire, mentre più che un occhio e un orecchio la band ha messo sul fenomeno complessivo Iggy Pop, con il quale c'è stato pure un divertente e incalzante duetto su I Wanna Be Your Slave. Iggy ha l'indubitabile vantaggio non solo di essere vivo, ma di rimanere sul solco di quel che ha sempre fatto, a torso nudo e dimenante come un iguana, con un carico di ironia che i Nostri hanno incamerato. Tutto nei Måneskin è ironia, che strano non ne parli mai nessuno. Nel totale del gruppo, l'attenzione deve essere andata, oltre al punk, anche ai grandi gruppi del rock, soprattutto alternativo: da quest' ultimo, anzi, debbono esser stati guardati da Damiano&Friends molti video dei grandi Jane' s Addiction dei primi tempi a metà Ottanta, con quello scatenato di Perry Farrell ormai nei suoi pieni 60, ma un tempo che tempra. Dei padri rock, non saranno certo stati trascurati i Led Zeppelin, per la potenza della band nel suo insieme ma anche per il ruolo magnetico di Robert Plant: il fatto è che, nei Måneskin, tutti vorrebbero essere Robert Plant. E' questo che rende la band diversa da ogni altra, l'anelito al protagonismo di ciascuno dei componenti, che spariglia un po' la vecchia abitudine del solo cantante leader e gli altri in ombra. Direi invece che il modello Franz Ferdinand di cui si è parlato è solo frutto di una cover dei primi tempi Måneskin, quand'erano quasi normali. E comunque, per essere solo in quattro, i nostri sono stati catapultati dal successo incredibile in una immensa enciclopedia del rock, dove ognuno è autorizzato a rispolverare in loro nome i numi che sono rimasti nell'inconscio collettivo. A tutto vantaggio del marchio Måneskin.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 29 ottobre 2021. Il felice mistero dei Maneskin è che sono i primi musicisti italiani ad avere successo nel mondo con una musica non italiana. Dall'Italia gli stranieri si sono sempre aspettati la melodia lacrimosa, lo stornello o il do di petto, non il frastuono organizzato del rock. Chi ha scelto la strada delle sonorità angloamericane, come il mio filosofo di riferimento Vasco Rossi, ha sempre fatto fatica a essere ascoltato oltre Chiasso. Che cosa possiedono dunque di così speciale questi quattro ragazzi romanissimi per incantare scandinavi e statunitensi, tanto da riempire i club di New York, finire nel talk-show di Jimmy Fallon e aprire il concerto dei Rolling Stones non in un palazzetto italiano, ma a Las Vegas? Per usare una parola alla moda, sono fluidi. Damiano, il cantante, è un maschio che si trucca senza perdere virilità. Victoria, la bassista, è una donna che fa la dura senza perdere femminilità. Tutti e quattro appaiono sfuggenti, nitidi eppure sfocati, non incastrabili in una definizione. E la loro non sembra una posa, ma un'essenza, in cui si riconosce un'intera generazione. Nel secolo scorso, David Bowie e i Kiss si truccavano come e più di loro, ma erano considerati un'avanguardia anche da noi che li amavamo. Per i ragazzi di oggi, invece, i Maneskin sono la normalità. La settimana della loro consacrazione planetaria ha coinciso in Italia con il capitombolo della legge Zan. Perché la vita sa essere davvero ironica, a volte. Basta capirne le battute.

Barbara Visentin per il “Corriere della Sera” il 29 ottobre 2021. Anche New York è andata «fuori di testa»: lo mostrano i video che spuntano sul web - folla in visibilio, cellulari che riprendono, centinaia di teste che si muovono in sincrono - e lo raccontano i presenti, non solo italiani, ma anche, in larga misura, americani. Il primo concerto dei Måneskin negli Stati Uniti è stato una scossa di energia, un sold out al Bowery Ballroom di Manhattan (locale cult della Grande Mela da cui sono passati R.E.M, Coldplay, Lou Reed, Strokes solo per dirne alcuni e dove Patti Smith ha suonato per 14 capodanni di fila) riempito alla massima capienza. Circa 600 persone che mercoledì sera sono corse sotto il palco per ballare con i quattro ventenni italiani più famosi del momento, passati in cinque anni dalle strade di Roma alle stelle. «Non ricordo l'ultima volta che mi sono divertita così tanto a un concerto. Alla fine ci hanno chiamati tutti sul palco, Vic mi ha preso un braccio e mi ha aiutata a salire e così ho ballato vicino a Thomas», racconta Paige Allison, 19enne americana, a New York per fare l'università. Che cosa hanno di speciale i Måneskin da riuscire a fare breccia non solo nel pubblico italiano, ma nel mondo intero? Paige, che li ha scoperti grazie all'Eurovision, non sa da dove cominciare: «Non c'è nessuno come loro in questo momento. Sono freschi, diversi, adoro il loro rock e la loro estetica. E poi attorno alla band si sta creando una community bellissima, piena di ragazze. Vedere Victoria, una bassista, in un gruppo di uomini, è speciale. È la mia preferita e ha sorriso per l'intero show». E se dopo l'ospitata al «Tonight Show» di Jimmy Fallon, i Måneskin possono aggiungere anche Drew Barrymore tra i loro fan illustri («Sono la band più sexy del pianeta», ha scritto l'attrice su TikTok postando un video con loro), il consenso è trasversale: Andrea Soriani, 51 anni, manager italiano a New York da 20 anni, descrive il live americano come «un uragano», dove c'erano sì i ragazzini, ma anche qualche capello bianco: «Sono ancora entusiasta - racconta-. Damiano era padrone assoluto della scena e il pubblico non riusciva a stare fermo. Di americani ce n'erano tanti e fa proprio piacere vedere dei musicisti italiani che non portano nel mondo la solita melodia». In un'ora di scaletta, in un mix di energia, spettacolo e sensualità provocante, i Måneskin hanno sfoderato 14 canzoni, alternando i brani in inglese a quelli in italiano. Nonostante l'«ostacolo» linguistico, tutti cantavano. Lo assicura anche un esperto aizzatore di folle come il dj Benny Benassi, presente al debutto newyorkese: «Abbiamo assistito a una data storica. Io ho 54 anni e un po' di rock l'ho vissuto. Questi ragazzi hanno tenuto il palco come fossero un mix di Rolling Stones, Iggy Pop e Kiss. Si tornerà a suonare il rock e io da deejay dico "speriamo". Avevano l'energia dei club, ma fatta con le chitarre». Secondo Benassi, che tra le varie cose ha lavorato con Madonna e gli stessi Stones, i Måneskin «incarnano perfettamente il momento storico», la libertà e le rivendicazioni dei ragazzi di oggi. E così mentre in Italia veniva affossato il ddl Zan, Damiano sul palco brandiva la bandiera arcobaleno. E mentre qui i loro live sono posticipati al 2022, in America i Måneskin si preparano ai prossimi appuntamenti: lunedì li aspetta Los Angeles, mentre il 6 novembre apriranno il concerto dei Rolling Stones a Las Vegas. Sono nominati agli American Music Awards nella categoria Trending Song con «Beggin'» e agli Mtv Emas, dove si esibiranno, come «Best Group», «Best Rock» e «Best Italian Act». E la corsa continua.

I Maneskin da Jimmy Fallon annunciano: "Il 6 novembre a Las Vegas apriamo il concerto dei Rolling Stones". L'incredibile annuncio durante lo show tv, che è una prima volta assoluta per una band italiana. La Repubblica il 27 ottobre 2021. I Maneskin sul tetto del mondo. La band che sta spopolando ha annunciato che il 6 novembre aprirà il concerto dei Rolling Stones a Las Vegas, una notizia sensazionale che continua ad alzare l'asticella della popolarità e del successo di questi quattro ventenni romani. I Maneskin che stanno spopolando ovunque hanno debuttato nella televisione americana con un miniconcerto durante il popolarissimo show di Jimmy Fallon dove Victoria, Damiano, Thomas e Ethan hanno cantato Beggin' (cover della famosissima canzone di Frankie Valli e i Four Seasons), che in questo momento è al numero 1 nelle radio alternative americane e nella Top 5 della classifica pop. Il debutto nella tv americana è partito da uno dei programmi più popolari di tutto il paese, onore che non era mai stato concesso ad una band italiana. Con lo stile ironico e irriverente che lo contraddistingue Fallon ha introdotto la band: "State pronti, preparatevi a non togliervi i pantaloni, arrivano dall'Italia, hanno vinto l'Eurovision che è una specie di America's got talent ma più grande". I Maneskin hanno anche cantato Mammamia, il loro ultimo brano, una scelta che ha un particolare significato: oltre ad essere in italiano è un inno "contro gli stereotipi" nei confronti del nostro paese, scritto in pochissimo tempo subito dopo la vittoria all'Eurovision. Il viaggio oltreoceano prevede anche altri due concerti: questa sera al Bowery Ballroom di New York e il primo novembre al Roxy Theatre di Los Angeles. Attesa poi per il 14 novembre dove, in Ungheria, verranno assegnati gli Mtv Europe Music Award 2021. La band romana è presente sia nella categoria dei Best group sia come Best rock e, è notizia di oggi, sarà presente sul palco del Papp László Budapest Sportaréna insieme a all'icona latina Maluma, e alla cantante tedesca Kim Petras. È la prima volta che un artista italiano viene nominato in tre categorie diverse, compresa la Best Italian act, ed è la prima volta che una band italiana ottiene una nomination come Best group e nella categoria Best rock. Gli MTV Emas 2021 saranno trasmessi in diretta su MTV in quasi 180 paesi domenica 14 novembre. In Italia, l'evento andrà in onda a partire dalle 20.00 con il Pre Show e dalle 21.00 con il Live Show su MTV (canale Sky 131 e in streaming su NOW) e su MTV Music (canale Sky 132 e 704).

Luca Dondoni per "la Stampa" il 28 luglio 2021. I Måneskin non si fermano più. Da ieri, la notizia del concerto-evento al Circo Massimo di Roma sabato 9 luglio 2022, ha fatto impazzire i social network e i fan club del quartetto romano. Durante la consegna al gruppo in Campidoglio della «Lupa Capitolina» da parte della sindaca Virginia Raggi, la prima cittadina ha espresso parole di entusiasmo: «Siete partiti dalla gavetta e avete scalato le classifiche mondiali - ha detto -. State dando una grande esempio. La vostra grinta ha portato un'irruzione dirompente di novità che è arrivata nel momento in cui ne avevamo più bisogno». La «Lupa Capitolina», il massimo riconoscimento romano, nel tempo è stato consegnato a Gigi Proietti, Nino Manfredi, Renato Zero e alla Nazionale Italiana vincitrice del Campionato Uefa 2020, ma anche a Woody Allen, Richard Gere, Ridley Scott, Meryl Streep. «Siamo orgogliosi e se c'è un merito in quello che facciamo è bello che qualcuno lo certifichi. E' stato emozionante tornare a Roma, a casa nostra, dopo tutti questi mesi in giro per il mondo ed essere accolti così». 

Al Circo Massimo hanno suonato Bruce Springsteen, Rolling Stones e tante altre pop e rockstar. Cosa avete provato quando ve lo hanno comunicato?

«Ci vogliono carriere intere per arrivare a suonare in posti del genere. Riuscire a farlo a vent' anni è importante e non vediamo l'ora che passi quest' anno, vorremmo addirittura accelerare il tempo per arrivare lì dove non siamo mai stati, nemmeno da spettatori».

State già pensando alla scenografia, a ciò che farete? Sentite la pressione per l'aspettativa?

«Abbiamo in serbo tante sorprese ma sicuramente non avremo i ballerini, sia per la nostra storia che per la musica che facciamo. Pressione? No, siamo coinvolti in quello che facciamo al cento per cento. Ma sappiamo che c'è chi rosica, è normale». 

Il Circo è a pochi minuti da Via del Corso, dove avete mosso i primi passi suonando sul marciapiede.

«Ci pensiamo tutti i giorni e i fan postano in continuazione la nostra foto degli esordi. E' una soddisfazione sapere che da 15 euro di monete raccolte in un piattino a fine giornata siamo arrivati a qualcosa di più». 

Quanto di più?

«Siamo totalmente presi dalla musica e da quello che dovremo fare da qui ai prossimi anni che al momento i soldi non sono la prima cosa. Ci interessa creare cose belle». 

Con il video di «I wanna be your slave» e ai baci omo/etero che vi siete dati durante la clip, si è rafforzato il vostro impegno contro le discriminazioni di genere.

«Purtroppo c'è ancora tanta strada da fare e le persone LGBT sono ancora molto discriminate, si tratta di un'ingiustizia che abbiamo vissuto anche sulla nostra pelle. Il video è un messaggio di sostegno e avendo la possibilità di parlare con un pubblico molto ampio dai piccoli gesti possono scaturire grandi risultati». 

Le polemiche sui vaccini e sui no vax che recentemente hanno riempito le strade d'Italia con manifestazioni anti green-pass stanno accendendo dibattiti politici. Voi da che parte state?

«Dalla parte di chi si vuole vaccinare. Non farlo sarebbe da pazzi». 

Cosa direste a un no vax?

«"Ripijate", torna te stesso in romanesco. Noi siamo per la sanità mentale delle persone ed esser contrari a qualcosa senza nessun fondamento scientifico mi sembra da pazzi. Essere contrari al vaccino fa il paio con chi pensa che la terra sia piatta. Siamo felici se il progresso e le soluzioni che possono permettere una ripresa ci daranno modo di ricominciare in sicurezza». 

Si è parlato molto del divorzio dalla vostra storica ufficio stampa Marta Donà. Cosa è successo veramente? E' vero che dietro di voi ora c'è quel Simon Cowell che ha inventato il format «X Factor» che nella sua versione italiana vi ha visti vincitori?

«No, Cowell, lo diciamo ufficialmente non c'entra nulla con noi. Non è stata una scelta contro Donà, ma una decisione esclusivamente lavorativa».

 In Italia c'è stata polemica perché non avete postato nulla sui social quando la Nazionale ha vinto gli Europei. Non volevate far arrabbiare i vostri fan inglesi?

«Assolutamente no, a parte che decidiamo noi cosa postare o meno, per quanto riguarda la Nazionale abbiamo fatto una video chiamata con i ragazzi della squadra per congratularci con loro».

Luca Dondoni per “La Stampa” il 5 luglio 2021. Questi ragazzini hanno appena conquistato il primo posto nella Spotify Global Chart». Lo hanno scritto ieri i Maneskin sui loro social network ficcando sotto questa frase la loro foto da bambini. Quattro faccette furbe per quattro instantanee che risalgono ai primi anni Duemila. Tanta ironica, ma fondatissima soddisfazione deriva dal fatto che dopo aver conquistato il podio dell'Eurovision Song Contesti quattro bimbi della foto, Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi e Ethan Torchio hanno scalzato Olivia Rodrigo dal primo posto della Spotify Global Chart e ora sono i più ascoltati del mondo - qualcuno dice addirittura superando i Beatles, ma è da provare -su Spotify. Ora qualcuno provi ancora a teorizzare che l'Eurovision non fa lievitare la popolarità. I numeri non lasciano dubbi e soprattutto supportano le notizie che in poco tempo hanno fatto il giro del web. Nelle ultime ventiquattro ore la cover di Beggin (che peraltro il gruppo aveva portato sul palco di X Factor nel 2017) è stata ascoltata 7.469.689 milioni di volte. E pensare che Good 4 u di Olivia Rodrigo si deve accontentare (diciamo così) del secondo posto, con 7.453.790 milioni di clic ottenuti nell'ultima giornata grazie a una popolarità che nel mondo latin l'ha trasformata in una delle star più apprezzate. Dopo Rodrigo terzo posto fra i più ascoltati c'è niente meno che Ed Sheeran con la nuova Bad habits e 5.409.780 milioni di stream. Non solo, i Màneskin sono presenti nella top ten della Spotify Global Chart anche con I wanna be your slave, ancora nella top ten ma all'ottavo posto con 4.168.879 milioni di ascolti solo ieri. E se diamo un'occhiata alla classifica settimanale allora si può parlare di exploit impressionante. Ancora la cover di Beggin negli ultimi sette giorni ha raggiunto i 47.359.395 milioni di ascolti su Spotify e non a caso il maxi-schermo pubblicitario che copre la facciata del grattacielo più alto di Time Square rimanda l'immagine del quartetto ogni 30 secondi. I ragazzi d'altra parte sono lanciatissimi nel mondo dopo la vittoria all'Eurovision Song Contest 2021 con Zitti e buoni che ha fatto innamorare i critici musicali del Guardian o del New York Times. In tanti rimasero colpiti quando per la prima volta dopo decenni importanti quotidiani stranieri parlavano di «un'Italia che sa rockeggiare». Riviste di settore e non solo applaudivano l'esibizione all'Eurovision dello scorso 22 maggio così: «I Maneskin stanno dimostrando al mondo che l'Italia non è solo il Paese della Pizza, dei bei monumenti e del bel canto alla Bocelli. Loro hanno dimostrato che anche l'Italia sa cantare e suonare benissimo il rock». Damiano David, Victoria Thomas e Ethan avevano inciso la cover di Beggin dei Madcon (eseguita a X Factor nel 2017) e inclusa nell'Ep Chosen. Mentre quella dei Madcon era a sua volta una cover di un pezzo originale dei «Four Season» inciso nel 1967. Un pezzo celeberrimo che negli anni è stato riproposto anche dagli «Shockin' Blue» nel 1974 e dai «Saturdays» nel 2014. L'annuncio della notizia che ieri ha raggiunto in poco tempo oltre un milione e 350 mila visualizzazioni (solo sul profilo Instagram della band) è stata postata con i volti dei Maneskin da bambini corredati dalla frase in inglese: «These kids just made it to the first place in the global chart». Tutto questo dopo l'approdo dei maneskin sul territorio americano nella classifica del settimanale Billboard che ha dedicato a loro un'intera playlist intitolata This Is Maneskin. «Il pubblico americano è diventato più curioso di una volta e grazie alla globalizzazione - hanno scritto alcuni importanti critici americani - anche gli amanti del rock si sono levati di dosso quella puzza sotto il naso nei confronti dei prodotti che arrivano da territori non anglosassoni. Per anni ci siamo comportati come se il rock potesse arrivare solo dall'America o dall'Inghilterra e adesso, anche grazie ai Maneskin non è più così»

Super Maneskin, l'Italia trionfa all'Eurovision 2021: «Rock'n'roll will never die». Ida Di Grazia per leggo.it il 22 maggio 2021. «Rock'n'roll never die». Il rock and roll non morirà mai. Così Damiano, il carismatico frontman dei Maneskin, ha commentato a caldo la vittoria all'Eurovision Song Contest con “Zitti e Buoni” sul palco dell'Ahoy Arena di Rotterdam. Nell'esibizione finale, con il trofeo in mano, la band ha cantato nuovamente il brano, stavolta senza censurare le parolacce che erano state tolte come richiesto dal regolamento. La band rock romana, che ha partecipato con la canzone “Zitti e buoni”, ha riportato in Italia il titolo che mancava dal 1990. Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan, con il loro brano portato al successo a Sanremo 2021, hanno trionfato con 524 voti, di cui 318 ricevuti dal televoto. Seconda classificata della kermesse in scena alla Ahoy Arena di Rotterdam la Francia con 499 punti, terza la Svizzera con 432. Il cantante Damiano David, la bassista Victoria De Angelis, il chitarrista Thomas Raggi e il batterista Ethan Torchio hanno iniziato a fare musica insieme nel 2016 e prima di raggiungere la popolarità grazie alla partecipazione a X Factor nel 2017 erano soliti esibirsi in via del Corso a Roma.

Eurovision 2021, vincono i Maneskin: il rock d'Italia conquista l'arena di Rotterdam. Le Iene News il 23 maggio 2021. Hanno rappresentato l’Italia portando sul palco dell’Ahoy Arena di Rotterdam la loro “Zitti e buoni”. Dopo il festival di Sanremo, i Maneskin hanno vinto anche Eurovision 2021. I Maneskin vincono la 65esima edizione di Eurovision 2021. Tra le 26 nazioni partecipanti hanno portato tutto il rock d’Italia sul palco dell’Ahoy Arena di Rotterdam con la loro “Zitti e buoni”, la fortunatissima canzone con cui hanno vinto anche il festival di Sanremo (e che ci hanno proposto live anche a Le Iene). Il secondo posto del podio è andato alla Francia seguita dalla Svizzera. L'ultima vittoria italiana è stata 31 anni fa: Toto Cutugno ha portato l'Eurovision in Italia nel 1990 e prima di lui è stata Gigliola Cinquetti nel '64. Noi, Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi ed Ethan Torchio, li abbiamo conosciuti da vicino nella nostra intervista in formato quadruplo che vi riproponiamo qui sopra. Li abbiamo letteralmente sommersi con la nostra raffica di domande, a partire dal significato di “Måneskin”, che in danese vuol dire “chiaro di luna”. Si sentono più simili a un rapper o ai Pooh? “Ai Pooh che reppano”, risponde Damiano, il frontman: “Ho iniziato a cantare a sei anni, ora riesco a mantenermi con la musica”. La prima spesa folle che ha fatto? “La macchina”. Ha mai mandato a quel paese un fan? “Una volta abbiamo suonato, c’erano le transenne, Victoria si è piegata e un ragazzo ha avuto la geniale idea di toccarle il culo. Gli ho detto un po’ di cose non belle…”. Ci ha confessato di essere stato con una donna più grande di lui di 16 anni. Non potevamo non chiedergli se ci fosse stato qualcosa con Victoria, la ragazza del gruppo: “Se vi piace crederlo ve lo lascio credere…”. Così lo abbiamo chiesto a lei, ma abbiamo strappato solo un “chissà”. Victoria ha mai avuto un'avventura con una ragazza? “Sì, anche duratura”, risponde. A forza di domande abbiamo stilato il loro identikit: il più intonato, a detta di tutti e quattro, è Damiano. Il più ritardatario è Thomas. Per quanto riguarda il più “pigro” ognuno ha indicato qualcun altro. E chi passa più tempo sul porno? “Non so perché ma ho la sensazione che gli altri abbiano detto me”, risponde Ethen. E ha ragione! E alla domanda se quest’anno sarebbero stati loro i vincitori di Sanremo, hanno risposto con un “chissà”. E se fossero arrivati ultimi? “Gli ultimi saranno i primi!”, ci ha risposto Victoria. Loro, per ora, sono solo primi! Dopo Sanremo anche a Eurovision!

I Maneskin trionfano a Eurovision 2021. Ernesto Assante su La Repubblica il 23 maggio 2021. Sono i terzi artisti italiani a vincere la competizione europea dopo Gigliola Cinquetti nel 1964 e Toto Cutugno nel 1990. Il premio torna in Italia dopo 31 anni. Damiano: "Sniffare in diretta? Non uso droghe". I Maneskin sul tetto d’Europa. Hanno vinto, dominando il voto popolare, l’edizione 2021 dell’Eurovision Song Contest che si è svolto a Rotterdam. Hanno vinto meritatamente, sono loro la “Next Gen Eu”, la incarnano con la loro energia, la loro libertà, la loro passione e la canzone, “Zitti e buoni”, chiara e rock, era senza dubbio la migliore della lunga serata musicale olandese. E hanno vinto tutto quello che c’era da vincere in questo 2021, il festival di Sanremo poche settimane fa, l’Eurovision Song Contest stanotte. "Rock'n'roll never die". Il rock and roll non morirà mai. Così Damiano, il carismatico frontman dei Maneskin, ha commentato a caldo la vittoria all'Eurovision Song Contest con Zitti e Buoni sul palco dell'Ahoy Arena di Rotterdam.

Nell'esibizione finale, con il trofeo in mano, la band ha cantato nuovamente il brano, stavolta senza censurare le parolacce che erano state tolte come richiesto dal regolamento. I Maneskin riportano l'Eurovision in Italia dopo 31 anni: sono i terzi artisti italiani a vincere la competizione europea dopo Gigliola Cinquetti nel 1964 e Toto Cutugno nel 1990. E’ stata una serata divertente, anche se non “esplosiva” come in altre edizioni: non ci sono state sorprese particolari, la voglia di “esagerare” che ha sempre caratterizzato lo show europeo della canzoni è sembrata un po’ nascosta, in uno show che in era post-Covid, è stato decisamente più prevedibile, anche in termini musicali, orientato in gran parte verso una pop-dance standardizzata e in pochi sono usciti dal copione. Il finale a tre, con Italia, Svizzera e Francia a disputarsi i voti finale, è stato tesissimo e la vittoria della band è arrivata, liberatoria tra gli applausi di tutto il pubblico. Come sono le canzoni dell’Eurovision Song Contest 2021? Cipro punta sulla formula Lady Gaga con Elena Tsagkrinou, e la sua “El diablo”, l’Albania fa fumo e fiamme con Anxehela Peristeri e “Karma”, Israele con Eden Alene, magrissima, una pettinatura che non si capisce dove finisce la pettinatura e inizia, se c’è, un’impalcatura, pop mainstream, con “Set me free”. Poi arrivano gli Hooverphonic, sempre un’ottima pop band, a difendere i colori del Belgio con “The wrong place”, non esattamente con il loro miglior pezzo. Maniza, dalla Russia, con una bellissima dichiarazione per le donne e una performance davvero notevole, ruba la scena a tutti, con forza, convinzione e originalità, mescolando dance e melodia russa, protesta e intrattenimento, potentissima. Subito dopo da Malta, Destiny canta “Je me casse” e ha un pezzo da radio e classifica, mainstream pop dance, di stampo molto internazionale. Black Mamba, “Love is on my side”, dal Portogallo, sono i primi a puntare sulla melodia, anche se blues e lo fanno assai bene. Dalla Serbia le Hurricane con “Loco loco” non lasciano il segno, nonostante un notevolissimo movimento di capelli. Lo spettacolo è come sempre divertente, non è uno show fatto per chi vuole andare lì e limitarsi a cantare, e in ogni caso anche quando alcuni degli artisti si limitano all’essenziale, le luci, le invenzioni della scenografia, i fumi, i fuochi, i laser, danno ampiamente una mano a far salire l’entusiasmo. E’ uno show “inclusivo” per definizione, proprio perché la conduzione italiana di Malgioglio e Corsi punta sull’ironia, alle volte funziona, alle volte meno e accompagna le immagini tra un’esibizione e l’altra. Si passa all’Inghilterra di James Newman, con “Embers”, pezzo dimenticabilissimo, carino e inutile, magari buono per una sera estiva sulla spiaggia e nulla più, poi arriva Stefania dalla Grecia con “Last Dance”. Ironia vuole che il titolo richiami la danza e lei, davvero, non sappia muoversi molto sul palco, non aiutata nemmeno dalla canzone che lascia il tempo che trova. Lo svizzero Gjon’s Tears sceglie di cantare in francese, è bravo, ha un falsetto quasi perfetto e ha un pezzo che gli fa fare decisamente bella figura, per quanto sostanzialmente noioso, mentre gli islandesi Daði Freyr Pétursson, con “10 Years” ci offrono il primo primo vero momento di soddisfazione a chi vede l’Eurovision Song Contest per vedere performance al limite del surreale. Non hanno Will Ferrell in squadra, ma con il loro elettropop non se la cavano male. Blas Cantò, con “Voy a quedarme”, super mainstream cantato sotto una gigantesca luna piena e un universo in espansione, ma non è destinato a invertire la serie negativa della Spagna, mentre Natalia Gordienko con “Sugar” canta meglio della Britney Spears che sembra voler imitare. Io non provo odio, “I don’t feel hate” è la canzone del tedesco Jendrix, che suona l’ukulele e, si fa accompagnare da una mano e canta in allegria contro le discriminazioni con un pezzo che ha le strofe giocose e un ritornello hard, chissà perché. Possiamo dire che anche il futuro della musica tedesca non dovrebbe essere nelle sue mani. Ma il messaggio passa forte è chiaro come tutti gli altri che partono dal palco, in tante lingue, con una mescolanza di culture, di generi, di colori, di suoni (da quelli più melodici fino all’autodefinito “violent pop” dei Blind Channel, con “Dark Side”) che è figlia di un’Europa che nelle serate dell’Eurovision appare decisamente più unita di quanto non si percepisca dalla politica: prendete Barbara Pravi, nome d’arte italiano, madre iraniana, padre serbo, che gareggia per la Francia e fate i conti. Victoria dalla Bulgaria con “Growing Up is Getting Old”, canta in mezzo a un mare virtuale mentre nevicano stelle, mentre i The Roop dalla Lituania con “Discoteque” puntano su una coreografia ironica e un super elettropop, e gli ucraini Go_A, invocano lo spirito della natura con “Sum” in una delle migliori performance della serata. Dall’Azerbaijan, Efendi mescola armonie orientali e dance con “Mata Hari”, mentre Tix con “Fall an Angel” non fa volare fuori dal più ovvio e trito mainstream la Norvegia nonostante le sue ali bianche. I padroni di casa portano in scena Jeangu Macrooy, che con “Birth of New Age” canta per la prima volta all’Eurovision anche nella lingua del Suriname, e ha uno dei pezzi meglio riusciti dell’intera serata. Ma i Maneskin superano tutti, sono potenti, rock, giovani, belli e suonano. Niente trucchi e niente inganni, solo rock, basso, chitarra e batteria, e la voce e la presenza di Damiano, che conquista il pubblico della Ahoy Arena di Rotterdam e si può dire che hanno vinto in ogni caso, vista l’accoglienza e la performance. Le ultime due canzoni sono quella norvegese, Tusse, con “Voices” e quella di San Marino, con Senhit e la collaborazione di Flo Rida. La parte più divertente della serata è il lungo e spesso sorprendente “carosello” dei collegamenti con tutte le città europee dove ci sono le giurie che votano le canzoni in gara, che inizia dopo una lunga serie di performance per permettere a tutta l’Europa allargata dell’Ebu di televotare. La sofferenza, un paese dopo l’altro, con i voti che arrivano o non arrivano, e i Maneskin che dicono, senza volume ma si legge dal labiale, una raffica di parolacce, di entusiasmo quando va bene e di rabbia quando va male. Alla fine delle votazioni delle giurie sono molto meno sensate del televoto, che premia pezzi decisamente meno tradizionali di quelli di Svizzera e Francia premiati invece dalle giurie “di qualità”. Giuria e televoto si sono trovati completamente d’accordo solo nel consegnare la posizione più bassa, con un totale di 0 voti, alla Gran Bretagna. Quando, dopo una tesissima attesa i Maneskin vincono è una vera esplosione, l’Europa ha votato per i quattro ragazzi di Roma, per la loro musica, per la loro energia, per la loro forza. E’ una grandissima soddisfazione, è un’Italia nuova, un’Italia giovane, elettrica e rock. Non si può non essere contenti di vedere un gruppo di ventenni italiani, partiti dal suonare in strada in Via del Corso e arrivati in pochi mesi a trionfare a Sanremo e a Rotterdam. E per divertirsi, nella replica del brano dopo la vittoria, Damiano canta il testo, premiato come miglior testo della manifestazione, comprese le parolacce che avevano evitato di cantare, per rispettare le regole dell’Eurovision. Neanche il tempo di festeggiare e sui Maneskin si abbatte la bufera. Nel mirino dei social finisce Damiano, accusato di aver sniffato cocaina durante la diretta tv (in un video lo si vede abbassarsi sul tavolino) e in molti chiedono la squalifica dell'Italia. Ma il cantante non ci sta e nella conferenza stampa della notte rimanda al mittente ogni accusa: "Io non uso droghe. Non dite una cosa del genere. Niente cocaina".

Eurovision, i commentatori norvegesi innamorati dei Maneskin: ''Avrei voluto essere come Damiano''. Serena Console su La Repubblica il 23 maggio 2021. I Måneskin sono tra i finalisti all’Eurovision Song Contest 2021. La loro canzone "Zitti e buoni" sta conquistando il pubblico di Rotterdam e dei Paesi Bassi, dove quest'anno si tiene l’evento canoro europeo. Ma la band romana, già vincitrice dell’ultima edizione del Festival di Sanremo, ha conquistato anche l'audience della Norvegia. Durante un talk show norvegese, in onda sull’emittente nazionale Nrk, i commentatori hanno analizzato la performance del gruppo italiano, apprezzando il loro stile musicale e la loro attitudine. "Avrei voluto essere come Damiano quando avevo 17 anni", afferma uno degli ospiti in studio, riferendosi al frontman dei Måneskin. Ma c’è anche chi si è lasciato andare anche a grandi complimenti verso i componenti della band.

La band sbanca il Contest a Rotterdam dopo Sanremo. I Maneskin vincono l’Eurovision, premio all’Italia dopo 31 anni: “Abbiamo fatto la storia”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Maggio 2021. I Maneskin hanno vinto l’Eurovision Song Contest 2021 con il brano Zitti e buoni e la manifestazione torna in Italia dopo 31 anni. Il successo grazie ai loro 524 voti. Il gruppo romano aveva vinto il Festival di Sanremo, lo scorso marzo, con lo stesso brano. Sul podio, a seguire, Francia, con Barbara Pravi, e Svizzera, con Gjon’s Tears. La manifestazione si è tenuta a Rotterdam, in Olanda. La diretta su Rai1. I Maneskin sono la terza band a vincere la competizione canora europea dopo Gigliola Cinquetti nel 1964 e Toto Cotugno nel 1990. “Il rock’n’roll non muore mai. Stanotte abbiamo fatto la storia. Vi amiamo”, ha postato sui loro canali social la band emersa a X Factor e definitivamente esplosa con la vittoria al Festival di Sanremo. Erano considerati tra i favoriti. La band aveva già vinto il Premio per il Miglior Testo. “Rock’n’roll never die”, ha commentato il cantante della band Damiano a caldo la vittoria. Nell’esibizione finale, con il trofeo in mano, la band ha cantato nuovamente il brano, stavolta senza censurare le parolacce che erano state tolte come richiesto dal regolamento. Zitti e buoni è anche la canzone più ascoltata della competizione su Spotify. “Non succede ma se succede”, avevano commentato i Maneskin a proposito dei pronostici che li davano per favoriti. A premiare il gruppo il televoto, con 318 preferenze, dopo che la giuria di qualità li aveva piazzati al quarto posto dopo Svizzera, Francia e Malta. 26 gli artisti in gara. L’anno scorso l’Eurovision non si era tenuto come competizione, una serata di collegamenti a distanza, a causa della pandemia da coronavirus. L’anno prossimo sarà l’Italia a ospitare l’evento.

CHI SONO I MANESKIN – I Maneskin sono di Roma. La band è composta da quattro elementi: voce, chitarra, basso e batteria. Sono Ethan Torchio, Thomas Raggi, Victoria De Angelis e Damiano David. Sono stati fondati intorno al 2015 alle scuole medie da Raggi e De Angelis, ai quali si è aggiunto in un secondo momento David e infine Torchio, tramite un annuncio su Facebook. Il nome viene dal danese “chiaro di luna” ed è stato scelto dopo un viaggio nel Paese scandinavo. Sono diventati noti al grande pubblico partecipando all’11esima edizione di X Factor alla quale si sono classificati secondi. Il loro coach era Manuel Agnelli, leader e fondatore del gruppo milanese Afterhours. Hanno avuto molto successo da subito con i singoli Chosen e Morirò da re. La loro prima pubblicazione è stata l’ep Chosen. Il gruppo ha già ottenuto 14 dischi di platino e 5 dischi d’oro. Zitti e buoni è maturato a Londra, hanno raccontato, “è il manifesto della nostra unicità e della visione che abbiamo del rock, senza imporci limiti, nemmeno nel messaggio”, hanno commentato a Tv Sorrisi e Canzoni. Dopo il trionfo alla 71esima edizione del Festival avevano detto: “La dedichiamo a quel prof che ci diceva sempre di stare zitti e buoni”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

"La censura non è rock. Ma il politically correct è diventato eccessivo". Paolo Giordano il 22 Maggio 2021 su Il Giornale.  La band si gioca l'Eurovision a Rotterdam: "Bello ripartire da zero con un nuovo pubblico". Loro davvero se ne stanno zitti e buoni. Nessun proclama, nessuna polemica costruita ad arte. Con il brano che ha vinto il Festival di Sanremo stasera i Maneskin si giocano anche l'Eurovision Song Contest all'Ahoy Arena di Rotterdam (diretta su Rai1 dalle 20,40 con il commento della strana coppia Gabriele Corsi e Cristiano Malgioglio). «L'effetto più bello è che finalmente suoniamo davanti a un pubblico vero, 3500 persone in presenza, praticamente una rinascita dopo tanto tempo», spiegano loro davanti a un piccolo schermo proprio a Rotterdam. Sono Ethan il batterista, Thomas il chitarrista, Victoria la bassista e Damiano il cantante. Insieme hanno un look da rockettari anni Settanta ma sembrano freschissimi, se non altro per differenza: non assomigliano a nessuno dei concorrenti e, a dirla tutta, sono anche distanti dal look dell'oceano di trapper che galleggiano nel mainstream. Riconoscibili, ecco, soprattutto per chi ha poca confidenza con il rock di qualche tempo fa. Arriveranno sul palco non da favoriti (porta sfortuna) ma sicuramente da osservati speciali, visto il successo che il brano Zitti e buoni sta raccogliendo in mezzo mondo. Tanto per capirci, non è soltanto il più ascoltato in Italia su Spotify tra marzo e maggio, ma è anche globalmente il più ascoltato tra i pezzi in gara. Oltretutto è in testa, sempre su Spotify, negli Emirati Arabi, in Austria e in Ungheria. «Ma a noi piace molto il ruolo in cui ci troviamo qui». E qual è, Damiano? «Siamo di nuovo nella parte di chi si deve far conoscere e prova a mettersi in gioco partendo da zero». Però, nel frattempo, persino il gigantesco Little Steven della E Street Band di Bruce Springsteen li ha definiti «non male». Praticamente una incoronazione. Nella galassia dell'Eurovision Song Contest (anche se c'è qualcuno che lo chiama ancora Eurofestival...) ruotano 25 mondi di altrettanti artisti distinti e distanti, talvolta folcloristici ma talvolta obiettivamente forti, come gli Hooverphonic, la band rinata dopo i successi di inizio Duemila che rappresenta il Belgio: «Noi tifiamo per loro», dicono non a caso i quattro Maneskin che non si sbilanciano troppo nel giudicare i look o le canzoni degli altri concorrenti: «Ci sta che qualcuno esageri o si presenti in modo troppo appariscente, però talvolta i costumi che possono sembrare eccentrici rispecchiano la cultura del Paese dal quale arriva l'artista». Una risposta perfettamente diplomatica che contrasta con l'irruenza del loro brano e la botta di energia che deriva da ogni loro apparizione. Una miscela calibrata che per forza ha colpito anche la stampa straniera, perché di altri Maneskin in giro se ne vedono pochi: «In effetti il feedback è molto positivo sia nel corso delle interviste che abbiamo fatto qui in presenza che in quelle via streaming», dice Damiano, a conferma che, dopo l'apparizione nelle classifiche americane, qualcosa si sta muovendo per loro anche nel resto delle classifiche che contano. Mica male per un gruppo che suonava con il cappello sul marciapiede in Via del Corso a Roma («Ci torneremo», dicono) e che proprio in quel periodo hanno scritto il brano che oggi si gioca il tetto d'Europa. Victoria, che è una delle colonne della band, dice che «non abbiamo nessuna strategia per vincere. Nel nostro repertorio ci sono anche brani in inglese, che magari potrebbero essere più comprensibili in un contesto del genere. Ma va benissimo anche Zitti e buoni». Dopotutto, aggiungono tutti gli altri, «qui sentiamo gente che la canta in italiano anche se non sono italiani». I Maneskin sono arrivati all'Eurovision dopo aver accettato di limare alcune volgarità del loro testo. In sostanza, «Vi conviene toccarvi i co...» è diventato «Vi conviene non fare più errori» e «Non sa di che ca... parla» ora è «Non sa di che cosa parla». Lo impone il regolamento ed era inutile fare un braccio di ferro che si sarebbe rivelato soltanto controproducente. Però loro, che hanno le idee chiare nonostante i vent'anni, dicono «siamo contro la censura». E poi entrano nel merito: «Ormai le regole del politicamente corretto sono diventate eccessive. È chiaro che ci sia una netta distinzione tra l'utilizzo di parolacce nelle canzoni e l'inserimento di parole che creano discriminazione tra i generi o tra le persone». È la nuova frontiera del rock: ribellione consapevole. A proposito, e il rock? «È considerato di nicchia solo in Italia ed è una cultura che andrebbe riscoperta. Se i ragazzi ascoltassero questo tipo di musica potrebbero apprezzarlo molto più di quanto sembri ora». Più chiaro di così...

Dagospia il 17 marzo 2021. Dal profilo Facebook di Mario Adinolfi. Pur di partecipare all’Eurofestival i Maneskin hanno accorciato il brano con cui hanno vinto a Sanremo e cancellato tutte le parolacce. Ve la immaginate la risposta di Guccini se gli avessero chiesto di farlo dall’Avvelenata? I Maneskin invece sono stati “zitti e buoni”. Lo dico da tempo, tutta ‘sta rivoluzione “gender fluid” è roba di cartone, basterà alla fine una buona preside e qualche spiccio per abbattere questo brutto castello edificato sulla sabbia a cui loro stessi non tengono. Tengono al successo e al denaro, per quelli sono disponibili a qualsiasi compromesso. Se continueranno a essere conformisti rispetto ai diktat del politically correct, tutta questa cianfrusaglia annoierà presto.

Luca Dondoni per "la Stampa" il 18 marzo 2021. «Siamo ribelli, ma non stupidi». Zitti e buoni, la canzone che ha portato i Maneskin a vincere il Festival di Sanremo, è stata modificata per poter partecipare alla prossima edizione degli Eurovision Song Contest che all'Ahoy Arena di Rotterdam il 18, 20 e 22 maggio. Secondo il regolamento della manifestazione, nei testi delle canzoni in gara non sono ammesse parolacce o improperi con espliciti riferimenti sessuali né tanto meno possono essere portati sul palco discorsi o gesti di natura politica, commerciale o offensiva. «Non ci ha fatto piacere dover cambiare il testo, ma c'è un discorso di buon senso. Non potevamo farci eliminare dall'Eurovision per un paio di parolacce, che non sono nemmeno il fulcro della canzone». E così Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan, poco più di 80 anni in quattro, parteciperanno all'Eurovision Song Contest con una versione di Zitti e Buoni più breve, 3 minuti contro i 3 minuti e 19 secondi, poiché il testo è stato modificato. Cancellata la frase «vi conviene toccarvi i co****ni» sostituita con un più tranquillo «vi conviene non far più errori». Eliminata anche l'esclamazione finale nell'ultimo ritornello «la gente non sa di che ca**o parla» per un più laico: «non sa di che cosa parla». Anche Instagram ha imposto un veto alla foto che vi siete scattati nel camerino durante la finalissima di Sanremo. Uno scatto in cui Damiano si toccava le parti intime in tono provocatorio violando il regolamento di Instagram «in materia di nudi e atti sessuali». «Per la foto censurata di Instagram ci rendiamo conto di aver violato un protocollo e siccome con Instagram ci lavoriamo, non abbiamo avuto problemi quando ci è stato comunicato che quella foto non andava bene». Domani, a 2 anni dal debutto con Il ballo della vita, pubblicate Teatro d'ira - Vol. I e nel progetto ci sono anche due pezzi in inglese: I wanna be your slave e For your love. Come mai? «Pensiamo di poter essere una band capace di andare oltre i confini nazionali - dicono in coro - e vi diamo un'anteprima: abbiamo inciso un pezzo con gli Struts di Luke Spiller, anche se non sappiamo ancora quando uscirà. Luke ci ha proposto di partecipare anche a qualche data del loro tour europeo e ne siamo entusiasti».

Qual è il significato del titolo dell'album Teatro d'Ira e da dove arriva la rabbia?

«Il teatro è una metafora in contrasto con l'ira poiché è lo scenario dove questa prende forma. Non si tratta di una rabbia contro qualcuno in particolare ma di un'energia creativa che si ribella contro gli stereotipi dei quali spesso siamo stati vittime anche noi. Il teatro è dove lo spettacolo va in scena: il palco di una grande arena, l'Ariston o quell'angolo di Via Condotti a Roma dove abbiamo cominciato a esibirci. Abbiamo catalizzato la nostra rabbia trasformandola in qualcosa di positivo, che porta a cambiare le cose contro gli stereotipi. La nostra rivoluzione. Dedicato a tutti quelli che in passato ci hanno detto: dove pensate di andare? Che fate? Per tutti i limiti che hanno provato a imporci».

I wanna be your slave salta subito all'orecchio così come Coraline.

«I wanna... ha un testo particolarmente colorito - dice Damiano - e molto incentrato sulla sessualità perché è il lato della vita dove ci si dovrebbe esprimere più liberamente, ma vorrei che si riuscisse ad andare oltre la volgarità. Con crudezza si possono raccontare le sfaccettature sessuali degli uomini. E' un modo per dire che una persona può essere entrambe le cose, padrone o schiavo, senza dover per forza scegliere».

Coraline è una storia vera.

«Sì, ma non ne voglio raccontare i particolari. Non è la storia del principe azzurro che salva la principessa, ma la storia - reale - di "appassimento" di questa ragazza, davanti al quale il cavaliere è semplice spettatore inerme».

C'è chi vi accusa di non essere davvero rock.

«Non ci piace che ci venga impedito di fare le cose così come le vogliamo fare. Avere un'identità, portarla nel mercato mainstream e mantenerla, portare un pezzo come Zitti e Buoni a Sanremo: se non è rock questo, cosa dobbiamo fare? Strappare la testa a morsi ai pipistrelli?

Non siamo i Led Zeppelin e lo sappiamo, ma dateci il tempo. Siamo ragazzi che suonano strumenti analogici come la chitarra, la batteria e quando scriviamo facciamo la nostra musica. Nasciamo live, viviamo live e probabilmente moriremo live. Dicono che non siamo rock? Mangiamo, dormiamo e stiamo bene lo stesso».

La rabbia teatrale dei Maneskin. "Siamo rock ma non scemi". La band pubblica il disco "Teatro d'ira" e annuncia il tour. Le parolacce di "Zitti e buoni"? "Tolte per l'Eurovision". Paolo Giordano - Gio, 18/03/2021 - su Il Giornale. Oggi il lato più rock dei Maneskin è che hanno appena vinto il Festival di Sanremo ma non ne parlano mai. Ieri hanno presentato il nuovo disco Teatro d'ira vol. 1 (che esce domani) e lo hanno fatto alla vecchia maniera: prima hanno suonato quattro pezzi, poi hanno risposto alle domande. Erano, beati loro, in un vecchio mulino ad Acquapendente, provincia di Viterbo, dove hanno registrato le nuove canzoni con tutto il «vecchio» armamentario degli studi rock, compresi gli amplificatori Marshall. «Abbiamo intitolato il disco Teatro d'ira perché vogliamo collocare la nostra rabbia in un contesto che la trasformi in positività» ha spiegato Damiano. Missione riuscita: otto brani «scheletrici», ossia costruiti solo su voce, basso, chitarra e batteria, testi belli dritti come Lividi sui gomiti o, soprattutto, I wanna be your slave che ha il lato bello di ricordare titoli celebri di Stooges e Ramones, mica di qualche trapper usa e getta. «Parliamo di schiavo e di master in un brano sulla sessualità che ci sembra inutile racchiudere in scompartimenti stagni» dice sempre lui, Damiano che è ambiguo quanto basta per non essere (ancora) messo a fuoco perfettamente. A proposito di testi. Il brano con il quale hanno vinto il Festival, ossia Zitti e buoni, arriverà un po' più accorciato all'Eurovision Song Contest e soprattutto con qualche modifica nel testo. Obiettivo: rimuovere le «parolacce». E così «Vi conviene toccarvi i coglioni» è diventato «Vi conviene non fare più errori», mentre «Non sa di che cazzo parla» a Rotterdam sarà «Non sa di che cosa parla». Uno può pensare: ma come, i Maneskin si dicono rock però accettano senza fiatare di cambiare il testo. In realtà, si sono soltanto adeguati al (comprensibile) regolamento dell'Eurovision. Come spiega Damiano, «di certo non ci ha fatto piacere cambiare il testo, ma è una questione di buon senso: era meglio cancellare una parolaccia, che lascia il tempo che trova, pur di fare una cosa così importante. Siamo ribelli ma non scemi». E il concetto di buon senso torna anche sulla questione Instagram, che ha rimosso una foto nella quale Damiano si tocca le parti intime: «Non era fondamentale, sarebbe stato inutile toglierla e poi ripostarla, anche perché con Instagram un po' ci lavoriamo». In poche parole, al netto di successi e stream (18 milioni solo per Zitti e buoni), l'attitudine dei Maneskin si riassume nelle parole della bassista Maneskin, una con le idee chiare: «Noi facciamo la nostra musica e se non piaciamo a qualcuno, sticaz..». I tifosi di lunga data del rock duro non ci trovano nulla di particolarmente innovativo nei riff dei Maneskin o nella presenza scenica di Damiano, e anche questo è abbastanza rituale. Ma il pregio di questa band, che ha iniziato a suonare con il piattino davanti in Via del Corso a Roma e poi è sbocciata a X Factor, è di portare l'eco di certi suoni ai loro coetanei ventenni che faticano a riconoscere persino i Led Zeppelin, figurarsi gli altri caposcuola del rock duro. «Beh, senz'altro non siamo i Led Zeppelin, ma dateci tempo», dicono con scherzoso ottimismo. Damiano riassume tutto citando Ozzy Osbourne senza nominarlo: «Per essere rock devo per forza strappare la testa a un pipistrello?». Per carità. Intanto hanno un tour nei palasport bell'e pronto (prima data esaurita il 14 dicembre a Roma) e un concerto all'Arena di Verona il 23 aprile. Ed è pronto un brano registrato con gli inglesi The Struts, che hanno pubblicato da poco Strange days con Robbie Williams. Come dopofestival, diciamola tutta, non è poi così male.

Eurovision, Manuel Agnelli e i "suoi" Maneskin: "Sono rock, non quattro bambolotti". Ernesto Assante su La Repubblica il 23 maggio 2021. Il musicista era stato il coach della band, e l'aveva lanciata, nell'edizione 2017 di 'X Factor'. "La loro vittoria è una grande occasione per tutta la musica italiana". Manuel Agnelli è uno dei “pontefici” del rock italiano, per la sua storia personale, per la grande avventura degli Aftehours, per le canzoni che ha scritto e canta. E anche per avere "scoperto" e portato al successo a X Factor i Maneskin, secondi nel 2017, e aver sorpreso tutti, nell'ultima stagione del talent, con i Little Pieces of Marmelade, altrettanto elettrici e rock.

David Puente per open.online il 23 maggio 2021. I Maneskin dovevano ancora essere proclamati vincitori dell’edizione 2021 dell’Eurovision Song Contest, nel frattempo sui social era partita l’accusa nei confronti del cantante Damiano David: «Please tell me someone else spotted Italy having a line of coke on national television» scrive su Twitter l’utente @catjxx1 pubblicando un video dove si insinua che stesse «pippando cocaina». Non è l’unica ripresa che circola online e non solo su Twitter, segno che l’accusa diventa virale tanto da venire intercettata da un giornalista svedese intervenuto durante la conferenza stampa. Per chi ha fretta. Damiano china il capo tenendo entrambe le mani a pugno, agitandole entrambe. Il gesto risulta quello di un’esultanza piuttosto che di una “pippata”. Il volto di Damiano, così come il suo naso, risulta troppo distante dal tavolo perché potesse arrivarci. Inoltre, nel chinarsi rimane fermo nella stessa posizione per circa un secondo per poi rialzarsi. Damiano, nel rispondere al giornalista svedese che lo aveva informato del video e delle accuse che circolano sui social contro di lui, smentisce categoricamente rispondendo con un chiaro «I don’t use drugs, please». Il cantante ricollega l’episodio a un bicchiere rotto dal chitarrista Thomas Raggi, che conferma immediatamente, anche se la scena non risulta visibile nei video che circolano online. Qualcuno potrebbe affermare che nessuno sano di mente direbbe «Si! Mi stavo tranquillamente pippando una striscia di cocaina di fronte a milioni di persone da tutte le parti del mondo!», sostenendo che la risposta di Damiano fosse del tutto logica per difendere la sua immagine. Ad alimentare le accuse è una macchia bianca presente nel tavolo dei Maneskin davanti al chitarrista Thomas, visibile ed evidenziato nel tweet dell’utente @noemi_enne, ma è molto probabile che si trattasse di un pezzo di carta o di un fazzoletto. Osservando bene il video, Damiano aveva entrambe le mani chiuse a pugno e lontane dal tavolo, agitandole proprio mentre chinava il capo verso il basso. Un semplice festeggiamento piuttosto che una “pippata”, soprattutto grazie a un ulteriore particolare. Anche volendo, risulterebbe alquanto strano che Damiano riuscisse a toccare il tavolo anche solo per leccarlo con la lingua. Gli utenti, infatti, non hanno considerato la distanza tra il suo viso e il tavolo stesso. Nel video notiamo che Thomas porta la sua mano sinistra davanti a lui per poi sparire sotto il tavolo (immagine sopra), un gesto che ci permette di controllare ulteriormente le distanze tra il mobile e il viso di Damiano. Damiano aveva bisogno di un naso a formichiere per arrivare fino al tavolo. Riportiamo la storia Instagram del gruppo con le dichiarazioni ufficiali e la disponibilità di effettuare i test perché non hanno nulla da nascondere: Conclusione. O Damiano ha un naso come quello di un formichiere, o semplicemente stava festeggiando chinando il capo e agitando le mani chiuse a pugno. La risposta risulta essere la seconda.

EUROVISION: «I MÅNESKIN SNIFFANO COCAINA», LA FRANCIA CHIEDE LA SQUALIFICA. PARIS MATCH E LA PRESUNTA SNIFFATA DI DAMIANO DEI MANESKIN. Stefano Montefiori per corriere.it il 23 maggio 2021. La vittoria degli italiani Måneskin e la sconfitta della francese Barbara Pravi fa intervenire persino il Quai d’Orsay: «È la commissione di deontologia che deve risolvere la questione — dice il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian —. Se c’è bisogno di sottoporsi ai test, faranno i test». La presa di posizione del capo della diplomazia francese può apparire un po’ sproporzionata, e fa capire quanto la serata di Rotterdam non sia andata giù a tanti francesi. La Francia c’ha creduto fino all’ultimo, «Voilà» di Barbara Pravi sembrava la canzone perfetta per vincere e tutto era pronto per i festeggiamenti, anche il documentario sulla nuova Piaf che è andato in onda comunque: dopo l’annuncio della vittoria dei Måneskin il collegamento con Rotterdam è stato chiuso e il canale pubblico France 2 ha mandato subito in onda la storia della seconda classificata. Poco prima dell’una del mattino il presidente Emmanuel Macron ha scritto un messaggio su Twitter: «Grazie a Barbara Pravi per avere realizzato questo sogno folle. Il sogno folle di una ragazza dagli occhi neri. Il sogno folle di fare brillare la Francia all’Eurovision. Stasera, è anche il sogno folle di potere di nuovo vibrare insieme, da europei». Solo che, lontano dalla tv, la serata era appena cominciata. L’immagine del cantante dei Måneskin che avvicina il volto al tavolino viene diffusa un po’ per scherzo su Twitter, e ritwittata immediatamente soprattutto da utenti francesi. Sulle prime scherzando, poi «Paris Match» prende sul serio la teoria (una bufala) della sniffata di cocaina in diretta e diffonde la notizia che gli organizzatori stanno valutando una squalifica per i Måneskin, nel qual caso la vittoria andrebbe alla candidata francese. A quel punto lo scherzo diventa meno simpatico, in conferenza stampa Damiano dei Måneskin deve smentire di avere preso la droga, «non è vero, per favore, non ditelo». Solo che ormai molti account francesi sono scatenati, e molti chiedono un test antidroga. Nell’epoca delle più grandi suscettibilità, a nessuno viene in mente che accusare qualcuno di essersi drogato in diretta può essere spiacevole. Lo stereotipo «sex & drugs & rock’n’roll» è irresistibile, e avrebbe il merito di ridare alla Francia una vittoria che sembrava acquisita. In compenso viene invertito l’onere della prova: gli accusatori non ci pensano neppure a dimostrare la colpa della persona in questione, è l’accusato che improvvisamente è chiamato a discolparsi e infatti Damiano si offre di fare il test per fugare ogni dubbio. L’Eurovision è un gioco, certo, e lo spettacolo si nutre anche del clima da Giochi senza frontiere, le rivalità nazionali fanno parte del divertimento, ci mancherebbe, ed è ovvio che gli italiani siano doppiamente contenti: perché hanno vinto, e perché hanno vinto battendo i cugini francesi. Però lo scorno di tanti francesi per il secondo posto sembra un po’ eccessivo, come lo sono i tweet infervorati della star Cyril Hanouna, il più celebre, pagato e seguito animatore della tv francese, protagonista qualche settimana fa di una copertina sul magazine di «Le Monde». Hanouna è una potenza anche perché possiede una cosa che tutti i politici gli invidiano, ovvero la capacità di entrare in contatto con i francesi comuni, una specie di tribuno popolare giudicato talvolta eccessivo, ma comunque un personaggio chiave per comprendere gli umori della Francia. Cyril Hanouna frequenta l’Eliseo, si scambia sms con il presidente Macron ed è amico della première dame Brigitte, e non esita a fare valere questo rapporto privilegiato anche nella vicenda Måneskin. Tweet notturno: «Se fosse confermato che il candidato italiano ha commesso questo gesto (la pista di cocaina, ndr), ci vuole davvero una squalifica. Attendiamo le conclusioni dell’inchiesta! Ma se è vero, squalifica! Se è così stanno le cose la Francia deve vincere! Faccio appello alla tv francese, a Eurovision e Emmanuel Macron». Per essere un gioco, è andato un po’ troppo avanti. Come dice Macron, «è stato bello vibrare insieme, da europei», ma sarebbe stato anche bello, per qualche suo connazionale, mostrare di saper perdere.

Maneskin, arriva la nota ufficiale sul caso-droga all'Eurovision: cosa succede adesso. Da liberoquotidiano.it il 23 maggio 2021. La vittoria dei Maneskin all’Eurovision è stata molto discussa per via dell’accusa – lanciata   dalla rivista francese Paris Match Magazine – secondo cui il frontman della band Damiano David avrebbe sniffato cocaina in diretta. Una notizia che il gruppo ha subito smentito in conferenza stampa dopo l’evento. Adesso si è pronunciata l’organizzazione della kermesse. Lo European Broadcasting Union, in particolare, ha diramato un comunicato nel quale si legge: “Siamo consapevoli delle voci che riguardano il video dei vincitori italiani dell’Eurovision Song Contest nella Green Room di ieri sera. La band ha fortemente smentito le accuse di consumo di droga e il cantante in questione farà un test antidroga volontario dopo l’arrivo a casa. Lo hanno chiesto loro stessi ieri sera ma non siamo riusciti ad organizzarlo”. E ancora: “La band, il loro management e il capo della delegazione ci hanno informato che non erano presenti droghe nella Green Room e hanno spiegato che si era rotto un bicchiere al loro tavolo e che il cantante stava pulendo. L’EBU può confermare che il vetro rotto è stato trovato dopo un controllo in loco. Stiamo ancora esaminando attentamente i filmati e aggiorneremo con ulteriori informazioni a tempo debito”. Sui social si continua a parlare tanto della questione. Molti utenti italiani si sono scagliati contro i francesi che hanno messo in giro questa voce. Anche diversi vip si sono espressi sulla vicenda. Alessia Marcuzzi, per esempio, ha consigliato ai Maneskin di andare per vie legali e di far pagare care le subdole dichiarazioni rivolte al gruppo.

Da liberoquotidiano.it il 23 maggio 2021. "Ma che meraviglia". Cristiano Malgioglio rimane in mutande in diretta per celebrare la vittoria dei Maneskin all'Eurovision Song Contest e Carolina Di Domenico, su Rai1, non può che commentare impotente lo spogliarello imprevisto e imprevedibile, sperando che l'esuberante cantautore pugliese non arrivi fino in fondo. Gabriele Corsi e Malgy, d'altronde, l'avevano promesso. I due conduttori hanno commentato la serata di Rotterdam in diretta su Rai1, registrando prima con una punta di amarezza il "tradimento" di Paesi amici come San Marino e Albania, che non hanno premiato nel televoto la rockband romana di Zitti e buoni ("Incidente diplomatico", preannunciano), quindi hanno esultato quando la Slovenia a sorpresa ha votato in massa per Damiano David e soci. La classifica vedeva l'Italia dietro i cantanti di Francia e Svizzera, prima che il pronunciamento della giuria popolare europea rovesciasse l'esito del confronto. "Se vincono i Maneskin ci spogliamo", avevano giurato i due. E hanno mantenuto la parola, sbottonandosi a tempo di record i pantaloni con l'autore di Gelato al cioccolato, che sotto ha sfoggiato un paio di boxer tricolori, indossati evidentemente con scarso senso della scaramanzia. E sui social, ovviamente il tripudio per i Maneskin si è trasformato in ovazione per chi ne ha cantato (in deshabillé) le gesta, nonostante immaginiamo la comprensibile apprensione ai piani alti di viale Mazzini. Un "momento iconico" che ha fatto dimenticare anche le critiche ricevute da Corsi, che in un eccesso filologico pronunciava Maneskin "Moneskin", seguendo le regole della lingua norvegese. Ma al componente del Trio Medusa, sabato sera, si è perdonato anche l'essere un po' tropppo pedante.

Che tempo che fa, "Mi fa orrore": Maneskin ospiti dopo il caso-droga all'Eurovision. Fabio Fazio incredulo. Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. “La polemica su di voi mi fa orrore, voglio esprimervi tutto il mio affetto”: Fabio Fazio si è rivolto così ai Maneskin, suoi ospiti a Che tempo che fa su Rai 3, in merito alla voce secondo cui il frontman Damiano avrebbe sniffato cocaina poco prima della premiazione all’Eurovision.  "Quello che hanno detto su di voi è una stupidaggine – ha continuato il conduttore, sostenuto anche da Luciana Littizzetto -. A parte il fatto che vuol dire che non li conoscono”. Poi Fazio ha spiegato la dinamica: “Damiano si è chinato per togliere i cocci di un bicchiere che si era rotto. Chi di voi l’ha rotto?”. “Thomas, è quello maldestro del gruppo”, hanno risposto i Maneskin. Il conduttore, incredulo, ha proseguito: “Ci sono le fotografie del bicchiere rotto per terra e qualche genio ha pensato che in eurovisione Damiano potesse sniffare. Cose da pazzi”. E infine una sorta di pacca sulla spalla per i giovani artisti: “Non prendetevela, sarà una cosa che racconterete a Che tempo che fa tra 40 anni, quando verrete ospiti”. Parlando della vittoria, invece, il frontman ha rivelato: "Mio padre si è arrabbiato perché ha detto che l'ho fatto piangere per la seconda volta in due mesi".

Maneskin, Matteo Salvini e il post social: "Vergogna". Cosa non torna, l'indecente complotto sinistro. Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. Dalla vergogna francese contro i Maneskin alla vergogna italiana contro Matteo Salvini, il passo è brevissimo. La rockband romana vince a sorpresa l'Eurovision Song Contest con quella Zitti e buoni che aveva già messo a ferro e fuoco il Festival di Sanremo lo scorso marzo, sbaragliando la concorrenza all'Ariston. I francesi, arrivati secondi, non la prendono bene visto che il trionfo arriva con la giuria popolare che ribalta l'esito del televoto. Così, forse per vendetta forse solo per "rosicamento", sui social diventa virale un post in cui il frontman Damiano David è ritratto a capo chino sul tavolino, accusato di "sniffare cocaina", Monta lo scandalo, migliaia di transalpini chiedono la squalifica del gruppo italiano. Tutto falso, lo si scoprirà più tardi. Più o meno contemporaneamente, inizia a girare sui social anche lo screenshot di un post di Salvini, in cui il leader della Lega prende posizione proprio contro i Maneskin, condividendo la foto incriminata della presunta "pippata": "Fare uso di droghe in diretta davanti milioni di bambini? è questo il messaggio che questi signori applauditi dalla sinistra vorrebbero trasmetterci? Robe da matti! Io dico VERGOGNA!". Qualcosa non torna, anche perché tutto si può dire dei disimpegnatissimi Maneskin tranne di essere un gruppo "di sinistra". E così si mettono al lavoro i cacciatori di fake news di Bufale.net. Dopo aver accertato che Damiano non stesse facendo uso di droga, ma semplicemente sgombrando il terreno dai cocci di vetro di un bicchiere rotto dal compagno di band Thomas (versione confermata dallo stesso cantante in una surreale conferenza stampa), gli esperti precisano che anche il presunto post di Salvini è una bufala, appunto. Fatta per screditare non i Maneskin, però, ma lo stesso Salvini, che finisce nel tritacarne social da diverse ore schierato in modalità "Mondiale di calcio 2006" a favore della band romana. E sì, stavolta, lo zampino di qualche sinistro potrebbe centrare eccome.

Maneskin, Damiano David e la cocaina: "Il naso e il tavolino", ecco la prova. Francesi umiliati a tempo di record. Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. La valanga di fango della Francia contro i Maneskin e Damiano David si trasforma in un velenosissimo boomerang. Tutta "colpa" (o merito) dei social. La rockband romana con Zitti e buoni trionfa all'Eurovision song contest a Rotterdam, regalando all'Italia una vittoria che mancava da 31 anni, quando Toto Cutugno trionfò con Insieme 1992. Il risultato è frutto di un sorprendente ribaltone: la giuria popolare europea sovverte il televoto, che vedeva Francia e Svizzera in vantaggio, E i francesi, come da tradizione, non la prendono benissimo. Di più: si arriva alla diffamazione a rischio di querela. Su Twitter, Facebook e Instagram migliaia di telespettatori transalpini iniziano a far girare un video in cui Damiano, frontman della band, si china sul tavolino con il capo abbassato. "Sta sniffando cocaina", assicurano. E arrivano a chiedere la squalifica degli italiani, che darebbe dunque la vittoria alla francese Barbara Pravi. Tutto molto facile, troppo bello. E pure troppo falso. "Non uso droga, a Thomas si era rotto un bicchiere", ha spiegato Damiano quando in conferenza stampa post-vittoria gli hanno riportato la diceria sulla cocaina. I fan italiani iniziano a far girare gli screenshot del luogo del delitto, per rispondere alle accuse dei francesi. Tutto vero, sul pavimento si notano i cocci di vetro di un bicchiere frantumato e la spiegazione di Damiano torna. Anche David Puente, indagatore di bufale per conto di Open, il sito fondato da Enrico Mentana, si prende la briga di verificare con tanto di "perizia millimetrica" per smentire la fake news diventata, come spesso purtroppo capita, virale a tempo di record nel giro di pochi minuti. "Damiano china il capo tenendo entrambe le mani a pugno, agitandole entrambe. Il gesto risulta quello di un’esultanza piuttosto che di una 'pippata'", spiega Puente sottolineando poi che la distanza del naso del frontman dal tavolino è troppo grande. "E nel chinarsi rimane fermo", come se stesse in realtà cercando di raccogliere (o spostare) qualcosa vicino ai suoi piedi. Cari complottisti francesi, stavolta la squalifica è per voi.

"I Maneskin sniffano cocaina". L'accusa choc della Francia. Francesca Galici il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Polemica all'Eurovision sui Maneskin: la Francia ha accusato Damiano di aver sniffato cocaina nella green room. Loro vincono e poi chiariscono. I Maneskin vincono l'Eurofestival: dopo oltre trent'anni una canzone italiana è salita sul gradino più alto del podio della competizione musicale europea. Un traguardo raggiunto grazie alle voci e alla grinta straordinaria di quattro ragazzi romani poco più che ventenni che nel corso della finale hanno dovuto subire l'accusa della Francia di essere drogati. Tutto nasce da un video girato in green room durante la diretta, che ha scatenato le polemiche in rete riportate poi da una giornalista del Paris Match. Netta e piccata la replica dei Maneskin, prima in conferenza stampa e poi sui social. "Grande tensione a #Eurovision con l'immagine della striscia di cocaina di un componente della squadra italiana... Gli organizzatori stanno discutendo sul da farsi ", ha scritto Mariana Grépinet. Durante la diretta, infatti, alcuni utenti hanno sostenuto di aver visto Damiano sniffare una striscia di cocaina in green room. Una circostanza ovviamente fraintesa dal pubblico a casa, che per qualche attimo ha messo in discussione la permanenza dei Maneskin all'Eurofestival. I giovanissimi italiani sono partiti come favoriti anche se il voto delle giurie nazionali, come facilmente immaginabile da chi segue l'Eurovision da tempo, non li ha premiati. È stato il televoto a portare i Maneskin sul tetto d'Europa, pur con la polemica. In conferenza stampa, Damiano si è immediatamente difeso dall'accusa di aver sniffato droga e ha spiegato le dinamiche di quel video. "Non era cocaina, ragazzi! Non uso droghe!", ha detto stizzito Damiano davanti ai giornalisti. "Non ne faccio uso, per favore non ditelo. Non faccio uso di cocaina", ha proseguito Damiano spiegando cosa davvero è successo nella green room dell'arena di Rotterdam. Il frontman dei Maneskin, quindi, ha raccontato che Thomas ha rotto un bicchiere e lui ha abbassato la testa per capire cosa fosse successo. Un gesto fatto automaticamente che, però, davanti alle telecamere ha dato adito a pettegolezzi e polemiche strumentali da parte della nazione che ci ha conteso il podio fino quasi alla fine. Al termine della conferenza, dal loro profilo social i Maneskin hanno commentato: "Siamo davvero sotto choc in merito a quanto le persone stanno dicendo su Damiano che fa uso di droghe. Siamo veramente contro le droghe e non abbiamo mai usato cocaina. Siamo pronti a effettuare il test, perché non abbiamo nulla da nascondere. Siamo qui per suonare la nostra musica e siamo molto felici per la nostra vittoria all'Eurovision. Vogliamo ringraziare tutti quelli che ci hanno sostenuto. Il rock'n roll non morirà mai. Vi amiamo".

"Test anti-droga per Damiano". Ma gli organizzatori continuano a indagare. Francesca Galici il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Dopo l'accusa della Francia ai Maneskin, l'Eurofestival rilascia un comunicato dichiarando che si stanno ancora effettuando controlli sui filmati. Possibile che la cantonata, volendo usare un eufemismo, presa dai francesi sui Maneskin tenga banco a quasi 24 ore dalla proclamazione dei vincitori? Purtroppo sì. Il brevissimo video di Damiano David nella green room dell'arena di Rotterdam, dove il frontman della band italiana è inchinato sul tavolo con i pugni chiusi, ha dato adito a interpretazioni fantasiose da parte dei transalpini, pronti a puntare il dito contro il cantante per accusarlo di aver sniffato cocaina in mondovisione. Se non fosse un'accusa così infamante per un giovanissimo artista ci sarebbe anche da ridere. A cavalcare la polemica sono stati i giornalisti francesi, gli influencer e altri personaggi a cui evidentemente non è andato già che la nuova Edith Piaff portata all'Eurofestival dalla Francia si sia dovuta accontentare del secondo posto, letteralmente spazzata via dalla grinta dei Maneskin. Avremmo potuto derubricare il tutto con un sorriso e qualche sfottò ai francesi ma addirittura l'organizzazione dell'Eurofestival si è sentita in dovere di rilasciare un comunicato stampa sulla vicenda. "Siamo a conoscenza delle speculazioni che circondano il videoclip dei vincitori italiani dell'Eurovision Song Contest nella Green Room ieri sera. La band ha fortemente smentito le accuse di uso di droghe e il cantante in questione farà un test volontario sulla droga dopo essere arrivato a casa. Ciò è stato richiesto da loro ieri sera, ma non ha potuto essere immediatamente organizzato dall'UER", si legge sul sito ufficiale dell'Eurofestival. Addirittura avrebbero voluto che Damiano si sottoponesse al test in conferenza stampa? Evidentemente sì ma non stupisce, visto che c'è stato anche chi ha richiesto l'intervento di Emmanuel Macron per bloccare la partecipazione dei Maneskin. Ma andiamo oltre. Il comunicato dell'Eurofestival prosegue: "La band, la loro direzione e il capo delegazione ci hanno informato che nella Green Room non c'erano droghe e ci hanno spiegato che un bicchiere era rotto al loro tavolo ed era stato sgomberato dal cantante. L'UER può confermare che il vetro rotto è stato trovato dopo un controllo in loco. Stiamo ancora esaminando attentamente i filmati e ci aggiorneremo con ulteriori informazioni a tempo debito". Quindi ci sono ancora persone che stanno analizzando i fotogrammi di un video già di per sé chiarissimo per capire se davvero un ragazzo abbia completamente perso la ragione per sniffare nella green room di un programma in mondovisione? Ok. Saranno pure "fuori di testa" questi giovani romani, ma a tutto c'è un limite. Sulla vicenda è intervenuto anche il ministro degli Esteri francese, che ha dichiarato: "Penso che l'Eurovision abbia la responsabilità di onorare questa competizione e se c'è bisogno di fare dei test, lo faranno. Spetta al comitato etico di Eurovision verificare se c'è un problema. Non voglio farmi coinvolgere in questa giuria, non è di mia competenza". Capiamo il bruciore di una sconfitta europea ma a un certo punto è anche bene imparare ad accettare le sconfitte. Così come il 9 luglio 2006 il cielo era "azzurro sopra Berlino" allo stesso modo il 2 maggio 2021 il cielo era azzurro sopra Rotterdam. Suvvia amici francesi, "zitti e buoni" e almeno per una volta imparate a gioire per i successi di noi italiani. Senza troppe scuse.

Le alleanze politiche per far perdere i Maneskin. Francesca Galici il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Senza il televoto i Maneskin avrebbero chiuso al quarto posto, azzoppati dallo scambio di douze points che da sempre penalizza l'Italia. Se fosse stato per le giurie dei singoli Stati, l'Italia dei Maneskin avrebbe dovuto chiudere l'Eurofestival al 4 posto. Prima la Svizzera, seconda la Francia, terza Malta. L'attribuzione degli agognati 12 punti da parte delle giurie è ogni anno motivo di discussione, perché in molti casi è lo specchio delle alleanze geopolitiche ed economiche tra i Paesi. E in queste alleanze l'Italia gioca sempre un ruolo marginale, tanto che raramente ottiene (e dà) il massimo dei voti dai grandi Paesi europei. Anche quest'anno San Marino non ha fatto completamente sponda al nostro Paese, così come non l'hanno fatto l'Albania e Malta, solitamente "amici" all'Eurofestival. Ma poteva andarci peggio.

I voti all'Italia. Su 38 Paesi (39 in gara ma non ci si può autovotare), l'Italia ha ricevuto voti da 28 giurie. Quattro Paesi hanno attribuito ai Maneskin il massimo del punteggio, ossia i tanto ambiti douze points, ossia i 12 punti: Slovenia, Ucraina, Croazia e Georgia. Infatti sui social sono piovute espressioni di giubilio e promesse di vacanze da parte degli italiani anche a Tblisi e Kiev, oltre che a Lubiana e a Zagabria, due città già molto amate dai nostri connazionali. 10 punti, invece, sono arrivati da Svezia, Russia, Lituania, Bulgaria, Macedonia del Nord e San Marino. Lettonia, Cipro e Svizzera hanno assegnato 8 punti ai Maneskin, mentre l'Islanda ha dato 7. L'Italia dei Maneskin ha ricevuto 6 punti da parte di Austria, Germania, Australia, Finlandia e Repubblica Ceca e 5 punti dalla Polonia e dalla Norvegia. Albania e Grecia hanno dato 4 punti ai Maneskin, Estonia, Portogallo e Romania ne hanno assegnati 3. Il Belgio ha dato 2 punti. Mentre nessuna giuria ha dato 1 punto ai Maneskin, ben 10 Paesi hanno escluso la band romana dalle loro classifiche, assegnando 0 punti. Tra questi la Francia, il Regno Unito, la Spagna, Malta e la Danimarca.

I douze points e il caso Uk. La reciprocità dei douze points è una componente importantissima nelle dinamiche dell'Eurofestival e infatti non stupisce, per esempio, che la Spagna, la Germania, la Svizzera e il Regno Unito abbiano dato i loro 12 punti alla Francia che, invece, ha dato i suoi 12 punti alla Grecia. Anche San Marino ha dato il massimo del punteggio alla Francia, il che ha spinto molti utenti sui social a invitare la piccola enclave nella penisola italica a trasferirsi Oltralpe. Curioso anche il caso dei Paesi del nord Europa, che hanno votato quasi compatti con il massimo dei voti per la Svizzera. Infatti, Finlandia, Islanda, Danimarca, Lettonia, Estonia hanno dato i 12 punti al Paese elvetico. Non stupisce lo scambio di douze points tra Grecia e Cipro. Clamorosamente al palo il Regno Unito. È la prima volta da quando è stato istituito il nuovo punteggo (2016) che un Paese non prende nemmeno un punto né dalla giuria e nemmeno dal televoto.

I francesi rosicano per i Maneskin: "Italia Paese di drogati". Serena Pizzi il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. La Francia accusa l'Italia e i Maneskin di fare uso di cocaina. Scoppia la polemica e l'odio social. I nostri "cugini" d'oltralpe non sono per niente sportivi. I Maneskin hanno schiacciato tutti. Sono andati oltre ogni aspettativa (degli altri) ma non nostra. L'Italia ci ha sempre creduto, fin da quando si sono esibiti sul palco di Sanremo - dove si sono portati a casa il leoncino d'oro - e hanno infiammato il palco dell'Ariston. A Rotterdam hanno fatto ancora meglio: hanno vinto l'Eurovision Song Contest con 524 punti (318 del pubblico e il resto delle giurie competenti degli altri Paesi) e la loro canzone è la più ascoltata in Europa. Grazie a loro, il premio è tornato in Italia dopo 31 anni. "Il rock non muore mai", ha urlato Damiano - il cantante della band - non appena sono stati proclamati vincitori. Tanta emozione, pianti, abbracci e festeggiamenti. Ma in un clima di festa generale - dove le favorite erano Francia (499 punti) e Svizzera (432) - non sono mancate le polemiche. Sterili polemiche. Anche malefiche, aggiungerei. Da parte di chi? Di quelli che dovrebbero essere i nostri "cugini" d'oltralpe: i francesi. Il motivo? Subito dopo l'annuncio dei vincitori, i siti di informazione francesi, giornalisti, influencer e più in generale i social sono stati bombardati da 10 secondi di frame di un video nel quale si vede la band italiana. Nella clip i quattro artisti stanno guardando in punti diversi, ma ad un certo punto Damiano abbassa la testa e poi la rialza. Cosa sarà mai successo? "Thomas ha rotto un bicchiere, mi sono abbassato per vedere", ha spiegato in conferenza stampa il cantante dei Maneskin. Ma per la Francia la storia è un'altra: Damiano ha sniffato cocaina. Anzi, lo diciamo esattamente con le parole della giornalista del Paris Match: "Grande tensione all'Eurovision con l'immagine della coca di un membro della squadra italiana. Gli organizzatori stanno discutendo sul da farsi". E subito altri la seguono a ruota: "Il vincitore prende tutto. E così fa con la cocaina? Cosa contiene la busta strappata che tira fuori con la mano sinistra sotto il tavolo, scuote, si punge il naso, prima di essere chiamato sul palco?". "Uh, come si eccita, direi che ha rubato un po' di farina", "C'è la droga, squalifica immediata". Potremmo andare avanti all'infinito. I detrattori, ieri sera, sono usciti dalle gabbie e hanno sfogato tutto il loro odio contro la giovanissima band italiana. Cosa speravano di ottenere? La squalifica dei Maneskin in modo tale da far vincere la sportivissima Francia. Ovviamente, la polemica social è arrivata anche in sala stampa e i cronisti hanno domandato a Damiano se abbia sniffato cocaina. Il cantante - caduto dalle nuvole perché ovviamente non sapeva cosa stesse succedendo nel mondo degli odiatori frustrati - ha subito spiegato che nessuno di loro fa uso di droghe e che sono pronti a sottoporsi al test. Ma era davvero necessaria una polemica del genere? No. Fa rabbrividire che dopo un anno di pandemia dove tutto il mondo è rimasto paralizzato, un evento che dà una minima parvenza di normalità venga macchiato da migliaia di francesi incarogniti solo perché non hanno vinto. Complimenti. Ma non finisce qui. Perché se sui social hanno dato a Damiano dello sniffatore per eccellenza, i siti di informazione hanno rilanciato il tutto dandoci dei drogati seriali ("L'Italia o il Paese del pippare e della cocaina. Quando raccogli un bicchiere rotto con il naso sporco di farina. Oh, che caso"). Il Paris Match scrive: "Va detto che le immagini sono inequivocabili (ah si?!?, ndr) anche se manca la prova formale. [...] Damiano ha aspettato mentre prendeva la cocaina all'angolo di un tavolo. Sulle immagini trasmesse in diretta televisiva e che ora circolano sui social, si vede chiaramente il futuro vincitore inclinare la testa e compiere un movimento molto significativo... senza che nessuna sostanza sia visibile sullo schermo. Il batterista del gruppo Ethan Torchio sembra accorgersi della presenza della telecamera e lo avverte con un gesto del gomito. Troppo tardi per evitare lo scandalo (lo scandalo?, ndr) [...] Coincidenza o no, l'inno rock cantato da Damiano David Zitti e buoni (in francese: 'Taisez-vous et être sages') è proprio una critica al politicamente corretto (quindi? chi è politicamente scorretto si droga di default?, ndr). Il Paris Match (oltre a fare una figuraccia e una pessima informazione) se la canta e se la suona da solo. Una giornalista di Europa1 commenta divertita: "Così ha sniffato il vetro". Wow, che professionalità. Mentre un conduttore arriva addirittura ad appellarsi a Macron per la squalifica della band. Abbiamo toccato il fondo, è ufficiale. Così Francia e Italia hanno trascorso la notte al fronte. Ogni secondo partiva un colpo mortale. I francesi hanno passato le ore dandoci dei cocainomani e gli italiani si sono incazzati come delle iene (in giro ci sono diverse risposte degne di nota, altre fin troppo volgari. Però, a volte, non bisogna abbassarsi a certi livelli, cari italiani. Lasciateli crogiolare nel loro brodo di invidia). Raccontati i fatti, spiegato l'accaduto dai diretti interessati, guardati e riguardati i video, mi viene spontaneo pormi una domanda. Ma i francesi credono davvero che Damiano sia riuscito a portare (di nascosto) della cocaina davanti a migliaia di telecamere, controlli e telespettatori, quando per potersi esibire sul palco ha dovuto togliere dal brano "coglioni" e "cazzo"? La faccio ancora più breve: i nostri simpatici cugini credono davvero che a Rotterdam non accettino le parolacce cantate ma sponsorizzino la cocaina?

Serena Pizzi. Nasco e cresco a Stradella, un piccolo paese che mi ha insegnato a stare al mondo. Milano, invece, mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno più grande: fare la giornalista. Amo conoscere, osservare e domandare. Mi perdo nei dettagli delle cose e delle persone. Del resto sono i dettagli a fare la differenza, no? Vivo in simbiosi con i miei

Tutte le rosicate dei francesi. Simone Savoia il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Il caso dei Maneskin e della bufala sulla cocaina è solo l'ultimo di una serie di casi in cui i francesi, sconfitti dagli italiani, hanno rosicato. E non poco. Rotterdam, 22 maggio 2021, Eurovision Contest Song, classifica finale: primi i Måneskin con 524 punti, seconda la francese Barbara Pravi con 499 punti e terzo il franco svizzero Gjon’s Tears con 432 punti. il quartetto rock italiano composto da Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan si porta a casa il trofeo dopo aver bruciato sul traguardo tutti i concorrenti della gara canora internazionale grazie al voto del pubblico. I Måneskin erano quarti dopo il voto della giuria tecnica; ma il pubblico (per regolamento non quello italiano) li ha fatti volare in testa con una pioggia di voti, che hanno fruttato ben 318 punti. “Zitti e buoni”, come recita il titolo della canzone vincitrice, e tanti saluti a tutti. Nemmeno il tempo di spegnere le luci e i rumori della festa ed ecco che spunta un video estrapolato dalla diretta della serata. Si vedono i Måneskin seduti a un tavolino dopo la loro esibizione sul palco e prima della dichiarazione dei voti; a un tratto il frontman Damiano David si china sul tavolino e si rialza quasi subito. Secondo alcuni si tratterebbe di una clamorosa “pippata” di cocaina in eurovisione. E indovinate chi chiede subito a gran voce la squalifica della band romana? I francesi, ovviamente! Che in questo modo vedrebbero la loro beniamina Barbara Pravi balzare al primo posto con la canzone “Voilà”, un titolo e un programma. Ovviamente non succede nulla, i Måneskin si dicono pronti anche a sottoporsi a un test anti-droga e Damiano David nega di aver mai fatto uso in vita sua di sostanze stupefacenti. Ma qualche media francese entra a gamba tesa con titoli e articoli sugli “italiani popolo di drogati”. Il problema è che, quando un italiano li batte sul campo, i cugini francesi non la prendono mai benissimo. “E i francesi ci rispettano/ che la balle ancora gli girano”, come canta Paolo Conte in ‘Bartali’ del 1979, uno dei suoi pezzi più famosi e iconici. Il cantautore astigiano si riferiva alla vittoria di Gino Bartali al Tour de France del 1948, prima tappa con arrivo in volata a Trouville-sur-Mer in Normandia: il ‘Ginaccio’ nazionale aveva bruciato sul traguardo Guy Lapèbie e Louis Bobet, campioni del ciclismo transalpino dell’epoca. E sarà sempre Bartali ad arrivare in maglia gialla sull’Avenue des Champs-Élysées a Parigi, fine della Grand Boucle. E sempre l’Arco di Trionfo della Ville Lumière farà da cornice a un’altra apoteosi del ciclismo italiano: 2 agosto 1998, Felice Gimondi, direttore sportivo della Mercatone Uno-Bianchi solleva sul podio il braccio al suo ciclista di punta, il Pirata Marco Pantani, trionfatore dell’ottantacinquesima edizione del Tour. 9 luglio 2006, Berlino, Olympiastadion. Finale dei Campionati del mondo di calcio, Italia-Francia. Minuto 10 del secondo tempo supplementare, squadre stremate e ferme sull’1 a 1. I nostri cugini sembrano a tanto così dal piazzare il colpo decisivo e portarsi a casa la Coppa. Ma a un tratto l’arbitro argentino Horacio Helizondo ferma il gioco perché poco distante dall’area azzurra, a palla lontana, il difensore centrale Marco Materazzi si contorce a terra dal dolore con le mani al petto. È stato colpito con una testata dal campionissimo francese Zinedine Zidane, che viene espulso, chiudendo in questo modo la sua straordinaria carriera e condannando i transalpini alla sconfitta ai calci di rigore. Polemiche a non finire sui media francesi sugli “italiani imbroglioni”, rinfocolate poi il 28 novembre 2006 dalla decisione del settimanale francese France Football di conferire il Pallone d’Oro 2006 al difensore Paolo Cannavaro. Apriti cielo! Offesa mortale a Zidane, italiani ladri di coppe e palloni d’oro eccetera, eccetera. 26 marzo 2021, il quotidiano francese ‘Le Monde’ titola così un articolo sul Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi: “Un italiano così europeo…”. I giornalisti transalpini sono preoccupati che l’autorevolezza dell’ex presidente della Banca Centrale Europea possa togliere spazio nei consessi continentali all’allure del presidente francese Emmanuel Macron e alla tradizionale grandeur francese. 2 marzo 2014, Los Angeles. Alla cerimonia per gli Oscar del cinema trionfa ‘La grande bellezza’ del regista napoletano Paolo Sorrentino. Una fotografia strepitosa a immortalare i mille angoli eterni di Roma Capitale. Ed è di nuovo una grande “rosicata” per i nostri cugini. Il quotidiano ‘Le Monde’ titola su una Roma “a rischio bancarotta. Jep Gambardella (il protagonista del film, ndr) perfetto simbolo del declino”. Forse anche perché la famosa statuetta non arriva dalle parti di Parigi dal 1993, anno in cui fu premiato il film “Indochine” di Règis Wargnier. Un digiuno di celluloide lungo 18 anni. 22 novembre 1985, Parigi. Silvio Berlusconi in conferenza stampa risponde alle perplessità di ambienti governativi e mediatici francesi circa l’operazione La Cinq, cioè lo sbarco in Francia della tv commerciale autorizzato dal governo transalpino 48 ore prima. A chi lo accusa di voler creare una ‘télévision Coca-Cola’, cioè estremamente commerciale, il Cavaliere risponde di voler creare invece una ‘télévision beaujolais et champagne le samedi’, cioè una televisione da grandi vini rossi e champagne, bandiere dell’enologia francese. Berlusconi aveva messo il dito nell’orgoglio francese, rimasto spiazzato da un imprenditore italiano che veniva a conquistare l’etere di casa loro. Diventarono pazzi. “Rosicare”, “ronger” diventa un’arte francese specialmente quando i nostri cugini volgono lo sguardo verso il Bel Paese. Ma, suvvia, un po’ di sportività. La grandeur, cari cugini, resta alla Francia! Noi italiani ci accontentiamo di stare “zitti e buoni”…

Simone Savoia. Napoletano, ma anche apollosano caudino, ma anche un pochettino piemontese. Annata 1976. Quotidiani e tv locali a Napoli, poi a Milano. Dal 2008 collaboratore di Videonews Mediaset, con Mattino Cinque e Dritto&Rovescio. Uditore enologico con i degustatori dell'Associazione

Maneskin, Damiano e la cocaina. "Vincere e vinceremo": Delphine Ernotte e l'ipotesi della denuncia francese. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Le grottesche conseguenze del "caso Maneskin" rischiano di travolgere mezza Francia che conta. Ricapitoliamo: la rockband italiana sabato sera vince l'Eurovision Song Contest, grazie alla giuria popolare che ribalta l'esito del televoto, relegando la cantante transalpina Barbara Pravi al secondo posto. I francesi, che si sentivano già il trionfo in tasca, non la prendono bene, e sui social iniziano far diventare virale un video (poi verificatosi una fake news, ancorché equivocabile) in cui Damiano David, cantante dei giovanissimi vincitori, abbassa la testa su un tavolino. "Sta sniffando cocaina", assicura il tweet. Apriti cielo: Damiano e i Maneskin smentiscono per ore e ore ("Mai fatto uso di droghe", "Inaccettabile", ripetono) e addirittura, al ritorno in Italia, il frontman si sottoporrà a un test anti-droga volontario. Il guaio è che a protestare e a chiedere la squalifica dei Maneskin non è solo qualche migliaio di fan invasati sui social. In gioco entrano anche personalità politiche e dello spettacolo francese di primissimo piano. Un incidente diplomatico vero e proprio. "Se fosse confermato che il candidato italiano ha commesso questo gesto, ci vuole davvero una squalifica. Attendiamo le conclusioni dell’inchiesta! Ma se è vero, squalifica! Se è così stanno le cose la Francia deve vincere! Faccio appello alla tv francese, a Eurovision e Emmanuel Macron", ha attaccato sabato notte su Twitter Cyril Hanouna, seguitissimo e molto vicino anche al presidente Macron. Il ministro degli Esteri francese in persona, Jean-Yves Le Drian, tuona: "È la commissione di deontologia che deve risolvere la questione. Se c’è bisogno di sottoporsi ai test, faranno i test". Il quotidiano Paris-Match per primo chiede la squalifica dei Maneskin, e si sparge la voce che la delegazione francese dell'ESC, guidata da France Televisions, sia pronta a denunciare Damiano. Dopo molte ore, scrive Le Parisien, la patron di France Televisions Delphine Ernotte avrebbe però precisato che "non intende sporgere denuncia". Scelta di buon senso che fino a poche ore fa non appariva così scontata. E nonostante le foto diffuse sui social testimoniano come il motivo per cui il cantante italiano si era abbassato sul tavolino non fosse per "pippare", ma per spostare da terra i cocci di un bicchiere di vetro fatto cadere inavvertitamente, anche la grande sconfitta Pravi (forse l'unica autorizzata a essere amareggiata) si era abbandonata ai veleni: "Quello che è vero è che queste sono persone che sono state elette e dal pubblico e dalla giuria. Dopo, se si drogano, se si mettono le mutande sottosopra o qualcosa del genere, non è un mio problema". Se è una riconciliazione, è decisamente goffa. "L'Eurovision - assicura invece Ernotte - è una competizione sana, senza grossi problemi, con molto fair play e amicizia tra le squadre e dobbiamo mantenere quello spirito. Vogliamo vincere, ma saremo felici di andarci il prossimo anno in Italia. E vinceremo". Ci mancavano pure il riferimento al Duce e l'ombra del boicottaggio".

Maneskin, lo zampino di Macron sulla richiesta di squalifica per "cocaina". Tweet nella notte, chi è Cyril Hanouna. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. La macchina del fango contro i Maneskin e Damiano David, accusato di aver "sniffato cocaina" in diretta all'Eurovision Song Contest è partita dalla Francia, delusa per il ribaltone della giuria popolare che ha assegnato la vittoria alla rockband italiana beffando la cantante transalpina Barbara Pravi, in testa dopo il televoto. A Parigi si sentivano il trionfo in tasca e non l'anno presa bene. A scatenare la vergognosa campagna mediatica social contro i Maneskin è però stato soprattutto un uomo di spettacolo, seguitissimo in Francia e molto intimo con il presidente Emmanuel Macron e la moglie Brigitte. Si tratta del comico Cyril Hanouna, che con un tweet notturno ha rilanciato i sospetti su Damiano e ha scritto: "Se fosse confermato che il candidato italiano ha commesso questo gesto, ci vuole davvero una squalifica. Attendiamo le conclusioni dell’inchiesta! Ma se è vero, squalifica! Se è così stanno le cose la Francia deve vincere! Faccio appello alla tv francese, a Eurovision e Emmanuel Macron". Da scherzo e meme social, la questione dunque è diventata diplomatica. A tal punto da indurre il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian a intervenire, in maniera ufficiale: "È la commissione di deontologia che deve risolvere la questione. Se c’è bisogno di sottoporsi ai test, faranno i test". Una entrata a gamba tesa senza precedenti, che ha costretto gli organizzatori a commentare quanto accaduto a Rotterdam sabato sera. "Siamo consapevoli delle voci che riguardano il video dei vincitori italiani dell’Eurovision Song Contest nella Green Room di ieri sera - spiega in una nota la European Broadcasting Union -. La band ha fortemente smentito le accuse di consumo di droga e il cantante in questione farà un test antidroga volontario dopo l’arrivo a casa. Lo hanno chiesto loro stessi ieri sera ma non siamo riusciti ad organizzarlo". Alla faccia del "è solo rock & roll". Quando c'è di mezzo la Francia (sconfitta), tutto può accadere.

I Maneskin sono rock? Sì, come Toto Cutugno…Come un sol uomo, la nazione tutta si stringe intorno a Damiano dei Maleskin, accusato di aver usato cocaina nella Green Room in attesa del risultato finale dell’Eurofestival. I tempi sono cambiati: il rock diventa "pulito". Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 24 maggio 2021. Perché è un bravo ragazzo/e nessuno lo può negar. Come un sol uomo, la nazione tutta si stringe intorno a Damiano dei Maleskin, accusato di aver usato cocaina nella Green Room in attesa del risultato finale dell’Eurofestival. L’Italia chiamò: a parte i fan, pronti a marciare su Rotterdam, Cristiano Malgioglio tira giù le braghe e sfoggia un magnifico paio di boxer tricolori; Alessia Marcuzzi, Fabio Fazio, Amadeus, Selvaggia Lucarelli, Francesco Giorgino, per dirne solo alcuni – insomma, uomini di spettacolo e giornalisti seriosissimi – sono pronti a mettere la mano sul fuoco sull’integrità morale di questi ragazzi. Non poteva mancare la chiesa: don Dino Pirri, prete molto amato dai giovani perché diffonde il Vangelo anche sui social, è lapidario: «I Maneskin non sniffano». E se lo dicono i preti. E poi, c’è il sigillo governativo: l’account twitter ufficiale di Palazzo Chigi si congratula per la vittoria. Sventola il tricolore. Manuel Agnelli che li ha sempre sponsorizzati si spinge in una dichiarazione storica: «Da oggi non ci considereranno più solo pizza e mandolino». D’altronde che siano proprio bravi ragazzi lo avevano già dimostrato – cambiando “le parolacce” di Zitti e buoni, come da regolamento del festival europeo; e ci hanno vinto il premio per il miglior testo, prima di vincere quello generale: così, il verso “Vi conviene toccarvi i co**ioni” è diventato “Vi conviene non fare più errori” mentre “Non sa di che caz*o parla”, si è trasformato in un più pacifico “Non sa di che cosa parla”. I giurati hanno premiato le buone intenzioni. E i francesi che s’incazzano – non dovrebbe stupirci più di tanto, lo fanno sempre quando le prendono da noi. Il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, ha auspicato l’effettuazione di un test antidroga da parte della band. Prima del voto del pubblico, Voilà di Barbara Pravi era alle spalle del brano presentato da Gjon’s Tears per la Svizzera. Al termine delle votazioni (giuria più pubblico) la Francia si è piazzata seconda. Però, gli svizzeri non hanno detto nulla. Paris Match, uno dei settimanali francesi più diffusi, ci va giù d’accetta: «Va detto che le immagini non danno adito a dubbi, anche in mancanza di una prova formale». E i giornali che svolazzano. Il comunicato ufficiale dell’European Broadcasting Union consolida la tesi dei Maneskin: nella Green Room non è successo niente. L’orgoglio italiano si ritrova dopo trentun anni – tanti ne sono passati dalla storica vittoria di Toto Cutugno, 1990, che a sua volta arrivava ventisei anni dopo la storica vittoria di Gigliola Cinquetti, 1964 – in una manifestazione che, per la verità, non è che abbiamo amato mai molto. Dal 1997 al 2011, l’Italia non ha partecipato all’Eurofestival: va detto che all’Eurofestival si entra e si esce con una certa frequenza, quest’anno erano assenti Armenia, Montenegro e Ungheria, che se c’erano chissà come finiva. Nel 1997 dovevano vincere i Jalisse – era quasi dato per certo. E invece arrivarono quarti, dietro la Turchia. Forse per ripicca poi vi rinunciammo – però a viale Mazzini non è che fossero proprio entusiasti dell’idea di poter vincere, che poi sarebbe toccato all’Italia organizzare e sono spese e pensieri, insomma. D’altra parte, già dal 1981 al 1983 la Rai aveva deciso di non partecipare, perché «la manifestazione era di scarso interesse». Mica siamo l’Albania, noi, che lo dà su tutti i canali disponibili. L’Eurofestival è un po’ come Giochi senza frontiere, quel programma voluto dall’Unione europea che andò in onda dal 1965 al 1999, in cui cittadini di questa o quella città europea si sfidavano in giochi bizzarri, elaborazioni complicate di un “rubabandiera” dell’oratorio. Non è stato mai attraversato da polemiche particolari – tranne nel 1969 quando ben quattro nazioni arrivarono ex-aequo e tutte furono proclamate vincitrici e l’Austria si era rifiutata di partecipare perché si teneva nella «Spagna fascista». Neanche la vittoria della drag queen Conchita Wurst nel 2014, creò particolare scandalo. I tempi sono cambiati, signora mia. Ma la droga, no. Così, in uno strano rovesciamento delle cose, il rock diventa “pulito”: niente Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison e la lunga litania di band, dai Beatles ai Rolling, ai Sex Pistols impasticcati, bucati, pippati, ribelli. “Noi siamo contro la droga” – si affrettano a dire i Maneskin, pronti a effettuare un test, se necessario: siamo all’oratorio, no? «Mio papà, dice Damiano, mi ha rimproverato perché ieri l’ho fatto piangere per la seconda volta in un mese» – le due vittorie a filotto: Sanremo e Rotterdam. I figli so’ piezz’ ‘e core – si sa. Comunque, abbiamo vinto qualche cosa. E nei tempi grami del covid, è un sollievo nazionale. L’Italia chiamò.

Toto Cutugno, "sei mesi dopo scoppiò la guerra". Maneskine, cocaina e vergogna francese: una inquietante profezia. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. C'è un filo che lega i Maneskin e Toto Cutugno, ultimo vincitore italiano, 31 anni fa, dell'Eurofestival prima dei ragazzi romani. "Ha vinto un pezzo rock e mi ha fatto molto piacere perché significa che l’Italia può fare tutto", si è complimentato il cantante che oggi ha 77 anni. "Capacità scenica e modo di stare sul palco, sono andati fuori da tutti gli schemi e proprio questa è stata la loro forza", ha commentato. Ai tempi di Cutugno dovevano esserci i Pooh, vincitori a Sanremo 1990, scrive il Corriere della Sera, "ma ci ripensarono. E allora chiesi io di poterci andare da secondo". Allora c'era molta tensione a Zagabria, ricorda Toto, c'era ancora la Jugoslavia: "Nel pomeriggio salii su una mongolfiera contro il parere dei miei discografici. Sbandò e mi vennero a prendere, incavolatissimi". E la sera non portò Gli amori, con cui aveva gareggiato quell’anno, ma scelse un brano Insieme: 1992 dove il cantante raccontava "l’Europa unita prima che si realizzasse". Poco dopo sarebbe scoppiato il conflitto in Jugoslavia. "Quattro ragazzi del coro mi raccontarono dei problemi", prosegue Toto Cutugno, "sei mesi dopo ci fu la guerra e uno di loro è morto. Non posso dimenticarlo". Quella sera però le cose andarono bene: Toto Cutugno infatti riucì a battere, esattamente come adesso, i francesi, rappresentati da tale Joëlle Ursull. E con un copione davvero simile a quello di sabato: "La Francia era prima, io ero terzo o forse quarto e verso la fine l’ho superata". Ma nessun ministro degli Esteri a Parigi allora provò a contestare la sua vittoria, con fantomatiche accuse di uso di droga, come è accaduto per i Maneskin. E si spera che a differenza di allora, non stia per scoppiare nessuna guerra.  

Damiano dei Maneskin, "riportami a casa": brutale umiliazione per i francesi in prima pagina, la pesantissima frase rubata. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Una vergogna francese, quella contro Damiano dei Maneskin, trionfatori all'Eurovision. Come è noto, i transalpini hanno montato una panna rancida contro l'artista, accusato di aver sniffato cocaina davanti a tutti, nel corso della proclamazione. Un assoluto delirio: basta guardare con attenzione il video per comprendere come sia impossibile che Damiano abbia sniffato della cocaina. Ma tant'è, nemmeno di fronte all'evidenza i francesi si sono arresi. Sono piovuti articoli vergognosi che davano il fatto per certo, assodato. E ancora, interventi di ministri e politici che, altrettanto, non avevano dubbio alcuno: Damiano aveva pippato. Inspiegabile. Vergognoso. Dunque le accuse della stessa televisione che trasmette l'evento, che ha però fatto sapere nella tarda mattinata di lunedì 24 maggio che non denuncerà il cantante. Cara grazia...Il povero Damiano, in tutto ciò, sta per sottoporsi a un test anti-droga con cui fugare in modo definitivo ogni sospetto e dimostrare che di cocaina non ne pippa, men che meno in favor di telecamera agli Eurovision. E su questa vicenda, ecco piovere l'inarrivabile ironia di Osho, sulla prima pagina del Tempo, il quotidiano capitolino diretto da Franco Bechis. Il titolone della foto di prima riporta: "Il trionfo Maneskin non vi giù ai francesi". E a corredo ecco la Gioconda, il capolavoro di Leonardo Da Vinci da sempre al centro di una contesa tra Italia e Francia, con i secondi che se lo tengono ben stretto. E nella libera interpretazione di Osho, ecco che la Monnalisa, rivolgendosi al frontman dei Maneskin, afferma: "Damià, riportame a casa insieme a Marlena". E chi ha orecchie per intendere, intenda...

Maneskin, Matteo Salvini contro la Francia: "Ma chi lo dice ai francesi?", caso chiuso con sfottò. su Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. "Bisogna saper perdere". Matteo Salvini, sui social, cita una vecchia canzone dei Rokes, band di culto del beat italiano anni Sessanta, per commentare quanto sta accadendo intorno ai Maneskin e all'Eurovision Song Contest. Sabato sera, a Rotterdam, la giovanissima rockband romana vince grazie alla giuria popolare, ribaltando il televoto che dava la francese Barbara Pravi in testa. Subito dopo il verdetto, i telespettatori transalpini pensano bene di guardare la festa agli italiani facendo diventare virale un video (palesemente falso, anche se equivocabile) in cui Damiano David, cantante dei Maneskin, si china sul tavolo. "Sniffa cocaina", è la tragicomica accusa, cavalcata però anche da autorità di primo piano d'Oltralpe, a partire dal comico Cyril Hanouna che si è appellato al presidente Macron (a cui è considerato molto vicino) per chiedere la squalifica degli italiani. Del caso si è occupato addirittura il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, tuona: "È la commissione di deontologia che deve risolvere la questione. Se c’è bisogno di sottoporsi ai test, faranno i test". Si arriva al punto da costringere Damiano a sottoporsi a un test anti-droga volontario al rientro in Italia, mentre la delegazione francese minaccia addirittura di denunciare il cantante. Ora che tutto sembra lentamente (troppo lentamente...) rientrare e che la delirante bolla social si sta afflosciando, non resta che compatire simpaticamente i cugini, mai tanto amici. "Bisogna saper perdere - scrive Salvini -. Chi lo spiega ai francesi?!?". Quindi il leader della Lega si fa molto più serio: "Bravo Damiano e bravi Måneskin, le vostre parole contro le droghe siano di esempio a molti".

Eurovision, l'accusa alla cantante francese dopo il cocaina-gate: "Copiona, da dove arriva quel testo".  Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Cristiano Malgioglio è stato una delle più belle sorprese dell’Eurovision Song Contest 2021, vinto dai Maneskin e trasmesso in diretta su Rai1, che ha fatto registrare un vero e proprio boom di ascolti. Malgioglio è stato sul pezzo e ha anche aggiunto quella nota di colore e leggerezza necessaria in una trasmissione del genere. Ospite di Serena Bortone a Oggi è un altro giorno, ha affrontato ovviamente anche la polemica innescata dalla Francia su Maneskin. In particolare Damiano David è stato accusato di aver sniffato cocaina in eurovisione, mentre attendeva la proclamazione del vincitore della kermesse canora europea: una follia pura, smentita sia dalle immagini che dalle testimonianze degli organizzatori. Addirittura alcune trasmissioni televisive francesi hanno interpellato il ministro degli Esteri e chiesto la squalifica dei Maneskin, salvo poi iniziare a ritrattare una volta compresa la figura barbina a livello internazionale. Malgioglio ha risposto al fuoco francese accusando la loro cantante di essere una “copiona”. “Dolce, stupenda, bella voce”, ha ammesso riguardo a Barbara Pravi, salvo poi aggiungere diverse stoccate: “Quando l’ho vista ho pensato che stesse partecipando a Tale e Quale Show, mi sembrava una Edith Piaf. Ma a differenza della Piaf che aveva questo dolore in gola, lei aveva una voce molto pulita. In quella canzone c’era un po’ di tutto. Quando ha cominciato a cantare ‘voilà, voilà, voilà’ mi ha ricordato ‘padam, padam, padam’ della povera Piaf o ancora mi ricordava ‘manì, manì, manì’. Orrenda. Chi mi conosce sa benissimo che io non mi tengo niente”.

Da repubblica.it il 24 maggio 2021. "Nessun consumo di droga è avvenuto nella Green Room e riteniamo chiusa la questione". Così l'Ebu, European Broadcasting Union, che promuove e organizza l'Eurovision Song Contest mette fine alla vicenda che ha coinvolto i Maneskin e Damiano in particolare per alcune immagini in cui sembrava stesse sniffando durante la diretta tv della finale vinta dalla band romana. "A seguito delle accuse di consumo di droga nella Green Room dell'Eurovision Song Contest Grand Final di sabato 22 maggio, l'European Broadcasting Union (Ebu), come richiesto dalla delegazione italiana, ha condotto un esame approfondito dei fatti, controllando anche tutti i filmati disponibili", si legge nel comunicato ufficiale reso noto poco fa. "Un test antidroga è stato anche fatto volontariamente nella giornata di oggi dal cantante del gruppo Maneskin che ha restituito un risultato negativo visto dall'Ebu - si legge ancora -. Siamo allarmati dal fatto che speculazioni imprecise che portano a notizie false abbiano oscurato lo spirito e l'esito dell'evento e influenzato ingiustamente la band. Ci congratuliamo ancora una volta con i Maneskin e auguriamo loro un enorme successo. Non vediamo l'ora di lavorare con il nostro membro italiano Rai alla produzione di uno spettacolare Eurovision Song Contest in Italia il prossimo anno". E la Francia ha fatto sapere che non sporgerà reclamo sulla vittoria della band romana "perché l'Italia non ha rubato la vittoria", ha detto la numero uno di France Télévisions, la tv pubblica francese, Delphine Ermotte, nel corso di un'intervista al quotidiano Parisien. "Il voto è stato estremamente chiaro in favore dell'Italia - ha sottolineato Ermotte - La vittoria non è stata rubata ed è questo ciò che conta". La dirigente ha sottolineato che "l'Eurovision è una competizione sana, senza colpi bassi, con molto fair-play e amicizia tra le squadre e bisogna conservare questo spirito". Nessun dubbio, secondo la manager, che sarà la Francia, seconda classificata quest'anno, a trionfare il prossimo anno in Italia. "Vogliamo vincere, ma l'anno prossimo andremo con piacere in Italia. E vinceremo con lealtà, senza bisogno di reclami", ha concluso.

Marco Molendini per Dagospia il 23 maggio 2021. Fuochi d'artificio, titoloni sui giornali (sul tono: ha vinto l'Italia delle otto milioni di canzonette e ha sconfitto i francesi, per i cugini transalpini una sorta di nuova Waterloo), gran trionfalismo digitale fra siti e social. Cosa è successo? I Maneskin dopo Sanremo hanno trionfato all'Eurovision song contest (più semplicemente identificabile come Eurofestival) sempre con la stessa canzone, Zitti e buoni. Un successo, non c'è dubbio: ma dei quattro ragazzi romani, non del Paese. Di gara canora si tratta e neppure di alto profilo. E poi che senso ha giudicare la musica per la bandiera che l'accompagna? Il patriottismo è un sentimento ridicolo in questo caso, se vince un gruppo o un artista italiano non c'è nessun progresso e la nazione non ne trae alcun vantaggio. E' lo stesso atteggiamento provinciale di quando si sventolano con orgoglio le classifiche di vendita (sia pure al lumicino) gioendo se la topten è occupata solo da titoli italiani: l'autarchia musicale è un regresso, il talento non ha passaporto. Perché dovrebbe essere meglio ascoltare una canzone dei Maneskin che di Bruce Springsteen o degli U2? Ancora peggio è il tifo per una gara musicale, specie se questa gara è notoriamente una baracconata, un Giochi senza frontiere (infelice sagra paesana basata su giochi scemi che doveva sancire l'unità continentale televisiva) a cui partecipano una sfilza di canzoni che battono bandiera, come se in ballo ci fossero i destini delle nazioni. Per lo più, dal punto di vista musicale ci si muove in un territorio ristretto i cui confini sono il trash e il kitsch, un rosario di scontatezze, messe in scena circensi, un totale appiattimento sui canoni della musica che più scontata non si può, una serie di esibizioni da serie C, dove i momenti in grado di sollevare un minimo di curiosità sono come l'acqua nel deserto. Una parata smisurata dove, anche quel poco di buono o di accettabile che c'è è all'insegna della fuga dall'originalità. L'inzeppamento dei partecipanti, con la scusa di rappresentare un paese, lascia spazio perfino a nazioni che hanno una tradizione musicale lontana dai canoni occidentali (come l'Armenia o l'Azerbajan, tanto per dirne un paio). Viene infilata addirittura l'Australia che, se non sbagliamo, fa parte di un continente che si chiama Oceania. E non è Europa neppure Israele. Così, alla fine a contare è il televoto inquinato da quella forma insana di patriottismo musicale. I Maneskin hanno vinto, ma non cambieranno i destini della patria. Possono piacere o meno, basta sapere che non sono la rivoluzione del rock (e probabilmente neppure il rilancio). Si dovranno accontentare dell'esposizione che hanno avuto e dei benefici che questo porterà alla loro popolarità (dubito che si aprano mercati internazionali, Azerbaijan compreso), dell'impulso alla vendita dei biglietti per il loro tour (partirà il 14 dicembre dal Palazzo dello sport dell'Eur), dei titoli dei giornali, dei servizi fotografici. Quanto alla Rai, incassa un buon ascolto (il tifo di stampo calcistico funziona, il 27 per cento di share in più dell'anno scorso), ma eredita qualche grattacapo, nel senso che organizzarlo (tocca sempre al vincitore) significa correre il rischio di rimetterci dei soldi. Nel 2019 Israele ha speso 28,5 milioni di euro, l'anno prima il Portogallo 23,5 al lordo di un contributo di qualche milione (tre i 4 e i 6): ci saranno gli sponsor e l'indotto, ma per l'ente televisivo organizzatore far quadrare i conti non sarà facile.

Maneskin, "Damiano ha fatto il test antidroga": dagli organizzatori dell'Eurovision, l'umiliazione finale della Francia. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Il cocaina-gate è un capitolo definitivamente chiuso. Damiano David, frontman dei Maneskin freschi vincitori dell’Eurovision Song Contest 2021, si è sottoposto volontariamente a un test antidroga dopo che la stampa francese lo aveva accusato di aver sniffato cocaina indiretta. Un’accusa folle e infamante, avvalorata con alcuni frammenti di immagini che potevano sembrare equivoche a un primo sguardo. “A seguito delle accuse di consumo di droga nella Green Room dell’Eurovision Song Contest Grand Final di 22 maggio - si legge nel comunicato ufficiale degli organizzatori di Ebu - abbiamo condotto un esame approfondito dei fatti”. Sono stati controllati tutti i filmati disponibili, come richiesto in primis dalla delegazione italiana che non poteva credere alle accuse infamanti e assolutamente false mosse dalla Francia. “Un test antidroga è stato anche intrapreso volontariamente nella giornata di oggi dal cantante del gruppo Maneskin che ha dato esito negativo visto dall’Ebu”, si legge nel comunicato. “Nessun consumo di droga è avvenuto nella Green Room e riteniamo chiusa la questione”, ha aggiunto l’Ebu. Che poi ha rifilato una stoccata non indifferente alla Francia, che dovrebbe chiedere scusa e vergognarsi e non semplicemente prendere atto della vittoria onesta dell’Italia. “Siamo allarmati - hanno scritto gli organizzatori - dal fatto che speculazioni inesatte che portano a notizie false abbiano oscurato lo spirito e l’esito dell’evento e influenzato ingiustamente la banda. Ci congratuliamo ancora una volta con i Maneskin e auguriamo loro un enorme successo. Non vediamo l'ora di lavorare con il nostro partner italiano Rai alla produzione di uno spettacolare Eurovision Song Contest in Italia il prossimo anno”.

Maneskin, la Francia riapre il cocaina-gate: “Perché il test non è valido”, altro fango su Damiano. Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. Il cocaina-gate montato ad arte dalla stampa francese che non ha digerito la vittoria dei Maneskin all’Eurovision Song Contest 2021 sembrava essere stato definitivamente archiviato dagli organizzatori della kermesse, che hanno svolto le loro indagini e soprattutto hanno comunicato che il test antidroga a cui si è sottoposto Damiano David è risultato negativo. A distanza di giorni, la polemica in Francia non si è però arrestata: a riaprirla ci ha pensato il sito Melty, popolarissimo sui social, che continua a insinuare che il frontman della rock band italiana abbia fatto uso di cocaina nella Green room. I francesi sostengono che quello di Damiano sia stato un “gesto che suggerisce fortemente l’assunzione di cocaina”, al punto da mettere in dubbio anche il comunicato ufficiale con cui gli organizzatori hanno chiuso il caso, assicurando che “nessun uso di droghe ha avuto luogo nella Green room”. La vicenda però resta ancora aperta per i francesi: secondo il sito Melty il test antidroga effettuato da Damiano non sarebbe infatti valido, arrivando a chiedere un parere a dei presunti esperti di consumo di droga e di screening. A loro dire il test non sarebbe valido perché eseguito oltre 24 ore dopo la presunta assunzione di cocaina: “Gli esperti dicono di essere perplessi - si legge su Melty - un test effettuato più di 24 ore dopo l’assunzione di questo potente narcotico è probabilmente negativo, a meno che non si tratti di un test delle urine”. Insomma, la Francia proprio non riesce ad arrendersi all’evidenza di un trionfo indiscutibile da parte dei Maneskin.  

Maneskin, Damiano e la "cocaina" all'Eurovision, Vasco Rossi contro i francesi: "Testatevi voi". Libero Quotidiano il 25 maggio 2021. Vasco Rossi interviene sul caso Maneskin all'Eurovision. La polemica è scoppiata quando una rivista francese ha accusato il frontman Damiano David di aver sniffato cocaina in diretta internazionale. In ogni caso, il test anti-droga che il cantante si è fatto ieri, con esito negativo, ha messo a tacere tutti i malpensanti. Commentando la figuraccia dei giornalisti d’Oltralpe, che in un primo momento hanno addirittura chiesto la squalifica del gruppo, Vasco Rossi ha pubblicato un post scrivendo: "Testatevi voi stessi, bigotti". Il cantante italiano, in particolare, ha postato una foto dei Rolling Stones, nella quale appaiono Mick Jagger e Keith Richards che se la ridono: "Faremo il test antidroga". Un'immagine ironica con cui Vasco ha voluto mostrare il massimo supporto ai Maneskin, band che ha già detto più volte di stimare. In una recente intervista li ha anche elogiati: "Io e i Maneskin siamo gli ultimi ribelli rock. In loro sento quella voglia di andare contro l’omologazione che provavo io. Il riff di chitarra è fenomenale. La loro 'Zitti e buoni’ è la mia 'Siamo solo noi’". Scherzando nelle sue storie Instagram, poi, il cantante ha detto: "Lo faccio anch'io il test antidroga". Salvo poi scoppiare a ridere. E ancora: "Comunque viva il rock e viva i Maneskin, che sono giovani e che cominciano a fare del rock in italiano".

Da open.online il 24 maggio 2021. La Francia adesso ci ripensa. Dopo essere arrivata seconda all’Eurovision, e aver accusato i vincitori, i Maneskin, di aver fatto uso di cocaina durante la diretta, ha deciso che «non intende sporgere denuncia». La notizia, riportata da Le Parisien, arriva da Delphine Ernotte, patron di France Televisions, che gestisce la delegazione francese. La bufera tiene ancora banco, così Damiano, frontman della band italiana, ha fatto sapere che si sottoporrà volontariamente, insieme ai suoi colleghi, al test antidroga, dopo che il video che lo ritrae mentre si avvicina col capo chino a un tavolo – e che è stato ritenuto ambiguo – è diventato virale. E dopo le insinuazioni fatte in conferenza stampa: «Non è vero, per favore, non ditelo», aveva commentato. «L’Eurovision è una competizione sana, senza grossi problemi, con molto fair play e amicizia tra le squadre e dobbiamo mantenere quello spirito», continua il tecnico Ernotte. «Vogliamo vincere, ma saremo felici di andarci il prossimo anno in Italia. E vinceremo». Anche Barbara Pravi, arrivata seconda alla competizione con Voilà, si è staccata dalle polemiche. «Queste sono cose che non mi riguardano. E soprattutto quello che è vero è che queste sono persone che sono state elette e dal pubblico e dalla giuria. Dopo, se si drogano, se si mettono le mutande sottosopra o qualcosa del genere, non è un mio problema», ha detto. Intanto ieri la band italiana è atterrata a Fiumicino. Grida di gioia e applausi hanno accolto i cantanti, stanchi ma felici, all’aeroporto. Dopo 31 anni, l’Italia è tornata vittoriosa alla competizione europea di musica leggera.

"I Maneskin? Pervertiti, omosessuali degenerati". Francesca Galici il 26 Maggio 2021 su Il Giornale. Un attacco senza precedenti dalla Bielorussia ai Maneskin dopo la vittoria all'Eurovision: un campionario di insulti gratuiti in diretta tv. Chiusa definitivamente la polemica con la Francia per il presunto (poi abbondantemente smentito) tiro di cocaina di Damiano David dei Maneskin all'Eurovision, è il turno di un'altra polemica internazionale. Stavolta le accuse al gruppo italiano arrivano direttamente dalla tv filogovernativa bielorussa. La pagina Facebook "Associazione bielorussi in Italia 'Supolka'" ha tradotto la parte di programma in cui il conduttore insulta grevemente la band vincitrice dei Maneskin. Nel profilo Facebook dell'associazione, dove è stato anche condiviso il link al video ufficiale della tv bielorussa CTV, lo scorso 23 maggio il suo autore e presentatore Grigoriy Azarenok (Ryhor Azaronak) si è esibito in una sequela di commenti personali sui Maneskin. "Guardate che cosa ha vinto Eurovision. È un bestiario dei pervertiti, omosessuali degenerati, spazzatura che sa di Aids": così verrebbero definiti i Maneskin da Grigoriy Azarenok. Il tutto è accaduto all'interno di una rubrica, chiamata "La medaglia di Giuda", che va in onda la domenica all'interno del programma "La settimana". Il conduttore non si sarebbe limitato a quella definizione dei Maneskin, ma avrebbe infierito ulteriormente sulla band: "Per fortuna non l’hanno trasmesso in Bielorussia. Il mondo moderno della democrazia e del progresso sta avanzando con successo verso la demenza totale, verso le perversioni fuori di testa, verso gli individui in tanga, verso la distruzione di tutto ciò che è umano nell’uomo". Grigoriy Azarenok, quindi, ha concluso: "Dobbiamo separarci da tale progresso dalla cortina di ferro. Preferiamo la dittatura. Tutto il mondo sprofonderà in questo abisso, ma la Bielorussia rimarrà un’isola di libertà". Un messaggio di chiara matrice propagandista verso i telespettatori del canale CTV. In Bielorussia lo spettacolo non è stato trasmesso e a Rotterdam non era nemmeno presente una loro delegazione nazionale. Quelle di Grigoriy Azarenok sono parole molto dure contro i Maneskin, che arrivano in un momento di altissima tensione internazionale dopo il dirottamento del volo Rynair su Minsk. "Un altro attacco al mondo libero e all'Europa che non possiamo tollerare", ha dichiarato Yuri Guaiana della segreteria di Più Europa. Guaiana, quindi, ha proseguito: "Ringraziamo l'associazione Bielorussi in Italia Supolka che ha diffuso questo video, che conferma ancora di più quale sia la parte giusta in cui stare: quella dell'Europa".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

(Adnkronos il 5 giugno 2021) - Dopo le sgangherate accuse di consumo di droga da parte di Damiano David all'Eurovision, sui Maneskin ora i sospetti di plagio. Il brano 'Zitti e buoni', trionfatore prima a Sanremo e poi a Rotterdam, secondo media belgi ricorderebbe in maniera “eccessiva” la canzone 'You want it, you’ve got it' incisa nel 1994 dal gruppo olandese 'The Vendettas'. "La domanda è se questo sia plagio", dice Joris Lissens, componente dei The Vendettas, all'emittente olandese RTL. Le parole dell'artista vengono abbondamente riprese in Belgio e in Francia, dove i media hanno dato ampio spazio alle surreali accuse di consumo di cocaina da parte di Damiano David, frontman dei Maneskin, durante l'Eurovision. "Questi giovani -dice Lissens riferendosi ai componenti della band romana- non erano ancora nati ai tempi del nostro gruppo. Ma come hanno detto proprio i Maneskin, il rock and roll non muore mai". L'emittente Bfmtv pubblica online i due brani a confronto: "Fatevi un'idea". Nel frattempo sui social, i fan italiani dei Maneskin sono alle prese da ieri con un'altra notizia. L'addio della band romana alla manager Marta Donà che li ha seguiti da 'X Factor' fino all'Eurovision Song Contest, dove ha esultato e pianto insieme ai quattro ragazzi. "Abbiamo trascorso 4 anni indimenticabili pieni di sogni da esaudire e di progetti realizzati. Io vi ho portato fino a qui. Da adesso in poi avete deciso di proseguire senza di me. Ho il cuore spezzato ma vi auguro il meglio dalla vita ragazzi", ha scritto la manager sui social non negando sorpresa e dispiacere per la decisione della band di prendere un'altra strada. Tra le ipotesi, quello dell'arrivo di un management internazionale per i Maneskin, intenzionati a cavalcare il successo all'Eurovision per conquistare altri mercati.

Dopo la droga, il plagio: continua l'attacco ai Maneskin. Francesca Galici il 5 Giugno 2021 su Il Giornale. Non bastava l'accusa di aver consumato droga durante l'Eurofestival: adesso dal Belgio i Maneskin vengono accusati anche di plagio. Dopo l'accusa di sniffare droga da parte dei francesi, ora arriva l'accusa di plagio da parte del Belgio per i Maneskin. Il brano Zitti e buoni che ha vinto l'Eurofestival e il festival di Sanremo sarebbe "troppo simile" al brano You want it, you’ve got it registrato nel 1994 dai The Vendettas. Il caso è scoppiato a due settimane dalla vittoria della band romana e ora i componenti del gruppo hanno attaccato i Maneskin dalle frequenze della tv olandese. "La domanda è se questo sia plagio", ha detto Joris Lissens all'emittente olandese RTL. Le parole dei The Vendettas hanno avuto una grande eco mediatica sia in Francia che in Belgio. I francesi hanno colto la palla al balzo per tornare all'attacco del Maneskin dopo che è decaduta l'accusa di aver assunto cocaina, sia da parte dei Damiano David che ha fatto il test ed è risultato negativo, sia da parte dell'organizzazione dell'Eurofestival, che dopo aver visionato i video sotto accusa ha sentenziato che durante la manifestazione nessun componente del gruppo ha sniffato cocaina. Joris Lissens, quindi, ha continuato in riferimento ai Maneskin e alla loro canzone: "Questi giovani non erano ancora nati ai tempi del nostro gruppo. Ma come hanno detto proprio i Maneskin, il rock and roll non muore mai". L'attacco alla band romana è ricominciato a pieno ritmo, tanto che l'emittente Bfmtv ha messo online un video di confronto tra la canzone che ha vinto l'Eurofestival e quella dei The Vendettas. "Fatevi un'idea", hanno scritto, lasciando intere che la canzone italiana sarebbe molto simile a quella del gruppo. La notizia in Italia ha avuto un'eco relativa, l'Eurofestival è ormai finito da tempo e nel nostro Paese è tempo di pensare all'organizzazione della prossima manifestazione che dovrà tenersi proprio in Italia, in virtù della vittoria dei Maneskin. I fan della band romana, invece, sono intenti a struggersi per capire cosa sia potuto accadere tra la band e la loro manager storica, che nei giorni scorsi ha scritto un messaggio su Twitter annunciando che la sua strada si sarebbe separata da quella dei Maneskin. "Abbiamo trascorso 4 anni indimenticabili pieni di sogni da esaudire e di progetti realizzati. Io vi ho portato fino a qui. Da adesso in poi avete deciso di proseguire senza di me. Ho il cuore spezzato ma vi auguro il meglio dalla vita ragazzi", parole che lasciano intendere un addio unilaterale che ancora non ha una spiegazione. Pare, però, che per i Maneskin sia in arrivo un management internazionale.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Da ilfattoquotidiano.it il 28 maggio 2021. Dalla loro vittoria all’Eurovision Song Contest è un continuo parlare dei Maneskin, la band rivelazione dell’anno. Dopo le polemiche sul presunto uso di cocaina da parte di Damiano (poi smentito ufficialmente) e le terribili frasi pronunciate dalla tv bierolussa, adesso il frontman del gruppo è nuovamente sotto la lente di ingrandimento. Ma questa volta la motivazione è decisamente più divertente. Incredibile ma vero, qualcuno su Twitter ha notato alcune somiglianze tra il cantante della band e Lady Diana. In particolar modo gli occhi avrebbero attirato la curiosità di alcuni utenti, perlopiù stranieri e il collage realizzato da una di loro è diventato virale, scatenando le più assurde teorie complottiste e raggiungendo quasi 100mila like. Ormai infatti tutta l’Europa parla dei Maneskin e l’attenzione è rivolta soprattutto a Damiano, che su Instagram è arrivato a 2.6 milioni di follower. Un vero e proprio boom, questo è il momento d’oro per la band che aveva cominciato a cantare da Via Del Corso (Roma) con il cartone poggiato sul marciapiede e la scritta: “Metti mi piace alla nostra pagina Facebook”.

Irene Soave per corriere.it il 28 maggio 2021. La telecamera stacca, e al posto della «Medaglia di Giuda» che dà il titolo al programma compaiono le immagini dell’esibizione dei Måneskin all’Eurovision Song Contest, che la band italiana ha vinto nei giorni scorsi. La Bielorussia ne era squalificata. Il conduttore Grigoriy Azaryonok parla di «Apocalisse», di «spazzatura»: «Un bestiario di pervertiti, un bestiario di checche, in odore di Aids. Grazie a Dio questo video non è stato mostrato in Bielorussia. Il mondo moderno della democrazia e del progresso sta avanzando con successo verso la completa degradazione, verso la perversione, verso gli individui in perizoma, verso la distruzione di tutto ciò che di umano ha un essere umano. Da questo progresso dovremmo recintarci con una cortina di ferro. Meglio avere una dittatura. Lascia che il mondo intero affondi in questo abisso. Ma la Bielorussia rimarrà un’isola di libertà». Così il conduttore del programma più filogovernativo della tv di stato bielorussa Ctv, nel suo programma «La medaglia di Giuda» dedicato a deridere gli oppositori del regime di Lukashenko, parla della band italiana che ha vinto l’Eurovision. Ne ha per tutti Grigoryiy Azaryonok: poco prima dei Maneskin si era dedicato a un’altra «discarica» cioè il profilo Instagram della conduttrice tv-influencer Anna Bond, apertamente schierata coi dissidenti e attiva sul canale Tut.by, l’ultimo rimasto a sfidare il regime e ora oscurato. «Tutta la sua vita è una foto: sono in abiti nuovi, ho un bicchiere di vino, bevo il caffè, ho gli occhiali, non ho gli occhiali, ho le mutande, non ho le mutande, ho una maschera, ho una bandiera della BBC. Narcisismo stupido e senza fine; e ora questo esercito di ritardati vuole il potere. Se avessero vinto loro, questa qui sarebbe la ministra dell’informazione». Avanti così. Stiapan Putilo, animatore di uno dei principali canali Telegram dell’opposizione, «un degenerato cocainomane». E così via. Una satira feroce con più violenza che umorismo, volta a screditare i modelli di vita occidentali in favore dello stile di vita meno frivolo imposto dalla dittatura. «Presto mi aspetto di venire attaccata anch’io», racconta al Corriere Ekaterina Ziuziuk, presidente dell’associazione bielorussa in Italia Supolka. «Su uno dei loro forum, intitolato “Provocatori 2020”, sono riusciti a far finire il mio indirizzo di casa qui in Italia e il mio cellulare. Come nemica del regime mi aspetto di essere presa di mira da un momento all’altro». Già. Ma che c’entrano i Måneskin? Quello della partecipazione bielorussa all’Eurovision è un caso da mesi. Inizialmente la tv di Stato aveva candidato a partecipare il duo che sarebbe dovuto andare all’Eurovision 2020, poi cancellato per il Covid. Nel frattempo, però, oltre al Covid-19 ci sono state le proteste di piazza contro il dittatore, iniziate ad agosto scorso e proseguite per mesi, incontrando una tremenda repressione. I candidati «naturali» a partecipare appoggiano le proteste e vengono immediatamente silurati. Al loro posto partecipa una band filogovernativa mai sentita, i Galasy Z Mesta, che porta un testo contro le proteste di piazza. «Galasy Z mesta», peraltro, è un gioco di parole intraducibile: il nome significa sia «voci del posto» che, spiega Ziuziuk, «voci dall’ano». L’organizzazione del festival minaccia di squalificarli se non lo cambiano; non lo cambiano, e la Bielorussia è squalificata. Ecco spiegata l’ostilità del programma filogovernativo «La Medaglia di Giuda» contro una band di cui probabilmente non avrebbero mai sentito parlare, non fosse stato per l’eurofestival. «Ma nessuno dei bielorussi la pensa così, come il conduttore. È tutta propaganda», continua Ekaterina Ziuziuk. «Abbiamo deciso di divulgare quel video sui nostri canali social — che contengono anche le istruzioni per sostenere i prigionieri politici con lettere e messaggi, ndr — per mostrare come pensa e come si esprime il regime nel nostro Paese». Sabato 29 maggio, a Milano, vicino a Largo Cairoli alle 14 ci sarà un picchetto della sua associazione per la liberazione del giornalista Roman Protasevich, arrestato dopo il dirottamento del volo Ryanair che lo portava da Atene a Vilnius. Una possibile canzone inno della protesta c’è già, e ha vinto l’Eurovision.

Cristiana Lauro per Dagospia il 7 giugno 2021. Niente da fare: talento e successo non si perdonano a nessuno! Figuriamoci, poi, se a quattro giovani virgulti italiani in un festival europeo. Apriti cielo! Ma veniamo ai fatti, perché la questione ronza intorno al presunto plagio da parte dei Maneskin (vincitori del Festival della Canzone Italiana 2021e dell’Eurofestival a Rotterdam con il brano “Zitti e buoni”) che avrebbero (a sentire qualcuno di testate giornalistiche in Belgio) scopiazzato i The Vendettas”, che nel 1994 pubblicarono “You want it, you’ve got it”. Damiano dei Maneskin, come noto, ha già dovuto replicare e con fin troppa educazione, alle accuse di consumo di droga in pubblico alle quali, al posto di Damiano, avrei risposto: “il test antidroga, quindi, lo facciamo tutti quanti. A partire da voi!” Ma torniamo al presunto plagio e se il Rock non fa per voi non proseguite con la lettura. Il riff che regge “Zitti e buoni”è un semplicissimo accordo di mi minore, il fatto che ci siano chitarre distorte non cambia un ciufolo al senso del discorso sennò, ripeto, il vostro cervello e il rock non fanno scopa. Mille altri esempi di estrazione hendrixiana (nel senso di Jimi Hendrix) quindi a cosa si stanno attaccando? I due riff effettivamente sono molto simili, non uguali, ma ci sono anche brani italiani e di chissà dove che potrebbero rivendicare il plagio per una questione analoga, sovrapponibile, che tuttavia non spiega niente, solleva solo un po’ di polverone. Quello che è soggetto al plagio è la melodia, non l’ispirazione dell’arrangiamento al quale non è, fin qui, riconosciuta una paternità, invero un’idea. Si tratta di un riff di uso comune, una frase di uso comune. Ad ogni modo: il plagio non esiste e non solo perché i due riff, pur essendo molto simili, non sono  identici, ma perché il plagio si configura sulla melodia. L’arrangiamento non è soggetto a diritto d’autore e il riff in mi minore lo hanno usato tutti quanti nel Rock, compresi i grandi Elio e le Storie Tese che hanno tratto ispirazione da molti grossi nomi non solo Hendrix, ma anche Frank Zappa. Zappa, tuttavia, era uno che evitava riff così scontati. E comunque il brano dei Maneskin “Zitti e buoni”, volendo, poteva anche fare a meno di quel riff, ma ripeto: non è plagio. Se ragioniamo in questi termini, allora tutto il Rock dalla metà degli anni Sessanta è un plagio del Chicago Blues e di Muddy Water, come già riconosciuto dai Rolling Stones e dai Led Zeppelin. Roberto Lanzo, musicista, autore e arrangiatore dice: “I Maneskin sono molto giovani ma sembrano avere già imparato la lezione del Rock e sanno scrivere canzoni, in un’epoca in cui imperversano artisti che scaricano basi pronte da YouTube e ci parlano sopra effettando la voce con Auto-Tune”. Sul tema del plagio mi sono consultata anche col maestro Jacopo Fiastri, celebre compositore, già consulente tecnico di Michael Jackson ed era ovviamente in linea col mio pensiero a difesa dei Maneskin.

Dario Salvatori per Dagospia l'8 giugno 2021. L’intervento di Cristiana Lauro dimostra ancora una volta come il sentiero del plagio possa essere impervio e scivoloso. Ma è un sentiero molto frequentato e soprattutto appassiona. Non è vero che il plagio colpisce solo la melodia. Magari. Attacca anche la strofa, il ritornello, il bridge, l’elettronica, l’arrangiamento e naturalmente anche il riff. I casi di riff plagiato possono essere minori, ma solo perché trattasi di una breve frase reiterata, quasi assimilabile alla campionatura. Qualche volta, quando è molto sfacciato, ne paga le conseguenze. L’intraprendente Rod Stewart che nel 1978 arrivò al n.1 in tutto il mondo con “Da yo think I’m sexy”, realizzò la copia carbone di “Taj Mahal”, scritta dal brasiliano Jorge Ben nel 1963 e oggi brano da trenino di Capodanno. Perse Stewart ma i due si accordarono nel devolvere la somma in varie associazioni benefiche. Anche l’arrangiamento è soggetto a plagio e soprattutto a royalties, ne sanno qualcosa Burt Bacharach e Quincy Jones, altrimenti non sarebbero i multimilionari novantenni che sono. Avrebbe potuto esserlo anche George Martin, mitico arrangiatore dell’ottanta per cento delle canzoni dei Beatles, il quale, fedele al suo stile british, oltre che dipendente della Emi dal 1950, rifiutò ogni compenso.  Anche in Italia per gli arrangiatori blasonati è prevista royalty fin dagli anni Sessanta. I premi Oscar Ennio Morricone e Luis Bacalov, arrangiatori di gran parte dei cantanti della scuderia Rca (Nico Fidenco, Jimmy Fontana, Rita Pavone, Gino Paoli, Gianni Morandi, Edoardo Vianello, ecc.) realizzarono arrangiamenti per un totale di quattrocento milioni di copie vendute. Secondo voi Gino Paoli avrebbe potuto scrivere quella sequenza di archi che sottolinea l’indolenza di “Sapore di sale”? E’ soggetta a plagio anche una breve intro. Per esempio Morricone ha visto la sua intro di “Se telefonando” (1965, Mina) più volte ripresa, senza aprire nessuna richiesta risarcitoria. In quel caso l’intro con la sezione fiati determina lo stile e lo spleen del brano, esaltandone l’atteggiamento sentimentale da noia e insoddisfazione che il testo di Maurizio Costanzo descrive. Tutto questo in quattro battute. Non è neppure vero che Frank Zappa non ha copiato riff. Ne ha copiati a vagonate: “Dinah-Moe-Hum”, “Geneva farewell”, “Catholic girls” e dozzine di altri, tutti provenienti dal doo-wap, il suo genere preferito. Ovviamente ironizzati a modo suo. Il plagio può cambiare anche la carriera di un artista. Non c’è dubbio che il periodo migliore di Michael Jackson fu quello di “Thriller”, “Bad”, “Beat it”, “Billie Jean”, ovvero quando ad arrangiare c’era Quincy Jones. Ma nel 1991, quando non c’era più Jones, scrisse “Will you be there”, molto simile a “I cigni di Balaka” di Al Bano. E’ chiaro che non era andato in vacanza a Cellino San Marco, molto semplicemente si era svuotato come una zucchina e comprava canzoni. Dunque il colpevole - perché di plagiò si trattò, 37 note consecutive simili – rimase misterioso. Il divino Michael si difese, certo non poteva ammettere di non sapere nulla di quella canzone, anche perché non era stato lui a scriverla. La prima sentenza fu favorevole al cantante pugliese, gli avvocati americani trattarono una transazione ma venne ritenuta insoddisfacente. Nel 1997 arrivò quella definiva: Jackson aveva copiato ma anche Al Bano aveva ripreso il tema da “Bless you for being an angel”, un canto dei nativi americani non protetto da copyright. Infine i Rolling Stones. Jagger e compagni non hanno mai copiato i riff del Chicago style, il loro genere preferito fin da ragazzi. Hanno fatto di più. Realizzando delle notevoli cover dei loro idoli, presenti in tutti i loro primi album: “Come on”, “I want to be loved”, “Bye bye Johnny”, “Money”, “You better move on”, “Poison Ivy”, “Fortune teller”, “Not fade away”, “Route 66”, “I just want to make love to you”, “Mona”, “I’m a king bee”, “Carol”, “Can I get a witness”, “You can make it if you try”, “Walking the dog”, “It’s all over now”, “If you need me”, “Confessin’ the blues”, “Around and around”, “Time is on my side”, “Susie Q”, “Under the boardwalk”, “Little red rooster”. Solo per rimanere al 1964.

Lettera di Cristiana Lauro a Dagospia il 9 giugno 2021. Caro Dago, ti scrivo riguardo all’intervento di Salvatori in risposta al mio articolo in difesa alle accuse di plagio nei confronti dei Maneskin con il brano “Zitti e buoni”. Risposta legittima e aggraziata quella di Salvatori, chapeau! Secondo me, tuttavia, è un po’ uno sfoggio il suo e nulla più. Argomentato e colto, parlo con rispetto, ci mancherebbe! Ma vado al dunque e cito direttamente Salvatori: “Non è vero che il plagio colpisce solo la melodia. Magari. Attacca anche la strofa, il ritornello, il bridge”. E rispondo: “Ma perché, strofa, ritornello e bridge non sono la melodia??? Cosa stiamo dicendo di diverso Salvatori ed io? Forse l'arrangiamento era più tutelato un tempo, oggi molto meno e comunque, come ho già scritto, dipende dalla rilevanza che ha nella composizione ed è, chiaramente, soggetto ad interpretazione. Ma qui il punto è assai diverso: può l'utilizzo di quel riff configurare un caso di plagio? Volendo il pezzo dei Maneskin poteva tranquillamente fare a meno di quel riff (semplice e un po’ banale) ma non rileva nella struttura del brano intesa come idea autoriale, ovvero soggetta a diritto d’autore.

A proposito di esempi eccellenti, eccone uno dei Led Zeppelin. Circa la causa di plagio Michael Jackson/Al Bano - citata sempre da Salvatori- la questione fu assai diversa perché riguardava, appunto, le melodie, decisamente sovrapponibili per diverse battute, quelle sufficienti a configurare un caso di plagio. Ancorché involontario, immagino. Tant’è che i due artisti successivamente fecero pace. Ma questo chiedetelo ad Al Bano, nel caso, così vi porta anche una boccia del suo Platone dal Salento, che è un vino niente male davvero. Chiudo ripetendo che un riff di chitarra Rock su mi minore non può essere discussione di plagio. Lo farebbe per istinto anche mio nipote con una chitarra in mano, dai! Se parliamo di riff e citazioni possiamo divertirci a riascoltare i primi album di Elio e le storie tese, quelli mettono per davvero tutti zitti, muti e in ginocchio. Con i brani Servi della Gleba e Tapparella, ad esempio, finirebbero davanti a una corte spietata, se giriamo la questione in questo modo.

Da huffingtonpost.it il 9 giugno 2021. “Da maschio sono privilegiato”: con queste parole Damiano, il frontman dei Maneskin, ha commentato lo sfogo di Emma Marrone, che ha denunciato il sessismo subito all’Eurovision del 2014. “Emma sgancia la bomba: ‘All’Eurovision ai miei tempi mi hanno massacrata per un paio di shorts, a Damiano – torso nudo e tacchi – invece non hanno detto nulla’. Il giudizio facile contro il femminile è più feroce, costante, svilente”, ha affermato il cantante in un’intervista a Vanity Fair. “Se io faccio tanto sesso sono un figo e Vic una puttana. Dove io mi mostro forte sono un leader e Vic una dispotica e rompipalle, che ha successo perché è bona. Da maschio sono privilegiato”. Secondo Damiano, le molestie che subisce non sono paragonabili a quelle che vive una donna. “I commenti sulla mia estetica sono incentrati solo sulla mia estetica e non vanno a insinuare nulla sulla mia professionalità e la mia competenza, mentre le donne sono vittime di questo tipo di pensiero in maniera sistemica. Certo, mi è successo di ritrovarmi dal niente con una che tirandomi a sé per un selfie mi ha iniziato a leccare la faccia… "Ma che vuoi, me l’hai chiesto?". Il consenso esiste, ed è doveroso”.

Davide Giancristofaro Alberti per ilsussidiario.net il 7 giugno 2021. I Maneskin hanno fatto lievitare le ricerche su Google delle parole chiave “eyeliner per uomini”. Come riferisce Repubblica, nelle ore immediatamente successive alla vittoria dell’Eurovision 2021 del gruppo partorito da X Factor, le suddette ricerche sono aumentate in maniera vertiginosa, precisamente del 70%. Dati che sono stati raccolti e analizzati dalla piattaforma di ricerca di moda beauty e design Stylight Insights, che sottolinea come dal 23 al 29 maggio scorsi, le ricerche riguardanti il trucco da uomo abbia avuto un notevole boom, più che raddoppiando rispetto ai sette giorni precedenti. Una tendenza quindi del trucco da uomo che sta crescendo sempre di più, sdoganato anche da Fedez, fra i primi a pitturarsi le unghie con lo smalto, e trucco visto anche su alcuni concorrenti della recente edizione di Amici 2021. Ma con i Maneskin l’eyeliner per lui è divenuto ancora più diffuso, anche perché, come ben si sa, nel mondo del rock forse più che in altri generi, l’estetica fa parte della performance musicale intera, “un mezzo – scrive Repubblica – per esprimere anche con lo stile quello che si canta con le parole”. I make up coordinati che i Maneskin hanno portato sul palco dell’Eurovision e di Sanremo, hanno dimostrato che le stesse regole del trucco funzionano sia per l’uomo che per la donna: “Eyeliner e matita sfumabile – scrive ancora Repubblica – da applicare rigorosamente anche nella rima inferiore dell’occhio per un effetto “drama”, sono gli strumenti di base, insieme agli ombretti per i look più costruiti o colorati”. Tom Pecheux, Global Beauty Director di Yves Saint Laurent, ha svelato il trucco per uno smokey eyes perfetto, a cominciare dal mascara, che deve essere applicato iniziando dalla base delle ciglia. Quindi si passa all’eyeliner e alla matita: “L’eyeliner deve essere seguito da una linea di eyeliner liquido, che dona intensità agli occhi e li incornicia. Questa è la parte più difficile. Sopra questo eyeliner applico una matita cremosa e la sfumo”. Infine l’ombretto, da sfumare con la punta del dito, e poi di nuovo il mascara.

Da Liberoquotidiano.it il 28 maggio 2021. Il caso cocaina che ha travolto i Maneskin all'Eurovision continua a scatenare polemiche. Questa volta al centro della bufera è finito l'attore e comico genovese Luca Bizzarri, che è anche presidente della Fondazione Palazzo Ducale di Genova. La Lega lo ha messo sotto accusa per un post che Bizzarri ha scritto subito dopo la notizia dei Maneskin. «Non ho ben capito perché un cantante debba fare un test antidroga dopo aver vinto un festival. Anche perché così Paganini non ne avrebbe mai vinto uno - aveva affermato -. Quando la smetteremo di considerare la droga un problema etico forse potremmo cominciare a capire qualcosa della droga, ad affrontarne l’uso e gli abusi un poco più seriamente evitando il moralismo ipocrita che pervade ogni momento di questa disgraziata epoca». Le parole dell'attore, però, non sono piaciute al capogruppo della Lega in consiglio regionale. «L’ennesimo commento sui social network di Luca Bizzarri sull’uso di droghe non lascia spazio a equivoci - ha dichiarato l’esponente del Carroccio Stefano Mai -. La Lega oggi ha quindi depositato un’interrogazione in Regione Liguria per chiedere al governatore Giovanni Toti come intenda affrontare le irresponsabili dichiarazioni del presidente della Fondazione Palazzo Ducale e quali azioni intenda perseguire sulla compatibilità fra il ruolo istituzionale e le reiterate dichiarazioni pubbliche sul consumo di sostanze stupefacenti, che appaiono in grave contrasto con le finalità dell’ente che Bizzarri presiede». Luca Bizzarri, infatti, era stato nominato presidente della Fondazione durante la prima giunta Toti e ancora oggi ricopre questo ruolo. Dopo l'ultima polemica sollevata dal partito leghista in Liguria, l'attore ha replicato con un post sul suo profilo Facebook: «Mi piace quando ci sono delle figure istituzionali che candidamente ammettono di non capire l’italiano scritto».

"La droga non è un problema etico". Rissa Bizzarri-Lega. Novella Toloni il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Il commento social dell'attore sul test antidroga a cui Damiano dei Maneskin si è sottoposto ha aperto un caso in Liguria. Il capogruppo della Lega in Regione: "Irresponsabili dichiarazioni del presidente della Fondazione Palazzo Ducale. Ruolo incompatibile". "Ci chiediamo se le posizioni sulla droga, espresse da Luca Bizzarri, siano compatibili con la sua carica di presidente di Palazzo Ducale Fondazione per la cultura". Così Stefano Mai, capogruppo della Lega nel Consiglio della regione Liguria, ha annunciato sui social un'interrogazione sul ruolo dell'attore alla presidenza dell'ente culturale genovese. Tutto è nato da un tweet pubblicato lo scorso 24 maggio da Luca Bizzari. L'attore - conduttore del programma di Rai Due Quelli che il calcio - ha condiviso sulla sua pagina Twitter un commento sul caso dei Maneskin dopo le accuse a Damiano David. Il leader della band romana è stato costretto a sottoporsi al test antidroga per smentire le illazioni sulla presunta assunzione di cocaina durante la finale dell'Eurovision Song Contest. Bizzarri ha così commentato l'assurdità della richiesta, parlando delle droghe. "Non ho ben capito perché un cantante - ha cinguettato l'attore sul web - debba fare un test antidroga dopo aver vinto un festival. Anche perché così Paganini non ne avrebbe mai vinto uno". Sulla sua pagina Facebook Bizzarri aveva proseguito il suo pensiero, aggiungendo: "Quando la smetteremo di considerare la droga un problema etico forse potremmo cominciare a capire qualcosa della droga ad affrontarne l’uso e gli abusi un poco più seriamente evitando il moralismo ipocrita che pervade ogni momento di questa disgraziata epoca". Le parole social di Bizzarri non hanno incontrato il favore del capogruppo della Lega nel Consiglio regione Liguria, Stefano Mai, che ha duramente criticato l'attore che, dal 2017, riveste il ruolo di presidente della Fondazione cultura di Palazzo Ducale di Genova. Una carica istituzionale di prestigio incompatibile con le sue idee su droga e sostanze stupefacenti. Il gruppo ligure della Lega in regione ha depositato un’interrogazione consiliare per chiedere al governatore spiegazioni al Giovanni Toti. "Come intende Toti affrontare le irresponsabili dichiarazioni del presidente della Fondazione Palazzo Ducale e quali azioni intenda perseguire sulla compatibilità fra il ruolo istituzionale e le reiterate dichiarazioni pubbliche sul consumo di sostanze stupefacenti. Che appaiono in grave contrasto con le finalità dell'ente che Bizzarri presiede". Il capogruppo della Lega Mei ha condiviso l'iniziativa sulla sua pagina Facebook e stretto giro, dopo il clamore sollevatosi intorno alla vicenda, Bizzarri ha replicato sempre sui social, spiegando con sarcasmo di essere stato frainteso. Ma intanto il presidente della regione ora dovrà rispondere all'interrogazione promossa dal gruppo leghista sulle frasi social di Bizzarri.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita.

Da liberoquotidiano.it il 26 maggio 2021. La vittoria all'Eurovision dei Maneskin, tra polemiche e plausi della critica, è destinata a rimanere nella storia della musica italiana. Vuoi per il periodo storico, vuoi per un contest che l'ultima volta era riuscito a portare a casa il grandissimo Toto Cutugno ormai 31 anni fa. Damiano, Victoria, Thomas e Ethan non sembrano volersi più fermare. Dopo l'inaspettata vittoria del Festival di Sanremo 2021, è arrivata forse una vittoria ancora più inattesa: L'Eurovision Song Contest 2021. A raccogliere i commenti più divertenti della vittoria, ci pensa Rollingstone.it, che parte con un tweet parecchio discusso dell'autrice televisiva Chelsea Davison: "Congratulazioni, Italia! Non sono mai stata così sicura che quattro persone abbiano sc***to l'una con l'altra", riferendosi naturalmente ai membri dei Maneskin. "La prima parola in cui ci si imbatte nella sitografia anglofona sui Maneskin è: sesso" si legge su Rollingstone "Ha cominciato una settimana fa Ben Beaumont-Thomas del Guardian che nelle schede dedicate ai concorrenti dell'Eurovision Song Contest descriveva così la band romana: 'Secondo un luogo comune, l'Italia avrebbe prodotto la migliore arte e la migliore cucina al mondo, ma non una sola band decente - per non dire del fatto che l'Eurovision non è il posto dove si va per il rock'n'roll. Le chitarre tendono ad avere un suono sintetico e di solito sono usate per produrre power chords buoni per accompagnare una band metal impegnata in un Oktoberfest di zombie o qualcosa del genere". "E invece i Måneskin (parola danese per “chiaro di luna”, 12 punti facili dalla Danimarca) hanno un suono rock straordinariamente autentico e solido, come se fosse suonato attraverso ampli Marshall e non via ProTools. Messo sopra a questa musica, il flusso di parole in lingua italiana di Damiano David suona cazzuto in modo sensuale. Sono belli come top model, sarebbero facilmente finiti sulla copertina del NME nel 2003, e saranno un corroborante shot di Jägermaister in mezzo al prosecco della serata". Basta spulciare i commenti sotto il video di Zitti e Buoni, caricato sul canale YouTube di Eurovision per comprendere solo una parte del successo che i ragazzi hanno riscosso. "Questa canzone è un caos bisessuale"; "12 punti dalla mia bisessualità"; e ancora: "Io non so se gli uomini mi piacciono più"; Insomma, i Maneskin hanno fatto colpo un po' in tutti i sensi. Sarà stato il look trasgressivo, l'abbinamento lederhosen + petto nudo, o anche semplicemente l'aggressività sensuale del suo frontman Damiano David, ma i complimenti ai Maneskin sono arrivati anche dai piani altissimi: Little Steven, Simon Le Bon dei Duran Duran e Alex Kapranos dei Franz Ferdinand. I Maneskin non sono più un astro nascente, ma già una supernova quasi accecante.

Marinella Venegoni per “La Stampa” il 24 maggio 2021. L’avevano messo nel baule in soffitta, tanto a lungo era stato dichiarato ufficialmente morto. Avevano magari lasciato fuori per consolazione alcuni volti topici, il neverending Bob Dylan che proprio oggi ne fa 80; oppure Robert Fripp fondatore dei King Crimson, bello matto pure lui, che per tutto il loockdown ha ballato in tutù di tulle nero accanto alla moglie Toyah, girando clippini per i fans. Come canterebbero i Måneskin, gente fuori di testa ma diversi da tutti quelli che non ci piacciono: e in gara all’Eurovision a non piacerci erano in tanti e un po’ erratici, giocavano a fare i bambini con la scusa della dance. Invece sorpresa, il rock si è preso la scena con una onesta vittoria a Rotterdam. Loro, i Måneskin, hanno fatto sul serio. Erano partiti nel ‘17 da X-Factor sotto l’ala di Manuel Agnelli, uno che di rock se ne intende, e ora in 5 mesi hanno fatto l’en plein di tutto ciò che c’era da vincere: prima Sanremo, ora la competizione europea, opinabile gara all’insegna del kitsch, capace però stavolta di mettere ai primi sei posti qualcuna fra le cose più accettabili che siano state cantate; vittoria tra l’altro non grazie alle giurie, ma al televoto. La sorpresa autentica è che questa furibonda «Zitti e buoni» che ormai conosciamo bene, sia stata alquanto apprezzata anche se con un tocco di snobismo, con riconoscimenti da Steve Van Zandt a Simon Le Bon. Il New York Times si è per la prima volta interessato alla manifestazione: in realtà scrutava la prima kermesse live così vasta nel tramonto (speriamo) della pandemia, ma l’impronunciabile reporter Ilvy Njiokiktjien scrive di storica vittoria dell’Italia (che infatti ce l’ha fatta 3 volte in tutto, l’ultima nel 1990 con Cutugno), rimarcando il testo che parla di sigarette (maledettismo totale in Usa). Da Londra The Guardian inneggia all’indubitabilmente bravo Damiano definendolo «un figo sensuale» e fuori moda («buono per una copertina di New Musical Express del 2003»); NME a sua volta trova nella band la forza dei Franz Ferdinand e si commuove che il solito Damiano abbia pronunciato la storica frase «Rock’n’roll never dies» nel suo discorso finale. Quanti orfani, del rock. Ma sarà poi vero, che il rock’n’roll non muore mai? Il primo posto al televoto la dice lunga sulla ricomparsa di un rock giovane, che tra l’altro torna anche al sesto posto grazie alla Finlandia con i meno efficaci metallari Blind Channel. I nostri virano verso il punk e coprono (poco) le nudità con la firma dello stilista superchic Etro; ma sono totalmente devoti alla causa, con le schitarrate e la batteria furibonda, e questo Damiano ha la sfacciataggine di un Freddie Mercury da film, mentre inneggia alla mamma che è fuori di testa come lui («ma diversa da loro», però).

Damiano dei Maneskin, la sua storia: dalla strada all’Eurovision, «Con le monetine raccolte il primo singolo». Andrea Laffranchi il 24/5/2021 su Il Corriere della Sera. Da via del Corso alla vetta dell’Europa. La geolocalizzazione romana non ci porta nella strada dello shopping della capitale, ma sul marciapiede dove i Måneskin hanno fatto la gavetta. Erano quattro ragazzini che facevano i busker, con il sogno del rock and roll. Freschi di trionfo all’Eurovision Song Contest non hanno dimenticato quelle giornate sull’asfalto. Nel video per la diretta di Rai1 di sabato sera che riassumeva i cinque anni di carriera ci hanno messo ovviamente il faccione di Amadeus che annuncia la loro vittoria a Sanremo, ma anche quelle immagini amatoriali. «Via del Corso è dove abbiamo iniziato a suonare. Ci andavamo sempre agli inizi del nostro percorso, con le monete abbiamo messo insieme i soldi per il nostro primo singolo. Quella voglia di suonare e di condividere la nostra musica ora come allora è rimasta sempre la stessa», racconta Damiano David, il frontman del gruppo, il mattino dopo la finale dell’Esc. Trentuno anni dopo Toto Cutugno (e prima ancora c’era stata soltanto Gigliola Cinquetti nel 1964), l’Italia torna a vincere la competizione musicale continentale. «Zitti e buoni» bissa Sanremo. «Basta competizioni adesso — commenta il cantante — ci mettono troppa ansia. Continueremo a seguire la musica, andremo dove ci porta lei». Come hanno sempre fatto. Nati dalla strada appunto e poi passati per un talent, l’edizione 2017 di «X Factor» sotto l’ala protettrice di Manuel Agnelli, uno che i test di rockitudine li ha passati tutti. Non avevano vinto, ma visto come è andata (e come è andata al vincitore) chissene. Damiano sprizza energia e sensualità, gioca sul confine dell’ambiguità e con un numero di pole dance in tacchi a spillo diventa il sogno erotico delle milf davanti allo schermo, Alba Parietti presidente del club. Terminata l’esperienza televisiva arrivano le bordate di chi non ammette che il rock possa passare anche da un talent show. Loro se ne fregano e tornano a macinare musica sul palco. Classe 1999, liceo classico abbandonato con un paio di bocciature alle spalle, petto sempre nudo con il tatuaggio «Il ballo della vita» (titolo dell’album di esordio) in bella vista, Damiano si mangia il palco: istrione, sguardo bistrato, la giusta dose di arroganza. «Lo diciamo all’Europa e al mondo intero: il rock non morirà mai». Lo ha gridato ieri dal palco della Ahoy Arena di Rotterdam al momento della proclamazione. «Sai quante volte ci hanno detto “meglio se fate una cosa più pop”, oppure “provate con la musica che va adesso e non con il rock”... Vincere con questa canzone ci ha ripagato del non aver dato ascolto a queste voci». Si gusta la rivincita. E chissà quanto la riscoperta del genere sia anche una reazione ai comportamenti distaccati e isolati cui la pandemia ci obbliga: il rock ha una gestualità fisicamente liberatoria rispetto ai movimenti ciondolanti della trap. L’esibizione di «Zitti e buoni» è stata una botta di energia, suoni distorti, pelle e fuoco. «Il rock nasce come attitudine — spiega Damiano —: il suo modo di muoversi ti rende libero». E dire che ha rischiato grosso. Alle scuole medie era diventato il cantante di una band fondata da Vic, la bassista, ma era stato fatto fuori perché «era troppo pop». Quando Vic e Thomas, il chitarrista, erano alla ricerca di una voce per un altro progetto, non trovavano nessuno che li convincesse. Hanno creduto nella promessa di Damiano di voler fare sul serio e, agganciato su un gruppo Facebook il batterista, Ethan, voilà i Måneskin. «Chosen», proprio quella che cantavano in via del Corso, è la prima hit e con la ballad «Marlena» raccolgono cinque dischi di platino. Nel 2019 riempiono i club con un tour pieno di sold out e con Sanremo arriva il secondo album «Teatro d’ira - vol 1», rock senza fronzoli, chitarra, basso e batteria per dare quella sensazione di live anche in studio. Tutti ora saltano sul carro del vincitore. Anche la politica. Il tweet di complimenti della Presidenza del consiglio, i commenti di Virginia Raggi, Di Maio e Renzi. Si godono la vittoria, non rimandano indietro lo «Zitti e buoni» che la loro generazione si è sentita ripetere mille volte... Damiano fa il diplomatico: «La musica è per tutti».

Damiano David dei Maneskin ha un fratello: chi è Jacopo David. Alice Coppa il 07/06/2021 su Notizie.it. Damiano David dei Maneskin ha un fratello più grande di lui: si chiama Jacopo ed è nato nel 1996. Il frontman dei Maneskin Damiano David è sempre stato poco avvezzo a parlare della sua vita privata ma ai fan più curiosi è noto che lui abbia un fratello in tutto e per tutto simile a lui, Jacopo David. Damiano David ha un fratello maggior, Jacopo, di 3 anni più grande di lui. I due ragazzi sono sempre stati molto riservati e non amano sbandierare dettagli della loro vita privata sui social. Di Jacopo David si sa solo che è nato nel 1996, è fidanzato con una ragazza di nome Alice ed è molto legato a suo fratello Damiano (che è presente in alcuni scatti insieme a lui sui social). In tanti vedendo le foto di Jacopo David non hanno potuto fare a meno di notare una straordinaria somiglianza tra lui e Damiano: entrambi infatti amano portare i capelli lunghi e hanno un look grosso modo simile. Osannato fin dai suoi esordi come sex symbol, Damiano David ha preferito mantenere il massimo riserbo sulla sua vita privata. Solo alcuni mesi fa il frontman dei Maneskin è uscito allo scoperto “presentando” ai fan dei social la sua fidanzata, Giorgia Soleri. I due sono legati da ben 4 anni ma finora avevano preferito mantenere la loro relazione top secret. In tanti sui social sono curiosi di saperne di più sulla liaison tra i due, ma la stessa Giorgia Soleri ha specificato di voler proteggere la sua privacy. “Uscire allo scoperto è stata una scelta ponderata e consapevole. Mi prendo tutti gli oneri e onori di questo annuncio. Sono molto orgogliosa di stare con Damiano, è una persona che stimo davvero tanto”, ha dichiarato la ragazza, e ancora: “Lo so che Giorgia Soleri è molto meno famosa di Damiano David. Mi va benissimo che parlino di me come ‘fidanzata di’, ma almeno potrebbero nominarmi quando descrivono la mia malattia”, ha aggiunto.” Sui social Giorgia Soleri ha confessato dettagli e retroscena della sua malattia, la Vulvodinia, una patologia fortemente invalidante di cui soffrono moltissime donne. “La parte peggiore è l’estrema solitudine in cui vieni buttata, giudicata da chi hai intorno e incompresa da chi dovrebbe trovare una diagnosi. Impari a considerare quel dolore come parte di te, è la tua quotidianità”, ha confessato la ragazza.

Damiano dei Maneskin, drammatico sfogo della fidanzata Giorgia Sileri: "La sola cosa che avevo chiesto", la malattia e lo sfregio. Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. Giorgia Soleri, fidanzata di Damiano dei Maneskin, si è lasciata andare a un lungo sfogo sui social. Il motivo? La giovane modella e influencer se l'è presa con la redazione di un giornale che - a suo dire - non si sarebbe comportata in maniera corretta. In particolare, ha raccontato di aver concesso un’intervista al settimanale F per parlare della sua malattia, la vulvodinia. La Soleri, però, aveva chiesto alla giornalista della rivista di non tirare in ballo la sua relazione con il cantante della band vincitrice dell'Eurovision. Una relazione che va avanti ormai da quattro anni ed è vissuta nel massimo riserbo. "Ho chiesto di non avere titoloni legati alla mia relazione, condizione che mi è stata accordata - ha spiegato la giovane -. Invece in copertina ho trovato questo titolo: “Io, fidanzata di Damiano dei Maneskin, e il dolore di cui nessuno parla”. Scritto come se fossi io a dirlo in prima persona". Giorgia si è detta molto amareggiata per l'accaduto. Nonostante questo, però, spera che le sue parole sulla malattia siano arrivate a chi non ha i social network e non ha mai sentito parlare della vulvodinia. Nessun commento invece è arrivato da parte della redazione di F. La modella 25enne, da 4 anni compagna di Damiano David, ha confidato di soffrire di vulvodinia la prima volta sui social. Si tratta di una percezione dolorosa a livello vulvare che in Italia colpisce circa il 15% delle donne. Non ha un target specifico, ma si presenta soprattutto in età fertile. La malattia provoca bruciore, irritazione, secchezza, sensazione di abrasione a livello vulvare, tensione.

Giorgia Soleri, fidanzata di Damiano David, fa coming out: “Sono bisessuale”. Alice Coppa il 14/06/2021 su Notizie.it. Giorgia Soleri, fidanzata di Damiano David dei Maneskin, ha fatto coming out attraverso i social, dove ha risposto ad alcune domande dei fan. Giorgia Soleri, modella fidanzata con Damiano David dei Maneskin, ha fatto coming out via social rispondendo ad alcune domande dei suoi fan. La fidanzata di Damiano David, Giorgia Soleri, ha annunciato via social di essere bisessuale. Un fan le ha chiesto se fosse in realtà omosessuale e lei ha risposto: “No, non l’ho mai detto. Questa domanda mi arriva in continuazione, immagino che qualcuno abbia messo in giro questa voce. Comunque no, sono bisessuale!”, ha affermato. Giorgia Soleri è recentemente balzata agli onori delle cronache per aver svelato di essere legata sentimentalmente al frontman dei Maneskin Damiano David. I due stanno insieme da ben 4 anni, ma finora avevano deciso di tenere la liaision top secret. Nonostante il coming out via social la coppia continua a mantenere la propria proverbiale riservatezza. Attraverso i social Giorgia Soleri continua a battersi per tutte coloro che soffrano della sua stessa malattia, la Vulvodinia. Si tratta di una patologia ancora oggi poco nota e fortemente invalidante. “La parte peggiore è l’estrema solitudine in cui vieni buttata, giudicata da chi hai intorno e incompresa da chi dovrebbe trovare una diagnosi. Impari a considerare quel dolore come parte di te, è la tua quotidianità. Così come i sacrifici. Niente jeans stretti, niente collant, niente cibi acidi, niente alcool, niente zuccheri, niente mutande colorate o sintetiche, niente uscite serale, niente di niente. Anche programmare una vacanza diventa un incubo sapendo che potresti passarla sdraiata in un letto a soffrire”, ha dichiarato la modella via social. Nonostante non ami essere considera la “fidanzata di” Giorgia Soleri è balzata agli onori delle cronache rosa grazie alla sua relazione con Damiano David, il frontman dei Maneskin. I due hanno mantenuto il massimo riserbo sulla loro vita privata e la modella non ha mai parlato apertamente della loro relazione né di come sia sbocciata. Benché abbia mantenuto la riservatezza sulla sua vita privata, Giorgia Soleri ha mostrato pubblicamente il suo sostegno nei confronti della band di cui Damiano è frontman, ossia i Maneskin. “Lo so che Giorgia Soleri è molto meno famosa di Damiano David. Mi va benissimo che parlino di me come "fidanzata di", ma almeno potrebbero nominarmi quando descrivono la mia malattia”, ha confessato la modella.

Da "ilfattoquotidiano.it" il 14 giugno 2021. “Io omosessuale? No, non l’ho mai detto! Questa domanda mi arriva in continuazione, immagino che qualcuno abbia messo in giro questa voce”. Giorgia Soleri, la fidanzata di Damiano dei Maneskin, non si tira indietro e, su Instagram, ha deciso di rispondere anche ai quesiti più privati che i suoi followers le hanno posto, come questo sul suo orientamento sessuale. “Comunque no, sono bisessuale!”, ha chiarito chiudendo la questione. E poi ancora, a chi le ha chiesto se l’ufficializzazione della sua relazione con il cantante dei Maneskin fosse “in linea con il tuo femminismo“, Giorgia Soleri ha replicato: “Cosa c’è di non femminista? Avere un fidanzato famoso non è femminista? O sarebbe stato più femminista nascondere per sempre una relazione (che voglio dire, è una cosa meravigliosa, non è che sto rubando a casa della gente) perché poi la gente ha da ridire sulla visibilità che è, ovviamente, aumentata?”. I due sono infatti fidanzati da oltre 4 anni ma della loro relazione si è saputo solo il mese scorso quando, durante l’Eurovision, Damiano David l’ha resa pubblica: “Avevo i paparazzi sotto casa mattina e notte. Così, dopo quattro anni di relazione, ho fatto il suo nome. Continuo ad avere i paparazzi sotto casa mattina e notte, ma almeno non devo più nascondere nulla”, aveva spiegato a Vanity Fair.

Da "corriere.it" il 13 giugno 2021. Con due singoli, «Zitti e buoni» (prima canzone in italiano a entrare nella classifica Top 100 Singles negli UK negli ultimi 20 anni) e «I wanna be your slave», che da settimane stazionano nella classifica britannica, i Måneskin finiscono sulle pagine del Guardian. Che, riferendosi alle accuse della Francia a Damiano David, la notte «della epocale vittoria all’Eurovision», di aver sniffato cocaina, rispondono: «Damiano beve a malapena una birra». «Sì, è proprio uno sfigato — ha dichiarato la bassista del gruppo, Victoria De Angelis —: va a letto alle 23 con la sua camomilla». Lo «spavaldo quartetto rock», commenta il «Guardian», «ha riportato il rock italiano sulla scena mondiale guadagnandosi gli elogi di Simon Le Bon e Miley Cyrus, prima che un’accusa infondata di aver sniffato cocaina (a Rotterdam, Olanda, sede dell’Eurovision quest’anno) si trasformasse quasi in una vera e propria crisi diplomatica». Il giornale britannico rivela anche un singolare aneddoto. Dopo che una sessione di prove si è conclusa in ritardo, ha raccontato la bassista del gruppo, Victoria De Angelis, erano assetati, «ma si sono resi conto che non c’era acqua potabile nelle loro stanze d’albergo. Siamo andati alla reception dell’hotel, ma ci hanno detto che non avevano acqua. Così siamo andati in cucina e ne abbiamo presa un po’». Le telecamere li hanno ripresi e la mattina seguente l’hotel ha contattato la direzione dei Måneskin, sostenendo che gli artisti avevano rubato dell’acqua e dovevano pagarla. «E, naturalmente, l’abbiamo fatto!» dice De Angelis. «Sì, ci siamo comportati bene!» interviene il chitarrista Thomas Raggi. I membri della band, scrive «The Guardian», «riescono a malapena a mantenere una espressione seria mentre raccontano questo aneddoto, che ricorda più un’avventura di una scuola estiva all’estero che un concorso canoro che ha raggiunto 183 milioni di persone». «Quello che abbiamo sempre cercato di fare — dichiara al Guardian il frontman Damiano David — è non imporci mai aspettative e nozioni preconcette; si potrebbe dire che né “X Factor” né Sanremo sono il contesto giusto per una rock band, ma evitiamo di avere una mentalità così rigida. Vivendo in Italia, è difficile avere un pubblico globale. Ma, una volta che si ha l’opportunità giusta, è la musica a parlare». Il gruppo, prosegue il quotidiano britannico, attribuisce il successo di «Zitti e Buoni» a una combinazione di lingua italiana e suono mainstream cui era facile per gli ascoltatori anglofoni «acclimatarsi». «Zitti e Buoni è una nostra vecchia canzone — dice David —. È uno dei nostri primi brani in italiano ed era completamente diverso: una ballata acustica con solo voce e chitarra, ma non siamo riusciti a trovare un ritornello convincente». Poi, dopo qualche anno, lo hanno riproposto, grazie ad un riff composto da Raggi. «Ed è stata subito magia!», dice David. Il Guardian ricorda poi i gruppi che hanno influenzato il quartetto rock, dai Red Hot Chili Peppers a Led Zeppelin e REM oltre a, nel caso del batterista Ethan Torchio, «un sacco di prog rock». Anche se De Angelis mette in luce le rock band italiane degli anni ‘80 e ‘90, come Marlene Kuntz , le cui canzoni combinano noise rock e tradizione cantautorale italiana; Verdena, che attinge dal grunge; e la band alt-rock Afterhours . «Certo, il dominio pop-indie-trap in Italia è innegabile, ma poi sono arrivati i Måneskin», sottolinea la bassista. «C’è un nuovo regno ora!» ride David.

Mattia Marzi per "il Messaggero" il 27 maggio 2021. Chissà quante ragazze avrà ispirato con quel suo modo appassionato e affascinante di suonare il basso, sul palco e nei video registrati con il cellulare in cameretta che pubblica tra le sue storie di Instagram, dove un milione di seguaci è sempre pronto a mettere like alle sue foto: quelle con il suo strumento tra le braccia, quelle scattate sui set, quelle che la ritraggono senza un filo di trucco in reggiseno e mutande o in costume. «Un modello? Mi sentirei arrogante. Cerco di fare il mio e in questo modo spero di mandare messaggi positivi». È una femminilità irrituale, quella di Victoria De Angelis, la 21enne bassista dei Måneskin che sabato hanno trionfato sul palco dell' Eurovision Song Contest a Rotterdam riportando il trofeo in Italia dopo trentuno anni. A X Factor, nel 2017, quando il gruppo dopo le esibizioni per strada a via del Corso a Roma decise di fare il salto provando a conquistare il successo su larga scala, a emergere fu la personalità istrionica del cantante Damiano, bello e impossibile. Quella di Victoria, o Vic, come la chiamano i suoi compagni di band, madre danese e padre italiano, è venuta fuori con il tempo. E si è presa lo spazio che meritava. È lei la vera mente del gruppo, che fondò ai tempi del liceo scegliendo anche il nome, Måneskin, una parola che nella lingua della mamma significa chiaro di luna insieme al chitarrista Thomas Er Cobra Raggi, dando una seconda chance a Damiano dopo averlo cacciato via da una precedente band: era troppo pop, mentre Victoria voleva suonare musica metal, dura, spigolosa e tagliente.

IL RACCONTO «Soffrivo di certe rigide distinzioni tra maschile e femminile: a sei anni avevo proprio il rifiuto per tutte le cose da bambina: facevo skate, tenevo i capelli corti, mi vestivo da maschio. Non indossavo gonne, non perché non mi piacessero, ma per reclamare la chance di essere me stessa. Il rock ha incarnato quello slancio di libertà», ricorda della sua infanzia. Niente Mondo di Patty o Violetta: Victoria aveva riferimenti diversi dalle protagoniste delle serie per adolescenti (su YouTube c' è ancora un video registrato dodici anni fa dal papà, mentre una baby Vic prova a rifare il riff di Smoke on the water dei Deep Purple). Kim Gordon, ad esempio, l'iconica bassista della band alternativa newyorkese dei Sonic Youth: «In quegli anni il rock era un mondo maschile, lei se n' è sempre fregata, ha mandato all' aria ogni stereotipo di bellezza, nel suo modo di stare sul palco c'era qualcosa di aggressivo, sguaiato, ma ha conquistato migliaia di persone attraverso il suo strumento». Gli anni del liceo non sono stati semplicissimi: «A 14 anni mi sono ritrovata a non voler più uscire di casa, ho perso un anno di scuola. C' era qualcosa di rotto in me». L' ha salvata la terapia. E la musica, naturalmente. A chi le domanda se ha avuto un flirt con Damiano, si limita a rispondere: «Chissà». Però ha rivelato di aver avuto una storia con un collega famoso, senza però fare nomi, e anche con ragazze. Dice che per conquistarla non conta avere la tartaruga scolpita, soldi o milioni di follower, ma una bella cultura (e anche un bel sedere e un bel sorriso). E sul catcalling: «Mi capita che mi fischino per strada. Lo trovo fastidioso. È una molestia psicologica e verbale, non fisica: questo non la rende meno grave».

LA FORZA A Sanremo, dopo la proclamazione sul palco, ha strappato risate ai telespettatori e a Fiorello con tutte quelle parolacce dettate dalla gioia e dall' incredulità: «Trucco e vestiti mi aiutano a sentirmi meglio con me stessa, più figa, ma ho periodi in cui vorrei stare in tuta e basta. In quei casi cerco di darmi forza, ricordare che puoi trascorrere una bellissima giornata anche struccata e coi capelli in disordine». In una scena come quella italiana, dove le donne che fanno rock sono una rarità, il suo è un caso interessante: «È molto difficile in questo mestiere salire sul palco e far vedere a milioni di persone il tuo lavoro, ciò che sei, quello che vuoi dire. C' è una tendenza a sessualizzare molto le artiste: si dice che una è bona, non che è brava». Intanto Vasco si è congratulato con lei: «Finalmente una donna». E i rocker britannici Royal Blood hanno condiviso su Instagram un video in cui Vic suona al basso una loro canzone, I only lie when I love you». E il femminismo? «Una parola fraintesa. Per molti indica la necessità di difendere le donne, quando il suo significato è parità fra i sessi. Chi non è a favore di questo è un idiota».

Da leggo.it il 4 giugno 2021. I Maneskin "scaricano" l'agente, lo sfogo sui social: «Ho il cuore spezzato ma vi auguro il meglio». Marta Donà CEO de "LaTarma Management - che ha nel suo palmares artisti del calibro di Marco Mengoni, Alessandro Cattelan e Francesca Michielin, affida a Instagram il suo dispiacere dopo l'addio della band. Marta Donà  personalità di spicco nel management italiano, e manager con "LaTarma", tra gli altri, di artisti come Marco Mengoni, Alessandro Cattelan e Francesca Michielin, ha annunciato su Instagram la "rottura" con i Maneskin. La band capitolina, negli ultimi quattro anni è stata seguita proprio dalla Donà che ha esultato con loro, solo un paio di settimane fa, durante la vittoria dell'ultimo Eurovision 2021, eppure qualcosa è cambiato, perchè Damiano &Co hanno deciso di affidarsi ad altri. «Abbiamo trascorso 4 anni indimenticabili - scrive Marta Donà sul suo profilo Instagram - pieni di sogni da esaudire e di progetti realizzati. Io vi ho portato fino a qui. Da adesso in poi avete deciso di proseguire senza di me. Ho il cuore spezzato ma vi auguro il meglio dalla vita ragazzi». Sui canali social dei Maneskin, al momento, non ci sono riferimenti in merito e non è chiaro il motivo di questa decisione che sembrerebbe essere unilaterale.

Il produttore discografico. Chi è Simon Cowell, il creatore di X Factor che potrebbe diventare manager dei Maneskin. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Potrebbe essere Simon Cowell il nuovo manager dei Maneskin. E infatti l’hashtag con il nome del produttore discografico e talent scout inglese è impazzato sui social network nel pomeriggio. L’indiscrezione è emersa da un articolo del New York Times sui Maneskin. La band rock è in un momento di hype clamoroso, dopo la vittoria del Festival di Sanremo 2021 e dell’Eurovision la sua notorietà e schizzata alle stelle. Zitti e buoni, la canzone con la quale hanno vinto Sanremo, è stata ascoltata su Spotify oltre 100 milioni di volte. “Ad oggi la canzone è stata in streaming su Spotify per oltre cento milioni di volte. Con oltre 18 milioni di ascoltatori la scorsa settimana, i Måneskin hanno fatto meglio dei Foo Fighters o di Kings of Leon nello stesso periodo”, si legge sul New York Times. A inizio giugno Marta Donà, manager storica della band romana di Monteverde, aveva annunciato, non senza risentimento, il divorzio dalla band. “Abbiamo trascorso 4 anni indimenticabili pieni di sogni da esaudire e progetti realizzati. Io vi ho portato fino a qui. Da adesso avete deciso di proseguire senza di me. Ho il cuore spezzato ma vi auguro il meglio dalla vita ragazzi”. La band aveva annunciato intanto nuova musica e un tour in Europa. Con Donà aveva cominciato a lavorare insieme dai tempi di X Factor, il talent show di Sky dove il gruppo è esploso sotto la guida del giudice, cantante degli Afterhours, Manuel Agnelli. Cowell è invece la mente dietro il successo mondiale di X Factor. Ha 61 anni ed è uno dei volti televisivi, e della televisione della musica, più noti al mondo. Ha creato X Factor e il format Got Talent. È nato a Lambeth, Londra, figlio di un imprenditore immobiliare e dell’industria musicale e di una ballerina. Ha creato il gruppo One Direction. Si è costruito la fama del “giudice cattivo”. X Factor e Got Talent sono stati creati dalla sua società di produzione Syco Entertainment. È apparso in I Simpson. Ha avuto un figlio, Eric, avuto dalla compagna Lauren Silverman.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Maneskin: il creatore di X Factor Simon Cowell sarà manager della band. Alice Coppa il 18/06/2021 su Notizie.it. Secondo indiscrezioni il nuovo manager dei Maneskin potrebbe essere Simon Cowell, produttore di fama mondiale e creatore di X Factor. Dopo la vittoria all’Eurovision Song Contest i Maneskin hanno iniziato a scalare la vetta delle classifiche mondiali e, secondo indiscrezioni, avrebbero deciso di optare per un nuovo manager. Secondo indiscrezioni il nuovo manager dei Maneskin potrebbe essere Simon Cowell, produttore discografico e creatore del talent show X Factor (lo stesso a cui ha presto parte la band alcuni anni fa, senza però conquistare la vittoria). Di recente sarebbe stata la stessa ex manager del gruppo, Marta Donà, ad annunciare la fine della loro collaborazione: “Abbiamo trascorso 4 anni indimenticabili pieni di sogni da esaudire e di progetti realizzati. Io vi ho portato fino a qui. Da adesso in poi avete deciso di proseguire senza di me. Ho il cuore spezzato ma vi auguro il meglio dalla vita ragazzi”, aveva scritto sui social la manager. Al momento l’indiscrezione sul nuovo manager della band non è ancora stata confermata, ma in tanti sperano di avere presto notizie della band, che nelle ultime settimane sta scalando le vette delle classifiche mondiali. Dopo la partecipazione a X Factor i Maneskin hanno conquistato la vittoria al Festival di Sanremo 2021 e all’Eurovision Song Contest. La vittoria al famoso evento Europeo ha consentito alla band di farsi conoscere da una platea più ampia, ma non ha mancato di sollevare anche qualche polemica: dopo la vittoria il gruppo è stato travolto dalle indiscrezioni riguardanti un presunto consumo di droga (per altro in diretta tv) dal frontman Damiano David. La band ha subito smentito la notizia e il cantante si è anche sottoposto al test antidroga per smentire le voci in circolazione. Durante la loro esperienza a X Factor i Maneskin hanno fatto parte della squadra capitana da Manuel Agnelli e oggi tra loro e il frontman degli Afterhous si è instaurato un rapporto di profonda amicizia. Lo stesso cantante ha dichiarato: “Anche se fai un casting di sei anni non trovi un’altra band come loro. Sono veri amici, fanno tutto insieme, sono impressionanti, al confine con la comunicazione cinematografica, belli e perfetti, non quattro bambolotti del cavolo. E in Damiano c’è anche la componente sensuale che conta. E alla fine piacciono a piacciono a mamme, papà, zii e bambini”.

Maneskin, "il loro nuovo agente". Chi arriva al posto di Marta Donà: un (mostruoso) cambio di scenario. Francesca D'Angelo su Libero Quotidiano il 20 giugno 2021. E alla fine, sul tetto del mondo, i Maneskin ci sono saliti per davvero. La band che ha vinto il Festival di Sanremo 2021 e l'ultimo Eurovision Song Contest sta sbancando le classifiche di tutto il mondo compresa (e qui sta la notizia bomba) la Official Singles Charts ossia la Top10 inglese dedicata ai migliori singoli. I Maneskin hanno scavalcato gente come Billie Eilish e i Coldplay. Particolare fondamentale: non stanno spopolando con la canzone tormentone Zitti e Buoni bensì con un altro singolo ossia I Wanna Be Your Slave che, per l'appunto, è settima nell'ambitissima classifica british. Non solo. Il New York Times ha dedicato ai Maneskin un servizio fiume e secondo la Bbc il gruppo italiano è la band più di successo tra quelle sfornate, da nove anni a questa parte, dall'Eurovision Song Contest. Infine, secondo rumors insistenti, il loro nuovo agente potrebbe essere nientemeno che Simon Cowell: il creatore del format tv X Factor nonché il produttore discografico che ha creato il fenomeno dei One Direction. Ok, il genere non è esattamente quello dei Maneskin, ma resterebbe un colpaccio... Comunque vada, il rock sta iniziando anche a battere bandiera italiana a dispetto di tutti i detrattori che giudicavano troppo scolastico il sound dei Maneskin. 

Maneskin, Victoria rischia di morire investita: Damiano la salva all'ultimo, il video-choc. Libero Quotidiano il

19 giugno 2021. I Maneskin stanno continuando a vivere un momento d’oro dal punto di vista artistico: dopo i trionfi al Festival di Sanremo e all’Eurovision Song Contest 2021, la rock band italiana ha sfondato anche le classifiche internazionali, e in particolare quella della Gran Bretagna, dove hanno raggiunto il settimo posto con il brano in inglese “I wanna be your slave”. Tra le band uscite dall’Eurovision, i Maneskin sono quelli che hanno avuto più successo in Gran Bretagna negli ultimi nove anni: mica una roba da poco. Un episodio molto curioso si è però verificato ad Amsterdam, dove si trovavano nelle scorse ore i membri della rock band: appena scesi dalla macchina, la bassista Victoria De Angelis si è intrattenuta un momento di troppo sulla corsia dedicata agli scooter e alle biciclette e ha rischiato seriamente di essere investita. Per sua fortuna Damiano David si è reso conto della situazione e, avvertito il pericolo, ha tirato a sé la compagna di band, salvandola da una bruttissima situazione. Anche perché i due ragazzi che sopraggiungevano sullo scooter stavano andando a velocità piuttosto sostenuta, tra l’altro senza casco, visto che in quel tratto non è obbligatorio in Olanda. Passato lo spavento, i Maneskin hanno poi scattato una foto insieme ai loro amici presenti in quel di Amsterdam, dove si saranno certamente goduti la serata. 

Maneskin, chi sono i genitori di Damiano David: ecco la foto, ora si capisce tutto. Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. Svelata l'identità dei genitori di Damiano, frontman dei Maneskin. Con una foto che li ritrae in vacanza in Cina, ecco Rosa Scognamiglio e Daniele David. Sulla vita privata di Damiano David si conosce pochissimo. Anche la relazione con la fidanzata Giorgia Soleri fino a poco fa era "segreta". Dei genitori però si è iniziato a sapere qualcosa in più dopo la diffusione su Instagram dello scatto. Entrambi sono molto somiglianti al cantante. La mamma in particolare sfoggia una chioma di capelli castani e ricci che richiama molto i lunghi capelli di Damiano, mentre i tratti del viso allungati sembrano quelli di papà Daniele. Entrambi sono due assistenti di volo, motivo per cui Damiano conosce bene diverse lingue. Dopo aver lasciato il liceo linguistico al secondo anno, il cantante ha deciso di inseguire il suo vero sogno: la musica. E con i suoi amici Victoria De Angelis, Thomas Raggi ed Ethan Torchio ha dato vita ai Maneskin. La gavetta è stata dura, ma dalle strade sono poi approdati a X-Factor. È stato proprio il talent di musica il loro trampolino di lancio. Ad oggi anche il plauso del New York Times che li ha descritti così: . "Solitamente gli artisti che partecipano all'Eurovision scompaiono dalla scena al termine della manifestazione, in controtendenza i Måneskin costruiscono sulla fama guadagnata consolidando una rara storia di successo a lungo termine dell'Eurovision Song Contest". Intanto si scatenano le voci sul loro nuovo manager. Anche in questo caso è il NYT ad avanzare l'ipotesi che potrebbe diventarlo niente di meno di Simon Cowell, inventore di X-Factor.

Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 25 maggio 2021. L’Eurovision organizzato in Italia? L’ultimo ricordo è vecchio trent’anni e all’epoca molti degli spettatori che sabato sera hanno esultato per il trionfo dei Maneskin erano piccolissimi, o non erano addirittura nati. Chi invece davanti allo schermo c’era pure allora, al momento della proclamazione avrà avuto un brivido lungo la schiena. “Speriamo che stavolta vada diversamente”, sarà stato il primo pensiero. Sì perché il precedente dell’ultimo Eurofestival andato in scena nel nostro Paese rappresenta, televisivamente parlando, un vero e proprio trauma. Era il 1991 e il privilegio di un’edizione svolta in casa fu conseguente alla vittoria di Toto Cutugno a Zagabria, dodici mesi prima. Proprio Cutugno – assieme a Gigliola Cinquetti che si era imposta nel 1964 – presero tra le mani il timone di una barca che fu difficilissimo condurre in porto. I problemi sorsero fin dalla scelta della location. Inizialmente il concorso si sarebbe dovuto svolgere al teatro Ariston, con un chiaro richiamo a stili e colori sanremesi. La Guerra del Golfo e la poco tranquillizzante situazione in corso in Jugoslavia, spinsero la Rai a spostarsi a Roma per assicurare maggiore sicurezza alle delegazioni straniere. La decisione venne presa a gennaio, troppo tardi per non immaginare disagi e disguidi, con immancabili polemiche legate all’investimento economico di Viale Mazzini, considerato troppo oneroso. Si trasmise dallo studio 15 di Cinecittà e parecchi elementi della scenografia non erano altro che il materiale già utilizzato nella realizzazione di vecchi film. Una anomalia che spiega in larga parte la sensazione di disorientamento di chi oggi ripesca immagini di quell’edizione. Non che l’Eurovision non si sia evoluto di suo. Nel lungo periodo in cui l’Italia non ha partecipato, l’evento ha avviato un corposo restyling soprattutto visivo che oggi ci consente di dipingere lo show del ‘91 come un parente alla lontana, quasi sconosciuto. Per l’Italia gareggiò Peppino Di Capri. Comme è doce ‘o mare, eseguita in napoletano, si piazzò al settimo posto. I commenti però furono tutti per i conduttori, con critiche e bocciature che riempirono pagine di giornali. Cutugno e Cinquetti, innanzitutto, riscontrarono parecchi problemi di lingua, annaspando sulle lingue. Il regolamento prevedeva che le votazioni delle singole nazioni venissero lette in italiano, inglese e per l’appunto francese. A differenza di oggi, dove la grafica la fa da padrona e i corrispondenti si limitano a salutare e a incoronare lo Stato premiato col punteggio più alto, nel 1991 i voti venivano espressi a voce e per telefono. Cutugno manifestò a più riprese il proprio disappunto: “Vi sembrerà strano, ma bisogna ripetere i numeri in tre lingue. Chiedo ai colleghi di essere più veloci, con più ritmo, senno arriviamo fino alle due di domani”. A dare problemi di linea fu soprattutto la Turchia: “Ankara non risponde”, lamentò il cantante rivolgendosi al supervisore Frank Naef. Seguirono momenti di imbarazzo, con Cutugno che spinse per saltare il turno o coprirlo con qualche mossa improvvisata: “Colleghiamoci con la green room, mettiamoci a suonare, a cantare, a far qualcosa. Oppure andiamo avanti con l’Irlanda e recuperiamo dopo”. L’ultimo elenco venne diramato dall’Italia, ma di fronte al “pronto” dei presentatori, dall’altra parte della cornetta si sentì parlare in francese. I motivi della scelta non si sapranno mai (che si intendesse facilitare il lavoro ai padroni di casa?), fatto sta che Cutugno non la prese benissimo: “A Roma si parla francese? Parlate italiano, per favore”. L’insofferenza, mascherata dai sorrisi di circostanza, venne a galla in una frase, tanto sintetica quanto eloquente: “Menomale che l’Eurofestival lo abbiamo vinto dopo ventisei anni, pensa se lo vincevamo sovente”. Tradotto: fortuna che una serata del genere ci ritoccherà tra più di un quarto di secolo. Per la cronaca, a conquistare il titolo la svedese Carola, protagonista di un inedito ex aequo con la Francia. Pari merito, eccezionalmente, anche nel numero di 12 punti aggiudicati. Ecco allora che per assegnare la coppa si dovette andare a controllare chi avesse totalizzato più volte i 10 punti. Quella sera, temuta dal Toto nazionale, rifarà capolino nel 2022. L’auspicio è di arrivarci preparati. E felici di esserci, soprattutto.

·        Manila Nazzaro.

Grande Fratello Vip, Caterina Balivo e la grave accusa di Manila Nazzaro: "Cosa mi ha fatto in tutti questi anni". Libero Quotidiano il 10 settembre 2021. Manila Nazzaro parteciperà al prossimo Grande Fratello Vip. Nel suo video di presentazione ha attaccato: Caterina Balivo. Facendo il nome della conduttrice come persona che non vorrebbe nella Casa ha riportato alla luce una vecchia antipatia fra le due, che è reciproca. La Nazzaro ha spiegato che cosa è successo con Caterina Balivo. Non sono mai riuscite a legare sin dai tempi di Miss Italia. La Nazzaro vinse il concorso nel 1999 e la Balivo si classificò al terzo posto. “L’ho sempre ammirata come conduttrice, ma ho avvertito un astio da parte sua per il fatto che io abbia vinto Miss Italia. Io e Caterina abbiamo fatto sempre scelte di vite e di lavoro molto diverse, ma non per questo è autorizzata a sminuirmi. Io ho avuto problemi di salute importanti, ho scelto di fermarmi, di sposarmi. Non è carino che una persona dica ‘quella che ha vinto Miss Italia’ – senza neanche fare il mio nome – ‘ha vinto il concorso, ma io, pur arrivando terza, ho lavorato molto di più’. E questo è accaduto decine di volte”, ha affermato la Nazzaro. Durante Miss Italia 2019, in cui erano entrambe ospiti, la Balivo non ha fatto il nome della collega sebbene fosse lì al suo fianco. Parlando del concorso del 1999, ha spiegato La Nazzaro, la conduttrice di Vieni da Me pare abbia detto “c’era una più bella di me, ma il successo si fa lo stesso anche non vincendo”. Ma non è tutto. “So per certo che lei non mi ha mai voluto nei suoi programmi. Mi bloccava le ospitate. È accaduto anche a Vieni da me. Guarda caso, gli unici programmi in cui non sono stata ospite in tutti questi anni sono i suoi. E perché tutto questo?”, si chiede la Nazzaro.

·        Manuel Agnelli.

Barbara Costa per Dagospia l'11 dicembre 2021. “Arrogante”. “Presuntuoso”. “Testa di c….”. Questo lo era prima. Che andasse in TV. Ora non più. Ora, o più precisamente, da più X Factor edizioni, Manuel Agnelli è “un frontman esagerato”, “un rocker nucleare”, “uno da paura, una bomba”, “il rock è solo lui in Italia”, “io sono sempre stato d’accordo con Manuel Agnelli”, “il Maestro”, ma pure “dio che bono, che figoooo”, “mamma mia, che manzo”, “mi ribolle l’ormone”, “c’ho brividi lungo tutto il corpo”, “che pezzo d’uomo, ma quanto è bello?”, “altro che Damiano!”. Chi è Manuel Agnelli? Dite la verità, anche quest’anno, come l’altr’anno, come ogni anno, non c’avete capito un caz*o. Perché inutile cincischiare, brontolare, distillare. Manuel Agnelli è uno che mette a tacere tutti. Tutti!!! Io capisco bene che tanti anni di rinc*glionimento da autotune, e anatemi a sapere suonare uno strumento, in una band, abbiano annaspato il cervello a molti, e però, è ora di starci, una volta e per sempre. La sapienza paga. Rende. E fa fare a chi non ce l’ha figure di m*rda. A voi, che per troppo tempo siete andati avanti a musicalmente esaltare se non la nullità la mediocrità. A voi, che date un peso e pure ampio ai like. A voi, per cui l’uno (un voto) vale uno (un cervello). E no!!! E Manuel ve lo dimostra! Finalmente! Se come dice lui le opinioni sono come le p*lle, ognuno ha le sue, è lampante che c’è chi vale e tanto e chi vale un beato caz*o, e che “la m*rda passa di moda, la buona musica resta: io offro una alternativa”. Ma io non me li dimentico, quelli che alzavano il dito e bofonchiavano spocchiosi questo Manuel Agnelli chi è, che fa, che ne sa, e io non me li dimentico, i puri e altezzosi che rinfacciavano a Manuel Agnelli di essersi venduto alla TV. “Perché faccio X Factor? Perché mi pagano, e perché con quel tipo di visibilità ho un potere della mad***a per promuovere un certo tipo e visione di musica”. E voi lì, davanti a lui, zitti e muti, inetti a ribattergli! Ammettetelo: quanto v’ha fatto – e vi fa – girare le p*lle? Oggi sento e leggo di Manuel che è supremo, il re, sua maestà, il messia, il dio che non si riposa il settimo giorno ma la quinta puntata. Che Manuel è il magnifico, che se ripete un aggettivo è tragedia, che se si incaz*a aiuto, che se piange non è, chi, l’arpia che pensate sia? Il tema Manuel Agnelli piagne scatena dibattiti: perché un rocker non può commuoversi, chi l’ha stabilito, voi, che un rocker deve essere… come? "Un rettile può cambiar pelle ma non cambia il cuore", e purtroppo in troppi di Agnelli e dei suoi Afterhours sanno un caz*o e il guaio è che a caz*o ne trattano. Poi, ed è ben peggio, c’è chi lo sa, crede di saperlo, e si permette, a Manuel, di dar lezioni. Cioè a darle a uno che ha fatto 10 anni di Conservatorio, a uno che ha iniziato a fare rock nel pop-puto 1985 (“e ti lascio immaginare cos’era allora l’Italia: noi eravamo dei brutti fr*ci del caz*o e tutte le sere ci pigliavamo a botte per suonare”). Uno così si deve sentir dire, e da Ilfattoquotidiano.it, cosa è giusto fare e cosa no (ma vi risulta che Manuel ve l’abbia chiesto!?), e tutta una tiritera su come Manuel dovrebbe pensare. Ma dove caz*o lo trovate uno che dal tavolo di X Factor vi fa capire per che santo motivo non è possibile coverizzare i Beatles senza esiti infimi e infami, e specie "Across the Universe", perché i Beatles solo agli ignoranti possono parer facili, quando sono stati dei visionari autori di brani paurosamente complicati??? E dove altro lo trovate uno che su quel tavolo sappia di "Supersex" e te lo porno squaderni (che delizia, Pontello e il suo sperma a X Factor! Perle ai porci, lo so…). Se i Måneskin hanno ridato a un certo rock la luce (ma il rock quando mai s’è spento, se i Deep Purple, e tanto per dirne una, hanno appena ultimato un signor disco, e roba che quando i Deep Purple suonavano "Smoke on the Water", noi – voi! – in Italia stavate appresso a Nicola Di Bari che vinceva Sanremo…), non è ancora il tempo per cui "when the rock’s over/turn out the lights": c’avete creduto, vi faceva comodo, stare col c*lo al caldo, al sicuro… dite un po’, avete mai pensato, provato, suonato, per tensione e dare fastidio? O per "inseguire la propria ossessione"? Chi sa di Manuel, e degli After, sa cosa intendo, e tuttavia… sul serio vi sarebbero stati i Måneskin senza il giudice Manuel Agnelli? Davvero se a quel tavolo, se su quella sedia, vi fossero state assise le chiappe di qualcun altro, qualcuno che di web e social "strategie" capisse sì ma di musica no, sul serio avremmo avuto qualcosa di diverso, e di valevole, che non sia amore e lamento rimato a cuore sofferente? Davvero volete soltanto cantautori e/o (t)rapper che vi sbolognano ciò che sapete e volete sentirvi dire, e che sono lì per eccitare pietà? E che noia, dio mio, ma che sia musica – italiana! – e che non ti ammoscia clitoride e p*lle, e che siano i LPOM, o i Mutonia, e i Bengala Fire, dei quali c’è chi incespica a capire ("Amaro mio", dei Bengala Fire, è prodotto da Manuel e Rodrigo D’Erasmo, e si sente!!! Manuel ha prodotto 35 altrui album, cifra che sommo per difetto) ma niente, ci sono pensosi critici musicali, sul web e non, che non ce vonno sta e insistono, “eh, però, Agnelli…”, eh, sì, Agnelli, sì, uno che di robe sì che ne ha fatte senza mai adattarsi per esserci, senza appartenere a niente mai (“potevo firmare per 350 mila euro con una major, ma li ho ritenuti pochi per dargli in mano la mia vita musicale”), e senza starsene a vomitar invidia da casa, e da una tastiera! "Non puoi scappare da quel che sei", canta Agnelli nel suo ultimo pezzo: eh sì che devi vivere, che devi di concreto fare, per aver qualcosa di decente da argomentare! E alle infoiate di Manuel: mie care groupie a scoppio ritardato, capisco la miseria rocker degli ultimi anni, capisco che molte tra voi non sono abituate a uomini tipo Manuel, ma la groupietudine è arte nobile. Non si applica a social, non si chatta né si posta. È un tuono, di amore genuino, e assoluto e folle, per il rock, che si fa sesso, consapevole e liberissimo, e che non presuppone altro se non godimento, biunivoco, senza alcun borghesissimo impegno, o languori puberali. Tranquille. Non pare ne siate capaci. Bimbe, il rock non risolve i problemi della vita, insegna a ballarci sopra.

 Caro Manuel, riconosco i meriti di X Factor sui Maneskin. Ma il paragone coi Beatles… Fabrizio Basciano, Musicologo, musicante, docente, l'11 dicembre 2021 su Il Fatto Quotidiano.

Caro Manuel, chi ti scrive fa parte di quella generazione cresciuta, bene o male saranno gli altri a dirlo, anche coi dischi degli Afterhours, una colonna sonora niente male per chi negli anni Novanta, per motivi di età, per noia o per pura curiosità, era in cerca di nuove, inedite e originali entità musicali: gli Afterhours, insieme ai C.S.I. e a poche altre band del panorama italiano (sul finire della decade i Subsonica e i Bluvertigo), era certamente una di quelle. Perciò, anche e soprattutto per i messaggi veicolati nei brani di quella storica band, mi sembrò assurdo, qualche anno fa, tu partecipassi in qualità di giudice a un talent show, una sorta di contraddizione in termini per chi, rivolgendosi ai figli di papà della Milano bene, cantava: “Sabato in barca a vela e lunedì al Leoncavallo”. Ma era, ed è, un limite mio: non amo i talent, tutto qui, non li amo e non apprezzo il tipo di televisione che fanno, il tipo di messaggio che veicolano, il modo in cui trattano la musica e le competizioni che in suo nome vengono ingaggiate: non mi piacciono le loro finalità, il tipo di prodotti che sfornano e la sostituzione che propongono a quella vera gavetta che tutti in passato, anche tu, hanno fatto per costruirsi un vera identità musicale, una reale personalità artistica. Nessuno studio televisivo, facendo da acceleratore di successo, potrà mai sostituirsi a quella. Lo so, nel dire, pensare e sentire queste cose faccio oramai parte di una minoranza, forse anche sparuta, ma pure tu, orgogliosamente, hai per tanto tempo militato nelle minoranze, sei a lungo stato tutto fuorché mainstream, dunque certamente potrai capire. E per carità, dopo questo insopportabile pistolotto bisogna anche dire che senza X Factor oggi probabilmente non staresti qui a celebrare lo strepitoso successo di una band che a ragione senti anche un po’ tua e a cui per ovvi motivi sei particolarmente legato: i Måneskin hanno conquistato mezzo globo, e che piacciano o non piacciano, che li si avversi o meno, il loro è un trionfo assolutamente oggettivo. Sono d’accordo con quasi tutto quello che hai recentemente dichiarato a riguardo: col fatto che una volta tanto è l’Italia a esportare la propria musica rock, sul fatto che una rock band di tale peso mediatico il nostro Paese non l’aveva mai avuta, anche sul ritorno di un rock capace di riaffermare il ‘noi’ a scapito di un rap che ha imposto negli ultimi anni la sola dimensione dell’io onanisticamente autocelebrativo. Sono d’accordo su molto, su tanto, non su tutto però. Dici di non voler fare paragoni, ma poi li fai e per giunta sbagliati: perché tirare in mezzo i Beatles? Anzi, meglio: perché tirarli in mezzo in quel modo? “Pensiamo ai Beatles: quando sono usciti, parliamoci chiaro, erano una boyband. I capelli perfettamente pettinati a caschetto, i completi con la cravattina, le ragazzine che li inseguivano. Avevano già un suono personale ma alla musica davvero immortale, alle sperimentazioni, ci hanno pensato qualche anno più tardi quando erano più cresciuti e forse anche stanchi di quella dimensione”.

Andiamo per gradi: tutti sappiamo come solo nella seconda metà degli anni Sessanta la band di Liverpool abbia, con la grossa mano di George Martin, scritto pagine di musica che andavano ben oltre le strette maglie della forma-canzone rock e dei suoi canoni timbrici, estetici e linguistici. Ciò non toglie il fatto però che i primi album, quelli appartenenti alla prima metà di quell’incredibile decennio, siano produzioni rivoluzionarie e assolutamente durature, e ciò nonostante capelli a caschetto e vestitini tutti uguali che, a ben vedere, non facevano affatto di loro una boyband. Un luogo comune, quest’ultimo, che circola già da un po’ e che tu hai sonoramente rilanciato in un’uscita, fattelo dire, alquanto impropria. Cos’è per te una boyband? Una band nella quale i componenti vestono tutti in modo uguale e portano tutti il medesimo taglio di capelli? Dunque, per te, il fatto di appartenere o meno a una boyband si sostanzia in una pura questione di forma? Non c’entra nulla la sostanza musicale? Te lo chiedo perché mi sembra il caso, alla luce delle tue recenti affermazioni, di rammentare al pubblico cosa realmente sia una boyband: un prodotto creato a tavolino da uno o più produttori che ingaggiano ragazzi al fine di formare un gruppo prima d’allora inesistente. Questa è una boyband, e i vestitini tutti uguali, come anche i capelli a caschetto, non c’entrano proprio nulla (e di fatto non li trovi neanche nelle vere boyband).

Dunque, perché i Beatles non sono mai stati una boyband? Perché si dà il caso i quattro di Liverpool esistessero ben prima di approdare alla Parlophone, avessero alle spalle una lunga gavetta di concerti e avessero messo su un repertorio alquanto nutrito di cover dei più importanti brani rock’n’roll e rhythm&blues americani del tempo (molti dei quali poi incisi su disco): si erano cioè già esibiti in centinaia e centinaia di concerti in Inghilterra e in Germania, tra cui i 281 live ad Amburgo e i ben 292 al Cavern Club di Liverpool (luogo nel quale verranno poi notati dal loro super manager, Brian Epstein). Non esattamente una boyband insomma, ma una formazione abbastanza navigata che dalle maglie dello skiffle si era pian piano inserita in quelle del rock’n’roll per poi essere destinata a superarle aprendo le porte, sullo schiudersi dei Settanta, alle sontuose sonorità dell’art rock.

Ecco perché i paragoni sono sempre inopportuni caro Manuel: faresti bene a crederti di più quando affermi di non volerne fare.

·        Manuela Arcuri.

Anticipazione da “Chi” il 9 novembre 2021. «Ci sposeremo nel 2022, finalmente è arrivata la proposta!». Sul numero di Chi in edicola mercoledì Manuela Arcuri parla in esclusiva del matrimonio con Giovanni Di Gianfrancesco, imprenditore edile al quale è legata da undici anni e dal quale ha avuto un figlio, Mattia, di sette anni. «Ne parlavamo da tempo, il matrimonio è sempre stato uno dei nostri obiettivi, anche se ci eravamo già sposati a Las Vegas nel 2013. Nelle interviste dicevo: “Il desiderio c’è, ma finché non mi arriva la proposta...”. E così, finalmente, è arrivata». L'attrice racconta come è avvenuta la proposta: «Giovanni mi ha sorpresa con qualcosa di veramente unico! “Accompagnami a vedere un terreno dove potremmo costruire il nostro castello”, mi ha detto. E così mi ha portata in questo posto un po’ in collina, senza case intorno, con un bellissimo panorama. A un certo punto è passato un aereo, tipo quelli che si vedono al GfVip, con scritto: “Manu, vuoi sposarmi?”». «Ho sempre sognato di sposarmi su una spiaggia, al tramonto, nei luoghi dove sono cresciuta, a Sabaudia o a Latina». E poi, sempre al settimanale diretto da Alfonso Signorini, racconta: «Mi sento sempre sexy, anche se la vita cambia. Prima mi esponevo di più perché il mio lavoro lo richiedeva, adesso è diverso: lo sono lo stesso, ma in maniera meno pubblica». «Da piccola ero formosa, forse troppo per le passerelle di moda, ma le mie forme e il mio aspetto fisico hanno giocato a mio favore. È stato il mio biglietto da visita, sono felice di aver portato avanti un modello di bellezza naturale, sono fiera di essere una donna mediterranea».

Dei reality dice: «Ho fatto Ballando con le stelle, ma è più un talent. Tra il GfVip e L’isola dei famosi sceglierei il primo. L’isola non ce la farei fisicamente: avrei grosse difficoltà a vivere per terra senza il mio cuscino, la mia coperta, massacrata dalle zanzare. La Casa ha i suoi pro e contro, ma è un programma che potrei affrontare. Me lo hanno chiesto tante volte, ma non è ancora il momento».

Di Gabriel Garko, altro suo ex, e del suo coming out, la Arcuri dice: «Ha fatto bene a dire quello che ha detto, era ora. Io l'avrei fatto prima, è brutto vivere in una situazione di non chiarezza. Io non lo sapevo perché non me lo ha mai detto, ma sono contenta per lui perché avrà vissuto certamente meglio dopo essersi tolto questo peso». 

E conclude: «Nella mia carriera ho fatto tutto e rifarei tutto, è questo il bello. Quando ho avuto mio figlio mi sono dedicata completamente a lui proprio perché ero soddisfatta, appagata. Mi sono presa il mio tempo, sono una mamma all'antica, posso dire che non c'è mai stato un momento della sua vita e della sua crescita in cui non fossi accanto a lui». 

Manuela Arcuri, lo sfogo per le molestie subite: “Depravati, mi chiedevano di…” Alice Coppa il 28/09/2021 su Notizie.it. Manuela Arcuri ha confessato di aver subito molestie sul set e ha rivelato dettagli e retroscena di quanto accaduto. Come altre sue colleghe attrici anche Manuela Arcuri ha subito molestie sul luogo di lavoro. La stessa attrice si è sfogata raccontando alcuni episodi legati ad avance indesiderate e vere e proprie molestie che avrebbe ricevuto sul set durante i suoi primi anni di carriera. “Succede nel cinema come in altri posti di lavoro. Nel rapporto tra regista e attrice, il regista sente di avere il coltello dalla parte del manico. Le prime volte, quando andavo ai provini, ogni tanto c’era qualche stupido che ci provava, allungava la mano, mi toccava la gamba, io la spingevo via e lui ci ritentava… Ma ero così giovane che non avevo la forza di mandarlo a quel paese, oggi gli tirerei uno schiaffone. […] In altri casting ti facevano le solite domande – come ti chiami, da dove vieni – e poi dicevano: “Fai vedere il seno”. Erano dei depravati… Ma dopo due o tre volte ho capito, e gli rispondevo: se non ci sono scene di nudo, è inutile che ti faccio vedere il seno”, ha confessato, senza nominare i responsabili di quanto accaduto. Oggi Manuela Arcuri è felice al fianco di suo marito, Giovanni Di Gianfrancesco, padre di suo figlio Mattia. Dal 2014 – anno in cui è nato il suo bambino – Manuela Arcuri ha deciso di prendersi una pausa dal mondo dello spettacolo e lei stessa ha confessato: “Mi avevano proposto Pupetta 2, il seguito di Pupetta che aveva avuto molto successo. Ma ero incinta e ho rifiutato. Per due anni mi sono dedicata esclusivamente a mio figlio. Nato Mattia, ho capito quale era la ragione della mia vita. Dopo due anni la mia casa di produzione (Ares) ha avuto grandi problemi ed è fallita. Sono rimasta senza agente, produzione, ufficio stampa. Non ero abituata a bussare alle porte, loro mi procuravano due fiction all’anno. Sono andata avanti con difficoltà, ed è arrivato pure il Covid. Sono stati anni un po’ difficili ma le difficoltà spesso si trasformano in opportunità”. Oggi l’attrice si divide tra la carriera in tv e la vita accanto a suo figlio Mattia, a cui è molto legata. Sui social Manuela Arcuri non perde occasione per scrivere dediche e messaggi d’affetto indirizzati a suo figlio.

Da "ilmessaggero.it" il 29 settembre 2021. «Ero giovane e non avevo la forza di mandarli a quel paese, oggi gli tirerei uno schiaffone». Così Manuela Arcuri racconta le molestie subite sul set nei primi anni della sua carriera quando indossava i primi panni da attrice: «Nel rapporto tra regista e attrice, il regista sente di avere il coltello dalla parte del manico - ha raccontato in un'intervista al Quotidiano Nazionale -. Le prime volte, quando andavo ai provini, ogni tanto c’era qualche stupido che ci provava, allungava la mano, mi toccava la gamba, io la spingevo via e lui ci ritentava...Ma ero così giovane che non avevo la forza di mandarlo a quel paese, oggi gli tirerei uno schiaffone. In altri casting ti facevano le solite domande – come ti chiami, da dove vieni – e poi dicevano: ‘fai vedere il seno’. Erano dei depravati... Ma dopo due o tre volte ho capito, e gli rispondevo: se non ci sono scene di nudo, è inutile che ti faccio vedere il seno».

La storia con Gabriel Garko. Il tema poi diventa la sua storia con Gabriel Garko, che poi mesi fa ha dichiarato la propria omosessualità parlando di «relazioni costruite a tavolino» con le ex per evitare danni di immagine: «Credo che la nostra storia sia stata vera anche per lui, così ha detto lui stesso - continua la Arcuri -. Risale a molti anni fa, forse a quel tempo non aveva ancora ben deciso il suo orientamento. Poi ha capito quale fosse la sua autentica inclinazione. La voce girava già da tempo, lui l’ha definito il segreto di Pulcinella. Continuava a nascondersi dietro un dito, ma la gente lo pensava, si avvertiva. Io però, fino a che non ho sentito le sue parole, il dubbio ce l’avevo ancora. Quando l’ha dichiarato, e ha fatto benissimo, mi sono detta: ok, adesso ho tutto più chiaro. Forse avrebbe potuto farlo anche un po’ prima».

Da ilfattoquotidiano.it il 14 febbraio 2021. “Un ménage à trois con Berlusconi per far lavorare in tv mio fratello? Mai dette queste cose: ‘Fai lavorare me o mio fratello’: in cambio di che? Di niente!”. Così Manuela Arcuri, ospite a ‘La Confessione’ in onda venerdì 12 febbraio alle 22.45 sul Nove a proposito delle intercettazioni, risalenti al gennaio 2009, ma uscite sui giornali nel settembre 2011 in cui Gianpi (Tarantini, ndr), l’imprenditore pugliese condannato a due anni e 10 mesi dalla Corte di Appello di Bari per aver portato escort nelle residenze di Silvio Berlusconi, cercava di combinare un incontro tra l’allora presidente del Consiglio, l’attrice e Francesca Lana. “È vero che Giampi, questo ragazzo pugliese, mi aveva detto di andare a qualche cena – ha spiegato l’ex modella – Sono andata un paio di volte, sempre in compagnia di un’amica”. “Ma come si spiega che Tarantini sostenesse che lei sarebbe stata disposta ad avere un ménage à trois con Berlusconi in cambio del fatto che suo fratello partecipasse a una trasmissione televisiva?”, ha insistito il direttore de Ilfattoquotidiano.it facendo riferimento a Sergio Arcuri. “Ma io non ho mai detto a Giampi, né tantomeno a Berlusconi, di far lavorare mio fratello. Io non ho mai detto queste cose: ‘Fai lavorare me o mio fratello in cambio di che? Di niente!”. "La Confessione" è prodotto da Loft Produzioni per Discovery Italia e sarà disponibile in live streaming e successivamente on demand sul nuovo servizio streaming discovery+ nonché su sito, app e smart tv di TvLoft. Nove è visibile al canale 9 del Digitale Terrestre, su Sky Canale 149 e Tivùsat Canale 9.

Ade. Pie. per “il Messaggero” il 9 aprile 2019. Il giorno dopo lo sbarco a Ballando con le stelle, dove ha meravigliato tra un tango e un twist, Manuela Arcuri, ieri, si è dovuta precipitata in tribunale. L' attrice è stata ascoltata in aula sulla querela sporta contro un cronista: «Non sono una olgettina - ha specificato al pm Antonio Carluccio - ero stata associata al presunto elenco delle 26 ragazze, tra cui delle escort, che avrebbero partecipato alla cene nella villa di Arcore di Berlusconi. Tutto inventato». L' attrice ha ammesso di aver ricevuto una telefonata dall' imprenditore barese Giampaolo Tarantini, ideatore delle cene, ma ha tenuto a precisare che non aveva accettato l' invito.

En. Lu. per “il Tempo” il 17 settembre 2017. «La mia carriera ne ha risentito fortemente». Con queste parole Manuela Arcuri avrebbe raccontato in aula, come parte offesa, il contraccolpo delle notizie pubblicate in merito alle sue presunte frequentazioni, raccontate da Repubblica, presso le feste dell' ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. «Alcuni contratti per delle fiction sono saltati» avrebbe aggiunto la showgirl nell' aula monocratica nel processo per diffamazione a carico dei redattori che riguardava le cosiddette cene eleganti.

Da Libero il 17 settembre 2011. Dalle telefonate fra Tarantini la Arcuri e Francesca Lana si evince che l'attrice avrebbe valutato la possibilità di frequentare il premier, ma che poi questi l'abbia trovata troppo volgare. Dubbi degli inquirenti sulle pressioni della Arcuri alla Lana affinché si prostituisca. Manuela dà i voti ai suoi uomini. Il video su LiberoTv

25.01.2009. Giampaolo Tarantini parla al telefono con Silvio Berlusconi di una cena da organizzare con Francesca Lana e Manuela Arcuri.

TARANTINI: «Senta le volevo dire martedì io avevo preso mezzo appuntamento con Manuela e Francesca, ma soprattutto Manuela...

che si è decisa... posso confermarglielo?».

BERLUSCONI: «Vabbé ma cosa facciamo una cena a quattro?».

TARANTINI: «Sì, io preferirei di sì, perché se la facciamo in pochi sono pure più... meno imbarazzate diciamo».

BERLUSCONI: «E poi il dopo come viene?».

TARANTINI: «E poi... lei martedì comunque è a Roma? Magari martedì passo che parliamo di persona».

Alle 20.56, Tarantini manda un sms alla Arcuri per annunciarle l'incontro con Berlusconi: «Tesoro confermato martedì sera a cena. Siamo solo noi quattro... meglio così potete anche parlare tranquillamente senza che nessuno rompe i coglioni».

Alle 20.58, l'Arcuri risponde: «Perfetto tesoro grazie baci».

Il 26.01.2009, Giampaolo Tarantini parla con Francesca Lana.

TARANTINI: «Oh, ho parlato con Manu ... te l 'ha detto di di domani?».

LANA: «Si, me l'ha detto, volevamo sapere se era confermato...».

TARANTINI: «È confermato! Mo', Francè, convincila tu falla rimanere domani, dì due cazzate...».

LANA: «No, amore, io la faccio rimanere, ma io domani... lei m'ha detto "io domani vengo come se sia l'ultima... cioè, se domani vengo, rimango e poi tu non ce lo... quella cosa là e l'altra cosa...».

TARANTINI: «Amore... siccome domani io l'ho organizzata in un modo ·tale che stiamo solo noi quattro», omissis. «Oh! E mentre siamo là io glielo dico· proprio nei denti, davanti a voi. E poi voi quando state da sole... è chiaro che tu... diglielo il giorno dopo quando fai colazione, hai capito?».

LANA: «Ma, scusa... quindi rimaniamo tutte e due?».

TARANTINI: «Sì, tutte e due!».

LANA: «Ah, va bene».

Il 28.01.2009, Manuela Arcuri chiama Giampaolo Tarantini.

ARCURI: omissis «Gliel'ho accennato... m'ha detto "guarda ne parliamo quando ci vediamo a cena". Gli ho detto "no guarda, scusami, ma io la prossima settimana sono a Milano per lavoro... e io ne ho abbastanza urgenza perché parte la produzione e io gli devo fare questo favore a mio fratello... glielo dovrei fare adesso, se è possibile". Mi ha detto "allora guarda, Manuè, ti chiamo oggi pomeriggio e ne riparliamo". Speriamo amore... mi chiama, vè?».

TARANTINI: «Va bene, sicuro, perché... sicuro!».

ARCURI: «Ha detto che mi chiama, mi chiama! Speriamo, guarda, perché sarebbe troppo... troppo... troppo importante veramente!. E poi una volta... Poi se me lo fa il favore, se me lo fa il favore, poi, sarà ben ricompensato... però io dico la prossima settimana perché non fa la cena con Franci, così pure lei gli chiede della Fattoria, di quello che gli deve dire lei?».

Il 10.02.2009, Francesca Lana parla con Giampaolo Tarantini.

LANA: «Amore io si, rimango senza problemi Manuela dice che se non vede sto cammello ... cioè lei non ha capito come funziona... lei dice "io fin quando non ho una... una certezza che quello che voglio accada non faccio niente per lui" io le ho detto "Manuela forse dovrebbe essere il contrario, prima fai qualcosa per lui"».

TARANTINI: «Brava».

LANA: «"No Franci" lei mi ha detto "perché tu sei rimasta lì per due giorni e non t'ha più telefonato, non t'ha più cercato non t'ha più chiamato, la Fattoria tu non la fai e l'altra sì e allora? Se io faccio la stessa cosa che come te ci sto lì due volte e poi mi faccio prendere per il culo da lui?". Ha detto "No... prima stavolta lui... tanto la garanzia che tu hai fatto qualcosa" mi ha detto "quindi prima lui deve comunque farci avere qualcosa in cambio e poi noi rimaniamo" ho detto "Manu non è proprio così e comunque..."».

TARANTINI: «Eh brava».

LANA: «Non lo so amore, perché lei giustamente dice "tu sei rimasta là due volte" questo è vero però Gianpi a me non mi ha più chiamato... io l'ho chiamato miliardi di volte, poi mi sono rotta il cazzo... cioè è inutile che mi attacca il telefono poi magari gli vado pure sulle palle se sono insistente, però è vero Gianpi che io l'ho chiamato mille volte e lui oltretutto il fatto che sia rimasta là due volte non mi ha più cercato, io ci sono rimasta come mi avevi detto te, ho fatto quello che mi avevi detto te... (ride, ndr), ma non è servito a tanto, quindi lei dice "Se fa lo stesso un'altra volta?"».

TARANTINI: «Ma è diverso, però dai ... quello è il suo sogno, figurati».

LANA: «Eh lo so amore .... ma il suo sogno si limiterebbe a lei...».

TARANTINI: «Il suo sogno... voi due».

LANA: «Non è lei quindi?».

TARANTINI: «Voi due insieme».

La serata non va come da programma (la Arcuri aveva cambiato idea) e il 12.02.2009 Giampaolo Tarantini, all'1.26 chiama Berlusconi per scusarsi, dicendo che la Arcuri aveva cambiato idea a causa della presenza di Paolo Berlusconi, amico di Tarallo (il manager dell'attrice), che lei temeva potesse esserne informato.

TARANTINI: «Poi quella Manuela si è irrigidita un po' perché me l'ha spiegato lei in macchina... l'ho accompagnata per ultima, perché dice che Paolo è molto amico di Tarallo, il suo manager, quindi come l'ha visto... ha detto... si è spaventata, ancora gli dice a Tarallo che stavo lì a cena».

BERLUSCONI: «Adesso io dico a Paolo di non dire assolutamente niente!».

TARANTINI: «No, eravamo tutti... no cioè lei voleva rimanere, ci siamo organizzati... mannaggia... Francesca voleva rimanere con lei... si è incazzata con lei e gli ha detto "sei una stronza... lo devi fare per me...", poi Manuela ha spiegato il fatto!».

Gianpaolo Tarantini e Francesca Lana parlano ancora di cene, cercano di organizzare un altro incontro. Ma non ce ne saranno. Il 18.02.2009. Giampaolo Tarantini e Silvio Berlusconi parlano al telefono di un'intervista che Manuela Arcuri ha concesso al programma tivù "Le Iene".

TARANTINI: «Pensa che quella si era ... si era ... voleva star lì quella sera».

BERLUSCONI: «Meno male che non è stata qui, perché sennò .... mi sarei sentito imbarazzato di essere andato con una troia così .... vabbè cancellata».

TARANTINI: «E vabbè».

Riguardo a Manuela Arcuri, nei documenti baresi si legge che secondo gli inquirenti «appare fondato il sospetto che l'attrice, insieme al Tarantini, abbia indotto l'amica (Francesca Lana, ndr) a prostituirsi, prospettando chissà quali futuri successi professionali per mano del presidente Berlusconi». In particolare, si citano alcune conversazioni telefoniche.

Il 3.12.2008, il giorno dopo la prima serata trascorsa dalla Lana col premier, alle 12:55, Tarantini chiama Manuela Arcuri.

ARCURI: «Senti amore insomma la nostra cucciola tutto a posto! L'ho sentita, ci ho parlato fino ad ora... sono contenta perché mi sa che la deve rivedere un'altra volta... lei l'unica cosa che deve fare... deve riuscire a farselo legare a se, perché se lo lega... cioè se lo fa affezionare è fatta... ha svoltato».

TARANTINI: «Mo ci devo parlare io... ci devo mettere io il mio carico sopra... che è importante».

In chiusura di telefonata, la Arcuri dice a Tarantini: «Vabbè poi mi sono messa a letto ed ho scritto tutti i messaggini alla cucciola "tranquilla amore... non ti preoccupare... non ti sentire in colpa... stai bene" è bene tutto a posto».

·        Mara Maionchi.

"Ma che ca..., io vado via": Mara Maionchi sbotta e abbandona Italia's Got Talent. La popolare giudice si è rifiutata di assistere all'esibizione di un talento e nell'abbandonare lo studio si è lasciata decisamente andare tra parolacce e gestacci. Novella Toloni, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Mara Maionchi è più carica che mai. Il Covid-19 è ormai solo un brutto ricordo e la produttrice discografica ha dimostrato di essere tornata quella di sempre (verve compresa) nell'ultima puntata di Italia's got talent, lo show dei talenti di Tv8. La popolare giudice si è letteralmente rifiutata di assistere alla performance di un duo e dopo qualche parolaccia è uscita dallo studio indispettita. Neppure l'ironia di Frank Matano è riuscita a dissuaderla dal voler abbandonare la trasmissione e in studio il pubblico è rimasto sbalordito. Non è la prima volta che Mara Maionchi sbotta in un programma televisivo. Era successo a X Factor e anche ad Amici di Maria De Filippi anni fa, ma questa volta la produttrice discografica ha dato davvero spettacolo. Nell'ultima puntata del programma Italia's got Talent, Mara Maionchi ha dato sfoggio di tutta la sua istintività, lasciando lo studio tra le proteste degli altri giudici che non sono riusciti né a trattenerla né a fargli cambiare idea. A far scattare la giudice è stato l'arrivo sul palco di una coppia di talenti in gara con i loro rettili. Il duo avrebbe dovuto esibirsi con serpenti e iguana ma alla vista degli animali la Maionchi è letteralmente sbiancata. "No, raga' io vado! No, ma ci rivediamo, ve lo assicuro. Ma ora vado a casa, ragazzi col cazzo, come non posso?". Tra le risate generali, la conduttrice Lodovica Comello ha provato a dissuadere la giudice che, nel frattempo, si è allontanata dal bancone dei giurati in direzione delle quinte. Federica Pellegrini, anche lei giudice della trasmissione insieme a Joe Bastianich, ha provato a giustificare l'abbandono di Mara Maionchi, parlando del terrore della giudice per i rettili. Il tutto mentre Frank Matano correva dietro alla produttrice per fermarla. Una scesa che sui social network è diventata virale in pochissime ore. "Non ci provate, vado dove cazzo mi pare", ha detto stizzita la Maionchi prima di andare dietro le quinte. "La guardo da casa mia l'esibizione. Mi fanno impressione", ha concluso tra le risate generali. In realtà Mara Maionchi ha assistito all'esibizione nel backstage, rimarcando più volte la sua paura per i rettili e mandando a quel paese chiunque volesse riportarla in studio. Almeno fino alla fine della performance.

Silvia Fumarola per "la Repubblica" il 4 febbraio 2021. «Data la giovane età - ad aprile sono 80 - il Covid non è stata una passeggiata. Ora sto benissimo. Ho avuto la polmonite bilaterale, la cosa tremenda è che sapeva tutto di cartone. Meno male, va', ho perso qualche chilo». Mara Maionchi è una forza della natura: pestifera e autoironica. Se, come diceva Margaret Thatcher, "il carattere è il tuo destino", quello della signora della discografia che ha scoperto Gianna Nannini e Tiziano Ferro l' ha guidata dove voleva. Giudice a Italia' s got talent (da stasera su Tv8), dice sempre quello che pensa.

Mara, era preoccupata quando è stata in ospedale?

«Eh un po' sì. Medici e infermieri sono stati bravi, ancora li ringrazio. Però non lo so, in certi momenti ero anche un po' strana: mi sa che è l' effetto dell' ossigeno».

Pensa mai che ha quasi 80 anni?

«Sì e mi dico: non è possibile. Non me li sento. Durante il Covid me li sono sentiti tutti. Ho fatto l' esame sierologico e ho tanti anticorpi. Speriamo che durino».

Ci vuole talento per individuare il talento negli altri?

«Tutti potremmo essere giudici dello show, scegli quello che ti piace. Giudicare i cantanti è diverso. Lì ti prendi delle responsabilità, non sai come un ragazzo evolve. A Italia' s got talent la cosa che vedi è quella che è. Con i colleghi facciamo battute, anche se c' è discordia nella scelta di un concorrente non diventa un fatto personale. Non hai responsabilità se non di dire sì o no. Matano mi fa ridere, Joe Bastianich si è sciolto, Federica Pellegrini è una bomba».

Ha carattere, vero?

«Ammazza se ha carattere, invidio la sua volontà d' acciaio. Io sono una pigra, l' opposto. E poi è bella, fossi stata come lei... Lasciamo perdere».

Come le è sembrato quest' anno "X Factor"?

«Più cupo, hanno lavorato tutti in maniera difficile e sono stati bravi. Mika intelligente, Agnelli è Agnelli, mi è piaciuta Emma, passionale. Bravo Hell Raton, o meglio Hell Ratìn, è così piccolino ma capace. I giovani mi piacciono, ora per la Durex spiego ai ragazzi come proteggersi dalle malattie sessualmente trasmissibili».

Perché hanno scelto lei?

(ride) «Perché sono vecchia? Forse perché i ragazzi, che non sanno in che guai possono mettersi, mi ascoltano. Presto la mia voce, un' amica insegnante mi ha detto che finalmente servo a qualcosa».

Che pensa di Sanremo?

«Che Amadeus ha fatto scelte coraggiose. Molti dei big avevano partecipato al programma Mara Impara che ho condotto su Sky, i Coma_Cose ad esempio. Mi fa piacere il successo di Achille Lauro, era stato con me ai provini di XF l' anno di Anastasio. Allora non sono una rimbecillita totale, mi consolo».

Che idea si è fatta del festival con la pandemia?

«In effetti è un bagno di folla: così rimane solo la parte televisiva. Poi, ragazzi, i rischi restano: fai oggi il tampone e domani puoi essere positivo, non c' è certezza».

Aveva questo carattere da ragazza?

«Sempre. Facevo ridere tutti, bisogna prendersi in giro. I geni sono pochi, gli altri arrancano come me».

Il pubblico le vuole bene per questo?

«Essere amata per quello che sono mi fa piacere, mi fa sentire al caldo. La cosa peggiore che possono fare è darmi un copione, vado come sono. Sono pratica».

Anche nella vita privata?

«Passare dalle luci psichedeliche all' abat-jour è un attimo, ho 43 anni di matrimonio alle spalle e si diventa migliori amici. Mi creda, meglio che amanti sfegatati».

Che nonna è?

«Modesta. Le miei figlie mi lasciano poco i nipoti, ma gli voglio molto bene. Faccio regali, se bisogna andare a prenderli vado. Li tratto come se fossero miei coetanei. A me spetta la parte ludica, alle madri l' educazione».

Com' era da mamma?

«Ho letto più diari di nascosto io... Frugavo nelle cartelle, nei cassetti; mia figlia diceva che non fumava, controllavo dovunque».

Non è bello.

«Lo so ma chissenefrega , sono anche un po' pentita. Ma era l' unico modo».

Avrebbe immaginato questa carriera?

«Mai. Devo tutto a X Factor . La Sony mi segnalò a Giorgio Gori, che all' epoca produceva il programma. Scelse me e Morgan».

In tv chi le piace?

«La Milly Carlucci è tradizionale ma brava, adoro ballare. Mi ha chiesto di fare Ballando con le stelle e ci sarei andata se la gamba avesse retto. Quando ho immaginato che avrebbero pensato: "Questa non poteva stare a casa?" ho desistito».

Il giudizio degli altri la frena? Non sembra.

«No, il problema è se coincide col mio».

Altre conduttrici?

«La D' Urso fa programmi agghiaccianti però è brava».

Ha visto "The voice senior"?

«Certo. Mi sono molto divertita. Non è che dobbiamo passare la vita a pensare, anche Tale e quale è gradevole, Carlo Conti è bravo».

Come si fa a invecchiare bene?

«Non bisogna chiudersi. Gioco a carte con delle vecchiette cattivissime, mi fanno fuori che è una meraviglia. Il presente non è tutto brutto, basta aprire il cervello e non opporsi a quello che c' è di buono».

·        Mara Venier.

C. Maf. per il "Corriere della Sera" il 14 settembre 2021. «Lo so, non ci crede nessuno, ma penso davvero che questa sarà la mia ultima Domenica In ». Se non ci crede nessuno è perché questo è l'approccio con cui da sempre Mara Venier affronta il programma che le somiglia di più. «È così dalla prima edizione, nata per gioco... pensavo: faccio questa esperienza tanto poi non la condurrò più». Il 19 settembre inizia invece la sua 13esima stagione. «Arrivo a pareggiare con il grande Pippo (Baudo, ndr. ). È un traguardo e inevitabilmente scattano i bilanci. Penso a cosa mi ha dato e cosa mi ha tolto questa trasmissione». 

Scelga una cosa che le ha dato e una che le ha tolto.

«Mi ha dato l'affetto del pubblico. Ho iniziato a essere conosciuta come l'amica, la vicina di casa, la zia. Mi ha tolto molto nel privato: il lavoro mi assorbiva e ho sottratto troppo tempo al resto. Penso che lavorare a Domenica In abbia influito anche nella fine di un amore. Sono errori che non ripeterei più». 

Che amore?

«Quello con Arbore». 

Eppure ora si riparte...

«Mi sembra incredibile condurre per la quarta volta di fila: non pensavo di tornare in Rai e ho vissuto l'essere richiamata come una rivincita. Ma credevo di togliermi un sassolino dalla scarpa e poi fare altro. Invece, come dice Vasco, sono ancora qua». 

Come è iniziato tutto?

«Dovevo condurre un giochino nell'edizione con Luca Giurato, che però aveva capito di volersi solo occupare di inchieste, Monica Vitti che voleva parlare solo di cinema e don Mazzi, che voleva fare solo il sociale. Serviva chi tenesse insieme tutto e mi sono ritrovata a condurre, quattro giorni prima della partenza».

Paura?

«Da morire. Il produttore De Andreis mi aveva convinta che sarei stata capace. Io gli ripetevo che era matto». 

Quindi è tutto merito suo?

«Suo e di altri due uomini: uno è proprio Arbore. Di solito cucinava lui a casa, io ero la sua aiutante... pelavo le patate, tagliavo la cipolla, cose così. Un giorno, mentre eravamo in cucina, mi ha guardata: avevo dei jeans, una maglietta, ero scalza e con i capelli raccolti. Mi ha detto: "Tu devi fare Domenica In così, mostrandoti come sei nella quotidianità. Se ci riesci è fatta". È stato il suo unico consiglio». 

Manca un uomo...

«Fabrizio Frizzi: mi ha dato una spinta da dietro le quinte per farmi entrare in scena, al debutto. Devo tutto a loro tre. Ma da allora vivo con la sensazione che da un momento all'altro può finire tutto».

E invece...

«In realtà non dimentico che ci sono stati momenti in cui davvero tutto è finito, non era una versione fantasiosa... Ho avuto tante vite e diverse, ma sono sempre stata una donna libera: nelle scelte uso poca testa e tanto cuore. Resto una hippie che vive d'istinto». 

Che rapporto ha con la bellezza?

«Non mi sono mai sentita bella e mai ci ho puntato. Anzi, sono molto insicura». 

L'ospite che vorrebbe?

«Papa Francesco. Gli ho parlato un'ora, con altri artisti: sembrava di stare con una persona che conosci, un nonno a cui vuoi bene. Mi sono ritrovata a dargli consigli per la sciatalgia, di cui entrambi soffriamo». Come una zia. 

Danilo Barbagallo per "leggo.it" il 24 agosto 2021. Non è un periodo semplice per Mara Venier. La conduttrice infatti, nonostante sia passato tempo, continua a fare i conti con le lesioni al nervo facciale a causa di un intervento ai denti non andato a buon fine: «Pensavo di lasciare Domenica In – ha confessato - nessuno mi assicura che guarisca». Servirà tempo a Mara Venier per riprendersi dalle lesioni del nervo facciale: «Ancora – ha confessato in un’intervista a “Gente” - non sono messa benissimo». Mara, che il 19 settembre tornerà a Domenica In, è sotto cura: «La lesione del nervo, in seguito a un intervento per un impianto dentale, purtroppo c’è. Sto prendendo medicine e mi auguro di recuperare presto la sensibilità, anche se nessuno ti assicura la completa guarigione. Comunque sono in buone mani e sto cercando di reagire». Il trascorso per Mara Venier non è stato semplice: «Ho preso una bella botta, ho vissuto momenti brutti, di fragilità e profondo sconforto. All’inizio non riuscivo a mangiare, ho avuto un piccolo impedimento nel parlare e, talvolta, faccio ancora un po’ fatica. Ero talmente smarrita che sulle prime volevo fermarmi per pensare solo a curarmi. Per un attimo ho anche ipotizzato che forse non avrei fatto Domenica In». 

Laura Martellini e Clarida Salvatori per "corriere.it" l'8 giugno 2021. Mara Venier è ricoverata in una clinica privata a Roma, Villa Margherita, per un grave problema causato da un impianto dentale appena messo, che l’ha costretta a subìre un intervento chirurgico per rimuoverlo: è la stessa conduttrice a raccontare la sua disavventura in un post su Instagram, accompagnato da una foto in un letto di ospedale. «Amici di Instagram - scrive la showwoman, che aveva già accennato alla vicenda in apertura dell’ultima puntata di Domenica in - voglio condividere l’incubo che sto vivendo. Lunedì scorso sono andata da un dentista qui a Roma per un impianto già previsto da mesi...sono arrivata a studio (per ora non dico nome e indirizzo) alle 9.30 ...sono uscita alle 17.30 dopo ore! Da quel momento ho perso completamente la sensibilità di parte del mio viso, bocca, gola, labbra mento. Tralascio il resto, non è questa la sede (con il dentista ne parleremo in altra sede)». Prosegue la nota conduttrice: «Giovedì di corsa dal chirurgo maxillofacciale Valentino Valentini, che ringrazio tanto (il professionista appartiene allo staf specializzato dell’Umberto I, ndr) e dopo aver verificato la situazione venerdì mi ha operata per rimuovere l’impianto che ha causato il danno. Ricoverata...sala operatoria, anestesia totale, un incubo...Oggi avrò un controllo, ma sarà una cosa molto lunga (sperando di evitare un altro intervento).... ». Curioso e provocatorio l’hashtag finale, che annuncia nuovi strascichi, molto probabilmente legali: «#dentistaroma #nonfiniscequi».

Mara Venier, i dentisti offesi scrivono alla Rai: "Propaganda col chirurgo, quegli elogi in diretta tv..." Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. Mara Venier, come lei stessa ha raccontato, ha vissuto un vero e proprio incubo a causa di un problema ai denti. La nota conduttrice di Domenica In ha raccontato ai suoi fan di aver vissuto una brutta esperienza con un dentista di Roma, di cui però non ha voluto fare il nome perché pare abbia intenzione di agire per vie legali. Dopo l'operazione per un impianto, in particolare, Mara è stata costretta a correre in ospedale. Il motivo? Ha iniziato a perdere la sensibilità dalla parte del viso dove è stata operata. Ecco perché poi si è reso necessario l'intervento di un chirurgo maxillo-facciale. Adesso, però, a insorgere è la Commissione Albo Odontoiatri, che ha scritto alla Rai accusando la Venier di aver usato la sua notorietà e la tv pubblica per raccontare la sua disavventura, ledendo - a loro dire - l’intera categoria. Nella lettera, scritta dal presidente della commissione Raffaele Iandolo, è stato espresso dissenso e biasimo per le esternazioni della conduttrice. La categoria non avrebbe apprezzato non solo la denuncia pubblica al collega, ma anche che la Venier abbia ringraziato pubblicamente il chirurgo maxillo-facciale che le ha risolto il problema, facendo nome e cognome. "Non mi riferisco solo alle considerazioni pronunciate dalla sig.ra Venier nei confronti della professione odontoiatrica per il fatto di aver avuto un problema all’impianto dentale, essendo infatti la responsabilità di quanto accaduto eventualmente da accertare nelle opportune sedi dalle competenti autorità giudiziarie. Quanto piuttosto alla propaganda pubblicitaria che la conduttrice ha messo in atto nei confronti del chirurgo maxillo-facciale, che le avrebbe risolto il problema rimuovendole l’impianto, menzionandolo ed elogiandolo più volte in interviste trasmesse su canali della rete pubblica nazionale", ha scritto Iandolo. Ora resta da vedere se la Venier, che è già pronta a tornare a Domenica In, deciderà di rispondere a queste accuse oppure no. 

Ilaria Ravarino per "il Messaggero" il 26 marzo 2021. L'ira. L'invidia. Ma anche la prudenza, la giustizia e la temperanza. Sabato sera Mara Venier sarà tra gli ospiti invitati nella seconda puntata di Vizi e Virtù - Conversazione con Francesco, la serie di Discovery Italia in onda sul Nove, in cui Papa Francesco e don Marco Pozza dialogano sui sette vizi capitali e sulle sette virtù teologali. Una conversazione punteggiata dalle testimonianze di persone comuni e personaggi dello spettacolo (insieme a Venier anche Carlo Verdone e J-Ax), e seguita da una speciale udienza con Papa Francesco avvenuta lo scorso 8 marzo: «Sono abituata a parlare in tv a milioni di persone ha detto Venier ma davanti a lui ero emozionata come mai in vita mia».

Cosa le ha detto?

«Gli ho detto: mi chiamo Mara Venier, vengo da Venezia. Mi sono presentata, perché avevo l' impressione che non sapesse chi fossi».

E lui?

«Lui è come un nonno affettuoso e amorevole. Ha ascoltato le nostre storie e ha riso molto. Per rompere il ghiaccio gli ho consigliato un buon professore che fa le infiltrazioni, soffriamo entrambi di sciatalgia».

Parlerà nella puntata dedicata all' ira: un caso?

«Roba vecchia. Non mi accendo più come un tempo, ora sono rassegnata. Ma sono abituata a lottare: se mi fai uno sgarbo ti cancello per sempre. Seleziono. Scremo».

Ha cancellato tante persone?

«Due, tre al massimo. Ma non dirò mai chi».

I vizi che odia di più negli altri?

«Detesto gli sleali e i traditori, i leccaculi e gli yes man. La gente che non ha il coraggio di dirmi le cose in faccia. Magari mi impunto su una cosa, ma se sbaglio, chiedo scusa».

Sbaglia spesso?

«Negli ultimi anni no. Ho sbagliato in passato, poi ho imparato a tirare fuori il carattere e a non farmi mettere i piedi in testa da nessuno. A 70 anni in questo ambiente non ci arrivi se non hai le palle. Mi hanno cacciata, richiamata, rivoluta, e sono ancora qua».

Sull' invidia dice: mai volere quello che non hai. E allora come si fa carriera?

«Per costruire una carriera devi essere leale e professionale.

Devi impegnarti. Io per la carriera ho sacrificato molte cose, ho trascurato gli amori e mi pento di non essere andata più spesso a Venezia, da mia mamma».

Domenica In andrà in onda fino a giugno: è un premio?

«Io speravo che finisse a maggio, vorrei andare a Santo Domingo dove ho casa. Più che un premio è una scelta di palinsesto. Il premio era arrivato da Stefano Coletta (direttore di Rai1, ndr), mi ha offerto la conduzione di alcune prime serate ma ho rifiutato. Preferisco fare bene una sola cosa alla volta. Ne parleremo più avanti».

E lo Zecchino d' Oro?

«Quello lo farò. Una prima serata con Carlo Conti, a maggio».

Come ha convinto Achille Lauro a venire a Domenica In?

«Sono un' ex figlia dei fiori rimasta cosi com' ero, non sono cambiata tantissimo da quando vendevo gli stracci a Campo de' Fiori, ed evidentemente certi cantanti come lui, o come Ultimo, sentono un' affinità. Tutto sommato anche io sono una rock star».

C' è qualcuno che non si è messo in fila per lei?

«Mahmood. Il suo manager mi aveva pregato per l' intervista, poi ha cancellato tutto il venerdì prima. Sono cose che non si fanno, si è comportato molto male».

Diceva: sarà la mia ultima Domenica In. È così?

«Quando l' ho detto ero convinta, lo pensavo davvero: quel programma sono 40 puntate, un anno della tua vita. Poi però ci rifletto e penso che potrei dire di no a tutto, anche a Sanremo, ma non a Domenica In. Sono già la zia Mara: se non mi cacciano, diventerò nonna Mara».

Un futuro dietro le quinte?

«Potrei farlo benissimo, dopo 12 Domenica In da capo progetto. Ma francamente vorrei godermi la vita».

Quindi che progetti ha?

«Sto lavorando a un libro che dedicherò alla mia mamma. Parla di Alzheimer e spero che serva a chi vive con familiari malati. Si intitola Mamma ti ricordi di me?, perché a un certo punto non se lo ricordava più. Ma è un dolore troppo grande, non sono nemmeno convinta di volerlo finire».

·        Marcella Bella.

"Torno in tv e scrivo canzoni. La mia nuova vita Bella". Paolo Giordano il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. L'interprete da giovedì 16 nella giuria di "Star in the Star" su Canale 5: "Ilary Blasi? Una che non se la tira". «Sa che noi della giuria ci siamo amati a prima vista?». Ma guarda chi si rivede, Marcella Bella, proprio lei, «Cespuglio» come la chiamavano negli anni '70, dalla voce così potente e sensuale da salutarti ancora con un buongiorno da far tremare il telefono. Con Claudio Amendola e Andrea Pucci giudicherà le performance di Star in the Star che parte giovedì 16 in prima serata su Canale 5. Riassunto del programma, prodotto con Banijay Italia: dieci concorrenti del mondo dello spettacolo «vestono i panni» di dieci superstar della canzone, da Michael Jackson a Mina, da Baglioni a Zucchero, da Madonna a Lady Gaga. E «vestono i panni» non è detto tanto per dire: i concorrenti saranno trasformati totalmente, dalla ricostruzione del volto per mezzo di artifici iper-realistici in silicone al platino, assumendo le stesse movenze e sfumature dell'artista che interpretano. In sostanza, irriconoscibili: «E difatti io non ne conosco neanche uno», dice lei. Comunque conduce Ilary Blasi: «Una che non se la tira», conferma Marcella Bella che all'esordio era solo Marcella «perché avevo paura che il Bella fosse considerato un apprezzamento e non un cognome». Pudori d'altri tempi.

Insomma parte un «programma con mistero».

«So che i concorrenti sono del mondo dello spettacolo, qualcuno più conosciuto, altri meno. Tutto qui».

L'unica donna in giuria.

«Amendola è molto empatico. E con Pucci si riderà, ovvio».

Come giurata come sarà? Tendenza Morgan (colto e concettoso) oppure Arisa (stravagante e competente)?

«Di sicuro darò giudizi molto leggeri, molto soft perché dopo il periodo che abbiamo trascorso e che stiamo ancora trascorrendo c'è bisogno di leggerezza».

Qualcuno ne ha troppa e finge che non ci siano divieti.

«Fatico a condannare i ragazzi che, sbagliando, vanno a ballare. Sono adolescenti, hanno perso un anno di vita e perderlo alla loro età è un danno inestimabile».

Lei si è vaccinata?

«Sono vaccinata e sono pro-vax, ci mancherebbe. Il vaccino è l'unico modo per battere questa malattia. Se i no-vax si rendessero conto di come si muore in ospedale con il Covid, da soli, senza vedere i propri cari. Impazzisco al solo pensiero».

Il suo brano preferito?

«Non ce n'è uno. Tutti pensano Montagne verdi, che è un successo ancora ora e lo cantano pure i bambini. Ma...».

Ma?

«Io domani mi mette ancora i brividi quando canto. E Nell'aria è stato il passaggio dalla Marcella ragazzina alla Marcella donna».

Testo di Mogol.

«Un testo molto sensuale, che io all'inizio non volevo cantare perché temevo si riconoscessero dei doppisensi. È stato Mogol a incoraggiarmi, a ragione».

La musica è di suo fratello Gianni Bella, colpito anni fa da una grave malattia.

«Gianni ha una grande dignità nella malattia, pensi che era lui a consolarmi nei primi tempi. Parla a fatica, ma le parolacce le dice tutte, com'è sto fatto? (sorride - ndr). In più canticchia... È talmente forte che quando è stato vaccinato, non ha avuto alcun problema, manco male al braccio».

Lui le ha scritto tante canzoni.

«Ma adesso ho iniziato a scriverle io. Per tanti anni mi sono sentita sotto la sua ala, ora provo a fare da sola».

Risultato?

«Mi sono chiesta come mai non lo avevo fatto prima».

Marcella Bella parla sempre chiaro.

«Talvolta troppo. Mi sono spesso trovata nei guai. Come quella volta in un programma tv quando dissi che una cantante di successo (non fa il nome - ndr) era stonata. Apriti cielo, mi hanno massacrata».

Anche le sue posizioni politiche hanno spesso fatto discutere.

«Sì ma preferisco non parlarne. Molti dicono che, se si rivela di essere di sinistra, si hanno agevolazioni. In ogni caso, non faccio politica».

Marcella, il prossimo anno compie quegli anni là, quelli perfetti per una celebrazione.

«I 70? Mi piacerebbe organizzare qualcosa di musicale nella mia Sicilia, io sono di Catania anche se adesso vivo a Milano».

Rai o Mediaset?

«Adesso non posso dirlo».

Quindi ci sarà un disco.

«Sicuramente. Ho otto inediti già pronti».

E Sanremo 50 anni dopo Montagne Verdi?

«Ci provo, ma so che è difficile. In ogni caso, ho un brano che incuriosisce con un testo molto particolare, mi piacerebbe che Amadeus lo ascoltasse».

L'ultimo Festival ha rilanciato Orietta Berti.

«Canta benissimo. E il brano Mille con Fedez e Achille Lauro è un vero tormentone. Lei è stata notata da loro e in questo è stata fortunata».

E se qualche giovanissimo cercasse Marcella Bella per un featuring?

«Non ho preclusioni di sicuro. Però devo fare la parte cantata eh». 

Paolo Giordano

·        Marco Bellocchio.

Marco Bellocchio: «Ho inseguito la rivoluzione e poi l’analisi. Non rinnego nulla, ma non ho visto quello che succedeva nella mia famiglia». Nell’ultimo film, “Marx può aspettare”, la resa dei conti più intima con la tragedia del fratello suicida. Dalla militanza politica e la psicanalisi collettiva alla ricerca di oggi, tra storia personale e vicenda pubblica. Colloquio con il grande regista. Marco Damilano su L'Espresso il 19 agosto 2021. Marco Bellocchio, 82 anni a novembre, è stato premiato con la Palma d’onore a Cannes, ha appena finito di girare la fiction sul rapimento di Aldo Moro “Esterno notte” e si prepara al prossimo film. Ha atteso più di cinquant’anni per la sua resa dei conti personale. Con il fratello gemello Camillo, che si tolse la vita il 27 dicembre 1968 nella città dei Bellocchio, Bobbio, vicino Piacenza. Con la sua famiglia. Con se stesso, la sua storia di intellettuale militante. «Ho inseguito la rivoluzione e poi l’analisi collettiva di Massimo Fagioli. Non rinnego nulla, ma mi hanno allontanato dalla possibilità di capire perché non avevo visto quanto stava succedendo a mio fratello». Il non vedere, il non capire, è il tema del film “Marx può aspettare”, che scatena reazioni inattese: emozione, commozione. La famiglia, dove avviene quasi tutto quello che non è visto, non è capito, non sarà detto né spiegato. Ma anche la possibilità, decenni dopo, di indagare su se stessi. Un film dolorosamente privato, intimo. Ma anche pubblico, politico. Il diario di una generazione che non ha saputo vedere chi restava indietro. «La tragedia familiare coincide con l’annus mirabilis et horribilis, il ‘68. Io a 29 anni mi sentivo già vecchio rispetto ai giovani rivoluzionari che ne avevano 21. Dopo l’estate ci fu l’uscita dallo spontaneismo e il passaggio dell’organizzazione, io entrai nell’Unione dei comunisti marxisti-leninisti, un maoismo religioso, avevo rinnegato la mia formazione cattolica ma restava dentro di me. Mi agganciò l’intellettuale Luca Meldolesi, che era stato vicino ai Quaderni piacentini di mio fratello Piergiorgio. Ero attratto da una militanza radicale, totale. Il borghese che voleva rieducarsi alla scuola del popolo doveva rinunciare a tutto, doveva spogliarsi dei suoi beni materiali. La povertà al servizio del popolo». 

Una radicalità evangelica, più francescana che maoista.

«Alcuni vendettero case e appartamenti, anche se c’è sempre stata una certa mitologia a proposito. Non c’era una polizia segreta che ti controllava, ma era obbligatorio. Io mi limitai a dare denaro, la mia famiglia aveva un patrimonio indiviso, il procuratore era mio fratello Piergiorgio, che era di estrema sinistra, ma con i Quaderni piacentini non ha mai sconfinato nel maoismo, era più vicino a Lotta Continua». 

Una famiglia particolare. Lei come regista aveva già sfondato con un film “scandaloso” come “I pugni in tasca”, i suoi fratelli erano un intellettuale, un sindacalista, tutti di successo. E poi Camillo, che non ce la faceva.

«Camillo era in crisi, ma nessuno di noi pensava a una conclusione tragica. Quando passai da Piacenza, qualche mese prima del dramma, provai a spiegargli che eravamo tutti infelici per colpa della nostra matrice borghese. La strada era spogliarsi non solo dei beni materiali, ma anche di una mentalità che ci impediva di cambiare, di trasformarci, di andare verso il popolo che aveva la sapienza. Il popolo non solo produceva, ma aveva l’intelligenza per produrre che gli veniva rubata dal capitalismo, così pensavamo. Lui rispose con un leggero ghigno: “fratello mio, io ho angosce e tormenti talmente grandi che Marx può aspettare”. Fu soffocato da questa angoscia. Dopo la sua morte rimasi un certo periodo a Piacenza a sostenere la recita nei confronti di mia madre, su Camillo è salvo, è in Paradiso, ma la tragedia era in sé, lui si era ammazzato anche contro di lei. Poi tornai a Roma e mi ingaggiai ancora di più nella politica». 

L’impegno fu la sua risposta al suicidio di Camillo?

«Se è accaduto questo, mi dissi, devo applicarmi ancora di più alla militanza rivoluzionaria. Feci un film di propaganda per il partito, si chiamava “Paola”, la città calabrese, sulla povertà e il sottosviluppo. Fu interamente finanziato da me, sotto la supervisione dei responsabili. Un altro film con vari registi si intitolò “Viva il primo maggio”. Vivevo a Roma in un villino a Città giardino affittato dal partito per la sezione stampa e propaganda. Il responsabile era Claudio Meldolesi, il fratello di Luca. Il leader era Aldo Brandirali, si facevano riunioni di auto-critica, il riferimento era il libretto rosso di Mao, lì c’era la risposta a tutte le domande, il giusto e lo sbagliato. Era il Vangelo». 

Brandirali entrò anni dopo in Comunione e liberazione. Quando lasciò i maoisti?

«A volte venivo accusato di un atteggiamento non abbastanza ottimistico, problematico, depressivo. La mia militanza finì con il 12 dicembre 1969, la bomba di piazza Fontana. Fu come se fosse deflagrato qualcosa anche dentro di me. Capii che c’era qualcosa che mi sfuggiva completamente. Feci l’errore di firmare l’appello degli intellettuali sull’Espresso contro il commissario Luigi Calabresi. Un passo falso compiuto per superficialità, non era serio schierarsi per qualcosa che non conoscevo abbastanza». 

Oggi viviamo la stagione opposta. Tutto è liquido, nulla è militanza. Perché ha sentito il bisogno di confessare questa inadeguatezza: è un senso di colpa, un rimorso, un pentimento?

«Il film ha avuto una elaborazione complessa. È un giornale intimo. Il titolo doveva essere “L’urlo”, come quello di Munch, l’urlo di mia madre che quando seppe di Camillo non urlò ma si strappò le vesti. Poi mia moglie Francesca Calvelli mi ha spinto a cambiare idea e a titolare il film “Marx può aspettare”. In tutti questi anni il marxismo c’è stato, ma si è dissolto». 

Dopo il maoismo arrivò la psicanalisi di Massimo Fagioli, un’altra esperienza radicale.

«La svolta arrivò attraverso un amico, Piero Natoli, attore e regista, che frequentava l’analisi collettiva di Massimo Fagioli, allora era in via di Villa Massimo a Roma. Andai con una certa prudenza, ma mi coinvolse per un periodo luogo. Di nuovo in modo totalizzante: di lì passava il mio destino. Non frequentavo il mondo del cinema, mi riferirono che di me si parlava come di un artista di talento che si era perduto, si era fatto plagiare. “Il diavolo in corpo” fu un’esperienza unica, di apertura artistica, la scelta di portare Fagioli sul set provocò conflitti enormi ma fu un cortocircuito positivo. Ci furono poi altri due film fagioliani, “La condanna” e “Il sogno della farfalla”, quest’ultimo interamente scritto da Fagioli. Scattò in me quanto era successo con i maoisti. Non mi sentii libero e ripresi la mia autonomia». 

Quale fu il momento di rottura?

«Non rinnego nulla. Ho continuato a seguire l’analisi collettiva per alcuni anni, ma con un allontanamento progressivo. Mi colpivano le interpretazioni dei sogni, le connessioni. Spesso Fagioli ripeteva: Freud è un imbecille. Io non riuscivo, non mi apparteneva questo modo. Non fui cacciato, a un certo punto me ne andai. Mi diedero a Venezia il Leone alla carriera, non frequentavo più l’analisi collettiva, tra i ringraziamenti non citai Fagioli e lui trovò la cosa orrenda, me lo disse nella nostra ultima telefonata. Ma ogni ideologia e ogni fede limitano l’arte». 

Eppure tutto il suo percorso artistico è l’incontro con il radicalismo.

«Io mi definisco ora un rivoluzionario moderato. Per dire che Freud è un imbecille devi avere una certezza assoluta, io non l’avevo. In questo mi è rimasta la mentalità cattolica».

In “Marx può aspettare” affida lo sguardo esterno alla sua famiglia a Luigi Cancrini e padre Virginio Fantuzzi, uno psichiatra e un prete gesuita. Perché?

«Avevo bisogno di parole semplici, non dominate dalla correttezza assoluta di un certo pensiero. Ho preferito una conversazione più familiare. Padre Fantuzzi, con moderazione, mi vedeva più credente di quanto io non sia». 

Nel film dice che ha visto a passare la sua vita sul grande schermo come sulla grata del confessionale.

«Mi ha assolto e preso su di sé la penitenza che mi ha risparmiato. E ha visto in me tracce di cattolicesimo. Per me la fede, come dice Ratzinger, è un assurdo. Io non mi faccio domande sull’al di là e neppure dico che se c’è qualcosa dopo, meglio così, mi sembra superficiale. Non ho immagini come quella di mia sorella Letizia che vorrebbe rivedere i nostri genitori e i fratelli». 

E lei? Nella scena finale vede correre Camillo, giovane, in tuta. Ricorda molto la passeggiata di Aldo Moro in “Buongiorno Notte”, la speranza di una realtà diversa in cui le Brigate rosse lo hanno liberato e non ucciso.

«Un sogno di libertà. Ma io non spero di rivedere Camillo dopo la morte». 

Nel suo cinema ha attraversato le grandi narrazioni del Novecento: il comunismo, la psicanalisi e anche il cristianesimo radicale contrapposto al cattolicesimo borghese. Ora che queste narrazioni non ci sono più che spazio resta per raccontare?

«Il racconto di noi stessi. La famiglia. Le piccole cose quotidiane di Bobbio. Sto scrivendo un film sulla storia del rapimento e della conversione di Edgardo Mortara. C’è l’oppressione, il crollo del regno del papa Pio IX, ma anche il mistero della conversione. Mi sto interrogando su come raccontarlo. Questi temi, sprofondati nell’Ottocento, si mescolano con la mia vita, i miei ricordi, la mia esistenza». 

“Marx può aspettare” ci pone la questione del non-vedere. Per un regista è la sfida più grande: far vedere quello che non vediamo. Ma lei va oltre. Parla di sé: è lei che non ha visto, lei che non ha capito il gemello Camillo. Ci sono le donne che depongono il corpo dopo il suicidio, c’è la fidanzata Angela, anche lei non è stata vista da voi fratelli Bellocchio, lo ricorda la sorella Giovanna.

«Io mi accontenterei almeno di far intravvedere. È la domanda che mi muove: perché non ho visto, perché non ho capito. A volte c’è la fortuna di incontrare qualcuno che vede. La famiglia è il luogo dove il non vedere diventa più drammatico. Nel caso di Camillo sapevamo di un disagio, ma pensavamo che si fosse sistemato perché aveva aperto una palestra, invece non gliene fregava nulla. Non aver visto, non aver visto abbastanza, aver sottovalutato. In quel deserto, in questa arida infelicità, ognuno cercava di sopravvivere. Io pensavo sempre ad andare lontano. Il filo della famiglia è emerso in me solo grazie al passare del tempo, altrimenti sarebbe rimasto nascosto per sempre». 

Ha appena finito le riprese della serie “Esterno notte”, dopo “Buongiorno notte” del 2003. È l’altra faccia di “Marx può aspettare”. Qui il giornale intimo dentro la storia, lì il racconto di sogni, desideri, incubi dei personaggi della storia che noi non vediamo.

«Nella serie mi chiedo: cosa facevano i protagonisti nel frattempo, mentre la storia accadeva? L’idea è capovolgere il campo rispetto a “Buongiorno notte”, fare il controcampo, vedere personaggi come Cossiga, il papa, i terroristi, Eleonora Moro a casa loro. E poi bisogna prendere posizione, non si può non prendere posizione». 

In “Buongiorno Notte” Moro appare come un padre ucciso dai figli, il parricidio della Repubblica.

«È vero, infatti dedicai il film a mio padre, fu per me una riconciliazione. Da alcune voci della sinistra, per esempio Goffredo Fofi, fui attaccato per questo, fu respinta questa immagine. Altri invece ebbero una reazione di grande coinvolgimento». 

La storia italiana è una storia senza padri? O un continuo affidarsi a governanti paternalisti?

«Per mia madre Mussolini a un certo punto era un salvatore. Oggi anche l’uomo forte deve essere fortemente democratico. Nessuno osa criticare Draghi o Mattarella, figure iper-democratiche, accettate dalla maggioranza. A confronto, Salvini è fragile, la Meloni parla sicura di sé ma nessuno ha capito se è favore del green pass o contraria. Il Pd ha più democristiani che comunisti. Il Movimento 5 Stelle sopravvive per revisionismo, le istanze delle origini sono sparite. Anche la Chiesa è svanita, quello che dice il papa Francesco non viene applicato». 

Non le è venuta la voglia di fare un lavoro sull’Italia contemporanea?

«Ai tempi del berlusconismo imperante avevo scritto un soggetto intitolato “Italia mia”. Immaginavo un grande fratello iper-cattolico, la riunione in un convento di ragazze che dovevano dimostrare di possedere una fede assoluta. Nel finale un presidente voleva sedurre una di loro, Giuditta, lei andava a incontrarlo per ucciderlo. Come la Giuditta della Bibbia con Oloferne». 

Perché non lo ha realizzato?

«Nessuno volle farlo e lasciai perdere». 

È la conferma che il racconto dell’Italia al cinema è quasi inesistente.

«Il racconto dell’Italia era possibile quando il cinema era all’opposizione». 

E ora è al potere?

«Mario Monicelli disse: non abbiamo più capito nulla dell’Italia quando abbiamo smesso di prendere l’autobus. La grandissima satira e il grande cinema di denuncia civile erano legati a una stagione in cui c’era l’opposizione. Le nuove generazioni hanno dentro una rabbia più giovane, tocca a loro intervenire. La politica che ho attraversato io non c’è più».

Vittorio Lingiardi per "il Venerdì - la Repubblica" il 19 luglio 2021. Tre ore dopo che Marco Bellocchio venne alla luce, era il novembre del 1939, Camillo, il gemello non visto, nascosto più a lungo nelle oscurità materne e già malinconico, lo raggiunse alla vita. Nel dicembre del '68, non ancora trentenne, Camillo si suiciderà. La sua ombra gentile accompagnerà le esistenze di tutti i Bellocchio. Qualche anno fa il regista decide di riunire la famiglia, quelli rimasti. Ha in mente di fare un film, non sa ancora quale. Fa parlare tutti: le sorelle Letizia e Maria Luisa, in piena meraviglia atemporale; Piergiorgio, fondatore dei Quaderni piacentini; Alberto, sindacalista, che nel poema Il libro della famiglia ricorda Camillo come «quel giocatore cui toccarono in mano non favorevoli carte». Di Marco ci sono anche i figli e sono loro a far parlare lui, brevi interviste alla ricerca di un gesto sbagliato, forse solo mancato, come incolpevolmente càpita tra fratelli ragazzi. Con queste e altre voci, accompagnate da immagini di storia privata e pubblica, Bellocchio costruisce un racconto privato che diventa universale. Il fantasma di Camillo prende corpo ed è un'ombra dolce, che non lancia accuse. Rimane altrove, eppure con noi, quasi potessimo, per quell'ora e mezza di film, prendercene cura come un fratello anche nostro, un figlio evanescente, un giovane uomo che ha mancato il suo passo. Si intitola Marx può aspettare perché questo disse Camillo a Marco l'ultima volta che si sono parlati: mentre i ragazzi del '68 inseguivano un sogno collettivo lui porgeva il collo a un demone privato. «Eravamo abbastanza sani noi fratelli per sentire dolore?», si domanda il regista. Marx può aspettare è l'elaborazione corale di un lutto e non poteva che avvenire attraverso un film perché fu il cinema la strada subito e per sempre imboccata da Marco Bellocchio per sopravvivere e raccontare la famiglia che quel lutto ospitò.

Il festival in presa diretta. Palma d’onore a Cannes per Marco Bellocchio: “Così mio fratello scelse la morte”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 16 Luglio 2021. Oggi al Festival di Cannes, giunto quasi a conclusione della sua insolita 74esima edizione è la giornata dedicata a un maestro del nostro cinema, Marco Bellocchio, onorato con un premio che il Festival consegna raramente: la Palma d’onore. A consacrare questo riconoscimento, l’uscita in Italia ieri 15 luglio e lo special screening a Cannes di Marx Può aspettare, ultima opera del regista che partendo dall’idea di una riunione di famiglia da documentare, diventa film su Camillo, il suo gemello, scomparso suicida a soli 28 anni. In un incontro a cuore aperto come questo suo film, il più personale e senza filtri della sua carriera, Marco Bellocchio si offre artisticamente ed emotivamente e ci accompagna lungo il percorso fatto con il film e per il film a partire dalla sua genesi: «Avevamo organizzato questo pranzo con i parenti al circolo di Piacenza con l’idea di fare un film sulla mia famiglia, ma capii subito che non volevo fare qualcosa di nostalgico e di generico su ciò che restava della mia famiglia e abbiamo individuato subito il mio protagonista, l’assente, il mio gemello Camillo», dichiara il maestro. Marx può aspettare è un film che indaga nel privato del regista de I pugni in tasca e mostra in maniera fluida, dolorosa e anche leggera, quanto il percorso cinematografico di Bellocchio sia stato costellato di tentativi di elaborare quanto accaduto all’interno della sua famiglia. A parlare di Camillo, il regista ci aveva provato varie volte: «Nella mia vita ci sono stati una serie di avvicinamenti a questa storia, in particolare in Gli occhi e la bocca ma di quel film non sono mai stato contento perché mi sono reso conto che il fatto che fossero ancora vivi mia madre e il mio impegno politico erano presenze che mi condizionavano, mi impedivano di dire tutta la verità». «Con Marx può aspettare – conclude – mi sono sentito leggero e libero e qualcuno ha notato che è anche un film spiritoso». Considerando la Palma d’Onore di questa sera, celebrazione di una carriera che è impossibile non ripercorrere nei suoi continui memorabili successi, i frammenti di cinema del Maestro contenuti in Marx può aspettare, ci permettono di guardare ai suoi film in maniera più empatica e viscerale: «Al montaggio, la memoria ci ha fatto collocare una serie di frammenti dei miei film mostrandoci che questa tragedia aveva percorso tutta la mia vita e mi sono reso conto che i suicidi sono frequenti nei miei film, se pensiamo a Salto nel vuoto, al regista sfigato in Il Regista di matrimoni e anche a Gli Occhi la bocca dove c’è l’attore che pronuncia già la frase Marx può aspettare». Il nuovo lavoro di Bellocchio è racconto universale sul dolore, sui modi diversi con cui si può elaborare il lutto ed è anche racconto di formazione di un ragazzo, Camillo, che cercava il suo posto nel mondo e non è riuscito a trovarlo, «come certi eroi romantici che si suicidano». Come in un mea culpa per cui non cerca assoluzione, Bellocchio racconta come la sua famiglia ha sottovalutato la disperazione di Camillo, la sua ricerca senza meta: «È in un certo senso il mio film più privato – dichiara – nel quale mi sono sentito molto libero, anche liberato ma non assolto. È qualcosa di molto comune il fatto che di fronte a certe tragedie (lo si vede spesso anche in TV) si dica: non avevo capito. Noi non avevamo intuito la tragedia che stava sotto la vicenda normale di nostro fratello. Questo è un po’ uno dei centri del film». A proposito di non capire, senza indulgenza, Marco Bellocchio rivela l’esistenza di una lettera di disagio e aiuto di cui aveva quasi dimenticato la presenza, scritta da Camillo a lui , il suo gemello. Confessione dal regista sottovalutata e dismessa: «Io l’ho trascurata, voi la chiamate distrazione, io la chiamo assenza la mia. Non posso difendermi dietro il fatto che che avevo i miei problemi da risolvere». È un po’ questa consapevolezza del maestro, del comportamento suo e della famiglia nei confronti del malessere di Camillo che ha portato alla sostituzione del titolo e dello stile del film, da L’urlo a Marx può aspettare, frase quest’ultima detta proprio dal nostro protagonista in una chiacchierata dove confessava al suo gemello Marco, il disagio del sentirsi fuori posto in quel periodo. Bellocchio ricostruisce così la conversazione inserita anche in uno dei suoi film: «Il riscatto e la redenzione della tua infelicità sta nella lotta rivoluzionaria, questo fu in sostanza quello che gli dissi. Lui mi rispose ‘Marx può aspettare!’ come a dire: la politica dopo, prima devo risolvere le cose mie che nessuno mi ha aiutato a risolvere». Come conseguenza inevitabile del descrivere ed analizzare un film che è nato per preservare ricordi che altrimenti sarebbero andati perduti con la scomparsa di membri della famiglia, arriva la richiesta al maestro Marco Bellocchio di una sua personale riflessione sulla morte: «Qui tanti amici non ci sono più, tanti coetanei, però noi continuiamo a lavorare e questo non è che modifica il mio rapporto con la morte, non credo all’eternità. C’è sempre una sottile angoscia rispetto a questa conclusione che però varia a seconda di quello che fai: adesso dobbiamo portare a termine una faticosissima serie, poi faremo un film, se sei dentro la vita e il tuo lavoro, per fortuna ti dimentichi del fatto che esiste anche questa possibilità», confessa esorcizzando un po’ tutta la discussione. Infine l’attenzione va alla giornata di oggi, di celebrazioni, di Palma d’Onore consegnata dalle mani del direttore artistico Thierry Fremaux davanti a una sala gremita di cinefili, e professionisti del cinema e con la proiezione di un film così privato e personale: «Questo film e il riconoscimento sono due cose unite ma anche molto separate», sottolinea Bellocchio «perché Fremaux è stato estremamente generoso, ha visto il film, l’ha ammirato. Ma io palpito non tanto per la premiazione – quella sarà faticosa perché non è nelle mie corde – ma per la proiezione del film dove ci sarà un pubblico internazionale. Quella è un’esperienza a cui parteciperò sentendomi anche più giovane perché è inimmaginabile portare a Cannes un film piccolo che è nato per noi. Sulla Palma poi aggiunge: «Della Palma sono contento. Non la considero assolutamente un premio che mi ripaga però: qui io ho avuto sempre grandi soddisfazioni. Stasera ricorderò senz’altro il grande Michel Piccoli che ottenne la doppia Palma per Salto nel vuoto». Chiara Nicoletti

Stefano Giani per “il Giornale” il 16 luglio 2021. «Oui, je parle français mais... in italiano sono più libero». E per Marco Bellocchio, il giorno prima di ricevere la Palma d'oro d'onore, sentirsi a proprio agio è importante. Il premio è di quelli prestigiosi e non sono in tanti ad averlo ricevuto. Prima di lui, Jodie Foster e Jeanne Moreau. Bernardo Bertolucci e Jane Fonda. Jean Paul Belmondo e Alain Delon. A sciogliere la riserva è lo stesso Thierry Frémaux, direttore artistico del festival, dopo aver visto l'ultima fatica del regista, quel Marx può aspettare in cui lascia affiorare un'autoaccusa o, se si preferisce, un'ammissione di superficialità nel non aver capito il dramma che covava nel cuore del fratello gemello Camillo, morto suicida. «Lui si è fermato alla bellezza dei suoi 28 anni, io sono invecchiato ma nessuno di noi ha intuito i turbamenti di quell'eroe romantico che cercava il suo posto nel mondo senza trovarlo». Il documentario, uno sguardo intimo sulla propria famiglia, ha commosso Frémaux che ha deciso il riconoscimento in questa edizione, successiva a quella del 2019, in cui Bellocchio partecipò in gara con Il traditore. Sulla Costa Azzurra l'artista piacentino si sente a casa. Pur ritenendosi allergico alle cerimonie, ha raccolto parecchie soddisfazioni e a una di queste è particolarmente affezionato. Era il 1980 quando il suo Salto nel vuoto fece vincere a Michel Piccoli e Ainouk Aimée la Palma per la miglior recitazione maschile e femminile. Un'accoppiata che probabilmente escluse dal premio lo stesso Bellocchio che domani sera, nella passerella finale, riceverà l'ambita Palma. Un italiano sicuro trionfatore che ieri non si è sottratto a un doppio incontro con giornalisti e pubblico per l'uscita di Marx può aspettare. A ventiquattr'ore dall'arrivo nelle sale italiane, oggi sarà in cartellone anche a Cannes. E l'occasione è rivisitare la propria vita - professionale e non solo - perché il regista piacentino è stato letteralmente saccheggiato senza risparmio. C'è stato chi gli ha chiesto come ha ritenuto di aver gestito la privacy nei confronti della sua famiglia e quella domanda impertinente sul suo rapporto con la morte, che ha letteralmente sorpreso per la reazione. Nessun colorito scongiuro, che pure sarebbe stato perdonato, ma una grassa risata divertita. «C'è qualcosa di bergmaniano in tutto questo. Sembra di essere nel Settimo sigillo. La verità è che non ci penso. So che fa parte di questa vita ma finché uno ha voglia di lavorare ed energie da spendere, a questa frontiera non pensa». Senza mai voler nominare quella parola angosciosa. Soprattutto alle soglie degli 82 anni «quando è inevitabile accorgersi che molti compagni di strada non ci sono più e ci si sente più soli». Il frullatore che lo travolge tuttavia non conosce logica e nel giro di poche ore arriva il ribaltamento totale. Che consiglio darebbe al Marco Bellocchio bambino? Altra spontanea risata con allargamento di braccia annesso. «Sono vecchio, ormai. Indietro non si può tornare, però posso dire di non avere rimpianti». E la sua storia è ricca. Ricchissima. Parla di un ragazzo nato a Piacenza in una famiglia cattolica e borghese che, strada facendo, ha perso per strada tutti e due gli aggettivi. La religione bigotta, alla quale guarda ripensando ai familiari e alla sorella sordomuta, che nell'ultimo film «sogna di trovare genitori, fratelli e parenti ma si domanda come sia possibile in un aldilà fin troppo affollato». Il suo sguardo distaccato di ateo credente e professante si scontra con l'immagine di inferno e paradiso ereditata da tanti discorsi con la madre. «Aveva una catalogazione precisa di dove finiva ognuno in base ai suoi peccati e alle sue debolezze. Oggi però alle fiamme della Geenna e agli angioletti dell'Eden non ci crede più nessuno, vero...». E una volta tanto la domanda la fa lui. Riscuote sguardi ma non parole. E allora racconta il percorso politico che lo ha portato ad abbandonare le origini. Perfino rinnegarle. «Nel '67 ho deciso che non sarei stato un artista borghese». E l'avvicinamento a quella sinistra maoista dalla quale si è poi allontanato pagando un prezzo non indifferente. «Violenza e terrorismo non mi sono mai appartenuti ma da quella stagione si usciva in tre modi. L'integrazione nel sistema politico, diventando dirigenti. La droga, andando al creatore. Io mi sono ritrovato nelle mani dello psicologo. Dovevo capire chi ero».

·        Marco Castoldi in arte Morgan.

Michela Tamburrino per "la Stampa" il 21 dicembre 2021. Il vincitore morale di Ballando con le stelle di Rai1 appena concluso, è certamente Morgan. Non tanto e non solo per le qualità di ballerino che ha rivelato ma soprattutto per aver contraddetto quella nomea di sfasciatutto che gli è stata appiccicata addosso. Marco in arte Morgan, è rimasto fino alla fine e si è giocato la finale aggiudicandosi la medaglia di bronzo. Liti tante, certo, con una giuria composta proprio per essere divisiva. Ma come dice lui, è spettacolo nello spettacolo. 

Morgan, che esperienza è stata?

«Bellissima, alternativa. Un importante riavvicinamento all'intrattenimento del servizio pubblico, alla rete ammiraglia. Vede, in X Factor di epoca Rai, io avevo un ruolo preciso, tra lo show e la divulgazione musicale. Con la stessa serietà di quella che mi portava a far conoscere David Bowie o Lou Reed, qui ho cercato di costruire dei momenti di arte. Il ballo è una disciplina che mi mancava, sono grato di quello che mi è stato messo a disposizione, qualcosa di magico».

Con la sua insegnante Alessandra Tripoli ha avuto qualche frizione?

«Ma no, si è creato un sodalizio umano e professionale perfetto. Non ero abituato ad essere allievo, una piacevole novità, in dieci settimane ho imparato dieci balli diversi, mentre la gestione del palco è campo mio». 

Questo connubio di elementi felici l'ha portata a «sbroccare» meno?

«Lo "sbrocco" ha tanti perché riassumibili nel fatto che ci si trova davanti a gente poco libera, non incline allo stupore dell'imprevisto e dunque non disposta a lasciare che gli accadimenti la portino altrove. La gente non è più abituata, in questo clima». 

Parliamo di paura da Covid?

«Non solo. L'Italia degli ultimi vent' anni è pavida e poco incline all'arte. La Rai ha strumenti di incredibile versatilità che pochi sanno usare, infatti ho proposto cose diverse. Sono grato a Milly Carlucci che mi ha dato la possibilità e la libertà di stupire il telespettatore». 

Eppure da lei ci si aspettava molto più di qualche innocua baruffa legata alle votazioni ingenerose nei suoi confronti

«Contro di me solo pregiudizi presto sfatati, diffamazioni di malelingue». 

 E adesso?

«Adesso Morgan è pronto per un programma tutto suo in cui mettere passione sfrenata, musica, società, persone, incontri. Me la vorrei giocare sul campo, mettendoci anche la danza. Perché io ho vinto. Il concetto di vittoria è morale, personale, è l'arte che vince sull'oblio e la misantropia. Ad essere atrofizzato è il sistema che ha impedito a Rossi Albertini di parlare di scienza. Un momento di valore».

Forse per problemi di ascolti. Così Ballando ha stracciato lo show di Baglioni su Canale 5.

«Lo show di Baglioni è andato male ed era un capolavoro, bisogna dirlo in piena sincerità e bisogna che queste operazioni si continuino a produrre». 

Il momento reality sul privato come l'ha vissuto?

«Non lo amo ma bisogna accettarlo. Di mio non parlerei della famiglia e non mostrerei foto dei genitori. Ma fa parte dell'estetica che oggi si usa e a me piace essere livellato alla normalità. Perché non sono come mi si vuole dipingere, assurdo, disturbante. Per chi scrive come me, l'anima va tutta nelle canzoni».

Ma almeno il gusto della polemica ce lo lasciamo?

«Le polemiche non mi piacciono e lo dico come autocritica. È brutto perdere il controllo. Ma devo stare al gioco dello spettacolo e usare le dinamiche dell'intrattenimento». 

Allora non ce l'ha davvero con la tanto vituperata giuria?

«È gente bravissima che ha dato il massimo in 16 anni a Ballando. Ora sarebbe giusto dare spazio ad altri, magari prendendosi un anno sabbatico». 

Ma voi siete star che si mettono in gioco. Ci sta anche il giudizio più feroce da parte di chi non è proprio esperto di danza ma fa spettacolo.

«A X Factor Maionchi e Ventura hanno avuto sempre l'umiltà e la delicatezza di non addentrarsi in campi meno conosciuti, dissuadevano senza mai umiliare né offendere. Qui invece possiamo parlare di bullismo verso il gesto poetico».

Se tornasse indietro, rifarebbe quello che ha fatto a Sanremo con Bugo?

«Non una ma mille volte lo rifarei se mi ritrovassi nelle condizioni estreme di mobbing in cui ero allora. È stata l'unica mossa possibile e intelligente che li ha messi di fronte alla loro nullità».

"Non la vedo da due anni". Morgan riabbraccia la figlia Lara. Novella Toloni il 12 Dicembre 2021 su Il Giornale. Durante la semifinale di Ballando con le stelle, il cantante ha ballato a sorpresa con la figlia avuta da Jessica Mazzoli, la piccola Lara, che non vedeva da quasi due anni. La seconda semifinale di Ballando con le stelle ha regalato emozioni molto forti. A fare commuovere il pubblico in studio e i telespettatori da casa è stato il valzer che Morgan ha iniziato con la sua ballerina e terminato con sua figlia Lara. Un'esibizione a sorpresa, che lo ha visto riavvicinarsi alla figlia dopo quasi due anni di lontananza.

La gara dello show di Rai Uno stava volgendo al termine. I concorrenti in gara si stavano cimentando nell'ultima manche segreta dedicata ai balli con un familiare. Quando è stato il turno di Morgan, Milly Carlucci ha spiegato cosa sarebbe successo in pista: "Abbiamo chiamato Jessica per permettere la partecipazione di Lara alla gara. Morgan è a conoscenza della presenza della figlia ma non sa che succederà adesso".

La conduttrice ha mandato in onda la clip di introduzione, dove Morgan ha parlato del suo rapporto con le figlie Anna Lou, avuta da Asia Argento, Maria l'ultima figlia avuta dall'attuale compagna e Lara, nata dalla relazione con la cantante Jessica Mazzoli. Se con le altre due figlie Morgan è riuscito a instaurare un rapporto e a essere presente nel ruolo di padre, nel parlare di Lara l'artista si rattristato. Morgan ha rimarcato l'impossibilità, per vicissitudini legate al suo rapporto conflittuale con la madre, di vederla crescere da vicino: "L'ultima volta che ho visto Lara è stato due anni fa. Non ho potuto fare tanto con lei e mi dispiace. Bisogna fare qualcosa per superare questo". Dopo il video, il cantante è sceso in pista insieme ad Alessandra Tripoli, ma dopo pochi istanti al centro della pista è arrivata la piccola Lara, 7 anni. L'ingresso in studio della figlia ha lasciato Morgan a bocca aperta. Dopo un attimo di smarrimento, Marco Castoldi ha ballato il suo valzer insieme alla bambina, stregando la platea. "La danza unisce le persone, in questo caso me e mio padre e stasera sarà bellissimo", aveva dichiarato Lara poco prima di entrare in pista e sorprendere il padre. Momenti emozionanti che sono stati stemperati da Morgan, che a fine esibizione ha elogiato la figlia: "Sei molto più brava tu di me". Prima di abbracciarla ancora una volta.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi

Da lanostratv.it il 10 dicembre 2021. Nelle scorse ore è uscito un articolo su Dagospia secondo il quale Morgan e le sue intemperanze causerebbero molti problemi al programma, rendendolo ostile a giuria e pubblico e costringendo quindi Milly Carlucci ad intervenire per placare gli animi. E poche ore fa in una diretta su Instagram, Morgan si è duramente sfogato dando la sua versione dei fatti, smentendo totalmente tali dichiarazioni. Il concorrente di Ballando con le stelle dove è in coppia con Alessandra Tripoli ha tuonato:

“Tu non puoi parlare delle mie intemperanze perché non sai quanta professionalità c’è dietro. Non si può dire lascia perdere, non ti curare, ma è come prendere lo scalpello e scalfire la Cappella Sistina io vorrei che la gente avesse una coscienza!”

Durante il suo lungo sfogo su Instagram Morgan ha attaccato anche Selvaggia Lucarelli, Roberta Bruzzone ed Alberto Matano: 

“Lucarelli e Bruzzone e Matano sono incoscienti sul fare del male pubblico a me. Io non lo permetterei per nessuno. Si dovrebbe partire dai contenuti culturali che porto e dal fatto che con me la curva degli ascolti sale.” 

Il cantautore, che non ha risparmiato offese al giornalista di Dagospia e ai personaggi suddetti di Ballando con le stelle, ha poi aggiunto: “Se loro rispondessero di essere trash sarebbe una figata una divisione netta tra quelli come me e loro. Ma loro non lo dicono che vorrebbero zittirmi e mandarmi a quel paese per ogni cosa che faccio.”

Morgan ha continuato il suo duro sfogo su Instagram dicendo di aver eliminato dei post per fare pulizia nel suo profilo e di non aver minacciato nessuno ed infine ha concluso: “Voi non riuscite ad immaginare cosa significa essere pubblicamente diffamati. Il tema è questo non si possono lasciare parlare perché ogni volta che scrivono articoli di questo tipo ci sono persone che ci credono. Operazioni molto brutte dal punto di vista culturale.” 

Insomma, Morgan ha voluto chiarire il suo punto di vista contro alcuni articoli letti in questi giorni. Sabato prossimo, invece, scenderà nuovamente in pista a Ballando con le stelle con Alessandra Tripoli dove ha lanciato una sfida a Mariotto.

LA DAGO-RISPOSTA A MORGAN il 10 dicembre 2021. Caro Morgan, Dagospia si è limitato a riportare un’indiscrezione nota dagli addetti ai lavori, indiscrezione che per giunta pare confermata dal livore con cui, in risposta all’articolo, ti sei scagliato su alcuni membri del cast di Ballando con le stelle. Un consiglio affettuoso: visto che hai un’opinione così modesta di te da paragonarti alla Cappella Sistina, ti conviene ricordare che al momento non sei capomastro al soldo di un papa, ma concorrente in un programma di ballo insieme a Federico Fashion Style che non è esattamente Michelangelo.

Paola Italiano per "la Stampa" l'1 dicembre 2021. «Se telefonando potessi dirti addio, te lo direi, se guardandoti negli occhi potessi dirti basta, te lo direi». E invece no: c'è chi non riesce a farlo, e non lo fa. Sono quelli che spariscono, che non chiamano perché non sanno dire, non parlano perché non sanno spiegare, evitano perché non sanno affrontare la fine di una storia. Un dissolvimento che prende il nome di «ghosting»: e che oggi si manifesta nelle molteplici forme che può avere un'assenza: non esserci vuol dire non farsi vedere, non chiamare, ma anche non rispondere alle email, rendersi invisibile sui social, nelle chat, bloccare qualcuno impedendogli l'accesso a ogni istante della vita che si decide di condividere online. Morgan ne parla il sabato sera su Rai 1: e se accendere un faro sul fenomeno è importante, si tratta però di materia da maneggiare con cura, perché si entra nel territorio della medicina, della depressione e dei disturbi della personalità. «Il ghoster sparisce da un momento all'altro, senza un motivo evidente, magari anche dopo anni di relazione», spiega Tiziana Corteccioni, psichiatra e psicoterapeuta. E bisogna subito mettere dei paletti. Il ghoster non dà nessuna spiegazione: non è una persona che dice «è finita, non ti amo più, ora smettila di cercarmi». Non dice proprio nulla. E da qui nasce la prostrazione della vittima: «Si prova una profonda rabbia, ci si sente impotenti perché non si riesce a dare una spiegazione: e allora scatta il meccanismo per cui la vittima si attribuisce la colpa di questa sparizione, comincia a pensare di aver detto o fatto qualcosa di sbagliato». La vittima si sente il carnefice, e questo provoca un'ansia che può diventare depressione, e allora serve un aiuto medico per venirne fuori. «Io finché non l'ho vissuto - ha detto Morgan sabato sera - non avrei mai immaginato che le ripercussioni potessero essere anche dei danni fisici. L'idea di non poter parlare a una persona a cui vuoi parlare ti fa mancare il fiato». 

È un terreno scivoloso e se ne rende conto poco dopo la trasmissione Roberta Bruzzone, la criminologa opinionista di Ballando con le Stelle che commenta così:

«La sofferenza per essere stati lasciati non legittima la persecuzione di chi ha deciso di non voler più avere a che fare con noi/voi. Ci sono ottimi Professionisti della salute mentale a cui rivolgersi per evitare di trasformarsi in stalker o anche peggio». 

Ma capita davvero che la vittima del ghosting, non facendosene una ragione, si trasformi in stalker?

«Nella mia esperienza no- risponde la psicoterapeuta -: se succede è perché anche la vittima ha a sua volta una fragilità».

E la cosa peggiore che può accadere a una vittima che cerca di reagire è lo «zombieing»: il fantasma riappare, torna, magari dopo anni. Quasi sempre viene riaccolto, quasi sempre sparisce di nuovo senza dire ba. Dare spiegazioni vuol dire assumersi una responsabilità. Significa trovarsi a dover gestire angoscia e rabbia. Morgan dice «Non dimenticare che hai detto ti amo a una persona, anche se non la ami più», lamentando il silenzio opposto da chi sparisce: e nessuno può dargli torto, se non fosse che a chi sparisce in questo modo non si può chiedere un comportamento razionale, perché spesso alla base ci sono disturbi della personalità. «È un comportamento tipico del narcisista - dice Corteccioni - il cui tratto distintivo è l'assenza di empatia e quindi non considerare minimamente cosa proverà l'altra persona». Insomma, il ghoster con il suo comportamento fa molti danni, ma è anche una persona che ha bisogno di un percorso terapeutico. Morgan parla anche di allarme ghosting tra i giovani: «È vero. È un fenomeno molto comune, anche perché molto di più trai ragazzi le relazioni sono digitali.

E il ghosting è uno degli effetti collaterali negativi: se da un lato diventa molto più facile incontrarsi, se stare dietro una tastiera toglie molte paure e insicurezze, dall'altro diventa anche molto più facile sparire. Il problema però è più ampio: quello che manca è un'educazione relazionale, l'insegnare come si può costruire una relazione sana che rispetti i bisogni propri, ma anche quelli dell'altro».

Luca Dondoni per "la Stampa" l'1 dicembre 2021. «Credo che su Rai1 e in prima serata non si fosse mai parlato di "ghosting" e mi fa piacere essere stato il primo. La verità è che bisogna maneggiare questo tema con delicatezza, evitando di farne uno strumento di polemica». Ma dove c'è Morgan c'è (spesso) polemica e le parole del musicista nella clip di presentazione di una esibizione nei panni di ballerino concorrente al programma della Carlucci sono state Ballando sulle Stelle era una semplice clip per presentare un'esibizione è diventato oggetto di dibattito. In studio alla trasmissione di Rai 1 c'era la criminologa Roberta Bruzzone, opinionista del programma. Non ha detto nulla in diretta, ma successivamente ha postato sui social: «La sofferenza per essere stati lasciati - ha scritto Bruzzone - non legittima la persecuzione di chi ha deciso di non voler avere più nulla a che fare con voi/noi. Ci sono ottimi professionisti per non diventare stalker o peggio». Il riferimento non è diretto, ma è implicito: Morgan è stato denunciato da una sua ex per stalking. La procura di Monza aveva chiesto per l'artista il rinvio a giudizio, ma le carte sono passate per competenza territoriale a Lecco. Il musicista si è sempre proclamato innocente. «La verità - è la controreplica di Morgan a Bruzzone - è che bisogna maneggiare questo tema con delicatezza, evitando di farne uno strumento di polemica. Se si contrappongono i pregiudizi ci rimette un attimo anziché aiutare le vittime di ghosting, acutizzare le drammatiche laceranti sofferenze di chi si trova devastato ad affrontare un'esperienza traumatica non prevista, spaventosa, che all'improvviso massacra una vita normale. Il ghosting può diventare una catastrofe dalla quale spesso, chi ci cade, non emergerà più». «Sabato a "Ballando con le stelle" - aggiunge ancora l'artista - ho proposto con delicatezza, poeticità, umiltà un momento di tv culturale che può essere socialmente utile. La dottoressa Bruzzone dovrebbe essere anche lei infastidita dal ghosting perché quando penso al modo in cui finiscono certi rapporti mi vengono in mente bruttissime sensazioni di violenza e di infelicità. Dico alla dottoressa Bruzzone che rimango disponibile per affrontare insieme a lei se fosse interessata il tema che possiamo chiamare la "violenza del silenzio" o ancora meglio il "silenzio punitivo del narcisista. Nessuno - conclude Morgan - giustifica chi opera dello stalking, ma ne indaga l'origine per evitarlo e prevenirlo. Nel caso del ghosting se si chiama "stalker" una persona che ha bisogno e vuole parlare con chi lo ha lasciato mentre invece non si indaga il fatto che possa essere ferito e disperato anche qui si fa un errore».

Morgan a «Ballando con le stelle»: «Mio padre si è suicidato per la depressione. Mi ha salvato la musica». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 6 dicembre 2021.Il cantautore, concorrente dello show di Rai1, si è lasciato andare ad alcuni dolorosi ricordi personali. Con un intenso monologo a «Ballando con le stelle», arrivato sabato prima della prova speciale basata su un aneddoto personale dei concorrenti, Morgan è tornato a parlare della morte del papà, rievocando anche come era lui da bambino: «Nella mia vita è capitato un dramma, mio padre si è tolto la vita per la depressione. L’ho perdonato, ma non quando avevo 15 anni. Ho dovuto attraversare il lutto, per un padre che era buono. Era affettuoso, era quasi un “mammo” per me. C’è stata la musica, che mio padre amava. Ma ha lasciato me e mia sorella in una tristezza che non meritavamo. Eravamo bellissimi», ha detto il cantautore, trattenendo a fatica le lacrime. Morgan ha ricordato anche come la passione per la musica gli sia venuta incontro fin dalla tenera età: «Da subito mia madre ha capito che quando c’era la musica mi ipnotizzavo. Poteva parcheggiarmi ovunque, io con la musica stavo nel mio mondo. Il mondo dei bambini che amano giocare, che poi si trovano in un mondo pieno di regole, in un mondo sempre uguale. Io sentivo che il mio mondo era diverso, un mondo diverso da quello che mi si era offerto e allora mi sono costruito un mondo di musica». E ha continuato: «Il mondo di oggi è diverso per me, anche per le mazzate che ho preso. Stare al mondo è un casino, ma la musica in fondo è una grande metafora della vita. Nel mondo in cui viviamo c’è molta anafettività. La musica non cura, la musica è normale».

Ballando con le Stelle, Morgan gela tutti con la rivelazione: "Mio padre si è suicidato". Francesco Fredella su Il Tempo il 05 dicembre 2021. Le difficoltà nella vita di Morgan non sono mai mancate. Lui, ex dei Bluvertigo e musicista di grande livello, si è messo in gioco a Ballando con le stelle. Nel corso della semifinale racconta anche qualcosa del suo passato (che molti già conoscono). "Mio padre si è suicidato per la depressione", dice prima della prova speciale basata su un aneddoto della vita dei concorrenti. Il tema della depressione ed il dramma vissuto gela tutti. Ma Morgan, abile retore, dinanzi alle telecamere mette insieme i ricordi. Lo fa con sapienza, umiltà e tanta passione. "Da subito mia madre ha capito che quando c’era la musica mi ipnotizzavo. Poteva parcheggiarmi ovunque, io con la musica stavo nel mio mondo. Il mondo dei bambini che amano giocare, che poi si trovano in un mondo pieno di regole, in un mondo sempre uguale. Io sentivo che il mio mondo era diverso, un mondo diverso da quello che mi si era offerto e allora mi sono costruito un mondo di musica", racconta negli studi di Milly Carlucci. Poi continua, sempre con una mano sul cuore. "Nella mia vita è capitato un dramma, mio padre si tolse la vita per la depressione. L’ho perdonato, ma non quando avevo quindici anni. Ho dovuto attraversare il lutto, per un padre che era buono. C’è stata la musica, che mio padre amava. Ma ha lasciato me e mia sorella in una tristezza che non meritavamo. Eravamo bellissimi", dice riavvolgendo il nastro dei ricordi. Per Morgan, sicuramente, la musica è stata la vera terapia per superare un momento difficilissimo. "Il mondo di oggi è diverso per me, anche per le mazzate che ho preso. Stare al mondo è un casino, ma la musica in fondo è una grande metafora della vita. il mondo in cui viviamo c’è molta anafettività. La musica non cura, la musica è normale", continua a raccontare. Poi parla dell'importanza della famiglia, che per lui ha un vero valore aggiunto. "La fortuna di essere al mondo la dobbiamo a chi ci ha messo al mondo. Quando noi siamo in grado di perdonarli per le difficoltà che abbiamo attraversato, quando superiamo i disaccordi e troviamo gli accordi troviamo il senso del mondo", conclude Morgan.

Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 16 novembre 2021. Non mancano le fibrillazioni in Rai. Ad Oggi è un altro giorno, il programma di Serena Bortone in onda su Rai 1, arriva Morgan, che è uno dei concorrenti di Ballando con le stelle (e che insieme ad Alessandra Tripodi sta spopolando al programma di Milly Carlucci, tra risse e colpi di testa). Durante l'ultima puntata dello show, Morgan e la giurata Selvaggia Lucarelli hanno litigato. E di brutto. E ora Castoldi svela di aver querelato la giornalista.  “A Ballando è successo di tutto sabato, forse qualcosa che non doveva succedere…”. Così introduce l’argomento Serena Bortone a cui fa subito seguito la replica di Morgan: “Ciò che non doveva succedere è proprio che il nostro lavoro venisse trascurato”. Gli fa eco Alessandra Tripoli: “Vero, lui si impegna molto, questa cosa è passata inosservata”, dice. Morgan è un fiume in piena a ad Oggi è un altro giorno va giù duro senza mezzi termini. “La Lucarelli fa il diavolo a quattro, non dirò niente perché esistono codici civili e penali”, continua Morgan. “Si chiama Ballando e deve essere giudicato il ballo, questo è il dispiacere“, ribadisce la Tripoli. Bortone: “Se tu decidi di metterti il gioco stai a quelle regole però...”. Morgan si scatena: “Per me non è dispiacere ma imbarazzo. La Lucarelli è imbarazzante, per me", dice. E la Bortone domanda: “Perché? perché?” “Lei mi costringe ad abbassarmi a un linguaggio che non mi interessa, va fuori tema”, continua Morgan. Ma quando la Bortone si appresta a leggere la chat privata tra loro due accade di tutto. "Non lo leggere perché questo è oggetto di querela. Vuoi che ti leggo il codice civile e penale? La messaggistica privata è un reato se la pubblichi, specialmente se ci sono di mezzo personaggi pubblici“, continua. "E' violazione della privacy e anche dell’onore perché lei sta svelando un messaggio confidenziale. Io sto parlando di meccanismi professionali che lei non è tenuta a svelare. La signorina ha un problema sia civile sia penale in questo momento”. Già, perché la Lucarelli, seguendo il suo vergognoso metodo, ha pubblicato online i messaggi privati che si era scambiata con Morgan.  “Ovvio, alla quinta puntata basta. Lei deve stare al suo posto. Lei un giudice? E io vado da un giudice della Repubblica. Quel testo poi è privato e pubblicandolo ha commesso reato penale. C’è la privacy". Ma Morgan non si placa. E non fa sconti a nessuno: "Una che non capisce che sto scherzando è una matta, non capisco di chi stia parlando. La Lucarelli sta facendo il diavolo a quattro, io trovo sgradevole il fatto che si parli di altro in un luogo in cui dovrebbe farla da protagonista la musica. Non torniamo sul luogo del delitto, lei mi ha messo i piedi in testa".

Da ilfattoquotidiano.it il 16 novembre 2021. L’acceso scontro in diretta a “Ballando con le Stelle” tra Morgan e Selvaggia Lucarelli, come immaginabile, non si è concluso all’interno dello show del sabato sera di Rai1 ma è proseguito sui social. La giurata ha provato a fare chiarezza pubblicando il messaggio ricevuto dal cantante: “Selvaggia, ma io stavo giocando stasera con te, non c’era la minima intenzione né di offesa, né di aggressione. Anzi, pensavo saresti stata al gioco, sapendoti capace di volare alto. Mi hai frainteso, mi dispiace, io avevo intenzioni del tutto teatrali, nel gioco delle parti di uno spettacolo improvvisato che siamo perfettamente in grado di fare andare dove vogliamo. Se ti incazzi mi dispiace sul serio. Se vuoi parliamone a voce”. Tra le righe le sue scuse. Parole a cui Lucarelli ha risposto così: “Caro Morgan, io non recito e ancor più non recito con copioni e ruoli decisi da te, in uno stato di scarsa lucidità. E a tutti quelli che hanno pure fatto finta di credere al povero concorrente provocato dalla giuria cattiva: ora andatevi a nascondere, grazie. Come al solito c’è chi ama sabotare se stesso, e mentre lo fa, sistematicamente, tira fuori la sua incurabile sindrome rancorosa del beneficato. Le persone a cui far pagare i propri fallimenti sono inevitabilmente quelle che hanno più provato a consigliarlo e sostenerlo“. Il sito Leggo aveva poi riportato un retroscena parlando di una lite avvenuta dietro le quinte tra Marco Castoldi, questo il suo vero nome, e una persona vicina a Selvaggia Lucarelli, accennando ad “atteggiamenti tutt’altro che amichevoli” e all’intervento di vigilantes e forze dell’ordine per ristabilire la calma ed evitare la rissa. Una versione differente fornita dalla giornalista che ha fatto delle precisazioni proprio su questo punto: “Riguardo quello che è uscito su alcuni siti sul ‘dietro le quinte’, le cose non sono andate affatto come raccontate. Morgan, mentre ero in onda, dopo la sua esibizione, davanti a molte persone dietro le quinte ha detto cose molto gravi, di quelle che ovviamente si dicono solo a una donna. Attendo le sue scuse, e le attendo pubblicamente. Non mi faccio usare e, come dicevo ieri sera, non amo la disonestà. La disonestà di chi cerca sempre il colpevole dei suoi casini fuori da sé e, se possibile, ti ci trascina dentro“. La replica di Morgan è arrivata a stretto giro, sempre attraverso Instagram, ma non per scusarsi: “Quando una donna fa del bullismo ad un uomo attraverso strumenti e principi di natura ‘femminista’, danneggia in primo luogo il genere femminile e vanifica anni di lotta che donne realmente vittime di violazioni e sottomissioni hanno compiuto in modo intelligente per conquistare pezzi di civiltà che sono proprio gli argomenti impugnati e manipolati con superbia dalla donna-bullo“. “Quando saranno le femmine stesse ad accorgersene allora insorgeranno e capiranno. Rispetteranno, saranno complici degli uomini sensibili, gli uomini vulnerabili. Sapendoli distinguere bene dai violenti e dai prepotenti che circolano tranquillamente incensurati. La prima nemica della donna è la donna-bullo, che guarda caso si aggira nelle file della borghesia sventolando i diritti della donna moderna e libera, non certo dei marciapiedi. Dove soccombono le donne che svendono il corpo e il sogno di emergere prima e poi da quella schiavitù”, ha concluso il concorrente dello show. Ci sarà un confronto nella prossima puntata di “Ballando con le Stelle” o lo scontro potrebbe avere strascichi di altra natura? 

Dopo il caos a Ballando, Morgan querela la Lucarelli. Novella Toloni il 15 Novembre 2021 su Il Giornale. Dopo lo scontro avvenuto a Ballando con le stelle, il cantante ha deciso di querelare la giornalista. Al centro della querela ci sarebbe la pubblicazione di alcuni sms privati su Instagram. Finirà in un'aula di tribunale la lite consumatasi a Ballando con le stelle tra Morgan e Selvaggia Lucarelli. Nel corso dell'ospitata a Oggi è un altro giorno, l'artista ha dichiarato di avere querelato la giornalista in seguito allo scontro consumatosi durante l'ultima puntata del programma del sabato sera di Rai Uno. La notizia è arrivata a sorpresa negli studi del programma condotto da Serena Bortone. Morgan è stato ospite di Oggi è un altro giorno insieme alla sua insegnante di ballo, Alessandra Tripoli, ed è tornato a parlare dell'accesa discussione avuta con Selvaggia Lucarelli dopo la sua esibizione. Prima delle votazioni della giuria, tra i due sono volate parole grosse e a stento Milly Carlucci è riuscita a riportare la calma tra i due litiganti. Da una parte la giornalista, che nel programma riveste il ruolo di giudice, ha dato del "disonesto, maleducato e capriccioso" all'artista, dall'altra quest'ultimo ha rifiutato il ruolo di giurata della Lucarelli, paragonandola alle "scimmie di Stanley Kubrick" per la sua "incompetenza" musicale. E la lite è degenerata. A fine puntata Selvaggia Lucarelli ha preteso le scuse di Morgan per le parole dette nei suoi confronti e ha spostato la discussione su Instagram. La giornalista ha pubblicato un messaggio inviatole dal cantante, nel quale quest'ultimo si difendeva parlando di "gioco" e di essere dispiaciuto che la sua intenzione "teatrale" fosse stata male interpretata e l'avesse ferita. Pubblicando l'sms, Selvaggia Lucarelli ha dato nuovamente del "disonesto" a Morgan: "Io non recito e ancor più non recito con copioni e ruoli decisi da te in stato di scarsa lucidità. Morgan ha detto cose molto gravi, di quelle che si dicono alle donne. Attendo le sue scuse pubblicamente". Le scuse non sono arrivate, ma una querela in compenso sì. Morgan lo ha detto chiaramente nel corso dell'ospitata nel programma di Rai Uno condotto dalla Bortone. La conduttrice stava per citare il messaggio pubblicato dalla Lucarelli, quando Marco Castoldi l'ha bloccata. "È un messaggio privato, non puoi leggerlo. È un reato penale - riferendosi alla pubblicazione sui social fatta dalla Lucarelli - violazione della privacy e dell'onore, perché lei sta svelando un meccanismo professionale e lei mi sta mettendo in difficoltà". Serena Bortone ha provato a indagare: "Tu vuoi dirmi che la stai per querelare?". E Morgan non ha esitato: "No l'ho già fatto. Ho presentato una denuncia. È la quinta puntata che sarebbe da denuncia, ora è arrivato il momento. Mettere i piedi in testa è una cosa sbagliata". Dalla televisione ai social, il decorso della lite proseguirà dunque in tribunale, dove entrambi hanno più di un contenzioso aperto.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi

Nuovi guai per Morgan: Bugo vince in Tribunale dopo Sanremo. Alice Coppa il 24/06/2021 su Notizie.it. Bugo ha vinto la sua prima battaglia in tribunale contro Morgan, che aveva storpiato il brano Sincero a Sanremo 2020. Lo scontro tra Morgan e Bugo legato alla partecipazione a Sanremo 2020 è finito in Tribunale e a quanto pare il cantante Cristian Bugatti ha avuto la meglio sul suo collega. Nella querelle sorta tra Morgan e Bugo dopo la partecipazione a Sanremo 2020 il Tribunale ha dato ragione a Cristian Bugatti, costringendo Morgan – all’anagrafe Marco Castoldi – a rimuovere dalle sue pagine social i contenuti illeciti legati al brano Sincero (da lui modificato al fine d’insultare il collega) e cessare future associazioni dell’opera al testo modificato e deformato disponendo infine una penale a suo carico per le eventuali violazioni di tali provvedimenti. Attraverso un comunicato stampa le società che tutelano Bugo hanno ribadito che “la deformazione apportata da Morgan” al testo della famigerata canzone viola i diritti economici degli editori e dei suoi coautori.

Morgan: la replica. Sui social Morgan ha fatto sapere di aver invece vinto la causa contro il manager di Bugo. “Oggi ho vinto nella causa contro il manager di Bugo che oltre a non avermi corrisposto un centesimo per la  canzone fatta in duetto col suo artista mi ha accusato di estorsione perché il mio avvocato gli aveva sottoposto un regolare contratto per il mio lavoro. Ovviamente il tribunale ha dato ragione a me, Morgan”, ha scritto via social Morgan. Come andrà a finire la vicenda?

Morgan: gli altri guai con la legge. Oltre alla querelle con Bugo. Morgan ha già avuto in passato altri guai con la legge. A seguito della denuncia della sua ex compagna Asia Argento per il mancato pagamento degli alimenti, il cantante è stato sfrattato dalla sua casa di Monza. Il cantante inoltre ha più volte sollevato polveroni e bufere per il suo comportamento in diretta tv.  In passato Bugo si è sfogato via social anche a seguito del tormentone a cui ha involontariamente dato vita Morgan storpiando il brano Sincero: “Ciao ragazzi, parto dalla fine dicendo che mi sono rotto. Lo dico perché è da un anno che leggo qualsiasi cosa su di me che nulla c’entra con la musica e non ho mai replicato. Capisco la libertà di parola, è un diritto sacro e la rispetto, ma quando i giornalisti musicali usano come scusa una cosa accaduta più di un anno fa per schernirmi, allora siamo oltre all’ambito delle chiacchiere da bar. Sono qui al Festival per parlare di musica”, si era sfogato via social il cantante, che ha deciso di passare alle vie legali.

Alisa Toaff per adnkronos.com il 24 giugno 2021. Morgan, archiviato il procedimento per tentata estorsione dopo la querela del manager di Bugo. ''A seguito dell'udienza di opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento penale a carico di Marco Castoldi, in arte Morgan, per tentata estorsione, instaurato tramite querela nell'aprile del 2020 da Soave in qualità della casa discografica Tetoyoshi di Bugo e titolare della Mescal, il Gip di Alessandria ha condiviso le argomentazioni difensive dei legali di Castoldi pronunciando il provvedimento di archiviazione del procedimento''. E' quanto spiega all'Adnkronos Rossella Gallo, uno dei legali di Marco Castoldi, in arte Morgan, che ha difeso il cantante insieme all'avvocato Leonardo Cammarata. "Il Gip -prosegue il legale- ha rilevato l'insussistenza del reato di estorsione in merito alla proposta contrattuale che era stata inviata dallo staff manageriale di Castoldi a Soave due settimane prima per la regolamentazione del profilo economico per la collaborazione artistica di Morgan con Bugo a Sanremo''. "Oggi ho vinto nella causa contro il manager di Bugo - esulta Morgan in un post sulle sue storie di Instagram - che oltre a non avermi corrisposto un centesimo per la canzone fatta in duetto con l'artista mi ha accusato di estorsione perché il mio avvocato gli aveva sottoposto un regolare contratto per il mio lavoro. Ovviamente il Tribunale ha dato ragione a me, Morgan''. Per gli avvocati Gallo e Cammarata è necessario fare chiarezza: "Dopo la vicenda sanremese -raccontano- Soave ha fatto partire un'azione penale e poi un'azione civile. Quindici giorni prima della partecipazione di Morgan a Sanremo il suo staff manageriale e il suo legale che fa contrattualistica avevano mandato a Soave, via Pec, una proposta di regolamentazione del profilo economico (spese, compenso) per la partecipazione di Castoldi a Sanremo. Proposta rifiutata categoricamente da Soave''. "Nonostante il rifiuto di Soave (il manager discografico di Bugo, ndr), i due proseguivano con la collaborazione artistica e con la partecipazione alla gara canora" spiegano i legali di Castoldi, evidenziando che "se tu pensi che io ti ho fatto un'estorsione mi quereli immediatamente e interrompi con me qualunque rapporto di collaborazione. Castoldi ha dichiarato sin all'inizio e in particolare nella settimana sanremese di essere stato denigrato, ghettizzato, trattato male e offeso verbalmente da Soave e la sua squadra. Quindi Morgan, come anche rileva il Gip nel provvedimento di archiviazione, non ha modificato il testo di 'Sincero' per vendicarsi di non aver ricevuto i soldi, come invece sostenuto da Soave''. Ma la vicenda giudiziaria non finisce qui perché in una nota diffusa ieri da MescalMusica, che ha Bugo tra i propri artisti si legge: il Tribunale Civile di Milano ''ha accolto il ricorso d’urgenza proposto nei confronti di Morgan da Curci e Tetoyoshi, quali editori e dei co-autori dell’opera 'Sincero'. Secondo il Giudice, la modificazione e deformazione da parte di Morgan del testo letterario dell’opera 'Sincero' viola i diritti economici degli editori dell’opera e i diritti morali dei coautori''. ''Il Tribunale ha infatti ritenuto illecita la modificazione e deformazione da parte di Morgan del testo letterario dell’opera 'Sincero' sia nel corso della serata del Festival di Sanremo del 7 febbraio 2020, sia attraverso la diffusione di esecuzioni dell’opera con il testo modificato sul suo profilo social Instagram -prosegue la MescalMusica- Il Tribunale ha quindi ordinato a Morgan di rimuovere dalla sua pagina Instagram tali contenuti illeciti, gli ha ordinato di cessare future associazioni dell’opera "Sincero" al testo modificato e deformato e ha disposto una penale a suo carico per ogni violazione di tali provvedimenti''. "Bisogna fare chiarezza -spiegano i legali penalisti di Morgan- l'azione civile è diversa e distinta rispetto a quella penale e la tentata estorsione archiviata in favore di Morgan, benché entrambe afferenti la medesima vicenda (sanremese, ndr). Dopo la partecipazione a Sanremo la squadra di Soave e Bugatti, in arte Bugo, ha fatto partire un'azione civilistica per risarcimento danni nei confronti di Morgan, patrimoniale e non patrimoniale. Loro sostengono che la vicenda sanremese, dove Morgan ha modificato i primi otto versi del testo di "Sincero", ha portato a una squalifica e questo avrebbe addirittura danneggiato sia la casa discografica, sia gli editori che Bugatti. In realtà di tutta questa vicenda gli unici che ne hanno beneficiato sono proprio loro, non certo Morgan''. ''La causa civile è ancora in piedi e l'udienza si terrà a settembre -prosegue l'avvocato civilista del cantante, Lidia Lo Giudice Semeraro - quindi è ancora tutto da decidere. L'unica cosa vera è il ricorso di urgenza che hanno fatto per la rimozione del video con il testo modificato di 'Sincero' che Morgan ha postato sui suoi profili social. L'ordinanza del Giudice Marangoni per il ricorso d'urgenza promosso contro Morgan è stato “accolto parzialmente”", conclude.

Da "liberoquotidiano.it" il 13 giugno 2021. Sfilza di guai giudiziari per Morgan. Il cantante, all'anagrafe Marco Castoldi, tra le altre cose deve fare i conti con un'accusa a suo dire infondata. Una sua ex, musicista 32enne, l'ha denunciato per stalking e molestie. Il caso risale all'aprile del 2020 e ha visto la Procura di Monza rinviare a giudizio il cantautore. Chiamate a più non posso e tempeste di messaggi, sarebbero queste le accuse mosse ai danni di Morgan che si difende negando tutto. Tra i due - è la sua versione -  c'è un legame di conoscenza datato, che poi, a quanto sostengono i legali, sarebbe diventato una relazione sentimentale. Eppure secondo i pm Castoldi sarebbe addirittura arrivato a minacciare la donna con un video personale per poi insultarla con volgarità nella chat di un gruppo WhatsApp. I giudici sono anche convinti che Morgan avrebbe tentato di contattare la sua ex tramite identità fasulla, spacciandosi per un rapper interessato a una collaborazione. Tutto falso, è la replica. Morgan ha voluto dire la sua anche sui social dove ha confessato che c’è chi lo "vuole morto e non è una metafora". "Io sono disintegrato, ci lascerò le penne tra poco", ha proseguito senza menzionare il caso che lo vede coinvolto. Ma poco dopo un altro passaggio toglie parecchi dubbi: "Fermatela dall’uccidermi", si appella ai suoi molti fan. I guai giudiziari però sono più numerosi.  Al momento il cantante deve affrontare altri due procedimenti. Oltre allo sfratto dalla casa di Monza, c’è anche la questione "Bugo-Sanremo". Il collega, lasciato sul palco nel bel mezzo della performance avrebbe chiesto all'ex amico circa 240mila euro di risarcimento. Assieme a Bugo, il cantautore è stato chiamato in giudizio anche dagli altri autori del brano "Sincero" (Bonomo, Bertolotti, Edizioni Curci/Tetoyoshi), per il cambiamento del testo e per aver poi condiviso sulle proprie pagine social il brano, nelle sue diverse versioni. 

Otto De Ambrogi per mowmag.com il 27 maggio 2021. Passato un lockdown particolarmente complicato, dopo essersi visto pignorare la casa del 2019 e aver ammesso di essere ricascato nelle dipendenze, sembrava che per Morgan fosse tornato il sereno. Non solo per la nascita della sua terza figlia Maria Eco, ma anche per il ritorno in studio con i Bluvertigo per realizzare un nuovo album molto atteso (qui la nostra cover story). E nemmeno la caduta dal monopattino con due costole rotte o la morte di Franco Battiato (suo padre spirituale) sembravano aver frenato i progetti di rilancio. Ma ora è dai tribunali - tre diversi - che Marco Castoldi deve temere di più. Si sono infatti tenute oggi due udienze particolarmente importanti. La prima, che si divide in due filoni presso il Tribunale di Milano, dove è stato chiamato in giudizio da parte di Bugo e dagli altri autori del brano Sincero (Bonomo, Bertolotti, Curci e Tetoyoshi) per aver storpiato il testo della canzone a Sanremo (le famose “brutte intenzioni, la maleducazione”) e averla portata alla squalifica, oltre ad aver successivamente condiviso sui social il brano, benché nella sua versione. Per queste accuse, gli sono stati chiesti danni per un totale di 240mila euro. In attesa di redigere una memoria difensiva da parte degli avvocati di Morgan, il giudice ha rinviato l'udienza al prossimo 10 giugno. Ma non solo, perché parallelamente al Tribunale di Monza, si è svolta l’udienza nella quale deve difendersi dalla richiesta della Procura di rinvio a giudizio con le accuse di stalking e diffamazione ai danni della ex compagna Angelica Schiatti, anche lei cantautrice con il nome d’arte di Santangelica. In questo caso, il leader dei Bluvertigo dopo la loro separazione non avrebbe accettato di interrompere il rapporto e così l’avrebbe perseguitata e diffamata attraverso il cellulare e i social. L’udienza di ieri relativa alle accuse di stalking e diffamazione è stata rinviata a luglio, per valutare l’istanza di incompetenza territoriale presentata dai difensori, Rosella Gallo e Leonardo Cammarata. Intanto, però, l’autorità giudiziaria gli ha notificato un decreto di citazione diretta a giudizio per i reati di resistenza e ingiurie a pubblico ufficiale relativi al 2019, quando avvenne lo sfratto della sua casa di via Adamello. I guai giudiziari di Morgan, però, non sono ancora finiti. Perché un’altra sua ex lo ha chiamato in giudizio. Si tratta di Jessica Mazzoli, cantante che conobbe durante la partecipazione a X Factor, dalla quale ebbe in seguito la figlia Lara. Dopo la separazione, nei suoi confronti il Tribunale di Tempio Pausania stabilì che il cantautore dal 2013 avrebbe dovuto versarle 3mila euro mensili di assegno di mantenimento, ma a quanto pare qualcosa deve essere andato storto. E quindi, per mancata ottemperanza di questo provvedimento, a settembre Morgan dovrà rispondere alla richiesta di risarcimento di circa 200mila euro.

Federico Berni per corriere.it il 26 maggio 2021. Altri guai giudiziari per Marco Castoldi, in arte Morgan. Secondo quanto appreso mercoledì, nel giorno della prima udienza preliminare del processo che vede il 48enne cantautore monzese imputato per stalking ai danni di una musicista, l’autorità giudiziaria ha notificato a Castoldi un decreto di citazione diretta a giudizio per i reati di resistenza e ingiurie a pubblico ufficiale, per fatti che sarebbero avvenuti il giorno dell’esecuzione forzata dello sfratto dalla sua abitazione di via Adamello. Dunque si profila un altro processo, fissato nei prossimi mesi, per l’artista brianzolo, il quale figura anche come imputato di stalking davanti al gup Angela Colella, a seguito della denuncia di una collega 32enne con la quale aveva avuto una relazione sentimentale terminata in modo burrascoso. Per questa vicenda, il tribunale ha aggiornato l’udienza a luglio, per decidere sull’istanza di incompetenza territoriale presentata dai difensori (gli avvocati Rosella Gallo e Leonardo Cammarata) dell’ex frontman dei Bluvertigo. Ma un’altra denuncia lo porterà in estate davanti al giudice. Si tratta di quella avanzata nei suoi confronti dalla polizia in base a una presunta resistenza a pubblico ufficiale con ingiurie all’indirizzo degli agenti, che sarebbe avvenuta a giugno 2019, il giorno in cui l’artista (difeso in questo caso dall’avvocato Roberto Iannaccone) aveva provato ad opporsi (davanti alle telecamere) allo sfratto dalla sua casa monzese di via Adamello.

Morgan, la mostruosa richiesta di danni di Bugo in tribunale: "Quanti soldi vuole", va in rovina per Sanremo. Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. Dalla rissa in diretta alla causa in tribunale: Bugo ha chiesto 240mila euro di risarcimento a Morgan, accusandogli si aver danneggiato la sua carriera "sabotando" la loro canzone al Festival di Sanremo 2020. Un'edizione passata alla storia, oltre alla prima conduzione di Amadeus e Fiorello, proprio per il clamoroso colpo di scena della fuga in diretta del cantautore novarese, che stizzito per le strofe polemiche cantate dall'ex leader dei Bluvertigo nei suoi confronti. "Le brutte intenzioni, la maleducazione…", un passaggio diventato poi mitico, ma che Bugo maldigerì abbandonando il palco dell'Ariston e lasciando di stucco pure Morgan, che guardandosi intorno sibilò al microfono un altrettanto mitologico "Che succede?". Ora quel colpo di testa di Marco Castoldi (questo il nome all'anagrafe di Morgan), già alle prese con parecchi guai giudiziari e finanziari, rischia di pagare carissimo, almeno stando a quanto riferito dalla rivista Rolling Stone. I legali di Morgan avrebbero confermato l'entità della somma richiesta, un salasso. Il musicista è stato chiamato in giudizio da Bugo e dagli altri autori del brano Sincero (Bonomo, Bertolotti, Edizioni Curci/Tetoyoshi), per il cambiamento del testo (vietato dal regolamento, e per questo Bugo e Morgan furono squalificati dal Festival) e per aver poi condiviso sulle proprie pagine social il brano, nelle sue diverse versioni. Una bruttissima giornata, per Morgan, visto che nelle stesse ore al Tribunale di Monza si è celebrata l'udienza del processo per stalking intentato contro di lui dalla sua ex compagna Angelica, che lo accusa di averla tormentata con minacce e offese dopo la decisione di mettere fine alla loro relazione. "A me la violenza non si può associare - si difende Morgan -, sono l’essere più dialogante che esista, mi vuole trascinare in tribunale perché ho scritto delle poesie? È un rapporto che dura dal 2013, una relazione di profondo affetto intimo e artistico, fatta di conversazioni lunghissime, frequentazioni quotidiane e costante interscambio fatto di stima. Poi ci siamo innamorati profondamente, nonostante entrambi fossimo impegnati".

Morgan denunciato: la replica dei suoi legali. Morgan ha ricevuto una denuncia per stalking e diffamazione da parte di una sua ex. Notizie.it il 24/3/2021. Morgan, al secolo Marco Castoldi, è indagato dalla procura di Monza per stalking e diffamazione. La denuncia sarebbe partita da una musicista che sarebbe stata legata sentimentalmente al cantante. Nuovi guai giudiziari per Morgan: una musicista all’attivo a Milano avrebbe denunciato il cantante per stalking e diffamazione. Secondo indiscrezioni Castoldi avrebbe minacciato la donna di divulgare un suo video privato e inoltre l’avrebbe diffamata con insinuazioni volgari in una chat privata. Il cantante avrebbe anche cercato di mettersi in contatto con lei mediante un’identità fittizia, e a questo episodio sarebbero seguite numerose chiamate e messaggi. I legali dell’ex giudice di X Factor in merito alla vicenda hanno affermato: “Si tratta di due persone legate da un rapporto di conoscenza decennale. E da un forte legame affettivo, durante il quale si frequentavano alla luce del sole. Il nostro assistito ha solo scritto dei messaggi, spesso indiretti. Nei suoi confronti non è stata adottato alcun provvedimento, perché non ci sono profili di pericolosità. Valuteremo la strategia difensiva in vista dell’udienza di maggio”. Morgan è stato denunciato dalla sua ex, Asia Argento, per il mancato pagamento degli alimenti. Un’altra sua ex, Jessica Mazzoli, ha rivelato che il cantante le avrebbe chiesto di inviargli sue foto intime anche dopo la rottura. Anche lei come Asia Argento l’ha accusato di esser stato un padre assente nei confronti della figlia Lara (che i due hanno avuto insieme 2012). Morgan replicherà alla vicenda?

Federico Berni per il "Corriere della Sera" il 24 marzo 2021. Dei suoi sfoghi contro quella donna, con la quale aveva avuto una relazione finita in modo burrascoso, hanno già parlato siti di gossip e cronache mondane. Ora, però, contro Morgan, al secolo Marco Castoldi, la parola l' ha presa il pm di Monza, che ha chiesto nei suoi confronti il rinvio a giudizio per stalking e diffamazione. Secondo gli inquirenti Morgan, 48 anni, avrebbe tenuto un comportamento molesto nei confronti di una 32enne sua collega, già voce in una rock band a Milano, e ora anche cantautrice con un album solista all' attivo. Chiamate continue, messaggi, tentativi di prendere contatti con la donna, alla quale era legato da un rapporto di conoscenza datato, sfociato, a quanto dicono i suoi legali, in una relazione. Sono solo alcune delle contestazioni mosse dal pm Carlo Cinque, al termine delle indagini della Squadra Mobile della Questura brianzola, diretta da Francesco Garcea, su denuncia della donna. Morgan avrebbe minacciato la ex di diffondere un suo video personale e la avrebbe diffamata attraverso insinuazioni volgari su una chat di WhatsApp. In un' occasione, nel tentativo di comunicare con lei, avrebbe finto di essere un famoso rapper-cantante italiano interessato a una collaborazione artistica. La cantante, assistita dall' avvocato Renata D' Amico, non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione. I difensori di Castoldi, gli avvocati Rossella Gallo e Leonardo Cammarata, minimizzano: «Si tratta di due persone legate da un rapporto di conoscenza decennale, e da un forte legame affettivo, durante il quale si frequentavano alla luce del sole. Il nostro assistito ha solo scritto dei messaggi, spesso indiretti. Nei suoi confronti non è stata adottato alcun provvedimento, perché non ci sono profili di pericolosità».

"Perseguita la ex, va processato". Chiesto il processo per Morgan. L'artista è stato rinviato a giudizio con l'accusa di stalking e diffamazione. Morgan avrebbe perseguitato un'ex, anche lei cantante, con telefonate e messaggi arrivando a minacciarla di divulgare video privati. Novella Toloni - Mer, 24/03/2021 - su Il Giornale. Chiamate nel cuore della notte, messaggi deliranti, insulti e minacce di pubblicare video personali e privati pur di ritornare con lei. Sono le accuse pesanti che Angelica S. ha mosso nei confronti di Morgan e che sono finite nel fascicolo della denuncia che la donna, ex compagna di Marco Castoldi, ha sporto alla procura di Monza, che ha aperto un’inchiesta arrivata in tribunale. Morgan nega di averla perseguitata e minacciata, ma intanto il Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per il cantante per stalking e diffamazione. I fatti risalgono al 2020, tra aprile e dicembre, in piena emergenza sanitaria. Secondo quanto denunciato da Angelica S., Morgan non avrebbe accettato la decisione della ex, conosciuta sin dai tempi della scuola e musicista e cantante come lui, di chiudere la loro relazione. Questo avrebbe scatenato la reazione incontrollata dell’artista, che avrebbe iniziato a perseguitare la donna con telefonate, messaggi di offese – anche rivolte alla madre di lei – minacce e arrivando a spacciarsi per un noto rapper pur di incontrarla con la scusa di una collaborazione. La cantante, esasperata, ha deciso di denunciare Morgan a fine 2020 e l’intera vicenda è finita sul tavolo dei giudici con le pesanti accuse di stalking e diffamazione. I legali dell’artista - gli avvocati Rossella Gallo e Leonardo Cammarata – parlano di "versione enfatizzata che trascende la realtà". Spiegando che Morgan, nel periodo indicato dalla donna nella denuncia, "è andato sotto casa della ex solo una volta e con un mazzo di fiori". Proprio per questo la procura di Monza non ha chiesto alcuna misura restrittiva per Marco Castoldi, ritenuto "soggetto non pericoloso". Morgan, per contro, si difende dalle pesanti accuse sui social e sui giornali: "Non si è degnata di parlarmi dopo dieci anni di amicizia e come se non bastasse mi ha denunciato per stalking perché ho tentato di farle arrivare dei messaggi tramite delle conoscenze in comune e ovviamente si tratta di messaggi eleganti e poetici, non certo di minacce di morte. Ma brava Angelica, nessuna donna è mai stata più cattiva e violenta di te, più crudele e spietata di te, io sono pronto a perdonarti, nonostante l’avermi bloccato non ti fa onore e l'avermi denunciato tanto meno. Finché non ti degnerai di rivolgermi la parola personalmente io non capirò mai cosa è successo e cercherò di comunicare con te in vari modi compreso questo". La relazione tra Morgan e Angelica finì su tutte le riviste di gossip poco prima del lockdown dello scorso marzo. L’artista aveva da poco scoperto di essere in attesa della sua terza figlia da Alessandra Cataldo e venne pizzicato dai paparazzi in compagnia dell’ex, che poi lo ha denunciato. Una relazione che finì nel peggiore dei modi, come confessò lo stesso Morgan in un’intervista a Oggi: "Mi ha lasciato come un cane, sono ricaduto nelle dipendenze". Oggi quella storia potrebbe trovare un epilogo giudiziario. Il pm Carlo Cinque ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio di Morgan e l'udienza per il processo è fissata per il 26 maggio prossimo. Angelica S. e i suoi familiari, secondo quanto emerso dagli atti, potrebbero costituirsi parti civili anche per ottenere un risarcimento dei danni.

Giancarlo Dotto per Diva e Donna il 26 marzo 2021. Tutti a pescare nel torbido quando si tratta di Marco Castoldi, alias Morgan, il pirata gallese che si vestiva di oro, gioielli e seta per sembrare quello che era dentro anche quando non lo era più fuori. Ammiraglio di una coraggiosa ciurma, che fossero uomini o fantasmi. Ex di Asia Argento e di mille altre cose, donne e storie, ogni giorno ex anche di se stesso, nel senso del continuo reinventarsi, Morgan preferisce il raso alla seta. “Aleatorio”, così si definisce. La sua vita, una partita a dadi. Non sai mai dove va a parare. Lui per primo. Ci vanno a nozze con lui le mosche stercorarie, i palombari del lezzo. Facile con uno così, restio a calcolare le conseguenze delle sue parole. Lo blandiscono, lo fanno parlare e, appena trovano il varco, portano a casa lo scalpo. Un titolo, due spiccioli di grancassa e un po’ di scandalo. Io non vado a caccia del suo torbido, ma del suo morboso, ovvero della sua sensibilità, così acuta da risultare quasi malata. La stessa che gli fa fare cazzate a ripetizioni e però inventare pezzi come “Foto nella Mailbox”.  L’ha scritta nella notte, poche ore prima, e me l’ha inviata. Tipo biglietto da visita. “Sono dentro un flusso creativo irrefrenabile…”, mi fa. Sono le quattro e mezza del mattino e andrà a dormire, forse, solo dopo due o tre ore. Mi parla e mi scrive dalla torre dove abita, nel centro storico di Brera a Milano, accanto alla pinacoteca. Al piano di sotto dorme Maria Eco, l’ultima figlia. Spezzoni di conversazione e scambi su whatsapp. Tutti a notte fonda. Più notti. L’emicrania non è di passaggio. “Ho preso due Synflex mezz’ora fa, proviamo adesso…Da tempo ho totalmente ribaltato il circadiano. La notte è l’ideale per fare della buona musica”.

Ribaltato da quanto tempo?

“Una ventina d’anni fa circa, con i miei primi dischi da solista. Ho preso a seguire i miei bioritmi. Nessun orario, nessuna imposizione. Ho cominciato a mangiare quando avevo fame, a bere quando avevo sete, a dormire quando avevo sonno”.

Risultato?

“Mai stato male di stomaco da allora. Mangiando solo quando ho fame, lo sento subito il cibo nemico, che mi farà male”.

La notte porta consiglio e porta delirio…

“La notte è per me quello che per lo scrittore è un foglio bianco. La notte è un foglio bianco…Scusami devo fare pipì”.

Anche la tua pipì segue l’orologio biologico?

“Tempo fa, dopo un’operazione al rene, mi hanno messo un uretere di plastica. Facevo una goccia di pipì al giorno. Ma era sangue. Un giorno, scopro che il mio assistente s’era bevuto una mia bottiglia preziosissima di vino rosé di Gaetano Bresci, l’anarchico che spiegò al re con tre colpi di pistola che non si potevano trattare così gli operai in rivolta…”.

Hai fatto bere per punizione la tua pipì all’assistente?

“Molto meglio. Ho riempito la bottiglia vuota con la mia pipì rosso sangue. Era ancora più bella”.

Non resisterò a non scriverlo. Anche perché consolida la tua fama di vampiro oltre che di bucaniere.

“Tanto che fa? Sono stato già completamente rovinato da un’intervista nel 2010,  a pochi giorni dall’inizio di Sanremo. Mi ha cambiato la vita”.

Parlavi di droghe e di depressione. Ti esclusero da quel Sanremo. L’inizio di una giostra infinita, tra inclusioni ed esclusioni.

“Sono una persona libera e in questa Italia gli uomini liberi fanno paura”.

Soffri di emicrania?

“Da sempre. Già con i “Bluvertigo” scrissi sul tema una canzone, “Il mio mal di testa”. La notizia è quando non ce l’ho, l’emicrania. Quando capita, è primavera”.

Scrivi come una furia la notte.

“Sto facendo musica fantastica da quando mi hanno ghostato”.

“Ghostato”, sarebbe ridotto a fantasma?

“Per sentirmi vivo ho cominciato a scrivere compulsivamente musica. Da un anno a questa parte ho collezionato una quantità inenarrabili di brani”.

Che ne farai?

”Ho chiamato i Bluvertigo e gli ho detto: “Ragazzi che vogliamo fare? Qui ci sono pezzi in esubero. Dobbiamo ripartire con la band”.

E loro?

“Hanno accolto l’appello. Ti annuncio che uscirà presto un nuovo album dei “Bluvertigo”. Ci vuole assolutamente. Sono in un flusso di coscienza travolgente”.

Il pezzo che mi hai appena mandato è romanticismo alto, d’altri tempi.

“Manca oggi il romanticismo. Le nuove canzoni hanno il pudore della malinconia, che è invece un sentimento meraviglioso. C’è molto il mio adorato Sergio Endrigo in questo pezzo”.

“La canzone è per il cuore sentimento come il pane per il corpo è il nutrimento”, mi hai anche scritto.

“La natura umana è creativa, tende al poetico. L’altra cosa di cui sono sicuro è che l’uomo non può esistere fuori dalla relazione. Non ce la fa a starsene nella sua torre eburnea. Non si fa nulla per se stessi. È una cazzata retorica”.

Tu ci vivi in una torre…

“Ma per scrivere cose in cui trascinare gli altri. Da condividere con loro”.

Si fanno le cose non per sé, ma per essere riconosciuti…

“In mancanza di questo, accontentiamoci anche dell’essere umiliati. Si fa solo per l’altro da te. Esiste solo l’amore, anche quello non corrisposto. Sempre di amore si tratta”.

La conversazione ci allaga pericolosamente. Sono allagato di domande.

“Maurizio Costanzo dice che con me bisogna fare lo slalom”.

Se fossi lì con te, cosa vedrei?

“Un grande monitor dove sto costruendo un mondo tridimensionale. Un libro che ha l’ambizione di spiegare la forma della canzone ai bambini. Vedresti queste tavole, l’esplosione di geometria e del colore. E poi, sotto, altri programmi aperti. Scrivo contemporaneamente testi di canzoni e flussi poetici”.

Immagino non sia tutto qui…

“Sono già al terzo volume della mia autobiografia recente sotto forma di concept album, canzoni inanellate con narrazione. La canzone che ti ho mandato fa parte, invece, di un lavoro che si chiama “La musica sentimentale”.

A proposito di flussi inarrestabili…

“Vedresti poi sintetizzatori ovunque. Due accesi, quattro spenti. Ai miei piedi una pedaliera a cui posso attaccare chitarra e basso elettrico per registrare. Poi, tantissimi mozziconi di sigaretta, messi in piedi a mo’ di cattedrale”.

Un uomo con l’emicrania e un pigiama da ergastolano?

”Di solito a quest’ora sono in giacca e cravatta. In questo caso, indosso un’elegante veste da camera, stile smoking. Amo la veste da camera. Me le faccio confezionare dagli stilisti. L’ultima è di Dolce e Gabbana. Raso nero, rigorosamente sciallato”.

Sintetizzatori a parte, da sempre i tuoi compagni di gioco…?

 “Al piano di sotto dorme una bambina, si chiama Maria Eco e ha appena compiuto un anno. È molto brava. Suona, canta. Ha una gran voglia di ridere. Sorride che è un piacere. Il sorriso è la cosa più bella che ci sia”.

Si è fatta già un’idea del padre?

“Un padre molto simpatico con i bambini. Un giocherellone. Parole inventate, dette all’incontrario. Cose così, che ci possiamo permettere quando si è nella fase che io chiamo “pre”. Ogni tanto mi ritrovo a gattonare con lei sul pavimento”.

Il mondo circostante?

“Non lo vivo, non mi accorgo di lui. È la mia unica difesa. L’unica che posso adottare. Non dare ascolto alla tragedia che esiste intorno. Quando uno ha la fortuna, il merito e l’abitudine di costruirsi il suo mondo”.

È sufficiente?

“L’importante è che il mondo esterno non sia troppo violento. In questo caso, ho imparato molto bene a costruirmi una rappresentazione che migliora il mondo. L’arte, in fondo, a cosa serve?”.

Dimmelo tu.

“Non serve a consolare, nemmeno a descrivere o a diffondere l’idea che c’è il bello nostro e il brutto altrui. L’arte è una seconda creazione. Nella mia vita disgraziata ho la possibilità di aggraziarla con la rappresentazione artistica”.

Molto autobiografica, la tua arte…

“Sempre di autobiografismo si tratta. Coloro che ne verranno coinvolti saranno deificati”.

Capita mai che finisci nei gorghi artistici altrui?

“Sempre. Mi piace tanto la collaborazione artistica. In questo momento vivo molto emarginato. Soffro. Ho appena appreso che una persona importante della mia vita si è allontanata da me e non so perché”.

Una donna? Una tua ex?

“Forse un fantasma. Colei che fa di me un fantasma. Una storia che mi coinvolge emotivamente troppo . Mi fa stare male. Una storia recente che è stata e forse non sarà mai più. Non posso parlarne, non sono pronto a parlarne. Io sono una persona che cade nei sentimenti. Ci cade dentro”.

A proposito di finirci dentro. Fabrizio Corona è di nuovo tra dramma e delirio. Asia Argento e tanti altri hanno preso le sue difese.

“Ho conosciuto Fabrizio ultimamente e mi è subito piaciuto. Per me è come un fratello, ancora più pazzo di me. Ha un cuore, questo è sicuro”.

Dimmi di lui.

“Sa creare connessioni, genera energia ed entusiasmo. Attorno a lui ruota tutto un universo che lui chiama “il mondo Corona”. Questa cosa, quando me l’ha detta, mi ha fatto molto ridere. C’è molta autoironia in lui”.

Un megalomane e un bipolare grave?

”Direi, piuttosto, un bambino che gioca fare il grande. O un uomo che tiene alto lo spirito per emergere da situazioni dolorose in cui altrimenti sarebbe sprofondato”.

Hai visto l’ultimo Sanremo?

“L’ho trovato una mascherata. Troppo. Un conto è fare il teatro, un altro il carnevale. Il teatro rock è un’altra cosa. Esistono già David Bowie e i “Kiss” per questo. Non mi sembra che fossimo a quei livelli…Speriamo ci sia più attenzione per la musica, in futuro”.

Ti hanno escluso dalla gara.

“Avevo presentato cinque pezzi, uno più bello dell’altro. Sono stati maleducati a non accettare il mio regalo”.

A Fiorello manca sempre quel piccolo passo per diventare un grande davvero. Iniettarsi, da comico, una dose di sana malvagità.

“È un grande passo. Fiorello è un ottimo conduttore, ma non è un artista. Persino Baudo, che pure suonava il piano, non cantava a tutti i costi. Non trovo che sia cosi interessante sentire Fiorello cantare Modugno o Tenco. Recite da oratorio. Ma perché? Non si vergogna?”

Null’altro di rilevante?

“Sono contento della vittoria dei Maneskin, l’unica cosa credibile di questo Sanremo. Mi piaceva come stavano in scena. Grande enfasi, forse troppa, ma è il rock. Li sentivo come miei fratellini”.

Mi è piaciuta Madame.

“Lei è molto più importante della canzone che ha cantato. Ha tutte le carte in regola per diventare una grande cantante. Mi ricorda Alice, quella di “Per Elisa. Un’importante presenza scenica e vocale”.

Per il resto?

“Ho visto i due estremi. Dalle scimmiottature esagerate con tanto piumaggio e poca sostanza al poverismo ostentato. Questo andazzo low profile che chiamano “indy”, stile Colapesce. Sembrano tutti malcapitati sul palco”.

Il palco come sottrazione.  

“Va bene che non sono tutti Mick Jagger, ma un po’ di presenza scenica ci vorrebbe. Stare su un palco è un evento. Attenzione agli equivoci. Woody Allen sembra imbranato, ma non lo è. Sa perfettamente tutto quello che sta facendo, anche quando muove un mignolo”.

Come nasce questo andazzo?

“Nasce come reazione ai fasti esibiti dei talent show alla “X Factor”.

Tu ne sai qualcosa…

“Su 7 edizioni fatte, ne ho vinte 5. Sono sul Guinness. Il giudice che ha vinto più edizioni di X Factor al mondo”.

Marco Mengoni, Noemi, Michele Bravi, Chiara Galiazzo, tra gli altri.  

“Io li mettevo in scena. Con me imparavano a stare sul palco. Gli facevo cantare Piero Ciampi, Paolo Conte, Paul Weller, l’aristocratico tradotto in popolare”.

Accostamenti forti tra i giudici. Ti si è visto al fianco di Simona Ventura, Claudia Mori, Mara Maionchi. 

“Mi avevano messo in mezzo alle due carampane, la Mori e la Maionchi. Troppo divertente. Da Simona ho imparato tanto. Lei è un animale da diretta televisiva. Sotto il tavolo di X-Factor ti riempiva di calci, pizzicotti, pugni. Mi sono poi perfezionato sul live con Ranieri e Celentano. Si dice che Mister Morgan sia l’emblema dell’inaffidabilità. Non hanno idea di quanto io sia responsabile”.

Torneresti a fare il giudice a X Factor?

Non mi piace più. Non sono un opinionista, non è il mio ruolo, il mio posto è sul palco”.

A proposito di X Factor, c’era il tuo ex collega Fedez sul palco a Sanremo.

“Ti dico solo questo di lui. Un giorno gli faccio, a proposito di un suo tatuaggio: “Hai un quadro di Escher sul collo…”. “Non so, me l’ha fatto un amico”. Hai capito? Aveva un quadro di Escher sul collo e non lo sapeva. Non ho altro da aggiungere”.

Tuo padre aveva la tua età quando si è tolto la vita, 48 anni.

“Se l’è tolta, quando io avevo 15 anni, in un modo insospettabilmente romantico e sanguinario. Lui non era un poeta, né un filosofo. Era un artigiano troppo sensibile, molto buono. Un essere incompiuto”.

Dimmi di lui.

“Fece una cosa sbagliata, lasciando una bella famiglia che gli voleva bene in una spaventosa disperazione. Una moglie di 44 anni e due figli adolescenti, intelligenti, nel pieno della spinta creativa, io e mia sorella Roberta. Andavamo al liceo classico e contemporaneamente studiavamo musica. L’accompagnavo tutte le mattine sul manubrio della bicicletta”.

Non era il percorso dovuto delle famiglie borghesi.

“Tutt’altro. Scelte consapevoli e perseguite con una certa fatica. Si viveva in modo sobrio. La notte andavo suonare nei pianobar e ritornavo le quattro del mattino con 100mila lire in tasca che davo a mio padre”.

Non se la passava bene?

“Non me lo confidava esplicitamente, ma avevo capito. Non voleva apparire un fallito ai nostri occhi. Amava mia madre in una maniera cavalleresca. Per lei si metteva sempre elegante, la corteggiava dopo vent’anni di matrimonio. Un vero gentiluomo che, però, alla fine ha fatto la scelta peggiore”.

Da mowmag.com l'1 marzo 2021. Prologo. Dopo aver letto questa intervista Morgan mi ha scritto il seguente messaggio: «Mi dispiace molto ma non sono attratto da questa adolescenziale costruzione del mito sregolato. Te lo ho detto chiaramente: questo atteggiamento è ciò che contribuisce a rovinarmi gratuitamente l’esistenza, e tu vuoi far parte di ciò. Fai finta di aver compreso ma la realtà è che facendo così dimostri di non aver compreso nulla. Avresti potuto essere totalmente diverso nell’impostazione, maturo, ma hai fatto, come troppo spesso mi accade, una cosa grottesca, che non riporta me tra gli intellettuali d’oggi e tantomeno tra i musicisti e piuttosto che raccontare al mondo quanto è intelligente quanto è bravo quanto è diverso dai coglioni, sa solo dire quanto è folle». 

Intervista a un fantasma. Devi entrare nel suo flusso. Lasciarlo parlare, seguire i giri della sua mente e il battito delle parole, passare anche tu dalla paranoia all’ironia, dalla depressione alla genialità, dal terreno al filosofico con la sua stessa disinvoltura, fregartene se invece di rispondere alle tue domande va avanti con il proprio ragionamento, zittirti e ammirarlo quando nel mezzo di un discorso si gira e suona il piano per minuti, minuti e minuti, impazzendo e scuotendo dita e testa e capelli. E poi, dopo che sei entrato nel suo flusso, nel suo mondo, nel suo essere, solo allora, forse, puoi capirlo. Dovrebbe comporre e scrivere poesie, Marco Castoldi in arte Morgan, e basta. Vorrebbe misurarsi solo con l’Arte, con i grandi maestri, quelli che ha conosciuto come Battiato ed Eco, e quelli che lo hanno ispirato, come Baudelaire e Rimbaud, purtroppo si ritrova invischiato in polemiche, spesso è lui stesso a crearle per amore della provocazione e per bisogno di attenzione, ma, mi scrive sempre dopo aver letto l’intervista, “le mie non sono polemiche ma risposte ad un mondo sterile che dovrebbe finalmente cogliere che nessuno più di me si dedica all’arte anziché perdere tempo”. Morgan è figlio e vittima del palco, per lui causa di slanci, dipendenze e cadute. Il palco lo deve ringraziare e maledire. Quello di Sanremo, per esempio. Si presenta con cappello da pirata e un sacchetto di gommose zuccherate, te le offre, poi chiede un trucco tipo vampiro, o meglio «fantasma», e un po’ di vino. Gli offrono del Moscato da pochi euro, lui si accende una sigaretta. La prima. 

Sei sparito per quattro giorni e quando ci siamo sentiti e ti ho chiesto come stai, mi hai risposto: «Male, molto male».

«Sì, che dovevo dire? A te non capita mai di stare male?».

Sempre.

«E allora? Il problema è dirlo. Oggi ci sono dei problemi con le parole. Io amo le parole. Sono importantissime. Io ho scoperto la violenza delle parole in concomitanza col suicidio di mio padre».

Avevi 16 anni…

«Il suicidio di mio padre mi ha fatto elaborare un senso profondo del comunicare, dell’esprimersi, del liberarsi. Ho cominciato a lavorare sulla sensibilità, che è un’anima dolce, gentile, femminile, che dà il senso del creare un’opera d’arte, che sia pittura o una canzone. È il gesto dell’amore. Quindi la poesia, la parola, in questa dimensione, diventa il senso della vita, è un aggancio, è la salvezza. “Dì solo una parola ed io sarò salvato”, non è così? Dal vangelo di Giovanni. Quella parola non ho mai capito quale fosse…».

Oppure: «Nel principio era il verbo». 

«Wow. Però Davide Rondoni, il poeta, mi ha spiegato che il verbo non è una parola ma un movimento, un vento, un magma circolare da cui si genera tutto. Oggi la parola è un fantasma, è sotto assedio. Ma io voglio parlare del ghosting…».

L’arte di annullare una persona.

«Io lo sto subendo dalla persona che più in assoluto mi faceva sentire stimato e rispettato. Il nostro era uno specchiarsi meraviglioso e vedersi belli negli occhi dell'altro, era una relazione con una compatibilità naturale, totale. Per me è stato spaventoso, traumautico che per ragioni incomprensibili tutto questo si sia improvvisamente tramutato in un disprezzo tale da annullarsi completamente. Sfido chiunque a reggere una cosa simile, è inspiegabile, logorante».

Ne parli spesso di questa donna. Ma chi è?

«Ho provato ogni modo per sentirla, le ho scritto tanto».

Anche negli ultimi 5 inediti respinti da Amadeus parli di lei…

«Ma è tutto. Io la amavo… Lei deve aver subito qualcosa che non so, un incantesimo, è inspiegabile quello che è successo, è un incubo. Nessuno è riuscito a raggiungerla. Paradossale che lei guardi quello che scrivo io e io non possa farlo e che sia stato denunciato per stalking. Ma non sono mai andato sotto casa sua, le ho solo scritto, ma dov’è l’insistenza? Mai avuto risposte. Questa cosa mi ha scatenato un’inquietudine gigantesca, perché improvvisamente non posso più parlare con la persona con cui parlavo sempre. Lei era il cento per cento delle mie conversazioni, le nostre chat su Whatsapp erano diventate un romanzo di 500 pagine a settimana. Abbiamo fatto dieci anni così, scrivevamo e componevamo insieme, con naturalezza».

C’era anche un rapporto d'amore?

«C’era tutto, era la mia migliore amica, eravamo amanti, in libertà. Poi un graduale allontanamento, fino a quando mi ha bloccato. Ho provato a chiamarla ma lei, subito: “Ti denuncio”. Ho pensato anche che abbia affrontato un percorso terapeutico indotto, forzato, che l’ha portata a disinnamorarsi. E dal 25 aprile del 2020 io per lei sono diventato angoscia».

Quasi un anno…

«Ora vivo in questa distanza romanzesca, in questa idealizzazione folle che io costruisco dentro il mio racconto, che è un’assenza assoluta, e ho costruito un’opera gigantesca che è narrazione, fiaba, dialogo elettronico, ambient, voci, esperimenti, canzoni… Tutte queste cose messe insieme sarà Morgangel, credo di aver superato dieci ore di musica. Dovrò farne un serial a episodi, è la mia autobiografia. Ma devo stare attento perché io non sono autorizzato a parlare di lei, come se Petrarca non avesse potuto parlare di Laura o Dante di Beatrice. Io sono lo stalker della musa, non è moderna questa cosa? Ho pure interpellato Francesco Alberoni, grande conoscitore di queste dinamiche».

Il sociologo. Cosa ti ha detto?

«Ho passato un agosto tristissimo, totalmente silenziato a Milano e con l’angoscia nel cuore, consolato da Alberoni, che mi spiegava:  “L’innamoramento consiste in tre dati di fatto: l’idea del futuro, il pensiero ossessivo, il sogno a occhi aperti”.

Bellissimo e verissimo.

«Ha capito che stavo soffrendo, il ghosting è un’uccisione psicologica, è protratto, è un insulto costante, allucinante, ti fa mancare il fiato».

«La follia è l’unica via per la felicità» hai detto una volta. Adesso quanto sei folle e quanto sei felice?

«La mia è una follia divertente e creativa, è bizzarria, euforia, ma non ho alcuna turba psichica. Ho fatto spesso test psicologici, perché in occasione di affidamento di minori mi è capitato, e sono sempre, tragicamente, risultato privo di turbe psichiche. Non sono aggressivo, non sono istrionico, non sono bipolare, non sono narcisista né maligno… Se io sono sano, cazzo c’è un problema! Sono gli altri che si adeguano, che resistono, che sono tutti fuori come delle mine».

Resilienza…

«Ecco, ma che parola è?»

Resistere in condizioni avverse, l’anticamera del controllo sociale. Perché resisti e non ti ribelli. Ti adatti.

(Si accende un’alta sigaretta) «Adattamento è una parola importante, perché l’adattamento è gravissimo, non bisogna vantarsi dell’adattamento. Il disadattato è quello sano. L’adattato è uno che è stato frustato talmente tante volte che non sente più il dolore, il disadattato no! Il disadattato protesta, si lamenta. Il disadattato è una persona libera. Pensa che deformazione ha la parola adattamento quando parli di un bambino: “Ah è così bravo, lo metti lì e non fa niente”, oppure: “Ah io mi so adattare benissimo!”. Non ci si deve vantare di adattarsi».

Hai preso il nome Morgan da un pirata, un corsaro. 

«Il libro su di lui me l’ha regalato Dori Ghezzi quando è morto De André, La Santa Rossa di Steinbeck, in cui si parla di Henry Morgan, e dentro c’erano le note scritte a matita da De André stesso, io ero giovane, e da giovane sono stato sempre in mezzo a una generazione di narratori fantastici. La Pivano, Battiato… Con lui mi sono divertito a fare pranzi e cene di parole».

Meraviglia.

«Una volta sono andato a pranzo in una giornata bellissima al Buon Convento in Corso di Porta Romana con Battiato e il filosofo Manlio Sgalambro, autore di molti suoi testi. Io ero a palla. Appena ho guardato la porta d’ingresso del ristorante ero emozionato, sono entrato e da lì ho visto le sagome di Battiato e Sgalambro arrivare al di là della porta a specchio del locale. Ci si dava del lei, erano ironici di brutto… (Fa la voce di Battiato e la imita molto bene). Franco mi diceva: “Dove andremo con questi nuovi cibernetici,viviamo nel neoprimitivismo, ma che ci importa della letteratura gotica, che ci importa della svastica…”, poi si rivolgeva a Sgalambro: “Lei Manlio trascura il fatto che la simbologia è molto più antica perché dobbiamo risalire ad un altro tipo di cultura”. Poi mi chiedeva (lo imita ancora): “Ma di questo Lou Reed che ne pensa?”. Non mi faceva nemmeno rispondere (ne continua a imitare la voce): “Lou Reed è uno che sputa quando canta, trascina sé stesso dentro la canzone, diventa un fantasma di sé, però ci sono almeno due pezzi dei Velvet Underground come Sunday Morning che sono illuminanti».

Per te era un parco giochi.

«Dopo è uscito il brano Shock in my town. Nel brano firmato da loro due ci stava tutta la conversazione di quel giorno. Sono andato da Battiato a Catania per l’album Gommalacca, dipingeva con un grembiule da venditore di frutta e stivali da pescatore, sul balconcino, io lavoravo a fare gli arrangiamenti. Ogni tanto cambiava due tre note, spostava un semitono, (imita la sua voce) “questo più su, no più giù, no più su, un poco più giù, ecco, ecco, così”. E con noi c’era anche il cantautore Juri Camiscasca, faceva le dorature dei quadri, era uscito dal monastero dopo 11 anni di clausura ed era un’altra presenza allucinante. Amava tutto quello che facevo. Gli facevo un accordo e gioiva. Gioiva per ogni cosa. Quel momento fu storico. Battiato mi manca tantissimo adesso».

Ma come ci sei arrivato a lui? La tua adolescenza è a Monza.

«Ho iniziato a scrivere musica a 5 anni. Un giorno telefonò il maestro di musica in prima media a mia madre, e disse che era preoccupato per me: “Suo figlio è troppo dissonante”. E mio padre: “No, mi piace molto di più quando è dissonante”. Mia madre allora mi ha portato da un’inquisitrice giapponese per farmi esaminare e che mi ha detto di suonare i pezzi dei Beatles in chiave moderna. Un’allucinazione dietro l’altra. Quindi ho fatto opera di composizione. E nel 1995, Battiato, dopo il concerto del primo maggio, entrò nel camerino dei Bluvertigo e disse: «Volevo conoscerti perché quando canti mi sembro io».

Tuo padre che faceva?

«Il falegname. Pinocchio».

E la mamma?

«La maestra».

A 16 anni facevi l’uncinetto con tua madre.

«Ma questa l’ho detta su Clubhouse?»

No, ma lì ho sentito che giocavi a tennis.

«A 16 anni ho fatto i campionati nazionali, ero forte, sono arrivato terzo. Poi ho dovuto scegliere se suonare il piano o continuare, non ce la facevo a fare 8 ore di piano e 4 di tennis».

Primo ricordo?

(Si accende un’altra sigaretta, si chiude su se stesso, pensa) «È audio, sono nel grembo e c’è un suono calmante, rumore di pioggia ovattata. Un primo ricordo vero non ce l’ho, potrebbe cambiare sempre, ricordi di gatti, di angoli della cameretta, odori, la moquette anni 70, la moquette in Italia non c’è più, io le adoro, vorrei vivere in una casa nel bosco, alla Tolkien, freddo fuori, caldo, caldissimo dentro. Legno e fuoco. Pinocchio. Bel romanzo, tosto, Pinocchio eh?».

Cosa stai leggendo adesso?

«Un libro sulle marionette che ho comprato a un euro in una bancarella. Non ha un autore, è graficamente fantastico. Ci sono le storie di vecchie famiglie di Milano che avevano le marionette».

Parli di Pinocchio, leggi un libro sulle marionette, tutte cose che hanno a che fare proprio con il lavoro di tuo padre...

«L’ho visto che mi salutava dalla finestra, e poi non l’ho più visto vivo, ma morto in un bosco. Era il 1981. L’esistenza mi è piombata addosso, pesantemente». 

Ti senti decontestualizzato dal 2021?

«Mi sento un fantasma, lo sono in tutto. Discograficamente, sentimentalmente. Il grande escluso. Amadeus pure ci ha messo il suo. Posso avere un altro po’ di Moscato?»

Fiorello ti ha citato nella pubblicità di Sanremo.

«Non mi hanno avvisato né pagato, boh».

Ti faccio dei nomi e mi rispondi secco. Fedez.

«Lo vedo bene con un’Ibanez. Se Ibanez fosse una modella… invece purtroppo è una chitarra».

Fulminacci.

«Fulminacci non è malissimo».

Madame.

«Pare che piaccia».

Willie Peyote.

«Bravissimo, è un mio amico».

Ora ti leggo una poesia: “E io mi sono convinto ormai che se una donna fa giravolte allora ha capito il mondo, e se non ha capito il mondo almeno ha capito il mio”.  

«Sembrano dei pensieri da scuole medie…».

Sono di Giò Evan, altro cantante ammesso a Sanremo 2021.

«Non mi piace, non ci possiamo capire. Ma può essere una svista, un errore di gioventù, sarà alle prime fasi di scrittura».

Orietta Berti?

«La vedrei bene con un arrangiamento heavy metal, Orietta Berti metal sarebbe fantastica. Ha una voce pulitissima, è donna di spirito, coi Bluvertigo ci siamo divertiti molto con lei».

Hai annunciato la reunion.

«Sì, li ho sentiti ultimamente, vorrei fare un album nuovo, chiamarlo Bluventuno, una roba facile, basso, chitarra, batteria e Andy con le sue diavolerie, tastiera e sax, e poi orchestra sinfonica tipo Deep Purple, rock antiquato, d’antiquariato».

Lo vedrai Sanremo quest’anno o lo snobbi?

«Dipende da cosa devo fare quelle sere. Vorrei fare delle dirette Instagram e commentarlo live, oppormici, anzi fottermene!»

Non posso esimermi: Bugo?

«Con Bugo purtroppo non ci ho più parlato, mi ha fatto un po’ di ghosting anche lui. So che farà il duetto con i Pinguini Tattici Nucleari… Dovrebbe fare la mia canzone Altrove ma purtroppo non arriverà mai a sti livelli, se lui faceva la cover di Altrove era finita, giuro, vinceva lui. Ma lui s’è preso male davvero. Assurdo, è un ipocrita, anzi un hip-pop-crita. Il problema degli italiani? Non hanno senso dell’umorismo».

L’hai più sentito Amadeus dopo le vostre polemiche?

«No, mi ha bloccato. Scherzo, a me piace scherzare, ridere. Per me è un bravo ragazzo. Non ho motivi di avercela con lui, credo sia difficile stare dentro le logiche di queste robe, avrà avuto delle pressioni, sicuro».

«Io sono un genio» hai detto molti anni fa.

«Oggi su Clubhouse ho detto: “Io sono un’ape che guarda l’alveare dall’alto, guardo gli altri perché volo molto più in alto e perché me lo sono guadagnato sto volo”».

E da lassù cosa hai visto?

«Che i più bravi di tutti sono i tassisti, perché parlano e sanno le storie, fanno una vita di relazione, poi ci sono gli insegnanti e i ricercatori. I pezzi di merda sono i web manager, i web designer, i social manager, che non si sa cosa fanno, che parlano di monetizzazione, di conversione. Il tassista ti parla di Italo Svevo, della coscienza di Zeno, e ti porta pure dove gli dici te. Quelli lì non parlano di niente. C’è un tale che si chiama Montemagno. Ma chi cazzo è? Non so chi è. È insopportabile. Le cose belle che puoi vedere sul web sono poche».

Quali?

«Un dibattito tra Chomsky e Foucault, la conferenza di Chomsky Justice vs Power, il simposio dello scienziato Douglas Hofstadter che racconta l’evoluzione e ti porta a capire che l’intelligenza artificiale non sostituirà mai l’uomo. Di Hofstadter avevo letto che avrebbe insegnato un anno a Bologna e mi sono iscritto al suo corso di semiologia, lo introduceva Umberto Eco. Uno spettacolo. Nell’ultima lezione ci disse: mi è morta la moglie, voglio solo essere amato. Cioè, uno scienziato che in italiano perfetto ti fa capire che ok l’universo, la fisica e il resto, ma la cosa più importante è sentirsi amati. Eco diceva: “A quest’uomo non gli perdonerò mai di non sapere l’aramaico”. E sosteneva che la Divina Commedia tradotta in inglese faceva cagare e che solo in russo si poteva tradurre Dante».

Tu chi hai amato di più?

«Inevitabile dirti che quest’ultima le straccia tutte, compresa la famosissima Asia, che è stata una grande distruttrice, una divoratrice, una mantide religiosa per eccellenza, che mangia la testa degli uomini. (Si mette al piano). Dice: «A me piace la musica russa. Senti questo pezzo di Skrjabin». Lo suona per cinque minuti. «Cioè questo nel 1901 che cosa scriveva? Pare jazz. Sembra Tenco. Però è il 1901, suo figlio è morto a 11 anni. È morto nel lago ghiacciato. Allucinante come era forte Skrjabin».

Tu come vorresti morire?

«Io sono morto già da tempo… Vorrei morire in scena, per esempio Carmelo Bene voleva morire in scena fumando e bevendo una spremuta di mandarino. Era convinto di morire perché aveva avuto un infarto. Me l’ha raccontato la figlia del medico che era stato chiamato per soccorrerlo. Era tutto buio. Il medico era entrato nella stanza e ha visto solo la luce della sigaretta accesa, Carmelo era nudo a letto».

A che età vorresti morire?

«Prima di morire vorrei dirigere un’orchestra, e poi vorrei fare un po’ di cinema musicale»...

Com’è la vita dopo la morte?

«È uguale, io credo di poter pensare di morire di suicidio, possiamo ipotizzarlo».

È vero che hai tentato il suicidio.

«Per me il tentato suicidio è come se fosse una cura, lo tento un paio di volte al mese…Secondo me andrebbe somministrato come cura antidepressiva un paio di volte al mese» (ride).

Come?

«È un pensiero, è il pensiero della morte, ma in realtà è un grido di aiuto. D’altra parte se vivi nella situazione del silenziato l’unica chance che hai per farti sentire è il racconto di te stesso, no?».

Chi sei stato nella vita precedente?

«Un cane. Coi cani vado d’accordissimo, per me sono fratelli. O forse un corvo. Dario Argento m’ha raccontato che i corvi parlano. Mi disse che una volta aveva 500 corvi sotto mano, che doveva girare una scena di Opera, e si è cagato addosso perché questi parlavano. T’immagini 500 corvi che parlano? Dario Argento che ha paura è una bella immagine».

Com’era andare alle cene di Natale con Dario Argento?

«Ricordo una Pasqua… Erano venuti lui e Daria Nicolodi, una donna di una gentilezza e bellezza, coltissima, a casa di mia mamma. Dario si addormentò su una sdraio in giardino guardando un albero. Noi eravamo lì e ci chiedevamo: “Cosa facciamo?”. Daria ci diceva di non svegliarlo, che se dormiva voleva dire che stava bene. Si è svegliato e poi siamo andati a piedi a vedere la casa che stavamo costruendo. E lui: “Guardate questa luce, è la northern light, Bergman mi diceva che era così la luce del nord…”. Bergman, capisci? Per Dario Argento la luce di Monza era la northern light: bellissimo. È uno che si spaventa. Mia mamma gli aveva regalato dei guanti neri, e lui morì di paura, perché i guanti neri per lui sono simbolo di terrore. Nei suoi film nelle scene di omicidio arriva l’attore con i guanti neri…»

È vero che hai problemi alle corde vocali?

«No. La voce è una cosa viva, la mia voce ha le rughe, si sente… (Prende il cellulare, legge versi di Petrarca): “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core in sul mio primo giovenile errore quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono”. Cioè, aiuto, i versi più belli che sono mai stati scritti. Vedi la differenza del suono che c’è con Dante? “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per la selva oscura…”. Senti l’accento, la rima, come cambiano? Dante è endecasillabo, è più secco, non è rotondo come Petrarca. Purtroppo della poesia non gliene frega niente a nessuno».

Cosa vorresti scrivere sulla lapide?

«Un epitaffio di Edgar Lee Masters… Devo dimagrire, voglio rimettermi in forma. Voglio fare un momento di detox totale e andare in America» (si accende quella che sarà la decima sigaretta).

Quanto fumi al giorno?

«Non so, butto via le sigarette dopo due, tre boccate. Battiato amava tantissimo fumare (ne imita la voce, sempre meglio): “La donna quando fuma è irresistibile. Ci sono due cose irresistibili: la danza del ventre e le donne che fumano”. Torna a suonare. Stavolta Beethoven. Si agita, impazzisce, quando si ferma sorride. 

Hai anche detto che assomigli a Gesù Cristo.

«Certo, assomigliamo tutti a Cristo nella misura in cui siamo condannati a essere uomini e donne. Cristo è così amabile, così dolce, così ingiustamente condannato che non si può accettare che sia crocifisso, bisogna smetterla con questa crocifissione».

Ti sei mai scoperto a pregare?

«A Capodanno sono andato in Chiesa, ho chiesto di essere confessato e il parroco mi ha mandato da un suo emissario di 72 anni, simpaticissimo, e gli ho fatto: “Be’, hai soltanto una decina di anni ancora”. E lui: “Ma sei un po’ stronzo”.

Che peccati gli hai raccontato?

«Tutto, tutto… Gli ho raccontato del mio ghosting, a un certo punto questo prete si è commosso e mi ha fatto: “Io ti ringrazio, sono contento di averti conosciuto oggi”. Si è messo a pregare per me e ha aggiunto: “Preghiamo per questa persona che non ti capisce…”. Io invece gli ho detto di pregare per chi non ha da mangiare, per quelli che soffrono veramente di fame. Alla fine abbiamo pregato per il perdono. Il perdono è l’inizio, non è la fine».

Tuo padre si è tolto la vita a 48 anni e tu hai detto che arrivato alla sua stessa età lo avresti perdonato.

«Ne ho ora 48, sto passando attraverso questo portone che è delicato, che è potentissimo, amo la parola perdono perché c’è dentro la parola dono, non c’entra nulla ma è bello pensare che perdonare è un dono. Sì, lo perdonerò. E perdonerò tutti». 

Epilogo. Prima di andare via Morgan sfila una quaderno senza righe dalla tasca. Le pagine sono tutte bianche, tranne le prime due. Comincia a declamare ciò che ha scritto. Comincia così: «Ancora una volta precipitare, e io, forte della mia antica…». Purtroppo il suono, nella registrazione, è confuso, non si capiscono più le sue parole. Peccato, perché era tutto davvero molto bello. Gli ho chiesto via whatsapp di rileggermelo e mandarmi un vocale. Mi ha detto: «Ora ti mando l’audio». Non è ancora arrivato. 

·        Marco e Dino Risi.

Dal “Fatto quotidiano” il 21 agosto 2021. Pubblichiamo un estratto dal libro "Forte respiro rapido" scritto da Marco Risi (su Dino Risi nda). La dedizione di papà alla battuta è sempre stata totale. Aveva assoluta precedenza su tutto. Gli piacevano al punto da non calcolarne le conseguenze. C'è da dire che ne sbagliava poche. Al mio terzo film con Jerry Calà, che andò piuttosto male rispetto ai precedenti, sentenziò: "Levategli l'accento!". E quella volta che c'incontrammo per caso al cinema Roxy a vedere La passione di Cristo di Mel Gibson, dove il povero Gesù prendeva un sacco di botte dall'inizio alla fine del film, all'uscita, dopo qualche minuto di silenzio, disse: "Sai qual è il problema di questo film? Non ti appassioni al protagonista!". Arrivavano come frustate. Te ne accorgevi, o meglio, io mene accorgevo, dallo sguardo, che aveva un'intensità nuova, viva e affilata. Di lui potrei anche dire che non era attentissimo alla forma né alle apparenze per tutto quello che lo riguardava; con se stesso, diciamo, era piuttosto tollerante, era attentissimo invece alle sfumature, anche le più insignificanti, degli altri. Non gli sfuggiva una risata falsa o un gesto o un affanno improvviso e se aveva la luna storta poteva diventare spietato. Durante le riprese di Profumo di donna passai una settimana con lui a Napoli a fargli da aiuto regista perché mio fratello Claudio, da qualche anno suo aiuto ufficiale, aveva avuto problemi con il servizio militare. Una sera, sulla terrazza dell 'amico di Gassman, cieco anche lui, come il protagonista del film, bisognava girare la scena di una festicciola con un paio di ragazze amiche di Agostina Belli, che dovevano correre e ridere allegre e sguaiate giocando a moscacieca. Il vantaggio con Gassman, in questo caso, era che non si doveva bendarlo...Secondo papà una delle ragazze non era abbastanza allegra e sguaiata e, forse perché qualcosa delle riprese non lo soddisfaceva e aveva bisogno di ritrovare la tensione giusta con il cast e con la troupe, cominciò ad aggredire la poveretta che se ne stava immobile, la testa bassa, umiliata. La insultò pesantemente e a lungo, tanto che a un certo punto mi sentii in dovere di intervenire, rischiandomela grossa perché avrebbe potuto insultare anche me, duramente. Era quello che mi aspettavo: come mi permettevo io, piccolo stronzo, di intromettermi? Invece ci fu qualche secondo di silenzio assoluto, il set sembrava sospeso. Gassman, che stava prendendo appunti per il Kean da portare a teatro di lì a poco, alzò un sopracciglio quando sentì la mia voce sovrastare quella del suo amico. Era successo qualcosa alla quale non aveva mai assistito. Il regista, mio padre, non reagì. La sera dopo andammo a cena da Ciro a Mergellina e incontrammo Vittorio De Sica, elegantissimo, camicia bianca immacolata e completo beige di cotone chiaro. I due, con le loro belle chiome candide, si abbracciarono e parlarono di cinema, dei giovani colleghi che incalzavano, Bertolucci, Bellocchio, Samperi, Faenza. Lo fecero con attenzione e considerazione: erano anni di tensioni politiche, di contestazioni dure, bisognava tenerne conto. Quello era bravo, quell'altro meno, quell'altro sarebbe diventato famoso. Ma la sentenza finale in napoletano di De Sica, lucida, sincera e soprattutto allegra, fu: "Ma diciamoci la verità, Dino: 'sti giovani ci stann' scassand ' 'o cazz'...". E se la risero beati. Una ventina di anni prima di questo incontro, erano sul set di Pane, amore e..., il terzo film della serie che era iniziata con la coppia in bianco e nero Lollobrigida-De Sica, diretta da Luigi Comencini, e ora passava a quella De Sica-Loren con il colore del grande Tonino Delli Colli. Le riprese si svolgevano a Sorrento, in un clima disteso e rilassato. A rallegrare ancora di più quell'atmosfera, un giorno arrivò nell'albergo dove alloggiava la troupe un pullman di pattinatrici svedesi. Che cosa ci facessero delle pattinatrici svedesi a Sorrento nell'estate del 1955 rimane un mistero. Papà non si lasciò scappare l'occasione. Ebbe un'avventura con una delle svedesine e ci passò la notte. Il mattino dopo si svegliò alle 11, quando la convocazione per le riprese era alle 8. Che fare? Immaginava che fossero tutti lì ad aspettarlo, con il direttore di produzione furibondo. Si vestì in un lampo. Corse come un matto. Arrivò sul set trafelato. E che vide? De Sica che aveva già girato un paio di inquadrature e stava impostando quella successiva come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mio padre si fermò ai bordi del set a osservarlo, incantato. Quando De Sica si accorse di lui, gli si avvicinò e, nel passargli le consegne, gli chiese in un sussurro, complice, all'orecchio: "La svedese?".

·        Marco Giallini.

Marco Giallini: «Parlo con mia moglie morta e recito Dante a memoria. Le mie 52 fratture in moto». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 26 Dicembre 2021.

L’attore: «Facevo l’imbianchino poi la sera andavo a scuola di teatro. Sono esploso a 49 anni. Ho deciso di diventare popolare per dare una possibilità in più ai miei figli» 

Riproponiamo qui una delle interviste più lette del 2021, quella di Candida Morvillo a Marco Giallini, pubblicata sul Corriere nel maggio scorso. 

Sono le quattro del pomeriggio, Marco Giallini apre la porta, si scusa per il disordine, si offre di fare gli spaghetti. Sposta un giubbotto di pelle lanciandolo su uno gemello, che sta su un cumulo di vecchi cuscini, chitarre, vinili rock, forse tulipani. «Mi fanno ridere quelli che si fanno la foto col chiodo. Io non so come mettermi quando faccio le foto». Mima una posa da social. «Io i giubbotti li ho perché vado in moto. Mica per quell’iconografia rockettara degli stilisti e dei ragazzi che si fanno crescere la barba, che quando se la taglieranno, come diceva quella, una mia amica: capirò quanti mostri ho baciato». 

Il disordine non è proprio disordine, è più come se in questa mansarda alla periferia di Roma un’esplosione avesse scaraventato roba fin sul pianerottolo. Aveva avvisato che è in corso un trasloco. Chiedo conferma. «Sta traslocando?». «Io? No». Sposta una tela e dei pennelli. Dipinge, anche. Il ritratto dell’attore Toshiro Mifune risale al primo lockdown. «Sa quelli che pensano che sono attore? Dicono: tu a casa hai la signora. Ma quale signora? Pure coi miei figli... Mai avuto una tata. Io sono tato. Qui faccio tutto io. Qui le donne mi menano e poi se ne vanno». Sposta ninnoli e vecchie foto in una vetrina, indica tre statuine di lupi: rappresentano lui e i due figli che ha cresciuto da solo dopo la morte della moglie. «Di là ci sta una batteria da paura. Suono un po’ di tutto. Però so recitare pure mezza Divina Commedia a memoria». Locandine di film non ce ne sono. Eppure ne ha girati oltre 50, più una quindicina di serie. I premi, per Acab di Stefano Sollima, Tutta colpa di Freud e Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese, per Io, loro e Lara e Posti in piedi in Paradiso di Carlo Verdone e per la serie Rocco Schiavone di Raidue, stanno in una vetrina a parte. Col suo addetto stampa ci siamo persi sul raccordo anulare, senza che sapesse dirmi dove mi stava portando. Giallini, dal terrazzo, indica, lontano, il cupolone. Ma oggi è brutto e non lo vedo. 

Giallini, dove siamo?

«Ci vuole meno di quello che sembra per far star bene gli altri. No? È solo che la gente è avida. Chi l’avrà fatto Dio? E come? Per autocombustione? Col Das, forse». 

Perché, di colpo, parla di Dio?

«Mi hanno chiamato Dottor Divago. Divago molto. Parlavamo di giubbotti, ci vado in moto. Come si nota dagli sgarri che ho addosso». 

Intende cicatrici?

«Cinquantadue fratture in un colpo solo. Mi sogno a volte l’attimo che pinzo. Io vado forte. Nelle borgate, ci si giocavano anche i denari, andando a 200 o 240 all’ora». 

Cadde in una di queste gare?

«No, correvo verso casa, sul bagnato. In moto so andare a un livello che pensavo di essere un dio, finché ti rendi conto che le cose possono accadere. Un amico ha detto: Giallini ci scrive con la moto. Sentirmelo dire mi fece piacere. Più della signora che al festival di Venezia mi disse: sono anni che sto qua, è la prima volta che sento ridere. Io non ce la faccio a non dire una stupidata per far ridere la gente che sta seria. Perché stanno tutti così? Stiamo come in una dittatura dell’individuo, dell’io». 

Cos’è la dittatura dell’io?

«Tutti con ’sti labbroni, tutti con ’ste fotografie, cos’è Facebook? Il libro delle facce... Ma a me che importa che faccia c’hai? Ma perché non ti posso incontrare per strada? Sa la verità? Che io non posso sobbarcarmi tutto». 

Tutto che cosa?

«L’animo gentile, l’animo vicino a Dio, prende tutto. Perché è sensibile, perché ha uno sbaglio di sangue, di vene, di capoccia». 

Quando ha capito che ha l’animo gentile?

«Da bambino. Quando vedevo tutti felici a casa. Papà, dopo dieci ore di lavoro, tornava in un buco, morto di fatica, un po’ bevuto per non sentire, non capire, e mi faceva l’occhiolino e tutti ridevano, e io facevo finta di andare in bagno e mi veniva da piangere. L’ho capito anche con mio nonno, che non era mio nonno, Ercole si chiamava, era una persona misteriosa che ci tenevamo dentro casa. Un giorno, avevo 9 anni, passiamo insieme davanti a un boss del quartiere. Tornava da caccia con la doppietta. Ercole mi fa: ahò, non gli stare vicino a questo, che ti dà una revolverata. E il boss disse solo: buongiorno, Ercole. A un altro, l’avrebbe accoppato, i meccanismi erano quelli. Ho pensato: ma chi è Ercole? Mi è rimasto il mistero. Chiedevo a mio padre. Niente». 

Come arriva l’idea di fare l’attore?

«Stavo lì, ragazzino, la testa che ti senti che ti va tutto stretto. Il tempo passa. Gli amici mi dicevano: ma perché non fai l’attore? Ero quello che, se c’è Giallini, andiamo, se non c’è, dove andiamo? Non è una bella cosa, anzi: è come se tutti avessero bisogno di te, è un po’ dura. Alla fine, ti rompi e ti chiudi qua. Alla fine, io sto in lockdown da quando è morta Loredana» 

A luglio, sono dieci anni.

«Quello è il momento in cui ho deciso di diventare popolare. L’ho deciso proprio, perché sarei uno che s’adagia, sono pigro, ammazza come sono pigro. Nel senso che ancora aspetto di giocare con la Roma. Ero arrivato qui, a Tor Lupara, per Loredana. Ci siamo messi in 40 metri, non eravamo abbienti. Ci siamo sposati nel ’93, facevo teatro e altri lavori, però avevo ripreso la scuola, mi ero iscritto a Lettere e a scuola di recitazione. Ero diventato bravo, colto, oltre che bandito». 

Quanti sacrifici ci sono voluti?

«Facevo l’imbianchino, otto ore. E la sera, la scuola di teatro. Poi, otto ore erano troppe. Ho iniziato a portare il camion delle bibite, la mattina. Dopo, tornavo a casa, doccia, prendevo il mio Yamaha, andavo a scuola. Parcheggiavo contro il muro, non avevo manco il cavalletto e entravo, col chiodo, i capelli lunghi. Boom! A volte, mi prendevano per uno spettacolo. Un giorno, per strada, avevo il cappello di carta da muratore, incontro un collega attore. Mi guarda: ma che fai? E io: stamo a fa’ un film». 

Teatro ne ha fatto tanto. Il cinema è arrivato tardi: primo film a 35 anni, diretto da Marco Risi ne «L’Ultimo Capodanno».

«Però sono esploso ancora dopo, a 49, con il Nastro d’argento per Acab e la nomination ai David per Posti in piedi in Paradiso. Prima, quando c’era Loredana, avevo fatto 35 tra film e serie, però ero secondo, terzo attore: se sei primo, i progetti li fanno su di te. Lei ha visto solo l’inizio. Sul primo contratto, legge la “rata film”, la prima di dieci, ma pensava fosse tutto lì. Dice: solo questo? E io: no, devi mettere un altro zero. Le vennero le lacrime. Bello o no?». 

Ha deciso di diventare popolare solo da vedovo per riempire il tempo e non pensare?

«Per dare una possibilità in più ai figli. Dovevo tirarli su come ci eravamo promessi. Lei voleva che facessero il Classico, uno lo fa, l’altro l’ha finito: è una cosa stupenda, chi fa il Classico si riconosce da lontano». 

Mancata sua moglie, come ha fatto con due figli di 12 e 5 anni e di che aveva paura?

«Che ne so, il dolore era troppo. Il pensiero che lei rientri a casa da un momento all’altro dura due anni, poi, capisci che morire è prassi. Non a 40 anni. Non fra le mie braccia, mentre prendiamo le valigie per le vacanze. Ma non sono l’unico a cui è successo. Fare a meno è questione di testa, anche fare a meno delle menti dei bimbi non più chiare, del loro pensiero: vorresti sapere che pensano il giorno della festa della mamma o quando spegni la tv e quello, a 5 anni, strilla: mamma mamma».

Quanto è stato duro fare Schiavone?

«Fatico a farlo perché è il personaggio che più si avvicina a me, per carattere, retaggio, per la nota vicissitudine. La gente crede che più somigli e più è semplice, ma è il contrario: i migliori elogi li ho presi facendo il borghese. Mi sono piaciuto, in Io sono tempesta, quando al centro poveri dico a Elio Germano “se vuoi otto euro fatteli dare dal mio autista, c’è una Maserati qui fuori”. E lui : di che colore? E io lo guardo come a dire: ma quante Maserati vuoi che ci stanno fuori al centro poveri?».

Com’è fatta la popolarità?

«Al Festival della Letteratura di Mantova, duemila donne hanno rotto le transenne. Sono saltato giù dal palco come Ringo Starr. Pure per questo non abito in centro: c’è troppa gente e io a uno che per vedermi al cinema con la famiglia spende 40 euro non so dire “la foto no”. Gliel’ho già chiesto chi ha fatto Dio?».

Sì. Forse l’han fatto col Das. Diceva.

«Ci accaloriamo su troppe cose da niente, i social, il politically correct, quando la gente non mangia, non può dare il latte a un ragazzino. Di questo ci si deve occupare. Io che pago di tasse? Dieci? Ne pago 12 e quei due li dai a chi non ha una lira: è così difficile?».

Le capita ancora di piangere di nascosto?

«Come tutti, come i veri duri. Perché lo sono. Se no, sarei morto».

Il dolore di Giallini: "Perché parlo con mia moglie morta". Novella Toloni il 20 Maggio 2021 su Il Giornale. In una recente intervista l'attore romano, 58 anni, è tornato a parlare della morte improvvisa della moglie: "Il dolore non passa mai, ti dimentichi un po' la voce ma io ci parlo ancora". "Alla fine, io sto in lockdown da quando è morta Loredana". Sono passati quasi dieci anni da quando sua moglie è deceduta, ma l'attore Marco Giallini non può dimenticarla. Sarà per questo che, ha confessato in una recente intervista con il Corriere della Sera, parla ancora con lei. Marco Giallini suona la batteria, recita la Divina Commedia a memoria e ha all'attivo cinquanta film tra piccolo e grande schermo. Ma nonostante la sua carriera da attore sia all'apice, il suo cuore è fermo al 2011 quando la moglie Loredana morì tra le sue braccia: "Il dolore era troppo. Il pensiero che lei rientri a casa da un momento all'altro dura due anni, poi, capisci che morire è prassi. Ma non a 40 anni. Non fra le mie braccia, mentre prendiamo le valigie per le vacanze". Era il luglio di dieci anni fa e la donna lasciava l'attore e due figli di 5 e 12 anni, che Giallini ha cresciuto da solo, aiutato solo dal fratello di Loredana e da sua moglie: "Mai avuto una tata. Io sono tato. Qui faccio tutto io". Per crescerli come lui e la Loredana desideravano Marco Giallini si è buttato anima e corpo nel mondo della recitazione, dove era già conosciuto ma non ancora popolare: "Mi sono impegnato per dare una possibilità in più ai figli. Dovevo tirarli su come ci eravamo promessi. Lei voleva che facessero il Classico, uno lo fa, l'altro l'ha finito: è una cosa stupenda". A Roma, a Tor Lupara, l'interprete del personaggio Rocco Schiavone dell'omonima serie di Raidue, era arrivato per amore della sua Loredana: "Ci siamo messi in 40 metri, non eravamo abbienti. Ci siamo sposati nel '93, facevo teatro e altri lavori per fare la scuola di recitazione". Poi la carriera e il terribile lutto, mai superato davvero: "Il dolore non passa mai, e che passa? Ti dimentichi un po' la voce ma io ci parlo ancora. Quando sto solo e qualcosa non va. Dico: 'Eh amore mio...'". Impossibile per Giallini dimenticare il loro amore, impossibile provarlo per un'altra donna: "Innamorato ero di mia moglie. Per 27 anni, non ci siamo mai lasciati e non abbiamo mai litigato. Lei era la donna mia e io il suo uomo. Nel mondo, quante ce ne possono stare di persone per te? Una". A sostenerlo c'erano solo i suoi figli, dei quali l'attore si è preso cura e continua a farlo tutt'oggi con l'apprensione di chi sa di aver solo loro: "Mi hanno I miei figli mi dicono ti amo. Quanti figli ti dicono: ti amo? Sono bravi. La notte ancora aspetto il rientro dei ragazzi, sto sempre lì che stanno per morire. Poi, li sento e scrivo: buonanotte, amori".

L'intervista dell'attore. Chi era la moglie di Marco Giallini, Loredana, scomparsa 10 anni fa: “A volte le parlo ancora”. Vito Califano su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Marco Giallini in una lunga intervista al Corriere della Sera ha ricordato la moglie, Loredana, morta dieci anni fa, a causa di un’emorragia cerebrale. Era il luglio del 2011. Un’intervista emozionante. “Alla fine, io sto in lockdown da quando è morta Loredana”, ha raccontato l’attore, 58 anni, tre Nastri d’Argento per i film Acab, Tutta Colpa di Freud, Perfetti Sconosciuti. Ha inanellato una serie di ruoli fortunati negli ultimi anni, tra cui il vicequestore Rocco Schiavone, protagonista di una fortunata fiction Rai, dalla storia simile a quella dell’attore, con una moglie scomparsa tragicamente e improvvisamente. Giallini è arrivato al cinema e alla televisione, in ruoli di primo piano, dopo una lunga esperienza a teatro. Prima di bucare lo schermo con la serie tv del 2008, Romanzo Criminale, ha fatto l’imbianchino, si è iscritto a Lettere e a scuola di recitazione. Ha distribuito bibite in camion. La sera scuola di teatro. Tanto teatro, prima del primo film, a 35 anni. La moglie si è ammalata e ha fatto in tempo a vedere il primo contratto da primo attore. “Sul primo contratto, legge la “rata film”, la prima di dieci, ma pensava fosse tutto lì. Dice: solo questo? E io: no, devi mettere un altro zero. Le vennero le lacrime. Bello o no?”, ha raccontato. “Il pensiero che lei rientri a casa da un momento all’altro dura due anni, poi, capisci che morire è prassi. Non a 40 anni. Non fra le mie braccia, mentre prendiamo le valigie per le vacanze. Ma non sono l’unico a cui è successo”. Un dolore che non passa mai. “Ma ci parlo ancora. Quando sto solo e qualcosa non va. Dico: Eh amore mio …”. Quando Loredana è morta i due figli, Rocco e Diego, della coppia avevano 13 e 6 anni. Quando si è sentita male, la donna, aveva accusato nei due giorni precedenti un forte mal di testa. “Ha chiuso gli occhi e mi si è accasciata fra le braccia mentre chiacchieravamo. Io le parlavo all’orecchio, ma mi sono accorto che parlavo da solo, e ho maledetto Dio. Ha vissuto altri due giorni, ma senza riprendere conoscenza”, aveva già raccontato a Vanity Fair. I due si erano conosciuti giovanissimi. A corteggiare per prima era stata proprio lei, prima che lui si innamorasse davvero passarono tre anni. “Una sera, fuori dalla discoteca, le ho detto: ‘Allora mettiamoci insieme’. È durata 25 anni”. Quando è morta la moglie, Giallini, ha detto al Corriere, ha deciso di diventare popolare. “Per dare una possibilità in più ai figli”. “L’ho deciso proprio, perché sarei uno che s’adagia, sono pigro, ammazza come sono pigro. Nel senso che ancora aspetto di giocare con la Roma. Ero arrivato qui, a Tor Lupara, per Loredana. Ci siamo messi in 40 metri, non eravamo abbienti. Ci siamo sposati nel ’93, facevo teatro e altri lavori, però avevo ripreso la scuola, mi ero iscritto a Lettere e a scuola di recitazione. Ero diventato bravo oltre che bandito”. Non si è più innamorato. “Ma di chi? Ma perché? Innamorato ero di mia moglie. Per 27 anni, non ci siamo mai lasciati e non abbiamo mai litigato. Lei era la donna mia e io il suo uomo. Nel mondo, quante ce ne possono stare di persone per te? Una”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Candida Morvillo per il Corriere della Sera il 20 maggio 2021. Sono le quattro del pomeriggio, Marco Giallini apre la porta, si scusa per il disordine, si offre di fare gli spaghetti. Sposta un giubbotto di pelle lanciandolo su uno gemello, che sta su un cumulo di vecchi cuscini, chitarre, vinili rock, forse tulipani.

«Mi fanno ridere quelli che si fanno la foto col chiodo. Io non so come mettermi quando faccio le foto».

Mima una posa da social.

 «Io i giubbotti li ho perché vado in moto. Mica per quell'iconografia rockettara degli stilisti e dei ragazzi che si fanno crescere la barba, che quando se la taglieranno, come diceva quella, una mia amica: capirò quanti mostri ho baciato».

Il disordine non è proprio disordine, è più come se in questa mansarda alla periferia di Roma un'esplosione avesse scaraventato roba fin sul pianerottolo. Aveva avvisato che è in corso un trasloco. Chiedo conferma. «Sta traslocando?». «Io? No». Sposta una tela e dei pennelli. Dipinge, anche.

Il ritratto dell'attore Toshiro Mifune risale al primo lockdown.

«Sa quelli che pensano che sono attore? Dicono: tu a casa hai la signora. Ma quale signora? Pure coi miei figli... Mai avuto una tata. Io sono tato. Qui faccio tutto io. Qui le donne mi menano e poi se ne vanno».

Sposta ninnoli e vecchie foto in una vetrina, indica tre statuine di lupi: rappresentano lui e i due figli che ha cresciuto da solo dopo la morte della moglie. «Di là ci sta una batteria da paura. Suono un po' di tutto. Però so recitare pure mezza Divina Commedia a memoria».

Locandine di film non ce ne sono. Eppure ne ha girati oltre 50, più una quindicina di serie. I premi, per Acab di Stefano Sollima, Tutta colpa di Freud e Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese, per Io, loro e Lara e Posti in piedi in Paradiso di Carlo Verdone e per la serie Rocco Schiavone di Raidue, stanno in una vetrina a parte. Col suo addetto stampa ci siamo persi sul raccordo anulare, senza che sapesse dirmi dove mi stava portando. Giallini, dal terrazzo, indica, lontano, il cupolone. Ma oggi è brutto e non lo vedo. Giallini, dove siamo?

«Ci vuole meno di quello che sembra per far star bene gli altri. No? È solo che la gente è avida. Chi l'avrà fatto Dio? E come? Per autocombustione? Col Das, forse».

Perché, di colpo, parla di Dio?

«Mi hanno chiamato Dottor Divago. Divago molto. Parlavamo di giubbotti, ci vado in moto. Come si nota dagli sgarri che ho addosso».

Intende cicatrici?

«Cinquantadue fratture in un colpo solo. Mi sogno a volte l'attimo che pinzo. Io vado forte. Nelle borgate, ci si giocavano anche i denari, andando a 200 o 240 all'ora».

Cadde in una di queste gare?

«No, correvo verso casa, sul bagnato. In moto so andare a un livello che pensavo di essere un dio, finché ti rendi conto che le cose possono accadere. Un amico ha detto: Giallini ci scrive con la moto. Sentirmelo dire mi fece piacere. Più della signora che al festival di Venezia mi disse: sono anni che sto qua, è la prima volta che sento ridere. Io non ce la faccio a non dire una stupidata per far ridere la gente che sta seria. Perché stanno tutti così? Stiamo come in una dittatura dell'individuo, dell'io».

Cos' è la dittatura dell'io?

«Tutti con 'sti labbroni, tutti con 'ste fotografie, cos' è Facebook? Il libro delle facce... Ma a me che importa che faccia c'hai? Ma perché non ti posso incontrare per strada? Sa la verità? Che io non posso sobbarcarmi tutto».

Tutto che cosa?

«L'animo gentile, l'animo vicino a Dio, prende tutto. Perché è sensibile, perché ha uno sbaglio di sangue, di vene, di capoccia».

Quando ha capito che ha l'animo gentile?

«Da bambino. Quando vedevo tutti felici a casa. Papà, dopo dieci ore di lavoro, tornava in un buco, morto di fatica, un po' bevuto per non sentire, non capire, e mi faceva l'occhiolino e tutti ridevano, e io facevo finta di andare in bagno e mi veniva da piangere. L'ho capito anche con mio nonno, che non era mio nonno, Ercole si chiamava, era una persona misteriosa che ci tenevamo dentro casa. Un giorno, avevo 9 anni, passiamo insieme davanti a un boss del quartiere. Tornava da caccia con la doppietta. Ercole mi fa: ahò, non gli stare vicino a questo, che ti dà una revolverata. E il boss disse solo: buongiorno, Ercole. A un altro, l'avrebbe accoppato, i meccanismi erano quelli. Ho pensato: ma chi è Ercole? Mi è rimasto il mistero. Chiedevo a mio padre. Niente».

Come arriva l'idea di fare l'attore?

«Stavo lì, ragazzino, la testa che ti senti che ti va tutto stretto. Il tempo passa. Gli amici mi dicevano: ma perché non fai l'attore? Ero quello che, se c'è Giallini, andiamo, se non c'è, dove andiamo? Non è una bella cosa, anzi: è come se tutti avessero bisogno di te, è un po' dura. Alla fine, ti rompi e ti chiudi qua. Alla fine, io sto in lockdown da quando è morta Loredana».

A luglio, sono dieci anni.

«Quello è il momento in cui ho deciso di diventare popolare. L'ho deciso proprio, perché sarei uno che s' adagia, sono pigro, ammazza come sono pigro. Nel senso che ancora aspetto di giocare con la Roma. Ero arrivato qui, a Tor Lupara, per Loredana. Ci siamo messi in 40 metri, non eravamo abbienti. Ci siamo sposati nel '93, facevo teatro e altri lavori, però avevo ripreso la scuola, mi ero iscritto a Lettere e a scuola di recitazione. Ero diventato bravo, colto, oltre che bandito».

Quanti sacrifici ci sono voluti?

«Facevo l'imbianchino, otto ore. E la sera, la scuola di teatro. Poi, otto ore erano troppe. Ho iniziato a portare il camion delle bibite, la mattina. Dopo, tornavo a casa, doccia, prendevo il mio Yamaha, andavo a scuola. Parcheggiavo contro il muro, non avevo manco il cavalletto e entravo, col chiodo, i capelli lunghi. Boom! A volte, mi prendevano per uno spettacolo. Un giorno, per strada, avevo il cappello di carta da muratore, incontro un collega attore. Mi guarda: ma che fai? E io: stamo a fa' un film».

Teatro ne ha fatto tanto. Il cinema è arrivato tardi: primo film a 35 anni, diretto da Marco Risi ne «L'Ultimo Capodanno».

«Però sono esploso ancora dopo, a 49, con il Nastro d'argento per Acab e la nomination ai David per Posti in piedi in Paradiso. Prima, quando c'era Loredana, avevo fatto 35 tra film e serie, però ero secondo, terzo attore: se sei primo, i progetti li fanno su di te. Lei ha visto solo l'inizio. Sul primo contratto, legge la "rata film", la prima di dieci, ma pensava fosse tutto lì. Dice: solo questo? E io: no, devi mettere un altro zero. Le vennero le lacrime. Bello o no?».

Ha deciso di diventare popolare solo da vedovo per riempire il tempo e non pensare?

«Per dare una possibilità in più ai figli. Dovevo tirarli su come ci eravamo promessi. Lei voleva che facessero il Classico, uno lo fa, l'altro l'ha finito: è una cosa stupenda, chi fa il Classico si riconosce da lontano».

Mancata sua moglie, come ha fatto con due figli di 12 e 5 anni e di che aveva paura?

«Che ne so, il dolore era troppo. Il pensiero che lei rientri a casa da un momento all'altro dura due anni, poi, capisci che morire è prassi. Non a 40 anni. Non fra le mie braccia, mentre prendiamo le valigie per le vacanze. Ma non sono l'unico a cui è successo. Fare a meno è questione di testa, anche fare a meno delle menti dei bimbi non più chiare, del loro pensiero: vorresti sapere che pensano il giorno della festa della mamma o quando spegni la tv e quello, a 5 anni, strilla: mamma mamma».

Il dolore non passa mai?

«E che passa? Ti dimentichi un po' la voce».

La sentiva, come il suo Rocco Schiavone, che vive col fantasma della moglie e la vede?

«No, ma ci parlo ancora. Quando sto solo e qualcosa non va. Dico: Eh amore mio...».

Si è più innamorato?

«Ma di chi? Ma perché? Innamorato ero di mia moglie. Per 27 anni, non ci siamo mai lasciati e non abbiamo mai litigato. Lei era la donna mia e io il suo uomo. Nel mondo, quante ce ne possono stare di persone per te? Una».

Come se l'è cavata coi ragazzi?

«Mi hanno aiutato il fratello di Loredana e sua moglie, che si sono trasferiti al piano di sotto. I miei figli mi dicono ti amo. Quanti figli ti dicono: ti amo? Sono bravi. Il grande, una volta, mi disse: io l'adolescenza non l'ho avuta, mamma è morta che avevo 12 anni e non ho avuto nessuno da punire».

Alla morte pensa mai?

«Sto che la notte ancora aspetto il rientro dei ragazzi, sto sempre lì che stanno per morire. Poi, li sento e scrivo: buonanotte, amori».

Quanto è stato duro fare Schiavone?

«Fatico a farlo perché è il personaggio che più si avvicina a me, per carattere, retaggio, per la nota vicissitudine. La gente crede che più somigli e più è semplice, ma è il contrario: i migliori elogi li ho presi facendo il borghese. Mi sono piaciuto, in Io sono tempesta, quando al centro poveri dico a Elio Germano "se vuoi otto euro fatteli dare dal mio autista, c'è una Maserati qui fuori". E lui: di che colore? E io lo guardo come a dire: ma quante Maserati vuoi che ci stanno fuori al centro poveri?».

Com' è fatta la popolarità?

«Al Festival della Letteratura di Mantova, duemila donne hanno rotto le transenne. Sono saltato giù dal palco come Ringo Starr. Pure per questo non abito in centro: c'è troppa gente e io a uno che per vedermi al cinema con la famiglia spende 40 euro non so dire "la foto no". Gliel'ho già chiesto chi ha fatto Dio?».

Sì. Forse l'han fatto col Das. Diceva.

«Ci accaloriamo su troppe cose da niente, i social, il politically correct, quando la gente non mangia, non può dare il latte a un ragazzino. Di questo ci si deve occupare. Io che pago di tasse? Dieci? Ne pago 12 e quei due li dai a chi non ha una lira: è così difficile?».

Le capita ancora di piangere di nascosto?

«Come tutti, come i veri duri. Perché lo sono. Se no, sarei morto».

·        Marco Mengoni.

Andrea Laffranchi per corriere.it il 3 dicembre 2021.

Dire che quell’amore è «proibito» ha un valore in più in tempi di bocciatura del ddl Zan?

«L’amore non può avere proibizioni. Sui social avevo detto che provavo un senso di vergogna nel vedere la politica che si schiera contro i diritti fondamentali. L’applauso si fa per un gesto artistico, non in un aula parlamentare. In coda al brano c’è un appunto vocale, un coro gospel che dice “che bella giornata potrebbe essere”. Arriverà un momento per l’emancipazione della nostra società e del nostro Paese. Mi sono indignato nel vedere quelle immagini».

Paolo Giordano per "il Giornale" il 3 dicembre 2021. (…) «Non sono certamente contro l'inevitabile evoluzione, mi limito a riflettere che, nella società dei like, pochi riflettono abbastanza prima di mettere un like. È tutto così fulmineo. Ma mi piace pensare che la mezz' ora che tu hai concesso all'ascolto di un disco, a sua volta ti ha concesso qualcosa». Insomma è un Mengoni 2.0. Un artista che ha la forza e il coraggio di confrontarsi con le proprie influenze («Ho sempre ascoltato soul e musica americana, ma anche Lennon e McCartney») e di trasformarle in un disco così intenso da accogliere anche gli ospiti (Madame in Mi fiderò e Gazzelle in Il meno possibile) senza perdere omogeneità. Una sorta di meditazione en plein air, a cuore aperto, per tutti. Come in Proibito, che è racconto e riflessione sull'amore universale con uno «special», ossia un inserto all'interno del brano, che è un messaggio vocale, un augurio, anche autobiografico, di innamorarsi: «I social ti danno l'illusione di avere tutto e rischi di non dare valore alle cose che hai». Insomma, Materia (Terra) sorprende perché non vuole sorprendere, perché è spontaneo ma non irruente, perché trasmette il profumo e l'odore della musica come i più esperti hanno già respirato e i più giovani magari ancora no. E sarà una sfida riproporre queste canzoni negli stadi, visto che sarà a San Siro di Milano il 19 giugno e all'Olimpico di Roma il 22. «Quando canto sento di essere meno angosciato, di soffrire meno», spiega. E l'altra sera, in quella piccola sala in centro a Milano, ha confermato di avere voce e ormai anche repertorio per salire ancora più su.

Gabriella Mancini per "la Gazzetta dello Sport" il 3 dicembre 2021. (…) «Durante la pandemia ho capito che dovevo imparare a perdonarmi, se non perdoni te stesso non puoi farlo con gli altri. E poi ho imparato ad aver pazienza e a dare fiducia anche al mio istinto». Due collaborazioni (Gazzelle e Madame), e titoli che stupiscono come Un fiore contro il diluvio , sull'importanza della condivisione o Una canzone triste , che sprigiona ottimismo. La copertina è dipinta a olio su tela dallo stesso cantautore. Che mercoledì sera, di bianco vestito, ha cantato i brani in anteprima con 9 musicisti in una location trasformata in club: soul, blues, R' n'B, atmosfera da New Orleans e tanta voglia di pubblico, (pochi intimi con mascherina). Quando un album esce è di tutti noi. A giugno, incrociando le dita, concerti a Milano e Roma.

Ernesto Assante per "la Repubblica" il 3 dicembre 2021. (…) Quanta verità c'è, allora, in queste canzoni? «È stato come farsi una doccia, pulire lo sporco di dosso, la pesantezza. In alcuni momenti so che potrei cantare qualsiasi parola e si sentirebbe quello che voglio dire. Ma comunicare può essere doloroso e impegnativo perché tiri fuori una parte vera di te. Non l'avevo capito fino in fondo, credevo fosse una cosa accademica, di stile, invece c'è molto di più. A 33 anni ho gli strumenti per perdonare delle scelte della vita, magari superficiali, che ho fatto con le persone e nella carriera. Forse grazie al perdono capisco che posso fare altro, aggiungere altro». C'è più arte allora? «Arte e artista sono due parole grosse e pesanti, non le metterei mai vicino al mio nome. Se però servono a dire che una persona comunica e cerca di far sì che i suoi pensieri possano essere di aiuto agli altri, posso definirmi un bravo artigiano delle emozioni. Non so se si arrivi mai all'arte, anche perché dire cos' è l'arte è come dire cos' è l'amore: non ci si arriva mai».

Mengoni a tutto soul "I social sono illusori". Paolo Giordano il 3 Dicembre 2021 su Il Giornale. Oggi esce "Materia (Terra)", il primo di tre dischi "registrato quasi tutto dal vivo". Intanto è tutto registrato dal vivo o quasi, praticamente in presa diretta, roba che ormai chi se la ricorda più. E poi è un disco passionale, strutturato, drasticamente in controtendenza rispetto all'usa e getta di tanto pop che gira intorno. «Non è stato facile», dice Marco Mengoni descrivendo Materia (Terra) che inizia oggi la sua avventura portandosi dietro tanta attesa ma pure tanti cambiamenti. Lo ha presentato l'altra sera alla vecchia maniera, ossia cantando dal vivo in un luogo nascosto in centro a Milano, una sorta di «speakeasy» con nove musicisti e musica fatta di materia e sudore. Lui, totalmente vestito di bianco come un crooner, i pantaloni a zampa di elefante come si conviene a chi si avvolge di soul e gospel e blues, ha cantato tanti brani nuovi del disco con una voce due passi avanti rispetto al solito. Più matura. Ancora meno barocca.

«Durante il lockdown sono quasi sempre stato solo - spiega in quello che è il suo studio di registrazione -. Da una parte, almeno all'inizio ero quasi soddisfatto di potermi ritagliare un po' di pensierosa solitudine. Dall'altra ho riflettuto su cosa siano per me l'amore o la fiducia nelle altre persone oppure, più limitatamente, nell'altra persona. E mi sono reso conto che non guardavo il mondo con la necessaria lucidità». Un flusso di coscienza che lo ha portato a pensare che no, un disco da solo non basta a spiegarsi fino in fondo. «Ce ne vogliono tre», spiega confermando che Materia (Terra) è il primo di una trilogia. In fondo, Marco Mengoni, 33 anni, carriera sbocciata in un talent show ma cresciuta grazie a talento e ostinazione, per un decennio non si era praticamente fermato: due Festival di Sanremo, dei quali uno vinto nel 2013, un Eurovision Song Contest, tanti tour, molti dischi, parecchio tormento d'animo e di vita. Poi ha preso fiato.

Ed è nato il nuovo Mengoni, che riprende e fa propri codici musicali del passato, da quelli della Motown o dell'r&b o della prima disco music, senza copiarli ma «mengonizzandoli» e confermando che sono sempre stati nel proprio Dna musicale. «Avevo voglia di fare musica dal vivo ma anche di tornare a dare valore all'idea di disco, un'idea che si sta un po' perdendo». E, se si sta perdendo, è anche un po' responsabilità della «liquefazione» della musica, della sua frammentazione sulle piattaforme e sui social. «Non sono certamente contro l'inevitabile evoluzione, mi limito a riflettere che, nella società dei like, pochi riflettono abbastanza prima di mettere un like. È tutto così fulmineo. Ma mi piace pensare che la mezz'ora che tu hai concesso all'ascolto di un disco, a sua volta ti ha concesso qualcosa». Insomma è un Mengoni 2.0. Un artista che ha la forza e il coraggio di confrontarsi con le proprie influenze («Ho sempre ascoltato soul e musica americana, ma anche Lennon e McCartney») e di trasformarle in un disco così intenso da accogliere anche gli ospiti (Madame in Mi fiderò e Gazzelle in Il meno possibile) senza perdere omogeneità. Una sorta di meditazione en plein air, a cuore aperto, per tutti. Come in Proibito, che è racconto e riflessione sull'amore universale con uno «special», ossia un inserto all'interno del brano, che è un messaggio vocale, un augurio, anche autobiografico, di innamorarsi: «I social ti danno l'illusione di avere tutto e rischi di non dare valore alle cose che hai».

Insomma, Materia (Terra) sorprende perché non vuole sorprendere, perché è spontaneo ma non irruente, perché trasmette il profumo e l'odore della musica come i più esperti hanno già respirato e i più giovani magari ancora no. E sarà una sfida riproporre queste canzoni negli stadi, visto che sarà a San Siro di Milano il 19 giugno e all'Olimpico di Roma il 22.

«Quando canto sento di essere meno angosciato, di soffrire meno», spiega. E l'altra sera, in quella piccola sala in centro a Milano, ha confermato di avere voce e ormai anche repertorio per salire ancora più su. Paolo Giordano

·        Marco Tullio Giordana.

Marco Tullio Giordana per il “Corriere del Mezzogiorno” il 3 marzo 2021. Devo a due napoletani molto diversi tra loro la scoperta della mia città d’adozione. Vittorio Mezzogiorno e Paolo Isotta, entrambi strappati via con odioso anticipo, il primo nel 1994, l’altro pochi giorni fa. Nella primavera del 1981 scelsi Mezzogiorno, attore che ammiravo e di cui ero diventato intimo, come protagonista del mio secondo film La caduta degli angeli ribelli, in parte ambientato a Napoli. Durante i sopralluoghi usò la cortesia di accompagnarmi in giro mostrandomi chiese, abitazioni private, giardini e musei, anche estranei al film, giusto per il piacere di mostrarli. Ricordo un’incursione nel Museo dell’Istituto di Anatomia diretto dal fratello maggiore Vincenzo, illustre anatomopatologo. Fiero di mostrarmi le iperrealistiche cere della Specola fiorentina, le macchine anatomiche del palermitano Giuseppe Salerno e altre mostruosità sotto formalina colà raccolte: feti bicefali, teste di suppliziati, organi «donati alla scienza», nolenti più che volenti i loro proprietari in origine. Vincenzo Mezzogiorno aveva gli occhi azzurri del fratello attore e la stessa travolgente simpatia: «come voi siete Regista della Vita – scherzava dandomi del «voi» – così potrei dirmi Regista della Morte». Più di trent’anni dopo, Paolo Isotta mi avrebbe mostrato altre macchine anatomiche del Salerno, commissionategli dal principe Raimondo di Sangro e conservate nella cappella Sansevero. Nella stessa mattina volle trarmi in Santa Maria La Nova per rivelarmi la tomba di Vlad Hagyak III, detto Tepes, voivoda di Valacchia, più noto come Dracula grazie al romanzo di Bram Stoker e agli stupendi film della Hammer con Peter Cushing (Van Helsing) e Christopher Lee (Dracula). Dirò subito una cosa: milanesi e napoletani sono fatti per piacersi. Entrambe le città furono toccate dall’Illuminismo e qualcosa di quel Settecento solerte rimase nel dna di entrambi i popoli nonostante la mortificazione delle classi dirigenti a venire, inadeguate e riluttanti a visioni complesse. Plebi e aristocrazia delle due città ebbero stessa operosità e pulsione al nuovo, stessa spinta cosmopolita, stessa voglia e capacità manifatturiera, non è peregrino ribadirlo. Dunque che amassi Vittorio Mezzogiorno e mi ci legassi stretto era scritto nel cielo, così come anni accadde con Paolo Isotta. Tanto più che nemmeno ero milanese perfetto: la mia famiglia è di Crema, il sud della Lombardia vagamente schifato dal padano prealpino e montanaro, e le sue ascendenze erano sparpagliate fra Piemonte (come quelle di Isotta), Liguria, Veneto e Lombardia. Nonne genovesi e veneziane, sangue delle marinare Repubbliche rivali. Nel seme di ogni italiano c’è da sempre il conflitto coi vicini. Meno vivida la consapevolezza che lo scontro porta instabile supremazie e, subito appresso, decadenze inesorabili. In quella Napoli primi anni Ottanta mi trovai subito a casa, vuoi per la straordinaria affettuosa accoglienza degli amici di Vittorio (la stessa che avrei trovato negli amici di Paolo) vuoi per la curiosità che avevo di scoprire un mondo frainteso. Per tutti gli anni Settanta ciò che più si enfatizzava del Sud era la pervasività criminale. I ministri negavano, il resto d’Italia si riteneva immune (tranne Sciascia che, già parlava di «sicilianizzazione» dell’Italia) e Der Spiegel metteva in copertina gli spaghetti col revolver ‘n coppa. Trionfava l’immagine del disordine e della derelizione, la nuova cartolina in sostituzione delle pittoresche immagini di Posillipo e Vesuvio, il formidabil monte sterminator leopardiano. L’Italia degli anni Settanta era raccontata come groviglio di delinquenza politica e comune, imperversare di vandali e terroristi. Io avevo vent’anni e, anche se guai a dire che sono l’età più bella della vita, non la vedevo così. Certo avvistavo nei coetanei la fascinazione dello scontro fisico, percepivo la loro frustrazione e aggressività, il loro misto di convinzioni elementari e ormoni impazziti, ma non tutto mi appariva così orribile e perduto. Intanto c’era l’Arte a difenderci. Mai come in quel periodo aperta, cosmopolita, feconda sperimentatrice. Brulicavano gallerie, concerti, musei, cinema, teatri, festival dappertutto. Né mancavano gli studiosi seri che lasciavano ai grulli di intimare l’uccisione dei padri e devastare la tradizione. Erano ancora vivi Pasolini, Sciascia, Montale, Prezzolini, per non stare che in Italia, e a loro mi fermo perché l’elenco dei veri maestri è lunghissimo e schiaccia quello dei cattivi, promossi sul momento ma presto soffiati via dal vento. Fra quegli eccelsi già mi colpiva il giovanissimo Isotta, detestabile petulante provocatore ma assai brillante e superdotato in quanto a erudizione, non solo musicale. Malgrado varie amicizie comuni, allora non capitò di incontrarci. Nel suo libro Le ali di Wieland. Sette temi musicali del 1984 scopersi che aveva apprezzato il mio primo film del 1980, Maledetti vi amerò , soprattutto il suo irridente catalogo di ciò che è di destra o di sinistra. Tutti lo attribuiscono a Giorgio Gaber, ma era invece mia giovanile insofferenza ai luoghi comuni e flaubertiana anticipata derisione del politically correct. Isotta la colse al volo, anche se non lo seppi subito; fu sorpresa che mi toccò trent’anni dopo, nel 2014. Da lì scrivergli e diventare amici fu tutt’uno. Torniamo al 1981. La città reca dovunque tracce del recente terremoto, molte strade sono bloccate, enormi travature di legno puntellano i palazzi e sembravo vegetazione antica, sbucata già morta e stagionata dalla terra per abbracciare le case e salvarle dal crollo. Sembra di intuire collaborazione fra le viscere di questa terra antica e il nuovo che vi si sovrappone, che merletta di novità, anche orrende, la città che sale. Guardo, fotografo, e intanto Mezzogiorno pugnala col sorridente sguardo azzurro le fanciulle che lo fermano per l’autografo. Ammiro questa sua capacità di sorprendersi, o meglio fingere sorpresa, a ogni complimento: «scherzi? ‘o dici overamente ?» come se non fosse la centesima volta stamattina che dichiarano di volerselo mangiare. E dire che ancora non ha fatto la Piovra , il suggello definitivo della celebrità. È attore ancora sofisticato: viene da Eduardo, ha fatto Il Marsigliese di Giacomo Battiato, La Cecilia di Jean-Louis Comolli, Il Giocattolo di Giuliano Montaldo, Tre fratelli di Francesco Rosi. Sta per essere arruolato da Peter Brook per l’avventuroso Mahabharata che lo porterà in giro per il mondo, ma nessuno lo sa, nemmeno lui. Non è ancora un divo, solo un bravo adorabile attore con una faccia da meticcio indio o asiatico, un circasso, un turcomanno, un volto salgariano che i napoletani amano e sentono vicino, cosa loro fraterna e amica, forse anche preda meravigliosa.  Lo guardo destreggiarsi e capisco l’arte di accusare i complimenti, la prima cosa che un attore dovrebbe imparare. Certo ti stuferai a sentirti dire quanto sei bello, quanto sei bravo, ma ognuno di questi ammiratori te lo sta dicendo per la prima volta, sta facendo lo sforzo di uscire dalla sua timidezza per confessarti il suo amore, trema, non riesce a conficcare i suoi occhi dentro i tuoi. Tu come ricambi? Tagli corto, affretti il passo? Minimizzi, sbuffi, sei scocciato? Mezzogiorno non cadeva mai in questa trappola. Ogni volta mostrava meraviglia come il pastore del Presepe, andava in scena regalando a quegli occasionali spettatori un pezzo di sé. Per questo lo adoravano tutti, per questo lo adoravo anch’io. Fossimo state recchie potevamo scappare assieme. Non lo eravamo. Nemmeno posso dire alla stupenda Giovanna: avrei potuto essere tua madre! come De Sica con Luchino nel mentre gli rivelava di essere sopravvissuto incolume alla cupidigia di suo padre, il duca Giuseppe Visconti di Modrone. Vittorio è morto nel 1994. C’è voluto tempo per tornare a Napoli senza sentirmi sopraffatto dal rimpianto. Tornarvi stabilmente intendo, accettare di camminare per strada senza averlo vicino. Il merito fu di Paolo Isotta che mi ingiunse di raggiungerlo nella casa di Corso Vittorio, sbalorditiva. Con quella geniale invenzione della scala elicoidale che non deve sfiorare le pareti, dedicate soltanto ai libri. Questo giornale ha già pubblicato toccanti ricordi di Paolo Isotta da parte di amici suoi infinitamente più competenti e titolati di me per dire le sue qualità, la competenza, il ruolo unico nella cultura italiana a cavallo di due secoli. Di questo ruolo, tra l’altro non soltanto musicale perché la palette dei suoi interessi brandeggiava a 360°, restano agli atti i libri e la sterminata pubblicistica, ciascun testo prezioso e imprescindibile (Paolo avrebbe preferito il meno consumato impreteribile). Per scacciare la nostalgia dovrebbero bastare. Mancheranno invece le telefonate, l’Hallo pronunciato come negli anni ’50 dalle amiche della madre. Gli scatti di indignazione, le contumelie, le guerre in cui avrebbe voluto arruolarti. Le tenerezze improvvise, i colpi di genio, la sensibilità capace di cogliere ogni sfumatura, malgrado tu volessi nasconderla perfino a te stesso. Paolo Isotta e Vittorio Mezzogiorno si sarebbero piaciuti, di questo sono sicuro. Avrebbero parlato in lingua stretta, cosa che non potevano fare del tutto con me a rischio di perder tempo a tradurre. Mi consola pensare che si sono finalmente incontrati e possono finalmente dirne di tutti i colori lassù nei grandi pascoli del cielo.

·        Maria Bakalova.

DAGOTRADUZIONE DA dailymail.co.uk il 6 aprile 2021. Maria Bakalova, l’attrice 24enne nata nella città costiera di Burgas, in Bulgaria, sul Mar Nero, è emersa come una stella nascente grazie alla sua performance di successo nel film Borat 2 nel ruolo di Tutar, la figlia adolescente di Borat Sagdiyev, il personaggio creato dal comico inglese Sacha Baron Cohen. Il film, girato nel mezzo della pandemia e durante l'elezione presidenziale americana, è il sequel di “Borat: Studio culturale sull'America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan” uscito 15 anni fa. Nel sequel “Borat - Seguito di film cinema” il personaggio interpretato da Bakalova si nasconde in una gabbia per entrare negli Stati Uniti ed accompagnare suo padre in una missione per ripristinare il suo "buon" nome. La figlia di Borat assume diverse identità, tra cui un giornalista che conduce l'ormai famigerata intervista faccia a faccia in una stanza d'albergo con l'oleoso avvocato di Donald Trump Rudy Giuliani - ignaro di far parte della pellicola. Bakalova ha studiato all'Accademia nazionale bulgara per il teatro e le arti cinematografiche di Sofia, dove si è concentrata su Kafka, Turgenev e sugli insegnamenti di Stanislavskij. "Metà della mia vita è stata dedicata alla recitazione," ha detto. “La maggior parte dei ruoli che ho interpretato trattavano temi molto drammatici, dalla gravidanza adolescenziale al suicidio, quindi la commedia non era il mio genere.” La giovane attrice ammette che inizialmente non fosse interessata a una carriera nel cinema finché non vide due film di Mads Mikkelsen: “A Royal Affair” e “The Hunt”. "È allora mi sono innamorata del cinema,” ha affermato in un’intervista. 'Volevo essere esattamente come quell’attore, il che era strano perché di solito le ragazze dicono: "Voglio essere come lei". Io volevo essere come Mads.” La Bakalova aveva già lavorato per produzioni cinematografiche nell'Europa dell’est, ma Borat è stato il suo primo film occidentale. In un’intervista ha spiegato che la maggior parte degli attori bulgari "Di solito hanno due o tre battute e interpretano ruoli come criminali o prostitute" e di essere contenta dell'attenzione che la sua performance ha attirato, sia per sé stessa che per il suo paese. Il lavoro era impegnativo, anche perché spesso "facevamo solo una ripresa" con Cohen e il suo team e poi alzavano i tacchi subito dopo aver concluso la scena, spesso perché inseguiti da una folla adirata. Dopo la scena in cui Giuliani ci avrebbe con Tutar, sono dovuti fuggire dal paese. "È il momento in cui vuoi quasi uscire dal personaggio", ha ammesso la Bakalova, "Stavo avendo dei piccoli attacchi di panico prima di ogni scena." "Sentivo il mio cuore battere all'impazzata", ha rivelato. “Era l'avvocato del presidente; e queste persone sono super intelligenti…di solito. […] Non sono sicura di aver visto la scena come l’hanno vista tutti gli altri. Sacha si stava nascondendo nell'armadio, cercando di salvare sua figlia – ma in realtà ha salvato me, Maria! Come produttore e come creatore, è il mio mentore e angelo custode.” Chiaramente i giurati e gli elettori per i premi BAFTA, Oscar e Screen Actors Guild hanno visto abilità e pathos nella performance di Bakalova, poiché l'hanno nominata nella categoria della migliore attrice non protagonista. (I premi SAG si terranno lunedì; i BAFTAS l'11 aprile). Maria non sapeva nulla della premessa del film o del coinvolgimento di Cohen ai tempi del provino per il ruolo. Ma non appena ha conquistato la parte, lei e Cohen si sono tuffati nelle prove: "Fin dall'inizio, c'era una struttura di un copione su un padre e una figlia che passano dei momenti folli insieme". Nel film, Il padre di Tutar le ha fatto il lavaggio del cervello, facendole pensare che "le donne dovrebbero vivere in gabbia" e che il loro unico scopo nella vita è "compiacere gli uomini che stanno per sposare". In seguito, Jeanise Jones, un'altra protagonista inconsapevole del film che Maria ha definito: "La fata madrina del film", rassicura l'adolescente che lei è "forte e bella proprio com’è". Per coloro che non hanno avuto il piacere, tutto questo accade prima che Tutar stia per sottoporsi a un intervento di chirurgia plastica per mano di un vero chirurgo. È la recitazione esperta di Tutar che mostra il sessismo, la misoginia e la corruzione politica che Cohen e il suo team volevano denunciare e alla luce dell'assalto al Campidoglio degli Stati Uniti a gennaio, Borat 2 sembra decisamente un segno premonitore. Suo padre, un chimico in pensione, e sua madre, un'infermiera, hanno tenuto sotto stretto controllo la loro figlia da lontano durante tutte le riprese del film.

·        Maria De Filippi.

Da ANSA il 6 dicembre 2021. Amici di Maria De Filippi non è un plagio: la ha stabilito la prima sezione civile della Corte di Cassazione (presidente Francesco Genovese) che - con un'ordinanza comunicata il 5 dicembre - ha assolto definitivamente la conduttrice dall'accusa di aver copiato un precedente format tv, concludendo un processo durato oltre sedici anni. La Suprema Corte ha accolto la tesi difensiva dell'avvocato Giorgio Assumma e ha confermato le due precedenti pronunce del tribunale di Roma e della Corte d'Appello. La vicenda è iniziata nel 2004, quando lo sceneggiatore Roberto Quagliano citò in giudizio De Filippi, in qualità di autrice del programma Amici, accusandola di aver plagiato un suo precedente prodotto televisivo, intitolato 'Scuola di spettacolo'. Quagliano chiese al tribunale che sia la De Filippi sia la casa di produzione del programma, Fascino PGT, fossero condannate in solido al risarcimento dei danni. Richiesta respinta dai giudici: tra i due prodotti, stabilì il tribunale, c'era un'assoluta diversità di genere, essendo 'Scuola di spettacolo' un reality show, Amici un talent show, né c'era qualsiasi similitudine in termini di contenuto. La Corte d'Appello, nel 2016, confermò tale disposizione. Ora la Cassazione ha posto fine alla vicenda, condannando Quagliano al rimborso delle spese dei tre gradi di giudizio a favore della De Filippi.

Michela Tamburrino per "La Stampa" il 5 dicembre 2021. Oggi Maria De Filippi compie sessant'anni, li celebra in casa con un pranzo semplice che vede a tavola Maurizio Costanzo, la festeggiata e il figlio Gabriele. E la conduttrice ci ha detto: «Detesto i compleanni e non li ho mai festeggiati, perché segnano un cambiamento e io sono un'abitudinaria. Per questo festeggio a casa con Maurizio e Gabriele». E magari sul caffè si vedrà la registrazione del suo Amici che trionfa nel pomeridiano di Canale 5. Genetliaco semplice, immediato, senza ghirigori che lei odia. Sono gli altri a occuparsi di lei e non lei di se stessa è il sottotitolo. E infatti tanti illustri indagano su di lei, con un solo precedente altrettanto illustre. All'inizio fu Umberto Eco che cinquant'anni fa, con Fenomenologia di Mike Buongiorno, s'interrogò sull'origine di un mito intellettuale contemporaneo. Dopo, molto dopo, ad aggiungere un doveroso tassello a quella che uno studioso come Massimiliano Panarari ha definito su queste pagine «disamina della cultura e delle sottoculture pop prodotte dalla società dello spettacolo», è arrivata la pop filosofia, cui fa ricorso Salvatore Patriarca per decodificare, giustappunto, Il mistero di Maria nell'omonimo volume, una critica della ragion televisiva, che s'interroga sulla costruzione dell'identità dello spettatore defilippiano, unico nel suo genere, religiosamente devoto e cortigianamente fedele alla sua regina che tutto può e che masochisticamente tutti vorrebbero, giusta, inflessibile, materna, soprattutto crudele. Tanto che per felice crasi, Roberto D'Agostino le ha coniato l'appellativo di Maria La Sanguinaria che a lei piace molto, definizione scevra dagli accenti apocalittici della regina britannica. Meno compiutamente Maria, come agognano chiamarla le sue creature televisive e lei graziosamente concede, ha riscritto con le sue trasmissioni, troppo superficialmente tacciate di accenti trash, codici comportamentali e sociali che apparivano dei monoliti. Le sue fortunate trasmissioni benedette dagli ascolti parlano di vita quotidiana spicciola animata da figure archetipiche. La distanza siderale che divide Maria dalle sue star di Uomini e donne over che oramai ha soppiantato il trono classico, è tangibile quanto quella che l'allontana da opinionisti volutamente circensi come maschere orrifiche e spaventevoli. Maria non siede come gli altri ma s'accuccia sui gradini, si discosta e fa la differenza persino con il linguaggio del corpo che ha perfezionato in trent'anni di video che festeggerà a breve. La sua seduta e la sua camminata sono state al centro di analisi, per come lei porta lo spettatore a sentirsi un tutt'uno con la storia e con lei che ne è interprete. I suoi protagonisti appartengono a un ceto sociale non alto al contrario del suo pubblico, quello dichiarato e quello non esplicito per borghesuccia ritrosia. Uomini e donne con Amici e C'è posta per te, ridisegna la geografia di valori quali amore, sesso, meritocrazia, lavoro, dinamiche familiari genitori-figli, facendo suo un contromoralismo che solo in apparenza sembra non appartenerle. Antisocial senza snobismo, non ha profili ufficiali, non ne ha bisogno. Ha creato un impero con la stessa semplicità con la quale divora caramelle al limone, antidoto alla bocca secca, retaggio della paura di apparire inadeguata. Timore scongiurato in modo catartico pure attraverso lo sport seguito con passione: tennis, crossfit, intrapreso su consiglio di Belen Rodriguez, e tutto quello che la porta in movimento, non si piace ma lo maschera con arguzia grazie a un look aggressivo e maschile, a volte punk e molto rock. Con la sua società «Fascino» partecipata alla pari con Mediaset, ha fatturato 70 milioni di euro e vanta oltre 300 dipendenti. Compulsiva, stakanovista e perfezionista per ossessione di controllo legato all'idea di precisione persino nel dettaglio, bulimica del lavoro, si assolve comunque quando l'errore, rarissimo, arriva: «Rivendico la libertà di sbagliare. Sbaglierò tante volte e ho sbagliato tante volte. Non è ansia dello sbaglio ma quello che comporta quell'errore». E non sbaglia quando va per sottrazione e si nega alla curiosità. Pochissime interviste, non viaggia e non frequenta salotti. Assieme a Maurizio Costanzo, fanno vita ritirata. Si conobbero quando lei ancora si mangiava le unghie e dopo un'iniziale incomprensione non si sono più lasciati. C'entra l'amicizia, la condivisione. Buon compleanno Maria.  

Andrea Malaguti per “Specchio – La Stampa” il 25 luglio 2021. Mi alzo. No. Non ce la faccio. Molla questo divano, dai. Impossibile. Resto inchiodato. Forza, per favore, fallo per te, spegni la tv, lascia perdere, fai una cosa più seria. Ecco la frase che mi frega con Maria De Filippi. Non so mai se c'è una cosa più seria del falò di Temptation Island o delle lacrime di una mamma che implora la figlia di darle un'altra chance dietro una gigantesca busta aperta. Certo che c'è di meglio. Ma sul lì per lì mi sembra di no. E lascio stare i tronisti o le liti tra Gemma e Tina. Ipnosi pura. Una specie di prurito che non riesco a non grattare. Come l'amore bambino di Giulia e Sangiovanni ad Amici. E dietro tutto questo c'è lei, la Gran Maestra di Cerimonia, Maria Vinco Facile, in missione per risolvere i garbugli del mondo. Pacata, comprensiva, equilibrata. Serissima e compresa anche sul nulla apparente, forse perché si rifiuta di immaginare da quale guerra senza gloria arrivino i suoi ospiti. Semplicemente li ascolta. E poi ha il trucco. Ci sono arrivato. C'è sempre uno che vince e uno che perde. Uno che viene eliminato e uno che viene scelto. Uno che piange e uno che ride. La vita e la morte. Il m' ama non m' ama perenne. La luna bianca e la luna nera. Cesare e lo schiavo. E la De Filippi è lì a rendere omaggio a Cesare e a garantire allo schiavo che un giorno Cesare sarà lui. Non importa che lo dica lei. Importa che lo credano loro. La Gran Maestra espone senza esporsi. E' sempre al centro pur restando di lato. Il faro abbaglia qualcun altro, ma lo muove la Gran Maestra di Cerimonia. Magari nasce da qui la sua diffidenza per le interviste come questa. Le considera un luogo di improvvisa asprezza. Eppure, alla fine, racconta di sé più di quello che è lecito aspettarsi, per poi lasciarsi andare esausta come se avesse percorso un chilometro in salita. 

Maria De Filippi, avete poi giocato a burraco?

«Con la Carrà?». 

Con la Carrà. Ve l'eravate promesso dopo una sua partecipazione ad Amici.

«Alla fine no. Quell'estate io ero ad Ansedonia, lei a Cala Piccola; avrei dovuto raggiungerla ma un problema con mia madre ha fatto saltare la serata. Diceva che mi avrebbe battuto a mani basse». 

L'avrebbe battuta?

«A mani basse». 

Che rapporto aveva con lei?

«Un rapporto che nasce molto prima che la conoscessi». 

Un po' criptico.

«La guardavo in tv cantare, condurre "Canzonissima", ballare il "Tuca tuca" con Alberto Sordi, far finta di non sapere quanti fossero i fagioli Anzi, forse lo sapeva, me lo sono sempre domandato. Poi, quattro anni fa, mi è stato chiesto di partecipare ad una sua trasmissione e finalmente l'ho conosciuta di persona. Quell'intervista è stata per me molto importante perché a volte ti fai un'idea di una persona attraverso la televisione e vedere che la realtà corrisponde al tuo pensiero, è importante. Mi pare di essere stata estremamente sincera con lei, penso di aver colto nel suo sguardo la stessa sincerità e un po' di stupore, a volte, su alcune considerazioni che facevo. Era acuta, intelligente, sensibile, conduceva fingendo di non condurre, ristabilendo davanti alle telecamere quella che era la verità».

Esiste la verità davanti a una telecamera?

«Secondo me sì. Il racconto davanti a un altro essere umano, mediato da una telecamera o no, è sempre vero anche se più controllato di quando siamo soli con noi stessi». 

L'ombelico della Carrà ha fatto il giro del mondo.

 «Perché lo mostrò all'improvviso in una Italia un po' perbenista, dove le donne, per cultura, fingevano di non volerlo scoprire. Ruppe un tabù».

Non fu l'unico.

«Quando cantava: Com' è bello far l'amore da Trieste in giù aveva il coraggio di dire quello che pensavano tutti ma che era male dire, specie per una donna, perché poi passava per essere superficiale o leggera». 

Perché la Carrà è diventata un'icona gay?

«Era un'icona e basta. Per gli etero perché aveva coraggio di fare quello che tutti pensavano ma non avevano il coraggio di fare. Per i gay perché magari ballava vestita da suora sexy cantando un successo dei Beatles con i ballerini mezzi nudi che si muovevano come se fossero a cavallo. E poi raccontava di essere cresciuta da sola con sua madre. E questo le consentiva di dire che non c'è nessun problema in una famiglia costituita da due uomini o da due donne». 

In effetti non c'è. Eppure viviamo in un Paese che cerca di definire per legge gli orientamenti sessuali delle persone.

«È triste constatare che sia così. Ma quando un diciottenne si suicida a Torino perché non riesce a sopportare il bullismo omofobo o a Crotone un quindicenne viene pestato sul lungomare perché gay, si è costretti a ribadire per legge che gli orientamenti sessuali delle persone non devono interessarci. Il bollettino quotidiano di violenze e intimidazioni dovrebbe spaventarci».

Lo dico come lo direbbero a destra: il ddl Zan è liberticida, ci vuole togliere la libertà d'espressione.

«La libertà di espressione è un caposaldo fondamentale di ogni democrazia, ma non è intellettualmente onesto confondere la libertà di espressione con la libertà d'insultare, discriminare o istigare ad atti di violenza e, in un certo qual modo, giustificarli. Il dibattito sul decreto Zan ha assunto, come sempre accade in Italia, connotazioni e strumentalizzazioni di parte. Ma qui non siamo di fronte a una questione di parti o di partito, ma a una questione di civiltà».

Il concetto di civiltà apparentemente non è condiviso.

«Non è apparenza, è sostanza. Ce ne facciamo vanto, ma episodi come quelli di cui parlavamo prima dimostrano che nei fatti non viviamo in un Paese civile». 

Perché il sesso ci ossessiona in questo modo?

«Ma io non penso che ci ossessioni, a volte ci ossessiona il non capire». 

 "Uomini e Donne", "Temptation Island", non gira tutto intorno al sesso?

«Al di là dei miei programmi, quello che penso che ci ossessioni è l'idea di rimanere soli, di soffrire o di investire in rapporti sbagliati». 

Visione sofisticata. Non si tradisce più spesso per narcisismo?

«Non penso si tradisca per narcisismo, non l'ho mai pensato. Forse per debolezza, solitudine, scompenso, attrazione». 

In fondo anche lei è stata "amante" di suo marito. Se ci ripensa oggi che effetto le fa?

«Lo stesso che mi faceva allora, la paura di fare una cosa sbagliata che non avrebbe portato a niente, che mi avrebbe causato sofferenze inutili, che però volevo vivere».

Proietti, Battiato, Morricone. È stato un anno duro. Che rapporto ha con la morte? «Orrendo. La temo, invidio chi ha un rapporto sereno con la morte. Mi fa paura perché non la conosco, è una cosa che non potrò mai controllare. E mi fanno paura le malattie, mi fa paura la sofferenza, mia e degli altri». 

Dio esiste?

«Penso di sì. Perché non dovrebbe esistere? Se poi è una esigenza individuale pensare che esista, non lo so. Però, essendo anche mia, penso che esiste». 

Ha detto: "Giovanni, il mio papà, mi appoggiava sulla sua pancia e io lo pettinavo". Suo padre l'abbracciava molto?

«Mio padre non poteva non abbracciarmi perché io lo abbracciavo in continuazione, quando ero piccola camminavo con le mani intorno alle sue gambe, ero una specie di koala». 

E sua madre Giuseppina?

«Mamma no, mamma non era espansiva fisicamente, almeno fino ai suoi 75 anni. Dai 75 anni fino alla sua morte è cambiata, lo è diventata». 

 Eppure, a guardarla da lontano, è come se il contatto fisico la mettesse in imbarazzo.

«Non ho nessun imbarazzo nel contatto fisico con le persone della mia vita. In televisione io non incontro chi fa parte della mia famiglia, incontro chi fa il mio lavoro, chi fa il cantante, chi fa l'attore o persone comuni con cui però non ho certo un rapporto quotidiano. Abbracci e baci, in quel caso, sono un saluto televisivo ma non rispondono a una reale frequentazione di vita e siccome in televisione io porto me stessa, forse lei ha notato questo». 

Lo abbraccia suo figlio Gabriele?

«Lo abbracciavo molto quando era piccolo; adesso che è adulto mi abbraccia di più lui e io di conseguenza. Adesso sono io più piccola di lui». 

La chiamano tutti Maria, come se fosse normale darle del tu.

«È il mio nome. Non ci vedo nulla di male. La televisione è un elettrodomestico: un giorno il Dixan lo metto io. Un giorno lo metterà qualcun altro». 

Che ragazzina è stata?

«Beh, curiosa, chiedevo sempre il perché del perché, volevo fare tante cose, mi facevano fare tanto sport perché almeno mi quietavo. Ho avuto una bella infanzia e una bella adolescenza. Sono stata fortunata». 

Sua madre che opinione aveva della sua tv?

 «Le piaceva "Amici", le piaceva: "C'è posta". Non le piaceva "Uomini e Donne" perché non capiva il senso di ragazzi che cercano una ragazza in televisione. La versione di "Uomini e Donne over" è riuscita a vederla e lì si stupiva ancor di più. Mia madre non ha mai avuto paura della solitudine, era piena d'interessi, amava viaggiare, leggere, andare a teatro. E' rimasta vedova a 70 anni ma al centro della sua vita, a quel punto, non c'era sicuramente l'idea di ritrovare un compagno».

Di sua madre ha detto: "Aveva un gran senso del pudore ed era molto intelligente".

«Il gran senso del pudore di mamma ha connotato la sua vita anche il giorno del funerale di mio padre. Io piangevo e lei mi diceva: Maria, non dare spettacolo. Mio padre era il suo opposto esatto». 

Piange ancora o ha smesso?

«Non ho mai smesso di piangere. Non penso ci sia un momento in cui lo si fa. Non piangere è un segno di aridità». 

La sua è forse la tv più chiassosamente sottovoce mai fatta.

«Sono convinta che si debba parlare solo se c'è qualcosa da dire. Cerco di non essere mai fuori luogo e se quello che mi viene in mente mi crea dei dubbi o mi sembra inutile, evito di dirlo». 

Non si sente mai in imbarazzo per i protagonisti dei suoi show?

«Mi è capitato più di una volta e l'ho sempre dichiarato. Spero di averlo fatto con educazione». 

Quando è stata l'ultima volta che ha alzato la voce?

«In televisione a volte capita. Se però divento prevaricante con chi ho invitato mi dispiace molto. Anche perché il ruolo che ho è prevaricante di per sé. Preferisco i confronti alla pari. Mi capita di farlo anche nella vita privata, dopo un minuto però mi passa e sono così cretina da chiedere scusa anche se ho ragione, per il semplice fatto di avere alzato la voce». 

È mai stata in terapia?

«Ho fatto ipnosi e psicoterapia. Penso sia utile per chiunque, vuol dire stare con sé stessi». 

Che cosa ha scoperto?

«Come accettarmi». 

Lei ha un approccio molto psicologico. I gesti, gli sguardi, le mezze frasi.

«Non so se quello che ho è un approccio psicologico, ma è l'unico che conosco ed è quello che ho anche nella vita». 

D'Agostino la chiama Maria la Sanguinaria.

«Sì, è una cosa che mi ha sempre divertito. D'Agostino è un uomo intelligente e acuto. Per quello che lo conosco ha una sensibilità onesta».

La cito ancora: Maurizio all'inizio non mi piaceva, lo guardavo in tv e faceva domande scomode. Cosa c'è di sbagliato nelle domande scomode?

«Nulla. Però ho sempre pensato che, quando inviti una persona in televisione, è un po' come quando la inviti a casa tua. Apri la porta e la fai accomodare, non la metti in imbarazzo. Ben vengano le domande scomode, ma chi entra a casa tua deve sapere che gliele farai ed essere libero, a quel punto, di non entrare. Non mi piacciono i trabocchetti e i tranelli. Non li faccio e non li voglio subire. Le domande scomode, poi, vanno fatte a chi conta più di te, non a chi conta meno di te sennò è troppo facile. Questa considerazione è totalmente indipendente da Maurizio, è in generale». 

Quando ha cominciato a cambiare idea su di lui?

«Quando ho conosciuto la persona e non solo il giornalista televisivo». 

È diventata più famosa di lui.

 «Non penso proprio. Quando vengo fermata per strada tutti mi dicono di salutarlo». 

Che cos' è oggi la mafia per lei?

«Qualcosa che mi fa paura». 

Ci pensa ancora all'attentato?

«Molto meno». 

Sera. A tavola. Lei e Costanzo. La tv è accesa?

«Sì, è accesa, ma a volume basso. Il telecomando è in mano a Maurizio, come sempre, e alza quando l'argomento gli interessa». 

A lei che cosa interessa in tv?

 «Tutto. È il mio lavoro, la faccio e la guardo per capire». 

De Filippi, che cosa c'è dietro l'angolo?

 «Magari lo sapessi». 

Magari Sanremo.

«Sanremo è un bellissimo spettacolo; quando ero vicino a Carlo Conti non mi sono goduta l'opportunità che Carlo mi ha dato. Amadeus e Fiorello hanno fatto benissimo, con tanta fatica dovuta alle restrizioni».   

·        Maria Giuliana Toro: «nome d' arte», Giuliana Longari.

Roberto Faben per "la Verità" il 16 giugno 2021. La signora Maria Giuliana Toro, residente a Riano, un centro di circa 10.000 abitanti in provincia di Roma, non guarda mai la tivù. Preferisce occupare il suo tempo a sfamare i gatti randagi, leggere saggi e cucinare. Questa non è una notizia tale da richiamare l'attenzione della cronaca. Lo diventa se si svela quello che lei definisce il suo «nome d' arte», Giuliana Longari. Longari è il cognome che acquisì dal marito, da cui divorziò, circa 30 anni fa. Dal 7 maggio al 16 luglio 1970, fu campionessa di Rischiatutto, lo storico quiz del secondo canale Rai condotto da Mike Bongiorno. La repentina popolarità le garantì la conquista di copertine di quotidiani e riviste, condizionando altresì il successo del programma e lasciando, nell' antologia italiana del costume, una traccia che ancor oggi perdura. Uno degli elementi decisivi del persistere della rinomanza della storica campionessa del gioco a premi è legato a un episodio che, quantunque puntigliose ricerche d' archivio abbiano declassato a leggenda, continua a passare sotterraneamente come verità che guizza nell' ironia delle metafore linguistiche. L' esclamazione, attribuita a Mike Bongiorno, sarebbe stata la seguente: «Ahi ahi ahi, signora Longari, mi è caduta sull' uccello». La signora Longari, classe 1943, figlia di un industriale di liquori, nata a Popoli (Pescara) ma sempre vissuta a Roma prima di trasferirsi a Riano, pur essendo certa che quella frase non gli sia mai stata rivolta dal conduttore, ha eseguito personalmente puntigliose verifiche per appurare l'origine dell'equivoco.

Possiamo chiamarla signora Longari?

«Certo. Lo considero il mio nome d' arte, quello con cui tutti mi riconoscono. Ma non ho mai amato la notorietà. Su Facebook mi sono registrata come Giuliana Toro». 

Come andò il provino a Rischiatutto?

«C' erano Mike Bongiorno e gli autori della trasmissione, Limiti, Turchetti, Carnevali.

Mi fecero alcune domande, specialmente sulla materia che intendevo portare, storia romana. Mi presero subito, anche perché ero caruccia. Avevo 27 anni, presi la licenza classica al Mameli a Roma e poi mi laureai in lettere moderne alla Sapienza. L' anno prima ebbi Enrico, il mio unico figlio, che oggi lavora a Seattle, alla Microsoft, uno dei cervelli italiani in fuga. Poiché c' erano pochi spazi per me nell' azienda di famiglia, a Tocco da Casauria, in Abruzzo, produttrice del liquore Centerba, la cui ricetta era segreta e si tramandava solo ai figli maschi, dovevo cercarmi un lavoro. Iniziai con supplenze di latino e collaborai con gli stabilimenti cinematografici di De Laurentis, nel reparto ricerche scenografiche».

Rischiatutto, pertanto, poteva costituire un'occasione e anche attraverso le sue performance, il programma decollò.

«Girava voce che il quiz televisivo era morto. Ma Mike ci credeva, tanto che il pubblico rapidamente si appassionò e il programma, la cui conclusione era inizialmente prevista in maggio, riprese a settembre e andò avanti fino al 1974. "Grazie alla signora Longari" ha sempre detto Bongiorno. Rischiatutto riprendeva, con alcune variazioni, un format statunitense. Era un quiz puro. Durava solo un'ora e non dava tempo per annoiarsi. Si registrava il mercoledì e la puntata andava in onda il giovedì, all' inizio in seconda e poi in prima serata. Alcune parti, con troppe intemperanze, venivano tagliate. Nel giro di poco gli ascolti s' impennarono, tanto che si raggiunsero 25 milioni di spettatori e, cosa più unica che rara, la coincidenza tra indice di ascolto e indice di gradimento. Alla vigilia delle elezioni la trasmissione dovette essere spostata dopo Tribuna politica, perché i dirigenti Rai si avvidero che i telespettatori preferivano il quiz ai programmi dei partiti. Era impressionante. Ricordo che, mentre si disputavano anche i mondiali di calcio in Messico, una sera mi recai a casa di amici ai Due Pini, dopo i viadotti di corso Francia. Mi affacciai sugli attici attorno e, con Roma completamente deserta, tutti i televisori erano sintonizzati su Rischiatutto». 

I testimoni dell'epoca, calamitati dal tele-gioco, rammentano campioni provvisti di straordinarie doti di memoria, come le sue e quelle di Massimo Inardi, e il pathos al momento delle domande finali in cabina.

«Nei tempi della mia partecipazione, per prepararsi non c'era un testo di riferimento indicato dagli autori della trasmissione. Ci si potevano aspettare, dunque, domande di qualsiasi tipo. Io studiavo sui libri di Aldo Ferrabino, tre straordinari volumi su Roma antica, devo averli ancora da qualche parte. Avevo molta memoria visiva, mi ricordavo del testo scritto. Una volta risposto alla prima domanda, le altre venivano di conseguenza, perché si trovavano nella stessa pagina del testo. Quello mnemonico era un metodo appreso al liceo. All' esame finale di licenza si portavano, per le varie materie, i programmi di tre anni. Gli studenti non dormivano la notte. Ancora oggi sognano quell' esame di maturità. In seguito scoprii che gli esperti del quiz prendevano le domande dal Bignami. Quando Rischiatutto, dal Teatro delle Vittorie a Roma, si trasferì a Milano, i concorrenti disponevano di libri concordati su cui prepararsi».

Dovette rinunciare al titolo di campionessa a causa di una risposta sbagliata?

«No, la cosa fu intenzionale. All' undicesima puntata ero esausta. Decisi che era il momento di chiudere». 

Lei vinse 13 milioni di lire in gettoni d' oro. Si trattava davvero di gettoni d' oro?

«Certo, e per di più di quello morbido, a purezza 1000, che nei film western verificavano con il morso. Fu una vera fortuna poiché, dopo gli accordi di Bretton Woods, la quotazione dell'oro fu svincolata dal dollaro e il suo prezzo schizzò in alto. I miei 13 milioni diventarono molti di più. Inoltre più avanti, i gettoni d' oro della Rai non furono più in oro 1000, considerato valuta, ma di una lega di minor valore. Dovetti però pagare 3 milioni di tasse».

Con che causale?

«Provento occasionale da lavoro intellettuale». 

In quegli anni 13 milioni erano un bel gruzzolo. Possiamo chiederle come decise di impiegarli?

«Acquistai, attorno al 1972, una casa sulla via Cassia, a Roma nord. Un' altra parte la conservai in una cassetta di sicurezza. E una terza parte la vendetti a un produttore di leghe per i dentisti». 

È curioso pensare che qualche inconsapevole sconosciuto abbia masticato con l'ausilio di capsule contenenti l' oro dei gettoni vinti dalla signora Longari a Rischiatutto L' improvviso successo le procurò occasioni di lavoro?

«Ah, accaddero le cose più incredibili. Finii sulla copertina di Grazia, tra le donne più famose del 1970, pensi, accanto a Golda Meir (fu la prima donna premier di Israele, ndr).

Mi avevano offerto di partecipare a Lady Italia e Lady Europa. Fellini volle conoscermi, forse attratto dalla mia pettinatura anni Quaranta. Aveva pensato di farmi fare Gradisca in Amarcord. Quando mi vide rimase deluso. Pensava fossi più prosperosa. Il bianco e nero ingrassa. Io però preferivo i complimenti per le mie conoscenze storiche. Giulio Andreotti, che amava la storia romana, volle conoscermi. Mi donò le opere di Cicerone. Di occasioni me ne capitarono. Avrei potuto sfruttarle. Ma rifiutavo o fuggivo. Ho preferito stare dietro le quinte. E ho qualche rimpianto. Se mi fossi lanciata, altro che casetta sulla via Cassia. Comunque ho lavorato con RadioRai in programmi come Itineradio, Estate con noi, Shampoo, Rischianiente, scritto sceneggiati radiofonici, e messa su una società di doppiaggio. Mediaset mi contattò, ma tutto era cambiato. Decisi di lavorare alle Teche Rai con Barbara Scaramucci, fino alla pensione, nel 2010». 

Qualche telespettatore s' innamorò di lei?

«Sì. Ad esempio un signore di Terni che mi scrisse di essere innamorato di me alla follia.

Arrivò una lettera dei suoi eredi. Era incapace d' intendere e di volere. E poi non ricordo se fosse stato un principe indiano o uno sceicco arabo, che veniva con il suo yacht a Montecarlo per vedere Rischiatutto. Stappava bottiglie di champagne a ogni mia vittoria. Mike non mi ha mai voluto dire il suo nome. Forse per salvare la santità del mio matrimonio».

Com' era il rapporto con Mike Bongiorno?

«Considerava Rischiatutto come una sua creatura e si stizziva non poco quando ci vedeva scarsamente concentrati e ci sorprendeva a chiacchierare». 

La gaffe a lui attribuita, «signora Longari, mi è caduta sull' uccello», è stata oggetto di un'ampia diatriba, entrando financo nella storia della televisione.

«Guardi, io sono certa che questa esclamazione non mi è mai stata rivolta dal presentatore. Aldo Grasso sul Corriere ipotizzò che questa uscita di Mike Bongiorno riguardasse una domanda sull' Uccello di fuoco di Stravinskij rivolta a una concorrente. Ma puntigliose ricerche fatte nelle Teche Rai non hanno portato ad alcun risultato. Nessuna traccia. Però...». 

Prego.

«Solo molti anni più tardi Mike riconobbe di non aver mai pronunciato quella frase.

Mantenere il segreto gli fece comodo, perché la sua figura in Mediaset si basava sulle sue note gaffe. Penso che quella frase sia stata inventata da qualcuno che fabbricava barzellette basate su doppi sensi tra insegnante e alunna. L' alunna divenne la signora Longari».

Come trascorre le giornate?

«Sto in compagnia dei miei tre gatti, Briciolo, di pelo rosso, Rambo, grigio, un certosino, e Mimì, una femmina semi-siamese. E accudisco quelli randagi. Ogni tanto una gatta non sterilizzata mi porta in regalo i suoi micini. Poi cucino, ad esempio pasta toscana con verdure e ingredienti poveri, come la panicianella, perché mia madre era toscana. E poi leggo, soprattutto saggi. Ora sono alle prese con Splendori e miserie del gioco del calcio di Gaelano. La tivù non la guardo, poiché la sua grammatica visiva è troppo lontana da quella della Rai che ho amato, fatta d' inchieste che diventavano letteratura». 

Qual è il ricordo più bello della sua vita?

«È del 6 settembre 1969. Il giorno che nacque mio figlio».

·        Maria Grazia Cucinotta.

Dagospia il 16 dicembre 2021. Da “Un Giorno da Pecora - Rai Radio1”. “Nella vita e nell'amore accade di tutto, anche io purtroppo sono stata tradita, ma poi nella vita l'importante è andare avanti ed esser felice”. A rivelarlo, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è l'attrice ed icona di bellezza Maria Grazia Cucinotta, che oggi si è raccontata ai conduttori Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Riguardo le misure di sicurezza per delle festività natalizie più sicure, la Cucinotta ha spiegato: “a natale a casa mia faccio fare il tampone a tutti, anche ai vaccinati, glieli faccio io, ormai sono pratica”. E' in grado di fare lei i tamponi rapidi? “Certo,sono bravissima, non faccio piangere, bisogna solo essere delicati”. Quanti ne avrà fatti? “Considerando che compro confezioni da 20 e li ho finiti diverse volte...” Cambiamo argomento: chi le piacerebbe come nuovo presidente della Repubblica? "Mi piacerebbe moltissimo un bis di Mattarella". Chi mi piacerebbe andasse al Quirinale? "Mi piace moltissimo Mattarella, è bravo, rassicurante, preparato e ci ha rappresentato bene in questi anni. Un suo bis? Perché no...".  La pensa così Maria Grazia Cucinotta, che oggi è intervenuta a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1.

"Vi dico cosa serve ora all'Italia. E Draghi..." Claudio Rinaldi il 25 Giugno 2021 su Il Giornale. Maria Grazia Cucinotta si racconta in un'intervista a 360°: dall'amore per la Sicilia al Ponte sullo Stretto passando per il no alle quote rosa. Quanto tenga all’uso della parola lo si capisce subito, basta leggere il suo stato di Whatsapp: “Un uomo vale quanto il peso delle sue parole”. Maria Grazia Cucinotta, attrice e produttrice cinematografica, è una donna del sud, siciliana di Messina, e si vede. È intensa, spontanea, schietta e anche sintetica. Arriva subito al punto, come quando alla domanda su Massimo Troisi risponde senza alcuna esitazione: “È la persona a cui devo dire grazie ogni giorno”. Il motivo è presto detto: è lui che l’ha scelta come coprotagonista di Il Postino, il film premio Oscar che ha fatto scoprire all’Italia e al mondo il suo fascino e il suo talento. Una gratitudine che Cucinotta si porta dentro tanto che anche quest’anno sarà lei la madrina del Marefestival, la kermesse cinematografica, dedicata proprio a Massimo Troisi, che si terrà a Salina, una delle isole Eolie, dal 1 al 4 luglio.

Quanto le manca Troisi e quanto manca all’Italia?

“Manca tantissimo. Era un artista eccezionale che riusciva a trasmettere dei messaggi importanti. Basta vedere il Postino: un film che offre una vera e propria lezione di vita, e cioè quella di credere negli ideali e nelle cose vere. Troisi ha lasciato un segno indelebile, ma sa cosa le dico?”.

Cosa?

“Che lui continua a vivere perché fin quando tu ricordi una persona, quella persona non andrà mai via. E questa è un po’ la magia del cinema. Certo, non c’è dubbio che avrebbe potuto fare tante altre cose belle”.

Ha parlato di ideali, quelli che Troisi riusciva a trasmettere... Il nostro Paese ha bisogno di ideali?

“Certo. Anche perché l’Italia in fondo non è mai cambiata più di tanto. I problemi che c’erano trent’anni fa, ci sono ancora adesso soprattutto al sud. Ed è assurdo perché stiamo parlando del granaio d’Europa, un luogo dove puoi trovare tutto quello di cui hai bisogno per essere felice”.

Eppure…

“Eppure viviamo ancora nell’arretratezza. Ti piange il cuore quando vedi, per esempio, che nel 2021 tra Gela a Palermo non è stata ancora completata l’autostrada. Poi vai all’estero, alle Maldive e trovi che anche nell’isola più sperduta hanno costruito un aeroporto e allora ti chiedi: com’è possibile?”.

Com’è possibile secondo lei?

“Dovremmo sfruttare al massimo le nostre ricchezze. Anche perché creare nuove infrastrutture, significa anche creare lavoro, muovere denaro… è un giro da mettere in moto per far ripartire l’economia”.

Tra le infrastrutture di cui si parla da tanto c’è anche il Ponte sullo Stretto…

“Guardi, sono appena ritornata dalla Cina dove ho appena fatto un documentario sui 100 anni dalla rivoluzione. Lì in pochi mesi hanno costruito 2 palazzi, 3 autostrade… sono passata in un luogo dove ero stata 5 anni fa per inaugurare una scuola per beneficienza e non le dico cosa ho trovato…”.

Ce lo dica…

“Hanno dato a tutti una casa, hanno costruito autostrade e più di 10 scuole”.

Ma questo che c’entra con il Ponte sullo Stretto?

“C’entra perché volere è potere, non esiste il non fare. E poi di cosa parliamo? Di un ponte lungo poco più di un chilometro? Questo atteggiamento italiano mi scoraggia, non mi fa essere positiva”.

Come l’ha trovata la Cina post Covid?

“Benissimo perché loro lavorano. Non esistono più zone disagiate e questo mi ha meravigliato”.

E i contagi?

“Ci sono controlli talmente rigidi che ormai tutto funziona alla perfezione. Basta anche solo una persona contagiata per isolare l’intero palazzo e poi tutti, quando arrivano in Cina, sono costretti alla quarantena. Anche io sono rimasta in albergo per 21 giorni…”.

Una gestione che ritiene valida… si può dire lo stesso dell’Italia?

“Mah, guardi è facile criticare o dare giudizi. Sicuramente ci sono stati degli errori, ma bisogna dire anche che è stata una patata bollente. Insomma durante l’emergenza di solito non si è mai preparati…”.

Ora però l’emergenza sembra essere terminata e in più stanno per arrivare i soldi dall’Europa…

“Speriamo se ne faccia un uso adeguato. Sono aria per chi ha perso tanto anche nel mondo del cinema e dell’arte, considerato da sempre l’ultima ruota del carro”.

Pensa che al cinema e all’arte siano arrivati pochi aiuti?

“Sì. Spesso ci si dimentica che dietro a un film o un concerto ci sono decine di lavoratori che a loro volta hanno famiglie da mantenere. Insomma la politica non sempre si ricorda di loro”.

Draghi si ricorderà di loro?

"Lo spero. È un uomo di banca, ci fidiamo e speriamo che faccia bene. Ma da solo non può nulla, ha bisogno di persone che lo seguano”.

Ecco, lei parla di persone… donne o uomini non fa differenza?

“Certo, sono contraria alle quote rosa. L’importante è il merito, non conta il sesso. Per me in politica e nella vita se ti viene riconosciuto un ruolo, non deve esserti riconosciuto perché sei donna, ma perché sei brava. Anzi le dico di più: è deprimente che ci siano percentuali a favore delle donne”.

E se lo dice lei che della difesa delle donne ne ha fatta una battaglia personale…

“Certo. Le due cose sono assolutamente compatibili. Non c’è dubbio poi che continuerò a battermi perché ci sono ancora troppo donne che hanno paura di denunciare. Non bisogna mai avere paura di denunciare abusi. Lo Stato deve stare più vicino alle vittime, per questo continuerò ad appoggiare la campagna per inasprire le pene. Se ti arrendi, sei complice…”.

Ha visto la storia di Saman, la giovane pachistana scomparsa per mano dei genitori?

“Sì e sono rimasta scioccata. Mi ha stupito il silenzio che soprattutto all’inizio ha avuto questa storia. Se ne sarebbe dovuto parlare molto di più”.

Pensa che l’Islam c’entri qualcosa con questa triste vicenda?

“Io penso solo alla vittima. Per me è un essere umano, è una vita spezzata… è questo che mi interessa. E purtroppo storie di violenza se ne sentono tante anche tra italiani. È una questione di mentalità, la solita direi che non rispetta la donna per ciò che é”.

Il rispetto passa anche dalle parole?

“Ha visto il mio stato su Whatsapp? Mia madre diceva sempre che ‘la lingua non ha le ossa, ma ti rompe le ossa’. Ci sono persone che sono forti e si fanno scivolare tutto addosso, mentre altre per una parola tentano il suicidio perché magari sono già depresse o hanno problemi personali. Bisogna sempre state attenti a ciò che si dice. Le parole hanno un loro peso”.

Claudio Rinaldi. Giornalista. Televisivo per Quarta Repubblica (Rete4). Web per ilGiornale.it. Carta stampata per il Corriere della Sera (Roma). Ma anche direttore di TheFreak.it. Nella vita dj a tempo perso. Cestista ogni tanto. Interista sempre. Romano d’adozione ma lucano fino al midollo.

Dagospia il 30 aprile 2021. Da I Lunatici Radio2. Maria Grazia Cucinotta è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta anche su Rai2 dalla mezzanotte e trenta alle due (circa). La Cucinotta ha raccontato di essere tornata da poco dalla Cina: "Come sto? Bene, sono appena ritornata dalla Cina dopo quasi due mesi e mezzo. Felice di essere tornata a casa, speriamo questo sia l'ultimo momento di sacrifici e che poi si torni a respirare un po' tutti. In Cina è tutto finito. All'inizio stentavo a crederci. E' anche vero che quando sono arrivata mi sono fatta 21 giorni di quarantena, ma non a casa, ti prelevano dall'aereo, ti disinfettano, disinfettano i tuoi bagagli, poi vieni rinchiusa in una camera di un albergo covid in cui ti portano da mangiare tre volte al giorno, ti prendono la temperatura due volte al giorno, ti fanno i tamponi una volta a settimana e alla terza settimana ti rilasciano un codice sul telefonino con il quale poi puoi andare in giro. Sono molto severi nei controlli, ma il tracciamento che fanno rende poi le persone libere di andare in giro. Io ho girato tutta la Cina, è veramente covid free. Sono stati bravi. Se noi italiani ne usciremo migliori? Non lo so. Sicuramente un po' distrutti. Il cinema, l'arte, tutto quello che è a contatto con il pubblico, ha sofferto e continua a soffrire. Non credo che la sofferenza porti a un miglioramento, ti porta a dover ripartire da zero quando avevi costruito un qualcosa che comunque andava. Non so se la sofferenza migliori le persone. Forse le porta ad apprezzare di più la vita. Ci siamo resi conto di essere tutti molto vulnerabili. Riapprezzeremo la possibilità di andare al cinema, a cena, a teatro. O anche semplicemente di abbracciarci". Sul suo rapporto con la notte: "Adoro la notte, è il mio momento, mi dedico a me stesso, mi coccolo con un film, con un libro. Adoro svegliarmi anche prestissimo, verso le quattro, le cinque, c'è il silenzio assoluto. Ed è bello". Sulla Maria Grazia bambina: "Ero non troppo diversa da adesso, non sono mai cresciuta troppo. Ero una sognatrice, immaginavo, avevo tutti i miei mondi, in cui mi immergevo. Ero curiosa, non mi fermavo mai, povera mamma, una ne pensavo e mille ne facevo. Non sono mai stata una tranquilla, ho sempre cercato di vivere ogni secondo della mia vita". Sulla nascita della sua carriera: "E' nata per caso, avevo fatto il concorso di Miss Italia arrivando in finale. Durante le selezioni avevo incontrato una agenzia di Milano, avevo un fratello più grande che viveva in Lombardia, una volta finita la scuola superiore sono andata con la scusa di visitare lui, ma invece andai in agenzia. Mi presero subito e mi fecero fare il provino per 'Indietro tutta'. Così è iniziata la mia carriera e la mia vita. Sono passati più di 35 anni, ma non mi sono più fermata" Sul film "Il postino": "Non mi stanco mai di parlarne, è un modo per essere grati a chi mi ha dato l'opportunità della vita. Sul set all'inizio non ci rendevamo conto che stavamo facendo una cosa così importante. Troisi? Sempre ironico, scherzoso, non si è mai pianto addosso. Ci siamo dovuti fermare perché la sua situazione di salute è peggiorata, ma lui ha rifiutato di fermarsi, ha detto che voleva finire il film con il suo cuore. E così è stato. Abbiamo finito il film la sera alle dieci e lui si è addormentato il giorno dopo alle due del pomeriggio. Mi ritrovavo con un filmone che ha emozionato il mondo intero, anche molto impreparata. Il successo quando arriva ti fa anche molta paura. Ero troppo giovane, forse non avevo accanto le persone giuste. Perché le persone da una parte ti mano, da un'altra parte ti detestano. Mi ha salvato l'America. Ero talmente ragazzina, talmente impreparata, che non capivo nemmeno quello che mi stava capitando. In America ho ricominciato da zero, ho studiato, mi sono preparata. In America non giudicano, hanno una cosa fantastica che si chiama meritocrazia, ti aiutano a raggiungere i progetti giusti, a crescere, a migliorarti. Dovevo capire cosa fosse veramente il cinema e in America l'ho fatto. Ho scelto di tornare in Italia perché l'Italia è creatività, arte, bellezza". Sul momento che stanno vivendo le donne: "Parità di genere? Siamo ancora molto distanti. Ho creato insieme ad altre donne una associazione che si chiama 'vite senza paura' e mi rendo conto ogni giorno che bisogna continuare a lottare perché siamo ben distanti dalla parità di genere. Dobbiamo iniziare dalla cultura, dall'educazione dei bambini. Il catcalling? Incredibile, c'è ancora qualcuno che urla alle donne in mezzo alla strada. I fischi, le urla, cose così, non sono complimenti". Sul rapporto con la sua bellezza: "Da ragazzina pensavo di avere mille difetti, ho capito com'ero attorno ai quarant'anni e ho finito di capirlo forse adesso. La bellezza comunque è un'arma a doppio taglio. Quando la tua immagine è troppo forte, le persone stentano a credere che dietro ci sia anche un cervello. Ho incontrato persone che mi dicevano 'ah, ma sei anche intelligente'. E io mi chiedevo "ma perché ho proprio la faccia da deficiente?" Non capisco dove possa esserci un limite tra le bellezza e l'intelligenza". Sul #metoo: "Io non ne ho mai parlato, lotto contro le violenze di gente che non può scegliere e che si ritrova a subire violenza senza poterne uscire". 

·        Maria Luisa “Lu” Colombo.

"Ecco la mia musica quarant'anni dopo il tormentone Maracaibo". Paolo Giordano il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. Il suo brano è uno dei simboli degli anni '80. "La Carrà lo ha ballato, ora canterei con lei". Ecco è lei. Ci sono canzoni strafamose che però (ingiustamente) non hanno volto, le conosciamo tutti ma pochi le collegano all'autore. Maracaibo è una di queste. Quante volte l'abbiamo ascoltata in radio, in discoteca, nelle colonne sonore, alle feste? L'ha pubblicata proprio quarant'anni fa Lu Colombo (nome d'arte del talento milanese Maria Luisa Colombo, classe 1952) dopo averla scritta con David Riondino. Sembra gioiosa ma racconta l'odissea tragica di Zazà, ballerina cubana trafficante d'armi e amante di Fidel Castro (il cui nome fu cambiato in Miguel per rendere più leggera la canzone) che poi viene azzannata da un pescecane e inizia una seconda vita aprendo un bordello. «Una storia triste che abbiamo rivestito con musica da ballare come funzionava negli anni Ottanta», spiega lei pacata e forbita proprio nei giorni in cui ritorna dopo tanto tempo con il disco Danza con tre brani inediti (Danza, Neve al sole, Stelle) e il «quasi inedito» Ali ali composto durante il lockdown dell'anno scorso. «C'è anche Gina, il mio pezzo più conosciuto all'estero», aggiunge.

Però partiamo da Maracaibo, il suo brano più conosciuto in Italia.

«Nessuna casa discografica lo voleva. Ho girato tante discoteche per chiedere di suonarlo finché l'ho portata al Raja di Panarea. Era l'ultimo tentativo, poi avrei mollato il colpo».

E invece.

«Prima non volevano perché a quei tempi quei suoni erano ancora inconsueti e sarebbero esplosi poi con i Gipsy Kings dieci anni dopo. Poi l'hanno messa e il successo è stato immediato. La gente si alzava e andava in pista, a dimostrazione che quel brano e quel ritmo funzionavano».

Funziona anche oggi.

«Ha 40 anni ma non li dimostra. Maracaibo ha ancora la sua forza».

A quel punto era fatta.

«La Emi mi mise sotto contratto ma non mi ha mai promozionato con Maracaibo. Al punto che molti pensano sia di Raffaella Carrà, che in un suo programma l'ha ballato».

Ma non l'ha cantato.

«Ero quasi tentata di chiamarla per farne un duetto. Ma poi non l'ho fatto. Sono timida».

Pentita?

«Negli anni Ottanta ho avuto un certo rodimento di fegato (sorride - ndr), specialmente quando sentivo dire che quel brano era della Carrà. Ma non sono polemica. Di certo la casa discografica avrebbe potuto fare meglio e io avrei potuto essere più spregiudicata. Ma è andata così e va bene».

Quel brano poi è entrato nella colonna sonora di Vacanze di Natale, un classico con Jerry Calà (che canta Maracaibo nei suoi spettacoli), Christian De Sica, Stefania Sandrelli.

«Nella sigla canto io ma non mi si vede. Quando ho saputo che Maracaibo sarebbe stata in quel film, mi si sono rizzati i capelli. Ma ora sono contenta perché quel film dipinge davvero la realtà di quel tempo».

L'ha fatta guadagnare?

«Per molti anni niente, adesso spiccioli. Ma non mi dispiace questo, io sono un'artigiana, non cerco la gloria».

E che cosa le dispiace?

«Che quella canzone non abbia mai vinto un premio o un disco d'oro. Una volta, quasi per un gioco amaro, mi sono inventata un disco di latta».

Le piacerebbe un riconoscimento?

«Beh dopo quarant'anni credo che se lo meriti».

A proposito, e David Riondino?

«Abbiamo collaborato negli anni Ottanta e poi basta».

Ha viaggiato, ha lavorato come grafica, è pittrice, ha una band: ora torna a pubblicare musica.

«Io faccio tutto da sola e Danza è uscito solo su iTunes. E tra pochi giorni vado a Rimini a presentare il remix di Rimini Ouagadougou fatto con i rapper Fadamat, Word e Callaman. Un modo per ridare attualità ai brani di un altro tempo che però vale la pena ricordare».

·        Maria Pia Calzone.

Maria Pia Calzone: «Quanto è difficile fare tv per noi attrici cinquantenni». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2021. L’attrice: «Gomorra» mi ha reso famosa e così ora posso recitare De Filippo. Suo marito glielo ripete prima di ogni provino: «Mi raccomando, togliti quell’espressione e fai una faccia simpatica, sorridi». In effetti — sarà per lo sguardo fiero o per la bellezza, così rigorosa — Maria Pia Calzone istintivamente incute una certa soggezione. Poi però inizia a parlare e svela all’istante un animo dolce, che nulla ha a che vedere con la durezza di certi suoi personaggi (vedi Donna Imma, il ruolo di Gomorra che per lei ha cambiato tutto, ndr.) e che anzi, a sorpresa, va a braccetto con una certa insicurezza. «Lo sono da sempre — spiega —. Forse c’entra col fatto che non ho un posto del cuore, un luogo veramente mio. Non sono di origini napoletane, però ho vissuto a Napoli e prima a Brescia. Sono sempre stata straniera nel posto dove stavo».

Quando si è trasferita a Napoli?

«Per la prima elementare. I napoletani — essendo Napoli un regno — hanno un senso di appartenenza fortissimo. E’ una città molto ego-riferita. Io tornavo a casa da scuola e mi arrabbiavo perché non capivo delle parole. Ma alla fine, questo animo vagabondo mi ha dato il privilegio di essere dentro un ambiente riuscendo sempre a vederlo da fuori».

Quando le è stato utile?

«Penso a Gomorra: all’inizio temevo fosse la mia debolezza, ma poi ho capito che è stata la mia chiave. Ho realizzato che quello che vedevo come un ostacolo mi ha permesso di raccontare un mondo che conoscevo, senza compiacimento».

Presto su Rai1 andrà in onda con «Non ti pago», trasposizione della commedia di De Filippo.

«Fa parte del progetto con cui la Rai vuole riproporre al pubblico Eduardo, attraverso lo sguardo contemporaneo di un regista come De Angelis. Il filo conduttore è Sergio Castellitto: mi sono divertita moltissimo».

E il senso di inadeguatezza? C’era?

«Certo, mi accompagna. Ma mi fa anche essere molto in ascolto di quello che mi succede attorno, oltre che di me stessa. È ciò che mi rende a disposizione del personaggio».

Quando ha capito che la recitazione era la sua strada?

«Ho sempre amato recitare: da bambina aprivo le ante dei vecchi armadi, quelle con il doppio specchio, e facevo dei grandi monologhi, osservandomi».

La prima persona che le ha detto che era brava?

«La mia insegnante delle elementari, nelle recite, mi affidava sempre il ruolo della Madonna. Più tardi ho frequentato un laboratorio teatrale in cui insegnava Lello Arena: quando gli chiesi se avevo delle chance, è stato il primo a darmi una risposta di cui mi sono fidata».

Ed è stato anche la prima persona a farla debuttare al cinema.

«Sì, tra grandi risate perché non sapevo nulla e lui non mi diceva nulla. Mi ripeteva solo: “Lo scoprirai da sola”».

Poi? Come ha proseguito?

«Sono andata avanti per ostinazione. Sono stata giovane nei primi anni Novanta: la situazione era molto diversa. C’era una divisione netta tra chi lavorava in tv e chi al cinema, con attori considerati di serie A e altri di serie B».

Lei in che serie era?

«Avevo avuto qualche occasione in tv: è stato difficile fare il salto di qualità. Poi non veniva favorito certo il talento. Io arrivavo sempre all’ultima fase di provini, e poi affidavano i miei ruoli — generalmente da cinque o sei pose — a una persona da accontentare. Per me quello era lavoro, non essendo ricca di famiglia».

Frustrante.

«Moltissimo. Oggi c’è più fluidità del talento. Peccato io sia nella fascia delle cinquantenni: le possibilità per un’attrice diminuiscono drasticamente nonostante viviamo in una società che invecchia. Eppure la popolazione femminile delle 50enni è dimenticata dalla narrazione televisiva. È inaccettabile non solo per noi attrici ma anche per tutti: al cinema si continua a escludere un’età come se bisognasse vergognarsene. Poi ci si domanda perché le donne siano insicure».

Ha accennato alle sue origini non benestanti. Le hanno pesato?

«A 15 anni, non potermi permettere il cappotto o lo stivale di moda mi ha spinta a cercare altrove la mia individualità: il mio specifico era la mia testa. Ho sviluppato una forte personalità per compensare. Ancora oggi mi sento un po’ in colpa se desidero una borsa che costa quanto lo stipendio di un operaio: so cosa vuol dire quella cifra per un’altra famiglia».

Nella sua carriera, c’è un prima e dopo «Gomorra»?

«Sì, è uno spartiacque, un momento cardine. Dopo che mi avevano presa, per un mesetto, stavo attenta anche a fare le scale per paura potesse succedermi qualcosa che avrebbe mandato a monte tutto. Gomorra mi ha dato notorietà internazionale, cambiando la stima del mio ambiente nei miei confronti. Magicamente, mi ha fatto accedere a ruoli che mi erano preclusi e aperto la strada della commedia, che nessuno mi faceva fare per via della mia faccia», ride.

Tra i suoi prossimi ruoli?

«Sto girando una serie per Palomar in cui interpreto una commissaria di polizia. E’ molto interessante perché, ragionando tra donne, abbiamo creato un personaggio lontano dagli stereotipi».

Lei è tra i fondatori dell’Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo.

«E ho la delega alla parità di genere. Credo che non ci si possa solo lamentare ma serva fare delle cose che ci assomiglino, come donne, diventando produttrici di noi stesse. Perché il nostro punto di vista è reale, esiste».

·        Marianna Mammone: BigMama.

Barbara Visentin per il "Corriere della Sera" il 28 ottobre 2021. Dietro lo pseudonimo di BigMama c'è Marianna Mammone, rapper classe 2000, avellinese trapiantata a Milano, rime messe al servizio di temi importanti come il bullismo, il body shaming o l'amore, senza sconti e senza filtri. È lei a scaldare il palco ai Sottotono, questa sera, nel primo appuntamento della rassegna «Niente di strano 3». 

È una fan dei Sottotono, nonostante non fosse ancora nata quando esplosero?

«Ho iniziato ad ascoltare rap a 13 anni e quindi li ho recuperati. E mia mamma li conosce meglio di me».

Com'è avvenuto il suo avvicinamento al rap?

«Sono legata alla musica fin da piccola, cantavo nel coro della scuola, del teatro, in tutti i cori che trovavo. Nel 2013 mio fratello mi ha portata al concerto di Salmo e da lì sono entrata in fissa». 

E poi ha cominciato a scrivere?

«Stavo attraversando un periodo difficile e le parole di un uomo di 30 anni come Salmo non è che mi aiutassero. Così ho iniziato a scrivere io quello che avrei voluto sentire». 

Cosa non trovava?

«Il rap, detto schiettamente, soprattutto agli inizi era una sfida a chi ce l'aveva più grosso. Sentire persone che si vantavano non mi aiutava. Io ero perseguitata dal bullismo, avevo gente che mi attaccava da mattina a sera. E queste cose non trovavo nessuno da cui ascoltarle».

Ora il rap è cambiato?

«Sì, è arrivata un'altra ondata e anche mettersi a nudo, che è la cosa più difficile, è diventato sinonimo di forza». 

Ha parlato di bullismo, riguardava il suo corpo?

«Ero presa di mira da tutti, e non ricordo un giorno senza commenti. Il mondo è grassofobico. Le persone hanno paura di mettere chili e sentono il bisogno di fartelo notare. Perché sia così, non l'ho mai capito». 

Come è arrivata a ribellarsi al body shaming?

«Sono sempre stata auto-ironica, per difesa. Adesso ho piena consapevolezza di me stessa grazie alla musica e mi piace provocare, vedere rosicare chi mi criticava. Tanti ragazzini si rispecchiano in me, ma non era la mia missione, io l'ho fatto per me stessa».

Ha avuto dei modelli?

«In Italia c'è chi ha provato a parlare di certi temi, ma senza riuscirci perché si vede che non li ha vissuti. All'estero sicuramente Lizzo». 

Perché ha deciso di aprirsi così tanto nelle canzoni?

«Mi sono nascosta per una vita e ho capito che non ha senso: meglio buttare tutto fuori. Sto meglio io e stanno meglio anche quelli che ci si rivedono». 

La sua ultima canzone «Così leggera» parla d'amore e dice: «mi hanno spezzato il cuore su WhatsApp per messaggio». Ha postato anche delle chat, erano vere?

«Sono screenshot di vari miei ex, il primo è quello che mi ha ammazzato di più: avevo preso i biglietti per andare da lui a San Valentino e così di punto in bianco mi ha scritto "non ti amo più". L'ho definito per molti anni "il senza palle". Cerco di far vedere tante sfaccettature dell'amore e dopo esperienze come questa ne ho super paura». 

Con i rapper come va?

«Ho la fortuna di non essere ritenuta figa secondo gli standard nazionali. Quindi di solito nessuno pensa che io sia arrivata da qualche parte per la mia bellezza e i colleghi mi rispettano». 

Anche questo meccanismo, però, non è sano.

«Sono la prima a dire che è triste, ma è così. Ma ne verremo fuori: ci sono sempre più donne anche nel rap, spesso più brave degli uomini. Credo sia proprio di questo che gli ometti avevano paura». 

Sui social ha raccontato di aver sconfitto un tumore.

«Non si pensi che io stia approfittando del tema, ne ho parlato come parlo di tutto. Ho lavorato così tanto sulla musica che sentir dire "è quella che ha avuto il cancro" mi ucciderebbe più del tumore. È una parentesi che sto cercando di chiudere».

La musica ha aiutato?

«Mi ha spinto a stare bene nel periodo peggiore della mia vita. Mettevo la parrucca per non farlo vedere a nessuno e andavo avanti con la musica. Se mi fossi fermata forse di cancro sarei morta». 

Sta lavorando a un disco?

«Ho un sacco di pezzi. Più avanti magari vorrei liberare il mio lato leggero. I temi importanti li abbiamo trattati, ma BigMama è tanto altro». 

Con chi vorrebbe collaborare?

«È scontato: con Salmo».

·        Marica Chanelle.

Barbara Costa per Dagospia il 18 settembre 2021. “Ma tu pensi che i parlamentari si fanno le p*ppe guardando il muro?”: così rispondeva Marica Chanelle a "La Zanzara" a chi un anno fa le chiedeva perché lei, da attrice porno, con altre colleghe reclamava i 600 euro contiani a indennizzo pandemia. Come se non fossero degne di attenzione, le sue curve strepitose, e come Marica le usa e le foggia, altera, decisa, e però non più in Italia: la ragazza di Vicenza ha fatto il salto, e da qualche mese è negli Stati Uniti, terra del porno che conta. E qui Marica Chanelle ci prova, a diventare una vera pornostar. C’è già chi la chiama "la nuova Valentina Nappi" e c’è da dire che Marica pur agli inizi, pur con 50 scene porno complete e accreditate, agli americani piace, e basta leggere cosa dicono di lei, sui suoi imponenti seni (che io vorrei tanto capire se aiutati o no) sulle chat ma pure sui media porno i più attenti: “Le italiane, quando entrano nel business, fanno sul serio!”; “dio mio, che c*lo! era da tanto che l’Italia non presentava un ‘talento’ simile!”; “è una delle più calde che abbia mai visto, gente!”. Marica si è già guadagnata un seguito di fan particolari, fan che adorano come lei urla appena prima e mentre orgasma: sono i video che procurano più erettili emozioni (ma c’è un uomo a cui non piace "sentire" una donna godere? E più se è lui che la sta facendo godere? Io non ne conosco). Marica Chanelle – nome e cognome d’arte – ha 25 anni, ed è nel porno da 3. Diplomata magistrale, qualche supplenza, passaggi da modella e ragazza immagine fino a che si è stufata, o meglio ha capito che i suoi occhioni verdi sommati a tutto il ben di dio di cui geneticamente è riempita, era tempo di impiegarli in più opportuni – e monetari – modi. Uno stage alla Siffredi Academy  (insieme a Tina Chanelle oggi Tina Princess, sua sorella più grande di due anni, anche lei fulgente sulle strade del porno), 4 scene con Rocco e Marica comincia a calcare i palcoscenici porno dei brand europei (da godersela tutta, e al rallentatore, la sua prova e i suoi umori nel dorceliano "Angelika, an indecent story", ma pure in "Marica, 22ans, la bombe venitienne", by Jacquie et Michel). Che la ragazza abbinasse il suo corpo statuario e poco dimenticabile ad attitudini per il sesso a doppia penetrazione anale e vaginale, è stato evidente fin dalle prime scene. Il suo nome ha iniziato a girare vorticoso dopo un infuocato duo con il pornostar inglese Danny D. (quasi 25 cm di pene premio Oscar) in quel video dove Marica Chanelle è la sua infermiera cattiva. È poi continuato in performance interracial. È poi rimasto bloccato nel lockdown pandemico. Bene ha fatto Marica a mollare l’Italia per andarsene in America: “Non mi pento di nulla e non voglio tornare indietro”, ha recentemente dichiarato, “qui negli USA mi trovo bene, anche se è un ambiente più competitivo di quanto mi aspettassi. Non mi preoccupo, io col sesso sono una macchina da guerra!”. Marica, che ha pure sfilato alle selezioni di Miss Italia, ha scelto di stabilirsi a Colorado Springs, spostandosi di volta in volta a seconda dei set dove è prenotata. Gli americani lodano la serietà e la professionalità di questa “esotica italiana”, e specie la naturalezza con cui gira espliciti e provocanti porno con attrici trans. Sui set Marica si ritrova accanto a nomi – e corpi – prima ammirati sul web, “e sono tutti piuttosto simpatici, alla mano, e mi mettono a mio agio”, dice Marica che, da quando sta negli Stati Uniti, avverte nitida la distanza con l’Italia: “Appena ho girato la mia prima scena porno e qualche frame promozionale è stato messo in rete, a Schio (suo paese natio) lo sapevano! Non potevo uscire di casa, nemmeno per fare la spesa!”. Il consumo socialmente paritario e strabordante di porno combacia e stride con l’ipocrisia con cui gli stessi fruitori crocifiggono chi il porno lo fa: “Con la notorietà porno”, rivela Marica, “mi sono arrivati mail e post social di haters, gente strana, che mi dava della tr*ia, dell’amorale, e c’è pure chi mi spronava a conversioni religiose. L’Italia è un paese piccolo, e tanto provinciale”. “Il porno mi ha aperto gli occhi su chi che mi circonda”, conclude Marica, “così mi sono sbarazzata di gente falsa. Io non mi vergogno di quello che faccio e, se a qualcuno non piace, e lo disapprova, sono problemi suoi. È solo la sua f*ttuta opinione!”. Niente fa fare, ragazzi: esportiamo talenti! Guardatevi Marica Chanelle, la sua bellezza e forza e ambizione, nelle performance per LegalPorno, o nel suo porno tra i più nuovi, "Nuru Massage", a garanzia Brazzers. 

·        Marilyn Manson.

Da ilfattoquotidiano.it il 27 giugno 2021. I guai legali del cantante Marilyn Manson sembrano ben lontani dall’avere fine. La rockstar shock ha infatti accettato di consegnarsi alla polizia di Los Angeles, in possesso di un mandato di arresto derivante da un episodio verificatosi nel New Hampshire nel 2019. Lo riporta il sito Deadline Hollywood. Il fatto, che sarebbe accaduto durante un concerto, vedrebbe l’artista accusato di aver sputato e sparato a una persona con una videocamera. Il mandato è stato emesso a maggio a Gilford, dopo che il cantante non aveva risposto alle accuse presentate contro di lui in quella giurisdizione. Marilyn Manson, vero nome Bryan Hugh Warner, deve rispondere di due capi di imputazione, e potrebbe essere chiamato in giudizio entro metà agosto. Non è previsto che la pop star debba essere presente in tribunale. L’artista 52enne si stava esibendo al Bank of New Hampshire Pavilion il 18 agosto 2019, quando è avvenuto l’incidente. La persona che aveva in mano la videocamera, che non è stata identificata, stava lavorando nella buca sotto il palco quando lui avrebbe cominciato ad aggredirla. L’avvocato dell’artista ha sempre negato qualsiasi comportamento aggressivo durante lo spettacolo. Manson, contemporaneamente, sta affrontando anche un altro processo con accuse separate di stupro e abuso da parte di diverse donne.

·        Mario Maffucci.

Maurizio Caverzan per “La Verità” il 2 marzo 2021. Il Fantastico di Adriano Celentano, il concerto di Madonna a Torino, quello dei Pink Floyd in piazza San Marco a Venezia, il Pavarotti & Friends, la grande giornata a Bologna con Giovanni Paolo II per il Giubileo, i Festival di Sanremo condotti da Mike Bongiorno e Piero Chiambretti, Raimondo Vianello, Fabio Fazio e Raffaella Carrà: dietro tutti questi eventi c' è un uomo di televisione, dirigente e autore insieme, che risponde al nome di Mario Maffucci, già capostruttura e vicedirettore di Rai 1. Ha 81 anni, due figli, una moglie e vive a Roma, zona Parioli. Ha appena fatto il vaccino contro il Covid e ora è al telefono: «È proprio sicuro che abbia qualcosa d' interessante da dire?».

Che Sanremo si aspetta quest' anno?

«Sarà un Festival diverso dagli altri perché senza il pubblico, una presenza dalla quale gli artisti traggono energia».

Questa assenza peserà di più sui cantanti, i conduttori o gli ospiti?

«Credo che sugli ospiti peserà meno perché hanno il confronto con Amadeus e Fiorello. Cantanti e conduttori avranno maggiori difficoltà. Soprattutto Fiorello, che sarà costretto a dare il massimo, mentre l' anno scorso ha dato il minimo».

In che senso?

«Ha fatto una grande prova d' autore, improvvisando tutto. Un grande artista come lui se lo può permettere. Così, ha preso spunto da quello che succedeva, dalle emozioni del pubblico. Stavolta questo confronto non potrà averlo».

Mancherà una fonte importante.

«Che stimola a inventare. Tra Fiorello e Amadeus c' è grande feeling, ma la sfida è più impegnativa».

Era proprio impossibile stabilire dei protocolli, farli rispettare e avere qualche centinaio di spettatori in sala?

«Sarebbe stato possibile, ma ingiusto nei confronti degli altri teatri che restano chiusi».

Altri programmi Rai hanno il pubblico e l' Ariston sarebbe stato usato come uno studio televisivo.

«Ma l' Ariston è un teatro aperto al pubblico».

Che consiglio darebbe ad Amadeus e Fiorello prima di cominciare?

«Di essere consapevoli di avere un' occasione unica per intrattenere tutto il Paese condizionato dalla pandemia».

È l' approccio del dirigente della tv generalista che creava grandi eventi.

«Il Festival di Sanremo è un evento, in un certo senso unico al mondo. Nasce come manifestazione popolare, senza pretese artistiche. Poco alla volta diventa una fabbrica di musica e intrattenimento. La tv l' ha manipolato, protetto e fatto crescere, trasformandolo in qualcosa di più di una sfilata di belle canzoni».

La convince il fatto che la moglie di Amadeus, Giovanna Civitillo, condurrà il Prefestival?

«Perché no? È un programma marginale, è in grado di farlo, non mi sembra un fatto da biasimare».

Nemmeno sul piano dell' eleganza?

«No, non direi».

Avrebbe potuto essere una buona idea Mina direttore artistico?

«Straordinaria. Ci rendiamo conto di che cos' è stata e che cos' è Mina dal punto di vista musicale?».

Non è decollata per mancanza di coraggio?

«Secondo me si sarebbe tirata indietro».

A quanto si sa, non si sono mai fatti avanti i vertici Rai.

«Da anni Rai 1 attribuisce la direzione artistica al conduttore secondo un canone per cui egli è il playmaker del Festival. Con Mina ci vorrebbe qualcuno felice di averla come direttore artistico. Quelli del presentatore, del direttore artistico e del selezionatore delle canzoni sono ruoli che si potrebbero spacchettare. In questa situazione credo che Mina sia difficile che arrivi».

Agenti e società di produzione esterne hanno troppo peso in Rai?

«Quello che oggi chiamiamo agente, nel vocabolario di qualche anno era l' impresario di artisti. I vari Lucio Presta e Beppe Caschetto hanno fatto la fortuna di tanti spettacoli.

La cronaca televisiva attribuisce a Pippo Baudo o ad Amadeus la capacità di portare sul palco le star, ma dobbiamo sapere che dietro di loro c' è il lavoro di qualcuno che ha la forza di coinvolgerle».

Ha visto che due componenti del Cda Rai hanno chiesto di verificare se la lista degli ospiti rispetta la policy aziendale?

«Ho visto, aspettiamo le verifiche. È giusto mantenere un certo equilibrio e controllare la misura dei diversi contributi. Ma allo stesso tempo non dobbiamo perdere di vista il gol finale che è il divertimento del pubblico. Poi certo, l' en plein del cast di un singolo agente non lo approvo».

Anche ai suoi tempi contavano molto gli agenti?

«Ai miei tempi spuntava il potere dei nuovi impresari. Ma c' era un' azienda in grado di stare sul mercato con una forte attrattiva».

Uno dei migliori era Bibi Ballandi?

«Portava il suo contributo senza mai esagerare».

Perché secondo lei quest' anno su Rai 1 funzionano le fiction mentre sono sottotono gli spettacoli di intrattenimento?

«Non c' è voglia e forse non ci sono le condizioni per sperimentare con coraggio. Per essere sicuri dei risultati ci si affida ai format collaudati. Ma così non s' inventa niente e, con la ripetizione, i programmi si usurano e perdono smalto. I successi sono frutto di un dosaggio di componenti tra le quali c' è una percentuale di rischio. Non si può pretendere che il direttore di rete sperimenti se non è aiutato da un gruppo di dirigenti pronti a farlo».

Da Domenica in a Fantastico, da Scommettiamo che a Beato tra le donne, qual era il segreto dei suoi?

«Sono molto grato a Baudo perché mi ha insegnato l' abc dello spettacolo, facendomi crescere alla scuola del teatro leggero. Il massimo divertimento l' ho provato con Renzo Arbore: leggerezza, autoironia, spettacoli inventati dall' inizio alla fine, spesso le prove erano ancora più divertenti di ciò che andava in onda. Poi c' è stata l' avventura con Adriano Celentano».

Quel famoso Fantastico.

«Il segreto era l' imprevedibilità, non a caso ebbe enorme rilievo sui media. Nacque dopo che Berlusconi ci aveva strappato Baudo, la Carrà ed Enrica Bonaccorti. Lo scopo era indebolire la Rai nella prospettiva della riforma del sistema televisivo che sarebbe sfociato nella legge Mammì».

Vittoria in contropiede?

«Esatto. Sopravvissi a quella prova grazie all' appoggio di Biagio Agnes ed Emmanuele Milano (storico direttore generale Rai e direttore di Rai 1, ndr)».

Grandi dirigenti, grandi autori: oggi?

«Conosco alcuni direttori di rete come Franco Di Mare e Ludovico Di Meo, ottimi professionisti. Mentre non conosco Stefano Coletta, direttore di Rai 1. Ma non so se abbiano dietro una squadra così forte. Gli autori bisogna cercarli nel teatro leggero, nella musica, nel cinema, come avvenne per Sergio Bardotti, Giorgio Calabrese In quel Fantastico debuttò Umberto Contarello, che poi è diventato lo sceneggiatore di Paolo Sorrentino».

Come definirebbe Celentano?

«L' artista con il quale nulla era prevedibile. L' unico modo per lavorare con lui era discutere ogni cosa che gli veniva in mente, sapendo che l' avrebbe realizzata».

Luciano Pavarotti?

«Artista immenso, uomo formidabile. A lui è legato uno dei maggiori rimpianti della mia carriera».

Cioè?

«Averlo trascinato nel secondo Festival di Fabio Fazio facendogli fare il notaio. Entrava, diceva qualcosa sui cantanti, usciva. Come si fa a ingaggiare Pavarotti senza farlo cantare?».

Me lo dica lei.

«Era già tutto definito: avrebbe dovuto fare un duetto con Nilla Pizzi su Grazie dei fior. Immagini cosa sarebbe stato... Ma, ad accordo concluso, Nicoletta Mantovani si oppose perché riteneva che, se Luciano avesse cantato durante il Festival, avrebbe tolto interesse al Pavarotti & Friends in calendario due mesi dopo. E Luciano accettò il volere della moglie».

Lavorò anche con il Trio: Marchesini, Lopez, Solenghi.

«Fu una stagione straordinaria che culminò nei Promessi sposi. Era appena finita la miniserie diretta da Salvatore Nocita e noi ne proponemmo la parodia. Qualcuno alzò il sopracciglio, ma proprio affiancare la satira alla tradizione era la forza di una tv libera e moderna com' era quella Rai».

Trasmettevate i concerti di Madonna, il Pavarotti & Friends, la serata per il Giubileo con Giovanni Paolo II e Bob Dylan. Oggi quella formula sarebbe riproponibile?

«Non credo, dipende da come si propone la televisione: se sei un broadcast con l' ambizione di essere partner di grandi eventi internazionali il mercato risponde. Non dimentichiamo il concerto di Frank Sinatra al Palatrussardi di Milano. E quello dei Pink Floyd che chiesero la collaborazione di Rai 1 per suonare a San Marco, trasmesso in mondovisione».

E ricordato per le conseguenze tremende sulla città di Venezia.

«Che non era preparata a gestire un evento di risonanza mondiale».

Eventi del genere oggi sono irripetibili?

«Allora la Rai era punto di riferimento delle tv pubbliche europee e c' era una disponibilità diversa degli sponsor. Ricordiamoci che parliamo di manifestazioni con grandi budget, che potemmo realizzare perché c' era un lavoro di squadra e anche la collaborazione con la Sacis (la concessionaria di pubblicità della Rai ndr)».

Ha commesso qualche errore o fatto scelte di cui si è pentito?

«Forse ero impreparato ad alcune conseguenze. Se dovessi rifare il concerto dei Pink Floyd mi porrei per primo il problema della sicurezza. Per quello di Madonna a Torino tutto filò liscio, anche grazie a un produttore come Davide Zard».

Che cosa guarda oggi in tv?

«M' inquietano i talk show politici, perché mi sembra che il pubblico non sia protetto e che, più che l' approfondimento vero, vi prevalga la propaganda. Se un politico fa un' affermazione, le redazioni non sono attrezzate per verificare in tempo reale se corrisponde al vero o no».

Ce n' è qualcuno che si salva?

«Apprezzo la scelta di Piazzapulita di ricorrere alle riflessioni di Stefano Massini anziché alle gag del solito comico. Lo trovo più in sintonia con il momento che viviamo».

Guarda anche la fiction?

«Purtroppo quella italiana non è a livello delle serie internazionali. Con l' eccezione di Montalbano, la nostra è una fiction provinciale».

Quali serie le sono piaciute ultimamente?

«Baghdad central, Homeland, La casa di carta».

Tra i comici chi le piace di più?

«Maurizio Crozza».

Ha conservato amicizie nel mondo della televisione?

«Ho conservato rapporti professionali. Mi manca Luciano Rispoli che mi fece da battistrada e con il quale avevo un rapporto di stima e amicizia».

·        Marina La Rosa.

Da tgcom24.mediaset.it il 2 dicembre 2021. Marina La Rosa risponde senza filtri alle domande dei follower, e non si tira indietro nemmeno davanti a quelle più provocanti. Tra tante richieste di consigli sulle relazioni di coppia e su come affrontare le proprie paure, c'è anche chi domanda: "Cosa ne pensi del tabù che ha sfatato Alessia Marcuzzi?", riferendosi alle stories in cui la conduttrice faceva vedere i suoi sex toys. La ex gieffina non si scompone, e senza farsi troppi problemi mostra la foto del suo giocattolo erotico. Più chiara di così...Il rifermento è alle Stories di Alessia Marcuzzi che qualche giorno fa aveva tirato fuori l'argomento mostrando i suoi sex toys ai follower, anche lei rispondendo alle domande degli ammiratori. Le immagini dei suoi giocattoli erotici avevano lasciato di stucco i fan e avevano sollevato un polverone mediatico. Ora anche la La Rosa segue la scia e svela il suo segreto. "Ma quale tabù? Tutti noi abbiamo dei sex toys a casa. E menomale!" risponde Marina al follower curioso, mostrando la foto del suo giocattolo. Famosa per dire le cose senza peli sulla lingua e per non essersi mai nascosta dietro a falsi pudori, anche stavolta non ha deluso le aspettative. Anche a chi le chiede: "La cosa più sexy che hai fatto durante il Grande Fratello?" lei risponde sorniona: "Non ho fatto nulla, eppure ho fatto tanto". La "gatta morta" colpisce ancora.

Da liberoquotidiano.it il 14 maggio 2021. Marina La Rosa cambia look. O meglio, si spoglia. L'ex concorrente del Grande Fratello, quello delle prime edizioni, ha deciso di mettersi a nudo su Instagram. Per inaugurare il cambiamento La Rosa pubblica uno scatto che la ritrae uscita dalla doccia senza nulla, coperta solo da un asciugamano. A spiegare le motivazioni dietro a questa scelta è lei stessa e sempre sui social: "Ecco io non voglio essere più l’intelligente, io voglio fare come quelle che hanno milioni di followers e vengono pagate per postare una foto o una storia. Voglio essere come quelle con la bocca gonfia tutte uguali, voglio essere fi.. (ah vero, io sono già una fi.. pazzesca)”. E ancora: "Un mio amico mi ha detto: smetti di postare queste foto inutili tue e del gatto, fai vedere le te** e cu** e vedrai come aumentano i followers. Io però le te*** ed il cu** non ce l’ho quindi faccio finta che esco dalla doccia… E quanto mi piacerebbe se ci chiamassero per una collaborazione di accappatoi o, ancora meglio, ceramiche per bagni", aggiunge ironica. Il suo post però riscuote subito successo ed ecco che le sue amiche vip commentano. "Ma infatti, facce vedè quanto sei bona", scrive a proposito Alessia Marcuzzi. Tempo addietro Marina aveva raccontato di una relazione violenta avuta all'età di 16 anni. Un racconto condiviso con il web in occasione della giornata contro la violenza sulle donne: "Ero molto giovane, avevo circa sedici anni quando mi innamorai perdutamente di F. Lui era più grande di me ed i suoi occhi erano così belli, così sinceri. Aveva delle mani forti e quando mi abbracciava riuscivo a sentire tutto il suo amore. Anche quando mi picchiava lo sentivo quell'amore". Poi la consapevolezza che qualcosa non andava: "A un certo punto ho capito che di 'normale', in quella storia, c'era ben poco. L'amore è amore. E se è tale non fa male", concludeva. Il tuo profilo Instagram è fantastico, foto carine e poi scrivi benissimo, davvero, scrivi proprio bene, si vede che sei una persona molto intelligente’. Ecco io non voglio essere più l’intelligente, io voglio fare come quelle che hanno milioni di followers e vengono pagate per postare una foto o una storia. Voglio essere come con la bocca gonfia tutte uguali, voglio essere figa (ah vero, io sono già una figa pazzesca). Un mio amico mi ha detto "smetti di postare stè foto inutili tue e del gatto fai vedere le tette e il culo e vedrai come aumentano i followers". Io però le tette ed il culo non ce l’ho quindi faccio finta che esco dalla doccia. Quanto mi piacerebbe se ci chiamassero per una collaborazione di accappatoi o, ancora meglio, ceramiche per cessi.

·        Marina Perzy.

Da Oggi - oggi.it il 12 maggio 2021. «A nove anni, mio padre mi portò via da mia madre, che non rividi più fino ai 18 anni, con una scusa, ricordo le lacrime nascoste di lei mentre mi preparava una piccola borsa. Andai a vivere con lui e la sua nuova compagna, era anche la sua segretaria». Marina Perzy, già protagonista di Domenica in e della Domenica Sportiva, attrice e conduttrice, svela per la prima volta, in esclusiva a OGGI, in edicola da domani, la sua infanzia difficile e la sua vita piena di incontri. Sta scrivendo la sua autobiografia «Molte donne in una sola vita» e a OGGI anticipa i capitoli in cui parla di amore e di amicizia. Rivela la storia inedita con Pino Daniele che ha sempre nel cuore: «Mi diceva: “Io ti voglio sposare”. Io rispondevo: “Sei già sposato”. Infatti era sposato e io non volevo che lasciasse la moglie perché aveva due figli adolescenti anche se lui era in crisi da tempo. Vivevamo di telefonate e tante risate». Raccolta il secco no a Julio Iglesias, che voleva trascorrere il compleanno con lei in Sardegna: «Ma per me era un “vecchio”, avevo solo 27 anni e un’anima rock. Così gli diedi il numero di telefono sbagliato». E poi la rivalità, a lungo “gonfiata” dalla stampa, con Loredana Bertè, ex del suo grande amore Mario Lavezzi, e di Stefano Casiraghi, suo fidanzato subito prima di Carolina Di Monaco, dice: «Era uno più grande della sua età e forse anche di me, protettivo, un gentleman di quelli in estinzione. Quanti regali ho rifiutato da lui…». La Perzy fu legata anche al portiere Walter Zenga: «Tutti a chiedermi di lui, ma la mia vita non è Zenga. Ci siamo amati molto, ma ho pagato a caro prezzo: non ho più lavorato fino al rientro alla Domenica Sportiva. All’epoca era malvista la coppia calciatore-donna di spettacolo».

Marina Perzy, ex di Walter Zenga: “Questa storia è un incubo, non ho rovinato nessuna famiglia”. Marco Della Corte il 21/05/2021 su Notizie.it. Marina Perzy, ex di Walter Zenga, ebbe una relazione con l'ex portiere dell'Inter. È stata ospite a Oggi è un altro giorno. Marina Perzy, ex di Walter Zenga, è stata ospite del programma Rai Oggi è un altro giorno, condotto da Serena Bortone. Marina ebbe una relazione con l’ex portiere dell’Inter (oggi allenatore) in passato. Nel corso della sua ospitata, Marina dichiarato che Walter la corteggiò per un anno. All’epoca Zenga era sposato con Elvira Carfagna. Questa storia sarebbe divenuta un vero e proprio incubo per la donna, dovendosi difendere da alcune accuse affermando di non aver rovinato nessuna famiglia. Sempre al riguardo, la showgirl ha ricordato lo scandalo causato da questa relazione, tanto da essere convocata da Ernesto Pellegrini, che all’epoca era dirigente dell’Inter.  A Oggi è un altro giorno, Marina Perzy ha spiegato: “E’ un incubo questa storia di Zenga. Io ho fatto scalpore perché le donne dello spettacolo con i calciatori non erano un’abbinata vista. Pensa se c’erano i social, sarei morta. Ho dei quintali di inchieste e interviste, ma non ho mai rovinato nessuna famiglia”. La showgirl ha aggiunto: “Io ho fatto un passo indietro e per sei anni non ha fatto programmi”.  Marina Perzy, sulle pagine di Novella 2000, ha ricordato i momenti principali della storia d’amore con Walter Zenga: “Voglio precisare che la nostra storia è partita da lui, non da me. Mi ha corteggiata all’incirca per un anno. Io sono stata conquistata dalla sua costanza e dal suo essere impulsivo. Ma ero ben cosciente che aveva una moglie, una famiglia. Il nostro è stato un amore travolgente e impossibile da gestire”. All’epoca, Zenga era sposato con Elvira Carfagna, dalla quale ha avuto il suo primo figlio, Jacopo. Marina Perzy è tornata a parlare della sua vecchia storia con l’ex portiere dell’Inter dopo le severe critiche da parte di Andrea, figlio di Walter Zenga e Roberta Termali, nel corso della sua permanenza nella casa del Grande Fratello Vip. All’epoca della loro storia, Walter Zenga era già portiere dell’Inter. Ricordando il loro rapporto amoroso, Marina Perzy ha speso alcune parole anche sulla squadra in cui militava Walter: “Per un momento pensai di fare causa all’Inter perché mi aveva rovinato la carriera”. Secondo quanto si legge da Novella 2000, Ernesto Pellegrini, all’epoca dei fatti, avrebbe fatto capire a Marina che se avesse voluto continuare a stare al fianco di Zenga, avrebbe dovuto dire addio alla sua carriera. 

·        Marisa Laurito.

FRANCESCA D'ANGELO per Libero Quotidiano il 27 dicembre 2021. Marisa Laurito, a 70 anni lei ha un'agenda più fitta di due ventenni messe insieme... «Eh, lo so: è un periodo un po' pieno. Pensi che ora sto anche girando una fiction: sarò la zia di Serena Rossi nella seconda stagione di Mina Settembre». Pure. 

Della serie: la pensione, questa sconosciuta? «Ma quale pensione! Giovedì sarò su Rai Uno con il film Ifratelli De Filippo e poi, sempre su Rai Uno, il 1 gennaio condurrò la seconda puntata di Serata d'onore per celebrare i 100 anni dalla nascita del Maestro Sergio Bruni. A gennaio sarà in poi tournée con Così parlò Bellavista».

Come lei molte altre star over 70 stanno vivendo una seconda giovinezza artistica: prenda Orietta Berti. Piace da matti, soprattutto ai giovani. Come ci riuscite? «Beh, lei è sempre stata eccezionale. Io forse piaccio perché sono una figura trasversale: ho sempre unito tradizione e modernità. In generale, comunque, credo che funzioniamo perché i giovani hanno bisogno di luci». 

Ma voi non eravate quelli che toglievano posti di lavoro alle nuove generazioni?

«Non togliamo niente a nessuno. Le sembra che potrei interpretare il ruolo di una ventenne in un film? Poi, certo, da due anni dirigo il teatro Trianon Viviani di Napoli ma è una mansione che richiede esperienza: non potrebbe essere ricoperta da un ragazzo. Le dirò di più: come direttrice ho previsto una fascia importante solo per i giovani attori perché devono avere un posto dove potersi esibire. Venderò meno biglietti? Non me ne frega, la mia battaglia è dare loro visibilità». 

A proposito, lei ha preso le redini del teatro in piena pandemia: è stata tosta?

«Devo dire che abbiamo lavorato sempre: nonostante le chiusure abbiamo portato in scena tre grossi spettacoli, sette concerti, le due puntate di Serata d'onore (la location dello show è il Trianon, ndr). E poi i ristori ci sono stati. Non mi sento di essere polemica nei riguardi della politica». 

Promuoviamo quindi De Luca?

«La Regione Campania, nella persona di De Luca, ci tiene moltissimo alla cultura: mi hanno supportata e si sono battuti, come me, affinché le maestranze lavorassero». Sui no vax... «La fermo: direi che sono stata insultata abbastanza! Dopo l'intervista rilasciata a Selvaggia Lucarelli dove dicevo che, non essendo io una tuttologa, mi affidavo alla scienza che suggeriva di vaccinarci, sul web mi hanno detto che sono una persona tossica. Tossica, si rende conto? I no vax sono assatanati...». 

Li ha denunciati?

«No, ma che mi importa? Ho molto cose da fare che star qui a perdere tempo con loro». 

Giovedì la vedremo nel film Ifratelli De Filippo. Lei però con De Filippo ci ha lavorato per davvero: che ricordi conserva?

«Quando entrava lui, non volava una mosca: non fiatavamo, avevamo quasi paura a respirare. Lo chiamavo direttore e gli davamo del voi». 

Addirittura.

«Era una questione di disciplina. Si poteva parlare con Eduardo al massimo quando si andava a cena (e lì era uno spasso). Il teatro era invece un luogo sacrale, a cui peraltro De Filippo aveva votato tutto se stesso.

Non mi dimenticherò mai quando, nel suo testamento, scrisse: "Ho vissuto nel gelo". Sosteneva che non avrebbe mai potuto avere figli perché sarebbero cresciuti da soli. Chi fa teatro, recita o lavora come impresario è destinato a stare da solo». 

Oggi c'è ancora tutta questa disciplina e sacralità?

«Si è perso molto di quel rigore. Inoltre non ci sono molti maestri in grado di aiutare i giovani e quindi si impara meno. Ormai è tutto così poco... "potente"». 

Lei ha vissuto gli anni della liberalizzazione sessuale. Cosa è rimasto di quelle battaglie?

«Purtroppo temo che siamo tornati indietro. Noi all'epoca volevamo la parità ma questa non vuol dire diventare come gli uomini. Per esempio la libertà sessuale non passa nel poter dire a un uomo "stasera scopiamo?". Non mi pare libertà: somiglia più all'arroganza che i maschi avevano, e forse hanno ancora, nei confronti delle donne...».

Molte donne rivendicano il diritto di avere figli anche in età avanzata: è un'opzione che ha mai contemplato?

«Guardi, io sono un caso a parte, perché non ho nemmeno mai pensato di fare figli: credo che i bambini abbiano bisogno di due persone, di un maschile e di un femminile, che si occupino di loro. Sono forse un po' all'antica... Naturalmente un caso a parte sono gli orfani: piuttosto che l'orfanotrofio meglio l'adozione, anche da parte dei single». 

Aprirebbe alle adozioni gay?

«Non sono contraria ma sostengo l'idea che le adozioni debbano essere fatte e misurate con molta attenzione. Stiamo infatti pur sempre parlando di vite che devono sbocciare: il diritto da tutelare è prima di tutto il loro. Anzi, guardi: fosse per me, farei sostenere un esame a tutte le coppie che desiderano diventare genitori. Non si può procreare solo perché lo decidi una mattina, quando ti svegli. Devi poter garantire ai bimbi il diritto di essere amati, compresi, mantenuti ed educati». 

Sbaglio o anche il matrimonio non la entusiasma?

«Non ho avuto belle esperienze, nemmeno in famiglia... Amerei il matrimonio se non pensassi che porta con sé un'abitudine così triste da rovinare la relazione». 

Ho letto che lei pratica spesso l'esperienza della regressione nelle vite passate. Non è un'analisi molto scientifica...

«Quando si parla di cose occulte c'è sempre ben poco di scientifico. In ogni caso a me ha fatto bene: ho capito una serie di cose che altrimenti non avrei mai compreso, quindi ne è valsa la pena. Diciamo che è una sorta di analisi profonda che si può praticare con l'ipnosi oppure, come nel mio caso, senza». 

Crede quindi nella reincarnazione?

«Nessuno ha certezze su quello che ci attende dopo questa vita, ma sono sempre stata un'inguaribile ottimista o, come dico io, un animo "sperante": mi piacerebbe molto se esistesse la reincarnazione». 

Ha paura della morte?

«Per niente proprio! Sono pronta a morire, anche domani. Da giovane ho perso molte persone care, quindi sono già scesa a patti con l'idea che la gente, e io stessa, prima o poi muore. Credo che esistano altre vite e che, se la nascita è un evento brutale, per par condicio la morte non lo sarà: periremo quando saremo molto stanchi e dunque molleremo gli ormeggi con facilità».

È a favore dell'eutanasia?

«Assolutamente sì. La vita appartiene a ognuno di noi: perché non possiamo avere il diritto alla non sofferenza, se le condizioni di salute sono disperate?». 

Mi tolga una curiosità: in questi 70 anni quanti reality le hanno offerto?

«Tutti: Isole, Case, giurie... ma ho sempre rifiutato. Se un giorno mi vedrete lì vorrà dire che sto morendo di fame: potrei partecipare giusto per soldi! (ride, ndr)».

Da liberoquotidiano.it il 4 luglio 2021. Marisa Laurito non smette di stupire. Ospite di Roberta Capua su Rai1, a La Vita in Diretta Estate, non ha nascosto i progetti sul futuro. Partendo ovviamente dal passato: "Con gli svenimenti è iniziata la mia carriera". Il primo - è stato il suo racconto - è stato davanti a un produttore per un film in inglese: "Io non conoscevo l’inglese, neanche una parola, per cui andai a parlare con questo produttore che mi chiese se parlavo inglese, io risposi “of course” poi svenni immediatamente, dissi l’unica parola che sapevo. Poi comunque la parte me l’hanno data ed ho girato con Bud Spencer". Una lunghissima carriera su cui la Laurito non ha alcun rimpianto, ammettendo di piacersi: "Mi sono placata, sai l’andare avanti negli anni è una cosa molto piacevole al contrario di quello che la gente possa immaginare e che sento dire, tutti si lamentano, parlano del passato. Io invece non parlo quasi mai del passato. Stiamo elaborando la nostra vita, in questo momento sto facendo questa passeggiata con te ma fra pochi minuti sarà passata, a me piace guardare al futuro". Il consiglio riguardo la "progettualità" è arrivato direttamente dai medici, perché "ti fa mantenere giovane, fino a che progettiamo e fino a che il nostro cuore è in grado di abbracciare e il cervello di pensare, siamo giovani". Per questo la Laurito non ha alcuna intenzione di fermarsi e tra le tante idee ce n'è una alquanto bizzarra: "Io progetto per i miei 100 anni, un copione meraviglioso che voglio fare in teatro e poi cambierà mestiere e farò la p***ostar. Sarò l’unica e per quello l’ho pensato, tu capisci che sicuramente avrò un futuro… gioco", ha concluso sorprendendo con una risata anche la conduttrice.

Emilia Costantini per “Sette - Corriere della Sera" l'11 giugno 2021. «Quando ero molto giovane, accadde una cosa che ha cambiato il mio modo di vedere le cose. Avevo perso mia madre da poco, la adoravo, ero disperata e raccontavo in lacrime i miei affanni al mio caro amico Elvio Porta che era venuto a trovarmi. A un certo punto lui mi poggia affettuosamente la sua mano sulla spalla e all’improvviso sentii la mia anima volare in alto, mentre il mio corpo restava accasciato sulla sedia. Da lassù vedevo tutto da un altro punto di vista: la perdita di mia madre non mi provocava più dolore, sentivo la certezza che ci legava un filo sottile di amore e di gioia. Posso apparire una matta, ma e la verità di ciò che mi e accaduto: un’esperienza extracorporea, che ho poi provato con il rivivere delle vite precedenti». Inizia da questo ricordo la «vita scapricciata» che Marisa Laurito racconta nel suo libro Una vita scapricciata, Rizzoli.

A quali vite precedenti si riferisce?

«Negli anni 80-90 ho fatto esercizi di “regressioni” con una esperta della materia. La prima volta mi sono rivista in una donna del ‘700: era sposata, aveva due figli con un uomo ricco che non amava e che tradiva. Il marito, per punizione, le toglie i bambini e lei, disperata, scappa di casa per andarli a cercare, ma non li troverà mai. La seconda volta, ho rivissuto nei panni di un monaco buddista di Bali: non ero mai stata in quell’isola, ma quando poi vi andai in vacanza, era come se la conoscessi nei minimi dettagli e, da allora, mi sono avvicinata al Buddismo. La terza incarnazione l’ho avuta in una donna dell’800: era stata chiamata come unico testimone in un processo dove doveva salvare un uomo innocente. Purtroppo, di fronte al pubblico ministero, questa donna si emoziona, non riesce a parlare e il pover’uomo viene condannato. La stessa emozione, nella realtà, mi assaliva i primi anni della mia carriera, quando si apriva il sipario la sera della prima. Ma, grazie a quella regressione, ho superato il problema».

Non si emoziona più davanti al pubblico e, in occasione dei suoi 70 anni appena compiuti, pubblica la sua prima autobiografia. Una coincidenza o una scelta editoriale?

«Un puro miracolo! La mia vita e piena di miracoli. Ma io non sono una settantenne. Non sento il peso dell’età, provo piacere nel tempo che passa: ho l’energia di una ventenne e ho in pro- gramma ottomila progetti. La mia vita, finora, me la sono guadagnata». 

A cominciare da quando si travestiva con ciò che trovava nel baule in soffitta...

«Eccome no? Avrò avuto 7-8 anni... la dentro c’era ogni ben di Dio: vestiti, cappelli, scarpe, pellicce... Mi infilavo qualunque cosa e cantavo, ballavo davanti allo specchio. Una volta mi venne spontaneo di sciogliermi le trecce e appuntare le lunghe ciocche di capelli sulla nuca, come li porto tuttora. Mi vedevo bella e corsi da mia madre pavoneggiandomi. Lei fu categorica: “Togliti subito quella pettinatura da cocotte”. Non sapevo chi fossero le cocotte, pero avevo deciso: avrei fatto l’attrice». 

Un lungo percorso che inizia con tanti provini?

«Croce e delizia per ogni attore, anzi, croce e basta. Ne ho fatti una marea pero ho sempre mirato in alto e a volte mi e andata bene, per esempio con Eduardo De Filippo che mi prese nella sua compagnia». 

La volta che e andata male?

«Per il cinema ero fissata con Federico Fellini: volevo a tutti i costi recitare in un suo film, ma non sapevo come incontrarlo. Il suo quartier generale era a Cinecittà, cosi cominciai a spiare i suoi spostamenti. Il grande regista usciva dagli uffici di produzione tutti i giorni alle 13,30, per farsi accompagnare in macchina a pranzo. Quel giorno preparo la scena: vedo affacciarsi la sua auto, che rallenta per inserirsi nel traffico, e io mi butto sotto, fingo uno svenimento. Lui scende preoccupato e urla “Signorina! Signorina!”. Apro gli occhi, tiro fuori le mie foto e il curriculum, poi gli chiedo: sono brava come attrice drammatica?». 

E la reazione di Fellini?

«Scoppio a ridere e mi invito al suo studio. Ero convinta che mi avrebbe scritturato, ma non successe niente». 

E ricomincia la gavetta.

«Quante tournee: si recitava con la febbre, le indigestioni, le diarree... Avevamo pochi soldi a disposizione e gli hotel che potevamo permetterci erano di infima categoria. Per non parlare dei teatrini che ci capitavano! Una volta, d’e state in Calabria, facemmo la recita più veloce mai realizzata: un caldo disumano e il palcoscenico invaso da moscerini svolazzanti. Per non ingoiarli, dicevamo le battute di corsa, a denti stretti. A Castelvolturno mi propongono di sostituire Rosa Fumetto, grande vedette, nello spettacolo Caffe Chantant. Una bella occasione pero, appena entro in scena, vengo bombardata da pomodori, sedani, lattine... e non avevo nemmeno aperto bocca! Il pubblico voleva vedere lei e non me. Mi nascosi dietro il sipario e, quando capii che avevano finito le munizioni, mi riaffacciai dicendo: per favore mi fate recitare e, se non vi piaccio, continuate a buttarmi ciò che volete? La platea si sciolse in una grande risata e arrivarono gli applausi». 

La svolta arriva con Quelli della notte.

«A quel tempo ero già stata scritturata da Ninni Pingitore nel mitico Bagaglino, il tempio del cabaret romano. Ma il mio caro amico Luciano De Crescenzo, una sera mi presento Renzo Arbore. Cominciammo a frequentarci e Renzo mi propose di partecipare al suo gruppo di sciamannati, dicendomi: “Ho un personaggio per te, che potrebbe piacerti”. Dovevo impersonare sua cugina, che gli prestava la casa per fare la tv: una donna tradizionalista, ingenua, che aveva un fidanzato, Scrapizza, che la tradiva con altre donne e a volte la prendeva pure a mazzate... ma lei lo perdonava sempre. Lo stereotipo della femmina italiota». 

E lei accetto subito la proposta?

«Fu un salto nel vuoto, avevo una carriera avviata. Ascoltai il cuore e lo gettai oltre l’ostacolo: mi lanciai in quella meravigliosa avventura. La mia seconda carriera nasceva in televisione: devo tutto ad Arbore, mi ha insegnato a volare nel mondo dell’improvvisazione. Eravamo un gruppo affiatatissimo: Pazzaglia, Ferrini, Frassica, Luotto, Bracardi... cazzeggiavamo da mattina a sera e ci divertivamo a stupire il compagno di scena con improvvisazioni non previste dal copione. E, dopo lo spettacolo, andavamo a mangiare insieme, a bere in qualche locale, a cantare fino a notte inoltrata. Il successo della trasmissione fu esagerato». 

Tanto che vi chiamo persino l’avvocato Agnelli...

«Ci invito nella villa di Stupinigi per uno spettacolo di beneficenza. A Torino fummo accolti come i Beatles, la gente applaudiva al nostro passaggio. Il giorno dopo la serata, fummo invitati a pranzo dall’Avvocato! Renzo ci raccomando di non fare brutta figura, era preoccupato dalla mia mise: mi vestivo in maniera eccentrica e rimasi affascinata dalla mise con cui ci accolse Marella Agnelli, col suo golfino di cachemire. Elegantissimo pure l’Avvocato e rimasi ancor più stupita davanti alla tavola imbandita con 180 bicchieri, 700 posate, tovaglioli merlettati per un pranzo molto chic, dove si mangiava pochissimo». 

Spettacoli, tournee, viaggi all’estero, poi il matrimonio con l’ex calciatore Franco Cordova.

«E stato il mio unico matrimonio, da dimenticare. Era un brav’uomo, pero voleva fare di me una casalinga. Persino Luciano e Renzo erano dubbiosi su questa unione e, quando chiesi loro di farmi da testimoni, rifiutarono». 

Per la mancanza di matrimoni felici, ha deciso di non avere figli?

«Non li ho mai voluti per un senso di responsabilità nei confronti della vita degli altri. Quando ero giovane non avevo possibilità di mantenerli. Poi sono diventata famosa e non avevo un uomo che mi desse sicurezza affettiva: un figlio ha bisogno di dedizione, non ti ha chiesto di nascere. Comunque non ne sento la mancanza: ho spostato i miei interessi affettivi sugli amici e...». 

E, da alcuni anni, sull’imprenditore bresciano Piero Pedrini, suo attuale compagno.

«L’ho incontrato in ritardo e per caso, un altro miracolo. In quel periodo ero sola e di cattivo umore, ma anche quella volta Renzo e Luciano furono provvidenziali. Mi costrinsero ad andare a cena con loro e poi mi trascinarono in un locale a bere qualcosa. E li incontro Piero, anche lui portato a forza da un amico. Eravamo seduti vicini: il suo amico attacco discorso con Renzo, invece Piero si rivolse a me esordendo con una clamorosa gaffe. Stringendomi la mano, esclamo: “Ora non mi lavo più questa mano per una settimana! Lo sa che mio padre era un suo fan?”. Suo padre?». 

L’ha perdonato?

«Con quella gaffe, mi si era presentato l’uomo della mia vita».

Anticipazione da “Nove - la Confessione” il 13 maggio 2021. Torna l'appuntamento sul Nove con le interviste senza filtri di Peter Gomez a “LA CONFESSIONE”: venerdì 14 maggio alle 22:45, subito dopo il live di Fratelli di Crozza, il direttore de Ilfattoquotidiano.it accoglie in studio l’attrice Marisa Laurito. "Per togliere l'erre moscia ho provato persino a comprare un vibratore", così Laurito ricorda un aneddoto legato alla sua carriera di attrice in teatro, cosa che le richiedeva di modificare l'erre moscia. "Lei sentiva di avere questo problema per cui ha cercato anche di correggerlo comprando perfino un vibratore", ha detto Gomez. "Non l'ho comprato perché piaceva a me, ma perché sono andata da una logopedista che aveva un apparecchio che costava quattro milioni. Naturalmente io all'epoca non avevo i soldi per comprarmi questa macchina - ha spiegato la protagonista di Quelli della notte - La erre moscia viene dal fatto che la punta della mia lingua è pigra, non vibra. Questa macchina aveva una linguetta che doveva muovere questa puntina. Non avevo questi soldi e dissi: 'Come faccio?'. Lei mi rispose: 'Compri un vibratore... lo mette sotto la punta della lingua due ore al giorno'. Io entravo nelle farmacie - perché all'epoca non c'erano i sexy shop - e dicevo: 'Senta, per favore, mi deve dare un'aspirina, per prenderla larga, un alcol e un... vibratore", ha concluso ridendo l'attrice. 

Dagospia il 3 magio 2021. Estratto da “Una vita scapricciata" (ed. Rizzoli) , l’autobiografia di Marisa Laurito. Il giorno dopo la festa a casa Agnelli pioveva a dirotto. Eravamo andati a dormire alle cinque del mattino ridendo come pazzi ed ero ancora tra le braccia di Morfeo quando squillò il telefono. "Marisa, ha chiamato l' Avvocato e ci ha invitato a colazione". "Quale avvocato? Che abbiamo fatto?". "Mari', colazione a casa di Gianni Agnelli. Hai qualcosa di adeguato da metterti?". "Ho una gonna bluette e una camicia di seta fucsia". "Sei pazza? Sta piovendo!". (…) Gli invitati a questa colazione erano il produttore storico di Renzo, Ugo Porcelli, Luciano De Crescenzo, io e ovviamente Renzo, che ci istruì. "Mi raccomando, non ci facciamo riconoscere. Voi guardatemi sempre e, quando alzo gli occhi al cielo, vuol dire che state facendo qualcosa che non dovreste fare". Dal momento che Ugo era sempre inappuntabile, il discorsetto era rivolto a Luciano e me. (…) Giunti alla villa pioveva a dirotto; dal taxi alla porta di casa mi ritrovai zuppa, la povera camicetta mi si era incollata addosso. Ci accolse Marella Agnelli, perfetta nel suo maglioncino beige di cachemire leggero, calze e scarpe chiuse di pitone in tinta. Da lì cominciai a scusarmi. Renzo alzò subito le sopracciglia. Marella ci aveva fatto accomodare in un salotto bianco, stupendo; io mi guardavo intorno incantata, quando all' improvviso si sentì arrivare dal giardino l' Avvocato. Istintivamente, noi quattro ci sistemammo in posa per sembrare un po' più classicamente nobili. Gianni Agnelli ci apparve: elegantissimo, seguito da tre cani husky dai "capelli" argentati e occhi azzurri uguali ai suoi. Le bestiole si lanciarono sui divani bianchi e affettuosamente su Arbore, passeggiando sulla moquette assieme all' Avvocato, senza sporcare niente. Tutti asciutti dal muso alle zampe. Non riuscii a trattenermi: "Un miracolo!". Renzo alzò le sopracciglia portando gli occhi all' insù. "Renzo, non ho detto niente di strano". (…) Durante l' aperitivo in salotto ero seduta accanto a Marella e di fronte a noi si era posizionato un cameriere che, di tanto in tanto, abbassava la testa e sorrideva. Io, essendo di sinistra, gli rispondevo facendo altrettanto, come a dire: "Sono solidale, io e te siamo complici". Il cameriere però era un po' troppo alleato, continuava ad abbassare la testa e a sorridermi. (…) Poi abbassò di nuovo la testa incontrando stavolta lo sguardo di Marella, che subito si rivolse a me: "Possiamo andare, il pranzo è pronto". Tutti quei sorrisi erano cenni per dire che si poteva andare a tavola Che figuraccia! Mentre stavamo per andare in camera da pranzo, un altro cameriere si avvicinò all' orecchio di Luciano sussurrandogli: "Ingegnere, vuole che il taxi la attenda per tutta la durata del déjeuner?". Luciano, saltando sulla sedia esclamò: "Ma che, site asciuto pazz'?", e si precipitò a pagare il taxi. Ormai, a furia di guardare in su, gli occhi di Renzo sembravano quelli della bambina dell' Esorcista. A tavola venni fatta sedere alla destra dell' Avvocato. E indovinate cosa servirono per antipasto e soprattutto chi servirono per prima? Me! Il cameriere mi depositò una deliziosa tazzina da caffè; guardai interrogativamente Arbore, che a sua volta mi gelò con lo sguardo. Certo, se mi fossi sentita libera, avrei detto cose tipo: "Il pranzo è finito? Siamo al caffè?". Ma tacqui. "E mo', che faccio con questa tazzina?" Mentre cercavo di capire cosa contenesse, l' avvocato Agnelli lentamente allungò il braccio, la prese per il manico e ne bevve un sorso. Lo imitammo tutti. Lui la ripoggiava sulla tavola e noi facevamo lo stesso. Era brodo ristretto. All' ultimo sorso, l' Avvocato fece due colpi di tosse: manco a dirlo, noi lo imitammo in coro, anzi, per eccesso di zelo, noi li facemmo molto più sonori e il cameriere andò a chiudere tutte le finestre. La tavola era apparecchiata con 180 bicchieri e 745 posate diverse. Seppi più tardi che il brodo in questione era di tartaruga. Non resistetti e chiesi: "Ne potrei avere un altro?". Arbore guardò il soffitto e io cercai di giustificarmi: "No, perché era veramente poco ". Renzo roteò gli occhi ancora più indietro e temetti che gli prendessero le convulsioni. Imparai, durante quel pranzo, che a casa Agnelli si mangiava pochissimo: erano magri, ma saziarsi era impossibile. Il secondo piatto fu una porzione di carne grande quanto una fetta biscottata, servita con una salsa. "Questa è facile". Mi servirono per prima: misi la carne nel piatto sbattendoci sopra un cucchiaio di salsa e lasciando le due fogliette di insalata intorno. Ma quando fu il turno della padrona di casa, vidi che Marella poggiava delicatamente un cucchiaio di salsa sul piatto per poi metterci la carne sopra. Per non essere da meno, con un veloce gesto della forchetta e del coltello ribaltai la fetta di carne. Credevo che non mi avesse visto nessuno ma, manco a dirlo, Renzo mi stava guardando malissimo, anche perché uno schizzo della salsa gli sporcò il polsino della camicia e stette tutto il tempo del pranzo a cercare di allungare la manica della giacca per coprire il mio misfatto. (…)

Da Oggi - oggi.it il 21 aprile 2021. «Eravamo a Montecatini per Serata d’onore. Diciamo che Alain Delon non mi piaceva molto perché è un personaggio, come dire, maschilista… era bellissimo sì, ma irritante che pensasse di avere tutte le donne ai suoi piedi. Noi dovevamo fare una scena in cui lui mi trascinava dietro le quinte e quindi si immaginava che mi facesse cose turche. Dopodiché io dovevo uscire scompigliata. Solo che lui veramente toccò e io gli detti pure uno strattone». Lo rivela al settimanale OGGI, in edicola da domani, Marisa Laurito. Che parla anche di altri conquistatori come Antonio Banderas: «Ha capito che non c’era trippa per gatti. Credo, però, che abbia avuto storie con tutte le donne che c’erano sul set». L’attrice e conduttrice, che ha appena compiuto 70 anni, parla anche del suo grande amore per Piero Pedrini e del rimpianto di non aver avuto figli: «Questa domanda me la sono fatta spessissimo, ma sono convinta che i figli abbiano bisogno del femminile e del maschile. Poi, arrivata a 50 anni ho pensato: “È arrivato il giro di boa, non potrai più averli”. Credevo che questa chiarezza sarebbe stata gravosa, invece non lo è stata per niente».

Da blogsicilia.it il 21 aprile 2021. Marisa Laurito, ospite di Verissimo, il programma condotto su Canale 5 da Silvia Toffanin, ha raccontato un’esperienza "extrasensoriale". L’attrice, 70 anni, «io come ho detto spesso, credo molto nel destino che è fatto con le nostre mani ma ci sono anche delle cose che ci accadono che ci portano su queste strade…». E poi la rivelazione: «Una volta – continua l’attrice – mi è capitato, in uno dei momenti più drammatici della mia vita e non so come sia successo, che sono volata via dal mio corpo, Dall’alto vedevo seduto sulla sedia il mio corpo e ho capito che era solo un involucro». «Ero felice come non lo sono stata mai – ha continuato l’attrice – Dall’alto ho capito molte cose e quindi quando ho dei momenti drammatici penso, "vediamo dall’alto com’è questa cosa"… Quanto mi è accaduto ho iniziato a interessarmi alle regressioni, alle energie, al futuro dopo la morte. Ho fatto anche delle regressioni con una signora di Milano molto brava, Manuela Pompas, e con lei o ripercorso una vita, e mi ha messo in pace con dei ‘nodi’. Avevo voglia di avere dei figli però penso che bisogni farli con la persona giusta, che abbiano bisogno di un maschile e di un femminile e di molta attenzione e molto tempo. La regressione mi ha fatto capire che in una vita passata mi è successo qualcosa che mi ha dato questo senso di responsabilità nei confronti dei figli».

Katia Ippaso per "il Messaggero" il 19 aprile 2021. «Mia madre mi ha sempre raccontato che il 19 aprile 1951 a mezzanotte, mentre io venivo al mondo, nella casa a fianco alla nostra, don Gennaro, appassionato di lirica, stava cantando: Vincerò... vincerò..., la celeberrima romanza tratta dalla Turandot di Giacomo Puccini. Quella romanza è diventata il mio segno musicale e, sicuramente, ha lasciato una traccia su di me». Nel giorno del suo 70esimo compleanno, Marisa Laurito sfoglia con noi le pagine del libro che ha appena dato alle stampe, Una vita scapricciata (Rizzoli): un carosello di figure magiche, di aiutanti (e pure qualche oppositore) che hanno contribuito a rendere stupefacente ogni rito di passaggio, ogni capitolo della sua esistenza, che ha conosciuto il bisogno e la lotta, ma mai la resa: «Tento di fare onore alla vita da quando mi sveglio al mattino a quando mi addormento la sera». Perché dietro questa donna che ama i colori accesi (molto divertente il racconto che dedica a un pranzo con Renzo Arbore a casa degli Agnelli, quando la giovane Laurito si presentò nel tempio dell' austera eleganza avvolta in una vistosa camicetta di seta fucsia, arrivando poi a scambiare un brodo di tartaruga per una tazzina di caffè), dietro l' attrice eduardiana, la compagna di rivoltosi giochi televisivi inventati da Renzo Arbore, l' amica di Luciano De Crescenzo e Marina Confalone, l' attuale direttrice del Teatro Trianon di Napoli («Voglio farne un tempio della commedia musicale»), c' è una figura più nascosta, riservata.  L' attrice parla molto poco della sua ventennale storia d' amore con l' imprenditore Piero Pedrini (nel libro però gli dedica un capitolo), così come poco conosciuta è la sua passione per l' occulto e i simboli esoterici: «Dalla caverna di Platone di Lorenzo Ostuni passava anche Federico Fellini, che amava utilizzare i sistemi simbolici creati da Lorenzo, come le 99 Chimere o le 77 Sfingi, per interpretare i sogni. Lorenzino, come lo chiamava lui, era il suo oniromante». Il 19 aprile è una data doppiamente importante per Marisa Laurito, perché non solo segna il momento della sua nascita a Napoli, ma perché il 19 aprile del 1972, a 21 anni, conobbe Eduardo De Filippo («Lo avevo seguito, cercato, spiato, importunato, assediato»), finendo con l' essere immediatamente scritturata nella sua compagnia: «Quel giorno, scendendo le scale del teatro, scoppiai a piangere per la felicità e non riuscii a smettere più; incrociai Luca De Filippo e Angelica Ippolito che andavano verso i camerini e sicuramente pensarono che Eduardo mi avesse scartata». Sono passati quasi 50 anni da quella soglia artistica, che determinò, tra l' altro, il trasferimento dell' attrice da Napoli a Roma e l' inizio di una vita scapricciata, che trova oggi una diversa misura: «È bellissima questa cifra tonda: 70 anni. Per me il tempo che passa è una cosa meravigliosa. La maturità mi ha dato una pacatezza che prima non avevo, non bado più alle sciocchezze». Di rimpianti veri e propri, Marisa non ne ha («forse solo di aver rifiutato di fare la seconda volta Domenica In, dopo il successo della trasmissione con la mia conduzione nell' 89»). Mentre la sua più grande paura è «la morte delle persone care, che forse però non muoiono veramente: Luciano De Crescenzo diceva di essere sperante della religione, ecco io mi definisco sperante nella reincarnazione».

Vittorio Sabadin per "la Stampa" il 14 aprile 2021. Marisa Laurito è indubbiamente la donna più simpatica d'Italia. È anche buona e generosa, nessuno ne parla mai male, per strada la gente la ferma, vuole il selfie, le chiede l'autografo. Ha finalmente scritto un'autobiografia, Una vita scapricciata, edita da Rizzoli, nelle librerie da ieri. Scapricciare è un verbo che esiste davvero, vuol dire togliersi i capricci. «Ma il libro - dice - è stata anche una seduta di psicanalisi, un modo per rivedere tutta la mia vita. È stato divertente». Nella prefazione, precisa di avere già avuto alcune vite in passato, ma che questa di Napoli è quella che preferisce. «Napoli fa credere in Dio, è l'ultimo baluardo della civiltà, come diceva De Crescenzo, ti dà uno spaesamento sensoriale, come scriveva Sartre. Abbiamo imparato a godere delle piccole cose immediate, perché la nostra Montagna Sacra, il Vesuvio, potrebbe esplodere di nuovo da un momento all'altro. E amiamo il mare perché è da lì che fuggiremo, quando accadrà». Il libro è pieno di storie straordinarie e di aneddoti divertenti su una carriera cominciata negli Anni 70, con un provino davanti al grande Eduardo De Filippo. «Era il giorno del mio ventunesimo compleanno, ero terrorizzata. Alla fine mi disse di seguirlo nel suo studio. Pensai: che gentile, non vuole dirmi che è andata male davanti a tutti. Invece prese il copione e cominciò a togliere le parole con troppe "erre", perché già allora l'avevo moscia. Mi chiedeva consigli: qui c'è serramenta, cambiamo con maniglia? Aveva la camicia rosa e il volto dello stesso colore: il cerone era penetrato nei pori della pelle, e non se ne andava più». Molti capoversi sono dedicati all'invito a cena ricevuto a Torino da Gianni Agnelli, all'improvviso, dopo uno spettacolo. L'invitato principale era Renzo Arbore, e una limousine della Fiat venne a prenderlo. Marisa Laurito e Luciano De Crescenzo, in taxi, cercavano di non perdere di vista quell'auto che, sotto la pioggia, si inoltrava per la collina velocissima, forse alla guida c'era un pilota della Ferrari. L'Avvocato entrò nel salone circondato da quattro husky tutti bagnati che si accomodarono sui divani. Arbore era preoccupatissimo che i suoi amici sbagliassero qualcosa: «Non facciamoci riconoscere», aveva raccomandato. A metà cena, parca come sempre in casa Agnelli, un cameriere si era avvicinato a De Crescenzo: «L'autista del taxi chiede se deve attendere la fine del déjeuner». Incurante del galateo, il grande e rimpianto filosofo, il migliore amico della Laurito, fece un salto sulla sedia, si alzò di scatto e corse fuori, senza neppure prendere l'ombrello, a pagare la già esorbitante tariffa che segnava il tassametro, congedando l'autista. Attrice di cinema e teatro, cantante e soubrette, come si dice di chi sa fare bene tante cose, Marisa ha subito nella sua carriera decine di molestie sessuali. Cosa pensa delle attrici che se ne ricordano vent' anni dopo? «Una volta sono stata portata come regalo di compleanno a un direttore di produzione, che voleva fare sesso lì, nel suo studio. Presi a borsettate tutti, compresa la segretaria che era intervenuta. Sono cose che sono accadute sempre, che accadono ancora. Cose indegne. Ma ricordarsene vent' anni dopo non va bene. Bisogna trovare il coraggio di reagire subito, anche se non tutte le donne riescono purtroppo a farlo. Nel mondo dello spettacolo non c'è però solo questo: c'è anche il mobbing che colpisce i più deboli e di cui ci si occupa troppo poco». Qual è il bilancio di una vita scapricciata? «Sono certa che ne vivrò un'altra, ma voglio che sia di nuovo a Napoli. Lo scapriccio è una filosofia di vita, che consiste nel fare, anzi, meglio dire nel tentare sempre di fare, quello che ti piace. E' il modo migliore di essere in pace con se stessi, e di continuare a restare giovani».

·        Martina Cicogna.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 15 ottobre 2021. La vita da jet set con Onassis, Jake Kennedy e i Rolling Stones, l'Oscar vinto per il film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, gli amori con Florinda Bolkan e l'attuale compagna-figlia adottiva Benedetta, l'amicizia con Gianni Agnelli, la famiglia aristocratica, i ricordi, il presente. E una rivelazione: «Da un anno e mezzo ho un tumore». Alla Festa di Roma, oggi Marina Cicogna si metterà a nudo nel documentario Marina Cicogna - La vita e tutto il resto diretto da Andrea Bettinetti. A 87 anni (insospettabili), la prima produttrice italiana, icona di stile, donna libera e anticonformista, ripercorre la sua storia tra agi e dolori (la rovina finanziaria della madre, il suicidio del fratello Bino) attraverso foto, filmati, testimonianze. Un'autobiografia ma anche una cavalcata nell'Italia del bel mondo e del grande cinema che non c'è più. Ma Marina guarda avanti. Senza pentimenti, giura.

Nemmeno un rimpianto?

«Mi dispiace soltanto di aver mollato il cinema troppo presto, quando gli americani rifiutarono di fare film come Il Conformista, Ultimo tango a Parigi, Portiere di notte. Preferivano le commedie di Alberto Sordi e Nino Manfredi. Ma io non avrei dovuto scoraggiarmi». 

A che punto è la sua malattia?

«La tengo sotto controllo con una chemio leggera che mi ha reso un po' più debole e bisognosa di sonno. Il tumore mi ha cambiato la vita, insegnandomi il distacco dai riti sociali. Oggi sto più in casa, leggo tanto».

Come definirebbe la sua vita?

«La testimonianza di un'epoca ormai finita. Ho avuto la fortuna di vivere un periodo di grande creatività nel cinema, nell'arte, nella letteratura. Poi il mondo è peggiorato. E quello attuale non mi piace». 

L'incontro più importante?

«Con il produttore David O. Selznick che accese in me, ancora giovanissima, la voglia di fare cinema. E ho fatto un cinema straordinario con tutti i grandi». 

Tra gli altri con Elio Petri, Pier Paolo Pasolini, Liliana Cavani, Gian Maria Volonté, Marcello Mastroianni: ha mai litigato con qualcuno?

«Con Giuseppe Patroni Griffi: durante le riprese di Metti una sera a cena si svegliava alle 14». 

 Chi era per lei Gianni Agnelli?

 «Un amico vero che oggi mi manca. Aveva un grande umorismo e in due parole ti spiegava la realtà. Ad accomunarci era l'impazienza». 

Fu trasgressiva la sua scelta di vivere con Florinda Bolkan alla luce del sole 40 anni fa, in un'epoca in cui l'omosessualità non era accettata?

«Nessuna trasgressione, fu una scelta naturale. Non ho mai sentito il bisogno di sbandierare o nascondere il mio orientamento sessuale». 

Oggi si ostenta troppo?

«Fare coming out può essere utile a qualche gay per superare i sensi di colpa e la vergogna. E pensare che nel secolo scorso l'omosessualità era vissuta apertamente. Poi, nel dopoguerra, gli americani hanno esportato il puritanesimo da cui tra l'altro è nato il #MeToo». 

Disapprova la deriva giustizialista del movimento?

«Sì, se penso che ha fatto a pezzi grandi registi come Woody Allen e Roman Polanski... Ma prendersela con Harvey Weinstein era doveroso, è sempre stato un prepotente». 

Il cinema italiano di oggi le piace?

 «Mi sembra autoreferenziale e incapace di vendersi. E i registi vogliono fare di testa propria senza ascoltare i produttori. Amo solo Paolo Sorrentino e Matteo Garrone». 

Cosa la lega a Benedetta, al suo fianco da 32 anni?

«È una donna con i piedi per terra, molto gradevole e sempre pronta a sostenermi anche se litighiamo molto. La adottai 20 anni fa quando i miei nipoti si fecero avanti pretendendo i miei soldi. Lascerò tutto a lei».

Oggi che esistono le unioni civili l'avrebbe sposata?

«Nemmeno per sogno, l'avrei adottata comunque. Detesto il matrimonio».

Moda, film, amori: "La vita e tutto il resto". Chi è Martina Cicogna, la chic ribelle. Pedro Armocida il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel documentario di Andrea Bettinetti il ritratto di una donna anticonformista. C'è tutto il più grande cinema italiano, ma c'è anche tutta la personalità di una delle donne più forti e libere del nostro Novecento. Marina Cicogna, nata a Roma nel maggio del 1934 nel palazzo che porta il nome di Volpi, sua madre era figlia di Giuseppe Volpi di Misurata, tra l'altro creatore della Mostra del cinema di Venezia, mentre suo padre, Cesare Cicogna, era un aristocratico milanese. Nel documentario di Andrea Bettinetti, scritto da Alejandro de la Fuente e Elena Stancanelli, Marina Cicogna - La vita e tutto il resto, presentato alla Festa del cinema di Roma e in uscita il 5 novembre, si ripercorre con lei, austera 87enne, un pezzo di grande storia del cinema, non solo italiano, dal momento che, in una delle decine di foto, frutto di un grande e preciso lavoro di documentazione, la vediamo quattordicenne quasi abbracciata a David O. Selznick, il produttore di Via col vento che, ricorda lei, «mi voleva adottare, lui è veramente il padre che io avrei voluto avere». Il film è un intimo ritratto delle famiglie di Marina Cicogna, del suo amore per la fotografia, dei suoi grandi amici come Valentino e Alessandro Michele di Gucci, delle sue città. Un cosmopolitismo innato frutto del suo essere intimamente «chic, ma ribelle». Ecco gli studi al Parini di Milano, l'università a New York e le puntate a Los Angeles in casa di Barbara Warner «che mi diceva: stasera vuoi cenare con Marlon Brando o con Montgomery Clift?». E poi St. Moritz con gli Agnelli a insegnare a sciare a Ginevra Elkann, oggi regista, Tripoli, l'unico posto in cui la madre «era veramente felice», la villa Barbaro a Maser comprata dal nonno dove passavano i capodanni tra Palladio e Veronese, e infine Roma. La città del cinema dove la madre aveva investito in una società di distribuzione, Euro International Pictures, «un puro caso perché avrebbe potuto farlo nello yogurt», e dove Marina Cicogna inizia a distribuire capolavori come Bella di giorno di Buñuel e a produrre i film di Pasolini (Medea), Rosi (Uomini contro), Patroni Griffi (Metti una sera a cena) ma soprattutto Elio Petri con l'Oscar per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ma fu una stagione breve, una manciata di anni tra il '68 e il '74, perché, pur lavorando nell'azienda di famiglia, «ero a stipendio e i dirigenti spesso mi osteggiavano, non vollero produrre Il conformista e Ultimo tango a Parigi». In mezzo anche il suicidio nel 1971 del fratello Bino, scappato a Rio de Janeiro per uno scandalo finanziario. Infine le relazioni di coppia, la storia famosa con Florinda Bolkan «che era androgina e di una bellezza assoluta» e quella attuale con Benedetta che porta il suo cognome perché lei, contraria al matrimonio tra persone dello stesso sesso, l'ha adottata: «A me non è mai venuto neanche in mente di dire io vivo con Florinda, io sono omosessuale. Ma chi me lo chiede, chi lo vuole sapere? Quando chiudo la porta, sono cazzi miei, faccio quello che voglio. Non ho mai nascosto né esibito tutto questo». Pedro Armocida

·        Martina Colombari.

Ilaria Ravarino per “il Messaggero” l'11 aprile 2021. Da 25 anni è la compagna dell' ex calciatore 54enne Billy Costacurta, sposato nel 2004, e da 16 è madre di Achille, un adolescente dal temperamento guerriero e gli occhi blu come i suoi. Come tanti genitori in pandemia, anche l' attrice e conduttrice romagnola Martina Colombari, 45 anni e un titolo da Miss Italia nel 1991, affronta gli alti e bassi del mestiere di madre, «il più difficile del mondo, specialmente adesso. Si va a intuito, col cuore e con la testa. E come si fa, si fa male».

Crollare e lasciarsi andare, nell' isolamento familiare imposto dal Covid, è un rischio concreto per molti genitori.

«Noi ci siamo fatti aiutare. Chiedere un aiuto esterno da un esperto o uno psicologo, nei momenti di difficoltà, non è qualcosa di cui ci si debba vergognare. Anzi».

Genitori in pandemia: come si sopravvive?

«Con grandi difficoltà. Il Covid ha rotto gli equilibri, ha stravolto la routine delle famiglie. Per non parlare dei genitori che hanno perso il lavoro: io non mi posso lamentare, ma nel mio piccolo è un anno e due mesi che sono ferma. Ero per la prima volta in tournée, con Corrado Tedeschi per Montagne Russe di Eric Assous, ma sul più bello i teatri sono stati chiusi».

Cosa le ha fatto più paura, come genitore?

«Che la scuola davanti allo schermo non aiutasse mio figlio ad avere voglia di tornare in classe. Ogni scusa era buona per spegnere la telecamera. La merenda, una pausa, una sigaretta. I ragazzi di 16 anni hanno esigenze precise e lo studio non è necessariamente tra quelle».

Il momento più duro?

«Le discussioni. Sia io che mio marito non abbiamo alle spalle percorsi scolastici conclusi con la laurea, perché le nostre carriere si sono sviluppate subito dopo il diploma. Per lui siamo l' esempio vivente che l' università non sia fondamentale. Dice: a voi non è servita. Ora si è convinto che vorrebbe aprire un ristorante. Ma prima deve fare gavetta da cameriere, trovarsi un socio, lavorare sulla creatività e sul marketing. È difficile spronarlo senza demotivarlo. Soprattutto adesso, che manca la distanza».

In che senso?

«Già prima del Covid i genitori italiani non erano capaci di distaccarsi dai figli. E l' isolamento ci ha reso ancora meno lucidi.  Noi ci siamo fatti aiutare da una psicologa che si occupa di genitorialità. Lo dico serenamente: chiedere aiuto non è un atto di debolezza, ma di grande amore per i propri figli».

Cosa avete imparato?

«Che i figli hanno bisogno di aiuto, ma che noi genitori non possiamo metterci al loro posto. Dobbiamo lasciare che si assumano le loro responsabilità. Anche adesso».

Che consigli darebbe a un genitore provato dalla pandemia?

«Di liberarsi dal senso di colpa. Di accettare anche di aver fatto degli errori in questi mesi, perché è dagli errori che si impara. Di avere tanta pazienza, anche con se stessi. Di non sentirsi sbagliati, di confrontarsi con altre coppie, perché le difficoltà le abbiamo provate tutti».

Questo in teoria. E in pratica?

«Se il ragazzo è in difficoltà con la scuola, che sia dad o in presenza, affidarsi a un insegnante di recupero: le litigate più grosse con mio figlio le ho fatte quando provavo a seguirlo con i compiti, etichettandogli persino i libri. Può servire anche un lavoro su se stessi: io medito. Non c' è niente di più sbagliato che prendersi tutto sulle spalle».

Le spalle di chi? Madri e padri hanno sofferto allo stesso modo in pandemia?

«Le donne sono sempre le più sacrificate tra lavoro, lavatrici, spesa e figlio da collegare».

E in casa sua com' è andata?

«Io ho la fortuna di avere un marito che è un bravissimo papà. Mi appoggio a lui per farmi forza. Se io dico che secondo me abbiamo sbagliato, lui mi corregge: non abbiamo sbagliato, ci abbiamo provato. Abbiamo dato fiducia e libertà a nostro figlio, sta a lui gestirla. Gli uomini in questo sono un po' più bravi, più centrati di noi. Ecco, spero che la pandemia insegni alle madri l' importanza di delegare ai padri. Prima li emarginiamo, e poi diciamo che non sono presenti: io penso invece che ci aiuterebbe farli entrare di più nella famiglia».

La soddisfazione più grande avuta da genitori in pandemia?

«In un certo senso aver perso il ruolo di regolatori assoluti. Fino a oggi i divieti cui mio figlio doveva sottostare venivano solo da noi: lo studio, l' orario di ritorno dalla discoteca. Adesso ha conosciuto un' autorità più alta, quella dello Stato, che ci ha chiesto un sacrificio. Sta imparando a rispettarlo. E a capire che se diciamo no, non siamo cattivi».

Ne usciremo genitori migliori?

«Di certo differenti. Più consapevoli. Probabilmente con delle armi in più. Alla fine di tutto questo, avremo superato insieme una prova molto difficile. E sarà il momento di darci, mamme e papà, una bella pacca sulle spalle. Ogni tanto serve».

·        Massimo Boldi.

"Il Milan, Berlusconi e il Covid: ecco la mia verità". Francesco Curridori il 24 Novembre 2021 su Il Giornale. Massimo Boldi, detto 'Cipollino', si racconta a 360 gradi, parlando dell sue più grandi passioni: la comicità, il Milan e il cinema. "Il soprannome Cipollino me lo diede Teo Teocoli negli anni '80 quando facevamo un programma su Antenna Tre dal titolo Non lo sapevo, ma lo so". A rivelarlo è Massimo Boldi, comico che calca il palcoscenico dalla fine degli anni '70.

Quando e perché ha deciso di fare l'attore?

"Non ho deciso. È capitato per puro caso che, mentre lavoravo al Derby Club di Milano negli stessi anni in cui si esibivano artisti del calibro di Jannacci, Dario Fo, Paolo Villaggio e Cochi e Renato. Fui notato da loro che mi proposero di entrare nel loro gruppo e, nel 1974 riuscì addirittura a condurre Canzonissima insieme a Raffaella Carrà. Da lì è cominciata la mia carriera".

Qual è il film e/o la trasmissione a cui è più affezionato?

"Ne ho fatte talmente tante che è difficile scegliere. Il film è sicuramente Yuppies, mentre la trasmissione, forse, è Una rotonda sul mare".

Si è trovato meglio in Rai o in Mediaset?

"Mi sono trovato bene dove sono riuscito a lavorare bene. È chiaro che in Mediaset sono cresciuto molto, ma anche in Rai, nei primi anni, quando feci 'il cuoco toscano, sono contrario alla pentola' ebbi un successone",

Com'è nato il sodalizio artistico con Cristian De Sica?

"Negli anni '60 avevo un gruppo musicale che si chiamava La pattuglia azzurra e, poi, ci siamo rincontrati dopo la morte di suo padre, abbiamo fatto Yuppies e, poi, tutto il resto".

Perché, secondo lei, i cinepanettoni hanno avuto così tanto successo?

"Perché è un genere molto popolare che ha sempre rispecchiato la nostra società che, di anno in anno, cambiava. Noi siamo stati coloro che hanno sempre cercato di raccontare il Paese".

E perché sono stati spesso criticati?

"Perché i film comici, da che mondo è mondo, i film comici non sono mai stati di grande soddisfazione. I film comici sono sempre stati considerati come spazzatura. Il pubblico, invece, sceglie ciò che preferisce e, in questo caso, ha scelto i nostri film. E noi ne siamo molto onorati".

Cosa pensa del Milan post-Berlusconi?

"Indipendentemente dai periodi di magra, il Milan è sempre il Milan. Mio nonno, Mario Vitale, è stato tra i fondatori del Milan Club".

Berlusconi. Ha degli aneddoti inediti che vi riguardano?

"Io sono cresciuto quando, alla fine degli anni '70 l'onorevole Bettino Craxi mi fece conoscere Silvio Berlusconi. Già lì fu una grande opportunità. Poi dal 1981 ho iniziato a lavorare con lui e ho continuato fino a...sempre. Qualche anno fa, durante una riunione fatta a Cologno Monzese, un alto dirigenti disse: “Voglio fare i complimenti a Boldi che è stata una colonna portante di Mediaset”.

Lo ha apprezzato più da imprenditore o da politico?

"Sicuramente come imprenditore".

Lei vedrebbe bene Silvio come presidente della Repubblica?

"Come amico penso che sarebbe una bella soddisfazione, il coronamento della sua carriera politica. Non ce lo vedrei in questo momento perché ha già sofferto tanto, è stato martoriato con processi su processi e credo che non gli convenga fare il presidente della Repubblica. Da amico mi sento in dovere di avvertirlo. Poi, se diventa Capo dello Stato, sarò felicissimo per lui".

Ha avuto paura del Covid?

"No, non ho mai avuto il Covid. L'ho preso poco meno di due mesi fa dopo essere vaccinato".

Cosa pensa dei novax?

"Mah, penso che i novax sono mal consigliati".

Qual è il suo più grande rimpianto?

"Forse quello di non aver accettato di lavorare per la Walt Disney nel 1996. Avevo dei contratti con De Laurentis e me l'hanno sconsigliato".

E la sua più grande paura?

"Arrivati a una certa età, la paura è quella di non stare bene. Di avere problemi di salute, ma anche il lavoro, la famiglia, i figli e la fidanzata. Insomma, tutto quello che riempie la vita".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Dagospia il 16 novembre 2021. Da Un Giorno da Pecora. Se tornerei a fare i cinepanettoni con De Sica? "Si, mi piacerebbe moltissimo, moltissimo. Quest'anno, dopo 30 anni, è la prima volta che non sono al cinema con un film di Natale, e mi dispiace molto. L'anno prossimo però faremo sicuramente il cinepanettone con Christian”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è l'attore Massimo Boldi.

Avete fatto dei 'natali' in tutto il mondo, il prossimo film dove lo ambientereste?

 “Farei un "viaggio al centro della Terra": uno parte a nord, l'altro a sud e ci troviamo lì”.

Quindi non ha litigato con De Sica?

“Non è assolutamente vero, con lui ci sentiamo ogni settimana”.

Lei in questo periodo sembra molto sereno: è innamorato?

“Sono vedovo da quasi 18 anni, e con l'età che avanza comincio a sentirmi solo, questa è la verità”.

C'è chi le attribuisce relazioni con attrici e non, anche molto giovani, come Rosalinda Cannavò.

“No, siamo solo amici e collaboratori. 

La scorsa settimana invece – ha spiegato l'attore - mi hanno paparazzato con un'artista vera, una designer. Con lei ci siamo conosciuto due mesi fa, mi ha dato un premio a Padova, e ci siamo 'simpatizzati'...” Le donne cercano di contattarla anche via social? “Su IG mi scrivono molte donne dandomi dei numeri di telefono accompagnati da foto. Ma io no ho mai cercato nessuno”. 

Parliamo di politica: chi le piacerebbe nuovo presidente della Repubblica? “Una donna, mi piacerebbe che fosse la volta di una donna”. Il c.destra sembra compatto sul sostegno a Silvio Berlusconi. “Si, l'ho sentito, ma non credo. Silvio ha fatto già una vita complicata e difficile, anche se per lui sarebbe coronare un sogno, una vita straordinaria e se lo meriterebbe anche. Però – ha concluso Boldi a Un Giorno da Pecora – non credo onestamente”.

Da liberoquotidiano.it il 20 settembre 2021. E' un attacco durissimo quello di Massimo Boldi a Striscia la notizia e ad Antonio Ricci. L'attore comico infatti rivela che il tg satirico di Canale 5 nasce da una sua idea: "Striscia la notizia l'ho inventata io, dieci anni prima che la facesse Ricci. Dopo aver visto su Telereporter un tizio che trasmetteva un tg parlando soltanto di quello che avveniva alla Comasina, scrissi il testo di un tg divertente. Lo feci al Derby, poi ad Antenna 3, poi a Risatissima su Canale 5, con l'aiuto di Zuzzurro e Gaspare", spiega Boldi in una intervista a Il Giorno. "Non era qualcosa di simile a quello che avevano già fatto Alighiero Noschese o Walter Chiari: loro imitavano i giornalisti veri. Io invece facevo un tg comico. Siamo al 1978-'79. Dopo il Fantastico con Celentano, per rientrare a Canale 5, Berlusconi mi affidò ad Antonio Ricci. Gli propongo l'idea del telegiornale e lui mi risponde: 'Belìn, ancora il telegiornale, sono 10 anni che lo fai! È una rottura di scatole'". Ma "due anni dopo, mentre sono a Grand Hotel, un pomeriggio vengono Zuzzurro e Gaspare e mi sussurrano: 'Ma lo sai che D'Angelo e Greggio stanno facendo le prove per un tg comico?' Allora mi incavolo e chiamo Silvio e gli racconto tutto", prosegue l'attore. "'Ma sì', risponde lui, 'lo fanno per tre mesi, lasciamoli divertire'. E invece è trent' anni che vanno avanti! Mi piacerebbe che almeno fosse scritto: 'Da un'idea di Massimo Boldi'". Anche se la Striscia di oggi, conclude, "mi annoia. Ormai è un programma costruito sui filmati o le segnalazioni della gente. La prima Striscia era un'altra cosa. Identica a quello che facevo io a Risatissima".

Dagospia il 20 settembre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile redazione, leggendo oggi su QN l’intervista a Massimo Boldi, in cui il comico si auto-attribuisce la paternità dell'idea di Striscia la notizia, siamo letteralmente esplosi in un’enorme risata. Ecco alcune precisazioni. Vi ricordiamo che, fin dalle origini della televisione, nella parodia del telegiornale si sono esercitati molti comici: da Walter Chiari a Gino Bramieri, da Alighiero Noschese a Raimondo Vianello, ad Antonio Amurri e Dino Verde, fino a Rocco Tanica, Massimo Boldi, etc. etc. Boldi sostiene che il suo tg però non era uguale a quello che aveva già fatto Walter Chiari, il quale si limitava a “imitare i giornalisti veri”. Non ci risulta che Walter Chiari fosse un imitatore, e a voi? Inoltre, Boldi fa confusione, e parecchio, pure sulle date. Quando faceva Grand Hotel era il 1986. Difficile che nello studio accanto si girasse Striscia, visto che la prima puntata del tg satirico andò in onda nel novembre del 1988. Forse sarebbe stato il caso di verificare le informazioni, soprattutto quando, coscientemente, si intervista un soggetto in uno stato molto particolare. Ci teniamo a sottolineare che quello di Striscia la notizia è un format italiano unico al mondo e molto diverso dalla parodia del tg: come tutti sanno, la nostra peculiarità è quella di realizzare autentici servizi giornalistici, anticipando spesso i media ufficiali. Infatti veniamo contattati quotidianamente da centinaia di cittadini che ci chiedono di intervenire per denunciare truffe o illeciti. Se vi servisse anche la prova provata, guardate una puntata del telegiornale di Cipollino. E poi una di Striscia. Potrete constatare che si tratta di due prodotti televisivi completamente differenti. Quella di Boldi, quindi, non è altro che una fake news. Grazie, un cordiale saluto. L'ufficio stampa di Striscia la notizia

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 28 giugno 2021. Il mese prossimo compirà 76 anni, ma Massimo Boldi non ci pensa nemmeno a rallentare, e va veloce - anche nell' intervista - come il Freccia rossa che lo porta avanti e indietro tra Milano e Roma. «Sto lavorando al prossimo film, ma ora è diventato complicato produrre e distribuire, tra cinema e televisione: chiedono tutti garanzie, anche quando è un progetto di Massimo Boldi. Si spera in Dio, vediamo come andrà a finire». 

Il cinema italiano ride o piange?

«Boh, ancora non si sa, è presto per dirlo. Ma si soffre, altroché.

Soffre tutto quello che è intrattenimento: non solo il cinema, pure i giostrai o i funamboli del circo sono in crisi. La televisione, quella no. E menomale».

Anche la sua casa di produzione Marifilm ha sofferto?

«È stata una batosta». 

Che fare per risollevare il settore?

«Il fatto è che non si sa cosa voglia il mercato. Guardi agli americani: continuano a rifare sempre gli stessi film ma con attori nuovi, dalla Sirenetta a Biancaneve. Così son sicuri che con queste grandi produzioni il pubblico sarà in sala. Ma il cinema italiano è diverso, è basato sulla commedia e sui film d' autore». 

Tra i due incassa di più la prima.

«Dà la possibilità di fare incassi garantiti. E poi la commedia va in televisione e sui canali dedicati, e ha sempre successo. Durante la pandemia hanno riproposto molti dei miei quasi 70 film». 

Ascolti buoni?

«Ho avuto un riscontro molto positivo. I vecchi fan si sono divertiti, le nuove generazioni hanno conosciuto un comico nuovo, che li fa molto ridere (sorride, ndr), mi ha fatto molto piacere». 

Vanità?

«Mi piace pensare che con il mio lavoro sono riuscito a dare al popolo chiuso in casa momenti di serenità e un sorriso. I miei film sono veramente comici: chi incontro per strada sa le battute a memoria, e sono passati trent' anni o anche di più. Non posso che ringraziare il mio pubblico, che è ormai alla quinta generazione in pratica, per l'affetto che mi dimostra». 

La comicità è cambiata?

«Molto. A volte in peggio». 

L'ha rovinata il politicamente corretto?

«Sì, è possibile». 

C' è chi non la fa ridere?

«Non le dirò chi. È vero: la commedia italiana che ho fatto io con Christian per tanti anni potrà essere anche definita "di basso livello", ma me ne frego, perché il pubblico ti ama così, ti vuole bene, ed è soddisfatto quando esce dal cinema. E in tv fa salire lo share». 

La critica cinematografica ha un colore politico?

«No».

A volte l'ha stroncata, a volte incensata.

«Sì, però al botteghino è andata spesso al contrario. Diciamo che non sempre critica e incassi vanno di pari passo, ecco». 

Gli italiani oggi ridono o piangono?

«Ora è il momento del sospetto. Lo siamo tutti, sospettosi. Però c' è anche una buona dose di meraviglia. Da quando abbiamo ricominciato a vivere è stato come svegliarsi da un sogno, un sogno non bello, con quasi due anni di vita persi alle spalle. Ricominciamo a fare quello che facevamo, ma non proprio nello stesso modo. È complicato. Devo esser sincero: è un momento che mi lascia sgomento». 

Lei è un po' ipocondriaco, conferma?

«Superstizioso e ipocondriaco. Malattie e malanni, anche comuni e innocui, mi spaventano: chiamo subito il mio medico di fiducia, anzi i miei medici di fiducia. Tra una balla e l'altra mi sono creato uno squadrone di dottori e professori che mi seguono, ciascuno nel suo ambito». 

E come ha vissuto una pandemia mondiale un ipocondriaco?

«Questa volta in realtà non ero per niente spaventato. Ero preoccupato solo per i miei figli e i miei nipoti, per il loro futuro, questo sì. Tutta questa faccenda è strana, perché è successa di punto in bianco e in un momento storico in cui la tecnologia la fa da padrona». 

Ahia, Boldi, non mi faccia litigare con sua figlia: quando mi ha dato l'ok a questa intervista mi ha avvisato che lei è imprevedibile ma che non bisogna sollevare vespai dai quali poi la devono difendere.

«Non sono un negazionista, l'ho detto e stradetto, ci mancherebbe. Sono anche vaccinato. Per me non ho avuto paura, e ora persino ho speranza che le cose in punta di piedi migliorino».

Merito di Mario Draghi?

«Draghi lo trovo straordinario perché da quando ha preso in mano le redini le cose sono cambiate. Anche se ci vorrebbe uno come Mosè, visto come stanno le cose (sorride ancora, ndr)». 

Lei ha iniziato con le barzellette in classe, poi una lunga gavetta. Ha fatto l'operaio, il venditore, il ristoratore. Si chiede mai se sarebbe stato meglio nascere oggi, quando a volte basta Instagram per avere successo?

«Bisogna cercare di ragionarci con calma su questo argomento qui. Veda i miei social network: non ho milioni di follower, ma sono persone che si sono affezionate per davvero a me. Due, tre, quattro milioni di follower sono ipotetici, li vorrei contare a uno a uno, chiedere loro se amano davvero chi seguono. Ormai è la fiera dell'Est, dove si crede a quello che dice un imbonitore e fa tendenza». 

Fa pure politica.

«Anche, sì, tra l'altro. Qualche sera fa ero a Roma, in un locale a ponte Milvio, per un compleanno, e tra gli invitati c' erano tanti ragazzi giovani e influencer. Quando sono entrato nel ristorante ho notato che è calato un silenzio quasi tombale».

E poi?

«Dopo mangiato quasi tutti a uno a uno sono venuti a ringraziarmi per la mia carriera, mi dicevano di essere cresciuti con i miei film. Certi tremavano, come fossi un santo».

Addirittura.

«Sì, ma questo è un segno di come siano agli inizi, stanno trovando il loro modo di essere popolari e simpatici con il pubblico». 

Ne prenderebbe qualcuno in un film?

«Quasi nessuno, magari uno o una, ma mi baso più spesso sul nome, sulla carriera, su questo tipo di garanzie per scegliere». 

Oggi la fama è precaria?

«Sparisce di sicuro, se costruita così. E infatti sono quindici anni che si fanno i talent, e chi è rimasto si conta sulle dita di una mano. Mi chiedono spesso come si diventa famosi, anche per strada o sui social. Consiglio di essere originali. Bisogna essere un pezzo unico per poter durare. Tu sei tu, e nessuno è come te. Scimmiottare non è arte». 

Lei è sempre stato il Cipollino?

«L' invenzione di Cipollino la devo a un lampo di genio di Teo Teocoli: da quando mi chiamò così ad Antenna 3, mi sono divertito come un matto a inventare a questo personaggio battute, scenette e gag.

Ma io sono nato così: facevo ridere gli amici dell'asilo, e poi ho avuto anche qualche colpo di fortuna, ma di sicuro ho lavorato molto. Certo, non avrei mai pensato di diventare un comico popolare. Non era previsto». 

Ce lo ha anche lei un lato oscuro come tutti i comici?

«Ho avuto dei periodi di down abbastanza importanti, ma è stata una fase della mia vita. Della seconda, per la precisione, quella che è iniziata con la morte di mio padre quando avevo 19 anni e si è conclusa con l'addio alla mia metà, Marisa, nel 2004, quando lei aveva 47 anni e io 59». 

Oggi cosa la fa intristire?

«Solo la stupidità di certe persone. E il tempo che passa. Le mie figlie sono cresciute felici, serene, mi hanno dato dei nipoti. La mia famiglia ha un ruolo importantissimo per me, viviamo bene». 

E c' è qualcosa che la fa incazzare?

«Direi cose spiacevoli, non le rispondo. La vita è bella e sono consapevole di essere fortunato e di vivere in un grande Paese come l'Italia: non andrei mai via per lavorare al grido di "qui non si combina niente"». 

Com' è che qualche tempo fa ha parlato di Giorgia Meloni premier e Silvio Berlusconi al Quirinale e l'hanno insultata?

«Sarà che io sono cresciuto effettivamente con il Cavalier Berlusconi. Ho seguito il suo modo di fare televisione, tanto è vero che tre o quattro anni fa durante una riunione con artisti e dirigenti sono stato citato come una colonna portante di Mediaset. Berlusconi me lo presentò nel 1978 Bettino Craxi». 

E Craxi come lo conobbe?

«Era un appassionato di canzoni milanesi, veniva spesso al Derby club. Che poi oggi si parla del Derby, ma nessuno ricorda davvero cosa fu: era una cantina dove si faceva cabaret, ma anche il luogo di eccellenza di una Milano dove stava nascendo la comicità. Anche Beppe Grillo mosse i primi passi alla Bullona e in altri locali, a quei tempi». 

La comicità di Boldi non ha colore politico.

«No, la mia no. Quelle che lo hanno non mi fanno ridere. Non ho mai utilizzato la politica per un monologo, ma sempre il mio estro, il mio modo di improvvisare i personaggi».

Però la politica una volta la tentò.

«Fui chiamato proprio da Craxi nel 1992 per arginare la Lega e ho fatto la campagna tra Lecco, Como, Sondrio e Varese». 

Come andò a finire?

«Fui il primo dei non eletti. Ho tentato io di entrare in politica ed è crollato tutto».

Scrivono che ora punti a diventare il presidente della Salernitana.

«Ero con amici a vedere Roma-Lazio e ho incontrato Lotito: ho postato una nostra foto. Scherzando, me lo ha chiesto, ma non l'ho più sentito». 

Una quarta vita nel calcio?

«Perché no? Ma con i film ho ancora parecchio da fare, sto lavorando a una delle pellicole più comiche che io abbia mai fatto, una storia scritta da Neri Parenti e Gianluca Bomprezzi, un film che si avvicina a Miseria e nobiltà con Totò, prodotto da Marifilm per Medusa. La punta di diamante della carriera deve ancora venire».

Dagospia il 6 febbraio 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Massimo Boldi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino.

Massimo Boldi ha parlato un po' di se: "Nella mia carriera ho cominciato lavorando di notte, come musicista nei night club. E' cominciato tutto proprio per caso, il destino ha voluto che una passione diventasse la mia professione. Ho iniziato facendo il batterista in un gruppo musicale, dove come cantante c'era prima Claudio Lippi e poi Christian De Sica. Poi sono arrivate televisione e cinema in un susseguirsi di sorprese. Ho avuto anche fortuna. All'epoca c'era la possibilità che chi aveva il talento aveva modo di dimostrarlo. Abbiamo vissuto un'altra epoca, gli anni '60, '70 e '80 hanno riportato nel nostro Paese quella spensieratezza che permetteva alla gente anche di divertirsi. La mia verve comica? Ci sono nato, risale a quando ero bambino, abitavo sul Lago Maggiore, vicino alla Svizzera, i miei genitori si erano rifugiati in tempo di guerra, ho iniziato ad andare all'asilo e a scuola facendo il buffone. I ragazzi, i genitori, ma soprattutto le bambine della mia età, mi chiedevano sempre di farle ridere. E sono cresciuto sempre con la voglia di scherzare. Come nasce il personaggio con la tachicardia? E' nato perché ce l'avevo veramente, ho passato un periodo di super lavoro, avevo questa ansia, questa fobia, altri problemi, e allora ho cominciato a contarmi i battiti sul palcoscenico, è diventato uno slogan. Il soprannome 'Cipollino'? E' nato quando lavoravo con Teo Teocoli in una televisione privata lombarda".

Sul cinema: "Io e De Sica abbiamo fatto 26 film in coppia. Come ci siamo conosciuti? Nel 1972, me lo portò un impresario importante, mi disse che mi avrebbe portato a cantare nel mio gruppo musicale il figlio di Vittorio De Sica. Christian aveva praticamente la mia età, cantava benissimo, siamo diventati amici. Poi il papà di Christian se ne è andato nel 1974 e ci siamo persi di vista. Ci siamo ritrovati nel 1984 nel film Yuppies e non ci siamo lasciato più. I film di Natale? Impossibile dire quello a cui voglio più bene. Ho un bel ricordo anche de 'I due carabinieri', con Verdone e Montesano. E' una pellicola che mi ha lanciato come protagonista. Prima avevo fatto solo piccole partecipazioni, lì invece avevo un ruolo importante. Con una fine drammatica. E' stato film che mi ha dato grande spessore. Dopo ho fatto il cugino di Pozzetto in 'Ragazzo di campagna'. Ho provato anche a fare l'attore drammatico. Con Pupi Avati nel 1996, che mi propose un film chiamato 'Festival'. Raccontava la vita di Walter Chiari". 

Tornando sui film di Natale: "La critica in passato ci ha inferto delle umiliazioni incredibili. Perché quando il pubblico corre al cinema e tu leggi che quello che fai non viene considerato un film, ci rimani male. Il termine "cinepanettone" è un termine dispregiativo, almeno all'inizio. Poi è diventato di moda. Si soffre sempre quando uno fa un lavoro e lo criticano ci rimane male".

Sulle cose che fanno paura nella vita: "Uno direbbe la morte, ma la morte non fa paura, è naturale, prima o poi capita a tutti. Mi fa paura il passare del tempo, vedere come muta la vita guardando la tua famiglia e vedendo come crescono i tuoi figli, i tuoi nipoti, vedendo come soprattutto si alternano momenti belli e di grande tristezza. Il momento più duro della mia vita? La morte della mia povera moglie. Il più bello? La nascita della mia prima figlia".

Sui gossip che ogni tanto lo riguardano: "Io dopo essere rimasto vedovo ho avuto un rapporto con una donna molto più giovane di me. Con trent'anni meno di me. Siamo stati insieme molti anni. Poi dopo mi sono prezzemolato con tante amiche e conoscenze, sempre giovani. Io cerco di stare con le persone giovani per sentirmi giovane anche io. I gossip non mi danno fastidio, me ne frego altamente, basta vedere quante cose hanno scritto su di me dopo che mi sono lasciato con la mia precedente compagna. Ma io me ne frego, è tutto spettacolo, tanto le cose vere le so solamente io".

Sul Milan: "Sono un grande tifoso, per me la parola scudetto si può pronunciare, la vedo bene. Ibra in un film di Natale? Meglio di no, si arrabbierebbe come una bestia". 

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” l'1 febbraio 2021. Ci salverà Cipollino. Molto più serio dei politici che hanno fatto i comici e di altri che fanno ridere loro malgrado, Massimo Boldi potrebbe essere l' uomo giusto per aiutare l' Italia a uscire da questa impasse.

Boldi, l' attuale situazione politica la fa più ridere o piangere?

«Né l' una né l' altra, e questo è il vero dramma e la cosa buffa. Mi fa solo tristezza».

Trova più ridicolo Renzi, che minaccia ma non conclude, o Conte, imbullonato alla poltrona?

«Conte non ha lavorato male nei suoi due mandati e si è dimostrato capace. Ma è circondato da ministri deboli e inesperti, che fanno rimpiangere i politici della Prima Repubblica. Renzi è invece un politico consumato, pur essendo giovane, e molto pratico. Se dovessi scegliere, mi fiderei più di lui che di Conte e della sua squadra».

In alternativa su chi punterebbe?

«Mi piacerebbe la Meloni come premier. È molto cresciuta ultimamente, la seguo nei dibattiti e mi appassiona. Ha dei toni da sindacalista, che ti trascinano».

Perché non sognare un Boldi in politica?

«No, io ho già dato. Nel 1992 ero legato a Craxi e sono stato quasi obbligato a presentarmi come candidato per il Psi, risultando primo dei non eletti. Ricordo che, durante la campagna elettorale, incontrai Beppe Grillo, con cui ero amico da tanti anni, il quale mi disse: "Belin, ma cosa vai a fare in politica? Vuoi fai ridere? Lascia stare, già non fai ridere così". Io gli risposi: "Ma vai a cagare". Dopo qualche anno me lo sono ritrovato in politica: lo vidi che nuotava da Reggio Calabria a Messina in cerca di voti. Molto meglio quando faceva il comico: in quel ruolo era straordinario, si occupava di politica, ma nel senso della satira».

Il personaggio più comico dei 5 Stelle?

«Fatico a individuarne uno di preciso. Di sicuro, arruolerei Di Maio in un cinepanettone, gli farei fare il figlio di Cipollino, che è molto più affidabile di lui (sorride, ndr). Così potrei redarguirlo. Durante una puntata di Porta a Porta io ero ospite subito dopo Di Maio. Alla domanda di Vespa, lui precisò: "Non ho mai visto un cinepanettone in vita mia". Ma un ministro che rappresenta il Paese non può fare lo snob rispetto a un genere nazionalpopolare che da 30 anni rispecchia un certo modo di essere italiani».

La stuzzica l' idea di un Berlusconi capo dello Stato?

«Sì, se lo merita. Lasciamo perdere le sue vicende legate alle donne e la sua fama di latin lover. Come statista è inarrivabile».

Domanda impegnata: lei si vaccinerà?

«Sì, ho anche fatto un video promozionale per invitare la gente a farlo. Ritengo però giusto non rendere il vaccino obbligatorio. Piuttosto occorre somministrarlo subito a quanti sono in prima linea, come medici e infermieri».

Domanda di evasione: fosse per lei, il Festival di Sanremo dovrebbe svolgersi con pubblico, senza pubblico o essere rinviato?

«Secondo me bisognerebbe spostarlo al 2022, è l' unica soluzione. Se lo fai senza pubblico, smette di essere una gara canora vera, come dice giustamente Amadeus. Ma se lo fai col pubblico, allora non può essere un' eccezione: devi ammettere gli spettatori in tutti i teatri e i cinema. L'opzione figuranti è la più triste: l' idea di persone pagate per ridere, piangere o battere le mani è la morte della spontaneità».

L'8 febbraio esce su Sky Cinema il film di Pupi Avati Lei mi parla ancora, ispirato alla storia d' amore dei genitori di Vittorio Sgarbi, e con Renato Pozzetto come protagonista. È vero che al suo posto doveva esserci lei?

«Sì, due anni fa mi chiama Pupi Avati, con cui avevo già fatto nel 1996 un film drammatico chiamato Festival. Mi propone di interpretare in un nuovo film il papà di Sgarbi. "Sei maturo per questo ruolo", mi assicura. Io entusiasta gli rispondo: "Fammi leggere la sceneggiatura". In effetti era molto commovente, scritta bene, e allora gli dico: "Accordiamoci e facciamolo". Intanto mio fratello Fabi, che è produttore, trova la disponibilità di Rai Cinema per la distribuzione del film, e io inizio a fare le prove costumi e parlo con Vittorio Sgarbi che comincia a chiamarmi "papà", visto che a suo padre Giuseppe, scomparso tre anni fa, io ci somiglio davvero».

Poi cosa è andato storto?

«Non avevo ancora siglato un contratto scritto con la casa di produzione, per me basta la parola data, una stretta di mano col regista. Poi, lo scorso anno, Avati mi dice che vuole iniziare le riprese nella stessa settimana in cui iniziano quelle del film con me e De Sica, In vacanza su Marte. Gli dico: "Pupi, il film te lo faccio, ma devo fare prima questo". Comincia una lotta silenziosa, molto serrata. Non ne so più nulla, fino a che a metà luglio mi chiama Renato Pozzetto e mi comunica: "Lo sai? Farò un film con Avati, è proprio quel film, interpreterò il papà di Sgarbi". Gli rispondo che sono contento per lui, e lo sono davvero. Ma Pupi è stato scorretto, non mi ha mai avvisato. Doveva essere lui a dirmi che aveva scelto un altro attore al mio posto. E anche Sgarbi è rimasto dispiaciuto».

Ha citato In vacanza su Marte. Il film è stato visto da oltre 2 milioni di persone su Sky Cinema, ma molti critici lo hanno stroncato. Il grande pubblico ci vede più lungo?

«Be', anche a leggere i pareri della gente su Instagram, il film è stato un trionfo. La critica invece oggi è fatta da giornalisti che magari, in privato, sono appassionati del genere cinepanettone ma poi, quando si siedono a scrivere la recensione, devono andargli in culo. È come se volessero darsi un tono e sembrare più dotti».

Il cinepanettone è morto, come dicono?

«Può anche darsi che abbiano ragione. I cicli iniziano e finiscono. Di certo non siamo finiti come personaggi io e De Sica. Al più d' ora in poi faremo cinepanettoni più sobri, meno caciaroni e più da famiglia. Sono fiero di aver conquistato quattro generazioni, dagli 80enni ai ragazzini. E questo perché la mia figura assomiglia a un cartone animato. Cipollino, in fondo, è un burlone immortale».

Che ora, a 75 anni, comincia la sua nuova giovinezza?

«Sì, e questo anche grazie alla mia compagna Irene con cui non escludo un matrimonio. Magari alle Bahamas, come in quel mio film».

·        Massimo Ghini.

Emilia Costantini per corriere.it il 12 dicembre 2021. La prima volta che si è sentito attore è stata servendo la Santa messa: «Mi proposero di fare il chierichetto nella mia parrocchia e accettai subito — racconta Massimo Ghini —. La celebrazione del rito cattolico è una rappresentazione: si indossa un costume, si compiono determinati gesti, si dicono frasi e si intonano canti da copione. Diciamo la verità: è un vero e proprio spettacolo... È stato lì, da ragazzino e davanti a un altare, che ho avvertito dentro di me i primi sintomi, i primi segni di un’anima da attore. E pensare che ero stato battezzato di nascosto...». 

Perché?

«Mio padre era un esponente del partito comunista, quindi assolutamente contrario. Mia madre e mia zia, invece, erano credenti e, quando avevo già compiuto 2 anni, riuscirono a organizzare il battesimo in gran segreto nella chiesa di Sant’Eusebio: talmente segreto, che entrai dal portone principale e uscii da quello secondario... L’anno seguente i miei genitori si sono separati e ho svolto i miei primi anni di scuola in un istituto di Salesiani... ecco perché poi sono approdato al ruolo di chierichetto».

Adesso, però, interpreta quello del Conte Vladimiro, un vampiro snob, tra zombie, fantasmi e licantropi, nel divertente film «Una famiglia mostruosa» , con la regia di Volfango De Biasi.

«Si potrebbe dire, dalle stelle del Paradiso alle stalle dell’Inferno — ride Ghini —. È un ruolo che mi ha molto divertito, ma la prima difficoltà nel doverlo affrontare e la prima domanda che mi sono posto è stata: come parla Dracula? Il vampiro di solito o non parla, oppure se parla non può avere un accento... di conseguenza dovevo trovare un linguaggio asettico, che rispecchiasse in qualche modo il mio rango nobiliare. Così, una mattina mi viene in mente un’idea: e se parlassi come parlava l’avvocato Agnelli? D’altronde lui è stato un vampiro in tutti i sensi... quindi andava benissimo per il personaggio, e così ho fatto».

Dal recitare la Santa messa come chierichetto a recitare con Giorgio Strehler: come ci è arrivato?

«È una lunga storia. Avevo terminato, a fatica e con varie bocciature, il liceo scientifico: basti dire che in matematica avevo 4, tanto che il professore una volta mi chiese: ma perché hai scelto lo scientifico se in questa materia sei una frana? Oltretutto ero un contestatore nato, sempre molto polemico, sono stato persino cacciato da scuola perché partecipavo ai cortei sessantottini e mi mettevo fuori dall’istituto urlando al megafono per agitare gli altri studenti e incitarli a non entrare in classe. Tant’è, ma alla fine riuscii a superare l’esame di maturità. Mi iscrissi alla facoltà di Legge, per tenere buoni i miei, senza avere alcuna intenzione di studiare seriamente, ma nel frattempo lavoricchiavo con compagnie di filodrammatici, finché decisi di provare a entrare all’Accademia d’arte drammatica. Pensavo di essermi preparato bene per superare il provino, l’esame di ammissione e invece... mi bocciano. Ci rimasi malissimo, era come sentirmi dire: tu non puoi fare questo mestiere. Poi parto per il servizio militare, altra tragedia, finché una sera, grazie a un amico ben introdotto mi ritrovo a cena in un ristorante romano con il mitico Gianni Santuccio: gli fui subito simpatico e facemmo amicizia». 

E allora?

«Ero sempre alla ricerca di lavoro, perché essendo molto tignoso non volevo chiedere soldi ai miei, volevo sentirmi libero. Vado a Milano, chiamo al telefono il grande attore che mi invita a cena addirittura al Santa Lucia, punto d’arrivo di una carriera, per me punto di partenza. Santuccio, senza conoscere minimamente le mie ipotetiche qualità attoriali, mi presenta agli altri commensali come un giovane artisticamente interessante. Mi propongono di tentare un provino per far parte del “Re Lear”, cui stava lavorando Strehler. Quel giorno al Piccolo ero l’ultimo in lista, aspetto sei ore prima di poter essere ammesso: le ore più lunghe della mia vita. Finalmente salgo sul palcoscenico e recito un monologo, non ricordo più quale, davanti al regista seduto in platea: silenzioso, nel buio della sala, non proferisce parola. Ma una settimana dopo mi chiamano al telefono, dicendo: sei stato preso». 

Chissà quanta felicità...

«Felicità? In realtà, pensai: non è vero, qualcuno si è sbagliato. Perché un regista famoso come Strehler mi accetta in compagnia e quelli dell’Accademia mi hanno bocciato? E invece era proprio vero... certo, un piccolo ruolo, impersonavo uno dei servi, dicevo un paio di battute, però tra quelle più belle del dramma. E poi a Strehler ero simpatico, mi apostrofava divertito: uhè, romanaccio!».

Perché parlava con accento dialettale?

«Assolutamente no, anzi, mi ero ben preparato nella dizione, però a lui piaceva chiamarmi così, era un brontolone, mai cattivo, né volgare, sempre elegantissimo con i suoi capelli azzurri... Un padreterno. Quando beccavo certi suoi cazziatoni, non ci dormivo la notte, eppure erano una spinta efficace a dare il meglio... Tuttavia, oltre al Maestro, nessun altro mi rivolgeva la parola e fui molto sorpreso quando, un giorno, vengo convocato da Nina Vinchi, la signora del Piccolo. Per me era come essere stato convocato dal preside del liceo...». 

Il motivo della convocazione?

«Io vado, busso alla porta del suo ufficio, entro, lei era al telefono e mi fa cenno di sedere, mentre continua il suo colloquio telefonico con toni di durezza. Mi aspettavo il peggio. Finalmente riaggancia la cornetta, mi guarda dritto negli occhi e mi fa: senta Ghini, si ricordi una cosa, qui siamo a Milano, non a Roma, è chiaro?». 

E lei che cosa risponde?

«Che fino a qui c’ero arrivato... Poi ha attaccato un pistolotto senza alcun motivo... mi sembrava una suora che ti convoca per dirti quello che puoi e che non puoi fare... Comunque quelle mie due battute nel “Re Lear” sono state un grande inizio: con lo spettacolo debuttammo all’Odéon di Parigi».

Dall’Odéon al villaggio Valtour: come c’è finito e per quale motivo?

«Terminate le repliche, e la relativa tournée del “Re Lear”, ero talmente giovane e sconosciuto che mi ritrovo di nuovo senza lavoro, avevo un gran bisogno di guadagnare. Avevo conosciuto Rosario Fiorello, che lavorava come animatore, e gli chiesi se potevo fare qualcosa anch’io, avrei accettato persino di fare il barista. Siccome però nel villaggio c’era un anfiteatro, gli proposi di organizzare uno spettacolo tratto da “La gatta Cenerentola”».

Un’opera di Roberto De Simone per gli ospiti di un villaggio turistico?

«Sì, una follia, eppure a Rosario piacque l’idea, aveva fiducia in me e fu un gran successo, anche perché io so cantare piuttosto bene. Quando frequentavo le scuole medie venni preso nella Schola Cantorum di una Chiesa in via Giulia. Lì il problema, all’inizio, fu che non conoscevo le canzoni del Santo Natale, provenendo da una casa di comunisti non conoscevo i testi. Il maestro organista mi chiese: che canzone sai? E io rispondo: Bella ciao. Lui non si scandalizza, me la fa cantare tra le sacre mura religiose e sentenzia: questo canta bene, è intonato. All’epoca la mia voce era da soprano, crescendo mi è venuta quella da contralto, pure nel canto c’era il germe della recitazione».

L’incontro con Gregory Peck come è avvenuto?

«Franco Zeffirelli stava cercando per il suo spettacolo “Maria Stuarda” con Rossella Falk e Valentina Cortese, un attore per il personaggio di Mortimer. Vengo invitato a raggiungerlo nella sua mega villa a Positano. Mi faccio prestare un’auto e parto. Arrivo davanti al cancello, suono, nessuno risponde. Era agosto, faceva caldo ed ero tutto sudato anche per l’emozione. Trascorrono venti minuti almeno e a un certo punto sento in lontananza rumore di zoccoli, di qualcuno che era evidentemente sceso nella spiaggia privata. Infilo la testa tra le sbarre del cancello e pian piano mi appare la figura di un omone, almeno un metro e 90: era proprio lui, il mitico Peck che, in costume, si avvicinava al cancello. Vengo assalito dal panico... un infarto. Lui mi guarda e mi chiede con voce suadente: do you want come inside? E io tutto tremante rispondo con voce stridula: yes. Mi apre, entro, resto da solo impalato... e mi chiedo: quando racconto agli altri che mi ha aperto il cancello Gregory Peck, chi ci crede?».

Ha mai raccontato bugie?

«Non sono bugiardo in modo bieco, lo sono nel senso che, facendo l’attore, rappresento sempre la bugia, la mia professione è fatta di interpretazioni che sono verosimiglianze mai vere, quando recito non sono io, sono un altro, di conseguenza mento. Però, la bugia reale più grande che ho detto esiste: quando ero giovane affermavo di essere stato ammesso all’Accademia D’Amico, ma di essermene andato perché mi avevano chiamato per uno spettacolo. Mi vergognavo di dire che ero stato bocciato». 

Si è mai sentito snobbato dalla critica?

«Sempre, perché sono un eclettico e per questo considerato superficiale. Non mi lamento più dei rari premi che ho ricevuto, tra i quali un Nastro d’argento alla carriera. Mi sono lamentato talmente tante volte, che ho capito di aver fatto autogol».

E con la sua carriera politica, che iniziò giovanissimo insieme con Walter Veltroni, entrambi militanti della Fgci, ha definitivamente chiuso?

«Sì, io con i capelli lunghi, lui con gli occhiali Ray-Ban... legammo subito e siamo rimasti amici. Adesso mi candido sindaco di Roma: faccio ancora in tempo?». 

·        Massimo Ranieri.

Da dilei.it il 3 magio 2021. Massimo Ranieri compie 70 anni e per lui arrivano gli ironici auguri dell’amico Gianni Morandi. Il cantante ha infatti pubblicato su Instagram uno scatto del passato in bianco e nero che ritrae i due artisti sorridenti e giovanissimi. “Auguri per i tuoi vent’anni”, ha commentato Morandi, riferendosi all’amico. I due sono legati da un rapporto di grande affetto e amicizia da moltissimi anni. Erano gli anni Settanta quando Morandi, Ranieri e Al Bano arrivarono al successo, fra esibizioni, concerti e tantissimi premi. Tre voci straordinarie e tre uomini con storie importanti alle spalle, fatte di fatica, di difficoltà e valori importanti. Oggi, nonostante sia passato tanto tempo, il legame fra i cantanti non si è spezzato. Lo dimostra il messaggio pubblicato su Instagram da Gianni e dedicato all’amico Massimo. Voce potente e grinta, Ranieri comparve per la prima volta in tv nel 1966 partecipando a Scala reale di Canzonissima. All’epoca aveva solo 15 anni e tanta voglia di mostrare il suo talento, qualche anno dopo avrebbe trionfato, appena diciottenne al Cantagiro con Rose rosse. Mentre risale ai suoi diciannove anni il successo a Canzonissima con Vent’anni. “Ricordo ogni istante di quella serata – ha svelato a Tv Sorrisi e Canzoni -. Ero seduto vicino a Claudio Villa e Gianni Morandi, poi c’erano Mino Reitano, Rosanna Fratello, Iva Zanicchi…“Canzonissima” era la trasmissione più importante d’Italia, c’erano 20 milioni di persone a seguirla. Quando Corrado mi annunciò come vincitore e Raffaella Carrà venne a prendermi in platea, appena salito sul palco ero stordito dalla gioia, dall’incredulità”. Da allora Gianni Morandi sarebbe diventato una presenza fissa nella sua vita. Un vero amico e un collega molto stimato, anche se in passato, più volte, si è cercato di alimentare una certa rivalità fra i due. “L’avete inventata voi giornalisti – ha detto Ranieri, ricordando quel periodo -. Come quella tra Rivera e Mazzola o tra Villa e Modugno. […] Il Teatro delle Vittorie era la nostra casa, eravamo lì da ottobre fino a gennaio e per tre giorni a settimana si stava insieme: prove, controprove e poi la serata in diretta. Facevamo ipotesi su chi avrebbe vinto, scherzavamo. E con Gianni giocavamo a scopa nei camerini”.

Massimo Ranieri: «La mia vita è stata piena di ferite: ho perso l’amore che non ho saputo trattenere». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2021. Il cantante si racconta dopo l’uscita del suo memoir: «Tutti i sogni ancora in volo». Ha 70 anni, lavora da 60, ne dimostra 50. Massimo Ranieri, un viso che racconta ogni istante della sua vita, occhi e rughe che parlano del suo dolore, della sua gioia. Mancava un libro. L’ha scritto: «Tutti i sogni ancora in volo», 200 pagine che si leggono tutto d’un fiato. Sembra un film la sua vita. Da piccolo scugnizzo napoletano doc del quartiere Santa Lucia, intraprendente, sfacciato, povero in canna, a grande attore, cantante, performer, acclamato in tutto il mondo. Feste di piazza, cinema, teatro, commedie, drammi, regia, musical, Festival di Sanremo, Canzonissima, televisione. Tutto di corsa, senza mai fermarsi. Passione, talento puro, determinazione: ogni traguardo l’ha raggiunto. Ma ha pagato un prezzo molto alto: «perdere l’amore». E non è un gioco di parole. La sua canzone simbolo è la sintesi del suo «buco nero». L’arte veniva prima.

«Ogni volta che mi sono trovato di fronte all’evidenza che per costruire una famiglia avrei dovuto cedere qualcosa sul piano professionale, rinunciare a un evento il giorno di Natale, mettere in pausa una tournée per concedermi una vacanza, il mio istinto mi ha spinto a confermare gli impegni e implorare la mia donna di rimandare i nostri piani . Illudendomi che ci fosse ancora tempo (...). E così che le ho perse , le donne che ho amato. Con tantissimo dolore e nessuna acredine : che avessero ragione loro l’ho sempre saputo». Pagine impregnate di amarezza e onestà intellettuale.

Perché Ranieri (vero nome Giovanni Calone) ha sentito il bisogno di scrivere un libro?

«Avevo voglia di far sapere al mio pubblico — quel pubblico che mi dà amore, stima, considerazione, sempre, ogni sera, ogni spettacolo — qual è stato il mio percorso. Le mie cadute, salite e risalite».

Ripercorrere la propria vita è come sottoporsi a una lunga seduta di psicoanalisi. E’ stato così anche per lei?

«Sì, riaffiorano dolori che pensiamo di aver eliminato. E invece sono dentro. Il cuore, la mente tengono tutto dentro. In certi casi mi sono dovuto fermare con il magone. Lasciavo per un po’ la scrittura e poi, dopo aver riassorbito la botta, riprendevo a scrivere».

Tanta sofferenza nella sua vita?

«Non mi vergogno a dire che sono pieno di ferite. Ma certo ho vissuto anche momenti meravigliosi. E’ che i ricordi belli non tornano e quelli brutti ti fanno stare male. Il dolore sta lì acquattato e quando hai un momento di debolezza, eccolo riapparire. Penso a quando ho perso i miei genitori, i pilastri della vita che non si possono sostituire, o alla morte di mia sorella».

Un dolore forte, intenso, che pensava sopìto?

«Il primo grande dolore per amore. Avevo vent’anni (titolo di uno dei suoi brani più famosi, che vinse “Canzonissima”, nonché la canzone che lo stesso Massimo ama di più, perché è cucita su di lui, ndr). Una sofferenza enorme. Scappai da Roma pensando di scappare dal tormento. Andai a Parigi. Pensai: lì cambio vita, ricomincio da capo. E invece no. Il corpo era a Parigi, la mente e il cuore erano là, a Roma, con il mio dolore».

Mamma e papà?

«Mamma era una donna forte, pragmatica che per me voleva un lavoro stabile, e uno stipendio fisso a fine mese. Per lei il canto era solo un hobby. Papà invece è stato il mio primo ammiratore. Lui Diceva: “Gianni addà cantà”. Quando ho guadagnato le mie prime 200mila lire le ha prese in mano ed è quasi svenuto».

Nel libro racconta che ancora oggi il Natale non riesce a viverlo bene. Troppi ricordi tristi le affollano la mente

«Da bambino non ho mai ricevuto un regalo, mai avuta nemmeno una caramella. Dovevamo chiedere i soldi in prestito allo zio per il pranzo di Natale. E certe sensazioni non te le scrolli mai di dosso».

Dopo tanta povertà, ora i soldi non sono più un problema. Come vive il denaro?

«Mi interessa relativamente. I soldi hanno senso solo se possono aiutare qualcuno. Ho sistemato i familiari, dato aiuto ad amici in difficoltà».

Bolognini ha scelto lei per Metello «perché ha una faccia da proletario»; Anna Magnani adorava il suo viso; a Patroni Griffi bastò incrociare il suo sguardo per volerla follemente a teatro; Strehler diceva: «dietro la faccia da bravo ragazzo che canta “Rose rosse” anche tu sei un figlio di pu... come tutti quanti noi che facciamo teatro. Io lo so e voglio farlo sapere anche al pubblico». Il suo viso ha contato molto dunque nella sua carriera...

«Ho una faccia un po’ eduardiana, una faccia dura, di un self made boy . Ma i grandi intellettuali avvertivano che dietro questa faccia dura, c’era un grande amore per l’arte, c’era entusiasmo, gentilezza. Capivano che avevo una grande volontà di riuscire, rubando sprazzi a tutti gli artisti. L’artista dev’essere un ladro, deve prendere qualcosa da tutti».

«Giorgio Strehler ce l’ho dentro. La mia anima è rimasta con lui»: un legame fortissimo tra lei e il regista.

«Sì, un legame che non si è mai spezzato. Ancora oggi quando metto su uno spettacolo, risento la sua voce forte: “Questo fa schifo, cambialo”. E ha ragione, come allora..»

Lei è un cantante amatissimo, il suo «Perdere l’amore» (vincitore a Sanremo ‘88) è un culto, le sue performance televisive hanno grande successo, ma la sua passione resta il teatro. Tra le pagine è palpabile l’adorazione per il palco, il sipario. Sembrano la sua casa, la sua stessa vita. Perché?

«Perché Napoli è nu’ palcoscenico a cielo apert’, e questo mi è rimasto dentro, nel bene e nel male. Come diceva il grande Pino Daniele, a Napoli c’è “il popolo che cammina sotto ‘o muro“. Io, a casa mia, ho messo il parquet, perché devo avere le tavole di legno sotto i piedi».

In nome di tutto questo ha perso l’amore: «La verità è che per amore ho patito tutta la vita, perche l’amore non sono mai riuscito a trattenerlo, a dargli la forma che avrei sperato. Mi è sempre scivolato dalle mani. Non mi sono mai sposato perché non sono stato in grado di dare a nessuna la stabilità di cui la vita familiare avrebbe bisogno per germogliare». Dunque nessun matrimonio, nessun figlio (a parte «l’adorabile Cristiana» riconosciuta tardi, con la sofferenza di «non aver colto quel dono quando ero troppo giovane e di essermi perso la magia della sua infanzia»). Tutto ciò la rattrista?

«Ho scelto io la mia vita. Per rispetto e onestà sento che non posso dare tutto a una famiglia, come do tutto al lavoro. Il giorno che smetto di cantare, mi dedicherò alla mia famiglia, ma finché non potrò farlo, non voglio infelicitare nessuno. Già mi sono infelicitato io; ho infelicitato le donne che hanno sofferto per causa mia. Perchè dovrei infelicitare altre donne o i figli? Il padre deve fare il padre: o è, o non è. Che dovrebbe dirgli la mamma: “Papà dov’è? E’ ancora fuori tesoro, non torna nemmeno stasera”».

Non esclude però che arrivi il giorno in cui potrebbe farsi una famiglia...

«E perché mai? Quando girai Les Parisiens, a volte la piccola Stella, nata da Claude Lelouche e Alessandra Martines, protagonista del film insieme a me, veniva a trovare i genitori sul set. Aveva cinque o sei anni e ricordo Lelouch, quasi settantenne, sollevarla per mostrarle il set. Sarei un padre ideale dato che ho il fuso orario dell’artista e prima delle tre di notte non mi addormento. Sarebbe bello scoprire che questo non è destinato a rimanere un rimpianto, ma a diventare un sogno che si realizza».

Oggi invece la molla che la fa svegliare la mattina è lo spettacolo?

«Sì, con il lockdown ho sofferto tantissimo. Sono felice di aver ripreso ieri la mia tournée, «Sogno e son desto», proprio ad Alba dove nel marzo 2020, tutto si fermò per me. Stavo andando nella cittadina piemontese per lo show, quando ci hanno avvisato che c’era un caso di Covid e non si poteva andare in scena. Abbiamo girato la macchina e siamo tornati a Roma. Da quel giorno sono stato chiuso in casa per 70 giorni di fila. E’ stupendo ora tornare sul palco: stasera sarò a Bologna, il 4 dicembre a Varese, il 5 a Milano, il 6 a Bergamo e poi ancora tante date e tante città, su e giù per l’Italia»

Ne parla davvero come un innamorato.

«Perché la mia famiglia è l’enorme mole di persone che mi seguono da anni. Mi coprono d'amore. E io lo sento nel profondo del cuore. Certo poi la sera faccio i conti con me stesso quando sono solo in albergo»

E quando vuole sentirsi meno solo che fa?

«Corro a Napoli perché lì c’è la mia famiglia d’origine, anche se siamo rimasti in pochi. Ma tra noi c’è ancora un grande amore, grazie a mia mamma che ha tenuto in piedi tutta la famiglia».

Al culmine del successo decise di lasciare la musica per il teatro. Poi un giorno, per caso, un ragazzo le fece sentire dei testi che aveva scritto tra cui «Perdere l’amore». Sentendolo, decise che avrebbe ripreso a cantare e che lo avrebbe pure portato a Sanremo.

«Una serie di coincidenze fortunate. Quell’anno secondo me il più forte a Sanremo era Fausto Leali con “Mi manchi” e invece vinsi io che non cantavo più da 16 anni. Non ci volevo credere, ero già andato al ristorante prima che finisse la serata. Quanto quella canzone e quella vittoria avrebbero cambiato il corso della mia vita l’ho capito solo dopo anni. “Perdere l’amore” è un incantesimo. Ogni volta che la canto, bastano le prime cinque note a scatenare l’entusiasmo del pubblico perché tutti ci si riconoscono. Chi non ha sofferto per amore? Chi non ha perso una donna o un uomo e non ha avuto voglia di morire? Ognuno di noi ha bisogno d’amore, per tutta la vita anche con i fili d’argento tra i capelli. Forse soprattutto allora. ».

Ha rimpianti?

«Non ne ho. Ma sogni ancora in volo, sì».

·        Massimo Wertmüller.

"La Lega non è il partito della cultura. E Draghi..." Francesco Curridori il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. L'attore Massimo Wertmüller ci offre un'analisi dell'attuale stato di salute del mondo della cultura e della politica. "Il mio cognome è stato un po' un peso e non un aiuto alla leggerezza perché sono sempre sotto i riflettori ed è come se pagassi virtù e difetti di quel cognome". L'attore romano Massimo Wertmüller, nipote della regista premio Oscar Lina, ripercorre la sua carriera artistica e ci offre un'analisi dell'attuale stato di salute del mondo della cultura e della politica.

Com'è nata la passione per la recitazione?

"È stata la vita che ha scelto il lavoro, non sono stato io a scegliermi il lavoro perché, se non mi fosse andata bene con questa professione, avrei fatto mille altre cose. Io ho anche altre passioni: disegno bene, anche perché ho avuto due genitori che dipingevano entrambi. Mio padre e mio nonno erano avvocati e io avrei potuto tentare quella strada e non mi sarei addolorato per questo. Ho cominciato con la passione per la fotografia, ma dopo una delusione, ho virato verso la recitazione perché a scuola facevamo le passioni di Cristo ed io, dietro a uno sgabuzzino, facevo la voce di Jacopone da Todi e già mi emozionavo".

Quanto è stata dura la gavetta?

"È come se dovessi rendere conto del mio cognome. Per costruirmi un'identità autonoma dal mio cognome ho faticato un 2% in più. Tutto iniziò quando, con degli amici di scuola, fondammo una compagnia e, mentre studiavamo, provavamo nei garage. La notte, nella famosa cantina di Mario Ricci, l'Abaco, mettevamo in scena degli spettacoli di Sartre, di Marlowe e altri. Quella umida palestra mi fece, però, capire che quella passione poteva trasformarsi in lavoro. Dopo di che ho iniziato a passare alcuni provini come quello per fare il ruolo che fu di Romolo Valli nell'unica riedizione del 'D'amore si muore' di Patroni Griffi il quale mi abbracciò commosso. Sono partito anche troppo forte, con Scola e Magni. Quel tipo di successo lì, poi, non ce l'ho più avuto. Il giro di boa arrivò a vent'anni quando feci il laboratorio di Gigi Proietti dove Antonello Falqui mi scelse per il gruppo comico La zavorra che vinse la rosa d'oro di Montreux, l'oscar del varietà".

Ha un ricordo di Gigi Proietti?

"Quando si finiva uno spettacolo e si andava a cena insieme e Gigi cantava fino all'alba al ristorante. Ricorderò sempre la sua urgenza e necessità di far star bene gli altri. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per far ridere la gente. Con lui lo spettacolo non finiva mai. Era molto generoso e amava insegnare ai giovani. Per un giovane che vuol fare l'attore non c'è miglior maestro dell'attore più bravo di tutti. Quando lui saliva sul palco, ci apriva tutte le porte della comprensione. Lui ci aiutava a leggere e capire i personaggi. Di lui mi porto la gioia in scena".

Qual è l'insegnamento più grande che le ha dato sua zia Lina?

"La preparazione, la disciplina e la cura. Affinché si possa essere sempre alle leve di comando della propria esistenza è bene prepararsi, incuriosirsi, studiare e leggere. E, poi, mi ha insegnato l'importanza dell'ironia e della leggerezza che io ho imparato male perché sono un po' 'pesantello'. Lei, invece, che è bella tosta e severa, è veramente una donna simpatica e leggera".

Qual è il suo film preferito, sia come spettatore sia come protagonista?

"Personalmente un personaggio come Eufemio che mi ha dato Luigi Magni per il film Nel nome del popolo sovrano difficilmente mi ricapiterà. Quello resta a cui devo di più. Come spettatore devo dire La grande guerra di Monicelli".

Chi è l'attore con cui si è trovato meglio recitare?

"Ho tanti amici amici cari e fare un nome solo sarebbe riduttivo. Se proprio devo, posso dire che Rodolfo Laganà, sin dai tempi della Zavorra, è uno degli attori con cui ho condiviso più complicità".

Teatro, cinema o televisione. Quale mezzo preferisce?

"Sono tre mondi diversi e interessanti e offrono tutti una bellezza e piacevolezza. Il minimo comune denominatore è la qualità. Se c'è quella, vanno bene tutti e tre. Certo, il teatro, in Italia, è stato considerato molto ingiustamente il parente povero degli altri due".

Come ha trascorso quest'anno caratterizzato dal covid e dalle quarantene?

"Ho riscoperto la solitudine e il rapporto con se stessi. Ho ritrovato la passione per il disegno e uso Facebook come una sorta di giornale per pubblicare le mie vignette. Ho riscoperto un me stesso che prima non ascoltavo. Mi manca il rapporto con gli altri e la socialità".

È stato giusto tenere chiusi i teatri per così tanto tempo?

"No perché c'era un solo caso su 300mila addetti. La scorsa estate ho fatto il teatro all'aperto e posso dire che era un posto sicuro. C'era da firmare un'autocertificazione, la misurazione della temperatura all'entrata e c'erano le distanze. Tutto questo riparava molto di più che al centro commerciale o dentro un autobus. A me è sembrato ingiusto e anche un po' preoccupante che la cultura sia stata così relegata in un posto non fondamentale per la comunità. Questo mi ha stupito e preoccupato, ma anche se noi potremo vivere solo di questo, questo Paese non ha mai investito in cultura. Se è vero che è un settore con un grande indotto, è incomprensibile questa mancanza totale di investimenti che ha portato alla nostalgia di maestri degli anni '60-'80 e che non ci sono più. Poi è arrivata la tivù commerciale e dei fattori che hanno portato a semplificare i gusti del pubblico, ma questo non impediva comunque a investire in cultura. Ma così non è stato".

Come si concilia la riapertura dei teatri col coprifuoco?

"Sono d'accordo con chi sostiene che non vale rischiare la vita per un'ora in più. E, anzi, io non avrei ancora riaperto perché i numeri non sono ancora buoni. Avrei fatto vaccinazioni a gogò e aspettato ancora un mesetto. Detto questo è evidente che c'è un'incongruenza su cui si deve ancora ragionare perché la magia del teatro all'aperto è il buio che viene squarciato dalle luci".

Ma perché in Italia la cultura è sempre stata in mano alla sinistra?

"È stato quasi sempre così. O, meglio, di quel poco che si è fatto se n'è sempre occupata la sinistra. Nessuno, in Italia, ha vietato alla destra di occuparsene. Non so perché sia così. Laddove c'è stato un governo di sinistra, c'è stato un vago interesse per la cultura. Generalizzando, forse, posso dire che alla destra interessa di più il settore economico che quello culturale. Non dimentichiamoci che qualcuno, a destra, disse “con la cultura non si mangia”, ma questo non è vero. Una società basata solo al sul Pil e sul denaro come centro focale dell'esistenza è pericolosissima".

Tra il governo Conte-bis e quello Draghi quale preferisce?

"Ci siamo trovati di fronte a un virus che prima non si conosceva ed è normale che una pandemia del genere, almeno all'inizio, cominci a gestirla confusamente. Poi, non parliamo dei disastri che sono avvenuti nella prima fase dentro le Rsa in Lombardia. Tutti i grandissimi errori che, poi, hanno portato a quel disastro possono essere comprensibili perché parliamo di un virus che non si è mai visto prima ed è inutile dire che qualcuno poteva fare meglio. Io credo che, pur con tutte le contraddizioni che ci sono state, Conte ha agito in modo serio e ci ha provato a mettersi sulle spalle una sanità colpita da tutti i governi precedenti. Non è una situazione facile da gestire, ma io non vedo un meglio. Vedo una politica tesa a screditare l'avversario con slogan facili per produrre consenso facile. Non è più l'epoca delle grandi ideologie, dei grandi partiti e dei grandi leader. Io, ora, guardo solo a chi mi parla di clima, ecologia, nuova economia verde e solidale e di diritti degli animali".

Quindi lei guarda a Conte?

"No, no. Non ho una preferenza appassionata. La situazione è complicata, ma Draghi, forse, si porta dietro un'autorità che altri non hanno e, quindi, se parla lui in Europa lo stanno a sentire. Questo non è poco, però è anche vero che Draghi rappresenta una visione solo prettamente economica del mondo e io sono contrario ai privatismi. Se l'interesse va a colpire la qualità della vita e la sanità pubblica, pensa al caso dell'ex Ilva di Taranto, io sto da un'altra parte. Per ora, posso dire che tutto questo meglio non lo vedo e spero che questi signori ci portino via da questo incubo e che Draghi ha un'autorità da spendere".

E di Salvini cosa pensa?

"Non è la politica che piace a me. Con Salvini sono tornati in auge certi argomenti e lui ha seminato su un terreno dove ha germogliato un nuovo razzismo, una nuova intolleranza, un nuovo odio. E, poi, la Lega certamente non è il partito della cultura, ma della reazione emotiva dovuta a qualcosa che non ha funzionato. Io, invece, condivido il confronto e il ragionamento. È tutto teso a una ricerca di consenso personale e questo non mi convince".

Da uomo di sinistra, è meglio Berlusconi o Salvini?

"Io non sono Che Guevara e oggi sono più verde che rosso. Ho sempre creduto che il socialismo sia la più grande idea di governo che sia mai stata partorita, ma non si è mai vista. Il comunismo è stata una dittatura militare, non il socialismo reale. La chiave sarebbe un socialismo che lascia il libero mercato e che ha un occhio sulla solidarietà sociale. Detto questo, tra i due non c'è dubbio: è meglio Berlusconi".

E la sinistra riparte da Fedez?

"No, Fedez ci ha messo la faccia e si è reso utile socialmente come nessuno ha mai fatto prima di lui. La sinistra, invece, è ancora intenta a ritrovarsi, c'è stato chi l'ha accompagnata nella nebbia e ha perso molte coordinate che la rendevano individuabile al primo sguardo. È come quando devi rimettere in carreggiata un’auto".

Come giudica il video di Grillo?

"Capisco il papà però oggi si dovrebbe spargere solo il seme della condanna senza nessun dubbio di un atto come lo stupro. In questo momento non è certo opportuno un video come quello. È sbagliato nella sostanza e nei modi. Non vuol dire nulla non aver denunciato subito. Può non averlo fatto per vergogna".

La più grande paura?

"A causa del covid ho perso un mio amico d'infanzia che mi manca da morire. Se n'è andato in dieci giorni e non hanno ancora capito come se la sia presa. Un anno fa ho subìto un intervento importante e la cosa che mi fa più paura è perdere la salute e rischiare di non essere più autonomo".

Un errore che non rifarebbe?

"Se tornassi indietro, farei di tutto per tenere unito 'La Zavorra', il gruppo comico con Rodolfo Laganà. I guai sono arrivati quando ci staccammo da Antonello Falqui. Da quel momento lì abbiamo sbagliato tanto".

·        Matilda De Angelis.

 

Matilda De Angelis: «Il mio nome è libertà». Cristina Lacava su iO Donna il 3 dicembre 2021. Ha avuto un'adolescenza on the road. Poi, la sua vita ha preso un'altra piega e il 2021 è stato l'anno dei grandi successi al cinema e in tv. Ora torna sul piccolo schermo con un programma per Sky Arte: Io sono leggenda. Tra mille impegni di lavoro, non ha quasi tempo per sé. Ma a una cosa non rinuncerebbe mai: la sua indipendenza. Lo ha imparato da una ragazzina con le trecce rosse, Pippi Calzelunghe. Sanremo, Undoing-Le verità non dette, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, Il materiale emotivo, Leonardo: Matilda De Angelis, 26 anni, nel 2021 ha “raccolto quel che aveva seminato”, come ci dice. A sei anni dal suo primo film, Veloce come il vento, diretto da Matteo Rovere, con Stefano Accorsi, la giovane attrice è ormai una protagonista di primissimo piano del nostro cinema: ha lavorato al fianco di Nicole Kidman e Hugh Grant, ha conquistato il pubblico del Festival come co-conduttrice accanto ad Amadeus e a Fiorello, si è mostrata spigliata ed elegantissima (non è neanche caduta scendendo la scalinata, come temeva). E non si è fermata. Dal 7 dicembre, su Sky Arte, è voce e volto narrante di Io sono leggenda, una serie in sei puntate dove si raccontano uomini e donne reali, poco o per nulla conosciuti, che sono stati fonte d’ispirazione per la creazione di personaggi straordinari, da Frankenstein a Zorro, Indiana Jones, Dracula, Betty Boop. In poco più di 20 minuti Matilda, passeggiando nel Salone del Podestà del Palazzo di Re Enzo, a Bologna, ci porta indietro nel tempo, tra spadaccini dal cuore d’oro, reginette del charleston, ingegneri con la passione dell’archeologia. Una storia è diversa dalle altre. È quella di una scrittrice che si è ispirata a se stessa e alla propria infanzia in una fattoria svedese, per creare nel 1945 il ritratto di una ragazzina anticonformista che non va a scuola e vive da sola con un cavallo bianco e una scimmietta: Pippi Calzelunghe. La scrittrice era Astrid Lindgren; anche lei, da bambina, si arrampicava su un olmo cavo e non voleva crescere.

Ha 26 anni: da piccola vedeva Pippi Calzelunghe in tv come abbiamo fatto noi “Boomers”?

Ma certo! Non solo: per mia madre, che ha 57 anni, Pippi è un mito. Una bambina indipendente, fuori dalle righe, un po’ matta… L’adora. Mi ha sempre chiamata Pippi, ancora oggi mi chiama così. È il suo vezzeggiativo preferito, per lei sono Pippi e basta.

Ci si riconosce?

Come Pippi adoro la libertà, è il mio valore supremo, l’aspirazione. 

Parliamo di un’altra puntata, quella dedicata a Frankenstein. Tutti ci ricordiamo come nacque il romanzo di Mary Shelley, da un gioco fatto per superare la noia di una piovosa estate in Svizzera con il marito, la sorella e il cognato lord Byron, nel 1816. Pochi sanno che la scrittrice si ispirò a un italiano, anzi un bolognese che viveva a Londra: Giovanni Aldini, il fisico che riprese gli studi dello zio Luigi Galvani sull’elettricità negli animali, e cercò di applicarli agli esseri umani per riportarli in vita. Tentò con un uomo che era stato appena impiccato, anzi si sospetta che lui stesso avesse accorciato i tempi del giudizio, per avere il cadavere a disposizione. Ovviamente fallì. Che effetto le ha fatto questa storia?

Giovanni Aldini è stato un personaggio pazzesco, insegnante di fisica sperimentale all’università di Bologna, in grande anticipo sui tempi. Devo dire che parlarne, qua nella sua e mia città, in un grande palazzo storico, mi ha emozionato. Ormai vivo a Roma ma a Bologna ho i miei genitori, mia nonna, gli amici del liceo. Bottega Finzioni, che ha realizzato la serie per Sky Arte, è una bella realtà locale che organizza anche corsi di scrittura per ragazzi provenienti da famiglie disagiate. 

Il 2021 per lei è stato un anno di successi.

Ho fatto un grande lavoro di semina, sto raccogliendo i frutti. La maggior parte dei film e delle serie tv usciti quest’anno li ho girati nel 2019, prima della pandemia. Ho lavorato tanto, in questi sei anni, ho fatto le scelte giuste, sempre ponderate, e sono stata ripagata. Ci sono state tante circostanze fortunate, concatenate, come un’ondata di un’energia positiva. Sanremo mi ha fatto conoscere al grande pubblico, ne sono grata.

Che effetto le fa essere così popolare a 26 anni?

È stato faticoso imparare a conviverci. All’inizio non me lo aspettavo, pian piano ho imparato a gestirlo restando fedele a me stessa. Sono molto riservata, ho bisogno della mia intimità, non amo essere osservata nella vita quotidiana. Quando sono insieme con altri in una stanza, penso sempre di essere la persona meno importante. Per fortuna ho una rete solida di affetti, che mi ha aiutato a non farmi fagocitare.

In questa rete c’è un fidanzato?

Non più, sono single. L’unico amore al momento è il mio cagnolino Mirò, un meticcio. La coppia a volte funziona, a volte no. In questa fase della vita ho bisogno di concentrarmi su me stessa, di mantenere i miei spazi. In passato mi sono sentita tante volte sola. Ora no. La solitudine c’è nella testa di chi la vuole sentire, io ci ho lavorato e me ne sto liberando.

Tiene molto ai suoi spazi fin da quando, ragazzina, andava in giro con la band Rumba de Bodas. Una scelta molto anticonformista. Com’è cominciata?

Mi hanno contattato su Facebook, la loro cantante li aveva mollati e ho preso il suo posto. È durata dai 16 ai 20 anni, ma sono riuscita a diplomarmi lo stesso. Cantavo e suonavo, avevo studiato violino e chitarra. Andavamo in tour tutta l’estate, d’inverno facevamo serate nei weekend, o tour più brevi. Non sono figlia d’arte; forse mio padre, che fa il grafico ed è un ex fumettista, rappresenta di più il mio lato artistico. Papà e mamma in realtà non erano proprio entusiasti ma mi hanno dato il permesso, anche perché sono appassionati di musica e capivano. E soprattutto sono stati loro a educarmi alla libertà.

Canta ancora?

Non ho tempo. Ma cantare mi piace sempre, me lo tengo di riserva per il futuro. Chissà, potrebbe essere una strada da esplorare.

Sei anni fa, per caso, ha partecipato al casting di Veloce come il vento, grazie a un amico che lavorava lì e aveva fatto il suo nome. Che cosa le è rimasto della vita precedente on the road?

Ho avuto un’adolescenza fortunatissima, che mi ha permesso di conoscere persone, culture, mondi, di confrontarmi con chi è diverso da me. Mi è rimasto lo spirito di gruppo, il senso di comunità. L’ho vissuta in qualche modo come un’esperienza politica, perché mi ha permesso di capire, di farmi le mie idee partendo dalla pratica. Soprattutto mi è rimasto l’amore per la libertà di pensiero, di movimento, di dire quel che si pensa con coraggio. Questo conta davvero. 

Alla ricerca della libertà vanno alcuni dei suoi personaggi di quest’anno così fortunato. In L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, di Sydney Sibilia, lei è Gabriella, la moglie dell’ingegner Giorgio Rosa che negli anni Sessanta proclamò uno Stato autonomo su una piattaforma in mezzo all’Adriatico. In The Undoing-Le verità non dette è Elena, donna anticonformista e libera, oltre che sfortunata. Anche Caterina, la musa di Leonardo nel biopic Rai, è fuori dagli schemi. Con quale criterio seleziona le proposte?

Vado sempre a colpo sicuro, dico di sì solo ai progetti che veramente mi interessano. Non per forza grandi produzioni internazionali, come The Undoing o Leonardo. Va bene anche un’opera prima, se mi convince e mi conquista.

Tra tanto lavoro, riesce a trovar tempo per qualcos’altro?

Per lo yoga. Ho fatto 12 anni di ginnastica artistica, e ho una memoria muscolare che con lo yoga funziona. Mi piace perché non è solo un’attività fisica, come correre su un tappetino in palestra. È legato alla mente, è un flusso che mi aiuta a respirare e mi fa star bene.

Nient’altro?

Le passeggiate con Mirò, che mi porto dietro ovunque, anche sul set. Al momento, il mio unico amore. Da iO Donna  

Sara Faillaci per “F” il 3 luglio 2021. «Non era previsto un nudo integrale. Però sul set, con la regista Susanne Bier, abbiamo fatto un discorso molto franco tra ragazze: se nello spogliatoio di una palestra una donna viene a parlarti in mutande e reggiseno, non ti fa alcun effetto. Ma se quella donna è completamente nuda e ti si para a un centimetro dalla faccia, allora sì che la percepisci come minacciosa. E questo doveva essere Elena Alves: aveva poche scene ma in quelle doveva essere indimenticabile». È da quando ho visto The Undoing - Le verità non dette che aspettavo questo momento. Quello in cui avrei chiesto a Matilda De Angelis come ha fatto a stare completamente nuda in piedi davanti alla faccia di Nicole Kidman ed essere così naturalmente sfacciata, sicura di se stessa. Ho visto la serie sei mesi fa e ricordo ogni singolo movimento della Alves, ogni espressione. Segno che l’impresa di regista e attrice è riuscita. Se pensi a The Undoing la prima immagine che ti esplode nella testa è lei: lei alla cena della costosa scuola privata con quella scollatura da vertigini, lei nuda di fronte a una Kidman annichilita che si fa piccola piccola sulla panchetta della palestra. Sarebbe bastato il successo della serie Hbo per scrivere che questo è stato l’anno di Matilda De Angelis. Ma questa ragazza cresciuta a Pianoro, paese a 20 chilometri da Bologna, a febbraio è salita sul palco di Sanremo e, come si dice in gergo, ha “spaccato”. Ha cantato e tenuto testa ad Amadeus con il monologo sul bacio che ha interpretato, anche questa volta, senza esitazioni, da attrice consumata. E dire che non ha mai studiato recitazione: è arrivata a fare l’attrice per caso (sì, la classica storia in cui ha accompagnato l’amica al provino per Veloce come il vento e invece dell’amica hanno preso lei). Nel frattempo, ha girato con Pietro Castellitto la serie Leonardo; con Liev Schreiber l’adattamento cinematografico dell’ultimo romanzo ambientato a Venezia di Ernest Hemingway, Across the River and into the Trees, e ora al Taormina Film Festival presenta Atlas di Niccolò Castelli, una produzione italo-svizzera di cui è protagonista assoluta.

Mi dica che cosa ha pensato nuda davanti a Nicole Kidman.

Premesso che mi sento più a mio agio nuda che vestita, perché a volte con certi abiti non mi sento del tutto me stessa mentre con il mio corpo sto benissimo, di fronte alla Kidman mi sono sentita fragile. Quella fragilità però paradossalmente mi ha dato forza, l’ho sfruttata a mio vantaggio. 

Il nudo integrale è un’esperienza forte.

Sì, ma lo accetto volentieri se funzionale alla storia. So mettere da parte il mio ego. 

Con la Kidman avete parlato di come affrontare quella scena e quella del vostro bacio?

No. Ho incontrato Nicole direttamente sul set. Non so se sia stato meglio o peggio ma la Bier non vuole prove, ama lavorare direttamente sulla scena. La Kidman dal vivo è sconvolgente: alta, statuaria, con occhi penetranti di un azzurro ghiaccio. Con me però è stata dolcissima, molto affabile.

Hugh Grant invece che effetto le ha fatto?

Conserva il suo fascino british, quella comicità cinica che a me piace molto. E poi Notting Hill è stato un cult anche per la mia generazione. Sul set ha fatto un lavoro pazzesco: da romantica simpatica canaglia si è trasformato in un cattivo psicopatico e fino all’ultimo non capisci se lo è. 

Che effetto fa lavorare con mostri del cinema?

Un attore di fama ha esperienza e tira su anche la tua interpretazione. D’altro canto lavorare con i miei coetanei è bello perché con loro abbiamo un linguaggio comune. 

Si trasferirebbe a Hollywood per lavoro?

Ci tengo a una carriera internazionale: sono stata felice di recitare sia in Leonardo, sia con Liev Schreiber a Venezia quest’inverno: è un attore pazzesco. Ma oggi non hai più bisogno di trasferirti all’estero per lavorare nelle produzioni straniere: il provino di The Undoing l’ho fatto mandando un video, me l’hanno chiesto perché ero l’attrice italiana vincitrice dello Shooting Stars Award, un premio per emergenti. E poi oggi basta fare un film per Netflix per essere in 150 Paesi.

Di Atlas è la protagonista.

È stato un film difficile. L’abbiamo girato in due momenti diversi: una parte nel 2018, l’altra nel 2019. Poi è stato pesante psicologicamente: interpreto una ragazza che cade in una depressione verticale dopo che la sua vita viene improvvisamente interrotta da un evento dove lei rimane ferita e dove perdono la vita i suoi migliori amici. La cosa positiva è che sono tornata a fare molto sport, perché il mio personaggio ama arrampicare. 

Per 12 anni aveva fatto ginnastica artistica.

Nel paese dove sono cresciuta non c’era molta scelta e io odiavo il nuoto. Allora mia madre mi ha portato alla prova di artistica e lì ho scoperto di essere molto portata: a 6 anni ero in agonistica. Lo sport ti dà una disciplina e una sopportazione della fatica che è importante conoscere fin da bambini; ti insegna il senso di squadra, il saper tifare per qualcun altro. E poi c’è la performance: nelle gare di ginnastica artistica ti trucchi, ti fai i capelli, hai questi body sempre super sgargianti pieni di glitter: l’esibizione è uno spettacolo. Imparare da piccola a essere giudicata in una competizione mi è servito a sbloccare tante cose. 

Era la più brava?

Eravamo tutte molto brave ma in cose diverse. La mia specialità era la trave, una piattaforma stretta e lunghissima di legno rialzata, quasi due metri da terra sulla quale fai degli esercizi sopraelevati. Mi sono sempre sentita a mio agio su dei binari molto limitati, ero molto sensibile. La mia insegnante mi diceva che le piaceva soprattutto la mia personalità, il mio cuore, come empatizzavo con gli altri. 

La sua famiglia la sosteneva in questa passione? Chi la portava alle gare?

Le altre mamme. La mia sarà venuta una volta. Credo avesse paura che mi facessi male.  

Che lavoro fanno i suoi genitori? In un’intervista li ha descritti “fricchettoni”.

Fricchettona è soprattutto mia madre, anche se definirla così è riduttivo: è una persona molto speciale. Ma a prima vista è una simpatica donna con i capelli fucsia che fa molto ridere. Ha fatto 200 lavori nella sua vita, da un anno è impiegata nell’archivio storico di Unipol e fa la sindacalista. Mio padre invece è un grafico pubblicitario. Mi hanno cresciuta in maniera molto libera, fuori dagli schemi, mi volevano indipendente. 

Spieghi.

Quando a 17 anni sono partita con il mio gruppo musicale, e stavo in giro per l’Europa anche tre mesi dormendo in furgone, avevo la loro approvazione: mia mamma mi ha sempre detto che non avrebbe mai potuto vietarmi di fare un’esperienza così bella per paura che mi succedesse qualcosa. Secondo lei, se avessi iniziato, per dire, a drogarmi, lo avrei fatto anche in vacanza nella riviera romagnola. 

Siete sempre andate d’accordo o ci sono controindicazioni ad avere una mamma così?

Ci siamo amate di più in alcuni periodi, meno in altri, ma abbiamo sempre avuto la libertà di dirci ti amo, ti odio. Quando cresci impari che i genitori non sono perfetti, sono persone e non puoi fargli una colpa delle distrazioni che magari hanno avuto nel tempo. Credo che trovarsi e piacersi tra genitori e figli sia una fortuna perché non ci scegliamo. Però oggi posso dire che siamo una famiglia unita e veniamo sempre al primo posto l’un per l’altro. 

In passato ha raccontato di aver sofferto di anoressia.

Oggi che sono più grande penso di aver sbagliato a chiamarla anoressia, li definirei più disturbi alimentari, anche se sono arrivata a perdere 9 chili in un mese e mezzo e mia madre era molto preoccupata.  L’anoressia è una vera e propria malattia, che ho riconosciuto in alcune mie amiche ma non in me.  Non mi sono mai guardata allo specchio dicendo: «Devo essere più magra», il mio perdere peso era una reazione a sofferenze.

Quali? Per esempio una delusione d’amore?

No guardi, le delusioni d’amore non mi hanno mai ammazzata, anzi, mi hanno sempre spronata e fortificata perché penso sia sbagliato far dipendere dagli altri la propria felicità. Se entriamo in un momento di sofferenza vero dipende soprattutto da noi stessi. Le cause della mia erano familiari, cose vissute nell’infanzia di cui sul momento magari non ti rendi nemmeno conto ma intanto un vermicello si accovaccia in un punto del tuo cuore, della tua anima, e quando sei più fragile inizia a rosicchiare. 

Quando è successo?

A 19 anni. Era una di quelle fasi di cambiamento, in cui non hai molto chiaro dove stai andando – non facevo ancora l’attrice – e la sofferenza è tornata a galla. Allora ho cercato di controllare quello che potevo: che cosa mangiavo o non mangiavo. 

Come ha risolto i suoi disturbi alimentari?

Ci ho lavorato. Vado ancora oggi in analisi e lo consiglio a tutti. Però bisogna stare attenti a non cronicizzare i problemi e il passato. Bisogna vivere il presente e guardare al futuro, anche se in alcuni momenti ci sembra più appannato. Dalla verità, ne sono convinta, nasce molta libertà. 

Iniziare a recitare l’ha aiutata?

Sì: è un lavoro terapeutico e mi piace tantissimo, anche se non ho mai studiato per farlo.Però tutte le esperienze che ho vissuto – dall’agonismo con la ginnastica a cantare e suonare, ai tour con la band – mi hanno insegnato a muovermi nello spazio e a uscire da me stessa, che poi è quello che impari  nelle scuole di recitazione. 

A Sanremo ha spaccato. Ed è arrivata la grande popolarità.

Anche se qualcuno all’inizio si chiedeva: «Ma chi cazzo è Matilda De Angelis?». Io sono sempre molto critica con me stessa, però riconosco che aver retto quel palco in un anno allucinante, senza pubblico, alla mia età, mi ha reso fiera. Mi è spiaciuto solo non aver cantato meglio. 

Sta lavorando tantissimo. Riesce a trovare un equilibrio con la sua vita privata?

Non molto. Finora sono stata molto concentrata sul lavoro perché penso che questi siano gli anni in cui hai l’energia per fare tutto. Però ora vorrei non trascurarmi più. Ci sto provando. 

Con Nayt, il rapper con cui è fidanzata?

Del mio privato preferisco non parlare. 

Però ha postato una foto con lui sul suo profilo Instagram. Dove ha pubblicato, mesi fa, anche uno scatto con il viso devastato dall’acne.  Oggi ha una pelle splendida. Come ha fatto?

Ne avevo sofferto in passato ma a dicembre è tornato uno sfogo terribile, proprio mentre giravo con Liev a Venezia. L’acne è insidiosa, può avere molte cause. Nel mio credo fosse lo stress, stavo facendo troppe cose insieme. L’ho risolta con un intervento manuale, l’elettrolisi, che ha bruciato le ghiandole sebacee delle cisti che avevo sul volto. Alle ragazze che ne soffrono consiglio prima di tutto di ascoltarsi per capire che cosa sta succedendo nel loro corpo.

La sua bellezza non è convenzionale. Si piace?

Non sono nata sicura di me ma non sono fissata con l’aspetto: non mi trucco quasi mai, non seguo le mode. Il mondo dei social, dove io cerco sempre di essere sincera postando anche le mie imperfezioni, nei modelli che propone è scollato dalla realtà: se non ci emancipiamo da capelli, vestiti, tacchi, rossetto, seno, culo, non saremo mai libere. Io spero di essere riconosciuta per la mia intelligenza, per l‘ironia e l‘empatia. Non per gli occhi o le tette.

Da "Oggi" l'1 aprile 2021. Matilda De Angelis si fa conoscere come non mai in un’intervista esclusiva a OGGI, in edicola da domani. Parla del suo nome ispirato alla Matilda di «Leon» interpretata da Natalie Portman, dell’adolescenza con «comportamenti autodistruttivi», degli esordi artistici («Inutile romanzare: quando vieni da una famiglia molto umile come la mia e il lavoro ti casca in testa, lo fai anche per soldi»), del problema dei brufoli («Ho qualche cicatrice di cui vado fiera perché sono la narrazione della mia battaglia. Tutti mi dicono che ho la faccia da bambola, ma non è così»). La protagonista di Leonardo su Rai 1 si rispecchia nel personaggio di Caterina: «Aspiro a essere quel tipo di donna, con un lato femminile dolcissimo e premuroso però, allo stesso tempo, indipendente, determinata e resiliente alla vita che la piega ma non riesce a spezzarla». Dice: «I miei genitori mi hanno insegnato la libertà in senso ampio». E quella libertà la difende. Parlando del fidanzato, il rapper Nayt, al secolo William Mezzanotte («un artista che ha una tecnica e una poetica pazzesche. In più è una persona straordinaria»), dice: «Se sono fidanzata non sono più libera? Eh no, che vuol dire? Io so’ sempre libera, ma ti pare!». Sull’abuso di ritocchini di Nicole Kidman, sua partner in «Undoing», dice: «Lei è un bellissimo essere umano e per me può fare quello che vuole. Io invece fatico perfino a togliermi un pelo dalle sopracciglia, ho la fobia di tutto ciò che mi modifica la faccia e stento a truccarmi. Figuriamoci se penso alla chirurgia estetica!».

L'intervista dell'attrice e showgirl. Chi è il fidanzato di Matilda De Angelis, il rapper Nayt all’anagrafe William Mezzanotte. Vito Califano su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Matilda De Angelis è l’attrice italiana del momento. A soli 25 anni. In un’intervista esclusiva al settimanale Oggi ha rivelato anche il nome del suo fidanzato, il rapper Nayt, al secolo William Mezzanotte. Un nome che aveva tenuto ben nascosto, nonostante le numerose interviste rilasciate nelle ultime settimane. L’attrice sta attraversando un periodo particolarmente brillante della sua carriera. Ha recitato nel film rivelazione di Netflix L’incredibile storia dell’Isola delle Rose con Elio Germano e nella serie tv The Undoing con Nicole Kidman e Tom Cruise. Ha fatto da madrina e presentatrice della prima serata del Festival di Sanremo al fianco di Amadeus. E in queste settimane è in onda anche nella fiction Leonardo nei panni di Caterina da Cremona. Un periodo d’oro. “Inutile romanzare: quando vieni da una famiglia molto umile come la mia e il lavoro ti casca in testa, lo fai anche per soldi”, ha raccontato De Angelis. Che ha parlato anche del tema della bodypositivity che ha sollevato in diverse occasioni per via dei suoi brufoli e dell’acne: “Ho qualche cicatrice di cui vado fiera perché sono la narrazione della mia battaglia. Tutti mi dicono che ho la faccia da bambola, ma non è così”. In Leonardo interpreta Caterina da Cremona, un personaggio mai esistito, inventato solo a fini narrativi. “Aspiro a essere quel tipo di donna, con un lato femminile dolcissimo e premuroso però, allo stesso tempo, indipendente, determinata e resiliente alla vita che la piega ma non riesce a spezzarla”. Per quello che riguarda Nayt, il rapper, il suo fidanzato, De Angelis ha parlato di “un artista che ha una tecnica e una poetica pazzesche. In più è una persona straordinaria”. E quindi ha aggiunto: “Se sono fidanzata non sono più libera? Eh no, che vuol dire? Io so’ sempre libera, ma ti pare!”. Nayt, classe 1994, è nato a Isernia ma vive a Roma da giovanissimo. Dal 2009 ha cominciato a incidere i suoi primi brani hip hop. Le sue barre e i suoi pezzi sono precisi e coerenti, il flow originale e molto tecnico. Sup mentore è Coolio, rapper che collabora con la sua prima etichetta 40 Ladroni Records. Si ispira soprattutto, almeno nella prima parte della carriera a Jay Z. Ha collaborato con molti tra i rapper più noti e seguiti in Italia. Ha pubblicato tre album. Matilde De Angelis invece è nata e cresciuta a Bologna. Si è appassionata prima alla musica, e ha fatto parte del gruppo Rumba de Bodas, con il quale ha girato l’Europa in tour. L’esordio dopo un provino in Veloce come il vento, del 2014, di Matteo Rovere.

Da repubblica.it il 30 marzo 2021. "Non lo so perché ero scalza, avevo 18 anni". Matilda De Angelis ha commentato così il video pubblicato sul suo profilo Instagram in cui suona a piedi nudi in piazza Dam, ad Amsterdam, con i capelli corti. L'attrice bolognese, classe '95, è arrivata al successo internazionale grazie alla serie Hbo "Undoing", con Nicole Kidman e Hugh Grant. Ma ha alle spalle anche una consistente carriera nel mondo della musica. Ha studiato chitarra e violino dall'età di 11 anni e a 13 ha iniziato a comporre canzoni. A 16 è diventata la cantante del gruppo Rumbo de Bodas, con cui ha inciso il disco "Karnaval Fou", esibendosi in tournée in Italia e in Europa.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 13 marzo 2021. A poco più di una settimana dalla performance al Festival, Matilda De Angelis torna a parlare di Sanremo e lo fa a Propaganda Live. Il tono però è chiaramente polemico, con il dito che viene puntato contro coloro che hanno espresso giudizi non troppo positivi sui social. “Mi è dispiaciuto perché avevo dimenticato il contorno della moda per quanto riguarda Sanremo”, ha detto l’attrice. “Ho trovato veramente assurdo essere giudicata per come ero andata vestita o avevo portato i capelli”. Osservazioni vecchie come la storia del mondo, dal momento che – spesso e volentieri – da oltre settant’anni a Sanremo le canzoni rappresentano il contorno. E, onestamente, l’aspetto legato alla moda il più delle volte tocca corde ironiche e di assoluta leggerezza. Il peggio arriva tuttavia quando la De Angelis si lancia in una ulteriore precisazione: “Non voglio fare polemica, ma trovo che lo stesso trattamento non venga proposto per i conduttori uomini”. Uscita a effetto, da ‘titolone’, ma non corrispondente al vero. Soprattutto nell’edizione 2021, quello dell’abbigliamento maschile è stato un argomento ampiamente battuto. Con una rapida ricerca, infatti, ci si potrebbe imbattere in tweet dissacranti e a volte impietosi sulla “sobrietà” degli abiti indossati da Zlatan Ibrahimovic e sulle colorazioni improbabili delle giacche di Amadeus. Finita qui? Manco per sogno. A Propaganda la De Angelis si è infatti esibita in un intervento lontano parente (eufemismo) da quelli proposti all’Ariston. "Ma chi cazzo è Matilda De Angelis" è il commento che ho letto più spesso negli articoli su Sanremo 2021. È una domanda comprensibile, assolutamente legittima, anche se mi verrebbe da dire ‘ma chi cazzo sei te’. Ma perché quella cattiveria, quell’enfasi nel sottolinearlo? […] Apri una pagina nell’internet e scopri che ti vengono fuori una serie di cose. Ottocento articoli su una faccia devastata dai brufoli, dall’acne. Ho avuto la bella idea di condividere la mia piccola battaglia con tutti quanti, senza pensare che il giorno dopo ci sarebbero stati 800 articoli sulla cosa […] Poi trovi un discreto numero di articoli perché ho baciato Nicole Kidman in The Undoing. Non ho mai capito se è il sensazionalismo dell’aver baciato Nicole Kidman o quella pruderie del bacio tra donne […] Alla fine Sanremo è andato bene, ho ricevuto molti complimenti e gli stessi commenti negativi che ricevevo al liceo. Ho confermato che sono fastidiosa, saccente, che me la tiro e che ho i capelli spettinati. Sono rimasta fedele a me stessa. Le differenze col monologo sul bacio del 2 marzo scorso trovatele voi.

Ilaria Ravarino per "il Messaggero" il 3 marzo 2021. Con Laura Pausini, che arriverà stasera sul palco dell' Ariston, Matilda De Angelis - bolognese, 25 anni, ieri a Sanremo come convincente co-conduttrice - ha almeno due cose in comune. La prima, l' origine: «Siamo entrambe emiliane. È una figata che il Golden Globe lo abbia vinto un' artista che viene dalla mia regione. È il nostro momento: ci gemelliamo con gli Usa e conquistiamo il mondo. Vincere un Globe con una canzone è un' impresa. Brava Laura». La seconda cosa in comune è, appunto, il Golden Globe. Che Pausini ha vinto, e che invece The Undoing, la serie in cui De Angelis recita con Nicole Kidman e Hugh Grant, ha lisciato nonostante le quattro candidature. «Va bene così - dice lei - una serie figa non dipende dai premi che riceve».

Sanremo: come ha vinto l' ansia?

«Avere Fiorello accanto fa la differenza. È più di un partner, ti guida e ti tiene per mano. Le scale non sono così spaventose: gli scalini grippano. Se cadi, è perché inciampi sul vestito. Occhio alle lunghezze».

Che direbbe di lei la Matilda adolescente che girava l' Europa in furgoncino?

«Direbbe: ma come stai, ma che cazzo ci fai a Sanremo? Sono cambiata. Ero terribile, insopportabile. Una ribelle».

E oggi?

«Credo ancora nella libertà e nell' autonomia. Ma penso che tutti gli estremismi siano sbagliati. Anche voler essere per forza contro o fuori dal sistema.

Il mondo ha delle regole».

Faceva la cantante. Ha mollato?

«Ho cercato conferme dal cinema, la testa ora ce l'ho là. Un album non si fa dal giorno alla notte, possono servire anche anni. E in sei anni non ho avuto due mesi di fila liberi per fare quello che volevo».

Se li avesse adesso?

«Mi prenderei una vacanza, perché il concetto della De Angelis sta ovunque non mi piace. Ma ho dovuto sfruttare le occasioni».

Le è dispiaciuto che The Undoing non abbia vinto nulla?

«Abbiamo vinto in altro modo, è stata una serie amata dal pubblico internazionale e italiano. Ha fatto ottimi ascolti su Sky».

Cosa le resta di quell' esperienza?

«L' ebbrezza del prostetico spalmato sul corpo (la preparazione gelatinosa per gli effetti speciali, ndr), la mia prima volta negli Stati Uniti e a New York. Ma non ho ricordi nitidi. Solo frammenti».

Uno?

«Nicole Kidman a due centimetri dalla mia faccia».

Si è stufata di parlare del vostro bacio?

«Mi dispiace che ci si focalizzi solo su quello. Capisco che sia sensazionale, ma è anche segno di una certa pruderie provinciale. Tutta questa eccitazione per un bacio lesbico, nel 2021, mi rompe in modo devastante le scatole».

Kidman è ancora cosi bella?

«È magica. Ha occhi da aliena, quando ti guarda ti senti spaesato. Poi non cammina: fluttua. Si muove come se avesse le ruote. Ed è altissima. Quando esce dal camerino ti toglie il fiato».

Però, a 53 anni, ha insistito con la chirurgia estetica. Che ne pensa?

«Era la donna più bella del mondo: in Moulin Rouge (il musical del 2001, ndr) non ce n'era una più bella. Eppure anche lei è diventata vittima di una certa mentalità. Mi fa soffrire la sua fragilità. Ha fatto quello che riteneva giusto, poi si è pentita. Ed è tornata indietro. Ma il danno ormai era fatto».

Un danno irreversibile?

«Non può tornare come prima. Se lei fosse invecchiata naturalmente oggi sarebbe bellissima, sarebbe una Anna Magnani. Purtroppo ha perso tutta la sua verità».

Il 23 marzo su Rai 1 sarà Caterina da Cremona in Leonardo, su Rai 1. Indosserà il corsetto?

«Sì, una tortura. Mi fa delle belle tette alte, ma per il resto è scomodissimo. Il vero culo però me lo sono fatto studiando la pronuncia inglese. Ma per Leonardo questo e altro. Leonardo Da Vinci è l' amico gay che vorrei».

Del film Di là del fiume e tra gli alberi, con Liev Schreiber, cosa può dire?

«È un film in bianco e nero, ambientato a Venezia nel 1947. È una storia autobiografica che Hemingway ha dedicato alla sua ultima musa, Adriana Ivancich. Ho conosciuto la sua famiglia: vivono ancora come nel libro, vanno a caccia, sparano alle anatre e nel pomeriggio si prendono il tè».

Ha sparato anche lei alle anatre?

«No, figuriamoci. Sono vegetariana».

Voleva un fidanzato panettiere: l'ha trovato?

«Niente, non ci riesco. Sto da poco con un musicista (non è a Sanremo, ndr), ma mi hanno scritto molti panettieri su Instagram. Sono geniali. Aspetto solo che fondino il gruppo panettieri per Matilda».

Chi è Matilda De Angelis, l’attrice ospite e conduttrice della prima serata di Sanremo. Vito Califano su Il Riformista l'1 Marzo 2021. Matilda De Angelis è l’ospite speciale della prima serata del Festival di Sanremo. Attrice, classe 1995, arriva all’Ariston fresca fresca del successo di due produzioni come il film L’isola delle Rose e la serie tv The Undoing. È considerata uno dei volti più promettenti del panorama italiano, tra i più spendibili anche a livello internazionale. È anche musicista: in passato ha fatto parte della band Rumba de bodas con la quale ha girato l’Europa. Anche il fratello Tobia è attore. È nata e cresciuta a Bologna, ha studiato al liceo scientifico Enrico Fermi. Ha cominciato molto giovane a suonare e a scrivere canzoni sue. Con i Rumba de bodas ha inciso un album, Karnaval Fou, del 2014. Un’amica “per un caso piuttosto incredibile aveva saputo che i Rumba de Bodas, gruppo noto nel bolognese, cercavano una cantante e aveva fatto il mio nome: mi hanno chiamata, ho fatto il provino e sono stata con loro per cinque anni. Suonavamo per tutta Europa, scegliendo noi il tragitto dei viaggi – ha raccontato al Corriere della Sera – Se dovevamo andare in Scozia decidevamo di volta in volta dove fermarci. Ma non era sempre semplice trovare ospitalità per otto musicisti italiani, così avevamo le tende e le buttavamo dove capitava: ho dormito nei parcheggi degli Autogrill, per strada, a casa di sconosciuti, nei parchi con la polizia che ci veniva a svegliare. Tutte cose piuttosto strane, in effetti”. Un’adolescenza spericolata: quando partiva lasciava spesso a casa il cellulare. Ha detto di non essere cosciente del tutto di come sia arrivata al successo: da giovane suonava, faceva ginnastica, sport. Il cinema è arrivato un po’ per caso, nessuna scuola di recitazione. Si presenta a un provino e viene scritturata nel 2014 per Veloce come il vento dal regista Matteo Rovere, al fianco di Stefano Accorsi. Una prova che la candida al David di Donatello e al Taormina Festival come miglior rivelazione. Poi sono arrivate la serie tv Tutto può succedere, Youtopia di Berardo Carboni, Una vita spericolata di Marco Ponti, L’incredibile storia dell’isola delle rose di Sydney Sibilla e The Undoing con Nicole Kidman e Hugh Grant. Ha partecipato a videoclip musicali per i Negramaro e i Thegiornalisti. È diventata anche icona della skin positivity dopo essersi scattata una foto nella quale mostrava il viso infiammato dall’acne. “Se dovessi propormi in linea con la mia adolescenza dovrei presentarmi a piedi scalzi, visto che giravo così. Ma ho già fatto il saltimbanco, quelle scale le vorrei fare da principessa e vivermi quella magia senza pensare di tradire chi sono. Quanto al fondotinta, penso che lì lo metterò per forza, non so se mi faranno stare senza… si vedrà. Ma per quel giorno la mia pelle sarà già molto migliorata”, ha detto ancora al Corriere. La prima sera della 71esima edizione del Festival sarà lei ad affiancare il direttore artistico Amadeus nella conduzione.

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 27 febbraio 2021. Anarchica e perfezionista, a 25 anni ha vissuto tante vite: musicista, attrice, dalla campagna bolognese al set di The Undoing con Nicole Kidman, Matilda De Angelis approda martedì al Festival di Sanremo. Gli inizi con la band Rumba de Bodas, la ragazza su cui scommette il cinema italiano, un mix di istinto e ironia, sa che è il suo anno ma gli amici la tengono con i piedi per terra. «Mi sono trasferita a Roma ma continuo a sentire i ragazzi a Bologna, so che verrebbero ovunque se avessi bisogno».

Cosa dicono della nuova Matilda?

«Niente. Ma uno di loro non ha resistito: "Siamo traumatizzati che sei un po' famosa, Mati mi raccomando, non farti prendere troppo"».

E lei si fa prendere?

«Da cosa?».

Che ha pensato quando Amadeus l' ha invitata a Sanremo?

«Negli ultimi quattro anni ho visto il festival fino all' ultimo minuto con il mio agente Gianni Chiffi. Quando mi ha chiamato per dirmi che avrei presentato una delle serate - ero sul set di notte, meno dieci gradi - sono rimasta senza parole. Era entusiasta».

L' anno scorso chi le è piaciuto?

«Diodato. Fai rumore era stata anche la mia canzone dai balconi, la mia preferita insieme a Andromeda di Elodie».

Sono tutti curiosi, come si vestirà?

«Sanremo è importante e deve esserlo anche l' abito. Sto scegliendo ma cerco pure un tocco di ironia. Il vestito deve rispecchiare la mia età.

L' importante sono le scarpe, penso solo che morirò precipitando dalle scale sul palco dell' Ariston. Ahò, d' altronde anche Jennifer Lawrence agli Oscar è caduta».

Festival delle giovanissime: con chi farebbe un duetto?

«Madame è speciale, una boccata di aria fresca, rappa con cognizione di causa. Gaia ha qualcosa di superbo, una voce super soft, calda, mi piace anche come persona. Direi con loro e poi, vabbè, con quell' amore di Francesca Michielin, che ha una padronanza in scena, una delle poche che suona anche il pianoforte e la chitarra».

Meglio sul palco da musicista o attrice sul set?

«La differenza è il ritorno energetico. Mentre reciti hai un riscontro ma guardano il capello, il costume, il trucco; sul palco c' è un ritorno diretto. Quella sarebbe stata la differenza all' Ariston, ma ora è uno studio televisivo. Non c' è il pubblico ma abbiamo davanti una nazione. Per me funziona tutto quello che è naturale e istintivo. La verità vince, meglio essere emotivi che gelidi. Nessuno dice mai: "Mi sto cagando addosso", eppure quel palco intimorisce. Forse lo dirò».

Ma no, scherzerà con Fiorello.

«Rido alle lacrime ogni volta che mi manda gli audio, è grandioso. Lui e Amadeus sono persone calorose. Sono un po' agitata perché Sanremo non è il mio habitat, ma so che mi faranno risultare al meglio».

Quando ha deciso di recitare?

«È stato un caso. Un amico ha fatto il mio nome, mi sono presentata al provino di Veloce come il vento, fu estenuante. Poi mi sono divertita come una pazza e mi sono detta: se mi piace come quando canto, allora ok... Sono una che lavora duro, non pianifico la vita. Vivo il momento, se mi si para davanti un' opportunità la prendo».

Che dicono i suoi genitori della carriera?

«Sono molto fieri. Mi hanno spinto a recitare, mia madre ha visto l' opportunità e ci ha visto bene. Che lavori li ha anche tranquillizzati. Non voglio essere venale, ma quello che è successo è stato importante per tutta la famiglia. So come vivevo prima e come vivo adesso».

Ha l' aria sicura, cosa la spaventa?

«Sul set non mi fa paura niente. Studio, lavoro e non mi risparmio, rispetto a quello sono sicura. Nella vita mi preoccupo che il mio cane sia in salute, che stia bene la mia famiglia, genitori e nonni vivono insieme in campagna».

Chi sono i suoi modelli?

«Jennifer Lawrence, Emma Stone, Emma Watson e Zendaya, ragazza bella e intelligente che fa tante battaglie. Oltre a essere attrici pazzesche hanno cambiato il divismo, sono donne vere. Lawrence è anche simpatica. Non sta attenta a quello che dice, è libera. Mi sento anch' io così».

Per questo ha postato le foto con i brufoli?

«Quando dicono "Sei stata coraggiosa" ribatto che non è vero. Sui social continuerò a essere me stessa: non coprire i foruncoli fa parte della mia libertà. Però sono felice se è stato utile ad altre ragazze».

Quando ha girato "Youtopia" si è spogliata, ed è apparsa nuda in "The Undoing": che rapporto ha con il suo corpo?

«In Youtopia era la prima volta, è stata tosta, il ruolo richiedeva un po' di consapevolezza, la protagonista era una webcam girl che si spogliava per sopravvivere e aiutare la madre. Era disperata. Sul lavoro sono spavalda ma in quel caso ho lavorato parecchio con una coach per familiarizzare non tanto con la mia nudità, nella vita l' ho fatto abbastanza, ma sul senso di quello che facevo. La nudità in sé non è niente, in The Undoing il nudo è erotico perché è misterioso».

Nel kolossal "Leonardo" con Aidan Turner, il 23 marzo su Rai 1, che ruolo ha?

«Sono Caterina da Cremona, misteriosa musa di Leonardo: viene ricollegata a un bozzetto della Scapigliata. La costruzione del personaggio parte da questa immagine: era un' amica, avevano un rapporto conflittuale. La storia ruota intorno a un enigma».

Dopo Nicole Kidman chi vuole baciare?

«Solo il mio ragazzo».

Chiara Maffioletti per "corriere.it" il 9 febbraio 2021. Sua mamma le ripete che lei se lo aspettava, lo sapeva che sarebbe diventata esattamente la persona che è. Ma Matilda De Angelis preferisce riderci su: «È una fricchettona, molto affascinata dell’esoterico, che ha studiato tante cose sulle esperienze dell’anima». La sensazione, per restare in tema, è che l’anima di questa giovane donna di 25 anni sia complessa e frastagliata; un insieme di colori anche distanti ma che rimandano l’immagine nitida di un volto veramente nuovo. Un volto che è a suo agio mentre bacia Nicole Kidman (o Hugh Grant, visto che ha recitato con entrambi nella serie The Undoing che l’ha resa nota in tutto il mondo) ma che lo è stato perfettamente anche nelle stazioni di servizio di mezza Europa, dove si lavava come meglio poteva dopo le notti passate a dormire per strada, con la sua band. «Delle volte nemmeno io capisco esattamente cosa sia successo», confessa. «Sicuramente negli anni ho fatto tante esperienze personali che alla fine si sono rivelate importanti. Non ho seguito una scuola di recitazione ma ho sempre fatto tanto sport e quindi lavorato sulla mia presenza: facevo ginnastica artistica e nelle gare il novanta per cento della valutazione era sull’interpretazione dell’esercizio. Poi ho studiato l’inglese, perché mi piaceva. E ho iniziato a cantare e suonare molto presto. Pian piano ho messo insieme tutte queste cose».

Ed eccola qui, il nome di cui ora tutti parlano. Prossimo volto anche di Sanremo. Se lo immaginava cinque anni fa, quando ha recitato nel suo primo film?

«Nonostante quello che pensa mia mamma, appunto, cioè che questo era da sempre il mio obiettivo, io non ho mai fatto niente nella vita con il pensiero che poi sarebbe stato il mio percorso. Ho solo seguito le mie inclinazioni, facendo quello che mi divertiva. Ho smesso di fare ginnastica artistica quando non succedeva più, nonostante fossi brava. Poi è arrivata la musica. Mi dicevano: perché non provi ad andare a X Factor? E io rispondevo: per far cosa? Per me i soldi, non avendone mai avuti, non avevano grande valore e non lo aveva nemmeno il diventare famosa, visto che io con la mia band suonavo ugualmente. Non capivo cosa sarebbe cambiato. Solo negli ultimi due anni sono diventata più ambiziosa, professionalmente più affamata. Non è tanto per vincere un Oscar o per lavorare con Tarantino... semplicemente, una volta individuata la mia carriera, è arrivata la consapevolezza di volermi impegnare il triplo».

C’è chi potrebbe dire che questo significa anche crescere, no?

«Sì, forse. Però l’altro giorno leggevo un post di Calcutta: ricordava che cinque anni fa era uscito il suo primo singolo di successo e che da cinque anni poteva pagarsi l’affitto ma non sapeva ancora bene se gli piacesse più prima o più adesso. Anche per me è un po’ così: posso pensare di essere maturata ma l’essere diventata anche più materialista mi piace e non mi piace».

La sua non era una famiglia benestante?

«No, non c’erano molti soldi. Diciamo che la crisi del 2009 l’abbiamo sentita tutta e alla grande. Non me ne importava granché ma non posso dire che ho iniziato a fare l’attrice perché lo sognassi: semplicemente non potevo dire no a un’occasione così. E in questo modo ho trovato la mia passione più grande. Ma al tempo stesso volevo portare a casa un po’ di soldi. Da ragazzina non potevo fare tante gite di classe o chissà che, ma per me non era un problema. Ho provato invidia solo per una mia compagna ricchissima che aveva una Fender Stratocaster e nemmeno sapeva cosa farne mentre io suonavo la chitarra della Lidl. A parte questo, me ne facevo una ragione».

«I miei migliori amici li avevo e quelli sono rimasti anche oggi. E se anche non andavo in gita, tanto giravo comunque l’Europa suonando, quindi...».

Come è arrivata la musica?

«Sempre per via di quegli incastri a cui crede mia madre, che mi hanno portata fino a qui. Una mia ex compagna di ginnastica si ricordava, non so come, che cantavo quando avevo dieci anni. Per un caso piuttosto incredibile aveva saputo che i Rumba de Bodas, gruppo noto nel bolognese, cercavano una cantante e aveva fatto il mio nome: mi hanno chiamata, ho fatto il provino e sono stata con loro per cinque anni. Suonavamo per tutta Europa, scegliendo noi il tragitto dei viaggi. Se dovevamo andare in Scozia decidevamo di volta in volta dove fermarci. Ma non era sempre semplice trovare ospitalità per otto musicisti italiani, così avevamo le tende e le buttavamo dove capitava: ho dormito nei parcheggi degli Autogrill, per strada, a casa di sconosciuti, nei parchi con la polizia che ci veniva a svegliare. Tutte cose piuttosto strane, in effetti».

E i suoi genitori? Cosa le dicevano?

«Lasciavo sempre il cellulare a casa quindi era molto difficile reperirmi. Ero terribile. Ma anche se ho fatto tante esperienze assurde non mi sono mai drogata, incredibile. Direi che, nonostante tutto, ero molto pura».

Si sentiva superiore rispetto ai suoi coetanei?

«No quello no. Però mi sentivo un po’ Balto: non è cane e non è lupo. Sa solo quello che non è. Io sapevo di non essere una normale studentessa 16enne di liceo e nemmeno di essere come gli altri miei compagni della band, che erano ben più grandi di me».

Anche oggi sembra sapere quello che non è. Non è schiava della sua immagine, nonostante ci lavori. Nelle scorse settimane ha postato diverse sue foto in cui mostra il suo viso infiammato dall’acne.

«Per me era importante far capire che non è una malattia che incide solo sulla nostra autostima e sicurezza ma è anche molto dolorosa, qualcosa con cui fai i conti tutto il giorno e non ti dimentichi di avere, visto che ti sta in faccia. Faccio l’attrice e dovrei avere una pelle perfetta: lo vedo quando il direttore della fotografia fa una fatica assurda per aiutarmi a coprire quelli che sono chiamati difetti. Invece è una cosa normalissima».

«Ho cercato di andare oltre un’immagine patinata e sfatare alcuni miti perché è ormai evidente che i social hanno un impatto psicologico pesantissimo sui giovani, uomini o donne che siano».

«L’acne provoca una grande ansia sociale: eviti certe luci perché sei sempre molto consapevole di come la tua pelle appare a seconda che sia giorno o sera, cancelli programmi con amici perché non hai la forza di mettere la testa fuori di casa, eviti gli sguardi... io ne soffro da quando sono adolescente e ho sempre fatto un grande sforzo. E non mi sono mai sentita bella».

Poi però bella Matilda De Angelis lo è diventata per tutti...

«Ma restavo insicura... mi vedevo corretta nei film, nei servizi fotografici... così un giorno mi sono detta: non va bene, mi sono rotta».

«E ho fatto vedere questa cosa. Non volevo diventare la paladina dei brufolosi, ma avendo io stessa tratto grande beneficio dai profili delle ragazze della skin positivity, che abbracciano questa nuova forma di estetica secondo la quale non ti devi vergognare di come sei e la pelle non definisce la tua bellezza o la tua personalità, ho scelto di accettarmi. Facendolo, inizi a vederti sotto una luce completamente diversa: ora mi trucco gli occhi, la bocca ma non mi metto il fondotinta».

«E ho scoperto che nessuno mi guarda i brufoli. Per magia, quando esci dalla paranoia anche la pelle inizia a migliorare: anche lei sta guarendo dall’ansia. Poi è ovvio che è importante curarsi, ma mi sono accorta di aver smosso qualcosa, vista la mole di messaggi che ho ricevuto. Chi lo liquida come un problema di poco conto significa che non l’ha vissuto».

Restando all’immagine, tempo fa sui social aveva postato una sua foto di spalle e poi si era quasi indignata perché era stata tanto apprezzata.

«Ma sì perché alla fine, anche questa mania della seduzione, questo narcisismo esasperato è malsano. Sui social è diventato un linguaggio estetico: una ragazzina non si rende più conto; per lei postare una foto del suo culo è solo aderire a un linguaggio mediatico e sociale, non sa neanche dirti perché lo ha fatto. Ok, la donna è libera di usare il suo corpo come vuole e tutto il resto, ovviamente, ma a 14 anni non sei consapevole. Non stiamo parlando di una Pussy Riot che va a manifestare in piazza. Semplicemente a 14 anni stai tramandano un linguaggio usato da influencer, attrici e modelle e pensi che a una cosa corrispondano dei like. A un certo punto mi sono messa a riflettere su questo meccanismo di gratificazione malato, da slot machine».

«So di aver passato dei periodi della mia vita in cui ero schiava di questa mentalità, pur inconsapevole, perché subdola. Ma ora mi sono detta: perché postare certe foto? Solo perché otterranno tanti like? Ma poi io che nella mia vita sono stata un super maschiaccio che ha portato i capelli rasati per tutta l’adolescenza... perché devo ritrovarmi a fare certe cose ora? Non posso cambiare il mondo ma posso fare qualcosa, quindi non voglio aderire a questo mondo patinato e se un tempo l’ho fatto me ne pento».

Tra poche settimane sarà su uno dei palchi più glamour e patinati del nostro spettacolo, Sanremo. Con o senza fondotinta?

«Se dovessi propormi in linea con la mia adolescenza dovrei presentarmi a piedi scalzi, visto che giravo così. Ma ho già fatto il saltimbanco, quelle scale le vorrei fare da principessa e vivermi quella magia senza pensare di tradire chi sono. Quanto al fondotinta, penso che lì lo metterò per forza, non so se mi faranno stare senza... si vedrà. Ma per quel giorno la mia pelle sarà già molto migliorata».

Sarà anche protagonista su Rai1 della imponente serie «Leonardo, in cui interpreta una donna che pare somigliarle parecchio», Caterina da Cremona.

«È così. È una donna che conosci in un modo poi diventa altro e quindi cambia di nuovo. Sembra che improvvisamente la vita le dia delle opportunità: lei le coglie con questa energia da lottatrice che nasconde la sua fragilità. Mi ci rivedo ».

Ma, alla fine, si è comprata una Stratocaster o suona ancora la chitarra della Lidl?

«Alla fine ho preferito comprarmi una Martin, una chitarra bella importante, evviva, scialla».

La vita — Matilda De Angelis è nata a Bologna l’11 settembre 1995. Mentre frequenta il Liceo scientifico, studia chitarra e violino, comincia a comporre canzoni e, a 16 anni, entra nel gruppo musicale bolognese Rumba de Bodas, con cui incide l’album Karnaval Fou nel 2014

Il cinema — Quello stesso anno viene scritturata dal regista Matteo Rovere per il film Veloce come il vento, accanto a Stefano Accorsi ricevendo una candidatura al David di Donatello e al Taormina Festival il premio come migliore rivelazione.

Poi arriva la serie tv Tutto può succedere, il ruolo da protagonista in Youtopia di Berardo Carboni, Una vita spericolata di Marco Ponti, L’incredibile storia dell’isola delle rose di Sydney Sibilla

Estratto dell’articolo di Antonella Matarrese per “Panorama”, pubblicato da “La Verità” il 7 gennaio 2021.

È difficile spogliarsi sul set di fronte a tanta gente?

«La nudità spesso fa parte del lavoro degli attori. Quando ho recitato per Youtopia ho seguito un training attoriale che comprendeva una preparazione proprio su questo. La paura che ne abbiamo è di carattere sociale, è sempre associata alla sessualità e spesso a qualcosa di scabroso. Per i nudisti, invece, è bello sentirsi liberi come la natura ci ha fatto, senza nessun secondo fine. Il problema è semmai cosa devo fare con questa nudità sul set. Le scene d'amore, se sei un attore, devi metterle in conto e farle nella maniera più consona per te, esponendoti emotivamente e fisicamente. Le cose si complicano se subentrano scene di violenza».

O di perversione, come in The Undoing (Le verità non dette)?

«Sì, è stato molto faticoso e difficile emotivamente. Non voglio spoilerare nulla, posso dire che l'unica scena di nudo integrale è stata quella meno complicata rispetto a tutto il resto».

Ha un timbro di voce suadente e una proprietà di linguaggio da esperta affabulatrice Matilda De Angelis, una delle nuove attrici italiane più internazionali e interessanti, forse la punta di diamante di una generazione di attori e registi che, da qualche anno, comincia a brillare in ambito cinematografico. Ed era ora. Matilda, che da grande voleva fare la cantante, a soli 25 anni, passa, in questi giorni sugli schermi, dai panni dell'avvocatessa Gabriella, fidanzata con l'ingegner Giorgio Rosa (Elio Germano) nel delizioso film L'incredibile storia dell'Isola delle rose (ai primi posti su Netflix), al ruolo della sensuale Elena Alves, amante di Hugh Grant e di Nicole Kidman nella serie thriller The Undoing: storia che ha stregato il pubblico americano, in Italia dall'8 gennaio su Sky. E pensare che, già scelta per recitare nel Pinocchio di Matteo Garrone, Matilda ha fatto il provino senza contare di essere presa. Ma poi è successo, così come avvenne con il suo primo provino, il più importante, quello per Veloce come il vento con Stefano Accorsi, che l'ha lanciata.

Cominciamo dall'inizio, dall'infanzia?

«Sono cresciuta in un paesino a 20 chilometri da Bologna, a Pianoro, tra le valli di Pian di Macina, in mezzo al nulla, tra natura e animali. Sono stata abituata a essere indipendente già da piccola, a stare da sola tornata da scuola. I miei genitori si sono separati quando avevo quattro anni e mezzo e io ero un po' con uno e un po' con l'altro. È stata un'infanzia solitaria. Poi sono andata al liceo, a Bologna, e mi è sembrato di scoprire l'America. Durante l'adolescenza ho girato tutta l'Europa in furgone, ero nella band Rumba de Bodas, abbiamo suonato e dormito ovunque. Ed è stato bellissimo».

Un'adolescenza da sessantottina più che da millennial?

«Vero, 10 anni fa dimenticavo volentieri il cellulare a casa. Non sono mai stata una fanatica della vita in diretta e dei like».

Nel film di Bernardo Carboni, Youtopia, vende la sua verginità online. Si è mai spogliata davanti a una webcam?

«No, non ho le ragioni per farlo, né la passione. Sono sui social perché devo farlo per lavoro, ma non posto con generosità. Anzi sono sicura che quando sarò abbastanza conosciuta - sono molto ambiziosa - li abbandonerò perché quella è la mia inclinazione».

Si è mostrata con i brufoli. Cosa non le piace del suo corpo?

«In realtà sono molto pacificata con il mio corpo. Come tutte le ragazze ho avuto diverse paranoie, ma era solo insicurezza».

Anche l'anoressia era una forma di insicurezza?

«Non sono mai stata anoressica, come ha scritto una giornalista. Ho sofferto di disturbi alimentari, cioè non mangiavo, ma non mi sono mai guardata allo specchio vedendomi grassa. Sono sempre stata, in quei momenti, consapevole della mia magrezza e del mio disagio. Per fortuna ne sono uscita».

Come è stato l'incontro con Nicole Kidman?

«L'ho incontrata direttamente sul set, si è presentata con molta semplicità guardandomi fissa negli occhi. Ha uno sguardo magnetico e freddo nello stesso tempo, poi durante le riprese è stata molto affabile e protettiva. Hugh Grant invece è il tipico britannico dall'umorismo cinico e dissacrante, è stato più complicato entrare in sintonia con lui. Professionalmente è un grande».

Crede nella complicità tra donne?

«Totalmente, e mi dispiaccio quando non la percepisco. Ci hanno educato a essere rivali, è una narrazione che portiamo avanti dall'infanzia: le donne si rubano gli uomini, si invidiano, si criticano. È ora di cambiare».

·        Maurizio Aiello.

Da tgcom24.mediaset.it il 14 marzo 2021. "Le mie foto sono state rubate per diverse truffe sentimentali". Sono le parole di Maurizio Aiello, attore di fiction, che a "Domenica Live" racconta di essere stato coinvolto, a sua insaputa, per adescare donne in cerca dell'amore. "Tutto è iniziato in Francia, le mie immagini - spiega Aiello - erano state segnalate alla polizia perché rubate". "Negli ultimi anni le mie foto, anche alcune insieme ai miei figli, si sono diffuse in tutto il mondo", continua l'attore che si è già rivolto alle forze dell'ordine, ma che al momento non può fare altro. "C'è gente che, ignara di tutto, ha perso oltre 200mila euro", conclude Aiello che poi si rivolge ai telespettatori chiedendo di fare attenzione e di diffidare dai suoi profili social fasulli: "Ne ho solo uno ufficiale contrassegnato dal bollino blu".

·        Maurizio Battista.

Maurizio Battista scrive alla figlia di 5 anni sui social e la ex moglie si infuria. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2021. Il comico e Alessandra Moretti si sono lasciati. Lui ha scritto un post per dire il suo amore alla bimba nonostante la separazione ma l’attrice replica «Dì la verità o taci». Il matrimonio di Maurizio Battista, 64 anni, e Alessandra Moretti attrice romana di trent’anni più giovane, da cui ha avuto la piccola Anna, è finito. E non bene. Separazioni tumultuose ce ne sono sempre state, ma da quando ci sono i social il tumulto si amplifica. Questo è quanto accaduto ai due attori. C’era già stata una crisi nel 2018, poi l’unione si era ricomposta ma evidentemente la crisi era rimasta nell’aria. E ora la rottura è definitiva. Dopo la separazione, Battista ha condiviso su Facebook un messaggio per la figlia Anna (5 anni) per spiegarle che, anche se lui e la mamma non sono più una coppia, il papà ci sarà sempre per lei. Parole tenere che però hanno fatto infuriare la ex moglie, che ha replicato con un post: «O la dici tutta o non la racconti. È meglio non raccontarla secondo me».

Il post su Facebook di Battista alla figlia

«Cara Anna, a volte nella vita capita che due persone non si capiscano più, che il loro sentimento svanisca lentamente e che, non riuscendo in alcun modo a ritrovarsi, decidano di allontanarsi l’uno dall’altra. La mia strada e quella della mamma si divideranno, ma io terrò sempre te al centro del mio mondo, preservandoti e sostenendoti. Ogni giorno continuerò a ricordarti di andare sempre dentro alle cose, di credere in te stessa anche quando il cuore ti sembrerà sia andato in pezzi, perché nonostante tutto l’unico faro rimane sempre l’amore». Questo il post di Battista per la figlioletta.

La risposta infuriata della moglie

Chi non si è commossa è la mamma di Anna. La quale ha scritto parole durissime che evidentemente nascondono una verità che solo loro due conoscono. «Per l’ennesima volta mi trovo protagonista di un teatrino, mio malgrado, senza rispetto né della mia persona né di quella di mia figlia (ah scusa nostra figlia), perché tu devi mostrare a non so chi le tue faccende private. Ma in fondo sono donna che conto? Tu con la tua spiccata megalomania di “Io so Maurizio Battista te non sei niente, tu sei cane io so leone’». E ancora: «Ma li vogliamo dire i motivi? Perché questa dichiarazione d’amore a tua figlia (che mi gioco casa non essere di tuo pugno) in cui ti dichiari il faro della sua esistenza, vacilla su tutti i punti. Parli di sentimenti svaniti lentamente di strade che si dividono, ma quando mai? Qua è tutto diverso. O la dici tutta o non la racconti. È meglio non raccontarla secondo me». E conclude: «Che poi manco il cuore di scriverle tu due righe per tua figlia, delle quali non comprendo l’esigenza giacché non sa neppure leggere. Sta smania di apparire ad ogni costo. Bah».

Il debutto a teatro

Nel frattempo martedì 14, Battista debutta con un nuovo spettacolo «Tutti Contro Tutti» in scena al Teatro Olimpico. Ha spiegato: «Sul palco racconteremo quest’aria di perenne rissa che oggi c’è anche in televisione dove trovi sempre qualcuno contro qualcun altro. Ma un po’ ovunque la gente è diventata rissosa, troppe fazioni contrapposte e così l’atmosfera che ne nasce non è certo delle migliori. Tutto questo cercheremo di portarlo sul palco raccontandolo in chiave ironica ovviamente».

·        Maurizio Milani.

Maurizio Milani, un funambolo della comicità e della scrittura. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2021. Il comico, autore di molti libri, possiede un suo linguaggio con cui ha saputo descrivere l’incongruenza del nostro relazionarci. Valeva la pena scavallare la mezzanotte per vedere pochi minuti di Maurizio Milani, pseudonimo di Carlo Barcellesi, a «Propaganda Live» (La 7). Era in abito scuro, con cravattino a farfalla. Ha raccontato di vivere in un dormitorio di via Pigafetta, di essere stato invitato con altri quattro grandi obesi alla prima della Scala, di aver salutato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che lo voleva sul palco («ma il Palco Reale è collaudato per una tonnellata, noi in cinque facciamo 700 kg, c’era il rischio di sfondarlo»), di avere avuto in prestito dal presidente Attilio Fontana una macchina della Regione per tornare a casa («alle sei di sera, d’inverno, noi andiamo già a letto, siamo abituati così»). In effetti, i cinque erano stati in giro tutto il giorno, a spaventare le vecchiette alla Stazione Centrale e così hanno gradito l’offerta di Fontana, al punto di avergli «ciulato» la macchina per andare a Ravenna. Il problema, adesso, era come farla sparire all’Idroscalo, senza causare troppi danni al patrimonio ittico. Maurizio Milani è uno straordinario raccontatore di storie surreali. Ogni giorno sul Foglio, Milani ci fa provare i brividi dell’assurdo e dell’insignificanza. Ha pubblicato anche molti libri, da vero scrittore: ha un suo linguaggio, con il quale ha saputo descrivere l’incongruenza del nostro relazionarci. La televisione, non si sa perché, lo ha bandito, specie quella mainstream «de sinistra». Per questo mi ha stupito non poco la sua presenza a «Propaganda Live», sia pur dopo mezzanotte, sia pure con un breve intervento registrato. L’importante è che ci fosse, l’importante che qualche sparuto spettatore abbia avuto la possibilità di trovarsi di fronte a un funambolo della scrittura, della comicità e della scorrettezza politica, in un mondo dove l’orizzonte più vasto sembra essere il proprio ombelico.

"Falce, martello e fattura sono il segreto per sfondare nella satira". Luigi Mascheroni il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. Il comico: "Per noi orfani della Dc non c'è spazio. La sinistra fa quello che rimprovera agli altri".

Maurizio Milani, cosa vuol dire fare satira?

«Beh, prendere in giro se stessi. Ma soprattutto Tomaso Montanari. Lo vedevo ieri sera, in tv, è sempre in tv Un critico d'arte che parla sull'intero scibile umano. Spesso con tesi oscurantiste. Tipo, ieri: non facciamo più opere pubbliche perché quando si costruisce c'è la corruzione. Come dire non andiamo in giro in macchina perché succedono gli incidenti. Ma poi se non andiamo in giro in macchina è anche peggio perché gli incidenti domestici statisticamente sono più rilevanti. Quindi? Cosa facciamo? Nei trent'anni che rimangono da vivere a me e Montanari, cosa facciamo?».

Cosa fate?

«Inquiniamo il pianeta. Oh! Con l'energia non si scherza. I pannelli solari fanno ridere, dài. Bisogna spingere l'industria, il petrolio. Io ho le azioni BP, la British Petroleum».

E cosa c'entra?

«Che la satira prima di tutto è conflitto di interessi. Tutti i comici hanno degli interessi finanziari, e quindi devono stare attenti a non scherzare con le persone sbagliate. Io per esempio non scherzo mai con l'Eni. Come la Gabanelli, che non farà mai un'inchiesta sulla sua banca che le presta i soldi, però rompe le balle al benzinaio di Codogno che versa l'olio esausto nel tombino».

Come sta la satira?

«Oggi si ha paura a farla. Bisogna stare attenti. Quando uso la parola pederasta, che mi piace molto, per poter andare avanti dico subito che anche io sono un pederasta. Così mi cautelo da qualsiasi critica politicamente corretta. Un po' come i miei colleghi afroamericani che fanno la stand-up comedy: solo se sono di colore possono fare battute sulle persone di colore. E solo se sei ebreo puoi raccontare barzellette sugli ebrei. Oggi fare satira significa che se prendi in giro una categoria, devi fare parte di quella categoria. Guarda me: io già da bambino guardavo gli altri bambini, anche la mia fidanzata lo sa, mi nascondo ma in realtà sono un pederasta».

La Disney ha vietato ai minori di 7 anni gli Aristogatti perché il gatto siamese Shun Gon farebbe il verso agli asiatici. Peter Pan è reo di chiamare i nativi americani «pellerossa». E dicono che Dumbo sia razzista.

«Sono tutte cose che alzano l'asticella sempre più in alto. La storia insegna che chi ha fatto la rivoluzione francese poi si è tagliato la testa da solo. Lo disse Pietro Nenni: A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura. Se te la prendi con Abramo Lincoln, che abolì la schiavitù, perché aveva servitù di colore, capisci che non si salverà nessuno. Ti ricordi il compianto Massimo Bordin, di Radio Radicale? Diceva: alla fine i magistrati di Mani pulite si arresteranno fra di loro Ha avuto ragione».

Pensa a Davigo?

«Davigo me lo ricordo che andava in tv a raccontare barzellette che non facevano ridere, che se le diceva l'ultimo comico di Zelig lo buttavano fuori dal locale, tipo quella che Non esistono innocenti, ma colpevoli non ancora scoperti. Io i magistrati li scherzo molto. Sono sempre stato con Silvio Berlusconi. Hai visto? Ora la Corte europea chiede all'Italia se fu applicata una vera giustizia. Noi siamo contenti perché quando non c'è stata più la Dc abbiamo votato Forza Italia. Io infatti sono per Gianfranco Rotondi».

Mi sfugge il riferimento alla Dc.

«Hai mai visto un comico della Dc? No. Sono tutti comunisti. O di sinistra. Coi soldi, ma di sinistra. L'importante è farlo sapere subito».

Cosa: che sei di sinistra o che hai i soldi?

«Tutti e due. Bisogna mettersi il cappello il prima possibile, far sapere che sei dei loro. Se mi fossi iscritto al Pc trent'anni fa adesso lavorerei di più. Io ho iniziato ad andare in tv, a Zelig, poco dopo l'apertura, era l'87, e c'era un gran comunismo in giro, credimi. Mentre al Derby c'era una comicità svincolata dalle logiche politiche, come negli altri locali storici di Milano dove si faceva cabaret. Lì era diverso. Poi è arrivato Berlusconi ed è successa una cosa strana».

Cosa?

«Erano tutti di sinistra, facevano serate nei teatri e in tv, scrivevano libri, conducevano programmi e facevano film, ma dicevano che erano censurati. Ti ricordi l'editto bulgaro di Berlusconi? O la Mannoia?».

Non La seguo più.

«Fiorella Mannoia sulla copertina di un suo disco mette un carro armato col grammofono al posto del cannone Per dire che è pacifista. Poi lei fa il tour, va nei suoi alberghi a cinque stelle, aspetta l'autista che la porta sotto il palco, fa il concerto e torna a casa. Lei ha fatto serata, e il mondo non è cambiato di un millimetro. Però lei è contro la guerra e la fame nel mondo. E allora? Io non ho mai conosciuto uno a favore della guerra o della fame nel mondo. E tu? Sono principi basilari. Non devi nemmeno dirlo. Anche io che sto con Berlusconi sono contro la guerra e per la pace nel mondo».

È una gag?

«Che poi. Vuoi la verità? La fame nel mondo mica la risolve la Fao, un carrozzone che serve a dare lo stipendio ai suoi funzionari. La fame in Africa la risolvi aprendo un McDonald's ogni 50 chilometri, dal Cairo a Johannesburg. Il problema però è che servono allevamenti intensivi e gli Ogm, ma i comunisti e Carlin Petrini non vogliono. E così non si può fare. A loro non interessa risolvere la fame nel mondo ma aprire le università della Gastronomia. Poi una volta all'anno invitano gli agricoltori andini, che non hanno mai preso un aereo in vita loro, che così inquinano venendo qui a sentire Petrini che gli dice che non bisogna inquinare».

Stavamo parlano di satira, però.

«Infatti. Queste cose non le puoi dire neanche facendo satira. Non puoi scherzare sul clima, sul riscaldamento globale, sul matrimonio tra noi pederasti. Io mi sono abituato a difendermi così. Se ad esempio mi chiedono cosa penso del Ddl Zan rispondo che siccome sono problemi etici io da credente mi affido alla più alta autorità morale che esista, cioè il Papa. Quello che dice lui, è Vangelo».

Mi sembra di buon senso, per un cattolico. Dove sta il problema?

«Il problema è che per un credente il Papa è il Papa sempre, sia quando lo è Bergoglio, o lo era Ratzinger, o lo sarà un altro. Invece cosa succede? Che ci sono cattolici, quelli di sinistra, che quando il Papa dice che bisogna accogliere i migranti va bene, ma se dice che la famiglia è composta da un padre e da una madre, non va più bene. Per me invece bisogna fare quello che dice il Papa sempre: quando parla di utero in affitto, eutanasia, accoglienza Lui è l'unico che può andare controcorrente, non compiacere la moda del tempo, anche se Travaglio o Fazio dicono un'altra cosa».

Tu hai lavorato con Fabio Fazio.

«Ho fatto sei edizioni di Che tempo che fa. Lì Michele Serra era il capo degli autori. Un giorno propongo uno dei miei pezzi: io che invito Giovanna Melandri a bere un caffè e lei sviene. A quei tempi credo fosse ministro della Cultura. La prendevo in giro, ma così, alla mia maniera. Poi quando stiamo preparando la scaletta, al giovedì, mi dicono: tutto bene, il pezzo è bello; però non è che invece della Melandri puoi mettere la Prestigiacomo? Cosa che io poi ho fatto: cosa me ne frega a me? Era una cosa innocua. Ma così loro si sono smascherati. Poi capivo che a loro non piaceva che scrivessi per il Foglio di Ferrara E così alla fine me ne sono andato. Mi sono indispettito perché imputavano a Berlusconi quello che loro facevano ad altri: cioè una forma di censura. Che è tipico di quella sinistra lì».

Quale sinistra?

«Quella che se tu vai a fare una serata in un loro circolo poi non ti pagano i bollini Enpals. E poi dicono che Briatore, che invece fa tutto in regola, è volgare. Una volta in uno di quei circoli lì, quelli che sono per Montanari, per un mondo più equo e contro la fame nel mondo, una cameriera si è tagliata con un bicchiere. Le hanno detto: ti diamo cento euro e ti portiamo al Pronto soccorso, ma non dire che lavori in nero».

Mi sembra Propaganda Live.

«Propaganda Live mi piace. Non mi fa ridere ma mi piace».

Comici di oggi che Le piacciono?

«Valerio Lundini, lui è bravo. Non è politico».

La satira è la forma di politica più pericolosa al mondo?

«Sì. Se è libera».

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021).

·        Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Dagospia l'1 luglio 2021. Da "I Lunatici - Radio2". Mauro Coruzzi, Platinette, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, in diretta tra la mezzanotte e trenta e le due circa anche su Rai2. Coruzzi ha parlato un po' di se: "Come sto? Dal punto di vista sanitario direi bene vista la ragguardevole età raggiunta, dal punto di vista psichico non me la cavo poi tanto male, riesco ancora ad ascoltare generi musicali che fino a ieri mi erano totalmente estranei ma soprattutto ho ripreso un'attività che credo sia lodevole, che è quella di cantare nelle ore notturne. Per i miei vicini ho insonorizzato il soggiorno. Mi rendo conto che le povere figliole che abitano nell'appartamento contiguo al mio al mattino possano avere un paio di borse sotto agli occhi".

Sul suo rapporto con la notte: "Sostanzialmente non è cambiato nulla. Ancora ricorro al servizio del cibo a domicilio. Ci sono persone che ti portano il cibo a casa h24. E' cambiata la disposizione di una testa bacata che tale rimane nei confronti del cibo. Adesso ho deciso di sopravvivere a me stesso, da un po' di mesi a questa parte. All'inizio della pandemia mi è venuta voglia di mangiare meglio. Ho pensato di utilizzare il mio tempo provando ad entrare nella virtù, come prima ero entrato nel vizio. Ho fatto una serie di operazioni dal punto di vista psicanalitico, ho iniziato un percorso, ho iniziato a vedere la cosa cinicamente. Ho calcolato gli anni che avevo davanti a me da vivere, meglio vivere sopravvivendo a se stessi che morire con un panino in gola. Ho pensato che gli anni che mi rimangono da vivere possono essere migliori se posso lavorare, vivere, camminare venti metri senza fermarmi con il fiatone. La spinta è stata dettata da un senso di sopravvivenza. Col corpo che avevo prima non potevo permettermi di fare più niente, se non stare su una sedia o al computer e magari farmi alimentare da un sondino. Quando ho capito che dovendo andare una volta a settimana in trasferta a Roma, da Milano, facevo realmente fatica. Questo mi ha dato la spinta per farmi capire che il mio corpo doveva servirmi ancora per fare ciò che mi piace fare". 

Sul rapporto col "mostro", il cibo fuori controllo: "Io mi sono abituato alla convivenza. Non sparisce mai, sei che è lì, sai che lo devi controllare. Nelle ultime settimane sto facendo una pratica orrenda, ma una forma di salvavita. Compro cibo come se avessi ottanta persone a cena e poi purtroppo butto. Dico ottanta per il gusto dell'esagerazione. Quando tu vai col delivery è difficoltoso che trovi qualcuno che ti faccia le mezze porzioni. Compro ma non mangio tutto. E non posso mangiarlo il giorno dopo. Il bulimico ha bisogno di cambiare completamente il menù per sentirsi normale, quando normale non è. Per questo il cibo lo getto. Questo dal punto di vista alimentare mi salva. Ingerisco meno calorie. Anche se amo ancora il cibo spazzatura, così come amo, senza controllo, le prelibatezze della mia terra. Il culatello, il parmigiano, il tortello, però in porzione decenti, così da non uscire con una specie di salvagente attaccato al girovita".

Sul rapporto col suo corpo: "L'estatica è una delle molle che fanno scattare questa fase. Confido molto nella terza età e nell'università della terza età. Ho una mancata laurea, a un passo dal raggiungimento. Iniziai a lavorare nelle radio, tra la radio e l'università scelsi la radio. Ora non disdegnerei di riprendere a studiare". 

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 17 maggio 2021. Quando lo raggiungiamo al telefono Mauro Coruzzi, alias Platinette, inizialmente non è sicuro di voler parlare ancora di ddl Zan. Da quando ha espresso la sua posizione, di insulti se ne è beccati parecchi, e l'ultimo scontro è andato in onda giovedì scorso: nella trasmissione Anni 20 di Rai 2 Paola Concia, tra le urla, lo ha accusato di dire falsità e di strumentalizzazione. Al grido di «tu adesso sta' zitto».

Si comincia ad aver paura di parlare?

«Questo no, non ci penso nemmeno. Ma non mi piace la piega che sta prendendo il dibattito su questa legge e mi comincia anche a stare un po' stretto il ruolo che mi stanno costruendo attorno. Ho semplicemente osato aver preso posizione contro il pensiero dominante».

Che è diventato aspro scontro politico.

«È talmente ovvio che non debba esserci differenza nel trattamento tra le persone, o che bisogna combattere l'odio verso un genere e compagnia cantante, che mi chiedo perché l'ovvietà debba diventare un disegno di legge, quando le norme a tutela delle categorie già esistono. Ma è vero, è diventata politica. E così, se ricordi che Mara Carfagna promosse la prima campagna in Italia contro l'omofobia, appoggiando la formulazione della legge, ti guardano con orrore, ti accusano di sbagliare».

Era il 2011, Carfagna fece un appello bipartisan sponsorizzando la allora proposta del Pd. La Commissione giustizia della Camera bocciò la legge.

«A favore c' era anche Alessandra Mussolini. La proposta attraversava tutto l' arco parlamentare e la trasversalità è l' unica chiave possibile per fare proposte vincenti. Invece oggi c' è una parte politica che entra in ballo pesantemente, forzando. Si vuole imporre una visione, che è una particolarizzazione».

A difesa di una categoria.

«Credo abbiano più bisogno di leggi le donne soverchiate e messe da parte nel mondo del lavoro, piuttosto che i gay».

Non esiste una discriminazione?

«Guardi che io non nego alcuna discriminazione, ci mancherebbe. Sto però ai fatti. Trentacinque segnalazioni di crimini o discorsi d' odio legati all' orientamento sessuale in un anno sono forse un' emergenza? A sostegno delle coppie di fatto forse sarebbe più utile un' azione sulle pratiche di affido, o di adozione, così che siano rese più veloci. Invece di parlare di utero in affitto».

I sostenitori della legge dicono che l' utero in affitto non c' entra.

«E allora venga verbalizzato, escluso formalmente e definitivamente. Perché penso che invece sarà il prossimo passo. Ed è inquietante, una aberrante forma di sfruttamento delle donne. Mi tocca difendermi perché ho un' opinione. Le leggi a tutela delle persone omosessuali già esistono, porca miseria. Perché insegnare nelle scuole le differenze di genere? Non è didattica questa».

Serve a cambiare la mentalità?

«Senta, io sono otto persone in una da sempre. E proprio per questo ritengo che sia soverchiante voler imporre una visione delle cose. Alle magistrali la mia insegnante di italiano era la tipica donna borghese con pellicce di leopardo, truccatissima, icona di un femminile morto e sepolto. Fu però una complice fantastica quando le proposi di portare Alberto Moravia come approfondimento per la maturità, un autore che amavo moltissimo. Era il mio tentativo di uscire dalla rigidità del sistema scolastico».

Con la letteratura.

«E con la musica. Invece di suonare la chitarra con le solite canzoncine chiesi di presentare Roberto Vecchioni, L' uomo che si gioca il cielo a dadi. La commissione era sbigottita, non sapeva come prendermi, ero un' anomalia. Ciascuno si forma a modo suo. L' affermazione di sé non dipende mai dalla sessualità. Perché altrimenti ci si auto-ghettizza. Mi sono rotto le scatole di essere "il gay che parla di gay", semplicemente perché è la vita che non funziona così».

La scuola non deve entrare in questo territorio?

«No, al massimo dovrebbe semplicemente offrire esempi di libertà attraverso le diverse forme espressive».

C' è chi è incapace di difendersi se attaccato.

«Anche qui: quando mai essere gay significa essere più sensibile di altri. Ciascuno è fatto a modo suo. Dipingere così le cose mi sembra il tentativo di reclamare un presunto orgoglio che ti faccia sentire migliore di altri. Coloro che sono vessati, picchiati, mostrati a dito capisco che soffrano, ci mancherebbe. Ma pensiamo davvero che quel cretino che ha picchiato quella coppia in metropolitana a Roma cambierà la sua mentalità se la legge verrà approvata?».

Forse ci penserà due volte.

«Ma quel deficiente non sa nemmeno cosa sia la legge, per favore. Le panchine rosse e le leggi hanno forse diminuito i casi indicati con quella parola orrenda che è femminicidio? Purtroppo no. Introdurre il reato di omicidio stradale colposo ha forse cambiato la testa di quei matti che fanno numeri da circo equestre con la macchina?».

Quindi la politica non dovrebbe occuparsi del tema?

«Il politico più illuminato della storia italiana del dopoguerra è per me Marco Pannella. Non costruì certo il suo pensiero pubblicizzando i suoi orientamenti sessuali. Capì, anzi, che solo superando gli steccati si sarebbe portato avanti il Paese. Quando incontrò un signore di nome Silvio Berlusconi per dialogare sui diritti civili ebbi l' unico orgasmo multiplo della mia vita. Finché ciascuno sta rinchiuso nel proprio mondo a difendere i propri diritti senza considerare quelli altrui sarà impossibile una facilitazione sociale. Occorre legiferare su quanto occorre vada normato perché è ormai "mercato", come accadde per l' aborto. Siamo onesti: io tutta questa "fobia", sinceramente, non la vedo. I trans ballano anche in televisione, da Milly Carlucci su Rai 1».

Nella sua storia non ne ha mai sofferto?

«Eccome, certo. Ma erano persone ignoranti, che stavano a destra come a sinistra, da sempre».

Ci saranno quelli più antipatici

«Non c' è differenza. Qualche anno fa mi invitarono per una diretta a Radio Padania. Accettai ma mi preparai con elmo e scudo, ero sicuro sarei stato insultato o bastonato».

Non accadde?

«Anzi. Gli ascoltatori votavano Salvini ed erano semplicemente incuriositi da me, dalla mia storia, da come avessi raggiunto la popolarità. Perché quella aiuta, non lo nego. Per me il travestimento è un lavoro, un modo di comunicare. Non interessa a nessuno se a una certa ora della sera mi viene lo sghiribizzo di andare a letto con un uomo. Non è la differente inclinazione sessuale il problema, ma se gli altri la giudicano come un valore».

C' è chi la definisce «omosessuale omofobo».

«Un ottimo titolo per una sceneggiatura di un film, mi fa quasi ridere, perché è come se qualcuno tentasse di mangiarsi la coda. Non odio nessuno e niente in generale, fatta eccezione per il mio rapporto con il cibo, ma questo è un altro discorso».

Quali sono state le reazioni dopo che ha preso posizione sul ddl Zan?

«Gli insulti verso di me sono una regola giornaliera, ma il clima si sta inasprendo parecchio. Alla sera faccio dirette Instagram dove parlo d' altro, spesso di musica. Ora c' è chi mi scrive "frocione del cazzo" e pure chi dice "tu non ci rappresenti, vergognati". Di cosa dovrei vergognarmi? Di essere difforme dal pensiero unico? Salire sul carro consentirebbe di vivere una vita meravigliosa, forse anche di trarne un utile. Ma non sono fatto così. Sono uno che non si accontenta, da sempre. Quando tutti i coetanei chiedevano il motorino, io mi feci portare da mia madre a vedere un concerto di Mina».

Le piacque?

«Meraviglioso. La rividi altre volte, la conobbi nell' 81 e fondai il suo fan club. Ho poi lavorato con sua figlia e mantenuto un rapporto - saltuario, perché rispetto il suo desiderio di riservatezza - con lei. Ricordo di quei tempi anche un concerto di Gaber, eccezionale».

Allora c' era Gaber, oggi c' è Fedez.

«Gaber era un uomo e un pensatore libero, poi utilizzato malamente dalla cultura dominante. Qualcuno, che di destra non è, si impossessò dei suoi testi. La destra è incapace del tutto di appropriarsi della cultura. Non sono capaci di far emergere la propria storia come un valore, che invece andrebbe rispettato. Non sono nemmeno sicuro che quelli di Casa Pound sappiano chi fosse Ezra Pound».

Ma non è politically correct.

«No certo, e allora meglio definire razzista Via col vento - che poi Mami era lesbica, qualcuno dovrebbe dirlo - o scandalizzarsi per i baci alle principesse che magari erano vittime dei sette nani e allora meglio che il principe le abbia dato una svegliata.

Oggi è anche il tempo delle quote sulle differenze, persino per i premi dei film. E della sezione "film Lgbt" pure su Netflix. Mi pare che il politically correct, nei fatti, ci abbia portando solo a una brutta dose di discriminazione».

"Così ho deciso di travestirmi...". Poi la sentenza su Pio e Amedeo. Maria Scopece il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Intervista a tu per tu con Mauro Coruzzi, in arte Platinette. La sua carriera, i suoi affetti professionali e le sue opinioni su Mario Draghi, Matteo Salvini, Giuseppe Conte, Giorgia Meloni e sul DDL Zan. Mauro Coruzzi in passato è stato Platinette, parruccone color platino, tacchi alti, movenze ammiccanti e battute irriverenti. Uno dei personaggi più popolari e amati della tv italiana. Ora è un uomo nella sua età matura, consapevole e soddisfatto della sua carriera e della sua capacità di essersi saputo sempre autodeterminare al di là di ogni etichetta.

Con Mauro Coruzzi abbiamo parlato della sua Platinette, dei suoi affetti professionali e delle sue posizioni, controcorrenti, sull’invasione del politicamente corretto.

Come inizia la sua carriera nello spettacolo?

“Essendo una pioniera delle radio private. A Parma, nel gennaio del ’75, apre Radio Parma, la prima radio privata continuativa. Mi trovai a fare una specie di provino, non che fosse un lavoro perché non era nemmeno retribuito, e feci parte del primo gruppo di pionieri. Tra l’altro da un anno sono tornato, con una collaborazione marginale, con una mia trasmissione in quella radio. È iniziato per pura passione ed è continuato per la stessa ragione”.

Quando e perché ha deciso di adottare un travestimento?

“Non ho deciso. Capita nella vita che vi siano delle occasioni che fanno sì che ci si innamori di una possibilità. A metà degli anni ’70 andai a vedere un gruppo a Parma che si esibiva in un club, erano i cosiddetti “trasformisti” uomini, vestiti da donna come nel teatro elisabettiano. La sera dopo averli visti mi sono unita a loro. Così cominciò questa seconda opzione di comunicazione del teatro, del cabaret in locali molto alternativi. Anche in questo caso c’era pura passione scoperta da spettatore con il desiderio di farne parte”.

Quando ha capito che il suo personaggio, quello di Platinette, aveva avuto successo?

“Il passaggio verso la popolarità più diffusa è avvenuto con Costanzo quando mi ha adottò, prima della fine dello scorso millennio, e fece di me uno dei più ricorrenti ospiti al Costanzo Show. Credo sia stato quello il passaggio alla popolarità nazionale. Ma sa, non si finisce mai di mutare, men che meno adesso”.

Quali sono le esperienze che l’hanno maggiormente segnato nella sua carriera? C’è qualcuno che si sente di ringraziare per aver creduto in lei?

“Non è tanto che abbiano creduto in me è che hanno avuto molto coraggio ad adottarmi, prima di tutto Maurizio Costanzo e poi, qualche tempo dopo, Maria De Filippi che mi ha voluta per 10 edizioni ad “Amici”, l’ultima lo scorso anno con “Amici Celebrities”, una versione speciale di quel programma meraviglioso. E poi Grazia Di Michele, con la quale ho partecipato a Sanremo. Io prima ero suo fan, poi sono stato vicino a lei nell’esperienza di “Amici” e poi siamo andati a Sanremo insieme con la canzone “Sono una finestra”. Lei ha avuto un gran coraggio, e insieme a lei l’ha avuto Carlo Conti che ha accettato nel 2015 quella canzone al Festival. Nemmeno noi credevamo di riuscire ad arrivare alla finale. È stata un’emozione probabilmente irripetibile talmente era fuori dalla norma per me”.

Parliamo di intrattenimento. Lei l’ha visto LOL?

“No, non l’ho visto e nemmeno mi attrae l’idea di farlo. Difficilmente rido quando i programmi sono dichiaratamente comici. Ma non perché sia un bastian contrario, agisco in un altro modo, mi fa ridere l’inaspettato. Non amo particolarmente i comici né moderni, né datati, amo le sorprese. Ho scoperto da poco Ricky Gervais, il comico più sorprendente che ci sia. In Italia mi ha fatto ridere per decenni, ma alla sua maniera, Franca Valeri. Attrice irraggiungibile per humor, classe, stile. Il comico, in generale, non mi attrae".

Nelle ultime settimane ha tenuto banco un dibattito serrato sul monologo contro il politicamente corretto di Pio e Amedeo. Lei cosa ne pensa?

“Il politicamente corretto è diventato un nuovo codice. Le regole sono fatte per essere infrante. Mi è piaciuto essere spiazzata e sorpresa, nella tv commerciale, generalista, in prima serata. Anche se i due non sono certo nuovi alla “trasgressione”. L’hanno cavalcata in maniera inconsueta perché si rivolgono a un pubblico semplice. Perciò è un po’ rischioso quello che hanno fatto Pio e Amedeo ma encomiabile. C’è chi usa quel linguaggio scorretto solo perché è ignorante fino in fondo e non ci sono cure se non quella di istruirli. I ragazzi hanno trovato un sistema per farlo, hanno inviato un messaggio in maniera comprensibile anche a un pubblico meno strutturato. Non mi è affatto dispiaciuta l’idea. Anche se per me il politicamente scorretto è una regola, al contrario vorrei qualcuno che mi invitasse a essere corretto e a farmi capire quale sia il limite tra correttezza e offesa. Io non lo conosco”.

Per la satira può essere un pericolo il nuovo codice del politicamente corretto?

“I codici hanno una ragione d’essere, l’importante è che chi li pratica e li osserva in maniera puntigliosa non diventi un integralista. Perché non c’è nulla di più terribile dell’integralismo a tutti i costi. Sia l’integralismo del politicamente scorretto a tutti i costi, sia l’integralismo di chi reputa il bacio alla principessa addormentata una forma di violenza perché lei non era consenziente. Qualcuno potrebbe dire il contrario, meno male che il principe l’ha risvegliata sennò quella poveretta restava intontita per tutta la vita”.

E soprattutto perché l’interpretazione unica dei fenomeni diventa assolutista.

“Basti pensare che il pensiero “correct” definisce “Via col vento” un film razzista. In pochi sanno che Hattie McDaniel, la Mami di Rossella Ohara, era lesbica. Quindi dov’è la scorrettezza?”.

Ha paura del Covid?

“Neanche un po’. Mi hanno detto che sarebbe possibile accelerare i tempi per la vaccinazione con Astra Zeneca e a Roma, facendo una richiesta, si potrebbe essere vaccinati quasi subito. Voglio vaccinarmi il prima possibile e togliere davanti questo mezzo incubo spianando l’orizzonte da questa ombra orrenda”.

Come ha vissuto i mesi più duri del lockdown?

“Con la inaspettata voglia di migliorare. Ho avuto più tempo per pensare a ciò che per me è stata una forma estranea di cura come quella del corpo, della salute, del mangiare po’ meno peggio. Ho imparato a farmi un po’ meno male per calcolo, perché non avendo davanti un futuro luminoso ma avendo alle spalle una luminosa carriera fatta di abbuffate e di problematiche legate al comportamento alimentare, ho deciso di disfarmi di quella zavorra. Voglio vivere il rimanente del viaggio terreste in maniera più agevole, potendo continuare a lavorare non sentendo il peso del peso. Ho fatto più tapis roulant, più esercizi con gli elastici. Ginnastica casalinga insomma o aerobica di una volta. Imitando Jane Fonda, alla mia maniera”.

Cosa ne pensa della gestione della pandemia dal governo Conte prima e da quello di Mario Draghi ora?

“Credo che ci sia stato un atteggiamento un po’ moralistico rispetto alle tutele, all’imposizione degli orari. Non capisco perché dopo le 10 di sera tutto diventa pericoloso e peccaminoso, o perché subito si sia pensato di chiudere i luoghi della cultura. Nei musei è facilissimo adottare il distanziamento, mi sembra uno dei luoghi più sicuri, anche qualora avesse dovuto ospitare scolaresche. Come se ci fosse, di fondo, una forma di moralismo di base, come se si dicesse ai cittadini che devono accontentarsi di mangiare, bere, andare a lavorare, stare molto attenti a tornare a casa e non azzardarsi a uscire per andare al cinema, al teatro, in un postribolo o in un luogo in cui ci si può infettare della curiosità di vivere una vita un po’ meno ordinaria. Perché decido io quello che può fare o non puoi fare”.

Non ha riscontrato discontinuità in questo moralismo che lei individua tra il governo Draghi e il governo Conte?

“Direi che cambiano solo le sfumature. Ma sa le sfumature le conoscevo da prima usando i rossetti e gli ombretti da decine di anni. Per cui francamente no. Direi che ora c’è ancora più moralismo perché è travestito dall’esatto contrario, dalla cosiddetta “semilibertà” nella quale stiamo agendo. Cioè rende il tutto ancora più sinistro. In Spagna il sindaco donna di Madrid ha fatto una mezza rivoluzione facendo e rischiando parecchio su questo fronte, con un liberalismo molto più spinto. In un paese che a quanto pare ha sofferto più del nostro. Il paragone mi fa pensare che ci sia qualcosa che non ha a che fare né con la politica né con il potere, ha a che fare con l’intuito e la lucidità”.

Cosa ne pensa di Giorgia Meloni, unico leader di partito donna?

“Credo che sia l’espressione di quanto le contraddizioni siano patrimonio sembra inestinguibile della sinistra. Per anni ha detenuto tutte le opzioni possibili e immaginabili sulle donne e non è stata in grado di produrre una leader. Così come se penso a una leader vera, non proprio freschissima, dopo Nilde Iotti, la più recente si chiama Irene Pivetti e aveva 30 anni. Paradossalmente la destra, che dovrebbe essere maschilista e omofoba, ha messo nelle mani di un capo di partito come la Meloni decisioni da importanti. La signora Meloni è una donna di impeto e di spirito, fa quello che ora tocca fare, l’opposizione e da lì ha un ruolo preciso. Dovrà prima o poi venire a patti con una società un po’ diversa rispetto a quella che si è costruita intorno a Fratelli d'Italia e alla destra in generale. Ci sono le nuove famiglie e nuove realtà che vanno affrontate. Non credo per nulla che sia una persona omofoba, anzi ho l’impressione che sia molto più aperta di quanto la si voglia far sembrare. Però politicamente deve cedere alcuni fronti se vuole realmente diventare una leader donna aperta e senza quella specie di freno che ha avuto fino a ora. Credo abbia avuto paura di perdere i suoi elettori che, però, secondo me sono più svegli di quanto si potrebbe pensare e potrebbero comprendere il perché di un allargamento ad altre parti della società”.

Secondo lei l’Italia è un paese a rischio di discriminazioni? Che possono essere razziste, omofobe o contro tutto ciò che viene visto diverso?

“Non credo. Credo che sia una forma di egoismo da parte di chi il potere è abituato ad avercelo e non lo cede con molta facilità. Gli uomini sono più esclusivisti. Credo ci sia come una forma di DNA segnato dall’idea del favore. Non che sia malevola come pratica ma sarebbe più gradevole se fosse fatta al di là del tornaconto personale. Detto questo finché una donna non sarà al potere reale, e non solo come ministro o dirigente di rete televisiva, le cose non cambieranno. Anni fa, quando era ancora in vita Marco Pannella, i Radicali proposero Emma Bonino come presidente della Repubblica, allora le cose potevano cambiare”.

Cosa pensa di Matteo Salvini?

“Che ha cambiato molte fidanzate ma non vedo un legame. Ma sa per me gli uomini dal punto di vista del desiderio sono come l’America prima di Cristoforo Colombo, un territorio completamente sconosciuto. Dalla Verdini alla Isoardi ci passa un continente. Io non riesco a pensare nient’altro di lui, non so se sia un bravo stratega o un bravo comunicatore. Non ho antipatie o simpatie. Posso dire però che tempo fa fui invitata a una trasmissione in diretta a Radio Padania, un’esperienza bellissima, priva di offese, erano interessati a capire chi fossi così come io ero interessata a capire chi fossero loro. Non che mi abbia fatto acquisire simpatia per Salvini. Vedo molto meno presente questa radio di quanto non lo fosse un tempo. Se me lo dovessero chiedere un’altra volta ci tornerei. Peccato solo che avessero una macchinetta del caffè orrenda”.

Ha qualche rimpianto? Qualche errore che non rifarebbe?

“Rimpianti ne ho troppo pochi, non è il caso che li racconti. Ho fatto quel che ho voluto e l’ho fatto senza dover appartenere a un genere o a una categoria, o etichettandomi e divenendo promotore o essendo simbolo di qualcosa”.

Cosa ne pensa del dibattito di questi giorni sul DDL Zan?

“Guardi, io l’ho detto e lo dico sempre, non è mettendo delle gabelle o una legge che prevede anche la detenzione per chi si esprime diversamente rispetto alle cosiddette norme che si risolvono queste problematiche. La norma va insegnata a coloro che sono ignoranti attraverso il comportamento. Il mio comportamento, uscendo dalle regole e dagli steccati di “uomo”, “donna”, “travestimento”, “barba lunga”, “pancia enorme”, “dimagrimento”, tende a dimostrare che tutto è possibile e che questa possibilità non è legata alla ideologia ma alla pratica che ci fa rispettare non perché abbiamo un orientamento sessuale piuttosto che un altro. Poi certo è molto difficile che uno stronzo codardo picchiatore attraverso una legge, di cui magari non sa nemmeno l’esistenza possa cambiare, mentre è più facile che la sua mentalità si possa modificare se vede intorno a sé degli esempi che non lo spingono a delinquere o ad essere violento”.

Qual è la sua più grande paura?

“Quella di non fare in tempo a godere dei cambiamenti che sono così veloci e che rendono il passare del tempo sempre più ansiogeno. Perché sai che accadranno delle cose e non le vedrai. Non so cosa potrà accadere di più rivoluzionario dopo il monopattino, vedere queste persone che non camminano eppur si muovono. Questo già mi rende estraneo alla società, non appartenente a quella che domani chissà cosa proporrà, forse le macchine volanti. Insomma non so cosa aspettarmi e mi spiacerebbe non vederlo”.

Pietro Senaldi per “Libero Quotidiano” il 26 aprile 2021. «Se le coppie di gay vogliono la parità, perché non si battono per l' adozione anziché ricorrere all' utero in affitto, che è un atto di violenza verso le donne? Ha ragione la Concia, donna di sinistra ma capace di dichiarare che certe pratiche sono inaccettabili». «Perché i barbieri sono aperti e i ristoratori chiusi? C' è un razzismo di genere delle chiusure. Con questi inviti alla delazione poi, mi pare di essere nella Germania Est» «È tutto molto fluido di questi tempi. Una volta, di fluido c' era solo il sapone, oggi c' è una gran confusione intorno a questo aggettivo, che poi è un trucco per giustificare l' ingiustificabile. Anche il Covid è fluido, infatti più se ne parla meno se ne capisce. L' Italia della pandemia è confusa, vittima di informazioni contraddittorie. Si ha la sensazione di essere in un mare in tempesta, il governo procede a tentoni e continua a cambiare le regole, ascoltando i virologi è impossibile elaborare un dato. E poi c' è questa cosa dei vaccini... Io ho 65 anni e ho potuto finalmente prenotarlo. Sono di Parma, vivo a Milano e mi faranno l' iniezione a Morbegno, in montagna, a più di due ore d' auto da casa mia». Ognuno ha il suo destino, quello di Platinette è rivestire il ruolo dell' eretico. «Negli anni Settanta mi esibivo con un gruppo di travestiti da tregenda e mi tiravano addosso i pomodori al Festival dell' Unità, quando facevo la soubrette di periferia. Adesso che ho vinto la mia battaglia, che non è per il diritto di essere omosessuali, bensì per quello di essere come ti pare, perché è lì che alberga il vero concetto di pari dignità, il mondo omo mi mette in croce perché non mi piego al politicamente corretto e voglio potermi autodefinire "frocia" o "cagna" e dire che il mio massimo sogno erotico è conquistare un eterosessuale, che in quanto tale non mi si concederà mai». Il coraggio è come l' identità di genere per Maurizio Coruzzi, l' uomo di cui Platinette è l' alter ego, non ce lo si può dare. «Tutti siamo d' accordo che non bisogna picchiare un gay e che chi odia le minoranze è un essere abietto, ma non bisogna farne un dogma. Non serve una legge a stabilirlo, la cultura non è un atto normativo. Inserire l' identità di genere nei programmi scolastici è una violenza, perfino superiore a quella dell' utero in affitto, significa far prevalere una visione del mondo rispetto ad altre che invece hanno lo stesso diritto di esistere». Chi promuove queste leggi sostiene che per tamponare un allarme sociale è necessario forzare in direzione contraria... «Non ci sto. La sensibilità degli altri non si cambia con una normativa ma agendo e rischiando del proprio. Sono contrario alla legge Zan, vietare il dissenso è liberticida. Io ora vengo definito un gay omofobo. Come mi devo sentire, cosa devo pensare dei gay che vogliono cambiare la mia mentalità sui gay, quando io facevo le battaglie per loro prima che nascessero? Il martellamento ideologico non ha effetti positivi sulla società, è privo di valenza sui comportamenti delle persone».

Ma lei non soffre a essere considerato diverso?

«Facciamo l' intervista del dolore? Le regalo il mio momento di sofferenza. Poiché sono autistico, tutte le sere faccio delle dirette Instagram nelle quali canto e ogni sera vengo ricoperto di insulti da chi mi ascolta senza pagare il biglietto. Ne soffro e rispondo per le rime, ma nessuno potrà mai pagarmi tanto da farmi desistere dalle mie dirette».

Sono tempi duri per gli spiriti liberi?

«Anche qui il Covid è una cartina di tornasole. Non capisco il contenzioso sul coprifuoco, ho l' impressione che ci sia del moralismo in certe prese di posizione, addirittura del dirigismo. Perché i barbieri sono aperti e i ristoratori chiusi, come a dire che la loro attività ha meno valore? C' è un razzismo di genere delle chiusure. Con questi inviti alla delazione poi, mi pare di essere nella Germania Est, dove la libertà e il divertimento altrui suscitano rabbia e invidia».

Ma lei non ha paura di contagiarsi?

«Sì. Quando ho saputo di avere fatto una foto con un cameraman risultato poi positivo sono rimasta murata viva in casa due settimane in preda a una psicosi. Ma il punto non è questo, è che si fanno polemiche perché si è incapaci di risolvere i problemi».

Parla di Conte o di Draghi?

«Draghi è ostaggio dell' incompetenza dei partiti. Scambiamo la sicumera di certi ministri per capacità, ma Grillo ha truffato gli italiani, M5S è la sua commedia dell' assurdo meglio riuscita, non vero che chiunque può governare. Mi ricordo Beppe, quando faceva finta di andare contro una compagnia telefonica e invece le faceva pubblicità. È stato bravo a fare i soldi e ora fa l' anticapitalista e ci rifila spacciatrici di banchi a rotelle».

Ha visto il suo video a difesa del figlio?

«Io non ci credo che abbia perso la testa, a meno che non sia completamente deragliato. Per me era consapevole, ha cercato la reazione forte, ma così ha mandato a puttane tutto quello che va dicendo da anni. Che senso ha poi dire "arrestate me". Poteva dirlo dopo che aveva ammazzato tre persone con la sua auto, se voleva essere preso sul serio».

Sta con la Meloni, l' unica donna capo della politica, e per di più all' opposizione?

«Io sono omosessuale ma amo più le donne degli uomini, che ritengo degli accessori utili. Preferirei passare una serata con Barbara Alberti piuttosto che con il bellissimo fidanzato turco della Leotta».

E tornando alla Meloni...

«Credo che la Meloni in questo momento abbia il vento in poppa perché è la sola che, oltre alla faccia, mette anche le motivazioni.

"Vengo definito un gay omofobo ma ora sono gli etero i veri discriminati". Francesca Galici il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. Diretto, senza filtri e lontano dal politicamente corretto: Mauro Coruzzi, in arte Platinette, in una lunga intervista con Pietro Senaldi ha parlato del ddl Zan e della deriva sociale del pensiero unico. Platinette è una delle drag queen più famose d'Italia, se non la più famosa. Al secolo Mauro Coruzzi, è una delle voci fuori dal coro della comunità LGBT+ sul ddl Zan, la cui discussione è stata di recente calendarizzata al Senato. Pietro Senaldi ha intervistato l'opinionista per Libero e Mauro Coruzzi non si è tirato indietro, esprimendo tutto il suo dissenso: "Sono contrario alla legge Zan, vietare il dissenso è liberticida". Parole che negli ultimi mesi l'hanno esposto a fortissime critiche da parte dei sostenitori a oltranza del ddl Zan.

"Il mondo omo mi mette in croce". Tutto si può dire di Platinette, ma non che non abbia contribuito alla conquista delle libertà per gli omosessuali nell'Italia degli anni Settanta, ancora chiusa in tabù e vecchi retaggi. "Mi esibivo con un gruppo di travestiti da tregenda e mi tiravano addosso i pomodori al Festival dell'Unità, quando facevo la soubrette di periferia", ha confessato a Libero. Ma Coruzzi ci tiene a precisare che la sua non è una battaglia "per il diritto di essere omosessuali, bensì per quello di essere come ti pare, perché è lì che alberga il vero concetto di pari dignità". Un punto di vista davvero liberale in una società che tende a imporre il pensiero unico del politicamente corretto, contro il quale Coruzzi, ora, si batte: "Il mondo omo mi mette in croce perché non mi piego al politicamente corretto e voglio potermi autodefinire "frocia" o "cagna" e dire che il mio massimo sogno erotico è conquistare un eterosessuale, che in quanto tale non mi si concederà mai". "L'identità gender a scuola è una violenza". Non esiste chi, con un minimo di raziocinio, giustifica le aggressioni a sfondo omofobo e, come sottolinea giustamente Mauro Coruzzi, "chi odia le minoranze è un essere abietto". Ma "non serve una legge a stabilirlo, la cultura non è un atto normativo". Proprio in base a questo principio, Platinette si scaglia contro le teorie gender sui banchi scolastici: "L'identità di genere nei programmi scolastici è una violenza, perfino superiore a quella dell'utero in affitto, significa far prevalere una visione del mondo rispetto ad altre che invece hanno lo stesso diritto di esistere". Il concetto alla base del pensiero di Mauro Coruzzi è quello portato avanti da chi critica il ddl Zan: "La sensibilità degli altri non si cambia con una normativa ma agendo e rischiando del proprio".

"Mi definiscono gay omofobo". E lo dice un uomo che, negli anni Settanta, ha subito la discriminazione di un Paese che ancora non era pronto alle drag queen e ai travestiti. "Io ora vengo definito un gay omofobo. Come mi devo sentire, cosa devo pensare dei gay che vogliono cambiare la mia mentalità sui gay, quando io facevo le battaglie per loro prima che nascessero? Il martellamento ideologico non ha effetti positivi sulla società, è privo di valenza sui comportamenti delle persone", dice Platinette riferendosi alle nuove generazioni, le più integraliste verso il pensiero unico.

Giorgia Meloni ed Enrico Letta. Mauro Coruzzi nel corso dell'intervista ha spiegato di apprezzare l'operato di Giorgia Meloni in questo momento, "perché è la sola che, oltre alla faccia, mette anche le motivazioni sulle proprie decisioni. È la sola che ha preso una posizione chiara e incarna un concetto che sta alla base della democrazia: se c’è un governo, dev’esserci anche un’opposizione". E alla provocazione del direttore di Libero, che ha parafrasato il noto adagio "Dio, Patria e Famiglia" tanto caro alla leader di Fratelli d'Italia in "Dio, Patria e Gay", Mauro Coruzzi ha risposto: "Centrato il punto. Giorgia non può continuare a essere indifferente rispetto alle coppie gay: sono una realtà che esiste e lei deve fare un passo anche verso ciò che sente più distante, altrimenti continueranno a darle della fascista anche se l’unico fascismo in circolazione ormai è quello del pensiero unico incarnato proprio dai critici della Meloni". Lontano dalle posizioni di Enrico Letta, che considera avulso dal Paese vero e dalle sue problematiche, come ha dimostrato alzando la polemica su quote rosa e ius soli in un momento di gravissima crisi economica, Mauro Coruzzi vede il prossimo scontro tra "chi vuole una vita ordinaria e chi cerca visibilità e sale sul carro del pensiero dominante anche se non ci crede".

"I veri discriminati sono gli eterosessuali". Critico verso la cancel culture che si sta imponendo anche nel nostro Paese, Coruzzi sostiene che "veri discriminati oggi sono gli eterosessuali e chi li difende; ormai sono una razza in estinzione". Nonostante lo scetticismo del direttore di Libero, Mauro Coruzzi su questa sua affermazione non ha fatto un passo indietro: "Parlo dell’eterosessuale di una volta, quello capace per tutta la vita di rapporti sessuali ordinari, in grado di tener vivo il desiderio senza mezzi alternativi".

·        Max Pezzali.

Debora Pelamatti, moglie di Pezzali: «Ero vittima di un amore malato. Max è stato la mia cura».  Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 26 Dicembre 2021. Prima di sposare il cantautore la donna era intrappolata in una dipendenza affettiva: tradita, umiliata e picchiata, non riusciva a liberarsi. Ad aiutarla il rapporto con il suo amico.  

Max Pezzali e sua moglie, Debora Pelamatti, prima di sposarsi (per lui sono le seconde nozze) sono stati a lungo amici. Amici-amici, di quelli a cui si confidano i segreti più intimi o che sai che puoi chiamare a ogni ora quando sei in difficoltà. Questo, molti fan del cantante già lo sapevano. Quello che però molti non immaginavano è che il loro amore — così felice e bello, almeno per come si può intuire che sia attraverso i social — sia nato spazzando i cocci di qualcosa di tragico. Un amore malato, che Pelamatti viveva con il suo fidanzato precedente e che Pezzali ha aiutato a far dimenticare, diventando per lui «la cura».

I tradimenti

A raccontarlo è stata lei stessa in una lunga e generosa intervista firmata da Selvaggia Lucarelli (che sul tema ha appena pubblicato un bel libro, Crepacuore, edito Rizzoli), su Domani, svelando la potenza devastante di una dipendenza affettiva con un uomo che la manipolava, tradiva e picchiava, ma da cui per anni non riusciva ad allontanarsi. Pelamatti, laureata in Legge, affermata sul lavoro, ha svelato che a conquistarla, all’inizio, erano i gesti eclatanti di questa persona che lasciavano presagire un grande amore: «Per il mio compleanno affitta un’intera spiaggia a Camogli facendola addobbare con candele. Mi diceva che ero la donna della sua vita, che l’amore l’aveva sognato così. Mi aveva messa al centro della sua vita, apparentemente», ha detto. Poi, la scoperta dei ripetuti tradimenti da parte di lui. «...finché una sera passo davanti casa sua e vedo una tizia che sta per entrare. Mi fermo, le chiedo cosa faccia lì, lei ammette di avere una relazione con il mio uomo... Saliamo in casa insieme, io volevo avere delle spiegazioni. Lui nel panico urla che lei è una squilibrata, che si è inventata tutto. Nel frattempo lei piangeva in un angolino».

Le vessazioni

Ma anche lì, succede l’imprevedibile: Pelamatti inizia a capire che non può stargli lontana, sceglie di credere alle sue bugie anche se tutti i suoi amici, a quel punto, la mettevano in guardia, non la capivano più. «Piano piano ho iniziato a mentire a tutti, anche a mia sorella — spiega nell’intervista —. Facevo pensieri strani, pensavo di meritare di soffrire per quella che evidentemente era una causa superiore». Un folle motivo che la spingeva ad accettare vessazioni e, dopo un certo punto, anche violenze fisiche: «Scopro che aveva scritto a venti donne lo stesso messaggio: “Mi manchi, non vedo l’ora di fare l’amore come l’ultima volta”. Eravamo insieme da 5 anni, era l’ennesima mortificazione. Lo affronto, lui mi prende la testa e inizia a sbattermela contro l’asse del water: “Stronza, io stavo giocando!”».

L’amicizia con Max

Lì ha capito definitivamente di aver bisogno di un aiuto anche medico. Nel mentre Pezzali, suo migliore amico dal 1995, le diceva di fuggire. Ma lei ci ricasca «finché una sera lui mi prende a calci e come ulteriore sfregio mi versa una bottiglietta d’acqua addosso. Chiamo Max, lui viene subito ma abbiamo paura che andando al pronto soccorso insieme il giorno dopo i giornali scrivano tutto. Ho un orecchio tumefatto e mi gira la testa, chiamiamo un’amica che mi porta in ospedale». Dopo quel momento, «Max mi confessa di essersi innamorato di me ma di non essere disposto ad assistere a quello scempio che stavo facendo della mia vita, dice che non mi riconosce più e non vuole soffrire, che non mi avrebbe più risposto... Per tre giorni non mi risponde al telefono, mentre l’altro continuava a cercarmi. Allora la notte della Befana salgo in macchina in pigiama e all’una suono il campanello di casa sua. Gli dico che lo amo». Era il 6 gennaio del 2013.

L’amore sano

Da quel giorno i due ex amici hanno iniziato a prendersi cura l’uno dell’altra. «L’altro mi mandava messaggi furibondi dicendo che Max era solo un ciccione tatuato, che non era l’uomo per me, ma non contava più nulla... Penso alla donna che ero in quel periodo ed è come se stessi pensando a un’altra persona. Non mi riconosco... Se ci ripenso me ne vergogno. Pochi sanno di questo mio dolore». E alla domanda: hai mai pensato che Max possa essere stato “un sostituto”? La risposta è onesta: «Certo, anche Max se lo è chiesto. E la risposta è che Max non è stato una ruota di scorta, è stato fin da subito l’amore sano, l’amore pulito. E anche la cura».

Da fanpage.it il 28 dicembre 2021. Debora Pelamatti si è raccontata in una lunga intervista rilasciata a Selvaggia Lucarelli per Domani. Il tema affrontato dalla moglie di Max Pezzali, è stato quello delle dipendenze affettive. Prima di sposare l'artista e vivere finalmente una storia d'amore appagante e felice, ha raccontato di avere vissuto una relazione con un uomo che la picchiava e la tradiva: "Tradita. Picchiata. Umiliata. Nel frattempo Max era il mio migliore amico, e poi è diventato la cura".

Come ha avuto inizio quest'amore malato

Debora Pelamatti, laureata in Legge a Pavia, era una donna serena e realizzata, quando si è imbattuta nell'uomo che avrebbe trasformato la sua vita in un incubo. Tutto è nato nel più banale dei modi. Debora ha ricevuto un messaggio su Facebook da un uomo che sosteneva di averla vista in un bar di Pavia e si complimentava per la sua bellezza. Da lì, questa persona ha iniziato a prodigarsi in gesti eclatanti per poterla conquistare: "Per il mio compleanno affitta un’intera spiaggia a Camogli facendola addobbare con candele". Colpita da tutte queste attenzioni, Pelamatti ha deciso di dargli una possibilità. Intanto, un ex fidanzato della donna, le consigliava di lasciar perdere quell'uomo perché "inaffidabile". Debora non gli ha creduto.

Debora Pelamatti scopre i tradimenti

La realtà, tuttavia, ha spezzato il sogno di un amore apparentemente perfetto. Debora Pelamatti una sera, passando sotto casa del suo compagno, ha notato che c'era una donna che stava entrando. 

L'ha fermata e lei ha ammesso di avere una relazione con il compagno di Debora: "Saliamo in casa insieme, io volevo avere delle spiegazioni. Lui nel panico urla che lei è una squilibrata, che si è inventata tutto. Nel frattempo lei piangeva in un angolino". Pelagatti, nonostante tutto, ha proseguito la relazione. Così, ha scoperto non solo che l'uomo continuava a sentire la donna che lei aveva sorpreso sotto casa, ma che coltivava anche altre relazioni: "Mi chiama un avvocato di Brescia con cui avevo sporadici contatti lavorativi e mi spiattella che il mio fidanzato ha da anni una relazione con la sua compagna. Ancora una volta chiedo spiegazioni al mio fidanzato e lui mi dice che la gente è cattiva, che ci vuole allontanare perché noi siamo i protagonisti di una storia d’amore bellissima. E io gli credo". 

Le violenze che avrebbe subito

Ogni volta che Debora Pelamatti provava a lasciare quell'uomo, lui tornava a mettere in scena gesti romantici per tenerla legata a se. Secondo quanto racconta la donna, trovava pretesti per lasciarla per qualche giorno, solo quando aveva intenzione di dedicarsi a un'altra: "Ti faccio un esempio emblematico. Una sera andiamo a cena in un noto ristorante di sushi a Milano e arrivano Matteo Viviani con la sua bellissima moglie e un bimbo nella carrozzina. Si siedono accanto a noi, ci diciamo buonasera. Fine. Io a metà cena vado in bagno, torno, e lui: "La serata finisce qui!". Non capisco. In macchina urla, accelera, mi accusa: "Tu e Viviani vi siete guardati tutta la sera, lui è andato in bagno quando sei andata tu!". Si era inventato questa cosa per lasciarmi qualche giorno e andare con altre". 

A Miami, le cose precipitano. A Debora è ormai chiaro che il suo compagno ha una vita sentimentale decisamente affollata. Inoltre, notava che spesso l'uomo stava a lungo chiuso in bagno con due telefoni. Le è bastato sbirciare nei cellulari, perché tutto apparisse nella sua cruda realtà. La reazione dell'uomo, smascherato, sarebbe stata violenta: "Scopro che aveva scritto a venti donne lo stesso messaggio: "Mi manchi, non vedo l’ora di fare l’amore come l’ultima volta". Eravamo insieme da 5 anni, era l’ennesima mortificazione. Lo affronto, lui mi prende la testa e inizia a sbattermela contro l’asse del water: "Stron*a, io stavo giocando!". Scappo dalla stanza, mi rifugio in quella degli amici, vado avanti a Xanax per due giorni".

Debora Pelamatti, ormai consapevole di dover chiedere aiuto, non è riuscita tuttavia ad allontanarsi subito da quell'uomo: "Ero un cadavere, non riuscivo più a mangiare a dormire". Intanto, la violenza si sarebbe ripetuta: "Lui mi prende a calci e come ulteriore sfregio mi versa una bottiglietta d’acqua addosso. Chiamo Max (Pezzali, ndr), lui viene subito ma abbiamo paura che andando al pronto soccorso insieme il giorno dopo i giornali scrivano tutto. Ho un orecchio tumefatto e mi gira la testa, chiamiamo un’amica che mi porta in ospedale". 

Una notte, una delle "amanti" dell'uomo, ha suonato al citofono furiosa, per fare sapere a Debora che in realtà non si erano mai lasciati: "A quel punto il mio ex le sbatte la testa contro il muro e sai io cosa penso? Che siccome la picchiava come picchiava me, la amava come amava me. Avevo un pensiero malato".

Max Pezzali è la sua cura

Max Pezzali – suo amico da anni – ha preso coraggio e ha fatto una confessione a Debora Pelamatti: "Mi confessa di essersi innamorato di me ma di non essere disposto ad assistere a quello scempio che stavo facendo della mia vita, dice che non mi riconosce più e non vuole soffrire, che non mi avrebbe più risposto". E per tre giorni non si è fatto sentire, nonostante Debora lo cercasse. Così, la notte dell'Epifania, la donna è corsa da lui: "Gli dico che lo amo". L'artista, pensando fosse ubriaca, l'ha fatta dormire nella camera degli ospiti. Il giorno dopo, quando lei gli ha confermato di ricambiare il suo sentimento, si sono baciati: "E non ci lasciamo più, dal quel 6 gennaio del 2013, prendendoci cura l’uno dell’altra. L'altro mi mandava messaggi furibondi dicendo che Max era solo un ciccione tatuato, che non era l’uomo per me, ma non contava più nulla. Max non è stato una ruota di scorta, è stato fin da subito l’amore sano, l’amore pulito. E anche la cura".

Max Pezzali, la confessione intima della moglie Debora Pelamatti: "La prima notte insieme". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 10 novembre 2021. Dall’uomo ragno, alla regola dell’amico. Passando per l’intramontabile Come mai. Max Pezzali è idolo indiscusso della musica italiana negli anni Novanta. “La regola dell’amico? Con me non ha funzionato”, dice Debora Pelamatti, moglie del fondatore degli 883 da tre anni. Vivono a Pavia, città d’origine del cantautore, «Era il 1995 quando ho conosciuto Max – racconta a Leggo Debora - mi ero iscritta all’università di Pavia e alcuni amici ci hanno presentato. Qualche giorno dopo uno di loro mi ha chiesto se avevo piacere a rivederlo e da lì è iniziata la nostra bellissima amicizia. Insomma, altro che regola dell’amico. Ma poi scoppia la scintilla ed arriva l’amore: “All’epoca ero fidanzata con un “bad boy” , il classico ragazzaccio viziato e stupido che mi tradiva continuamente. I miei amici, Max compreso, non lo vedevano di buon occhio e quando partivo con lui nascondevo loro la verità. Un giorno Max, dopo aver scoperto le mie bugie, mi affrontò dicendo: “Se un amico ti dà dei consigli forse qualcuno potresti ascoltarlo, visto che così non è preferisco non vederti più, mi spiace che ti butti via così” e poi dichiarò il suo amore per me. Non gli ho creduto. Dopo tre giorni che non lo sentivo però, mi sono svegliata nel cuore della notte, ho avuto come un attacco di panico, ho riflettuto sulle sue parole e ho capito che aveva ragione su tutto”, continua. La prima notte insieme? Particolare: «Era il 6 gennaio, mi sono infilata gli stivali, non ho tolto nemmeno il pigiama e sono corsa a casa sua alle tre. Non mi rispondeva, verso le 4 ha aperto la porta e gli ho detto che l’amavo. Mi aspettavo una scena da film e invece …  mi ha fatto entrare a casa e ha chiesto se volevo dormire lì, però mi ha messa in un’altra stanza. Mi sono addormentata, la mattina era in cucina parlava di tutto, persino dell’Inter ma evitava l’argomento, poi dopo mezz’ora mi chiede se fossi stata ubriaca… io sono astemia, e gli ho confermato che l’amavo ci siamo baciati e non me ne sono andata più via". E come dicevamo la regola dell’amico non funziona con Max. “Effettivamente con me non ha funzionato (ride ndr). Sembro matto è la canzone che racconta la nostra storia, ma anche “L’Universo tranne noi”, ci rappresenta, perché è un testo che mi ha regalato durante una delle nostre cene… sono scoppiata a piangere”, continua a Leggo. “Era già stato rinviato causa Covid, ma appena sono stati messi in vendita i biglietti c’è stato sold out, era stupito”, assicura.  

Ida Di Grazia per "leggo.it" il 10 novembre 2021. Debora Pelamatti, moglie di Max Pezzali: «La regola dell’amico? Con me non ha funzionato». La coppia vive a Pavia, città d’origine del cantautore, in una casa di campagna e prima di innamorarsi Debora e Max sono stati a lungo amici. Sposati da tre anni Debora Pelamatti e Max Pezzali - ex cantante degli 883, gruppo fondato insieme all'amico Mauro Repetto nel 1991 e solista dal 2004  - si sono conosciuti più di 26 anni fa.  «Era il 1995 quando ho conosciuto Max – racconta a Leggo Debora - mi ero iscritta all’università di Pavia e alcuni amici ci hanno presentato. Qualche giorno dopo uno di loro mi ha chiesto se avevo piacere a rivederlo e da lì è iniziata la nostra bellissima amicizia»

Nel ’95 Pezzali con gli 883 era già famosissimo. Aveva pubblicato due album di successo: Hanno ucciso l'Uomo Ragno e Nord sud ovest est che vinse anche il Festivalbar nel 1993, non era intimorita?

«In realtà no. Max è esattamente come lo vedi: empatico, semplice, non ho mai avuto la sensazione di stare con una celebrità inavvicinabile. Mi ha sempre fatta sentire parte della sua vita e dei suoi affetti». 

Dopo tanti anni di amicizia, cosa ha fatto scattare la scintilla?

«All’epoca ero fidanzata con un “bad boy” , il classico ragazzaccio viziato e stupido che mi tradiva continuamente. I miei amici, Max compreso, non lo vedevano di buon occhio e quando partivo con lui nascondevo loro la verità. Un giorno Max, dopo aver scoperto le mie bugie, mi affrontò dicendo: “Se un amico ti dà dei consigli forse qualcuno potresti ascoltarlo, visto che così non è preferisco non vederti più, mi spiace che ti butti via così” e poi dichiarò il suo amore per me. Non gli ho creduto. Dopo tre giorni che non lo sentivo però, mi sono svegliata nel cuore della notte, ho avuto come un attacco di panico, ho riflettuto sulle sue parole e ho capito che aveva ragione su tutto».

E poi?

«Era la notte del 6 gennaio, mi sono infilata gli stivali, non ho tolto nemmeno il pigiama e sono corsa a casa sua alle tre. Non mi rispondeva, verso le 4 ha aperto la porta e gli ho detto che l’amavo. Mi aspettavo una scena da film e invece …  mi ha fatto entrare a casa e ha chiesto se volevo dormire lì, però mi ha messa in un’altra stanza. Mi sono addormentata, la mattina era in cucina parlava di tutto, persino dell’Inter ma evitava l’argomento, poi dopo mezz’ora mi chiede se fossi stata ubriaca… io sono astemia, e gli ho confermato che l’amavo ci siamo baciati e non me ne sono andata più via».

E addio alla “Regola dell’amico” (Brano icona degli 883). Qual è la vostra canzone?

«Effettivamente con me non ha funzionato (ride ndr). “Sembro matto” è la canzone che racconta la nostra storia, ma anche “L’Universo tranne noi”, ci rappresenta, perché è un testo che mi ha regalato durante una delle nostre cene…sono scoppiata a piangere».

Vivete a Pavia ma avete una casa a Roma che ha ispirato anche una canzone in cui si parla persino dei cinghiali, vero?

«‘Chissà se stasera incontro il mio amico cinghiale ... Che non è un soprannome è proprio l'animale’-  (canta Debora ndr)- Si chiama “in questa città”, racconta Roma in un modo così naturale, che gli stessi romani sono rimasti colpiti. E’ uno dei talenti di Max, raccontare tutto quello che gli succede in un modo così speciale che tutti possono trovare un pezzo di se stessi…a volte pure troppo! Spesso gli dico “magari non dire proprio tutto"».

Pur seguendolo molto spesso nei vari Tour non ha mai lasciato il suo lavoro di legale aziendale

«Già. Ho sempre voluto mantenere la mia identità e indipendenza economica e non rinuncerei mai al lavoro per il quale ho studiato tanto, lui l’apprezza molto. Di 46 date lo scorso anno ne ho fatte 36, lo seguo il più possibile perché ha bisogno dei suoi affetti, ma non sarò mai una che “segue il marito” come lavoro». 

A proposito di Tour: a luglio Max Pezzali sarà a San Siro, come vi state preparando?

«Il 15 e il 16 luglio 2022, non vede l’ora!  Era già stato rinviato causa Covid, ma appena sono stati messi in vendita i biglietti c’è stato sold out, era stupito. Max come tanti artisti ha sofferto molto non poter fare il suo lavoro e speriamo che il tour sia l’inizio del ritorno alla normalità». 

Come avete affrontato la pandemia?

«In realtà siamo due casalinghi, quando ci invitano alle cene diciamo “Nooooooo”. Abbiamo fatto maratone di serie tv incredibili, qui vicino c’è il parco del Ticino ne abbiamo approfittato per passeggiare in mezzo alla natura, abbiamo visto i cervi, e Max ha imparato a cucinare le torte, chiamava mia sorella e mia nipote per le ricette». 

Nel 2015 Pezzali è stato giudice a The Voice insieme a Raffaella Carrà, l’ha conosciuta?

«Sì con lui c’erano anche Emis Killa e Dolcenera, è stata un’esperienza stupenda. Per Max ovviamente era tutto normale, ma per me era emozionante trovarmi nell’olimpo dei grandi. La Carrà era bellissima, ma non solo in senso estetico, aveva un’aurea magnetica e poi sia lei che Fiorello prima, hanno detto: “Ammazza Max ma com’è bella, ma come hai fatto?” Mi sono sentita estremamente lusingata. Non le ho mai chiesto una foto perché mi vergognavo, però era disponibile con tutti, non si è mai data arie. È una cosa che ho notato spesso tra i grandi: l’umiltà. Vasco, Eros, Max solo per citarne alcuni, ti fanno sentire parte della loro vita, sembrano non rendersi conto della loro grandezza e ti senti a tuo agio. Credo sia prerogativa solo di chi non ha nulla da dimostrare perché è tutto così palese». 

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 17 aprile 2021. Ma è vero che voleva fare l'ambasciatore? «Vero. Mi iscrissi a Scienze Politiche perché ambivo alla carriera diplomatica. Poi un giorno qualcuno mi fece notare che mi chiamavo Pezzali, che non avevo due cognomi, tipo Cimarosa di Camerino, e che ero figlio di due fioristi di Pavia. E così ho cominciato a scrivere canzoni». Pavia, la città con «due discoteche e centosei farmacie». «La città dove non c'era spazio per la medietà. Io non ero figlio di avvocati o chirurghi, di quelli che si godono il centro storico in sella a biciclette con il cestino di vimini. Ma non avevo nemmeno il carisma cattivo di quelli delle case popolari, di quelli che fanno paura. No, io venivo dalla zona dei Pompieri, piccola borghesia, tanto lavoro, il miraggio delle ferie e del posto fisso. Che sogni avevo?». Che sogni avevamo? È forse qui il cuore delle canzoni di Massimo «Max» Pezzali, 53 anni, già voce e parole degli 883 assieme a Mauro Repetto, da anni solista, da sempre poeta provinciale degli anni Novanta. Quel decennio spesso raccontato come «l'estate delle mie delle tue vacanze» (Jovanotti), ma chissà.

Era davvero facile costruire dei sogni in quegli anni, oggi così divinizzati da simboli come il walkman o il chiodo?

«No, perché i tradizionalisti consideravano noi ragazzi di allora delle teste vuote, che snobbavano il posto fisso, ma non è che i cosiddetti progressisti ci guardassero meglio, anzi. Per dire, se ascoltavi musica rap e se questo rap non era quello delle Posse, diventavi un qualunquista. E poi non era come oggi, che basta avere un telefono per sapere che cosa pensa un americano o un indiano e dunque imparare a sognare con i sogni degli altri. Eravamo prigionieri di una provincia in cui trovare una propria originalità era una scommessa».

La provincia, appunto. Raccontata da maestri come Guccini e Vasco Rossi, ma era solo quella la vera provincia italiana? O non era anche quella, più terra-terra, delle folle di ragazzi che raggiungevano Milano solo per vedere le «ragazzine vestite da modelle» nelle discoteche del centro?

«Sì, forse la maggior parte di noi faceva sogni più piccoli, più normali. Quelli che ho cercato di raccontare nelle mie canzoni. Io ero insicuro, avevo occhiali spessi come fondi di bottiglia, vedevo l'America come un orizzonte lontanissimo ma pure Milano mi sembrava una metropoli. Era difficile costruirsi un futuro nitido. Così ho preso a raccontare questa via di mezzo tra slancio vitalistico e autoconservazione: ragazzi che avevano paura dell'eroina, ma che, d'altra parte, non volevano nemmeno accontentarsi di un conformismo triste».

Insomma, visti da destra o da sinistra non si era mai abbastanza rivoluzionari?

«Ma a nessuno interessava davvero la rivoluzione negli anni Novanta».

Venne spazzata via la Dc.

«Capii allora che non c'era certezza di nulla. Mia madre mi ripeteva: "L'unica speranza che hai con il tuo diploma di maturità è avere un posto come fattorino o factotum all'interno di una banca, perché quelle sono le istituzioni che non crolleranno mai!". Bene, negli anni Duemila scoprirò che aveva torto».

Nelle sue canzoni ricorre il senso di inadeguatezza di fronte agli altri. Tradotto: il sentirsi «sfigati». Esperienza personale?

«Basta raccontare il mio primo amore. Diciassette anni, una tipa della mia scuola, mi piaceva da morire. Non le dico nulla per mesi, poi capita che ci vediamo a una festa. Io me ne sto lì come un baccalà, quando lei viene da me e mi fa: "Vabbé dai finiamola". E mi dà un bacio. Da allora non mi ha più rivolto la parola».

Un disastro.

«Sì, molti di noi erano come paralizzati di fronte al mondo. Perché se vivevi in provincia eri davvero provinciale. Non sapevi come comportarti con le ragazze, quando andavi in discoteca e arrivavano le donne da Pieve Emanuele o da Rozzano ti sembravano delle dee».

Qualche volta (orrore!) mettevate l'Arbre Magique nella macchina al primo appuntamento, per coprire la puzza di fumo.

«Sì, orrore, ma l'ho scoperto dopo. Tutto era una scoperta quando non c'era internet. L'America, dove spesi tutti i miei risparmi per comprare una drum machine elettronica della Roland, la TR-107. La cucina esotica: ricordo quando a Pavia arrivò il primo Tex-Mex, perché fino ad allora il massimo era stata la cucina cinese. Lo racconto nell'ultimo libro, Max 90 (Sperling & Kupfer, ndr ). E poi la musica, certo. Cioè la salvezza dalla medietà: cercavo di essere il più originale possibile nei gusti».

Ma alla fine che sgarro ha fatto l'Uomo Ragno alle industrie del caffè?

«L'Uomo Ragno era uno dei miei eroi, tra quelli che poi verranno divorati dai Manga. L'allegoria del precario che cerca la rivincita dalle ingiustizie. E le industrie del caffè, per me, erano il simbolo dei poteri forti. Io non sapevo nulla di economia industriale ma vedevo che alla televisione grandi attori e showmen venivano ingaggiati per fare la pubblicità del caffè. Per esempio Nino Manfredi. Mi convinsi che dovevano essere piene di soldi e che nascondessero chissà quale segreto».

Una Trilaterale della tazzina.

«Ovviamente era falso, ma quando non puoi verificare tutto in tempo reale, come si fa oggi, certe convinzioni resistono per anni».

Nella canzone c'è anche la citazione del famoso cocktail, che però diventa «Margaridas», con la «d».

Perché?

«Un clamoroso errore: io, appassionato di cultura americana, avevo imparato la pronuncia statunitense. Un altro errore che ho commesso è stato quello di scrivere, in una canzone, Kurt K obain con kappa. Grave».

Il successo però arrivò con «Hanno ucciso l'Uomo Ragno». Anche se quella fama non bastò al buttafuori di una discoteca, che non la fece entrare perché lei portava i jeans.

«Era una discoteca di Alessandria, mi aveva invitato Nicola Savino, lo racconto anche nel libro. Il buttafuori mi bloccò. Io provai a protestare e uno dietro di me disse: "Ma come, questo ha scritto l'Uomo Ragno!". L'omone alla porta mi guardò e fece: "Per me puoi pure aver scritto l'inno di Mameli, qui tu non entri". Questo per dire anche come fossero severe le regole in discoteca in quegli anni».

Nonostante tutto è felice oggi di non aver fatto il diplomatico?

«No ma l'anno scorso ho passato una magnifica domenica al mare con Bugo. Sua moglie è una diplomatica in carriera: ho trascorso ore a farle domande di ogni tipo».

Bugo potrebbe rientrare in una delle sue canzoni: un eroe vittima dell'orgoglio.

«Persona squisita, molto colta. Come il mio amico Lorenzo Jovanotti, al quale mi accomuna anche il salto del casello».

Che cos' è?

«Quando non c'era il navigatore dovevi stare attento a non sbagliare casello in autostrada. Chissà perché sia a me che a Lorenzo è capitato più volte di saltare il casello di Riccione».

L'amicizia con J-Ax però non può non portare qualche momento di follia.

«Devo proprio raccontarlo?» Sì. «Va bene. Una domenica io, lui e Jack La Furia prendemmo le nostre Harley e andammo nell'Oltrepò Pavese. A mangiare pane e salame. Detta così può sembrare normale, ma se vivi a Pavia è il massimo del tamarro. Però è stata una delle giornate più belle per me».

«Come mai» è una delle poche canzoni d'amore degli 883. È vero che lei non voleva farla? E perché?

«No, perché pensavo che non ci rappresentasse quel tipo di amore a lieto fine. Cantavamo la sfiga degli amori non corrisposti, insomma, non vedevo che successo potesse avere. Per fortuna Claudio Cecchetto puntò i piedi e mi disse: "Mi assumo io la responsabilità, e se l'album va male a causa di questa canzone, ci rimetto io". Fu un successo».

Una cosa assurda che ha fatto per amore?

«Amore è una parola grossa, però una volta conobbi una svedese. Che poi se ne ritornò a casa sua. Non avevo l'indirizzo e volevo mandarle dei fiori. Ma senza internet come facevo? Eppure io sono sempre stato un nerd e facevo parte di un circuito ristretto di gente che sapeva usare i modem. Una rete ante litteram, insomma. Così diffusi il messaggio e, dopo qualche minuto, mi rispose uno svedese che mi scrisse l'indirizzo della ragazza».

Però con il successo degli 883 arrivarono pure le modelle, alla fine!

«Sì, ma chi trovava il coraggio di avvicinarsi? Noi restavamo impalati, loro stavano con noi il tempo di un video o di uno shooting e poi sparivano. Però ce n'era una che mi piaceva molto. Si chiamava Padma, era coltissima e cucinava pure bene. La conobbi a Pantelleria, girò un video con noi. Trascorremmo serate belle, a chiacchierare nei dammusi. Com' è finita? È finita che lei ha sposato Salman Rushdie».

La regola dell'amico, ovvio. Però, Pezzali, lo confessi: lei ha sposato Debora Pelamatti, quella che è stata per anni una sua amica. «Sì, con mia moglie l'amore è venuto dopo una lunghissima amicizia. Un giorno ci siamo detti: bene, da adesso si cambia».

Ma come, «la regola dell'amico non sbaglia mai», non sposiamo quello con cui scambiamo confidenze. E invece...

«Diciamo che ci azzecca al novantasette per cento. E comunque con l'avanzare dell'età questa regola tende a funzionare sempre meno». Max Pezzali, ne «Gli anni», canta: «Il tempo passa per tutti lo sai/ Nessuno indietro lo riporterà neppure noi».

Il chiodo, il deca, la disco. I "fighissimi" anni '90 tornano con Max Pezzali. L'ex leader degli 883 racconta in un libro l'epoca a cui sono legate le sue canzoni. E molti di noi...Luca Beatrice - Ven, 02/04/2021 - su Il Giornale. Oltre le canzoni, a Max Pezzali piace scrivere libri. Un appuntamento letterario periodico con i suoi fan che si arricchisce ora di un nuovo episodio: a Per prendersi una vita (2009) e I cowboy non mollano mai (2013) si aggiunge Max 90. La mia storia. I miti e le emozioni di un decennio fighissimo (Sperling & Kupfer, pagg. 242, euro 19,90). Agli ingredienti già conosciuti - l'autobiografia, la provincia, le Harley Davidson, il successo - ecco una serie di nuovi contenuti, cominciando da due bonus track, la prefazione di Lodo Guenzi (anche il leader de Lo Stato Sociale ha nostalgia dei tempi analogici) e soprattutto il ritorno, in forma di Post Scriptum, di Mauro Repetto, che con Pezzali fondò gli 883 prima di fuggire dall'altra parte del mondo, per stanchezza o per qualche ruggine mai risolta. Questa nuova pubblicazione, divertente anche nelle illustrazioni di Roberto Recchioni che scandiscono i brevi capitoli, non si limita a ripercorrere le tappe di un musicista comunque inossidabile e sopravvissuto alle mode del momento, ma è un vero e proprio vademecum sull'ultimo decennio del Novecento, che a tratti può sembrare l'appendice di Un weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli, il primo tra i nostri scrittori a credere che cultura e intrattenimento, pop e impegno potessero camminare a braccetto. Sfogliamo così le pagine di un dizionario generazionale e chi era giovane negli anni '90 non può non rimpiangere l'ultima stagione del localismo e i primi passi, inevitabili e sciagurati, nella globalizzazione, cominciando dal deca, le 10.000 lire che bastavano a far serata mentre oggi con 5 euro prendi un caffè, il giornale e poco più. Eravamo in pochi ad avere il cellulare, ingombrante e costoso, ma negli ambienti alternativi la t-shirt nera era di ordinanza. Bar, sale gioco, discoteche erano luoghi in cui avvenivano i primi incontri di natura sentimental-sessuale e il giovane Max da Pavia, non ancora famoso, si era trovato più volte nel ruolo del due di picche, «che si manifestava quando partivi con aspettative elevatissime e arrivavi a un passo dall'obiettivo, ma alla fine tornavi a casa con le pive nel sacco, nonostante sembrava fosse la serata giusta, quella in cui doveva succedere di tutto». Allora non c'erano i whatsapp e alle donne si scrivevano lettere d'amore in cui ci sforzava di risultare poetici, colti, retorici. I porno si vedevano al cinema o sulle riviste comprate di nascosto, non gratis in rete. Il sogno a due ruote si chiamava Zundapp 125, troppo cara e quindi «con un grado di realizzabilità pari a quello di un volo sul Concord». E mentre i genitori spingevano per il posto fisso, qualcuno ha cavalcato la propria inaffidabilità e incostanza, convinto di riuscire a vivere delle proprie passioni. Le parti più interessanti e gustose del libro riguardano quegli oggetti e quei gesti ormai desueti e diventati perciò di culto: l'arbre magique messo in auto a togliere l'odore di fumo se doveva salirci una ragazza, la radiolina per ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto, i mitra ad acqua per giocare ai gavettoni - Pezzali sostiene non fosse da sfigati e francamente ho qualche dubbio - l'autoradio con decine di compilation pensate per ogni occasione che si esaltava a seconda della potenza di woofer e subwoofer, il Golf Cabrio (e non la Golf), una macchina da Barbie, sicuro strumento di seduzione, il video juke-box e il disco pub durati il tempo di un mattino, il profumo nauseabondo del balsamo tra i capelli, battere la stecca a quelli impegnati nel servizio di leva, il cinquantino, la discoteca di pomeriggio, la segreteria telefonica. Questi ed altri andrebbero inseriti nel museo della nostra memoria, accanto al poster di Kurt Cobain, ultima rockstar la cui morte ha segnato la fine di un genere musicale. Le canzoni degli 883 prima e di Pezzali poi hanno raccontato il passaggio dalla giovinezza alla linea d'ombra, non come un trattato filosofico ma con la consapevolezza che prima o poi saremmo stati costretti, nostro malgrado, a diventare grandi. Capisco Max quando scrive «mio padre a quarant'anni era più o meno com'è adesso che di anni ne ha settantotto», mentre noi ci vestiamo ancora da ragazzi, a cominciare dal chiodo, «lo metto ancora con orgoglio, è il giubbotto da avere nella vita... a questa cosa non intendo rinunciare». Tra scampoli di filosofia - quella della regola dell'amico è rimasta una massima, la dura legge del gol è sempre lì e non cambierà mai - l'autore non può congelare il tempo e allora, anche lui, si chiede se davvero tutto andrà bene. La sua valutazione mi trova d'accordo: nonostante i problemi, l'Italia di fine secolo scorso stava iniziando una nuova era di rinascita mentre «oggi in parlamento c'è gente che a cavallo tra gli anni '80 e '90 non sarebbe entrata nemmeno nel consiglio provinciale di Pavia».

·        Mel Brooks.

Stefano Giani per “il Giornale” il 22 dicembre 2021. Quando vide John Wayne seduto alla mensa della Warner, Mel Brooks gli si presentò subito. L'idea di affidargli il ruolo di Waco Kid in Mezzogiorno e mezzo di fuoco era molto più che una tentazione seducente. Lo sceriffo di Un dollaro d'onore si mostrò conciliante. Chiese la sceneggiatura. Promise di leggerla. E gli diede appuntamento allo stesso tavolo il giorno successivo. L'indomani lo guardò negli occhi e fu sincero. «È una delle cose più folli e divertenti che abbia mai letto ma non posso accettare. Troppo indecente. Il mio pubblico mi perdona tutto. Non questo». Un due di picche gentile, forse atteso. Ritratto di un'epoca era il '73- in cui non si derogava allo stile. Tranne nella satira. E Mel Brooks era un comico. Come tutti i giullari, irridente. Scanzonato. Spregiudicato. Sopra le righe. Beffardo. Impietosamente ridicolo. Come i suoi cowboy flatulenti. E i suoi bersagli rappresentavano ciò che amava maggiormente. Il vecchio West è una cosa seria ma il pagliaccio non ne conosce il significato. «Ma guardate che cosa ha fatto Mel Brooks al western». Parola di Clint Eastwood, uno che di maschi alfa se ne intende. Eppure il monello Mel in vita sua non ha guardato in faccia nessuno e di parodie ha vissuto per 95 anni, da quel 28 giugno del '26, quando nacque, quarto figlio maschio di una famiglia ebrea di origini prussiane di Danzica. Rampollo di emigrati ben prima che il nazismo mettesse paura a chi non fosse di sangue ariano, con la realtà drammatica del secondo conflitto mondiale dovette fare i conti combattendo. I quattro fratelli furono arruolati ma tornarono tutti a casa. E il folletto Mel fu libero di prendersela con i mostri sacri. In qualche caso solo mostri, come Hitler, in altri casi anche decisamente «sacri» come Hitchcock. I suoi strali si abbatterono per ben due volte sul dittatore, deriso in Per favore non toccate le vecchiette, titolo di fantasia che dovrebbe tradurre l'originale The producers, e successivamente in Essere o non essere, libero remake del più celebre Vogliamo vivere!, firmato da Ernst Lubitsch nel '42. Senza volere, Mel Brooks si era messo sulle orme di Charlie Chaplin, il maestro. L'unico, a sua detta, «capace di far ridere e piangere allo stesso momento». L'uomo che in piena bufera bellica si era preso la libertà di schernire il Führer e Mussolini in un colpo solo. Mel aveva lanciato proiettili dalla sua cerbottana artigianale e una volta aveva dovuto perfino vedersela con uno spettatore che lo rimproverò di aver messo alla berlina un dramma storico. Era trascorso mezzo secolo dalla fine della guerra ma il comico dovette ricorrere all'estemporaneità per controbattere lo sconosciuto che lo apostrofò. «Io ho combattuto in quegli scontri, sa...».  E lui di rimando: «Anch' io, ma non li ho visti». Per poi ricordargli che si trattava di un gioco. Una caricatura. Tutto richiamava i baffetti di Hynkel-Hitler-Chaplin e il filo rosso con un cinema muto che non si circoscriveva a quelle opere ma si spingeva fino a L'ultima follia di Mel Brooks e, in modo diverso, a Che vita da cani!. Un titolo che non poteva non far pensare all'omonimo film del regista del Grande dittatore seppur diverso per la trama. Tra citazioni e sberleffi. Se il folletto non graffia la risata latita. Con il maestro della suspense anche all'impertinente pagliaccio di Brooklyn corse un brivido lungo la schiena. E lo coinvolse. Si trattò di un incontro fra opposti. Hitch era gioviale a modo suo. Ma, da galantuomo, quando si vide preso in giro in Alta tensione, se ne compiacque. E al bizzarro giullare mandò una cassetta con sei bottiglie magnum di Château Haut Brion del '61 e un biglietto. «Un grandioso intrattenimento, non avere ansie. Ti ringrazio perla dedica anche a nome del Golden Gate. Congratulazioni. Hitch». Un secolo di graffi e di battute. Risate e qualche lacrima, come quando se n'è andata l'adorata Anne Bancroft, moglie, compagna e complice di una vita fatta di sfottiture cosmiche perché questo fu, ad esempio, Balle spaziali. E, ovviamente, non solo. Un secolo per arrivare all'inverosimile. Il Covid che costringe un anziano di 94 anni a casa, come tutto il mondo. E lui che prende carta e penna e mette la sua vita nero su bianco. Ricordando. Rievocando. Buttandola sul ridere che è la sua specialità. E quei fogli di carta diventati un libro dal titolo Tutto su di me (La nave di Teseo, pp. 620, euro 22) raccontano di un piccolo ebreo, fra i pochi ad essere un Egot cioè un artista che ha vinto Emmy, Grammy, Oscar e Tony Awards. Eppure il senso di questa parabola spettacolare lo ha sintetizzato Steve Allen del Tonight Show: «Volete sapere chi è Mel Brooks? Penso se lo domandi spesso anche lui. Chiunque sia davvero, è un tipo divertente».

Mel Brooks: «Io sono solo un tizio di Brooklyn che fa ridere. Il genio era mia moglie». Matteo Persivale Il Corriere della Sera il 3 dicembre 2021. A 95 anni il regista scrive la sua biografia, fra comicità, grande storia e l’amore per Anne Bancroft. «Lei si chiamava Anna. Italiano. Lo sono diventato anch’io». La voce, inconfondibile, arriva stentorea dall’altra parte dell’oceano, in un italiano dalla pronuncia lenta ma sicura: «Pronto? Parla Mel Brooks, buonasera». Il resto dell’intervista avverrà in inglese ma Brooks ci tiene a sottolineare che «mi sento uno di voi. Mia moglie Anne Bancroft era italiana, aveva adottato un nome d’arte ma in realtà si chiamava Anna Maria Italiano. Io di nome facevo Melvin Kaminsky, la mia famiglia è arrivata in America da Minsk, che oggi è in Bielorussia, ma ho imparato a amare il cinema grazie ai vostri grandi registi: De Sica, Fellini, Rossellini. La mia città preferita al mondo è Venezia e il mio cibo preferito - a me piace mangiare bene, anche in questo sono uno di voi - sono le lasagne. Lo sa che quando abbiamo realizzato l’edizione speciale per il quarantennale di Frankenstein Junior i due Paesi nei quali ha incassato di più, con distacco su tutti gli altri, sono stati Usa e Italia? Un mio film al quale voglio molto bene, Che vita da cani! , che in America non è stato particolarmente fortunato, da voi invece è stato un successone: rimase per sei settimane in testa al botteghino».

Ha anche condotto Striscia la notizia , nel 1994.

«Quante risate col mio amico Ezio Greggio! Ci sentiamo tuttora, spesso. Gli sono molto affezionato. Come fa lei a ricordarsi di Striscia dopo tutti questi anni?».

Eravamo tutti incollati davanti alla tv: era difficile, quando lei traduceva le parole italiane in tedesco, non cadere dal divano per le risate.

«Ecco, per me la comicità è questo: idealmente, quando va in scena un comico il pubblico dovrebbe sbellicarsi. Altrimenti, se il pubblico non ride in quel modo lì, sei una persona spiritosa, non un comico. Sono due cose diverse. Far ridere è complicato».

Qual è il segreto? Lei fa sbellicare il pubblico da più di settant’anni.

«Bella domanda: la comicità deve avere un motore, deve esserci qualcosa che spinge avanti la storia. Che sia una barzelletta, un aneddoto, uno sketch, la puntata di un telefilm, un film: non importa. Ci vuole un motore. Se c’è una costante in settant’anni di lavoro che ho passato nella commedia, direi che il segreto è questo. Sulla questione della longevità invece, ovviamente il segreto è un altro».

Quale?

«Non morire».

I suoi sketch degli anni ‘50 e ‘60 con Carl Reiner, quelli del “2000 year old man”, l’uomo vecchio duemila anni, sono conservati alla Biblioteca del Congresso di Washington tra i tesori della letteratura americana, accanto ai libri di Mark Twain: fanno parte della cultura americana del Novecento, eppure sono nati quasi per scherzo. Come si fa a creare dei lavori che sono per definizione leggeri e a farli diventare immortali?

«Difficile dirlo. Comincia così: qualcosa ti rimane in mente. Basta la scintilla di un’idea, una suggestione. Ti resta proprio appiccicata. Ci pensi, ci ripensi. Cosa chiederesti a un uomo vecchio duemila anni? E cosa risponderebbe lui? Carl faceva le domande, io rispondevo, improvvisando. In ufficio, a cena, alle feste. Lui registrava, riascoltavamo, tagliavamo e incollavamo. Non sapevamo dove saremmo arrivati, l’idea di un successo così grande non ci sfiorava. Nella writer’s room , l’ufficio degli autori, alla radio e alla tv, si parlava a oltranza. Lavorai anche con il giovane Woody Allen: facevamo ogni sera una lunga camminata insieme, verso casa, per schiarirci le idee. Da un’osservazione a volte nasce uno sketch, specie se hai con te qualcuno col talento di Woody. Funziona così: tu fai una cosa che ti sembra divertente, e a volte quella cosa diventa significativa, ma tu non c’entri già più. Non sono sicuro che un pittore sappia che quello che sta dipingendo sulla tela diventerà immortale. Però so che Carl era il mio migliore amico, oltre a essere un genio della comicità. È morto l’anno scorso. Mi manca moltissimo».

Carl Reiner è uno dei protagonisti - insieme a tutte le persone famose e anche non famose che ha incontrato attraverso la sua carriera straordinaria - del suo libro: Tutto su di me! che esce il 2 dicembre in contemporanea in tutto il mondo, pubblicato in Italia da La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi. Il giovane Holden del romanzo di Salinger ci avverte: se scrivi un libro finisci per sentire la mancanza di tutti. È stato difficile per lei scriverlo fino in fondo?

«Sì e no. Da una parte, certo, ripensi a persone care che non ci sono più. Ma scrivendo, in un certo senso, le riporti in vita. E poi non è che non avessi mai pensato di scrivere le memorie, è che non ho mai avuto tempo finora. Però questa pandemia, e la distanza forzata dai miei figli, dai miei nipoti, dai miei collaboratori... un’occasione per darmi da fare. Sono a un buon punto della mia carriera, ormai - di argomenti ne ho».

Mel Brooks con la statuetta vinta nel 1969 per la migliore sceneggiatura originale di «Per favore non toccate le vecchiette». Di quell’Oscar ora racconta: «Ero così emozionato che quasi dimenticai di prendere la statuetta!» 

Il suo lavoro in tv e al cinema è famosissimo, ma la storia della sua giovinezza, e della guerra, e dei suoi inizi nel mondo dello spettacolo sono sorprendenti: racconta di aver lavorato come sminatore, che già di per sé è una cosa terrificante, di aver schivato per poche settimane l’offensiva delle Ardenne. Ma un tema ricorrente è quello del rancio.

«Altroché: la mamma, rimasta vedova quando avevo due anni, non aveva molti soldi ma ci ha sempre fatto mangiare in abbondanza, quando i miei fratelli maggiori mi davano qualche spicciolo compravo un panino perché avevo sempre fame, poi andavo al cinema; quando sono arrivato nell’esercito nel 1944 ho cercato subito di capire la qualità del rancio. Niente di che, ma ce n’era a volontà, e mi sono tranquillizzato. Lo sminamento non è divertente, ma finii a Saarbrücken dove con un gruppo di commilitoni riuscimmo a schivare il rancio e procurarci cibo locale: zuppa di cipolle, wurstel, crauti, insalata di patate, pane francese. Che bellezza».

«MARIO PUZO, CHE PER TUTTO IL MONDO È IL CREATORE DEL ‘PADRINO’, PER NOI ERA MARIO IL MANGIONE. MAI PIÙ VISTO QUALCUNO MANGIARE COME LUI: ERA UNO SPETTACOLO VEDERLO A TAVOLA»

C’è anche un capitolo dedicato ai ristoranti cinesi di New York: lì si riuniva il suo club di amici del martedì, la Chinese Gourmet Society.

«C’era Joe Heller, l’autore di Comma-22, c’era Mario Puzo che scrisse Il Padrino , c’era un altro scrittore, Georgie Mandel, Speed Vogel che era scultore, c’era Ngoot Lee grande designer di mobili ma soprattutto conosceva i migliori locali di Chinatown. Quante risate, e che mangiate». 

Joseph Heller è stato uno dei più grandi scrittori del Novecento: durante quelle cene parlava del suo lavoro?

«Joe? Ma no! Joe era un genio, per noi però era solo one of the guys , uno dei ragazzi, e tra l’altro il più divertente di tutti. Joe faceva ridere, ma davvero. Mario è per tutto il mondo il creatore della saga del Padrino , ma per noi era Mario il mangione. Mai più visto in vita mia qualcuno che mangiasse quanto lui. Scriveva di notte, e anche se a cena si era rimpinzato a dovere a un certo punto gli veniva fame, scendeva al piano di sotto, in cucina, apriva il frigo e si preparava un panino colossale: affettati di ogni genere, olive, sottaceti, uno sfilatino lungo come un braccio, una cosa mostruosa. Una notte, nell’oscurità, scivolò dalle scale. Fece un capitombolo e si ruppe una gamba. Da una parte c’era il maxi panino, dall’altra il telefono per chiamare l’ambulanza. Scelse il panino. Dopo, arrancò fino al telefono e si fece portare in ospedale, ma a stomaco pieno. Il mio caro Mario. Era uno spettacolo vederlo a tavola».

«LA MIA POVERA MAMMA PRENDEVA GLI SPAGHETTI, CI METTEVA IL KETCHUP E LI METTEVA IN FORNO. CHE NE SAPEVA, POVERINA: ERA RUSSA»

La tavola è un tema ricorrente: gli appuntamenti da Chasen’s a Los Angeles con Alfred Hitchcock che era un grande ammiratore di Frankenstein Junior, i pranzi quotidiani alla mensa dello studio cinematografico con Cary Grant.

«Se pensa che a me piaccia mangiare posso dirle che a tavola non sono nessuno rispetto a Hitchcock: forchetta formidabile, gentleman splendido. Gli chiesi aiuto quando lavoravo a Alta Tensione che era una parodia del suo lavoro, e lui fu gentilissimo, mi prese sotto la sua ala. Grande persona. Che tipo era Cary? Era come se lo immagina: elegantissimo, classe pura, aveva un fascino unico al mondo. Portò in anteprima a Londra una copia del disco di Carl e mio, quello sull’uomo vecchio duemila anni, alla Regina madre. Rise molto, riferì Cary. Io pensai: se fa ridere i miei amici ebrei a Brooklyn e fa ridere anche la Regina madre, siamo a cavallo. Amo anche le umili tavole calde americane: solo una volta sudai freddo, durante le riprese di Per favore non toccate le vecchiette , quando portai Kenneth Mars - che interpretava il commediografo pazzo - in una tavola calda ebraica del Lower East Side. Entrammo, e la tensione si tagliava con il coltello. Mi resi conto che era ancora in costume, e al braccio portava la fascia con la svastica del suo personaggio, un demente nazista. Ken, uomo tanto mite quanto come attore era di straordinaria inventiva, era desolato. Povero Ken: se la tolse, quella fascia, e mangiammo sereni».

Mel Brooks con Alfred Hitchcock che, dopo l’uscita di «Alta Tensione» gli inviò un biglietto in cui scriveva: «Mio caro Mel, che grandioso intrattenimento: non devi avere ansie di nessun tipo. Ti ringrazio umilmente per la dedica che mi hai fatto e ti presento moltissimi ringraziamenti anche a nome del Golden Gate Bridge. Con i miei migliori saluti e, ancora, con le mie più sincere congratulazioni. Hitch» 

Quando ha scoperto il cibo italiano?

«Fu una rivelazione: la mia povera mamma prendeva gli spaghetti, li metteva in una teglia, ci versava sopra del ketchup, e metteva tutto nel forno. Cosa ne sapeva, poverina: era russa. Così io da piccolo pensavo che la cucina italiana fosse quella cosa lì. Quando scoprii come erano davvero gli spaghetti al sugo fu una rivelazione: non le nascondo che mi commossi profondamente, mi misi a piangere. Il cibo italiano è un capolavoro. Poi certo c’è un sacco di cucina ottima, la francese, quella cinese, i delicatessen ebraici stanno scomparendo eppure sono meravigliosi. Ma l’Italia è l’Italia. Ogni tanto cucino la pasta e fasuola che mi faceva sempre mia moglie Anne, mai mangiata così buona come la preparava lei che era una cuoca eccezionale. Conosco il nome in dialetto: in italiano si dice pasta e fagioli, se non sbaglio. Il trucco è non mettere troppi fagioli, e farli amalgamare bene: è un piatto povero, a me piacciono i piatti poveri, sono uno del popolo».

«A NEW YORK SI VIVE A TAMBURO BATTENTE, QUI A LOS ANGELES C’È IL SOLE, TUTTI SONO SERENI. LA LORO CALMA MI METTE AGITAZIONE»

Nel libro lei spiega che anche se per le sue origini viene quasi sempre definito come un rappresentante dello humour ebraico lei si vede di più come esponente dello humour newyorchese.

«Sì, sono due cose diverse. La mia estrazione è quella, certamente anche se non sono mai stato molto religioso la cultura è quella, la sensibilità è quella ebraica. E quando ho cominciato io la tv era una cosa un po’ di serie B, e si riempì di ebrei di New York come me cresciuti con gli spettacoli di vaudeville . C’era Sid Caesar, il mio primo capo, il re assoluto, io rispetto a lui sono solo un giullare. C’era il mio amico Mel Tolkin che ha fatto scoprire a me, povero autodidatta, i grandi russi, i libri di Gogol, l’autore che mi ha segnato e che sento più vicino. Ma l’ebraicità nel mio lavoro? C’è sicuramente materiale, nel corso della mia carriera, che può essere inserito nel filone dello humour ebraico ma si tratta quasi sempre di humour newyorchese: c’è un elemento di aggressione, abrasivo, tipico di New York. Anche Lenny Bruce era ebreo, certo, ma quella comicità lì è comicità newyorchese, pura aggressione».

«Io da ragazzo ero arrabbiato perché mio padre è morto di tubercolosi quando ero piccolissimo, mi è mancato il suo calore, non ho potuto fargli vedere che ce l’avevo fatta - sarebbe stato tanto orgoglioso. Non è giusto. Una cosa importante della comicità newyorchese è che deve sempre esserci un nocciolo di verità, scrivi tutte le battute che vuoi ma dentro hai bisogno della verità che regge tutto. L’avidità e l’antisemitismo in Per favore non toccate le vecchiette; il razzismo in Mezzogiorno e mezzo di fuoco , il preferito dal mio amico Obama che sgattaiolò nel cinema di nascosto perché era troppo giovane e il film era vietato. Sa cosa mi manca di New York, dopo decenni passati a Los Angeles? A New York si vive a tamburo battente, qui c’è il sole, tutti sono calmi, apparentemente sereni. La loro calma mi mette agitazione».

Lei ha preso Broadway, il western, gli horror in bianco e nero della Hollywood dei tempi d’oro, i film muti, quelli di James Bond, Guerre Stellari, Dracula e Robin Hood e li ha fatti tutti a pezzi. Ridicolizzati.

«È lo spirito di New York: non farsi impressionare mai da nulla, essere sempre scettici. Farsi sempre beffe dei potenti, di quelli che si credono importanti. C’è un però grande come una casa. Bisogna sempre lasciare uno spazio a un elemento di umanità. Quando Gene Wilder e Zero Mostel - ebrei come i loro personaggi - camminano per la strada con le fasce naziste al braccio, che hanno indossato per far piacere al commediografo, si fermano a buttarle in un cestino. Gene fa una pausa, poi ci sputa sopra. È uno dei momenti preferiti di tutti i miei film. C’è un limite anche all’avidità, all’abiezione, alla mancanza di scrupoli e vergogna: quel limite è l’umanità».

In questa fase storica molti comici sono preoccupati dalla cosiddetta cancel culture , se tutto diventa offensivo per qualcuno voi provocatori come farete?

«È una questione delicata, ma sicuramente oggi molti dei miei film non verrebbero mai fatti, scatenerebbero proteste e grattacapi per i produttori. Meno male che li ho girati allora. Certo oggi il mondo è leggermente troppo politicamente corretto, la comicità deve sempre scuotere un po’ il pubblico».

Chi la fa ridere oggi?

«Ah no, ho imparato a non rispondere, per delicatezza: sono tanti, e siccome non posso citarli tutti ogni volta poi qualcuno ci resta male se non faccio il suo nome».

Ne nomini almeno uno...

«Uno no: un collettivo. I ragazzi di Saturday Night Live ».

Come produttore ha lanciato la carriera di David Lynch.

«Il mio David. Uomo meraviglioso, artista puro. Lo scelsi che era un ragazzo per Elephant Man . I finanziatori erano allibiti, aveva girato solo un film horror da studente. “È matto da legare!”, mi dissero. Appunto, risposi, è l’uomo ideale per questo film. Risultato: capolavoro assoluto, nomination all’Oscar a pioggia. David è l’artista più umile che abbia conosciuto. Di recente mi ha detto: sai Mel, sono solo un lavoratore nel campo dell’immaginazione. Mi ha anche detto che abbiamo anime simili: che complimento. David al cinema e in tv ci racconta verità eterne».

«QUANDO SCOPRÌ CHE NOSTRO FIGLIO ERA DISLESSICO, ANNA - CHE ERA ALL’APICE DELLA CARRIERA - CHIAMÒ GLI AGENTI: “VADO IN PAUSA, MESI O ANNI VEDREMO”. ARRUOLÒ PERSONE CHE LESSERO E REGISTRARONO SU NASTRO MAGNETICO TUTTI I LIBRI DI SCUOLA CHE MAX NON RIUSCIVA A LEGGERE SULLA CARTA»

Lei ha vinto Oscar (cinema), Tony (teatro), Grammy (musica), Emmy (tv). Siete in pochissimi nella storia dell’intrattenimento. Obama le ha messo al collo la medaglia riservata ai più grandi artisti d’America e le ha riservato un discorso diventato famoso.

«Sono solo un tizio di Brooklyn che ha fatto ridere la gente, un giullare. Mia moglie Anne era quella davvero di talento. Io sarò parziale, ma una come lei - che vinse letteralmente tutti i premi di recitazione, cinema e teatro - non ci sarà più. Quando l’ho persa nel 2005, a causa di una lunga malattia, ho capito che sarebbe cambiato tutto... 45 anni insieme. Il lavoro è una cura per la depressione - fino a un certo punto. L’attrice Anne Bancroft la conoscete. La donna? Era all’apice della fama quando al nostro Max - Max come mio padre, ma per oggi chiamiamolo Massimiliano visto che è per metà italiano - venne diagnosticata la dislessia, che allora purtroppo non era stata studiata e compresa come lo è oggi. Anne non fece una piega, chiamò il suo agente e disse: faccio una pausa, mesi o anni, vedremo, non è importante. Lesse ogni libro mai scritto sulla dislessia, arruolò persone che lessero e registrarono su nastro magnetico tutti i libri di scuola che Max non riusciva a leggere sulla carta per farglieli ascoltare, trovò specialisti, insegnanti di supporto. Max si è diplomato al liceo come tutti gli altri, e ha finito l’università. Oggi fa lo scrittore di best-seller e lo sceneggiatore. Ecco, questa era Anne Bancroft».

Anna Italiano.

«Giusto, Anna Italiano».

·        Memo Remigi.

Memo Remigi: «Faccio la ruota a 83 anni. Soffiai Lucia a un mio amico, poi l’ho sposata due volte». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2021.

Sul serio fa la ruota? Rincorsa, mani a terra, slancio, giro in aria completo e oplà, in piedi? A 83 anni? 

«Certo, anche se preferisco chiamarlo salto mortale, data la veneranda età. La ruota è la mia unità di misura del tempo che passa: finché non mi schianto sul pavimento significa che va tutto bene, che non sono ancora un rottame».

Complimenti. 

«È divertente, sa? Prima lo facevo spesso, quando felice e contento portavo a spasso nei prati il mio amato cagnolino Bacio, tesoro caro che purtroppo non c’è più. Tanto, male che andava, sarei caduto sull’erba. Ci ho riprovato giusto qualche giorno fa, in palestra, sotto lo sguardo mi pare un filo preoccupato della mia maestra di ballo».

C’è da capirla. 

«Sarà la mia arma segreta per colpire la giuria», promette Memo Remigi, con la stessa serafica naturalezza con cui da oltre sessant’anni fa scorrere le dita sul pianoforte, interprete, autore e intrattenitore tutto riccetti, occhi azzurri, garbo, giacca e cravatta, icona di un celebre duetto vintage con Topo Gigio («Che tipo di topo», 1979). Almeno fino a tre anni fa, quando è stato arruolato come insospettabile provocatore nella banda di matti di Zoro/Diego Bianchi, a Propaganda Livesu La7, prezzolato per scherzi telefonici da quindicenne o spedito a citofonare ai portoni nei quartieri popolari di Roma con i pretesti più insensati, nome di battaglia Como Shapira (non scervellatevi, non significa assolutamente nulla), impresa più folle: cercare di convincere un’anziana pensionata delle doti rinvigorenti e afrodisiache del vaccino. Dalla scorsa stagione poi è ospite fisso, tra chiacchiere e note, nel salotto diurno di Oggi è un altro giorno con Serena Bortone («Dovevo restarci poche ore, sono sempre lì») e adesso pure scatenata star danzerina del sabato sera di Raiuno per Milly Carlucci a Ballando con le Stelle edizione 2021, in coppia con la bionda e russa Maria Ermachkova, che dovrà vigilare sulle sue smanie acrobatiche tra un boogie e una bachata.

Intanto. 

«Oh sì, mi sono riscoperto un ragazzino. La parola “ormai” deve uscire dal vocabolario di noi anziani, la vita va vissuta a pieno fino all’ultimo».

Milly l’ha messa a dieta. 

«Mai stato grasso. Mi ha solo suggerito di mangiare sano». Sospira. «Risottino in bianco, pescetto, pollo... addio cucina romana. Ma è una questione di sopravvivenza. In sala prove, dietro gli specchi, ci sono le telecamere, perciò le luci sono al massimo, fa un caldo tremendo, se dovessi digerire la carbonara schiatterei all’istante e preferirei rimandare il momento».

Dura imparare i passi? 

«Non più di tanto, dai, d’istinto mi muovo abbastanza bene, sarà tutta la pratica che ho fatto da ragazzino, al collegio Gallio di Como, dai padri somaschi, quando entrai nella squadra di ginnastica ritmica del professor Foppiani: in fila per due, scarpette bianche, calzoncini bianchi, maglietta bianca, tutti maschi, purtroppo».

Cosa prevedeva l’allenamento del prof Foppiani? 

«Attrezzi, corpo libero, cavallo. In istituto c’era una sala con un pianoforte, ho cominciato così, strimpellando canzoncine per i miei compagni. La domenica, tornato a casa, tenevo dei bei concertini con mio padre, io al piano e lui alla fisarmonica. In classe ero il buffone del gruppo, storielle, scherzetti, spettacolini. Alla fine, invece di mettermi le note, i preti mi arruolarono come presentatore per le recite scolastiche».

Memo è il diminutivo di...? 

«Di Emidio, come il nonno paterno, era uno spasso, un birichino, infatti ho avuto almeno due o tre nonne... quando gli presentavo le fidanzatine cercava sempre di sbirciargli le gambe sotto le gonne. L’ho tenuto anche da grande, Emidio è troppo impegnativo, viene dal greco, significa mezzo dio, ma non ho mai capito quale fosse la mia metà divina».

Suo padre Ercole sperava che con l’età si ravvedesse. 

«Papà possedeva una ritorcitura di filati con quaranta operai, mi avrebbe voluto come direttore dello stabilimento, io invece non ne volevo sapere. Lascialo fare, lascialo sognare, gli ripeteva mamma Maria, il mio angelo».

E così è stato. 

«L’estate si andava in vacanza a Santa Margherita Ligure, all’hotel Helios, con un grande salone delle feste e un pianoforte. Ci portavo le ragazzine che rimorchiavo in spiaggia. Ho scritto una canzone per te... in realtà era sempre quella, cambiavo giusto il nome e la rima».

Finché un giorno... 

«Avrò avuto diciassette anni, incontrai il maestro Giovanni D’Anzi, quello di O mia bela Madunina, che aveva una villa in collina a Santa Margherita. Era seduto a leggere il giornale a un tavolino dell’albergo, mi sentì suonare. Naturalmente stavo tacchinando una nuova conquista cantando Rossella mia... o Francesca mia... Si avvicinò e mi chiese cos’era quel motivetto e se ne conoscevo altri. Certo, li ho scritti io, risposi. E gliene accennai qualcuno».

E dopo che accadde? 

«Niente. Passò quasi un anno. Poi mi cercò. Parlò prima con papà: mi mandi suo figlio a Milano, ha talento. Lui non voleva saperne, lo convinse mamma. Mi presentai nel suo ufficio in Galleria del Corso. Appena entrato, il maestro D’Anzi mi mandò subito al piano. Suonami qualcosa».

E da lì non ha più smesso. 

«Un pomeriggio del 1963, giocherellando con il grande paroliere Alberto Testa, mezzo matto come me, cominciai a canticchiare... sapessi che cretino, scoprirsi innamorati a Torino… sapessi che pazzia, trovarsi innamorati a Pavia... e via di rima in rima, finché non intonai: sapessi com’è strano, sentirsi innamorati a Milano. Alberto saltò su. Ecco questa sì che è bella. Le altre parole mi vennero di getto: senza fiori, senza verde, senza cielo, senza niente...».

Il suo superclassico. 

«Approdai alla Ri-Fi Records, dove c’erano già Mina, Iva Zanicchi, Fred Bongusto, Fausto Leali. Nel 1964 partecipai a Un disco per l’estate, si votava con le cartoline, le compravano tutte le case discografiche, ma la mia non aveva soldi da buttare, perciò non mi piazzai nemmeno. Ho fatto tanta gavetta, tante quindicine».

Che sarebbero? 

«Quindici giorni qua, quindici là, giravo l’Italia con un furgoncino e la scritta “Memo Remigi e il suo complesso”. Ho suonato nei paesini più sperduti, senza palco, senza amplificatori, una volta finimmo accanto a un pollaio, con le galline in sottofondo: co-co-co-coccodè».

Nel 1966 perse il posto al Festival di Sanremo. 

«Avevo scritto due brani, La notte dell’addio per la Zanicchi e Io ti darò di più che dovevo cantare in coppia con la Vanoni, ma poi Gianni Ravera mi disse che c’era da sistemare la Berti. Tranquillo, ci riprovi l’anno prossimo. Così fu. Mi presentai con Sergio Endrigo, cantammo Dove credi di andare e infatti non siamo andati da nessuna parte».

Però a diritti d’autore non è andata male, no? 

«Soprattutto con Io ti darò di più, l’hanno tradotta persino in giapponese, tremenda».

Lei, Iva, Ornella e Orietta siete ancora qui. 

«Non ho avuto quel successo da fuochi d’artificio, però ho dato al pubblico la mia semplicità, la spontaneità, l’onestà e in cambio sono stato molto amato. Sono rinato con Propaganda Live, Diego è un genio, non mi ha chiesto di cantare, ma di essere quello che sono, non solo un pianista in giacca e cravatta, finalmente mi hanno scoperto anche i giovani. Il mio ultimo disco è un reggaeton, ComoShapira , per Clodio Music, in duo con Nartico, cantautore indie di 21 anni».

Con sua moglie Lucia siete stati sposati per 55 anni, dal 1966 al 2021, con qualche intermezzo e un divorzio. 

«Però poi ci siamo risposati, con nostro figlio Stefano come testimone. Ci siamo amati moltissimo, per me è stata fidanzata, sposa, amante e mamma, tutto».

La soffiò ad un suo amico. 

«Eravamo a un torneo di golf a Sanremo — ero piuttosto gagliardo sul green — e il mio amico mi disse che aveva invitato una ragazza bellissima appena conosciuta. Dai, stasera andiamo a prenderla in stazione. Comprai un mazzo di fiori e appena la vidi cominciai subito a fare il tacchino. A fine serata avevo già in tasca il suo numero di telefono, il primo appuntamento fu a Milano, in Galleria, tra migliaia di persone. Innamorati a Milanoparlava di noi».

Da fidanzati la accompagnava nelle sue prime serate. 

«Papà mi aveva regalato una Giulia per il diploma di ragioneria, d’estate partivamo per la Riviera ligure o Toscana e Lucia entrava nei locali o negli alberghi proponendo uno scambio: voi ci date vitto e alloggio e il mio fidanzato canta gratis. Così ci pagavamo le vacanze».

Ad un certo punto però lei ebbe... 

«Una scivolata d’ala».

Con una giovanissima Barbara D’Urso. «Era appena arrivata a Milano, ingenua, inesperta della vita, sono stato il suo mentore, le ho insegnato un po’ di cosine, l’ho protetta da certi ambienti, anzi l’ho salvata. Avevo 39 anni, lei 19».

Sua moglie la cacciò di casa. 

«E ha fatto bene, ha capito che non era una storia da una notte e via... Io e Barbara abitavamo in un monolocale vicino a piazza Napoli, la portavo con me nelle tv private, le spiegavo come muoversi, come parlare, molti miei colleghi cercavano di aiutarla, sapendo che era la mia ragazza. Pippo Baudo la prese a Domenica In».

Durò quattro anni. 

«Finì quando lei mi disse che voleva un marito e dei bambini, io avevo già dato, era giusto lasciarla libera. E tornai da mia moglie».

L’ultima cosa che le ha detto Lucia? 

«Non a me, a mio figlio: prenditi cura di papà».

·        Micaela Ramazzotti.

Valerio Cappelli per il "Corriere della Sera". Entrare nelle vite di personaggi in cerca d' attore è il suo mestiere, eppure fa una certa impressione pensare a Micaela Ramazzotti. Smessi i panni di donne sprovvedute, nevrotiche, insicure, arriva a casa e diventa una mamma serena che mette a letto i figli. 

Che ne pensa?

«Ma io vivo con molta tranquillità questo sdoppiamento, anche nelle pause sul set chiamo casa, tutto a posto, avete mangiato? Jacopo ha 11 anni, Anna 8». 

Età difficile, la prima adolescenza: la mandano già a quel paese?

«Sì, ed è sano. Ti iniziano a vedere i difetti...». 

Lei non ha mai avuto problemi a mostrarsi nuda se il ruolo lo richiede. Adesso con due figli...

«Prima non mi ero mai posta il problema. Ora non ho più la libertà del passato, con il primogenito è una preoccupazione, Jacopo comincia a essere grande e non voglio metterlo in imbarazzo con i suoi compagni di scuola, spogliarmi in un film ne deve davvero valere la pena».

C' è un motivo per cui interpreta sempre donne fragili?

«Per favore, non ne posso più di sentirmi dire che sono donne fragili. Diciamo mattarelle. È come se avessi fatto un patto con chi è nata storta, poi se viene una commedia ben venga. Come posso dar luce a queste donne? Soltanto interpretandole. Non è scontato venire al mondo e starci bene da piccola. Maria è il mio ultimo personaggio nel film di Stefano Chiantini che mi ha lasciato libera di esprimermi, anche in modo un po' clownesco». 

Sta parlando di «Naufragi» che dal 9 è su varie piattaforme e dal 16 su Sky.

«Ho sperimentato un nuovo modo di recitare, più scarno, a togliere. Mi sono anche divertita, mi sono imbiondita, volevo una testa ribelle, da leonessa, mi hanno messa i denti finti per avere un'aria più trasandata. 

Maria è un'anima semplice, subalterna. Ha due figli piccoli, si sveglia tardi e non li porta a scuola, perderà il marito per un incidente sul lavoro, a quel punto crolla, si fa risucchiare dalla depressione, non si alza più dal letto, già non era una donna solida... Mi piace quando al cinema si parla di problemi psichici, di come affrontare il lutto, di certe mancanze...». 

Lei ha mai fatto psicoterapia?

«Sì, per tre anni. Credo che dovrebbe essere un'esperienza accessibile a tutti, come il medico di base, una figura che ci sostiene, sarebbe bello». 

Ritornando ai clown, lei ne parla spesso.

«Perché chi fa questo mestiere non deve prendersi troppo sul serio. Però resto un lupo solitario, un po' ossessiva e fobica, sono i miei peggiori difetti. Ho la mania del controllo. Dopo la pandemia invece ho sviluppato un bisogno degli altri, prima davo per scontato di potermi chiudere nel mio mondo, da quando ci hanno imposto le restrizioni mi mancano i miei amici, stavo rischiando l'abbrutimento. Essendo un'ossessiva che ha paura, avevo terrore del virus, disinfettavo qualunque cosa, ora sono diventati tutti come me, mi sento meno sola». 

Ha amiche nel cinema?

«Isabella Cecchi, attrice livornese, Paolo (suo marito, il regista Paolo Virzì ndr) l'ha voluta con sé in diversi film. Anche Francesca Archibugi è come una sorella». 

È vero che è stata lei a volere suo marito?

«Sì, sul set di "Tutta la vita davanti". Ma mica dobbiamo parlare di lui, siamo restii...». 

Ci dica soltanto se è stato lui il suo mentore...

«Paolo è un grande, anzi un grandissimo artista. Io da piccola ho frequentato poco i libri.

Lui me ne ha dati da leggere, il primo che mi viene in mente è "Revolutionary Road" da cui Leonardo DiCaprio e Kate Winslet hanno girato il film, quella storia di una coppia americana giovane, borghese, che finisce tragicamente». 

Kate Winslet è splendida con i suoi chili in più, con il suo no alla dittatura dei corpi snelli...

«E lo dice a me? Si mostra per quello che è, lei è la mia attrice preferita. Lo ha anche dichiarato: io sono fatta così, questo è il mio corpo, ho avuto tre figli. Porta la sua storia al cinema». 

Lei fa lo stesso?

«Se i bambini non hanno dormito e sono stanca, sul set porto la mia stanchezza, quello che mi sta accadendo, porto la mia vita. Infatti in ogni film ho una faccia diversa. Sono contro il botox e tutto ciò che devasta l'espressione del volto. Ci sono certe attrici tutte tonde e levigate, simili, omologate... A me non interessa il giudizio della perfezione, non ho paura della ruga». 

Suo marito le ha fatto scoprire anche dei registi?

«Sì, ho passato il lockdown a guardarmi il Kieslowski del "Decalogo", l'Altman di "America Oggi" e tutto Cassavetes. Paolo mi dice che ho la sindrome da rallentamento. Al Quirinale, quando andammo ai David di Donatello, per "La prima cosa bella", arrivai in ritardo dal presidente Mattarella. Ero imbarazzata. Ero pronta da una mezz' ora e ho cominciato a guardarmi intorno, a caricare la lavatrice, a sistemare delle cose. Mi sentivo a disagio. Sono emotiva». 

E quando va sul tappeto rosso come fa?

«Aiuto, lì mi sento ridicola, voglio sempre scappare, a volte mi truccano negli hotel e mi rimetto sotto le coperte prima di affrontare il tappeto rosso. Sono una fricchettona. Se non ho le tende a casa copro le finestre con un pareo». 

Parliamo della sua adolescenza inquieta nella periferia romana. È vero che Roma l'ha vista la prima volta a 18 anni?

«No, a 14, al liceo artistico. Prendevo due autobus, il 709 mi portava all' Eur, poi il 714 a piazza dei Navigatori, quindi un bel pezzo a piedi e arrivavo a scuola. Un'ora e mezza all' andata e altrettanto al ritorno. Stavo in autobus con le amiche, quello che mi piaceva era avanti... Erano romanzi». 

Fughe in motorino?

«Tante, in cinquantino dal quartiere Axa dove abitavo a Tor Marancia, senza parabrezza, di nascosto dai miei genitori, sballottata con una mia amica percorrevamo tutta la Cristoforo Colombo, arrivavamo col viso gelato e i capelli che puzzavano di marmitta. Un giorno, a 14 anni, guidava una mia amica e sulla Rotonda di Ostia prende in pieno un'auto ferma sbattendo sul mio ginocchio. Ho una cicatrice di 40 punti. Pensavo di essere onnipotente, non conoscevo i pericoli». 

L' adolescenza ad Axa?

«Villette vicino al mare tutte uguali. Soffrivo che non ci fossero teatri e cinema, c' erano soltanto prati. Mi hanno anche bocciata due volte, sfidavo i professori: Michela vai fuori. E io non ci andavo. Mi divertiva essere ribelle e trasgressiva davanti ai miei compagni di classe, oggi dico non fatelo. Avevo l'identità della sfigata, facevo fotoromanzi per emanciparmi e avere un po' di soldini nel bar davanti alla mia comitiva dove davo baci per finta. Ci si conosceva tutti. Da ragazzina mi chiamavano surf, zero seno e denti grandi. Se ero bullizzata? Beh, un po' sì. Recitare è stata la mia rivincita interiore». 

Nel prossimo film, quello su Caravaggio di Michele Placido che dovrebbe andare a Venezia, fa una prostituta.

«Lena, lui l'amava ritraendola nei suoi quadri dove gli Apostoli sono i senza tetto e le prostitute sono rappresentate come Madonne. L' ho anche portato alla maturità, Caravaggio. Vicino a casa mia c'era una prostituta non più giovane alla quale ho pensato durante le riprese, le ho dato un nome immaginario, Nina. Pensavo di girare un documentario su di lei. Poi abbiamo cambiato quartiere e non l'ho più vista». 

Ma le tende a casa le ha?

Ride: «Le tende sì. Ma, credimi, sono una essenziale, senza fronzoli».

·        Michael J. Fox.

Michael J. Fox, 30 anni fa la diagnosi di Parkinson: "La mia carriera da attore è finita ma mi ritengo una persona felice". Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 10 Dicembre 2021. In un'intervista ad Aarp l'attore ritorna sulla malattia scoperta al culmine della sua carriera. E rivela qual è il suo segreto per affrontare i momenti difficili.  Michael J. Fox e il Parkinson. Trent'anni dopo la diagnosi, l'attore riflette sulla sua malattia e resta positivo nonostante l'assenza di una cura. In un'intervista ad Aarp (il magazine statunitense che si rivolge alle persone di mezz'età), l'attore, 60 anni, ha detto che le difficoltà con la memoria lo hanno costretto ad abbandonare la sua carriera da attore. Tuttavia si è detto pronto ad affrontare qualsiasi cosa il futuro gli riservi e ha spiegato che il suo inarrestabile ottimismo è profondamente radicato nel senso di gratitudine che prova ogni giorno nei confronti della vita.

Una sua frase famosa è: "Il Parkinson mi ha salvato la vita. Prima vivevo a 100 all’ora e bevevo, ora mi sono avvicinato alla famiglia". All’inizio cadde vittima dell’alcolismo. Poi si è ripreso. "Ho continuato a recitare per quasi trent'anni dopo la mia diagnosi - ha detto nel corso dell'intervista - Dopo Spin city (serie tv 1996-2001) mi sono preso una pausa poi ho fatto un paio di episodi di Scrubs ed è stato divertente. Ho interpretato il ruolo di una persona con Doc (disturbo ossessivo-compulsivo ndr) e mi sono reso conto che potevo usare il Parkinson per il ruolo".

Nell'intervista l'attore ha parlato anche di Ritorno al futuro, trilogia considerata universalmente uno dei punti cardine della cultura pop anni 80. L'attore ha detto di aver realizzato solo ora il perché quei film siano così apprezzati e amati dai fan. E ha dato gran parte del merito al cast e alla crew, per essere riusciti a incapsulare lo spirito del periodo storico e culturale.

L'attore ha poi aggiunto di aver avuto un gran colpo di fortuna con The good wife con il personaggio di Louis Canning, un avvocato che usa i suoi sintomi del Parkinson per manipolare la giuria. "Quando non sono riuscito a recitare nel mondo in cui ero abituato - ha aggiunto - ho trovato nuovi modi. Ma poi ho raggiunto il punto in cui a volte non potevo far affidamento sulla mia capacità di parlare, il che voleva dire non recitare in modo tranquillo. Così l'anno scorso ho mollato".

Michael J. Fox sulla copertina di Aarp "Nonostante questo mi ritengo una persona felice, non ho pensieri morbosi e non temo la morte. Affatto", ha sottolineato l'attore. "Ricordo che mentre attraversavo un brutto periodo ebbi un'intuizione su mio suocero, che era morto e che durante la sua vita ha sempre abbracciato la gratitudine, l'accettazione e la fiducia."

"Ricordo di aver iniziato a fare caso a tutte le cose di cui ero grato e ricordo anche di aver capito che la gratitudine rende l'ottimismo sostenibile. E se pensi di non avere nulla di cui essere grato - ha aggiunto Michael J. Fox - continua a cercare. L'ottimismo non è qualcosa che si riceve, non puoi aspettare che le cose vadano alla grande e poi esserne grato. Devi comportarti affinché con la gratitudine arrivi anche l'ottimismo".

Michael J. Fox e Christopher Lloyd in una scena di 'Ritorno al futuro II' del 1989 Fox, che in carriera ha vinto 5 Emmy, 2 Golden Globe e 2 Sag Awards, ha comunque rivelato di avere alcuni rimpianti. Uno, in particolare, è quello di non essere riuscito a interpretare un ruolo in Ghost ma con il senno di poi ha capito che non poteva esserci altro al di fuori di Patrick Swayze.

·        Michael Sylvester Gardenzio Stallone.

Paolo Travisi per leggo.it l'11 novembre 2021. "Ti spiezzo in due". Mai traduzione cinematografica fu più vicina alla realtà, di quella pronunciata da Ivan Drago, il pugile russo interpretato da Dolph Lundgren, il rivale di Balboa in Rocky IV. Si, perché nel documentario "The Making of Rocky vs. Drago by Sylvester Stallone", disponibile gratuitamente sul canale Youtube di Sly Stallone Shop, è lo stesso attore a rivelare un particolare che a distanza di decenni è rimasto inedito. Nel documentario di 93 minuti viene spiegato la lunga operazione di restauro e montaggio della celebre pellicola della saga di Rocky, risalente al 1985, che uscirà l'11 novembre nelle sale americane e poi andrà in home video con circa 40 minuti di materiale inedito che Stallone ha voluto inserire in uno dei suoi film più popolari. Ebbene è proprio durante la fase del combattimento finale tra Rocky e Drago che Stallone racconta della violenza del pugno del partner che lo colpì al cuore e costrinse i medici a trasportare Stallone d'urgenza in un ospedale per essere sottoposto a terapia intensiva. «Nel primo round, quando sono andato al tappeto, è stato tutto vero. Lundgren mi ha distrutto con un pugno, ma in quel momento non me ne sono reso conto. Più tardi però quella notte il cuore ha iniziato a gonfiarsi, il pericardio era stato danneggiato, come capita in un incidente d’auto quando si colpisce il volante con il petto, la mia pressione sanguigna è schizzata a 260 e i dottori erano convinti che avrei parlato con gli angeli» racconta Stallone, rivelando che fu portato d'urgenza in un ospedale in America, perché quella scena ambientata in Russia in realtà era girata in Canada e fu sottoposto a terapia intensiva. «Mi sono ritrovato su un volo d’emergenza a bassa quota e in California mi hanno ricoverato in terapia intensiva in ospedale ed ero circondato dalle suore che pregavano che ce la facessi». Dopo quattro giorni Sly è tornato in forma e sul set ha finito di girare il combattimento finale.

Francesco Alò per "il Messaggero" il 6 luglio 2021. Settantacinque round e non sentirli per Michael Sylvester Gardenzio Stallone, in arte Sly. Unico nella storia a Hollywood ad aver avuto un film numero uno al box office in 5 decadi diverse. Roba che neanche Clark Gable, Marlon Brando o Brad Pitt. Oggi il ragazzo di Hell' s Kitchen è più vivo che mai nel pubblico, perfino tra intellettuali e saggisti. Sincera la stima per l'italoamericano chiamato Enzio in gioventù nell' arguto libretto di Diego Gabutti (Il grande Sly, Milieu, 2021) che addirittura lo paragona agli eroi nazionalpopolari, limpidi e sinceri, di Steinbeck: «È Stallone, mezza era storica più tardi rispetto a Furore, a incarnare nuovamente l' eroe proletario, warrior, reduce, sindacalista, street fighter, pugile, portiere antinazista di football, evaso e mercenario».

I GANGSTER MOVIE Più dissacrante il creatore di Blob, critico cinematografico inventore del termine stracult, penna graffiante di Dagospia: «Lo scoprimmo in questi filmacci bellissimi della American International Picture di Roger Corman - ricorda Marco Giusti - Titoli assurdi come Anno 2000 - La corsa della morte o il gangster movie Quella sporca ultima notte (1975). Era un marginale, in M.A.S.H. Altman nemmeno lo mise nei titoli, ma ti accorgevi che aveva classe come in Marlowe, sempre del 75, con Robert Mitchum dove anche lì era un microscopico gangster. Sembrava Lino Ventura nei film di Jean Gabin cioè era in secondo piano ma tu intuivi quanto fosse incredibilmente cazzuto. All' epoca pensai: prima o poi verrà fuori». E infatti smutandato su uno schermo panoramico (con Gabutti si ride pure) ai tempi di Porno proibito (1970) in cui deve spupazzarsi mezza dozzina di signore contemporaneamente, pingue teppistello sovrappeso per Woody Allen in Bananas (1971), si vedeva che all' epoca non soffriva certo la fame scherza Gabutti. E poi il terrificante uno-due Rocky-Rambo: «Preferisco Rambo - distingue Giusti - Il primo film del 1982 di Ted Kotcheff era un'opera ultra democratica. Il terzo Rambo del 1988 è pro mujaiddin e ironicamente pro talebani perché tra quelli che Rambo addestra in Afghanistan per massacrare i sovietici ci poteva stare uno come Osama Bin Laden». 

I COMMILITONI Arrivano gli 80 in cui Sly diventa simbolo dell'eroismo reaganiano: «Si ritrovò a essere uomo forte suo malgrado - continua il creatore di Blob - Se fai un film come Rambo in cui ti cuci il braccio da solo diventi subito un'icona di mascolinità. Rambo ti gonfia di botte anche se è contro ogni militarismo in senso politico. C' è in lui questa logica dei commilitoni. Il valore non è la bandiera ma il compagno di guerra. Così si arriva a I mercenari nel 2010 che dovrebbe essere un film fascista ma non lo diventa mai perché sono tutti vecchietti con la prostata». Di quegli anni 80 stalloniani Giusti fa una lettura sui generis: «Per esempio in F.I.S.T è un sindacalista non mafioso come Jimmy Hoffa. In Taverna paradiso, bel film con sua regia, non interpreta una bestia. A un certo punto lo identificano come doppio di Arnold Schwarzenegger e Clint Eastwood. Ma lui voleva essere piuttosto il mentore di John Travolta, un ballerino, per cui fa la bella regia di Staying Alive nel 1983. Stallone è sempre stato un po' comico, non epico come Schwarzenegger quando fece il Conan di Milius. Quando vedemmo Rambo, a noi italiani sembrò di recuperare qualcosa del primo Carlo Verdone. Ci faceva ridere». Uscire dalle gabbie Rocky e Rambo diventa praticamente impossibile fino a metà 90: «Landis con Oscar non riesce a farlo essere comico perché lui ha una faccia immobile - prosegue Giusti - L' unico gesto divertente della sua carriera è quando in Cobra (1986) taglia una pizza con il coltello da combattimento militare. Dello Stallone minore mi piace molto Cop Land del 1997 di James Mangold, perché era un poliziotto pieno di acciacchi. Infatti non ci sentiva da un orecchio. Forse al film ci addormentammo tutti ma lui era fantastico».

LO SCANDALO Tre mogli, cinque figli, la morte prematura del primogenito Sage («Era pazzo del cinema di Lucio Fulci», ricorda Giusti) e nel 2007 lo scandalo della multa in Australia perché trovato carico di fiale di ormone della crescita illegali in Oceania: «Aveva bisogno degli steroidi perché è piccolino - ironizza Giusti - Anche la seconda moglie Brigitte Nielsen era il doppio rispetto a lui. L'ho visto una volta a una festa. Sembrava quasi un produttore romano tarchiatello. Era alto quanto me. Dietro a Tiziana Rocca, francamente, sembrava scomparire». Pittore («E anche collezionista. Ho saputo però che mette i suoi quadri accanto a quelli dei maestri, il che non è il massimo»), recordman al botteghino, star, sex symbol, sceneggiatore sopraffino («Quando scoprimmo che aveva scritto Rocky rimanemmo basiti perché il forzuto che ti mena al cinema di solito non usa la macchina da scrivere»). Cosa manca? «L' Oscar o una bella Palma d' oro alla carriera. Se li merita entrambi. Adesso non vedo l' ora di sentirgli dare voce allo squalo gigante in Suicide Squad di James Gunn perché quello è un regista in grado di far recitare pure i ciocchi di legno come in Guardiani della galassia. Quindi penso che ce la farà pure con Sly».

·        Michele Foresta, in arte Mago Forest.

Che tempo che fa, Mago Forest spiazza tutti: "Sono stato in carcere, più facile a San Vittore che da Fazio". Libero Quotidiano il 22 marzo 2021. "Sono stato in carcere". Michele Foresta, in arte Mago Forest, è uno degli ospiti fiss di Che tempo che fa. Il comico-prestigiatore, rivelatosi in tv con la Gialappas' Band, ha sempre amato spiazzare i telespettatori con battute e gag un po' "lunari", ma stavolta forse ha esagerato. Intervistato dal settimanale TvMia, la spalla di Fabio Fazio ha concesso una rilevazione decisamente sorprendente sui suoi trascorsi giovanili. La sua carriera artistica è nata tra le sbarre di un carcere tra i più famosi d'Italia, San Vittore, appena sbarcato dalla sua Sicilia  a Milano. "Stavo facendo il militare e fui assegnato alla casa di reclusione di San Vittore. E li ho iniziato a provare i miei primi numeri". Insomma, niente paura: nel suo curriculum (e soprattutto sulla sua fedina penale) non c'è alcun precedente compromettente. Piuttosto, se per molti il palco della gavetta è stato quello di templi della comicità come Derby o Zelig, Mago Forest può ben dire di essersi fatto le ossa in un ambiente decisamente complicato: "È stato un bel periodo. Con i miei commilitoni stemperavo la tensione con i miei primi numeri, le mie battute e loro si divertivano. È stato così che dopo il periodo di leva ho tentato la carriera nel mondo dello spettacolo". Una carriera di successo, non c'è che dire, coronata da qualche anno con l'approdo in prima serata in uno dei salotti televisivi più visti e chiacchierati (e spesso coccolati) della spettacolo nazionale. Resta, forse un po' di nostalgia per quei temi eroici: "Far divertire dentro San Vittore era più difficile di adesso a Che tempo che fa".

·        Michele Guardì.

Michele Guardì: «Magalli? Vive per la battuta. Adriana Volpe? Impegno oltre la norma». Renato Franco su Il Corriere della Sera l'11 dicembre 2021. Il regista dei «Fatti Vostri» porta in scena «Il caso Tandoy», una storia di cronaca e gossip che rovinò la vita a due persone innocenti. Gli errori della giustizia e l’accanimento dei giornali di gossip. Una storia di abbagli e ostinazione, di scandali e pettegolezzi. Scritto e diretto da Michele Guardì, firma della televisione italiana, arriva a teatro Il caso Tandoy, «una commedia civile che ripercorre uno degli errori giudiziari più clamorosi degli anni 60, l’omicidio di un commissario di pubblica sicurezza a passeggio con la moglie nel viale principale di Agrigento. Il procuratore incaricato delle indagini fa arrestare l’amante della donna, il primario dell’Ospedale Psichiatrico della città, convinto che si tratti di un delitto passionale. Nessuna prova, improbabili indizi, il procuratore è ostinato, esclude qualsiasi altra pista». Il primario rimarrà in carcere 9 mesi, la vedova verrà accusata di aver partecipato all’assassinio del marito, 3 mesi in prigione pure lei. Verranno assolti «per non aver commesso il fatto». «I giornali si accanirono sugli aspetti scandalistici — spiega Guardì —, si gonfiarono di maldicenze a sfondo sessuale. Il giorno dell’assoluzione in prima pagina ci fu un grande titolo: Palermo-Parma 0-0». Sono passati 60 anni ma non sembra. I presunti mostri lapidati sui mass media e poi la notizia della loro innocenza relegata in un piccolo spazio. Ieri come oggi: «La lezione amara è che non è cambiato nulla, il senso di questa commedia è agire sulla memoria, perché la memoria ci permette di ragionare e riflettere sul futuro. Si mescola l’ostinazione di un procuratore che prima decide chi sono gli assassini e poi cerca le prove, il tutto nel tessuto di una città che cercava sporcizia a tutti i costi, nefandezze inesistenti, edizioni straordinarie dei giornali scandalistici a caccia di lettori». Un meccanismo in cui siamo ancora immersi e che oggi è diventato anche più rapido nella sua distribuzione. Un giallo chiuso senza colpevole, ma un magistrato riapre le indagini, il processo porta a 10 ergastoli, in realtà c’è di mezzo la mafia. «Tutti in galera? Nemmeno uno. Chi è fuggito, chi si è nascosto, chi si è suicidato». Come una bolla di sapone, esplode e non rimane niente. Dopo l’anteprima ad Agrigento a gennaio, Il caso Tandoy approda a Roma alla Sala Umberto per poi girare l’Italia; protagonista Gianluca Guidi, il figlio di Lauretta Masiero e di Johnny Dorelli, nel ruolo dell’Autore che mette in scena la commedia. Regista, ideatore, voce del comitato, Michele Guardì è l’anima dei Fatti Vostri da 31 anni. Da lì è passato un intero album di volti televisivi: «Ogni conduttore ha portato un’identità diversa che si è adattata alla piazza. Frizzi metteva a disposizione la sua semplice umanità e generosamente partecipava con il cuore ai casi più difficili. Alberto Castagna era l’esempio puro di come il giornalismo sia una malattia dalla quale si può guarire, era una persona divertita e divertente che affrontava tutti i casi nella posizione dell’uomo della strada, autorevole ma non protagonista. Giletti mi chiese umilmente come porsi davanti alla telecamera in studio (per lui era un debutto) e come modello gli indicai Mario Riva: studiò, si applicò e capì come calarsi nella parte. Magalli è uno che di fronte a qualsiasi evento, anche il più complesso, se avverte il bisogno di una battuta non se la risparmia: questa è stata la sua forza. Adriana Volpe è stata un’eccellente padrona di casa che ha lavorato con me per tanti anni con impegno che è andato persino al di là delle normali attitudini». Ora ci sono Salvo Sottile («la faccia giovane della tv italiana») e Anna Falchi («riesce a mettere al servizio del programma un fascino unito a talento artistico e professionale»). Se Rai2 è allo sbando, il programma è un’eccezione di ascolti: «Funziona perché la piazza è rimasta la stessa, succede quello che vive ogni piazza d’Italia, un racconto della vita quotidiana senza indulgere su aspetti particolarmente positivi o negativi, è lo specchio di un umanità che vive il tempo che cambia e si adegua a stili e canoni del presente».

·        Michele Placido.

Michele Placido: «Ho fatto il ’68 da celerino e mi presero all’Accademia perché ero raccomandato». Emilia Costantini il 20/6/2021 su Il Corriere della Sera. Voleva diventare sacerdote e fare il missionario in Paraguay come lo zio, ma per una storia d’amore con una suora venne cacciato dal collegio. Un esordio significativo per il futuro attore, regista e anche tombeur de femmes che poi si sarebbe sposato tre volte e avrebbe avuto ben cinque figli. Però Michele Placido, nato ad Ascoli Satriano 75 anni fa, minimizza: «Ero un ragazzino di 12 anni, all’epoca nutrivo una sincera vocazione e quella storiella fu innocente. Lei si chiamava Antonietta, aveva 18 anni, era suora di clausura ed era addetta nel collegio, dove mi trovavo da quando avevo 9 anni, al cambio della biancheria di noi educandi. Le passavo il mio sacco con gli indumenti attraverso la famosa ruota. Non ci vedevamo, ma sentivo la sua vocina dolce che sbocciava dalla sua bocca che immaginavo soltanto. Cominciammo a scambiarci informazioni: come ti chiami, dove sei nata, lei era di Benevento e veniva da una famiglia molto povera. Poi iniziammo a scriverci bigliettini, una corrispondenza segreta attraverso la ruota. E quando da casa mi arrivavano i pacchi di provviste, con caciocavallo, salumi, dolciumi, passavo anche a lei un po’ di cose da mangiare, perché la sua famiglia non le mandava niente. Finché arrivò il Natale e quella sera riuscimmo a darci appuntamento di notte nel campo sportivo. Faceva un freddo terribile, io scappo dal mio letto e lei dal convento».

E che succede?

«Beh... Antonietta, mai vista prima, era bruttarella: lei con la tonaca, io con i pantaloni alla zuava. Cominciammo a consumare le mie cibarie, poi ci abbracciammo, ci baciammo e, forse, qualche altra cosetta... Era il primo corpo femminile con cui entravo in contatto. Lei mi sussurrava “sei il mio sposo: tu e Gesù”».

I superiori come lo vennero a sapere?

«Forse confidai a un compagno la mia avventura e al confessore avevo detto che avevo peccato. Da dietro la grata mi chiese: ti sei toccato? E io, nella mia totale innocenza, risposi con voce rotta dal timore che avevo fatto cose brutte... Fummo cacciati entrambi e finì la nostra love story. Io posi fine al mio percorso: il missionario non l’avrei fatto, era sbocciata la mia sessualità e non potevo accettare l’idea della castità. Mi dispiacque molto per Antonietta: non ci siamo più visti».

Papà Beniamino e mamma Maria come la presero?

«Non benissimo, ma ero felice di essere tornato a casa, nella mia numerosa famiglia, 8 figli: cinque maschi e tre femmine... E nel mio paese , però a scuola dovetti fare i conti con il mio disturbo dell’apprendimento».

Spieghi meglio.

«Alle elementari la mia attenzione svaniva quando c’erano materie come matematica, chimica, fisica... mi distraevo, ero un vero ciuccio. Però ero attento alle lezioni di italiano, lì il mio cervello si attivava con energia superiore a quella dei compagni. La poesia mi piaceva molto, sapevo talmente bene quelle di Pascoli che, quando arrivavano a scuola gli ispettori, la maestra me le faceva recitare».

Poi proseguì gli studi al liceo classico?

«Macché! Mio padre, geometra, mi fece iscrivere all’istituto tecnico industriale. Un disastro. Venivo sempre rimandato e poi bocciato. I miei genitori erano preoccupati e chiesero a mio zio maresciallo di farmi entrare in polizia. Vinsi il concorso con il solo diploma di terza media perché, in verità, ero stato raccomandato: una nostra parente era segretaria dell’allora ministro dell’Interno Taviani. Avevo 19 anni, venni a Roma e mi ritrovai a fare il celerino quando nel ‘68 ci furono le sommosse degli studenti a Valle Giulia».

I celerini difesi da Pier Paolo Pasolini nella celebre poesia «Il Pci ai giovani»?

«Esatto. Scrisse il poeta, rivolto agli studenti: voi avete facce di figli di papà, i poliziotti sono figli di poveri. Ricordo una ragazza scalmanata che, durante gli scontri davanti alla facoltà di Architettura, mi sputava addosso. Io ero armato di manganello e, dopo tutti quegli sputi e insulti, la prendo per i capelli. Sto per darle una mazzata ma lei, guardandomi fissa, mi dice: quanto sei bello! Tra noi nacque una storiella, che durò poco: lei apparteneva a una famiglia borghese e devono averle detto, ma che ti metti con un poliziotto?».

La passione per teatro e cinema com’è nata?

«Quando vivevo ancora al paese, tutte le sere andavo al cinema, i teatri non c’erano. Uscendo dalla sala, di notte, mi incamminavo: per strada non c’era nessuno, ma mi identificavo negli attori del grande schermo, immaginavo di avere intorno delle macchine da presa e mi atteggiavo. Vero e proprio narcisismo, necessario per fare l’attore. L’ultimo film che mi capitò di vedere, prima di partire per Roma, stranamente fu proprio Accattone di Pasolini».

La carriera di poliziotto fu breve...

«Si chiude la porta della polizia e si apre il portone dell’Accademia Silvio d’Amico. Mi ero preparato per il provino in caserma, dove c’era una biblioteca che nessuno frequentava».

Fu talmente bravo che superò il provino e venne ammesso?

«Raccomandato pure stavolta. A Roma avevo conosciuto Ilaria, con cui mi ero fidanzato e poi è diventata la mia prima moglie. Sua nonna, Raissa Olkienizkaia Naldi, importante traduttrice di origini russe, era amica di Orazio Costa, allora direttore dell’Accademia. Mi presentai vestito da poliziotto e, qualcuno della commissione, si mise a ridere. Comincio a recitare un brano, ma il mio accento pugliese non aiutava, ero mortificato e pensai: faccio schifo, me ne vado. Ma siccome ero raccomandato, Costa mi trattenne, mi invitò a declamarne una poesia. Mentre declamavo, ero demoralizzato, piangevo, sapevo che sarei stato cacciato anche da lì. E invece...».

Suo padre sognava un figlio tecnico industriale e si ritrova un figlio attore: come la prese?

«Nel bar principale del paese annunciò orgoglioso ai paesani presenti: mio figlio è entrato nell’importante Accademia da cui sono usciti grandi attori!».

E il suo debutto fu nell’«Orlando furioso» diretto da Luca Ronconi.

«Avevo 20 anni, interpretavo Agramante. Luca mi adorava, ma si arrabbiava perché ero indisciplinato e studiavo poco. Però apprezzava la mia istintualità: la sua scuola mi ha fatto capire la vocazione teatrale e gliene sono grato. Come sono grato a Strehler, quando mi affidò il ruolo di Calibano nella Tempesta. Secondo lui avevo qualcosa di diverso dagli altri e disse: tu non hai autostima, ma sei dotato di un’interiorità naturale. Poi aggiunse: io ti trasformerò. Così come mi voleva trasformare Lina Wertmüller, in maniera piuttosto pesante».

Cioè?

«Eravamo alle prove per La Cucina di Wesker. Lei mi urlava: sei un cane! Mi prendeva a calci nel sedere, mi umiliava perché non sapevo bene la parte».

Il solito problema del disturbo di apprendimento?

«Credo di sì. Decisi di mollare tutto, ma Lina mi venne a cercare dicendomi, Michelino tu sei bello, sei bravo, puoi diventare un primattore, perché non impari il copione?».

Primattore lo è diventato, in teatro, al cinema, in televisione...

«La Piovra di Damiano Damiani mi ha dato, oltre alla visibilità del commissario Cattani, una formazione civile. Con questa fiction, atto di denuncia, ho imparato tanto sulla mafia».

Quando ha interpretato Giovanni Falcone cosa ha provato?

«Una responsabilità immensa. Grazie al sacrificio suo e di Borsellino, i siciliani e l’Italia hanno aperto gli occhi: i due magistrati sono stati ammazzati perché lasciati soli come cani dalla politica. La mia prossima fatica la dedico a questo tema: per la Rai sto lavorando a una serie su Rosario Livatino che nel maggio scorso è stato beatificato da Papa Francesco».

Palcoscenico, cinema e tv. Dove si trova a proprio agio?

«Quando faccio cinema, amo il cinema, ma sul palcoscenico vivo le più grandi emozioni e, alla mia età, non rinuncio alle tournée: nei prossimi mesi girerò con La bottega del caffè. Confesso che mi piacerebbe invecchiare sul palco».

E recentemente è diventato presidente della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara.

«Sì, con Moni Ovadia nel ruolo di direttore. La cosa strana è che siamo stati chiamati in una città con sindaco leghista. Dal profondo Sud mi ritrovo nel profondo Nord».

Il suo grande amore è sempre la sua terra.

«L’unica vacanza che concepisco è tornare nella campagna pugliese dove si respira la bellezza, ma anche la fragilità della natura umana: cerco di trasmettere questo sentimento ai miei figli».

Cinque, da tre donne diverse.

«Vengo da una famiglia numerosa. Ho assistito ai parti di tutti i miei figli, affascinato dal sacrificio, dalla sofferenza della donna e dal vedere l’origine della vita».

·        Michelle Hunziker.

Michelle Hunziker, “a 9 anni avevo già deciso”: inquietante confessione su Eros Ramazzotti, lui che dice? Libero Quotidiano il 27 ottobre 2021. Michelle Hunziker ha rilasciato una lunga intervista al settimanale F in cui ha parlato di vari aspetti della sua vita. Oggi la showgirl è felicemente sposata con Tomaso Trussardi (“è arrivato e ha sfondato la porta del mio cuore”), ma ha svelato che il matrimonio con Eros Ramazzotti lo aveva sognato fin da bambina. “Nella prima parte della mia vita sembrava tutto scritto, con coincidenze incredibili”, ha dichiarato la Hunziker. “A 9 anni, guardando la tv, ho deciso che avrei sposato il papà di Aurora (il cantante Ramazzotti, ndr) e mia madre mi diceva: ‘Ma questa è matta’”. Poi però nella vita di Michelle è arrivato Tomaso Trussardi: “Lui è uno che non si arrende mai, anche di fronte a una donna che pensava di non ricostruirsi più una famiglia. Anche se era più giovane, mi ha subito dato il senso del progetto, qualcosa che mancava nelle poche esperienze che avevo avuto dopo il mio primo marito”. Cambiando argomento, la Hunziker ha poi raccontato il suo ultimo “colpo di testa”, in tutti i sensi: si è parlato infatti del suo taglio dei capelli. “Tutti mi dicevano: ‘Ma che fai? Quello è il tuo marchio’. Non l’ho fatto per moda, c’era una motivazione più profonda. È stato un tentativo di alleggerirsi di tanti cliché. Abbiamo questa visione della femminilità col capello lungo e invece io volevo proprio contrastare questo. È stato un taglio simbolico con una vita precedente”.

Michelle Hunziker, confessione inedita sulla madre Ineke: "Ero arrabbiata". Libero Quotidiano il 02 settembre 2021. Michelle Hunziker un fiume in piena. La conduttrice di All Together Now, il programma in onda su Canale 5, non ha fatto mistero su alcuni avvenimenti del passato. In particolare legati alla sua infanzia. Michelle ha infatti ricordato il momento in cui la madre ha deciso di trasferirsi dalla Svizzera in Italia. Il motivo? Un uomo per cui la mamma della Hunziker aveva perso la testa. "Lui non poteva trasferirsi in Svizzera perché non aveva il permesso per lavorare…", ha confessato il volto Mediaset al settimanale Nuovo. Una decisione che all’epoca aveva fatto andare su tutte le furie la stessa Hunziker: "Io ero molto arrabbiata e anche dispiaciuta di lasciare i miei progetti". Ora però tutto è cambiato: "Devo ringraziare mia mamma". E infatti arrivata in Italia è stato subito un grande successo per la conduttrice. Della sua infanzia Michelle ha anche detto di essere sempre stata un "maschiaccio": "Giocavo sempre fuori… Ho fatto disperare mia madre, che mi chiamava come una pazza dal balcone, ma io non arrivavo mai". Ad oggi i rapporti tra lei e mamma Ineke sono più che otttimi, come dimostrato dai tanti video condivisi sui social: "Abbiamo un buon equilibrio e ci vogliamo molto bene". Lo stesso lo può dire lei con la figlia avuta da Eros Ramazzotti, Aurora. 

Aurora Ramazzotti, "anale, ingoio e Rocco Siffredi". Senza censura, spazza via ogni tabù. Libero Quotidiano il 29 agosto 2021. Una scatenata Aurora Ramazzotti apre il suo cuore a followers maschi e femmine che le chiedono consiglio sulle più svariate attività sessuali. La figlia di Eros Ramazzotti e Michelle Hunziker, pur essendo ancora molto giovane, si presta al gioco su Instagram con maliziosa (e divertente) ironia, dando via a delle Stories decisamente piccanti. Senza tabù, senza censure. Le chiedono veramente di tutto. Si comincia forte: "Anale sì o no?". Risposta senza imbarazzi, e già un piccolo cult: "Cosa vuol dire sì o no? Nella vita non c'è giusto o sbagliato, c’è quello che ti piace. Se ti piace nell’orecchio va bene anche lì, non ti giudico". A questo punto la strada è aperta, spianata. E si corre veloci verso il mito: "Ingoio sì o no?". Aurora si traveste da dottoressa: "Sei stato a Ibiza, quanto alcol hai bevuto? Hai mangiato aglio o cipolla? Ieri, ah, benissimo. No ingoio". Una ragazza si lamenta di essere in astinenza sessuale da troppo tempo e la Ramazzotti, con fare ascetico, chiude gli occhi e la butta lì: "Neanche un pisello? Prova con Rocco (Rocco Siffredi, ovviamente, ndr), protettore di tutto e di tutti". Se la malcapitata non riuscisse a entrare in contatto con l'attore a luci rosse più famoso del mondo, nessun problema: c'è sempre la "masturbazione". Benvenuti alla educazione sessuale ai tempi delle influencer.

Aurora Ramazzotti "a luci rosse", la giornalista tv la smonta: "La versione sessuologa spinta un grave errore". Libero Quotidiano il 30 agosto 2021. Dare consigli "a luci rosse" è stato un grosso scivolone secondo la giornalista televisiva Caterina Collovati. Insomma, Aurora Ramazzotti che dal suo profilo Instagram ha fatto una lezione di "educazione sessuale" ai suoi follower, ha sbagliato. E l'attacco della Collovati è durissimo. La figlia di Michelle Hunziker e di Eros Ramazzotti è molto seguita sui social e in passato ha affrontato diverse problematiche che le stavano a cuore. Ma secondo la Collovati non doveva spingersi oltre: "Fin quando Aurora Ramazzotti – ha scritto la giornalista dal suo account Instagram - ci spiegava quanto turbata la lasciassero i fischi degli sconosciuti per strada (cat calling) passi, fin quando ci ammorbava sull’importanza di accettarsi e mostrarsi con l’acne passi, fin quando quest’estate esibiva il suo lato B più del volto passi, ha l’età per farlo… Ma ora basta direi". Secondo Caterina Collovati, i follower di Aurora farebbero bene a rivolgersi a veri esperti: "La versione sessuologa spinta: no. E se la colpa delle difficoltà dei Millenial nel far sesso fosse proprio di queste maestre improvvisate? Suvvia Aurora lascia i temi così delicati ai sessuologi veri e torna a raccontarci degli allevamenti di alpaca come facevi dagli schermi di Tv8 quest’inverno. Eri molto brava", conclude. 

Aurora Ramazzotti e la figlia di Pino Daniele, voce molto maliziosa. "Erano amiche intime, poi...". Pettegolezzo spintissimo. Libero Quotidiano il 18 agosto 2021. Qualcosa si è rotto tra Aurora Ramazzotti e l'amica del cuore Sarah Daniele. "Che cosa sarà successo tra la figlia del compianto Pino Daniele, e Aurora Ramazzotti? Erano da sempre grandi amiche", scrive Dagospia "ma ora hanno smesso di seguirsi sui social e hanno trascorso le vacanze separate. E pensare che, poco tempo fa, posavano insieme parlando di progetti futuri". A luglio, infatti, si immortalavano in vacanza insieme ai fidanzati: Aurora con Goffredo, studente a cui è legata da ormai sei anni e con cui convive a Milano; Sara assieme a Marco Falivelli, speaker di Rtl con cui fa coppia da alcuni mesi e che le è stato presentato proprio dalla Ramazzotti. Adesso, dopo dodici anni di amicizia, sembra "calato il silenzio" e alcuni amici delle due ragazze sostengono che "alla base della rottura c’è un motivo grave".

Anticipazione da “Oggi” il 4 agosto 2021. L’estate, la famiglia, i progetti. Michelle Hunziker rivela ad OGGI in anteprima le novità della sua vita e ride divertita dal gossip: «Ma quale crisi con Tomaso! In estate se non ci sono argomenti su di me, salta fuori che siamo in crisi. Lo scrivono ogni anno. Stiamo benone, grazie», racconta la presentatrice che si appresta a partire con la sua famiglia per le Dolomiti: «Mio marito ama la montagna. Le nostre estati ormai sono in vetta: adoriamo quei luoghi», dice Michelle che parla anche di attualità e dunque di Covid. Lei è stata toccata da vicino dal virus, sua figlia si è ammalata: «Ognuno deve decidere in coscienza cosa è giusto. Io trovo corretto farlo e l’ho fatto. Quando parlo di “coscienza” intendo proprio il pensare anche agli altri, alla famiglia, alla comunità.

Tra le novità del suo futuro, una va in direzione del suo impegno per aiutare le donne vittime di violenza: «Ho intrapreso un percorso di arti marziali e mi sto appassionando molto perché non ti insegnano solo una “tecnica” ma cambiano il tuo spirito, ti danno una forma di sicurezza che si rispecchia persino nel portamento», spiega la Hunziker. «Sto già sognando di poter mettere a disposizione di tutte le donne quello che imparerò». Ma non è mai stanca, tra tv, i corsi ginnici di Iron Ciapet, gli spot ora anche per il turismo svizzero…? Risponde Michelle a OGGI: «Sì, certo! A volte sento il bisogno di silenzio e di relax. A quel punto chiedo a Tomaso di prendere tutta la famiglia e andare a Bergamo. Io mi godo mezza giornata a casa da sola. Mi basta leggere, mangiare per terra davanti a una serie tv, dormicchiare … Cose semplici che mi ricaricano. Poi li raggiungo. Visto? Sono umana anch’io!».

Da ilfattoquotidiano.it il 16 luglio 2021. Michelle Hunziker racconta a Chi di quanto il mondo dello spettacolo possa essere pieno di tentativi di abusi: “C’erano persone che mi promettevano il mondo e volevano che andassi a letto con loro. Ricatti sessuali di ogni sorta in cambio di ingaggi. Mi è capitato di tutto e di più, ma sono riuscita a non cadere in nessuna trappola”. E anche nella prima parte della sua carriera, quando era appena entrata a far parte dello show biz non sono mancate situazioni difficili e pericolose: “Per esempio c’è stato un episodio… Io ero in una casetta in affitto, di fianco a un cinema porno ormai chiuso. Ero al piano terra, un monolocale con una porta e delle tapparelle qualsiasi, mica antisfondamento. Uno che era davanti al cinema chiuso una sera mi ha seguita, voleva entrare, cercava di sfondare la porta, diceva le cose peggiori. E io mi sono trovata seduta sul letto con un coltello in mano a pregare che non riuscisse a entrare”. Hunziker è attiva nell’aiutare le vittime di discriminazioni, abusi e violenze.

Michelle Hunziker: "Ho sofferto quando mi dissero che ero posseduta da Satana". Nell'ultima intervista rilasciata al Corriere, la conduttrice ha raccontato le difficoltà degli esordi della sua carriera tra discriminazione e attenzione morbosa della stampa. Novella Toloni - Lun, 29/03/2021 - su Il Giornale. È pronta a tornare in televisione, ma alla vigilia dell'esordio alla guida di Striscia la Notizia Michelle Hunziker si toglie qualche sassolino dalla scarpa. La conduttrice riprende il suo posto dietro il bancone del tg satirico al fianco di Gerry Scotti e nell'intervista rilasciata al Corriere parla del suo passato. Quello in cui per emergere ha dovuto combattere: "Ho dovuto lottare per far capire che volevo essere altro oltre a una bella forma. Sapevo che piaceva che io fossi sexy, ma cercavo sempre di pormi anche in una chiave ironica e auto ironica". In un momento in cui bullismo e body shaming dilagano sul web e sui social, Michelle Hunziker ha svelato di essere stata anche lei vittima di discriminazione fisica. A cominciare dalla campagna pubblicitaria di intimo che la lanciò in tutto il mondo e dove spiccò fra le tante bellezze per il suo lato b: "Perché discriminazione fisica è sia quando sei ritenuto troppo bruttino per certi mestieri, sia quando sei troppo bellino per essere considerato intelligente. Io negli anni '90 corrispondevo al cliché". Bionda e bella, troppo per essere considerata anche intelligente. Ma la sua voglia di emergere e conquistare un posto in tv le hanno permesso di sfruttare la sua dote ironica per avere la meglio sul "sistema": "Il mio obiettivo era non essere una rivale a casa, ma far sentire al pubblico il mio disagio perché non era quella la mia natura: non volevo essere etichettata come una ragazza sexy e basta". Poi l'incontro e l'amore con il cantante Eros Ramazzotti e quella pressione mediatica che, a vent'anni può schiacciarti: "Dai 20 ai 30 anni sono stata bersaglio di un gossip molto pesante e feroce. Non ero abituata, la vivevo malissimo, mi chiudevo in casa, mi chiedevo se avessero ragione quelli che dicevano che ero una iena ridens". La fama, il successo e quella brutta storia con la setta che ha rischiato di farle perdere tutto e che ancora la ferisce: "In prima pagina su un giornale titolarono che ero posseduta da Satana, fu la cosa che mi ferì di più, essere trattata come un'indemoniata ai tempi delle streghe medioevali". Nonostante la fama e il successo Michelle Hunziker è ancora vittima dei bulli del web con commenti e messaggi violenti e offensivi. Ma l'età e l'esperienza oggi l'hanno portata ad essere diversa nell'approccio alla discriminazione: "Gli hater non mi fanno più male, è gente che vive la propria frustrazione nel rancore, bisogna ignorarli".

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. «Striscia ha cambiato i palinsesti, da 30 anni a questa parte ha deciso che esiste un access prime time, è entrata nell' immaginario collettivo, è diventata un cult». Michelle Hunziker da stasera torna su Canale 5 a condurre il tg satirico ideato da Antonio Ricci. «Ormai sono 16 o 17 anni, ho perso il conto, è diventata la mia casa».

Con lei c' è Gerry Scotti.

«Il nostro rapporto va oltre il lavoro, c' è una sintonia per cui ci intendiamo con un' occhiata. Del resto ci conosciamo da anni, ci sentiamo anche al di fuori di Striscia, se ho bisogno so che Gerry c' è, la verità è che ci vogliamo bene davvero. Lui è svizzero come me, facciamo a gara a chi arriva prima, è la mia versione maschile: siamo entrambi nazionalpopolari, vicini alla gente, non costruiamo la nostra presenza sull' irraggiungibilità, siamo molto easy».

Di Antonio Ricci cosa la colpisce ancora oggi?

«Antonio è sempre Antonio, non l' ho mai visto in nessuna occasione usare filtri: è sempre se stesso, dice in faccia a tutti ciò che pensa. E non ti molla mai, ha un senso di aggregazione e fedeltà unici».

Lei ha un' immagine costruita sulla solarità. Cosa nasconde?

«Essere solari e positivi non significa non essere profondi. Mi arrabbio, mi intristisco, vivo il dolore e la sofferenza, la malinconia e la nostalgia. Sono come tutti. Nessuno è esente dai tormenti interiori. Però affronto la vita a modo mio, sono affetta da amnesie selettive: i ricordi belli li salvo tutti, quelli spiacevoli il mio cervello li elimina. Quindi non sono per niente rancorosa: puoi farmi le peggio cose, io con te chiudo, ma senza serbare rancore. La mia immagine pubblica però non è quella privata: semplicemente non condivido certi umori per non appesantire la gente con zaini di sofferenza di cui non hanno bisogno».

Questa consapevolezza di sé è frutto anche di un percorso psicologico. Cosa ha capito con l' analisi?

«Ho capito che quando il mio cervello elimina certi dolori non significa che non esistano: in realtà lavorano dentro di te, in passato mi hanno creato grossi disagi, anche fisici. Tirare fuori la sofferenza mi è servito a elaborarla, perché le amnesie selettive sono una forma di protezione, ma essere sempre accomodante alla lunga ti fa macerare. E ti ammali, come succede a molti "buoni" che si tengono tutto dentro per il bene degli altri, perché hanno paura di chiedere aiuto. I traumi vanno elaborati, farsi aiutare aiuta te e chi ti sta accanto».

La bellezza è stata il suo trampolino di lancio, quanto le ha pesato lo stereotipo della bionda?

«Oggi si parla di body positive , di bullismo, di discriminazione fisica. Ma discriminazione fisica è sia quando sei ritenuto troppo bruttino per certi mestieri, sia quando sei troppo bellino per essere considerato intelligente. Io negli anni 90 corrispondevo al cliché, ho dovuto lottare per far capire che volevo essere altro oltre a una bella forma. Sapevo che piaceva che io fossi sexy, ma cercavo sempre di pormi anche in una chiave ironica e autoironica. Il mio obiettivo era non essere una rivale a casa, ma far sentire al pubblico il mio disagio perché non era quella la mia natura: non volevo essere etichettata come una ragazza sexy e basta. Oggi la tv ha fatto un grande lavoro, ci sono tante conduttrici di successo, più donne che uomini».

Una critica che l' ha ferita profondamente?

«Dai 20 ai 30 anni sono stata bersaglio di un gossip molto pesante e feroce. Non ero abituata, la vivevo malissimo, mi chiudevo in casa, mi chiedevo se avessero ragione quelli che dicevano che ero una iena ridens. In prima pagina su un giornale titolarono che ero posseduta da Satana, fu la cosa che mi ferì di più, essere trattata come un' indemoniata ai tempi delle streghe medioevali. Gli hater invece non mi fanno male, è gente che vive la propria frustrazione nel rancore, bisogna ignorarli».

Dunque non è bionda come sembra...Incassa e ride.

«Dico sempre, trattatemi come se fossimo in uno spogliatoio maschile. Per me scherzare e divertirsi è il sale della vita. I comici ormai si sono estinti per quest' attitudine puritana e perbenista: così finiamo per togliere un po' di sacrosanta leggerezza alla vita».

·        Miguel Bosé.

Miguel Bosé racconta di aver perso la verginità con Amanda Lear. La reazione della cantante è immediata. Valentina Mericio il 20/11/2021 su Notizie.it. Amanda Lear ha risposto a Miguel Bosè dopo che il cantante ha confessato di aver perso con lei la verginità. Della leggendaria cantante e presentatrice Amanda Lear si sono sentite le storie più diverse tanto che, in più occasioni, vip quali Giucas Casella e Simona Izzo hanno raccontato che la celebre musa di Salvador Dalì sarebbe nata addirittura uomo. Eppure non molti conoscono anche un altro retroscena. Miguel Bosé ha infatti raccontato alla giornalista Nuria Roca di aver perso la verginità proprio con Amanda Lear. La replica della cantante non si è fatta attendere.  Alla base di tutto, vi sarebbe un rapporto, a tratti conflittuale, tra Miguel Bosè e il padre, il noto torero Dominguin. In particolare – rivela il cantante – pare che questo incontro così tanto ravvicinato con la musa di Salvador Dalì sia stato “architettato” proprio dal padre e il pittore. Il Torero – ha spiegato Miguel Bosè – non vedeva l’ora che il figlio fosse “iniziato al sesso per ‘gareggiare’ con lui con le altre donne”.  Miguel Bosè ha aggiunto che quell’esperienza ha rafforzato il rapporto con la Lear che si è evoluto in un’amicizia fatta di complicità e che resiste ad oggi: “Da allora, io e Amanda continuiamo tutt’oggi a vivere un’enorme fratellanza e complicità”.  Non si è fatta attendere la replica immediata della cantante che, intervenuta a Verissimo ospite di Silvia Toffanin ha dichiarato: “Non capisco perché Miguel abbia raccontato questa cosa privata, ma si vede che gli ho lasciato un bel ricordo […] Lui era il figlio del grande torero Dominguin, che era un grande conquistatore ed era preoccupato che Miguel fosse troppo delicato, dolce. Lui veniva spesso ospite da Salvador Dalì a Cadaqués e un’estate Dominguin me lo ha buttato praticamente tra le braccia. Io e Miguel siamo andati a fare una passeggiata ed è successo”. 

Amanda Lear: «La prima volta di Miguel Bosé? Suo padre me lo buttò tra le braccia». Il Corriere della Sera il 20 novembre 2021. Lo rivela la cantante e attrice domenica 21 novembre a «Verissimo»: «Il padre di Miguel, il torero rubacuori Luis Dominguín, aveva paura che Miguel fosse gay». Amanda Lear replica in tv all’ormai incontenibile Miguel Bosé. Il cantante e ballerino, 65 anni, dopo anni di silenzioso riserbo sulla sua vita privata, da qualche tempo sembra non aver voglia di parlare d’altro. Nei giorni scorsi i contenuti della sua intervista alla rete televisiva «La Sexta», al quale ha dichiarato che «il Covid non esiste» e confessato di aver fatto da giovane un sostanzioso u so di droghe , hanno fatto il giro del mondo. Ora al centro dei gossip c’è il suo memoir pubblicato in Spagna, «El hijo del Capitán Trueno» (Il figlio di capitan tuono, ed. Espasa) nel quale, dopo aver rivelato che i suoi genitori, l’attrice Lucia Bosé e il torero «tombeur de femme» Luis Miguel Dominguín, «erano dei mostri», rivela di aver perso la verginità niente meno che con Amanda Lear. Il cantante spagnolo ha rivelato che l’incontro con la musa di Salvador Dalì è stato pianificato da suo padre, Luis Miguel Dominguín. Il più famoso torero di sempre desiderava che il figlio fosse come lui, conosciuto per essere un irresistibile rubacuori (Lucia Bosé, madre di Miguel, rivelò che il loro era «un matrimonio molto affollato». Lo disse anche Lady D del suo, ma lì erano «solo» in tre. La diva spagnola raccontò che, dopo essere stato a letto con Ava Gardner, il marito l’aveva salutata dicendo: «Scusa, devo andare a raccontarlo agli amici»). Quindi predispose un piano per scongiurare il «rischio» che Miguel potesse essere gay, e affidò alla Lear il compito di sedurre Miguelito. La Lear, 82 anni, ha ripercorso i fatti con Silvia Toffanin nella puntata di «Verissimo» che andrà in onda domani, domenica 21 novembre, confermando di avere avuto l’incontro con Bosé — e confessando di essere decisamente sorpresa del fatto che lui lo abbia reso pubblico. «Non capisco perché Miguel abbia raccontato questa cosa privata, si vede che gli ho lasciato un bel ricordo». E ha aggiunto: «Lui era il figlio del grande torero Dominguín, che era un grande conquistatore ed era preoccupato che Miguel fosse troppo delicato, dolce. Lui veniva spesso ospite da Salvador Dalì nella sua villa a Cadaqués, in Catalogna, e un’estate Luis me lo ha buttato praticamente tra le braccia. Io e Miguel siamo andati a fare una passeggiata, ed è successo».

Miguel Bosé: «I miei genitori erano dei mostri». Paola Caruso su il Corriere della Sera l'11 Novembre 2021. Il cantante alla presentazione della sua autobiografia. «Mio padre voleva che io fossi un macho, un donnaiolo. L’ho perdonato». Sono parole forti quelle del cantante Miguel Bosé, 65 anni, che parla in terza persona (di se stesso) di quando era piccolo, in riferimento al tumultuoso rapporto con i suoi defunti genitori, il torero Luis Miguel Dominguin e l’attrice italiana Lucia Bosé che è scomparsa lo scorso anno a causa del Covid. «Il problema che aveva Miguelito — dice — era quello di sopravvivere tutti i giorni a quei due mostri che così tanta ombra ed eclisse causavano». Affermazioni scioccanti, espresse dal cantante in un incontro con media, alla presentazione in Spagna della sua biografia El hijo del Capitan Trueno (Espasa) Il figlio di Capitan Tuono: un libro di memorie con il quale l’artista rievoca diversi momenti della sua infanzia e gioventù, segnate dalle contraddizioni che sentiva di vivere con il padre e la madre, due figure di successo che suscitavano in lui anche «grande ammirazione». Nella copertina del libro, infatti, c’è una sua immagine da giovane, giovanissimo, degli Anni 80, con in testa un cappello da torero come quello usato durante le corride dal padre, amato e odiato, deceduto nel 1996.

«Mio padre voleva che fossi macho»

In particolare, Bosé ha raccontato le difficoltà create nel rapporto con il padre. In un passaggio dell’autobiografia, ad esempio, il cantante racconta che Dominguin era preoccupato dalla possibilità che il figlio fosse gay, dopo che gli era stato riferito che Miguel amava dedicare molto tempo alla lettura. «Mia madre gli chiese quale fosse il problema del fatto che io leggessi molto. “Che il bimbo sarà gay, Lucia! Di sicuro!”», racconta il cantante. «Mio padre voleva che fossi un uomo come Dio comanda: un “macho”, un cacciatore, un donnaiolo», ha affermato Bosé all’Efe. «Io ero di carattere più lombardo, più sensibile», ha commentato. Poi, le cose sono cambiate: «L’ho perdonato».

Le tesi negazioniste

Il cantante ha anche detto di non voler parlare delle sue precedenti dichiarazioni sulla pandemia. Negli ultimi mesi, infatti, ha rilasciato diverse dichiarazioni negazioniste sul coronavirus (per questo motivo è stato anche bannato da Twitter). Nonostante il virus sia stata la causa di morte della madre. Le tesi negazioniste di Bosé hanno fatto scalpore in tutto il mondo e sono state oggetto anche di satira. A imitarlo, facendone la parodia, Maurizio Crozza nel suo programma «Fratelli di Crozza». Nei panni di Bosé il comico diceva: «Son diventato negazionista perché ho smesso con la droga».

Elena Marisol Brandolini per "il Messaggero" il 13 aprile 2021. Erano anni che Miguel Bosé non concedeva un' intervista a un mezzo di comunicazione spagnolo; ha deciso di farlo col suo vecchio amico Jordi Évole che lo ha raggiunto a Città del Messico, per la fiducia «di poter parlare con franchezza indipendentemente dalle mie idee». Molto diverse da quelle del giornalista catalano sul tema della pandemia, su cui l' artista spagnolo non ha mai nascosto la sua attitudine negazionista. Ma la prima puntata dell' intervista andata in onda domenica sera, su La Sexta, nel programma televisivo Lo de Évole, ha lasciato spazio alla parte più intima del personaggio. Quello che ha assunto droghe per vent' anni, che si è dato al sesso sfrenato, che ha visto infranto il suo sogno di famiglia col suo compagno sentimentale Nacho Palau e i loro quattro figli e che perciò è rimasto senza voce per un tempo, fino a quando, improvvisamente, non gli è tornata. Perché ci sono «Miguel e Bosé e i due si detestano», spiega il cantante e la scorsa domenica è stata la volta delle confessioni di Miguel. «Droga, sesso bestiale, tabacco, sostanze»: enumera Bosé le sue dipendenze. Iniziò ad assumere cocaina alla fine degli anni Ottanta per una delusione d' amore: «Sono arrivato a consumare due grammi di cocaina al giorno, oltre a fumare erba e a prendere extasy», ammette. Lo faceva con l' impressione che gli allucinogeni gli consentissero di dispiegare una maggiore creatività, fino a che, diventando un consumo abituale, persero questa caratteristica. Gli ci volle molto tempo per tirarsene fuori, solo sette anni fa avrebbe smesso di farne uso. La voce «va e viene», è stato il primo problema dopo la separazione dal suo compagno, spiega. «Avevo perso la voce completamente. Non si è saputo fuori, perché non ho mai parlato di me o della mia famiglia. Avevo basato tutta la vita sulla voce, ho preso la sua perdita come un esercizio di umiltà. Dovevo aspettare che tornasse ed è tornata. Adesso posso cantare una canzone al giorno, ma è presto per andare in giro a fare concerti». Ancora non si è conclusa la causa giudiziaria che lo oppone al suo ex-compagno per l' affidamento dei quattro figli, due coppie di gemelli, nati per maternità surrogata. I primi due sono figli biologici di Bosé, gli altri due lo sono di Palau. Una relazione di coppia durata 26 anni, dei quali quasi otto con i loro quattro figli cresciuti come fratelli. Palau vorrebbe che questo progetto di famiglia fosse mantenuto anche dopo la separazione con il riconoscimento dei due padri biologici, Bosé invece vuole che i quattro figli vivano con lui e per il momento ha vinto il primo grado di giudizio. Sul finire dell' intervista, Bosé introduce il tema della pandemia, anticipando il contenuto della seconda puntata in onda domenica prossima, quello più atteso, dopo il silenzio dell' ultimo periodo e le dichiarazioni precedenti che tanto avevano fatto scandalo. Bosé risponde alle domande del giornalista non indossando la mascherina, negando di avere mai fatto uso di gel idroalcoolico o di essersi fatto un test Covid dall' inizio della pandemia: «Se avessi fatto tutto quello che mi dicevano non avrei combinato nulla. Perché c' è un piano ordito, e cadranno tutti, uno dietro l' altro, politici, medici, farmaceutici...». «La mia non è la posizione di chi pensa di avere la verità, è la verità, sono negazionista e vado in giro a testa alta. Non mi vaccino». Miguel Bosé, nato 65 anni fa a Panama, figlio dell' attrice e modella italiana Lucia Bosé e del torero spagnolo Luis Miguel Dominguín, è cresciuto in un ambiente pieno di arte e di cultura, i suoi genitori erano amici di Luchino Visconti, Pablo Picasso ed Ernest Hemingway. Nel corso della sua carriera musicale iniziata nel 1973, ha duettato con diverse stelle internazionali della musica, come Shakira, Laura Pausini e Ricky Martin. Nel marzo dello scorso anno, sua madre Lucia morì per una polmonite e domenica scorsa, fedele al suo personaggio, Bosé ha voluto precisare: «Mia madre non morì di Covid, ma per un' altra storia».

Miguel Bosé negazionista a testa alta, il delirio del cantante: “C’è un disegno dietro il covid”. Vito Califano su Il Riformista il  12 Aprile 2021. Miguel Bosé si dice orgogliosamente negazionista, “una posizione che tengo a testa alta”, perché “c’è un disegno che non si vuole far sapere, questa è la verità”. Stanno facendo il giro del mondo le parole del cantante spagnolo, molto noto in Italia, per via della sua opinione a proposito della pandemia da coronavirus. Dichiarazioni rilasciate in un’intervista esclusiva al giornalista del canale spagnolo La Sexta, Jordi Evole, e che stanno indignando e dividendo. Un lungo dialogo, a tratti un delirio, poi ricordi della sua vita, la madre, la carriera, la tossicodipendenza. Bosé da sette anni non concedeva un’intervista a una televisione spagnola. Un’opportunità concessa all’amico, che comunque ha preso le distanze dalle sue posizioni. Bosé ha invitato comunque il giornalista a togliersi la mascherina.  Vive a Città del Messico e fa il coach nel talent show La Vox México. La seconda parte dell’intervista, sul coronavirus, andrà in onda domenica prossima. Ieri il dialogo più intimo, sulla sua vita. E quindi gli anni del successo, delle droghe, che cominciò a prendere a fine anni ’80. “Chiamai un amico all’alba e gli dissi: ‘Voglio uscire a divertirmi’. Quella notte bevvi un bicchiere e tirai la mia prima striscia di cocaina, che mi durò una settimana. Mi costò molto poco”. La droga, ha raccontato, l’aveva intesa quindi come parte integrante della vita di un artista. Bosé arrivò a consumare fino a due grammi al giorno di cocaina, e poi marijuana, estasi. Una dipendenza durata fino a sette anni fa. Oggi ha 65 anni. Bosé ha fatto risalire la perdita della voce – che viene e che va, comunque più roca rispetto al passato – alla rottura con il suo ex fidanzato Nacho Palau. Vicenda ancora al centro di una causa per l’affidamento dei quattro figli Diego, Tadeo, Ivo e Telmo. Quattro figli avuti tramite maternità surrogata, due di Bosé e due di Palau. Punta comunque a tornare a cantare per la fine dell’anno prossimo. Altra parte delicata, la relazione con il padre, il celebre torero Luis Miguel Dominguin, uomo che avrebbe voluto come primogenito un “erede fatto a sua immagine”. L’episodio più esplicativo delle divisioni tra i due, quando il padre lo portò a caccia. “Mi costrinse a cacciare una cerva. Le sparai e l’ammazzai e nel momento di tirarle via le viscere, che è quello che si fa per portare la preda a casa, uscì fuori un cucciolo, gli mancavano alcuni giorni per nascere. Reagii molto male, presi a pugni mio padre, lo chiamai figlio di puttana e me ne andai. Lui mi chiamò codardo, io non mollai e lui quel giorno si rese conto che con me non sarebbe stato facile”. Bosé è figlio del torero e Lucia Bosé, attrice naturalizzata spagnola, Miss Italia 1947, morta nel marzo 2020 a Segovia per via di complicanze dovute al covid. Da anni le sue capacità polmonari erano ridotte a causa della tubercolosi contratta nell’infanzia. Il figlio ha comunque sempre respinto che a ucciderla sia stato il virus. Il cantante è stato bannato da Twitter per aver diffuso fake news sulla pandemia.

·        Milena Vukotic.

Oggi è un altro giorno, Milena Vukotic: "Chi era davvero Paolo Villaggio", parole pesantissime. Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. "Non mi pesava l'essere grottesca, io mi divertivo": Milena Vukotic, conosciuta come Pina nel film Fantozzi, ha parlato del suo storico personaggio nello studio di Oggi è un altro giorno con Serena Bortone. "Sono felice della mia signora Pina. Paolo diceva sempre 'ricordiamoci di essere delle caricature' ma per me è stato un momento importante", ha detto l'attrice. Che ha ripercorso tutta la sua carriera, compreso il passato da ballerina, una professione che è riuscita a rispolverare con la partecipazione a Ballando con le Stelle negli anni scorsi. Parlando delle similitudini con il suo personaggio, la Vukotic ha confessato: "Di Pina mi appartiene la sua insicurezza". Nel corso della trasmissione, poi, è intervenuta anche Elisabetta Villaggio, figlia di Paolo, che ha ricordato il bel rapporto sia professionale che umano tra l'attrice e il padre. "Quando papà scoprì che Milena aveva accettato il ruolo, era felicissimo", ha rivelato. L'ottimo rapporto tra i due è stato confermato anche dall'attrice, che di Villaggio ha detto: "Era una persona molto gentile. Anche se aveva un aspetto burbero, poi era un uomo molto gentile". Infine, ha parlato di una cena a casa sua, in cui era presente non solo Villaggio, ma anche Fellini: "Fellini mi chiese il pesce persico e sono andata nella migliore pescheria di Roma a prenderlo, ma non era stagione e mi diedero un altro pesce che feci al cartoccio. Al momento della cena mi sono scusata per il pesce persico e lì si è scatenata una serata piena di scherzi e prese in giro perché lui naturalmente me lo aveva detto sapendo che non era di stagione".

·        Milton Morales.

Niccolo Maggesi per "novella2000.it" l'1 maggio 2021. Milton Morales è stato uno dei personaggi più noti della TV dei primi anni Duemila. Scoperto da Maurizio Costanzo grazie all’amicizia che lo legava alla modella Youma Diakite, Milton ha lavorato per parecchi anni sul piccolo schermo. Ha iniziato come modello e ballerino (a Buona Domenica insegnava al pubblico sensuali passi di danza cubana), per poi passare dalle trasmissioni più seguite e anche ai reality. Ma che fine ha fatto oggi Milton Morales? Proprio la TV che lo ha lanciato sembra averlo dimenticato. Novella 2000 lo ha raggiunto a Las Vegas, dove vive ormai da diverso tempo occupandosi di arte. Intervistato da Mattia Pagliarulo, Milton Morales ha spiegato ai lettori del nostro settimanale che cosa lo allontanò dal circuito televisivo. “Purtroppo non fu una mia scelta. Dopo che avevo partecipato nel 2004 alla prima edizione del reality La Fattoria, il mio storico agente Giuseppe Santoro si ritirò e io mi trovai da solo a gestirmi. Poi sono entrato nella scuderia di Lele Mora, ma la collaborazione fu breve perché poco dopo lo arrestarono. Da lì sono stato chiamato sempre meno”. Anche se oggi la sua vita è cambiata e lavora principalmente come pittore e scultore, Milton non riesce a nascondere l’amarezza di essersi visto mettere ai margini dello spettacolo, per poi doverne uscire. Ora la sua aspirazione sarebbe quella d’essere selezionato per un altro reality, e in particolare l’Isola dei Famosi. “Il mio sogno è partecipare all’Isola dei famosi, è il reality che più si adatta a me: ho uno spirito selvaggio e battagliero”. Almeno per quest’anno, però, l’ex modello cinquantenne dovrà rinunciare alla prospettiva di volare in Honduras, perché con l’approdo di Ignazio Moser (previsto nella puntata in onda stasera) il cast dell’edizione 2021 dovrebbe essere completo. Tornando al passato televisivo, Milton Morales ha anche spiegato che malgrado avesse stretto parecchi legami tra i professionisti dello spettacolo, nessuno di loro lo ha aiutato a recuperare visibilità al momento del bisogno. “Avevo tanti amici nel mondo dello spettacolo, personaggi con nomi noti e importanti. Ci sentivamo spesso, c’era un rapporto vero, di cuore. Uscendo dalla TV sembra che io sia uscito anche dalla lista delle loro amicizie. Ho continuato a mandare messaggi e a fare telefonate, ma con il passare del tempo hanno iniziato a rispondere sempre meno, per poi non rispondermi più”. Esclusa dunque qualsiasi ipotesi di riprendere il lavoro in TV, Milton è volato in America dove vive con il padre e la sorella. Qui ha dato sfogo ad un’altra delle sue passioni più grandi: l’arte. Oltre a dipingere e scolpire, però, nei momenti più bui ha saputo adattarsi a fare qualsiasi lavoro. “Senza vergogna dico che mi sono adattato a fare svariati lavori: ho fatto il massaggiatore, ho lavorato in un laboratorio che costruisce pezzi per barche, ho fatto l’addetto alla sicurezza nei locali, ho consegnato pacchi per Amazon. Ho fatto tutto ciò a testa alta e non mi vergogno dopo la mia popolarità in Italia di aver svolto lavori umili”. E a chi si domanda come mai, in tanti anni di apparizioni serrate o di ospitate in discoteca, non abbia saputo far sfruttare i propri guadagni, Milton Morales risponde così: “Purtroppo anni fa sono stato fregato per ben due volte. La prima aprendo con una socia e amica un ristorante a Verona, e la seconda con un’agenzia di viaggi a Milano. Mi sono fidato delle persone sbagliate, e così quasi tutti i soldi sono spariti”. L’intervista prosegue svelando se il cuore di Milton al momento è occupato oppure no, e raccontando tanti altri aneddoti sull’affascinante cubano. Potete trovarla in edicola chiedendo il nuovo numero di Novella 2000!

·        Mikhail Baryshnikov.

Gian Luca Bauzano per “Sette - Corriere della Sera” il 3 luglio 2021. Lo sguardo, quegli occhi cerulei e trasparenti, velati da un soffio di malinconia. Colpiscono. Hanno colpito sin dal primo momento in cui Mikhail Baryshnikov ha fatto il suo salto nella libertà in Occidente. «Deux yeux bleus, lavés, presque transparents, percent un visage finement dessiné»: occhi blu, tersi, quasi trasparenti che perforano un viso finemente disegnato. Così li descrive il cronista de Le Figaro quando lo incontra a Parigi per il suo debutto all’Opéra, trascorsa una manciata di mesi da quando Misha (questo il vezzeggiativo), a fine giugno 1974 a Toronto abbandona la compagnia del Bolshoi in tournée in Canada e chiede asilo politico. Sceglie di non rivedere più la sua terra. E oggi a 73 anni continua a non avere rimpianti per la decisione presa. «No, non è un mio desiderio tornarvi. O un mio sogno», replica asciutto alla domanda. Lo sguardo, leggermente si cristallizza, incupendosi. «Sono nato sotto Iosif Stalin, sono scappato sotto Breznev e alla fine negli Stati Uniti, diventati subito la mia casa, ci siamo trovati sotto Trump. Poi la pandemia. Abbiamo vissuto un periodo drammatico. Sotto una cappa nera. L’elezione di Joe Biden e la presenza di figure femminili come Kamala Harris al potere sono un’occasione straordinaria per una ventata di freschezza. Riportare il nostro Paese alla normalità. Ripristinare certi valori umani. Biden va aiutato e sostenuto. Ma una metà del Paese non la pensa così». Mito della danza e al pari solo di Nureyev (13 anni prima nel 1961 a Parigi anche il Tartaro volante aveva scelto la libertà chiedendo asilo politico), Baryshnikov rispecchia e sottolinea ogni sua affermazione con lo sguardo ceruleo; ognuno dei ruoli che ha danzato rendendoli unici e, ora, i protagonisti di performance teatrali che da anni affronta come – sua la definizione –, «danzatore da camera». In costante ricerca di quelli che definisce «teatri perfetti», non più di 500 persone, protagonisti in scena solo testo, voce e movimento. Non il botteghino. Luoghi ideali per accogliere la sua anima schiva e riflessiva. E personaggi come Achille in chiave contemporanea, combattuto tra vanità, omosessualità ed etica del leader in The Show (Achilles Heels) in scena con il suo White Oak Dance Project; il dio della danza Vaslav Nijinsky: dà voce ai suoi Diari in Letter to a man di Bob Wilson. Il profondo rapporto d’amicizia che lo univa al Nobel per la letteratura Iosif Brodsky in Brodsky/Baryshnikov. Progetto del regista lettone Alvis Hermanis, nonché direttore artistico del New Riga Theatre dove Baryshnikov (anch’egli lettone e nato a Riga nel 1948), nel 2019 interpreta The White Helicopter: lo sguardo trascendente di Benedetto XVI in dialogo con se stesso, il proprio segretario e una suora, dopo la rinuncia al soglio pontificio: in lavorazione le recenti riprese per una versione “cinematografica”. Differente invece la percezione del personaggio Baryshnikov dopo l’arrivo in Occidente e la scelta di vivere a New York. Riflettori puntati sul danzatore dalla tecnica eccelsa, fuggito dall’Est e identificato dai media di allora come uno dei sex symbol dell’epoca: l’attrice Jessica Lange ne resta sedotta, dalla loro relazione nasce Aleksandra oggi ballerina e attrice. Divo delle grandi platee, dei grandi teatri e delle grandi compagnie; la nomina a étoile del New York City Ballet e in precedenza dell’American Ballet Theatre di cui poi diviene anche direttore artistico. Misha è uomo e artista dei grandi incontri. Lavora con coreografi mitici come Balanchine, Cunningham e Robbins. Esplora il repertorio contemporaneo, si confronta con i mostri sacri Martha Graham e Alvin Ailey, Twyla Tarp e Mark Morris. Condivide la scena con Rudolf Nureyev: l’antagonismo, un gioco mediatico, un rapporto di ammirazione reciproca. 

Nureyev & Baryshnikov: avete cambiato il corso della danza.

«Rudolf aveva un tale carisma da affascinare le persone. Talento naturale. Eccezionale in scena. Gli anni 60 per Rudolf e poi i 70 per me sono stati eccezionali. Ma erano quelli dove il pubblico si interessava agli artisti più come personaggi pubblici, rispetto a ciò che interpretavano in scena»: lo afferma schermendosi. Dato di fatto, in quei due decenni la danza cambia. E lui il cambiamento continua a tenerlo vivo: dal 2005 è alla guida del Baryshnikov Arts Center, da lui creato a New York nell’area delle Hudson Yards per lavorare assieme a compagnie, coreografi e talenti emergenti da tutto il mondo».

Da sempre è artista curioso pronto a sperimentare. Adora Fred Astaire («il migliore. Senza dubbio»); ha danzato con Liza Minnelli a Broadway («volevo provare quello swing, quella cultura prettamente americana di fare spettacolo»); ha fatto cassetta al cinema (i film The Turning Point, nomination ai Golden Globe e White Nights), e audience in tv: ruolo cameo in Sex and the City, il pittore e gallerista Aleksandr Petrovsky di cui si innamora Carrie/Sarah Jessica Parker. L’attrice rivelò «a colei che tutto riesce a far dire a chiunque», cioè Oprah Winfrey, che lavorare con il danzatore era il suo sogno. Come lo è sempre stata anche la danza: Parker ha studiato all’American Ballet School. Ma se per l’attrice l’incontro sul set televisivo resta, sua la definizione, una «dear diary experience», per Baryshnikov non è altrettanto. Solo una delle sue molteplici sperimentazioni artistiche.

Cinema, musical, tv. Hanno allargato la sua notorietà. Oggi i social...

«La deludo. Sono un analfabeta social. Non ho Facebook. Come non farei mai il regista cinematografico. Da dove iniziare... Il risultato di tutte queste esperienze così differenti? Mi hanno permesso di scoprire che sono un artista: “singolo”, “solitario”? Amo i progetti che nascono da zero. Non mi importano difficoltà, frustrazioni e incognite. Solo il risultato. Come è accaduto con Wilson, Hermanis e ora con Jan Fabre». 

Fabre, l’artista belga di fama mondiale, ha catturato lo sguardo trasparente di Baryshnikov, incorniciato in una maschera di argilla bianca. In metamorfosi continua. Reso il protagonista di un film co-diretto con Phil Griffin, poi racchiuso in una video installazione. Un’opera d’arte a tutti gli effetti. Not Once il titolo. Presentazione ufficiale il 23 luglio all’Arsenale di Venezia, evento con cui si apre Biennale Danza 2021, 15esimo Festival internazionale di danza contemporanea. 

Mito vivente del balletto, danzatore da camera e ora anche un’opera d’arte. Ma lei chi è oggi?

«Nulla di tutto ciò. Sono sempre stato aperto a ogni tipo di esperienza artistica. Così una volta appese le scarpette al chiodo, si fa per dire, ho intensificato le mie esperienze teatrali. Ogni anno presento un nuovo progetto. E il teatro è stato il tramite naturale. Mi sono fatto le ossa con artisti come Bob Wilson e Alvis Hermanis. Ho vissuto il loro approccio visionario. Mi trovo a mio agio in questa dimensione. La carta vincente? Interpreto senza immedesimarmi nei personaggi. In scena il risultato dello scambio reciproco tra me stesso e la loro storia. Ma solo attraverso voce e linguaggio del corpo adatti».

Fabre però l’ha trasformata in un’opera d’arte. Da esporre in un museo

«Un onore. Ma non sono egocentrico. Non mi sento un’opera d’arte vivente. Al contrario: Not Once è una sfida. Mettersi a nudo davanti al pubblico». 

A esserla, un’opera d’arte, si rischia meno. Avrà mica paura a raccontarsi?

«È il metodo di Fabre che destabilizza. Come se ti entrasse con una mano nello stomaco. Ti rivoltasse le viscere e poi ti mostrasse al pubblico. Poi lo fa anche con il tuo cervello. Anche se ci conosciamo da decenni è stato impegnativo. Me lo dovevo aspettare da un artista che nel suo quartier generale a Troubleyn espone un’opera che è anche un motto: “Art can break heart, kitsch can make you rich”». E scoppia a ridere. 

Un progetto sul quale avete lavorato quattro anni. Come è nato?

«Fabre mi ha visto in scena con Willem Dafoe in The Old Woman di Bob Wilson e mi ha proposto il progetto. Non è stato semplice. Con Fabre bisogna “arrendersi”. Ho dovuto metabolizzare per diversi anni il testo che recito, il suo Monologue for a Man, scritto nel 1996. Lo interpreto in un film in cui si mixano movimento, arte contemporanea e body Art». 

C’è una trama?

«Una non-storia d’amore. Nasce dal rapporto platonico tra una fotografa e il protagonista. Un rapporto in cui lei è manipolatrice. Lo trasforma di continuo. Gli crea sempre nuove identità, ma non lo possiede».

Una metafora?

«Della complessità e spesso impossibilità dei rapporti umani. Un argomento inquietante. Ci sono meccanismi, a volte indecifrabili, in grado di legare per decenni due persone. Può accadere in scena tra due artisti. Accade nella vita di chiunque. Rappresenta la quotidianità. Raccontarlo in un film, in una video installazione che rimane per sempre, significa mostrarsi senza difese». 

La intimorisce così tanto? Dovrebbe essere temprato lavorando con Wilson e Fabre...

«Mondi differenti, ma li accomuna un elemento: la morte. Entrambi ne sono spaventati. Come lo sono io. Mentirei se dicessi che mi lascia indifferente. Ho oltre 70 anni ed è come sentissi alle mie spalle il rumore di passi pesanti. Incalzano e indicano la fine». La nostra fine. Un pensiero che ci accomuna tutti «In realtà forse preoccupa più gli uomini delle donne. Loro vivono più a lungo, con grazia. Noi uomini? Direi più isterici. Anche piagnoni. Un po’ come me. Mia moglie Lisa (la ballerina Lisa Rinehart, sposata nel 2006 e dalla quale ha avuto altri tre figli: Peter Anna e Sofia ndr), mi prende in giro. Quando arriva un nuovo copione o una nuova proposta di lavoro mi guarda e afferma: “Anche questo parla di morte?”». 

Non riesce a esorcizzarla? Si è anche confrontato in scena con un Papa.

«Esatto, affronto molte delle mie paure a teatro. Recitando. Interpretare un Papa come Benedetto XVI che ha compiuto un gesto così forte come quello di dimettersi mi ha spinto a farmi molte domande: la società di oggi, il complesso rapporto con Dio e la Fede. Benedetto è una figura straordinaria. Scrittore, studioso e teologo. Per capire il Papa ho indagato l’uomo Joseph Ratzinger. La sua è una storia di scelte drammatiche, dramma umano profondo. Mi ha spinto a scavare nella mia anima». 

Lei è credente?

«Non sono praticante o credente nel senso tradizionale di questo termine. Ma credo in quella che definisco divinità dell’uomo e in un Creatore». 

Benedetto XVI l’ha colpita. Evidente. E il suo successore, Papa Francesco?

 «Benedetto come Francesco servono il mondo. Hanno entrambi una missione. Due figure eccezionali. Francesco? Gesuita, volto nuovo e progressista. Argentino, viene da un Paese complesso. Che amo molto. Lavorano da posizioni differenti per trasformare la Chiesa Cattolica. Osservandola dall’esterno, è al centro di una lotta tra le sue due differenti anime, conservatrice e più liberale». 

Le paure, i dubbi, il suo rapporto con l’immanente. Ora però un’immagine “da camera” di Misha felice

«La notizia della nascita della mia prima figlia (nel 1981 ndr). Un momento... Potente. Diventare padre. Rendersi conto di avere responsabilità non solo verso sé stessi e l’arte. Ma anche nei confronti di un altro essere umano. Certo ci sono anche le preoccupazioni, la responsabilità delle scelte, ma la felicità, questo sì, posso confermarlo è immensa». 

·        Mina.

PG. per "il Giornale" il 25 novembre 2021. Mina ovviamente non c'era. E neppure Adriano Celentano. C'erano la moglie di lui Claudia Mori e il figlio di lei Massimiliano Pani con la carica divertente (e pure unica nel mondo pop) di portavoce. Obiettivo: la presentazione di The complete recordings, il cofanetto pieno di foto inedite e di tutte le canzoni che i due punti cardinali della nostra musica leggera hanno registrato insieme. Da Acqua e sale a Brivido felino. Insomma tutti i brani inclusi nei dischi usciti nel 1998 (Mina Celentano) e nel 2016 (Le migliori). Più un inedito, che non è per niente male e si intitola Niente è andato perso. È tutt' altro che uno «scarto» dell'ultimo disco perché ha tutti i carati per diventare un buon singolo. «Il brano è stato inciso nella scorsa estate», conferma Pani mentre sullo schermo del meraviglioso piccolo teatro Gerolamo passa il videoclip. La parola chiave del pezzo (scritto dal bravo Fabio Ilacqua) è forse «però», che conferma in qualche modo la vena critica di Celentano, e la trama musicale è attuale, ritmata, convincente. Di certo, loro due difficilmente deludono e anche i racconti che li circondano sono sempre sorprendenti.  Ieri, in un incontro della Milano Music Week moderato da Luca De Gennaro, c'erano anche Celso Valli, Fio Zanotti e Mauro Balletti, che hanno condiviso anni e dischi con Mina e Celentano. «La loro matrice comune è che sono attenti e curiosi», dicono praticamente in coro. «Mina e Adriano sono due giocherelloni, si vogliono bene fin da ragazzini: l'idea di fare qualcosa insieme piaceva ad entrambi, così nel '98 hanno deciso di realizzare qualcosa di inedito, non autocelebrativo - hanno spiegato Mori e Pani -. Avevano fatto già delle cose in tv dove traspariva quanto loro due, insieme, fossero straordinari». Eh già, molte di queste «cose insieme» hanno caratterizzato la tv degli anni Sessanta e Settanta, diventando punti forti della storia musicale italiana. «Hanno sempre lavorato con uno spirito forte, una grande simbiosi pur nella diversità. Hanno sempre avuto curiosità e spirito di leggerezza, ma anche grande serietà, che li ha contraddistinti e portati a risultati eccezionali», dice Pani prima che Claudia Mori sveli ciò che tanti si aspettano, ossia i particolari sul ritorno in tv di quello che è stato chiamato per decenni Il Molleggiato e ora è uno degli «assenti» più presenti del mondo dello spettacolo. «Da parte di Adriano - conferma la moglie - l'idea c'è, ma bisogna essere in due per realizzarla. Ma bisogna fare i conti con il pericolo di censura che, dopo Rockpolitik, è stato abbastanza presente». Censura dove? «In Rai». Quindi c'è un progetto, manca il «luogo» dove mandarlo in onda. «Da un anno circa vedo Adriano armeggiare al computer. Prima mi ha detto che voleva mettere ordine. Ma adesso è chiaro che non si tratta solo di quello. Vedremo. Di certo, nonostante tutto, il ritorno di Celentano in tv sarebbe come sempre un evento. Anzi, a 83 anni, sarebbe un evento ancora più grande.

Arianna Ascione per corriere.it il 29 marzo 2021.

Il primo grande amore. Una voce straordinaria - ancora così presente nonostante la lontananza dalle scene -, un «vero animo rock n’roll» (così l’ha definita Achille Lauro nel suo tributo sanremese), un’icona che ha sempre anticipato i tempi (nel suo lavoro ma anche nello stile): parliamo di Mina, che il 25 marzo compie 81 anni. Nelle sue canzoni, diventate grandi classici della musica italiana, la «tigre di Cremona» ha cantato i mille volti dell’amore. Quello passionale, ma anche quello tormentato che nella sua vita ha provato più volte in prima persona. Ha soltanto 22 anni quando, nel 1962, conosce Corrado Pani, attore di grande talento (era stato diretto da registi come Luchino Visconti, Strehler e Luca Ronconi). I due si incontrano a una cena a Roma e passano la notte a parlarsi. Il mattino dopo lei riceve un biglietto che dice: «Mi sei rimasta dentro. E ora come farò?». All’epoca Pani di anni ne aveva 26, ma non fu l’età a scandalizzare agli inizi degli anni Sessanta i benpensanti.

La vita in hotel. Corrado Pani era sposato dal 1959 con l'attrice Renata Monteduro. Erano separati di fatto da diverso tempo, ma non essendo stato ancora introdotto il divorzio in Italia sulla nuova coppia pendeva l’accusa di concubinaggio. Se Mina e Corrado avessero vissuto insieme nella stessa casa sarebbero stati condannati, per cui i due per sfuggire allo scandalo decidono di vivere in albergo. Non sono mesi facili: «Vivere in hotel è umiliante - confessa la cantante ad Oriana Fallaci -. Tanti non sposati vivono nella medesima casa. Noi non possiamo: finiamo in galera. Mio Dio, dico. Se avessi rotto una famiglia, capirei. Ma tutto era già rotto prima che io arrivassi. Corrado e la moglie vivevano separati da un anno, avevano già avviato l’annullamento». Il 18 aprile 1963, alla Clinica Mangiagalli di Milano, nasce il frutto di quell’amore travolgente: Massimiliano. Per quella maternità Mina pagherà un prezzo molto caro: la Rai la terrà lontana per due anni. In più, a causa degli impegni lavorativi di entrambi e i conseguenti lunghi periodi di lontananza, la storia entrerà in crisi.

Matrimonio lampo. Alla fine degli anni Sessanta Mina si innamora del compositore Augusto Martelli, che le aveva arrangiato «L’uomo per me». I due iniziano una convivenza, ma nel 1970 la cantante - dopo un'esibizione a Terni - incontra per un’intervista il giornalista romano Virgilio Crocco. È amore a prima vista, così Mina decide di lasciare Martelli: gli telefona e gli annuncia il matrimonio imminente. Il 25 febbraio 1970 a Trevignano Romano, sul lago di Bracciano, la cantante e Crocco convolano a nozze, ma gli impegni professionali li dividono fin dalle prime settimane. I due sono già separati quando l'11 novembre 1971, sempre alla clinica Mangiagalli di Milano, Mina dà alla luce la sua secondogenita Benedetta. Nonostante la fine del rapporto sentimentale l’artista e il giornalista continueranno ad avere buoni rapporti, fino alla prematura morte di lui nel 1973 mentre si trovava negli Stati Uniti per un’inchiesta.

Con Alfredo Cerruti. Dopo la nascita della figlia Mina inizia a frequentare Alfredo Cerruti, discografico napoletano e membro del gruppo satirico-demenziale degli Squallor, incontrato in sala d’incisione e al ristorante Santa Lucia di Milano. La coppia, innamoratissima, cerca di tenere i riflettori il più lontano possibile dalla relazione, senza successo: i paparazzi non danno loro tregua e dopo tre anni l’amore arriva al capolinea.

Seconde nozze. Sul finire degli anni Settanta, proprio mentre annuncia il suo ritiro, Mina ritrova un amico di vecchia data, il cardiochirurgo cremonese Eugenio Quaini, con cui inizia una relazione che va avanti ancora oggi. Dopo molti anni insieme i due si sposano a Lugano, dove vivono, il 10 gennaio 2006. Nozze ovviamente segretissime, ma per un attimo - vista l’importante occasione - si apre uno spiraglio nella barriera di riservatezza che l’artista ha costruito intorno a sé negli ultimi quarant’anni: è la stessa Mina a dare la notizia in un articolo poi pubblicato su Vanity Fair, sorprendendo così il suo pubblico ancora una volta.

·        Miriam Leone.

Da "ilmattino.it" il 18 ottobre 2021. Ospite a Domenica In, Miriam Leone presenta il suo ultimo film e ripercorre le tappe più significative della sua brillante carriera. Tra i racconti, uno in particolare sembra sorprendere i telespettatori, quello del suo innamoramento nei confronti di Piero Angela. Miriam Leone nel salotto di Domenica In rivela il suo amore per il divulgatore scientifico Piero Angela. «Ma è vero che eri innamorata di Piero Angela?», le chiede Mara Venier in studio. «Lo adoravo perchè mi aiutava a conoscere dimezzando il tempo dello studio. A scuola arrivavo sempre più o meno preparata», risponde divertita l'attrice. L'ex Miss Italia racconta a Mara Venier di aver poi incontrato, durante un evento, il divulgatore scientifico e di avergli dichiarato in quell'occasione il suo amore: «Sono andata e gli ho detto di essere innamorata e lui mi ha detto "bene"».

La risposta di Piero Angela: «Sono rimasto molto sorpreso»

Ma a sorprendere Miriam Leone è poi un videomessaggio proiettato in studio inviato dallo stesso Angela: «Sono rimasto molto sorpreso e lusingato dal sapere che sia interessata me» dice Angela, che aggiunge: «Io ho compiuto 66 anni di matrimonio ma so che anche Miriam si è sposata da poco e quindi gli auguro 66 anni di matrimonio felice». L'attrice, a Domenica In per presentare il suo ultimo film "Marilyn ha gli occhi neri" con Stefano Accorsi, ha sposato Paolo Carullo, musicista e imprenditore, lo scorso 18 settembre a Scicli, nel Santuario di Santa Maria La Nova dopo circa due anni di fidanzamento.

L'attrice Miss Italia nel 2008. Miriam Leone bullizzata per le sue sopracciglia: “Mi chiamavano Elio e le Storie Tese”. Vito Califano su Il Riformista il 3 Ottobre 2021. Succede che per un presunto difetto estetico Miriam Leone, tra le attrici e showgirl più in voga del momento, venga criticata e paragonata in maniera piuttosto comica. “Al liceo mi dicevano che ero Elio delle Storie Tese. Oggi è divertente perché ho un’età. Ma perché me la dovrei prendere se sui social mi insulta, per dire, Giuseppino88? La facilità nel criticare il prossimo sono chiacchiere da bar che valgono zero. Le cose cambiano nei giovanissimi, vedo un’accettazione importante della diversità. Ci ho messo una vita ad accettare la mia faccia”. Lo ha raccontato la stessa attrice in un’intervista a Il Corriere della Sera in occasione dell’uscita di Marylin ha gli occhi neri, un film di Simone Godano con Stegano Accorsi. I due attori erano già stati protagonisti della serie tv su Mani Pulite e quegli anni di scandali della politica 1992. Il film racconta di due emarginati, disadattati. Per prepararsi alla parte gli attori hanno frequentato un rehab. “Per essere autentici bisogna conoscersi. La cosa bella del film è che, in questo processo, ognuno aiuta l’altro. Clara è mitomane per abbellire una realtà che la ferisce. Io mi sentivo diversa anche fisicamente, si rivolgevano a me come se fossi una straniera”. Poco male comunque: nonostante quei paragoni piuttosto azzardati lei nel 2018 ha vinto Miss Italia. “È stata una porta per l’emancipazione, il mio provino davanti a milioni di persone. Dopo ho potuto camminare da sola, sperimentare, conoscere l’affetto delle persone. Ogni giorno in un luogo diverso, dai paesini a New York. La corona devi restituirla: ne ho fatta una copia che conservo in bagno. Mi serviva una testimonianza. Un giorno, quando sarò anziana, la mostrerò a figli e nipoti e dirò: sono stata Miss Italia”. Leone si è anche appena sposata, con il manager e musicista, oltre che conterraneo, Paolo Carullo. “Non è un personaggio pubblico. Il mestiere che mi porta in un altrove, è bello avere una parte di vita così. Alle nozze c’era gente da tanti paesi della Sicilia, stare di nuovo a contatto è bellissimo”:

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Barbara Visentin per corriere.it il 5 ottobre 2021. L'attrice Miriam Leone, contrariamente a quanto ci si possa a spettare da una ex Miss Italia, ha raccontato in un'intervista al Corriere di essere stata presa in giro per il suo aspetto fisico negli anni in cui andava a scuola. Nello specifico, ha fatto riferimento alle sue folte sopracciglia: «al liceo mi dicevano che ero Elio delle Storie Tese», ha detto. Così la replica fulminante degli Elio non si è fatta attendere, facendo scattare subito l'ilarità dei fan sul web: «Miriam Leone: "Io bullizzata per le mie sopracciglia: mi chiamavano Elio e le Storie Tese". E cosa dovremmo dire noi, che venivamo chiamati "i Miriam"?» hanno scritto i musicisti su Instagram. La battuta ha divertito molto i follower della band milanese che ha iniziato a replicare con una miriade di commenti. L'attrice, raccontando di non capire come mai la gente la trovi bella, nell'intervista aveva parlato anche degli insulti sui social: «Oggi è divertente perché ho un’età. Ma perché me la dovrei prendere se sui social mi insulta, per dire, Giuseppino88? La facilità nel criticare il prossimo sono chiacchiere da bar che valgono zero. Le cose cambiano nei giovanissimi, vedo un’accettazione importante della diversità. Ci ho messo una vita ad accettare la mia faccia».

Il matrimonio a Scicli. Chi è Paolo Carullo, il marito di Miriam Leone: manager e musicista. Vito Califano su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Era misterioso compagno e ora è destinato a diventare noto marito. Paolo Carullo, l’uomo che ha sposato l’attrice e modella Miriam Leone. Del matrimonio a Scicli, in provincia di Ragusa, si è scritto parecchio in questi giorni. Le fotografie sono diventate quasi virali sui social network. L’estate scorsa erano emerse voci su una relazione del manager con l’attrice e su imminenti nozze. E lei aveva prontamente smentito. Carullo ha 36 anni. È manager finanziario, nato a Caltagirone. Ha studiato e si è laureato in Economia e Finanza a Milano, dove si è trasferito. Al momento è operatore del mondo finanziario e Associate Partner, a capo dello sviluppo del business, presso la società Aliante Partner. È anche musicista: membro della band Apple Jack, un duo di dj di musica elettronica dalle influenze reggae e funky. Il gruppo ha suonato parecchio anche all’estero. L’altro membro è Matteo Roveda, chitarrista e vice presidente di Sentinel Diagnostics, azienda di famiglia Made in Italy all’avanguardia nella ricerca scientifica. Il matrimonio sabato 18 settembre, terra natale di entrambe gli sposi. La relazione tra i due è sempre stata caratterizzata da una grande privacy. Non si sa neanche bene quando la storia sarebbe cominciata. Quando Leone smentì nozze prossime, l’anno scorso, comunque ammise di avere una relazione in corso.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2021. «Io non sono Gianni Morandi», dice Miriam Leone giocando sul fatto che non è ancora riconosciuta da chiunque, oscillando nella sua duplicità, ora scanzonata ora pudìca e riservata. Marilyn ha gli occhi neri di Simone Godano (dopo l’anteprima al Festival di Bari arriva dal 14 nelle sale in 300 copie) è la storia di due anime alla deriva, due emarginati in un rehab, un centro di riabilitazione, ed è una prova d’attore: Stefano Accorsi fa Diego, pieno di tic e scatti d’ira; Miriam Leone è Clara, una mitomane. 

Miriam, era importante essere credibili, ridere con loro e non su di loro.

«Sì, ma vede che diciamo loro, non noi? Abbiamo lavorato nel rendere l’umanità di quelle persone, frequentando un rehab, mescolandomi a loro, non essendo Gianni Morandi, e camuffandomi. La gente per strada mi dice: lo sai che somigli a Miriam Leone? Io rispondo: me lo dicono in tanti, sono meglio io».

E al rehab...

«Ho conosciuto una ragazza aveva i capelli verdi: sono i colori di Napoli, mi ha detto. Mi ha colpito la poesia. Un giorno stavo poco bene, il loro commento: come stai male. Nella società siamo pieni di giusta distanza, lì le distanze si azzerano, sono diretti». 

Clara è convinta di essere un’attrice e non lo è.

«L’altro da noi è dentro di noi, non altrove. Mettiamo da parte il diverso perché non vogliamo vederlo, ciò che non è conforme alla norma ci fa paura. Ma potrebbe succedere anche a noi. Lo dice Vasco, l’equilibrio sopra la follia». 

A Catania, da ragazza, lei ha detto di sentirsi diversa.

«Ti sembra di vivere una discesa agli inferi invece è un’ascesa. Era un modo di vedere le cose che dovevo capire. Per essere autentici bisogna conoscersi. La cosa bella del film è che, in questo processo, ognuno aiuta l’altro. Clara è mitomane per abbellire una realtà che la ferisce. Io mi sentivo diversa anche fisicamente, si rivolgevano a me come se fossi una straniera».

La prendevano in giro per le sopracciglia folte?

«Eccome, al liceo mi dicevano che ero Elio delle Storie Tese. Oggi è divertente perché ho un’età. Ma perché me la dovrei prendere se sui social mi insulta, per dire, Giuseppino88? La facilità nel criticare il prossimo sono chiacchiere da bar che valgono zero. Le cose cambiano nei giovanissimi, vedo un’accettazione importante della diversità. Ci ho messo una vita ad accettare la mia faccia».

Detto da una Miss Italia…

«La gente mi vede bella e non riesco a capire. Non sono mai contenta del mio aspetto. Ma in questo film, io che non mi rivedo mai, mi sono emozionata a rivedere i cambi di registro in una stessa scena». 

Lei non poteva che fare cinema: suo fratello si chiama Sergio Leone, proprio come il regista.

Sorride: «Infatti io dico a tutti che sono la sorella di Sergio Leone, senza specificare troppo. Avevo la vocazione dell’attrice ma ho fatto di tutto per non diventarlo, temevo il fallimento, non sapevo da dove cominciare».

Lei, Miss Italia nel 2008.

«È stata una porta per l’emancipazione, il mio provino davanti a milioni di persone. Dopo ho potuto camminare da sola, sperimentare, conoscere l’affetto delle persone. Ogni giorno in un luogo diverso, dai paesini a New York. La corona devi restituirla: ne ho fatta una copia che conservo in bagno. Mi serviva una testimonianza. Un giorno, quando sarò anziana, la mostrerò a figli e nipoti e dirò: sono stata Miss Italia». 

È stata conduttrice tv.

«Non era il mio posto, dovevo dire quello che piaceva e non quello che pensavo. Allora meglio il silenzio. Sognavo di sposare Piero Angela, mi toglieva due-tre ore di studio. Gliel’ho detto e lui: mmmh, arrivederci signorina». 

Lei, da ragazza…

«Ero una ribelle. Capelli colorati quando non usava, vestiti ai mercatini e se spendevo più di 5 euro non andava. Un look da scappata di casa». 

Si è appena sposata.

«Con Paolo Carullo, non è un personaggio pubblico. Il mestiere che mi porta in un altrove, è bello avere una parte di vita così. Alle nozze c’era gente da tanti paesi della Sicilia, stare di nuovo a contatto è bellissimo». 

Lo sa, vero, che quando uscirà il film su Diabolik dove fa Eva Kant diventerà come Gianni Morandi?

«Io lo adoro, con quelle mani enormi…».

·        Mistress T..

Barbara Costa per Dagospia il 17 gennaio 2021. Questa donna ha sempre il controllo. Sa sempre cosa dire e fare. Lei sa cosa c’è nella tua mente. Di sporco, segreto, inconfessabile. Sa del tuo desiderio. Lei te lo fa. Preme i tuoi interruttori più nascosti. Sa dove stanno. Come si azionano. Come far diventare tangibili, reali, le tue voglie più corporee. Sa come nasce, nel tuo cervello, quell’impulso, e come scorre nelle tue vene per arrivare a battere lì, in mezzo alle tue gambe. Lei la vedi, è molto bella, è glamour, si chiama Mistress T., è canadese, ha 44 anni, ed è tra le star del sadomaso più cercate. Lei non è nata feticista, lei non è nata dominante, lei a 20 anni ha scoperto su un sito chi di esperienze sadomaso scriveva, e a 22 è andata a cercarsi dove potessero esaudire le sue. Per mettersi alla prova. Farsi frustare, in un locale, in pubblico… tu credi sia malsano? Che sia da pazzi, da scellerati? Ogni sessualità ha la sua complessità, se pensi che per tutti si risolva nell’amore, nel matrimonio, nel quotidiano il più banale, mio caro, sei sulla Luna. Certo, non esci dal grembo materno da performer feticista, però esiste una predisposizione, una qualche specie di programmazione, ci vuole di sicuro enorme sicurezza di sé e speciali abilità psicologiche per sottomettere, soggiogare e dominare qualcuno. Nel caso di Mistress T., gli uomini. Fino all’umiliazione. E così farli godere. Ma godere loro, non lei, lei no, perché ogni schiavo non è degno del piacere della sua padrona, non ne è all’altezza, non se lo merita. Però neanche lui spesso orgasma, se è ingabbiato, calpestato, sputato, ridotto a niente. Non è cattiveria, non è violenza. È una sessualità. Che Mistress T. fa esplodere. A pagamento. Lauto pagamento. Quello che Mistress T. fa non è insulto alla decenza, nemmeno a dio. Mistress T. non crede in nessun dio. Il suo blog e i suoi social sono invasi da devote suppliche sessuali ma pure da appelli alla redenzione, e c’è chi la apostrofa “strumento del diavolo”, e chi la prega di tornare indietro, e di pentirsi, poiché “quello che fai è un sussurro del diavolo che ti dice di farlo”. Il male, il diavolo?!? Ma non c’è male tra due consenzienti che fanno sesso non per amore né per concepimento. Lo fanno per il dolore che sfocia in piacere tra torture fisiche e psichiche e sadiche, le più martellanti. Che c’entra il diavolo in un uomo che ti paga perché vuole godere ad odorarti le natiche e a succhiarti ogni peto che in bocca gli fai? Né dio né il diavolo sono invitati in un incontro a due in cui lei riempie lui di offese, e lo usa a mo’ di sedia, pattumiera, e nella sua bocca getta i mozziconi dopo averli spenti sulla sua lingua, e se lo porta a spasso con un guinzaglio allacciato al pene. Chi si è autoinvitato tra stordimenti anali a base di violente monte con lo strap-on? Nessuno, è un gioco tra lei, Mistress T., e colui che si è liberamente impigliato nella sua tela di dominazione. Questo qui ha pagato, per essere vessato così, per essere amato così. Tariffa minima: 150 dollari. Devi proporti sul suo sito, via mail. Mandare foto, scrivere cosa sei disposto a farti fare, e cosa no. Sei tu che vai da lei, ovviamente: Mistress T. non si muove da Vancouver. Per la pandemia oggi lavora online (anche in realtà virtuale, su "HoloGirlsVR.com") in video no-free fatti con amici, amanti occasionali, o attori professionisti, e tu ricorda che… devi specificare se vuoi apparire in viso oppure no. I tuoi limiti. Fin dove lei può spingersi, e tu sopportare. Tra lei e te, concordate password vocali e gestuali che stabiliscono quando lei si deve fermare. Perché… quanti calci nelle p*lle riesci a sopportare legato e immobilizzato? Quanti, prima che quel tuo caz*etto si erga e venga, sempre che Mistress T. decida di farlo venire? Sei pieno, ti fanno male dal bisogno che hai di svuotarle: davvero credi che il tuo nettare uscirà o non gli sia vietato, "bloccato", a farti molto più male? A ogni uomo potenziale cliente a chiederle scodinzolante di divenire un suo schiavo, Mistress T. spegne gli entusiasmi. Il fatto è che: hai il budget necessario? Caccia prima i soldi, amico. Parli di divertimento? Al massimo è lei che si diverte, e tu sarai lì, con lei, per essere asservito. Sì, lo so, che il tuo piacere sta in questo, però… non è da seri, e bravi schiavi, scodinzolare festosi. Stai al tuo posto da nullità che sei. Una nullità sessualmente niente può volere o decidere. Supplicare sì, forse, ammesso che Mistress T. glielo conceda. Non si stufi, non ne abbia abbastanza di tali lagne. Uno schiavo perfetto dovrebbe venerare in silenzio. Non scocciare in nulla e in tutto obbedire. L’attenzione di Mistress T. è privilegio. E comunque va pagata. Qui gratis non esiste niente, come in verità non esiste nella vita, ma qui non ci sono ipocrisie. Paga. Paga. Paga. Per ogni cosa, uno sguardo, paga di più per un tocco, di più per uno schiaffo, ancor di più per uno strattone, paga per ogni insolenza, ingiuria. Paga per ogni sputo, per esser ricoperto di saliva apri un mutuo, ricorri agli strozzini per un rapporto di dominazione completo, da ripetere, multiplo. Ci stai? Lo vuoi? Ma che vuoi che se ne faccia Mistress T. delle tue dolci parole? Ricaccia in gola i complimenti. Se stai con lei è perché hai pagato l’onore di essere mortificato, schiacciato, degradato. C’è niente di strano. È la tua sessualità. Legittima. Manifestala. Vuoi che resti un tabù. E perché? Te ne vergogni? Con Mistress T. non ci sono vergogne, lei te le elimina. Lei te le stimola. Sarà elettrizzante. Mistress T. conosce e pratica 120 diverse categorie di fetish. Se sul serio credi sia da pervertiti fare sesso sadomaso, cambia idea. Se credi sia macchiante, disonorevole il solo leggerne, torna in te: lo sai? Non è vero che tutte le donne spregiano il missionario, è indubbia posizione di sottomissione. Mistress T. del sadomaso ne fa video, lavoro, ne fa informazione e educazione. O pensi che si possa dominare un altro senza il più alto criterio, e la più ferma conoscenza di sé e dell’altro che fai schiavo? È il dominato che ha in mano il gioco e decide. Sempre. È così, deve essere così, è il "torturato di piacere" che prima e durante decide fin dove e come si può arrivare. Nulla, nemmeno il gesto il più basico, può esser fatto senza il consenso e l’accordo tra la mistress e il suo schiavo. E questa è la base di ogni dominazione. Mistress T. manda fuori di testa ogni testa consapevole di essere mandata fuori. Tu, nella tua testa, lo sai, lo senti, che sei un amante del BDSM. Non c’è bisogno di dirlo a nessun’altra persona, che da schiavo godi a farti ordinare di succhiare un pene finto (e ingoio di sperma finto compreso) specie se quella persona è un tuo collega, il tuo capo, o tua moglie. Già, tua moglie: lei come potrebbe capire che godi a indossare slip e reggicalze mentre Mistress T., in webcam, ti dice che sei la sua p*ttanella…? Pensa se la tua mogliettina scoprisse quanto ti costa, ogni sadomaso virtuale sessione! Dai, che te la cavi. Ti sei sfogato, svuotato, è stata una mini vacanza mentale, e quanto in realtà virtuale hai fatto… non è un tradimento. Ogni volta, "dopo", sei un marito, e un amante, migliore.

·        Mita Medici.

Luca Pallanch per "la Verità" il 10 ottobre 2021. «Eri lì sulla pedana e ballavi e sognavi un po' / e i riflettori su di te ti davano mille colori / ma tu non guardavi mai la gente intorno a te / ballavi e non sorridevi mai / perché sai che il tuo nome è Mita Mita Mita Mita... / guarda giù». Mita Medici, la ragazza del Piper, continua, nell'immaginario collettivo, a ballare e a non guardare giù, come l'hanno immortalata Le Orme nella celebre canzone Mita Mita. Irraggiungibile icona di un'epoca felice, gli anni Sessanta, che non l'hanno minimamente scalfita. Come l'altra ragazza del Piper, Patty Pravo, il tempo è stato clemente con lei ed è sempre andata avanti per la sua strada, seguendo passioni e istinto. Del resto, come avevano intuito Le Orme, «solo tu sai ciò che vuoi». 

Ha fatto di tutto nella sua vita.

«In Italia è visto strano chi riesce a fare varie cose invece che una per l'eternità!».

Quando ha cominciato, cosa aveva in mente di fare?

«Io ho cominciato molto presto, avevo 15 anni e mezzo». 

Ha esordito nel 1966 ne L'estate di Paolo Spinola, al fianco di Enrico Maria Salerno.

«È stato il mio primo film. Andavo a scuola e al Piper, stava cominciando l'ebbrezza del pre 1968. Io avevo molte idee prima di cominciare, tra le quali la ballerina classica. Mio padre mi regalò un tutù, quando avevo quattro-cinque anni, poi, essendo lui attore, frequentavo i teatri e gli stabilimenti cinematografici e mi ha ovviamente influenzato, senza volerlo. Già da piccola mi piaceva raccontare storie ed essere tante persone, vivere più vite, catturare l'attenzione delle persone».

Per differenziarsi da suo padre, Franco Silva, ha scelto un nome d'arte.

«Quello di mio padre era uno pseudonimo (il suo vero nome è Francesco Vistarini, ndr), quindi, con il mio vero nome, Patrizia Vistarini, pochi sarebbero risaliti a lui. Però, quando ho fatto L'estate, l'art director, il grande Piero Gherardi, poco prima della conferenza stampa, ha avuto un'intuizione: «Tu sarai un mito» ed è venuto fuori Mita, che era semplicemente il femminile di mito. E poi Medici perché ho delle discendenze toscane e ogni tanto mi diverto a parlare fiorentino, pur essendo romanissima. C'è tutto uno studio che Gherardi ha fatto in un attimo: le iniziali uguali portano fortuna, Medici è una famiglia conosciuta in tutto il mondo».

Come ha iniziato ad andare al Piper?

«Per caso, tramite un amico, Albertino Marozzi, un ragazzo poco più grande di me che faceva l'operaio in fabbrica, però suonava la batteria, anche con Jimi Hendrix quando è venuto in Italia. Aveva una tale passione che lo ritrovavi ovunque. Alberto mi disse: "C'è questo bellissimo locale che ha aperto". 

Io andai con il taxi, solo che avevo capito male e mi ritrovai da sola in un altro piccolo locale, all'Eur, lontanissimo, dove c'era un matrimonio. Non sapevo cosa fare, ero piccola - avevo 15 anni perché era il 1965 -, tornai a casa e lo chiamai: "Dove mi hai mandato?". Chiarito l'equivoco, finalmente mi recai al Piper, di pomeriggio ovviamente».

Perché l'hanno identificato come la ragazza del Piper?

«Se senti la canzone Mita Mita, ci sono due-tre cose che, senza volere, spiegano il motivo. Ci sono delle persone che nascono con un'aura, anche inconsapevolmente, che fa sì che la loro vita sia in un certo modo». 

Chi erano gli altri ragazzi del Piper?

«Alberto Dentice, Renato Zero, Loredana Bertè, Tito Schipa Jr... C'erano poi tanti musicisti e tanti gruppi che continuavano a passare di lì. Era un momento di grande fermento e il Piper era un condensato. Stando insieme, le idee maturavano e c'era un entusiasmo contagioso. Se anche falliva un progetto, non ti disperavi, ne facevi un altro. Oggi è più complicato, si è omologati, mentre noi facevamo di tutto per essere diversi dagli altri, pur contaminandoci. C'era il gusto della diversità, anche nella moda: ognuno si inventava il suo abbigliamento».

Lei che look aveva?

«All'inizio ero una studentessa che si arrotolava un po' la gonna. Si usciva di casa con la gonna sotto il ginocchio e si arrivava al Piper con la gonna a metà coscia. Io mi creavo le mie cose, sono sempre andata nei mercatini. Quando ho condotto Canzonissima, è venuta fuori la famosa fascetta al collo, che poi è diventata di moda, tanto che la vendevano nei negozi. Un giorno, mentre mi preparavo per il programma, avevo in una mano un pezzo di stoffa che si intonava con il vestito e l'ho indossato. È nata qualche leggenda: "Che avrà? Una cicatrice sul collo?". Invece era solo un gioco». 

A un certo punto ha mollato tutto.

«Sono andata in America per studiare all'Actors Studio. Un mio amico aveva una casa a Los Angeles e mi ha invitato molte volte. Sai le cose che si dicono: "Quando vuoi venire..." e io sono partita!».

È andata in America per tentare la carriera hollywoodiana o per imparare?

«Sono andata in America quando già avevo fatto tutto, teatro con Garinei e Giovannini, Canzonissima, gli sceneggiati, i film. Era il 1978, ero reduce da uno spettacolo di Giancarlo Cobelli, Il mercante di Venezia, a Verona, che mi aveva riaperto dei quesiti sul mio mestiere. Cobelli era un regista bravissimo che lavorava molto sugli attori. In più era esplosa La febbre del sabato sera, erano usciti Il cacciatore, Taxi Driver, mentre qui il cinema italiano cominciava a prendere una brutta piega». 

Con le commedie erotiche.

«Le coscelunghe, le coscecorte! Una serie di circostanze mi ha indotto a partire, a vedere, a capire, perché lì era così e qui cosà. Sono stata due anni e mezzo in America, studiando, trovando un agente, aprendo una serie di porte e portoncini. Ho conosciuto tante persone, artisti, personaggi del cinema. Hanno organizzato persino una festa per me, per l'attrice italiana che era arrivata lì. Sono cose che sono rimaste attaccate alla mia vita e al mio modo di essere. Poi sono venuta per venti giorni in Italia e non ho più sentito questo agente che prima mi chiamava 200 volte al giorno: ho saputo che era morto ammazzato in un parcheggio durante una rapina».

Che sfortuna!

«Quando si parla di sliding doors, io ne ho avute tantissime nella mia vita». 

A quel punto ha deciso di rimanere in Italia?

«No, sono ritornata in America ancora per un po'. Prima stavo a Los Angeles, poi la mia base è diventata New York, ma quel tragico evento è stato come un segno e nel 1981 sono tornata in Italia per fare Il Gattopardo con Franco Enriquez, a teatro». 

Chi ha incontrato all'Actors Studio?

«Quasi tutti i grandi del cinema americano. Avevo già incontrato Al Pacino, quando stava preparando Il Padrino. Sono stata infatti in predicato per interpretare la sua moglie italiana che viene uccisa nel capolavoro di Coppola». 

L'ha poi interpretata Simonetta Stefanelli.

«Io non andavo bene per la parte, ero troppo magra, sono proprio anglosassone, per fare la siciliana. Ho assistito a tutti i provini con Coppola perché li portavo in giro. Si era instaurato un rapporto di amicizia, di consigliera, con Francis, una cosa strana perché io avevo solo 22 anni! Stavo ai provini e facevo un po' la traduttrice perché già parlavo abbastanza bene l'inglese».

Quando è tornata dall'America, l'Italia era cambiata. Siamo negli anni Ottanta e scoppia, con Sapore di mare di Carlo Vanzina, il filone nostalgico, al quale però lei non partecipa.

«No, assolutamente, io sono molto contemporanea. Vivo portandomi dietro tutto le cose che ho fatto o non fatto, diventa tutto bagaglio di vita, però non sono nostalgica». 

È sempre andata avanti.

«Senza rinnegare niente, anche gli errori, le cose fatte con leggerezza. Mi piace andare alla scoperta e a volte, al top delle situazioni, abbandonarle e andare a cercare altro, come quando sono partita per l'America».

Quali sono i suoi progetti per il futuro?

«A parte che vivo benissimo, a volte con dei meravigliosi momenti di ozio, che poi non sono mai completamente oziosi perché vado in campagna, lavoro, zappo, amando moltissimo la natura. Sono molto pigra, ma sono sempre in movimento. Sono un po' contraddittoria! Continuo a fare teatro e vorrei tornare al cinema che ho un po' abbandonato e forse anche il cinema ha abbandonato me! I ruoli di donne nel cinema italiano, gira e rigira, sono sempre di contorno. Ad agosto ho fatto uno spettacolo bellissimo, Elena, tratto da Ritsos e Euripide, e dovrei riprendere un recital cantato che ho fatto qualche anno fa al festival di Todi, Mita Medici canta Califano.  

Altri progetti che ho in mente riguardano la televisione perché il pericolo è il mio mestiere: oggi bisogna stare attenti se si vuole mantenere un certo aplomb sia artistico che d'immagine. È un mezzo che ti consente di comunicare in maniera pazzesca e mi piacerebbe proporre una voce diversa perché anche la televisione oggi è abbastanza omologata. È un po' lo specchio di questi tempi».

·        Myss Keta.

Da "leggo.it" il 2 aprile 2021. Sembra essere stato risolto il mistero del vero volto di Myss Keta, la cantante mascherata. Myss Keta è una cantante di grande successo, sempre rigorosamente protetta da occhiali da sole e mascherina per celare la sua reale identità. A svelare il volto della cantante Myss Keta arriva “Vero”. Il settimane avrebbe appunto sorpreso Myss Keta (anche il vero nome è sconosciuto) durante le riprese della seconda stagione della serie Amazon “Celebrity Hunted”, in cui le star protagoniste fuggono da un gruppo di specialisti che hanno il compito di inseguirle e “catturarle”. Durante una pausa dalla lavorazione, quella che dovrebbe essere Myss Keta abbassa la mascherina per bere un drink, mostrando finalmente il suo vero volto. Durante l’annuncio dell’uscita dell’ep “Il cielo non è un limite”, Myss Keta ha parlato del suo “personaggio”: “Io – ha fatto sapere la cantante in un’intervista al Corriere.it  - sono performer e artista ma Myss è un progetto collettivo in cui ciascuno ha un compito nel creare un “pacchetto” visivo e musicale. Siamo prima di tutto amici: le idee vengono fuori in un nido preferenziale. Le canzoni a volte nascono da me, a volte durante delle serate, a volte da altri…”.

·        Modà.

Kekko dei Modà rompe il silenzio: “Torno dopo un periodo buio. Sanremo? Un tritacarne”. Marco Alborghetti il 14/11/2021 su Notizie.it. Dopo due anni di silenzio, “Kekko” Silvestre, frontman dei Modà parla dei suoi nuovi progetti discografici, ma anche del periodo buio attraversato durante la pandemia.

Kekko dei Modà: “Attraversato periodo buio”

I Modà rompono il silenzio: dopo due anni di assenza dal palcoscenico musicale, “Kekko” Silvestre in questa intervista rilasciata al Fatto Quotidiano parla del periodo buio attraversato durante la pandemia, ma anche dei nuovi progetti che attendono l’amata band, come il nuovo album in uscita “Buona Fortuna-parte prima“.

“Il titolo si riferisce alla voglia di riscatto dopo un periodo, come questo che dura da due anni ormai, vissuto con difficoltà dalla gente.  Durante il lockdown ho mollato la presa perché la negatività mi è entrata dentro. Ho vissuto proprio male quel periodo e mi sono spaventato tanto. Non ho più scritto. Poi piano piano abbiamo ripreso a lavorare ma lo facevo a distanza. Ho registrato da solo i cori e comunicavo con la band via i-Pad.

Tutti hanno bisogno di una buona dose di fortuna per ripartire e cantare la ripresa e il riscatto in una canzone ci sembrava un’ottima cosa per ripartire. Non ho mai creduto alla sfortuna, non sono molto superstizioso”. Così racconta il frontman dei Modà, a cuore aperto.

Kekko dei Modà: “Noi genitori dobbiamo trasmettere i valiori ai figli”

Un album che racchiude tutto l’aspetto paterno di Francesco Silvestre, dove il leader della band ha cercato di infondere l’importanza della trasmissione di sani valori ai figli.

“C’è tanto Francesco e c’è tanto papà in questo disco e in ‘Non ti mancherà mai il mare‘ dico a mia figlia non solo di non commettere i miei stessi errori ma di vivere la vita più fuori possibile. È fondamentale per noi genitori trasmettere i valori ma devo essere liberi di vivere la loro esistenza. La vita è dentro noi stessi e a Gioia dico di non fare come me che mi sono chiuso dentro ma di vivere fuori le mura domestiche“, spiega Kekko.

Un aspetto su cui punta il frontman è l’educazione: “Sono molto attento alla sua educazione, la accompagno sempre a scuola. Le ho insegnato di stare sempre dalla parte dei deboli e di proteggerli dai bulli. Non voglio che lei si aggreghi ai prepotenti, non lo tollererei per niente. Lei lo sa. Il bullismo nella vita reale come sul web non lo tollero”.

Kekko dei Modà: “Sanremo? Un tritacarne”

Parlando dei progetti futuri, non si poteva fare menzione al Festival di Sanremo, kermesse alla quale la band ha già partecipato in passato, ma che al momento considera solo un “tritacarne”: “Non mi sento pronto per tornare su quel palco perché è un tricacarne ma capisco che sia fondamentale per posizionarsi bene.

I nostri Sanremo me li ricordo molto molto bene: giorni duri e poi in quelle serate devi pure esibirti. Oggi sono cambiate molte cose, non riesco più a dormire negli hotel, perdo la pazienza più spesso, mi manca mia figlia e ho paura di non arrivare fino in fondo. Per fare Sanremo devi volerlo veramente“.

Quello che i Modà vogliono veramente è tiornare a cantare su un palco, davanti ai fan, e nel 2022 è previsto un nuovo tour, ma Kekko ammetet le sue paure:

“Spero di essere ancora in grado di cantare, ci sono momenti in cui dubito saperlo fare. Sono momenti di sconforto dopo due anni di fermo e sei in preda alla tristezza di non avere più l’ispirazione. E poi la pandemia, la noia di stare in casa senza fare nulla, ti portano ad arrendersi.  Mi allenerò anche molto perché fa bene anche a livello mentale e mi piacerebbe portare qualcosa di nuovo alla nostra gente”.

·        Monica Bellucci.

Fulvia Caprara per "la Stampa" l'1 dicembre 2021. Sfuggita al vecchio incantesimo della bellezza come gabbia dorata che, un tempo, inesorabilmente, imprigionava le attrici negli stessi ruoli decretando la fine precoce delle loro carriere, Monica Bellucci può permettersi oggi il lusso dell'ironia, il gusto di parlare di uomini come loro hanno sempre parlato di donne, la possibilità di affrontare prove temerarie come poteva essere quella di The Girl in The Fountain, il film di Antongiulio Panizzi (in cartellone al Tff e oggi e domani in 70 sale con Eagle Pictures) in cui si confronta con l'icona della Dolce vita Anita Ekberg. Ospite d'onore del festival, dove oggi tiene una masterclass e ieri ha ricevuto il premio Stella della Mole, in attesa di arrivare sugli schermi il 30 dicembre con il film di Paola Randi La befana vien di notte in cui è Dolores, strega dolce e potentissima dedita alla felicità dei più piccoli, l'attrice svela, con un sorriso, la sua ricetta di sopravvivenza: «Può succedere che la bellezza sacrifichi la possibilità di esprimersi, averla è come indossare una maschera, anche io ho rischiato di restare intrappolata, ma devo ringraziare il cinema e i registi che, attraverso le loro proposte, mi hanno dato la possibilità di rivelarmi, al di là degli stereotipi. In passato, anche nell'epoca di Ekberg, le donne dopo i 40 anni non potevano più recitare, io, invece, sono ancora qui, pur non avendo né 30, né 40, né 50 anni».

Nella Dolce vita Anita Ekberg incarnava la bellezza, eppure la scena nella Fontana di Trevi, una delle più celebri della storia del cinema, l'ha condannata all'oblio prematuro. Una cosa del genere potrebbe succedere anche adesso?

«Diventare un'icona può essere pericolosissimo, Ekberg è nata in un periodo in cui il cinema non permetteva alle donne di invecchiare e poi, a differenza di molte sue coetanee di allora, non aveva alle spalle nessuna protezione maschile. Oggi è diverso, noi attrici possiamo vivere il nostro percorso liberamente, possiamo dire quello che pensiamo senza temere, come accadeva allora, che qualcuno ci metta una nota negativa tipo "se hai detto questo, adesso non lavorerai più". Insomma, le cose sono molto cambiate, e lo dobbiamo soprattutto a noi stesse, perchè abbiamo imparato ad amarci e rispettarci molto di più di prima. Nel lavoro, come nel privato, poteva succedere che qualcuno ti raccomandasse di non diventare madre perché avresti smesso di essere vista come oggetto del desiderio. Adesso, per fortuna, possiamo vivere la nostra vita, senza vergognarci del tempo che passa. L'energia non ha niente a che vedere con l'età». 

Perchè la Ekberg divenne subito così popolare?

«Non l'ho mai conosciuta e mi sono avvicinata a lei in punta di piedi, ma, quando vedo le sue foto, ho l'impressione che emani qualcosa di buono e che questa sia stata la ragione per cui tutti ci siamo innamorati di lei. Se in qualcuno ha provocato fastidio è successo perchè è stata sempre sincera, come una bambina. E poi aveva il suo modo di essere nordico, molto diverso da me, che sono mediterranea e più chiusa».

Se dovesse scegliere, Dolce vita oppure Otto e mezzo?

«Nella Dolce vita c'è la rappresentazione del sogno assoluto, in Otto e mezzo c'è un uomo che, per stare bene, capisce di avere bisogno di tante donne diverse. Anche noi donne iniziamo ad essere così, quindi forse dico Otto e mezzo ». 

Ha appena incarnato Maria Callas a teatro, una star che ha sofferto molto. Cosa l'ha colpita della sua vicenda?

«Sia lei che Ekberg, pur essendo molto diverse, sono donne che hanno rappresentato emozioni tragiche e fortissime. Hanno vissuto luci e ombre in modo doloroso, le ho abbracciate ambedue, la Callas era intima, nascosta, privata, ha attraversato le sue sofferenze con assoluta dignità. Mi ha toccato vedere un'intervista, risalente a tre anni prima della sua morte, in cui un giornalista le diceva, "signora Callas, lei non ha più voce, suo marito non c'è più e Onassis è sposato con Jacqueline Kennedy". Era come dirle in faccia "non sei più niente", un atto di violenza terribile, oggi nessuno oserebbe parlare così a una donna».

Che cos' è il divismo per Monica Bellucci?

«È quello che il pubblico fa di te. Non è qualcosa che puoi controllare, tu fai il tuo lavoro, i tuoi film, poi sono gli spettatori a fare di te quello che sei». 

Stiamo vivendo tutti, a causa del Covid, un periodo difficile. Lei come lo ha affrontato?

«Ho riflettuto sul fatto che la nostra generazione non ha conosciuto la guerra e quindi, fino a prima della pandemia, non sapevamo che cosa volesse dire ritrovarsi obbligati a subire delle costrizioni. E' stata dura per tutti, ho cercato di vivere questo periodo come un'occasione per chiudermi con la mia famiglia, con le persone che mi sono più care, mi sono sentita fortunata per avere dell'amore intorno a me. Mai come in questo momento abbiamo capito quanto le cose semplici siano importanti e necessarie».

Monica Bellucci & Anita Ekberg, lei mediterranea e mora, l’altra bionda e nordica. «Io non mi sento una diva e non mi vergogno delle rughe». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 30 novembre 2021. «The Girl in the Fountain». «Fu incosciente e innocente, recitò sé stessa ed entrò in un gioco pericoloso». Di Fellini che la lanciò nella Dolce Vita (ma lei era già famosa) diceva: «Mi ha dato tutto e mi ha tolto tutto, soprattutto la possibilità di fare altre cose». «Marcello, come here , dove sei?». Monica mora, mediterranea; Anita bionda, nordica. L’opposto. Ekberg & Bellucci, due storie diverse, due dive, due mondi. Anita rivive attraverso Monica (premio alla carriera al Torino Film Festival) ma anche nei filmati d’archivio, quando è con Mastroianni alla fontana di Trevi. E’ il film di Antongiulio Panizzi (nelle sale oggi e domani per la Eagle). Si intitola The Girl in the Fountain.

Lei, Monica, avrebbe voluto vivere al tempo di La Dolce Vita?

«Da una parte è stato un momento incredibile per il cinema italiano, che ha fatto il giro del mondo, una fonte di ispirazione ancora oggi; dall’altra le donne erano relegate a essere solo madri e mogli e un’attrice non poteva,non sarebbe stata più il simbolo del desiderio. Poi arriva ‘sta bomba nordica, bionda, libera…».

Libera ma prigioniera di sé stessa.

«Fu incosciente e innocente, perché si mise a nudo senza protezione e non voleva essere altro da ciò che era, la donna sognata, idealizzata. Entrò in un gioco pericoloso, non poté fuggire da sé stessa. Il problema è quando Marilyn Monroe crede di essere Marilyn Monroe. Anita Ekberg scambiò il desiderio con l’amore. Ma era un periodo storico preciso».

Lei invece quando si toglie i tacchi…

«Torno a casa e aiuto le mie figlie a fare i compiti. Oggi le donne hanno un ruolo nella società e le attrici hanno una carriera più lunga. E io pur non avendo né 25, né 30 anni, né 40 e neanche 50…Sono ancora qui. Non mi devo vergognare del tempo che passa. E riesco a esprimermi non restando legata allo stereotipo dell’attrice bella. Per fortuna non siamo più imbalsamate e intoccabili».

Anita era nata il 29 settembre, lei il 30.

«Non lo sapevo. Qualcosa in comune dovevamo averlo».

A Hollywood, prima di incontrare Fellini, fu creata la bomba sexy.

«Io penso ( e lo dico anche per me) che le carriere non si costruiscano a tavolino».

Monica, del carattere della Ekberg cosa avrebbe…

«Cosa avrei voluto? Quella specie di leggerezza che ebbe fino alla fine e l’ha aiutata a sopravvivere. Morì povera. Anche le cose drammatiche era come se le raccontasse con un sorriso».

Una diva che fa un’altra diva, con rispetto e un po’ di malizia e di ironia, per esempio quando in cucina...

«Sbatto le uova e dico love love love come Anita? Poi tiro fuori il tormentone della bella: ancora con le donne oggetto? Però mi hanno detto che le somiglio fisicamente. Ma di che, per niente! Ho messo le lenti, la parrucca…Ma va bene, si vede che c’è stata una comunione di anime e lo si capisce in un momento magico, onirico, alla Fellini, quando in sogno appare la bambina nel giardino della villa fuori Roma di Anita».

Nella villa lei prende arco e frecce e...

«Punto il drone che vuol riprendermi, è un omaggio a lei, che una volta usò l’arco contro i paparazzi, è una metafora, è come se le dicessimo grazie Anita,dalla la tua esperienza abbiamo capito tante cose. Il film è una masterclass sul processo creativo di un attore, l’ho fatto in punta di piedi e in umiltà, senza violare la scena della fontana. E’ come se ridessimo luce a una donna la cui luce è stata tolta dalla vita».

Di Fellini la Ekberg diceva: mi ha dato e tolto tutto, soprattutto la possibilità di fare altre cose.

«La Dolce Vita è talmente incredibile che siamo ancora qui a parlarne. Lei era già una star ma lo diventò ancora di più. Forse quel film l’ha fatta anche piangere, forse fu responsabile anche lei»

Anita incarnava la preda sessuale, recitò sempre se stessa.

«E ti pare facile, ci vuol talento anche in quello. Come si intitola quel film? Essere John Malkovich».

Aveva un rapporto tormentato con i paparazzi.

Sorride: «Io ho delle loro foto così belle che le posto su Instagram».

Fu derubata dal secondo marito, le portò via anche la Ferrari. Lei è stata mai «truffata» in amore?

«L’amore è un gioco strano, tutti abbandoniamo e tradiamo, è una danza dove si imparano i rapporti umani e impariamo su noi stessi».

Anita salì così in alto, e precipitò così in basso.

«A un certo punto ebbe bisogno di lavorare e accettò qualunque film. La nostra è una masterclass sul processo creativo di un attore, un piccolo gioiello, come se ridessimo luce a una donna che è stata spenta dalla vita. Dice Isabelle Huppert, non è il cinema che ci uccide: è la vita».

E da icona della bellezza nordica, a Natale sarà una strega con i capelli bianchi.

«Sì, in La Befana vien di notte 2. Sarà un fine anno tutto italiano».

Estratto dell’articolo di Arianna Filos per “la Repubblica” il 20 novembre 2021.

«La mia vita è fatta più di incontri che di scelte». Monica Bellucci si racconta al telefono dalla casa nel Sud Est della Francia. 

La sua carriera?

«È fatta di tutto, contiene successi e film mai usciti, andati male. Tutto serve a imparare. Chiuso il set per me un film, anche se hai dato l'anima, è finito. Ha una vita che non dipende più da te. È l'opposto del teatro, il teatro sei tu. Qualcosa di artigianale, sincero: sei a nudo».

Lo ha scoperto con "Maria Callas, Lettere e memorie" di Tom Volf, parole e sentimenti della Divina. Parigi, Spoleto, ora la tournée.

«Le parole di Maria Callas mi hanno permesso di andare oltre l'immagine, penetrare nel lato più intimo ed emotivo, mi hanno toccato nel profondo. Malgrado la paura mortale del palco, non ho potuto dire di no». 

(…)

Cosa le dà il teatro? Avrebbe voluto iniziarlo? Il rapporto con i media?

«Non avrei potuto. Ho una timidezza pazzesca, anche se non sembra. Oggi ho l'esperienza di trent' anni di cinema. Avevo già avuto proposte, stavolta ho detto: lo faccio. È iniziata come una cosa piccola al Teatro Marigny, 450 posti, a Parigi. Poi mi ha chiamata il direttore di Spoleto. L'ho portata in Grecia con l'orchestra, andrò a Istanbul, Londra, New York. Un progetto intimista va in una direzione che non avevo previsto».

Anche lei ha sacrificato la sua vita all'inizio della carriera?

«No. Io ho vissuto la vita che mi sono scelta. Nei pro e nei contro. Da giovane volevo andarmene dalla provincia. Il lavoro mi ha permesso di viaggiare. Mi piaceva il mondo dell'immagine, non sapevo da dove iniziare. Sui banchi di scuola sognavo Avedon. Il cinema era un mondo impenetrabile. Nella vita le cose succedono, per caso, poi con lo studio sviluppi le qualità».

(…)

Il rapporto con i media?

«È cambiato nel tempo. All'inizio ero solo una che veniva dalla moda al cinema. Avevo un'immagine predefinita, ci si aspettavano cose che non ero ancora in grado di dare. Ho avuto giudizi feroci, ma avevano ragione, avevo molto da migliorare».

(…)

Dalla Francia cosa vede dell'Italia?

«Da quando c'è Mario Draghi sento che c'è un po' di fiducia in più. Mi pare abbia fatto sentire tutti più rappresentati, protetti».

Il momento più felice nella vita?

«L'immagine più forte è quando ho visto nascere le mie figlie, ho fatto due parti naturali». 

Momenti dolorosi?

«Mi piace condividere il piacere, sono troppo pudica per parlare di dolore». 

Mai perso l'entusiasmo?

«Sono curiosa, vado verso gli altri, mi miglioro. Cerco di non lasciare che le cose spengano questa energia». 

Il più grande sogno oggi?

«Un sogno impossibile, perché tutto si muove. Svegliarmi la mattina sapendo che quelli che amo, i miei genitori, 83 e 77 anni a Città di Castello, stanno bene. Dopo il Covid abbiamo di più il senso che tutto può cambiare in un momento. Poter vivere tranquillamente è una gran cosa».

·        Monica Guerritore.

Verissimo, la confessione di Monica Guerritore: "Con un marocchino vicino a piazza di Spagna", l'errore che le è costato carissimo. Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Si confessa e si racconta senza filtri Monica Guerritore. Lo fa a Verissimo, il programma di Silvia Toffanin in onda su Canale 5, la puntata è quella di sabato 24 aprile. Parla della vita privata, degli esordi a teatro e dei momenti più difficili, tra i quali quando le è stato trovato un tumore al seno: "Sono andata dall'oncologo Veronesi  grazie a un segnetto della mia ginecologa sull'ecografia. Mi ha operato subito, ma non ho avuto bisogno di chemio e radioterapia e sono guarita", ricorda la Guerritore. L'attrice si spende poi in un messaggio a tutte le donne, in un appello: "Devono stare molto attente e non devono avere nessuna paura: tutto si può affrontare, basta avere il tempismo e non avere paura delle conseguenze. Potresti avere un brutto male? Meglio saperlo prima". Quindi, parlando della sua infanzia ha rivelato il rapporto che aveva con i genitori: "Con mia mamma ho avuto un rapporto intenso e libero. In prima media avevo tagliato da scuola ed ero andata a fare catenine con un marocchino vicino a piazza di Spagna. Sono stata beccata e messa in collegio da mia madre. Questa scelta mi ha consentito di imparare a cavarmela da sola e di vivere da sola quando Strehler mi ha fatto venire a Milano". E ancora, la Guerritore ha aggiunto: "Il rapporto con mio padre l'ho avuto dopo, ma non ci siamo detti tutto. Mi mancano le volte in cui lui non mi portava con sé, ma portava solamente il figlio maschio. Il rapporto tra di noi si è comunque risolto, perché le persone vanno capite, se non sono cattive. Lui era un uomo da istituto, non da famiglia", confessa Monica Guerritore. La quale oggi è nonna: "Nella mia nipotina rivedo le mie figlie. Sono stata una mamma anglosassone, così non devono essere dipendenti da nessuno", conclude l'attrice.

·        Monica Vitti.

Buon compleanno Monica Vitti, icona di stile senza tempo. Silvia Fumarola su La Repubblica il 3 novembre 2021. Bella e imperfetta, elegante in modo personale: l'attrice è sempre stata un'antidiva proiettata nel futuro. Ci sono attrici che diventano il simbolo dell'epoca in cui vivono, che incarnano la bellezza e la moda degli anni in cui sono protagoniste. Altre, come Monica Vitti, che hanno il dono di essere senza tempo, icone di stile e modernità. Se sfogli le foto, è diversa da tutte: bella e imperfetta, elegante in modo personale. Un'antidiva proiettata nel futuro, carismatica senza prendersi sul serio, ha saputo interpretare l'inquietudine e la malinconia. E ci ha fatto ridere. Quello sguardo intelligente la rende speciale, non è solo una grande interprete ma una donna che ne rappresentava mille altre. Senza filtro. Sono passati 20 anni dal ritiro dalle scene, ma Monica Vitti ancora oggi rappresenta la migliore stagione della commedia italiana, protagonista femminile dell'epoca d'oro del cinema italiano. Nata a Roma il 3 novembre 1931 come Maria Luisa Ceciarelli, sceglie un cognome che le ricorda la madre (Adele Vittiglia) e un nome che le "suona bene" e non va ancora di moda. Musa di Antonioni nei primi anni 60, passa alla commedia grazie a Monicelli che la vuole protagonista de 'La ragazza con la pistola' iniziando così una carrellata di personaggi con cui domina il cinema italiano vincendo 5 David, 12 Globi d'oro e i 3 Nastri d'argento. Sensuale quasi in modo inconsapevole, alta, le gambe bellissime, Maria Luisa Ceciarelli ha rappresentato tanto per il cinema italiano e per le donne, che, guardandola, la sentivano - in modo diverso - vicina. Non è irraggiungibile come Sophia Loren o una Venere tascabile che brilla come Gina Lollobrigida. Vitti non ha le curve, molto in voga all'epoca, non ammicca, ha un'aria da eterna ragazza. È bella, esprime una femminilità complessa e forte, l'unica attrice a competere con i mattatori, i grandi comici - uomini - del cinema italiano: Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Alberto Sordi e Ugo Tognazzi. Con lei, un quintetto formidabile. Diceva: "Avevo bisogno che la gente mi amasse per quel che ero, senza maschere". Si capiva benissimo visitando la mostra fotografica La dolce Vitti, che qualche anno fa a Roma le ha reso omaggio. L'attrice diretta da Antonioni, Monicelli, Scola, Risi e dall'amico Sordi, ironica e autoironica spiegava: "Le attrici - diciamo bruttine - che oggi hanno successo in Italia lo devono a me. Sono io che ho sfondato la porta"; e a chi ribatteva che era bellissima, unica, opponeva uno dei suoi sorrisi luminosi: "Siamo sicure?". Fiorella Mannoia, stunt woman dell'attrice - era lei che si prendeva gli schiaffi da Sordi in Amore mio aiutami - ha raccontato a Vanity Fair che la ricorda "splendida: gambe e décolleté tra i più belli che abbia mai visto. Arrivava sul set senza trucco. E quando usciva dal camerino, pronta per girare, c'era un momento in cui tutto si fermava... Era esigente. Pretendeva le luci in un certo modo e io ho imparato da lei a fare lo stesso: abbiamo visi particolari che possono essere molto belli o bruttissimi a seconda di come vengono illuminati. Con chi insisteva a fare diversamente, si impuntava: 'Dicano quello che vogliono. La faccia è la mia'". Il regista Michelangelo Antonioni si innamora di lei vedendola di spalle, in sala doppiaggio, mentre presta la voce alla benzinaia del suo film Il grido: "Ha una bella nuca, potrebbe fare del cinema". Lei ribatte: "E di faccia ci starebbe sempre il mio partner?". La trasforma nella sua musa ma Vitti, che pure interpreta le nevrosi, il dolore muto, ha una doppia anima, e i ruoli brillanti la fanno amare dal grande pubblico. Un talento e un fascino che ha un tocco di mistero, come attrice e come donna. Se sullo schermo si trasforma, nella vita - capelli biondi, la stessa pettinatura - è diversa da tutte perché uguale a stessa: la montatura degli occhiali ovale, tartarugata, la collana di turchesi che spesso intreccia ai coralli. Elegante, senza fronzoli, è lo stile Vitti. Non a caso il premio Oscar Helen Mirren ha confessato che è stata il suo modello. "Il mio idolo è Monica Vitti. Quando vidi L'avventura avevo 15 anni o poco più: fu in quel momento che ebbi chiaro in mente che tipo di artista avrei voluto essere, il tipo di sensualità che volevo sprigionare nei miei film, e nella vita, è quella della Vitti e della Magnani, un fascino che non tramonta, che resiste anche quando sei una donna matura". Nonostante da diciotto anni non si abbiano sue notizie (l'Alzheimer l'ha isolata dal mondo, protetta dal marito Roberto Russo), l'affetto dei fan e dei colleghi è immutato. L'eterna ragazza con la pistola, la moglie borghese presa a sberle, la signora che raccontava come il cinema le avesse salvato la vita, è amatissima. "Quando a 14 anni e mezzo avevo quasi deciso di smettere di vivere", ha spiegato l'attrice, "ho capito che potevo farcela, a continuare, solo fingendo di essere un'altra, e facendo ridere il più possibile. Ci sono riuscita bene in teatro, nella vita molto meno. È stato come, per un naufrago, trovare un relitto a cui aggrapparsi". E colpisce che nel suo libro autobiografico Sette sottane, uscito nel 1993, scriva: "A un certo punto della mia vita, a mia insaputa, devo aver deciso di dimenticare. Non dimenticare i dolori e gli errori, ma dimenticare fatti, persone, forse solo confondere tutto. I sentimenti resistono perché sono al di fuori della mia volontà: si ama anche chi non si vorrebbe e quando non si vorrebbe. I sentimenti vanno per conto loro, senza regole, senza tragitti prefissati". I sentimenti non hanno regole, come la nostra meravigliosa antidiva. 

Quella sagoma di Monica Vitti: così la musa di Antonioni diventò la regina della commedia. Alberto Crespi su La Repubblica il 3 novembre 2021. Il 3 novembre la grande attrice compie 90 anni. Una carriera da interprete brillante decollata grazie a un'intuizione di Mario Monicelli. Monica Vitti ci ha regalato alcune delle più belle risate della nostra vita. Ma di chi è il merito di quelle risate, oltre che di Monica Vitti essa e medesima? Il merito è di Mario Monicelli, ma è un merito che viene da lontano, come Monicelli ha spesso raccontato. Dovete sapere che Monicelli era molto amico di Michelangelo Antonioni. Sono passati 20 anni dal ritiro dalle scene, ma Monica Vitti ancora oggi rappresenta la migliore stagione della commedia italiana, protagonista femminile dell'epoca d'oro del cinema italiano. Nata a Roma il 3 novembre 1931 come Maria Luisa Ceciarelli, sceglie un cognome che le ricorda la madre (Adele Vittiglia) e un nome che le "suona bene" e non va ancora di moda. Musa di Antonioni nei primi anni 60, passa alla commedia grazie a Monicelli che la vuole protagonista de 'La ragazza con la pistola' iniziando così una carrellata di personaggi con cui domina il cinema italiano vincendo 5 David, 12 Globi d'oro e i 3 Nastri d'argento. 

Monica Vitti "forte, moderna, vera": da Antonioni a Sordi, le parole per raccontarla. Chiara Ugolini su La Repubblica il 3 novembre 2021. In occasione dei 90 anni dell'attrice ripercorriamo gli sguardi che registi e colleghi le hanno dedicato. "Ha una bella nuca, potrebbe fare del cinema". Cominciamo da qui, da questa frase apparentemente distratta, ma entrata nella storia del cinema: quella che Michelangelo Antonioni disse a Monica Vitti dalla cabina di regia, mentre l'attrice doppiava Dorian Gray nel suo Il grido. Era il 1957, Maria Luisa Ceciarelli (ma il nome d'arte lo aveva scelto appena uscita dall'Accademia nazionale d'arte drammatica) aveva conosciuto solo il teatro, scoperto ancora bambina, durante la guerra, quando per distrarre i fratelli dalla realtà che li circondava metteva in scena spettacoli con i burattini. Fino a quel momento c'era stata una breve ma intensa attività teatrale, da Shakespeare a Molière, da Brecht a Sei storie da ridere di Luciano Mondolfo. Poi era arrivato il doppiaggio e quella frase destinata a cambiare la sua carriera e la sua vita. In occasione dei suoi 90 anni, ripercorriamo gli sguardi che registi e colleghi hanno dedicato alla più grande attrice italiana. Partendo proprio da Antonioni di cui la stessa attrice, in un'intervista alla tv francese ripresa nel doc Muse e dei, non aveva problemi a definirsi "una creazione". Quattro film, L'avventura, La notte, L'eclisse e Deserto rosso e una lunga relazione sentimentale, dieci anni di passione e cinema, di cui però Antonioni non parlava. Ma nel '67, in una lunga intervista a Playboy, il regista disse: "Voglio che un attore cerchi di darmi quello che chiedo nel modo migliore e più preciso possibile. Non deve cercare di scoprire di più, perché poi c’è il pericolo che diventi lui stesso regista. È umano e naturale che veda il film dalla sua parte, ma io devo vedere il film nel suo insieme. Deve quindi collaborare in modo disinteressato, totale. Non è importante per me se non capiscono, ma è importante che io mi ritrovi quello che cercavo, in quello che mi hanno dato o in quello che mi hanno proposto. Monica è sicuramente la prima attrice che mi viene in mente. Non riesco a pensare a un’altra brava come Vanessa Redgrave, forte come Liz Taylor, vera come Sophia Loren o moderna come Monica. Monica è incredibilmente mobile. Poche attrici hanno queste caratteristiche di mobilità. Ha un suo personale e originale modo di agire". Dopo la serie di film drammatici dell'incomunicabilità di Antonioni la svolta per Vitti è attraverso l'incontro con Mario Monicelli e La ragazza con la pistola. "Monica era felicissima di fare questo personaggio" raccontava il regista che dovette lottare per convincere i produttori che Vitti potesse sostenere il ruolo di Assunta Patané. Con questo ritratto di donna del Sud che scopre un mondo nuovo basato su valori completamente diversi e arriva fino in Scozia, Vitti inaugura un nuovo tipo di femminilità, un riscatto della donna "disonorata" che sceglie di farsi giustizia da sola ma poi arriva a decisioni ben più moderne. Monicelli scelse di darle un look totalmente nuovo: prima le fornì, da siciliana secondo cliché, una lunga treccia nera, poi una testa di ricci rossi. "Per la prima e l'ultima volta nella sua vita, Monica si fece pettinare e truccare in modo anomalo perché lei non modifica la sua immagine per nessuna ragione al mondo. In quel caso forse era intimidita perché era la prima volta che lavorava con me - racconta il regista in Mario Monicelli, l'arte della commedia -  la pettinammo con una treccia nera, i capelli tirati ai quali era contrarissima, infatti va sempre in giro con dei boccoloni, una testa da leone da cui non si stacca mai". Sono passati 20 anni dal ritiro dalle scene, ma Monica Vitti ancora oggi rappresenta la migliore stagione della commedia italiana, protagonista femminile dell'epoca d'oro del cinema italiano. Nata a Roma il 3 novembre 1931 come Maria Luisa Ceciarelli, sceglie un cognome che le ricorda la madre (Adele Vittiglia) e un nome che le "suona bene" e non va ancora di moda. Musa di Antonioni nei primi anni 60, passa alla commedia grazie a Monicelli che la vuole protagonista de 'La ragazza con la pistola' iniziando così una carrellata di personaggi con cui domina il cinema italiano vincendo 5 David, 12 Globi d'oro e i 3 Nastri d'argento. Non solo Monicelli credeva nel talento comico di Monica Vitti. Ettore Scola la volle protagonista femminile del triangolo Dramma della gelosia -  Tutti i particolari in cronaca con Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini. Come avvenne la scrittura, lo raccontano Paola e Silvia Scola, le figlie del regista nel bel libro Chiamiamo il babbo quando spiegano che il giovedì sera la casa era aperta agli amici e chi veniva si trovava sempre coinvolto in giochi di società. "Nell'occuparsi dei premi, papà pescava in giro per casa oggetti che gli sembrava potessero andar bene. Una volta successe con una bambola di panno, un'arcigna matrona vestita di nero che gli sembrava un vecchio straccio e che incartò per bene. La vinse Monica Vitti che quando la scartò perse la testa. Mamma, invece, perse il colore della faccia e rimase impietrita. La cosa non sfuggì a papà che capì che doveva aver fatto una smarronata; appena gli ospiti se ne furono andati, chiese spiegazioni a mamma ma lei non ne diede: è fatta così, è sarda e orgogliosa. Gli fornii io qualche indizio: la bambola era un pezzo di antiquariato russo, un copri-samovar ricamato a mano, che mamma si era faticosamente aggiudicato a un'asta e che stava per portare a restaurare. Il giorno dopo Vitti ricevette il seguente biglietto: Cara Monica, sono qui a ricattarti: resistuiscimi la bambola che hai vinto ieri sera e sei la protagonista femminile del mio prossimo film con Marcello. Decidi senza fare domande. Ettore. E così avvenne che Monica Vitti fu la meravigliosa Adelaide Ciafrocchi di Dramma della gelosia, ruolo che per la verità papà aveva già deciso di affidarle ma fortunamente non glielo aveva ancora detto". E poi gli attori che hanno lavorato con lei. Se dal punto di vista personale, fuori dal set Claudia Cardinale ha sempre raccontato di essere stata amica e molto legata a Monica, quando si trattava di lavoro era un'altra cosa. Nell'autobiografia Io, Claudia, Tu Claudia racconta senza peli sulla lingua le difficoltà per il film Qui comincia l'avventura di Carlo Di Palma in cui interpretavano due "Thelma e Louise ante litteram", Vitti è una motociclista in tuta di pelle che dalla Puglia viaggia verso Milano e l'uomo che ama, Cardinale una stiratrice, moglie e madre di famiglia che lascia tutto per seguirla nel viaggio verso nord. "Era il 1974. Il copione non reggeva assolutamente. Monica, che io frequentavo moltissimo e che mi era sempre stata simpatica sul piano umano, nella vita, sul set era una persona impossibile: lavorare con lei è stato difficile. Lei sempre un passo avanti a me e io dietro". Alberto Sordi invece diresse tre film con protagonista Monica Vitti, una coppia che avevano già sperimentato: Amore mio aiutami (1969) in cui c'è la celebre sequenza degli schiaffi presi però dalla controfigura, una giovanissima Fiorella Mannoia, Polvere di stelle (1973) e Io so che tu sai che io so (1982). La stimava come attrice ma ne era anche profondamente amico e nel documentario presentato alla Festa di Roma Vitti d'arte, Vitti d'amore di Fabrizio Corallo dice rivolto all'attrice: "Ti voglio molto bene, la nostra amicizia è basata su amore e stima professionale". Per lei, anzi per la sua Dea Dani, insieme a Piero Piccioni scrisse Polvere di stelle (ma 'ndo Hawaii), una canzoncina da rivista piena di doppi sensi ma con una frase vera che raccontava il loro, vero, amore.

Vitti e Sordi in 'Polvere di stelle'. 

Ma 'ndo vai

Se la banana non ce l'hai?

Bella hawaiana

Attacchete a 'sta banana

Ma 'ndo vai

Se la banana non ce l'hai?

Vieni con me

Te la farò veder (sì)

Vengo con te

Me la farai veder

Aspettami là sotto

All'albero del cocco (andove?)

Mi spoglio e ti darò il mio cuore (che me dai, che me dai?)

Vitti d'arte e d'amore. Tanti auguri Monica per i tuoi novant'anni. Stefano Giani il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il 5 novembre per festeggiare il compleanno dell'attrice un'inedita biografia per immagini. Parliamone al presente o al futuro. Perché lei è qui. Anche se non si vede, è fortemente e drammaticamente qui. E il 3 novembre, di anni, ne compirà novanta. Eppure correva il 1994 quando Le Monde diffuse la falsa notizia della sua morte. Lei telefonò al giornale e disse che si trattava di uno scherzo di pessimo gusto. E a uccidersi con i barbiturici, per mancanza di ruoli cinematografici, non aveva mai pensato. Dalla redazione ricevette un mazzo di rose, rosse come la vergogna, per farsi perdonare del trappolone in cui le nobili colonne parigine erano cadute. Ma la malasorte, che non ha bisogno di imbeccate perché in fatto di crudeltà è maestra, a Maria Luisa Ceciarelli, per tutto il mondo Monica Vitti, ha regalato una vita lunghissima, anche se cupa e triste da diciannove anni. E forse mercoledì guarderà la fiamma della candelina con il distacco di una donna che un male neurologico degenerativo - diciamo Alzheimer - ha condannato a non ricordare più una carriera inimitabile. E probabilmente nemmeno se stessa. Una beffa che la allontana dalla nostalgia di chi ricorda quella Ragazza con la pistola come fosse ieri. O addirittura oggi. E per quella malinconia che si taglia a fette come la sua torta di compleanno, venerdì 5 in prima serata Raitre trasmetterà il documentario Vitti d'arte, Vitti d'amore, rielaborazione di un verso della celebre aria della Tosca che richiama un'altra divina, interprete d'eccezione. Maria Callas. Così, a ripercorrere la tappe straordinarie di una filmografia che spazia da Antonioni a Monicelli, da Scola a Sordi fino a Risi, Corbucci, Vadim e un Blasetti post fascista ci si mette l'ottimo biopic di Fabrizio Corallo, prodotto in collaborazione con Rai documentari e presentato con successo alla Festa del cinema di Roma appena conclusa. Dove la suggestione viaggia forte tra sequenze indimenticabili come gli scabri paesaggi siciliani di una Taormina, che assiste all'Avventura della Vitti con un Gabriele Ferzetti, ritrovatosi solo senza la fidanzata Lea Massari. O le botte, prese più che date, in Amore mio, aiutami dove un geloso Alberto Sordi reagisce malissimo alla moglie invaghitasi di un altro uomo. Sulla spiaggia di Sabaudia spinte e zuffe si accavallano in una scena su cui oggi il #MeToo avrebbe forse da ridire ma allora - ed era il '69 - nessuno si scandalizzò. «Quel litigio era un amore profondo» spiegarono lei e Sordi puntualizzando che non ci fu aggressione ma soltanto una serie di strattoni. Fosse come fosse, quelle immagini fecero epoca. E segnarono uno strano debutto, quello della controfigura della Vitti, in una giovane e allora sconosciuta Fiorella Mannoia, cresciuta in una famiglia di stunt. Non è stata solo quella rissa a far entrare Monica nella storia. Un ruolo capitale lo ha giocato la sua voce roca, inconfondibile, con cui ha pronunciato frasi indimenticabili come quel «Mi fanno male i capelli» di Deserto rosso. E ora non suona più se non a fatica anche all'interno delle mura casalinghe. «Ci capiamo a occhiate» ha lasciato intendere il marito. Vitti d'arte è il risultato di una selezione di molte ore di girato, con interviste, tra i tanti, a Michele Placido, Carlo Verdone, Paola Cortellesi, Citto Maselli e Giancarlo Giannini che le fu al fianco. I compagni indimenticati, oggi già volati via, parlano nelle immagini di repertorio. Mancano invece le voci di casa. Quelle di chi le vive al fianco, oggi trincerato, per proteggere la fragilità di una donna. Monica Vitti è assistita dal marito, sposato in Campidoglio dopo 27 anni di fidanzamento, una manciata di mesi prima di imboccare il declino. Roberto Russo, suo grande amore, non fa eccezioni al diktat che si è imposto. Non rilasciare interviste e fuggire incontri. «Non deroga in alcun modo. Mi ha aiutato firmando la liberatoria di immagini e film ma ha rifiutato di comparire - spiega Corallo -. Tempo fa, in occasione di una mostra dedicata alla moglie, andò a vederla in orari di chiusura per non incontrare nessuno». Il film lo coinvolge indirettamente. Compare in materiale d'archivio ma non prende parola, però il documentario lo ha visto e gli è molto piaciuto. «L'ho invitato alla prima ma naturalmente ha declinato». Monica prima di tutto. Nella loro casa romana ogni parola è filtrata. Ognuno escluso, oltre a lui e alla badante nessuno è ammesso. «Gli ho inviato il film, poi mi ha telefonato. È stato contento. Era un esame al quale tenevo molto» spiega il regista. Vitti d'arte accenna solo di riflesso al male vigliacco che ha tolto il cinema alla soubrette di Polvere di stelle e a lei l'amore del suo pubblico. «Era il 2002 l'anno in cui era andata a vedere Notre Dame de Paris e tutto iniziò lì, quando comparvero i primi segnali di logorio mentale». Nessuna clinica svizzera e nessun ricovero come qualcuno ha azzardato. Mezzo secolo di vita insieme e di cuori congiunti hanno reso Monica e Roberto complici di un dialogo con gli occhi e di parole che non hanno bisogno di essere pronunciate. Una delle pochissime dive in opere drammatiche e comiche allo stesso tempo, festeggerà con una torta e una candelina. Simbolica. Lontana dagli schiamazzi di un nulla bulimico che non conosce il rispetto se non è tenuto a distanza. Stefano Giani

La relazione lunga 48 anni. Chi è il marito di Monica Vitti, il regista Roberto Russo: “Ci capiamo con gli occhi”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Novembre 2021. Monica Vitti compie 90 anni. 48 insieme all’amore della sua vita: Roberto Russo, suo marito, sempre accanto alla diva, tra le più grandi del cinema e dello spettacolo italiano. Vitti si è ritirata a vita privata. Su lei trapela poco o nulla da anni ormai. L’attrice, la coppia, la famiglia tutta protegge l’attrice dall’attenzione spesso morbosa dei media: è malata da oltre vent’anni, nel 2002 l’ultima apparizione in pubblico. Russo, classe 1947, aveva cominciato come fotografo di scena per diventare quindi regista. Il colpo di fulmine sul set del film Flirt. Era il 1983 e lui aveva 36 anni, un esordiente. Lei ne aveva 52: famosissima, una stella. Era nata il 3 novembre 1931, Maria Luisa Ceciarelli: un connubio di bellezza, fascino, talento, estro. Molto doppiaggio e molto teatro. Era stata legata con il regista Michelangelo Antonioni, e quindi protagonista in diversi suoi capolavori, poi valorizzata da Mario Monicelli nella sua verve comica, a fianco di Alberto Sordi in diverse pellicole. Una diva. Sia lei che lui di Roma. Russo si aggiudicò un David di Donatello con quel film. Il gossip non ha mai avuto ragione di quella relazione, i due hanno sempre tirato dritto: così atipica, così sbilanciata, con quella larga differenza di età. Per 27 anni i due sono rimasti fidanzati. Il 28 settembre del 2000, a sorpresa, si sono sposati a Roma, in Campidoglio. Una cerimonia sobria. Poco dopo le nozze la malattia, un morbo neurodegenerativo, qualcosa di simile all’Alzheimer ha colpito l’attrice. L’ultima apparizione ufficiale della diva nel 2002: con il marito Roberto Russo ha assistito alla prima a Roma di Notre Dame de Paris. Dello stesso anno l’ultimo scatto, rubato a Sabaudia: lui con il capello lungo e la barba incolta, brizzolato, gli occhiali da sole; lei in camicia e un largo cappello bianco, l’inconfondibile chioma bionda, gli occhiali da sole scuri. “Le preparerò una torta con una candelina simbolica e insieme passeremo una delle tante giornate che abbiamo condiviso — le parole di Russo l’anno scorso, a Il Corriere della Sera, in occasione degli 89 anni di Vitti — Ci conosciamo da 47 anni, nel 2000 ci siamo sposati in Campidoglio e prima della malattia, le ultime uscite sono state alla prima di Notre Dame de Paris e per il compleanno di Sordi. Ora da quasi 20 anni le sto accanto e voglio smentire che Monica si trovi in una clinica svizzera, come si diceva: lei è sempre stata qui a casa a Roma con una badante e con me ed è la mia presenza che fa la differenza per il dialogo che riesco a stabilire con i suoi occhi, non è vero che Monica viva isolata, fuori dalla realtà”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Maria Volpe per "corriere.it" il 3 novembre 2021.  

Una lunga storia d’amore

Pensando a un amore con la A maiuscola viene in mente quello tra Roberto Russo e Monica Vitti, che oggi compie 90 anni. Un amore che ha vinto i pregiudizi, che ha sfidato il tempo, che continua a vivere dopo 48 anni dal loro primo incontro. Ci piace pensare che, oltre la malattia, oggi Monica, potrà soffiare qualche candelina, guardando negli occhi Roberto, come fa ogni giorno e trovando in lui forza e tenerezza. E’ un uomo che ogni donna vorrebbe avere al fianco. Molto più di un principe azzurro. Un uomo che sa amarti e prendersi cura di te

Il colpo di fulmine nel 1983

Roberto Russo, classe 1947 , comincia come fotografo di scena, per poi intraprendere la carriera dietro la macchina da presa. Nel 1983, quando ha 36 anni, gira il film Flirt: lavora con Monica Vitti e i due si innamorano perdutamente. Lei è un’attrice di 52 anni, bella, sexy, affascinante, famosa. Lui un regista esordiente, ugualmente affascinante che vince anche il David di Donatello grazie a Flirt. La differenza di età genera gossip e pettegolezzi. In pochi scommettono sulla durata del loro amore. Sbagliano tutti. Monica e Roberto tirano dritto, incuranti di qualunque maldicenza. E hanno ragione. Oggi più che mai

Il matrimonio nel 2000

L’attrice e il regista restano fidanzati 27 anni e consolidano il loro amore, qualche volta lavorando anche insieme. A sorpresa, il 28 settembre del 2000, decidono di sposarsi. Lo fanno a Roma, città natale di entrambi, in Campidoglio, davanti agli amici più cari. Una cerimonia sobria come è sempre stato il loro rapporto, custodito nella più totale riservatezza 

La malattia di Monica, le cure di Roberto

Poco dopo le nozze, si affaccia la malattia, un morbo neurodegenerativo, qualcosa di simile all’Alzheimer che si infiltra e sbriciola la memoria. Negli ultimi anni la sua carriera fu ricca di soddisfazioni: Monica fa parte del cast di «Domenica In» nella stagione 1993/94; nel 1995 riceve il Leone d’Oro alla carriera. Nel 2000 a dicembre celebra il Giubileo in Vaticano; nel 2001 viene ricevuta al Quirinale e riceve il David di Donatello. Poi nel 2002 l’ultima apparizione ufficiale in pubblico: con Roberto assiste alla prima a Roma di Notre Dame de Paris. Nello stesso anno, anche lo scatto a Sabaudia che ritrae Monica Vitti insieme al marito, con i suoi inconfondibili capelli biondi, coperti da un cappello bianco. A ripararle il volto, forse per scansare i fotografi, anche un paio di occhiali scuri. Poi il buio della riservatezza 

Donna e attrice inimitabile

Monica Vitti, nata a Roma il 3 novembre 1931, è lo pseudonimo di Maria Luisa Ceciarelli. Fin da ragazzina Monica manifesta il desiderio di recitare. Il suo innato talento, la sua bellezza unica, il suo fascino coinvolgente fanno sì che la sua carriera artistica sia tra le più importanti d’Italia. E soprattutto variegata: Vitti passa con grande naturalezza dai ruoli drammatici a quelli comici e sa piacere a donne e uomini. Con il regista Michelangelo Antonioni intreccia una relazione artistica e sentimentale e diventa protagonista della celeberrima tetralogia cosiddetta dell’incomunicabilità. Diventa così la tormentata Claudia in L’avventura (1960), la tentatrice Valentina di La notte (1961), la misteriosa e scontenta Vittoria di L’eclisse (1962) e la nevrotica Giuliana in Deserto rosso (1964). Poi è Mario Monicelli a metterne in risalto la sorprendente verve di attrice comica, dirigendola nella commedia La ragazza con la pistola (1968). Negli anni ‘70 è protagonista di numerose pellicole accanto ad Alberto Sordi e questi film l’avvicineranno ancor di più al grande pubblico, rendendola una star amatissima. E ancora oggi è nel cuore degli italiani

Un compleanno pieno di tenerezza

L’anno scorso in occasione dei suoi 89 anni Roberto Russo raccontò al Corriere della Sera, come si apprestava a vivere il compleanno della moglie. «Le preparerò una torta con una candelina simbolica e insieme passeremo una delle tante giornate che abbiamo condiviso — dice Russo — Ci conosciamo da 47 anni, nel 2000 ci siamo sposati in Campidoglio e prima della malattia, le ultime uscite sono state alla prima di Notre Dame de Paris e per il compleanno di Sordi. Ora da quasi 20 anni le sto accanto e voglio smentire che Monica si trovi in una clinica svizzera, come si diceva: lei è sempre stata qui a casa a Roma con una badante e con me ed è la mia presenza che fa la differenza per il dialogo che riesco a stabilire con i suoi occhi, non è vero che Monica viva isolata, fuori dalla realtà

Giannini e i 90 anni di Monica Vitti: «Attrice unica, era tutta una risata sul set». Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 26 ottobre 2021. Dagli inizi nel teatro, al cinema e alla malattia: L’attore: «Regina sotto i riflettori, dosava tragico e comico in modo speciale. Sono stato fortunato ad averla come partner». Tra una settimana, il 3 di novembre, Monica Vitti avrà 90 anni e vorremmo tutti soffiare con lei su mille ricordi di cinema, teatro e chiacchiere che la inseguono: la parlantina, diciamo pure la dialettica, era il suo forte, con quella voce personale e rococò, bassa e un po’ maschile. La malattia è stata crudele con lei. Probabilmente il marito Roberto Russo, che la conosce da 47 anni e la protegge da 20, da quando è assente dalle scene e dalla vita colpa di un male che le sbriciola la memoria di una carriera inimitabile, le preparerà una torta con una simbolica candelina. È lui che mi ricordava come Monica avesse anche scritto un soggetto comico con Camilleri. Molti sono stati i suoi partner celebri e internazionali, la coppia con Sordi è un pezzo di storia del cinema ma non fa dimenticare i capolavori di Antonioni.

I tempi giusti dettati dall’ironia

Abbiamo chiesto a Giancarlo Giannini di rovistare tra i ricordi, avendo girato con Monica due film: Dramma della gelosia di Ettore Scola, nel 1970, in cui è un pizzaiolo che ha un ménage a tre con un operaio e una fioraia, e A mezzanotte va la ronda del piacer e di Marcello Fondato, 1975, dove fa il marito ucciso. Ma è il film di Scola, con Mastroianni terzo lato di uno strano triangolo che resta fra le migliori commedie. «Attrici come Monica non esistono più, era bravissima e particolare, un pezzo unico. Dicevano anche che fosse difficile lavorare con lei mentre io ho scoperto una collega spiritosa, che si divertiva, che riusciva a giocare con il lavoro, come faccio anch’io, raccontiamo favole. Non parlatemi di Actor’s Studio...». Sappiamo che era capace di essere drammatica, grottesca, in solitudine, ma soprattutto, dice Giannini, «aveva i tempi giusti che fanno scattare la risata, è matematica. Era straordinaria, la metto in quell’Olimpo speciale dove puoi trovare lei, la Magnani, la Loren, la mia Melato, la Sandrelli, da tutte ho imparato».

Da Brecht a Antonioni

Del resto da giovane aveva recitato Brecht e Bacchelli. E poi il grande periodo antonioniano fino alla storica battuta «Mi fanno male i capelli» in Deserto rosso : è cult, ma non è lontana dalla verità. La Vitti era sempre in divenire, la vedevi come Marilyn Monroe in Dopo la caduta di Miller con Albertazzi e la ritrovavi Ragazza con la pistola con Monicelli, che la chiamava «la fatalona comica». «Lei sapeva sempre quello che doveva fare, non giocava a entrare nel personaggio, faceva l’attrice e calcolava i ritmi, le posizioni della macchina, le luci e le ombre, non le sfuggiva nulla. Sono personaggi unici, sono stato fortunato ad averla come partner». E noi a vederla sullo schermo e a teatro: in un cinema come quello italiano dove c’erano poche donne comiche la Vitti e la Melato sono state due formidabili eccezioni: «Ed avevano due voci speciali, c’era un’affinità di istinto e preparazione massima, per questo il divertimento nel lavoro andava di pari passo con la serietà».

Il documentario su Raitre

Venerdì 5 novembre, in prima serata, passerà su Raitre il documentario di Fabrizio Corallo sull’amatissima attrice, di cui racconta la vita e la favola spezzata. «L’inizio col teatro» dice Giannini «è stato per lei fondamentale per l’insegnamento e la professionalità, l’educazione della voce, tanto che ha incontrato Antonioni mentre doppiava Il grido. Lo posso dire io che appena uscito dall’Accademia mi hanno messo a fare il folletto scespiriano, con la Fracci e Volontè: è una scuola straordinaria, nulla a che vedere col cinema che esige invece la sense of the camera, l’istinto dell’immagine, e Monica possedeva i segreti di entrambi i mezzi». E anche il carattere era socievole, brillante: «Le persone del mestiere sono semplici e divertenti, il nostro è un mondo meraviglioso, basti pensare all’ironia unica di Fellini, il maestro».

Commediante nata

Ma Monica era più tragica o comica? «Per me era una commediante nata, aveva calcato le scene con Bonucci, Tedeschi, la Valori e la pochade ma direi che i due registri lei li usava e li dosava in modo speciale. Orazio Costa diceva che l’attore è un’arancia con tanti spicchi. E le piaceva raccontare, ricordare i compagni di lavoro, conosceva i trucchi e ci giocava. Il nostro mestiere si insegna con la poesia e lei lo sapeva bene anche quando dialogava con i giovani colleghi attori». Ma se potesse farle gli auguri cosa le direbbe? «Cara Monica, allora, quando rifacciamo un altro bel film insieme?».

·        Nada.

Nada: "Che emozione il film sulla mia vita, quella bambina sono davvero io". Silvia Fumarola su La Repubblica il 25 febbraio 2021. Il 10 marzo su Rai 1 andrà in onda il tv movie "La bambina che non voleva cantare" di Costanza Quatriglio, ispirato dall'autobiografia della cantante "Il mio cuore umano". Protagonisti Tecla Insolia, Carolina Crescentini, Paolo Calabresi, Paola Minaccioni. Nada è entusiasta del film: “Mi è piaciuto molto, Costanza Quatriglio ha fatto un lavoro importante sui sentimenti, ha saputo restituire la delicatezza e la forza che c’è dentro questa bambina e le persone che ruotavano intorno a lei. Tutti gli attori sono veramente bravi, mi hanno emozionato”. La bambina che non voleva cantare, tratto dall’autobiografia dell’artista Il mio cuore umano, racconta il percorso umano e artistico di una ragazza della provincia toscana che, non ancora compiuti sedici anni, grazie a una voce dal timbro unico, si impone nel panorama musicale italiano diventando un’icona. Nel 1969 Nada sale per la prima volta sul palco dell’Ariston e anche se Ma che freddo fa non vince, diventa il tormentone dell’anno. Nel 1971 trionfa con Il cuore è uno zingaro. Il film esplora il rapporto di Nada - interpretata con grande bravura da Tecla Insolia - con la madre Viviana (Carolina Crescentini), spesso vittima della depressione che la tiene lontana dalla figlia e dal mondo. Quando suor Margherita (Paola Minaccioni) scopre il talento di Nada per il canto, la bambina si convince che solo la sua voce prodigiosa può guarire la mamma. Sullo sfondo la famiglia: nonna Mora, la sorella Miria, il babbo Gino, un uomo buono e silenzioso, e il maestro di canto Leonildo (Paolo Calabresi). “Il mio cuore umano” spiega Nada “parla della mia infanzia, del mondo in cui sono cresciuta. Avevo lasciato il mio paese, Gabbro, contro la mia volontà e non avevo potuto più incontrare quelle persone. Crescendo ho sentito sempre di più il legame forte con le mie radici, crescendo ho capito un sacco di cose quindi ho sentito il desiderio di rappacificarmi con loro e far arrivare i miei sentimenti. Il mio è stato un viaggio nella memoria. Quando è uscito il libro la regista Costanza Quatriglio si è innamorata di questa storia e abbiamo fatto un docufilm qualche anno fa per Rai 3, che si intitolava come il libro. Mi ha dato tante soddisfazioni. Le storie parlano dei sentimenti, delle cose di cui siamo fatti noi esseri umani. Costanza voleva farne un film e ci è riuscita, le sono molto grata”. Prodotto da Picomedia con RaiFiction, interpretato tra gli altri, da Sergio Albelli, Giulietta Rebeggiani, Massimo Poggio, Paola Minaccioni e Nunzia Schiano, La bambina che non voleva cantare esplora i sentimenti e il talento. Tecla, 17 anni, è salita sul palco dell'Ariston a soli 15 anni (vincendo la categoria Sanremo Young e poi arrivando in finale nelle Nuove proposte). Quest’anno sarà ospite del festival. "Nada vede nel canto lo strumento per curare la malattia di sua madre" spiega la giovane artista. "Così, però, il suo rapporto con la musica diventa complesso: non capisce se canta per sé stessa o per compiacere la mamma. Ci mette un po’ a capirlo. Interpretarla è stato bellissimo, con la regista abbiamo deciso di  non usare il trucco. Non ho cercato di imitarla, la sua voce è unica”. “Continuo ad ascoltare Nada, è universale. Sua madre è una donna molto complessa” dice Crescentini. “Il talento per lei non è qualcosa da sfruttare, ma un passaporto per la libertà per la figlia, la possibilità di farle vivere una vita diversa da quella in cui è imprigionata. Grazie alla musica Nada potrà avere una vita migliore della sua, e riscattarsi. Anche quando è in balia dei farmaci la madre è una donna che ama la sua bambina”. Quatriglio, che firma la sceneggiatura con Monica Rametta, indaga sul rapporto madre-figlia con sensibilità. "L'amore per Nada è nato leggendo il suo libro e conoscendola" racconta la regista "alla presentazione mi sono tanto divertita, c’era anche Mario Monicelli. Il suo è un realismo magico, mi sono innamorata del clima descritto nel libro, la chiave di lettura della voce quasi terapeutica per la madre malata di depressione. Con Nada abbiamo fatto il documentario che nel 2009 andò a Locarno, in cui mette a nudo le sue fragilità attraverso la lente del rapporto con la madre, fatto di contrasti e momenti di pacificazione. Ringrazio Roberto Sessa e RaiFiction che mi hanno permesso di fare il film. Ho curato questa storia col desiderio di raccontare i personaggi: dal maestro, un romanticone, alla suora, alla mamma prigioniera del male di vivere, felice solo quando sente la sua bambina cantare. Questo crea l’equivoco: Nada  pensa di poter guarire la madre, impara a fare i conti col proprio talento attraverso di lei. È un racconto che supera la specificità di Nada per toccare corde universali che appartengono a tutti".

·        Naike Rivelli ed Ornella Muti.

Da “Oggi” il 3 novembre 2021. «Mia sorella è la persona più dolce e ingenua che io conosca. Una donna naïf incapace di distinguere persino uno spinello da una sigaretta. Claudia è da sempre una sognatrice e priva di ogni qualsivoglia malizia. Vive in un mondo tutto suo fatto di pittura, contemplazione e amore. Soprattutto per il figlio che vive a Londra, a cui è legata da un rapporto simbiotico per il quale darebbe la sua stessa vita. Sono certa che tutto questo incredibile equivoco lascerà spazio presto alla verità». Il settimanale OGGI, in edicola da domani, pubblica la confidenza agli amici di Ornella Muti, la cui sorella, Claudia Rivelli, è stata arrestata nell’ambito di un’ampia inchiesta sul traffico della cosiddetta “droga dello stupro”.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera - ed. Roma” il 4 novembre 2021. C'è un indirizzo di posta elettronica, associato a una piattaforma digitale, che preoccupa le forze di polizia più di tanti spacciatori in carne e ossa. Si tratta di noreply@sensearomatics.com che ogni giorno muove ettolitri di nuove sostanze psicoattive, droghe sintetiche la cui catalogazione è spesso un rebus investigativo. Il suo dominio è sinonimo di «sballo» e chi digita queste poche lettere, generalmente, è un pusher della nuova generazione alle prese con approvvigionamenti dell'ultima ora pagati in criptovaluta. Se il sito è virtuale il mercato è concreto. Concretissimo. «Talune convergenze di dati - scrivono i carabinieri del Nas nella loro informativa - permettevano altresì di rilevare interessanti indicatori circa l'esistenza di un network allestito in territorio capitolino costantemente dedicato all'approvvigionamento e distribuzione di variegate tipologie di nuove sostanze psicoattive. L'esistenza di una rete allestita di traffico, soprattutto avuto riguardo alla droga dello stupro, veniva pienamente riscontrata dalle indagini». Internazionale l'importazione, nostrana la distribuzione. É a Roma che nell'ottobre 2018 viene ritrovato il corpo di Alexandre Siqueira Goncalves, funzionario della diplomazia brasiliana. Crudi dettagli raccontano che Siqueira Goncalves aveva partecipato a un festino a base di bondage e stupefacenti. Mentre l'inchiesta dell'epoca accertò il coinvolgimento di un pusher che dalla Lombardia riforniva di Ghb (acido idrossibutirrico: famiglia delle nuove sostanze psicoattive) la Capitale. Ed è sempre a Roma che, il 9 dicembre 2019, parte una telefonata alla centrale operativa del 118 per segnalare gli effetti collaterali di una significativa somministrazione di un mix di sostanze fra le quali la Gbl (Gammabutirrolattone): «C'è un ragazzo che ha una crisi psicotica - avvisa un uomo - sta facendo un casino terrificante... corre per tutto il b&b». É a Roma, infine, che Pietro Fabbri, uno degli indagati, riferisce i contorni di un incidente stradale avvenuto a causa delle nuove sostanze psicoattive. Il guidatore di un'auto, racconta Fabbri, «faceva il pazzo e non c'è stato verso di calmarlo». La notte si conclude con i passeggeri in balia dello «sballato»: «Al ché - conclude Fabbri - poi ho preso, me ne so' andato via a piedi, me so' fatto de notte da San Cesareo fino a casa a piedi e poi hanno...poi so' andati a sbatte è normale...». I «catinoni sintetici» e i «fentanili», con i loro isomeri ancora semi sconosciuti, procurano intossicazioni gravissime annotano gli investigatori: «La rilevanza e diffusione di preoccupanti episodi di intossicazioni acute e reazioni avverse registrati» hanno spinto le autorità europee ad istituire un sistema di allerta rapido per le nuove sostanze psicoattive: «Un network che raccoglie, valuta e condivide informazioni sulle Nsp (nuove sostanze psicoattive,ndr) e sulla loro composizione». Dall'inchiesta del procuratore aggiunto Giovanni Conzo e del sostituto Giulia Guccione è scaturito un piccolo censimento di nuove sostanze (sedici) che completa il know how su queste micidiali molecole. «Si tratta - osservano gli investigatori - di isomeri strutturali la cui potenza stupefacente è certamente non inferiore a quella degli analoghi inseriti in tabella e pertanto altrettanto pericolosi per gli assuntori soprattutto perché va considerato il consumatore finale, sul "mercato di strada" molto spesso non è al corrente della vera natura chimica della sostanza che intende assumere, da qui il crescente fenomeno delle intossicazioni». Olanda e Cina sono tra i maggiori mercati di approvvigionamento delle sostanze. In Olanda acquista Gbl Claudia Rivelli (sorella di Ornella Muti) che poi con un'accorta triangolazione fa arrivare il prodotto in Gran Bretagna dove il figlio provvedeva a distribuirla. Rivelli, assistita dall'avvocato Teresa Mercurio, ha scelto di non rispondere alle domande del gip e di restare in silenzio di fronte alle contestazioni. Stessa linea di condotta della pusher Clarissa Capone che, assistita dall'avvocato Matteo Ritrovato si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Il suo cellulare, sotto sequestro, potrebbe raccontare nuovi episodi e consegnare a chi indaga il nome del senatore che da lei si riforniva. Fiducioso si dice invece Marco Locatelli, assistito dall'avvocato Domenico Naccari e in attesa di rendere il suo interrogatorio.

Dal corriere.it il 27 ottobre 2021. Tra le persone arrestate dai Nas, nell’operazione contro il traffico di sostanze stupefacenti tra cui la droga dello stupro, c’è anche Claudia Rivelli, 71 anni, attrice e sorella dell’attrice Ornella Muti. Nei confronti della donna, raggiunta dalla misura cautelare dei domiciliari, l’accusa è di importazione e cessione di sostanze stupefacenti. L’indagine è coordinata dal procuratore aggiunto di Roma, Giovanni Conzo. Rivelli era già stata arrestata il 15 settembre dopo che nella sua abitazione a Roma, erano stati trovati dagli agenti della Polaria tre flaconi con un litro di sostanza Gbl (droga dello stupro). Nell’ambito del processo per direttissima la donna si era difesa affermando di avere inviato la sostanza al figlio che vive a Londra «perché lui la usa per pulire l’auto» mentre lei la utilizza per «per lucidare l’argenteria». Nel capo di imputazione, citato nell’ordinanza, si afferma che l’indagato ha importato «illecitamente dall’Olanda, con cadenze trimestrali, vari flaconi di Gbl provvedendo a inviarne parte al figlio residente a Londra dopo averne sostituito confezione ed etichetta riportante indicazione "shampoo" in modo da trarre in inganno la dogana».

MICHELA ALLEGRI per il Messaggero il 28 ottobre 2021. Non solo criminali e spacciatori di professione, ma anche insospettabili: un'attrice, un professore di musica delle medie che si sarebbe fatto recapitare le sostanze direttamente a scuola, un avvocato, un medico odontoiatra, un dipendente in pensione dell'aviazione, un dipendente di banca, un funzionario dell'Ater di Roma. E tra i clienti addirittura un senatore «che abita davanti alla Cassazione» - dicono i pusher intercettati -, un vigile urbano e un prete che, secondo gli inquirenti, potrebbe avere utilizzato la droga dello stupro acquistata online per compiere abusi all'interno di una casa famiglia. L'inchiesta choc è della procura di Roma e svela il mercato clandestino degli stupefacenti e dei farmaci nel dark web. Sostanze potentissime e nuove, ordinate su internet, pagate in criptovalute e recapitate direttamente a domicilio tramite corriere. Ieri 39 persone sono finite in carcere e ai domiciliari: ad arrestarle sono stati i carabinieri del Nas di Roma al termine di un'operazione coordinata dal procuratore aggiunto Giovanni Conzo. In manette - ai domiciliari - c'è l'attrice Claudia Rivelli, sorella di Ornella Muti. La donna, che ha un passato da modella nei fotoromanzi, è accusata di importazione e cessione di sostanze stupefacenti: avrebbe fatto arrivare «illecitamente dall'Olanda, con cadenze trimestrali, vari flaconi di Ghb provvedendo a inviarne parte al figlio residente a Londra», si legge nell'ordinanza.

LE SPEDIZIONI Prima di effettuare la spedizione, la Rivelli avrebbe sostituito le confezioni e messo sui contenitori un'etichetta con scritto «shampoo», per evitare i controlli alla dogana. A incastrarla, le chat con il figlio: «Pacco arrivato e nascosto», «fammi sapere notizie mano a mano, se no mi agito troppo fino a giovedì», scriveva l'attrice. Per il gip, «il tenore delle conversazioni WhatsApp e la circostanza che l'indagata camuffasse il reale contenuto delle spedizioni appaiono elementi oggettivamente indicativi della piena consapevolezza e della volontà di realizzare condotte penalmente rilevanti». La donna era stata già fermata il 15 settembre scorso quando nella sua abitazione romana, nella zona della Camilluccia, erano stati trovati dagli agenti della Polaria tre flaconi con un litro di sostanza Ghb, la droga dello stupro. Davanti al giudice la donna si era giustificata dicendo di avere inviato la sostanza al figlio che vive a Londra «perché lui la usa per pulire l'auto» mentre lei la utilizza «per lucidare l'argenteria». Il bilancio dell'inchiesta è pesante. I Nas hanno individuato e registrato 16 nuove sostanze mai giunte prima in Italia: nel corso dell'inchiesta sono state tracciate 290 spedizioni per un volume di affari che sfiora i 5 milioni di euro. Ma è solo l'inizio: «Quello che a prima vista apparirebbe come un traffico di nicchia - scrive il gip Roberto Saulino - si è rivelato essere molto più esteso ed alimentato da pressanti richieste dei consumatori». 

GLI ARRESTATI In carcere sono finiti Danny Beccaria, che era riuscito a raggruppare molti clienti frequentando locali della movida romana, come il Frutta e Verdura, e avrebbe importato «oltre 16 litri di sostanze», il suo braccio destro Clarissa Capone, il giardiniere Giovanni Bortolotti, Marcello Cerasaro, Cristiano Coccia, il funzionario dell'Ater Pietro Fabbri, considerato dal gip «vero e proprio motore delle importazioni, si occupa di formulare gli ordinativi, provvedere ai pagamenti e ricevere le spedizioni, sia presso il luogo di lavoro», Luca Grillini, Emanuele Patriarca, Enrico Penna, Abdellah Tacherifte, Rosa Trunfio, medico odontoiatra. Tra gli arrestati ai domiciliari, anche Marco Locatelli, con precedenti per sfruttamento della prostituzione, assistito dall'avvocato Domenico Naccari. Per il gip, nel suo caso «l'importazione di rilevanti quantitativi di droga dello stupro» potrebbe essere legata proprio «al contesto della prostituzione». Gli episodi di vendita descritti nell'ordinanza sono decine. Tra gli acquirenti più assidui, un politico che non sarebbe ancora stato identificato dagli inquirenti. Emerge dalle intercettazioni: «Io amore sto andando dal politico quello lì che abita davanti alla Corte di Cassazione mi è uscita sta cosa qui al volo», dice uno dei pusher. 

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 28 ottobre 2021. «Pacco arrivato e nascosto». Claudia Rivelli lo ha scritto nella sua chat con il figlio Giovanni Maria Leone (nipote dell'ex presidente della Repubblica) dopo aver ricevuto da un corriere Tnt (ignaro di quello che stava trasportando, come molti rider) nella sua abitazione in via della Camilluccia tre flaconi di Gbl, la droga dello stupro. Era il maggio di due anni fa e la sorella di Ornella Muti, anche lei attrice e fotomodella, oggi 71enne, li aveva ordinati a nome dell'anziana madre Ilse, poi scomparsa nel 2020. Un fatto che ha insospettito i carabinieri del Nas già sulle tracce del carico di stupefacente liquido destinato al figlio residente a Londra (anche nel Regno Unito la Gbl è proibita), tanto che poi Rivelli, tenuta sempre sotto osservazione, è stata arrestata il 15 settembre scorso in occasione di un'altra consegna di Gbl. «Mio figlio la usa per pulirci la macchina, io l'argenteria», aveva spiegato al gip prima di essere rimessa in libertà. Una bugia avvalorata dal fatto che su quei flaconi, secondo chi indaga, aveva apposto targhette con la scritta «shampoo», ma al telefono scriveva sempre «fammi sapere notizie mano a mano, se no mi agito troppo fino a giovedì». Claudia Rivelli, da ieri mattina di nuovo ai domiciliari, è solo una delle 39 persone arrestate dai carabinieri, coordinati dal procuratore aggiunto Giovanni Conzo, nel corso dell'operazione che ha smantellato un traffico internazionale di «droga dello stupro» e altre sostanze sintetiche che aveva la sua base a Roma, ma agiva in tutta Italia. A gestirlo proprio la «famiglia romana», un gruppo di pusher con agganci nei locali notturni, come il «Frutta e Verdura», after hour al quartiere Portuense fra i più noti nella Capitale, ma anche nel mondo dello spettacolo e della politica. Nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Roberto Saulino si fa cenno non solo a «conduttori radiofonici e appartenenti alle forze dell'ordine» (come un vigile urbano assolto dall'accusa di stalking), ma proprio al «gruppo di Danny», guidato da Danny Beccaria insieme con la sua complice Clarissa Capone e la dentista Rosa Trunfio, che aveva agganciato come cliente «er senatore» o anche «il politico», «quello che abita lì, davanti alla Corte di Cassazione, sul lungotevere». Chi sia questo parlamentare è ancora un mistero, così come gli altri che si rifornivano da loro, mentre qualcuno è stato comunque individuato e arrestato dal Nas. Si tratta di insospettabili personaggi che da tutta Italia facevano ordinativi - ne sono stati scoperti finora 290 per quasi 5 milioni di euro - sul deep e sul dark web, su piattaforme ecommerce soprattutto olandesi, ma anche della Repubblica Ceca, oppure canadesi, per farsi spedire come minimo 2 litri e mezzo di droga. Fra loro, un tenente colonnello della Brigata Alpina Julia, in servizio fino a poco tempo fa a Belluno e adesso, secondo i carabinieri, in congedo, Franco Visentin, che si faceva recapitare la droga in caserma (come anche un ex dell'Aeronautica militare, Stefano Bruzziches). E ancora, un insegnante di musica di scuola media in provincia di Cremona, e poi due avvocati, due bancari a Roma e a Grottaferrata, un funzionario Ater (case popolari), alcuni commercianti e un architetto. Per questi personaggi era solo un investimento? Oppure serviva per altri scopi? Finora sono state individuate 16 sostanze sconosciute prodotte in laboratorio: il timore è che la droga potesse interessare anche a gruppi di pedofili.

Roma, la droga dello stupro venduta ai vip. Valentina Dardari il 28 Ottobre 2021 su Il Giornale. Ignari rider consegnavano la merce in case di lusso e in locali notturni della Capitale. Una famiglia allargata, quella di Roma, composta dal ‘gruppo di Danny’, quello di ‘Ostia’ e quello di ‘Zagarolo’. A lei fa capo il gruppo di trafficanti internazionali che importavano bottiglie colme di "droga dello stupro". Sostanza acquistata sul mercato nero di internet, solitamente in Olanda, e poi smerciata in Italia. In questo caso nella Capitale. A consegnare la merce quasi sempre erano ignari rider che non sapevano cosa stessero trasportando.

L’indagine dei Nas

Gli uomini dei Nas, i nuclei antisofisticazioni e sanità dei carabinieri, sono riusciti a scoprire alcuni posti di lavoro degli spacciatori difficili da immaginare: un ufficio Ater in via di Valle Aurelia, un'agenzia della Banca Intesa San Paolo a Grottaferrata, negozi e stabilimenti. Alle prime luci dell’alba di ieri sono finite in manette 39 persone. Gli investigatori sono riusciti a ripercorrere le varie fasi del percorso effettuato da queste sostanze a partire dal 2019 fino ai giorni nostri. Esistono 16 tipi di questo liquido, prodotto in laboratorio, di cui non si conosce bene la composizione e neppure gli effetti a livello fisico e mentale. Quello che si è riuscito a capire è che ci sono sparsi per Roma diversi insospettabili ritrovi notturni, frequentati anche da persone dello spettacolo, dove questa droga viene spacciata. Uno di questi, come riportato dal Corriere, è il “Frutta e Verdura” a San Paolo. Il gestore del locale, Danny Beccaria, con la complice Clarissa Capone e la dentista napoletana Rosa Trunfio, hanno ricevuto le ordinanze di custodia cautelare in carcere e ai domiciliari firmate dal gip Roberto Saulino. Oltre a loro anche Gennaro Quasto, destinatario anche del reddito di cittadinanza, oltre ai guadagni, tutt’altro che irrisori, derivanti dallo spaccio della sostanza stupefacente. Tra i loro clienti personalità di un certo calibro, come senatori, politici, sacerdoti, sacerdoti, speakers radiofonici e anche appartenenti alle forze dell’ordine. Tra questi anche “quello che abita lì, davanti alla Corte di Cassazione, sul lungotevere”. Le identità di queste persone non sono ancora state scoperte.

Il percorso della droga

La sostanza stupefacente viene acquistata su internet e arriva in Italia tramite spedizione da Olanda, Germania, Canada e Cecoslovacchia. Viene poi portata a destinazione da ignari corrieri e rider, che non sanno nulla del contenuto dei pacchi che hanno tra le mani. Tra gli arrestati anche la sorella di Ornella Muti, Claudia Rivelli, beccata mentre stava ritirando dei flaconi di droga dello stupro nella sua casa in via della Camilluccia. La Gbl in questione era destinata al figlio che abita a Londra, dove è vietata come da noi. Tra gli altri arrestati anche Pietro Fabbri, un funzionario Ater con ufficio nella sede in via di Valle Aurelia. Secondo gli investigatori, coordinati dal procuratore aggiunto Giovanni Conzo, Fabbri sarebbe molto vicino al ‘gruppo di Zagarolo’. E poi anche Massimo Rolli, un impiegato della Banca Intesa San Paolo, che avrebbe acquistato droga per corrispondenza da Amsterdam, e un architetto, Carmine Magna, residente al Portuense e con studio all'Esquilino. La Gbl veniva chiamato in vari modi: a volte con nomi di donna, come Mafalda, Tina, Gina, oppure anche shampoo o profumo. Tra i rider utilizzati per lo scopo quelli della Glovo perché, come recita l’ordinanza: “Oltre al classico contatto telefonico con i "clienti", finalizzato a stabilire il successivo incontro, si è registrata una pratica particolare, ritenuta sicura tanto dagli acquirenti quanto dai venditori, fondata sull'impiego di inconsapevoli corrieri on demand, in particolare gli operatori della società Glovo”. L’idea di ricorrere ai rider era venuta a Simone Giovannucci, una delle persone arrestate, che stava cercando un modo per far arrivare la "roba" all’amico e cliente Marcello Cerasaro. La spedizione in questione risale al 29 novembre 2019. “Consultando i dati forniti da Glovo in effetti, si riscontra come il luogo di ritiro (partenza) corrisponda a Roma, via Portuense 104, mentre il luogo di consegna sia il Residence Trastevere suite, appartamento 31”. Via portuense è il domicilio di Giovannucci, dove è avvenuto poi l’arresto. Il gip ha scritto: “Quanto al secondo indirizzo il Residence Trastevere suite è emerso in più circostanze, nel corso delle attività tecniche eseguite”. Anche per effettuare altre consegne sono stati impiegati i rider di Glovo.

Tra le intercettazioni effettuate dagli investigatori anche quelle di una delle arrestate, Clarissa Capone: “Va bene, ho quasi ventimila euro... ma sono tutti soldi che io ho fatto con la droga... eh cioè sono tutti soldi sporchi”. E ancora: “Qua tutti sono stati bevuti, tutti sono andati a finire in gattabuia... tutti quanti... io no”. Come si legge nelle carte: “Il gruppo in questione, denominato dagli inquirenti "il gruppo di Danny", risultato molto attivo nell'attività di rivendita all'interno dei locali notturni, ha dato prova di disporre di una clientela estremamente variegata, personalità politiche, conduttori radiofonici ed appartenenti alle forze dell'ordine”. Tra i compratori un vigile urbano in forze alla polizia municipale di Roma Capitale, un senatore e perfino un sacerdote, così descritto dal Beccaria: “Mo' m' ha scritto un prete, er prete è uno che me dà una cifra de sordi pe' ditte”.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Droga dello stupro, la mappa dello spaccio: locali vip e clienti insospettabili. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2021. La «famiglia romana» era composta dal «gruppo di Danny», quello di «Ostia» e quello di «Zagarolo». La colonna portante del gruppo di trafficanti internazionali specializzato nell’importazione di bottiglie piene di Gbl, l a droga dello stupro: acquistate sul deep e sul dark web, spedite per posta soprattutto dall’Olanda, consegnate da ignari corrieri in molti casi, come hanno scoperto i carabinieri del Nas, direttamente sul posto di lavoro degli spacciatori. Un ufficio Ater in via di Valle Aurelia, un’agenzia della Banca Intesa San Paolo a Grottaferrata, negozi e stabilimenti. Gli investigatori dell’Arma, che all’alba di ieri hanno arrestato 39 persone, hanno ripercorso proprio a Roma il tragitto che a partire dal 2019 ma anche negli ultimi mesi seguita la marea di stupefacente liquido prodotto in laboratorio - 16 versioni finora sconosciute, come misteriosi sono gli effetti sul fisico - approdata a più riprese anche in alcuni locali notturni frequentati da vip, come il «Frutta e Verdura» a San Paolo: qui il gip Roberto Saulino, che ha firmato le ordinanze di custodia cautelare in carcere e ai domiciliari, ha individuato uno dei centri di spaccio, gestiti da Danny Beccaria, con la complice Clarissa Capone e la dentista napoletana Rosa Trunfio. Con loro anche Gennaro Quasto, peraltro beneficiario del reddito di cittadinanza, oltre che dei cospicui incassi derivanti dalla vendita dello stupefacente. Sono gli stessi che, secondo i carabinieri, avevano agganciato clienti del calibro del «senatore» o anche «il politico», «quello che abita lì, davanti alla Corte di Cassazione, sul lungotevere», ma anche di un sacerdote, così come conduttori radiofonici ed appartenenti alle forze dell’ordine. I nomi devono essere ancora scoperti dai carabinieri che hanno ricostruito sia il giro organizzato sia quello individuale, legato sempre all’acquisto della droga su internet, alle spedizioni internazionali da Olanda, Repubblica Ceca, Germania e Canada, alle consegne a domicilio o sul posto di lavoro da parte di ignari corrieri (Dhl e Tnt) ma anche rider. Fra i pusher, ora ai domiciliari, anche Claudia Rivelli, sorella di Ornella Muti, colta in flagrante ritiro dei flaconi di stupefacente nella sua abitazione in via della Camilluccia (destinata al figlio che abita a Londra, dove la Gbl è comunque vietata, come qui), ma anche un funzionario Ater con ufficio nella sede in via di Valle Aurelia, Pietro Fabbri, che gli investigatori dell’Arma, coordinati dal procuratore aggiunto Giovanni Conzo, collocano fra coloro più vicini al «gruppo di Zagarolo». E poi un impiegato della Banca Intesa San Paolo, Massimo Rolli, identificato dai carabinieri come colui che ha acquistato bustine di droga per corrispondenza da Amsterdam, e un architetto, Carmine Magna, residente al Portuense e con studio all’Esquilino.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 29 ottobre 2021. «Eh sì, io ero una spacciatrice, capito?», si confessa al telefono Clarissa Capone, pusher del terzo millennio con la sporta piena di nuove sostanze psicoattive come la «droga dello stupro», altrimenti detta Gbl (acronimo per Gammabutirrolattone). «Calcola che quando ci stava il Festival del cinema - prosegue orgogliosa - io là ci andavo con lo zainetto pieno, cioè ci stavano giornalisti, cioè ci stava di tutto di più...». A trent' anni la pusher vanta già un invidiabile portafoglio clienti che include perfino un senatore della Repubblica. Di lui si sa soltanto che «abita di fronte alla Corte di Cassazione», che è affezionato al «profumo», come viene chiamata pudicamente la molecola dello stupro. Ma nelle intercettazioni non ci sono altri riferimenti o dettagli e i carabinieri del Nas non sarebbero ancora riusciti a individuarlo. Anche perché sembra evidente che i pusher ci tenessero a proteggere la sua identità. Prudenza e riserbo spingono una nuova generazione di spacciatori a rinominare la Gbl con fantasiosi e improbabili appellativi. Un giorno Rosa Trunfio, odontoiatra finita tra gli arrestati, s' informa sul carico di «Acqua di Giò» (un'essenza di Giorgio Armani) in arrivo con un corriere. Con l'obiettivo di sfuggire ai controlli, poi, le bottigliette in cui viaggiano i liquidi sintetici vengono rinominate. Così il fornitore di Marcello Cerasaro, altro pusher, fa recapitare una boccetta contrassegnata, la cui etichetta rassicurante campeggia sulla confezione: «Boccetta 200 ml antiossidante per hardware». I carabinieri del Nas riferiranno alla pm Giulia Guccione e al procuratore aggiunto Giovanni Conzo che si tratta di Gbl. I prezzi d'acquisto variano con la clientela, si va da poche decine di euro a qualche centinaio. Uno dei pusher arrestati a Bologna, trattava acquisti da 700 euro con alcuni tra i suoi più affezionati clienti. È lo stesso uomo che faceva spacciare il figlio tra i suoi compagni di scuola: «Vabbé, ascolta, bisogna che diamo impulso a questa cosa...», dice motivando il ragazzo come certi allenatori in campo. Il 30 gennaio 2020 i carabinieri fanno irruzione in una casa famiglia per minori nella provincia di Milano. E arrestano il direttore Edoardo Bianchi. Scrive il giudice: «Le immediate attività di perquisizione consentivano di individuare il collegamento strumentale della condotta di importazione alla commissione di ulteriori reati, posto che erano rinvenute numerose immagini a contenuto pedopornografico, sia scaricate dalla rete Internet che autoprodotte, alcune delle quali ritraenti i minori accolti nella struttura». Il coinvolgimento nell'inchiesta di un sacerdote, oltre a professionisti come un architetto, un avvocato, un medico e giornalisti - per non parlare del senatore - e di un vigile urbano, finisce per aggravare il quadro della situazione. I magistrati hanno mosso anche l'accusa di autoriciclaggio alla Capone e a Danny Beccaria che «eseguivano operazioni di trasferimento di denaro proveniente dall'attività di importazione e cessione di stupefacenti in modo da ostacolarne l'identificazione della provenienza delittuosa».  

Daniele Autieri per “la Repubblica” il 29 ottobre 2021. La cravatta gettata in terra, la bottiglia di champagne prosciugata, un flaconcino di droga dello stupro sul comodino e in fondo, sfocato perché nessuno possa riconoscerlo, er senatore, feticcio dell'ennesima storia di grande bellezza corrotta - stavolta - a colpi di fentanyl e cristalli. L'uomo del mistero colora di giallo l'inchiesta condotta dai carabinieri del Nucleo per la tutela della salute che ha portato all'arresto 39 persone, di cui 11 in carcere e 28 ai domiciliari, per autoriciclaggio, importazione e traffico di "nuove sostanze psicoattive", e aggiunge alla trama del crime il personaggio che non può mancare. Per la " famiglia romana" (come Clarissa Capone, uno dei principali indagati dell'inchiesta, definisce la banda delle droghe sintetiche), il politico è un cliente da coccolare, e infatti alle 13:05 del 17 ottobre del 2019 Danny Beccaria (il gestore del giro nella capitale) telefona alla donna perché c'è una vendita da chiudere. «Ce stava er senatore che je servivi» le dice. «Il senatore?» domanda Clarissa. « Quello lì di lungotevere» . « Ah, il politico » . «Eh sì, amo'». Poco dopo, alle 14: 50, lo stesso Danny chiama Rosa Trunfio, un medico odontotecnico con precedenti accusato di rifornire lo spacciatore, avvisandola che si sta muovendo per raggiungere la casa del senatore. «Io amore sto andando dal politico, quello lì che abita davanti alla Corte di Cassazione». Nessuno sa il suo nome perché secondo gli inquirenti non è stato possibile identificare l'identità del politico, «verosimilmente - scrive il giudice per le indagini preliminari Roberto Saulino - un senatore della Repubblica».  Una circostanza che ha reso tutto più complicato, come già accaduto nel passato recente della storia italiana, quando l'incriminazione di un politico è stata bloccata dalla giunta per le autorizzazioni a procedere delle Camere. Rimane allora la marionetta senza nome e cognome, e basta quella per piombare in una scena di Romanzo Criminale, sulla lampadina che illumina la silhouette del politico mentre tira cocaina. Quarant' anni dopo la polvere bianca è stata sostituita dal "profumo", come gli spacciatori chiamano il GBL, e le banconote da centomila lire dai bitcoin, ma il profilo oscurato dell'uomo in grigio è rimasto quello. E insieme ad esso la platea delle maschere di un'antica commedia: l'attore, il giornalista, lo sbirro. Sono loro i clienti di Clarissa Capone, la 30enne che è entrata nel giro giusto e si fa bonificare i soldi della "roba" in Lussemburgo. «Io sono proprio arrivata - dice nel dicembre del 2019 a un amico. - Calcola che quando ci stava il festival del cinema io là ci andavo con lo zainetto pieno cioè ci stavano i giornalisti ci stava di tutto e di più e di là poi sono arrivata a un politico. Perché giustamente, da che ti fai il giornalista, poi comunque la voce si spande e la voce è arrivata pure all'assistente di un politico. Sapeva quello che facevo e quando gli serviva la merce mi chiamava». «A qualcuno importante sei arrivata?» le domanda l'amico curioso. «Sì, calcola che parlavo con l'assistente poi quando arrivavo a casa ci stava il politico hai capito? Quindi pensa che cazzo ero!». Al momento del dialogo alcuni complici della donna sono stati già arrestati, mentre Danny Beccaria sarà arrestato di lì a poche settimane. Tutti intorno a lei "sono stati bevuti", tutti tranne la zarina di Roma, convinta che proprio il rapporto con il politico l'abbia resa invincibile. «Qui tutti sono andati a finire in gattabuia - racconta - tutti quanti, io no. Io ero anche molto più potente di voi visto che c'avevo politici, gente importante, capito?». La " famiglia romana" era capace di arrivare in alto nel mondo borghese della capitale. Non solo "personalità politiche, ma anche conduttori radiofonici e appartenenti alle forze dell'ordine". Tutti anonimi, tutti non identificati, tutti personaggi laterali di un crime dal finale scontato. 

Michela Allegri per “il Messaggero” il 29 ottobre 2021. Dai salotti vip ai locali della movida, dalle scuole ai red carpet degli eventi artistici. I pusher 2.0, in grado di muoversi nel dark web per ordinare decine di flaconi di droga dello stupro e di sostanze nuove e potentissime da rivendere sulle piazze di spaccio di tutta l'Italia, erano costantemente alla ricerca di clienti per espandere il raggio di affari. Il segreto per fare partire il business era ampliare la rete grazie al passaparola di persone importanti: «La voce era arrivata all'assistente del politico, e quando gli serviva la merce chi chiamava? Chiamava me». Lo racconta una delle componenti di spicco di quella che gli inquirenti definiscono la «famiglia romana». Gli altri componenti della «famiglia romana», per gli inquirenti sono Danny Beccaria, Rosa Trunfio e, secondo il pm, il marito. Il gruppo, sottolinea il gip nell'ordinanza con cui due giorni fa ha disposto carcere e domiciliari per 39 persone, può contare una «nutritissima clientela che quotidianamente contatta, telefonicamente o mediante chat criptate, per concordare gli acquisti dello stupefacente». Beccaria ha un giro affollato all'interno dei locali notturni, ma «ha dato prova di disporre di una clientela estremamente variegata, personalità politiche, conduttori radiofonici ed appartenenti alle forze dell'ordine». Dello spaccio laziale si occupa anche un'altra banda, il «gruppo di Ostia», composta da Marcello Cerasaro, Mirko Giovannucci e Cristiano Coccia, e collegata alla prima. Un personaggio di spicco è la Trunfio, medico odontoiatra, ma che, sottolineano gli inquirenti, «si fregia anche del titolo di chirurgo estetico» e ha contatti che oltrepassano il Grande Raccordo Anulare. Quando una delle spedizioni non va a buon fine e la clientela rischia di rimanere delusa, per esempio, la Trunfio in poco tempo riesce e reperire lo stupefacente a Napoli e si accorda per la consegna con Danny. Nelle intercettazioni i due usano termini in codice, ma secondo il gip non ci sono dubbi: stanno parlando dei traffici illegali. «Per il regalo volevo spendere cento...», dice la donna. È l'ottobre del 2019. Dopo qualche ora, la dottoressa telefona di nuovo al complice e gli chiede se ha risolto la questione dell'«Acqua di Giò». In realtà, secondo l'accusa, la donna non si sta riferendo al famoso profumo di Armani, ma a un flacone di droga. Tra gli importatori di Ghb tramite il dark web ci sono diversi insospettabili. Oltre a Claudia Rivelli, sorella di Ornella Muti, sotto inchiesta ci sono un funzionario dell'Ater, un pittore, un professore delle medie, un architetto, un prete e un vigile urbano, altri componenti delle forze dell'ordine. E dagli atti spunta anche il nome di un ufficiale dell'Esercito, che si faceva spedire lo stupefacente presso la sede del Comando dove presta servizio, a Belluno. L'inchiesta riguarda tutta l'Italia. Una storia choc arriva dalla provincia di Bologna: un padre, importatore di droga dello stupro tramite il dark web e coltivatore di marijuana, avrebbe assoldato il figlio sedicenne per spacciare tra i coetanei. Quando il ragazzino era stato ricoverato al pronto soccorso a causa di un eccessivo consumo di erba, l'unica preoccupazione del padre era che le attività illecite non venissero scoperte. L'uomo, inoltre, sarebbe quasi arrivato a minacciare il figlio a causa del mancato pagamento di una partita di marijuana.  È il maggio del 2019 e gli amici del ragazzo sono in ritardo con il saldo. «Ascolta diamo un impulso a quella cosa, perché io tra l'altro ho qualcuno a cui rendere conto - dice il pusher - già mi ha detto: Passami i nomi, andiamo a casa loro e glieli chiediamo... io non voglio che succedano delle cose fastidiose». Il 4 giugno 2019 il sedicenne finisce in ospedale. Nelle telefonate di aggiornamento con la ex moglie - annota il gip - «appare evidente la preoccupazione dell'uomo con riguardo alle dichiarazioni che potrebbe aver rilasciato il figlio e a un conseguente possibile intervento della polizia». Invece di preoccuparsi della salute del ragazzo, infatti, continua a domandare: «È stato chiesto qualcosa in merito? Cosa ha detto?».  L'allarme per i più giovani arriva anche dal coinvolgimento nell'inchiesta di un professore delle medie, insegnante di musica in una scuola in provincia di Cremona. Si sarebbe fatto recapitare presso l'istituto scolastico direttamente dall'Olanda addirittura 13 flaconi di catinoni (molecole psicoattive) sintetici. Gli inquirenti vogliono capire se lo stupefacente sia stato diffuso all'interno della scuola. Il gip sottolinea «l'estrema insidiosità e la pericolosità della condotta posta in essere dall'indagato» - ora ai domiciliari - e la sua «spregiudicatezza».

Nella ragnatela di Massimo Carminati la sorella di Ornella Muti. Lirio Abbate su L'Espresso il 29 ottobre 2021. Claudia Rivelli è agli arresti domiciliari perché accusata di importazione e cessione di sostanze stupefacenti. In passato il suo nome era finito nelle intercettazioni che mostravano tutti i rapporti di potere del Cecato. Nella ragnatela tessuta dal capo del clan romano, Massimo Carminati, sono rimasti impigliati nel corso del tempo personaggi di ogni specie. Non necessariamente collegati direttamente al leader del “mondo di mezzo”, ma concatenati attraverso i suoi filamenti radiali e paralleli. E in questa tela è finito – inconsapevolmente - anche il nome di Claudia Rivelli, 71 anni, attrice e sorella della star del cinema, Ornella Muti. Rivelli è agli arresti domiciliari perché accusata di importazione e cessione di sostanze stupefacenti. È un’inchiesta su 39 persone che devono rispondere di traffico di droghe sintetiche acquistate all'estero sul web o sul darkweb. Rivelli era già stata arrestata il 15 settembre scorso, dopo che nella sua casa a Roma la polizia aveva trovato tre flaconi con un litro di sostanza Gbl (conosciuta come droga dello stupro). La donna è stata poi immediatamente liberata. Claudia Rivelli si era difesa affermando di avere inviato la sostanza al figlio che vive a Londra «perché lui la usa per pulire l’auto» mentre lei la utilizza per «lucidare l’argenteria». Adesso i magistrati l’accusano di avere importato «illecitamente dall’Olanda, con cadenze trimestrali, vari flaconi di Gbl provvedendo a inviarne parte al figlio residente a Londra dopo averne sostituito confezione ed etichetta riportante indicazione “shampoo” in modo da trarre in inganno la dogana». Già in passato il nome della donna era comparso per trascinamento in una importante inchiesta di Roma, quella che ha illuminato, anche se in parte, la ragnatela di Carminati. Rivelli, è bene precisare, non è stata mai indagata per l’inchiesta “mondo di mezzo” o “mafia Capitale”, ma le intercettazioni hanno fatto emergere come “il Cecato”, condannato in appello a dieci anni per associazione per delinquere, aveva collegamenti trasversali nella Capitale, coinvolgendo mondi e professioni diverse. E nonostante i suoi diedi anni di carcere sulle spalle, Massimo Carminati è libero di circolare per la Capitale, anche se è in attesa dell’ultima parola della Cassazione. Ma non è detto che Carminati dopo il definitivo giudizio degli “ermellini” possa tornare in carcere per scontare il resto della pena che gli è stata inflitta. Intanto, per comprendere meglio la ragnatela di Carminati con le sue ramificazioni ovunque, anche nelle sfere più impensabili, occorre spostarsi alla periferia della Capitale, nella sede della casa-famiglia “Piccoli Passi”, gestita dall’amico di famiglia Lorenzo Alibrandi, nella quale Massimo Carminati e “camerati” avevano tenuto diverse riunioni prima di essere arrestato. Ed è a questa associazione di Alibrandi che si collega la nostra storia. Che è solo un episodio. Il capo del clan romano vuole tentare di agganciare il liquidatore fallimentare di due società, tale avvocato Vianello, il quale vanta un credito di 240 mila euro proprio dalla casa-famiglia. Il pomeriggio del 18 gennaio 2013 Carminati è a bordo della sua Audi A1 con l’amico Angelo Maria Monaco. I due parlano del più e del meno. Fanno nomi. Raccontano di situazioni, di storie singolari. Poi, per uno strano giro di contatti, parte una serie di telefonate che coinvolgono indirettamente i familiari di Ornella Muti: l’eccentrica figlia Naike Rivelli, la sorella dell’attrice, Claudia Rivelli e il marito di quest’ultima, l’avvocato Paolo Leone, figlio dell’ex presidente della Repubblica Giovanni Leone. Nessuno di loro è stato coinvolto nell’inchiesta ma il racconto, fatto attraverso le intercettazioni dei carabinieri del Ros, è la sintesi esatta degli innumerevoli agganci trasversali del capo di “mondo di mezzo”. Monaco (che dovrebbe essere il cugino dell’attrice, perché figlio di Emilia Rivelli sorella del padre della Muti) suggerisce a Carminati che il liquidatore fallimentare potrebbe essere imparentato con Francesca Romana Rivelli, in arte Ornella Muti e con Paolo Leone, suo cognato. L’uomo dice: «vuoi che lo chiamo subito?». Il Cecato replica: «e certo! Hai capito, se risolviamo questa cosa ci leviamo il pensiero...». Monaco chiama al telefono «Claudia» che i carabinieri identificano in Claudia Rivelli, alla quale chiede informazioni su questo «avvocato Vianello». Da lì continua lo scambio telefonico fra i componenti della famiglia per identificare l’uomo e si arriva fino a Paolo Leone, il quale, però, esclude collegamenti con l’avvocato. Conclusa la conversazione con il parente, il quale non sa che quelle informazioni siano espressa richiesta del capo del “mondo di mezzo”, Angelo Maria Monaco parla a Carminati di tale «Valerio», del quale il Cecato comprende l’identità e dice: «Valerio lo conosco bene (...) non è un avvocato è un amico… è uno che ha difeso un sacco di camerati... è un camerata Valerio... cazzo è un grande avvocato Cassazionista... mò che difende un sacco... un sacco di bravi ragazzi...». Ma Angelo Maria Monaco non si ferma lì: i carabinieri annotano che «riferiva di aver appreso, in ambito familiare, che la figlia di “Ornella”, “Nike” era legata sentimentalmente a un napoletano camorrista il quale era stato difeso dal cugino, avvocato penalista, Rivelli, quest’ultimo amico dei costruttori Pulcini». Dalle carte dell’indagine non sappiamo se Carminati sia arrivato all’avvocato Vianello. La cosa incredibile è però constatare le molteplici soluzioni che “il Cecato” ha per tentare l’aggancio: può provare tramite le dive o tramite i grandi costruttori, senza che l’uno sappia dell’altro e il tutto stando bello comodo seduto in auto. Non solo. L’ex Nar potrebbe conoscere anche il «napoletano camorrista» di cui parlano i due. Naike, infatti, è stata legata proprio a un napoletano, da tanti anni residente a Roma, con diversi problemi con la giustizia. Si chiama Pasquale De Martino, coinvolto in indagini su traffici di droga e nell’istruttoria P4 con Flavio Carboni e Marcello Dell’Utri. De Martino è stato complice del camorrista Michele Senese, a lungo vicino a Carminati e agli albanesi di Ponte Milvio, fra cui Arben Zogu e a Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik. Parliamo del settembre 2008 e la figlia di Ornella Muti all’epoca aveva 34 anni. Come però dimostrano le intercettazioni, la donna da allora ha tagliato ogni rapporto con De Martino. Ecco come i mondi si incrociano. E anche se con il trascorrere degli anni la ragnatela si può deformare per le intemperie giudiziarie, i temporali romani non pregiudicano la sua complessa funzionalità.

Dal “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2021. Si era fatto spedire un pacco contenente dieci litri della cosiddetta «droga dello stupro» (Gbl) attraverso un corriere, estraneo ai fatti. Peccato per lui che i poliziotti della Squadra Mobile di Ancona e di quella di Frontiera di Roma Fiumicino hanno scoperto tutto e lo hanno arrestato per detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente. Il pacco, spedito in modo anonimo, era destinato a un quarantaseienne di Ancona che, nelle prime ore di venerdì, era andato a ritirarlo al centro di smistamento come se nulla fosse. Di certo, non si aspettava certo di essere subito fermato e arrestato dagli agenti che gli hanno sequestrato i dieci flaconi da un litro da cui poter ricavare 12 mila dosi: sul mercato, avrebbero fruttato 36mila euro. Dalle perquisizioni successive, sono state sequestrate anche numerose siringhe da insulina prive di ago, utili per il dosaggio del Gbl, nonché sette bustine di polvere cristallizzata (mefedrone). Per questo motivo, per l'uomo si sono aperte le porte del carcere anconetano di Montacuto e, ora, si tenta di risalire al mittente anonimo.

Andrea Ossino per “la Repubblica – Roma” il 31 ottobre 2021. I telefoni della "zarina del Ghb" sono in mano agli inquirenti. Tanto basta per far tremare illustri professionisti, politici e vip che negli ultimi due anni si sono rivolti a Clarissa Capone per acquistare la droga dello stupro o i fentanili consumati nei festini della Roma bene. Grazie all'operazione con cui i magistrati coordinati dal procuratore aggiunto Giovanni Conzo hanno arrestato 39 persone, indagandone altre 24 e interrompendo un giro d'affari da 5 milioni di euro realizzato grazie a sostanze psicotrope sempre nuove, i carabinieri del Nas hanno sequestrato i due cellulari della Capone. All'interno ci sono migliaia di numeri di telefono su cui adesso si stanno concentrando le attenzioni degli inquirenti. Il sospetto è che ci possano essere dei recapiti "bollenti". Del resto è la stessa Capone, non sapendo di essere intercettata, a rivelare i sul altolocato giro d'affari: «Calcola che quando ci stava il Festival del Cinema io là ci andavo con lo zainetto pieno cioè ci stavano giornalisti cioè ci stava di tutto e di più e da là poi so sono arrivata ad un politicoda che ti fai il giornalista la voce si espande, la voce è arrivata pure all'assistente del politico». Non solo politici e giornalisti. Nel lungo elenco di acquirenti figurano militari, dipendenti pubblici, dottori, professori, direttori di comunità per minori e funzionari di banca. « Il modus operandi della famiglia romana", ovvero della " batteria" capeggiata da Danny Beccaria con l'aiuto di Clarissa Capone, è caratterizzato dal " variare frequentemente i luoghi d'incontro, dal ricorso a veicoli a noleggio e dal al trasporto della sostanza tramite il servizio Glovo». Ed è proprio seguendo gli inconsapevoli corrieri che adesso gli inquirenti stanno confermando i loro sospetti. Il giro del gruppo si basava anche sui locali notturni della Capitale, come il "Frutta e Verdura - After Hour", un locale nella zona Sud di Roma molto frequentato dal gruppo. "Vivono al frutta e verdura", si legge nelle intercettazioni che rivelano un traffico di sostanza innovativo, dove i pusher si riforniscono nei "grandi magazzini virtuali , spesso attivi nel Web sommerso». Nei laboratori in giro per l'Europa vengono inventate sostanze sempre nuove. Dal 2005 ad oggi gli inquirenti ne hanno classificate quasi 500. Si tratta di composti non ancora classificati come droghe e inseriti nelle apposite tabelle. Quindi diventa difficile fermare il fenomeno. L'indagine del sostituto procuratore Giulia Guccione ha però alcune peculiarità. Per la prima volta è stata condotta un'indagine su sostanze stupefacenti che in realtà non erano ancora state classificate come tali. Un'innovazione che verrà ampiamente dibattuta nel processo che verrà.

Andrea Ossino per “la Repubblica – ed. Roma” l'1 Novembre 2021. Locali notturni, chem sex e chat criptate. L'indagine con cui la procura di Roma ha arrestato 39 persone, indagandone altre 24 e interrompendo un giro d'affari da 5 milioni di euro, attraversa il mondo delle nuove droghe psicotrope e alza il sipario dietro al quale illustri professionisti ordinano composti chimici a domicilio per consumarli in festini privati a base di sesso, droga e alcol. È tutto scritto negli atti dell'inchiesta coordinata dal sostituto procuratore Giulia Guccione e dall'aggiunto Giovanni Conzo. In queste ore l'attenzione dei magistrati si concentra sui telefoni sequestrati agli arrestati, in particolare sui due cellulari utilizzati da Clarissa Capone, gli stessi con cui la zarina del Ghb rispondeva a giornalisti, politici e imprenditori che la contattavano per organizzare serate trasgressive all'insegna di droghe che possono diventare letali. A destare l'interesse degli inquirenti sono anche e soprattutto le " chat segrete" contenute in quei cellulari. «Danny Beccaria, Clarissa Capone, Rosa Trunfio e il marito di quest' ultima Alberto Cortese - rivelano gli atti - dispongono di una nutritissima clientela che quotidianamente li contatta telefonicamente o mediante chat criptate per concordare gli acquisti dello stupefacente». Si tratta di «personalità politiche, di conduttori radiofonici e di appartenenti alle forze dell'ordine» , le cui conversazioni potrebbero essere celate dietro password che prima o poi verranno scardinate da chi indaga. Le difficoltà sono numerose, visto che gli indagati «invitano ripetutamente i clienti ad utilizzare Telegram per le comunicazioni e per le relative richieste od ordinativi, ritenendo, con ogni evidenza, la chat criptata più sicura per evitare intercettazioni». Gennaro Quarto, di origini campane, ufficialmente disoccupato e con reddito di cittadinanza, faceva affari d'oro con la "droga dello stupro", il Ghb, «sostanza rivenduta attraverso variegati canali riconducibili sia alle frequentazioni dei locali notturni che alle conoscenze maturate in coloro che organizzano festini a base di sesso e droghe». Per vendere tra i locali notturni occorreva la presenza fisica. I festini privati invece venivano raggiunti tramite conoscenze, con quella tattica dell'agganciare «il giornalista per poi arrivare al politico» che la Capone spiega in un'intercettazione. Questo secondo canale di vendita veniva mantenuto grazie a chat criptate in grado di arrivare «in ambienti molto più ristretti, spesso tra persone che si conoscono e si frequentano. Dato, questo, acquisito mediante analisi dei dati dei decessi ove la gran parte degli avvenimenti critici è maturata in conseguenza di cessioni tra persone che si conoscevano, spesso in occasione di festini a base di sesso e droghe chimiche, i cosiddetti "chem sex"».

Romina Marceca per “la Repubblica – ed. Roma” il 30 ottobre 2021. Rosa Trunfio, originaria di Avellino, era una stimata odontoiatra con studio a Napoli e docente di Medicina estetica all'università di Roma Tor Vergata. Ma fuori dall'ambulatorio e dalle aule, tra il 2019 e il 2020, era Lady Gbl, complice fidata di Danny Beccaria, il dominus della "famiglia romana" che nella capitale riforniva di droghe dello stupro politici, medici, forze dell'ordine e anche preti. Da quattro giorni la Trunfio è in carcere dopo il blitz dei carabinieri del Nas. «È andato tutto in rovina - racconta adesso il suo ex marito, un odontotecnico -. Il calvario è cominciato quando ha iniziato a fissarsi con la chirurgia estetica e è andata a Roma per un master. Il matrimonio è finito due anni e mezzo fa, ci siamo separati».

Cosa è successo?

«Non era più lei, era strana. Trascorreva spesso i fine settimana a Roma e non tornava a casa. Aveva iniziato a frequentare queste compagnie lontane dal nostro mondo. Tutta gente fissata col ritocco». 

Alla sua ex moglie sono contestate cessioni di Gbl e di essere stata una mediatrice tra pusher di Napoli e Roma.

«Sono sconcertato da questa indagine, ho appena appreso del suo arresto. Gliel'avevo detto che quel giro di amici fissati con l'estetica l'avrebbe rovinata».

Però anche lei risulta tra gli indagati per avere ceduto il Gbl. Conosce Danny Beccaria?

«Con questa storia non c'entro nulla. La mia ex moglie nel 2007 ha iniziato il master, poi spesso era a Roma per l'insegnamento e qualche fine settimana venivo anche io ma per curiosità, per capire. In un locale gay ho conosciuto quei ragazzi, non ricordo nomi e nemmeno Danny Beccaria. Continuavo a ripetere a mia moglie: "Ma che ci fai tu qui?».

E lei cosa le rispondeva?

«Che erano persone normali e voleva frequentarle». 

Le indagini hanno ricostruito che avete anche convissuto con Danny Beccaria.

«Ma io se dormivo a casa di qualcuno con mia moglie, rimanevo per una sola notte. Ma quale convivere, ma assolutamente no. Nego assolutamente».

Alcuni pacchi con il Gbl sono stati spediti anche nella vostra casa di Napoli.

«A mia insaputa, non ho mai visto un pacco sospetto nel mio appartamento. Quelle persone a casa mia non ci sono mai state». 

Ha mai visto sua moglie assumere Gbl?

«Se ne ha fatto uso o se l'ha spacciata insieme a quei ragazzi, come dicono le indagini, è stata bravissima e io sono uno scemo perché non me ne sono accorto». 

Perché si è separato?

«Ho voluto bene a Rosa. Ci eravamo conosciuti per motivi di lavoro 25 anni fa, abbiamo una figlia. Ma i quattro anni prima di lasciarci sono stati impossibili. Non c'era più intesa e ho anche pensato che avesse un altro uomo. Con mia figlia stiamo cercando di capire cosa ha combinato».

Lei lavorava in studio a Napoli con sua moglie. Adesso?

«Il nostro studio è in pericolo. Sto cercando un altro medico che sostituisca Rosa, altrimenti andranno a rotoli anche 25 anni di lavoro».

Marina Lucchin per ilgazzettino.it il 30 ottobre 2021. È partita da Padova l'indagine che ha portato all'arresto di don Francesco Spagnesi, il parroco di Prato coinvolto nello scandalo dei festini gay a base di droga dello stupro e cocaina. È finito in manette il 14 settembre scorso durante un'operazione della Squadra Mobile del capoluogo toscano, ma gli investigatori pratesi devono tutto ai colleghi padovani, coordinati dal sostituto procuratore Benedetto Roberti, che all'inizio del 2020 avevano chiuso l'Operazione G con nove indagati, tra le province di Padova, Vicenza e Treviso, finiti nei guai in parte per aver importato il Gbl dall'Olanda, nota anche come droga dello stupro, per poi rivenderla ai propri clienti, in parte per la cessione senza autorizzazione di medicinali, in particolare Cialis. Nell'ambiente la chiamavano Ciliegina, Fantasy o Filtro d'amore. Nomi che facevano sembrare innocuo quello che in realtà è un pericoloso stupefacente sintetico: la droga dello stupro. La squadra Mobile di Padova nell'ottobre 2019 ne aveva trovato un litro e mezzo nell'abitazione dell'imprenditore di Fossò (Venezia), Vanni Fornasiero, che di sera si trasformava in un organizzatore di eventi eleganti e trasgressivi in ville d'epoca o ambientazioni glamour. Feste rivolte principalmente al mondo gay, alcune in stile Eyes wide shut con tanto di obbligo di maschera sul viso. Il veneziano è stato arrestato per detenzione ai fini di spaccio. Oltre ai flaconi di Gbl, il 60enne aveva in casa anche diverse dosi di mefedrone, uno psicoattivo eccitante con effetti simili alla cocaina. Si tratta di una metanfetamina sintetica facilmente reperibile sul web. Con lui nei guai finirono anche Gabriele Sbrilli e l'architetto Federico Lucchin, di Noventa, di 46 e 51 anni, Nicolò Burughel, 35enne trevigiano, il vicentino 59enne Maurizio Vandello, il padovano Alessandro Pertile, 45enne, che gestisce un sexy shop all'Arcella, e ul 38enne albanese Sokol Haderaj. Sbrilli e Lucchin si sono rivelati veri e propri soci in affari per l'acquisto e spaccio di droga. L'uno col compito di ricevere i clienti nella loro abitazione di Noventa, l'altro, invece, col compito di reperire, a qualsiasi ora del giorno e della notte, non solo Gbl ma anche cocaina e mefedrone. Grazie al monitoraggio dei telefoni della coppia, ben presto la Mobile ha ricostruito la rete di clientela legata alla loro attività di spaccio di G o prosecco (la droga dello stupro), mefedrone (M), e di medicinali, quali Cialis, Viagra, Kamagra, in assenza di qualsivoglia autorizzazione, così come pure ai loro canali di rifornimento. I medicinali sono stati ritrovati anche nel sexy shop dell'Arcella. Sbrilli, Lucchin, Fornasiero e Brughel hanno patteggiato la pena in momenti diversi. Haderaj, Petrile e Vandello sono stati condannati, invece, con rito abbreviato. Da qui poi il ministero degli Interni ha richiesto alla polizia olandese, dove gli spacciatori si approvvigionavano, di avere i nomi di tutti gli italiani che compravano la droga dello stupro nei Paesi Bassi (ne compravano un litro a 100 euro e lo rivendevano a 1 euro al millilitro, guadagnando 900 euro). Essendo, infatti, un solvente che si usa nelle carrozzerie, bastava, infatti, acquistarla con un una partita Iva, anche fasulla. E qui c'è stata la scoperta: a settembre la polizia olandese ha fornito il malloppo di nomi. Durante le indagini, dunque, è finito nel mirino pure il parroco pratese. Il sacerdote è indagato anche per tentate lesioni gravissime visto che non avrebbe informato i suoi partner della sua sieropositività.

Claudia Rivelli e la droga dello stupro, arrestata la sorella di Ornella Muti. La strana difesa: "Serve per l'argento". Libero Quotidiano il 17 settembre 2021. Claudia Rivelli, attrice, sorella di Ornella Muti è stata arrestata perché stava per spedire a Londra al figlio Giovanni Leone - nipote dell’omonimo ex presidente della Repubblica - un litro di Gbl, la droga dello stupro. La donna, ex protagonista di fotoromanzi - 71 anni, dovrà rispondere di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Mercoledì 15 settembre gli agenti di polizia giudiziaria si sono messi sulle tracce di un pacco "sospetto" e inseguendo il corriere sono arrivati davanti ad un elegante condominio di via della Camilluccia, quartiere ultra chic di Roma. Quindi, riporta il Tempo, hanno fatto un blitz nell'appartamento e si sono trovati davanti l'attrice. Nel pacco c’era un flacone da un litro di un liquido inodore e incolore (che poiè risultato essere droga dello stupro). Sul tavolo della cucina i poliziotti hanno poi trovato un altro flacone da un litro contenente la stessa sostanza, mentre un terzo flacone, identico, si trovava imballato sul divano. La Rivelli - che abita con la sua domestica, essendosi separata dall’avvocato Paolo Leone, figlio dell'ex presidente della Repubblica - ha spiegato che uno di quei flaconi avrebbe dovuto spedirlo al figlio Giovanni, residente a Londra. Quindi è stata arrestata. Al giudice Valentini, durante l’udienza di convalida dell’arresto, ha detto di non sapere che si trattasse di droga: "Io la uso per pulire l’auto di mio figlio e per lucidare l’argenteria. Per me è una specie di acquaragia. Me l’ha fatto scoprire mia madre, che la utilizzava da vari anni: prima di morire aveva chiesto a mio figlio di ordinarla su internet, ma invece di un flacone ne sono arrivati due. Ha pagato lui, io non sono pratica". "Lei ci vuole dire che usava la droga per fare le pulizie di casa?", ha chiesto il giudice. "Certo. Per me era un detergente come altri. Altrimenti una madre, sapendo che era droga, non l’avrebbe spedito al figlio. E il mio non fa uso di stupefacenti".  

Giulio De Santis per il "Corriere della Sera" il 17 settembre 2021. Claudia Rivelli, la sorella di Ornella Muti, è stata arrestata con l'accusa di detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio. Ieri l'attrice, 71 anni, è stata portata al Palazzo di giustizia per la convalida del provvedimento davanti al giudice Valentina Valentini: era finita in manette mercoledì nella sua abitazione in via della Camilluccia dove, nel corso di una perquisizione, la Polaria di Fiumicino aveva rinvenuto tre flaconi con un litro di Gbl, la cosiddetta «droga dello stupro». A difenderla in aula è stato l'ex marito, l'avvocato Paolo Leone, figlio dell'ex presidente della Repubblica Giovanni Leone. L'attrice, vestita con una camicetta gialla in seta e pantaloni beige, si è difesa dicendo di ignorare che il liquido nei flaconi fosse stupefacente. «È un prodotto che utilizzo per pulire gli oggetti d'argento di casa», ha detto alla giudice la Rivelli, comparsa come attrice in un solo film nel 1969 mentre la sua carriera si è sviluppata come protagonista di fotoromanzi. Poi ha sostenuto che un flacone doveva spedirlo al figlio Giovanni, che vive e lavora a Londra. Il magistrato, dopo aver convalidato l'arresto, ha disposto il suo ritorno in libertà senza condizionarlo ad alcuna misura restrittiva della libertà personale in virtù del fatto che non aveva precedenti penali. Il pubblico ministero Mario Pesci aveva invece chiesto la detenzione domiciliare. L'arresto è stato disposto a conclusione di un'inchiesta iniziata tre mesi fa sul traffico di Gbl. Sostanza per la quale era già finito in carcere a Milano lo scorso 25 agosto l'attore Ciro Di Maio. A condurre le indagini, la Polaria dell'aeroporto romano, dove da tempo si seguono le tracce di flaconi della «droga dello stupro» spediti dall'estero all'interno di pacchi studiati ad hoc. Ed è stata una di queste confezioni che ha messo in allarme gli agenti. Il pacco, prelevato da un corriere ignaro del contenuto, è stato portato inizialmente nell'abitazione della madre della Rivelli, Ilse Renate Krause, scultrice di origini estoni morta il 16 ottobre del 2020 all'eta di 91 anni. Da questo appartamento, un secondo corriere, anche lui all'oscuro del contenuto, il giorno dopo l'ha trasportato nella casa dove abita la sorella di Ornella Muti. La polizia, a quel punto, ha ottenuto un mandato di perquisizione per l'abitazione della Rivelli, dove è stato trovato lo stupefacente. Agli agenti lei ha subito detto che uno dei flaconi lo avrebbe spedito in giornata al figlio Giovanni. Specificando che il nipote dell'ex presidente della Repubblica utilizza il liquido per lavare la macchina a Londra. «Io invece lo uso per pulire casa», ha ribadito Claudia Rivelli, molto provata dalla notte trascorsa in cella. Che non si tratti tuttavia di detergenti ma di «droga dello stupro» è stato confermato da una consulenza disposta dalla Procura prima dell'inizio del processo. La giudice ha domandato all'attrice se fosse il figlio Giovanni a fare uso di stupefacenti. «Lo escludo», ha risposto seccamente la Rivelli. Che ha aggiunto un singolare dettaglio in questa storia: «È stata mia madre a scoprire questi detersivi...». È una versione credibile oppure è un estremo tentativo di difendersi? Dopo la convalida dell'arresto, il processo è stato fissato per febbraio. La Rivelli ha scelto di essere giudicata con rito ordinario.

Dagospia il 28 gennaio 2021. Da "La Zanzara" su Radio 24. Naike Rivelli a La Zanzara su Radio 24: “Ho il pelo della figa come una foresta, così vuole il mio fidanzato”. “Quando l’ha visto la prima volta ha detto: grazie a Dio esistono ancora donne così, non la toccare mai. In estate mi permette di rasarmi un po' ai lati”. “Lui è calabrese, si chiama Roberto Marzano”. “Sono stata bisex, e la mia unica donna aveva un pelo foltissimo biondo”. “Le donne? Di testa si rimane sempre bisex, ma le guardiamo insieme. Sesso a tre? Già fatto, adesso basta e poi lui è gelosissimo”. "Il prossimo quadro con la vulva? Userò quella di mamma Ornella..." “Purtroppo molte donne si depilano, ma sta tornando di moda il pelo. Io ho 46 anni. Il mio percorso è stato questo: spesso mi adattavo all’uomo del momento, per renderlo felice. Se la voleva in un certo modo, mi adattavo. Poi sono rimasta single per tre anni, non ho nemmeno scopato, mi masturbavo e basta e il pelo mi è cresciuto enormemente. È diventata una foresta, e si vede dai dipinti che faccio”. Così Naike Rivelli, figlia di Ornella Muti, a La Zanzara su Radio 24. “Quando ho conosciuto il mio attuale fidanzato – dice la Rivelli – volevo depilarmi ma non ho fatto in tempo. Volevo rasarmela, ma non ce l’ho fatta. Ma la prima volta mi ha detto: grazie a Dio che esistono ancora donne così col pelo. Mi ha detto: non te la toccare mai. È calabrese e si chiama Roberto Marzano (un costruttore, ndr). Ci sto da tre anni, e non me la sono mai toccata. In esatte mi permette di farmi un po' ai lati. A lui piace così…”. Riesce a fare bene il cunnilingus?: “Guardate, le sue prestazioni a me non dispiacciono per niente. Forse gli faccio da filo interdentale… E poi se avete presente la figa, le labbra si allargano, si spianano. Io le fighe le conosco, sono stata bisex, le ho avute. Vi faccio una lezione. La mia unica donna aveva, si chiama Alessandra De Filippis, ha una fica pelosissima, bionda e io riuscivo tranquillamente a leccarla…”. “Così – prosegue – con questa foresta che mi ritrovo, ho realizzato dei quadri, aiutata da mia madre ho messo della pittura sui peli e ho preso l’impronta su un pezzo di carta bianca. Per ora l’ho fatta nera e azzurra, e la regalo a Giovanni Ciacci. E la mia prossima opera di Vulva Art è con il pelo della mamma”. Ti piacciono gli uomini rasati, depilati?: “Mamma mia, vade retro Satana. L’uomo con la ricrescita no, vi prego”. Ma sei ancora bisex?: “Di testa sì, le donne le guardiamo insieme. Il sesso a tre l’ho fatto in passato, adesso c’è solo lui, siamo adulti e lui è molto geloso”.

Dagospia l'11 marzo 2021. Estratto del libro "Superveleno" di Costanzo Costantini (Newton Compton Editori). In una intervista al settimanale francese Lui, Ornella Muti ha ripercorso quella che si potrebbe definire la sua "educazione sentimentale". "A 13 anni mi innamorai di un garagista ma purtroppo non fu il mio primo amante. A 14-15 anni conobbi Alessio Orano, con il quale trascorsi 5 anni di totale libertà. Nello stesso periodo conobbi molti altri uomini. Ho fatto tante sciocchezze in quel periodo! A 18 anni restai incinta ma non di Alessio Orano". Ha aggiunto: "Undici o dodici anni fa conobbi Federico Facchinetti. Era tutto il contrario di Alessio Orano. Prima di lui, io avevo avuto tutti gli uomini che avevo voluto. Ma con Federico vivo in una totale armonia sessuale. E' il mio uomo ideale. Nessuno ignora che il sesso non ha bisogno d'amore per funzionare. Ma io e Federico abbiamo raggiunto una dimensione supplementare, una dimensione dell'aldilà: il coito spirituale". Nemmeno San Benedetto e Santa Scolastica, San Francesco e Santa Chiara, Santa Teresa d'Avila e San Giovanni della Croce, San Francesco di Sales e Madame de Chantall avevano mai raggiunto il coito spirituale. Forse soltanto Carmen Llera e Alberto Moravia lo avevano raggiunto prima di di Ornella e Federico.

Stefania Ulivi per il "Corriere della Sera" l'11 marzo 2021. «Era ora». Nella vita, incredibile ma vero, lo è diventata a 41 anni, con la nascita del primo nipote, figlio di Naike. Il prossimo Natale la vedremo nonna al cinema. A 66 anni. Ornella Muti è nel cast di The Christmas Show di Alberto Ferrari per Viva Productions. «Abbiamo appena finito le riprese in Puglia. È una commedia natalizia pulita, divertente, un po' fantasy ma anche collegata alla realtà. In più con un tocco di speranza. Quella che non abbiamo quasi più».

Una storia corale, intorno alla coppia Raoul Bova e Serena Autieri e figli.

«Sono la mamma di Serena e suocera di Raoul. Una tipa allegra un po' sopra le righe, anche come nonna. Molto felice di partecipare a questo gioco».

Entusiasta di fare la nonna.

«Prevale la pigrizia, si fa fatica a considerare gli attori al di là dello stereotipo».

Il suo è granitico. Dici Ornella Muti e l'associazione è immediata.

«Invece sono Francesca Rivelli e non vedo l'ora, visto il mio mestiere, di incontrare cose nuove, che mi sorprendano e spaventino anche: mi butto, a costo di rompermi in mille pezzi».

Ha iniziato che non aveva ancora 15 anni, 50 di carriera.

«Ho vissuto una stagione straordinaria, c'erano registi particolari, abbiamo avuto dei grandissimi. Enorme talento e consapevolezza. Non c'era nulla di stonato».

Se ripensa a quella ragazzina che sentimenti prova?

«Tenerezza, certo. All'inizio per me è stato complicato, di mio sono infantile, ingenua, vengo da una famiglia di classica educazione italiana, non ero armata per fare questo mestiere. Le donne non sono quasi mai preparate, pensi di entrare nel mondo del lavoro e poter essere te stessa, affronti un cammino pensando di poterlo fare alla pari degli uomini, ma non ci viene data quest' opportunità. Comunque sei donna, non ti considerano alla pari. Neanche se ti chiami Christine Lagarde».

In cosa sente la differenza?

«La disparità degli stipendi, per esempio. Ma lo percepisco ogni giorno, non mi sento presa sul serio. E trovo ci sia ancora molta ipocrisia nel nostro paese. L'ho notato dalle reazioni di fronte alle azioni di "Vulva art" di Naike, a sostegno delle donne abusate. Ho fatto anche io dei video con lei, una cosa piuttosto forte: c'è ancora molta strada da fare. Sono stanca di questa finzione, del perbenismo. Peggiorato dai social, che in più spazzano via tutto».

Quasi cento titoli all'attivo, ama rivedersi?

«No. La vita dell'attore è molto complessa, siamo un po' tutti degli insicuri. Non amo bearmi di me, mi fa orrore. Se rivedo una cosa penso: avrei potuto fare meglio. Oppure: non mi capiterà più una cosa così bella».

Personaggio preferito?

«Ne ho fatti di bellissimi. Forse Vincenzina di Romanzo popolare . Mario Monicelli era davvero avanti. Grande modernità e libertà di pensiero. E quelli con Marco Ferreri. Un autore così di rottura. Purtroppo la memoria è corta, mi sembra sia stato dimenticato. Sono stata a un festival organizzato a Los Angeles da John Landis su Fellini: voglio che i giovani lo conoscano, mi ha detto. Ecco vorrei che anche da noi ci fosse questa sensibilità. Per dire, anche Tognazzi, attore pazzesco, non mi pare sia ricordato come merita».

L'abbiamo vista in tv in «Sirene» di Cotroneo. La serialità non la tenta?

«Molto. Ma non me la propongono. Adoro le serie spagnole, attori di tutti generi nei ruoli più diversi, c'è posto per tutti. Ora sono felice che rifacciano Boris».

Una carriera costellata di occasioni. Alcune perse. Rimpianti?

«Nessuno. Sono fatalista. Sono stata molto in America, non ci sono rimasta. Non ho lottato. Sono rimasta incinta, ho preferito seguire la mia vita, non la carriera. Non era il posto per me, lì ho visto l'altra faccia della medaglia, la smania di esistere, la solitudine. Io cercavo altro».

Ovvero?

«Sapere che quando torni dal set se porgi la mano trovi qualcuno che la prende con amore. Se non hai la tua casetta dove rifugiarti, è dura. La mia è in Piemonte, sul cocuzzolo di una collina».

Come ha vissuto quest' anno?

«Per noi la pandemia è cominciata prima del Covid-19 con la morte del compagno di mia figlia Carolina. Poi nei mesi scorsi mia madre. È stato veramente pesante. Il lavoro, certo, aiuta. Ora ho in programma una cosa molto bella in teatro. Incrociamo le dita».

·        Nancy Brilli.

Giuseppe Candela per "ilfattoquotidiano.it" il 10 settembre 2021. “Il pubblico è meraviglioso. Poi capita che per fare trecento metri a piedi, non essendoci l’auto chissà perché, ci metti una vita perché ogni millimetro devi fare un selfie, e saluta zia, e un bacetto al pupo in carrozzina…va da sé che la questione si fa più lunga del previsto, e capitano fatti stravaganti. Vabbè, stasera decido che mi godo Venezia, che dà veramente spettacolo. Faccio bene a non prendermela?“, con questo post sui social Nancy Brilli accenna a una spiacevole disavventura capitata a Venezia, era arrivata alla Mostra da Roma per assistere alla proiezione del nuovo film di Mario Martone. Nonostante l’invito, l’attrice è stata rimbalzata e trattata come un’imbucata: “Sono arrivata e mi hanno detto che non posso entrare”, ha detto su Instagram dove ha fatto una diretta dopo essere ritornata in hotel: “Non è arrivata la macchina a prendermi. Mi hanno portata all’Excelsior, vicino al palazzo del cinema, e dicevo ‘ma che sono venuta a fare qua?‘. Mi hanno detto di aspettare, poi siamo andati a piedi. Questi 300 metri sono infiniti se sei gentile e fai i selfie, se ti fermi a parlare con le persone, abbracci i bambini. A me dispiace dirgli di no, non dovrei essere io a farmi strada in mezzo alle persone. Ci dovrebbero essere dei bodyguards che ti accompagnano per farti arrivare in tempo. Peraltro sono arrivata in tempo alla proiezione, ma ero a piedi”, si è sfogata nel corso della diretta social. Un trattamento per lei non certo da star: “Vi ricordate quando vi ho parlato del potere di quelli che hanno la chiave del cesso? Hanno la chiave e non te la danno, hanno il potere. Ecco, quel potere fa sì che io stia qui adesso invece che a vedere il film. Una signorina mi ha detto "sta arrivando la signora del cerimoniale, nel frattempo se vuole può andare a fare il biglietto". Le faccio notare che io il biglietto ce l’ho e mi risponde "va bene, però deve entrare da dietro". Eh no, scusate ma da dietro ci entra tua sorella”. Brilli ha deciso di dunque di andare via: “Mi sono vestita, truccata, ho fatto i capelli, ho i gioielli degli sponsor e devo entrare da dietro perché quella ha detto che sono arrivata a piedi e non in macchina? ‘Entra da dietro’ no. Sono signora ma fino a un certo punto. Domani scriverò una bella letterina di due righe per fare i complimenti per l’organizzazione che ho trovato eccezionale”. L’episodio ha trovato anche il sostengo della collega Sabrina Ferilli che sotto al suo post ha così commentato: “Fai bene a non prendertela. Ma è una cosa pietosa ciò che è successo.  

·        Nanni Moretti.

Dagospia il 13 dicembre 2021. MORETTI A EL PAIS.

SU Roma: “è oggi una città sempre più estenuante. Il trasporto, per esempio, è un problema molto serio. Nella Capitale il tempo dei cittadini non vale niente e questa faccenda lo danneggia ancora di più. Puoi passare tre quarti d'ora in attesa di un autobus o ore nel traffico sul Lungotevere. È una città faticosa. Ma non vivrei in un altro posto. Governare Roma è una delle professioni più difficili al mondo. La passione o l'onestà non bastano. Bisogna avere lucidità, competenza, bravi collaboratori e tempo per cambiarla.

SU Mario Draghi: “Potrebbe essere un personaggio molto morettiano se ci pensi. Quella sofisticata ironia, la sua discrezione, l'intelligenza gesuita...? Ora se ti rispondo, intitolerai: "Farò un film su Draghi" oppure "Non farò un film su Draghi...". 10 mesi fa c'è stato un momento in cui la politica ha fallito e sono andati a cercarlo. Ma vedremo cosa accadrà.

SU BATTIATO:  L'ho visto in uno dei suoi ultimi concerti a Roma. Ma il ricordo di lui mi trasporta in una notte in Sicilia, nella piscina di Acireale. Abbiamo lavorato dalle sei del pomeriggio alle cinque del mattino. Stavo girando Palombella rossa , un film che si svolge in una piscina in un gioco che inizia di giorno e finisce di notte. Suonava E ti vengo a cercare, e 300 comparse nella tribuna che la cantavano in coro. Tutta la notte. Finché gli affamati si misero a gridare: "Moretti, Moretti, vogliamo li cornetti" .Non abbiamo avuto un grande rapporto personale. Anche se lo amavo come musicista, e anche come persona.

SU PAPA FRANCESCO: Non sono credente. Piuttosto ateo. Anche se non sono d'accordo con la famosa frase di Buñuel: "Per grazia di Dio". È il contrario, sono arrabbiato per esserlo. Ma questo Papa mi sembra l'ideale per questo momento storico. È la persona giusta al posto giusto al momento giusto. E mi sembra incredibile che in Vaticano ci siano pezzi di clero che gli dichiarino guerra. Non capisco come un prete, un vescovo o un cardinale possano non essere d'accordo con Francesco.

Da fanpage.it il 13 dicembre 2021. Nanni Moretti è uno dei registi più amati del cinema italiano, è riconosciuto come colui che racconta la realtà utilizzando una vena ironica e sarcastica, in grado di far riflettere il suo pubblico. Dopo lo stop a causa dell'emergenza Covid-19, è stato protagonista di una standing ovation al Festival di Cannes al termine del suo film Tre Piani, la prima pellicola ‘non sua' e che prende spunto dall'omonimo romanzo dello scrittore Eshkol Nevo. In un'intervista per il portale spagnolo El Pais concessa in vista dell'uscita del film in Spagna, il regista e attore romano ha parlato dell'amore che prova per il suo lavoro e della disistima che nutre verso Silvio Berlusconi. 

Il ‘no' alle serie tv di Nanni Moretti

Nanni Moretti non ama le serie televisive. Il famoso regista romano in un'intervista a El Pais ha raccontato di seguirne poche, non quelle che parlano di fantascienza o horror. Nei suoi progetti futuri però non ha intenzione di scriverne una perché, a detta sua, le piattaforme streaming sono troppo invasive: Vanno troppo veloci per i miei ritmi. Non c'è tempo per pensare durante l'elaborazione. E poi ci sono piattaforme molto invasive, arroganti. Si intromettono in ogni aspetto. Più che piattaforme, sono visioni del mondo. E questo non mi piace. 

Il disprezzo per Silvio Berlusconi

Nanni Moretti in passato è stato uno dei promotori del movimento dei girotondi, il movimento cittadino che si radunava nelle piazze per protestare contro la politica del governo in carica all'epoca presieduto da Silvio Berlusconi. Nel corso dell'intervista ha parlato della sua ex occupazione politica, andando contro il ‘Cavaliere‘: "Ho fatto politica perché un uomo con un impero mediatico era Presidente del Consiglio dei ministri. E questo, a me che sono molto sportivo, mi sembrava una grande anomalia in una democrazia". Sulla possibilità di vederlo come Presidente della Repubblica, ha risposto: Più che strano, è incomprensibile. Ma prima dicevo che gli italiani non sono bravi a prendersi la responsabilità delle parole e delle azioni. Abbiamo la memoria molto corta.

Francesco Olivo per “La Stampa” il 24 luglio 2021. La Bolognina torna a Bologna dopo trent' anni che sembrano un secolo, «anzi, un millennio». Nanni Moretti, invecchiato a Cannes ringiovanisce a Bologna, dove ricorda i bei tempi delle sezioni che «si spaccavano per il nome del partito», con intorno «un ceto politico ben diverso da quello di oggi». Il compagno genovese sa che si litigherà, ma crede ne valga la pena: «La gente deve discutere». Il militante romano infatti attacca: «Me sembra de senti' li preti». Il segretario vede crollare alcuni miti, ma non fa drammi: «Eh vabbè, ci stiamo dividendo». Il dibattito, insomma, stavolta sì. Di dibattiti se ne fanno ancora, ma è un'eccezione, mentre allora, quando tutto crollava, se ne fecero molti. Nanni Moretti che aveva capito l'enormità di quel passaggio, arriva in piazza Maggiore invitato dal festival «Il Cinema Ritrovato», reduce dalla delusione di Cannes e rinfrancato da una platea colta e appassionata, ricorda quei giorni più lontani nella mente che nel tempo. Le differenze tra allora e oggi sono talmente chiare che Moretti evita di sottolinearle pubblicamente, «sembra passato un millennio», dice con nostalgia condivisa da un pubblico che lo applaude a lungo. Davanti a San Petronio si proietta La Cosa, restaurato dalla Cineteca di Bologna, forse il film più politico (e più giornalistico e sociologico) di Moretti. Protagonista è la crisi della sinistra, non una delle tante vissute prima e dopo l'89, ma quella decisiva, che ha toccato l'identità nel profondo, fino al punto di cambiare il nome al grande Partito comunista italiano, per farlo diventare un'altra cosa, «una cosa più grande e più bella», come dice con vaghezza militante un dirigente locale all'inizio del film. Per farlo Moretti si infilò nelle sezioni, lontano dalle dichiarazioni dei dirigenti, tra la carne viva dei militanti, la famosa base insomma si spaccò sulla decisione di Occhetto, ma dicendoselo in faccia. «Fu un'autocoscienza pubblica alla quale parteciparono gli iscritti - dice Moretti prima della proiezione - ma alla quale tutta l'Italia guardò con interesse e rispetto, ed è questa la grande differenza con i nostri giorni». Quelle discussioni accese, passionali e sinceramente drammatiche risuonano in piazza Maggiore a Bologna, un luogo che ne ha viste tante, che stasera fa i conti di quel dibattito di allora, altamente irrisolto: «Chi siamo?». «L'idea mi venne partecipando a un'assemblea al Testaccio e mi colpì che nessuno fosse disturbato dalla presenza della nostra troupe, era troppo importante quello che stavano facendo», ricorda Moretti. Il crollo del Muro di Berlino costrinse il Pci a fare quello che i partiti di oggi non hanno il tempo nemmeno di immaginare: fermarsi a pensare, «cosa siamo e cosa vogliamo essere?». «Un'altra cosa che mi colpì era il legame con l'Unione Sovietica che restava, anche nei più giovani, magari irrazionale, ma presente». Morale della Cosa, a trent' anni di distanza: «Il ceto politico era di un altro livello rispetto a oggi», dice Moretti sussurrando. Tra il pubblico in piazza c'è anche Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna che con Moretti ha restaurato il film: «Tra i suoi film questo è quello più bolognese, i documentari spesso finiscono in fondo alla filmografia dei registi, ma La Cosa ha un grande valore. Sentire questi militanti parlare lascia sbigottiti perché pur in un'epoca dove tutti dicono la loro, non siamo abituati sentire persone come noi che si dividono e dibattono pubblicamente su questioni molto importanti». Da un punto di vista tecnico Farinelli sottolinea «la meticolosità di Moretti, che a differenza di altri registi, ricorda ogni singola inquadratura e sa esattamente dove intervenire, perché il restauro sia conservativo e lasci intatti i segni del tempo». La giornata bolognese, con il patrocinio della Fondazione Gramsci dell'Emilia Romagna è ad alto tasso politico, è iniziata con la proiezione di Uomini e voci, cortometraggio girato a Livorno nel 1921, nei giorni della nascita del Partito comunista. Come finirà lo mostra Moretti qualche ora più tardi: «C'era verità e autenticità». Molti applausi e nostalgia.

Marco Giusti per Dagospia il 24 luglio 2021. E’ vero. La foto di Nanni Moretti che lui stesso ha messo su Instagram con i capelli finalmente non pittati è un capolavoro. Fondamentale la scritta di suo pugno: “Invecchiare di colpo. Succede. Soprattutto se un tuo film partecipa a un festival e non vince. E invece vince un altro film, in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac. Invecchi di colpo. Sicuro.” Insomma, poraccio, sta a rosica’, come dicono a Roma, eh? Sicuro. Non osa però dire che la regista del film che ha vinto Cannes ha trent’anni meno di lui e, probabilmente, non ha mai visto un suo film. Con questa faccia da paura lo trovate dicono ogni sera in una antica pizzeria di Monteverde. In un angolo buio. 

Fulvia Caprara per "la Stampa" il 24 luglio 2021. Quelli che, all'indomani del Palmares, si chiedevano come l'avrebbe presa Nanni Moretti hanno ottenuto, per una volta, massima soddisfazione. Con un primo piano stralunato e una dichiarazione polemico-ironica il regista svela i suoi sentimenti: «Invecchiare di colpo. Succede. Soprattutto se un tuo film partecipa a un festival. E non vince. E invece vince un altro film, in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac. Invecchi di colpo. Sicuro». L'ammissione contiene un parere netto, per altro condiviso da una parte considerevole di giornalisti e critici che hanno seguito il Festival. Su Titane, firmato dalla francese Julia Ducornau, coraggiosamente interpretato da Agathe Rousselle e Vincent Lindon, molti hanno avuto da ridire e, in effetti, le perplessità sull'avventura di Alexia, infelice donna al titanio, non mancano. Certo, le storie di Tre piani, centrate su un gruppo di famiglie borghesi in preda a dinamiche psicologiche e tensioni familiari, sono quanto di più lontano si possa immaginare dal mondo del presidente di giuria Spike Lee. E certo Titane, con la sua carica provocatoria, con le sue iperbole, è fatto apposta per richiamare far discutere, e, come si diceva un tempo, «epater le bourgeois». L'unica a vedere somiglianze è stata Ducornau: «Il mio è un film sulla paternità - ha dichiarato -, ha dei punti in comune con quello di Moretti, che ho adorato, perché, in un modo diverso, parla di paternità mancata». Al Festival Moretti, in questi giorni impegnato, da attore, sul set del «Colibrì», ha vissuto comunque l'emozione degli 11 minuti di applausi con standing ovation, a riprova di quel rapporto speciale che lo lega al pubblico francese. Sulle critiche divise aveva spiegato di non essersi soffermato più di tanto: «Quarant' anni fa aspettavo le quattro del mattino per andare a comprare le prime edizioni dei giornali e leggevo tutte le recensioni, oggi ho un rapporto più tranquillo con le critiche». Magari qualcuno penserà che a invecchiare non è tanto Nanni Moretti quanto proprio il presidente di giuria Spike Lee, caduto nella solita, vecchia trappola del «famolo strano». 

Estratto dei diari di Caro Diario di Nanni Moretti, scritti nel 1993, pubblicato da “il Messaggero” il 25 giugno 2021.

21 febbraio, domenica

Domani comincio a girare il capitolo dei medici. Sono molto indietro. Fra tre settimane andiamo alle isole Eolie e per quel capitolo non ho pronto niente: non ci sono gli attori, non ci sono gli ambienti, non c' è sceneggiatura. Cominciamo a girare qui a casa, perché, essendo questo un film diario, per onestà voglio girare casa mia veramente a casa mia. Solo cinque giorni fa ho finito di scrivere il trattamento, la sceneggiatura invece non esisterà mai. Come per Palombella rossa, che durante le riprese è stata un massacro, anche questa volta comincio il film senza essere pronto. 

22 febbraio, lunedì

Come sempre giro poche inquadrature ma molti ciak, troppi ciak e alla fine tutti uguali. Pensavo di essere cambiato: non mi sembra. Devo girare le scene qui a casa in modo molto più semplice, più secco. Dato che il soggiorno, con tutta la vetrata, è molto fotogenico, sto rischiando di fare cose troppo preziose. Nel capitolo dei medici, in cui racconto il mio tumore, non c' è bisogno di nient' altro che raccontare in maniera semplice e diretta quello che mi è successo, senza distrazioni, con inquadrature essenziali, a volte anche molto strette. 

24 febbraio mercoledì

Grattandomi i piedi, ieri, durante una scena, mi sono fatto una piccola ferita. Oggi, grattandomi un braccio durante un'altra scena, mi sono fatto ancora più male. Preferisco così: meglio le ferite vere di quelle del truccatore. Le ferite vere si possono vedere nel momento in cui te le fai. Prima non ci sono, poi ti gratti ed ecco che appaiono le ferite. Col trucco ci sono già e non si vede il processo che ti porta alle screpolature e agli arrossamenti. Discorso da pazzo, quindi mi fermo qui, chiudo il quaderno, spengo la luce e cerco di dormire.

26 febbraio, venerdì

Stasera la prima proiezione alla Technicolor delle scene girate nei giorni scorsi. Insomma. C' erano delle cose che non mi piacevano. Prima mi sono incazzato perché, in un'inquadratura del profilo sinistro, avevo un ciuffo che sembravo Little Tony. L'ho detto mentre guardavamo il materiale: «Siete venticinque dietro la macchina da presa, e aiutatemi no!». Poi in un ciak c'era un brutto riflesso di una lampada su un vetro e ho protestato con l'operatore, poi in una scena il suono non andava bene e l'ho detto al fonico, poi c' erano delle inquadrature con un pelo nella parte alta del fotogramma e mi sono incazzato con l'assistente operatore, poi mi sono imposto di stare zitto perché non mi andava di protestare sempre, e comunque il materiale è un po' migliorato.

28 febbraio, domenica

Sono le due di notte e sto cercando di lavorare alle scene di domani, in uno studio medico. Non sono pronto per girare. Due ore fa ho pensato di non presentarmi sul set domani. Non l'ho mai fatto. È che non so cosa far dire agli attori, mi vergogno di fare la figura che farò senz' altro domani.

Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 25 giugno 2021. Da anni gira l'Italia leggendo i suoi diari di cui è, per sua stessa ammissione, «gelosissimo». Pensieri, note e appunti con cui Nanni Moretti ha raccontato prima di tutto per se stesso - quarant' anni di vita e di lavoro, di sfuriate e commozione, di riflessioni e avvenimenti. Quando si ritrovò a girare Caro diario come un cortometraggio sui suoi giri in Vespa, «senza rendermi conto che lì c'era il nucleo del mio prossimo film». Quando gli venne voglia di abbandonare il set, anzi proprio di non presentarsi. E quando, nel Teatro 5 di Cinecittà, sentì «cedere le gambe» per l'ultimo saluto a Fellini. Fra due settimane in concorso a Cannes con Tre piani, e in questi giorni impegnato nei provini del nuovo film (da girare nel 2022) e come attore per Francesca Archibugi (Il colibrì), domani e dopodomani Nanni Moretti rinnova al Nuovo Sacher di Roma un appuntamento cult: le letture dei suoi appunti scritti durante la lavorazione di Caro diario, a precedere la proiezione della versione restaurata del film del 1993.

Che effetto le fa rileggersi nei diari?

«Mi ci riconosco abbastanza. La ferocia di allora nei miei confronti è la ferocia di adesso. In quello non mi sembra di essere cambiato molto. Certo, c' è una sproporzione perché dai veri diari, dai miei quaderni, ho eliminato per questa lettura pubblica tutti gli insulti ai collaboratori. E ho lasciato invece tutti gli insulti a me stesso Non vale!» 

Il Moretti di Caro diario è lo stesso di Tre piani?

«Fino a poco tempo fa consideravo i miei film come tanti capitoli di un unico romanzo. Ora, dopo Habemus papam e Tre piani, non so se questa formula sia ancora valida, anche se questi due film, pur non parlando di me, sono in qualche modo sempre autobiografici. Senz' altro ho la stessa voglia di fare cinema di trenta, quarant' anni fa. E la stessa attenzione ai dettagli. Ecco. Quella non è un dono, ma una cosa che devi decidere di avere». 

Per Tre piani ha scritto diari?

«Sì, caspita. Certo. Avvenimenti, cose che succedono, dialoghi ascoltati, pochi pensieri e riflessioni. I miei diari coprono quarant' anni della mia vita. Da tanto tempo Carlo Feltrinelli mi chiede di pubblicarli». 

E lei?

«Ora non mi va. Non so bene perché, ma per ora non mi va». 

I social di oggi sono i diari di ieri. Lei come se la cava con Instagram?

«Mi fa piacere mostrare alcuni aspetti del mio lavoro. Qualcosa mi interessa condividerla, altre no». 

Il video in cui canta Soldi è diventato virale. Come è successo?

«È stata una gestazione molto lunga. Volevo girarlo durante le riprese di Tre piani, ma mi vergognavo di chiederlo agli attori. Quando si è avvicinato l'annuncio che il film sarebbe andato a Cannes, allora mi è tornata in mente quell' idea».

Reazioni?

«Mi hanno detto che Mahmood lo ha ripostato. Cosa vorrà dire?». 

Che effetto le fa tornare a Cannes?

«Questa volta c' è ancora più emozione. Tutti gli altri sette film, incluso Ecce bombo, sono usciti prima in Italia. Questa è la prima volta che un mio film ha l'anteprima mondiale a Cannes. Ho visto il film insieme al mio montatore e al mio direttore della fotografia. Non l'ho ancora visto insieme al pubblico, nemmeno un pubblico di amici». 

Vedrà gli altri film in concorso?

«Per me Cannes consiste nel restare chiuso in una stanza d' albergo per 48 ore a fare interviste.

Ma è giusto così, non mi lamento. Louis Garrel mi ha invitato a vedere il suo film, che passa il giorno dopo il mio. Forse ci andrò». 

Troppo pochi gli italiani a Cannes?

«Non direi: tre titoli nella Quinzaine (la sezione parallela del festival, ndr) sono tanti. Mi dispiace che non ci sia Leonardo Di Costanzo. Non ho visto il suo nuovo film, ma lui è un regista che stimo e una persona intelligente». 

Tre piani uscirà a settembre. La crisi dei cinema non la spaventa?

«La crisi si sente più a Roma che altrove. A Milano, e naturalmente anche a Parigi, i cinema hanno riaperto tutti. Siamo ancora in una fase di transizione: qualcuno ha ancora paura di entrare in un luogo chiuso, molte sale non sono tornate in attività, c' è voglia di stare all' aperto e sono usciti pochi film importanti, tra cui The Father. Per me le conseguenze della pandemia sulle sale si capiranno solo a settembre». 

Il Nuovo Sacher, 30 anni il prossimo 1 novembre: il ricordo più bello?

«Heimat 2 di Edgar Reitz, il punto più alto della mia carriera di esercente cinematografico: un capolavoro composto da tredici film. Programmavamo un episodio a settimana, facevamo i recuperi per i ritardatari la domenica mattina. Praticamente un antenato delle serie tv. Ma con lo stile, e il respiro, del grande cinema».

È ottimista sul futuro del cinema?

«Io continuo a credere nella sala perché, ancora prima che come regista, produttore ed esercente, io ci credo come spettatore. Io vado spesso al cinema. Ed è una cosa di cui non posso fare a meno».

·        Naomi Campbell.

Chiara Bruschi per “Il Messaggero” il 27 novembre 2021. Guai per Naomi Campbell: Fashion for Relief, l'ente di beneficenza da lei fondato nel 2005, è finito sotto indagine della Charity Commission. L'ente governativo britannico che si occupa di vigilare sulle charity di Inghilterra e Galles esaminerà se c'è stata cattiva condotta nella gestione finanziaria dell'associazione da parte dei cosiddetti trustee ovvero i fiduciari, che sono proprio la Campbell e la collega Bianka Hellmich, che ricopre questo ruolo fin dall’inizio. L'indagine, inoltre, servirà ad accertare che le persone preposte alla gestione dell'organizzazione «abbiano esercitato i loro doveri legali e le loro responsabilità come previsto dalla normativa vigente».

I BILANCI

La Fashion for relief è finita nel mirino anche per un ritardo di quasi sei mesi nella consegna dei bilanci dell'ultimo anno. Naomi Campbell ha creato questo ente benefico nel 2005 con l'obiettivo di raccogliere fondi da destinare a progetti per i bambini contro la «povertà e le malattie, per sostenere l'istruzione e migliorare le condizioni di vita nelle aree più disagiate», come scritto nella presentazione sul sito istituzionale della Charity Commission. Fashion for relief ha debuttato nel mondo della beneficenza con una sfilata organizzata in aiuto delle vittime dell'uragano Katrina, che aveva colpito duramente New Orleans. In questi anni, scrive il Daily Mail, l'associazione ha precisato di aver raccolto oltre 11 milioni di sterline attraverso eventi che hanno visto la partecipazione di celebrità di primo piano. Nel 2019 Fashion for Relief aveva collaborato con il sindaco di Londra e il suo Fund for London per raccogliere denaro da destinare alla formazione di giovani ragazzi cresciuti in condizioni difficili. Negli ultimi anni però i numeri non sono stati molto generosi. L'ultimo report consegnato risale ai conti relativi al 2019, periodo in cui sono state registrate entrate per 1,72 milioni di sterline. Una cifra molto alta che però è stata spesa interamente, come rivela il Times, per organizzare le raccolte fondi (1,6 milioni), tra pubbliche relazioni e altre uscite. Solo 5515 sterline, in quell'anno, sono state destinate a progetti benefici selezionati. Sempre nel 2019, inoltre, la Hellmich ha ricevuto ben 77mila sterline per delle consulenze e oltre 15mila sterline di rimborsi spese. Nell'anno precedente, scrive il Guardian, dalle casse della charity erano uscite 107mila sterline per dei pagamenti e 23mila sterline di rimborsi spese e in entrambi i casi a beneficiarne erano state le persone fiduciarie. Alcuni mesi fa la charity era finita nel mirino del Daily Mail che aveva denunciato un avvenimento risalente al 2018: secondo il tabloid l'associazione della Campbell aveva speso 1,6 milioni di sterline per organizzare un gala a Cannes nel maggio di quell'anno a supporto di Time's Up, organizzazione creata in seguito al movimento MeToo per aiutare le donne sul luogo di lavoro. Alla serata avevano partecipato star del calibro di Paris Hilton e Carla Bruni mentre in passerella, oltre alla Campbell, avevano sfilato anche Erin O'Connor e Natalia Vodianova. Nonostante l'evento fosse stato un grande successo, scriveva il Daily Mail, in quel periodo l'associazione aveva devoluto solo 5mila sterline in beneficenza. Giri di denaro sospetti che hanno gettato un'ombra sull'associazione e sugli scopi filantropici per i quali era stata originariamente creata. Per questo la Charity Commission vuole vederci chiaro già da tempo. Nel comunicato con cui ha annunciato l'inizio delle indagini, ha reso noto di aver cominciato a dialogare in privato con Fashion for relief oltre un anno fa a causa di diversi sospetti inerenti la gestione delle finanze, i potenziali conflitti di interesse e i ritardi nella consegna dei bilanci. In seguito a questi mesi di conversazioni, ha lanciato un'indagine più approfondita e ha momentaneamente impedito alle trustee di effettuare trasferimenti di denaro.

Naomi: "Io mamma a 51 anni". Ma è giallo sulla gravidanza. Valeria Braghieri il 19 Maggio 2021 su Il Giornale. L'annuncio della top model lascia adito a dubbi: "Una bimba mi ha scelto, da oggi saremo legate per sempre". La cosa paradossale è che ciò che manca in questa storia, è il corpo. Paradossale per lei che per tutta la sua vita, cinquantun'anni di vita, è stata soprattutto un corpo: il corpo. Paradossale perché non c'è nulla di più «carnale» che mettere al mondo un figlio. Invece qui non c'è niente. Non si respira nulla: fatica, sudore, grida, lacrime che rotolano, ormoni, pienezza, tagli e distacchi. Niente. Non c'è «struggenza». Naomi Campbell è diventata mamma. Dall'oggi al domani. Senza pancia, senza fidanzato, senza annunci, senza foto, senza un inizio di famiglia. Che poi non si sa mai se funzionerà, ma di solito è da lì che si comincia. Solo ieri, con un post sul suo profilo Instagram, la top model dava il benvenuto alla piccola: i minuscoli piedi appoggiati sulle sue mani, il bordo di un abitino per nulla da nursery, un piccolo scorcio sul look della neomamma, niente affatto da clinica. Solo un braccialetto di carta al polso del cigno nero, tanto per tenere vivo il giallo. Non si intende esattamente questo con «mistero della nascita». Ma questa nascita è tutta un mistero. A partire dalla scelta delle parole: «Una piccola splendida benedizione mi ha scelto come madre, sono così privilegiata per avere questa anima gentile nella mia vita. Non ci sono parole per descrivere il legame eterno con te, mio angelo. Non c'è amore più grande». «Mi ha scelto come madre» «avere nella mia vita» Che sa di nuovo, di «da oggi», «da adesso». E non è esattamente la tempistica che si usa quando qualcuno ti cresce dentro per nove mesi. Ovviamente il problema non è da dove, o come, sia arrivata questa bambina. Ognuno fa ciò che può e ritiene, visto che la genetica non è che un tiro ai dadi e tutto il resto che dovrebbe esserci, oltre alla genetica, lo è ancora di più. E poi la si conosce Naomi, irrequieta, infelice, rabbiosa, spesso una persona malata imprigionata in un corpo sano. Però c'è qualcosa di così disinfettato, freddo e fermo in questo annuncio, qualcosa che odora così di scienza e profuma così poco di mamma, che ci ha lasciati male. Nemmeno le parole di Valerie Campbell, la mamma di Naomi, la nonna della piccola, sono state in grado di riscaldare nulla, di riposizionare questo studiato miracolo. Si congratula con la figlia, felice che anche lei abbia provato la gioia della maternità. Non c'è nulla che arrivi da un cuore gonfio. Niente che si mischi al sangue e si muova con lui. Scienza e glamour. Ogni cosa a posto, come non lo è mai quando ci strappa le viscere, quando da uno si diventa improvvisamente due. C'è Naomi e non c'è il suo corpo. C'è una bimba tutta nuova e c'è «solo» il suo corpo. Manca l'amalgama e manca la carne, nell'accezione più alta del termine. Manca il mischiarsi e l'essersi create a vicenda, perché è questo che fa un figlio, tu lo fai nascere e lui mette al mondo te. Naomi sembra stata piena solo del suo segreto. Perché del vivere con qualcuno che ti abita non fa cenno e probabilmente non sa. Ma in effetti, i figli iniziano ad essere figli in un altro modo anche dopo. Quando diventano altro da noi. È un altro inizio ancora. E forse Naomi comincerà da lì, dal secondo inizio. Ce ne sono tanti, con i figli. Anche se è sempre dalla memoria della carne che si parte. Da quel cordone che tagliano e non recidono mai davvero. È quello che per tutta la vita ti avviserà di stare in ansia quando è il caso di starci, che ti farà capire se ha la febbre anche senza toccarlo, che ti farà sapere che ha freddo prima che lui capisca di aver freddo, che te lo farà dormire addosso senza essere schiacciata da alcun peso. Naomi ci arriverà lo stesso. Se lascerà che il suo corpo, in questa vicenda, la raggiunga.

Eleonora Giovinazzo per repubbica.it il 20 maggio 2021. Naomi Campbell, che il 22 maggio compirà 51 anni, è diventata mamma per la prima volta. La venere nera ha mostrato su Instagram i piedini della sua bambina. "Una piccola, splendida benedizione mi ha scelto per essere sua madre. Sono così onorata di accogliere quest’anima gentile nella mia vita, non ci sono parole per descrivere il legame eterno che ora condivido con te, mio angelo. Non c’è amore più grande", ha scritto. Ma la top model non è l’unica celebrità ad aver accolto una creatura intorno ai 50 anni. Da Brigitte Nielsen a Gianna Nannini, sono molte le dive che hanno fatto questa scelta. E sono tante anche le donne del mondo dello spettacolo che sono diventate mamme intorno ai 40 anni. Come Monica Bellucci (a 39 e 45 anni), Susan Sarandon (a 43 e 46 anni), Laura Freddi (a 45 anni), Antonella Clerici (a 45 anni), Halle Berry (a 42 e 46 anni), Alena Seredova (a 42 anni), Eva Longoria (a 43 anni), Milla Jovovich (a 44 anni), Geena Davis (a 45 e 47 anni), Cameron Diaz (a 47 anni), Alessandra Martines (49 anni).

Naomi Campbell è mamma e “ha un fidanzato segreto negli Usa”. Giulia Turco il 19/5/2021. su Fanpage.it.  Secondo il The Sun Naomi Campbell, mamma a 50 anni della sua prima figlia, avrebbe al suo fianco un fidanzato segreto con il quale vive felice negli Stati Uniti. Secondo una fonte vicina alla modella, durante l’ultimo anno di pandemia Naomi “ha vissuto in America con il suo fidanzato ed è davvero felice. Ha deciso che era il momento giusto per dare vita ad una famiglia”. Eppure il quotidiano britannico fa notare che pur non essendo sfuggita del tutto ai paparazzi, la top model non ha mai mostrato pubblicamente un pancione. In passato aveva detto di non escludere l’ipotesi dell’adozione, pur di soddisfare il suo desiderio di maternità.. Campbell è diventata mamma, ma è mistero sull'identità del padre della sua prima figlia. L'ex top model, 50 anni, ha annunciato a sorpresa la nascita del suo "angelo" lasciando sorpresi milioni di fan, del tutto all'oscuro della sua gravidanza. Nessuna foto col pancione e nessun indizio circa una recente storia d'amore, che potesse lasciar intendere l'arrivo di un bebè per la modella. Solo una piuttosto chiacchierata assenza dalla scena pubblica negli ultimi mesi, per lo meno in Italia, dove Naomi aveva dato forfait a Carlo Conti rifiutando l'invito a salire sul palco del suo Festival di Sanremo 2021. Lo scatto pubblicato su Instagram, che mostra il piedino della piccola e il tag della madre di Naomi, lasciava intendere che non ci fosse alcun uomo nella sua vita, ma secondo fonti britanniche la modella sarebbe tutt'altro che sola.

Chi è il fidanzato di Naomi Campbell. "Naomi si è davvero addolcita nell'ultimo anno ed è in una fase meravigliosa della sua vita. Ha vissuto in America con il suo fidanzato ed è davvero felice. Alla fine sembrava il momento per diventare madre e l'emozione è alle stelle", avrebbe rivelato al The Sun una fonte vicina a Naomi Campbell. Stando alle indiscrezioni pubblicate dal quotidiano britannico, la "Venere nera" avrebbe vissuto un periodo molto intenso durante la pandemia e, avendo trovato l'amore, avrebbe deciso di fare il grande passo e mettere le basi per una famiglia. "Il primo periodo le ha permesso di fermarsi e fare il punto sulle cose importanti e ha deciso che era il momento di provare a dar vita nel modo più giusto una famiglia". Resta il fatto che la modella non ha parlato pubblicamente di nessuna relazione sentimentale. L'ultimo flirt che non è sfuggito al gossip era stato quello con l'ex star dei One Direction Liam Payne, esploso a dicembre 2018, più giovane di 23 anni. La coppia era stata avvistata insieme in diverse occasioni, ma stando ai media britannici avrebbero smesso di frequentarsi appena quattro mesi dopo.

L'ipotesi dell'adozione. Come fa notare the Sun, negli ultimi mesi Naomi Campbell non sarebbe del tutto sfuggita ai paparazzi, ma non ci sarebbe mai stata alcuna parvenza di un pancione. Non è esclusa quindi l'ipotesi che la modella abbia optato per l'adozione di una bambina. Nel 2017 infatti, rispondendo a ES Magazine, aveva ammesso di "pensare all'avere figli tutto il tempo", ma che ora "con i progressi della scienza penso di poterlo fare quando vorrò", senza fretta. Alla domanda su una possibile adozione aveva risposto: "Forse…", senza escludere l'idea. Il desiderio di maternità è sempre stato presente durante la sua lunga carriera sulle passerelle. A Vogue nel 2018 raccontava: "Amo i bambini e lo farò sempre. Quando sono in giro per i bambini, divento bambina anch'io. Questa bambina non voglio perderla mai". 

·        Nek.

Nek: "Ho rischiato di morire dissanguato. Da mediasetplay.mediaset.it il 29 gennaio 2021. Il cantante sabato 30 gennaio a Verissimo racconta il tragico incidente di cui è rimasto vittima. “Se fossi rimasto più del dovuto nella mia casa in campagna, in attesa dei soccorsi, nel peggiore dei casi sarei morto dissanguato, nei migliori avrei perso i sensi. Invece, ho avuto il sangue freddo di prendere l’auto e di guidare fino al Pronto Soccorso di Sassuolo”. Sabato 30 gennaio, a Verissimo, Nek racconta, per la prima volta, il brutto incidente alla mano di cui è rimasto vittima a novembre. Ripercorrendo quei momenti drammatici il cantante confida: “Mi sono tagliato la mano con una sega circolare in un momento di distrazione. Tutte le dita sono rimaste danneggiate ma, in particolare, l’anulare è quasi saltato via e il dito medio per metà, ma – prosegue - dopo oltre undici ore d’intervento sono riusciti a salvarmi la mano”. Dopo la degenza in ospedale, dove dice – mi sono lasciato andare più di una volta al pianto- ora Nek sta facendo un lungo percorso di riabilitazione: “Mi sento come un bambino, perché riprendo un po’ di mobilità della mano ogni giorno. Ho ancora dei momenti di sconforto, soprattutto alla mattina, perché rimettere in moto la mano è molto fastidioso e poi, per me che non ho pazienza, è una prova ancora più dura”. Un percorso doloroso, alleviato grazie all’affetto di sua moglie e dei suoi figli: “Se non avessi avuto vicino la mia famiglia sarei caduto in depressione, sarebbe stato tutto più complicato”. Infine, ripensando al senso di quanto gli è accaduto, Nek dichiara: “Questo incidente mi ha insegnato a valorizzare ogni singolo giorno come se fosse il primo”.

Ida Di Grazia per leggo.it il 30 gennaio 2021. Nek racconta a Verissimo il brutto incidente di cui è rimasto vittima: «Ho pianto tanto, stavo cadendo in depressione». Lo scorso novembre, il cantante si è ferito alla mano sinistra nella sua casa di campagna a Sassuolo. Il cantante ha raccontato alla padrona di casa Silvia Toffanin quelle ore di dolore intenso e di paura. A Verissimo Nek racconta, per la prima volta, il brutto incidente alla mano di cui è rimasto vittima a novembre. «Se fossi rimasto più del dovuto nella mia casa in campagna, in attesa dei soccorsi, nel peggiore dei casi sarei morto dissanguato, nei migliori avrei perso i sensi. Invece, ho avuto il sangue freddo di prendere l’auto e di guidare fino al Pronto Soccorso di Sassuolo». Ripercorrendo quei momenti drammatici il cantante confida: «Mi sono tagliato la mano con una sega circolare in un momento di distrazione. Tutte le dita sono rimaste danneggiate ma, in particolare, l’anulare è quasi saltato via e il dito medio per metà, ma – prosegue - dopo oltre undici ore d’intervento sono riusciti a salvarmi la mano». Dopo la degenza in ospedale, dove dice – «Mi sono lasciato andare più di una volta al pianto - ora Nek sta facendo un lungo percorso di riabilitazione: «Mi sento come un bambino, perché riprendo un po’ di mobilità della mano ogni giorno. Ho ancora dei momenti di sconforto, soprattutto alla mattina, perché rimettere in moto la mano è molto fastidioso e poi, per me che non ho pazienza, è una prova ancora più dura». Un percorso doloroso, alleviato grazie all’affetto di sua moglie e dei suoi figli: «Se non avessi avuto vicino la mia famiglia sarei caduto in depressione, sarebbe stato tutto più complicato». Infine, ripensando al senso di quanto gli è accaduto, Nek dichiara: «“Questo incidente mi ha insegnato a valorizzare ogni singolo giorno come se fosse il primo».

·        Nicola Di Bari.

Dagospia il 15 marzo 2021. Da Un Giorno da Pecora. Nicola Da Bari, storico cantante italiano 80enne, che da decenni vive in Lombardia, poco fuori Milano, oggi è intervenuto su Un Giorno da Pecora, a Rai Radio1, dove ha raccontato come sta vivendo la pandemia in attesa di esser vaccinato. “Sono tornato in Italia dagli USA lo scorso febbraio, e arrivato qui ho trovato la pandemia: da quel momento non sono più uscito di casa, sono blindato nel mio appartamento, sto bene, non mi è mai successo niente”. E' preoccupato di non aver ancora fatto il vaccino alla sua età? “Sono in lista, non sono molto preoccupato ma spero di esser chiamato il più presto possibile”. Crede che questi ritardi siano causati da delle inefficienze? “Beh ci stanno mettendo un po' troppo, chi decide si dovrebbe dare una regolata: aspetto che qualcuno si dia da fare”. Che appello farebbe al presidente della 'sua' regione Lombardia Attilio Fontana? “Al presidente Fontana dico di darsi da fare, il problema è serio, non si può aspettare ancora molto”. Se dovesse dedicare un brano al governatore della regione in cui vive, quale sceglierebbe? “Una canzone che ancora devo scrivere ma che farò presto: facite ambress, fate presto!”, ha scherzato a Un Giorno da Pecora il cantante.

·        Nicolas Cage.

La. Za. per il "Corriere della Sera" il 27 settembre 2021. È stato uno degli attori più giovani a vincere l'Oscar, nel 1995 con Via da Las Vegas. Volto simbolo del cinema degli anni 80 e 90, ha recitato in 117 film. Tra i più famosi: Stregata dalla luna, Face/Off, Le ali della libertà, Ghost Rider e il sequel nel 2012. Ha dissipato tutto. Successo, talento, soldi, amori. La più recente caduta nella polvere a Las Vegas, dove Nicolas Cage, attore e nipote del leggendario Francis Ford Coppola, è stato cacciato come l'ultimo dei senzatetto da Lawry' s The Prime Rib, lussuosa steak house sulla Strip. L'attore - come riportato in esclusiva dal Sun - era talmente sbronzo da non riuscire a infilare ai piedi le infradito: è stato accompagnato fuori dal locale sotto l'occhio delle telecamere di sorveglianza, le cui immagini hanno poi fatto il giro del mondo. Triste parabola per un attore dalla carriera fiammeggiante. Del resto era stato proprio lui a dichiarare in passato: «Il lavoro è l'unica cosa che mi aiuta a tenermi lontano dai guai». Il suo ultimo film è del 2021, Pig - Il piano di Rob. Non è bastato a salvarlo. Una vita tormentata quella del divo, fatta di eccessi e alcol, passato da essere uno degli attori più pagati del mondo alla (quasi) bancarotta finanziaria per aver sperperato buona parte della sua fortuna collezionando auto (tra cui rarità come la Lamborghini appartenuta allo scià Reza Pahlavi e una Jaguar D-Type del 1955), jet privati, yacht, gioielli, proprietà immobiliari e opere d'arte. Ma anche fumetti del valore di svariati milioni di dollari, e uno zoo di animali tra cui uno squalo, un coccodrillo e cani di razza serviti da schiere di maggiordomi. Celebri le feste «alla Gatsby» organizzate nelle sue varie residenze. Party che il miliardario Hugh Hefner, uno che per cinque decenni si è svegliato in una villa enorme circondato da «conigliette» discinte, definiva «roba da leggenda». Senza dimenticare donazioni e raccolte fondi per le quali in passato la rivista Forbes ha inserito Cage nella lista degli attori più generosi del pianeta. A contribuire ai dissesti finanziari del divo anche cinque matrimoni, conferma di una pericolosa inclinazione alla coazione a ripetere. L'ultima compagna in ordine di tempo - a 57 anni - è Riko Shibata, 26 anni, sposata il 16 febbraio scorso. Prima moglie è stata invece l'attrice Patricia Arquette (1995 -2001), seguita da Lisa Marie Presley, figlia del re del rock' n'roll; Alice Kim, da cui ha avuto il figlio Kal-El (fratellastro di Weston, nato nel 1990 dal legame con Christina Fulton); ed Erika Koike. Nozze più rapide della Guerra dei Sei giorni: dal «sì» alla separazione in sole 96 ore. 

Nicolas Cage, ascesa e caduta del divo volto del cinema degli anni Novanta.  Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2021. A 31 anni l'Oscar come migliore attore per «Via da Las Vegas», storia di un alcolista senza redenzione. Un personaggio che ricorda le recenti disavventure della star. È stato uno degli attori più giovani a vincere l'Oscar, nel 1995 con «Via da Las Vegas». Volto simbolo del cinema tra gli anni Ottanta e i Novanta, ha recitato in circa 117 film, tra i più famosi «Stregata dalla luna», «Face/Off», «Le ali della libertà», «Ghost Rider» e il sequel nel 2012. Ha dissipato tutto. Successo, talento, soldi, amori. L'ultima caduta nella polvere a Las Vegas, dove Nicolas Cage, attore e nipote del leggendario regista Francis Ford Coppola, è stato cacciato via come un qualunque «homeless» da Lawry's The Prime Rib, una lussuosa steak house poco lontano dalla Stripe: 4,2 miglia (6,8 km) di luci, hotel-casinò, teatri e locali notturni che attraversano major road la Las Vegas Valley, in Nevada. L'attore — secondo le testimonianze — era talmente sbronzo da non riuscire nemmeno a infilare ai piedi le infradito che completavano in suo abbigliamento: t-shirt nera e pantaloni leopardati. Cage è stato scortato fuori dal locale da una gentile signorina, mentre le telecamere di sorveglianza riprendevano impietose le urla, gli insulti e le minacce rivolte dal divo agli astanti. «Sembrava un senzatetto» ha commentato un testimone della scena. Sporco, malvestito, ubriaco perso. Una triste parabola per un attore dalla carriera fiammeggiante. Bruciato forse dalla sua stessa luce. Del resto proprio lui aveva dichiarato: «Non andrò mai in pensione, il lavoro è l'unica cosa che mi aiuta a tenermi lontano dai guai». Il suo ultimo film è del 2021, «Pig - Il piano di Rob», regia di Michael Sarnoski. Ma evidentemente non è bastato a impedirgli di fare danno, in primis a sé stesso. Una vita tormentata quella del divo, fatta di eccessi e alcol, passato da essere uno degli attori più pagati del mondo — circa 40 milioni di dollari guadagnati all'anno all'apice del successo — alla quasi bancarotta finanziaria per aver sperperato buona parte della sua fortuna non solo collezionando auto (tra cui oltre 50 rarità, come una Lamborghini un tempo di proprietà dello scià Mohammad Reza Pahlavi e una Jaguar D-Type del 1955), jet privati, yacht, gioielli, proprietà immobiliari e opere d'arte, status symbol degli ultra-ricchi di tutto il pianeta, ma anche una collezione di fumetti del valore di svariati milioni di euro, e uno zoo di animali tra cui uno squalo, un coccodrillo e un certo numero di cani di razza serviti da una serie di maggiordomi assunti appositamente per loro. L'attore possedeva anche un polpo domestico acquistato per 150 mila dollari, e una coppia di cobra albini, Moby e Sheba, del valore di un quarto di milione di dollari. Celebri le feste «alla Gatsby» organizzate nelle sue varie residenze per gli amici di Hollywood. Party che il miliardario Hugh Hefner, uno che per cinque decenni si è svegliato nella sua enorme villa circondato da discinte «conigliette», definiva«roba da leggenda». Senza dimenticare donazioni e raccolte fondi per i quali «Forbes» lo mise nella lista degli attori più generosi al mondo. Anche in amore Cage non è stato fortunato: cinque matrimoni (da cui ha avuto due figli), di cui quattro andati disperatamente a rotoli. L'ultima compagna del divo in ordine di tempo - a 57 anni- è Riko Shibata, 26 anni, incontrata in Giappone nel 2020. Si sono sposati con una cerimonia intima il 16 febbraio di quest'anno al Wynn Hotel di Las Vegas. La prima moglie di Cage è stata l'attrice premio Oscar Patricia Arquette, sposata nel 1995: si sono separati nel 2001. L'attore si è risposato nel 2002 con Lise Marie Presley, figlia del grande «Elvis the Pelvis», il re del rock'n'roll, dalla quale si è separato dopo tre mesi (il divorzio è stato finalizzato nel 2004). A oggi, il matrimonio più lungo di Cage è stato quello con Alice Kim, un'ex cameriera incontrata nel 2004 in un ristorante dove lavorava quando aveva solo 19 anni: nonostante la differenza di età di 20 anni, la coppia si è sposata due mesi dopo e il 3 ottobre 2005 ha avuto un figlio, Kal-El, dal nome di nascita di Superman (Cage è anche papà di Weston, nato nel 1990 dalla sua relazione con Christina Fulton). Il più breve, con Erika Koike, è durato quattro giorni.

·        Nicole Aniston.

Barbara Costa per Dagospia il 27 febbraio 2021. “Noiosa”, “ripetitiva”, “basta con questi video solo per i fan!”, “ma quando riaprono i set?”, “vogliamo di più!!!”. Si intravedono segni pericolosi di crisi della s*ga in questi post che, in verità, sono pochi, e però fanno la voce grossa. Sono i fan del porno in rivolta perché stufi della migrazione delle attrici porno sui social. Da un anno le pornostar lavorano in prevalenza lì, dando ai loro fan allupati video porno a pagamento. Video per lo più solisti, assoli girati a casa, tra le mura domestiche, in abbonamento, compresi i video che le pornostar girano in esclusiva, e i cui costi sono a loro discrezione. Ci sono fan porno che di questa nuova tendenza si sono rotti le scatole. Non ci stanno più, e si fanno sentire coi megafoni che hanno a disposizione: post e tweet. Le pornostar amatorial ne sono esenti, loro resistono, anzi, ascendono: quelle prese di mira sono le professioniste, come Nicole Aniston. Tale bellezza suprema, 33 anni, nel porno da 11, è famosa in Italia per la sua somiglianza con la nostra Ilary Blasi (i porno-fan più assidui ricorderanno quel falso sex-tape in cui una creduta Ilary Blasi appariva come mamma l’ha fatta, sotto la doccia: in realtà era un video di Nicole), rassomiglianza andata a farsi benedire con le evidenti, differenti estetiche strade prese dalle due dive, e però: Nicole Aniston col suo fisico tutto fitness e sole e vitamine, nel porno è al top da anni (ha 3,2 milioni di followers solo su Instagram). E allora? Ci sono fan che escono dal coro allupato e ululano altrove, e la loro è una insofferenza anche giustificata. Infatti: che faresti tu, fan accanito non porno ma… mettiamo… di una attrice mainstream, e questa attrice non recitasse più sui set, ma soltanto per te, su un social a cui tu ti abboni, e ti vedi e paghi i video che lei fa, e però questi video si rivelano la solita solfa? È quello che i porno-fan rimproverano alle pornostar più celebri, pornanti in casa, a volte a due ma a letto (sempre), a gambe larghe sul tavolo o sul lavello della cucina (sempre), fanno spogliarello in bagno a cui segue doccia bollente (sempre), e si accarezzano (sempre), e ti ammiccano (sempre), e mugolano e… basta, non se ne può più! Va ammesso: noi del porno siamo fan viziati, ma è il porno che ci vizia! Se sei un appassionato delle grandi porno produzioni, girate in studios, ti è stata sempre garantita la più ampia varietà di trame, situazioni, personaggi, effetti speciali, conditi da sesso di prim’ordine il più vario, lontano anni luce dall’amatorial, e dalle pareti di casa tua. Sono invero i porno a cui Nicole Aniston ha abituato i suoi fan, lei, la regina delle sfarzose porno-parody firmate Axel Braun. Se sei un sincero fan del porno, sei scassap*lle e esigente: e infatti Nicole è stata già caz*iata dai fan, quando decise di girare solo lesbo e, di nuovo, per la sua insofferenza a ingioiare sperma, o di sputarlo infastidita (ma sono venerati i suoi porno coi maschioni neri, e il suo primo anale, girato quasi 4 anni fa, non smette di essere visto). Forse Nicole paga anche il suo corpo… fuori moda. Può apparir bestemmia, eppure… come negarlo? Il modello vamp accende ma perde colpi, bastonato dai social. Se per 10 anni le forme a clessidra hanno dettato legge, è oggi l’infinita varietà – e riflessa accessibilità – dei corpi che si mostrano sui social a dare filo da torcere alle fatalone irraggiungibili come Nicole Aniston, col suo corpo perfetto conquistato in palestra, e con accorgimenti chirurgici. Nicole Aniston ha rifatto il seno 3 volte, la prima a aumentarlo, la seconda a perfezionarlo, fino a togliere le protesi e a ridurselo (dicono) lipofillandoselo (e chiedendo previo-parere social ai fan). Nicole fa parte del "vecchio" gruppo di pornostar su cui – è lei a rivelarlo, al Daily Beast – gli agenti premevano affinché si pompassero le tette: più tette, più ingaggi porno, più guadagni, era questo il leitmotiv in voga fino a qualche tempo fa, leitmotiv andato a farsi f*ttere con la armata social. Proporre al pubblico un corpo anche rifatto ma secondo altri canoni, ma di più esibendo al pubblico un corpo con le sue (im)perfezioni, ha oscurato il modello bambolona californiana che, per carità, trova posto nel porno, ma non più come prima. E allora, che fare, della porno-noia sui social? Passata l’emergenza pandemica, vaccinato pure il mondo del porno, si tornerà a girare sui set come e più di prima. Sono le orge, le ammucchiate che mancano! Se penso a tutti quei sederi, e liquidi, e caz*i e vagine inoperanti, in forzata aspettativa, e che non aspettano che tornare in ere... azione!

·        Nina Moric.

Da fanpage.it il 27 dicembre 2021. Aggiornamento ore 19.02: le stories nelle quali Nina Moric accusava Belen Rodriguez di comportamenti scorretti nei confronti di suo figlio Carlos, sono state cancellate dall'account Instagram ufficiale. Il Natale si tinge di giallo in casa Moric. La showgirl, infatti, ha postato alcune storie in cui accusa Belen Rodriguez di aver baciato il figlio durante una festa avvenuta il 23 dicembre scorso. Sarebbe stato il figlio della donna e di Fabrizio Corona ad averlo confessato alla madre con alcuni messaggi privati che Moric ha reso pubblici sui suoi social chiedendone conto proprio alla showgirl argentina. Moric ha mostrato alcuni messaggi Whatsapp ricevuti dal figlio Carlos Maria che accusava Belen di averlo fatto bere e di averlo baciato in bocca. Poco dopo, però è stato lo stesso ragazzo a negare e dire che quei messaggi sono un'invenzione della madre, e che lui non ha mai incontrato Belen in questi giorni. Stando a quanto scritto e postato da Moric il figlio avrebbe scritto un messaggio che diceva: "Belen mi ha fatto bere, voleva farmi fumare, mi ha baciato in bocca, no voleva che la baciassi in bocca pure mio padre. Belen è una cretina. Tuza portami via da questo paese, voglio stare con la mamma, mi manchi". Moric tagga Belen e continua: "Ci possono essere momenti in cui siamo impotenti a prevenire l'ingiustizia! Ma non ci deve mai essere un momento in cui non riusciamo a protestare. Sei una madre come me, ti chiedo soltanto perché hai fatto questo a mio figlio il 23/12. SEI UNA MADRE. Non dobbiamo odiare chi fa cose sbagliate o dannose; ma con compassione devi fare il possibile per fermarli poiché stanno danneggiando se stessi. Così come nel profondo inconscio soffrono per le loro azioni. L'amore di una madre per suo figlio è come nient'altro al mondo. Non conosce legge né pietà. Osa ogni cosa e schiaccia senza pietà tutto ciò che si trova sul suo cammino". Nessuna replica di Belen, ma è stato lo stesso Carlos Maria a smentire la madre tramite alcune storie su Instagram: "Volevo parlare del fatto che sono state pubblicate delle dichiarazioni in merito a dei messaggi inviati da me a mia madre che sono tutto frutto della sua immaginazione. Io Belen non l'ho mai vista, tutte quelle cose riportate non sono vere perché lei essendo una madre non ha mai fatto tutto questo né si sarebbe permessa, inoltre le voglio molto bene e niente, ragazzi, non credete a queste stronzate, perché sono tutte stronzate".

La reazione di Fabrizio Corona. Fabrizio Corona ha pubblicato un breve post su Instagram, nel quale ha commentato le accuse di Nina Moric a Belén Rodriguez. L'imprenditore ha scritto nelle Stories: "Regalo di Natale di Nina Moric. Ricordatevi cosa aveva fatto un anno fa. La sua cattiveria infinita che prima o poi si fa sentire sempre perché è insita dentro di lei". Un anno fa, Fabrizio Corona e Nina Moric si scambiarono attacchi pesantissimi. La modella accusò l'ex marito di aver minacciato di picchiarla. Corona replicò dandole della psicopatica mentre era in collegamento con il programma Live – Non è la D'Urso, costringendo Barbara D'Urso a interrompere l'intervista.

Da leggo.it il 28 dicembre 2021. Nina Moric tiene il punto. Dopo le dure parole rivolte a Belen Rodriguez, l'ex moglie di Fabrizio Corona torna ad attaccare la modella in una nuova storia su Instagram.

L'accusa di Nina Moric

Dopo averla accusata di aver fatto bere il figlio Carlos e di aver tentato di baciarlo sulle labbra durante il weekend di Natale, Nina Moric si rivolge a quanti hanno dubitato della sua versione dei fatti e scrive: «Non mi dispiace essere chiamata bugiarda dalle persone. Io sono una meravigliosa bugiarda. Però odio essere chiamata bugiarda quando dico la sacrosantissima verità».

Il riferimento è all'ex marito Fabrizio Corona, che sulla modella italo-croata ieri aveva scritto: «Questo deve essere il regalo di Natale di Nina. Ricordatevi cosa aveva combinato un anno fa. Ormai la sua cattiveria infinita, prima o poi si fa sentire sempre, perché è insita dentro di lei». 

La replica di Nina Moric a Belen Rodriguez

Ma non finisce qui perché Nina Moric ha continuato ad attaccare anche Belen Rodriguez: «A te che hai abusato: il peccato è tuo, il reato è tuo, e anche la vergogna è tua. Una persona che vive nella negazione dipingerà un’immagine di se stessa come vittima o anche innocente in tutti gli aspetti. Saranno offesi dalla verità. Ma ciò che si fa al buio, alla fine verrà alla luce. Il tempo ha un modo di mostrare i veri colori delle persone». 

Ieri Nina Moric aveva pubblicato l'estratto di una conversazione con il figlio Carlos in cui il ragazzo chiedeva alla madre di poter tornare a casa dopo alcuni presunti abusi subiti da parte di Belen. «Belen mi ha fatto bere, voleva fami fumare, mi ha baciato in bocca. Voleva che la baciassi in bocca pure mio padre. Belen è una cretina, portami via da questo paese, voglio stare con la mamma. Mi manchi!».

La smentita del figlio Carlos

Il contenuto della chat è stato prontamente smentito dal figlio di Nina Moric e Fabrizio Corona, che ha sbugiardato la madre sui social: «Sono state pubblicate delle dichiarazioni in merito a dei messaggi inviati fra me e mia madre che sono tutto frutto della sua immaginazione. Falsi. Belen non l’ho mai vista. Quelle cose riportate non sono vere. Belen, essendo una madre, non mi ha mai fatto questo ed inoltre non si sarebbe mai permessa. Non credete a queste str*nzate, vi voglio bene». Nonostante le parole del figlio, Nina Moric continua a mantenere la sua posizione. E Belen a ignorarla.

Azzurra Barbuto per "Libero quotidiano" il 6 maggio 2021. Le accuse a carico di Luigi Mario Favoloso, ex compagno di Nina Moric, erano le più infamanti che si possano immaginare: sistematiche violenze fisiche e psicologiche su Nina e il figlio di lei, Carlos Maria Corona, quando quest' ultimo era per di più minorenne. Il caso, esploso nel gennaio del 2020, allorché si interruppe la relazione, durata cinque anni, tra Favoloso e Moric, si è concluso martedì scorso con l'archiviazione. È terminato così il calvario di un uomo che per oltre un anno è stato considerato pure dagli organi di informazione alla stregua di un criminale privo di scrupoli, brutale e spietato con le donne e addirittura con i bambini. Infatti, a dispetto dei principi fondamentali del diritto e della Costituzione, Favoloso - e questo occorre sottolinearlo - è stato trattato da colpevole fin da subito, così come prescrive il più bieco conformismo moralistico, tanto in voga in questa fase storica. Ecco perché, nonostante il sollievo e la gioia derivanti dalla intervenuta archiviazione, restano nell' animo del protagonista di questa drammatica vicenda amarezza e persino rabbia. Luigi Mario Favoloso, ex compagno di Nina Moric (a sin.), esulta sui social per la fine dell'incubo «Non è facile né piacevole accorgersi del brusio della gente che ti osserva, ti scruta, bisbiglia. Sono stati mesi molto difficili», esordisce Favoloso. Il giovane ci parla dei cinque anni trascorsi al fianco della ex modella con la quale afferma di essere stato «molto protettivo, anche in virtù delle problematiche di lei, incluso l'autolesionismo». «Sono stato innamorato di Nina e tuttora non provo rancore verso di lei, consapevole delle sue gravi fragilità, ma soprattutto voglio molto bene a Carlos, ecco perché ho deciso che non lo querelerò per calunnia, cosa che invece farò nei confronti di Moric. Le colpe dei genitori non devono ricadere sui discendenti», prosegue Luigi Mario.

LA TELEFONATA. Ma per quale ragione Favoloso potrebbe agire nei confronti dell'ormai maggiorenne figlio di Fabrizio Corona e Nina Moric? L' indagine archiviata riguardava appunto presunti atti sessuali che Carlos avrebbe subito da parte di Favoloso allorché il ragazzo era dodicenne, fatti che Carlos avrebbe confidato alla madre nell' aprile del 2020, quasi diciottenne. Fu Moric quello stesso dì a telefonare allo psichiatra narrando l'accaduto e sollecitando il medico a segnalarlo all' autorità giudiziaria, aggiungendo che «Carlos aveva espresso il desiderio che Favoloso venisse perseguito per questo episodio». Ed è in tal modo che prende il via l' inchiesta, nello svolgersi della quale emerge che l' intera narrazione di Moric, fatta allo psichiatra attraverso il telefono, così come si legge sulla richiesta di archiviazione, «non era minimamente circostanziata con riferimenti temporali, l' unica indicazione era l' età del figlio». Durante l' indagine è venuto a galla un racconto pieno di «palesi contraddizioni» che inducono «a dubitare della genuinità e non artificiosità» delle dichiarazioni rese. Lo stesso Carlos, nei documenti acquisiti dal Tribunale dei Minori, descriveva il rapporto con Favoloso come «amorevole» e «di amicizia», e si diceva «dispiaciuto per l' interruzione della relazione tra Favoloso e la madre nonché per il conseguente allontanamento dell' uomo dalla casa familiare». Insomma, Carlos non parla di Luigi Mario come di un aguzzino, un pedofilo, un soggetto violento, bensì come di una presenza rassicurante. La Procura ha messo in luce che, quanto all' attendibilità di Moric, «è necessario collocare tale procedimento nel più ampio contesto di fortissima conflittualità tra la donna e l' indagato». In sostanza, Moric sarebbe stata «verosimilmente mossa da astio, rancore e gelosia».

«CUCINAVO PER LUI». Da questo quadro è inevitabile desumere che non soltanto Favoloso è stato vittima di false accuse ma anche Carlo è stato a suo modo vittima dell' odio della mamma verso l' ex partner. «In questi anni di convivenza con Nina io non ho rivestito il ruolo di padre per Carlo, in quanto Carlos ha un papà, che, sebbene non abbia potuto suo malgrado essere fisicamente presente, è un ottimo babbo, ossia Fabrizio Corona. Penso di essere stato per Carlos il suo migliore amico, cucinavo per lui e in quelle occasioni in casa c' era un clima armonioso e lieto», confessa Favoloso, il quale aggiunge di non essere rammaricato per la fine di una «relazione non sana», quella con Nina, però di avere sofferto per non avere più visto né sentito Carlos. E poi: «Mi auguro che questa vicenda possa in qualche maniera rinsaldare il legame tra Fabrizio e Carlos. Penso che Fabrizio, il quale ritengo non abbia mai creduto alla storia degli abusi sul ragazzino, mi sia grato e sappia che non ho mai fatto del male a suo figlio, bensì unicamente del bene». Oggi Luigi Mario Favoloso è un uomo più forte e paziente rispetto a un anno addietro. «Non ho mai dubitato della Giustizia, però ora confido ancora di più nella verità che non può essere soffocata e che con il tempo trionfa. Ho compreso di essere una persona in grado di aspettare», continua Favoloso. Tuttavia, egli si sente pure «arrabbiato verso il popolo del web e quella stampa di sinistra che non vedeva l' ora di fare titoloni contro di me, il mostro dichiaratamente di destra, sbattendomi in prima pagina quale colpevole». E poi ci sono i programmi tv dai quali Luigi Mario ha avvertito essere stato preso di mira. «Gianluigi Nuzzi, che dava per assodata la mia colpevolezza, mi ha dedicato diverse puntate del suo format. Adesso mi aspetto le sue scuse e che diffonda la notizia dell' archiviazione». Tra coloro che lo hanno attaccato con ferocia Luigi Mario menziona Alessandra Mussolini: «Ha criticato la mia famiglia, specificando che dovrei vergognarmi di mia madre, la quale è sopra le righe, certo, ma è una donna che coltiva sogni, come quello, magari bizzarro, di fare l' attrice. Non mi vergogno di chi sogna bensì di chi i sogni li spezza». In seguito alle pesanti incriminazioni ricevute, molti di coloro che reputava "amici" si sono allontanati, eppure le persone che gli vogliono davvero bene gli sono rimaste accanto, tra queste in particolare quattro donne, a cui Favoloso è grato. «Devo dire grazie a mia madre che mai ha dubitato di me, alla mia compagna Elena Morali, che è stata la prima ragazza con la quale mi sono rapportato dopo queste accuse. Elena mi ha dimostrato dal principio che non aveva paura di me e che di me si fidava. Sono riconoscente anche al mio avvocato, Maria Paola Rognoni, e a Barbara D' Urso, l' unica conduttrice che, pur schierandosi con Nina, in quanto parte chiaramente fragile, ha mantenuto il contraddittorio evidenziando quei punti-chiave che hanno contribuito alla affermazione della verità».

·        Nino D’Angelo.

Antonio Gnoli per “Robinson – la Repubblica” il 29 novembre 2021. Il povero che diventa ricco entra di buon diritto tra le favole a lieto fine che ci hanno raccontato. E in fondo la vita di Nino D'Angelo somiglia un po' a una favola. Oggi è un nonno felice, ieri - o meglio sessant' anni fa - era uno "scugnizzo" che si vergognava della povertà: «Avrei fatto qualunque cosa pur di non essere povero», dice. Anche il criminale? Gli chiedo. «Il criminale no. Mi è capitato casualmente di imbattermi in personaggi che si sono rivelati vicini alla malavita. Ma non era il mio mondo. Io ancora non sapevo cosa avrei fatto. Ma i sentimenti che mi hanno sempre accompagnato non si sono mai mescolati con l'arroganza, il sopruso e la violenza». D'Angelo ha raccontato la sua vita in un libro, Il poeta che non sa parlare. Ed è la voce autentica di un figlio del popolo, di uno che dal basso è salito parecchio in alto, senza dimenticare le sue origini.

In quale quartiere di Napoli sei nato?

«In un vicolo a San Pietro a Patierno, l'ultimo quartiere di Napoli, non distante dall'aeroporto Capodichino. Sono cresciuto con i nonni materni a Casoria. Mio nonno voleva da me due cose: che fossi un fan di Giacomo Rondinella, che io detestavo, e comunista. Gli chiedevo: nonno, chi sono i comunisti? Sono quelli che la pensano come noi, rispondeva. Nonno, ma noi come la pensiamo? E che ne so, diceva. Sono cresciuto nella povertà: non c'erano vestiti, vacanze, regali. Qualche volta vedevamo la televisione a casa di una vicina. Non mi piaceva la scuola, preferivo la libertà della strada con i suoi giochi, in particolare il pallone dove un po' eccellevo. Sognavo di fare il calciatore. Ero Gaetano, non ancora Nino. Il primo soprannome che mi fu dato era "Semmenzella" che è un piccolo chiodo per risuolare le scarpe. Mio padre era scarparo. E andò pure a lavorare fuori pur di mantenerci. Crescendo mi diedero un secondo soprannome: "Miezumetro". Non ero alto, non lo sarei mai diventato. Ma ero determinato a crescere in un altro modo». 

È stata complicata diciamo questa "crescita"?

«Un misto di volontà, fortuna e talento. Non so in che ordine, ma questi sono stati gli ingredienti. Ho cantato in parrocchia, alle feste nelle piazze e poi ai primi provini. C'era un posto a Napoli, c'è ancora, dove vanno tutti quelli che vogliono cantare. E lì si incontra gente che fa i mestieri più diversi: cameriere, sguattero, pescatore, io allora facevo il posteggiatore. E quel posto era stato battezzato da Sergio Bruni "Il cimitero dei cantanti", lì gli aspiranti artisti non nascevano, morivano». 

Ma tu non sei morto, anzi.

«Ho fatto il cantante posteggiatore e gorgheggiavo nei ristoranti. Il gelataio per portare qualche soldo a casa. Sono passato a cantante di matrimoni. Avevo il mio repertorio. Tenevo pure l'abito adatto, colore verde. Cantavo davanti agli invitati e agli sposi. Piacevo, anche se le canzoni erano spesso tragiche: storie di sangue, di delitti, di amori passionali e tradimenti che finivano male, di padri morti per un incidente, di famiglie finite sul lastrico. Ma vuoi essere un po' più allegro, mi dicevano». 

Ti preparavi alla "sceneggiata".

«Vengo dalla sceneggiata. È un genere classico, come la tragedia greca. Ha uno schema semplice che io ho un po' ampliato: un triangolo composto da "Isso" un lui e da "Essa" una lei e poi c'è "'O malamente", il cattivo. Il pubblico si immedesima al punto che quando il cattivo fa la sua azione perfida, urla, avverte la vittima: sta attento, voltati, non bere perché quel fetente ha messo il veleno. È un susseguirsi di emozioni e si arriva al punto che anche quando la sceneggiata è finita il cattivo viene preso a male parole, insultato, a volte percosso».

Il re della sceneggiata era Mario Merola.

«Fu un autentico protagonista: generoso e incazzoso in egual misura. Mi prese a ben volere, come pure prese a ben volere Gigi D'Alessio. Si divertiva a metterci l'uno contro l'altro per vedere come reagivamo. Ma alla fine io e Gigi diventammo amici». 

Tu racconti che foste gli unici due cantanti a non essere invitati alla commemorazione di Pino Daniele. Perché? 

«Secondo gli organizzatori noi difendevamo una Napoli tradizionale che non c'era più. Ma caspita se c'era e lo dimostrava il successo che avevamo. Per me e per Gigi, Pino è stato un grande innovatore della musica. Il più grande. E nel suo nome incominciammo un tour insieme Figli di un re minore che abbiamo interrotto per colpa della pandemia». 

Sei stato considerato il primo dei neomelodici.

«La parola "neomelodico" è bella, ma è diventata un calderone. Chiunque oggi canta in napoletano diventa un neomelodico. Io sono un cantante che ha impiegato cinquant' anni per diventare cantante napoletano». 

Una delle critiche al neomelodico è che diffonde valori legati al mondo della malavita. Piccoli boss camorristi o figli di camorristi sono diventati cantanti neomelodici.

«Il neomelodico viene prima della camorra. La camorra ha solo approfittato del fenomeno. Ci si è infilata perché è un mercato che produce soprattutto consenso nei quartieri». 

È vero che tu e la tua famiglia aveste delle minacce al punto da decidere di trasferirvi da Napoli a Roma?

«Fu un periodo orrendo. Sparavano contro le nostre finestre di casa, telefonavano ai nostri numeri privati minacciandomi». 

Perché ti avevano preso di mira?

«Per i soldi. Volevano una tangente dai miei ricavi. Ce ne siamo andati per non subire il ricatto. La camorra è il marcio di Napoli».

Ha condizionato o influito sul tuo successo?

«Mai, perché qualunque cosa loro ti danno la vogliono indietro moltiplicata per cento. Il mio successo lo devo a me, ma soprattutto alla gente che mi ha voluto bene. Gli abitanti del quartiere dove sono nato hanno voluto realizzare un grande murales con la mia immagine. Quando mia moglie me lo ha detto ho provato imbarazzo ma anche un'infinita gratitudine per quel gesto». 

Come hai vissuto il successo?

«All'inizio era qualcosa di inebriante. Dopo un po' non capivo più se ero Gaetano o Nino. Mi sentivo scisso tra la povertà da cui provenivo e la ricchezza che cominciava ad arrivare. Sono ricorso a uno psicologo. Non è stato semplice trovare un equilibrio tra due mondi così opposti. Non è facile guardarsi allo specchio e dire ce l'ho fatta!». 

Perché?

«La povertà è l'odore che ti porti sempre addosso». 

Ma eravate davvero così poveri?

«Papà diceva in certi momenti: Gaetà io lavoro per cercare lavoro e non mi pagano per questo. Gaetà tu vuo' fa il cantante? Ma noi siamo nati per sopravvivere, così diceva. Ero il primo di sei figli, il primo a dover sopravvivere. Dicevo: "Ma papà, forse ho talento". E lui rispondeva: "Ma quale talento, se non hai una raccomandazione, e qui nessuno ti raccomanda, pigliate almeno la terza media e dammi una mano». 

Ma tu il talento veramente te lo sentivi?

 «Lo vedevo riflesso negli occhi ammirati delle persone che mi ascoltavano. Ho iniziato a cantare a nove anni. Venivo messo in piedi su una sedia e cantavo un po' di repertorio: O zappatore ma soprattutto le canzoni di Sergio Bruni, e la gente diceva a mia madre "Questo bambino ha un grande dono fatelo cantare". Per incidere il primo disco mi chiesero varie centinaia di mila lire. Non le avevo. Affrontai i miei parenti più stretti: fate conto che sia il mio funerale e che ciascuno di voi metta una piccola cifra. Ecco. Non è meglio donare questi soldi quando ancora sono vivo? Raccolsi 500 mila lire e li diedi al discografico. Morì il giorno dopo. Non ci potevo credere». 

Cosa facesti?

«Dicevo: ma dov' è il morto, fatemelo vedere. Pensavo alla truffa, ma era morto veramente. Andai perfino da Sergio Bruni e gli dissi maestro io volessi cantare. Mi rispose: a primma cosa, mparate a parlà! ». 

Ti sei molti ispirato a lui?

«Per me è stato il più grande».

Più grande di Roberto Murolo?

«Anche Murolo è un monumento. Sono due leggende napoletane. Come mettere a confronto Raffaele Viviani e Eduardo De Filippo. Puoi parteggiare per l'uno o per l'altro. Io ho amato di più Viviani, perché ho interpretato il suo teatro. Così come ho amato Bruni per le sue canzoni. Maradona mi diceva: Nino, cantami Carmela. Bruni è stato incantevole e strano, con quella "mezza voce" che lo dovevi proprio ascoltare da vicino tanto era flebile. È stato il più grande creatore di silenzi che io abbia mai conosciuto».

Il rapporto con Maradona come è nato?

«Volle conoscermi. A Napoli ero popolare quanto lui. Andai a trovarlo con mio figlio allo stadio San Paolo dove si allenava. Sono malato di calcio e vedermelo di fronte che mi parlava e palleggiava con le spalle, sì con le spalle, la destra e la sinistra, era incredibile. Ci siamo un po' frequentati. Spesso ci vedevamo a casa di Giuseppe Bruscolotti, grande difensore del Napoli, dove cenavamo». 

Cosa pensi dei suoi guai, del suo declino, della sua morte avvenuta giusto un anno fa?

«Ha pagato con gli interessi gli errori che ha fatto. Si sentiva addosso tutto il peso del personaggio che era diventato. E questo lo ha schiantato. Diego aveva un difetto che è anche un pregio, si fidava di tutti. E purtroppo si è fidato anche delle persone sbagliate. Ma la bellezza di Maradona persona, per come l'ho conosciuto, fu unica». 

Hai visto " È stata la mano di Dio" il film che Sorrentino gli ha dedicato?

«Mi è sembrato un film intimo e bello. Senza retorica. Lui è un grande regista che è dovuto andare via da Napoli per realizzarsi. Ma il fatto che abbia dedicato un film alla propria storia, alla sua Napoli e a Maradona, che un po' l'ha incarnata, è un bel gesto. Sorrentino appartiene alla Napoli "alta", al Vomero, mentre io vengo dalla Napoli povera, dell'estrema periferia. Ho dovuto fare molta più strada». 

Nel percorso hai trovato persone che oltre a volerti bene ti hanno stimato. Penso a Goffredo Fofi o a Nicola Lagioia che ha scritto la prefazione al tuo libro.

«Gliel'ho chiesta io dopo che c'eravamo conosciuti e sono felice che abbia accettato. Quanto a Fofi mi ha aperto una porta su un mondo di cui non sapevo niente. Gliene sono grato perché per me è stato come un modo per provare a rinascere dopo gli anni della depressione». 

So che è stato un periodo molto duro per te.

«È arrivato subito dopo la morte di mia madre. Non credevo che avrei reagito così». 

Così come?

«Prova a descrivere il nulla. Non si può. E io ero diventato il nulla. Non volevo pensare, mangiare, lavarmi, uscire. Non sapevo perché? Era la vita che stava sotterrando la mia anima. Sono andato avanti per quasi quattro anni dentro questo oscuro dolore. Poi sono lentamente riemerso e ho capito che non bisogna vergognarsi di questa malattia. Va curata e posso dirti che avendocela fatta sono più maturo, come più matura è la mia musica. In fondo le mie canzoni hanno sempre avuto il pregio di somigliare alla mia vita. Io sono stato il poeta che non sa parlare e quando ho parlato l'ho sempre fatto a modo mio».

Da "leggo.it" il 12 novembre 2021. Il dramma di Nino D'Angelo a Verissimo: «Hanno sparato dentro casa mia, sono scappato da Napoli». Ospite sabato 13 novembre di Silvia Toffanin, il cantante ricorda commosso il momento in cui ha dovuto lasciare la sua città. Nino D’Angelo, ospite sabato 13 novembre a Verissimo, ricorda commosso il momento in cui ha dovuto lasciare la sua Napoli: «Quella scelta mi ha fatto molto male perché non mi aspettavo di avere a che fare con la brutta gente di Napoli, che per fortuna è una piccola parte. È stato il momento più brutto della mia vita. Però l’ho affrontato, ora mi divido e vivo un po’ a Roma e un po’ a Casoria». A Silvia Toffanin che gli chiede il motivo di questa decisione, il cantante spiega: «Hanno sparato dentro casa mia perché volevano i soldi: è stata un’estorsione, una cosa vomitevole. Più che spaventato, mi sono offeso perché non avevo preso niente a nessuno e ho sempre aiutato chi aveva bisogno. Mia moglie invece ha avuto molta paura ed è stata lei a voler cambiare città. E io non potevo perdere la mia famiglia». D’Angelo, infine, confessa le difficoltà provate durante la pandemia, un periodo che l’ha segnato ma che ora sembra alle spalle anche grazie all’uscita del suo nuovo album Il poeta che non sa parlare: «Vivere in modo improvvisato non è vivere. Il primo lockdown l’ho vissuto molto male, non avevo alcuna intenzione di scrivere canzoni. Pensavo solo a far stare bene la famiglia, soprattutto i miei figli. Poi ho visto il murales che mi hanno dedicato e quel gesto mi ha spronato a fare questo disco che è stato il più difficile della mia carriera. Scrivere di vita quando vicino a te c’è la morte è complicato».

Massimo Iondini per “Avvenire” il 24 ottobre 2021. Il poeta che non sa parlare approda al Salone del libro di Torino. Ma prima, stamattina alle 11 (anche in diretta streaming), torna all'Aula Magna dell'Università Suor Orsola Benincasa, nella sua Napoli, dov' era già stato 14 anni fa. Allora la lezione di Nino D'Angelo fu sulla "musica come strumento di recupero sociale", oggi interverrà a una giornata di studi su "Pedagogia e linguaggio musicale nella società complessa". E di società complessa se ne intende, l'ex caschetto biondo che vendeva gelati alla stazione centrale per aiutare i genitori e cinque fratelli a sbarcare il lunario. Lui primogenito, ragazzino subito grande per necessità, cresciuto a pane e canzone, poeta che non sapeva parlare, come gli diceva la sua maestra. Quella definizione è ora il titolo del suo nuovo triplo progetto artistico, Il poeta che non sa parlare: un album, un libro e un tour che partirà il 3 marzo 2022 dal Teatro Massimo di Pescara. Venerdì alle ore 14 intanto Nino sarà alla sala Oro del Salone del libro con la scrittrice Teresa Ciabatti per presentare il suo libro autobiografico ricco di racconti e di poesie (edito da Baldini+ Castoldi, in uscita domani) che vanta la prefazione dello scrittore Nicola Lagioia che del Salone torinese è direttore. Contemporaneamente tocca al bellissimo nuovo album world-pop (con gli arrangiamenti curati da Nuccio Tortora) vedere la luce: nove canzoni inedite e una cover del suo brano del 2012 Ammore è dà con otto cantanti napoletani ad affiancarlo. Ad aprire l'album la voce recitante di Toni Servillo (gli altri ospiti del disco sono James Senese e Rocco Hunt) a introdurre Pane e canzone; a chiuderlo un omaggio a Maradona, Campiò. 

D'Angelo, cos' ha rappresentato Diego per Napoli? 

Lui solo contro tutti quanti... Sì, così dico nella canzone. Anzi, non è nemmeno una canzone, ma una dedica. Non tanto per la gente, ma proprio per Diego che ha rappresentato la vittoria dei più deboli e ha dato voce ai poveri che con lui sono diventati ricchi. Ha dimostrato che un riscatto è possibile. Poi purtroppo si è messo di mezzo il diavolo trascinandolo su una cattiva strada che l'ha tra- sformato in una persona malata. Tutti gli errori fatti da un certo momento in poi sono quelli di un malato e per questo credo che sia da perdonare. Nella vita gli incontri sono spesso decisivi. Come il mio.  

Quale fu? 

Ne parlo anche nel libro. A 17 anni ebbi la fortuna di frequentare un'associazione cattolica a Casoria, dove vivevo dopo l'infanzia a San Pietro a Petierno. Lì incontrai un grande sacerdote, padre Mauro Piscopo, che mi ha preso dalla strada e mi ha fatto camminare. Aveva capito la mia vocazione musicale e mi coinvolgeva in tante iniziative. Io sono un miracolo vivente di padre Piscopo, è stato un prete meraviglioso per tutti noi, specie per quelli nati in famiglie povere come la mia dove nessuno ci poteva insegnare granché e si campava di poco. Ed è lì che ho imparato ad avere fede. Io di Gesù sono un tifoso, quando leggo il Vangelo mi commuovo.  

Lo canta anche in una delle nuove canzoni... 

"Cercammo a Dio n'ato Gesù, ca ce fa astregnere", così dico in Voglio parlà sulo d'ammore. Un brano quasi politico, in cui me la prendo con questa società in cui non ci si vuole più bene, si tengono gli occhi bassi, con una politica strafottente, chiusa in una perenne campagna elettorale. Invece io voglio parlare e vivere solo d'amore, perché solo di questo c'è davvero bisogno. È l'insegnamento di Gesù, ma che noi non ascoltiamo. E non sappiamo godere del suo dono più bello, che io ho capito. Sa qual è? 

Forse sì, ma per lei qual è? 

Il desiderio. Che abbiamo perduto. Per questo oggi c'è tanta infelicità e disperazione. Quando ne parlo con qualche amico mi sento dare del pazzo. Invece è proprio il desiderio la strada per arrivare alla felicità, nel senso di serenità. E quando desideri qualcosa che poi si avvera, la gioia è ancora più grande.  

Detto da chi ha vissuto nella povertà... 

Nella vita pratica io penso, per esempio, che ai nostri figli non dobbiamo dare tutto. Io e quelli della mia età (D'Angelo è nato nel 1957, è sposato e ha due figli, ndr) siamo una generazione che ha fallito, abbiamo dato troppo, sbagliando tutto. Se si vive dando soddisfazione a ogni minimo bisogno la gioia si riduce sempre più e perde gusto e significato. E così si cade in depressione perché non si ha niente da desiderare per davvero. In questo senso il Covid ci ha almeno fatto sorgere un desiderio: la normalità.  

È stato durante il lockdown che ha scritto album e libro? 

No, ero troppo angosciato. L'anno scorso non riuscivo a scrivere niente, ero travolto dall'ossessione di cosa sarebbe successo. Poi mi sono sbloccato, ma per il libro ho anche ripreso e rielaborato alcuni avvenimenti importanti che non potevo tralasciare, già raccontati nei precedenti libri.  

Perché con la sua storia piace così tanto anche agli intellettuali, da Goffredo Fofi che la sdoganò a Lagioia che ha scritto ora la prefazione? 

È vero, io che non so parlare sono amato dagli uomini di cultura. Forse piace il mio non essermi arreso e l'essere uscito onestamente da situazioni difficili, sopravvivere e affermarmi. Una cosa importante ho comunque fatto: con la mia musica e la mia arte sono stato vicino alle persone sole. Nella vita ho capito quanto il dolore possa anche aiutare a migliorarsi. Ma ho avuto una forza in più.  

Quale? 

La comunità. Io sono nato in un palazzo con un grande portone esterno e dentro c'erano le varie case. Le signore del palazzo erano tutte mamme mie. Quella era la comunità, ma oggi è venuta a mancare. Hanno costruito case popolari e blocchi dove non si cresce. Quartieri anonimi che sono il terreno della camorra dove le persone diventano pedine. Dov' è la cultura per far crescere le persone? Non è vero che con la cultura non si mangia.  

Lei pian piano la cultura se l'è costruita... 

Io sono cresciuto a pane e canzone, come canto nel disco. Non ho una vera cultura, ma nella mia carriera conoscendo persone colte ho saputo ascoltare. La cultura è fondamentale perché non ci sono persone di serie A e di serie B. Lo Stato dovrebbe garantire a tutti il diritto alla cultura, ma la scuola dell'obbligo non basta. L'educazione civica dovrebbe essere la prima materia, perché la vera cultura è la cittadinanza. Sentirsi cittadini, averne la dignità.

Antonio Lodetti per "il Giornale" il 22 ottobre 2021. Nel bene e nel male Nino D'Angelo è sempre stato un fiume in piena. Ha fatto di tutto, dallo scugnizzo al cantante all'Olympia di Parigi e Madison Square Garden di New York; dall'attore al cantautore moderno e oggi si rilancia in triplice veste, con un nuovo cd, un libro autobiografico e una tournèe che dal prossimo marzo toccherà i maggiori teatri italiani. Intanto il titolo del disco e del libro hanno un titolo curioso e un po' polemico, Il poeta che non sa parlare e gli chiediamo subito perché. «Me lo diceva la mia maestra a scuola - risponde Nino divertito - che non sapevo esprimere i concetti ma che le cose che dicevano arrivavano al cuore, è quello che cerco di fare anche con la canzone. Io non parlo italiano parlo la lingua napoletana in tutte le sue sfumature». Nel disco ci sono tanti ospiti come Rocco Hunt, James Senese e Peppe Servillo. «Sì, per sottolineare la modernità del progetto. La presenza di Servillo mi riempie di orgoglio; è un grande attore e mi sono commosso quando ha accettato di leggere un mio testo».

Tra l'altro c'è un brano dedicato a Maradona.

«Sì, sono l'unico che ha girato un film con lui e abbiamo legato subito. Anche Maradona era uno del popolo ed era una persona veramente buona. La droga lo ha rovinato ma lui era sempre dalla parte dei poveri e ha aiutato gente che aveva bisogno in tutto il mondo. Questo è il mio ricordo su di lui». 

Lei si arrabbia se la chiamano neomelodico.

«Non sono un neomelodico. La storia è venuta fuori perché da ragazzino cantavo per strada e avevo quei capelli biondi a caschetto ma io coi neomelodici non centro nulla. Con le mie canzoni e i miei film negli anni Settanta ho anticipato quello che sarebbe diventato il fenomeno Gomorra. Io ho inventato il pop d'amore. Voglio semplicemente essere chiamato cantante napoletano. È per questo che ho avuto successo, che ho venduto milioni di dischi e ho cantato in posti come il Madison Square Garden. All'etichetta di neomelodico non ci sto. Ho fatto tanti sacrifici». 

A un certo punto si è avvicinato anche alla musica etnica.

«È molto ricca e variegata così ho inventato il mio etno pop. Mi piace considerarmi una specie di Khaled napoletano». 

E poi la sua musica ha suscitato l'interesse di un genio come Miles Davis.

«Quando mi dissero che Miles Davis ascoltava e apprezzava la mia musica non sapevo neanche chi fosse. Pensavo a un calciatore del Napoli. Poi l'ho scoperto e mi sono inorgoglito. Grazie a lui ho conosciuto Billy Preston - che chiamavano il quinto Beatle - e ho suonato con lui». 

Come è avvenuto?

«È venuto a trovarmi nel mio studio. Aveva ascoltato le mie canzoni da Miles e voleva conoscermi. Abbiamo suonato insieme e inciso Chicco di caffè. L'ha suonata la prima volta in modo divino come se la conoscesse da sempre o l'avesse provata prima». 

E di Gigi D'Alessio cosa pensa?

«Siamo amici. Si è creata ad arte la nostra rivalità per far parlare ma presto faremo quattro concerti insieme all'estero. Lui è più pop italiano, io più pop napoletano». 

Lei ama Napoli sopra ogni cosa.

 «Sì, e anche la musica, quella di Roberto Murolo e Sergio Bruni, anche se io sono piu un "bruniano", infatti ho dedicato un album alle sue canzoni. Ma amo anche Mario Abbate e la sceneggiata di Mario Merola. Comunque dal libro e dal disco chi vorrà potrà scoprire le radici ci questo amore». 

Rimpianti?

«Uno divertente. Quando girai il film Un jeans e una maglietta nel 1983 per soli sessanta biglietti non vinsi al box office contro Flashdance».

Il ritorno del cantante. Nino D’Angelo è diventato Nino D’Angelo nonostante Napoli. Antonio Lamorte su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. Quando Nino D’Angelo pubblicò il suo primo album, A’ storia mia, le radio “più importanti” non lo passavano: un amico che aveva messo sue canzoni in una radio di Casoria entrò in conflitto con il direttore e si licenziò. Mentre D’Angelo cantava nei teatri da Londra a Brooklyn, da Berna a Parigi, in quelli di Napoli trovava poco spazio. Quando decise di omaggiare Sergio Bruni al San Carlo: apriti cielo. Ricorda che solo lui e Gigi D’Alessio non vennero invitati tra i napoletani al grande concerto Pino è in memoria di Pino Daniele. Dopo aver riempito l’Olimpia di Parigi un giornalista di un quotidiano napoletano gli disse che “fenomeni come lei possono diventare pericolosi e bisognerebbe reprimerli”. E invece Nino D’Angelo, con tutta quanta la strada che ha fatto, la sua storia “’e nisciuno”, è tornato a 45 anni da quell’esordio con un album di inediti e un libro, entrambi dal titolo Il Poeta che non sa parlare, che anticipano il suo tour che partirà il prossimo marzo. Ad anticipare tutto il progetto il singolo Voglio parlà sulo d’ammore: e di cos’altro sennò dopo i mesi chiusi in casa per l’emergenza covid-19, a spezzare la paura a quattro mani con la moglie Annamaria, a trovare sui social il sostegno del “popolo delle mie canzoni”, come lo chiama lui. Quasi mezzo secolo di canzoni: dall’infanzia in quella terra di “scarpari” di San Pietro a Patierno, poi a Casoria, figlio di un calzolaio (appunto) e di una casalinga, primo di sei figli, detto “semmenzella” o “miezzumetro” per l’esile corporatura – e infatti volevano farlo sempre mangiare; quando arrivava un medico in casa per qualcuno facevano visitare anche lui, a prescindere. Il padre una volta gli indicò una bicicletta “bellissima” e quindi lo atterrò subito: “Questa non te la potrai mai comprare!”. E infatti lui voleva imitare il padre, fare il calzolaio, ma il nonno lo faceva sedere sulle gambe e gli cantava le canzoni napoletane, uno zio detto “o’ uallaruso” lo fece esordire a una festa e da quando cantò al matrimonio di un amico di famiglia cominciò a convincere perfino il padre. È un’autobiografia svelta e ricca di ricordi, di episodi memorabili, qualche rimpianto e un pugno di rancori, battute e aneddoti che come spesso succede con Napoli fanno passare dalla tragedia alla farsa, e viceversa, in poche righe. Si va dai matrimoni a Goffredo Fofi, dalla povertà a Sanremo, da Miles Davis a Maradona (la nuova Campiò campiò è dedicata al Pibe de Oro), dalla professoressa che lo descrisse come “il poeta che non sa parlare” alla ferrovia dove vendeva i gelati, dalla depressione alla galassia dei neomelodici, dalla sceneggiata a Mario Merola, dalla genesi del caschetto alla svolta world. Una vita intera e incandescente, per una buona porzione ai margini, attraversata con un’unica tuta ignifuga: la musica, il canto: “’e rose mmocca” della sua voce, come disse il suo primo discografico. E Napoli ovunque, sempre, intorno e soprattutto dentro. Anche se la Camorra gli sparò in casa – “uno dei colpi sfiorò la culla dove dormiva mio figlio Vincenzo” – e lui in un giorno prese e scappò a Roma. Dalla città cui doveva tutto e che pure lo ha allontanato, guardato con sospetto se non spregio, sminuito come quando dopo una tornata elettorale venne sollevato senza tanti complimenti dalla direzione del Teatro Trianon di Forcella: arrivederci e grazie. Questioni di classe, nella città del vicolo che però sa essere, da un quartiere all’altro, anche la metropoli più diseguale d’Italia nell’istruzione, nella mortalità, nell’occupazione. E infatti: “Sono fiero di restare il cantante di questa Napoli. Sono stanco al tempo stesso però di essere considerato l’artista solo di una certa parte della città. Sono stato sdoganato mille volte … ma aspetto ancora di passare la dogana”. Napoli che mentre Nino D’Angelo riempiva l’Olimpia di Parigi “al massimo, con tutto il rispetto, riuscivo a cantare al Teatro Arcobaleno di Secondigliano”. Napoli che quando al suo compleanno arrivò Sophia Loren “qualche parente invidioso disse persino che non era la Loren”. E quindi i quarant’anni D’Angelo decise di festeggiarli a Scampia, allora “quartiere simbolo delle periferie”, invece che a Piazza del Plebiscito. I 60 no: i 60 allo Stadio San Paolo, che Ciucculatina d’a ferrovia l’ha scritta per tutti, per tutta Napoli, mica solo per “il popolo delle mie canzoni”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Nino D’Angelo: «Mi spararono dentro casa, il giorno dopo lasciai Napoli. Miles Davis era un mio fan». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera 21 settembre 2021. Il cantautore: quando sposai Annamaria lei aveva 15 anni. La vita di Nino d’Angelo andrebbe raccontata per flash, scordandosi il caschetto biondo, scordandosi ’Nu jeans e ’na maglietta. I flash sono quelli che non ti aspetti o che non abbiamo voluto vedere. Miles Davis, per dirne uno. Il genio del jazz lo amava. Esiste l’intervista. È il 1986 e, sul Corriere, Davis dice a Paolo Biamonte: «L’altro giorno, ho sentito cantare un italiano che mi ha scioccato: Nino D’Angelo. Formidabile, potrei suonare la sua musica». L’aveva sentito in taxi e s’era comprato tutta la discografia. I flash sono certe scene, ma pure certe risposte di Nino. Tipo: «Mi avvisò il mio bassista la mattina. Fa: “Hai visto che ha detto Miles Davis?”. Dico “ma chi è? Un nuovo giocatore del Napoli?”. Onestamente, questo Davis non lo conoscevo. Sentivo solo i cantanti napoletani. Forse, i Beatles avrei riconosciuto». I Beatles, appunto. Il quinto dei Beatles, Billy Preston, quello che suonò in Let it be, quello che scrisse You’re So Beautiful per Joe Cocker, Nino l’ha avuto in suo disco: «Stava in Italia e venne lui da me, perché a casa di Miles Davis mettevano le mie canzoni. Io stavo facendo un disco, gli piacque Chicco di caffè, si mise a suonare il piano. E poi l’ha suonata nel disco, c’è proprio lui che suona. Quasi nessuno l’ha scritto». Tante cose quasi nessuno ha scritto. Altro flash: 1998, Quirinale, al cospetto di Oscar Luigi Scalfaro, sfilano i candidati al David di Donatello per la colonna sonora: «Ero lì per le musiche di Tano da morire di Roberta Torre. Il presidente viene e mi dice che il film gli era piaciuto. Mi sento mettere una mano sulla spalla e sento Roberto Benigni che mi fa nell’orecchio: hai vinto il David. Così fu. Benigni era candidato con Nicola Piovani per La vita è bella, era il mio avversario e non è che era uno qualsiasi. Ho battuto un premio Oscar, ma pure questo nisciuno l’ha scritto». Nino D’Angelo sta nella cucina di casa. Oggi, ha i capelli corti bianchi, dice «mi piacciono. Ho 64 anni. Sono nonno oramai». Vive a Roma. Da Napoli, se n’era andato nell’86, dopo il primo Sanremo. «Un tradimento alla sua città», dicevano i detrattori, ma lui adesso spiega: «Me ne sono andato perché hanno sparato due volte contro casa mia».

Chi? Perché?

«Proprio la camorra, volevano i soldi». 

Il pizzo?

«Vedevano il successo. Telefonavano, minacciavano. La seconda volta, hanno sparato dentro casa, il proiettile è entrato nella stanza dove mio figlio Vincenzo dormiva nel lettino. Siamo scappati in un giorno. Un peccato, perché devo tutto alla città, i napoletani mi adorano: piace che uno di loro ce l’ha fatta senza aiuti». 

A Napoli, quest’anno, gli abitanti di San Pietro a Patierno, dove è nato, hanno fatto una colletta per commissionare al celebre Jorit un murales con la sua faccia.

«Mi è sembrata una cosa troppo grande. Mi sono chiesto: ma perché l’hanno fatto per me?». 

E che si è risposto?

«Perché rappresento la periferia vera, quella dove nessuno passa: ci devi andare apposta. Ora ho trovato il quartiere come l’ho lasciato: uguale. Guardando la disperazione negli occhi delle persone mi sono messo a piangere e ho pensato che oggi sarei stato vecchio così, coi figli che vivono per sopravvivere. Mi è tornata la voglia di scrivere ed è nato il disco che esce il 15 ottobre». 

Toni Servillo le ha regalato un parlato in «Pane e Canzone»: «Il giorno e la notte hanno lo stesso sapore là dove la pioggia non cadeva mai sugli ombrelli, ma sulle teste di ragazzini che erano nati già grandi». Che acqua pioveva sulla testa di Nino bambino?

«Là, nun ce stava proprio niente. Nessuno ci diceva che la scuola era importante. A me studiare non piaceva, perché non piaceva a nessuno della famiglia. In terza media, per promuovermi, i professori mi fecero cantare la Marsigliese. Quelli sono posti in cui si nasce per non essere niente». 

E come si diventa qualcosa e qualcuno in un posto così?

«Incontrando la cultura. Quando non sai, non ti puoi difendere. Io, grazie al talento, ho conosciuto persone che mi hanno insegnato, anche solo andandoci a cena». 

Papà calzolaio, sei figli. Lei che bambino era?

«Ero il più grande, quello che, quando il papà si ammala, finisci le medie e vai a lavorare. Un giorno la professoressa d’italiano mandò a chiamare mamma, che subito mi diede due schiaffoni: era certa che la prof si voleva lamentare. Invece quella le disse che, quando scrivevo, non sembravo io: la dialettica era imperfetta, ma scrivevo pensieri più grandi di me. Disse: è un poeta che non sa parlare. È così che s’intitola il disco che esce: Il poeta che non sa parlare. Voleva farmi continuare gli studi, ma dovetti prendere il posto di papà malato, a vendere gelati alla stazione. Lì cantavo e la gente mi svuotava il banchetto. Poi iniziai a cantare ai matrimoni».

La sua famiglia come riuscì a trovare 500 mila lire per farle incidere il primo disco?

«Il papà di Annamaria, mia moglie, era autore di canzoni. Mi scovò a un festival amatoriale, vide il talento e praticamente mi portò a casa sua: mi ha fatto sentire normale, mai ultimo, mi ha fatto capire che ci stava una strada. Annamaria teneva 11 anni, poi è cresciuta e ci siamo innamorati. Suoceri e genitori fecero un debito per farmi fare un 45 giri. Andavano di moda le sceneggiate, scrissi A storia mia – o’ scippo. Per venderlo, mi spacciavo per il fratello di un carcerato, dicevo: compratelo, deve mantenere la famiglia. Vendetti 50mila copie». 

Il successo arriva cantando l’amore. «’Nu Jeans e ’na maglietta» vende un milione di copie.

«Un milione l’originale: con le cassette contraffatte, saranno stati cinque milioni». 

Il film incassò quasi quanto «Flashdance» e, al Sud, più di «Flashdance».

«Avevo indovinato un filone nuovo. Prima Mario Merola diceva che ero il suo erede nella sceneggiata, ma io non volevo essere il numero due e le sceneggiate cantavano malavita, guappi e questo non mi piaceva. Mi sono inventato di parlare d’amore ai ragazzi. Solo che i critici musicali non sapevano dove mettermi: quando sono nati i neomelodici, che mi scopiazzavano, mi hanno fatto diventare neomelodico, ma io avevo già fatto 15 anni di successo». 

Dopo fu Goffredo Fofi a sdoganarla, quando uscì «Tiempo», nel ’93. Scrisse che pochi si erano accorti che era «un autentico inventore musicale».

«Io mi sento ancora uno sdoganato che aspetta di passare la dogana». 

Che cosa le manca per sentirsi sdoganato?

«Al premio Tenco le mie canzoni non le conoscono neanche. Andare in tv non è facile. Per anni, mi è stato più facile avere l’Olympia di Parigi, la Royal Albert Hall di Londra o il Madison Square Garden di New York, che un teatro a Napoli. Per avere il San Carlo e celebrare Sergio Bruno è dovuto arrivare Roberto De Simone che ha firmato la composizione strutturale cameristica. Forse, per certa gente, il caschetto che ho avuto per anni ce l’ho ancora in testa». 

Che cosa canta Nino D’Angelo adesso?

«Da quando ho tagliato il caschetto, gli ultimi. Il sociale. Nel nuovo disco, Chillo è comme a te è su un ragazzo di colore che parla napoletano. Prima avevo fatto Italia bella, che se l’avesse scritta un altro ne avrebbero parlato tutti: “Italia c’a nun va’, l’Italia cu troppi ricchi ca nun vonno pava’...”. Bella, invece, parla di Napoli senza nominarla: “Bella ca nun tiene l’uocchie, ma quanta vote e chiagnuto...”. Vorrei essere conosciuto per Bella e per Ciucculatina d’a ferrovia». 

Quando e perché taglia il caschetto?

«Quando è morta mia madre, mi è venuta la depressione. Avevo il successo, finalmente a mammà non mancava niente e se n’è andata all’improvviso. Mi sono ripreso quando ho visto mio figlio Toni con un mio vestito addosso, era bellissimo e ho pensato: non posso stare così, ho due figli. È nato un altro Nino, un Nino padre, basta canzoncine. Sono ripartito da Sanremo, da Senza e giacca e cravatta». 

Suo figlio Toni, regista, ha detto: «Per me mio padre era come Michael Jackson, ma a lui interessava solo che leggessi Raffaele Viviani e Viviani mi insegnato tutto: come scrivere, come fare una scena, come dare voce a chi non l’ha».

«Viviani è l’unico che ho studiato tanto. E pensi che quando Servillo m’invitò a vederlo a teatro il titolo sui giornali fu che andavo a vedere Viviani, tipo l’ignorante che non conosce Viviani. Invece è stato fra lui e Peter Gabriel che ho imparato a mettere assieme musica e contaminazioni». 

Dopo intitolò a Viviani il teatro Trianon di Forcella, che ha diretto due volte. Perché la prima la cacciarono anche se gli abbonati erano cresciuti da 67 a quattromila?

«Perché me lo fece fare Antonio Bassolino, poi cambiò la politica e mi licenziarono. Forse il mio teatro portava cultura alla gente che non conta e questo sembrava pericoloso». 

Ci dona un ricordo del suo amico Maradona?

«Parlava e palleggiava da una spalla all’altra. Destra, sinistra. Sinistra, destra. Palleggiava e faceva discorsi di un’umiltà esagerata». 

Lei si sposò a 21 anni, sua moglie ne aveva 15.

«Facemmo la fuitina. I genitori dicevano che eravamo piccoli per sposarci. Lo rifarei, abbiamo due figli intelligenti, bravi, Toni laureato, Vincenzo quasi. Sono 42 anni di matrimonio e quattro nipoti». 

Di canzoni d’amore ne ha scritte centinaia. Amando sempre una sola donna, non finisce l’ispirazione?

«No, se non finisce l’amore. Ora uscirà Sultanto si perdesse a te . A una certa età, le persone che ami hai paura di perderle fisicamente. ’Nu jeans e ’na maglietta la scrissi guardando Annamaria che puliva casa. Le ho detto subito: questa è la canzone della vita. Infatti ha risolto tutti i nostri problemi». 

Quanto dice ancora «ti amo» a sua moglie?

«Ce lo diciamo tutti i momenti. Ce lo stiamo dicendo anche quando non ce lo diciamo».

·        Nino Frassica.

Francesco Borgonovo per "la Verità" il 27 gennaio 2021. Il 22 gennaio è morto a 82 anni Roberto Brivio, musicista, cantante e cabarettista che fu tra i componenti dei Gufi, uno dei più straordinari gruppi comici che l'Italia abbia mai avuto. I loro sketch, rivisti oggi, non perdono un grammo di genialità. I Gufi erano avanguardia e allo stesso tempo parlavano al popolo, erano grande teatro e osteria, leggerezza e ricerca musicale e testuale. Pur impegnandosi nella ricerca, è praticamente impossibile trovare nella televisione di oggi artisti di quel livello, capaci di intrecciare la grande letteratura con le risate anche grasse. Ci sarebbe Maurizio Milani, stralunato autore che definire comico è ingeneroso: però Milani scappa dalla tv, si è rifugiato nei libri e nei giornali, nicchia nella nicchia. Dunque il cerchio di restringe. Anzi, forse più che un cerchio abbiamo un punto, che segna la posizione esatta in cui è accomodato Nino Frassica. Uno che con i Gufi non ha niente in comune, all'apparenza: loro erano per tre quarti milanesi di nascita; Frassica è di Messina. I Gufi erano in bianco e nero anche nella realtà; Frassica è un coloratissimo regalo degli anni Ottanta e di Renzo Arbore, che s' innamorò di lui grazie a un messaggio che Nino gli lasciò sulla segreteria telefonica. Frassica, ovviamente, ricostruisce l'episodio a modo suo: «Non rispondeva, lui aveva la segretaria telefonica [...] Si chiamava Rossella, telefonavo dieci volte al giorno e chiedevo di Renzo ma lei rispondeva ogni volta con scuse diverse». Già da questo testo, tuttavia, si capisce che cosa c'entri il comico siciliano con Brivio e soci: con loro condivide la grazia. La capacità di pasticciare con le parole traendone esilaranti insensatezze. È uno stile antico, se vogliamo, lontano dalle sganasciate e dai tormentoni di Zelig, distantissimo dalle tiritere dei comici «impegnati» che negli ultimi anni hanno dominato la scena facendo satira a beneficio del potere. Non che evitare di schierarsi sia necessariamente un vanto, però infierire su politicanti che già da soli risultano grotteschi è facile, tutto sommato. Lo è molto meno tratteggiare dei tipi umani, pasteggiare con la realtà, digerirla e trarne sottigliezze leggiadre. Lo faceva in grande Paolo Villaggio, bulimico pure nell'ingurgitare i fatti di tutti i giorni. Frassica lo fa come per sbaglio, ma il gioco gli riesce alla perfezione, senza tante pretese da intellettuale, per giunta. Leggere per credere il suo nuovo libro appena pubblicato da Einaudi e intitolato Vipp, tutta la veritàne. Una carrellata di stupidaggini, in fondo, ma che bellezza. La politica la liquida in un soffio, con un garbato sberleffo a Salvini e Renzi e con una presa di posizione chiara: «Politicamente ero impegnato; frequentavo sia i fascisti che i comunisti e sempre da mio nonno mi feci fare dei cartelloni e degli striscioni di protesta», scrive. «Andavo in piazza Montecitorio a contestare: "Ladroniii! Politici corrotti e confusi! Basta immigrati stranieri, adesso vogliamo solo immigrati italiani!"». Frassica (mentendo) dice di aver scritto come se fosse un cronista: «Ho sempre sognato di fare il giornalista. "Il giornalista è il mestiere più antico del mondo"». E anche la nostra categoria è sistemata. Solo per Marco Travaglio si fa un'eccezione: «È fidanzato con Tina Cipollari. Si sono conosciuti dietro le quinte di Uomini e donne, perché a Travaglio interessava una vecchietta tronista». Segue accurata demolizione del circo della celebrità: «L'altra sera purtroppo ho perso le staffe con un ragazzo di 59 anni, un mio ammiratore di Reggio Calabria, si chiama o Rocco Misasi o Enzo Pappalardo», scrive Frassica. «Continuava a dirmi: "Signor Nino, lei è un Vipp Come mai è Vipp? Signor Nino, quanti Vipp conosce lei che è Vipp?". L'ho accoltellato». Vero, anche il signor Nino è Vip e lo sa, ma se la gode con discrezione: «A me non è mai piaciuta la povertà, forse per carattere (sono del Sagittario), ho sempre preferito - e preferisco tuttora - la ricchezza», ammette. Nella baraonda finiscono un po' tutti i famosetti. «Anche Carlo Conti, amico di Leonardo, prima di diventare Pippo Baudo ne ha fatti di sacrifici! Dai 12 ai 17 anni fece il passa elemosina. Si metteva di fronte ai mendicanti vestito bene e diceva ai passanti: "Signore e signori, buonasera e benvenuti a questo semaforo un saluto al maestro Pirazzoli Mi dia l'elemosina e gliela passo io a questo povero mendicante", e si tratteneva il 50% dell'elemosina». Chissà perché tra le pagine è facilissimo trovare Vittorio Sgarbi: «Vittorio ha 199 figli segreti, tra l'altro tutti maschi, come si tramanda nella famiglia Sgarbi, solo figli maschi, se era femmina la operavano. Il figlio segreto numero 171 di Sgarbi è sia figlio suo che di Bruscolotti a settimane alterne, ma né Sgarbi né Bruscolotti lo sanno, così lui si fa mantenere da entrambi ed è diventato ricco». Tra una Sabrina Ferilli («Tutti mi conoscono come Sabrina Ferilli, la Veritàne è che io sono un uomo, dopo gli esami di maturità mi sono operata e sono diventata donna: il mio vero nome è Carlo Sopraffosso») e una Valeria Marini («Il fidanzato nuovo di Valeria Marini è giovanissimo, ha 59 anni meno di lei»), balenano persino Fedez e la Ferragni. «Chiara Ferragni ha scoperto che Fedez aveva un figlio segreto. Lo ha scoperto una mattina a colazione, mentre Fedez alzava il braccio per prendere i cereali dal pensile della cucina, s' è accorta del tatuaggio sotto l'ascella con il nome e la data di nascita del figlio segreto. [...] Ora la Ferragni ha fatto fare una mappatura dei tatuaggi di Fedez e ha scoperto che c'erano un'automobile segreta, due amanti segrete, una lastra al menisco segreta, una casa segreta in montagna e la ricetta segreta del tiramisù della nonna». Il resto è un meraviglioso delirio, che culmina nella descrizione di immaginari reality show. Tra questi c'è il sublime L'antidoto: «12 concorrenti a cui viene offerta una cena in un noto ristorante, 12 portate. [...] Poi gli viene comunicato educatamente che le pietanze contenevano una sostanza che entro due ore avrebbe reso impotenti gli uomini e frigide le donne. In due ore devono trovare l'antidoto che li salverà ma ce ne sono solo undici dosi». Sarà pure folle, ma sembra descrivere perfettamente l'attuale piano vaccini: potenza della comicità disimpegnata...

·        Nick Nolte.

Arianna Ascione per "corriere.it" l'8 febbraio 2021.

Giocatore di football. Il bad-boy di Hollywood Nick Nolte l’8 febbraio compie 80 anni. Nato nel 1941 ad Omaha in Nebraska è cresciuto in Iowa e forse non tutti sanno che da giovane si è dedicato al football americano (suo padre era stato un giocatore della Iowa State University): dopo aver ottenuto il diploma ha giocato nelle squadre di diversi college (il Pasadena City College nel sud della California, l’Arizona State University a Tempe, l'Eastern Arizona College a Thatcher e il Phoenix College a Phoenix), ma ha abbandonato gli studi per scarso rendimento scolastico. Questa non è l’unica curiosità che riguarda l’attore, vincitore di un Golden Globe nel 1992.

Sex symbol. Nick Nolte è sempre stato considerato un sex symbol. Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta ha fatto il modello e nel 1992 la rivista People l’ha eletto Uomo più sexy al mondo.

I primi successi e la consacrazione. L’attore ha mosso i suoi primi passi come attore in teatro. A metà degli anni Settanta si trasferisce a Los Angeles e nel 1976 ottiene una candidatura agli Emmy Award per la sua interpretazione nella miniserie televisiva «Il ricco e il povero» (lavora con Talia Shire, futura Adriana di «Rocky» già vista ne «Il padrino»). Nei primi anni Ottanta arriva la svolta grazie a «48 ore», film diretto da Walter Hill (1982), in cui recita in coppia con un giovane Eddie Murphy. Gli anni Novanta sono quelli della consacrazione: Martin Scorsese gli affida il ruolo di coprotagonista con Robert De Niro in «Cape Fear - Il promontorio della paura» (1991), ottiene ottimi riscontri per «Il principe delle maree» di Barbra Streisand (con cui si guadagna la prima nomination all'Oscar e un Golden Globe) mentre l'anno successivo è accanto a Susan Sarandon ne «L'olio di Lorenzo» (1992) di George Miller. Nel 1997 è diretto da Oliver Stone in «U Turn - Inversione di marcia» (1997) e nei primi anni Duemila arrivano «Hulk» di Ang Lee (2003), il drammatico «Hotel Rwanda» (2004) e, nel 2008, la commedia diretta e interpretata da Ben Stiller «Tropic Thunder» oltre al suo primo fantasy «Spiderwick - Le cronache».

Doppiatore in «The Mandalorian». Nel 2019 Nick Nolte ha prestato la voce a Kuiil, personaggio della serie Disney+ «The Mandalorian». In passato si era già cimentato con il doppiaggio (ad esempio con Bernie il gorilla ne «Il signore dello zoo» del 2011 e Vincent nel film d’animazione del 2006 «La gang del bosco»).

Un film italiano. Tra i progetti più recenti di Nick Nolte c’è il film «Last Words» (2020) di Jonathan Nossiter, in cui ha recitato insieme a Charlotte Rampling, Stellan Skarsgaard, Alba Rohrwacher, Silvia Calderoni e Kalipha Touray: unico film italiano selezionato e candidato alla Palma d'Oro al «mancato» (causa pandemia) Festival di Cannes è stato girato in gran parte in Italia, tra il Parco Archeologico di Paestum e la Bologna sotterranea. Lo scorso anno è uscita anche la serie «Paradise Lost» mentre prossimamente l’attore farà parte del cast di «Blackout» nei panni dell’agente della DEA Ethan McCoy.

Litigi sul set. Sul set di «Inviati molto speciali» (1994) non è corso buon sangue tra Julia Roberts e Nick Nolte: i due hanno litigato durante tutta la lavorazione del film. Lei ha fatto di tutto per evitare di girare scene di baci (nel film ce n’è soltanto una) e le sequenze in cui comparivano entrambi sono state girate separatamente. A posteriori, al New York Times, Julia ha definito l’attore «un essere disgustoso, sembra faccia di tutto e apposta per essere repellente». A sua volta Nolte ha commentato: «Non è bello chiamare qualcuno “disgustoso”. Ma Julia Roberts non è una brava persona, lo sanno tutti».

Problemi con la giustizia. Nel 1965 Nolte è stato arrestato per la prima volta, per aver venduto documenti contraffatti: ha ricevuto una condanna a 45 anni di carcere e una multa di 75mila dollari ma la pena è stata sospesa. Non è stato il suo unico guaio con la legge: nel 2002 è stato arrestato a Malibu per guida in stato di ebbrezza ed è stato condannato a tre anni di libertà vigilata con l'obbligo di frequentare incontri su alcool e droga e sottoporsi a controlli casuali. In seguito è entrato in una struttura di riabilitazione nel Connecticut e da allora è pulito (nella sua autobiografia «Rebel: My Life Outside the Lines» l’attore svela di aver fatto uso di alcool e droghe per anni).

Attore meticoloso. Sempre nella sua autobiografia Nolte parla della sua meticolosa preparazione per i ruoli che deve interpretare: quando ad esempio ha prestato il volto ad un eroinomane in «Triplo gioco» (2002) ha fatto realmente uso di eroina per otto settimane, e ha davvero mangiato cibo per cani mentre vestiva i panni del senzatetto Jerry Baskin in «Su e giù per Beverly Hills» (1986).

Vita privata. Si è sposato tre volte: con Sheila Page (matrimonio durato dal 1966 al 1970), con Sharyn Haddad (dal 1978 al 1983) e con Rebecca Linger (dal 1984 al 1994) da cui nel 1986 ha avuto il figlio Brawley. Nel 2016, dopo 13 anni di convivenza, è convolato a nozze con Clytie Lane, madre di sua figlia Sophie (2007).

In versione cartoon. È apparso in versione cartoon in «South Park», come presentatore del Premio Nobel per la chimica nel secondo episodio della terza stagione, e nella serie animata «The Cleveland Show» (ottavo episodio della prima stagione).

·        Nyna Ferragni.

Barbara Costa per Dagospia il 7 marzo 2021.  “Sì!!! Sc*pami! Sono una gran tr*ia, adoro il tuo caz*o nel c*lo!” Chi è che dice e gode così? La Ferragni! Ma non è Chiara, e lo stallone a letto con lei non è Fedez, e però, sempre Ferragni è. Il fenomeno in questione non è bionda ma è mora, non vive a Milano ma a Monza (forse) e non ha (ancora) i milioni in banca e in followers dei Ferragnez, ma la sua ascesa è inarrestabile: lei è Nyna Ferragni, 23 anni, nuova star del porno amatorial e meglio conosciuta come "la Ferragni di Pornhub". Digitalo su Google, e guarda che roba: 'sta ragazza è una bomba a catturare i porno-mani! È assodato: i porno home-made, girati da coppie vere, che li postano su Pornhub, monetizzandoli al massimo, sono in pieno boom. Non so quanto e se durerà, cosa ne emergerà, fatto sta che Nyna Ferragni e il suo “moroso” scalano i siti porno: i loro video di sc*pate fatte in casa sono visti a milioni. E non si fermano, e non demordono, e io applaudo e tifo e lodo la forza e l’audacia e la bravura di questi 2 ragazzi qui. Sono partiti da niente, hanno iniziato per gioco, e oggi marcano la notorietà dei pornostar di professione. Ma è come ti dico, hanno iniziato per gioco: Nyna e il suo ragazzo stanno insieme da 7 anni, sono (erano) una coppia come tante, e prima del porno erano tutt’altro che disinibiti: facevano sesso "normale", e a loro stava bene così. A volte si riprendevano, mentre lo facevano, con lo smartphone, come fanno tante coppie. Tenevano tali video per sé. Un giorno hanno scoperto la sezione Pornhub amatorial, e ve ne hanno postato uno. Hanno ricevuto buone views e feedback. Ma non avevano intenzione di farlo diventare un lavoro vero, loro un lavoro "vero" lo avevano già. E forse sarebbero rimasti ignoti protagonisti di un video hot tra i tanti, se proprio sul posto di lavoro non gli avessero fatto problemi. I capi hanno detto a Nyna e al suo lui di togliere e mai più postare video simili, se non volevano essere licenziati. E come facevano, capi e colleghi, a sapere del video hot dei due ragazzi, i quali non l’avevano detto a nessuno? Semplice: come quasi tutti i nostri concittadini che si vantano integerrimi e "puliti", sono in realtà attenti e penitenti fruitori di porno (e va detto pure che Nyna ai tempi si faceva filmare a viso scoperto). Nyna e il suo ragazzo sono talmente in gamba che hanno mollato il loro lavoro "serio" per buttarsi e scommettere sul porno in rete. Ci hanno guadagnato in fama e in soldi: le entrate sono variabili ma maggiori rispetto a prima. Col porno, Nyna riconosce di esser cambiata, in meglio, e di essersi emancipata a livello economico, di più come persona. È da mummie illuse sognare il posto fisso, a paga mensile: devi muoverti, saperci fare, pensarti imprenditore di te stesso. Come fanno questi due qui. Senza stare a farti s*ghe mentali su cosa ne potrebbero pensare mamma e papà, e zii, e vicini di casa (che tanto stanno tutti davanti ai siti porno). Nyna Ferragni ha mutuato il nome d’arte dalla sua attrice preferita (all’inizio era Nyna21), e il cognome non dalla celebre Chiara ma su consiglio di un’amica. Il nome del suo lui (quello vero e quello d’arte) è sconosciuto, ed è sconosciuto tutto di lui tranne gambe, braccia, e il suo eccellente pene in dimensioni ma pure (evviva, complimenti!) in prestazioni. L’assoluta star dei video però è lei, Nyna Ferragni, di cui non sai il viso, sempre tagliato o celato dai suoi capelli, o da un braccio, o pixellato. Nyna lo fa perché vuole intelligentemente porre una netta barriera tra quel che è e fa in pubblico, e quel che è e fa in privato. Tu di lei gusti di più il suo lato B, suo punto di forza, dopo il seno che è stato rifatto prima del porno: il corpo di Nyna è minuto (è alta 1,54 e pesa 43 kg), e le sue natiche tornite primeggiano e attizzano quanto meritano. Ma l’asso nella manica dei "Ferragnez del porno" sta nei copioni che preparano per i loro video. Loro girano anche video di sola azione, puro sesso, senza preliminari né dialogo né niente, ma i migliori sono quelli a script commedia sexy anni '80. Sono i video in cui Nyna fa la studentessa che si è slogata una caviglia e riceve un "massaggio" dal suo fisioterapista, e sono quelli dove è una segretaria alle prime armi, e sono i porno dove inscenano il sesso tra patrigno e figliastra, o quando una persona inattiva (ad esempio che dorme accanto a loro) è "presente" ai loro amplessi. E sono quelli dove Nyna riceve sesso anale, e squirta e tanto, ed è squirting vero, e lei neanche sapeva di possedere tale capacità: è bastato poco, pochi tocchi, per… scoprirla (“io nei video non fingo”, ha detto Nyna a "Mondo Cane", “e dopo che squirto sono stremata: è un orgasmo diverso, è più di un orgasmo!”). Prossima tappa dei Ferragni del porno? Non sesso anale per lui (il suo lato B è off limits anche per il più mini strap-on) ma forse un porno a tre, anche se li frena la gelosia. Nyna porna pure by request, a pagamento, e se hai fantasie che desideri vedere da lei e dal suo lui materializzate su uno schermo, contattala: lei (ti) fa tutto, compresi video tutorial (i più richiesti, quelli su come fare una potente fellatio), anche se una volta ha rifiutato di girarne uno in cui doveva fare la pipì nel bidet mentre si masturbava.

·        Noemi.

Noemi a Le Iene: “Temo che la maleducazione dei social arrivi nella vita vera”. Le Iene News il 06 aprile 2021. A 5 anni dalla nostra prima intervista singola abbiamo incontrato di nuovo Noemi. Ci racconta di come ha vinto il bullismo per il suo peso e che oggi si è trasformato in insulti per aver perso chili. Ci parla anche di donne e social e ci canta la sua “Glicine”, la canzone che ha portato a Sanremo. “Prima ho subìto bullismo per il mio peso. Ci ho messo tanta testa per perderlo. Ho smurato il frigo”. Noemi è tornata a trovarci dopo la nostra intervista singola del 2016. Ci dice anche che cosa scatta secondo lei nella mente di chi insulta: “Forse perché vede nell’altro qualcosa che gli manca. Anche se ora mi insultano perché sono dimagrita. C’è sempre qualcuno a cui non gli va bene. La mia paura è che la maleducazione dei social arrivi nella vita vera”. Cinque anni fa l’avevamo trovato fedelissima del suo fidanzato e ci aveva detto che l’avrebbe sposato: promessa mantenuta due anni dopo. “Al matrimonio c’era anche Morgan che ha suonato l’organo, per fortuna non ha preso fuoco…”. A proposito del marito: lui ha preso il Covid, ma non lei. “Sto attenta a non attaccarlo a qualcuno meno forte di me. E comunque mi farò il vaccino”. Lei ha detto che ‘le donne sono fatte per essere madri’. “Sono ancora d’accordo, è una parte bellissima della vita di una donna”, dice. “Sono una donna che ama le donne e una donna che ama gli uomini che amano le donne”. E al ristorante l’uomo deve pagare la cena? “Meglio fare alla romana. E se un papà si sente felice ad avere una dinamica più casalinga perché dobbiamo farlo sentire in colpa?”. È favorevole all’aborto, al divorzio e all’eutanasia. “Certe piattaforme social vogliono approfittare del corpo delle donne soprattutto sulle ragazze minorenni”, dice Noemi che ci parla anche di come sia il mondo della musica. “Non è proprio "gender free". Se mi fossi chiamato Noemo avrei trombato tutte le sere…”, ironizza. Poi Noemi ci canta anche "Glicine", la canzone che ha portato a Sanremo 2021! 

·        99 Posse.

I trent’anni dei 99 Posse: “Non siamo il passato, nella politica c’è poco da salvare”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Trent’anni e sentirli tutti e festeggiarli “con atti continui di vitalità”. I 99 Posse, band napoletana, simbolo dei cosiddetti gruppi antagonisti, della sinistra estrema, di una generazione e di una gioventù più impegnata – quella dei primi anni Novanta. Della “fine della storia” e della caduta del Muro di Berlino e delle proteste della Pantera e del movimento no-global. Festeggeranno, dunque, con singoli nuovi e concerti. “Il passato lo teniamo presente ma non ci consideriamo un gruppo del passato”, rivendicano. All’inizio di tutto il civico 99 di via Emanuele Gianturco, ex scuola Stefano Falco, quindi Officina 99. Fondato il primo maggio del 1991. Studenti e collettivi universitari, soprattutto dalle facoltà di Lettere, Scienze Politiche, Fisica, Sociologia della Federico II. Eredi e superstiti del movimento della Pantera – movimento di protesta contro la riforma Ruberti delle università. Spazio (concesso infine in comodato d’uso dal Comune agli occupanti nel 2005) attivo sul territorio e quindi che significò anche nuova arte e nuovi artisti, in periferia. Gente come Andrea Renzi, Mario Martone, Pippo Delbono, Marlene Kuntz ed Enzo Avitabile. E quindi i 99 Posse. I fondatori Luca “O’Zulù” Persico, Marco Messina, Massimo “JRM” Jovine. “Abbiamo sempre praticato il non voto, la nostra idea di democrazia era il controllo popolare, la presenza nelle strade e nei luoghi di lavoro. Poi ci sono formazioni di sinistra vera che hanno la mia simpatia, ma il prezzo della loro coerenza è avere percentuali irrisorie in Parlamento”. A dirlo è Persico in un’intervista a Il Corriere della Sera, commentando l’attualità politica. I 99 Posse hanno pubblicato 22 anni, 10 in studio, 2 live. Il primo album nel 1993. Curre curre guagliò, anche nella colonna sonora del film Sud di Gabriele Salvatores. Sono tornati con un nuovo brano Comanda la gang, con una copertina di Davide Toffolo che riprendeva come trapper, il Presidente del Consiglio Mario Draghi, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e i leader della Lega Matteo Salvini e quello di Italia Viva Renzi. “C’è poco da salvare. Predichiamo da 30 anni l’urgenza di cambiare modello di sviluppo, partendo dal benessere delle persone. Siamo stati osteggiati da tutti quelli che stanno al governo, spesso in maniera forte, con il carcere e le denunce. E intanto si sono susseguiti in varie formazioni fantasiose tutti quelli che ci ritroviamo oggi”. Il gruppo in tra rap, patchanka, rock, elettronica è stato per anni punto di riferimento della musica antagonista, estrema sinistra, spesso al centro delle polemiche per i loro testi. Criticato anche per i riferimenti alle droghe: Persico racconta di non esserci “cascato: io avevo scelto l’autodistruzione e l’avevo scelta anche con una certa lucidità”. Ne è uscito grazie alla moglie Stefania e resta convintamente anti-proibizionista. I 99 Posse Tornano in un contesto piuttosto diverso rispetto a quello degli esordi: non sono più i tempi delle università occupate, del rap impegnato, degli spazi collettivi. Non va più di moda tutto ciò. “O’Zulù” comunque non svaluta i movimenti dei giovani di oggi. Come per esempio gli ambientalisti Fridays for future: “La nostra scintilla è nata nei centri sociali. Se ora nasce sul web ha identica dignità”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        Oliver Stone.

Oliver Stone: «Dopo l’omicidio Kennedy è iniziato il declino dell’Impero». Claudia Catalli su L'Espresso il 17 Novembre 2021. Ha smesso di credere nel sogno americano. Ma non nella ricerca della verità. Per questo il grande regista è tornato alla sua ossessione: JFK. “Era un guerriero della pace. Dopo di lui nessun presidente ha osato sfidare militari e intelligence o ridurre il budget per la difesa. Neppure Biden”. Tutto ebbe inizio dal cortometraggio “Last Year in Viet Nam”. Era il 1971, un giovane americano di ritorno dalla guerra in Vietnam con una serie di medaglie sul petto debuttava alla regia con un piccolo documentario. Il suo nome era Oliver Stone. Si era appena laureato alla New York University Film School con un certo Martin Scorsese come professore. La sua carriera da allora è diventata leggenda e il suo cinema, anche quello di finzione per cui è diventato famoso nel mondo con titoli come "Platoon” e “Wall Street”, “Nato il quattro luglio” e “Snowden”, è sempre rimasto fortemente ancorato alla realtà, con un piglio spesso polemico nei confronti degli Stati Uniti. Impossibile dimenticare lo scalpore che fece negli anni Novanta il suo “JFK - Un caso ancora aperto”, per la tesi del complotto tratta dal romanzo “JFK. Sulle tracce degli assassini” del procuratore distrettuale Jim Garrison (nel film Kevin Costner). Un clamore tale da portare all’atto di legge President John F. Kennedy Assassination Records Collection Act of 1992 (il famoso “JFK Act”) e alla formazione della commissione d’inchiesta U.S. Assassination Records Review Board, incaricata di riesaminare l’inchiesta successiva all’omicidio di Kennedy. Stone non ha mai mollato la presa, non ha mai smesso di indagare, approfondire, studiare carte e ascoltare testimoni sull’omicidio di Kennedy, tanto da riproporre trent’anni dopo un altro film, “JFK Revisited: Through the Looking Glass”, e una miniserie in quattro episodi, “JFK - Destiny Betrayed”, in cui riesamina nuovi documenti finora secretati. Presentati in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, andranno in onda rispettivamente su La 7 e su Sky Documentaries il 22 novembre, storica data dell’assassinio nel ‘63.

Perché l’omicidio di Kennedy ha ancora oggi un interesse così centrale nella sua vita e nella sua cinematografia?

«È stato un evento di portata storica a livello mondiale e ha prodotto un effetto a catena su quello che oggi definirei un impero in declino, quello americano. Kennedy era un guerriero della pace, cercava di cambiare il mondo, aveva iniziato una rivoluzione e poteva dar vita a una dinastia di presidenti che chissà come avrebbero cambiato, in meglio, il nostro Paese. Invece, dalla sua morte in poi l’America è come degenerata, tra scontri razziali, guerra civile, sfiducia sempre maggiore nei confronti dei leader politici e dell’informazione. Il mio interesse nasce proprio dalla frustrante delusione nel constatare che i media americani non si sono mai occupati dell’assassinio di Kennedy come avrebbero dovuto. Ovvero indagando, mettendo in discussione, facendo luce sulla verità. O sono stati pigri, oppure, come credo, complici».

Lei ha già firmato un film nel 1991. Come mai sentiva il bisogno di tornare sulla vicenda con un documentario e una docu-miniserie?

«In molti hanno giudicato di pura finzione il mio “JFK - Un caso ancora aperto”, anche se di fatto finzione non era. Mi attenni agli eventi realmente accaduti e ne feci una sorta di drammatizzazione. Allora gli elementi che riguardavano il suo omicidio erano talmente tanti e altrettanto disparati che cercai di condensarli dando loro una struttura narrativa drammatica per riuscire a catturare l’attenzione del pubblico. Questa volta il lavoro è stato totalmente diverso. Si tratta di un documentario puro (la miniserie è la versione originale estesa, il documentario la sintesi, n.d.r.) basato sulle indagini dello scrittore e attivista James DiEugenio che è riuscito a esaminare sessantamila documenti che sono stati desecretati, eppure nessuno ne ha parlato. Il tentativo è stato ancora una volta quello di seppellire il caso, insabbiarlo, non attirarvi attenzione, esattamente com’era successo ai tempi con il rapporto Warren».

Anche Tom Hanks sta producendo un film su Kennedy.

«L’ho saputo. Ogni volta che emergono nuovi fatti viene proposta una nuova forma di finzione che riguarda quegli eventi per cercare di distogliere l’attenzione. Era già accaduto qualcosa di simile nel 2014, con i programmi sulle emittenti pubbliche via cavo, come per spazzare via ogni possibilità di una teoria alternativa. Avviene sistematicamente dal ’64. Tom Hanks crede nel mito americano ed è tuttora convinto che l’America stia andando per il verso giusto, ha sposato la tesi anticomplottista dell’avvocato Vincent Bugliosi, tra l’altro confutato da DiEugenio punto per punto. Potete chiamare quelli come Tom Hanks ottimisti, ma secondo me non sono realisti».

Quando ha smesso di credere al sogno americano?

«Ci credo ancora in parte, sono nato sotto l’influsso del mito americano e non mi sento affatto un rivoluzionario. Sono un “evoluzionario”, semmai. Mio padre era un capitalista, a me piace credere nel socialismo, ma temo non funzionerebbe mai perché in America prevarranno sempre ideali come la libertà di fare, di migliorare, di progredire e di accumulare soldi, sempre più soldi, troppi soldi, uccidendo ogni competizione».

Che cosa risponde a chi da decenni la definisce un outsider?

«Io mi sento americano, ho servito il mio Paese in Vietnam. Solo, avrei voluto un Paese che cercava la pace anziché negoziare conflitti e prepararsi alle guerre come fa di continuo, spendendo miliardi su miliardi. Stringiamo accordi con i contractor basati su corruzione, errori, eccessi di budget e non c’è nessun controllo e nessuna punizione. Continuiamo a prepararci ininterrottamente per la guerra, facendo leva sulla paura della gente: investiamo miliardi nei caccia invisibili senza mai usarli, non sarebbe più utile spendere quei soldi per l’istruzione o per le strade? L’America è ossessionata dalla guerra e dalla difesa, arriverà un giorno in cui potremo usare il nostro potente arsenale, come è già successo in Iran, in Iraq e ora in Afghanistan. Abbiamo testato alcune grandi bombe e non hanno funzionato. La verità è che dopo Kennedy nessun presidente è stato in grado di sfidare militari e intelligence, o di ridurre il budget per la difesa che aumenta in maniera spropositata di anno in anno. Lo stesso Biden, che ha ritirato le truppe dall’Afghanistan, non accenna a ridurre questo budget».

Ha nominato di nuovo Kennedy. Non è che dopo un film di finzione, due documentari e una serie tv, sta pensando di girare un biopic su di lui, come ha fatto ad esempio con “Snowden”?

«Potrei farlo, e potrei sorprendervi. Tra l’altro potrei avere a disposizione ulteriore materiale: Trump promise la pubblicazione dei documenti ancora secretati nel 2017, all’ultimo FBI e CIA lo convinsero che non era possibile e cambiò idea. Confido che il cattolico Joe Biden si ricordi di Kennedy e degli oltre duemila documenti ancora top secret».

Che relazione ha con Hollywood e con i suoi tabù?

«Hollywood è il Cinema della Sicurezza Nazionale. Ti insegnano che non avrai mai successo se fai film politici, eppure io con “JFK. Sulle tracce degli assassini” l’ho avuto, e anche con “Salvador”. Tutto sta nel rendere l’argomento interessante e saper intrattenere senza annoiare. Quanto ai tabù, oggi l’omosessualità non è più un tabù, è stata sdoganata da “Will & Grace” e io stesso l’ho raccontata nel mio “Alexander”. Il vero tabù a Hollywood, semmai, è il sesso: non è un problema vedere due uomini che si baciano, ma due persone che scopano sì, qualunque sia il loro genere e la loro età. Siamo ancora un Paese puritano e moralista».

Si parla molto di inclusione nello star system americano e non solo, ma c’è una reale inclusione di chi è “diverso” anche a livello di schieramento politico?

«Ci sono film conservatori che vanno molto bene al botteghino, perché la gente ama le idee preconcette e adora vederle riproposte sullo schermo. Il pubblico ama la ripetizione, vedere volti sempre uguali, film spesso simili tra loro, è un modo per mantenere intatto e identico a se stesso il sistema “cinema americano”. Per fortuna c’è anche un cinema evolutivo, sperimentale, in cui si cercano nuove cose e c’è spazio per il cambiamento. Sono film che hanno un percorso molto difficile, incontrano mille ostacoli per essere finanziati, per circolare ed essere distribuiti, visti, accettati. Ci vuole tempo».

È capitato persino a lei di avere difficoltà a reperire finanziamenti per i suoi progetti?

«Mi sono trovato più volte a vivere questa situazione di “avanguardia”, chiamiamola così. Il nome non conta niente se hai tra le mani un progetto che giudicano in qualche modo scomodo. Mi è capitato con “JFK - Un caso ancora aperto”, con “Natural Born Killers”, persino con il mio documentario lungo dodici ore “U.S.A. - La storia mai raccontata”, che dovrebbe essere mostrato nelle scuole per dare loro un’idea chiara, meno propagandistica e più radicale, della nostra storia».

Il suo è un cinema che sa parlare alle nuove generazioni. C’entrano i suoi figli in questo, li coinvolge nei suoi progetti?

«Ormai i miei figli (Sean, Tara e Michael Jack Stone, n.d.r.) sono adulti e hanno la loro vita, non li costringo certo a vedere i miei film. Magari li vedono pure, ma non sono obbligati a farne parte o a dirmi cosa ne pensano. Mi piace però avere un dialogo aperto con le nuove generazioni. Non amando quelli che si spacciano per giovani non sarò io a farlo, cerco solo di mantenere alta e viva la curiosità per quello che accade. E resto un idealista: mi auguro che chi condivide le mie idee continui a seguirmi».

·        Orietta Berti.

Anticipazione da “Oggi” il 24 novembre 2021. Orietta Berti, dal 26 novembre su Rai 1 come giurata di The voice senior, confida al settimanale OGGI in edicola da domani di avere un grande rimpianto, il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo nel 1967. Il cantante lasciò un biglietto in cui scriveva di non poter sopportare di vivere in un Paese che mandava in finale il brano della Berti, Io tu e le rose. «Ancora oggi non credo che lui abbia scritto quel famoso biglietto. Non credo che fosse la sua grafia, anche Sandro Ciotti, uno dei suoi più cari amici, me lo confermò: c’erano quattro errori di ortografia, errori che Tenco non avrebbe mai fatto», dice Orietta. «Non ci ho mai creduto e mai ci crederò, ma per me è stata una pagina molto brutta della mia carriera e solo attraverso il mio pubblico che mi ha sostenuto sono riuscita ad andare avanti. Quella canzone fu molto amata».

Orietta Berti, l’over 70 diventata idolo dei giovanissimi. Angela Leucci il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Orietta Berti è diventata l'idolo dei giovanissimi, grazie a un approccio pop ma anche alla collaborazione con Fedez e Achille Lauro per Mille. La sua partecipazione al Festival di Sanremo 2021 ha stupito tutti: Orietta Berti ci ha riprovato attorniata da un nugolo di colleghi giovani e giovanissimi, riuscendo a catalizzare su di sé l’attenzione per l’intonazione, lo stile e quel fascino da testimone della canzone italiana. “Mi piaceva l'idea di partecipare insieme a tanti ragazzi giovani, che potevano essere i miei figli o i miei nipoti”, aveva raccontato in un’intervista a IlGiornale.it alla vigilia della kermesse. Ed è stata premiata dal pubblico: anche se la sua canzone “Quando ti sei innamorato” è arrivata al nono posto, Orietta Berti ha riscontrato un grande interesse del pubblico nei suoi confronti, in particolare tra i giovani. “Lo trovo troppo bello. Sono cuccioloni, rispettosi. Mi danno energia, entusiasmo e tante soddisfazioni”, ha spiegato la cantante al Corriere. E questo riscontro si è rafforzato nell’estate 2021 con la pubblicazione della cover della vecchia sigla di “Lupin” in versione mazurca romagnola e, in seguito, la collaborazione con Fedez e Achille Lauro per la hit “Mille”. “Un giorno mi chiama Federico e mi dice: ho trovato una villa vicino Roma con le palme alte come a Los Angeles - racconta Orietta Berti, parlando di Fedez e di Mille - Il primo giugno ci giriamo il video. E io: ‘Non posso, è il mio compleanno’. ‘Ma che ti importa, ne hai già festeggiati tanti, uno puoi passarlo con noi’”. E il primo giugno 2021 è stato in effetti il 78esimo compleanno di Orietta, che ha potuto festeggiare con un nuovo inizio di carriera, che le sta dando tante soddisfazioni tra le nuove generazioni. Non passa giorno che sui social network non spuntino scatti che la cantante realizza con i fan a margine delle esibizioni oppure dopo le presentazioni del suo libro, “Tra bandiere rosse e acquasantiere”: una foto ricordo con Ornella è il stato must dell’estate 2021, da conservare gelosamente ma al tempo stesso da esibire con Instagram e vantarsene con i propri contatti. “Durante i concerti - aveva detto la cantante ancora a IlGiornale.it - sono tanti i ragazzi che mi fermano dicendomi di aver conosciuto e amato le mie canzoni tramite i genitori. Di me hanno molto rispetto. Penso sia dovuto all’aver fatto tanti programmi, da “Canzonissima” a un ‘Disco per l’estate'. […] Per questo sono entrata nelle famiglie. Ho sempre fatto uscire in estate canzoni ironiche e in inverno le canzoni d'amore classiche. Tutto questo mi ha fatto conoscere per quello che sono, anche per le gaffe che faccio. Come sbagliando il nome come ho fatto con i “Maneskin”". “Mille” ha quindi debuttato su tutte le piattaforme online l’11 giugno 2021, esordendo al primo posto delle classifiche dei singoli e diventando in brevissimo tempo disco di platino. Non senza qualche polemica relativa soprattutto al product placement nel video. Il videoclip, sulla canzone a metà strada tra trap e classica canzone italiana (nella parte cantata da Orietta), ha un sapore vintage che ricorda i film con Esther Williams, ma in un technicolor saturato al massimo. “È piaciuta a tutti: bimbi, ragazzi, mamme e nonne - ha detto ancora Orietta Berti - Nessuno si aspettava un successo così clamoroso. Intonano tutti ‘Labbra rosso Coca Cola’. L’altro giorno una bambina in aeroporto me l’ha cantata per intero. Poi mi ha detto: ‘Scusa, non mi è venuta bene. Ti dispiace se ricomincio?’. Sul web abbiamo raggiunto 50 milioni di visualizzazioni, ma dobbiamo fare bene i conti”. Classe 1943 e al secolo Orietta Galimberti, “l’usignolo di Cavriago” è attivo fattivamente, dopo le prime esperienze giovanili, dal 1964, quando incise la cover italianizzata “Perdendoti” e un album in cui cantava le canzoni di Suor Sorriso, tra cui naturalmente la celeberrima “Dominique”. Il primo disco arriva nel 1966, quando Orietta partecipa inoltre al Festival di Sanremo con “Io ti darò di più”. Sul palco dell’Ariston la cantante tornerà più volte: nel 1967 con “Io tu e le rose” (vincendolo), nel 1968 con “Tu che non sorridi mai”, nel 1969 con “Quando l’amore diventa poesia”, nel 1974 con “Occhi rossi”, nel 1982 con “America In”, nel 1986 con “Futuro”. In questi decenni Orietta Berti ha inciso 28 album in studio, oltre ad aver preso parte a un paio di musicarelli e ha preso parte ad alcune fiction televisive e alcuni film, tra cui si segnala il documentario di Elisabetta Sgarbi del 2021 “Extraliscio - Punk da balera” e “I nuovi mostri” di Mario Monicelli, in cui Orietta interpreta una cantante dalla voce meravigliosa che viene sfruttata dal marito, impersonato da Ugo Tognazzi. Le canzoni di Orietta Berti sono entrate nell’immaginario collettivo: perfino il personaggio di Ugo Fantozzi rivela in un suo film che il suo brano preferito tra tutti è il celeberrimo “Finché la barca va”. E alla fama e al successo imperituro dell’interprete ha contribuito anche il suo approccio pop con il pubblico: negli ultimi decenni Orietta ha infatti partecipato a diverse trasmissioni televisive soprattutto a carattere musicale, ma lungi dall’essere una prezzemolina invadente è invece una presenza discreta e apprezzata, adorabile nel suo garbo e nel suo entusiasmo senza tempo.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Paolo Giordano per “il Giornale” il 2 settembre 2021. «Un attimo eh, Oriettaaaaa....». Osvaldo risponde al telefono di casa e chiama la moglie. Eccola. «Pronto? Non ho il cellulare, sa, perché lo perdo sempre. Ora ne tengo solo uno con i numeri grandi per i parenti e mi vergogno a portarlo in giro». Di Orietta Berti ce n'è una sola, altrimenti detta «l'usignolo di Cavriago», 78 anni compiuti, regina dell'estate pop con il brano Mille che canta con Fedez (47 anni in meno) e Achille Lauro (idem). «Ma nel nostro lavoro non contano gli anni di differenza perché per tutti vale la regola che domani si ricomincia sempre daccapo», spiega lasciando squillare la sua solita voce che sorride. 

Soddisfatta?

«L'altro giorno mi ha telefonato la Vanoni che mi fa: Io in 60 anni di carriera non ho mai sentito tante volte un brano in giro, in radio, dappertutto». 

Il ritornello è entrato nel linguaggio comune. Pierluigi Bersani ha detto a Conte: «Hai risolto un problema ma te ne restano mille».

«L'altra sera ero in provincia di Potenza e in platea c'era una signora di 101 anni con la pronipote di 5 e tutte e due insieme cantavano Mille».

Si aspettava un successo del genere?

«Quando l'abbiamo registrato, la mamma di Fedez aveva subito previsto: Questo brano prende quattro dischi di platino in due mesi. E più o meno è andata così». 

È ritornata al primo posto in classifica dopo 56 anni.

«Ho sempre portato avanti la tradizione italiana. Noi siamo un popolo melodico e non possiamo rinnegare le nostre radici. Oltretutto le canzoni italiane non invecchiano, il repertorio di Modugno o di Carosone secondo lei invecchia?».

Al massimo ha qualche ruga.

«Purtroppo sono gli italiani che spesso rinnegano le loro belle cose del passato». 

Orietta Berti, ha visto il successo mondiale dei Naziskin, pardon Maneskin?

«Bravissimi. Lo so che storpio sempre i nomi, non lo faccio apposta. Ad esempio Argentero lo chiamo Formentero. Non ci penso mica, eh, mi viene così». 

Ha ascoltato gli altri tormentoni dell'estate?

«Beh quello della Vanoni ha pure un bel video. Poi Pistolero di Elettra Lamborghini. Gianni Morandi? Non sono mai riuscita ad ascoltarlo per intero, è il brano di Jovannotti no? (dice così con la doppia enne, Orietta è sempre Orietta - ndr)». 

Sta pensando alla prossima stagione?

 «So che tornerò al tavolo di Che tempo che fa. Ma era già previsto». 

E poi a novembre The Voice Senior su Raiuno. Al posto di Al Bano.

 «Sì ne ho parlato con il mio manager. So che Al Bano da quanto mi hanno detto va a Ballando con le stelle. Ma io non ho ancora firmato il contratto per The Voice Senior. Ma sa che cosa mi sta accadendo?». 

Prego.

 «Mi stanno proponendo tante campagne pubblicitarie. Ho una richiesta enorme». 

Ma di che tipo?

 «Di tutti i tipi. Anche dolci». 

Dopotutto lei è golosa.

 «Sì sono golosa anche io, ma sono di famiglia diabetica e devo stare attenta. Poi sa che cosa le dico?». 

Che cosa?

«Che i dolci mi piacevano di più quando ero giovane. Adesso quasi quasi preferisco il salato». 

Forse Orietta Berti non è mai stata così popolare come adesso.

«Prima di andare al Festival di Sanremo, le copertine erano quasi tutte per me o per Amadeus. Dopo il Festival uguale: o lui oppure io». 

Tornerà al Festival?

«Se tornassi in gara sarebbe un suicidio. Magari una ospitata». 

Oggi la ascoltano anche gli adolescenti.

«E dicono: Ah, è così che si canta?». 

L'usignolo di Cavriago.

«La voce è un muscolo, bisogna allenarlo. Io canto un'ora tutti i giorni, anche in macchina. Mi metto in cuffia le basi delle mie canzoni e ci canto sopra». 

Come ha cantato la sua parte in Mille?

 «Ho seguito i consigli di Fedez che mi ha detto: devi essere ironica, come nella tua Via dei ciclamini». 

Ha fatto il vaccino anti Covid?

«Ho appena fatto la seconda dose, con pochissimo dolore. La prima volta mi è venuta la febbre a 38 ed ero piena di crampi. A Osvaldo è venuta la febbre altissima, quasi 40». 

Maledetta pandemia.

 «Quando ero malata di Covid sono stata malissimo. Però dovevo pensare anche ai miei animali, in casa ho 9 gatti, 2 cani e 3 pesciolini. Tosse o non tosse, tutte le mattine pulivo con la candeggina e l'amuchina anche per proteggere Osvaldo. Io avevo un focolaio di polmonite, lui due: ci siamo salvati solo perché in autunno avevamo fatto il vaccino contro il pneumococco, mano male va».

Mattia Marzi per "il Messaggero" il 30 luglio 2021. «Cari amici, posso darvi un consiglio? Vaccinatevi, perché con il vaccino staremo tutti più sicuri e potremo andare... a mille»: Orietta Berti cita la hit che a 78 anni, complice lo zampino di Fedez, l'ha resa a sorpresa la regina dell'estate, per sostenere sui social la campagna #MiAmo lanciata dal direttore sanitario dello Spallanzani Francesco Vaia per sensibilizzare sull'importanza di aderire alla campagna vaccinale anti-Covid. 

A chi è rivolto l'appello?

«A tutti, ma soprattutto ai giovani: quelli che hanno iniziato a seguirmi dopo Sanremo e il successo di Mille' sono tantissimi. Sui social mi mandano video in cui cantano la canzone o improvvisano bizzarri balletti». 

Lei si è vaccinata?

«Lo farò il 3 agosto. Una dose sola, perché ho ancora gli anticorpi: come noto, io il Covid l'ho avuto già a dicembre. Si contagiò anche mio marito Osvaldo: stette malissimo».

La malattia ha lasciato strascichi?

«Eccome. Dolori fortissimi alla schiena: Che succede?', pensai dopo le prime fitte. Ho fatto tac e risonanze magnetiche: alla fine i medici mi hanno spiegato che sono le conseguenze del Covid. Col tempo questi dolori dovrebbero andar via. Me lo auguro. Perché le fitte arrivano all'improvviso e mi costringono a sedermi e ad aspettare che passino. I giovani devono capire che vaccinandosi proteggono anche le persone della mia età, più vulnerabili di fronte ad un virus come questo». 

Dal 6 agosto per assistere ai concerti sarà obbligatorio il green pass: può essere un incentivo a vaccinarsi?

«Vediamo. Di fatto sarà possibile ottenerlo anche con i tamponi, quindi non saprei. A me tornerà utile per spostarmi da una città all'altra senza dovermi sottoporre continuamente ai test: il 7 suonerò a Ravenna, l'8 a Vasto, il 10 in Calabria...». 

Un calendario fitto: se l'aspettava il successo di Mille?

«Macché. È nato tutto come un gioco. Devo ringraziare Fedez perché ha insistito affinché io la cantassi. Ci siamo conosciuti a Sanremo: Orietta, ho una canzone estiva perfetta per tè. Quando mi ha detto che ci sarebbe stato anche Achille Lauro ho esultato: Bene, abbiamo fatto un terno al lotto. Fedez mi ha mostrato anche la copertina del singolo: Ma che l'hai fatta a fare? Il 45 giri mica esce..., gli ho risposto». 

Lo sa che ormai i singoli sono digitali e i 45 giri li stampano solo per i collezionisti?

«Me l'ha spiegato Fedez. I miei, di 45 giri, vendevano tantissimo. Fin che la barca va' arrivò a 9 milioni. Con Mille' non vedo ancora niente...». 

Ma come? È tornata al primo posto della classifica dei singoli più venduti in Italia, non succedeva dal ‘65. E poi a settembre sarà tra i giudici di The Voice senior.

«Me l'avevano già chiesto in passato, ma ero troppo impegnata: stavolta ho deciso di mettermi in gioco». 

A chiederle di registrare un appello sull'importanza dei vaccini non è stato un politico, ma un medico: si sente snobbata dai potenti?

«Sono stata io a prendere le distanze da quel mondo. Una volta per aver detto che Di Maio era un bel ragazzo, educato, per bene, me ne dissero di tutti i colori: mai più». 

In passato incise anche canzoni impegnate: era poco credibile?

«Io ci provai, ma non fui compresa. La barca non va più parlava della società italiana in crisi. Tarantelle' di un sindaco che faceva favori in cambio di denaro: anticipò Mani Pulite. E comunque non ero mai io a decidere quali canzoni incidere».

E chi decideva?

«Un collettivo che si riuniva e selezionava i vari provini».

La democrazia diretta applicata alle canzoni di Orietta Berti?

«È sempre stato così. I discografici prima di farmi pubblicare canzoni le facevano ascoltare agli operai della fabbrica. In base al responso sceglievano quale singolo far uscire. Per loro, evidentemente, quelle canzoni avevano un senso». 

Da huffingtonpost.it il 30 giugno 2021.  “L’idea è di Chiara Ferragni. Fedez voleva lasciarlo fare solo alle ragazze con i ventagli, poi Achille ha proposto che lo facessimo anche noi: loro con le mani, io coi ventagli. L’idea del balletto con le mani mi ha fatto morir dal ridere”. C’è lo zampino di Chiara Ferragni nell’ultima hit estiva del marito Fedez. E’ stata lei ad avere l’idea del balletto che accompagna il video di “Mille”, singolo in cima alle classifiche. Lo racconta Orietta Berti al Tv Sorrisi e Canzoni. “Fedez ha il senso della produzione: fa tutto e sa quel che si deve fare, e un uomo completo per questa società, per questo mondo. Come Achille Lauro. Sembra indifferente, annoiato, li per caso… Sembra che non sia sul pezzo… E invece è sul pezzo, eccome! Io poi l’ho sempre ammirato. Achille ha un’eleganza innata: sembra un uomo di altri tempi e invece e proprio un fenomeno attuale! Forse neanche lui si rende conto di essere cosi elegante, disinvolto e gentile…”  Nel corso di un’intervista rilasciata a Don Guido Colombo al Salento Book Festival, la cantante ha ricordato un altor aneddoto sulla sua vita: “Il Dalai Lama era a Milano per un evento e io dovevo intervistarlo per Fabio Fazio, durante un collegamento in diretta per Che Tempo Che Fa. Mi avvicino e il suo assistente mi dice che è ormai tardi e che non c’è tempo per l’intervista. Inaspettatamente però, il Dalai Lama in persona mi guarda e dice: ‘Le esce una luce dalla testa, voglio parlare con lei’. Al che io gli rispondo: ‘Sono le meches’. ‘Questo è meglio che non glielo traduco – è stata la risposta del suo assistente – sennò non la fa più la sua intervista’. Insomma, è stato così che ho portato il Dalai Lama da Fazio”.

Renato Franco per il "Corriere della Sera" il 3 luglio 2021. Il trio più improbabile dell'estate. Passi per Fedez e Achille Lauro, ma Orietta Berti ha l'aria dell'imbucata con i suoi capelli cotonati in mezzo a tutti quei tatuaggi. Eppure è un successo. «Mille» è in vetta alle classifiche dei singoli più venduti da due settimane consecutive; il video svetta tra i più visualizzati in Italia su YouTube. «Non avrei mai pensato un giorno di essere la più vista su YouTube - ride Orietta Berti -, ma nemmeno Fedez e Achille si aspettavano che questa canzone avesse un impatto così grande su generazioni così diverse. A Fedez l'ho detto: avessero preso una ventenne a cantare con loro era una cosa normale, invece con me fa tutto un altro effetto, ha un altro sapore. Anche il trio, rispetto al duetto, è stata una scelta più originale. Una volta si vendevano i dischi fisici, adesso si vendono in un'altra forma, però oh... va bene così».

Mai pensato di farsi un tatuaggio?

«Su di me non mi piacciono, l'unica eccezione sono le sopracciglia tatuate così quando mi trucco non devo stare lì a scurirle. Risparmio 10 minuti di trucco: di solito in 25 minuti mi rimetto a nuovo, è un bel guadagno di tempo». 

Non si direbbe ma con Achille Lauro avete in comune lo stesso stilista...

«Ci conosciamo da tempo, ci siamo sempre incontrati dietro le quinte delle trasmissioni tv, lui e la sua ironia romana. Lui si veste romantico, con le maniche a sbuffo, i polsi alti, i fiocchi al collo. Si mette anche le tute trasparenti, ma io sono una signora e non potrei mai. Se Achille si mettesse i miei abiti sarebbe davvero originale...». 

Beh, lo sembra già abbastanza... Nel brano viene citata e mostrata la Coca Cola, vi hanno pagato?

«Non lo so, ha fatto tutto Fedez. So però che esiste il rossetto "rosso Coca Cola" che io dovevo indossare ma su di me non stava bene, alla fine ho preferito il fucsia». 

«Hai risolto un bel problema e va bene così / Ma poi me ne restano mille». Quali sono stati i suoi «mille problemi»?

«Da giovane mi è mancato il papà che avevo 18 anni in un incidente, ci siamo ritrovati io, la mamma e la nonna, non erano tempi d' oro. Volevo fare la cantante ma non c' erano i mezzi di oggi. Non è facile come adesso che metti una canzone in Rete e la ascoltano migliaia di persone. Erano i problemi dell'economia, dell'avvenire, della professione». 

E i problemi di oggi?

«La salute. Io e mio marito abbiamo avuto il Covid, siamo stati molto male. Il pensiero è chi va via prima: io o Osvaldo? Questo è il pensiero fisso che viene a una certa età».

Lei è credente.

«Avere fede è il dono più bello, io ho avuto persone che mi hanno lasciato da giovane: senza Dio cadi nella disperazione, con Dio hai una colonna a cui ti puoi appoggiare. Se uno ha fede risolve metà dei suoi problemi».

È nata 78 anni fa a Cavriago (provincia di Reggio Emilia), nel suo paese c' è un busto di Lenin, la mamma era una comunista di ferro. Suo papà invece era molto religioso, devoto di san Giovanni.

«Con mio papà andavo a tutte le processioni. Era un tenore mancato. Era stato abbandonato dal padre e allora si è dovuto rimboccare le maniche e mettersi a lavorare. E il suo desiderio l'ha riversato su di me, voleva diventassi soprano, ma non ci sono riuscita perché quando è morto anche io come lui dovevo aiutare in casa». 

La svolta della carriera?

«La mia più grande fortuna è stata conoscere un discografico come Giorgio Calabrese. Da ragazza di provincia senza mezzi finanziari e di comunicazione (per fare le telefonate dovevo andare al bar del paese) mi ha fatto diventare una cantante popolare. Il mio successo lo devo a lui. E al pubblico. Non fu facile. C' era questo pensiero che fare la cantante non era un lavoro né dignitoso, né prestigioso, mentre adesso si sono capovolte le situazioni, il mestiere è molto più considerato. Anche se questo lavoro è un esame continuo, non sei mai arrivato, ricominci sempre da capo». 

La prof di canto disse che lei, «l'usignolo di Cavriago», era stonata...

«Ero come mio papà, talmente timida che non mi usciva la voce».

Oggi è tutto più facile, c' è anche l'autotune per chi è più cane che usignolo...

«Una volta c' erano tanti autori bravissimi nello scrivere, ma non a cantare e non potevano fare i cantautori. Adesso chiunque può farlo». 

È tutto finto?

«È come una donna che si mette a posto il naso, gli zigomi, si toglie il doppio mento, aggiusta la palpebra un po' pesante: è la chirurgia estetica della voce». 

Lei quanto la allena?

«Sempre, tutti i giorni, è un muscolo da tenere sempre in movimento. Mi metto le cuffie mentre mi occupo dei miei animali. Ho nove gatti in casa, due molossi e due pesci. I gatti non li faccio uscire, alcuni me li hanno rubati, altri non sono tornati, in casa stanno bene. Sono loro i padroni». 

Il suo trucco per la voce?

«Il peperoncino. Lo compro a Vasto quando è la stagione, quelli piccantissimi fanno bene alla voce. È come prendere il cortisone, che però a me fa ingrassare e non va bene. Il peperoncino, oltre a essere un concentrato di vitamina C, pulisce le corde vocali, la voce esce cristallina. L'ho sempre usato». 

Se non avesse fatto la cantante?

«Mi sarebbe piaciuto fare la maestra d' asilo.

Mia mamma invece mi diceva sempre che se le cose non fossero andate bene potevo entrare nella pesa pubblica che gestiva lei a Cavriago. Una volta tutte le merci passavano per forza da quella bilancia, mia mamma aveva sempre tanto lavoro: pesava animali, maiali, mucche, foraggi, frumento, un via vai di autotreni nella piazza. Ma a me non piaceva, andar lì dalla mattina presto alla sera tardi. Adesso è ancora lì la pesa, è diventata un'antichità da andare a vedere».

Lei è il ritratto della persona pacata, la cosa più trasgressiva che ha fatto?

«Le vacanze a Los Angeles e Las Vegas, negli ultimi quattro non sono riuscita ad andarci, ma ci sono stata per 26 anni: là mi vesto tutto in un altro modo, ho tutte le mie parrucche colorate, mi vesto d' azzurro con la parrucca azzurra, o rosa con la parrucca rosa. I miei amici là sono tutti gay, ogni sera abbiamo una festa, siamo sempre vestiti tutti strani...». 

Il suo vizio?

«Conservare le cose. Ho collezionato bambole, biancheria intima, camicie da notte, borse, scarpe con il tacco che non mi stanno più. E le acquasantiere, sono vere opere d' arte: c' è una parete piena nella camera azzurra a casa mia. Mio marito però dopo il terremoto non vuole più dormire lì perché ha paura di rimanerci secco... Adesso, dopo il successo di "Mille", credo che dovrò iniziare a collezionare ventagli». 

«Playmen» e «Playboy» le chiesero di posare nuda.

«Mi offrirono delle cifre da capogiro: ma chi le avrebbe sentite poi mia madre e mia suocera...». 

La critica che l'ha ferita di più?

«Venire trascurata o maltrattata dalla stampa italiana mi ha fatto sentire un po' un fantasma e mi ha addolorato, ma come mi è spesso capitato ho preferito girare gli occhi e guardare altrove». 

Tenco nel biglietto di addio disse che si suicidava come «atto di protesta contro un pubblico che manda "Io, tu e le rose" in finale».

«È un episodio che ha segnato me personalmente e la mia carriera. C' è stato un periodo in cui nell' ambiente mi schivavano tutti, i giornalisti non volevano intervistarmi e pensare che erano stati loro a non ripescare la canzone di Tenco. Ma sono convinta che il biglietto non lo avesse scritto lui, c' erano due errori di ortografia che mai avrebbe fatto. Per quella storia sono stata messa nell' angolo. Sono sempre stata tartassata, i giornali non scrivevano una riga su di me: eppure vendevo un sacco di dischi, eppure le mie canzoni sono state fatte in tutte le lingue, da gruppi famosi in tutta Europa». 

«Fin che la barca va» è la canzone che la identifica, eppure non le piaceva...

«Non diciamo quante copie ha venduto che poi sono sempre sottoposta a tasse in più... Io volevo una canzone d' amore e a me quel testo non piaceva. L'ho fatta a malincuore, ma avevano ragione i miei discografici». 

Non ha mai vinto Sanremo, le dispiace?

«Mi dispiace sì!». 

Un rammarico?

«Una canzone di Pace e Panzeri, "E lui pescava". Non mi piaceva proprio, ma l'ho fatta per gratitudine perché loro mi avevano fatto vendere milioni e milioni di dischi. Mi sembrava giusto farlo per loro». 

Con suo marito Osvaldo siete sposati dal 1967, qual è il segreto?

«Siamo fortunati perché abbiamo due caratteri completamente opposti: io sono estroversa, tiro fuori tutto, posso anche offendere e poi mi pento in un attimo come niente fosse; lui è capricorno, testone, permaloso. Ci siamo amalgamati. Facevamo tante piccole litigate, ma da giovani si fa presto: un bacetto e una carezza e si diventa più amici di prima. Adesso Osvaldo si stanca troppo a seguirmi, ha avuto tante operazioni agli occhi, soffre la luce e il rumore. E nel nostro ambiente c' è solo quello: luce e rumore».

Per chi vota?

«Un cantante non può essere legato a un partito, deve essere di tutti, come un arcobaleno».

"Da Lenin a Di Maio, vi racconto la mia rivincita..." Claudio Rinaldi il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Orietta Berti sta vivendo una seconda giovinezza: dallo snobismo dei radical chic di un tempo al grande successo con Fedez e Achille Lauro. “La vita è strana, a volte succedono delle cose inaspettate ed è proprio quello che mi sta capitando adesso”. A 78 anni, 55 dei quali passati a cantare su un palco, Orietta Berti sta vivendo la sua seconda giovinezza. Emiliana di Cavriago, figlia di una madre attivista comunista e di un padre “che non saltava una messa la domenica”, è sempre stata considerata icona della musica melodica italiana. Per questo snobbata per anni dal mondo radical chic della critica che a lei preferiva i cantautori impegnati, oggi si gode finalmente la sua rivincita: dopo la partecipazione a Sanremo, il brano “Mille”, inciso assieme a Fedez e Achille Lauro, è candidato a diventare colonna sonora dell’estate, d’altronde le 2 milioni e 500 mila riproduzioni su Spotify in meno di una settimana fanno ben sperare…

Orietta Berti se lo aspettava tutto questo successo?

“No, devo dire che mi sento molto fortunata. Ma ringrazio soprattutto il mio pubblico che mi è sempre stato vicino a differenza di una certa parte della stampa che in passato mi ha più volte criticato”.

Da dove arrivavano le critiche?

“Beh, con ‘Fin che la barca va’ ho venduto quasi 9 milioni di dischi, ma è sempre stata considerata una canzone qualunquista. La verità è che la mia musica melodica non piaceva ad alcuni giornalisti vicini al Partito Comunista ed è curioso visto che provengo da un paese, famoso per essere l’unico ad avere ancora un monumento dedicato a Lenin. E poi sa una cosa…”.

Cosa?

"Sono sempre stata una stacanovista delle Feste dell’Unità, dove ho cantato decine di volte. E poi i ricordi più belli della mia adolescenza arrivano proprio dalla Casa del Popolo. Penso a quando mia madre preparava i cappelletti assieme agli altri volontari e mi obbligava a sbandierare ai comizi la bandiera rossa”.

Oggi invece alle Feste dell’Unità non ci va quasi più nessuno…

“All’epoca c’era un senso di comunità e di aggregazione. Ci si batteva per degli ideali, ora non c’è più quell’entusiasmo”

E forse non ci sono neanche più i leader di una volta?

“Certo. Berlinguer dalle mie parti qualsiasi cosa dicesse, aveva sempre ragione”.

Viste le sue origini è paradossale che le critiche arrivassero proprio da quel mondo…

"Esatto, ma io non mi sono mai lamentata. Non ho mai rotto le scatole e non sono mai andata a letto con nessun altro se non con mio marito. Ho semplicemente aspettato che passasse l’acqua cattiva finché non è diventata pulita”.

Ci ha impiegato però 29 anni per tornare a Sanremo…

“Sì, e devo ringraziare Amadeus che ha ascoltato la mia canzone e mi ha voluto al Festival. L’ultima volta ci ero andata con Giorgio Faletti nel 1992”.

Ed è a Sanremo che è nato il rapporto con Fedez?

“Sì, è lì che mi ha proposto di incidere una canzone per l’estate. Mi ha detto che ne aveva una pronta. All’inizio pensavo scherzasse, ma poi dopo qualche giorno me l’ha inviata sul telefonino. È stato davvero di parola ed eccoci qui”.

Achille Lauro si è aggiunto solo in un secondo momento?

“Sì, anche lui era Sanremo. In quell’occasione mi aveva riempito di complimenti. Mi diceva che cantavo meglio di tutti…”.

Insomma un trio perfetto per un successo assicurato…

"Sono davvero due brave persone. Fedez ci sa fare, Achille Lauro è di una simpatia travolgente, fa morir dal ridere”.

Con loro al suo fianco le critiche sono scomparse?

“Sì, ma i giornalisti di oggi mi sembra abbiano meno pregiudizi. Ci sono stati anni in cui nessuno voleva intervistarmi, come se avessi la lebbra. Mentre a Sanremo quest’anno ho fatto anche 25 interviste al giorno”.

Quanto lavoro alla sua età…

“Sì, ma l’età per me non conta, è solo sulla carta d’identità”.

Ma allora qual è il suo segreto?

“Ho una voce ancora giovanile e poi io mi emoziono ancora ogni volta che salgo su un palco proprio come se fosse la prima volta. Con Fedez e Achille Lauro si è instaurata una bellissima collaborazione nonostante siano molto più giovani di me”.

Cosa pensa della posizione pubblica che Fedez ha preso a favore del ddl Zan?

“Credo abbia fatto bene. Sente sua quella battaglia e non sbaglia a esporsi. Sa parlare e poi chi l’ha detto che un artista non può dire ciò che pensa? È un vizio un po’ italiano quello di credere che i cantanti debbano stare in silenzio. Qualche anno fa in radio mi è capitato di fare un apprezzamento su Di Maio, dissi che secondo me era molto bello… non l’avessi mai fatto”.

Perché? Che cosa è successo dopo?

“All’epoca ero ospite fissa da Fabio Fazio. Una parte del Pd voleva addirittura mandarmi via dalla Rai. Apprezzai molto che tra quelli che presero le mie difese ci fu anche Salvini. Da quel momento sto molto più attenta a ciò che dico”.

Ma almeno un giudizio su Draghi possiamo strapparglielo?

“È sicuramente una brava persona. Certo, da lui ci aspettiamo i miracoli. Ma non credo spettino a un politico…”.

E della vicenda di Saman cosa ne pensa?

“È una storia tremenda. Come si fa ad ammazzare la propria figlia? Non c’è tradizione o religione che tenga…”.

Ma l’Islam secondo lei è colpevole?

“I musulmani in Italia non sono tutti così anche perché altrimenti avremmo una strage. Per me è soprattutto una questione d’ignoranza. Ci vuole più buonsenso e amore”.

Amore come quello che lei prova per suo marito Osvaldo?

“Osvaldo è la mia colonna, dopo 54 anni di matrimonio abbiamo ancora lo stesso entusiasmo di un tempo”.

Orietta Berti è riuscita a superare anche il Covid, è davvero invincibile?

“È stata una prova durissima, ma non mi sono mai fermata neanche con 39 di febbre. Ho continuato ad occuparmi delle faccende di casa, d’altronde con 9 gatti e 2 cani molossi non potevo fare altrimenti”.

Una superwoman che si è già vaccinata?

“No, non ancora perché ho ancora tanti anticorpi. Mi hanno consigliato di aspettare un altro po’. Ma non vedo l’ora di vaccinarmi”.

Preferenze sul vaccino?

“No, non scherziamo. Mi fido della scienza, mi prendo quello che mi danno. Solo così potremo tornare alla normalità”.

Claudio Rinaldi. Giornalista. Televisivo per Quarta Repubblica (Rete4). Web per ilGiornale.it. Carta stampata per il Corriere della Sera (Roma). Ma anche direttore di TheFreak.it. Nella vita dj a tempo perso. Cestista ogni tanto. Interista sempre. Romano d’adozione ma lucano fino al midollo.

Oggi è un altro giorno, Orietta Berti e il dramma Covid: "Due giorni dopo essere venuta qui, mi è venuta la febbre a 39". Libero Quotidiano il 22 aprile 2021. Quando ha scoperto di essere positiva al Covid, Orietta Berti ha vissuto un momento non facile, che l'ha messa in grave difficoltà. "Due giorni dopo la mia ultima ospitata qui mi è venuta la febbre a 39”, ha raccontato la celebre cantante in un'intervista con Serena Bortone a Oggi è un altro giorno su Rai 1. Tra l'altro, l'artista non è stata l'unica a contrarre la pesante infezione in famiglia. "Mio marito Osvaldo è stato molto più male di me, ora per fortuna si sta riprendendo ma ha perso 16 chili. Mio figlio, invece, che è sempre stato in casa con noi, non è stato contagiato", ha spiegato la Berti. Che poi ha parlato anche del suo rapporto complicato con la collega Ornella Vanoni, con la quale ha interpretato "Io ti darò di più". "Non voleva che fossi io a cantare con lei,  preferiva fosse un uomo per avere un’altra versione del brano - ha detto Orietta -. Alla fine ho cantato io. Ci siamo accontentate di vendere i dischi ognuna per conto suo". Mentre in passato i rapporti con la Vanoni non erano dei migliori, oggi invece pare andare tutto a gonfie vele tra le due. Lei stessa lo ha sottolineato nel corso dell'intervista: "Siamo amiche e ci telefoniamo ogni settimana”. Infine, la cantante ha ricordato con nostalgia il rapporto con suo padre, che lei ha perso da piccola: "Non ha avuto il tempo di vedere le gioie che il mio lavoro mi ha dato”.

L'incontro senza freni con Orietta Berti: "La mia verità su Sanremo". Orietta Berti festeggia 55 anni di carriera e nella nostra intervista racconta la sua vita, l'amore per il canto e la sua terribile esperienza con il Covid. Roberta Damiata - Ven, 12/03/2021 - su Il Giornale. Una grinta pazzesca che a Sanremo l’ha imposta per la sua simpatia e per la capacità di cantare senza avvalersi di nessun mezzo tecnico, se non la sua voce. Questa è Orietta Berti, il vero patrimonio nazionale del bel canto. Tra gaffe, ricordi, nostalgie e il racconto del palco di Sanremo. Ma anche quello della sua vita che ha messo nero su bianco in un libro: “Tra bandiere rosse e acquasantiere” (Rizzoli). Un racconto che parte dalla sua infanzia quando era un vero maschiaccio, che ha rischiato di morire affogata lanciandosi con la bicicletta direttamente dentro un fiume.

Leggendo il suo libro si intuisce ancora di più questa sua forza pazzesca. Da dove nasce?

"Sicuramente dalla mia educazione e dalla voglia di fare questo lavoro che ti occupa ventiquattro ore al giorno. Io sono una grande lavoratrice e per questo stare ferma da un anno senza fare concerti è stata dura. Sanremo mi ha regalato la gioia di poter cantare con una grande orchestra e questa cosa mi ha rincuorato".

È stato questo il motivo che l'ha spinta a partecipare alla gara e a mettersi in gioco, quando vista la sua carriera poteva essere un super ospite?

“Sì. Inoltre mi piaceva l'idea di partecipare insieme a tanti ragazzi giovani, che potevano essere i miei figli o i miei nipoti. Questa è stata un'esperienza bella, unica ,che però spero non si ripeterà più in questo modo. Perché vivere un Sanremo così isolati, facendo le interviste online o arrivare al teatro da sola è stato per me un po' desolante. Non c’era la gente, non c’era neanche un fiore, non sembrava neanche Sanremo. Solo dietro il palco l'atmosfera era la stessa. La stessa confusione di venti anni fa, con gente che inciampa sui cavi, che entrava nel modo sbagliato e l'assistente di studio sempre arrabbiato. Quando entravi sul palco però, vedevi questa immensa orchestra e le poltrone che con le ombre sembravano occupate. Per fortuna non vedevamo la desolazione dei posti vuoti”.

Ha parlato di giovani, c'è stato qualcuno tra i partecipanti che le ha chiesto qualche consiglio?

"Quasi tutti. Tutte le mattine io e Francesca Michelin facevamo un programma che si chiamava "Quattro chiacchiere tra ragazze”. Ci siamo divertite tanto e siamo diventate molto amiche. Ci sentiamo tutt'ora. La maggior parte dei ragazzi mi chiedeva perché non usavo gli auricolari per sentire la mia voce, ma io sento benissimo con i monitor. Il mio consiglio per loro è stato quello di scandire bene le parole mentre cantavano, perché sono quelle che mandano il messaggio della canzone. Se non si capiscono, la gente non percepisce proprio la canzone. Inoltre scandendo bene le parole si è più intonati".

A proposito di questo, tutti hanno apprezzato il fatto che fosse l’unica a cantare senza auto-tune. Perché secondo lei i giovani ne hanno bisogno, mentre i cantanti della sua generazione no?

“Perché credono che l'unico modo di cantare sia con questo mezzo. A volte invece questo microfono che altera la voce, non fa comprendere bene le parole, che come ho già detto sono molto importanti”.

Sia Fedez che i Maneskin hanno pianto sul palco di Sanremo. Lei invece è stata molto tranquilla. È una questione di esperienza o di carattere?

"Entrambe le cose. Loro sono dei cuccioloni. Fanno spesso i duri ma in fondo sono teneri e si emozionano facilmente. Ed è bello che lo facciano. Io più che altro guardavo alla tecnica per l’intonazione, perché la gente da me, almeno il mio pubblico, si aspettava che eseguissi la canzone nel miglior modo possibile. Inoltre l'emozione dopo tanti anni riesci a trattenerla dentro di te”.

Nel suo libro “Tra Bandiere rosse e acquasantiere” (edizioni Rizzoli) ha scritto che non ha mai avuto paura di niente: dell'emozione del palco, ai serpenti o a prendere un aereo. Questa sua caratteristica, l'ha aiutata nella vita?

"Sì specialmente nel mio lavoro. Spesso ti capita di partire all’ultimo momento, o di non essere preparata, o fare una cosa inaspettata che devi risolvere in due minuti. Il mondo dello spettacolo è questo, devi essere sorridente anche quando sai che hai perso una persona cara. La prima sera del Festival ad esempio, il maestro che mi dirigeva aveva perso la mamma nel pomeriggio. Io l'avevo conosciuta perché la signora Angela, mentre eravamo in sala di registrazione, ci portava i caffè. Lui si era raccomandato a tutti di non dirmi niente e l'ho saputo quando siamo tornati in albergo. È stato un grande gesto e l'ho ringraziato molto, perché questa notizia mi avrebbe messa in agitazione sapendo che lui doveva dirigere con questo dolore. Questo è solo un esempio per dire come nel mondo dello spettacolo tutto deve andare sempre avanti”.

Per l'Italia lei è un simbolo, ma la cosa particolare è che riesce ad unire sia la vecchia che la nuova generazioni e non è una cosa così scontata. Si è chiesta perché?

"Durante i concerti sono tanti i ragazzi che mi fermano dicendomi di aver conosciuto e amato le mie canzoni tramite i genitori. Di me hanno molto rispetto. Penso sia dovuto all’aver fatto tanti programmi, da “Canzonissima” ad un “Disco per l'estate”. All’epoca queste trasmissioni duravano molto. Canzonissima ad esempio cominciava il 6 di settembre e finiva il 6 di gennaio. Per questo sono entrata nelle famiglie. Ho ho sempre fatto uscire in estate canzoni ironiche e in inverno la canzone d'amore classiche. Tutto questo mi ha fatto conoscere per quello che sono, anche per le gaffe che faccio. Come sbagliando il nome come ho fatto con i 'Maneskin'. Ho sempre raccontato tutto di quello che mi succedeva. Ho fatto per cinque anni i “Quelli che il Calcio" come opinionista in giro per il mondo, quando di calcio non me ne intendo per niente. Alla fine raccontavo gli aneddoti che mi succedevano in famiglia. Ho lavorato con Maurizio Costanzo a “Buona Domenica”, e la gente ha potuto capire di me tante cose come cantante ma anche come donna di casa o amica ".

Nel libro ha raccontato due episodi, entrambi di quando era bambina. Il primo quando stava per affogare nel letame, e il secondo di quando suo padre, dopo una sua lunga insistenza, le ha regalato una bicicletta. Lei ha pensato bene di scendere con quella una scalinata ed è finita dentro un fiume rischiando di affogare. Ha scritto che era un vero maschiaccio, continua ad esserlo tutt’ora?

"No non più, solo in quel periodo perché nella mia compagnia c'erano più maschietti che femminucce. Quindi io volevo imitarli ed essere come loro. Anche la bicicletta avevo voluto da uomo".

Fa ancora la collezione di acquasantiere? Quante ne ha ora?

“Ne ho 90 appese, ma ora non le metto più. Ogni tanto qui c'è una scossa di terremoto e rischiano di venirci addosso ed essendo di marmo sono pericolose. Per questo io e mio marito abbiamo anche cambiato stanza da letto e ci siamo trasferiti in quella di mio figlio, perché è più sicura".

Da piccola sognava di fare la maestra, è stato suo papà che l'ha spinta a fare la cantante. Si è mai pentita di questa decisione?

"No mai. Durante i primi concorsi ho conosciuto Giorgio Calabrese il mio pigmalione. All’epoca se non avevi una persona che ti rappresentava non andavi da nessuna parte. Non è come adesso che con i mezzi di comunicazione si presenta un brano e in poco tempo lo conoscono migliaia di persone. All’epoca per andare a fare un provino in una casa discografica doveva esserci una persona conosciuta che ti presentava, altrimenti non ti aprivano neanche la porta. Ho avuto la fortuna di avere Giorgio Calabrese che allora era un grande autore, sia televisivo che di canzoni. Ha scritto tutte le canzoni di Bindi, tantissime sigle per Mina e per Ornella Vanoni. Era in giuria in un concorso di voci nuovi e mi ha subito preso a ben volere facendomi andare a Milano a fare dei provini. Però non aveva solo me. C’erano anche Fabrizio De Andrè, Memo Remigi e altri autori diventati famosi nel tempo, come Zambrini che ha scritto tutte le canzoni di Morandi. Noi andavamo con lui, però poi era la casa discografica che sceglieva. Sono stata fortunata perché sono capitata in una multinazionale. Erano tutti stranieri che amavano il bel canto italiano e quindi mi hanno fatto lavorare, perché per loro ero una vera cantante italiana, ed era questo che cercavano".

È stata soddisfatta del posto in classifica a Sanremo o si aspettava qualcosa di più?

“Sono stata felice di essere entrata nei primi dieci, che mi sembra un buon risultato. Avevo contro colossi come Madam o Fedez che hanno tantissimi follower, quindi non potevo pretendere oltre. Poi ho visto che tanti giovani mi hanno votato oltre a mandarmi bellissimi messaggi. Un ragazzo giovane mi ha scritto: "Orietta, ho capito ora come si canta".

Che rapporto ha con le critiche?

"Le ho sempre apprezzate perché ti aiutano a migliorare, soltanto che mi dispiace quando le fanno senza conoscere le cose".

La critica brutta di Sanremo?

"Un giornalista ha detto: 'Era meglio che la Berti stava a casa seduta sul divano a guardare gli altri cantare'. Io sono andata a Sanremo perché è il festival della Canzone Italiana, e ho portato il bel canto. Non credo di aver preso il posto a nessuno, perché erano 29 anni che mancavo".

La più bella invece?

"Ne ho ricevute tante. Quella che mi è piaciuta di più è stata: 'Orietta nel tempo la tua voce è migliorata, hai delle basse che vibrano e degli acuti che ci fanno sognare'".

Prima di Sanremo lei ha avuto il Covid come ha vissuto quel periodo?

"Mi sono spaventata tanto perché non riuscivo a respirare. Non ho mai dormito sdraiata, sempre seduta perché non potevo schiacciare i polmoni. È stato molto brutto. Mio marito ancora più di me è dimagrito sedici chili. Ora per fortuna si sta riprendendo ma questa infezione lascia degli strascichi importanti. A volte mi vengono improvvisamente dei gran mal di schiena e mi devo sedere subito. Oppure un fiatone improvviso o un gran mal di testa dietro la nuca. Il dottore mi ha detto che sono tutti residui che lascia la malattia anche se è passata. Spero di potermi vaccinare dopo maggio quando finiscono gli anticorpi che ho fatto con il Covid.".

Parlando di cose più allegre, lo farebbe mai un reality?

"No perché ho una casa troppo grande e la maggior parte la pulisco io. Inoltre ho tanti animali, nove gatti in casa, tre pesciolini e due cani Corsi. Quando non ci sono, diventano matti. La sera che sono tornata da Sanremo sul letto avevo tutti e nove i gatti e i cani non smettevano di abbaiare. Gli ho dovuto dare qualche premio di cibo per farli calmare".

Nino Luca per il Corriere della Sera il 9 marzo 2021. «Io l' ho vinto il Covid. Sono piena di anticorpi. Però devo stare lo stesso chiusa in camera». Orietta Berti, 77 anni, al dodicesimo Sanremo, senza mai vincere come sottolinea lei stessa, è rinchiusa in una splendida suite vista spiaggia al Grand Hotel del Mare di Bordighera.

«Non possiamo uscire, dobbiamo farci il tampone tutti i giorni. Al mattino arrivano sia il pranzo che la cena, possiamo solo mangiare in camera. Interviste dalle 9,30 alle 18 su pc, che non so usare. E guardi che lettone. Uno così grande l' ho visto al Getty Museum di Los Angeles ed era del re Sole. Non lo disfo mai, uso un angolino».

Sanremo nel segno dell' avventura. I vestiti ad esempio «La prima sera la polizia mi ha fermata davanti al Casinò perché alle 23 stavo andando a prendere i miei abiti in un albergo in centro. Non mi credevano, così mi sono tolta la mascherina e ho detto: "Sono Orietta Berti". Mi hanno risposto che mi avevano riconosciuta dal ciuffo ma che dovevo rimettere la mascherina. Poi una pattuglia ci ha seguiti fino all' Ariston. Qui si sono scusati: "Va bene signora, lei ha detto la verità". Avrei potuto chiedergli di votarmi».

In un' intervista ha detto che avrebbe voluto duettare con Ermal Metal e coi Naziskin.

«Coi Maneskin ho pure cantato a Zurigo. Ermal lo conosco benissimo. Mi ha difeso quando tutti si chiedevano che ci andassi a fare al Festival. Che le devo dire? Succede quando si parla molto. A volte emetti dei suoni che il cervello non ti fa seguire bene».

Le succede spesso?

«Mi succede sempre. Al tavolo di Fazio ho chiamato "Formentero" l' attore Luca Argentero. Però anche a me stravolgono il nome: Orietta Bert!

Sui manifesti a Bari c' era scritto: "Ospite d' onore Orietta Berty". Con la y finale. "Signora le abbiamo fatto il nome più moderno". Ma le pare?».

Ha portato i suoi biscotti?

«Certo, i biscotti dell' Orietta, fatti con una vecchia ricetta della mia mamma (intanto ne tira fuori due sacchetti, ndr ), me li hanno richiesti Amadeus e Giovanna (la moglie del conduttore, ndr ). Ma non sono ancora riuscita a darglieli».

Suo marito Osvaldo ha commentato?

«Lui è sempre critico. Mi ha detto: "Devi essere meno tecnica e devi emozionare di più". Cioè usare quel tremolio della voce... Ma io non ci riesco. Uso la tecnica».

Ne ha sentiti di colleghi un po' stonati, no?

«Sì, ne ho sentiti tanti anche se avevano il microfono con l' autotune. Credono che cantare sia facile. Invece bisogna sempre tenersi in allenamento perché la voce è un muscolo. Se non ti alleni dopo 5-6 frasi della canzone diventi stonato».

Quante ore al giorno allena l' ugola l' usignolo di Cavriago?

«Mi alleno mentre faccio le pulizie. Ho la casa molto grande e tanti animali: nove gatti e due molossi. Mi danno molto da fare, così metto le cuffie e canto».

Ibrahimovic l' ha incontrato?

«Sì, gli arrivo esattamente alla cintura. A me fa paura un uomo così grande. Però mi ha fatto un sorriso».

È più lunga la carriera o il matrimonio?

«Il 14 di marzo festeggio 54 anni di matrimonio. Di carriera sono 55. Il primo lo festeggio cucinando in casa per mio marito visto che non si potrà uscire. La seconda con un cofanetto con i miei successi».

E complimenti ne sono arrivati?

«Come diceva Hemingway mi porto a casa tanti sogni realizzati. Tantissimi elogi anche da persone che non mi aspettavo. Tutti i miei colleghi mi hanno telefonato: Ornella Vanoni, Tiziano Ferro, Iva Zanicchi, Cristiano Malgioglio».

Di chi è il messaggio più simpatico?

«La Bertè mi ha detto: "Sei una bomba". Ma forse si riferiva a (e indica il décolléte), alla mia stazza. Ah, ah, ah». E ride di gusto.

Orietta Berti, il dramma del marito Osvaldo: "Come l'ha ridotto il Covid", un calvario terrificante. Libero Quotidiano il 19 febbraio 2021. Il coronavirus è stato una sciagura per Orietta Berti e il marito Osvaldo Paterlini. I due, rispettivamente 77 e 78 anni, hanno ammesso di non essersi ripresi del tutto dopo aver contratto il Covid-19. Con gravi conseguenze soprattutto per lui. "Mi dispiace per Osvaldo, soprattutto perché col Covid lui ha perso 16 chili e ha perso anche un occhio - ha raccontato la cantante secondo quanto riporta Gossip e Tv -, gli ha tolto l’udito, che ora sta riacquistando, ma la vista non l’ha più recuperata anche se mette un collirio ogni mezz’ora". Il marito, nonché suo ex agente, aveva patologie pregresse: "La sua vista - ha messo le mani avanti -, per carità, era già precaria prima del Covid e uno specialista ci ha spiegato che questo virus va a colpire le parti più deboli che hai. Meno male comunque che ce l’abbiamo fatta a sconfiggerlo, ormai abbiamo una certa età”. I due infatti sono scampati al ricovero e al peggio. Per questo si considerano fortunati. Osvaldo Paterlini aveva infatti problemi alla vista già in passato. Motivo che lo ha costretto a smettere di lavorare come assistente della moglie. L’uomo è comunque sempre rimasto accanto ad Orietta nei suoi numerosi viaggi di lavoro. Per questo la cantante non può che essergli grata. Poi sull'esperienza a Sanremo ai tempi del coronavirus, la Berti si dice pronta: "In questo periodo, dove non possiamo esibirci con le grandi orchestre e non possiamo fare concerti, andare al Festival e cantare per cinque sere è una cosa stupenda", aveva ammesso alle telecamere di Verissimo da Silvia Toffanin per poi aggiungere una piccola curiosità: “Non so ancora come mi vestirò, mi consiglierà Nicolò Cerioni, lo stylist di Achille Lauro. Voglio vestirmi colorata, con dei bei mantelli e delle parrucche: vorrei portare un po’ di allegria".

·        Orlando Portento.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 6 marzo 2021. Orlando Portento è un fiume in piena. Settantacinque anni di vita vissuta tra alti e bassi, tra successi e sconfitte, tra ricchezza e difficoltà economiche e tra vecchi e nuovi amori. Molti lo ricorderanno per essere stato il marito della soubrette non che infermiera di Striscia la Notizia Angela Cavagna, altri per essere stato mentore di un’ esordiente Beppe Grillo, ma la maggior parte delle persone lo ricorderanno sicuramente per la sua sfuriata durante una puntata del reality La Fattoria nel 2006, in cui a suon di cammellate e triccheballacche ha raggiunto il centro dello studio accanto alla padrona di casa Barbara d’Urso ed ha iniziato ad inveire contro quest’ultima e contro gli autori del programma perché, a suo dire, la consorte Angela Cavagna era stata eliminata in maniera irregolare. Questi suoi originali e stravaganti cavalli di battaglia verbali entrano con prepotenza nel linguaggio comune rivelandosi dei veri e propri tormentoni ancor oggi attuali. L’ultima sua apparizione televisiva risale all’autunno 2019 ospite a Pomeriggio 5 nel quale accusava l’ex moglie e in cui lamentava serie difficoltà economiche. Oggi a distanza di tempo incontriamo e conosciamo meglio un Portento chiamato Orlando.

D. Orlando, nel 2019 ha dichiarato di essere in serie difficoltà economiche, percependo una pensione bassa, pagando un affitto alto e avendo quasi finito i risparmi, la situazione è migliorata?

R. Niente affatto! La pensione è di 646€ mentre l’affitto è di 580€, i risparmi di una vita sono ufficialmente finiti! Sono sempre più rovinato...

D. È vero che per sbarcare il lunario fa il jolly presso un ristorante delle colline genovesi?

R. Eh già, sono pensionato e ho settantacinque anni ma ugualmente lavoro presso il ristorante Forchettone da Leandro sulla collina genovese di Fontanegli dove faccio l’entrenouse, l’intrattenitore, il direttore, il primo cameriere, primo sanificatore, primo sommelier, ma ho rifiutato il titolo di primo lavapiatti. Errata Cocige! Non sono un jolly sono un mazzo di carte, ma manco quelle mi posso giocare più con il Gomit!

D. Forse intende dire Covid Portento?

R. Eh no, gomit! Tutti si salutano con il gomito quindi è gomit, e con il gomit sono più rovinato del solito dato che nemmeno al ristorante si lavora con continuità con ste zone gialle, verdi, blu, rosse ecc ecc.

D. Qualche tempo fa abbiamo assistito ad una guerra mediatica verso l’ex moglie Angela Cavagna, che pare sia  finita nelle aule di tribunale. Come stanno realmente le cose?

R. Penso che Angela abbia preso la querelite, una rara e difficilmente curabile forma di querelite; la scienza si sta adoperando per cercare una soluzione medica per farla guarire da questa patologia. Ahimè di rimbalzo però ha infettato anche me quindi attenzione perché querelo tutti anch’io come ha fatto la signora!

D. Non pensa sia giunto il momento di seppellire l’ascia di guerra nei confronti della sua ex moglie?

R. Dobbiamo sottolineare che i pellerossa si sono estinti da un po’ e quindi non vedo asce di guerra da sotterrare. Mi è rimasto un totem somigliante ad Angela Cavagna come ricordo...

D. Il settimanale Oggi qualche tempo fa la dava come papabile naufrago dell’Isola dei Famosi ma alla fine non è figurato nel cast ufficiale, come mai?

R. Perché sono sull’ammuffimento totale. Ho rifiutato L’Isola dei Famosi anche se avevo bisogno di quattrini. Ad una certa età inizi a prendere qualche chiletto ma se fossi andato in Honduras senza mangiare la mia pasta e senza bere il mio buon bicchiere di vino dimagrivo troppo, mi si scavava il viso come quello di Edoardo De Filippo “‘adda passá ‘a nuttata! ”: non era il caso di naufragare e rischiare la vita alla mia veneranda età! Tra una sciatica e l’altra mi piacerebbe semmai partecipare ad una specie di “Grande Casa di Riposo Vip” ambientato in un bell’ospizio risanato. Mi immagino già lì con Sandra Milo, Tony Dallara, Gina Lollobrigida, Luca Giurato ecc ecc, mentre a condurre metterei i quasi centenari Pippo Baudo dai piani della casa di cura e Maurizio Costanzo dalla portineria in accettazione!

D. L’8 marzo uscirà il suo primo libro dal titolo “Due Quori e una Cavagna”, di cosa parla?

R. Il libro è edito da Pathos Edizioni di Torino e la prefazione me la sono fatta io perché nessun critico letterario, storico, idraulico, dentista, elettricista, netturbino ha voluto scrivermela, ho dovuto cantare e portare la croce, nemmeno il mio prete confessore di colore ha accettato il mio invito! Il libretto parla di vent’anni e più di cronaca italiana, di curiosità, di incazzicchiamenti, di amarezze, di successi e sconfitte, ambedue impostori, frammenti di vita vissuta, illusioni perdute, sogni sempre attuali. Realtà tramontate, svanite e confuse tra le nebbie dei ricordi, dolci e amari, e degli anni che volano come aquile che con il tempo perdono la proverbiale s...vista. Gli intermezzi, i fatti e i riferimenti descritti, sono realmente accaduti. Unica qualità positiva? Genova...È una lettura simpatica e di facile comprensione, cerco in un goffo tentativo di emulare il Giovannino Guareschi, vedi lo Zibaldino ecc ecc

D. Non ha mai nascosto di essere un uomo di destra, le ha causato problemi questo nella sua carriera?

R. Sempre e dico sempre! Purtroppo di rimbalzo anche la Cavagna ci è andata di mezzo. Racconto un aneddoto: conducevo ogni lunedì su Rai3 regione Liguria il mio programma “Sport...ento” e all’ingresso della sede Rai di Genova di Corso Europa una sera mi sono trovato un cartello con su scritto “La Rai paga un fascista!” riferito a me medesimo; morale della favola? La portineria non aveva visto nessuno e il cartello sparì. Solo per farle capire l’accanimento che i sinistroidi avevano con me!  A me e ad Angela ci hanno cacciato due volte dalla Rai senza rinnovarci il contratto solo perché di destra. Una volta però dopo il non rinnovo mi rivolsi direttamente a Gianfranco Fini, ci recammo presso la sede di Alleanza Nazionale a Roma, io attesi fuori mentre Angela entrò nel suo ufficio chiedendogli aiuto, lui da gran signore senza dire troppe cose alzò il telefono e chiamò Confalonieri, pochi giorni dopo la nostra visita arrivò un contratto per Angela da parte di Mediaset per un programma.

D. Perché ama definirsi un ex di tutto?

R. Perché è così belin! Sono stato autista, preparatore atletico, autore, conduttore, ristoratore, manager, cabarettista, allenatore di calcio, calciatore, insegnante di tecnica calcistica, ho gestito negozi di abbigliamento...se non sono un ex di tutto io chi può esserlo?!

D. Sembra che abbia dimenticato la Cavagna con un nuovo amore, Nicoletta...

R. Bah non è un nuovo amore, è un amorino.

Nicoletta fa la guardia cinofila e mi ha accalappiato, d’altronde ero solo come un cane! Ognuno vive a casa sua, dopo Angela nessuna donna ha più dormito nel mio letto!

D. Lei è stato co-autore non che amico di un esordiente Beppe Grillo, che ricordi ha di lui e di quel periodo?

R. Siamo stati amici nel nostro periodo di adolescenza quindi un centinaio di anni fa circa, abitavamo nello stesso quartiere, San Fruttuoso a Genova dove io vivo tutt’oggi.

Grillo era molto simpatico, era questa la sua carta vincente per conquistare le donne, i denti storti la bellezza non di certo!  Giuse, noi amici lo chiamavamo così aveva alle spalle una buona famiglia, ma nonostante tutto era affetto da una tirchieria innata, non aveva il braccino corto, era totalmente mutilato! L’Avaro di Moliere è un filantropo al confronto di Grillo! Andava in giro con la tuta senza tasche apposta per non offrire mai neanche un caffè, a lui il pacchetto di sigarette durava tantissimo perché andava sempre a scrocco per non consumare le sue! Sono stato un mezzo profeta nel 2013 quando fui ospitato da Paolo Del Debbio a Quinta Colonna, in quell’occasione ho definito i cinquestellini dei sonnambuli, che appena si sarebbero svegliati sarebbero caduti dal balcone prendendo una facciata per terra che li avrebbe frantumati, e guarda un po’ che è accaduto tra gennaio e febbraio al governo...

D. Come mai la vostra amicizia poi è finita?

R. Io presentavo nella nostra città degli eventi presso i giardini dell’ Acquasola chiamati “Le Serate di Genova” ed una sera era ospite Pippo Baudo. Il mio impresario Morelli dietro le quinte si avvicina a Pippo dicendogli: “è più grande Portento di Grillo, aiutalo!” e lui risposte: “e come faccio ad aiutarlo?! Grillo non vuole!”. Ascoltai questa conversazione a distanza, e nessuno si accorse di me. Da quel giorno io con Grillo ho chiuso, lo pensavo un amico invece non si comportò da amico. Lo vidi circa quindici anni fa ad un funerale ma non ci siamo salutati, poi cinque anni fa incrociati a piazza Martinez ma sono andato via dritto a passi lunghi e ben distesi. Bella riconoscenza e gratitudine quella sua, e pensare che all’inizio della sua carriera sono stato il primo ad accorgersi del suo talento e a motivarlo, in merito a ciò racconto un episodio inedito di cui non ho mai parlato. Era agli inizi Grillo, ricevo una telefonata accorata e di supplica da suo fratello Andrea che tutti chiamavano Andreino in cui mi veniva chiesto di convincere Giuse (Beppe) a ritirarsi dalle scene e a tornare a lavorare nell’azienda di famiglia perché avevano bisogno di lui; io risposi al fratello di non avere fretta, di aspettare e dargli tempo un anno, nel caso la carriera di comico non avesse preso il volo mi sarei adoperato io a convincerlo di smettere e tornare a Genova a lavorare nell’azienda di famiglia. Giuse ascoltava molto i miei consigli, era  condizionato, in maniera buona intendo, da me. Quindi se avessi ascoltato il fratello ora Giuse non sarebbe quello che è! Con il senno di poi forse era meglio...

D. Nel 2006 ha raggiunto il suo momento di maggior popolarità irrompendo in studio a La Fattoria e polemizzando con la conduttrice Barbara d’Urso a suon di cammellate e triccheballacche; era una scena studiata a tavolino?

R. Ero incazzaticchio veramente, altro che scena studiata a tavolino. Ero nero perché a mio avviso avevano eliminato la Cavagna in maniera irregolare e così sono andato al centro dello studio accanto a Barbara d’Urso e ho iniziato a sfogarmi a suon di cammellate e triccheballacche. Finito tutto sono andato nel residence e mi sono fatto due spaghetti con l’olio senza nemmeno il grana grattugiato perché manco c’era. Il giorno dopo tutti parlavano di me e sono iniziati gli inviti in tutte le principali trasmissioni di Mediaset: un grande successo travolgente ma inaspettato. Ancora oggi la gente mi ferma per strada per un selfie e vuole che faccia il gesto del triccheballacche! Incredibile, dopo quindici anni ancora mi ricordano per quei cinque minuti di incazzicchiamento vero però!

D. Ha compiuto da poco 75 anni, come si immagina Portento tra 10/15 anni?

R. Non mi vedrò perché toglierò tutti gli specchi di casa! Andando al bar vicino a casa mi consolo, lì incontro coetanei messi molto peggio di me, ammuffiti che prendono la pillola blu perché non gli tira più, o di duecento chili, o con sette motorini nel cuore, o con problemi alla prostata, io a parte la pastiglia che prendo per la pressione alta e la sciatica non ho altre patologie! Quasi quasi rimetto gli specchi a casa a questo punto...

·        Ornella Vanoni.

Da corrieredellosport.it il 27 dicembre 2021. Senza troppi peli sulla lingua Ornella Vanoni ha criticato la vita di Fedez e Chiara Ferragni. Rispondendo ad un post di Paolo Stella in cui aveva scritto: “A Natale? Relax. A qualcuno di voi avanza un po’ di Xanax?”, la Vanoni ha replicato così: “Molto meglio naturale, la vera felicità no come i Ferragnis“. Dunque secondo la cantante i Ferragnez - da lei simpaticamente ribattezzati Ferragnis - non vivrebbero una vera felicità. Non è da escludere che la Vanoni abbia maturato questo pensiero dopo aver visto la serie tv sulla coppia, disponibile da qualche settimana su Amazon Prime. Al momento il rapper e l'imprenditrice digitale non hanno ancora replicato.

Da ilnapolista.it il 17 Dicembre 2021. Su La Repubblica un’intervista a Ornella Vanoni. A 87 anni, ha una parte in “7 donne e un mistero”, commedia noir diretta da Alessandro Genovesi, in sala il 25 dicembre con Warner. Anche se ha scelto la musica, la Vanoni ha recitato diverse volte al cinema. Il debutto fu nel 1961, con “Romolo e Remo” di Corbucci. «Ricordo che Virna Lisi era incazzata nera, giustamente, perché questo Steve Reeves, Romolo, tutto muscoli, la prende in braccio, inciampa e la trascina a terra. Un’altra volta passa a cavallo, la prende, cade e lei si fa male al coccige su un sasso. Lo odiava, poverina. Invece io stavo con l’altro, Gordon Scott, un vero muscoloso, non così pompato come l’imbecille. Ma in una scena in cui dico “Remo!” e gli corro incontro, eravamo a Pozzuoli, metto un piede su un soffione e volo urlando in braccio a lui. Noi avevamo le seggiole, Reeves aveva la roulotte». 

L’ironia l’ha sempre avuta?

«No, l’ho liberata a un certo punto, non con Strehler, non con Gino Paoli, che di ironia erano totalmente mancanti. È come il talento, lo puoi avere ma se non ti applichi non serve». 

Nella sua biografia, “Una bellissima ragazza”, racconta i momenti di tenerezza verso i suoi genitori.

«Quando sono invecchiati andavo a trovarli e facevo la loro vita, mangiavamo presto, ci alzavamo presto, guardavamo Beautiful. Quella è la tenerezza» 

Il suo ruolo più importante è stato in “I viaggiatori della sera”, di e con Ugo Tognazzi.

«Tognazzi viaggiava sempre con una valigia di coltelli che neanche Cracco ce l’ha. Faceva un cibo pesantissimo che nessuno digeriva, per cui andavamo dal direttore della fotografia che faceva un pasto più leggero. 

Ugo era molto arrabbiato. Era un grande attore, ma non poteva fare il regista, il film non piacque ai critici. Io mi sono costruita il personaggio da sola. Un giorno mi chiama al telefono, nella storia eravamo coetanei, “tu stai rovinando il mio film, come la Bouchet. Non dimostri 50 anni, dimostri molto di meno”. Rispondo “e tu ne dimostri molti di più, quindi chiudiamo il film”».

Racconta il set di “7 donne e un mistero”:

«Abbiamo molto riso e faticato, a volte mancava l’aria, ma mai un litigio. Mi sono affezionata a Buy, Ranieri, Ramazzotti. L’Impacciatore è brava, ma ogni due minuti è un attacco d’ansia, bisogna fermarsi…». 

Ornella Vanoni: «Lasciai Strehler, litigai con Mina. I soldi? Ho perso tutto. E non temo la morte». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 24 dicembre 2021.  

La cantante: «Ci ho messo una vita a recuperare i rapporti con mio figlio Cristiano. Il Festival di Sanremo? L’ho vinto io, chi canta come me a 86 anni?» 

Riproponiamo qui una delle interviste più lette del 2021, quella di Aldo Cazzullo a Ornella Vanoni, realizzata nell’agosto 2021 prima della presentazione a Venezia del docufilm che la vede protagonista («Senza fine» di Elisa Fuksas). 

Ornella Vanoni è diversa da come sembra, o da come viene vista. Quella che a qualcuno appare leggerezza, ai limiti della svampitezza, in realtà è ironia. È una donna colta, molto attenta a scegliere le parole, a soppesare i ricordi. 

Qual è il primo?

«I miei genitori che vanno all’opera, a vedere la Manon, e io che dico: “Manon è quello che papà dice sempre alla mamma: ma non fare questo, ma non dire quell’altro...”. E i gattini del fruttivendolo, che mi portavano a casa quando mi veniva l’influenza; poi però dovevo restituirli, con grande dolore». 

Della guerra cosa ricorda?

«Le mani di mio padre che mi afferrano e mi trascinano sul predellino del treno. Era il primo bombardamento di Milano. La città bruciava. Noi fuggimmo a piedi, verso i binari. Fu la salvezza, ma anche la dannazione». 

Perché?

«Perché a lungo ho pensato che tutti gli uomini fossero come mio padre, e si prendessero cura di me. Per anni ho avuto un incubo: papà aveva perso le mani». 

Dove portava il treno?

«A Varese.I bombardamenti continuarono, e anche le nostre fughe. Capimmo che non dovevamo chiuderci in cantina, dove saremmo morti come topi e con i topi. Un altro incubo è il tram di Varese che mi mette sotto. Poi arrivarono gli americani». 

Com’erano?

«Profumati. Tutti in maglietta bianca. Sapevano di Palmolive, mentre i nostri poveri soldati erano stati mandati in guerra senza nulla, neppure il sapone. Ancora adesso la cosa che più mi piace di New York è l’odore. I tedeschi erano spariti, uscii di casa urlando, tutti si abbracciavano, ricordo una stretta fortissima. Da allora adoro essere abbracciata». 

Nel bel docufilm di Elisa Fuksas «Senza fine», lei racconta la Milano del dopoguerra con entusiasmo.

«Tutto pareva possibile. Come in una fiaba. Diventai amica di Gaber e Jannacci, due persone stupende». 

E a vent’anni si fidanzò con Giorgio Strehler.

«Ero timidissima. Al collegio, in Francia e in Inghilterra, annodavo le lenzuola per le compagne che volevano calarsi dalla finestra; loro scappavano, e io no, preferivo restare dentro. Durante la guerra ero stata operata al collo, mi tolsero i linfonodi, e mi massacrarono. Ho ancora adesso le cicatrici, vede? Mi vergognavo molto». 

Strehler fu il suo primo uomo?

No. Fu un signore napoletano, più grande di me». 

Come ricorda la prima volta?

«Bella, perché dolce». 

Strehler.

«Nessun uomo mi ha mai amata tanto. Era sposato, ma non importava: sposarmi non è mai stata la mia ambizione. Frequentavo i corsi al Piccolo Teatro. All’esame, con la V di Vanoni, passai per ultima. Ero nervosissima. Buio assoluto. Portavo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” e un passo delle lettere di Alfieri. Mi incespicavo di continuo, ripetevo: pardon, pardon... Sentii una voce di donna dire: “Attenzione, qui c’è qualcosa di interessante”. Era Sarah Ferrati, la grande attrice. Io devo alle donne il massimo del bene e il massimo del male». 

Strehler.

«Veniva sempre a fare lezione nella mia classe, per lo stupore delle altre: di solito non si vedeva mai. L’insegnante di danza era sua moglie, da cui era già separato. Mi detestava: aveva capito al volo che sarei piaciuta al marito». E lui? «Mi diceva: hai talento, ma non hai i nervi per reggere. Aveva ragione. Però alla fine ce l’ho fatta senza di lui». 

Come mai finì?

«Non potevo seguirlo nella droga e negli altri suoi vizi. Andai al festival di Spoleto, a cantare le canzoni della mala con la regia di Zeffirelli. Entrai nel gruppo di Visconti, che mi piacque molto. Lì incontrai Renato Salvatori, quello di Poveri ma belli. Mi ha quasi messo a letto. Fu solo un flirt, ma uscirono le foto di una nostra gita in motoscafo sul lago di Bracciano. Strehler ne soffrì come un cane. Veniva a casa mia e cominciava a ripetere: “Con te non posso vivere, senza di te non posso vivere...”. Una volta, anni dopo, mi telefonò: “Tu devi tornare con me, ti voglio al mio fianco...”. Lo informai che stavo per sposarmi». 

Con Lucio Ardenzi, il produttore.

«Strehler andò su tutte le furie: “Quel mercante!”. Giorgio era circondato da donne in adorazione; non si capacitava che una potesse dire di no. Ma io lo adoravo quando lui, un genio, era sul palco, a fare la Tempesta o Il gioco dei potenti. Nella vita lo amavo come si ama un uomo. E delle altre non me ne fregava niente». 

Prima del matrimonio incontrò Gino Paoli.

«Lo sentii nella casa discografica suonare “Il cielo in una stanza”. Chiesi chi fosse, mi risposero: “Un frocio che fa canzoni orrende”. Strano, mi dissi: suonava maluccio, ma la canzone mi era parsa stupenda. Così cominciai a frequentarlo». 

Cosa facevate?

«Lunghe passeggiate. Gino non aveva i soldi neanche per il biglietto del tram; così andavamo sempre a piedi, io gli trotterellavo dietro con i tacchi a spillo, sfinita. Fino a quando, appoggiati a un muretto, gli chiesi: “Ma tu sei frocio?”. Rispose: “No, perché?”. E io: “Mi avevano detto così”. E lui: “A me invece hanno detto che tu sei lesbica, canti male e porti male...”. Siamo scoppiati a ridere. E ci siamo dati il primo bacio». 

Perché quelle maldicenze?

«Perché eravamo diversi. Ma Gino ne era felice: “Io li lascio dire, e poi gli scopo le mogli”». 

Neanche di Paoli era gelosa?

«Gelosissima. Non c’era mai. Sposato, sempre in giro. Uscivamo di casa ognuno con una borsa di gettoni e stavamo ore al telefono. Ora lui mi dice: “Ornella, ti ricordi le risate?”. Ma quali risate, io soffrivo da morire. Sposai Ardenzi, ma ero ancora innamorata di Gino».  

Per lei Paoli scrisse «Senza fine», colpito dalle sue «grandi mani».

«Ero abituata al circuito colto. Ma in piazza Beccaria vedevo i cantantifelici, con le decapottabili, e mi dissi: voglio fare le canzonette anch’io. È stata dura, e non solo perché non ero abituata al microfono con il filo e prendevo la scossa. Venivo dal teatro, ero considerata snob, fredda. Dovevo colmare la distanza tra me e il pubblico». 

Le sue non sono solo canzonette.

«Di ogni brano arriva alla gente una frase sola, in cui si riconosce. Mi sono sempre chiesta perché “L’appuntamento” piacesse così tanto. La risposta è nella prima strofa: “Ho sbagliato tante volte ormai...”. Perché tutti hanno sbagliato nella vita. E tutti hanno conosciuto “uno di quei giorni che ti prende la malinconia...”». 

Anche le canzoni della mala sono rimaste.

«Con Strehler andavamo in giro per bettole; però sentivamo appunto canzoni da bettola. “Ma mi” la scrisse lui, facendola passare per canzone popolare. Qualcosa veniva dal Sud, dai canti dei carcerati calabresi, raccolti da Pasolini. Anni dopo chiesi consiglio a Pier Paolo. Rispose che non c’era più nulla da cantare, perché non c’era più gente d’onore: era finito il tempo in cui il ladro aveva rispetto del capo della polizia». 

E lei posò nuda su Playboy.

«No. Nelle foto non sono mai nuda. Feci io la regia del set. Si intravede appena un capezzolo (quante discussioni: più su il lenzuolo, più giù il lenzuolo...). Trovavo e trovo che sia molto più sensuale così. Come compenso chiesi una sfera di Arnaldo Pomodoro. Mi dissero che era troppo cara. Così Pomodoro rinunciò alla sua parte, purché potessi averla». 

Com’erano i rapporti con Mina?

«Eravamo amiche, ci frequentavamo. Un giorno a pranzo suo marito, Alfredo Cerruti, mi propone una trasmissione tv con lei. Accetto e parto felice per le vacanze. A Paraggi mi raggiunge Gigi Vesigna: “Hai visto che Mina fa una trasmissione con la Carrà?”. La chiamo: “Sei una vigliacca”. “Allora è guerra?” risponde. Guerra no; ma avrei voluto saperlo da lei. Poi facemmo pace. Ma da quando si è rifugiata in Svizzera ci siamo perse». 

Celentano?

«Ci siamo divertiti tanto. Nella casa di via Bigli avevo un biliardo enorme, che schiacciando un bottone diventava un letto. La cosa lo faceva molto ridere». 

Iva Zanicchi ha raccontato che lei la mandò in crisi a Sanremo, dicendole che il vestito le stava male.

«Iva non ha capito. Cantava “Partirà, la nave partirà...” con un vestito ad ala che distraeva l’attenzione dalla sua voce, che è così bella. Era un complimento, non una critica». 

La Zanicchi ha vinto il festival tre volte. Lei mai. Non le dispiace?

«Un pochino sì. In fondo però l’ho vinto quest’anno. Non ne trovi tante che cantino così a 86 anni...». 

Orietta Berti?

«La adoro: intelligente, spiritosa. La sua voce scaturisce come uno zampillo». 

Luigi Tenco?

«Mi è sempre parso un soccombente. Paoli dice di no. Entrambi hanno tentato il suicidio; Tenco però ci è riuscito. Gino invece vive con una pallottola nel cuore. Sarà stata una pistolina». 

Fellini?

«Adorabile bugiardo. Pareva ti stesse aspettando da una vita; in realtà di te non gli importava nulla». 

Dicono che pure Lucio Dalla fosse bugiardo.

«Bugiardissimo. Ma proprio per questo con lui non ti annoiavi mai. E poi io lo trovavo affascinante, quindi bello». 

Visconti?

«Andai nella sua casa romana sulla Salaria. Tutti i suoi cani erano sul divano. Mi fece accomodare, ma senza far scendere i cani. Al primo posto venivano loro». 

Colapesce e Dimartino?

«Tristi. Però la tristezza è la loro forza. “Toy boy” nasce da un’idea di Guadagnino, il regista. Mi sono divertita a interpretare il personaggio vestito di nero con la veletta. Ridere oggi è così difficile...». 

Chi la diverte?

«Mi piaceva Fiorello, nei suoi spettacoli. Checco Zalone è geniale. Ma un comico non può lavorare senza il pubblico, senza il riscontro della risata». 

Si è offesa per l’imitazione che le faceva Virginia Raffaele?

«Nooo! Ho fatto anche l’imitazione dell’imitazione: “Mi hai fatto passare per una maniaca sessuale, mi hai rovinato la vita...”». 

Nel film lei dice di non avere soldi da parte. Come mai?

«Li ho sempre persi tutti. Hanno scritto che ho un patrimonio di 118 milioni di euro, più di Miuccia Prada. Se fosse vero non sarei qui con lei, sarei a nuotare in un’isola del Pacifico». 

Perché li ha persi?

«Un po’ perché mi fregavano: a fine tournée talora mi davano solo una parte di quel che mi spettava; sapevano che non avrei controllato. E un po’ per un senso di solitudine. Ero sempre da sola nelle mie scelte; e gettavo via il denaro. Compravo una casa, la arredavo, poi vedevo che nessuno veniva a trovarmi, neppure mio figlio, e la rivendevo, magari a metà prezzo». 

Perché suo figlio non veniva?

«Ci ho messo una vita a recuperare i rapporti con Cristiano. Da piccolo lo lasciavo ai nonni, per lavorare. Volevo restare con lui, ma mio marito mi disse: “Se non torni subito, sono rovinato”. Così feci “La fidanzata del bersagliere”. Un bambino tende a pensare che preferisci il lavoro a lui; e ci soffre. Così caddi nella mia prima depressione. La gravidanza però è stata il periodo più bello della vita». 

Perché?

«Perché è l’unico momento in cui non sei sola. In cui si è davvero in due». 

Con gli uomini non le è mai successo?

«Nei momenti di eros. Quando lo faresti in un portone, divoreresti la persona amata di baci, la mangeresti, vorresti infilartela dentro, essere un tutt’uno...».

«Con gli uomini ho vinto, ma ho sbagliato»

«Senza fine», il film documentario su Vanoni presentato a Venezia

Lei ora vive sola.

«Da 25 anni. Per scelta. Sono rimasta terribilmente delusa da un uomo. Colpa mia: mi sono ostinata a cambiarlo; ma gli uomini non cambiano, se non in peggio; e all’appuntamento lui alla fine non viene. Questa persona ebbe un infarto e le salvai la vita: non aspettai l’ambulanza, la portai al Niguarda in taxi. Il giorno dopo mi odiava. Così sono rimasta con Ondina, il mio cane. Siamo due ragazzine sole. E poi ho due nipoti». 

Come si chiamano?

«Matteo è uno tsunami dolcissimo. È fidanzato con una ragazza stupenda, sono felici. Camilla ha il wanderlust, la gioia dell’andare, quella cosa che Virginia Woolf secondo la sua fidanzata aveva perso. Mia nipote non ancora. A 18 anni mi chiese i soldi per andare in Nuova Zelanda e si è fermata due anni. Ha fatto la cameriera, la baby-sitter, ha raccolto pomodori. Poi è andata in Cambogia e in India, ed è tornata rasta. Ora vive a Fuerteventura, alle Canarie». 

Lei Ornella cosa votava nella Prima Repubblica?

«Socialista. Amavo Nenni». 

E Craxi?

«Grande, grosso, forte. Aveva una certa allure fisica. E poi quel modo di parlare, con le pause che davano peso alle parole... Abbiamo litigato quando ho capito che il partito mi stava usando». 

Come andò?

«Dissi che a Milano c’era un’overdose di socialismo, e Pillitteri rispose: se la Vanoni vuole disintossicarsi, non glielo impedisco. Craxi invece disse che non mi avrebbe né ostacolato, né aiutato. Ma quando mai mi aveva aiutata? Comunque nella disgrazia andai a trovarlo ad Hammamet. Un leone in gabbia». 

Chi voterà come sindaco di Milano?

«Sala». 

Di Berlusconi cosa pensa?

«Voglio il suo chirurgo estetico e il suo fotografo. Entra ed esce dagli ospedali, ed è sempre giovane e patinato...». 

Draghi?

«Grande intelligenza e preparazione; ma è pur sempre un uomo delle banche. Come Monti. Mi sembra che gli abbiano promesso il Quirinale; però il nostro presidente non è Macron, non ha veri poteri. Dopo il fascismo ci siamo dati una Costituzione che non consente di dare il potere a nessuno; ma ora la politica è impotente. Noi italiani siamo così: poco seri. Sentiamo poco la patria. Noi non diciamo patria, diciamo paese». 

Salvini?

«Molto intelligente. Fa di tutto per assomigliare all’uomo del popolo. Tutta la sua politica, dal Papeete in giù, è un modo per dire: io sono come voi. Nel suo campo, è bravissimo». 

Meloni?

«È una donna, e come tutte le donne deve arrancare di più». 

Lei è stata amica di Dario Fo.

«E di Franca Rame. Un giorno stavamo nuotando alle terme di Saturnia, e mi raccontò quanto fosse difficile tenere a bada tutte quelle ragazzine che stavano attorno al marito...». 

Nel film lei dice che la vecchiaia le piace.

«L’ho accettata. Invecchiare vuol dire non essere morti, e avere la schiena a pezzi». 

Com’è stato il lockdown?

«Non così duro, per noi che abbiamo vissuto la guerra. Avevo imparato la pazienza, a resistere chiusa in una stanza. I nazisti ci spararono in casa, davano la caccia a mio cugino partigiano, che poi fu ammazzato. Il Covid l’ho fatto. Sono stata malissimo, ma senza angoscia. Da ragazza ho avuto pure la tisi... E poi noi donne, che conosciamo il parto, soffriamo il dolore fisico meno degli uomini». 

Quindi lei è serena?

«Per nulla. Come potrei esserlo, di fronte alle immagini di Kabul, alle madri che gettano i bambini oltre il filo spinato? Io sento dentro di me il dolore del mondo. È un periodo terribile della storia: il cambio climatico, la pandemia. La Terra non ci vuole più. Ci sta chiedendo di andarcene. Ed è tardi per tornare indietro». 

Crede in Dio?

«Credo in Gesù. Pregò Gesù, figura meravigliosa. Ho letto tutta la Bibbia. A un certo punto entrai in un gruppo evangelico, guidato da una pastora brasiliana, che si rivelò una figura vampiresca. Mi svuotò, come fanno quegli aggeggi che tolgono il torsolo alla mela. Gliel’ho detto, che il meglio e il peggio della vita l’ho avuto dalle donne». 

Da chi altre ha avuto il peggio?

«Una falsa amica cominciò a perseguitarmi con lettere anonime. Capii subito che era lei, si riconosce sempre il braccio peloso del tuo assassino, e glielo dissi. Provò a negare. Così andai in tv da Maurizio Costanzo, che lesse un brano di una lettera e poi disse: “Se succede anche a voi fate come la Vanoni: denunciate”. Non ne arrivarono altre». 

Una donna che le piace?

«Dacia Maraini. Lieve anche nella tragedia». 

Cosa c’è dopo la morte?

«E chi lo sa? Non lo sapeva neppure un uomo eccezionale come il cardinal Martini. Rilegga le sue lettere da Gerusalemme: sto per morire, la mia fede è forte, ma ho paura, perché sono un uomo». 

Lei ha paura?

«Oltre una certa età non si può e non si deve andare. Mia zia visse 107 anni: un cervello lucido, purtroppo, in un corpo distrutto. Da diventare pazzi. No, a un certo punto bisogna morire».

Da Corriere.it il 29 novembre 2021. «Non so se arrivo a Natale». Sbuffa, butta la testa all’indietro quasi per noia, il fastidio ironico verso le fatiche della vita. Ornella Vanoni si è presentata così domenica sera nello studio di Che tempo che fa, ospite di Fabio Fazio. «Non so se arrivo a Natale», «Che bell’inizio di conversazione» la replica divertita del conduttore. La cantante spiega le sue sofferenze: «Sto promuovendo 3 cose insieme...e non sto capendo un tubo!». È tutto sul filo della straordinaria ironia che la contraddistingue la conversazione con Fabio Fazio: «Troppe cose. Ogni giorno lavoro per fare promozione, un disco e un film in uscita. In Italia la promozione è gratis, non si guadagna niente. Non ho mai lavorato tanto, sono affaticata». Venti minuti in cui Ornella Vanoni dispensa perle: «Ritengo che invecchiare sia bello soltanto se tiri fuori quel lato che hai sempre tenuto nascosto, cioè quello infantile. Il lato infantile ti sorregge, ti fa ridere, ho una bolla piena di risate che zampilla come la voce di Orietta Berti». Fazio le ricorda l’imitazione di Virginia Raffaele: «Per un anno mi ha rovinato la vita. Mi dipinge come una vecchia rincoglionita, una maniaca sessuale». Fazio ricorda la collaborazione con Colapesce e Dimartino: «I tristi toy boy Colapesce e Dimartino: la lora cifra è la tristezza, è una grande trovata. Adesso li so anche distinguere». Fazio le ricorda che in amore si è definita «spudorata» «L’ho detto io? E che vuol dire? Forse smutandata».

Pedro Armocida per Il Giornale il 12 settembre 2021. Venezia. Giornata di ritratti di grandi italiane e italiani ieri alla Mostra del Cinema di Venezia con la proiezione di La musa inquieta - Marta Marzotto di Massimiliano Finazzer Flory e Ennio di Giuseppe Tornatore, monumentale - 150 minuti - e commovente omaggio a Ennio Morricone le cui note proprio ieri sono risuonate alle esequie ufficiali di Jean-Paul Belmondo a Parigi. C'è però un lavoro che nasce come un documentario e si trasforma in un corpo a corpo tra la regista e la sua «vittima». Cosa forse più che naturale quando si parla di Ornella Vanoni che ha donato generosamente il suo corpo a Elisa Fuksas in Senza fine, presentato alle Giornate degli Autori: «L'idea di un film su Ornella Vanoni mi è stata proposta dal produttore Malcom Pagani. Abbiamo pensato quindi di portare Ornella Vanoni in una località termale senza tempo per trasformarla in una sirena», dice Elisa Fuksas che, figlia dell'archistar Massimiliano, mantiene nelle sue opere uno sguardo ragionato sugli spazi in cui si muove. Ma il soggetto, scritto dalla regista con Monica Rametta, si trasforma in un agguerrito «battibecco» tra le due: «In effetti le chiedevo di fare cose inaudite come se avesse 20 anni. Poi quando mi ha detto: Puoi essere pure un talento ma se hai poco coraggio non ce la farai, è scattato l'orgoglio e mi sono buttata. Il film è l'esplorazione di un mito raccontato anche in sua assenza. Una sera le ho detto: Non vuoi scendere? Bene continuo senza di te». Alle terme di Castrocaro, nella zona Health Clinic, Ornella Vanoni si concede con generosità alle riprese, minuziose e ravvicinate sul suo corpo anche in costume, insieme alla sua barboncina nera Ondina che, appena può, si tuffa nella piscina. Ma poi la grande interprete inizia a fare le bizze, per una certa stanchezza e anche perché le riprese durano un po' più di quello che era previsto nel contratto. Così entra in scena lo stesso Pagani, che con Tenderstories, Wildside e indiana ha prodotto il film, per convincerla a continuare il lavoro: «Io generosa? Ho creduto di morire nel film ma non sono morta e ora sono qua», dice la cantante che il 22 settembre compirà 86 anni. La parte della sua trasformazione in sirena, metafora di «una creatura fantastica fatta di voce e sogno, destinata all'eternità», la vede immersa sott'acqua nella piscina delle terme con vicino, per sicurezza, i sommozzatori. Una prova di fiducia nei confronti della regista: «Elisa Fuksas è una ragazza, una donna intelligente, forse ancora più matta di me tanto che ho pensato, se è già così adesso figuriamoci alla mia età». Nello studiare un mito, la regista si interessa molto al suo corpo come se, con l'esplorazione somatica, si riuscisse a restituire l'intimità: «Mi interessava chi è Ornella Vanoni oggi. Anche per questo c'è la sua nudità un po' ostentata nel film. Ma è l'Ornella di sempre, spudorata, libera, ironica, bella e strana, perché è sempre stata una strana bellezza, non canonica», dice la regista che, a sua volta, si era messa a nudo nel suo precedente «iSola». Poche, per fortuna, le interviste agli amici musicisti come Vinicio Capossela, Samuele Bersani e Paolo Fresu con la cui tromba Ornella si accompagna a cappella, mentre lo spazio è sempre occupato solo da lei, la Vanoni che ben conosciamo e che oggi è tutta pro vaccino, «dovrebbe essere obbligatorio», e Green Pass ma è sempre caustica come quando dice di essere «molto spudorata perché ho fatto l'amore con le luci accese, con il sole, nell'androne di un portone». Lei che, struccata, urla nel film di essere «un cesso» ma che poi ricorda con dolcezza i suoi amici brasiliani come Vinicius de Moraes o Toquinho «che ti riempiono la vita ma poi vanno via ed è come se non ci fossero mai stati», oppure i suoi amori, come Strehler o Gino Paoli che «tutti mi dicevano essere un frocio che scriveva cagate. Era tremendo a suonare e suona ancora male. Ma la canzone mi sembrò stupenda». «E cos'è successo quando lo hai incontrato»?, le chiede la regista, «E beh, è successo un casino». Senza fine.

Ornella Vanoni: «Ho lasciato Strehler, sofferto per Paoli e litigato con Mina. Non temo la morte». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2021. La cantante protagonista del docufilm «Senza fine» di Elisa Fuksas, che verrà presentato a Venezia: «In collegio ero timidissima, non volevo mai uscire. Ci ho messo una vita a recuperare i rapporti con mio figlio. Il Festival l’ho vinto io, chi canta come me a 86 anni?» Ornella Vanoni è diversa da come sembra, o da come viene vista. Quella che a qualcuno appare leggerezza, ai limiti della svampitezza, in realtà è ironia. È una donna colta, molto attenta a scegliere le parole, a soppesare i ricordi. 

Qual è il primo?

«I miei genitori che vanno all’opera, a vedere la Manon, e io che dico: “Manon è quello che papà dice sempre alla mamma: ma non fare questo, ma non dire quell’altro...”. E i gattini del fruttivendolo, che mi portavano a casa quando mi veniva l’influenza; poi però dovevo restituirli, con grande dolore».

Della guerra cosa ricorda?

«Le mani di mio padre che mi afferrano e mi trascinano sul predellino del treno. Era il primo bombardamento di Milano. La città bruciava. Noi fuggimmo a piedi, verso i binari. Fu la salvezza, ma anche la dannazione».

Perché?

«Perché a lungo ho pensato che tutti gli uomini fossero come mio padre, e si prendessero cura di me. Per anni ho avuto un incubo: papà aveva perso le mani».

Dove portava il treno?

«A Varese. I bombardamenti continuarono, e anche le nostre fughe. Capimmo che non dovevamo chiuderci in cantina, dove saremmo morti come topi e con i topi. Un altro incubo è il tram di Varese che mi mette sotto. Poi arrivarono gli americani».

Com’erano?

«Profumati. Tutti in maglietta bianca. Sapevano di Palmolive, mentre i nostri poveri soldati erano stati mandati in guerra senza nulla, neppure il sapone. Ancora adesso la cosa che più mi piace di New York è l’odore. I tedeschi erano spariti, uscii di casa urlando, tutti si abbracciavano, ricordo una stretta fortissima. Da allora adoro essere abbracciata».

Nel bel docufilm di Elisa Fuksas «Senza fine», lei racconta la Milano del dopoguerra con entusiasmo.

«Tutto pareva possibile. Come in una fiaba. Diventai amica di Gaber e Jannacci, due persone stupende».

E a vent’anni si fidanzò con Giorgio Strehler.

«Ero timidissima. Al collegio, in Francia e in Inghilterra, annodavo le lenzuola per le compagne che volevano calarsi dalla finestra; loro scappavano, e io no, preferivo restare dentro. Durante la guerra ero stata operata al collo, mi tolsero i linfonodi, e mi massacrarono. Ho ancora adesso le cicatrici, vede? Mi vergognavo molto».

Strehler fu il suo primo uomo?

«No. Fu un signore napoletano, più grande di me».

Come ricorda la prima volta?

«Bella, perché dolce».

Strehler.

«Nessun uomo mi ha mai amata tanto. Era sposato, ma non importava: sposarmi non è mai stata la mia ambizione. Frequentavo i corsi al Piccolo Teatro. All’esame, con la V di Vanoni, passai per ultima. Ero nervosissima. Buio assoluto. Portavo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” e un passo delle lettere di Alfieri. Mi incespicavo di continuo, ripetevo: pardon, pardon... Sentii una voce di donna dire: “Attenzione, qui c’è qualcosa di interessante”. Era Sarah Ferrati, la grande attrice. Io devo alle donne il massimo del bene e il massimo del male».

Strehler.

«Veniva sempre a fare lezione nella mia classe, per lo stupore delle altre: di solito non si vedeva mai. L’insegnante di danza era sua moglie, da cui era già separato. Mi detestava: aveva capito al volo che sarei piaciuta al marito».

E lui?

«Mi diceva: hai talento, ma non hai i nervi per reggere. Aveva ragione. Però alla fine ce l’ho fatta senza di lui».

Come mai finì?

«Non potevo seguirlo nella droga e negli altri suoi vizi. Andai al festival di Spoleto, a cantare le canzoni della mala con la regia di Zeffirelli. Entrai nel gruppo di Visconti, che mi piacque molto. Lì incontrai Renato Salvatori, quello di Poveri ma belli. Mi ha quasi messo a letto. Fu solo un flirt, ma uscirono le foto di una nostra gita in motoscafo sul lago di Bracciano. Strehler ne soffrì come un cane. Veniva a casa mia e cominciava a ripetere: “Con te non posso vivere, senza di te non posso vivere...”. Una volta, anni dopo, mi telefonò: “Tu devi tornare con me, ti voglio al mio fianco...”. Lo informai che stavo per sposarmi».

Con Lucio Ardenzi, il produttore.

«Strehler andò su tutte le furie: “Quel mercante!”. Giorgio era circondato da donne in adorazione; non si capacitava che una potesse dirle di no. Ma io lo adoravo quando lui, un genio, era sul palco, a fare la Tempesta o Il gioco dei potenti. Nella vita lo amavo come si ama un uomo. E delle altre non me ne fregava niente».

Prima del matrimonio incontrò Gino Paoli.

«Lo sentii nella casa discografica suonare “Il cielo in una stanza”. Chiesi chi fosse, mi risposero: “Un frocio che fa canzoni orrende”. Strano, mi dissi: suonava maluccio, ma la canzone mi era parsa stupenda. Così cominciai a frequentarlo».

Cosa facevate?

«Lunghe passeggiate. Gino non aveva i soldi neanche per il biglietto del tram; così andavamo sempre a piedi, io gli trotterellavo dietro con i tacchi a spillo, sfinita. Fino a quando, appoggiati a un muretto, gli chiesi: “Ma tu sei frocio?”. Rispose: “No, perché?”. E io: “Mi avevano detto così”. E lui: “A me invece hanno detto che tu sei lesbica, canti male e porti male...”. Siamo scoppiati a ridere. E ci siamo dati il primo bacio».

Perché quelle maldicenze?

«Perché eravamo diversi. Ma Gino ne era felice: “Io li lascio dire, e poi gli scopo le mogli”».

Neanche di Paoli era gelosa?

«Gelosissima. Non c’era mai. Sposato, sempre in giro. Uscivamo di casa ognuno con una borsa di gettoni e stavamo ore al telefono. Ora lui mi dice: “Ornella, ti ricordi le risate?”. Ma quali risate, io soffrivo da morire. Sposai Ardenzi, ma ero ancora innamorata di Gino».

Per lei Paoli scrisse «Senza fine», colpito dalle sue «grandi mani».

«Ero abituata al circuito colto. Ma in piazza Beccaria vedevo i cantanti felici, con le decapottabili, e mi dissi: voglio fare le canzonette anch’io. È stata dura, e non solo perché non ero abituata al microfono con il filo e prendevo la scossa. Venivo dal teatro, ero considerata snob, fredda. Dovevo colmare la distanza tra me e il pubblico».

Le sue non sono solo canzonette.

«Di ogni brano arriva alla gente una frase sola, in cui si riconosce. Mi sono sempre chiesta perché “L’appuntamento” piacesse così tanto. La risposta è nella prima strofa: “Ho sbagliato tante volte ormai...”. Perché tutti hanno sbagliato nella vita. E tutti hanno conosciuto “uno di quei giorni che ti prende la malinconia...”.

Anche le canzoni della mala sono rimaste.

«Con Strehler andavamo in giro per bettole; però sentivamo appunto canzoni da bettola. “Ma mi” la scrisse lui, facendola passare per canzone popolare. Qualcosa veniva dal Sud, dai canti dei carcerati calabresi, raccolti da Pasolini. Anni dopo chiesi consiglio a Pier Paolo. Rispose che non c’era più nulla da cantare, perché non c’era più gente d’onore: era finito il tempo in cui il ladro aveva rispetto del capo della polizia».

E lei posò nuda su Playboy.

«No. Nelle foto non sono mai nuda. Feci io la regia del set. Si intravede appena un capezzolo (quante discussioni: più su il lenzuolo, più giù il lenzuolo...). Trovavo e trovo che sia molto più sensuale così. Come compenso chiesi una sfera di Arnaldo Pomodoro. Mi dissero che era troppo cara. Così Pomodoro rinunciò alla sua parte, purché potessi averla».

Com’erano i rapporti con Mina?

«Eravamo amiche, ci frequentavamo. Un giorno a pranzo suo marito, Alfredo Cerruti, mi propone una trasmissione tv con lei. Accetto e parto felice per le vacanze. A Paraggi mi raggiunge Gigi Vesigna: “Hai visto che Mina fa una trasmissione con la Carrà?”. La chiamo: “Sei una vigliacca”. “Allora è guerra?” risponde. Guerra no; ma avrei voluto saperlo da lei. Poi facemmo pace. Ma da quando si è rifugiata in Svizzera ci siamo perse».

Celentano?

«Ci siamo divertiti tanto. Nella casa di via Bigli avevo un biliardo enorme, che schiacciando un bottone diventava un letto. La cosa lo faceva molto ridere».

Iva Zanicchi ha raccontato che lei la mandò in crisi a Sanremo, dicendole che il vestito le stava male.

«Iva non ha capito. Cantava “Partirà, la nave partirà...” con un vestito ad ala che distraeva l’attenzione dalla sua voce, che è così bella. Era un complimento, non una critica».

La Zanicchi ha vinto il festival tre volte. Lei mai. Non le dispiace?

«Un pochino sì. In fondo però l’ho vinto quest’anno. Non ne trovi tante che cantino così a 86 anni...».

Orietta Berti?

«La adoro: intelligente, spiritosa. La sua voce scaturisce come uno zampillo».

Luigi Tenco?

«Mi è sempre parso un soccombente. Paoli dice di no. Entrambi hanno tentato il suicidio; Tenco però ci è riuscito. Gino invece vive con una pallottola nel cuore. Sarà stata una pistolina».

Fellini?

«Adorabile bugiardo. Pareva ti stesse aspettando da una vita; in realtà di te non gli importava nulla».

Dicono che pure Lucio Dalla fosse bugiardo.

«Bugiardissimo. Ma proprio per questo con lui non ti annoiavi mai. E poi io lo trovavo affascinante, quindi bello».

Visconti?

«Andai nella sua casa romana sulla Salaria. Tutti i suoi cani erano sul divano. Mi fece accomodare, ma senza far scendere i cani. Al primo posto venivano loro».

Colapesce e Dimartino?

«Tristi. Però la tristezza è la loro forza. “Toy boy” nasce da un’idea di Guadagnino, il regista. Mi sono divertita a interpretare il personaggio vestito di nero con la veletta. Ridere oggi è così difficile...».

Chi la diverte?

«Mi piaceva Fiorello, nei suoi spettacoli. Checco Zalone è geniale. Ma un comico non può lavorare senza il pubblico, senza il riscontro della risata».

Si è offesa per l’imitazione che le faceva Virginia Raffaele?

«Nooo! Ho fatto anche l’imitazione dell’imitazione: “Mi hai fatto passare per una maniaca sessuale, mi hai rovinato la vita...”».

Nel film lei dice di non avere soldi da parte. Come mai?

«Li ho sempre persi tutti. Hanno scritto che ho un patrimonio di 118 milioni di euro, più di Miuccia Prada. Se fosse vero non sarei qui con lei, sarei a nuotare in un’isola del Pacifico».

Perché li ha persi?

«Un po’ perché mi fregavano: a fine tournée talora mi davano solo una parte di quel che mi spettava; sapevano che non avrei controllato. E un po’ per un senso di solitudine. Ero sempre da sola nelle mie scelte; e gettavo via il denaro. Compravo una casa, la arredavo, poi vedevo che nessuno veniva a trovarmi, neppure mio figlio, e la rivendevo, magari a metà prezzo».

Perché suo figlio non veniva?

«Ci ho messo una vita a recuperare i rapporti con Cristiano. Da piccolo lo lasciavo ai nonni, per lavorare. Volevo restare con lui, ma mio marito mi disse: “Se non torni subito, sono rovinato”. Così feci “La fidanzata del bersagliere”. Un bambino tende a pensare che preferisci il lavoro a lui; e ci soffre. Così caddi nella mia prima depressione. La gravidanza però è stata il periodo più bello della vita».

Perché?

«Perché è l’unico momento in cui non sei sola. In cui si è davvero in due».

Con gli uomini non le è mai successo?

«Nei momenti di eros. Quando lo faresti in un portone, divoreresti la persona amata di baci, la mangeresti, vorresti infilartela dentro, essere un tutt’uno...».

Lei ora vive sola.

«Da 25 anni. Per scelta. Sono rimasta terribilmente delusa da un uomo. Colpa mia: mi sono ostinata a cambiarlo; ma gli uomini non cambiano, se non in peggio; e all’appuntamento lui alla fine non viene. Questa persona ebbe un infarto e le salvai la vita: non aspettai l’ambulanza, la portai al Niguarda in taxi. Il giorno dopo mi odiava. Così sono rimasta con Ondina, il mio cane. Siamo due ragazzine sole. E poi ho due nipoti».

Come si chiamano?

«Matteo è uno tsunami dolcissimo. È fidanzato con una ragazza stupenda, sono felici. Camilla ha il wanderlust, la gioia dell’andare, quella cosa che Virginia Woolf secondo la sua fidanzata aveva perso. Mia nipote non ancora. A 18 anni mi chiese i soldi per andare in Nuova Zelanda e si è fermata due anni. Ha fatto la cameriera, la baby-sitter, ha raccolto pomodori. Poi è andata in Cambogia e in India, ed è tornata rasta. Ora vive a Fuerteventura, alle Canarie».

Lei Ornella cosa votava nella Prima Repubblica?

«Socialista. Amavo Nenni».

E Craxi?

«Grande, grosso, forte. Aveva una certa allure fisica. E poi quel modo di parlare, con le pause che davano peso alle parole... Abbiamo litigato quando ho capito che il partito mi stava usando».

Come andò?

«Dissi che a Milano c’era un’overdose di socialismo, e Pillitteri rispose: se la Vanoni vuole disintossicarsi, non glielo impedisco. Craxi invece disse che non mi avrebbe né ostacolato, né aiutato. Ma quando mai mi aveva aiutata? Comunque nella disgrazia andai a trovarlo ad Hammamet. Un leone in gabbia».

Chi voterà come sindaco di Milano?

«Sala».

Di Berlusconi cosa pensa?

«Voglio il suo chirurgo estetico e il suo fotografo. Entra ed esce dagli ospedali, ed è sempre giovane e patinato...».

Draghi?

«Grande intelligenza e preparazione; ma è pur sempre un uomo delle banche. Come Monti. Mi sembra che gli abbiano promesso il Quirinale; però il nostro presidente non è Macron, non ha veri poteri. Dopo il fascismo ci siamo dati una Costituzione che non consente di dare il potere a nessuno; ma ora la politica è impotente. Noi italiani siamo così: poco seri. Sentiamo poco la patria. Noi non diciamo patria, diciamo paese».

Salvini?

«Molto intelligente. Fa di tutto per assomigliare all’uomo del popolo. Tutta la sua politica, dal Papeete in giù, è un modo per dire: io sono come voi. Nel suo campo, è bravissimo».

Meloni?

«È una donna, e come tutte le donne deve arrancare di più».

Lei è stata amica di Dario Fo.

«E di Franca Rame. Un giorno stavamo nuotando alle terme di Saturnia, e mi raccontò quanto fosse difficile tenere a bada tutte quelle ragazzine che stavano attorno al marito...».

Nel film lei dice che la vecchiaia le piace.

«L’ho accettata. Invecchiare vuol dire non essere morti, e avere la schiena a pezzi».

Com’è stato il lockdown?

«Non così duro, per noi che abbiamo vissuto la guerra. Avevo imparato la pazienza, a resistere chiusa in una stanza. I nazisti ci spararono in casa, davano la caccia a mio cugino partigiano, che poi fu ammazzato. Il Covid l’ho fatto. Sono stata malissimo, ma senza angoscia. Da ragazza ho avuto pure la tisi... E poi noi donne, che conosciamo il parto, soffriamo il dolore fisico meno degli uomini».

Quindi lei è serena?

«Per nulla. Come potrei esserlo, di fronte alle immagini di Kabul, alle madri che gettano i bambini oltre il filo spinato? Io sento dentro di me il dolore del mondo. È un periodo terribile della storia: il cambio climatico, la pandemia. La Terra non ci vuole più. Ci sta chiedendo di andarcene. Ed è tardi per tornare indietro».

Crede in Dio?

«Credo in Gesù. Pregò Gesù, figura meravigliosa. Ho letto tutta la Bibbia. A un certo punto entrai in un gruppo evangelico, guidato da una pastora brasiliana, che si rivelò una figura vampiresca. Mi svuotò, come fanno quegli aggeggi che tolgono il torsolo alla mela. Gliel’ho detto, che il meglio e il peggio della vita l’ho avuto dalle donne».

Da chi altre ha avuto il peggio?

«Una falsa amica cominciò a perseguitarmi con lettere anonime. Capii subito che era lei, si riconosce sempre il braccio peloso del tuo assassino, e glielo dissi. Provò a negare. Così andai in tv da Maurizio Costanzo, che lesse un brano di una lettera e poi disse: “Se succede anche a voi fate come la Vanoni: denunciate”. Non ne arrivarono altre».

Una donna che le piace?

«Dacia Maraini. Lieve anche nella tragedia».

Cosa c’è dopo la morte?

«E chi lo sa? Non lo sapeva neppure un uomo eccezionale come il cardinal Martini. Rilegga le sue lettere da Gerusalemme: sto per morire, la mia fede è forte, ma ho paura, perché sono un uomo».

Lei ha paura?

«Oltre una certa età non si può e non si deve andare. Mia zia visse 107 anni: un cervello lucido, purtroppo, in un corpo distrutto. Da diventare pazzi. No, a un certo punto bisogna morire».

Ornella Vanoni, l’icona di libertà degli over 70. Angela Leucci il 25 Agosto 2021 su Il Giornale. Ornella Vanoni è un mito per la musica italiana e internazionale e un'icona di libertà molto amata dagli over e dalle giovani generazioni. Per Ornella Vanoni galeotto fu il Festival di Sanremo 2021. Ospite di qualità in una delle serate, è entrata in contatto con due artisti che hanno preso parte alla kermesse: si tratta di Colapesce e Di Martino, con i quali ha cantato nell’estate successiva il brano “Toy boy”, che, lungi dall’essere il classico tormentone di stagione, punta il dito sugli stereotipi delle relazioni e lo fa con un certo gusto raffinato e vintage, oltre a un divertissement musicale e testuale che resta impresso anche per la sua orecchiabilità. Ma se per i giovanissimi Ornella Vanoni è una scoperta recente, legata appunto a “Toy boy”, per gli over 70 la cantante è un mito indiscusso. Che per decenni ha dominato la canzone italiana stringendo collaborazioni internazionali e nazionali di qualità e facendo anche della sua vita privata un canale creativo con cui stupire il pubblico. Classe 1934, libera e canterina come un uccellino, Ornella nazionale sa bene come regalare emozioni ed elevare culturalmente i suoi fan.

Ornella Vannoni, la diva-antidiva per tutte le generazioni. Lo spirito di Ornella Vanoni non appartiene a una sola generazione, ma a tutte, perché riesce a essere trasversale e amata indipendentemente dall’anagrafica dei suoi ammiratori. “Tutta la vita sono stata passeggera - ha detto in un’intervista al Corriere della Sera - e ho sempre cercato sentieri secondari. Sono sempre affascinata da quello che non conosco, sono quelli i sentieri secondari. Ed è quella la mia meta”. Forse è per questo che a 20 anni, benché volesse fare l’estetista, si approcciò al teatro, studiando al Piccolo di Milano e diventando, a metà degli anni ’50, la compagna di Giorgio Strehler. “Cerco di vivere in maniera meno ansiosa e provo a non inc... più - ha dichiarato la cantante a Vanity Fair - Da ragazza mi infiammavo per una sciocchezza. Oggi non ne ho più voglia, vivo molto meglio e voglio ridere. […] Ero timidissima e, a causa di un’insicurezza cronica, ho fatto fatica. Arrossivo e cercavo la mia identità tra un silenzio e un azzardo. A 15 anni mi rasai a zero e mi feci bionda. Dormivo poco. Mi facevo schifo. Avevo paura. Un inferno”. Poi arrivò il teatro e tutto cambiò. Al di là della storia d’amore con Strehler, decisamente scandalosa per l’epoca dato che lui era sposato, il grande e indimenticato regista teatrale riuscì a far sconoscere di Vanoni numerose potenzialità, quali la presenza scenica, la voce particolarissima e le capacità interpretative, che in una prima fase della sua carriera si tradussero, tra le altre cose, nelle cosiddette canzoni della mala, brani ispirati a fatti di cronaca nera che però Vanoni non amò particolarmente, cercando di esplorare altri stili e altri linguaggi. Alcuni di questi stili e linguaggi li trovò soprattutto oltreoceano dagli anni '70 in poi, grazie a una collaborazione con Toquinho e il poeta Vinicius de Moraes, e successivamente nel jazz, anche nella scena italiana, dove resta di notevole pregio la sua collaborazione con un giovane Paolo Fresu. “Quando si è giovani si è meno liberi - ha spiegato Vanoni in un'intervista a Rolling Stone - si ha l’ansia del successo. Si è molto presi da sé stessi. Mano a mano che passano gli anni, ci si stacca da sé stessi e si passa ad altre cose”.

Ornella Vanoni e l’incontro con Gino Paoli. Nel 1960, incontrò e avviò una relazione con Gino Paoli. Lui era sposato, lei si sarebbe sposata di lì a poco, con Luciano Ardenzi, con cui avrebbe avuto il figlio Cristiano. “Eravamo due ragazzi di ventisei anni - ha detto Ornella al Corriere - io stavo lavorando a Genova dove avevo preso questa casina a Boccadasse, non c’erano i telefonini, io non lo trovavo mai, una fatica… Per lui ho sofferto. Ma l’ho molto amato”. Paoli sconsiglio a Vanoni di sposarsi: per lei scrisse il brano “Senza fine”, ispirandosi alle sue grandi mani affusolate, ma parlare dei due artisti solo dal lato sentimentale è davvero riduttivo, anche perché a un certo punto la loro storia finì. “Gino era sposato - ha spiegato Ornella Vanoni a Vanity Fair - In amore sono stata irrequieta e ho sofferto tantissimo, ma non ho mai lottato per tenere un uomo vicino a me. Gino aveva sua moglie, era combattuto. Un giorno a Forte dei Marmi gli dissi: ‘Accompagnami al treno, me ne vado’. Lui non mi guardò mai negli occhi e così non capì il mio dolore. Gino era un amore impossibile, però mi è rimasto nel cuore”. Al di là della relazione infatti i due hanno realizzato musica insieme per molto tempo, a partire appunto dagli anni ’60, per finire nel nuovo millennio, quando Vanoni e Paoli incidono il disco “Ti ricordi? No non mi ricordo”. Si tratta di un album di 12 inediti realizzato nel 2004, diventato ben presto disco di platino.

La carriera di Ornella Vanoni. Dal 1961 a oggi, Vanoni ha pubblicato 41 album, alcuni dei quali con un’etichetta fondata da lei stessa. È stata a teatro, al cinema, in televisione. È un vero e proprio mito senza tempo. “Ho detto a un mio amico: ‘Ci sono due modi di invecchiare: ridendo di sé stessi o prendendosi sul serio. Se scegli la seconda strada vivi male’ - ha dichiarato al Corriere - Quella è una brutta vecchiaia e invece bella vecchiaia è ridere di sé, dei propri crolli, delle proprie rughe. Io guardo con tenerezza il mio corpo che cambia, è giusto sia così. Andiamo avanti finché possiamo”. Ornella Vanoni ha partecipato a 8 Festival di Sanremo, vincendo nel 1999 il premio alla carriera mentre era in coppia con Enzo Gragnaniello per il brano “Alberi”, e poi nel 2018 il premio alla miglior interpretazione “Sergio Endrigo” e il Baglioni d’oro per “Imparare ad amarsi” con Bungaro e Pacifico. È stata inoltre ospite più volte sul palco dell’Ariston, ha preso parte al Festivalbar, al Festival di Napoli, a Canzonissima e alla Mostra internazionale Musica Leggera di Venezia. Ma nonostante il suo talento e il suo curriculum, molti pensano a Vanoni anche e soprattutto per la sua sensualità, sebbene sia un ruolo che all’artista sta davvero stretto. “Una volta - ha spiegato al Corriere - ero a casa di una mia amica qui a Roma e dicevo "sono stufa, stufa di essere trattata come una cantante sexy. Se c’è una parola stupida è la parola sexy, semmai sono una donna erotica". Mentre lo dicevo il suo cane mi tromb... la gamba. Io mi trascinavo via urlandogli: "Hai capito che non ne posso più? Vai via". Sexy è un termine stupido. Difatti le donne non mi amavano”. E in alcune situazioni, racconta la cantante, quest’aura sexy è stata foriera di grandi imbarazzi. “Un giorno ero con Laura Betti a pranzo - ha spiegato ancora a Vanity Fair Ornella - e si avvicinò Pasolini: "Tu sei l’unico c... femminile che mi fa vibrare"”.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

La lunga storia d’amore tra Ornella Vanoni e Gino Paoli: tutte le grandi storie della cantante. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Gennaio 2021. Sono nati a distanza di un solo giorno nello stesso anno, Ornella Vanoni e Gino Paoli, oggi 86enni, sono la coppia musicale e nella vita che ha fatto sognare. La loro unione iniziò per motivi artistici: i due si conobbero nel 1960 nella casa discografica Ricordi. Paoli le scrisse la sua prima canzone d’amore dal titolo “Me in tutto il mondo”. I due si innamorarono e Paoli dedicò alla Vanoni uno dei suoi successi immortali: “Senza fine”. Il cantautore scrisse per Ornella altri brani tra cui Anche se, Che cosa c’è e Gli innamorati sono sempre soli. La loro era però una relazione clandestina. Paoli era infatti sposato con Anna Fabbri che dopo qualche anno chiese alla Vanoni di farsi da parte. Nel 1960 Vanoni sposò l’imprenditore teatrale Lucio Ardenzi da cui ebbe un figlio, Cristiano. Ma il loro matrimonio finì poco tempo dopo. Più avanti la cantante scriverà nella sua biografia che sposare Ardenzi fu “un errore, volevo ancora bene a Gino, lui mi ha sconsigliato sino all’ultimo, minacciando persino di venire alla cerimonia a cantare Senza fine”. Nel marzo 2018, ospite al Maurizio Costanzo, Ornella Vanoni ha confessato di aver perso un figlio di Gino Paoli a causa di un aborto. I due non si sono mai sposati ma tra loro l’amicizia è sempre rimasta molto forte, trasformandosi anche in un sodalizio artistico. nel 1985 Gino Paoli e Ornella Vanoni organizzarono una tournée di grande successo, e l’evento diventò un doppio disco, Insieme. Nel 2004 incisero l’album di inediti Ti ricordi? No non mi ricordo, che ottenne il disco di platino per le vendite. L’anno successivo iniziarono, a vent’anni dal precedente, un altro tour di successo da cui verranno estratti un doppio CD e un DVD. Tra gli altri grandi amori della sua vita il regista teatrale Giorgio Strehler, Hugo Pratt di cui si è infatuata, e Danilo, un uomo che la tradiva di continuo, ma con cui è rimasta molto a lungo. In seguito, il compagno di Ornella Vanoni è stato un uomo di nome Marco: lei pensava che sarebbe durata per sempre, ma l’uomo è misteriosamente scomparso nel nulla lasciandola molto delusa. Eppure, non ha smesso di amare. “Sono innamorata. Non c’è sesso, ma un amore poetico, virtuale. Ci vediamo poco, lui sta a Trieste, io a Milano“, ha confessato sullo scrittore Pino Roveredo. Nel suo cuore, anche Francesco Leto, poeta di 49 anni più giovane: “Dormiamo nello stesso letto, spesso, per poter parlare di notte. Non cerco storie convenzionali“, ha spiegato.

Walter Veltroni per Sette – Corriere della Sera il 28 gennaio 2021. Ornella Vanoni, donna coraggiosa e grande interprete, ha inciso un disco composto solo da brani inediti. Alcuni sono eseguiti in duo con Carmen Consoli o con Virginia Raffaele. Testi e musiche delle canzoni sono di firme importanti come Giuliano Sangiorgi, Gabbani, Pacifico, Renato Zero. E la gran parte sono di un compositore di qualità come Fabio Ilaqua. È un bel disco.

Per parlarne, con Ornella, partiamo da lontano… Come era il mondo in guerra visto dalla bambina Ornella?

«I miei primi ricordi risalgono a quando ero piccolissima. Andavo in una scuola tedesca, poi mi hanno tolto di lì e mi hanno messo in una dove facevo la portabandiera delle piccole italiane. Era una scuola pubblica e io con questa bandiera mi divertivo. Ma poi mi sono incazzata perché mi costrinsero a consegnare la mia macchinina elettrica al duce perché doveva farci le armi, sai che davano le fedi e il resto. Oro alla patria, dicevano. Per quel che è servito….Comunque mentre facevo la portabandiera scoppia a Milano il primo bombardamento e noi scappiamo. Qui devo dirti una cosa che riguarda mio padre e forse il mio rapporto con gli uomini. Se nella mia vita io con gli uomini ho sempre sbagliato, ho vinto ma ho sbagliato, dipende forse da quel momento. Vedi, mio padre era un uomo fragile, l’ho capito dopo, negli anni. Era molto timido e soffriva di depressione. Allora non si sapeva ancora cosa fare per questo male che è terribile, io lo chiamo il “Male oscuro”, come il libro di Berto. Insomma, Milano bruciava, siamo corsi alla stazione e c’erano migliaia di persone, si aggrappavano ai treni, un delirio. Avevo paura e lui mi prese per la vita, tipo John Wayne, e mi tirò su, mi sembrava di volare. E io, da allora, ho sempre pensato che l’uomo doveva essere chi ti proteggeva, chi ti salvava».

Mai più trovato?

«No, no. Poi piano piano è emersa in me una parte maschile, che c’è in ogni donna. In ogni donna che fa comunque un mestiere forte. O forse è solo l’autentica forza delle donne, il loro essere capaci di fronteggiare dolore e problemi. Bisogna smetterla con gli stereotipi: ci può essere una parte femminile in un  poeta, in un uomo che incontri. È bello così, non l’uomo uomo o la donna donna».

Il 25 aprile lo ricordi?

«Eravamo a Varese, sentiamo arrivare gli americani, scendiamo tutti giù e mi ricordo questi ragazzi con i capelli corti. Mi sembravano tutti bellissimi, avevano divise chiare e addosso una maglietta che sapeva di Palmolive, di pulito. Stavano seduti sui carri armati e ci gettavano le sigarette, il cioccolato e sorridevano. Del 25 aprile mi ricordo l’odore, l’odore del pulito».

E invece del 25 luglio, quando cadde Mussolini, ricordi qualcosa?

«No, mi ricordo quando l’hanno portato in piazzale Loreto e io, pur essendo non adulta, ho pensato: ma come è possibile che appendano due persone e gli piscino e gli sputino addosso? Quando l’hai ammazzato basta, non c’è bisogno di fare di più. E quello ci rappresenta ancora oggi, questa mancanza di etica, di morale, persino di umanità».

Tu hai avuto la tisi?

«Sì».

A che età?

«L’avevo già avuta durante la guerra, sono stata torturata perché avevo linfonodi ingrossati. Non sapevano cosa fosse, non c’era niente per non soffrire, mi bucavano con gli aghi. Sono andata avanti fino a ventitré anni, ho subito tre o quattro operazioni. Ho sofferto tantissimo, difatti ho una soglia del dolore altissima».

Perché hai deciso di fare dopo tanti anni un disco di inediti?

«Credo di essere l’unica di quest’età al mondo che abbia fatto un disco di inediti. E ringrazio la BMG che ha creduto in me. Ho detto a un mio amico :“Ci sono due modi di invecchiare: ridendo di sé stessi o prendendosi sul serio. Se scegli la seconda strada vivi male”. Quella è una brutta vecchiaia e invece bella vecchiaia è ridere di sé, dei propri crolli, delle proprie rughe. Io guardo con tenerezza il mio corpo che cambia, è giusto sia così. Andiamo avanti finché possiamo. Quindi devo alla mia energia l’aver creduto in me e aver fatto questo nuovo disco». Ho appuntato delle frasi delle singole canzoni: in Isole viaggianti dici, «eterni passeggeri sempre in cerca di sentieri secondari».

È la tua condizione?

«Tutta la vita sono stata passeggera e ho sempre cercato sentieri secondari. Sono sempre affascinata da quello che non conosco, sono quelli i sentieri secondari. Ed è quella la mia meta».

Ti senti ancora oggi viaggiatrice?

«Viaggiatrice dentro, sì».

E il sentiero più bello che tu abbia conosciuto?

«Quando sono entrata al Piccolo. Ero una ragazza molto perbene che non diceva parolacce, che non è mai scappata dal collegio. Ero una ragazza quadrata, al Piccolo nacque tutta un’altra persona. Lì sono cambiata tantissimo e ho imparato molto. Anche troppo, per l’età che avevo».

In L’arcobaleno canti: «Sei tutta la vita di adesso». Cosa c’è dentro di te, oggi, della vita che hai vissuto?

«Ho un’ottima memoria e un cervello molto lucido. In questo sono fortunata, rammento tutto. Ma ci sono delle cose che quando ricordo mi dico: boh, queste non dovevo farle. Ecco. Stavo con un uomo che aveva parecchi vizi e quindi lo seguivo. Ecco quella parte la cancellerei. Però lo seguivo, era il mio compagno. Se vuoi stare con un uomo così, devi condividere».

«Disorientata in balia di te».

Tu ti innamori ancora?

«Sì».

Hai detto: «Io non ho più una vita sessuale».

«Io non ho più storie, però di certe persone mi innamoro».

Perché dici che non hai più una vita sessuale?

«Perché io a sessantadue anni, dopo una grande delusione, ho deciso che bastava. Ho sbagliato, è colpa mia, ho confuso la forza con la durezza».

Sei stata per lungo periodo un’icona della sensualità. Ne eri consapevole? Ci giocavi?

 «Sì, ad un certo punto sì, lo sapevo. Una volta ero a casa di una mia amica qui a Roma e dicevo “sono stufa, stufa di essere trattata come una cantante sexy. Se c’è una parola stupida è la parola sexy, semmai sono una donna erotica”. Mentre lo dicevo il suo cane mi trombava la gamba. Io mi trascinavo via urlandogli: “Hai capito che non ne posso più? Vai via”. Sexy è un termine stupido. Difatti le donne non mi amavano».

Amavano Mina...

«Mina sì. Era una ragazzona che ha portato la gioia: Le mille bolle blu e Una zebra a pois. Era l’icona dell’allegria. Io tutta vestita di nero, un po’ ferma… Tutto è cambiato con L’appuntamento. Quella è stata la canzone che mi ha aperto il cuore degli italiani».

È una canzone abbastanza speciale, infatti.

«Ci si ritrovano tutti, anche i bambini di undici anni con una precoce delusione amorosa».

In Nuda sull’erba dici: «Ho chiuso ogni dolore fuori dalla mia pelle». Quale è il dolore principale che hai vissuto?

«È stato un aborto. Ero in Svizzera e studiavo a Losanna, stavo con un ragazzo svizzero che allegro non era. Era svizzero, faceva le lancette degli orologi, una noia mortale. Ma allora non me ne accorgevo. Sono rimasta incinta e lui non ha voluto il bambino. Ero anche molto giovane, avevo diciotto anni. Hanno chiamato uno psicologo e tutti, decisi, hanno detto che io non avevo né le capacità, né la forza psicologica di fare un figlio. Però ho pensato: “Ma gli uomini, quando si mettono insieme, sono nemici…”. Quello è stato un dolore terribile. Ma ho sofferto molto anche dopo, quando ho preso il treno per andare via dal cantautore e avevo il cuore che sembrava un ascé. Ma lui non ha capito, mi ha detto: “Tu mi hai lasciato”. “Ma no, sono andata via perché tu non c’eri più”. La moglie piangeva, cominciava il suo grande successo, la Bussola, sentivo arrivare Stefania... Insomma quello è stato un grande dolore, sì».

Perché lo chiami il cantautore?

«Perché è un cantautore, più un autore che un cantante».

Lui è stato molto importante per te?

«Molto. Eravamo due ragazzi di ventisei anni, io stavo lavorando a Genova dove avevo preso questa casina a Boccadasse, non c’erano i telefonini, io non lo trovavo mai, una fatica… Per lui ho sofferto. Ma l’ho molto amato».

Tu hai più tradito o sei stata più tradita? Ammesso che questa parola abbia un senso…

«Ho tradito, però quando una storia era finita. Nel tempo ho capito una cosa: che se una donna, ti parlo delle donne perché conosco l’animo delle donne, quando finisce con un uomo, per riempirsi di nuovo, sceglie di fare l’amore con un altro, quella è una tragedia. Non devi mai cercare di uscire da una storia d’amore facendo l’amore con un’altra persona. È ancora peggio, è meglio aspettare».

Di una donna ti sei mai innamorata?

«Sì».

Con successo?

«Sì, ero amata. A me non piace il sesso femminile, però di una persona mi posso innamorare. Certo, di una donna mi posso innamorare».

Anche da questo punto di vista tu sei stata molto coraggiosa, mi sembra che tu abbia sempre voluto dire che in amore non esistono barriere.

«Non deve avere muri, l’amore. Conosco anche altre donne che hanno amato. Non le sciurette, come le chiamo io, ma le donne, le femmine. Ne conosco tante che hanno avuto un amore femminile e non vuol dire che siano lesbiche, anche se non c’è niente di male a essere lesbiche. Ti innamori della persona, di quello che ti dice, di quello che ti dona, o della gioia che ti fa provare. Dell’essere umano, uomo o donna, che ti dà un bacino e vedi tutto azzurro».

In Tu/me dici: «Cosa di me conosco veramente». Cosa conosci di te veramente?

«Tutto».

C’è qualcosa di te che non razionalizzi?

«So tutto quello che faccio, anche quando faccio le cose sbagliate. So di farle sbagliate. Me ne accorgo. Sono stata molto male, ho avuto talmente gravi depressioni da stare un anno in casa, al buio».

In che periodo?

«Un po’ di anni fa. Adesso non mi capita più. Mi capita la tristezza, posso piangere dodici ore. La depressione è un’altra cosa. È una malattia terribile».

Ci fu una causa?

«Non si capisce mai quale è la causa. Per esempio in quel periodo ero innamorata, ero all’inizio di un amore per un uomo che ho amato molto e stimato perché era molto colto ed intelligente. Eppure mi è venuta la depressione».

Che periodo era professionalmente?

«Sai che io non so né dare gli anni alle persone né ricordare gli anni? Ho perso tutti i capelli, ero calva, poi mi sono curata e sono ricresciuti. Il professor Cassano mi ha detto: “È molto facile la diagnosi: tu non dormi per due mesi, lavori, chiunque si deprimerebbe”. Non dormivo mai. Io dal regista in poi non dormivo mai. Avevo sempre paura perché ho fatto questo mestiere distruggendo il mio sistema nervoso. Quando stavo per salire sul palco una volta lui mi ha detto: “Amore, tu hai un grande talento, ma non i nervi per reggerlo”. Aveva ragione. Difatti è stato un disastro».

Tu eri a Sanremo nel ’67...

«Ero a Sanremo nel ’67, cantavo La musica è finita. Ero ancora timidissima, tipo bruco strisciante. Quella sera vedo Luigi appoggiato ad una colonna. Vado da lui e gli dico: “Luigi apriamo gli occhi mi raccomando, perché sennò in televisione non passa niente. Apri gli occhi”. Ma lui sembrava un busto. Dopo ho saputo che aveva preso Pronox e cognac. A me l’ha detto il cantautore. Io sono corsa al gruppo Rca dove c’era anche Dalida e ho detto loro: “State attenti a Luigi, perché mi sembra strano”. Ho fatto il mio dovere. Ma lui mi sembra di ricordare che fosse già molto incazzato perché la Rai gli aveva cambiato il testo della canzone. Qualcosa era stato cambiato e questo lo aveva mandato fuori di testa».

Tu come sapesti?

«Il giorno dopo, perché stavo in un albergo fuori e non me l’hanno detto».

E che clima c’era la sera dopo?

«The show must go on. Why?».

E Vinìcius de Moraes com’era?

«È stato bellissimo lavorare con lui. Eravamo sempre insieme per quel disco: chi si innamorava, chi piangeva. I brasiliani arrivano, ti riempiono la vita, poi vanno via come non ci fossero mai stati. I brasiliani, anche se è crollata la casa, dicono “Tudo bom..”».

Chi ti manca di più di quelli che non ci sono più?

«Fai un nome a caso, uno di Bologna. Senza Lucio vivo a metà. Per me è stato il più grande in assoluto».

Totò Rizzo per leggo.it il 28 gennaio 2021. «C’è un musical, tra le tante proposte. Confesso che mi piacerebbe tornare in teatro». Ornella Vanoni non è artista da comfort zone, a dispetto delle 86 pur indomite primavere. Prendete i dischi: avrebbe potuto fare un album di suoi successi, vestiti di nuovi arrangiamenti, magari in duetto con colleghi più o meno giovani. E invece Ornella – che vuole ridere e cantare – venerdì 29 gennaio sforna un album di inediti. E accarezza il sogno di risalire in palcoscenico.

Un musical. Di che si tratta?

«Devo ancora leggere bene il copione e valutare. È la trasposizione italiana di un musical americano. Solo che quando arrivano in Italia, quegli spettacoli sono sempre un po’ sottotono, spesso costretti a girare in tournée penalizzando la qualità».

Intanto arriva «Unica», album da Signora Grandi Firme: da Gabbani a Sangiorgi, da Zero a Carmen Consoli, da Pacifico a Fabio Ilacqua. Etichetta Bmg, «magister elegantiarum» – come spiritosamente si definisce al posto di produttore – Mauro Pagani perché l’album è davvero raffinato, originale, fuori dalle mode, spiazzante nel sound che dal respiro melodico del pop vira verso la bossa nova, dall’euforia brasileira si acquieta nell’intimità dell’acustico. Un disco di totale libertà, insomma, due anni di lavoro, impensabili per una discografia sempre più “mordi e fuggi”, che Ornella s’è voluta regalare perché è anche il suo 50° album, a 60 anni esatti dal suo primo, targato Ricordi.

«Unica» come Ornella, dunque.

«Il titolo che avrei voluto era un altro, “Essere Ornella”. Come nel film “Essere John Malkovich” dove un passaggio segreto immette nella mente dell’attore. Perché questo disco sono io, senza filtri».

Un bell’impegno, due anni di lavoro.

«Ho cominciato che avevo 84 anni. Ho messo subito le mani avanti: “Sbrigatevi, non vorrei che una mattina mi trovaste stecchita”. Credo d’essere l’unica artista ottantaseienne nel globo terracqueo ad aver inciso un disco di inediti».

Poche parole su ogni autore. Gabbani.

«Tutto è nato durate una cena molto simpatica».

Carmen Consoli.

«Bel pezzo, strano, testo un po’criptico».

Giuliano Sangiorgi.

«In quello che scrive c’è tutta la sensibilità di chi è nato al Sud».

Renato Zero.

«Era una vita che doveva regalarmi un brano. In “Ornella si nasce” parla di me ma anche di questo nostro mestiere».

Pacifico.

«Siamo stati insieme a Sanremo due anni fa, abbiamo continuato, ci intendiamo al volo».

Fabio Ilacqua: firma cinque delle undici canzoni oltre ad averle arrangiate tutte.

«Un personaggio, un uomo molto colto, amiamo gli stessi libri, la stessa musica. Vive a Varese, fa anche il contadino, non ha telefonino, al fisso risponde sua mamma che ti dice “aspetti che lo chiamo” e lo va a cercare per i campi, ci siamo fatti grandi camminate al Sacro Monte. È un uomo che consiglierei a molte donne perché non è mai noioso. Gli ho chiesto: devi scrivermi una canzone che si chiami “Nuda sull’erba” perché io adoro sdraiarmi sui prati e fare pipì».

Libera come sempre.

«Oggi come non mai. Non c’è più nulla che possa stupirmi. Mi sono superanalizzata attraverso le mie depressioni. Mi resta soltanto ridere».

Nella copertina di «Unica» c’è una bella foto in cui sembra spiccare il volo con un abito giallo.

«Il mio adorato giallo, per anni ho vestito di giallo, un’esplosione di gioia. E sul disco c’è anche la citazione di una frase di Borges, sul giallo, quella sul mistero che “è più evidente in certe cose che in altre: nel mare, nel colore giallo, negli occhi degli anziani e nella musica”».

Il giallo come antidoto ai tempi bui, tra pandemia e crisi di governo.

«Io il Covid l’ho fatto, spero di essere immune per un po’, abbraccio solo le persone tamponate, porto la mscherina. La crisi di governo? Mi incazzerei violentemente se non rischiassi un ictus: non se ne può più di un Paese in mano a non politici».

Tirerebbe aria di Premio alla Carriera a Sanremo.

«Se mi chiamano… boh, non so se vado, se non vado…».

La Vanoni simbolo di raffinatezza, classe, stile. Mai una botta di trasgressione? Magari una collaborazione rap, trap…

«C’è un autore milanese, anche un po’ arabo, da un anno e mezzo aspetto un suo pezzo…».

Usciti dal tunnel, il primo concerto dal vivo che le piacerebbe fare?

«Vorrei tornare a cantare con Gino (Paoli, ndr.), siamo un po’ dei sopravvissuti: già, ma lui non si schioda più dal divano, per tirarlo su ce ne vuole…».

E il tempo della clausura domestica? Immersa nelle sue interminabili letture?

«Adesso meno, molto meno. Un tempo spegnevo la luce sui libri alle cinque del mattino. Sono stata stregata da Netflix: “La regina degli scacchi”, “Undoing”… Più che stregata, rovinata!».

Chi tra i vecchi amici o colleghi oggi rimpiange?

«Lucio Dalla e Giorgio Gaber, anime geniali».

Il segreto per sopravvivere in questo strano limbo…

«L’entusiasmo, quello non deve mancare mai, altrimenti si ammala anche la testa e corriamo negli studi degli psicologi. Vorrei essere come Luigi Vietti, l’architetto che progettò la Costa Smeralda. L’ho conosciuto che era già avanti negli anni ma pianificava come se davanti a sé avesse altre vite da vivere, opere che sapeva avrebbero magari realizzato altri ma lui, intanto, si portava avanti con la fantasia…». 

Un filo di trucco, un filo di tacco: è ancora il suo segreto della vanità?

«Un filo di trucco sempre, un filo di tacco se ne può parlare».

"Il mio nuovo disco a 86 anni Il sogno? Cantare con Paoli". "Il mio nuovo disco a 86 anni Il sogno? Cantare con Paoli". I brani sono firmati (anche) da Zero, Gabbani e Sangiorgi. Il duetto divertente con Virginia Raffaele. Paolo Giordano, Giovedì 28/01/2021 su Il Giornale. «È il mio cinquantesimo disco in sessant'anni di carriera». E già questo vale l'applauso. Ma è standing ovation quando Ornella Vanoni spiega perché a quasi 86 anni è la sola artista al mondo a pubblicare canzoni inedite: «Ho pensato che avrei dovuto fare in fretta perché c'è il rischio che tiri il calzino». Non a caso il disco si intitola Unica. Ornella Vanoni ne parla via Zoom con l'entusiasmo di una debuttante e la spregiudicatezza di chi non ha mai avuto problemi a parlare chiaro, anche a costo di calpestare qualche luogo comune. Ad esempio, quando parla del Coronavirus ci scherza su dicendo che «il virus sembra una pianta grassa» e, quando accenna ai politici, beh è meglio lasciar perdere. In ogni caso tra questi undici brani prodotti da Mauro Pagani ci sono le firme prestigiose di Francesco Gabbani, Renato Zero e Giuliano Sangiorgi, e le voci di Carmen Consoli, Virginia Raffaele e del bravissimo Fabio Ilacqua. Un disco da godere, ammettiamolo, e difatti per ora non sarà in streaming: si ascolta alla vecchia (si fa per dire) maniera, godendone tutti i riflessi. Ma proprio tutti, perché lo merita.

Era spaventata all'idea di fare un altro album?

«Ma va, non c'è più nulla che mi spaventi. Nella mia vita ormai mi sono super analizzata attraverso le depressioni».

In più ha cambiato gran parte della sua squadra, non c'è più Mario Lavezzi con il quale ha inciso gran bei dischi.

«Lo avevo proposto, ma poi si è deciso di cambiare. Questo progetto mi ha portato a conoscere persone nuove, piene di idee e di talento, con le quali mi sono divertita molto a collaborare. La passione unita alla risata è il bello di fare musica».

Non a caso il primo singolo si intitola Un sorriso dentro al pianto.

«È firmato da Francesco Gabbani. Ci siamo conosciuti a cena, mi è stato subito simpaticissimo, abbiamo riso molto. Poi è andato a casa, diceva che non riusciva a finire il brano ma a me sembrava andasse benissimo».

E invece Carezza d'autunno con Carmen Consoli?

«Carmen ed io ci sentiamo solo una volta all'anno. È nata l'idea di questa collaborazione e il pezzo, per dirla tutta, è molto criptico».

Ornella si nasce è firmata da Renato Zero.

«Avremmo potuto anche farne un duetto, ma poi non si è realizzato».

Ha già deciso quale di queste nuove canzoni canterà al Festival di Sanremo?

«Il Festival? Finché non mi mandano una email con su scritto cara signora, la invitiamo all'Ariston, io non so nulla. Di certo in gara non ci andrò mai più».

A proposito, nel disco c'è un divertissement di classe: Un tè allo specchio. Cantata con Virginia Raffaele, la sua «imitatrice di fiducia».

«Beh lei è molto divertente e difatti non mi sono mai arrabbiata per le sue imitazioni, come qualcuno magari ha pensato».

Però, signora Vanoni, avrà qualche progetto, oppure la paura del Covid la tiene bloccata a casa, anche se lei l'ha avuto e superato in autunno?

«Io sto attenta ma esco lo stesso. Se sei terrorizzato, vivi male e stai peggio».

Beh però l'età...

«Ma perché fermarsi? Tanto tempo fa ho conosciuto Luigi Vietti (l'architetto che l'Aga Khan chiamò per inventare la Costa Smeralda, ndr). Aveva 91 anni ma faceva progetti uno dopo l'altro, ben sapendo che non sarebbe riuscito a realizzarli. È il dono della creatività e della curiosità, e quello non ha età».

Legge sempre tanti libri?

«No, ormai sono schiava di Netflix e di serie come La regina degli scacchi o Undoing, bellissima».

Non ha rivelato qual è il progetto che vorrebbe realizzare.

«È un sogno tutto mio: vorrei tornare a fare un paio di concerti con Gino Paoli, magari uno a Milano e uno a Roma. Così lo convinco ad alzarsi da quel divano dove si è stabilito per la pandemia».

Tutto naturalmente all'insegna dell'eleganza, proprio come questo disco.

«Ma basta con questa eleganza! Talvolta penso a quanta distanza possa creare con il pubblico. Io voglio uscire in sneakers e abito da sera, anche con un buco da qualche parte. Bisogna andare oltre».

Magari potrebbe fare un brano con qualche artista giovane.

«Beh a Marracash faccio il filo da un anno e mezzo. Ma non dico nulla per scaramanzia...».

Allora parli di politica.

«Per carità, la politica mi fa incaz... Meglio che mi trattenga altrimenti mi viene un ictus o un infarto. Ma non è possibile avere dei non politici al governo, non è veramente possibile!».

·        Pamela Anderson.

Roberta Mercuri per "vanityfair.it" il 29 gennaio 2021. Pamela Anderson, 53 anni, si è ri(sposata) in segreto. Stavolta con il suo bodyguard Dan Hayhurst. La scintilla è scoccata durante il lockdown da coronavirus trascorso insieme nella dimora di lei a Vancouver, Canada. La cerimonia, molto intima, è andata in scena proprio lì la vigilia dello scorso Natale. Lo ha rivelato  l’ex bagnina di Baywatch al Daily Mail, precisando: «Sono esattamente dove devo essere. Tra le braccia di un uomo che mi ama davvero». E ancora: «Ci siamo detti “sì” dove si sposarono i miei genitori, che stanno ancora insieme. Mi sento come se avessi chiuso il cerchio». Sarà vero? Il cerchio dei sentimenti di Pamela, almeno fino ad oggi,  è stato costellato di colpi di scena. L’anno scorso di questi tempi, per la precisione il 20 gennaio, aveva detto «sì», sempre in segreto, al settantaquattrenne Jon Peters. Il giorno dopo era arrivato l’annuncio del portavoce dell’ex bagnina di Baywatch: «Sono molto innamorati e si sono sposati ieri». Ma il 2 febbraio, a sorpresa, era giunto ai media un comunicato di Pamela: «Ci prendiamo un po’ di tempo per stare separati e rivalutare ciò che vogliamo dalla vita e gli uni dagli altri». In altre parole: le nozze erano già giunte alla fase «separazione». Dopo soli dodici giorni di matrimonio. Secondo l’attrice sarebbe stato il produttore a mettere fine al matrimonio, lui invece ha spifferato alla stampa tutt’altra versione dei fatti: Pamela l’avrebbe sposato solo perché era «completamente al verde. «Aveva quasi 200mila dollari di debiti che non sapeva come pagare. Glieli ho ripianati io. E questo è il ringraziamento che ricevo». Comunque siano andate le cose, Peters si è unito, suo malgrado, alla lista di ex mariti della Anderson. Gli altri sono Tommy Lee (da cui l’attrice ha avuto i figli Brandon, 23 anni e Dylan, 22), Kid Rock e Rick Solomon, sposato per ben due volte (nel 2007 e nel 2013). Che il matrimonio numero sei sia davvero quello giusto? Per scoprirlo, non ci resta che attendere.

·        Pamela Prati.

Da oggi.it il 15 dicembre 2021. Pamela Prati, 63 anni, ha in corpo tanta rabbia. Dopo aver assistito alla solidarietà degli italiani con il pallavolista Roberto Cazzaniga, vittima di una truffa e innamorato di una donna inesistente per quindici anni, si chiede perché per lei, con la vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, andò diversamente: “La cosa che mi ferisce di più è che intorno a Roberto Cazzaniga si è formato un cordone di solidarietà, quando è successo a me sono stata messa alla gogna”. E rivela: “Ho anche pensato di togliermi la vita”

VIOLENZA PSICOLOGICA - La showgirl racconta tutto nel libro “Come una carezza” (Cairo editore) e al Corriere della Sera rammenta come tutto cominciò da un messaggio su Instagram. Fino ad ammettere: “Non l’ho mai detto prima, ma ho anche pensato di togliermi la vita. La fine di una storia è sempre un trauma, ma scoprire che una persona addirittura non esiste è uno choc psicologico. Quando ho realizzato che era tutta una finzione mi sentivo svenire, mi mancava l’aria. Una violenza psicologica terrificante. Sono stata manipolata da due persone che conoscevano le mie fragilità. Sono tantissime le persone che finiscono nella mia stessa trappola, e oggi il mio impegno è sensibilizzare l’opinione pubblica intorno a questo genere di truffe. Ci sono anche tanti uomini che finiscono nella rete, personaggi noti compresi: in un certo senso, dopo che è accaduto a me, anche quelli che avevano vissuto il mio incubo non si sono più vergognati a parlarne”.

IL CATFISH - Questo tipo di truffa, spiega, si chiama catsifh: “Questo termine significa pesce-gatto e si riferisce agli aculei insidiosi di questi animali che vengono posti sul fondo degli acquari adibiti al trasporto di merluzzi per mantenere il pesce, costretto a evitarne le spine, in perenne movimento attivo e vitale. Lo stesso fanno i carnefici con le loro vittime: le tengono sulle spine, senza mai farsi toccare…” A lei, ad esempio, venivano promessi “incontri che non ci sono mai stati, facendo chiamate che si interrompevano subito perché lui era da qualche parte del mondo – per il suo lavoro- dove la linea era debole. Mi ha poi agganciato nella mia parte più sofferente parlandomi di bambini malati e abbandonati, che lui aveva adottato e di cui si doveva occupare. Io che dai 2 ai 9 anni ho vissuto in orfanatrofio, sono andata in tilt”.

I MESSAGGI - Sembrava tutto vero: “Ci sentivamo tutti i giorni, con messaggi e soprattutto note audio. Aveva una voce calda, famigliare, mi corteggiava in modo dolce, quasi da figura paterna. Un giorno quel sistema che mi ha manipolata mi porta in un bar, li trovo un bambino che mi chiama “Mamma” e mi abbraccia, io scoppio in lacrime e ci abbracciamo forte. Era il bimbo delle foto e dei video che da mesi mi scriveva e mi chiamava mamma via messaggio. Ho scoperto che era un bambino assunto da un’agenzia di attori solo quando il castello di bugie è crollato e mi hanno detto la verità”. 

IL MATRIMONIO - Pamela arrivò perfino a comperare l’abito per le nozze: “Durante l’organizzazione del matrimonio ho più volte provato l’abito da sposa, era quello dei miei sogni, come l’ho sempre immaginato. Ho ancora i regali che compravo ai due bambini, una volta ho organizzato sulla mia terrazza una festa di compleanno per il maschietto, che poi ovviamente, con una scusa, non mi hanno più portato, ho video, messaggi, prove, regali. Il mio desiderio più grande è poter far vedere tutto quello che posseggo in modo da dimostrare alle persone quanto macabro sia stato il tutto”. E svela: “In questi mesi ho ricevuto lettere e messaggi da molte persone che come me sono state ingannate da individui senza scrupoli. Oggi sostengo con forza l’associazione Alcy, Associazione Lotta Cybercrime Truffe Affettive e c’è una indagine in corso: ci sono storie incredibili e mai raccontate, una donna si è tolta la vita quando ha scoperto che il mondo di amore e di promesse in cui aveva creduto non esisteva”.

I MIEI GENITORI - Pamela parla anche della difficile infanzia, sette fratelli portati in orfanatrofio dopo che la madre era stata abbandonata dal padre: “Io avevo due anni, a mia madre, disperata, lasciano solo l’ultimo figlio di pochi mesi. E fino a nove anni cresco in un posto che odora di cavolfiore e ammoniaca. Mia madre ha lottato per riaverci. Ogni mese veniva a trovarci e ci portava caramelle, ci pettinava, ci faceva quella carezza che mi mancava ogni notte come l’aria e che ha dato il titolo al mio libro. Quando sono tornata a vivere con lei, a nove anni, mi ha dovuto spiegare il significato della parola mamma e le maestre hanno dovuto insegnarmi il sardo: dalle suore avevo imparato solo l’italiano e i compagni di scuola di Ozieri mi facevano sentire ancora una volta diversa, sbagliata”. Quanto al papà: “Gli somiglio molto, mi chiamo Paola, come lui, era un uomo bellissimo. Purtroppo è stato mal consigliato per tutta la sua vita dalla persona che ce lo ha portato via. Quindici anni fa mi ha ricontattato dopo che avevo parlato di lui in una intervista: ho pensato che volesse ricucire il nostro rapporto. Invece mi ha detto: se hai preso dei soldi per quell’articolo sarebbe giusto che tu ne dessi un po’ anche a me. L’ennesima delusione”. 

Pamela Prati: «Al pallavolista hanno creduto, a me no. Ho anche pensato di togliermi la vita». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2021. La showgirl del Bagaglino ha festeggiato 63 anni con un nuovo disco e un libro che parla della sua vita. «Sono cresciuta dai 2 ai 9 anni in orfanatrofio». Le accuse e la sua versione: «Hanno colpito dove faceva più male, assoldando anche un bambino per rendere tutto più credibile». 

«La cosa che mi ferisce di più è che intorno a Roberto Cazzaniga si è formato un cordone di solidarietà, quando è successo a me sono stata messa alla gogna». Pamela Prati, 63 anni compiuti lo scorso 26 novembre e festeggiati con il lancio del nuovo disco Extasy al Mucca Assassina, torna a parlare del presunto “catfish” – così viene definito negli Stati Uniti – che l’ha portata a credere di essere a un passo dal matrimonio con un uomo in realtà inesistente. La storia del pallavolista milanese di serie B, per 15 anni convinto di essere legato a Maya (che avrebbe poi confessato a Cazzaniga di essere la modella Alessandra Ambrosio) ha parecchie analogie con quello che è accaduto alla soubrette nel 2019. Quasi come se esistesse un copione e una serialità per raggiri di questo genere. «Ma è proprio così. Lo racconto nel mio libro “Come una carezza” (Cairo editore), in cui ho deciso di spiegare come sono andate le cose, da quel maledetto “abbocco” su Instagram». 

Cosa ha pensato quando il castello di bugie è crollato?

«Non l’ho mai detto prima, ma ho anche pensato di togliermi la vita. La fine di una storia è sempre un trauma, ma scoprire che una persona addirittura non esiste è uno choc psicologico. Quando ho realizzato che era tutta una finzione mi sentivo svenire, mi mancava l’aria. Una violenza psicologica terrificante».

Molti hanno dubitato della sua sincerità, considerandola la regista dell’intera vicenda.

«Sono stata manipolata da due persone che conoscevano le mie fragilità. Sono tantissime le persone che finiscono nella mia stessa trappola, e oggi il mio impegno è sensibilizzare l’opionione pubblica intorno a questo genere di truffe. Ci sono anche tanti uomini che finiscono nella rete, personaggi noti compresi: in un certo senso, dopo che è accaduto a me, anche quelli che avevano vissuto il mio incubo non si sono più vergognati a parlarne».

C’è un nome specifico “catfish”, lei lo spiega nel suo libro.

«Questo termine significa pesce-gatto e si riferisce agli aculei insidiosi di questi animali che vengono posti sul fondo degli acquari adibiti al trasporto di merluzzi per mantenere il pesce, costretto a evitarne le spine, in perenne movimento attivo e vitale. Lo stesso fanno i carnefici con le loro vittime: le tengono sulle spine, senza mai farsi toccare…»

Lei come veniva tenuta “sulle spine”?

«Promettendomi incontri che non ci sono mai stati, facendo chiamate che si interrompevano subito perché lui era da qualche parte del mondo – per il suo lavoro- dove la linea era debole. Mi ha poi agganciato nella mia parte più sofferente parlandomi di bambini malati e abbandonati, che lui aveva adottato e di cui si doveva occupare. Io che dai 2 ai 9 anni ho vissuto in orfanatrofio, sono andata in tilt».

Come ha conquistato la sua fiducia?

«Ci sentivamo tutti i giorni, con messaggi e soprattutto note audio. Aveva una voce calda, famigliare, mi corteggiava in modo dolce, quasi da figura paterna. Un giorno quel sistema che mi ha manipolata mi porta in un bar, li trovo un bambino che mi chiama “Mamma” e mi abbraccia, io scoppio in lacrime e ci abbracciamo forte. Era il bimbo delle foto e dei video che da mesi mi scriveva e mi chiamava mamma via messaggio. Ho scoperto che era un bambino assunto da un’agenzia di attori solo quando il castello di bugie è crollato e mi hanno detto la verità».

Aveva anche comperato l’abito da sposa.

«Durante l’organizzazione del matrimonio ho più volte provato l’abito da sposa, era quello dei miei sogni, come l’ho sempre sognato. Io ho ancora i regali che compravo ai due bambini, una volta ho organizzato sul mio terrazzo una festa di compleanno per il maschietto che poi ovviamente con una scusa non mi hanno più portato, ho video, messaggi, prove, regali. Il mio desiderio più grande è poter far vedere tutto quello che posseggo in modo da far vedere alle persone quanto macabro sia stato il tutto». 

Ozieri, la Sardegna degli anni Sessanta, otto fratelli e una madre abbandonata dal padre dei suoi figli per un’altra donna. Cosa succede?

«Che una mattina una camionetta arriva e ci porta via tutti in orfanatrofio, a Tempio Pausania, perché mia madre era stata lasciata da papà e in paese dicevano che non poteva crescerci da sola. Io avevo due anni, a mia madre, disperata, lasciano solo l’ultimo figlio di pochi mesi. E fino a nove anni cresco in un posto che odora di cavolfiore e ammoniaca».

Il ritratto di sua madre somiglia a quello di un romanzo.

«Mia madre ha lottato per riaverci. Ogni mese veniva a trovarci e ci portava caramelle, ci pettinava, ci faceva quella carezza che mi mancava ogni notte come l’aria e che ha dato il titolo al mio libro. Quando sono tornata a vivere con lei, a nove anni, mi ha dovuto spiegare il significato della parola mamma e le maestre hanno dovuto insegnarmi il sardo: dalle suore avevo imparato solo l’italiano e i compagni di scuola di Ozieri mi facevano sentire ancora una volta diversa, sbagliata».

Il rapporto con la società e con gli altri è denso di alti e bassi nella sua vita.

«Sì, sono stata trattata come una divinità ai tempi del Bagaglino, e come una reietta da piccola e poi di nuovo nella mia maturità. I compaesani chiamavano me e i miei fratelli bastardi: e questa parola è stata usata anche dai miei carnefici, quando “istruivano” Marco su come parlare dei due bambini che lui aveva preso in cura. Strategicamente hanno usato quella parola». 

Lei scrive: “i miei carnefici hanno studiato con la scrupolosità di un chirurgo dove avrebbe fatto più male colpire”.

«Proprio così: ha portato a galla recessi profondi e dimenticati della mia anima. In questi mesi ho ricevuto lettere e messaggi da molte persone che come me sono state ingannate da individui senza scrupoli. Oggi sostengo con forza l’associazione Alcy, Associazione Lotta Cybercrime Truffe Affettive e c’è una indagine in corso: ci sono storie incredibili e mai raccontate, una donna si è tolta la vita quando ha scoperto che il mondo di amore e di promesse in cui aveva creduto non esisteva» .

Hanno detto che in realtà lei si è arricchita dietro a questa vicenda.

«La verità è che la gente raggirata come me finisce per essere anche derubata, Cazzaniga ha speso 700 mila euro e si è persino indebitato».

Qual è il bilancio dei suoi 63 anni?

«Una vita intensa, bella, con la consapevolezza che non si può avere tutto, ad esempio i figli che avrei desiderato ma non sono arrivati. Però ho riscattato il mio passato: al Mucca Assassina ho presentato il mio nuovo disco Extasy e ho cantato il medley che piace tanto alla comunità Lgbt. Ho ballato come quando avevo 18 anni, ho ordinato la torta Fiocco di Neve dalla pasticceria napoletana Poppella, la mia preferita».

Chi c’era a festeggiarla?

«Tutte le persone che mi amano, primo tra tutti il mio Maestro Pierfrancesco Pingitore, che ha sempre creduto in me. Mi ha regalato delle rose bianche: per tutta la vita mi ha mandato fiori, e questa cosa era una delle cose che mi veniva vietata da Marco: con il pretesto della gelosia i miei carnefici volevano creare il vuoto intorno a me».

Il rapporto con suo padre.

«Gli somiglio molto, mi chiamo Paola, come lui, era un uomo bellissimo. Purtroppo è stato mal consigliato per tutta la sua vita dalla persona che ce lo ha portato via. Quindici anni fa mi ha ricontattato dopo che avevo parlato di lui in una intervista: ho pensato che volesse ricucire il nostro rapporto. Invece mi ha detto: se hai preso dei soldi per quell’articolo sarebbe giusto che tu ne dessi un po’ anche a me. L’ennesima delusione».

Scrive: “Dopo la truffa per strada vedevo nello sguardo di chi un tempo mi avrebbe riconosciuta e salutata con affetto, il seme del dubbio e della derisione”. Chi l’ha sostenuta in questi due anni?

«La mia famiglia e i miei amici. Come dice la mia attrice preferita Meryl Streep: “Le mie sconfitte e i miei dolori li ho trasformati in arte”».

Roma o Milano?

«Entrambe. Sono diventata a vent’anni la regina di Roma, ho ricevuto più fiori di qualsiasi altra donna. Poi quando ero all’apice della notorietà, ho sentito che potevo farmi amare anche da Milano, più snob e selettiva. Andavo da Cova e ordinavo un toast per me e i miei cagnolini… erano le mie piccole rivincite di bambina che non aveva mai avuto nulla».

Un regalo che si è fatta.

«Volevo regalare a mia madre un orologio d’oro. Le ho detto: mamma vieni a Milano che ti compro un Cartier. Ma lei aveva il sogno di un Citizen».

Gli uomini quante follie hanno fatto per lei?

«Parecchie, una volta mi è stata recapitata al Salone Margherita una Mini Cooper argento tutta incartata con il cofano pieno di rose rosse. L’ho rimandata indietro: non ho neppure il foglio rosa».

Oggi è innamorata?

«La solitudine è un dono, ma bisogna sempre tenere aperto il cuore. Questa sera ad esempio andrò a una cena dove c’è un uomo che mi piace molto e io so di piacere molto a lui. Chi lo sa…»

A 63 anni è più bella di prima. Un messaggio per chi pensa che a 40 anni già si è “mature”?

«Il segreto della mia bellezza è nei geni: siamo tutti così in famiglia. Poi è la cattiveria che trasforma e invecchia: le donne malvagie hanno un ghigno in faccia, si riconoscono da lontano. Sono felice che la cattiveria degli altri non mi abbia segnato nel volto».

Il tempo per lei non passa?

«L’ho sempre detto: invecchierò di colpo solo in quei 5 secondi prima di morire».

Da Un Giorno da Pecora il 26 novembre 2021. “Oggi compio 63 anni ma ne sento 20, sono un'eterna ragazza ma con l'esperienza di una donna adulta”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Radio1, è la showgirl Pamela Prati, che è intervenuta nella trasmissione nel giorno del suo compleanno. Oggi lei è innamorata? “Sono super corteggiata ma sto riflettendo. C'è qualcuno che mi piace più di altri, si tratta di un mio coetaneo con cui andrò a cena domani sera, è galante, simpatico, un uomo d'altri tempi”. Tuttavia è sempre single. "Diciamo che sono fisicamente tranquilla”. Lei ha lavorato per molti anni a Mediaset: come vedrebbe Silvio Berlusconi al Quirinale? “Me lo augurerei, è una persona che stimo tantissimo, su di lui tanti bei ricordi, come quando mi portò a Mediaset”. In questi giorni si parla molto della vicenda del pallavolista Roberto Cazzaniga, truffato da una persona che si spacciava per la donna dei suoi sogni. Si sente di dirgli qualcosa? “Che il tempo è galantuomo e farà capire. Mi sento vicina a lui, mi dispiace, so cosa significa. E' una ferita molto aperta in me, che mi fa male, e il tempo darà le sue risposte”.

Ivan Rota per Dagospia il 27 novembre 2021. Pamela Prati ha festeggiato il suo compleanno. Per una donna non é carino dire l’età, ma lei non se ne fa un problema e quindi possiamo dirlo: sono sessantatré , ma se ne sente molti meno, una ventina. «Sono un’eterna ragazza ma con l’esperienza di una donna adulta», ha detto ai microfoni di Radio1 durante la trasmissione Un Giorno da Pecora. É per quanto riguarda l’amore? «Sono super corteggiata ma sto riflettendo». Però qualcuno c’è: «Mi piace più di altri, si tratta di un mio coetaneo con cui andrò a cena domani sera, è galante, simpatico, un uomo d’altri tempi. Diciamo che sono fisicamente tranquilla». E per quanto riguarda la politica ha sprecato parole bellissime su Silvio Berlusconi e la sua possibile salita al Colle: «Me lo augurerei, è una persona che stimo tantissimo, su di lui tanti bei ricordi, come quando mi portò a Mediaset». Non poteva mancare però un riferimento alla vicenda di Roberto Cazzaniga , il pallavolista truffato da una persona che si spacciava per la donna dei suoi sogni, ovvero Adriana Lima. E questo ha riportato alla luce il  Mark Caltagirone Gate nel quale la Prati di trovó coinvolta. Una vicenda che ha fatto male alla showgirl messa in contatto con un uomo che non esisteva e del quale le avevano presentato anche i figli. Ma tutto é passato e per lei inizia oggi una nuova vita. Oggi, nel giorno del suo 63esimo compleanno, Pamela Prati pubblica “Extasy”, un brano dance dal sapore anni Ottanta con il quale la showgirl festeggia i suoi 40 anni di carriera che cadono proprio nel 2021. Il singolo é stato presentato dal vivo al “Muccassassina”, iconico locale romano.Per celebrare questo lungo e fortunato percorso artistico Pamela è voluta tornare alle origini con un brano-tributo alla dance per eccellenza, ispirato alle sonorità di Diana Ross e Donna Summer. Il perfetto binomio tra Pamela Prati e Daniele Piovani (reduci dal successo de “L’estate è adesso”), si arricchisce di un terzo elemento, Andrea Gallo (autore tra gli altri di Mina e Adriano Celentano). Nato insieme a Gabriele Palazzi, produttore dell’intero progetto, “Extasy” è un brano che entra di diritto tra i preferiti di Pamela Prati e che l’iconica showgirl racconta così: «Ho voluto fortemente far uscire “Extasy” il giorno del mio compleanno perché è un brano che racconta la femminilità, la passione e la forza di noi donne; “Extasy” è una fragranza esotica, è un movimento sensuale, è tutto quello che inebria chi abbiamo davanti e che ci rende uniche. Quando sono entrata nel mitico Piper per girare il video, mi sono tornate subito in mente quelle indimenticabili serate di quando, appena arrivata a Roma e ventenne, ballavo tutte le hit dance senza sosta». Questo singolo accompagnerà tutti i fan di Pamela fino al 28 Marzo, data in cui “Extasy” diventerà un vinile ad edizione limitata che conterrà i successi di Pamela, le sue iconiche sigle e alcuni remix speciali. “Extasy” è anche un videoclip, girato da Fashion Video, all’interno del Piper Club, storico locale romano e protagonista degli anni più importanti della disco music in Italia.  Auguri Pamela, per una nuova vita senza millantatori. E al Muccassassina una folla di fan per lei in microgonna con stivali all’inguine e boys (anche) in body. Un tributo verso un’icona gay. 

·        Paola Perego.

Dagospia il 3 luglio 2021. Da “Belve”. Protagoniste della nuova puntata di Belve - condotto da Francesca Fagnani, in onda questa sera (venerdì 2 luglio), alle 22.55 su Rai2 - sono la conduttrice Paola Perego e l’attrice Vittoria Schisano. Paola Perego: ho pagato le vendette trasversali contro mio marito Lucio Presta; gli attacchi di panico ti rendono prigioniera; ci sono colleghe che per tentare di fare carriera scrivono messaggi ambigui a mio marito: la morte di fama è brutta! Qual è stata la vendetta trasversale più brutta che ritiene di aver subito per il suo legame con il manager Lucio Presta?, chiede Fagnani a Perego. “La più sporca è stata la chiusura di ‘Parliamone sabato’ (il programma condotto da Perego fino al marzo 2017, nda). Io sono stata il capro espiatorio ma ho pagato veramente un prezzo troppo alto”. Nella puntata incriminata venne letto un elenco di motivi per i quali le donne dell’Est sarebbero preferibili alle donne italiane. Ma una quota di responsabilità se la prende? “Sì, sicuramente l’ho fatto con estrema leggerezza e ironia, e l’ironia non è uscita, avrei dovuto pensarci meglio”. Poi le hanno restituito una trasmissione. “Sì, vabbè, ma ne è passato di tempo… ci sono state donne importanti della politica schierate contro di me senza aver visto il programma. Le persone che le hanno fatto del male me le può dire? “Non sono una che tiene rancore e quindi dopo un po’ rimuovo anche i nomi”. Lei non ricorda i nomi? “Li dimentico”. Con Francesca Fagnani, Paola Perego ricorda anche il problema avuto in passato con gli attacchi di panico. E quando la conduttrice le chiede: Le è mai capitato di pensare non ce la faccio più?, Perego risponde: “Un sacco di volte… un sacco di volte ho pensato che sarebbe stato meglio morire. Però poi avevo anche paura della morte, quindi ero come il cane che si morde la coda. In quello stato sei veramente prigioniera, sei prigioniera, non c’è un’altra spiegazione...” A Fagnani, Paola Perego rivela poi aspetti ulteriori e inediti della sua vita personale e professionale: l’infanzia indigente nella periferia di Milano; i primi passi in tv con le televendite di lavandini a 16 anni; il divorzio da giovanissima e con due figli dall’ex calciatore Andrea Carnevale (“Mi ha messo tante di quelle corna…”); i pensieri disperati quando si è lasciata con l’ex marito; il rifiuto di “prendere in braccio il bambino più piccolo” perché temeva di perdere la testa e di ricorrere a gesti estremi; la volta in cui Giulio Andreotti ebbe una lieve ischemia in diretta tv mentre era ospite in un suo programma (“Pensavo fosse morto”). Infine, una stoccata alle sue colleghe che scrivono messaggi ambigui a Lucio Presta per tentare di migliorare la loro carriera: “Non sanno che mio marito mi dà il suo telefono senza problemi… la morte di fama è brutta!”. Indomabili, ambiziose, sempre all’attacco e mai gregarie, alle 22.55 le protagoniste di Belve si prendono il venerdì sera di Raidue, con un ciclo di dieci puntate. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani con domande dirette e mai cerimoniose puntano a far emergere forza e debolezze dei protagonisti. Feroci e fragili, al tempo stesso.

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 9 dicembre 2021.

Paola Perego, che cosa vuol dire costruire una solida carriera televisiva come la sua combattendo contro gli attacchi di panico?

«Una fatica. Perché la televisione è continuo confronto con qualcuno che ti guarda, a volte ti giudica, di certo nota ogni dettaglio. Ne sono sempre stata consapevole e forse per questo, oggi, mi considero una donna fortunata». 

Lei ha raccontato di averne sofferto dall'età di sedici anni, praticamente da quando ha iniziato il suo percorso in tv. Lo ha scritto in un libro, «Dietro le quinte delle mie paure». 

Ma come ha fatto a nasconderlo per tanto tempo?

«Perché per anni la gente ha visto una persona in apparenza vivace, ironica. Ma io ero in una bolla. Prendevo delle medicine e non parlo di quelle che si prescrivono oggi, che sono molto più leggere. Parlo di medicine che, pur di allontanare la sensazione di panico, appianavano tutto. Piallavano ogni cosa, comprese le emozioni. Per esempio, non riuscivo più nemmeno a piangere. Molti dei miei ricordi sono offuscati, come dentro una nuvola. Compreso il mio matrimonio con Andrea (Carnevale, ndr ). I critici dicevano che ero troppo fredda e distaccata, ma oggi posso dirlo: prendevo benzodiazepine».

Chi non l'ha mai provato non può capire, vero?

«No, non può. Perché i sintomi, dalla sudorazione fredda alla lingua gonfia fino al formicolio del corpo sono solo una parte dell'attacco di panico. La cosa più difficile da spiegare è la sensazione di essere a un passo dalla morte. Avevo sedici anni quando la provai per la prima volta e prima che iniziassi il percorso di guarigione, con l'analisi, l'ho sperimentata tante volte». 

Lei, dopo gli inizi da modella, ha cominciato subito con la televisione. C'è stata una volta in cui ha rischiato di non andare in onda?

«Sì, la ricordo bene. Ero incinta di Giulia, la mia prima figlia, e conducevo un programma su Tmc, dal titolo Quando c'è la salute. La gravidanza mi impediva di prendere troppe medicine e una notte, prima della diretta, non chiusi occhio. Il giorno dopo chiesi a una mia cara amica, Patrizia, di inventare per me una scusa perché ero sicura che non ce l'avrei fatta ad andare in onda. Lei ebbe un'idea: chiamò la psichiatra che mi seguiva, la convinse ad annullare tutti gli impegni, a piazzarsi nel mio camerino e ad assistermi ad ogni pausa. Così andai in onda». 

Come ne è uscita?

«Con tre percorsi differenti di trattamenti di psicologia comportamentale».

Più di dieci anni di analisi?

«Sì, oltre dieci anni. Ho imparato tanto. Prima di tutto che la fragilità non è una colpa né qualcosa da nascondere. E io ho sbagliato, perché l'ho nascosta per tanto tempo ai miei figli. Avrei dovuto mostrarmi per quella che sono, ma erano altri tempi: se andavi dal medico e gli elencavi i sintomi, quasi certamente lui diceva che avevi un esaurimento nervoso. E così nascondevo, camuffavo, sedavo. Nascondevo le medicine in camerino, nessuno doveva sapere che da un momento all'altro sarei potuta crollare». 

Paola, si avvicina il traguardo dei quarant' anni di carriera, nel 2022.

«Eh sì, ho cominciato come modella a sedici anni, nel 1982. E guardandomi indietro vedo che ho fatto tante cose molto diverse tra di loro. Sono stata la prima donna a fare infotainment, tra le prime a occuparsi di sport in tv. Ho lavorato con "giganti" della televisione, faccio solo due nomi: Sandra Mondaini e Raimondo Vianello». 

Ha assistito anche ad un battibecco?

«Sì! Una volta mi presero per uno "stacchetto" ad Attenti a noi due. Raimondo mi disse: "Ma sei sicura di aver fatto le scuole dell'obbligo?". E Sandra fece: "Guarda che potrebbe essere tua nipote". Erano meravigliosi: gentili, rispettosi, sempre pronti alla battuta ma professionali». 

Però per una donna giovane e molto bella non deve essere stato sempre facile, no?

«No. Una volta, a Mediaset, un dirigente si mise a rincorrermi intorno ad un tavolo. Un'altra volta, in scadenza di contratto, un altro mi propose di andare a cena. Dissi di no e quel contratto alla fine lo ottenni, sì, ma a furia di lunghe e umilianti anticamere». 

Dopo una (molto infelice) puntata di «Parliamone... sabato» su RaiUno, nel 2017, nella quale si mettevano a confronto le donne italiane e quelle «dell'Est», lei è stata accusata di sessismo. La sua rubrica dentro «La vita in diretta» venne chiusa tra le polemiche.

«Penso che quelli siano stati in assoluto i giorni peggiori della mia vita professionale. Per settimane non sono uscita da casa e non solo perché la mia faccia era su tutti i giornali e in televisione, ma perché non sapevo come dire che non era così, che io non sono sessista né tantomeno razzista. 

Prima di tutto, quella era parte di una puntata già trasmessa da La vita in diretta. E poi quelli che mi hanno accusato più duramente hanno ammesso di non aver visto la puntata! Quella rubrica me la sono rivista più volte: io ho difeso le donne come faccio sempre». 

Solo una brutta pagina di televisione?

«Sì, perché per me appoggiare le altre donne è sempre stato un punto fermo. Per esempio, chi ha voluto Mara Venier a La fattoria, in un periodo in cui lei stava lavorando di meno? Io. A La talpa ho voluto Paola Barale come inviata. Chi mi conosce sa bene che non perdo occasione per valorizzare le altre figure femminili».

Però la malignità persistente sul suo conto riguarda ben altro. E cioè l'essere la moglie di Lucio Presta, uno degli uomini di spettacolo più potenti, l'agente dei «big» in Italia.

«Guardi, mio marito ha fatto sei Festival di Sanremo: ho mai condotto io lo spettacolo più importante del Paese? No. Diciamo che se io fossi raccomandata avrei scelto dei ruoli un po' più in evidenza, no? Anche perché lui, proprio perché sono sua moglie tende a non darmi parti importanti, ma ogni volta preferisce qualcun altro o qualcun'altra. L'altro giorno gli ho detto: "Senti, ma visto che per tutti io sono la raccomandata per eccellenza, a questo punto raccomandami davvero". Si è messo a ridere». 

Vorrebbe dire che l'essere sua moglie l'ha penalizzata?

«Se lo dico io la gente non ci crede». 

Da quanto tempo state insieme?

«Mi ha conosciuta che avevo trent' anni. E da allora spesso mi dice: "Non vedo l'ora che invecchi così sarai solo mia". Be', ci siamo ormai!».

Un legame molto solido?

«Io conto di invecchiare con lui. È una persona straordinaria, molto diversa da come appare in superficie. Lo sa che ogni mattina di ogni santo giorno mi porta la colazione a letto?». 

E le lascia dei bigliettini per casa?

«No, ma scrive delle lettere bellissime, piene d'amore. È di una grande correttezza morale». 

 Quando vi siete incontrati lei era nel pieno della lotta contro gli attacchi di panico.

«Sì e Lucio è stato molto importante in questa battaglia. Mi ha capito, mi ha dato dei consigli preziosi. Oggi siamo una grande famiglia allargata: i miei due figli, i suoi due e due nipotini, con un altro in arrivo, perché mia figlia Giulia è di nuovo incinta. Oggi, anche grazie a Lucio, vedo le cose con maggiore distacco. Pensi che quando facevo Buona Domenica e andavo in diretta tutto il giorno, spesso alla sera tornavo a casa, mi guardavo allo specchio e non sapevo più chi ero. Perché in televisione il grande rischio è di confondersi con il proprio personaggio. Ci sono persone che restano intrappolate in questa ragnatela per sempre e soffrono quando le due identità vengono separate con la forza». 

Paola, mi permetta di insistere: come ha fatto, soffrendo di attacchi di panico, a sostenere la pressione delle regole feroci, dettate dalla competizione, che vigono in televisione?

«Dico una cosa che penso sul serio: tutti quelli che fanno televisione, secondo me, dovrebbero farsi psicanalizzare. Perché il meccanismo è questo: la gente a casa pensa che chi fa tv sia immune da dolore, pena, ansia, male. Ci si trova da soli contro milioni di persone che ti guardano. E che ti restituiscono l'immagine di un personaggio che ti appartiene ma che non sei tu. E allora ti chiedi: ma io chi sono? Capita a molti di avere la sensazione di non esistere se lontani dalla telecamera. Io, anche grazie al percorso fatto per combattere gli attacchi di panico, sono ormai fuori da questo meccanismo. Per fortuna. Adesso riesco a stare da sola, mentre in passato mi capitava di pagare le vacanze a persone nemmeno tanto amiche ma che volevo accanto solo perché l'idea di stare da sola mi terrorizzava. Adesso mi godo la mia casa, mio nipote, la mia famiglia. Lo dico: sto vivendo una seconda giovinezza». 

Adesso lei, la domenica, fa coppia con Simona Ventura alla conduzione di «Citofonare Rai 2».

Andate d'accordo?

«Perfettamente. Simona fu tra le pochissime persone che, quando mi accusarono di sessismo e discriminazione, si espose pubblicamente con un tweet in mia difesa. In tanti fecero finta di niente, in tanti mi mandarono messaggi privati dicendo che sì, mi appoggiavano, ma non ritenevano di doverlo fare pubblicamente. Simona invece mi difese e si assunse i rischi. La invitai a cena, parlammo a lungo, forse la trasmissione nacque proprio da quelle chiacchierate. Non solo andiamo d'accordo ma abbiamo fatto perdere un bel po' di scommesse a tante persone». 

Cioè?

«All'inizio scommettevano sul fatto che dopo un mese ci saremmo accapigliate. In virtù di un pregiudizio - quello sì, sessista -: che due donne non possono lavorare insieme senza litigare. Io e Simona siamo la smentita vivente».

Qual è un progetto televisivo che le piacerebbe realizzare?

«Una docuserie sui transgender. Credo che si parli poco di loro, delle difficoltà che attraversano. È un mondo che vorrei esplorare». 

E che tipo di nonna è Paola Perego?

 «Senza scrupoli: faccio il lavaggio del cervello a Pietro e lo convinco che ha solo una nonna, cioè io. Lui da solo mi riempie le giornate». 

·        Paola Pitagora.

Estratto dell'articolo di Cristina Bianchi per OGGI il 17 settembre 2021.

[…] Cosa ne pensa del #Metoo?

"Oh, di proposte me ne hanno fatte molte per anni. Pure registi importanti"

Nomi?

"Mi sembra tardi per sollevare polveroni. Ma sono contenta che ora le donne possano parlare, che uno come Weinstein sia fuori dai giochi. Però, non c'è bisogno di farsi saltare addosso…" 

In che senso?

"Sa cosa facevo io? Scappavo. Poi, però, non uscivo a farmi bella col signore che mi aveva trattato come una pupazza. A volte, anzi, mi partiva un cartone". 

La strategia dell'uscio.

"Uscivo. Sbattevo la porta. Loro mi inseguivano e dicevano che ero "una grande stronza". Il mio agente diceva: "Ma chi ti credi di essere Paola? Non lavorerai più". Ricordate: salvo casi rari, c'è sempre una porta per fuggire".

·        Paola Saulino, meglio nota come Insta_Paolina.

Paola Saulino Filippo Ciapini per mowmag.com il 2 giugno 2021. Ci siamo, più attesa dell’esordio di Ibrahimovic con il Milan, di una vittoria di Valentino Rossi, Paola Saulino, meglio nota come Insta_Paolina tornerà su Instagram. E lo farà in grande stile. La sexy influencer napoletana ha deciso infatti di riaprire il suo nuovo canale dopo che il suo primo da un milione e mezzo di followers le era stato disabilitato e bannato improvvisamente da Instagram quattro mesi fa. “Mi era mancato poter condividere tutto con il mio pubblico, torno più forte di prima” - ci ha detto Paola Saulino – “Purtroppo se non sei catalogata in una precisa sezione ti affossano, se fai contenuti sensuali ma non sei un’attrice porno allora sei sporca, è una follia”. Insta_Paolina2 tornerà col botto venerdì, subito con una challenge a premi, ovviamente sexy, per arrivare a un milione di fan in novanta giorni: “La faremo su una piattaforma di crowdfunding perché vorrei aprire uno spazio in televisione, se Instagram non accetta quello che faccio, con il mio pubblico faremo la rivoluzione in tv”. Tanti progetti e tante idee, ma una in particolare, quella del porno: “Vedo pornoattori e pornoattrici che sono catalogati come tali e vivono serenamente, io invece vengo censurata. Quindi sì, ci sto pensando, magari in stile Paolina e non nei canoni di quelli che si vedono nel web”. 

Come mai hai deciso di ritornare su Instagram?

Perché pur esplorando gli altri social in tutta onestà ho creduto, proprio dati alla mano, che il linguaggio di Instagram è perfetto per me, dà ampia espressione al mio personaggio e alla mia persona. Twitter l’ho provato e sto andando bene, ma sono più visiva e genuinamente prolissa rispetto a quel tipo di format. Non dà spazio ai video e alla comunicazione lunga che si basa sull’immagine. In fondo sono una performer, non una giornalista.

Su Facebook?

Meccanismo difficile e pubblico differente, che non comprende l’arte applicata al social. Io faccio parlare dei personaggi, InstaPaolina, la Maestra Paolina ma il pubblico non scinde, come se avessero i paraocchi. Ma è giusto che sia così perché lì c’è un pubblico di un’altra generazione. 

Quando eri a Dubai dicevi di stare bene senza i social, ti sono mancati?

Forse facevo la forte sai? Bisogna avere coraggio di esporsi debole e fragile, ora sono più fragile ma non mi sono mai sentita così coraggiosa. Era un modo di dire Tu mi hai tolto da qua? Si ma troverò un’altra strada, ma se vogliamo dirla tutta a me quella strada piaceva. Instagram è amore, io lo facevo con amore ed è per questo che torno. Preferisco ripartire da zero e continuare a raccontare quello che facevo e pazienza se prima erano un milione e trecentomila a seguirmi e adesso solo cento. Non sai quante volte durante la giornata mi veniva l’istinto di prendere il telefono, inventarmi le canzoncine e cantarle da sola perché non poteva farlo più in diretta? Riparto perché per me comunicare è un’esigenza.

Che Instagram ti aspetti e che Paolina vedremo?

Instagram cambia di mese in mese, sono tornata vergine di Instagram, so che ci sono state delle modifiche come le dirette a 4 e non ho idea delle novità. Quindi la mia assenza è stata reale, quando apro la app c’è sempre Insta_paolina, c’è la saudade non ho mai fatto un log in un altro profilo. Mi aspetto di essere la stessa ma purtroppo non lo posso essere, questa stroncata così forte, immediata e netta ha fatto in modo che mi venisse la paura. Sono piaciuta al pubblico perché sono una disobbediente, fuori dagli schemi e quindi per me è e sarà molto difficile adattarmi. Devo trovare un modo per essere comunque naturale, spontanea e non annoiare. 

Momento psicologia: mi sembra di aver capito che ti girino per l’account disabilitato, giusto?

Insta Paolina ha fatto parte di me, mi girano fortemente i coglioni sì, e te lo dico da debole. Mi hanno tolto una cosa che amavo dall’oggi al domani – sospira – non riesco a fare un pronostico di come mi comporterò, se ti devo dire la verità se Instagram mi ha tolto il profilo perché sono stata troppo, io sono proprio contenta che l’agg fatt, nun me ne fott proprio, io l’amavo così tanto. Quello che conta è il messaggio, i profili vanno e vengono, Paolina resta. Instagram mi ha tolto il lavoro perché mi sono esposta nel modo in cui io mi sono voluta esporre? Quello che voglio comunicare è troppo più grande di un profilo, tanto alla fine bannano solo chi fa rumore, hanno bannato me e Trump. È stato un riconoscimento del mio potere, brava Paolina, se Instagram non ti banna non sei nessuno. 

Hai in serbo qualche sorpresa?

In questo clima di vulnerabilità dove mi manca il mio pubblico chiederò aiuto a loro con una challenge. In novanta giorni da zero a un milione di followers con delle ricompense, sarà un percorso di gioco e terrò se posso il pubblico incollato al mio profilo.  

Che tipo di premi saranno?

Sicuramente saranno sexy, io ho parlato con un amico mio che si occupa di porno, non mi ritengo una pornostar, difficilmente potrei essere catalogata in quella sezione, però nel momento in cui metti tutto in discussione valuti tutto. Il fatto che la gente non sa chi sei perché sei un ibrido, o che hai proposto dei format ma hai ricevuto porte in faccia perché magari sei percepita troppo sporca, ti fa pensare, soprattutto quando vedi Rocco Siffredi che invece ha così successo. Insomma, conviene farsi catalogare in qualche categoria. È il mondo delle dichiarazioni, se lo dichiari allora sei riconosciuta. Francamente per una serie di motivi sarebbe quasi più valido proporre un porno.

Cioè?

Chiaramente non estremo, non secondo i canoni di quelli sul web, ma un porno alla Paolina, diverso, femminile più soft. Se ti reputano troppo sporca per la televisione, se Instagram ti viene tolto quando fuori ci sono pornoattori e pornoattrici che stanno sereni, escort dichiarate e io vengo totalmente censurata, un pensiero ce lo fai. Per i premi però avvalendomi di una piattaforma crowdfunding non potranno essere porno, ma sexy. Magari un weekend con me, ma insomma saranno cose facilmente comunicabili per tutti. 

Hai in programma dei progetti con le donazioni?

Voglio provare a lanciare una sfida, vorrei collezionare una cifra tale che potrà essere utilizzata per comprare uno spazio nella tv commerciale, così come mi esprimevo su Instagram lo farò in tv. Non chiederò niente di nuovo, sarà una challenge dove almeno possiamo divertirci con libertà. Non mi permettono di fare un programma sul sesso? Facciamolo in televisione, la verità è questa. Proviamo a fare una cosa insieme visto che Instagram non ci da la possibilità.

Se ti classifichi come pornoattore puoi fare quello che vuoi…

Siccome io non mi sono autodichiarata e odio far parte di un tipo di industria, se non sei una pornoattrice allora sei Maria Goretti e fai ancora più scandalo, ma posso chiavare con chi cazzo mi pare senza dover mettere delle telecamere? No. L’Italia è il paese delle dichiarazioni, vogliono una label, anche perché a trent’anni chi ce la fa a fare la pornoattrice, ti è piaciuto ‘sto sfaccimm e film? E allora catalogami. Eva Henger ha presentato Paperissima Sprint, Rocco Siffredi è un idolo, ma è sesso quello? Per quanto mi riguarda è violenza, però è osannato perché dice che fa quello che gli piace. Paolina non è pornostar? Allora fa schifo, è incredibile. Ovviamente non farei mai la carriera di una pornostar estrema, farei cose molto più normali.

Quando poi il pubblico capisce quello che fai, dall’alto ti stroncano…

La gente mica facilmente si adatta alle novità, Darwin ci dice che in pochissimi sopravvivono, la grande massa non si adatta e muore. Le carriere si fanno quando una realtà crede in te. È questo che manca, il supporto non me lo danno perché sono ibrida e ho più difficoltà a fare un percorso. Invece chiedendo aiuto al pubblico dico di fare la rivoluzione, perché anche se apparentemente siamo nel gradino più basso lo abbiamo noi il potere, perché chi mi seguiva non mi trovava sporca, anzi.

Federico Ciapini per mowmag.com il 5 giugno 2021. La sexy influencer napoletana si è ritrovata nuovamente senza Instagram: "Mi hanno tolto il lavoro, quello che facevo era videoarte ma continuano a censurarmi". In soli sei giorni l'account social Insta_Paolina2 è stato cancellato per la seconda volta dopo il primo ban al profilo da 1.5 milioni di followers: "Non vivo più serenamente, ci sono gruppi di individui che si divertono a rovinare la mia professionalità, forse devo preoccuparmi per la mia incolumità". Ecco quindi che Paola Saulino dice basta: "Non ce la faccio più, sono delusa e mi prenderò una pausa". Non c’è pace per Paola Saulino, la sexy influencer di Instagram. Era tornata dopo cinque mesi dalla cancellazione del suo account da 1.5 milioni di followers con il suo nuovo profilo Insta_Paolina2. Una notizia che, visto l’importanza mediatica del personaggio, aveva fatto il giro del web con oltre 19mila followers raggiunti in soli quattro giorni. “Se devo essere catalogata in una precisa sezione per fare il mio lavoro in maniera serena farò un porno” ci aveva detto Insta_Paolina. Era infatti tutto pronto per il suo ritorno, ma improvvisamente è stata nuovamente bannata senza spiegazioni da Instagram. Abbiamo così contattato Paola Saulino per capire meglio questa situazione spiacevole con la influencer napoletana che ci ha annunciato che si prenderà una pausa di riflessione dai social, almeno fino a settembre. 

Paolina non hai pace…

Non si può fare niente, avevo un lavoro che mi è stato tolto. È stato un bel momento della mia vita, sembrava ci fosse l’opportunità anche di uscire da questo personaggio, ma continuo ad essere vista sporca, da censurare. 

Quanto sei arrabbiata?

Sono più delusa, ho fatto tutto il possibile. Non so più che dire, era un profilo di 19.5mila followers, sto chiedendo aiuto perché forse qualcuno mi sta facendo pagare la popolarità. Se non posso fare qualcosa voglio avere la libertà di sapere le cose come stanno perché non ce la faccio più. 

Ma la colpa del tuo secondo ban è di Instagram o degli utenti?

Non lo so, forse entrambe le cose, ma il problema non me lo pongo perché non posso farci niente. Il problema non è che hanno bannato il profilo ma la persona. Ma ti rendi conto che vengo trattata come una criminale? È assurdo, mi si viene tolta la libertà di libertà, questa è oppressione, accanimento.

Eppure ci sono profili molto più hard del tuo…

Dovrebbero chiudere il 99.9% dei profili Instagram, hai capito chi ci sta in giro? Diprè, Max Felicitas gente che fa porno in live. I miei ragazzi mi hanno mandato delle dirette di persone che sinceramente non seguivo, fanno cose assurde, masturbazione, dirette a quattro con donne che twerkano e poi me lo chiudono a me. 

Sembri rassegnata…

Ho già dato tutta l’energia che potevo, quello che avrei fatto per gli Europei è videoarte. È una cosa che deve stare nei musei, sono troppo raffinata per una piattaforma come Instagram. Ho fatto autocritica la prima volta, ma quando ho visto il profilo eliminato nuovamente ho detto basta. Sono in pace con me stessa, ho fatto tutto il possibile e mi girano i c******i. Mi sono chiesta davvero se facessi la carriera pornografica magari verrei trattata da intellettuale.

Ma se ti ridessero il profilo Insta_Paolina2?

Questo qua è molto probabile che me lo ridiano. Sicuramente avrei un posto dove postare in serenità, ma se devo vivere con il terrore e la paura addosso, ma che ci sto a fare? Non mi vivo la mia vita serena fuori? Sono stanca. 

Se tu fossi davanti alla persona-Instagram cosa gli chiederesti?

C’è qualcosa che sto facendo involontariamente che non devo fare? C’è dell’altro sotto? Chiederei anche se ci fosse un gruppo di individui che si diverte a rovinare la mia professionalità, forse devo anche preoccuparmi per la mia incolumità, devo aver paura di uscire di casa? Devo fare indagini più profonde? Mi sto chiedendo qualsiasi cosa. 

E adesso?

Mi allontano dai riflettori, mi prendo proprio una pausa. Ho fatto tanto, volevo tornare con qualcosa da dire e con l’energia a bomba. Dopo essere stata senza Instagram per cinque mesi dopo sei giorni mi bannano. Non va bene. Ho una vita, sono giovane e bella, sono grata per tutto quello che ho avuto, ma adesso voglio farmi i cazzi miei, via i telefoni, via tutto. Basta. 

·        Paolo Bonolis.

Marco Leardi per "davidemaggio.it" il 20 ottobre 2021. “La signora ha abboccato…“. Paolo Bonolis ha utilizzato la propria fulminante ironia per rispondere alle parole pronunciate dalla moglie Sonia Bruganelli al Grande Fratello Vip. Nella più recente puntata del reality di Canale5, l’opinionista aveva rivelato che il conduttore, per corteggiarla, aveva “millantato ricchezze pazzesche, che aveva ma non così tante“. A solleticare il presentatore su quelle curiose affermazioni è stata Bianca Berlinguer in diretta a Cartabianca. Bonolis, infatti, era intervenuto come ospite assieme a Walter Veltroni e la conduttrice ne ha approfittato. “Tua moglie, al Grande Fratello, ha dichiarato simpaticamente che all’inizio ti sei un po’ spacciato per più benestante di quello che eri. Le hai detto che la portavi su una grande imbarcazione, su uno yatch, ma non era tuo, bensì di un tuo conoscente“ ha detto Bianca Berlinguer, stuzzicando il presentatore Mediaset proprio sulle parole che nello studio del Gf avevano suscitato ilarità e stupore: quelle sulla promessa di una vacanza a Formentera “su una sua barca pazzesca“, che in realtà “non era sua“. Secca e altrettanto pungente la chiosa di Bonolis: “Per ogni pesce c’è l’esca giusta. Evidentemente poi la signora ha abboccato. Ha funzionato…“. La chiosa del conduttore ha analogamente scatenato la risata sia della Berlinger sia di Veltroni.

Bonolis e le accuse della moglie Bruganelli: «La barca non mia? Abbellivo una realtà spoglia. Lei al Gf Vip? Guardo un po’, poi faccio altro». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 23 ottobre 2021. Il conduttore ritorna sulla «polemica» a distanza con la moglie: «Le ho fatto una sorpresa e ovvio che non fosse mia». 

«Sono una persona totalmente innocua».

Ma millantatore di ricchezze...

«Ognuno millanta quello che può, la politica millanta idee, io mi arrangio con quello che è nelle mie possibilità».

Paolo Bonolis ha fatto dell’ironia il suo codice di approccio e interpretazione tanto della vita quanto della televisione. Sonia Bruganelli, sua moglie, pochi giorni fa ha raccontato in diretta su Canale 5 che quando si sono conosciuti «lui ha millantato ricchezze pazzesche, parlava di case e ville. Per la prima vacanza insieme ha detto che mi avrebbe portato a Formentera su una sua barca pazzesca, e ci siamo stati, peccato che invece non fosse sua». Bonolis ha risposto, sempre in diretta tv (ma su Rai3): «Per ogni pesce c’è l’esca giusta. Evidentemente poi la signora ha abboccato. Ha funzionato...».

Dunque Bonolis, ha applicato alla vita quello che succede in tv: tutto una finzione?

«Sono andato a prenderla con la prima barca che c’era, le ho fatto una sorpresa, ovvio che non fosse mia... Ma a scanso di equivoci io e Sonia ci prendiamo costantemente per i fondelli, ce ne diciamo di cotte e di crude, ci divertiamo tantissimo anche dentro casa. Noi prendiamo in giro i ragazzi, loro prendono in giro noi. Diciamo che dovendo vivere la vita tendiamo a essere leggeri».

Aveva ingigantito la faccenda?

«Tutti cerchiamo di abbellire una realtà tendenzialmente spoglia. Perché essendo l’esistenza priva di uno scopo le strade sono due: o millantiamo ragioni e la abbelliamo come si fa con l’albero di natale; oppure la vita viene nutrita dalla fantasia. E grazie all’immaginazione diventa più interessante. Un’operazione che non ho inventato io, ma è nella storia dell’Uomo. Lo stesso maquillage — la mitizzazione delle circostanze — è stato fatto anche con le religioni».

Sua moglie è opinionista al «Grande Fratello Vip», ma lei non sembra tipo da reality: è costretto a guardarla?

«No, per carità non sono costretto. Ne guardo un pezzetto, magari non proprio tutto, perché mi dedico anche ad altro: leggo, guardo un film con mia figlia o una partita con mio figlio. La nostra è una famiglia, non è ancora Guantanamo».

Dia lei un’opinione su sua moglie opinionista.

«Tra le tante cose che mi sono sempre piaciute di Sonia c’è che ha sempre avuto una lettura del circostante e delle persone che le sono accanto abbastanza priva di sovrastrutture, vede ciò che vede senza preconcetti, e lo sa esprimere molto bene senza camminare sulle uova. E questo fa di lei un personaggio adatto al ruolo. Come opinionista penso che sia decisamente brava».

È anche senza filtri, dritto per dritto.

«La diplomazia può essere importante quando ci sono di mezzo cose delicate di cui trattare, ma lì stamo a ffa’ altro... è una trasmissione giocosa, se uno deve fare il diplomatico pure lì, sulle questioni serie cosa fa?».

Anche la foto con Giancarlo Magalli «contro» Adriana Volpe (l’altra opinionista del Gf) dunque era una provocazione giocosa?

«Credo di sì. È stato un gioco che ha fatto scattare piccole e divertenti provocazioni affinché accadesse qualcosa. Penso che sia una dinamica insita nella logica di certe produzioni, altrimenti il reality si riduce a vedere a chi tocca preparare la frittata e a chi tocca sparecchiare la tavola».

Potreste fare un programma insieme?

«Ma io non ho gli opinionisti nei miei programmi...In realtà Sonia già lavora con me, dietro le telecamere, con la sua società di produzione e casting si occupa di Ciao Darwin, Avanti un altro!, Il senso della vita... Questa del Grande Fratello Vip è un’occasione che ha voluto percorrere perché la trasmissione le è sempre piaciuta e all’università aveva fatto una tesi sul reality».

State insieme da 24 anni, per cosa discutete?

«Per le mille cose di cui si ragiona in una famiglia: gestione dei figli, organizzazione della casa, cose da fare e da non fare. Non è così clamorosa la vita di due persone — seppur famose — che vivono insieme da 24 anni. Ci capita quello che capita a tutti».

Il rimprovero che le fa più spesso?

«Mi rimprovera quasi tutto...».

Le foto estive di sue moglie fanno sempre discutere. Perché una volta per tutte non le toglie lo smartphone quando prendete il jet privato?

«Eh lo so... È un compiacimento suo. Questa logica dei social, di raccontare le proprie imprese da parte di chiunque — più o meno normali circostanze dell’esistenza che vengono trasformate in mirabili imprese — è un vizio collettivo e culturale dal quale sfuggo molto volentieri e consapevolmente. Sonia però a differenza di molti lo fa sempre con ironia e intento provocatorio. Agli haters non bada, si diverte a giocare con queste piccole sfide».

Gli haters abboccano all’amo come Sonia ha fatto con la barca...

«Tutti noi siamo ghiotti di esche».

A novembre Paolo Bonolis festeggia 40 anni di tv. Una carriera spesa tra Rai e Mediaset, due volte conduttore e direttore artistico di Sanremo, decine di programmi, cinque figli, tanti successi e un vocabolario che è la cifra del suo modo di intendere l’intrattenimento. Un flusso di parole che non si perde mai nonostante incisi e subordinate, un lessico che viaggia tra termini desueti ed espressioni poco frequentate. Una strada imboccata quasi per caso. Studiava Istituzione e diritto romano, l’idea era quella di fare la carriera diplomatica («fortunatamente per questo Paese ho intrapreso un’altra strada»). Nel 1981, solo perché aveva il motorino, accompagnò un suo amico a un provino in Rai e gli chiesero come mai non lo facesse anche lui («dissi che non sapevo fare niente e mi risposero che ero perfetto per la tv»). Gli proposero di prendere parte a una trasmissione per ragazzi: 12 milioni di lire per un anno («a casa non si navigava nell’oro, non ho esitato, anche perché mio padre mi disse che se non accettavo mi prendeva a calci, due a due, finché non diventavano dispari»).

Da allora la tv è peggiorata?

«Non è questione di capire se la televisione sia migliorata o peggiorata. La tv in realtà è diventata qualcosa di diverso rispetto ai primi decenni in cui si è accesa. Prima si trattava di una tv pionieristica, mentre adesso è diventata coloniale, nel senso che se una volta si conquistavano territori nuovi — di linguaggio e di argomento —, oggi si tende a coltivare il terreno già scoperto e non si fanno passi avanti per vedere se oltre questi confini ci sono territori nuovi da esplorare. L’altro aspetto non secondario è che in tv non c’è un grande ricambio di volti. Le nuove generazioni si muovono su nuove piattaforme e i conduttori più “giovani” in tv hanno la mia età. Diciamo che lentamente ci stiamo trasformando in una giovane Rsa».

Il contatto con la gente è il metro del vostro successo. Voi personaggi pubblici siete oggetti di consumo, soggetti alle mode, legati al piacere volatile e liquido degli altri: come si convive con il pubblico giudizio?

«Il pubblico giudizio è l’algoritmo del mercato. Alla fine della fiera siamo tutti prodotti in vendita, nella vita intima come nella vita pubblica. Siamo tutti su uno scaffale, ognuno vende il proprio operato, il proprio carattere, la propria natura: ognuno vende se stesso in attesa di acquirenti, siano essi sentimentali oppure professionali. In sostanza il pubblico è una delle variabili che determinano il tuo successo sullo scaffale».

Per fare tv bisogna essere cinici?

«Dipende da cosa si intende per cinismo. Il cinismo è come il colesterolo, c’è quello buono e quello cattivo. Il cinismo buono ti porta alla leggerezza nei confronti della vita, ti fa affrontare le cose con ironia e leggerezza; quello cattivo ti porta all’indifferenza. Il secondo modo è sgradevole, sbagliato e non paga».

Ad «Avanti un altro!» (le nuove puntate saranno in onda a gennaio) a lei piace fare battute scorrette. Ma questi sono tempi di grande suscettibilità, c’è sempre qualcuno pronto a offendersi per qualcosa. Lei si sente comunque libero di scherzare su tutto?

«Completamente. Non ho nessuna reverenza per il politicamente corretto. Viviamo un’epoca in cui c’è un eccesso di attenzioni ingiustificate che rendono la vita troppo pesante e tolgono il sorriso dalle possibilità del quotidiano».

Lei rientra nel gran numero degli astensionisti al voto. Perché?

«Trovo assurdo il fatto che la politica possa promettere qualunque cosa ma non ci sia nessuna legge che ti obbliga a realizzare cio che hai promesso. Io per formazione non sono preceduto da un’idea politica che mi guida, che la imbocchino da destra o da sinistra non mi interessa la strada, mi interessa la meta. Intorno però vedo solo persone che propagandano se stessi. Troppo facile dire voglio fare una Roma migliore: a parte che non ci vuole molto, ci mancherebbe dicessero che vogliono fare terra bruciata...».

Francesca Galici per ilgiornale.it il 20 ottobre 2021. Commentatore politico inusuale per la puntata di Cartabianca dopo i risultati del ballottaggio delle elezioni amministrative. In studio con Bianca Berlinguer, assieme a Walter Veltroni, si è presentato anche Paolo Bonolis. Il conduttore ha dichiarato espressamente di essere parte di uno degli astenuti dal voto, uno dei tanti, visto che mediamente ha votato meno di un italiano su due alle ultime elezioni. Nel corso della discussione, l'inconsueto gruppo di commentatori ha cercato di analizzare le motivazioni che hanno portato al risultato elettorale ben noto. "Non ho votato a Roma", ha dichiarato Paolo Bonolis. Il motivo? Il conduttore ha detto che, non conoscendo nessuno dei candidati, ha preferito astenersi. Nel suo discorso, quindi, Bonolis ha totalmente escluso Virginia Raggi, ben conosciuta dal conduttore, che però ha fatto capire di non avere particolare stima del sindaco uscente e l'ha detto senza mezzi termini. "Sono contento che abbiamo cambiato sindaco", ha tagliato corto Paolo Bonolis. Il marito di Sonia Bruganelli ha candidamente dichiarato che l'ultima volta che ha votato per un sindaco di Roma è stato quando candidato è stato proprio Walter Veltroni, quindi nel 2006. Ironico e tagliente come sempre, conversando con Bianca Berlinguer ha detto che non è riuscito a votare perché attualmente c'è gran confusione nella politica, che si è riversata nella campagna elettorale. "Vedo un'orgia nella quale non si percepisce una verità. Uno è diventato l'alibi dell'altro", ha scherzato (ma non troppo) Paolo Bonolis. Ma se il conduttore ha scelto di non votare per le elezioni amministrative perché, a suo dire, non conosceva i candidati al ruolo di sindaco, nonostante uno fosse un ex ministro della Repubblica italiana, non ha escluso di andare a votare per le prossime elezioni governative che, al momento, dovrebbero tenersi nel 2023. Tuttavia, il voto di Paolo Bonolis anche per eleggere i rappresentanti del governo, è legata a una discriminante: "Dove capissi una differenza voterei volentieri". L'analisi di Paolo Bonolis tra i serio e il faceto si è conclusa con una riflessione sulla situazione rifiuti della Capitale, che attira i cinghiali fin quasi dentro il centro della città: "Perché pago l'Ama?". Una domanda comune a molti cittadini alla quale ora si troverà a rispondere Roberto Gualtieri.

Paolo Bonolis risponde al fuoco di Pippo Baudo: "Con me è stato molto aspro", poi la frase velenosissima. Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. Paolo Bonolis ha compiuto 60 anni lo scorso 14 giugno e per l’occasione speciale ha rilasciato una lunga intervista al settimanale Chi, diretto da Alfonso Signorini. Ovviamente non poteva mancare un passaggio sulle recenti dichiarazioni di Pippo Baudo, che è stato particolarmente duro nell’esprimere un giudizio sul conduttore di Mediaset. Bonolis ha ammesso di aver avuto un rapporto fatto di alti e bassi con Baudo e ha aggiunto che “con me è stato molto aspro”.  In particolare dove Pippo vede volgarità, per Paolo si tratta di leggerezza: che sia un problema generazionale? “Spiace, per lui”, ha tagliato corto Bonolis. Il quale ha poi criticato l’uso spropositato che i giovani fanno dei social network, dove si costruiscono dei fenomeni che poi sbarcano in tv e puntualmente non riescono a rendere secondo le aspettative altissime. “Questo strumento fa sentire chiunque parzialmente onnipotente”, ha sottolineato il conduttore di Avanti un altro. Nel corso dell’intervista rilasciata a Chi c’è stato anche un passaggio sulla moglie Sonia Bruganelli, che secondo le ultime indiscrezione potrebbe essere la nuova opinionista del Grande Fratello Vip insieme ad Adriana Volpe. “Lei sta sbocciando seguendo la sua strada - ha commentato Bonolis - io sono contento, quindi ben venga”. 

Da ilmessaggero.it il 19 ottobre 2021. Aldo Montano come Paolo Bonolis. Secondo Sonia Bruganelli è proprio così. Stasera al Gf Vip è entrata Olga Plachina, la moglie di Aldo Montano per fare una sorpresa allo schermitore. tra emozioni e foto i due ragazzi hanno raccontato di come è nata la loro storia. «A prima vista non mi è piaciuto, aveva capelli lunghi, tanti orecchini, un bel po’ tamarro» ricorda così la giovanissima Olga, che ha poi aggiunto anche il perchè dopo averlo conosciuto lo ha bloccato sui social: «Prometteva viaggi e poi spariva nel nulla». Secondo Aldo questa mossa è stata la più giusta che la modella potesse fare: «Così mi ha conquistato». Signorini però punzecchia ancora di più la moglie di Aldo che ha aggiunto: «Ha avuto un comportamento particolare: improvvisamente spariva nel nulla». Sonia Bruganelli in studio se la rideva e ha preso la parola mettendo in campo il marito Paolo Bonolis. L’opinionista del Gf Vip, ormai sempre più padrona di Cinecittà, ha raccontato che il marito ha fatto proprio come ha fatto Aldo Montano. «Bonolis ha millantato ricchezze pazzesche, che aveva ma non così tante, parlava di case ville... » A quel punto Alfonso le ha chiesto quale è stato il primo posto dove Bonolis l'ha portata in vacanza. Sonia ricomincia a ridere: «Ha detto che mi avrebbe portato in vacanza a Formentera su una sua barca pazzesca, e ci siamo stati, peccato che invece non era sua». Che dire? Bonolis come Montano.

Paolo Bonolis: non usa lo smartphone, la prozia venerabile altre 10 curiosità su di lui. Il conduttore torna in tv lunedì 8 marzo su Canale 5 con le nuove puntate di «Avanti un altro!». Accanto a lui l’inseparabile Luca Laurenti. Arianna Ascione il 14/6/2021 su Il Corriere della Sera. Paolo Bonolis compie 60 anni: la balbuzie da bimbo, come conobbe Laurenti e le due mogli, dieci cose che non sapete di lui. Il conduttore è arrivato al fatidico traguardo, ecco alcune chicche che magari non conoscete.

Gli avi in Romania

Il 14 giugno uno dei volti più amati della televisione italiana compie 60 anni: parliamo di Paolo Bonolis, che proprio pochi mesi fa ha festeggiato il decennale del suo amatissimo programma Avanti un altro!. Nato a Roma nel 1961, figlio unico di una famiglia semplice - suo padre Silvio trasportava burro ai mercati generali mentre sua madre Luciana era segretaria in un’impresa di costruzioni -, è cresciuto nella Capitale ma forse non tutti sanno che i suoi avi paterni avevano radici in Romania («tutto vero, me ne accennava mio nonno, mai stato nemmeno a Bucarest però» diceva al Corriere). E questa non è l’unica curiosità su di lui.

Da balbuziente al Guinness World Record

Nel 2010 Paolo Bonolis è entrato nel Guinness dei Primati per il maggior numero di parole di senso compiuto pronunciate in un minuto (332 in 60 secondi). Pensare che da bambino il conduttore balbettava, così tanto che gli insegnanti dovevano interrogarlo per iscritto. Poi alle scuole medie, grazie ad una recita, ha scoperto che doveva concentrarsi su una sola frase per volta e pian piano è riuscito a risolvere il problema.

Bim Bum Bam (e quel buffo soprannome datogli da Uan)

Paolo Bonolis esordisce nel 1980 in Rai, a 19 anni: conduce il programma per ragazzi 3, 2, 1... contatto!. Nel 1982 la svolta: passa a Italia 1, rete all’epoca appena nata, e guida insieme a Licia Colò (nel 1985 al suo posto arriva Manuela Blanchard Beillard) Bim Bum Bam, di cui scrive anche i testi con Giancarlo Muratori. «Ero un ragazzino, ma mi sono reso conto che le cose funzionano bene quando racconti qualcosa che ti appartiene, nel momento in cui ti domandi cosa vuole vedere la gente invece stai partendo con il piede sbagliato» ha raccontato in un’intervista al Corriere. Il programma, un contenitore rivolto ai bambini con sketch e cartoni animati, ha un grande successo grazie all’alchimia che scatta tra i protagonisti e il simpatico pupazzo Uan, che ribattezza il conduttore «Piolo».

Momenti cult (e controversie)

Il secondo momento di svolta della sua carriera è, ha raccontato, Beato tra le donne: «Un colpo di successo della produzione di Pingitore su Rai1: è stata la prima volta che con una trasmissione feci un boom di ascolti. Quel programma ha avviato il delta attentivo su di me». Negli anni Bonolis ha lavorato sia in Rai (I cervelloni, Luna Park, Domenica In, Affari Tuoi) che in Mediaset (Bulli & pupe, Non è la Rai, Tira & Molla, Ciao Darwin, Chi ha incastrato Peter Pan?, Striscia la notizia, Il senso della vita, Scherzi a parte) ed è stato protagonista di numerosi momenti televisivi cult come la mitica telefonata dei fratelli Capone a Tira & Molla. Sempre parlando della lunga carriera del conduttore in molti ricordano la hit «Bucatini Disco Dance» (reinterpretazione di «Roma nun fa' la stupida stasera sulle note di «Daddy Cool» dei Boney M.) lanciata a Striscia e la frase tormentone «Si sbrighi, non cincischi, vada!» (Ciao Darwin), ma Bonolis è anche stato al centro di alcune controversie, come quando nel 2004 intervistò il serial killer Donato Bilancia nel corso di una puntata di Domenica In. Fece discutere anche la sua intervista a Mike Tyson al Festival di Sanremo 2005.

Sul palco dell’Ariston

Paolo Bonolis è salito sul palco dell’Ariston in qualità di direttore artistico e conduttore del Festival di Sanremo per ben due volte: la prima nel 2005 (edizione caratterizzata da ascolti record e vinta da Francesco Renga con «Angelo») e la seconda nel 2009 (trionfò Marco Carta con «La forza mia» tra i Big e Arisa con «Sincerità» tra le Nuove Proposte). Lo rifarebbe? «Se devo fare una cosa, la voglio fare come potrebbe essere realizzata secondo le mie intenzioni e credo che Sanremo abbia la necessità di una nuova sede per potersi contemporaneizzare al meglio» ha dichiarato lo scorso anno intervistato da Rtl 102.5.

Il primo incontro con Luca Laurenti

Il sodalizio artistico di Paolo Bonolis con Luca Laurenti, al suo fianco in moltissimi programmi (solo per citarne alcuni: Tira & Molla, Ciao Darwin, Chi ha incastrato Peter Pan?, Striscia la notizia, Music, Avanti un altro!), è iniziato nel 1991: i due erano nel cast di Urka, trasmissione per ragazzi di Italia 1. Il loro primo incontro fu un po’ particolare: «Cercavamo qualcuno che cantasse - ha raccontato Bonolis in un’intervista a Verissimo - Ad un certo punto entrò questo ragazzo con una busta di plastica del supermercato. Cantò un pezzo di Stevie Wonder molto difficile e rimanemmo sorpresi, lo prendemmo subito».

I due matrimoni

Paolo Bonolis è stato sposato per 5 anni, dal 1983 al 1988, con la psicologa statunitense Diane Zoeller, da cui ha avuto i due figli Stefano e Martina (che l’anno scorso lo ha reso nonno per la prima volta). Successivamente ha avuto una lunga storia d’amore con la showgirl Laura Freddi, conosciuta a Non è la Rai e, in seguito alla rottura della relazione, dal 1997 è legato all’imprenditrice e produttrice televisiva Sonia Bruganelli. La coppia è convolata a nozze nel 2002, e presto sono arrivati altri tre figli: Silvia (nata con un problema di salute, una grave cardiopatia che ha richiesto un intervento e un lungo percorso di recupero), Davide e Adele. A proposito della primogenita mamma Sonia ha dichiarato al settimanale Gente: «Abbiamo faticato molto, ma ora stiamo gioendo di tutti i suoi progressi. Grazie a un costante supporto di logopedia e di fisioterapia per la riabilitazione, Silvia diventa ogni giorno più autonoma e aggiunge un tassello importante al suo cammino».

La prozia venerabile

«Zia ha fatto quello che ha fatto perché aveva cultura e fede. È lei che mi ha ispirato a incuriosirmi nella vita». La prozia del conduttore, Adele Bonolis (1909 – 1980) lo scorso 21 gennaio è stata dichiarata venerabile da papa Francesco (primo passo verso la canonizzazione). Figlia di un’agiata famiglia milanese e insegnante di religione al liceo classico Berchet in vita si è adoperata per il recupero e il reinserimento nella società di persone in difficoltà (come ex carcerati, malati psichiatrici ed ex prostitute).

Attore al cinema

Paolo Bonolis ha recitato in «Commediasexi» (2006) di Alessandro D'Alatri, nei panni dell’onorevole Massimo Bonfili, e non si è fatto mancare qualche cameo in altre produzioni: è apparso nella serie tv «Romolo + Giuly: La guerra mondiale italiana» (2018), nel videoclip della canzone «Senza pensieri» di Fabio Rovazzi (2019) e sarà in «Tom & Jerry» di Tim Story in uscita a partire dal 18 marzo 2021 sulle piattaforme streaming.

Non usa smartphone

La tecnologia e Paolo Bonolis sono due mondi che non si incontrano mai. Il conduttore non ha nemmeno uno smartphone: «Un cellulare serve per telefonare e mandare sms - ha raccontato al Corriere - A che altro serve? Ci sono due persone che lavorano in Finlandia, una per me e una per Maurizio Costanzo, gli unici in Italia ad avere ancora quel telefono: il giorno che noi lasciamo il Nokia vengono licenziate, infatti le loro famiglie ci scrivono spesso per ringraziarci. La verità è che preferisco guardarmi intorno ed è una cosa che cerco di trasferire anche ai miei figli che invece guardano sistematicamente là dentro: è una forma di vampirizzazione».

Da Chi il 15 giugno 2021. Sul prossimo numero di “Chi”, in edicola dal 16 giugno, un'intervista esclusiva con Paolo Bonolis che festeggia i suoi 60 anni e anche un altro traguardo importante: 40 anni di televisione: «Nel mio lavoro sono stato bravo, ma anche fortunato perché mi sono potuto esprimere in ciò che sapevo fare e non in un'altra professione, dove magari sarei stato una pippa...», racconta il conduttore, che si confessa senza tabù. Il suo futuro? «Resterò a Mediaset. In autunno tornerò su Canale 5 con le nuove puntate di Avanti un altro», annuncia. Smentisce invece le voci secondo cui sarebbe uno dei candidati alla conduzione del prossimo Festival di Sanremo, che aveva presentato nel 2005 e nel 2009. «Credo che il Festival debba essere raccontato in una maniera nuova e fuori dall'Ariston, che ha scritto pagine meravigliose. Il Festival ha bisogno di un cambio importante, di una struttura anche tecnologica innovativa per renderlo ancora più evento. Questa è la mia idea dalla quale non schiodo». In molti sui social chiedono il ritorno di Il senso della vita... «Ci penso spesso. È un programma di racconto e di pensiero che non può andare in seconda serata: il suo costo è alto e non può essere collocato in quella fascia. A malincuore dico che è un progetto meraviglioso verso il quale nutro affetto, ma non avrà futuro. Lo farà sui social qualcuno...», conclude.

Anticipazione da “Belve - Raidue”. Dagospia il 21 maggio 2021. Protagoniste della seconda puntata di Belve, condotto da Francesca Fagnani in onda alle 22,55 su Raidue, sono Bianca Berlinguer e Sonia Bruganelli, la moglie di Paolo Bonolis che rivela un passaggio inedito e dolorosissimo della sua vita, legato alla prima figlia, Silvia, nata con una gravissima cardiopatia. “Crisi da superare ce ne sono state?”, domanda Fagnani a Bruganelli, che svela: “Una crisi vera c’è stata quando è nata nostra figlia... Avevo 27 anni, è stata una delusione fortissima. Poi per una persona purtroppo o per fortuna abituata a cercare di avere sempre il meglio, un figlio con una malattia è quanto di più difficile da gestire, anche egoisticamente non sono stata in grado di farlo, ho dovuto abdicare per parecchio al mio ruolo di mamma con mia figlia Silvia. C’è stato, a parte mia mamma, Paolo che ha preso in mano la situazione e si è trovato per più di un anno a fare da mamma e da papà a nostra figlia che aveva delle enormi difficoltà”. “Abdicare come mamma che significa?”, chiede Fagnani. “Vuol dire non farcela, vuol dire svegliarsi una mattina in ospedale con una bambina appena nata che ti hanno portato via perché deve essere operata e dire: Oddio io non ce la faccio, cosa devo sperare? Sperare che succeda qualcosa per cui si ricominci tutto da capo non è proprio una cosa meravigliosa per una mamma, no?”. Tra le tante risposte sulla sua vita privata e professionale, l’imprenditrice Bruganelli sottolinea anche i suoi gusti televisivi. La tv che fa Barbara D’Urso come la definirebbe? “Forse un po’ più superficiale, attenta a cercare di stuzzicare la morbosità che comunque le persone hanno”; “Ma le piace?” insiste Francesca Fagnani, “No, non mi piace”. Indomabili, ambiziose, sempre all’attacco e mai gregarie alle 22.55 le protagoniste di “Belve”’ si prendono il venerdì sera di Raidue, con un ciclo di dieci puntate. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani con domande dirette e mai cerimoniose puntano a far emergere forza e fragilità delle protagoniste, parte quindi con due donne dello spettacolo. Feroci e fragili, al tempo stesso.

Avanti un altro, "Paolo Bonolis si lascia andare con me": la privatissima confessione della Bonas. Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. "Paolo con me si lascia andare perché mi conosce bene": Claudia Ruggeri, meglio nota come Miss Claudia di Avanti un altro, fa questa rivelazione parlando di Bonolis in un'intervista a TvMia. Non tutti sanno, infatti, che i due sono parenti stretti. Cognati, per l'esattezza. La modella ha sposato Marco Bruganelli, fratello di Sonia, che è la moglie del conduttore. "Tutto è improvvisato sul momento. Paolo fa le sue battute e poi bisogna essere pronti a reagire", ha detto la Ruggeri, raccontando come sia il clima nella trasmissione in onda ogni pomeriggio su Canale 5. Nonostante la parentela, però, Miss Claudia ha assicurato che Bonolis non fa alcun tipo di favoritismo e che se lei è nel cast da anni è solo perché il suo personaggio va bene per il programma. La Ruggeri, inoltre, ha spiegato che lei conosce Paolo da ben prima di fidanzarsi con Marco Bruganelli. Prima a Ciao Darwin e poi a Domenica In. Sul suo ruolo ad Avanti un altro, invece, ha sottolineato: "Ho interpretato molti personaggi tutti molto sexy ed ironici, non c’è alcuna volgarità. Io sono la prima che in trasmissione si prende in giro e si lascia prendere in giro da Paolo Bonolis". Infine qualche rivelazione anche sulla vita privata e sul rapporto con il marito: "Con Marco Bruganelli c’è stato un lungo corteggiamento ed un lungo fidanzamento prima di sposarci nel 2016".

Alvaro Moretti per "il Messaggero" il 9 marzo 2021. Avanti un altro! Stavolta l' hanno detto a lui, Paolo Bonolis, quelli della Warner Bros. Anzi: Tom & Jerry in persona. E Bonolis s' è messo sull' attenti ed è partito per Londra e ha girato il suo cameo nel live action stile Roger Rabbit che il 18 marzo esce sulle piattaforme. In America e in Cina è un successo anche nei cinema che hanno riaperto platee e botteghini. Qui ci dobbiamo accontentare della smart tv. Paolo, però, nel frattempo s' è rimesso in moto e su Canale 5 Avanti un altro è tornato da ieri - al decimo anno - ad essere il motto-convocazione per i personaggi da Hellzapoppin' che popolano questo suo mondo a parte: preserale, ovvio, ma anche prima serata domenicale del post Barbara D' Urso dal prossimo 11 aprile.

Quante puntate, Bonolis?

«Quante ne servono. Quando io stringo una mano sono nella squadra».

Sette Oscar, i precedenti di Gene Kelly e Esther Williams. Ora anche lei a fianco di Tom e Jerry.

«I cartoni animati mi hanno fatto come sono: un animo fantasioso che cerco di portare nei miei show da sempre. Nei cartoni può succedere davvero tutto, nella vita non va proprio così. C' è anche una morale: siamo tutti Tom e Jerry, inseguiamo per prendere qualcosa o scappiamo per non essere acchiappati».

Sanremo è finito: lei ne ha condotti due, 2005 e 2009. Per chi presenta sembra una centrifuga.

«Ha senso se decidi tu. Allora c' era la controprogrammazione e dovevo ideare uno show. Non sono un così grande esperto di musica. Anche se nel 2005 pensavo assurdo escludere i Negramaro di Mentre tutto scorre. Poi li hanno eliminati, ma sono diventati i Negramaro. Nel 2009 stavano escludendo Sincerità di Arisa: ma quella era come la sigla della Coca Cola, chi non la canta? Poi vinse».

C' è qualcosa che lei ancora insegue in tv?

«Sono stato un pioniere, le idee sembravano davvero opportunità. Oggi mi dicono che è stato fatto tutto, tutto arato: si fa tv stanziale, da coltivatore...»

Ma i suoi format sono beni durevoli, a partire da Avanti un altro.

«Il fatto è che improvvisando, senza conoscere chi entra in studio, è come aprire ogni volta un nuovo sipario. Poi lo sforzo è quello di rendere tutto più leggero possibile. Difficilissimo alleggerire il clima, specie ora. E dà gusto proprio questo. Come l' essere pop».

Il pupazzo Uan di Bim Bum Bam finisce in Stranger Things su Netflix, lei ha figli adulti e giovanissimi: come comunica con loro?

«Non si butta niente. A Uan devo qualcosa: il carattere di un personaggio che stravolgeva la realtà trovando una ragione dove non c' era. Oggi è difficile che genitori e figli trovino percorsi comuni. Oggi Chi ha incastrato Peter Pan non si può più fare: bambini e genitori vivono su piattaforme differenti».

Lei è un tipo un po' asocial... Lo si capisce anche leggendo il suo libro, Perché parlavo da solo, uscito anche in edizione economica (il ricavato va alla onlus Adotta un angelo Cers). Da genitore come se la cava?

«Propongo ai miei figli un bilanciamento esistenziale tra digitale e analogico, cioè il mio modo di conoscere».

Hanno proposto sua Zia Adele per la beatitudine.

«Ha aperto quattro case famiglia per ex prostitute con figli, ex carcerati, malati psichiatrici. Nel processo di beatificazione mi hanno chiesto se sapevo di miracoli compiuti da zia: quelle case famiglia esistono ancora. A me pare un miracolo: non ha trasformato l' acqua in vino. Ma il vino finisce, la carità resta».

In onda ancora con Luca Laurenti, voce anche in Tom&Jerry.

«Lui è The dark side of the moon.Molti pensano ma c' è o ce fa?: c' è. Legge la vita diversamente da noi: mi snellisce la vita con l' imprevedibilità. Io non so mai cosa fa. È la mia via di fuga, Luca».

Lei è un cercatore di leggerezza.

«Zia Adele sorrideva sempre e la fanno beata. La leggerezza pensosa di Calvino è la strada migliore anche nella gravità di un momento come questo».

La cosa più pesante della sua vita?

«Nostra figlia Silvia ha le sue problematiche di salute, a 18 anni: il problema persiste, ma con il suo sorriso è più facile affrontarlo».

È spesso criticato per i suoi personaggi fellinesque.

«Piano con i complimenti. Siamo tutti grotteschi: facemmo una puntata di Darwin con finti giovani contro nati vecchi. E non siamo noi? Che cerchiamo Viagra e palestre per non sembrare chi siamo davvero? Il nostro egoismo è assai grottesco».

Tra i suoi attori culto c' è Peter Sellers: la scena di Tom & Jerry in cui recita sembra una citazione di Hollywood Party...

«Oltre il giardino è un capolavoro. Comunque ai tempi del cinema, preferisco la tv, più simile al calcio: l' arbitro fischia un inizio e la fine».

Lei è stato un buon calciatore.

«Per quello mi chiamano sempre nelle partite del cuore: anche all' estero».

In quella partita di Londra con Rod Stewart conobbe Freddie Mercury.

«Mi fece capire che voleva trascorrere tempo con me, ma io gli ho fatto capire che non volevo. Mi chiese l' indirizzo, diedi quello di mia madre: un anno e mezzo dopo mi fece avere due biglietti per il famoso concerto di Wembley».

Anello del triplete interista da primo tifoso e un altro record.

«Di lettura veloce: dovevo fare qualcosa per Gerry Scotti, lessi il primo capitolo dei Promessi Sposi... velocemente».

Eppure lei ha combattuto la balbuzie: un esempio per i giovani che vivono lo stigma.

«Facevo solo interrogazioni scritte: troppe idee si affollavano, c' avevo il Raccordo Anulare nella testa. Mi partiva la zagaglia come diciamo a Roma, mio padre mi aiutava a ironizzarci sopra, mi diceva Paolo scrivi che è meglio. Poi un corso di teatro: la parte assegnata la recitavo senza intoppi. Ancora oggi ogni tanto balbetto, pazienza».

Un anno di pandemia: cosa le sta mancando di più?

«La libertà di viaggiare: sogno di fare la Panamericana con i miei figli. Da Seattle a Ushuaia, Terra del Fuoco. In camper. Quattro mesi».

Paolo Bonolis, ciò che non aveva mai rivelato su Luca Laurenti: "Ci è o ci fa? Nella sua vita...", ora si capisce tutto. Libero Quotidiano il 09 marzo 2021. Sono di nuovo insieme sul piccolo schermo: Paolo Bonolis e Luca Laurenti sono tornati su Canale 5 con Avanti un altro l’8 marzo. I due sono molto affiatati, e non solo in tv. “Lui è The dark side of the moon. Molti pensano ma c’ è o ce fa? C’è – ha detto Bonolis riferendosi al suo storico compagno di avventura in un’intervista al Messaggero -. Legge la vita diversamente da noi: mi snellisce la vita con l’imprevedibilità. Io non so mai cosa fa. È la mia via di fuga, Luca”. Il conduttore televisivo, poi, ha parlato anche del Festival di Sanremo che si è concluso pochi giorni fa. Anche lui, infatti, ha presentato la celebre kermesse per ben due volte, nel 2005 e nel 2009. “Non sono un così grande esperto di musica. Anche se nel 2005 pensavo assurdo escludere i Negramaro con Mentre tutto scorre. Poi li hanno eliminati, ma sono diventati i Negramaro – ha raccontato Bonolis -. Nel 2009 stavano escludendo Sincerità di Arisa: ma quella era come la sigla della Coca Cola, chi non la canta? Poi vinse”. Su Avanti un altro, la trasmissione televisiva che va in onda su Canale 5 ogni sera prima del Tg, Bonolis ha spiegato che farà quante puntate servono: “Quando io stringo una mano sono nella squadra”, ha detto. Il programma, tra l’altro, sbarcherà in prima serata a partire dall’11 aprile e andrà in onda di domenica al posto di Live-non è la D’Urso. 

·        Paolo Conte.

Paolo Conte: «Questi anni Venti non sono affatto ruggenti: il secolo attuale non mi suggerisce niente». Un suggestivo concerto alla Venaria Reale. Un doppio Lp in uscita. E l’incontro con l’artista spagnolo El Greco. Il cantautore mette in musica il vizio della pittura. Il suo. E si racconta a L’Espresso. Paolo Di Paolo su L'Espresso il 10 novembre 2021. Per gioco la prendo larga, e parto dalla minestrina, la salutare pietanza al centro di uno smagliante duetto con Mina che viene riproposto nel nuovo disco: «Dint’a nuttata mia / E intanto che la minestrina cuoce / Sona ’a radio doce doce / ’Na canzuna ca me piace». Gli dico: lo sa che Giacomo Leopardi a undici anni scrisse una sua poesia sulla minestra? Una specie di ode al contrario, in cui, rivolgendosi all’odiata minestrina, le diceva: «Dir di abominarti mi apporta un gran diletto». «Io invece sono un appassionato delle minestrine in brodo, anzi direi delle minestre in generale», dice Paolo Conte. E intanto che la minestrina cuoce? «E intanto? Sono cose da adulti». Nel doppio LP in uscita il 12 novembre, “Live at Venaria Reale”, sono raccolti i pezzi che ha eseguito in uno straordinario concerto alla Reggia di Venaria nel settembre scorso: sì, certo, c’è l’immancabile “Via con me”, ma c’è, per dire, anche una canzone come “Hemingway”, in cui all’americano trapiantato a Parigi nei folli anni Venti Conte chiede: «Et alors, monsieur Hemingway, ça va?». Domanda che, alla fine, farò anche a lui. Ma i veri miti di quella stagione, l’età del jazz, non a caso, sono per lui Louis Armstrong e Johnny Dodds, talenti esuberanti d’oltreoceano capaci di caricarsi sulle spalle il peso del passaggio dal «folklore consapevole alla musica propriamente detta» («Mi piace – aveva spiegato a “Repubblica” in un’intervista del 2019 – «quando si sente questo passaggio da un mistero drammatico a qualche cosa di più costruito»). 

Il disco è un’antologia speciale arricchita da un inedito: una larga escursione nel percorso di Conte fra brani più intimisti, o più ritmati, più esotici – “Come Di”, “Alle prese con una verde milonga”, “Aguaplano”, “Max”, “Gioco d’azzardo”, “Dancing”, “Madeleine”, “Genova per noi”, “Reveries”, “Gli impermeabili”, “Le chic et le charm”… Il timbro swing è comunque un marchio di fabbrica. E a quel ritmo anni Venti Conte continua a respirare felice vecchi paradisi, come scriveva dieci anni fa su queste pagine Malcom Pagani. A cui il maestro già allora rispondeva che «l’attualità non ha odore»; e perciò preferiva intrattenersi su Duke Ellington, Brel, Aznavour e Trenet, anziché commentare cronache politiche. Dieci anni dopo, stesso distacco. Incupito? No, ma perplesso. Nostalgico? Nemmeno. E spiegherà perché. Con poche parole, perché non ne aggiunge una in più dello stretto necessario. «È stata un’esibizione molto emozionante, ma, allo stesso tempo, particolare: nella Sala Diana della Reggia di Venaria non aveva mai suonato nessuno, è stato un onore poter essere il primo artista ad esibirsi in questo meraviglioso luogo. Inoltre, si è trattato di un concerto senza pubblico, non è facile cantare e suonare senza trovarti di fronte l’affetto delle persone», racconta. Mentre parla viene da immaginarselo, questo grande cantautore, o autore-cantante, come preferisce lui, che entra in una scena aggiunta di "Midnight in Paris”. Il film in cui Woody Allen consentiva a uno scrittore in crisi di ispirazione mettere piede, per magia, nella leggendaria stagione parigina in cui Hemingway e Picasso si trovano seduti allo stesso tavolo. Là, in una festa stile Grande Gatsby, un’orchestra suona il jazz. E se un’orchestra suona il jazz per forza di cose si sente, dice Conte, «il profumo della rivoluzione», della vera avanguardia. «Sotto le stelle del jazz / ma quanta notte è passata»: quella musica vissuta non come sogno, ma come «cosa reale», linfa africana nelle vene dell’Europa e dell’America, passava dai dischi che i genitori ascoltavano «in barba al fascismo». Alternativi anni Venti, per l’appunto: l’epoca ideale che precede la sua nascita e che ha vagheggiato, interrogato, raccontato, soprattutto in un disco uscito al passaggio di secolo come “Razmataz”, e non smette di seminare scintille.

Nel disco c’è un inedito, intitolato “El Greco”: “Sono un pittore, un creatore, io sono antico…”.

Lei ha raccontato che il vizio della pittura precede nella sua vita quello per la musica. Che cosa la affascina di quelle mani di artista che arraffano “un cielo esasperato” per farlo stridere di luce? «I versi della canzone che ho scritto mi sembravano molto adatti ad essere dedicati a quel pittore speciale che era El Greco», risponde il cantautore: «Lei dice bene: quelle mani di artista. Le aggiungerei che arraffa il suo stesso mestiere in modo esasperato come quel cielo. Eseguiva figure di santi talmente oblunghe che quasi non stavano nel quadro. Non aveva paura di queste sue esagerazioni e per un rinascimentale è già una bella novità».

Dipinge ancora, Paolo Conte: «Ho ripreso a disegnare e a dipingere. Questo è nella mia vita un "vizio" più antico di quello per la musica. Da bambino disegnavo trattori fin nei minimi particolari meccanici. Poi c'è stato il periodo dei cavalli, poi quello dei musicisti di jazz. Non ho quasi mai affrontato i paesaggi (troppo lontani dalla portata dell'uomo) salvo quelli urbani. Ho scoperto recentemente le sorprese che ti dà il pastello su cartoncino nero».

Gli faccio notare che nel disco del live alla Venaria Reale sono contenuti i brani “più amati”: dal pubblico di sicuro. Ma da lui? Non è detto infatti che le due cose coincidano.

«Coincidono, ma solo in parte. Ho scritto tantissime canzoni e a tutte sono rimasto affezionato. Anzi ho una particolare simpatia per quei brani che non metto mai in repertorio». In un concerto come quello del disco ripercorre tappe salienti di quella che per comodità chiamiamo carriera. Ma quanto c’è di “casuale”, accidentale nelle occasioni felici di un artista ispirato e quanto si deve all’ostinazione di una ricerca? «L'ostinazione e la fantasia mi sa che camminano quasi sempre affiancate», risponde: «Viste come strumenti di lavoro, potremmo anche pensare che una sia la matita e l'altra la gomma».

Mi domando, e gli chiedo, che effetto gli faccia quando sente parlare oggi di Paolo Conte, dell’opera di Paolo Conte, anche con dotte e articolate analisi. «Certamente l'applauso "intellettuale" mi fa piacere, ma mi creda, l'applauso che gradisco di più è quello "circense" che accoglie l'equilibrista in un abbraccio liberatorio».

Ogni tanto le voci che accoglie nelle sue canzoni parlano di tempo andato, perduto. Ma Conte ha sempre detto di non essere nostalgico. Come si difende dalla tentazione? «La nostalgia è un sentimento verso qualcosa della tua vita che rimpiangi e ti danni per farla rivivere. Ma, per la verità, le volte in cui posso essere sembrato nostalgico è quando rievoco e cerco di far rivivere qualcosa precedente della mia nascita. Come quando mi tuffo negli anni Venti del ventesimo secolo». Gli anni Venti per un jazzista contano parecchio, sono un magnete imprescindibile: ma anche gli attuali, quelli appena cominciati, potranno essere anni ruggenti? Conte, sul punto, risponde secco: «Non sono affatto ruggenti “questi” anni Venti. Emettono suoni meccanici, ottusi, squalificati. Il secolo attuale non mi suggerisce niente, staremo a vedere». 

Et alors, monsieur Conte, ça va? «Pour l'instant ça va, monsieur». 

·        Paolo Fox.

Da radiocusanocampus.it il 17 febbraio 2021. Paolo Fox è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino. Paolo Fox ha parlato un po' di se: "Con la notte ho una confidenza speciale, la notte ci fa vedere le stelle e io ci lavoro. Il mio rapporto con l'oroscopo? E' nato come una passione contraria, volevo sfatare il mondo degli oroscopi, non ci credevo, poi invece sono rimasto coinvolto. Parlo di quaranta anni fa. A sedici ho iniziato a studiare astrologia, non pensavo diventasse una cosa così importante nella mia vita, sono sincero. Quando avevo sedici anni io c'erano le prime televisioni private, non era neanche immaginabile l'idea di fare carriera con l'oroscopo. Era una vera passione la mia. Il mio motto è sempre 'non ci credete, verificate', perché è quello che faccio sempre, quando faccio gli oroscopi, parlo in televisione. Capita spesso che se un segno è forte, nell'anno in cui quel segno è valorizzato, personaggi di quel segno spiccano. L'anno scorso era fortunato per la Vergine e i primi due classificati a Sanremo erano Vergine. Amadeus è Vergine, ha fatto un successone e lo rifarà adesso con Sanremo. Dall'anno scorso questo segno va forte. Draghi è della Vergine. Quando capitano tante coincidenze di questo genere, un pensierino uno se lo fa". Paolo Fox, nel suo libro dedicato all'oroscopo del 2021, ha scritto che tra l'undici e il dodici in Italia qualcosa in Italia sarebbe cambiato. E in effetti è cambiato il Governo: "Grazie per averlo ricordato. L'anno scorso mi hanno attribuito una previsione che non avevo mai fatto sul 2020. Un fake. Questa invece l'ho fatta, l'ho scritta. L'undici c'è stata una fortissima concentrazione di pianeti in acquario, era inevitabile che qualcosa cambiasse, e sta cambiando ancora in tutto il mondo. Le vicende che stiamo passando stanno cambiando il nostro approccio alla vita. Stiamo vivendo una trasformazione importante, anche tecnologica e ambientalista". Sul primo oroscopo: "Facevo il liceo classico, utilizzavo come cavie tutti i miei compagni di scuola, ancora ricordo i loro segni zodiacali. Lì sperimentai tutta la situazione, poi andai avanti leggendo dei libri, facendo tante verifiche, l'ho sempre fatto in maniera molto spontanea e corretta, e infatti penso che se aiuti una persona con l'oroscopo poi bene o male anche tu sarai aiutato. Senza dimenticare che c'è anche chi è contrario agli oroscopi e non ama l'astrologia. Non voglio imporre nulla a nessuno". Sul Paolo Fox bambino: "Non ero il primo della classe, ero molto riservato, cosa che sono anche adesso. Non rilascio interviste a destra e a manca, sono molto umile e riservato e dico sempre che la solitudine che oggi sembra essere disprezzata, quando è sana, ti permette di capire meglio quello che vuoi e di stare meglio con gli altri". Sul rapporto con i social: "L'impatto che stanno avendo sulla nostra vita non mi piace. E infatti per ora io non sto sui social. Gli hater? Esistono nel momento in cui sei in tv, tra invidia, voglia di fare polemiche, quelli ci sono sempre. Il rapporto con la popolarità? Ho sempre avuto una vita abbastanza appartata e tranquilla. Quando esco e vado in giro la battuta sull'oroscopo me la fanno tutti, ma visto che non sono un mago, non voglio imporre nulla, le persone con me si comportano in un certo modo". Sugli esordi in tv: "Ho iniziato con Fabrizio Frizzi nel 1998. Ho lavorato con Fabrizio Frizzi, fu lui a chiamarmi, Carlo Conti, Amadeus, Mara Venier, Giancarlo Magalli. Ho iniziato con Frizzi, ho un ricordo meraviglioso di Fabrizio, era una persona splendida. Ho avuto una carriera unica, non credo altri astrologi abbiano lavorato con tutti questi personaggioni. Per questo credo che entro nelle case della gente come se fossi un familiare, un parente. Diventi uno di casa, dopo tanti anni è inevitabile". Su come la sua famiglia accolse l'idea di diventare astrologo: "Malissimo! Per me è sempre stato un hobby, avevo un altro lavoro, non ci pensavo a questa cosa. Però quando dovevo studiare e toglievo del tempo allo studio per leggere libri di astrologia, mia madre si arrabbiava. Poi però gli studi li ho finiti, sono stato bravo. C'era una visione diversa del mondo, all'epoca il sogno di ogni famiglia era avere un figlio che lavorasse in banca, o avvocato. Per fortuna non ho fatto un lavoro che non mi sarebbe piaciuto. Sono acquario, gli acquari sono spiriti libri, dietro una scrivania tutto il giorno non avrei resistito". Sul futuro: "Come sto? Piuttosto bene, devo fare i conti con delle scelte di vita, perché arriva un certo punto che nella vita devi pensare a cosa vuoi fare davvero. Vorrei fare un viaggio, muovermi, ma con questi problemi che ci sono penso che dovremo rimandarlo. Temporeggio". Amore, lavoro, salute, soldi. Cosa gli chiedono gli italiani quando lo incontrano per strada: "Gli uomini mi chiedono del lavoro, le donne dell'amore. Gli uomini hanno un rapporto meno romantico, pensano molto alla carriera. Le donne invece spesso si trovano ingarbugliate in situazioni sentimentali particolari. Questa forse è l'unica cosa che non è cambiata negli ultimi quarant'anni. La donna forse ha una sensibilità superiore rispetto a un uomo".

·        Paolo Rossi.

Emilia Costantini per il "Corriere della Sera" il 28 luglio 2021. «Quella sera al Derby di Milano, locale molto borderline, me la sono vista brutta. Un tizio del pubblico, che era ubriaco, mi punta la pistola perché non lo stavo facendo ridere. Io ho reagito da vigliacco: sono rimasto fermo a guardarlo. E lui mi dice: sentiamo la prossima battuta se mi fa ridere. E io rispondo: lo spettacolo è finito, grazie e arrivederci... Insomma, non potevo rischiare di non farlo ancora ridere e di morire per una battuta poco divertente...». Paolo Rossi non sarà coraggioso, come dice lui, ma non si sottrae alle sfide. Per esempio, quando voleva affittare un barcone, reclutare una quarantina di attori del Senegal che conosceva, fare la parte dello scafista albanese e andare sul Lago di Garda:

 «Avevo intenzione di approdare a Salò e chiedere agli stupefatti abitanti del luogo: scusate, è questa Lampedusa? Per vedere l'effetto che fa».

Uno dei suoi primi successi in palcoscenico lo riscosse in «Nemico di classe» di Nigel Williams, nel ruolo di un naziskin: che cosa accadde?

 «Eravamo in un teatro a Pordenone. Io recitavo un monologo razzista, ovviamente con tanta autoironia: era una lunga invettiva, assolutamente comica, contro i meridionali, i diversi, i neri... ma gli spettatori mi applaudivano ad ogni battuta come se fosse un comizio. Allora mi sono fermato e, rivolto alla platea, ho detto: i meridionali faranno pure schifo, così i diversi, come i neri, ma la peggiore gente che ho mai conosciuto in vita mia, l'ho incontrata in questo teatro... e potete andarvene tutti». 

La reazione del pubblico?

«Resta fermo, non accenna ad andarsene e io ripeto: non so se avete capito, ve ne dovete andare! A quel punto si scatena la rissa, però il giorno dopo c'era la fila al botteghino, tutti curiosi di vedere lo spettacolo». 

A causa delle sue invettive, lei è stato spesso censurato in tv. Il censore era Silvio Berlusconi?

«Certo! Fui censurato con il discorso di Pericle sulla democrazia ad Atene ripreso da Tucidide, poi con un Molière che non era il "malato immaginario", bensì il "medico immaginario" e il suo assistente si chiamava Previto: dissero che avevo usato un linguaggio blasfemo, che poi non c'entrava niente la blasfemia, e ci fu una causa...che ho vinto. Infine, venni quasi scomunicato dall'Arcivescovo di Carpi per Operaccia romantica , perché considerato sacrilego... Tuttavia, devo dire che l'ex premier per noi comici era una gallina dalle uova d'oro, perché era dotato di una sua comicità involontaria e noi guadagnavamo senza faticare, bastava che ripetessimo le sue battute... un giochetto anche abbastanza umiliante per chi crede nella satira».

Perché?

«Nel caso del Berlusca, la gente rideva, applaudiva e poi lo votava, quindi ti ponevi il problema: forse ho sbagliato bersaglio. Ma la questione non riguarda solo lui: dalla metà degli anni 90, i politici in genere hanno cominciato a capire che gli spettacoli di noi comici li rendevano visibili e ci lasciavano fare. Poi hanno cominciato addirittura a farci i complimenti e persino ad imitarci». 

Quale politico si è complimentato con lei?

«Ne voglio ricordare uno tanti anni fa: Francesco Cossiga. Mi arrivò una sua telefonata complimentosa, ma feci finta di non essere io al telefono, perché temevo che, oltre ai complimenti, mi avrebbe sciorinato una serie di suggerimenti su come interpretare meglio la sua parte in scena e avrei dovuto pagargli i diritti d'autore. Invece un politico, autentico genio dell'ironia, era Giulio Andreotti, una specie di Buster Keaton». 

E qual è lo stato di salute della satira oggi?

«Una missione impossibile: fare l'imitazione di una imitazione non ha senso. Io imito il potente di turno quando lui è già nella società dello spettacolo in cui siamo tutti immersi, lui sta già recitando un ruolo, un'imitazione di sé stesso e imitare un imitatore significa fare la parodia della parodia. Oggi il Parlamento non è forse la parodia di sé stesso?». 

Però lei continua a fare teatro.

«Cerco di fare teatro popolare, che deve tornare a essere un'assemblea, un rito collettivo come ai tempi dei greci, una sfida, un azzardo fuori dal coro, dai circuiti tradizionali. Si può mettere in scena Shakespeare in un bar, in un cortile... Solo così il teatro torna a essere "pericoloso", a fare paura e serve a qualcosa, ma non in streaming per carità». 

«Meglio dal vivo che dal morto», come recita il titolo del suo libro edito da Solferino? «Esatto! Bisogna reinventare il rapporto col pubblico, invogliare la gente a esserci, sia pure con le mascherine». Ma come e perché, da perito chimico qual era, ha intrapreso la strada da attore?

«Provengo da una famiglia di teatranti. Non i miei genitori, ma mio nonno recitava con Rosso di San Secondo, mia zia vinse il campionato delle filodrammatiche. Io a 13 anni chiesi al nonno di farmi un'audizione, lui me la accordò ma andai malissimo e fu lapidario: il tuo futuro è la chimica, un impiego dignitoso. E così feci, anche se la mia passione restava quella di recitare. Ho imparato il mestiere prima per strada, poi con la compagnia milanese dei marionettisti Colla e in seguito ho incontrato maestri particolarissimi come Dario Fo, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Giorgio Strehler...». 

I loro maggiori insegnamenti?

«Beh, Dario non era tagliato per fare il pedagogo, però era molto generoso nel lasciarsi rubare le sue tecniche attoriali, e questo era il suo metodo di insegnamento: mi ripeteva spesso che in teatro è importante la differenza tra rubare e copiare, perché rubare è geniale, in quanto ci metti del tuo, mentre copiare è da coglioni. Poi ho scoperto che questa frase Dario l'aveva rubata a Picasso, e ora che sono morti entrambi, la faccio mia. Enzo, era un pedagogo nato: 7 anni di lavoro con lui e ho imparato tutto. Strehler mi sembrava quello più lontano da me: era colto, con una poetica pazzesca e nei suoi confronti nutrivo una forte soggezione. Mentre lavoravamo all'"Arlecchino" goldoniano, che avrei dovuto impersonare nello spettacolo da lui diretto, e che poi non ho mai fatto, dopo due mesi di prove a casa sua, mi fece capire che il mio Arlecchino era quello senza maschera, più legato alla mia originalità e non a quella del testo. La verità è che io ho continuato sempre a dividermi tra palcoscenico e marciapiedi. Lei pensi che, mentre ero a recitare a Torino, cominciai a frequentare un campo Rom». 

Per quale motivo?

«Sono affascinato dagli emarginati, dai clochard con cui parlo spesso: io stesso come attore faccio parte di questa categoria, infatti un tempo ci seppellivano in terra sconsacrata. E così ho chiesto la cittadinanza ai Rom, ma il presidente di quella associazione, mi ha risposto: non esiste la cittadinanza Rom, al massimo possiamo prestarti una roulotte».

Così trasgressore delle regole tradizionali, che padre è per i suoi tre figli? «Non so se sono un buono o un cattivo padre. Certamente ho delle colpe che derivano dal mio mestiere girovago. Comunque i miei due figli maschi e una femmina, la cui età oscilla tra i 18 e i 31 anni, se la cavano piuttosto bene... i tre fratelli vanno d'accordo». 

Hanno seguito le sue orme?

«Non sono attori: la ragazza è brava a scrivere, uno fa il musicista e l'altro il regista e, insieme ad altri giovani, hanno creato il "Terzo Segreto di Satira", un collettivo di videomaker satirici». 

A proposito di fratelli: è vero che lei è stato scambiato per il fratello del calciatore Paolo Rossi?

Ride: «Percorrevo la Bologna-Cesena. Una pattuglia della stradale mi ferma per un controllo e, quando leggono il mio documento, mi chiedono se ero fratello del calciatore. E io ho risposto: secondo voi uno ha 12 figli e li chiama tutti allo stesso modo?». 

Questa sera sarà protagonista del suo nuovo spettacolo «Stand up Omero», con la regia di Sergio Manfredi, al Festival di Teatro Antico di Veleia diretto da Paola Pedrazzini. Di che si tratta?

«È una cavalcata nell'Odissea in 60 minuti. Tutti i ventiquattro canti del poema omerico sono raccontati in un'ora. L'importanza del racconto è fondamentale per portare un conforto laico alle persone. Per me Omero forse non è mai esistito, probabilmente era il nome di una cooperativa di cantastorie. O forse tutta la storia dell'Odissea è nata da una necessità di Ulisse, che l'ha commissionata ad Omero perché non sapeva come giustificarsi con sua moglie dopo aver impiegato dieci anni per tornare a casa. Insomma, quelle storie sono eterne, parlano di natura umana». 

Il Teatro di Veleia è all'aperto: e se stasera dovesse piovere?

«Qualche anno fa mi è successo proprio a Veleia: la platea era esauritissima e, quando comincia a piovere, io vengo assalito da una sorta di trance, un'estasi agonistica e, forse usando le parole del Prospero shakespeariano, ordinai al cielo di fermarsi: e la pioggia si fermò. Il giorno dopo, l'episodio finì sui giornali locali a titoli cubitali: Paolo Rossi ferma la pioggia. Pensai: adesso mi chiameranno anche per salvare il raccolto dalla grandine». 

In altri termini, un comico mago?

«Beh, ho una certa predisposizione. Diceva Orson Welles: un mago è un attore che fa il mago. E io aggiungo: qualche volta ci riesce».

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2021. Un flusso di coscienza comico, onirico, magnetico, fatto di tante storie vere o verosimili, forse palesemente false. Paolo Rossi ci ha scritto un libro ( Meglio dal vivo che dal morto , edito da Solferino, disponibile da domani). Paolo Rossi, che in un'assemblea, negli anni 70, ha proposto una mozione e poi ha votato contro. Paolo Rossi, che ha lavorato per Mediaset ma erano soldi del demonio e dunque li ha distrutti in un viaggio in Polinesia. Paolo Rossi, che si chiede perché San Paolo ha scritto tutte quelle lettere ai Corinzi.

Ma soprattutto, perché i Corinzi non gli hanno mai risposto? Gioco di specchi, tra verità e finzione.

«Non è un libro autobiografico, è un modo di raccontare in cui non capisci mai quante verità ci sono. Non quante bugie. Ma quante verità... Prima di studiare teatro ho fatto sociologia, Goffman parlava della vita quotidiana come rappresentazione. Recitare ti salva la vita, ma la differenza è se sai recitare bene o male».

Paolo Rossi piazza Hitler in paradiso e Gandhi all'inferno.

«È il gioco del senso inverso, il mondo alla rovescia mi affascina. Questo è un libro popolare, mi piace definirmi di Serie B, perché io voglio giocare in alto, ma in Serie B, mi trovo meglio e mi sento più a posto con me stesso. Il mio sogno è fare il Cammino di Santiago di Compostela, ma partendo dalla cattedrale, in senso opposto a quello dei pellegrini, così quando li incrocio gli rovino la sorpresa dell'arrivo. Come quelli che trovi all'uscita del cinema mentre entri e li senti dire: mah, pensavo meglio».

Dice che i «vincitori di sinistra non si vedono neanche nei sogni». Zingaretti ha concluso la sua parabola da Barbara D'Urso, Letta ha iniziato parlando di ius soli. Non si sa se è la luce in fondo al tunnel o un treno.

«Nella società dello spettacolo loro sono le star, la gente chiede più selfie a loro che a noi comici. Li considero dei colleghi, con un tocco di invidia perché lavorano piu di me. Una battuta umoristica detta da loro in un talk show vale più di qualunque contenuto. La politica è un'altra cosa».

Riesce a essere ancora di sinistra?

«Sono un anarchico gentile, un estremista di buonsenso, un giacobino non violento, sono per la ghigliottina teatrale, con la lama che si ferma a due centimetri dal collo. Me lo posso permettere perché faccio questo mestiere. Se fossi un operaio...».

Sarebbe leghista?

«Forse rischierei, dovrei rifletterci. Per me essere anarchico è un dovere».

Scrive che il ministro Franceschini non ha attenzione per la cultura.

«Lui privilegia i musei e non gli attori ma è giusto, perché le statue non devono pagare il mutuo e non rompono le scatole, quindi ha ragione».

Sulla fascetta che avvolge il libro c'è una scritta, «Non avrei potuto scriverlo meglio». Firmato Shakespeare. Lui è la sua Beatrice, la musa che ispira.

«Shakespeare tra i cantastorie è il dio dei ladri, è uno stimolo, un riferimento costante. Circolano innumerevoli leggende su di lui, che fosse il filosofo Francis Bacon, o forse il drammaturgo Christopher Marlowe, o una cooperativa di scrittori. Ne sono state dette talmente tante che magari ci becco io con la fascetta».

Il politicamente corretto è la morte della comicità.

«È una posizione ricattatoria, io del resto sono scorrettissimo. Ho fatto uno spettacolo in cui c'erano degli attori africani, arriva uno e mi rimprovera: però gli hai fatto fare la parte dei neri ...».

E la pandemia?

«Quello che stiamo vivendo lo hanno intuito prima gli scrittori di fantascienza che gli scienziati, scrittori popolari, di Serie B, da Philip Dick in poi. Se uno 10 anni fa avesse detto: vedo l'Italia in zona rossa, un militare che organizza la sanità, il coprifuoco... Gli avremmo dato del paranoico. Ma a volte i paranoici hanno ragione. È per questo che la psicanalisi andrebbe rifondata».

·          Paolo Sorrentino.

Paolo Sorrentino: lettera a mia madre. Paolo Sorrentino su La Repubblica il 3 Dicembre 2021. Il regista dedica il suo ultimo film,  "È stata la mano di Dio", alla sua mamma, che non c'è più. "Per dire quello che non ho potuto dire. E per chi può, ho un solo consiglio: ditelo". Chissà se, nell’aldilà, è consentito andare al cinema. Così mia madre potrebbe vedere la lettera che le ho scritto, attraverso questo film. La lettera che sosta tutti i giorni nell’anima dei figli diventati grandi. Dove scriviamo, col pensiero e con le parole che non abbiamo detto, quella meraviglia che è stata o non è stata, ma che sempre rimarrà nella nostra vita sentimentale, l’idea di meraviglioso. Abbiamo avuto madri meravigliose e da ragazzi non lo sapevamo.

Lettera di Paolo Sorrentino A “D-Donna Repubblica” il 5 dicembre 2021. Chissà se, nell'aldilà, è consentito andare al cinema. Così mia madre potrebbe vedere la lettera che le ho scritto, attraverso questo film. La lettera che sosta tutti i giorni nell'anima dei figli diventati grandi. Dove scriviamo, col pensiero e con le parole che non abbiamo detto, quella meraviglia che è stata o non è stata, ma che sempre rimarrà nella nostra vita sentimentale, l'idea di meraviglioso. Abbiamo avuto madri meravigliose e da ragazzi non lo sapevamo. Coltivavano pedagogie traballanti, fameliche di sensi di colpa. Mia madre, per esempio, nei momenti di conflitto, era solita dire: "Quando non ci sarò più, soffrirete tantissimo". Non volevamo crederci, perché rifiutavamo il concetto di scomparsa. Invece, naturalmente, è stato così. Come poteva essere altrimenti. Era uno squarcio di cattiveria gratuita e in buona fede. D'altronde la cattiveria tende a essere sempre gratuita. Ma era un altro mondo. Mia madre era sbrigativa ma molto affettuosa. L'ironia era il sollievo per qualsiasi problema. Ai primi sintomi di adolescenza, quando si cominciava a frequentare, con quella gravosità affranta, la profondità, mia madre ricorreva a uno strumento irritante: minimizzava. Da adulto, ho compreso. Mi è parsa l'unica strada. Minimizzare. Non è utile, ma è difficile rintracciarne altre. Oggi l'educazione dei figli è una missione. Per la generazione di mia madre era solo un altro fardello che la vita imponeva. Eppure, era tutto amore. Ma l'ho capito dopo. E quando ho avuto le parole per dirglielo, lei non c'era più. Per questo mi piace pensare, con un'ingenuità da bambino profondo, che nell'aldilà si possa vedere un film. Per dire quello che non ho potuto dire. E per chi può, ho un solo consiglio: ditelo. A costo di essere ridicoli, sentimentali e pieni di lacrime. È necessario, per diventare grandi, passare attraverso le porte del ridicolo e del pianto. Il pianto degli adulti. L'unico modo, per una madre, di ritrovare, davanti a sé, il bambino meraviglioso che tutti siamo stati. 

È stata la mano di Dio: quello che è vero e quello che è inventato nel film di Paolo Sorrentino. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 3 dicembre 2021.

Un film evento. Un film monumento “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino. Un’opera spartiacque della sua filmografia ispirata alla sua biografia. Quanta finzione c’è nella sua verità?

Proviamo a far luce sull’opera chiave di un grande regista.

I GENITORI

Mamma Concetta “Tina” e papà Salvatore detto “Sasà”, quest’ultimo grande tifoso del Napoli, e soprattutto dell’allenatore Louis Vinicio. Quando lo mandarono via, Sasà smise di andare allo stadio. Ha detto Servillo che interpreta il papà “Paolo non ci ha mai chiesto di essere esattamente quello che è conservato nel privato della sua memoria. Ci ha dato qualche spunto”. I Sorrentino vivevano al Vomero, nello stesso palazzo in cui è stato girato il film.  Le riprese sono state effettuate al piano di sotto di casa Sorrentino. Il cognome è stato cambiato nel film in Schisa. I nomi dei genitori sono stati ribattezzati Saverio e Tina.

LA TRAGEDIA DI ROCCARASO

I Sorrentino avevano una casa a Roccaraso, in cui si consumò la morte che il film ripercorre con la tragedia da monossido di carbonio che uccise i genitori del regista. Paolo doveva andare con loro. Ma ottenne la prima volta il permesso di poter andare in trasferta con degli amici a vedere il Napoli ad Empoli. Ha raccontato in passato Sorrentino: “Citofonò il portiere. Pensavo mi avvisasse che era arrivato il mio amico a prendermi. Invece mi avvertì che era successo un incidente”.

MARADONA

Paolo Sorrentino ha visto Maradona come giocatore nel suo splendido periodo napoletano. Come tutti i napoletani tifò Argentina nella partita al San Paolo contro l’Italia. Ha detto il regista “Quando io e mio fratello lo vedemmo in strada il mondo che in quel momento passava si fermò davvero”. Sorrentino afferma di aver visto Maradona all’angolo tra corso Piave e viale Europa. Due versioni sull’incontro con l’idolo che gli salvò la vita. La prima: “Ci siamo incrociati solo una volta, un momento così rapido, pieno di gente e giornalisti intorno. Non c’è stata mai l’occasione di parlare a lungo con lui” e in un’altra intervista afferma: “Maradona non l’ho mai conosciuto: gli ho parlato pochi secondi, quando mi chiamò sull’aereo che stava per decollare da Los Angeles dopo l’Oscar (a lui dedicato), con la hostess che mi diceva di spegnere”. A Maradona Sorrentino aveva già dedicato un cameo nel film “Youth”.

L’ARRIVO DI DIEGO E L’ABBONAMENTO

In una scena molto bella di “E’ stata la mano di Dio”, il papà di Fabietto viene svegliato da un collega d banca che ha trasferito la somma a Ferlaino per comprare Maradona. L’episodio è frutto di inventiva. La vicenda raccontata da Sorrentino a “So fot” andò invece in questo modo: “«Era l’estate dei miei 14 anni e mi trovavo in vacanza da solo in Inghilterra. Chiamavo a casa ogni tre giorni e uno di questi giorni mio padre mi disse che il Napoli aveva comprato Maradona. Poi fece una pausa – era un uomo che manteneva sempre un certo distacco – e mi disse: “Ho già fatto gli abbonamenti per l’anno prossimo”».

FELLINI

L’Oscar de “La grande bellezza” è stato anche dedicato a Fellini. Nel film il fratello di Fabietto che voleva fare l’attore viene accompagnato a fare un provino del grande regista, cui si sente la voce. L’episodio è vero, Fellini infatti era solito fare casting a Napoli in cerca di facce. Il film in preparazione dovrebbe essere “Ginger e Fred”.

CAPUANO

Un momento topico del film è l’incontro con il regista napoletano, che è stato un mentore di Sorrentino che dice al riguardo: “Nel film il dialogo con Capuano è una combinazione delle molte conversazioni che abbiamo avuto, non soltanto lavorando insieme, ma anche nel corso della nostra lunga amicizia”. Su Youtube è reperibile un simpatico siparietto tra Sorrentino e Capuano al cinema Troisi di Roma sul loro primo incontro

LA SORELLA DANIELA

Nella vita reale, figura molto amata dal regista. Si chiama Daniela. Subito dopo la tragedia, andò a vivere per un anno con i fratelli. Poi Paolo decise di vivere da solo. Nel film è una voce dal bagno. Il regista ha spiegato così la sua scelta artistica: “Nei miei ricordi d’infanzia, mia sorella trascorreva letteralmente delle ore chiusa a chiave in bagno. La mia impressione era che si stesse sempre facendo bella per uscire, che si stesse sempre preparando…”

LA ZIA PAZZA E SOGNO EROTICO

Il sogno erotico del protagonista del film, alter ego del regista, è la zia Patrizia, una strepitosa Luisa Ranieri. Ad una domanda del Messaggero se il personaggio fosse reale l’attrice ha risposto: «A Sorrentino non l’ho chiesto per rispetto della privacy, né lui mi ha fornito troppe indicazioni, a dire la verità. Io ho allora interpretato Patrizia come se fosse una donna reale dotata di una grande immaginazione e piuttosto depressa”.

LA PRIMA VOLTA CON LA BARONESSA FOCALE

Fabietto perde la verginità con la vicina di casa, la baronessa Focale interpretata da una magnetica Betti Pedrazzi. Sul punto il regista dichiara: “È un episodio inventato, ma al tempo stesso reale per le emozioni che provavo in quel periodo della mia vita. Io ho avuto un’iniziazione sessuale più convenzionale, ma questa scena è, come lo sono altre nel film, una rielaborazione di cose che sono successe a me o a persone che conosco”. 

Estratto dell'articolo di Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 3 dicembre 2021. «L'inadeguatezza dell'uomo a stare al mondo», che poi si può esprimere con strumenti in apparenza contraddittori, come l'ironia e la malinconia. È questo il filo che lega Paolo Sorrentino a Federico Fellini, secondo lo stesso regista della Grande bellezza , che mercoledì sera ha aperto la retrospettiva dedicata dal MoMA di New York, Museum of Modern Art, al maestro della Dolce vita. Un'occasione coincisa con la presentazione in America di È stata la mano di Dio , il film che rappresenta quest' anno l'Italia agli Oscar, che contiene proprio una citazione dell'ispirazione esercitata da Fellini sul giovane Sorrentino, quando spiava le riprese di un suo film a Napoli. Paolo ha confessato subito il suo imbarazzo per i paragoni con Federico che lo inseguono da sempre. In particolare qui negli Stati Uniti, dove magari sarà un luogo comune, ma tutti i nuovi registi italiani devono aspettarsi di essere misurati rispetto al maestro. Deadline , giusto per fare un esempio, ha scritto che È stata la mano di Dio è "l'Amarcord " di Sorrentino. «Voglio subito chiarire una cosa», ha detto lui aprendo la rassegna del MoMA: «Fellini era un genio. Tutti noi venuti dopo, incluso me, siamo solo dei volgari imitatori». (...) Proprio la battuta però, come uno sgambetto di Petrolini, ha offerto a Paolo la scorciatoia per farsi serio e spiegare che in effetti un legame c'è, oltre alla superficiale sovrapposizione delle immagini dei suoi film a quelle di Federico, magari solo perché girate nella notoria Roma irriverente, edonista e disperatamente sguaiata: «È l'inadeguatezza dell'uomo a stare al mondo», che poi sarebbe a maggior ragione attesa in un ragazzo diventato orfano all'improvviso, come Sorrentino nella vita reale, e l'alter ego Fabio Schisa nel suo ultimo film. La grandezza di Fellini, però, sta proprio nella capacità di interpretare questo disagio con trucchi in apparenza contraddittori: «L'ironia, che pervade quasi tutti i suoi film», al punto che secondo Paolo sarebbe ora di riconoscere a Federico di aver inventato pure la commedia all'italiana, o quanto meno di averle aperto la porta, ammesso che poi qualcuno degli epigoni potesse mai sperare di imitare la qualità del suo umorismo. (...)

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 24 novembre 2021. «Gli amici sono persone che ti fanno anche regali», e Maradona era suo amico «anche se non l'ho mai conosciuto», perché «regalava arte». E che fosse un artista «non c'è dubbio: regalava arte calcistica come Pino Daniele regalava arte musicale e Massimo Troisi arte cinematografica. Perciò sono stati e restano amici di tutti quelli che li hanno amati». E Paolo Sorrentino, al pari del Fabietto Schisa di È stata la mano di Dio, Maradona non soltanto lo ha amato, ma lo ha anche aspettato e sognato. E poi lo ha visto: al San Paolo, dove poteva vederlo chiunque avesse l'abbonamento o il biglietto, ma anche altrove. Perché in quei sette anni tra il 1984 e il 1991 Napoli si divideva tra chi Maradona l'aveva visto per strada e chi sperava di vederlo. E lui lo aveva visto. A un incrocio tra due strade che forse nemmeno tutti i napoletani conoscono, ma se le ricorda benissimo: «Era all'angolo tra corso Europa e via Piave. E chi se lo dimentica più». Di quegli anni e di quel campione, Sorrentino ha ricordi condivisi e ricordi personali. Dei primi fa parte il clima di Napoli, «città che ha per indole stare sempre al centro dell'attenzione, e lui fece sì che l'attenzione fosse per qualcosa di positivo», e offrì ai napoletani un motivo per gioire, festeggiare, sognare un traguardo irraggiungibile da sempre. Ma della memoria collettiva fa soprattutto parte l'incanto di veder giocare Diego: «Fu chiaro da subito che avesse un altro passo, e questo lo pose in una posizione semidivina. Faceva cose che ancora non hanno una spiegazione». Il gol contro la Juventus su punizione dall'interno dell'area, per esempio. Un colpo che nessuna legge fisica riterrebbe possibile. «Quello è il più famoso, ma c'è anche altro. Ricordo certi pallonetti in cui la traiettoria non era quella di una parabola, ma il pallone saliva e poi scendeva prendendo la direzione della porta. Come se disegnasse due cateti di un triangolo». Condiviso è anche il ricordo della fisicità di Diego, «che pure lo rendeva mitico perché completamente in contrasto con la straordinarietà dei gesti», e quello della «dimensione tragica dell'uomo fuori dal campo», che però non condizionava il calciatore: «Per me la differenza è tra chi desta meraviglia e chi no. E Maradona ha sempre destato meraviglia». Ma nei ricordi personali neppure uno come l'argentino riesce a essere fonte di gioia, di entusiasmo, di festa. «In effetti me lo sono goduto davvero nei suoi primi anni a Napoli, quando ogni domenica andare allo stadio era una esperienza entusiasmante già prima di arrivarci. Scendevamo a piedi dal Vomero fino a Fuorigrotta, attraversando rigorosamente una scorciatoia di campagna. E lungo la strada passavamo a prendere una signora che di calcio non capiva niente ma avevamo eletto a nostro portafortuna, e quindi ogni volta doveva esserci anche lei con noi. È stato sempre così, dall'84 fino all'87». Ma non nel giorno dell'apoteosi, quel 10 maggio che segnò la vittoria del primo scudetto e una intera città si colorò di azzurro e di felicità. «I miei genitori erano morti da circa un mese. Non partecipai alla festa, in quel periodo non pensavo al Napoli né a Maradona». E neppure il secondo scudetto, quello della stagione 1989-90, lo avrebbe coinvolto più di tanto. Paolo Sorrentino, ormai si sa, deve la vita a un incrocio del destino che ha a che fare proprio con la passione e la fede calcistica. Se non avesse già avuto in programma di seguire il Napoli in trasferta a Empoli, sarebbe andato con i genitori a Roccaraso, e probabilmente il monossido di carbonio sprigionatosi dal camino della casa di montagna avrebbe ucciso anche lui. Quella improvvisa tragedia segnò inevitabilmente sotto molti aspetti il percorso della sua esistenza e segnò anche la sua storia di tifoso. «Il Napoli era una cosa che condividevo soprattutto con mio padre. Senza più lui me ne allontanai. E poi lasciai la città, cambiai vita. E quindi nemmeno la vittoria del secondo scudetto la sentii con particolare intensità. Perciò sto ancora aspettando che il Napoli diventi per la terza volta campione d'Italia. Per goderne come avrei voluto tanti anni fa». Se accadrà, stavolta Diego Armando Maradona sarà soltanto il nome dello stadio che un tempo si chiamava San Paolo. Ma solo per gli almanacchi e gli annuari. Non per il cuore dei tifosi. Non per il cuore del tifoso Paolo Sorrentino: «Maradona resta sempre, e il suo ricordo fa parte di quelli dai quali non si esce mai. In realtà nella vita si rincorre per anni l'età adulta e poi a un certo punto ci si ferma, ed è in quel momento che si ritorna puntualmente all'assillo del ricordo e al dolore per un passato che non c'è più. E la nostalgia di Maradona in fondo è proprio questo: ricordo di gioia e dolore che non ci sia più».

Marcello Veneziani per “La Verità” il 26 novembre 2021. Eduardo Fellini devoto a Maradona. Questo, in sintesi, il biglietto da visita che esibisce Paolo Sorrentino nel suo nuovo film È stata la mano di Dio, uscito ieri nelle sale cinematografiche. Sono quelli i suoi tre santi protettori, i suoi numi tutelari e si sentono tutti e tre. Perché vi parlo di un film, io che di solito non scrivo critiche cinematografiche? Sì, è un bel film, per metà brioso e spassoso, per metà intristito e forse sfarinato, non so se definirlo un capolavoro ma non è per questo che ve ne parlo. Sì, è come se La grande bellezza, il capolavoro «romano» di Sorrentino, diventasse ora a Napoli La grande umanità; ma anche questo non basterebbe per parlarne fuori dalle recensioni. Sì, parla della sua e della nostra autobiografia giovanile, nell'era di Wojtyla e Maradona, per citare i due papi stranieri di Sorrentino. È il famoso gol con la mano del Pibe de oro a dare il titolo al film e a segnare il destino del protagonista-regista. E non c'è, grazie a Dio, nessuno degli ingredienti d'obbligo dei film odierni, in termini di figure, episodi e riverenze ai soliti moloch corretti, i generi e le loro fobie. C'è, sì, un padre comunista, per mettersi in regola col Canone, ma è un dettaglio e fa perfino simpatia nel contesto familista napoletano. Ma del film di Sorrentino non vi parlo per quel che vi ho detto o se volete ve ne parlo per tutto questo messo insieme. Che però fa da contorno e da corona, un po' come i cerchi concentrici che si formano nell'acqua quando butti un sasso. Ma qual è il sasso, qual è l'origine del moto intorno a cui ruota il film autobiografico del regista? Qual è il sasso scagliato che anima l'acqua, il «sinolo», per dirla con Aristotele, ossia il sostrato che tiene tutto il film e dà un senso, una forma e uno sviluppo? È la cosa più antica al mondo, il legame primario di un figlio coi genitori e la famiglia, sullo sfondo di una città speciale, nel bene e nel male. È il legame essenziale del figlio con suo padre e con sua madre, che sono le figure più riuscite del film. Anzi, a essere precisi, il sasso che produce le onde del film è la loro perdita traumatica per un'esalazione di monossido di carbonio nella loro casa di Roccaraso, quando Fabietto, in realtà Paolo, era ancora un ragazzo. E non glieli fanno vedere da morti, i suoi genitori, e a lui resta prima la rabbia e poi il dolore che dura tutta una vita e lo spinge all'arte, al cinema. Sarà quella la sua cosa da raccontare, la pietra che gli brucia dentro, il punto cruciale della sua identità. Lo dice anche lui nel film, il protagonista e regista in fieri, quando spiega cosa lo spinge a «fare il cinema». È qui, proprio quando il racconto si fa strettamente personale, che diventa universale, perde colore e acquista autenticità e tocca ciascuno di noi. L'evento decisivo è la perdita dei genitori; che si fa più acuto quando è così traumatica, improvvisa e congiunta. Resta quello il cuore autentico della vita, il legame con tuo padre e con tua madre, la loro eredità genetica e affettiva, la loro parabola, da quando sono tutto per te - il mondo, il cielo e la terra - a quando sfumano, si fanno laterali e infine diventano assenti, per forza di sorte, e si riducono a un ricordo, un'impronta e una fotografia su una lapide. Il rapporto col padre e con la madre, anche quando è un rapporto mancato o polemico, determina la vita di ciascuno, ne dà un orientamento, sia per analogia che per contrappasso, a voler usare le categorie dantesche. Ovvero, sia che ne seguiamo i passi, li imitiamo, sia che li neghiamo, salvo poi ripercorrere i loro errori, le loro debolezze, le cose che gli abbiamo rinfacciato e da cui volevamo fuggire. Il rapporto con i genitori è il cuore della sua narrazione, è il messaggio che gli preme, la cosa che «tiene in cuorpo» e vuole dire attraverso l'arte, il cinema. Quel legame tiene unito il film, che poi si disunisce quando li perde entrambi: la prima metà del film, godibile e spassosa, è unita intorno alla famiglia e ai suoi quadretti; dopo la tragedia il film si slega, cambia tono e umore, s' immalinconisce, ne avverti il vuoto, appena riempito dalla proiezione individuale nei progetti futuri. È come se il vero sfiorisse il bello. Ma anche la disunità, a ben vedere, è frutto di quell'unità perduta: anche a contrario resta la chiave del racconto. Ma non solo del film, o della vicenda personale di Sorrentino; è la chiave di comprensione della vita. Quel rapporto dà unità, la perdita di quel rapporto disunisce; viviamo di loro e poi della loro perdita. Un po' come dice Ortega y Gasset di Dio, che brilla per la sua assenza: «Dio è l'immenso assente che brilla in ogni presente, e ci lascia soli con la realtà delle cose», «di lui vediamo solo la ferita che la sua essenza ci ha lasciato». Uso l'espressione disunire citando il film, in particolare il regista Capuano, che consiglia al giovane Fabietto, diventato Fabio, anzi gli grida più volte: «Non ti disunire». Non si comprende bene il senso, se non quello di non sfasciarti, non perdere coesione, non disperderti per scoramento, non abbandonarti. Ma la disunità è quasi inevitabile perché proviene da quella perdita irreparabile, da cui deriva il procedere frammentario, disorganico della vita. Ma è anche la chiave che spiega il film, che poi si disunisce, si slega; e alla fine non so sia un esito voluto e coerente o sia la trama che frana e si frantuma. Ma del suo racconto a noi resta il riflesso della nostra vita che si rispecchia nell'immagine di chi abbiamo perso.

Parla il Premio Oscar. Intervista a Paolo Sorrentino: “Le accuse di Le Figaro? Napoli si difende da sola”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 17 Novembre 2021. A vent’anni da L’Uomo in più, il premio Oscar Paolo Sorrentino è tornato a girare a Napoli È stata la mano di Dio, il film sulla sua adolescenza, la sua passione per Maradona e la perdita dei suoi genitori. Non poteva che essere Napoli dunque la città dove presentarlo in anteprima per inaugurare l’uscita in sala dal 24 novembre e su Netflix dal 15 dicembre. Emozionato, accanto ai suoi attori Toni Servillo, Filippo Scotti, Luisa Ranieri, Teresa Saponangelo, Sorrentino si dedica a raccontare il suo film che, dopo aver vinto il Gran Premio della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia è pronto per rappresentarci nuovamente agli Oscar.

Come si sente nel presentare il suo film nella sua Napoli

Avevo grande voglia di tornare a fare un film a Napoli, che la città fosse protagonista, e non tangente come ne L’uomo in più. Sono molto emozionato anche perché qui il film viene compreso in tutte le sue sfumature.

Com’è cambiato il suo rapporto con il dolore dopo aver raccontato la sua storia?

Parlare sempre di questo film come mi sta capitando in questi ultimi mesi ha fatto sì che il racconto del dolore sia diventato quotidiano e anche noioso. Racconto non più a me stesso ma agli altri e questo è di grande aiuto. Annoiarsi mi sembra una buona scorciatoia per non occuparsi più delle proprie pene.

I padri sono centrali nel film, sia quello interpretato da Toni Servillo che quelli cinematografici come Antonio Capuano.

Ho perso mio padre a 16 anni e mi è mancato il passaggio, nell’adolescenza, in cui vivi il conflitto e non è un caso che abbia incontrato Capuano con cui il conflitto è parte decisiva del rapporto. Quando gli raccontai il mio primo film L’uomo in più mi contraddiceva su tutto ma mi ha aiutato a fare un film migliore. Ho sempre cercato persone con le quali avere un rapporto autentico, così è stato anche con Toni Servillo fin dalle prime volte. Un rapporto basato sulla critica ha a che fare con una funzione paterna.

Che cosa pensa di come è stato accolto il suo film all’estero?

Penso che È stata la mano di Dio abbia una riconoscibilità immediata perché parla in maniera molto semplice e diretta di sentimenti che appartengono a tutti. Forse all’estero faticano a credere che alcuni personaggi possano essere reali e pensano che siano frutto di una messa in scena grottesca. Io invece spiego che noi napoletani sappiamo che tutto è possibile. Per ora, come speravo, si ride e si piange. Purtroppo, alla fine delle proiezioni spesso devo ascoltare da parte di molti spettatori dei lutti simili ai miei.

Le Figaro ha parlato di Napoli come terzo mondo, cosa sogna per la sua città?

Dato che non voglio entrare in discorsi politici e sociologici, non spero niente, mi sembra che Napoli se la cavi egregiamente da moltissimo tempo ed è pure difficile pensare a dei cambiamenti per una città che invece credo che chi viene da fuori declina a modo suo. Non è facile per questa città diventare altro da quel che è.

Nel film vediamo un set anni ‘80: che differenze ha riscontrato tra il girare a Napoli vent’anni fa e oggi che la città è diventata una mecca per il cinema?

È diverso perché quando io vedevo i set di Capuano e Martone da ragazzo tutto destava in me stupore e meraviglia, ormai da anni faccio questo lavoro e la meraviglia rispetto al set si è mitigata. Quando si gira un film non ho una percezione della città intorno, entro nella bolla del set.

Dopo l’Oscar a La grande bellezza, cosa si aspetta da questa nuova corsa alla statuetta?

Ho più consapevolezza del fatto che è qualcosa che non puoi controllare. Devi fare il lavoro e sperare, perché il percorso per arrivare all’Oscar è lungo, complicato e pieno di bei film e bisogna solamente vedere cosa succede.

Che messaggio c’è per i ragazzi che vedranno il film?

C’è, nonostante gli ostacoli, un’idea di futuro. Quando si è adolescenti specialmente in questo momento storico, uno può non vedere un futuro per sé e invece questo film vuole dire che un futuro c’è sempre anche se è invisibile a 17/18 anni.

È stata la mano di Dio è più essenziale. Lo ha richiesto il tema o è un cambiamento definitivo?

Ogni film richiede un suo stile, la cosa più importante era che venisse fuori la verità da parte dei personaggi e, per ottenerla, gli attori dovevano avere la percezione di essere liberi e non dovevano costringersi in uno stile che io adottavo prima, che li limitava molto. Toni ne sa qualcosa. Ho ammirato colleghi che facendo film semplicissimi ottenevano grandi risultati e ho deciso di provare anche io.

Quali sono stati i suoi riferimenti cinematografici in questo caso?

Questo film non ha molti riferimenti cinematografici ma, se ce ne deve esser uno, è Troisi regista. Il mio unico nume tutelare è stato lui e non Fellini.

Il protagonista esterna la difficoltà a perseguire la felicità. Qual è stato il suo giorno più felice?

Sono già felice di aver fatto il film, mi sembra abbastanza incredibile. Chiara Nicoletti

Teresa Ciabatti per "Sette - Corriere della Sera" il 23 novembre 2021. «Prendi quella che ti capita (…). Pure nu cesso va bene», dice Saverio Schisa (Toni Servillo) al figlio Fabietto (Filippo Scotti), riferendosi alla prima volta: «Bisogna togliersela dal cazzo ‘sta prima volta». Sprone, e insieme invito all’immaginazione, la vera eredità che i genitori lasciano a Fabietto, orfano a 17 anni. E forse anche l’eredità di Paolo Sorrentino, perché il suo ultimo film — È stata la mano di Dio, in uscita nelle sale il 24 novembre 2021 e su Netflix il 15 dicembre, acclamato a Venezia (vincitore del Leone d’argento) e candidato italiano agli Oscar — è autobiografico («per quanto può esserlo un film»). Che Sorrentino sia uno dei migliori registi viventi lo sapevamo da un po’. Che sia italiano è un orgoglio, che sappia costantemente rinnovarsi una sorpresa. Difatti questo è un film diverso dai precedenti, intimo, eppure suo, riconoscibile, quasi a dire che fin qui, tra gli interstizi delle altre opere, nei dettagli, quella storia personale è stata sempre evocata. Qual è allora l’origine dell’immaginario di questo artista unico che rappresenta la nascita del cinema contemporaneo italiano? È proprio lui a raccontarcelo, tornando indietro, laggiù — Vomero, quinto piano di una palazzina del Parco, condominio detto Il Parco sebbene di verde non ce ne fosse. Vomero, Napoli — 1987. 

Infanzia?

«Sono nato che mio fratello aveva nove anni, e mia sorella tredici. Eravamo sei con mamma, papà, e nonna». 

Nonna.

«Per un problema ai polmoni aveva bisogno di ossigeno. Ricordo un gran via vai di bombole. Salumiera nei Quartiere Spagnoli, a quel punto, chiusa in casa, era depressa, astiosa. Per esempio: aveva perso una figlia piccola. Se le veniva annunciata la morte di qualcuno, fosse anche violenta, tra i peggiori stenti, lei rispondeva: “E capirai, io ho perso mia figlia di tifo a undici anni”».

Competizione?

«Il suo era il lutto migliore». 

Suo padre?

«Bancario, incuteva soggezione. Se le amiche di mia madre venivano in visita di cortesia, al tempo si usavano le visite di cortesia, cercavano di andare via prima che rientrasse lui». 

Incuteva soggezione anche a lei?

«Dopo i grandi litigi mi proponevo di non salutarlo col bacio, impossibile. Ero piccolo però, non so cosa sarebbe successo se fossi diventato adulto. Magari sarei riuscito a non baciarlo. All’epoca l’unica a tenergli testa era mia sorella».

«Io origliavo: “Tu te ne devi andare”, gli diceva lei». 

Motivo?

«La Signora». 

Nella storia il padre ha un’amante.

«Nella vita da noi chiamata la Signora, tipo entità sovrannaturale. Con le parole si finiva per nobilitare la persona più odiata». 

La odiava?

«L’ho conosciuta dal notaio dopo la morte dei miei, questioni di eredità».

E?

«Con sensi di colpa enormi nei confronti di mia madre, mi è stata simpatica». 

Ha conosciuto anche suo fratello, quello di cui Fabietto scopre l’esistenza dopo la morte dei genitori?

«Sì». 

Gli adulti spingono il protagonista all’immaginazione, dal padre («prenditi quella che ti capita, pure nu cesso») alla baronessa del piano di sopra («non mi guardare, chiamami Patrizia»). Il valore dell’immaginazione che le è stato trasmesso?

«Un po’ per cultura napoletana, un po’ per indole dei componenti della mia famiglia, sono cresciuto tra gli aneddoti eccessivi, assurdi, inclusi quelli di guerra».

Esempio?

«Mia madre raccontava che, sfollata in campagna, un giorno arrivano i tedeschi per ammazzarli, il Generale vede la sua amica e ferma i soldati: “Questa bambina è identica a mia figlia morta” dice. Così si salvarono». 

Reale?

«Conta?». 

«La realtà è scadente»?

«Faticosa. La routine sempre in agguato». 

Altri racconti?

«Mia madre studiava dalle suore, le quali, quando portavano le ragazze al cinema, le rifornivano di spilli». 

Scopo?

«Infilzare gli uomini che nel buio allungavano le mani». 

Sua mamma ha usato lo spillo?

«Molto». 

Ancora come migliorativo della realtà: gli scherzi.

«Quelli telefonici, come quello del film, e quelli tipici da settimana bianca come il Guttalax nel bicchiere, che poi portava tutti gli altri, noi bambini inclusi, fuori dalla porta a ascoltare la vittima andare e venire dal bagno». 

In quegli anni: se avevi una pelliccia?

«La esibivi. A Roccaraso, e a Napoli, sebbene non facesse così freddo. Nei mesi estivi invece si portava dal pellicciaio, da mantenere in frigo».

Sua madre aveva la pelliccia?

«Ricordo le continue richieste con mio padre che rispondeva “noi siamo comunisti”. Alla fine vinse lei, arrivò il visone». 

Chi era sua madre?

«Se si spazientiva diceva “anima di quei quattro, venite quattro a quattro”». 

Significato?

«Mai saputo».

A 17 anni l’evento che cambia tutto: la morte dei suoi genitori. Un’immagine di Paolo Sorrentino prima?

«A sette anni mamma mi lasciava al cinema da solo per andare a vedere che combinava papà. Diceva torno subito. E io mi giravo continuamente per vedere se fosse tornata. In genere arrivava con la luce, a film finito». 

Paolo Sorrentino dopo?

«Imbambolato. Sa quando ti scippano per strada e tu rimani per dieci minuti così? Ecco, quei dieci minuti per me sono durati anni». 

Si è mai vergognato della parola orfano?

«Credo di non averla mai usata, mi sembrava l’emblema della cattiva sorte».

Come il protagonista che appena la dice va sott’acqua?

«Come lui». 

Gli animali nel suo cinema?

«Molti tendono a vederci dei simboli, la cosa è meno nobile: contagiato da Umberto Contarello (sceneggiatore, ndr), il rapporto uomo animale mi fa ridere».

Gli animali della sua infanzia?

«Nel Parco c’era un veterinario, uno dei pochi a Napoli a trattare animali esotici. Una sera io e mio fratello rientrando a casa vediamo un pavone. Per settimane tra le macchine parcheggiate del condominio compariva il pavone, coi condomini che pretendevano di dargli da mangiare. Ecco, siccome il pavone è in Amarcord, ho avuto la tentazione di trasformarlo in gorilla». 

E?

«Sarà il mio punto d’arrivo. Metto in scena il gorilla, e mi ritiro». 

Animali domestici invece?

«Prima che io nascessi so che loro avevano due pesci rossi buttati da mia madre nello scarico. Mio fratello e mia sorella disperati, lei allora disse: “Non avete capito, quelli tornano al mare”. In seguito abbiamo avuto due pappagallini. Morti i miei, uno si è mangiato l’altro. Il superstite era un genio, riusciva a aprire la gabbietta nonostante noi la chiudessimo con il laccio del panettone. Usciva e volava per le stanze». 

Perché ha deciso di raccontare questa storia adesso?

«C’era la giusta distanza, citando Mazzacurati. Avendo compiuto cinquant’anni, potevo affrontare certi temi con misura, con un atteggiamento sentimentale e non sentimentalista». 

Cosa temeva in precedenza?

«Lo sfoggio: guardate come sono bello nella mia sofferenza».

Eppure: quante volte ha riportato in vita i suoi genitori?

«Ne L’uomo in più ho trasformato mio padre in un cantante di night. Quello era il suo modo di stare al mondo, il suo amore per la musica e per le donne, si riteneva un conquistatore». 

Quante volte ha messo in scena sé stesso?

«Con Lenny Belardo, l’orfano». 

Paolo Sorrentino oggi?

«Sono rimasto a vivere nella casa d’infanzia fino ai trent’anni da solo, poi con Daniela. Quindi ci siamo trasferiti a Roma».

Quella casa?

«Venduta». 

Motivo?

«Era un faccenda chiusa». 

Oggetti di famiglia tenuti?

«Il barometro, le pipe di papà. La manina di legno con cui mia nonna si grattava la schiena». 

Daniela, sua moglie.

«Lavoravamo nello stesso palazzo. La prima occasione in cui ci siamo parlati sono stato scortese, del resto io sono spesso scortese». 

Che padre è Paolo Sorrentino?

«L’anno in cui mi sono fidanzato con Daniela, Anna era piccola. Avevamo paura della presentazione ufficiale. Invece sono andato a cena da loro, lei mi ha preso per mano, e mi ha portato in camera sua dove mi ha offerto il tè nel servizio di Minnie». 

Primo regalo a Anna?

«La cucina giocattolo. Secondo: una bambola nera, battezzata Fatima. E ricordo pure il terzo, il quarto, il quinto». 

Esiste ancora Fatima?

«Buttata di recente da Daniela con grande sdegno di Anna. Esistono però molte foto di me, Anna e Fatima».

Ce le dà?

«Meglio di no, i miei figli sono molto discreti e non apprezzerebbero». 

E dunque: che padre è?

«Quando erano piccoli giocavo con loro, io gioco benissimo». 

A cosa?

«Pallone, nascondino, pupazzetti, bambole». 

Altro?

«Finché Carlo me lo ha permesso ogni mattina l’ho accompagnato a scuola». 

Oggi che sono grandi?

«Li scoccio, entro nelle loro camere: “Abbracciatemi” chiedo».

E loro?

«Mi abbracciano». 

Va sulla tomba dei suoi genitori?

«All’inizio di frequente. Poi ho smesso. Tanto che per girare la scena del cimitero, nel cimitero di Napoli dove ci sono anche loro, li ho cercati senza trovarli. Avrei dovuto chiedere a mia sorella».

Chiesto?

«No».

Paola Zanuttini per “il Venerdì di Repubblica” il 26 ottobre 2021. Con quel minimo di eleganza consona a un giornale serio, tocca fare un po' di gossip. Già, perché ‘È stata la mano di Dio’, Leone d'argento a Venezia e avviato a ulteriori trionfi (nelle sale dal 24 novembre, su Netflix dal 15 dicembre) è il film più personale di Paolo Sorrentino: autobiografia, romanzo di formazione di un adolescente napoletano degli anni Ottanta innamorato di Maradona e di una zia bonissima e folle (Luisa Ranieri), che passa dalla ‘Cantata dei giorni pari’ di Eduardo alla tragedia. Irrompe il fato con la mano de Dios, non quella del gol "irregolare" di Maradona agli inglesi (Mundial 1986), ma quella di una trasferta del Napoli, la prima che il protagonista ha il permesso di seguire appresso al suo idolo, disertando il consueto weekend in montagna con mamma e papà: nella casetta appena comprata di Roccaraso, una fuga di ossido di carbonio uccide i genitori. Finisce un mondo corale, affettuoso e ridanciano e, oscurato da un dolore infinito, il futuro non dà segni di sé. Ma poi il cinema, come vaga e casuale aspirazione, accende un baluginio in fondo al buio e Fabietto Schisa, l'alter ego del giovane Sorrentino (interpretato con empatia da Filippo Scotti), trova la sua strada. Quindi, fra tante asperità, bisogna anche fare domande petulanti del tipo: la zia bella che si spoglia sempre è vera? E quella che mangia la mozzarella, dice maleparole a tutti e si tiene la pelliccia anche d'estate per far vedere che ce l'ha? Ma l'anziana baronessa del piano di sopra che giudica tutto «una cafonata» l'ha davvero svezzato sessualmente? La necessaria eleganza di cui sopra obbliga a formulare la questione in altri termini. Ovvero: come si fa un film autobiografico? Cosa si falsifica e cosa si lascia com' era? Cosa si censura? Sorrentino risponde nella sua casa di piazza Vittorio, prima di un'interminabile tournée Londra Lione Parigi Washington San Francisco Los Angeles New York, tra festival e diplomazie per gli Oscar. 

«Ho censurato il protrarsi del dolore per non fare un film devastante. Il dolore di quegli anni è molto più articolato e gravoso. Poi, ovviamente, ho censurato le cose che potevano dare troppo fastidio alle persone. E ho fatto violenza ai tempi mescolando e concentrando gli eventi. Di materiale ne avevo tantissimo: nella mia famiglia come in tutte, credo, c'era molta memoria orale: i fatti narrati appartengono ai tanti racconti familiari, mio padre e mia madre li hanno ripetuti milioni di volte e io ho buona memoria dell'infanzia e dell'adolescenza. Poi ho scelto elementi che servissero alla trama e speravo avessero valenza cinematografica, perché la grande trappola di certe storie è che possono avere valore per te, ma non interessano lo spettatore». 

Fra le interviste che ha rilasciato negli anni non ce n'è una un minimo profonda in cui non riaffiori la morte dei suoi genitori. A dimostrazione che i suoi fatti personali pervadono ogni film su cui la intervistano. 

«Succede a tutti i registi».  

Era per dire che sa benissimo cosa funziona e cosa no.

«Ma questo film è proprio diverso dagli altri, non c'è una cosa in comune». 

Nel suo cinema, la perdita, lo smarrimento, la solitudine, la malinconia, il vuoto, l'immanenza della tragedia, in un modo o nell'altro c'erano già. Questo non sembra un film di rottura, ma di arrivo. 

«Speriamo che riparta anch' io. Non mi pongo tante domande sui film che ho girato. Li ho fatti sempre in un certo modo, ma poi mi sono stancato, mi sono reso conto che, con dei trucchetti, delle variazioni sul tema, riproducevo le stesse cose alla maniera di me stesso. Ero diventato abitudinario. Con le due serie tv sul papa è come aver fatto altri dieci film, in termini di durata: a un certo punto le immagini finiscono, le consumi tutte e cominci a ripeterle. Stavolta sono completamente diverse. Questo film è molto più semplice, senza sentimenti articolati o complessi. È un film sulla gioia e sul dolore».  

Nella prima parte, bordeggia spudoratamente, e spericolatamente, la macchietta, tirando fuori anche un'inedita verve comica. 

«L'entourage dei miei familiari era così. I napoletani sono molto plateali, hanno un istinto recitativo molto forte. Mi sono fatto l'idea che sia una conseguenza delle dominazioni: per ingraziarsi il dominatore di turno dovevano apparire bravi, buoni e servili e questo ti porta a recitare. Quella è la realtà in cui vivevo, quindi è un film realista». 

Ma lei non è un regista realista. 

«In questo caso sì. La consuocera di una mia zia che metteva la pelliccia d'estate e diceva le maleparole non l'ho inventata io, c'era già. Poi, se appare bozzettistica a uno di Chiasso lo capisco, perché lassù vivono in un altro modo, ma per me era la normalità. Non ho altri termini di paragone, sono cresciuto là dentro, per me quello era il mondo, la cultura. E mi sono sposato una napoletana. Noi siamo così. Io sono così».  

E fa quei numeri che si vedono nel film? Non sembra il tipo. 

«Invece sì, sono irascibile, teatrale, ho un mio lato un po' più inglese perché sono timido».  

Anche sua madre - benedetta Teresa Saponangelo che l'ha resa la mamma solare e affettuosa che in molti avremmo voluto, e benedetto tutto il cast, da suo padre Toni Servillo in giù - fa una scena di gelosia vesuviana con il dolore e la rabbia che eruttano come lava. Ma, a livello di sceneggiatura, come si tiene insieme il grande innamoramento fra i suoi genitori e la lunga relazione di suo padre con l'amante, una collega di banca che gli ha dato un figlio?

«Si tiene insieme perché è tutto vero. Io ho un fratellastro che poi ho conosciuto, me l'hanno detto all'indomani della morte dei miei, che mi avevano tenuto all'oscuro».  

Questa sì che è un'agnizione. Passiamo allora a suo padre: come teneva insieme l'amore vero per sua madre e il tradimento? 

«Diceva: è capitato. Fine della conversazione. Era una vicenda che procedeva per folate, c'erano periodi in cui mia madre scopriva che lui la vedeva ancora e altri di quiete».  

Nel film la notizia del fratellastro gliela dà sua sorella, che non esce mai dal bagno, salvo un'apparizione finale. Perché l'ha chiusa lì dentro? 

«Era una mia memoria infantile, lei ha 13 anni più di me, c'erano i primi fidanzati, passava ore e ore in bagno».  

Si è risentita, immagino. 

«Abbastanza, però le ho spiegato che nella costruzione drammaturgica i personaggi non visti ma evocati continuamente sono i più importanti».  

E lei spera che ci abbia creduto? 

«È veramente così nelle grandi strutture dei romanzi, anche in Madame Bovary».  

Che arriva al secondo capitolo, non all'ultimo. 

«Arriva anche mia sorella. La verità è che è molto più grande di me, per carità, è stata una figura molto materna, importante, quando sono morti i nostri genitori è tornata a casa già sposata e con un figlio. È stata generosissima ma, per via dei caratteri simili, ho sempre avuto un rapporto più intimo con mio fratello, anche se ha 9 anni più di me».  

Concludiamo la serie del vero falso taroccato. 

«Il personaggio di Luisa Ranieri è un mix fra una zia di mia mamma, non così bella, che raccontava le sue visioni di fantasmi e munacielli, e la carica erotica che potevano avere per un sedicenne le amiche di mia sorella e anche di mia madre. Con la baronessa del piano di sopra non c'è stata alcuna esperienza sessuale. Mia madre effettivamente faceva gli scherzi, quello dell'invito di Zeffirelli a una vicina è vero di sana pianta. Le veniva dagli anni in collegio: suonavano l'allarme antiaereo per far correre le suore verso il rifugio. Ma all'epoca gli scherzi si portavano molto, anche quelli telefonici. Oggi si rischierebbe la galera».  

Non facciamo spoiler, ma sono grandiosi. E il secondo è uno scherzo anche per lo spettatore, che si chiede: cos' è 'sta pecionata? 

«È vero, ma ho un po' ingigantito il fatto reale. È come quando sei a cena con sette, otto persone e racconti una cosa per far ridere: cominci a sentire che non ridono e ti metti a inventare». 

La strategia del pallonaro. 

«Certo. Aggiungo dettagli: ormai so quali funzionano».  

E sul dolore come ha lavorato?

 «Niente. Il dolore s' inquadra, ci pensa l'attore. Io metto la macchina. Che posso dire? È insito nella sceneggiatura, che ho scritto da solo - perché era la mia vita, non si doveva inventare nulla - e di getto, con grandi risate e grandi pianti».  

Ha pianto su serio? 

«Quando scrivevo sì. Sul set meno, c'era tanta gente, uno si vergogna. E ci sono sempre i problemi pratici che ti pone la troupe. La mia è stata molto discreta, rispettosa, affettuosa». 

E anche molto rinnovata a partire dal direttore della fotografia: sua cognata Daria D'Antonio al posto dello storico Luca Bigazzi. 

«Lavorare sempre con le stesse persone è una cosa meravigliosa perché si crea una grande famiglia, una grande intesa, però si entra anche in una dimensione di routine, stanchezza reciproca, nessuno sorprende più l'altro e volevo ritrovare un po' di adrenalina. Ho cambiato anche il produttore, lo scenografo, il costumista. E, soprattutto, lo stile». 

La prima scena del film è un ritorno nel ventre di Napoli, un abbraccio e qualcosa di più. Quanto le mancava, cinematograficamente, la sua città? 

«Non tantissimo: per il mio modo di intendere l'inquadratura, Napoli è una città ostile perché caotica, non a caso ho girato due film in Svizzera. Ho avuto un'estetica quasi sempre legata all'ordine delle cose. Il Tevere della Grande bellezza l'ho filmato da sotto, senza macchine, nella dimensione arcaica, naturale, non c'è la civiltà. Quindi Napoli non è facile da filmare, però non mi importava che il film fosse bello o brutto esteticamente, ho girato nei posti che conoscevo da ragazzo e li ho resi tali e quali. Anche il luogo dove vivevo, una location che non avrei mai scelto per un altro film: è l'appartamento sotto la mia vera casa, al Vomero. Ci abitava una signora, morta da poco, quando ci sono entrato mi è preso un colpo: lo stesso citofono, gli stessi termosifoni di quando ero bambino, lo stesso tinello in cui mio padre cambiava il canale schiacciando con un bastone la tastiera del televisore dicendo: io sono comunista! Come se un comunista non potesse comprarsi la tv col telecomando». 

L'arrivo di Maradona aveva per lei e per Napoli un valore così messianico? 

«Sì. Non è arrivato, è apparso. Non è sceso da un aereo, lo vedemmo sbucare dal nero degli spogliatoi del San Paolo. Non ci sono immagini del suo arrivo a Napoli. E poi spuntava nei posti, girava la città, ma per non avere la gente intorno si muoveva con la Fiat Panda e la gente si chiedeva se era lui. Quando io e mio fratello lo vedemmo in strada il mondo che in quel momento passava si fermò davvero». 

Era consapevole delle aspettative che suscitava e soddisfaceva? 

«Penso di sì. Uno diventato famoso così presto avrà imparato subito a capire che effetto faceva. Poi nell'84 Napoli era una città incupita, violenta, veniva dal terremoto, dalla guerra fra nuova e vecchia camorra. Mi ricordo che di notte non si usciva quasi, mio padre ripeteva di continuo le sue regole: la sera non ci si ferma al semaforo, si passa con il rosso; se si rimane senza benzina si chiama subito un taxi e si corre a casa. Quando arrivò Maradona fu anche una liberazione».  

E questo film, per lei, è una liberazione? 

«Mi sono sempre sentito libero, ho avuto la fortuna che qualunque film avessi in mente poi me l'hanno fatto fare. Magari proprio tutti no».  

Forse non se lo consentiva da solo? 

«Forse. Penso che fino a qualche anno fa non ci sarei riuscito. Sono più maturo. E sono passati tanti anni da quegli eventi».  

Il dolore si è ammorbidito? 

«Un po' sì, anche perché da un mese parlo solo dei miei dolori. Che mi stanno venendo a noia: sono una routine, mentre prima appartenevano a un monologo interiore di sofferenza durato 35 anni che non mi ha migliorato di un centimetro». 

Psicoanalisi, niente?

«Mai».  

Riapriamo il "chiosco psichiatrico" di Lucy van Pelt dei Peanuts: in ospedale non le hanno fatto vedere i suoi genitori morti e questo evento si trasforma nella scena madre del film, con il protagonista che va fuori di testa per il dolore e la rabbia. C'è un legame con la sua scelta successiva di fare cinema? In fin dei conti il cinema vede, guarda, inquadra, mostra. 

«Forse, se fossi andato in analisi, me lo avrebbero spiegato. Può essere. In tutti i miei film, tranne questo che parla di esperienze note, c'è l'ossessiva ricerca di vedere delle cose, di conoscerle. Me lo sono detto tante volte. 

E anche la scelta stilistica degli incessanti carrelli era un modo di avvicinarmi a quelle cose. Ma in questo film i carrelli non ci sono, perché avvicinarmi a me stesso non aveva senso: mi conoscevo già. Però non averli potuti vedere è il mio trauma più grande. Mancando il congedo, il saluto, inconsciamente scatta l'abbandono. Ecco, se ne sono andati senza salutarmi»

Gloria Satta per "il Messaggero" il 13 settembre 2021. Dopo la premiazione, gli applausi, le lacrime, gli abbracci di Toni Servillo, Paolo Sorrentino ha avuto una sola preoccupazione: «Guardare la registrazione di Napoli-Juve: la partita è stata giocata durante la cerimonia e noi abbiamo vinto 2 a 1», sorride il regista, 51 anni, che ha ritirato il Leone d'argento - Gran Premio della Giuria per il suo irresistibile film autobiografico È stato la mano di Dio. Vincitore morale della 78ma Mostra che ha riservato l'oro a L'événement di Audrey Diwan, Sorrentino accende un sigaro e si lascia andare, mentre il cinema considera il suo amarcord come un candidato naturale agli Oscar. Già promosso dalla critica internazionale e sostenuto dai potenti mezzi di Netflix che sta dietro il film prodotto da The Apartment, Gruppo Fremantle e tratta il regista come ogni star da Oscar che si rispetti: subito dopo la proiezione veneziana, Paolo è stato imbarcato su un jet privato che l'ha portato al festival di Telluride, in Colorado, prima tappa di un tour mondiale serratissimo che lo impegnerà nelle prossime settimane. 

Si aspettava di essere premiato a Venezia?

«Non mi aspettavo nulla. Ho fatto parte delle giurie e so che il verdetto è sempre un terno al lotto. Il fatto di essere stato accolto bene dalla stampa non mi garantiva automaticamente un riconoscimento». 

Come mai sul palco si è commosso fino alle lacrime?

«Ero in preda all'emozione che si è impadronita di me già quando da Venezia mi hanno telefonato chiedendomi di tornare. So cosa significa non ricevere quella chiamata».

Pronto ad affrontare la campagna per il secondo Academy, dopo averne vinto uno nel 2014 per La grande bellezza?

«È prematuro parlare di Oscar. Ricordo l'entusiasmo ma anche la fatica che ho fatto 7 anni fa andando avanti e indietro dagli Usa. Ora voglio solo riposarmi, tutti i progetti sono congelati. Vedremo». 

Ma si prospetta per lei la partecipazione ai festival più importanti del mondo. Andrà a San Sebastian ed è già stato a Telluride ricevendo critiche osannanti: cosa, secondo lei, ha stregato gli americani?

«L'universalità della mia storia che parla di famiglia, allegria, vitalità, lutto, dolore. Tutti possono capire i sentimenti dei miei personaggi sia se hanno vissuto le stesse vicende, sia se immaginano l'eventualità di viverle. Ho usato un linguaggio semplice».

Una svolta?

«Ho scoperto la semplicità. Molti la chiamano maturità, ma invecchiando è fisiologico rendersi conto che tante cose non sono essenziali. E farne a meno, anche nel cinema».

Il film uscirà in sala il 24 novembre e sarà poi su Netflix dal 15 dicembre: non teme le proteste degli esercenti?

«I film li scrivo e li dirigo, la politica industriale non mi riguarda. Sono stato felicissimo di lavorare con Netflix che inspiegabilmente (sorride, ndr) mi vuole bene. Ero rimasto colpito dall'impegno con cui la piattaforma ha lanciato Roma di Alfonso Cuarón e ho chiesto lo stesso trattamento».

Cosa ha scoperto realizzando È stata la mano di Dio?

«Che il cinema è la mia vita. Pensavo fosse una posa e non mi piacesse fino in fondo ma ora so per certo che sto dove devo stare. Mi sento a mio agio solo nei momenti incastrati tra le due parole magiche che ad ogni film dico sul set: azione e stop». 

 E della sua Napoli si è fatto una nuova idea?

«Continuo ad amarla. È una città promiscua, dunque divertente. Puoi trovarci di tutto: erotismo, bellezza, sacro, profano. Viverci o visitarla è come fare un safari a piedi». 

Il festival di Venezia. È stata la mano di Dio, viaggio nella Napoli dell’infanzia di Paolo Sorrentino. Federico Fumagalli su Il Riformista il 3 Settembre 2021 Ecco il Napule è di Paolo Sorrentino. La lettera di amore e ricordo, che il grande regista scrive alla sua città. In È stata la mano di Dio, questa necessità affettiva risulta palpabile, come in nessun altro film di un autore ambizioso e girovago. La Roma di Il divo e La grande bellezza, gli Stati Uniti di This Must Be the Place, la Sardegna di Loro, la Svizzera di Le conseguenze dell’amore e Youth. Tocca tornare indietro vent’anni, alla folgorante opera prima L’uomo in più, per ritrovare un Sorrentino ambientato in città natia. Ma qui è tutto diverso. Napoli è ovunque, nella geografia come nel quotidiano e nelle tradizioni. Negli attori. Toni Servillo, Luisa Ranieri, Teresa Saponangelo. E l’elenco, di interpreti di gran classe, potrebbe essere più lungo. Lungo è un film di oltre due ore, visto al Lido tra gli applausi convinti di pubblico, critica e addetti ai lavori. Il minutaggio è sufficiente a Sorrentino, per raccontare sotto le mentite spoglie dell’adolescente Fabietto Schisa, fondamentali pagine autobiografiche. Il regista ha drammaticamente perso i genitori da ragazzo. Più volte lo ha raccontato. Ora ha deciso di metterlo a imperitura memoria, per immagini. «A un certo punto si fanno bilanci. A cinquant’anni compiuti, credo di avere l’età giusta per realizzare un film così personale — dice Sorrentino —. Ho pensato che il dolore provato da ragazzo, potesse avere forma di cinema. Questo, indipendentemente dai miei bisogni». Verissimo. Perché È stata la mano di Dio rifugge con successo le trappole più comuni dell’autobiografia: psicanalisi, autoreferenzialità e movimento centripeto-ombelicale. L’affetto a piene mani è sincero, sufficiente a far si che lo spettatore ricambi la carezza, con un applauso. Teresa Saponangelo interpreta la madre. «Da parte di Paolo — confida l’attrice — affidarmi questo personaggio è stata una dimostrazione di affetto nei miei confronti. Un sentimento cresciuto durante la lavorazione». Ricorda Toni Servillo, il padre nel film: «Quando nel 2001 portammo qui a Venezia L’uomo in più (nella sezione collaterale, Cinema del Presente), Paolo mi confidò che prima o poi avrebbe trovato la distanza giusta per raccontare questa storia. E mi avrebbe chiesto di fare suo padre». Sono passati due decenni e altri cinque film insieme. Attendere è valsa la pena. Per quanto si è visto sin qui. E per È stata la mano di Dio. Il cui titolo svela anche un altro destinatario della passione totale, che alimenta il giovane protagonista Fabietto, futuro regista Paolo: Diego Maradona. «Una frase bellissima e paradossale, pronunciata da un giocatore di calcio — spiega il regista —. Io credo nel potere semi divino di Maradona». Che, scomparso lo scorso novembre («si chiama lutto. Sono incapace di esprimerlo a parole») non ha fatto in tempo a vedere il film. «È il mio grande rammarico. Mostrarglielo era un mio desiderio. Ma non è mai stato facile parlare con Diego». Cui non attribuisce le passate polemiche, riguardo un presunto sfruttamento di immagine del campione: «Credo, anche se non ho prove a riguardo, che fossero lamentele da attribuire al suo entourage». È stata la mano di Dio è un film uguale (la mano, quella del regista, è riconoscibile) e diverso. «Doveva essere differente dai miei precedenti. Semplice e essenziale, per fare parlare sentimenti e emozioni». Che parlano anche con la voce, gli occhi, il corpo del protagonista Filippo Scotti. «Cercavo un attore ovviamente bravo — spiega Sorrentino —. I registi sognano sempre che i loro interpreti si dirigano da soli, per potersi dedicare ad altro. Filippo ha sbaragliato la concorrenza. Mi sembrava avesse la stessa mia timidezza, dei miei 17-18 anni. La distanza non è tanta». Il giovane Scotti: per interpretarlo «ho cercato di carpire da Paolo il più possibile. Non mi sono mai sentito in balia delle onde. Quando sul set trovi un cast così, intorno a te si crea una famiglia». Di cui fa parte anche Luisa Ranieri, la zia Patrizia. «Di lei, nella sceneggiatura c’era già tutto. Era scritta tanto bene, da non chiedere a Paolo se questa zia fosse davvero esistita. Volevo restituirgliela, proprio così». Il regista risponde ora alla sua bravissima (in perfetto equilibrio tragicomico) e bellissima (anche in nude look) attrice. Con ironia: «Avessi avuto una zia come Luisa Ranieri, la mia vita sarebbe stata diversa». I film belli non si sezionano. È molto meglio prima guardarli, dopo ragionarci sopra. È stata la mano di Dio è un film bello che in tanti avranno modo di vedere, ma solo tra un po’ di tempo (a novembre al cinema e poi su Netflix). Ha una natura tripartita. Tre segmenti fra loro in grande armonia. La prima parte famigliare, divertita e conviviale. Il doloroso e commovente nucleo centrale. L’ispirata parabola formativa e di crescita, in chiusura. E il citazionismo (Federico Fellini, C’era una volta in America di Sergio Leone …) stavolta è, anche quello, un atto d’amore. I titoli di coda, su Napule è di Pino Daniele. Federico Fumagalli

Gabriele Romagnoli per “La Stampa” il 4 settembre 2021. Come si può raccontare un dolore privato, un lutto che ha segnato l'esistenza? Ma soprattutto, perché farlo? Per condivisione, catarsi, necessità? Perché, come ha scritto Leonard Cohen: l'arte è una calcolata manifestazione di sofferenza? La scelta di Paolo Sorrentino di narrare la propria esperienza, la vita fratturata, un prima e un dopo la morte dei genitori rilancia una domanda a cui non esiste una risposta, né giusta né univoca. La stiamo cercando, a tentoni, da secoli: il dolore è in una pennellata che toglie luce (perfino) a un dipinto di Caravaggio, scompone una frase di Tolstoj, rinchiude Juliette Binoche nel Film Blu di Kieslowsky in un ripostiglio, a sterminare una famiglia di topi, perché nulla più conta, nessun legame può né deve durare. Non avendo ancora visto l'opera di Sorrentino, merita credito incondizionato la sua sensibilità, un intento che si è dischiuso nel tempo, da confidenza a testimonianza affidata al pubblico, superato il timore del suo cinismo nell'accoglierla. Al di là del caso specifico, come si può estrarre da sé stessi quella pietra nel costato, lavorarla, esporla? Scrive Julian Barnes in Livelli di vita: «Nella prima parte dell'esistenza il mondo si divide grossolanamente tra chi ha già fatto sesso e chi no. Più avanti, tra chi ha conosciuto l'amore e chi no. Più tardi ancora tra chi ha vissuto il dolore e chi no. Si tratta di differenze assolute; di tropici che attraversiamo». Non sono stimmate, non indicano eletti, men che mai migliori. E' destino, è caso. Dov' è la provvidenza? C.S. Lewis, scrittore, cattolico annotava in Diario di un dolore: «A volte è difficile non dire: che Dio perdoni Dio. A volte è difficile dire anche questo. Ma se la nostra fede è vera, Lui non l'ha fatto. Lui lo ha crocifisso». Che facciamo noi, quando perdiamo i genitori troppo presto, i compagni di vita in qualunque tempo o, non sia mai, i figli? Che cosa, quando specialisti della comprensione ci esortano a coniugare il verbo elaborare e non sappiamo neppure che cosa significhi di preciso, né quello né altro, giacché ci è appena sfuggito il senso di ogni cosa? Nel film australiano Lantana una coppia sposata si confronta mesi dopo la scomparsa della figlia. La moglie psicologa dice al marito, incapace di andare avanti: «Tu credi di essere il solo a soffrire, credi che non soffra anche io?». Lui risponde: «Tu ci hai scritto un libro». Eppure, eppure. Frank Bascombe, il protagonsita della quadrilogia di Richard Ford, avendo lui pure perso un figlio, confida: «Ho affrontato il rimpianto. Ho evitato la rovina. E sono ancora qui a raccontarlo». Non si racconta perché si è sopravvissuti, ma perché non lo si è veramente, non del tutto. Non è soltanto una testimonianza, è un avvertimento. Almeno credo. Ho usato libri e film per dirlo con parole e immagini d'altri, per lasciare l'inenarrabile a chi ha avuto più coraggio, o ne ha avuto più paura. L'esperienza di una perdita è un timbro sul passaporto: certifica che si è andati in un luogo lontano. Talvolta manca l'attestato del rientro. In quei casi qualcuno manda dispacci, qualcun altro scompare laggiù. La differenza è illusoria. Si prosegue o ci si ferma, si racconta o si tace, si è comunque perduta una parte di sé: la voce, ma anche il silenzio, appartengono all'altra. Guarda il proprio riflesso nell'acqua. A quella forma, che vita vera non è, viene tuttavia concesso il privilegio provvisorio di un'ombra alle spalle, il soffio dell'evocazione riuscita, un'increspatura, un frammento di pellicola, un rigo appena. 

Tutto il calcio che c'è nei film di Paolo Sorrentino. Furio Zara su vanityfair.it il 3 settembre 2021. In «È stata la mano di Dio» il regista premio Oscar torna ai giorni dell'adolescenza, tra il dolore della perdita dei genitori e l'apparizione di Diego Armando Maradona. El Pibe de Oro è anche il protagonista di una delle sequenze più belle di «Youth», mentre in «The Young Pope» il Cardinale Voiello ha due fedi (l'altra è il Napoli di Higuain). Il film d'esordio, «L'uomo in più» è un omaggio alla grande passione di Sorrentino: il calcio. Non ci si deve stupire se un regista che nel suo, brevissimo, discorso di ringraziamento per l’Oscar, nel 2014 per La Grande Bellezza, ha citato come fonte di ispirazione Diego Armando Maradona e che in ogni suo film ha messo una citazione calcistica, oggi riassume il percorso della sua vita ne È stata la mano di Dio (nelle sale dal 24 novembre e su Netflix dal 15 dicembre), biografia per immagini di un ragazzino cresciuto a Napoli con il mito del Pibe de Oro, quel Pibe che, inconsapevolmente, salvò la vita a Paolo Sorrentino. Come lo stesso Sorrentino ha raccontato, infatti, aveva sedici anni quando i suoi genitori morirono nel sonno avvelenati dalla fuoriuscita di monossido di carbonio, nella casa di villeggiatura a Roccaraso. Il regista aveva avuto il permesso, dopo tante insistenze, di rimanere a Napoli, per poter seguire con gli amici una trasferta della squadra del cuore ad Empoli. È stata la mano di Dio, dunque: così gli sussurra un personaggio del film, la mano de Dios, la stessa con cui Maradona segnò il più malandrino dei gol, all’Inghilterra nel Mondiale del 1986. In tutti i suoi film Sorrentino ha seminato un po’ della sua passione per il calcio. A partire dal primo, L’uomo in più, che rimanda alla vicenda di Agostino Di Bartolomei (il capitano della Roma morto suicida a metà anni 90), con il protagonista, uomo puro e con una rigida morale personale, Antonio Pisapia, che si trova a dover fare i conti in un mondo inquinato dalle scommesse e dalle truffe dei compagni di squadra. Memorabile il personaggio del Molosso (ispirato al Petisso Pesaola, allenatore del Napoli negli anni 70) con il suo celebre sfogo nello spogliatoio, all’intervallo di una partita. È tifoso del Napoli – e non poteva essere altrimenti – anche il Cardinale Voiello (Silvio Orlando) nella serie-tv The Young Pope, così fedele alla religione laica del pallone da conservare l’immagine del bomber argentino Gonzalo Higuain sulla cover del suo smartphone. Anche ne La Grande bellezza il calcio viene evocato dalla Gazzetta dello Sport che una signora sta leggendo, vi si dice di un Totti infortunato, seduta su una panchina accanto al busto del generale del Risorgimento Giuseppe Avezzana. Una breve sequenza, l’ennesimo omaggio alla passione di una vita. È ancora Maradona – grasso, sfratto, sdrucito dalla vita, con problemi respiratori – che in una lussuosa casa di cura in Svizzera galleggia tronfio in un altrove immaginifico , il protagonista di una delle più belle sequenze di Youth: Diego che palleggia con una pallina da tennis, Diego che si abbandona alla nostalgia, Diego che torna a vedersi, schierato a centrocampo prima dell’inizio di una partita mentre riempie di piccoli e definitivi passi di danza la sua attesa. «Maradona a Napoli è venuto fuori da una grotta, quella del San Paolo: è apparso, è morto, è risorto e diventato martire, ha molto in comune con le figure mistiche». Il calcio per Sorrentino è magia, nostalgia, illusione, ritorno in un luogo dove si è stati bene: l’infanzia.

Da “Adnkronos” il 3 settembre 2021. La stampa internazionale promuove a pieni voti il nuovo film di Paolo Sorrentino, 'È stata la mano di Dio', presentato ieri in anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia, dove concorre per il Leone d'Oro. Per 'The Hollywood Reporter' "il regista italiano premio Oscar scrive una lettera d'amore alla sua nativa Napoli, ripercorrendo in modo toccante le esperienze formative della sua giovinezza negli anni '80". La recensione di “Indiewire”, come tante della critica italiana, è esaltante: "Il film più personale di Paolo Sorrentino è anche il migliore”, scrive il critico David Ehrlich. Per 'Deadline', "il racconto di formazione di Paolo Sorrentino a Napoli è un film memoir cadenzato e bellissimo". 'The Playlist' si spinge ancora oltre giocando con il titolo del film: "Paolo Sorrentino tocca la divinità con un suggestivo racconto di formazione che è un capolavoro”. Non meno buona la recensione di 'El Pais' che parla di "un film che si tuffa senza paura in un doloroso passato intimo, condividendolo con il pubblico". "'È stata la mano di Dio' ha commosso la Mostra. E ha offerto un nuovo straordinario esempio di dramma trattenuto", aggiunge il quotidiano spagnolo. Anche "Le Figaro" osanna il film: "Non ci aspettavamo un film bello come "È stata la mano di Dio". Questo ritorno alla forma di Sorrentino si spiega senza dubbio perché il regista ha trovato un soggetto che lo ispira: se stesso”. 

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 3 settembre 2021. «È la storia di un ragazzo di 17 anni che perde i genitori», dice Paolo Sorrentino. È stata la mano di Dio , il suo film più personale (su Netflix dal 15 dicembre) lo racconta così. I suoi genitori nel 1987 comprano una casa a Roccaraso, lui resta a Napoli per andare a vedere Maradona allo stadio. Il padre e la madre moriranno per una fuga di monossido di carbonio.  Il regista lascia Cannes che lo ha consacrato, torna a Venezia (a 20 anni dall'esordio di L'uomo in più ) e ottiene nove minuti di applausi alla fine della proiezione. Sempre col suo attore feticcio Toni Servillo. Che qui fa suo padre, mentre l'alter ego di Paolo giovanissimo è Filippo Scotti, che nel film ha l'orecchino come lui. 

Cosa ha trovato in lui?

«La mia timidezza e inadeguatezza. Ha sbaragliato tutti, il mio sogno è che gli attori si dirigano da soli». 

Com' è nato il film?

«A un certo punto si fanno i bilanci, ho capito che c'era stata una grande parte di amore nella mia vita di ragazzo, e una dolorosa. E si poteva declinare in un racconto cinematografico dove si ride e si piange, come nella vita. Ha delle analogie col bel film di Bellocchio su suo fratello».

 È vero che l'ha scritto in 48 ore?

«Sì, non è un virtuosismo ma ci avevo pensato tanto, scriverlo è stato un processo più semplice. Anche in altri film avevo messo cose mie camuffandole, mescolandole nei personaggi. Questo è senza filtri, dichiaratamente autobiografico, ma non ha senso distinguere le cose vere da quelle inventate». 

Ma l'emotività...

«Come l'ho tenuta a bada? Per fortuna ci sono problemi di ordine pratico che non tengono conto della mia storia. Se altre persone si identificheranno, se si vedranno specchiate nel film, significa che la mia sofferenza sarà divisa a metà».

Il suo stile glamour, la sua fascinazione estetica qui sono lontani.

 «Il film è esclusivamente concentrato sui sentimenti. La prima parte è onirica e ci sono richiami al mio passato, è una sorta di congedo. Non è che mi pento, qui si richiedeva una cifra stilistica diversa». 

 La sua famiglia com' era?

 «Chiassosa, rumorosa. Mamma (Teresa Saponangelo) era una burlona che ondeggiava tra felicità e tristezza. Gli anni '80 erano un mondo di scherzi che oggi stridono un po', non c'erano i cellulari, era un'altra vita».

C'è il suo mentore.

 «Il regista Antonio Capuano. Con lui cominciai a lavorare. Non ho mai raggiunto i suoi vertici di vitalità esasperata. Mi illuminò sull'equivoco che non basta avere un dolore per una specie di patente sulla creatività» 

Il titolo?

«È una bella frase, paradossale perché pronunciata da un calciatore sulla sola parte del corpo che non può usare, dopo il gol che Maradona segnò di mano all'Inghilterra».

Maradona cosa rappresentò a Napoli?

«Un Avvento: apparve, non arrivò, in una città che nel calcio non aveva vinto niente. Una semi divinità. C'è qualcosa di misterioso, fu un liberatore. Napoli veniva da anni di violenza e camorra, c'era stato il terremoto. Città promiscua, è come fare un safari a piedi senza l'aiuto della jeep quando arrivano i leoni. A Napoli trovi tutto, i leoni e animali più innocui; bellezza del sacro e erotismo del profano si tengono insieme con leggi arcane e spesso incomprensibili». 

Nel film c'è Fellini.

 «Non si vede, si sente la sua voce. Lui quando doveva fare un film andava a Napoli in un hotel vicino alla stazione e cercava le facce. Io per davvero accompagnai mio fratello maggiore a un'audizione». 

Qui la danno candidato a un premio.

«Dai primi sondaggi pare che interessi, oggi partiamo per il Colorado, andrò al Festival di San Sebastian che mi ha sempre ignorato. I miei figli cosa mi hanno detto? Bello. Loro non dicono molto, non mi prendono mai sul serio». 

Il cinema non serve a niente

«Ma ti distrae. È una battuta del film, lo penso, è come il calcio. Quasi nulla serve, tranne il vaccino».

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 3 settembre 2021. «Ce l'hai una storia da raccontare? Se vuoi fare cinema devi avere una storia da raccontare», glielo grida in faccia al giovane Fabietto quel temutissimo regista d'avanguardia, Antonio Capuano, che si diverte a stroncare qualsiasi velleità artistica. E soprattutto che ci vai a fare a Roma, e invece il ragazzo farà di testa sua, salirà su quel treno come Moraldo nel 1953, lasciandosi dietro le spalle Napoli, il suo dolore e il suo destino, quella mano di Dio che tira a sorte ogni giorno e decide quando arriva il momento. A Venezia Paolo Sorrentino presenta un film di un'intensità rara che punta diretta al cuore e commuove fino alle lacrime. Pesa certo l'elemento autobiografico: adolescente andò allo Stadio San Paolo per la partita di calcio e tornato a casa trovò entrambi i genitori uccisi dal monossido di carbonio fuoriuscito dalla stufa. L'appuntamento domenicale con Diego Armando Maradona insomma gli salvò la vita, motivo autentico per santificarlo. Però È stata la mano di Dio è tanto altro, divertente, grottesco, chiassoso, volgare, raffinato, colto e popolaresco. Si direbbe che Napoli, dopo Roma, sia il soggetto primo dell'opera, ma mentre per la pellicola che gli diede l'Oscar Sorrentino depositò il marchio di quelle tre parole «la grande bellezza» entrate a far parte del linguaggio comune, il segno di una decadenza superlativa e irreversibile, qui della sua città ha colto la stratificazione talmente articolata e contraddittoria da renderne impossibile una sola identità. Napoli è un condominio dove vivono i poveracci e la media borghesia, i delinquenti e la nobiltà decaduta, devoti a San Gennaro e scettici convinti, vi si parla il dialetto dei vicoli e il francese dell'università. Le facciate dei palazzi sono stupende, i cortili sporchi e degradati, gli appartamenti arredati con modestia o fasto, la cucina odora di cibo e la biblioteca di sapere antico, la televisione in salotto è del modello vecchio, senza telecomando, perché «noi siamo comunisti, non la compriamo nuova». Non bastasse lo scenario, i personaggi, i caratteri, e Sorrentino sa che sono loro e non il paesaggio a fare un film, come lo pensava il suo amato Fellini, proprio in quei giorni sceso in città per provinare centinaia di comparse. La scena del pranzo domenicale fuori porta si trasforma in un nuovo Amarcord e stavolta il pazzo non è il vecchio zio Titta ma la bella, giovane, esibizionista zia Patrizia, primo turbamento erotico di Fabietto. Alla domanda precisa del fratello, «preferiresti una scopata con lei o Maradona al Napoli?», non ha esitazioni, «Maradona» e la sua mano galeotta a vendicare gli argentini contro gli inglesi usurpatori. Il talismano di Paolo Sorrentino è ancora una volta Toni Servillo, in punta di piedi nel film, pater familias con amante misteriosa eppure il tradimento, quando non manifesto, si limita a convenzione sociale e la moglie si difende inventando scherzi esilaranti al telefono (ah, che bello il cinema quando non c'erano i cellulari e i messaggi di testo). Ecco, inventare storie perché «la realtà è scadente», risulta la sintesi perfetta dell'idea di cinema di Paolo Sorrentino, consacrato per l'ennesima volta tra i più grandi scrittori di cinema e registi al mondo, questa volta senza l'ausilio di un soggetto forte (Andreotti, Berlusconi, il Papa) ma scavando dentro di sé, con l'intelligenza di isolare i frammenti indispensabili a fare storia oltre il rischio del romanzo di formazione, sottogenere dell'autocompiacimento narrativo. Se l'orizzonte si chiude arriva il mare, per bagnarsi, cavalcare le onde, fuggire dalla polizia. Alcune giornate la luce ti permette di vedere lontano, il profilo di Capri. E poi andarsene, «aprire gli occhi al futuro» come dice la Baronessa. «Napule è nu sole amaro. Napule è addore è mare». Capolavoro

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 3 settembre 2021. Luisa Ranieri è la zia di Paolo Sorrentino, una delle poche figure immaginarie del film, rompe la normalità piccolo borghese con la sua bellezza conturbante. «Io - racconta l'attrice - non ho chiesto neanche se è esistita, non era importante. La sceneggiatura è perfetta, mi è arrivato il dolore di questa donna per la mancata maternità. Non era pazza, lo diventa combattendo una grande sofferenza. Vive nei sogni, non le piace la realtà». Luisa mostra un nudo integrale, in barca, davanti ai parenti che, increduli, la guardano. «Ho affrontato quella scena con la maturità di una donna che ha 47 anni». E torna alla nudità dopo il film di Antonioni, Eros . Lei raccontò quell'imbarazzo. «All'epoca ero troppo giovane, Paolo Sorrentino mi ha dato un'altra tranquillità. L'ha girata com' è scritta, un nudo quasi statuario, per niente morboso». Lui è diventato regista per il lutto dei genitori, lei attrice per una perdita? «Mio padre che sparì? No, scelsi di recitare inconsapevolmente, per superare la timidezza». La zia del film è anticonvenzionale e drammatica, incontra perfino San Gennaro: lei vive con leggerezza? «Sono solare ma anche orsa e a volte buia. Sopravvivo nel conflitto. Coi figli, io e mio marito (Luca Zingaretti) ci aiutiamo molto, se ne occupa chi non lavora». E se lavorate entrambi? « Li portiamo sul set».

È stata la mano di... Sorrentino. Comica o tragica, sempre magica. Luigi Mascheroni il 3 Settembre 2021 su Il Giornale. Il film in parte autobiografico riesce a unire il "dio" Maradona e la morte dei genitori. Il regista già tra i candidati a un premio. Venezia. Innanzitutto, l'incipit. L'esergo del nuovo film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio è una citazione di Diego Armando Maradona - «Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male» che va benissimo anche per il regista. «Anche se nel caso di Maradona era falsa modestia, nel mio realismo». No, non gli è andata così male. Dieci film, un Oscar per La grande bellezza, una doppia serie tv di successo internazionale, Paolo Sorrentino è oggi il napoletano più famoso del mondo come una volta Maradona era l'argentino più amato da Napoli. Ma con un debole per Venezia: «Mi è sempre sembrata una città costruita da bambini intelligenti». Qui al Lido Sorrentino portò vent'anni fa, 2001, il suo primo lungometraggio, L'uomo in più, e c'era già, come oggi, Toni Servillo, e qui fece l'anteprima nel 2019 della serie tv The New Pope. È sulla stessa spiaggia dell'Excelsior dove girò la scena di Jude Law in costume da bagno bianco che lo incontrano i giornalisti, dopo gli applausi ricevuti all'anteprima di stamattina - tanti, anche alla proiezione serale (dieci minuti) al punto che il film entra già nella rosa dei favoriti a un Leone importante. Film che non è la fotocopia del vissuto di Sorrentino da giovane ma che ha dentro tanto della vita del regista, fatto di ricordi tanto quanto di fantasie, pieno di sentimenti ma non di sentimentalismi, formalmente semplice, essenziale, diverso da tutti gli altri suoi film il cui invece il rigore estetico era certamente maggiore («Qui dovevo fare a meno di tutto per far parlare di più le emozioni»), È stata la mano di Dio è il racconto dei diciassette-diciott'anni di Fabietto Schisa (l'attore Filippo Scotti), stesso orecchino al lobo sinistro di Sorrentino, e stesso desiderio, nella Napoli degli anni Ottanta, di diventare regista, che - esattamente come il regista Paolo Sorrentino a quell'età - si vede la giovinezza tagliata in due, come il film, in una prima parte leggera, da genere commedia, e una seconda grave, da genere drammatico. Al di qui c'è una famiglia allargata, chiassosa, vulcanica, unita, irresistibile, e le gioie inattese come l'arrivo della leggenda del calcio Diego Maradona. Al di qua c'è la stessa famiglia che prima si incrina, dividendosi, e poi precipita nella tragedia. La cronaca è tristemente nota: entrambi i genitori di Paolo Sorrentino morirono per avvelenamento da monossido di carbonio a causa di una fuga di gas nella casa di villeggiatura, e lui - che di norma li accompagnava sempre nei weekend - sfuggì alla tragedia perché ottenne il permesso di restare a casa da solo, era la prima volta nella sua vita, per vedere giocare Maradona. Fu davvero la mano di Dio a salvarlo? «Perché ho deciso ora di scrivere e girare un film che senza fare la mia autobiografia mette insieme una serie di ricordi, di episodi raccontati e di esperienze personali? Per due motivi. Il primo: compiuti i 50 anni era il momento giusto di condividere con il pubblico una storia così privata. Mi sono reso conto che nella mia vita di ragazzo c'era una parte di felicità e una di dolore che potevano essere declinate in un racconto cinematografico che avesse un valore generale, sopratutto per i giovani: e cioè che ci può essere un futuro per tutti, anche per chi parte con un handicap (ma non so se si può usare questa parola...). Secondo: perché volevo in qualche modo spiegare ai miei figli il motivo di alcuni difetti e comportamenti che, da adulto, mi porto dietro da allora. Quando subisci un trauma come quello di perdere i genitori da giovane, per certe cose diventi adulto di colpo, per altre resti ragazzo per sempre». Ed ecco i due toni del film. Strepitoso, fanciullesco, felliniano, giocoso, funambolico nella prima parte, o nel primo tempo, visto che in qualche modo è anche una partita di calcio. Spiazzante, cupo, angosciante, lento, maturo nella seconda. Il cinema è come la vita: un po' si ride, un po' si chiange. E in mezzo c'è posto per il destino, le aspirazioni, il sesso, lo sport, l'amore, la perdita, gli eroi (ci sono eroi religiosi, sportivi, famigliari, criminali... «E comunque io credo in un potere semidivino di Maradona») e naturalmente il cinema. Tanto cinema. Cose notevoli di È stata la mano di Dio. Tutti i personaggi, a partire dall'intero parentado fino ai vicini di casa: irresistibili. Il solito Toni Servillo, il papà del protagonista («Sorrentino mi ha sempre considerato un fratello maggiore, ora mi ha promosso al ruolo di padre»). Alcune battute e certe sentenze (la sceneggiatura è firmata dal solo Sorrentino), ad esempio: «Il cinema non serve a niente ma ti distrae. Da cosa? Dalla realtà». I nudi strepitosi di Luisa Ranieri, la zia onirica, matta e musa ispiratrice. La scena, antropologicamente fantastica, delle audizioni per un film di Fellini, del quale si sente però solo la vocina... Il contesto in cui Sorrentino inserisce nel film il celebre gol di Maradona con la mano nella partita contro l'Inghilterra ai Mondiali messicani del 1986. Il fatto che pur ambientato negli anni Ottanta non c'è neppure una traccia musicale degli anni Ottanta, nonostante Sorrentino-Fabietto sia sempre in scena con il walkman attaccato alla cintura («Quando vuoi davvero lasciare spazio ai sentimenti, se non vuoi barare, devi lasciare da parte la musica»). Il fatto che, benché girato tutto a Napoli, il film non vuole dare una visione personale di Napoli («Lo fanno già in tanti, ognuno ha la sua...»). E soprattutto il personaggio - reale e vivente - del regista napoletano Antonio Capuano (l'attore Ciro Capano), che più di tutti aiuta e influenza Fabietto-Sorrentino. Domanda del primo nella scena madre del film: «Ma tu che vuoi fare cinema, ce l'hai una cosa da dire?». Risposta del secondo, urlando: «Sì». Ma senza dire cosa.E per il resto, detto che Sorrentino ha deciso di girare È stata la mano di Dio dopo molto tempo che lo aveva in testa, ma lo ha scritto velocemente, e che «No, Maradona non sapeva niente di questo film, ma mi sarebbe piaciuto molto che lo vedesse» - il ritorno al cinema-cinema dopo la pausa televisiva con il fortunato dittico papale è (secondo chi scrive, ma anche secondo molti autorevolissimi colleghi e il pubblico che ha assistito all'inaugurazione) uno dei momenti più felici della Mostra, anche se appena iniziata. Del resto, come dice Fabietto-Sorrentino parlando di cinema, «Guardare è l'unica cosa che so fare».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) 

È stata la mano di Dio, l’amarcord di Paolo Sorrentino esalta e delude. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 2 settembre 2021. Il film autobiografico ha momenti memorabili nell’esaltazione felliniana del caos e della gioia dell’adolescenza. Poi si perde un po’ tra dialoghi troppo espliciti e simbolismi ridondanti. Paolo Sorrentino: dal paradiso all’inferno, andata e ritorno. O quasi. Diciamo che dopo l’inferno al massimo c’è il purgatorio e quel purgatorio è il cinema - forse. A stringerlo in una battuta questo è l’itinerario che racconta “È stata la mano di Dio”, il film con cui il prolifico regista napoletano torna nella sua città, dove non aveva più girato dai tempi del suo esordio, il bellissimo “L’uomo in più”. E cerca anche di chiedersi perché non avesse più girato niente in un luogo così ricco di memorie e di immaginazione. La risposta è questo film generoso e imperfetto, sbilanciato e tumultuoso, sincero fino alla sfacciataggine e insieme bugiardo come il suo nume Fellini. Anche se in modo diverso, perché le vie della creazione (e della reinvenzione autobiografica) sono infinite, e ognuno deve trovare la propria. Ma torniamo allo schema dantesco (Dante è citato spesso, quasi quanto Maradona), che ha il suo punto di frattura nel tragico incidente domestico in cui i genitori del regista persero la vita. Prima della tragedia tutto è iperbole, divertimento, dismisura, come i film di Sorrentino non hanno smesso di ricordarci, ma con una sfumatura di gioia e di cieca fiducia nella vita destinata a sparire con l’ingresso nella vita adulta. È a questa gioia, a questa fiducia persa per sempre, che l’Amarcord di Sorrentino deve i suoi momenti migliori. Ed ecco i genitori di Fabietto (così si chiama il futuro regista ancora adolescente), Toni Servillo e Teresa Saponangelo, vivere come eterni adolescenti innamorati (malgrado qualche crepa, e che crepa…), circondati da un branco di amici e parenti pantografati dal rimpianto e dalla memoria. Ecco la zia Patrizia, così desiderabile e svitata (Luisa Ranieri), che fa disperare il marito geloso e violento (Massimiliano Gallo). Ecco quella Napoli pagana che in apertura è un sogno intravisto all’alba da un elicottero in volo sul mare, e di notte un luogo in cui San Gennaro può scendere da una vecchia limousine e portare la prosperosa zia Patrizia in un palazzo losco e molto felliniano…Ecco parenti prodigiosi e a volte un po’ mostruosi consumarsi nell’attesa di un miracolo cui nessuno, padre in testa, sembra credere: l’arrivo a Napoli di Maradona. Ecco la mamma buontempona tormentare con crudeli scherzi telefonici i vicini cretini (e trentini, colpa imperdonabile nel Regno di Napoli), mentre la zia chiattona e zitella si presenta con un fidanzato molto malconcio ma accolto dai parenti senza ombra di pietà (qui fioccheranno proteste e anatemi: con il body shaming oggi non si scherza più). Ecco nobildonne risentite e maldicenti (ma a tempo debito generose), gite al mare arricchite da incontri e episodi apertamente mitici, contrabbandieri pronti a insegnare a Fabietto cosa significa libertà. Poi nientemeno che Fellini in persona (intelligentemente ne sentiamo solo la voce), a Napoli in cerca di comparse, con conseguente corte dei miracoli in sala d’attesa frugata avidamente dallo sguardo di Fabietto, che già sogna di fare il regista anche se si vergogna a dirlo. E troverà il coraggio di buttarsi solo dopo il provvidenziale incontro con Antonio Capuano (altro episodio autentico, anche se l’interprete scelto somiglia assai poco al vero regista). Ma qui siamo già nell’Inferno post-incidente, che trascina anche il film in una dimensione diversa, vicina ai lati più esteriori e meno convincenti del cinema di Sorrentino. Come se l’urgenza del dire, la difficoltà di confrontarsi col trauma, spingesse il regista verso una dimensione più declamatoria ma decisamente meno convincente. Accumulando dialoghi fin troppo espliciti, scene non sempre necessarie, simbolismi alla fin fine ridondanti. Anche se il primo a saperlo naturalmente è il regista, che nel lungo incontro con Capuano si sente dare un consiglio (o un ordine) meno enigmatico di quanto sembri: “Non ti disunire!”. Cioè resta te stesso. E ancora prima trova te stesso. Racconta ciò che hai da raccontare. Non strafare, sia pure per eccesso di talento. E: “Non andare a Roma, solo i cretini vanno a Roma!” (citiamo a memoria). Sappiamo come sarebbe andata. A Roma Sorrentino c’è andato eccome. In questo senso “È stata la mano di Dio” è anche un modo per stilare un primo, provvisorio bilancio. 

Sorrentino a Venezia: «Il mio film di coraggio e sentimenti è un nuovo inizio».  Alessandro Magliaro su Il Quotidiano del Sud il 2 settembre 2021. È stata la mano di Dio, il film di Paolo Sorrentino dichiaratamente personale, intimo, autobiografico in cui ripercorre la sua adolescenza a Napoli di tanto amore e altrettanto dolore con la perdita dei genitori a 16 anni, è diverso da tutti i suoi precedenti come storia, ambientazione, stile cinematografico. Il film della svolta? “Ero qui a Venezia 20 anni fa con il mio primo film, L’uomo in più, interpretato da Toni Servillo (che qui invece interpreta suo padre (ndr), mi piace pensare che questo sia un nuovo inizio”, dice il regista all’Ansa. Un film in cui con grande coraggio fa i conti con il suo passato, segnato appunto da quella tragedia dopo la quale capì meglio cosa voleva fare da grande, ossia il cinema e trasferirsi a Roma. “C’è voluto più coraggio a scriverlo che a farlo, perché poi sul set, anche se ci sono stati momenti emozionanti, ci sono i problemi pratici che ti salvano e ti fanno superare quasi del tutto le paure. Mi sono deciso ora – prosegue il premio Oscar per La Grande Bellezza – forse perché ho l’età giusta, quella in cui si fanno i bilanci, ho fatto 50 anni, e tutto quell’amore vissuto e tutto quel dolore potevano essere declinati in un racconto cinematografico, mi sono sentito insomma abbastanza grande o maturo per affrontarlo. Io sono molto pauroso nella vita, al cinema invece accade il contrario, mi sembra di essere stato finora coraggioso, ma per questo film tutto era diverso: la priorità è stata non tradire quei sentimenti vissuti all’epoca dei fatti, fare un film semplice, essenziale e lasciar passare sentimenti ed emozioni”, rivela con trasporto. Dopo questo film si è sentito liberato del passato? “Non penso – risponde all’Ansa – che un film sia sufficiente a liberarti di cose che ti segnano la vita. La famiglia mi ha aiutato a tenermi a galla, ma certo pago le conseguenze caratterialmente di quello che ho vissuto e ho scritto la sceneggiatura pensando di farla leggere ai miei figli, per spiegare i miei comportamenti. Da anni tenevo con il passato un monologo interiore, bloccavo i ricordi, il film, certo, è un tentativo di liberarsi, se sarà riuscito lo scoprirò con il tempo”. Nella storia il giovane attore Filippo Scotti è Fabietto, l’alter ego del regista, “con la stessa timidezza, inadeguatezza che ricordavo di avere da ragazzo”. Toni Servillo e Teresa Saponangelo interpretano i suoi genitori, “non ci ha chiesto di essere fedeli ma di ricordarli come una coppia molto innamorata”, spiega Servillo che sin dall’inizio della collaborazione ormai ventennale con Sorrentino era predestinato prima o poi ad interpretare il genitore (“me lo aveva promesso: ‘quando troverò la giusta distanza’ sarai mio padre in un film che prima o poi farò”, ricorda Servillo). “Ci sono i pianti ma anche tante risate”, aggiunge l’attore (che a Venezia 78 è protagonista anche di Qui rido io di Mario Martone e di Ariaferma di Leonardo Di Costanzo accanto a Silvio Orlando). È stata la mano di Dio è un titolo che cita la famosa mitica frase di Maradona per giustificarsi del gol argentino all’Inghilterra ai Mondiali ’86: “È una bellissima, emblematica metafora. È un titolo che si riferisce al caso o al divino, io credo nel potere semi divino di Maradona”, dice Sorrentino che da ragazzo proprio per vedere la partita del Napoli a Empoli non seguì i suoi genitori nell’abituale weekend in montagna a Roccaraso in cui morirono per una fuga di gas. “E’ un mio grande rammarico non aver potuto far vedere il film a Diego, il mio primo desiderio era questo”, spiega mentre rispetto alle polemiche sull’approvazione del progetto Sorrentino ritiene che non venissero dal giocatore, morto il 25 novembre 2020, “ma piuttosto dal suo entourage”. Resta, nel gioco delle coincidenze tra i personaggi rappresentati e la realtà storica, il mistero sulla affascinante sexy psicologicamente fragile zia Patrizia, interpretata da Luisa Ranieri. Sorrentino prova a fugare il dubbio: “Se avessi avuto una zia bella come Luisa la mia vita sarebbe stata diversa”. Prodotto da Lorenzo Mieli e Paolo Sorrentino, una produzione The Apartment, società del gruppo Fremantle, È stata la mano di Dio uscirà in cinema selezionati in tutto il mondo per tre settimane (in Italia il 24 novembre) e su Netflix il 15 dicembre 2021. E nei prossimi giorni è di scena a Telluride. E chissà che non venga designato per l’Oscar. “Avevo deciso di fare questo film con Netflix ben prima della pandemia per varie ragioni, non voglio fare sviolinate ma Netflix ha consentito a me, e credo anche ad altri, di fare un cinema piccolo ma con tutti i mezzi necessari, anche per la promozione. E poi volevo che arrivasse al maggior numero di persone, in particolare ai ragazzi: in quell’età delicata tra i 16 e i 18 anni pensi ad un’idea nera del futuro o che di futuro non ce n’è proprio, invece non bisogna smettere di cercarlo”.

DAGONEWS il 6 settembre 2021. Dopo il successo della prima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia, "E' stata la mano di Dio" (The Hand Of God) del regista Premio Oscar Paolo Sorrentino, è stato presentato in questi giorni al Festival di Telluride negli Stati Uniti. In un articolo uscito sul sito americano Deadline, il giornalista Pete Hammond sostiene di non aver incontrato nessuno al Festival di Telluride, compresi il team di The Searchlight, che non abbia amato follemente il nuovo film di Sorrentino che tocca il cuore di chiunque lo veda, sostiene Hammond.  Secondo Hammond, il comitato di selezione italiano farebbe una mossa falsa se "E' stata la mando di Dio" non venisse scelto come candidato ufficiale dell'Italia per il Miglior Film Straniero, sottolineando che il film riscuote in chiunque lo veda una grandissima risposta emotiva. Sorrentino d'altronde è stato già una scelta vincente in passato, scrive Hammond, “La grande bellezza” infatti non solo fu nominato, ma vinse l'Oscar nel 2013 per il Miglior Film Straniero. Hammond prevede un futuro simile per The Hand Of God, che a suo dire potrebbe ambire alla nomination per il Miglior Film Straniero ma anche a quella per il Miglior Film. Per Hammond quindi, dopo l'ottima accoglienza a Venezia e ora a Telluride (dove Sorrentino è presente con la giovane stella emergente Filippo Scotti, Luisa Ranieri e il direttore della fotografia Daria D’antonio), le prospettive del Film per gli Oscar sono brillanti in molte categorie, internazionali e non solo. Hollywood Reporter è d'accordo con Deadline e afferma che "E' stata la mano di Dio" può riportare l'Italia nella corsa agli Oscar ricordando come "La grande bellezza" di Sorrentino sia stato l'unico film italiano a vincere il Premio per Miglior Film Straniero nel XXI Secolo. Secondo Hollywood Reporter la scelta del film che rappresenti l'Italia nella corsa agli Oscar è spesso una scelta politica e l'Italia farebbe meglio a scegliere il Maestro che lo ha già vinto in passato piuttosto che accontentare eventuali interessi locali. Inoltre il film verrà visto in tutto il mondo e con Netflix alle spalle può contare su una grande campagna di lancio. "E' stata la mano di Dio" è un film Netflix prodotto da The Apartment, società del gruppo Fremantle, in uscita in cinema selezionati il 24 novembre e su Netflix il 15 dicembre 2021.

·        Paris Hilton.

Flavio Pompetti per "il Messaggero" il 10 febbraio 2021. «Il mio nome è Paris Hilton, sono una persona sopravvissuta all' abuso delle istituzioni e parlo oggi a difesa di centinaia di ragazzi detenuti in strutture di rieducazione sparsi negli Stati Uniti». La voce trema e le mani corrono ad asciugare le lacrime che già solcano il viso. La trentanovenne ereditiera dell' impero alberghiero va comunque avanti, e completa la sua denuncia: «Per tutti i venti anni che ho alle spalle sono stata perseguitata da un incubo ricorrente: due sconosciuti mi rapiscono nel mezzo della notte, mi spogliano per perquisirmi, e poi mi rinchiudono in un edificio. Mi piacerebbe dirvi che si è trattato solo di un cattivo sogno, ma non è stato così».

LE SEVIZIE. Non è la prima volta che Paris racconta la storia, lo ha già fatto nel documentario This is Paris lanciato nel web lo scorso settembre, nel quale ha dettagliato le sevizie delle quali è stata vittima all' età di sedici anni, quando i genitori decisero che l' unico modo per curarla dalle intemperanze giovanili era rinchiuderla in un istituto privato di riabilitazione: la Provo Canyon in Utah. L' attrice, cantante, modella e testimonial ha voluto tornare nei giorni scorsi a raccontare la sua storia ventitré anni dopo di fronte alla commissione senatoriale Giustizia dello stato dello Utah, mentre i legislatori discutevano la necessità di disegnare standard di comportamento e misure di controllo per i centri di riabilitazione del suo territorio. La Provo Canyon non è un' associazione di beneficenza. E' una scuola privata specializzata nel trattamento di adolescenti difficili dove già nel '97 i genitori della Hilton pagarono un conto di 300.000 dollari per tenerla confinata durante i dodici mesi di cura. Paris riguarda oggi le foto immediatamente successive al suo rilascio e dice che può vedere, dietro il sorriso e il tentativo di dissimulare la realtà, la tristezza e la rabbia che quella esperienza le avevano lasciato addosso. «Ero costretta a prendere pillole che mi lasciavano stordita per giorni ha raccontato ai politici dello Utah se mi rifiutavo di ingerirle, venivo confinata in detenzione solitaria in una stanza nella quale dovevo entrare nuda, sotto lo sguardo dei miei carcerieri». Stesso trattamento alle docce, dove gli studenti venivano accompagnati dal personale onnipresente nelle loro vite private. La custode assegnata a Paris, che si vantava con le sue colleghe di essere quella che era riuscita a «piegare la volontà» della giovane ribelle, ha continuato a lavorare nell' istituto per altri vent' anni, ed è stata licenziata solo dopo la recente uscita del film. Nella memoria dell' artista, altri giovani con lei nel centro venivano regolarmente sbattuti contro il muro con le mani serrate contro la gola, e molti di loro hanno subito sevizie sessuali.

NUOVI CODICI. La Provo Canyon è ancora aperta oggi, anche se gestita da amministratori e proprietari tutti diversi da quelli che erano in carica durante il ricovero della giovane Hilton. Nel suo caso la cura non ha sicuramente avuto un effetto risolutivo. Dopo la fine del programma di rieducazione è iniziata la carriera della giovane artista, che nel '99 entrò nella squadra di modelle della Trump agency. Una carriera segnata da abusi di droghe e alcool, che l' hanno portata a successive ricadute e umilianti esibizioni pubbliche. La sua testimonianza ha avuto però un peso nella audizione alla quale ha partecipato. L' assemblea statale dello Utah ha approvato all' unanimità la legge che fissa i nuovi codici di comportamento ai quali dovranno adeguarsi la Provo Canyon e le altre strutture private dedicate alla rieducazione giovanile.

·        Pasquale Panella alias Vito Taburno.

Carlo Moretti per “la Repubblica” il 3 marzo 2021. Ha appena scritto e pubblicato sette nuove canzoni con il nome di Vito Taburno, un misterioso cantante centenario (risulta nato nel 1920) con una lunga carriera da night e pianobar, cui ora dà la voce Matteo Setti. Ma Pasquale Panella è anche l' autore degli ultimi album "bianchi" di Lucio Battisti e di tanti altri brani, anche sanremesi. «Quando ho seguito il Festival l' ho sempre seguito a volume basso, l' ho lasciato di sottofondo, ascoltando praticamente soltanto gli artisti per i quali avevo scritto il testo. Ma non per snobismo, è che io scrivo delle cose, che siano righe o canzoni o articoli, e presumo che il novantanove per cento delle persone sia disinteressato a questo».

Sanremo riprende da dove si era interrotto un anno fa: Morgan che cambia il testo e Bugo che se ne va dal palco.

«Lo conosco Bugo, anche dato il nome, e poi perché me ne hanno parlato per la storia dell' altro interprete, Morgan. Ma la narrazione su Sanremo è tutta letteratura che viene dopo, lì si rappresentava solo un capriccio che, volendo, si può far diventare un dramma. E così, da alcuni atti leggermente inconsulti e vagamente isterici può nascere una tragedia greca. È bello immaginare che Medea nasca da un imbarazzo. Questo conferma anche lo strettissimo legame tra infantilismo e canzone».

Chi scrive canzoni è sempre un bambino?

«No, quello è Pascoli. La qualità tecnica, il rispetto metrico in versi e in rima di Pascoli e Carducci, i poeti più cantabili in Italia, resta insuperato, dopo di loro non si può più parlare di poesia nelle canzoni. I cantautori poi sono un ibrido, portano nella canzone istanze psico-bio-patologiche, portano le disgrazie del mondo esterno, sono come maestrini che vogliono dire la loro, ma è inutile, in Italia per questo abbiamo già i saggi di Agamben, cos' altro vuoi dire? La vera canzone è più pura, non scende a patti. Estratto dalla canzone il testo è cestinabile, la canzone ha un suo imperio».

A Dylan hanno dato il Nobel per i testi delle sue canzoni.

«L' Accademia di Svezia è molto creativa, si sostituisce agli artisti, attribuisce i premi per segnalare sue crisi o certe sue lungimiranze, che più spesso sono tardo-miranze. Non c' è niente di male che tentino di vedere nella musica leggera delle possibilità letterarie. Il Nobel è forse un premio di prestigio o un riconoscimento? Non indica certo il migliore di una generazione, l' Accademia indica una figura all' orizzonte, sbagliando sempre, peraltro».

La canzone è riuscita se crea dunque stereotipi?

«Certo, ma crearli non è facile. La cosa più difficile nella scrittura è creare ovvietà, non ripeterle».

Il suo dududù dadadà in "Vattene amore" di Minghi e Mietta è una di queste ovvietà?

«No, quello è un espediente fonico, è la sfiducia manifesta nella possibile definizione dell' amore che conduce a dire dududù dadadà. Anche nell' altra canzone sanremese capitata a Mietta, guarda il caso intitolata Canzoni , lei canta così: "l' amore ta-ra-ta-ra-tattattattà", e lì crea uno stereotipo, un ovvio. Lo fa perché dell' amore nelle canzoni si è già stradetto, per lei tutte le definizioni dell' amore sono quindi sospese in una raffica ritmica. Nel momento in cui si potrebbe avere la presunzione di sostituirsi a Stendhal che scrive il saggio De l' amour , lei lo sintetizza in quel ta-ra-ta-ra-tattattattà: c' è la rinuncia a essere didascalico per diventare stereotipo».

Anche il Trottolino amoroso è uno stereotipo?

«Qui c' entra il modo in cui la figura amata può essere detta, al di là dell' inevitabile riferimento al Farfallone amoroso delle Nozze di Figaro , per uno di quei passaggi citazionistici di cui non si accorge nessuno. Come nella mia canzone estiva per Edoardo Vianello Le soleil in cui cito addirittura Anna Livia Plurabell dal Finnegan' s Wake di James Joyce. Capito come mi diverto? Ho la responsabilità della scrittura di chi mi ha preceduto. Chi ascolta è quel che ascolta e legge, e chi lo coglie sa che quella canzone si candida».

C' è l' altra sanremese, "Barbara", con la diavola che scivola di Carella.

«Perché diavola? Ma i significati non servono a nulla. Se ti pungo con uno spino o ti punge un' ape ti chiedi forse cosa significa? Io voglio essere pungente, non significante. L' arte agisce come l' ape, non agisce per significazione, i significati sono buoni per chi mangia e facendolo si sbava».

Il pubblico ha tutto il diritto di interpretare, per anni dietro al "finché la barca va" di Orietta Berti è stato visto il governo della DC.

«Questo dipende dalla presunzione dell' ascoltatore di essere l' ermeneuta. Così facendo però il pubblico perde tutto il resto, la puntura esatta di quella canzone. Manifesta la sua presunzione, l' interpretazione politica, ma non coglie il molto che continua a lavorare in lui, l' elemento di vanità, l' assimilarla come barca che dev' essere lasciata andare. Quella barca è la barca, se non vuoi godere pensa che sia altro. È questa la sua potenza, una potenza che nessun Gava, nessun Fanfani, nessun Andreotti, nessun Moro, riuscirà a scalzare».

Poi ci sono i nuovi brani di Vito Taburno: uno, tremendo, parla di formiche rosse e di farfalle nere in cerca di corpi di soldati morti.

«Vito tende al teatrale. Questi brani hanno tutti intorno una corona di testo e di parlato, Vito dopo aver cantato nei locali si intrattiene con il pubblico ai tavoli e da quelle conversazioni trae spunto. Una sera incontra Curzio Malaparte che gli racconta dell' esilio in Etiopia, del suo sogno di fuga in Somalia per chiedere asilo ai francesi. In quei luoghi davvero le formiche rosse e le farfalle nere si nutrono di cadaveri. E il cantante, costretto a parlare di "teatri tetri di guerra", dice "ahi" perché reagisce a una puntura. È la canzone che agisce come la puntura di un' ape».

·        Patrizia De Blanck.

Da "Oggi" il 16 giugno 2021. «Il nostro legame non fu solo un’avventura come si crede, ma una vera storia d’amore», rivela Patrizia De Blanck a OGGI in edicola da domani, parlando di Franco Califano. «Franco mi adorava e anch’io ero molto presa da lui. A rendere particolarmente intrigante il nostro legame era la nostra appartenenza a mondi diversi, che si attraevano e si respingevano a un tempo». La contessa mostra per la prima volta a OGGI anche le lettere dove il Califfo le scriveva: «Ti immagino nuda come sei abituata a dormire e non ti nascondo che vorrei essere accanto a te… E’ un momento bellissimo e io te lo offro come ti regalerei me stesso. Teneramente Franco». Alla fine si lasciarono, racconta Patrizia De Blanck, perché lui rifiutava sempre di raggiungerla a Montecarlo e perché continuava a fumare a letto. Ma tra loro rimase un forte legame. E aggiunge: «Ebbi altri amori, ma in nessun uomo trovai l’imprevedibilità, l‘ironia e il senso del meraviglioso di Franco. Come a dire che, dopo avere avuto un amante come lui...tutto il resto è noia».

Da "liberoquotidiano.it" il 10 ottobre 2020. Record di insulti in diretta tra Patrizia De Blanck e la marchesa Daniela Del Secco d'Aragona al Grande Fratello Vip. Le due nobili fumantine, tra cui non è mai corso buon sangue, sono state riunite da Alfonso Signorini nel giardino della casa di Cinecittà e sono volate contumelie. "Qua dentro tu mi hai solo infamata… Dovresti evitare di utilizzare un certo tipo di linguaggio…Sei una grande buffona…", ha esordito la Del Secco. "Io ti consiglierei di rimanere qua dentro il più possibile perché fuori si è scatenato l’inferno contro di te… Dalla D'Urso parlano della tua falsa nobiltà…", infierisce ancora la marchesa. "Non ti consento di toccare la mia famiglia…!", è la pronta reazione della De Blanck, che la Del Secco colpisce ancora sul vivo: "Il figlio adottivo di Marina Ripa di Meana ha detto che non ti lavi… A Roma vieni chiamata ciavattara… Dovresti cambiare galassia…". Patrizia ha chiuso la tensione con due sole parole: "Vaffanculo stronza". 

·        Patty Pravo.

Verissimo, il dramma di Patty Pravo: "Quando ho conosciuto mia madre", un'infanzia stravolta. Libero Quotidiano il 14 novembre 2021. "Ho passato la mia infanzia con i miei nonni". Patty Pravo, ospite di Silvia Toffanin a Verissimo su Canale 5, ha parlato dei suoi anni da bambina, confessando di avere conosciuto la mamma solo "in età adulta": "Non le ho mai portato rancore. C'era ma non la vedevo. Quando poi ci siamo frequentate faceva tante cose per me". Poi, parlando della nonna, ha continuato: "Era una persona eccezionale, basti pensare che a 3-4 anni mi ha portato a imparare pianoforte. Sapeva già cosa avrei dovuto fare nella mia vita. Lei mi dava una libertà totale, ma naturalmente dovevo essere una ragazza perbene". Su nonno Domenico, invece, ha raccontato: "Era un signore molto simpatico, pazzerello: mi faceva fare un sacco di tuffi quando andavamo al mare". Poi ha rivelato anche che tipo di storie inventava per comprare le prime sigarette. Una volta, però, venne scoperta dai nonni, che le dissero di non fumare fuori ma in casa: "Io, alla fine, fumavo dentro e fuori casa". Alla morte del nonno, la giovane Patty partì subito per Londra e iniziò la sua carriera, ma senza aspettative: "Non ho mai pensato a questo mestiere come tale, bensì come a una passione". Infine ha aggiunto: "Anche il successo di 'Bambola' per me era inaspettato. Non credevo sarebbe stata apprezzata dal mondo femminile, invece no. E’ diventata un inno femminista, tanto da vendere 49milioni di dischi".

Dove mi hanno portato prima del carcere, Patty Pravo spiazza tutti. Giada Oricchio su Il Tempo il 14 novembre 2021. “Il carcere? Mi sono divertita”. Patty Pravo, a “Verissimo”, il programma di Silvia Toffanin, domenica 14 novembre, ha raccontato una vicenda del passato che l’ha vista protagonista della cronaca giudiziaria. “Non ti sei fatta mancare nemmeno il carcere” le ha detto una sempre molto brava Silvia Toffanin e l’artista veneta: “Sono stata tre giorni e poi mi hanno chiesto scusa. E’ stato divertente perché quando i poliziotti sono venuti a prendermi… tra l’altro tre ragazzi bellissimi… mi hanno portato in un bar dove c’erano tutte mignotte e transessuali”. E con la solita franchezza e il consueto spirito ha aggiunto: “Ero in arresto, ma prima di portarmi dentro hanno detto "beviamo qualcosa". E' stato un party e che dovevo fare? Mi sono divertita. Avevo un maglioncino di cachemire che mi ha aiutato a proteggermi dal freddo. Non lo sapevo quando mi sono venuti a prendermi”. Patty Pravo, icona della musica italiana e artista di grande sensibilità, fu arrestata a 44 anni, nel 1992, per consumo di stupefacenti (hashish) che la portò a passare alcuni giorni in isolamento nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. Fu molto amata però dalle altre donne presenti nel carcere che la salutarono, non appena scarcerata al terzo giorno, cantando in coro “Ragazzo Triste”.

Patty Pravo, l’eterna figlia dei fiori. Angela Leucci il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. Regina di provocazioni, voce calda ed eterna "ragazza del Piper": la storia della cantante Patty Pravo e i suoi successi più amati dagli over. Patty Pravo è un’artista che ha saputo incarnare i cambiamenti della società e della musica pur restando sempre fedele a se stessa. Hippie della prima ora - per qualcuno la prima vera figlia dei fiori italiana - ha affrontato con arguzia e creatività il tempo che passa, non tanto adattandosi, ma da inconsapevole precorritrice. Per questo incarna appieno lo spirito guerriero degli over 60, che riescono ad amare la sua prima hit “Ragazzo triste” come il recente brano portato a Sanremo “Un po’ come la vita” con Briga. Patty Pravo è riuscita a vivere il 1968 essendo già oltre le lotte del partito internazionale della gioventù. “Neanche avevo capito che ci fosse il ’68 - ha commentato in un’intervista al Corriere della Sera - Viaggiavo tanto, ero ovunque. Nel ’69, andai alla Nasa dagli astronauti scesi dalla Luna e, in Russia, cantai per l’Armata Rossa”. Il merito di tanto successo attraverso le generazioni è dovuto a fattori come la sua musica, la sua immagine mutevole e d’avanguardia, ma anche la filosofia che sta alla base del personaggio: un personaggio perfettamente aderente a Patty Pravo persona. Coraggiosa, irriverente, ammaliante: l’artista è riuscita a ritagliarsi una fetta nel cuore dei suoi coetanei ma anche degli appartenenti alle altre generazioni. “So guardare non dico avanti, ma solo al momento - ha raccontato al Corriere - Vedo cosa mi va e, se voglio stare tranquilla, stacco e mi faccio un viaggio da sola”. Le esperienze di vita di Patty Pravo corrispondono a quelle del suo personaggio, narrato in tre diverse biografie: “Bla, bla, bla” con Massimo Cotto del 2007, “La cambio io la vita che - Tutta la mia storia” del 2017 e “Minaccia bionda - A modo mio sempre contrattempo” del 2020. Queste esperienze sono assolutamente affascinanti e tra esse ci sono moltissimi viaggi. “Ho vissuto tre o quattro anni tra Los Angeles e San Francisco - ha raccontato in un’intervista a Grazia - Facendo avanti e indietro con l’Europa, Londra, l’Italia. Una volta presi un aereo per andare a vedere com’era il Ferragosto a Roma. Quando stavo in California, mi piaceva guidare fino al Gran Canyon. A Las Vegas, avevo alcuni amici indiani che mi confezionavano collanine e bracciali. Sono tra le poche cose che ho ancora. Credo che mi portino bene”. Tra i viaggi non ci sono stati solo quelli con tutti i comfort ma anche qualcosa di decisamente più avventuroso. "Ho anche fatto la traversata atlantica in solitaria - ha rivelato al Corriere - Dalla Spagna, ho beccato gli Alisei e in due settimane ero arrivata. Ne ho parlato con Giovanni Soldini e non si capacitava di come fossi viva, perché lui va super organizzato, io ero partita terra terra”. Patty Pravo, nel corso della sua carriera, ha incontrato diversi altri artisti, sia per le sue collaborazioni sia in amicizia, dal pittore Mario Schifano al cantante David Bowie, fino ai Rolling Stones. “Con Keith Richards, siamo ancora amici - ha raccontato al Corriere - Ero con lui quando cadde da una palma alle Fiji e i giornali scrissero che era ferito grave, ma fu solo una bottarella. Si fece un Jack Daniels e già non ci pensava più”. Una volta Renato Zero ha raccontato di quando la cantante arrivò al Piper, negli anni ’60, su una Rolls Royce guidata da un autista africano, con due levrieri al guinzaglio: qualcosa di grande impatto e di assolutamente inedito per quei tempi. E l’immagine da diva si è spesso prestata alla creatività di molti stilisti, tra cui Gianni Versace, che creò per lei il look di Sanremo 1984: la cantante era un po’ sparita dal jet set per via di alcune illazioni della stampa, ma arrivò sul palco dell’Ariston come una splendida principessa giapponese del futuro. Tra gli scandali che le capitarono anche un’accusa per droga nel 1992: passò tre giorni a Rebibbia in isolamento e alla sua uscita le detenute le cantarono “Ragazzo triste”. “Ci sono stata tre giorni, rilasciata con tante scuse perché cercavano cocaina, ma io, se c’è una cosa che non ho mai preso è la coca. Il resto sì”, ha detto al Corriere, aggiungendo che oggi, e da molto tempo, non fa più uso di alcuna sostanza. “Già a scuola, da ragazzina, mi dicevano che ero più avanti, fuori dal tempo, fuori dal comune - ha spiegato ancora a Grazia - E, in effetti, la mia vita un po’ eccezionale lo è sempre stata. Ho avuto la fortuna di nascere a Venezia e, alle elementari, ho avuto una maestra meravigliosa che, invece di recitare le preghiere in classe, ogni mattina ci faceva cantare La Marsigliese”. Classe 1948, Nicoletta Strambelli - questo il vero nome della cantante - fu cresciuta dai nonni, anche se i genitori le furono sempre accanto, educandola come una persona libera dalle convenzioni. Intorno alla metà degli anni ’60, dopo le prime esperienze musicali giovanili, Patty Pravo iniziò a esibirsi al Piper, un club romano molto in voga all’epoca, diventando per tutti “la ragazza del Piper”. Fu durante una di queste serate che venne scoperta. “A 15 anni, finito il conservatorio - dice al Corriere - andai a Londra a imparare l’inglese. Arrivo, mi dicono che a Roma c’è un locale fighissimo. Con gli amici, parto in macchina la sera stessa. Il proprietario Alberigo Crocetta mi vede, mi chiede se so cantare come so ballare. E io, che a cantare non avevo mai pensato, dico subito sì. Sono salita sul palco, mi è piaciuto. Mi hanno detto che dovevo avere un gruppo, farmi un repertorio. Poi, Gianni Boncompagni scrisse per me il testo di ‘Ragazzo triste’ e stavo già in giro a far serate”. Il disco d’esordio, “Patty Pravo”, risale al 1968: da allora l’artista ha inciso altri 27 album in studio più altri 4 dal vivo. Ha partecipato per dieci volte al Festival di Sanremo: nel 1970 cantando con Little Tony “La spada nel cuore”, nel 1984 con “Per una bambola”, nel 1987 con “Pigramente signora”, nel 1995 con “I giorni dell’armonia”, nel 1997 con “E dimmi che non vuoi morire”, nel 2002 con “L’immenso”, nel 2009 con “E io verrò un giorno là”, nel 2011 con “Il vento e le rose”, nel 2016 con “Cieli immensi” e nel 2019 cantando “Un po’ come la vita con Briga”. Ha inoltre preso parte più volte al Festivalbar e a Canzonissima, oltre che a diverse trasmissioni televisive, film (anche un paio di musicarelli) e una serie tv, “Tutto Totò” con l’omonimo attore partenopeo. E se a Sanremo ha vinto alcuni premi della critica, Patty Pravo ha conquistato anche altri diversi riconoscimenti, tra cui una Targa Tenco, un Premio Ciampi e un Nastro d’argento per “Sogno”, brano inedito che Ferza, Ozpetek incluse nella colonna sonora del film “Mine vaganti”, in cui figura anche un grande classico della cantante, “Pensiero stupendo”.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Renato Franco per “il Corriere della Sera” il 19 febbraio 2021. Domani Rai1 dedica in prima serata un omaggio a Nicoletta Strambelli. Ovvero Patty Pravo, la «minaccia bionda» come il titolo della puntata. La cantante duetterà, si racconterà, giocherà allo specchio con se stessa e con artisti come De Gregori, Venditti, Morgan, Elio, Nina Zilli... Conduce Flavio Insinna.

Patty Pravo, lei si sente una minaccia per sé o per gli altri?

«Un po' per tutti. Perché ho fatto sempre quello che mi pareva, non sono mai stata dentro i canoni normali di una carriera regolare. Ho scelto sempre seguendo il mio istinto, e ogni tanto c' era sicuramente da stupirsi».

Tutta questa libertà da dove le veniva?

«Era insita in me, sono sempre stata così, fin da bambina; era la mia natura. Non ho mai fatto niente per calcolo, non me ne accorgevo che stavo rompendo gli schemi».

Il suo nome d' arte è un riferimento all' Inferno dantesco («guai a voi anime prave», cioè malvagie). Si sentiva maledetta e malvagia?

«No, però suonava bene. Al conservatorio all' epoca si studiava anche dantismo, mica come oggi. Eravamo al Piper, cercavamo un nome d' arte per me e parlando di Dante è venuto fuori questo "pravo" che ci piaceva. Il nome invece era per delle amiche inglesi che si chiamavano Patty, un nome che andava di moda all' epoca. E mi sono trovata con questo Patty che non mi faceva impazzire ma suonava bene».

In quale girone dantesco merita di finire?

«Va bene qualunque posto dell' Inferno, almeno sarei in piacevole compagnia. Non in un girone particolare, mi piacerebbe poterli girare un po' tutti».

«La Bambola» fu un inno femminista. Oggi il tema è ancora attuale.

«Ma per me era quella era una canzonetta, non le davo un grande significato, poi ho scoperto che le donne ne avevano fatto un manifesto di libertà, è diventato un inno femminista anche se la parola non mi piace».

Perché non le piace?

«È vecchia e brutta come parola, non ce n' è più bisogno. Le donne stanno prendendo delle posizioni molto importanti nella società».

Per lei non era un inno femminista e le piaceva pure poco come canzonetta.

«Non amavo quel pezzo, lo feci perché sono una professionista. Dopo averla cantata la prima volta dissi al mio manager che sarebbe stata la mia rovina... Ha venduto oltre 40 milioni di copie».

Oggi le piace?

«Ci rido sopra».

Dieci volte a Sanremo senza mai vincerlo: è stata una delusione?

«Non penso mai di vincere se partecipo. Volevo provare il Festival quando avevo 19 anni, lo vedevo come un' esperienza da fare una volta sola e poi basta. Invece è diventata una specie di calamita che mi attraeva. A Sanremo si è sempre molto tesi, si pensa soprattutto al pubblico della televisione più che a quello in sala».

Barocca, detestabile, unica, odiosa, geniale, divina. L' hanno definita in tanti modi. Lei come si definirebbe?

«Una ragazza normale».

Ma lei è una diva.

«Anche una diva può essere una ragazza normale. Io sono quello che gli altri vogliono vedere. Sono un' interprete e quando interpreto divento un' altra cosa. Nella vita sono una ragazza abbastanza normale... oddio normale (ride di gusto)... Quando vai in scena viene fuori un' aura diversa, di luce, perché sei sul palco, perché c' è il pubblico».

Che rapporto ha con l' età che passa?

«Per ora sto bene, e quindi non ci penso».

La chirurga estetica è un errore o un' opportunità?

«Dipende da come sei messo, da come ti accetti, se ti piaci o meno. È un discorso sempre soggettivo».

Cosa la imbarazza?

«La volgarità, oggi ce n' è tanta. Una volta era tutto più solare».

La politica che sentimenti le suscita?

«C' è tutto da dire, ma niente da dire».

Cinque matrimoni più uno (con Riccardo Fogli) non valido perché contratto con rito celtico. È una donna irrequieta?

«Irrequieta sicuramente. Io non ho voluto mai sposarmi, sono stati i miei compagni a volermi sposare e per non far mancare loro nulla l' ho fatto».

·        Patti Smith.

Gino Castaldo per “la Repubblica” il 14 novembre 2021. Il pianeta, la fede, la musica: domenica il concerto a "Riemergere", a Roma di Gino Castaldo. Avete presente un angelo, ottimista e di sinistra? Nulla a che vedere con l'immagine tradizionale, eppure Patti Smith, con la sua dolce consapevolezza, quella poetica e matura empatia che si percepisce sempre nelle sue parole, ha qualcosa di angelico. «Ma sì, è vero, malgrado tutto sono ottimista, lo sono di natura», ci racconta da Londra via telefono, «non riesco a essere pessimista, credo nella gente e sono sicura che i giovani proveranno a essere migliori». La precisazione era d'obbligo dopo il suo severo monito in risposta alla domanda più problematica di tutte. 

Alla fine, crede che il mondo sia migliorato o peggiorato in questi ultimi anni? 

«Sfortunatamente abbiamo portato il mondo in una situazione di grave difficoltà, incendi, tempeste, devastazioni climatiche e non parliamo del futuro, solo in America si sono estinte 22 specie animali negli ultimi tempi. È tutto complicato, i problemi legati all'immigrazione, e ovviamente la pandemia. Sono tutte questioni globali, la vita di molta gente è in pericolo. Non riesco a immaginare qualcosa di peggio in epoca moderna, dopo la seconda guerra mondiale. Ma del resto questa è la nostra guerra mondiale».  

Eppure lei dà sempre l'impressione di essere alla ricerca del lato buono delle cose, della bellezza, di una via d'uscita. Come sta, e cosa ci fa a Londra?

 «Sto bene, sono in Inghilterra per dei concerti e devo dire che è stato interessante tornare "on the road", ritrovarsi di nuovo con la gente di fronte, ieri sera per la prima volta ho cantato alla Royal Albert Hall di Londra, un posto davvero speciale. Ma queste serate sono speciali soprattutto per un motivo: nella mia band questa volta ci sono mio figlio Jackson e mia figlia Jesse e questo è molto importante per me». 

Tra pochi giorni sarà a Roma per un concerto associato a un meeting religioso. Ha cambiato idea nel corso degli anni a proposito della fede? 

«No, a parte quel verso con cui iniziai la mia carriera musicale e che diceva "Jesus died for somebody' s sins, but not mine" (Gesù è morto per i peccati di qualcun altro, non per i miei) e che ancora oggi mi rinfacciano, ma era scritto quando avevo vent' anni, rimane l'idea di non trovarmi a mio agio nelle religioni organizzate, ho preferito studiare la Bibbia per conto mio, l'ho fatto con mia sorella che è una Testimone di Geova, e lo faccio ancora, ho il mio sistema, credo che ognuno debba scegliere la sua strada. Non c'è una sola strada, tutte le strade portano a Dio». 

Se avesse occasione di incontrare il Papa, cosa vorrebbe dirgli?

«In realtà mi è già capitato di incontrarlo, anni fa, per un concerto di Natale, non avevo mai chiesto un incontro pensando che avesse troppo da fare e non volevo disturbare, però successe, per pochi minuti. Mi è venuto solo di ringraziarlo per l'attenzione nei confronti dei giovani e per il fatto di ricordare alla gente di rispettare Madre Natura, esattamente come faceva San Francesco che fu il primo ambientalista della storia. In realtà l'unica cosa che potrei dirgli è: grazie!». 

Dopo tutti questi anni di concerti, un'intera vita di passione, di poesia portata nel mondo del rock, crede che la musica possa essere oggi una buona consigliera? 

«Oh sì, certo, non riesco a immaginare un mondo senza Puccini, Jimi Hendrix, John Coltrane e anche senza quella che si fa oggi. La musica parla per la gente, la esalta, è un universo di linguaggi che tutti possono capire, non può cambiare le cose in se stessa ma può ispirare la gente a cambiare le cose, e comunque può regalarci felicità e relax». 

Tanti anni fa i suoi concerti a Firenze e Bologna lasciarono un segno indelebile nella storia del rock nel nostro paese. C'è qualche ricordo speciale a margine di quei clamorosi concerti? 

«Ricordo ogni cosa di quei concerti, i più grandi della mia vita. In più ricordo che venne Gregory Corso a Firenze a vedere il concerto, ma ovviamente non aveva detto niente a nessuno, provò a entrare senza permesso e ci fu un problema, poi alla fine si risolse ma era messo malissimo, lo portai in albergo per lavarsi e gli comprai un vestito bianco alla Marcello Mastroianni, così rimase al concerto e alla fine venne in bus con noi.  

Eravamo in giro a vedere le statue di Firenze, in piazza della Signoria, davanti alla copia del David mi disse: "Firenze è un gioiello, non ti lascerà andar via", e così finì la notte». 

A proposito di notte. Ci concede qualche dettaglio in più sulla nascita di "Because the night"? Sa com' è, è la storia che gli appassionati chiedono sempre di ascoltare 

«Ma certo, la verità è che all'epoca stavamo finendo l'album Easter. Io e il mio fidanzato, Fred Sonic Smith, che poi divenne mio marito, eravamo separati, lui stava a Detroit io a New York ed ero molto innamorata.  

Allora le telefonate erano costosissime, tipo cento dollari per mezz' ora, e non potevamo permettercelo, quindi avevamo un appuntamento una volta a settimana, alle nove di sera. Ma quella sera la telefonata non arrivava, ero disperata e mi misi a sentire una cassetta che mi aveva dato il mio produttore, con Springsteen che cantava la melodia di una canzone che aveva solo il titolo, che non aveva completato mentre incideva Darkness on the edge of town, era bellissima, io non ero certa di voler incidere pezzi che non fossero miei ma continuavo a sentirla, e la telefonata non arrivava, giravo in tondo per la stanza e sentivo la cassetta, e così prese forma "love is a ring, the telephone" e così via, tutto il resto, poi alla fine a mezzanotte Fred chiamò e fu tutto chiaro: "Because the night belongs to lovers"».

·        Pedro Almodóvar.

Nelle sale con "Madres Parlalelas". Intervista a Pedro Almodovar: “Il mio cinema è sempre stato politico”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Pedro Almodóvar l’avevamo lasciato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia dove era tornato, in concorso, dopo molti anni con un film, Madres Paralelas che ha visto una delle sue principali muse, Penélope Cruz, protagonista e vincitrice della Coppa Volpi per la migliore interpretazione. Lo ritroviamo in collegamento virtuale pronto per presentare l’uscita del film nelle sale italiane il 28 ottobre con Warner Bros e discutere più approfonditamente ed intimamente una pellicola che nuovamente si concentra sulle donne, sulle madri ma che si espande alla Spagna tutta ed a una pagina buia della sua storia, quella di desaparecidos e fosse comuni. Tre donne che si incontrano in una stanza di ospedale, due stanno per partorire, una è Ana un’adolescente spaventata accompagnata dalla madre Teresa, l’altra, Janis (Cruz) è una donna adulta e felice di mettere al mondo un figlio, anche se da madre single. Sullo sfondo di questo incontro tra madri “imperfette”, lo spettro di una verità storica, quella del bisnonno di Janis, assassinato durante la guerra civile spagnola. Pedro Almodóvar, il regista spagnolo sicuramente più amato in Italia, ci accompagna in un viaggio che parte da Madres Paralelas e prova a tracciare una linea di congiunzione tra il suo cinema di oggi, il passato e il suo futuro cinematografico.

Lei è stato tra i primi a dedicare il proprio cinema alle donne ed a raccontare le loro storie. Crede che la tendenza di oggi a rappresentare sempre di più l’universo femminile al cinema sia passeggera o segno che qualcosa è cambiato?

Non credo che sia una moda passeggera e credo che sia una tendenza giusta che con il tempo aumenterà. Più che l’aumento di registi che parlano di donne, credo che ciò che è più interessante siano le registe che raccontano le loro storie. Il festival di Venezia ha premiato un film diretto da una donna (La Scelta di Anne – L’événement) e il Festival di Cannes ha premiato un film sempre diretto da una regista (Titane) quindi io credo che noi registi maschi potremmo scrivere e dirigere ruoli femminili però c’è qualcosa che va al di là e ci son cose che soltanto le donne possono dire, raccontare. In questo film, per esempio, parlo di madri diverse, contemporanee e alcune volte molto imperfette ma credo che per quanto come uomo e regista possa scrivere un personaggio di una madre, ci sia nella maternità un mistero che noi uomini mai riusciremo a sviscerare. C’è una testimonianza che può venire soltanto dalle donne. Mi sono sempre interessati più i personaggi femminili che quelli maschili non so perché, e ho avuto la fortuna di poter collaborare con alcune attrici spagnole straordinarie come Penelope.

In questo film unisce il tema privato di queste madri a quello pubblico: il dilagare in Spagna di neo-movimenti fascisti e nazisti. Ha deciso di allargare i suoi orizzonti introducendo la politica nel suo cinema?

Credo che per quanto riguarda lo stile e la forma di narrare, ci sia stato un punto di inflessione a partire da Julieta. I miei film sono più sobri e meno barocchi, più contenuti e con un numero minore di personaggi. Questo è l’aspetto che hanno in comune Julieta, Dolor y Gloria e questo. Io sono di sinistra, molto preoccupato per la Spagna oggi ma non sono sicuro di come riuscirò a inserire la società spagnola nei miei prossimi film. I film sono sempre politici, ogni gesto artistico è politico, i miei film, anche i primi più pop deliranti del decennio anni ‘80 sono politici nel modo di porre la vita dei protagonisti, soprattutto nell’imporre la realtà, le preferenze sessuali e le questioni di genere che sono, di fatto, questioni politiche.

Ha parlato di madri imperfette e di aver voluto raccontarle maggiormente in questo film. Perché questa necessità e questo interesse?

Per cambiare! Per fare una cosa diversa da ciò che ho fatto prima. Come scrittore, scrivere un personaggio di una madre che non possiede un istinto materno, cosa molto dura sia per la madre che per la figlia, è molto interessante. Ci sono madri che si rendono conto che devono pagare un prezzo molto alto per potersi dedicare a qualcosa che non sia la cura dei loro figli. Mi sembrava interessante raccontare una madre contemporanea, che lavora e cerco di parlare di quanto è complesso e sempre deve esserlo stato, per una donna mettere insieme il lavoro e la cura di un bebè soprattutto se lo fa da sola. Come narratore le imperfezioni non soltanto delle madri ma di qualsiasi personaggio sono ciò che creano interesse in una storia. Non mi sarebbe possibile fare un film su una madre o una famiglia perfetta perché non succede niente, non è narrabile, non c’è storia.

Proprio in coincidenza dell’uscita del suo film, è di qualche giorno fa la notizia su El País del ritrovamento di nuove fosse risalenti alla guerra civile spagnola. Come commenta questa notizia?

Credo che il tema delle fosse sia ancora un argomento in sospeso e finché non sarà risolto, la società spagnola non può considerare chiuso quell’orribile capitolo della guerra. La società spagnola sa di avere un debito contratto con queste vittime e con le loro famiglie. Adesso la generazione dei nipoti come nel film chiede l’apertura di queste fosse. Fino ad oggi la destra spagnola si era opposta fermamente a questo e devo riconoscere che questo spero che cambierà con la legge dell’attuale governo socialista. Il mio film finisce nel 2019 quindi non ho potuto inserire questa cosa. Chiara Nicoletti

Venezia, le madri di Almodovar e i fantasmi della Guerra civile Fabio Ferzetti. L'Espresso l'1 settembre 2021. L’avevamo detto che quest’anno a Venezia si scava. E il film di Almodovar con cui si è inaugurata la 78ma Mostra lo conferma in modo addirittura clamoroso. Malgrado il titolo “Madres paralelas”, la nuova impresa del regista di “Volver” e “Tutto su mia madre” non riguarda tanto il futuro quanto il passato. Non la coscienza del presente e delle sue contraddizioni, quanto la memoria e le sue rimozioni. Tanto che fin dall’inizio, nella vicenda di queste due donne così diverse per storia ed età che si trovano a partorire lo stesso giorno (Penelope Cruz e la giovanissima Milena Smit), sullo sfondo ci sono le ferite mai sanate della guerra civile, rappresentate nientemeno che da una fossa comune. La fossa in cui Janis, “come Janis Joplin” (Penelope Cruz), fotografa di moda e madre single, spera di trovare i resti del bisnonno e di altri abitanti del paesino da cui viene la sua famiglia, teatro di una strage orrenda compiuta dai falangisti all’inizio della guerra civile. Anche se Almodovar scopre le carte molto lentamente e con un passo accorto, quasi sommesso, lontano dallo stile fiammeggiante per cui è famoso. Questione di rispetto, questione di età. Anche Pedro invecchia, evidentemente, e sente il bisogno di fare i conti col passato. Anche il nome per eccellenza della “movida” anni 80 sente che il suo paese non andrà mai avanti veramente se non si guarda dentro fino in fondo. E non trova la forza, per esempio, di dare un nome a quei 100.000 “desaparecidos” della guerra di Spagna tuttora senza identità. Ed ecco il tortuoso cammino di Janis e Ana, madri per caso, per caso destinate a partorire insieme, dunque a intrecciare vite ed affetti. Nonché a confrontare due visioni dell’esistenza assai diverse, perché per vie tortuose e stavolta molto almodovariane le due bambine che nascono obbligheranno entrambe a riconsiderare il proprio modo di stare al mondo. E un sentimento del presente dietro cui occhieggia, innominato, il digital divide. Con Ana, ancora minorenne al momento del parto, che per “vivere finalmente la propria vita” rimuove senza nemmeno accorgersene il passato, personale e collettivo. Mentre alla più matura Janis e al padre della bambina, che neanche a farlo apposta è un antropologo forense, tocca il compito di aprire gli occhi, ad Ana e si suppone a larga parte del pubblico giovanile di oggi, sull’importanza di guardare in faccia le epoche trascorse. Costi quel che costi (con una stoccata per i politici come Mariano Rajoy che si vantano di non destinare “nemmeno un euro alla memoria”). Anche se è proprio interrogando la propria storia personale che Ana riuscirà a costruire un nuovo sguardo sul passato. Il tutto con sporadici ed emozionanti inserti di vecchie foto anni 30 che hanno l’aria di essere molto vicine alle memorie personali del grande regista. Ma senza ritrovare se non a sprazzi lo slancio, l’audacia, l’imprevedibilità narrativa e visiva dei suoi film migliori. “Dolor y Gloria”, per citare solo l’ultimo, si muoveva su un terreno non troppo lontano – la convivenza di passato e presente, le ferite che non vogliono chiudersi, i destini che si imbrogliano e si impigliano - ma in chiave sfacciatamente autobiografica. Qui invece Almodovar sembra voler dire Noi ancor prima che Io. Scelta legittima, forse non così consona ai suoi mezzi e al suo mondo. Ma così chiara ed esplicita che in tempi simili potrebbe anche portargli fortuna.  Soprattutto in una Mostra mai come quest’anno attenta alle ferite e ai fantasmi della memoria.

Stefania Ulivi per corriere.it l'1 settembre 2021. «La Spagna fa fatica a fare i conti la propria memoria storica. C’è un debito morale enorme nei confronti dei desaparecidos del franchismo. Neanche il nostro cinema lo ha fatto». Pedro Almodóvar va dritto al cuore della questione che ha messo al centro di Madres paralelas, film di apertura (molto applaudito alle proiezioni stampa), in concorso alla Mostra, dove torna dopo aver ricevuto il Leone d’Oro alla carriera del 2019 e presentato il corto The Human Voice con Tilda Swinton dell’anno scorso. È la storia di due madri, interpretate da Penélope Cruz (Janis) in stato di grazia e dalla nuova “Chica Almodóvar”, Milena Smit (Ana)che le tiene testa. Ma è soprattutto la storia del suo paese e della grande rimozione collettiva: le vittime dei falangisti durante la guerra civile sepolte in fosse comuni, di cui, in moltissimi casi ancora non si sa nulla. Il più celebre, lo ricorda dopo averlo citato nel film, è Federico Garcia Lorca. «La memoria storica è una questione in sospeso nella società spagnola. La legge al riguardo di Zapatero del 2007 è incompleta, le poche riesumazioni sono state realizzate grazie a iniziative private». Una generazione, avverte, quella dei figli delle vittime, sta scomparendo. «Ora sono i nipoti aver preso in mano la ricerca di verità. Come una generazione nata in democrazia abbia potuto trovarsi in questa situazione è inconcepibile». E Janis è una di loro. Figlia della Spagna della transizione – la madre hippie la chiamò così in onore di Janis Joplin – desiderosa di ricostruire il passato. La sua generazione non lo ha fatto. «A casa mia non si è mai parlato di guerra, il trauma era diffuso in tutta società: nel 1978 il problema andava affrontato, non averlo fatto rende la legge sull’amnistia, che era un atto necessario imperfetto. Non ci ha permesso di evolvere, ora il processo democratico è sospeso». Oggi, lo dice chiaro il regista di Dolor y gloria, l’ultradestra in Spagna è più forte che mai. «Quale sarà la loro reazione? Sinceramente preferisco non pensarci. Non perché rifiuti la battaglia, ma perché io e loro siamo condannati a non capirci. In Spagna c’è una situazione difficile, in parlamento siede un partito che dice cose mai dette, anticostituzionali e illegali, non si sono mai visti politici che si comportano in modo così volgare». Ne ha anche con quelli del passato recente. All’inizio del film mette un riferimento chiaro a Mariano Rajoy che, quando era premier, si vantò di non avere previsto nel bilancio dello Stato «neanche un euro per la memoria storica». Conclude il regista: «E’ una frase brutale. Il massimo dell’inettitudine per chi presiede un governo, in insulto sommo. Il vantaggio del cinema è di sopravvivere a chi lo fa e almeno in questo film Rajoy sarà eternamente legato a una frase così dannosa».

·        Peppe Barra.

Maria Chiara Aulisio per ilmattino.it il 12 febbraio 2021. Il duetto dei gatti, quando mamma Concetta inciampò sul palcoscenico del Theatre de la Ville di Parigi, mille posti a sedere in Place du Chatelet, sulla rive droite della Senna, Peppe Barra lo racconta ogni volta, e ogni volta l'episodio si arricchisce di nuovi, esilaranti particolari.

È vero che ormai è come la scena del cavalluccio rosso nel film di Luciano De Crescenzo, ma quando si parla di Peppe e Concetta insieme sul palco, è inevitabile.

«Allora cominciamo dall'inizio. C'erano voluti un paio di mesi di studio, e di prove, per imparare come si deve a recitare quel duetto».

Quello dei gatti?

«Un pezzo popolare di Gioacchino Rossini, che si divertì a scrivere questo brano buffo per ricordare la voce di due felini che tutte le mattine andavano a trovarlo».

E voi?

«Mamma e io dovevamo riuscire a trasformare in musica quei suoni. Vi assicuro che non fu per nulla facile interpretare i gatti: dovevamo cantare facendo solo miao».

Solo miao?

«Siamo nel Theatre de la Ville, è la sera del debutto. Tutti molto emozionati, classica atmosfera da prima. E poi Parigi, l'entusiasmo di recitare davanti a un pubblico diverso... Ve la faccio breve».

Che cosa accadde?

«Comincio io a miagolare, mamma doveva entrare in scena subito dopo. La vedo salire sul palco, miagola e viene verso di me. A un certo punto inciampa in qualcosa».

Quindi cade?

«Sta per cadere, barcolla ma - da grande professionista - canta lo stesso. Ne venne fuori un lamento comico accompagnato da un'espressione del viso così ridicola, ma così ridicola che, nonostante i miei disperati tentativi, non riuscii a trattenermi: cominciai a ridere come un pazzo».

Scoppiò a ridere mentre avrebbe dovuto fare il verso del gatto pure lei?

«Certo, toccava a me, ma non ce la feci. Ero irrefrenabile: ridevo, ridevo, ridevo. Insomma, il duetto diventò un monologo. Mamma lo cantò tutto da sola, e io non fui più in grado di emettere un suono».

Il pubblico come reagì?

«Si divertirono tutti. Poi calò il sipario e ci ritrovammo lei e io faccia a faccia. E allora non ci fu più niente da ridere. Diventò una furia, mi mollò due ceffoni. Poi mi guardò e, con tutto il suo sdegno, disse sei un guitto».

Severa mamma Concetta.

«Quando si lavorava c'era poco da scherzare. Sul palco bisognava essere seri e da tutti pretendeva compostezza, rispetto degli orari e professionalità. Per il resto era una donna dolcissima, buona e molto umana. Quando è venuta a mancare per me è stata dura».

D'altronde la vostra era una vera e propria simbiosi.

«È così. Rappresentava il mio unico riferimento, un rapporto assai intenso, ma il teatro è stato quello che poi ci ha unito in maniera indissolubile. Mia madre ha fatto di me quello che sono».

Quando avete cominciato a recitare insieme?

«Fu un po' per caso in realtà. Ricordo che entrai a far parte della Nuova compagnia di canto popolare di Roberto De Simone. E fu proprio lui, De Simone, che, a casa mia, ascoltando Concetta che cantava O Sole mio mentre stirava, rimase incantato dalla sua voce e la convinse a tornare in scena».

E fu un successo.

«Strepitoso. Da La cantata dei pastori, dove lei si cimentò in uno straordinario Sarchiapone, a La gatta Cenerentola, raccoglieva solo consensi».

In realtà lei faceva già la cantante.

«Si avvicinò al canto, insieme con le sue sorelle Maria e Nella, che era solo una bambina. Nel pieno della seconda guerra mondiale tutte e tre iniziarono a farsi conoscere battezzando il loro sodalizio artistico con il nome di Trio Vittoria».

Cantavano e suonavano?

«Anche con un bel seguito. Mamma mi raccontava quando tutte e tre affittavano una barchetta a Mergellina, 3 lire da Pascale, e prima si facevano il bagno e poi, nel pomeriggio, cominciavano a cantare».

Spettacolo a bordo, insomma.

«Scendeva la sera, le barche di pescatori si accostavano e le seguivano per ascoltare la loro voce, le applaudivano e si complimentavano. A quell'ora - diceva mamma - il mare era tutta una fosforescenza, un sogno, veramente un sogno. Ci chiamavano 'a varca che canta».

Show piuttosto insolito per quei tempi.

«Durante la guerra era già un privilegio trovare un posto dove esibirsi. E loro ci erano riuscite nel migliore dei modi. Poi finalmente la guerra finì e mamma Concetta conobbe mio padre, Giulio Barra, pure lui faceva l'attore. Si innamorarono e si sposarono: quando nacque il mio primo fratello, Gabriele, lei decise di ritirarsi dalle scene e dedicarsi solo alla famiglia. Un ritiro lungo quasi trent'anni».

Una mamma sempre a disposizione, dunque.

«Era molto presente. Quando veniva a giocare con noi tornava bambina. Ce la metteva tutta per farci divertire e ci riusciva perfettamente. Ricordo che una volta mi costruì perfino un teatrino».

Con le sue mani?

«Soldi non ce ne stavano. Il teatrino lo avevo chiesto alla Befana. Non potendolo comprare, mamma non si perse d'animo e si organizzò da sola. Recuperò una cassetta di legno della frutta, cucì il sipario, disegnò il fondale e poi realizzò pure una decina di burattini: il corpo era di stoffa e al posto della testa ci piazzò i noccioli delle albicocche».

Che fantasia!

«Ironia, umiltà e fantasia. Tre straordinarie qualità che hanno fatto di mia madre Concetta Barra».

·        Peppino di Capri.

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 26 febbraio 2021. Ironico con un fondo di malinconia, ha fatto innamorare e ballare milioni di italiani. «La pandemia? Mi sono adeguato, sono sei mesi che non esco di casa. Sono a Napoli, passa mio figlio Dario e mi porta a correre. Ma a Pasqua mi trasferisco sulla mia isola». L'isola è Capri, dove Giuseppe Faiella, per tutti Peppino di Capri, è nato 81 anni fa. Da Nun è peccato a Roberta, da Champagne a Saint Tropez twist a Luna caprese, la colonna sonora di una vita. Sorride, «mi dicono "lo sa che ci ha fatto innamorare?", qualcuno si è anche lasciato però». Quindici Sanremo alle spalle - ha vinto nel 1973 con Un grande amore e niente più e nel 1976 con Non lo faccio più - fa capire con eleganza che gli sarebbe piaciuto un premio alla carriera. «Due anni fa l' ho sfiorato, fu dato a Pino Daniele, alla memoria, un artista immenso».

Dice sempre: "Non chiedo". Le piacerebbe ricevere l'invito?

«Certo, qualche anno fa i fan si erano mobilitati sui social. Ho 60 anni di carriera».

Quindici festival di Sanremo: il più bello?

«Forse rimane quello del 1987, quando ho portato Il sognatore. Si complimentò anche Lucio Dalla. Mi fece piacere».

È ancora importante andarci?

«Lo era quando si faceva buona musica. Adesso è diventato un grande show del sabato sera, forse non dovrei dirlo. La verità è che ha ancora importanza, forse fin troppa, e però prevale la lotta per l' ospite».

Ha vinto due volte, cosa cambia?

«Niente, è un fatto di prestigio. Lo racconti ai nipotini: "Quell' anno c' era anch' io". Però il festival esercita un certo fascino. Ti dici: "Non lo vedo", poi sei davanti alla tv. L'anno scorso appena Diodato ha aperto bocca ho detto: "Vince"».

Quest' anno niente foto, niente pubblico in teatro e fuori.

«Chissà come sarà. È terribile perché il pubblico dà la prima indicazione, senti l' intensità dell' applauso. Capisci tante cose».

I primi ricordi?

«Papà era stato richiamato sotto le armi. Avrò avuto 4 o 5 anni, portavo avanti la famiglia. Nei weekend andavo a suonare per gli americani e il generale Clark: mi lasciavano i soldi su un vassoio d' argento. A casa svuotavo le tasche e crollavo nel letto. Non avevo giocattoli, l' unico, il pianoforte, nonno l' aveva bruciato per tingere i vestiti. Si usava così.

Papà ne comprò un altro, capì che c' era da cavarne qualcosa, essendo musicista anche lui. Cominciai a studiare».

Quando si rivede bambino cosa prova?

«Molta tenerezza. Mi chiedo come sono stato capace di fare tutto questo».

Ha suonato prima dei concerti dei Beatles.

«Facevo parte della stessa etichetta discografica, ero stato primo in classifica. Mi sono esibito per 25 minuti, il pubblico fu molto carino. Quando hanno cantato ero in prima fila. Dopo ci fu un periodo di crisi. Capelli lunghi, chitarre. Mi chiedevo: devo fare le stesse cose? Mi dedicai ai tour all' estero. Ci sono momenti, oserei chiamarli "di depressione artistica", in cui non c' è più l' ispirazione. Allora meglio aspettare».

Ha amici cantanti?

«No. Ma c' è rispetto reciproco. Il mio difetto, scambiato per superbia, è la timidezza. Sono timido o forse ho pudore dei sentimenti, mi prendono per "un isolano isolato". Ho ricevuto un' educazione severa. Quando venivo premiato e felice chiamavo casa: "Visto? Ho vinto!", papà diceva solo: "Eh". Recupero con i miei figli, esterno l' affetto».

Cosa pensa dei talent show?

«Alla fine sono più una macchina per le delusioni. È vero, offrono opportunità però emergono in due o tre, e i 50mila esclusi? Odio la competizione, mi dispiace vedere che spesso c' è uno più bravo di quello che - misteriosamente - vince».

Si è esibito in tutto il mondo. Quanto gioca il fattore nostalgia nel pubblico?

«In America del nord ti ascoltano sognando il ritorno a casa. I ricordi più belli sono legati al Brasile e all' Argentina. Prima del Covid ho suonato in un teatro da 5000 posti a Rio de Janeiro: "Quanti italiani ci sono in sala?". Si alza solo uno spettatore: "Io song 'e Napule", erano tutti brasiliani. Mi vogliono bene».

Tra i cantanti chi le piace?

«Tiziano Ferro, Marco Mengoni. Dalle donne vorrei maggiore personalità. Finiscono tutte per imitare il proprio idolo. Mi piace Emma. Ha grinta anche fuori dal palcoscenico. Giorgia è bravissima, Arisa ha una bella timbrica. Alle mamme che mi bussano per chiedere consigli dico sempre: risalga in macchina e riporti sua figlia a casa. Oggi non si cerca la perfezione ma l'originalità, un'artista deve essere la sola a avere quella voce. Vedo troppi cloni».

·        Phil Collins.

Massimo Gramellini per "il Corriere della Sera" il 27 ottobre 2021. Per avere la metà di un villone di Miami, la ex moglie ha citato in giudizio Phil Collins. Fin qui siamo dentro il chissenefrega dei bisticci patinati, ma il ritratto che la donna dipinge del musicista dei Genesis fa compiere alla vicenda un salto di qualità. Dapprima Orianne Cevey, questo il nome della delicatissima protagonista, descrive Collins come un alcolista schiavo degli antidolorifici. E passi, anche se qualunque altro essere umano che non fosse un ex coniuge inviperito avrebbe mostrato un minimo di comprensione per i problemi di salute che da anni impediscono a uno dei più grandi batteristi della storia del rock di tenere in mano le bacchette. Ma la signora non si è fermata lì. Ha aggiunto che il settantenne Phil Collins non è più in grado di fare sesso, che non si lava i denti e che non frequenta da tempo immemore la doccia e il sapone, emanando effluvi respingenti. La regola che tra moglie e marito non si debba mettere il dito vale sempre, anche quando uno dei due è stato un tuo mito di gioventù e ti viene raccontato dalla sua ex come un ubriacone impotente e puzzolente. Nondimeno la volgarità invasiva di certe parole rende impossibile non simpatizzare per il bersaglio. Umiliare il coniuge alla fine di una lunga convivenza spiattellandone l'intimità fisica e il declino del corpo finisce per ritorcersi contro chi lo fa. E conferma che, nelle faccende di cuore, il valore di una persona non si misura da come ama, ma da come lascia.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 26 ottobre 2021. Il leggendario musicista Phil Collins sarà interrogato sotto giuramento dagli avvocati della sua ex moglie sul suo presunto uso di droghe e sulla sua scarsa igiene. Il cantante dei Genesis ha tentato di impedire alla sua ex, Orianna Bates, di citarlo in giudizio per ottenere metà della loro casa a Miami Beach, ma un giudice ha stabilito che il processo può svolgersi. E così al rientro dal suo tour con i Genesis, gli avvocati della Bates potranno farlo deporre. La donna, che l’anno scorso ha sposato il 32enne Tom Bates, ha detto che il musicista ha iniziato a bere pesantemente, a prendere pillole, ha smesso di lavarsi i denti e di fare la doccia, è diventato «depresso, abusante e incapace di fare sesso». Gli avvocati di Collins dicono che le accuse sono «scandalose, scurrili, non etiche, palesemente false o grossolanamente esagerate». Secondo Bates tra il 2019 e il 2020 «la puzza di Collins era diventata così pervasiva da costringerlo a comportarsi da eremita, rifiutandosi di interagire personalmente con gli altri» e che anche lei non aveva altra scelta che tenersi a distanza da lui. Bates ha anche detto che nel 2017 Collins ha iniziato a bere pesantemente e ad abusare di pillole, un mix che gli ha provocato numerose cadute. «In più occasioni, cadendo, ha sbattuto la testa e si è registrato in ospedale usando degli pseudonimi». E una volta «è crollato sul palco durante l’esibizione, era così compromessa da non riuscire ad alzarsi in piedi». Nel 2019 Collins è diventato, a suo dire, «sempre più depresso, introverso, violento e, dopo un’operazione alla schiena, sempre più dipendent da antidepressivi e antidolorifici».  «Era incapace di fare sesso» ha detto durante la sua deposizione in tribunale. «Ha smesso di fare la doccia, lavarsi i denti e vestirsi adeguatamente». Adesso Phil Collins sarà chiamato a testimoniare, e secondo una fonte a lui vicina, «sarà difficile perché è notoriamente timido e riservato, ma verranno poste domande sulla sua vita».  Collins e Bates sono stati sposati per nove anni, e hanno avuto due figli, Nicholas di 19 anni e Matthew di 15. Al momento della loro separazione, Collins ha dovuto pagare a Bates 46,76 milioni di dollari. La casa che i due si contendono a Miami Beach era stata di proprietà di Jennifer Lopez.

Barbara Visentin per "corriere.it" il 10 settembre 2021. Che le sue condizioni di salute negli ultimi anni non fossero affatto buone si sapeva: nei tour cantava da seduto, facendosi anche sostituire alla batteria dal figlio. Ma a preoccupare i fan per un possibile aggravarsi della situazione ora è un’intervista televisiva in cui Phil Collins è apparso indebolito e invecchiato e ha detto di non riuscire neanche «a tenere in mano una bacchetta». L’ex leader dei Genesis, 70 anni, combatte da tempo contro i guai fisici, tanto che nel 2011 aveva annunciato il ritiro dalle scene. Era poi tornato in attività nel 2015, riprendendo i concerti (a giugno 2019 è stato anche in Italia dopo 15 anni con un sold out al Forum di Assago) e pubblicando anche un’autobiografia, «Not Dead Yet» («Non sono ancora morto») in cui raccontava i problemi che l’avevano segnato. Nel 2009 Collins, cantautore e polistrumentista che dal vivo oltre a cantare suonava la batteria, si era sottoposto a un intervento chirurgico per sistemare delle vertebre dislocate, problema che era emerso dopo il tour del 2007. Nel 2015 era seguita un’altra operazione alla schiena, ma nonostante gli interventi il musicista non era più riuscito a recuperare del tutto le funzioni nervose, perdendo sensibilità alle mani e non potendo più, quindi, suonare bene la batteria. Nel libro aveva poi spiegato di aver anche avuto problemi di alcolismo e di depressione, oltre che di soffrire di diabete, malattia che aveva portato a un forte dolore al piede destro. Dal 2017 cammina utilizzando un bastone. In questi giorni il musicista britannico ha rilasciato una rara intervista alla Bbc, in occasione del tour di reunion dei Genesis che parte in ottobre, e ha dato qualche aggiornamento sulla sua situazione: «Sono messo abbastanza alla prova a livello fisico e ciò è frustrante perché mi piacerebbe molto andare alla batteria e suonare con mio figlio». Allo strumento, come già succede da un po’, ci sarà infatti il figlio Nic, di 20 anni. Phil Collins ha detto di aver rinunciato del tutto a suonare - «No, non riesco più. Tengo a mala pena in mano una bacchetta» - e ha aggiunto di considerare il tour dei Genesis l’atto finale del leggendario gruppo: «Siamo tutti uomini di una certa età e quindi sì, credo che probabilmente con questi concerti chiuderemo». «We’re putting it to bed», «li metteremo a letto» sono state le sue parole esatte, un modo figurato di dire che si tratta di una conclusione. 

Phil Collins, peggiorano le sue condizioni: “Non riesco a tenere una bacchetta in mano”. Marco Alborghetti l'11/09/2021 su Notizie.it. In un'intervista rilasciata alla Bbc, Phil Collins, ex leader dei Genesis, aggiorna i suoi fan delle sue condizioni di salute precarie. In un’intervista televisiva l’ex leader dei Genesis Phil Collins è apparso in condizioni di salute precarie, tanto da dichiarare di non riuscire più a tenere in mano una bacchetta. Da tempo Phil Collins, storico batterista e leader dei Genesis accusa problemi al piede e alla schiena gravi, tanto da non riuscire più a suonare e tenere in mano le bacchette della batteria. Negli ultimi anni i suoi fan hano assistito a un peggioramento delle sue condizioni di salute: la prova è arrivata nei precedenti tour, compresa la data dello scorso giugno 2019 al Forum d’Assago, quando il figlio della star americana ha preso il posto del padre alla batteria. Proprio a causa dei suoi numerosi problemi fisici, il 70enne ex leader dei Genesis nel 2011 aveva annunciato il suo ritiro dalla scena musicale. Nel 2009 si era sottoposto a un intervento chirurgico per sistemare alcune vertebre dislocate, comparse in tour due anni prima. Nel 2015 è perfettamente riuscito un altro intervento alla schiena, ma con l’avanzare del tempo, alla fine non è riuscito più a muovere le articolazioni in modo naturale, perdendo sensibilità nervosa alle mani, impedendogli così di suonare la sua amata batteria. Dal 2017 cammina con un bastone. Nel suo libro spiega come tutto questo lo abbia portato a crisi depressive e a buttarsi nell’alcolismo, senza però abbandonare la sua amata musica. Come dicevamo precedentemente, in un’intervista rilasciata alla Bbc, Phil Collins in occasione del toru di reunion dei Genesis che partirà il prossimo ottobre 2021, ha voluto dare qualche aggiornamento sulle sue condizioni di salute: “Sono messo abbastanza alla prova a livello fisico e ciò è frustrante perché mi piacerebbe molto andare alla batteria e suonare con mio figlio“. Il figlio Nick, 20 anni, da tempo ha preso il suo posto alla batteria del gruppo, ma continua a farsi guidare e consigliate dal padre. “Se suonerò anche io? No, non riesco più. Tengo a mala pena in mano una bacchetta” , aggiungendo di considerare il tour dei Genesis l’atto finale del leggendario gruppo: “Siamo tutti uomini di una certa età e quindi sì, credo che probabilmente con questi concerti chiuderemo”.

·        Pietra Montecorvino.

Pietramontecorvino è una cosa. Pietra Montecorvino un’altra. Ma sono strettamente collegate. Doris Zaccone su La Repubblica il 7 dicembre 2021.Il borgo e la cantante. Con lo stesso nome. Perchè entrambe hanno a che fare con il sud. Anzi sono il sud. È al borgo pugliese che si è ispirata una delle più grandi artiste napoletane di sempre quando ha deciso di darsi un nome d’arte. Barbara D’Alessandro, la Gabriella Ferri di Napoli, la nostra Edith Piaf, anche se nessun confronto può rendere giustizia a questa donna libera, coraggiosa e fuori da ogni schema.

Circondato da montagne, si trova in un territorio, quello della provincia di Foggia, per una metà pianeggiate e per metà collinare. Si tratta di un abitato di origine medievale che divenne piuttosto rilevante solo intorno al 1500, quando fu cinto di mura e dotato di un fortilizio ducale.

Prima di scegliere la musica come sua principale carriera, Pietra Montecorvino voleva fare l’attrice. Ed è così che si è presentata al pubblico, debuttando nel 1983 nel film di Renzo Arbore "FF.SS." – Cioè: "...che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?", nel quale interpreta anche la canzone Sud. Da quel momento non ha mai smesso né di recitare né di cantare. Ha lavorato con artisti e registi di fama internazionale. Nel 2010 è stata tra le protagoniste di Passione di John Turturro. Diretta da Ferzan Ozpetek ha girato Napoli Velata. Ha cantato con Ute Lemper e Mercedes Sosa. Con Nina Simone all’Arena di Verona e con Morrissey alla BBC. Ha duettato con Tonino Carotone e Manu Chao. Collaborato con Pino Daniele, Eugenio Bennato, Enzo Gragnaniello, Peppino Di Capri, Roberto Murolo, Franco Battiato e i Gipsy Kings. E ha vinto una serie altrettanto interminabile ed eterogenea di riconoscimenti, tra i quali la Targa Tenco nel 1991 per il suo album d’esordio "Segnorita”, scritto dai fratelli Eugenio ed Edoardo Bennato. 

All’estero Pietra Montercorvino registra il tutto esaurito ad ogni concerto. Invece in Italia non ha la fama che meriterebbe. Ma lei non se n’è mai fatta un problema. Ha detto tanti no, anche clamorosi. E ha scelto di seguire solo le sue regole, senza preoccuparsi delle dinamiche dello show biz. “Faccio fatica ad impormi nel mercato discografico italiano, infatti la maggior parte dei miei concerti sono all’estero con platee sold out. La libertà è davvero la cosa che amo di più, al di sopra di ogni altra cosa, senza libertà non c’è vita. Sono anche libera di dire che in Italia è tutta una mafia di finti artisti dove non mi voglio immischiare. Proseguirò la mia carriera sola, ci sono per chi mi cerca, ma non mi adeguerò mai al sistema, non venderò la mia immagine a programmi televisivi sterili. Sarò sempre una pecora nera e fuori dal gregge, fierissima di esserlo”. Per questo incide con la sua etichetta, Malamusik, creata proprio per essere indipendente. “Se fossi con una grande casa discografica mi direbbero anche come mi devo vestire, cosa posso dire e cosa non posso dire. Figurati, non mi stava bene quando ero ventenne, come potrebbe funzionare adesso?”.

Trentotto anni di carriera, tanti riconoscimenti e alcune perle recenti come “Rosa senza terra”, una canzone scritta da Pietra sul tema del femminicidio: “Mi sono schierata in prima linea innanzitutto come essere umano. Non si può più accettare tutta questa violenza. Noi artisti abbiamo il diritto e quasi il dovere di fare sentire la nostra voce in difesa delle donne più deboli. Tengo particolarmente a questo brano perché è appoggiato dall’associazione Di.Re (Donne in Rete contro la violenza) e anche perché cantano con me più voci femminili e sono tutte donne molto conosciute”.

Pietra Montecorvino è anche pittrice. Le sue opere sono molto quotate e la cosa singolare è che vengono realizzate sempre nello stesso giorno dell’anno, il 15 agosto. Dipinge solo in quell’occasione, quando rimane sola in casa e fa il suo quadro di ferragosto. Rappresenta prevalentemente figure femminili, lo fa con l’impeto e il temperamento della sua natura viscerale. Ha uno stile personalissimo, che i critici hanno classificato tra Kandinsky e la pop art. Si definisce esagerata. Non si è mai prestata a giochi o compromessi. Non sta alle convenzioni ed è dichiaratamente fuori dal mercato. Impossibile non farsi affascinare da un’artista così autonoma e sincera. Pietra Montecorvino è una bandiera del sud, ma il suo scenario ideale è il mondo. “non vivo di schemi. L’arte costituisce libertà e a tutti serve, in un modo o in un altro, la propria libertà.” Anche per questo ha sempre evitato di accontentare il suo pubblico, “il pubblico -dice- finisce per chiederti sempre le stesse cose, quelle che conosce di te. E invece un’artista ha tante facce da mostrare. Il nuovo disco ha il mio vero nome, Barbara D’Alessandro. Di Pietra avete avuto molto. Barbara invece è un’altra persona”.

·        Pierfrancesco Favino.

Stefania Ulivi per il "Corriere della Sera" l'11 novembre 2021. Con quella faccia - e quel fisico - da maschio Alfa a Pierfrancesco Favino tocca spesso mettere i puntini sulle i. «Sono un romantico, come Alexander, il protagonista di Promises di Amanda Sthers. Solo che non ne ho l'aspetto. Mi sono ritrovato in lui, che rincorre un amore impossibile. Sono un idealista, leale verso i miei sogni. Questa storia è un bel racconto, senza giudizi né sguardo materno, del maschile e delle sue fragilità. Come mi successe con Maria Sole Tognazzi per L'uomo che ama, c'è uno sguardo femminile più incuriosito di vedere in un involucro da maschio Alfa, appunto, caratteristiche emotive che sembrerebbero lontane dagli stereotipi della maschilità. Anche se secondo me gli appartengono, eccome. Ma, a dirla tutta, c'era romanticismo anche nel Libanese, persino in Buscetta. Penso di aver fatto più volte personaggi con un'attitudine romantica, magari non per forza indirizzata verso la coppia». Cinquantadue anni compiuti nell'agosto scorso, padre di due figlie avute dalla compagna Anna Ferzetti, oltre sessanta film all'attivo - tra cui Promises in sala il 18 novembre -, oltre a due in lavorazione, tra i più attesi della stagione: Il colibrì di Francesca Archibugi e Nostalgia di Mario Martone. In curriculum anche una formidabile edizione di Sanremo, diversi David di Donatello e Nastri d'argento, una coppa Volpi. E anche un'ottima conoscenza delle lingue straniere: qui ha recitato in inglese. «Alexander non è il classico italiano mafioso ma un uomo cresciuto a Londra, madre inglese e padre italiano, ma che vuole recidere i legami con questa parte della famiglia. Un po' la sfida di dire "sono capace" me la sono posta, mi sentivo pronto a farlo non solo in un ruolo da comprimario. E devo dire che mi è venuto facile». 

Quando ha deciso di fare l'attore?

«L'ho fatto per non dovermi dire un giorno: non ci hai provato. Fu importante la fidanzatina dell'epoca, di mio avrei detto no. Ero un ragazzino da tre film al giorno, zainetto in spalla andavo al festival di Venezia. L'esame per entrare all'Accademia è stato un passo verso l'ignoto». 

Andò bene, che ricordi ha?

«Ero il più piccolo. Tra i compagni di corso c'erano Fabrizio Gifuni e Luigi Lo Cascio, mi sembravano uomini fatti, loro 22 anni, io 19, tre anni di differenza ma mi sentivo Calimero».

Insegnanti Orazio Costa e Luca Ronconi.

«Fondamentali. Mi hanno aiutato a cementare un'identità forte, soprattutto a capire quello che non funzionava per me. Con Ronconi ho fatto quattro anni di lavoro con la sua compagnia. Mi stimava, mi diceva: tu sei "Il meglio è nemico del bene". Era un genio assoluto, una di quelle intelligenze che ti illuminano anche solo passandogli a fianco, mai incontrato altri così capaci di illuminare un testo. Ma come attore ho capito che per sperimentare altro avrei dovuto andare via, non era quello che volevo». 

Lo fece?

«Sì. E mentre glielo dicevo, all'Argentina, ho capito che già lo sapevano tutti. C'era un clima pesante, di grande pressione, e io non ho mai pensato che questo mestiere si possa fare senza gioia. Sono un attore più popolare». 

Ha debuttato con «Una questione privata» di Alberto Negrin, da Fenoglio.

«Ero ancora in Accademia. Scritto da Raffaele La Capria con un giovane assistente, Paolo Virzì. Feci il provino per la parte del protagonista ma ero troppo scuro. Mi tinsero i capelli. Effetto rosso carota. Tornai in Accademia con il cappello, mi vergognavo. Poi film prese una piega internazionale, mi offrirono un altro ruolo. La prima volta davanti alla macchina da presa, con Negrin che io in quella occasione detesto. Ero un cane, un'esperienza non bella. A distanza di anni me lo vidi arrivare su un set: "Faccio Bartali, mi dicono che tu potresti essere adatto". E con Alberto ho costruito un'amicizia e sodalizio fortissimi».

Anche con Gabriele Muccino ha lavorato spesso, fin da «L'ultimo bacio». Dice che i vostri destini sono andati ad assomigliare ai personaggi del film. Lei era Marco, l'unico sposato in mezzo a una banda di Peter Pan. Condivide?

«No. Che io creda alla famiglia è vero, ma non ho la chiusura mentale di Marco, non ho quei paraocchi. È stato un film importante, in cui io sono entrato dalla porta laterale grazie alla mia agente Graziella Bonacchi. Sono felice di esserci stato ma a differenza di altri, obiettivamente a me non ha cambiato nulla, ero talmente invisibile. Per me il vero percorso è stato grazie a Bartali , El Alamein di Enzo Monteleone e Romanzo criminale di Michele Placido». 

Come ha fatto con il Libanese? Sembra così agli antipodi da lei.

«Un lavoro di ricerca e fantasia. Pensavo che quell'uomo fosse uno di quei bambini che Accattone trovava quando tornava a casa, ho usato tanto Pasolini, quei personaggi con il groppo in gola come stessero per piangere. In certi ambienti non puoi permettertelo, se devi cacciare indietro l'emotività non può che uscire la rabbia. E mi ha aiutato anche l'esperienza del servizio civile a Ostia in una cooperativa di assistenza. Con ragazzini di sette, otto anni. 

Uno si chiamava Simeone, la prima volta che mi vide commentò: "E mo' chi è questo str...?". Due anni dopo ho scoperto che fu ucciso, lo lessi sul giornale. Non ho potuto non pensare a lui. È una balla che partiamo tutti con le stesse possibilità. Ci credo, mando le nostre figlie alla scuola pubblica, ma crescici tu in quelle condizioni. Siamo tutti bravi a dichiaraci pacifisti e progressisti, ma qual è l'esperienza che ti fa dire con certezza: io sono una persona buona?».

Bartali, Pinelli, Di Vittorio, Craxi, Buscetta, anche la voce della statua di Garibaldi. La sua carriera è un compendio di storia italiana, in un derby Favino-Gifuni.

«Felice di dividere la responsabilità con Fabrizio... Scherzo, per me molto è nato per caso e per fortuna. Non ho mai avuto desiderio di specializzazione nel biopic. Aver potuto interpretare Di Vittorio e Craxi è stato interessante, due punti di vista diversi del mondo della politica di cui sono un osservatore attento, interpretarli significa andare al di là del velo della tua opinione. In generale mi sembra che da noi non diamo al cinema il valore di racconto scevro da appartenenza, Craxi me lo ha dimostrato. Anche El Alamein. Tutto diventa un derby. Anche a distanza di decenni. Ma gli artisti hanno diritto di reinventare la storia, pensiamo al polverone che sollevò la camminata di Moro in Buongiorno notte di Bellocchio».

Ha fatto il regista in teatro con «Servo per due». Al cinema il produttore ma regista no, perché?

«Ho molto stima di chi fa regia al cinema, tutti mi spingono, forse un giorno lo farò, ma solo se ne sentissi l'estrema urgenza.». 

Per Sanremo ha avuto meno dubbi?

«Venivo da momento in cui avevo fatto teatro, appunto, e detto molti no, che nel nostro mestiere equivale a un ciao. È stato come un All in a poker. Adesso sappiamo che è andata bene ma la verità che in quel momento non mi voleva più nessuno, sapevo che avrei rischiato tutto e che l'ambiente mi guardava molto male per questa cosa. Mi faceva incazzare che le paure che mi spingevano a dire di no non erano le mie. Mi sono detto: ma hai quasi 50 anni, e rischi di non fare una cosa che sai ti appartiene per la paura del giudizio altrui?

Ho avuto la buona sorte di essere accompagnato da due matti, Claudio Baglioni e Michelle Hunziker, la buona sorte che nessuno si aspettasse nulla. È stato un successo, dunque un moltiplicatore. Fosse stato un fallimento, sarebbe stato un cratere. Penso che la tv popolare la dovremmo fare tutti, Mastroianni andava a prendersi in giro, Gassman a fare le capriole con Pippo Baudo. Io non faccio lo snob. Le persone hanno voglia di vederti. Diventi uno di famiglia». 

A proposito, che padre è, molto papone?

«Pure loro sono papone. Cerco di fare di tutto perché non siano le figlie di Favino, salvaguardo la loro vita, io e Anna cerchiamo di non parlare di lavoro a casa. Hanno visto pochissime cose mie. Io per primo se mi vedo in tv mi innervosisco, cambio, noto quello che non mi piace». 

Chi ha iniziato a chiamarla Picchio?

«Mio papà, dava soprannomi a tutti, tranne a Paola, anche alle cose inanimate, tutti noi abbiamo soprannomi: Popi, Chicca e Picchio. Mancano Pluto e Paperino e ci siamo tutti. Lui dava soprannomi anche alle cose inanimate. Io potrei tranquillamente firmarmi Picchio Favino, sono più quello lì che questo con il nome lungo».

Il momento più sgradevole su un set?

«A proposito di quello che è successo a Alec Baldwin, ricordo un episodio. Eravamo in Bulgaria. Avevo un fucile, ovviamente caricato a salve, dovevo sparare bendato. Ho chiesto all'aiuto regista di poter provare l'arma prima e non mi fu data la possibilità di farlo per questioni di tempo. Sparai, il bossolo mi sfiorò le tempie». 

Che film era?

«Non importa. Per la prima volta nella vita ho urlato tanto. Mi hanno tenuto, avevo ragione io. Un film può venire male, ma un conto è che sia un incidente, un conto che sia un progetto».

Ha finito di girare «Il colibrì» e «Nostalgia».

«Due esperienze bellissime e diametralmente opposte, film diversi tratti da due romanzi pazzeschi, di Sandro Veronesi ed Ermanno Rea, con due registi molto diversi, Francesca e Mario. De Il colibrì avrei voluto comprare io i diritti. Quando mi hanno chiamato ho fatto i salti di gioia». 

Abatantuono ci ha detto che a «Dinner club» ha cucinato Cracco.

«Ma questo lo dice Diego. Certo, se hai Cracco, purtroppo per lui, è come se ti si stacca un bottone e puoi chiamare Armani. Mi sono divertito veramente tanto, ho unito due passioni, i viaggi e la cucina. La più grande soddisfazione quando ho preparato l'uovo di seppia me l'ha data Sorrentino: "quando me lo fai?" Medaglie». 

A casa chi cucina?

«Io, e tengo puliti i piani di lavoro».

 Piatto migliore?

«Questo piace pure a Valerio Mastandrea, la pluma iberica caramellata al miele cotta a bassa temperatura. Una volta a un pranzo ne ho fatto un chilo e sette, non l'avevo mai visto mangiare così tanto. Quasi un Oscar». 

Il racconto dell'attore. “Quella volta che ho rischiato la stessa tragedia di Alec Baldwin”, Pierfrancesco Favino e l’incidente sul set con un fucile. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Quello che è successo ad Alec Baldwin poteva succedere a Pierfrancesco Favino. Lo ha raccontato lo stesso attore in una lunga intervista a Il Corriere della Sera. La tragedia sul set del film Rust, lo scorso 21 ottobre: mentre l’attore provava una pistola di scena un colpo è partito e ha ucciso la direttrice della fotografia Halyna Hutchins e ferito il regista Joel Souza. La pistola era caricata con proiettili veri. Le indagini sulla tragedia sul set a Santa Fe, in New Mexico, sono in corso. La rivelazione di Favino – a proposito di brutte esperienze, e di sicurezza sui set cinematografici – proprio nel giorno in cui dagli Stati Uniti arriva la notizia di un membro della troupe del film Rust, Jason Miller, morso al braccio da un ragno marrone. L’uomo è grave, ricoverato in ospedale: rischia l’amputazione a causa dell’infezione. I giornali stanno parlando di maledizione del film. Baldwin, che dall’inizio ha collaborato con gli inquirenti, è ancora sconvolto per la tragedia. “A proposito di quello che è successo a Alec Baldwin – ha raccontato dunque Favino – ricordo un episodio. Eravamo in Bulgaria. Avevo un fucile, ovviamente caricato a salve, dovevo sparare bendato. Ho chiesto all’aiuto regista di poter provare l’arma prima e non mi fu data la possibilità di farlo per questioni di tempo. Sparai, il bossolo mi sfiorò le tempie”. L’attore non ha voluto rivelare di quale film si trattasse. “Per la prima volta nella vita ho urlato tanto. Mi hanno tenuto, avevo ragione io. Un film può venire male, ma un conto è che sia un incidente, un conto che sia un progetto”. L’attore tornerà al cinema il prossimo 18 novembre con Promises di Amanda Sthers. Interpreterà Alexander che “non è il classico italiano mafioso ma un uomo cresciuto a Londra, madre inglese e padre italiano, ma che vuole recidere i legami con questa parte della famiglia”. Ha recitato in inglese. Favino nei prossimi mesi sarà di nuovo in sala con Il colibrì, tratto dal romanzo vincitore del Premio Strega di Sandro Veronesi, e Nostalgia, dal romanzo di Ermanno Rea. Agli inizi, ha ricordato Favino nell’intervista, fu importante la sua ragazza dell’epoca, che lo incoraggiò a recitare. Lui guardava tre film al giorno e andava al Festival di Venezia con lo zaino in spalla. Ha studiato con Luigi Lo Cascio e Fabrizio Gifuni. Con quest’ultimo in particolare condivide tanti biopic sulla storia italiana. I passi più importanti nella sua carriera? Bartali, El Alamein, la serie tv Romanzo Criminale e il Festival di Sanremo condotto con il direttore artistico Claudio Baglioni e Michelle Hunziker nell’edizione del 2018. Favino nella sua carriera ha vinto tre David di Donatello, una Coppa Volpi, quattro Nastri d’argento.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Gianmaria Tammaro per esquire.com il 16 gennaio 2021. Questione di punti di vista: «Lavorare a questo film anche come produttore mi ha permesso di approcciarlo da due prospettive diverse: una più concreta, organizzativa; l’altra più intima e interpretativa. In questa doppia veste, è stato più semplice avvicinarsi al cuore della relazione che Claudio Noce aveva con suo padre. Quando hai a che fare con una persona che sente l’urgenza di raccontare la sua storia, sei facilitato. Ma diventa più difficile selezionare i momenti da mostrare: quelli che possono parlare a tutti. Io sono una persona piuttosto discreta. Non sono aggressivo. Volevo cogliere l’anima di questa persona, di questo genitore, ed è quello che ho provato a fare. E in determinate scene sono stato addirittura aiutato, perché alcune cose mi riguardavano direttamente». Pierfrancesco Favino parla di Padrenostro (su Sky Cinema e NowTv dal 16 gennaio) con una cura particolare: è un film ambientato nel pieno degli anni di piombo, sulla crescita, sulla ricerca della consapevolezza, popolato da padri e figli, sconquassato dagli attentati e dalla paura, punto continuamente dalla tensione. Favino traccia ghirigori di parole, giocando con il tono e con le sillabe, e poi, di colpo, arriva al punto: sussurra, non urla; sa perfettamente cosa sta dicendo e non ha nessuna fretta per dirlo. Ammaliante, affabile, sincero. «C’è stata una fusione con il ricordo che avevo di mio padre», spiega. «Perché anche lui faceva parte della stessa generazione».

Che generazione era?

«Qualche tempo fa, una persona mi ha scritto un messaggio molto bello; diceva: anche io sono figlio di un padre che mi accarezzava solo mentre dormivo».

Che cosa vuol dire?

«Che abbiamo ricevuto carezze quando non lo sapevamo. E questa cosa racconta un certo tipo di umanità: un’umanità che è fatta di grandissima dignità e di grandissima fragilità. Siamo cresciuti provando per i nostri padri una tenerezza estrema. Forse, ecco, anche un po’ di frustrazione. La tenerezza, però, ha dovuto imparare a convivere con un certo timore reverenziale. E ha generato un cortocircuito. Claudio ha sentito il bisogno di raccontare la sua storia in un film. Ed è questo che lo rende così interessante dal punto di vista narrativo: è la sua storia, è la sua vita, è quello che lui ha provato».

Lei, invece, di che generazione fa parte?

«Di quella degli uomini che sanno dove stanno le mutande, dove sono i calzini, che sanno cambiare pannolini, che hanno fatto le nottate, e che hanno condiviso tante cose con i loro figli. Anche il contatto fisico. C’è una vicinanza, in questa generazione, che è diversa, più profonda, più intima. Ci siamo aperti al calore, ed è una cosa che si nota, che si vede, che fa una certa differenza».

In un’intervista a Vanity Fair ha detto: «Non ho mai diviso il mondo in uomini e donne».

«Perché mi sembra assurdo farlo, e mi sembra assurdo dire: questo è compito delle donne e questo è compito degli uomini. Ho avuto la fortuna di vivere in un ambiente in cui questa divisione non c’è mai stata. Anzi, all’opposto: ho sempre vissuto in minoranza, circondato dalle donne».

E che cosa ha imparato?

«Che sono le donne, spesso, a portare avanti moltissime cose. Nella mia famiglia, sono sempre state mia nonna, mia madre, le mie zie e le mie sorelle ad avere il controllo. E ora sono mia moglie e le mie figlie. Faccio fatica a capire la rabbia di alcuni uomini. Non ho idea di come si possa credere che una donna sia meno: meno evoluta, meno capace».

Ieri e oggi. Cos’è cambiato?

«L’infanzia. La più grande differenza la vedo in questo. Una volta, l’infanzia durava molto di più. I bambini erano protetti dalle brutte notizie, dai problemi, dalle difficoltà della vita, dalle responsabilità. Oggi i ragazzi sono spinti – talvolta anche costretti – ad essere subito responsabili. Sono un punto di riferimento molto importante in qualsiasi ambiente».

Per esempio?

«Se fai un film che piace ai ragazzi, hai sbancato. Ma i ragazzi evitano queste etichette, queste classificazioni, e provano a vivere in un mondo che appartiene solo a loro, con un linguaggio e una comunicazione specifici».

Qualcuno, però, dice che i ragazzi di oggi sono inaffidabili.

«Sono costantemente bombardati. Dalla violenza, dall’aggressività, dal mondo intero. Noi non eravamo così esposti. E questa cosa, secondo me, ha molto a che fare con l’idea che si ha di futuro. Quando ho scelto di fare l’attore, sapevo di andare incontro a un’incognita enorme. Ma dentro di me non ho mai covato dubbi. Invece questi ragazzi convivono con l’incertezza».

Di chi si sente la mancanza, dei padri o dei maestri?

«La generazione dei nuovi attori, di quelli che hanno circa vent’anni, si è presa da sola la responsabilità della propria preparazione, si è trovata i suoi maestri, non li ha aspettati. E ha capito l’importanza dello studio, il meccanismo della recitazione, e ha capito che non basta improvvisare. Sanno che questo è un mestiere fatto di impegno, non di successo».

Il successo allora non conta?

«Io credo di rappresentare il beneficio assoluto della gavetta. Raccolgo adesso, forse tardi, quello che ho seminato. Ma non scambierei mai, per nulla al mondo, questo tardi – così solido, così sentito, così conquistato – con un presto più sbiadito e meno sincero».

La paura per il futuro può essere una marcia in più?

«Assolutamente no. E anche se lo fosse, non ci vorrei comunque credere. È un termine talmente negativo, paura, che credo possa esprimere solo alcuni aspetti della creatività di una persona. Se hai un antagonista e riesci a sconfiggerlo, non ti basterà. Ne vorrai un altro. Ne cercherai un altro. E non ti fermerai mai. Non possiamo paragonarci alla generazione che è venuta fuori dalla guerra. È anche vero, però, che gli artisti hanno sempre avuto bisogno di una situazione difficile per esprimersi».

E in questo i ragazzi di oggi sono aiutati?

«I ragazzi sono ciò che sono. Forse non riusciamo più a capirli perché non siamo più ragazzi. Ma le nuove generazioni hanno sempre saputo aggiungere qualcosa di diverso».

Quando si scopre di essere diventati adulti?

«Onestamente non mi vedo ancora come un adulto. Penso sia una questione caratteriale. Come attore, ti rendi conto di essere cresciuto quando scopri che ci sono delle cose che non puoi più fare, ruoli che non puoi più interpretare».

E nella vita?

«Non lo so. Io guardo in continuazione al futuro, e francamente non riesco a non vedere questa cosa, l’essere proiettato in avanti, come parte dell’essere giovani».

Quando si capisce di essere indipendenti?

«Quando pensi ai tuoi genitori come a due persone. Quando riesci a svincolarti da loro. Quando li vedi per quello che sono, quando riesci a convivere con i difetti che, da adolescente, ti facevano arrabbiare. Quando hai voglia di ascoltarli e non sei costretto a farlo. Quando ti lasci aiutare da loro come uomo».

E quando si capisce di essere diventati genitori?

«Quando non ti preoccupi più per te stesso, ma per i tuoi figli. Quando smetti di volerli plasmare. I figli non sono scatole vuote. Hanno un loro carattere. E devi mettere da parte te stesso, e ascoltare. Se ce la fai, puoi anche aiutarli. Io forse non ne sono capace: ci provo».

Anche nella recitazione è importante saper ascoltare.

«È il segreto per essere bravi. Se ascolti chi ti sta davanti, se lavori con gli altri e non solo con te stesso, sei più bravo. È questa la cosa bella di questo mestiere. Sai cosa succede in una scena perché hai letto il copione; ma non sai come succederà, come otterrai quello che ti serve: quello puoi solo viverlo».

«Una volta c’erano i ruoli per gli attori. Adesso li fa tutti Favino», diceva Martellone, il personaggio di Massimiliano Bruno, in Boris. Lei è veramente l’asso pigliatutto del cinema italiano, il più bravo?

«No, e non ci penso nemmeno. Guai a pensarlo. Se devo dirle la verità, credo che la Coppa Volpi che ho ricevuto a Venezia sia la prima cosa che mi è arrivata un po’ gratuitamente».

Perché?

«Non ho mai pensato di poter vincere un premio con Padrenostro. Il protagonista, dopotutto, non sono io. Ma forse, come mi è andata male a Cannes, dove c’erano tanti bravi attori, mi è andata bene a Venezia. Forse, ho ricevuto un piccolo regalo».

Qual è il suo obiettivo?

«Ho un’ambizione puramente artistica, ed è l’ambizione di riuscire a scomparire dietro quello che faccio. Penso di me la stessa cosa che pensavo tre anni fa: sono un attore che vuole conoscere, capire, scoprire; la mia è una ricerca».

Una ricerca anche politica?

«Ma certo. Quando prendiamo parte a film leggeri, noi attori interveniamo, di fatto, nel quotidiano delle persone. Abbiamo un ruolo. E io mi sento responsabile nel dare qualcosa alle persone. È uno dei motivi per cui ho scelto di rimanere in Italia».

Il suo è idealismo?

«Credo in una funziona sociale del lavoro dell’attore. Anche fare compagnia è importante: ed è un termine che viene molto sottovalutato. Se decido di fare un film piuttosto che un altro, faccio una scelta cosciente e consapevole».

Oggi però nessuno vuole più esporsi. Non così facilmente.

«Alcune persone danno per scontata la mia posizione politica, ed è una cosa che combatto. La mia posizione politica la tengo per me. C’entra la visibilità che, a un certo punto, si ottiene: ma è un prezzo che sono disposto a pagare per fare questo mestiere. Io mi espongo ogni volta con quello che faccio e con quello che dico, e so benissimo che quello che dico è quello che penso. E sono onesto proprio perché rispetto il pubblico».

·        Pier Francesco Pingitore.

 

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 13 dicembre 2021. Molti, negli anni, hanno acclamato Pier Francesco Pingitore come un maestro. Lo hanno venerato, amato, osannato, e hanno tanto riso, riso, riso. Risate, a volte, di puro divertimento, altre, invece, amare. E la pancia del popolo italiano, mai satolla, ha anche imparato con la sua satira, diciamolo pure, a conoscere le sottigliezze, le vergogne, le debolezze, i tic e i rituali della politica e della nostra società, spesso solo appannaggio degli intellettuali o presunti tali. Quegli intellettuali, che, a eccezione di pochi, spesso, lo hanno criticato ferocemente, disprezzato, irriso, messo da parte, come fosse un invisibile. Ma Pingitore, insofferente ai dogmi, allergico alle parrocchie, alle conventicole, e ai posti da spartire, se n’è sempre fottuto del giudizio altrui e, duro come il marmo di Carrara, è andato dritto per la sua strada, consapevole che l’applauso del pubblico fosse più interessante, lusinghiero e sincero di tante parole vergate dagli snob.

Ed è proprio nella vasta landa dell’emarginazione e dell’indifferenza di certi salotti, per come la vedo io, che il Nostro ha saputo costruire la sua carriera, ricca di allori, audience, donne, e denaro. Prima d’incontrarlo, avevo letto articoli, interviste. Tanto, troppo, sulla sua vita di autore e regista. Tante domande, le solite, sul Bagaglino, sulle soubrette. Che noia, mi sono detto! Sarà mai possibile andare oltre la crosta superficiale? 

Volevo sapere altro, conoscere l’uomo Pingitore, tratteggiare la sua figura, scavare nei suoi ricordi, mettere un po’ a nudo le sue numerose debolezze, e ripercorrere, insieme a lui, senza ruffianeria, o partigianeria, la sua storia. 

Giunto quasi alla soglia dei novanta autunni, questo romano dal sangue e tempra calabresi, pur nostalgico della sua Epoca dorata, ha ancora la vivacità intellettuale, e la curiosità di un bambino che, per la prima volta, spalanca gli occhi in questa immonda e stupenda terra. Ascoltandolo attentamente, penso che Pingitore, nei suoi numerosissimi spettacoli, abbia portato in scena anche qualche pezzetto della sua vita – il suo smisurato ego, una certa prosopopea e l’amore spasmodico e infinito per le donne. 

Nella nostra chiacchierata, avvenuta in un piovosissimo sabato, nel fin troppo placido quartiere Trieste, l’Uomo degli Specchi, almeno per un po’, ha deposto le armi della timidezza e della riservatezza. Assiso su una poltrona come fosse ancora il regista dei suoi spettacoli, con in testa il solito Borsalino, il bambino nato a Catanzaro, smessi i panni del direttore autocrate, ha scritto, con noi, la sceneggiatura – vera, malinconica, schietta, dolorosa, furba – della sua vita. 

Pingitore, da qualche mese è in libreria il suo Confessioni spudorate. La prima curiosità che voglio togliermi con lei è: come mai il suo libro è stato pubblicato da una casa editrice minore, per i più sconosciuta? Non era un granché?

Lei che dice? 

Ah, non lo so, me lo dica lei…

Primo: l’Editore che ha pubblicato il mio libro è un signor editore e anche se minore fa egregiamente il suo mestiere e non posso che essergli grato. Secondo: gli editori non minori sono tutti di sinistra: per me, come ho detto più volte, non c’era posto. E, pensi, non ho trovato grandi editori neanche quando lavoravo a Mediaset… 

Lei mi sta dicendo che neanche la Mondadori si è interessata a lei?

Esattamente. Dopo il rifiuto della Mondadori, il mio primo libro, “Memorie dal Bagaglino”, dovetti pubblicarlo con un altro editore, che vendette tutta la tiratura e si dovette anche ristamparlo. 

È autobiografico, questo libro?

Come diceva Flaubert: Madame Bovary c’est moi! Elena, il personaggio principale del libro, non dico che sono io… Ma alla fine, quando si scrive un romanzo, nel protagonista c’è sempre qualcosa dell’autore.

Lei nasce in Calabria, ma, a due anni, e neanche il tempo di capire chi è, lascia, con la sua famiglia, Catanzaro, per venire a Roma: come mai? Cosa spinse suo padre ad una scelta così radicale?

Il motivo fu molto semplice: mio padre, ingegnere, scelse Roma per lavoro; la Calabria, come può ben immaginare, offriva poco, e poi, come tutti i meridionali, avevamo il sogno di vivere nella Capitale… 

Dove andaste a vivere, se lo ricorda?

Appena arrivammo, per un torno di tempo, dalle parti di Santa Maria Maggiore; successivamente, scegliemmo il quartiere Trieste-Salario. Pensi che da quasi 60 anni vivo in questa casa… 

Addirittura! È uno stanziale, timoroso dei cambiamenti?

Esattamente! Vivo così bene qui: perché cambiare?

Come vi accolsero i romani? Erano gli anni mussoliniani…

Vivemmo benissimo; non c’era nessun pregiudizio nei confronti dei calabresi.

Come viveste il regime?

Mia madre, con mio padre in Africa per lavoro, viveva praticamente sola, con quattro figli da crescere. Non aveva particolari obblighi, anzi. Una volta, ricordo, il capo fabbricato la chiamò chiedendole come mai non partecipasse a certe riunioni indette dal regime. Lei, candidamente, gli disse: ma io ho quattro figli da allevare! Non si preoccupi – fece lui – curi loro… Insomma, c’era una certa tolleranza e comprensione. 

I suoi genitori simpatizzavano per il Duce?

Mio padre aveva fatto la Grande Guerra come ufficiale di artiglieria. E succedeva che a molti tra gli ufficiali raffermati, piccole folle di esagitati sputassero loro addosso; e questo provocò, in lui, forse per reazione, molta simpatia nei confronti del fascismo. Ma poi, come ho già detto prima, dovette andare in Africa per lavorare, dal che si deduce che non aveva certo particolari agganci con il regime.

Lei che ricordi ha di quell’epoca? Ce n’è uno che conserva e che non l’ha mai abbandonato?

Di ricordi ne ho tanti, in realtà. Ma ne voglio citare due: l’adunata del sabato pomeriggio vestiti da balilla o da figli della lupa, e la corsa in bicicletta, nel quartiere San Lorenzo, subito dopo il bombardamento terribile del 1943. 

Capiva, pur essendo bambino, cosa stava facendo e accadendo?

I bambini capiscono tutto. Sono i grandi che non capiscono quanto i bambini siano in grado di capire.

Finita la guerra e la dissoluzione del regime, aveste paura di ritorsioni o diventaste, come un sol uomo, tutti antifascisti?

Noi non potevamo subire ritorsioni perché non avevamo avuto alcuna carica durante il fascismo. A parte le adunate, per il resto vivevamo, come tanti, ai margini. A Roma, poi, non è che si vide tanto, a essere onesti, la caccia al fascista. Le cose si acquietarono ben presto. 

Ripensandoci ora, cosa non le piaceva del fascismo?

All’epoca ero troppo piccolo per capire cosa non mi piacesse; in quegli anni, il Duce era visto e considerato come una sorta di divinità. E quando cadde, restammo tutti sbalorditi. Oggi, se ci ripenso, sicuramente non potrei mai aderire al regime perché amo troppo la libertà e la democrazia… 

Trovo assurdo, allo stesso tempo, che non si possa dire pubblicamente le cose apprezzabili fatte da Mussolini. Ma, insomma, se si governa vent’anni, qualcosa di buono si sarà pur fatto! Lo dice la statistica… 

E lei, fosse stato nella età giusta, avrebbe fatto il partigiano o il fascista?

Bella domanda! Me lo sono chiesto tante volte. Sicuramente avrei fatto una scelta netta, di campo. Potevo diventare repubblichino o partigiano, secondo le persone e l’ambiente che in quel momento avrei frequentato. Sicuramente non sarei rimasto a guardare. Penso anche un’altra cosa: che quelli che si sono schierati, a prescindere dal loro orientamento politico, sono comunque i migliori della loro generazione. 

Non molto tempo fa, ha detto: “Avrei tanto voluto essere di sinistra! Ma purtroppo non c’era più posto…”. Perché?

Era una battuta, che nasconde un dato di fatto. La sinistra è una grande fabbrica di posti. La più grande che esista in Italia. Ma i posti a un certo punto finiscono e quindi bisogna per forza chiudere le iscrizioni… 

Ha sofferto per essere considerato, dalla sinistra, un artista inferiore, un reietto?

No, per niente! Più che inferiore, la sinistra mi ha considerato un invisibile.

Che ragazzo era Pingitore?

Avevo una gran voglia di fare, senza sapere esattamente cosa. Giornalista, scrittore, calciatore…

Da giornalista a calciatore: un’oceanica distanza. Era confuso…

No. Ero solo desideroso di fare.

Come mai non ha continuato a calciare un pallone?

Mi resi conto, ben presto, di essere una mezza pippa.

Si vedeva bruttino?

Non mi sono mai posto la questione. Pensavo di essere un ragazzo accettabile, e di non avere particolari problemi.

Dinanzi alle ragazze, non ha mai avuto sentimenti d’inferiorità?

No, tutt’altro. 

Negli anni della sua gioventù, preferiva studiare, leggere, o, molto più semplicemente, andare nei bordelli, con le mignotte?

L’una cosa non escludeva l’altra. Anzi! Nei bordelli ci si andava ogni tanto; non giravano molti quattrini all’epoca. Erano stabilimenti molto meno mostruosi di quanto ci si immagina. Avevo amici, invece, che passavano interi pomeriggi sui sedili dei casini: i cosiddetti “flanellisti”.

Odiatissimi dalle maitresses, che gestivano i bordelli, perché spesso non facevano nulla, e invece di “consumare”, chiacchieravano all’infinito con le ragazze. Quando poi la chiacchiera diventava troppo rumorosa e caciarona, la maitresse brandiva lo scopettone, si metteva a urlare “Fuori tutti, disgraziati!”, assestava qualche buon colpo nel sedere di qualche “flanellista”, e cacciava tutti da quel luogo di delizie. 

Era un voyeur o amava partecipare?

Non ero un guardone allora, e non lo sono mai stato dopo.

Moriva di fame in quegli anni?

Non vivevo nella bambagia, ma a casa mia si stava discretamente. Capii in fretta, però, dopo gli studi, che bisognava lavorare e rendersi autonomi. 

Come mai si ritrovò a scrivere per Playmen? Era solo un modo per riempire la pancia?

Prima di Playmen, in verità, ero stato caporedattore dello Specchio. In concomitanza con gli inizi del cabaret, però, la direzione del giornale mi pose una sorta di aut-aut. O il giornale o il cabaret. Da buon calabrese, insofferente alle costrizioni, mi dimisi dallo Specchio. Un mio carissimo amico, Luciano Oppo, mi propose allora di collaborare con Playmen. Ero disoccupato: accettai volentieri, anche perché trovavo giuste le battaglie sulla liberalizzazione dei costumi. 

A 31 anni, se non sbaglio, insieme a Castellacci, con qualche soldo preso a prestito, fonda, dalle parti di piazza Navona, il Bagaglino. Come nasce l’idea?

A parte un precedente tentativo di Maurizio Costanzo, che era durato poco, a Roma non c’era un vero e proprio cabaret. Allora, con alcuni amici, tra cui Castellacci, pensammo che, forse, era giunto il momento di provare. Trovammo una cantina, a dire la verità molto umida, e, senza grossi calcoli, ma con la sola voglia di sperimentare liberamente quello che amavamo fare, demmo vita al Bagaglino. I primi a seguirci, in questa meravigliosa avventura, furono: Oreste Lionello, Pino Caruso, Gabriella Ferri… 

Come furono gli inizi? Temevate di non farcela?

Non ci ponemmo questa domanda. Cominciammo e basta. Fu subito un grande successo; ogni sera, in quella cantina che poteva contenere al massimo 60-70 persone, la gente che assisteva agli spettacoli era sempre il doppio. Erano tutti ammassati, affumicati dalla mancanza di aspiratori adeguati, ma ciononostante felici di trovarsi in quel posto. Ecco: una delle più grandi soddisfazioni della mia vita, fu quando la prima sera del primo spettacolo del Bagaglino, scoprii che la gente alle battute scritte da me rideva. Voleva dire che potevo fare l’autore di cabaret. 

Pensa di essere un comico, un giullare?

No, più semplicemente un autore satirico.

Come reagì la città, in lento declino dopo gli anni ruggenti della Dolce Vita?

La città, in realtà, era in piena Dolce Vita. La gente usciva, si divertiva, e la mondanità era al suo massimo splendore. La nostra cantina di via della Campanella furoreggiava. Pensi che un giorno telefonarono dall’Ambasciata Americana: volevano prenotare quattro posti per la signora Jacqueline Kennedy in visita a Roma. 

Ma la nostra segretaria, esasperata dalle tante telefonate che riceveva a getto continuo, ringhiò: “Non c’è posto!”. E attaccò. Dopo sette anni, a causa anche di forti reumatismi di cui cominciai a soffrire, ci trasferimmo al Salone Margherita. Il teatro, che all’epoca era un tristissimo cinema d’essai, con noi ebbe subito una fioritura meravigliosa, con un pubblico straripante e felice. Degno del suo grande passato di tempio liberty del varietà. Sul cui palcoscenico si erano esibiti i più grandi, da Petrolini a Totò.

Nel frattempo, se non ricordo male, nel Settanta, ha inizio la sua, per molti dimenticabile, carriera cinematografica. Come mai: aveva bisogno di denaro, di riconoscimento?

Io non ho mai fatto nulla per denaro, ma solo per passione! Il denaro, che è venuto dopo, non è mai stato una mia ossessione… Ho fatto il cinema perché mi piaceva fare il cinema. Punto. E me lo hanno fatto fare perché i miei film hanno sempre incassato. A volte pure un sacco di soldi. 

Quali sono le pellicole più brutte che ha girato?

I più brutti non si possono dire. Succede come con i figli: il più brutto è sempre quello più amato. E poi non ho mai fatto film brutti. Al massimo qualcuno era un po’ meno meraviglioso… 

Come sceglieva gli attori? Cosa dovevano trasmetterle?

In genere dovevano avere talento, che nessuno ti può dare se non te lo porti da casa, e poi una certa elasticità, e non mostrare eccessive resistenze. Un attore deve avere un po’ le caratteristiche della cera: bravo e abile a modellarsi a seconda del copione che gli viene affidato.

In maniera ecumenica, proprio come un parroco, ha detto di amare tutti gli attori e attrici che hanno lavorato con lei. Pingitore, mettendo da parte un po’ d’inutile diplomazia, può dirci quale artista le ha regalato maggiori soddisfazioni?

Oreste Lionello, senza dubbio. 

Perché?

Perché c’era una grande consonanza tra noi due. Oreste era un uomo di grande intelligenza e capacità. Oltreché, come attore, di una bravura totale. Giorgio Albertazzi disse che Lionello era il più grande attore italiano. 

Come ha preso la sua morte?

Malissimo. È morto, pensi, due ore dopo che l’ero andato a trovare.

Quale, invece, l’ha delusa maggiormente?

Uno che potrebbe fare di più in relazione alle sue qualità artistiche: Manlio Dovì. Manlio era quello che sapeva imitare perfettamente chiunque. In particolare di Francesco Cossiga faceva una imitazione formidabile, di cui si parlava molto in giro. Una volta, ricordo, Cossiga, che all’epoca era presidente della Repubblica, e che per ovvie ragioni non poteva venire al Salone Margherita, lo invitò al Quirinale e si fece fare l’imitazione. Questo le dà la misura dello spessore di Dovì. 

Quanta ruffianeria, per non dire prostituzione intellettuale, ha scorto tra i suoi artisti, anche quelli più importanti?

Nessuna, anche perché non ho mai costretto i miei artisti a fare qualcosa che non fosse di loro gradimento.

Sì, ma tanti facevano a gara, soprattutto quando finiste in tivù, pur di lavorare con lei…

Sono sempre stato una persona refrattaria a raccomandazioni e ruffianerie.  Ho sempre scelto io, in assoluta libertà, chi doveva lavorare con me.

Era quasi un dittatore, un autocrate?

Sì, assolutamente. Il regista deve essere autocrate. Non c’è democrazia nell’arte.

Perché lei, invece, preferiva stare più dietro le quinte? Timidezza, vergogna?

Per un fatto di stile, più che altro. Ma quando dovevo apparire, mi facevo vedere senza problemi. 

Di quali spettacoli va meno fiero?

Guardi, avendone fatti tanti, quasi non ricordo tutto quello che ho fatto. Forse, rifacendoli, li farei meglio. Diciamo che l’applauso del pubblico cancellava qualsiasi dubbio o perplessità. 

Tutti i potenti, o quasi, hanno calcato la vostra scena; quanti, presi per il culo, la chiamavano, il giorno dopo, per lamentarsi o minacciarla?

Nessuno.

Ha mai temuto, portando in scena certi spettacoli, qualche rappresaglia?

Ma quando mai! Se scrivo e porto in scena uno spettacolo, è perché sono convinto di quello che sto facendo. Ho sempre fatto cose di cui fossi in grado di rispondere pienamente. Il che ti dà sicurezza di fronte a chiunque. 

Che rapporti aveva con Andreotti?

Andreotti, che avrò visto quattro volte al massimo, era una persona intelligente, spiritosa. Lo apprezzavo perché era un uomo capace di fare, anche se questo può dare spazio a mille interpretazioni. 

Ha mai invidiato il talento di altri?

Io sono un uomo molto presuntuoso: non vorrei il talento di nessuno! Mi basta il mio. E certe volte m’avanza pure.

È vero che la cultura di sinistra, forse sbagliando, l’accusava di volgarità e grossolanità. Ma a lei, stando in prima fila, sarebbero davvero piaciuti i suoi spettacoli?

Certo che mi sarebbero piaciuti. Le dirò di più: Io non ho nessuna scusa dei miei eventuali fallimenti o spettacoli meno riusciti, perché ho sempre deciso io cosa fare e scrivere. 

Come si sente quando la chiamano Maestro? Inorridisce?

Mi viene da ridere. Però mi fa anche piacere. D’altra parte in Italia, passata una certa età, se non ti affretti a morire, ti chiamano maestro. 

Perché puntava molto su una bellezza non proprio discreta? Aveva bisogno di tette e culi per attirare il popolo e fare ascolti?

È un luogo comune, il suo. Ho sempre cercato, e scelto, donne che, in primis, piacessero a me, da un punto di vista artistico e umano. Se le donne erano discinte, o abbigliate in un certo modo, era solo perché lo richiedeva l’esigenza dello spettacolo, dello sketch, o del balletto. 

“Troiaio”, “puttanaio”, così, spesso, da casa, apostrofavano gli spettacoli che metteva in scena; se li avesse letti sui giornali, l’avrebbero ferita questi epiteti?

Intanto non ho mai saputo di nessuno che da casa usasse quei termini. Poi se li avessi letti sui giornali, avrei preso a schiaffi l’autore.

Perché?

Perché le offese non le accetto. 

Uno dei momenti cult dei suoi spettacoli era, sicuramente, la torta in faccia. Cosa voleva simboleggiare? Disprezzo?

Nessun disprezzo, mai, nei confronti di nessuno. La torta in faccia era solo un gioco, cui alcune grosse personalità politiche accettarono di sottoporsi. Era semmai goliardia, mai offesa. 

Quant’è spiccato il suo lato femminile?

Non lo so. Sono anni che lo vado cercando…

Avendole frequentate a lungo, cosa ha imparato dalle donne?

Che sono il vero sesso forte. 

Che rapporti aveva con Berlusconi?

Di stima e simpatia. La prima cosa che gli dissi, quando mi offrì di passare a Mediaset (all’epoca eravamo in Rai), fu questa: dei copioni che scriveremo io e Castellacci e Vistarini, non vedrai mai nulla! È stato un editore libero e di parola. 

Negli anni della sua massima notorietà, si è mai sentito usato?

No, mai.

C’è una buona dose di cinismo nella sua vita, vero?

Se per cinismo intende rinuncia ai luoghi comuni, allora sono una persona molto cinica. Sui sentimenti fondamentali, non credo di essere un uomo cinico. 

Ha tradito più in amore o in amicizia?

In amicizia non penso di aver mai tradito.

Quanti amori ha avuto?

Eh… Un po’ di amori li ho avuti…

Quali sono stati i periodi più bui o peggiori della sua vita?

I periodi peggiori li ho cancellati. Sicuramente, i lutti mi hanno sempre colpito molto. 

Quali lutti l’hanno piegata di più?

Quelli legati alla mia famiglia e, poi, la perdita di qualche amica.

Pensa di essere un uomo vendicativo?

No, non penso. Ritengo di essere un uomo passionale, istintivo. A volte, ho avuto delle reazioni forti, a volte scomposte, violente, ma covare la vendetta non è nelle mie corde. Penso ci sia di meglio da fare nella vita… 

È stato più disonesto o permaloso nella sua vita?

Permaloso. Disonesto mai.

Incuteva timore negli artisti?

No, timore, no, forse una certa soggezione… 

Le piaceva che accadesse?

Mi sorprendeva, piuttosto…

Casa sua è piena di specchi. Cos’è: narcisismo? Ossessione? Cosa celano questi specchi?

Specchiarsi sempre ti dà l’illusione di essere sempre lo stesso, di non invecchiare mai. 

Le piace alimentare l’illusione, quindi?

L’illusione è tutto ciò cui facciamo finta di credere, sapendo benissimo che è un’illusione. Cioè una realtà benemerita della mente. 

Quanto ha guadagnato nella sua vita?

Abbastanza, ma, probabilmente, meno di quanto avrei potuto, ma non me ne lamento.

Perché?

Perché, come ho detto prima, i soldi, per me, sono solo un mezzo per vivere con una certa serenità. E magari per aiutare, con discrezione, qualche persona. Accumulare il denaro non m’interessa. 

Sessualmente parlando, è stato un uomo dissoluto?

Mi sono piaciute le donne, molto, ma senza esserne schiavo. 

È mai stato ossessionato dalle donne?

Qualche volta, sì, è successo.

Come n’è uscito?

Facendo decantare l’ossessione. 

Recentemente, su Dagospia, Mughini ha scritto un articolo proprio su di lei. Com’è nata l’amicizia con Giampiero?

Quand’era a Panorama, Giampiero mi fece un’intervista. Ci raccontammo le nostre esperienze. Nacque, tra persone schiette, una certa simpatia, senza paraocchi. Diciamo che chi ragiona per dogmi, difficilmente sarà mio amico.

Quanti amici ha, adesso?

Non pochi, alcuni dei quali conosciuti dopo i sessant’anni, quando, di solito, è più difficile stringere e costruire un’amicizia. 

È stato più amato o ha più amato?

A dir la verità non lo so. Uno pensa di essere stato molto amato, ma sarà poi vero? Diciamo che il carosello è stata abbastanza movimentato…

Come vive il suo presente?

Questo è un periodo molto malinconico… 

Perché?

Per la rassegnazione che si respira nell’aria e per il tempo che passa.

Quali vorrebbero essere le sue ultime volontà?

Cambiamo discorso, sono un po’ scaramantico…

Le piacerebbe fare ancora l’amore?

Ci sono modi di fare l’amore a tutte le età. Se si ama l’Amore.

Da "I Lunatici - Radio 2" l'11 novembre 2021. Pier Francesco Pingitore è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, live anche su Rai 2 sempre dal lunedì al venerdì notte più o meno tra l'una e le due e trenta. Pingitore ha parlato del Bagaglino: "Il mio nome è legato al Bagaglino? E' una soddisfazione! E' una creatura che ho creato assieme ad alcuni amici nel 1965 e che ancora è viva. Non credo ci siano altri esempi così longevi. E poi mi è particolarmente caro perché il Bagaglino è nato tra amici, senza nessuna dipendenza di nessun tipo. Mettemmo quattro soldi ciascuno chiedendo un prestito e da lì cominciammo in piena e totale indipendenza. Un vanto nella mia vita è quello di essere stato sempre indipendente. Ho fatto sempre tutto quello che ho voluto nel bene e nel male. Come reagiva la politica alla nostra satira? Andreotti una sera venne ospite e facemmo quattordici milioni di spettatori. Sono cifre che appartengono ad altre epoche. Lui era un uomo intelligente, capiva che la satira aveva una funzione attinente alla vita politica. La satira non serve per fare la rivoluzione, è una valvola di sfogo perché certe situazioni non raggiungano una condizione di malessere tale che possa poi portarle ad esplodere in altro modo. Nessun politico ci ha mai manifestato rabbia per quello che dicevamo. Si può dire tutto, ma lo si deve fare nel modo giusto. La satira è parte del sistema. Chi dice il contrario forse è in malafede o dice una sciocchezza". Ancora Pingitore sul Bagaglino: "Gli uomini che l'hanno più caratterizzato? Pippo Franco, Oreste Lionello, Leo Gullotta, Martufello. Le donne? Io resto legato a tutte. Da Pamela Prati a Valeria Marini a Matilde Brandi, resto legato a loro, ho sempre rapporti. Sono persone che sono diventate anche amiche. Se oggi qualcuno mi accuserebbe di sessismo per la presenza della donna nel bagaglino? E che me ne frega a me! Oggi ti accusano di tutto. Buttano giù le statue di Cristoforo Colombo, figuriamoci se non possono accusare me di sessismo o di altro. Si sta instaurando il regno dell'ignoranza, la gente non sa nulla, questi poveri ragazzini che vanno imbrattando e rovesciando statue neanche sanno quello che fanno. Agiscono per sentito dire, per superficiali anatemi che vengono gettati senza capire che ogni epoca ha le sue regole. Siamo in un'era che si avvia verso la barbarie. L'ultima volta che ho pianto? Tanti anni fa, quando è morta mia madre". Pingitore ha parlato del momento che stiamo vivendo: "Come sta l'italiano medio? Lo vedo sconcertato. Non c'è più nessuna certezza. Né di vita, né nella religione, né nella politica. Credo che questa lunga 'vacanza' abbia fatto piuttosto male, non bene. Prima che ci si riprenda passerà tanto tempo. La gente deve riacquistare fiducia. Che l'italiano sia sconcertato lo si vede anche dalle elezioni. La metà delle persone non è andata a votare. Questo qualcosa vuol dire. Gli ultimi due anni sono stati contrassegnati prima dal lockdown, poi da questo fatto dei vaccini. Non dimentico le file ai supermercati, le autocertificazioni. Io non ho provato tanto malessere, vivo molto dentro casa. Anche se il senso di non poter uscire, andare al cinema o al bar, pesa. Anche se poi uno non ci va, l'idea di non poterlo fare è pesante. Ho occupato il tempo scrivendo il mio ultimo libro, 'Confessioni spudorate'. Mi sono divertito nello scriverlo, è un libro non comico, né triste. Il divertimento consiste nel fare qualcosa che piace, che diverte, che toglie dalla preoccupazione e dalla noia".

"La sinistra si gioca la "matta" del fascismo e vince sempre". Francesco Curridori il 12 Maggio 2021 su Il Giornale. Pier Francesco Pingitore, ideatore del Bagaglino, ci spiega perché in Italia continua a prevalere una sorta di egemonia culturale della sinistra. La satira, la politica e la cultura. Pier Francesco Pingitore, ideatore del Bagaglino, ripercorre la sua carriera professionale e ci fa il punto sullo stato di salute della comicità italiana, sempre più colpita dalla dittatura del politicamente corretto.

Quanto sono stati duri gli inizi della sua carriera?

“Ho cominciato come giornalista con lo Specchio di cui dopo qualche anno sono diventato redattore capo, poi l'ho lasciato e ho fondato il primo cabaret romano. Cominciò quasi per scherzo quando, insieme ad alcuni amici tra cui Mario Castellacci, pensammo di rappresentare i nostri scritti facendoli interpretare a un gruppo di attori. Era un'attività collaterale al nostro lavoro di giornalisti e pensavamo che sarebbero venuti a vederci solo una quindicina di amici e, invece, questo cabaret che chiamammo Bagaglino esplose subito. Facevamo le nostre esibizioni in uno scantinato che poteva ospitare 60-70 persone, ma ben presto gli spettatori divennero100-150”.

Quali erano i vostri maestri?

“Non avevamo punti di riferimento. Scrivevamo satire di politica e di costume, sull'attualità dell'epoca. Stiamo parlando del 1965 e c'era un'Italia molto diversa da quella di oggi. Ci muovevamo in una libertà totale che abbiamo continuato a osservare anche quando dalla cantina siamo passati al salone Margherita che, ora, la Banca d'Italia ci ha tolto. Ma questa è un'altra storia”.

A quale sua opera è più affezionato?

“Ai nostri primi scritti, I tabù, uno spettacolo di cabaret, interpretato da Oreste Lionello, Pino Caruso, Claudia Camenito e Gabriella Gazzolo. Nella seconda parte, poi, c'era la parte cantata interpretata da Gabriella Ferri, Tony Cucchiara e Nelly Fioramonti. Questo è il punto d'inizio con la canzoncina che diceva 'Se vuoi venir con me ti porto al cabaret che è un posticino chic da starci chic tu chic...'. Quella è una cosa che a distanza di circa 65 anni mi rimane dentro”.

E come siete arrivati in televisione?

“Siamo arrivati con Dove sta Zazà, il programma che ha lanciato Gabriella Ferri e Mazzabubù con la regia di Antonello Falqui e con i testi miei e di Castellacci. Poi c'era il contorno composto dal team del Bagaglino: Oreste Lionello, Pino Caruso, Enrico Montesano e Gianfranco D'Angelo che portò una ventata di novità nella televisione italiana proprio perché arrivava il cabaret. Fu un successo enorme e da lì in poi facemmo una serie chiamata Biberon che cominciò in terza serata e, alla fine, arrivò fino al sabato sera di Raiuno. Ogni anno cambiavamo nome allo spettacolo e, quando arrivò Andreotti ospite di Creme Caramel, facemmo 14 milioni di telespettatori. Dopo qualche anno arrivò la 'gestione dei professori', nel '92-'94, che nonostante il nostro enorme successo, stracciò il contratto già firmato dicendo che non eravamo adatti alla Rai. Poi gli fecero notare che, senza di noi, la Rai avrebbe perso molti inserzionisti e, allora, ci chiamarono e ci riammisero. A quel punto, però, ammoniti da quel comportamento, accettammo l'offerta che Berlusconi ci faceva da anni, ponendo una clausola che lui ha sempre rispettato, ossia che tutto quello che avremmo messo in scena sarebbe dipeso dagli autori e dal regista e che lui nessun altro avrebbe mai letto i nostri testi”.

In Rai avete mai subito censure?

“No, non mi ricordo. Ovviamente, se uno lavora in Rai sa che deve adottare certi limiti nei modi di esprimersi però io non ho mai subito una censura politica”.

E, al di là dell'esperienza del Bagaglino, qual è il lavoro a cui è più legato?

“Ho scritto la trilogia su Mussolini, un'opera a cui sono molto legato. Sono tre drammi ambientati perlopiù nei luoghi dove avvennero i fatti. Son partito prendendo in considerazione la notte del 25 luglio in cui cadde Mussolini e potei ambientare proprio a villa Torlonia il ritorno a casa del Duce sconfitto, interpretato da Luca Biagini. Mi ha interessato seguire la caduta di un uomo che fino a 24 ore prima aveva in mano l'Italia. Poi, qualche anno dopo, misi in scena l'operazione Quercia, ossia l'operazione con cui i tedeschi organizzarono la liberazione di Mussolini dall'albergo sul Gran Sasso, a Campo Imperatore. Ambientammo proprio in quell'albergo i 12 giorni che Mussolini passò da prigioniero, in attesa che succedesse qualcosa. Era il settembre del '43 e non sapeva se sarebbero arrivati gli americani, gli inglesi o i tedeschi e Mussolini faceva anche un certo esame di coscienza della sua vita. L'ultimo atto, invece, l'ho chiamato Scacco al Duce perché ho messo in scena l'ultima notte di Claretta e Mussolini che, arrestati dai partigiani, sono stati portati nella cascina sulle pendici del lago di Como in attesa della fucilazione. Sono affezionato a questa trilogia perché mi sembra un'opera teatralmente originale”.

E il programma televisivo?

“Sono particolarmente affezionato alla serie Tre Stelle che rappresenta la vicenda di tre dive dell'epoca fascista che si trovano ad attraversare i problemi del periodo della guerra, pur venendo da una condizione di privilegio”.

Cosa rappresenta per lei la satira politica?

“È una valvola di sfogo per la società. La satira, poi, è ovviamente è parte integrante del sistema e non si prefigge di fare la rivoluzione, ma di dare sfogo, attraverso la denuncia, a quelle che sono le malformazioni e i vizi della società affinché non esplodano tensioni sociali. È un lavoro al servizio del Paese”.

Il politicamente corretto ucciderà la satira?

“Non so. Sicuramente è una delle bestialità maggiori che siano state fatte dalla mela mangiata da Adamo. È una stupidaggine che non ha alcun senso. Attraverso il politicamente corretto si può anche instaurare una dittatura. Chi stabilisce che cos'è politicamente corretto? Quale autorità si investe per mettere a tacere quelli che non la pensano in un certo modo. È questo il politicamente corretto? Non lo so. Non esiste un codice del politicamente corretto e, se esistesse, sarebbe la iattura peggiore del mondo. La libertà di parola e di pensiero che abbiamo ereditato dalla Rivoluzione francese deve essere salvaguardata da qualunque recinto si voglia fabbricare”.

Perché l'Italia è pervasa da un'egemonia culturale della sinistra?

“Perché a sinistra hanno la 'matta', la carta a cui puoi assegnare qualunque valore e vince sempre. La matta è che, se non la pensi come loro, ti chiamano fascista e, a quel punto, hanno vinto. Con questa matta, probabilmente, hanno esercitato la loro egemonia. A sinistra chiamano fascista chiunque dia loro fastidio”.

Chi è il politico più autoironico? E quello meno?

“Quello più autoironico è sicuramente Giulio Andreotti, un uomo di grande spirito. Poi ognuno ne dà il giudizio politico che vuole, ma era certamente una persona di talento e di spirito. Generalmente, però, i politici non sono autoironici perché hanno quasi sempre la coda di paglia. Quando qualcuno sa che, gratta gratta, viene fuori la scarsa preparazione e la modestia intellettuale, l'autoironia certamente non la pratica”.

Cosa pensa del governo Draghi?

“Penso che sia stata una buona soluzione e che Draghi presto ci porterà fuori da questo casino. Sono convinto anche che abbia fatto alcune misure interessanti: ha aumentato il ritmo delle vaccinazioni e si è affrettato a presentare il Piano in Europa. Questa è una crisi sanitaria, economica ma anche morale perché la gente è devastata da questi quasi due anni di limbo. È come se ci fosse stato un esaurimento nervoso generale che ha colpito tutti”.

Lei come ha trascorso quest'anno di covid?

“Ho scritto un libro, ma se mi chiede come l'ho trascorso non so dirlo perché i giorni si confondono l'uno con l'altro. Sono giorni troppo simili, contraddistinti solo da piccole passeggiate. Dire cosa ho fatto lunedì o giovedì mi riesce difficile perché quest'anno e mezzo lo ritengo una lunga giornata di cui ancora dobbiamo vedere la fine”.

Ha avuto paura del covid?

“Come tutti, ma senza isterismi. Ho sempre osservato le cautele e mi sono vaccinato appena ho potuto, ma ho avuto la sensazione di vivere in una campana di vetro”.

Secondo lei, com'è stata gestita la pandemia?

“Dall'Europa male perché ha stipulato dei contratti scritti male in cui non era prevista neanche la penale se tali contratti fossero stati disattesi e, quindi, ha esposto tutti i Paesi a delle deficienze. In Italia c'è stato un po' di disorientamento comprensibile perché questa è una piaga biblica che nessuno di noi neanche lontanamente immaginava. Anche le notizie che arrivano dall'India sono terrificanti e si ha l'impressione di vivere in un film dell'orrore”.

Veniamo alla parabola di Grillo e del Movimento Cinque Stelle. Lei cosa ne pensa?

“Non vorrei dare dei giudizi troppo netti. Quel video di Grillo è lo sfogo di un uomo che ha perso le staffe. Penso che se ne sia pentito e credo che non lo rifarebbe perché ha fatto un qualcosa fuori dalle righe. Credo, oltretutto, che abbia danneggiato non solo sè stesso davanti all'opinione pubblica, ma anche la posizione del figlio. Se, però, se l'è sentito di farlo, ne risponderà a sè stesso e agli altri. Per me non è stata una gran mossa. È la mossa di chi ha perso i freni inibitori”.

E di Salvini e Meloni cosa ne pensa?

“Della Meloni ho una grande stima. La ritengo una persona perbene, preparata, in buona fede e con un grande attaccamento alle sue idee e alla sua parte politica. Salvini è un uomo politico abbastanza dotato che, a volte, commette degli eccessi di cui potrebbe fare a meno. Ha, comunque, la capacità di avere un seguito e questo, per un uomo politico, non è poco”.

·        Piero Chiambretti.

L'uomo, l'amico, l'artista. Chi è Piero Chiambretti: non rassicurante come Fazio, è puntiglioso e centrato su se stesso. Fulvio Abbate su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. Piero Chiambretti è certamente il più straordinario uomo-evento televisivo che sia comparso sul suolo spettacolare, tra i crateri, del Belpaese, e forse non solo lì, nell’ultimo quarantennio. Come munito del mitologico rostro di Gaio Duilio, Chiambretti sa conquistare l’attenzione altrui. Attraverso il proprio talento, forza del proprio sguardo, da Gatto Felix, ammiccante nel senso più alto e insieme tautologicamente giudicante della parola. Chiambretti muove sulla scena dalla certezza della propria intelligenza, spigliatezza, estro, possesso della lingua italiana fanno il resto. Chiambretti è conciso, fa domande in modo immediato, chirurgico, come fosse in possesso di un invisibile forcipe; non è, buon per noi, l’“intervistatore classico”, anzi, appare sufficientemente spietato con grazia al punto da avere inventato un proprio “teatro della crudeltà televisiva”. Non raggiunge le vette drammaturgiche di Antonin Artaud, essendo egli un Cavour che sa sempre il fatto suo. Con temperata allegrezza torinese. Il suo scopritore, il suo ostetrico di viale Mazzini, l’altrettanto sabaudo Bruno Voglino, disse ogni bene di Piero, salvo aggiungerne le difficoltà caratteriali: le stimmate da Figlio Unico. Chiambretti è puntiglioso, centrato su se stesso, forse anche consapevole della propria intelligenza debordante; parlare ancora di dono appare più che scontato. Nella quadreria televisiva, Piero dimora, storiograficamente, accanto alle Kessler e a Walter Chiari, e a poche altre cose degne di nota. Dimenticando l’ordinario di una Carrà, è doveroso annoverarlo in uniforme di panno grigio antracite e borsa a tracolla da postino. Pronto a placcare, irrompere, anzi. Antologico l’incontro con Fellini, con Cossiga, magari anche con Carmelo Bene, non ho però ricordi esatti in proposito. In ogni caso, gli dobbiamo, una vera summa di volti incontrati, rostrati, da lui arpionati, oltre ogni possibile giornalismo. Chiambretti, dopo i giorni in Rai, è poi trasmigrato a Mediaset: salotti notturni, affrontando anche lì, come domatore in giacca rossa e alamari, un Buffalo Bill in tournée all’Acquario romano dove i butteri della Maremma affrontano i cowboy e le Calamity Jane e Toro Seduto, alcuni autentici “mostri” spettacolari. Ho provato a dirgli che la televisione si può fare anche con quattro legnetti, cioè senza sfarzo glitterato per compiacere squinzie e squinzi, ha risposto che no: Chiambretti crede in un certo sfarzo, dispendio scenografico talvolta addirittura “pompeiano”. Amato figlio di madre poetessa, con la quale, sia detto da testimone diretto, ha nutrito un rapporto di osmosi e complicità, da coetanei. La ferita della morte di Felicita, mai nome fu più grozzaniano, il nostro più grande poeta “maledetto”, nonostante l’apparenza da pera bollita, trascinata via dalla vita dalla pandemia, è in Piero vivissima. Chiambretti, dimenticavo di dirlo, torinese, se non proprio “falso e cortese”, certamente possiede gli acidi d’ironia e sarcasmo. E, ormai su tutto, una figlia decenne che adora, riuscita a fare di lui perfino un personaggio del più sublime spirito deamicisiano. Chiambretti, in una recente intervista, spiega di non desiderare affatto di cenare con Fabio Fazio, suo compagno di strada al tempo degli esordi. Chiambretti spesso si interroga su come sia stato possibile che la patente e il porto d’armi di nuovo Pippo Mike Baudo Buongiorno sia stata concessa a quell’altro, Fazio. La risposta che abbiamo provato a offrirgli non fa breccia nella sua corazza giustamente narcisistica, essendo l’uomo consapevole del già definito amor proprio. Fabio Fazio, nella sua sostanza curiale da nipote del monsignore, dà all’ospite sensazione di deferenza al limite dell’imbarazzata prostrazione, Chiambretti, sebbene non superi mai il limite imposto dai dettami di Monsignor della Casa, Chiambretti, dicevamo, come Mandrake, con la semplice forza dello sguardo, anzi, come in possesso degli “occhiali a raggi X” proposti un tempo dal “Monello” e dall’“Intrepido” per vedere sotto gonne e reggiseni, mostra per intero, qualora vi fosse, la mediocrità dell’altro. Questi, l’Intervistato intronato, narcisista ordinario, subito comprende di essere messo a nudo dall’Ospite Chiambretti. La televisione di un paese segnato dai cilici del catto-democristian-comunista-veltronesco, necessita invece di conduttori deferenti. Piero Chiambretti, al contrario, sebbene sia un ben pensante sabaudo – già, nessuno lo supponga “comunista” – come un evidenziatore verde ne sottolinea, con la semplice forza dello sguardo, l’inconsistenza, porgendo domande e note a margine. Di quando, munito di fregio di latta postelegrafonico sul berretto, raggiungeva gli ospiti resta intatta la volta in cui, giunto presso i “fascisti” del non ancora emendato dall’orbace Msi, prese per il culo Gianfranco Fini, chiese perfino conto delle opere complete di Mussolini impilate nella sua stanza in via della Scrofa. Ciò non accadde invece a Rifondazione comunista: lì, chiuso in una stanza, un ottuso “compagno” del servizio d’ordine gli dette del provocatore. Come sua mamma Felicita, che non ce l’ha fatta, anche Chiambretti è stato pugnalato dalla pandemia, dandone una testimonianza struggente, di autentica umanità, e forse questo libro con la prole, ne è l’esempio più più toccante: Chiambretti. Autobiografia autorizzata dalla figlia Margherita (Sperling & Kupfer). Ne dice lui così: «Ho scritto questo libro perché l’ha voluto mia figlia Margherita, la metà della mia vita, dove si scopre il fanciullo, l’artista, l’uomo».

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “Love. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Piero Chiambretti: «Mia figlia è tutto per me, la vorrei in tv ospite fissa. A cena con Fazio? Vivo benissimo senza». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 18 ottobre 2021. Intervista con il conduttore: «Da Nilde Iotti mi presentai con un phon, consegnai un uovo di struzzo a Spielberg, con Woody Allen parlai di morte». I genitori: «Meglio una madre che vale per due di un padre che non vale niente» 

Trenta maggio 1956.

«Un giorno lontanissimo, all’ospedale di Aosta. Ero presente, ma non ricordo nulla. Però avevo le idee chiare: sono uscito subito».

Ventisei maggio 2011.

«Un giorno importante, all’ospedale di Parma. Alle 9 del mattino sono diventato padre e da quel momento non sono più stato figlio, ho capito la differenza del ruolo. L’infermiera disse: entrate, è nata, ma si era sbagliata. E così mi trovai davanti questa immagine fortissima: una luce potentissima che sparava nella direzione immaginabile, con il medico che estraeva la bambina dalla pancia della madre. Margherita non pianse. Era sana, dal testone enorme, simpatica fin da subito».

Ventuno marzo 2020.

«Un giorno drammatico, all’ospedale San Mauriziano di Torino. Erano le 4 del pomeriggio, ma a me sembravano le nove di sera. I medici mi dicono che mia mamma Felicita sarà messa vicino a me, per l’ultimo giro di valzer, nella stanza dove sono ricoverato come lei per il Covid. Ricordo che mamma arriva, come in un sogno. Mi addormento serenamente e a un certo punto entra Chiara, l’infermiera, che le mette due dita vicino alla carotide e ne accerta la morte. Mi riaddormento, mamma viene portata via. Poi mi sveglio alle 4 di mattina per i primi esami e accade il miracoloso: i miei valori, che fino a quel momento non davano segni di miglioramento, finalmente iniziano a risalire. È lì che sono guarito, in quel passaggio dalla morte alla vita in cui mia madre rinunciando alla sua ha scelto di darmi la vita per la seconda volta». 

Piero Chiambretti cammina avanti e indietro nella sua bella casa torinese dai soffitti altissimi, un Superman a grandezza naturale fa la guardia fuori dal salotto, il Cinema Margherita è senza spettatori nella stanza accanto che fu un corridoio (e dove adesso il maxischermo occupa tutta la parete più stretta, si fa per dire). È veloce «anche da fermo», come ha scritto in Chiambretti, l’autobiografia autorizzata dalla figlia, pubblicata con Sperling & Kupfer. Nella prefazione la bambina si firma «Meggie», ma lui la chiama Margherita, Babù, Bubù. E poi Gino, Tommy, Giuseppe. Ammette: «Per me quella ragazza è tutto: è amico, consigliere, complice, bersaglio, è una palla di tenerezza e vitamina. Quando siamo insieme io mi sento meglio. Vive con la madre, Federica, ma il venerdì viene da me e passiamo insieme il weekend. Vuole dormire con me, anche se nella sua camera aveva voluto un letto a castello per dormirci lei sopra, e mia madre sotto».

A Felicita ha dedicato il libro. Com’era?

«Una donna fortissima, ironica. Guardi, questi sono i suoi libri (apre a caso una delle cinque raccolte di poesie sul tavolo basso di vetro, tutti con una farfalla in copertina, ndr). “Con infinito amore a mio figlio Piero per essermi stato donato dal destino”... Ci resto male ogni volta, non è vero che il tempo risolve le cose. La ricordo quando era giovane, come una sorella, ero molto geloso di lei, aveva degli spasimanti che mi teneva nascosti. Giovane, simpatica, ma preoccupata: stava sveglia fino a tardi per finire il lavoro. Era entrata all’Alleanza Assicurazioni da semplice segretaria fino a diventare assistente del direttore».

Le chiedeva un parere sui programmi?

«Sempre, era la migliore telespettatrice e la più grande critica. Quello che le è piaciuto di più è stato Il laureato. Quando mi sentivo insicuro mi rincuorava, ma aveva anche il suo modo per scuotermi: mi diceva “Sei uno stupido!” e a volte “Pagliaccio!”, un’esclamazione forte: sapeva prendersi e prendermi in giro».

Nel libro definisce il suo «un padre cattivo»: non lo ha mai conosciuto. Perché non un cattivo padre?

«Spostare l’aggettivo dà meno importanza all’aspetto del genitore ma più all’atteggiamento, per rafforzare un mancato ruolo. Non si prese le sue responsabilità. Ma sono felicissimo così e non vorrei mai essere considerato una vittima. Sono stato fortunato, perché una madre che vale per due è sempre meglio di un padre che non vale niente».

Non ha la curiosità di incontrarlo adesso?

«Ma no, ormai è passato talmente tanto tempo che ne sarei deluso, anche dal punto di vista fisico. Avrebbe tra gli 85 e gli 87 anni, magari altri figli».

E lei che padre è?

«Autorevole senza essere autoritario».

L’ultima volta che ha sgridato Margherita?

«La sgrido poco. L’ultima volta è successo quando ha invitato a casa un’amica e hanno messo i piedi sui muri bianchi. Ma lì l’ho sgridata perché non aveva gestito da padrona di casa la presenza della sua amica».

Cinquantantré programmi tv, secondo Wikipedia. Lei ne riconosce come suoi 28. Centinaia di interviste, da Gorbaciov a Mourinho, da Cossiga a Mike Tyson. Di quale è più orgoglioso?

«Tutti hanno intervistato tutti e non considero i personaggi come medaglie da mettere sul petto. Non mi ritengo un giornalista, non sono uno che fa domande per avere la verità, che poi non esiste, tanto meno in televisione. A me interessa giocare dialetticamente con questo o con quello. Ho sempre usato le interviste, al di là dell’opportunità di confrontarmi con personalità superiori alle mie, come pretesto per fare uno spettacolo: gli ospiti servivano a crearmi delle spalle ideali. Un’intervista molto raffinata la feci con Gesualdo Bufalino, un grande poeta siciliano amico di Sciascia. Andai nella sua casa a Comiso e parlammo di tante cose, di mafia, di morte, di poesia. L’hanno vista in pochi, la feci per Il laureato».

Ce ne sarà una che l’ha emozionato in modo particolare.

«La prima volta che incontrai Federico Fellini, al ristorante a Roma. Mentre parlavamo lui su un foglio schizzava il mio volto: Paolo Sorrentino è il suo miglior epigono. Poi, certo, Gorbaciov e Cossiga mi hanno emozionato, per i ruoli interpretati nella storia del mondo e dell’Italia. Ma anche Woody Allen: con l’aiuto di Tiberio Fusco seppi che non amava parlare della morte nelle interviste e allora gli feci solo domande sulla morte e su Bergman, uno dei suoi registi preferiti. Il mio divertimento fu vedere come cambiava espressione, mentre Costantino della Gherardesca faceva da interprete, per Markette».

Ha incontrato anche tanti politici.

«Da Nilde Iotti andai con un phon, da Prodi vestito da prete. Incontrai Tina Anselmi, la signora Fanfani, la moglie di Almirante. Ho avuto la fortuna non solo di veder cadere il Palazzo, ma anche di viverlo. Fui uno dei primi a proporsi con dei blitz, senza mai essere picchiato, ferito o denunciato. Le Iene, che sono bravissime, hanno un’aggressività diversa».

In quale conduttore americano si riconosce?

«Conosco troppo poco la televisione americana per rispondere. Sono molti quelli che si ritengono i David Letterman italiani. Io penso che di David Letterman ce ne sia uno solo e che in Italia non riuscirebbe a fare se stesso perché l’Italia, a differenza dell’America, non ha personaggi così generosi da andare a un talk show per fare solo show. Qui è talk e basta».

Ha portato un leone vero a Venezia, ha regalato un uovo di struzzo a Steven Spielberg (e la vostra foto finì sul «New York Times»). Come le sono venute queste idee?

«Il leone e l’uovo sono idee facili, quasi giochi di parole. L’idea televisiva è quando decidi la scena, il cast, la musica, il vestito, tutto, e magari sei partito da una parola. Quando mi chiesero Grand Hotel Chiambretti partimmo dal nome: gente che va, gente che viene. Tutto il resto fu giustificato dal titolo: la scenografia da Grand Budapest Hotel, le musiche, l’ascensore, i tavolini della sala da pranzo. Via via costruimmo il programma. Ho cominciato a fare questo mestiere con l’idea di portare in televisione quello che non c’era: la spontaneità, la strada, le persone. Internet ha cambiato tutto: ora non c’è niente che tu non possa trovare digitandolo su Google. Da quel momento ho cercato di fare meglio quello che c’era già».

Ha lanciato personaggi come Alfonso Signorini e Costantino della Gherardesca. Le sono grati?

«La gratitudine non è una missione televisiva. Credo che entrambi abbiano un buon ricordo di me, specie Signorini che ho frequentato televisivamente tantissime volte e ha preso spazi importanti dentro la mia seconda, terza vita televisiva. La vita di tutti è fatta di scelte, di orari, luoghi: io vivo a Torino, loro entrambi a Milano e non ho modo di incontrarli. Non è importante dire mi ha scoperto lui. Mi interessa più il rapporto di amicizia e questo, soprattutto con Signorini, è avvenuto».

Se Fabio Fazio la invitasse a cena?

«Vivo benissimo senza andarci a cena».

Quale spot l’ha divertita di più?

«Da torinese sono legato alla Fiat e mi piacerebbe essere di nuovo in qualche modo testimone di questa azienda internazionale che ha ancora le radici in città. Però come non ricordare gli spot della Bic, dove pubblicizzavo un oggetto diverso rispetto a quello per cui ero pagato. La prima campagna fu girata in 15 minuti, mentre i dirigenti dell’azienda si erano allontanati per bere un caffè. Avevamo chiesto l’autorizzazione a tutti gli altri marchi».

Il prossimo programma?

«Mi piacerebbe fare, finalmente, La repubblica dei bambini, con mia figlia ospite fissa o con un ruolo di disturbo rispetto a me».

Chiudiamo con un’altra data: 15 ottobre 1967.

«Muore Luigi Meroni, il calciatore più promettente del Toro. Io avevo 11 anni e andai a salutarlo alla camera ardente, davanti la bara sbagliata. Da quel giorno sono granata».

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 31 gennaio 2021. «La verità è che hanno ragione tutti. E quando hanno ragione tutti non ha ragione nessuno». Piero Chiambretti analizza così la «grande bolla» di Sanremo. Lui che ben lo conosce, avendone fatti «due e mezzo: con Mike, Baudo e in buona parte con Raffaella Carrà. Più un dopo Festival e varie incursioni... conosco benissimo quel sapore». Purtroppo, conosce anche quello del Covid, essendone guarito e avendo perso sua mamma per l'infezione. «Capisco gli organizzatori e i conduttori: il pubblico dà energia. Come i calciatori, che la ricevono da chi guarda la partita».

Però, come racconta anche lei a «Tiki Taka», i calciatori giocano con gli stadi vuoti.

«Tutti i grandi non stanno dando il massimo però, come farebbero con applausi e fischi. Ma se da un lato do totale solidarietà al Festival, dall'altro ci sono riflessioni che vanno in altro senso».

E quale?

«Il fatto è che il Covid è un problema serio, lo posso dire con la massima serenità. Non è che ti contagi se scali a petto nudo l'Himalaya, basta prendere il tram: mia mamma stava benissimo e in cinque giorni è morta. Chi minimizza sbaglia e la vita deve essere la priorità: prima la salute, poi canta che ti passa. Questa cosa incrocia Sanremo come ha incrociato il resto. Si può saltare un'edizione, si è detto, ma è come abdicare, un'occasione mancata: facendo di necessità virtù si può invece riempire il vuoto pneumatico di un teatro con le idee».

I figuranti non sono l'unica soluzione, insomma?

«Un Festival che va avanti da 70 anni nello stesso modo ci rasserenerebbe, certo. Una bolla di evasione perfetta. Ma potrebbe anche risultare stridente, non aderente a una realtà che riguarda tutti. Da appassionato di record, dopo lo sconforto iniziale mi tufferei nell'organizzare un Festival che passerebbe alla storia. Giocherei la partita pensando non ai 400 che non sono lì, ma ai dieci milioni che guardano da casa».

Rendere l'emergenza un'opportunità. Ma come?

«Magari con effetti speciali altrimenti impensabili. E idee. Su due piedi proporrei un unico spettatore in una sala, magari Franceschini».

Se hanno ragione tutti, ha dunque ragione anche lui?

«Lo capisco. Se apri quel teatro devi pensare agli altri. Si potrebbe spostare tutto in uno studio tv con figuranti. Ma giocherei di fantasia con un modello diverso, perché è un anno diverso. Il Festival è uno specchio della realtà: il Paese è in ginocchio e anche lui lo è. Quest' anno potrebbe iniziare Morandi cantando "In ginocchio da te"... magari è la soluzione».

Elisabetta Pagani per “la Stampa” il 22 marzo 2021. «Quei video me li riguardo per non dimenticare mai ciò che mi è successo. Li guardo e rivivo la paura di una malattia che non perdona. Vedere come ero conciato, e vedere mia mamma che non c' è più, mi rende più determinato per me stesso e per gli altri: vacciniamoci, è l' unica strada per uscirne». Piero Chiambretti lo scorso marzo era stato ricoverato d' urgenza all' Ospedale Mauriziano di Torino per tre focolai di polmonite causati dal coronavirus. Con lui anche sua mamma Felicita, che però non ce l' ha fatta, «è morta proprio un anno fa oggi». In quei difficili giorni Chiambretti aveva girato dei video col cellulare in cui si vedevano «la maschera, le cicatrici, gli aghi nelle braccia». Oggi li riguarda per darsi forza «e per convincere gli altri a vaccinarsi e a rispettare le restrizioni». Il conduttore televisivo, insieme ad altri personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport e della cultura (da Cristina Chiabotto a Cristina Chirichella, da Vladimir Luxuria a Piergiorgio Odifreddi), ha infatti deciso di aderire come testimonial alla campagna di comunicazione della Regione Piemonte per ridare fiducia ai cittadini sulla vaccinazione.

Bisogna vaccinarsi perché?

«Perché sì. È l' unico modo per tentare di battere questa terribile malattia e trasformarci in un gregge immune. Ora vedo tanti che si comportano come pecore, che fanno feste clandestine. Invece dobbiamo passare da questo gregge all' altro».

In piazza, anche a Torino, tornano però No Mask e No Vax. Cosa direbbe loro?

«Non riesco neanche a dare un giudizio. Ma come si fa a negare che esista il Covid con tutti questi morti? A questa gente dico di andare in terapia intensiva o al cimitero prima di parlare. Uso una frase dura ma vera: il Covid si prende come un' influenza ma può finire come il cancro, non dimentichiamocelo. Servirebbe sì una mobilitazione popolare, ma per chiedere vaccini per tutti, altro che negazionismo».

Mancano anche i vaccinatori.

«Se mancano è perché non ci sono. Non credo che un medico o un infermiere possa non rendersi disponibile per un' operazione così importante».

Pensa che per gli operatori sanitari il vaccino dovrebbe essere obbligatorio?

«Sì. Ci hanno detto che il vaccino è la soluzione, e allora chi ci tutela deve tutelarsi per primo. Moralmente ed eticamente è giusto vaccinarsi e dirlo. Poi le paure dell' uomo ci sono e ci saranno sempre, ma riguardano l' ignoto. Non possiamo fare altro che fidarci».

Si farebbe vaccinare con AstraZeneca?

«Più di un medico mi ha detto che avendo fatto il Covid ho ancora gli anticorpi, quindi forse non ora. Quando però sarà il mio turno lo farò, e con il vaccino che mi toccherà. Siamo nelle mani dei laboratori, degli esperti e dei nostri anticorpi».

Come vive la zona rossa?

«Male perché sono asserragliato in casa. Ho perso un anno di vita e sono dispiaciuto soprattutto per mia figlia che ha 9 anni. Lavoro a parte, vivo quasi da recluso, ligio alle regole. Trasgredire sarebbe assurdo. A casa sto molto da solo o con qualche congiunto quando si può. Certo, quando eravamo in zona gialla ho riaperto i miei ristoranti e sono uscito. La situazione è durissima».

Li riaprirà?

«Me lo auguro, sia per le famiglie che ci lavorano sia per me. Come mi auguro di tornare a vivere normalmente. E di ritrovare la certezza del futuro».

·        Pietro Galeotti.

Filippo Ceccarelli per IL Venerdì - la Repubblica il 24 settembre 2021. Strano - e anche un po' sospetto - che un Paese sagomatosi sull'intrattenimento televisivo non abbia finora mai sentito il bisogno di concedersi un racconto dall'interno della tv. Come se un polveroso, ma robusto tendone da sipario avesse voluto nascondere non solo congegni e dispositivi ideologici, ché quelli in fondo si conoscono o si indovinano, ma soprattutto l'umanità, la vita nuda che anima il retropalco, e quindi le chiacchiere, i sorrisi, le malizie, oltre ai peggiori automatismi. Forse è vero che i libri sono ormai uno strumento superato per questi disvelamenti. Ma forse ancora no. Fatto sta che proprio nel momento in cui la vecchia tv generalista appare superata e i propri palinsesti ciascuno comincia a farseli con le istantanee hi-light e i provvidi cachinni dei social, esce La riunione (Feltrinelli, 195 pagine, 16 euro), ed è meglio di una di quelle trasmissioni che hanno fatto la storia eccetera, perché la scrittura trasmette memoria, mentre l'intrattenimento scorre come pioggia su vetri già appannati. Savonese come tanti altri demiurghi dell'immagine, Pietro Galeotti, l'Autore, ha cominciato ragazzino e adesso ha 57 anni, l'età grama e sapiente dei bilanci e della salvezza dell'anima. Ha inventato decine di programmi e firmato migliaia di puntate lavorando soprattutto con Fabio Fazio, però pure con Baglioni, Saviano, Chiambretti, Giletti, Alba Parietti, Recalcati, Insinna, Teocoli, Corrado Guzzanti. Tutti conosce e una innumerevole quantità di ospiti, da Pippo Baudo a Rovazzi, ha selezionato e accompagnato sotto le telecamere. Ritrovandosi sette Sanremi sul groppone potrebbe anche prendersi sul serio. Invece si è regalato una testimonianza di dolorosa leggerezza trasmettendo al pubblico una lezione di illuminante signorilità. Nulla di più lontano da un addio o da un confiteor. "La riunione", piuttosto, è l'opera in cui forse Pietro, più che lo sperimentatissimo Galeotti, ha finalmente adagiato con garbo tutto ciò che di suo, e soltanto suo, per anni ha dovuto sacrificare a quell'indispensabile dissipazione di squadra e banda sciamannata che è e che fa la televisione. Vi si trova il crudo destino dell'autore, talvolta anche "espiatorio", retribuito per farsi venire in testa delle idee "che funzionano" e possibilmente realizzarle a biechi fini di audience. Libero da tale concitata e insofferente costrizione, i ricordi scorrono con andatura rapsodica, piccole annotazioni intervallate da asterischi che sembrano sospiri, singulti, borbottii, sguardi alle divinità di un Olimpo di cartapesta che concedono fama e quattrini.

Camerini e altre brutture

A volte, per via dei paradossi e dei rovesciamenti, i pensieri acquistano la forma dell'aforisma; altre volte risuonano come brani di un diario che a partire dall'infanzia riannoda ardori e smarrimenti, infamie e tristezze di una condizione per sua natura così nascosta e silenziosa da rasentare l'inesistenza, mentre invece tutto quel che si vede è scritto e calcolato con spietata precisione e anche con efferata spregiudicatezza in luoghi "talmente brutti e costruiti con materiali così scadenti e architetture così disgustose da dover essere considerati i cimiteri naturali della fantasia e delle idee". Camerini, divani, salottini, scalette, copioni e furbizie compilative: "Fai sempre salva anche quando hai scritto una cagata". Buffet rinsecchiti, cestini del pranzo che fanno schifo, duelli sui contratti risolti a suon di banconote, agenti miserrimi e star capricciosissime, quello che prima di suonare pretende un minestrone, quell'altro che dà di matto in mutande, quell'altra ancora, con marito manager cattivissimo, cui nessuno, a pochi minuti dall'inizio, ha il coraggio di dire che sarà tagliata dal programma, così la fanno cantare lo stesso, a vuoto, poi si vedrà. Ma al dunque è al tavolo, nel vivo dell'ininterrotta Riunione, che meglio si coglie il senso di quel mondo che vive di acceso disincanto e stranita curiosità: "Il picco d'ascolto della trasmissione cui stai lavorando coincide immancabilmente con quello che giudicavi il minuto di televisione più brutto mai visto in vita tua". Ma anche: "Dei provini di oggi la sola cosa che mi pare degna di nota è il nome d'arte scelto da un concorrente siciliano: Raul Tabù". Sennonché proprio questi sussulti che a tratti ricordano - ed è il più gravoso complimento - i taccuini di Longanesi, certi lampi flaianei o le suggestioni lessicali del maestro di tutti gli autori, Marcello Marchesi, ecco, questo amabile e flemmatico cinismo finisce per indicare con la maggiore libertà, energia e chiarezza che la televisione è dominata dalla più inestinguibile cialtroneria; e il suo pubblico concepito come una massa di rimbambiti manipolabili. Così, "nell'arco di pochi mesi della stessa Produzione siamo passati da 'La gente, se la vuoi far ridere, si incazzà a 'la sera la gente vuole ridere', e comunque: 'Che ti devo dire? Speriamo che il pubblico abbocchi anche stavolta'". Chi è ostile alla tv trova qui ogni ragione per averne anche un po' più paura. L'egocentrismo patologico dei Conduttori, gli spasmi degli ex Protagonisti in disuso, le cravatte sgargianti e la volgarità dei Produttori, la fifa burocratica dei Dirigenti, il domino infernale degli Ospiti: "C. non vuole in trasmissione B. / S. vuole C. ma non accetta D./ M. non vuole nessuno./ P. non può./ La senatrice non vuole C./ Il senatore non vuole S./ L'imprenditore non vuole B., non vuole M., non vuole nessuno./ S. comunque, non può (se n'è accorto adesso). G. non lo chiamiamo noi perché è stronzo (continua)". Eppure...Eppure: "Una volta qui era tutta una conversazione", e piano piano, dietro l'inconcludente sciatteria e i vergognosi trucchi da mestieranti, dietro alle leggende a cui nessuno crede, si avverte un che di malinconico, quando al tavolo "era così bello litigare" e "non torneranno quelle riunioni di primavera, sotto il pergolato della trattoria, eravamo tutti più giovani, forse più intelligenti, certamente più spiritosi". Affiora il ricordo insieme mesto e lieto di quelli che se ne sono andati, Vaime, Paolo Poli, Moana Pozzi, Tommaso Labranca. E la Riunione si è fatta poesia - anche se in questo preciso momento stai sicuro che al tavolo c'è qualcuno che si attrezza al peggio. Sul Venerdì del 17 settembre 2021 

·        Pino Donaggio.

Da liberoquotidiano.it il 9 novembre 2021. Ha rischiato la vita, Pino Donaggio, e lo ricorda in studio da Serena Bortone, ospite di Oggi è un altro giorno su Rai1. Il grande cantante e compositore italiano, autore del cult Io che non vivo e di colonne sonore per alcuni dei più grandi registi del mondo, è tornato indietro con la memoria all'ormai lontano 1981, quando l'artista 79enne di anni ne aveva 40 e stava andando in aereo a New York. "Ero in volo - ha spiegato alla Bortone -. Un’ala ha preso fuoco per via di un malfunzionamento del motore, poi per fortuna sono riusciti a spegnerlo e atterrare. Ho avuto l’esaurimento nervoso per quanto vissuto, è stato un vaso di Pandora che ha portato fuori anche le tensioni vissute in passato, come quelle per Sanremo. Il successo non è sempre bello come si racconta". Nell'intervista non sono mancati ovviamente momenti ben più leggeri. Si inizia con la passione per la musica, fin da giovanissimo: "Ho iniziato con il violino, strumento che suonava mio padre, e ho sempre pensato di fare il violinista, mai il cantante. A 16 anni in montagna c’era una gara di rock and roll e alla fine della competizione di doveva cantare e mi sono esibito in Diana di Paul Anka. Da li ho visto la reazione positiva del pubblico e delle ragazze ed ho deciso di iniziare". Il classico Io che non vivo (Senza te) conquistò l'America, tanto da convincere perfino il Re Elvis Presley a reinterpretarla. "Fu Mina a spingere con il produttore", ha sottolineato Donaggio, che dopo il grandissimo successo mondiale ha però deciso di abbandonare il ruolo di cantante per dedicarsi anima e corpo a quello di compositore. "Cantare e frequentare il piccolo schermo mi provocava una forte emozione, la sera prima spesso non dormivo". Quindi l'incontro decisivo, una sera in vaporetto, con un coproduttore cinematografico: "Ugo Mariotti. Mi ha chiamato il giorno dopo, ho avuto una riunione con il regista e  proposto 3 temi. Alla fine ho realizzato la colonna sonora della pellicola che ha vinto anche dei premi. Con il tempo sono arrivato a lavorare con Brian De Palma e ho partecipato anche a feste Hollywoodiane, dove circolavano droga e alcolici come nei film".

·        Pio e Amedeo.

Da corrieredellosport.it il 27 dicembre 2021. Pio e Amedeo si sono scagliati contro alcuni noti influencer italiani. Tra i tanti Giulia Salemi e Pierpaolo Pretelli ma pure Fedez. "Anche noi usiamo i social, ma per prendere in giro gli altri devi prima prendere in giro te stesso. C’è gente che torna dopo giorni a casa e già prima di aprire la porta ha aperto il video per riprendere il figlio, il primo pensiero è fare il video quando quel povero figlio magari manco ti riconosce. Io il telefono lo spengo già in macchina per non avere rotture e concentrarmi su di lui", hanno dichiarato i due comici a Super Guida Tv, criticando così il marito di Chiara Ferragni. 

La frecciatina a Giulia Salemi

"Ci sono persone che vanno al ristorante per fare un video, che dicono sempre power e parole così. Poi c’è anche chi fa la foto ma solo al dolce, che è quello che costa meno. Poi scrivono che è stata una gran cena per rivendicare uno status che non esiste. È emblematico di come la cultura dell’apparire ci stia sopraffacendo. Si vive per il consenso anche a scapito della verità", hanno aggiunto Pio e Amedeo con chiari riferimenti a Giulia Salemi che usa spesso il termine "power" nelle sue storie di Instagram.

Fabrizio Biasin per "liberoquotidiano.it" il 30 aprile 2021. (Le risposte a questa intervista sono "cumulative", come se stessimo parlando con un essere mitologico metà Pio e metà Amedeo: il Pideo, oppure l'Apio, mica pizza e fichi...). Pio, Amedeo, Felicissima Sera sta andando benissimo (domani sera l'ultimo appuntamento su Canale 5). Dite la verità, avevate paura di fare la fine di Adrian di Celentano...

«Avevamo paura di non essere capiti. Oggi se apri una parentesi deve essere "graffa", perché se dici "tonda" ti accusano di body shaming ».

In effetti avete rischiato non poco. Il politicamente corretto è una brutta bestia...

«Siamo andati dritti e ora ci schiantiamo definitivamente...».

Cioè?

«Elencheremo tutte le parole che non si possono più dire in tv, quelle bandite: "neg**", "fro***", tutte. E sai perché? Perché la cattiveria non è mai nella lingua, ma nelle intenzioni. Se dici a un tuo amico "ué neg**, andiamo a mangiare?" non lo offendi, se gli dici "nero di me***!" sì.

Sì, confermo, questa volta rischiate grosso. Ma le direte tutte tutte?

«Sì sì, anche "Hitler", "ebrei"... Perché se dici "sei tirchio come un ebreo" ti massacrano ma se lo dici a un genovese la gente si mette a ridere? Difendiamo anche i genovesi allora!».

Purtroppo al giorno d'oggi la logica viene dopo il perbenismo. Siete molto coraggiosi.

«Bisogna sempre alzare l'asticella. Il principio è che si può dire tutto se il pensiero è "ragionato". È la "bastardaggine" che va condannata. E comunque è l'ultima puntata, alla peggio finiamo col botto».

Quindi se vi dicono "terroni!"...

«Ecco, i terroni. Una volta al nord non fittavano le case ai terroni, ora fa figo, c'è quello del nord che dice "sono un terrone" inteso come "sono furbo come loro". Smettiamola di offenderci per niente».

La vostra battaglia è commovente, ma siete delle mosche bianche.

«Speriamo di aver dato nuova linfa, l'italiano non è stupido, quelli della tv trattano tutti come scemi. Prendi l'imitazione della Hunziker: se i cinesi hanno gli occhi così cosa c'è da offendersi? Se a noi dicono che uno è basso e l'altro ha il naso grosso non è che scateniamo la comunità di quelli bassi o col naso grosso, è la verità».

E il famoso catcalling? Si può dire "bella figa" a una passante o è molestia?

«Ecco, questo è un altro discorso. Noi con Emigratis esageravamo apposta per far capire che non tutto è permesso. Dalle nostre parti ci sono "i signori" che tolgono il cappello e fanno il complimento, quello si può fare, altro no».

La sensazione è che voi partiate dal trash per dire cose importanti, mentre la tv di tutti i giorni parte con l'idea di dire cose importanti e finisce con l'essere trash.

«Il nostro obiettivo è far arrivare a tutti messaggi di un certo spessore. Per farlo devi essere "semplice". Se spiego le equazioni a uno che non sa fare neanche le addizioni, sbaglio in partenza».

Il dato di fatto è che il pubblico vi ha capito, probabilmente perché dopo un anno così aveva una enorme voglia di leggerezza.

«È la cosa più bella. Nei saluti finali abbiamo appositamente esagerato con abbracci e contatti, a costo di sembrare irrispettosi delle regole. La nostra voleva essere una "prova generale di normalità", quantomeno abbiamo tentato».

E avete avuto il pubblico in studio! Siete più potenti di Amadeus e Fiorello!

«La verità è che siamo incoscienti. Ecco, Sanremo: quando abbiamo partecipato ci avevano concesso 10 minuti, siamo rimasti sul palco 24. Il fatto è che non abbiamo nulla da perdere, facciamo il lavoro che ci piace, siamo dei privilegiati, l'incoscienza è la nostra forza».

...e vi ha permesso di diventare ricchi!

«Ma chi te l'ha detto! Negli Anni 90 si facevano i soldi, mica ora. Oh, incredibile, improvvisamente sono usciti un sacco di parenti. Chiamano: "Sono tuo cugino!". Ma chi ti conosce!».

Ma perché non fate come quelli furbi: residenza a Montecarlo e passa la paura.

«No, a Montecarlo faremmo la fame. E poi abbiamo paura».

In che senso.

«In famiglia avevamo un ispettore dell'Inps e vedevamo quelli che finivano disperati con le cose pignorate. Noi paghiamo per terrore, mica per onestà».

Il dato di fatto è che il pubblico vi ha capito, probabilmente perché dopo un anno così aveva una enorme voglia di leggerezza.

«È la cosa più bella. Nei saluti finali abbiamo appositamente esagerato con abbracci e contatti, a costo di sembrare irrispettosi delle regole. La nostra voleva essere una "prova generale di normalità", quantomeno abbiamo tentato».

E avete avuto il pubblico in studio! Siete più potenti di Amadeus e Fiorello!

«La verità è che siamo incoscienti. Ecco, Sanremo: quando abbiamo partecipato ci avevano concesso 10 minuti, siamo rimasti sul palco 24. Il fatto è che non abbiamo nulla da perdere, facciamo il lavoro che ci piace, siamo dei privilegiati, l'incoscienza è la nostra forza».

...e vi ha permesso di diventare ricchi!

«Ma chi te l'ha detto! Negli Anni 90 si facevano i soldi, mica ora. Oh, incredibile, improvvisamente sono usciti un sacco di parenti. Chiamano: "Sono tuo cugino!". Ma chi ti conosce!».

Ma perché non fate come quelli furbi: residenza a Montecarlo e passa la paura.

«No, a Montecarlo faremmo la fame. E poi abbiamo paura».

In che senso.

«In famiglia avevamo un ispettore dell'Inps e vedevamo quelli che finivano disperati con le cose pignorate. Noi paghiamo per terrore, mica per onestà».

Però al ristorante non avete mai pagato. «Per coerenza. C'è chi lo fa quando diventa famoso, noi anche prima. Anzi, facci dire una cosa sui ristori».

Prego.

«Vediamo di smetterla con 'sti ristori da mille e duemila euro che non servono a niente. Con quelli pagano a malapena la cena a noi. Bisogna ridare a tutti la possibilità di tornare a lavorare».

Bene, questa è una risposta seria e allora facciamo i seri. Cosa pensate del Ddl Zan?

«Ne parliamo in un monologo, ovviamente a modo nostro. Ognuno deve essere libero di esprimersi come crede. Per capirci, dobbiamo arrivare al punto in cui i cortei "omo" non avranno senso, così come oggi non avrebbero senso i cortei dove si urla "viva la figa!"».

Vi piacerebbe però... 

«Lo stiamo organizzando».

Sotto con la politica. Io dico un nome, voi rispondete. Salvini!

«Ha il suo target, un po' come la d'Urso». (Improvvisamente Amedeo si rivolge a Pio. «Oh, mettiti la mascherina, svelto, che ci stanno i paparazzi!»).

Avete paura dei paparazzi?

«Ma no, è che siamo a pranzo ma non abbiamo niente in bocca e se non hai il boccone quelli scattano e poi "Pio e Amedeo non rispettano le regole!», sai come funziona...».

Eccerto... Torniamo a noi: Berlusconi?

«Graaande Siliviooo! È un rivoluzionario, vogliamo conoscerlo anche perché abbiamo gusti simili: gli piace la stessa cosa che piace a noi».

Non l'avete mai incontrato? E Pier Silvio?

«Pier Silvio sì! Se questo show è andato in onda è merito suo, ci ha creduto più di noi. È un altro grande rivoluzionario e lo ringraziamo».

Grillo? Cosa pensate del video in difesa del figlio?

«Ha perso il senso della misura, ma per i figli si perde anche la logica, ci si butta nel fuoco, non ci sentiamo di giudicarlo».

Uno dello spettacolo che vi piace?

«Bonolis. Nonostante i suoi 84 anni è veloce. Ha la faccia di uno che si è rotto le palle di questo politically correct».

Uno che non vi piace?

«La tv del pomeriggio... Ecco».

Partecipereste a Lol? Il programma con i comici che ha fatto tanto parlare.

«Ti diamo lo scoop: ci avevano chiesto di condurlo, ma non potevamo. Come concorrenti non accetteremmo: è un format, bellissimo, ma pur sempre un format. Ormai abbiamo troppa "libertà", sarebbe un passo indietro. Comunque qualcuno è stato bravissimo, altri un po' meno».

E infine, immancabile, il calcio. Donnarumma è amico vostro, che fine fa?

«È innamoratissimo del Milan, dovete credere a noi. Potenzialmente può essere una bandiera, ma il calcio delle bandiere non esiste più...».

Raiola? «È mezzo foggiano pure lui! Si è fatto da zero, pensa che è partito facendo l'imbianchino a casa di Bryan Roy, l'ex calciatore del Foggia di Casillo».

Antonio Conte?

«Un altro amico nostro! È molto più simpatico nella vita che nelle interviste. Personaggio vero. I successi non arrivano mai per caso».

Adesso fate un po' di vacanza o no?

«No, dobbiamo finire il nostro film. Speriamo di farlo uscire l'1 gennaio 2022».

Dite la verità, la storia della cascata di prosciutto e melone ai matrimoni l'avete romanzata, dai...

«Ma stai scherzando? Oh, guarda che noi siamo stati veramente poveri! I matrimoni belli li facciamo solo da un paio d'anni. Che poi, una volta te la cavavi con la 150 euro, ora devi portare i quadri, le opere d'arte... Per fortuna abbiamo gli amici che ce li danno gratis...».

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 19 aprile 2021. Solo perché avevano le spalle coperte da Maria De Filippi, Pio e Amedeo si sono permessi di ironizzare pesantemente sui programmi e sul pubblico di Canale 5: Signorini, Paolo Ruffini, L' Isola dei famosi e tutto la paccottiglia di quel canale. In questo modo, sono riusciti a realizzare un varietà asimmetrico, di ottima fattura e catturare il pubblico che hanno finto di denigrare. Chapeau! Pio e Amedeo ci avevano sempre incuriositi per la loro indisciplina, scorrettezza, esagerazione, marciando sugli stereotipi dell' italiano ignorante e molesto (fanno fede le molte riprovazioni raccolte per Emigratis ). In Felicissima sera sposano alla perfezione la «filosofia» di Maria e compiono una sottile operazione di finta cialtronaggine, senza nulla togliere alla riuscita dello show. Non per caso, la chiave per capire la serata è l' intervista che i due foggiani fanno a Maria: Pio gioca a fare il poliziotto buone e Amedeo quello cattivo. Fingono irriverenza (fanno il loro gioco) ma intanto Maria fa il suo di gioco e ne approfitta per dare di sé un'immagine nuova (sono tempi in cui i ghiacciai si sciolgono). Artisti da strada, occupano lo studio con padronanza alternando momenti di tv «scomoda» (le battute su Fabio Fazio, Tiziano Ferro, Gino Paoli o l' irriverenza nei confronti di alcuni ospiti) ad altri di tv «conformista»: a cominciare dalla retorica su «Viva l' Italia» di Francesco De Gregori per finire con il padre di uno dei due che corona il suo sogno, cantando con Roby Facchinetti. Avevano iniziato con una tirata sui compiti della tv («Chi l' ha detto che la tv deve educare? La scuola deve educare, i genitori devono educare! La tv è leggerezza») lasciando intendere chissà quali trasgressioni e hanno finito col commuoversi con filmati da tv educational. Ma è proprio questo doppio registro che alla fine ha conquistato il pubblico: il consenso degenera nella beatificazione della trasgressione.

Pio e Amedeo, da Le Iene al nuovo programma: “Ci siamo conosciuti giocando a pallone sotto casa”. Le Iene News il 14 aprile 2021. Pio e Amedeo si raccontano nella intervista doppia: da venerdì 16 aprile condurranno un programma tutto loro su Canale5: "Felicissima sera”. I loro ultras a Le Iene sono nella memoria di tutti, ma siete curiosi di sapere da dove sono partiti? Guardate la nostra intervista! Pio e Amedeo: brutti, sporchi, felici e scorretti. Il duo comico da venerdì 16 aprile condurrà un programma in prima serata su Canale5, "Felicissima sera”. E allora quale migliore occasione per sottoporli alle nostre domande nell’intervista doppia? “Ci siamo conosciuti giocando a pallone sotto casa”, ci racconta Pio. “Lui si presentò con gli zoccoli e i peli sulle dita a undici anni”. E Pio? “Era una palla rasata col ciuffo”, sostiene Amedeo. E il primo lavoro fatto insieme? “Abbiamo venduto i volantini nei portoni, ai primi bidoni dell’immondizia ne buttavo tre quarti”. E come sono arrivati a Le Iene? “Andammo a vedere il programma come pubblico”, ricorda Pio. “Tramite uno della security chiedemmo di parlare con un autore, e lui ci disse di lasciargli la mail. Ci richiamò mentre eravamo in macchina diretti a Foggia, e dieci giorni dopo eravamo in onda”.

·        Pietro e Sergio Castellitto.

Sergio Castellitto: il ruolo in un film fantasy, il rapporto con il figlio Pietro e gli altri 8 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2021.

Crazy for football

Il calcio, tra le più grandi passioni degli italiani, può essere anche una efficace terapia: si parla di questo in «Crazy for football - Matti per il calcio», documentario (vincitore del David di Donatello nel 2016) del regista Volfango De Biasi da cui è stato tratto un film - omonimo - in onda lunedì 1° novembre su Rai1 in prima serata. La pellicola, tratta da una storia vera, narra l'impresa di organizzare il primo mondiale di calcio a cinque per pazienti affetti da disturbi psichiatrici e il protagonista, lo psichiatra Saverio Lulli, è interpretato da Sergio Castellitto. «Crazy for football - Matti per il calcio», insieme a «Il materiale emotivo», è tra gli ultimi impegni dell’attore romano che, a proposito di calcio, è un grande tifoso romanista. Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.

Gli esordi

Nato a Roma il 18 agosto 1953 Sergio Castellitto ha frequentato l'Accademia nazionale d'arte drammatica (senza terminarla) e ha esordito in teatro alla fine degli anni Settanta. Nel 1981 è approdato per la prima volta al cinema, come semplice comparsa in «Tre fratelli» di Francesco Rosi.

Non è sui social

Sergio Castellitto non ha nessun profilo social: «Io non ho profili social, mi godo la mia invisibilità. Ho un bel naso, che mi fa lavorare da 40anni. Profilo destro e sinistro: è l’unico che riconosco» ha dichiarato in una recente intervista al Corriere.

Le cronache di Narnia

«Tre colonne in cronaca», «Stasera a casa di Alice», «Il grande cocomero», «Concorrenza sleale», «Caterina va in città», «L'ora di religione» e «L'uomo delle stelle» sono soltanto alcuni dei titoli presenti nel ricchissimo curriculum dell’attore e regista che nel 2021 celebra 40 anni di carriera («Arrivo a quarant’anni di carriera? Non lo sapevo. Non me ne sono accorto...», ha dichiarato al Corriere un anno fa a proposito di questo anniversario). Commedie, film drammatici, ma c’è anche un fantasy: Castellitto infatti ha recitato ne «Le cronache di Narnia - Il principe Caspian» di Andrew Adamson (2008) nel ruolo di Re Miraz, zio e antagonista del giovane Caspian.

Da Fausto Coppi ad Enzo Ferrari

Sul piccolo schermo Sergio Castellitto ha prestato il volto a numerosi personaggi realmente esistiti: è stato Fausto Coppi, Don Lorenzo Milani, Padre Pio, Aldo Moro, Angelo Vassallo (sindaco di Pollica ucciso nel 2010), Rocco Chinnici (magistrato palermitano ucciso nel 1983 da Cosa nostra) ed Enzo Ferrari. Al cinema invece ha interpretato Gabriele D'Annunzio ne «Il cattivo poeta» di Gianluca Jodice (2020).

«Persepolis»

Ha avuto un'esperienza di doppiaggio nell'edizione italiana del film d'animazione «Persepolis» (2007): ha prestato la voce al padre della protagonista, Marjane Satrapi.

Nei panni di Luca Cupiello

Lo scorso anno Castellitto si è cimentato con un grande classico del teatro di Eduardo De Filippo, «Natale in casa Cupiello» (poi andato in onda su Rai1 nel periodo natalizio), interpretando proprio Luca Cupiello. «Per noi allievi dell’Accademia di arte drammatica, attorno alla fine degli anni Settanta, Eduardo De Filippo era qualcosa di più di un grande dello spettacolo italiano - raccontava l’attore al Corriere -, lo veneravamo come una rockstar ed era sempre una grande festa andare a vedere “Natale in casa Cupiello” o “Questi fantasmi” all’Eliseo con i biglietti scontati, a occupare i posti meno ambiti, immersi nel silenzio magico per ascoltare Eduardo che recitava con un filo di voce ma che con quel filo di voce ci rapiva, ci ipnotizzava».

Il Pardo alla carriera

Nel 2013 durante la 66ma edizione del Locarno Film Festival all’attore è stato conferito il Pardo alla carriera.

Il matrimonio con Margaret Mazzantini

Sergio Castellitto è sposato dal 1987 con la scrittrice e attrice Margaret Mazzantini, conosciuta recitando ne «Le tre sorelle» di Cechov al Teatro Carignano di Torino. La coppia lavora spesso insieme: nel 1995 Margaret scrive il testo teatrale «Manola» (che va in scena diretto da Sergio), seguito dalla piéce «Zorro» nel 2004. Nello stesso anno Castellitto dirige «Non ti muovere», tratto dall'omonimo romanzo di Mazzantini, e vince un David di Donatello, un Nastro d'argento, un Globo d'oro e un Ciak d'oro. I lavori più recenti sono «Fortunata» del 2017, diretto da Castellitto su una sceneggiatura di Mazzantini, e «Il materiale emotivo» (Margaret ha scritto la sceneggiatura del film, diretto ed interpretato dal marito).

Pietro, Maria, Anna e Cesare

Dal matrimonio con Margaret Mazzantini sono nati quattro figli: Pietro (1991), Maria (1997), Anna (2000) e Cesare (2006). Pietro Castellitto è un attore e regista molto apprezzato: attualmente al cinema con «Freaks Out» di Gabriele Mainetti oltre ad aver interpretato Francesco Totti nella miniserie Sky «Speravo de morì prima» ha vinto il Premio Orizzonti per la Miglior Sceneggiatura alla 77ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, il Nastro d’argento e il David di Donatello come Miglior regista esordiente per il suo film «I predatori». «Gli chiesi di prendermi per la parte dell’impiccato, mi sarei anche visto in lontananza, non c’è stato nulla da fare» ha detto Sergio Castellitto a Vanity Fair commentando il grande successo della pellicola del figlio.

Da fanpage.it il 16 dicembre 2021. "Chi è cresciuto a Roma Nord, ha fatto il Vietnam". La frase che ha lasciato una serie lunga di meme sul web ce la siamo fatta spiegare bene da Pietro Castellitto: "Il paradosso è che quella frase lì era legata a una certa ferocia di Roma Nord, un certo classismo, la difficoltà di instaurare rapporti sinceri sotto lo stesso tetto. Era a chiosa di un discorso più grande che ho fatto quella battuta". A Fanpage.it, lo scrittore, attore e regista è venuto per presentare e parlare del suo romanzo d'esordio, "Gli iperborei", uscito il 20 ottobre 2021 per Bompiani. Anticipiamo alcuni contenuti della lunga video intervista, che sarà pubblicata su Fanpage.it nella giornata di domani, giovedì 16 dicembre 2021. Nel romanzo di Pietro Castellitto c'è un passaggio che sembra inquadrare alla perfezione quello che poi è successo dopo la sua intervista a Teresa Ciabatti, per il settimanale "Sette". Ecco la frase: "L’amara coscienza dei ricchi, dei figli di, dei briganti, di chi sa che tanto è destinato a un giudizio volgare e sprezzante. Raffiche di vita ingoiata davanti alla melma del perbenismo che scende sopra le sfumature, impone i contorni, racconta le storie". Perché quello che è successo dopo la dichiarazione su Roma Nord è stato, oltre all'espressione di un purissimo cazzeggio, anche una manifestazione di invidia sociale. Ci si chiede se non s'aspettasse altro che lo scivolone per attaccare per la prima volta "il figlio di". Ci si chiede, inoltre, se fosse successo lo stesso con un romanzo dai toni apertamente progressisti, mentre invece ne attacca – attraverso le azioni dei protagonisti – le ipocrisie e le contraddizioni. L'autore ha detto a Fanpage.it: La stessa frase se l'avessi detta qui, in questa intervista video, non avrebbe generato rumore perché l'intento ironico sarebbe apparso evidente. Ci sono tanti paradossi dietro questa vicenda, i meme erano anche divertenti poi però è subentrata l'invidia sociale che è opposta alla lotta di classe. L'invidia sociale presuppone che c'è un nemico fuori e quel nemico fuori ci serve per non chiarirci tra di noi, nella nostra intimità. Il paradosso è che quella frase lì era legata a una certa ferocia di Roma Nord, un certo classismo, la difficoltà di instaurare rapporti sinceri sotto lo stesso tetto. Era a chiosa di un discorso più grande che ho fatto quella battuta. Tutte le persone che hanno moralizzato quella frase, dietro quella moralizzazione, alimentavano una stupidità che da qualche parte gli conviene. Io non ci credo che loro ci credessero alla loro moralizzazione. 

Pietro Castellitto compie 30 anni: l’esordio accanto al padre Sergio, ha interpretato Francesco Totti (e il migliore amico di Zerocalcare), 8 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2021. Aneddoti e curiosità poco note sull’attore e regista premiato a Venezia 2020 (da poco anche scrittore).

L’etichetta di «figlio di»

Pietro Castellitto, 30 anni compiuti proprio oggi (è nato a Roma il 16 dicembre 1991), può finalmente godersi i successi che la sua carriera gli ha riservato, dai premi per il suo primo film come regista «I predatori» al consenso unanime per «Freaks Out» di Gabriele Mainetti in cui interpreta Cencio. C’è voluto tempo per liberarsi dell’ingombrante etichetta di «figlio di», che ha spinto Pietro a cercare di avere - ed esprimere - la sua voce: «E’ un problema che hanno sempre avuto gli altri, poi l’hanno fatto venire a me, un senso di oppressione per cui non sono visto come Pietro qualunque cosa faccia - raccontava in un’intervista al Corriere -. Questo mi ha spinto a bruciare le tappe, ad avere una voce mia, che dipende anche dalla genetica, dall’educazione, dai genitori e da una percentuale di imprevedibilità». Figlio maggiore di Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini (ha altri tre fratelli, Anna, Maria e Cesare) ha iniziato a recitare nel 2004, a 13 anni, in un film di suo padre basato su un'opera della madre («Non ti muovere»). Prima di allora sognava di fare il calciatore o il giocatore di tennis. Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.

Gli studi

Ha frequentato l’Istituto Santa Giuliana Falconieri di Roma, dove è approdato dopo aver cambiato scuola (ha dovuto lasciare la Montessori di via Livenza, ha raccontato al Corriere, «per aver sputato nel diario di una compagna»), e ha ottenuto la maturità classica. In seguito si è laureato in filosofia presso la Sapienza.

Diretto da suo padre Sergio

Dopo «Non ti muovere» Pietro Castellitto è stato diretto da suo padre Sergio in altri due film: «La bellezza del somaro» (2010) e «Venuto al mondo» (2012). Sempre nel 2012 viene scelto da Lucio Pellegrini per interpretare il ruolo di Marco nella commedia «È nata una star?» (tratta dall'omonimo racconto di Nick Hornby) con Luciana Littizzetto e Rocco Papaleo.

È stato Secco nel film di Zerocalcare

Il volto cinematografico di Secco, migliore amico di Zerocalcare (che nella serie Netflix «Strappare lungo i bordi» pronuncia in continuazione la frase-tormentone «annamo a pijà er gelato»), è quello di Pietro Castellitto. L’attore e regista (poi premiato ai Nastri d'argento 2019) nel 2018 ha recitato accanto a Simone Liberati, interprete di Zero, ne «La profezia dell'armadillo», film di Emanuele Scaringi tratto dall’omonima graphic novel del fumettista romano.

L’esordio (pluripremiato) come regista

Nel 2020 è uscito il primo film di Pietro Castellitto come regista e sceneggiatore: «I predatori». La pellicola ha vinto il Premio Orizzonti per la Miglior Sceneggiatura alla 77ª Mostra del Cinema di Venezia, oltre al David di Donatello e al Nastro d’argento come Miglior regista esordiente (inoltre il Nastro d’argento come Migliore attore non protagonista è andato a Massimo Popolizio, che ne «I predatori» interpreta Pierpaolo Pavone).

Ha interpretato il suo idolo calcistico

«Francesco mi ha detto: le pause sono quelle mie»: grande tifoso romanista Pietro Castellitto nel 2021 ha avuto l’opportunità di vestire i panni del suo idolo, Francesco Totti, nella miniserie televisiva di Sky diretta da Luca Ribuoli «Speravo de morì prima». Ma i tifosi come l’hanno presa? «I romanisti hanno ritrovato l’essenza del capitano, per me è anche un modo di stare tranquillo quando cammino per Roma - ha raccontato al Corriere -. I laziali mi hanno detto che per prepararmi al meglio ho dovuto ripetere tre volte la terza media. Alla fine è un uomo che malgrado soldi e successo ha tenuto intatta la sua personalità. Non c’era nulla di scontato, e raccontarlo non era semplice, la trama della sua vita dal punto di vista cinematografico non è ricca di eventi drammaturgici come quella di Maradona o di Best».

Il primo romanzo (e quella frase su Roma Nord)

Essere giovani «significa non conoscere bene le tempistiche. Poi però cresci e raggiungi l’età che pochi anni prima ti sembrava un traguardo: ventinove, trent’anni. Ci arrivi e scopri che il futuro non è come te lo aspettavi». È uscito da pochissimo il primo romanzo di Pietro Castellitto: «Gli iperborei», pubblicato da Bompiani, la storia di alcuni amici quasi trentenni che cercano di uscire dalla «griglia» in cui sono ingabbiati a livello sociale. Presentando il libro, in un’intervista a Sette, ha pronunciato una frase che nei giorni scorsi ha scatenato l’ironia del web: «Non credo esista un posto più feroce. Chi è cresciuto a Roma Nord, ha fatto il Vietnam. Ma è un mondo anche tremendamente delicato e crepuscolare. Un mondo dove i valori basilari dell’esistenza – voglia di potenza, di bellezza, di soldi e successo – sono ancora in voga. Dinamiche indicate come negative dal mio mondo di provenienza e da buona parte della società civile». Ha risposto un utente sui social: «Io a Roma Nord ci sono stata, è terribile. Quello che ho visto sulla Cassia non me lo posso dimenticare, ho ancora gli incubi». «Se Roma Nord è come il Vietnam, allora Roma Sud Est è come Saygon», ha aggiunto un altro commentatore.

La polemica per la frase contro il #MeToo

Qualche mese fa Pietro Castellitto era finito nell’occhio del ciclone per un’altra frase, pronunciata in un’altra intervista al Corriere a proposito del movimento #MeToo: «Penso ai milioni incassati dagli studi legali attraverso il monumento all’ipocrisia del Me Too, battaglia sacrosanta, ma se Kevin Spacey mi mette la mano sulla coscia gliela sposto, non gli rovino la vita chiedendo pure soldi; io vedo la volontà di potenza che sfrutta questa crociata morale per ingrassarsi, sto parlando come amante di Nietzsche, che studiai a Filosofia». «Anche Castellitto incorre in un errore di prospettiva: giudicare la vittima invece del carnefice — ha commentato pochi giorni dopo Massimo Gramellini nel suo editoriale —. Il problema non è spostare la mano di Kevin Spacey. Il problema è spostare l’attenzione dalla questione principale: che quella mano Kevin Spacey non la deve proprio mettere».

Lucia Esposito per "Libero quotidiano" il 13 aprile 2021. Fenomenologia di Pietro Castellitto che, in poche ore, da mostro del nuovo cinema italiano si è trasformato in un mostro vero e proprio. Praticamente l' incarnazione di tutti i Mali. Maschio, bianco, raccomandato, disallineato e politicamente molto scorretto. In un' intervista al Corriere della Sera gli è bastato dire quello che pensa sul Me Too («è un monumento all' ipocrisia») perché contro di lui si scatenasse l' aggressività conformista di una società che mette alla gogna chi osa dissentire. Pietro Castellitto (29 anni) è il figlio del regista, attore e sceneggiatore Sergio Castellitto, trent' anni e molta gavetta alle spalle, è figlio del regista e attore Sergio e della pluripremiata scrittrice Margaret Mazzantini. Fino a ieri veniva celebrato (anche dagli stessi social che ora lo massacrano) per le due candidature ai David di Donatello con I predatori e per il record di ascolti della serie Sky su Totti Speravo de morì prima. Ma Pietro ha avuto il coraggio di dire cose che per il pensiero dominante è meglio tacere ed è diventato improvvisamente il bersaglio di un odio feroce e smisurato. Ecco che cosa ha detto: «Per fare l' attore devi saper dire le bugie e fare gli scherzi. Se non scherzi più, il tuo percorso è stato sacrificato alle consuetudini e al perbenismo dominante».

COME NEL BOWLING E poi: «Negli Anni '20 Al Capone faceva soldi gestendo alcol e droga, oggi li fai perpetuando il bene. Penso ai milioni incassati dagli studi legali attraverso il monumento all' ipocrisia del Me Too, battaglia sacrosanta, ma se Kevin Spacey mi mette la mano sulla coscia gliela sposto, non gli rovino la vita chiedendo pure soldi; io vedo la volontà di potenza che sfrutta questa crociata morale per ingrassarsi, sto parlando come amante di Nietzsche, che studiai a Filosofia». Come nel gioco del bowling con un solo tiro puoi fare strike buttando giù tutti i birilli, allo stesso modo Pietro, con una sola frase, ha fatto crollare tutti i capisaldi del politicamente corretto. Ha detto che i soldi oggi li fai se perpetui il bene. Cioè se ti adegui alle regole imposte da altri. Ha affermato che gli studi legali si sono arricchiti grazie al Me Too (cosa peraltro vera) e che se un' attrice o una donna non vuole che il produttore o il potente di turno le tocchi la coscia deve togliere la mano del molestatore (cosa peraltro sensata). Ha anche detto che la battaglia delle donne è «sacrosanta» ma nessuno si è soffermato a leggere questa precisazione perché, nel frattempo, Pietro era già diventato il peggiore dei maschilisti, anzi uno che in quanto maschio non può permettersi di parlare di molestie. «Ringraziamo Castellitto che ci insegna a spostare la mano. Ah, e se dite che siamo noi a fraintendere ce lo spiegasse lui visto che è acculturato grazie a Nietzsche». E poi: «Ennesimo consiglio (non richiesto) di un uomo su come evitare molestie». Questo più o meno il tenore dei commenti.

ZITTO E BUONO Pietro doveva stare zitto e buono, come nella canzone dei Maneskin. Invece lui non si è limitato a criticare il Me Too, ha avuto pure l' ardire di citare Nietzsche e la "volontà di potenza". Ma che cosa può saperne lui, maschilista, raccomandato da mammà e papà, di filosofia? Ok, magari Castellitto non avrà imbroccato a pieno il concetto di volontà di potenza. Ma in realtà ha compiuto lui un bell' atto di volontà: rompere il conformismo del Bene, cioè l' ipocrisia del Buonismo. Verso la fine dell' intervista poi, afferma l'indicibile: «Ho detto cose di sinistra in ambienti di destra e viceversa, anche se è più difficile dire cose di destra in ambienti di sinistra». Lo vogliono zitto e buono, ma a noi Pietro piace proprio com' è: parlante, scorretto e coraggioso. Sì, perché ci vuol coraggio ad essere impopolari.

Da ilnapolista.it il 5 dicembre 2021. Su Sette un’intervista a Pietro Castellitto, figlio di Sergio. Ha interpretato Francesco Totti nella serie tv di Sky “Speravo de mori’ prima”. Racconta la sua esperienza scolastica. Travagliata: fu cacciato dal liceo Montessori. «Cacciato per aver sputato nel diario di una compagna. Lei mi tirò il cancellino sullo zaino, io le presi il diario, non sapendo ancora quanto fosse importante il diario per le ragazze». Fu convocato in presidenza: «Trovo preside, vicepreside e professori in semicerchio. Nego di essere stato io, ma guardando molti crime mi prende la paranoia che possano fare il test del dna dello sputo, quindi preciso: “Io però quel diario l’ho toccato”». Poi il cambio scuola e nuovi guai. Era un ragazzo turbolento, racconta. Di ciò che combinava a scuola i genitori hanno saputo soltanto ciò che gli raccontavano i professori. Racconta la sua infanzia a Roma Nord. «Non credo esista un posto più feroce. Chi è cresciuto a Roma Nord, ha fatto il Vietnam. Ma è un mondo anche tremendamente delicato e crepuscolare. Un mondo dove i valori basilari dell’esistenza — voglia di potenza, di bellezza, di soldi e successo — sono ancora in voga. Dinamiche indicate come negative dal mio mondo di provenienza e da buona parte della società civile». 

Quando ha capito di essere figlio di Sergio Castellitto?

«Il giorno che in televisione Raffaella Carrà dice: “Abbiamo qui Sergio Castellitto, il più grande attore italiano”». 

Quando di Margaret Mazzantini?

«Quando vince il premio Strega. Io la stavo guardando da casa. La chiamo e lei mi risponde. In quel momento vedo mia madre in televisione che parla al telefono con me».

Chi è Pietro Castellitto, l’attore che interpreta Totti in “Speravo de morì prima”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Marzo 2021. Pietro Castellitto sarà Francesco Totti nella serie tv Speravo de morì prima, tratta dall’autobiografia dell’ex attaccante e capitano della Roma scritta dal giornalista Paolo Condò, Un capitano. Castellitto è figlio d’arte, dell’attore e autore Sergio Castellitto. La madre è la scrittrice Margaret Mazzantini. È anche lui regista e sceneggiatore, oltre che interprete. Ha già vinto un David di Donatello. Castellitto è nato nel 1991 a Roma. Il suo nome per esteso è Pietro Contento. Ha due sorelle, Anna e Maria, e un fratello, Cesare. Ha cominciato la sua carriera in piccoli ruoli in film interpretati e diretti dal padre. Il primo ruolo di rilievo in Venuto al mondo, del 2012, nel quale interpretava Pietro, figlio di Gemma interpretata da Penelope Cruz, in viaggio a Sarajevo. Altre apparizioni in Non ti muovere, l’esordio nel 2004, La bellezza del somaro, 2010, È nata una star?, del 2012. Il salto di qualità in La profezia dell’Armadillo, film tratto dalla graphic novel di esordio del fumettista romano Zerocalcare. Castellitto, in una performance brillante, interpretava la parte di Secco, miglior amico del protagonista Zero. A stupire però è soprattutto l’exploit in I predatori: è interprete, regista e sceneggiatore del film, nel quale interpreta Federico Pavone, giovane studente di Filosofia appassionato di Nietzsche. Proprio I Predatori gli è valso il Premio di Miglior Sceneggiatura al Festival di Venezia del 2020. “Sono veramente cresciuto con il poster di Totti in camera. Ha rappresentato davvero un mito che ha scandito il ritmo della sua infanzia e giovinezza. Il solo interpretarlo mi ha dato un po’ di nostalgia – ha detto Castellitto sul progetto all’Ansa – Quando l’ho incontrato gli ho fatto solo domande da tifoso. Lui è una persona molto sensibile e intuitiva. È uno che ama divertirsi, se si accorge che ci sono le possibilità per divertirsi, si diverte, con tutti”. Speravo de morì prima – titolo tratto da uno striscione esposto allo Stadio Olimpico di Roma il giorno dell’addio al calcio giocato di Totti – partirà venerdì 19 marzo su Sky e Now Tv. Sei gli episodi diretti da Luca Ribuoli. Sotto la lente l’ultimo anno e mezzo di carriera del “Pupone”.

·        Pippo Baudo.

Da "liberoquotidiano.it" il 22 settembre 2021. A sorpresa Pippo Baudo ha ricevuto da Sergio Mattarella l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica. “Io proprio non me lo aspettavo - ha dichiarato il volto storico della Rai - è stato un gesto spontaneo del Presidente. Questo regalo per me è motivo di grande orgoglio, veramente”. Ormai 85enne, il conduttore ha spiegato in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera che non si aspettava di ricevere un simile e prestigioso riconoscimento. “Mi ha chiamato il Presidente - ha svelato Baudo sulla sua presenza nelle stanze del Quirinale - queste cose sono belle perché arrivano inattese, è dipeso tutto dalla sua sensibilità”. Il conduttore e il capo di Stato si conoscono da anni e sono anche conterranei, venendo entrambi dalla Sicilia: uno è di Catania, l’altro di Palermo. Ma i loro punti in comune riguardano anche la politica: “Siamo due ex democristiani - ha sottolineato Baudo - anche se poi alla fine, in certe occasioni, torni sempre a parlare delle origini, delle radici, ed è successo anche con lui”. Inoltre il conduttore ha rivelato che Mattarella ha voluto premiarlo perché ha “fatto molto per il nostro Paese”. E anche Baudo ha ovviamente speso belle parole per il presidente della Repubblica, ritenendolo uno che ha mostrato a tutti gli italiani “grandissima affabilità”.

Da liberoquotidiano.it il 23 settembre 2021. "È lei che l’ha lasciato. Non era contenta, non avevano più dialogo, non avevano niente da dirsi”. Un'amica di Katia Ricciarelli, Carla Morando, rivela questo retroscena sulla relazione tra la cantante lirica e Pippo Baudo, suo ex marito. In un'intervista a Chi, la donna - che è anche vicina di casa della Ricciarelli - ha spiegato che la sua amica è molto impegnativa, ma soprattutto è abituata a essere autonoma. Sull'ipotesi di poter trovare un nuovo amore durante il Gf Vip, l'amica è stata chiara “Da quello che ho visto non c’è niente per lei in quella casa”. Scendendo più nel dettaglio, poi, la Morando ha continuato: "Non è facile la Katia come persona perché adesso è abituata a vivere da sola e a fare quello che vuole”. La donna, che in questi giorni sta accudendo il cane della cantante, ha ammesso che l’amica è una combattente: “Si sta dedicando a qualche ragazzo perché vuole insegnare canto”. Poi ha aggiunto: “Katia deve trovare qualcosa da fare altrimenti si stanca”. Carla Morando, inoltre, ha sottolineato che il cast dei concorrenti del Gf Vip è bene assortito e che, secondo lei, Katia Ricciarelli si sta trovando bene, anche se continua a prendere in giro, in modo ironico, qualche ragazza. Infine ha spiegato qual è l'unica cosa che i concorrenti non devono fare con la cantante: “Devono evitare di farle certi scherzi come quello della squalifica perché si stanca”. 

Leonardo Iannacci per “Libero quotidiano” il 22 agosto 2021. Nel senato accademico della televisione italiana il dottor Giuseppe Raimondo Vittorio Baudo occupa uno scranno presidenziale. Laureato in giurisprudenza a fine anni '50 («la sera prima della discussione della tesi presentai un concorso di bellezza, poi salii su un camioncino che trasportava frutta e viaggiai tutta la notte verso l'università di Catania. Mi cambiai in un bar e mi laureai»), quel pennellone di Militello chiuse sul nascere una promettente carriera di legale e si trasformò in Pippo Baudo. Nell'uomo che avrebbe inventato un modo nuovo di fare tv. In modo felicemente nazional-popolare. Ora, a 85 anni, SuperPippo è di nuovo in trincea: sta disegnando una controffensiva clamorosa dopo anni in cui la Rai l'aveva colpevolmente messo in soffitta. Dopo tre puntate estive dedicate all'opera lirica su Rai3, serate hanno fatto segnare audience insperate, Baudo sta preparando il programma dei programmi: Sanremo Story, una cavalcata sul Festival da lui presentato per tredici edizioni. Trattasi di rivincita clamorosa per il grande professionista che pare ringiovanito di vent' anni quando lo abbracciamo con affetto, ritrovando in lui lo sguardo del leone. Pippo Baudo sarà di nuovo grande in questa televisione dominata da troppi nani. 

Da dove vuole cominciare? Dalle serate sull'opera o dal nuovo programma su Sanremo?

«Ma che fai, mi dai del lei? Suvvia... Portare la lirica in prima serata su Raitre e raggiungere un milione di spettatori è stato come andare sulla luna. Merito di Gianmarco Mazzi e di Franco Di Mare, il direttore di rete che ha appoggiato il programma: parliamo la stessa lingua televisiva». 

Lei, cioè tu, hai raccontato opere come l'Aida coinvolgendo nonne e nipoti.

«Quando presenti un argomento d'élite come è la lirica devi condirla con aneddoti, storie, curiosità. Occorre studiare, come si andasse a sostenere un esame». 

Solo questo?

«Bisogna metterci anche un pizzico di mestiere, di furbizia. La gente ci casca se sei bravo ad allestire un programma avvincente». 

E veniamo al nuovo programma. Dopo averne "fatto" la storia in prima persona, presenterai un racconto storico del Festival. Rischierai l'autocelebrazione...

«Ma no. L'idea è quella di inserire la narrazione di un Festival nei fatti storici dell'anno in cui si svolse. Racconterò anche l'Italia. Il Festival ha fatto parte della nostra storia. Chi lo sminuisce o lo deride non capisce niente. Non esiste un altro Festival come questo».

Ne parli così per troppo amore?

«Anche. Un giorno mi telefonò Ranieri di Monaco: "Baudo, che ne dice di spostare il Festival a Montecarlo, le metto tutto a disposizione", disse. Declinai l'offerta. E feci aggiungere al logo Festival della Canzone Italiana il genitivo "di Sanremo". Unico e inimitabile». 

Al Festival hai fatto 13. Cosa ricordi del primo?

«Era l'edizione del 1968, quella dopo il dramma di Tenco e la Rai scelse me, debuttante al Festival. Da incosciente, accettai».

Roba da far tremare anche SuperPippo...

«Salendo le scale del salone del Casinò, dove avrei dovuto presentare il mio primo Sanremo, pensai: chi me l'ha fatto fare? Ma la cosa che mi disturbò di più fu un'altra». 

Ovvero?

«Dietro le quinte un dirigente Rai si avvicinò: Baudo, lei si rende conto che stasera si sta giocando la carriera? Ci rimasi male. Ma quando il Festival finì con un trionfo, cercai quel dirigente e mi vendicai: sa che lei è un vero stronzo?». 

Quell'anno cacciò dal palco nientemeno che Louis Armstrong.

«Era in gara con Mi va di cantare. Ma dopo aver finito il brano attaccò con la tromba When the saints go marching in. Non smetteva più. Dietro le quinte mi dissero: "Fallo smettere sennò dobbiamo squalificarlo!". Mi sono avvicinato, l'ho preso sottobraccio e l'ho letteralmente spinto fuori dal palco». 

Hai portato al Festival star incredibili. In quegli anni la Rai aveva budget più alti?

«Affatto! Se ti riferisci alle star del calibro di Madonna o Whitney Houston, sono venute tutte gratis. Avevo fatto una furbata, comprando su Billboard, la Bibbia dello spettacolo americano, delle pagine con scritto: Sanremo vi attende! Le rispettive case discografiche, attratte, facevano la fila per far sbarcare questi nomi incredibili al Festival». 

Raccontami quando hai cambiato una canzone a Madonna...

«Venne per cantare Take a bow che nel finale sfumava. Per me non funzionava e le dissi: "non sarebbe meglio un taglio netto in questo finale?". E Madonna: "Lei Baudo saprebbe come farlo?'" Mi precipitai nel pulmino della regia, presi le forbici e tagliai il nastro della canzone prima che sfumasse. E Madonna: ottimo lavoro, canterò Take a bow sempre con questo finale».

Il momento più emozionante?

«Quando convinsi Whitney Houston a ricantare per intero la straordinaria All at once. L'Ariston impazzì per quel bis» 

Quello più difficile?

«Nel 2008 Loredana Bertè andò fuori di testa per la squalifica della sua bella Musica e parole, brano già edito. Andò in hotel, si chiuse in camera e fece il diavolo a quattro. Per calmarla e farla uscire mi inventai per lei un premio speciale Mia Martini. Altrimenti non so cosa avrebbe fatto!».

E quello più triste?

 «Nel 1987 quando, al momento di annunciare la vittoria del trio Morandi-Tozzi-Ruggeri, arrivò la notizia della morte di Claudio Villa. Che diedi in diretta. Morandi scoppiò a piangere». 

Ti piacciono i Festival di Amadeus?

«Sì. Già due anni fa dissi ad Ama: vai tranquillo... E poi la coppia con Fiorello funziona». 

Però non è sicuro che nell'Amadeus-tris vedremo di nuovo Fiore.

«Per me ci sarà». 

Massimo Falcioni per tvblog.it l'11 giugno 2021. Pippo Baudo è la televisione, la televisione è Pippo Baudo. Adorata, inseguita, trasformata, dominata. Eppure scoperta tardi, non per decisione sua, ci mancherebbe. “Nel 1956 venne installato un grande ripetitore sul Monte Faito in Campania che consentì al segnale di arrivare in Sicilia”, ricorda il conduttore a TvBlog. “Quando la televisione arrivò da noi era già esploso il grande successo di Lascia o Raddoppia. Siccome il giovedì sera i cinema si svuotavano, i proprietari decisero di proiettare in sala la trasmissione di Mike e noi andavamo a vederla là”. L’amore per il palcoscenico, in ogni caso, si era impossessato da tempo di Baudo. Ad appena sei anni, infatti, vestì a teatro i panni del figlio di Santa Rita Da Cascia: “Quell’esperienza si rivelò così profonda che il palcoscenico mi conquistò e non mi abbandonò più. Man mano che crescevo pensavo ad esibirmi, allo spettacolo. Diciamo che ero predestinato”. Un predestinato che realizzò il suo sogno nel 1959, anno del suo primo programma, Guida degli emigranti. “Per me fu molto formativo – confessa – essendomi laureato in legge avevo studiato Diritto Coloniale, una materia suppletiva del corso di Giurisprudenza. Mi portarono a visitare gli emigranti in giro per l’Europa. In Belgio conobbi il padre del cantante Adamo, era un minatore. Mi confidò: "mio figlio non farà mai questo mestiere, si respira solo carbone"”. 

Scoprì la tv in ritardo. Significa che fino a quel momento c’era stata solo la radio?

Sì, ricoprì un grande ruolo. Se ho una pronuncia italiana quasi perfetta lo devo alla radio. All’epoca gli annunciatori non erano come quelli di adesso, godevano di una dizione perfetta. Così quando arrivai a Roma ero già pronto. Avevo ascoltato di tutto, dai programmi musicali ai radiogiornali.

Il destino l’ha portata spesso ad ereditare i programmi di Corrado.

Sono legato in qualche modo alla sua carriera. Addirittura, quando Corrado passò dalla radio alla tv per andare a fare L’Amico del Giaguaro a Milano con Gino Bramieri, Raffaele Pisu e Marisa Del Frate, io lo sostituii proprio alla radio con Gran Galà. 

La storia si ripeté sia a Canzonissima che a Domenica In.

A Domenica In lui lasciò perché aveva litigato col presidente della Rai Paolo Grassi, che lo aveva criticato definendo il contenitore privo di cultura. A quel punto chiamarono me, presi il suo posto senza volerlo. 

Fra voi si sviluppò una rivalità?

No, il rapporto era buono. Non potevi non volere bene a Corrado, possedeva la tipica ironia e comicità romana. Ma non era affatto cattivo. 

Riguardo alle fasi più complicate della sua carriera, ne ho individuate quattro: la lite con la Rai che la portò per la prima volta alla Fininvest, l’intervento alle corde vocali del 1996, il secondo ritorno a Mediaset alla fine degli anni novanta e lo scontro col direttore Del Noce nel 2004.

Con Del Noce non litigai, ci fu un vivace scambio di idee, ma rimanemmo molto amici. Per il resto ha ragione, gli altri avvenimenti sono tutti giusti. 

Del primo accordo con la Fininvest si è scritto molto. Al contrario, si sa poco dei motivi che la spinsero a tornarci dieci anni dopo.

Non mi trovavo bene in Rai, avevo problemi di riambientamento. Berlusconi mi telefonò e mi fece la proposta: ‘vuoi tornare?’. Ci riprovai. Ma con tutto il rispetto per Mediaset, la mia casa era la Rai.

Su Canale 5 propose La canzone del secolo, ma si rivelò un flop.

Non mi trovai bene per niente. Voleva essere un omaggio alla storia delle canzoni, ma siccome il regista Pier Francesco Pingitore era legato al Bagaglino, ci inserì dei comici. Era un cocktail non gradevole, un impianto di robe diverse mischiate. Infatti non funzionò. 

Quindi rientrò in Rai. Pur di tornare in pista ripartì con un programma quotidiano su Rai 3, alle quattro di pomeriggio.

Giorno dopo Giorno mi venne offerto affinché lo rifiutassi, invece accettai subito. Il cachet era inesistente. La trasmissione era di importazione americana, durava mezz’ora ma appena si liberarono degli spazi la allargai. Ebbe talmente tanto seguito che l’allora direttore Francesco Pinto propose di inventare uno show nuovo di prima serata e nacque Novecento. Ottenne un successo enorme.

Il suo grande amore è e resta Sanremo.

I miei Festival sono tutti stati grandi successi. Portai all’Ariston Bruce Springsteen, Whitney Houston, Madonna. I più grandi venivano a Sanremo. 

Specialmente con Madonna nacque una particolare sintonia.

Fu molto simpatica e amichevole. Circolava voce che avesse un carattere insopportabile e prepotente, non era vero. Quando venne a cantare Take a Bow le proposi di modificare il finale. La canzone terminava sfumando, le dissi che non chiudeva bene. Lei ascoltò il mio consiglio e accettò di provare delle modifiche. Di lei non posso che parlare bene.

L’edizione del 2003 fu assai complicata. Mediaset dall’altra parte cominciò a controprogrammare…

Loro combattevano, giustamente. Respingevano gli assalti di Sanremo. 

In compenso riuscì a riportare in gara Giuni Russo. Come la convinse?

Il merito va a Franco Battiato che mi telefonò: "Pippo, devi ascoltare questo pezzo". Giuni era in una situazione drammatica dal punto di vista fisico. Era malata di cancro e faceva la chemio. Si presentò con una canzone bellissima, autobiografica, Morirò d’Amore. La presi immediatamente e ringraziai Battiato.

L’ultimo suo Festival, nel 2008, incontrò parecchie difficoltà fin dalla prima sera, quando vennero rinvenuti in un pozzo i corpi dei due fratellini di Gravina a poche ore dall’esordio.

Mi ricordo. Quello non fu un gran bel Festival. Chiambretti mi chiese la cortesia di fare il presentatore e siccome lo stimo tanto accettai la formula del ’50 e 50’. Ma Piero è soprattutto un comico e tendeva a sfottere i cantanti che non volevano essere presentati da lui. Venivano da me a lamentarsi. L’artista che fa Sanremo vuole essere valorizzato, non sfottuto.

Si narra che Carlo Verdone non pretese cachet per le ospitate, ma solo una cassa di arance siciliane. E’ vero?

Può darsi! Le mandavo a tutti, all’epoca ero produttore di arance, è il mio regalo caratteristico nei confronti degli amici.

Ritiene che il conduttore di Sanremo debba essere anche direttore artistico?

Se è competente musicalmente, senz’altro. Mike si limitava a presentare, non entrava nei discorsi legati alle canzoni, non era attrezzato.

Tra le sue invenzioni c’è stato anche il preserale Luna Park.

Il successo della Ruota della Fortuna aveva iniziato a far perdere punti anche al Tg1. Mi chiamò la direzione della Rai chiedendomi di trovare qualcosa per contrastare Bongiorno. La popolarità di Luna Park fu tale che dopo pochi anni la Ruota venne chiusa. 

Lunedì Frizzi, martedì Carlucci, mercoledì Venier, giovedì Lambertucci, venerdì Bonolis e sabato lei. Fu sua pure la decisione delle conduzioni multiple?

Sì, li scelsi io. Eravamo un gruppo di amici, ci divertivamo. Soprattutto Bonolis con la Zingara. Essendone l’autore io c’ero tutti i giorni, anche quando non conducevo. 

Con Bruno Vespa si è mai chiarito?

No e non ho voglia di farlo. Non me ne frega niente.

Litigaste in diretta a Centocinquanta durante i festeggiamenti per l’Unità d’Italia. Tutta colpa di una foto di Michele Santoro apparsa in studio per celebrare i giornalisti della Rai.

Una cosa allucinante. Appena vide la foto di Santoro andò su tutte le furie, si arrabbiò. Una foto che tra l’altro non andò nemmeno in onda.

Le manca il video?

Non ho nostalgia, sinceramente. Se capiterà la possibilità di qualche ospitata, la farò volentieri. Ma non me la sento più di assumermi le responsabilità di uno show. C’è un tempo per tutto e bisogna guardare anche l’anagrafe.

Da liberoquotidiano.it il 7 giugno 2021. Pippo Baudo oggi 7 giugno compie 85 anni ma nel suo futuro non vede un ritorno in tv. "Ci mancherebbe che mi rimettessi in gioco. Mi limito a guardare, e purtroppo vedo sempre le stesse cose, un format ripetuto 7, 8 volte", osserva il conduttore in una intervista a Il Giorno. E attacca: "Leggo che Carlo Conti torna con Tale e quale, ma è possibile? Ancora? È tremendo". E ancora: "Paolo Bonolis è bravissimo, è colto, spiritoso, intelligente. Ma non si vergogna a fare tutti gli anni Avanti un altro? Ma sforzati, inventa qualcosa di nuovo. E poi tutta quella volgarità... alla volgarità ricorre chi non è bravo. La tv di oggi è fatta solo di fotocopie". Una volta invece era tutto diverso. C'erano Corrado, Mike Bongiorno, Enzo Tortora, i "quattro moschettieri" della tv italiana. E i programmi erano diversi, originali. "Per Tortora avevo grande stima, ma non c'era molta amicizia, perché lui si considerava un giornalista prestato alla conduzione. Corrado aveva un'ironia pungente, cercava sempre la battuta sfottente. Con Mike invece c'è stata una vera, grande amicizia. Anche se avrebbe avuto tutti i motivi per detestarmi. Allora faceva La Ruota della Fortuna, la trasmissione andava così bene che il Tg5, che la seguiva, spesso batteva il Tg1. Il direttore del Tg1 mi chiamò, disperato, chiedendomi di trovare un rimedio. E io inventai Luna Park, che ebbe un grande successo. Così grande che La Ruota dovette chiudere". A proposito di Mediaset, Baudo lo definisce "il più grande errore" della sua vita. "Sono grato a Silvio Berlusconi che mi offrì un contratto così incredibile che fece arrabbiare anche Mike. Feci Festival con Lorella Cuccarini e Gaspare e Zuzzurro. Fu un enorme successo, ma avevo nostalgia della Rai", confessa il conduttore. "Ogni volta che finiva una puntata, pensavo: alla Rai è un'altra cosa. Parlai con Berlusconi e gli chiesi di lasciarmi andare. Lui capì il mio stato d'animo e acconsentì. 'Ma devi pagare una penale"'. mi disse. Pretese il palazzetto che avevo comprato al Palatino. E glielo diedi, compreso il bar che stava al piano terra. Ma il brutto fu che la Rai non mi cercava. Passavo le giornate accanto al telefono - un telefono verde, ricordo - chiedendogli: quando squilli? Se mi chiamava qualcun altro, chiudevo in fretta la comunicazione, avevo il terrore che mi cercassero dalla Rai e non mi trovassero. Biagio Agnes, potentissimo direttore Rai, aveva sentenziato: 'Pippo Baudo non tornerà mai più'". Invece lo richiamarono. 

·        Pippo Franco.

(ANSA il 3 novembre 2021) - I carabinieri del Nas, su richiesta della Procura di Roma, hanno proceduto oggi al sequestro di nove green pass falsi tra cui quello nella disponibilità dell'attore Pippo Franco. L'attività rientra nell'indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, in cui si ipotizza il reato di falso. Tra i lasciapassare falsi, rilasciati da un medico di base e odontoiatra già perquisito, anche quello destinato ad un ex magistrato. I certificati sono stati disattivati presso il database del ministero della Salute. In base a quanto si apprende il documento sarebbe stato utilizzato da alcuni indagati anche per accedere in locali.

Certificati falsi, Pippo Franco indagato: «Io estraneo». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 3 novembre 2021. Nove green pass sono stati sequestrati dai carabinieri del Nas nell’inchiesta della procura di Roma su un medico capitolino accusato di rilasciare passaporti sanitari falsi. Tra i beneficiari c’è anche Pippo Franco, indagato per lo stesso reato. Questi pass sarebbero stati utilizzati per aggirare l’obbligo di esibire il certificato nei ristoranti e negli altri luoghi chiusi. I documenti irregolari di un ex magistrato e di alcuni familiari dell’attore — la cui moglie si faceva prescrivere dal dottore, un odontoiatra, alcuni farmaci per il cuore — sono stati già disattivati presso il database del ministero della Salute. Come emerso anche dalle intercettazioni, il medico avrebbe ricevuto in dotazione 20 fiale di vaccino ma risulta aver somministrato 159 dosi anziché le 120 che è possibile ricavarne. Alcuni indagati risultano vaccinati in giorni in cui si trovavano fuori Roma, oppure sembrerebbero aver ricevuto la dose in una data diversa da quella certificata dal pass. Le ricette mediche dello studio perquisito e gli elenchi dei pazienti sono all’esame degli inquirenti. «Siamo sorpresi e increduli, Pippo Franco è estraneo a questa vicenda», ribadisce l’avvocato Giovanni Benedetto Stranieri, che ha chiesto un incontro ai magistrati per chiarire la posizione del suo assistito. Appreso dell’indagine, l’attore aveva assicurato non solo di essere in possesso di un green pass regolare, ma pure di essere «vaccinato, anche se scettico». Una posizione che lo aveva portato a essere uno dei volti della protesta no-vax, tanto da creare qualche imbarazzo alla campagna elettorale di Enrico Michetti, perché Franco era presente in una delle liste a sostegno del candidato di centrodestra per il Campidoglio. Anche il figlio dell’attore, Gabriele, si era scagliato contro i media «colpevoli» di aver diffuso una notizia a suo dire infondata.

Green Pass falso, sequestrato quello di Pippo Franco. E non solo: spunta anche il magistrato: clamoroso a Roma. Libero Quotidiano il 03 novembre 2021. I carabinieri del Nas, coordinati dalla procura di Roma, hanno sequestrato 9 Green pass falsi ad altrettante persone. Tra i colpiti c'è anche Pippo Franco e alcune persone della sua famiglia. Con loro risultano iscritti sul registro degli indagati per il reato di falso anche due medici e un ex magistrato a riposo. I Green Pass sono stati disattivati presso il database del ministero della Salute. Alcuni degli indagati hanno utilizzato il certificato verde per accedere a locali pubblici. L'indagine e' coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. L'attività rientra nell'indagine in cui come detto si ipotizza il reato di falso. Tra i lasciapassare falsi, rilasciati da un medico di base e odontoiatra già perquisito, anche quello destinato a un ex magistrato. Il documento sarebbe stato utilizzato da alcuni indagati anche per accedere in locali. La vicenda che ha coinvolto Pippo Franco era entrata anche nella campagna elettorale per il Campidoglio, visto che il comico si era candidato per un seggio con Enrico Michetti. E nel corso di alcune interviste, l'attore, parlando di vaccinazione si era limitato a dire: "Preferisco non rispondere, vi basti sapere che ho il Green Pass". Dopo alcuni giorni Franco ha pubblicato sul suo profilo Instagram una sua foto che lo ritrae nello studio del medico finito nel registro degli indagati con la didascalica "scettico ma vaccinato". 

"Vi svelo il pensiero unico di sinistra..." Francesco Curridori il 25 Settembre 2021 su Il Giornale. Pippo Franco, storico conduttore dei programmi tivù targati Bagaglino, ripercorre tutti i suoi successi professionali e ci offre un'analisi puntuale della satira moderna. "Non si decide di entrare nel mondo dello spettacolo, si è attratti da una creatività". Pippo Franco, conduttore dei tanti programmi tivù targati Bagaglino, la storica compagnia teatrale ideata da Pier Francesco Pingitore, si racconta in questa lunga intervista in cui ripercorre tutta la sua carriera artistica. Quando e perché ha deciso di entrare nel mondo dello spettacolo?

"Ho cominciato facendo il pittore e, contemporaneamente, facevo il musicista. Studiavo al liceo artistico e la sera suonavo nei locali notturni, poi ho disegnato fumetti per tre anni e, infine, ho fatto il cantautore e l'attore. Fatalmente, quindi, sono entrato nel mondo dello spettacolo e ho anticipato il cabaret perché sia come cantautore sia come attore, mi rivolgevo al pubblico. Non ho deciso di entrare nel mondo dello spettacolo, ma ho cominciato a scrivere canzoni perché avevo delle cose da dire”.

A tal proposito, secondo lei, perché le sue canzoni satiriche degli anni '80 ebbero tanto successo?

“Non saprei dirle. Nella mia carriera ho fatto di tutto: cinema, televisione, teatro. Ho scritto commedie e canzoni, ho partecipato a Sanremo e ho venduto dischi. E, tutto ciò che ho fatto è stato ben accolto dal pubblico. Il motivo dipende dai contenuti. Sono un cantautore e, quindi, un artista. Non un cantante o, semplicemente, un attore”.

Quanto è stata dura la gavetta?

“Non è stata affatto dura. Sono sempre stato me stesso e ho sempre espresso ciò che avevo dentro. Rispondevo a due domande: chi sono? E, che cosa ho da dire? Non c'è stata una gavetta o un'attesa e, poi, il successo. Io ho cominciato da subito a fare delle cose, per esempio, insieme a Gabriella Ferri nei piccoli cabaret dove lavoravamo e abbiamo avuto subito successo. Non si può parlare di gavetta perché noi abbiamo subito fatto quello che avevamo in mente e quello è stato accolto bene dal pubblico. È il pubblico che decide se seguirti o meno”.

Perché ha deciso di usare Pippo Franco come pseudonimo?

“Perché mi chiamo Franco di nome e Pippo di cognome e, dato che quando andavo a scuola ci chiamavano sempre per cognome e Pippo corrisponde anche a un nome, tutti mi hanno sempre chiamato Pippo. Ed è così che sono diventato Pippo Franco. Mi chiamavano tutti Pippo e io non sono stato ogni volta a precisare che, in realtà, mi chiamo Franco. Ho accettato quel Pippo perché mi appartiene esattamente come Franco”.

Qual è il ricordo più bello che ha del Bagaglino?

“Non c'è un ricordo più bello. Abbiamo passato un'epoca in cui il Bagaglino era in una cantina ed era sconosciuto, ma abbiamo anticipato quel che venne definito cabaret. Poi, nel 1975, ci siamo trasferiti al Salone Margherita, ottenendo un grande successo con i nostri spettacoli. Tutto quel che facevamo era originale, sia la satira di costume sia la satira politica. Dopo abbiamo fatto 23 anni di televisione, metà con la Rai e metà con Mediaset, ottenendo un seguito di circa 14 milioni di spettatori”.

Le manca la televisione?

“No, non mi manca affatto. Anzi, vivo una vita molto piena e articolata, con una maturità che mi fa vedere la realtà oltre le apparenze e la televisione di oggi mi sembra estranea: è fatta di quiz e di cose che non hanno più contenuti. Tendenzialmente mi pare una tivù superficiale perché gli elementi dell'interpretazione del nostro tempo non sono nemmeno considerati”.

Perché il Bagaglino è stato spesso mal visto dalla critica e tacciato d'essere “di destra”?

“È stato tacciato di essere di destra perché non eravamo né di destra né di sinistra, mentre all'epoca c'era una satira politica di sinistra. Tutte le critiche che erano state fatte erano di quella tendenza, del pensiero unico. Viceversa, quello che conta per noi è il pubblico. Con 14 milioni di spettatori non ha alcun senso la definizione di destra o di sinistra. Non è mai stato un problema mio, io sono sempre stato libero e democratico e non ero di parte. Al liceo artistico ho studiato con Guttuso e, comunque, l'arte e l'ironia è al di fuori della politica, specie se non appoggi nessuno. Abbiamo lavorato in un'epoca in cui, se non eri di sinistra, eri di destra. Non è vero, noi eravamo soltanto totalmente liberi”.

Cosa pensa del politicamente corretto? Ucciderà la satira?

“Beh, la satira è l'esatto contrario del politicamente corretto. È fatta di sintesi, è una caricatura della realtà però, spesso, la caricatura della realtà ti mostra la realtà. Questo non lo abbiamo inventato noi, è così dai tempi di Petrolini. Il politicamente corretto è una forma d'espressione che va bene in Parlamento ma, nella realtà, nel rapporto col pubblico abbiamo sempre cercato di tirare fuori quelle realtà di cui solitamente non si parlava”.

Dopo il #metoo, secondo lei, come sarebbero visti gli spettacoli del Bagaglino e/o i film della commedia sexy all'italiana di cui è stato protagonista?

“Non ha senso paragonare l'epoca del 1970 ad oggi. Quei film, poi, non erano semplicemente commedie sexy, ma vanno viste come opere boccacesche in quanto Boccaccio era l'ispiratore ideale, soprattutto nel primo film che ho fatto. In seguito ho lavorato con Luigi Magni e ho fatto dei film con Billy Wilder e con Corbucci. C'è tutta una storia ed è bene guardarla tutta, non solo il punto di partenza che è stato di successo perché allora andava di moda. Io non sono solo quello”.

Qual è il film preferito in cui lei ha recitato?

“Ho fatto un film come regista che si chiama La gatta da pelare ed è quello che mi ha impegnato di più. Penso che rifarei volentieri una cosa di quel tipo”.

Qual è l'attrice e/o la soubrette con cui ha legato di più?

“Con tutte le soubrette e le attrici con cui ho lavorato, dalla Fenech a Pamela Prati o Valeria Marini, ho avuto un rapporto professionale di grande rispetto e di grande affetto professionale, ma mi sono trovato di fronte delle persone sempre diverse. Sono rimasto molto a loro da un punto di vista affettivo, anche se poi non le ho più riviste. È tutto indimenticabile, specie quando si fanno dei lavori in diretta e lì non ti puoi inventare nulla e arriva la verità assoluta. Con loro ho vissuto avventure diverse, tutte ugualmente diverse e che sono rimaste nel mio animo”.

Perché ha deciso di candidarsi al Comune di Roma?

“Perché Michetti, che conosco in quanto direttore di Radio Radio, mi ha chiesto di formare una lista civica e io ho accettato di farlo, anche se la politica non mi interessa. Mi interessa solo l'assessorato alla cultura. Non vorrei fare l'assessore, ma mi piacerebbe essere presente come consulente perché, avendo attraversato tutte le forme dell'arte, penso che potrei essere utile. Ma solo limitatamente all'assessorato alla cultura perché vorrei riportare Roma ad essere la Capitale del mondo dell'arte”.

Cosa risponde a chi ha ironizzato su questa sua candidatura?

“Non rispondo proprio. Non li seguo e non li leggo, non è un problema mio. Per me non esistono”.

Ha avuto paura del Covid?

“No, mi sono vaccinato. Sono sempre stato accorto e attento a seguire tutti i protocolli e ho rispettato tutte le regole del caso, non uscendo di casa durante il lockdown”.

Cosa pensa del green pass?

“Questa è una scelta tecnica e non le saprei dire. Io faccio l'artista e, una volta che mi sono vaccinato, poi il resto lo decide lo Stato. È un problema su cui non mi so esprimere perché non sono un politico in quanto tale. Oggi, tutti sanno tutto. Io, invece, aspetto che siano gli esperti a decidere”.

Che giudizio dà del governo Draghi?

“Non do giudizi perché, ribadisco, sono un artista e non parlo di politica. Il giudizio sul governo e per chi voto me li tengo per me e non ne parlo con nessuno”.

Che rapporto ha con la fede?

“Ho un rapporto totale, cioè mi identifico totalmente col divino. La penso come Benedetto XVI che, alla domanda su che cos'è la vita, risponde così: la vita è la conoscenza della tristezza, dell'amore e del divino. Io, senza il divino, non ho nessuna identità. A me interessa la mia anima e il rapporto con l'infinito e l'eternità”.

Il suo più grande rimpianto?

“Non ho rimpianti. Non vivo di nostalgie perché la vita è fatta di un continuo movimento e, soprattutto è fatta del 'qui ed ora'. Non saprei vivere di cose già vissute perché tutto ciò che ho fatto, l'ho abbandonato. Ora non dipingo, non scrivo canzoni e vado sempre avanti facendo altre cose. Non ho rimpianti, ma ho tanti bei ricordi che hanno costruito il 'qui ed ora', ma nulla ci separa dal bambino, dal fanciullo e dall'uomo che siamo stati da tutto il resto. Noi siamo un compendio di tutta questa realtà. Nulla ci separa dal bambino che siamo stati. I bambini sono felici e la felicità è la mia tendenza esistenziale”.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

"Io odiato dal patrigno ho capito cos'è la vita". Serenella Bettin il 12 Agosto 2021 su Il Giornale. Il comico: "Abbiamo perso poetica e dono. Un altro Bagaglino? Sarebbe impossibile". «È cambiato il mondo, è cambiata la società ed è cambiato il modo di vedere la realtà. C'è un'altra generazione. Prima la nazione era poetica, ora no». Pippo Franco, pseudonimo di Francesco Pippo, il 2 settembre prossimo compirà 81 anni. Nei giorni scorsi era a Montagnaga, frazione di Baselga di Piné, in Trentino, per il suo spettacolo La vita è arte organizzato da Il Nodo di Gordio. A cena si sposta da una sedia all'altra, si alza, scambia parole con tutti. Lo fa con arte, con eleganza, con la maestria di chi nella vita ha lavorato sodo. Lui ha fatto il cantante, l'attore, il cabarettista, il regista teatrale, il commediografo e l'umorista italiano. Che fico! è il suo tormentone senza tempo. Ma soprattutto gli anni del Bagaglino. «Erano spettacoli da 14 milioni di spettatori - ci dice ora sono impossibili da realizzare. Ci eravamo inventati questo genere del cabaret, che era l'interpretazione del nostro tempo, cioè gli aspetti paradossali di quella realtà. Ma oggi è tutto molto indefinito. Si vive di Dpcm, di governi che cambiano continuamente, non fai in tempo a stare dietro alla realtà per come cambia velocemente. Ogni giorno ne succede una. Alla fine della settimana cosa racconti?».

Non ci sono più punti di riferimento?

«Non ci sono più identità, c'è una sorta di abbandono a se stessi, gli individui prima vivevano con interesse per la vita, per l'esistenza, per la politica che li governava, ora vivono di aperitivi; gli argomenti sono diventati altri. La vita è diventata quasi esclusivamente esteriore e non interiore».

Colpa dei social?

«L'avvento dei social ha influito parecchio. C'è tutto e il contrario di tutto. Ci sono il bene e il male insieme».

Questa crisi è iniziata ancora prima del Covid?

«Certamente. La verità deve essere una. Solamente quella e non altre. L'ascolto degli altri non ha più senso, ci sono i litigi, ma il senso dell'esistenza è del tutto sconosciuto. La visione artistica della vita è sconosciuta».

Lei si rifà spesso a una citazione...

«Sì. Ad Einstein: La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un servo fedele. Abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono».

Ha una grande ricchezza interiore.

«Ho sempre vissuto nella dimensione di quello che sento. La personalità è diversa dall'interiorità. Ma l'uomo di oggi ha scambiato la personalità con l'essenza e si vive una vita esteriore».

Una volta ha detto che se non avesse avuto quel patrigno feroce sarebbe stato diverso.

«Sì, mia madre dopo la morte di mio padre (Pippo Franco era piccolo, ndr) si è risposata con un altro uomo che non mi ha mai amato. Mi ha formato molto perché mi ha dato delle informazioni che sono le difese e le aggressioni della vita. Io sono andato con tutto il mio candore, pronto ad amarlo, e lui invece ha rifiutato il mio amore ed è un'esperienza importante. Molto importante perché ti fa capire che la vita è fatta anche di questo».

E ora?

«Ora il teatro non lo faccio più perché non mi interessa. Vivo la mia esistenza. Faccio tante altre cose. E soprattutto vivo».

A un giovane che vuole fare teatro cosa direbbe?

«Che deve rispondere a due domande: chi sono e cosa ho da dire». 

Serenella Bettin. Sono nata nelle Marche, vivo in Veneto. Firmo sul Giornale dal 2016. Mi occupo di attualità, cronaca e immigrazione.

·        Pupi Avati.

Dagospia il 18 Novembre 2021. Pupi Avati è stato ospite questa mattina a Non è un paese per giovani su Rai Radio 2 per presentare il suo ultimo libro su Boccaccio e Dante. Il noto regista, scopritore con la sua band del Lucio Dalla degli esordi, ha parlato della sua passione per la musica. “Ascolto perennemente musica jazz e musica classica. Le persone che amano la musica amano la musica, la musica è tutto. Ho problemi con la musica lirica e qualche problema con la musica pop, nella disperazione dei miei cari ascolto soprattutto il jazz”. I Maneskin? “Li ho visti e mi hanno profondamente colpito. Se non altro a livello visivo sono sicuramente di un’efficacia… non ti lasciano certo indifferenti”. Chiamare Damiano e Victoria per un film? “Ma certo, non escludo nessuno. Semmai sono io che a ottantatrè anni ho qualche problema col mio futuro cinematografico”.

Pupi Avati: «L’amore è eterno, anche oltre la vita». Intervista al maestro Pupi Avati. Il suo “Lei mi parla ancora” con Renato Pozzetto e Stefania Sandrelli da stasera su Sky Cinema. Il regista: «Il mio sogno? Fare un film su Dante». Raffaella Salamina su Il Quotidiano del Sud l'8 febbraio 2021. L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Si condensa tutto nei versi di Cesare Pavese il viaggio interiore di Lei mi parla ancora, l’ultima fatica del maestro Pupi Avati. Così, come i “Dialoghi di Leucò” indagano il mistero dell’amore, la poesia e l’ineludibilità del destino umano anche il film – tratto dal romanzo autobiografico di Giuseppe Sgarbi – esplora la necessità del dolore, l’irrevocabile condanna della morte con la promessa però, di un’immortalità nella corrispondenza di “amorosi sensi”. La prima assoluta è su Sky Cinema, questa sera, dove rimarrà disponibile on demand e fruibile anche in streaming su NowTV. Protagonista un sorprendente e intenso Renato Pozzetto nei panni di Nino, al suo fianco Stefania Sandrelli in quelli di Rina, che si alternano con Isabella Ragonese e Lino Musella nei ruoli dei due protagonisti da giovani. Accanto a loro Fabrizio Gifuni, che interpreta il personaggio di Amicangelo (il ghost writer che aiuterà Nino nella stesura delle memorie e che diventerà suo amico e confidente), Chiara Caselli, Alessandro Haber, Serena Grandi, Gioele Dix, Nicola Nocella. L’opera è prodotta da Bartlebyfilm e Vision Distribution. Scritto da Pupi Avati con il figlio Tommaso, Lei mi parla ancora è una storia d’amore e di famiglia che, per 65 anni, ha unito Nino e Caterina, genitori di Vittorio ed Elisabetta Sgarbi, custodita nel ricordo di lui dopo la scomparsa dell’adorata compagna.

L’unica immortalità che ci è concessa è il ricordo. È da qui che ha inizio il suo racconto.

«È un tema inedito, non compare nel romanzo originale. Mi sembrava una riflessione inclusiva rispetto al concetto su cui ruota il racconto: l’idea del “per sempre”. Un’espressione che non si usa più. Io appartengo a un’epoca in cui si diceva magari, solo per abbellire un sentimento. Era un modo per nobilitare i rapporti, ma non si aveva timore di pensare che un affetto potesse durare per l’eternità. Ora, si usano troppe cautele, piccole vigliaccherie e così non ci si impegna fino in fondo. Io ho la profonda convinzione invece, che le unioni si impreziosiscano proprio nel tempo».

Come si è avvicinato a questo romanzo?

«Un mio caro amico me lo ha inviato pregandomi di leggerlo. Ed è stato illuminante, il concetto di eternità di un amore mi sembra quasi “scandaloso” per i tempi in cui viviamo. Un vecchio che ostinatamente sostiene che la storia d’amore con sua moglie non sia finita nonostante la morte, mi è parsa interessante. In realtà, è la prima volta che realizzo un film ispirato a un libro e ad un’esperienza altrui. Ho cercato il ghost writer di Giuseppe Sgarbi, siamo diventati amici e lui mi ha raccontato come è nato questo libro. Il solo modo per appropriarmi di questa storia è stato quello di raccontare la genesi del romanzo, come è stato scritto».

L’amore per l’arte, per la poesia sono il collante dell’affinità elettiva di Nino e Rina. Una tenerezza che spiazza lo spettatore così come lo scrittore Amicangelo si sente a disagio di fronte alla granitica ostinazione di Nino a non voler lasciare andare il ricordo della moglie. Anziani che hanno occhi di “fanciulli” di pascoliniana memoria. È così?

«La mia formazione è profondamente legata alla poetica di Pascoli. In questo film cito “Myricae” ma in quasi tutti i miei lavori compaiono riferimenti alla sua poesia. Condivido la visione del “fanciullino”. Il desiderio profondo di continuare ad illudersi, nascosto in un angolo dell’anima di ognuno di noi».

Renato Pozzetto interpreta con intensa commozione il personaggio di Nino. Le ha regalato uno straordinario ruolo drammatico.

«La sua interpretazione è un vero e proprio miracolo. La prima volta che ho raccontato la storia del film a Renato ha pianto. Mi ha confidato di aver perso, pochi anni fa, sua moglie e quanto fosse difficile tuttora convivere con l’assenza di lei. Renato è stato estremamente generoso. Non ha mai realmente recitato, ha replicato sul set il suo dolore privato. Lo ha messo al servizio del film. Per questo lo ringrazio profondamente».

Non è la prima volta che “rigenera” attori che il grande pubblico conosce in una veste completamente diversa. Comici nell’immaginario collettivo che dirige sorprendendo gli spettatori, offrendo interpretazioni inaspettate. Da Diego Abatantuono, Carlo Delle Piane a Chirstian De Sica.

«È una sfida che affronto sempre con timore e apprensione. Così come sono preoccupati gli attori che accettano questa prova rinunciando a tutte le loro certezze. Questo dà molto senso al mio lavoro».

In questo film tornano i temi cari al suo cinema. L’amore per la musica, le suggestioni oniriche della provincia bolognese.

«La musica è necessaria ha una capacità evocativa fortissima, forse più dell’immagine. Le canzoni di un’epoca sono la chiave che ti spalanca un mondo. Gli anni 50 sono il periodo in cui sono nati i miei archetipi. Ricostruire quei decenni mi viene estremamente facile. Così, come l’area geografica in cui ho girato tra Ferrara, Ro e Riva del Po mi è particolarmente familiare».

Nella sua lunga carriera ha incontrato grandi autori Bernardo Bertolucci, Alberto Moravia, Giuseppe Patroni Griffi e Pier Paolo Pasolini. Con quest’ultimo ha collaborato alla sceneggiatura di Salò e le 120 giornate di Sodoma.

«Ho un particolare affetto per Pasolini, era l’ultimo film che ebbe occasione di dirigere. In quel periodo lo andavo a trovare spesso e ricordo la sua generosa accoglienza. Mi permise, per due mesi, di vivere questa straordinaria collaborazione. Non capita facilmente di potersi confrontare con un regista del suo spessore culturale. Ho imparato tanto da lui ed ho capito che i veri grandi sono quelli che riescono a comunicare con estrema semplicità. Con Pasolini ho avuto un’intesa immediata, ho capito subito cosa avrei dovuto scrivere anche se è stato infinitamente duro affrontare la crudezza del suo racconto».

Lei è uno dei pochi registi italiani che si è misurato con il cinema horror. Forse sarebbe più corretto dire “gotico”.

«Purtroppo i film di genere in Italia non si fanno più. Un errore gravissimo. Negli anni 70 e 80 siamo stati maestri dell’horror. Io nonostante tutto ho continuato, ogni dieci anni, a girare un film di genere. È lì che ci si misura con i fondamentali del cinema. È un modo per rasettarmi, per rimettermi in discussione».

E il suo progetto su Dante?

«Purtroppo è arenato. È dal 2003 che attendo di girare questo film. Siamo entrati nel 2021, nell’anno che commemora i settecento anni dalla morte del Sommo Poeta, e ancora, per impedimenti burocratici, Rai Cinema non sblocca il progetto. Dovrei essere sul set di Dante e invece sono a casa disoccupato. È scandaloso che non si senta la necessità di portare sul grande schermo la vita del più grande poeta italiano».

Si è schierato in difesa dell’esercizio cinematografico, qualche giorno fa ha fatto appello al mondo del cinema invitando a una task force per riportare gli spettatori alla visione in sala.

«Continueremo a fare film. Le piattaforme offriranno grandi opportunità a noi autori. Ma non va sottovalutata la profonda crisi dell’esercizio che solo in parte può essere risolta con i ristori per la chiusura. La sostituzione, con il divano di casa, del piacere “nostalgico” di sedersi accanto ad altre persone e attendere il buio in sala, va impedita. Dobbiamo scendere in campo noi registi, autori e attori. Accompagnare i nostri film nelle sale, soprattutto quelle di profondità. È necessario creare eventi, potenziare il concetto di esperenzialità e condivisione della sala. Non dobbiamo lasciare soli al loro destino questi coraggiosi Don Chisciotte, gli esercenti».

L’amore per il cinema è anch’esso una promessa di eternità?

«Lasciare una traccia di sé è cercare di garantirsi l’immortalità. Io vengo dalla cultura contadina in cui ricordare anche soltanto i nomi dei propri cari diventa una preghiera. Quando faccio un film, l’onomastica la traggo tutta dalle persone a cui sono stato legato. I miei amici, i miei colleghi di lavoro, coloro con cui ho condiviso la passione per la musica. Dando i loro nomi ai personaggi che popolano i miei film, io tengo in vita chi ho amato».

·        Quentin Tarantino.

Valerio Cappelli per il "Corriere della Sera" il 20 ottobre 2021. Quentin, oh yeah. È il Tarantino' s day alla Festa del cinema, e il celebre regista Usa ritira il Premio alla carriera, festosamente addobbato di videomessaggi di tre suoi attori feticcio, John Travolta, Samuel L. Jackson e Christoph Waltz. «Mi piacerebbe da morire girare un film in Italia, a Cinecittà sarebbe pazzesco. Amo più di ogni altri Sergio Leone e Ennio Morricone, era un vero gigante». Parla della sua passione per il cinema larger than life , punteggia le domande con smorfie che lo fanno somigliare a Braccio di Ferro, gli escono urletti striduli di soddisfazione e con la sua comunicatività debordante gesticola come un matto. «Ho sempre avuto una opinione alta di me stesso, soprattutto come sceneggiatore». Racconta di quando da ragazzo scrisse il curriculum da attore con due bugie: «Scrissi che avevo recitato per Godard in Re Lear, un film terrificante, non puoi resistere più di cinque minuti e pensavo che tanto nessuno l'aveva visto. Poi uno di zombie di Romero, nella scena di una gang di motociclisti c'era uno che mi somigliava».

Il primo film che ha visto?

«Un film inglese di agenti segreti, c'era una scena sadomaso di cui mi sfuggì la parte politico-sessuale. Avevo cinque anni». 

Intanto ripassa i suoi film, e quando scorre una scena di violenza ride di gusto. Nel 2020 è diventato padre di Leo: «Sembra fatto apposta, le mie priorità con lui sono cambiate, l'ho avuto a fine carriera». 

Ma ha appena 58 anni, sarà che l'America ha tempi tutti suoi. Tuffandoci invece nel passato della Seconda guerra mondiale, averla riscritta, in Bastardi senza gloria , è stato consolatorio?

«Scrivendo quel film non mi sono detto, ecco, ora cambio la Storia. Mi sono messo in trappola da solo, non sapevo come uscirne e ho ucciso Hitler in una sala da cinema. Mi sembrava una buona idea. A chi mi criticò risposi, ehi, è roba mia, l'ho inventata io e posso fare quello che mi pare». 

Ha ridisegnato i confini dello schermo alterando il nostro immaginario con nuovi linguaggi e tecniche, usando dialoghi iperrealistici, violenza a go-go, citazioni cinefile. Oggi il cinema è meno libero di esprimersi?

«È più difficile ma non impossibile, bisogna volerlo, crederci. Non va bene riflettere troppo. Pulp Fiction ebbe molto successo ma a chi ci andò giù pesante volevo dire: io ho fatto un film sui gangster, tu che problemi hai? Nel tempo ho capito che non bisogna prendersela troppo, se un film diventa argomento di conversazione si vede che lascia il segno. Ho imparato ad accettare chi mi insulta. Quel film lo girai alla fine degli anni 80, anche quelli erano tempi repressivi, io credo che la permissività degli anni 90 debba qualcosa a Pulp Fiction». 

Per il suo collega David Cronenberg il cinema è morto. Cosa ne pensa?

«È impossibile rispondere, staremo a vedere, io ho una sala che fa i revival intitolata New Beverly e c'è un'affluenza incredibile dopo la pandemia, ne ho appena acquistata un'altra. Non penso che sia morto. Forse sarà di nicchia. Se parliamo di incassi per film in 3.000 sale non lo so». 

Si aprono siparietti e gag, è il Tarantino Show, lui ha una curiosità onnivora, sembra davvero un pupazzo nelle sue buffe espressioni. «C'è un film muto che cancellerei, è The Birth of a Nation del 1915, portò alla rinascita del Ku Klux Klan».

C'è un personaggio dei suoi film di cui diventerebbe amico e uno con cui non andrebbe d'accordo?

«Prendiamo C'era una volta a Hollywood . Rick Dalton, l'attore in declino impersonato da Leo DiCaprio, è un piagnucolone e non si rende conto della bella vita che ha avuto; forse con Cliff, la sua controfigura (Brad Pitt) mi troverei bene. Ma non ho mai creato un mondo in cui vorrei abitare, mettiamola così». 

Ha scritto un romanzo da quel film: «Sono cresciuto leggendo libri che si basano sui film. L'ho fatto anch' io. È un genere divertente, il trash della letteratura. Mi piace giocare con l'alto e il basso». Con lui prima o poi si parla di B movie e stavolta di B libri: è la lettera liberatoria che alimenta gli sbarchi della sua ciclopica immaginaria Normandia sullo schermo.

Un viaggio nella sua carriera e l'amore per i cineasti italiani. Quentin Tarantino premio alla carriera alla Festa di Roma: “Il cinema è più vivo che mai”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Era giugno quando dalle prime anticipazioni sul programma della Festa del Cinema di Roma era diventato chiaro a tutti che le star che avrebbero definito la 16esima edizione sarebbero state i due premi alla carriera Quentin Tarantino e Tim Burton. Il sesto giorno della manifestazione è stato consacrato dall’autore di Pulp Fiction e Le Iene, il cinefilo Quentin che ha presentato anche il suo libro C’era una volta a…Hollywood, uscito in Italia con La Nave di Teseo, come estensione del mondo creato nel film con Leonardo DiCaprio, Brad Pitt e Margot Robbie. Protagonista di un Incontro Ravvicinato sul palco in dialogo con il direttore artistico della Festa, Antonio Monda, alla notizia del suo premio alla carriera Tarantino dichiarò: «C’è stato un momento della mia vita in cui guardavo qualsiasi film italiano. E ho dedicato gli anni migliori della mia carriera a realizzare la mia versione di questi film. Per questi motivi ricevere il Premio alla Carriera alla Festa del Cinema di Roma è fantastico». È proprio dal libro che Tarantino inizia il suo incontro con la stampa, precedente a quello con il pubblico, un romanzo che si sostituisce ad un immaginato sequel o spin-off nel proseguire una sorta di epica cinefila iniziata con il film del 2019. «Sono cresciuto leggendo libri che si basavano su film, un genere molto popolare negli anni ‘70 e anche ‘80, credo siano stati i primi libri per adulti che ho letto, ne ho letti anche di film che non avevo mai visto e circa tre anni fa, ho pensato che fosse un genere divertente e che avrei dovuto farne uno per un mio film. Volevo farlo per Le Iene, in modo che sarebbe stato un libro che avrebbe trovato posto negli scaffali della sezione crime delle librerie ma poi mi sono detto che sarebbe stato meglio farlo di C’era una volta a…Hollywood». Famoso per aver osato riscrivere la storia con i suoi finali fantasiosi e imprevedibili, esempio emblematico tra tutti quello dell’uccisione di Hitler in Bastardi senza Gloria, Tarantino diventa l’artista più adatto a parlare di libertà al cinema: «È difficile oggi essere liberi nel fare film ma devi volerlo fare, devi essere convinto delle tue idee e non preoccuparti che alla gente possano non piacere. Mi ricordo quando ho fatto Pulp Fiction – aggiunge – c’era molta stampa positiva, ma anche stroncature lunghe e dettagliate di chi diceva “divertente, ma niente di che”. Pensai: “ho fatto solo un film di gangster divertente, che problema c’è?”. Quindici anni dopo ho riletto quelle critiche e ho capito che non bisogna essere troppo sensibili. Se il film non si fa dimenticare appena esci dalle sale ma lascia il segno è normale che ci saranno anche reazioni negative». Sul periodo in cui è uscito Pulp Fiction il regista ricorda: «L’ho girato nell’88 e deve molto anche alla permissività di quegli anni, se fosse uscito quattro anni dopo la risposta sarebbe stata diversa». Chi conosce Tarantino e ne segue la cinefilia quasi purista, sa della sua devozione per la sala e del suo amore incontrastato per la pellicola. Tutto ciò porta a porgli l’annosa questione sul destino del cinema, sulla sua presunta morte insieme a quella della sala, a causa della pandemia e a favore dello streaming: «Dovremmo stare a vedere, non so» risponde il regista di Jackie Brown che riflette, fa una pausa e poi prosegue: «La cosa positiva è che io ho una sala cinematografica a Los Angeles e da quando abbiamo riaperto, stiamo andando alla grande, mai andati meglio, la sala è piena ad ogni proiezione. Non credo che il cinema sia morto quindi anche perché ho comprato da poco un altro cinema. Io so che sono stato molto fortunato ad aver potuto fare C’era una volta a… Hollywood nel 2019» conclude, alludendo alla pandemia scoppiata nel 2020. Ironia e serietà, fantasia, creatività e impegno morale sono elementi del cinema di Tarantino che ritroviamo anche nelle sue risposte, sempre centrate con un ghigno cinico e brillante. È con questo atteggiamento che il regista e scrittore elabora il discorso sul suo “vizio” di reinventare la storia e i suoi momenti più eclatanti rispondendo a tanti “e se?” a cominciare da un “e se potesse cancellare un film dalla storia del cinema quale sarebbe? Se potesse uccidere qualcuno senza conseguenze chi sarebbe? «starò un po’ al gioco con questa domanda – precisa Tarantino e risponde: «Nascita di una Nazione di D. W. Griffith mi crea problemi. La ragione per cui non mi va giù non è solo perché parla in quel modo di razzismo ma perché ha fatto rinascere il Ku Klux Klan nel 21esimo secolo in America. Io penso che Griffith sarebbe risultato colpevole se fosse stato processato secondo i principi di Norimberga. Non ucciderei nessuno – prosegue – ma se alcune persone non fossero mai nate sarebbe stato meglio». Mentre non esclude che il suo prossimo film possa essere Kill Bill 3, Tarantino in chiusura dell’incontro si trova a interrogarsi sui personaggi da lui creati con cui si troverebbe più d’accordo. In pole position ancora una volta il Cliff Booth di Brad Pitt e il Rick Dalton di Leonardo DiCaprio da C’era una volta a…Hollywood. Di quest’ultimo personaggio dice: «Mi piace ma per me è un piagnone, che ha avuto una vita e una carriera fantastica ma non le apprezza». Dopo aver risposto, Tarantino poi si abbandona ad una riflessione: «Questa domanda mi fa pensare che amo i miei personaggi ma questo non vuol dire che vorrei uscire con loro o far parte del loro mondo». Chiara Nicoletti

Dagospia il 19 ottobre 2021. Da raiplay.it. “Una cosa che dicevo sempre all’inizio della mia carriera di regista è che faccio dei film che “finiscono nel lavandino della cucina” come diciamo noi in America, film non troppo importanti. Ho sempre avuto la sensazione di non riuscire a fare i film che volevo fare.” - Così Quentin Tarantino ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa su Rai3. “Bambi. Un film traumatizzante!”: “Ho visto un sacco di film quando ero giovane, negli anni Settanta: Il Padrino, Dirty Harry... Una volta mi hanno chiesto: ‘c’è qualcosa che ti ha dato fastidio?’ e io ho risposto: ‘si, Bambi.’ Bambi è un film traumatizzante, sono dovuto uscire dal cinema perché non ero pronto all’incendio e a quelle cose che succedevano, è crudele, non puoi spaventare un bambino così. Se avessi saputo che ci sarebbero state delle scene drammatiche come quelle ci sarei andato piano, credevo fosse carino come la locandina, poi improvvisamente muoio tutti, incendio, un caos della miseria. Il film era una cosa pazzesca!” Sul figlio Leo e il primo film di papà: “Insieme abbiamo guardato Cattivissimo Me 2. Questo è il suo primo film e io volevo godermelo con lui, lo voglio ricordare. In quei primi 25 minuti in cui abbiamo guardato il film insieme, Leo era sul divano con me assolutamente preso, poi ha iniziato ad andare a frugare nel suo scatolone dei giocattoli ma guardava lo schermo, non l’ha mollato con gli occhi. Io lo guardavo da dietro il divano, perché se n’era andato là dietro, e si muoveva ma il film lo “prendeva bene”. Conoscerà i miei film e vedremo cosa gli interesserà di più, se fossi in lui però sceglierei Kill Bill!” Commesso in una videoteca “un lavoro fantastico”: “Era fantastico come lavoro, è l’unico lavoro che ho fatto finché non sono diventato regista. Sono stato lì 5 anni e mi sono fatto un sacco di amici, uno ha lavorato con me in questo stesso negozio, Roger Avary, avevamo vent’anni. Abbiamo passato dei bei momenti lì.” Sull’incontro “di pugilato” con Bob Dylan: “...mi allenavo in una palestra che era di proprietà di Bob Dylan e il mio istruttore mi ha detto: ‘perché non fai la controfigura con Bob?’. Non è che gli davo i pugni, le prendevo da lui! Doveva allenarsi su di me, ma quando non teneva la posizione giusta gli mollavo io un pugno. Nessuno era violento nei confronti dell’altro, io stavo lì per prenderle, dovevo fare in modo che imparasse le posizioni giuste ma se lui sbagliava allora si, gli tiravo un pugno! Ma quando mi prendeva continuavo a dirgli ‘bravo, bravo hai fatto bene!’” “Ho sempre voluto fare il regista”: “Devo dire che per molto tempo, da ragazzino mi sono detto: ‘mah, finirò in prigione’. Ho sempre pensato che sarei stato coinvolto in qualche tipo di reato, niente di terribile come omicidi o cose di questo genere, cose di altro tipo, ma ci ho pensato. Ho sempre voluto fare il regista, però volevo fare anche l’attore perché quando vai al cinema la prima cosa che vedi sono gli attori e io volevo essere come loro. Poi a un certo punto mi sono reso conto che per essere un attore amavo troppo i film. Volevo fare i miei film, non recitare in quelli degli altri. Anche quando volevo fare l’attore, i miei eroi erano i registi: attore sì, ma volevo lavorare con quel regista o con quell’altro.” Sulla promessa che avrebbe fatto solo dieci film: “Potrei cambiare idea, probabilmente no… ma chi lo sa! Diciamo che 10 film, 33 anni, mi sembra già una bella carriera! E su quale sarà l’ultimo: “Mi interessava [il progetto su Star Trek] e ne abbiamo anche parlato, abbiamo lavorato su un copione che era una mia idea, magari lo faranno perché il copione è bello, ma diciamo che no, non sarà il mio ultimo film. Sono un grande fan di William Shatner, da quando ero bambino.” E fare una serie TV?: “Potrebbe succedere, avevo un po’ di idee però dobbiamo aspettare ancora un po’ perché ho scritto anche una commedia e vorrei realizzarla.”

Da vanityfair.it il 10 agosto 2021. Mai sfidare Quentin Tarantino. Il celebre cineasta, intervistato da Brian Koppelman durante il podcast The Moment, ha rivelato di aver tagliato fuori economicamente la madre Connie, rea – a detta sua – di non aver supportato la sua passione per la scrittura quando era bambino. «Alle elementari gli insegnanti pensavano fosse un atto di ribellione, perché invece di seguire la lezione, buttavo giù sceneggiature». Il regista racconta di aver scritto la prima a soli 12 anni, dal titolo Captain Peachfuzz and the Anchovy Bandit: «Mia mamma però non era contenta delle difficoltà scolastiche, si lamentava con me e ricordo che un giorno, con tono sarcastico, disse che la mia “carriera da scrittore” poteva considerarsi conclusa». È stato in quel preciso momento che, stando alla ricostruzione, nella testa di Quentin è scattato qualcosa. «Fu in quell’occasione che dentro di me promisi che, una volta raggiunto il successo, non avrebbe visto un centesimo da me. Niente case per mia mamma, né vacanze né automobili», aggiunge ancora Tarantino. «Un proposito che ho rispettato. D’altronde le parole hanno conseguenze, soprattutto quelle pronunciate ad un bambino: per lui, il sarcasmo di un genitore può essere davvero pericoloso e difficile da digerire». Com’è noto, l’infanzia di Quentin – oggi 58enne – non è stata delle più semplici: è nato nel Tennessee da papà Tony, musicista italoamericano di cui non ha saputo nulla per oltre vent’anni, e da mamma Connie, rimasta incinta che ne aveva appena 16. Ha stretto un forte legame con Curt Zastoupil, l’uomo che sua madre ha sposato poco tempo dopo, e si è trasferito in California, dove ha coltivato appunto la passione per il cinema. «Nella mia cameretta giocavo con i miei pupazzi G.I. Joe e creavo scene di film d’azione», ha rivelato di recente a Sette. «Capitava che usassi parolacce, allora mia mamma mi rimproverava. Ogni volta dovevo spiegarle che non ero io, bensì il personaggio». E alla fine, Quentin, ha avuto ragione.

Steve Della Casa per "la Stampa" il 9 agosto 2021. Forse il maggior riconoscimento italiano per Quentin Tarantino è datato giugno 2015, quando il regista americano viene in Italia per partecipare alla cerimonia dei David di Donatello e per ritirare le statuette da lui vinte in precedenza senza però averle ritirate. Negli austeri saloni del Quirinale, come ogni anno, il presidente della Repubblica riceve i premiati e per Sergio Mattarella è una delle prime uscite pubbliche, essendo stato eletto pochi mesi prima capo dello Stato. Al Quirinale c'è tutto il cinema italiano, ma Tarantino gode di una particolare attenzione. E a sorpresa Mattarella, nel suo discorso, si rivolge proprio a lui: «Anche se lei ci imprestasse il signor Wolf, caro mister Tarantino, risolvere i problemi della crisi economica non sarebbe così facile». Un'uscita inattesa, che suscita sorpresa, divertimento e anche un po' di invidia. Ma anche un ennesimo riconoscimento di quanto Tarantino abbia modificato la storia del cinema con Pulp Fiction e con i suoi film successivi. Nel 1994, quando per la prima volta Pulp Fiction fu presentato nella sala grande del palazzo del cinema al festival di Cannes, la sorpresa era davvero percepibile. Quel pubblico, composto per lo più da critici cinematografici scafati, smaliziati e anche un po' supponenti, aveva seguito le proiezione in un silenzio totale, interrotto da qualche risata, da qualche gridolino di orrore (quando Uma Thruman va in overdose, quando il poliziotto maniaco inizia il suo «divertimento») e da un applauso a scena aperta, quando un John Travolta un po' imbolsito si dimostra ancora ottimo ballerino, ballando con la Thurman sulle note di You Never Can Tell di Chuck Berry. Già stupire un pubblico così era un obiettivo impensabile, e la cosa fu notata. Ma la vera novità che portava Pulp Fiction riguardava due aspetti: la «nuova cinefilia» di Quentin Tarantino e la totale destrutturazione del racconto. Partiamo da quest' ultimo aspetto. Non è un caso se Tarantino è stato l'autore più amato dalla cosiddetta generazione dei «cannibali» letterari, quelli che nel 1996 furono per la prima volta definiti «gioventù cannibale» nell'omonima raccolta curata da Daniele Brolli. Andrea G. Pinketts, ad esempio, fece un'appassionata lettura «tarantiniana» di alcuni fatti di cronaca nera durante un festival di letteratura e cinema a Courmayeur e Aldo Nove ha più volte riconosciuto quanto Tarantino abbia influito sul suo modo di raccontare. Ma il fenomeno, ovviamente, è stato mondiale. Fino a quel momento, in letteratura così come nel cinema, il flashback era considerato uno strumento pericoloso, da maneggiare con grande cautela. La grande considerazione nei confronti di Stanley Kubrick e di Billy Wilder, ad esempio, nasceva anche dal fatto che avevano saputo padroneggiare il flashback, rispettivamente in Rapina a mano armata e Viale del tramonto, e prima di loro Orson Welles aveva sdoganato quell'espediente narrativo in Quarto potere. Ma si trattava di racconti lineari, nei quali il flashback era dichiarato. Invece Tarantino salta avanti e indietro nei tempi della narrazione, apre parentesi, fa pronunciare ai suoi personaggi dialoghi apparentemente senza significato, ma che poi si rivelano decisivi. Usa spregiudicatamente ogni espediente possibile per stupire lo spettatore, per sconvolgerlo, per demolirgli ogni certezza. Sembra dire: oggi per narrare bisogna fare così, bisogna combattere la sensazione del già visto, del «so come andrà a finire». In fondo, la sua è una critica serrata del postmoderno, creata con gli stessi elementi dei questa corrente culturale. E qui veniamo alla concezione tarantiniana della cinefilia. La passione maniacale per il cinema, per tutto il cinema, è un tratto cresciuto in maniera esponenziale nel secondo dopoguerra, prima in Francia con i giovani redattori dei Cahiers du Cinéma e poi in tutto il mondo. Le citazioni, le allusioni, gli ammiccamenti sono diventati un fenomeno costante soprattutto dagli Anni 70 in poi, quando si è diffusa la cultura del remake. Sono innumerevoli i registi che, presentando il loro film, dichiarano di essersi ispirati a questa o a quella pellicola del passato, a quel determinato attore o a quell'attrice. Anche Tarantino non farà mistero di avere delle fonti ben precise: più tardi dirigerà lo stupendo Bastardi senza gloria, remake dichiarato di Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari, e Django Unchained, riprendendo a modo suo la vicenda del Django di Sergio Corbucci. Ecco: a modo suo. Perchè la forza di Tarantino è che in tutti i suoi film il cinefilo può riconoscere allusioni, citazioni, ispirazioni. Però la cosa finisce lì. In Pulp Fiction chi aveva visto La febbre del sabato sera capisce che John Travolta è stato scelto per quella scena proprio perché era il ballerino scatenato di quel film. Ma coloro (sicuramente la maggioranza) che quel lontano film diretto da John Badham non lo conoscono affatto si divertono lo stesso come dei pazzi). E questo è proprio il tratto nuovo che Tarantino conferisce alla storia del cinema: si può e si deve fare riferimento al passato, ma questo va fatto non con nostalgia ma con gli occhi e la sensibilità dell'oggi. Bisogna saper raccontare per un pubblico nuovo, non per vecchi che rimpiangono i bei tempi andati. Bisogna prendere ispirazione, non fare dei calchi. In fin dei conti, 35 anni prima di Pulp Fiction un altro grande innovatore aveva fatto la stessa cosa. In Fino all'ultimo respiro Godard immaginava Belmondo passarsi il pollice sul labbro proprio come faceva Bogart, e aveva dedicato quel film apripista della Nouvelle Vague che fu presentato anch' esso a Cannes alla Monogran Pictures, piccola produzione americana specializzata in b-movies. Il film di Godard segnò una svolta nella storia del cinema, così come Pulp Fiction. Sarà un caso se Tarantino aveva denominato la sua società di produzione A Band Apart, storpiando volutamente il titolo di un film di Godard?

Luca Mastrantonio per “Sette - Corriere della Sera” il 25 giugno 2021. Quando Quentin Tarantino inizia a scrivere la storia di C’era una volta a... Hollywood non sa bene se sarà un film o un romanzo. Charles Manson è vivo, in prigione per il massacro di Cielo Drive nel 1969 a Los Angeles, dove alcuni membri della sua comune, The Family, uccisero Sharon Tate, incinta di Roman Polanski, e alcuni amici. Manson muore nel 2017 e due anni dopo esce il film di Tarantino con Brad Pitt nei panni di Cliff, stuntman e autista di Leonardo DiCaprio, cioè Rick, una star in declino, rilanciata dall’aver sgominato, nella finzione del film, la banda di hippie che puntava la villa di Sharon Tate (Margot Robbie). Ora C’era una volta a Hollywood esce come romanzo (in Italia per La Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi), dove all’immaginazione da cineteca umana e ai dialoghi da funambolo della lingua, noti ai fan, si aggiunge una strategia narrativa da boxeur. Tarantino ha dedicato il libro alla moglie, la modella e cantante israeliana Daniella Pick, e al figlio Leo: «Non è un omaggio a DiCaprio», precisa Tarantino, «ma al nonno materno. Ci piaceva il nome da piccolo leone. Leo è uno degli esseri umani più incantevoli che ho incontrato in vita mia». Il regista, che ha casa anche in Israele, è al telefono dalla California: la voce è chiara, elastica, modula pause e accenti dilatando le parole in maniera espressiva. Nelle risposte va lungo quando si appassiona, corto su ciò che lo imbarazza o annoia. Cliff è un cinefilo onnivoro. E da veterano che ha conosciuto la guerra trova infantili i film di Hollywood e preferisce quelli europei. Ama "Ladri di biciclette" e "Roma città aperta"...

«In Europa, dopo l’orrore e la devastazione, si tornò a fare film per un pubblico più maturo, che aveva attraversato un trauma, mentre in America, dove ai civili erano stati risparmiati gli orrori del fronte interno, si è continuato a fare film leggeri, per la famiglia. In Italia l’esempio migliore è I soliti ignoti: una commedia davvero esilarante, girata in mezzo alle rovine della guerra».

Per Cliff “Riso amaro” è un film sexy, grazie a Silvana Mangano. Qual è per lei l’attrice italiana più affascinante?

«Da ragazzo ho iniziato a guardare al cinema film stranieri con sottotitoli, dalla fine dei Settanta. E rimasi folgorato da Mogliamante con Laura Antonelli e Marcello Mastroianni, ero pazzo di lei, cercai di vedere ogni suo film». 

In “C’era una volta a... Hollywood” lei racconta come gli americani vissero, tra scetticismo e ammirazione, la rivoluzione degli spaghetti western.

«Ci sono tre elementi che mi hanno sempre colpito: l’originalità di un genere re-inventato; la “qualità italiana” che trascende l’ordinario con la grandiosità, la teatralità: e la violenza. Il primo libro che ho letto al riguardo era Italian Western: The Opera of Violence: la violenza veniva messa in scena con un tocco umoristico spietato».

Grandiose anche le musiche. Per “Django Unchained” Ennio Morricone ha partecipato alla colonna sonora. Un certificato di qualità western.

«Per me è meraviglioso essere nella lista dei registi con cui ha collaborato Ennio. Aveva la nomea di un osso duro, ma con me è stato dolce e affettuoso. Lui e sua moglie, per il matrimonio, mi hanno mandato un volume sull’arte italiana: è il pezzo forte del soggiorno». 

Lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni ha detto che era stato invitato ad andare a casa di Sharon Tate la sera del massacro, e che lui e Sergio Leone, che lo avrebbe accompagnato, non ci sono andati per caso.

«Fatico a crederci, a ogni angolo di strada c’è chi dice che quella sera sarebbe dovuto andare lì. Debra Tate, la sorella minore di Sharon, voleva andarci e Sharon le aveva detto: “No, non sono in forma, mi sento un po’ male, fa molto caldo, la gravidanza.... Non venire, mi metto a letto e crollo”. Non c’era nessuna festa, non era stato invitato nessuno. Ma una cena, con amici, persone di casa. Con tutti quelli che a loro dire erano stati invitati e all’ultimo hanno deciso di non presentarsi, non ci sarebbe stato un omicidio ma una festa con decine di persone». 

La prima volta che seppe di Manson?

«Attorno al 1970, ero un ragazzino. Durante il processo sentivo alla tv questo nome in continuazione: Manson, Charles Manson, Charlie Manson, Manson, Manson. Chiesi al mio patrigno “Chi è questo Manson?” e lui “Oh Quentin non serve che tu lo sappia”».

Nel romanzo, rispetto al film, Manson ha più spazio, è umanizzato nei tentativi di avere successo, l’amicizia con Dennis Wilson dei Beach Boys, la frustrazione, le delusioni...

«All’inizio volevo raccontare la storia dal punto di vista di Sharon Tate, ma dovevo studiare bene il personaggio di Manson, l’espressione, il modo in cui parla, e facevo ricerche, ho letto libri, mi sono documentato più di quanto non avessi mai fatto prima. Poi ho accantonato il lavoro: volevo davvero arrivare a conoscere così a fondo quell’uomo? Farlo entrare nella mia vita per poterne scrivere i dialoghi? Poi molte cose nel film le ho tolte».

Manson lo vediamo all’opera nei suoi fallimenti di musicista e nei suoi successi come manipolatore.

«C’è il Charles Manson prima dell’eccidio. Non descrivo l’orco che tutti conosciamo, ma il ragazzo che voleva sfondare come cantante sulla scena rock di Los Angeles. Però era un dilettante su tutta la linea, un assoluto sognatore. Voleva fare quelle cose ma ci fantasticava sopra. Fare il guru per un mucchio di ragazzi più giovani scappati di casa, in realtà, doveva essere un’attività secondaria: e invece diventa la sua identità. Nel libro non lo dipingo come un mostro, lui appare in modo assolutamente umano. Ha le sue stranezze, ma ha quel qualcosa di... onestamente, qualcosa di patetico e quasi affascinante».

Nel romanzo trova più spazio anche il rapporto tra Polanski e Tate. Sa se il regista ha visto il suo film?

«Da quel che ho saputo, non ha intenzione di guardare il film. Ma, da quel che ho sentito, non è particolarmente arrabbiato con me perché l’ho fatto. Anche quando sua moglie ha criticato il successo del film, lui ha precisato che lei non si riferiva al film in sé, ma a quella che a suo avviso era l’ipocrisia della Hollywood che si arricchiva sulla vicenda del marito e allo stesso tempo lo trattava come un reietto: è una buona moglie, ha difeso il marito».

Lei ha dedicato il libro a sua moglie e suo figlio. “Grazie per aver creato una casa felice in cui scrivere”.

«Mia moglie mi ha aiutato ad organizzarmi uno studio, dove vado a scrivere la mattina, dopo aver fatto colazione con lei e Leo. Poi mangiamo, poi il pisolino, a volte assieme. Poi vedo film, esco in bici... Il libro è il primo frutto maturo di questo nuovo ambiente». 

Vede i cartoni animati con suo figlio?

«Ricordo il primo film che abbiamo visto insieme. La settimana scorsa, prima che partissi per l’America. Lui guarda programmi TV per bambini piccoli, per farli cantare con i personaggi, roba da pochi minuti.

Io ero stanco di guardare e riguardare le stesse cose, cerco qualcosa di nuovo e trovo una cosa che credevo fosse un cartone sui Minions, i personaggi di Cattivissimo me, invece era il film, Cattivissimo me 2. Avevo visto l’1, non il 2, e mi dico “Ma dai! Guarderò i titoli di testa con lui finché non perde interesse”.

E invece anche se è un prodotto più elaborato degli altri, intenso, lui si è sparato tutta la prima mezz’ora: è tanto per un bambino di 14 mesi. Scendeva dal divano per andare dai giocattoli e continuava a guardare, da un altro punto della stanza. Camminava intorno al divano e guardava sporgendosi da dietro. Poi, ha smesso, mezz’ora è il limite della sua attenzione, e ho stoppato. Il giorno dopo ho ripreso da dove eravamo arrivati, anzi, un po’ prima; e ancora così il giorno dopo. A puntate».

Lei è stato figlio unico di una ragazza madre. Suo padre, Tony Tarantino, di fatto non l’ha conosciuto.

«Non sono stato cresciuto dalla parte italiana della famiglia. Non mi sentivo dire “i tuoi genitori e i tuoi nonni sono italiani”, anche se qualcosa arrivava dai film. Molti di quelli che frequentavo a Hollywood non sapevano neanche fossi italiano, a parte il cognome, ma una caratteristica che mostra inequivocabilmente la mia italianità è che se un amico mi tradisce, è finita. Nessun ritorno, porta chiusa per sempre». 

Qual è il film preferito di sua moglie?

« Inglourious basterds, perchè ci ha fatti conoscere quando sono andato in Israele a presentarlo». 

Facciamo un salto agli Anni 90: il mondo scopre il suo cinema e la musica dei Nirvana. Nell’album In utero Kurt Cobain omaggia Le iene. Il grunge e il pulp, le ultime rivoluzioni.

«È meraviglioso che gli piacesse il mio film. Credo perché è un film da tour in pullman, il tipico film che, se hai la videocassetta, quando ti sposti da un’esibizione all’altra, da uno stato all’altro, la metti anche solo per rivedere le scene che ti piacciono. Voleva incontrarmi, ma stavo finendo Pulp fiction, ci siamo detti di vederci a lavorazione finita, ma lui non ci è mai arrivato, è morto prima». 

Lei è un grande fan di Bob Dylan, vi siete mai incontrati?

«A metà anni Novanta era il proprietario della palestra di boxe in cui mi allenavo, l’ho conosciuto lì, ogni tanto parlavamo. Un paio di volte abbiamo incrociato i guantoni per allenamento». 

Chi ha vinto?

«Non era un incontro da cui uno dei due sarebbe uscito vincitore, gli facevo da sparring partner. Lui combatteva e io facevo da aiuto, incassavo tutti i suoi pugni e lo colpivo quando abbassava la guardia. Lui doveva colpirmi, io solo quando commetteva qualche errore».

Ha fatto a pugni con un suo mito...

«Non gliel’ho mai detto, che era un mio eroe, che la sua musica era così importante per me. Molto tempo dopo gli ho accennato, en passant, a una sua canzone che adoro, ma prima non una parola sulla sua carriera. Mai. Parlavamo di musica, questo sì, ma non di lui».

Il regista Spike Lee l’ha accusata di spettacolarizzare lo schiavismo, con Django Unchained, per l’uso reiterato della parola “negro”. Lei ha risposto che uno scrittore ha il diritto di dire la verità ma non ha il diritto di dire falsità e gli schiavisti parlavano così. Vietare di usarla a qualcuno perché è bianco, disse lei, è razzismo.

«Da bambino giocavo con i miei pupazzi G.I. Joe, creavo scene di film d’azione. Capitava che mia mamma mi sentisse dire “Ho capito, figlio di puttana” o “Bastardo, fatti sotto!”. Mi chiedeva perché usassi quel linguaggio. E io: “Non sono io mamma, è il personaggio!”». 

Negli Usa dopo l’epoca di Trump è tornato il politicamente corretto.

«In America i decenni vanno per ondate, il vento tira prima qua poi là. Dopo i Settanta sono arrivati gli Ottanta, periodo nero al cinema per il politically correct, la sua timidezza. Ora pare che stiamo attraversando gli Ottanta 2.0 ma la ruota prima o poi gira dall’altra parte, quindi siccome ora abbiamo gli Ottanta 2.0 arriveranno i Novanta 2.0. Nel 2028 saremo stufi di tutto questo, l’onda farà una bella risacca e si tirerà indietro».

Nei suoi film Hitler viene ucciso dagli ebrei, gli schiavisti d’America da un pistolero nero e gli hippies di Manson da un precario di Hollywood. Chi merita il trattamento Tarantino oggi: i fanatici della Silicon Valley?

«Ragiono per trilogie e quella storica è finita. Ora solo progetti di scrittura». 

Oltre a Elmore Leonard, quali scrittori l’hanno influenzata?

«Pauline Kael, la critica del New Yorker. Con la sua scrittura estetica mi ha influenzato nella scrittura e nei film: mi ha insegnato più cose lei sul cinema che qualsiasi altro regista con i suoi film». 

È lei che scritto “Hollywood è il posto dove puoi morire di incoraggiamento” ?

«Sì. La conosce?» 

Solo questa frase, colpisce. Nel documentario QT8 , Michael Madsen, suo attore e amico, racconta di una cena a Cannes in cui eravate con Harvey Weinstein, la moglie e la figlia, che voleva dare la sua bambola a Madsen ma Weinstein gliela strappò via. Si ricorda la scena?

«Sì, è una grande storia, e la parte in cui compare Madsen è la migliore del film. Però non mi ricordo altro».

·        Quincy Jones Jr.

Seth Abramovitch per “Sette - Corriere della Sera” il 13 giugno 2021. Nella villa di Bel Air, le pareti della sala di proiezione narrano la storia della popular music americana: gli album di Frank Sinatra in cornice si susseguono, intervallati alla certificazione di 30 volte disco di platino per Thriller e alla partitura manoscritta di We Are the World. Al centro della stanza, avvolto da una tuta in vellutino nero impreziosita da un motivo a foglie, lui: Quincy Jones Jr., l’uomo che ha reso possibile tutto questo. Si può dire che non vi sia capitolo della musica pop a cui Quincy Jones, 88 anni, non abbia messo mano o non abbia in qualche modo influenzato. Per non parlare delle opere a sua firma candidate a Oscar ed Emmy, inserite in pietre miliari del piccolo e grande schermo, come Il colore viola e la miniserie Radici. A vederlo seduto lì, deliziato da quanto la sorte gli abbia sorriso, sembra quasi che lui stesso non si capaciti di aver vissuto un’esistenza tanto straordinaria. Certamente, ci sono stati intoppi e controversie, e ci sono alcuni argomenti che Jones molto semplicemente non intende affrontare, tra cui le accuse di reati sessuali rivolte a uno dei suoi più leggendari collaboratori, Michael Jackson. Per contro, questo big di Hollywood notoriamente alla mano ha ancora molto da dire su tantissime altre questioni: dalle lezioni apprese in gioventù da colossi del jazz come Billie Holiday e Bird-Charlie Parker, al razzismo spudorato con cui ha dovuto fare i conti, fino all’appuntamento settimanale con Elon Musk per le loro cene tra vicini di casa. 

Cos’ha li, appoggiato sulle ginocchia?

«Eh, delle foto da urlo. Guardi un po’ chi e venuto a trovarmi l’altro giorno». (foto di lui con Paul McCartney...). 

Ma non mi dica.

«Eh sì, siamo amici da quando lui aveva tipo 21 anni»

Come si riconosce un talento?

«Amico mio, e una questione di personalità. Ai miei tempi mi bastava dire “voglio gente che quando canta mi faccia capire chi e dopo 15 secondi”. Perchè i cantanti, quel tipo di identificazione, o ce l’hanno o non ce l’hanno. E io ho lavorato con tutti. Santo cielo, ho lavorato con Billie Holiday a 14 anni». 

Cos’ha imparato da Billie?

«Per l’amor di Dio state alla larga dall’eroina. A malapena riusciva a salire sul palco, mamma mia, faceva persino fatica a camminare, ma Bobby Tucker era come un fratello per me. Alla fine e diventato il suo direttore artistico: quando e uscita, ci ha colto una venerazione tale che ci siamo scordati di suonare i fiati. E lui “cazzo leggete la musica, oh! I fiati!” Avevamo 14 anni. Non so se mi spiego: Billie Holiday». 

Charlie Parker, 1951, appena arrivato a New York.

«Tutto quello che avevo erano 17 dollari... 17 dollari. Abbiamo preso il taxi per andare nei quartieri alti, sulla 138a, e lui mi ha detto: “Sbarbatello, rimediamo un po’ di erba”. E io “dai, andiamo”, ma non era erba quella che voleva lui. Mi ha lasciato fuori al freddo, e sono dovuto tornare a piedi dalla 138a alla 44a, fino all’America Hotel (mentre Parker era dentro a farsi di eroina). Un’amarezza... mi ha spezzato il cuore, era il mio idolo. New York: non c’è scuola migliore, glielo dice uno che ci e rimasto 20 anni. Stessa popolazione di Los Angeles, ma in un decimo dello spazio». 

 Ho come l’impressione che le piaccia stare in mezzo alla gente.

«Non sempre. Nella mia vita non sono mai stato solo, non mi sono mai annoiato, e immagino che sia cosi perchè non ho avuto una madre. La mia e stata internata in un ospedale psichiatrico a Manteno, in Illinois, per demenza precoce (termine usato un tempo per indicare la schizofrenia) quando avevo 7 anni, quindi non ho mai avuto una mamma, e da allora non ho fatto altro che cercare di trovarne una».

E mai stato in terapia?

«Neanche per sogno. Ma una cosa come la demenza precoce e tosta. Gesù, quando e entrata siamo andati a trovarla in quella struttura, a Manteno. La prima volta che siamo andati c’era una tipa, in piedi su una sedia, che teneva in mano una zuppiera piena di feci. L’aveva fatta li dentro e ripeteva a tutti gli altri pazienti: “Non mangerai la torta! Non mangerai la torta!”». 

Sua madre pero ha continuato a metterle i bastoni tra le ruote, lavorativamente parlando. Come quella volta che, con una lettera astiosa, ha minacciato di far causa alla Universal per il suo primo lavoretto a una colonna sonora.

«Mi rompeva le palle, cercava di impedirmi di portare avanti le mie cose, per lei il jazz era roba del demonio. Ma io ero inarrestabile, diamine. Il jazz e stato la mia mamma, su questo non c’è dubbio. Crea una dipendenza assurda, ed e anche rivoluzionario: ha messo insieme tantissime coppie interrazziali».

Le manca quel periodo del jazz?

 «Hai voglia! Si, me lo sono proprio goduto. Ho capito prestissimo perchè Dio ci ha dato due orecchie ma una sola bocca: voleva che ascoltassimo il doppio e parlassimo la meta. Abbiamo queste 12 note che aleggiano per tutto l’universo ormai da 720 anni, e sono le stesse 12 che avevano già Brahms, Bach e Beethoven.

Quando mi sono trasferito a Parigi nel 1957, la mia insegnante era la rinomata teorica della musica Nadia Boulanger e vedevo tutti i giorni Stravinsky. Anche lui studia- va con lei». 

Cos’ha fatto suo del mondo della musica classica?

«Il contrappunto, la struttura, la scienza, l’emisfero sinistro. Quello destro e per i sentimenti, no? Le emozioni. Dobbiamo imparare tutto sulla musica, perchè e il più meraviglioso, il più magico dei doni. Non si può vivere senza musica. Come l’acqua, lo sa? Lei, per esempio, potrebbe vivere senza musica? Io no di certo. Di che segno e?». 

Leone.

«Grande. Io sono Pesci, ascendente Leone e ho la luna in Scorpione. Niente di meglio (ride), sempre arrapato. Povero me, ho avuto anche delle fidanzate Leone, ma quelle non scherzano». 

Ha un astrologo di fiducia?

«Ho studiato con John Glenn. Un giorno mi ha preso da parte e ha deciso di insegnarmi tutto cio che sapeva di astrologia, dal punto di vista di un astronauta». 

Se non sbaglio, lei e Frank Sinatra avete prodotto la prima canzone suonata sulla luna.

«Può dirlo forte! Era Fly Me to the Moon; l’ho registrata con Count Basie in quattro quarti. Inizialmente l’aveva scritta in tre quarti. (canta) “Fly... me to the moon...” Un due tre, un due tre. Ma lo swing non si puo fare in tre quarti. Sinatra mi ha detto: “Mi piace come l’hai fatta con Basie, in quattro quarti. Ti potrebbe interessare lavorarci insieme?”. E io: “Si, tutta la vita!”. Così ho dovuto passare la notte a scrivere quell’arrangiamento, nella mia stanza d’hotel a San Remo. Senza pianoforte, senza niente. Quando Frank l’ha sentita, gli e piaciuta da morire. E io scoppiavo di gioia, era la prima cosa che facevo per lui. Avevo 29 anni. Quelli la ne avevano 50 o 60».

Può spiegarci come funziona un’orchestrazione? Perchè credo che molte persone brancolino nel buio. Bisogna saper suonare tutti quegli strumenti?

«No. Anche se io suonavo praticamente tutti gli ottoni. Suonavo il sassofono, il corno, il corno francese, il trombone, tutto. Perchè suonavo nella banda con le majorette». 

E riesce a crearsi in testa tutta questa sorta di “quadro” musicale?

«Ho la sinestesia»

Cosa l’ha portata a Hollywood alla metà degli anni 60?

«Mi hanno chiamato, nel 1965, per fare Mirage con Gregory Peck, ed e l che mi sono fatto notare. Avevo messo il mio abito preferito, e il produttore era venuto alla Universal per vedermi. Li lui e andato in panico totale: si blocca, poi fa dietrofront e va a dire a Joe Gershenson: “Ma non mi avevi detto che Quincy Jones e un negro”. Non prendevano compositori neri per i film, solo gente dell’Est Europa con nomi di tre sillabe, come Bronislaw Kaper o Dimitri Tiomkin. C’era tanto, ma tanto razzismo. Ricordo che ero alla Universal, camminando nella hall, e ho sentito qualcuno dire: “Guarda li uno shvartze” in Yiddish, e io so cosa significa. E come la parola con la N. E poi Truman Capote... Oh, io ho fatto A sangue freddo. Un giorno lui prende il telefono, chiama il regista Richard Brooks e gli fa: “Richard, io non capisco proprio perchè metti un negro a scrivere la musica di un film dove di gente di colore non ce n’e”. E lui: “Ma vaffanculo, la colonna sonora la fa lui”. Cosi e stato, e sono stato pure nominato all’Oscar». 

Capote le ha chiesto scusa?

«Eh sì, quando mi è arrivata la nomination mi ha richiamato».

Più avanti, ha prodotto Il colore viola. E’ stato lei a scegliere Oprah, vero?

«Esatto, e ho anche messo il suo nome in cartellone. La stanza da basso si chiama “Suite Oprah” o semplicemente “Suite O”. L’ho realizzata per lei, con i suoi colori preferiti e tutto il resto. Abbiamo fatto cose molto belle. Continuavano a dirci che un film di neri non poteva fare piu di 30 milioni. E io rispondevo: “Vedremo, abbiamo un cast grandioso e anche Spielberg. Vedremo.” Abbiamo incassato 143 milioni di dollari». 

Qual era il suo film preferito da ragazzino?

«Tutti! Quelli con Liz Taylor e Judy Garland. Tutte e due si sono rovinate a 12 anni perche hanno chiamato il Dr. Feelgood; ha detto che dava loro delle vitamine, cose cosi, e invece erano dexedrina e benzedrina». 

Ha mai conosciuto Judy Garland?

 «Scherza? Ci ho lavorato insieme al Newport Jazz Festival. Come dimenticarlo! Suonavo nello spettacolo serale con Duke Ellington; lei e uscita e il vento entrava nel microfono, allora Phil Ramone, il tecnico, e arrivato e ci ha messo sopra un preservativo per ripararlo dal vento. E Judy si e messa a fare così. (Mima il gesto di mettersi in bocca il microfono.) Glielo ricordo ogni volta». 

Come ha conosciuto Michael Jackson?

«Lui aveva 12 anni, eravamo a casa di Sammy Davis e quando abbiamo deciso di fare I’m magic mi ha detto: “Ho bisogno che mi aiuti a trovare un producer. Mi sto preparando a fare il mio primo album da solista. Era uno che sapeva il fatto suo, che si trovasse accanto a Fred Astaire e Gene Kelly o che ne so, anche James Brown. In parte copiava anche Elvis: “il re del pop”, signori. Per favore! Ha mai lavorato con Elvis? «Non ho mai voluto lavorare con lui». 

Come mai?

«Stavo scrivendo per il direttore d’orchestra Tommy Dorse: Anni 50. A un certo punto entra Elvis e Tommy fa: “Non voglio suonare con lui”. Era un razzista figlio di... mi tappo la bocca».

Quante lingue parla?

«Ventisei. Ne scrivo sette. Parlo serbo-croato, turco... Scrivo in arabo». 

Qual e il suo metodo?

«Ma dai, chi sono le migliori insegnanti per le lingue? Devo dirglielo io?»

Le donne?

«Che mi venga un colpo, si! Nel 2008 ho prodotto le Olimpiadi di Pechino, era l’8 agosto 2008. Si ricorda che luci? E le percussioni! Una delle mie fidanzate una volta era sposata con uno di sangue blu la del posto. (Si zittisce.) No, meglio di no, questa e un’altra cosa che non voglio... un gran casino».

Mi sembra di capire che non le piaccia la piega che hanno preso alcune delle interviste che ha fatto.

 «Le mie figlie mi hanno rimesso in riga. Oh, mi chiamavano QJBL, “Quincy Jones dalla bocca larga”. Mi hanno dato proprio una bella strigliata». 

Lei come amava spostarsi?

«In aereo. Quando ero alla Warner Bros. avevo sei G5, bello mio, e due elicotteri Sikorsky S-76. Quando gli fai fare 300 milioni di dollari (e io gliene ho fatti fare 400) ottieni tutto quello che vuoi: le ville ad Acapulco e anche ad Aspen». 

Quante case ha?

 «Una. Non mi serve altro».

E ancora felice qui a Bel Air?

«Non c’è posto al mondo che preferirei. Quando guardo fuori, vedo Rupert Murdoch che vive sulla collina di fronte».

Non abitava qui vicino anche Elon Musk?

«Proprio qui accanto. Se scende in macchina, c’e una casa proprio qui all’angolo: lui ha vissuto li 10 anni, e due o tre volte alla settimana andavamo a cena da lui insieme a Sergey Brin, Mark Zuckerberg, tutta quella ciurma. Tutti quanti». 

L’ha visto di recente, quando e stato al Saturday Night Live?

«Si, ha fatto bene ad andare. Che cazzo, ha fatto vedere che ha il senso dell’umorismo. Non da sbellicarsi, ma e stato spiritoso, quantomeno ci ha provato». 

Visto che la prima canzone arrivata sulla luna e sua, ora deve fare anche la prima su Marte. «Lassù non ci vado. Richard Branson, Paul Allen ed Elon stanno cercando di convincermi ad andarci. Dicono: “Agli altri costa 250.000 dollari, per te e gratis”. Come no. Ma l’ha visto quell’affare quando decolla?» 

Ha compiuto da poco 88 anni: come si sente?

«Come se ne avessi 37. Ho perso 28 chili. Passavo molto tempo in Brasile, e non facevo altro che bermi vodka e succo di acai, ma poi ho chiuso con l’alcol e sono sceso da 110 a 79 chili. E’ ovvio che qui sto rimettendo su qualcosina. Non va bene». 

Parliamo della sua terza moglie, Peggy Lipton (con cui e stato sposato dal 1974 al 1989, scomparsa a 72 anni nel 2019).

«Siamo stati insieme 12 ore, con le nostre figlie Rashida e Kidada, e il giorno dopo le hanno fatto l’iniezione. Aveva un tumore al colon, terribile. Un vuoto grande, grande... immenso, era una donna splendida. Seria. Siamo stati bene insieme».

Cos’ha pensato del movimento di protesta per George Floyd l’estate scorsa?

«E una cosa che parte da molto lontano, caro mio. Anche se si sono tutti voltati dall’altra parte, per me e sempre la stessa cosa: la misoginia, il razzismo... A odiare deve insegnarti qualcuno, non penso che sia una cosa spontanea, proprio no, a meno che non ti alleni, e ritengo che sia una pessima abitudine. Questi razzisti, madonna mia. Prendiamo gli asiatici: come diavolo si fa a prendersela con una ragazzina asiatica?» 

Cos’ha in serbo per il futuro?

«Voglio fare un libro sulla mia vecchiaia, sono stufo di vedere tutte quelle inesattezze e imprecisioni nelle informazioni che trovo su Internet. Mi manda fuori di testa, perchè quando arrivi a 88 anni ci pensi, no? Quando il gioco si fa grosso, si prendono tutti il merito; se finisce in un macello, ti ritrovi lì da solo».

Dario Salvatori per Dagospia il 14 giugno 2021. Sull’ultimo numero di “7” compare una sapida intervista a Quincy Jones. Come dire la storia della musica afro-americana degli ultimi cent’anni. Jones, 88 anni, intervistato da Seth Abramovich, parla di tutto: la sua casa a Bel Air, i suoi sette figli, le ventisei lingue parlate correttamente e i mille artisti che ha incontrato, a volte producendoli, a volte arrangiando il loro repertorio: Charlie Parker, Ray Charles, Judy Garland, Billie Holiday, Michael Jackson, Miles Davis, Frank Sinatra e tantissimi altri. Ad un certo punto l’intervistatore si accorge che nel lungo elenco manca Elvis e dunque chiede il perché di questa assenza. “Elvis?  -  risponde The Dude  -  non ho mai voluto lavorare con lui. Era un razzista.”  Ora, dare del razzista ad Elvis è come sostenere che Fred Astaire fosse goffo. Come ben sanno le svariate centinaia di milioni  di fans sparsi in tutto il mondo, il suo successo si basava principalmente sullo straordinario talento e sui suoi particolari gusti musicali. Imparò a “dividere” (quello che da noi si chiama solfeggio), cantando in chiesa la domenica con la mamma fin da bambino. Il repertorio era a base di gospel e di spiritual, ideali per aprire bene la bocca e tenere la nota. Il blues si rivelò formativo fin dall’inizio. Quando debuttò, nel 1954, incise la sua prima canzone, “That’s  all right mama” prelevandola dal repertorio di Arthur Crudup, un bluesman nero non così popolare e di nuovo omaggiato riprendendo la sua “My baby left me”. Incise “See see rider”, perché amava la versione di Big Bill Broonzy. Durante le base di registrazione, per tenere calda la voce, intonava blues come “That’s when your heartaches begin”  degli Ink Spot, il tradizionale “Jooshua fit the battle”, piuttosto “Peace  in the valley” e tutti si stupivano come potesse ricordare a memoria testi così lunghi, sempre con la tonalità giusta. Quando tornò a cantare nel 1968 per lo show della Nbc dopo otto anni che non saliva su un palcoscenico, ricordò “Reconsider baby” del bluesman Lowell Fulsom e “Such a night” dei Drifters. Elvis aveva una cultura enciclopedica su gospel e spiritual e lo dimostrò nei numerosi album dedicati a questi generi. Per non parlare del suo rapporto con i grandi afro-americani. Fats Domino, che cantava rock and roll prima che si chiamasse in questo modo (a New Orleans era indicato come Big Beat), pavoneggiandosi con i suoi anelli, disse: “Vedete questo grosso brillante? E’ come se me lo avesse regalato Elvis incidendo i miei brani e vendendo milioni di dischi.”.

·        Rae Lil Black.

Barbara Costa per Dagospia il 12 settembre 2021. Il razzismo del caz*o giallo! Sapete cos’è? È quella legge non scritta per cui le pornostar giapponesi che sc*pano con attori non nipponici, non sc*pano i colleghi connazionali, sprezzandoli. Ma non è vero, non è così, o forse un po’ ma in maniera diversa, e comunque, scusate se devio il discorso, ma… cosa avete porno-fatto ultimamente? Su chi ha tappato il vostro dito? Per caso sui video di questa giapponesina qui? Il c*lo il più maestoso del Sol Levante oggi è il suo, quello di Rae Lil Black, 25enne di Osaka, in salita su Pornhub e siti affini. Rae è tra le attrici più cercate, e infatti: dove trovare un corpo più capace di espandere i confini del sé, inondante i sensi di energia sessuale? Non fate gli gnorri, tanti tra voi la scelgono come amica di oniriche fantasie estreme, se è vero che i video più visti di Rae sono quelli a gola profonda, con quei peni che la bocca di Rae sembrano distruggerla, ma poi sono quei peni a battere in ritirata, svuotati di sperma e furore. Rae Lil Black è nel porno dal 2018 e, come di prassi, ha iniziato aprendo un suo account su Pornhub. Ed è palese: nei suoi primi lavori il suo corpo non era come si vede – e ammira – adesso: ci ha messo mani il chirurgo su naso, viso ma soprattutto su quei seni, rifatti deliziosamente. Rae è passata al porno professionale prima in Europa e poi negli Stati Uniti. E però, lavora anche nel JAV, nei Japan Adult Video tanto diversi da quelli occidentali per tematiche e contenuti, per metodo e profitti (girano più soldi, le paghe sono mooolto più alte). L’uso di pixel risponde a leggi precise, come risponde a cultura millenaria la realizzazione di pornografie a noi eccentriche. In passato le attrici giapponesi che giravano porno in patria non lo giravano con attori occidentali, perché, qualora l’avessero fatto, avrebbero ritrovato sbarrati i set nazionali. Passavano per "pornograficamente contaminate" e non è esagerato dire che finivano in una black list. Un pregiudizio pressoché scomparso, sebbene la stessa Rae Lil Black ne attenui l’estinzione. Lei vive a cavallo tra due mondi – Tokyo e Los Angeles – e quindi ha patenti per spiegare che l’idea occidentale di un Giappone di sesso emancipato, è fuorviante: “Io sono nata a Osaka”, dice Rae, “e so com’è la mentalità fuori dalle metropoli: qui non vedono di buon occhio le ragazze come me, con piercing e tatuaggi e con una sessualità fluida (Rae è bisex) non riflettente coppia e famiglia composta da uomo e donna eteri”. Se parte del Giappone la pensa così, è per colpa dell’Occidente: “In passato, il sesso non etero non era stigmatizzato”. Un estraneo senso del peccato è stato a forza fatto penetrare dopo la Seconda Guerra Mondiale: una assimilazione indigesta, creante pudori inediti. Se prima di rado le pornostar nipponiche passavano al porno estero, oggi Rae Lil Black disinvoltamente coniuga in sé più di una cultura porno: lei gira porno euro-americano ma pure di sesso violento propriamente giapponese, come pure numeri bondage, nella loro inclinazione shibari, e in qualità kinbaku, pregni di tensione e sfida emotiva e erotica tra chi lega e chi è legato. Il vero nome di Rae Lil Black è Akiko, e lei ha vissuto coi suoi genitori fino all’età di 8 anni, quando i suoi sono stati entrambi uccisi dalla yakusa, la mafia giapponese. Akiko è stata adottata da una coppia di americani, Joseph e Alice Cooper, insegnanti di stanza in Giappone. In seguito sono rientrati a Los Angeles, dove la futura Rae Lil Black ha proseguito gli studi, laureandosi in Scienze Politiche. È solo dopo la laurea – e dopo un viaggio in Germania, appresso ai concerti delle band heavy metal che adora – che ha iniziato col porno. Se in Rae c’è già chi profeta la nuova Asa Akira, è fin troppo presto per dire chi questa appetitosissima ragazza diverrà (ma non un mito assoluto come Asa Akira! come pornograficamente si cucina e divora i corpi Asa… nessuna mai). Nel frattempo Rae piace, eccome: il video girato con la coppia top amatorial dei LeoLulu, in pochi giorni ha raggiunto 12 milioni di views, e non si ferma! Rae Lil Black mette le mani avanti e dice che il suo futuro è la musica, la sua rock-band, con lei da leader-batterista. Diciamola tutta: il guaio di Rae sono i suoi genitori: non sanno ciò che lei fa! Rae ha sempre vissuto a casa coi suoi, dicendo loro che lavorava vendendo sul web abiti personalizzati. Ora Rae vive a Tokyo, sì, ma fino a pochi mesi fa, la stanza dove mugolava e si esibiva nuda su OnlyFans, era la camera accanto a quella di mamma e papà.

·        Rajae Bezzaz.

"Sono una musulmana ribelle. E gli italiani non sono razzisti". Massimo M. Veronese il 30 Novembre 2021 su Il Giornale. L'inviata di Striscia: "Sono un ponte tra due culture che amo La libertà? È sacra. I diritti delle donne non hanno confini". È un'eroina dei due mondi come Anita Garibaldi e presidia un confine minato dal pregiudizio con l'arma del sorriso, che ha bellissimo, sicura di sminare con il tempo diffidenze dure a morire. Si dice «portatrice sana di integrazione» e a Striscia la notizia lavora su immigrazione e diritti delle donne. Spesso rischia. Ha scritto L'araba felice. La vita svelata di una musulmana poco ortodossa e spiega: «In bilico tra due mondi mi sento una contraddizione che cammina». Ma ha fiducia nel futuro. Il suo nome del resto, Rajae, significa «speranza».

Rajae, lei dice di essere stata una bambina sorridente, curiosa, chiacchierona e ribelle. Praticamente come adesso...

«Difendevo i più deboli già dall'asilo: l'indole battagliera è vocazione naturale e un'eredità di famiglia».

Le donne della sua famiglia, a cui ha dedicato il libro, sono così?

«Ognuna di loro ha dovuto lottare duramente per costruirsi un futuro».

A partire da nonna Rkia...

«Si è sposata a 12 anni, non è andata a scuola, ha messo al mondo nove figli. Poi a 40 anni ha imparato a leggere e scrivere e fondato un atelier di moda. Si è fatta da sola in famiglia e sul lavoro. Quando racconto che si è sposata a 12 anni mi dicono siete dei barbari, ma la cosa va contestualizzata nell'epoca di mia nonna. Oggi è un abuso, ieri era la salvezza di una donna: consegnarla a una famiglia che poteva garantire il futuro era un atto d'amore».

E il nonno?

«Nonno Ahmed era un gigante buono che si spaccava la schiena in miniera ogni giorno, il vero femminista della famiglia. Da piccola mi metteva sul tavolo e mi faceva recitare poesie, mi faceva sentire una superstar. La sua scomparsa è stata il dolore più grande della mia vita».

È vero che sua mamma lavorava per la Digos?

«Aveva studiato per diventare insegnante, ma ha fatto di tutto per darci e darsi una vita migliore: lavapiatti, donna di servizio, traduttrice in tribunale. A Lucca fu ingaggiata da Digos e Interpol per tradurre intercettazioni in inchieste su spaccio di droga e tratta di ragazze africane. Fu anche minacciata da uno squilibrato che aveva fatto arrestare».

Da sei anni inviata di Striscia. Si ricorda il primo servizio?

«In Campania, su una cooperativa che lucrava sugli immigrati e li costringeva a vivere in condizioni disumane. Finì a botte, a colpi di bastone: per me uno choc, ma anche uno scoop ripreso dal Guardian».

Le ha prese più lei o Brumotti?

«Molte di più Brumotti. Con me il più delle volte mostrano il pugno».

E a insulti come andiamo?

«Gli italiani mi accusano di difendere gli immigrati, gli immigrati mi attaccano perché dicono che mi sono venduta. Da Striscia ho imparato che finché gli insulti arrivano da tutte e due le parti vuol dire che andiamo bene. Ci sono però anche molte donne arabe che mi dicono: sei il nostro orgoglio, dici al mondo che non siamo solo burqa e casa».

Quando se l'è vista brutta?

«A Roma, l'anno scorso, siamo stati accerchiati durante il servizio su un uomo che non pagava l'affitto, approfittando del blocco degli sfratti. Arrivarono questi uomini con la rabbia e la cattiveria negli occhi. Mi son detta: stavolta mi spaccano la faccia».

E lei cosa ha fatto?

«Ho pensato: facciano pure. Io sono qui per difendere i diritti di una persona che ci ha chiamato perché si fida di noi, non posso tradirla. Se mi rompono il naso me lo rifaccio».

È vero che mamma voleva che diventasse assistente sociale?

«A lei piaceva aiutare il prossimo e mi diceva: tu sei altruista come me, è il lavoro perfetto per te. Da piccolina invece adoravo fare belli gli altri, mi divertivo soprattutto a truccare mio nonno: diceva che ero la sua piccola estetista. Anche fare il magistrato però mi stuzzicava tanto».

E invece?

«Ho fatto di tutto. Ho venduto bulloni, gelati, alcolici, sono stata hostess nelle fiere, promoter di sigarette, segnavo i punti nei tornei di biliardo. Non esattamente quello che predica il Profeta...».

Ha dichiarato che «niente è più importante della libertà».

«Perché a me è costata cara: me ne sono andata di casa a 15 anni, mi sono pagata la scuola, so cosa vuol dire non avere soldi per mangiare, dover pagare l'affitto ogni mese. La vera realizzazione passa dall'emancipazione, l'indipendenza economica è la base per ogni donna. Ecco perché per me la libertà è tutto».

È vero che doveva sposare un rampollo di sangue blu?

«Si chiamava Karim, aveva 25 anni, famiglia imparentata con la Casa Reale marocchina: mi mostrarono anche dove avrebbero costruito la villa per noi giovani sposi, sua madre mi trovava perfetta per lui. Ma lui non lo era per me».

Lei dice: sono molto più brava come amica che come fidanzata.

«Però sto migliorando nei rapporti con l'altro sesso. Il dovermi emancipare così giovane mi ha portato ad essere un po' diffidente nei confronti degli uomini. Un mio ex mi disse: sembra sempre che qualcuno ti voglia rubare la libertà. Aveva ragione. Ho lottato così tanto per conquistarla che ho sempre paura di perderla».

Meglio la poligamia araba o il poliamore occidentale?

«Sono due cose diverse. La poligamia nel mondo islamico nasce per tutelare donne e figli che senza un contratto perderebbero diritti e eredità e non è vista tanto di buon occhio. Per il resto ognuno è giusto che viva i suoi sentimenti come meglio crede e con chi crede. La monogamia però oggi è molto complicata: se non si riesce ad essere presente al proprio partner meglio essere poligami e felici, purché siano tutti d'accordo. E vale anche per le donne».

MeToo: è capitato anche a lei di ricevere molestie?

«Hai voglia. Sono entrata nel mondo dello spettacolo adolescente e ho incontrato anch'io gente senza scrupoli, ma mi sono sempre difesa bene. Succede e succederà ancora».

Però?

«Viviamo in una società dove l'uomo sembra diventato il mostro, ma io sono una femminista che ama gli uomini e combatto per i diritti delle donne senza negare la differenza di genere. Dovremmo chiedere agli uomini gli stessi diritti, non cancellarli dal mondo. Le battaglie si combattono insieme».

Non trova che il femminismo occidentale sia meno attento alla condizione femminile nel mondo islamico? Come in Afghanistan.

«Le donne afghane sono la priorità del mondo. Quando le incontro qui in Italia piangono tra le mie braccia: non ho bisogno di andare in Afghanistan per capire le donne afghane, non ho bisogno dei talebani sotto casa per combattere i talebani. Mi è capitato comunque, da araba, di combattere battaglie da sola per le donne occidentali senza avere le donne occidentali al mio fianco».

Chi amava da ragazzina?

«Barack Obama. Ma anche Nick Carter, il biondino dei Backstreet Boys, quello con la riga in mezzo ai capelli, non mi dispiaceva affatto...»

Che donne ha ammirato?

«Madonna. Donna forte, rivoluzionaria e trasgressiva. E Madre Teresa di Calcutta: da anziana mi vedo un po' come lei».

Perché, cosa vuol fare da grande?

«Costruire una casa che raccolga tutti i bambini che non hanno i genitori e diventare la loro Big mama».

Lei dice che il miglior modo di vivere questo mondo globalizzato è mescolarsi

«Sono berbera e araba al cento per cento, ma quando vado all'estero mi scambiano per un'italiana».

Allora vediamo se è vero: questa è la patria del Chianti e del Prosecco ma lei non beve...

«Sono musulmana, non bigotta: ho assaggiato dei rossi meravigliosi. L'alcol, lo abbiamo inventato noi arabi ma voi lo avete perfezionato alla grande. Io però di solito mi butto sul the: the verde, the alla menta, the al gelsomino...».

Questa è la patria del San Daniele e del Prosciutto di Parma, ma lei non mangia carne di maiale.

«Vero. Ma il maiale per noi è haram, peccato. Da piccolina a Catanzaro me lo davano a scuola. Io lo incartavo in un tovagliolo e lo davo al cane sfigatissimo del vicino».

E sulla moda come siamo messi?

«Sono super fashionista e stravedo per tacchi e tailleur. Quando vado all'estero mi rendo conto di quanto sono fortunata a vivere in Italia, nella patria dell'eleganza. Mi sento io stessa portavoce della moda italiana nel mondo».

Qualche parola in dialetto la sa?

«Conosco quelli siculi. Ma nel mio intercalare dico spesso sócc'mel. Figlio dei miei anni bolognesi».

Okay, promossa. Lei ha la cittadinanza onoraria di un paesino brianzolo ma non quella italiana.

«Di Ceriano Laghetto, paesino leghista, per un servizio fatto per Striscia sul boschetto della droga. Ho spiegato al vice sindaco Cattaneo: guardi che non ho la cittadinanza italiana. Mi ha risposto: embè? La gratitudine non ha confini».

Assurdo però...

«Vivo qui da quando avevo 9 anni, sono libera professionista da 11, pago le tasse. Non ha senso che chi contribuisce alla crescita economica e culturale del Paese venga considerato straniero».

Cosa vuol dire essere italiana?

«Non sono italiana di nascita ma amo l'Italia come se fosse la mia Patria e sono pronta a difenderla contro chiunque. Non riuscirei a vivere in un Paese senza sentirlo mio».

E in cosa si sente musulmana?

«I miei valori sono figli della religione islamica e della cultura araba, io oggi li vivo in maniera totale anche se moderna. Recito le mie preghiere ovunque e osservo il digiuno anche se devo lavorare».

Islamica e occidentale: più che una regola lei è un'eccezione.

«Ma le eccezioni si moltiplicheranno fino a diventare regola».

È più libertà la minigonna o il velo islamico?

«Sono due libertà. Ma se sono imposte sono entrambe un abuso».

Meglio le Veline o le Velate?

«A Striscia la notizia ho tutto, le Veline e le velate».

Mi dica qualcosa di cattivo su Antonio Ricci, tanto mica ci sente

«E come faccio? Non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi dato l'occasione di fare quello che amo. Dice: la satira è la mia religione e voi la offendete se non mi permettete di ridere e scherzare su tutto. È la sua religione ed è la nostra che lavoriamo con lui».

In Italia sono più quelli che non vogliono integrarsi o più quelli che non vogliono integrare?

«Metà e metà. In ogni caso quando vado in Marocco mi vedono come un'emigrata, quanto torno in Italia come un'immigrata».

Come si fa a integrarsi, a mescolarsi quando le persone hanno la testa persa nel cellulare?

«Le persone non si guardano più negli occhi, leggono la realtà attraverso lo smartphone, non apprezzano più le differenze. Dobbiamo disintossicarci, smettere di vivere realtà distorte scritte da altri».

Più coraggioso dirsi musulmani o ridere dei musulmani?

«Io faccio tutte e due le cose. A scherzare sull'islam però ci vuole coraggio: molti musulmani vedono la religione come qualcosa di intoccabile su cui non si può fare ironia. Se imparassimo a sorridere, a prenderci un po' più alla leggera riusciremmo a spiegare meglio l'islam e la sua bellezza. L'ironia aiuta sempre a farti accettare idee diverse dalla tua».

L'italiano è razzista?

«Penso che in questo momento sia in difficoltà, bombardato da fake news e rappresentato in politica da persone che non gli somigliano. Ma l'italiano non è razzista, non è nella sua natura, che è bellissima».

Presepi e crocifissi offendono veramente i musulmani?

«Assolutamente no. Sono polemiche create ad arte per renderci antipatici. Io da musulmana amo le chiese e l'arte sacra. Quello che offende i musulmani è usarli per fini politici».

E lei cosa fa a Natale?

«Mi imbuco in casa dei miei amici italiani perché c'è quel clima di famiglia che amo tanto. Simpatizzo per il Natale: non lo festeggiamo, ma i regali ci piacciono tanto. Viva Gesù».

Massimo M. Veronese. Pioniere della radio privata in Italia ha lavorato per Gente, Retequattro e Raitre prima di essere assunto al Giornale da Indro Montanelli. Ha scritto libri per Mondadori, Feltrinelli e Mursia. Solo negli ultimi anni ha curato gli inserti sui 40 anni e sui 45 anni del Giornale, sul Muro di Berlino e sullo Sbarco sulla Luna, la collana Firme Fuori dal coro, da Gianni Brera a Jorge Luis Borges, e l’antologia «Te lo do io il ’68 ». Ha contribuito alla realizzazione del film «Indro, l’uomo che scriveva sull’acqua», il suo ultimo libro «Senti chi parla» (Anniversary book) è stato presentato al Festival del cinema di Venezia e all’IIC di Los Angeles.   

·        Raffaella Carrà.

Natalia Aspesi per "la Repubblica" il 19 gennaio 2021. Carramba che sorpresa! Da dove viene questo nuovo film vintage, d' altri tempi, un musical autarchico che non ricorda certo La la land ma piuttosto i nostri musicarelli anni 70, terrificante forse per i cinefili, ma ottimo in tempi di pandemia e casino governativo per chi, soprattutto se anziano, sta invano aspettando il vaccino e non regge più la concitazione senza fine della politica. Basta, riposiamoci con Ballo ballo, film spagnolo dal più vivace titolo originale Explota Explota ("Esplodi esplodi", in inglese My heart goes boom!), di Nacho Álvarez, regista ispano- uruguaiano, coraggioso nell' affrontare un film così sempliciotto da farne una rarità culturale ma anche uno degli elementi consolatori e si spera anche calmanti della noiosissima attuale rabbia generale. Già il titolo italiano a noi deve ricordare qualcosa, qualcuno, una nostra celebrità che più passa il tempo più ci procura nostalgia: Raffaella Carrà! Lei purtroppo non c' è, se non un nanosecondo alla fine, che vestita di rosso sbuca sorridendo sullo schermo e ci saluta. Ma il film si regge quasi esclusivamente sulle sue canzoni, tredici famosissime nel mondo, dischi platino e d' oro a decine, compresa appunto Ballo ballo, e poi Tuca Tuca e A far l' amore comincia tu etc. Però si smorzi subito l' entusiasmo, purtroppo non le canta e non le balla lei, l' incancellabile ragazza dalla frangetta bionda. Ma attori spagnoli a me sconosciuti che recitano, ballano e cantano e nella versione nostrana con gli attori spagnoli che ballano e attori italiani che recitano e cantano, un paio però a loro volta doppiati da nostri cantanti: io non sono del ramo quindi non conosco nessuno, però il groviglio risulta piacevole, con belle voci dei tempi in cui a Sanremo bisognava cantare e non bastava borbottare. Trama del film: Maria, fanciulla in lacrime e abito da sposa, si precipita giù dalle scale di Trinità dei Monti va in aeroporto e prende un aereo per Madrid: trattandosi di tentato musical, subito passeggeri e hostess ballano e cantano e fanno capriole tra i sedili. Non faccio lo spoiler della storia anche se è del tutto ovvia, simile a milioni di Telenovele e Harmony e Rosa come, pur se collocato in altro secolo, all' attuale serie Bridgerton di successo esponenziale. Ma insomma di equivoco in equivoco si scopre che lei sin dalle suore voleva fare la ballerina e c' è di mezzo il giovanotto Pablo, meravigliosamente sbarbato e con occhi celesti come nella pubblicità degli antirughe per giovanotti. Continuando tutti quanti a spalancare gli occhi per un imprecisato stupore, li troviamo in uno studio televisivo madrileno e qui viene fuori che non si tratta solo di musical ma anche di denuncia politica. Almeno così dichiara il regista, innamorato di Raffaella sin dalla culla: siamo nel 1973, quando è appena iniziata la passione della Spagna per la nostra diva e intanto il dittatore Franco ci sta mettendo molto a tirare le cuoia (2 anni dopo). Le trasmissioni in bianco e nero non sono ancora in diretta, quindi il responsabile della censura, non richiesto (cioè il franchismo non c' entra?), interviene nei varietà misurando la lunghezza delle gonne, aggiungendo un enorme fiore sulle scollature, e tagliando le mosse delle ballerine (dei ballerini no!, scelta del regista) "perché la Spagna è l' ultimo bastione della cristianità contro la carnalità e il libertinaggio". E noi a ridere mentre Raffaella Carrà, che era ed è davvero l' idolo della tv spagnola (e della nostra ovvio), ha sempre ricordato che dittatura o no, non aveva mai subito una censura, mentre in Italia negli stessi anni, chi c' era se lo ricorda, il suo ombelico intravisto a Canzonissima , ("Ma che musica maestro!") suscitò la massima riprovazione vaticana e l' intervento censorio dei governi d' epoca (14 negli anni '72-'83, 12 democristiani e gli altri due quasi, non stiamo a lamentarci adesso) a cui quel corpicino giovane che si agitava sinuoso pareva pericoloso più dei primi femminismi e solo un po' meno della rivolta studentesca prima delle sua drammatiche derive. Raffaella era, è, semplicemente brava come si doveva essere allora, è stata l' erede dei nostri grandi varietà teatrali anteguerra, novella Osiris ma più brava, entrambe mitizzate dalla comunità omosessuale clandestina allora e oggi riconosciuta. Al World Pride di Madrid del 2017 è stata eletta icona gay mondiale. Re Felipe deve avere avuto un sussulto e nell' ottobre del 2018 le ha conferito una onorificenza molto importante, quella della Dama dell' Ordine al Merito Civile. In Italia una valanga di Telegatti e altri premi, ma se non sbaglio e si sbagliano i responsabili, nessuna onorificenza istituzionale. Tra i tanti anche se modesti meriti, Ballo ballo, primo tra tutti il ricordare quanto sia meraviglioso essere contenti, allegri e anche un po' intelligentemente scemi, quello di trasmettere la nostalgia per una televisione che pur terrorizzata dal corpo delle donne cioè dal peccato e dalla sovversione, e come sempre governativa, consentiva l' intelligenza, la cultura, la bellezza anche nel varietà, oggi pericoli cancellati dai game, dai reality, dai talent e dalla invasione ingiustificata della politica.

Ilaria Ravarino per "il Messaggero" il 19 gennaio 2021. «Raffaella Carrà è stata per il mondo latino quel che gli Abba sono stati per il nord Europa. Solo che gli Abba erano quattro, lei una sola». Quando Nacho Álvarez nomina Carrà suo mito da quando, da bambino, la vide sulla Rai captata dalla parabola a Montevideo - è chiaro che a parlare, prima che il regista, è il fan. Del resto, per firmare un film come Ballo Ballo - su Amazon dal 25 gennaio, dopo un passaggio ai festival di San Sebastian e Torino serviva una passione al limite della devozione per l' italiana più famosa nel mondo ispano-americano. Ispirato alla carriera di Carrà, e animato da 13 delle sue canzoni (da Ballo Ballo a Tanti Auguri, e Tuca Tuca) il film d' esordio di Alvarez classe 1986, uruguaiano con nonno spagnolo - si ambienta a Madrid a fine anni Settanta, quando in televisione regnava l' ottusa censura franchista e il massimo dell' ambizione per le ragazze era trovare un marito che le sposasse. In questa cornice si muove la storia di Amparo (Verónica Echegui) e Maria (Ingrid García-Jonsson), ballerina arruolata nel corpo di ballo della seducente Rosa, sorta di Carrà mora che scandalizza i censori, fra cui il padre dell' innamorato della ragazza. Una trama semplice per un musical «tra la fiaba e il cartone animato», ispirato al film Mamma Mia! ma costato venti volte meno (52 milioni il film con le canzoni degli Abba, 3 milioni quello di Alvarez), anche grazie al cospicuo risparmio sui diritti delle canzoni: «Abbiamo preso tutte le hit firmate da Gianni Boncompagni ma le abbiamo fatte ricantare dalle attrici. Mancando la voce di Carrà, abbiamo potuto pagare di meno. Per fortuna Raffaella è stata molto soddisfatta del risultato». La versione italiana sarà l' unica ad avere i testi tradotti (a cantare sono le doppiatrici Renata Fusco e Domitilla D' Amico), mentre gli altri paesi ascolteranno le canzoni in spagnolo: «I successi di Raffaella non sono facili da cantare ha spiegato García-Jonsson li puoi urlare ai party quando sei ubriaco, ma cantarle è un' altra storia: Carrà ha una voce forte, rock, canta velocemente e con un tono alto. Ho dovuto esercitarmi a lungo». Quanto a Carrà, che nel film compare in un rapido cameo (l' ultima volta al cinema era stata nel 1980, in Barbara di Gino Landi), il film non sarebbe potuto nascere senza il suo consenso. «Non ho mai pensato di fare un film sulla sua vita, perché sapevo che non avrebbe accettato spiega Alvarez quando l' ho incontrata, nella sua casa a Roma, mi ha detto di aver rifiutato una proposta di Netflix per una serie biografica. Del mio film le piaceva il fatto che un ragazzo giovane come me fosse interessato alle sue canzoni. E che il mio riferimento fosse Mamma Mia!, un film che lei adora». L'incontro con Carrà, ottenuto solo dopo aver scritto la sceneggiatura, è un film a parte, una sorta di scambio di ostaggi ottenuto con la complicità dei co-produttori (insieme a Rai Cinema) della Indigo Film, gli stessi di Paolo Sorrentino. «Raffaella non rispondeva alle nostre richieste e non sapevamo come fare. Poi un giorno il team della sua trasmissione (A raccontare comincia tu, ndr) ha scritto alla Indigo perché Raffaella voleva intervistare Paolo. E così hanno offerto Sorrentino in cambio di un incontro con me». Letta la trama del film, Carrà non ha voluto interferire. Una sola richiesta: «Mi ha pregato di non stravolgerle le canzoni come ha fatto Paolo ne La grande bellezza».

GLI SHOW. Ma c' è lo zampino di Carrà anche nelle coreografie il celebre colpo di testa, le mosse del Tuca Tuca che inizialmente ricalcavano quelle degli show spagnoli anni Settanta: «Ma a lei non piacevano. Mi ha detto: perché non copi le mie? Io mi ero trattenuto perché temevo di dover pagare i diritti. Col suo consenso abbiamo cambiato in corsa». Il risultato è un film leggero, gioioso e pop, un tributo scanzonato alla regina di una televisione che non c' è più: «In Spagna abbiamo un' ossessione per lei racconta Echegui, presto anche nella serie Amazon 3 Caminos, con Andrea Bosca io la guardavo quando faceva Ciao Raffaella. Sensuale, erotica, libera e senza filtri. Ma non era una Cicciolina: era pura, esplosiva avanguardia». Per Alvarez, che intanto già pensa a un Ballo Ballo 2, nessuno può superarne il mito: «Se Raffaella fosse nata negli Stati Uniti, oggi sarebbe una superstar. Come lei, forse, oggi c' è solo Lady Gaga».

·        Raffaella Fico.

Da liberoquotidiano.it il 31 ottobre 2021. Uscita dal Grande Fratello Vip, Raffaella Fico è stata ospite di Silvia Toffanin a Verissimo, la trasmissione storica del sabato pomeriggio di Canale 5. Impossibile non parlare della figlia Pia e del rapporto turbolento con Mario Balotelli: “La cosa che più mi ha fatto male - ha dichiarato - è quel comunicato che fece chiedendomi il test del Dna pur sapendo che fosse sua figlia”. “Quello mi ha fatto male - ha spiegato - perché penso sia l’umiliazione più grande che una donna possa subire nella vita”. I rapporti, però, adesso sono migliorati, non solo tra Balotelli e la figlia: “Hanno un bel rapporto, Mario stravede per lei. Si amano, fra loro basta uno sguardo. Sono felice perché anche noi abbiamo trovato il giusto equilibrio, con Mario è come se fossimo fratello e sorella, è nato un bel rapporto dopo i conflitti dei primi anni”. Oggi Raffaella ha un nuovo compagno, con cui è molto felice: “Per Mario ho avuto un amore incondizionato, poi ho avuto altre storie. Dopo un po’ di anni ho incontrato Piero, il mio attuale fidanzato, che mi ha fatto battere di nuovo il cuore. Un altro figlio lo vorrei ma non ne abbiamo parlato, abbiamo deciso di vivere la relazione con calma”.

·        Red Ronnie.

"Fidel, Cristo e Vasco Rossi: adesso vi dico tutto..." Francesco Curridori il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Red Ronnie, ideatore dello storico programma Roxy Bar, racconta la sua carriera dagli esordi sino allo sbarco sul web. "La musica mi ha salvato dalla solitudine". Red Ronnie, storico conduttore radiotelevisivo, oggi redattore di OM Optimagazine, ripercorre la sua carriera dalla gavetta allo sbarco sul web.

Quando ha scoperto la passione per la musica?

"Fin da piccolo, ho amato la musica. Con l'inizio della Ragioneria ho iniziato a vivere di musica. Abitavo in campagna e il primo centro abitato era a un chilometro e mezzo di strada non asfaltata. Avevo un impianto molto forte e d'estate mettevo il volume al massimo, gli amici sentivano da un chilometro e mezzo di distanza, lasciavano il bar, salivano il motorino e venivano a casa mia ad ascoltare i miei dischi. Chi ama molto la musica è perché è stato salvato dalla musica. Poi, la musica, con le radio, mi ha salvato dalla noia tremenda degli anni '70 con le radio libere e io ero nella prima radio libera bolognese".

Quanto sono stati duri gli anni della gavetta?

"La gavetta non è stata dura perché io non avrei mai immaginato che avrei fatto quel che ho fatto. All'epoca lavoravo in banca e contemporaneamente facevo il giornalista. Questo fino al 1983 quando ho fatto il primo programma televisivo, Bandiera gialla, ho preso l'aspettativa dalla banca e, poi, sono uscito. L'importante è il cammino, non la meta. Non mi sono mai posto delle mete. Non mi sarei mai potuto immaginare che avrei posseduto la chitarra di Jimi Hendrix con cui ha suonato a Woodstock o che avrei intervistato Fidel Castro, Keith Richards o Paul McCartney. Sono cose che sono accadute. Non avevo un obiettivo da raggiungere, solo un cammino molto bello".

Quando ha capito che avrebbe 'sfondato'?

"Non si sfonda mai nel mondo dell'arte o della cultura, come diceva Edoardo De Filippo “gli esami non finiscono mai”. Non vuol dir nulla sfondare. Non tutto viene misurato in denaro, in fama, in indici d'ascolto. Tutto viene misurato in quante persone hai aiutato e in quanti ti ringraziano per quello che hai dato loro. Mi sono sempre stupito della popolarità, anche perché, in fin dei conti, sono un tramite e non un protagonista".

Secondo lei, chi è o chi è stato il miglior cantante italiano?

"Gianni Morandi per il canto, Lucio Dalla per il cantautore, Pavarotti per il bel canto e Vasco Rossi per il rock".

E quello straniero?

"A livello internazionale il miglior artista in assoluto è Jimi Hendrix. Non c'è nessun altro che possa stare al suo passo".

Secondo te, perché molte star del mondo della musica fanno abuso di droghe?

"Per insicurezza, perché, come diceva Vasco, il successo è un problema. Tutti ti conoscono e tu non conosci nessuno. Ti trovi proiettato in una situazione irreale in cui tutti ti idolatrano e tu sei solo un essere umano. Poi, perché l'arte nasce sempre da una grande sofferenza, per emarginazione o perché non compreso e, quindi, quando l'artista si trova davanti tanto affetto, ha paura di perderlo e sbarella un po'. Vasco Rossi rimaneva anche 6 giorni e 6 notti senza dormire perché aveva la paura del risveglio e, quindi, vai verso gli eccessi. Di base, c'è una grande insicurezza".

Com'è nato Roxy Bar?

"Anche il Roxy Bar è nato da una grande sofferenza. Ho avuto una popolarità altissima con Una rotonda sul mare, un programma che non mi piaceva, ma che aveva fatto 8 milioni di telespettatori nella puntata finale. Berlusconi voleva che io continuassi a far quello e che prendessi il posto di Mike Bongiorno che, mi disse, era già anziano, però risposi di no perché non era nella mia natura e lui mi fece licenziare da Canale 5. Il posto che avrei dovuto occupare io lo ha preso Jerry Scotti che è molto più bravo di me a far quelle cose. Dalla grande sofferenza di un anno e mezzo in cui non conducevo programmi tivù è nato il Roxy Bar su VideoMusic che, poi, ha vinto tre Telegatti, battendo anche il Festival di Sanremo. Il programma nasceva proprio dalla canzone di Vasco Rossi ed era il concetto di ritrovarsi tra amici al Roxy bar, ad ascoltare musica. Nel 2011, poi, è iniziato il mio percorso sul web con Roxy Bar TV prima e Red Ronnie Tv adesso".

Ora perché si è 'rintanato' nel web e ha lasciato perdere la tivù?

"Perché la tivù è diventata pessima, è urlata e funziona solo lo scandalo. Mi allontanai dalla tivù proprio quando nacque la tivù spazzatura. Tutti urlavano: Ferrara nella politica, Sgarbi nell'arte, Mosca nello sport e Funari nelle casalinghe. Era tutto negativo e non mi appartiene la televisione che va alla ricerca dello scandalo. Dal 1992 ad oggi nelle mie dirette non c'è mai stato un litigio e questo non va bene in televisione. Io, personalmente, non la accendo più da almeno un anno se non per vedere un gran premio di MotoGp".

Le manca la televisione?

"Assolutamente no, anche perché io ho sempre fatto della televisione diversa. Ho sempre sperimentato e mi dicono che sono stato il primo a inserire le chat in un programma e la gente da casa poteva interagire con gli ospiti in studio. Stiamo parlando del '95-'96".

Com'è cambiato il mondo della musica, dai tuoi esordi ad oggi? In meglio o in peggio?

"In peggio perché la musica non ha più il potere molto forte che le è stato tolto. La musica ha portato grandi cambiamenti nel mondo, a partire dalla fine della guerra in Vietnam, la denuncia della fame nel mondo e dell'Apartheid. Hanno capito che la musica era pericolosa e l'hanno resa innocua, offerta gratis su internet e sostituito gli idoli. È cambiata moltissimo però ho creato un canale Telegram, Sir Red Ronnie, dove ci sono delle rubriche in cui i ragazzi postano i loro video e io, ogni martedì sera, li intervisto e faccio conoscere il loro lavoro. Nel mio piccolo cerco di dare visibilità a questa musica validissima che spazio non ne ha".

Il suo lavoro l'ha portato a viaggiare spesso. Dal punto di vista personale, come ha vissuto quest'ultimo anno caratterizzato dalle quarantene?

"Sono abituato a muovermi nei limiti che mi vengono dati. Fortunatamente ho una casa circondata dalla campagna che, per me, è un luogo naturale dove posso camminare con mia moglie e la mia cagnolina. Certo, trovo assurdo e allucinante tutto quel che è successo e mi piacerebbe tornare a viaggiare, andare in Perù a conoscere i curanderos e i luoghi energetici. Ho lavorato molto su Cuba con Fidel Castro, una persona incredibile che sapeva tutto del suo popolo. Lui è stato il più importante statista che c'è stato nel mondo, anche perché per 50 anni ha resistito alla pressione di un colosso vicino come gli Stati Uniti d'America".

Ha mai avuto paura del Covid?

"Non ho mai paura tanto meno delle malattie anche perché io non mi ammalo dal 1990. Tutti parlano di paure e di cure, ma la cura più grande è quella che dai al tuo corpo con la prevenzione. Sono vegetariano e non prendo un'influenza dal 1990".

Crede che il mondo della musica, in quest'anno di stop sia stato aiutato adeguatamente?

"Il mondo della musica è stato ignorato, sbeffeggiato dall'ex premier Conte che ha definito i cantanti “questi artisti che ci fanno divertire”, quasi come se fossero dei giullari. Ma la musica è un nutrimento per l'anima. Non di solo pane vive l'uomo, dice il Vangelo. Poi è assurdo che siano stati chiusi i musei: che assembramento ci può essere in un museo? Anche l'estate scorsa, quando la musica ha riaperto parzialmente, c'è stato un solo caso. È assurdo quel che è successo. C'è la volontà diabolica di chiudere ogni cosa che faccia star bene e installare la paura".

Come si concilia questa ripartenza degli spettacoli con il coprifuoco alle 22?

"Il coprifuoco non ha alcuno scopo di prevenzione. Il virus non viaggia a orari, è chiaro che è un modo per continuare a tenere sottomesse le persone. Di sicuro dalle 22 in poi c'è meno gente che va in giro rispetto al giorno. È assurdo tutto. Vanno riaperti tutti i luoghi dove si può stare insieme".

Che progetti ha per il futuro?

"Il mio presente è sempre proiettato verso il futuro. Mi piacerebbe molto andare in Perù perché c'è la cultura degli indios curanderos, l'unica che può salvare il pianeta. Questo, per la terra, è il periodo peggiore nella storia dell'umanità".

Lei apprezza l'attivismo di Greta Thunberg?

"Ci vedo dietro molta speculazione. Io apprezzo quello che le persone fanno per il rispetto della natura. I movimenti non servono a niente, Greta Thunberg è stata ridotta al livello delle Sardine, non ha ottenuto nulla. Qui parlano di eliminare la plastica nel 2050. Siamo a livelli di cecità allucinante da parte delle persone che governano e che sono manovrate da chi gestisce il potere economico e che pensano solo ai loro bilanci, fottendosene del pianeta".

Ultima curiosità. Lei è credente?

"Io non credo, io so. Credere vuol dire 'penso che questa cosa possa essere vera'. Io so che esistono altre dimensioni e che questa non è l'unica vita che viviamo. Noi siamo gli abitanti di una piccola galassia di tante galassie. È presuntuoso pensare che siamo gli unici. Quando una persona abbandona il corpo su questa terra va in un'altra dimensione e deve rendere conto del suo comportamento sulla terra. Godrà dei tuoi benefici e pagherà per ciò che di brutto ha fatto. È la teoria del contrappasso dantesco che ci parla di reincarnazione. Anche Cristo, con la resurrezione, è la dimostrazione della reincarnazione".

·        Regina Profeta.

Maria Egizia Fiaschetti per il "Corriere della Sera" il 15 settembre 2021. Degli anni da soubrette, tra Cacao meravigliao e Fantastico (con Adriano Celentano), le è rimasta soltanto la saudade. Regina Profeta, cantante e ballerina un tempo popolare per la partecipazione a programmi di varietà in Rai, oggi, a 64 anni, è un'altra persona. Madre di un uomo di 38 anni, che si è sottoposto a un trapianto di cuore, ha accettato di correre per le Comunali con Forza Italia nel XIV Municipio della Capitale. Di origine brasiliana, nel '97 si era già cimentata in politica candidandosi nella lista civica a sostegno della rielezione di Francesco Rutelli, ribattezzata «Beautiful» per la nutrita rappresentanza di personaggi del mondo dello spettacolo. Perché ha deciso di presentarsi come aspirante consigliera nel suo Municipio? «Vivo da tanti anni in Italia e, con un figlio disabile, vorrei fare qualcosa per i ragazzi come lui. Nel mio quartiere c'è il Centro di riabilitazione Don Orione, dove vado spesso per portare un po' di gioia, canti e balli». Nel '97 aveva già provato a entrare in politica da candidata nella lista civica a sostegno di Francesco Rutelli. Adesso, ci riprova con Forza Italia. «All'epoca lavoravo in Rai, ero molto conosciuta... E Rutelli era una bravissima persona». 

Si considera più di destra o di sinistra?

«Sono sempre stata a sinistra, ma stavolta mi ha proposto di candidarmi Riccardo Evangelista, dell'Udc: una persona umana, che conosce bene il mondo della disabilità. Tanti nel quartiere mi incoraggiavano, conoscono il mio impegno al Don Orione... E poi sono cattolica, la fede mi aiuta ad affrontare la vita che, dopo la malattia di mio figlio, è diventata molto triste». 

Cosa farebbe per aiutare le persone con disabilità?

«Bisogna rendere più accessibili i mezzi pubblici. I disabili fanno una gran fatica a salire sugli autobus, io li aiuto sempre. Vorrei anche che ricevessero un sostegno economico». 

La ferisce essere ancora ricordata come «la massaggiatrice di Bertolaso»?

«Tutte falsità, sono stata assolta perché il fatto non sussiste. Al Salaria Sport Village organizzavo eventi, non ho mai conosciuto Bertolaso né lui ha mai detto di conoscermi. Sono sempre stata con mio marito e non ho mai fatto nulla di male».

·        Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 5 luglio 2021.

«Sì, ma non mi chieda le cose che dicono tutti quando si accende la televisione eh, abbiamo sofferto tutti in questo periodo, la vita è stata interrotta per tutti».

Promesso, ci proviamo, Renato Pozzetto. Il Covid è il tormentone di oggi. Lei ne ha creati di ben più divertenti, gag che sono icone. 

«Non è che ho fatto il cinema per le battute, eh, ma per le storie che raccontavamo e raccontiamo. Per mestiere poi ho inventato, creato, a partire dalle cose che ho sentito in giro. "Eh la Madonna", ad esempio, era un'invocazione popolare, dei muratori milanesi che si schiacciano il dito con il martello». 

Chissà quanti le chiedono di ripeterla, insieme con il celeberrimo «taac» del Ragazzo di campagna, quando la incontrano.

«Tantissimi, ma dipende. Gradisco di più chi mi ringrazia per il divertimento che sono riuscito a portare nelle case degli italiani. In particolare ultimamente ricevo molti complimenti per il mio ultimo film». 

La definiscono il re del nonsense, dell'umorismo paradossale.

Per le sue canzoni con Cochi, soprattutto. Dicono c' è un filo di linguaggio che va da Piero Manzoni a voi. C' è chi vi accosta al dadaismo. 

(Ride) «Non so, guardi, ognuno dice la sua, ognuno ha il proprio punto di vista. Io e Cochi ci divertivamo parlandoci così tra noi, e quel linguaggio lo abbiamo portato nelle nostre canzoni. Amici fin da quando eravamo bambini, ci siamo sempre definiti dei saltimbanchi». 

Sono tanti gli artisti che hanno segnato i vostri inizi, contagiato il vostro modo di lavorare, in quella Milano tra gli anni Sessanta e Settanta.

«È stata una sequenza di fatalità. Io facevo scuola di geometra, Cochi di ragioneria, entrambi all'istituto Carlo Cattaneo. Soldi pochi, e abbiamo cominciato a frequentare questo locale milanese, un'osteria che era un ritrovo di pittori. Con un litro di vino si stava fino a sera, ad ascoltare canzoni, e a far due chiacchiere. Eravamo proprio dei ragazzi, che si divertivano con l'oste». 

L' Osteria dell'Oca d' oro.

«Sì, e lì c' erano pittori, più o meno importanti. Manzoni era simpatico».

Quello della merda d' artista, per intenderci.

«C' era anche Lucio Fontana, tra i più noti. Ci diceva: "Perché andì minga a fa' il Festival di Sanremo?"». 

Possibile per i ragazzi di oggi respirare ancora quell' aria di creatività che respiravate voi?

«Cambia tutto nella vita. Noi siamo stati a galla un bel po'. A Milano oggi non si usa più nemmeno andare all' osteria. Ci sono solo quelle moderne, sui Navigli, ma sono un'altra cosa». 

Nostalgia?

«Mah, io non mi lamento. Frequento tanta gente dello spettacolo, mi confronto, e dialogo ancora con il pubblico che mi sta ad ascoltare. Se manca il pubblico allora sì che è un problema».

Nel '74 E la vita la vita è la sigla di Canzonissima.

«L' ombrello credo serva a tutti in tutto il mondo, ma forse in Italia serve un po' di più. Per chi non ha l'ombrello le cose si fanno più difficili». 

Quanto c' era di Jannacci nelle vostre canzoni?

«Spesso le musiche erano sue. Abbiamo lavorato insieme al Derby Club, altro luogo storico del cabaret e della canzone milanese, per cinque o sei anni. Ci vedevamo tutti i giorni e siamo diventati amici, semplicemente perché ci piaceva lavorare insieme. Il risultato direi che è stato positivo, se il Derby era sempre pieno di gente, anche che veniva da altre città per vederci». 

C' è stato un momento particolare in cui le cose sono cominciate a diventare di destra, o di sinistra, e a politicizzarsi? Presunti intellettuali contro presunti popolani.

«La politica e gli schieramenti ci sono sempre stati. Ognuno ha scelto la propria strada. C' è chi ha scelto di farsi coccolare dalla politica, o meglio si è servito della politica per fare strada. Ma ognuno vive come gli pare. Cochi e io eravamo insieme per fare spettacolo, ed eravamo abbastanza particolari, unici». 

Oggi cosa è popolare?

«Non ho idea di cosa va di moda, sa? Popolare per me vuol dire che hai un pubblico che ti segue, che ti viene ad ascoltare, che paga per sentirti. L' ultimo film mi ha gratificato, questo mi basta». 

Lei mi parla ancora, di Pupi Avati. Per lei un ruolo drammatico. Hanno scritto che per lei è stata una svolta. Lo è stata davvero?

«Mah, Pupi Avati mi ha proposto il film. Ho letto la sceneggiatura prima da solo, ci ho pensato su, e poi ho deciso con lui che sarei stato capace di gestire il personaggio. E così abbiamo girato, tra mascherine e visite di controllo. Nel cinema ci sono tanti mestieri che devono andare d'accordo. L' attore, il regista, le maestranze Si è collaborato bene insieme». 

La fa sembrare semplice.

«Recitare mi viene abbastanza naturale. Sarà anche che sono 50 anni che lo faccio». 

Settanta film?

«Così dicono, secondo me sono 60, non li ho mai contati. Come il panettiere sforna un pane dietro l'altro, così io. Ciascuno fa il suo mestiere». 

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi? Nella pellicola di Avati lei interpreta il padre, Giuseppe.

«Elisabetta l'ho vista qualche volta sul set, e poi dopo che il film è uscito. Vittorio è stato molto gentile con me, si è complimentato per il successo, del film e mio». 

Ha vinto anche un Nastro d' argento speciale, il premio dei giornalisti cinematografici. Dove lo ha posizionato in casa?

«Penso di averlo messo in camera. Ma non sono un collezionista, in tutta la mia vita non ho mai tenuto niente, nemmeno i dischi. È il secondo Nastro che vinco, mi pare». 

Dopo quello di Per amare Ofelia di Flavio Mogherini, nel 1975, come migliore attore esordiente. È vero che Jannacci le disse che era una boiata e non valeva la pena girarlo?

«È vero che disse che era una "cagata", ma nemmeno mio padre è mai riuscito a dirmi cosa fare o cosa non fare. Sono tornato a casa con un ottimo successo, un ottimo incasso e un Nastro, e nessuno ha più detto niente». 

Ho capito bene che è rimasto deluso per non aver vinto il David di Donatello per Lei mi parla ancora?

«Mi hanno convocato e me l'aspettavo, questo sì. Ma non sono deluso, non faccio i film per i premi. Gliel' ho detto: è il mio mestiere. E non è facile farne tanti, di film: basta che ne vadano male due, ed è finita». 

A ritirare il Nastro d' argento è andato con sua figlia Francesca.

«Sì, abbiamo un ottimo rapporto, i miei figli e io. Ci vediamo tutti i giorni, abitiamo nello stesso palazzo a Milano. Cinque nipoti, mica pochi».

Sento che sta guidando. Dove va?

«Stamattina sono andato a trovare un amico, e poi a fare un po' di spese. Sono a Laveno, sul lago Maggiore. Dove tra l'altro ho la mia Locanda». 

È famosa pure quella. Perché a un certo punto ha deciso di aprire un ristorante? Il sogno era riprodurre quell' atmosfera dell'osteria di una volta?

«Ma no, quello è irripetibile. Come ogni anno vissuto, d' altra parte, non trova? La verità è semplicemente che io ho sempre amato la buona cucina, anche in momenti non sospetti. Ora ne parlano tutti, ma io anche quando non avevo soldi li trovavo per andare a mangiar bene, viaggiavo per il cibo». 

C' è stato un momento in questi mesi in cui si sia pentito di avere aperto un ristorante?

«No, è così bello che ha sì sofferto impedimenti, mascherine e chiusure, ma è già tornato a funzionare come una bomba. È un'antica cascina, un posto fantastico dove la gente si diverte e sta contenta». 

Renato Pozzetto ha qualche rimorso, nella vita?

«No».

E rimpianti?

«Mah, ho sbagliato ad avere qualche amicizia, di gente che poi mi sono accorto che mi frequentava per fregarmi. Accattoni. Due in particolare. Sono morti entrambi.

Non so se devo dire "purtroppo"».

Urca. Gliel' hanno fatta grossa allora.

«A rubare si muore. Si muore ugualmente, eh, ma insomma è andata così. Bene, ora ho finito la devo lasciare». 

Non se vada senza dirmi qualcosa del suo nuovo impegno: è direttore artistico del Teatro Lirico di Milano, lo riaprono dopo 22 anni.

«Lo consegneranno tra pochi giorni dopo i restauri. Sono stato coinvolto, spero che vada tutto bene. Lo faccio perché considero Milano la mia città, e perché quello è un teatro bellissimo, storico, che spero diventi un punto di incontro anche per chi non fa il nostro mestiere, ma pure per la moda, l'arte, il design, la musica». 

Farà al Lirico la sua festa per gli 80 anni? Il 14 luglio ne fa 81, ma l'anno scorso temo non abbia potuto festeggiare alla grande.

«A me è sempre bastato un brindisi con gli altri ragazzi, un buon bicchiere.

Ma non sono uno da festeggiamenti, non ho mai aspettato il giorno del compleanno. Anzi, oggi più che mai». 

Il teatro sarà intitolato a Giorgio Gaber.

«Esatto. E metta una domanda a seguire: e Jannacci?». 

L' avevo prevista: e Jannacci?

«Ero amico di entrambi, li stimavo molto, abbiamo collaborato tanto insieme». 

È vero che con Dario Fo facevate le vacanze a Cesenatico a gratis, come fanno gli influencer di oggi?

«A Cesenatico andavamo in gruppo, si ballava alla balera e si rideva tanto. C' erano anche Felice Andreasi e Bruno Lauzi».

Fu Lauzi a iniziarla alla politica.

«Era del Partito liberale, aveva dato tanto nella politica, mi ha pregato di accettare l'invito a candidarmi, non ricordo se a Pavia o a Milano. Furono contenti dei voti che raccolsi, li gestirono loro. Breve esperienza, non faceva per me». 

Ultimo flash: con Marcello Mastroianni, su un motoscafo Riva, sul lago.

«Venne a trovarmi, fu uno dei pochi che ho incontrato anche al di là dei giorni delle riprese. Con lui girai Giallo napoletano, nel 1979».

Chissà come vi guardavano.

«Beh, guardavano lui. Un divo vero, una divinità internazionale. Io sono sempre stato un'altra cosa». 

 

"Milano, il Covid e la rottura con Cochi: vi dico qual è la mia grande paura". Francesco Curridori il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Renato Pozzetto ripercorre la sua carriera dopo la vittoria del Nastro d'argento speciale per l'interpretazione nel film "Lei mi parla ancora" di Pupi Avati. "Cochi è il mio miglior amico. Tutt'ora ci vediamo e ci sentiamo spesso". Renato Pozzetto, fresco di vittoria del Nastro d'argento speciale per la sua interpretazione del padre di Vittorio Sgarbi nel film di Pupi Avati, "Lei mi parla ancora", ripercorre la sua carriera artistica fin dagli esordi con l'amico d'infanzia Cochi Ponzoni.

Lei e Cochi Ponzoni come vi siete conosciuti?

"Io e Cochi siamo figli della guerra. Ci siamo incontrati scappando da Milano perché avevano bombardato le nostre case e le nostre famiglie si sono incontrate sul lago Maggiore, a Gemonio. Così, fatalmente, siamo diventati amici e, finita la guerra, siamo tornati a Milano, ma ogni anno passavamo le vacanze a Gemonio, un paese di contadini che offriva poco per i giovani. Per divertirci tra di noi abbiamo cominciato a strimpellare la chitarra e a cantare canzoni popolari e, poi, intorno ai 15 anni, ci esibivamo durante le feste in casa tra amici".

E come avete intrapreso la vostra carriera?

"Poi conosciamo l'artista Piero Manzoni, un provocatore che tra le varie opere ha fatto la merda in scatola che ancora oggi è esposta in qualche museo importante. Con lui iniziamo a frequentare l'osteria l'Oca d'oro, in via Lentasio, una traversa di Porta Romana a Milano, frequentata da vari artisti tra cui Lucio Fontana. Lì vicino aprono una galleria d'arte notturna dove passano degli artisti come Gaber, Jannacci, Dario Fo, Maria Monti, i nostri miti di allora con cui diventiamo presto amici e iniziamo a cantare insieme. I proprietari della galleria d'arte decidono di aprire un cabaret dove io e Cochi debuttammo e venivano a sentirci Bruno Lauzi, Lino Toffolo e Jacqueline Perrotin, all'epoca moglie del mago Zurlì, Cino Tortorella. A un certo punto Jannacci ci comunica che ci vogliono a fare cabaret al Derby Club, già noto per le vie del jazz. Pian piano arrivano la radio, la televisione, il teatro e il cinema. Siamo partiti dalla disperazione che ci ha portato a cantare per il piacere di stare insieme e siamo arrivati dove siamo".

Perché avete interrotto la vostra collaborazione artistica?

"Quando ho avuto la mia prima figlia eravamo tutti e due ad aspettare l'evento e l'infermiera che ci ha fatto vedere la bimba ha detto: “Questa è la figlia di Cochi e Renato”. Non potevamo continuare fare tutto in due e, allora ognuno ha preso la propria strada anche perché nel cinema, se diventi una coppia, rimani tale e molte opportunità si chiudono".

Quando ha capito che avrebbe sfondato dal punto di vista professionale?

"Il punto d'arrivo è quando giri per strada, la gente ti riconosce e ti saluta. Noi avevamo fatto tanta televisione e, quindi, il pubblico ci ha seguito anche nel cinema".

Qual è il film migliore che ritiene di aver fatto? E il peggiore?

"Non posso fare una classifica del genere. Noi lavoriamo per il pubblico quindi l'interesse del pubblico dà un'idea della curiosità che uno prova verso l'attore che si esibisce. Ogni film è un'avventura in cui cambiano le storie, i registi, le musiche, i dialoghi, i compagni d'avventura e le troupe. Poi c'è il gradimento del pubblico, ma non è detto che corrisponda al fatto di aver fatto con piacere un lavoro che magari non ha avuto il successo che meritava".

Perché i suoi film, nonostante sbancassero al botteghino, sono sempre stati un po' sottovalutati dalla critica?

"Noi non lavoriamo per la critica, lavoriamo per il pubblico. Io ho fatto 70 film perché il pubblico veniva e viene a vedermi. Se non fosse venuta la gente a vedermi, avrei fatto un altro mestiere".

Cos'ha provato nel vincere il Nastro d'Argento per un ruolo drammatico?

"È un buon riconoscimento. Ho accettato di fare il film per me, non per i riconoscimenti. Ho letto la sceneggiatura, mi piaceva, mi sono emozionato e, nonostante mi fossi misurato sull'umorismo per tutta la vita, ero sicuro di farlo bene e così è stato".

Cosa pensa del 'politicamente corretto'? Un film come La patata bollente sarebbe ben accolto oggi?

"La patata bollente era un film sul rispetto di persone che gradivano vivere a loro modo e, quindi, il rispetto per il prossimo. Oggi è normale girare un film di quel tipo, ma all'epoca, siccome io facevo film divertenti si presumeva che prendessi in giro la situazione e, invece, l'ho trattata con molto rispetto".

Come ha trascorso quest'ultimo anno caratterizzato dal covid e dalle quarantene?

"Come ha raccomandato la scienza. Sono stato chiuso in casa. Quando abbiamo fatto il film, abbiamo preso tutte le precauzioni: visite, tamponi e mascherine. Seguendo le regole, sono riuscito a far bene".

Le hanno mai proposto di entrare in politica o lei ha mai avuto la tentazione di fare politica come il suo collega Grillo?

"Bruno Lauzi mi aveva pregato di dare la mano al suo partito e, siccome lui era una persona onesta, mi sono presentato al collegio di Milano o Pavia (ora non ricordo). Sono andato bene, ma poi ho girato i voti al partito perché non me la sentivo di impegnarmi in quel settore".

Perché ha deciso di aprire la 'locanda Pozzetto'?

"È un posto bellissimo, una cascina che avevo comperato con mio fratello Achille. Si trova sul Lago Maggiore, immerso in una natura bellissima con una vista eccezionale. Quando il rustico ha iniziato a dare segni di vecchiaia, io e mio fratello l'abbiamo restaurata e l'abbiamo trasformata in un posto per i turisti. Abbiamo ricavato una decina di camera e abbiamo fatto un ristorante che si affaccia sul lago Maggiore. Chi ci va, non sbaglia".

Cosa significa per lei Milano?

"Milano è la mia città dove ho vissuto con i miei genitori e i miei fratelli. Sono rimasto molto attaccato ai miei familiari. Tutt'ora abito in un palazzo dove ci sono i miei figli e tutti i giorni vedo le mie nipoti e io sono felice".

Qual è la sua più grande paura?

"Vista l'età di non soffrire troppo quando lascerò nel momento fatale".

Gloria Satta per "il Messaggero" il 27 maggio 2021. Una carriera lunga mezzo secolo e 75 film, quasi tutti benedetti da incassi mostruosi, ma i premi si contano sulle dita di una mano: tra questi, un David Speciale ricevuto nel 1975 e nello stesso anno un Nastro d' argento come miglior esordiente per la commedia Per amare Ofelia. Ora, a 80 anni, Renato Pozzetto assapora la rivincita: è il Nastro d' argento speciale che il 22 giugno gli verrà consegnato «per l'intensa interpretazione» di Nino Sgarbi, padre di Vittorio, nel film di Pupi Avati Lei mi parla ancora. La vita l'è ancora bela: l'attore milanese, 80 anni, 2 figli, 5 nipoti, verrà a Roma a ritirarlo.

È contento?

«Sì, molto. Anche perché il film non volevo girarlo».

Come mai?

«Non ero sicuro di poterlo interpretare dignitosamente. Era così diverso dal mio registro comico...».

E poi chi l'ha convinta a ripensarci?

«Avati. Mi ha aiutato a rendere mio il personaggio. Ho fatto un lavoro onesto, ma non mi aspettavo un'accoglienza così buona».

Dispiaciuto che Elio Germano le abbia invece soffiato il David di Donatello?

«Già arrivare in finale è stata una soddisfazione. E l'applauso scrosciante che mi ha accolto sul palco ha rappresentato molto più di un riconoscimento».

Aver avuto pochissimi premi l'ha fatta soffrire?

«Non più di tanto. Sono stato ripagato dagli incassi. È stato il pubblico a benedire la mia carriera. Al cinema non puoi sbagliare, e io sono andato avanti».

Si pente di qualche scelta?

«Qualche film l'ho fatto non dico controvoglia, ma solo per compiacere produttori e distributori. Non dirò mai quale...Commettere errori capita in tutti i mestieri».

La critica è stata sempre obiettiva nei suoi confronti?

«Mah...mi gratificava di più il consenso del pubblico che si metteva in fila per vedermi al cinema».

Quale considera il suo successo più grande?

«Aver lavorato con tanti bravi registi, alternando i film di cassetta a progetti più ambiziosi».

Chi la fa ridere oggi?

«Non lo dico, mica voglio passare per maestrino. Noi lavoriamo per il pubblico e un comico riuscito è quello che incassa».

Allora il suo erede è Checco Zalone?

«Lui mi piace, ma viene da un'altra storia. Io ho iniziato a fare cabaret con i giganti: Giorgio Gaber, Dario Fo, Cochi Ponzoni, Enzo Jannacci...».

Cosa le hanno insegnato?

«Il linguaggio, la capacità di prendersi in giro e l'umorismo surreale che ho tentato di portare al cinema, ma con quanta fatica! Roba troppo sofisticata per lo schermo».

Ha dei rimpianti, un sogno non realizzato?

«No! Iniziai a cantare nelle osterie, poi nelle gallerie d'arte, ho recitato al Cab 64, al Derby, alla radio, in tv, in teatro, nei film...Non mi sono fatto mancare niente».

Come ha vissuto l' 80mo compleanno?

«Come una scadenza fatale. Sono stato felice di essere festeggiato da tutti».

Va al cinema?

«Poco. Negli ultimi anni ho scoperto la cucina e aperto un ristorante sul Lago Maggiore: mi assorbe molto tempo».

Cosa vuol fare da grande?

«Sto trafficando, qualcosa bolle in pentola. Mi hanno proposto il sequel di Il ragazzo di campagna, un mio successo del 1984...vedremo. Per fortuna nessuno in famiglia si è preso il covid, io mi sono vaccinato e dopo la pandemia la vita ricomincia».

Meraviglioso tragico Renato Pozzetto. Piero Mei su Il Quotidiano del Sud il 15 febbraio 2021. “Non sono mica di quelli che fanno un commissario e poi lo rifanno per dieci anni”, ha detto in un’intervista di qualche giorno fa Renato Pozzetto. Ha fatto il comico per mezzo secolo o giù di lì, sorrisi e risate in abiti mutanti e adesso ha preso al volo l’offerta di Pupi Avati e s’è fatto “serio”, chi dice drammatico, in realtà semplicemente e splendidamente commovente in “Lei mi parla ancora” (in programmazione su Sky o Now Tv se preferite). Chi l’avrebbe immaginato, se non Pupi Avati? Grande Pozzetto! A ottant’anni è un altro, ma sempre lo stesso: quello che, parole sue, ha “mandato a cagare” più persone e personaggi che tutta la storia del cinema messa insieme. L’ha fatto ancora sere fa quando s’è sentito proporre la marzulliana domanda “La vita è più un massaggio ai muscoli della coscienza o la coscienza è più il muscolo trainante della vita?”. Suspense al tavolo di Fabio Fazio e poi il Pozzetto di “Cochi e Renato” prende la scena e sgancia il fulmineo invito: “Ma vai a…”. Totò si sarebbe fermato a “Ma mi faccia il piacere”, che è la stessa cosa. Paolo “Fantozzi” Villaggio ne avrebbe trovata un’altra. Chissà cosa avrebbe detto Renato Rascel. Alberto Sordi avrebbe intonato un suo classico: “Te c’hanno mai mannato a quel paese”. Rascel, Totò, Sordi, Villaggio, in ordine cronologico. Rascel, il “piccoletto”, il “corazziere” del teatro leggero, come veniva chiamato quello “di rivista” che nobilitava il pop dell’avanspettacolo: fu chiamato dal regista Alberto Lattuada per interpretare Carmine De Carmine, sfigato impiegato comunale con il miraggio di un capotto (Il cappotto è il titolo del film e del racconto di Gogol qui rivisitato), che lo portò al Nastro d’Argento. Totò al suo ultimo film fu Totò Innocenti e frate Ciccillo in Uccellacci e Uccellini un’altra opera d’arte di Pier Paolo Pasolini in quella sua fiabesca Roma (“È il mio film che ho amato di più” disse una volta il poeta), fu anche lui Nastro d’Argento. Paolo Villaggio fu il prefetto Gonnella (e gli fu compagno d’arte Roberto Benigni) in La voce della Luna, l’ultimo film di Federico Fellini e vinse il David di Donatello. E Sordi, Albertone nostro, l’americano di Roma, il marchese del Grillo e tutto il resto che sarebbe troppo lungo ricordare ogni emozione, fu, tra le altre cose da I magliari in poi, Giovanni Vivaldi, Un borghese piccolo piccolo che, scritto da Vincenzo Cerami e diretto da Mario Monicelli, fece per tutti una messe “grande grande” di premi, di successo e di storia del cinema. Il quale, ha detto Renato Pozzetto, non è “né piangere né ridere”, ma è soltanto “cinema”. Chi se lo ricorderebbe più al tempo del lockdown, se non ci fossero un Pupi Avati e un Renato Pozzetto a ricordarcelo in quella struggente storia raccontata con la delicatezza dell’amore vero dal farmacista Sgarbi? Avati che ha restituito una “dignità” d’attore (altrimenti considerati di Serie B) ai vari Diego Abatantuono, Christian De Sica, Fabio De Luigi, Neri Marcoré e Massimo Boldi (solo per citare i casi più eclatanti ed escludendo il suo attore feticcio Carlo Delle Piane). “Lei mi parla ancora” e ci parla ancora il cinema, il grande cinema, facendoci sapere che c’è un attore d’ottanta anni che si chiama Renato Pozzetto. “La vita l’è bela, l’è bela”, e il cinema pure, quando c’è.

Renato Pozzetto: «A 80 anni un ruolo drammatico. Mia moglie scomparsa? Mi dispiace non sognarla». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 6/2/2021. «Posso chiederle di cominciare l’articolo con le parole che ha usato nel suo messaggio?». Quali? «“Ho visto il film, è molto bello e lei è straordinario”. Ci terrei, perché sono due frasi gentili: una per Pupi Avati e una per me». Negargli la cortesia è impossibile. Renato Pozzetto, a 80 anni e dopo 70 film comici, debutta in un ruolo drammatico e davvero riesce a commuovere con la facilità con cui è riuscito sempre a far ridere. Ne avrebbe chiesta anche un’altra, di cortesia: quella di sorvolare su una scena di pianto. Però, accontentarlo significherebbe non raccontare il suo genio e quanto sia ancora indomito, e anche un po’ sorvolare su cosa sono il dolore, la rimozione del dolore e pure il rapporto fra un attore e un regista. Insomma, Avati lo ha voluto protagonista di Lei mi parla ancora, in prima assoluta su Sky Cinema lunedì 8 febbraio alle 21.15. È la storia di un amore d’altri tempi capace di sopravvivere anche alla morte di uno dei due. Giuseppe Sgarbi, detto Nino, e Rina Cavallini s’innamorano, giovanissimi, a prima vista, si sposano e staranno insieme per 65 anni. Erano i genitori di Vittorio ed Elisabetta Sgarbi. È quest’ultima, di mestiere editrice, che quando il papà resta solo, sperando di aiutarlo a superare il lutto, gli affianca un aspirante romanziere per scrivere la storia del suo amore con la mamma. Intorno a quel libro, ora ripubblicato dalla Nave di Teseo, Avati costruisce un film che è un manifesto sentimentale, un inno al «per sempre», in tempi di amori fragili e brevi. Per inciso, Avati sta con la moglie da 53 anni, Pozzetto ha perso la sua, dopo una vita insieme, 12 anni fa.

Pozzetto, perché solo adesso un film drammatico?

«La mia natura era diversa. Avevo iniziato con Cochi nel dopoguerra, per essere contenti noi e far felici gli amici. Da lì, il cabaret, dove abbiamo conosciuto i nostri divi: Enzo Jannacci, Dario Fo, Giorgio Gaber. Ci esibivamo al Cab64 con Lino Toffolo e loro passavano a trovarci. Poi, Jannacci ci ha proposto di andare al Derby, è arrivato Felice Andreasi… Tutto questo per dire che noi il drammatico non l’abbiamo mai sfiorato neanche come interesse. Invece, leggendo il copione di Pupi, mi sono commosso tanto, più di una volta».

Che cosa l’ha commossa?

«La storia. Il momento in cui la moglie, Stefania Sandrelli, va all’ospedale e io che sono il marito capisco che non tornerà più».

Questa è anche un po’ la sua storia. Anche lei è stato con sua moglie Brunella per tutta la vita e l’ha persa.

«Che c’entra? Sono un attore, non è che se devo fare Tarzan vado nella foresta e faccio la scimmia e volo da un albero all’altro. Non è che ho girato Il ragazzo di campagna e, prima, ho mai fatto il contadino. E poi: qual è la famiglia o la vita in cui uno non ha avuto quei momenti?».

Sbaglio o ancora le è difficile parlare di lei?

«È vero, preferisco di no. Questa stanza è piena delle foto mie e sue: lì avevo appena iniziato a fare cinema; lì siamo con una coppia di amici... Quella è Brunella con Francesca bambina. Ne è piena la casa di foto così».

Avati, sul magazine 7, ha detto che quando avete parlato la prima volta del film, lei ha pianto perché si è immedesimato.

«Io? Ha detto così? Le spiego io come è andata: un giorno, mi telefona e mi dice che vuole farmi protagonista di un film che ama tanto. Dico: fammelo leggere. Arriva il copione, resto affascinato dalla storia, dal modo di raccontare. La mattina dopo, Pupi arriva precipitosamente da Roma a Milano. Faccio preparare un piatto di spaghetti, ci raccontiamo il film. Io ero sicuro di fare bene la parte. Gliel’ho detto fuori dai denti. Il copione mi aveva smosso qualcosa, sentivo di potermela giocare in modo onesto. Quindici giorni dopo, eravamo sul set. Forse, lo ha affascinato la mia sicurezza».

La sicurezza, non il pianto?

«Macché pianto… Il pianto è un mio trucco, ma non deve scriverlo».

Intanto, me lo spieghi.

«Io piango quando voglio convincere qualcuno a fare quello che voglio».

Cioè la sua era una prova d’attore per convincere il regista?

«È una tecnica che ho collaudato quando non riuscivo a spiegarmi con l’architetto che mi stava facendo la casa di Roma».

E Avati ci ha creduto tanto da dire «le scene in cui Pozzetto si commuove non sono finzione»?

«Ma assolutamente. Ma che significa. Il copione lo leggi una volta, due tre, poi non è che ti commuove ancora».

Nel film, Nino ancora parla con la moglie morta. E lei?

«Non le parlo e, soprattutto, non la sogno. Non sognarla mi addolora molto. Era mia moglie, vorrei rivederla. Era simpatica, spiritosa. È stata paziente col mio lavoro quando stavo lontano a girare».

Oggi, è ancora possibile l’amore per sempre?

«Devi essere innamorato. Se due lo sono e si augurano l’amore oltre la morte, non è che si sposano e dopo due mesi si sono stufati».

Il giorno del matrimonio, Rina scrive una lettera a Nino in cui gli promette che, dandosi infinito e reciproco amore, sarebbero stati immortali.

«L’amore va oltre tutto. Infatti, alla fine del film, cito Cesare Pavese e dico “l’uomo mortale non ha che questo di immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia”».

Le piacerebbe interpretare altri personaggi romantici o drammatici?

«Non sono mica di quelli che fanno un commissario e lo rifanno per dieci anni. E poi, far piangere o far ridere non fa differenza. È sempre cinema: ogni giorno, vai a lavorare e si lavora tutti insieme per portare a casa un pezzo di film. In questo, tutti sono bravi: Fabrizio Gifuni che fa lo scrittore, Isabella Ragonese e Lino Musella che fanno me e Stefania da giovani…».

Lei che film guarda?

«Nessun film. Non vado a pescare, non gioco a tennis, non vado allo stadio, preferisco vivere: mi piaceva viaggiare, navigare, guidare. Ho fatto tre Parigi - Dakar. Oggi, posso solo passeggiare. Per fortuna, abito nello stesso palazzo dei miei due figli e dei miei cinque nipoti, ci vediamo, stiamo insieme. Per tutto il resto, sono qua che aspetto il vaccino».

Ferruccio Gattuso per leggo.it il 16 marzo 2021. Ha appena compiuto ottant’anni (11 marzo), e a spegnere quelle candeline, simbolicamente, ci si è messa tutta Milano. Cochi Ponzoni, al secolo Aurelio Ponzoni, non è eccessivo dirlo, è un simbolo della città e del meglio di quell’umorismo stralunato e surreale che, con il suo compagno storico Renato Pozzetto e con artisti come Enzo Jannacci, ha reso l’esperimento milanese qualcosa di unico, sin dagli anni ’60 e ‘70. Di questi tempi, sconforto, speranza e voglia di tornare a sorridere si danno una sorta di staffetta nell’animo dei milanesi, dunque le parole di Cochi possono servire, diciamo così, da ricostituente.

Cochi, come se la passa?

«Sono sereno, lo scorso fine settimana sono andato a fare il vaccino. Ho la fortuna di vivere una situazione agiata, abito in viale Jenner, una di quelle case antiche con un giardino in comune. Esco e mi faccio un giretto, quando posso vado a camminare. E sono in compagnia di mia moglie e mia figlia, che ha ventisei anni».

Lo dica, da buon papà si preoccuperà di più per lei?

«Più che altro sono dispiaciuto per il suo tempo congelato. A quell’età si deve fare. Per quello sono, e devo essere, ottimista. Nei vaccini, nella ripresa di tutto. I giovani come lei devono riprendersi la propria vita e i propri progetti».

Oltre a camminare, tra le mura di casa come passa il tempo?

«Leggo molto, e guardo film e fiction».

Le manca il palcoscenico?

«Ecco, quello è l’unico neo. E non è poco. Teatri chiusi, cinema chiusi, progetti raffreddati. E ne avevo per le mani».

Le racconti ai lettori di Leggo.

«A fine maggio inizio giugno sono impegnato con un film, una commedia incentrata su un gruppo di anziani alloggiati in una casa di riposo. Riescono a impossessarsi di un pulmino e scappano al mare. Una storia che ovviamente ha a che fare con la nostra attuale e collettiva sete di fuga dalle costrizioni».

E in teatro, il suo vero amore?

«Ho un paio di progetti, sempre due commedie, ma di questo non posso anticipare nulla. Il teatro affronta difficoltà più dure rispetto al cinema, la prudenza impone di aspettare. Se poi mi chiede quando si potrà tornare sul palcoscenico, dico che il buon senso suggerisce autunno di quest’anno».

I milanesi, si sa vanno sempre di fretta, e ad aspettare si innervosiscono: che consiglio ha da dare loro?

«Dico che tanti nodi si stanno sciogliendo, sono settimane cruciali. Forse è il caso di saper aspettare ancora un po’. E poi Milano si riprende sempre. Io sono del 1941, ho sfiorato la guerra da bimbo e ho visto la ricostruzione dopo il disastro. Milano ha dato l’esempio».

Il suo amico Renato le ha fatto gli auguri per i suoi 80 anni?

«Ovvio, è stato tra i primi. Ci conosciamo da quando siamo bambini, giocavamo in cortile. Le nostre due mamme erano amiche».

Ritornerete insieme?

«L’idea è quella. La festa sarebbe perfetta: Milano che si riprende dalla pandemia, il Teatro Lirico che riapre, e noi due su quel palcoscenico. È in programma».

C’è qualche amico cui ha pensato spegnendo le candeline?

«Enzo Jannacci, che ho sempre definito il mio fratello maggiore. E poi Bruno Lauzi e Nino Toffolo».

Ci sono eredi di Cochi & Renato?

«Viviamo un’epoca diversa, ma artisti come Aldo Giovanni e Giacomo, Maurizio Milani e Paolo Rossi li sentiamo vicini».

Ma è vero che lei e Renato , dopo gli spettacoli, andavate a farvi un piatto di cassoela all’alba?

«Verissimo. Facevamo una vita disordinata ma avevamo forti stomaci. Ricordo brindisi in autostrada alle sei del mattino, eravamo sempre in giro».

Gli 80 anni di Cochi Ponzoni: “Sono un dilettante ma raffinato”. Luigi Bolognini su La Repubblica il 10 marzo 2021. Una vita in coppia con Renato Pozzetto, l'attore racconta gli esordi al Derby e la lunga carriera tra televisione e brani celebri come "La gallina" e "Canzone intelligente". Da 80 anni esatti "la gallina non è un animale intelligente (lo si capisce da come guarda la gente)", i maestri sono sempre pronti a dare un 7+ se ben prezzolati e "la vita l'è bela se si ha l'umbrela che ripara la testa". Insomma, buon compleanno a Cochi Ponzoni, prima metà in ordine alfabetico del duo Cochi e Renato, che ha introdotto in Italia un umorismo surreale che ha fatto epoca. "Mica troppo, ora va un altro tipo di risata, ben diversa dalla nostra. Restano Ale e Franz e un po' Aldo Giovanni e Giacomo, ma per il resto si ride di cose quotidiane, ben ancorate alla realtà, banalotte. E mi va benissimo così, perché tutto ci veniva naturale, in un certo senso siamo inimitabili".

Inimitabile è anche diventare Cochi da Aurelio. Come si fa?

"Facilissimo. Basta nascere mentre sul Corriere dei piccoli ci sono le storie di Cochi, un bambino di pochi giorni a cui secondo mia madre somigliavo. Il nome me lo sono preso e tenuto, anzi le sole volte che la mamma mi chiamava Aurelio voleva dire che stava per darmele. E me le meritavo".

Monellacci siete stati anche con Renato, amico d'infanzia prima ancora che di cabaret.

"Erano amiche le nostre famiglie, era destino. E già da studenti frequentavamo le osterie milanesi, strimpellavamo la chitarra, poi a me diede lezioni di accordi e tecnica Giorgio Gaber, e poi anche Bruno De Filippi. Sono un dilettante, ma raffinato. Li avevamo conosciuti all'Oca d'oro, osteria di zona Porta Romana frequentata da intellettuali e pittori: Piero Manzoni, Luciano Bianciardi, Dino Buzzati, Lucio Fontana".

Stop, Fontana. Ma è vero che...

"Vero, vero. Non guidava e la sera lo portavo a casa io. Ogni tanto mi diceva, in dialetto, "vegn su che te regali un quader". Non accettai mai, il mio era un gesto spontaneo. Adesso avrei in casa un tesoro, ma per affetto non lo venderei mai".

Iniziaste proprio all'Oca d'oro a fare cabaret.

"Anno 1964, con Tinin e Velia Mantegazza. E già con questo umorismo, che veniva facile nella Milano di allora, bastava tendere le orecchie in tram e per strada o al bar pasticceria Gattullo, la nostra tana".

E poi il Derby. Mitico davvero?

"Eccome. Un gruppo irripetibile. Noi, Felice Andreasi, Bruno Lauzi, Lino Toffolo, ovviamente Jannacci: il Gruppo motore. Il Derby aveva una capienza di 300 persone. Spesso ne restavano fuori 200, per la richiesta che c'era. Veniva gente da tutta Italia".

Venne anche Marcello Marchesi e voi finiste in tv.

"Debuttammo nel 1968 con Quelli della domenica. All'inizio non fu facile: la gente o ci capiva, di solito giovani come noi e intellettuali, o ci avrebbe fatto arrestare. Poi pian piano entrammo nel linguaggio e nei cuori di tutti".

Censure mai, in quella Rai?

"Come no. Lo sketch del 7+ parlava delle baronie universitarie, dei professori corrotti. Ma il Ministero ci arrivò alla tredicesima puntata".

La vostra era anche una comicità di canzoni.

"Eccome, La gallina, Canzone intelligente, A me mi piace il mare. C'era sempre dietro Jannacci, amico fraterno oltre che genio. Facevamo canzoni con messaggi nascosti: E la vita la vita parla di quanto è facile far carriera se hai chi ti protegge. Silvano di omosessualità".

Ecco, "Silvano". Una buona volta: cosa vuol dire "e non valevole ciccioli"?

"Non lo so, e non so neanche chi di noi lo inventò. Io rivendico solo 'chicobuarquedehollandami', una dedica al nostro amico Chico che io e Renato portavamo in tour ma nessuno se lo filava perché la gente voleva noi".

Janacci era un amico vero, non solo sul palco, no?

"Facevamo anche le vacanze assieme. Pensi questo. Anno 1965, i Beatles, le minigonne, la Swinging London. Io avevo vissuto lì un anno. Io, Renato ed Enzo partiamo da Milano con la Mini Cooper di Renato, poi il traghetto a Calais, mare tempestoso, tutti squassati. Piantammo la tenda a Londra, quartiere Crystal Palace. Arrivammo a Londra, andammo subito nella leggendaria Carnaby Street, che è in realtà un viottolo. Jannacci guardò e disse: 'Beh, tutto qui?'. E andammo al mare a Blackpool".

Tra i vostri amici bisogna parlare anche di Dario Fo.

"Un altro personaggio pazzesco. Dava lezioni di teatro quotidianamente anche giù dal palco. Un giorno io e Renato andammo a trovarlo al mare, a Cesenatico. In spiaggia guarda l'orizzonte e inizia a gridare che c'è un naufrago. Nessuno vede nulla, ma si raduna un gruppetto che inizia a gridare. Non era vero niente, ovvio, ma il messaggio era che l'attore deve credere e quindi fare credere a tutto"

Contestazioni per il vostro humour non ne avete mai avute?

"Altro che contestazioni. Un lunedì andammo ad Arezzo a un circolo. Non rideva nessuno, facevamo tutte le nostre gag, niente. Poi toccò a Jannacci che cantò tra l'altro Il primo furto non si scorda mai, che parla di un ladro di galline pasticcione. C'è un verso che dice 'quel tacchino micidiale era un'aquila imperiale', perché era ambientato durante il fascismo. Il pubblico si alzò e iniziò a lanciarci monetine. Era un circolo neofascista, si chiamava Giovane Italia. Ma non lo sapevamo. Con noi c'era Teo Teocoli che iniziò una scazzottata. Finimmo tutti in guardina".

Successo travolgente fino allo scioglimento nel 1975.

"Ognuno voleva seguire una strada diversa, ma nessuna divergenza, siamo sempre sempre sempre stati amici, fratelli. Certo, coi film ha avuto più successo di me. Pensi che una volta una commessa strabuzzò gli occhi guardandomi, poi confessò "ma lei non era morto?". Ma io amo il teatro, felicissimo così".

Poi però vi siete riuniti.

"Nel 2000 per la fiction Nebbia in Val Padana. Ci mettemmo qualche data a teatro così per giocare: teatri esauriti dappertutto. E tantissimi ragazzini a ridere con noi".

E adesso?

"E adesso vogliamo ancora fare cose quando si potrà. Speriamo nella riapertura del teatro Lirico".

Come festeggia oggi?

"Non festeggio, odio le celebrazioni. La vera festa sarà domenica quando mi vaccineranno".

Quanti anni si sente?

"Una ventina di meno, forse anche 30. Sto bene di salute, non ho rimorsi né rimpianti, ho il Dna di mia madre morta a 101 anni. Mi mancano solo il teatro e poter viaggiare".

·        Renzo Arbore.

Renzo Arbore e il grande amore per Mariangela Melato, insieme fino all’ultimo respiro. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2021. Domenica 19, la grande e versatile attrice, scomparsa nel 2013, avrebbe compiuto 80 anni. «Se fosse qui le regalerei una bacchetta magica per darle salute e amore».

«Sono malinconico pensando a questo anniversario. Perdo il mio brio e la mia positività. Mi rabbuio». Domenica, Mariangela Melato avrebbe compiuto 80 anni. Una donna dal talento raro e prezioso. Come disse di lei Alda Merini, «una donna piena di grazia». La sua vita artistica è così variegata, così piena di successi teatrali, cinematografici, televisivi, musicali che sarebbe impossibile riassumerli. Ricordare lei, porta tutti noi anche a un nome: Renzo Arbore, «immalinconito». Un amore importante il loro, una storia preziosa, un affetto e un’amicizia mai spenti. Fino all’ultimo.

Ci dispiace rattristarla Renzo, chiedendole di Mariangela

«Io adoro ricordare Mariangela, il suo talento straordinario, la sua grazia, la sua unicità. Certo gli anniversari portano con sè rimpianti e tante riflessioni. Sono felice però che venga ricordata , anzi bisognerebbe farlo di più. Giovedì 30 settembre andrà in onda la prima puntata di “Illuminate” su Rai3 interamente dedicata a Mariangela Melato. Ci sono anche io . Vedremo molto di lei, è un bellissimo omaggio». (E sul libro «Mariangela Melato», edizioni «Bianco e nero», curato da Maurizio Porro possiamo conoscere aspetti inediti della sua vita e della sua carriera, ndr).

Il mondo conosce le capacità artistiche indimenticabili della Melato. Lei ci racconti anche aspetti inediti di Mariangela: quanti anni avevate quando vi siete conosciuti?

«Io avevo 36-37 anni (lei 4 meno di me). L’ho incontrata al Teatro Sistina mentre ritirava un premio. Mi sono accorto che tra tutte le personalità presenti, la più moderna e curiosa era quella strana ragazza con i capelli corti bicolori, che parlava in fretta e con grande cognizione di causa. Un talento eccezionale. L’ ho invitata una sera a casa mia ed è venuta con la sorella».

Come è proseguito il corteggiamento?

«Siamo andati casa di Agostina Belli dove c’era una festa. Avevo convinto il mio amico Lucio Battisti a venire con noi. Lucio non amava le feste e non andava da nessuna parte perché diceva: “Poi mi fanno cantare”: Io lo convinsi dicendogli “Vedrai che non succederà, mangiamo una cosa e basta. Garantisco io”. Venne . E fu lui invece che, vedendo una chitarra, di sua spontanea volontà la prese e cominciò a cantare “Io vorrei, non vorrei, ma se puoi ...come può uno scoglio arginare il mare ...”. Io e Mariangela ci guardammo. Eravamo già cotti».

E così è nata una grande storia d’amore...

«Io cominciai a frequentare casa sua e nacque un amore indimenticabile, fortissimo, rispettoso, molto sorridente. Abbiamo riso tanto. Sì, una storia d’amore sorridente e straordinaria, senza mai una lite. Mai. Io rispettavo le sue opinioni e lei le mie. Non parlavamo per essere polemici. Io riconoscevo le sue ragioni, lei le mie, ma più spesso ero io a riconoscere le sue, perché le donne sono più mature in quella stagione della vita. Io non ero maschilista, ma mi portavo dietro un po’ di retaggio “l’uomo è sempre uomo”, ma con lei quell’aspetto era scomparso».

Parla come se fosse stato completamento rapito da lei, dalla sua anima, dalla sua grazia appunto.

«E’ così, mi piaceva tutto di lei. Mariangela si era fatta da sè, aveva una grande cultura, leggeva, studiava, studiava, studiava. Il teatro era la sua grande passione. Nella nostra storia io fingevo di non sapere e quando andavamo a teatro mi facevo spiegare la trama».

Frequentavate tanti attori?

«Frequentavamo tanti registi, soprattutto quelli che lavoravano con lei. Franco Rosi, Mario Monicelli, Ugo Tognazzi, Elio Petri, Gian Maria Volonté, Lina Wertmuller, Alberto Sordi, Giuliano Montaldo. E’ stato un bel periodo perché mi sono avvicinato al cinema importante, grazie a le. È nato anche “Il pap’occhio” (da lui diretto, nell’80, ndr) dove Mariangela molto carinamente ha interpretato se stessa».

Avete mai cantato insieme?

«Sì, l’ho fatta cantare con la mia orchestrina “Solo me ne vo’ per la città” che poi è diventata la nostra canzone».

Stavate tanto a Roma dunque?

«Sì molto, ma in quel periodo frequentavamo tanto anche Milano. I genitori di Mariangela erano milanesi e lei parlava un milanese straordinario, popolare. C’era una magica fusione anche culturale tra noi: la mia napoletanità - canzoni, poesie, personaggi della cultura napoletana - e la sua milanesità che mi comunicava tramite la frequentazione con Jannacci, Gaber, Strehler, i Legnanesi. Noi graziosamente abbiamo sempre scherzato tra il milanese e lo sfottò napoletano».

Ci sono momenti particolarmente impressi nella sua memoria?

«La festa dei suoi 40 anni e un capodanno: avevamo tantissimi inviti a tante feste. Abbiamo dato buca a tutti e abbiamo passato quel capodanno a casa, a Roma, con cotechino e lenticchie, solo noi due. Eravamo troppo innamorati».

«Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto» in tv. Schiaffi (veri) e le scene nude di Giannini-Melato. I 10 segreti

Qual è l’aggettivo che definisce meglio Mariangela Melato?

«Alda Merini l’ha definita “Una ragazza piena di grazia”, una frase scolpita nella mia mente. Io che le sono stato accanto nei momenti belli e brutti, che l’ho seguita fino alla morte posso dire di aver toccato con mano quella grazia. Sempre. Non aveva nessun vezzo delle attrici, non aveva invidie per nessuno, detestava i pettegolezzi, , mai nessuna piccineria. Fino all’ultimo respiro (Mariangela è mancata l’11 gennaio 2013, ndr), sua sorella Anna, le sue due amiche del cuore Annabella e Giovanna, ed io l’abbiamo assistita. L’abbiamo assistita negli anni dolorosi della malattia. Il mio ruolo fino al giorno prima dell’addio era farla sorridere».

Perché e quando è finita la vostra storia d’amore?

«Mariangela, nei primi anni Ottanta, è andata negli Usa a tentare la carta americana. Allora non c’erano i telefonini e ci siamo distratti. E ce l’eravamo anche detto: “Attenzione che ci distraiamo”... Lei ha avuto incontri americani, io da solo a Roma mi sono distratto e così quando dopo quasi due anni è tornata ci siamo accorti che non ci divertivamo più insieme. Tacitamente ci siamo lasciati andare, senza litigare. E’ stato un allontanamento dolce, senza rancori. Salvo poi riprendere dopo anni (nel 2007, ndr). Più adulti, si è riformata la coppia anche perché l’affetto era rimasto integro anche nel periodo di lontananza».

«Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano» direbbe Venditti.

«Una storia non immaginabile, molto anomala la nostra. Ci ha sempre tenuti legati un filo. Io viaggiavo e compravo regali per lei, quando potevo la chiamavo per telefono, ci raccontavamo le nostre storie. Una donna straordinaria nel senso letterale del termine, di quelle che difficilmente si incontrano. Aveva una sua nobiltà popolare, ma purissima, dovuta alla fatica che aveva fatto per diventare Mariangela Melato. Aveva una grande capacità di assorbire gli eventi della vita sua e degli altri . E aveva una grande attenzione, un grande rispetto».

Immagino le manchi tutto di lei.

«Sì. Mi manca il grande affetto, il sentimento e i suoi codici. Mariangela aveva dei codici: l’onestà, non pensare al danaro, la correttezza, la superiorità nei confronti del pettegolezzo, l’amore per la lettura, l’informazione, lo studio. Parlavamo di politica, ci confrontavamo».

Melato artista: come la racconta.

«Un talento unico, un’artista senza paragoni. Tantissimi grandi attori, tra cui Michele Placido, mi hanno sempre detto che è stata la piu grande attrice teatrale dei nostri tempi e Giancarlo Giannini diceva “Io imparavo a recitare guardandola”. Lei è riuscita bene in tutto: dai ruoli drammatici nell’Orlando furioso, o Medea, a Filumena Marturano interpretando un genere napoletano che non era certo il suo. E poi tanti personaggi femminili al cinema e in tv sempre per rivendicare la potenza delle donne, la loro forza e indipendenza. Ma era bravissima anche nello spettacolo leggero, cantava e ballava in modo divino. Verrà riscoperta come la grande attrice, come la Duse»

Domenica come festeggerebbe gli 80 anni di Mariangela se lei fosse qui?

«Le regalerei una bacchetta magica, perché lei era legata al mondo delle fate. Una bacchetta con la quale vivere gli anni della terza età che ci avrebbero portato salute successo e amore. Mi sarei procurato una bacchetta magica finta, quelle americanate, per darle quell’augurio di cui lei si sarebbe rallegrata moltissimo. Lei era modesta, bastava un piccolo regalino ed era felice».

Vi siete fatti tanti regali?

«Sì tanti, con molta generosità reciproca. Le regalai un braccialetto di mia madre, in stile Liberty. Le piccole cose la facevano felice. Uno dei più belli è un autoritratto di Mariangela che aveva Mario Tullio Giordana. Gli sarò eternamente grato per avermelo donato. L’aveva fatto Mariangela con la stoffa della sciarpa che si vede nel film “La classe operaia va in paradiso”. Ce l’ho nella mia stanza da letto e tutti i giorni lo guardo e lei mi guarda sempre»

Mario Fabbroni per leggo.it il 6 aprile 2021.

Renzo Arbore, l’abolizione della censura è una soddisfazione?

«Capita a fagiolo. Proprio in questi giorni stiamo portando a nuova vita il Pap’occhio, scritto da me e Luciano De Crescenzo».

Cosa accadde 40 anni fa?

«Per il Pap’occhio subimmo un processo, fu censurato il copione e ritirato dalle sale. Eppure era stato il primo film prodotto da Rai Cinema. Di certo non offendemmo la Chiesa, lo capì anche il giudice».

Era una satira sul Vaticano...

«Forse scherzammo con i santi. E con il catechismo. Ma nessuna ingiuria né simboli religiosi messi indecorosamente alla berlina».

Nonostante tutto, fu un successo.

«Biglietto d’oro, risultò tra i primi 5 incassi dell’epoca. Ma il danno fu fatto lo stesso, potevamo essere anche primi al botteghino».

Ora rivedremo il film integrale?

«Si, spero di editarlo di nuovo con una diversa casa di produzione. Vorrei fosse un simbolo anti censura. Merita di essere visto da tutti».

"Vi faccio rivedere la tribù surreale dell'Altra Domenica". Lo showman oggi su Rai Storia per raccontare il programma che ha reinventato l'entertainment. Antonio Lodetti - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. Sono trascorsi 45 anni da quelle domeniche su Raidue piene di musica e di follia trasgressiva. 45 anni in cui l'impudente Renzo Arbore sfidava la corazzata Raiuno (allora c'erano soltanto due canali) con la canonica e istituzionalizzata Domenica in. Nasceva così nel primo pomeriggio festivo L'altra Domenica, programma apripista del moderno entertainment che oggi lo stesso Arbore festeggerà con una diretta di dieci ore (dalle 14 alle 24) su Rai Storia con alcuni pezzi inediti come un'intervista a Ray Charles di passaggio da Napoli. «Uno dei nostri punti di forza era la musica - racconta Arbore tutto gasato dall'operazione - infatti siamo stati i primi a mandare in giro gli inviati a riprendere i concerti. Così abbiamo catturato anche Ray Charles o il concerto di una leggenda come Harry Belafonte alla Carnegie Hall. Era una leggenda, aveva una sessantina d'anni ma a noi sembrava un anziano, ma che anziano, un vero maestro».

Come è nata l'idea della trasmissione?

«Io e Ugo Porcelli volevamo fare qualcosa che lasciasse il segno. Il nostro motto era: Occorre razzolare nell'inconsueto, proprio come fanno le galline nell'aia. Così radunammo una tribù surreale di personaggi come Roberto Benigni, Milly Carlucci, Isabella Rossellini, Andy Luotto, le Sorelle Bandiera che si esibivano en travesti e che scoprii in un locale che si chiamava Alibi e cominciammo a darci da fare per scardinare le vecchie regole della tv».

Quali sono le «invenzioni» di cui va più fiero?

«I quiz telefonici con la telefonata a casa al pubblico, dove nacque la famosa frase, usata ancora oggi: Da dove chiama?. Quelli li ho inventati io».

Che strana idea?

«Già, perché c'era il quiz classico, quello di Mike Bongiorno, che era dedicato agli esperti. C'erano i concorrenti veri. Noi chiamavamo a casa persone comuni e si vincevano 20mila lire con domande strampalate, o cose come il Cruciverbone, oppure il mostro che - per dire - aveva gli occhi di Ruggero Orlando e la bocca di Gigi Proietti. È stato molto divertente».

Giocavate tutto sulla satira.

«In tv la satira politica la faceva solo Alighiero Noschese ma lui era un imitatore. Noi avevamo dei personaggi ad hoc come Mario Marenco e Andy Luotto. Con Luotto durante le elezioni politiche del 1979 invademmo lo studio dei risultati elettorali condotto dal mitico Mario Pastore. È una scena che rivedrete su Rai Storia».

Benigni come l'ha reclutato?

«Sapevo che voleva fare il cinema. Così gli ho detto: Spesso i critici cinematografici parlano in modo così criptico che non si capisce nulla. Tu impersonane uno davvero fuori dagli schemi, sii comico. E fu il successo. Da allora ha spiccato il volo e non si è più fermato».

E Milly Carlucci?

«Era una bellissima ragazza e un'abile pattinatrice così la misi a fare servizi sportivi. Ho lanciato le prime giornaliste donne che facevano le inviate. Prima di allora non c'erano ragazze parlanti a parte Enza Sampò».

Come dicevamo la musica era un vostro punto di forza.

«Sì, registravamo concerti in tutto il mondo. Michael Pergolani ci mandava gli ultimi spettacoli dei rocker più famosi e Isabella Rossellini, così carina e perbenino, andava a New York in certe bettole dove si scopriva il vero rock e il punk».

Cosa le manca di più di quell'esperienza?

«L'energia e quel pizzico di incoscienza che ci permetteva di fare ciò che volevamo senza essere sottoposti alle regole dell'Auditel. Insomma eravamo liberi di fare cose fuori dall'ordinario mentre Raiuno doveva stare in riga. Il nostro non era un pubblico da dati di ascolto, era un pubblico d'elite. Ci tengo a ricordare che una giuria di giornalisti ha votato L'altra Domenica il miglior programma televisivo italiano dopo Il fatto di Enzo Biagi».

Ci sarà nostalgia in queste dieci ore?

«Manco per sogno, solo sano divertimento e tante gag inedite».

Ha seguito Sanremo?

«A spizzichi, non mi interessa e sto lavorando sul mio Doc e su un nuovo progetto che presto vi svelerò».

Paolo Baldini per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2021. Il primo passo della rivoluzione fu un licenziamento in tronco. Renzo Arbore, 83 anni, lo ricorda così: «Canzonissima 1971, serata finale. Conduttori, Corrado e Raffaella Carrà. Gianni Boncompagni ed io, da Firenze presentammo lo Scarpantibus, star radiofonica di Alto gradimento. L'uccellaccio urlatore animato da Giorgio Bracardi usciva da una cassa sgangherata, tra i rotoli di carta igienica. Nessuno l'aveva mai visto. Ma piaceva ai ragazzi. L'idea andò di traverso ai vertici Rai. Sentenza: tutto bene, tranne quei due. Per cinque anni fummo cancellati». Il riscatto il 28 marzo 1976: debutta «L'altra domenica». «Erano i tempi della riforma Rai. Nasceva Raidue e il direttore Massimo Fichera mi interpellò. Avevo un format bell'e pronto, proposto qualche anno prima a un concorso Rai dove mi avevano bocciato. Un tg dello spettacolo: io al posto di Mario Pastore, il giornalista che conduceva il notiziario della Rete. Fichera diede l'ok. Insieme a Ugo Porcelli iniziai a razzolare nell'inconsueto , come si diceva allora».

Nacque il primo contenitore della tv.

«Volevamo divertire, informare, incidere. Sposavamo lo spirito di Alto Gradimento e il rigore delle scelte musicali di Bandiera gialla con la formula del rotocalco».

Sono passati 45 anni: domenica 28 marzo Rai Storia ricorderà «la più innovativa delle trasmissioni Rai» con un'antologia di dieci ore, dalle 14 alle 24. Presenta, chiosa e commenta lo stesso Arbore. Spettacolo e sport. Lei e Maurizio Barendson.

«L'altra domenica era una maratona per un pubblico scetato. Sveglio, come si dice a Napoli. All'inizio, un riempitivo dello sport. Poi le sezioni furono separate e il programma sfondò. Tanto che nell'autunno di quell'anno Raiuno varò Domenica in , il varietà della rete ammiraglia».

Subito cambio di marcia.

«Volevamo rompere gli schemi tradizionali. Creammo le primogeniture e proponemmo il valletto muto Andy Luotto, un cugino italo-americano che sapeva dire solo: buono e no buono. Luotto era contrapposto alle ragazze parlanti , le inviate: Milly Carlucci, Isabella Rossellini, Silvia Annichiarico, Mimma Nocelli, Françoise Riviere. Completavano la redazione Michel Pergolani, Fabrizio Zampa e il fantasista Gianni Minà».

Più donne che uomini. Profetico.

«Frequentavo le femministe in via del Governo Vecchio, a Roma, con Mariangela Melato, la mia fidanzata. Mi chiedevo: come fanno a tollerare le vallette che aprono le buste ma non dicono una parola?».

Poi ci fu il 3139, il telefono a disposizione del pubblico.

«Alla radio c'era Chiamate Roma 3131 . In tv, niente. Il telefono era ritenuto pericoloso. Aprimmo l'epoca del: da dove chiama? Lanciavamo sciarade, rebus, enigmi. Inventammo il cruciverbone».

Qualche problema ci fu.

«Erano gli anni di piombo. Più che le parolacce temevamo le telefonate dei terroristi. Andai dal direttore Andrea Barbato e chiesi: se chiamano le Brigate rosse, che faccio? Lui: non riattaccare, lasciali parlare. Non capitò, ma...».

Ma...

 «Qualche anno fa venne a casa mia un fotografo francese per un servizio artistico (mai uscito). La sua assistente mi avvicinò: mi riconosci? Sono Adriana Faranda. Ricordai i timori di allora. Lei mi rivelò che più volte le Br avevano pensato di chiamare. Ma le linee erano sempre occupate».

Quale fu l'effetto delle Sorelle Bandiera, il primo gruppo «en travesti» della televisione?

«Dirompente. Allora non si osava. Ma Tito Le Duc, Neil Hansen e Mauro Bronchi piacquero subito ed entrarono nella Hit Parade con Fatti più in là che diventò uno slogan anche politico».

Di politica si parlava nei cartoon di Guido Manuli e Maurizio Nichetti nello spazio Gasad (Gruppi A Sinistra dell'Altra Domenica)?

«Mettevamo uno di fronte all'altro Craxi e Forlani. Papa Wojtyla giocava a tennis con Panatta e vinceva per intercessione dello Spirito Santo. Nessuno protestò, a eccezione dei socialisti quando ironizzammo su una riunificazione con il Pci. I guai veri vennero anni dopo con le minacce islamiche a Andy Luotto che faceva l'arabo a Quelli della notte».

Secondo un sondaggio tra i critici, «L'altra domenica» è il programma più rivoluzionario della tv italiana dopo «Il Fatto» di Enzo Biagi.

«Cercavamo di divertire il pubblico in un momento in cui, ahimè, c'era poco da sorridere. Facevamo goliardia buona, alto e basso. Marenco era il nostro campione».

Racconti.

 «Mario è stato un grande umorista. Lo mandavamo sul Tevere e lui raccontava di aver trovato il moncherino di Muzio Scevola. Era così bravo che Fellini volle fargli un provino per La città delle donne ».

Gli scoop furono tanti.

«Per la prima volta vedemmo Michael Jackson in tv: un bambino. Debuttarono da noi Vasco Rossi, che mi fu presentato come il nuovo Battisti, Pino Daniele e Paolo Conte».

Il sipario calò il 27 maggio 1979. Puntata speciale.

«Avevamo tutti voglia di cambiare. Le Sorelle Bandiera fecero in tempo a girare un film, L'importante è non farsi notar , presto dimenticato. Più tardi arrivò Il pap' occhio , che invece fu un successo».

La giornata di Renzo Arbore durante il lockdown?

«Sto in casa. Mi sono appena vaccinato. Lo scorso anno ho avuto la broncopolmonite e adesso vado cauto. Ho un canale su YouTube, renzoarborechannel.tv . Internet è una miniera di sapere. Ho la fissa di insegnare ai giovani the fondamentals , i fondamentali. Dico, ci si può dire umoristi senza conoscere il sarchiapone di Walter Chiari?».

«L'altra domenica» è la trasmissione che le assomiglia di più?

«Ho dato il meglio di me stesso per l'altra radio, l'altra musica, l'altro cinema. Fare anche l'altra tv era nell'ordine naturale delle cose, no?».

·        Riccardo Cocciante.

Mario Luzzatto Fegiz per corriere.it il 4 febbraio 2021. Una «Turandot» in cinese riscritta da Pasquale Panella e Riccardo Cocciante. Un progetto presentato con una conferenza stampa nella città proibita di Pechino, poco prima che scoppiasse l’epidemia. «Una catastrofe evitata per un soffio un attimo prima che la macchina produttiva e promozionale si mettesse in moto». Così racconta Riccardo Cocciante da Dublino, città in cui vive da 20 anni con la moglie Cathy e dove ha allevato il figlio David che ora ha 30 anni e vive a New York dove si occupa con successo di arti grafiche, («Una passione che aveva fin da ragazzo» spiega Riccardo). «In Cina — racconta Cocciante — dopo la prima di “Notre Dame” l’organizzatore mi chiese se ero disposto a scrivere un’opera per la Cina e/o sulla Cina. Così incominciai a lavorare con Pasquale Panella sul personaggio di Marco Polo. Ma il tentativo fallì. Quando comunicammo ai cinesi che gettavamo la spugna quelli replicarono: e perché non provate a riscrivere “Turandot”? Io ero perplesso visto che “Turandot” l’aveva scritta un geniale connazionale come Puccini. Poi mi ricordai che molte opere hanno più versioni come “Faust” o “Boheme”. E così ci mettemmo al lavoro. Nella nostra riscrittura vi sono elementi che non si trovano nella musica di Puccini. La nostra “Turandot” è fredda, rifiuta l’uomo in tutti sensi perché traumatizzata da una violenza cui ha assistito da bambina. La sua aggressività è comprensibile fin dall’inizio e si stempera quando poi finalmente finisce fra le braccia di Calaf. Insomma il racconto di una metamorfosi sentimentale. Ora aspettiamo solo di aver campo libero dal virus».

Come nasce il suo amore per la musica?

«Io vengo da una famiglia di melomani. Mia zia suonava il pianoforte e il melodramma è la musica con cui mi sono nutrito fin da bambino. Ero innamorato del “Barbiere di Siviglia”, adoravo la leggerezza di Rossini, la sua capacità di essere divertente e scanzonato. E poi amavo anche le opere francesi come “Faust”. Con la mia famiglia sono vissuto a Saigon fino all’età di 11 anni e non parlavo una parola di italiano. I miei idoli erano Becaud, Aznavour, Leo Ferrè. Arrivo in Italia a 11 anni e all’inizio mi trovo a disagio. Il mondo musicale italiano mi sembra ostile. Ma ci metto poco a cominciare ad apprezzarla soprattutto guardando la tv e i festival di Sanremo. Poi capisco di essere un artista che ha una doppia cultura, italiana e francese e decido che devo sfruttare l’alchimia dell’incrocio fra due culture».

Riccardo Vincent Cocciante è nato a Saigon (Ho Chi Minh), in Vietnam, il 20 febbraio 1946 sotto il segno dei Pesci. Figlio di un italiano originario di Rocca di Mezzo, in Abruzzo, e di una donna francese, emigra a 11 con la famiglia Roma, dove frequenta il Licyée Chateubriand. Entra nel giro dei cantautori nella comunità artistica «Il cenacolo» creato da Ennio Melis gran capo della RCA e fa amicizia sopratutto con Rino Gaetano. Fondamentale il suo rapporto con Ennio Morricone che arrangia molte delle sue canzoni. Cocciante nel 1983 si è sposato con Catherine Boutet, attrice che lo segue ancora oggi nella sua carriera e con cui nel settembre del 1990 ha avuto un figlio, David.

L’incontro con sua moglie?

«Casuale. Cathy faceva l’attrice ed era in partenza per gli Stati uniti dove era attesa in una scuola di New York. Ma Cathy, che si trovava a Roma per salutare una sorella, decise dopo il nostro incontro di non partire per stare con me. Nel 2022 celebriamo 50 anni di lavoro assieme. E non ha mai recriminato sulla scelta di lasciare il teatro per me».

Il prossimo anno lei festeggerà 50 anni di carriera.

«Si. Io ho avuto la fortuna di avere due filoni artistici diversi uno dall’altro: le canzoni e la musica popolare da una parte, le opere più complesse come “Notre Dame de Paris”, “Giulietta e Romeo” e “Il piccolo principe”. Ogni volta che scrivevo una melodia capivo a quale dei due filoni musicali fosse più adatta. Questo salvadanaio di musiche si è rivelato molto utile per “Notre dame”. Celebrerò il 50 anni con dischi in varie lingue e con concerti dal vivo in cui Cocciante canta Cocciante».

Perché vive in Irlanda? Per ragioni fiscali?

«No. L’amore per questo paese è nato venticinque di anni fa. Dall’incontro con l’autore di “Riverdance”, il musicista irlandese Bill Whelan. Una musicalità, un uso particolare delle percussioni che mi hanno influenzato negli arrangiamenti delle canzoni di “Notre Dame”. Ho trovato in Irlanda un popolo gioviale che assapora la libertà e l’indipendenza. Con tutti i pregi dell’Europa ma senza i difetti. Poi in Irlanda c’è musica dappertutto e si combinano elettronica e musica tradizionale. Un paese che ha uno strumento musicale (arpa celtica) perfino nella sua bandiera».

Altri Progetti?

«”Notre Dame” si è replicata fino al 31 dicembre in Corea. Interrotta per il virus, riprenderà in autunno. In Italia avrà lo stesso cast: confermato Giò di Tonno (Quasimodo), mentre Elhaida Dani, che ha partecipato alla prima edizione di The Voice of Italy proprio nella mia squadra, sarà Esmeralda».

Come spiega la longevità e il successo di Notre Dame?

«È qualcosa di attuale. È facilmente comprensibile e ha delle canzoni vere e proprie. In ogni Paese ho degli autori locali che mi supportano. Io ho creato con Luc Plamondon qualcosa di diverso dalla commedia musicale con alcune caratteristiche peculiari: anzitutto niente recitati, ma solo canto dall’inizio alla fine; poi un soggetto tragico senza il lieto fine che nei musical è obbligo. In “Notre Dame” l’artista deve cantare con l’anima e non solo con la voce. Con protagonisti che devono essere prima di tutto cantanti e poi attori».

E «Giulietta e Romeo»?

«È stata bloccata da noi perché non mi piaceva la messa in scena. E un’opera che col tempo verrà capita. Tornerà un scena appena possibile. Intanto la critica francese chiede di rivedere “Il piccolo principe”».

Chi è Cocciante che il 20 febbraio compirà 75 anni?

«Io sono un artista che non è catalogabile. Scrivo e pubblico quando lo sento. Io non rinnego “Bella senz’anima” che ha la stessa dignità dell’opera popolare “Notre Dame” che non è pomposa, ha belle canzoni difficili da cantare ma facili da comprendere. Io amo non essere complicato. Ogni epoca della vita esprime uno stile. Io ho cominciato puntando sull’irruenza espressiva».

Come nasce la collaborazione con Pasquale Panella?

«Semplice. Mi ha telefonato e mi ha detto: voglio scrivere la versione italiana di “Notre dame”. Io rimasi perplesso pensando agli ermetici versi che aveva composto per Battisti. E invece si è mosso con efficacia considerato che il francese è pieno di tronche. Deduco che proporre testi criptici per Battisti fu una scelta perché non era facile succedere a Mogol».

Come nascono le belle canzoni?

«È un mistero. Si fanno cose belle, meno belle e poi arriva un gioiello imprevisto come “Bella” di “Notre Dame”, “Margherita” o “Questione di Feeling” con Mina. A volte basta un nonnulla per cambiare il destino di un brano. Una tonalità, un dettaglio».

Chi sono gli artisti?

«Dei perfetti-difettosi che trasformano i difetti in pregi. La nostra imperfezione ci rende unici e non omologabili».

Qual è la svolta più importante della sua storia artistica?

«La svolta più importante è stata quella di smettere di nascondermi dietro al pianoforte, e andare al centro della scena».

Cosa pensa dei talent show?

«Nonostante io abbia una certa esperienza in fatto di provini non mi sono trovato bene nel ruolo di giudice. Non puoi decidere in pochi secondi. E poi è una fabbrica di illusioni».

Saigon Roma Milano e adesso Dublino...

«Io, nato al sole dei tropici, vissuto a Roma, amante del sole e del chiaro di luna, ho un approccio difficile con Milano. Eppure Milano, pur essendo buia, è culturalmente vivace. I romani sono pretenziosi, a Milano c’è più calore nella gente nel pubblico. Memorabili le serate allo Smeraldo. Ma io sono freddoloso e penso sempre Milano Buia».

Cosa rimprovera all’Italia?

«La poca attenzione al suo passato recente. Van bene le pietre del Colosseo, ma un museo su Cinecittà sarebbe un ottima idea».

Cosa fa Cocciante nel tempo libero?

«Mi alzo molto presto la mattina. Compongo e vado a dormire prestissimo. È la prima volta nella mia vita che non giro il mondo e rimango fisso in un posto. A tu per tu col fidato pianoforte».

Lei canta e scrive ispirandosi al presente. Qual è il messaggio della sua «Romeo e Giulietta»?

«Domina il contrasto fra l’odio di branco e l’amore dei due giovani. Montecchi e Capuleti che non son famiglie ma bande. Anche il buonsenso di qualche singolo viene travolto dall’odio. Le loro feste sono grevi, come dire disordinatamente medievali... Due clan che si affrontano per stupidaggini con conseguenze gravissime. E ciascuno crede di aver ragione. Il messaggio è: l’amore vero, l’amore puro, che nasce e cresce fregandosene delle regole è un fatto fortemente destabilizzante. Finisce per essere giudicato eversivo. Solo la tragedia di questi due amanti può forse ricondurre i violenti alla ragione».

Titoli di coda...

«Grazie ai miei coautori che non creano ornamenti per la musica ma qualcosa che la valorizza: Marco Luberti, Paolo Cassella, Mogol, Gaio Chiocchio e naturalmente Pasquale Panella con il quale vedo un futuro molto creativo».

·        Riccardo Fabbriconi: Blanco.

Da "vanityfair.it" il 27 settembre 2021. Il soffitto è basso, schiacciato sul letto a castello della cameretta dov’è cresciuto, a Calvagese della Riviera, e dove ha scritto la prima canzone neanche tre anni fa, per far colpo su una ragazzina. Si mette sdraiato e da lì parla, sintetico e abbastanza a strappi, pieno di puntini sospensivi e segreti che usa come selvaggina dell’anima a cui va a sparare nelle personali battute di caccia, e che saltano dai suoi occhi come conigli terrorizzati. Dice che è un pomeriggio in cui «se la sta sciallando», dopo giorni di promozione per parlare del suo disco di debutto Blu celeste, che ha colpito la critica e sta piacendo a tutti. Vicino al cuscino c’è una sua foto da bambino mentre ride nel sole, una risata spalancata che negli anni deve essersi un po’ perduta, perché ora ciò che resta di Blanco (il suo vero nome è Riccardo Fabbriconi) sono dodici canzoni fatte di una disperazione abbastanza invidiabile, buttata fuori con urla e strascichi, ringhi e sospiri, e versi che sembrano metafore e invece non lo sono. Dice che in molta musica italiana c’è poca autenticità, poca trasparenza, le storie raccontante dai cantanti sono spesso inventate, i toni sono esaltati: «Io invece dico solo quello che ho vissuto. Io ho diciotto anni e sono una creatura naturale», fa Blanco, stropicciandosi la faccia, non aggiungendo una parola, obbligando a una domanda. 

Quante volte ha rischiato di morire?

«Secondo me una volta sola, e basta». 

Un incidente.

«No…».

Quindi quei versi in Mezz’ora di sole non sono una metafora: «Sono in quel parco / nel 2018 / sporco di fango / mi volevo ammazzare».

«Non vorrei entrare nei particolari, però sì. Perché vede, se cerchi di vivere la vita in modo naturale, come faccio io, poi i bassi sono bassi per davvero, e te e il dolore diventate d’un tratto una cosa sola, e non lo colmi certo con una stupidata. Le emozioni sono una delle poche cose su cui non puoi aver dubbi: se soffri, soffri. Se sei felice, sei felice. Se bluffassi anche solo un po’, se non fossi uno che ha vissuto certe cose davvero, in modo selvaggio, gliele racconterei tranquillamente».

Che cosa l’ha salvata?

«Mi ha salvato la musica».

Fosse accaduto, di sé cosa avrebbe lasciato?

«Probabilmente niente».

Essere veri ed essere selvaggi sono sinonimi?

«Sì, perché alla fine selvaggi è quello che siamo davvero. I vestiti che portiamo addosso non ci rappresentano. Per come la vedo io siamo nudi, senza casa, senza soldi».

È selvaggio anche nell’intimità?

«Nell’intimità sono marcissimo, per gli standard di oggi quantomeno, e in quell’ambito è meglio non conoscermi proprio. Ma lo dico in senso positivo: cerco di stare completamente connesso col mio corpo». 

E cosa fa?

«Vado nei boschi, mi spoglio, resto con gli occhi chiusi e penso. Il mio culo appoggiato sulla terra fredda, il niente: dovrebbero provarlo tutti. Anche se penso che molti non ce la farebbero a restare lì così, all’intreccio tra vita e morte che poi è il filo conduttore di tutto il mio disco. Voglio che mi arrivi la verità. La consapevolezza che un Rolex non ti accompagnerà al creatore. Le emozioni invece sì. Quelle te le porti nella tomba».

Perché pensare alla vita e alla morte, a diciott’anni?

«Non lo so, è iniziato tutto durante quelle ore nei boschi, quel sentirsi un puntino nell’universo. Sembra una cosa molto pesante ma invece mi ha fatto bene. Siamo in un periodo storico dove tutto è artificiale. Invece ci vuole l’elemento umano. L’unica cosa che la tecnologia non arriverà mai a rimpiazzare è l’uomo».

Nel frattempo ha lasciato la scuola. Se ne pentirà, lo sa?

«Consiglio a tutti di non farlo, ovviamente, perché la cultura è alla base di tante cose. Ma penso anche di averne accumulata, in qualche modo. E penso che in parte la mancanza si possa compensare leggendo libri e vivendo la vita. E non dimentico di come la scuola può farti sentire, quella tendenza a trasformarti in una sorta di dipendente standard. Per adesso, sinceramente, non mi pento. Anche perché credo che a un certo punto si debba anche essere un po’ furbi».

Che scuola frequentava?

«L’istituto professionale per parrucchieri».

E come diavolo le era venuta in mente?

«Mi avevano detto che c’erano tante ragazze».

Lei sarebbe piaciuto a Pier Paolo Pasolini, lo sa?

«Mi scusi, ma non ho davvero idea di chi sia».

Un selvaggio, direi.

«Ecco, allora già mi piace».

Cosa intende dire dicendo che occorre essere «furbi»?

«Furbi verso la vita intendo, non certo nei riguardi delle persone. Bisogna andare dritti al sodo, a prendersi quello che si vuole. Certo, bisogna anche essere attrezzati…». 

Lei ha scritto la prima canzone tre anni fa. Lei è un talento puro e acerbo, ma non è attrezzato.

«Perché nella musica non ci vogliono schemi. Io ci metto dentro tutte le mie emozioni. Lei è l’unica cosa che mi fa alzare la mattina e pensare “che bello”. Senza la musica preferirei morire».

Le sue parole e le sue interpretazioni sono sempre molto psichiche, sembrano arrivare da un gorgo profondo.

«Dove il nero che vedi è il fondale. E sul fondale ci sono stato. Ma se quando lo tocchi sei leggero, se sei vero con te stesso, allora a un certo punto torni su a galla».

La canzone Figli di puttana è la sua Siamo solo noi?

«È un ricordo di quello che eravamo da ragazzini, io e i miei amici in provincia. Un po’ degli scappati di casa, vestiti male, a petto nudo sotto la pioggia mentre passavano le macchine, a fare il bagno nelle pozzanghere oppure nel fiume, a dicembre, per poi tornare a casa con la broncopolmonite. E poi le feste clandestine nei campi, con le casse a tutto volume che disturbavano il paese e la polizia che arrivava. Ricordo centinaia di persone che scappavano a caso, con le tende sotto braccio».

Il tutto, il niente.

«Il semplicissimo stare insieme. Per poi aspettare la noia: che ringrazio. E fossi cresciuto in città forse non avrei conosciuto. E che si è accumulata e infine canalizzata in musica».

Di cosa bisogna fottersene per vivere bene?

«Di tutto quello che è in più, del contorno. Quando mi preparo la mia pasta, dico vaffanculo alle patate».

Nel brano David, quando canta «Mi prendo cura di te», nell’interpretare raddoppia la «erre» e subito un’intenzione bella diventa minacciosa, un’offerta da rifiutare. Lei sente di essere un’offerta da rifiutare?

«In realtà non volevo trasmettere quella sensazione. Al contrario, raddoppio la erre per dare un’idea di determinazione. Le persone che ho attorno non le voglio cambiare. E voglio dare a tutti una mano».

Chi è Giulia?

«Mi scusi ma preferirei non dirglielo».

La tratta bene?

«Mi prendo cura di lei. Sempre».

·        Riccardo Muti.

Buon compleanno Muti. Ottant'anni da maestro della vera cultura italiana. Piera Anna Franini il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. È sempre stato rigoroso, filologico e patriottico in un mondo dominato dal pressapochismo. Oggi il direttore d'orchestra Riccardo Muti spegne 80 candeline. Lo si festeggia in tutto il mondo, da uomo di mondo qual è. Si parte da Chicago, dove è direttore di quel gioiello sonoro che è l'orchestra Sinfonica: è stato istituito il «Muti Day». Si arriva a Napoli, la città dove Muti è nato, in parte cresciuto, e soprattutto che ha nel sangue. Venerdì il Conservatorio partenopeo lo festeggerà con professori e studenti. Domani dirigerà al Quirinale per la riunione dei ministri della Cultura del G20. E su quel podio, non poteva che esserci quest'uomo, ambasciatore per eccellenza della cultura italiana. Tale non solo perché è l'artista italiano (di ogni forma d'arte) più noto al mondo, fa fede Google Trends, cliccare per credere. Ma perché usa la propria autorità e reputazione per ricordare (e bacchettare) a chi sta ai posti di comando che il sistema culturale di casa nostra è in caduta libera. Quante volte l'abbiamo visto, tra un bis e l'altro, rivolgersi al parterre dei politici e lanciare appelli, scoccare frecce da giornali e tv. «Vorrei che i proclami fatti da decenni venissero ascoltati. Nelle scuole deve essere ripristinato l'insegnamento della cultura musicale. L'Italia vanta la storia della musica più importante del mondo, abbiamo inventato l'opera, gli strumenti, il rigo musicale. Dobbiamo essere degni del nostro passato. Mi sento una voce che grida nel deserto, ma continuo a far battaglie: non per me, io ho avuto la fortuna di formarmi alla severa scuola italiana, lo dico per generazioni a venire. Io parlo come musicista, ma è un discorso generale: dobbiamo far sentire che siamo italiani, e questo non ha niente a che fare con nazionalismi e sovranismi, è la consapevolezza di appartenere a un grande Paese», ci ha detto nel corso degli anni in tante interviste. Un Paese che vanta una presenza capillare di teatri-gioiello, teatri spesso chiusi. «Riapriamoli tutti affidandone la gestione ai giovani musicisti», dice. Giovani per i quali Muti si batte con parole e fatti: nel 2004 lanciò l'Orchestra Cherubini per talenti italiani, una palestra di formazione triennale. E dal 2015, ha avviato la «Riccardo Muti Italian Opera Academy», progetto formativo per direttore d'orchestra, cantanti, pianisti accompagnatori che sotto la guida di Muti apprendono come si costruisce un'opera, mattone su mattone, battuta dopo battuta. Da anni seguiamo le Masterclass di Muti. L'approccio non cambia. Posa l'orologio e inizia a lavorare da mattina a sera, senza risparmio. Pezzi di vita spesa fra podi di valore e studio severo sono la sostanza di lezioni quotidiane pensate per «insegnare ai giovani direttori che la nostra musica non è seconda nessuna. Deve essere trattata con il rispetto che si dedica agli autori d'Oltralpe» ricorda puntualmente Muti che vive la docenza come una seconda pelle. Ne è intrigato, esige, chiede, spiega, e in fondo si diverte. Lo ricordiamo mentre sprona un ragazzo timido dicendo «Sei il boss in questo momento». E al fanciullo che eccede in perifrasi: «Vai al dunque. Parti dalla sostanza quando parli ai musicisti». Guai alle punte di pollice ed indice che nella destra si congiungono facendo il tondino: «È la mano dell'espressione, aprila». E su tutto: guai a fare di Giuseppe Verdi il musicista dello zum-pa-pà. «Verdi è il compositore che parla all'uomo dell'uomo. Nel futuro l'umanità avrà più bisogno di Verdi che di Wagner. Quando dirigi Wagner senti come una malia, una magia che non ti lascia e non ti farà dormire la notte. Verdi ti sa confortare. Ho studiato Verdi tutta la vita. E più lo studio, più capisco quanto bisogna fare». Verdi è Muti e Muti è Verdi. Ma il repertorio di questo artista è ampio. A dire il vero, in quest'ultimo anno s'è aggiunta una tessera: la Missa Solemnis di Beethoven, partitura che dirigerà alla testa dei Wiener Philharmoniker il prossimo agosto al Festival di Salisburgo. E così, torna alla guida di un'orchestra che mai nessuno ha frequentato quanto lui: si conta mezzo secolo di collaborazione mai interrotta. Un primato. E stiamo parlando del lusso musicale, un lusso talmente esclusivo e imprendibile che neppure Bernard Arnault (LVMH) riesce inglobare nella sua holding megagalattica. Muti ha riportato i Wiener in Italia questa primavera mentre i teatri tornavano a semi-aprirsi, e il primo gennaio li ha diretti per la sesta volta per il Capodanno musicale più famoso che vi sia, seguito da 50 milioni di spettatori. Spegnerà le candeline con la famiglia, la moglie Cristina Muti, sempre al fianco, ma all'occorrenza anche qualche passo indietro, una presenza costante, brillante, ironica. Non mancheranno i tre figli Francesco, Chiara e Domenico, e i nipoti. L'inseparabile cagnolino. Poi via, si lavora. Il vulcanico Muti non si ferma, non s'è mai fermato neppure durante il lockdown, nel giugno 2020 era già in pista con i suoi ragazzi dell'Orchestra Cherubini, con la sua solita carica vitale che mai abbiamo apprezzato così tanto come nei giorni bui della pandemia. Auguri Maestro. Piera Anna Franini

Dagoreport il 5 luglio 2021. “Ebbastaaa! Ancora Muti oggi sul Corriere. Una volta la settimana, diventa invasivo, poco sopportabile. Così si fa del male alla musica. Ci sono altri musicisti, non se ne può più di vedere sempre la stessa faccia e leggere gli stessi sermoni” (Marco Vizzardelli). Una volta alla settimana? Per verificare se il loggionista della Scala Marco Vizzardelli ha ragione basta sfogliare il Corriere della Sera. Dal primo gennaio 2021 a Riccardo Muti il Corriere ha dedicato 29 articoli (circa sei al mese, più di uno alla settimana), in genere di una pagina. Nella recente intervista di Aldo Cazzullo (al cui libro il Ravenna Festival di Muti aveva dedicato una serata!) addirittura due. L’unica occasione nella quale il Corriere non ha dedicato una pagina a Muti è accaduto quando ne doveva parlare, ovvero quando c’è stata una notizia: la sera dell’11 maggio, in occasione del ritorno alla Scala di Muti, questo – eternamente rancoroso verso il teatro e i suoi lavoratori – si è messo a inveire in camerino “sfanculando” il direttore musicale Riccardo Chailly, che era andato a omaggiarlo. Una scena mai vista in un teatro, documentata dai cronisti indipendenti e di fronte alla quale il giornale-istituzione avrebbe dovuto prendere le difese dell’istituzione, ovvero della Scala. Invece, no. C’è un legame poco chiaro, qualcosa come di occulto tra Muti e il Corriere della Sera a partire dai tempi del critico Paolo Isotta, che per vent’anni lo esaltò come nessuno al mondo per poi rompere e deriderne i comportamenti suoi e della famiglia. L’inginocchiamento in stile “Black lives matter” verso Muti esisteva già ai tempi in cui divampò il conflitto tra Muti e la Scala nel 2004: allora il condirettore factotum del Corriere era il fiorentino Paolo Ermini. Scaricato da Isotta e dalla Scala, Muti finì a Roma dove iniziò il sodalizio con il suo giornalista di riferimento Valerio Cappelli, che non ha mai fatto mancare articolesse ogni volta che fosse possibile e – bravura sua – anche quando era francamente non solo inutile, ma impossibile. Da inizio anno ci sono stati cambiamenti nel mondo della musica classica: ultimo la nomina di Daniela Gatti – che con Chailly e Pappano è oggi il più apprezzato direttore d’orchestra italiano – al Maggio Musicale fiorentino. Ma al Corriere niente, interessa solo Muti. Prendiamo i titoli di quattro paginate di Cappelli: “Muti commosso dopo un anno di streaming” (12/5/2021); “Riccardo Murti e l’orchestra Cherubini: tour in streaming” (28/2/2021) “Muti: mi hanno offeso” (4/2/2021), “Muti noi portiamo pace, solidarietà e fratellanza” (2/1/2021)… così moltiplicato per 29 articoli sul Corriere! Marketing? Certamente il Corriere ha realizzato, e magari realizzerà, collaterali che si avvalgono della firma di Riccardo Muti, come cd-rom ecc ecc. Ma non basta per giustificare tanta ossessiva presenza del maestro apulo-napoletano. “Muti con la figlia si gode Torino”, “Muti saluta Torino e promette: siete una eccellenza tornerò a lavorare qui”, “Donizetti alla prova di Muti”, “Muti ritorna all’Arena”… Muti di qua, Muti di là, meglio di Figaro, Muti è andato dal  barbiere, Muti è andato dal panettiere…C’è qualcosa di stonato in questo rapporto, come una trama lirica unito da un sigillo segreto. O Voi del Corriere, “Die ihr der Wandrer Schritte lenket” (“Voi che guidate il passo al viandante”), rivelateci qual è questo segreto.

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 27 giugno 2021.

Maestro Muti, qual è il suo primo ricordo?

«La guerra: mio padre in divisa da ufficiale medico. Poi, nel 1946, una gita in carrozza a Castel del Monte. Partimmo da Molfetta, viaggiammo tutta la notte. All' alba il cocchiere Nicola aprì la tendina, e apparve quella corona di pietra. Rimasi stupefatto. Da allora sono ossessionato da Federico II, ho la casa piena di libri su di lui. Ho anche comprato un pezzetto di terra lì vicino, con qualche piccolo trullo, che chiamano casedde, dove a maggio tra gli ulivi fioriscono le orchidee selvatiche. Spero di passare in contemplazione del castello questi ultimi anni che mi restano». 

Lei ne compie ottanta tra un mese.

«E mi sono stancato della vita». 

Perché dice questo?

«Perché è un mondo in cui non mi riconosco più. E siccome non posso pretendere che il mondo si adatti a me, preferisco togliermi di mezzo. Come nel Falstaff: "Tutto declina"».

Insisto: perché dice questo?

«Perché ho avuto la fortuna di crescere negli anni 50, di frequentare il liceo di Molfetta dove aveva studiato Salvemini, con professori non severi; severissimi. Ricordo un'interrogazione di latino alle medie. L' insegnante mi chiese: "Pluit aqua"; che caso è aqua? Anziché ablativo, risposi: nominativo. Mi afferrò per le orecchie e mi scosse come la corda di una campana. Grazie a quel professore, non ho più sbagliato una citazione in latino. Oggi lo arresterebbero». 

Rimpiange le punizioni corporali?

«Certo che no. Rimpiango la serietà. Lo spirito con cui Federico II fece scolpire sulla porta di Capua, sotto il busto di Pier delle Vigne e di Taddeo da Sessa, il motto: "Intrent securi qui quaerunt vivere puri"; entrino sicuri coloro che intendono vivere onestamente. Questa è la politica dell'immigrazione e dell'integrazione che servirebbe». 

Non riconosce più neanche il suo mestiere?

«Purtroppo no. La direzione d' orchestra è spesso diventata una professione di comodo.

Sovente i giovani arrivano a dirigere senza studi lunghi e seri. Affrontano opere monumentali all' inizio dell'attività, basandosi sull' efficienza del gesto, talora della gesticolazione». 

Gesticolazione?

«Toscanini diceva che le braccia sono l'estensione della mente. Oggi molti direttori d' orchestra usano il podio per gesticolazioni eccessive, da show, cercando di colpire un pubblico più incline a ciò che vede e meno a ciò che sente».

Chi? Faccia i nomi.

«No».

I nomi.

«Non voglio polemiche personali: farei il gioco dei promotori di se stessi. Il mio maestro, Antonino Votto, diceva che il direttore doveva aver respirato la polvere del palcoscenico.

Invece le orchestre, i cori, i cantanti lamentano una mancanza sempre più evidente di informazioni musicali e drammaturgiche da parte dei direttori. Non si fanno neppure più prove serie».

Neanche le prove?

«Le prove di sala, con il direttore al pianoforte che prepara la compagnia di canto, diminuiscono sempre più, in favore di settimane e settimane di prove date spesso a registi ignari di musica, che non soltanto non sanno leggere una partitura, ma sempre più sovente inventano storie che vanno contro il discorso musicale. Nel carteggio con Kandinsky, Schoenberg sottolinea che, se la regia e la scenografia disturbano la musica, sono sbagliate. E certo Schoenberg non era un reazionario». 

Forse lei sì.

«Non credo. Sono il direttore che ha fatto più produzioni, nove dagli anni 70, insieme con Ronconi, che certo non era un reazionario, soprattutto a quell' epoca. Sono ancora sotto l'influenza di Strehler, che non soltanto conosceva la musica ed era in grado di leggere una partitura, ma perseguiva il Bello: non come fatto estetico, come necessità della vera arte. Le mie produzioni con Strehler - Le Nozze di Figaro, il Don Giovanni, il Falstaff - mi hanno accompagnato e mi accompagneranno per tutta la vita e mi hanno insegnato molto. Ecco perché talvolta, forse esagerando, dico che sono stanco della vita. Penso di non appartenere più a un mondo che sta capovolgendo del tutto quei principi di cultura, di etica nell' arte con cui sono cresciuto e che i miei insegnanti al liceo e al conservatorio mi hanno comunicato». 

Ha qualche rimpianto?

«Sì. Proprio adesso che ho finito di dirigere Aida in forma di concerto all' Arena, il mio rimpianto è non aver potuto fare Aida con Strehler, com' era nei nostri piani». 

Come sarebbe stata?

«Senza elefanti. Giorgio credeva in un'Aida dove il trionfo fosse solo nella musica, non in quel faraonismo che ha caratterizzato le produzioni di Aida dovunque nel mondo, fino a diventare il simbolo stesso di Aida, nuocendo alla vera essenza dell'opera. Che è costruita su una delle partiture più raffinate e delicate di Verdi. E questo non vale solo per Aida». 

Cosa intende dire?

«Non vorrei essere l'uccello del malaugurio; ma il costo esorbitante di scenografie e costumi, accanto alla scarsa competenza e autorevolezza dei direttori d' orchestra che - con le dovute eccezioni - lasciano i cantanti senza guida, mi preoccupano sul futuro dell'opera. L' Italia è piena di teatri del '700 e dell'800 ancora chiusi. L'ho detto a Franceschini: riapriteli, dateli ai giovani. Formate nuove orchestre: ci sono Regioni che non ne hanno. Aiutate le centinaia di bande che languiscono, ridotte al silenzio da un anno e mezzo, con il disastro economico delle famiglie. Dobbiamo fare molte cose, se vogliamo che il nostro patrimonio operistico, il più eseguito al mondo, non sia considerato occasione di piacevole intrattenimento ma fonte di educazione e cultura, come le opere di Mozart, Wagner, Strauss. Verdi non è zum-pa-pa!».

Com' erano davvero i suoi rapporti con Abbado?

«Tra noi c' è stata sempre ammirazione reciproca. Hanno voluto montare una rivalità tipo Callas-Tebaldi o Coppi-Bartali: tutto falso. Quando sono andato al conservatorio di Milano, Abbado era già in carriera: abbiamo avuto rare occasioni di incontrarci, ma sempre cordiali». 

E con Pavarotti?

«Ho cominciato a lavorare con lui nel 1969, con I Puritani alla Rai di Roma. Poi abbiamo avuto momenti di frizione...». 

Per quale motivo?

«Fatti tecnici. Incomprensioni musicali.

Tramutate in una grande amicizia. Devo a Pavarotti una delle più belle, se non la più bella voce della seconda metà del Novecento. Lui mi ha regalato cose meravigliose: un Pagliacci registrato in disco a Filadelfia, un Requiem di Verdi alla Scala, e soprattutto il Don Carlo scaligero, dove Pavarotti in particolare nel finale dà una lezione di tecnica vocale, di fraseggio perfetto, davvero di grande ispirazione. Sulle parole "ma lassù ci vedremo in un mondo migliore" riconosco la sua generosità. Diversi anni prima che morisse, mia moglie e io lo invitammo a Forlì a un concerto di beneficenza per una comunità di tossicodipendenti. Pavarotti venne apposta dall' America. Non volle una lira, si pagò lui il biglietto aereo. Lo accompagnai per tutta la serata al pianoforte, di fronte a settemila persone. Un gesto che non potrò mai dimenticare». 

Qual è l'ultimo ricordo che ha di lui?

«La salma nel Duomo di Modena, la piazza che risuona del famoso "Vincerò...". Io avrei preferito che fosse messo il finale del Don Carlo. Non solo per il significato delle parole, ma anche per la lezione di canto, per la sottolineatura di un aspetto della vocalità di Pavarotti non trionfalistica ma intima e delicata».

Lei pensa che davvero ci vedremo in un mondo migliore?

«Non lo so. Certo non nei Campi Elisi. Spero ci sia tanta luce; mi basta che non ci sia la metempsicosi. Non ho voglia di rinascere, tanto meno ragno o topo, ma neanche leone. Una vita è più che sufficiente». 

Crede in Dio?

«Ho avuto una formazione cattolica. Ho ammirato molto papa Ratzinger, anche come magnifico musicista. Non credo nei santini di Gesù biondo. Dentro di noi c' è un'energia cosmica che ci sopravvive, perché è divina. Ricordo la morte di mia madre Gilda: ebbi netta la sensazione che il suo corpo diventasse pesante come marmo, mentre si liberava un flusso, l'energia vitale. Sento che l'universo è attraversato da raggi sonori che arrivano fino a noi; ed è la ragione per cui abbiamo la musica. I raggi sonori che hanno attraversato Mozart sono infiniti». 

Chi ha dato la migliore definizione della musica?

«Dante. Paradiso, canto XIV: "E come giga e arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce tintinno/ a tal da cui la nota non è intesa,/così da' lumi che lì m' apparinno/ s' accogliea per la croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender l' inno". La musica è rapimento, non comprensione. Critici musicali, tutti a casa! Non c' è niente da comprendere. Come diceva Mozart, la musica più profonda è quella che è tra le note o dietro le note». 

Come ha passato il lockdown?

«A studiare. La Missa Solemnis di Beethoven. La mia prima partitura è del 1970. Ci lavoro da più di mezzo secolo, ma non ho mai osato dirigerla. Lo farò ad agosto a Salisburgo. È la Cappella Sistina della musica: la sola idea di accostarla mi ha sempre dato grande timore. Ci sono dettagli di importanza enorme. Al "Miserere nobis" Beethoven premette un "O", che presuppone un interlocutore. Beethoven ha sentito che l'invocazione era rivolta a Qualcuno. Pare un dettaglio, ma apre un mondo. Significa che un Essere superiore esiste». 

Quindi non è stato un brutto lockdown.

«A parte lo studio, è stato orribile. La disumanizzazione si è fatta ancora più profonda. La mancanza di rapporti umani è terrificante. Entri al ristorante e vedi al tavolo cinque persone tutte chine sul loro smartphone... Io non lo posseggo e non lo voglio. Me ne hanno dovuto dare uno, per entrare in Giappone, ma non sono riuscito ad accenderlo. La tv avrebbe dovuto approfittare del lockdown per fare trasmissioni educative. Invece, a parte qualche bel documentario, siamo stati invasi da virologi, da sedicenti "scienziati". Per me scienziato era Guglielmo Marconi!». 

Non ama i talk-show?

«Riesco a seguire un contrappunto in otto parti musicali che si intersecano una con l'altra, ma non riesco a capire due persone che si parlano una sull' altra. Creano disarmonia, cacofonia; mentre otto linee musicali una diversa dall' altra devono concorrere al raggiungimento dell'armonia. La banalità della tv e della Rete, questo divertimento superficiale, la mancanza di colloquio mi preoccupano molto per la formazione dei giovani».

Lei è di destra o di sinistra?

«Né l'uno né l'altro. Sono tra quelli che tentano di dare indicazioni utili. A Firenze negli anni 70 ero amico di molti comunisti, tra cui Paolo Barile, il costituzionalista; ma siccome usavo spesso parole come "patria" e mi piaceva eseguire l'inno di Mameli, qualcuno sentì odore di idee di destra. Io sono nato uomo libero e tale rimango. Sono cresciuto con dettami salveminiani, socialista non bolscevico. Non mi sono mai affiliato a una congrega». 

C' è un eccesso di politicamente corretto anche nella musica?

«Con il Metoo, Da Ponte e Mozart finirebbero in galera. Definiscono Bach, Beethoven, Schubert "musica colonialista": come si fa? Schubert poi era una persona dolcissima... C' è un movimento secondo cui, nel preparare una stagione musicale, dovrebbe esserci un equilibrio tra uomini, donne, colori di pelle diversi, transgender, in modo che tutte le questioni sociali, etniche, genetiche siano rappresentate. Lo trovo molto strano. La scelta va fatta in base al valore e al talento. Senza discriminazioni, in un senso o nell' altro. Posso parlare perché la maggior parte dei "Composers-in-Residence" che abbiamo ospitato in questi dieci anni a Chicago sono donne». 

È vero che da bambino pensavano che lei non avesse talento?

«Papà mi regalò a Natale un violino. Piansi; volevo un fucile con il tappo. Dopo due mesi di vani tentativi di leggere i solfeggi, papà disse: "Il piccolo Riccardo non è portato per la musica". Mamma concluse: "Proviamo ancora un mese". D' un tratto imparai a solfeggiare. Ma l'incontro decisivo fu con Nino Rota». 

Il compositore dei film di Fellini.

«Diedi con lui a Bari l'esame del quinto corso di pianoforte da privatista: mi diede 10 e lode in tutte le prove. Così decisi di iscrivermi al conservatorio. La mattina andavo al liceo, il pomeriggio prendevo la corriera per Bari». 

Per essere stanco della vita, lei è sempre in giro.

«Credo nei viaggi dell'amicizia e della pace. Non lavori per il successo, la quantità di applausi e articoli; lo fai perché capisci che la nostra professione è una missione. Ho diretto il primo concerto a Sarajevo dopo i bombardamenti, il Va' pensiero a New York nel buco lasciato dalle Torri Gemelle abbattute. Una sera ho diretto a Erevan, in Armenia, e la sera dopo a Istanbul. Ricordo a Nairobi un coro di bambini meraviglioso: avevano studiato il Va' pensiero con una pronuncia assolutamente perfetta, mi commuovo ancora se ci penso. Ma a volte mi sembra di parlare ai sordi. Muti che parla ai sordi... Avvilente. Non è mancanza di volontà; è ignoranza atavica. E dire che le radici della musica mondiale sono in Italia: Palestrina, Monteverdi, Frescobaldi, Luca Marenzio, Scarlatti...». 

Ha paura della morte?

«No. Da ragazzo andavamo la sera al cimitero a vedere i fuochi fatui. Ho conosciuto l'ultima prefica, Giustina: raccontava i pregi del morto, disteso sul letto nell' unica stanza della casa, la porta aperta sulla strada, alle pareti la foto del fratello bersagliere e dello zio ardito Un mondo semplice e fantastico, che mi manca moltissimo. Per questo le dico che appartengo a un'altra epoca. Oggi il mondo va così veloce, travolge tutto, anche queste cose semplici, che sono di una profonda umanità...».

Quindi non teme la fine?

«Non in sé. Mi dispiace lasciare gli affetti.

Mia moglie, i miei figli Francesco, Chiara e Domenico, i nipoti. E gli animali». 

Quali animali?

«Il cane Cooper, un maltese. In campagna abbiamo colombe, conigli, galline, galli, e due asini sardi, Gaetano e Lampo: intelligentissimi. Si affezionano, ti guardano interrogativi con i loro occhi rosa... E noi diamo del cane e dell'asino come se fossero insulti». 

Come vorrebbe i suoi funerali?

«Scherzosamente dico che lascerò l'indicazione di brani musicali da eseguire in chiesa attraverso incisioni, rigorosamente dirette da me». 

Perché?

«Non perché le ritenga le migliori; voglio che si ricordino come dirigevo Mozart, Schubert, Brahms. Se non sono io, me ne accorgo subito, e c' è la probabilità che si apra la bara...

(Muti sorride). C' è una cosa però su cui sono serissimo». 

Quale?

«Ai miei funerali non voglio applausi. Sono cresciuto in un mondo in cui ai funerali c' ra un silenzio terrificante. Ognuno era chiuso nel suo vero o falso dolore. Per i più abbienti c'era la banda che eseguiva lo Stabat Mater di Rossini o marce funebri molfettesi, famose in Puglia. I primi applausi li ricordo ai funerali di Totò e della Magnani, ma erano riconoscimenti alla loro capacità di interpretare l'anima di Napoli, di Roma, della nazione. Quando sarà il mio turno, vorrei che ci fosse il silenzio assoluto. Se qualcuno applaude, giuro che torno a disturbarlo di notte, nei momenti più intimi».

Vittorio Feltri risponde a Riccardo Muti: "Mi sono stancato della vita? Perché spero di andarmene prima di te". Libero Quotidiano il 29 giugno 2021. Conosco Riccardo Muti da parecchi anni e ascoltandolo ho capito che è un genio. Egli è un essere divino perché ha compreso una cosa importante. Questa. La vera rivoluzione è la normalità. Pensa che sia necessario fare le cose per bene, ciò che richiede studio e passione. Non solo nella musica, campo nel quale è un asso anche se lui non lo sa fino in fondo, forse lo sospetta quando ascolta certi direttori d'orchestra che vanno per la maggiore pur essendo minori. Ieri sul Corriere della sera è uscita un'intervista che il maestro ha affidato ad Aldo Cazzullo, forse il migliore giornalista italiano. Me la sono bevuta commuovendomi. Riccardo esprime tanti concetti e ammetto di condividerli tutti, anche i più atroci: "questo mondo non mi va più. Gradisco la spontaneità, detesto le discussioni politiche in tv durante le quali le voci degli ospiti si sovrappongono". Ovvio, un musicista di alto profilo non può tollerare il chiacchiericcio, i rumori molesti. Un particolare mi ha colpito fra i tanti che ha detto: sono un ammiratore e un seguace di Gaetano Salvemini, amo certi pensieri politici, non la politica militante. Nel mio piccolo confesso che da giovane ero iscritto al Circolo culturale Salvemini, il migliore e il più attivo di Bergamo, all'epoca. Oggi se cito Salvemini in una conversazione pensano che mi riferisca a un calciatore, anzi, ex. Muti non è un uomo banale ma pratica la linearità, che non è una chiave soltanto musicale bensì la chiave della vita. Bacchetta Magica da bambino sembrava negato per i solfeggi, poi in un mese li imparò perfettamente. Passò dal violino al pianoforte col quale si è diplomato al conservatorio. Inutile ripercorrere la sua grandiosa carriera, la conosce chiunque non sia cretino. Egli è in procinto di compiere ottanta anni e capisco che non ne possa più di campare fra gente che non sa nulla eppure assume atteggiamenti professorali. Muti discetta disinvoltamente anche della morte, consapevole che nel futuro di ogni uomo, anche intelligente quanto lui, c'è una tomba. Non so se abbia dei difetti, se ne ha li ho anche io che non ho le sue doti. Un giorno gli ho detto che pure io sono stato un pianista da strapazzo e lui ha riso. Giusto. Quando suonavo facevo ridere. Mi auguro di andare all'altro mondo prima di Riccardo perché vorrei ascoltare sino al termine la sua musica.

·        Riccardo Scamarcio.

Scamarcio avrà pure il diritto di invecchiare. O no? Angela Rizzica Il Quotidiano del Sud l'8 febbraio 2021. È ormai lontano il ricordo del celebre tutorial su come indossare i tacchi al supermercato per agguantare, con leggiadria, l’ultimo pacco di cereali. Pure gli insulti rivolti a Vanessa Incontrada per le sue (a mio avviso invidiabili) curve sono ormai un semplice ricordo. Ancora si sente, sebbene solo in lontananza, l’eco delle femministe, degli indignati e dei garanti dell’integrità psicofisica altrui. Peccato che la stessa pronta, decisa e solerte risposta non sia giunta in difesa di Riccardo Scamarcio. L’attore, infatti, ospite di una delle ultime puntate di “Che Tempo Che Fa”, ha avuto modo di presentare dallo studio di Fazio il suo nuovo film, “L’Ultimo Paradiso”, per la piattaforma Netflix. Nulla di particolarmente rilevante è accaduto durante la puntata: siamo ormai abituati agli attori che vengono ospitati nelle più varie trasmissioni per promuovere i loro ultimi lavori e, causa pandemia, questa attività promozionale sembra essere diventata non solo diffusa ma finanche necessaria. Il problema arriva in un secondo momento, leggendo i commenti sotto alla foto della puntata postata sul profilo Instagram del programma: il primo piano di Riccardo Scamarcio è stato letteralmente ricoperto di insulti. Il pubblico (buona parte femminile) ha trovato il sex symbol di “Tre metri sopra il cielo”, il mitico Step, “ingrassato” e “invecchiato malissimo“; ma anche “orrendo” e, per parafrasare, poco incline all’igiene personale. Eppure… eppure: nessuna battaglia per il diritto all’autodeterminazione, nessuna crociata per il diritto ad essere unici. Solo un mesto, infausto e grave silenzio. Le femministe, gli indignati ed i garanti dell’integrità psicofisica altrui di cui sopra tacciono omertosi dopo essersi scagliati, con vigore e in tempi recentissimi, contro il fenomeno del body shaming, null’altro che l’atto di deridere/discriminare una persona per il suo aspetto fisico nella sua versione anglofona, decisamente più accattivante. Da atteggiamenti simili, emerge una prospettiva decisamente allarmante e certamente opposta ai valori che si cerca in ogni modo di affermare: il body shaming è intollerabile solo se a subirlo è una donna. L’uomo, al contrario, deve sottostare ad ogni tipo di angheria ed il suo aspetto può essere aspramente criticato (per essere gentili) da chiunque e in qualunque modo. Dove sono finiti, quindi, i paladini e le paladine del “ogni corpo è bello e nessuno si può permettere di prendere in giro qualcun altro per il suo aspetto fisico”? Dove sono finite le testate giornalistiche che urlano allo scandalo perché “nella società dell’apparenza, il talento ed i meriti sono sempre in secondo piano”? E così, il corpo della donna non deve essere oggettivato per compiacere, pure al supermercato, i lombi del maschio ma quello di un uomo può essere sottoposto al pubblico ludibrio, pure sui social, per il perverso piacere della femmina. Per le donne non debbono valere i canoni di bellezza ipotetici, eterodiretti e irraggiungibili proposti dai media e dalle copertine (ritoccate) dei tabloid; per gli uomini, invece, valgono eccome. Il corpo femminile deve sottrarsi e/o essere liberato dalla pressione sociale, sdoganandone ed esaltandone l’unicità fino al parossismo, fino a negare finanche il fisiologico invecchiamento; il corpo maschile deve, al contrario, reggere il confronto col branco, perché il maschio alpha bianco, eterosessuale, cisgender e occidentale è un nemico da sconfiggere ad ogni costo ma non si azzardasse mai a rinnegare esso stesso il proprio status per sposare l’ampio concetto di “diversità” nelle sue antropologiche e bellissime sfumature. Torna allora la domanda: dove sono finiti tutti/e? Non c’è più nessuno o nessuna a difendere il diritto di Scamarcio ad invecchiare, ad ingrassare, a dimagrire, a vestire come meglio crede? Sono tutti in omertoso silenzio o, peggio, sono ancora impegnati a commentare la foto su Instagram perché, nella foga, qualche insulto è sfuggito.

Gianluca Veneziani per "Libero quotidiano" il 4 febbraio 2021. Certo, che cattiveria. Provi un fastidio fisico, come se avessero offeso te, quando leggi lo stuolo di insulti e improperi destinati a Riccardo Scamarcio, ospite l'altro giorno del programma Che tempo che fa. L' attore pugliese, già sex symbol idolatrato dalle ragazzine e oggi 41enne, si è presentato in studio in tenuta informale, con qualche chilo in più e i normali segni del tempo che passa, oltre a una zazzera riccioluta un po' disordinatamente raccolta all' indietro. Scamarcio era lì per promuovere il suo nuovo film, di cui è attore, co-sceneggiatore e produttore, ossia L' ultimo paradiso, dal 5 febbraio su Netflix, storia di un contadino nella Puglia degli anni '50 che si trova a lottare per amore e per guadagnarsi il riscatto sociale.

Raffica di commenti. Ma gli occhi di tutti, o meglio di tutte, si sono concentrati sul suo volto, la sua forma atletica e la sua acconciatura. Sul profilo social di Che tempo che fa, dove veniva postata una foto dell' attore, fioccavano a raffica commenti spregiativi, sfottò per nulla benevoli o vere e proprie frasi ingiuriose. Scamarcio veniva bersagliato per le rughe («È proprio brutto», «è orrendo», «è invecchiato malissimo»), per il peso («È grasso», «è ingrassato e sformato», «pare lievitato» «ma che s' è magnato?», «un po' di dieta, no?») e per i capelli apparentemente troppo unti («Lavarsi ogni tanto?», «Riccardo, uno shampoo lo devi fare»). Si trattava a tutti gli effetti di body shaming, ossia di denigrazione basata sull' aspetto fisico, per di più nutrita di un certo compiacimento sadico da parte degli odiatori della rete, in quanto a essersi (a loro giudizio) imbruttito era un ex bello del cinema. Eccoti tornato tra noi comuni mortali - era la morale - il passare del tempo si è fatto sentire pure per te, il successo ti ha ridotto cosi... Disprezzo estetico abbinato a godimento per le disgrazie (se tale può definirsi l' invecchiamento) altrui. Ce ne sarebbe di che sollevare una campagna di opinione a difesa di Scamarcio e di tutti gli uomini, più o meno ingrassati e più o meno trasandati, ingiustamente resi oggetto di ludibrio; una sorta di movimento Men Too, rovescio al maschile del Me Too. Siccome tuttavia questi attacchi colpiscono un maschio, allora passano sotto silenzio, non generano un' ondata pubblica di indignazione, anzi vengono quasi ritenuti ammissibili, manco fossero il prezzo necessario da pagare per la fama. E nessuno parla certo di sessismo, come invece sarebbe corretto, dal momento che buona parte degli insulti provengono appunto da donne. L' unico a uscirne alla grande è Scamarcio che, signorilmente, ieri sul Corriere della Sera, a proposito della sua perduta allure di idolo braccato da nugoli di sostenitrici, commentava serafico: «Ormai sono âgé, sono certo che le ragazzine di oggi troveranno altri idoli». Altri interessi Del resto, i suoi interessi ora vertono su altre questioni, più alte, anche se meno sensibili all' apprezzamento di folle femminili adoranti: nel privato Scamarcio è da poco diventato papà, sul set si dedica a progetti impegnati, come questo di raccontare la vita agra degli "zappatori" del Sud, le loro esistenze segnate dal sacrificio, dallo sporco e dalle rughe nobili della fatica. A chi bada solo alla superficie tutto ciò non interessa: anzi costoro quasi godono nel cercare di sprofondare l' attore da tre metri sopra il cielo a tre metri sotto terra. Ma, da conterranei e quasi coetanei di Scamarcio, ci permettiamo di dargli un consiglio: Riccardo, non avere paura di invecchiare perché, come sanno bene i contadini, le radici profonde non gelano.

Riccardo Scamarcio, l’amore per la figlia: “Sono padre in modo fisico”. Alice su Notizie.it il 04/02/2021. Riccardo Scamarcio è diventato papà, e per la prima volta ha confessato il suo amore per la figlia. Per la prima volta Riccardo Scamarcio ha parlato di sua figlia Emily, nata dall’amore per la manager inglese Angharad Wood. La gravidanza e la nascita della bambina erano state tenute dai due sotto il massimo riserbo, e l’attore non aveva voluto rivelare pubblicamente neanche il nome di sua figlia. Archiviata la sua lunga storia d’amore con Valeria Golino, Riccardo Scamarcio ha ritrovato la felicità accanto ad Angharad Wood, con cui ha avuto una bambina, Emily. L’attore e la sua compagna hanno vissuto l’arrivo della piccola con il massimo riserbo, e finora Scamarcio ha parlato mal volentieri della sua nuova paternità e dell’arrivo della piccola Emily. Per la prima volta, a 7 mesi dalla nascita della bambina, l’attore ha confessato tutto il suo amore per lei: “Sono diventato padre e ho capito che l’amore per un figlio non ti prevede, va al di là di te. Avere un figlio è un amore ancestrale. E con la paternità al cinema non ho rallentato, anzi ho accelerato, lo porto a casa”, ha affermato, e ha aggiunto: “L’amore filiale, da noi, si porta in modo fisico, ai bambini si mettono le mani sul volto, ci si parla in dialetto, si crea una lingua speciale con cui si supera il pudore tra padre e figlio, è qualcosa che conosco, ci sono cresciuto anche se mio padre non era estremamente affettuoso”. L’attore e la sua compagna hanno preferito mantenere la massima riservatezza sulla gravidanza e la nascita della piccola, e a rivelarne il nome è stata la stampa (mentre i due hanno preferito glissare alle domande a tal proposito).

Chi è la compagna di Riccardo Scamarcio e perché è finita la storia con Valeria Golino. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Gennaio 2021. Attore e produttore cinematografico, Riccardo Scamarcio torna sullo schermo in “L’ultimo Paradiso”, il film da lui scritto, prodotto e interpretato, su Netflix dal 5 febbraio. Per lui ci sono molte novità tra cui quella di essere diventato padre durante l’estate 2020. La piccola si chiama Emily ed è nata dalla sua unione con Angharad Wood che lo ha reso padre per la prima volta. Secondo alcune indiscrezioni Scamarcio e Wood sarebbero anche convolati a nozze lontano dagli obiettivi. Angharad Wood, manager e avvocatessa di origini londinesi, è nata nel 1974 e ha 6 anni in più di Scamarcio. L’attore l’avrebbe conosciuta qualche anno dopo la fine della lunghissima relazione con Valeria Golino nel 2018. Già mamma di una bambina avuta in una precedente relazione, Angharad Wood è l’anima della talent & literary agency Tavistock Wood, un’agenzia di management che cura i rapporti professionali di attori e scrittori la cui sede è a Londra. Tra i clienti seguiti figurano Alessandra Mastronardi, Dominic West, Dustin Hoffmann, Eva Green, Kasia Smutniak. I due si sarebbero conosciuti per questioni lavorative. L’attore si è lasciato alle spalle la relazione con Valeria Golino durata 12 anni. Scamarcio e Golino non hanno mai parlato pubblicamente dei motivi della loro storia ma dalle successive interviste è trapelata una certa amarezza. “Una fortissima delusione sentimentale, la più grande della mia vita. D’altra parte più c’è amore e più si soffre. Tutti diamo il peggio di noi stessi in certe circostanze”, aveva detto l’attrice in un’intervista a F.

·        Ricchi e Poveri.

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" l'1 marzo 2021. È una vita che mi chiedo: come mai i Ricchi e Poveri non sono gli Abba? Perché non è stato fatto un musical su di loro? Perché non un film? Le loro canzoni non potevano diventare una storia d' amore da far impallidire «Mamma mia»? Martedì sera, i Ricchi e Poveri erano protagonisti di «A grande richiesta», uno dei programmi più privi d' idee che la storia di Rai1 ricordi. Non importa. L' importante è che ci fosse anche Marina Occhiena e che lei e Angela Brambati siano tornate le amiche geniali di un tempo. Adesso, i più tignosi stanno a fare le pulci su come le canzoni sono reinterpretate dopo il ritorno dell' esiliata (un esilio durato una quarantina d' anni) ma sono minuzie. A Carlo Conti hanno raccontato le solite cose: come li ha scoperti Franco Califano che offriva loro le cene («Ah, ma allora siete ricchi di spirito, ma poveri di tasca»; di lì il nome Ricchi e Poveri); le esperienze teatrali con Garinei e Giovannini (che, evidentemente non hanno creduto in loro, altrimenti ciao Abba); un musical, «Sarà perché ti amo», fatto da altri e presto abortito; gli Abba che si sono ispirati a loro: «Hanno studiato le nostre canzoni e le nostre armonie come noi abbiamo fatto con i Mamas & Papas. Quindi non ci hanno copiato, ma c' erano delle idee musicali, il modo di armonizzare, era abbastanza simile». Sì, ma perché dagli Abba è venuto fuori un film come «Mamma mia» e dai Ricchi e Poveri solo la partecipazione a un film di Giulio Paradisi, «Terzo Canale. Avventura a Montecarlo»? Tutta colpa della Russia. Ci dev' essere un complotto, come sostiene Angelo: «I russi e i francesi hanno un rispetto maggiore delle star nazionali. Il problema in Italia è che siamo modaioli: vanno molto le band inglesi o americane. In Russia, invece, la moda siamo noi». Ma allora perché la Russia non ha realizzato la risposta a «Mamma mia»? Domanda che Giggino Di Maio, ministro degli Esteri, dovrebbe porre a Vladimir Putin.

DAGONOTA l'1 marzo 2021. Intanto, dal 1967 le loro canzonette hanno resistito ai vari tipi di rockismi senza opporvisi, hanno saputo assimilare senza problemi le nuove tecnologie, la canzone d'autore e persino la discomusic. I Ricchi e Poveri rappresentano, di contro ai tumultuosi ed effimeri cambiamenti del gusto caratteristici della musica leggera, ciò che resta sempre uguale ma che riascoltato a distanza di decenni non diventa sorpassato, consolatorio, ridicolo o mero oggetto di nostalgia. Sono un Classico che i molti Sanremi, non sono ancora riusciti a mummificare. Come gli Abba, dunque, è un gruppo-stereotipo, e ciò spiega il loro modo di cantare, che è solo valenza di un'anima non pop ma nazional popolare. A questo punto, il fatto che non sia stato fatto un musical su di loro, né tantomeno un film, ha a che vedere solo con il mercato globale di lingua inglese, preferendo loro quello russo e latino; come del resto è capitato a giganti come Mina e Battisti. Unica eccezione il recente film-kitsch spagnolo “Ballo ballo” costruito sulle eterne canzoni di Raffaella Carrà.

Ernesto Assante per “la Repubblica” il 22 febbraio 2021. Poter contare cinquantaquattro anni di vita per una band è un record. Tale da metterli, come longevità, nello stesso rango dei Rolling Stones o degli Who, «una compagnia niente male» dice Angelo Sotgiu. Una compagnia che potrebbe sembrare curiosa: cosa hanno a che fare con il rock i Ricchi e Poveri, che dopo la clamorosa reunion sul palco di Sanremo dello scorso anno e il necessario stop posto dall' arrivo della pandemia tornano ora con un doppio album che segna la loro ufficiale rinascita con la formazione originale? «Musicalmente forse poco », dice Angelo, «ma provate a sentire il nuovo album e potreste restare sorpresi», aggiunge ridendo, forte della presenza di Lucio Fabbri come direttore musicale di ReuniON , che esce il prossimo 26 febbraio e festeggia i 50 anni di Che sarà con una nuova versione cantata con Josè Feliciano. Il rock delle origini quando nel pieno dell' esplosione del beat italiano manifestavano il loro amore per certe armonizzazioni vocali che erano figlie dei Beach Boys, di Crosby Stills & Nash, accentuata da un look hippie che sottolineava la differenza tra le due metà del gruppo, i "ricchi" più eleganti e i "poveri" un po' più freak - lo hanno messo da parte da tempo. «Perché più che il rock ci piaceva la melodia italiana, alla quale siamo poi rimasti profondamente legati e che ha caratterizzato per tutta la nostra carriera», sottolinea Angela Brambati, l' inossidabile "brunetta" che con inarrestabile energia assieme a Angelo ha tenuto in alto la bandiera della band fino ad oggi, superando mode, tempeste, tragedie, successi. Lo scorso anno sono tornati tutti insieme, anche con Franco Gatti che aveva lasciato la band nel 2016 e con Marina Occhiena, che era diventata solista nel 1981, facendo rinascere quella che oggi può tranquillamente essere definita una "nuova vecchia band", perché non solo ripropone la formazione originale di 54 anni fa, ma offre agli ascoltatori per la prima volta tanti brani celebri nei quali Marina Occhiena non c' era. Passato e novità insieme, «perché questa cosa è davvero unica e meravigliosa », dice la "bionda" del gruppo Marina, «e anche se può sembrare retorico io mi sento come se con loro ci fossi sempre stata, l' accordo tra le nostre voci è ancora bellissimo e quando ci siamo rivisti l' amicizia è rifiorita immediatamente ». Certo, il tempo è trascorso, tanta acqua è passata sotto i ponti, «ma la maturità ci serve anche per essere migliori, assaporiamo meglio le cose e ci godiamo quello che c' è di bello», dice Franco Gatti, "il baffo" come lo aveva soprannominato Franco Califano. Responsabile peraltro dell' invenzione del nome del gruppo: «Non solo lo trovò dicendo che eravamo "ricchi di spirito e poveri di tasca"», ricorda Angela, «ma si inventò anche il nostro look, i vestiti, il mio taglio dei capelli e il biondo di Angelo. Credeva in noi e diventò il nostro produttore». A credere in loro fu anche Fabrizio De André, forse il primo a pensare che avrebbero potuto avere un futuro: «Fu lui a organizzare il nostro primo provino in una casa discografica » dice Angelo, «andò male ma lui ci disse di non mollare, "Questi di musica non capiscono nulla, ma voi avrete successo comunque", di disse». Cinquantaquattro anni dopo i quattro sono ancora tra noi, tutt' altro che pronti per la pensione, anzi, baldanzosi, carichi, entusiasti, e non vedono l' ora di poter tornare dal vivo a godere dell' abbraccio del pubblico. Avrebbero dovuto calcare le scene la scorsa primavera, dopo l' exploit sanremese, ma la pandemia ha messo in stand by tutto e lo spettacolo che hanno immaginato è ancora un' ipotesi. Mentre le certezze sono due: la prima è l' album in uscita, «per il quale abbiamo fatto un grande lavoro che ci rappresenta in pieno», dice ancora Angelo, «dalla scelta delle canzoni a quelle dei musicisti, persino dove registrare»; la seconda è lo show Che sarà sarà su Rai Uno che andrà in onda il 27 febbraio, condotto e pensato da Carlo Conti, una celebrazione della loro storia con tanti ospiti, tra i quali vecchi amici come Roberto Vecchioni e Al Bano, e personaggi sorprendenti come Ivan Urgant, il conduttore russo ideatore del singolare capodanno televisivo tutto "all' italiana" di poche settimane fa Ciao 2020 , culto su YouTube. «Sarà una serata speciale», dice Angela, «l' emozione di ripercorrere una carriera attraverso i grandi momenti, con amici come Vecchioni con cui canteremo La prima cosa bella sarà fenomenale », «ma anche l' orgoglio di sentirci patrimonio di altri popoli attraverso la presenza di Ivan Urgant», aggiunge Franco, «con tutte le nostre canzoni da inguaribili romantici ». La novità del ritorno di Marina Occhiena aggiunge alla reunion un tocco di novità inatteso: «Per me essere assieme a loro e interpretare canzoni che hanno portato al successo è non solo un onore ma una novità emozionante, cantare canzoni così conosciute e dar loro una nuova vita è davvero impagabile». La dimensione familiare dei Ricchi e Poveri resta la loro caratteristica principale, «le nostre canzoni non sono invecchiate perché le cantano ancora i bambini, di ogni nuova generazione», dice Angela, «e con loro siamo diventati parte di tante famiglie. Un po' come i cugini che ogni tanto incontri di nuovo, non abbiamo età, siamo di casa». È vero, sono di casa anche per chi non ha mai acquistato un loro disco o non è andato a un loro concerto, le canzoni dei Ricchi e Poveri le conosciamo tutti a memoria, sono parte della grande narrazione del nostro paese «ed è una cosa che ci rende particolarmente orgogliosi », dice ancora Angelo, «specialmente in un momento come questo. Le nostre sono canzoni positive, d' amore e di vita. A qualcuno sembravano canzonette, ma oggi si può dire che erano qualcosa di più, che ha attraversato il tempo e i confini. Le nostre canzoni le cantano in tutto il mondo, sono quelle che ti portano il sorriso sulle labbra, senza pensare al testo, le porti sulle labbra e ti aprono il cuore», «e in un momento come questo», dice ancora Franco Gatti, «ci piace pensare di essere, con la nostra allegria, un buon vaccino antivirus ».

·        Richard Benson.

Stefano Ciavatta per Dagospia il 10 marzo 2021. Compie gli anni Richard Benson, autoproclamatosi signore del Metallo, virtuoso della chitarra prog-rock, protagonista dell’etere underground capitolino, poi esploso come icona trash nazionale, il Benson postmoderno che rifaceva se stesso nel mainstream tv. E poi definitivamente fenomeno da baraccone, volato via dal suo palmo di guru musicale come il palloncino rosso di Banksy, trasformato in tiro al piattello nelle sue esibizioni live, ostaggio del palinsesto deciso dall’algoritmo, usato anche a pezzi, urla e frasi per suonerie, jingle, sigle, gif, meme. Una Galassia Benson di video e contenuti ormai incontrollabile, purtroppo per lui gratuita. Il Benson è finito poi nel tritacarne della fanbase dei nativi digitali a cui interessa solo il performer ciancicato delle sfuriate deliranti. Eppure il simulacro resta acceso. Da ultimo, il twitch più famoso d’Italia, il Cerbero Podcast, lo cita come nume tutelare. Oggi Benson è un signore malandato di 66 anni, fagocitato da tempo dall’artrite e altri malanni, economicamente in disgrazia, una sofferta via crucis confessata nei tanti appelli impietosi. Il regalo di compleanno più bello è però la Benson-mania di ritorno. A provocarla è stata la presa in giro delle performance musicali di un Benson sovrappeso, patetico e maldestro, da parte del chitarrista youtuber Steve Terreberry. La sua ingenerosa reaction ha oltre 2mln di views, a cui se ne aggiungono altre, sempre straniere, contro “il peggior chitarrista del mondo”. Ma grazie a una truppa di fedelissimi dal 2018 sul tubo Richard Benson non è più solo un meme goliardico. Le Brigate Benson hanno condiviso le lezioni in dispense, le cassette di Heavy Agenda e i vhs dei Guitar Tricks per “le scale a plettraggio alternato velocissime”, i dischi come “Madre Tortura” e i concerti; Sir Daniel ha uplodato una guida alla discografia lacunosa tra opere reperibili incomplete, inedite e inventate (dello stesso Benson). Il giornalista Christian Dalenz ha realizzato interviste a collaboratori, produttori, colleghi chitarristi, roadie. Idem la Falange Benson di Mark Mackay e Lorenzo Romaniello. Dalenz ha ripopolato anche il canale ufficiale di Benson con nuove canzoni dalla clinica di riabilitazione e il format “Nona Nota” dove torna il Benson cultore. Faro di questo recupero filologico è il biopic amatoriale in sei puntate sulle origini sempre misteriose della famiglia, sulle decadi della carriera di Benson, sulle donne di Benson, a opera dello youtuber Francis Kingborn (nato nel ‘91 e cresciuto con il Benson junkie), che ha portato al repechage di ogni sorta di traccia musicale del sottobosco anni 70/80 in cerca di un’epopea discografica che però non esiste: membro giovanissimo di una effimera formazione progressive dal disco rimasto nel cassetto, autore di una colonna sonora di un film mai distribuito, singoli in vinile introvabili, misterioso selezionatore di dischi alla radio per Arbore, turnista rock blues, session man, credits nelle sigle tv, produttore metallaro, quando il genere era  ancora nelle catacombe. Tutto un materiale a cui si aggiungono i rumors sulla produzione di un documentario stile Netflix. Insomma per l’idolo scalcagnato e deriso è giunta l’ora della resurrezione, o almeno della tregua. Ma chi è stato davvero Richard Benson? Sicuramente non l’ennesimo re di Roma. Piuttosto un culto casareccio con ambizioni esotiche, comunque laterale, una rockstar da liceali, poi una volta cresciuti è diventata una devozione distratta (“è vivo? è morto? che fine ha fatto?”). Nella primavera del ‘90 potevi incontrarlo per strada, seduto ai tavolini dell’ex bar Java a Trionfale - il primo ufficio di Califano, quell’angolo popolarissimo dove finisce la Prati da bere e comincia una fauna smoke alla Paul Auster - un marcantonio con addosso il chiodo di pelle aperto sul petto glabro e scolpito, somaticamente androgino, parrucca sintetica e occhialoni, pantaloni aderenti e stivali, in posa con la schiena dritta mentre girava il cucchiaino dentro l’aranciata accanto a una straniera col pellicciotto corto. Un omone inquietante, trasgressivamente autarchico, senza paracadute alla Achille Lauro, capace di eloquio gentile e di memoria discografica implacabile - di ogni musicista ricostruiva il vagare di disco in disco. Era l’autorevole musicologo che scriveva articoli su “Chitarre”  e si pubblicizzava anche come produttore e discografico, ma soprattutto il recensore, lo stroncatore e il divulgatore televisivo per spettatori di Roma e provincia - non a caso Verdone nel celebre film ne teme il severo giudizio. Ne “Il mucchio selvaggio della televisione locale italiana” di Dotto & Piccinini Benson è collocato nel girone dei “Faccioni, cialtroni, strafalcioni e definito il conduttore “lisergico” delle trasmissioni “Ottava nota” su TVA40 (ultra decennale e autoprodotta) e “Cocktail micidiale” su Televita. La prima è stata l’oasi felice del Benson iniziatore, seguitissima dai ragazzi della Roma bene, i suoi sorcini, a cui dava ripetizioni a casa per 20 mila lire, che poi si riversavano alla ricerca di album di culto nei pochi negozi con i dischi di importazione come Revolver, Disfunzioni musicali, Millerecords, Black Market. Benson rompeva dischi in diretta, era vittima di scherzi telefonici, viveva in uno stato di esaltazione musicale, anche nelle dispense che copiava dai tutorial americani: la scala del demonio, l’arpeggio allucinante, le chitarre prese a botte, le sue innocue poesie con la mitologia favolistica dei nani, dei gobelini, dei coboldi, la mandragola, il fico sacro, la betulla, i monologhi metafisici e stralunati sul Cristo Pinocchio e l’olio di croce. Un teatrino kitsch per farti stupire tirando fuori vinili. Quando ritorna in auge la chitarra dei virtuosi solisti versante heavy metal, Steve Vai, Yngwie Malmsteen, Paul Gilbert, Vinnie Moore, tutti più giovani di lui, velocissimi, strabordanti, eccessivi, Benson si accredita come uno di loro. Il grande dibattito è se ci sia riuscito. La personalità era indiscussa, la tecnica meno. Cresciuto con altre corde musicali, ribadì comunque la nuova missione: “porto avanti il discorso del metallo”. Nel cambio di casacca era già compreso lo show: la cassetta delle lezioni anni 90 si intitolava “Per Corde e Grida!”. Di sicuro Benson è stato un marziano a Roma: nel senso che un giorno è apparso dal nulla nell’urbe e a lungo ha mantenuto il mistero sulle proprie origini: la data di nascita, il luogo natio, il nome stesso. Flaiano e Pinelli fanno dire a Mastroianni che Roma “è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene”, e Benson ci si è trovato benissimo giocando a nascondino con le proprie origini inglesi, sviando, inventando, alludendo. L’ipotesi che si chiamasse Riccardo Benzoni si perdonava subito al lato cazzaro del musicista, come gli aneddoti da mitomane sul giovane Marylin Manson, assiduo ai suoi concerti canadesi, su Joe Satriani che lo chiamava a casa ma lui non rispondeva mai, su David Bowie che aveva cantato in un suo disco prima di morire. Gli si voleva bene comunque perché Benson ricordava “Un americano a Roma”. Intanto però la vita quotidiana era romanissima come la casa dei genitori a via dei Funari al Ghetto, rustica, col camino. Con il matrimonio, il secondo, con la storica compagna Ester nel 2013 a Roma, è stato costretto a esibire almeno un documento d’identità. Ha scelto il passaporto, l’ambito sacro graaal, svendendo il mistero di un tempo: il suo nome è Richard Philip Henry John Benson, cittadino inglese. Seguendo la ricostruzione di FrancisKingborn Benson è nato a Woking nel Surrey il 10 marzo 1955 (ma il certificato girava già) da una coppia benestante tornata poi a Roma, Robert Benson, copy assunto alla Gillette, e Marcelle Giammonà, belga di origine italiana. Robert era nato a via Margutta, figlio di John Miles Bourne, pittore alle Belle Arti, e di Marietta Toppi, una modella di umili origini di Anticoli Corrado. Il nonno di Benson era il figlio minore di Samuel Herbert Benson, magnate della pubblicità nella Londra vittoriana. Con la presunta saga famigliare “The Benson” si apre un mondo tutto da esplorare. Di Richard Benson, un incrocio fatto in casa tra Ozzy e Celentano, è rimasta ormai da troppo tempo solo una sagoma da rudere, neanche monumento. Ai concerti i pischelli lo hanno atteso per oltre un decennio per scorticarlo vivo tirandogli di tutto, insulti, provocazioni, bestemmie, sputi, panettoni, polli interi, yogurt, scopini da bagno, secchiate della qualsiasi. All’Alpheus nel 2008 fu l’apocalisse, non riuscì nemmeno a suonare, gli arrivò anche una testa di porco come nei classici spagnoli. In seguito fu costretto a mettere una rete come i Blues Brothers. A Palestrina nel 2016 fuori tempo massimo perse la dignità. Questa pantomima disgustosa - per bisogno di denaro, e per le cure visti i continui  problemi fisici - è andata avanti parecchio. Ma anche questa è Roma, feroce con le rovine umane a cui chiede ancora di esibire a carissimo prezzo le medaglie opache con la stessa violenza da teppisti con cui un tempo si staccavano i nasi ai busti del Pincio e del Gianicolo. Nei primi 90 Benson era solo un eccentrico enigmatico un po’ sopra le righe e le prese in giro del pubblico non erano ancora un tormentone, nessuno lo aveva preso di punta. Al massimo chi ballava sudamericano nelle altre sale sentiva la chitarra ad altissimo volume e veniva a lamentarsi.  Poi è iniziato il gioco di specchi: il pubblico che lo conosce con la tv spazzatura gli ha chiesto il bis dal vivo, dalla tribuna di “Cocktail Micidiale” si è abbandonato al suo istrionismo senza pudore forte della nuova popolarità. La confidenza di un tempo sul palco è diventata un pericoloso gioco di autocompiacimento, ha trovato i mostri in platea ed è scaduta nel sabba di successo. E’ così che Benson ha oltrepassato il Sacro Gra verso la fama e la rovina. Il punto di svolta di tutto questo è stato il tentato suicidio del 2000, nell’epos bensoniano chiamato “l’incidente”, di cui tutti sanno e nessuno sa. Nel trafiletto in cronaca  del “Corriere della Sera” si parla di un uomo “americano” ricoverato con una gamba fratturata dopo essere volato giù da Ponte Sisto. Anni dopo ammise di essersi buttato di sotto per l’amore finito con la scultrice Ira Deltschaft. Dopo l’anno di dura convalescenza al primo concerto gli urlarono subito “a Richard, manco er Tevere t’ha voluto”. Non si è ripreso più. Nel 2015 il video del singolo “I Nani” è durato una mattinata in tutte le bacheche, una vittoria di Pirro ma non i 100 giorni di Napoleone. Poi altri appelli nell’emergenza economica e sanitaria. Richard Benson è stato un personaggio struggente, profondamente buono, sensibile, solitario, riservato. Un personaggio tragico che si è messo dietro una maschera - c’era sempre un pezzo che ti mancava pensando a Benson - per poi scoppiare in mille pezzi. Ora è rimasto senza denti, con la chitarra classica in mano, seduto a suonare canzoni da una clinica. Via tutto il resto. Di nuovo soltanto Benson.

·        Rita Dalla Chiesa.

Oggi è un altro giorno, Rita Dalla Chiesa sotto-choc: "Morte violenta e forte". L'addio alla cognata per un tumore: il racconto lacerante. Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. Rita Dalla Chiesa è stata ospite di Serena Bortone a Oggi è un altro giorno, nella puntata andata in onda su Rai1 nella giornata di lunedì 31 maggio. La giornalista in questi giorni è stata colpita da un grave lutto: ha perso la cognata Emilia Castelli, moglie del fratello Nando. Dalla Bortone ha raccontato questa triste vicenda e ha reso anche una confessione straziante: “Quando il tumore si era esteso alle ossa è stata una cosa molto violenta e forte, ma lei ha combattuto sempre con un sorriso stupendo, con i nipotini…”.  Resta quindi il ricordo di una grande donna: “Mi ha fatto riflettere molto questa cosa sulla dignità che ogni essere umano deve avere fino alla fine”, ha aggiunto Rita Dalla Chiesa, che ha anche voluto ricordare l’amore che la cognata Emilia e il fratello Nando hanno vissuto per oltre 50 anni. I due infatti si sono conosciuti quando lei aveva appena 14 anni, e da allora non si sono più lasciati: “Storia d’amore bellissima, durata 50 anni con una persona conosciuta a 14 anni che condivide con te tutta la vita, le tue battaglie e le tue idee. Sbagliando quando dicono che lei stava dietro di lui. Non lo era, era affianco, erano innamoratissimi”. Per questo motivo Dalla Chiesa negli ultimi tempi è stata spesso a Milano, dove andava a trovare la cognata e stava vicino al fratello Nando e ai nipoti: “Ho visto amarsi così solo i miei genitori e Nando ed Emilia, mentre io in amore ho fatto casini”. 

Morta la moglie di Nando Dalla Chiesa: il ricordo di Rita e la foto sulla spiaggia di Sellia Marina. Saverio Puccio su Il Quotidiano del Sud il 20 maggio 2021. E’ morta Emilia Cestelli, moglie di Nando Dalla Chiesa. Lo annuncia lui stesso, su facebook: «È partita. La ragazza di Vicolo Pandolfini, il luogo in cui ci giuravamo a #Palermo amore eterno, se ne è andata dopo 50 anni». Nella storia della famiglia del generale Alberto Dalla Chiesa c’è un forte legame con la Calabria: quello delle vacanze trascorse a Sellia Marina, dove la famiglia veniva spesso. Proprio una foto scattata nella cittadina del Catanzarese ha aiutato Rita Dalla Chiesa, conduttrice televisiva, a ricordare la cognata: l’immagine è quella del fratello Nando abbracciato, in riva al mare, a sua moglie. «Eravamo in vacanza a Sellia Marina – racconta Rita Dalla Chiesa – due anni fa. Li ho sorpresi al tramonto, di spalle, abbracciati, mentre guardavano il mare. Loro, Nando e Emilia, il “professore” e “la Biondina”, hanno vissuto una storia di amore vero lunga 51 anni. Sempre abbracciati… Sempre complici. L’uno la forza dell’altra». La popolare conduttrice aggiunge che «nelle battaglie di mio fratello, nelle nostre sofferenze più grandi, nei ricordi belli delle nostre estati a Mondello, nel suo credere ciecamente nei diritti civili e nella difesa delle persone più’ deboli. Nell’amare Carlo e Doretta. Nell’essere felici quando sono diventati nonni di Otto, Tito e Rosa. Due persone intrecciate d’amore». Quello con Emilia era un rapporto profondo, ricorda ancora Rita Dalla Chiesa: «Non era solo mia cognata, Emù. Era la quarta figlia di mio padre e mia madre, che l’hanno adorata. Stamattina, dopo una malattia divorante, feroce, Emilia ha dovuto lasciare quell’abbraccio che è’ stato la sua casa per tutta la vita. Ed è andata verso il mare da sola. A noi ha lasciato la grande eredità di avere lottato per ogni suo respiro. E lei è arrivata, finalmente – ha concluso Rita Dalla Chiesa – in fondo all’orizzonte che guardava con il suo Prof quella sera di due anni fa. Grazie, Emù, per tutto quello che ci hai regalato».

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2021. Due settimane fa, in quest' appartamento zeppo di libri, il seggiolone della nipotina in salotto, con Nando Dalla Chiesa, viveva ancora Emilia. Oggi, c'è lui da solo, per la prima volta dopo 50 anni d'amore, polo e giacca, composto come sempre, se non fosse per gli occhi che non sono più quelli. Quelli saettanti dei mille comizi per la legalità, delle invettive contro le mafie. Non c'è parola per descriverli, finché lui non dice: «Quando mi hanno detto che Emilia doveva usare il deambulatore, mi si sono inceneriti gli occhi». E poi, invece, peggio ancora, lei aveva sussurrato «finirò a letto» e così è stato: «Aveva capito tutto prima di noi, anche che sarebbe morta». Aveva solo 68 anni. Di lei, in questa stanza, restano le foto in bianco e nero di una ragazza bellissima dal sorriso contagioso e, appesa sul letto dove se n'è andata, una foto enorme di loro due, ventenni, che si baciano. Lui ci ha scritto su, con lo spray, «Emù sei la prima»: «Le dicevo così, perché "sei unica" non ha valore: se ci sei solo tu, che confronto è?». Il 20 maggio, su Facebook, il professore sempre sobrio, asciutto, pacato, che dall'assassinio del padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ha consacrato la vita all'antimafia, ha scritto: «La ragazza di Vicolo Pandolfini, il luogo in cui ci giuravamo amore eterno a Palermo, se ne è andata. Provate qualche volta a riconoscerla in una stella. Potrebbe dirvi "sono io", era uno dei suoi giochi preferiti».

Perché «la ragazza di Vicolo Pandolfini»?

«Domenica scorsa, mi ha chiamato don Luigi Ciotti e mi ha detto: sono nel Vicolo Pandolfini, ma è questo stretto? E io: certo, per questo ci andavamo, era piccolo, non passava nessuno Lì potevamo appartarci in una 600 bianca a parlare di futuro e di amore per ore».

Come l'aveva conosciuta?

«Era il 1970, era compagna di banco di mia sorella Simona. Io ero già a Milano per l'università. Un'estate, tornai e, in discoteca, vidi una biondina che ballava benissimo, allegra, leggiadra. Pensai: ma guarda che bella. Simona mi disse: è Emilia Cestelli. La mattina alle sette, ero già in cucina, dissi a mia madre: mi sono innamorato. Chiese chi era, glielo dissi e rispose: hai fatto bene. Lei e papà la conoscevano, l'hanno considerata sempre la quarta figlia».

Sua sorella Rita racconta che, due anni fa, vi sorprese al mare, al tramonto, abbracciati, e che avete vissuto sempre abbracciati.

«Era molto di più del contatto fisico: abbiamo avuto un destino unico, così forte, e lei c'è stata in modo meraviglioso, aiutandomi a fare cose difficili. Lo vede questo anello? Lo portava mio padre quando fu ucciso.  Lo lavò lei, per evitarmi di sentire il sangue di papà sciogliersi fra le mani».

In quel settembre 1982, Emilia era anche incinta.

«Sono cose che legano tantissimo. È stata in questo mio cammino duro senza mai tirarsi indietro. Era incinta di Dora al funerale di papà e di Carlo a quello di mamma, morta d'infarto. Non mi ha mai detto: che vita mi costringi a fare? Da questo balcone, quante volte, si affacciava per vedere se sotto era libero».

«Libero» da pericoli?

«Durante il terrorismo, i compagni di movimento facevano le ronde sotto casa, quando entravo o uscivo. Da prof, non usavo mai lo stesso ingresso dell'università. Qualcuno andò anche a fotografare nostro figlio all'asilo. Tuttora, ci sono posti in cui mi dicono: non venire, qui non è aria per te. Sono abituato alla semiclandestinità. Per telefono con papà, non dicevamo mai quando ci saremmo visti. Avevamo un codice. Lui chiamava e diceva: "mucosa". Mi manca Emilia, l'unica che sa. "Mucosa" significava: preparate da bere, sto arrivando. Mi manca questo: mezzo secolo condiviso di cose che non dicono niente a nessuno, ma che a noi direbbero tutto».

Che cos' era il gioco delle stelle e del «sono io»?

«Quando Emù arrivava, o qualcuno parlava di lei, aveva questo modo di agitare la mano, ridendo, e dire "sono io, sono io". L'altra sera, i miei studenti mi hanno portato a un concerto. Suonava uno di loro, caro a Emù, Alessandro, che ha aperto la serata dicendo che la dedicava a una donna speciale, a Emilia. E io ho pensato: se lei fosse qui, agiterebbe la mano e sorridendo direbbe "sono io, sono io"».

Quando era candidato sindaco di Milano, Emilia spiegò che aveva scelto di non lavorare per non perdersi nessuna delle cose che le stavano a cuore.

«Rinunciò al suo lavoro quando iniziò il maxi processo a Cosa Nostra nell'86. Quando papà morì, gli promisi giustizia e capii subito che giustizia significava far crescere una cultura dell'antimafia. Andavo a parlarne anche in due città al giorno. Ero sempre via. Emilia non è stata un passo indietro, ha condiviso tutto e senza mai perdere la sua allegria. Sapeva essere spiritosa anche quando lottava in prima persona. Con alcune donne dei Girotondi, andò a un processo a Cesare Previti con la maschera della Banda Bassotti».

Come arriva la malattia?

«Un anno e qualche mese fa, aveva sintomi strani: era un tumore al colon. L'intervento è riuscito, ma il tumore è tornato, al fegato, alle ossa. A ottobre, il dolore era tale che per spostarla l'hanno dovuta legare in verticale a una barella. Ha patito sofferenze atroci. Da allora sino alla fine, sono sempre stato con lei».

Il momento più duro?

«Al Niguarda, quando ci è stato detto che non c'era più niente da fare. Eravamo io e i figli, i nostri Gracchi che Cornelia ci invidierebbe. Abbiamo chiesto la terapia del dolore. A Emù, nell'ultimo anno, col dolore, venivano fuori le frasi d'amore di Vicolo Pandolfini, quelle dei vent' anni, nella 600. Quando poi è stata sedata, mi sono messo accanto a lei e ho continuato ad accarezzarle i capelli e a ripeterle sottovoce quelle frasi. Lì, ho scoperto l'essenza del matrimonio: condividere buona e cattiva sorte. L'ho sentito profondamente mentre, per quattro giorni, sono stato a sussurrare. E, nel dolore, anche a me fiorivano parole di cinquant' anni prima».

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 26 aprile 2021. Ricorda con emozione la sinistra in piazza con le bandiere rosse, lei che oggi si arrabbia - e non poco - per Matteo Salvini a processo nella stessa aula bunker dove ha visto i peggiori mafiosi: la giustizia, ne è certa, è ormai politica. E suo padre se ne sentirebbe tradito. Rita Dalla Chiesa lo ripete più volte nel corso dell'intervista: «Sono libera, non ho paura di dire quello che penso».

Come sta vivendo questo tempo? Qual è la sua quotidianità?

«Ho recepito in modo molto rigido quello che ci hanno chiesto di fare e non frequento gli amici. Vivo da sola, a Roma. Persino mia figlia, che vive a una porta dalla mia, la incontro solo all' aperto, per la passeggiata con i cani».

La sua finestra sul mondo?

«Pochi i libri, non riesco a concentrarmi. Ho accanto al comodino Il Sistema di Sallusti e Palamara, lo leggerò. Ma vivere con serenità, così, è difficile. I social network, quelli sì, mi fanno compagnia. Sto scrivendo un libro per Mondadori, ma da giornalista sono abituata a raccontare quel che vivo e ascolto, non è un mio talento inventare storie. Mi sento bloccata».

È prossima al vaccino: Moderna, ha detto. E qualche leone da tastiera ha avuto da ridire anche su questo.

«Certa gente è fuori di testa, si fa ormai polemica su qualsiasi cosa: c' è un clima da caccia alle streghe. Peccato che io non abbia mai saltato una fila in vita mia e accusarmi di favoritismi è ridicolo. Sì, dopodomani ho l'appuntamento e come previsto dalla Regione Lazio ho scelto la struttura tra quelle disponibili vicino a me: all' auditorium Parco della Musica somministrano Moderna, ho prenotato prima di Pasqua e finalmente ci siamo».

Dubbi ne ha avuti?

«Quando si tratta della salute chi non ne ha? Talk e quotidiani hanno fatto venire a tutti una bella ansia pesante. Ma sarà per me l'inizio della fine dell'isolamento, non vedo l'ora di muovermi e viaggiare. La mia nipotina è nata a pandemia iniziata, e la sto vedendo crescere in foto, nella chat di famiglia. Voglio conoscerla dal vivo. Mi mancano mio fratello e mia sorella».

Lei che cosa invia nella chat di famiglia?

«Tante foto dei fiori sul mio terrazzo. Questa situazione mi ha dato l'opportunità di impadronirmi di cose che prima davo per scontate. Un bocciolo e la sua cura racchiudono il senso della vita, dopo un anno di convivenza con il pericolo, la malattia, le persone che non ci sono più ridotte a numeri di un bollettino serale. Vivo con tre tamponi a settimana per gli impegni televisivi».

«Non è scontato essere così ligi nel rispetto delle regole.

«Ho rispetto per gli altri, per me stessa, per le istituzioni».

Ha avuto da ridire su Alessandro Gassman che ha raccontato sul Web la festa dei suoi vicini di casa, con l'ipotesi di rivolgersi alle forze dell'ordine.

«Con Gassman non posso dire di avere un legame di amicizia, ma mi piace molto, mi è simpatico. Però, visto da fuori, quel fatto mi è sembrato come la delazione ai tempi dei nazisti per gli ebrei. La delazione è una delle cose che più detesto al mondo. Aveva ragione: le feste non si devono fare, ma io non lo avrei reso pubblica la cosa».

Sarebbe rimasta in casa, finestre chiuse, tv a volume alto?

«No, non è da me. Forse mi sarei messa 10 mascherine e sarei andata a citofonare, a dar pugni alla porta, per ricordare loro tutto quel che è successo e il rischio che stavano correndo. Capisco che in tanti non ce la fanno più, neanche io ce la faccio più. Ma bisogna continuare a fare attenzione».

In piazza è scesa la disperazione degli imprenditori costretti a chiudere.

«Ho trovato tante incongruenze nelle chiusure imposte. Vedere chi ha perso tutto anche per colpa delle persone incapaci di seguire le regole mi colpisce nel profondo. Quella disperazione è sulle spalle di tutti coloro che sono senza rispetto».

Un' ingiustizia?

«Sto riflettendo proprio in questi giorni sul senso della giustizia, quella con la g maiuscola. Penso a mio padre, che ha vissuto quando ancora non esisteva la giustizia fuori dai tribunali. Quando ancora non era intrisa di politica.

 

Lui ha potuto crescere i suoi figli con l'idea giusta della giustizia, poi, da quando se n' è andato e con gli anni Novanta, tutto è cambiato. Un certo tipo di politica ha impedito alla giustizia di volare alto, l'ha inabissata nel fango. Per carità, non tutti i magistrati sono così: ci sono quelli, e tanti sono giovani, che hanno ancora voglia di giustizia sana».

Fu Tangentopoli l'inizio di tutto questo?

"Ricordo che mi chiedevo già allora se le cose stessero davvero così come ce le raccontavano. Alcune sentenze di oggi sono sentenze politiche e questo mi fa male come cittadina. Ho scolpito in testa quel che sta scritto su ogni tribunale: la giustizia è uguale per tutti».

Si possono riportare indietro le lancette?

«Sono convinta purtroppo che persino una eventuale commissione d' inchiesta sui magistrati dopo il caso Palamara dovrebbe soccombere alla politica. Guardi quel che è successo a Salvini: la prima cosa che ho pensato è "non è possibile", invece è accaduto».

Parla del rinvio a giudizio?

«Deciso a una settimana da un non luogo a procedere chiesto dal pm di un altro tribunale. Mi sfugge: perché Conte e Di Maio non erano in aula con lui, se erano al governo insieme? Nell'aula bunker di Palermo ho visto dietro le sbarre i peggiori mafiosi, al maxi processo, e ora mi chiedo cosa ci faccia lì Salvini: è una sentenza politica, come sempre».

A che pro?

«Ogni volta che qualcuno ha il sentore che la gente possa essere stufa di un certo tipo di politica, che possa non crederci più, ecco che arrivano gli attacchi agli avversari. Come hanno fatto con Berlusconi prima, fanno con Salvini ora».

Ora sono tutti (o quasi) uniti al governo.

«Fuori dai denti: nel governo di Draghi credo molto, perché è un economista ed è lucido nelle decisioni. E poi, sono sincera, ho amato il fatto che sia stato mandato via Domenico Arcuri e che sia arrivato il generale Figliuolo».

Non è dello stesso parere Michela Murgia, che dalla divisa di Figliuolo non si sente rassicurata.

«Quel che ha detto mi ha profondamente offesa. Ma vorrei specificare che la lettera aperta in risposta alla Murgia non l'ho scritta io. Ne condividevo forse il significato ultimo, ma non so chi l'abbia scritta, non è il mio stile». 

Si parlava di «finto femminismo rancoroso».

«A proposito di donne, ad esempio, sono convinta sia sbagliato pensare debbano essere una specie protetta quando si parla di pari opportunità. Perché credo nella meritocrazia. Non sopporto le quote rosa».

Non le ha mai fatto paura prendere posizione.

«Le mie idee sono mie, me le tengo, non ho timore degli attacchi. Chiamo l'avvocato solo quando mi offendono, sui social: c' è chi scrive che mio padre si rivolterebbe nella tomba. Mio padre non si tocca. Oppure scrivono che per il fatto di aver lavorato per Silvio Berlusconi sono una mafiosa. Una volta mi hanno persino minacciato di morte e sono corsa alla polizia postale. Profilo falso, naturalmente».

Quando si tornasse al voto: sceglierà in base agli ideali?

«Oggi scelgo le persone, non le appartenenze. La politica degli ideali che ho vissuto io da ragazzina era quella di Berlinguer e Almirante: la sinistra era in piazza con le bandiere rosse, con persone che parlavano perché avevano storia e cultura. Oggi ha perso l'identità».

Mentre la destra è sovranista?

«Il racconto che a sinistra fanno della destra è sbagliato. Quando la gente non sa il significato delle parole libertà e democrazia, e tu ti permetti non solo di saperlo, ma anche di non volere in nessun modo far parte del gregge, ti danno della fascista.

Quella parola la conoscono bene, forse perché appartiene al loro inconscio. Non sono mai appartenuta a un partito, perché amo la Patria, il tricolore, le forze armate. Chi tra loro ha sbagliato, come è giusto, è stato punito. Le mie battaglie sui diritti civili sono quelle della sinistra, però, e le ho fatte tutte».

Questo è il momento di ius soli e legge Zan?

«Non so se sia il momento, siamo nella pandemia. Dobbiamo risolvere un altro genere di problema. Ma sono per la libertà, che è il bene più grande che abbiamo, e lo abbiamo riscoperto in questi mesi. Ciascuno deve essere libero di vestirsi come vuole e di dire quello che vuole. Senza violenza però, perché la detesto».

Il video di Beppe Grillo in difesa del figlio era violento?

«All'inizio la sua veemenza mi ha "fregata": mi sono immedesimata in un padre che soffre. Ho però riguardato quel video una seconda volta e ho capito che non c'era nulla, il minimo interesse o attenzione, per la sofferenza del padre o della madre della ragazza. Grillo si è fatto solo lo scrupolo di stare perdendo la faccia, in una situazione dalla quale la politica dovrebbe invece star fuori. Alimentare l'odio non serve a salvare i ragazzi coinvolti, non serve al tribunale, non serve a fare giustizia. Si è parlato troppo di qualcosa che non ci riguarda, dei dubbi e ripensamenti di questa ragazza, quando non sta a noi giudicare».

·        Rita Ora.

DAGONEWS il 20 febbraio 2021. Rita Ora ha celebrato mercoledì il Giorno dell'Indipendenza del Kosovo posando in abiti tradizionali.  La cantante, 30 anni, ha pubblicato alcuni scatti su Instagram con lo stesso abito indossato nel recente video della canzone “Big”. La musicista, nata a Pristina nell'ex Jugoslavia, da genitori albanesi che si sono trasferiti a Londra un anno dopo la nascita di Rita. Lo straordinario outfit di Rita consisteva in un abito nero a maniche lunghe con ricami dorati e orlo pieghettato, una camicia bianca, uno stravagante copricapo rosso e nero e stivali con pelliccia e guanti rosso vivo. «Happy Independence Day Kosova!!! – ha scritto sui social Rita insieme a un messaggio in lingua albanese: «Congratulazioni per i 13 anni della nostra indipendenza del Kosovo». Ricordando il periodo in cui i genitori si sono trasferiti a Londra Rita ha raccontato: «Si sono lasciati alle spalle tutta la loro vita e hanno dovuto ricominciare da capo quando sono arrivati a Londra come rifugiati. Ma proteggerci era la loro priorità principale e li benedico tutti i giorni per  quello che hanno fatto. Hanno scelto Londra perché papà amava la musica e la cultura, ma come puoi immaginare, adottare una nuova vita è stato estremamente difficile».

·        Robert De Niro.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 ottobre 2021. Robert De Niro ha vinto la causa contro l’ex moglie, Grace Hightower, che lo aveva portato in tribunale per ottenere la metà della ricchezza dell’attore. Secondo la donna, l’attore avrebbe dovuto riconoscerle la metà del suo patrimonio, stimato in 500 milioni di euro. Il giudice ha invece stabilito che «il reddito del marito guadagnato durante il matrimonio e altri beni aziendali acquisti durante quel periodo sono di sua proprietà», confermando la sentenza emessa nel febbraio 2021. Nonostante la decisione del tribunale d’appello, De Niro continuerà a versare a sua moglie 1 milione di dollari all’anno fino a quando uno dei due non morirà o si risposerà. Per riuscire a onorare l’impegno, l’attore venderà la loro casa da 20 milioni di dollari. Robert De Niro e Grace Hightower si sono sposati nel 1997, separati nel 1999 per poi tornare insieme, hanno rinnovato i voti nel 2004, ma nel 2018 lui ha chiesto il divorzio e da allora combattono una battaglia legale iniziata sull’affidamento del figlio più piccolo e poi proseguita sul lato patrimoniale: lui l'accusava di spendere troppo, lei voleva più soldi. 

·        Roberto Da Crema.

Roberto Da Crema, ve lo ricordate? Una indicibile parabola: come campa oggi a Lampedusa. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 22 giugno 2021. Vi ricordate Roberto Da Crema? Impossibile dimenticare le sue televendite con tanto di urla e respiro affannoso, il baffo più famoso della televisione italiana è scomparso dai radar da molti anni (dopo aver preso parte ad un reality diverso tempo fa). Ora fa tutt'altro: vende il pesce al mercato di Lampedusa, dove vive da tempo. Ma per puro divertimento. Lo racconta lui stesso a Nuovo Tv, il settimanale diretto da Riccardo Signoretti. “Quando i pescatori hanno visto la mia grande passione hanno cominciato a invitarmi sui loro pescherecci. E adesso, ogni tanto, vendo il pesce dietro al banco del mercato. Lo faccio per puro divertimento”, dice Da Crema. Tutto ovviamente gratis. Non si tratta di un vero e proprio lavoro, ma soltanto di un divertimento: Roberto, a quanto pare, mantiene il primato come venditore. Ma ora che è scomparso dalle scene tv come fa per vivere? A quanto pare ha un’azienda a Milano che si occupa di stock e cambio merci che è gestita dai figli del Baffo, Morris e Valentina. E la notizia che ci stupisce è legata al fatto che i suoi figli abbiano ben 80 dipendenti. “Adesso anche io sono un loro dipendente, per cui mi danno il mio stipendio”, ha fatto sapere il Baffo a Nuovo Tv. Niente televisione da anni, niente urla nel piccolo schermo. Solo tanto lavoro lontano dai riflettori. Roberto Da Crema è sposato con Raffaella da ben 45 anni ed ha avuto due figli, ma è anche nonno. Qualcuno parla di un suo ritorno in tv all'Isola dei Famosi. A lui non dispiacerebbe.

·        Roberto Vecchioni.

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 15 novembre 2021.  

Roberto Vecchioni, qual è il suo primo ricordo?

«Ho un anno e mezzo e ho fatto la pipì sul pavimento. Mia mamma rientra a casa e io incolpo il cavallo a dondolo: "Avallo pipì terra"». «Oh oh cavallo...».

È il suo destino.

«Papà scommetteva all'ippodromo. Possedeva pure un cavallo da corsa: Nelumbo, nome giapponese. Il cavallo è la svolta nella storia d'Europa. Prima esisteva una civiltà matristica, in cui uomini e donne erano uguali. Poi arrivarono gli indoeuropei, a cavallo, e cambiarono tutto: fecero la guerra, costruirono mura, imposero l'egemonia dell'uomo». E il suo primo ricordo pubblico? «Gli eroi: Garibaldi, e l'Inter». 

 I suoi genitori sono napoletani.

«Mamma aveva una nonna principessa: si chiamava Lonardi, parente di Eduardo Lonardi, presidente dell'Argentina. Si trasferì a Milano per seguire mio padre, rappresentante di tessuti. Lui milanista, io interista; lui liberale malagodiano, io comunista; ma ci siamo sempre rispettati». 

La Grande Inter.

«Divenni interista prima, al tempo del Milan del Gre-No-Li, che era molto più forte di noi. Comprammo Angelillo, l'angelo con la faccia sporca, ma purtroppo si innamorò perdutamente di una ballerina, Ilya Lopez, che si chiamava in realtà Attilia Tironi... San Siro aveva un solo anello. I miei amici e io non avevamo i soldi per il biglietto, così scavalcavamo». 

Chi era il suo eroe?

«Corso. Fingeva di non esserci, poi calciava una punizione a foglia morta. Comunque i più forti che ho visto dal vivo sono Maradona e Ronaldo. Quello vero, il nostro».

Nel 1964 la prima Coppa dei Campioni.

«Al Prater di Vienna. C'ero. E ho chiuso il cerchio nel 2010, portando la famiglia a vedere l'Inter vincere la finale di Champions a Madrid. Festeggiamo tutta la notte con quelli del Bayern, che pure avevano perso». 

Tra Milan e Juve chi tifa?

«Ovviamente Milan».

Le prime canzoni?

«A 18 anni. Dedicate ad Aiace, e alla battaglia di Maratona. Immaginai che Filippide fosse un ladro d'armi, che razziando cadaveri sentì un morente sussurrare: vai da mia moglie e dille che abbiamo vinto». 

Volava alto...

«Mi esibivo in locali dove pagavano duecento lire, cioè nulla, ma si poteva bere a volontà. C'erano Paolo Poli e Paola Borboni. Più tardi conobbi Alda Merini».

Che ricordo ne ha?

«Era folle d'amore. Una volta prendemmo un taxi insieme. Il tassista la riconobbe, le disse che la figlia stava facendo una tesi su di lei. Alda lo pagò con diecimila lire: "Tenga il resto, per gli studi della sua bambina". Poi mi chiese: "Roberto, mi presteresti cento lire per il pane?"». 

Cosa faceva nel '68?

«Mi sono laureato alla Cattolica. Ricordo Mario Capanna: molto serio, sempre contrario alla violenza. Che però c'era, da una parte e dall'altra».

In Stranamore lei descrive un'aggressione fascista: «A ogni pugno che arrivava dritto sulla testa la mia paura non bastava a farmi dire basta...».

«Mi picchiarono davvero, perché non volevo comprare il loro giornale, come dice la canzone. Però fu solo qualche ceffone. Nell'arte si esagera sempre un po'». 

Lei è stato amico dei più grandi cantautori. Franco Battiato com' era?

«Dietro la timidezza si nascondeva un mattacchione. Bravissimo raccontatore di barzellette». 

Con Francesco Guccini quando vi siete conosciuti?

«A Sanremo, nel 1974. Non al Festival; al club Tenco. Lui aveva una bottiglia di bourbon, io di whisky. Facemmo gara a chi beveva di più». 

Chi vinse?

«Eravamo troppo ubriachi per stabilirlo. Quella sera mi accorsi che Francesco, nonostante l'aspetto rabelaisiano, da gigante godereccio, è di animo malinconico. Un crepuscolare». 

Una delle sue canzoni dice: «Milady smettila di bere, ti spacco in testa quel bicchiere...». «Infatti ho smesso. Del tutto: neanche un sorso di vino. Sette anni fa. Mi accorsi che stavo male, che perdevo tempo e attenzione per i figli». 

Quanti figli ha?

«Francesca dal primo matrimonio. Carolina, Arrigo ed Edoardo da Daria, mia moglie da quarant' anni».

A Francesca dedicò una canzone dal testo molto duro: «Figlia, non voglio che tu sia felice, ma sempre contro, finché ti lasciano la voce...».

«Intendevo dirle di non cercare scorciatoie, di non piegarsi al potere, di non diventare opportunista. Non lo è diventata. È impegnata in Diversity, che difende le persone omosessuali e tutti coloro che subiscono discriminazioni. L'ho accompagnata ad Amsterdam per l'inseminazione artificiale, e ora ho due nipoti che sono gemelle, anche se molto diverse: Nina è bionda e alta, Cloe piccola e mora. Ho altre due nipoti da Carolina: Amelia ha otto anni, Adelaide tre».

Che nonno è Vecchioni?

«Una delle parole ricorrenti delle mie canzoni, oltre ad amore e stelle, è gioco. Passo il Natale a organizzare giochi per figli e nipoti. Abbiamo una casa sul lago di Garda, con un giardino che viene illuminato a giorno, le renne, un Babbo Natale alto tre metri. Sono un maestro di Mercante in fiera, invento indovinelli pazzeschi, e poi la caccia al tesoro, la tombola, ma anche gli scacchi, il bridge, i quiz... Pure le cose pericolose vanno affrontate come un gioco: un esame, una canzone da cantare per la prima volta, una malattia. Ho avuto tre tumori, tre operazioni, a un polmone a un rene alla vescica. Eppure ho compiuto 78 anni e sto benissimo». 

Un'altra sua parola chiave è sogno.

«Il sogno non è la negazione della realtà; è una sovrapposizione positiva della realtà. A volte la anticipa».

Fa sogni premonitori?

«Spesso».

Ad esempio?

«Ho sognato più volte di vincere Sanremo». 

Nel 2011 è successo davvero.

«Ne ero sicuro. Arrivai, feci le prove, andai a cena: il ristorante era vuoto. Alla fine della prima serata, dopo aver cantato Chiamami ancora amore , fuori dallo stesso ristorante c'erano quattrocento persone. Capii che il sogno era vero».

Una canzone antiberlusconiana.

«Anche. Una canzone politica. C'è Berlusconi, ci sono i licenziati Fiat. C'è l'Italia della grande crisi, che chiedeva un cambiamento. Berlusconi cadde otto mesi dopo». 

Nel 1991 lei vinse pure il Festivalbar con una canzone che le costò molti attacchi. Diceva: «Voglio una donna con la gonna...».

«Non era antifemminista. Ma le donne non devono diventare come gli uomini, in particolare quelli che non amo: i ricchi, i radical chic. Ne L'ultimo spettacolo dico alla donna che mi sta lasciando: "Non ti ho mai considerata roba mia"». 

In molte canzoni lei viene lasciato, e anche tradito. Ad esempio in Due giornate fiorentine : «Con lui ieri Firenze, i monumenti, il cielo, il letto/ con me oggi una noia da sala d'aspetto...».

«Eravamo a Firenze, e la mia ex moglie mi lasciò da solo per raggiungere il suo amante in albergo. Lo intuii, glielo chiesi. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo, pensai che era stato tutto finto. Con il tempo ho capito che l'amore non finisce mai. È soltanto incarnato da un altro volto». 

«E col passare del tempo non ti importa nemmeno...».

«...Chi le bacia gli occhi, chi le tocca il seno. Questa invece è Carnival».

Anche Luci a San Siro parla di una delusione d'amore.

«Lei mi lasciò il giorno in cui partivo militare. Facevo il Car a Casale Monferrato e soffrivo come una bestia. Allora presi la chitarra e scrissi una canzone: così la donna che avevo amato avrebbe avuto vent' anni per sempre». 

E la riempì di improperi.

«Infatti la stessa musica fu portata a "Un disco per l'estate" con un altro testo, sempre scritto da me. Il ritornello faceva: "Ho perso il conto/ di chi ho rimpianto...". Fu affidata a Rossano, un cantante molto bello, che sciaguratamente si era fatto crescere la barba. In semifinale gli suggerirono di tagliarla. Lui si presentò alla finale glabro: nessuno lo riconobbe, e perse miseramente. In compenso i Nuovi Angeli portavano un'altra mia canzone, che vendette due milioni di copie».

Quale?

«Forse non tutti sanno che ho scritto Donna felicità».

Samarcanda invece racconta l'impossibilità dell'uomo di sfuggire al proprio destino.

«Sì. Ma nel frattempo ho cambiato idea. Il destino è una cosa che ti porti dentro; e dipende soprattutto da te. Certo, esiste il Caso; ma non la Necessità. Siamo noi che costruiamo la nostra sorte». 

Lei crede in Dio?

«Sì. E non le dirò la solita menata tipo "ci credo a modo mio". Ci credo e basta. Da cattolico, sia pure poco praticante».

E come fa a essere sicuro della sua esistenza?

«Perché il mondo è imperfetto. Se fosse perfetto, senza un clinamen , senza deviazioni, allora non ci sarebbe Dio. Invece Dio c'è, perché ci ha permesso, con il libero arbitrio, di affrontare il male e il bene».

Come immagina l'Aldilà?

« «In due modi. O come spiritualità pura, beatitudine assoluta, tipo Paradiso dantesco».

Oppure?

«Oppure come la vita che ricomincia da capo». 

E lei cosa farà in questa vita nuova? «Forse non il cantante. Probabilmente l'artista. Di sicuro, amerò moltissimo».

Da ilnapolista.it il 14 ottobre 2021. Intervista di Roberto Vecchioni a Repubblica in cui il cantautore svela alcuni particolari di uno dei suoi brani più famosi: Samarcanda. È vero che ha scritto questa canzone, che poi è diventata famosissima, dopo il casello della Milano-Bologna?

«È verissimo. Avevo appena letto questa storia e volevo farne una canzone. Però dovevo andare a Bologna e mentre viaggiavo mi sono venute le parole: mi sono fermato un paio di volte per scrivere quattro frasi che non avrei ricordato. Poi, arrivato a Bologna, avevo già quasi tutto il pezzo. Tranne il ritornello». 

Il famoso “Oh oh cavallo, oh oh”?

«Esatto. Quello è nato perché uno davanti a me ha inchiodato improvvisamente e a momenti gli andavo addosso. Allora gli ho gridato: “Oh oh coglione!”. Immediatamente ho avuto una folgorazione ed è diventato “Oh oh cavallo”». 

Però lei non era contento di aver avuto successo con quel brano.

«No, perché non era stato capito. Era stato preso come una specie di Furia cavallo del West, lo cantavano e ancora oggi lo cantano i bambini. Venivo da due dischi che avevano venduto mille copie, nessuno mi conosceva. Samarcanda vendette ottantamila copie in una settimana. Io allora ero un po’ orso, poi mi sono svezzato, ma a quel punto da un momento all’altro c’era gente che mi veniva addosso, mi buttava di qua e di là.

Rita Vecchio per leggo.it il 26 gennaio 2021. «Lui non insegna: conversa d’infiniti mondi come se discutesse di regole del Monopoli e di come cambiarle». Roberto Vecchioni ha fatto così nella sua vita. Settantasette anni e non sentirli, un amore conteso tra i suoi studenti, la scuola, i greci e i latini, e la musica. La sua. Ed è da professore che nel suo ultimo libro, Lezioni di volo e di atterraggio, corre sulle parole. «Scritto di getto in un mese e mezzo, durante il lockdown. Quando scrivo canzoni ci metto più tempo - spiega in una bella chiacchierata rigorosamente a distanza - È un libro in cui racconto una classe di 37 anni fa, con aneddoti veri e fatti mai accaduti, dal bar alle giornate fuori dall’aula, alle bugie su Socrate e De Andrè per vedere se ci credevano, e lezioni sui poeti oltre la poesia». 

Professore, cosa è il volo? E cosa l’atterraggio? 

«Il volo è il sogno e l’atterraggio è la realtà. Non si può vivere solo dell’uno o dell’altro. Si deve sapere volare e si deve sapere atterrare. Sono due possibilità umane». 

In questo momento è difficile sognare? 

«Non lo è mai. Non dipende dai fatti contingenti. Dipende dal nostro modo di essere, di porsi dei limiti e di superarli». 

Come si superano? 

«Con la cultura. Chi non ce l’ha, è fregato». 

E oggi, politica, opinione pubblica, istruzione, hanno spesso messo in mezzo la cultura: è vero che tutto questo periodo andrà a scapito dei ragazzi?

«Assolutamente no. È bello sentire che i ragazzi abbiano l’impeto di far sapere che la scuola è importante, che vogliono tornare sui banchi, ma cosa è un anno in una vita? Ma non si devono preoccupare. C’è tempo per riprendersi sempre, non si spaventino mai. Saranno meglio di prima. Il fatto è che i giovani sono scalpitanti, per loro esiste il presente».

Le mancano i liceali?

«Tantissimo. Insegno da sedici anni all’università. Ma non è la stessa cosa. Al liceo è una battaglia, sono gli anni in cui ragazzi diventano pittori di loro stessi, ognuno nel proprio stile». 

Che pensa della Didattica a distanza?

«Che siamo in una situazione di emergenza. È una brutta cosa, ma che si deve fare. Necessariamente». 

La scuola oggi è in fase di volo o di atterraggio?

«Per ora è a terra proprio (ride, ndr). La scuola deve essere entrambe le cose: l’insegnamento non può portare solo lontano dal luogo comune e nemmeno nutrire di sole nozioni. La bellezza viene dalla rarità».

Per quello lei scrive che «spesso i professori raccontano più di quello che sanno»? 

«Certo. È una frase vera. Pure adesso, durante la trasmissione con Gramellini, mi rendo conto di dire più di quello che so e ho pure paura di dire stronzate. Gli insegnanti devono aprire la strada della possibilità e del pensiero». 

Quando racconta di Alda Merini che stonava la sua “Luci a San Siro”, sta mentendo?

«Tutto vero. Era un tormento. Un giorno andò pure a vedere un concerto dove io non c’ero perché sbagliò teatro. Mi ricordo il suo borbottio poetico, contro le cose che andavano male, contro certe donne: lei era gelosa di tutte. Con mia moglie non è mai andata d’accordo: quella donna ti rovina, mi diceva (ride, ndr)».

Le manca la scighèra (nebbia) milanese? 

«Tanto, tantissimo: è legata alla mia giovinezza, ai primi amori, ai miei inizi, alla paura di insegnare». 

Quando si è dato un 5?

«Ah, bella questa. Di 5 me ne sono dati parecchi: da vero pignolo, quando non riesco a fare qualcosa bene come avrei voluto. A scuola o ai concerti, se il pubblico non mi viene dietro, è colpa mia non del pubblico». 

E un 10? 

«Per sapermi emozionare su una canzone che ho cantato milioni di volte. Ma i 10 sono rari, massimo 8+». 

Ultima volta? 

«Agli Arcimboldi a Milano. Mi sono voltato e sono andato da un’altra parte per non far vedere le lacrime».

La regala una canzone nuova prima dell’estate?

«Le canzoni non arrivano mai sole. Sto però pensando a un lavoro musicale sul mondo classico. Invendibile, ma di grande soddisfazione. Tanto oggi chi vende dischi?».

Ha ragione. Quindi (quando si potrà) si va in scena alla Scala? 

«Magari. Sa che è sempre stato il mio sogno? Sarebbe un coronamento, varrebbe più di qualsiasi premio». 

Sono passati 10 anni da “Chiamami ancora amore” a Sanremo. Ha mai pensato di tornarci? 

«È stata un’esperienza unica che voglio rimanga tale. Non era il mio palco, ma mi sono trovato benissimo. La canzone era perfetta e universale. Ricordo la gente fuori, gli applausi, la commozione. È stata una gioia popolare, non si può sempre fare la spocchia, no?». 

Nel libro cita Modugno, De André…

«E li racconto ai ragazzi come se fossero stati miei grandi amici. Con Modugno, dopo un premio Tenco, abbiamo trascorso una serata intera a cantare il suo repertorio. E De André l’ho visto due volte. Chi dice di conoscerlo bene, sbaglia. L’unica che lo conosce bene è Dori. De André è un gigante».

Manca quel tipo di cantautorato?

«Manca perché i tempi erano diversi. Si indagava sul futuro. E loro erano cantori. Come Guccini, Jannacci, Gaber, Dalla. Irripetibili. Ma non ho nulla contro il rap di oggi. Non saprei dare dei nomi, ma se fatto bene è interessante. Io, però, resto amante della melodia».

E lei, in quali faccende è affaccendato nel suo prossimo futuro?

«Dovrei scrivere l’introduzione a un libro che commenterà 20 delle mie canzoni di prossima uscita. Ma è difficile scrivere su stessi. Anche perché, chi ci si crede di essere?».

·        Robyn Fenty, in arte Rihanna.

Anna Guaita per "il Messaggero" il 6 agosto 2021. È diventata la cantante più ricca del mondo. Secondo la lista di Forbes, Robyn Fenty, in arte Rihanna, domina le classifiche dall'alto di un patrimonio di 1 miliardo e 700 milioni di dollari. Ha superato Madonna, Beyonce, Celine Dion. Ma il segreto della sua ascesa nell'Olimpo degli ultraricchi non sta solo nella sua voce, sta nella sua bravura di donna d'affari. Se vi siete chiesti come mai la cantante non rilascia nuovi album dal 2016, ora lo sapete: da quell'anno si è data anima e corpo al business. Ha creato una linea di cosmesi e una linea di biancheria intima con cui ha rivoluzionato i settori. Il principio ispiratore delle sue attività è sempre quello dell'inclusività. Ed ecco che crea una linea di prodotti di bellezza con addirittura 40 diverse tonalità, per rispondere alle necessità di donne di ogni etnia, e poi una linea di lingerie per ogni corpo e ogni forma: «Non ho il corpo di una modella di Victoria Secret ha confessato tempo fa ma voglio comunque sentirmi comoda e bella nella mia biancheria».

STAR SUI SOCIAL Potendo far affidamento su cento milioni di fans su Instagram e altrettanti su Twitter, Rihanna sapeva di avere pronto un mondo di possibili clienti adoranti, ma bisognava capire cosa volessero. Nel 2017, con le donne mobilitate dopo la vittoria di Trump, lei stessa partecipò alle manifestazioni di protesta, e poi sostenne il movimento #MeToo e la lotta per i diritti dei Lgbtq, rivelandosi politicamente impegnata e molto coinvolta in battaglie umanitarie. Rihanna si era così fatta un'idea ben precisa di cosa cercassero le donne, e irruppe sul mercato con il concetto dell'inclusività e la linea di cosmesi Fenty Beauty, forte di un ventaglio di colori che nessuno fino ad allora aveva pensato di offrire. Si dice oggi che Rihanna abbia da sola creato un effetto domino su tutto il mercato della cosmesi, tant' è che si parla di un effetto Fenty, che avrebbe trascinato anche le altre case a moltiplicare le tonalità per clienti di ogni razza. E per passare all'altro settore, quello della biancheria intima, nel 2018 Rihanna fece un simile debutto sulle passerelle della New York Fashion Week facendo sfilare con la sua lingerie modelle magre e grassottelle, bianche e nere, perfino incinte. Cruciale per il moltiplicarsi della sua ricchezza è il fatto che abbia conservato buona parte della proprietà delle sue aziende. Fenty Beauty è stata lanciata dalla casa di lusso francese LVMH, ma Rihanna ne conserva il 50%. La linea di lingerie Savage X Fenty è stata lanciata con la TechStyle Fashion Group, con il 30% nelle mani della cantante.

FIUTO PER GLI AFFARI Da dove viene questo fiuto per gli affari? Rihanna fu lanciata quando aveva appena 16 anni da Jay Z, il marito di Beyonce, noto per dare agli artisti della propria scuderia anche lezioni di affari e economia. Ma a preparare la giovane in un mondo estraneo quando era appena un teenager è stata la sua infanzia difficile, con un padre tossicodipendente e una mamma che non riusciva a portare avanti la famiglia. Ha dunque dovuto fare da mamma ai fratellini più piccoli, e ha saputo rallegrare la loro vita con il canto. Quello stesso canto che l'ha portata a lasciare la natia isola di Barbados, uno dei gioielli dei Caraibi, per arrivare negli Usa a 15 anni, per il lancio del suo primo album a 16 anni, nel 2005. Cantante amata, donna d'affari di successo, anche Rihanna però ne ha viste di brutte. Ancora oggi i fans ricordano i lividi che il boy friend Chris Brown le lasciò sul volto dopo averla attaccata nel 2009. Lo scorso febbraio, poi, ha dovuto dire no e chiudere le porte a un'altra sua impresa finanziaria, una linea di pret-a-porter: la pandemia ha penalizzato anche lei.

·        Rocco Maurizio Anaclerio, in arte Dj Ringo.

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 26 febbraio 2021. “Ho speso gran parte dei miei soldi in donne, auto e moto veloci, il resto l'ho sperperato”. Solo parafrasando la famosa frase di George Best (senza alcol, perché lui è allergico all’etanolo) è possibile sintetizzare davvero la vita di uno dei personaggi più imprevedibili del panorama artistico italiano. Oggi è giusto farlo, perché quel ragazzaccio che ogni giorno da quasi mezzo secolo ci spara in radio il meglio della musica mondiale (rigorosamente rock) incredibilmente compie 60 anni. Non vi sembrerà possibile - probabilmente non ci crede neanche lui - ma è il compleanno che festeggia Dj Ringo, che solo a guardarlo ne dimostra almeno venti in meno. Se poi ci parlate, allora l’età scende di un altro paio di decadi. Rocco Maurizio Anaclerio, questo il suo nome all’anagrafe, ha una energia contagiosa e una vita da vera rockstar. Anarchico fin nel midollo. In periodo di politicamente corretto, se gli chiedi da che parte sta ti risponde candidamente: “La sinistra mi sta sulle palle, posso dirlo?”. Ormai l’ha detto. Ma non è neanche di destra: “Non ha senso di esistere. Io critico chi è al potere”. Perché in fondo è rimasto il punk con la cresta di quando aveva 14 anni nei ruggenti ’70, per poi farsi contagiare dal rampantismo della “Milano da bere” fra gli ’80 e i ’90 durante i quali si è tolto tutti gli sfizi possibili e immaginabili: “Ho speso miliardi per auto, moto, belle donne, viaggi e cene con comitive di amici. Il resto l’ho sperperato”. Dalla Lira con il cambio attuale fanno “circa 10 milioni di euro”. Per cui conviene ripercorrere insieme la parabola di quel ragazzino che a soli 13 anni si è messo a lavorare (“allora era consentito”), a 15 era a punkeggiare a Londra lungo Kings Road, a 20 ne ha vissuti 6 a Los Angeles e ha esordito (“partendo dal pulire i vinili al primo programma”) per poi tornare in Italia e fare la storia della radio sotto l’insegna di Virgin. Ma attenzione, se lo incontrate per strada non ditegli che è vecchio: “Ti tiro un pugno sul naso! Portami tua sorella e poi vediamo”.

Su Wikipedia è riportato che sei nato a Paderno Dugnano. Cosa c’è di caratteristico?

«Non ne ho idea, perché non ci sono mai stato!»

Ma come?

«Quando mia mamma era incinta si è trovata da mia zia e sono nato in casa sua al volo».

Quindi le tue vere origini sono pienamente di Milano zona Porta Venezia, giusto?

«Esatto».

Che bambino era Ringo?

«Ricordo i classici pantaloncini corti e che a 500 metri da casa avevo i giardini pubblici, per cui andavo a giocare lì con la fionda. Ogni tanto tornavo con i punti in testa per una sassata che avevo preso. Ero un classico bambino degli anni ’60: pallone per strada, bicicletta e fionda in tasca».

La scuola?

«Non me ne parlare, non vedevo l’ora di finirla per andare fuori dalle palle. Volevo la moto, viaggiare, sognavo il mondo. Non ero portato per lo studio. A 13 anni e 6 mesi lavoravo già come garzone in via Monte Napoleone, allora si poteva. Con le prime mance ho comprato il motorino».

Hai fatto qualche ragazzata degna di nota?

«Una volta nella mia via c’erano tre-quattro trattorie famose. Un giorno, mentre giocavamo in cortile, abbiamo visto che hanno scaricato 5-600 uova. Lì vicino c’era anche una macchina per stappare le bottiglie di vino, così noi invece delle bottiglie ci abbiamo messo le uova e ne avremo fatte esplodere 200. Non ti dico le botte che abbiamo preso, perché i nostri genitori poi hanno dovuto pagare i danni. Il bello è che nel frattempo cani e gatti della zona erano accorsi a mangiare le uova sulla strada. E così, in fondo, ci ha fatto piacere vedere che mangiavano per merito nostro».

La musica quando è arrivata?

«I miei genitori e i miei zii avevano una collezione di 45 giri notevole. Da bambino usavo il mangiadischi finché non si consumavano le pile. Ho iniziato a fare il disc jockey già da piccolo. Loro ballavano e io mi divertivo a mettere su musica. Un giorno mentre stavo mettendo un disco ricordo che in tv passavano le immagini del primo uomo che aveva messo piede sulla Luna».

Sei stato anche un musicista, batterista per la precisione.

«Sempre da ragazzino ho iniziato a seguire tutto il glam rock inglese. Quando è esploso il punk sono stato uno dei primi a mettere in piedi una band su quell’onda e io ero alla batteria. Era il ’77-’78. Però in quel periodo ci prendevano per matti: “Cos’è questa roba qui?” dicevano».

Partecipavi alle manifestazioni?

«Erano tutti dei fricchettoni del cazzo, andavano a quelle manifestazioni solo per tirare le molotov ma a me non fregava niente di fare quella vita lì, volevo solo suonare. A 15 anni sono andato a Londra dicendo a mia madre che era per imparare l’inglese, in realtà facevo il punk a Kings Road».

Piuttosto precoce, non c’è che dire.

«Ma sai, una volta con 50mila Lire mi compravo l’Interrail, il biglietto degli studenti, e avevo mille chilometri in Europa in treno da percorrere. Andavo a Berlino, ad Amsterdam, a Parigi. Dormivo per strada con un sacco a pelo».

La prima volta davanti a un microfono di una radio la ricordi?

«Eccome, a 15-16 anni un mio amico aveva una piccola radio in soffitta. Prendeva in un chilometro quadrato. Noi sognavamo che ci ascoltasse tutta Milano, ma il suo ripetitore era limitatissimo. Una volta ci hanno seguito le nostri madri, chissà cosa pensavano stessimo facendo visto che scomparivamo per delle ore. Ma noi semplicemente fregavamo i dischi ai nostri genitori, mettevamo su musica e parlavamo. Una volta si potevano costruire le radio pirata, oggi ti arrestano».

Quando hai cominciato a diventare un professionista della radio?

«La prima esperienza professionale a Los Angeles, quando ho abitato lì dal 1981 al 1985. Ero a Pirate Radio e ho cominciato con il pulire i dischi dalla polvere fino ad arrivare ai primi programmini. Poi sono tornato nell’86 a Milano, ho aperto un paio di discoteche il Sintesis e l’Hollywood, e un giorno un mio amico, Gigi D’Ambrosio che è stato un vero mentore, mi dice: “Vieni da noi, fai passare troppo della bella musica. Vogliamo fare una radio che prende a Milano e Genova”. È stato il momento in cui è nata Rock Cafè, che ho mandato avanti un anno da solo mentre parallelamente lavoravo a Radio101. In pratica correvo da uno studio all’altro. Guardavo l’orologio e quando iniziava un disco da una parte sapevo che stava per finirne dall’altra».

Però il tuo nome d’arte, in realtà, è precedente alla radio.

«Sì, viene da quando avevamo formato la prima band a 13-14 anni, sai nel ’73 che musica potevi fare? Cover dei Beatles. Io ero batterista e tutti mi chiamavano Ringo, come Ringo Starr».

Qual è la loro canzone a cui hai legato un ricordo particolare?

«Quando ero al bar con mio zio e mi offriva il Mottarello, un gelato, e poi mi dava una moneta per andare al Jukebox. Io ci mettevo la sedia vicino e ci salivo sopra, per darti l’idea di quanto ero piccolo, e facevo partire Michelle dei Beatles».

Ringo Starr lo hai anche intervistato, vero?

«Sì, al Lucca Summer Festival».

E quando gli hai detto che ti fai chiamare Ringo, come ha reagito?

«Mi ha detto: “Da quanto ti chiami Ringo?” e gli ho risposto: “Da quando ho 13 anni”. E lui: “Devi pagarmi i diritti”. È stato simpaticissimo. Ha aggiunto: “Sei il primo Ringo che conosco nella mia vita”. Ma è stato forte anche Paul McCartney, che invece quando l’ho conosciuto mi ha detto: “Sei il secondo Ringo che ho conosciuto nella mia vita”».

Fra le mille cose che hai fatto, di certo la tua vita professionale è segnata da Revolver, il programma che porti avanti da 25 anni. Qual è stato il suo punto più alto e invece quello più basso?

«Al più alto non ci penso, perché se controlli i risultati vuol dire che hai dei dubbi sulle tue performance. Io ancora non ne ho. Sul punto più basso, invece, posso raccontarti che dipende da mia figlia Swami. Nel 2015 l’ho avvisata: “Amore di papà, promettimi che quando mi sentirai vecchio, scadente, deleterio e noioso me lo dirai, ok? In quel momento mi metterò dietro la scrivania”. E lei ha risposto: “Ma cazzo papà sei troppo forte, hai un sacco di energia e come spieghi tu la musica nessuno”. Ecco, finché mia figlia dice che sono una bomba vado avanti».

Un po’ come Franco Califano, che voleva invecchiare solo cinque minuti prima di morire…

«È un pensiero grandioso!»

Oppure da milanista ti senti un po’ l’Ibrahimovic della radio?

«Proprio così, perché mi sento ancora in forma! Se avessi fatto un programma non legato al rock, forse sarei già stanco da un pezzo. A me Sanremo, i social, i reality e di dove va la musica adesso, se devo essere sincero, tutta quella roba mi fa cagare. In una radio con quelle cose sarei già scappato, o forse non sarei stato all’altezza. Invece avere a che fare con la musica con cui sono cresciuto, che amo, della quale mi reputo uno dei più esperti non mi annoia mai. Quando arriverà qualcuno più giovane che mi butterà giù dalla torre ben venga, per adesso devono stare attenti loro».

In fondo, non solo Virgin è una delle radio più seguite nel nostro paese, ma quella italiana fa registrare gli ascolti più alti di tutte le Virgin nel mondo. Da direttore artistico senti di avere potere?

«Io sono sempre stato anarchico, né di sinistra né di destra. Arrivando dagli anni ’60-’70 il mondo l’ho voluto conquistare io, pagare io per i miei sbagli e gestirmi da solo. Un po’ come le femministe. Nel sangue ho questo atteggiamento e non vedo altre vie al giorno d’oggi. Sono consapevole dei miei mezzi, ma per il resto mi ritengo un anarchico totale. Nello stesso tempo sono lontano dal potere, sento distante quella parola. Per me potere è stare bene, ascoltare musica e godermi le mie gare di motori».

Hai mai avuto contrasti con le varie proprietà?

«Ci sono sempre dei contrasti, è normale. Adesso però sono fortunato, il mio Ceo è Paolo Salvaderi che è anche un chitarrista laureato in America con una tesi in cui l’ha seguito Joe Satriani. Diciamo che ha una certa sensibilità e poi io su certe cose non metto becco».

Virgin è anche partner ufficiale di un sacco di festival. Come avete vissuto la pandemia con l’assenza di live?

«Eh cazzo, quest’anno avevamo veramente tutti, dagli Aerosmith ai Foo Fighters, dai Guns N' Roses a Paul MacCartney e purtroppo è tutto saltato. Abbiamo continuato, non bisogna fermarsi. Per esempio, abbiamo avuto gli AC/DC come radio ufficiale in Italia ospiti via Zooom, non è da tutti».

Il futuro come lo vedi?

«Finché non passa la pandemia non tornano i live. Però la radio è immediata, la ascolti in auto, sul cellulare, è impossibile batterla. È come il parrucchiere per le donne, non si può farne a meno».

La consiglieresti ancora la radio a un giovane?

«Gli consiglierei di fare quello che ama. Però adesso i giovani con un computer si inventano cantanti o disc jockey, ma non funziona così. Ci vuole esperienza, bisogna conoscere il mestiere. Non è che se compri una bella macchina fotografica diventi un bravo fotografo. Anche pizzaioli non ci si inventa da un giorno all’altro. Si impara studiando e lavorando sul campo».

In tanti anni hai veramente intervistato tutti. Quali sono i personaggi che ti hanno colpito di più?

«Come presenza e gentilezza, di certo David Bowie. Per come invece si è sviluppata la chiacchierata Lou Reed. Era iniziata male, era molto scontroso e non sapevo come uscirne. Meno male che avevo letto che in un bar di New York si vedeva con alcuni amici di nascosto per suonare rockabilly e quando gli ho detto che lo suonavo anch’io si è aperto un mondo. Abbiamo parlato di tutto, dalle chitarre a Elvis e mi ha sorpreso. Mi sono emozionato anche per la chiacchierata con Bryan May».

Il più matto?

«Sicuramente Iggy Pop! Dovevo presentarlo in piazza Repubblica a Firenze e così prima dell’esibizione vado in camerino, lui era con gli Stooges. Gli dico che sono amico di Marky Ramone e ci confrontiamo per mezz’ora. Poi esco e quando sta per iniziare il concerto io sono dietro al palco al buio con il microfono in mano per annunciarlo. Lui arriva a torso nudo e mi dice: “Chi sei tu?”. E io: “Sono Ringo, ci siamo parlati prima”. A quel punto mi prende il microfono e me lo spacca gettandolo a terra. Mi ha annichilito…»

E tu quali follie hai fatto?

«Perché tocchiamo questo tasto? Mamma mia, ho sperperato un sacco di soldi…»

In cosa?

«Tra gli anni ’80 e’90 ho speso miliardi. Però mi sono divertito, ragazzi! Auto, donne, viaggi, tutto quello che volevo. Ho comprato otto Porsche, varie le Ferrari. Le sfasciavo e le cambiavo. Era davvero la “Milano da bere”. Una donna ogni giorno, come le auto e le moto, poi pagavo da mangiare a comitive di trenta persone. È stato un momento esaltante della mia vita. Mi sono divertito, poi sono rimasto senza una Lira. Però è stato figo, non rinnego nulla».

Se dovessi quantificarlo, quanto hai sperperato in vizi?

«Tra Ferrari e Porsche, le moto che le ho avuto davvero tutte comprese una decina di Harley e un paio di Ducati Superbike, più tutto il resto avrò speso in vent’anni circa 10 milioni di euro».

Hai mai provato a cercare Dj Ringo su Google? La prima domanda che si fa la gente è “altezza?”.

«Sono alto 1.86»

La seconda è “la moglie di Dj Ringo”…

«E non sono mai stato sposato…»

Ma le donne, come hai ricordato tu, non sono mancate…

«Con Elenoire Casalegno ho avuto una figlia, lei è una bellissima donna dello spettacolo e una madre stupenda, andiamo d’accordissimo.

Perché non ti sei mai sposato?

«Fino ad ora non faceva per me, ma prossimamente potrebbe succedere. Sono da 14 anni con Rachele Sangiuliano, ex campionessa di volley e dopo la pandemia potremmo sposarci, perché no?»

Le pallavoliste sono donne toste. Una volta Maurizia Cacciatori ha raccontato di aver dato un pugno in faccia al compagno di allora Gianmarco Pozzecco, dopo che lui l’aveva infastidita in aereo. A te è mai capitato qualcosa di simile?

«Certo, a volte le ho prese, ma non ho mai reagito. Solo se mi tiravano qualcosa me ne andavo. Viviamo in un periodo tragico, ogni giorno si sente parlare di un uomo che ammazza una donna. Io ho sempre avuto molto rispetto, per me sono una parte importante della mia vita».

Meglio le moto o le donne?

«Se vuoi una bella donna, per portarla a mangiare un gelato o una anguria ti serve la moto. Comunque, una donna che non apprezza la moto non fa per me. Posso sopportare che ascolti musica dance, ma se non ama la moto no. La moto per me è la prolunga del mio pene. Per Jimi Hendrix era la chitarra Fender, per me la moto».

Politicamente ti sei definito anarchico. Ma quindi non vai a votare?

«Una volta mi hanno chiesto: “Sei di sinistra?” e io: “Assolutamente no”. Poi non mi fanno finire la frase e già pensano che io sia un nazista. Mi sta sulle palle la sinistra, perché non posso dirlo? Non sono neanche di destra. Non mi piace che mi etichettino. La destra per me non ha senso di esistere, anche perché che destra c’è in Italia? Io guardo chi è al potere in quel momento e come si comporta. Se è rosso me la prendo con il rosso, se è nero me la prendo col nero. Non mi è piaciuto neanche Giuseppe Conte, per nulla».

Cosa non ti ha convinto?

«Si vedeva che sarebbe finito male, perché c’è un sacco di gente che per mesi, come i ristoratori o i baristi, non ha avuto nessun aiuto. Da questo punto di vista è stato inesistente. Allora perché andava in tv promettendo un “ombrello” di 700 milioni di euro? Anzi, tu sai dove sono andati a finire?»

Non chiederlo a me…

«C’è in giro tanta gente senza un euro in tasca, senza lavoro e che fatica a fare la spesa. Le persone soffrono e fa male vedere le file per il cibo o gli anziani che al mercato raccolgono la frutta marcia perché non si possono permettere altro. Poi quando distribuiscono i soldi ci obbligano a registrarci su un sito che puntualmente viene hackerato, oppure gli 80enni a iscriversi online per vaccinarsi, ma non capiscono che non sono capaci? A me queste cose fanno girare le palle!»

Se oggi quando esci dalla radio un ragazzino incontrandoti per strada dovesse dirti: “Wè Ringo, sei vecchio è?” cosa gli risponderesti?

«Gli tiro una cinquina in faccia e gli spacco il naso. E gli dico: “Sono ancora vecchio adesso??!”. I ragazzi giovani devono imparare una cosa: la strada è la strada e io ci sono nato. Se mi provochi reagisco per cui è normale che ti dia un calcio nel culo. Sono cresciuto con la provocazione, ho la cresta da quando avevo 14 anni. A parte gli scherzi, gli risponderei come si faceva negli anni ’70: “Visto che sono vecchio, portami tua sorella e fattelo dire da lei”».

·        Rocco Papaleo.

Rocco Papaleo: «Quando caddi nella giungla intorno a casa Cecchi Gori». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2021. Pensi a Rocco Papaleo e lo vedi coconduttore di Gianni Morandi a Sanremo 2012 mentre l’Ariston in piedi fa il ballo della Foca e canta con lui «tu-tuf tu-tuf». O pensi al che fu la sua prima regia e che vinse due David di Donatello. Rivedi lo sguardo stralunato e spiritato, lo stesso che ha mentre mi parla e che è il marchio di personaggi indimenticabili, come Athos, il moschettiere di Giovanni Veronesi o il Gatto del Pinocchio di Matteo Garrone. «Non mi concentrerei sullo sguardo», mi dice, «la mia è più una ricerca di musicalità. Io recito e contemporaneamente canto senza farmene accorgere».

Com’è cantare senza farsene accorgere?

«È come un jazz dell’espressione, molto nascosto, che però ha un suo andazzo, con pause, ghirigori, scale di note che vanno e vengono».

Il personaggio più musicale?

«Il Cervo Nero del Grande Spirito di Sergio Rubini, un candido visionario con una visione favolistica e onirica della vita e con doni speciali. Aveva un sound bellissimo. È stata una delle rare volte che ho recitato come in trance. Sembro spontaneo, ma sono un attore molto razionale».

Quella musica se la porta a casa di notte?

«Io e il personaggio siamo una coppia aperta. Se ci va di stare insieme, magari si corica pure con me, ma a volte non lo incrocio per intere giornate e capita che recito e non si manifesti».

E se non si manifesta?

«Be’, faccio schifo. Poi molti non se ne accorgono perché mi hanno in simpatia, ma io lo so».

Un blob dei suoi momenti migliori?

«Athos in Tutti per 1, 1 per tutti, quando gli altri due hanno disertato e lui torna al galoppo: al galoppo non ero mai andato, fa paura , ma sono sceso e sembravo un cavaliere di grande agilità. E poi con Anna Foglietta nell’ultimo film di Carlo Verdone, quando la seduco facendole credere di essere malato e poi la bacio. A ritroso, un comizio in Del perduto amore di Michele Placido: mi è riuscito bene perché mi ricordavo quelli visti al paese. E qualche scena del Pranzo della domenica di Carlo Vanzina: mi spiace che per alcuni non sia un regista nobile».

Qual è il momento topico della gioventù?

«Quando scelsi lo Scientifico solo perché stava a Lagonegro, 19 chilometri da Lauria. Dovevo alzarmi un’ora prima, ma mi dava l’idea di viaggiare, avere libertà. Potevo fumare per strada: avevo iniziato l’estate dopo le medie, con mamma, di nascosto da mio padre».

A fumare, a 13 anni con sua mamma?

«Prendevamo il pacchetto, l’aprivamo da sotto, sfilavamo una sigaretta e lo ricomponevamo affinché lui non se ne accorgesse. Era un gioco, un’intimità spericolata. Con mamma ho avuto un rapporto di gran confidenza, almeno finché le problematiche erano accessibili sia a me sia a lei, che non era un’intellettuale ed era religiosa al limite del bigotto. Però, era tanto simpatica».

E lei che bambino era?

«Felice, figlio unico in una famiglia degli anni ’60 , con papà impiegato delle imposte, i parenti nei giorni di festa. Avevo tutto quello che desideravo o forse non avevo desideri eccessivi».

S’intuiva già la vena comica?

«Ero vivace, zia Teresa si ricorda che zompavo dal tavolo al divano. Mi piaceva scherzare, ma non è che si prospettava una vita d’artista».

A scuola se la cavava?

«Scrivevo bei compiti di italiano. Una volta ne scrissi uno su Corradino di Svevia e il prof lo annullò: era così bello che pensò l’avessi copiato».

Però, all’università, scelse Matematica.

«Soprattutto per andare a Roma. Era il 1976, tutti i ragazzi di provincia sognavano la città pensando di trovarci l’Eden. In parte era vero, era tutto più affascinante, anche troppo, tant’è che non ho concluso niente: davo giusto un esame all’anno per rimandare il militare».

Che faceva il resto del tempo?

«Suonavo la chitarra, andavo al cinema, ma non pensavo di fare l’attore, al limite il cantautore. Però ero considerato un tipo simpatico: il prof di Fisica 2, se sentiva l’attenzione calare, mi faceva una domanda e io dicevo una cosa che faceva ridere tutti. Insomma, un’amica mi iscrisse a una scuola di recitazione a mia insaputa».

Da lì, molto teatro e, nel 1989, prima particina al cinema con Mario Monicelli.

« Male Oscuro compare nella biografia per vezzo: io stavo nella tromba delle scale e la scena si svolgeva in casa. Monicelli neanche lo vidi».

Però vide Bruno Corbucci.

«Avevo speso anni per pulire la dizione e mi scelse per parlare dialetto lucano nella serie Classe di ferro, su militari di leva di tutte le regioni. La puntata di cui ero protagonista andò in onda poche ore prima che mio padre morisse. Stava male da tempo, io e mamma decidiamo di vedere la tv con papà di là. Fu una commozione strana, come fosse seduto con noi».

Poi, un corto di cui era protagonista e in cui recitava in dialetto, «Senza parole» di Antonello De Leo, fu candidato agli Oscar.

«Non volli andare a Hollywood e quella notte staccai il telefono, anche per una specie di modestia o di sano realismo».

La svolta arriva con Leonardo Pieraccioni?

«Fu il primo ruolo da protagonista, con lui ho fatto sei film, ma la svolta viene quando Giovanni Veronesi mi presentò a Pieraccioni: mi aveva visto suonare la chitarra a una festa . Con lui, poi, ho fatto quattro film e abitiamo anche vicini».

Su Instagram, sul set dei tre moschettieri, vi scatenate in canti e balli con Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino.

«Lei non sa che privilegio lavorare coi miei attori preferiti e pensare pure che sono amici».

Tre film da regista, un quarto in arrivo. Da quanto covava progetti da regista?

«Tutto nacque per caso: avevo appuntamento con Rita Rusic, ai tempi moglie di Vittorio Cecchi Gori. Nell’andare a casa loro vivo un’odissea metropolitana che diventa un aneddoto che racconto alle cene. Enrico Lucherini disse: devi farci un corto e, a una premiazione, invita sul palco Cecchi Gori, che non sapeva niente, dicendo che produrrà il mio primo corto. Lo girai e così mi morse la tarantola di fare il regista».

Che successe nel tragitto fra le due case?

«Io abitavo al Pantheon e dovevo andare a Viale Platone. Decido di prendere un taxi, provo a prelevare ma il bancomat era scaduto. Allora, mi faccio prestare una bici, ma sullo stradario non erano segnate le altimetrie, la salita era pesante, la scalo. Arrivo in cima e la strada s’interrompe a un cancello. I passanti mi dicono di fare un giro diverso, era tutta salita, annaspo, sudo. Avevo diecimila lire in tasca, fermo un taxi, mi porta su, la strada è chiusa, torna giù, i soldi finiscono, mi ritrovo al punto di prima: scavalco il cancello e cado in una giungla, mi faccio largo fra i rami, precipito su una specie di rupe, atterro nel viale di casa Cecchi Gori in condizioni pietose e in ritardo. Rita, però, era più in ritardo di me».

Da lì, arriva «Basilicata Coast to coast».

«Mi ha permesso di approfondire il legame con la mia terra, conoscevo solo i paesi vicini a casa. Sono stato prima a New York che a Matera. Ho scoperto un Dna comune col mio popolo: un modo di vivere un po’ modesto, discreto, in cui si cerca di non dar fastidio al prossimo».

Le fece più piacere il David per miglior regista esordiente o per miglior musicista?

«La risposta la dà la statua conservata: miglior musicista, l’altra l’ho data ai produttori. La musica rimane la mia vena principale».

Tentò pure Sanremo ma non la presero.

«Morandi mi disse che non volevano attori in gara. L’anno dopo mi chiamarono per affiancarlo e dissi: vengo, però voglio cantare la canzone che non mi avete preso l’anno scorso».

Un momento memorabile del Festival?

«Partiamo dal fatto che Morandi era il mio idolo. Arrivo a Bologna per andare a Sanremo con lui, scendo dal treno e c’era proprio lui che mi aspettava. Resto basito, penso: ma come, Morandi sta qua come uno normale. Poi mi dice: dobbiamo passare da casa di Adriano Celentano. Altro mio idolo. Entro in un mondo: il mondo di Celentano, con lui che ci fa vedere il suo studio di registrazione e quello dove aggiusta gli orologi. E mi colpisce per quanto è dolce: non me l’aspettavo da uno così stravagante. Se c’è una cosa che non ho dismesso è la fascinazione per le star come le guardavo da giovane. Non mi sono mai sentito collega».

Si riconosce nel monologo sulla donna ideale che è «la brutta che ti piace e tu gli piaci»?

«La bellezza è una suggestione che subisco, ma la cosa principale è che una donna devo aver voglia di ascoltarla».

In un’intervista, disse che il momento più alto della sua vita affettiva era stato con la sua ex moglie. È rimasto quello il momento alto?

«Sì, perché abbiamo avuto un figlio che è il mio centro sentimentale. Ho pure continuato a portare la fede. Però a destra. È un simbolo: se non ci fosse stato il figlio, non la porterei, ma c’è, e questo fa di noi un trio».

La fede non scoraggia le nuove fidanzate?

«Immagino di sì, tant’è che non sto con nessuna, ma se m’innamorassi ancora la toglierei».

Cos’è «Scordato», sua prossima regia?

«Posso dire poco, sto ancora montando. Parla di un accordatore di pianoforti che non è accordato col contesto, c’è una ragione e il film è una vita stonata. Mi sembra il mio film migliore».

Come le è venuto in mente di far recitare la cantante Giorgia?

«Perché sono innamorato di lei platonicamente. Ho sempre pensato che avesse una grossa carica di umanità. Vedevo in lei potenzialità da attrice per il sorriso che ha. Avevo ragione».

Al momento, lei è accordato o scordato?

«Non accordatissimo. Faccio fatica in questa fase storica così confusa. Infatti, sono in tournée con Peachum, una rilettura dell’Opera da tre soldi di Brecht, ora che il capitalismo sembra sia la ragione principale della nostra società».

Sui social, spesso, posta poesie. Un verso per chiudere quest’intervista?

«Uno da Piaceri di Brecht: un lungo elenco in cui mi ritrovo. Finisce così: scrivere, piantare, viaggiare, cantare, essere gentili».

·        Rocco Siffredi.

Dagospia il 13 ottobre 2021. Da “Ti Sento - Rai 2”. Pierluigi Diaco apre la quinta puntata di Ti Sento (ogni martedì in seconda serata su Rai2 e ogni giorno, dal lunedì al venerdì, alle 20 su Rai Radio 2) mandando in onda una copertina con i momenti più significati della carriera di Siffredi e chiede: "I ricordi dove sono andati mentre guardavi queste immagini del tuo passato?" Rocco Siffredi si commuove visibilmente e dopo qualche secondo di silenzio risponde: "Avevo promesso a mia moglie di non emozionarmi, quindi devo farlo subito così non lo faccio più. Mia madre: la voglia di poterle dare qualcosa, di renderla felice..." "Sono all’asilo, mi vengono a prendere: non è come al solito mia sorella ma una vicina di casa. Mi porta a casa e io sento le grida sotto casa... quel giorno ha cambiato la nostra famiglia. Mia madre l’ho vista soffrire sempre. Una donna che perde un figlio di 12 anni per una crisi epilettica, io ne avevo 6, e tutto ad un tratto impazzisce... Mia mamma metteva da mangiare sul tavolo anche per mio fratello Claudio che non c’era più".

Il pornodivo si rese conto allora che bastava un solo attimo per distruggere un’esistenza intera. Dopo, una vita a inseguire il sogno di “dare qualcosa in più” a sua madre, di strafare. E poi l’incontro con la moglie Rosa e i figli: “Mi sono sentito spesso inadeguato e in imbarazzo per il lavoro che facevo”, ha confessato. Ma nonostante questo, conserva un ottimo rapporto con tutti i familiari, caratterizzati – come lui – dal forte senso del dovere e dallo spirito del sacrificio. 

Niccolò Fantini per "Novella 2000" il 2 settembre 2021. L'ultimo libro di Rocco Siffredi non è una autobiografia, ma un manuale. Si intitola: "Sex Lessons. Il mio corso di educazione sessuale" (Mondadori, 2021). Non un saggio medico di sessuologia, ma un compendio di consigli da "fratello maggiore": l'esperienza del celebre attore, regista e produttore di Cinema per adulti, con ciò che ha imparato in oltre 30anni davanti e dietro la telecamera, ma anche a casa, con moglie e figli. Il dialogo con le tante persone che gli scrivono: donne, uomini, coppie e tutto ciò che c'è nel mezzo, dai video su Youtube, alle pagine del libro. Rocco Siffredi racconta a Novella i suoi consigli sul sesso, ma non solo. E anticipa alcune novità della prossima masterclass di Budapest, dove insegna cinema e intrattenimento per adulti, alle nuove leve professionali del settore.

Ci può raccontare come è nato il progetto di Sex Lessons?

«L’editore ha notato i video che pubblicavo sul mio canale YouTube: i Coronasutra. Piccoli video in risposta alle centinaia di domande che ragazze e ragazzi mi fanno sempre, circa il sesso. Il progetto è piaciuto e mi hanno proposto di racchiudere i miei consigli nel libro.» 

Le scrivono tante persone?

«Sì. E ancora di più durante la Pandemia: ho ricevuto tantissime domande, di ogni genere, sul sesso. Dai timori della prima volta, alle coppie che sono in crisi, gli uomini con l'ansia da prestazione e le domande sulle dimensioni del pene, così come le donne, che si sentono insicure per il proprio aspetto fisico. Per questo ho deciso di contribuire: cerco di trasmettere agli altri quello che ho imparato sul campo.»

Un volume con lezioni di sesso di Rocco Siffredi: ma non è un saggio di sessuologia, giusto?

«Non ho mica la pretesa di fare il sessuologo, ci mancherebbe: non è il mio mestiere. Il mio approccio è più simile al consiglio che darebbe un fratello maggiore. Che è proprio il motivo per cui mi contattano continuamente tante donne e tanti uomini: cercano un consiglio. Ho un'esperienza di 30 anni nel mondo del Porno: so distinguere tra la finzione e la vita reale, sono un attore e un regista, ma sono anche un uomo sposato e il padre di due figli maschi. Ho più punti di vista, sulla materia.»

Pensa che ci sia bisogno di educazione sessuale in Italia?

«Sì, soprattutto per i giovani. Ormai siamo alla seconda generazione di ragazze e di ragazzi, che hanno la loro prima conoscenza del sesso su Internet: vedono il sesso attraverso la pornografia online, con lo smartphone e il computer. Ma ci vuole un'educazione sessuale a scuola, che venga insegnata come avviene nel resto del mondo. Avevo fatto un appello, proprio per rendere l’educazione sessuale obbligatoria nelle scuole italiane. Mi ero reso disponibile e a me piacerebbe promuovere l'iniziativa: parteciperei volentieri, mi piace il dialogo coi ragazzi. Ma l'Italia è un paese dal pensiero retrogrado, l'approccio di chi lavora nel mondo della scuola è: “Rocco Siffredi, il pornodivo? No, grazie”.»

Lei da quale testo ha avuto la sua educazione sessuale?

«Una rivista, vietata ai minori: Supersex. Era piena di donne bellissime, una più sensuale dell'altra. Ha influito sulla scelta di diventare un pornoattore.» 

L'editoria del secolo scorso: oggi viviamo un altro mondo e i giornali quasi non si stampano più. Anche il settore per adulti è cambiato tanto da quegli anni?

«Negli anni 80 e 90 c'era la vera trasgressione: si respirava nell'aria, c'era la voglia di libertà e la voglia di sperimentare. Oggi di libertà ne abbiamo troppa, ma si è persa per strada la passione.» 

Una pubblicità dell'epoca, diceva: “Chi ruba un fiore per te: sotto, sotto c'é... ” ma oggi ci sarebbe un'accusa di stalking e sessismo, oltre che di furto. Ritiene dunque che si sia persa la passione anche nel cinema per adulti?

«Il mio è un mestiere complicato e da trent'anni ci metto: passione, ironia e umiltà. Ma oggi è diverso: i giovani sono più freddi, sempre con gli occhi sullo smartphone e la testa nei social. La tecnologia facilita molte cose, ma nella vita niente si conquista senza fare fatica, senza metterci tanta passione e tanto impegno.»

Questa è l'estate dell'orgoglio nazionale, merito di Europei e Olimpiadi. Sui social ha spopolato una sua fotografia con tre famose attrici hard italiane, in versione tricolore: Malena, Valentina Nappi e Martina Smeraldi.

«Sì, la foto ha fatto il giro del Web: Malena, Valentina e Martina. Un tris di bellezze italiane: tre donne affascinanti, tre grandi attrici hard, tutte e tre insieme. Noi italiani dobbiamo essere orgogliosi delle nostre eccellenze nazionali. Anche in settori che fanno ancora discutere» 

Ultima domanda: tra poco si torna a scuola. Anche nella sua: la "Rocco Siffredi Hard Academy", la masterclass professionale nel cinema per adulti, dove insegna ai futuri professionisti: sceneggiatura, regia, tecniche davanti alla telecamera. Ci vuole raccontare qualche novità dell'edizione 2021?

«Sì: tra poco riparte l'Academy. Dopo lo stop dovuto alla Pandemia è un ritorno, come le passate edizioni si svolge da me, a Budapest. E ci sarà Malena, ovviamente nel ruolo di insegnante. Ma soprattutto ci saranno 3 studentesse, italiane: tre ragazze debuttanti, che scoprono il mondo dell'intrattenimento per adulti. E in più partecipa una coppia, che vuole mettersi in gioco. Lei è una donna più adulta, mentre lui è un giovane ragazzo. Sarà interessante osservare anche le loro dinamiche di coppia, durante il lavoro sul set e davanti alle telecamere.»

Paola Pellai per “Libero Quotidiano” il 6 luglio 2021. Rocco Siffredi, 57 anni, il re dei pornoattori nel mondo, nonché produttore e regista di film hard, ha pubblicato un corso di educazione sessuale (Sex Lessons, ed. Mondadori, 17 euro) per spiegare, soprattutto ai giovani, che il sesso non c'entra nulla con il porno. 

Si è proposto di andare a parlarne, e pure gratis, in scuole ed università. È successo?

«Assolutamente no. Ricevo migliaia di mail dai ragazzi che mi chiedono di farlo, i rappresentanti di classe lo propongono ma presidi erettori pongono il veto: "No, grazie. Non prendiamo lezioni da Rocco Siffredi". All'Università ci sono entrato solo una volta: a Roma a promuovere un film con Massimo Boldi. Siffredi in università può parlare di comicità, ma non di sesso. Io non voglio fare il professore ad ogni costo, chiamino altri ma non perdano altro tempo: i giovani confondono la pornografia con l'educazione sessuale, il porno è pieno di insidie che viaggiano su internet e con un telefonino.  Il porno è finzione, non è la realtà. Dobbiamo spiegare loro che ciò che vedono nei film e ciò che fanno le pornostar non è sessualità "normale", ma "artificiale", costruita a tavolino e molto esagerata. Se nei film facessimo sesso come si fa nelle nostre case, la gente si addormenterebbe durante la visione».

Da dieci anni le prestazioni di un attore porno sono dopate.

«Affermandolo mi sono creato inimicizie, mi hanno accusato di aver distrutto la fantasia della gente che ci guarda. La mia priorità è raccontare la verità e pensare ai ragazzini che si abbuffano di porno e vanno in corto circuito perché nel film vedono un uccello che resta duro per 3 ore e loro, invece, nulla. Si sentono scarsi o sbagliati ma non è così. 

Assistono a film con gli effetti speciali, un po' come quando in quelli d'azione quando si spara, si uccide ma in realtà non muore nessuno. Nell'adolescenza un ragazzo ha gli ormoni a mille ma non sa ancora cosa vuole e come funziona il proprio corpo. Il rischio, se non si è preparati, è che più che educare alla fantasia il porno destabilizza. Lo dico a voce alta: a parte 2 o 3 eccezioni nel mondo, i pornostar sono tutti dopati».

Com'è possibile?

«Forse oggi mi sarei dopato anch'io, il porno attuale è performance all'estrema potenza... Un lato positivo c'è: è finito il tempo d'attesa. Ora quando giri una scena, non c'è più il problema che l'attore possa non funzionare o ti faccia fare le 3 di mattina. Oggi tu decidi l'ora in cui inizi e l'ora in cui finisci, sono tutti chimicamente robotizzati ma non sanno più come si fa sesso con una donna: gli manca la passione, il modo di guardarla. Tutte cose che il doping non t'insegna... Io ho vissuto l'era del porno più bello, gli anni '90, Moana, la scoperta, la libertà, l'America... Ora arrivano sul set che nemmeno si conoscono e salutano, eternamente collegati sui social... Un altro mondo rispetto al mio».

A che età si può iniziare a parlare di sesso ai ragazzi?

«Dagli 11 ai 13 anni. Ho moltissime colleghe che a 12 anni si masturbavano, quella è l'eta in cui il corpo cambia ed iniziano gli impulsi sessuali. È fondamentale avere qualcuno che ti spieghi che il sesso, e non il porno, è la cosa più naturale al mondo ma occorre saperlo gestire nel pieno rispetto della libertà di ogni individuo. Non bisogna per forza esporre una sessualità, ognuno deve crescere nella direzione in cui si sente più a suo agio. Nessuno va raddrizzato, è una cazzata solo pensarlo. Una volta un intellettuale inglese mi chiese come dividevo il mondo. Gli risposi: tra chi ama darlo e chi ama prenderlo. Avevo sdoganato il mondo all sex...»

Ha messo la sua mano e la sua faccia a favore del Ddl Zan...

«Ho sbagliato e non lo rifarei più. Ho aderito senza conoscerne i contenuti, ma forte del mio essere contrario a qualsiasi forma di violenza contro gli omosessuali e il bullismo. Ma mi sono accorto che a continuare a parlarne si ottiene l'effetto contrario. Si istiga la gente a dare contro. Rispettiamo le libertà individuali senza strumentalizzarle. Dico basta anche all'inutile pagliacciata dei gay pride. Se vogliamo chiamarla festa ci sto, ma se dobbiamo chiamarla manifestazione per l'identità dei diritti gay dico che mi avete rotto il cazzo».

Scusi?

«Sì, ha capito bene. Ognuno dovrebbe vivere la propria sessualità come cazzo gli pare e non fare il pagliaccio. Di questo passo tra un po' ci sarà pure l'eteropride, tutti a rivendicare la propria normalità. S'immagina il caos?». 

Adesso c'è pure il #metoo a fare casino.

«Sicuramente ha fatto del bene, ma ha anche spinto molte donne a fare soldi con trappole furbe. Questi giochini stanno creando un sacco di problemi. Il #metoo ha sensibilizzato sul tema delle molestie in cambio di favori, ma qualche donna per vendicarsi non vedeva l'ora di puntare il dito contro un uomo che non le ha dato quanto promesso. Ed allora diventa ancora più importante parlare ai nostri ragazzi che oggi scambiano ogni coetanea per una pornostar. Se avessero ben presente cosa significa la parola consenso, se qualcuno gli spiegasse che non è un gioco e si rischia la galera, forse non cadrebbero in errori irreversibili. Io stesso impiego un quarto d'ora, mentre prima era solo un secondo, per illustrare ad ogni singola ragazza nel dettaglio la liberatoria del consenso. Le spiego che sta salendo su un set porno, che quello che fa potrebbe nuocerle in futuro. Sul set le chiedo di fermarmi in qualsiasi momento se si sentisse infastidita o non le andasse più quello che sta facendo». 

Dunque Ciro Grillo e ai suoi amici potrebbero essere stati fregati?

«Ciro Grillo non è il cattivo e viziato figlio del politico, quello che è successo a lui poteva capitare a tanti coetanei. Loro non sono né violentatori né stupratori, sono i ragazzi della generazione 2.0, cresciuta con il porno senza conoscerne le regole e senza che gli fosse spiegato come uno smartphone può trasformarsi in un'arma letale. Basta un bicchiere di troppo e può succedere che un gruppo di amici si metta a giocare a fare i pornostar con la ragazzina di turno che magari prima fa la disinibita e poi dice "Ma che cazzo mi avete combinato?". Capita sul set, figuratevi al di fuori... Una ragazzata di coglioni può sfuggire di mano se non s'insegna l'importanza della parola "consenso". Sexting, revenge porn, foto, video, culi sono micce da non accendere. Rilanciare materiale online o farlo girare con i social può coinvolgere milioni di utenti. Bisogna essere sicuri al 100% di quello che si fa ed essere sicuri che la ragazza sia consenziente». 

Altrimenti?

«Altrimenti l'uomo ha sempre torto, è molto difficile oggi difendersi dalle accuse di molestia. Puoi anche essere stato molestato ma se una donna t'incolpa parti da meno 10, se poi sei pornostar da meno 1000. Prima spiavamo le donne dai buchi della serratura e potevamo avere la disapprovazione dei famigliari o dell'amico, ora è il pubblico ludibrio ingigantito dai milioni di visualizzazioni. Si può arrivare anche al suicidio, in 30 anni io ne ho conosciuti cinque nel mio ambiente».

Chi è il colpevole di ciò che hanno fatto Ciro Grillo e i suoi amici?

«I colpevoli siamo noi genitori che abbiamo deciso di non spiegare un cazzo ai nostri ragazzi e non li abbiamo messi in guardia su come va il mondo. Ma come facciamo a parlare di sessualità ai nostri figli quando siamo i primi ad esserne imbarazzati e sprovvisti di conoscenze?». 

Che tipo di papà è stato?

«Ai miei figli ho sempre parlato di sessualità in modo naturale. Ma avevano addosso un cognome ingombrante che poteva metter loro pressione, per questo nell'adolescenza ho pensato di proteggerli affidando l'educazione a mia moglie. Ha fatto un buon lavoro. Leonardo, 21 anni, è fidanzato da due, Lorenzo, 25 anni, sta da dieci con la stessa ragazza, senza essere mai ricorso alla pornografia. Ogni tanto, ridendo, mi chiedo pure se è mio figlio. Mia moglie è stata brava perché ha parlato loro di sesso, di preservativi, di malattie, non di cicogne o di bimbi sotto il cavolo».

Non le è mai capitato di essere stato accusato di molestie?

«Quando ha preso piede il #metoo i miei colleghi mi dissero: "Rocco, il prossimo ad essere infilzato sarai tu". In effetti tutti i miei film sono sempre stati molto duri, sono stato il primo a lanciare il rough sex, ovvero il sesso violento. Dopo 35 anni di lavoro, quante donne si sarebbero fatte vive per accusarmi? Della serie..."Siffredi mi hai fatto male". Con molta sorpresa, neppure una. Sono stato bravo o fortunato? La verità è solo una: se lo fai con la gente giusta è impossibile che ti succeda qualcosa». 

Ci spieghi meglio.

«Le racconto un episodio. Sul set stavo facendo sesso spinto in bagno con una ragazza sui tacchi, improvvisamente mi è scivolata e ha battuta la testa su un angolo di marmo. Le si sono girati gli occhi, è svenuta e io già immaginavo i titoloni sui giornali: "Siffredi ammazza una ragazza mentre fa sesso violento". Come avrei fatto a spiegare che non era andata così? Ho avuto un gran culo nella vita, è facile cadere nei tranelli. Ai miei figli ricordo sempre che noi non apparteniamo a nessuno e nessuno ci appartiene. Un uomo mollato, spesso impazzisce e fa la cosa peggiore: ammazza. Per questo sostengo l'importanza di un'educazione al sesso, ma anche al rapporto. Dialogo, comprensione e rispetto. Nessuno ce le insegna».

Quante volte fa sesso con sua moglie?

«Mia moglie non ama far sesso tutti i giorni. Ci capita di farlo 3 giorni di seguito perché siamo in vacanza e poi magari per una settimana o 10 giorni non mi vuole neppure guardare. Io la punzecchio e le dico che sta invecchiando, lei mi risponde che quello vecchio sono io. Rosa ha bisogno d'intimità, se c'è gente in casa neppure ci pensa. E noi abbiamo la governante ogni mattina... Così mi ha abituato a portarla in vacanza. E le assicuro che quando lo facciamo è ancora più bello dei nostri inizi. Le donne più vanno avanti con l'età più diventano divertenti...».  

Roberta Damiata per ilgiornale.it il 5 giugno 2021. Parlare di pornografia non è semplice. Farlo con Rocco Siffredi, che del mondo del porno ha fatto la sua professione, potrebbe esserlo ancora di meno. Il condizionale però in questo caso è d’obbligo, perché dopo oltre un’ora passata al telefono, l’idea finale che si ha di questo "mondo", è molto più chiara e meno circondata da quell’alone di curiosità mista a tabù. Rocco ha da poco dato alle stampe il suo secondo libro, “Sex Lessons - il mio corso di educazione sessuale” (Mondadori), dove racconta le “curiosità” sulla sessualità. Dalla coppia ai vari desideri, scrivendo il suo personale punto di vista da “amico, non pornostar”.

Come mai ha sentito l’esigenza di scrivere un corso sull’educazione sessuale?

“In realtà mi è stato chiesto. Gabriella Ungarelli che ha editato il mio precedente libro "Io Rocco" (Mondadori), mi ha chiamato dicendo di aver sbirciato sul mio canale YouTube trovando video che potevano benissimo essere educativi anche per le giovani generazioni. Da lì il discorso si è ampliato arrivando fino ai genitori e poi ancora oltre, diventando un manuale molto più completo. Inizialmente l’ho fatto in maniera molto spontanea, anche per avere una sorta di confronto con mio figlio Lorenzo. Con lui nel periodo del lockdown, ci siamo divertiti a realizzare alcuni video che abbiamo chiamato "Coronasutra", su come supportare il sesso ai tempi del coronavirus. In quel periodo sono arrivati molti messaggi da parte di ragazzi che mi esponevano i loro dubbi sulla sessualità. È stato quindi qualcosa che ho fatto per dare a molti la possibilità di non sbagliare negli approcci, una sorta di: 'Tutto quello che ho capito del mondo femminile'". 

Dice che si possono educare le persone e anche i ragazzi con la pornografia?

“Non proprio. Già cinque anni fa ho lanciato un campanello d’allarme perché mi sono reso conto che stava crescendo una generazione educata dalla pornografia e questo non va bene.Però se mostrassi tutti i messaggi che mi arrivano ci si renderebbe conto di quanto ci sia bisogno di chiarezza su questo argomento, soprattutto per i più giovani. Sono stato invitato recentemente in un liceo di Firenze per una conferenza sulla sessualità e questo la dice lunga. Oggi i ragazzi sono stanchi delle solite tarantelle. Non si può portare avanti il discorso dicendo: "Ai miei tempi...". Bisogna affrontarli "one to one" e in maniera non troppo scientifica. Con questo non voglio sminuire i psicologi e i sessuologi né dire che ci vuole Rocco Siffredi per insegnare a scuola. Però c'è bisogno di qualcuno che sappia farlo nella giusta maniera. I ragazzi devono capire cos'è il porno, perché si fa e a cosa serve, ma soprattutto che non è educazione sessuale. Il rischio altrimenti è che si bruciano i tempi e si possono avere anche problemi. È importante far comprendere che le performance sui film, che spesso tra i giovani vengono prese ad esempio, non sono la sessualità normale. Però questo non succede, perché i primi ad avere problemi sono quelli che dovrebbero spiegarli”.

Cosa le chiedono i giovani? 

“Ho creato l’Accademia del porno, (la Rocco Siffredi Accademy, ndr) e ricevo centinaia e centinaia di mail da parte di ragazzi che vogliono fare i pornostar. A volte mi chiamano anche alcuni genitori per avere rassicurazioni sulla decisione del proprio figlio. Questi ragazzi desiderano vivere un momento di sessualità diversa, dove non sentirsi in colpa. Ovviamente non tutti quelli che partecipano diventano pornostar, ma la maggior parte di loro mi dicono che dopo questa esperienza acquisiscono sicurezza con le donne e risolvono i loro problemi di approccio. Se si arriva a questo significa che si ricevono troppe poche informazioni sulla sessualità, che al massimo arrivano dagli amici, per questo spesso del sesso si ha una visione distorta. Ultimamente ho fatto alcune interviste radiofoniche e con Massimo Giletti, che mi ha chiesto se questa massiccia quantità di pornografia che gira tra i ragazzi tramite i telefonini non li confonda e cambi la loro visione delle donne. Questa cosa io la dico da una vita. C’è purtroppo il rischio che i giovani non capiscono che la pornografia è finzione, e possano vedere in qualsiasi ragazza una pornostar”. 

È quindi un problema maschile?

“No è un incontro di situazioni distorte tra i due sessi che poi diventano esplosive. Il maschio quando è giovane ha gli ormoni a mille, non capisce più niente e si comporta di conseguenza. Questo è un altro problema portato dalla poca informazione sulla sessualità. Se questi ragazzi avessero ben presente cosa significa la parola consenso, se qualcuno gli spiegasse che non è un gioco e si rischia la galera, magari non gli verrebbe in mente di fare quelle cose lì. Stessa cosa per le ragazze: se si conoscesse l’effetto che si ha sui ragazzi, non si invierebbero segnali 'sbagliati'. Inoltre, dico attenzione ai video: io li faccio per mestiere, ma quelli che arrivano sui telefonini e che vengono scambiati sono molto pericolosi. Ci sono donne che si sono suicidate per il "revenge porn" e su questo non si scherza”.

Cosa c'è nei film porno che non succede nella vita?

“Sullo schermo dobbiamo sempre esagerare, mostrare una donna tre volte più desiderosa di una normale, creare situazioni surreali soprattutto in questo periodo. Se noi emulassimo le pratiche del 90% di quello che si fa a casa, la gente dormirebbe con i nostri film. Sono 35 anni che faccio porno e ho sempre saputo che è il pubblico che decide quello che dobbiamo, ma mai come in questo periodo si ricerca il sesso estremo”.

Perché?

“Perché la vita è diventata estrema e il porno ha sempre rispecchiato la faccia della società. La gente oggi ha bisogno di vivere emozioni forti, di una sessualità molto "animale", almeno in "visione", perché poi non è detto che facciano le stesse cose in camera da letto. Però quello che va compreso bene è che il nostro è un lavoro industriale, sono delle performance preparate da professionisti. Dobbiamo dare l'impressione che quello che si vive è sesso alla massima espressione, moltiplicata per dieci. Sullo schermo ci sono tutti ragazzi superdotati in erezione per ore ed è ovvio che poi il ragazzino che li guarda si chiede perché lui non ci riesce. Nessuno spiega che questi pornostar, soprattutto quelli della nuova generazione, sono tutti dopati. Nessuno racconta che è lavoro di finzione come quando si fa un film d'azione dove si spara ma la gente non muore. Se è questo che vedono i teenager sui telefonini, succede poi che i maschi si spaventano e crescono con mille insicurezze, e le ragazze rischiano magari di bruciare le tappe”. 

Perché secondo lei c’è questa attrazione morbosa verso la pornografia, ma anche una sorta di pudore nel parlarne?

“Perché ognuno di noi ha dentro quella specie di animale che ogni tanto arriva e ha bisogno di quel tipo di sesso. Una volta che lo abbiamo fatto, lo reprimiamo e non deve più esistere. Questo è l’atteggiamento che c’è nei confronti del porno. Io come personaggio l’ho sempre vissuto in maniera naturale, ed è forse questo il segreto del mio successo, ma in realtà è sempre stato un problema per tutti, anche da parte di chi mi invita in tv. Vogliono il personaggio ma non tutto quello che si porta dietro, perché ricorda quell’animale di cui parlavo prima. Nella vita di tutti i giorni siamo abituati a vedere le cose più terribili; violenza, guerre, bambini che muoiono, tutte le cose più brutte sono diventate immagini normali e quasi non ci fanno più effetto. Anche il nudo femminile è stato sdoganato. L’unico tabù che è rimasto è solo quello del sesso, e parlo proprio dell’organo sessuale maschile. È come se facesse parte della nostra vita, ma non venisse riconosciuto”.

Nel libro parla di questo riferendosi a molte pornostar che in qualche modo hanno rinnegato il loro passato...

“Sono soprattutto le donne. Mi viene in mente Eva Henger. L'ho sentita più volte non voler parlare di porno quasi a volerci mettere una pietra sopra. Anche Selen in un paio di interviste racconta di essere stata quasi costretta. Io avevo vent' anni quando ero sul set con lei e il suo fidanzato, e posso dire che con la sessualità si divertiva. Quando poi è diventata mamma ha avuto bisogno di cambiare. Capisco anche che in Italia una donna che fa la pornostar non è come un uomo. Quello viene visto come figo, al contrario la donna come una poco di buono. Siamo purtroppo abituati a volere la moglie degli altri troia, ma la nostra santa. L'uomo italiano in generale ama le donne sessualmente molto forti donne che osano, ma in realtà poi non tutti le sposerebbero".

Anche lei racconta di aver avuto queste crisi...

“Per tanti anni ho vissuto con il senso di colpa nei confronti di mia moglie e dei miei figli, perché stavo sul set a fare porno e pensavo che non era giusto nei loro confronti. Non vedevo il mio come un lavoro, ma come un divertimento. Poi sull’’Isola dei Famosi’ ho fatto una profonda analisi e sono riuscito a capire che il mio era solo un problema mentale, perché mia moglie e i miei figli non mi hanno mai fatto pesare nulla. Ero io che mi creavo tutto questo perché in qualche modo era legato all’educazione e a come ci hanno fatto vivere il sesso come qualcosa di sporco. Questo riprende il discorso che facevo prima su Selen e sulla sua decisione di rinnegare il passato. Basterebbe che pensasse di aver vissuto quello che voleva e che oggi è una mamma contenta. Invece quasi nega il passato continuando però a usare il suo nome per fare pubblicità al suo centro estetico. Mi dà fastidio l’incoerenza. Quando me lo chiedono dico sempre che la vera pornostar italiana era lei. Più di Moana che era sessualmente asettica. Grande donna, grande intelligenza, ma non aveva il sesso dalla sua parte: Selen sì. Ovviamente comprendo anche che affrontare questo genere di critica per lei sarà stato molto difficile”.

La critica però è sempre più nei confronti delle donne, siamo ancora una società maschilista?

“Purtroppo sì, anche se le cose piano piano stanno cambiando anche grazie all’ accettazione sessuale di genere. Bene o male stanno sempre più venendo fuori le persone che hanno bisogno di dichiarare la loro sessualità. La gente non vuole più nascondersi e questo in piccola parte aiuta un po’ di più le donne, che scelgono di esprimere una sessualità colorata”.

Che funzione ha la pornografia nella nostra società?

“A prescindere da tutto quello che ho detto prima, sono stati fatti dei veri e propri studi su questo argomento. È stato visto che ha aiutato coppie a risolvere i loro problemi. Oppure è di grande aiuto per le persone sole. Serve alle forze armate o alla marina militare che passa tre, quattro mesi in navigazione. Su questo mi viene in mente un episodio divertente: sono un appassionato di volo durante una manifestazione di elicotteristi della marina militare, un ammiraglio mi ha detto: “Tu non sai che compagno di viaggio sei stato per noi, per la tua sessualità che non tradisce mai”. Posso continuare all’infinito, parlando anche delle donne che sempre di più guardano il porno per comprendere meglio la sessualità o delle persone che non hanno disponibilità economica, che è attualmente la vera discriminazione. Ci sono mille i motivi per dire a cosa serve. Però come in ogni cosa c’è anche la parte negativa, ovvero gli imbecilli che trasferiscono la pornografia nella vita reale”.

Come impatta questo sull’industria del porno?

“Stiamo avendo molte restrizioni. Ad esempio ora una donna deve dirti sempre sì. Non c’è più il gioco delle parti. Questo per tutti quello che accade e mi riferisco anche al movimento del #MeToo, anche se in quel caso la sessualità c’entra poco. Non puoi più mostrare ad esempio la fantasia di essere presa da uno sconosciuto in un ascensore. Quelle cose lì ora non sono più contemplate”.

C’è il grosso problema dell’emulazione e la linea tra piacere e violenza è davvero minima. Basta guardare la cronaca ogni giorno per capire quanto la finzione spesso diventi una realtà violenta, non crede?

“Credo che il discorso vada ampliato non soltanto al porno, ma anche ad esempio ai film o ai videogiochi violenti. Negli Stati Uniti c’è un vero e proprio problema e non parlo dei film amatoriali che vengono messi online. Parlo di pornografia legale fatta da professionisti. Noi abbiamo dovuto tirare i remi in barca proprio per questa problematica dell’emulazione. Tutto questo è dovuto ad una mancanza di educazione. Aumenta ogni giorno la violenza sulla donna, questo perché nessuno insegna che una compagna non ti appartiene, non è una tua proprietà e che le cose nella vita possono cambiare. Mio figlio è da 10 anni sempre insieme alla stessa ragazza, ma nonostante questo io gli spiego che le cose possono cambiare. Nella vita noi non apparteniamo a nessuno, questo andrebbe fatto comprendere bene”.

Stiamo uscendo dal periodo di restrizioni dovute al Covid, quanto è stata importante in quella fase la pornografia?

“I miei video messi in rete durante il lockdown hanno avuto un traffico spaventoso da tutto il mondo. Credo che i siti porno abbiano creato più dipendenza in questo anno che negli ultimi dieci”. 

Scrive di essere un uomo fortunato, è molto sicuro si sé, vorrei capire se ha delle fragilità...

“Sono pieno di fragilità, la mia vita è un misto di quelle ma anche di fermezza. Sono un iperattivo, mia moglie mi dice che non riesco a stare mai fermo e devo sempre inventarmi qualcosa. Ho appena fatto una serie porno in 8 puntate ed è la prima volta che qualcuno lo fa. Ora riparto con l’Accademia, ho una serie su Netflix e faccio altre cose, ma in realtà sono una persona estremamente ansiosa. Ho visto le immagini del bambino della funivia del Mottarone insieme al papà poco prima dell’incidente, e sono stato triste per due giorni. In quell’immagine ho rivisto mio figlio alla stessa età quando facevamo le gite. Anche mia moglie è molto sensibile ma a differenza mia, riesce ad essere distaccato. Io no, anche se poi mi scatta qualcosa e divento forte. Una sorta di trasformazione che mi ha molto aiutato nella vita. A parte questo sono un uomo fortunato. Nella vita ho avuto solo dipendenze sessuali e niente altro. Ho una moglie intelligente che mi ama e due figli che sono due ragazzi che mi rispettano, e non mi hanno mai visto come un papà particolare. A vent’ anni quando ho deciso di fare questo mestiere mi avevano detto che sarebbe stato infernale e che non avrei mai avuto una famiglia, e invece…”. 

Forse è stato anche bravo a crearla?

“Bravo sì ma fortunato di più. Perché non è facile con una vita come la mia”. 

Che tipo di padre è?

“Un padre come tutti che ama la propria famiglia. Quando ho avuto il mio primo figlio Lorenzo è stato un vero momento di felicità straordinaria. Quando è nato il secondo, ha rinnovato quella gioia. Sono sempre stato con loro e ho cominciato a soffrire di ansia proprio da quando è nato Lorenzo. Mi ricordo che la notte andavo sempre a controllare se respirava. Sono stato un papà molto presente”. 

Se uno dei suoi figli fosse stato una femmina?

“Avrei voluto moltissimo una bambina e con lei sarebbe stato lo stesso. Ho vissuto la sessualità dentro casa in maniera normale, parlando tranquillamente dei miei film. I miei figli hanno capito da subito che tipo di lavoro faceva il papà e perché durante le premiazioni era sempre circondato da tante donne. Probabilmente con una femmina avrei avuto forse qualche difficoltà a spiegarle perché ho deciso di fare porno. La curiosità femminile è più forte di quella maschile. L’unica problematica vera sarebbe stata in Italia il bullismo a scuola, anche se credo che qualche battuta l’abbiano fatta anche ai miei figli e per un maschio può essere anche più difficile, se messo a confronto con il padre”.

Da quello che ha scritto si percepisce che ama molto le donne, e non parlo solo fisicamente, intendo nella totalità del loro essere. È così?

“Sono la mia vita. Ho fatto un film romantico 15 anni fa uscito in America e una giornalista del New York Times intervistandomi mi ha detto una cosa meravigliosa: che guardando alcuni dei miei film porno si era resa conto che facevo sesso con la testa di una donna. È stata per me una rivelazione. Dalle donne ho avuto tutto e con le donne ho deciso di vivere la mia vita. Quando stai sul set 25 giorni al mese e fai sesso con due ragazze al giorno, condividi con loro la vita. Oggi i miei film sia da produttore che da regista sono fatti con la testa delle donne, mai con quella di un uomo”.

Rocco Siffredi e la moglie Rozsa: "Scambio di coppia e governante in casa", rivelazioni spinte. Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. Sempre spiazzante, sempre controcorrente. Rocco Siffredi ormai da anni va contro i cliché della star a luci rosse, sebbene lui sia il più famoso al mondo nel settore, e ormai da tre decenni abbondanti. Qualche mese fa è uscito il suo libro Sex lessons, destinato a insegnare un approccio sano e consapevole alle lenzuola, ma soprattutto con il partner. Il contrario o quasi di quello che si vede in un film per adulti. D'altronde, l'educazione sessuale di Siffredi non è quella del set, ma quella che vige in casa. con la moglie Rozsa (che ha avuto con il suo futuro marito una fugace "prima volta" proprio davanti alla macchina da presa) e i figli Lorenzo, 25 anni, e Leonardo, 21. La signora Siffredi è molto riservata, i rampolli "pudichi". A svelarlo è lo stesso attore italiano in una recente intervista a Vanity Fair: Un esempio pratico? Lo scambio di coppia. Quasi naturale sul set, un tabù nel privato. "Con mia moglie sin dall’inizio sono stato chiaro: io giravo con altre donne, sul set, e anche lei avrebbe dovuto farlo. Ma mi ha sempre risposto: 'Sono tutti brutti'. Ovviamente non era vero, ma lei fa parte di quel tipo di donna che ne preferisce uno alla volta: se sono innamorata di te, sto con te. Ho anche provato a portarla in un locale per fare una cosa a tre. Mi ha detto: 'Ma tu sei scemo!'. È il mio opposto, forse per questo stiamo insieme da 27 anni". "Quante volte alla settimana, o al giorno, fate sesso?", è la domanda impertinente della intervistatrice. E Rocco, sornione: "Non abbiamo regole, quando abbiamo voglia. Mia moglie però non ama farlo quando ci sono altri in casa, e noi abbiamo la governante che viene ogni mattina...". Ed è stata proprio Rosza a occuparsi della educazione sessuale dei figli: "La ringrazierò sempre. Io ero troppo imbarazzato per via del lavoro che facevo, che loro hanno sempre saputo sin da bambini". Risultato: Lorenzo è fidanzato da 10 anni con la stessa ragazza, e ha imparato tutto con lei, senza l'ausilio dei film. "Mi ha sconvolto perché non pensavo possibile esistesse qualcuno che potesse farne a meno. Ma ci sta: essendo mio figlio, è normale che abbia un approccio distaccato. Tutti gli altri guardano i miei video, e tanti credono che sia quello il vero sesso". 

Da corrieredellumbria.corr.it il 27 maggio 2021. Rocco Siffredi, nome d'arte di Rocco Antonio Tano, è l'attore pornografico più famoso d'Italia, uno dei principali al mondo. Classe 1964, nato a Ortona, ha iniziato con il porno quando aveva solo venti anni. Inizialmente si è dedicato completamente alla sua carriera, diventando subito un punto di riferimento a livello nazionale. Decine e decine di film, realizzati poi non solo in Italia, ma ovunque. In parte si è dedicato anche a pellicole non pornografiche ed è stato anche modello. Più volte ha dichiarato di voler smettere con il cinema a luci rosse, ma non ha mai mantenuto la parola. Rocco Siffredi si è sposato nel 1993 con l'ungherese Rosza Tassi, anche lei attrice porno, incontrata proprio nel 1993 a Hot d'or di Cannes. Un vero e proprio colpo di fulmine. Dopo tre anni è nato Lorenzo, il primo figlio, e nel 1999 Leonardo, considerato una promessa del salto in alto ungherese. La famiglia, infatti, da oltre 15 anni vive stabilmente a Budapest. Interrompere la professione di attore pornografico, riprendere, interrompere di nuovo, ha caratterizzato gli ultimi anni della vita di Siffredi. Il suo primo ritiro nel 2004 ma cinque anni ha deciso di tornare protagonista dei film a luci rosse. Spiegò di aver parlato con la moglie: "Mi ha detto che è solo un problema mio, non appartiene a lei e ai ragazzi". Le disse che aveva deciso lui di fermarsi, che nessuno glielo aveva chiesto e che quindi poteva riprendere se voleva. Nel 2015 nuovo ritiro, ma due anni dopo ancora un ritorno davanti alle macchine da presa. Particolare anche la partecipazione all'Isola dei famosi. Rimase nudo per una settimana e pare che abbia confessato ad un suo amico che non si è mai sentito così spogliato come allora: "Ero solo, cosa che mi ha consentito di pensare a quello che è importante e ho realizzato che non voglio perdere mia moglie". Proprio durante l'Isola, Siffredi spiegò che non si sentiva più a proprio agio davanti alla telecamera e che qualcosa stava cambiando, definendo la sua dipendenza da sesso come "una sorta di diavolo in me".

Da "rtl.it" il 16 maggio 2021. Il venerdì mattina dalle 8.00 alle 9.00 in diretta su RTL 102.5, il consueto appuntamento con Giletti 102.5 condotto da Massimo Giletti e Luigi Santarelli. Al centro sempre la stretta attualità e come sempre, microfoni aperti per tutti gli ascoltatori che vogliono dire la loro su tutti i fatti più importanti della settimana, e con grandi ospiti. Questa settimana, il nodo coprifuoco: è giusto spostarlo? Cosa deciderà al cabina di regia prevista a Palazzo Chigi per il prossimo lunedì? E poi, i vaccini: prolungare il richiamo, sì o no? E ancora, gli ultimi casi di violenza ad opera di giovani mettono forse in luce anche un’importante mancanza di educazione sentimentale. Nella puntata di ieri la voce di Rocco Siffredi. “Io mi vedo come un amico di intimità di molte persone, il complimento più che bello che mi dicono è ‘Rocco grazie a te sono riuscito a fare sesso in maniera naturale”. “Ci sono tantissime coppie che hanno grande difficoltà a parlare di sesso tra loro e non si dicono una parola per paura di offendere l’altro, è assurdo. La sessualità dovrebbe essere un altro mondo, bisogna viverla in profondità, se lo fai pieno di problemi e di pensieri sbagliati che sesso ti arriva? Non riesci a vivere l’orgasmo, quello vero, quello in cui la persona si abbandona e non si ricorda neanche come si chiama”. “Io ho lottato tutta la mia vita per far fare l’orgasmo reale alle donne, ma loro sono molto brave a fingerlo”. Sul tema dello stupro, di cui si parla molto in questo periodo, e dell’atteggiamento che i ragazzi hanno al giorno d’oggi nel vivere la sessualità: “I deficienti sono ovunque, molti ragazzi hanno l’impressione che le ragazze siano tutte pornostar e che siano disposte a fare qualsiasi cosa, non fanno distinzioni, soprattutto a quell’età che è molto pericoloso, dove ti senti figo e il testosterone è a diecimila. Attenzione però perché anche tante ragazze imitano le pornostar, si propongono in maniera sbagliata, danno un’idea sbagliata, il problema sono tutti e due, le donne a volte per farsi fighe si propongono per sesso estremo e i ragazzi non ci capiscono più nulla, è una mancanza educazione da quel punto di vista, che andrebbe fatto prima, fin dai 13 anni, da parte dei genitori”. “Mio figlio sta con la stessa ragazza da dieci anni, ma gli dico che magari potrebbe finire perché lei potrebbe avere voglia di qualcosa d’altro, penso che bisogna prepararli anche al peggio e insegnarli a non reagire in maniera violenta perché nessuno di noi ci appartiene, se una storia finisce non puoi diventare matto e lo faccio per prevenire l’uomo contro la violenza sulle donne”.

Da "ilfattoquotidiano.it" il 13 maggio 2021. “È mai possibile che la gente non capisce che prendere un’immagine intima di una persona e metterla sui social può sputtanarti in modo irreparabile?”. E’ un Rocco Siffredi serio e pedagogico quello che si scaglia contro il sexting durante #SpinOff, la diretta del martedì di FQMagazine, dove è stato presentato il suo libro Sex Lessons. Dopo la riflessione del professore Gianpiero Dalla Zuanna, autore del saggio Piacere e fedeltà (IlMulino) sui pericoli di ricatto derivanti da immagini private di atti sessuali messi senza consenso online, Siffredi ha ricordato il trauma nei primi anni di carriera nel mostrarsi al padre in un film porno e poi si è scagliato contro le persone che prendono con leggerezza e fare scherzoso il sexting: “Prendere una persona e buttarla lì dentro al calderone è un macello“. Infine è tornato sul ricordo di sei pornostar statunitensi che si sono suicidate in seguito ai commenti oltraggiosi ricevuti sui social. Ascoltate cos’ha detto Rocco.

Da diregiovani.it il 7 maggio 2021. Ancora una prova straordinaria per Rocco Siffredi. Dopo aver mostrato le sue abilità di ballerino imitando Heater Parisi, il pornoattore è protagonista di una nuova battaglia di Lip Sync a Name Thet Tune, con un twerk pazzesco sulle note di Pem Pem di Elettra Lamborghini. Indovinate chi ha vinto la sfida?

Azzurra Della Penna per “Chi” il 7 maggio 2021. Siffredi sta seduto sulla sua poltrona di pelle nera, solito sguardo fra il sorpreso e il malizioso. Ha appena pubblicato Sex Lessons – il mio corso di educazione sessuale e viene voglia di chiedergli se il libro è meglio dei film. Si fa una risata. Ma ridendo e scherzando...Domanda. Parlare di sesso ai propri figli a 12 anni, come ha fatto lei, è tosta. Poi alle bambine... A chi ha una figlia femmina, leggendo, un po' il fiato viene a mancare, lo sa?

Risposta. «Dai, ma che cambia? Io con due figli maschi avevo pure le mie difficoltà: con me hanno un riferimento parecchio difficile. Per anni ho pensato: non è che credano di dover diventare come il loro papà? O, peggio ancora: e se trovano delle fidanzate che dicono loro "Non siete come Rocco"? Invece hanno avuto una mamma fantastica che ha spiegato loro tutto. E prima ti spiegano cos'è il sesso e come funziona, meno confusione avrai. Guardi che se a scuola te lo spiega il branco, è terribile. Se sei preparato in maniera intelligente, il sesso è un viaggio fantastico».

D. Il libro è anche un dialogo con suo figlio Lorenzo.

R. «Vado per ordine. A marzo scorso, con il lockdown, ho detto a quelli che mi seguono sul web: "Visto che sento parecchio disagio, visto che la tecnologia ci aiuta, farò delle dirette su YouTube con le pomostar che più amate. Voi chiedete e io le chiamerò". Da Angela White a Vera e a  Malena, nessuna ha detto di no. I ragazzi erano felici. Il libro nasce un po' dalle domande che facevano questi ragazzi, ma anche da quelle di mio figlio Lorenzo, che organizzava queste dirette - lui è proprio della generazione degli YouTuber. Buttava tutto sul "Papà, perché non parliamo di introversione?". E lui un po' introverso lo è, così capivo che qualcosa arrivava anche da lui».

D. Tipo: «Sono Lorenzo chiedo per un amico?»

R. «Forse, quello che è certo è che si è instaurato un nuovo dialogo tra me e mio figlio. È stato un periodo bellissimo per noi. Piano piano, insieme, abbiamo costruito una libreria di consigli».

D. Nel libro, a fronte di una esperienza, come dire, indiscutibile, non si pone come chi è portatore di verità assolute.

R. «So bene che "se qualcosa funziona per me, magari non funziona per te". Quindi dirti: "Questa è la strada!" non è proprio il mio stile. È importante mettersi in discussione. A letto come nella vita. Come fa uno che di base ha capito questo a fare un libro pensando che sia la bibbia del sesso? Mai avuta la verità in tasca. Come nessun altro, del resto. I miei consigli arrivano da una grande esperienza, sì, ma soprattutto da tutti gli sbagli che ho fatto».

D. Perché fra sentimento, amore, passione, pura attrazione, il sesso scatena quasi sempre grossi equivoci?

R. «Perché il sesso è l'ultimo mistero. Penso che sulla sessualità siamo ancora confusi. Anzi, meglio, non siamo d'accordo con noi stessi. C'è chi ha mangiato tutti i frutti proibiti e non ha proprio più niente da mordere, chi non è neanche entrato nel suo giardino e non ha dato neanche un morso...».

D. E in questo caos, tutt'altro che calmo, le donne sono cambiate?

R. «La donna avrà una rivalsa in tutti i campi. Lo so perché il sesso è come la moda: anticipa, prevede quello che succederà».

D. Parlando di porno, allora?

R. «Le donne primeggiano: Kayden Kross è una regista statunitense che negli ultimi anni si è portata a casa una barcata di premi, ma poi ce ne sono tante altre. E il pomo girato da loro è più strong, più ricco di dettagli perversi, è tutt' altro che romantico. ll romanticismo, nel pomo, di solito annoia da morire, soprattutto le donne. Devo ammettere, allora, che queste ragazze sono più toste di me. Mi sa che l'uomo ha dato ed è stato sorpassato. Ragazzi, aspettatevi e preparatevi alla sottomissione».

D. Rocco, sa che è quasi politically scorrect?

R. «E sa che oggi è tutto troppo politically correct? Devi stare attento a tutto... Ed è una rottura. Poi nel mio ambiente non le dico le complicazioni. Se in America dico "trans" arriva subito uno e mi dice: "No, no, please, Rocco, please, say TS". Ma che cambia? Che si abbia bisogno di più definizioni per essere definito "normale" non è di per sé una cosa anormale?».

D. Certi confini sono sottili.

R. «Sì, può essere, ma la tragedia vera è la violenza. E basta. Ed è il motivo per cui per esempio sostengo il Ddl Zan e mi sono preso una montagna di critiche (e me ne frego). La violenza è sempre legata all'impotenza e alla debolezza dell'uomo: è questa la battaglia da fare e la deve fare l'uomo con se stesso prima di tutto, perché uomini e donne ap-partengono a se stessi e a nessun altro. E ognuno fa le scelte che vuole. Lo dico sempre, in continuazione: "Attenzione, nessuno ci appartiene"».

D. Tornando alle scelte?

L «Semplice: il mondo si divide solo in chi lo prende e in chi lo dà. E in tutti e due i casi parliamo di felicità. Non ci sono altre differenze, né di razza, di religione, di indicazione, nessuna».

D. A proposito di felicità, lei sostiene che il sesso sia un antideprressivo.

R. Il migliore. Ed è anche il primo antidolorifico: io che mi sono rotto tutto nella vita (ho le protesi alle spalle) ho fatto produzioni su produzioni in cui i miei dolori sparivano magicamente. Ma se ripenso a mio padre..».

D. Che c'entra suo padre?

R. «Papà quando era rimasto vedovo si stava lasciando andare, non faceva più niente, quasi neanche camminava più. Così l'ho portato... Insomma, qui a casa mia, la mattina dopo, l'ho trovato sul tapis roulant. ll sesso è vita, inizia con l'adolescenza e finisce con la vita. E tiene in piedi la maggior parte delle persone, uomini e donne senza differenza».

D. E allora quali sono le più grandi paure dei maschietti e quelle delle femminucce riguardo al sesso?

R «Per l'uomo la dimensione, alcuni di quelli che mi scrivono sono distrutti, a pezzi perché pensano di averlo piccolo. Per le donne, invece, c'è l'insicurezza. Perché loro hanno bisogno di certezze, non solo nell'adolescenza, anche dopo: si mettono sempre in discussione. E non si sentono mai esattamente come vorrebbero. In entrambi i casi è una questione di autostima: conosco uomini che sono così "self confident", che magari sono tutt'altro che dotati, ma sono talmente sicuri di sé che fanno impazzire le donne».

D. E parlando di ragazze?

R. «A una ragazza dico: 'Ti devi amare davvero e senza dubbi. Come fai a proporti a un uomo con tutti quei dubbi senza poi trasferirglieli?". Ragazze, se non volete guardarvi coni vostri occhi per come siete - cioè bellissime - allora guardatevi con gli occhi con cui vi guarderei io».

Valeria Vignale per "donnamoderna.com" il 2 maggio 2021. Riuscite a immaginare Rocco Siffredi come un fratello, un amico o un padre al quale chiedere consigli? Sarà per l’età o perché ne ha viste di ogni, sarà perché al curriculum di pornostar affianca quello altrettanto lungo di marito e padre, sta di fatto che il 57enne attore e produttore di film per adulti è appena sbarcato nelle librerie con Sex Lessons (Mondadori): una serie di lezioni per imparare i segreti dell’eros, vincere complessi e inibizioni, avere un buon rapporto con il corpo in una routine quotidiana da non confondere con la pornografia. Anzi. Il libro contiene un motto che suona quasi come una campagna sociale: «Non lasciamo l’educazione sessuale dei giovani ai film porno». Un paradosso per l’icona maschile dell’hard-core? «Assolutamente no. Dopo aver fatto i video battezzati “Coronasutra” nel primo lockdown, ho ricevuto messaggi da tanti ragazzi e ho scoperto quanto siano condizionati da ciò che vedono online» dice lui, vincitore quest’anno pure di 2 Oscar del porno, gli Avn Awards. E sottolinea: «I film hard sono estremi, inadatti ai primi approcci e giustamente vietati ai minori, eppure sono la prima fonte di conoscenza dei giovanissimi».

Quali rischi corrono i giovanissimi?

«A quell’età il porno ti destabilizza perché ancora non ti conosci, non sai cosa ti piace e, anziché sentirti libero di esplorare, vai verso le prime esperienze con una visione distorta della sessualità. Guardando donne insaziabili che hanno rapporti infiniti, i maschi pensano che le ragazze siano davvero così. Moltissimi vanno in ansia da prestazione, hanno problemi di erezione o eiaculazione precoce, mi chiedono pure come aumentare le dimensioni del pene convinti che il piacere femminile dipenda da quello. D’altro lato, ci sono ragazzine che si spacciano per superesperte oppure si deprimono perché si vedono diverse dalle pornoattrici».

Cosa consiglierebbe ai genitori per evitare che i figli confondano la fiction con la realtà?

«Intanto è inutile vietare, perché si otterrebbe l’effetto opposto. L’importante è parlare di sesso con naturalezza, aiutandosi con i libri fin quando sono bambini e rispondendo alle loro domande. Più avanti occorre spiegare che i film porno sono estremi perché puntano sullo show. Nella realtà il sesso è toccarsi e toccare, capire cosa dà piacere a te e all’altro, anche perché siamo tutti diversi. Detto questo, non voglio certo fare il bigotto: preferisco questa generazione alla mia, che è cresciuta fra i tabù».

Però i suoi genitori hanno sempre rispettato la sua scelta.

«Vero. Quando qualcuno a Ortona (la città natale di Rocco Siffredi, in provincia di Chieti, ndr) criticava mia madre, lei rispondeva: “Gliel’ho fatto così e lui ci fa quello che vuole”».

Tornando alle lezioni: lei parla di ragazze che guardano film porno ma non si sentono abbastanza sexy oppure restano vergini perché cercano la persona giusta. Cosa suggerisce loro?

«A quelle che si sentono brutte perché non hanno un seno o un culo da pornostar dico che non è la perfezione a rendere sexy ma l’autostima: piacersi conta più che piacere, e io stesso ho avuto i rapporti migliori con donne imperfette che però sapevano godere. Quanto alla prima volta... Ragazze, non esiste il principe azzurro perché il corpo è incontrollabile: magari il vostro tipo ideale non sa toccarvi o darvi piacere, allora che senso ha aver aspettato tanto? Meglio fare i primi passi e imparare a conoscersi con qualcuno che è gradevole. Per l’amore c’è tempo».

Dà lezioni anche ai ragazzi su come vivere bene il primo rapporto. Per esempio?

«Non pensare troppo. Più pensi di dover fare la performance della vita e più il sangue va al cervello anziché aiutare l’erezione. Meglio fingere di conoscere la ragazza che vi piace già da un po’: immaginare di divertirsi con un’amica rende le cose più semplici. Cercare il relax è la prima regola. Entrare in relazione, guardare, toccare, anche accettare di avere paura o di non riuscire del tutto. Le donne ti perdonano una defaillance».

Lei come ricorda la sua prima volta?

«Breve ma intensa, a 13 anni con una studentessa universitaria: ho subito pensato quanto fosse bello farlo davvero anziché masturbarsi. Mi sono innamorato molti anni dopo, quando vivevo a Parigi, e lì ho scoperto un’altra sessualità. Poi è successo con mia moglie (Rózsa Tassi, ex pornoattrice col nome d’arte Rosa Caracciolo, sposata nel 1993, ndr). Da quando sto con lei, a parte il lavoro, non esiste il sesso con altre: bisogna tener vivo il desiderio nella coppia e non distruggere tutto per una scopata».

È facile confondere i due piani?

«Lo è soprattutto per chi non ha mai vissuto la sessualità con pienezza e, quando la scopre, va fuori di testa. Altrimenti non molli la tua compagna per una ragazza più giovane e per una storia che dura giusto il tempo di rovinarti la vita».

Nelle sue Sex lessons i maschi sembrano i più fragili fin dall’adolescenza.

«Lo sono, eccome. Perfino nel porno, che è specchio della società, gli attori sono cambiati moltissimo negli ultimi 10 anni. Sul set vedo giovanissime superaggressive, sfacciate, pronte a scene forti di “rough sex”. Per contro c’è un esercito di attori impotenti, che usano pillole per l’erezione, così preoccupati dell’immagine e dell’azione da aver perso la magia di questo mestiere».

Ha 2 figli ormai 20enni, Lorenzo e Leonardo: come li ha cresciuti?

«Io e mia moglie siamo sempre stati molto aperti, da quando erano piccoli giravamo nudi per casa e parlavamo del nostro lavoro senza misteri pur senza entrare nei dettagli. Rosa ha letto loro tanti di quei libri di educazione sessuale per bambini... Si sono sempre confidati più con lei che con me, forse io stesso ero in imbarazzo, mi sentivo un padre ingombrante. Oggi sono entrambi di un pudico mai visto, fidanzatissimi e fedelissimi, non sembrano neppure figli miei! Lorenzo mi aiuta nella produzione e certe attrici ci provano. Però lui fa sesso solo con la fidanzata e mi ha detto che si diverte con lei».

Una reazione al papà pornostar?

«Chissà, ognuno segue il suo istinto. Mi piace il fatto che i miei figli diano importanza all’amore. Ripeto loro solo che nessuno appartiene a un altro per sempre: a volte le relazioni scoppiano perché uno dei 2 cerca una vita più “colorata”. Insomma, li preparo a quello che può succedere. Educazione sentimentale, più che sessuale».

Matteo Marescalco per movieplayer.it il 29 aprile 2021. Le dimensioni contano? Se ti chiami Rocco Siffredi, sì! In occasione di un'intervista con Il Corriere della Sera, la stella del cinema porno italiano ha parlato del suo business e ha ammesso di essere decisamente ricco rispetto ad altri pornoattori più giovani di lui. L'intervento di Rocco Siffredi si è focalizzato soprattutto sul passare inesorabile del tempo. Nonostante questo, però, Siffredi sostiene di andare ancora ben più forte rispetto ad altri pornoattori più giovani di lui: "Mi odieranno, ma il dato di fatto è che ancora nell'era del tutto gratis, in un mondo come il porno in cui praticamente non ci sono diritti d'autore, io porto a casa un bel po' di soldini". La questione delle dimensioni del business di Siffredi si è poi spostata sulla spiegazione del motivo per cui l'attore ha aperto un suo studio a Budapest. Siffredi ha raccontato: "Se paragonato ai pornostar, io sono ricchissimo, ho uno studio qua a Budapest di centomila metri quadri, lo chiamano la Cinecittà del porno. Se ti affittano casa per girare un film, ti chiedono di non sporcare il divano. Ma come si fa! Meglio avere uno studio in proprio! E solo un pazzo come me poteva farlo...". Se un pornoattore come Rocco Siffredi ha deciso di aprire uno studio cinematografico privato a Budapest, il merito principale va alla sua passione: "Una scuola, un'accademia dove insegnare il porno, non è un gioco, e neanche megalomania, io ci credo davvero! Se ho fatto tutto questo, io l'ho fatto per passione. Avrei pagato per fare questo lavoro!". In occasione della medesima intervista con Il Corriere della Sera, Rocco Siffredi ha ricordato la risposta che sua madre ha rivolto alle critiche mosse nei suoi confronti da gente del suo paese. Lo scorso gennaio, Rocco Siffredi ha ricevuto due Avn Awards 2021 - i cosiddetti Oscar del porno - i riconoscimenti che, ogni anno, premiano il meglio dell'industria dell'intrattenimento per adulti.

Barbara Costa per Dagospia il 28 aprile 2021. Uccello e passera stanno nel cervello. E, come per l’uccello, anche per la passera servirebbe possederne una per sapere cosa vuole, poiché, sia chiaro: ogni passera è unica, fatta a modo suo, ricerca l’orgasmo suo, dunque perché le dovrebbe piacere ciò che piace a un’altra? E se te lo dice uno che la passera non ce l’ha, ma da 37 anni mette il suo uccello in ogni tipo di passere… ci devi credere! Rocco Siffredi si fa maestro di sesso e vita e firma "Sex Lessons", manuale dove erge la domanda delle domande: come si fa a far godere una donna? E la risposta… non c’è! Un uomo a letto con una nuova fiamma si deve scordare cosa piaceva a quella prima, perché ogni corpo di donna ha leggi e "tasti" suoi. Ma ogni donna gode nel cervello, bisogna f*tterle il cervello per farla "venire", e come ti sc*pa il cervello Rocco nessuno mai. Rocco lo sa, Rocco lo fa, e se lui sa come si fa, è perché lo ha imparato dalle donne. Sono le donne che gli hanno insegnato a sc*pare, sul set e nella vita privata, e ci sono donne dall’orgasmo infinito, quelle che godono col sesso estremo, sesso di cui Rocco sa e fa, e lo fa perché sono le donne che vogliono da lui farselo fare. È la donna che ti autorizza, è la donna che ti dice quello che vuole e quello no. E quanto. E come. L’uomo deve leggerle "quel" segnale, negli occhi, quella voglia, fuoco intenso, e ci sono donne che se non le sai sc*pare forte non orgasmano, e ti si rivoltano. Perché a letto ogni cosa un uomo può fare, pur la più estrema, se ha il consenso di lei. È lei che ci muore, a farsi sc*pare la testa col pene infilato dietro, ma allora perché ci sono donne che non vogliono perché sentono male? Perché è l’uomo che non lo sa fare, crede di sapere ma no, non sa che il sesso anale è un rito, è un filo, su cui dolore e piacere stanno in equilibro. Di corpi. L’anale, se lo sai fare, è istinto animale, è sesso allo stato puro, e alla gran parte delle donne piace di più dopo la penetrazione vaginale, ché sono più bagnate, più eccitate, ma dietro non ci andare se prima l’ano non lo sai stimolare, con la lingua, e le dita che ci infili ché la tieni a cucchiaio e la stai prendendo davanti, e nel mentre le sussurri parole che la accendono, e la fanno sentire al sicuro. Sentirsi al sicuro, è questo che le donne in quei momenti vogliono, oltre al lubrificante! Quando avverti che la pelle dell’ano delicatamente si scolla, è quello il momento giusto. Se non lo sai fatti guidare da lei, il pene fallo mettere a lei. Un uomo non può pensare che una donna gli si metta in doggy-style a comando, e gli permetta quel suo accesso senza averne prima acceso il desiderio. E non si prenda a esempio il porno, lì gli attori mettono in scena il sesso in posizioni innaturali, sono allenati, specialmente le donne, che lo devono ricevere, e preparano il loro corpo dal giorno prima, con esercizi, grossi dilatatori anali, dieta. Fare l’attore porno è un lavoro niente male ma è faticoso, ci vuole passione, ma ci vuole più di tutto testa, e abnegazione. Un attore porno è un atleta, si allena, non beve, non fuma, mai e poi mai si droga, sta attento a ciò che mangia. Non fa tardi la sera se il giorno dopo sta sul set. Rocco è Rocco anche perché segue queste regole qui. OK, ma… a Rocco che sesso piace, come gli piace sc*pare? Non a letto, il letto affossa i corpi, Rocco sc*pa sui divani, e in Academy se n’è fatto costruire uno di sua invenzione, per farci il "rusty trombone", un 69 in cui l’uomo sta sopra e spinge il sedere sulla faccia di lei, poi si fa lo "smothering", il soffocamento con il c*lo, e ci si masturba con le mani. Segue la "posizione del coniglio", con la penetrazione, e la stimolazione dei piedi, leccati a vicenda. A Rocco piace farlo nei bagni del treno o dell’aereo, e gli piace masturbarsi, con la mano, ma di più farsi fare un bel p*mpino. Eccolo, il p*mpino, lo "strozzone", dove il pene arriva in gola a lei e la saliva esce in mezzo a gorgoglii, nel porno assai amplificati, e misti a conati di vomito. Le pornostar li fanno, perché loro li sanno fare, ma nel sesso reale il p*mpino migliore è quello dove la donna gode nel farti e vederti godere, e la prova ce l’hai in lei che ti preme la f*ca bagnata sul tuo alluce.  Rocco le migliori sc*pate se l’è fatte con donne senza seno, o pure grasse, comunque lontane dal canone di bellezza classico. Donne sicure di sé, e del loro corpo. E sul set ha sc*pato anche donne mooolto anziane, e anche oltre i 100 chili, bello duro e mantenuto tale, e senza doping. A Rocco una volta gli s’è ammosciato perché una collega, dopo un p*mpino, gli ha ruttato forte in faccia. Il pene non vuole pensieri, nemmeno su un set porno, dove oggi un po’ tutti se lo dopano ma non Rocco, che ce l’ha pronto, sempre, con la mente, come estraniandosi da quello che fa, pensando a ciò che per lui è eccitazione massima, la f*ca pelosa, di più, una donna coi peli intorno all’ano. Il pene si può e si deve controllare, più forte di lui c’è solo la testa e Rocco le prime volte l’ha viziato, modellato, istruito, anche con le brutte sbattendolo su un tavolo, e prendendolo a schiaffi. Questo è Rocco Siffredi, sua maestà del porno, l’italiano non sportivo più famoso e osannato al mondo. Rocco Siffredi, il numero uno assoluto, che non può permettersi scene che non siano il massimo. Lui al porno ha dato tutto, anche un occhio gonfio, nero, un ginocchio rotto, le costole rotte 3 volte, le spalle a pezzi, la schiena che è messa malissimo. Rocco ha 57 anni e non ce n’è per nessuno, ci sono colleghi molto più giovani che dopo 5 minuti di sesso in scena hanno i crampi alle gambe, e lui no. Questo è Rocco Siffredi. Lo stesso che, ragazzo, a Ortona, si faceva le s*ghe col giornalino "Supersex" trovato per strada, "usato" e gettato dai camionisti, o sull’intimo di "Postalmarket", e pure a scuola, all’ultimo banco, sognando i seni dell’insegnante, enormi, raggiungendo il record di 11 s*ghe in 5 ore di lezione.

Silvia Bombino per vanityfair.it il 25 aprile 2021. Depilarsi i genitali serve per far sembrare un pene più grande? Sì. Una donna può provare fastidio durante la penetrazione se lui «curva» da una parte? Il sesso è sporco? Certo, ma solo se è fatto bene. Nel 1972 Woody Allen firmava un film che spiegava i rapporti sessuali dal di dentro, cinquant’anni dopo la più famosa pornostar mondiale, Rocco Siffredi, scrive un libro sulla sessualità che si vede fuori.  Esce così il 27 aprile, a quindici anni dalla sua autobiografia, Sex Lessons (Mondadori, pagg. 120, € 17), il primo corso di educazione sessuale del divo, che vive a Budapest con la moglie Rózsa e i figli Lorenzo, 25 anni, e Leonardo, 21.

Lei, così libertario, non si sente a disagio nell’Ungheria del governo ultraconservatore di Orbán?

«Sta parlando dello stesso Orbán che a dicembre scorso ha espulso dal partito uno dei fondatori dopo che era stato sorpreso in un’orgia con 24 uomini?».

Esattamente.

«Be’, direi. Però in Italia è ancora più complicato fare il mio lavoro, con il Vaticano vicino. Anche se vedo ormai che, grazie ai social, nessun politico può più reprimere la sessualità di nessuno: per le nuove generazioni l’eterosessualità non vorrà dire più nulla. Si va verso una sessualità bella e che ci rappresenta, verso un uomo o una donna».

A proposito di nuove generazioni: le statistiche dicono che la maggior parte dei ragazzi non ha informazioni sul sesso né in casa né a scuola, ma tutti guardano i video porno su Internet. Lei che cosa ne pensa?

«Che stiamo educando già la seconda generazione di ragazzi con la pornografia online. Anni fa avevo lanciato un appello al ministero dell’Istruzione per rendere obbligatoria nelle scuole italiane l’educazione sessuale, come succede in tutto il mondo. Mi sono anche offerto come promotore dell’iniziativa, ma la reazione è stata tiepida: va bene Rocco, ma a queste cose ci pensiamo noi. Gli studenti mi vogliono, presidi e rettori impediscono l’incontro. Un pornodivo non è gradito: piaccio se ti devi fare una sega, ma chiusi i pantaloni è un mondo da nascondere».

Rifacciamo un appello, oggi.

«Se domani mi chiama il preside di una scuola ci vado subito, e gratis. Mi piace il confronto con i ragazzi».

Quindi la sua battaglia si è trasformata in questo libro?

«No, è andata così: l’editore ha notato i video che facevo su YouTube per rispondere alle tantissime domande che mi fanno in materia di sesso e mi ha chiesto di trasformarli in un libro. Non ho la pretesa di essere un sessuologo, quello che ha capito tutto, il mio approccio è il consiglio del fratello maggiore. Conosco così bene il mondo del porno che posso trovare le differenze con la vita vera, anche perché sono un uomo sposato, padre di due figli, vedo il tema da punti di vista diversi. E avendo un’esperienza trentennale sul campo, la trasmetto».

Suo figlio Lorenzo però l’ha sorpresa, racconta nel libro, confessandole di non avere imparato il sesso dal porno, ma facendolo con la fidanzata di sempre.

«Fanno dieci anni insieme adesso. Mi ha sconvolto perché non pensavo possibile esistesse qualcuno che potesse fare a meno del porno. Ma ci sta: essendo mio figlio, è normale che abbia un approccio distaccato. Tutti gli altri guardano i miei video, e tanti credono che sia quello il vero sesso».

Invece qual è?

«L’esperienza sessuale è fatta del rapporto con la persona con cui lo fai, è scambio di sentimenti, divertimento, comunicazione. Le ragazzine invece hanno l’ansia da prestazione, imparano che ogni rapporto finisce con un’eiaculazione in faccia, perché così si concludono il 90% delle clip di PornHub. Va spiegato che la pornografia serve agli adulti per motivarli, eccitarli, non è un manuale».

Nel libro affronta il tema delle «prime volte».

«Ci sono quelle che a 13 anni sembrano pornostar e ragazze di 26 anni che mi scrivono che sono ancora vergini perché non hanno trovato l’uomo giusto. Io sono per la sperimentazione, anche se prima bisogna conoscere il proprio corpo. E usare il preservativo per prevenire le malattie a trasmissione sessuale, perché sui set ci sono mille controlli, nella vita vera no. Bisogna stare attenti al consenso, perché se l’altro dice “no”, è “no”: nel porno invece sembrano tutti disposti a fare tutto. Rassicuro i maschi sull’erezione: non è più come negli anni ’90, ormai nei film tutti usano la chimica, non sono prestazioni autentiche. Urologi di fama internazionale però mi raccontano che le “pompette”, quelle che abbiamo conosciuto con il Cavaliere, ora le fanno ai trentenni, con disfunzioni erettili tutte mentali».

Anche le donne hanno paranoie, soprattutto sul corpo.

«Ho avuto rapporti meravigliosi con donne magrissime o sovrappeso, lontane dal canone “classico” di bellezza: erano sicure di sé. L’erotismo lo fa l’autostima».

Ha senso «rifare» educazione sessuale da più grandi?

«Sì, perché ci sono coppie che scopano da vent’anni nella stessa posizione, e donne che non hanno mai avuto un orgasmo. La verità è che non ci si parla, si ha vergogna. Non arriviamo neanche al 10% di quello che può dare il sesso».

Per le coppie di lunga data consiglia lo scambio di coppia, o comunque guardare mentre il partner sta con un’altra persona. È sempre necessario introdurre un terzo?

«La verità è che è il problema di tutti: dopo anni la passione cala, non ce n’è, e sulla monogamia la novità a un certo punto vince sempre».

Lei racconta che sua moglie non lo vuole fare, lo scambismo: quindi come risolvete?

«Con lei sin dall’inizio sono stato chiaro: io giravo con altre donne, sul set, e anche lei avrebbe dovuto farlo. Ma mi ha sempre risposto: “Sono tutti brutti”. Ovviamente non era vero, ma lei fa parte di quel tipo di donna che ne preferisce uno alla volta: se sono innamorata di te, sto con te. Ho anche provato a portarla in un locale per fare una cosa a tre. Mi ha detto: “Ma tu sei scemo!”. È il mio opposto, forse per questo stiamo insieme da 27 anni».

Quante volte alla settimana, o al giorno, fate sesso?

«Non abbiamo regole, quando abbiamo voglia. Mia moglie però non ama farlo quando ci sono altri in casa, e noi abbiamo la governante che viene ogni mattina…».

Nel libro parla anche dei social, che cambiano il sesso.

«Tutto è diverso sia sul set, dove ci sono attrici che arrivano e due secondi prima di fare la scena sono lì a postare, sia nella vita, dove i ragazzini invece di godersi il momento vivono con il cellulare in mano per filmare tutto. Ma il sesso è qualcosa che uno deve aver voglia di fare, senza il desiderio siamo macchine. Quei ragazzini che scopano senza coinvolgersi, perché va di moda, senza portarsi un’emozione a casa, poi si annoieranno, e dalla noia nascono mostri. Ne so qualcosa, sono stato dipendente dal sesso».

Ne è uscito del tutto?

«Sì, per fortuna. È una cosa terribile».

Non ha mai desiderato avere una libido minore?

«No, perché il sesso è la cosa più bella che c’è. Però ho capito che nella vita c’è anche altro e forse mi sono perso delle cose che potevo approfondire».

A che età si può iniziare a parlare di sesso con i ragazzi?

«Verso gli 11, i 12 anni. In Italia nelle poche scuole in cui ci sono progetti se ne parla a 15 o 16, quando è troppo tardi».

Molti genitori ritengono che sia la famiglia a doversi occupare per prima dell’educazione sessuale dei figli.

«Anche se fosse, in pochi lo fanno davvero. E credo che con un genitore un figlio sia sempre in imbarazzo. Mio padre mi raccontava nel dettaglio le sue avventure, io ero infastidito. I miei figli non mi hanno mai fatto vedere il loro attrezzo, né da piccoli né ora. Sono molto pudichi».

Qual è stata, alla sua epoca, la sua educazione sessuale?

«La rivista Supersex».

Che educazione sessuale ha dato ai suoi figli?

«Se ne è occupata Rózsa e la ringrazierò sempre. Io ero troppo imbarazzato per via del lavoro che facevo, che loro hanno sempre saputo sin da bambini».

Anche quest’anno ha ricevuto premi alla 37a edizione degli AVN Awards, gli oscar del porno: uno come «Miglior attore straniero dell’anno» e l’altro come «Miglior scena anale». Quindi continua a fare l’attore?

«Era per un film dell’anno scorso. Da quest’anno non ho più girato: se fosse per me non mi fermerei mai, ma il fisico non è più quello dei vent’anni, e magari una ragazza gira con te perché sei Rocco Siffredi ma ha davanti un sessantenne. Non è il caso. Cerco un equilibrio, ho fatto la mia prima serie porno, 8 puntate, senza mai essere in scena».

Non ha paura, smettendo, come le era successo in passato, di ricadere nella dipendenza?

«Infatti cerco di non dire che ho “ricominciato a smettere” proprio per non portarmi sfiga. Però sento di essere sulla strada giusta, non sento l’esigenza di farlo sul set, riesco a gestire la cosa con mia moglie… Vediamo quanto regge Rózsa! Mi sfogo anche con lo sport: ho 10 ettari di terreno, corro. Poi devo dire che ho riattivato il contest personale».

Ossia?

«La masturbazione, che non fa mai male. Non è semplice. Si dice che ognuno di noi nasce per qualcosa, io sono nato per il mio lavoro. Gennaro, mio papà, non sbagliava un colpo. Da qualcuno avrò preso».

Rocco Siffredi: «Io e mia moglie Rozsa abbiamo fatto la strada insieme. Ringrazio mamma e papà, i miei primi due complici». Rocco Siffredi: «Il sesso resta ancora la cosa più bella. Non mi sento più a mio agio con partner ventenni». Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 28 giugno 2021. L’attore, che a 57 anni compiuti ha vinto il premio Nobel del Porno, racconta l’infanzia, la famiglia, l’incidente, gli anni in cui faceva il cameriere a Parigi. Ci vuole del talento per vincere, a 57 anni quasi compiuti, il premio Nobel del Porno, ovvero gli Avn Awards, con ben due allori: come «miglior interprete maschile straniero» e per la «miglior scena a due». Affondato in una maestosa sedia girevole nel suo ufficio di Budapest, dove vive da 25 anni («per il mio lavoro è il best of the world»), Rocco Siffredi si dichiara sinceramente lusingato dalla chiamata del Corriere della Sera e ha voglia di raccontare.

Com’è cominciata?

«Da ragazzino, dall’età della masturbazione, sono stato letteralmente folgorato dai giornalini porno e ho subito capito che avrei fatto il pornostar: c’era solo il come sarà e dove sarà, ma ero sicuro».

Che giornali erano?

«Era Supersexdi Gabriel Pontello, che poi incontro in un locale di scambisti, e lì comincia la mia storia».

A Parigi?

«Yes. All’inizio facevo il cameriere alla Pizza Pino, agli Champs Elysées, e dopo un breve periodo sono andato a lavorare da mio fratello, che dirigeva la catena di ristoranti Casa Nostra, di fronte alla Tour Eiffel».

I suoi genitori?

«Due grandi genitori che augurerei a chiunque, di quelli che prima di tutto sono per la felicità dei figli e che insegnano i valori importanti. Se non mangiavo mio padre mi rompeva i piatti in testa, se mancavo di rispetto alla zia mi prendevo due sberle, soldi in tasca pochi... Eravamo sei figli, e mia madre doveva risparmiare. Quando hanno capito che volevo fare questo lavoro, ho trovato due complici».

Non le hanno posto nessun ostacolo?

«Nel nostro palazzo di Ortona c’era gente che criticava mia madre: ma come fai a sopportare una cosa del genere? Rispondeva: senti, io gliel’ho fatto così... e ci fa quel che vuole (ride). Vedeva che quando tornavo a casa ero sempre lo stesso, e il resto non contava. Aveva già sofferto tanto e io non le avrei mai dato altri dispiaceri».

Il figlio morto?

«Yes... Dall’età di sei anni ho vissuto con una mamma impazzita dal dolore. Quando mi rompeva la roba addosso, pensavo che da qualche parte quel dolore doveva pur sfogarlo. L’ho sempre capita, fino a quando se n’è andata per una cirrosi epatica dovuta a un’epatite non curata durante la guerra. Mi ricordo che la abbracciavo e lei mi mordeva il collo e mi graffiava perché non mi riconosceva più...».

In che anno è morto suo fratello?

«Nel 1971, aveva 12 anni. Claudio era epilettico e morì soffocato nel sonno per una crisi. Ero all’ultimo anno dell’asilo, quando un giorno vengo prelevato da una signora che non conosco, mi porta a casa e sento gridare... Era mia madre. Mi ricordo mio padre che arriva con la vespetta e il cappellino da cantoniere, guarda in alto verso il balcone con uno sguardo che non potrò dimenticare: aveva capito subito».

Altri ricordi d’infanzia?

«Sempre quel giorno. Claudio morto: l’altro fratello è lì a mangiare i confetti che sono stati cosparsi sul corpo di Claudio, come si usava una volta in Abruzzo. Io che mi ritiro in un’altra stanza piangendo a scoppiare, uno a uno, i palloncini rimasti da una festa di qualche giorno prima. Tutto questo nel caos di parenti».

Era una famiglia numerosa?

«Il mio nonno materno avrà avuto 23 o 24 figli... Faceva l’allevatore di tori da monta e morì incornato mentre rafforzava le catene. Pare che nei periodi di magra i tori facessero sangue nero, una malattia che li rendeva pazzi...».

Vecchia famiglia italiana piena di guai...

«Il vero pilastro era la mamma, era lei che si occupava di portare per ospedali Claudio a Milano e a Roma, da quando a due anni, alle case popolari, si prese una mazza di ferro in testa da un altro bambino. Da lì pare che gli venne l’epilessia per l’ematoma. Mentre papà, per carità, era un gran padre ma molto passivo, l’unica cosa che faceva davvero bene era andare a cercar donne... Da qualcuno avrò preso... Una passione in comune tra padre e figlio...».

Ancora oggi resta una passione?

«Certo, ma la bella notizia è che sto invecchiando... Io mi sono ritrovato con mille problemi fisici già a vent’anni, quando in moto ho fatto un brutto incidente, mi sono frantumato tutto, dovevo morire... La macchina mi ha tritato le braccia, ho dovuto mettere delle protesi alle spalle, mi sono operato più volte... Ho avuto tantissimi anni di sofferenza fisica di giorno e di notte... E mia moglie si lamenta (ride)».

Si lamenta per i suoi dolori?

«Yes. Dice sempre: ogni donna vorrebbe avere Siffredi a letto, ma lui dà tutto se stesso sul set e i suoi dolori me li prendo io... È la pura verità. Sul set passava tutto, il porno è stato il mio antidolorifico naturale».

Vale ancora adesso come panacea?

«Tanti mi chiedono ma come fai ancora a fare queste performance... La verità è che non vorrei mai arrivare a dire che non ce la faccio più... D’altra parte da qualche anno mi guardo allo specchio e mi dico: ma che ci fai tu con le ventenni... Non mi sento più a mio agio davanti al corpo di una ragazza...».

La vecchiaia le fa paura?

«Forse ha ragione Roberto D’Agostino quando mi dice: Rocco, tu vai al di là del tuo corpo, tu sei un mito pop... Comunque da un po’ sto girando pochissimo e solo film di grande produzione. Le ragazze fanno la fila per lavorare con Siffredi, non vedono il lato estetico che vedo io su di me. Se poi ti premiano ancora come miglior interprete straniero, ti dici: forse manca la concorrenza...».

I giovani non valgono quanto lei?

«Mi odieranno, ma il dato di fatto è che ancora nell’era del tutto gratis, in un mondo come il porno in cui praticamente non ci sono diritti d’autore, io porto a casa un bel po’ di soldini...».

Lei è molto ricco?

«Se paragonato ai pornostar sono ricchissimo, ho uno studio qua a Budapest di centomila metri quadri, lo chiamano la Cinecittà del porno. Se ti affittano casa per girare un film e ti dicono “non mi sporcare il divano...”, come fai! Meglio avere uno studio in proprio. E solo un pazzo come me poteva farlo... Una scuola, un’accademia dove insegnare il porno, non è un gioco, e neanche megalomania, io ci credo davvero. Se ho fatto tutto questo, l’ho fatto per passione. Avrei pagato per fare questo lavoro».

Com’è andata con i suoi due figli per far capire il suo mestiere?

«(Ride) È la domanda classica dell’uomo italiano che si fa mille pippe mentali. Io mi sono trasferito in un altro pianeta. L’importante è non far finta, non giustificarsi. È stato semplice: ho avuto una compagna super intelligente, che si chiama Rozsa e non ha mai cercato di farmi cambiare idea. Abbiamo fatto la strada insieme. I miei figli dicono che sono fortunato a fare quel che mi piace nella vita...».

L’educazione sessuale serve o è meglio fare le proprie esperienze da soli?

«Tanti uomini non riescono a parlare di sessualità neanche con la moglie, figurarsi con i figli. Il risultato è che i ragazzi vengono su guardando il porno, è vero che non è una novità, ma oggi ci sono i video negli smartphone... Siamo noi gli educatori sessuali, sovradimensionati e capaci di fare sesso per ore. E questo non fa che generare insicurezze, perché nessuno si prende la briga di spiegare ai ragazzi che il nostro lavoro è finto, costruito, da professionisti... I ragazzini mi riconoscono e su 100 gli habitué sono almeno 80».

Bisognerebbe fare lezioni su come affrontare il mondo del porno?

«Pensi che in Turchia sono testimonial con una super pornostar americana per degli spot in cui spieghiamo la protezione, la prevenzione, il consenso, il fatto che la pornografia è intrattenimento e non può essere educazione sessuale. Tutto l’Islam è impazzito per questa pubblicità. L’ho proposta da noi, ma certi presidi hanno detto: grazie, non prendiamo lezioni da Rocco Siffredi. Forse abbiamo il Vaticano troppo vicino, ma le assicuro che la Chiesa mi adora (ride)».

Lei ha mai conosciuto il senso di colpa?

«Per vent’anni mi ha creato gravi problemi. Mi dicevo: tu ti diverti e tua moglie è a casa con i bambini... In realtà ero lì a realizzare le fantasie degli altri».

Ha detto tante volte che avrebbe smesso.

«L’ho detto tre volte e tre volte ho ricominciato. Non lo dirò più. Lascerò il porno, ma il sesso non mi abbandonerà mai, dirigerò le mie energie su una sola donna, mia moglie, e sarà molto bello. Lo auguro a tutti i mariti che cornificano le mogli».

Nessuna sensazione di overdose?

«No, il sesso resta ancora la cosa più bella, è forse l’80% di tutto quel che mi piace nella vita. Adoro la pasta in bianco olio e parmigiano, mangerei quella tutti i giorni... Se mi vuoi mettere in crisi, fammi la carbonara... Non sono mai stato dipendente da altro che dal sesso: niente droga, niente alcol».

Con il #metoo cos’è cambiato?

«Ci sono molte più regole, anche per girare quattro bacini devi sapere che l’attrice si può ritirare in ogni momento senza neanche scusarsi. Per l’uomo è diventato molto più complicato sperimentare».

E per la donna?

«La pornografia è sempre di più in mano alle donne. Da due anni la miglior regia va a una donna, e c’è uno stormo di registe nuove, bravissime. La donna ha più immaginazione e si fa meno problemi dell’uomo nel mischiare le carte in tavola, si eccita di più su cose che per l’uomo sono ancora tabù, ha una sessualità più strong. E se un film è un po’ forte e rischioso, magari con sesso estremo, fatto dalle donne diventa geniale. Cose che, dopo il #metoo, un uomo rischierebbe di finire in galera».

·        Roberto Bolle.

Simona Antonucci per "il Messaggero" il 23 dicembre 2021. Bolle a Capodanno, Bolle tutto l'anno: un ciclo di lezioni, uno show a puntate, ballo seriale, virale... Tutti lo vogliono. L'ètoile torinese, 46 anni, non fa in tempo a terminare la presentazione della quinta, pirotecnica, edizione del suo Danza con me, programma da oltre quattro milioni di telespettatori, su Rai1, in prima serata a Capodanno, che già si progetta («un evento in più puntate», «insegnante in tv», dicono i vertici della rete), si pensa a domani, dopodomani. Ma non all'anno prossimo, perché nonostante l'audience da miracolo per un programma dedicato al balletto, quando si arriva alla domanda su una possibile sesta edizione, la risposta è un semplice: «Speriamo». Intanto si presenta il cast dell'evento del primo gennaio «all'insegna della leggerezza, perché ne abbiamo tutti bisogno», condotto insieme con Serena Rossi e Lillo. Dopo aver fatto ballare nelle scorse edizioni Benigni e un robot, Diodato e Vasco, con la conduzione a bordo campo del giornalista sportivo Fabio Caressa, Bolle, continua passo dopo passo nel suo percorso di contaminazione dei linguaggi, dimostrando che la danza è anche intrattenimento. 

Come ha scelto il cast?

«Cercando contaminazioni. John Malkovich fa ballare i critici teatrali. Ornella Vanoni diventa l'anima di una compagnia di ballo formata da Margherita Buy, Micaela Ramazzotti, Sabrina Impacciatore, Diana del Bufalo, Benedetta Porcaroli».

Attori e musicisti.

«Valerio Lundini suona, canta e fa la spaccata. Il duo Colapesce e Dimartino con gli allievi dell'Accademia, la pianista Beatrice Rana che accompagna piroette e grand battement. E poi Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Frida Bollani Magoni, Boosta, Franca Leosini, ma anche le Farfalle Olimpiche». 

Dopo il calcio, la ginnastica artistica: ama lo sport?

«La ginnastica ritmica è lo sport più vicino alla danza. Ma ci saranno grandi interpreti della classica, come Svetlana Zakharova: insieme renderemo omaggio, con Giselle, a Carla Fracci, cui è dedicato lo show. Palco immersivo, led, effetti speciali, compresa la pioggia, tango, rock e ironia». 

Perché è importante essere in tv?

«Fino a qualche anno fa portare la danza in tv veniva considerata una follia. Un sacrilegio. Io credo che non si debba rinunciare al superpotere di questo mezzo che può avvicinare persone all'arte e aiutare una visione più inclusiva e giusta del mondo».

Che differenza c'è tra gli applausi dal vivo e gli ascolti?

«Gli applausi ti entrano nel cuore, l'audience è un numero. E l'entusiasmo non ti arriva con i numeri. Certo coinvolgere milioni di persone è una grande soddisfazione, ma a prescindere dai record o dai flop, le persone ti raggiungono comunque sui social, Instagram, online». 

Sembra che grazie alla capacità comunicativa di Lang Lang, migliaia di bambini cinesi abbiamo cominciato a suonare il pianoforte. Lei ha avuto riscontri?

«Mi arrivano video con bambini piccolissimi che ballano guardando il mio show. Tra questi potrebbe esserci il Roberto Bolle di domani. Sarebbe una soddisfazione immensa».

Qualche giorno fa alla Camera ha fotografato la drammatica situazione in cui versa il sistema coreutico nel nostro Paese lanciando un j' accuse contro le istituzioni, i politici ma anche i sovrintendenti. Qualcuno si è fatto vivo?

 «Il ministro Franceschini ha risposto subito, così come molti sovrintendenti. Il lavoro della commissione è stato molto approfondito. Sono fiducioso. I corpi di ballo non possono essere le Cenerentole dell'arte». 

Su 14 fondazioni, solo quattro hanno un corpo di ballo. Alla Rai esiste un'orchestra, ma non c'è un corpo di ballo. Vuole lanciare un appello anche ai vertici della tv pubblica?

«Io ho cercato di richiamare l'attenzione su un settore che ha subìto uno scempio. Ben venga il coinvolgimento di tutti».

La puntata sarà dedicata a una icona della danza italiana: Carla Fracci. E Raffaella Carrà che si è molto spesa per la danza in tv?

«Raffaella è stata un'artista grandissima. E in tv, dopo la scomparsa, ha ricevuto molti omaggi. Ma per noi era giusto focalizzarci su Carla Fracci. Mi ricordo quando venne qui in studio, aspettò fino all'una di notte per registrare il suo brano. Eravamo tutti stanchi. Ma quando partì la musica lei si illuminò di energia. Oltre a una grande danzatrice, fu una divulgatrice, portò il balletto ovunque, un po' come sto cercando di fare io».

Nel suo libro scrive che la danza le ha regalato una vita speciale e che va avanti non per routine. Fino a quando?

«Assurdo darsi un tempo. Perché stabilire in anticipo quando arriva il momento di smettere. Preferisco focalizzarmi sul presente. Il futuro non è mai stata una mia preoccupazione».

Da “la Stampa” il 16 dicembre 2021. Pubblichiamo un estratto del discorso pronunciato ieri alla Camera dei Deputati dall'étoile Roberto Bolle. Roberto Bolle in sala prove. Ieri ha lanciato da Montecitorio un accorato appello per il balletto che muore tra l'indifferenza. Voglio iniziare questo mio intervento con alcuni nomi: Caterina de' Medici, Baldassare da Belgioioso, Giambattista Lulli, Enrico Cecchetti. Nomi importanti e in parte dimenticati. Nomi che hanno in comune due cose fondamentali. La prima è che hanno creato, dato forma e struttura ad un genere artistico e culturale, il Balletto, che ha influenzato il mondo intero in maniera irreversibile. La seconda è che erano tutti italiani. La Danza Classica è nata e si è evoluta attraverso le menti creative di italiani che hanno sentito la necessità di portare più in alto il livello espressivo delle arti rappresentative del loro tempo. Luminari che hanno avuto il coraggio di cambiare la rotta, di inventarne una nuova, per toccare corde più profonde. E per tutto l'Ottocento e parte del Novecento, i maestri, e le grandi ballerine nel mondo saranno per la maggior parte italiani. Gli italiani saranno artisti di grido e di esportazione: andranno oltralpe ad insegnare, divulgare e promuovere la loro arte. Ammirati e celebrati. Dico questo perché saper dare il giusto valore alla Storia è il primo passo per costruire il Futuro. Al contrario sembra proprio che il nostro glorioso passato sia stato dimenticato e lasciato indegnamente alle spalle. La situazione della Danza in Italia è sempre più difficile e arida, fatta di compagnie teatrali sempre più scarne, di corpi di ballo che vengono chiusi, di assoluta mancanza di protezione per la categoria artistica, di ballerini che devono lasciare il proprio Paese per vivere della loro passione e cercare di realizzare i propri sogni. Il mio intervento di oggi è al tempo stesso un grido di dolore e una richiesta di aiuto per il Balletto in Italia. Diciamo le cose come stanno: negli ultimi decenni è stato compiuto uno scempio verso la danza italiana, un depauperamento di cui ci si può solo vergognare. La Danza italiana viene costantemente avvilita, trattata come la Cenerentola delle arti, con Opera lirica e musica sinfonica nel ruolo delle sorelle privilegiate, cui sono riservate le cure delle Fondazioni. Da cosa nasce questa decisione? Non certo dall'insostenibilità di un corpo di ballo. Ma nasce da una scarsa conoscenza del settore e da una mancanza di visione di chi ne era responsabile sia a livello governativo che di gestione dei teatri. Molti sovrintendenti amano l'opera, amano la musica. Al contrario molto raramente conoscono e apprezzano la danza. La frase più comune che si sente dire è «Non capisco nulla di Danza». E una risposta sta proprio lì: il Balletto è vittima dell'ignoranza di chi, per il ruolo che ricopre, dovrebbe proteggerlo, promuoverlo e valorizzarlo. Invece il taglio del costo del ballo è sempre stata la carta più facile da giocare sul piatto di un contenimento dei costi. Un gravissimo errore che non tiene conto dei numeri della danza. I numeri appunto: nel nostro Paese ci sono circa 17 mila Scuole di Danza e 1 milione 400 mila studenti. Ma nonostante questi numeri impressionanti in Italia sono sopravvissuti solo 4 corpi di ballo. Abbiamo 14 Fondazioni lirico-sinfoniche, teatri che sono eccellenze ovunque. 14 orchestre. 14 cori. 4 corpi di ballo. Napoli e Palermo sono corpi di ballo in fin di vita, destinati a morire se non si interviene rapidamente. Aggiungiamo il caso vergognoso dell'Arena di Verona. Il corpo di ballo stabile è stato licenziato nel 2017, ma non certo perché manchino le occasioni di mettere in scena balletti. Da allora ad oggi, infatti, la Fondazione ha prodotto almeno 44 produzioni con coreografie. Nella maggior parte di questi 44 titoli, la Fondazione ha assunto nuovamente, ma con contratti a tempo determinato, alcuni degli stessi ex danzatori stabili licenziati che, incentivati da una somma economica offerta loro dalla Fondazione, non hanno impugnato il licenziamento. Ora, se vogliamo dare una boccata d'ossigeno al nostro balletto agonizzante bisogna prima di tutto stabilizzare le danzatrici e i danzatori di Napoli e Palermo, ripristinando un organico consono. Rimettere in piedi il corpo di ballo stabile all'Arena di Verona, mettere mano alla situazione del Maggio Danza, a Firenze, compagnia di storia e prestigio indiscussi. Equiparare il punteggio Fus del balletto con quello dell'opera lirica. Diminuire il punteggio del Fus per le attività prodotte da un corpo di ballo esterno, che oggi valgono tanto quanto quelle svolte da un corpo di ballo interno. Incentivare e sostenere finanziariamente quei teatri che decidono di investire nei corpi di ballo. E incentivare e agevolare le coproduzioni tra i teatri e le tournée dei nostri corpi di ballo nelle altre Fondazioni e negli altri Teatri italiani. Modificare la denominazione Fondazioni Lirico-Sinfoniche in "Fondazioni lirico-sinfoniche e coreutiche", come simbolo della loro identità, e stanziare un fondo apposito per la salvaguardia e la ricostituzione dei corpi di ballo stabili in questi enti. Quindi incentivare le Fondazioni che reintroducono corpi di ballo. Per concludere voglio aggiungere che un corpo di ballo ha una ricaduta economica molto importante sui tanti settori ad esso collegati, su maestranze e su professionalità diverse. Ma valutiamo anche il valore della danza per l'impatto sociale che ha per le giovani generazioni: pensate quanti ragazzi e ragazze sognano di diventare ballerini e si nutrono con i valori etici, morali di quest' arte: disciplina del corpo e della mente, ricerca di bellezza e armonia. Quindi eliminare un corpo di ballo vuol dire inaridire tutte le realtà che operano sul territorio ma anche inaridire i nostri ragazzi. L'Arte e la cultura sono eccellenze del nostro Paese. Sono la nostra tradizione e la nostra identità ma anche il nostro oro e il nostro petrolio, cioè se da una parte sono quello che ci rende unici e speciali, dall'altra, se ben gestite potrebbero rappresentare una grande risorsa, anche economica. Quindi diamo valore alla tradizione e alla cultura della danza. Facciamone un punto di forza e di rinascita. È il momento che si attui un cambiamento.  

SIMONA ANTONUCCI per il Messaggero il 16 dicembre 2021. «Solo quattro corpi di ballo stabili in Italia per quattordici fondazioni lirico-sinfoniche. Due dei quali, a Napoli e Palermo, sono in fin di vita. A Verona, un caso vergognoso, i danzatori sono stati licenziati in tronco nel 2017. È uno scempio quello che si è compiuto in Italia negli ultimi decenni. Ed è arrivato il momento di cambiare». Roberto Bolle non è entrato in punta di piedi, ieri alla Camera per l'audizione conclusiva dell'indagine della commissione cultura. L'étoile ha fotografato la drammatica situazione in cui versa il sistema coreutico nel nostro Paese lanciando un j' accuse contro le istituzioni, i politici ma anche i sovrintendenti «che spesso ne capiscono di musica e non di danza. Il balletto è una vittima di ignoranza e mancanza di visione da parte di chi doveva proteggerlo. Una Cenerentola delle arti, con opera lirica e musica sinfonica nel ruolo delle sorelle privilegiate, cui sono riservate le attenzioni e le cure delle Fondazioni». 

L'APPLAUSO I deputati hanno seguito l'intervento del danzatore in silenzio per poi salutarlo con un lungo applauso quasi si fosse esibito in una delle sue travolgenti performance. E pronta è stata la risposta del Ministro Franceschini: «Bolle ha ragione. Le Fondazioni lirico sinfoniche, nell'affrontare la loro crisi finanziaria, hanno tagliato troppo sulla danza. Ora ci sono più risorse, anche per una loro ricapitalizzazione e questo errore possono correggerlo». Roberto Bolle, torinese, 46 anni, è stato il primo ballerino in assoluto a essere contemporaneamente Étoile del Teatro alla Scala di Milano e Principal Dancer dell'American Ballet di New York, motivo per cui è stato soprannominato l'étoile dei due mondi. Due mondi non soltanto geografici: seguito da migliaia di fan nei teatri e sui social, il danzatore è riuscito a mettere in comunicazione un pubblico popolare e di specialisti. Ha dato lezioni online durante la pandemia, ha trascinato in piazza con la sua festa milanese OnDance migliaia di persone, tra valzer, twist e Boogie-woogie. E in un libro dedicato al suo amore assoluto ha confessato «la danza non ha stravolto la mia vita, mi ha fatto solo bene. E non continuo per abitudine». Così è riuscito ad appassionare alla danza un pubblico teatrale, ma anche televisivo: impegnato negli ultimi giorni di prove, a Capodanno, su Rai 1, andrà in onda la quinta edizione del suo show da quattro milioni e mezzo di telespettatori, dove è riuscito a far danzare Benigni e un robot, Diodato e Vasco, con la conduzione a bordo campo del giornalista sportivo Fabio Caressa. Una contaminazione di linguaggi per dimostrare che la danza piace quanto il calcio, «anzi di più. In Italia ci sono 17 mila scuole di ballo con un milione e 400 mila studenti, più di quelli che seguono le scuole di calcio che in Italia sono in tutto un milione». A fronte di questo esercito di nuovi talenti, esistono eccellenze come La Scala o il Teatro dell'Opera, ma il numero dei ballerini è comunque inadeguato: a Napoli ce ne sono 15 e a Palermo 10. «Il risultato di questa politica», ha aggiunto, «è che la maggior parte dei nostri talenti è costretto a espatriare». Mentre le fondazioni che non hanno più un corpo di ballo ricorrono a compagnie esterne o straniere. È arrivato il momento, incalza, di dare valore alle nostre eccellenze. E dopo l'urlo di dolore iniziale snocciola le richieste: «Rimettere in piedi il corpo di ballo di Verona e mettere mano anche al Maggio di Firenze», spiega, chiedendo di disporre nel Fondo Unico per lo Spettacolo (fus) dotazioni per la danza uguali a quelle per la lirica. E ancora: «Incentivare e sostenere i teatri che investono sulla danza, diminuire il Fus a chi fa ricorso a corpi di ballo esterni». Bisogna cambiare le «Fondazioni lirico sinfoniche in Fondazioni lirico sinfoniche coreutiche» e «attivare un fondo per la salvaguardia della danza». Nel suo appassionato discorso ha ricordato che la danza è un'arte nata e codificata in Italia e poi esportata in Francia e in Russia nel Settecento. «È nata e si è evoluta attraverso le menti creative di italiani che hanno sentito la necessità di portare più in alto il livello delle arti del loro tempo. Luminari che hanno avuto il coraggio di cambiare la rotta, di inventarne una nuova». Danza è patrimonio culturale, eccellenza, identità, «Aspettiamo con fiducia e speranza. È il momento di far rinascere la nostra arte», così Bolle ha risposto dal suo account Twitter al Ministro Franceschini.  

·        Rodrigo Alves.

Da Ken umano a Barbie: Rodrigo Alves diventa donna. Le Iene News il 09 aprile 2021. Le Iene hanno avuto l’opportunità unica al mondo di filmare in sala operatoria il cambio di sesso di Rodrigo Alves. Alessandro Di Sarno ci racconta le due settimane di ricovero del Ken umano prima di sottoporsi all'ultima operazione per diventare donna a tutti gli effetti. Si conclude così il suo percorso di transizione durato oltre 4 anni con 76 operazioni e 500mila euro spesi. Con le nostre telecamere abbiamo avuto l’opportunità unica al mondo di filmare in sala operatoria il cambio di sesso di Rodrigo Alves, per tutti il Ken umano. Lo avevamo già incontrato qualche anno fa nello scherzo di Alessandro Di Sarno, quando gli avevamo proposto di evirarsi per partecipare a un film hollywoodiano nel ruolo di bambolotto di Ken in carne e ossa. Oggi Rodrigo è pronto per diventare a tutti gli effetti Jessica e concludere così il suo percorso di transizione. “Fin da piccola mi è sempre piaciuto indossare gli abiti di mia mamma, mettermi il rossetto. Sono nata nel 1983 in Brasile e la mentalità era chiusa”, racconta ripercorrendo gli anni della sua infanzia. “Ho avuto un rapporto molto conflittuale con mio papà, lui non è mai riuscito a capire perché ero così. Non ho mai sentito il suo amore per me”. Ostacolato da amici e famiglia, Rodrigo a 18 anni va a Londra. “Qui mi sentivo libera e ho iniziato la chirurgia”. Si sottopone a 76 operazioni per un totale di 500mila euro: “Assomigliavo a una bambola e mi hanno regalato il soprannome di Ken umano”. Diventa un fenomeno partecipando a oltre 400 trasmissioni televisive in 24 paesi del mondo. “Quattro anni fa togliendo alcune costole ho iniziato il mio piano segreto”, spiega Jessica. “Già sapevo che ero una donna transessuale”. Inizia così il suo cammino verso Bangkok, all’ultima tappa di questo percorso ci siamo noi con Alessandro Di Sarno. L’abbiamo accompagnata in sala operatoria dove è stata sotto anestesia per 5 ore e 48 minuti per l’operazione eseguita del dottor Kamol Pansritum. La vagina viene ricostruita con la pelle del pene e del peritoneo per poter arrivare poi a un orgasmo sessuale in tutto simile a quello biologico. Dopo l’operazione Jessica porta un drenaggio per le urine per circa una settimana. Il suo percorso verso la transizione finisce così dopo oltre 4 anni. “È proprio bella, un po’ gonfia, ma è bella”. Sono queste le sue prime parole la mattina successiva riferendosi al suo nuovo organo. 

·        Rosalino Cellamare: Ron.

Ron, 50 anni di carriera: «Credo ancora nella gavetta. E con Lucio Dalla scrivemmo Piazza Grande in nave». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 6 agosto 2021. Il cantante festeggia mezzo secolo artistico e ricorda gli esordi, quando incontrò a 15 anni il cantautore scomparso. Mentre a Sanremo oggi non andrebbe. 

Che nella vita avrebbe fatto musica l’ha capito da bambino. «A 8 anni ho fatto il primo spettacolo cantando “24 mila baci” e ballando il twist. Lì ho detto: questo è il mio lavoro». Oggi che di anni ne ha 67, Ron si guarda indietro per festeggiare (con un anno di ritardo, causa pandemia) una carriera lunga mezzo secolo. Cinquant’anni di canzoni che rivivono sul palco del suo tour estivo, che il 29 agosto lo portano a Forlì a ritirare lo «Special Award Imaginaction» al Festival internazionale del videoclip e che culmineranno, a inizio 2022, in un nuovo disco.

Dopo il battesimo del palco a 8 anni cosa è successo?

«Sono andato a scuola di canto dalla maestra del paese. Ho cominciato a fare concorsi, accompagnato dai miei genitori perché ero minorenne. A 15 anni fui notato da un talent scout della Rca che mi chiamò a Roma, dicendo che un cantautore voleva farmi sentire una possibile canzone per Sanremo».

Come andò?

«Incontrai Lucio Dalla. Arrivò con quattro ore di ritardo, tanto che mio padre disse “torniamocene a casa”. Era in sedia a rotelle, tutto ingessato perché aveva avuto un incidente, gli uscivano solo barba e occhialetti. Nell’attesa si avvicinò Renato Zero, ancora non famoso, vestito leopardato. Io rincuorai mio padre: “dai, non saranno tutti così”».

Nel 1970 debuttò a Sanremo, in coppia con Nada.

«Eravamo due sedicenni. Avevo l’istinto del ragazzino dei concorsi e mi ero abituato al pubblico. Certo c’erano Zanicchi, Vanoni, Celentano: tanti che ammiravo. Ma cantai senza paura».

Fu Dalla a suggerirle di passare da Rosalino Cellamare a Ron. Come accadde?

«Mi disse “basta con sto Rosalino. Poi invecchi, non puoi chiamarti così tutta la vita. Comincia a usare Ron”. Ma Lucio trovava un soprannome a tutti. Aveva un istinto fortissimo, un sesto senso. E con lui si rideva sempre».

Insieme avete anche scritto «Piazza grande».

«Partimmo in nave da Napoli per dei concerti in Sicilia. Avevo 18 anni, ero felice. Si addormentarono tutti sul ponte e io presi la chitarra: non avevo mai scritto nulla. Lucio si svegliò e mi chiese “cos’è sta roba?” Si mise a fare l’inciso, lo unimmo alle mie strofe. In 20 minuti avevamo la musica. Pensai: “allora ce la faccio anch’io”».

Nel 1979 seguì Dalla e De Gregori nel mitico tour Banana Republic.

«C’era la voglia di uscire dall’incubo degli anni di piombo e trovammo gli stadi stracolmi. Fu fantastico».

Oggi tanti artisti giovani annunciano concerti in stadi e palazzetti. È prematuro?

«Un tempo gli stadi erano per De André, Dalla, De Gregori, Venditti. Adesso non si pensa alla maturità di un artista. Appena arriva un ragazzo che si fa notare è come il Re Mida e bisogna sfruttarlo, è molto triste. Io ne ho presi di fischi, anche in Banana Republic perché erano gli altri due i grandi, ma la gavetta mi ha abituato anche a quello. Oggi molti ragazzi, con i social e con gli X Factor, cominciano che sono già famosi».

Le piace qualcuno?

«Ultimo è molto bravo. I Maneskin fanno un rock tirato che serve molto adesso, li trovo eccezionali: speriamo nascano altri gruppi».

Nel 1996 fu lei vincere Sanremo con «Vorrei incontrarti fra cent’anni» insieme a Tosca. Cosa ricorda?

«Non ci speravamo. Così la sera della finale non aspettammo il verdetto e andammo al ristorante. Avevamo un tovagliolone al collo per mangiare gli spaghetti con l’aragosta quando ci chiamarono dicendo che eravamo nei primi tre. Scappammo via di corsa».

Ci tornerebbe?

«Per il momento non è contemplato. E poi decidono gli organizzatori. Se decidono che va bene uno nato ieri, va così. Io comunque non mi vedrei in gara. Sarebbe carino poter andare per raccontare questi 50 anni».

Che momenti memorabili le vengono in mente?

«Dei miti che ho incontrato: un giorno ero a New York in ascensore e salì Bowie! La prima cosa che pensai fu stupida: ero felice perché era più basso di me».

Altri?

«Con Lucio a inizio anni 70 scrivemmo la musica per un film di Monicelli con Sophia Loren, “La Mortadella”. Lei doveva cantare e mi dissero di entrare in studio. Vidi questa donna di una bellezza infinita e svenni. Mi chiese: “Senta, ma lei canta? Scusi, ma vivo a New York”. Il giorno dopo tornò col mio 45 giri per farselo firmare. Questo ti fa capire chi è una persona».

Il suo prossimo album cosa racconterà?

«È un disco fatto in pandemia, con molte difficoltà. Ma non sono mai stato uno che se non firma una canzone si ferma. Meglio una bella canzone scritta da altri che una tua mediocre. Anche di “Una città per cantare” io non ho scritto niente, eppure tanti mi identificano con quel brano».

Cosa si porta dietro di questi 50 anni?

«Credo di avere una bella storia. Ho avuto tanto dagli altri ma spero che anche loro, in qualche modo, abbiano avuto qualcosa da me».

·        Rosario Fiorello.

Aspettando Sanremo, Fiorello: amarcord della naja in Puglia. Il popolare showman non ha mai dimenticato i tre mesi di servizio militare a Bari. Carlo Stragapede su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Marzo 2021. Fiorello in vena di amarcord in salsa barese. Il popolare showman non ha mai dimenticato i tre mesi di servizio militare a Bari. «Era l’estate del 1982 e stavo lavorando in un villaggio turistico proprio in Puglia - ha raccontato rispondendo a una nostra precisa domanda durante la conferenza stampa di esordio del settantunesimo Festival di Sanremo -. Era l’estate magica dei Mondiali di calcio appena vinti in Spagna dalla nazionale del mitico “Pablito” Paolo Rossi. Una sera mia madre mi telefonò dicendomi che era arrivata la cartolina precetto. Di lì a qualche giorno dovevo presentarmi al 48esimo Reggimento Ferrara, a Bari». Quella unità dell’Esercito si trova al rione Carrassi, nella cittadella militare di via Alberotanza, conosciuta da generazioni con la denominazione di «Casermette». Rosario Fiorello rievoca quel giorno di 39 anni fa con la immancabile ironia e senza disdegnare qualche battuta in dialetto barese: «Mi presentai in caserma così come venivo dal villaggio, capelli lunghi e maglietta con la scritta Miami Beach. L’ufficiale che ci inquadrava mi notò subito in mezzo agli altri. Con tono perentorio ordinò al caporale “portalo dal barbiere!”. E così fu - prosegue l’amarcord -. Dovete sapere che il barbiere in servizio all’epoca era soprannominato Kocise, perché faceva lo scalpo alle reclute con una macchinetta a mano che oltre ai capelli sembrava strapparti anche la pelle. Conclusi i tre mesi a Bari - racconta l’intrattenitore siciliano con la tipica verve - fui... avvicinato a casa, a Sacile in provincia di Pordenone, dove mi congedai con il grado di caporalmaggiore».

·        Rowan Atkinson.

Mr Bean saluta e va in pensione: «Far ridere è diventato difficile». Il Corriere della Sera il il 5/1/2021. La commedia può essere «un peso», perché far ridere «è una responsabilità». Rowan Atkinson è stanco, soprattutto di Mr. Bean: a 66 anni — che compie proprio oggi — l’attore sceneggiatore spera di chiudere presto con quello che è il suo personaggio più famoso. Se continuerà a prestare la voce al cartone animato, che è in fase di realizzazione, Atkinson non ha intenzione di calarsi nuovamente nei panni di una creazione che, dal piccolo schermo britannico, è arrivata in tutto il mondo. Basato su esperienze personali — Atkinson combatte con la balbuzie da quando era bambino — Bean è essenzialmente un buono, un uomo ingenuo e infantile che suo malgrado finisce spesso nei guai. Sono bastati 15 episodi, andati in onda in Gran Bretagna tra il 1990 e il 1995, per dare vita a un fenomeno senza tempo che ha conquistato 245 paesi . Due film per il cinema — a dieci anni di distanza l’uno dall’altro — e decine di comparse, da pellicole come Quattro matrimoni e un funerale alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Londra, hanno confermato la freschezza e la longevità della carica comica di Mr. Bean, basata poco sulle parole e molto sulle espressioni e i movimenti del suo creatore e interprete. Un approccio fisico che ha un costo. Se Mr. Bean, inventato quando Atkinson stava finendo un master in ingegneria all’università di Oxford, segue la tradizione del cinema muto e di attori come Peter Sellers in La pantera rosa, «è molto più facile dargli la voce» piuttosto che il viso e il corpo. «Non mi piace tanto interpretarlo», ha sottolineato Atkinson al Radio Times. «Il peso della responsabilità non è piacevole. Lo trovo stressante e stancante, spero che finisca presto». Il ruolo che più lo ha divertito? Blackadder, la sitcom britannica che lo ha visto al fianco di Baldrick, l’attore Tony Robinson, per quattro stagioni e che regolarmente è votata tra i programmi televisivi più apprezzati di tutti i tempi. L’impressione di Atkinson è che realizzare contenuti freschi e innovativi stia diventando sempre più difficile. «Non c’è molto che mi faccia ridere in televisione in Gran Bretagna, al momento». Preferisce «formati tradizionali», guarda vecchi episodi di sceneggiati statunitensi come Friends o The Bing Bang Theory. «Il problema — ha spiegato — è che su Internet abbiamo un algoritmo che decide ciò che vogliamo guardare e che alla fine crea una visione semplicistica e bidimensionale della società». È importante, invece, essere esposti a opinioni contrastanti: i social lo riempiono «di paura per il futuro» per via del linciaggio riservato a chi ha idee diverse. «Sembra che si possa essere solo con o contro. Se sei contro allora meriti di essere “cancellato”, zittito. È come la folla nel Medioevo in giro per le strade alla ricerca di qualcuno da bruciare al rogo. Per chi è vittima di questi gruppi l’esperienza è terrificante». Atkinson, che è più volte sceso in campo a favore della libertà di parola, ha sottolineato di essere «contrario all’idea di non poter esprimere giudizi che potrebbero offendere qualcuno»: «Non vedo perché non dovrei avere il diritto di dire qualcosa solo perché qualcun altro è contrario. Mi sembra un concetto fondamentale per la nostra libertà».

FRANCESCO SPECCHIA per Libero Quotidiano il 6 gennaio 2021. Ce l'ha fatta, alla fine. Non è riuscito ad azzopparlo nel 2008, a cancellarlo nel 2012, a farlo fuori nel 2015; ma, ora, nel 2021, dopo trent' anni di disonorato servizio, Rowan Atkinson ha mandato in pensione la sua creatura Mr. Bean. Mr. Bean è crollato sotto il peso degli anni, s'è inesorabilmente schiantato contro quota 100. «È diventato stressante continuare a vestirne i panni sulla scena», ha confessato a Radio Times l'attore 65enne, che continuerà in ogni caso a dare voce al personaggio dell'omonimo cartone animato: «È più facile interpretare Mr Bean con la voce che visivamente. Non mi diverte più farlo, non è piacevole il peso della responsabilità che avverto. È stressante ed estenuante, non vedo l'ora di finirla».

TROPPO STRESS Ecco, lo stress accumula, e l'accumulo ti stronca. La scelta di Atkinson è umanamente comprensibile. L'uomo che in realtà, come Carlo Emilio Gadda, risulta ingegnere (l'idea del suo alter ego clownesco nasce infatti nel periodo della tesi di laurea, mentre Atkinson arrotondava nei fumosi cabaret londinesi) è del '55. Ha 65 anni suonati. Ultimamente s' era dedicato all'attivismo politico specie nel settore dei diritti civili, ramo labour; aveva abbandonato l'orsetto-feticcio Ted allegramente inquietante che l'accompagnava nelle sue sventure seriali; aveva ripreso a frequentare Shakespeare in teatro e le avventura del commissario Maigret al cinema. L'ingenere Atkinson era cresciuto, maturato, invecchiato; e, come aveva dichiarato già una decina di anni fa al Daily Telegraph «l'infantilismo di un cinquantenne diventa un po' triste». Però, poi, la regione del portafoglio -Mr. Bean possiede il tocco dorato di Creso- avevano prevalso sul rovello dell'artista. E Mr. Bean, per quanto oramai tristemente, aveva accompagnato l'adolescenza di diverse generazioni, compresa la mia. Anche se, in quanto a mimica io preferivo il coevo Benny Hill all'interno del Drive In e -al massimo- le vecchie slapstick comedies di Buster Keaton. Il successo mondiale di Mr.Bean, d'altronde è sempre il solit: la personificazione nell'uomo medio. Ispirato al Monsieur Hulot di Jacques Tati e alla mimica assoluta dei caratteristi della Hollywood Anni '20, Mr. Bean è sempre stato l'esilarante maschera della mediocrità fruibile in tutte le lingue. La definizione che ne dà Wikipedia è perfetta: «Mr. Bean è un signore che indossa un completo formale, sempre uguale in ogni puntata (giacca di tweed marrone scuro, camicia bianca, cravatta rossa e pantaloni marrone scuro), non si sa se abbia un nome di battesimo e quale esso sia, guida un'auto utilitaria (una Mini verde) e ha un orsacchiotto di peluche di nome Teddy come migliore amico; vive solo da sempre, ma talvolta frequenta, con esiti spesso disastrosi, una ragazza di nome Irma Gobb e due amici di nome Rupert e Hubert». Un mediocre di estremo talento.

ASTRONAVE ALIENA Lo spettatore accentua in Mr Bean quella che i semiologi chiamano la «sospensione dell'incredulità»; dà, cioè, per scontato che egli possa fare cose e trovarsi in situazioni impossibili finalizzate al solo scopo delle risata che arriva puntuale. Bean non lavora. Risulta impiegato in qualche ditta ma non lo vedi mai in ufficio; è sempre un cliente, un paziente, un passante in attesa di un evento catastrofico. Nella terza parte dell'episodio The Return of Mr. Bean - non si sa come e perché - lo si vede attendere l'arrivo della Regina Elisabetta come parte del personale di un albergo di lusso, nel film Mr: Bean l'ultima catastrofe è il custode fannullone della British National Gallery. Ogni sua azione - dettata da cattiveriae mediocrità- innesca un meccanismo esilarante. Nella sigla di apertura della serie Mr. Bean si schianta al suolo cadendo dall'alto all'interno di un cono di luce verticale, mentre un coro di voci bianche canta in latino Ecce homo qui est faba («Ecco l'uomo che è un fagiolo»), e s' insinua il dubbio che sia stato catapultato da un'astronave aliena sulla Terra. Dopo questo, aveva esaurito le cartucce. La pensione era per evitare che l'ultima risata scivolasse nel ridicolo.

·        Sabina Guzzanti.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it l'11 marzo 2021. Forse la vera notizia è che Sabina Guzzanti è diventata moderata. O meglio, come ci ha tenuto a precisare “meno impulsiva”. Eppure, nonostante rispetto al passato non sia presente con le sue battaglie in tv o sui giornali, il romanzo che ha scritto – e oggi troverete in libreria – ci interroga come ieri sulla direzione che sta prendendo la nostra società. Si intitola 2119. La disfatta dei Sapiens (HarperCollins) e si richiama alla letteratura distopica affrontando temi attualissimi, come il cambiamento climatico, la concentrazione della ricchezza e la dipendenza dalla tecnologia. La trama è complessa: dopo una lunga serie di catastrofi ambientali, pandemie e sconvolgimenti di ogni sorta i superstiti sono stati costretti a sottomettersi a un regime ingiusto ma stabile, liberamente ispirato al feudalesimo. Vi ricorda qualcosa? E ancora, la società è formata da un centinaio di milioni di arcimiliardari e tre miliardi di migranti ambientali senza diritto di voto, raggruppati in campi di accoglienza su lembi di terra risparmiati dall’innalzamento delle acque. Gli unici che si oppongono sono i giornalisti di Holly, il solo organo di informazione scritto da esseri umani invece che da robot. Ma chi può cambiare il corso della storia non è un supereroe o una figura di particolare spessore (apparentemente), ma una bistrattata redattrice di una rubrica sui gattini. Vi sembra fantascienza? Non proprio, perché nonostante abbiamo cercato con Sabina Guzzanti di allontanarci dal suo romanzo commentando l’attualità, alla fine ci siamo ritrovati sempre più immersi in queste suggestioni. Dai social “studiati per intrappolarci” con algorismi basati” su un modello di business” all’informazione che ormai “ha più a che fare con l’ordine pubblico”, dalla cultura “che non sappiamo perché sia importante” alla politica in confusione; con il M5s “un esperimento destinato a naufragare” e il Pd che “è come due ossi che sfregano senza cartilagine”; fino a una poco rassicurante constatazione: “Mario Draghi è un passo indietro della democrazia, ma non c’era già più da un pezzo perché non ha chi la difende, ormai non sta nel cuore di nessuno”.

Sabina, dopo tv, teatro, film, documentari e diversi libri questo è il primo nella forma romanzo. Come mai?

«È una storia molto articolata che poteva stare solo in un romanzo. E poi ne avevo voglia, ci pensavo da tempo, anche se non ero sicura che ne sarei stata capace. Alla fine, mi sono incaponita ed eccolo qui. È nato anche sulla sensazione ormai di avere una identità digitale completamente indipendente da me che mi fa sentire a disagio. E forse questo è un modo per riprenderne il controllo, riportarla a una dimensione più umana. Il tutto si svolge in un mondo colpito da catastrofi ambientali, pandemie e sconvolgimenti di varia natura. Avendolo scritto nel 2019, sembra profetico. Speriamo non per tutti i presagi di sventura che contiene. Effettivamente, la pandemia è stata la cosa più inaspettata. Per il resto, il riscaldamento globale, le catastrofi ambientali e le ondate migratorie un po’ le conosciamo. Non ci vuole la palla di vetro per capire che continuando così gli effetti saranno questi».

Altro aspetto inquietante, ma quanto mai futuribile, riguarda un mondo controllato da un centinaio di milioni di arcimiliardari onnipotenti rispetto a tre miliardi di migranti ambientali senza diritto di voto. Solo che a contrastare tutto ciò non è un supereroe, ma una bistrattata redattrice di una rubrica sui gattini. Perché questo personaggio apparentemente così marginale nella società?

«La mia sensazione è che per venire fuori da questa situazione pericolosa in cui ci siamo cacciati, sia necessario tornare a dare importanza a ciò che consideriamo minore o irrilevante. È una società, la nostra, che ormai si è adattata a criteri dettati dagli algoritmi, che sono quelli di un preciso modello di business. È questo l’aspetto nocivo, perché tutto ciò porta al profitto di pochi. Quindi tutto quello che è minoritario, debole e invisibile bisogna imparare a ridargli importanza, mi sembra l’unica via d’uscita da questa forma di estrema arroganza che l’Homo Sapiens porta nella sua definizione».

Dopo tante battaglie che hai portato avanti in passato, sia all’interno della sinistra che contro Silvio Berlusconi, questo è oggi per te il tema dei temi?

«Sì, sicuramene è il tema dei temi. Non so se è una battaglia, vorrei superarne il concetto per quanto mi riguarda. Sono argomenti di cui discutiamo poco o in modo fuorviante. Pensiamo a Cambridge Analytica, il cui caso si è concluso con il click “accetta” sui siti in cui navighiamo, che è una protezione minima e anche un po’ ipocrita. Ma la domanda rimane: perché qualcuno si può impossessare dei nostri dati contro il nostro interesse e la nostra salute fisica e mentale?»

Ho letto che sui social sei molto critica. In sintesi, non li consideri un mezzo di comunicazione ma di controllo, giusto?

«Sono nati per intrappolarci, per tenerci attaccati a loro il più a lungo possibile con gratificazioni fittizie e soprattutto un malumore costante che sono in grado di creare. Ormai c’è una vasta letteratura, consiglio Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social di Jaron Lanier. In pratica i “pentiti” della Silicon Valley ci spiegano in che modo sono stati programmati i social. Tenerti di malumore è funzionale a farti rimanere intrappolato in quel labirinto. Per questo non sono adatti a fare informazione e non sono un luogo di dibattito. È una illusione sterile quella che abbiano un compito sociale, mentre invece è antisociale perché quel “like” è utile solo alla piattaforma, non agli altri».

Tu hai denunciato spesso le mancanze dell’informazione in Italia. Rispetto al passato, abbiamo fatto qualche progresso o invece siamo regrediti?

«L’informazione, insieme alla cultura, sono parte integrante della democrazia. Per scegliere sono necessari alcuni strumenti di cui però siamo costantemente privati. I social in particolare ci privano dell’attenzione, che sarebbe essenziale. Questa viene continuamente colonizzata e infatti non siamo più capace di concentrarci. E così, anche il giornalismo è costretto a mettere in rilievo la frase più acchiappa click che però stravolge il senso di quel che è stato detto e lo semplifica fino a farlo diventare fuorviante, con la gran parte di persone che si limiterà a leggere solo quello».

Insomma, mi pare che il quadro descritto non sia migliore rispetto al passato.

«No, perché tutto ciò condiziona forse ancor di più delle solite lottizzazioni politiche e degli editori impuri di cui discutevamo un tempo. Oggi siamo prigionieri di qualcosa di ancor più invisibile e dal quale è difficile difendersi. Tutto è impostato su criteri di quantità. Quando sento dire: “Sono i numeri che parlano” è impressionante perché nella vita reale si traduce con il far parlare la demagogia. Per questo il giornalismo e la politica sono in balia della demagogia».

In tutto questo, come vivi i cinema, i teatri e i musei chiusi?

«Sono in uno stato di stupore e attesa, per capire fin dove può arrivare questa situazione. Il settore della cultura a mio parere era già molto decaduto, ma spero che ora si possano fare nuovi ragionamenti sulla funzione della cultura in una democrazia. Da una parte sono nate realtà che uniscono gli artisti e gli permettono di avere una rappresentanza per difendere i propri diritti. Ma dall’altra è necessario chiedersi qual è la funzione della cultura. “Non si può vivere senza teatro, senza cinema, senza musei” si dice spesso, ma perché? Lo sentiamo, però facciamo fatica a trovare gli argomenti, come se non ci credessimo fino in fondo o come se la domanda cominciassimo a porcela soltanto adesso».

Fa riflettere che prima della pandemia, teatri, cinema e musei fossero per lo più in crisi di partecipazione e poi sono diventati luoghi pericolosamente affollati, non credi?

«Sono tutte le contraddizioni che sono emerse. Perché sull’autobus sì e a teatro no? Ma è perché si segue un criterio di business. In fabbrica si è sempre andati anche in zone duramente colpite dal Covid, mentre a scuola o a tetro no. È soltanto la logica del profitto. Chi ci governa evidentemente è convinto che la cultura sia un orpello, solo che se noi siamo convinti che sia fondamentale dobbiamo chiarirci meglio sul perché».

Da attenta osservatrice del circo mediatico, per caso i virologi hanno colpito la tua fantasia?

«Ci ho pensato. La figura dell’esperto in generale è sempre piuttosto umoristica, ancor di più in questo contesto. I virologi hanno dovuto fare i conti con dei “doveri” mediatici. Hanno partecipato per ore e ore a trasmissioni e prima o poi una sciocchezza dovevano dirla per forza. Dal punto di vista scientifico quel che si può dire è sempre poco, però è interessante come è cambiata l’informazione in questa pandemia».

Come?

«Mi ha colpito quanto diventi evidente una funzione che ha più a che fare con l’ordine pubblico che con l’informazione. La tv in pratica ha sopperito alle mancanze organizzative attraverso un convincimento per quantità. Infatti, non riesco più a sentire le informazioni sul Covid, dopo che per un anno ogni giorno siamo stati bombardati sulle solite e scarne misure da rispettare, come lavarsi le mani e non assembrarci. È curioso come questa forma di stordimento possa ottenere dei risultati».

In passato hai espresso apprezzamenti per il Movimento 5 Stelle. Dopo vari governi e l’approdo addirittura a Mario Draghi ti senti fra i delusi?

«Ho avuto un intenso rapporto con gli attivisti in passato quando si erano messi a distribuire autonomamente il mio film. Ne ho conosciuti tanti, ci ho discusso a lungo, ho cercato di capire cosa avessero in mente ma senza riuscirci. Non ho mai avuto la sensazione che fosse un esperimento che potesse funzionare. Infatti, non li ho mai votati. Raccoglievano alcune istanze che condividevo, ma nel loro insieme mi sono sempre apparsi contraddittori. Dall’atteggiamento verso i migranti alla mancanza di democrazia interna. Mi sembrava già allora un esperimento destinato a naufragare. Ricordo che spesso le discussioni si concludevano da parte loro con l’affermazione: “Mi fido di Beppe” e non credo sia un fondamento democratico».

Non dirmi che non ti ha stupito il segretario del Pd Zingaretti, il quale prima ha difeso Barbara D’Urso per la cancellazione anticipata del suo programma e poi, quando si è dimesso, ha rilasciato proprio a lei la prima intervista?

«È un sintomo di grandissima confusione, nel quale si mischiano tanti aspetti che sono più emotivi che strategici. Andare da Barbara D’Urso credo sia stata più una provocazione che la volontà di raggiungere le fasce popolari. Anche perché credo abbia ascolti bassi, da quel che ho sentito. Mi pare che nel Pd siano arrivati a un osso strofina un altro osso senza ormai più cartilagini».

Com’è che la sinistra, alla fine, finisce sempre col dividersi?

«Penso ci sia una mancanza di chiarezza totale su cosa significhi essere “di sinistra”. Nel Pd ci si spacca ancora su questo, perché alcuni tentano di costruire una sinistra e altri vogliono un partito di centro. Un dilemma che si trascinano da tempo, in un meccanismo di poteri che si distruggono a vicenda. Da spettatrice è abbastanza lampante la direzione che andrebbe presa, e cioè verso una riconversione ambientalista in grado di conciliare i principi di giustizia sociale in modo contemporaneo. Però la nostra è una democrazia un po’ fradicia. I partiti sono messi male e l’avvento di Draghi è un passo indietro della democrazia. È come se avessimo detto: “Non siamo capaci, proviamo un’altra strada” ma senza sapere se riusciremo a tornare indietro o andare avanti».

Non c’è democrazia in Italia?

«La democrazia non c’è da un pezzo. Come la terra che viene sommersa a causa del riscaldamento globale, la democrazia perde terreno e non sembra avere futuro. Perché non ha chi la difende, non sta nel cuore di nessuno e sembra che le priorità siano sempre altre».

Non sarà diventata “moderata” anche Sabina Guzzanti?

«Forse meno impulsiva, d’altronde si cerca sempre di migliorare nella vita.

Non c’è qualcosa di cui ti penti delle esternazioni pubbliche che in passato crearono moltissime polemiche?

«Mi capita spesso che mi chiedano un pentimento. Tutti quanti sbagliamo, però non credo di essere tra le persone che si devono pentire. Ho girato film, spettacoli e preso posizioni con l’intendo di fare bene e spinta dalla generosità. Perché dovrei pentirmi di aver cercato di capire la trattativa stato-mafia, cosa è accaduto durante il terremoto dell’Aquila e di aver dato un contributo dialettico al dibattito? Non ho mai imbracciato il fucile. E i miei argomenti sono stati difficilmente contraddetti. Se mi pentissi dovrei ammettere che sarebbe stato meglio farmi i fatti miei e non voglio pensarlo».

È un periodo più adatto a ragionare che non a battagliare?

«Io ho sempre combattuto facendo il mio lavoro e anche questo libro è un altro modo di esprimermi. Mi si contesta di aver esagerato, ma quando si entra nel merito nessuno mi ha dimostrato dove stava l’errore. Se ci vogliamo pentire tutti mi metto in fila, ma non credo dovrei essere fra le prime».

·        Sabrina Ferilli.

Da ilnapolista.it il 23 dicembre 2021. Sul Messaggero un’intervista a. Esprime la sua riconoscenza a Paolo Sorrentino, che la scelse per interpretare “La Grande Bellezza”. «Sorrentino venne da me e mi ha stanato: ero sempre stata una donna di guerra o commedia. Lui mi dice: vedo in te la malinconia. Quell’inconsolabilità lui l’aveva scoperta. E mi dice che io sono Roma laica in un film che è proprio Roma, la mia Roma: sacro e profano, decadenza e rinascita, sentimento e cinismo. Nessuna città è così. Noi nasciamo sui resti, su ossa e tombe che escono. Li avverti sotto i piedi che ci sono. E Roma è così in bilico tra morte e vita». La Ferilli è tifosissima della Roma. Nel 2001, quando i giallorossi vinsero lo scudetto, si spogliò al Circo Massimo. «Lo scudetto e quella gioia enorme, merito del presidente Sensi: l’ultimo grande presidente della Roma. Per quello spogliarello ricevetti diffide e lettere di minacce di morte. Con i social e il politically correct oggi non sarei arrivata sul palco del Circo Massimo con la bandiera».

Su Mourinho: «Come mai ha accettato? La squadra non è piena di campioni. Lui lo adoro, uomo di intelletto che sa sempre quando urlare e quando tacere. Come fa a non piacerti uno così?». 

Alvaro Moretti per "MoltoDonna - il Messaggero" il 24 dicembre 2021. Tutto intorno il centro di Roma parla di Natale. Tutto è intermittente a Natale, come i led, e così ci sta benissimo, per cominciare a parlare con Sabrina Ferilli, una delle attrici di riferimento del nostro showbiz, partire dalle sue luci intermittenti. Un post su Instagram e un video: sembra un'immagine patinata, il Natale perfetto, quasi flou. Poi, alla fine, il colpo di stiletto dell'ironia. Il controcanto che a Sabrina tanto piace fare: una palla bella, l'ultima con su scritto stica... Poi, nell'intervista, quasi bruscamente per descrivere il sottofondo di malinconia e amarezza che punteggia la bellezza, la riempie di significati, ecco che Sabrina dice di sé di sentirsi a tratti inconsolabile. 

Come Ramona, il simbolo di Roma ferita e stupenda della Grande Bellezza da Oscar di Sorrentino. Eppoi la madre coraggio che lotta contro i fumi di Taranto. Ma le luci di Natale si riaccendono. E partiamo da qui.

Torniamo a Instagram, Sabrina?

«Quel finale nel video è il mio stile, non potevano restare solo i gufetti e i Babbi Natale. La libertà di fermarci, quando un lungo pranzo con i parenti porterà l'inevitabile mal di testa: allora stop, pennichella. E leggerezza. Quanta potete». 

La scoperta dei social cos' è per Ferilli?

«Ai social sono arrivata sei mesi fa. Pubblico post sulla mia vita artistica molto spesso, è un esperimento per arrivare anche ai giovani e giovanissimi, spiegando chi sono e cosa ho fatto. Però devo dire che le poche cose mirate da social mi divertono: l'albero è il mio manifesto. Tutto bello, va fatto come si deve, ma c'è sempre quel momento sti...». 

Cosa rappresenta per lei l'ironia?

«Emancipazione. Gli argomenti con cui fai ridere oggi per una donna sono stati per una vita tabù: ironizzare su come sei fatta, su quel che ti succede; da sempre si ride sul difetto. È emancipazione sana. È analisi, preparazione, studio delle cose. E la preparazione è educazione, arriva dalla famiglia. Poi ci sono l'intelligenza e la lucidità: quante cose nascoste in una risata...». 

Preparazione a cosa?

«Alle svolte della vita: c'è l'età giovanile, quella in cui quando il telefono squilla è sempre qualcosa in più, una conquista. Perfino le delusioni: un posto di lavoro conquistato, un esame superato, un matrimonio, un figlio che nasce. Poi dai 45-50 le telefonate cambiano: ci sono i matrimoni che finiscono, il lavoro che si perde, ci sono le cose che volgono al desìo. E se non sei lucido, se non sai tirare fuori quella pallina di Natale irriverente resti inconsolabile. La mia famiglia mi ha preparato a tutto questo. E io ci ho messo del mio anche per non farmi travolgere da questa ondata». 

Quale ondata, Sabrina?

«Il negazionismo, nato prima del Covid: mettiamo tutto e sempre in discussione. Come le battaglie eccessive del politically correct: le parole sono importanti, ma i comportamenti di più. Chi usa violenza fisica è da condannare più duramente di chi sbaglia, anche per cultura, una parola non corretta. Io voglio stare attenta ai temi reali della vita, quella vera. Lo dico anche ai giovani attori: studiate, preparatevi tanto ma non solo sui libri. State in mezzo alla gente. Lo dovrebbero fare di più anche le persone che informano e soprattutto i politici, così attratti dalla futilità della polemica da distrarsi dalle esigenze reali». 

Un esempio?

«La vicenda esecrabile della pacca alla giornalista: quello va condannato, ma attenzione a capire se siamo sulla strada giusta se lo accusiamo di violenza sessuale. Le cose per le donne sono cambiate tanto e relativamente in poco tempo: ho rivisto di recente il processo alla ragazza stuprata difesa da Tina Lagostena Bassi, quella corte ostile non giudicava tanto tempo fa. In 40 anni io vedo il bicchiere mezzo pieno. Ma temo faccia più fico non dirlo. Io, però, a chi urla alla luna non credo». 

Ecco, quello di Empoli è di certo un esempio di cattiva educazione degli uomini.

«Giusto, il tema è urgente. Ma anche la comprensione dei fenomeni tragici di storie recenti: 8 volte su 10 sono ex compagni, mariti, fidanzati e spesso dopo aver fatto stragi familiari si suicidano. È un fallimento per la società ed è una catastrofe per la famiglia. Sicuro che non si possa fare nulla per quegli uomini prima che capitino questi drammi?». 

Negli ultimi anni un successo enorme in tv, ma non per fiction. Grazie alla complicità con Maria De Filippi. E a un'intuizione di Lucio Dalla.

«Io e Lucio, la Bella e la Bestia: genialità al servizio di uno degli ultimi grandi show figli della creatività degli autori Rai... Maria... Mica lo sa la gente quanto è imprevedibile, pronta ad assumersi qualsiasi rischio. Danza sul filo, scommette, fa scherzi. Ha un'immagine algida, ma è un vulcano di vitalità». 

Come Mara Venier, un'altra amica con cui si trova a suo agio in tv.

«È simpatica, Mara, ama meno l'azzardo, è una donna generosa e spontanea».

In tv a Tù sì que vales è un giudice.

«Giudice popolare, giudicare è faticoso, bello, però, vedere quanto talento ci sia in giro: i giovani che vedo in questi reality mi fanno ben sperare per un Paese che a volte mi mette paura». 

Ricordando gli anni in cui da Fiano prendeva l'autobus per andare al Liceo Orazio a Roma, quartiere Talenti, un suggerimento alle ragazze.

«I miei non mi hanno educato con Cenerentola. La famiglia deve preparare alle difficoltà del mondo dove appunto trovi di tutto. Per questo ritengo che l'educazione sia tutto, uno dei tanti fallimenti della politica è non riuscire a controllare questi ragazzi sull'obbligo scolastico. Cosa ne sarà di questi ragazzi? E il Sud? Non frequentando nemmeno la scuola, a cosa saranno destinati? Cosa ne sarà di questo Paese tra 30-40 anni tra ignoranza e disoccupazione, dove non si nasce più e dove parlare di flussi di ingresso è ancora un argomento tabù, propagandistico? Vedo un'Italia senza sorriso». 

Il sorriso l'ha strappato anche con un film per il quale è stata molto premiata ed elogiata: Io e Lei, in cui lei è la sua compagna Margherita Buy. Un amore omosessuale raccontato con grande naturalezza.

«La parola è normalità: con la normalità passano messaggi rivoluzionari. Successe con Raffaella Carrà. E io, normalmente, da qualche anno sto scegliendo ruoli con cui portare alla luce problemi concreti, più che la frivolezza. Capitò quando ho scelto di interpretare la madre di un bambino ammalatosi per le fabbriche di polveri sottili, capitò quando ho interpretato L'amore strappato sugli affidi illeciti e in Io e Lei». 

Prossimamente il film di Pieraccioni, Il Sesso degli Angeli. Con Leonardo che fa il prete. E il Papa che quasi assolve i peccati della carne.

«Non mi ha sorpreso la frase del Papa. Ma penso che la Chiesa non deve rinunciare alle sue regole, se vuole sopravvivere. Così come lo Stato, che è laico, ma che troppo spesso se ne dimentica. La confusione è un corto circuito». 

Un viaggio tra i ruoli di una vita di cinema e sulle persone determinanti.

«Virzì e Sorrentino, certo, ma anche i 16 anni al Sistina. E Garinei: mi ha aperto un mondo. Con Baudo per Sanremo si è speso lui. Ci sono dei ruoli che segnano una svolta, quelli per me fondamentali: Rosetta in Rugantino, Mirella ne La Bella vita di Virzì e ovviamente Ramona ne La Grande Bellezza. Anche se un capitolo a parte lo merita Commesse in tv». 

Cosa mi dice di Ramona de La Grande Bellezza?

«Sorrentino venne da me e mi ha stanato: ero sempre stata una donna di guerra o commedia. Lui mi dice: vedo in te la malinconia. Quell'inconsolabilità lui l'aveva scoperta. E mi dice che io sono Roma laica in un film che è proprio Roma, la mia Roma: sacro e profano, decadenza e rinascita, sentimento e cinismo. Nessuna città è così. Noi nasciamo sui resti, su ossa e tombe che escono. Li avverti sotto i piedi che ci sono. E Roma è così in bilico tra morte e vita». 

All'Oscar però non c'era...

«Mi è stato detto che potevano entrare solo due persone. Comunque sia, il dispiacere è andato in prescrizione».

Le donne sono pagate meno degli uomini...

«Non credo, non lo so. Alle donne dico che spesso le conquiste sociali sono conquiste di carattere. Puoi dire no, se una cosa non è giusta, alzare i tacchi e andartene. Non è una perdita, ma una conquista». 

Commesse, perché è così importante quel capitolo della vita di Ferilli?

«Mi dicevano tutti: no, la tv no. Le attrici avevano la puzza sotto il naso. Oggi la tv si regge sulle donne, personaggi veri che fanno la fiction e gli ascolti al massimo. Ricordo che Commesse faceva 12-14 milioni di telespettatori a serata». 

A breve eleggeremo il nuovo presidente della Repubblica.

«Donne pronte ce ne sono da anni».

Torniamo a Roma, anzi alla Roma: del 2001 ricorda di più lo scudetto o lo spogliarello al Circo Massimo?

«Lo scudetto e quella gioia enorme, merito del presidente Sensi: l'ultimo grande presidente della Roma. Per quello spogliarello ricevetti diffide e lettere di minacce di morte. Con i social e il politically correct oggi non sarei arrivata sul palco del Circo Massimo con la bandiera».

L'oggi è Mourinho.

«Ma come mai? Dico, come mai ha accettato: la squadra non è piena di campioni. Lui lo adoro, uomo di intelletto che sa sempre quando urlare e quando tacere. Come fa a non piacerti uno così?». 

Di recente ci ha lasciato una grande donna e romana: Lina Wertmüller.

«Un soldato, la testa cristallina. Era l'Emancipazione: mica sentiva di fare qualcosa di straordinario. Non si nascondeva dietro il linguaggio radical chic e del politicamente corretto. Oggi sono diventati soffocanti per il libero pensiero e per un'analisi e salvifica delle cose». 

In un libro fotografico raccontava la sua città.

«Gli anni più belli della mia vita, oltre all'infanzia a Fiano, sono quelli del miniappartamento a vicolo della Palomba: il Pantheon, Piazza Navona, Sant' Apollinare. Trenta metri dove tenevo comunque due poltroncine nell'ingresso per farlo sembrare un salottino. In chiesa ci vado: chiedo solo la salute, la cosa che meno dipende da noi. Il resto lo determiniamo noi con le nostre scelte e con la capacità di tirare fuori al momento giusto quella pallina di Natale con scritto...». Buon Natale, Sabrina.

·        Sabrina Salerno.

Dagospia il 14 dicembre 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Sabrina Salerno è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, live anche su Rai 2 sempre dal lunedì al venerdì tra l'una e le due e quaranta circa. Sabrina Salerno ha parlato un po' di se: "Se sono consapevole della mia bellezza? No, perché ho un rapporto normale con la mia fisicità. Ci sono dei giorni in cui mi piaccio, dei giorni in cui non mi posso guardare neanche allo specchio. La mia fisicità non la vedono come la vedono gli altri, questo è sicuro".

Sugli inizi: "Non volevo fare questo mestiere, è stato tutto molto casuale. Da un concorso di bellezza mi hanno notata, mi hanno fatto fare un provino per la Fininvest in cui fui scelta tra più di mille ragazze. Sono rimasta un po' sconvolta da questa cosa. Mi hanno chiamata a fare un programma in prima serata dove dovevo cantare, ballare e presentare e non sapevo fare nessuna di queste tre cose. Mi sono messa a studiare e poi questo è diventato il mio lavoro. Cosa sognavo di fare da bambina? La psicologa o l'interprete parlamentare. Ho fatto il linguistico, ho fatto inglese, francese e russo. E poi ho imparato lo spagnolo". 

Sugli uomini: "Follie per me un uomo non le ha mai fatte. Forse perché non gliene ho dato l'opportunità. E' così. Gli uomini prendono molta paura da una come me. Probabilmente in parte incuto timore, soggezione. Non solo per l'aspetto fisico, soprattutto per il carattere. Follie per me gli uomini non ne hanno mai fatte. Eccezione per mio marito, con cui sto da trent'anni. Sono stata io a dirgli che tra me e lui c'era qualcosa. Ma lui mi ha detto che mi sbagliavo, questa è stata la sua risposta iniziale". 

Sulla sua carriera: "Quando è arrivato il vero successo? Avevo già fatto televisione in italiana, era uscito boys, facevo il Festival Bar. Sono andata in Spagna, ero al primo posto in classifica. Ero all'aeroporto e c'erano decine di fotografi. Al mio manager dissi che doveva esserci qualche celebrità, visto che c'erano decine di fotografi. Poi ho capito che erano lì per me. Mi si è aperto un mondo. Lì mi sono resa conto di essere diventata veramente famosa. Se ho mai rischiato di montarmi la testa? No, sono sempre rimasta con i piedi per terra. Anche se il successo l'ho ottenuto da giovanissima, quindi è facile sentirsi onnipotente e pensare di potersi permettere tutto. Io questi momenti non li ho mai vissuto, avevo altri problemi. Ho sempre compreso che il successo comunque va preso con le pinze. Se c'è stato invece un momento complicato? Tantissime volte ma non ho mai perso il mio centro di gravità permanente. Ho sempre rifiutato le cose facili, i soldi facili, nonostante abbia perso una parte del mio denaro per colpa di un produttore. Ma sono riuscita a ricostruire tutto quello che avevo perso. Ho avuto fortuna ma anche tenacia e forza. Ce l'ho fatta da sola. Questo è un mestiere fatto molto di pubbliche relazioni, ma io in questo non sono capace".

Sul momento delle donne: "La parità di genere? C'è ancora tantissimo da fare. Le donne fanno ancora una grandissima fatica ad avere lo stesso trattamento degli uomini. La parità sul lavoro ancora non c'è e in tutti gli ambiti lavorativi. Purtroppo c'è ancora moltissimo da fare. Cosa penso del catcalling? Fa parte del maschilismo. Ci sono degli uomini che sono convinti che se una donna si mette un paio di pantaloni aderenti o una minigonna faccia piacere sentirsi rivolgere per strada delle volgarità. Io mi vesto per far piacere a me stessa, in primis. Quindi quando sono per strada e mi sento fischiare o rivolgere delle frasi particolarmente colorite, mi girano parecchio le scatole. Mi infastidisco. Ma come ti permetti? Il limite è come lo dici e cosa dici. Questa è una società ancora molto maschilista. Soprattutto nei Paesi latini".

Se nella sua carriera qualche uomo ha mai provato a farle delle proposte indecenti: "Col carattere che ho io è impossibile. Metto subito in chiaro le cose. In questo sono molto forte. Ci sono delle persone che attuano questo comportamento comunque, ma con me si trovano una che gli ride in faccia. Mi è capitato di dover ridicolizzare qualcuno, di dovergli dire 'guarda hai sbagliato persona'. Io sono l'ultima di questo mondo a cui fare questo tipo di proposte. Tutti dicono che noi abbiamo un prezzo, probabilmente è vero, ma io nel mio ambito lavorativo non ce l'ho". 

Sulla pandemia: "Ci ha cambiato, abbiamo cercato la condivisione della sofferenza, della depressione, i social da una parte ci hanno avvicinato, dall'altra allontanato. Non ne siamo usciti migliori, anzi siamo molto più fragili. Insicuri. Abbiamo capito di non contare molto. E' tutto molto più grande di noi".  

Su Ballando con le Stelle, di cui fa parte in questa edizione: "E' una esperienza che mai avrei pensato potesse essere così. Il ballo ti apre un mondo, ti dà un'altra energia, ti attiva il metabolismo, mangio tantissimo e sono dimagrita un sacco. E' un programma pazzesco, fisicamente e mentalmente, ti porta ad aprire la tua anima e il tuo cuore agli altri. Sono stata fortunata perché ho un ballerino coreografo con cui mi trovo benissimo, è una esperienza pazzesca".

Da liberoquotidiano.it il 26 agosto 2021. Una sconcertante rivelazione da Sabrina Salerno, la donna che da oltre 30 anni continua a far innamorare italiani di più generazioni e turbare i sogni estivi (e non solo) di molti mariti. La cantante di Boys e Hot girl, interprete dell'orgoglio rosa anche sul palco del Festival di Sanremo insieme alla compare Jo Squillo con la maliziosa Siamo donne ("Oltre alle gambe c'è di più", cantavano nel ritornello e molti a darsi di gomito, "come dare loro torto") è passata alla piccola storia del costume italiano anni 80 e 90 non solo per gli inni italo-disco, ma anche per le sue forme esagerate. A 53 anni è ancora in formissima, ammalia in bikini o con magliette bagnate sul suo seguitissimo (e ultra commentato) profilo Instagram e non perde il vizio della autoironia. Intervistata da Rudy Zerbi a Radio Deejay, spiega con un misto di orgoglio e amarezza: "Da quando ho 20 anni tutti dicono che sono rifatta da capo a piedi, ma se c’è una cosa che ho naturale al mille per mille è il seno. A 22 anni sono anche andata da un famoso medico a farmi fare una perizia dove dichiarasse che non avessi protesi al seno". Grazie a quel prodigioso Lato A, è riuscita addirittura a guadagnarsi il platonico titolo di Miss Maglietta Bagnata 2021: una foto da 136mila like, generando oltre 6mila commenti. "Io sono felice di essere arrivata a questa bella età (53 anni, ndr) così in forma, fisicata – ha spiegato con un sorriso -. Sono anche un po’ una motivazione per le donne che mi scrivono. Quindi voglio dire: se queste foto non le faccio adesso quando le faccio?! Ne sono fiera e per me è un vanto. Viva le donne, le donne forti, quelle che nonostante l’età passi si danno da fare".

Maria Luisa Agnese per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2021. Con un lato A in miracoloso equilibrio gravitazionale Sabrina Salerno, showgirl di alterne future mediatiche ma di costante prorompente presenza, sbaraglia a 53 anni i social. Con una foto frontale in maglietta bianca bagnata si becca 136 mila like e oltre 6 mila commenti di Alto gradimento. Solo qualcuno insinua: ma sei tutta rifatta! E lei rimette le cose a posto con Rudy Zerbi a Radio Deejay: «Ma se c'è una cosa che ho naturale al mille per mille è proprio il seno. A 22 anni sono anche andata da un medico a fare una perizia». Ci fidiamo e non reclamiamo prove postume, anche perché a guardare il suo account Sabrina sembra vivere in bikini tutto l'anno, lo era anche il primo gennaio e qualche giorno prima, già in maglietta bagnata, sosteneva ironicamente di aspettare la prima nevicata. Sua fonte di ispirazione sembra essere Liz Hurley altra miracolata nel fisico a 56 anni: ricordate? è l'amica storica di Hugh Grant, comparve con lui in conturbante iconico abito Versace, quello tutto spille a balia. Ma questa è stata anche l'estate delle 60 e qualcosa, Barbara D'Urso si è consolata dei declinanti ascolti invernali con un topless di tutto rispetto e Rita Rusic non ha sfigurato nel suo due pezzi di Ferragosto vicino all'amore bambino. Tutte battute dall'indomita Paola Ferrari, che con un accavallamento alla Basic Instinct ha messo tutte a tacere, a 61 anni.

Eva Carducci per ilmessaggero.it il 2 febbraio 2021. Il tempo per Sabrina Salerno sembra non passare mai: «Cerco di fare tutto ciò che è possibile, tra alimentazione sana e sport. È importantissimo, alla base di tutto» racconta la cantante e showgirl icona degli anni '80 nello studio di Verissimo. «Sono cresciuta non avendo i miei genitori al mio fianco. Col tempo ti abitui e comprendi anche i lati più forti del tuo carattere. Sono battagliera, affronto le sfide, ma ho un carattere difficile. Sono un po' prevenuta, in particolare nei confronti degli uomini, avendo avuto una situazione particolarmente difficile con mio padre. Mia mamma mi ha avuto che avevo diciotto anni, con lei sono sempre rimasta in contatto. Era il '68 quando sono nata, ho vissuto con mia zia e i nonni. Sono stati fatti degli errori ma lei era comunque presente, il rapporto con mio padre non c'è mai stato, fino a quando in età più matura non ho deciso di mettermi in contatto con lui. Non ero desiderata da lui, io ho vissuto il rifiuto per anni, fino all'anno scorso in cui è venuto a mancare. Prima di ciò mi ha chiesto scusa. Il perdono è una benedizione divina quando arriva, lo cerco ancora adesso, perché mi aiuta a vivere meglio, però è un processo difficilissimo. Se ti dicessi che sono serena e l'ho perdonato sarei ipocrita, lo penso, ma nel profondo non potrei perdonare nulla di tutto ciò. Mi ha riconosciuta ma non ho mai avuto amore da lui. Io sono madre, non so come abbia potuto dirmi certe cose, ma perché non mi ha mai visto come sua figlia, nonostante tutto». Un rapporto complicato quello con gli uomini: «Con gli uomini ho sempre avuto rapporti conflittuali e difficili. Ho avuto un manager senza scrupoli, un manipolatore, violento verbalmente. Cercava il mio punto fragile cercando di colpirmi e rendendomi sempre più fragile. Non so come ho fatto a resistere, perché ero veramente da sola contro quell'uomo. Era davvero una brutta persona, so che non si dovrebbe parlare male delle persone che sono mancate, ma se dovessi chiedermi se ho perdonato quest'uomo la mia risposta sarebbe un netto no. Non potrò mai perdonarlo, perché non ci sono giustificazioni. Io dovevo vivere di quello che mi diceva di fare, ma su di me aveva l'effetto contrario. Non ci sono state avance, anche se avrebbe voluto, ma non sono mai stata così debole fortunatamente. Con le altre ragazze ha abusato spesso e volentieri. Al suo funerale suo figlio non c'è andato per farvi capire di cosa stiamo parlando. Magari se non lo avessi conosciuto oggi non sarei Sabrina Salerno ma un medico, e forse sarei stata più felice, non saprei». Arriva una sorpresa poi da parte dell'unico uomo capace di cambiare Sabrina Salerno, una lettera del figlio Luca: «Mio figlio è stato il cambiamento della mia vita, è il mio tutto, in assoluto. La mia famiglia, i miei amici, sono tutto per me. Noi litighiamo perché abbiamo un carattere simile e ci scontriamo. Ha un carattere fortissimo, con lui ogni tanto faccio fatica a tenergli testa, l'unico che mi manda al manicomio. L'unico uomo che riesce a entrare nella mia anima. Un ragazzo perspicace, che non smette di sorprendermi, anche con questa lettera. Non amo piangere in pubblico, è come se tirassi fuori la mia parte fragile, ma con lui tutto è possibile, queste parole che mi ha scritto mi hanno toccato profondamente. È stato un ragazzo desiderato, figlio dell'amore. Chi nasce così ha un equilibrio e stabilità fortissima, e vengono a regalare luce, anche a chi come me non è stato un figlio desiderato». Sabrina Salerno ha poi recentemente subito un furto d'identità via social: «Su un social russo hanno rubato la mia identità, creando un profilo falso, dove hanno anche preso foto di mio figlio scrivendo delle frasi volgari, come se avessi dei rapporti speciali con lui. Una cosa mostruosa, frutto di una mente malata. Sto cercando di capire chi sia attraverso la polizia, per denunciare questa persona».

·        Sal Da Vinci.

Valentino Di Giacomo per ilmattino.it il 12 febbraio 2021. «Non mi sono accorto di nulla, hanno fatto tutto i carabinieri che non posso non ringraziare». Sal Da Vinci è stato, suo malgrado, protagonista di una brutta storia poi terminata con un lieto fine. Nella notte di giovedì due ragazzi hanno rubato il suo scooter, ma sono stati subito scoperti da una pattuglia dei carabinieri che li ha messi in fuga e poi hanno riconsegnato al cantante - che per il 16 novembre sta preparando il suo debutto su Canale 21 con il programma Koprifuoco 2.1 - il suo mezzo.

Tutto è bene quel che finisce bene?

«Lo scooter ha riportato qualche danno, ma ci sono cose più importanti a cui pensare. Non è la prima volta che mi succede, stavolta però anche i miei familiari lo hanno saputo dai giornali perché la notizia subito si è diffusa».

Deve la sua fortuna artistica alla sua voce, ma anche al musical Scugnizzi di Claudio Mattone ed Enrico Vaime che ha raccontato le storie dei tanti ragazzi di questa città che provano a riscattarsi dopo aver sbagliato. Perdona chi ha provato a derubarla?

«Io stesso mi sono sempre sentito uno scugnizzo di questa città, ma ho trovato la musica per non prendere strade sbagliate e tanti ragazzi, dal carcere di Nisida, sono venuti a lavorare con me costruendosi una carriera nella legalità. Non spetta a me giudicare o perdonare chi fa certe scelte di vita, ma magari dire loro due parole serve. Ciò che vorrei dire a questi ragazzi è che chi commette reati difficilmente si arricchisce, non compra una casa, non risolve la vita. Rischia solo di rovinarsi. Forse sono queste le parole che bisognerebbe dire più spesso come tante volte ho fatto proprio incontrando i ragazzini di Nisida».

Tutta colpa di messaggi sbagliati? Non si rischia così di assolverli?

«Non dobbiamo assolvere o colpevolizzare, ma cercare di capire sì. Spesso, purtroppo, pure un certo tipo di musica contribuisce: penso a quei generi importati da Oltreoceano che ostentano ricchezza. Di chi fa credere ai nostri scugnizzi che sia un valore avere scarpe da migliaia di euro, una macchina importante o un Rolex al polso».

Cattivi maestri si sarebbe detto un tempo?

«La lettura è duplice: molti artisti vogliono dire che sono arrivati a determinati status grazie a dei sacrifici e che quindi tutti ce la possono fare. Altri lo fanno solo per pura ostentazione ed è questo il messaggio che non possiamo tollerare. Ai ragazzi dico sempre che è meglio un pezzo di pane onesto che non una vita di pericoli con un bell'orologio sul polso».

Di questa cultura americaneggiante abbiamo importato pure quella dei graffiti e dei murales. Trova giusto che alcuni criminali, pur se adolescenti, possano essere raffigurati come esempi sui muri dei nostri quartieri?

«Torno alla doppia valenza dei messaggi, non per essere buonista. Da un lato comprendo le istituzioni che giustamente provano a rimuovere certi esempi, dall'altro mi metto nei panni di una famiglia straziata che magari invece di fare interviste vuole dire attraverso alcuni simboli agli altri ragazzi: Ecco cosa succede quando si prende la strada sbagliata. Da padre mi fa male sapere di queste storie».

Pensa al quindicenne Ugo Russo o al 17enne Luigi Caiafa raffigurati ai Quartieri Spagnoli e a Forcella?

«L'altro giorno sono passato da Santa Lucia e ho visto una foto di Ugo. Mi sono chiesto perché questo ragazzino non l'ho conosciuto prima? Di cosa aveva bisogno? Perché io non ci sono stato? Quante volte nelle mie visite a Nisida, parlando con loro, ho capito che questi ragazzi spesso sono pieni di debolezze per violenze già subite sentendosi spesso più al sicuro in strada che in famiglia. Non si può difendere l'illegalità e ci sono educatori che ho conosciuto che sono degli angeli. È che spesso gli angeli non bastano, ma noi non dobbiamo mai girarci dall'altra parte».

·        Salma Hayek.

Simona Marchetti per "corriere.it" il 20 febbraio 2021. Quando ha accettato la parte di Carolina nel film «Desperado» del 1993, non era prevista alcuna scena di sesso fra Salma Hayek e Antonio Banderas, alias El Mariachi. «Quando però hanno visto l’alchimia che c’era fra di noi, i responsabili della produzione hanno chiesto che venisse inserita la scena e per questo ho passato un periodo davvero difficile», ha raccontato la 54enne attrice, ospite di Dax Shepard per il podcast «Armchair Expert», ammettendo di aver accettato di girare quella sequenza bollente su un set chiuso, presenti solo lei, Banderas, il regista Robert Rodriguez e l’allora moglie di quest’ultimo, Elizabeth Avellan, che hanno cercato in tutti i modi di farla sentire a proprio agio, non mettendole addosso alcuna pressione.

«Non l’avevo mai fatto prima». «Non avevo mai fatto niente del genere prima – ha continuato la Hayek – e quando stavamo per iniziare le riprese, ho iniziato a singhiozzare. Una delle cose di cui avevo paura era Antonio, perché era un vero gentiluomo, super gentile e siamo ancora molti amici, ma era anche molto libero, quindi mi spaventava che per lui non fosse niente. Vedendomi piangere, Antonio mi ha detto una cosa del tipo “Oh mio Dio, mi stai facendo sentire malissimo” e io ero sempre più imbarazzata, perché gli altri cercavano di farmi ridere, ma io non riuscivo a togliere l’asciugamano, lo toglievo due secondi e poi ricominciavo a piangere». Alla fine la scena in questione è stata girata, ma ancora oggi l’attrice non riesce a godersela quando la vede, proprio per il disagio provato sul set. «Quando non sei tu, puoi farlo, ma ho continuato a pensare a mio padre e a mio fratello e al fatto che non ne sarebbero stati affatto orgogliosi. Infatti quando la mia famiglia alla fine ha visto il film, li ho portati fuori dal cinema durante la scena di sesso e sono rientrata con loro quando è terminata».

·        Salvatore Esposito.

Nino Materi per "il Giornale" il 20 giugno 2021. Ci sono nomi che fanno da pilastri nella vita di Salvatore Esposito, 35 anni, celebre per un personaggio (Genny Savastano) le cui battute i fan della serie Gomorra conoscono a memoria. Le fondamenta del successo di Esposito si chiamano Paola («l'amore della mia vita»); Assunta e Giuseppe («i miei genitori»); Anna («mia sorella») e Christian («mio fratello»). Una casa dalle basi solide, impastate col cemento di antichi valori: onestà e impegno. Se non fosse stato così, quel successo non sarebbe mai arrivato. Per questo Salvatore ha dedicato il suo primo grande romanzo, Lo sciamano (Sperling & Kupfer), ai membri più cari della sua famiglia. Mattone dopo mattone il fabbricato degli affetti è cresciuto, diventando un grattacielo. Dalla vetta ora Esposito guarda giù. E si rivede giovane, quando ventenne abbandonò il posto fisso in un fast food, perché il suono del ciak sul set era più fascinoso dello sfrigolio dell'hamburger sulla piastra. Inizia così una carriera da aspirante attore. Il mitico Genny era ancora di là da venire, ma quando c'è il talento i fogli del calendario volano presto. Anni di studio. Salvatore ha la recitazione nel sangue. Deve però affinarsi. Lavorare sui dettagli. Smussare gli angoli. Sente dentro di sé che la strada è giusta. Lui lo sa. Ora deve convincere gli altri. L'occasione della vita arriva col provino per la prima stagione di Gomorra. Roba grossa. Ma nessuno immagina diverrà stratosferica: il serial italiano più venduto al mondo. Un boom che dura da un decennio. Quella attualmente in onda è la «stagione finale» (la quinta), eppure nell'Ade di Gomorra non sempre chi pare morto muore davvero, come insegna il ritorno in vita di Ciro Di Marzio (interpretato da Marco D'Amore), «l'immortale». Un passo indietro. Salvatore nell'ormai lontana audizione del 2010 gioca in casa, ma nella «sua» Napoli i pretendenti alla parte sono tanti, tutti bravi e affamati di gloria. In palio il ruolo-principe della serie, quello del figlio del boss Pietro Savastano (l'attore Fortunato Cerlino). Salvatore sbaraglia la concorrenza. L'uomo giusto è lui. Al provino c'è pure Marco D'Amore, di qualche anno più grande e con maggiore esperienza. Incarnerà il volto dell'«immortale»: al tempo stesso «fratello» e antagonista di Genny. Tra i due nasce un sodalizio umano e professionale che diventa la chiave di volta dell'epopea di Gomorra. Fra Savastano e Di Marzio la conflittualità dei rispettivi personaggi è inversamente proporzionale all'amicizia tra Salvatore e Marco. 

Se chiudi gli occhi, quali sono le quattro scene di Gomorra, con Genny protagonista che ti vengono in mente?

«Gomorra 1, quando Genny, "istruito" da Ciro, tenta di uccidere (senza riuscirci) un tossicodipendente. È il suo battesimo del fuoco». 

Seconda scena.

«Gomorra 2: Genny arma la mano di Ciro, incaricandolo di uccidere don Pietro Savastano, il padre di Genny». 

Scena tre.

«Contestualmente alla morte di don Pietro (appena ammazzato da Ciro davanti alla cripta della "Famiglia Savastano"), Genny stringe tra le braccia il figlio che la moglie, Azzurra, ha appena partorito. L'ostetrica chiede: "Come lo chiamiamo questo bel bambino?". E Genny risponde: "Pietro. Pietro Savastano". È la prosecuzione della stirpe».

Scena quattro.

«La scena finale di Gomorra 3: Genny sullo yacht spara a Ciro, "uccidendolo"». 

Ma le sequenze-cult sono decine. Si può dire che per la qualità di sceneggiatura e livello di produzione la serie Gomorra è entrata nella storia degli audiovisivi?

«Sì. Come dice Marco D'Amore, questo serial ha tracciato una linea di confine tra l'epoca pre-Gomorra e l'epoca post-Gomorra». 

Mentre Genny e Ciro si scannano sulla scena, Salvatore e Marco nei tour promozionali per la quinta serie di Gomorra sembrano la reincarnazione di Totò e Peppino. Vi divertite e le «interviste incrociate» diventano degli show comici.

«Io e Marco siamo amici. Ci frequentiamo anche nella vita privata. L'autoironia è una caratteristica comune. Nelle gag che improvvisiamo lui è il "carnefice" e io la "vittima". Lui fa Totò e io Peppino. Ma a volte ci scambiamo le parti in commedia». 

Nella saga di Gomorra siete invece «fratelli». Sul modello però di Caino e Abele.

«La competizione dell'odio. Energia al servizio di cause sbagliate. Ogni episodio di Gomorra pone in conflitto il cupio dissolvi della disperazione e la speranza frustrata di una rinascita impossibile». 

Le anime sono dannate perfino in presenza di elementi devozionali. I cuori restano di pietra anche baciando un crocifisso prima di crivellare di colpi una bambina. Come fa «Malammore», il sicario del boss Savastano, quando uccide Mariarita, la figlia di Ciro Di Marzio.

«Il male trionfa sul bene. Al pari del tradimento sulla fedeltà. Fede e religione sono alibi per tacitare coscienze sporche. I sentimenti sono sempre torbidi. Quelli puri sono lusso che nella fogna antropologica di Gomorra nessuno può permettersi». 

Il romanzo «Lo sciamano» si apre con una citazione criptica firmata Malleus Maleficarum: «La peggiore delle eresie è non credere all'opera delle streghe». Che cosa significa?

«È una frase che rimanda al fascino misterioso dell'esoterismo in cui opera Christian Costa» 

Chi è Christian Costa?

«Il protagonista del romanzo. Un profiler, esperto di delitti rituali». 

È lui, «Lo sciamano».

«Lo chiamano tutti così per via della sua metodologia "non convenzionale"».

Salvatore Esposito è nato a Napoli il 2 febbraio 1986 (ma è cresciuto a Mugnano). Finite le scuole superiori partecipa a dei cortometraggi e frequenta l'Accademia di Teatro Beatrice Bracco e la Scuola di Cinema di Napoli. Trasferitosi a Roma, nel 2013 ottiene il suo primo ruolo nella serie «Il clan dei camorristi»; l'anno dopo raggiunge il successo come interprete di Genny Savastano in «Gomorra». Nel 2015 recita nei film «Lo chiamavano Jeeg Robot» di Gabriele Mainetti e «Zeta - Una storia hip-hop» di Cosimo Alemà; nel 2018 è protagonista del film «Puoi baciare lo sposo». Nel 2019, interpreta il ruolo di Gaetano Fadda nella quarta stagione di «Fargo» ed è il protagonista del film «L'eroe», del regista Cristiano Anania. Nel 2020 è il protagonista del film «Spaccapietre» di Gianluca e Massimiliano De Serio. Ha scritto due libri: il secondo, «Lo sciamano» (Sperling & Kupfer), è un romanzo best seller da cui è stata tratta una serie tv che andrà in onda prossimamente Soggetto ruvido, ma non quanto Genny di Gomorra.

«Genny è una maschera che si è evoluta, o involuta, da stagione a stagione». 

Quando decide di cambiare vita è un fallimento.

«Tenterà invano di diventare un imprenditore "pulito". Ma alla fine il richiamo della foresta lo trascina alle origini». 

Chiuso in un bunker sotterraneo, come un topo in trappola.

«I boss veri vivono così: ricchi di denaro, ma con un'esistenza miserabile. Si nutrono di potere e malvagità. Un veleno che li annienta giorno dopo giorno». 

Da napoletano veneri Maradona. Anche lui si è annientato giorno dopo giorno.

«Ho conosciuto Diego di persona. L'ho abbracciato. Baciato. E quel giorno lo custodisco tra i ricordi più cari».

Cosa ti disse?

«"Sono onorato di conoscerti"».

E tu cosa gli rispondesti?

«"Diego, stai pazziàn?" (Diego, stai scherzando? ndr)». 

Come stava fisicamente?

«Benissimo. Era sorridente, sereno».

Poi è finita nel modo tragico che sappiamo.

«Un lutto per chiunque è amante del calcio. Diego era un predestinato. Un bambino di 9 anni che in tv dice di avere due sogni: giocare un Mondiale e vincerlo. Li ha realizzati entrambi».

E Salvatore Esposito i suoi sogni li ha realizzati?

«Sto vivendo un momento felice».

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 18 giugno 2021.

Il successo di «Gomorra», il cinema, ora anche un noir esoterico, «Lo sciamano». Si aspettava tutto questo quando, da bambino, giocava in una periferia difficile di Napoli?

«Sì e no».

Spieghi meglio.

«No perché mi chiamo Salvatore Esposito, sono figlio di un barbiere e sono cresciuto a Mugnano, dove una volta ho assistito anche a una sparatoria. Con un morto. E sì perché ho avuto una famiglia che non mi ha mai lasciato solo».

Curioso destino, il suo: una vita passata a scongiurare una carriera nella criminalità e ha finito per diventare Genny Savastano, simbolo tragico del male.

«Avevo sei anni quando, in un villaggio turistico di Sibari, presi il microfono e intonai un brano di Fred Buscaglione, Il dritto di Chicago. Mai avrei immaginato, più di vent' anni dopo, di interpretare un gangster simile in Fargo, la serie dei fratelli Coen». 

Per capire Genny Savastano, una sorta di Malcolm shakesperiano della camorra - il figlio del boss che in Gomorra fugge in Honduras per tornare a riprendersi il potere in tempi più propizi -, bisogna partire dal cognome dell'attore che gli ha dato corpo: Esposito. Inequivocabili i rimandi all' archivio degli Esposti di Napoli, la «ruota» dove venivano deposti i bambini abbandonati. Suo padre è stato uno di quelli?

«Forse è stato anche per questo che ha lavorato sodo per non far mancare nulla ai tre figli. Mia madre ci ha cresciuti con una dedizione che, purtroppo, nelle periferie non è così comune». 

Mugnano di Napoli. Com' è stata la sua infanzia?

«Giocavamo nelle stradine, nei cortiletti. Intorno a noi avveniva di tutto. Una volta sentimmo degli spari: scappammo e per un po' non ci facemmo vedere. Poi tornammo e fummo avvicinati da un ragazzo poco più grande che ci disse: se volete, vi proteggo io.

Eravamo piccoli, capisce?».

Trappole insidiose.

«Io risposi d' istinto: no. Così anche alcuni miei amici, mentre altri accettarono quella protezione. Non li ho più visti, so che alcuni non ci sono più. Però quando qualcuno dice che comunque una scelta tra il bene e il male c' è sempre e che sta a noi fare quella giusta, forse non ha mai vissuto in certe periferie». 

Perché?

«Perché in certi posti la scelta non c' è. Non ci sono le famiglie, travolte dai problemi. Non c' è lo Stato, cosa che Gomorra ha narrato. Se va bene c' è un prete coraggioso». 

In che modo la sua famiglia le è stata vicino?

«Per esempio incoraggiandomi a imparare le lingue, ripetendomi che il mondo non era il nostro condominio. Non è scontato quando nasci in certi posti: cresci con l'illusione che basti parlare in italiano. No, io ho imparato l'inglese, il francese e lo spagnolo. Il napoletano l'ho sempre coltivato. Così ho potuto recitare in francese con Luc Besson (nel film Taxi 5 , ndr) e in inglese con i fratelli Coen». 

Quando si cresce in certi posti è difficile anche solo «immaginarsi» dentro un destino fatto di grandi cose.

«Infatti dopo gli studi mi misi a lavorare al McDonald' s, dove sono rimasto sei anni. E ricordo quella notte in cui, tornando a casa, mi dissi: ma è questo ciò che vuoi fare?». 

E così si trasferì a Roma per studiare recitazione.

«Anche qui la famiglia è stata fondamentale. Quando dissi che volevo fare l'attore, mamma e papà non si limitarono a dirmi "bene, fai quel che vuoi". No, ci sedemmo e cominciammo a pensare a come fare. Quale scuola, quale strada, quale contatto coltivare. È una sfumatura importante, il confine tra lasciare libertà a un figlio e seguirlo con attenzione e fermezza». 

È stato difficile all' inizio?

«Come per moltissimi altri attori. I miei non erano ricchi, io lavoravo e studiavo». 

La serie tratta dal libro di Saviano è uno dei prodotti televisivi italiani più conosciuti nel mondo.

«Sofia Coppola l'ha scoperto con il dvd che le ha regalato David Bowie. Madonna e Ron Howard sono fan della serie. Ma per me la cosa più indimenticabile è stata quando, sul palco del San Carlo di Napoli, Maradona mi abbracciò dicendo: "Genny, che onore conoscerti". Ma ci pensate?!Maradona!».

Ne «Lo sciamano» Christian è un profiler, esperto di delitti rituali. Lei immagina un protagonista che potrebbe essere l'interprete di una serie internazionale.

«Sì, perché penso che il nostro cinema, la nostra letteratura e la nostra musica debbano nutrire ambizioni grandi».

·        Sandra Milo.

Da "leggo.it" il 21 ottobre 2021. Sandra Milo, ospite a «Ti sento» di Pierluigi Diaco si è raccontata come mai prima d'ora. L'attrice, nel salotto radiofonico di Rai2, ripercorre il passato e torna a parlare di quella travolgente storia d'amore e passione durata 17 anni con Federico Fellini. Diaco pone la domanda scomoda: «Tu sei stata l'amante di Fellini e non la compagna della vita a un certo punto. Perché secondo te Fellini non ha scelto?». Sandra Milo stupisce tutti e risponde: «No no, lui a un certo punto mi ha scelto». Sandra Milo racconta uno dei gossip italiani più celebri di sempre. L'attrice fu l'amante del regista Federico Fellini, ma il dettaglio rivelato stupisce tutti. «All'inizio io ero pazza di lui e l'amavo solo io. A lui piacevo molto, questo sì, ma non mi amava. Sono sempre stata io ad essere pazza di lui. Poi a un certo punto, anche lui si è accorto di amarmi e, dopo 17 anni, mi ha detto di aver capito che ero io la donna della sua vita. Era con me che avrebbe voluto finire i suoi giorni».  A distanza di anni, ancora oggi, Sandra Milo si commuove a parlarne e svela la sua decisione dopo la proposta d'amore di Fellini: «Avrei dato una mano per ricevere quella proposta. E invece ho detto di no. Perché ho avuto paura». L'intervista continua e Pierluigi Diaco legge una domanda di un'ascoltatrice e chiede a Sandra Milo se sia stata e sia tuttora una femminista. Per tutta la vita è stata il simbolo di quello che gli uomini tradizionali sognavano in una donna: un oggetto dei desideri, desiderabile, ma rassicurante. La risposta di Sandra è tutto fuorché banale: «Innanzitutto non mi sono mai sentita un oggetto. Sì è vero, credo che una donna del mio tipo o, perlomeno, per quella che appare o appariva, sia molto rassicurante per un uomo. Poiché gli uomini li ho sempre amati, mi faceva molto piacere renderli felici, tranquilli e sicuri». 

Sandra Milo e lo storico scherzo su Ciro: «Fu una donna, non l'ho mai odiata». Il Quotidiano del Sud il 20 ottobre 2021. SANDRA Milo e lo scherzo telefonico sul figlio Ciro De Lollis ha fatto la storia della tv. Un momento cult che ancora oggi è tra i più visti sui social e non solo. Correva l’anno 1990 quando Sandro Milo è vittima di un terribile scherzo durante il programma “L’amore è una cosa meravigliosa” trasmesso su Rai3. La conduttrice e attrice è in diretta quando riceve una telefonata sospetta da parte di una donna che l’avvisa di una tragedia: il figlio Ciro De Lollis, ha fatto un incidente ed è ricoverato in ospedale. “Che ci fai lì? Tuo figlio ha avuto un incidente ed è ricoverato in ospedale. È gravissimo” dice la voce di una donna alla Signora Milo che, visibilmente sconvolta, scoppia a piangere e abbandono lo studio urlando il nome di “Ciro Ciro Ciro”. La donna, per partecipare alla diretta del programma, aveva chiamato al centralino presentandosi con il nome di Maria Ramondio. Un nome falso, ma le forze dell’Ordine riuscirono a risalire al telefono da cui era partita la chiamata. Si trattava degli uffici Alemagna di Via del Corso a Roma. Uno scherzo terribile quello subito da Sandra Milo che ancora oggi è negli annali della storia della televisione. Proprio la Milo, ospite del programma radiofonico “I Lunatici” ha raccontato di aver scoperto chi è stato l’artefice di quello scherzo: “Fu scoperto che a fare quella telefonata era una donna che lavorava in via del Corso. La telefonata arrivò da un ufficio dove lavoravano ventisei donne. Tutte negarono”. La Milo ha poi aggiunto: “Ho pensato che quello scherzo fu fatto da una donna che viveva all’oscuro, che mai è riuscita ad affacciarsi alle luci della ribalta e per una volta ha pensato di sentirsi potente, di scombinare l’ordine delle cose. Non sono mai riuscita ad odiarla, ho cercato di capire la sua voglia di essere protagonista per una volta…”.

Sandra Milo shock: “È stato violento, gli ho tirato una ciabatta…” Alice Coppa il 21/07/2021 su Notizie.it. Sandra Milo ha confessato alcuni dettagli inediti della sua storia d'amore controverso con Federico Fellini. Ospite a Estate in diretta Sandra Milo ha raccontato dei retroscena inediti del suo rapporto con Federico Fellini, il famoso regista di cui fu amante per circa 17 anni.

Sandra Milo: i retroscena su Fellini. Sandra Milo non ha mai fatto segreto di aver vissuto un rapporto controverso con il regista Federico Fellini, e nel salotto tv di Estate in diretta la famosa attrice ha confessato che i comportamenti spesso violenti di Fellini l’avrebbero spinta in un caso a vendicarsi: “Fellini mi ha rimproverata tante volte, mi ha anche fatta piangere. Alternava una certa violenza, niente di che, a momenti magici… Ma una volta, mi sono vendicata e gli ho tirato una ciabatta”, ha raccontato Sandra Milo, che ha confessato anche come in alcune occasioni sarebbe rimasta ferita dal comportamento del regista. Si da il caso infatti che il regista l’abbia più volte fatta sentire in imbarazzo, e a tal proposito lei stessa ha raccontato: “Mi chiese di fare la faccia da porca. Me lo disse davanti a tutti. Ho vissuto quel momento malissimo”, ha dichiarato Sandra Milo, e ancora: “Erano altri tempi, non erano frequenti queste affermazioni volgari – ha spiegato l’attrice -. Ero in imbarazzo, non sapevo cosa fare, me lo disse davanti a tutti, mi vergognavo”.

Sandra Milo: l’amore per Fellini. Sandra Milo ha vissuto una storia controversa e “clandestina” con Federico Fellini, all’epoca sposato con Giulietta Masina (che gli è rimasta accanto fino alla fine). “Fellini è l’amore assoluto della mia vita, l’ho amato intensamente e solo per lui ho provato questo tipo di amore”, ha dichiarato l’attrice, e ancora: “All’inizio io ero innamoratissima, mentre a lui piacevo e basta. Avevamo un rapporto bello e intenso e, dopo tanti anni, anche lui si è accorto di amarmi. Quando me l’ha detto ci sono rimasta, forse, anche un po’ male perchè ormai mi ero abituata al fatto che lui fosse un grande amore per me.”

Sandra Milo: i figli. Sandra Milo ha avuto tre figli: due di essi, Ciro e Azzurra, sono nati dalla relazione tra l’attrice e Ottavio De Lollis, mentre sua figlia Deborah è nata dalla sua relazione con Moris Ergas. Sandra Milo ha confessato di voler continuare a lavorare nel mondo dello spettacolo per aiutare i suoi figli, anche superati gli 80 anni.

Vladimir Luxuria per "la Stampa" il 17 giugno 2021. Quest' anno festeggi il David di Donatello alla carriera, una carriera ricca e una vita intensa «Ho trascorso la mia infanzia in Toscana: Viareggio nel dopoguerra era tutta macerie ma c'era tanta voglia di ricominciare. I giovani alla politica ci credevano, era passione e non professione: anarchici, socialisti e democristiani veri. Leggevo Marx quando le nuove generazioni credevano ancora di poter cambiare il mondo».

E poi?

«Un matrimonio andato male. Mi trasferisco a Milano e faccio la modella ma mi stufo di essere bella ma muta. Quindi ho lasciato tutto e sono partita per Roma per fare l'attrice». 

Finalmente hai potuto parlare quindi?

«E invece no. All' inizio la mia voce non piaceva. Una maggiorata non poteva avere la voce da bambina e quindi mi doppiavano tutte le volte fino a quando Antonio Pietrangeli, contro tutti e tutto, mi fece recitare con la mia voce in Adua e le compagne. Ero l'unica non doppiata e per un soffio non vinsi la Coppa Volpi». 

Proprio in quel film sei Lolita, una prostituta che cerca di cambiare mestiere aprendosi una trattoria, ma non ce la fa. Erano gli Anni 60. Oggi una donna può essere artefice del suo destino?

«Sì, ce la può fare. Le donne oggi sono guerriere e gli uomini soccombono. L' uomo senza donna non riesce a esistere e se una donna lo lascia, si sente una nullità e può addirittura arrivare a ucciderla come insegna la cronaca. Ed è come se uccidesse la propria madre». 

Perché?

«Perché in fondo la prima donna che un uomo conosce è la mamma che gli dice che va tutto bene e che lo coccola. Sempre. Lo rassicura. Lo conforta. Gli dà protezione e sicurezza. Ma la compagna che poi l'uomo troverà non è altrettanto rassicurante e lo metterà spesso in crisi. Nonostante tutto, però, saranno le donne a salvare il mondo». 

E in 8 1/2 Marcello Mastroianni è stordito, attratto e, a tratti, anche impaurito dalle tante donne che insegue come in un sogno

«In quel film capolavoro io sono Carla, un'amante, una "pavoncina" ma soprattutto "cervellina". Un ruolo straordinario per me che solo il Maestro poteva creare». 

Era la femminilità da cui il Maestro era affascinato?

«Sì, voleva che esprimessi sensualità, disponibilità senza mai, però, essere alla mercé dell'uomo. Eravamo streghe ammaliatrici ma anche profondamente poetiche». 

Il momento più difficile nel lavorare con Fellini?

«Ero con Marcello Mastroianni e Fellini mi disse: "Fai la faccia da porca". Io stetti male e non sapevo quale espressione fare. Una sorta di violenza. Mi sentii come mi avesse strappato la pelle. Ma poi capii che il suo grande insegnamento era che un attore o un'attrice sul set non devono mai avere pudore. Da quel giorno, come attrice, non ho mai provato più pudore. Come donna sì».

Due nastri d' argento come non protagonista per.

«Sono tutti protagonisti nei film di Fellini. Anche le comparse che non sono scelte per fare numero ma per il loro valore. Fellini riusciva a portare fuori la parte luminosa di te e, per questo, tutti volevano lavorare con lui».

Tu sei madrina del Lovers Film Festival, i cinema hanno riaperto dopo tanto tempo in cui molti operatori dello spettacolo non han potuto lavorare. Tu ti sei incatenata per protesta ti ha ricevuta l'allora premier Conte

«L' epidemia ha accentuato la povertà. Io mi vergogno quando vedo una persona dormire per strada senza una casa. Come possiamo essere felici se al mondo ci sono persone che hanno trenta ville e c' è chi non ha un tetto sulla testa. Non sono mai stata capace di arricchirmi come le mie colleghe. Ho sempre lavorato e mantenuto i miei figli da sola. Ho fatto loro, contemporaneamente, da madre e da padre». 

Una donna single può essere madre e padre come sei stata tu. Gay lesbiche e trans possono essere genitori?

«Assolutamente. Come si può negare il diritto alla maternità e alla paternità che sentiamo tutti? Tutti ne abbiamo diritto. I figli sono di chi li ama. Anche gay, lesbiche, trans».

E lo dice una chi ha inventato Piccoli fans il format tv in cui i bambini si esibiscono

«Farò di più, cara Vladimir. Molto di più. Torno a teatro interpretando il ruolo di una drag queen che scopre di essere padre per un rapporto avuto con una donna in gioventù. Una storia che rispecchia l' oggi, senza pregiudizi e senza preconcetti».

Hai avuto tanti corteggiatori e hai mai avuto una donna che si è innamorata di te?

«Certo che sì ma a me piacciono davvero gli uomini e tu mi puoi capire. Piacciono anche a te?».

Per ora sì, non mi sono ancora concessa al «fluid».

«Ci vediamo stasera Torino, in Mole Antonelliana e al Cinema Massimo, per l'inaugurazione del festival».

Roberto Alessi per “Libero Quotidiano” il 17 maggio 2021. Ecco Santa Milo. La sua carriera è stata un insieme di pubblico e privato, e non solo nell'ambito dello spettacolo. E se si dice privato si pensa alla sua storia con Bettino Craxi. Che amante ero? «Craxi era un uomo molto impegnato, ma la tenerezza invece richiede tempo, però aveva il tempo per l'amore, in questo non si risparmiava. Un amante con la A maiuscola». La storia la racconta anche alla scrittrice Elena D'Ambrogio che ne è rimasta sfolgorata al punto che pensa anche a un libro perché è certa che Sandra si è sentita amata da lui. «Però io, a mia volta, ho sempre preferito amare perché amare mi fa sentire bene». E così Sandro si è ributtata nelle braccia di Federico Fellini, per 17 anni. «Lui, ambito da tutto il mondo è venuto a casa mia a implorarmi di essere Carla nel suo 8 e1/2. Io ero in un momento in cui non me la sentivo di ritornare nel cinema, ma non ho potuto resistergli. Tutti lo additavano come quello che cercava sempre le donne con grandi seni, grandi sederi, come se fosse stata una persona attratta solo dal sesso: ma non è vero, nei suoi film lui sa far intendere tanto, tutto, ma non si vede quasi niente di volgare, mai un bacio che non sia a stampo. Solo una grande sensualità. Sapeva suscitare bellezza, desiderio, senza mostrare l'atto che porta al piacere». In che senso? Niente sesso? «Diciamo diverso da Bettino»

Dagospia il 3 marzo 2021. Da "Un giorno da pecora". Nonostante abbia quasi 88 anni, Sandra Milo riscuote ancora moltissimo successo tra gli uomini, che la inondano di proposte di ogni tipo sui social. A raccontarlo, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è stata proprio l'attrice, che oggi ha spiegato: “sui social ho un sacco di pretendenti, che mi scrivono di tutto”. Ad esempio cosa? “La maggior parte delle proposte che non posso ripetere, perché sono davvero osé, delle proposte sessuali molto concrete”. Nessuno ha intenzioni serie? “Qualcuno parla d'amore ma la maggior parte parlano di sesso, vorrebbero incontrarmi”. Che età hanno questi pretendenti? “Sono tutti bei ragazzi, palestrati, mi mandano le loro foto. Anche in mutande. E qualcuno anche senza”. Le mandano foto di questo tipo? “Si, e alcuni sono proprio esagerati, hanno delle misure impossibili, fuori dal normale”. Gliene arrivano molte al giorno? “Si, alcuni li ho dovuti bloccare, erano troppo indecorosi”. Le dispiace ricevere questi approcci? “No, non me ne importa niente”, ha ammesso la Milo a Un Giorno da Pecora.

Dagospia l'11 marzo 2021. Da "Un Giorno da Pecora". “Oggi compio 88 anni ma me ne sento al massimo una quarantina, anzi forse 38”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, è Sandra Milo, che oggi è intervenuta nella trasmissione di Rai Radio1 nel giorno del suo compleanno. Qual è il regalo più bello che ha ricevuto oggi? “C'è un mio ammiratore che da più di 50 anni a natale, a Pasqua e al mio compleanno mi manda i fiori, anche se non lo conosco e non lo ho mai visto”. Come si firma questo spasimante? “Giordano, fa il fornaio vicino a Ferrara. Io girai il film di Antonio Pietrangeli 'la Visita' (del 1963, ndr) da quelle parti, lui mi ha visto, e da quella volta ha iniziato a preparare dei biscotti che si chiamano Sandra, in mio onore”. Sa quanti anni ha? “Credo una settantina”. Cosa le scrive Giordano nel biglietto di auguri? “Mi manda sempre un bigliettino molto affettuoso. Io so che lui mi ama, è scapolo ma non l'ho mai incontrato. Magari se lo avessi fatto…”

·        Sara Croce.

Avanti un altro, il dramma di Sara Croce: "Senza dignità, vai a fare la sgualdrina in giro", un massacro. Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. Ricordate Sara Croce, Bonas di Avanti un altro, il programma di Paolo Bonolis su Canale 5? Difficile dimenticarla. E ora torna a far parlare di lei per una lunga intervista concessa a SuperGuidaTv, dove ha parlato anche delle feroci critiche e degli insulti che spesso riceve dagli haters per il suo ruolo televisivo. E parlando di questo "assedio", ha parlato di un episodio che la ha toccata nel profondo. "Avevo iniziato da poco Avanti un altro - ricorda - è una ragazza mi ha scritto: è più dignitoso fare la sgualdrina in giro piuttosto che fare in tv la donna oggetto. Me lo ricorderò per sempre, mi ha scosso", ricorda Sara Croce. Insomma, parole come pietre e che hanno colpito nel segno. Dunque, la Bonas ha aggiunto che per lei è un grande onore lavorare con Bonolis e Luca Laurenti. E ancora, ha aggiunto che anche il prossimo anno, anche se ad ora non c'è nulla di certo, dovrebbe far parte del cast del programma. Quindi ha escluso una partecipazione al Grande Fratello Vip poiché, ha spiegato, non vuole parlare in tv della sua vita privata. E ancora, ha smentito la partecipazione a Temptation Island in coppia con Gianmarco Fiory, il suo uomo: "Non penso che saremmo adatti per poter partecipare. Andiamo troppo d’accordo e non saremmo in grado di creare alcuna dinamica. Non avrebbe senso perché il nostro rapporto è solido", ha concluso Sara Croce.

·        Sara Tommasi.

Filippo Ceccarelli per “il Venerdì di Repubblica” il 5 febbraio 2021. Sara Tommasi, la traviata del secolo XXI, ha inciso una canzone che si intitola Impara ad amarti. Fra le possibili reazioni è probabile che prevalgano i "chi se ne importa". Con maggiore bonomia ci sarà anche chi reagisce con pazienza e rassegnazione; mentre i più avvelenati contro certo giornalismo che insegue il trash per poetizzarlo ancor più si adireranno nell'apprendere che la showgirl ternana, 39 anni, figlia di pasticcieri e laureata alla Bocconi, già Miss Umbria, poi paperetta e schedina televisiva oltre che partecipante all'Isola dei famosi 2006 prima di precipitare nel gorgo dei festini berlusconiani, della droga, del porno duro e di tante altre disgrazie, ecco, starebbe anche per sposarsi (con il suo nuovo manager, dottor Antonio Orso, che nel portafoglio detiene la cura dell'immagine di Eva Henger e di altre ragazze). Starebbe per sposarsi - il condizionale è d'obbligo, come si dice - perché nel mondo stentatello dello showbiz le nozze auto-promozionali, in questo caso già fissate per il 21 marzo con adeguata location, megatorta sponsorizzata e afflusso di circensi e sbandieratori di Narni, giocano come estrema, sconsolatissima calamita di curiosità, vedi il caso di Pamelona Prati e di Mark Caltagirone. Ma si vedrà - o forse no. Però intanto eccola cantare, con una vocetta volenterosa, ma poco allenata. Le immancabili foto di scena la rappresentano al microfono con singolari calzari rossi anti-violenza e iper taccuti. La canzone è così così, narra di donne variamente sfruttate e maltrattate, aleggia sulle note un che di autobiografico che lascia pensare a un riscatto al femminile, per quanto il brano si concluda con una voce di uomo che invoca mitologicamente: «Marte non può distruggere Venere!». Dice: perché dilungarsi su Sara Tommasi? Perché nessuna più di lei appare come una figlia fragile e quindi innocente di questo tempo che impone di spendere bene una popolarità male acquisita e fa della fama mediatica una trappola e poi una galera. Perché non solo non si è risparmiata nulla, non solo è stata spremuta da altri come lei, seppure più furbi e malintenzionati, ma tutto è avvenuto effettivamente e disperatamente sotto gli occhi di tutti: amorazzi con calciatori, occhi neri da percosse, mastoplastiche additive, terrore di alieni, balbettii "poco lucidi" in discoteche dell'Italia profonda, e ricoveri coatti, esorcismi, Medjugorje, campagne anti-signoraggio con Scilipoti e Alfonso Luigi Marra, o per la liberazione di Fabrizio Corona, frequentazioni con Diprè e Gabriele Paolini, appelli a Barbara D'Urso...Un grande regista - ma davvero grande - potrebbe fare di Sara una "Signora delle Camelie" del 2000. Nell'attesa non si può che augurarle una vita un po' più grigia, ma finalmente serena.

·        Sarah Cosmi.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 10 aprile 2021. Lei è Sarah Cosmi, donna dalla bellezza angelica colpevole di aver turbato le notti insonni di migliaia di uomini; ha fatto della sensualità e della femminilità i suoi cavalli di battaglia che l’hanno portata al successo. Con lo storico film erotico ‘Fallo’ che l’ha vista co-protagonista diretta da Tinto Brass si è fatta conoscere oltre che in Italia anche negli Stati Uniti, in Spagna ed in alcuni paesi orientali diventando una vera e propria icona di erotismo riconosciuta e riconoscibile a livello internazionale. Dell’attrice Sarah Cosmi però non si sente parlare da più di quindici anni, le ultime sue apparizioni risalgono al 2005 nel programma di Italia Uno ‘Cronache Marziane’ e nella soap di Canale 5 ‘Vivere’ per poi far perdere completamente le sue tracce.

In questi anni di ritiro ha cambiato radicalmente vita: si è affidata a Dio, ha studiato la natura umana, i dolori emotivi, come il nostro cervello reagisce ed elabora i traumi diventando karisma trainer e creatrice del metodo neo coaching. Oggi in quest’intervista esclusiva ci parla del tuo passato, del suo presente e del suo futuro.

D. Sarah lei è stata un vero e proprio sogno erotico per tantissimi uomini a cavallo tra gli anni novanta e i primi anni duemila, se ne rende conto?

R. Il mondo dello spettacolo e in particolare modo il cinema non ti dà esattamente la percezione di cosa e quanto tu rappresenti per le persone. Al tempo non avevo alcuna consapevolezza di ciò, ne era quello che desideravo accadesse, oggi me ne sono resa conto vedendo quante persone continuano a scrivermi a distanza di tanto tempo.

D. È stata una delle più rappresentative muse di Tinto Brass, che ricordi ha di quel periodo?

R. Tutto è iniziato per il bisogno che avevo di una “vittoria” dopo tante esperienze che al tempo vivevo come sconfitte. Una dopo l’altra mi avevano portata a sentirmi completamente a terra. Dai 14 ai 20 anni avevo collezionato dolori che non riuscivo più a reggere. Gli ultimi due hanno influenzato molto la mia vita e le mie scelte: la perdita di mio figlio al quarto mese di gravidanza e il contratto campestre firmato con un manager in Svezia che si era appropriato di tutti i proventi del mio disco arrivato al diciottesimo posto in classifica. Mio marito, che al tempo era il mio fidanzato, lesse che Brass stava facendo i provini a Cinecittà e così mi incitò a provare. Non volevo veramente lavorare con lui, volevamo solo vedere se mi avesse presa! Così cercai di entrare senza agente e senza invito. Per caso Enrico Brignano era seduto all’ingresso e convinse il guardiano a farmi entrare comunque e grazie alle mie doti attoriali finsi di essere in ritardo, insomma riuscii a fare il provino e Tinto mi prese. Non ci credevo! Dopo quindici giorni di incubi accettai e tutto ebbe inizio.

D. Che rapporto aveva con il maestro Tinto Brass?

R. Tinto rideva quando lavoravo, diceva che ero divertente e che avevo una vena ironica che lo divertiva molto, che ero nata per il cinema ed ero la professionista che ogni regista avrebbe voluto dirigere. Mi ridiede la fiducia in me stessa, fu come un mentore e il padre che credeva in me che fino a quel momento non avevo avuto.

D. Quale fu il primo approccio a questo mondo?

R. Il primo giorno di riprese mi chiusi in bagno a piangere, non avevo il coraggio di girare. Fu Claudio Bernabei ad aiutarmi dicendo che un’attrice è un’attrice e il suo compito è mettere in scena, qualsiasi scena sia, così come nella vita vivi esperienze di qualsiasi tipo, anche sul set avrei dovuto recitare qualsiasi parte. Così uscii e decisi di provare. Tinto mi mise subito a mio agio e cinque minuti dopo mi accorsi che ero in grado di recitare quella parte e nulla sembrava più così strano.

D. Come si sentiva e cosa provava  a farsi vedere nuda in situazioni e pose ammiccanti e ad alto tasso erotico?

R. In realtà l’alto tasso erotico é una percezione dello spettatore e non dell’attore. Ho fatto film non erotici e vi garantisco che una scena di sesso è una scena di sesso sia in uno che nell’altro. È una finzione in cui la differenza la fa esclusivamente la regia. Le luci sono differenti, l’inquadratura, ciò che si vede e ciò che non si vede e magari, qualche frase piccante. Per un attore non fa differenza: fai solo finta di fare sesso. Nel caso del film “Fallo”, Tinto è stato incredibile perché mi sono stupita anche io riguardandomi da quanto tutto sembri reale, ma garantisco: è pura finzione!

D. Da più di quindici anni ha deciso di ritirarsi dal mondo del cinema e dello spettacolo e non è più apparsa da nessuna parte, come mai?

R. Ho iniziato a lavorare in quel mondo da quando avevo quindici anni, era tutto ciò che credevo di volere. Ma a un certo punto della mia vita, quando ero arrivata esattamente dove volevo mi accorsi che non ero felice. Qualcosa mi stava cambiando, o è più corretto dire che mi stavo lasciando cambiare. Non mi riconoscevo più, quella Sarah non era la vera me. Mio figlio era nato da tre anni e non riuscivo a vederlo mai a causa del teatro. Io e mio marito ci stavamo allontanando e questo mi faceva soffrire molto. Un giorno feci una preghiera accorata e la notte sognai Gesù. Quella notte mi svelò il mio cammino. Due giorni dopo iniziai a studiare la Bibbia e poco dopo lasciai tutto per dedicarmi a Dio. Fu questa parte della mia vita che mi ha fatto comprendere come dovevo applicare il mio più grande talento: l’eros, cioè la capacità di ispirare gli altri. Avevo solo usato una piccola parte di quella straordinaria energia. Avevo ancora tanta strada da fare.

D. Ha cambiato radicalmente vita. Oggi è una karisma trainer e creatrice del metodo neo coaching, di cosa si tratta?

R. Io intendo il Karisma come lo intende la parola greca originale karis, cioè come il dono che Dio ti dà sin dalla nascita. Il mio dono era quello di ispirare e questo l’ho compreso anche grazie ai messaggi dei miei fans. La maggior parte scriveva la stessa cosa usando le stesse parole, venivo descritta come una ispirazione, parlavano di quanto comunicavo dolcezza, gioia e voglia di vivere, mi chiamavano Afrodite, la donna perfetta. Fu lì che capii che a prescindere da ciò che facessi stavo comunicando una sensazione ben precisa. Afrodite è l’archetipo junghiano dell’ispirazione, colei che crea, che genera la vita la dov’è non c’è. La cosa meravigliosa arrivò quando mi accorsi di vedere negli altri i loro doni. Riuscivo a capire con quale dono le persone erano nate anche se loro non si accorgevano. Così iniziai a studiare un metodo per estrapolare quel Karisma e renderlo manifesto al modo. Quando le persone manifestano il proprio Karisma tutto cambia nella loro vita. Riescono a perdonare, a lasciar andare il passato e a vivere con più consapevolezza. Ovviamente, prima di arrivare a questo punto ho studiato molto la natura umana, i dolori emotivi, come funzionano i traumi, il cervello, la comunicazione. Sono diventata esperta in intelligenza emotiva e ipnotista. Oggi ho creato la Sequenza di Odòs, il metodo applicabile ad ogni cammino di evoluzione per estrapolare, manifestare e potenziare se stessi. In tutti questi anni di lavoro con le persone ho provato la meravigliosa sensazione di essere al posto giusto al momento giusto, quella che provi solo quando incontri il tuo vero cammino, quello pieno di significato che dà senso alla tua vita. Così ho compreso che dovevo aprire una scuola per insegnare ad altri il mio metodo di Coaching e insieme alle mie socie Cristina Alunni e Fiorella Mirabassi, abbiamo codificato il Neo Coaching l’unico metodo di coaching olistico in Europa che integra dodici discipline per armonizzare corpo spirito e mente. Oggi sono fiera del livello di preparazione degli allievi della Neo Coaching Academy.

D. Il lavoro di ieri ed il lavoro di oggi sembrano due cose veramente contrapposte tra loro, è sempre la stessa Sarah o si sente cambiata ?

R. Io dico sempre che Sarah è, punto. Non dobbiamo mai aggiungere aggettivi dopo il verbo essere perché limita il nostro potenziale e ci giudica. Quindi Sarah è tante cose, compresa quella di ieri perché se non ci fosse stata lei non ci sarebbe quella di oggi. Il nostro cammino ci parla, ma dobbiamo essere capaci di ascoltare. Ci comunica chi siamo, ci spiega cosa abbiamo imparato, come abbiamo reagito e qual è il nostro Karisma. Il tempo non esiste e come mi dice sempre Gesù quando lo incontro: tu sei ciò che sei.

D. Si è mai pentita delle sue due scelte lavorative?

R. In realtà tre, perché tra l’una e l’altra ho avuto un’agenzia pubblicitaria per diciotto anni che è stato il passaggio da una dimensione e l’altra. Non mi pento di nulla perché tutto è esperienza, tutto è stato utile a farmi diventare la professionista che sono oggi. Ogni cosa che ho appreso, ogni dolore ogni gioia. Non esiste giusto e sbagliato, sono solo giudizi che limitano la nostra visione di noi stessi e ci impediscono di vivere, dobbiamo accogliere ogni aspetto di noi perché ciò che combatti diventa il tuo demone e con lui lotterai per tutta la vita.

D. Se avesse una bacchetta magica cosa cancellerebbe del suo passato?

R. Niente, nulla avviene per caso, tutto ha un motivo. Tutto serve a farti diventare una persona migliore solo se accogli gli eventi e ne trai il meglio. Questo è il più grande messaggio che si può dare all’umanità, se solo sapessimo applicare questo saremmo tutti più felici.

D. Come vive oggi e cosa si augura per il futuro ?

R. Oggi mi dedico anima e corpo alla mia missione sulla terra, aiutare le persone a riprendere contatto con se stesse, non chiedo altro. Sono felice, ho una famiglia speciale, un marito e un figlio fantastici e due socie eccezionali. Non so cosa potrei volere di più. Mi auguro di poter diffondere più possibile il mio metodo così da creare tanti professionisti capaci che possano aiutare il maggior numero di persone possibili. E poi ho un desiderio, quello di aprire una scuola di potenzialità per bambini. In questo momento sono gli esseri che soffrono di più.

D. Le piacerebbe tornare in televisione o al cinema o è un capitolo definitivamente chiuso?

R. Non è nei miei piani. Non ne sento l’esigenza, tuttavia non come voglio io ma come vuole Dio. Magari un giorno la tv potrebbe essere il mezzo di diffusione che lui sceglie per il metodo, chi può dirlo? Io no di certo. Se qualcuno sedici anni fa mi avesse detto cosa sarei diventata oggi non ci avrei mai creduto...tutto è possibile!

·        Scarlit Scandal.

Barbara Costa per Dagospia l'8 maggio 2021. La vogliono, la cercano, la desiderano. Soprattutto la guardano. I suoi video sommano cliccate a milioni – 234 ora che scrivo – e sono in vorticosa e continua crescita, in particolar modo negli ultimi mesi. Cioè da quando Scarlit Scandal ha vinto l’Oscar del Porno quale miglior novità 2021. Un esserino di 45 kg per poco più di un metro e 50, di 22 anni di vitalità contagiosa, e un corpo genuino, "vergine" a ogni lievissimo ritocco. Eccola qua, Scarlit Scandal. Una forza della natura. Si blatera tanto sui mali dei social, ma i social hanno molti lati positivi. Li vogliono Dio sa come legiferare, frenare, e però, senza i social, non avremmo tali grazie alla grazia del porno! Scarlit Scandal, nata a Fort Pierce, Florida, seguiva via social le pornostar, alla stregua di (quasi?) ogni adolescente. E pornostar potenze social, influencer al pari di modelle, cuochi, campioni dello sport. Scarlit ambiva a diventare come quelle ragazze poco più grandi di lei. Questa è la realtà odierna, cari genitori, spero ne siate al corrente. Il porno è show non mainstream solo per chi ragiona jurassicamente: cosa si crede, che dietro le migliaia (OK, milioni) di follower che seguono le star del porno, si celino solo single tristi e vogliosi!? C’è gente normalissima e comunissima, di ogni età e ceto, e ci sono pure gli adolescenti. Lascio agli altri giudizi in merito, io dico che dopo il diploma Scarlit ha contattato via mail l’agenzia porno "Motley Models", inviandogli alcune sue foto acqua e sapone. Scarlit mai avrebbe immaginato che dopo 48 ore il suo smartphone avrebbe squillato e dall’altra parte vi fosse Dave Rock, il boss di Motley Models, in persona! Pronto a offrirle biglietto, e alloggio e chance di lavorare per lui. Ma Scarlit Scandal è come la maggioranza dei 20enni di oggi: furbi, svegli, non quei morti di sonno che ti mostrano quotidiani e TV! Scarlit non ha accettato, non ha detto no, ma si è presa un mese per pensarci. E dopo un mese è volata a Los Angeles, ha girato un porno soft da solista, e poi se ne è tornata a casa sua. Pian piano ha preso forza e consapevolezza di volerlo fare, il porno, dimostrando maturità e sicurezza di sé che le generazioni precedenti si possono a malapena sognare. A chi segue il porno con attenzione, con passione, nome e corpo di Scarlit Scandal non passa inosservato. Sebbene il suo debutto porno segni marzo 2019, in questi due anni le scene girate da Scarlit non sono state tantissime, e ponderate. Scarlit non è solo una pornostar in fieri: è un brand. Che crea e commercializza la propria immagine avendone il completo ed esclusivo controllo. Il corpo di Scarlit si muove a suo agio sui set porno, in lesbian e in scene etero dove seduce, e si cimenta in BDSM a farsi castigare (e specie da Jake Adams, suo collega e fidanzato reale), ma pure si mostra astuto e disinvolto sui social. Nella mente di queste nuove pornostar 20enni – e in quella dei loro agenti – porno e social devono muoversi di pari passo, in alleanza, e nel rispetto delle regole "caste" che i social impongono. Il porno cambia la società, ci viaggia insieme, ma in influenti aspetti la anticipa: Scarlit è tra le pornostar che più lavorano in realtà aumentata. Interesse ha riscosso il porno "Wanna Cum Shopping", dove ogni spettatore da casa, col visore VR, si gode in porno realtà virtuale 4 ragazze, tra cui Scarlit, che si rivelano delle giocose ladre…Dopo l’Oscar, ogni possibile strada del porno è aperta a Scarlit. Sta a lei seguire quella più giusta. Lei sta emergendo dal gruppo di porno-coetanee quali Abella Danger, Autumn Falls, Martina Smeraldi, Daisy Taylor. Tutte assatanate, pronte a prendersi il posto di pornostar 30enni ai loro occhi "anziane". E queste fiere 20enni dimostrano una tempra diversa, sono sicure di sé anche più delle millennial, certo non hanno più nulla in comune con le pornostar di una volta. È un bene, non ci sono dubbi. Titubanze zero. Per una concorrenza parimenti spietata al loro interno. Tra di loro. Lotta che non appare, se non in quella di corpi, nudi, e seni e braccia e gambe che si incrociano a lunghi scissoring, a battaglia di rimming il più adescante, magari in piscina, magari in bikini, magari tra due porno-sirene come Scarlit Scandal e Autumn Falls. Merita più di una sosta il loro porno…"acquatico". Non sembrano amarsi per davvero, seppur dentro e fuori dai set (e sui social) si contendano feroci la palma di prossime numero uno? E se ti rivelassi che in questo loro porno bagnato e ferino, inalante sesso appiccicoso, gliel’hanno fatto girare in una piscina dall’acqua se non fredda, riscaldata poco e niente…!?

·        Serena Autieri.

Serena Autieri, il successo, il matrimonio di passione e l’amicizia con la Hunziker. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 13 novembre 2021. L’attrice e cantante napoletana torna sabato 13 su Rai1 alle 14 con «Dedicato». Tra gli amori passati, Matteo Marzotto e Giovanni Malagò. Il flirt smentito con Gabriel Garko.

«Dedicato» su Rai1

Dopo il successo estivo, Serena Autieri torna il 13 novembre con «Dedicato», lo show pomeridiano del sabato pomeriggio su Rai1 alle 14. Serena con la sua voce incredibile canta canzoni, fa dediche, racconta storie. Ci sarà anche Gigi Marzullo a intrattenere i numerosi ospiti. E nella nuova edizione ci sarà anche il maestro Enzo Campagnoli, con il suo pianoforte

Il matrimonio con Enrico (e la passione che dura)

L’11 settembre 2010 Serene Autieri è convolata a nozze con Enrico Griselli. I due si dissero «sì» nel Duomo di Spoleto, dove è nato Enrico, imprenditore. Di recente Serena riguardo al suo matrimonio che va a gonfie vele, ha dichiarato al settimanale «Oggi»: «Siamo fortunati, c’è l’amore e c’è la stima reciproca, che è un grande afrodisiaco: la passione ci accende nella testa e si trasmette al corpo. Riusciamo a ritagliarci i nostri spazi per noi. Lasciamo Giulia ai nonni e ci regaliamo weekend romantici, cene a due».

«L’onore e il rispetto» con Garko e le voci (smentite) sul flirt

Una delle sue interpretazioni più famose è quella ne «L’onore e il rispetto» (2006-2009), con Gabriel Garko. Nel cast anche Giuseppe Zeno, Manuela Arcuri, Giancarlo Giannini, Gabriele Rossi, Laura Torrisi e Virna Lisi. In seguito alle riprese si parlò di un flirt tra Serena Autieri e il collega Gabriel Garko. Ma l’attrice anche di recente ha smentito: «Mai stata insieme a lui».

La voce di Elsa in «Frozen»

Un successo travolgente: Serena Autieri viene scelta per dare la voce ad Elsa nel film Disney «Frozen» e diventa l’idolo dei bambini. Il brano «All’alba sorgerò» (difficilissimo) diventa una hit popolarissima

Il legame con Matteo Marzotto

Nel 2004 , dopo la storia con Naomi Campbell, Matteo Marzotto si lega a Serena Autieri. I due vengono immortalati a Vicenza durante una sfilata di moda in atteggiamenti amorosi che fugano ogni possibile dubbio sulla loro relazione. I giornali di gossip per un po’ hanno pane per i loro denti. Brevi flirt Serena li ha avuti anche con Giovanni Malagò e con Guido Maria Brera, attuale marito di Caterina Balivo.

L’amicizia con Michelle Hunziker

Serena Autieri e Michelle Hunziker, da qualche anno, sono amiche complici e affiatate. Più di una volta l’attrice e la showgirl hanno condiviso sui rispettivi profili Instagram scatti e video insieme. Momenti di quotidianità, ma anche vacanze e avventure in giro per l’Italia. «Michelle è l’amica che vedo più spesso - ha detto Serena - . Le sono tanto legata. Siamo molto simili, c’è molta sintonia fra noi e insieme ci divertiamo sempre. Anche fra le nostre figlie c’è un bel feeling perché hanno la stessa età». Serena Autieri è mamma di Giulia, otto anni, Michelle Hunziker, oltre ad Aurora, ha le piccole Sole e Celeste, che hanno rispettivamente sette e sei anni, nate dall’unione con Tomaso Trusardi.

La famiglia

Nel 2013, dall’amore tra Serena ed Enrico, è nata Giulia. Insieme formano una famiglia felice. Del resto Serena ha sempre detto che lei desiderava molto sposarsi ed avere figli, cercava solo la persona giusta.

·        Serena Grandi.

Serena Grandi: a mio figlio ho tolto un peso facendo coming out per lui. Valerio Cappelli su il Corriere della Sera il 29 dicembre 2021. L’attrice: «Un uomo per conquistarmi usò un sottomarino. Il primo bacio? In chiesa. A un certo punto ho temuto di fare la fine di Laura Antonelli». 

Serena Grandi, la «leggendaria» Miranda, le gambe più belle del cinema italiano. Lo dicevano tutti nel mondo del cinema. Tanto che l’allora suo marito (Beppe Ercole, scomparso nel 2010) le fece assicurare per miliardi di lire. «Ma sai, lavoravo di continuo, negli Anni 80 ho girato 15 film in tre anni…». Tanti uomini l’hanno vista come un trofeo da esibire. Lei non ha mai perso il suo sorriso. Serena avida di vita, generosa nelle forme e generosa nel raccontarsi ora. È anche spiritosa: «Sono un donnone di 1 metro e 70, sono una donna curvy. Vanno di moda, no?».

Lei è una delle attrici che non rinnegano Tinto Brass.

«Perché dovrei rinnegarlo? Mi ha fatto diventare una new entry del cinema, mi ha consacrato come una delle star erotiche del cinema italiano, mi ha insegnato a parlare, a recitare davanti a una troupe di 50 persone, a vestirmi».

E a svestirsi.

«Sì, anche quello. Tinto è stata la mia Accademia. Cosa diceva dei miei glutei? Che se mi fosse successo qualcosa sarebbero intervenute le Belle Arti. Il provino era una scena di Miranda, con la cinepresa che mi inquadrava ovunque. Il vero Tinto Brass era Tinta, sua moglie. Fu lei, con un colpo geniale, che per fare pubblicità al film mi spinse a dire che avevo fatto l’amore con due pugili sul ring. Realizzarono un servizio fotografico, uno dei due era pescivendolo».

Suo figlio Edoardo vide Miranda?

«Glielo proibii fino ai 18 anni, ne ha appena compiuti 32. Mi disse che è attualissimo, che non si era vergognato nel vedere sua madre nuda. Andammo via da Roma perché era bullizzato. Edoardo è gay, ricordo le scritte sotto casa. Una sofferenza continua. Tornai nel buen retiro della mia terra, a Rimini».

Perché lei decise di rivelarlo in tv, al Grande fratello Vip?

«Quel programma è un esperimento antropologico, ti vengono fuori cose che non gestisci razionalmente. A dire il vero mi scappò detto che è gay mentre parlavo con Cristiano Malgioglio. Ho fatto coming out al suo posto. Edoardo ne fu felice, si sentì liberato. È molto maschile ma ha un’anima femminile, mi consiglia su un paio di scarpe, un acquisto».

E Beppe Ercole che padre è stato?

«Pessimo. Era impegnato nel suo lavoro a costruire e arredare case, per quello era un genio. Ci amavamo molto. Mi faceva ridere. Come dice la commedia di Natalia Ginzburg? Ti ho sposato per allegria. Quando uscì Miranda mi regalò una borsa d’oro tempestata di brillanti. Uno dei suoi tanti regali. Una volta a casa mia sotto il letto vide le palle da tennis di un mio ex fidanzato, un atleta famoso».

Adriano Panatta?

«Sì, mi dava tutte quelle palle per far giocare i miei cani. Poi c’è stato Chinaglia, il giocatore della Lazio, si ubriacava e si trasformava, figuriamoci, io sono astemia. Beppe… Sapevo di avere sposato un playboy, ma avevo 23 anni, vai a capire. Tutti quei suoi tradimenti… Nelle interviste mi chiedono sempre: come si faceva a tradire una come me? Posso dirlo? Ero bella come il sole. Ci pensarono gli avvocati a rovinare il rapporto tra di noi, dopo la separazione. Avrei preferito non avere gli alimenti ma che fosse più presente come padre. Edoardo l’ho tirato su da sola, lo portavo con me sui set».

Serena, che effetto le fa rivedersi nei film?

«Non lo so perché non mi rivedo mai, alcuni non li ho nemmeno mai visti. Ho un forte senso autocritico, faccio fatica. Nella mia vita sconclusionata e disordinata ho un solo punto fermo: la professionalità nel mio lavoro».

Paolo Sorrentino la volle ne «La grande bellezza».

«Ruolo drasticamente tagliato. C’era una bella complicità fino a quando sono cominciate le riprese. Poi mi ha tagliato fuori. Voleva essere capito con una parola. Girava di notte le scene diurne. Ma il film è un capolavoro, come lo è “È stata la mano di Dio”. Vorrei reincontrarlo, vorrei che mi abbracciasse dicendomi soltanto ciao Serena. Nel trailer dell’Oscar appaio io. L’ho anche tatuato, l’Oscar».

Ha solo quel tatuaggio?

«No, ho la E di mio figlio Edoardo, la corona del rosario e tre mesi fa mi sono fatta mettere un cuoricino con la gioia di vivere».

Come ha vissuto il cambiamento del suo fisico?

«Dopo la separazione ho cominciato a mangiare e a mangiare. Ma è una storia di malasanità. Non ero a conoscenza di essere geneticamente ipotiroidea (la mia tiroide non funziona da vent’anni). Poi, dei chirurghi estetici mi hanno spinto a fare una riduzione del seno, che a me piaceva. Tinto Brass dice che i seni spanti sono più eccitanti di qualsiasi protesi. Hanno cominciato a fare degli interventi senza accorgersi che sotto c’era un carcinoma di 5 centimetri. Ho preso chili. Non potevo uscire di casa, i fotografi erano appostati, speravano che uscissi con un maglione largo per urlare: ecco com’è diventata. Non sapevano che avevo un cancro. Ecco perché ho scritto il libro “Serena a tutti i costi”. Sono lettere mai inviate a tante persone importanti (e alcune meno importanti) della mia vita».

Il libro l’ha dedicato alle donne che hanno provato dolori e violenze.

«Ne ho raccontata una. Ho tanti bei muscoli sulle gambe e da ragazza, chiudendole, sono riuscita a difendermi da un tentativo di stupro. Ci hanno provato con violenza in parecchi. Ora, dopo una relazione con una forte attrazione, sono quattro anni che non faccio sesso e sto benissimo. Durante il lockdown poi mi è successa una cosa che non ho mai svelato. Ho cominciato a sentire una mia vecchia amica. Passavamo un sacco di tempo al telefono, ci raccontavamo tutto, era diventata una cosa morbosa. Non riuscivo a farne a meno. Sapevo che era omosessuale. È venuta a trovarmi e non ce l’ho fatta, mi sono detta: Serena, ma a te piacciono gli uomini. Lei ha capito, è una donna intelligente».

Gli uomini avranno fatto follie per lei...

«Uno aveva un sottomarino, mi invitò lì, ci portava le donne per fare colpo. Un giorno mi regalò una Ferrari bianca. Era un truffatore napoletano che faceva l’assicuratore. Poi sì, tanti gioielli».

È vero che Agnelli la corteggiava?

«Mi chiamava alle sei del mattino. La cosa stava diventando pesante, non volevo essere maleducata. Sarei stata un numero per lui. Erano gli anni con mio marito di cui ero pazzamente innamorata. Ci sono anche tanti uomini che hanno avuto paura di me».

Com’era da adolescente?

«Ero formosa già a 12 anni, fumavo, mi sentivo grande, portavo il reggicalze, pensavo solo a truccarmi. A scuola ero una frana, mi chiamavano la svampitella perché già allora non ricordavo mai nulla. Ho sempre la testa nei sogni, e una vita interiore importante. Ma il primo bacio non lo dimentico: lo diedi in una chiesa».

Perché il suo ristorante «La locanda di Miranda» ha fallito?

«Perché la gente è ingrata e ladra, perché quando arriva una persona nota che vuol ricostruirsi una vita, dalla gente del posto a una specie di socia, mi sono saltati tutti addosso. Mi hanno presa in giro e fatto ammalare. Come puoi avere tu un ristorante quando l’ex sindaco ne ha cinque accanto al tuo? Ho puntato sul rosso ed è uscito il nero. Ho voluto fallire».

Adesso la sua casa andrà all’asta?

«Gli avvocati stanno trattando. La banca ha fatto di tutta l’erba un fascio, intende prendere la casa ma non si sa come finirà questa vicenda».

Agli arresti domiciliari nel 2004.

«La colpa era di essere famosa. La cocaina, figuriamoci. L’ho presa una volta e non mi è piaciuta, chi non l’ha provata nei locali degli Anni 90 a Roma? Vennero a perquisirmi a casa, pensavo di stare su Scherzi a parte. Ai carabinieri ho detto: se volete trovare i tortellini sono in frigo, non c’è altro. A un certo punto ho temuto di fare mio malgrado la fine di Laura Antonelli. La mia droga è la cioccolata, mi sono punita mangiando. Lo Stato mi ha risarcita con 100 mila euro. Avrebbe dovuto darmi 10 milioni per tutto il fango mediatico che mi hanno rovesciato addosso».

Come passa le giornate?

«Mi chiamano come opinionista da Barbara D’Urso e in altri programmi. Mi ha chiamato Pupi Avati per fare la madre di Vittorio e Elisabetta Sgarbi nel suo film, ho appena girato un corto con Eros Pagni. In genere sto nella mia bolla. Sono una cinefila, come lo era mia madre, Mina, che da ragazza lavorava alla gelateria della stazione di Rimini. Bella, maggiorata, sorridente. Capitò un signore che con la scusa di un gelato, per diversi giorni, prese a fissarla a lungo. Le disse: signorina, non deve temere nulla, sono Pietro Germi, il regista. Vorrei che diventasse protagonista del mio prossimo film, «Il ferroviere». La invitò al provino. I genitori di mamma, i miei nonni, glielo proibirono. Peccato, quell’incontro avrebbe potuto cambiare la sua vita. L’amore per il cinema me l’ha trasmesso lei».

Lei cosa fa d’altro, a parte vedere film?

«Non ho bisogno di nessuno. Mi piace l’idea di fare la scrittrice. Mi metto in pigiama davanti al computer e scrivo. È liberatorio. Vivo con una pappagalla (Luisita, è brasiliana), Mia che è un bassotto e un chihuahua che ho chiamato Leone. Sto cercando casa a Milano. Non ho più voglia di stare davanti al mare di Rimini».

Lei ha molto vissuto.

«I gatti vivono sette vite, io ne ho vissute dieci. In molti hanno sfruttato il mio nome, sono stata un’ingenua. Ma io ne ho combinate più di Carlo in Francia. Ho un’abilità nel mettermi nei guai e nel salvarmi all’ultimo minuto. Sono Ariete, testarda, tocco il baratro e risalgo. L’Araba Fenice. Si accende una lucina dentro di me e rinasco».

Rimpianti?

«Manco uno. Sa cosa diceva Henry Miller? Siamo tutti colpevoli di un crimine: quello di non vivere appieno la vita. Ma siamo tutti potenzialmente liberi. Possiamo smettere di pensare a cosa non abbiamo fatto e fare quello che è in nostro potere».

Da leggo.it il 7 dicembre 2021. Serena Grandi ospite di “Oggi è un altro giorno” di Serena Bortone su Raiuno. L’attrice Serena Grandi è stata accolta in studio sulle note di una canzone di Carlos Santana: «La prima volta che ho fatto l'amore avevo 14 anni, da dimenticare… La seconda volta  – ha raccontato – è stata con questo ragazzo italo cinese e in sottofondo c’era una canzone di Carlos Santana. Quando la sento a distanza di anni ancora mi emoziono. Si chiama Sergio, l’ho cercato su Facebook e lancio un appello: “Andiamo a cena una sera…”….».  Serena ha poi parlato del suo libro: «Per me è stata una seduta psicanalitica. Parlare della propria vita e rileggerla mette sempre in stato di ansia, ti fa sentire nudo.. e infatti è l’ultimo libro autobiografico che farò». L’attrice è tornata al suo matrimonio con Beppe Ercole: «Ho scoperto i tradimenti dopo il divorzio, me l’hanno detto gli altri. Mi ha tradito anche con un’amica, a cui darei due schiaffoni. Avevo dei dubbi, poi al battesimo di mio figlio ho collegato alcune cose e ho capito. Dicono che avere un marito puttaniere è molto meglio, ma non so se è così… Io non l’ho mai tradito, forse una volta col pensiero. Sono una monogama, sia in amicizia che in amore. E’ stato anche un papà negato... Un disastro!». Serena Grandi ha provato anche ad avere delle relazioni con altre donne: «Volevo provare, ero talmente stanca degli uomini.. Mi raccontavano che le donne che sono state famose alla fine si congiungevano con altre donne perché venivano capite meglio. Io ho provato ma poi le cose sono andate male, non volevo più.. Allora posso dire che l’unica certezza che ho è che sono etero». L’attrice ha poi parlato della mamma Mina Faggioli: «Le mamme non dovrebbero mai morire, sono così importanti… Per me è stata una pugnalata alla schiena, quando è venuta a mancare ero ad Arezzo.  E’ morta d’infarto, era ormai una donna stanca. Mi ha trasmesso la sua capacità di essere un po’ “streghetta”, di vedere le cose un po’ prima che accadano…».

Serena Grandi, lo sfogo: “Corpo martoriato da chirurgia estetica e malasanità”. Alice Coppa l'01/12/2021 su Notizie.it. Nel suo libro “Serena a tutti i costi – Lettere di una vita mai inviate” la celebre attrice Serena Grandi ha confessato i dettagli del suo rapporto negativo con il suo corpo. Serena Grandi ha parlato all’interno del suo libro, Serena a tutti i costi – Lettere di una vita mai inviate, come il rapporto con il suo corpo sia cambiato a causa della chirurgia estetica e della malasanità. L’attrice ha anche confessato che in casa sua avrebbe fatto togliere tutti gli specchi per non vedere più quanto la chirurgia estestica abbia cambiato il suo aspetto: “Questo mio corpo oggi è martoriato per colpa della chirurgia estetica e della malasanità. Questo mio corpo che non riesco più a veder riflesso in uno specchio, tanto da aver eliminato tutte le superfici riflettenti in ogni dove”, ha dichiarato l’attrice, e ancora: “Ero ingenua a 12 anni, già così formosa già una donna. Anche se una donna inconsapevole della sua bellezza”. Per anni Serena Grandi è stata considerata una delle più famose sex symbol italiane. Sono ormai molti anni che l’attrice lamenta di aver modificato il proprio aspetto: “Volevo fare e ho fatto un intervento estetico alla pancia perché dopo una gravidanza importante volevo sistemarla un po’. Poi hanno deciso di fare un lifting al seno ritardando così la diagnosi perché quando hanno aperto non c’era un fiore ma un carcinoma di 5 centimetri di cui non sapevo nulla”, ha dichiarato l’attrice, che in passato si è trovata a dover fare i conti con la malattia. Serena Grandi ha confessato anche di aver perso un seno a causa, a suo dire, della negligenza di alcuni medici. “Se mi avessero detto che c’era un problema, sarei corsa subito in ospedale. Avrei evitato l’intervento di chirurgia estetica al seno o forse l’avrei fatto in un secondo momento. La mia lotta contro il cancro era ben più importante”, ha affermato l’attrice, che in seguito all’intervento ha dovuto sottoporsi ad alcuni cicli di radioterapia. “Dopo il primo intervento, ho dovuto subirne un secondo a causa di un’infezione. Non devo fare la chemioterapia, ma solo la radioterapia per 5, 6 settimane. Ho molta paura. Penso sempre che non è finita qua. Anche dopo uno starnuto penso: ma vivrò?”, ha confessato Serena Grandi.

Da mediasetplay.mediaset.it il 28 novembre 2021. Serena Grandi, ospite a Verissimo, ha raccontato di essere stata molestata da bambina: "Era un prete che ci insegnava catechismo. Lui ci abbracciava, a me e alla mia piccola amica, e voleva che ci baciassimo". "Ne parlai con mia mamma dopo anni e lei mi disse ah ecco perché l'hanno cacciato. Quindi ha fatto anche altre cose ad altre bambine", ha continuato. L'attrice ha confessato di essere stata vittima di molestie diverse volte nella sua vita. "Credo però che siano addirittura peggio la violenza psicologica e la manipolazione. Io ho avuto uomini così che mi hanno manipolata e mi hanno fatto soffrire", ha affermato Grandi che ha detto di aver sporto due denunce contro un suo ex compagno: "Mi ha perseguitata fino a poco tempo fa, avevo paura anche a uscire".

Raffaele Panizza per “D – la Repubblica” il 28 novembre 2021. Davanti alla stazione di Rimini, proprio dove sua madre Mina, sessantacinque anni fa, respinse il regista Pietro Germi che voleva portarla a Roma a far la dolce vita, a Serena Grandi viene in mente uno dei tanti uomini che l'hanno spinta a non volerne più sapere, degli uomini. «Era un assicuratore napoletano, mostruoso, autore di decine di truffe», racconta guidando nel traffico la sua utilitaria, tra la nebbia di novembre e la luce dei ricordi. «Per conquistarmi mi invitò a Sharm El Sheik, dove teneva ormeggiato un sottomarino. Sapevo che aveva fatto la stessa scena con Ornella Muti e Lucrezia Lante della Rovere: così mi godetti la gita sott'acqua e poi gli diedi buca. Mi fece anche trovare sotto casa una Ferrari Bianca, col fiocco rosa. La rimandai indietro». Sul tavolo del suo piccolo salotto, in una palazzina dietro il Grand Hotel di Rimini - dove in tubino nero e pelliccia di volpe argentata sposò negli anni Ottanta l'antiquario romano Beppe Ercole - c'è la prima copia della sua biografia epistolare: Serena a tutti i costi (Giraldi Editore, 145 pagine, in uscita il 2 dicembre). Venticinque lettere mai spedite, tra cui una a Tinto Brass che le donò la fama grazie al ruolo di Miranda e un'altra proprio all'ex marito, un playboy finito nei guai negli anni Settanta per lo scandalo di droga della discoteca romana Number One, uomo fascinoso e ricchissimo capace di ammaliarla e umiliarla decine di volte: «Come si fa a tradire una come me?», gli chiede idealmente nel libro, «guardo questa foto del battesimo di Edoardo e dietro di noi, con nostro figlio in braccio, ci sono tante donne. Ho capito solo col tempo che erano tutte tue amanti. Le avevi invitate senza pensare che avresti potuto ferirmi. Come hai potuto? Non puoi rispondermi, caro Beppe, ma sappi che ti ho perdonato per tutto». Ci sono poi le missive amare a Pupi Avati e Paolo Sorrentino, che l'ha voluta ne La grande bellezza per poi trattarla con indifferenza: «Sul set si trasformava» racconta, «costringeva a prove massacranti, a dimenarsi come ossessi anche quando la cinepresa era lontana, e a girare di notte anche le scene diurne. Erano tutti scontenti, tutta una gran fatica». L'umidità della Romagna d'inverno, insieme ai ladri e ai creditori, consumano intanto ciò che è rimasto della sua vita, dei novanta film, delle "gambe più belle del cinema", del "complesso d'Edipo più dolce del secolo", come scrivevano i giornali. La finestra della sala è ancora in frantumi, dopo che alcuni malviventi di dubbia cultura hanno fatto irruzione rubando tutto ciò che c'era da rubare, comprese tre borsette Kelly di Hermès: «Ne hanno lasciata solo una, col fondo sfasciato e che non si può più riparare». Per fortuna, i bifolchi non si sono accorti delle gouache napoletane del Seicento appoggiate al muro scrostato dove vive Luisita, il pappagallo gigante che ripete "Oh Romeo Romeo" e vive con lei da tredici anni, insieme a un bassotto e un chihuahua. E non hanno visto neppure il ritratto di spalle, appeso sopra il letto, che le fece Renato Guttuso invitandola a vent'anni nel suo appartamento romano di Palazzo del Grillo: «Mi scattava delle fotografie, nuda, e su quelle dipingeva» racconta, nella camera piena di foto e coi riscaldamenti spenti. «Mio marito era gelosissimo e non permise più che tornassi». Sospira pensando alle case stupende del passato, la villa all'Olgiata e l'appartamento milanese nella Torre Velasca che le pagava un amante. Mentre la casa dell'ombroso adesso è già finita all'asta una volta, strascico di vicende spiacevoli legate al fallimento del ristorante riminese "La locanda di Miranda": «Pensi che il mio compenso per il Grande Fratello Vip è stato sequestrato direttamente alla Endemol dall'autorità giudiziaria» racconta, aggiungendo che l'incaricato del procedimento d'incanto, un belloccio "tale e quale a Stefano Accorsi", le ha fatto capire più di una volta che vorrebbe portarsela a letto: «Ma io non ho rapporti carnali da più di quattro anni», confida, «gli uomini mi sono venuti a noia, anzi a vomito, e con loro e col sesso ho chiuso». In compenso, ed è giusto dirlo, è arrivato il risarcimento per la storia di droga che la travolse nel 2003, centomila euro versati sul suo conto dal ministero della Giustizia per i danni causati dai sei mesi d'arresti domiciliari seguiti alle accuse, risultate poi infondate, di detenzione e spaccio di cocaina. E anche qui: uomini, uomini sempre addosso: «Avevo sposato un pregiudicato e pagai per tutti», dice, «se avessi parlato, avrei portato a fondo mezzo Parlamento e metà Vaticano». Sua madre Mina, la gelataia della stazione di Rimini "bella, maggiorata e sorridente", chissà per dir cosa e arrivar dove da ragazzina le ripeteva: "Serena, ricordati che non siamo nate puttane”. Dino Risi invece, sul set di Teresa, amava sottolineare il contrario: "Se non sei puttana, e anche bugiarda, non puoi fare l'attrice". In mezzo, nella ricerca di una sintesi tra questi due elastici eterodiretti e mortali, Serena Grandi ha dovuto costruire se stessa e la sua carriera. E chissà quante altre dive e quante donne della generazione delle libere-non libere, delle emancipate-non emancipate, hanno vissuto qualcosa di parallelo o di simile. Il libro di Serena Grandi, nelle sue tenere e spesso tremende contraddizioni, in questo senso appare un interessante scavo in una non lontana archeologia del femminile, aggravata dallo stigma verso una donna quasi colpevolizzata per aver perso la bellezza, come fosse frutto di una corruzione dell'anima e non invece un ipotiroidismo che l'ha gonfiata, e un tumore al seno che l'ha sfigurata. E poi certo, pian piano, ci si sono messi anche la solitudine, la sfiducia di una sciagurata autoconsegna al maschile per affermare il proprio fragile femminile: «Credo di esser stata l'ultimo agnello sacrificale di un mondo patriarcale che andava esaurendosi», dice, mentre il pappagallo urla un nitido "Amore mio", «alle donne di oggi però consiglierei di fare lo stesso: meglio i Cartier dei fiori. Quando ti mollano sola e nella merda i primi appassiscono, gli altri almeno puoi andare a venderli». Sul tavolo, sotto un vassoietto di sushi, una cartelletta contiene le denunce per stalking che negli ultimi mesi ha dovuto depositare contro l'ultimo fidanzato, che ancora si presenta sotto casa facendola vivere con una mazza di ferro vicino alla porta, nel terrore di ogni rumore: «Sa cosa mi hanno detto i Carabinieri? Di assumere un albanese e mandare ad aprire lui, la prossima volta che si presenta». Al collo, Serena Grandi porta ancora la fede nuziale e una vistosa croce di diamanti. Ricorda il prete che da bambina la conduceva nel suo ufficio per toccarla, oppure la costringeva a baciare sulla bocca la sua amichetta Giuliana, spingendole una contro l'altra nel suo abbraccio schifoso: «Forse m'ero allontanata da Dio anche per quello. Ma oggi l'ho ritrovato». Confida di frequentare da mesi la chiesa della Parola della Grazia, a Riccione, dove l'ha introdotta un toelettatore per cani divenuto il suo confessore. E lì, spinta da un pastore brasiliano, ha trovato la sua missione: «Dedicarmi agli altri, curare lo spirito e tenere le anime lontane dal consumismo. Il mio percorso è iniziato da tempo: diventerò una suora laica». Proprio come Claudia Koll, altra creatura archeologica della costola di Tinto Brass, in un tragico "così fan tutte": «Ero una pecorella smarrita», dice, accendendosi una sigaretta che le farà subito venire la tachicardia, «ora, non lo sono più».

·        Serena Rossi.

Elvira Serra per corriere.it il 24 dicembre 2021.  

Da bambina cosa sognava di diventare?

«L’animatrice nei villaggi turistici. In vacanza e vedevo questi animatori che accoglievano e intrattenevano gli ospiti, facevano spettacoli». 

Prime prove?

«C’è un video di mio padre al matrimonio di uno zio. Sbuco io, tipo inviata: “Buonasera a tutti, io sono Serena e siamo al matrimonio di zio Enzo”. Avevo 6 anni».

In realtà le prime tracce della vocazione artistica di Serena Rossi risalgono a quando di anni ne aveva tre, e sua madre la registrava di nascosto mentre cantava Eros Ramazzotti, Marcella Bella e Renzo Arbore. Poi le recite davanti ai parenti per Natale, quando per creare l’effetto fumo gettava l’acqua sul ghiaccio secco o ricopriva le abat-jour con la plastica usata per rivestire le copertine dei libri. Non ha mai smesso di divertirsi, oggi come allora. Si vede da come le si illuminano gli occhi mentre si racconta nella sua stanza d’albergo a Milano, t-shirt azzurra e scarpe da tennis, senza un filo di trucco, prima di correre alle prove di Balla con me, appuntamento di inizio anno con Roberto Bolle su Rai Uno. «Può scrivere che lo amo? Rappresenta tutto quello che vorrei insegnare a mio figlio: garbo, gentilezza, eleganza. Dimostra che si può arrivare lontano restando fedeli ai propri valori».

Si sente più cantante, attrice o conduttrice?

«Arrivo sul set e dico “eh, quello è il mio posto”, poi devo studiare una canzone per uno show e dico “no la musica è la musica”. Sto a mio agio sul palcoscenico, in diretta tv o a teatro. Mi innamoro di tutto quello che faccio». 

Il suo è un talento di famiglia.

«Mio nonno materno era paroliere di Merola, quello paterno suonava l’organetto». 

Sua madre?

«Patrizia, una delle prime speaker delle radio private a Napoli. Ha fatto la maestra, poi l’estetista in casa e ora l’aggiunta trucco sul set. Prima del ciak viene e mi fa le carezze».

Suo padre?

«Renato, tecnico di laboratorio all’ospedale. Voleva studiare al Conservatorio, ma per il nonno la musica non era un mestiere. Ai matrimoni mi accompagnava lui con la chitarra». 

Sua sorella?

«Ilaria è dietro le quinte, nel casting. È stata la mia controfigura in Ammore e malavita, perché ero incinta. E in Mina Settembre ogni tanto gira con il cappotto rosso al posto mio». 

È andata alla Mostra del Cinema di Venezia tre volte. Com’è cambiata l’emozione?

«La prima, con Ammore e malavita dei Manetti Bros., sul tappeto rosso la gente cantava. La seconda, fuori concorso con Lasciami andare di Stefano Mordini, era l’anno del lockdown: un’atmosfera totalmente diversa, ma capivi che era importante esserci». 

Quest’anno ci è tornata da madrina.

«All’inizio, ho fatto il discorso al mio gruppo, in albergo. C’erano trucco, parrucco, l’agente, l’ufficio stampa. Ho chiesto di vivercela con leggerezza: non stavamo operando a cuore aperto, ma dovevamo dare il massimo». 

Fa sempre discorsi motivazionali?

«Sì, perché credo nel lavoro di squadra: ognuno ha un ruolo, il suo talento, e in una catena così complessa se io faccio bene è anche perché prima di me in tanti hanno fatto bene il loro. E poi: “C’a Maronna c’accumpagni!”».

Gli incontri a Venezia. Penelope Cruz?

«Nel discorso di inaugurazione avevo parlato delle donne afghane e dei loro bambini e a cena lei mi disse: si capiva che lo sentivi. Risposi che avevo parlato come una mamma. Replicò: io ti ho ascoltata come una mamma. Ci siamo messe a piangere... Le è un mio mito». 

J-Lo?

«Ho sbagliato tempo. Le avrò detto tre parole, poi è arrivato Ben Affleck e lei mi ha messo da parte. Ci sta. Quando si sono baciati, mi sono voltata perché mi imbarazzava guardarli». 

Almodóvar?

«Sognavo di incontrarlo: nessuno come lui racconta le donne. Ho una foto insieme!». 

Sorrentino?

«Con i suoi attori si siede vicino al mio tavolo. La mia agente suggerisce di andarlo a salutare, ma mi vergognavo. Infine mi avvicino: sono la madrina, vi do ufficialmente il benvenuto. E lui: ma quindi giri i tavoli tipo ai matrimoni? Sì, dopo ti porto i confetti! Tutti a ridere». 

Con lui farebbe una scena di nudo come Luisa Ranieri in «È stata la mano di Dio»?

«Non lo so, ho un forte senso del pudore, mi ci dovrei trovare. Luisa è stata coraggiosa, ma era nelle mani di un maestro. Però dipende soprattutto dalla storia. Se si può evitare, se non è indispensabile, mi faccio proteggere». 

Come nella serie tv «Mina Settembre»: in una scena d’amore ha la controfigura.

«Fu la regista Tiziana Aristarco a proporlo, conoscendomi. In questa famosa scena con Giuseppe Zeno ero al monitor e dicevo: meno, meno, che mia nonna penserà che sono io!». 

Suo figlio «Dieghino» si chiama così per Maradona?

«Il papà ha nome e cognome che iniziano con la D (l’attore Davide Devenuto, ndr) e ci piaceva questa cosa. Diego sembra uno simpatico, con la cazzimma, sveglio. E poi ci sta pure Maradona: sul frigo abbiamo una sua bellissima foto in bianco e nero, con gli occhi chiusi e la palla sulla testa, mentre si allena».

Tifate Napoli?

«Davide e Diego tifano Juve. Quella foto c’è perché quando è morto Maradona ero a Roma e non ho potuto partecipare al lutto collettivo della mia città. Così la domenica dopo mi sono alzata, ho preparato il ragù in suo onore e ho appeso la foto. Certe cose le puoi capire solo se sei di Napoli. Come per Pino Daniele». 

Quella volta dov’era?

«In barca a vela ai Caraibi per Capodanno. Allora ho fatto mettere allo skipper Napule è a palla, in mezzo al mare».

A Napoli è appena tornata per girare «Mina Settembre 2», senza Davide e senza Diego.

«E senza la tata con il figlio. Diego ormai è grande, sarebbe stato egoistico sradicarlo. Torno a Roma nel weekend, con lui ci videochiamiamo ogni sera: disegniamo, gli leggo un libro, facciamo le costruzioni». 

Ci pensa a un altro figlio?

«Diego me lo chiede sempre, però maschio! Questo pensiero mi commuove: non vorrei lasciarlo solo. È un momento frenetico della mia carriera, ma penso che abbiamo seminato così tanto che posso permettermi una pausa». 

In fondo ha concepito Diego quando la carriera stava decollando ed è andata bene.

«In tanti mi dissuadevano, ma non ho mai creduto a questa cosa che una mamma non può più lavorare. Certo, sono privilegiata: se dovevo allattare, sul set facevano una pausa». 

Quale personaggio le è rimasto dentro?

«Mia Martini. Ho lavorato con una coach sul canto e con un’altra sulla recitazione, per studiarne risata, postura, piccoli gesti». 

Loredana Bertè?

«L’ho incontrata alla conferenza stampa, durante le riprese non ci eravamo mai viste. Temevo il suo giudizio, invece mi ha abbracciato: “Si vede che le hai voluto molto bene”».

È andata a trovare Mia Martini in cimitero?

«No, però parlavo con lei e sono successe cose strane. Sono diventata amica della sua migliore amica, Alba. Una volta a casa sua all’improvviso si è spenta la luce e lei ha detto: questa è Mimì. Le riprese le avevamo iniziate il 14 maggio, lo stesso giorno in cui fu trovata morta: non è una coincidenza». 

La sorella Olivia le ha regalato una chitarra.

«Gino Paoli l’aveva regalata a Mia nel ‘75, una Ramirez del ‘72, con la custodia con gli adesivi dei suoi cantanti preferiti, da Ivano Fossati ai Supertramp. Provo a suonarla».

Ora è al cinema con Elisabeth Gay, la prima moglie di Diabolik.

«Quando mi hanno chiamato i Manetti erano un po’ titubanti perché non mi stavano offrendo un ruolo da protagonista. Scusate, ho detto, ma come vi è venuto in mente che potessi fare Eva Kant? Miriam Leone è perfetta!». 

È stato divertente?

«Marco e Antonio sono due fratelli che lavorano insieme ed è esilarante vederli litigare anche su cosa si mangia la sera. Una volta, sui colli bolognesi, hanno discusso 40 minuti perché Antonio voleva ordinare da McDonald’s a Bologna e Marco no perché sarebbe arrivato tutto freddo. Sul set non c’erano cestini, ogni sera si mangiava diverso: coreano, cinese, persiano».

Fa tanta tv. Paura per gli ascolti?

«Li aspetto passando l’aspirapolvere. Da Mina Settembre. Ero nervosissima, dicevo a Davide: se faccio il 20 è un miracolo. Quel lunedì cominciarono ad arrivare i messaggi sul telefonino: din, din, din. E Davide: ma non li leggi? Guardò lui per me: avevamo fatto il 24!». 

Sanremo le piacerebbe?

«Certo, da piccola guardavo Baudo dal divano e sognavo di fare la valletta mora». 

È la testimonial della terapia genica Car-t sui piccoli pazienti tumorali.

«La popolarità può essere messa al servizio di cose importanti. Ho letto una favola ai bambini che si sottopongono a questa cura: è l’ultima speranza per chi di speranza non ne ha».

Il momento più felice della sua vita?

«Troppo facile: la nascita di Diego». 

Parto naturale?

«Cesareo, una settimana dopo il termine: pesava 4 chili. Ma è stato bellissimo perché ho cantato tutto il tempo repertorio napoletano».

E i medici non le dicevano nulla?

«Uno mi chiedeva Maruzzella. A un certo punto annuncio: e ora io e il papà vorremmo dedicare una canzone a questo bimbo che sta per nascere: Tu si’ ‘na cosa grande pe’ mme (la intona, ndr). E poi mi dicono: tra 20 secondi il bimbo è fuori. Allora ho smesso: ricordo gli occhi verdi di Davide nei miei, poi niente più».

Serena Rossi, l’amore con Davide, il figlio Diego, la grande voce, film e tanta tv. L’attrice dal 17 gennaio è la protagonista di «Mina Settembre» su Rai1, una donna napoletana proprio come lei. L’attrice cominciò a «Un posto al sole»: lì arrivarono la fama e l’amore. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 17/1/2021.

1. Serena, donna, cantante, attrice, compagna, mamma. Serena Rossi è una bellissima donna di 35 anni (Napoli, 31 agosto 1985) , un’attrice poliedrica con una voce maestosa. è un’attrice, cantante e conduttrice televisiva italiana. Nel 2003 è entrata nella grande famiglia di «Un posto al sole» e lì ha conosciuto il suo grande amore: l’attore Davide Devenuto e insieme hanno un figlio. L’attore ha chiesto in diretta alla sua fidanzata di sposarlo durante una puntata del 2018 di Domenica In, condotto da Mara Venier. L’attrice ha pronunciato il suo “Sì” in diretta tv ma nella vita vera, i due ancora non si sono sposati. Nato a Roma il 15 marzo del 1972, Devenuto è un attore molto noto al pubblico del piccolo schermo grazie al ruolo del personaggio di Andrea Pergolesi nella soap opera Un posto al sole. Un ruolo che ha lasciato pochi mesi fa dopo 16 anni. Un amore il loro che è cominciato con «Un po’ di attrazione: flirtavamo, facevamo battute, ma io avevo le mie storie e lei le sue. A un certo punto, però, qualcosa è cambiato». Si rincontrano in treno, un giorno. La differenza d’età (13 anni a dividerli) all’inizio non la convince però il primo appuntamento l’ha organizzato lei: «Alla fine sono sempre le donne a decidere». Una cena fuori, menu giapponese: «Non ha dovuto nemmeno cucinare». Il primo appuntamento funziona, ma entrambi non pensano a niente di serio. Come non detto: «Dopo tre mesi eravamo una coppia, dopo quattro siamo andati a vivere insieme». Ed è qui che l’amore curva, un paio di volte. I due si lasciano più volte, si riprendono. La rottura più profonda dura un anno: «È bastato uno sguardo, ci siamo detti a vicenda: “Sapevo che ti avrei rivisto”. Lì ho capito che era lui quello giusto». Diego, venuto al mondo il 5 novembre 2016, ha chiuso il cerchio: «Lui è qui perché io e il suo papà ci amiamo e già questo è qualcosa di immenso».

2. Serena, la napoletana «Mina Settembre». «Il mio personaggio non punta sulla bellezza, ma su empatia, fierezza, dinamismo». Serena Rossi, il 17 e il 18 gennaio e poi tutte le domeniche è la protagonista di una nuova fiction su Rai1 dal titolo «Mina Settembre» personaggio nato dalla penna di Maurizio de Giovanni. E Serena, napoletana di nascita, è stata felicissima di tornare nella sua città d’origine a girare questa serie dove interpreta un’assistente sociale, sempre pronta a prendersi carico di tanti casi nel consultorio nel Rione Sanità, il cuore di Napoli. «Un ruolo in cui tiro fuori tutta la mia napoletanità. Mina è stata parte di me per tanti mesi. Con Marina Confalone (nel ruolo di sua madre), è stato un privilegio lavorare, un’attrice di altissimo livello. Mi ha insegnato tantissime cose». Nel cast anche Giuseppe Zeno , Giorgio Pasotti, Christiane Filangieri, Massimo Wertmuller, Rosalia Porcaro, e anche il suo compagno Davide Devenuto che interpreta il marito di un’amica.

3. Serena, volto e voce di Mia Martini. Una interpretazione da brividi. Tanto che Loredana Berté è scoppiata in lacrime quando ha visto il film tv dove Serena Rossi dava volto e voce a Mia Martini, Il 12 febbraio 2019, «Io sono Mia» è stato trasmesso in prima visione su Rai 1, e ha avuto un ascolto importante: quasi 8 milioni di telespettatori con il 31% di share, diventando il terzo programma più visto del 2019. L’esibizione di Mia Martini al Festival di Sanremo con il brano «Almeno tu nell’universo» è stato interpretato da Serena con grande pathos.

4. Serena, la voce della principessa Anna in Frozen e Frozen 2. Prima amata solo dai grandi, poi, grazie al film Disney amata anche dai bambini. Perchè Serena Rossi è stata scelta come voce di Anna in Frozen, insieme a Serena Autieri. La Rossi si è subito resa conto dell’impatto mediatico di quel ruolo, soprattutto nel mondo dei piccoli e si è dichiarata orgogliosa ed onorata di aver dato voce alla principessa Anna di Frozen, e che questa esperienza le ha lasciato delle emozioni indelebili.. Quando le è stato chiesta di partecipare anche al sequel di Frozen, Serena Rossi ha raccontato di essere più volte scoppiata in lacrime pensando a quanto fosse realmente fortunata nel ricoprire ancora una volta i panni della principessa Anna. Parlando della trama del film, focalizzata sull’amore, Serena confidò di desiderare un secondo figlio dal suo compagno Davide

5. Serena tra film e telefilm con Giampiero Morelli. Quasi una coppia di fatto, artisticamente parlando. Il sodalizio tra Serena Rossi e Giampiero Morelli ha dato molti frutti. Nel 2013 Serena è coprotagonista del film Song’e Napule, dei Manetti Bros., accanto a Giampaolo Morelli; sempre con lo stesso cast, negli anni successivi ha partecipato come personaggio ricorrente alla serie TV «L’ispettore Coliandro». Nel 2017 torna a lavorare con i Manetti Bros. e con Morelli nel la commedia musical Ammore e malavita, presentato alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. E infine Serena Rossi è la prescelta da Morelli quando lui decide di debuttare nella regia girando il film 7 ore per farti innamorare dove Serena è protagonista con Massimiliano Gallo e Gianni Ferreri.

6. Serena e Davide, l’amore grazie a «Un posto al sole». Dal 2003 per circa 10 anni Serena Rossi ha interpretato Carmen nella longeva soap di Rai3 «Un posto al sole. E lì nei corridoi della Rai di Napoli ha incontrato Davide Devenuto che per 16 anni ha interpretato il personaggio di Andrea Pergolesi. Al primo incontro non si sopportano. Lui romano fa una battuta sui napoletani e lei non apprezza. Poi iniziano a frequentarsi solo dopo che l’attrice lascia «Un posto al sole» e tra passioni e pause di riflessione la loro storia d’amore prosegue. Si sono ritrovati – per non lasciarsi più – nel 2016, anno in cui è nato il loro primo figlio, Diego (sul suo profilo Instagram, Davide sceglie di non mostrarne mai il viso).

·        Sergio Rubini.

Valerio Cappelli per il "Corriere della Sera" il 25 aprile 2021. Sergio Rubini, la sua prima adolescenza in una Puglia che appare come un mondo ottocentesco, l' arrivo in una Roma tra la luce dell' Estate Romana di Nicolini e il buio delle Brigate Rosse, la scoperta di sé e del teatro Poi c' è tutto il resto: il resto di un intellettuale che fa l' attore e il regista.

Quando ha lasciato la Puglia per Roma?

«A 18 anni. I miei genitori mi avevano fatto viaggiare con loro da ragazzino. Ma non ero mai stato a Roma. Io, da provinciale, pensavo che il centro di Roma fosse la stazione, così con due amici mi ritrovai in via Marsala. La proprietaria era veneta, una ex ballerina di avanspettacolo, una anziana arcigna che ci aumentò la spesa della luce perché, ascoltando musica, diceva che consumavamo troppa corrente elettrica. Si inventò la tassa sul registratore. Aveva delle camere sfitte, in una stanza c' era un signore campano che aspettava una donna per sposarsi, in un' altra un vecchio figurante di Cinecittà. Mi sentivo solo, la proprietaria aveva un barboncino che prendevo per avere compagnia, fino a che me lo negò. Ho passato un anno così, a confondermi con la città e i suoi suoni, per somigliare agli altri».

E poi?

«Mi sono ritrovato all' Accademia d' arte drammatica, una specie di college dove si andava al mattino e si usciva la sera. Lì ho capito i meccanismi della città. Era il 1979, la stagione fantastica dell' Estate Romana di Renato Nicolini. Una città piena di eventi e di luce, ma c' erano anche i posti di blocco perché c' era ancora il terrorismo, la fine delle Brigate Rosse. L' Accademia non la finii (pare che porti male), cominciai subito a lavorare».

Aveva il sacro fuoco?

«Per niente, io detestavo la recitazione e il teatro. Papà, ferroviere, aveva una compagnia amatoriale. Io non realizzai quanto fosse spregiudicato che in un paesino di una Puglia retriva, chiusa, come quella dove sono cresciuto io a Grumo Appula, si coltivasse una esperienza ascrivibile all' orizzonte beat. A me, al contrario, sembrava una cosa da vecchi parrucconi, che coincideva col mondo degli adulti».

Ma lei cosa voleva fare?

«Volevo suonare. Il piano, l' organo, a 16 anni volevo fare il musicista rock, mi tinsi anche i capelli color carota come David Bowie. Poi il mio gruppo pensò bene di trovare un altro pianista, più bravo di me, questo mi aiutò a capire che quella non era la mia strada, così, per disperazione accettai la proposta di mio padre e recitai con la sua compagnia Natale in casa Cupiello : facevo suo figlio».

Come andò?

«Alle prove non capivo nulla, mi divertii molto allo spettacolo. Del mestiere dell' attore ebbi consapevolezza quella sera. Riuscivo a essere comico, a gestire le pause e i rumori del pubblico. Ero anche bravo».

Torniamo al suo arrivo a Roma e alle sue prime esperienze teatrali.

«Dopo la pensione andai a vivere a casa dei cugini romani di mamma, lei una germanista, lui un sindacalista con la passione della musica classica. Anni formativi di letture. Andavo a vedere gli spettacoli di Carmelo Bene e lì ho capito che bisogna pescare dal proprio passato e che dovevo fare scuola di dizione ma non perdere il mio background. In altre parole, grazie a Carmelo Bene ho capito che l' attore è anche autore. A vent' anni andai a lavorare con Andrea Camilleri».

Era un testo di Camilleri?

«No, lui curava la regia. È stato mio insegnante all' Accademia, dov' era parcheggiato.

Era un grande narratore, le sue lezioni erano fantastiche. Ma forse era un po' insoddisfatto tra sceneggiature, regie e lavori saltuari in tv. Ho sempre mantenuto un rapporto con lui, l' ho visto poco prima che se ne andasse, dovevo fare la voce narrante per un suo spettacolo a Caracalla su Caino ma non ci fu il tempo».

Il primo successo a teatro è «La stazione».

«Ero irregimentato nei teatri Stabili, tutti imborghesiti in una modalità poco creativa e artistica, ai miei occhi di ventenne. All' inizio degli anni Ottanta ho conosciuto Umberto Marino e Ennio Coltorti, l' autore e il regista. C' era un teatro libero a Trastevere e nel giro di una settimana ho recitato in un monologo ispirato al fatto che ero purtroppo ingessato per un incidente alla clavicola, uno dei miei due personaggi era un salumiere pugliese, questo mi faceva tenere il passo nei luoghi d' origine. Il secondo spettacolo fu La stazione, il mio primo vero successo: risentivo l' odore dei treni di mio padre ferroviere, rivedevo le cartelle del personale viaggiante».

Quale idea di teatro c' era?

«Raccontare quello che conoscevo cercando di riprodurlo in scena, ci dicevamo che Eduardo era stato l' unico ad aver descritto la realtà, ma erano anni lontani. Poi più nessuno. Perché parlare del mondo attraverso Mamet, Shepard, le parole degli americani? Dovevamo darci da fare, piuttosto che fare il verso alla realtà Contemporaneamente incontrai Federico Fellini per il film Intervista».

Lei definì Fellini il burattinaio che attaccava al chiodo il burattino-attore dopo le riprese.

«No, anzi, la vera scoperta fu che il più delle volte coinvolgeva le persone che recitavano per lui. Il giorno prima di andare a girare una scena a casa di Anita Ekberg, mi chiamò e mi disse: domani in auto saremo io, tu e Marcellino (Mastroianni, ndr ). Immagino che un giovane attore avrà qualche domandina da fargli. Scriviti qualche battuta. Federico era così con tanti, poi faceva una sintesi. Era il regista della memoria ma gli importava ciò che aveva intorno in quel momento, il presente».

In quel film, lei interpreta Fellini.

«A me però questo non lo disse mai. Spiavo i suoi gesti, dovevo avere l' espressione dello stupore. Gli ricordai che tre anni prima, per E la nave va gli avevo portato una mia foto. Mi rispose sorridendo: ma non è possibile, allora sono un mago! Gli ho dato sempre del lei, lui ogni tanto cercava di venirmi incontro, per sfottermi mi diceva: chiamami Fefè. Mi spiace che per la pandemia le celebrazioni del centenario non ci siano state».

Chi può somigliare a Fellini?

«Grandi vecchi come lui ce ne sono sempre meno, c' erano nel giornalismo, nella politica, nella letteratura. Qualcuno ha pensato che dovessimo rottamare i vecchi, poi ci si è messo il Covid. Abbiamo perso le nostre guide, che in passato erano sacre. Tra loro c' erano anche visionari come Fellini, pensa alla battaglia contro la tv che si stava mangiando il cinema, in Intervista gli indiani all' assalto di Cinecittà la fanno con le antenne della tv».

E con Mastroianni come andò?

«Avevo saputo che per I soliti ignoti vent' anni dopo non mi avevano dato il ruolo perché Mastroianni aveva espresso parere negativo. Dovevo essere suo figlio. Marcello poi mi disse che ero troppo magro, suo figlio, lui, se lo immaginava più cicciottello, non c' era altro».

Un altro mondo. Ma come vede il cinema post Covid?

«Non esisterà più come lo conosciamo e dovremo prenderne atto per rifondarlo. Il cinema diventerà di nicchia e passerà di moda come i cd. La gente non ha smesso di ascoltare la musica: è cambiato il supporto. Così sarà per il cinema. Che già languiva prima della pandemia. Certo il film in sala rende di più, ma non ci sono più le sale. Tanti film si stanno producendo e se ne devono smaltire molti: dove si vedranno? Quanto alle serie, sono prodotti sospesi a cui manca la chiusura di un senso compiuto, mentre un film ti impone un ragionamento, ti racconta un mondo. Prodotti sospesi, con la pandemia è tutto sospeso».

E come preservare la nostra identità?

« Le grandi produzioni italiane sono di comproprietà di stranieri, è una proprietà anche economica e culturale. I gruppi italiani crescono e poi se li comprano da fuori, è una tendenza che riguarda non solo il cinema, sotto traccia, stiamo vendendo tutto e non se ne parla».

Lei ha fatto tanti anni di analisi.

«L' ho cominciata quando finì il mio matrimonio con Margherita Buy. Intorno ai 40 anni rischiavo di perdermi nella vita da single, forse mi sentivo troppo libero. L' analisi mi ha aiutato a fidarmi degli affetti e mi ha tolto dalla superstizione Cercavo segni, simboli, avevo lavorato con Fellini, le realtà parallele, il sogno».

Perché finì con Margherita?

«Forse eravamo troppo giovani. Margherita la conobbi mentre recitava a teatro, prima fu un innamoramento artistico. Oggi abbiamo un buonissimo rapporto, non abbiamo problemi quando lavoriamo insieme, è fantastica, è rimasta com' era, pronta a scherzare e improvvisamente a nevrotizzarsi, poi a ridere e a ricominciare».

Da vent' anni lei è con Carla Cavalluzzi. Ha girato tanto e Ride: «E ho trovato la compagna del mio stesso paese, Grumo Appula, quando la mia prima storia la ebbi in Norvegia. Carla è del 1976, ha 17 anni meno di me, è la nipote di una delle migliori amiche di mia madre, frequentava casa mia da piccola, quando era bambina Margherita ci giocava. Moglie e buoi è quasi banale ma è andata così. Scriviamo sceneggiature insieme, abbiamo finito il film sui De Filippo, Eduardo, Peppino e Titina, che va dalla morte del loro padre naturale, nel 1925, alla sera del '31 quando debuttano in Natale in casa Cupiello , una storia familiare di rivalse, di giovani partiti dalle retrovie. Li racconto come se fossero i Beatles».

Esiste la nostalgia del Sud?

«In senso traslato, per la fanciullezza che mi riporta a un' età trascorsa lì. Come dice Proust, il passato è fatto di luoghi astratti, ciò che li distingue sono le persone con cui hai condiviso quei luoghi. Quando non esistono più quelle persone, non esistono quei luoghi».

·        Shaila Gatta.

Elvira Serra per il "Corriere della Sera" il 3 dicembre 2021. Che sarebbe diventata famosa lo sapeva fin da bambina, quando firmava gli autografi sui fazzoletti di carta «per allenarsi». Quello che non sapeva, è che sarebbe diventata la Velina più longeva nella storia di Striscia la Notizia. Domani Shaila Gatta, 25 anni di Secondigliano, firmerà la puntata numero 927, una in più rispetto a Mikaela Neaze Silva, con la quale condivide la scrivania del Tg satirico di Canale 5 dal 2017: la 30ª edizione. 

Shaila, avrebbe mai immaginato di arrivare fin qui? 

«Dentro di me l'ho sempre saputo. Soprattutto nei momenti difficili...».  

Racconti. 

«Mio padre Cosimo è autista Asl, mamma Luisa ha fatto per anni la sarta in casa. Soldi non ce n'erano tanti e per poter studiare danza alla Scuola Harmony di Napoli ho dovuto fare molte rinunce».  

Faccia un esempio. 

«Niente abiti firmati, i tutù me li cuciva mamma, che con l'uncinetto mi faceva deliziose cuffiette da mettere sopra lo chignon. I sacrifici dovevamo farli tutti».  

Com' è arrivata da Secondigliano a Milano? 

«Passando per Roma, dove mi sono trasferita a 16 anni».  

Da sola? 

«Sì. Mi ero diplomata in anticipo in danza classica e restando a Napoli non avrei potuto fare molto di più. Così, contro la volontà di mio padre, che non capiva come la mia passione potesse trasformarsi in mestiere, mi cercai una stanza a Roma. Per molto tempo io e lui non ci siamo rivolti la parola, anzi, ero io quella arrabbiata con lui. Oggi capisco che la sua era solo paura, e forse anche frustrazione per non potermi dare quanto avrebbe voluto». 

Veniamo a quella stanza. 

«Quartiere Re di Roma, vivevo con la padrona di casa. La mia camera costava 225 euro al mese ed era vuota: dormivo su un materasso gonfiabile, tenevo la valigia aperta per gli abiti. I miei mi davano 400-500 euro al mese. Per le lezioni di danza potevo spenderne un'ottantina: mangiavo pasta e fagioli o pasta e pomodorini per settimane. Durante una lezione Luca Barbagallo rimase colpito dalla mia determinazione e mi offrì una borsa di studio: 6 ore al giorno in una scuola di ballo. Nel frattempo mi presentavo ai provini anche se ero minorenne, ed è stato un bene».  

Perché? 

«Intanto perché respiravo il clima di quell'ambiente. Una volta andai a un'audizione per un programma su Canale 5 di Enrico Brignano, gli piacqui, ma l'età era un problema e non se ne fece nulla. Stessa sorte con Luciano Cannito, che mi suggerì di provare con Amici, dove conobbi Luciano Peparini: ma ero minorenne, niente da fare. L'anno dopo, invece, superai il provino. Dell'opportunità sarò sempre grata a Maria De Filippi».  

Viveva ancora nella casa con il materasso gonfiabile? 

«No! Avevo cambiato. Dopo Amici sono arrivate tante cose: il Capodanno con Carlo Conti, Tu sì que vales, ho ballato a Sanremo. E al provino di Ciao Darwin conobbi Marco Garofalo, che purtroppo non c'è più. Mi scelse e alla quarta puntata mi affidò un pezzo da prima ballerina. Lì mi notò la coreografa di Striscia , ma lo scoprii in seguito». 

E così arriviamo a Milano.

«Con sorpresa. L'audizione l'avevo fatta a Roma, per un generico programma Mediaset. Tre mesi dopo mi convocano a Milano e davanti alla proposta sul tavolo leggo che si tratta di Striscia . "Scusate, in che senso?", chiesi». 

Antonio Ricci cosa le disse?

«Stai calma, rilassati e divertiti».  

I suoi genitori sono venuti a trovarla in trasmissione? 

«Sì, prima del Covid: con la pastiera, il casatiello, la torta coi carciofi, i friarielli. Nel giro di poco non sono rimaste nemmeno le briciole!».  

Il primo regalo ai suoi? 

«La cucina nuova. Ogni mese mando dei soldi a mamma per farsi dei regali. È il mio modo di dire grazie».  

Ora cosa sogna? 

«Un futuro da conduttrice: per tre anni mi sono allenata con Paperissima Sprint , anche questo un grande segno di fiducia di Antonio Ricci».  

È fidanzata con il difensore del Belvedere Grosseto Leonardo Blanchard. La Velina e il calciatore: uno stereotipo. 

«Non credo agli stereotipi, ma nell'amore, che non ha stipendio o professione. Lo puoi incontrare in panetteria». 

Una curiosità: perché si chiama Shaila? 

«Per Shaila Risolo, di Non è la Rai. Mia sorella, Jessica, aveva chiesto a mia madre una sorellina che avesse quel nome e facesse la ballerina. Accontentata!». 

Striscia la notizia, "chi è il fidanzato di Shaila Gatta". La velina? La bomba sul mondo del calcio. Libero Quotidiano il 04 dicembre 2021. Striscia la notizia nella puntata di ieri sera 3 dicembre ha ripreso l'intervista alla velina Shaila Gatta sul Corriere della sera. Ad un certo punto la giornalista Elvira Serra pone una domanda in cui parla dello stereotipo della velina che fa coppia col calciatore (anche se, si sottolinea nel tg satirico di Antonio Ricci, c'è un'accoppiata che a conti fatti vince a mani basse, quella tra giornaliste e giocatori di pallone). E Shaila risponde: "Non credo agli stereotipi, ma nell’amore, che non ha stipendio o professione. Lo puoi incontrare in panetteria".  Tant'è. La velina più longeva nella storia di Striscia la Notizia, Shaila, 25 anni di Secondigliano (Napoli) è fidanzata con il difensore del Belvedere Grosseto Leonardo Blanchard. Nell'intervista del Corriere, quando le chiedono se si aspettava un simile successo, la Gatta risponde: "Dentro di me l'ho sempre saputo. Soprattutto nei momenti difficili...". Prosegue: "Mio padre Cosimo è autista Asl, mamma Luisa ha fatto per anni la sarta in casa. Soldi non ce n'erano tanti e per poter studiare danza alla Scuola Harmony di Napoli ho dovuto fare molte rinunce". E ancora: "Niente abiti firmati, i tutù me li cuciva mamma, che con l'uncinetto mi faceva deliziose cuffiette da mettere sopra lo chignon. I sacrifici dovevamo farli tutti". Quindi a 16 anni, il trasferimento a Roma dopo il diploma a Napoli: "Così, contro la volontà di mio padre, che non capiva come la mia passione potesse trasformarsi in mestiere, mi cercai una stanza a Roma. Per molto tempo io e lui non ci siamo rivolti la parola, anzi, ero io quella arrabbiata con lui. Oggi capisco che la sua era solo paura, e forse anche frustrazione per non potermi dare quanto avrebbe voluto", aggiunge. E ancora, spiega dove viveva: "Quartiere Re di Roma, vivevo con la padrona di casa - ricorda -. La mia camera costava 225 euro al mese ed era vuota: dormivo su un materasso gonfiabile, tenevo la valigia aperta per gli abiti". 

·        Sharon Stone.

Il piccolo colpito da un'insufficienza multiorgano. “River non ce l’ha fatta”, tragedia per Sharon Stone: è morto il nipotino di neanche un anno. Vito Califano su Il Riformista il 31 Agosto 2021. Non ce l’ha fatta River William Stone, il nipotino dell’attrice americana Sharon Stone, figlio del fratello minore della star Patrick e di sua moglie Tasha. Non aveva ancora un anno: lo avrebbe compiuto il prossimo 8 settembre. Il piccolo versava in condizioni disperate da qualche giorno a causa di un’insufficienza multiorgano. L’attrice si trovava pochi giorni fa a Venezia, dove sarebbe stata tra le ospiti più attese, insieme con l’attrice e cantante Jennifer Lopez, della sfilata di Dolce & Gabbana che si è tenuta in Piazza San Marco domenica sera. Le condizioni del neonato sono peggiorate rapidamente e la star ha fatto le valigie ed è tornata a Los Angeles, dalla sua famiglia. Il fratello e la cognata è una coppia che vive lontano dai riflettori. Stone era stata anche madrina di battesimo del piccolo River. “È stato trovato oggi nella sua culla con una insufficienza totale multiorgano (patologia conosciuta anche come MODS da Multiple Organ Dysfunction Syndrome, ndr). Per favore pregate per lui perché abbiamo bisogno di un miracolo”, aveva scritto su Instagram l’attrice pubblicando una foto, qualche giorno fa, che aveva fatto il giro del mondo, con il piccolo ricoverato d’urgenza in ospedale e intubato. Appena l’attrice ha reso nota la malattia del nipote, sono stati numerosi i messaggi di solidarietà di gente comune e vip; così come sono stati tantissimi i messaggi di cordoglio appena è stata diffusa la notizia della morte del piccolo. “River William Stone Sept. 8, 2020 – Aug. 30, 2021”, ha scritto Sharon per dare la notizia su Instagram pubblicando un video mentre giocava con il nipotino. 

Vito Califano.  Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Barbara Costa per Dagospia il 29 agosto 2021. Sharon aveva 8 anni, sua sorella Kelly 5, e Clarence, il loro nonno materno, gli mostrava il pene, gli metteva la lingua in bocca, le toccava e molestava: per il terrore Sharon faceva pipì per terra e la nonna la chiudeva nello sgabuzzino. Nonna che agiva da complice consenziente. Questo orrore è durato fino a che Sharon non ha compiuto 14 anni, e quell’orco è crepato, e Sharon lo ha smosso, nella bara scoperta, per assicurarsi che fosse morto per davvero. Sempre intorno ai 14 anni suo padre ha smesso di picchiarla, con il consenso di sua madre, la quale mai una volta ha permesso che il marito non prendesse a cinghiate i figli. Questa Sharon qui è Sharon Stone, e tutta la violenza, la rabbia che lei recita in "Basic Instinct" è frutto di tutta la rabbia con cui è cresciuta. L’hanno sempre chiamata “la donna con più p*lle di Hollywood” e se il coraggio si misura così c’hanno preso in pieno. Sharon Stone si è tenuta dentro, per anni, decenni, una rabbia, un lerciume, un senso di colpa (inesistente) che ha rivelato alla madre 80enne poco tempo fa, e al mondo nella sua acclamata autobiografia "Il bello di vivere due volte". Se l’aneurisma che l’ha colpita 20 anni fa, due settimane dopo il crollo delle Torri Gemelle, fa da filo rosso del libro, perché alla Stone ha cambiato e diviso in due la vita, in un prima e un dopo (c’ha messo mesi a ritornare a camminare, parlare, e anni a vedere nitido, leggere, a riacquistare memoria a breve termine, e che Joe Biden alla Casa Bianca si svegli! La Stone descrive una sanità USA bestiale, con medici che ti operano ma prima si vendono nome e esclusiva a "People", e pure medici che, se non sei una star, ti ricuciono solo se li prendi a pugni; e pure medici che ti rifanno le tette diverse da quelle concordate, come alla Stone che per cancro ha subito una mastectomia totale), è innegabile che in questo libro critici e recensori si siano fiondati alla ricerca del torbido, del sesso il più piccante. Che qui non ci sono. È un racconto duro, crudo, e mai vittimistico. Dire che Sharon Stone è determinata è riduttivo. È lei forse sì l’ultima diva – mica lo nasconde e nel libro lo ostenta più volte, e ha ragione, trovatemene un’altra più diva di lei – ma è pure una persona che deve niente a nessuno. È una che arriva dal nulla dell’America – un posto sperdutissimo, a 150 km da Pittsburgh – e da un grigiore familiare, padre operaio e madre casalinga, e 4 figli – Sharon è la secondogenita – messi al mondo nell’ignoranza. Sharon è fuggita da questo nulla quando Mike, suo fratello, cocainomane e spacciatore, è condannato a 15 anni di galera: i genitori decidono che è meglio per Sharon cambiare aria e lei, a 20 anni, va a New York per fare la modella e viene presa da un’agenzia. Non per sfilare: troppo grassa. Sharon posa per campagne pubblicitarie, fa la comparsa, vuol fare l’attrice e, malgrado ottimi studi di recitazione, rimane confinata a film di serie B fino ai 34 anni. Fino a Basic Instinct. Ha assillato mesi, al telefono, ogni giorno, il regista Paul Verhoeven, affinché la prendesse come protagonista, al posto di attrici affermate (come voleva Michael Douglas). “Karen, tu sei solo la 13esima scelta”, le dice un produttore untuoso, avido di farci sesso: un nome vale l’altro, conta ciò che dai. E qui Sharon Stone accusa: a Hollywood funziona (funzionava?) così, e se lei ha sfondato al 18esimo film, è perché non l’ha data, ha ogni volta risposto al porco di turno “sc*pati tua sorella!”, e poi perché colleghe su colleghe le hanno soffiato parti dandola, senza sosta né riserve, a registi, a agenti, produttori. Un circo di donne pronte e prone a regole bieche, che "lusingano" peni di potere per riceverne vantaggio e protezione, quella che hanno – a quanto pare – le attrici che un potente se lo sposano mettendosi al riparo. Ciò non esclude vi siano attrici, produttori, registi puliti e leali, che lavorano con correttezza. Ma – a quanto pare – sono una minoranza. Questo sostiene Sharon Stone, tracciando un dietro le quinte siffatto di cui fa parte anche l’Italia, se è vero che – lei non fa nomi – alle pagine 110-111 scrive di quando ha girato un film qui da noi e “l’ho fatto apposta, a recitare da cani, affinché il film fosse un flop: sul set mi hanno umiliata, e offeso mia madre”. Per non parlare di quei registi che vogliono che tu ti sieda sulle loro ginocchia, perché ti devono spiegare bene una scena, e se tu – Sharon – rispondi no, ti rendono il lavoro un inferno. Ma le altre lo fanno, eccome se vi si siedono! Tuttavia, Sharon Stone è fortemente anti metoo: per lei la verità non sta mai da una parte sola: accusato e accusatore sono sullo stesso piano fino a sentenza definitiva. Il mondo lo cambi a forza di denunce non social ma in tribunale, e con leggi inasprite. Se lei dice che anche gli uomini – e anche nel cinema – subiscono molestie, è pur vero che Sharon Stone, allo scoppio del metoo, ha contattato registi, produttori, agenti che in 40 anni di carriera l’hanno importunata: per farci due chiacchiere, sapere che ne pensassero del metoo. Nessuno le ha risposto. Se la sono fatta sotto al pensiero che un nome da 90 come Sharon Stone mettesse il loro sordido pisello in piazza. Ritornando a Basic Instinct: ma tutti quelli che dall’uscita della autobiografia di Sharon Stone hanno gridato se non al porco allo scorretto contro Paul Verhoeven, colpevole di averle fatto girare la scena dell’accavallamento delle gambe inquadrandole il sesso, scusate, ma dove caz*o l’hanno letto? I fatti non sono andati così, e Sharon Stone a pag. 113 mette ordine “tra le caz*ate dette”: lei era senza intimo in seguito alla richiesta di “togliergli perché il bianco degli slip riflette la luce e si nota che li indosso”. È vero che Sharon Stone dà uno schiaffo a Paul Verhoeven perché non immaginava un tale primo piano della sua vagina, ma “potevo scegliere, e alla fine decisi di dare il mio consenso a quella scena. Perché? Perché era perfetta per il film e per il mio personaggio: sono io che l’ho girata”. Nella sanguinosa scena iniziale, quelle natiche meravigliose non sono le sue ma della pornostar Ashlyn Gere. È però Sharon Stone a mimare i colpi col rompighiaccio. Lo fa così forte che l’attore che lei cavalca a un certo punto sviene. Attore che schizza sangue finto da una protesi sul petto azionata e pompata da un tizio sotto il letto. I genitori di Sharon Stone son assenti alla prima di Basic Instinct non perché disapprovino quanto lei fa nel film, ma perché il fratello del padre è trovato morto, per strada, in una pozza di sangue: gli Stone sono sotto interrogatorio della polizia. Ma si scopre che lo zio Beaver non è stato ammazzato: alcolizzato cronico da una vita, da ubriaco era caduto, aveva sbattuto la testa, e c’era rimasto.

Covid, Sharon Stone: “Ho chiesto il vaccino obbligatorio sul set, sono stata minacciata di licenziamento”. Ilaria Minucci il 31/07/2021 su Notizie.it. Sharon Stone ha chiesto alla produzione del suo film di rendere il vaccino Covid obbligatorio sul set ma è stata minacciata di licenziamento. L’attrice americana Sharon Stone, impegnata in un nuovo progetto cinematografico, ha rivolto alla produzione della pellicola una richiesta legata alla pandemia da coronavirus in seguito alla quale è stata minacciata di licenziamento. Sharon Stone, attrice statunitense che ha esordito nel mondo dello spettacolo nel 1980, ha recentemente iniziato a dedicarsi a un nuovo progetto cinematografico. In questo contesto, ha deciso di rivolgersi alla produzione del film, sollevando il problema della pandemia e dei vaccini sintetizzati contro il SARS-CoV-2. L’attrice, infatti, ha chiesto di rendere obbligatorio il vaccino per tutti coloro che avrebbero preso parte al nuovo progetto che la vedeva coinvolta.

La risposta della produzione, tuttavia, è stata estremamente diversa dalle aspettative dell’artista che ha raccontato di essere stata minacciata. I produttori del film, il cui titolo non è stato svelato, hanno infatti invitato Sharon Stone ad abbandonare una simile idea, facendole intendere che il suo impiego fosse gravemente a rischio. In merito alla vicenda, Sharon Stone ha deciso di parlare pubblicamente di quanto accaduto, postando un video online. Nel corso del suo discorso, l’attrice ha scelto di fare riferimenti superficiali alla produzione con la quale è in contatto e ha rivelato soltanto che le riprese del film verranno effettuate ad Atlanta. A questo proposito, quindi, l’artista ha dichiarato: “Se parteciperò prima che chiunque sia vaccinato? No, non lo farò. Sono stata minacciata di perdere il lavoro? Sì. Perderò il lavoro se qualcuno sul set non sarà vaccinato? Sì”. La causa sposata da Sharon Stone affonda radici profonde nel contesto della pandemia vissuta negli Stati Uniti d’America e si inserisce sulla sia della decisione annunciata anche da Sean Penn. Soltanto pochi giorni fa, infatti, l’attore ha abbandonato il set della serie tv Gaslit annunciando che avrebbe ripreso il suo ruolo soltanto nel momento in cui tutti i membri della troupe e del cast si fossero vaccinati contro il SARS-CoV-2. Per quanto riguarda la posizione di Sharon Stone, inoltre, la donna ha spesso raccontato che molti dei suoi familiari sono stati contagiati dal virus, compresa sua sorella. In queste circostanze, l’artista ha ripetutamente attribuito la responsabilità della diffusione del Covid a tutti coloro che non fanno uso della mascherina. La decisione, infine, possiede anche un valore strategico in quanto Sharon Stone è determinata a portare avanti la sua candidatura per ottenere un posto nel board del sindacato americano che si occupa di rappresentare oltre 160.000 attori.

Simona Marchetti per “corriere.it” il 10 luglio 2021. Non c’è stato alcun inganno, Sharon Stone sapeva esattamente quello che stava facendo nella famigerata scena dell’interrogatorio e delle gambe accavallate/scavallate in «Basic Instinct». E a ribadirlo per l’ennesima volta è il regista Paul Verhoeven, che già in un’intervista a ICON del 2017 aveva smontato la tesi del raggiro ai suoi danni sostenuta ai tempi dall’attrice e riproposta poi da quest’ultima anche nella sua recente biografia «The Beauty of Living Twice», dove scrive che le era stato garantito che le sue parti intime non sarebbero state visibili sullo schermo, cosa che invece non è successa.

Il regista: «Nessun inganno, sapeva quel che faceva». «Il mio ricordo è radicalmente diverso da quello di Sharon – ha detto infatti a Variety il regista, presente al Festival di Cannes per la promozione del film “Benedetta” – e la sua versione è impossibile. Sapeva esattamente quello che stavamo facendo, le ho detto che era basato sulla storia di una donna che conoscevo quand’ero uno studente e che ogni volta alle feste incrociava le gambe senza avere sotto la biancheria intima. Una volta un amico le disse che in questo modo potevamo vedere le sue parti intime e lei rispose “lo so, è per questo che lo faccio”. Quindi Sharon e io abbiamo deciso di girare una scena simile».

La versione di Sharon. Malgrado la discrepanza delle versioni sull’accavallamento cinematografico più famoso della storia e il racconto poi fatto dalla Stone sulla reazione e ha avuto quando ha visto le sue parti intime esposte al pubblico sul grande schermo («ero scioccata, alla fine della proiezione sono andata da Paul e gli ho dato uno schiaffo»), Verhoeven ha solo parole gentili nei confronti dell’attrice. «Tutto questo non ha nulla a che vedere con il modo meraviglioso con cui Sharon ha interpretato Catherine Tramell – ha concluso il regista - . Lei è assolutamente fenomenale, abbiamo ancora un bel rapporto e ci scriviamo spesso via messaggio».

Simona Marchetti per "corriere.it" il 23 giugno 2021. L’intervista a Zoomer  risale a un mese fa. E sarebbe passata sotto silenzio o quasi, se un utente di Twitter non ne avesse condiviso la parte in cui Sharon Stone sostiene che Meryl Streep sia sopravvalutata e che molte sue colleghe siano brave quanto lei, ma non abbiano ottenuto lo stesso successo, scatenando un autentico putiferio social fra i fan delle due attrici. Tutto è partito dalla domanda di Johanna Schneller alla Stone sulla sua esperienza lavorativa con la Streep sul set di «Panama Papers» del 2019: partendo dalla frase del memoir della Stone, «The Beauty of Living Twice», dove scrive «ci è stato detto che poteva esserci spazio per una sola di noi due», l’autrice dell’articolo chiede alla protagonista di «Basic Instinct» un commento, esordendo con «quando hai finalmente avuto modo di lavorare con Meryl Streep….». Al che la Stone la interrompe e puntualizza: «Mi piace il modo in cui lo dici, che finalmente ho potuto lavorare con Meryl Streep. Non hai detto “Meryl finalmente è riuscita a lavorare con Sharon Stone”. O “finalmente siete riuscite a lavorare insieme” e il modo in cui è strutturata la domanda è parte del problema, perché è così che è andata la sua vita, “tutti vogliono lavorare con Meryl”». E questa prassi vale per la Stone e per tutte le altre sue colleghe che non sono la Streep.

«Perché solo Meryl deve essere brava?» «Il business è stato costruito in modo che tutti dovremmo invidiare e ammirare Meryl, perché solo Meryl deve essere quella brava – continua infatti la 63enne attrice - . E tutti dovrebbero competere con Meryl. Penso che Meryl sia una donna e un’attrice straordinariamente meravigliosa. Ma secondo me, francamente, ci sono altre attrici altrettanto talentuose come Meryl Streep. L'intera iconografia di Meryl Streep fa parte di ciò che Hollywood fa alle donne». Per rendere ancor più chiaro il concetto, la star di «Casinò» cita alcune colleghe che lei considera brave quanto il premio Oscar e nell’elenco mette pure lei stessa. «Viola Davis è esattamente l'attrice che è Meryl Streep. Emma Thompson. Judy Davis. Olivia Colman. Kate Winslet, per l’amor del cielo. Ma dici “Meryl” e tutti cadono a terra. Io sono una cattiva molto migliore di Meryl. E sono sicura che lo direbbe lei stessa. Meryl non sarebbe stata brava in “Basic Instinct” o in “Casinò”, io sono stata migliore. Lo so io e lo sa lei».

I social divisi. Frasi non esattamente di circostanza, insomma. Ecco perché non stupisce che – una volta pubblicato l’estratto dell’intervista – gli utenti di Twitter si siano divisi fra chi criticava la Stone per le sue affermazioni contro la Streep e chi invece la difendeva per il coraggio dimostrato: non capita infatti tutti i giorni in quel di Hollywood che qualcuno esprima così apertamente il suo pensiero negativo nei confronti di una collega, men che meno di una leggenda del cinema.

Claudia Guasco per il Messaggero il 26 giugno 2021. Qualche anno fa sul canale americano Fx è uscita la serie Feud, sulle grandi rivalità che hanno segnato un'epoca. E la prima puntata era dedicata al feroce antagonismo tra Bette Davis e Joan Crawford, insieme nel 1962 sul set di Che fine ha fatto Baby Jane?. Oggi, come allora, la storia si ripete. C' è Hollywood a fare da sfondo, due attrici super famose e una che dice dell'altra: «È sopravvalutata, nel ruolo di cattiva sono migliore di lei». Messaggio spedito via intervista da Sharon Stone, un Golden globe vinto, a Meryl Streep, tre Oscar conquistati e otto Golden globe all' attivo.

«SPAZIO SOLO PER UNA» Sfrontata e gelosa, sostengono i detrattori a colpi di tweet.

Coraggiosa, ribattono i sostenitori di Sharon. La quale sostiene di opporsi a un mondo del cinema nel quale Meryl è il sole e le colleghe i satelliti. «Perché soltanto Meryl Streep deve essere brava?», afferma la Stone. Tutto parte da una sua intervista su Zoomer. Che fila liscia finché la giornalista Johanna Schneller le chiede della sua esperienza lavorativa con la Streep in Panama Papers del 2019, a proposito della quale nel suo libro di memorie The Beauty of Living Twice Sharon ricorda: «Ci è stato detto che poteva esserci spazio per una sola di noi due». Una la star, sempre una la migliore. Ma la domanda «quando hai finalmente avuto modo di lavorare con Meryl Streep» fa sobbalzare sulla sedia la protagonista di Basic instinct. Che interrompe e puntualizza: «Mi piace il modo in cui lo dici, che finalmente ho potuto lavorare con Meryl Streep. Non hai detto Meryl finalmente è riuscita a lavorare con Sharon Stone. O finalmente siete riuscite a lavorare insieme e il modo in cui è strutturata la domanda è parte del problema, perché è così che è andata la sua vita: Tutti vogliono lavorare con Meryl».

ICONOGRAFIA Insomma, davanti lei e dietro le altre a mangiare polvere. «Il mondo dello spettacolo è stato organizzato in modo tale che tutte dobbiamo invidiare e ammirare Meryl perché solo Meryl deve essere quella brava», insiste la rivale. «E tutte dovrebbero competere con Meryl. Penso che Meryl sia una donna e un'attrice straordinariamente meravigliosa. Ma secondo me, francamente, ci sono altre attrici altrettanto talentuose. L' intera sua iconografia fa parte di ciò che Hollywood fa alle donne». Esaltare chi viene ritenuto vincente, affossare talenti, creare competizione. Per ribadire il concetto la stella di Casinò cita alcune colleghe che ritiene eccellenti quanto la pluripremiata Streep, elenco nel quale si inserisce di diritto. «Viola Davis è esattamente l'attrice che è Meryl Streep. Emma Thompson. Judy Davis. Olivia Colman. Kate Winslet, per l'amor del cielo. Ma dici Meryl e tutti cadono a terra. Io sono una cattiva molto migliore di Meryl. E sono sicura che lo direbbe lei stessa. Meryl non sarebbe stata brava in Basic instinct o in Casinò, io sono stata migliore. Lo so io e lo sa lei».

COME TRUMP Dalla spietata protagonista di Il diavolo veste Prada, silenzio assoluto. Del resto le stesse parole, in un conciso messaggio social, le aveva usate l'ex presidente degli Usa Donald Trump dopo essere stato criticato dalla rivale della Stone. «Meryl Streep, una delle attrici più sopravvalutate di Hollywood, non mi conosce ma mi ha attaccato ieri sera ai Golden globes. È una lacché di Hillary Clinton». Durante il discorso con cui ha celebrato il premio alla carriera, l'attrice di Kramer contro Kramer si è opposta alle idee di Trump (senza mai nominarlo) contro gli immigrati. «Chi siamo? E cos'è Hollywood in fondo? È solo in gruppo di persone che arrivano da altri posti», ha esordito l'attrice. «Tutti noi in questa sala apparteniamo ai settori più vilipesi, come gli stranieri. Hollywood è piena di stranieri: se li cacciamo tutti, non avremo più nulla da guardare se non il football e le arti marziali miste. Che non sono le arti». Sopravvalutata è la parola usata sia da Trump sia dalla Stone, e non è sfuggita agli osservatori politici. Ora si attende la reazione di Meryl Streep. Anche tardiva. A novant' anni Gina Lollobrigida ha festeggiato il compleanno con un'intervista nella quale dichiarava: «La rivalità con Sophia Loren? Io ero la numero uno e sono andata avanti con le mie forze».

DAGOREPORT il 7 aprile 2021. Gran chiasso per l’autobiografia di Sharon Stone ‘’Il bello di vivere due volte’’ (Rizzoli, in libreria il 30 marzo) nella quale il lettore scopre che quella fanciulla con la faccia da camera letto e i comodini al posto delle orecchie, poster vivente di una sessualità frivola e promiscua, è stata bullizzata a un millimetro della violenza dal trucidume hollywoodiano, in occasione del famigerato film del 1992, “Basic Istinct”, che mostrò la sua vagina al mondo. Nella sua biografia, infatti, Sharon Stone racconta che "il regista Paul Verhoeven le disse che le sue parti intime non si sarebbero viste. Ha anche aggiunto che era riluttante a togliersi la sua biancheria intima. "Quando la facemmo - scrive la  Stone a proposito della scena - il regista mi disse "si vedranno le mutandine, ho bisogno che tu te le tolga". Al che io dissi, "non voglio che si veda niente", e lui "No, no, non si vedrà". Tuttavia quando la  Stone fu in grado di vedere un'anteprima del film notò che le sue parti intime erano visibili, a quel punto prese a schiaffi il regista e lasciò la sala di proiezione. Ancora. In un altro estratto del libro, Sharon Stone rivela che un produttore, che non ha voluto identificare, le chiede di fare realmente sesso sul set con il co-protagonista del film per rendere "più frizzante" e "creare la giusta chimica sullo schermo". "Questo produttore che ora ha 63 anni", rivela l'attrice, "mi portò nel suo ufficio e cominciò a camminare avanti e indietro, mentre mi spiegava perché avrei dovuto farmi l'attore sul serio", per aiutarlo a calarsi meglio nella parte. "Avrebbero fatto meglio a prendere uno di talento, qualcuno in grado di ricordarsi le battute, oppure potevano fare sesso tra loro e lasciarmi fuori da tutto questo", spiega. "Il mio lavoro è quello di fare l'attrice e faccio solo quello, fu ciò che gli dissi". Dopo le sue dichiarazioni è partita la caccia al produttore: secondo il New York Post potrebbe trattarsi di Robert Evans, produttore del thriller erotico "Silver" del 1993, in cui il co protagonista era William Baldwin. Ah, cosa c’è di più sexy delle perdita della memoria? Sharon Stone! Correva il 28 giugno 2000 e su “La Repubblica” uscì un articolo (“Una carriera a tutto sesso”) che ribalta completamente il pianto da orsolina verginella di Sharon. “Scandalo preannunciato per il nuovo libro dello sceneggiatore Joe Eszterhas, ‘’American Rapsody’’ che prende di mira la Hollywood di Clinton. Nel capitolo su Sharon Stone, anticipato dalla rivista Talk, l'attrice sarebbe la perfetta partner di Clinton: "La più matura delle pesche mature, l'apoteosi delle bionde curvacee da concorso di bellezza che rappresentano l' ideale di donna del presidente". Ma di una relazione tra Clinton e la Stone nel libro non si fa parola. Lo sceneggiatore, il più pagato di Hollywood dopo il successo di "Basic Instinct", si concentra invece sulle performance erotiche della diva nel mondo del cinema. Alcuni episodi scabrosi vedono Eszterhas protagonista: come quando, per convincerlo a riscrivere una scena di sesso, lei gli regalò un massaggio hard. "Si mise a cavalcioni sulla mia schiena e cominciò a muoversi avanti e indietro. Mi accorsi che non portava mutandine". Un massaggio analogo servì a indurre il regista di "Sliver", Phillip Noyce, a cambiare la scena della masturbazione nella vasca da bagno: "Le donne non lo fanno così", lo aveva informato Sharon. Ha funzionato. La scena è stata riscritta. Eszterhas sostiene che, a dispetto della recente rispettabilità dopo il matrimonio con il giornalista Phil Bronstein, Sharon ha una capacità di persuasione "appresa a 19 anni, quando faceva la modella, sui divani dei provini e negli angoli bui delle discoteche di Milano e Buenos Aires". Eszterhas ricorda che un ex agente di Stone gli aveva raccontato: "Avevamo un detto tra noi in agenzia. "Metti Sharon Stone nella stanza da sola con il regista e lei avrà la parte". Eszterhas ha detto che l'antipatia di Stone per il suo co-protagonista di "Sliver" William Baldwin è stata così intensa che lei gli ha morso la lingua durante un bacio sullo schermo e avrebbe usato il collutorio dopo averlo baciato. Eszterhas ha anche detto che la Stone era così antipatica sul set di "Sliver", che la troupe urinò nella vasca da bagno che avrebbe dovuto usare nella scena della masturbazione. Racconta un incidente subito dopo l'uscita di "Basic Instinct" in cui è andato a casa di Stone, "ha fumato un po' del suo tailandese", ha bevuto champagne ed "è finito sul tappeto a strisciare intorno alla sua casa delle bambole".  Più tardi andarono a mangiare in un ristorante chic di Hollywood "storditi dalle nostre menti" prima di tornare a casa sua per più droga, più champagne e più sesso. "Poi sono tornato al mio hotel, felice di averla creata", ha detto. La replica di Sharon Stone alle rivelazioni del libro di Eszterhas: "Sapevo che era divertente ma non sapevo che potesse scrivere commedie". 

Sesso sul set, abusi e poi l'ictus: quelle confessioni di Sharon Stone. Sta facendo discutere l'autobiografia di Sharon Stone in uscita il 30 marzo dove l'attrice ha fatto scioccanti rivelazioni su proposte hot ricevute sul set di alcuni film e vita privata. Novella Toloni - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. Le premesse c'erano tutte. La biografia di Sharon Stone (in uscita il 30 marzo) si conferma una bomba pronta ad esplodere con dettagli sconvolgenti e inquietanti della vita privata dell'attrice che, a 63 anni, è ancora una delle donne più belle e desiderate del grande schermo. "The beauty of living twice - Il bello di vivere due volte", questo il titolo del suo libro autobiografico, uscirà nei prossimi giorni, ma l'edizione statunitense della rivista Vanity Fair ha pubblicato in anteprima alcuni piccanti estratti del volume tra molestie fuori e dentro il set, abusi e proposte indicenti. A partire da quella ricevuta sul set di un film (secondo i media americani, "Sliver") in cui il regista le chiese di avere veri rapporti sessuali con il co-protagonista del film per rendere più realistiche le scene. Una proposta che la Stone rifiutò categoricamente e che è descritta nella sua biografia. Sharone Stone ha poi rivelato quanto accaduto dietro le quinte della scena cult di Basic Instinct, che la consacrò nell'olimpo delle star di Hollywood negli anni '90. Nella scena in cui l'attrice accavalla le gambe senza l'intimo non avrebbe dovuto vedersi niente. Il regista Paul Verhoeven le avrebbe garantito che le sue parti intime non si sarebbero viste e invece la Stone scoprì il contrario durante la visione dell’anteprima, e rabbiosa prese a schiaffi il regista prima di uscire dalla sala di proiezione. Un'autobiografia che rivela molto di più di quello che l'attrice, negli anni, ha mostrato di sé al pubblico e alla stampa. La scarsa fiducia in se stessa e il cambiamento, drastico, proprio dopo l'uscita di Basic Instinct: "Mi ha insegnato a mostrarmi meno debole, meno disponibile a essere mangiata viva. Prima non mi consideravano così sexy". Sincera e auto ironica, Sharon Stone ha confessato anche del terribile episodio vissuto durante l'infanzia, a 8 anni, quando il nonno abusò di sua sorella minore, Kelly, 5 anni, davanti ai suoi occhi: "Avrei voluto accoltellarlo a morte. E quando ho interpretato la serial killer in Basic Instinct ho attinto alla rabbia covata, ho fatto uscire l'oscurità che avevo dentro". Poi i drammi personali e le malattie: i tumori al seno, gli aborti spontanei fino all'ictus. Ed è proprio quest'ultimo episodio, avvenuto nel 2001, ad averle cambiato la vita: "Quando ho aperto gli occhi e ho visto lui, un uomo bellissimo mi stava accarezzando la testa e i capelli. Per un attimo ho sperato che fosse lì perché mi amava. E invece ha detto: «Ha un'emorragia cerebrale. Sdraiata sulla barella ho capito che nessuno dei presenti in quella stanza era lì perché mi amava. L’ho semplicemente intuito, non mi serviva un’emorragia cerebrale per rendermi conto dell’incredibile battuta d’arresto nella mia esistenza".

Gloria Satta per “il Messaggero” il 28 marzo 2021. Non solo Basic Instinct e «l'inganno» che la spinse a togliere gli slip davanti alla cinepresa, le molestie di un produttore, le pressioni ricevute per fare sesso con il partner, l'imposizione di un regista di girare una scena di sesso sgradita. Nella palpitante autobiografia di Sharon Stone Il bello di vivere due volte (Rizzoli, in libreria il 30 marzo) c'è anche un nonno orco. Abusò della sorellina dell'attrice, Kelly, 5 anni, davanti agli occhi di Sharon stessa che ne aveva appena 8: «Avrei voluto accoltellarlo a morte. E quando ho interpretato la serial killer in Basic Instinct», scrive la star, «ho attinto alla rabbia covata, ho fatto uscire l'oscurità che avevo dentro...». È stato l'atto «più liberatorio» della sua vita, giura. Successi e malattie, amori e dolori, glamour e impegno, soprattutto la rinascita dopo la faticosa guarigione dall'ictus del 2001: a 63 anni, il ruolo di icona ancora intatto e l'attivismo umanitario sempre più intenso, Sharon ha deciso di mettersi a nudo rivedendo la propria vita come fosse un film. «Ho imparato a perdonare l'imperdonabile», assicura alla fine di questa maratona autobiografica che parte dalle sue origini, un paesino della Pennsylvania nel mezzo del nulla, passa dai traumi dell'infanzia e approda ai fasti di Hollywood toccando il rapporto di amore e odio con la madre Dot, l'adorazione per il padre Joe, i tre figli adottivi, le malattie (oltre all'ictus, tumori al seno e aborti spontanei), gli incontri, il buddismo, le battaglie. Sharon, seconda di quattro fratelli, ha sempre saputo di essere speciale, dotata di un Q.I eccezionale: da ragazzina era «costantemente nei guai perché facevo quella cosa considerata disdiscevole per il genere femminile: pensare». Ma praticava anche il motocross, maneggiava il cemento, adorava il jazz, giocava a carte e leggeva libri, tanti libri. Si manteneva servendo pasti in un fast food, poi arriva la svolta come modella nella mitica agenzia di Eileen Ford a New York, quindi il debutto sul set in Stardust Memories di Woody Allen. Ma prima che l'attrice esplodesse in Basic Instint, nel cinema non la consideravano abbastanza sexy, «insomma non ero scopabile». Nel suo autoritratto, spietatamente sincero senza rinunciare all'ironia, Sharon racconta di aver ribaltato la propria immagine attraverso un lungo lavoro di autoconsapevolezza. Decisivo, 30 anni fa, fu proprio Basic Instinct: «Mi ha insegnato a mostrarmi meno debole, meno disponibile a essere mangiata viva». Diventa una star, a Hollywood la venerano e la temono, «dicevano che intimidivo l'altro sesso, mi fanno ridere». Ma dopo l'ictus le sue quotazioni precipitano e le descrizioni si fanno impietose: «Bionda, alta, tette grandi, gambe lunghe e un danno cerebrale. Una sopravvissuta». Poi il sistema deve ricredersi: «Hanno detto che ho le palle più grandi di Hollywood. E se sono stata la prima donna a ottenere un compenso ritenuto rispettabile, sempre molto più basso di quello degli uomini, ma più alto rispetto al passato, non è un caso... Ho cambiato le regole e sono stata punita, potrei esserlo ancora ma non ho paura». Chi è oggi Sharon Stone? Lei si descrive come una donna affamata d'amore, compassionevole, femminista, riconciliata: con la madre, a cui dedica il libro, con l'ex marito Phil Bronstein che le strappò la custodia del figlio Ronan. L'attrice è finalmente consapevole del proprio potere. Condannata a essere una femmina alfa e felice di esserlo.

Estratto da “Il bello di vivere due volte”, di Sharon Stone (ed. Rizzoli), pubblicato da “La Stampa – TuttoLibri” il 28 marzo 2021. Ho aperto gli occhi e ho visto lui, davanti a me, a pochi centimetri dal mio viso. Un perfetto sconosciuto mi guardava così teneramente da farmi credere di essere in punto di morte. Un uomo bellissimo mi stava accarezzando la testa e i capelli. Per un attimo ho sperato che fosse lì perché mi amava. E invece ha detto: «Ha un’emorragia cerebrale». Mentre lui mi toccava con delicatezza il capo, io, sdraiata sulla barella, ho capito che nessuno dei presenti in quella stanza era lì perché mi amava. L’ho semplicemente intuito, non mi serviva un’emorragia cerebrale per rendermi conto dell’incredibile battuta d’arresto nella mia esistenza. Erano gli ultimi giorni di settembre del 2001 e mi trovavo al pronto soccorso del California Pacific Medical Center di San Francisco. A quel punto ho chiesto al dottor Bellezza: «Potrei perdere la parola?». Lui mi ha risposto di sì. Mi serviva un telefono. Dovevo chiamare mia madre e mia sorella. Volevo dirglielo io, finché ero in tempo. Il bel dottore mi ha stretto forte la mano. Stava facendo del proprio meglio per colmare il mio vuoto con quella sorta di affetto speciale che sa dimostrare solo chi fa il proprio mestiere con passione, perlomeno in momenti simili. Da lui ho imparato molto. Ho chiamato per prima mia sorella Kelly che, come sempre, si è confermata la persona più straordinaria che conosca. È più gentile con gli altri che con se stessa, e dietro la sua dolcezza si nasconde un po’ di ingenuità. Poi ho chiamato mamma, una conversazione più difficile per me, perché non ero particolarmente sicura di piacerle. Ed eccomi lì, moribonda e pure insicura. Mamma era nel giardino di casa a curare le piante, su una collina della Pennsylvania. Le è venuto un mancamento. Bisogna dire che Dot è abbastanza impressionabile, a volte per andare in crisi le basta ascoltare una pubblicità alla radio, perciò ho aspettato, sapevo che si sarebbe ripresa subito. Nonostante la distanza che ci separava, lei e mio padre sono arrivati in meno di ventiquattr’ore. È entrata di corsa in ospedale con i bermuda ancora indosso, le unghie sporche di terra e il terrore negli occhi. Uno sguardo è stato sufficiente a cancellare anni di incertezze e fraintendimenti. Mentre pensavo di morire da un secondo all’altro, lei mi ha accarezzato il volto con una mano imbrattata e all’improvviso ho sentito che mi amava. Pezzo per pezzo. Mio padre le stava accanto come un toro pronto alla carica. Ho chiamato Mimi, la mia migliore amica da oltre vent’anni, e ho esordito come sempre prima di una notizia bellissima o bruttissima: «È meglio che tu ti sieda». L’ho sentita fare un respiro profondo. «Sto rischiando di morire e sei l’unica a cui posso dire la verità, perché qualcuno dovrà prendersi cura di tutti e non posso farlo io. Ho un’emorragia cerebrale e non sanno cosa l’abbia causata.» Mimi ha esclamato: «Merda!». Io ho detto: «E poi, qui c’è un dottore bellissimo e non riesco nemmeno a flirtare con lui». Stava per mettersi a piangere quando mi ha sussurrato: «Bimba, salgo sul primo aereo che trovo». Proprio come mi aspettavo. Poi è calato di nuovo il silenzio, ha rimbalzato sulle piastrelle del pronto soccorso e mi ha colpito dritto al cuore appena spezzato. Ricordo di aver provato una sensazione a metà tra lo spavento e l’incanto nel notare che nessuno intorno a me si agitava urlando: «Presto, non c’è tempo da perdere!», come si vede nelle serie TV. La strana assenza di movimento e di fretta da parte del personale era stupefacente. Il dottore (sì, sempre quello) mi ha detto che stava arrivando un’ambulanza per trasferirmi al Moffitt-Long, un ospedale con un reparto di neurologia rinomato, dove mi avrebbero riservato un trattamento speciale. La notizia mi aveva angosciato. In certi momenti, sapere che ti stanno riservando un “trattamento speciale” può deprimerti. Non è come un posto in prima fila a una partita dei Lakers o il tavolo accanto alla finestra nel tuo ristorante preferito. Privilegi, successo, stronzate. A quel punto tutto ha cominciato all’improvviso a muoversi in modo strano, come se il film della mia vita scorresse velocemente all’indietro. Poi ho avvertito un’altra sensazione singolare: mi sono sentita precipitare, finché qualcosa mi ha travolto, anima e corpo, e subito dopo è diventato tutto bianco, una specie di tormenta di neve straordinaria e luminosa mi ha sollevato e sradicato dal mio corpo per gettarmi in un altro magnifico e fatto di… consapevolezza? La luce era molto intensa e tutto era così… mistico.  Volevo capire, volevo immergermi. E poi li ho visti. I loro volti erano familiari, ma soprattutto trascendenti. Qualcuno se n’era andato da poco. Alcuni li avevo accompagnati fino all’ultimo istante della loro vita. Erano stati amici carissimi: Caroline, Tony Duquette, Manuel. Quanto mi mancavano. Avevo così freddo nella stanza da cui venivo, e loro invece erano calorosi, felici, accoglienti. Senza che proferissero una parola ho capito cosa mi stavano dicendo: che siamo al sicuro e non dobbiamo avere paura perché siamo circondati dall’amore. Perché, in realtà, siamo noi l’amore. A un tratto ho sentito una botta tremenda, come il calcio di un mulo in pieno petto, e un attimo dopo ero di nuovo sveglia, sbigottita, nella stanza del pronto soccorso. Avevo fatto una scelta. Ho emesso un rantolo quasi fossi uscita dall’acqua dopo un’immersione troppo lunga. Mi sono tirata su a sedere, la luce era accecante. Riuscivo a vedere solo il dottor Bellezza accanto a me, che mi osservava. Dovevo correre in bagno, ma quando ho provato a scendere dalla barella mi sembrava di essere in alto, tanto in alto, come Alice in un Paese delle Meraviglie tutto d’argento, fatto di acciaio inossidabile. «Di cosa ha bisogno?» mi ha chiesto il dottore. «Del bagno.» «Venga, è qui.» Sono scivolata giù, fino alle piastrelle fredde, e ho raggiunto il bagno barcollando; la pipì è durata un’eternità, poi sono tornata dal dottore ondeggiando come una piuma e come tale lui mi ha sollevata e rimessa a letto. Alla fine degli anni Novanta, avevo inseguito un amore che non avevo. Un amore che credevo mi appartenesse, ma mi sbagliavo. Lo avevo proprio inseguito in senso letterale, lasciando Hollywood per trasferirmi in North Carolina, e in senso figurativo e spirituale, tentando continuamente di migliorare me stessa e, di conseguenza, la mia esistenza, il mio modo di amare e di essere amata. Mentre ero impegnata a osservare la mia vita, di colpo mi è svanita davanti agli occhi. E così, d’un tratto, un bel pomeriggio ho trovato la risposta a tutte le mie domande. Limpida, senza ambiguità né pretesti, la verità era che tutti i miei sforzi erano stati vani. In fondo era semplice: non ero né amata né desiderata, anzi. Il mio onesto e decoroso piano per diventare una persona migliore, qualcosa “di più” di quella che ero stata, una persona più vera e concreta, era fallito. Avevo fatto quanto era in mio potere, eppure non andava bene niente. All’epoca ero convinta che, continuando ad agire nella maniera che reputavo più corretta, le porte del mondo che tanto desideravo si sarebbero spalancate. Non aveva funzionato. Avevo fatto scelte sbagliate, inconsapevoli, spiritualmente povere. Per essere “di più” mi ero allontanata dalla mia essenza. Credevo di non essere “abbastanza”. Non ero nel posto giusto per me ma lo ignoravo, e l’idea di andarmene non mi sfiorava nemmeno, perché sono abituata a fare le cose per bene e a mantenere la parola data. Inoltre, ero convinta che, anche se avevo commesso un errore, avrei trovato il modo di risolvere la situazione.

Da "corriere.it" il 21 marzo 2021. Uscirà il 30 marzo, ma sta già facendo discutere l’autobiografia di Sharon Stone, intitolata «The beauty of living twice». L’attrice, in alcuni estratti del libro pubblicati in anteprima da Vanity Fair negli Stati Uniti, ha raccontato le molestie incontrate nel corso della sua carriera rinfocolando le fiamme al movimento #metoo a Hollywood. Il riferimento, in particolare, è da un lato alla famosissima scena di «Basic Instinct» in cui la superstar accavalla le gambe e dall’altro a un film in cui, denuncia, le fu chiesto dal produttore di avere rapporti sessuali veri con il co-protagonista per «mostrare una migliore intesa» sul set.

Gli schiaffi al regista di «Basic Instinct». Sharon Stone, 63 anni, è tornata a quando girò «Basic Instinct», dramma erotico del 1992 che contribuì a lanciarla nel firmamento hollywoodiano come una delle attrici più sensuali e prominenti degli Usa: «Fui ingannata sulla scena dell’interrogatorio», scrive, ribadendo alcune dichiarazioni che già aveva fatto e spiegando che prima di girare la scena in cui accavalla le gambe senza biancheria intima il regista Paul Verhoeven le avrebbe garantito che le sue parti intime non si sarebbero viste. Stone scoprì il contrario solo a film terminato, visionandone un’anteprima, e a quel punto prese a schiaffi il regista, abbandonando la sala di proiezione. Un accavallamento fatale per il box office.

«Un produttore mi chiese di avere rapporti veri sul set». Ma l’attrice racconta anche un altro episodio, senza specificare di che film si tratti e chi siano le persone coinvolte: un produttore le chiese di avere rapporti sessuali veri sul set, in modo da «migliorare la chimica» con il co-protagonista. Il produttore, racconta l’attrice, disse che lui stesso, quando era attore, aveva fatto realmente sesso sul set con Ava Gardner. Era convinto che avrebbe aiutato anche l’altro protagonista a migliorare la sua recitazione. «Avrebbero fatto meglio a prendere uno di talento, qualcuno in grado di ricordarsi le battute, oppure potevano fare sesso tra loro e lasciarmi fuori da tutto questo. Il mio lavoro è quello di attrice e faccio solo quello», fu la replica di Sharon Stone. Dopo queste rivelazioni, i media americani stanno cercando di ricostruire chi sia il produttore: secondo il New York Post si tratterebbe di Robert Evans, scomparso nel 2019, produttore del thriller erotico «Sliver» con Sharon Stone e con William Baldwin co-protagonista. Evans nel 1957 aveva infatti recitato insieme ad Ava Gardner.

Da ilmessaggero.it il 13 marzo 2021. Arriva in libreria il 30 marzo in contemporanea mondiale “Sharon Stone-Il bello di vivere due volte" (Rizzoli), l’autobiografia di una delle donne più apprezzate al mondo, che in queste pagine intime e autentiche ci racconta la propria storia: un cammino di rinascita, ostinato e pieno d’amore. Sharon Stone è attrice, attivista per i diritti umani, artista, madre, figlia, sorella e scrittrice. È stata insignita di vari premi e riconoscimenti, fra cui il Nobel Peace Summit Award, l’Harvard Humanitarian Award, lo Human Rights Campaign Award e l’Einstein Spirit of Achievement Award. Oggi vive a Los Angeles con la sua famiglia. Nel 2001 Sharon Stone, una delle attrici più celebri al mondo, fu colpita da un grave ictus cerebrale che, oltre alla salute, le distrusse carriera, famiglia, patrimonio finanziario e fama internazionale. Ne “Il Bello di Vivere Due Volte” ripercorre la strada aspra e faticosa che ha dovuto affrontare per ricostruire la propria vita e per recuperare a poco a poco salute fisica e serenità. In un settore in cui non sono ammesse crisi né debolezze, in un mondo dove troppe persone sono costrette al silenzio, lei ha trovato la forza di tornare, il coraggio di far risentire la propria voce e la voglia di lasciare un segno per i diritti e il benessere di ogni essere umano sul pianeta. In queste pagine intime, autentiche e trasparenti come una chiacchierata con un amico, Sharon Stone racconta come ha interpretato i suoi ruoli più importanti, le amicizie che le hanno cambiato la vita, i peggiori fallimenti e i più grandi successi. Allo stesso tempo svela come, dopo un’infanzia segnata da traumi e violenza, sia approdata a una carriera di successo in un mondo in cui gli stessi soprusi venivano perpetrati in forma diversa e nascosti dietro il paravento del denaro e del fascino. Da ultimo mostra come solo i figli e le sue iniziative umanitarie le abbiano dato la forza di intraprendere un percorso di rinascita che le ha permesso di riconciliarsi con la famiglia e tornare a coltivare l’amore. Sharon Stone è apprezzata non solo per la bellezza e il talento che la contraddistinguono, ma anche perché, per sostenere le proprie idee, si è sempre rifiutata di compiacere chicchessia. Il Bello di Vivere Due Volte è un libro per chi si sente ferito e per chi si reputa un sopravvissuto, è l’esaltazione della forza e della resilienza femminili, è un bilancio di vita e una chiamata alle armi. E dimostra che non è mai troppo tardi per alzare la voce e farsi sentire.

Gloria Satta per “Il Messaggero” il 22 marzo 2021. «Anni fa girai un film in Italia, il regista mi chiese di fare una certa cosa e io risposi che le donne non si comportavano più in quel modo. Lui volle sapere perché e io replicai: perché rispettiamo noi stesse. L'unica sua reazione fu: la prossima volta trovati una madre che ti ami». Dopo la denuncia delle «pressioni» e degli «inganni» subiti sul set di Basic Instinct, delle «pretese» dei produttori che volevano mandarla a letto con i partner, nell'autobiografia Il bello di vivere due volte (uscirà in Italia il 30 marzo da Rizzoli), Sharon Stone sgancia un'altra bomba, anche questa trapelata prima che il libro arrivi nei negozi: la diva racconta uno scontro che si sarebbe verificato mentre anni fa girava un film in Italia. Di quale film si tratta, chi è il regista sotto accusa e soprattutto cosa avrebbe voluto imporle? Di primo acchito si potrebbe pensare a Pupi Avati che nel 2014 diresse a Roma Sharon in Un ragazzo d'oro, affidando all'attrice il ruolo di una fascinosa editrice che seduce Riccardo Scamarcio. Oppure a Paolo Sorrentino che l'ha voluta nella serie The new Pope. Ma il maestro bolognese e il premio Oscar napoletano escono dalla lista dei sospettati: l'episodio raccontato nel libro sarebbe avvenuto sul set di L'anno del terrore girato nella Capitale con la regia di John Frankenheimer nel 1990, prima che Sharon, in quel momento poco più che una sconosciuta, accavallasse le gambe in Basic Instinct diventando così il nuovo simbolo del sex appeal, una superstar, un'icona mondiale. Il regista americano è scomparso nel 2002 ma oggi parla un testimone oculare di quella vicenda: «Io c'ero», dice Blasco Giurato, il grande direttore della fotografia che 30 anni fa era dietro l'obiettivo di L'anno del terrore, un thriller incentrato sugli anni di piombo tra intrighi, amori, romanzi, Brigate Rosse, sequestro Moro e chi più ne ha più ne metta. «Ricordo la tensione che si manifestò al momento di girare la scena di sesso tra Sharon, nella parte di una fotoreporter americana, e il protagonista maschile Andrew McCarthy che interpretava un giornalista-scrittore: il regista voleva che lui, divorato dal desiderio, le saltasse addosso e le praticasse un cunnilingus prima di sbatterla sul letto, ma l'attrice si opponeva sostenendo che nella sceneggiatura quella sequenza era molto più blanda... si trattò di una divergenza come tante altre che ogni tanto nascono sui set». E com'è andata a finire? «Il regista e Sharon si chiusero a discutere in una stanza, poi uscirono e ricordo che lei accettò di girare quella scena proprio come voleva Frankenheimer. Ma il risultato, sullo schermo, non ha niente di morboso o di inutilmente esplicito, tutto è più suggerito che mostrato. Direi che è un momento piuttosto elegante del film». Giurato, che anni dopo avrebbe illuminato Stone anche in Un ragazzo d'oro, conferma l'estraneità di Avati alle accuse della diva: «Impossibile che Sharon ce l'avesse con lui. Durante le riprese del film, Sharon fu molto coccolata e protetta, non ho mai assistito a scontri... alla fine della lavorazione il regista le regalò addirittura un quadro di scena che le piaceva molto». L'anno del terrore fu tutt'altro che un successo anche se permise alla protagonista di partecipare ai provini di Basic Instinct e vincere il ruolo della serial killer Catherine Tramell che le avrebbe cambiato la carriera e la vita. Ma nel suo libro, ancora a proposito dello scontro sul set italiano, Sharon racconta di aver smesso di lavorare con «quel regista» (che non viene mai chiamato per nome). «Non me ne sono andata. Ho finito le riprese ma mi sono assicurata che il film fosse un fiasco assoluto», scrive, «nessuno deve permettersi di umiliarmi, tantomeno di offendere mia madre... lui aveva oltrepassato il limite». All'epoca, spiega, pensava davvero che sua madre (una signora onnipresente sui social della figlia che proprio a lei ha dedicato l'autobiografia) non la amasse ma, da donna ormai adulta e abituata ad affrontare anche le difficoltà più dure, aveva capito «quello che la vita aveva fatto a mia madre. Lui invece (il regista, ndr), era un uomo di quella generazione che ce l'aveva fatta».

Sharon Stone: "Mi chiesero di fare sesso sul set". La rivelazione dell'autobiografia in uscita il 30 marzo La Repubblica il 20 marzo 2021. C'è un caso da #MeToo che ha coinvolto una delle attrici pià amose e sensuali di Hollywood: Sharon Stone. Nella autobiografia in uscita il 30 marzo, dal titolo "The beauty of living twice", l'attrice icona di "Basic instinct" rivela una serie di molestie sessuali subite sul set. In particolare l'attrice racconta un episodio: un produttore, di cui non rivela il nome, le chiese di fare sesso realmente sul set con il co-protagonista per rendere "più frizzante" la scena. "Questo produttore - scrive l'attrice, che ora ha 63 anni - mi portò nel suo ufficio e cominciò a camminare avanti e indietro, mentre mi spiegava perchè avrei dovuto farmi l'attore sul serio in modo da creare la giusta chimica sullo schermo"- Il produttore, racconta l'attrice, disse che lui stesso, quando era attore, aveva fatto realmente sesso sul set con Ava Gardner. Era convinto, disse all'attrice, che avrebbe aiutato anche l'altro protagonista a migliorare la sua recitazione. "Pensi che se io lo scopi, lui diventerà un bravo attore? - aveva risposto Stone - Nessuno è così bravo a letto. Avrebbero fatto meglio a prendere uno di talento, qualcuno in grado di ricordarsi le battute, oppure potevano fare sesso tra loro e lasciarmi fuori da tutto questo. Il mio lavoro è quello di attrice e faccio solo quello. Fu ciò che dissi". Dopo le anticipazioni di Vanity Fair si è scatenata la caccia per capire chi potesse essere il produttore. Secondo il New York Post, sarebbe l'anziano produttore del film "Sliver", il Robert Evans di "Love Story", "Chinatown" e "Il Padrino". Evans in passato era stato attore, co-protagonista con Gardner nel film del '57 "Il sole sorgera' ancora", adattamento cinematografico di un romanzo di Ernest Hemingway. Il produttore è scomparso nel 2019 a 89 anni. Il film in cui Stone avrebbe dovuto fare sesso realmente potrebbe essere il thriller erotico "Sliver", uscito nel '93, e che si rivelò un fiasco. Il co-protagonista era William Baldwin.

·        Shel Shapiro.

Shel Shapiro: "Il passato è anche memoria, non solo nostalgia". Luigi Bolognini su La Repubblica il 16 Dicembre 2021. Il musicista pubblica il singolo "La leggenda dell’amore eterno".  C'è un mondo vecchio che ci sta crollando addosso ormai, ma che colpa ha Shel Shapiro? Lui, a 78 anni, vecchio non si sente affatto, e insomma se cercate uno di quelli popolari negli anni Sessanta e Settanta a cui abbeverarsi di aneddoti, reducismi e "io c'ero", ecco, andate da qualcun altro. Lui tuttora continua a produrre musica nuova, ultimo esempio il singolo La leggenda dell'amore eterno, che porterà a un album a primavera 2022. E le canzoni vecchie, quelle coi Rokes, sono riservate nei concerti, "però gli cambio l'arrangiamento, lo modernizzo. È la pioggia che va deve emozionare la gente di adesso, non la gente di allora, il pubblico non deve venire a fare dei karaoke, ma ad ascoltare, e a dire di questa canzone "che bella che è", non "che bella che era", devo strappare l'anima".

E questo lei cerca di continuare a farlo, anche con La leggenda dell'amore eterno.

"Certo, perché tutti da giovani sogniamo l'amore eterno, e sulla prima persona che ti ruba veramente il cuore tu fai la scommessa della vita, punti tutto. Solo dopo - spesso, magari non sempre - capisci che devi essere fortunato per trovarlo. Ma il tuo primo amore resta comunque eterno".

Il disco quando uscirà?

"Per il momento sta uscendo a rate. Qualche mese fa c'è stato l'altro singolo, Non dipende da Dio. È pronto tutto, comunque, se ne parlerà in primavera. Sarà un disco di autoanalisi, della vita e della musica, anche se mettiamo in chiaro che non è un bilancio definitivo, ho ancora tanto da dire e da dare".

Però è inevitabile cercare di chiarire la questione del suo passato, che è è quasi da psicanalisi. Lei, come ex leader dei Rokes, potrebbe vivere tranquillamente di revival: ospitate nelle sempre più numerose trasmissioni tv rivolte ai giovani di mezzo secolo fa, dischi di "best of", tour con scalette d'epoca. Invece no.

"Invece no perché trovo così triste vivere di rendita, mi sembra non corretto. Se avessi inventato una macchina del tempo potrei farlo. Mi ci applicherò in futuro, prometto ma ora no. E mi sembra logico che uno cerchi di essere creativo, troverei noioso il contrario. Noi artisti dobbiamo rischiare la vita sempre, intendo in senso metaforico: se non rischi di fare una cosa brutta non rischierai neanche di farne una bella".

La copertina del singolo 'La leggenda dell'amore eterno' 

Però rinnegare così il passato, e un passato come il suo...

"Ma io non rinnego nulla. Nella vita e nella musica porto sempre me stesso, il mio passato, le mie esperienze, i i miei sogni. Io non capisco come si possa andare in pensione: o hai i soldi necessari per fare tutto quello che vuoi o bisogna continuare. Il privilegio mio, e di tutti quelli che hanno scelto una strada non garantita, è amare quello che fai, occuparti di qualcosa che faresti anche gratis, sperando che nessuno se ne accorga".

Benissimo, ma resta questo rapporto difficile col suo passato.

"Guardi, col mio passato ho un ottimo rapporto. Semplicemente se ci ripenso è per fare memoria, non per fare nostalgia, che è ben diverso. Non sono uno di quelli che pensano che il passato sia migliore del presente: se succede è solo perché allora ero più giovane. Mi viene da pensare al 1962, quando i Rokes si chiamavano ancora Shel Carson Combo: eravamo in tour ad Amburgo, dormivamo in una topaia, guadagnavamo quanto bastava per un pasto caldo quotidiano. Ma eravamo felici: facevamo musica, la nostra passione, e non avevamo ancora vent'anni".

Shel Shapiro suona il rock della "Route 66"

Ops, un ricordo del passato. Che succede?

"La verità è che sono un pessimo raccontatore di aneddoti. Anzi, addirittura quando qualche mio coetaneo cita un episodio in cui c'ero, io me lo ricordo diverso o non me lo ricordo affatto. E poi mi dispiace se vengo ricordato solo come leader dei Rokes: sono una parte importante di me, e non li rinnego, ma ho fatto anche tanto altro, nel mezzo secolo successivo. Tanto che credo che musicalmente non ci sia niente dei Rokes in me ora. Non dico di essere meglio o peggio: sono altro".

Però lei una certa età l'ha, o se preferisce una certa esperienza. Quindi può dirci come vede la musica di oggi e chi la fa.

"L'offerta adesso è molto più variegata in qualità e quantità, penso soprattutto a trap e rap che hanno fortissimi saliscendi di livello. Ma gente come Mahmood, Ghali, Dardust, ha qualcosa di molto personale. Io ai giovani di adesso invidio solo una cosa, e non è l'età: è che hanno capito che possono anche farsi pagare bene, molto bene. Noi ai tempi proprio non ci arrivavamo".

·        Silvio Orlando.

“Abbiamo risolto il problema auto-rappresentandoci”. Silvio Orlando e la narrazione della sua città: “Tutti sanno cos’è un napoletano tranne i napoletani”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 5 Novembre 2021. L’attore napoletano Silvio Orlando torna al cinema con Il bambino nascosto, un film ambientato a Napoli, tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Andò, regista palermitano e direttore artistico del Teatro di Napoli, edito dalla Nave di Teseo. Un maestro di pianoforte e un bambino in fuga dalla vendetta di un boss della Camorra: questo l’intreccio. In realtà nelle sale Orlando era tornato, e ancora non se n’era andato, con Ariaferma, diretto da Leonardo Di Costanzo, con Toni Servillo, presentato alla Mostra dell’Arte Cinematografica di Venezia. “Sono sempre lo stesso, mi piacciono l’antiretorica e l’ironia, anche se credo che, a una certa età, far ridere diventi davvero difficile. L’attore comico è come un bambino che scopre il mondo per la prima volta e l’infantilismo, a un certo punto, diventa disturbante”, ha detto in un’intervista a La Stampa. “Stanlio e Ollio a 60 anni facevano le stesse cose di sempre, ma avevano assunto un tono quasi mortuario. Un attore ha anche il dovere di cambiare registro, di seguire la lunghezza d’onda della propria anima, dei propri dolori. E poi mostrare la vecchiaia e la stanchezza di vivere non è una cosa depressiva, anzi, può essere fonte di grande divertimento”. Anche una definizione singolare e interessante della cosiddetta e fantomatica “napoletanità”, nel dialogo con il quotidiano torinese: “È una città stratificata – ha osservato Orlando – con un’identità molto forte, che ha un bisogno fisico di essere rappresentata. Tutti sanno che cos’è un napoletano, tranne gli stessi napoletani. Abbiamo risolto il problema auto-rappresentandoci, prendendo l’abitudine di fare quello che ci si aspetta da noi. Poi, ciclicamente, succede che, riaccendano i riflettori, che tutto riparta, ed è come se Napoli fosse vista per la prima volta”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Silvio Orlando: «Ci sono incontri fortunati che spezzano la negatività Recitare mi salva quando mi sento alla deriva». Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera il 29 ottobre 2021.  L’attore è al cinema con Il bambino nascosto di Roberto Andò, storia dell’incontro tra un maestro di musica e il figlio di un camorrista. «L’ansia è mia compagna di vita: non c’è solo agli esordi, è eterna». Silvio Orlando è protagonista del cinema e del teatro da più di 30 anni. Ha esordito nella musica e fatto diverse incursioni in tv. Sempre sospeso tra risata e malinconia. Dal 3 novembre sarà nelle sale cinematografiche con Il bambino nascosto di Roberto Andò, tratto dall’omonimo romanzo, scritto dal regista e edito da La nave di Teseo. Una storia tenera, che unisce la vita del colto e solitario maestro di musica Gabriele Santoro a quella del piccolo Ciro, in fuga dalla famiglia di camorristi.

Il bambino nascosto racconta la formazione di una famiglia “alternativa” a quella tradizionale. Il nucleo affettivo scelto può sostituire quello che si riceve in sorte?

«Direi che innanzitutto è un film sull’incontro. Ci sono due persone, di età molto diversa, espulse dalle famiglie di origine in modo violento. Entrambi sperimentano una solitudine improvvisa, ma insieme si curano. È una storia d’amore, in fondo. Il maestro si sta avviando a una maturità arida, è condannato all’invisibilità, nonostante abiti in una casa piena di musica, arte e cose belle. L’incontro con Ciro Acerno gli dà un nuovo scopo di vita».

Com’è stato lavorare con Giuseppe Pirozzi, l’attore 12enne che interpreta Ciro?

«Bellissimo: Giuseppe è un ideale di futuro. È un ragazzino spensierato, ma anche speculativo su sé stesso e su ciò che lo circonda. Per me lui è un predestinato della recitazione, scandisce il tempo dentro e fuori dal set in modo perfetto, la sua è una storia di riscatto. Viene da un quartiere difficile di Napoli, il padre Vincenzo è a sua volta regista e attore e ha trovato una strada grazie al cinema e a Antonio Capuano. Spesso si sottovaluta il potere salvifico dell’arte in una città come Napoli. La recitazione può fare uscire dall’afasia dei quartieri complicati. Il film di Andò parla anche di questo, degli incontri fortunati che spezzano le catene di negatività. Oggi si tende a rappresentare il male in modo seduttivo, soprattutto nelle fiction, sembra che il bene non meriti di essere raccontato. È un errore».

Lei da bambino sognava di diventare attore?

«No, perché ero molto timido, la parola non era il mio forte. Volevo fare il musicista e ho iniziato a suonare il flauto. Ho avuto la fortuna di vivere in un periodo in cui si potevano fare tante esperienze, un giorno mi sono ritrovato a esibirmi in un teatro e lì ho fatto uno di questi incontri del destino che mi ha portato verso la recitazione». Cioè? «Ero con un gruppo teatrale che andava in scena nelle cantine del Vomero. Su quel palco mi sono sentito al mio posto, ho percepito l’elettricità tra me e il pubblico. È stata la prima scintilla, poi, pian piano, l’ho fatta diventare un mestiere. Napoli mi ha aiutato a capire che volevo diventare attore, ma è una città con troppi figli, non può prendersi cura di tutti. La sensazione di essere stato finalmente “scoperto” l’ho avuta altrove».

Dove?

«A Milano, quando ho iniziato a lavorare al Teatro Elfo con il gruppo di Gabriele Salvatores. Lì è iniziato il mio secondo tempo. Ho finalmente avuto la certezza che questo mestiere poteva darmi da vivere e non avevo sbagliato strada».

Quanta paura aveva di sbagliare?

«Tanta. Un attore ha come compagna di vita l’ansia. In eterno, non solo agli esordi. Non c’è mai niente di consolidato, sei sempre sottoposto al giudizio altrui».

Non si riesce a scendere a patti con l’ansia?

«No, perché quando non ce l’hai la vorresti avere. Le carriere lunghe sono una fortuna, ma non una passeggiata: hai sempre la sensazione di non aver realizzato qualcosa. Le invidie sono una componente fondante del nostro lavoro. Quando le cose vanno bene pensi: “Come posso rovinarmi questo momento felice? Invidiando uno che ha più successo di me”».

Ha imparato a tenere a bada i sentimenti negativi?

«Il teatro è il mio antibiotico, è a lui che ricorro quando mi sento alla deriva. Ha una dimensione più umana, meno competitiva e meno frenetica rispetto allo stile di vita che ormai tutti abbiamo. Posso lavorare sul personaggio con più calma e anche la messa in scena ha ritmi diversi».

A proposito di teatro, è da poco tornato in scena con La vita davantia sé , adattamento del romanzo di Romain Gary.

«Sì e ne sono felice. L’idea è nata da un readinga un festival. Un tipo di esibizione che per me è una tortura, mi sembra di essere sottoutilizzato e sovrautilizzato insieme. Il lavoro di attore inizia quando quel foglio di carta te lo ingoi, lo dimentichi. È stato però lo spunto per leggere questo meraviglioso libro, edito in Italia da Neri Pozza, di Romain Gary, morto suicida dopo averlo scritto. È un’opera che mi ha posseduto e ossessionato».

In che senso?

«È magica: parla delle tante sfide che l’umanità ha davanti a sé attraverso gli occhi di un bambino, che porta la sua freschezza e la sua follia visionaria. È un esempio perfetto di realismo magico. Momo è un personaggio incredibile, un teppistello che deve riempire i buchi della sua anima lasciati dalla perdita della madre. Lo sento molto vicino».

Lei ha perso sua mamma quando aveva nove anni, a lungo non lo ha raccontato. Come ha colmato i suoi vuoti?

«Sì, ultimamente però ne ho parlato molto. La similitudine tra me e Momo è forte. La recitazione mi ha aiutato a trovare una mia strada, certo non può sopperire la mancanza al 100%, ma ha dato un colore al mio modo di essere, in bilico tra malinconia, comicità e commozione».

In questo periodo è sul grande schermo anche con Ariaferma, film di Leonardo Di Costanzo che racconta il carcere. Il suo ruolo è opposto a quello de Il bambino nascosto , qui è lei a fare il criminale. La parte dell’agente carcerario, invece, è affidata a Toni Servillo.

«Quel film è un regalo che mi ha fatto Leonardo. O forse una polpetta avvelenata ( ride )» Perché? «Interpreto un uomo che ha un carisma naturale, un leader tra i detenuti, e ho comunque dovuto lavorare in sottrazione. È un film di sguardi, più che di parole, ma c’è un bellissimo dialogo finale sull’importanza di scegliere il proprio destino». 

Lei ha rappresentato molti tipi italiani: dall’intellettuale di sinistra Sandro Molino di Ferie d’agosto , al produttore in cerca di redenzione Bruno Bonomo de Il Caimano . Negli anni ha raccontato chi eravamo e chi siamo diventati...

«Non ho un’unica tipologia di personaggio, sono una lavagna pulita su cui si può scrivere. Questo aiuta me e i registi con cui lavoro».

Poi è diventato famoso all’estero con il cardinale Voiello della serie tv The young Pope , diretta da Paolo Sorrentino, con protagonista Jude Law.

«Ancora non mi sembra vero. La verità è che sono stato avvantaggiato dal mio inglese, scadente, ma forse superiore a quello di molti colleghi della mia generazione».

Tornando a Sandro Molino, a cui Ennio Fantastichini nei panni del generone romano Ruggero Mazzalupi diceva: «Voi intellettuali non ci state a capì più un cazzo... ma da mò». Esistono ancora gli intellettuali di sinistra, i “radical chic”, come sono stati definiti da alcuni, o sono una categoria superata?

«La definizione di “radical chic” mi fa sempre molto ridere: è nata negli ambienti newyorchesi e noi la applichiamo alla nostra “sinistra patetica”, per dirla con Domenico Starnone. La verità è che alcune categorie ci sembrano superate, ma poi sempre lì andiamo a finire».

Silvio Orlando: «Io non so chi sono io». Valentina Colosimo il 7 ottobre 2021 su Vanityfair.it. Il rapporto «sadomaso» con Nanni Moretti, quello «forse morboso» con la moglie, le orecchie che sentono tutto, il cliché del napoletano. Incontro con l’attore «monumento alle insicurezze».

Questo articolo è pubblicato sul numero 41 di Vanity Fair in edicola fino al 12 ottobre 2021

Silvio Orlando si sente abbandonato da Nanni Moretti: «È dal 2006 che non lavoriamo insieme. Eppure a un certo punto sembrava che non potesse fare film senza di me…». Dice sul serio? Scherza? Tutte e due le cose. Alterna giudizi lucidissimi su se stesso a battute, mescola ironia, autoironia e sincerità, rifugge la seriosità e indica il nemico: «Odio la retorica».

All’ultima Mostra del cinema di Venezia ha presentato due film fuori concorso: Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, storia del rapporto che si crea tra un detenuto (lui) e un agente penitenziario (Toni Servillo) mentre la struttura è in via di smantellamento, che esce al cinema il 14 ottobre.

L’altro film è Il bambino nascosto di Roberto Andò, nelle sale dal 4 novembre, in cui interpreta un professore di musica che per caso si ritrova a nascondere in casa un bambino ricercato dalla camorra.

Fa l’attore da una vita.

«È un lavoro tutto basato sul piacere agli altri, gli attori sono un concentrato di insicurezze».

E lei?

«Io sono il monumento alle insicurezze».

Nasce da qui la voglia di fare l’attore, di affermarsi?

«Stavo cercando il mio posto nel mondo e salire su un palcoscenico mi ha fatto capire che quel mestiere mi procurava subito un consenso, sentivo che era la cosa che dovevo fare, riduceva le distanze dagli altri, mi permetteva di stare dentro a un consesso».

Altrimenti era tagliato fuori?

«Oggettivamente non sono un uomo che incute negli altri il rispetto. Pensi che certi attori con cui ho lavorato mi hanno confessato che incuto timore reverenziale… per me è inspiegabile».

Perché?

«Perché nella mia testa sono sempre quello lì».

Com’era quello lì?

«Uno che chiedeva scusa di esistere. Non mi sentivo predestinato a chissà quale futuro, non credevo di diventare una persona in grado di indicare la strada agli altri, ma questa cosa poi è stata la mia forza: mi ha consentito di fare l’attore, cioè uno che si cancella per entrare nel mondo degli altri. Anche quando faccio un’intervista ho sempre paura che finisca tutto da un momento all’altro».

A 64 anni e con una carriera come la sua, come potrebbe finire all’improvviso?

«Può finire in tanti modi».

Ha paura di passare di moda?

«I gusti cambiano, le generazioni pure, magari arriva un attore più carismatico di te, e poi c’è questo maledetto largo ai giovani!».

Lei però è molto amato dal pubblico.

«È l’aria rassicurante, credo».

Quindi?

«Niente, le insicurezze non passano. È come alimentare un animaletto che hai dentro, che si adegua in mille varianti. Alla fine se fai l’attore, quando non ci sei nessuno avverte la tua mancanza. È il famoso dimenticatoio, che mi sono sempre immaginato come stare dentro un pozzo profondo pieno di rane».

Ha avuto tanti riconoscimenti.

«Sì, ma lo scatto di dire: “Lei non sa chi sono io”, non ce l’ho. Piuttosto dico: io non so chi sono io! Anche perché odio l’autocelebrazione. Penso che ognuno debba assecondare ciò che è e io sostanzialmente sono un pigro. Mi piace il lavoro ma non la fatica».

Ha faticato poco?

«Forse ho lavorato meno di quello che avrei potuto, pur riconoscendomi un talento di partenza, che consiste in una certa vibratilità, sensibilità. Alcuni attori hanno il fisico, altri la voce, io ho le orecchie».

Che cosa fa con le orecchie?

«Sento e ascolto tutto. Credo di avere l’orecchio assoluto dell’ascolto degli altri, capisco subito che gioco fanno gli altri e come posizionarmi io. Questa cosa mi fa anche soffrire perché capisco subito quando l’ascolto dell’altro è scadente. E così oggi tutto si riduce a slogan, anche quando devo parlare dei film, alla fine ripeto sempre le solite frasi».

A questo punto non so come chiederle dei due film Ariaferma e Il bambino nascosto.

«Sono due film della maturità, basati su una partitura in cui ci sono molti silenzi. Entrambi i registi mi hanno chiesto di essere un personaggio, più che interpretarlo».

Come si fa?

«Ci vuole una vita a imparare a non recitare più. Negli anni rischi di perderti, di ripeterti, di rientrare in un cliché».

Da quale cliché ha cercato di tenersi alla larga?

«Dal napoletano. Con i colleghi di Napoli, da ragazzi abbiamo sentito il peso della tradizione del nostro teatro in modo insopportabile. Alcuni sono riusciti a dimenticarla, ma a volte è una cosa che ti porta a trovare scorciatoie e ad adattarti alle aspettative».

È stato tentato?

«La prima forte tentazione è stata la tv, che semplifica tutto. Quando feci un programma con Antonio Ricci, L’araba fenice, io gli chiedevo: ma come devo farla questa scena? E lui: tu non preoccuparti, fai il napoletano».

Il napoletano simpatico?

«Il napoletano tutti lo amano ma a distanza, perché crea sempre apprensione: l’altro cliché è il napoletano furbo che ti frega, che ti ruba il portafoglio».

Lei ha subito questo pregiudizio?

«È una cosa impalpabile ma esiste. Adesso sono un napoletano famoso, quindi considerato perlomeno non scippatore (ride). Oggi si parla di politically correct, di tutelare di più certe categorie di persone più esposte al giudizio, e io lo capisco perché ho provato su di me cosa significa la discriminazione, nel mio passaggio da Napoli a Milano».

Come si difendeva?

«Mettevo in atto tutta un’opera di mascheramento».

Torniamo ad Ariaferma. Che cosa ha scoperto del carcere facendo questo film?

«L’idea che stai perdendo il tuo tempo, che il tuo tempo non ha senso e non lo avrà per anni. E poi ho capito che i detenuti si sentono minacciati non solo dalla brutalità del sistema ma anche dalla sua eccessiva umanità».

Si spieghi.

«Il sistema premiale di permessi ha fatto diminuire il senso di appartenenza che era importante tra i detenuti. Oggi ognuno cerca di cavarsela da sé. Un paradosso».

La sinistra si è dimenticata delle carceri?

«C’è stata una sinistra che se n’è fatta carico, oggi sul tema è un po’ reticente. Sicuramente tenere le persone in carcere in queste condizioni non è né di destra né di sinistra: è un problema di civiltà».

Lei è ancora di sinistra?

«Sì, soprattutto sono uno che pensa, ma collocarsi significa escludere un sacco di gente, stesso effetto di un certo tipo di cinema molto schierato».

Lei ha fatto tanto cinema d’autore. Parliamo di Paolo Sorrentino.

«Io ho detto le prime parole scritte da Paolo per il cinema: lui era lo sceneggiatore di un film di Antonio Capuano, Polvere di Napoli, nel quale recitavo. Era un cinema immaginifico che non si poteva fare in Italia senza un predestinato come lui. Poi infatti lui ha creato il suo universo cinematografico, ma per i suoi film non mi aveva mai chiamato. Neppure per La grande bellezza, in cui c’erano tutti tranne me».

Non glielo aveva mai detto che avrebbe voluto lavorare con lui?

«No, no».

Non si fa? Esiste un’etichetta tra attori e registi?

«Quando parli con un regista, lentamente quel dialogo si trasforma in una muta richiesta. Sempre. È particolarmente angosciante per i registi frequentare gli attori. Ma io li capisco: quando uno deve fare un film tu ingombri l’immaginario a questo disgraziato che fatica a dirti che non ci sarai. E così comincia questo minuetto piuttosto doloroso per l’attore. È la stessa cosa che è successa con Nanni Moretti».

Invece Sorrentino poi l’ha scelta per The Young Pope.

«Forse era disperato».

Ma no!

«Per tutti i colleghi della mia generazione l’inglese è arabo, il mio invece era potabile. Poi il mio personaggio ha conquistato più spazio nella sceneggiatura. Purtroppo».

Perché purtroppo?

«Ero angosciato, perché dovevo studiare più battute in inglese. Infatti alla fine era diventata una gag, con Paolo che chiedeva all’aiuto regista: ha già chiamato Silvio? Perché in effetti al telefono lo pregavo di tagliarmi le scene».

Parliamo di Nanni Moretti: lei dice sempre che avete un rapporto sadomaso.

«Nanni ha un modo di lavorare molto faticoso, che nasce da una insicurezza, così i set diventano sempre delle sedute psicanalitiche. Quando vai a vedere un film di Nanni Moretti non pensi mai a come ti senti tu dopo averlo visto, dici: però, mi sembra che stia meglio… Sviluppa quel tipo di preoccupazione nel pubblico».

Si sente un intermediario tra lui e il pubblico?

«No, perché lui resta sempre centrale. Diciamo che di me si fida e credo di non averlo mai deluso. Però, ecco, sono sedici anni che non lavoriamo insieme».

Non vi sentite mai?

«Ogni tanto mi chiama e mi dice che vuole fare qualcosa con me ma poi scompare. Succede spesso. Comunque gli sono sempre grato per avermi permesso di fare l’attore come l’ho fatto nei suoi film».

Una persona da cui non si separa mai, invece, è sua moglie, l’attrice Maria Laura Rondanini.

«Io la chiamo “Cento passi”, perché appena mi allontano mi chiama, mi chiede dove sono e cosa faccio. In 21 anni saremo stati separati un mese. Forse è un modo morboso di vivere il rapporto ma è il nostro».

È faticoso?

«Quando non stiamo insieme sento la sua mancanza».

Come mai vi siete sposati a Venezia?

«Avevo appena vinto la Coppa Volpi alla Mostra del cinema e in un’intervista in diretta al Tg5 ho detto che ci saremmo sposati lì, a Venezia, il mese dopo. Non c’era niente di programmato in realtà. Volevo farle una sorpresa».

·        Simona Izzo e Ricky Tognazzi.

Da "liberoquotidiano.it" il 18 giugno 2021. A Oggi è un altro giorno Simona Izzo e Ricky Tognazzi. I due, sposati da trent'anni, hanno svelato alle telecamere di Rai 1 di Serena Bortone i dettagli del loro amore. "Lei stava dirigendo un film - ha spiegato l'attore - e quindi ordinava di fare delle cose. Un giorno mi ha 'ordinato' di darle un bacio e da lì è iniziata. Un matrimonio di oltre trent’anni è una cena luculliana dove ti danno il dolce all’inizio, i primi tempi naturalmente sono stati i più belli, anche se non eravamo sposati ma solo fidanzati". A volere l'abito bianco, la Izzo che ha ammesso di essere stata ben "undici anni a chiedere il matrimonio". Lui - ha rivelato - "non si era sposato, io avevo avuto il divorzio da Venditti e chiedevo il grande passo, anche per i nostri figli, mentre c'era mio padre che mi accusava di essere una concubina". Poi però Tognazzi ha recepito: "Insistere funziona, è una teoria che si può applicare a tutto e di mio sono molto sfacciata. Nella vita non ho mai avuto paura di chiedere e in amore ho applicato lo stesso comportamento. Ho approfittato di un lungo viaggio a Nizza in macchina, verso Genova ha ceduto ma abbiamo rischiato l’incidente". Ora però è acqua passata, dopo trent'anni l'attore non si è minimamente pentito della scelta: "Le faccio una serie di sorprese, la prima è che torno a casa tutte le sere - ha ironizzato per poi raccontare un aneddoto -. Una volta le ho regalato i fiori ma mi sono dimenticato di pagarli. Li ho ordinati per telefono ed è arrivato il conto a casa, a nome di Simona. Ho sposato tutta la sua numerosa famiglia, mi chiamano “sorello”. Tutte loro hanno diverse caratteristiche che si integrano fra loro, da quelle artistiche a quelle organizzative". 

Simona Izzo: "Sono delusa dal Pd di Zinga... E sono sorpresa da Berlusconi". Intervista alla regista romana: dal ruolo delle donne nella società alla pandemia, passando per Roma e per il suo lungo matrimonio con Ricky Tognazzi. Claudio Rinaldi - Mer, 24/02/2021 - su Il Giornale. Si può essere moglie, madre, nonna, gemella e anche professionista di successo. Tutto insieme, se ti chiami Simona Izzo è possibile. La regista e sceneggiatrice, nonché attrice e doppiatrice, è l’esempio perfetto di una donna che ce l’ha fatta. È riuscita nell’impresa di barcamenarsi tra un matrimonio che dura da 35 anni con Ricky Tognazzi, una famiglia allargata (“Mio marito la chiama la minoranza etnica”) e un lavoro che le ha regalato e continua a regalarle grandi soddisfazioni. “Nella mia vita ho sempre lottato e sono riuscita a raggiungere i miei obiettivi. Mi rendo conto però di come le donne ancora oggi in Italia facciano molta fatica ad emergere. Per questo è arrivato il momento di raccontare storie al femminile”. Stasera su Canale 5 va in onda l’ultima puntata di “L’amore strappato”, una fiction nella quale Simona Izzo è regista insieme al marito Tognazzi, protagonista Sabrina Ferilli che interpreta il ruolo di una madre vittima di un clamoroso errore giudiziario, costatole l’allontanamento dalla figlia. E ad aprile sempre su Mediaset ci sarà un’altra fiction del duo Izzo-Tognazzi, “Svegliati amore mio”, un’altra storia al femminile interpretata sempre dalla Ferilli.

Perché, secondo lei, per le donne è ancora così difficile emergere?

“Perché hanno tanti ruoli, sono ‘cangure’, le chiamo così. Portano nei loro marsupi i problemi di tutti i giorni e spesso sono costrette a scegliere tra il lavoro e la famiglia. Nel 2021 questo non è più accettabile”.

Prima lo era?

“No, certo neanche prima lo era. Pensi che quando 40 anni fa ho scritto la mia prima sceneggiatura, ho dovuto firmarla con uno pseudonimo. Lina Wertmüller non credeva neanche che l’avessi scritta io. Mi disse: una scrittrice non ha i tacchi, va con le scarpe basse. Ma io non ho mai rinunciato alla mia femminilità”.

Nel frattempo però le cose sono cambiate?

“Beh, certo. Qualcosina è cambiata, ma nel cinema le registe si contano sempre con le dita di due mani, non di più. E non va molto meglio in politica”.

Si aspettava più donne nel governo?

“Mi aspettavo più donne del Partito Democratico. La Serracchiani, per esempio, pensavo potesse tranquillamente fare il ministro. Mi ha sorpreso invece Berlusconi. Ora spero in ogni caso che con le nomine dei sottosegretari ci sia un riequilibrio”.

È d’accordo con le quote rose?

“Non mi piacciono. Servirebbe solo il buonsenso”.

Lei è romana di Roma. La Capitale è amministrata da una donna…

“È vero, ma diciamo la verità: io non ho votato la Raggi, ma avrebbe difficoltà ad amministrare Roma anche un uomo”.

È ridotta così male la sua città?

“È una bellissima moglie, che si fa sempre più sciatta e più indifferente. Io ho deciso di abitare alle porte di Roma, perché non sopportavo più il traffico e il caos. Se vai dal dentista, puoi fare solo quello perché perdi mezza giornata per arrivarci. Qui per le distanze finiscono persino le storie d’amore”.

La sua però dura da 35 anni. Qual è il vostro segreto?

“Io e Ricky amiamo le stesse cose. Non ci siamo mai lasciati. Litighiamo come tutti, ma facciamo pace sempre prima di andare a letto. Un giorno mi ha scritto: mi rovini la giornata, mi risolvi la vita. Così non ci siamo depressi”.

Neanche in tempo di pandemia?

“Devo dire che mi sento molto fortunata perché ho una casa grande, con un giardino che mi ha permesso di non subire troppo le restrizioni. Ho continuato a lavorare e per questo mi sento anche in colpa. So di molti colleghi in difficoltà ed è terribile vedere i teatri e i cinema chiusi”.

Dovrebbero riaprire, secondo lei?

“In sicurezza, perché no? Con mascherina e distanziamento. Spero accada presto”.

Cosa le manca di più della vita precedente al Covid?

“Mia madre. Vado ogni settimana a trovarla con la mascherina. Ma posso vederla solo da lontano. Lei mi guarda e mi dice: con questo becco mi sembri un’oca. Spero davvero di poterla riabbracciare presto”.

Ha fiducia in Draghi?

“Sì, mi piace molto. Apprezzo la sua riservatezza, non eravamo più abituati. Non perde tempo a comunicare sui social, ma lavora. Penso che sarà d’esempio per tutti: ci insegnerà a concentrarci di più e a perderci meno nella rete”.

Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2021. «Le case dove ho vissuto erano botteghe di artisti: mia madre ballerina, mio padre attore, regista e appassionato di cucina. Sono stato nutrito a pane e cinema e, a un certo punto, ti domandi: cosa vuoi fare da grande?». Ricky Tognazzi, figlio di Ugo Tognazzi e Pat O' Hara, si è posto la domanda molto presto, dato che ha iniziato a frequentare i set del padre sin da bambino.

«I miei genitori erano separati e quando l' estate trascorrevo le vacanze con papà passavo il tempo a vederlo recitare: lui vestito da messicano, da latin lover o da donna mentre impersonava la drag queen Madame Royale nel film del 1970 diretto da Vittorio Caprioli, il primo che affrontava il tema dell' omosessualità, che all' epoca era praticamente un tabù. E devo dire che quando lo vedevo atteggiarsi al femminile, il che gli riusciva molto bene, ho avuto un attimo di perplessità, ero preoccupato e mi dicevo: oddio che è sta succedendo, è mamma o papà? E anche un' altra volta mi ha fatto molto preoccupare, anzi piangere...».

Perché?

«Mentre girava Il Federale , nel 1961, ero davvero molto piccolo, ingenuo, ignaro di tutto...seguivo le riprese e, vedendo al lavoro i truccatori, il sangue finto, le botte finte, capivo che si trattava di una pura, innocua mascherata. Ma quando, qualche mese dopo, andammo insieme a vedere il film al cinema, di fronte alla scena in cui lui, orgoglioso di vestire la divisa da fascista arriva a Roma ignaro del fatto che la città era stata liberata, e viene assalito, rincorso dalla folla inferocita... beh mi sono sciolto in lacrime: mi sembrava tutto vero!».

In altri termini, era più convincente sullo schermo che dal vivo?

«Esatto. Papà cercò di spiegarmi con dolcezza che era soltanto un film, che non era successo niente, che era tutto finto. E lì ho capito che il cinema, a volte, è più potente della realtà. Siccome, però, in altre occasioni mi divertiva e mi faceva tanto ridere ho capito un' altra cosa fondamentale».

Quale?

«Che fare questo mestiere è meglio che lavorare. Per questo mi sento un privilegiato: beato colui che scambia il lavoro per tempo libero. Scoprire qual è la propria vocazione da giovani è una delle conquiste più importanti».

Attore o regista? Lei ha fatto entrambe le cose.

«Ugo mi sconsigliò di fare l' attore, dicendo: è un mestiere limitato, sei nelle mani degli altri, perché non provi a studiare da regista, è un lavoro più completo. Così, dopo aver studiato in Inghilterra dove vivevo principalmente con mia madre, venni in Italia e mi iscrissi alla scuola di segretario di edizione e produzione, dove ho imparato tutto il percorso per la realizzazione di un film. Per dieci anni ho fatto la gavetta, poi Ettore Scola mi chiama per il suo meraviglioso film La famiglia , dove interpretavo Paolino, il figlio di Vittorio Gassman, e l' anno dopo mi dà la possibilità del vero debutto da regista, nella serie Piazza Navona , per l' episodio intitolato Fernanda . Considero Scola il mio maestro, lo definisco il mio "preside", mi ha insegnato tanto: è il mio padre putativo».

Ma quello vero, invece, che padre è stato: assente?

«Come dicevo prima, sono figlio di genitori separati ante litteram, oltretutto entrambi appartenenti al mondo dello spettacolo, e andavo a scuola dai preti, quindi ero figlio di due peccatori... Ma per me erano entrambi presenti, nell' ambito di quella che è diventata una famiglia allargata, avendo avuto in seguito tre fratelli».

Thomas è figlio dell' attrice Margarete Robsahm, Gianmarco e Maria Sole sono figli di Franca Bettoja: con chi dei tre si sente maggiormente in sintonia?

«Sarà perché ci vediamo poco, e questo in certi casi può essere un vantaggio enorme, ma vado d' accordo con tutti. Thomas e io ci somigliamo anche fisicamente, forse perché siamo entrambi nati da due donne nordiche. Gianmarco ha dei tempi comici eccezionali, è buffo, mi diverte e mi fa anche tanta tenerezza perché ha il candore che è tipico degli attori, perché per fare questo lavoro si deve restare un po' bambini. Maria Sole è forse quella più tagliente, acuta, ha sempre la battuta pronta, sardonica... però resta la mia sorellina più piccola».

La famiglia, poi, ha continuato ad allargarsi con l' arrivo di Simona Izzo...

«Le donne che incontri ti modificano nel Dna: forse se avessi incontrato una donna chef, una "cheffa", avrei aperto un ristorante in Messico. Invece Simona mi chiamò per interpretare il suo primo film, Parole e baci, che dirigeva con la sorella Rossella e il nostro incontro era un destino: anche lei è cresciuta a pane, scrittura e doppiaggio... però le nostre rispettive situazioni familiari non erano facili, facili... Io provenivo dalla mia unione con Flavia Toso, da cui era nata nostra figlia Sarah e anche lei aveva avuto un marito, Antonello Venditti, un figlio, Francesco... Insomma, una faccenda complicata».

E Simona voleva convolare a nozze...

«Eh già, ma io non mi sentivo pronto... E una volta, mentre andavamo in macchina proprio a trovare mia madre, lei mi fa una scenata che dura dal casello di Roma nord fino a Ventimiglia. Io cercavo di spiegarle che il matrimonio non era necessario, che avevamo una casa in comune, un lavoro in comune, persino il conto in banca in comune... e a un certo punto le chiesi: perché dobbiamo sposarci? La sua risposta fu solenne: per educazione... E su questo mi sono arreso. Quando però finalmente arrivammo a casa di mia madre, le dissi con tono brusco: ciao mamma, io e Simona ci sposiamo. Lei sorrise felice, ma replicò: Ricky c' è un altro modo di dare una bella notizia. E io le risposi: sì, ma non c' è altro modo per dare una cattiva notizia...».

Proprio una cattiva notizia non si direbbe, dato che il vostro legame regge da oltre trent' anni...

«Verissimo. Abbiamo creato la famiglia Tognizzo, una sorta di minoranza etnica, dove siamo tutti padri e madri dei figli e nipoti di tutti e due che amiamo, senza togliere nulla ai genitori biologici. Nel cuore c' è posto per tutti. Simona e io abbiamo anche un' ulteriore fortuna».

Quale?

«Oscar Wilde scriveva: il matrimonio è una croce che deve essere portata in tre... riferendosi all' amante incomodo. Nel nostro rapporto, il terzo incomodo è il lavoro che ci unisce e, in certi casi, ci divide: il dibattito accalorato tra noi è perenne, siamo molto diversi. Io sono pieno di difetti: pigro, ansioso, nevrotico... Sono un ottimo pessimista».

Nessuna qualità?

«Sono tenace, questo me lo riconosco... Aggiungo che mia moglie afferma di amare la mia parte femminile... a volte mi chiedo se ami anche quella maschile... mi auguro di sì. La verità è che chi fa il nostro mestiere deve essere un po' maschio e un po' femmina, fluido nei sentimenti: la mela deve essere intera, affinché una torta abbia più sapori».

A proposito di sentimenti, si è mai pentito di non aver chiesto scusa a qualcuno?

«Sensi di colpa ne ho tanti, ma soprattutto nei confronti di mio padre. Quando si ammalò, ho sottovalutato il suo grave stato di salute e non sono andato a trovarlo spesso in clinica dove era ricoverato. Quando finalmente ci andai, era troppo tardi: mi piacerebbe chiedergli scusa per questo. Ho messo il mio impegno di lavoro al primo posto rispetto alla sua malattia».

E l' impegno lavorativo, ora, si concentra sulla storia di una donna con una figlia malata di leucemia: «Svegliati amore mio» è il titolo della nuova fiction in tre puntate, su Canale 5 dal 24 marzo, con Sabrina Ferilli protagonista.

«Racconta la storia di una madre che lotta per la sua bambina di dodici anni, la cui unica colpa, se così si può dire, è quella di vivere a ridosso di un' acciaieria, dove lavora il padre, e di aver respirato, come tanti bambini, non la brezza del mare che è lì vicino, bensì il vento rosso foriero di morte. Un doloroso dilemma, un grande dramma accaduto a tante famiglie, il dover scegliere tra il morire di fame o avvelenati... che è un po' quello che stiamo vivendo adesso tutti quanti, un amletico dubbio con cui dobbiamo fare i conti: chiudere tutto per la pandemia e salvarci dal Covid-19, oppure tenere aperto, salvandoci dalla fame? Quando abbiamo iniziato a scrivere questa storia non eravamo in pericolo pandemico, però dentro le acciaierie gli operai indossano da sempre le mascherine, per proteggersi dalle polveri sottili».

Quando la pandemia finirà, qual è il suo più grande desiderio?

«Ho tanta voglia di tornare a vedere film nelle sale e spettacoli teatrali. Per quanto le piattaforme, in questo brutto periodo, ci abbiano regalato le emozioni di cinema e serie tv, il buio della sala, quegli attimi prima che appaiano i titoli quando tutti trattengono il respiro come di fronte a un atto magico, sono cose irrinunciabili che non si possono riprodurre, né tantomeno rivivere seduti su un divano di casa. Jean Cocteau affermava che al cinema tutti gli spettatori sognano lo stesso sogno e io voglio rivivere questo sogno assieme agli altri...manca poco, spero».

Da "liberoquotidiano.it" il 29 ottobre 2021. "Hai un fratello norvegese": Ricky Tognazzi, ospite di Serena Bortone a Oggi è un altro giorno insieme alla moglie Simona Izzo, ha fatto una confessione inaspettata. In particolare, ha raccontato il momento in cui ha scoperto di avere un fratello: "Mia madre stava leggendo Novella 2000 e mi ha detto: 'Tuo padre deve dirti qualcosa'". Il fratello del noto regista si chiama Thomas Robsahm ed è nato dalla relazione del papà Ugo con Margarete Robsahm. Anche Thomas, proprio come Ricky, lavora nel mondo del cinema. Infatti è un produttore, sceneggiatore e regista. Come ha raccontato Tognazzi, poi, il padre Ugo decise di andare in Bulgaria per riportare il figlio a Roma. E quando si sono trovati uno di fronte all'altro, Gianmarco - l'altro fratello di Ricky - ha guardato Thomas e gli ha detto: “Che carini che siamo insieme, sembriamo due fratelli”. Simona Izzo, poi, ha parlato del rapporto di coppia e della gestione dei problemi lavorativi, ironizzando: "Non è detto che Ricky mi abbia sempre consolato per un problema sul lavoro. Non è sempre stato solidale. Lui mi avverte quando sto male". In un'intervista di qualche giorno fa, comunque, il regista era stato super romantico: "La verità terrificante è che non posso più fare a meno di lei. Io vorrei smettere e poi provo un giorno, ma al secondo giorno cedo". 

·        Simona Marchini.

Federica Manzitti per il "Corriere della Sera - Edizione Roma" il 9 marzo 2021. «M'era venuta una gran voglia di scultura». Solo Simona Marchini oggi può permettersi tanta disarmante sofisticatezza parlando della mostra aperta nella sua galleria La Nuova Pesa, fino al 13 aprile. Nelle tue mani - Sculture da Cambellotti a Nunzio raccoglie dieci opere di altrettanti artisti, esaltando differenze e caratteri di generazioni diverse: dalla classe 1876 di Duilio Cambellotti alla classe 1957 di Giacinto Cerone. Tra i due estremi: un bassorilievo di Marino Marini, uno di Giacomo Manzù, una ceramica di Leoncillo, la Sfera Laser di Maurizio Mochetti insieme a opere di Ettore Colla, Eliseo Mattiacci, Nunzio e Giovanni Prini, a cura di Giovanni Damiani e il contributo di Arnaldo Colasanti. «Che facciamo qui? - dice Simona Marchini nel suo ufficio al piano nobile del palazzo di via del Corso che ospita la galleria - me lo sono chiesta tante volte da quando abbiamo riaperto due mesi fa. È che proprio ora dobbiamo darci delle possibilità, diffondere un messaggio vitale ma seguendo scrupolosamente le indicazioni igieniche».

Come stanno rispondendo le persone?

«Benissimo, a cominciare dagli artisti che si sono rivelati molto disponibili a incontrare fisicamente i visitatori. Non per fare la retorica della vecchia zia, ma questo mondo ha perso il valore della relazione. Dobbiamo recuperarlo. Io soffro per quello che vedo in giro, tanta infelicità. Vogliono farci credere che comprare è il nostro unico scopo di vita».

E il mercato? Conta dando vita a un luogo di cultura...

«Il mercato è una cosa strisciante e misteriosa. Ho riaperto questa galleria che mio padre, Alvaro Marchini, aveva fondato nel 1959, quando il mondo dell' arte stava subendo un inesorabile processo di americanizzazione. Era il 1985. Con la pandemia potremmo cogliere l' occasione per ridare valore agli artisti italiani e abbandonare la moda di guardare solo all' estero, che a lungo ha indebolito la scena più giovane».

Le sculture in mostra sono tutte nella sala che per anni ha accolto qui gli incontri di poesia e filosofia.

«La stanza di Babele, la chiamo così per la molteplicità dei linguaggi. Una tradizione al momento sospesa. Un peccato dopo che ha visto insieme Giorgio Caproni, Amelia Rosselli e poi Giorgio Agamben, Massimo Cacciari o Valerio Magrelli. La poesia va coltivata con rispetto e ricordando che nessuno sta davvero bene da solo».

Ottimista o pessimista?

«Credo che questo momento terribile ci costringerà a chiederci cosa vogliamo davvero, dov' è la qualità della vita. Io sono stata fortunata, mi sono venute incontro tante cose belle, ma mi ha aiutato l' aver sempre rilanciato, anche qui nella galleria in cui credevano in pochi».

Chiusa da suo padre nel 1976 dopo una stagione con grandi nomi come Guttuso e Mafai, riaperta da lei nello stesso anno in cui andava in onda nei panni della telefonista di Quelli della notte ...

«Un anno esplosivo. Ora la tv mi fa ribollire il sangue, è una passerella di opportunismi insopportabile. Ma continuo ad amare la radio».

Una storia d' amore durata tanti anni.

«Venticinque con Black out insieme a Enrico Vaime, interrotti per pura cattiveria con un intervento dall' alto. Mi piaceva anche fare la notturna fino alle sei di mattina. Bevevo ogni sera un litro di Coca-Cola».

Tornerebbe davanti a un microfono?

«Domani».

·        Simona Tagli.

Da today.it il 9 dicembre 2021. Casta da dieci anni. E' la vita di Simona Tagli, ex showgirl ed oggi proprietaria di un negozio di parrucchieri, nonché vera e propria bomba sexy negli anni Novanta. A raccontare la decisione di schivare il sesso negli ultimi tempi è la stessa Simona nel corso dell'ultima intervista rilasciata sul suo privato: single, mamma di Georgia, oggi 16 anni, ha deciso di votarsi alla castità anni fa. Per chi si domanda come sia nata l'idea di Simona di darci un taglio, la risposta è presto servita. Siamo nel 2006, l'ex volto tv partecipa all'Isola dei Famosi, reality show condotto dall'epoca su Rai Due da Simona Ventura, e decide di darci un taglio. "Tutto è nato dalla mia breve esperienza all'Isola, è stato un viaggio spirituale per me", confida. A pesare, in particolare, alcune vicende personale particolarmente ostiche in quel periodo. "All'epoca era in ballo la separazione dal mio compagno (Francesco Ambrosoli, ndr) e l'affido di Georgia". Era un momento di tensioni, per Simona. "Vivevo in un clima folle, fatto di tribunali e processi. Il mio desiderio era solo una vita serena con mia figlia. Ho iniziato a pregare spessissimo, ho fatto un voto alla Madonna di Lourdes per trovare la serenità. Ho ottenuto la grazia. E' arrivata, anni dopo, la l'apertura del mio negozio". E così Simona ha deciso di non sciogliere più quel voto così importante. "Ad oggi non l'ho ancora rotto. L'intimità è solo una parte dell'amore e non la più importante. Mi sono abituata a stare da sola, anche se mantengo la speranza di incontrare una persona che mi faccia battere il cuore". Sono lontani i tempi in cui i suoi stacchetti facevano girare la testa a milioni di italiani. Erano gli anni Novanta. A rimanere folgorato da lei, in tv, fu Gianni Boncompagni, storico autore televisivo di volti come Raffaella Carrà.  "Mi dicevano di lasciare salire la gonna quando ballavo - dice oggi l'ex conduttrice dei tempi che furono - ma Aver studiato dalle suore mi spingeva ad abbassarla ogni tre secondi". Spazio poi nell'intervista alla breve relazione avuta con Alberto di Monaco, principe oggi al centro delle cronache per la latitanza della moglie Charlene. "Era molto passionale nell'intimità - svela Simona - E' rimasta una amicizia, per rispetto del matrimonio però non ci sentiamo da tempo. Sono dispiaciuta per l'allontanamento di Charlene in Sud Africa, a tratti per me incomprensibile". Per lei è stato vantaggio sono non esser diventata principessa? Tutt'altro. "Se ci fosse stata meno distanza tra noi e una presenza costante da parte di Alberto, sicuramente non me lo sarei lasciato scappare". 

·        Simona Ventura.

(ANSA il 10 novembre 2021) - E' stata assolta con formula piena, "perché il fatto non sussiste", la conduttrice tv Simona Ventura, difesa dai legali Jacopo Pensa e Federico Papa e che era imputata per una presunta evasione fiscale da circa 500mila euro. Lo ha deciso il giudice della seconda sezione penale di Milano Sandro Saba, mentre la Procura aveva chiesto una condanna a 1 anno e 4 mesi.

Fisco: Simona Ventura assolta da accusa evasione a Milano: "Fatto non sussiste". Legale: "Sollevata perchè era in ansia". La procura di Milano con il pm Silvia Bonardi avevo chiesto una condanna a 1 anno e 4 mesi per la conduttrice televisiva. La Repubblica il 10 Novembre 2021. Simona Ventura è stata assolta dall'accusa di evasione fiscale nel processo in cui era imputata per "dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici" all'erario per contributi pari a circa 500 mila euro tra il 2012 e il 2015. Lo ha deciso con la formula del "fatto non sussiste" il giudice della seconda sezione penale del tribunale di Milano Sandro Saba. La procura di Milano con il pm Silvia Bonardi avevo chiesto una condanna a 1 anno e 4 mesi per la conduttrice televisiva, difesa dai legali Jacopo Pensa e Federico Papa. Secondo l'inchiesta della Guardia di Finanza e della pm, la conduttrice avrebbe fatto confluire parte dei suoi proventi e addebitato parte dei suoi costi a una società a lei riconducibile, la Ventidue srl, quando invece avrebbe dovuto far rientrare tutto, sia le entrate sia le uscite, nella sua dichiarazione dei redditi come persona fisica. La "dichiarazione infedele dei redditi" riguarderebbe i compensi relativi ad alcuni contratti, siglati soprattutto con emittenti televisive, sullo sfruttamento dei diritti d'immagine per la sua attività professionale. Sulla società sarebbero state scaricate in modo illecito anche spese per il parrucchiere, compresi 420 euro per una extension con 'capelli veri', per acquisti di carattere gastronomico, bouquet di fiori, t-shirt e costi per una festa di compleanno. "Mi trovo a essere accusata di aver evaso il fisco e lo trovo profondamente ingiusto e per me è motivo di una profonda vergogna, ho sempre cercato di pagare il dovuto e sono estranea ai fatti", aveva detto la presentatrice con delle dichiarazioni spontanee in un'udienza. "Sono 34 anni che lavoro nel mondo dello spettacolo e non mi sono mai interessata di aspetti tributari, di queste cose non ho mai capito un tubo, il mio errore probabilmente è stato dare fiducia ai professionisti che si occupavano di questi aspetti", aveva aggiunto la conduttrice televisiva. Simona Ventura "è sollevata dopo l'assoluzione in un processo che durava da tre anni e la teneva sotto scacco" ed "era in ansia per quello che poteva succedere in caso di condanna". Lo ha spiegato l'avvocato Jacopo Pensa, che ha assistito, assieme al legale Federico Papa, la conduttrice tv assolta oggi a Milano dall'accusa di evasione fiscale. "Ieri - ha aggiunto il difensore - è stato assolto anche Gigi D'Alessio da reati fiscali e si può dire, dunque, che gli artisti ora sono sulla cresta dell'onda in quanto a innocenza". "Lei mai avrebbe pensato di trovarsi di fronte alla giustizia penale - ha detto il legale -. In aula ha proclamato la sua buona fede e non ha mai avuto alcuna percezione di aver commesso qualcosa di irregolare nei rapporti con il fisco. Il Tribunale ha capito come sono andate le cose". 

Simona Ventura: «Che sofferenza le calunnie di chi diceva che mi drogavo. Bowie mi insegnò l’umiltà». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2021.

La conduttrice e l’amore per il compagno Giovanni Terzi: «Ha una malattia autoimmune abbastanza seria, ma insieme combattiamo perché si arresti». 

Se le dico Niccolò?

«Il mio primogenito... È forte, perbene. In lui rivedo la mia grinta. Credo, e vale per tutti e tre, che il mio lavoro lo abbiano in qualche modo subìto, anche se ci sono stati i lati positivi. Nessuno di loro vuole lavorare in televisione, a Niccolò hanno proposto di partecipare a qualunque reality... Io li ho sempre spinti a trovarsi una strada da soli».

Giacomo?

«Ha una sensibilità non comune, è un artista a tutto tondo, e in questo mi somiglia, fa teatro. È curioso, puntiglioso, creativo. Mi ricorda me da ragazza».

Caterina?

«Lei è la mia principessa. È bravissima a scuola: senza offesa per nessuno, non ero abituata a sentirmelo dire ai colloqui. Caterina ha 15 anni e ha un’etica incredibile, da ragazza di una volta. Per dire: se le sue amiche fanno cose che a lei non piacciono, non le frequenta più». 

E Giovanni?

«Per la prima volta ho trovato una persona complementare a me, non ci lasciamo mai. Sognavo un uomo che non fosse geloso del mio successo e non entrasse in competizione con me. Se riesco a fare tante cose è anche grazie alla serenità che mi dà. La nostra, più che una famiglia allargata è una comune. Abbiamo 5 figli, i miei più i suoi, Ludovico e Giulio. E per noi vale il detto “tutti per tutti”».

Avete anche due cani.

«Eh, no, quello è l’unico incastro che non ha funzionato. Io ho un Jack Russell che si chiama Ugo: The Killer Dog, diciamo noi. Giovanni ha un labrador che si chiama Rocco: il Professore. Faccia lei chi è dovuto andare via... Rocco adesso è in campagna dal nonno di Giulio».

La forza di Supersimo è nei dettagli. Il piede che non smette di ballare, il tono affettuoso con cui si rivolge al compagno Giovanni Terzi qui nello studio accogliente alla Fabbrica del Vapore di Milano, gli occhi che brillano quando parla di Caterina, che «è arrivata già fatta ed è stato ancora più bello». La forza di Simona Ventura non sta (sol)tanto nei 61 programmi tv documentati da Wikipedia, due radiofonici, 8 film di cui l’ultimo da regista, Le 7 giornate di Bergamo, appena presentato a Venezia. Ma nella sorpresa con cui li commenta, senza sentirsi arrivata, con una luce di curiosità e incoscienza che la spinge a guardare avanti, a quello che ancora non ha imparato e imparerà, che non ha ancora sperimentato e sperimenterà.

Come ha fatto a conciliare famiglia e lavoro?

«Intanto ho avuto la fortuna di avere i miei genitori e molte persone che mi hanno aiutata. In primis la tata Lulù, ecuadoregna, che mi ha supportata per tredici anni: 13 di Nic, 11 di Giacomo e 6 di Caterina. Ho cominciato a lavorare nel ‘94, ma ho avuto il grande exploit nell’intrattenimento dal 2000 al 2010: anni d’oro dal punto di vista lavorativo, ma complicati per la famiglia. E agrodolci, sull’ottovolante: nel 2004 mi sono separata... Continuare a crescere i miei figli da madre single non è stato facile, qualcosa sul campo ho lasciato. Però sono sempre stata molto presente con loro: mi alzavo la mattina a portarli a scuola, non mancavo mai a una recita, a un incontro con gli insegnanti. Ero una specie di caterpillar: la disciplina me l’ha insegnata mio padre militare, lo stacanovismo l’ho ereditato da lui».

Scelga tre trasmissioni, a bruciapelo.

«Quelli che il calcio, L’Isola dei Famosi e Le Iene. Sono programmi in cui sono stata la prima donna. Ho sempre scelto la strada più difficile e posso dire con orgoglio di non essere mai stata imposta da qualcuno».

In quale si è divertita di più?

«Siccome mi annoio facilmente, quando non mi diverto più me ne vado. L’ultimo che mi ha divertita e fatto anche tenerezza è Temptation Island Vip: io non lo farei mai come concorrente! Quelli che il calcio cambiava ogni domenica, non rischiavo di annoiarmi. L’Isola dei Famosi non era mai uguale al copione, e a me piaceva cavalcare l’imprevisto».

Mai avuto paura prima della diretta?

«Sì, assolutamente. Il primo minuto me lo sono sempre imparato a memoria poiché il cuore mi batteva all’impazzata e non mi ricordavo più nulla».

Il 3 ottobre torna in tv con «Citofonare Rai2», assieme a Paola Perego. Come sarà lavorare con una donna?

«Lavorare con un’amica sarà senz’altro bello, perché questo è Paola per me. È una persona buona, romantica, cui voglio molto bene».

Ha lavorato con i più grandi: Fiorello, Baudo, Celentano. Da chi ha imparato di più?

«Da tutti, lavorare in coppia insegna tantissimo. Grazie ai grandi conduttori, dopo, sono riuscita a lavorare da sola. Ho sempre pensato di fare un gradino alla volta: la casa si costruisce dalle fondamenta, non dal tetto».

E cosa pensa di aver insegnato lei a loro?

«Intanto il divertimento. Penso a Matricole, prima con Amadeus e poi con Fiorello. La reunion a Sanremo è saltata perché ho preso il Covid. Al di là dell’invidia — tanto ormai sono impermeabile, ho una corazza, altrimenti sarei già morta — il fatto che mi abbiano voluta significa che ho lasciato un bel ricordo».

L’accusa più vigliacca in tutti questi anni?

«Di essermi drogata. Per anni ho fatto l’esame del capello. Questa calunnia era talmente dominante sui giornali che mi sono detta: ora con il primo che ci riprova mi rifaccio casa».

A proposito... Una volta raccontò che investiva nel mattone e che non ricordava quante case avesse. Oggi lo ricorda?

«Adesso me lo ricordo molto bene, ne ho solo una bellissima in Sardegna, tra Porto Cervo Marina e Liscia di Vacca. È il mio posto del cuore, ci tengo moltissimo perché lì sono cresciuti i miei tre figli... Prima investire nel mattone aveva più senso, questa cosa mi viene da mio padre. Oggi è cambiata la mentalità».

E dove investe ora?

«Nella società di produzione che ho creato, la SiVe Produzioni. Sarà la nostra carta per il futuro (guarda il compagno, ndr)».

Supersimo si è mai emozionata accanto a un personaggio?

«Tantissimo, sempre! Penso a Lady Gaga. Ho qui in giro un biglietto che mi scrisse dopo essere stata a Quelli che il calcio. Ricordo che era arrivata in taxi e non avemmo il tempo di preparare l’intervista. E ricordo benissimo il suo carisma, ne rimasi sconvolta. Il giorno dopo mi mandò un mazzo di fiori e un biglietto: “Grazie Simona perché sei stata l’unica in Italia a volermi nel suo programma”. Da lì esplose».

Una bella soddisfazione.

«Io ho avuto a Quelli che il calcio i più grandi artisti della storia. Da Adele a Katy Perry, dagli U2 a Amy Winehouse, da Al Pacino al mio idolo David Bowie. Restavo colpita dalla loro umiltà: i più forti sono anche i più umili».

Qualcuno l’ha delusa?

«Avril Lavigne. Era un po’... capricciosa».

Ha un rito scaramantico?

«Se mi cade la cartellina la sbatto tre volte per terra e sputo tre volte sul copione. Questo non andrebbe bene con il Covid...».

Un programma che non rifarebbe?

«Guardo sempre avanti. Mi chiedono spesso di tornare all’Isola dei Famosi. Ma ora è difficile fare un reality, il pubblico è abituato ai ritmi delle serie tv. Io l’ho fatta nel momento giusto».

Il giorno più bello della sua vita?

«Quello in cui ho tenuto tra le braccia i miei figli».

Il più brutto?

«Diversi. I fallimenti. Sicuramente il mio matrimonio. Ogni storia lunga che ho avuto, quando si è chiusa, è stata un fallimento. Momenti negativi nel lavoro ne ho avuti, ma se si cade ci si rialza. I giovani non lo vivono così».

Nemmeno l’aggressione a Niccolò è stata il momento più brutto?

«Poteva esserlo, ma le cose poi sono andate bene. Ho la fortuna che quelli che amo stanno bene. Certo, Giovanni, e lo dico perché ne ha parlato lui, ha una malattia autoimmune abbastanza seria, ma abbiamo la consapevolezza di fare tutto quello che serve perché si arresti».

L’ultima volta che ha pianto?

«A Venezia. Non mi aspettavo tutti quegli applausi per il mio documentario Le 7 giornate di Bergamo. Alla fine, con la canzone di Tricarico, io piango sempre».

È riuscita a conoscere Almodóvar?

«Macché! Però Sorrentino in ascensore mi ha detto in bocca al lupo!».

Mai stata tentata dalla politica?

«No, non sono in grado. È una macchina che non conosco, non sono preparata e ne sto lontana. Io ho sempre voglia di fare, non riuscirei a stare ferma, a mediare... Però ho il piacere di avere vicino a me Mariastella Gelmini, la ministra per gli Affari regionali e le autonomie. Anzi, vorrei dire soprattutto vincitrice dell’Isola dei politici a Quelli che il calcio! Oggi sarebbe impossibile rifare quelle cose».

È molto credente. Ha conosciuto i papi?

«Una volta ho avuto la fortuna di partecipare alla messa di Papa Ratzinger: bellissimo. I papi sono permeati da un carisma incredibile. Già il fatto del vestito bianco, li riempie di luce. Mi piacerebbe molto conoscere Papa Francesco».

Fa la comunione?

«No, sono divorziata e non voglio farla a dispetto del Papa. Ma una volta a Miami ammetto di averla fatta, sperando che nessuno mi riconoscesse. Era il 25 dicembre e a sorpresa cantò anche Andrea Bocelli».

È vero che da piccola voleva farsi suora?

«Sì, avevo la nonna molto credente che mi portava a messa ogni domenica e una volta mi fece leggere dal pulpito. Mi ritrovai con tutte queste vedove vestite di nero che mi guardavano e mi ascoltavano e mi accorsi di un brivido nella schiena. Poi ho scoperto che non era vocazione: il palcoscenico mi aveva già sedotta».

Da ilmessaggero.it il 19 giugno 2021. Un selfie appena sveglia senza nè trucco nè filtri. Questo lo scatto che Simona Ventura ha pubblicato due giorni fà sul suo Instagram per i suoi follower. «Buondì a tutti voi, oggi ci provo, appena sveglia, sempre con il sorriso». Ma il buongiorno non è piaciuto proprio ai suoi fan che si sono divisi. C'è chi la critica per i ritocchi estetici e chi invece venera la showgirl per il coraggio nel mostrarsi così. Una foto appena sveglia in cui SuperSimo si ritrae sul suo letto con i capelli ancora da sistemare per salutare con un sorriso accennato i suoi 1,7 mln di fan. Ma proprio loro hanno contestato la foto.

Simona Ventura, i commenti. Le critiche mirate soprattutto ai ritocchi estetici che, secondo i fan, avrebbero modificato il volto e l’espressione della presentatrice della Rai. Al punto da renderla irriconoscibile. «Simona torna come prima, sei sempre stata bella non hai bisogno di tutto sto gonfiore» scrive Fefy. «Onestamente stavi meglio prima con le tue rughe» commenta la Ila. E ancora: «Ti sei trasformata», «Ma perché ti sei toccata il viso, eri bellissima, sì saresti invecchiata come tutte ma con il tuo viso che ora non c’è più, mi dispiace molto, noi donne alcune volte commettiamo errori così sciocchi…», «Eri tanto bella Simona, poi hai deciso di trasformati anche tu con la chirurgia estetica, siete tutte uguali, avete paura di invecchiare, siete di plastica, senza espressione. W la grandissima Virna Lisi, lei sì che era bellissima con le sue rughe…».

La fidanzata di Bettarini la difende. A prenderne le difese a spada tratta è scesa Nicoletta Larini, fidanzata dell'ex marito di Simona Ventura. «Ma non vi fate ridere da sole? Ma come vi permettete di giudicare? Giudicate le vostre vite tristi e cercate di migliorarle… Non avete ancora capito? Si sa che chi commenta cose così come voi vive con lo stomaco perennemente acido e muore di invidia ogni giorno. Imparate l’educazione, quella non fa mai male. Portate rispetto a chi non conoscete». 

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 24 maggio 2021. Per molti è Simona Ventura, per tutti è Super Simo, per me è semplicemente Simona, la persona che amo e con cui ci siamo accolti reciprocamente nelle nostre vite. Martedì alle 21,20 su rai due riparte il suo ultimo progetto televisivo Games of Games. Credo di conoscerla abbastanza bene anche perché, questo ultimo anno e mezzo di pandemia, ci ha portato in dote una quotidianità inaspettata. Abbiamo, entrambi, visto il mondo cambiare e diventare qualche cosa che ancora non conosciamo; così come abbiamo avuto paura quando, uno dopo l' altro, ci siamo ammalati di Covid. Simona è una macchina da guerra, infaticabile ed inaffondabile e fa della propria energia il carburante della locomotiva con cui trasporta ogni persona che ama. Ma se apparentemente è inaffondabile, anche lei, Super Simo, ha il suo punto debole: la famiglia e gli affetti più cari.

Simona qualche giorno fa tua mamma si è fatta male. Che reazione hai avuto, ti sei spaventata?

«In realtà la mia prima reazione non è mai lo spavento o la paura ma un istinto immediato di essere d' aiuto. Così, essendo mia mamma caduta alla mattina e avendomi avvisato solo nel tardo pomeriggio, mi sono prodigata ad avvisare il medico e portarla in ospedale. Devo dire che si parla troppo spesso delle situazioni negative nella sanità mentre, anche in questo caso, ho trovato una efficienza straordinaria in una struttura pubblica».

E Rino, tuo padre, come ha reagito?

«Lui è un uomo forte, un ex generale dell' esercito ma, quando mia mamma non sta bene, diventa come un pulcino bagnato. Si intimorisce».

La tua reazione quindi è sempre coerente con il tuo spirito combattente...

«Io sono come un salmone che deve andare sempre controcorrente. Mai ho potuto scivolare sul velluto, ma non mi lamento; è il bello della vita perché, paradossalmente, è il prezzo che devo pagare per la mia libertà».

Questa pandemia ci ha portato via tanti amici, cosa ti ha lasciato dentro?

«Ancora di più l' amore per il lavoro e la percezione di essere fortunata ad avere ancora sogni e opportunità. È un momento molto difficile per tutti e mi sembra di aver visto, nella ripartenza, una nuova consapevolezza ed amore per il lavoro; è come se molti di noi abbiano capito che nulla è per sempre e che, avere un lavoro, è decisivo per la nostra dignità».

Sei una donna di comunicazione, potendo tornare indietro cosa cambieresti nel modo di informare in questo periodo di pandemia?

«Sicuramente meno terrorismo mediatico, fatto soprattutto da una categoria, i virologi, che hanno davvero spaventato senza mai dare una cura domiciliare chiara e precisa, se non negli ultimi tempi. Sinceramente spero che tornino alle loro professioni».

Noi siamo stati anche in questo caso fortunati ad avere un medico di fiducia come il professor Luca Bernardo ed una struttura come l' ospedale Fatebenefratelli di Milano che ci ha dato subito, dopo averci visitato, una terapia domiciliare da seguire. Oggi stiamo forse tornando ad una lenta normalità, come vorresti che fosse il futuro del nostro Paese?

«Ho sentito tante persone dire "andrà tutto bene", io vorrei dire semplicemente "sarà meglio di prima". Penso all' Italia e mi viene in mente che abbiamo il 70% del patrimonio artistico mondiale. Basterebbe fare squadra, in fondo nessun Paese è migliore del nostro. Ho molta fiducia in questa nuova guida del Paese con un Governo di unità nazionale che, mi sembra, dia valore e senso alle istituzioni. Spero che questa nuova consapevolezza ci permetta di farci rispettare in Europa».

Il generale Figliuolo ha dato una vera e propria svolta nella accelerazione delle vaccinazioni, questo ti dà serenità?

«Assolutamente sì perché è un alpino e mi mette sicurezza. Grazie ad una organizzazione paramilitare abbiamo accelerato in modo importante nelle vaccinazioni ridando speranza e fiducia ai cittadini».

I tuoi figli hanno risentito di questo anno e mezzo di confinamento?

«Sicuramente sì, come tutti i ragazzi. La Dad, la scuola e la mancanza di socialità e di sport hanno compresso e reso ancor più fragili i nostri figli. Ora sta a noi sostenerli ed aiutarli anche dal punto di vista psicologico».

Cosa è mancato ad ognuno di noi?

«La nostra cifra umana è fatta di abbracci e socialità. Questa è mancata totalmente. Il Covid è la malattia della solitudine e del virtuale. Adesso dobbiamo sostenere i nostri ragazzi ad uscire dallo schema soltanto digitale».

Sei credente ? E se sì, come ti ha aiutato la Fede in alcuni momenti difficili della tua vita?

«Sì, sono credente ed ho un rapporto con Dio personale non necessariamente fatto di messe in chiesa. Mi capita spesso però di passare davanti ad una chiesa ed entrare a pregare. Sono sicura che Dio mi ami, me l' ha dimostrato tante volte».

Hai paura della morte?

«No, però spero che arrivi il più tardi possibile per non causare dolore ai miei genitori».

Giovanni, il tuo compagno, (io; ndr) ti è stato vicino?

«Giovanni e io siamo stati così tanto insieme che... se avessimo qualche dubbio non saremmo così uniti. Penso che si stia costruendo una famiglia molto unita. Con te, Giovanni, abbiamo compreso le nostre sensibilità comuni, come quella dell' amore per i nostri figli, che ci permettono di avere un progetto condiviso».

È vero Simona, per noi, come dici tu, «nessuno deve rimanere indietro». Cosa ti hanno fatto scoprire o insegnato, in questo anno, i tuoi figli?

«Intanto i figli mi hanno voluto ancora più bene e questo è bello e mai scontato. Li ho visti trasformarsi e diventare sempre più volenterosi di fare dei sacrifici per poter essere autonomi».

Ritornando al lavoro che periodo sta vivendo la televisione?

«La televisione generalista ha ancora molto da dare nonostante l' avanzata di nuove piattaforme. Detto questo non dobbiamo dimenticare che, ancora oggi, la generalista resta sempre una compagnia per la maggior parte delle persone. Una cosa la voglio dire però: mi spiace vedere così tanta informazione al posto dell' intrattenimento e, mi si deve credere, non sempre un giornalista è anche un conduttore».

Hai lavorato con i più importanti artisti italiani e internazionali. Qualche ricordo?

«Con Amy Winehouse ho il ricordo di una artista che mise una meravigliosa magia nello studio di Quelli che il calcio. Poi le è entrato dentro un male oscuro che l' ha dilaniata psicologicamente. Ho anche un bellissimo ricordo di Lady Gaga (l' unica ospitata in Italia la fece da me): mi mandò dei fiori con un biglietto che conservo ancora. Ogni artista, comunque, mi ha lasciato qualcosa e mi ha ispirato; posso solo affermare, dopo più di trent' anni di professione, che più gli artisti sono grandi e più sono umili».

Hai anche lavorato con tanti maestri della tv, da Mike Buongiorno a Pippo Baudo...

«Pippo Baudo è il padre nobile della Rai. Dovrebbe essere un presidente onorario».

Domani torni su Rai2 con Game of games un format di Ellen DeGeneres in America.

«Esperienza bellissima con un gruppo di persone fantastico e voglio sempre ringraziare il direttore Ludovico Di Meo di avermi dato questa opportunità. Come tutti i format nuovi ha bisogno di tempo per affermarsi; Le Iene, che condussi per quattro anni, inizialmente andò male, ma pian piano ebbe successo perché la rete e Mediaset ci credettero».

Simona sai come sono i giornalisti... Vorrei fare bella figura visto che sono il tuo fidanzato. Hai un racconto inedito della tua carriera o della tua vita personale che mi permetta di fare un figurone?

«Purtroppo non posso farti fare bella figura, Giovanni...».

Sulla tua vita sentimentale preferirei non entrare perché entrambi abbiamo un grande rispetto di chi si è amato precedentemente. Però una domanda voglio fartela: sei gelosa?

«Sì. E tu?».

Sono io il giornalista Simona! Comunque sì, anch' io! Ma tu solo di me? Anzi no, preferisco che tu non mi risponda. Come vedi il tuo futuro professionale?

«Come ben sai sto seguendo un progetto digital a cui tengo molto e penso di avere ancora tanto da dare: ho molto da comunicare...».

E quello personale?

«Hai qualche idea Giovanni?».

Sì, Simona, ma non voglio raccontarla adesso...

·        Simone Cristicchi.

Cristicchi si fa in tre: "Il teatro e i disegni dopo il libro sulla felicità". Paolo Giordano il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. L'artista espone a "La Milanesiana" le opere firmate adesso e quelle giovanili. Poi il tour . Simone Cristicchi è un mosaico di talenti. Ogni tassello è distinto e talvolta distante, tutti insieme raffigurano uno degli artisti più controcorrente in circolazione. Ora, neppure gli mancasse qualcosa, sta per inaugurare una mostra di diegni che si intitola Happy Sketches - Natura umana che è inserita nella Milanesiana itinerante di Elisabetta Sgarbi e debutta il 23 giugno alla Reggia di Venaria. «Io ho iniziato a disegnare a 10 anni, è stato il mio primo contatto con l'arte», spiega lui che quando parla è pacato, soave, chiarissimo. Quando diventa «artista o creativo», come si definisce sorridendo, è tutt'altro: imprevedibile e coraggioso. Si è fatto conoscere con il tormentone Vorrei cantare come Biagio nel 2005, poi ha vinto il Festival di Sanremo nel 2007 con Ti regalerò una rosa ma non ha continuato a replicarsi all'infinito come tanti altri. Si è reinventato. Ha scritto colonne sonore (Rosso Istria del regista Antonello Belluco) e ha portato in scena Magazzino 18 sulle foibe e sull'esodo giuliano-dalmata, che gli ha riservato l'inevitabile e stantia contestazione dell'estrema sinistra. Poi è tornato al Festival di Sanremo con l'emozionante preghiera laica Abbi cura di me e poi, tra un concerto e una rappresentazione, si è fatto in tre. Un'idea, tre progetti: un libro, una mostra, un'opera teatrale. «Il libro Happynext - Alla ricerca della felicità è nato prima della pandemia: ho incontrato 150 persone in giro per l'Italia facendo loro una sola domanda: Che cos'è la felicità?. Nella prima parte ho inserito anche la mia personale risposta». Qual è? «Sono sette parole: attenzione, lentezza, umiltà, cambiamento, talento, memoria e noi». Il noi rende perfettamente l'idea: Simone Cristicchi è empatico, condivide sul serio, non come si fa sui social. A proposito com'è Cristicchi sui social network? «Riesco comunque a tenere un rapporto con le persone. Ma non sono assiduo, non faccio storie...». Le storie le racconta. In musica, in teatro, con i disegni: «Ho iniziato a disegnare dopo la morte di mio papà, avevo 10 anni e quella è stata la mia reazione al dolore: disegnare mondi dove stavo bene. Ho disegnato in modo compulsivo fino a 18 anni, passavo ore e ore con un pennino da 0,1. Poi sono passato alla musica che comunque ha la stessa frenesia di sintesi: da una parte devi raccontare una storia in poche tavole, dall'altra in pochi minuti». Ha ripreso a disegnare durante il periodo del lockdown e nella mostra ci sono i disegni di allora e quelli di adesso. Lo stile non è quello disincantato, dolce e malinconico delle sue canzoni. «Disegno quasi sempre personaggi dal volto torvo e imbronciato. Prima ero molto più bravo, adesso il disegno mi aiuta a ritrovare una forma di lentezza di cui ho bisogno». Dopo aver disegnato sulla carta quasi ossessivamente fino a diciott'anni, Simone Cristicchi ha iniziato a disegnare sullo spartito ed è diventato il cantante che tutti riconoscono. Ma negli ultimi anni «ho seguito sempre meno la musica e mi sono concentrato sulla scrittura, anche se faccio sempre tanti concerti». In sostanza si è concentrato «più sulle persone che sul pubblico». Non a caso, a 44 anni, ora si sente «fuori dal tempo». Vorrebbe sì scrivere canzoni «ma non quelle che passano in radio, quelle che possono vivere oltre me. Scrivere un brano è semplice, scrivere un brano eterno è difficilissimo». Nell'attesa, ha preparato il terzo capitolo di questo progetto, il capitolo teatrale per il quale ha scritto anche dieci canzoni: «Debuttiamo il 23 luglio a San Miniato con Paradiso - Dalle tenebre alla Luce, che è strettamente collegato alla ricerca della felicità e su come trovare il paradiso nelle nostre vite. Una sorta di teatro canzone orchestrale con riferimenti anche alla Divina Commedia e al 33esimo canto nel quale Dante incontra la visione di Dio. Al momento ci sono già 20 repliche». Una sfida per niente semplice, la conferma che artisti si nasce e poi lo si diventa in ogni modo, cantando, recitando, scrivendo e restando controcorrente.

·        Sylvie Lubamba.

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 6 febbraio 2021. Esplosiva, esagerata, straripante: lei è Sylvie Lubamba la bombastica showgirl “tosco-congolese” che ha fatto della sua simpatia, delle sue forme burrose e della sua risata contagiosa le sue caratteristiche principali. Sylvie è stata la prima miss di colore a partecipare al noto concorso “Miss Italia” entrando alla kermesse per aver vinto il titolo di Miss Toscana 1992, successivamente è apparsa accanto a Pippo Baudo nello spot di una nota marca di caffè per poi entrare a far parte del cast di “Guida al Campionato”. Ma il suo momento di maggior successo lo ha ottenuto nel 2004, lanciata da Piero Chiambretti all’interno del suo show “Markette”. Il successo poi è andato man mano a sbiadirsi pur rimanendo però ben impressa nelle menti dei fruitori di televisione che la ricordano con affetto e simpatia. Nel 2014 è stata arrestata per utilizzo indebito di carte di credito ed è rimasta in carcere per quasi tre anni e mezzo. In questa intervista a ruota libera affrontiamo vari temi: il carcere, il sesso, le proposte indecenti, i sogni, la sua simpatia per Matteo Salvini, la voglia di maternità e non solo; scopriamo insieme chi è la nuova Sylvie!

D. Sylvie è da un po’ che non si vede in televisione, è una sua scelta?

R. Dopo aver fatto molta televisione, a quasi quarantanove anni ho avvertito l'esigenza di selezionare con più cura ed attenzione i miei passaggi e le mie ospitate televisive. Ho iniziato il 2021, ospite di un programma esilarante, originale, molto interessante e divertente intitolato ‘Pigiama Rave’ condotto da Saverio Raimondo in onda su Rai4.

D. Nel frattempo conduce due trasmissioni radiofoniche, scrive per il settimanale “Adesso” ed è uscito da pochi giorni il suo libro, ci parli di queste novità.

R. Si, attualmente conduco due format on air il lunedì pomeriggio con “La Poliziotta e la Galeotta” insieme a Viviana Bazzani e il sabato pomeriggio “Lockdown Confinamento Aperto” con Fabiola Mancini su  Radio For Music Tv a Torino; la radio mi ha conquistata ed il continuo rapporto col pubblico è al quanto stimolante e sorprendente. Poi sempre con Viviana Bazzani curo una rubrica settimanale per il giornale “Adesso” diretto da Luca Arnaù denominata anch’essa “La Poliziotta e la Galeotta”. Viviana è un ex agente di polizia ed io un ex detenuta. È uscita la mia biografia edita da Pathos Edizioni scritta con Pee Gee Daniel intitolata “Lubamba - la mia libertà oltre lo sbaglio e le sbarre”.

D. Di cosa parla questo suo libro?

R. È la mia biografia, la definisco straripante proprio come me, colma di episodi inediti, tristi e felici. Parlo dei ricordi di una bambina cresciuta in una famiglia africana nell’Italia degli anni ottanta, della condanna di mio padre per omicidio, dei miei studi, dei quartieri degradati, del concorso di Miss Italia, delle foto che fecero scandalo, della carriera cinematografica e televisiva e della galera fino ad arrivare all’incontro col Santo Padre. Racconto di come è facile nella vita sbagliare, perdersi, pagarne il prezzo, cambiare e ricominciare.

D. I tre anni e quattro mesi in carcere l’hanno cambiata o si sente sempre la stessa Sylvie? Penso che la lavanda dei piedi che le ha fatto Papa Francesco l’abbia segnata.

R. L'esperienza in carcere mi ha mutata profondamente come è normale che sia...è cambiata la mia scala di valori e di principi. L'incontro con Papa Francesco mi ha rivoluzionato la vita.

D. Il sesso in ambienti di detenzione carceraria è spesso un tabù, lei come l’ha vissuto per quasi tre anni e mezzo?

R. Premetto che una delle regole da rispettare in carcere è quella di non raccontare cosa accade all’interno ed io continuerò ad osservarla. La detenzione è stata talmente dolorosa e ho sofferto talmente tanto che ne il sesso ne tanto meno l’autoerotismo mi sono mai passati nemmeno per l’ anticamera del cervello, erano e sono pensieri inesistenti.

D. Sylvie è vero che vive in castità da parecchio tempo o è solo una trovata pubblicitaria?

R. Confermo che è l’assoluta verità!  È dall’estate 2014 che non ho rapporti con un uomo. Attualmente vivo in uno stato di grazia. I piaceri della carne per il momento non sono una priorità.

D. Nella sua carriera ha mai ricevuto proposte indecenti da uomini potenti e facoltosi?

R. Si certo, ho ricevuto e continuo a ricevere proposte da uomini facoltosi in cambio di una nottata di sesso smodato. Voglio che si sappia che Sylvie Lubamba, nonostante nell'immaginario collettivo sia sempre stata considerata una donna libidinosa e vogliosa, è il contrario di ciò che appare. Oggi più che mai, detesto ogni forma di contatto fisico. Auspico che questa lunghissima fase di rifiuto di copulare, si risolverà con l’incontro del grande amore.

D. Che rapporto ha con il denaro?

R. Il mio rapporto con il denaro è sempre stato disinvolto, mai stata parsimoniosa...Le persone attaccate ai quattrini sono avare pure sentimentalmente.

D. Mesi fa ha fatto sapere di essere in condizioni economiche precarie, per tanto di aver chiesto ed ottenuto il reddito di cittadinanza e di essere in graduatoria per una casa popolare a Milano, a che punto sono le cose?

R. Confermo che percepisco il reddito di cittadinanza da un anno, con il quale però non mi mantengo, ma mi consente di offrire un sostegno ai miei congiunti. Per quanto riguarda la richiesta di abitazione, presso l’Istituto autonomo case popolari, sono ancora in attesa di assegnazione di un miniappartamento, nel frattempo sono ospite di mia madre a Milano.

D. La foto che qualche anno fa fece con Matteo Salvini ad un comizio della Lega scatenò non poche polemiche, cosa pensa di lui e del suo partito?

R. Salvini è disponibile e gentile, talvolta non viene del tutto compreso.

D. Come vede il suo futuro nel mondo dello spettacolo? Cosa le piacerebbe fare?

R. A breve sull’emittente televisiva GRP, riprenderà la seconda edizione del mio salotto televisivo 'Noi Donne'. Amando molto la musica, mi piacerebbe condurre una trasmissione canora.

D. Lo scorso anno un autorevole settimanale la dava quasi per certa all’ Isola dei Famosi di Ilary Blasi, ci sono probabilità di vederla naufragare in Honduras il prossimo mese?

R. Non sono interessata a partecipare all’Isola e al momento non ci sono contatti ne tanto meno trattative in corso. Sarei molto più interessata a partecipare al Grande Fratello Vip.

D. A chi sente di dire grazie ?

R. Ringrazio la mia mamma per il sostegno morale, nel bene e nel male, i miei nipoti e le persone che mi sono state accanto nei momenti brutti. Molte persone appena sono stata arrestata sono sparite. Un grazie particolare a Barbara d’Urso che mi ha ospitato nei suoi salotti televisivi, a Maurizio Mosca per i suoi utili consigli lavorativi, a Piero Chiambretti per la chance lavorativa unica e indimenticabile che mi ha regalato.

D. Sente il desiderio di sposarsi, costruire una famiglia e diventare mamma?

R. Credo nel matrimonio e mi piacerebbe molto diventare mamma entro i cinquant’anni.

D. Cosa si augura Sylvie per il 2021?

R. Diventare mamma!

·        Sylvie Vartan.

ROBERTO CROCI AKA LA BESTIA per rollingstone.it il 12 ottobre 2021. «Quel che sono lo devo ai miei genitori», sussurra in un giardino con piscina a Beverly Hills Sylvie Vartan, una delle chanteuse più famose del panorama musicale francese grazie a 50 milioni di dischi venduti in tutto il mondo. Icona femminile e cover girl, è stata anche fonte di turbamento nell’Italia anni ’60/70. Lei, già emancipata e androgina, era una figura insolita rispetto alle brave ma caste Mina, Nada, Cinquetti, Zanicchi, Caselli. Ora, seduta di fronte a me, 77 anni, racconta l’album Merci pour les regard, il prossimo tour mondiale, la biografia Le tourbillon d’une vie, partendo dal luogo in cui è nata, la Bulgaria. «Chi sono? È importante che sappiate da dove vengo. L’ultima immagine che mi viene sempre in mente, prima di chiudere gli occhi, è quella dei miei genitori, papà Georges e mamma Ilona, e mio fratello Eddie, di sette anni più grande, in stazione, sulla banchina dell’Orient Express, direzione Parigi. Avevo 6 anni, ed ero cresciuta in pieno regime comunista. Ero all’ultimo anno di asilo e mi rivedo indossare ancora uniforme e sciarpa rossa dei settembristi, le giovane legioni comuniste di zio Stalin, simili ai Balilla della vostra gioventù fascista. Ricordo papà e mamma sorridenti, felici, innamorati». A Sofia il padre, nato in Francia da famiglia commercianti francofoni, di origine armena, studiava al Liceo Francese e lavorava per l’ambasciata francese. «Dopo l’invasione comunista della Bulgaria del 1944 era cambiato tutto e anche se ero piccola avevo capito che nessuno voleva vivere dietro la cortina di ferro, nemmeno i miei genitori. Il fatto che papà avesse anche il passaporto francese fu determinante nel chiedere e ottenere i documenti per poter espatriare dalla Bulgaria e andare in Francia. Ci vollero due anni per averli, due anni di incubi che ricordo perfettamente. Ed eccomi sulla banchina intenta ad abbracciare zie e zii, cugini, nonni e amici. Fu in quell’istante, a 7 anni, che capendo dramma e serietà della situazione persi la mia infanzia, smisi di essere una bambina e divenni un’adulta. Sensazioni che porto ancora con me. La Francia è il mio Paese, ma la Bulgaria è il mio cuore, le mie radici, la mia melanconia».

Siete poi arrivati a Parigi. Cosa ricorda di quegli anni?

Siamo arrivati con 100 dollari in tasca. Abbiamo vissuto per quattro anni in un piccolo albergo vicino a Les Halles. Mio padre, che era l’unico che parlava francese, ha iniziato subito a cercare lavoro. Di notte lavorava al mercato fino alle 8 del mattino. Dormiva fino a mezzogiorno e nel pomeriggio faceva il contabile con mia mamma. Era una vita dura, i miei genitori hanno fatto molti sacrifici per non farci mancare niente, ma siamo sempre stata una famiglia felice. 

Quando ha cominciato a interessarsi alla musica?

Mio fratello maggiore Eddie suonava il corno francese, poi è passato alla tromba. Amava il jazz, suonava in una band a Saint-Germain-des-Prés, mentre io frequentavo il liceo. Poi è diventato produttore musicale e frequentava grandi artisti come Ella Fitzgerald, Oscar Peterson, Miles Davis, Count Basie, Duke Ellington, Ray Charles, che ho avuto la fortuna di conoscere e vedere all’Olympia. Eddie amava anche Elvis. Io a quei tempi sognavo di diventare attrice, non ho mai pensato di cantare. 

E la prima volta che ha cantato?

Eddie lavorava con Daniel Filipacchi e Frank Ténot che avevano uno show radiofonico molto seguito, Pour ceux qui aiment le jazz. Poi Filipacchi ha dato vita a un altro programma, Salut les copains, per un pubblico più giovane che ha avuto un successo incredibile, si stava affermando il rock’n’roll. Insieme con mio fratello hanno deciso di produrre un singolo, un duetto tra un ragazzo e una ragazza, che poi all’ultimo momento non ha più voluto cantare e quindi hanno chiesto a me. La canzone era Panne d’essence. Il successo è stato talmente incredibile che volevano produrre un album con me. Il mio sogno era di diventare attrice di teatro, ma i paparazzi mi seguivano dappertutto e a scuola non mi volevano più perché con la notorietà creavo solo problemi. E così ho continuato a cantare.

Qual è stato il primo tour?

Aprivo per Gilbert Bécaud, con lui ho viaggiato il mondo, 300 concerti all’anno. Nel 1964 La plus belle pour aller danser è diventata una hit, anche in Italia. Era il 1964, avevo 20 anni, quell’anno i Beatles hanno fatto il primo concerto in Francia. Con loro ho fatto uno show all’Olympia. 

Cosa ricorda dei Beatles?

Bruno Coquatrix, il manager proprietario dell’Olympia, ha organizzato un concerto per i giovani amanti della nuova onda rock che stava invadendo la Francia. Voleva i musicisti inglesi più popolari del momento, i Beatles, e il numero uno in America, Trini Lopez. Ha scelto me per via di La plus belle pour aller danser. Ho passato parecchio tempo con i Beatles backstage, passavamo ore a cantare e poi quando finiva lo show, uscivamo a ballare, li portavo nei club di Parigi e ballavamo per ore senza che nessuno ci disturbasse perché stavano appena iniziando a diventare famosi e nessuno in Francia ancora li conosceva. Potevano essere la mia band, ne avevamo anche parlato.

Come ha conosciuto Johnny Hallyday?

E dove se non all’Olympia? Aprivo una serata con altri rock’n’roller. Eravamo entrambi giovani, avevamo molte cose in comune e ha chiesto al mio manager se mi interessava andare con lui in tour. Ci siamo innamorati, avevamo le stesse passioni, ci piaceva la stessa musica. È stata una bella relazione, ma con il passare degli anni e nostri interessi e le priorità sono cambiate e abbiamo deciso che sarebbe stato meglio separarci. 

Il rimpianto più grosso?

Non aver potuto girare un western con Sergio Leone. Sognavo di fare l’attrice ed ho anche fatto dei film Francia, ma non è la stessa cosa. Chissà cosa sarebbe stato di me….

Le sue canzoni preferite?

La plus belle e La Maritza, una hit enorme. Maritza è il nome di un fiume bulgaro, il testo parla di libertà. Vidi mio padre piangere per la prima volta quando la cantai in Sofia. 

Cantante preferito?

Elvis Presley, non c’era nessuno come lui. Ho amato anche Brenda Lee, una rock’n’roller a soli 13 anni. Tra gli italiani adoro Zucchero, ha tutto quello richiesto da un rocker, mi piacerebbe cantare con lui. Ho lavorato con Cocciante, grande compositore, e Celentano, intelligente e rivoluzionario come pochi, sempre all’avanguardia. Come donna, non posso non nominare Rita Pavone, e come soubrette da palcoscenico, Raffaella Carra, la numero uno.

Con suo fratello ha fondato la Association Sylvie Vartan pour la Bulgarie. Perché?

È un’associazione di beneficenza per aiutare i bambini bulgari che hanno sempre avuto troppo poco. Abbiamo concentrato i nostri sforzi sul rifornimento di attrezzatura medica iniziando con le incubatrici neonatali a luce blu, che aiutano i bambini nati con l’itterizia, una condizione che colpisce otto bambini su dieci in caso di parto prematuro. Quando hai avuto successo nella vita, è giusto aiutare quelli che non sono stati fortunati come te. 

A breve partirà in tour. Andrà in Italia?

Mi piacerebbe molto, amo l’Italia. Ho cantato molte delle mie canzoni in italiano. Riccardo Cocciante ha scritto per me Je n’aime encore que toi, ma non l’ho mai potuta cantare in italiano perché nella vostra lingua la canta solo lui. Alcune di queste canzoni le canterò in tour, più tutte quelle del nuovo album Merci pour le regard. 

·        Sophia Loren.

Sophia Loren, l'icona italiana over più amata nel mondo. Angela Leucci il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Sophia Loren è l'icona over italiana più amata nel mondo: indimenticabili i suoi ruoli nei suoi film, dal cinema d'autore fino all'ultima produzione Netflix. Sophia Loren è una diva d’altri tempi, eppure al tempo stesso incredibilmente contemporanea. Con i suoi 86 anni, di cui 71 trascorsi sul grande schermo, Sophia riesce a incarnare non solo l’Italia più vera e verace, ma anche quella più colta e raffinata, quella che ha saputo rendersi internazionale con il talento e l’impegno. E, perché no, anche con una bellezza che dura nel tempo. Sophia Loren è la portabandiera più affascinante e piena di talento tra gli over 80, un’icona del cinema che non si ferma mai o, al massimo, che fa fermare gli altri al cospetto dell’arte: nell’estate 2019, durante le riprese del film Netflix “La vita davanti a sé”, la città di Bari si fermò ad ammirare lei, Sophia, alle prese con il ruolo che le è valso il suo più recente David di Donatello. “Forse sarà il mio ultimo film, questo non lo so - ha dichiarato l’attrice quando ha ricevuto il riconoscimento, come riporta RaiNews - Ma dopo tanti film ho ancora voglia di farne sempre uno. Io senza il cinema non posso vivere assolutamente”. Nell'immaginario collettivo, Sophia Loren è da sempre la ragazza di Pozzuoli, in carne e ossa. L’attrice però è nata a Roma nel 1934, da una musicista puteolana e un aristocratico di origini agrigentine: con la madre, che non sposò mai il padre di Sophia, si trasferì a Pozzuoli, dove rimase fino alla sua adolescenza, con tuttavia la parentesi di un periodo nel cuore di Napoli. Perché è proprio l’adolescenza il periodo in cui Sophia inizia ad accostarsi al mondo dello spettacolo, dapprima con concorsi di bellezza e fotoromanzi, successivamente con il cinema. In questi questi suoi primi lavori filmici (tra i quali troviamo anche il kolossal “Quo vadis?”, in cui è presente un altro celebre partenopeo, Carlo Pedersoli, in seguito noto come Bud Spencer), Loren non è accreditata, oppure lo è con il suo vero nome, Sofia Scicolone, nonché con lo pseudonimo di Sofia Lazzaro, per “diventare” solo nel 1953 Sophia Loren. “Durante la guerra a Pozzuoli, mi rifugiavo nei cinema e mi immergevo in tutti questi fantastici film di Hollywood e sognavo a occhi aperti tutte le star di Hollywood”, ha raccontato in un’intervista a Variety. Ed è proprio a Hollywood che lavora il marito Carlo Ponti, un produttore, che proprio nel 1950 incontra Sophia e insieme hanno una storia d'amore che si è interrotta solo nel 2007, quando lui è venuto a mancare. Tra gli anni ’50 e i ’60, prima di attraversare l'Atlantico, sono però intanto moltissime le storie ambientate a Napoli interpretate da Sophia, da “Carosello napoletano” a “L’oro di Napoli”, entrambi del 1954, passando per “Pane, amore e…” (che nello specifico è ambientato a Sorrento) del 1955, “La baia di Napoli” del 1960 e “Questi fantasmi” del 1967 su un soggetto di Eduardo De Filippo. “Quello è stato un grande ruolo per me - ha detto a Variety riferendosi a 'L’oro di Napoli' - Mi ha dato la possibilità di essere me stessa a 18 anni, di essere napoletana per il popolo napoletano. È stata la mia fortuna, perché quando è uscito il film sono esplosa davvero. Ho iniziato a chiedere ruoli migliori e le persone mi riconoscevano per strada”. Non ci mette troppo però Sophia a diventare una star internazionale: il suo primo film americano è del 1957 infatti, “Il ragazzo sul delfino” di Jean Negulesco. Lo stesso anno uscì “Orgoglio e passione” in cui Loren fu accanto a Cary Grant. E da allora l’attrice, pur restando sempre quella ragazza di Pozzuoli, ha lavorato con vari registi in ogni angolo del globo, da Henry Hathaway a Sidney Lumet, fino a George Cukor, Peter Ustinov, Charlie Chaplin, George Pan Cosmatos e Howard Deutch. Tuttavia se il mondo intero ama Sophia lo fa anche grazie ad alcuni ruoli immortali, che le furono dati dal cinema italiano. Uno di questi è sicuramente quello della protagonista Cesira in “La ciociara” di Vittorio De Sica, la storia durissima di una vedova che cerca di salvaguardare la figlia sopravvissuta a una “marocchinata”, una violenza sessuale perpetrata durante la Resistenza dai Goumier, soldati franco-marocchini che si sono realmente macchiati dello stupro di centinaia di donne italiane. Loren interpreta questo personaggio, nato dalla penna di Alberto Moravia, nel 1960, ma lo riprende nel 1988, quando “La ciociara” diventa una miniserie tv diretta da Dino Risi. Per il film Loren ha vinto l’Oscar nel 1962. Un altro ruolo molto celebre di Loren, passato alla storia per la sua peculiarità, è quello di Valeria in “La moglie del prete” (1970) di Dino Risi, in cui l’attrice è una cantante che intreccia una relazione con un sacerdote, interpretato da Marcello Mastroianni, e vorrebbe sposarlo a dispetto delle regole di celibato della Chiesa Cattolica. L’espressione contenuta nel titolo del film, relativa al personaggio interpretato da Loren, è diventato successivamente un modo di dire. Sophia Loren fu nel 1971 in “La mortadella” di Mario Monicelli: qui è Maddalena, ex operaia in un salumificio, che cerca di raggiungere il fidanzato negli Stati Uniti per sposarlo, ma alla dogana viene fermata perché in possesso di una mortadella. Maddalena diventa il simbolo di un grande attaccamento alle radici, dell’italiano che non vuole perdere la propria identità pur dovendo lasciare il Belpaese. Nel 1977 Loren fu invece in “Una giornata particolare” di Ettore Scola, una pellicola ambientata in un solo lungo giorno in cui due esseri umani distantissimi tra loro - Antonietta e Gabriele, quest’ultimo interpretato sempre da Mastroianni - si incontrano. Da un lato la donna, casalinga e madre di 6 figli, dall’altro l’intellettuale omosessuale che finiscono per intrecciare una sorta di brevissima amicizia, per poi tornare distanti, fisicamente ed emotivamente, alla fine della giornata particolare che dà il titolo al film. Per questo ruolo, nel 1978, l’attrice fu insignita di un Nastro d’Argento e uno dei tanti David di Donatello vinti nella sua carriera, tra cui 7 solo in qualità di miglior attrice protagonista. Mastroianni fu il co-protagonista di tanti film insieme a Loren, ma forse uno dei più noti è “Matrimonio all’italiana” del 1964, basato su “Filumena Marturano” di Eduardo. "Marcello mi manca ogni giorno. Era un grande attore ma soprattutto un grande amico”, ha detto ancora a Variety. Il fascino è la cifra stilistica più visibile a occhio nudo dei personaggi che furono proposti a Loren nel tempo: il suo fascino non si poteva nascondere. E così le sono stati assegnati, a partire dagli anni ’50, ruoli dalla grande bellezza interiore ed esteriore, come per esempio quello di Agnese, prorompente, dolce e ricca di spasimanti, oltre che cugina della zitella Cesira ne “Il segno di Venere”, oppure il ruolo di Gemma in “Miseria e nobiltà”, una giovane di cui si innamora un aristocratico che non la può sposare perché lei è figlia di un cuoco. Ma ci sono storie in cui i personaggi interpretati da Sophia Loren restano agli annali del cinema per la loro sensualità. Come ne “La riffa”, episodio contenuto nel film “Boccaccio ’70”, in cui Loren è una procace circense che si offre come premio per una riffa, in modo da poter sbarcare il lunario. Senza dimenticare quell’erotico e raffinato spogliarello che Loren, nel ruolo di Mara - una prostituta d’alto bordo dal cuore d’oro - mette in scena per il suo cliente più affezionato, con il volto di Marcello Mastroianni, nella pellicola “Ieri, oggi, domani”. Loren aveva 29 anni quando questo film approdò al cinema, ma replicò la scena, con lo stesso co-protagonista, quando aveva 60 anni: è accaduto nel film “Prêt-à-Porter” di Robert Altman, ancora una volta una produzione americana a testimoniare l’amore e l’interesse che tutto il mondo nutre per Sophia.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

·        Stefania Casini.

Silvia Maria Dubois per "corriere.it" il 27 giugno 2021. Si è spogliata e poi si è rivestita. Accanto al boa di piume blu di Playmen, si è presa il lusso di schiaffare sul tavolo anche una laurea in architettura, pellicole con firme del calibro di Germi, Bertolucci, Argento. Poi si è rispogliata. Ha fatto quello che ha voluto, ha rifiutato, ha reinventato: è così Stefania Casini, sex simbol degli anni Settanta, mito che è riuscito a sopravvivere a se stessa, a differenza di tante colleghe, falene troppo luccicanti nei sogni erotici della notte, per poter sopravvivere ai faticosi riflettori del giorno. Chiudi gli occhi e la vedi (mezza) nuda fra Pozzetto o dentro un letto, ma se tieni gli occhi socchiusi un po’ di più, vedi anche quel palco di Sanremo targato 1978, reportage e fiction, video sui social che la tengono in contatto con il mondo reale, dopo tanti anni. Proprio Stefania Casini è stata fra le protagoniste, su Rai Tre, giovedì 17 giugno, di una delle puntate inedite di “Le Ragazze”, programma cult che racconta la storia d’Italia tutta al femminile.

Gli inizi, impegni al massimo. Chi pensa di aver conosciuto Stefania Casini grazie a qualche commedia di successo, sappia che fra le mani ha solo un piccolo pezzetto di un puzzle molto più grande e composito di questo personaggio. La “montanara” (definizione sua) Stefania nasce a Villa di Chiavenna, il 4 settembre 1948. Una generazione che respira l’aria della ricostruzione, delle metropoli ancora genuine, ma in piena evoluzione. “Se pensi di diventare attrice va bene, ma prima ti prendi la laurea” sembra aver messo subito in chiaro il padre. Detto, fatto. Stefania, volontà di ferro, si laurea in architettura al Politecnico di Milano e subito si mette a studiare seriamente nel campo della recitazione, amore professionale già germogliato ai tempi del liceo, forse ancora prima. Un impegno che le regalerà presto le prime soddisfazioni. Qualcuno la avvisa: “Germi cerca l’attrice per il suo film”. Non ci pensa due volte, si presenta al provino: da lì, Stefania Casini, non si fermerà più. È il 1970.

Il successo (quello «serio»). Il ruolo di Carla, accanto ad un giovane Gianni Morandi, nel film «Le castagne sono buone», consegnano il suo sorriso e il suo maglioncino viola al grande pubblico. Ma Stefania non molla il teatro, il suo è un «presidio d’amore» che la premia presto: nel 1971 torna sul palco, grazie a Tino Buazzelli, intrepretando la più giovane protagonista di sempre in «Sei personaggi in cerca d’autore» di Luigi Pirandello. Qui iniziano le diverse strade parallele intraprese da Stefania e anche le curiosità della sua storia cinematografica: sempre ad inizio anni Settanta, infatti, si dimostra all’altezza anche nel ruolo di doppiatrice: sua la voce di Caterina (Carole Andrè) in «Don Camillo e i giovani d’oggi» (1972) di Mario Camerini e quello di Virginia (niente meno che Jane Birkin) in «Bruciati da cocente passione» (1976) di Giorgio Capitani.

La nascita del sex symbol. La seconda metà degli anni Settanta sono una cavalcata di popolarità, fra seni al vento, riccioli amaranto e grandi registi: mix di film come “Luna di miele in tre” di Carlo Vanzina, “Suspiria” di Dario Argento, “Maschio latino… cercasi” di Giovanni Narzisi le fanno tenere il solito formidabile equilibrio fra impegno e leggerezza. Un equilibrio che gioca con se stesso, con copertine di Playboy e Playmen e una prima, storica, apparizione femminile sul palco di Sanremo, nel 1978, accanto a Beppe Grillo, Maria Giovanna Elmi e Vittorio Salvetti. L’inizio del nuovo decennio, però, non stimola più l’attrice, che sente il bisogno di cambiare. Parte per l’America, si reinventa, inizia qui la sua carriera (parallela) di giornalista. Ma attenzione: il legame con la recitazione non si spezzerà mai: Stefania diventa produttrice e appare in diverse pellicole, fra cui “Il ventre dell’architetto” di Greenaway (1987), “Maledetto il giorno in cui ti ho incontrato” di Verdone (1992), “Dafne” di Federico Bondi (2019). In mezzo le fiction: qualcuno la ricorderà in “Donna” (1996) o in “Incantensimo” (2003). Ma Stefania Casini è tanto altro e sarà tanto altro. Al compleanno dei suoi 70 anni, ha detto, in un’intervista a “Io donna”: “Sono felice di essere una perennial”. Definizione azzeccata, aspettando la sua prossima sfida. Stefania in passato ha ricordato spesso la scena di sesso con Gerard Depardieu e Robert De Niro nel film Novecento, spiegando perché per i due attori fu più difficile girarla. "Interpretavo una prostituta epilettica - ha dichiarato -. Io non ho mai avuto problemi di pudore, ho fatto foto nuda, il mio corpo nudo era come un fiore: una cosa bella, non da coprire. Erano più i due uomini ad avere problemi: per un uomo è più difficile mostrare il sesso, questione di misure. Ma Bertolucci amava gli attori, ci metteva nelle condizioni di dare il meglio". Stefania Casini ha infine raccontato tempo fa come la censura volesse tagliare la celebre scena del film che l'ha vista protagonista insieme ai due attori: "Bertolucci si oppose e la spuntò - ha sottolineato -. E io sono contenta perché sono entrata nella storia del cinema. I miei amici gay mi dicono che ho avuto il privilegio di avere nelle mani due membri assai famosi".

·        Stefania Orlando.

Da "gossip.it" l'1 luglio 2021. Stefania Orlando non ha figli e finora non ha mai desiderato averne. A 54 anni ora potrebbe diventare ‘mamma’. La showgirl al settimanale Oggi confessa: “Con mio marito abbiamo intenzione di avviare le pratiche di affido per accudire un adolescente senza famiglia”. La bionda è tornata alla ribalta con la partecipazione all’ultima edizione del GF Vip. Il reality le ha regalato grande popolarità e l’ha fatta apprezzare tantissimo dal pubblico, che l’ha amata e continua ad adorarla definendola addirittura ‘Queen’. La Orlando nella Casa di Cinecittà ha scoperto molto di sé: “Nel lungo periodo che ho vissuto chiusa nella Casa, ho scoperto io stessa lati di me che non conoscevo. Mi sono riscoperta più forte senza l’interferenza dei fattori esterni. Mi sono messa veramente a nudo”. L’esperienza le ha lasciato tantissimo: “Il bisogno di prendermi cura degli altri. Di rappresentare un punto di riferimento, soprattutto per persone più giovani di me. Per la prima volta nella vita ho sentito un forte istinto materno, un impulso totalmente nuovo”. Stefania ha così maturato un’importante decisione insieme al suo Simone Gianlorenzi, 45 anni, sposato due anni fa, l'1 luglio 2019: “Abbiamo intenzione di avviare le pratiche di affido per accudire un adolescente senza famiglia. Entrambi sentiamo il bisogno di prenderci cura e donare il nostro amore a qualcuno che ne ha davvero bisogno. Ecco, questo è stato per me il vero miracolo del Grande Fratello e spero che presto la nostra famiglia possa allargarsi” (...)

Roberta Marchetti per today.it il 29 marzo 2021. Che si possa vincere un reality pur non arrivando primi può sembrare la classica frase scontata di chi non ce l'ha fatta, ma non è il caso di Stefania Orlando. Entrata nella Casa di Cinecittà con l'etichetta di showgirl simbolo di una tv che non c'è più, questa esperienza non solo ha rinverdito la sua popolarità ma le ha regalato un successo mai avuto prima, come racconta a Today. Amatissima da quasi tutti i suoi ex coinquilini, temuta da quelli che soffrivano la sua forte personalità, apprezzata dal pubblico più giovane che fino a sei mesi fa a malapena la conosceva, Stefania Orlando è stata senza alcun dubbio uno dei personaggi più incisivi di questa edizione del Gf Vip e in tanti la vorrebbero rivedere presto sul piccolo schermo. "Sono arrivate proposte interessanti" ci svela, senza poter ancora dire di più e senza chiudere porte, come solo chi ha il giusto bagaglio di esperienza e professionalità può permettersi di fare: "Non importa la rete quando il contenuto. Un ritorno in Rai? Dipende dal progetto, se non mi piace dico no". Intanto ad aprile esce la sua nuova canzone.

Per poco non hai vinto il Gf Vip, ma tutto il successo che stai raccogliendo è comunque una grande vittoria. Te lo aspettavi?

"Tutto l'affetto del pubblico e delle persone che incontro per strada, o sui social, è molto gratificante, soprattutto perché arriva da un pubblico femminile anche molto giovane. I giovani fino ad oggi forse non mi avevano neanche mai conosciuta, non hanno vissuto il mio periodo più attivo in tv, ma mi hanno conosciuta attraverso questo Grande Fratello, mi hanno apprezzata e sostenuta e sinceramente sì, è stata una grande vittoria questa".

Ti mancava l'affetto del pubblico?

"L'amore del pubblico ti investe, è un abbraccio immenso ed è speciale proprio perché non è sempre presente. Quando fai delle cose importanti lo senti, quando ci sono dei momenti in cui sei ferma lo senti meno. Mi mancava e forse così tanto non ce l'ho mai avuto. Sono sempre stata apprezzata dalle persone che mi conoscevano, ma mai così tanto. E' un momento unico nella mia vita".

Un successo nuovo quindi.

"Certo, c'è anche tutta la parte social che per me fino a qualche anno fa era sconosciuta. E' un successo senza precedenti per me, per questo sono rimasta un po' perplessa quando mi hai fatto questa domanda, perché un affetto simile non l'ho mai ricevuto. E' una cosa nuova per me".

E la tv ti mancava?

"La tv mi mancava, poi era la prima volta che facevo una cosa del genere. Fino all'anno scorso avevo questo spazio su Rai Uno, quindi non l'ho mai lasciata del tutto, ma è chiaro che un ruolo così da protagonista, insieme agli altri, era tempo che non lo provavo. Sicuramente mi è mancata anche se non è la tv che io ho sempre fatto".

Ti è arrivata qualche proposta?

"Ci sono state delle proposte che non ho preso in considerazione perché lontane da quello che voglio fare, ma sono arrivate anche delle proposte interessanti che si potranno concretizzare più avanti".

E si possono dire?

"No (ride, ndr)".

Invece telefonate da parte di vecchi colleghi sono arrivate?

"Poche ma buone. Rita Dalla Chiesa e Fiordaliso, che sono mie amiche, mi hanno chiamato. Mi sono arrivati dei messaggi, c'è stato molto affetto anche se non da parte di tutti. C'è anche chi non mi ha telefonato, ma questo lo comprendo. Non sono una che guarda molto queste cose, se mi arriva una telefonata sono contenta, se non mi arriva va bene lo stesso. Ci sono delle telefonate che mi sarei aspettata, questo sì, però alla fine comprendo che quello che per me può essere un successo per altri può non esserlo".

Ti riferisci alla scelta di partecipare a un reality?

"Penso che per qualcuno non è stato niente di così straordinario. Non tutti hanno lo stesso giudizio sulla stessa cosa. L'importante però è che questa esperienza sia stata bella per me".

Torneresti a fare un programma in Rai?

"Per me non ha tanto importanza la rete quanto il contenuto. Non disdegno nulla, se è un progetto importante posso dire di sì, se non mi piace dico di no".

Adriana Volpe, da I Fatti Vostri al Gf Vip, è approdata su altri lidi, Elisa Isoardi dopo due anni alla Prova del cuoco ora è all'Isola dei Famosi e le si prospetta un futuro in Mediaset. Ci sono terreni scivolosi in Rai?

"Diciamo che c'è più fluidità. Noi che facciamo questo lavoro siamo sicuramente più adattabili ed eclettici, ci reinventiamo, ci proponiamo per qualsiasi tipo di comunicazione. Io ad esempio canto, ho la mia band. Per fortuna siamo capaci di riadattarci, di gestirci e di metterci su un palcoscenico che ogni volta può cambiare, ma noi siamo sempre noi".

A proposito della tua passione per la musica, dobbiamo aspettarci una nuova hit dopo Babilonia?

"Assolutamente sì. Sto lavorando a un nuovo brano musicale che uscirà a fine aprile. Un brano reggaeton, molto fresco e carino, che ci accompagnerà per l'estate".

Tormentone in arrivo.

"Me lo auguro. La musica è il mio momento di evasione e in questo periodo serve". 

Con Tommaso Zorzi è nata una bellissima amicizia, meno bella invece è stata l'uscita di Alfonso Signorini sulla tua propensione a fare amicizia con ragazzi gay.

"Ma no, quella è stata una cosa mal interpretata. Alfonso mi conosce da tantissimi anni e sa perfettamente che sostengo e faccio molte attività con la comunità lgbt, voleva evidenziare quello. Come ho già detto, non scelgo gli amici in base all'orientamento sessuale e non era quello che intendeva Alfonso".

Il Gf Vip più lungo di sempre, come ha gestito Signorini questi sei mesi?

"Benissimo. Alfonso è una persona di grande cultura, capace di cambiare registro in un attimo e con facilità. Passa dal momento di cazzeggio a quello più intellettuale e profondo, per tornare poi alla risata. Credo che sia stato un ottimo condottiero. Ha guidato questa macchina con grande stile, con forza. Alfonso Signorini è stato uno dei motivi per cui ho accettato di fare il Grande Fratello, per me è stato il primo reality e il fatto che lo conducesse lui mi ha portato a dire sì".

Arma a doppio taglio del reality l'esposizione mediatica delle persone a te più care, soprattutto di tuo marito Simone che è sempre molto defilato rispetto al tuo lavoro e alla tua popolarità. Come la vive questa situazione?

"Per Simone è stato tutto nuovo, a volte si è trovato anche in grande difficoltà a gestire situazioni, a rispondere ai commenti social o peggio ancora agli attacchi, talvolta molto duri, ad andare in tv. Lui non è abituato, è un musicista e sale su un palco per suonare, non per dare spiegazioni o per difendere delle persone. Ha dovuto vestire l'abito del marito che difende la moglie e credo che se la sia cavata benissimo".

Quando è entrato nella Casa, la sera della finale, è stato un momento verità. Si è vista una storia d'amore poco scritta e molto vissuta.

"In quei pochi minuti si è vista la nostra storia, che è così, molto intensa da 13 anni. A volte non servono tante parole. Mi sono anche intenerita perché con lui c'era la nostra cagnolina che ha quasi 17 anni e l'ho vista invecchiata. Mio marito e Margot sono la mia vita, la mia famiglia".

Un altro momento terribilmente vero è stato il lutto di Dayane. Come lo avete vissuto?

"Inizialmente nessuno di noi voleva più continuare. Ci siamo guardati e ci siamo detti che non potevamo continuare a giocare, perché comunque all'interno della gara ci sono delle dinamiche che si creano e in una situazione del genere nessuno se la sentiva. Lei per prima però ha scelto di proseguire, perché in quel momento ha visto in noi delle persone che potevano starle vicino, una famiglia. Ci siamo stretti intorno a lei e abbiamo cercato di farla sentire meglio, di coccolarla e proteggerla, di farle vivere questo dolore nel migliore dei modi, se mai ci fosse un modo migliore per vivere una tragedia del genere. Abbiamo iniziato a scindere il gioco dalla vita reale. Quando vedevo Dayane straziata dal dolore, che piangeva, mi veniva da deporre l'ascia di guerra. Io e lei siamo state le antagoniste di questo Grande Fratello, ma quando la vedevo soffrire, umanamente stavo male con lei. Da quel momento in poi abbiamo vissuto dividendoci tra il dolore che stava vivendo lei, che diventava anche il nostro, e il percorso che doveva concludersi. Questa cosa ci ha toccato tutti".

Tutti ti apprezzano per la tua schiettezza. Detto fuori dai denti, a chi hai chiuso la porta uscendo da quella del Gf?

"Io umanamente non chiudo mai la porta a nessuno, anzi. Sono sempre per dare a tutti una seconda, una terza, una quarta possibilità. Credo che al di là di tutto, quello che è successo lì dentro è successo perché era un gioco, se qualcuno ha giocato di strategia ha fatto bene. Se c'è stata non sincerità in alcuni momenti, dipendeva tutto dal gioco, quindi umanamente non chiudo la porta a nessuno. Poi posso avere dei ricordi più o meno piacevoli di quello che è accaduto, ma il Grande Fratello è un gioco e la vita va avanti. Bisogna voltare pagina".

·        Stefania e Amanda Sandrelli.

Amanda Sandrelli: «Sono stata figlia del peccato e di papà ignoto fino a 25 anni Gino Paoli e Stefania Sandrelli, due giganti». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2021. L’attrice Amanda Sandrelli: la moglie di mio padre è stata una seconda madre. «Sono stata la figlia del peccato e di padre ignoto fino all’età di 25 anni!», ride l’attrice Amanda Sandrelli, figlia di Stefania Sandrelli e del cantautore Gino Paoli. Poi aggiunge: «Mamma e papà non li ho mai visti vivere insieme, e per questo non sono cresciuta con la classica dinamica genitoriale, ma ho vissuto in una famiglia allargata, incasinata e popolata da tante belle persone».

È nata a Losanna. Quasi di nascosto?

«Bè... quasi. Mio padre era regolarmente sposato con Anna Fabbri dalla quale era in attesa del figlio Giovanni che è nato tre mesi prima di me, perché intanto anche mia madre era incinta. Insomma, un bel pasticcio. E infatti, dati i tempi visto che stiamo parlando del 1964, lui non ha potuto darmi subito il suo cognome. Solo in seguito per me è staro possibile chiamarmi Sandrelli Paoli. Avrebbe potuto essere un inferno invece no, sia pure nella complessità sono stata fortunata, mi è andata decisamente bene, ho imparato a prendere il meglio dagli affetti familiari e soprattutto ho imparato a essere libera dalle convenzioni, dalle regole. Una famiglia tutt’altro che perfetta, non borghese, dotata però di un’alta dose di onestà».

Non ha mai sofferto per questa situazione un po’ complicata per l’Italia dell’epoca?

«All’inizio, da bambina, sapevo di essere in una condizione affettiva difficile: una figlia unica con due fratelli, oltre a Giovanni, che ho conosciuto solo in seguito quando, tra gli otto e i tredici anni, andai a vivere da mio padre che mi voleva a Milano, e poi Vito che mia madre ha avuto da Niki Pende. A casa di papà venni accolta con molto affetto da Anna, che aveva un carattere meraviglioso, è stata per me una seconda madre e abbiamo costruito un bellissimo rapporto. Certo, crescendo ci sono stati dei nodi da sciogliere, mi sono posta delle domande e sono andata in analisi per un decennio, tra i 23 e i 33 anni. È stato un percorso importante, mi piaceva andare dallo psicoanalista che non ti risolve i problemi, semmai te ne crea di nuovi e così almeno non compi sempre gli stessi errori. La psicoterapia ti insegna a non rimanere prigioniero di certe dinamiche costrittive e ti fa capire che nella vita puoi scegliere poco il tuo destino, dipende tutto dalle occasioni che ti capitano. Io non sono credente, non posso quindi affidarmi a soluzioni “alte”, solo il cervello, solo quello che sta dentro la nostra testa ci può aiutare».

È stata aiutata anche da un carattere forte, determinato...

«Diciamo pure che, rispetto agli altri, sin da piccola mi sono sentita un motore acceso. Una strana sensazione di energia, iperattività, in verità non sempre piacevole: il mio tato Gary, che mi ha cresciuto, diceva che avevo l’argento vivo addosso. Una caratteristica che poi mi è servita molto in teatro, un valore aggiunto che, quando sono sul palcoscenico, mi mette in comunicazione con gli spettatori».

E nella professione artistica, l’argento vivo le è servito per confrontarsi con due genitori artisticamente ingombranti?

«Due persone speciali, due statue gigantesche. Infatti quando ho finito il liceo non pensavo di fare l’attrice e mi iscrissi all’università, facoltà di psicologia, guarda caso... Stefania e Gino sono stati ingombranti, importanti anche economicamente, ma io come loro sono sempre stata indipendente e per questo ho deciso presto di andare a vivere da sola, in una mia casa, in un posto solo mio. Il confronto con loro non mi ha mai preoccupato, non sono né gelosa, né competitiva e questa caratteristica mi ha aiutato anche quando, per esempio, mi chiedevano se invidiassi la bellezza di mia madre: per carità, ne sono stata assolutamente orgogliosa! La sua bellezza appartiene a me».

Il rapporto migliore con l’una o con l’altro?

«Con mamma sono cresciuta, molto presente affettivamente, pur se sempre in giro per lavoro. Con papà il rapporto si è costruito più tardi: lui è veramente un artista, e il talento creativo non è facile da gestire, ha un costo, si paga, con tutti i pro e i relativi contro. Quando ero piccola, lo giudicavo piuttosto pesantino, alternava momenti di grande amorevolezza ad altri in cui non esistevo, non c’ero proprio nella sua mente... Tra l’una e l’altro, mi sentivo in bilico sul filo da acrobata, ho dovuto cercare un mio equilibrio precario, che per fortuna ho trovato e mi sono affrancata... Bisogna andare avanti senza pesi, l’importante è muoversi, non c’è nulla di fermo nella nostra esistenza».

In che senso?

«In tutti i sensi. Il pregio che mi riconosco è quello di aver compreso che i miei genitori non mi dovevano nulla: ciò mi ha permesso di emanciparmi, non ho perso tempo a rimproverarli, ho chiuso presto i conti con le recriminazioni, ovviamente anche grazie alla psicoanalisi».

Mai un loro consiglio sul piano professionale?

«Non mi hanno mai detto cosa dovevo fare, le scelte sono sempre state mie e hanno saputo mantenere uno, anzi, dieci passi di distanza, proprio perché sapevano di essere incombenti. Venendo a vedere i miei spettacoli non si prodigavano, né si prodigano in commenti tipo: “sei stata brava”, oppure “puoi fare meglio questo o quello”... Sono due persone intelligenti e sono ben consapevoli che non dire è più giusto che dire a sproposito: ora che sono madre anche io lo so benissimo e loro sono stati bravi. Anzi, semmai era mamma a chiedermi consigli, suggerimenti, giudizi sul suo lavoro... un suo modo per farmi sentire importante. Il suo unico consiglio a me è stato il seguente, molto pratico: non bere il caffè prima di fare foto in primo piano, perché macchia i denti. Complimenti da papà? Molto rari, è sempre stato piuttosto orso di carattere, però adesso che è un po’ vecchietto è sicuramente più tenero. Un suo consiglio utile? Sì, quando ho iniziato a recitare in teatro ed ero, come sono tuttora, assalita dal terrore la sera della prima, mi disse: ti mancherà la saliva, ti tremeranno le gambe... fa parte del gioco». 

Questa sua famiglia complicata l’ha resa più saggia?

«Direi che mi ha subito fatto diventare un’adulta. Forse troppo presto. E questo aspetto non è del tutto positivo, l’infanzia è bella da vivere con leggerezza. Mio figlio Rocco, infatti, mi diceva: “non voglio diventare grande”».

Intraprendendo la sua carriera, si è sentita privilegiata e, data la sua ascendenza, a volte raccomandata?

«Privilegiata sempre, avere un doppio cognome famoso è un grosso vantaggio. Raccomandata mai, i miei genitori non l’avrebbero fatto nemmeno se glielo avessi chiesto. Il mio percorso è iniziato per caso con Massimo Troisi e Roberto Benigni nel film Non ci resta che piangere, solo perché mi avevano conosciuto, appena diciottenne, durante una festa a casa e gli serviva una ragazza per un piccolo ruolo. Non sapevo fare niente e glielo dissi tranquillamente, ma loro mi vollero sul set... accettai per divertirmi e per guadagnare un po’ di soldi. A me non piacciono i favoritismi clientelari, non appartengo a nessuna parrocchia e questo, in un certo senso, mi ha dato filo da torcere».

Perché?

«A teatro sono arrivata sentendomi impreparata, non è un lavoro semplice, è faticoso, inoltre tuttora, ad ogni debutto, mi viene il sospetto che il pubblico venga a vedermi perché sono figlia di... Solo al termine della rappresentazione capisco se mi apprezza veramente, se batte le mani per la mia performance o per un altro motivo. Non nego che determinate caratteristiche le ho ereditate. Per esempio, mi dicono che la voce e certi movimenti li ho presi da mamma. Da papà, l’orecchio musicale, molto utile in palcoscenico».

Ha ereditato solo pregi? E i difetti di Stefania e di Gino?

«Eccome no? Da Stefania, che se non fosse mia madre sarebbe perfetta, ho ereditato l’iracondia, quella che ti fa strillare come un’erinni, quella che vedi rosso e non sai controllarti in alcun modo, parli a sproposito dicendo cose di cui, in seguito, devi pentirti e chiedere scusa. Un difetto che lei stessa aveva ereditato da sua madre: mi raccontava che quando a mia nonna le partiva l’embolo, arrabbiata con i figli che scappavano, si mordeva il dito per non inseguirli. Una pecca su cui ho dovuto lavorare molto. Da mio padre, ho ricevuto caratterialmente la tendenza a insabbiarmi, sabbie mobili profonde che, quando sei un artista, sono anche belle per abbandonarsi, però il talento a volte ti inghiotte, non perdona. Tuttavia io le gestisco meglio di lui, prima di tutto perché sono femmina e poi perché ho meno talento...».

A proposito di femmine, in questo periodo sta portando in tournée la «Lisistrata» di Aristofane con la regia di Ugo Chiti. A cosa si deve questa scelta?

«È una commedia che risale al 400 a.C. eppure gli anni se li porta benissimo, è attualissima nel rappresentare la contrapposizione tra maschile e femminile che, in certi casi, diventa violenta. Il maschio viene messo in discussione e il grande commediografo greco lo mette in ridicolo, lo prende in giro, rappresentandone il potere con dei falli in continua erezione. Però, in un altro recente spettacolo, Lucrezia Forever! di Francesco Niccolini, liberamente ispirato ai fumetti di Silvia Ziche, ho preso in giro la figura femminile, quella di una donna un po’ frustrata, decisamente incacchiata con l’altro sesso, delusa e nevrotica. Sì, perché anche noi donne commettiamo spesso dei grossi errori».

Lei, per esempio, quali ha commesso?

«Di sicuro quello di non lasciare andare via le persone, quando dovevo lasciarle andare... un errore madornale che ho ripetuto più volte: gli errori si compiono, mi fa rabbia ripeterli. Preferisco avere un rimorso, invece di un rimpianto. Con l’età che avanza, i miei 57 anni, bisogna essere più coraggiosi e meno prudenti».

La confessione choc di Stefania Sandrelli: "Violentata dal fidanzato di un'amica". Novella Toloni il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'attrice ha parlato del drammatico episodio vissuto in gioventù, una violenza che non ha mai avuto il coraggio di denunciare: "Mi mise al muro, non ci sono stata e mi dette un po' di botte". Non importa quando e quanto tempo passa: settimane, mesi, anni. Una violenza rimane tale per sempre e quella subìta da Stefania Sandrelli, quando era agli esordi della sua carriera, è rimasta scolpita nella sua memoria. Un dolore profondo che l'attrice si porta dentro da sempre e che l'artista toscana ha ricordato con sofferenza nel corso dell'ultima puntata di Verissimo. Nel salotto televisivo di Silvia Toffanin, Stefania Sandrelli ha raccontato un episodio drammatico della sua vita tenuto nascosto per molto tempo. Una violenza brutale subìta - quando era solo una ragazza - da una persona di cui lei si fidava e che conosceva bene. Proprio per questo motivo l'attrice ha confessato di non avere mai denunciato il fidanzato della sua migliore amica: "Tutto mi aspettavo da quella sera tranne quello che mi è successo. Ero pronta per uscire e lui mi stava aspettando per portarmi a casa e invece mi ha aggredito. Mi ricordo tutto di lui". Il racconto fatto da Stefania Sandrelli nella trasmissione Verissimo è stato lucido e privo di dettagli, se non quelli più importanti fatti di percosse, minacce e vergogna. Quella che le vittime di violenza spesso provano dopo l'aggressione: "Tutto mi aspettavo meno che quello. Quando invece mi ha messo all'angolo, stretta al muro, chiaramente non ci sono stata e mi ha dato un bel po' di botte". Stefania Sandrelli si è sentita doppiamente ferita, fisicamente e psicologicamente, per l'abuso avvenuto da parte di una persona che considerava un amico, il fidanzato di una sua coetanea che poi, appena saputo quanto accaduto, lo ha lasciato. "Era semplicemente il ragazzo della mia amica. Quasi mi sono sentita in colpa per aver rovinato quella coppia", ha detto la Sandrelli con la voce rotta dall'emozione. All'epoca l'attrice ha provato così tanta vergogna e senso di colpa da non riuscire neppure a denunciare il giovane: "Non l'ho mai denunciato, soprattutto per non fare un torto alla mia amica. Era una violenza talmente privata, che l'ho semplicemente accantonata". Un'aggressione riposta in un angolo remoto della memoria, ma mai veramente cancellata e che a Verissimo è tornata a fare male nonostante gli anni trascorsi.

Da "liberoquotidiano.it" il 19 ottobre 2021. La più drammatica delle confessioni. Stefania Sandrelli, ospite di Silvia Toffanin domenica a Verissimo su Canale 5, ha parlato della violenza sessuale subìta da giovanissima. Un episodio doloroso, reso ancora più insopportabile dal senso di colpa che, pur vittima, l'ha accompagnata per anni. "Il ragazzo della mia amica mi ha presa e messa al muro", ha spiegato la grande attrice viareggina, 75 anni. Una violenza che "è stata talmente privata, che l’ho accantonata", ha sottolineato l'interprete indimenticabile di classici della commedia anni Sessanta come Divorzio all'italiana e Sedotta e abbandonata in studio, di fronte a una attonita Toffanin. "Era semplicemente il ragazzo della mia amica - racconta commossa l'attrice -: mi ha aggredito, io non ho mai pensato di denunciarlo per non fare un torto a lei. Tutto mi aspettavo meno che quello. Quando mi ha messo all’angolo, non ci sono stata e mi ha dato un po’ di botte". Ad accorgersi di quanto accaduto è stata poi la stessa amica della Sandrelli, che ha scoperto il fidanzato "bestia" e lo ha lasciato su due piedi, seduta stante. "Quasi mi sono sentita in colpa per aver rovinato quella coppia", è l'amarissima ammissione della Sandrelli, rappresentando plasticamente il dramma di una donna che subisce molestie e violenza in un ambiente per così dire "familiare", inteso in senso lato. Un trauma che pone la vittima nella assurda posizione di essere inconsciamente dalla "parte del torto".

L'attrice e la relazione con il cantante. Stefania Sandrelli e l’amore con Gino Paoli: “Lui era sposato, nacque Amanda: mai temuto lo scandalo”. Vito Califano su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Stefania Sandrelli non si è mai fatta intimidire dagli scandali: né da quello esploso dopo il film di Tinto Brass, né da quello scatenato dalla sua relazione con il cantautore Gino Paoli. L’attrice nata a Viareggio nel 1946, oltre 100 film in carriera, una manciata di capolavori in filmografia oltre a tre David di Donatello e undici candidature, si è raccontata in un’intervista a Il Corriere della Sera. E ricorda: “A quel tempo, come ora, gli uomini sono pagati dieci volte di più delle donne. Bisogna ribellarsi”. È un po’ questo lo spirito del reading che l’attrice porterà in scena alla Certosa di San Giacomo, al festival di Capri Il canto delle sirene, tratto dal romanzo Il resto di niente di Enzo Striano, ispirato alla patriota rivoluzionaria, fondatrice del giornale Monitore Napoletano, considerata una sorta di proto-femminista, Eleonora Pimentel Fonseca. “Una figura coraggiosa, e Dio solo sa quanto le donne, ancora oggi, hanno bisogno di combattere coraggiosamente per affermare i loro diritti e salvarsi da uomini violenti”. Quando iniziò la sua relazione con Paoli, già sposato, Sandrelli aveva 16 anni. Quando nacque la loro figlia, Amanda, nel 1964, aveva 18 anni. Alla piccola – diventata anche lei attrice – diede il suo cognome. “Il nome di nostra figlia lo aveva scelto Gino e non ero d’accordo, perché una mia compagna molto violenta con me si chiamava proprio Amanda: tutte le volte che aspettavamo l’autobus insieme per andare a scuola, mi prendeva a cartellate in testa, mi rintontiva! All’inizio subivo, ma poi mi ribellai, gliene ho date altrettante e si è tolta il vizio. Comunque, tornando al nome, venni convinta da Gino: Amanda suonava come il gerundio di amare, era bello. Siccome però aveva deciso lui il nome, io decisi il cognome Sandrelli, punto e basta”. Nessuna paura per quello scandalo in un’altra Italia, quella degli anni ’60. Nessun timore nemmeno dalla polemica scatenata dal film La chiave diretto da Tinto Brass, nel quale l’attrice mostrava tutta la sua sensualità. “È stato un film femminista, dove io mettevo alla berlina il porco inverecondo guardone”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Stefania Sandrelli: «Gino Paoli scelse il nome di nostra figlia. Non eravamo sposati, ma non ho avuto paura dello scandalo». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 9 settembre 2021. L’attrice l’11 settembre inaugura il nuovo festival «Il canto delle sirene» sull’isola di Capri, ideato da Geppy Gleijeses, con un reading dal romanzo «Il resto di niente». «Stefanina, sei proprio sicura che vuoi fare questo mestiere? Lavori tanto, ti pagano poco e ci stiamo rimettendo!». Così Stefania Sandrelli ricorda le parole della mamma Florida, quando a 15 anni iniziava la sua carriera cinematografica. «Intendiamoci, i soldi devono servire per vivere e non bisogna vivere per i soldi - continua l’attrice - però è vero che a quel tempo, come ora, gli uomini sono pagati dieci volte di più delle donne. Bisogna ribellarsi e dire basta». Forse non a caso Stefania accetta di tornare in teatro con un personaggio particolare con cui inaugura un nuovo festival, «Il canto delle sirene», che nasce sull’isola di Capri, ideato e diretto da Geppy Gleijeses. L’11 settembre, nel Chiostro grande della Certosa di San Giacomo, l’attrice è in scena, insieme a Marisa Laurito, con un reading tratto dal romanzo «Il resto di niente» di Enzo Striano, di cui è protagonista Eleonora de Fonseca Pimentel, una delle figure più importanti della Repubblica Napoletana del 1799. «Una femminista ante litteram - riprende l’attrice - un’eroina, una fine intellettuale, una giornalista che fondò il giornale Monitore napoletano e che, nonostante fosse di nobili origini portoghesi, dovette difendersi da un marito violento: a causa delle percosse ricevute, subì due aborti. E quando la rivoluzione naufragò, i Borbone la fecero impiccare. Una figura coraggiosa, e dio solo sa quanto le donne, ancora oggi, hanno bisogno di combattere coraggiosamente per affermare i loro diritti e salvarsi da uomini violenti».

Per questo decise di darle poi il suo cognome?

«No, per un altro motivo. Il nome di nostra figlia lo aveva scelto Gino e non ero d’accordo, perché una mia compagna molto violenta con me si chiamava proprio Amanda: tutte le volte che aspettavamo l’autobus insieme per andare a scuola, mi prendeva a cartellate in testa, mi rintontiva! All’inizio subivo, ma poi mi ribellai, gliene ho date altrettante e si è tolta il vizio. Comunque, tornando al nome, venni convinta da Gino: Amanda suonava come il gerundio di amare, era bello. Siccome però aveva deciso lui il nome, io decisi il cognome Sandrelli, punto e basta».

Riguardo alle rivendicazioni, lei si è mai sentita discriminata sul set?

«No, perché ho sempre avuto un caratterino ribelle. Per esempio con Pietro Germi, che mi ha trasmesso le basi fondamentali del mestiere, a volte ci scontravamo. Quando lui urlava durante le riprese io gli rispondevo strafottente: ahò! io faccio quello che posso, strilla di meno e fammi capire di più... e lui si calmava».

Si è mai pentita dello scandalo suscitato da «La chiave» di Tinto Brass?

«Mai! È stato un film femminista, dove io mettevo alla berlina il porco inverecondo guardone».

È vero che da ragazzina voleva farsi suora?

«Per carità! Andavo a scuola delle suore e mi trovavo bene. Poi mi piacevano le ostie: facevo la comunione solo per il gusto di sentirle in bocca. Avevo una idea personale della religione e una volta, in classe, feci una domanda a suor Valentina: esistono tante diverse religioni, perché solo la nostra è quella vera? Lei mi intimò imbarazzata: Sandrelli, siediti».

È reduce dalla sua prima regia lirica, la «Tosca» di Puccini. Ne sta programmando altre?

«Sono un’ingordona, mi piace fare tante cose insieme e quest’estate ho esagerato: mentre preparavo l’opera, ho girato un nuovo film. Adesso voglio riposarmi un po’ e godermi la mia famiglia e i miei cinque nipoti».

Anticipazione da “Oggi” il 3 marzo 2021. In un’intervista a OGGI, in edicola da domani, Stefania Sandrelli parla del suo film di Pupi Avati con Renato Pozzetto, della sua carriera e della sua vita. «Pupi è adorabile, anche se mi ha fatto morire praticamente alla prima scena. Sono rimasta colpita dal mio partner, Renato Pozzetto, molto bravo in un ruolo drammatico», dice la Sandrelli. Che parla dei suoi ruoli e dei suoi partner cinematografici preferiti ma anche del suo privato: «Perché ho lasciato Gino Paoli? E che me lo chiede anche??? Mi avrà tradito una trentina di volte. Ora siamo molto amici, l’ho perdonato, abbiamo un buonissimo rapporto. Ma quando ho scoperto una delle sue tante scappatelle, gli ho distrutto la casa». E sulla figlia Amanda: «Lei è stata il grande cruccio della mia vita. Il mio più grande dolore. Dovetti abbandonarla, per stare vicino a Nicky Pende, che mi faceva disperare. Gli piacevano troppo la vita notturna e l’alcol. Per occuparmi di lui, affidai Amanda a Gino e a sua moglie. Negli anni Sessanta ancora non c’era il divorzio, che dovevo fare? Non me lo sono mai perdonato. E, giustamente, neppure mia figlia è stata indulgente. Ci siamo chiarite da poco. So che le ho procurato tanta sofferenza e questo mi affligge da morire». Per continuare con l’amore per Giovanni Soldati e una confidenza: «Archiviate le pratiche amorose? Ma quando mai! Sono stata fraintesa! Mi sento ancora molto arzilla, mi creda».

Gloria Satta per “il Messaggero” il 5 giugno 2021. Oggi sono 75. E lei la mette così: «Mi considero fiera di avere la stessa età della Repubblica italiana, della Costituente, del voto alle donne». Stefania Sandrelli ha la risata contagiosa che risuona nel suo appartamento situato in un condominio immerso nel verde della via Cassia e ora trasformato nel quartier generale del suo lavoro: carte sparse, telefoni che squillano, via vai di collaboratori. «Non ho un attimo di tregua», confessa con un sospiro vezzoso l'attrice che più di ogni altra, nel corso di una gloriosa carriera sessantennale, ha rappresentato il cinema italiano e stregato un pubblico trasversale attraverso il suo talento versatile e il suo sex appeal inconfondibile. Film come Divorzio all' italiana, Il conformista, C' eravamo tanto amati, Novecento, L' ultimo bacio e tanti altri, fiction di successo come Il Maresciallo Rocca sono scolpiti nell' immaginario collettivo ma lei, mamma-chioccia di due figli e nonna a tempo pieno di 5 nipoti, non si accontenta: il 23 luglio, a Torre del Lago, debutterà come regista lirica allestendo la Tosca e nello stesso mese sbarcherà sul set di Astolfo, il nuovo film di Gianni Di Gregorio.

Non sarà un po' troppo?

«Io sono sempre stata come Figaro: una alla volta, per carità. Ma proprio mentre preparavo questa Tosca con l'aiuto del bravissimo Andrea Tocchio, arriva Di Gregorio e mi offre di fare un'anziana che si innamora pazzamente di un coetaneo, interpretato da lui stesso. E quando mi ricapita un ruolo così? Alla mia età mi propongono solo nonne... per questo ho deciso di sdoppiarmi».

Si può avere un colpo di fulmine a 70 anni passati?

«Ho sempre pensato che l'ultimo amore della vita sia il più importante perché è basato sulla confidenza reciproca». 

Anche nel caso della sua vita di coppia con Giovanni Soldati?

«Certo, dopo tanti anni di vita in comune la confidenza è il cemento del nostro rapporto».

Lavora senza sosta, qual è il segreto?

«Forse è questione di fortuna, penso sempre di averne avuta molta. E di aver fatto gli incontri giusti». 

Non le viene voglia di fermarsi un po'?

«No, il lavoro è troppo importante. Sono contentissima sia di debuttare nella lirica sia che siano riaperti i cinema. Ma temo che le sale non torneranno più come una volta, le file per un film rimarranno un ricordo. Spero di sbagliarmi».

Il compleanno la porta a tracciare bilanci?

«Ma no, sono banali. Ho già parlato abbastanza della mia carrierona. Ho avuto tanti successi e qualche delusione».

A cosa si riferisce?

«Al film Lei mi parla ancora. Pupi Avati poteva riservarmi qualche inquadratura in più, penso di meritarla». 

Come ha vissuto la pandemia?

«Al primo lockdown del 2020 ho reagito meglio, quest' anno invece mi sono sentita più debole. Ho cominciato a riflettere sui massimi sistemi e mi sono preoccupata: questa cosa mi somiglia poco perché sono una donna tutta istinto... Ma non mi lamento, per carità».

È vero che gli influencer sono i divi di oggi?

«Mah... non voglio offendere nessuno, ma i giovani che oggi li seguono sui social capiranno che queste persone sono inconsistenti e le molleranno. È solo questione di tempo». 

Secondo lei, oggi è giusto favorire le donne perché sono sempre state discriminate?

«Il tempo ci dirà se certe promozioni sono meritate oppure dovute alle quote. Ma di un fatto sono sicura: le donne sono migliori degli uomini».

Lei è mai stata discriminata?

«No, perché sono sempre stata un po' maschiaccio. Nata e cresciuta in una famiglia di uomini, fin da piccola ho imparato a fare a cazzotti e mi sono difesa». 

Ed è giusto punire le molestie verbali, il cosiddetto catcalling?

«Se un complimento è gentile, non vedo perché sanzionarlo. Ma se per la strada ti rivolgono un apprezzamento pesante o ti fischiano, devi rispondere con la stessa moneta. Quando i maschi fanno i pappagalli e si coalizzano per molestare una donna, dobbiamo fare altrettanto anche noi». 

Le cattiverie le fanno più male di una volta?

«Mi hanno sempre fatto male. Io reagisco urlando e strepitando ma il giorno dopo rinasco come l'araba fenice. Ogni volta è andata così».

Ha un sogno che non ha mai rivelato a nessuno?

«No, amo vivere giorno per giorno. E sono felice di essere rimasta bambina». 

Cosa significa?

«Che ancora riesco a stupirmi per le piccole grandi cose della vita. Un fiore che nasce, la gioia di spegnere le candeline circondata dalle persone a cui tengo davvero. Ho avuto la fortuna di essere molto amata e ho amato tanto anch' io». 

Di cosa è orgogliosa?

«Di aver creato e portato avanti la mia splendida famiglia. Quasi non mi sembra vero... non c' è film, non c' è successo che tenga».

Come madre, che voto si darebbe?

«I voti non li ho mai sopportati, nemmeno a scuola Che tipo di madre sia stata, possono dirlo solo i miei figli». 

C' è qualcosa che non perdona?

«Alla fine perdono tutto, ma non sopporto chi non esprime la gioia nei confronti della vita o spreca la fortuna che gli è capitata». 

Si piace?

«A questa età faccio ancora la mia porca figura».

·        Stefano Accorsi.

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 2 marzo 2021. «Certo, se ti soffermi a pensarci un po' di effetto lo fa... ma dopotutto l' idea non mi agita tanto». Forse anche Stefano Accorsi sa che, nonostante il 2 marzo compirà 50 anni, per qualche ragione resta per tutti un ragazzo. Un ragazzo che ha fatto molte cose, percorso strade diverse, cambiando spesso rotta. E che oggi si definisce «una persona serena», qualità sbalorditiva di questi tempi, ma che si ritrova nel suo sorriso aperto.

Era così anche da piccolo?

«Ero un bambino facile, andavo anche bene a scuola. Secondo mia madre ho imparato a leggere da solo... io ricordo che mi insegnava a riconoscere le targhe: "Bo", "Bologna", "Na" "Napoli"...è durato poco - ride -. Se fino alle medie ero brillante, con il liceo c' è stata una caduta totale, a volo d' angelo».

Quando ha capito di amare il cinema?

«Prima dei dieci anni. Registravo i film di notte e li guardavo subito dopo pranzo. Mio padre aveva l' enciclopedia del Cinema e ricordo la pagina su Paul Newman. A scuola ero esonerato dall'ora di religione e un giorno sono andato a una scuola di teatro per informarmi. Lì ho deciso: finito il liceo mi sarei iscritto».

E lo ha fatto.

«Ma mia mamma voleva facessi anche l' Università. Scelsi Economia e Commercio: penso che commercialista sarei stato... quell' estate però, sempre lei aveva letto che Avati faceva dei provini: "Cerca anche non attori, prova"».

È stato il suo primo film: «Fratelli e sorelle».

«Mi ero presentato con un book fatto dal fotografo del paese: mi aveva scattato delle foto al mare, dove facevo il bagnino... avevo in mente le foto di Paul Newman ma il risultato non era uguale. Una volta davanti a Pupi ho intuito cosa si aspettava da me: ho iniziato a far finta di essere così».

Da lì, una carriera di successi: non ha più avuto il dubbio se fare il commercialista.

«Forse quello no, ma c' è stato un momento, di cui non ho mai parlato, in cui i dubbi erano diversi. Era quando vivevo in Francia. Essermene andato dall' Italia era stato vissuto come qualcosa di sprezzante e poco a poco, anche per via dei miei no, le proposte non erano più tante. Avevo un po' rotto. In quei dieci anni, dopo tutto quel successo, ho fatto solo tre film in Italia. In Francia recitavo, ma non erano i progetti a cui più ambivo. Anzi. È stato angosciante: mi svegliavo di notte non sapendo se sarei tornato ad assaporare quell' emozione».

Sono stati tutti anni molto complicati quelli francesi?

«Anni in cui non mi sono mai sentito così tanto italiano. Mi mancava tutto. Se in Italia stai per perdere un aereo sai che tendenzialmente, in qualche modo lo prenderai. In Francia stai certo: nessuno ti aiuterà a prendere quel maledettissimo aereo. Ma è stato anche un periodo formativo: lì sono tornato a fare provini. Mi sono rimesso in gioco, proponendo progetti che nascevano da me».

Ecco «1992», «1993», «1994». Un ritorno in Italia che ora sembra una rinascita.

«Da lì è ripartita una fase molto attiva. Ma in Francia sono anche diventato papà (ha avuto i suoi primi due figli con Laetitia Casta, ndr. ): mi sono reso conto di cosa voglia dire quel legame indissolubile, che stravolge molte cose e ne relativizza altre».

Ha avuto poi altri due figli con Bianca Vitali, che nel 2015 ha sposato. Cosa l' ha colpita?

«La sua serenità: è a suo agio con sé stessa e quindi nel mondo. Prima ero fra chi dice che sposati o non sposati è uguale. Invece no, poi ti accorgi che uguale non è».

Tre nomi, tre flash: Ligabue, Muccino e Ozpetek.

«Di Ligabue amo lo sguardo fresco; le nostre radici ci fanno capire al volo. Con Ozpetek e Muccino ho fatto tre film: nello stesso anno ho girato prima Le fate ignoranti e poi L' ultimo bacio: hanno cambiato il corso di tutto».

Che effetto le fa la venerazione che c' è per la sua voce?

«È curioso, era il mio tasto dolente. Avevo un difetto, una voce molto debole che mi dava imbarazzo. Ricordo la sensazione al bar: al bancone volevo chiedere un caffè ma usciva solo un soffio per cui chi avevo a fianco si girava mentre il barista nemmeno si accorgeva. Mi vergognavo».

La cosa ha del clamoroso.

«In effetti ora è un mio punto di forza. Prima era un' assoluta fragilità. Ho incontrato un logopedista eccezionale, Gianpaolo Mignardi. Faccio ancora gli stessi esercizi per scaldare la voce e provo tanta soddisfazione, ad esempio, quando finisco il monologo dell' Orlando , a teatro. Lo faccio senza problemi». Per non parlare di come ordina ora il caffè al bar. «Adesso spalanco la porta e dico già da lì: "Offro io"».

·        Stefano e Frida Bollani.

Frida Bollani: «Ringrazio anche i miei geni sbagliati. Non vedo il mondo ma lo sento di più». Silvia Avallone su Il Corriere della Sera il 24 dicembre 2021. Figlia di Stefano Bollani e Petra Magoni, ha 17 anni e una passione divorante per la musica. «Non vedere mi ha permesso di esplorare il mondo in modo diverso. Il mio futuro? In viaggio e pieno di concerti». Frida Bollani Magoni, 17 anni, figlia d’arte (suo padre è Stefano Bollani, sua madre Petra Magoni), musicista e cantante, ipovedente. Su «7» in edicola la vigilia di Natale troverete una serie di interviste dedicate ai Millennials. E in particolare due storie di «potere ai più giovani». Sono le storie di Frida Bollani Magoni, 17 anni e del fumettista Sio, 33 anni. Entrambe lanciano messaggi forti, e positivi. Anticipiamo qui il dialogo della scrittrice Silvia Avallone con la giovanissima musicista figlia del jazzista Stefano Bollani e della cantante Petra Magoni. Buona lettura e buone feste

Busso e ricevo il permesso per entrare da una voce timida. Apro la porta del suo camerino e me la trovo davanti. Una massa vulcanica di capelli biondi, le lunghe dita affusolate e bianche infilate dentro un pacchetto di patatine, e gli occhi verdi che non mi guardano. Ascolta i miei passi avvicinarsi, estrae le dita dal pacchetto con un movimento incerto, come a chiedere: posso mangiare? Sistemo una sedia di fronte a lei, la invito a continuare. Sorride sollevata: come scoprirò a breve, le patatine sono la sua terza passione dopo i gelati e, naturalmente, al primo posto, incontrastato, il pianoforte. Frida Bollani Magoni ha diciassette anni. L’abbiamo conosciuta tutti all’improvviso non molti mesi fa, quando si è esibita in tv ospite di suo padre, Stefano Bollani, alla trasmissione Via dei Matti n°0 , e poi al Quirinale per la Festa della Repubblica. Intorno al suo talento si è levato un clamore intenso, ma lei non ne sembra turbata.

Il suo incarnato è diafano, il suo sguardo altrove: al primo impatto assomiglia a un fiore d’acqua fragilissimo. Le chiedo se le piace leggere, ascoltare audiolibri, per rompere il ghiaccio (lo chiedo a tutti gli adolescenti), e la creatura timida sfodera subito una risolutezza di marmo. «No» mi risponde «a me piace solo la musica». Che l’apparenza ingannasse anche nel suo caso, l’avevo già capito. In particolare il 2 giugno, ascoltandola interpretare una delle mie canzoni preferite, La cura di Franco Battiato, in un modo che mi aveva fatto venire i brividi. Durante quell’esibizione, la ragazzina delicata, esile dietro il pianoforte, era presto scomparsa per lasciare spazio alla voce sicura, al dominio dello strumento. Ero rimasta impietrita da come toccava i tasti, con una padronanza sfacciata e una grazia feroce. Come dichiarando: adesso suono. E – citando Vasco – tutto il mondo fuori.

Con due genitori come Petra Magoni e Stefano Bollani, è come se tu fossi cresciuta in un acquario sonoro.

«Esistono video di me che ballicchiavo a tempo di musica già nella culla mentre papà suonava. A due anni, mia mamma mi ha insegnato le scale al pianoforte. Prima dell’alfabeto, ho imparato le note; prima il pianoforte, poi il canto. Ancora oggi, quando tocco un tasto, è come se quella nota mi dicesse: “Do”, “Mi”, “Fa”. Come se mi parlasse».

È stata tua madre a iniziarti alla musica?

«Fu lei ad accorgersi che riconoscevo le note. I primi concerti a cui ho assistito, quando forse avevo solo dieci giorni, sono stati i suoi. Crescendo l’ho seguita con Musica Nuda, ci siamo esibite insieme. C’è stato un periodo, avrò avuto 8 o 9 anni, in cui abbiamo fatto cinque date in cinque giorni: ho imparato subito quanto potesse essere stancante questo lavoro, ma anche come gestirlo. Adesso che ho iniziato a suonare da sola, è lei che accompagna me. C’è sempre».

Ricordo bene quanto alla tua età facessi disperare mia madre. Voi due davvero riuscite a viaggiare sempre insieme andando d’accordo?

«Ho 17 anni, deve viaggiare con me per forza. Ma non mi pesa, anzi, ne sono felice: è un ottimo aiuto durante il tour. Tutto ciò che sta intorno a un concerto mi stressa parecchio: il sound check, la cena… O, ragazzi, io voglio sonà! – un marcato accento toscano irrompe come una sferzata e mi sorprende –. Allora ci vuole lei che mi dice: “Frida, sta’ calma, è tutto normale, il tour è così, però è anche il suo bello”. Ci troviamo sulla stessa lunghezza d’onda, entrambe musiciste: si va sul sicuro! Ma sono certa che se avessi scelto un altro lavoro, per lei non sarebbe stato un problema. Come non lo è stato per mio fratello maggiore, che a un certo punto ha detto: “Io in questa famiglia di musicisti mi devo differenziare”. È rimasto nel campo dell’arte, ma ha preso un’altra direzione: character designer per videogiochi».

Anche con lui vai d’accordo?

«Eh – ride con una smorfia –. Come possono andare d’accordo fratello e sorella… ».

E il rapporto con tuo padre?

«Il discorso è uguale a quello di mia mamma, con la differenza che, vivendo in case diverse, purtroppo ci vediamo meno. Quando ero bambina, i miei genitori stavano insieme e io li ascoltavo suonare insieme. Lui non è stato il mio insegnante di pianoforte come mia madre non è stata la mia insegnante di canto, però entrambi mi hanno insegnato ad ascoltare e ad amare questo lavoro».

Nei video che si trovano in Rete si ha la prova che Frida non mente. La si vede duettare con la madre, con il padre, e si percepisce a pelle il loro affiatamento. Non sembra esserci traccia dei conflitti che inaspriscono le famiglie quando i figli hanno la sua età.

Di cosa è fatta la tua normalità di adolescente?

«Ho due vite: vado a scuola e suono. Sono mondi separati che si uniscono solo in parte, perché frequento un liceo musicale (il Carducci di Pisa), ma, al di là di questo, c’è una netta differenza. Di sabato mi esibisco, vivo il mondo dei concerti. Sono circondata da adulti, con cui però mi trovo a mio agio perché sono tutti musicisti. Durante la settimana invece torno a essere la ragazza normale che va a scuola e frequenta i coetanei. Anche loro sono importanti: a prescindere dalla famiglia, se non hai il sostegno di un’amica e/o un amico, non vai da nessuna parte».

È la passione il fondamento?

«A questa età ce l’abbiamo tutti. Ma se vuoi trasformarla in mestiere non è sufficiente. Penso sia una questione di volontà. Molti studiano al liceo musicale e poi non fanno della musica una professione perché si fanno l’idea che c’è troppo lavoro, troppo da studiare, non c’ho voglia. Ma non basta nemmeno passare 7, 8 ore al giorno al pianoforte, perché la gavetta, l’esperienza sul palco, sono importanti. Quello che davvero conta, secondo me, è la determinazione: sapere qual è la tua strada. Io so che è questa e non cambierà mai».

Vorrei incidere sulla carta il timbro della sua risolutezza. Ma lei scoppia a ridere di colpo.

«Solo per un periodo ho pensato di fare la gelataia. Nessun vocal coach mi ha mai dato ragione, ma io garantisco che a me i gelati fanno bene. Prima di cantare, mi danno nuova vitalità alle corde vocali. Come le patatine mi danno energia – accartoccia il pacchetto che ha finito, glielo prendo per buttarlo, le nostre mani si sfiorano e avverto l’energia che vi si nasconde –. Per fortuna quel periodo è passato in fretta».

Da amante della provincia e, in particolare, dei talenti che vi sbocciano, non posso non chiedertelo: quanto sei legata a Pisa, la tua città?

«Pisa è bella, c’è una splendida scena musicale. Però se rimani lì, rimani lì. Per me è importante conoscere gli artisti di Pisa, fare eventi in città, ma è fondamentale anche uscire dai confini. Amo viaggiare. Non si può passare tutta la vita nello stesso posto, secondo me. In giro per l’Italia e all’estero, dove spero di tornare sempre più spesso, scopro sonorità nuove. Alcuni luoghi in particolare mi sono rimasti nel cuore: la Sardegna, la Puglia, Parigi, Londra».

Più parliamo, più la timidezza iniziale si scioglie in spensieratezza. Prima il toscano era appena percettibile, adesso ha rotto gli argini. La guardo negli occhi, tra una pagina e l’altra dei miei appunti, anche se so che lei di me percepisce solo un’ombra. Intuisco che, attraverso la mia voce, abbia già messo a fuoco come sono fatta.

In una precedente intervista al Corriere della Sera, le dico, hai pronunciato una frase molto forte: che per te non vedere è un dono. E io ti credo. A dispetto di un mondo che ci impone un’astratta perfezione, penso siano le imperfezioni, le crepe, le differenze a generare creatività, ambizione. Le tue parole mi sono suonate non solo autentiche, ma anche liberatorie per tutti.

«Io non ho una malattia, non ho vissuto il trauma di aver perso la vista. Sono nata così. Qualcosina ci vedo e la situazione rimarrà questa, a meno che non mi propongano, in futuro, un intervento per migliorare la vista. Ma, sinceramente, non so se accetterei di operarmi. Non vedere mi ha permesso di esplorare il mondo in modo diverso, ho esercitato meglio altri sensi, come l’udito. Sono certa che, se avessi potuto usare gli occhi, sarei stata meno attenta ad ascoltare, e ascoltare è importantissimo per me e per il mio mestiere. Quindi sono contenta di come sono nata. Di questi due geni sballati che mi hanno causato problemi non tanto agli occhi, che come vedi non sono bruttissimi e non devo portare gli occhiali, ma alla retina. Tra l’altro, l’essenziale è invisibile agli occhi, no?».

Assolutamente d’accordo. E i suoi occhi verdi, inquieti, rivolti altrove rispetto ai nostri, sono molto belli. Quindi li ringrazi, i due geni sballati?

«Sì, insieme ai geni del talento che ho ereditato dai miei».

Il tuo suona come un destino preciso al millimetro. Dai geni giusti alla casa giusta per dedicarti tutta alla musica.

«Sono stata fortunata. In un’altra famiglia forse avrei fatto più fatica, la mia gavetta sarebbe partita da zero, però, alla fine it is what it is. E io sono musica musica musica».

La tua preferita?

«Quella di Oren Lavie, un cantautore israeliano che ho conosciuto da bambina tramite mio papà e da subito ho cominciato a cantare i suoi pezzi. Adesso Oren scherza, dice che se continuo così lo farò diventare famoso in Italia. Siamo arrivati al punto che gli dispiace non far uscire abbastanza musica da permettermi di eseguire sempre nuove cover. Lui ha fatto due dischi in dieci anni, io vado molto più veloce».

Altri artisti che ammiri?

«Per la genialità musicale, Jacob Collier. I Beatles sono la band più grande. Di italiani, grazie ai miei nonni, mi sono appassionata a Shapiro e Vandelli. Ma ascolto anche la musica di adesso: la tecnica vocale di Ariana Grande è un mistero che voglio risolvere».

La notorietà è arrivata come un vento inaspettato tramite due esibizioni a un mese e mezzo di distanza l’una dall’altra che ci hanno preso un po’ tutti alla sprovvista e lasciato una profonda meraviglia. Quando Frida ha suonato Hallelujah di Leonard Cohen e A quarter past wonderful del suo amato Oren Lavie a Via Dei Matti n°0, papà e Valentina Cenni sembravano molto più emozionati di lei, che invece pareva assolutamente a suo agio.

Anche al Quirinale, interpretando l’Inno di Mameli, La cura e Caruso, irradiava sicurezza. Era solo una mia impressione? Provavi ansia per la visibilità improvvisa?

«Da mio papà l’atmosfera era così familiare che mi sentivo a casa. Non immaginavo la visibilità che mi avrebbe portato, quindi non mi ha creato problemi. È avvenuto tutto dopo, in pochi minuti. Ho finito la diretta e subito i miei social sono esplosi, hanno iniziato a chiedermi un sacco di interviste! – Frida sorride come se ne fosse ancora stupita –. Invece al Quirinale ero agitata. Era la prima volta che suonavo davanti a un pubblico dall’ottobre 2020. Pensavo: oddio, suono davanti al presidente della Repubblica! C’erano anche degli studenti e sentivo la responsabilità di mandare loro un messaggio positivo...».

Quale?

«… Di non mollare, non arrendersi. Soprattutto in questo periodo, dopo il lockdown e tutto quello che abbiamo passato. E insomma c’era il Presidente, c’erano tutti questi ragazzi… Durante La cura, a un certo punto, non mi ricordavo più il testo. È stato il panico. C’era una pausa, per fortuna. Ho pensato: e adesso come vado avanti? Strappo tutto. Non posso mica ricominciare. O chiedere: chiudete il sipario, per piacere. Tempo due secondi la memoria è tornata. E adesso quella pausa dilatata mi piace talmente tanto che la faccio sempre durante i miei concerti».

Dopo questa confessione andrò a riguardarmi il video sul web. Troverò un’unica pausa brevissima che suonerà del tutto congeniale all’esecuzione, e Frida ispirata: imperturbabile.

«Ero convinta di aver fatto una faccia tremenda…».

Non vedere, ma sentire: il pubblico, gli altri. Non avere pregiudizi per come ci si veste e ci si atteggia. Accedere direttamente alla voce delle persone senza passare per l’esteriorità. Provo a immaginare come sia, e forse è come leggere: non vedi i corpi, ma subito i pensieri, i sentimenti delle persone.

«Non mi è mai importato dell’esteriorità. Non sono una fan del trucco e parrucco, delle foto: non capisco nemmeno se siano utili. Vorrei suonare e basta, concentrarmi sull’essenziale. E qui il discorso potrebbe farsi molto ampio e riguardare anche… – Frida lo grida in falsetto e scoppia a ridere –. I ragazzi! No, non c’è niente da dire. Solo che la sottoscritta si innamora del carattere. Di più, credo di potermi innamorare solo di un musicista. Anche se dicono che due musicisti insieme non funzionano, e io ne ho la prova perché i miei si sono separati. Però voglio smentire questo pregiudizio ».

A proposito di smentire pregiudizi, come si vive in una famiglia allargata?

«Bene. Sono stata particolarmente fortunata perché mio padre si è risposato con Valentina Cenni, una delle mie migliori amiche adulte. L’unico problema è che non è facile trovarsi perché siamo tutti sempre in giro a destra e a sinistra. Ma tradizione vuole che il Natale lo festeggiamo a casa Magoni e Santo Stefano, dato che è l’onomastico di papà, a casa Bollani».

I tuoi due cognomi te li tieni stretti?

«Non posso essere solo Bollani o solo Magoni. Il mio nome è quello di tutti e due. Come io sono figlia di entrambi nella vita e nella musica».

Ogni tanto qualcuno si affaccia in camerino, compresa Petra Magoni che sorride e non vuole disturbare, solo sapere se c’è bisogno di qualcosa. Frida le chiede un altro pacchetto di patatine. Percepisco le voci aumentare fuori dalla porta. So che lei deve provare e io devo darmi una mossa, anche se avrei molte altre domande per questa ragazza tutta protesa in avanti.

Come immagini il tuo futuro?

«Pieno di concerti. Mi sento uno spirito libero, voglio essere sempre in viaggio e incontrare persone nuove. Quando suono, parto per il mio mondo. Sono libera e me stessa. Potrei avere successo o non averlo, non cambierebbe nulla. La musica è la vita, punto».

La porta si apre con decisione, la chiamano e Frida si alza. È arrivato il momento che le parole lascino spazio alle note. La mamma, gli adulti che la seguono in ogni concerto, la accompagnano giù, in una grande sala che vede al centro un imponente pianoforte a coda. M’infilo tra loro, voglio sentirla suonare dal vivo per la prima volta. Frida prende posto. La sua impazienza si respira nell’aria, è tangibile: la stessa di ogni adolescente innamorato di qualcosa. Inizia, poi si accorge di avere ancora i capelli sciolti allora si interrompe e chiede alla madre di legarglieli. Petra accorre, glieli raccoglie stretti in cima alla testa. Riesco a captare i modi e la tenerezza di quella presenza di cui sua figlia mi ha tanto parlato: una madre complice, non ingombrante. Un angelo custode che si prende cura del talento lasciandolo libero di esprimersi. Frida ricomincia. Esplode nella sala con Halleluiah.

Ascolto l’irruenza dei suoi diciassette anni, la forza con cui vuole prendersi il futuro. Senza perdere tempo a chiedersi il perché e il per come. «Sono nata così», «la mia strada è questa»: Frida è assoluta. E io mi rendo conto che la vita è anche un atto di fede. Chi siamo, un desiderio. Lo sentiamo pulsare, lo scegliamo, lo pretendiamo. Ci incamminiamo risoluti lungo il percorso, con la certezza che di questo si tratta: non vincere, non fallire. Solo amare spudoratamente, tenacemente, quello che ci fa sentire vivi.

·        Stefano Sollima.

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 21 settembre 2021. Stefano Sollima è stato un pioniere: non ha mai snobbato la tv. Vincitore del Nastro d'argento per la serialità internazionale con ZeroZeroZero , la serie di Sky dal libro di Roberto Saviano, è uno dei protagonisti dei premi assegnati a Napoli dal Sindacato dei giornalisti cinematografici con la Film commission Campania: con lui Saverio Costanzo ( L'amica geniale ), Luca Guadagnino ( We are who we are) , Paolo Sorrentino ( The new Pope ) e Marco D'Amore ( Gomorra ). Titoli che hanno conquistato il mondo e hanno fatto conoscere lo stile italiano del racconto. «Era ora che ci fosse un premio anche per le serie», dice Sollima che ringrazia il "padre putativo", il produttore Riccardo Tozzi, «abbastanza matto e perseverante». Cinquantacinque anni, innamorato fin da ragazzino dei set - dove seguiva il padre Sergio, mitico regista di Sandokan - ha firmato la serie Romanzo criminale, costruito il fenomeno tv Gomorra, diretto il film Suburra (da cui è stata tratta la serie). 

Che significa questo Nastro?

«Significa molto, è importante che venga riconosciuto il lavoro che stiamo facendo per portare all'estero un po' della nostra cultura e del nostro artigianato. Siamo usciti dall'angolo». 

Come ha cominciato?

«Come cameraman sui set di mio padre. Mi pagavo l'affitto. Poi ho fatto la pubblicità e i cortometraggi, ma andavo a Venezia e a Cannes. Ero colpito dai lavori televisivi americani che avevano una visione cinematografica, una cura estrema nella messinscena, si azzerava la differenza tra grande e piccolo schermo. La nostra serialità era molto raccontata nei personaggi, ristretta sui primi piani». 

La differenza era il modo di raccontare?

«In Italia tendevano a edulcorare e semplificare, ma sentivo che la tv sarebbe diventata rilevante nel nostro mondo. Quindi sono andato a imparare dove si faceva a livello industrialmente elevatissimo, il set di Un posto al sole. Mi sono avvicinato alla tv senza snobismo».

C'era una divisione netta tra chi lavorava per la tv e per il cinema?

«Chi faceva tv era figlio di un figlio di minore. Quando ti chiedevano: "Che fai?" e rispondevi "la tv", facevano spallucce. Da regista ho provato ad applicare quello che avevo imparato da spettatore guardando le grandi serie americane, a trasporre una visione. Non mi considero un pioniere ma ho seguito un obiettivo: fare le cose col nostro stile, non dando per scontato il prodotto televisivo». 

La differenza è la cura?

«Sempre. Quando Michele Placido, bravissimo, ha diretto Romanzo criminale, ha riunito i migliori attori in circolazione. Quando pensavamo alla serie ci guardavano come matti. Invece abbiamo cercato nuovi talenti, approfondito i personaggi, cosa impossibile da fare al cinema. Sono stati bravi Cattleya e Sky a darmi la libertà di mettere insieme un cast che era una scommessa. Sono fortunato, ho fatto parte di una piccola rivoluzione che era in atto anche dal punto di vista industriale». 

Il salto è stato creare un'industria competitiva?

«Certo, ti devono dare i mezzi per poter fare le cose: non basta il talento del singolo. I talenti creativi del nostro Paese sono meritevoli di attenzione anche all'estero, non devono ripiegarsi su se stessi ma avere gli strumenti per dire la loro. Non abbiamo ancora fatto tutto quello che sappiamo di poter fare, servono progetti internazionali per attirare risorse. Nessuno inventa nulla, è quello che facevano i nostri padri negli anni 70 e 80».

In "Gomorra - La serie" la lingua ha segnato il cambiamento?

«Siamo andati contro i cliché autoimposti, era un prodotto destinato al "largo pubblico" sempre immaginato come un'entità astratta, non in grado di leggere il dettaglio. Non è così. Abbiamo fatto scelte che andavano contro il buonsenso: il realismo estremo prevedeva il dialetto, anche se meno comprensibile ai più. Poi andava raccontato un mondo così com' è, senza un personaggio positivo che facesse da filtro. Il successo ci ha confortato. Ma serve onestà intellettuale».

La sua serie preferita, tra quelle che ha diretto?

«Sono tutte diverse, fanno parte di un processo di evoluzione e affinamento, con l'occhio di oggi è difficilissimo valutare. La migliore sarà la prossima che faccio». 

 Ha già un progetto?

«Diversi, ma è prematuro parlarne».

Riaprono i cinema: è ottimista?

«Penso che la prima parte dell'inverno bisognerà tenere duro, usciranno tanti film nelle sale con capacità dimezzata. Però è come il dopoguerra, da qualche parte si deve cominciare. Non bisogna farsi scoraggiare dai risultati dei singoli titoli. Ho fatto la tv e girato film, il cinema è cinema, le sale devono tornare a vivere».

·        Steven Spielberg.

Steven Spielberg, emarginato, solo e bullizzato. Vittorio Vaccaro il 28 Dicembre 2021 su Il Giornale. Non fu facile l'infanzia per Steven Spielberg: emarginato, dislessico, solo e "diverso", dovette trovare la forza per non essere "lo scemo del villaggio". Una piccola telecamera da 8 millimetri, un bambino americano di soli sette anni, i genitori e i familiari come attori, una casa come set, tutto è pronto per girare piccoli filmati da un prodigioso piccolo regista, Steven Spielberg.

A quanto pare Steven ha già le idee chiare su cosa vuol fare da grande e da subito si mette al lavoro. Ha appena undici anni e firma il suo primo cortometraggio: due treni che si scontrano in modo tragico.

Ma tragica, in qualche modo, è pure la sua infanzia. Bullizzato dai suoi coetanei perché ebreo, ha paura ad andare a scuola, perché lo minacciano e gli urlano: "Sporco ebreo!". Si sente emarginato oltre che solo, per via del padre che è sempre lontano e quindi assente.

Le difficoltà sono presenti anche nella lettura: per due anni non riesce a leggere e si vergogna a farlo davanti alla classe, non riesce a capire cosa ha di diverso dagli altri. Solo da grande scopre di soffrire di dislessia. Si rifugia dietro a una telecamera, la sua via di fuga, tra squali terrificanti, dinosauri, viaggi nel tempo, esploratori e dolci extraterrestri. Chi non ricorda il giovane Elliot che vola in sella alla sua bicicletta con E.T. seduto sul cestino?

La sua carriera inizia nel 1971 con un film divenuto cult tra gli amatori del cinema, "Duel", una pellicola ad alta tensione che riesce a girare in soli tredici giorni, praticamente un record assoluto. Da quel momento inizia il successo con film come "Lo squalo", "Incontri ravvicinati del terzo tipo", "E.T. l’extra terrestre", "Jurassic Park".

Nel 1993 gira il film che gli fa vincere l’Oscar, che lo posiziona definitivamente al vertice del cinema hollywoodiano, "Schindler’s List", la storia di un imprenditore tedesco che salva oltre mille ebrei dallo sterminio nazista. Da questa pellicola Spielberg non prende nemmeno un dollaro: dichiara in un’intervista che quelli sono soldi insanguinati, per cui li utilizza per fondare un’organizzazione dedicata a preservare la memoria dell’Olocausto.

Di questo uomo si raccontano tante curiosità: una tra queste che non si presenta mai per girare l’ultima scena dei suoi film. È un rito scaramantico nato durante le riprese “Lo squalo”, per paura che la troupe, in chiusura del film, lo gettasse in acqua.

Anche questa volta abbiamo conosciuto la vita di un uomo che da "scemo del villaggio" è diventato un "genio del mondo". Vittorio Vaccaro

·        Sting.

Andrea Laffranchi per il “Corriere della Sera” il 21 novembre 2021. Se ne sta su una sedia e per sgranchirsi si chiude a libro, gambe dritte e tese. Settant' anni e non sentirli. Sting li ha compiuti il 2 ottobre, pochi giorni dopo un concerto pieno di energia al teatro antico di Taormina, primo artista internazionale a esibirsi in Italia post-pandemia. «Ma non c'era stato Zucchero prima di me all'Arena? E se dite che lui è solo italiano, allora anche io mi sento un po' italiano», dice l'ex leader dei Police. 

Con i mesi che passa a Figline Valdarno è giunto il momento di imparare la nostra lingua... 

«Sono pessimo... Parlo in italiano quando sono sul palco e so già cosa dire. Reggere una conversazione è complicato. Ho appena iniziato Le Cosmicomiche di Italo Calvino, forse dovrei leggerlo nella vostra lingua...». 

Il suo nuovo album (esce il 19 novembre) si chiama «The Bridge». Come è nato? 

«Durante la pandemia ogni giorno andavo nello studio di registrazione di casa dalle 10 all'ora di cena. Nelle mie canzoni nasce prima la musica che poi mi racconta una storia e la traduco in versi. Mi sono reso conto alla fine che tutti i personaggi di questi brani erano in qualche modo in transizione, tra vita e morte, malattia e salute... Tutti noi lo siamo e abbiamo bisogno di un ponte, non di ferro ma metafisico, che ci porti in un posto più sicuro».  

Su quale ponte sta lei? 

«Quello fra i 69 e i 70 anni è duro e interessante. Devi accettare di invecchiare: o invecchi o muori. Allo stesso tempo mi chiedo come possa essere così vecchio. Sono orgoglioso dei miei anni, non li nasconderei mai, ma non mi sembra di essere a 70».  

E quelli attraversati? 

«Passando dalla povertà al successo ho imparato che non puoi paragonare felicità e successo, una viene dai rapporti, l'altro è legato ai soldi».  

Il ponte artistico? 

«Ero in una band al massimo del successo e l'ho lasciata. Decisione non logica, spericolata, ma giusta secondo il mio istinto. Non ho rimpianti. Ora punto a fare quello che sto facendo fino a che non sembrerò ridicolo. Vorrei fare come Aznavour: ha cantato fino all'ultimo giorno». 

La Bibbia è spesso stata una sua fonte di ispirazione. Qui nei testi cita Giona e il libro dei Numeri. Da dove viene questa spiritualità? 

«Più che spiritualità è cultura religiosa. Sono stato cresciuto da una famiglia irlandese-cattolica fra scuole cattoliche e catechismo. L'inglese che si legge nella Bibbia di re Giacomo, traduzione dall'ebraico del XVI secolo, è uno dei più belli di sempre e mi è sempre stato di ispirazione».  

L'amore è il tema principe delle canzoni. Come cambia nel corso di una vita? 

«Quando lo canti a 15 anni non ne sai nulla. Alla mia età hai sperimentato tutto lo spettro delle emozioni e puoi scriverne con sincerità. Scrivere "io ti amo e tu mi ami" è noioso, è un cerchio chiuso. Mentre "io ti amo e tu ami un altro" dà tridimensionalità al problema. Mi interessano le situazioni non ideali».  

La sua sembra perfetta: con Trudie Styler state assieme dagli anni 80... 

«...ma ho avuto esperienza di amore meno sano». 

«Hills on the Border» parla di confini, di chi non vuole condividere pesi... una metafora dei migranti cui chiudiamo le porte in faccia? 

«Non nelle intenzioni, è più una storia di fantasmi e ponti metafisici. Quanto al problema migranti non può essere solo dell'Italia o della Grecia, ma di tutta l'Europa. Da un lato c'è necessità di controllare i confini, dall'altro quella di essere umani. Così com' è non funziona, ci vogliono volontà politica e soldi».  

In «Bells of Saint Thomas» cita un quadro di Rubens con San Tommaso: lui voleva vedere per credere, oggi qualcuno non crede all'evidenza scientifica... 

«La scienza non è infallibile, si può metterla in discussione, ma questo apre a teorie cospirazioniste e altre sciocchezze. Quando si arriva al populismo inizio ad avere paura. Vedo parallelismi fra quello che succede oggi e la fine della repubblica romana: populismo, propaganda, bugie, violenza. La democrazia liberale è fragile e possiamo perderla in un momento».

Luciano Ferraro per "corriere.it" il 15 agosto 2021. Un piccolo trucco da osteria ha convinto Sting e la moglie Trudie Styler ad acquistare 25 anni fa Il Palagio, a pochi chilometri da Firenze. La dimora cinquecentesca circondata da 350 ettari di boschi, giardini, oliveti e vigneti sulle colline di Figline Valdarno, è diventata il rifugio italiano della coppia inglese durante i mesi della prima, della seconda e della terza ondata del Covid. Sono stati giorni silenziosi, senza i live domestici che Sting ogni anno improvvisa per gli amici e gli ospiti. Da solo sul palco, con la chitarra, il microfono e la voce che non perde potenza. Ma in questi mesi italiani di musica interrotta, Gordon Matthew Thomas Sumner, questo il suo vero nome, non si è mai fermato, tra solidarietà, affari e politica.

Il no alla Brexit e l’aiuto anti-crisi. Si è schierato subito contro la Brexit. E con altri 110 artisti (da Elton John a Bob Geldof, da Peter Gabriel ai Radiohead), durante la pandemia ha firmato una lettera di denuncia contro il governo britannico «perché la Brexit ha trasformato l’Europa in una no-go zone per i musicisti, che ora hanno bisogno di visti individuali per ogni concerto fuori dalla Gran Bretagna». Richiesti anche a chi, come lui, ha venduto nella sua carriera dai Police in poi cento milioni di dischi. Per ora l’unico concerto pubblico in Italia (prima europea del tour antologico My Songs) è fissato per il 27 settembre al Teatro antico di Taormina. Durante il ritiro dorato e creativo in Toscana, tra il lago, la piscina e i campi da tennis del Palagio, il cantante che ad ottobre compirà 70 anni ha aperto con Trudie una fondazione, la Every Breath (dal titolo di una delle canzoni più conosciute dei Police, Every Breath You Take ). Lo scopo: aiutare chi si è indebolito nella crisi. Così, camicia azzurro Italia, occhiali da sole e l’energia di sempre, si è messo alla guida di una corsa ciclistica di campioni ed ex glorie sportive, da San Marino a Figline, per «dare una mano agli imprenditori del turismo». Poi, settimana dopo settimana, Sting ha incontrato i migliori chef dell’Italia per capire dove va il gusto tricolore. E a luglio si è convinto ad aprire, sempre al Palagio, una pizzeria bio con wine bar, dopo una lunga ricerca per trovare il pizzaiolo più ispirato. Ha scelto i social per l’annuncio: «Venite ad unirvi alla gang nella nuova pizzeria e wine bar Il Palagio, dove potrete gustare una pizza favolosa, provare tutti i nostri vini e anche qualche birra artigianale toscana», ha scritto sul suo profilo Instagram. Quando è stato possibile tornare a ricevere gli enoturisti, ha messo all’asta visite e degustazioni con lui e i marchesi Antinori e Frescobaldi, incassando 140 mila dollari subito trasferiti ai ristoratori statunitensi in difficoltà. Infine, ha rivoluzionato la cantina facendo arrivare la star degli enologi, Riccardo Cotarella, e lanciando quattro nuovi vini dai 13 ettari più vocati del suo vigneto: il bianco Baci sulla bocca, il rosato New Day, il Chianti Riserva La Duchessa e il 1530, un insieme di Sangiovese e Merlot. Nella tenuta Sting e Trudie producono anche olio, frutta e miele («abbiamo sessanta fantastiche famiglie di api»). Dal palazzo trasformato in un gioiello agricolo e dell’ospitalità («con cinque dependance che è possibile affittare»), nell’era pre-lockdown Sting è partito per portare solidarietà agli operai della Bekaert di Figline minacciati di licenziamento, improvvisando un concerto davanti ai cancelli della fabbrica. Ed ora sta pensando a un altro concerto al Palagio, alla fine di agosto, sempre in soccorso «a chi è stato costretto a chiudere a causa del Covid». Al suo fianco, ad ogni passo, c’è sempre Trudie, che parla un po’ italiano. Mentre Sting si limita a un «ciao, come stai», anche dopo un quarto di secolo con casa in Toscana. E se Trudie si definisce oggi «una ragazza di campagna che crede nella terra, come mi ha insegnato mio padre», lui parla di sé stesso come di «un giovane produttore in una terra molto antica, un vignaiolo a cui piace degustare, mangiare e sentirsi parte del paesaggio toscano». Attrice e produttrice di film (il prossimo sarà a Napoli, per questo appare ogni tanto al ristorante Mimì alla ferrovia), Trudie è la seconda moglie di Sting. Insieme hanno avuto quattro dei sei figli del cantante. Eliot Paulina “Coco”, 31 anni, cantautrice, e Giacomo Luke, 26 anni, sono nati in Toscana, «prima del Palagio, quando venivamo a trascorrere le vacanze in una casa in affitto nella Tenuta di San Rossore», ricorda la famiglia più famosa del Chiantishire. Che non ha trasformato Il Palagio in una dimora new age. Anche se lei insegna yoga e lui dedica 40 minuti al giorno alla meditazione, Sting e Trudie sono diventati imprenditori agricoli puntando «sulla biodiversità e sulla sostenibilità ambientale».

Avete trascorso in Toscana i mesi della pandemia, quelli del distanziamento, delle mascherine e dei baci negati. Per questo avete chiamato ‘Baci sulla bocca’ il vostro primo nuovo vino?

«Esatto», spiegano Sting e Trudie, «questo vino è in un certo senso liberatorio come un bacio sulle labbra. Ormai indossiamo la mascherina da un anno e mezzo e l’idea che nessuno si potesse toccare, abbracciare, e baciare come facevamo prima, ci ha sconvolto. Così quando abbiamo assaggiato questo Vermentino abbiamo detto: è come un bacio sulla bocca, ha il sapore dei baci. I sensi ci sono stati sottratti durante la pandemia, ora li desideriamo ancora di più».

Quanto è stato difficile rinunciare all’adrenalina dei tour e all’incontro con il pubblico dei concerti per un periodo così lungo?

«Per me», ammette Sting, «è stato sempre molto straniante essere nello stesso posto per più di due notti. Ma non è stato difficile rimanere in Toscana. Qui ho un’ottima compagnia: il vino e il cibo. Non posso proprio lamentarmi». 

Quanto avete sentito la distanza dal vostro mondo?

«Questo è stato un periodo davvero terribile per milioni di persone. Ma nei mesi di lockdown c’è stata anche la possibilità di fermarsi a riflettere. Noi, ad esempio, abbiamo capito che avevamo bisogno di migliorare l’accoglienza e il vino. Immaginando anche altri progetti. È stata una fase molto importante per ripensare con calma al futuro di questo bellissimo luogo. È grazie a questa spinta di rinnovamento che abbiamo conosciuto Riccardo Cotarella». 

Di cosa vi siete occupati oltre al rilancio del Palagio?

«Non abbiamo trascorso i mesi solo a pensare al futuro del Palagio. Abbiamo visto il danno colossale che la pandemia ha creato a così tante persone che stavano soffrendo in molti modi, tra problemi di salute e le imprese in difficoltà. E ci siamo dati da fare per aiutare». 

Quali imprese?

«Parliamo soprattutto delle attività legate all’accoglienza, quindi bar, caffè, ristoranti. Hanno sofferto tutti, enormemente. Quindi abbiamo pensato: “Amiamo questo Paese, è davvero una casa per noi. Possiamo cercare di contribuire”. Abbiamo avuto l’idea di creare una fondazione che ha debuttato con una gara di ciclismo di cui magari si è sentito parlare, da San Marino fino a Figline». 

Con quale scopo?

«Per raccogliere fondi a favore dei commercianti. La corsa in bicicletta si è svolta pochi giorni dopo il Giro d’Italia. C’erano venti ciclisti famosi che hanno pedalato per 150 chilometri». 

Durante il lockdown chi cucinava per voi?

«Ci sono sempre state persone della zona che hanno cucinato per noi. Da quando siamo al Palagio abbiamo ospitato delle incredibili cuoche. Abbiamo conosciuto Chiara grazie a Valentino, un famoso pasticciere che ha sette figlie. Un giorno è venuto a portarci una torta di benvenuto. È arrivato con quel grande dolce e tutta la sua bellissima famiglia. Gli abbiamo chiesto se qualcuna delle sue figlie cucinasse. Si è fermato e ci ha risposto: “Lei!”, indicando Chiara, che aveva allora 19 anni. Da quel momento Chiara fa parte della nostra famiglia». 

Com’era il Palagio al momento del vostro acquisto?

«Stavamo cercando una casa in Toscana da anni. Avevamo visto palazzi pieni di marmi, come mausolei. Poi, siamo arrivati al Palagio. Era fatiscente, ma pieno di fascino. Era il 1997. Da quel momento è iniziata la nostra nuova vita in campagna». 

Da cosa avete cominciato?

«Per prima cosa ci siamo concentrati sulla villa. Era in condizioni critiche, ma si capiva che era comunque splendida, immersa nel verde. L’abbiamo ristrutturata. C’era davvero molto da fare. Abbiamo perfino portato l’energia elettrica. Insomma, quella casa era stata trascurata per tanto tempo. Quindi il primo anno ci siamo dedicati ai lavori».

Poi vi siete concentrati sulla campagna?

«Prima il nostro sguardo si è spostato sul giardino. Un pomeriggio ci siamo seduti nella veranda e le piante di gelsomino erano così incolte che sembravano tende, non si riusciva a vedere oltre. La tenuta ci sembrava davvero un po’ triste, così ci siamo dati da fare per rimettere il giardino in sesto». 

E dopo il giardino?

«Una volta ristrutturata la casa e sistemato il giardino, abbiamo pensato: “Beh, qui una volta si produceva vino”. E ci siamo detti: lo produrremo anche noi, sarà il nostro prossimo passo. Abbiamo iniziato a concentrarci sul vigneto. Era il 1999. Tre anni dopo abbiamo estirpato le vecchie vigne e abbiamo iniziato a costruire il sistema di drenaggio. Dopo cinque anni eravamo pronti per la prima vendemmia del nuovo vigneto». 

E il piccolo inganno con il vino che vi ha fatto acquistare il Palagio qual è stato?

«L’ex proprietario, il duca Simone Vincenzo Velluti Zati di San Clemente, ci offrì un bicchiere di rosso da una caraffa durante la nostra visita al Palagio», ricorda Sting. «Stavamo trattando l’acquisto, la proprietà ci piaceva molto anche se era quasi in rovina. Il duca mi chiese se volessi assaggiare del vino della tenuta e io dissi di sì. Era un vino ottimo quindi mi convinse a comprare anche le vigne. Poi abbiamo capito che il duca ci aveva servito un Barolo e non un vino locale». 

Quando l’avete scoperto?

«Dopo un po’ di tempo, quando abbiamo servito ai nostri ospiti il vino della tenuta e ho visto che qualcuno vuotava il bicchiere nelle aiuole. Così abbiamo deciso di “vendicarci” e di dimostrare che era possibile produrre del vino ottimo anche dai vigneti del Palagio. Tutta questa nostra avventura toscana in realtà è un modo per vendicarci», sorride Sting. 

È vero che lei non beveva vino da ragazzo?

«Certamente. Sono del Nord dell’Inghilterra. Nessuno da quelle parti beveva vino. Il vino era qualcosa che si vedeva solo nei film. Sceglievamo la birra. Adesso non riesco più a berla. Magari un bicchiere, ogni tanto».

Soltanto un bicchiere.

«Sì, sono diventato raffinato». 

Durante i concerti, sapendo della sua nuova passione per il vino, avrà ricevuto in regalo molte bottiglie.

«Trovavo un’ottima bottiglia di vino tutte le sere nel mio camerino dopo i concerti, ma la lasciavo per lo staff. E poi una sera sono andato a casa di un amico che lavorava al mio tour, in New Jersey. Mi ha invitato a visitare la sua cantina. Aveva Barolo, Châteauneuf-du-Pape, e molte altre bottiglie da tutto il mondo, incredibili e costose. Gli ho chiesto: “Ma dove le hai prese?”. E lui: “Dal tuo camerino”. Si era costruito una cantina con i vini che mi avevano regalato».

E voi siete riusciti a crearvi una riserva di vini solo per voi al Palagio durante i mesi del Covid?

«Non proprio», spiega Trudie. «Anche per quanto riguarda i nostri stessi vini. A me piacciono di più i bianchi e i rosati, a Sting i rossi. Produciamo un quantitativo limitato di Baci sulla bocca e un po’ di più di New Day. Cotarella è stato molto rigido e ci ha detto che possiamo avere solo una o due bottiglie ogni tanto, perché la richiesta del mercato è molto alta. Quindi ho dovuto essere molto... Qual è la parola?». «Astemia», suggerisce Sting. E Trudie: «Sì, sono diventata quasi astemia per evitare di bere le bottiglie di Baci sulla bocca: questo forse fa bene alla mia salute. Ne bevo solo un bicchiere al giorno».

Perché avete scelto un enologo famoso come Cotarella?

«Ciò che mi ha colpito di Riccardo è che gli piace fare sorprese», risponde Sting. «Questo è ciò che voglio anche dalla musica. Cerco sempre di sorprendere il mondo con le mie canzoni. Con Riccardo vogliamo regalare una sorpresa con nuovi vini che facciano dire alla gente: Wow, non me l’aspettavo! Per me riuscire a sorprendere è un motore potente. Ed è il punto di accordo tra musica e vino, tra noi e Cotarella». 

Durante i mesi della pandemia avete pensato quindi che serviva una svolta in cantina?

«Volevamo alzare il livello ed entrare nella categoria dei vini prestigiosi. Non eravamo certi che Riccardo ci avrebbe accettati come clienti, perché non siamo in una zona enologicamente prestigiosa. Non avevamo mai preso in considerazione la produzione di spumanti, di rosé o di vini bianchi. Quindi è stata davvero una sorpresa fantastica la proposta di ampliare la nostra gamma». 

Con il rosé volete seguire lo stile francese?

«Amo molto il rosé», confessa Trudie. «Ma, come posso dirlo in modo educato? Riusciremo a dare filo da torcere ai francesi. Il nostro rosé è davvero spettacolare, sono molto colpita».

Oltre ai nuovi vini, in questo periodo è stata anche creata una nuova canzone?

«La stanza in cui compongo musiche e testi si trova proprio sopra al luogo in cui produciamo il vino. Le note e i profumi si incrociano. L’ispirazione sale dalle scale. E l’ispirazione scende dalle scale. Non ho la prova che la mia musica renda il vino migliore, e che il vino renda migliore la musica. Ma spero che sia così».

Michela Allegri per “il Messaggero” il 26 agosto 2021. Una tenuta paradisiaca che finisce al centro di una bagarre internazionale. I proprietari, da un lato, che a distanza di anni dall'acquisto denunciano di essere stati praticamente raggirati, e la famiglia del venditore dall'altro. La storia ha fatto il giro dei giornali di tutto il mondo, perché la tenuta in questione, Il Palagio, una residenza principesca nel cuore della campagna toscana, appartiene al cantante Sting e alla moglie Trudie Styler. Hanno acquistato la proprietà ormai 25 anni fa dal duca Simone Francesco Velluti Zati di San Clemente, deceduto nel 2012. In una recente intervista, l'ex frontman dei Police ha raccontato che il nobile, mentre stavano trattando sull'acquisto, avrebbe fatto bere a lui e alla moglie un bicchiere di Barolo, dicendo che era il vino della tenuta, convincendoli in questo modo ad acquistare anche il vigneto. Un trucco da osteria, secondo il cantante, che negli anni successivi si sarebbe accorto di essere stato ingannato. Le sue parole sono rimbalzate su siti web, giornali e notiziari. E adesso è arrivata la replica degli eredi del Duca, che accusano Sting di avere diffamato la famiglia con notizie false. Ma andiamo con ordine. La storia raccontata dalla rockstar inizia negli anni Novanta. All'epoca Sting e la moglie frequentavano la tenuta: 865 acri di meraviglia, tra campi, vigneti, una villa meravigliosa, anche se da ristrutturare. Il cantante si era letteralmente innamorato, tanto da decidere di acquistare la proprietà nel 1997. «Il Duca ci offrì un bicchiere di rosso da una caraffa, durante una delle nostre prime visite a Il Palagio - ha raccontato Sting - Stavamo negoziando l'acquisto della tenuta. La proprietà ci piaceva molto, anche se era in rovina. Il Duca mi chiese se volessi assaggiare il vino prodotto lì e io risposi di sì. Era un vino eccellente e questo mi convinse a comprare anche i vigneti». Il cantante ha anche detto di essersi accorto anni dopo di essere stato raggirato: «Quando abbiamo servito il vino della tenuta ai nostri ospiti, ho notato che qualcuno svuotava il suo bicchiere in un'aiuola». Da quel momento la coppia ha lavorato per trasformare Il Palagio in un'azienda vinicola di lusso, che produce Chianti.  Le dichiarazioni del musicista hanno scatenato un putiferio. La replica della famiglia toscana è stata immediata. Il figlio del Duca, Simone Vincenzo Velluti Zati di San Clemente, ha parlato di «calunnia, velenosa e falsa» e di «affermazioni che, oltre a non rispondere al vero, sono altamente lesive della memoria di mio padre, nonché della mia reputazione». Sostiene che, oltretutto, Il Palagio, fiore all'occhiello della campagna toscana e un tempo ritrovo di studiosi e intellettuali, è «ora trasformato in pizzeria e wine bar», un resort «stile Palm Beach». Il nobile sottolinea anche che «un signore navigato come Sting, che all'epoca aveva 46 anni, non dovrebbe confondere barolo con chianti, vale a dire nebbiolo con sangiovese». Il Duca, inoltre, è deceduto nel 2012, «per cui Sting ha avuto circa 15 anni per permettergli di ribattere personalmente a un'affermazione non solo in malafede, ma anche così assurda e inverosimile da suonare come un vero e proprio boomerang. Ha deciso invece di farlo a babbo morto, come dicono in Toscana», dopo avere utilizzato lo stemma della famiglia sull'etichetta dei vini commercializzati a Il Palagio.

Lettera di Sting al “Corriere della Sera” il 27 agosto 2021. Nell'intervista pubblicata su «7» del 13 agosto, Sting racconta un aneddoto sull'acquisto de Il Palagio, la sua tenuta tre le colline di Figline Valdarno, in Toscana. Il cantautore britannico ricorda un incontro con l'ex proprietario, il duca Simone Vincenzo Velluti Zati di San Clemente, che gli offrì un bicchiere di vino che convinse il musicista a comprare i vigneti intorno alla dimora cinquecentesca. «In seguito capii che ci aveva servito un Barolo e non un vino locale», afferma Sting. Che ora scrive una lettera al figlio del duca. «Gentilissimo Simone Francesco Velluti Zati di San Clemente, Lei ha ragione e Le devo quindi le mie più profonde scuse. L'aneddoto, come riferito, era irrispettoso alla memoria del Suo illustre padre e, per questo, porgo le mie più sincere e inequivocabili scuse. Suo padre era un uomo onesto, che non mi ha mai ingannato. L'intenzione dell'aneddoto era fornire un commento ironico sulle mie ingenue ipotesi, sulla mia inesperienza e sul fatto imbarazzante che 25 anni fa non riuscivo a distinguere un Barolo da una saponetta. Dovrei essere ormai consapevole che l'ironia viene più difficilmente percepita nei testi scritti, tuttavia riconosco e accetto che ciò ha causato grande stress a Lei e alla Sua famiglia e per questo sono sinceramente dispiaciuto. Può essere certo che non accadrà di nuovo. Cordialmente».

·        Taylor Swift.

Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 14 febbraio 2021. A chi appartengono le canzoni di un artista? A chi le scrive e le canta, verrebbe da rispondere a rigor di logica (e di diritto d'autore). La realtà è più complicata, e nel mondo della musica leggera complicatissima. In passato dai Beatles ai Rolling Stones, da George Michael a Prince, artisti e discografici si sono scontrati spesso. Per motivi di principio, di equità e correttezza, e ovviamente, soprattutto, di soldi. Moltissimi soldi. Se poi parliamo di Taylor Swift, unica artista ad aver venduto più di un milione di copie del suo nuovo disco nel 2020 (le vendite-monstre degli anni 80 e 90 sono state spazzate via dalla rivoluzione digitale), i soldi in ballo sono moltissimi. Quella di Swift è l'ennesima versione della solita, vecchia storia. Cantante emergente firma un contratto che assegna ai discografici, non a lei, la proprietà dei master - le registrazioni originali - delle sue canzoni. Incide sei dischi, con successo crescente. Decide di cambiare etichetta discografica per mantenere la proprietà dei suoi master, avrebbe abbastanza soldi per ricomprare i master dalla vecchia casa discografica ma vengono invece rivenduti a Scooter Braun, manager di Ariana Grande e Justin Bieber ed ex manager di Kanye West, con il quale Swift è in pessimi rapporti. Ecco allora la decisione di Swift, comunicata ai fans via social media: ha cominciato a registrare nuovamente i suoi primi sei dischi, a cominciare da «Fearless» del 2010, e li ripubblicherà tutti con lo stesso titolo seguito da «Taylor' s Version», più o meno lo stesso sound (non si diverte, come fa Bob Dylan, a riscrivere le sue canzoni ogni volta che le interpreta) e con molti inediti in più rispetto alle vecchie versioni. Così il pubblico avrà la possibilità in futuro di comprare le versioni di Swift e di punire la sua vecchia casa discografica. Su Twitter la trentunenne Swift si spiega così: «Ho parlato spesso del motivo per cui sto rifacendo i miei primi sei album, ma il modo in cui ho scelto di farlo, si spera, aiuterà a chiarire le cose definitivamente. Gli artisti dovrebbero essere i proprietari del proprio lavoro per molte ragioni: la più ovvia è che l'artista è l'unico che conosce veramente la sua opera». Il collega a sostenere Swift nel modo più deciso, e gli fa onore, è stato Pharrell Williams: «Una situazione criminale, come se a una start-up fosse vietato di avere la titolarità del proprio marchio. Un sistema tutto sbagliato. Gli artisti dovrebbero avere voce in capitolo, con questo sistema ce l'hanno le banche, e gli uomini d'affari».

·        Teo Teocoli.

Da Un Giorno da Pecora il 23 novembre 2021. Teo Teocoli, la mitica modella Veruschka e Franco Califano. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, l'attore e comico Teocoli ha raccontato un aneddoto di moltissimi anni fa:  “una volta ero alla prima del musical 'Hair', nel lontano 1970. E dopo lo spettacolo venni abbordato nientemeno che dalla più grande modella di quell'epoca, Veruschka. Era bellissima, alta, coi capelli lisci”. Come andò l'incontro? “A quell'epoca avevo una motocicletta, la feci salire e la portai a casa”. A casa di chi? “Abitavo a Roma, in zona Corso Francia, e a quei tempi condividevo l'appartamento con Franco Califano. Eravamo una bella coppietta...” Cosa disse il cantante quando la vide con una modella così famosa? “Suonai il campanello di casa intorno all'una di notte. Franco aprì la porta, vide me e Veruscka entrare dentro casa e mi disse: 'ahò, ma che hai portato er pennello', perché lei era magra, alta e coi capelli lisci....”

Da ilFattoquotidiano.it il 24 novembre 2021.  Un due di picche che ancora brucia nella memoria. Teo Teocoli è stato tra gli ospiti di Verissimo nella puntata di domenica 21 novembre e, chiacchierando a ruota libera con la padrona di casa Silvia Toffanin, si è lasciato andare ai ricordi, rivelando come da giovane abbia avuto una cotta – decisamente non ricambiata – per Orietta Berti. “Orietta Berti era molto carina, molto simpatica, educata e io la invitavo fuori…Era giovanissima, aveva i capelli da maschietto e…non so se si può dire: due seni belli rotondi. Provai a chiederle di uscire tante volte, ma non riuscii a convincerla”. Il motivo? “Lei mi diceva che alle 18:00 andava a dormire in convento ed ho scoperto che era vero. Lei dormiva e mangiava lì poi la mattina andava negli studi di registrazione a lavorare. Come artista era molto brava e ha una bellissima voce. Non ci siamo neanche parlati, zero proprio”. Teocoli ha quindi concluso con amarezza sottolineando come tra loro non ci sia mai stato “nemmeno un bacio“. D’altra parte però, oggi sia lui che “l’usignolo di Cavriago” sono felicemente sposati: lei con l’inseparabile Osvaldo Paterlini, l’altro con Elena Fiachini.

Paolo Giordano per ilgiornale.it il 18 Novembre 2021. Un mattatore. Teo Teocoli si riassume solo con questa parola gigantesca e unica. Stasera benedice la ripartenza di Zelig su Canale 5 con una apparizione delle sue: trascinanti, impossibile resistere. «Hanno dovuto tagliare dieci minuti perché quel pazzo di Bisio ed io abbiamo improvvisato, oh quello non molla mai», sorride. Arriva sul palco con una storia esaltante e avventurosa, sessant'anni di musica, cabaret e vita vissuta come pochissimi altri possono raccontare: «Io sono un cabarettista e il cabaret è quel mondo dove si balla, si canta, si scherza e si improvvisano cose».

Allora Zelig è il suo mondo.

«Zelig non è proprio casa mia. Io sono più da Derby (il celebre locale di Milano, culla di tanti talenti - ndr). Ci ho trascorso 17 anni e quell'impronta non andrà più via». 

Boldi, Cochi e Renato, Beruschi, i Gatti di Vicolo Miracoli eccetera. Chi è stato il più grande?

«Enzo Jannacci, anche se non sapeva ballare (sorride - ndr). In quel luogo succedeva di tutto, si creavano linguaggi, immagini, storie. Era una fucina di battutisti, nascevano i gerghi. Ricorda Guido Nicheli, sa Dogui, ossia Zampetti? Ecco noi parlavamo proprio così quando volevamo rendere una certa idea. Lui mi chiamava Yoghi perché dormivo sempre. Diego Abatantuono chiese di stare dietro a me e Boldi sul palco per imparare. Aveva un impermeabile bianco e la gente rideva... Gli spettacoli erano lunghissimi, andavano avanti fino alle 3 e quando il comico di turno diceva e ora per finire... qualcuno in sala diceva sempre ecco, bravo. Poi si andava al Capolinea, poi a fare colazione, poi a prendere i giornali. L'unico momento in cui Milano si fermava era tra le 6.45 e le 7. In giro era il deserto. E io mi godevo quel quarto d'ora. Poi iniziava la città».

Prima del Derby, cantava ne I Quelli, che poi diventarono La Premiata Forneria Marconi.

«Avevo una fidanzata a Parigi, si chiamava France, passai un mese là e tornai con i dischi rhythm'n'blues. Loro se ne innamorarono. Una volta, dopo aver suonato a Torino, toccò a me riportare a Milano gli strumenti. Chiesi ai Camaleonti il loro furgoncino, anche se non avevo la patente. Non riuscivo a caricare tutti gli strumenti e allora mi aiutò un musicista che suonava lì. Era Lucio Battisti, allora con i Campioni. Nacque un'amicizia, lo portai da Mogol, che però non c'era. Lucio tornò altre volte, lo incontrò e nacque la coppia». 

Poi però lei se ne andò da I Quelli.

«Franz Di Cioccio e Franco Mussida e gli altri diventavano sempre più bravi, io manco mi ricordavo i testi delle canzoni. Ci siamo divisi...».

Entrò nel Clan Celentano.

«E incisi tre o quattro canzoni tra le più brutte di tutti i tempi. Un giorno nello studio di Piazza Cavour, sto registrando un brano nuovo e arriva Adriano: Eh no, questo pezzo è una fregatura, altrimenti l'avrei fatto io. Era Nessuno mi può giudicare...». 

Poi entra nel cast del musical Hair.

«Con Loredana Bertè e Renato Zero. Andavamo in giro, lei vestita da Satanik e lui da baronetto inglese, la gente si stupiva. Loro due si amano e si odiano da tutta la vita...». 

Poi arriva la tv.

«Con Boldi e Gaspare e Zuzzurro andammo da Berlusconi a Villa San Martino. Parlammo, fece delle proposte, non ero d'accordo e dissi: Lei costruisca pure Milano 2 che io faccio il mio mestiere. Fui praticamente accompagnato alla porta. Aspettai in auto un'ora e mezza prima che gli altri uscissero. Ma qualche anno dopo fu proprio Berlusconi a richiamarmi nelle sue tv, aveva riconosciuto il mio talento».

·        Terence Hill, alias Mario Girotti.

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 22 settembre 2021. Sostiene Terence Hill, alias Mario Girotti, alias Don Matteo, che era proprio il frusciare della tonaca, consunta e malandata, a dargli il ritmo della battuta, a costruirgli il personaggio. Ora Don Matteo, misteriosamente come era arrivato, va via. Al suo posto ecco il gagliardo Raoul Bova che non va in bici ma in moto e che smette gli abiti talari. Giusta scelta, voler assomigliare non porta mai bene. Così dopo vent' anni un ultimo ciak gonfio di lacrime per quello che è stato, prima a Gubbio e poi a Spoleto dove Terence lascia un paese che lo ha tanto amato, a cominciare da Spartaco, il proprietario del ristorante che sta accanto alla ricostruita stazione dei carabinieri e che si è improvvisato attore per amore della serie. Oggi non si dà pace pensando a una consuetudine da considerarsi cambiata. Addio al bonario parroco di campagna, capace di nascondere chissà quale passato ma pronto a farsi semplice pur di essere capito dagli umili. Addio a un'immagine di prete all'antica, appunto con la sua tonaca sbrindellata, guai a cambiarla ordinava alla produzione obbediente. A dire il vero una volta l'avevano anche convinto, dopo molte insistenze. Andò a farsi prendere le misure. Poi... «Quando me l'hanno consegnata l'ho appesa in camerino e non l'ho mai usata». Addio a un religioso appassionato di gialli e di trame oscure ma capace di capire l'animo degli uomini a un solo sguardo. Esiste anche una contabilità affettiva che ha il suo peso: «22 anni, 13 stagioni, 259 episodi. Grazie» questo ha scritto l'ottantaduenne attore sui suoi account social. Una foto di gruppo e il rito del piantarello non manca. É il produttore Lux Luca Bernabei a chiarire la situazione: «Vogliamo pensare non a un addio ma a un allontanamento. Vogliamo pensare all'eredità che ci lascia in termini di dedizione, fedeltà e amore per il personaggio e per i tanti telespettatori che ci hanno seguito in questi vent' anni». Allora benvenuto a Don Massimo di Bova: «Il nome l'ho scelto io e abbiamo avuto la benedizione di Terence. Don Matteo mi sceglie come sostituto perché ravvede in me le sue stesse caratteristiche umane. Vengo sul set per respirare l'aria e raccogliere al meglio la staffetta. Mi sento come alla 4X100 quando sta per arrivare il testimone in velocità. Spero di riuscire a vincere. Difficile stare all'altezza del mito che ci lascia». Bova in Don Massimo è un prete che ha preso i voti tardi, è al suo primo incarico in parrocchia e abbraccia la fede con una spiritualità francescana». La dodicesima stagione di Don Matteo, con Terence Hill e Nino Frassica, aveva chiuso consegnando a Rai1 ben 7.300.000 telespettatori e il 26,4% di share. Comunque e proprio in virtù del fatto che non ci fu mai malanimo, al contrario, viene annunciato con soddisfazione che continuerà il percorso della Lux con Terence Hill: «L'anno prossimo - spiega Bernabei - faremo insieme due film, uno di Natale e un western». Tanto per tornare ai vecchi amori perché con il western dalla vena comica, Terence ha sfondato nel mondo del cinema assieme all'amico di una vita Bud Spencer. Cinquant' anni di carriera e non sentirli fino ad oggi. Perché lui non ha alcuna intenzione di smettere, è la lunga serialità ad affaticarlo. Impossibile dargli torto. Eppure mancherà la carezza rassicurante del parroco intelligente che con una manciata di carabinieri, più o meno capaci, riusciva a salvare il mondo. L'addio a Don Matteo si perfezionerà a partire dal quarto episodio della tredicesima stagione.

·        Terence Trent d’Arby, ora Sananda Maitreya.

Ferruccio Gattuso per "leggo.it" il 26 marzo 2021. Ispirazione, libertà, bellezza, amore. Sulla bussola personale di Sananda Maitreya sono questi i punti cardinali che contano. Così, orientandosi grazie a questo strumento interiore, l’artista che un tempo rispondeva al nome di Terence Trent d’Arby ha trovato il luogo dell’anima. Quel luogo è Milano, dove dal 2001 vive il polistrumentista che ipnotizzò il mondo negli anni ’80 e ’90 con la sua voce soul e brani come Wishing Well e Dance Little Sister. Milano è lo specchio nel quale l’artista newyorchese ha riconosciuto davvero il suo volto insieme a quello di Francesca, la moglie (milanese doc) con cui ha costruito famiglia e felicità, cose che, insieme alla libertà creativa, contano più di mille hit. Il 15 marzo, giorno del 59esimo compleanno, è uscito il suo nuovo album Pandora’s Playhouse.

Da quando è diventato milanese, questo è il suo settimo disco: come si dice qui, non è stato con le mani in mano.

«Se serve una prova che qui mi sento a casa, eccola. A Milano ho trovato un’energia particolare, empatia verso arte e bellezza. E poi Storia e contaminazione. Infine, la libertà dallo showbiz. Tutto ciò porta creatività».

Ventotto brani in un concept album che sa di psichedelia, rock e soul, e dove si parla di vita e morte, mitologia greca e perfino pandemia: quest’anno difficile l’ha segnata?

«Il primo lockdown a marzo 2020 poteva essere un blocco, e invece ha scatenato la mia creatività. Dovevo fare un album singolo, è nato un doppio. Ho lavorato senza sosta nel mio studio di registrazione al quartiere NoLo».

Chi è Pandora?

«È la compagna creata dagli dèi per Prometeo, cacciato dall’Olimpo. È la dea della Terra e di madre natura. Siamo noi, che abbiamo grandi responsabilità e che, come dico nel brano Mr. Skeleton, per la nostra mortalità dobbiamo imparare a gestire saggiamente il nostro tempo. Tutto ciò ha a che fare anche con la pandemia».

Lei suona ogni strumento ma non ha rinunciato a qualche collaborazione.

«Con Irene Grandi ho inciso la cover dei Rolling Stones Time Is On My Side. Le altre esperienze, purtroppo a distanza, con il jazzista Antonio Faraò e la band australiana The Avalanches & Vashtti Bunyan».

Da Manhattan a Milano: mai un rimpianto?

«Mai. Ogni luogo di questa città mi parla: amo passeggiare a Parco Sempione, guardare da lontano il Castello Sforzesco. La prima casa con Francesca era in via Pontaccio, di fronte allo showroom di Gianfranco Ferrè. Lo conoscemmo e fu lui a realizzare il mio abito di nozze. E dentro il Duomo regalai il primo anello alla mia futura moglie». 

·        Teresa Saponangelo.

Fulvia Caprara per “La Stampa” il 22 dicembre 2021. Succede, certe volte, che un personaggio sia talmente riuscito, talmente potente, da iniziare a vivere una vita propria, fuori dallo schema del ruolo, oltre il tempo che occupa nell’economia del film. La madre di Fabietto Schisa, protagonista di E’ stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, è ormai fissata nell’immaginario degli spettatori con le sue specifiche caratteristiche, la capacità di tenere unita la famiglia nei momenti di crisi, la passione per gli scherzi, quel suo numero da prestigiatrice con le arance: «Maria - dice Teresa Saponangelo che la interpreta - ha un lato giocoso che tende a cogliere alla sprovvista tutti, non ti aspetti che una persona che è la forza trainante della famiglia faccia di continuo la burlona. Oscilla, in ogni istante, tra felicità e tristezza, un'alternanza in cui posso identificarmi».

Il film è in viaggio verso gli Oscar, dalla Mostra di Venezia ad oggi, che cosa è cambiato per lei come attrice?

«A Venezia, sul mio ruolo, non c’era ancora tutta questa consapevolezza, la forza di Maria è venuta fuori pian piano, è stato il pubblico a farla emergere. Sapevo di aver soddisfatto Paolo, ma è stata la risposta di chi ha visto il film a consacrare il personaggio. Dal punto di vista professionale ho acquistato sicurezza, mi sento più piazzata, so che il lavoro è stato visto e apprezzato da tutti. Con l’arrivo su piattaforma è come se si fosse creata una seconda ondata di pubblico, mi arrivano messaggi da tutte le parti del mondo, anche di amici e di artistiche abitano lontano».

Come è stato il suo primo incontro con Maria?

«Ho capito fin dalla sceneggiatura che c’erano scene importanti che avrei dovuto fare benissimo. Ma la portata dell’emozione causata dal personaggio, no, quella non l’avevo capita. Adesso mi è chiara, anche grazie ai tanti messaggi ricevuti, sempre calorosissimi, alcuni li ho girati a Paolo, dicevano "grazie per avermi fatto la spremuta di arance", "grazie per avermi dato il permesso di dormire con te",le persone mi hanno scritto come se fossero Fabietto, vuol dire che la gente si è sentita davvero raccontata». 

Ha preso parte ad alcune presentazioni del film all’estero, che reazioni ha notato?

«Gli spettatori sono partecipi, rapiti dalle risposte di Paolo e dalla sua ironia, curiosi di conoscere il suo modo di lavorare con gli attori. In realtà Paolo non dice proprio niente, non dà molte indicazioni, se ti prende significa che si fida di te, ed è anche coraggioso perchè si assume i rischi, e sceglie attori a prescindere dalla notorietà». 

Non deve essere stato semplice girare le sequenze che preludono alla morte dei genitori di Fabietto. Che ricordo ha di quelle riprese?

«Sono stati giorni difficili, segnati dalla commozione, giorni di grande silenzio, con un "mood" particolare. Tutta la lavorazione è stata un'immersione totale, non solo nel dolore, ma anche nell'intimità di una famiglia composta di individui molto diversi».  

C’è anche un’altra protagonista, Napoli, lei come la vive?

«Napoli è una città stimolante, ricca di talenti, in cui si parla una lingua molto espressiva, piena di rimandi, da cui non si può prescindere. Come tutte le città belle e problematiche riesce sempre a darti qualcosa, non si è mai spenta e io l’ho impressione che a Napoli sia ancora vivo il confronto tra artisti, autori, produttori». 

Conosce da anni Toni Servillo, com’è il vostro rapporto dopo E’ stata la mano di Dio?

«E’ lì, fermo, siamo sempre in contatto, non potranno mai esserci lunghi periodi in cui non ci sentiremo, questo film ci ha avvicinati ancora di più».

Nella sua carriera il teatro ha un ruolo fondamentale. Pensa che le priorità cambieranno, farà più cinema?

«Dal teatro non si può prescindere, a marzo sarò al Mercadante di Napoli con Tartufo , a gennaio riprendo Plastilina diretta da Mario Gelardi. Adesso sto recitando nella fiction di Raiuno sul Generale Dalla Chiesa, Castellitto è il protagonista, io interpreto la prima moglie. Con il cinema il rapporto è un po’ cambiato, oggi pretendo di mantenere un livello più alto, non è presunzione, ma desiderio, vorrei che mi arrivassero personaggi al livello di Maria».

Gabriele Romagnoli per “D – Repubblica” il 5 dicembre 2021. "È tua madre!", gridò in lacrime la responsabile del casting di Paolo Sorrentino. Lui aveva scelto Teresa per il ruolo, dandole un incarico e un destino. L’incarico era quello di far rivivere per lo spazio di un film quella donna con cui aveva in comune l’allegria e la malinconia, di restituire la sua sofferenza e rigiocare i suoi scherzi. Di usare la mano per accarezzare ancora una volta il figlio, ma soprattutto per far volare, e cadere mai, le arance. Il destino era quello di rivelare alla platea non ancora consapevole, che c’era un’attrice vera e diversa, sullo sfondo di Napoli, scesa da Monte di Dio con la stessa modestia con cui, seduta in un bar di Roma, Teresa Saponangelo dice: «Una svolta? Forse. Molti, i più, è come se mi conoscessero da oggi, come se sullo schermo fossi appena nata».

Invece è nata a Taranto più di quarant’anni fa, e come Sorrentino è rimasta orfana.

«A due anni. Ero troppo piccola per rendermi conto. Mio padre morì in un incidente sul lavoro, era marinaio. Cadde sul rimorchiatore, batté la testa, non tornò più a casa. È stato irreale. Me ne resi veramente conto solo anni dopo. Con mia madre andavamo periodicamente alla Cassa marittima a rinnovare la pratica per il sussidio a cui avevamo diritto. Dalla documentazione sbucò un trafiletto di giornale con una breve descrizione dell’accaduto: il suo nome, “lascia due figli”, la più piccola ero io». 

Nient’altro, un rigo appena?

«Un fantastico book fotografico. Mio padre se lo fece fare perché il suo sogno era fare l’attore».

Un attimo, sta entrando dalla porta Freud e dice: tutto si tiene...

«È stato più complesso di così. Mio padre era più complicato di così. Voleva anche cantare, nelle foto sta davanti al microfono, elegantissimo. Lo era sempre. Andava al porto per lavorare con la giacca e il dolcevita. Quel mestiere era un ripiego, trovato da mio nonno materno. Lui voleva fare, anche, l’aviatore, poi mise incinta mia madre. Avevano diciannove anni, si sposarono, lui affrontò la vita che gli toccava». 

Aveva una bella voce? L’ha mai sentita?

«Macchè. C’era un’incisione su una cassetta, perché partecipò a un concorso, ma mia madre ci ha registrato sopra. Lei è così, sbadata». 

A occhio, una bella coppia: vanno in finale con i genitori di Sorrentino.

«Ho trovato anche le loro lettere, perché lui da marinaio all’inizio viaggiò molto, nei mari del Nord. Scriveva anche poesie, le sue lettere sono bellissime, in italiano perfetto. Quelle di mia madre, insomma. Glielo dico sempre: “Avesse vissuto, un giorno ti avrebbe lasciato”».

Lo ricordavate spesso?

«Pochi racconti, sempre gli stessi. All’epoca non si condivideva molto. Essere orfani non era una cosa da raccontare. C’era una sorta di…». 

Omertà? Pudore del male, del dolore?

«Sì. Lasciammo Taranto per Napoli, dove viveva la nonna materna. E lì, oltre a lei, mi accolse il destino. Perché casa sua aveva lo stesso ingresso del teatro Politeama. Io vedevo passare tutta la gente del teatro, mi facevano entrare gratis. Ho visto cose meravigliose: una prova generale della La gatta cenerentola di De Simone a cui eravamo in quattro, la Melato in Anna dei miracoli che sembrava recitare solo per me. Avevo gli autografi di tutti. Come potevo non innamorarmi? Poi mia nonna affittò pure una parte della casa ai tecnici e il teatro venne a me. È stata comunque un’infanzia felice. Dopo, che altro potevo fare?».

Non aveva un piano B?

«Nessuno. Mia madre, per me sì. Lei lavorava nella scuola e mi diceva sempre: fai domanda, fai domanda. Mai fatta». 

E non ha mai temuto di non realizzare il piano A?

«Avevo fiducia. E mi è andata bene. Ho sempre lavorato, magari meno quando a televisioni e produttori è venuta la passione per le “bambole di ceramica”, ma non ho mai dato preoccupazioni ai fidanzati». 

Temevano di doversela accollare?

«Figurarsi, ho sempre avuto un’attrazione per i disperati». 

Da subito?

«Il mio fidanzato dei diciassette anni veniva da un quartiere molto popolare, Pallonetto di Santa Lucia. Stavo con lui quando arrivò Maradona a Napoli. Le domeniche erano bloccate: attesa della partita, partita, commenti del dopo partita. Quando si giocò ai mondiali Italia-Argentina, non avendo il biglietto l’abbiamo passata facendo per tutto il tempo il giro intorno allo stadio in motorino».

Un’esagerazione?

«Da un lato. Dall’altro è stato il fondamento della voglia di riscatto della città. Al tempo c’erano i semafori spenti, il comune al dissesto, tutto era bloccato. Maradona indicò una possibilità per rialzarsi». 

Napoli è terzo mondo o anche lei dissente dal giudizio di Le Figaro?

«Dissento, ha più energia artistica e culturale di Roma, per dire». 

Ma ha bisogno di una guida, di un uomo speciale?

«Sì, dopo Maradona lo è stato, almeno all’inizio, Bassolino. È umano cercare chi ti dia una direzione». 

Riecco Freud, la figura paterna mancante...

«Non so se siano padri, ma molti mi hanno aiutato a trovare il mio percorso. Dopo Antonio Capuano e prima di Paolo Sorrentino c’è stato e ancora c’è Toni Servillo. Mi ha diretto al debutto a teatro, era al mio fianco in questa prova al cinema».

Come ci è arrivata, a fare la mamma del regista?

«Ci sono stati i provini: prima da sola, poi con lui presente. Mi ha detto che avrebbe deciso in una decina di giorni e ho risposto che intanto sarei andata al mare. Mi ha chiesto di non abbronzarmi. Poi hanno provato a invecchiarmi col trucco e mi hanno messo in testa quella che non vorrei diventasse una mia costante». 

Quale?

«La cofana Anni Ottanta». 

Avverta il mondo del cinema: con la cofana, mai più. 

«Con la cofana, mai più. Ma quando l’ho messa è come fossi entrata nel personaggio. Paolo mi ha guardato e ha detto: vuoi fare mia madre? E la responsabile del cast ha lanciato quell’urlo».

Un ruolo difficile, specialmente davanti all’uomo che conosceva l’originale.

«C’erano molte cose da restituire: rendere perfetto l’amore imperfetto tra lei e il marito». 

L’ha aiutata il carteggio dei suoi genitori?

«Di più mi è servito ancorarmi a Toni. Mi sono rifatta alla forza del legame che esiste tra noi, seppure di altra natura. Poi c’erano altri aspetti: il dolore che lei provava e la capacità di essere forte per superarlo». 

Era una specie di secondo lavoro per le madri e le mogli del tempo. Una generazione dopo era già qualcosa che non appartiene più, da cui staccarsi. 

«Sì, infatti mi è venuto più facile il dolore della resistenza. Ci sono cose che non avrei tollerato: il tradimento per me spezza ogni possibilità di continuare».

In una intervista, parlando di un ruolo precedente, quello della figlia di una vittima del terrorismo, lei ha distinto perdono e accettazione. È capace di uno dei due?

«Il perdono non lo concepisco. L’accettazione in alcuni casi sì. Non in questo. Lì sono diversa dalla madre del film». 

Lei è madre di Luciano, che ha quattordici anni. Lo vedeva in Fabietto, l’alter ego di Sorrentino?

«Sì, spesso. Soprattutto nella scena in cui lo accarezzo mentre dorme. Abbiamo visto il film insieme, nella saletta di montaggio. Lui era molto emozionato. Dopo la scena più difficile, quella in cui ho una crisi di nervi per la sofferenza, lui mi ha detto: ho capito a che cosa pensavi recitando, pensavi a me».

Era così?

«No. Anche se lui mi fa soffrire e un po’ ne gode. Ma in quella scena ho tirato fuori cose mie, solo mie. Tra me e lui ora va meglio, è più positivo, credo più orgoglioso di avere una mamma attrice. Prima non era così, ma l’ho sempre portato con me, su tutti i set». 

Perché non provasse, come lei, seppur per motivi diversi, il trauma dell’abbandono?

«C’è una frase, nel film, sulla differenza tra “essere lasciati soli” e “essere abbandonati”, una di quelle che scrive Paolo e su cui il pubblico si fa domande. L’altra sera a Napoli ne discutevo con una professoressa, cercavamo il senso. Eravamo in taxi, l’autista si gira e fa: si può essere soli per scelta, l’abbandono si subisce. L’abbiamo presa per buona».

Sempre insieme con suo figlio, è vero che fate scambio di case nel mondo?

«Sì, spesso. È una cosa molto bella, anche se è una di quelle che adesso sono diventate difficili. Lui era contrario all’inizio, non voleva lasciare Roma, lasciare un altro, sconosciuto, a giocare con la sua playstation. Poi ha cominciato a divertirsi, si è aperto, ha capito che bisogna dare meno peso alle cose e più alle esperienze. Scambiare casa è un viaggio nel viaggio. Siamo stati a Copenaghen, Londra, Parigi, Marsiglia, Chamonix. La gente si fida, lascia i gioielli nei cassetti, ti fa trovare i frigoriferi pieni. E tu ricambi. È educativo». 

L’ultima domanda è la più importante: e le arance?

«Quelle con cui faccio la giocoliera nel film?»

Quelle: era una cosa che sapeva fare e ha dato al personaggio?

«Magari. Era nel copione. Mi sono esercitata per un mese e mezzo, per ore al giorno. Temevo di emozionarmi e lasciarle cadere, soprattutto nel piano sequenza in cui il ragazzo cammina per la casa, apre la porta e mi trova a lanciare le arance in aria mentre piango di rabbia. Alla fine ci sono riuscita». 

Lo fa ancora, ogni tanto, anche se non serve più per il film?

«Sì». 

A che cosa serve?

«Ho capito perché lo faceva la mamma di Paolo. È un modo per non concentrarsi soltanto sul dolore, per tagliarlo a metà, occupando una parte del cervello. È una distrazione. Una piccola terapia. Può sempre servire».

Marco Giusti per Dagospia il 26 novembre 2021. “Ma che brava che è Teresa Saponangelo”. Vedendo “E’ stata la mano di Dio”, dove interpreta la madre del giovane Paolo Sorrentino nonché moglie di Toni Servillo, lo si nota davvero tanto. Luminosa, divertente, ma anche drammatica e furiosa. Rende allegro e leggero anche Servillo. E assolutamente vera, reale, mai artefatta, senza birignao, senza nessuna teatralità e capace, davvero, di interpretare qualsiasi ruolo. Se la vedete in “Il buco in testa”, incredibile film di Antonio Capuano assurdamente snobbato da Venezia (Capuano è ancora incazzato con Barbera), dove ha vinto un Nastro d’Argento quest’anno e dove fa un ruolo ultradrammatico, la figlia di un carabiniere ucciso da un terrorista negli anni di piombo che vuole incontrare l’assassino del padre, Tommaso Ragno, si rimane impressionati dalla sua forza. E da quel che Capuano, ormai riconosciuto come il maestro di Sorrentino, che la conosce bene, è riuscito a costruire e ottenere negli anni da lei. Visto che l’ha diretta fin da giovanissima, sia al cinema che a teatro. La ricordo in un complicato monologo scritto da Francesco Piccolo eseguito su un palo da lap dance che lei percorreva in su e in giù. Dago è assolutamente impazzito quando l’ha vista nel suo incredibile episodio, appena ventenne, in “Polvere di Napoli” di Antonio Capuano, ideato e scritto anche da un giovanissimo Sorrentino. L’ha trovata carnale, reale, fenomenale. Una Anna Magnani del Duemila. Ha un incredibile monologo in napoletano, che recita a una velocità incredibile, ripresa in prima piano strettissimo prima di prendere un autobus negli stessi set a Marechiaro dove la ritroveremo vent’anni dopo in “Il buco in testa”. Allora colpì molto anche me, tanto che la chiamai più volte in tv nei miei programmi. Perché Teresa è anche un'attrice comica di talento. Può tenere testa a chiunque. E potrebbe essere una nuova Franca Valeri, l’ho sempre detto. Ma che ha davvero molte marce in più lo hanno notato, oltre a me e a Dago, anche i giurati, anzi le tante giurate dell'ultimo Festival di Venezia, che avrebbero tanto voluto premiarla come Miglior Attrice Protagonista, in barba a Penelope Cruz, e poi hanno preferito premiare, forse giustamente, il film con il Leone d’Argento, mi ha detto Saverio Costanzo, che era l’unico italiano in giuria. Non so esattamente perché non ha fatto, fino a oggi, la carriera che un’attrice come lei avrebbe potuto fare in altri paesi. Magari i registi, i produttori vogliono andare sul sicuro e pensano che il pubblico voglia vedere sempre quelle quattro-cinque attrici che hanno un nome con birignao incorporato. Ma Teresa era una forza della natura sia nei suoi primissimi film, un ruolino in “Ferie d’agosto” di Paolo Virzì come figlia di Mario Scarpetta, già meglio in “Pianese Nunzio, 14 anni a maggio” di Capuano, “Le acrobate” di Silvio Soldini. Se Capuano l’ha fatta crescere dentro il suo cinema e senza mai abbondare Napoli, facendone la sua principale attrice, Sergio Rubini da regista le ha offerto un ruolo importante in “Tutto l’amore che c’è”, dove faceva la ragazza pugliese, cosa che è, visto che è mezza napoletana e mezza pugliese, e ce l’ha fatta vedere più sexy e sensuale, come auspica Dago, che invito a vedere le sue scene d’amore nel film. Rubini, riconoscendone il valore, da attore l’ha voluta vicino a sé in altri film anche recenti, come “La stoffa dei sogni” di Gianfranco Cabiddu e “Il bene mio” di Pippo Mezzapesa. Purtroppo i due film che ha girato da protagonista diretti da due registe, la graziosa commedia “In principio erano le mutande” di Anna Negri e il noiosissimo mélo sub-morettiano “Te lo leggo negli occhi” di Valia Santella, prodotto e supervisionato proprio da Nanni Moretti, finito anche a Venezia, invece di aiutarla a crescere, l’hanno riportata indietro. Valia Santella, ricordo, al suo primo e unico film da regista, prima di diventare sceneggiatrice di fiducia di Moretti, la inquadrava sempre di nuca, senza primi piani, non capendo che la forza di Teresa è nel primo piano, nella mobilità del volto, negli occhi. No. Ne ha fatto una martire morettiana mal vestita e mal truccata pronta al massacro. Aveva un ruolo degno di lei, quello di un'artista napoletana, Maria Palliggiano, nell’opera anche qui prima e unica, poverissima e un po’ sconclusionata, di Silvana Maja, “Ossidiana”. Teresa era bravissima, aveva anche un partner meraviglioso come Renato Carpentieri, ma il film oltre a essere tecnicamente lacunoso non ha avuto una gran distribuzione. Peccato. Ricordiamo che era stata anche la prima a portare a teatro un testo importante di Michela Murgia sulle ragazze sfruttate dei call center che verrà poi portato in scena, con molti cambiamenti da Paolo Virzì con Isabella Ragonese bravissima protagonista in “Tutta la vita davanti”. Ma quel ruolo lo aveva costruito a teatro Teresa, e infatti, come contentino, la si vede come spettacolo nello spettacolo. Un po' poco. Devo dire che è proprio grazie a Sorrentino, e a Capuano, anche se “Il buco in testa” ha avuto, in pieno Covid, una distribuzione insignificante, che l’abbiamo vista ritornare alla ribalta con la grinta e la passione dei suoi inizi. Dice Dago, che l’ha scoperta da pochissimo, che è un talento mai visto. Se rivedete su Amazon il suo episodio di “Polvere di Napoli” ve ne potete rendere conto. E provate per un attimo a pensare quale altra attrice italiana è in grado di recitare così.

·        Tilda Swinton.

Jeremy O. Harris per "Vanity Fair" il 5 aprile 2021. Per anni ho sognato il mio primo incontro con Tilda, un’attrice che non ha bisogno del cognome. Nelle mie fantasie giovanili, quando avevo scoperto il suo lavoro mentre divoravo Derek Jarman, immaginavo di incontrarla a un party frequentato da persone del mondo delle lettere, dell’arte e della moda, a cui io partecipavo, per caso, come «più uno» di qualche invitato. Oppure, immaginavo di essere ricevuto nella casa di famiglia in Scozia, dove avrei trascorso un weekend d’autunno nel suo giardino – come poi è successo a Nikolai von Bismarck, che ha scattato le foto di questa storia nella sua bellissima magione nelle Highlands scozzesi. Ma, come tante fantasie, la mia non si è avverata. Il nostro primo rendez-vous è avvenuto via Zoom: io a Notting Hill e lei in Galles, immersa nei preparativi per un film di Joanna Hogg. Nonostante lo schermo, l’incontro è stato sublime, più intimo di quanto potessi immaginare. Tanto che è partito a letto…

Buongiorno, Tilda. Non è incredibile il fatto che entrambi stiamo parlando comodamente dal letto?

«Dovrebbe essere sempre così. Qui in Galles ho un letto un po’ strano, ma la carta da parati è molto bella».

Nemmeno io sono in camera mia, ma in un seminterrato, in casa di amici. È riuscita a lavorare durante tutto il lockdown, vero?

«È stato solo un caso. Pedro Almodóvar e io avevamo pianificato per mesi il nostro piccolo film, The Human Voice, poi tutto si è fermato. Ci siamo guardati e abbiamo detto, “Be’, in realtà si può fare: i protagonisti sono solo una donna e un cane”. È stato emozionante: eravamo arrivati al punto in cui i registi si stavano chiedendo che ne sarebbe stato di loro. Noi abbiamo accettato la sfida».

In generale, questo periodo non dovrebbe essere un momento di pausa, ma di spazio per l’invenzione.

«Concordo. Il bisogno aguzza l’ingegno. È buffo perché mi rendo conto del fatto che chi, come me, è cresciuto in modo non convenzionale sa gestire questo tipo di ostacolo, grazie alla sensazione di potersela cavare con poco ovunque. E c’è una parte di me, come professionista, che trova tutto ciò particolarmente eccitante».

Mi sono sempre chiesto come sia passata dalla Royal Shakespeare Company ai film di Derek Jarman, alla collaborazione con il performer Joan Jonas.

«Sotto molti punti di vista, per me il vero esperimento è stata la partecipazione alla Royal Shakespeare Company. È stata un’ottima opportunità per capire cosa non volevo fare. Mi ero messa a recitare in teatro perché avevo smesso di scrivere ed era un modo di stare con i miei amici che bazzicavano sul palcoscenico».

Come mai ha smesso di scrivere?

«Sono arrivata all’Università di Cambridge per diventare scrittrice, e ho mollato appena entrata. Sono ancora un po’ traumatizzata, mi sa».

Cos’è successo?

«Ero sopraffatta. Qualche anno fa sono tornata a Cambridge per l’inaugurazione della facoltà di Cinema e media: ero invidiosissima, perché quando studiavo io non c’erano corsi del genere. Quando ho incontrato una mia professoressa dell’epoca, le ho detto proprio così, che ero sopraffatta, a bassa voce. E lei ha risposto: “Oh, succede a molti. Ti esaurisci appena entri nel mondo accademico”. Per fortuna ho ritrovato in fretta la mia strada».

Ha recitato in due film, The Souvenir parte uno e due, con sua figlia Honor. Com’è stato?

«È passato un po’ di tempo da allora: mia figlia ora studia Psicologia e Neurologia a Edimburgo. In ogni caso, Honor è stata straordinaria. Si è messa in gioco con una grande apertura, con grazia e senza nessuna intenzione di seguire un percorso specifico. Mi sembra un dono fantastico poter condividere qualcosa di speciale con chi ami profondamente. Uno dei miei obiettivi è fare un film con più membri della mia famiglia. È una cosa meravigliosa, non vedo l’ora di realizzarla. Ogni tanto penso a come dev’essere per i miei figli. Sono circondati dall’arte. La nostra casa è piena delle opere del padre (il pittore e commediografo scozzese John Byrne, ndr) e del mio attuale compagno (l’artista tedesco Sandro Kopp, ndr); guardano film diretti da amici di famiglia; leggono libri scritti dai loro padrini. Mi sembra il lusso più incredibile che si possa immaginare. Io, invece, sono cresciuta in un ambiente in cui mi sentivo come quei bambini che vengono scambiati nella culla».

Ha provato nostalgia durante i vari lockdown?

«La mia primissima reazione è stata tornare ai primi amori: Michael Powell ed Emeric Pressburger, Hitchcock, Carole Lombard. Questo periodo è una sfida all’immaginazione e alla fantasia, che poi sono quello che facciamo al cinema. Ovunque si sono levati cupi presagi sul futuro nero del grande schermo, ma non sono mai stata d’accordo. Come direbbe Slavoj Zizek, abbiamo bisogno del cinema per conoscere i nostri desideri. Penso che la pandemia ci abbia fatto rendere conto ancora di più dell’importanza del cinema e della musica. Certo, siamo grati ai servizi di streaming, ma ci sono corde che non toccano. Mi spiace anche per chi, come lei, lavora in teatro».

Già. Sono preoccupato per i miei coetanei e per le persone più giovani di me che non hanno ancora avuto la possibilità di mostrare il loro talento, e forse non ce l’avranno per molto tempo.

«Sono d’accordo ma, allo stesso tempo, non solo perché sono una spudorata ottimista, ma perché credo nell’intelligenza, penso che i giovanissimi capiranno come fare. Sono altri che hanno bisogno di compassione e sostegno: quelli un po’ più grandicelli, che avevano già cominciato a scaldare i motori».

Tornando all’invenzione, cosa pensa della moda?

«Sono davvero grata di aver conosciuto, proprio all’inizio della mia carriera, una serie di persone geniali che lavoravano nella moda. Sono diventate amiche e poi abbiamo iniziato a collaborare. Per me sono importanti come i registi, gli scrittori o gli artisti con cui ho lavorato».

Chi erano queste persone?

«Avevo un rapporto meraviglioso con Karl Lagerfeld, che all’inizio non mi spiegavo visto che io assomigliavo a un gamberetto e lui lavorava nell’impero del bello. Detto questo, è grazie a lui che sono entrata in contatto con Chanel, che continua a essere una grande fonte di ispirazione. Da quando Karl se ne è andato, mi pare che la maison abbia sviluppato uno stile più lirico e aggraziato. La sensibilità di Virginie Viard rende i capi flessibili, adatti al movimento del corpo. L’apertura e la fluidità, che caratterizzano gran parte delle odierne interazioni sociali, si riflettono ovunque, inclusa la moda. È una folata di aria fresca, e sono convinta che sia Karl Lagerfeld sia Coco Chanel – entrambi grandi fautori della modernità – la accoglierebbero calorosamente».

Il capo Chanel che preferisce?

«Stiamo girando nel gelo invernale del Galles rurale e, ogni mattina, quando mi butto giù dal letto, penso a quanto sono fortunata ad avere tre capi Chanel di cui ormai non posso fare a meno: una tuta da lavoro in denim spesso, grigio scuro, che infilo sopra i vestiti o il pigiama; una maglia da marinaio dalla collezione Hamburg e un paio di stivali da neve alla caviglia blue navy. Oggetti eterni. È questa la gloria di Chanel: la capacità di durare e la praticità, a prescindere da quanto siano stravaganti o raffinati».

Altri stilisti che la ispirano?

«Iris van Herpen. E, ovviamente, Haider Ackermann. È come un fratello per me, nonché un collaboratore prezioso. Lavoriamo insieme da vent’anni».

Come ha festeggiato i sessant’anni?

«Non mi sarei mai immaginata un compleanno così, perché cadeva il primo giorno di riprese del mio nuovo film con Joanna Hogg, che è la mia più vecchia amica: non nel senso che lei è vecchia, ma nel senso che ci conosciamo da quando avevamo dieci anni. Ho come sentito il rintocco di una campana. Un magnifico suono che segnava l’inizio delle riprese il giorno del mio compleanno».

Sono poche le persone che riescono a fare carriera lavorando principalmente con artisti queer, eppure lei ci è riuscita. È stato voluto?

«Be’, ho incontrato Derek Jarman quando avevo 24 anni. Ero appena uscita dall’università e stavo per capire che non volevo diventare una performer. Ho lavorato nel teatro sperimentale, al Traverse e all’Almeida, di cui ho ricordi molto belli. Ma sono tagliata fuori adesso – un po’ come Rip van Winkle del racconto di Irving – perché vado molto raramente a Londra. Quando sono nati i miei figli, mi sono trasferita nelle Highlands, quindi vivo isolata dal mondo. So che l’Almeida è stato trasformato in un posto funzionale, all’avanguardia, ma c’era la segatura sul pavimento quando ci lavoravo io negli anni ’80 e nei primi anni ’90. Per me, però, era un luogo fantastico».

Che mi dice del cinema?

«Era prima del cinema indipendente con la I maiuscola. C’erano David Lean e Merchant Ivory, oppure il British Film Institute, ed è lì che ho trovato la mia tribù. Derek Jarman, Peter Greenaway, Sally Potter, Peter Wollen. Essere queer, per me, ha a che fare con la sensibilità. Ho sempre sentito di esserlo io stessa: stavo solo cercando il mio “circo”, e l’ho trovato. È il mio mondo. Ora ho una famiglia con i registi Wes Anderson, Bong Joon-ho, Jim Jarmusch, Luca Guadagnino, Lynne Ramsay, Joanna Hogg».

Il suo prossimo film, The French Dispatch di Wes Anderson, uscirà più avanti quest’anno. Anticipazioni?

«Interpreto J.K.L. Berensen, la corrispondente del giornale che dà il titolo al film. Ho avuto il grande onore di lavorare con Wes e la sua allegra banda diverse volte e, come sempre, è stato un vortice di piacere, talento e genio mozzafiato. Una vecchia fabbrica di feltro riempita con una miriade di set e i loro mondi, dagli abbaini ai campi di grano, dagli aerei divisi in due ai salotti, ai vernissage eleganti. Ogni giorno ci davamo un pizzicotto per capire se fosse tutto vero. Come Wes abbia immaginato, e ottenuto, ogni dettaglio di questa visione sarà sempre un mistero per noi. È un forziere pieno di tesori meravigliosi. E non vediamo l’ora di presentarlo al mondo».

Alcuni artisti emergenti che le piacciono particolarmente?

«Conosce un comico che si chiama Julio Torres?».

Adoro Julio, è un grande amico.

«È come una finestra su un mondo. Amo anche lo stilista Charles Jeffrey, e c’è un’artista francese molto interessante che si chiama Jeanne Vicerial. È straordinaria. In realtà, ho fatto un elenco perché immaginavo che mi avrebbe fatto una domanda sui giovani talenti. Poi, però, mi sono resa conto che alcuni di loro non sono proprio così giovani».

Non occorre che siano giovani anagraficamente.

«C’è un pittore interessante che si chiama Salman Toor. Mi imbarazza aver messo nel mio elenco Lizzo e Lady Leshurr, perché tutti li conoscono, ma forse li ho citati perché li ho conosciuti all’inizio della loro carriera. E c’è un meraviglioso regista indonesiano, chiamato Edwin – solo Edwin – che vale la pena cercare. Magari, se citiamo i loro nomi sulle pagine di questo giornale, qualche lettore potrebbe googlarli e scoprirli».

Lei si cerca mai su Google? Sono curioso di sapere se è consapevole di tutti i meme in cui compare. È diventata un riferimento costante su Twitter e Instagram.

«No, no, no, no, sono una luddista assoluta. Non sono presente su nessun social media, non lo sono mai stata. Ma sono felice che la gente si diverta con queste cose».

Non posso credere che lei riesca a vivere completamente senza social.

«Ho altre cose da fare. So che cosa sta succedendo. È come se ci fosse una foresta in fiamme da qualche parte in fondo al giardino, e io mi concentrassi sulle mie rose».

Pensa che, un giorno, la scrittura che fa con il corpo si trasformerà di nuovo in scrittura sulla pagina?

«È buffo perché mi è stato chiesto di tenere il discorso in memoria di Derek Jarman al Festival Internazionale del Cinema di Edimburgo del 2002. Volevo dire di no, che non sapevo scrivere, ma poi mi sono seduta e il ghiaccio si è sciolto. E, da allora, ho scritto saggi abbastanza regolarmente. Abbiamo una tartaruga a casa ed è come il mio avatar da scrittrice: se le metti davanti una foglia di lattuga, la sua piccola testa fa capolino. Allo stesso modo la mia testa si sta avvicinando lentamente a una sceneggiatura, ma senza sforzi. Piano piano».

Ho un’ultima domanda per lei.

«Prego».

In tutte le sue avventure ha saputo mantenere uno spirito indipendente senza scendere a compromessi. Nella moda, nel cinema, nelle scelte che fa, che cosa la tiene sempre sulla retta via?

«Non ho mai avuto alcuna ambizione come artista. Può sembrare assurdo e trasgressivo, ma è un dato di fatto. Se me l’avesse chiesto quando avevo 10 o 20 anni, avrei detto che le mie uniche ambizioni erano avere una famiglia, amici che mi fanno ridere e che ridono alle mie battute, vivere nelle Highlands scozzesi, vicino al mare, con un sacco di cani e un orto. Giuro. Riuscire a realizzare i miei sogni è stata una benedizione. Tutto il resto è un di più. È zucchero a velo, fiori e candele».

·        Tim Burton.

Francesca D'angelo per "Libero quotidiano" il 30 ottobre 2021. Genialità, ironia e una discreta dose di paraculaggine. È un Tim Burton che non ti aspetti quello che ieri, alla Festa del cinema di Roma, ha ritirato il premio alla carriera acclamato da una folla di - peraltro giovanissimi - fan.

La sua prima sensazione a caldo?

«Bello, eh. Davvero. Mi sembra di essere al mio funerale».

Partiamo bene...

«È che di solito funziona così: sei morto e allora tutti parlano bene di te e ti premiano. Battuta a parte, sono molto contento di essere a Roma: sono cresciuto vedendo i film di Mario Bava e Dario Argento. L'Italia è nel mio cuore tanto che stanotte non ho dormito per l'agitazione».

Il suo ultimo film da regista è Dumbo e risale al 2019: si è preso una vacanza sabbatica da Hollywood?

«Sarò onesto: alla fine di quel film ero sull'orlo di un esaurimento nervoso. Mi sono reso conto che Dumbo sono io: sono una creatura che non c'entra nulla con il mondo Disney. Per questo ho deciso di prendermi una pausa: devo superare il trauma». 

 Da qui la scelta di darsi alle serie tv?

«Anche. Sto lavorando a una serie tv su Mercoledì, la figlia della famiglia Addams. Sarà simile a Lydia di Spiritello porcello ma con più spessore. Abbiamo iniziato le riprese da pochi giorni, in Romania».

Beh, forse i set televisivi sono più sicuri: lì le tragedie come quelle che hanno travolto Alec Baldwin sembrano più rare.

«Non vivo più a Hollywood: l'ho lasciata anni fa, non mi curo di quello che succede lì». 

Johnny Depp è stato messo alla berlina dal mondo del cinema per ragioni che attengono solo alla sua sfera personale. Lei ci lavorerebbe ancora con lui?

«Certo, è un amico: se dovessi avere per le mani un altro film o un nuovo progetto seriale, lo contatterò. Quanto all'ostracismo di Hollywood preferisco non entrare nel merito: ho le mie opinioni, ma sarebbe un discorso troppo lungo».

Agli attori che lavorano con lei chiede la sua stessa visionarietà?

«Ho sempre cercato attori che osino e a cui interessa il processo creativo. Per esempio, quando in Batman Michelle Pfeiffer fece Catwoman ha accettato di avere dei gatti addosso, di infilarsi un topo vivo in bocca e ha imparato a danzare sui tetti. Serve gente così, che non è preoccupata della propria immagine ma si mette a completa disposizione della storia». 

Lei è stato il primo a raccontare il diverso: si sente un po' il padre putativo della moderna battaglia per l'inclusività?

«Il fatto è che io non sono mai partito da un'idea o da un principio da difendere. Nel mio caso non si tratta di fare "battaglie": ho sempre dato voce agli outsider perché io per primo lo sono. Sono fatto così: vedo il mondo a modo mio, non ci posso fare nulla. Ancora oggi trascorro ore fermo, sulla sedia, a guardare l'azzurro del cielo o gli alberi». 

Le va stretto il crescente clima perbenista?

«Oggi dilaga il politicamente corretto: non vorrei mai trovarmi nei panni di un comico, ormai non puoi più dire nulla senza trovarti nei guai. Personalmente io non ci faccio caso a quello che dico, non me ne curo... finirei sicuro nei pasticci. Sono tempi repressivi». 

Cosa resta della fantasia in un cinema inondato da biopic e storie vere?

«Non sarei così negativo. Spesso le storie più incredibili sono proprio quelle vere: la realtà ha un che di meraviglioso, può superare la nostra stessa immaginazione». 

Qual è la cosa più sbagliata che si dice sul suo conto?

«Che sono dark. Mi è restata addosso questa etichetta, che onestamente mi pesa perché non mi rappresenta affatto». 

Io la butto lì: esiste un proseguo a fumetti di Edward Mani di forbice. Potrebbe nascere anche un sequel cinematografico?

«Dopo aver visto la versione porno, Edward Penis Hands, mi sono detto che il sequel è già stato fatto!» (Ride, ndr). 

Il suo film che ama di più?

«Vincent, ma solo perché dura 5'. Ho una soglia di attenzione molto bassa». 

Quello di cui si è pentito?

«Come si suole dire, i film sono come i figli: non puoi pentirtene o rinnegarli. Certo, magari alcuni non li ripeterei perché, nel frattempo, sono cresciuto e ho capito altre cose ma non mi pento di nulla. Nemmeno degli errori. Anche quelli servono nella vita». 

Senta ma l'Academy quando si deciderà a darle un Oscar?

«Ho preso il Golden Globe, mi accontento. Come dice? Non l'ho mai vinto? Ha ragione... ci ho provato... Avevo una nomination ma nemmeno lì mi hanno premiato. Pazienza».

·        Tina Ciaco, in arte Priscilla Salerno.

Da "lastampa.it" il 19 agosto 2021. «C'è stato un veto fortissimo che non mi aspettavo. Si fosse candidata Tina Ciaco non ci sarebbero stati problemi, ma si è candidata Priscilla Salerno, quindi un'attrice hard che si candida alle elezioni». Così in un'intervista concessa all'emittente Ottochannel 696, Tina Ciaco, in arte Priscilla Salerno, attrice hard e imprenditrice di origini salernitane, ha commentato le polemiche relative alla sua scelta di partecipare alle prossime elezioni amministrative di Salerno. L'annuncio della sua discesa in campo era stato fatto dai rappresentanti del Nuovo Psi, partito che sosterrà la candidatura a sindaco di Michele Sarno in una lista con Forza Italia ed Udc. Ma l'annuncio ha provocato dissapori all'interno della coalizione. «I diritti delle donne non si tutelano certo candidando al Consiglio Comunale di Salerno la pornostar Priscilla» ha scritto sul suo profilo Facebook il deputato di Forza Italia, Gigi Casciello. «Ognuno - ha aggiunto - nella propria vita fa le scelte che ritiene e da parte mia non c'è alcun giudizio moralistico ma ritengo che ci siano modi sicuramente più autorevoli e credibili per tutelare i diritti delle donne». «Non si sa perché e il percorso che ho fatto» ha replicato l'attrice in merito alla scelta di candidarsi. «Questa è la cosa più grave, che si fermano alle apparenze. Io non ho parole, sono sconcertata ma comunque continuo con tenacia a combattere per i miei diritti e per quelli di tutte le donne e per la libertà». Priscilla Salerno, inoltre, ha spiegato: «Combatto da tre anni contro il revenge porn e la violenza domestica, la pedofilia infantile. Collaboro con magistrati, do credito a giovani avvocati affinché capiscano bene il significato di questa parola che è ancora sconosciuta. Lo sto subendo di nuovo sulla mia pelle, però ho le spalle larghe perché è da sempre che subisco queste oscenità. Il mio è un grido di libertà per me e per tutte le donne che non hanno possibilità di combattere contro gli uomini». 

Priscilla Salerno, "fatemi parlare con Berlusconi". L'attrice per adulti si candida e Forza Italia dice no: parole pesantissime.  Libero Quotidiano il 21 agosto 2021. Priscilla Salerno, nome d'arte di Tina Ciaco, professione pornostar dice chiaramente: "È un mio diritto candidarmi. La gente è sconcertata che io non possa partecipare alle Comunali di Salerno. Mi stanno chiamando da tutto il mondo...". Forza Italia infatti ha messo il veto: "Sostengono che non sia etico per il partito e per la coalizione avere come candidata un'attrice hard. Lo vogliono capire che da anni non faccio più la pornostar?", osserva in una intervista a Il Corriere della sera. "Stiamo cercando un contatto con il presidente (Silvio Berlusconi, ndr). E se non riuscirò a contattare il Cavaliere scriverò direttamente a Sergio Mattarella". Insiste: "E' un mio diritto candidarmi. Questa è una sconfitta per tutte le donne. Lo sa che senza il mio nome in lista il Nuovo Psi ritirerà il simbolo e si disimpegnerà da tutto?". Priscilla Salerno si dice meravigliata che "la signora Carfagna non abbia fatto nessuna dichiarazione in merito. Ma forse ho capito il motivo. Le critiche sono arrivate da uno dei suoi: Luigi Casciello. Il quale ha detto che i diritti delle donne non si tutelano candidando una pornostar. Ma non sono una pregiudicata, non ho atti penali pendenti. Sono ambasciatrice contro la violenza sulle donne, ho aiutato a scrivere la legge sul revenge porn, ho collaborato con magistrati". Insomma, "Sogno la politica ma sono stata messa al rogo da chi non sa nemmeno il significato dell'etica". E della sua città, Salerno, sostiene: "È una città fantasma. E la popolazione ha un reddito molto basso. Qui c'è solo un Festival, Luci d'Artista. Sa quanti giovani vengono da me per essere sponsorizzati?".   

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2021. Tina Ciaco, in arte Priscilla Salerno, una carriera come pornostar, risponde al telefono e dice: «È un mio diritto candidarmi. La gente è sconcertata che io non possa partecipare alle Comunali di Salerno. Mi stanno chiamando da tutto il mondo...».

Il Nuovo Psi la candida ma Forza Italia ha messo il veto.

«Sostengono che non sia etico per il partito e per la coalizione avere come candidata un'attrice hard. Lo vogliono capire che da anni non faccio più la pornostar?». 

Ha provato a sentire Silvio Berlusconi?

«Stiamo cercando un contatto con il presidente. E se non riuscirò a contattare il Cavaliere scriverò direttamente a Sergio Mattarella». 

E cosa può mai fare il capo dello Stato?

«Ripeto, è un mio diritto candidarmi. Questa è una sconfitta per tutte le donne. Lo sa che senza il mio nome in lista il Nuovo Psi ritirerà il simbolo e si disimpegnerà da tutto?». 

È rimasta delusa dall'atteggiamento degli azzurri?

«Mi meraviglio solo di una cosa: che la signora Carfagna non abbia fatto nessuna dichiarazione in merito. Ma forse ho capito il motivo». 

E qual è?

«Le critiche sono arrivate da uno dei suoi: Luigi Casciello. Il quale ha detto che i diritti delle donne non si tutelano candidando una pornostar. Ma non sono una pregiudicata, non ho atti penali pendenti. Sono ambasciatrice contro la violenza sulle donne, ho aiutato a scrivere la legge sul revenge porn, ho collaborato con magistrati. Ho fatto un percorso che mi porta a dire: "Priscilla, candidati"». 

Si autocelebra?

«Ho attestati di riconoscimento, faccio lezioni di educazione civica nelle scuole». 

Ma cosa c'entra lo studio con il consiglio comunale ?

«Io sono nata a Salerno, sono cresciuta in questa città». 

Da anni però vive fuori. È stata a Verona, a Miami

«E quindi? Dopo aver divorziato ho deciso di tornare in Italia. E alla fine del secondo lockdown ho ripreso la mia residenza a Salerno». 

Cosa non funziona nella sua città?

«È una città fantasma. E la popolazione ha un reddito molto basso. Qui c'è solo un Festival, "Luci d'Artista". Sa quanti giovani vengono da me per essere sponsorizzati?». 

Cosa fa nella vita?

«Produco cortometraggi, film. Ho una casa di produzione "Priscilla Salerno production"». 

Però sogna la discesa in campo.

«Sogno la politica ma sono stata messa al rogo da chi non sa nemmeno il significato dell'etica».

Giusy D’Elia per ondanews.it il 13 marzo 2021. Priscilla Salerno è tra le attrici hard italiane più conosciute al mondo e per molti è una vera e propria icona. E’ venerata come una dea, apprezzata per la sua bellezza e anche criticata per il suo lavoro e tutto ciò che gira intorno all’universo del porno. Prima di tutto questo, Priscilla è una donna libera e da donna libera ha scelto di fare ciò che le piace, sfidando i pregiudizi e pagando anche le conseguenze delle proprie decisioni. Chiacchierare con Priscilla permette di passare dalla politica alla cultura, dalla sessualità alla violenza sulle donne con grande naturalezza, è come prendere un caffè con una persona che si conosce da tempo e parlare senza schemi di femminilità e di quanto è straordinario e prezioso il mondo delle donne. E proprio senza maschera, Priscilla Salerno ci ha gentilmente concesso questa intervista.

Come vedi la figura della donna oggi? Come sempre. La donna è considerata sempre il sesso debole, comunque e dovunque e in qualsiasi era.

Sei originaria di Salerno ma da anni abiti al Nord Italia. Cos’ha significato per una donna del Sud intraprendere questa carriera? Molta fatica e molto dolore in quanto non è stata una cosa accettata dai miei genitori ovviamente perché l’hanno saputo dagli altri in un modo molto violento. Sono cresciuta in una famiglia piena d’amore e non mi è mai mancato niente, ho fatto questo lavoro per vocazione, non per mangiare perché sono stata sempre una bimba molto espansiva e molto esibizionista, con una testa sempre per il lavoro con il desiderio di essere indipendente. Ho fatto il mio primo film a 20 anni circa e quando la mia mamma ed il mio papà sono venuti a saperlo dagli altri sono andata via perché mi sentivo Giovanna D’Arco a Salerno, erano altri tempi, ancora più duri di questi in cui una donna che faceva questo era una puttana, punto e basta. Quindi mi vedevano così in giro, anche i parenti, sono andata via e non sono mai più tornata.

Cosa ti ha fatto più male? L’ipocrisia della gente. Le persone non sono felici della serenità degli altri ma per fortuna ho le spalle larghe e mi è sempre scivolato tutto addosso perché dico sempre che il piatto a tavola non me lo mette la gente. Questo lavoro l’ho fatto con un po’ di spensieratezza, un po’ non sapevo neanche a cosa andavo incontro e poi ho usato molto il cervello perché ho studiato, poi sono andata a vivere a Miami per otto anni, ho avuto un riconoscimento americano come prima attrice hard al mondo ad avere una extraordinary ability negli spettacoli d’intrattenimento mondiale, insomma ho fatto tantissime cose. Adesso sono ferma con la mia carriera perché sto intraprendendo la carriera politica.

Pensi che una donna nel 2021 sia libera di scegliere cosa fare della propria vita senza avere timore dei pregiudizi? No, assolutamente. La donna non è mai libera al 100%, secondo me non potrà mai esserlo. Finché l’ipocrisia vive, la donna non sarà mai veramente libera. Io combatto per le donne da sempre.

Infatti sei da sempre sensibile alla tematica della violenza sulle donne, sei ambasciatrice di campagne sul revenge porn ed hai anche raccontato in un’intervista di uno spiacevole episodio che ti è capitato anni fa. Cosa senti di consigliare a una donna? Innanzitutto di non abbassare mai la guardia perché tutte le donne, me compresa, quando siamo innamorate non capiamo niente. La donna per me è un essere speciale, molto complesso e delicato quindi è semplice essere raggirata e presa in giro appunto perché non c’è un’informazione dovuta per questo.

Cosa rispondi alle persone che sono bloccate dagli stereotipi? Una donna è libera di vestirsi come vuole o di fare il mestiere che vuole ma se succede qualcosa “se l’è cercata”? Questa è una cosa agghiacciante che quando la sento mi si gela il sangue perché non è che se ho la minigonna devo essere violentata. Ho la minigonna perché ho delle belle gambe ma anche se non ho delle belle gambe, se voglio mettermi la minigonna la metto, punto. Se voglio fare il mio lavoro e non danneggio nessuno, perché non lo devo fare?

Perché hai deciso di scendere in politica? La politica mi ha sempre affascinato da quando ero bambina. Il potere più che altro mi affascina e la politica è potere e poi perché lo sento, non so come spiegarti. Sento che sarò una persona che farà cambiare qualcosa com’è già successo da quando nel 2019 il revenge porn è diventato reato, all’inizio ho combattuto da sola e poi in questa battaglia mi sono venute dietro persone istituzionali.

Cosa rispondi alle persone che possono fare insinuazioni sul tuo lavoro che cozza con la politica? Non hanno capito con chi hanno a che fare. Io sarò super bombardata, specialmente dalle donne. Solo chi parla con me capisce realmente chi sono perché posso parlare tranquillamente di finanza, di politica, sono laureata, parlo tre lingue ed ora inizio a studiare con un tutor di Scienze Politiche fino al giorno delle elezioni, è un percorso che voglio fare.

Quindi i nemici delle donne sono molto spesso proprio le donne? Si, un po’ per repressione, per infelicità, per l’essere geisha del proprio uomo, per l’essere maltrattata dal proprio uomo e quindi cosa fanno? Rivolgono tutte le loro frustrazioni alle altre donne, quelle un po’ più belle, quelle che magari camminano in un determinato modo o che hanno una personalità un po’ più forte. Quando entro ad esempio nei ristoranti, i primi vocii o sorrisini sono delle donne ma io comunque rispondo sempre con un sorriso perché le parole possono fare male ma possono anche dare amore quindi bisogna saper usare sguardi, parole, emozioni nel modo più giusto.

Percepisci ipocrisia tra le donne? Si. Sai, tante donne hanno un grosso problema di fondo cioè non conoscono la propria sessualità ed è molto grave. Non amano il proprio corpo, non lo venerano ma lo usano per dare il piacere agli altri, no, non va bene. E’ molto importante avere consapevolezza della propria sessualità fin da piccoli: a questo proposito ho intrapreso una campagna nei Licei assieme all’avvocato Stefania De Martino di Salerno, tramite convegni proprio sulla sessuologia perché molti ragazzi non hanno idea di cosa sia la sessualità perché in casa non se ne parla ed è gravissimo. Qualcuno, però, deve dirglielo per essere poi degli adulti formati. Penso che le parole messe in un certo modo possono essere più utili di un film porno per avere i primi approcci con la sessualità. Un film porno è finzione, può dare un pizzico di brio ad una coppia ma non può insegnare il sesso ai ragazzi.

Tornando alla politica, hai già deciso con chi scendere in campo? Mi stanno corteggiando tutti i partiti, deciderò quando vado a Salerno con il mio team politico. Decideremo qual è la cosa migliore per il mio percorso perché non mi voglio fermare qui.

Come ti vedi tra 10 anni? Una parlamentare, sarebbe un sogno. Credo ai sogni, li rincorro e li raggiungo perchè solo quello che non puoi sognare non puoi avere oggi come oggi.

·        Tina Turner.

Sofia Mattioli per "La Stampa" il 21 luglio 2021. È un taccuino spirituale in cui Tina Turner annota pratiche quotidiane di meditazione e ripercorre, a ritroso, il viaggio alla ricerca di sé, dall'infanzia segnata dall'abbandono al debutto, diciassettenne, a St. Louis fino ai picchi stratosferici del successo. Dentro c'è la forza di uscire da una relazione di violenze e abusi e la vita interiore riconquistata quando, fin dagli Anni 70, Turner abbraccia la pratica buddhista, asso portante del suo presente. Il libro Diventare felicità - Diario spirituale per una vita migliore (Mondadori), scritto dopo aver compiuto 80 anni, tra le pagine porta i segni di platee e cadute, corpi che, prima delle conquiste in tema di diritti civili in America, combattono stereotipi, sbriciolano classifiche e custodiscono intatta un'energia capace di superare il potere corrosivo del tempo. 

La prima domanda è d'obbligo, è felice?

«Sono più felice ora che in qualsiasi altra fase della mia vita e non è per il successo economico o la fama. È per ciò che c'è nella mia mente e nella mia anima, questa è per me la vera felicità. E la vera felicità è immutabile, non dipende dalle circostanze della vita. Ma quando la trovi è una condizione permanente, è questo che ho sviluppato nella mia pratica spirituale. Certo a volte provo delusione, rabbia o dolore. Ma i sentimenti negativi non durano tanto perché nel profondo sono piena di gioia».

«Sono per natura una sopravvissuta» ha detto, cosa intendeva?

«Durante i miei primi trentacinque anni mi sono sentita spesso travolta dalla sofferenza, intrappolata in cicli di negatività. Già da molto giovane, affrontando grandi problemi familiari, ho capito di avere una resilienza che mi faceva guardare al futuro. Per quanto mi sforzassi, però, non riuscivo a liberarmi dalla tristezza e dalla disperazione che provavo. Alla fine dei miei vent'anni, ho persino pensato di morire. Il buddismo mi ha salvato la vita. Il lato positivo delle esperienze negative era che avevo trovato una fonte di forza dentro di me, avevo solo bisogno di un modo per amplificare quella forza ed elevarmi. È quello che la mia pratica buddhista mi aiuta a fare».

Come ricorda la prima volta in un club di St. Louis?

«Ero una ragazza del contryside, ed eccomi lì, a 17 anni, sul palco con bei vestiti e tacchi alti. Era un sogno che si realizzava. Tutte le porte si sono aperte. Avevo sempre amato esibirmi fin da bambina - nel coro della chiesa o con i miei amici - ma St. Louis è dove ho capito che avevo il potenziale per farne una carriera». 

E il tour con gli Stones nel 1966?

«Divertentissimo! Era dopo aver inciso River Deep Moutain High, durante quel tour ho avuto un assaggio della vita oltreoceano, l'ho amato. E ho incontrato per la prima volta Mick Jagger, che è diventato, poi, mio grande amico». 

Dopo aver divorziato da Ike Turner, con cui ha condiviso gli inizi, quando ha capito che il suo enorme successo dipendeva solo da lei?

«Quando la mia prima canzone di successo da solista, What's Love Got to Do with It, è arrivata al numero 1 negli Usa e stavo realizzando i miei sogni come artista».

Ha dovuto combattere (e ha frantumato) molti pregiudizi. Scrive: «Il mio essere donna e black non corrispondeva alla loro idea di rockstar».

«Nella mia vita ho affrontato molte battute d'arresto a causa della discriminazione, non solo basata sul colore della mia pelle, ma anche sul sessismo e sui pregiudizi in merito all'età. Ci sono state molte circostanze che non potevo controllare o cambiare ma potevo cambiare il mio modo di rispondere a quelle sfide. Ho capito che l'aiuto più prezioso viene da dentro. La cosa che più conta è che non mi sono mai arresa».

David Bowie l'aveva soprannominata fenice. Perché?

«È vero, il mio caro amico David Bowie mi chiamava fenice, l'uccello mitico che risorge dalle ceneri. Credo che sia perché vedeva in me la capacità di non arrendersi mai, di attingere alle sorgenti del mio coraggio interiore, della mia saggezza e della mia compassione. Nella comunità buddista, chiamiamo questo processo "rivoluzione umana"».

Nel libro cita anche il discorso ai neolaureati pronunciato da Beyoncé e l'invito a «essere leader con un'anima». Cosa significa per lei?

«Possiamo tutti diventare leader con un'anima nelle nostre famiglie, nei nostri quartieri, purché facciamo del nostro meglio per diffondere la gentilezza. Questo è ciò che ho cercato di fare nel corso della mia carriera e ora anche attraverso le pagine di Diventare Felicità. Una delle mie citazioni preferite è di Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai International. Ha detto: "Una persona che, per quanto disperata sia la situazione, dà agli altri speranza è un vero leader"».

Tina Turner, il leone e la bambina. Silvia Bombino il 29 giugno 2021 su Vanity Fair. La credevamo imbattibile. E forse, in fondo, lo è davvero: Tina Turner nella sua vita ha superato ogni ostacolo (incluso il suicidio del figlio). E ora, passati gli 80, racconta in un libro come ha fatto. Storia di una rivincita a base di gentilezza. Tina Turner ha pensato di togliersi la vita almeno tre volte: se si esclude il tentativo con le pillole prima di salire sul palco, negli anni ’70, due volte ci ha ragionato concretamente (in Svizzera, dove vive, il suicidio assistito è legale). Sulle T-shirt anni ’80 era una sagoma con un microabito di paillettes, gambe su tacchi vertiginosi, criniera folta e microfono davanti a una bocca che urlava così forte che quasi potevi sentire What’s love got to do with it, We don’t need another hero o Simply the best. Un leone che graffiava con la voce. Incantati da quell’immagine leggendaria di sicurezza e grinta, abbiamo scoperto solo dopo, negli anni, chi era davvero quella quarantenne, nata Anna Mae Bullock e diventata a 17 anni Tina Turner grazie a Ike, suo pigmalione e mentore, poi marito tossico e violento. Tra la prima autobiografia I, Tina (1986) e l’ultimo documentario Tina (in uscita l’8 luglio) abbiamo imparato la sua storia, quella della rivincita sulla povertà (i campi di cotone del Tennessee), sull’abbandono (dei genitori), sulla violenza (domestica), sulla malattia (un ictus, un tumore, un trapianto) e sulla morte (dell’amato primo figlio Craig, morto suicida nel 2018). Come si sia risollevata da queste crisi lo spiega in Diventare felicità (Mondadori, pagg. 180, 18 euro), il libro che pubblica ora in Italia e che ha scritto dopo aver compiuto 80 anni, per raccontare al mondo che cosa è riuscita a salvarla da quel vortice di dolore: la pratica buddista e in particolare recitare Nam-myoho-renge-kyo, il sutra del Loto. Oggi, dallo Chateau Algonquin sul lago di Zurigo dove vive dal 1998, in affitto, con il produttore e secondo marito Erwin Bach, è il suo chiodo fisso: «Scriva per favore perché mi sono dedicata a questo libro: sono i miei migliori consigli su come superare gli ostacoli della vita. Tutti abbiamo una sorgente di felicità indistruttibile dentro di noi, va scoperta». 

Partiamo dal primo ostacolo: qual è stato il suo stato d’animo durante la pandemia?

«Ero straziata sentendo le notizie sulle molte persone che hanno perso i propri cari. Molti di più hanno perso il lavoro. Per tutto questo tempo però sono stata ottimista: assistere agli sforzi eroici degli operatori sanitari che ci proteggono, e anche dei lavoratori essenziali che hanno mantenuto in funzione la società, è stato commovente. Siamo un’unica famiglia globale e credo che momenti difficili come questo ci abbiano ricordato quanto siamo tutti profondamente connessi. Se scegliamo la speranza invece della disperazione, possiamo trovare la pace nei nostri cuori e aiutare gli altri a fare lo stesso. Sto pregando per la buona salute della mia famiglia, dei miei amici, dell’umanità, e non vedo l’ora di rivedere tutti dopo che avremo superato in sicurezza la pandemia».

A 81 anni lei dice che è importante non perdere troppo tempo incollati ai dispositivi mobili. Quante ore passa davanti a uno schermo?

«Mi piace leggere i commenti sui miei profili social, ma preferisco di gran lunga avere una comunicazione da persona a persona, da cuore a cuore. Ora è più difficile per le restrizioni dovute alla pandemia, ma sa che penso? Anche dire una parola gentile a uno sconosciuto incontrato per caso può creare positività. Stiamo vedendo gli effetti dannosi del troppo tempo sullo schermo: depressione, solitudine… Il brutto dei social media è anche che sembra che le persone si confrontino con gli altri: ma non dovremmo mai paragonarci. È molto più salutare sforzarsi di essere migliori oggi rispetto a ieri. Se passassimo tutti più tempo a fare questo e meno a cercare di convincere la gente ad apprezzarci sui social, sarebbe un grande miglioramento per la felicità di tutti».

Di emergenze, legate alla salute, lei ne sa qualcosa: tra il 2013 e il 2017 ha combattuto gravi malattie, tra cui un ictus, un cancro e l’insufficienza renale. Nel libro spiega come meditare e recitare il mantra buddista Nam-myoho-renge-kyo l’ha aiutata nei momenti più difficili. In che modo una pratica spirituale può servire per superare difficoltà fisiche? 

«C’è un passaggio del filosofo buddista del XIII secolo Nichiren che mi è stato prezioso, allora. Dice: “Nam-myoho-renge-kyo è come il ruggito di un leone. Quale malattia può dunque essere un ostacolo?”. Nam-myoho-renge-kyo è un altro nome per lo stato illuminato che esiste in ognuno di noi, che è più potente di qualsiasi difficoltà che possiamo incontrare. Attraverso la pratica spirituale, ho evocato il mio leone interiore e ho superato tutte le sfide. La malattia mi ha fatto ricordare di godermi ogni giorno al massimo».

Per molti potrebbe essere difficile capire come ripetere la stessa frase per minuti o ore possa cambiarti la vita. Che cosa dice a chi è scettico?

«Puoi migliorare la tua vita stando attento ai tuoi pensieri, parole e azioni. Questi tre atti creano il nostro karma, nel bene e nel male. Quando aumenti la consapevolezza e ti concentri sulla diffusione di gentilezza e positività, quella buona energia tornerà da te. È così che puoi vivere in accordo con la legge naturale di causa ed effetto, fondamento della filosofia buddista».

Si è affidata anche alla medicina però.

«Certo, il buddismo è una filosofia della ragione e la tradizione Soka Gakkai che pratico sostiene pienamente la scienza. Così, mentre mi prendevo cura di me emotivamente e spiritualmente, ho anche cercato i migliori dottori e cure mediche per i miei disturbi. Fortunatamente, è stata una combinazione vincente e non solo sono sopravvissuta, ma sono anche cresciuta».

Una sua foto la ritrae mentre recita il sutra del Loto a casa nel 1985, durante il fine settimana in cui il suo film Mad Max oltre la sfera del tuono diventava un successo mondiale. Come conciliava il caos di una vita da superstar con la tranquillità necessaria per praticare il buddismo?

«La pace è un risultato positivo della pratica buddista, non è un requisito per fare la pratica, che io non ho mai separato dalla mia carriera. Durante i tour mondiali, meditavo e recitavo spesso Nam-myoho-renge-kyo per un’ora, in camerino, prima di ogni spettacolo. Ho pregato anche per la felicità del mio pubblico e per infondere speranza e gioia nelle loro vite».

Facciamo un passo indietro: lei racconta della sua infanzia nel Tennessee rurale, in una famiglia povera, senza il telefono per chiamare i suoi genitori che vivevano lontani per lavoro. 

«Non potevo telefonare, ma la mia voce ne ha beneficiato. I miei amici d’infanzia e io ci urlavamo brevi notizie attraverso i campi, informazioni sulla scuola o su qualunque cosa stesse succedendo: è così che ho imparato a “portare la voce” senza ferire le corde vocali, un’abilità utile per la mia vita successiva come cantante. Crescere in campagna non aveva agi ma mi ha fatto bene, in un certo senso. Ho imparato ad apprezzare il lavoro che serve per coltivare e a non sprecare mai il cibo. La mia profonda connessione con Madre Natura è iniziata dai primi ricordi delle passeggiate nei campi di cotone del Tennessee».

Uno Stato in cui vigeva la segregazione razziale. «Sentirsi diversa» l’ha influenzata?

«La discriminazione razziale è stata legale per i primi venticinque anni della mia vita e ora, sebbene queste leggi siano cambiate, alcune persone non si evolvono rapidamente. Fin da bambina ho sempre saputo che le differenze superficiali come il colore della pelle o lo stato sociale non devono avere importanza».

Diventare famosa l’ha protetta, poi, dalle discriminazioni?

«Quando ho iniziato da solista ero una cantante nera sulla quarantina, senza soldi e con poche opportunità di lavoro. Ho affrontato il razzismo, il sessismo, l’età, mantenendo lo spirito del “mai arrendersi”. Lavorando sodo ho mostrato a chi mi emarginava che i preconcetti e i dubbi su di me erano sbagliati. Parte della mia pratica spirituale consiste nel “trasformare il veleno in medicina”, il che significa trasformare le situazioni negative in opportunità. La forza del mio atteggiamento positivo ha spinto fuori dalla finestra tutti gli “ismi” che mi ostacolavano».

In effetti il buddismo era entrato nella sua vita un po’ prima, nel 1973, quando era ancora sposata con Ike, subiva violenze fisiche e psicologiche e stava crescendo quattro figli. Scrive che, allora, tre persone che non si conoscevano, di età, etnia e sesso diversi, le avevano consigliato la meditazione. Quanto dovremmo seguire le indicazioni dell’universo?

«Ho sempre cercato di ascoltare i segni che entrano nella mia vita, ma era difficile farlo quando ero giovane, perché la mia mente era piena di problemi. All’inizio degli anni ’70 ci voleva molta energia per nasconderli a chi era intorno a me. E gli abusi domestici peggioravano. Quando ero da sola in studio con il nostro team di registrazione, a volte mi guardavano, come a dire: “Quando uscirai da quel casino?”. Un giorno, un giovane tecnico del suono disse qualcosa di diverso: “Tina, dovresti provare il canto buddista. Ti aiuterà a cambiare la tua vita”. Allora praticare il buddismo sembrava probabilmente più per studenti universitari e hippie che per una madre sulla trentina come me, e lasciai perdere. Ma subito dopo, il mio figlio più giovane, Ronnie, e poi un’altra persona mi parlarono del buddismo, e provai. L’universo stava ovviamente cercando di inviarmi un messaggio, ma lo si può accettare solo quando si è pronti. Le coincidenze non esistono, tutto ciò che accade nella nostra vita ha un significato, si tratta solo di decodificare i messaggi».

È riuscita a perdonare sua madre e coloro da cui non si è sentita amata?

«Sì, ci siamo avvicinate più tardi con mia madre, e ho fatto pace con tutti coloro che nel mio passato mi hanno ferito. Ora sono libera e riesco persino ad apprezzare le parti positive: Ike, il mio primo marito, per esempio, mi ha insegnato cose preziose sul mondo dello spettacolo che hanno aiutato la mia carriera».

Del suo secondo consorte, Erwin, che le ha donato un rene per salvarle la vita, parla molto nell’ultimo capitolo. 

«Ora, in pensione, ho tutto il tempo del mondo per stare a casa con il mio caro marito. Possiamo trascorrere intere giornate a rilassarci e apprezzare il solo fatto di essere vivi, e divertirci a stare insieme, guardare film, preparare pasti salutari l’uno per l’altro – tenendo rigorosamente lontani i telefoni quando mangiamo – o fare una passeggiata insieme. Era il compagno che sognavo di avere, e mi commuovo a pensarlo. Ho realizzato i miei sogni. Non è successo per caso, ovviamente, ci è voluto un sacco di duro lavoro!». Ride.

Martin Scholz per “Die Welt”, pubblicato da “Robinson - la Repubblica” il 28 giugno 2021. Traduzione di Emilia Benghi. È stata la prima rockstar donna a fare il tutto esaurito negli stadi - a Rio nel 1988 l'hanno applaudita 180.000 spettatori, un record che Tina Turner detiene tuttora. In molte scene del nuovo docufilm Tina (disponibile in Blu-ray, dvd e digital download dall' 8 luglio) appare con la sua chioma leonina di fronte a enormi platee, che incanta come uno sciamano. Ma prima racconta con dolorosa sincerità i capitoli più cupi della sua vita. Parla del suo primo marito, Ike, il suo pigmalione, da cui in seguito è stata abusata e tiranneggiata. Nel 1976 Tina Turner si separò da lui e dovette sbarcare il lunario come madre single esibendosi a Las Vegas per convention aziendali. A metà degli anni Ottanta riuscì a tornare in vetta alle classifiche con Private dancer che oscurò tutti i suoi successi precedenti. Il nuovo film è una sorta di testamento. I momenti più toccanti sono quelli in cui la cantante si chiede cosa resterà del suo personaggio. Negli anni passati Tina Turner, oggi ottantunenne, ha lottato contro gravi malattie, ha avuto un cancro, un ictus, ha subito un trapianto di reni. Lo ha raccontato nel 2018 nella sua autobiografia, My love story. Da 23 anni vive con il suo secondo marito, il produttore musicale tedesco Erwin Bach a Küsnacht vicino a Zurigo. Alle domande di questa intervista esclusiva Tina Turner ha risposto per iscritto.

Come vive questo periodo di lockdown a intermittenza nella sua nuova patria, la Svizzera?

«Sono tempi difficili, ovunque nel mondo, ma io cerco sempre di vedere il lato positivo. Sono fortunata. Mio marito è per me la migliore compagnia, e mi piace poter stare a casa con lui, dopo aver trascorso "on the road" tanta parte della mia vita. Sto bene e mi godo la tranquillità». 

Molti credono di conoscere la storia della sua vita, almeno quelli che hanno letto le sue due autobiografie e hanno visto il film "What' s love got to do with it?" o il musical autobiografico, ma il nuovo docufilm "Tina" riesce ad andare più in profondità.

«Cioè?».

Ho notato che lei spesso ride quando le chiedono dei traumi che ha subito, ad esempio degli abusi da parte del suo ex marito Ike. E mi ha ricordato un'intervista che ho fatto al Dalai Lama in cui aveva parlato della paura di morire provata dopo la fuga dal Tibet e poi si era messo a ridere. Era il suo modo di esorcizzare il passato. Ci riesce anche lei?

«Ridere è una liberazione - come piangere. Il buddismo mi ha insegnato che il passato, il presente e il futuro sono una cosa sola. Tutto ciò che mi è accaduto - nel bene e nel male - fa parte di me. L' ho accettato, e l'accettazione mi rende più forte». 

Lei ha incontrato in Svizzera il Dalai Lama. Che ricordo ne ha? La vostra è un'affinità spirituale?

«Il Dalai Lama mi ha dato il miglior consiglio sul matrimonio. Ha detto che il confronto è uno strumento positivo per risolvere i problemi». 

In che modo?

«Se marito e moglie si tengono sempre dentro quello che non va, se sono sempre costretti a mordersi la lingua, per così dire, va a scapito del rapporto. Quando Erwin ed io litighiamo mi viene in mente l'insegnamento del Dalai Lama e mi ricordo che confrontarsi con un problema è sempre il primo passo per risolverlo».

Parliamo di un'altra affinità, quella tra lei e Mick Jagger. Nel film dice che aveva sempre sognato di essere la prima cantante rock nera a riempire gli stadi come i Rolling Stones. Comunque lo aveva fatto presente a Roger Davies, negli anni Ottanta, quando era diventato il suo nuovo manager.

«Esatto». 

All' epoca non aveva nemmeno un contratto con una casa discografica - da dove le veniva la convinzione di poter raggiungere davvero quel traguardo in un mondo allora più di oggi a spiccato predominio maschile, come quello dell'industria musicale?

«Era un sogno folle, vero? Ma evidentemente non impossibile, ci sono riuscita. C' è voluto tanto impegno. L' importante era credere in me stessa e nelle mie possibilità. Perché se crediamo in noi stessi ci sentiamo sicuri, ed è quello che trasmettiamo all' esterno. C' è stato chi mi ha remato contro, ma anche altri - David Bowie, i Rolling Stones o Rod Stewart - che si sono dati da fare per aiutarmi. E mi fa molto piacere ricordarlo». 

L' intervista a "People" nel 1981 intitolata "La donna che ha insegnato a ballare a Mick Jagger" è entrata nella leggenda. Lei ha aperto i concerti degli Stones, si è esibita con Mick Jagger al Live Aid. Ci può svelare come ha insegnato a ballare a Mick Jagger?

«Ballare con Mick era come fare una bella chiacchierata con un amico. Il nostro, sul palco, era un dialogo. Ci ascoltavamo e ci rispondevamo. E sapevamo giocare assieme. Mick ed io ci fidavamo l'uno dell'altra. E un legame che si basa sulla fiducia reciproca è tutto. Ci lasciavamo trasportare dalla musica e dal momento - semplicemente perché ci divertivamo un sacco!».

In uno dei suoi brani più iconici lei invita a mostrare rispetto, "Show some respect". A Mick Jagger, e a Keith Richards, Rod Stewart o David Bowie non c'era bisogno di dirlo.

«Mick mi ha sempre trattata da amica, da partner. Ma era anche una canaglia, imprevedibile. Però era solo un gioco, in senso buono. I Rolling Stones erano sempre carini con me, mi mandavano i fiori quando stavo male e, quando ancora cercavo di far decollare la mia carriera da solista mi invitavano ad aprire i loro concerti. Ci conosciamo da tanto, tra noi c' è sempre stato rispetto e affetto». 

Cosa pensa oggi rivedendo i filmati dei concerti quando ballava sospesa in aria su una gru sopra decine di migliaia di mani tese?

«La parola giusta in questo caso è "contatto". Volevo essere vicina al pubblico. Volevo che io e i miei fan ci guardassimo in faccia. Durante l'esibizione eravamo una cosa sola, crescevamo assieme, ci trasmettevamo energia. E quando ballavo sulla gru volevo che sapessero, avendone la sensazione fisica, che tutti loro erano importanti per la buona riuscita del concerto».

Lei è nata a Nutbush, Tennessee. Sua madre era di discendenza Cherokee e Navajo. Da anni lei è ormai cittadina svizzera. Cosa prova ora che Kamala Harris è vice presidente degli Stati Uniti, la prima nera e la prima asiatica americana a ricoprire quell' incarico e con Deb Haaland per la prima volta una nativa americana è parte della squadra di governo come ministra dell'interno?

«Sono felice che donne forti ricevano i riconoscimenti che meritano. Io stessa ho subito varie forme di discriminazione - per il colore della pelle, per il genere, per l'età. Era sbagliato allora e lo è anche oggi. Avremo un mondo migliore solo se smetteremo di vedere le persone attraverso questi filtri, vale tanto per gli uomini che per le donne. Dobbiamo giudicare gli individui per quello che sono, non in base all' aspetto o all'origine».

I registi Daniel Lindsay e T.J.Martin hanno dichiarato a "Entertainment Weekly" che lei aveva inizialmente rifiutato di essere intervistata per il docufilm, perché non voleva tornare a parlare dei traumi del passato. Cosa le ha fatto cambiare idea?

«Sono sempre restia. In un primo momento non volevo fare neanche il musical sulla mia vita, ma i produttori alla fine mi hanno convinta che potevo raccontare una storia, e avevano ragione. Per questo docufilm all'inizio ho esitato per motivi analoghi, poi mi sono resa conto che poteva dare risposta a tante domande che continuano a farmi. Per chiudere con il passato la cosa migliore è aprirlo, renderlo visibile a tutti».

Nell' intervista per il docufilm a un certo punto dice: "Non saper perdonare gli altri provoca sofferenza. Ho subito degli abusi in passato, così è stato, devo accettarlo". Il buddismo l'ha aiutata a trovare la forza di perdonare?

«Il buddismo mi ha insegnato che il perdono rende liberi. Gli stati d' animo negativi - rabbia, sensi di colpa, o il bisogno di vendetta - ci imprigionano, come pesanti catene. Se perdono non è per scusare i torti che ho subito, ma per liberarmi dal potere che gli altri hanno esercitato in quel modo su di me». 

A una conferenza stampa per il suo film "What' s love got to do with it?" nel 1993 a Cannes era seduta accanto ad Angela Basset, che la interpretava sullo schermo. All' epoca disse che non aveva visto il film perché sarebbe stato per lei troppo doloroso. Il documentario l’ha visto?

«Sì, ho visto il nuovo docufilm. Anche se è difficile rivivere per l'ennesima volta i momenti più bui, mi sono ritrovata a pensare che i registi sono riusciti a catturare le mie esperienze e i miei stati d' animo. Le scene che ho apprezzato di più sono le clip dei miei concerti. Mi è subito venuta voglia di ballare!». 

Nel 2008 ai Grammy è stata protagonista di una memorabile esibizione accanto a Beyoncé. È stata una sorta di passaggio del testimone alla nuova generazione?

«L'ho vissuta come una festa. Noi due volevamo fare qualcosa assieme e rendere omaggio a un brano straordinario come Proud Mary ci ha dato la possibilità di divertirci sul palco. E di scrivere una pagina della storia della musica».

In una delle scene più commoventi del film lei si domanda in che modo un artista può invecchiare dignitosamente. "Come si fa a dire addio? Ad andare via?" . Ed è suo marito Erwin Bach a dare la risposta, dicendo che questo docufilm e il musical sono una sorta di addio. È davvero così, con questo film lei da addio al suo personaggio?

«Sarò sempre Tina, non potrei mai separarmi da lei. Ho fatto questo docufilm perché volevo smettere di parlare della mia vita. Adesso voglio viverla. Non c' è più niente da aggiungere alla mia storia - è tutta nell' autobiografia My love story e negli altri libri che ho scritto. La mia storia è nel musical Tina: The Tina Turner Musical e adesso anche in questo documentario. Direi che basta così!».

C' è qualcosa che le manca delle esibizioni, dei tour, della vita "on the road"?

«Sinceramente no. Mi è piaciuta quella vita, ogni tour era un'avventura. Ma ora sono in una fase diversa della mia esistenza, voglio godermi il mio matrimonio, la mia casa, vivere le avventure a casa mia». 

Il Dj norvegese Kygo ha riproposto la sua hit degli anni Ottanta "What' s love got to do with it" in versione remix con grande successo. Bello che la sua musica, riscoperta e arrangiata da giovani artisti, continui a vivere, no?

«Mi piace l'approccio musicale di Dj Kygo, quindi l'idea di riproporre il brano in una nuova versione mi ha trovata subito favorevole. Ho avuto la massima fiducia in lui e mi piace cosa ne è venuto fuori. Sì, certo, sono felice che la mia musica continui a vivere così». 

Per chiudere l'intervista facciamo un gioco.

«Cioè?».

Mettiamo che una sera d'estate nel suo giardino con vista sul lago di Zurigo vengano a trovarla i suoi amici Mick Jagger, Keith Richards e Rod Stewart. Keith Richards ha portato delle chitarre e le propone una unplugged session. Che canzoni canterebbe volentieri con loro?

«So benissimo come finirebbe se venissero tutti a trovarmi. Apriremmo una bottiglia di vino e passeremmo la serata a raccontarci gli ultimi dieci anni, a prenderci in giro, e a ridere, ridere, come fanno tutti i vecchi amici. Mi basterebbe quello».

DAGONEWS il 16 marzo 2021. 60 anni di carriera per Tina Turner, la voce afro più graffiante del panorama musicale internazionale. Forte e fragile, luminosa e oscura allo stesso tempo, la Turner trova il coraggio di parlare. Una verità nascosta dalla patina dorata della vita a cinque stelle tra case da sogno, premi, copertine e concerti sold-out. La diva 81enne, in un documentario per la HBO, ammette di sentirsi come "Un soldato che torna dalla guerra", proprio come la definisce il suo attuale coniuge, il tedesco Erwin Bach. Gli ostacoli che la Turner ha dovuto combattere iniziano da lontano, e sono quelli più inflazionati nello scenario dello show-biz di oltre mezzo secolo fa: il colore della pelle, considerato spesso un problema dai produttori bianchi che volevano imporla a tutti i costi come nuova icona sexy. Tanta gavetta, tanti compromessi, soprattutto con se stessa. E poi il rapporto con Ike, cantante afro con cui formò un duo in attività dal 1960 al 1976. Diventati marito e moglie, per Tina è l'inizio di un periodo confuso, a tratti "orrendo", concluso poi col divorzio nel 1978. Ike, racconta la Turner, era solito sfogarsi sulla cantante con abusi fisici, psicologici e sessuali. Momenti di una violenza insopportabile, che spesso la lasciavano inerme col volto devastato da schiaffi e pugni: «Cercavo di mantenermi sana di mente, mentre gestivo la sua follia». Ancora oggi la Turner ha dei flashback, a volte dei veri e propri incubi mentre dorme: «E' come se fosse lì, riesco a rivedere esattamente quelle scene». Un vissuto turbolento che con gli anni ha provocato gli esordi e poi la cronicizzazione della sindrome da stress post-traumatico (in inglese con la sigla PTSD). Come se non bastasse, in anni più recenti l'agguato di diverse malattie, tra cui un colpo apoplettico nel 2013 seguito da un cancro all'intestino tre anni dopo. Il successo però ha iniziato a chiedere un conto salatissimo alla star già dai primi anni di carriera, con uno stato depressivo che la portò a ingerire 50 pillole di sonnifero tentando il suicidio proprio prima di un concerto. Dopo alti e bassi, il buddismo le è accorso in aiuto. «Il buddismo mi ha trovato. L'abuso che ho subito nei miei 20 e 30 anni era diventato ovvio per le persone intorno a me, e in momenti diversi molti di loro mi hanno suggerito di affidarmi a questa religione». La diva di "Private Dancer", l'album del 1984 che la portò al successo internazionale, ha quindi trovato l'agognata serenità. Forse, dicendo addio alle scene sarà un po' come tornare bambina, cancellando tutto il marcio che il potere le ha "regalato". Adesso è felicemente sposata con Erwin Bach, che le ha donato un rene durante un intervento a seguito del tumore, e la vita di discriminazione, violenze, abusi e tradimenti è diventata solo un brutto incubo, pronto però a tornare troppo spesso.

Matteo Persivale per corriere.it il 26 aprile 2021. «Vivevo una vita fatta di morte». La voce di Tina Turner arriva dal passato remoto della sua vita straordinaria, da un vecchio nastro magnetico con il fruscio di sottofondo del registratore impolverato, il tasto «play» sbiadito. Autunno 1981. Tina decide di raccontare alla rivista People, cinque anni dopo la separazione, perché ha lasciato il marito Ike, suo mentore, collaboratore e talent scout. Racconta, al giornalista che registra incredulo - «doveva essere un’intervista come le altre, niente di speciale» - le botte, le intimidazioni, la paura costante, i pestaggi continui - in tour, in macchina, a casa - gli occhi neri, i tentativi di suicidio per cercare di uscire da quella vita impossibile.

L’orrore. Riascoltati oggi, tanti anni dopo, quei nastri fanno ancora orrore e sono alla base del documentario, Tina, mandato in onda dalla Hbo negli Stati Uniti con successo tanto clamoroso quanto imprevisto (ma lei, che oggi ha 81 anni, ha passato la vita a stupire chi la sottovalutava). L’unica cosa che impressiona più delle vecchie registrazioni? L’intervista in video del 2019 nella quale Tina racconta ancora una volta la storia dei pestaggi ma aggiungendo dettagli in più, quasi in modo clinico, come se parlasse di un’altra. Ike che impugna le forme di legno delle scarpe o le grucce dell’armadio, la pesta, la butta sul letto, «e poi mi prendeva», gonfia e sanguinante. Lei che finalmente decide di scappare dopo il pestaggio di Dallas, 3 luglio 1976, punita con un manrovescio per aver rifiutato un cioccolatino ciancicato. Tina che si ribella per la prima volta, attraversa la superstrada a piedi («Ricordo il boato dei clacson di quei tir enormi») e si rifugia senza soldi nell’albergo di fronte: «Ho solo la carta a punti del benzinaio, se mi date una camera per questa notte vi manderò i soldi appena arrivo a casa».

La fuga. La fuga, la libertà, «mi sono accorta solo in aeroporto che era il 4 luglio». La festa dell’indipendenza. Tina è una storia di fantasmi e di abbandoni, triste e bellissima, la storia del trionfo sulla povertà, sulla paura, sulla violenza e sulla malattia. Non racconta solo una vicenda di abusi perché ridurrebbe una carriera unica a un semplice spot - sempre necessario, peraltro, purtroppo - sulla piaga delle violenze domestiche. I registi, Daniel Lindsay e T.J. Martin, premi Oscar per un documentario del 2011 su una squadra di liceo che passa dalle sconfitte a ripetizione alla vittoria, non fanno sconti a nessuno ma non sono interessati a tenere comizi: sarebbe semplice dipingere Tina come l’agnello sacrificale di un mediocre, invece raccontano Ike Turner per quello che era, non un semplice mostro di crudeltà ma anche un uomo di genio, un musicista di classe assoluta ( Rocket 88, del 1951, è secondo molti storici della musica la prima canzone rock’n’roll), che ha il posto che merita (fedina penale a parte) nella Hall of Fame del rock.

La ragazzina timida. Lindsay e Martin ci portano con loro nella macchina del tempo: Ike nel 1957 dopo un concerto porge il microfono a una ragazzina che è andata a ascoltarlo in un locale, Anna Mae Bullock (va ancora a scuola), e lui capisce tutto al primo acuto. Nelle foto di allora non vediamo ancora la meravigliosa tigre del palcoscenico dei decenni successivi. C’è soltanto una ragazzina timida con la frangetta tagliata dritta e il maglioncino. Però Ike sente quella voce. Così la veste - abitini stretti e pellicce - le cambia il look e anche il nome, Tina per assonanza con un personaggio della tv in bianco e nero di allora, Sheena la regina della giungla, perché Ike capisce che una tigre deve avere un nome così, Anna Mae andava bene per cantare il gospel nella chiesa battista e per raccogliere il cotone nella natìa Nutbush Tennessee, 250 abitanti. Proprio a Nutbush assistiamo alla prima delle numerose sconfitte (temporanee) della invincibile Tina: prima scappa il padre, stufo del lavoro massacrante nei campi, poi la madre, lasciandola ancora bambina a cavarsela da sola (la ospiteranno dei cugini). Ike le dà una famiglia (lui aveva due figli dalla prima moglie, lei ragazza madre uno), le dà un figlio, un nome e una carriera: poi però le chiede in cambio tutto il resto, i soldi (controllava tutto lui, lei non aveva letteralmente nulla), la sua dignità, la libertà artistica. La vita.

La libertà. Lei nel 1966 cerca di affrancarsi incidendo River Deep - Mountain High con Phil Spector, il genio del «muro del suono», altro uomo mostruoso (morto in carcere dopo una condanna per omicidio, sparò in testa a una ragazza conosciuta in un locale) ma dal talento senza limiti, Spector le dice «non cantare solo la melodia» e le regala per la prima volta, finalmente, libertà, pagando Ike per stare fuori dalla sala di registrazione (peraltro Spector ai funerali di Ike, 2007, insulterà Tina in un’orazione funebre meschina e crudele: la sua tesi è che Ike avrebbe potuto scegliere una fan a caso e trasformarla in Tina Turner). River Deep - Mountain High per George Harrison era «un disco perfetto» ma inizialmente va male negli Usa perché era troppo avanti (in Italia ne fece una cover Iva Zanicchi ma questo purtroppo nel film non c’è), Spector perde molti soldi e Tina incassa la prima sconfitta senza Ike al suo fianco - e i registi vanno a recuperare un filmato del marito con ciuffo impomatato e baffetti che gongola, «era un disco troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri», mentre a lei che finge di succhiare una caramella vengono i lucciconi. Il colpo da maestro degli autori di Tina è l’aver trovato, qualche anno fa, la vecchia casa dei Turner a Los Angeles ancora intatta, vuota, disabitata in attesa di compratori ma con le finiture intatte, i divani e le tende in velluto rosso pompeiano stile pappone anni 70, il boudoir, il bagno acquamarina, il letto circolare. La casa dei fantasmi percorsa lentamente dalla macchina da presa mentre ascoltiamo i figli raccontare quello che succedeva dietro la porta della camera da letto, le urla durante i pestaggi e le violenze, le lacrime, le rassicurazioni desolanti ai bambini che chiamano la mamma: «Va tutto bene amore non preoccuparti, torna in camera tua».

La ripartenza. I primi anni di Tina senza Ike - lei gli lascia tutto, diritti sulle canzoni, casa, soldi e macchine, chiede solo al giudice i diritti sull’utilizzo del nome «Tina Turner», «voglio solo la pace» - sono difficili, economicamente e artisticamente. Concerti dove capita, la diva diventata supporter finita a cantare nei casinò, comparsate ai quiz televisivi per ex celebrità bollite dove a Tina - bella come il sole - il conduttore con cravattone e giacca inamidata chiede viscido «dov’è Ike?» e lei risponde «non lo so», sorridendo, nella voce il dolore di colei che capisce che non si libererà mai del suo aguzzino. Il buddhismo la aiuta a ritrovare equilibrio - ascoltiamo anche il suo mantra, ipnotico, affascinante - e lei continua a studiare ballo, nuove coreografie, migliora la tecnica perché «non credevo di avere una bella voce, non avevo la voce di Diana Ross», e il trionfo di Tina Turner è anche il trionfo di una voce da mezzosoprano per niente classica, non la più agile né la più bella né la più cristallina, ma la più indimenticabile.

Il sogno. Un giovanissimo impresario australiano va a vederla in un night, lei che potrebbe essere sua madre canta mentre la gente sta cenando. Una delle più grandi artiste musicali del dopoguerra canta cercando di sovrastare il rumore di posate e chiacchiere, lui dopo, forse per gentilezza, le chiede quale sia il suo obiettivo e lei risponde sicura «riempire gli stadi» come Mick Jagger al quale aveva insegnato a ballare tanti anni prima, una frase che adesso suona come la profezia che è stata in realtà ma allora deve essere sembrata il sogno impossibile e un po’ patetico di una cantante ultraquarantenne passata dal successo discografico anni 60 ai piano bar del 1980. Invece Tina si trasferisce a Londra, «tanto non avevo amici in America quando stavo con Ike», il tempo passa, l’impresario tenta il tutto per tutto e le presenta un tizio che ha scritto una canzone. «Entro in studio e c’è questo omino seduto su una sedia, con i piedi che non toccano terra, e penso: chi è, uno gnomo?». L’omino, però, ha scritto una canzone che si chiama What’s Love Got to Do with I t. E qui Tina diventa la storia della vittoria contro tutti: i milioni di copie vendute dal disco del ritorno di Tina sul suo trono, Private Dancer. I concerti, la pioggia di Grammy, il tour senza fine che riempie gli stadi come aveva previsto lei anni prima in quel night che sapeva di cucina e sigarette, Rock in Rio e 180 mila persone che la acclamano, lei che scende dal cielo su un enorme braccio meccanico e scavalca la rete di sicurezza per sporgersi, perché tanto non ha paura più di niente. La fama globale mentre Ike musicalmente scompare, la ricchezza, la lunga solitudine che viene spazzata via nel 1986 da quello che dopo decenni di amore diventerà il suo secondo marito, il manager discografico Erwin Bach, tedesco, 17 anni più giovane ma sembrano 27, pare un ragazzino ma è l’uomo al mondo più diverso da Ike: educatissimo, premuroso gentleman che le apre sempre la porta, assoluta discrezione (finiranno a vivere in una bella villa lacustre in Svizzera, lei ha anche preso la cittadinanza), profilo bassissimo, indipendenza («Per splendere non ha bisogno di togliermi luce», spiega Tina, ultima stoccata per il fantasma di Ike). Nell’ultimo atto del documentario Bach è il quieto supereroe che risolleva non solo l’umore di Tina, a quel punto nel 1986 vincente ma sola: salva anche la reputazione del genere maschile dopo la parata di uomini osceni - il padre di Tina, Ike, Spector - che si avvicendano nel film. Bach, quando Tina ormai anziana si ammala gravemente, le dona un rene salvandola dalla condanna alla dialisi e confermando ancora una volta tutto quello che lei aveva sempre pensato di lui: «Mi ha insegnato cos’è l’amore». Prima dei titoli di coda c’è tempo per l’epilogo con il musical sulla vita di Tina che trionfa a Londra nel West End, poi a Broadway, e qui i registi trattano con infinito rispetto il passo non più spedito di Tina quando arriva alla prima, al braccio del marito non più ragazzino ma bel signore ultrasessantenne. La tigre si risveglia però dietro le quinte: quando la protagonista la invita in scena, Tina entra con la grinta dei bei tempi, illuminata dai riflettori, avvolta da un uragano di applausi che sembra non finire mai.

·        Tinì Cansino.

Francesca Simone per comingsoon.it il 14 giugno 2021. Tinì Cansino, all'anagrafe Photina Lappa, nasce a Volos, in Grecia, nel 1959; oggi ha quindi 62 anni. Studia danza classica nel suo paese d'origine, e, quando ha 19 anni, in occasione di una vacanza in Italia, viene notata un manager il quale la lancia nel mondo dello spettacolo. La giovane Cansino debutta in televisione con Playgirl, ma raggiunge il successo soltanto nel 1983, quando ha 24 anni, vestendo i panni della "ragazza fast food" nella celebre trasmissione Drive In. Dal 2012 è al fianco di Tina Cipollari e Gianni Sperti: anche lei è un'opinionista di Uomini e Donne. Qui, Tinì, pur esponendosi di rado, a differenza della collega, si distingue per i toni pacati, tanto che non giudica mai superficialmente i protagonisti del programma, bensì prova sempre ad analizzarli, e così a giustificarli. In più, nota è la sua passione per l'astrologia. Tutto ciò, però, la maggior parte delle persone già lo sa. Proviamo invece a scoprire qualcosa in più sulla donna, proprio attraverso le sue stesse parole.

In Grecia, dove sono cresciuta, ci sono tanti miti, favole e racconti, che ho tanto amato. Da quando sono in in Italia e ho scoperto le fiabe internazionali, ho un debole per Cenerentola. L'ho letta e riletta con i miei figli. Mi piacciono tanto le favole perché sono fantastiche e insegnano ai bambini a vedere altre realtà. Ma aiutano anche noi adulti a vedere altre cose rispetto all'orizzonte che conosciamo. Ci portano in mondi surreali e ci aiutano a sognare, a vedere la vita in un modo diverso. Io credo ai sogni che diventano realtà, proprio come Cenerentola. Ho amato molto anche La Sirenetta, Pinocchio e Alice nel paese delle meraviglie. 

La canzone che meglio la rappresenta, invece, quale è?

Non c'è una canzone sola che parla di me. In fondo sono molto greca e direi che nel mio cuore ci sono tutte le canzoni greche, che ascolto spesso grazie a Internet. Tante di quelle canzoni le sento mie; raccontano come una donna greca o un uomo vivono la propria esistenza, la propria filosofia di vita. Parlano di amore, di emozioni, sono un incentivo ad amare sempre di più. Consigliano di continuare a crederci anche dopo le delusioni. Anche perché quando c'è un finale, c'è anche un grande inizio. 

Se la Cansino fosse un animale, allora, senza alcun dubbio, sarebbe un felino:

Sarei una pantera nera... nera nera nera! 

Il momento più bello della sua vita?

Ce ne sono stati tantissimi. Posso raccontarne alcuni, come la nascita dei miei tre figli, l'attimo in cui sono venuti al mondo. Tre momenti indimenticabili. E poi... ogni volta che sono innamorata, felice. Ecco perché cerco di esserlo sempre! Oppure quando sono con i miei amici... la vita è costellata di emozioni stupende.

Per finire, l'opinionista torna a parlare della sua amata terra d'origine, di cui sente fortemente la mancanza. Infatti, quando le viene chiesto quale sia il posto che preferisce nell'intero universo, lei afferma: La mia Grecia e le sue isole. Io potrei vivere lì... ma ho fatto una scelta di vita diversa, legandomi all'Italia. Qui ho costruito la mia esistenza, mi sono sentita accolta, mi sono sentita a casa. Ma dentro di me c'è anche un'altra casa e ci sarà per sempre. Amo la Grecia, la luce, il caldo, i venti bollenti, le spiagge. è il posto più bello del mondo e spero anche nella prossima vita di rinascere lì; quella terra scorre nel mio sangue, la sento sulla pelle. La porto nel cuore. Allo stesso tempo penso sia importante conoscere il resto del mondo, vedere, scoprire. Ma, tornando alla domanda delle favole, la mia favola sarebbe questa: essere di nuovo di lì.

·        Tinto Brass.

ROBERTA SCORRANESE per il Corriere della Sera il 5 dicembre 2021. La casa, alle porte di Roma, zona La Storta, è un santuario pagano: c'è l'altare dedicato a Priapo, un tavolo con un enorme fallo in cartapesta, e ci sono le icone apollinee, nudi maschili e femminili. Il nudo più bello ha un altarino a sé: è quello di Caterina Varzi, la giovane moglie di Tinto Brass, e la foto incorniciata troneggia davanti al divano dove il regista non si stacca dal suo sigaro.

Ottantott' anni, salute malferma. Il dottore che dice?

«Può dire quello che vuole, io non lo ascolto». 

Il lungo corpo a corpo con la censura, che ha tagliuzzato quasi tutti i suoi film, l'ha allenata a fare di testa sua?

«Lo sa come mi diverto oggi? Cerco i canali tv che di notte passano i miei lavori e mi incazzo ogni volta che vedo una scena massacrata». 

Con Caterina Varzi lei si è «messo a nudo» nell'autobiografia appena pubblicata da Marsilio.

«Avevo fretta di farla uscire. Sono vecchio, potrei andarmene da un momento all'altro. Undici anni fa un'emorragia cerebrale mi tolse memoria e parola. Mi ha salvato Caterina: la sera si spogliava davanti a me. La guardavo, mi eccitavo e così ho ritrovato la voglia di vivere».

Ma tutto in lei parla di vita. A cominciare dal nome, Tinto, che viene da Tintoretto, il pittore della luce.

«Mi chiamo Giovanni ma avevo un nonno pittore famoso, Italico. Negli anni aveva raccolto una bella collezione d'arte a Venezia. Sono cresciuto guardando le forme delle donne di Tintoretto e mi hanno dato il suo nome perché amavo quell'artista. Ma anche i seni dipinti da Tiziano». 

 Però ci sono dei film, come «Salon Kitty», nei quali Eros danza con Thanatos.

«In quel film denuncio la violenza nazista. E mentre lo stavo girando mi giunse la notizia che mio padre era morto. Lui era stato fascista e per tutta la vita io ho usato il sesso come strumento per liberarmi da quel senso di oppressione che respiravo in famiglia». 

Borghesia vissuta a Venezia anche se lei è nato a Milano...

«Con mio padre litigavo ma poi, di nascosto, andavo a sentirlo arringare in tribunale, era un famoso avvocato. Con mia madre no, non ci siamo mai capiti. Mi giudicava, disprezzava la mia indole carnale, era dura e fredda. Una volta venne sul set de La chiave. 

Non battè ciglio, ma alla fine mi disse: "Bene, ce l'hai fatta, sei diventato un regista. Adesso per favore metti la testa a posto e comincia a fare l'avvocato". A lei non penso mai, però il fatto di non essermi riconciliato con mio padre oggi è il più grande rimpianto». 

Lei da ragazzo frequentava i bordelli quasi ogni giorno.

«Le ragazze le portavo fuori, le amavo in barca. Ancora oggi io ho continue visioni erotiche. Ricordo un amore consumato nei pressi del manicomio di San Servolo. Assorbivo tutto: la carnalità delle donne nei racconti veneziani, l'odore del mare, gli amori di Casanova, la letteratura licenziosa. Ecco perché ancora oggi alcuni miei film danno fastidio. Che cosa c'è di più dirompente dell'eros?».

Eppure oggi la violenza al cinema viene tollerata, l'eros no, almeno nelle opere nazional-popolari.

«L'eros spaventa il potere, perché è soprattutto fantasia e quella non la puoi arginare. È sovversivo. Intellettuali come Fellini o Moravia l'avevano capito e io sono stato un loro grande amico. Andavo spesso a casa di Alberto. C'era Dacia Maraini, bellissima. Sì, be', ho provato a corteggiarla ma lei mi gelava con lo sguardo». 

Silvana Mangano, invece, rispose.

«Un sentimento molto speciale, durato quasi tutta la vita. Io me la ricordavo bellissima nelle braghe corte da mondina in Riso amaro, ma poi cercarono di "ripulirla" facendone una diva sofisticata e fredda. La volli nel mio film Il disco volante. Le feci fare la parte di una donna del popolo, la vidi rifiorire». 

Lei ha conosciuto Sartre. Che cosa vi siete detti?

«Abbiamo parlato di cinema, di eros, di libertà. Ho incontrato anche Bertrand Russell. Quando uscì il mio primo film, In capo al mondo, in sala c'era Ungaretti». 

È vero che lei avrebbe dovuto essere il regista di «Arancia Meccanica»?

«Certo. Andai in America, tutto era pronto ma dissi che prima volevo finire L'Urlo». 

Lei ha lavorato con tante donne. Che rapporti ha e ha avuto con Sandrelli e le altre?

«Quando si vide per la prima volta ne La chiave Stefania Sandrelli uscì dal cinema senza dire una parola, ma poi spese parole bellissime per il film. Con Anna Ammirati («Monella», ndr ) l'anno scorso abbiamo fatto Pasqua assieme. Koll non l'ho più sentita».

Le donne più importanti?

«Tinta, mia moglie morta anni fa è stata un cardine. Oggi però senza Caterina sarei finito: lei si dedica a me, cura l'archivio, per me è tutto. Ma vorrei ricordare anche l'avvocato Rita Rossi. Sa, uno come me è sempre in mezzo a questioni legali. E meno male che anche io sono laureato in legge». 

Tinto, sia sincero: che cosa le manca oggi?

«Non poter più fare l'amore due o tre volte per notte». 

Annamaria Piacentini per “Libero quotidiano” il 15 febbraio 2021. Sesso e volentieri. Questo è sempre stato il pensiero del regista dell'Eros Tinto Brass, milanese, 89 anni, 30 film girati e 29 censurati. Ma nel 2013 con La vacanza al festival di Venezia ha preso il premio della critica: «Amo l'amore, non la violenza», si è sempre giustificato. Sposato con la bellissima Caterina Varzi, psicoterapeuta e avvocato, a gennaio è stato cinque giorni al pronto soccorso per un'ischemia, dove non poteva entrare nessuno causa Covid. Così, Caterina si è attivata, e con l'avvocato Rita Rossi ha scritto una lettera alla direzione che ha mandato il regista al reparto Scompensi cardiaci. Ed eccolo qui Tinto, è tornato nella sua casa più in forma che mai.

Maestro Brass, pensa ancora all' amore?

«Sì, certo, lo confesso. Non voglio sembrare un vecchio patetico, ma ho immagini erotiche di giorno e di notte. Nella mia mente, spesso rivedo le scene dei miei film».

L' erotismo è solo nella sua mente?

«Non solo. Ho ripreso a parlare e a convivere con l' amore, l' erotismo aiuta a superare ogni cosa, e per me, continua ad essere una parte vitale delle mie giornate».

Gli anni passano ma parlare di sesso suscita sempre delle illazioni. Eppure, per vedere i suoi film, davanti ai cinema c' è sempre stata la fila. Quindi, siamo tutti bigotti?

«È ipocrisia. A queste persone consiglio di vivere con la libertà di pensiero come segno di ribellione alle tradizioni ammuffite che costringono a una vita senza sogni. Date un taglio a una mentalità che non vi dà nulla in cambio».

Nei suoi film ha raccontato ogni sfaccettatura dell' omosessualità: giusto?

«Sì, anche se siamo tornati indietro nel tempo, quando la parola omosessuale non si poteva pronunciare. Mi ha colpito la notizia lanciata da una Asl che considera l' omosessualità tra le cause che potrebbero favorire il Covid. In Cina sono diventato l' icona dell' omosessualità maschile a causa del continuo uso dei falli in alcune scene dei miei film. Una volta Moretti nel ricordare questa cosa mi disse: "Tinto, da Maestro dell' eros sei diventato un' icona gay". Bene, pensai, ma ho anche firmato la bellezza femminile dei paesi orientali, staccandomi dalla morale corrente».

Se parliamo di morale, possiamo anche toccare la politica, non le pare?

«Non penso che tutto questo movimento porterà ad un cambiamento importante. Draghi non ha la bacchetta magica per risolvere la crisi economica e sanitaria del nostro Paese in poco tempo. Sarà costretto a governare con una maggioranza risicata. Io ragiono per immagini».

E cosa vede?

«Questa crisi di governo è stata la rappresentazione più grottesca di una politica fatta da molti cialtroni che si sono attaccati a Draghi per prenotarsi una poltrona. Ciò consentirà alla Destra di rafforzarsi, mentre la Sinistra dovrà rassegnarsi, sarà penalizzata».

A proposito di cialtroni, ha dichiarato: meglio un culo, che una faccia da culo. Oggi, di chi potrebbe essere quella faccia?

«Considerando come sono andate le cose, ci sono tante facce di...».

Perché non fa un film a tema?

«Ci sto pensando. Al momento mi diverte l' idea di un simpatico produttore napoletano che mi ha offerto di girare Vertigini da remoto, così non mi stanco. Ma ho in mente una storia che mi interessa».

Quale?

«Sul sistema denunciato da Palamara per scoraggiare le complesse dinamiche tra potere politico e magistratura. Un argomento che mi ha colpito dopo le recenti dichiarazioni di mia moglie sulle molestie subite, negli anni '90 da un giudice in un tribunale di Catanzaro dove esercitava la professione di avvocato. È andata per una pratica di lavoro, dopo aver preso un appuntamento, lui l' ha fatta entrare e poi ha chiuso la porta a chiave per tentare un approccio. Caterina è riuscita a fuggire».

Prima di chiudere un saluto a chi?

«Al direttore Feltri, un uomo che stimo a cui auguro ardore e gioia di vivere: Quis contra nos? (chi contro di noi?) è diventato anche il mio motto. Ma come diceva D' Annunzio: "la sorte mi ha fatto principe della giovinezza sulla fine della mia vita. Non è meraviglioso?"».

·        Tiziano Ferro.

Tiziano Ferro: «Vent’anni di casini, ma vent’anni veramente belli». Silvia Gianatti su Vanityfair.it. il 27/10/2021. In occasione del ventennale della pubblicazione di Rosso Relativo, il cantante celebra l’anniversario con i fan con una lunga diretta in cui racconta quelle 12 canzoni: da Xdono («la traccia che mi perseguiterà per tutta la vita») a Mai nata («da bambino mangiavo in maniera compulsiva, c’è stato un grande periodo di anoressia e di bulimia…»)

Primavera non è +

«Era la canzone con cui avrei voluto aprire il disco. La amavo, volevo fosse un singolo. Lo proposi come seguito dopo Xdono, ma non vinsi la battaglia, nessuno mi diede ragione». 

Il confine

«Si chiamava Fortunato, è una delle prime canzoni che ho scritto. Mi piaceva quel titolo, ma poi non aveva senso. Su questa le case discografiche mi diedero grandi due di picche, ma non mi fermai lì. Prendevo un treno ogni settimana e andavo a Firenze, a scrivere, a sognare, senza che ci fosse dubbio che avrei fatto il cantante. Tutti quei rifiuti sono stati utili, i concorsi senza le telecamere sono stati utili. Perché vittorie e sconfitte sono tutte tue». 

Boom Boom

«È un’altra delle prime che ho scritto senza sapere che avrei fatto un disco. Non trovavo le parole. Ho collaborato per la prima volta con un autore che era anche il mio produttore. Alberto Salerno scrisse il testo e me lo inviò via fax, era bello, ma l’inciso non volevo cambiarlo. Avevo scritto in inglese e volevo lasciarlo così». 

L’olimpiade

«Vinse il premio del secondo singolo. Io non ero d’accordo. Perché è stata la primissima canzone che avevo registrato e prodotto con Michele Canova nel 2000, quando ancora stavamo provando a fare dei demo. Era tra le prime che avevamo proposto e ci avevano detto tutti no. Avevo paura che dicessero no anche le persone. Non arrivò al numero 1 infatti. Ma è diventata un classico lo stesso e non ho mai smesso di farla dal vivo. Nella scaletta che avevo creato e che ora dovrò modificare in base alle nuove che arriveranno prima degli stadi, c’era e ci sarà, in una versione molto soul che fa paura!».

Soul-dier

«Soldato dell’anima, è una canzone gospel che scrissi in inglese. Provai a trascriverla in italiano, ma non trovavo modo. Ho chiamato il coro gospel con cui cantavo, i Big Soul Mama. Ho registrato questa canzone a Latina con loro. Averli è stato importante, sono stati un supporto morale e una grande scuola di canto. Quando la cantavo dal vivo, non so perché, immaginavo di cantarla con Alanis Morrisette».

Il bimbo dentro

«È un tatuaggio su di me. Chiude questo disco. La scrissi in una giornata di pioggia molto intensa. Ero in macchina, stavo guidando, pioveva così tanto che anche con i tergicristalli non vedevo quello che stava succedendo fuori. Allora mi fermai e arrivò questa melodia, la scrissi in macchina. Non è mai facile cantarla per me. Rimane una delle mie preferite».

Il suo primo album, quello da cui è iniziato tutto. A vent’anni dalla pubblicazione di Rosso Relativo, Tiziano Ferro celebra l’anniversario con una diretta Instagram con i suoi fan raccontando le canzoni, traccia per traccia. Un’ora e dieci di parole e musica, ride felice, annuncia il prossimo album di inediti in cantiere «anche se non lo potrei dire», mostra il nuovo taglio di capelli, invita ai suoi concerti del 2023 e spiega perché li ha rimandati «Quando si è trattato di spostare il tour non me la sono sentita di obbligare le persone a trattenere i biglietti per anni. Non critico chi lo ha fatto, ma preferisco aver dato un rimborso a chi voleva indietro i soldi. Il tour ci sarà nel 2023. Sto scrivendo la scaletta, sarà un delirio». Racconta anche di aver avuto il Covid «È stato orrendo. Non sono finito in ospedale ma è durato più di un mese. Sto meglio ma mi manca ancora il senso dell’olfatto. Il gusto non è ancora tornato del tutto. La pizza non sa ancora di pizza». E soprattutto parla di Rosso Relativo – Anniversary edition (Carosello Records, distribuzione Universal Music): due cofanetti speciali, uno in vinile in uscita il 29 ottobre e l’altro in CD e in digitale il 5 novembre. All'interno la riedizione dell’album italiano e la sua versione spagnola Rojo Relativo ma anche le versioni internazionali dei brani di maggior successo dell’album, un singolare out-take della sua primissima incisione e alcuni remix. 

In pochi secondi ci sono 8000 persone collegate. Sono in tanti ad aspettarlo, dall’Italia, dall’America Latina, dalla Spagna, ma anche Francia e Germania. Tiziano parla al mondo in italiano, spagnolo, inglese. Alterna le tre lingue per coinvolgere tutti e racconta le sue canzoni. «Siamo qui per un motivo molto importante, sono vent’anni di carriera. Xdono è uscito a giugno ma oggi i vent’anni li compie Rosso Relativo. Siamo qui a fargli gli auguri. Non ci posso credere». 

Il cantautore di Latina ripercorre i suoi inizi, quando tentava la fortuna tramite il concorso di Accademia Sanremo, quando bussava alle porte dei discografici «ma mi dicevano tutti no», anche dopo l’incontro con Mara Maionchi e Alberto Salerno che avevano visto in lui qualcosa in cui credere. «Stavo già lavorando con Michele Canova dal 2000, le canzoni erano lì, ma non le voleva nessuno. Fu Fabrizio Giannini, che oggi è il mio manager, a firmare il mio primo singolo. Ma solo quello. Avrei fatto un album solo se avesse funzionato». Funzionò. Il 26 ottobre 2001 Rosso Relativo uscì nei negozi e fu un album d’esordio da record: pubblicato in 42 nazioni, oltre 2,5 milioni di copie vendute, restò in top10 per oltre 7 mesi, ottenendo 7 dischi di platino tra Italia, Messico, Spagna e Svizzera e 3 dischi d’oro tra Belgio, Francia e Turchia.

«Da una parte mi vedo ancora un esordiente, dall’altra mi sembra ieri. Sono canzoni fatte quando avevo quindici, sedici, diciotto, vent’anni, le ho pubblicate senza sapere che sarebbero diventate le canzoni del mio primo disco». Tiziano Ferro le racconta traccia per traccia e festeggia, canta, accende una candelina e si commuove, rimandando al prossimo abbraccio, certo che ci sarà. «Grazie», dice «Sono vent’anni e un sacco di casini. Ma vent’anni veramente belli». 

Le cose che non dici

«Volevo che la prima traccia fosse un’altra, ma il primo pezzo fu questo. Voglio molto bene a questa canzone. Allora il suo linguaggio risultava eccessivo. Parlo di compensazione col cibo, con l’alcol, parlo di sesso promiscuo, per riempire i vuoti. La mia mente veniva rapita da queste ossessioni».

Rosso relativo

«È una canzone che uscì come un proiettile. Alberto e Mara mi regalarono un multitraccia con un minidisc, facevo i miei provini e con un giro di basso uscì la prima strofa. Usai il nome “Paola” perché era, ed è, mia cugina e la mia migliore amica, con la quale andavo in giro. Facevamo casino. Ricordo che non trovavo l’inciso. Ero a Latina, stavo guidando con la mia macchina. Città deserta, il semaforo era rosso, le dico “Paola io passo, è rosso ma… è un rosso relativo”. Cercando l’inciso, mi tornò in mente quello che avevo detto e provai. Ma cosa voleva dire “rosso relativo” in questa canzone? Ho creato un brano che parla del trend delle chat delle donne e degli uomini che andavano in rete a cercare amore. Questa canzone mi ha portato in giro per il mondo, mi ha aperto le porte che mi hanno cambiato la vita. Ho iniziato a cantare in spagnolo, quando ancora non lo parlavo. Avevo un maestro che mi insegnava la pronuncia, ma decisi subito di volerlo imparare».

Xdono

«La traccia che mi perseguiterà per tutta la vita, in tutto il mondo. La canzone con la X, che ha cambiato davvero la mia vita. Ha segnato un prima e un dopo. L’ho scritta in dieci minuti su una panchina della mia città. Sono passato da un senso di frustrazione molto grande a svegliarmi alla mattina e guardare camera mia dicendo “faccio il cantante”, almeno per oggi. Non sapevo se quella sarebbe rimasta l’unica esperienza. Questa è la canzone che mi ha fatto viaggiare in tutta Europa. Non mi stanco mai di cantarla».

Imbranato

«La prima canzone lenta che ho fatto uscire. È stato il mio terzo singolo ma anche la mia prima volta in una canzone lenta. Oggi sorrido perché invece le persone mi legano al repertorio più passionale. Ha cambiato la percezione che io avevo del mio mestiere e le persone di me. Mostravo un lato diverso. In Brasile, legata a una produzione televisiva, è forse la canzone per cui mi conoscono di più». 

Di più

«Ha una storia particolare. Dopo Xdono che era stato un grande successo non sapevamo quale brano usare come secondo singolo. Questo avrebbe potuto, ma non è mai diventato singolo. L’ho cantato il più possibile dal vivo».

Mai nata

«È importante, l’ho scritta una notte, senza sapere che avrei fatto un disco. È questo il bello del primo disco, scrivi canzoni senza sapere che fine faranno. Parla di disturbi alimentari, argomento di cui parlo spesso nelle interviste, l'ho fatto anche nel mio documentario. Ne parlo spesso, ma mai approfonditamente perché a volte si rischia l’effetto contrario, può portare a entrare in gara chi ne soffre. È un tema che va trattato con grande distacco perché è complicatissimo affrontarlo. Mai nata è la mia fotografia. Non sono un dottore né uno psicologo, però ho sempre pensato che il disturbo alimentare sia parte del dna di chi lo prova e, anche quando migliori al massimo, è difficile uscire da quella mentalità. Da bambino mangiavo in maniera compulsiva, c’è stato un grande periodo di anoressia e di bulimia… Ora le cose migliorano ma non credo si possano mai davvero risolvere. Riguardare oggi le foto promo di quel periodo mi fa ricordare che non solo pensavo di essere disgustoso, ma anche che nessuno intorno a me mi diceva nulla. Nessun pensava fosse un problema essere troppo magro. Stiamo attenti a parlarne. Il passaggio tra educazione e incitazione è molto sottile».

·        Tommaso Paradiso.

Riccardo Caponetti per roma.repubblica.it il 28 dicembre 2021. Paradiso, in ottica dell'uscita del nuovo album 'Space Cowboy' il 4 marzo, aveva programmato degli eventi speciali, due concerti gratis riservati a dei fan privilegiati: il 21 gennaio a Milano e il 23 gennaio a Roma, a Largo Venue. Nei giorni scorsi erano state aperte le prenotazioni, ma ora l'appuntamento rischia di saltare: "Mi scrivete tutti che siete preoccupati per i concerti, figuratevi io amici. Ho anche sentito personalmente autorità competenti ma le risposte che ci danno fanno più aria del vento. L'importante (per loro) è che il calcio vada avanti, della musica....sticavoli. Tanto la faccia ce la mettiamo noi. Fosse per me - conclude Tommaso Paradiso - verrei a cantare a casa". Lui era uno degli artisti (insieme a Blanco e Coez) che aveva dato disponibilità al comune di Roma per partecipare al concerto al Circo Massimo il 31 notte, a Capodanno: appuntamento che però è stato annullato a causa della situazione pandemica. Motivo per cui sono state  posticipate tante altre date dei tour, come quello di Gazzelle al Palazzo dello Sport (dal 21 gennaio al 30 maggio). "Avete presente amici quella famosa scena in cui la povera signora Pina risponde al telefono un istante prima di Italia-Inghilterra con quella semplice parola: "Obbediamo". Sintetizza la tragica condizione umana. Siamo piccoli piccoli. Però a un certo punto anche Fantozzi si incazza"

SIMONETTA SCIANDIVASCI PER SPECCHIO – LA STAMPA il 24 dicembre 2021. Tommaso Paradiso si firma così: Tommy, fiore. Il fiore, naturalmente, lo disegna, come abbiamo fatto tutti (quasi tutti?) da ragazzini, sui diari, sui muri e, quando proprio volevamo dar fuoco alle polveri e segnalare sprezzo del canone, sui temi in classe. Mettevamo un cuore, un fiore, un bacino e una serie di altre cose che, adesso, ci imbarazzano anche solo a guardarle, o a dirle.

Lui, invece, non arrossisce mai: esagera, esplode, crede davvero che l'amore è ciò che conta e ciò che salva, fa grandi dichiarazioni ai suoi amici su Instagram e riesce a cantare, con convinzione, o urlando o sussurrando, che la Corea del Nord non potrà fermare tutto questo, e Mannaggia alla Befana, e Ti mando un vocale di dieci minuti soltanto per dirti quanto sono felice, e Non avere paura mi prenderò cura io di te. E' uno di quelli che fa urlare o sussurrare chi lo ascolta, uno di quelli - e sono pochi - che sanno infilare, in una canzone, un "fanculo" che suona come un "ti amo". Non cambia mai: se ne sta dove gli piace stare, incastrato nella nostalgia.

Anche il futuro, che gli piace, lo immagina come lo immaginavamo negli anni Ottanta e Novanta: un mondo di Peugeot volanti, robot amichevoli, marziani conviviali e verdi. All'inizio della sua carriera, quando era il frontman dei The Giornalisti, era uno da golfino sulle spalle e aperitivo in barca, uno da Roma Nord, e gli veniva rimproverato tutto, perché lui incarnava la transizione dell'indie rock verso il pop, il cedimento al mainstream di una scena che aveva cominciato a produrre Calcutta, Motta, Brunori Sas: cantautori che la musica indipendente avevano cominciato a portarla fuori dagli scantinati, pur restando piuttosto fedeli all'immaginario indipendente (indie). Lui, invece, di scantinati, ribellismo posticcio, chiodi, underground e altri libertini non ha mai portato le tracce: è uno che è a suo agio in smoking, sul palco di Sanremo, ed è a suo agio sui palchetti della Prenestina, e dietro i banconi dei bar di Prati.

Ai The Giornalisti è riuscito d'essere la sola band indie che non veniva da Roma est. A settembre di due anni fa, quando si sciolsero, Paradiso lo annunciò su Instagram, avvisando che l'indomani sarebbe uscita una canzone sua e soltanto sua, Non avere paura. Nelle stesse ore, ma proprio le stesse, Matteo Renzi annunciò la sua scissione dal Pd. Il Rolling Stone diffuse un meme con la faccia di Renzi al posta di quella di Tommy: sotto c'era scritto "The Scissionisti".

Naturalmente, Renzi twittò immediatamente che era una bellissima canzone e che era proprio vero: non bisognava avere paura. Torniamo al presente. Questa settimana è uscito il suo ultimo singolo, La stagione del cancro e del leone. Il 4 marzo (data sacra, data di Dalla!) uscirà il nuovo disco, Space Cowboy. Titolo ambizioso. Le daranno del presuntuoso. «Tutti pensano che lo sia perché hanno intercettato un riferimento al pezzo degli Jamiroquai, Space Cowboy, del 1994. In verità, e lo confesso ben sapendo che mi daranno dell'ignorante, non conoscevo quella canzone: io volevo semplicemente unire le mie più grandi passioni, anzi, le mie due ossessioni: lo spazio e i western. 

Starei ore a osservare le stelle, guardo e leggo compulsivamente tutto ciò che trovo sulla teoria delle stringhe, i buchi neri, Marte, la luna, la Nasa. Ho un amore identico per i cowboy e i film di Sergio Leone e Bud Spencer, che mi sembra che vivano in un mondo che è l'antispazio: la terra, il saloon, la transumanza, i cavalli. Sarei ben contento di andare dallo Yutah in Canada al seguito di una carovana». 

Forse è più facile fare del turismo spaziale: basta diventare miliardario.

«Sarebbe bello, invece, che tutti potessimo prendere un tram per Marte. Magari ci arriveremo: nell'America dell'Ottocento le piantagioni di granturco erano in mano agli straricchi.

Non mi scandalizzerei troppo. Piuttosto, non mi capacito di quanto minuscolo sia stato il progresso tecnologico: rispetto a quello che immaginavamo negli anni Novanta, la sola cosa che è cambiata e si è evoluta davvero sono i telefoni. Per il resto, se io ora mi affaccio alla finestra, vedo la stessa Panda che vedevo da piccolo. Abbiamo lo smartphone e possiamo usarlo per commentare cose che non capiamo: tutto qua. Non dico il teletrasporto, ma mi aspettavo almeno che, in questi anni, viaggiassimo su macchine volanti». 

La fissazione del trasporto le viene dal fatto che vive a Roma, dove muoversi è peggio che andare in guerra.

«Senta: io amo Roma. Quando la vedo soffrire, brucio dentro».

Si ricorda quando le davano del pariolino e del fighetto di Roma Nord?

«Che cazzata. Io sono nato a Rione Prati, che è il quartiere che è separato dal centro dal lungotevere. Ora, mentre parliamo, c'è un cielo incredibile. Se faccio una foto e gliela mando, lei sviene».

L'ha vista la serie di Zerocalcare?

«No. Ho perso portafogli mentre passeggiavo a Villa borghese, e allora ho bloccato le carte e ho dovuto rifare tutti gli account delle piattoforme. Recupererò presto».

Ha sentito la polemica sul romanesco di Zerocalcare?

«Ancora? Ma non ci rompete li cojoni! Con questa storia hanno crocifisso Carlo Verdone, Lucio Battisti, Alberto Sordi. La verità è che i polemisti attaccano su qualsiasi inezia finché un artista non muore: soltanto allora, e nemmeno sempre, riconoscono che ha fatto qualcosa di buono. Prima dobbiamo morì». 

Lei ha paura della morte?

«No. Ho paura di ammalarmi e di soffrire».

Ha firmato per il referendum radicale sull'eutanasia?

«No».

Non pensa di avere poco tempo?

 «E perché dovrei? Sono molto geloso dell'ozio: per me una parte importante della vita va trascorsa senza fare niente. E so benissimo che è un lusso, che non tutti possono permetterselo: per questo esulto come alla finale dei mondiali quando posso stare a casa sul divano». 

Non capisco se lei è un filosofo o un bambino.

«Il mio professore di filosofia del liceo mi diceva che sarei stato o un buon filosofo o un buon musicista. Era un manicheo, un anti romantico». 

Lei, invece, è un esplosivo romantico.

«Io provo le stesse cose che provavo da piccolo, con la stessa intensità, i medesimi assoluti. Quegli stadi fagocitanti in cui venivamo inghiottiti da adolescenti, ecco, io li attraverso ancora. Di vivere una vita trattenuta non m' importa niente di niente e pazienza se fa male, se si dorme poco e si è sempre inquieti: è uno scotto che sono disposto a pagare, visto che in cambio ho la pienezza della vita». 

Lo spirito del tempo la condiziona, quando scrive?

«No. Quando scrivo una canzone, la scrivo per un'iniezione di sentimenti e realtà. Mi metto al pianoforte o alla chitarra (o al telefonino, se ho un testo) e butto giù quello che in quel momento ho dentro. Scrivo e basta: una canzone, se è buona, è buona sempre, travalica le mode. Se un messaggio è fedele e onesto, le persone lo capiscono, lo avvertono, e la canzone resta: dura. 

Dagli ultimi due anni e mezzo che tutti abbiamo passato insieme e separatamente, di certo non possono uscire cose del tutto slegate da una cosa tanto enorme e dolorosa. Io ho scritto canzoni che erano evasioni, e quindi voli, perché a volte il solo modo per non soccombere è immaginare, oppure canzoni che erano immersioni e, quindi, profondamente malinconiche. In entrambi i casi, ero condizionato dal presente in maniera piuttosto schiacciante. Nel mio disco convergono queste due attitudini: il pessimismo e la speranza». 

Nel suo nuovo singolo parla di fiori, cielo, messa e scuola che finiscono: un mondo che riapre, una splendida primavera di una vita molto semplice.

 «Se fossi Zuckerberg, probabilmente, vedrei il futuro in digitale, immaginerei l'essere umano, possibilmente felice, immerso nel metaverso. Ciascuno immagina il mondo che sarà in base alla sua educazione sentimentale, alla vita e al lavoro che fa.

La mia idea di futuro è più legata alle origini: per me la storia è ciclica e l'unica cosa che mi tiene attaccato a questo mondo è il fatto che siamo in universo composto di materia, di fiori, di alberi e di ossigeno. Il mondo è il creato e l'uomo ne fa parte. Durante la pandemia in molti hanno immaginato che ci saremmo spostati verso una digitalizzazione quasi totale delle nostre vite, ma moltissimi altri, invece, hanno riscoperto la terra, la natura, la socialità, l'umanità. Io ero e sono uno di loro: io mi nutro di contatto, non di contatti». 

Le piace la parola artigiano?

«È bellissima».

Lei lo è?

«Quando le canzoni sono buone, le scrivo in mente e mi figuro quale strumento dovrà suonare, quale pausa ci dovrà essere tra una nota e un'altra, quale sound dovrà avere il pezzo. Al pianoforte mi ci metto molto dopo, quando già canto tutto in testa». 

Finga di avere ottant' anni e di essere davanti a una platea di adolescenti ai quali deve raccontare chi è Tommaso Paradiso. Che dice?

«Prima di tutto, mi chiedo se quando avrò ottant' anni io, ci saranno dei ragazzini interessati a quello che faccio e ho fatto».

Non evada la domanda. «Direi: ascoltate le mie canzoni, io sono quello che ho scritto». Sarà sempre un musicista?

«La musica è la mia manifestazione, lo strumento che ho scelto per raccontare le cose che ho dentro. A una certa età, quando avrò finito le cose da dire (perché sì: le cose da dire, a un certo punto, finiscono), spero che avrò la decenza di ritirarmi. Però mi piacerebbe continuare a lavorare con la musica, dopo che con le parole avrò detto davvero tutto. Magari comincerò a fare solo musica da camera, colonne sonore: cosa che già amo e che mi rimettono al mondo».

C'è qualcosa che a un certo punto ha smesso di essere possibile, per lei?

«Tutto ciò che ho fatto nella mia vita non è stato dettato da nient' altro se non da un'esigenza. Penso a Inzaghi che va all'Inter e dopo alcuni anni si trasferisce alla Lazio perché capisce di non poter più dare niente. Ecco, quella è la mia idea di libertà: capire quando è il momento di prendere un'altra strada e prenderla davvero. Capire quando si deve respirare aria nuova e pura prima di poter cominciare e creare altro. Io, per scrivere, devo prima di tutto vivere. Vivere per raccontarla». 

Mi dice una nuova strada che vuole intraprendere?

«Decide la vita».

Davvero vuole fare dodici figli?

«Forse devo abbassare la soglia: già con due cani è difficile. Mio nonno Luigi aveva 12 fratelli e allora questo numero mi è rimasto impresso». 

Il verso che più amo delle sue canzoni è in Stanza Singola, con Franco126: "Stammi vicino e tienimi lontano". Mi sembra una descrizione perfetta delle relazioni nel nostro tempo.

«Però non l'ho scritto io»

·        Toni Ribas.

Barbara Costa per Dagospia il 7 febbraio 2021. “Toni, adoro farmi scopare da te!”. “Toni, riempimi tutta!”. “Toni, non voglio altro che te!”. “Toni, mi fai impazzire, me la lecchi come nessuno!”. “Toni, ti prego, scopami, da dietro!”. Ma chi sono queste donne che implorano e spasimano sesso, e soprattutto, chi è questo Toni che le manda fuori di testa così? Te lo svelo subito: il maschione in questione è Toni Ribas, attore e regista porno pluripremiato, e se pensi che a struggersi per lui (e per il suo pistone!) siano solo le colleghe che mugolano per contratto… ti sbagli di grosso! Quanto ci scommetti che nel coro di donne dal clitoride acceso, arrossato, in erezione per Toni, c’è tua moglie, tua mamma, tua sorella? Attento a quanto punti, perché stavolta perdi! Se ancora sei convinto che il porno hard-hard-core, quello lercio, violento, senza tregua, tutto squirting e doppie anali e vaginali (ma pure triple) è visto solo dagli uomini e i più porci, cambia idea: Toni Ribas è tra i re dei porno squirting, e delle penetrazioni multiple, e più ne fa più le fan ne vogliono, lo vogliono, lo cercano, lo sognano! Non che in realtà vorrebbero essere al posto delle attrici eruttanti squirting al tocco magico di Ribas, tutt’altro, ma nelle loro fantasie sì, quando stanno da sole a letto a toccarsi o a passarsi tra le gambe, e nel sesso, i loro giocattolini, è Toni Ribas che bramano, è il suo porno smodato che vedono! Io non ho dubbi: più santarelle sono, più in privato a sbavare davanti ai video di Toni Ribas stanno! Più s’atteggiano a suorine, più a farsi sputare in bocca e dentro l’ano da quel macho di Toni immaginano! Toni piace, ci piace, e lui a noi ci deve tanto ringraziare, perché se Toni proprio quest’anno festeggia i 20 anni di regia, lo deve alle donne. E non solo a noi come pubblico che lo seguiamo e non lo tradiamo, ma alle donne reali che nella vita ha incontrato e che gli hanno permesso di diventare il mago del porno che è. Toni Ribas ha 45 anni, è spagnolo, catalano, tifosissimo del Barcellona (con la maglia della sua squadra del cuore ci porna pure!), ed è entrato nel porno da attore giovanissimo, a 19 anni. Famoso lo è diventato 3 anni dopo, quando ha sposato la collega Sophie Evans, e insieme hanno dato vita a un duo-porno mitico, specie per le performance dal vivo. Vatti a guardare uno dei loro spettacoli hot live sui siti-free, e stacca occhi (e bava) dal corpo di Sophie, anche se, lo so, ha forme subliminali! La coppia Ribas-Evans è scoppiata nel 2005, ma mi sono dimenticata di dirti che Toni è entrato nel porno per intercessione di una donna, una che a chiamarla pornostar è riduttivo: Toni Ribas ha debuttato nel porno grazie a Nina Hartley, colei che porna dagli anni '70, e mai si è fermata, e ancora non ne è sazia! Ti dicevo, Toni e Sophie si lasciano, ma Toni già faceva incursioni dietro la macchina da presa e, se oggi è uno tra i registi più professionali e apprezzati, lo deve a una persona che donna non è ma genio sì: Andrew Blake. È costui regista leggenda vivente del porno, ma che dico leggenda mito, ma che dico mito, Maestro, vabbè, te la dico giusta: non esistono frasi esaustive a spiegare cosa sia nel porno la mano (e mente) registica di Andrew Blake. Toni è stato suo assistente, ma non solo: per diventare un serio regista, Toni non ha avuto remore a lasciare il porno per mettersi a studiare. È poi tornato, dividendosi come attore e regista tra Europa e USA, inanellando successi (le serie "Hardcore Innocence", "Anything DP", "Anal Fanatic"). Il porno di Ribas è massimamente gonzo, ovvero girato in presa diretta, senza fronzoli. Si potrebbe parlare di porno di sola azione ma è inesatto, perché Ribas mette nel porno l’essenzialità dei corpi, lasciando agli attori (scelti con cura maniacale) molta libertà: tu vedi un suo porno e la passione che vi mettono traspare intera e dal set attraverso il video arriva ai tuoi occhi (e al tuo sesso!). La carriera di Ribas è proseguita al passo della sua vita privata: nel 2012 incontra sul set Asa Akira (dicono che lei si sia innamorata di lui durante un doppio anale!) e si sono sposati, dando vita a una coppia porno che per 5 anni è stata anche una coppia di potere. I porno diretti da Ribas con protagonista una star assoluta come Asa Akira, sono porno a sé, unici per la loro intensità come pure per la loro durezza: sono porno crudi, di un sesso felino, feroce, livido, specie le scene girate insieme. Toni tenta di sottomettere una Asa Akira che è indomabile, una donna inarrivabile per la sua ferinità, per la sua nel sesso, e col sesso, animalità. L’amore tra Asa e Toni è finito nel 2017, e finito male (dicono che lei fosse talmente gelosa da imporre a Toni divieti da osservare con le altre sul set, e come lui le avesse proibito di girare rimming). Fatto sta che Asa, appena lasciato Toni, si è risposata e ha fatto subito un bambino. Toni ha continuato con porno e premi, e per le sue "Squirt Queen" (hai visto quello con Bonnie Rotten, e quello con Adriana Chechik?), e le "Evil Squirters" (giunte alla numero 6, appena uscita). E però, pure lo stallone Toni mi sa che ha messo la testa a posto: mie Dago-lettrici di Ribas invaghite, Toni si è risposato, e chi ha impalmato in terze nozze? Sì, una collega, sì biondona e tettona, sì una conosciuta sul set, e pure… italiana! Lo scorso novembre, Toni Ribas ha sposato Kayla Kayden, italo-americana di New York, e hanno avuto da poco un figlio. C’è il Covid, ma la vita va avanti, e il porno pure: Toni, a quando il prossimo, famigerato porno-squirto, a doppia anale schizzato?

·                        Toni Servillo.

All'attore il compito di parlare del suo regista. Intervista a Toni Servillo: “Io padre tra realtà e mito”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 17 Novembre 2021. Nel suo film più essenziale e autobiografico, È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino sceglie ancora una volta Toni Servillo tra i protagonisti e gli regala la parte del padre. All’attore partenopeo, simbolo della Grande Bellezza, film che ha riportato l’Oscar in mani italiane, il compito di parlare del suo regista, del film, dei padri e di Napoli. «Il papà di questo film – ha detto – ha avuto un epilogo tragico. Ci siamo però molto divertiti a raccontare certi padri che, sentendosi un po’ inadeguati al ruolo, finiscono per essere simpatici nella loro cialtroneria. La città e la sua mitologia consente al protagonista, il regista bambino, di avere una serie di stimoli. Paolo li mette in circolo e crea una connessione tra queste paternità che si alternano tra un mito e l’altro: il calcio, lo spettacolo, la religione e la famiglia propriamente detta. L’incontro del ragazzo con il regista che gli chiede se ha qualcosa da raccontare, mi sembra uno dei momenti più belli del film. Un altro è quando i due fratelli, ormai orfani, vanno ad osservare Maradona che si allena a fare le punizioni. È la distinzione che c’è tra il talento e la perseveranza, cercare tutti i giorni con disciplina il risultato». Anche a Servillo chiediamo un parere sull’attacco di Le Figaro. «Quest’anno – risponde – ho avuto la fortuna di lavorare in tre film di grandi autori campani, diversi per linguaggio, tematiche e per la capacità che hanno di raccontare la storia e la sensibilità di questa città. È chiaro che poi, non solo amandola profondamente ma ritenendomi in debito costante nei confronti dell’eredità che Napoli ci consegna soprattutto nelle arti e nello spettacolo, mi auguro sempre il meglio. Io non saprei vivere in nessuna altra parte e amo profondamente questo terzo mondo». Chiara Nicoletti

Estratto dell’articolo di Francesco D'Errico per “Panorama”, pubblicato da “La Verità” l'11 novembre 2021. Toni Servillo, 62 anni, è tornato a recitare per la sesta volta con Paolo Sorrentino in È stata la mano di Dio, Gran Premio della giuria alla Mostra del cinema di Venezia e candidato agli Oscar per l'Italia, la cui uscita è prevista il 24 novembre in sala, mentre su Netflix andrà in onda dal 15 dicembre. Nel film l'attore che ha incarnato Andreotti ne Il Divo e Berlusconi in Loro, e si può ammirare ora al cinema nel ruolo di Eduardo Scarpetta in Qui rido io e di un agente carcerario in Ariaferma, interpreta Saverio, un uomo simpatico in famiglia e serio sul lavoro, che è anche un marito fedifrago e il padre di Fabio (Filippo Scotti), il giovane protagonista e alter ego di Sorrentino in quest' autobiografia del regista.

«Paolo voleva fare il ritratto di un padre come ne abbiamo conosciuti tanti, un mascalzone simpatico che copre con la sua ribalderia la propria inadeguatezza», dice Servillo. «Anche se non somiglia a mio padre, ne ho conosciuti tanti di uomini così negli anni Ottanta». 

Da ragazzo che rapporto aveva con i suoi genitori?

«Sono cresciuto in una famiglia senza tradizioni nel mondo dello spettacolo, inaugurata da me e mio fratello (Peppe, cantante degli Avion Travel, ndr). I miei però erano spettatori e ci hanno trasferito l'incantesimo della vita». 

Come si è avvicinato alla recitazione?

«Alcuni antropologi parlano di Napoli, dove sono cresciuto, come di una città in cui esiste un comportamento sociale recitato. Canzoni e poesie la definiscono come un grande palcoscenico, e vi è questo humus che può incantare un ragazzo, fatto di segni, gestualità e dialetto, una lingua molto teatrale. Da bambino assistevo come un rito alle commedie di Eduardo (De Filippo, ndr) in tv, e mi rendevo conto che le famiglie da lui raccontate, certe madri vessate o certe zie isteriche, le ritrovavo nella mia. Così mi sono avvicinato al teatro, e qualche anno dopo con Mario Martone abbiamo avuto l'idea di creare una compagnia indipendente, Teatri uniti, e poi di fare un cinema altrettanto libero». 

Qui è venuto a bussare Sorrentino. Come definirebbe il vostro rapporto dopo 20 anni di collaborazione e sei film?

«Condividiamo un'ossessività e concentrazione per il lavoro stemperata dall'ironia: ridiamo molto insieme, a suggello di un'intesa che si rivela quando ragioniamo su una sceneggiatura o un personaggio. Paolo mi ha definito un fratello maggiore e forse per questo si è sentito rassicurato nell'affidarmi il ruolo delicato, seppur reinventato, di suo padre».

Il film, fin dal titolo, fa riferimento a Maradona, capace anche di miracoli. Lei che rapporto ha avuto con Diego?

«Simpatizzo per il Napoli e l'ho visto giocare dal vivo, assistendo allo spettacolo popolare straordinario di 80.000 persone che si emozionavano ogni volta che toccava il pallone. Se Milano è la città degli affari, Roma della politica e della Chiesa, Napoli appare di difficile definizione, se non attraverso i suoi miti naturali, come il mare e il Vesuvio, e letterari, come Eduardo, Totò e Pulcinella. Maradona rientra in questi personaggi che catalizzano un'energia e la restituiscono alla città in un gioco d'amore tra lo spettatore e l'eroe. Napoli è una città che ha tra le sue caratteristiche questo sottilissimo grado di separazione tra l'alto e il basso, i ricchi e i poveri, i nobili e i lazzaroni». 

Tra le battute più celebri dei suoi personaggi c'è quella di Jep Gambardella in La grande bellezza: «La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo per le cose che non mi va di fare!». Lei che ne ha 62 ha già raggiunto la stessa consapevolezza?

«Comincio ad avvertire che in quella frase di Jep c'è una profonda saggezza. Ci sono cose, soprattutto quelle superflue, che non voglio fare più. Ma di sicuro le tengo per me. Più invecchio comunque più la lista si allunga».

Ha altre battute cinematografiche nel cuore?

«Una di Louis Jouvet, attore cui ho dedicato uno spettacolo teatrale, nel film Ragazze folli, dove interpreta un insegnante di recitazione che congedandosi dai propri studenti già attratti dal cinema dice: "Ricordatevi che l'amore non è fotogenico". Mi piace perché riassume i miei amori per teatro e cinema, così diversi nella pratica e nel linguaggio, per me come marito e moglie che dormono in camere separate. Un'altra è quella di Troisi in Ricomincio da tre. Lui ha una relazione con una ragazza del Nord e lei, dopo una scappatella, nel tentare di ricomporre le cose dice: "Ma non siete voi napoletani che dite che quando c'è l'amore c'è tutto?". E Troisi risponde: "No, quella è la salute". I napoletani in una sola battuta sono capaci di sintetizzare un sentimento nei confronti della vita». 

In una sua intervista a proposito di La ragazza nella nebbia lei ha detto che è stato bello scoprire che anche Jean Reno sul set provava timore come lei. Si ha paura anche con tutta la sua esperienza?

«Jouvet una volta chiese a un giovane attore se aveva paura di andare in scena e lui rispose di no. Così gli disse: ti arriverà col talento. Maggiori risultati si ottengono, meno ci si deve sentire comodi nell'aver raggiunto una vetta. Quando vedi che un tuo collega come Reno o Daniel Auteuil esprime lo stesso senso di inadeguatezza di fronte a un nuovo personaggio, capisci che vi aiuterete. Perché quando il regista dice "azione" è come tuffarsi, ed è bello sapere che qualcuno sarà lì quando riemergi».

A che cosa sta lavorando in questo momento?

«Sto girando con Gabriele Salvatores Il ritorno di Casanova in cui sono un regista che realizza un film tratto dall'omonimo romanzo di Arthur Schnitzler, poi sarò ne Il mio primo giorno della mia vita di Paolo Genovese, infine ho girato sei puntate della serie Esterno notte in cui Marco Bellocchio torna a occuparsi del delitto Moro. Lì sono papa Paolo VI, un uomo tormentato dal conflitto tra l'azione pratica che consiste nel salvare la vita a una persona che considerava come un figlio e il senso di responsabilità che impone una figura pubblica così alta».

·        Tony Renis.

Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera” il 30 aprile 2021. Sanremo, novembre 2003. Teatro del Casinò. Presentazione ufficiale del festival di Sanremo 2004. Buio in sala, olimpo Rai già seduto (da Del Noce a Raveggi): solo una sedia vuota. Parte il filmato. È un «Renis-Spot»: Tony con Kirk Douglas, con il Papa, con Gregory Peck, Bush, Celine Dion, Pavarotti, Frank Sinatra. E ancora: Tony vincitore a Sanremo con «Uno per tutte», Tony agli Oscar che fraternizza con la crema di Hollywood. Fine del filmato, luci in sala: dal sipario chiuso del teatrino del Casinò ecco a voi Tony Renis, direttore artistico del festival, completo blu gessato con spalle possenti-esagerate moda-anni-Ottanta, occhiali affumicati, cravatta rossa, camicia bianca con gemelli d' oro, sorriso smagliante, passerella per i fotografi. Al suo confronto Baudo era schivo come Cuccia. Elio Cesari cantante, musicista, attore, produttore discografico decise di cambiar nome a 17 anni. «Elio Cesari non poteva funzionare. Poi l' accento: Cesàri al nord, Césari al sud. Reni, in omaggio all' artista Guido Reni che era il pittore di riferimento di mio padre, Orfelio Cesari morto a 97 anni nel 2008, ultimo dei grandi impressionisti lombardi. Ha lasciato 500 dipinti. E quella "y" di Tony e esse finale su Reni per ammiccare all' internazionale, tipo Tony Curtis. Insomma un nome che poteva essere pronunciato correttamente in tutte le lingue. E poi in qualche modo dava corpo al sogno di un ragazzo che sognava alla grande».

Da dove parte la storia?

«Io sono cresciuto all' Oratorio di San Lorenzo, Zona Ticinese, a Milano. Ero il divo nei saggi che andavano in scena al teatro Lirico alla fine dell' anno scolastico in cui si cantava e si recitava. Poi mi sono iscritto a ragioneria. Tanti grandi artisti come Modugno o Mogol o autori geniali come Alberto Testa, Jimmy Fontana, sono ragionieri. Forse perché era la scorciatoia per avere un diploma... così se la strada dell' arte non avesse funzionato almeno avevi qualcosa in mano. Insomma il paracadute».

E a lei Renis, com' è andata?

«Nella mia vita ho fatto di tutto: avanspettacolo, night club, cinema, insomma una gavetta in piena regola. L' oratorio è stato una esperienza, in parte vissuta col mio amico Adriano Celentano, prima da sconosciuti poi da professionisti. Lui è per me un fratello. Ma non ho mai fatto parte del Clan fondato dal molleggiato. Il nostro pezzo forte era l' imitazione della coppia Dean Martin-Jerry Lewis. Le compagnie di avanspettacolo ci chiamavano e noi cominciammo a essere famosi anche in Piemonte e in Liguria. Il nostro esordio assieme avvenne al Teatro Smeraldo di Milano».

In passato lei amava apparire. E adesso si nasconde. Come mai?

«Guardi, in questo momento sto prendendo il sole a Roma... ricevo decine di richieste di interviste...».

Lei è l' autore di tante canzoni. Le più famose nel mondo sono «Quando Quando Quando» e «Grande grande grande». La stessa parola moltiplicata per tre. È un caso?

«Le tre parole mi hanno portato fortuna. Però ce ne sono altre capite più all' estero che in Italia: "Frin Frin Frin", sigla televisiva della serie "Il commissario Maigret" seconda stagione. Frin in dialetto milanese evoca la timbrica incerta del violino da osteria, sfigato e struggente. ("El sonava el frin frin"). Aveva un bel testo: "Cominciò col suo frin frin e la nostra canzone suonò. Era il solito frin frin, ma ogni nota parlava di te". Una storia d' amore senza lieto fine. Testo semplice. Non bisogna scrivere testi complicati! Per quella serie creai tutta la colonna sonora».

La canzone che ama di più?

«È "Il posto mio" scritta col mio amico Alberto Testa, un genio e poeta per canzoni: il termine "paroliere" suona riduttivo se non addirittura offensivo... Rivaluto la mia così detta produzione minore, canzoni che, incomprese in Italia, hanno fatto il giro del mondo. Il verso recitava: "Sono lo scendiletto/ Su cui cammini tu/ Cammini a piedi nudi/ Fin da quando ti svegli al mattino". La feci sentire a Mina: "La incido se togli lo scendiletto" disse lei. Mi rifiutai. Poi molti anni dopo la incise, con lo scendiletto. Aveva capito che la forza espressiva stava nella descrizione di quest' uomo che era disposto a tutto per amore».

A questo punto entra in scena Domenico Modugno.

«Modugno era stato uno dei miei idoli. Quando io ero ancora agli inizi, sconosciuto ai più, lui mi incoraggiava, mi dava dei consigli, era una bella persona.. Io cercavo, come tutti, il successo. Lo sognavo. Poi lui ebbe un momento di crisi. Succedeva a molti grandi come Frank Sinatra e Morandi. In uno di quei momenti c' era sempre qualche "anima buona" che ti dava per morto artisticamente parlando. Succedeva anche a Hollywood al mio amico Burt Bacharach, un genio. Mi portava le canzoni perché le cantasse Julio Iglesias di cui io a mia volta sono stato l' idolo».

Un intreccio di mutua ammirazione...

«Il mio primo idolo è stato Elvis Presley. Poi ho scelto la strada del crooner e il mio mito era Frank Sinatra. Ma torniamo a Modugno. È il 1968. La canzone "Il posto mio" piace alla RCA. Al presidente Ornato, all' editore Cantini e al produttore Lilli Greco. Quanto a Modugno io andai da sua moglie Franca col brano e glielo feci sentire. Ma c' era un problema: Modugno era senza casa discografica. Così decisi di espormi in prima persona. Bussai alla porta di Ennio Melis allora direttore generale della RCA e dissi: "Voglio Modugno con me a Sanremo e lui mi rispose "che famo? stamo a resuscità er morto". E io replicai: "Caro signor Melis, o Domenico Modugno o non vado a Sanremo e ritiro la mia canzone". Avevo il coltello dalla parte del manico e imposi alla RCA di mettere Modugno sotto contratto. Il brano vendette milioni di dischi in tutto il mondo. E trainò tutto il repertorio del cantante. Lo ricompensai per le dolcezze che mi aveva usato quando ero sconosciuto. La riconoscenza è merce rara nel nostro ambiente. Comunque andammo a Sanremo e ci eliminarono subito. Nel mondo invece fu un grande successo. Grazie anche agli arrangiamenti di Don Costa, arrangiatore, produttore, e direttore l' orchestra per Frank Sinatra che aveva arrangiato anche molte mie canzoni».

Il suo fan più assiduo?

«Ladislao Sugar, fondatore della CGD col quale non ho mai lavorato. Ero legato alla Ricordi, ma lui non perdeva occasione per ascoltarmi cantare. Ogni estate veniva a sentirmi al Casinò dell' Hotel Billia a Saint Vincent e mi mandava una bottiglia di champagne con un biglietto: "Al più grande showman italiano».

Lei a un certo punto ha lanciato in italia una cantante bambina.

«Don Costa voleva lanciare come cantante una sua figlia di 9 anni, Nikka Costa. Aveva già scoperto Paul Anka, firmato successi di Sinatra come "New York New York" e "My Way", il repertorio di Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan. Lui era già anziano e mi chiese di curare il lancio della giovanissima cantante. Allora andai da Pippo Baudo e ci invitarono a Domenica In. Da molti anni ne ho perso le tracce. Credo che si fosse data al rock».

Con lo star system lei è ancora in contatto?

«Con Adriano e Mina sì. Mina mi chiama con un nomignolo: Tronis».

Il segreto del suo successo?

«Essere sempre in buoni rapporti con tutti i miei colleghi».

Eppure quando le affidarono il Festival di Sanremo fu attaccato dalle major discografiche e da vari giornali che le rimproveravano l' amicizia con Berlusconi e l' amicizia con alcuni boss della Mafia.

«Fu un linciaggio che non mi aspettavo e che mi colse impreparato. Fu un grande Festival e in varie inchieste fui completamente scagionato da ogni accusa».

Frequentazioni: chi le era più simpatico Craxi o Berlusconi?

«Sono due forme di simpatia diverse fra loro: cantavano entrambi. Cantava Bettino e conosceva un repertorio vastissimo. Berlusconi era innamorato del repertorio francese. Sempre stati leali con me. C' è stata intimità maggiore con Bettino Craxi. Ogni anno d' estate io e mia moglie Elettra Morini eravamo invitati a Hammamet. Poi arrivava anche Berlusconi con familiari al seguito. E non mancava neanche Fedele Confalonieri. Serate bellissime. Dopo un po' arrivava Lucio Dalla. E la serata proseguiva cantando De Andrè, Endrigo, Gino Paoli, e canzoni francesi di Aznavour, Becaud.

Craxi era un fan di Roberto Murolo. Come me.

Lo andavo a trovare tutte le volte che passavo per Napoli. Murolo mi fece una sorpresa: andò in studio per incidere di sua iniziativa una versione in napoletano di "Quando quando quando". Era stata tradotta in tutte le lingue, dal giapponese al cinese e al russo, arabo compreso, ma mai in napoletano. La registrazione non è mai stata diffusa».

Come ha visto cambiare questo mondo?

«Ho già detto troppe cose che non volevo dire. Ha WhatsApp? Sì? Allora le voglio mandare un film che deve assolutamente vedere, "Quando dico che ti amo". Non è un musicarello. Se avessi l' opportunità di incontrare colui che ha inventato questo termine vigliacco e offensivo - "musicarello" - lo prenderei a calci (questo è l' unico momento in cui Elio Cesari perde la calma, ndr ). Bello, divertente e io sono quasi bravo (anzi tolga il quasi) come attore. Nel cast ho imposto una grande cantante-attrice: Lola Falana, che era fidanzata di Sammy Davis».

Quali sono le sue certezze oggi?

«Mia moglie Elettra che è stata una grande stella del balletto alla Scala oltre essere una donna bellissima, da perdere la testa».

·        Tosca D’Aquino.

Dagospia il 29 giugno 2021. Estratto di “il Divano dei Giusti” del 27 novembre 2020. “Paganini”, di e con Klaus Kinski e prodotto da Augusto Caminito per Mediaset, andrebbe visto assieme al backstage incredibile del film per capire la pazzia di Kinski e la violenza sulle sue attrici, da Tosca D’Aquino a Deborah Caprioglio, che si firma qui Deborah Kinski. E’ il grande progetto di una vita prima della morte, sorta di personalissimo delirio herzoghiano sulla vita del genio irregolare Paganini. Eva Grimaldi mi raccontò che Kinski girava tutto rigorosamente senza luci e senza trucco. Un delirio, con Kinski che cerca di fare tutto, operatore, regista, attore, con attrici buttate lì come Dalila Di Lazzaro o Donatella Rettore, non si capisce neanche perché. C’è perfino il mimo Marcel Marceau, garanzia di ogni produzione diseparata. Il Regio di Parma, dove Paganini-Kinski si esibisce, senza luce, è totalmente al buio. Tosca D’Aquino ha ricordato a Stracult quanto Kinski fosse violento sul set, soprattutto con lei che era una ragazzina. Quando il film, montato non si sa come e da chi (Caminito?), viene mostrato a Cannes, Klaus Kinski, che pensava in un trionfo, viene massacrato dai critici e risponde con scene di follia e di violenza. Ovviamente film imperdibile.

Da tvzap.kataweb.it il 29 giugno 2021. “Chi vorrei menare? Forse nella mia carriera l’unico rapporto un po’ complicato è stato quello con Klaus Kinski”: così Tosca D’Aquino s’è confidata con Caterina Balivo nel corso della puntata di Vieni da me di martedì 14 maggio. L’attrice napoletana ha ricevuto un video dall’amica Rossella Brescia in cui, oltre a tanti complimenti, la ballerina le chiedeva – scherzosamente – a chi avrebbe rifilato volentieri un manrovescio e Tosca ha citato l’artista tedesco, con cui i rapporti non furono idilliaci: “Era uno di quei fanatici un po’ vecchio stampo, prepotente e violento a volte. Avevo anche dei lividi”. “Chi vorrei menare? Nella mia carriera l’unico rapporto un po’ complicato fu con Klaus Kinski, tanti anni fa feci un film con lui, ero molto giovane, e subii un po’ le angherie di questo personaggio, notoriamente molto difficile. Quindi, forse, è l’unico caso in cui tornando indietro non lo rifarei, perché ho sofferto molto. Si chiamava La vita di Paganini, fu uno dei suoi ultimi film. Era un uomo anche molto violento, prepotente. Io avevo anche i lividi addosso. C’erano delle scene dove si può e si deve fingere… Sennò che fai? Con tutte le volte che sono morta… Però penso che Klaus facesse parte della schiera di quei personaggi un po’ fanatici, un po’ vecchio stampo: all’epoca pensavo il cinema si facesse così. Ne parlai con i miei genitori, ho trovato sempre loro vicino e mi dissero di fare ciò che sentivo. Mi imposi di finire il film ma a distanza di tanti anni un piccolo choc l’ho avuto. E non lo rifarei, me ne andrei”.

·        Tullio Solenghi.

Dagospia l'8 maggio 2021. Da “I Lunatici - Radio2”. Tullio Solenghi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino, anche su Rai2 fino alle due. Solenghi ha parlato della sua carriera: «Da bambino ero abbastanza tranquillo però già con la follia di far divertire la compagnia. Se ne accorse il curato del paese in cui sono nato, sulle colline di Genova. Si accorse che già all'epoca facevo le imitazioni, quando c'erano le gite della parrocchia mi metteva in fondo a un pullman con un microfono a fare una specie di radio». Quando ho deciso di prendere questa strada, in famiglia sono stati ad osservare. A capire se effettivamente avessi l'attitudine per fare questo mestiere. Hanno voluto che prendessi anche il pezzo di carta, e mi hanno chiesto di avere tutte le carte in regola per mettermi in gioco. Sono stati genitori pazienti e maturi. La prima grande occasione? 1971, esordio in teatro, in uno degli spettacoli più visti». Sul trio formato assieme a Massimo Lopez e Anna Marchesini: «Ci continuano a dire che siamo nella storia, ma quando lo facevamo, non lo immaginavamo. Parlare del trio è come parlare di due fratelli. Uno, purtroppo, la sorellina, è scomparsa. Ed è stato un dolore atroce. A noi è mancata non solo la Anna del pubblico, ma proprio un nostro familiare stretto». «Parlare del trio è parlare di un periodo importante non solo della mia vita artistica, ma anche privata, la vita degli affetti. Quando ne parlo mi inizia a battere forte il cuore e mi viene il magone. Non ci rendevamo conto di quello che stavamo facendo, il nostro grande alleato, la nostra grande verifica, ce l'ha sempre data il nostro pubblico. Non abbiamo mai avuto paginone sui giornali, all'epoca eravamo tra i tanti». «Poi certo, abbiamo fatto 14 milioni di ascolto con i 'Promessi Sposi' ed è stata una cosa epocale. Anche se qualcuno aveva paura avessimo profanato un tempio. Siamo rimasti gli unici ad avere sperimentato in televisione la narrazione comica lunga». «Siamo stati sperimentali, siamo sempre stati autori di noi stessi, c'era un grande lavoro al tavolino, la penna sul foglio diventava un gramma, dovevano sempre arrivare idee nuove. Dopo un po' la nostra fantasia iniziava a boccheggiare. In quegli anni l'idea di quello che saremmo diventati non l'abbiamo mai percepita». Sulla nascita del trio: «Conobbi Anna a Torino facendo un po' di televisione per tirare a campare. Rimasi sconvolto, era un talento straordinario. Nacque subito tra noi una grande complicità anche a livello autorale. Facendo quella televisione si è cementato il nostro sodalizio artistico». «Due anni dopo ho fatto una trasmissione radiofonica, la chiamai e mi disse che stava facendo del doppiaggio con Massimo Lopez. Mi disse che Lopez sapeva fare di tutto con la voce. In questa casualità assoluta è nata una magia». Ancora sul Tullio Solenghi privati: «Indimenticabile la nascita delle mie figlie. Anche se ho sempre separato la mia vita pubblica da quella privata. Considero il mio un lavoro come tanti altri. Mi considero un artigiano dello spettacolo. I momenti importanti sono stati la nascita delle mie figlie e adesso recentemente dei miei nipoti». «Che nonno sono? Come papà ero presente e paziente, come nonno sono assolutamente succube dei due miei nipoti. Sono deliranti dietro questi due prodigi di tre e cinque anni. Vorrei scrivere testi traendo spunto solo da loro».

Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 6 marzo 2021. «Venni notato da Laurence Olivier», esordisce con una punta di orgoglio Tullio Solenghi. «Avevo 21 anni, era il mio esordio nei "Due gemelli veneziani" con Alberto Lionello protagonista. andiamo in tournée a Londra e salgo per la prima volta su un aereo. Quella sera all'Old Vic c'era lui in platea: noi tutti elettrizzati dalla sua presenza. A fine spettacolo torniamo nei camerini e vedo Olivier che va diretto a complimentarsi con Lionello il quale, poco dopo, mi chiama. Io tremo, perché quando lui ti chiamava, era per redarguirti, per qualcosa che era andata storta e invece... mi dice che il grande attore aveva elogiato la mia interpretazione».

In quale ruolo?

«Non certo da protagonista... era una scena muta, completamente mimica. Portavo delle valige in scena: erano una decina e, facendo finta di inciampare, cadere, rialzarmi, partivano le risate del pubblico... Posso fregiarmi di aver ricevuto un elogio dal mitico Oliver per una scena senza parole: le parole sono venute in seguito, quest' anno sono 50 anni esatti da quando ho iniziato nel 1971».

Da dove ha iniziato?

«Non avevo precedenti artistici in famiglia, tranne mio padre che faceva il pittore. I miei primi successi li ho avuti tra i compagni di scuola, li facevo divertire con le mie battute, le imitazioni... e proprio uno di loro mi suggerisce di iscrivermi al bando per entrare nella scuola del Teatro di Genova. Io ero incredulo e, digiuno di teatro, mi presentai recitando "A Silvia" di Leopardi con tutti gli accenti dei dialetti italiani. L'allora direttore Luigi Squarzina si sbellicava dalle risate, ma io non capivo se rideva di me o per me... Venni ammesso».

Papà e mamma contenti?

«Abbastanza tranquilli, ma il primissimo mio spettacolo che vennero a vedere, dovetti spiegargli il mio ruolo...».

Perché?

«Ero in "Madre courage" di Brecht, protagonista Lina Volonghi. Per farmi riconoscere dai miei, detti indicazioni a mia madre: quando entrano due soldati a spostare il cannone in scena, quello dietro sono io. Però mamma fu gentile e mi disse: si vede che hai della stoffa... Certo che ce l'avevo, dato che in scena indossavo una palandrana che mi arrivava fino ai piedi, di stoffa ce n'era molta».

Poi, però, ha virato sul cabaret, dividendosi il palcoscenico con Beppe Grillo...

«Sì, dopo essermi procurato un'orchite da classici, non ne potevo più... non cavavo un ragno dal buco, decisi di tentare la strada del cabaret e a quel tempo la mecca di questo genere era Milano, dove venni scritturato in un locale che si chiamava "Il refettorio" e dove si esibiva anche Beppe... abbiamo la stessa età. Io aprivo il primo tempo, lui arrivava nel secondo, ci siamo conosciuti così. Ma tutti e due eravamo sconosciuti e in sala il pubblico era scarso. Una sera c'erano solo 3 persone e Beppe fu lapidario: "Stasera abbiamo fatto ridere il 70% degli spettatori, 2 su 3"».

In gergo teatrale si dice: fare il forno, giusto?

«Sì, ma poi fu Pippo Baudo, che aveva sentito parlare di noi, a volerci scritturare per una prima trasmissione da fare insieme. La cosa divertente è che ci accolse in una camera d'hotel a Milano: bussiamo alla porta e lui era in mutande... una visione traumatica...».

Avrebbe mai immaginato che il suo compagno di scena fondasse il Movimento 5 stelle? 

«No, mi ha sorpreso, ma fino a un certo punto perché Beppe, sin dai suoi esordi, nei monologhi andava spesso sulla politica, non diceva parole a vanvera, era preparato e molto motivato. I suoi non erano spettacoli comici, ma invettive paradossali su fatti veri... Il suo movimento nasce come anti-politica».

Il Trio, Lopez-Marchesini-Solenghi, invece nasce nel 1982 per divertire.

«Quando cominciavamo a collezionare i nostri primi successi, fummo chiamati dall'allora direttore di Rai 1 Emmanuele Milano, perché aveva dei progetti per noi. Eravamo felicissimi, ma siccome spesso accade che le belle promesse dei dirigenti non vengono mantenute, decidemmo di portarci appresso un piccolo walkman, nascondendolo nella borsa di Anna: volevamo registrare e, semmai, aver poi la possibilità di fargli risentire le sue parole, per costringerlo a rispettare gli accordi. Ci organizzammo facendo le prove a casa: Massimo imitava la voce del direttore, Anna e io rispondevamo alle sue proposte, e così via... tanto per vedere che effetto faceva. Eravamo d'accordo che, al segnale convenuto, Anna avrebbe infilato la mano in borsa per accendere il registratore. Purtroppo, nel momento clou, Anna infila la mano, ma sbaglia tasto: schiaccia il play e si sente la voce di Lopez che imitava Milano».

E cosa accadde?

«Il direttore resta sconcertato, non capiva cosa stesse succedendo, noi fummo abili nel confondere le acque e le promesse vennero mantenute: nacquero i "Promessi sposi"».

E nacquero poi tanti altri successi nei grandi show: da «Fantastico» a «Domenica in» al Festival di Sanremo...

«La mia imitazione di San Remo, però, scatenò un putiferio tra il pubblico dei cattolici». Perché? «Riferendomi al cantante Christian, esordivo nella scenetta con la mia predica, dicendo: per Christian, con Christian, in Christian...».

Un altro putiferio lo ha scatenato con l'imitazione di Khomeini, con relative minacce da un gruppo di integralisti islamici...

«Era il periodo della diatriba tra l'America di Reagan e l'Iran: si affrontavano a muso duro, ma pare che gli americani vendessero sottobanco le armi agli iraniani. Io mi immagino un Khomeini nato a Barberino del Mugello che, confrontandosi con la moglie, sora Komeynes interpretata da Anna, si lamentava del fatto che Reagan gli aveva mandato i missili con le istruzioni in giapponese, in cinese... e non ci capiva niente! La cosa finisce su tg e giornali di tutto il mondo e siccome, a causa nostra, l'Imam si era molto arrabbiato per la presa in giro, i nostri diplomatici a Teheran furono rispediti in Italia. Loro, ignari, quando seppero che la causa era il nostro scherzo, non ci volevano credere!».

Avete avuto paura di ripercussioni?

«Qualche anno dopo, durante una serata in cui ritiravo un premio, fui avvicinato da Prodi che mi disse con parole dolci ma severe: voi avete scritto lo sketch più costoso della tv...».

Perché?

«L'Italia faceva opere pubbliche importanti in Iran, ma i pagamenti arrivavano sempre molto dilazionati. Dopo l'incidente diplomatico, per l'offesa subita dall'Imam a causa nostra, si bloccarono per un bel po' di tempo».

Perché nel 1994 il glorioso Trio si è sciolto?

«Il primo a mordere il freno, a sentire il bisogno di seguire un proprio percorso, fu Massimo. Anna e io abbiamo continuato a lavorare insieme e abbiamo persino scritto un film: "La cicogna strabica", che però non è stato mai accettato da un produttore, vabbè... capita. Poi abbiamo fatto cose diverse separatamente, ma le impronte dei nostri sederi sul divano a casa di Massimo, dove ci sedevamo tutti e tre a pensare e a scrivere i nostri testi, sono rimasti indelebili: i cuscini erano a forma di glutei».

Tra voi non avete mai litigato?

«Battibecchi tanti, vere e proprie liti mai. Non riuscivamo proprio, perché alla fine ci veniva da ridere. Come quella volta che ero a Milano con Anna: la città era coperta di neve e io l'aspettavo infreddolito in macchina sotto l'albergo per andare in teatro assieme. Lei ritarda a scendere, mi stavo congelando e, quando finalmente appare, comincio a urlare, urla anche lei... poi parto con l'auto ma, a causa della neve che aveva creato una serie di dossi, ci sembrava di stare sulle montagne russe... e la litigata è finita in un trionfo di risate».

Il suo ultimo ricordo di Anna, scomparsa nel 2016?

«Andai a casa sua, stava male, ed era allettata. Mi raccontò la trama del libro che stava scrivendo, intitolato: "È arrivato l'arrotino". Le chiesi il perché di questo titolo strano e lei mi risponde che, ormai sempre chiusa in casa, sentiva dalla finestra aperta solo il rumore del traffico cittadino, però ogni tanto emergeva, dalla grigia colonna sonora, la voce dell'arrotino, che rompeva la monotonia... Nonostante la malattia, il suo grande talento era intatto».

Una carriera di mezzo secolo che condivide anche con una moglie, sposata quasi mezzo secolo fa, per l'esattezza 47 anni fa, due figlie: un uomo e tre donne... Difficile?

«Il mio lavoro ti porta lontano e può provocare delle distrazioni, io ho sempre considerato la famiglia prima di tutto, irrinunciabile. Inoltre il mio è un mestiere che dà privilegi, ma non ne ho mai abusato. Non ho ville a Ibiza, ma un buen ritiro sul lago di Trevignano... ho sempre tenuto un profilo basso».

E per fortuna ha due nipotini maschi.

«Eccome no? Quello di 5 anni, Samuele, l'ho candidato al Nobel».

Perché?

«Un giorno era al mare con la mamma, mia figlia Alice la quale, mentre fa il bagno, sente un pizzicore sulla gamba e intravede nell'acqua un affarino piccolo, che definisce forse un lombrico. E il figlioletto, 5 anni, dice: no mamma, quello è un isopode di mare... lo aveva letto su un libro illustrato sugli animali. Poi c'è Filippo, 3 anni, secondo figlio di Alice: mentre giocavamo un giorno in casa, io avverto un inconfondibile olezzo nella stanza e gli dico: tesoro, hai fatto una puzzetta? E lui risponde: Nonno i piccoli le chiamano puzzette, noi grandi le chiamiamo scorregge».

Tullio Solenghi: "Quella volta che a Sanremo con Lopez e Marchesini fummo accusati di blasfemia". Rodolfo di Giammarco su La Repubblica il 28 febbraio 2021. L'attore ricorda le sue esperienze all'Ariston insieme al Trio negli anni 80. Risale a più di trent’anni fa l’impatto teatrale col pubblico del Festival di Sanremo del Trio Lopez-Marchesini-Solenghi. Dopo aver partecipato coi loro intermezzi comici alle edizioni del 1986 e 1987, furono protagonisti di un vero e proprio exploit di repertorio fisso, di clamore e anche di proteste nel Festival del 1989, quello condotto dai “figli d’arte” Rosita Celentano, Gianmarco Tognazzi, Danny Quinn e Paola Dominguin. A riflettere con noi sulla Sanremo di allora e di oggi è Tullio Solenghi.

Come andarono le cose al Teatro Ariston, in quel fatidico e chiacchierato anno?

"In quella settimana festivaliera io, Anna Marchesini e Massimo Lopez fummo coinvolti due volte a sera dal martedì al sabato. Ci dettero carta bianca, una carta che si sporcò subito quando fui accusato di blasfemia perché impersonavo un santo in una predica a base di ingredienti liturgici sanremesi (“Per Christian, con Christian, in Christian, a te Sanremo onnipotente, ecc”). Il nostro tutore televisivo, Mario Maffucci, ci pregò di correggere il tiro nelle altre puntate, per evitare polemiche. Passarono gli sketch sulle sorelle Carlucci, sugli immaginari figli di Andreotti ovvero Giulietto, Giulia e Giulivo truccati come Andreotti in pantaloni corti".

Cosa ricorda dell’Ariston di allora?

"Platea e galleria gremitissime ti davano emotivamente uno sconquasso. Ti dimenticavi di essere in tv. Nelle 1400 persone vedi il corrispettivo di 13-14 milioni che assistono da casa. E tra la sala e il palco c’era il diaframma dei fotografi e dei loro comportamenti: erano un centinaio, e diventavano falene impazzite quando c’era un cantante, s’agitavano per un primo piano, poi invece quando arrivava il comico entravano in pausa metadone. Mi accorsi che la mia parodia d’una predica avrebbe suscitato reazioni fuori dal normale quando vidi che s’animavano tutti. Sospettai che dietro di me ci fosse Cotugno o Al Bano, ma mi resi conto che puntavano a me".

Che ricordo ha degli applausi dell’Ariston?

"Più reattivi di quelli di una sala ordinaria di spettacoli. Certo, la gente si scatenava per motivi musicali, melodici, ma quando il Trio intercettava la corda giusta, se ne veniva giù il teatro, e a noi capitava. Dovevi abituarti a una cosa singolare. La sala era sempre illuminata. E ti rendevi conto che era uno spaccato dell’Italia. Osservavi tutti quanti, li radiografavi. Con la disomogeneità delle prime file ingessate delle autorità, e degli ospiti di prestigio lì per farsi vedere, una seconda zona più viva, e un settore popolare in galleria".

Un aneddoto che fece presa sul pubblico del Festival?

"In tema di preveggenza della comicità, interpretai un sindaco di Sanremo con Anna che mi intervistava, e io dissi che i vincitori si sapevano prima, per voce delle case discografiche. Due anni dopo un sindaco fu inquisito per lo scandalo di retroscena già decisi".

Che ne pensa della sala vuota prevista per il Festival di quest’anno? 

"Per certi versi mi ci sto purtroppo abituando. A Ballando con le stelle mi sono fatto onore con una presenza solo virtuale di pubblico. I tempi impongono questa dannata scelta. Ma l’assenza la soffro. E non parlo di spettatori figuranti o da ordinario programma tv. Capisco che le regole devono valere per tutti. Però mi preoccupo per la folla dei teatranti che rischiano di dover cambiare mestiere, perché c’è il vizio di ritenere che non siano lavoratori, che non siano padri di famiglia. Ritengo che i teatri siano ospitali e non pericolosi in quanto gestibili in sicurezza, disciplinabili, con coscienziosità sia dei gestori che dei singoli spettatori nell’atto di doversi muovere da casa con prudenza. Sento parlare dei musei, mai dei teatri".

Il suo lavoro, adesso?

"Sono a casa, e ogni tanto faccio una lettura streaming del Decameron o dell’Odissea o di Woody Allen, un omaggio in cui con un ensemble di cinque strumentisti (con musiche adorate da Allen) leggo brani di tre suoi libri, Citarsi addosso, Effetti collaterali e Saperla lunga. A marzo io e Massimo abbiamo interrotto a teatro il nostro Tullio Solenghi & Massimo Lopez Show e vorremmo recuperare appena possibile le serate della tournée".

·        Uccio De Santis.

Mudù, ovvero i Pooh della risata. E Uccio De Santis ora pensa al film. L'idea nacque in un distributore di benzina. E oggi il progetto è famoso anche al di fuori dei confini pugliesi. Alberto Selvaggi il 04 Gennaio 2021 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Mai avrei immaginato che tu fossi nato a Bitetto il 12 settembre ‘65, nonché a Ruvo di Puglia, dato che le citazioni divergono sulla stessa Treccani.

«Eh, e manco io. Anzi meno male che almeno a te il dubbio è venuto: sono nato a Bari, Bari, a Bari, scrivilo grosso per favore: Gennaro “Uccio” De Santis non è nato a Bitetto e neppure a Binetto, non c’entra manco per niente con i ruvesi. Sono andato a correggere un sacco di volte su Wikipedia, l’enciclopedia online, e in altri siti e per un po’ la città nativa rimaneva esatta. Dopo di che, boh?, il sistema ritornava su, nato a Bitetto, a Ruvo. Lo sai spiegare tu? Capisci tu?».

Io no, in quanto detesto il digitale e conservo sinapsi rigidamente analogiche. Tuttavia la realtà oggi si è trasferita sul web. Conta quella: anche non vera, è vera.

«E che devo dire più. I primi tre anni ho abitato nel capoluogo su via Fratelli Rosselli vicino alla sede di Rai Puglia, poi con la famiglia ci siamo trasferiti a Poggiofranco, viale Kennedy. Il nostro era l’ultimo palazzo che guardava la campagna verso la facoltà di Economia e commercio. Forse il malinteso anagrafico deriva dal fatto che vivo a Bitetto da quando mi sono sposato: mia moglie, Dora Dileo, è di lì. Lavora nell’azienda di famiglia, abbiamo due figlie, Simona, 24 anni, e Roberta, 23, che ha seguito la mia strada studiando cinema a Los Angeles».

Vabbè, io comunque scrivo che sei bitettese, così non mi diranno che racconto fesserie. Anzi potrei collocare la tua Natività a Conversano, visto che tu e la ciurma Mudù siete ormai cittadini acquisiti del bellissimo feudo del Conte.

«E no, e no, e qui casca l’asino di nuovo. Noi non facciamo niente a Conversano: io praticamente campo metà dell’anno a Matera, pur avendo studio a Bari Poggiofranco. Ci trasmette Telenorba, certamente, ma all’emittente di Conversano noi consegniamo il prodotto pronto. Sono io che produco, facciamo noi Mudù e non da oggi: tutto è nato in Basilicata, là vengono montati i filmati, e anche il regista Vito Cea è materano, sempre lui, fin dall’inizio. Con la Rvm di cui è socio realizzammo le prime riprese, poi la seconda edizione, la terza, e così fino al Mudù 9 che è terminato a fine dicembre. Squadra vincente non si cambia».

E io che vi facevo abitanti di Montronia.

«Montronia..? Cioè? Ah-ah-ah…».

Montronia, il polo televisivo creato a Cumbrsn, cioè Conversano, da Luca Montrone.

«Montronia… Eh-eh-eh. È innegabile che sia stata Telenorba a darci la fama. Ma da qualche anno agli sforzi e all’effetto mediatico della tv va aggiunta una novità sostanziale: internet, i social, con due milioni di follower sul solo Facebook, che ci hanno aperto un mercato perenne, che resta là a trasmissione gratuita e disponibile sempre, valicando il bacino di utenza della Puglia, Basilicata e Molise. Fino al punto che veniamo chiamati a Milano, Genova, Torino. Abbiamo girato in location come Savoca, Bar Vitelli, leggendario per le scene del Padrino. E tenuto spettacoli sold out al Brancaccio di Roma, Palermo, Venezia, ovunque. La notorietà che conquistiamo man mano pure su YouTube ci aiuta peraltro a ottimizzare i costi. Veniamo invitati e ospitati nella penisola per effettuare riprese, offrendo in cambio visibilità a luoghi stupendi. Le nostre barzellette sceneggiate acquistano un effetto maggiore quando ambientate in un posto ameno e sempre diverso».

Che poi mi spiegherai com’è nata la formula magica che da vent’anni garantisce un inaffondabile successo.

«Prima del Mudù, dei film, delle trasmissioni con Gerry Scotti, Natalia Estrada, Gigi Sabani ed Ezio Greggio mi muovevo da tempo nello spettacolo, prove attoriali, Miss Italia in Puglia con Enzo Zambetta. Poi partecipai ad alcune edizioni di La sai l’ultima? su Canale 5, 1997, 1998 e in appuntamenti seguenti. Andò molto bene. Per quanto fossi un esordiente come raccontatore di barzellette vinsi il Premio Gino Bramieri. Desideroso di emergere, bussavo a tante porte, e a quella di Telenorba con frequenza insistente. Mi proponevo per la cosiddetta fascia comica in cui rientravano Toti & Tata, Manuel & Manuel, primo pomeriggio con replica alle 23. Finché Piera Miscuglio mi disse: devi inventare qualcosa che sia cucito su di te. Il cervello incominciò a ribollirmi nella testa, tornando a Bari da Conversano mi fermai in una stazione di servizio per fare benzina. Ristetti e partorii: barzellette, ecco, barzellette, le ho raccontate su Canale 5, dunque perché non riproporle sviluppandole però su sceneggiature flash?».

E Mudù dal 2000 fa dissestare le mascelle dei telespettatori norbensi.

«Sì ma con uno sviluppo graduale. In principio utilizzavo ogni volta attori diversi. Ma i costi lievitavano parecchio. Passai perciò a due o tre puntate con uguale soggetto e man mano il primo cast Mudù si andò definendo. Tanti dei primi mesi hanno intrapreso altre vie. Alcuni se li è portati via il destino: Gianni Petrone, elettricista più bravo di un professionista direi, Gaetano Porcelli, Mariolina De Fano, grandissima. E altri sono ancora qui, entrati nella ciurma fin dai primi mesi».

Cito Umberto Sardella, Lella Mastropasqua, Luigia Caringella, Antonella Genga, Annabella Giordano, Emanuele Tartanone, Anna Gallo, Donato Francone, Pino Fusco, Franco Paltera, Max Diele, Dana Ceci, Giacinto Lucariello…

«Sì, e poi altri ottimi interpreti, oltre ai principali. Ogni anno penso: bene, questa è l’ultima edizione del Mudù. E ogni volta mi preparo a ripetere questa frase per l’anno seguente. I personaggi più amati sono il carabiniere, che ci ha fatto ricevere il plauso dell’Arma stessa, il medico, il prete, il comandante di nave. Ma quelle scenette richiedono una fatica notevole. Senza la passione non reggeremmo fino a 12 ore di riprese al giorno, dalla Val d’Aosta all’isola di Favignana, dalla Riserva dello Zingaro alle Tremiti splendide, Taormina, Campitello Matese. Fino alle otto crociere con la MSC con cui abbiamo avviato una collaborazione e nel cui contesto ho ambientato due episodi lunghi con trama sviluppata su barzellette, base di un progetto sempre più vicino: il film. Corro come una trottola, dal 10 marzo a maggio sono andato a Matera ogni mattina alle 8 con rientro ore 20. Ogni puntata richiede quattro o cinque giorni di lavoro, perciò mi sono imposto sveglia alle 4.30, doccia, colazione, alle 5.30 in viaggio con autocertificazione. E a quest’impegno aggiungi i tamponi che a causa del Covid 19 organizzo per i set, gli spettacoli da solo o con il gruppo».

Fatica ripagata da un prodotto vincente. Semplice, naturale, popolare intrinsecamente: Mudù, ovvero i Pooh della comicità pugliese.

«I Pooh. Sì, però non credere. Il nostro humor è popolare ma mai volgare e per questo cattura anche il notaio, il docente universitario, l’anziano e il bambino che canta sigle e stacchetti country o tirolesi. Ho consultato un pediatra per comprendere la predilezione dei piccoli fan scatenatissimi».

Inoltre hai un volto pulito e vitale, plastico nel paraculesco.

«Ciò che faccio oggi ho voluto farlo sempre. Presi la specialità in attore quand’ero negli scout, con prima esibizione in Calabria, Frassineto. Facevo l’animatore nei villaggi turistici, proponevo spettacolini. Per la parrocchia, nel capannone attiguo, raccoglievo offerte esibendomi come Fachiro Uccinì su vetri veri. Ho due sorelle, Laura e Giulia, un fratello Antonio che sta in pubblicità e collabora alla scrittura delle scene. Ho una madre, Angela, casalinga, e ho avuto un padre Francesco, morto nel 2003, medico Inail, nonché del fondista di nuoto Paolo Pinto: io stesso ho attraversato lo Stretto di Messina. Voleva un figlio che svolgesse il suo mestiere. Finché un giorno si rese conto che per ottenere un viatico quando occorreva, bastava che dicesse: sono il papà di Uccio De Santis. E fu contento».

·        Umberto Smaila.

"Oggi non rifarei Colpo grosso... sarebbe soppiantato dal #metoo". Francesco Curridori il 13 Agosto 2021 su Il Giornale. La carriera, il tifo per il Milan, l'amore per la Sardegna e per la sua Verona. Umberto Smaila si racconta a 360 gradi, senza filtri...“Scrivilo, scrivilo che amo la Sardegna”. Umberto Smaila, che in questo periodo sta intervallando le vacanze con i suoi spettacoli in Costa Smeralda, mi prende subito in simpatia non appena riconosce il mio inconfondibile accento sardo. Iniziamo così subito un "lungo viaggio" in cui Smaila ripercorre tutta la sua carriera artistica dagli esordi con i Gatti dei vicoli Miracoli sino ai giorni nostri.

Quando ha deciso di entrare nel mondo dello spettacolo?

“Fin dall'età di 8 anni ho seguito dei corsi di recitazione e di pianoforte. Ero molto bravo, ero considerato un possibile bambino prodigio, ma poi mi sono guastato perché, poi, è arrivata l'epoca del beat. Io suonavo nei vari complessini a Verona e dalla musica classica mi sono spostato verso il pop e il rock. Ho sempre proseguito anche quando facevo la scuola, durante le medie e i primi anni d'università. Ero iscritto in Legge all'università di Bologna e avevo dato anche 13 esami, ma poi ho smesso quando ho iniziato a lavorare al Derby Club di Milano, il cabaret più importante del Nord Italia”.

La gavetta è stata molto dura?

“Sì, è stata dura e lunga. Noi abbiamo fatto dal '71 al '76 cinque anni di lavoro preparatorio e, a un certo punto, sembrava che potessimo tornarcene a casa a Verona. Poi, invece, accaddero delle cose sorprendenti, fummo chiamati dalla Rai a fare un programma in bianco e nero. Nel '77 ci fu un programma storico della televisione italiana, Non Stop, dove c'erano Verdone, i Giancattivi con Benvenuti, la Smorfia con Troisi e noi, i Gatti dei vicoli Miracoli. Questo determinò la nostra consacrazione nel mondo dello spettacolo a livello nazionale. Ormai il nostro futuro era deciso”.

Ma come sono nati i Gatti dei vicoli Miracoli?

“Siamo nati tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70. Decidemmo di chiamarsi così perché dovevamo fare un programma televisivo a Roma che, poi, in realtà, non si fece. Dato che avevamo scritto una canzoni che si chiamava 'vicolo miracoli' che è un vicolo esistente nel centro di Verona e visto che i gatti ci sembravano degli animali abbastanza autonomi e graffianti, ecco come nasce il nome i Gatti di vicolo Miracoli”.

Cosa rappresenta per lei Verona?

“Verona rappresenta i primi 20 anni della mia vita dove ho frequentato una scuola importante come il liceo classico Maffei. Il mio è un amore incondizionato per una delle città più belle d'Italia. Il 20 luglio scorso siamo stati all'Arena di Verona per celebrare i 70 anni di Jerry Calà e, in quell'occasione, abbiamo rispolverato le nostre vecchie canzoni. Io ho scritto la canzone Verona beat che era la canzone del nostro primo film Arrivano i gatti con la regia di Carlo Vanzina ed è diventata l'inno sia della squadra di calcio sia della città dove vive ancora mia mamma 95enne”.

Perché, secondo lei, Colpo grosso ebbe tanto successo?

“Perché è stato un programma assolutamente di rottura. All'epoca non c'era nulla che gli assomigliasse e il fatto che aveva dei contenuti anche abbastanza forti e questo attirava il pubblico. Ma, una volta attirato il pubblico, si scopriva che il programma era appetibile un po' per tutti tant'è vero che ricevevamo un sacco di letterine di ragazzine che mandavano dei disegni alle ragazze cin-cin. Il programma è diventato nazional-popolare e da allora è stato replicato ininterrottamente ed è andato in onda per 30 anni in varie reti nazionali. Ultimamente se l'è ripreso Mediaset e, in occasione del lockdown, ha trasmesso per due volte tutta la serie delle puntate di notte”.

Sarebbe riproponibile oggi un programma del genere o verrebbe soppiantato dal politicamente corretto?

“Adesso non lo rifarei perché non avrebbe più senso. Oggi sicuramente più che dal politicamente corretto sarebbe soppiantato dal #metoo, cioè sarebbe considerato un modo per trasformare la donna in oggetto. È un problema che non mi pongo, appartiene al passato e rimarrà un programma che ha cambiato la televisione e ha fatto tanta compagnia a milioni di italiani. Oggi, poi, le carte in tavola sono cambiate e quel programma farebbe sorridere per la pochezza della sensualità che lo caratterizzava, però è stata un mezzo per ricordare in eterno che io mi chiamo Umberto Smaila. Con Colpo Grosso mi sono garantito l'immarcescibilità”.

Perché, a un certo punto della sua carriera, ha abbandonato il mondo della televisione per dedicarsi all'intrattenimento i locali 'Smaila's'?

"Non c'erano più spazi per il mio modo di esprimermi. La televisione italiana ha trasformato il varietà in talk-show o gara tra cantanti e il mio ruolo sarebbe potuto essere al massimo quello di giudice di talent. Ma, a dir la verità, non sono mai stato convocato per cui ho fatto un musical su Fred Buscaglione e, poi, ormai da 25 anni mi sono messo a fare gli spettacoli d'intrattenimento".

Quando e come si è innamorato della Sardegna?

"Io sono venuto in Sardegna nel 1974 perché avevo delle storie. Andavo al Sud, a Porto Pino e Porto Pineddu, nella zona di Teulada. Ho visto quelle spiagge e quelle dune di cui mi sono innamorato e, poi, da lì, ho cominciato a spostarmi al Nord, in Costa Smeralda. Ho deciso di fare un locale a Liscia di Vacca in una struttura che si chiamava il Bagaglino. Dopo due anni sono stato praticamente ingaggiato dai proprietari di Poltu Quatu dove sono rimasto per 18 estati consecutivi. È stato un momento epico e credo di aver contribuito a far conoscere le bellezze della Sardegna e soprattutto dell'arcipelago della Maddalena dove mi spingevo tutti i giorni col gommone".

Cosa pensa del Green-pass? Sarà un handicap per il mondo dello spettacolo oppure un aiuto?

"Quello che abbiamo vissuto rispetto al Green-pass è il baratro. Noi siamo stati 12 mesi senza fare neanche uno spettacolo e, quindi, ben vengano tutti i Green pass di questo mondo se ci consentono di fare il nostro lavoro. Penso che sia stata un'iniziativa giusta perché può spingere la gente a vaccinarsi, cosa che io cerco di fare tutti i giorni con i miei video su Facebook. Tutto ciò che contribuisce a farci lavorare, ben venga perché siamo stati tanto tempo abbandonati e perché il nostro lavoro è determinato dal poter muoversi e andare nei locali pubblici. Non siamo stipendiati né dai giornale né dalle televisioni, né dallo Stato né dal Parlamento e, quindi, abbiamo bisogno di lavorare".

Come nasce la sua passione per il Milan?

"Da bambino, intorno agli 8-9 anni, come tutti. All'epoca il Verona Hellas era in serie B e, quindi, ogni ragazzino sceglieva la sua squadra del cuore. In quel momento si sceglieva tra Juventus, Inter e Milan e qui c'era un grande giocatore che sia io sia mio padre amavamo, ossia Gianni Rivera, uno straordinario campione. Diventando fan di Rivera, divenni anche tifoso del Milan. Alla fine degli anni '70, ho avuto modo di conoscerlo e vederlo allo stadio fare quei suoi numeri funambolici. Poi, con l'avvento di Berlusconi con cui avevo iniziato a fare i primi programmi televisivi su Canale5, il tifo è cresciuto dopo che Silvio ci ha fatto vincere coppe e campionati. È stato il coronamento di un tifo nato da ragazzo e tutt'ora sono seguace del Milan".

Lei si è trovato meglio a lavorare in Rai o in Mediaset?

"In Rai ho fatto delle cose talmente importanti, soprattutto Non-stop, che non potrei mai sbugiardare questo fatto. Poi, lavorando tantissimo in Mediaset facendo quasi duemila trasmissioni, ovviamente mi sono legato molto a Canale5. Esemplificando posso dire che la Rai era molto più governativa e burocratica, mentre in Mediaset si era più liberi di dire quel che si voleva".

Qual è la sua più grande paura?

"Mah, questa è una bella domanda che non mi ha mai fatto nessuno. Non ci avevo mai pensato. Forse è il fatto stesso d'aver paura. Pensando a una frase che aveva detto Woitjla “Non abbiate paura di avere paura”, posso dire che quello sia un esempio da seguire".

Qual è, invece, il suo più grande rimpianto?

"Potrei dire vincere l'Oscar visto che ho scritto le colonne sonore di molti film di successo. In questo momento sto facendo la colonna sonora dell'ultimo film di Enrico Vanzina, Le tre sorelle. Il cinema e la musica da film sono un po' la mia seconda vita e, quindi, il rimpianto potrebbe essere quello di non aver vinto qualche premio importante. Ho vinto un Ciak d'oro, ma c'è sempre lì all'orizzonte un David di Donatello oppure, sognando proprio, un Oscar... La speranza è l'ultima a morire".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

·        Umberto Tozzi.

Piero Negri per “la Stampa” il 19 marzo 2021. Umberto Tozzi (Torino, 4 marzo 1952) dal vivo, in un concerto acustico in streaming il 10 aprile in diretta dallo Sporting Monte Carlo. Biglietti su umbertotozzi.com, incasso ai suoi tecnici e musicisti, come parziale risarcimento per l'inattività da Covid.

Tozzi, è un nuovo modo di proporre la sua musica?

«Assolutamente no. In questo periodo mi hanno chiesto un miliardo di volte di suonare da casa, ma non me la sono sentita. In realtà sogno di suonare per 200 persone in un club».

È vero che non ha mai fatto un concerto acustico prima?

«Mai. Con me avrò un percussionista, Daniele Leucci, la violinista e corista Elisa Semprini e Yanez, Gianni Vancini, sassofonista. Mi muoverò tra pianoforte e chitarra, sto ripassando le canzoni e devo dire che sono contento. Ci saranno canzoni come Fermati allo stop, Gabbie, Il fiume dentro il mare, che non ho mai fatto prima dal vivo. Si prestano molto».

Come vive la pandemia?

«Male. Abbiamo dovuto interrompere il tour con Raf, che stava andando benissimo. Poi nel 2021 avevo in progetto un tour mondiale, Sudamerica, America, Europa fino a Finlandia e Norvegia... Ora siamo molto spaventati. Onestamente credo che i grandi concerti a cui eravamo abituati non torneranno finchè non avremo la fiducia di poterci riavvicinare e riabbracciare».

Per questo parlava di club da 200 posti?

«Forse chi come me fa da sempre il musicista avrà un vantaggio. Potremo lavorare in maniera più semplice. A me bastano un occhio di bue e quattro amplificatori Vox AC30, il piacere di suonare non è legato a quante gente c'è».

Che rapporto ha con i suoi vecchi e grandi successi?

«Se ha visto Sanremo, li vivo così, divertendomi. Ogni volta mi rendo conto di aver fatto cose forti, con grandi potenzialità, tanto groove, che non dimostrano la loro età».

Ti amo, Tu, Gloria hanno più di 40 anni. Non è incredibile?

«Sono stato molto fortunato, ho avuto un'internazionalità che da italiano è difficilissimo avere. Se le dicessi come Gloria è diventato un successo mondiale».

Come è andata?

«Dopo Ti amo e Tu volevo cambiare, cercavo qualcosa di nuovo. Elio Gariboldi mi fece incontrare Greg Mathieson, un giovane tastierista che aveva lavorato con Giorgio Moroder. Lavorammo insieme a Monaco negli Union Studios dove andavano i Queen, poi lui tornò in America. Un anno e mezzo dopo, viene coinvolto nel primo album di Laura Branigan. Manca un pezzo per finire l'album e lui si ricorda di Gloria. Gli danno l'ok, Laura la canta, la infilano nell'album come riempitivo, poi l'Atlantic manda il disco alle radio, i dj di New York la notano e cominciano a suonarla. Ecco perché dico: rifarlo è impossibile».

Con Gloria è finito pure ai Grammy.

«Ecco, questo l'ha detto Amadeus a Sanremo, ma io sinceramente non me lo ricordavo. Mi ricordo il Golden Globe, poi naturalmente Gloria nella colonna sonora di The Wolf of Wall Street, la mia versione, non la cover di Laura Branigan, e Ti amo nella Casa di carta».

Ha scritto pezzi nuovi?

«Moltissimi, anche se non voglio far uscire nulla finché non stiamo tutti bene, sereni e con il lavoro. Tanta roba che mi piace. Molto tozziana. Penso di essere tornato alla creatività tozziana dei primi tempi. Gloria o Ti amo non si ripetono, come non si rifà Satisfaction e neanche McCartney ce la fa a rifare Yesterday. Però scrivo come in quel periodo d'oro».

Perché? Se l'è chiesto?

«Mi sono detto: lavora con spontaneità, senza cercare a tutti costi qualcosa di diverso, come hai fatto in certi momenti. Cerca di emozionarti, nel genere che in fondo hai inventato tu».

Come visse quel periodo d'oro? Si sentiva sotto pressione o era un momento magico? «Fu un momento magico, sì. Però Donna amante mia, il mio primo album, non fu un successo, se non avessi fatto Ti amo sarebbe stata molto dura per me. Pensi che Alfredo Cerruti, che pure fu un grande direttore artistico, avrebbe voluto che il singolo fosse Se tu mi aiuterai. Ho dovuto lottare con lui e con Giancarlo Bigazzi. Ero troppo convinto di Ti amo».

Perché?

«Ti amo ha una personalità pazzesca, è più canzone, è pop. Più di Gloria. È come quando senti Every Breath You Take dei Police: sì, Walking on the Moon è un gran pezzo, ma Every Breath You Take è un'altra categoria, è più forte».

Non si smette di discutere sul significato del testo.

«Il testo non ha né capo né coda, sono tutti flash, immagini. Da Ti amo in poi ho sempre lavorato sul suono delle parole, sulla metrica. È la metrica l'aspetto più originale del mio repertorio. Vengo dalla scuola inglese, dai Beatles in poi, su musiche come quelle di Gloria, Ti amo, Tu, Stella stai, la parola italiana è molto difficile da mettere. E io ho sempre anteposto il suono al contenuto».

·        Val Kilmer.

"Devo scegliere tra respirare o mangiare". La lotta contro il cancro alla gola di Val Kilmer. Huffingtonpost.it il 27/08/2021. La diagnosi risale a 6 anni fa. L’attore si è sottoposto a trattamenti di radioterapia, chemioterapia e ha effettuato una tracheostomia. Il racconto in un documentario sulla sua vita. “Devo scegliere tra mangiare e respirare. Posso ingerire cibo solo attraverso un sondino”. Sei anni fa è stato diagnosticato a Val Kilmer un cancro alla gola. L’attore si è sottoposto a trattamenti di radioterapia, chemioterapia e ha effettuato una tracheostomia. La sua storia, dalla popolarità con Top Gun alla lotta contro il cancro, la racconta in un documentario a lui dedicato, “Val”, diretto da Leo Scott e Ting Poo e disponibile in America su Amazon Prime Video. “Non ha la vanità che ti aspetteresti da qualcuno della sua fama e celebrità. Non ha mai avuto quel tipo di artificio o protezione che le persone davvero famose si costruiscono intorno”, hanno raccontato i registi, “Val è una persona ricca di sfumature. In lui c’è una giocosità infantile, ma anche la profonda saggezza di un uomo che ha seguito un percorso spirituale per tutta la sua vita. Ha molti opposti che lo rendono incredibilmente interessante, ed è questo il motivo per cui il nostro film merita una possibilità”. Kilmer sarà in Top Gun: Maverick, sequel del celebre film. “Ha continuato a esprimersi in modo creativo”, ha raccontato il regista Scott, “Realizza delle opere d’arte incredibili. È sempre positivo e non è uno che si autocommisera. Si è evoluto come tutti noi, ma nel materiale presente nel documentario si vedono tanti temi che ritornano: è sempre stato una persona spirituale, è sempre stato creativo, super esilarante ed è sempre stato legatissimo ai suoi figli. Tutto questo rimane”.

La figlia di Val Kilmer: «Per papà il recupero è stato faticoso quanto affrontare il cancro». Chiara Pizzimenti su Vanityfair.it il 7 agosto 2021. «Ora che è più difficile, voglio raccontare la mia storia più che mai». Val Kilmer è protagonista di un documentario che racconta la sua vita. L'ultimo capitolo è quello della malattia, il cancro alla gola, da cui sta ancora faticosamente recuperando. I figli di Val Kilmer raccontano ancora particolari della sua battaglia contro il cancro alla gola. «Il recupero è stato faticoso quanto la malattia» ha detto la figlia Mercedes in una intervista alla rivista Etra. Ha spiegato che sta bene, ma che sta ancora lavorando al recupero e che tutto questo processo non è semplice. Mercedes, 29 anni, ha coprodotto insieme al fratello Jack il documentario che porta il nome del padre, Val, presentato a Cannes, che racconta la sua storia e che sarà trasmesso da Amazon Prime. «Tutti ci hanno dato grande sostegno e questo mi ha emozionato molto. È davvero bello vedere tutte queste persone insieme» ha detto il 26enne Jack. Il ragazzo ha lavorato con la sorella al documentario che ripercorre la carriera del padre, ma anche la sua battaglia contro la malattia. «Tutto il film è emozionante» ha aggiunto Mercedes alla presentazione a Los Angeles. «Non che non mi aspettassi questo da mio padre. È un uomo molto aperto che conosco bene. Mi ha sorpreso la reazione del pubblico. Sono abituata al fatto che la gente non comprenda mio padre perché la sua immagine pubblica è molto diversa da quella privata. In realtà è una persona molto divertente». Nel primo trailer del film ci sono immagini inedite e private con anche spezzoni del giovane interprete di Top Gun con i colleghi Kevin Bacon e Sean Penn. Val Kilmer ha difficoltà a comunicare non potendo più usare la sua voce lo fa per dire che è ancora in fase di recupero, ma voleva raccontare la sua storia più di ogni altra cosa. «Mi sembra ieri, ma è passata una vita intera», ha scritto su Twitter l’attore.

A dargli la voce nel film è il figlio Jack. Nel trailer dice: «Da molto tempo volevo raccontare una storia sulla recitazione. Riguardo a dove tu finisci e inizia il personaggio, sulla verità e l’illusione. Ora che è più difficile, voglio raccontare la mia storia più che mai».

Cher ricorda l’amore con Val Kilmer: «L’ho amato molto, e lo amo ancora». Claudia Casiraghi su Vanityfair.it il 29 agosto 2021. La cantante ha ripercorso per «People» la relazione avuta con la star di «Top Gun», di quattordici anni più giovane di lei. «All'epoca, era un fatto grosso l'età. Ma la verità è che, se non fossi uscita con un uomo più giovane, non avrei mai avuto un appuntamento». «Eravamo entrambi fossilizzati sull’essere individui, e nessuno avrebbe mai rinunciato a questa forma di egoismo». Così Cher, che per People ha scritto un lungo articolo, in cui ha ripercorso gioie e dolori della propria relazione con Val Kilmer, ha descritto la dinamica dell’epoca. «Val era uno spirito libero, pronto a spingere all’estremo ogni confine esistente. Abbiamo passato del tempo meraviglioso insieme, ma ci sono stati momenti meno idilliaci. Eravamo entrambi maschi alfa», ha confessato la cantante, che l’attore di Top Gun ha conosciuto ad una festa di compleanno, nel 1981. «All’epoca, siamo diventati amici. Eravamo capaci di ridere per le stesse cose, e ci è voluto del tempo prima che la relazione portasse ad altro», ha spiegato Cher, ammettendo di aver avuto qualche esitazione sulle prime. Il fatto che Kilmer avesse quattordici anni meno di lei «Era un fatto grosso», ha scritto, «Ma la verità è che se non fossi uscita con un uomo più giovane non avrei mai avuto un appuntamento. Gli uomini più giovani non erano intimiditi da una donna più vecchia. I miei coetanei, invece, non avevano quella stessa disinvoltura», ha continuato la cantante, rivelando i nomignoli che la coppia si era data nella propria, rassicurante intimità. «Ci chiamavamo Sid ed Ethel. Val non aveva alcuna intenzione di urlare “Cher”, né io volevo chiamarlo Val. Ogni tanto, capitava ci chiamassimo Valus Maximus e Cher Reprimandus […] L’ho amato molto, e ancora lo amo», ha chiuso Cher, che con Val Kilmer ha sempre mantenuto un legame speciale.

·        Valentina Lashkéyeva. In arte: Gina Gerson.

Barbara Costa per Dagospia il 27 giugno 2021. In Russia c’è e troneggia la mafia. Saviano lo sa, pensoso se ne occupa. Potrebbe sentire a testimone questa ragazza qui, che ha appena compiuto 30 anni, ed è tra le pornostar russe più famose al mondo. Gina Gerson è l’opposto della micetta sexy che appare in foto. Non solo con quel corpicino che si ritrova (pesa 40 kg, ed è alta 160 cm) è tra le più accese in gang-bang cruente e specie in quelle anali girate a maratona (e dirette da donne!) ma ha un carattere d’acciaio. Se l’è dovuto formare per ciò che ha passato. Suo padre fa parte della mafia russa, e Gina ha avuto infanzia e adolescenza se non degne di una puntata di Gomorra, quasi. Il vero nome di Gina Gerson è Valentina Lashkéyeva, e lei è nata all’alba del 17 maggio 1991 a Prokópievsk, in Siberia, in un’Urss che ha solo altri 7 mesi di vita. La madre di Gina è una ragazza madre. Gina non ha mai conosciuto il suo vero padre, non l’ha mai visto nemmeno in foto: sa solo che sua madre a 16 anni ha amato un ragazzo di 21 con cui ha fatto sesso per la prima volta, un’unica volta, rimanendo incinta. Il 21enne, saputo "il fatto", fa perdere le sue tracce, e quando Gina ha 1 anno la madre conosce e sposa un mafioso. Non so di che rango, o grado, Gina non ne fa certo il nome: la fanno crescere con la convinzione che lui sia suo papà. E però un papà che le fa cambiare 5 scuole in 10 anni, un papà che non fa mancare soldi e agi e che però va e viene, non abita stabilmente con loro, e Gina ricorda periodi in cui lei e la madre venivano prese all’improvviso e trasferite altrove. Gina cresce isolata, non ha amici, mica vede fatti di sangue, la mafia non funziona così, ma a un certo punto la nonna materna va a vivere con loro, perché la sua casa è stata fatta saltare in aria, in un attentato. Attentato che nelle famiglie normali non succede, e attentato attribuito da Gina ai “nemici di mio padre”. A Gina dicono la verità – sul padre che non è il suo vero padre e sul suo "lavoro" – quando ha 14 anni. Diplomatasi, la ragazza ottiene una borsa di studio per l’università statale di Tomsk, e si iscrive a lingue straniere per diventare interprete. Gina si libera e se ne va, da "quella" famiglia, da "quella" perenne tensione. Gina a 18 anni non ha mai avuto un ragazzo, ed è vergine. Rimedia a 19, con un coetaneo studente universitario, che lascia perché a letto poco sapeva fare, e pure male. Lo lascia per altri 2 motivi importanti: ha un altro e ha trovato un lavoro "diverso" che le piace molto. Non volendo più dipendere dalla sua famiglia "equivoca", Gina si mantiene con lavori part-time (volantinaggio, ripetizioni, pulizie) fino a che non trova per strada attaccato al muro un annuncio per fare la cam-girl. Esibirsi nuda in cam non è il divertimento che Gina ipotizzava, però i guadagni non sono male. Ma Gina nasconde a tutti – compreso il suo ragazzo – che si spoglia e si tocca e mugola in rete: i suoi clienti aumentano, e il suo nome (d’arte) emerge dal web. La nota un produttore porno che la invita a San Pietroburgo per uno shooting. Gina ci va e lo fa. E qui avviene ciò che lei racconta, ma a me è poco chiaro, o forse è così che le cose vanno in Russia: il rettore universitario scopre – come? – che lei ha cominciato a fare porno, e le toglie la borsa di studio, e le dice che lei all’università “non è più gradita” poiché “persona immorale”. Com’è che scriveva Giorgio Bocca? “La Russia è una democrazia "controllata"”. Gina lascia l’università, lascia il suo ragazzo, lascia la Russia: si trasferisce a Budapest, fa porno su porno, diventando tra i volti – e i corpi – più famosi. In 5 anni diventa un’icona e fa impresa di sé. Gina è sveglissima e lascia le agenzie per mettersi in proprio. Il suo nome – e corpo – nel porno scavalcano i confini, diventa una stella in Ungheria e Francia, e arriva nel porno USA che conta. L’invasione dei corpi di donne dell’Est europeo nel porno inizia a ridosso del disfacimento dell’Urss. Una invasione che il porno ha gradito ma che non ha portato alla maggioranza di queste ragazze – ma pure ragazzi – un successo vero, e duraturo. Sono poche le russe che riescono a porno-conquistare l’America, gran parte rimane nel porno poco tempo, anche qualche mese, e usa il suo corpo giovane e fresco – è indubbiamente molto bello – per racimolare soldi in fretta. Non è stata questa la strada scelta e voluta da Gina Gerson, non è mai stato questo il suo obiettivo: Gina voleva il porno e attraverso il porno crearsi una vita e una personalità più distanti possibili dal suo passato. Gina racconta la sua vita dentro e fuori dal porno su "Ginagerson.xxx", sui suoi social, ma pure in "Success Through Inner Power and Sexuality", la sua autobiografia da poco uscita in versione audio con la voce di Alex Coal, giovane attrice porno. E Gina Gerson non smette col porno (né con le sue esibizioni live in cam, spesso gratuite). Lei è molto seguita per la semplicità con cui posta video hot sui set, i dietro le quinte, ha una fan-base di feticisti pazzi dei suoi piedi, e per i video di vita privata che mostra. Vita casalinga in cui c’è masturbazione e il sesso che fa con colleghi e amici. All sex. Gina è bisex. Ha rivelato di aver avuto molte storie, pure con pornostar la prima volta assaggiati sui set. Lei viene nel 90 per cento delle scene che fa. Il 10 che finge, non è colpa sua.

·        Valentina Nappi.

Francesco Rigatelli per "lastampa.it" il 25 agosto 2021. «Se non sono tutti vaccinati io non ci vado». Valentina Nappi, 30 anni, la regina del porno italiano, sposata con un matematico convertito ai film hard, chiede il Green Pass per lavorare sul set.

Ha paura di venire contagiata?

«Certo, parliamo di posti dove ci sono decine di persone». 

Sta lavorando di meno per questo?

«Ho rallentato, ma perché i set non devono essere sicuri? Se fossi un produttore chiederei il Green Pass, perché in caso di contagio dovrei pagare a tutti l’hotel per la quarantena. Invece pure nel porno esistono i No Vax». 

Ha detto che i peggiori sono i vaccinati che strizzano l’occhio ai No vax, con chi ce l’ha?

«È evidente...».

Forse Salvini, con cui se l’è presa perché va in giro senza mascherina?

«Anche lui, ma non solo. Certo non capisco perché non venga multato, mentre un ragazzo a Noto deve pagare 10 mila euro per aver mostrato il sedere». 

È vero che frequenta solo vaccinati perché «è un ottimo modo per liberarsi dei coglioni»?

«Casa mia è come un ristorante: si entra col Green Pass». 

Con simili posizioni non teme i No vax?

«Tra anti-porno, femministe ed estremisti religiosi sono abituata». 

Su Twitter han scritto che lei è meglio di Landini non solo a letto, ma anche politicamente...

«Non ci vuole tanto. I leader dovrebbero guidare invece seguono il popolo. Hanno potere, ma lo esercitano per il loro tornaconto senza assumersi responsabilità». 

E i virologi le piacciono?

«Non sono sapiosexual... Burioni fa battute infelici, ma è umano perdere la pazienza coi No Vax. Mi piace la Capua, perché ha una bella storia e non sbrocca mai». 

E il governo Draghi?

«Finora non mi è parso particolarmente progressista». 

Lei è anti-femminista?

«No, ma le femministe non vogliono la vera uguaglianza: desiderano gli stessi poteri degli uomini senza perdere i privilegi femminili». 

È una posa per accattivarsi la simpatia dei maschietti?

«Non ne ho bisogno». 

Si è vestita da madonna in metro?

«Sono atea e contro la religione organizzata». 

E Papa Francesco?

«Il migliore come marketing, ma la dottrina cattolica è antimoderna». 

Un personaggio che stima?

«Me stessa».

Barbara Costa per Dagospia il 21 marzo 2021. “Quando il c*lo gode, la fessa applaude”, scrive Valentina Nappi su Twitter, e chissà quanto il suo ha goduto e la sua applaudito in "Il c*lo del mio capo ha bisogno di assistenza", il nuovo porno di Valentina, che vede il debutto della oggi più grande pornostar italiana – e famosa nel mondo – su "DickDrainers.com". La cara Nappi stavolta ci regala un porno smodato, smisurato, con tanto, (tantissimo!) uso di lingua. E non potrebbe essere diversamente: DickDrainers.com è il re del porno-rimming! Dickdrainers.com è una creazione del produttore e attore porno Branden Richards, colui che del rimming tra le sue natiche aperte fa vanto e forza, e strumento e mestiere. E non fatevi ingannare dal titolo: se si pensa che questo porno fotografi il cliché della donna sottomessa, mite preda passiva di voglie maschili, si cambi idea, o se ne scelga un altro: il "capo" del titolo è proprio Valentina, è lei che qui recita da boss, ed è una boss str*nza, antipatica, che assume come assistente Branden Richards e lo tratta male, lo insulta, gli tira addosso oggetti. E Branden qui recita da chi ha bisogno di soldi, e gli va bene qualsiasi lavoro, e però non gli pare vero di ritrovarsi assistente di una straf*ga come Valentina. La quale si rivela un capo prepotente, rissoso, e… sexy! Il boss Valentina è in crisi di nervi per responsabilità lavorative, e pure perché suo marito è via, in viaggio, così… un giorno ordina al suo assistente di raggiungerla di corsa non in ufficio ma a casa, e lì… il ruolo e "le posizioni" tra boss e assistente mutano, assumono altri e caldi contorni, e la Nappi grida sì, ma non più perché è esaurita! La bravura e il corpo di Valentina sono messi in risalto dalla regia tipica di Branden Richards, maestro delle angolazioni, il quale offre porno di serie A personalissimo e, se anale, vaginale e rudi (e finti) soffocamenti non mancano, è la lingua di Valentina in azione tra le sue natiche, a prendersi la scena. E tutta la nostra porno-attenzione. In ogni porno di Branden Richards il rimming la fa da padrone, lui è celebre e seguito per questo. I suoi porno sono amati dai "fissati" delle leccate, e della fellatio, e ogni bontà sessuale orale. Branden ha iniziato nel porno da fan del porno, si considera un artista (“il mio caz*o è la tela” è il suo motto) e coi suoi, di fan, tiene un filo diretto, dove chiede (e riceve) assensi e "consigli" su attrici con cui rimming-pornare. Attrici che devono mostrarsi sessualmente aggressive. Se poi hanno sedere e seni grandi… meglio! Branden Richards gira con una maschera, un passamontagna che gli copre interamente il viso, sui siti ci sono tuttavia scene in cui appare col viso scoperto ma io non ci giurerei sia davvero lui e, se il resto del suo corpo e il suo ano “da leccare fino in fondo!” sono disponibili anche per attrici non professioniste, l’ingresso di una pornostar internazionale come la Nappi ha infuocato DickDrainers.com per i troppi accessi! E sulle chat si svela gente che si è abbonata al sito solo per lei. “Quest’anno devo prendere tutto il pesce che non ho preso l’anno scorso”, assicura Valentina sempre su Twitter, e lei certo il 2021 l’ha iniziato bene: dopo Branden Richards si è gustata Gianpaolo XXL, in un porno girato a casa sua – di Valentina – e che ti vedi sui loro OnlyFans. Nonostante la pandemia e rispettando tutte le norme anti-Covid, Vale nostra non sta ferma, gira a Praga e in Ungheria, e sempre su OnlyFans trovi suoi shooting e video con la splendida May Thai. Io sto con Valentina, e appoggio la sua battaglia per il ritorno di Visa e Mastercard fruibili su Pornhub, perché va gridato ed è vero che “la vostra decisione [di boicottare Pornhub in seguito alle accuse di postare video non consensuali e di pornografia minorile, accuse mosse dal New York Times] non ha aiutato nessuna vittima di revenge porn o stupro, ha soltanto tolto i guadagni a noi performer che facciamo tutto legalmente”. Ehi! Branden Richards non ci sta, non gli basta, e aspetta solo che ritorni la libertà di viaggiare cosicché Valentina Nappi possa andare in America: l’assistente del suo c*lo reclama la rivincita, in un porno-secondo-rimming round.

·        Valentine Demy.

Mattia Pagliarulo per Dagospia l'8 maggio 2021. Valentine Demy è stata una delle pornostar più famose ed apprezzate a livello internazionale. Classe 1963, toscana doc, ex modella ed ex campionessa di culturismo. Marisa Parra, così si chiama all’anagrafe, ha esordito nel mondo dello spettacolo negli anni 80’ come attrice di film erotici, diventando musa del noto regista Tinto Brass nei film Snack Bar Budapest nel 1988 e Paprika nel 1991, ha recitato inoltre anche al fianco di Jerry Calà in Abbronzatissimi per poi passare esclusivamente al genere hard.

D. Valentine, lei ha esordito negli anni 80’ con alcune pellicole erotiche dirette da Tinto Brass, come mai all’inizio degli anni 90’ è passata poi al mondo del porno?

R. Sono passata dall’erotismo al porno nel 1994 semplicemente perché non c’era più mercato per i film erotici, ne ho fatti tantissimi negli anni 80’ al fianco di Eva Grimaldi, Carmen Di Pietro e Pamela Prati solo per citarne alcune. Dal 1990 al 1994 mi sono dedicata allo sport, sono stata campionessa italiana di body building. Poi nel 1994 ricevetti una proposta da un regista per fare un film porno insieme a mio marito, il pluricampione italiano di culturismo Roberto Bellagamba e decidemmo di accettare!  Dopo questo film ne feci tanti altri ma da sola, senza di lui.

D. Dice di essere in difficoltà economiche, dove sono finiti tutti i milioni di lire che ha guadagnato come attrice negli anni 80’ e 90’?

R. Non sono mai stata una risparmiatrice, come tanti colleghi del mondo dello spettacolo, noi artisti un po’ pazzi pensiamo di guadagnare tanto per sempre, e invece non è così. Sono stata una spendacciona e non nascondo di aver fatto in passato uso di cocaina, cosa che sconsiglio vivamente oggi come oggi a tutti. Poi ho aiutato tanto la mia famiglia all’epoca, mia figlia era incinta e in quel periodo non lavorava. Né lei ne suo marito…

D. Ho saputo che soffre di depressione come sta in questo periodo?

R. Soffro di una forte depressione, mi curo con i medicinali e con la psicoterapia, ma in questo periodo sto un po’ meglio. Ho notato però che quando lavoro e sono impegnata sto bene. Di depressione non si guarisce mai, io ne soffrivo in adolescenza, poi sembrava sparita, è tornata negli ultimi anni da quando sono andata in menopausa e ho smesso di lavorare. Ad oggi faccio la badante  quasi a tempo pieno, ho una madre ed uno zio invalidi da accudire. Nel poco tempo libero che ho, faccio qualche incontro privato come mistress per arrotondare, la pensione di mio marito non è sufficiente per vivere. Ho una serie di slave sottomessi che incontro, vengono ad adorarmi e venerarmi, io in cambio lì sodomizzo, lì umilio e mi faccio servire, trattandoli come se fossero dei vermi di terra.

D. Ci racconti bene del flirt con Giancarlo Giannini.

R. Con Giancarlo ci siamo conosciuti alla fine degli anni 80’ sul set del film Snack Bar Budapest di cui Giannini era protagonista. Ci siamo piaciuti subito e ci siamo incontrati svariate volte. Era una storiella clandestina, non alla luce del sole. Lui voleva vedermi di nascosto, non voleva farsi vedere con me e io l’ho rispettato. La frequentazione non è continuata perché io andai via da Roma, cambiai casa e la comunicazione di allora non era facile come adesso, esisteva solo il telefono fisso. Era educato, dolce e un po’ timido.

Dopo tanti anni l’ho incontrato nuovamente sul set di una fiction Mediaset e mi ha completamente ignorata...

D. Come mai la ignorò secondo lei?

R. Forse perché ero diventata nel frattempo una pornostar, o per altri motivi a me sconosciuti. Io ci sono rimasta molto male...

D. Valentine era da dieci anni che non girava più pellicole hard, però lo scorso anno ha ceduto alle lusinghe di Max Felicitas e ha girato una scena!

R. Premetto che sono stata anni fidanzata con una donna gelosissima, non mi avrebbe mai permesso di farlo ma ora che ci siamo lasciate e sono tornata con mio marito ci ho ripensato. Siamo una coppia aperta, non facciamo sesso da quindici anni ma ognuno ha le sue avventure. Con la mia ex compagna invece c’era un rapporto esclusivo. Il giovane porno attore Max Felicitas mi ha corteggiata professionalmente per girare una scena con lui e alla fine ho accettato, così è nata la scena che si intitola “la zia di Pisa è una gran maiala!”. La zia in questione sarei io, la scena è visibile sul sito di Max.

D. Le piacciono i ragazzi giovani?

R. Si molto e sono molto corteggiata da giovani e giovanissimi. Il ragazzo rispetto all’uomo mi piace per la freschezza, la vitalità, la bellezza, la prestanza fisica...ma dai trent’anni in su, altrimenti mi sembra di andare a letto con un mio nipote. 

D. Qual è l’uomo dello spettacolo che le piacerebbe sedurre?

R. L’ho già detto e lo ribadisco con decisione: Paolo Brosio. Delle amiche in comune mi hanno riferito che anni fa prima della sua conversione religiosa guardava sempre un mio film porno, gli piaceva molto...sicuramente se venisse a letto con me lo farei riconvertire di nuovo...ma nella strada della perdizione! Poi la sua ex collega naufraga Marina La Rosa dopo la loro partecipazione all’Isola dei Famosi vedendolo cambiarsi o vedendolo in costume ha confessato che Paolo è super dotato…

D. È anche nonna di tanti nipoti, come si trova in questo ruolo?

R. Mi trovo molto bene. Sono una nonna normale, me li sono goduta più che potevo nonostante il lavoro. I miei nipoti sono 6: il più piccolo ha 3 mesi e il più grande ha 21 anni, i due nipoti più grandi sanno benissimo il lavoro che faccio e che ho fatto e per loro non è un problema. 

D. Cosa si augura per il futuro?

R. Mi accontento della vita semplice che ho. Con il mondo del porno ho chiuso però, ho quasi 60 anni e quindi dico largo ai giovani. Premetto che non mi pento di nulla e rifarei tutto, anzi forse oserei di più! Quando mia mamma e mio zio non ci saranno più e non dovrò più accudirli cercherò un lavoro normale. Valentine Demy rimarrà nei sogni dei miei tantissimi fans, ora voglio essere Marisa...

·        Valeria Golino.

Anticipazione da "Oggi" il 28 ottobre 2021. Intervistata da OGGI, in edicola domani, durante un periodo di remise en forme a Palazzo Fiuggi, wellness medical spa non lontana da Roma, Valeria Golino rivela: «Dopo un’estate di lavoro ho sentito il bisogno di resettarmi prendendomi dei giorni di calma, nutrendomi di cibo sano e facendo a meno delle sigarette. Ho fatto una dieta a base di cose buonissime preparate da un grande chef come Heinz Beck… Ho colleghe e amiche che hanno il piacere di curarsi: io non ce l’ho... Sono riuscita a mettere i miei organi a riposo, quelli che magari con l’alcol potevo aver sollecitato troppo bevendo due bicchieri di vino a cena, fumandoci dopo la sigaretta, poi mangiando magari un pezzetto di salame o il pane con il formaggio. Tutte le abitudini alimentari-ludiche che fanno parte della mia vita, come il piatto di pasta, il dolce... Qui invece tratto il mio corpo come andrebbe trattato. Ho cambiato faccia, sono rilassata e riposata e si vede». Aggiunge la Golino: «Il mio problema è che non ho il tempo di coltivare abitudini… Bisognerebbe avere la voglia e la volontà di preoccuparsi di se stessi in continuazione. Ma è una cosa che non mi dà piacere. Certo, con gli anni che passano questa manutenzione è inevitabile, visto che noi attrici siamo esposte alla percezione che gli altri hanno di noi…Sono costretta a mettermi delle creme che a 30 anni non usavo, sperando che siano efficaci. Oppure vado dal medico estetico che mi aiuta a “mantenermi”, senza stravolgere i miei connotati. La percezione di sé è fondamentale, ma pretendere di sembrare vent’anni più giovane è ridicolo!». A OGGI la Golino parla anche della sua situazione sentimentale: «Ho un compagno da quattro anni. Sono innamorata, ma negli anni sono cambiata anche in amore. Non è che crescendo si migliora e basta, ci si inaridisce anche un po’».

Arianna Ascione per corriere.it il 22 ottobre 2021.

Una carriera ricca di successi.

È una delle attrici italiane più conosciute al mondo, pluripremiata con importanti riconoscimenti (dai David di Donatello alla Coppa Volpi della Mostra del cinema di Venezia, vinta due volte): Valeria Golino, che proprio oggi compie 56 anni, può vantare una carriera ricca di successi, ottenuti in Italia ma anche nel dorato mondo di Hollywood, tra titoli illustri che hanno stregato il pubblico come «Respiro», «Caos calmo», «Il capitale umano», «Four Rooms» di Quentin Tarantino e «Rain Man - L'uomo della pioggia» in cui ha recitato a fianco di Tom Cruise e Dustin Hoffman. Ora è su Apple TV+ nella serie «The Morning Show 2» e al cinema ne «L’educazione cattolica» di Stefano Mordini. Spesso però in passato, oltre che della sua vita professionale, si è molto parlato anche dei suoi amori: «Ora che sto con un avvocato me lo chiedono meno - raccontava l’attrice nel 2019 al Corriere -. Non ha 25 anni meno di me, come scrivono. Sono tanti, ma non 25. Mi fanno queste domande forse perché non mi sono mai sposata. Mi manca non essere madre, mentre non essermi sposata non è una tappa a cui ambivo. Ma chi lo sa, magari un giorno mi sposerò per allegria, come dice una commedia di Natalia Ginzburg». 

Hollywood e Benicio Del Toro

Nata a Napoli il 22 ottobre 1965 Valeria Golino viene scoperta dalla regista Lina Wertmüller, che la dirige nel 1983 in «Scherzo del destino in agguato dietro l'angolo come un brigante da strada» e l'anno seguente in «Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione». È in quel periodo che conosce il regista Peter Del Monte: i due si innamorano, lavorano insieme nel film del 1985 «Piccoli fuochi», e fanno coppia fino al 1987. L’anno successivo Valeria si trasferisce a Los Angeles e la sua interpretazione in «Rain Man - L'uomo della pioggia» di Barry Levinson lancia la sua carriera ad Hollywood. Sempre nel 1988 esce un altro film che la vede tra i protagonisti: «Big Top Pee-wee - La mia vita picchiatella». Nel cast c’è anche l’attore Benicio Del Toro, con cui Golino avrà una relazione fino al 1992.

La relazione con Fabrizio Bentivoglio

«Valeria capisce sempre la persona che ha di fronte e quella persona si sente immancabilmente capita». Negli anni Novanta Fabrizio Bentivoglio e Valeria Golino vivono una lunga storia d’amore (appaiono anche insieme nel film del 1995 «Come due coccodrilli»). Si lasciano nel 2001 (l’anno prima l’attrice era rientrata in Italia e aveva recitato in «Controvento» di Stefano Vicario e in «Respiro» di Emanuele Crialese, ottenendo ottime critiche) ma riescono a conservare un ottimo rapporto. Nel corso degli anni sono tornati a lavorare insieme in più occasioni, come quando si sono ritrovati nel 2013 sul set de «Il capitale umano» di Paolo Virzì e nel 2014 per la pellicola «Il ragazzo invisibile» di Gabriele Salvatores. 

L’incontro sul set

Terminata la sua unione con l’attore Andrea Di Stefano (durata dal 2002 al 2006) sul set di «Texas» (2005) Valeria Golino conosce l’allora 26enne Riccardo Scamarcio. I due iniziano a frequentarsi l’anno successivo e la differenza d’età (l’attrice ha 14 anni più del suo compagno) fa immediatamente finire la coppia sotto i riflettori: «Uno si sceglie non per l’età, ma per un’aderenza: spirituale dell’anima, fisica, chimica. E se c’è una cosa che mi piace di Valeria è che è una ragazzina. Il vecchio nella coppia sono io», raccontava l’attore in un’intervista a Vanity Fair.

«La più grande delusione della mia vita»

Dopo dieci anni d’amore la coppia sembrava destinata alle nozze - nel 2015 erano anche apparse le pubblicazioni di matrimonio ad Andria -, ma nei primi mesi del 2016 arriva l’annuncio della rottura. Molto sofferta: «La delusione sentimentale è stata fortissima, la più grande della mia vita - ha rivelato Golino dopo qualche tempo al settimanale F -. D’altra parte più c’è amore e più si soffre. Tutti diamo il peggio di noi stessi in certe circostanze». Ma «se si vuole bene a una persona, ci si riconcilia. Abbiamo passato anni bellissimi insieme e le rispettive famiglie fanno parte della nostra vita. Noi non solo non ci portiamo rancore, ma abbiamo addirittura fatto un film». Ovvero «Euforia», seconda prova da regista di Golino: «Sul set il lavoro artistico diventa la priorità, sentiamo tutti una grande responsabilità, e la vita privata si mette tra parentesi. Lui voleva aiutare me e io volevo aiutare lui: c’era una reciproca voglia di darsi una mano. Da donna, però, la ferita resta. E con quella il disincanto verso l’amore». Da quattro anni però l’attrice è riuscita a voltare pagina: oggi è serena accanto a Fabio Palombi, giovane avvocato romano. «Per alcuni aspetti mi sento più leggera - ha svelato a Grazia -, non devo più piacere per forza a tutti, come volevo da giovane. Ho sempre avuto il bisogno di essere accolta, di andare d’accordo con tutti, di essere benvoluta. Ma quando la tua personalità è formata, non lo avverti più come una cosa perentoria». 

 Riccardo Scamarcio, l’amore per la figlia: “Sono padre in modo fisico”. Alice su Notizie.it il 04/02/2021. Riccardo Scamarcio è diventato papà, e per la prima volta ha confessato il suo amore per la figlia. Per la prima volta Riccardo Scamarcio ha parlato di sua figlia Emily, nata dall’amore per la manager inglese Angharad Wood. La gravidanza e la nascita della bambina erano state tenute dai due sotto il massimo riserbo, e l’attore non aveva voluto rivelare pubblicamente neanche il nome di sua figlia. Archiviata la sua lunga storia d’amore con Valeria Golino, Riccardo Scamarcio ha ritrovato la felicità accanto ad Angharad Wood, con cui ha avuto una bambina, Emily. L’attore e la sua compagna hanno vissuto l’arrivo della piccola con il massimo riserbo, e finora Scamarcio ha parlato mal volentieri della sua nuova paternità e dell’arrivo della piccola Emily. Per la prima volta, a 7 mesi dalla nascita della bambina, l’attore ha confessato tutto il suo amore per lei: “Sono diventato padre e ho capito che l’amore per un figlio non ti prevede, va al di là di te. Avere un figlio è un amore ancestrale. E con la paternità al cinema non ho rallentato, anzi ho accelerato, lo porto a casa”, ha affermato, e ha aggiunto: “L’amore filiale, da noi, si porta in modo fisico, ai bambini si mettono le mani sul volto, ci si parla in dialetto, si crea una lingua speciale con cui si supera il pudore tra padre e figlio, è qualcosa che conosco, ci sono cresciuto anche se mio padre non era estremamente affettuoso”. L’attore e la sua compagna hanno preferito mantenere la massima riservatezza sulla gravidanza e la nascita della piccola, e a rivelarne il nome è stata la stampa (mentre i due hanno preferito glissare alle domande a tal proposito).

Chi è la compagna di Riccardo Scamarcio e perché è finita la storia con Valeria Golino. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Gennaio 2021. Attore e produttore cinematografico, Riccardo Scamarcio torna sullo schermo in “L’ultimo Paradiso”, il film da lui scritto, prodotto e interpretato, su Netflix dal 5 febbraio. Per lui ci sono molte novità tra cui quella di essere diventato padre durante l’estate 2020. La piccola si chiama Emily ed è nata dalla sua unione con Angharad Wood che lo ha reso padre per la prima volta. Secondo alcune indiscrezioni Scamarcio e Wood sarebbero anche convolati a nozze lontano dagli obiettivi. Angharad Wood, manager e avvocatessa di origini londinesi, è nata nel 1974 e ha 6 anni in più di Scamarcio. L’attore l’avrebbe conosciuta qualche anno dopo la fine della lunghissima relazione con Valeria Golino nel 2018. Già mamma di una bambina avuta in una precedente relazione, Angharad Wood è l’anima della talent & literary agency Tavistock Wood, un’agenzia di management che cura i rapporti professionali di attori e scrittori la cui sede è a Londra. Tra i clienti seguiti figurano Alessandra Mastronardi, Dominic West, Dustin Hoffmann, Eva Green, Kasia Smutniak. I due si sarebbero conosciuti per questioni lavorative. L’attore si è lasciato alle spalle la relazione con Valeria Golino durata 12 anni. Scamarcio e Golino non hanno mai parlato pubblicamente dei motivi della loro storia ma dalle successive interviste è trapelata una certa amarezza. “Una fortissima delusione sentimentale, la più grande della mia vita. D’altra parte più c’è amore e più si soffre. Tutti diamo il peggio di noi stessi in certe circostanze”, aveva detto l’attrice in un’intervista a F.

·        Valeria Marini.

Elvira Serra per il "Corriere della Sera" il 18 settembre 2021. Valeria Marini si è accorta che qualcosa non andava dai silenzi della madre, dal fatto che si isolasse sempre di più, dalla tensione con cui aspettava le email: quelle che puntualmente rimandavano la restituzione del suo investimento. Era partita con cinquemila euro, aveva finito per affidarne 335 mila a Giuseppe Milazzo, produttore cinematografico, con il miraggio che sarebbero triplicati in pochi mesi grazie ai Bitcoin. Ora il sostituto procuratore di Roma Pietro Pollidori ha chiesto il rinvio a giudizio di Milazzo, con l'accusa di truffa aggravata ai danni della signora Gianna Orrù, 83 anni, la mamma di Valeria. La prima udienza è fissata per il 30 novembre. Ne parlano insieme, per telefono, fiduciose nella giustizia e nel lavoro che sta facendo l'avvocato Laura Sgrò, la stessa legale della famiglia di Emanuela Orlandi.

Come è stato possibile farsi raggirare fino a una cifra così importante?

Gianna Orrù: «È cominciato con cinquemila euro, ai quali ne avevo aggiunti altri 5 mila. Milazzo, che avevo conosciuto nel 2017 per un corto girato da Valeria che non mi era piaciuto, mi aveva proposto questo investimento in Bitcoin che poteva essere a un mese, a tre mesi o a sei mesi. Alla scadenza potevi decidere se reinvestire o ritirare i soldi. Poiché era una cosa veloce, e gli stessi soldi ce li metteva lui, ero tranquilla. I bonifici li facevo sul suo conto, peraltro: era tutto tracciabile».

Valeria Marini: «L'aveva proposto anche a me, ma io sono sempre di corsa, ne avevo parlato con il mio direttore di banca che mi aveva dissuasa. Però poi con mia madre non ne avevo più parlato». 

Da cinquemila a 335 mila, com' è stato il passo?

G. O.: «Intanto, ma questo l'ho scoperto dopo, i soldi li mettevo solo io, Milazzo faceva finta. Mi mandava falsi rendiconti, aggiornamenti settimanali. Io sono stata una polla perché quando i presunti soldi sono diventati 96 mila euro, anziché chiedergli di ritirarli gli ho detto di reinvestirli. Ci sono cascata come una cretina: così gli ho dato prima centomila euro, poi altri duecentomila e ad agosto del 2018 gli ultimi 25 mila. A settembre sarebbe scaduto l'investimento ed ero determinata a ritirare tutto». 

V. M.: «Avevo capito che qualcosa non quadrava e ingaggiato un investigatore privato. Ho cercato di mettere in guardia mia madre, ma non mi ha ascoltato».

In quel momento sono cambiati i vostri rapporti?

G. O.: «Non potevo credere a Valeria. Milazzo mi diceva che litigava ogni giorno con il trader, tale Andrea Inturri, suo amico. C'erano in ballo anche i suoi soldi, mi rassicurava. Mi aveva messo in contatto via email con questo finto Inturri, che non esiste. Dalla piattaforma dell'investimento a Cipro, eToro, mi arrivavano le email di aggiornamento. Mi dispiace moltissimo di non aver creduto a Valeria, dopo le ho chiesto scusa. Non mi riconoscevo più, ero come imbambolata». 

V. M.: «Io invece capisco che si possa essere truffati, è successo anche a me. Ho molta comprensione per mia madre. Non l'ho mai lasciata sola, dopo, perché lei per me c'è sempre stata, ogni minuto, e io ci sarò sempre per lei». 

Qualche mese fa Milazzo, a Filippo Roma delle Iene che lo incalzava, ha detto che la signora Orrù aveva una storia di sesso con lui e che si era inventata tutto per dispetto. Per provarlo, millantava di avere foto di lei nuda. Salvo ritrattare settimane dopo. Come si è sentita?

G. O.: «Sul momento l'ho presa sul ridere: non esistono mie foto in costume, figuriamoci nuda. Però poi ho pianto, altroché, ho pianto di rabbia. E comunque Milazzo per quelle parole è stato denunciato per diffamazione aggravata. Devo ammettere che ho provato una grande vergogna, ma non per le stupidaggini che si è inventato questo signore. Mi faceva provare vergogna essermi sbagliata così tanto, io che non sono una sprovveduta. Sono stata male, ho avuto problemi di salute, ero in tensione 24 ore su 24. Soprattutto, ho allontanato i miei figli».

V. M.: «Ora dobbiamo solo guardare avanti e abbiamo fiducia nella giustizia. Penso però alle persone che sono sole, che non hanno qualcuno vicino per farsi consigliare. L'importante è parlarne, per venirne fuori». 

Sperate di recuperare quei soldi?

G. O.: «Benimindi coru! In dialetto cagliaritano è come dire "aspetta e spera"».

V.M.: «A mia madre dico sempre: i soldi si riguadagnano, la vita non si ricompra». 

Roberto Mallò per “davidemaggio.it” il 23 aprile 2021. Valeria Marini comincia a ritagliarsi uno spazio a Supervivientes. Nella puntata di ieri, dopo un divertente scambio di battute con il conduttore Jorge Javier Vázquez (lei gli dice ‘ti amiamo’, lui: ‘ma non mi conosci!’), Vale (così vuole essere chiamata) ha avuto modo di parlare del rapporto con sua madre e della truffa subita dalla donna. Nel corso del terzo galà della versione iberica dell’Isola Dei Famosi, andato in onda ieri sera su Telecinco, il conduttore, mostrando le immagini di una Valeria preoccupata, ha rivelato al pubblico spagnolo il raggiro che sarebbe costato a Gianna Orrù ben 325.000 euro. Sono state mostrate le immagini de Le Iene che hanno raccontato la vicenda che ha visto la madre della Marini denunciare il produttore cinematografico Giuseppe Milazzo per truffa (pare che l’uomo si fosse proposto come un intermediario per un fruttuoso investimento). Da un lato l’uomo, rinviato a giudizio, ha respinto le accuse parlando di una storia di sess0 con l’ottantatreenne Orrù finita male e di una vendetta che Valeria voleva portare avanti perché ce l’aveva con lui, dall’altro la stessa Marini ha continuato a ribadire la sua versione sulla questione. Una vicenda per Valeria fonte di numerose preoccupazioni, come ribadito nel corso del programma iberico. Quando Vázquez le ha chiesto che cosa rappresentasse la donna per lei, la Marini ha risposto: “Per me è tutto. Ma non è solo mia mamma, è anche mia sorella, la mia famiglia. Però, in questo momento, mia madre di più perché viene da un periodo molto difficile. Sta bene di salute, per fortuna, perché ha una salute di ferro, però ha passato tre anni molto difficili, a cui si è aggiunta poi la pandemia“. A quel punto, Jorge, ha chiesto a Valeria di ascoltare con attenzione quello che stava per succedere. La sarda si è dunque commossa quando ha sentito la voce di Gianna che la chiamava “Lolli“. La Orrù ha tranquillizzato la figlia in lacrime: “Se piangi, piango anche io. Io sto benissimo. Laura, Roy, Le Iene mi hanno adottata. Ci sono grandi sviluppi, Lolli. Stai serena, che va tutto benissimo. (…) Lolli devi stare serena, hai capito? E fare come stavi facendo i giorni scorsi, con grande energia. Tu sei in gamba, devi dimostrare quello che sai fare. Io sto bene, sto benissimo. Stiamo tutti bene (…) Ti voglio vedere sempre forte, di buon umore, come sei sempre tu. (…) Mi dispiace che non hablo spagnolo, ma insomma stai tranquilla. Mamma sta bene e le cose stanno andando benissimo. Vedrai quando torni quante sorprese, Lolli “. Una sorpresa, avvenuta tramite collegamento Skype, che ha riempito di gioia il cuore di Valeria, che ha abbandonato per qualche minuto il suo lato più eccentrico per far spazio ad una donna emotiva: “Grazie Jorge, veramente, per avermi fatto questa sorpresa. Ne avevo bisogno. (…) Voglio annunciare che ho partecipato a questo programma, che sono arrivata fin qui, perchè volevo trovare nuovamente la forza. E uscire, finalmente, da un anno tremendo. A me non piace piangere“. Insomma, oltre ai “besos estellares” c’è di più.

Da “Adnkronos” il 23 aprile 2021. Dopo la madre della Marini (Valeria, ndr) altri attori dicono di essere stati truffati da Milazzo? "Dove sono le denunce?''. Così all'Adnkronos Sergio Stravino, il legale del produttore cinematografico Giuseppe Milazzo rinviato a giudizio per truffa aggravata nei confronti della madre di Valeria Marini Gianna Orrù, sul servizio andato in onda martedì scorso a 'Le Iene' dove alcuni attori denunciavano a Filippo Roma come, in un modo o nell’altro, avrebbero affidato i loro soldi al produttore Giuseppe Milazzo, senza mai vederseli restituiti. Ad accusare Milazzo Andrea de Rosa, Gaetano Amato, Alessandro Prete e Nela Lucic. ''Se questi attori a 'Le Iene' affermano di aver dato del denaro a Milazzo perché non hanno sporto alcuna denuncia? -chiede il legale- Se io ritengo di aver subito una truffa faccio come la madre di Valeria Marini: vado in Procura e sporgo denuncia. In Procura non è arrivato nulla ed essendo fatti risalenti nel tempo paraltro -precisa Stravino- sono andati in prescrizione''. ''Caso strano -prosegue il legale di Milazzo- dopo la denuncia della madre Marini a 'Le Iene' anche questi vanno in trasmissione e dicono che anche loro hanno dato dei soldi a Milazzo'. Milazzo non ha ricevuto alcun atto giudiziario né civile né panale attraverso il quale queste persone gli chiedevano la restituzione di denaro'', ribadisce. ''Filippo Roma che è una persona perbene e che ho anche sentito -continua Stravino- giustamente, non trovando Milazzo che non vuole dare la sua versione dei fatti, ha fatto benissimo il suo lavoro. Il mio cliente non è sparito -tiene a precisare- ha cambiato casa perché ha un minore e non vuole rispondere ai giornalisti. Il mio cliente vuole portare in Tribunale una serie di prove di cui non vuole parlare''. Tornando alle accuse mosse a Milazzo nel servizio de 'Le Iene' Stravino prosegue: ''Milazzo mi ha detto che se un attore investe del denaro in una produzione cinematografica e poi per la produzione si rivela fallimentare non può parlare di truffa, inoltre ha detto di aver restituito i 500 euro di rimborso all'attore Gaetano D'Amato e chi sostiene che non è stato pagato mente''. Sulla vicenda della presunta truffa alla madre di Valeria Marini il legale di Milazzo annuncia che la prima udienza a Roma si terrà il primo luglio e ''sarà deputata solo alla verifica della costruzione parti, non si sentiranno i testimoni'', conclude.

Da “Adnkronos” il 23 aprile 2021. ''Se Giuseppe Milazzo ritiene che ''quello che dicono di lui non è vero, se lui ritiene di avere ragione, perché continua a scappare e a negarci un’intervista in cui potrebbe fornire la sua versione dei fatti, come abbiamo chiesto più volte al suo avvocato?''. Così all'Adnkronos l'inviato de 'Le Iene' Filippo Roma dopo l'intervista rilasciata all'Adnkronos da Sergio Stravino, il legale del produttore cinematografico Giuseppe Milazzo rinviato a giudizio per truffa aggravata nei confronti della madre di Valeria Marini Gianna Orrù, che contesta l'ultimo servizio mandato in onda dal programma 'Le Iene' che mostra alcuni attori che denunciano di essere stati truffati anche loro da Milazzo. ''Abbiamo più volte cercato e poi chiesto ufficialmente a Giuseppe Milazzo, tramite il suo avvocato - spiega l'inviato de 'Le Iene - di rilasciarci un’intervista in cui potesse esporre il suo punto di vista, dopo aver sentito lo sfogo della signora Gianna Orrù in cui raccontava di essere stata da lui truffata e dopo che Milazzo aveva sostenuto ai nostri microfoni che si trattasse invece di una montatura di Valeria Marini e sua mamma Gianna. Montatura messa in piedi per via del fatto che tra lui e la signora Orrù ci sarebbe stata una storia di sesso finita contro la volontà della mamma della Marini. Versione dei fatti che però non ha trovato alcun riscontro oltre alle dichiarazioni di Milazzo". "Inizialmente ha accettato di incontrarci per un'intervista, dettando però tre condizioni. La prima - racconta Roma - che un suo cameraman potesse filmare l'intero incontro con noi. La seconda, che l’intervista fosse pubblicata integralmente. La terza, che ci fosse l’invio preventivo, da parte nostra, in forma scritta delle domande che gli avremmo rivolto sulla vicenda. Noi abbiamo risposto che tanta è la voglia di chiarire una volta per tutte questa storia che avremmo anche potuto assecondare le sue bizzarre richieste e abbiamo già anche inviato le domande al suo avvocato. Tuttavia Milazzo non si è ancora reso disponibile a un’intervista".

Da Adnkronos il 23 aprile 2021. ''l'avvocato di giuseppe milazzo (sergio stravino, ndr) mi dà del bugiardo senza affermarlo e come al solito la butta in caciare. sostenga che ho detto il falso, se devo querelarlo mi deve dare almeno un minimo di appiglio. sostenga che io sono un bugiardo e che i soldi li ho avuti, però lo deve dire lui (il legale di milazzo, ndr)''. così all'adnkronos l'attore gaetano amato replicando all'avvocato del produttore cinematografico giuseppe milazzo, rinviato a giudizio per truffa aggravata nei confronti della madre di valeria marini gianna orrù, che in un'intervista rilasciata all'adnkronos ha affermato che milazzo avrebbe restituito a amato i 500 euro di rimborso che invece l'attore nega di aver mai percepito. l'attore fa poi una proposta provocatoria al legale di milazzo: "vediamoci davanti all'adnkronos o con 'le iene', dove vuole lui. se il signor milazzo mi mostra un bonifico o una ricevuta firmata da me che attestano che ho avuto i 500 euro io seduta stante gliene dò il doppio in contanti ma se non mi porta nulla l'avvocato mi deve garantire che non sarò querelato se metto le mani addosso a milazzo e lo mando in ospedale'', conclude amato.

Filippo Roma: “Se Milazzo dice di avere ragione, perché continua a scappare?” Le Iene News il 23 aprile 2021. Filippo Roma risponde alle dichiarazioni dell’avvocato di Giuseppe Milazzo in merito sugli attori che hanno raccontato nel nostro ultimo servizio di non aver riavuto indietro dei soldi dal produttore. “Milazzo non si è ancora reso disponibile a un’intervista. Sparirà un’altra volta? Noi a questo punto ci chiediamo: se quello che dicono di lui non è vero, se lui ritiene di avere ragione, se lui come sostiene ha le prove di ciò che dice, perché continua a scappare e a negare un’intervista in cui potrebbe fornire la sua versione dei fatti, come abbiamo più volte chiesto al suo avvocato?”. Filippo Roma risponde così alle dichiarazioni rilasciate oggi all’Adnkronos da Sergio Stravino, avvocato del produttore cinematografico Giuseppe Milazzo. Vi abbiamo parlato del produttore in tre servizi di Filippo Roma e Marco Occhipinti. Nel primo abbiamo raccolto la testimonianza di Gianna Orrù, mamma di Valeria Marini, che accusa Milazzo di truffa per circa 325mila euro. Quando lo abbiamo incontrato, il produttore ha contrattaccato dicendo: “La signora Gianna Orrù aveva una storia di sesso con me, è innamorata di me!”. E poi ha aggiunto: “Ti mando i messaggi della signora nuda capito?”. Solo che di messaggi, foto e elementi di qualsiasi genere, al momento Milazzo non ce ne ha mandati. Dall’altro lato, Gianna ci ha messo a disposizione tutti i messaggi e i vocali che si sono scambiati e da cui sembra che le cose non siano proprio come le racconta lui. Per questa vicenda, Giuseppe Milazzo è stato rinviato a giudizio per truffa aggravata. Dopo il nostro servizio ci hanno contattato alcuni attori, anche noti al grande pubblico (Andrea de Rosa, Gaetano Amato, Alessandro Prete e Nela Lucic). Trovate tutto nel servizio che vedete qui sopra di martedì scorso. Ci hanno raccontato come, in un modo o nell’altro, avrebbero affidato i loro soldi al produttore Giuseppe Milazzo. Soldi che, sostengono, non sarebbero tornati indietro. "Dove sono le denunce?", dice l’avvocato del produttore all’agenzia di stampa. “Se questi attori a Le Iene affermano di aver dato del denaro a Milazzo, perché non hanno sporto alcuna denuncia? Se io ritengo di aver subito una truffa faccio come la madre di Valeria Marini: vado in Procura e sporgo denuncia. In Procura non è arrivato nulla ed essendo fatti risalenti nel tempo peraltro sono andati in prescrizione. Filippo Roma, che è una persona perbene e che ho anche sentito, giustamente, non trovando Milazzo che non vuole dare la sua versione dei fatti, ha fatto benissimo il suo lavoro. Il mio cliente non è sparito, ha cambiato casa perché ha un minore e non vuole rispondere ai giornalisti. Il mio cliente vuole portare in Tribunale una serie di prove di cui non vuole parlare''. Noi infatti, come spiega Filippo Roma nella sua risposta, abbiamo cercato più volte il produttore: "Abbiamo chiesto ufficialmente a Giuseppe Milazzo, tramite il suo avvocato, di rilasciarci un’intervista in cui potesse esporre il suo punto di vista, dopo aver sentito lo sfogo della signora Gianna Orrù in cui raccontava di essere stata da lui truffata e dopo che Milazzo aveva sostenuto ai nostri microfoni che si trattasse invece di una montatura di Valeria Marini e sua mamma Gianna. Montatura messa in piedi per via del fatto che tra lui e la signora Orrù ci sarebbe stata una storia di sesso finita contro la volontà della mamma della Marini. Versione dei fatti che però non ha trovato alcun riscontro oltre alle dichiarazioni di Milazzo. Inizialmente ha accettato di incontrarci per un'intervista, dettando però tre condizioni: 1) Che un suo cameraman potesse filmare l'intero incontro con noi, 2) che l’intervista fosse pubblicata integralmente, 3) che ci fosse l’invio preventivo, da parte nostra, in forma scritta delle domande che gli avremmo rivolto sulla vicenda. Noi abbiamo risposto che tanta è la voglia di chiarire una volta per tutte questa storia che avremmo anche potuto assecondare le sue bizzarre richieste e  abbiamo già anche inviato le domande al suo avvocato. Tuttavia Milazzo non si è ancora reso disponibile a un’intervista. Sparirà un’altra volta? Noi a questo punto ci chiediamo: se quello che dicono di lui non è vero, se lui ritiene di avere ragione, se lui come sostiene ha le prove di ciò che dice, perché continua a scappare e a negare un’intervista in cui potrebbe fornire la sua versione dei fatti, come abbiamo più volte chiesto al suo avvocato? Ha qualcosa da nascondere?”. Il legale di Giuseppe Milazzo sostiene anche anche che il produttore ha detto di aver restituito i 500 euro di rimborso all'attore Gaetano D'Amato, che durante la nostra intervista afferma il contrario. ''L'avvocato di Giuseppe Milazzo mi dà del bugiardo senza affermarlo", dice l'attore all'Adnkronos. "E come al solito la butta in caciara. Sostenga che ho detto il falso, se devo querelarlo mi deve dare almeno un minimo di appiglio. Sostenga che io sono un bugiardo e che i soldi li ho avuti, però lo deve dire lui''.

Da "le Iene" il 22 aprile 2021. Cosa hanno in comune gli attori Andrea de Rosa, Gaetano Amato, Alessandro Prete e Nela Lucic? Nel servizio di Filippo Roma tutti e quattro dicono di aver avuto a che fare con Giuseppe Milazzo, il produttore cinematografico denunciato dalla mamma di Valeria Marini, la signora Gianna Orrù, per una presunta truffa per via di un investimento da 330 mila euro. La signora, ai microfoni delle Iene, ha raccontato di come tutto sia nato, nel 2018, quando ha conosciuto Milazzo nell'ufficio della figlia Valeria, per la realizzazione di un cortometraggio e da lì avrebbero iniziato a sentirsi. Presto il Giuseppe avrebbe proposto a Gianna di fare un investimento sulla piattaforma eToro, un sito che permette di vendere e comprare monete virtuali, come i bitcoin, e di guadagnare anche grandi percentuali, grazie all’aumento di valore della moneta nel corso del tempo. Inizialmente si tratta di piccole somme, ma poi nel corso dei mesi si arriva addirittura alla cifra di 330mila euro. Nell’investire denaro in azioni, titoli o monete non c’è nulla di male, ma sono le modalità dell’investimento che destano sospetti. Gianna sostiene che il produttore avrebbe fatto da intermediario chiedendole i soldi per poi procedere lui all’investimento tramite un broker di sua conoscenza, (tale Valerio Andrea Inturri, ndr.), che opera tra Italia e Cina. Quando l’inviato lo ha incontrato, il produttore ha contrattaccato dicendo: “La signora Gianna Orrù aveva una storia di sesso con me, è innamorata di me!”. E poi ha aggiunto: “ti mando i messaggi della signora nuda capito?”. Solo che di messaggi, foto ed elementi di qualsiasi genere, al momento Milazzo non ne ha mandati. Dall’altro lato, Gianna Orrù ha mostrato, davanti alle telecamere, tutti i messaggi e i vocali che si sono scambiati e da cui sembra che le cose non siano proprio come lui le racconta. Intanto, nell’attesa di capire come andrà a finire il processo che vede Giuseppe Milazzo rinviato a giudizio per truffa aggravata, sono arrivate in redazione una serie di segnalazioni, direttamente dal mondo del cinema. Attori anche noti al grande pubblico raccontano come, in un modo o nell’altro, avrebbero affidato i loro soldi al produttore Giuseppe Milazzo, senza mai vederseli restituiti. Andrea De Rosa, uno dei protagonisti di Notte Prima degli Esami dice di aver affidato a Milazzo 100mila euro. “Dovevo trovare una produzione per la sceneggiatura che avevo scritto, un film che si chiamava «Quando si diventa grandi»”, racconta. “Quindi mi imbatto in lui, mi ha fatto subito presente che aveva vinto questo bando della Regione Sicilia da 500mila euro”. Ma i soldi, racconta De Rosa, non sarebbero arrivati. “A un certo punto io ho detto: «Senti, 20mila te li metto io». E siamo andati sul set. Dopodiché il film si è bloccato, questi soldi continuavano a non arrivare. Abbiamo girato due settimane di riprese su cinque ed è finita lì”. Andrea riferisce che, nonostante l’aiuto di 150mila euro che avrebbero messo lui e altri attori, le riprese si sarebbero fermate dopo solo due settimane perché i soldi che avrebbe dovuto mettere il produttore non sarebbero mai arrivati. Mentre Andrea De Rosa non si sarebbe tutelato nel contratto, c’è chi racconta di aver espressamente pattuito la restituzione dei soldi messi nel film. “Gli ho dato 35mila euro”, confessa alla Iena Nela Lucic, attrice nota per essere stata la protagonista di un film di Tinto Brass. “Era come un prestito che io e altri attori abbiamo messo a disposizione per la realizzazione del film”, racconta. “Ho firmato un contratto con Azteca Produzioni. La cosa che mi ha rassicurato all’epoca è che lui mi ha anche messo per iscritto che io avrei recuperato per intero la cifra versata, «entro e non oltre sette mesi dalla data del presente accordo»”. Ma i soldi non sarebbero mai stati restituiti. Nela dice di aver fatto causa alla società di Milazzo: “In primo grado la sentenza era negativa. Mancava la prova che lui avesse incassato l’assegno. Alla fine mi sono procurata questo documento della banca e adesso siamo all’Appello”. Se Nela aspetta che un giudice le dia ragione, c’è un altro attore che due anni fa con Milazzo avrebbe avuto un’esperienza da raccontare: “Io con Giuseppe ci ho fatto un corto dove lui era produttore esecutivo”, dice alla Iena Gaetano Amato, uno degli interpreti della fiction La Squadra. L’attore racconta che avrebbe dovuto prendere 500 euro per il rimborso dei viaggi. “Sono niente di che, ma io quei soldi non li ho visti più”, dice. “Quello che mi ha dato fastidio è stato essere preso per il c**o”. Perché in questo caso i finanziamenti per il film sarebbero arrivati, come conferma l’attore Alessandro Prete (Tre Metri Sopra Il Cielo e Romanzo Criminale, ndr.), che racconta di aver vinto un bando e di aver inviato i soldi a Milazzo, che si sarebbe dovuto occupare della produzione esecutiva: “Molte persone tra cui il sottoscritto poi non sono state pagate”, dice. Queste non sono le uniche segnalazioni su Giuseppe Milazzo, arrivate in questi giorni. Per questo Filippo Roma ha provato più volte a contattarlo, per chiedergli qual è la sua versione dei fatti. Sulla mamma di Valeria Marini aveva dato una ricostruzione che non sembra essere suffragata da prove. Su tutti questi attori, che ancora aspetterebbero i loro soldi, invece cosa risponderà?

Da iene.mediaset.it il 6 aprile 2021. Lei, Gianna Orrù, ha 83 anni, è la madre di Valeria Marini e denuncia di essere stata truffata per 330mila euro. Lui, Giuseppe Milazzo Andreani ha 47 anni, è un produttore cinematografico e sostiene - stropicciatevi gli occhi – si tratti solo di una storia di sesso finita male. Incalzato da Filippo Roma contrattacca: “Io non faccio il broker faccio il produttore cinematografico, la signora Orrù lo sa benissimo è un’invenzione di Valeria Marini perché ce l’ha con me, stop”. Però a marzo la mamma di Valeria l’ha denunciato, in aula il produttore si è avvalso della facoltà di non rispondere e oggi si ritrova rinviato a giudizio per truffa aggravata. Questa era la storia nota fino ad oggi, prima che le Iene raccogliessero la sorprendente versione dei fatti fornita dal produttore Milazzo. Adesso sarà un tribunale a dover sbrogliare l’intricata vicenda, ma proviamo procediamo con ordine. Gianna Orrù, mamma di Valeria Marina, ai microfoni delle Iene racconta di come tutto sia nato nel 2018, quando ha conosciuto il produttore cinematografico nell'ufficio della figlia Valeria per la realizzazione di un cortometraggio e da lì avrebbero iniziato a sentirsi. Presto il Giuseppe avrebbe proposto a Gianna di fare un investimento sulla piattaforma eToro, un sito che permette di vendere e comprare monete virtuali, come i bitcoin, e di guadagnare anche grandi percentuali, grazie all’aumento di valore della moneta nel corso del tempo. Inizialmente si tratta di piccole somme, ma poi nel corso dei mesi si arriva addirittura alla cifra di 330000 mila euro. Nell’investire denaro in azioni, titoli o monete non c’è nulla di male, ma sono le modalità dell’investimento che destano sospetti. Gianna sostiene che il produttore avrebbe fatto da intermediario chiedendole i soldi per poi procedere lui all’investimento tramite un broker di sua conoscenza, tale Valerio Andrea Inturri (ndr.), che opera tra Italia e Cina. Filippo Roma, che per “Le Iene” si sta occupando della vicenda, ha però scovato una serie di documenti inediti che fissano almeno tre punti importanti in questa storia. Primo, esiste una scrittura privata in cui il produttore Milazzo si impegna “garantendo che il capitale investito non subisca nessuna perdita”. Secondo, Gianna Orrù esibisce le schermate dei bonifici da lei effettuati sul conto di Milazzo, con causale “coinvestimento trading online”. Terzo, la mamma di Valeria fa vedere i messaggi che il produttore le mandava, indicano i guadagni e la crescita del saldo del conto: il 20 marzo era 43.900 euro, il 26 aprile saliva a 64.000 euro e il 4 maggio arrivava a 74.700 euro. A complicare la vicenda anche il fatto che della gestione materiale degli investimenti si sarebbe occupata una terza persona, un operatore finanziario, tale Andrea Valerio Inturri, con cui la donna non riuscirà mai a parlare direttamente. E’ anche per questo che, ad un certo punto, la Marini, insospettita, chiede a un investigatore privato di fare delle ricerche e scopre che di questo intermediario finanziario in realtà non ci sarebbe traccia. Non esisterebbe un passaporto (indispensabile per un italiano che vive e opera in Cina) nè dati anagrafici che rimandino a quel nome. Milazzo, interrogato da Filippo Roma, nega di avere messo in contatto Gianna con il fantomatico trader Andrea Inturri, ma da una telefonata fatta e registrata da Valeria Marini all’epoca ammette di essere il suo referente. Filippo Roma cerca di capire come sono andate le cose e, dopo aver raccolto il lungo sfogo della Marini e di sua madre, va da Milazzo. L’uomo respinge ogni accusa e comincia a fare allusioni su una relazione avvenuta tra lui e Gianna, “La signora Gianna Orrù aveva una storia di sesso con me, è innamorata di me, siccome io non ci sono stato, allora lei si è inventato tutto”, dice, “ti mando pure i messaggi della signora nuda”. Parla di una storia di sesso finita male e dice di poterlo dimostrare, invitando l’inviato a contattarlo il giorno seguente per vedere le prove in suo possesso. Ma raggiunto a telefono il giorno seguente, Milazzo risponderà all’inviato che non può né rispondere alle domande, né mandare le prove che esibirà durante il processo. Filippo Roma racconta a Gianna le parole di Milazzo sentite il giorno prima, quelle che parlano della storia di sesso che ci sarebbe stata tra i due e della presunta esistenza di alcune foto, in possesso del produttore, che la ritraggono nuda. Gianna Orrù è sbalordita. Risponde che i due non hanno mai avuto una relazione, che la loro conoscenza è sfociata in un rapporto di amicizia e fiducia, tanto da spingerla ad affidare a lui i suoi risparmi. Aggiunge che non ha mai fatto delle foto nuda in vita sua e non riesce a credere quello che sta sentendo. Chi dice la verità: si tratta di una truffa riuscita, come sostenuto da lei, o di una storia di sesso finita male con tanto di vendetta, come controbattuto da lui? Per risolvere il mistero, nel servizio in onda stasera, Filippo Roma chiede alla Orrù di mostrare tutte le conversazioni avute con il produttore, in modo da dimostrare che quanto sostenuto da Milazzo sia del tutto falso. La donna sembra essere d’accordo con la proposta, ma c’è un problema: quelle chat non le ha più trovate, come se qualcuno le avesse cancellate dal suo telefono. Ma ecco la soluzione: “Si possono affidare i telefoni della signora Orrù a un ingegnere informatico e provare a verificare cosa ci sarà di recuperabile dentro i suoi telefoni”, propone l’avvocato Laura Sgrò (legale della famiglia Marini) all’inviato, visto che la messaggistica riguardante il periodo di frequentazione tra Milazzo e la Orrù, dal telefono della signora, è andata persa. Il tecnico conferma la cancellazione dei messaggi dal telefono in uso dalla signora, ma prova a recuperarli dal telefono precedente non più funzionante. Ripristinando la batteria e acquisendo in modo forense tutto il contenuto del  telefono della signora, riesce a recuperare tutti i messaggi che c’erano all’interno, “considerando solo la chat tra la signora Orrù e il signor Milazzo, sono circa 1000-1200 messaggi complessivamente, con foto, audio, vocali”, dice all’inviato. Filippo Roma passa in rassegna tutti i messaggi scambiati tra Gianna con il produttore Milazzo, che sembrano dare una fedele rappresentazione di quali siano stati i rapporti tra i due, come quando lui le diceva con un vocale il 22 marzo 2018: “Io nella mia vita non ho mai incontrato una donna come te nel senso che oltre a essere efficiente intraprendente in gamba in tutti i sensi non ho altri aggettivi da aggiungere anche se ne vorrei aggiungere altri mille quindi perfetto sei veramente in gamba”. A leggerli e ascoltare tutti quei messaggi senza filtri, si ricostruisce quella che sembra essere la vera storia della loro frequentazione. Com’è stata vissuta da lei e da lui nel corso di quei mesi. E alla fine non sembrano esserci più dubbi, sulla domanda che da qualche giorno ci appassiona: lei 83 anni, lui 47, è una truffa o una storia di sesso finita male? La risposta questa sera a Le Iene, in prima serata su Italia 1.

La mamma di Valeria Marini ci mostra i messaggi col produttore: truffa o storia finita male? Le Iene News il 06 aprile 2021. “Lui ha vinto una battaglia, vediamo la guerra chi la vince!”. Nel servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti torniamo a parlare con Gianna, la mamma di Valeria Marini che ha accusato di truffa il produttore cinematografico Giuseppe Milazzo. La donna di 83 anni ci ha mostrato i messaggi scambiati con il produttore. “Io nella mia vita non ho mai incontrato una donna come te”, inizia così uno dei messaggi vocali del produttore Milazzo che Gianna ci ha mostrato. La donna di 83 anni, mamma di Valeria Marini, come vi abbiamo raccontato nel primo servizio dedicato alla vicenda, ha denunciato il produttore cinematografico Giuseppe Milazzo, sostenendo che le abbia scucito ben 325mila euro. Dall’altra parte, Milazzo, che per questa vicenda è stato rinviato a giudizio, accusa Valeria Marini e la mamma Gianna. “È tutto inventato”, ha detto Milazzo alla Iena. E ci ha dato una risposta che ci ha lasciati di stucco: “La signora Gianna Orrù aveva una storia di sesso con me, è innamorata di me”. "Siccome io non ci sono stato allora lei si è inventato tutto”, sostiene Milazzo. Nel nuovo servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti, che vedrete in onda questa sera a Le Iene, siamo tornati da Gianna, che non solo nega di aver avuto una storia di sesso con il produttore o di essere innamorata di lui, ma ci fa leggere i vari messaggi scambiati con Milazzo. “Io nella mia vita non ho mai incontrato una donna come te”, si sente, ad esempio, in una nota audio del produttore inviata il 22 marzo 2018. “Nel senso che oltre a essere efficiente intraprendente in gamba in tutti i sensi non ho altri aggettivi da aggiungere anche se ne vorrei aggiungere altri mille, quindi perfetto, sei veramente in gamba”. E Gianna risponde: “Non è che mi stai prendendo per il culo?", "con tutti questi complimenti!”. “Macché dico solo la verità”, risponde Milazzo. Ed è solo uno dei tanti messaggi che la donna ci mostra! 

Gianna, mamma di Valeria Marini, a 83 anni è stata truffata o c'è una storia finita male? Le Iene News il 06 aprile 2021. Gianna Orrù, mamma di Valeria Marini, ci ha mostrato i messaggi scambiati con il produttore cinematografico Giuseppe Milazzo. La signora di 83 anni ha denunciato il produttore sostenendo che le abbia fatto sparire 325mila euro. Lui, che per questa vicenda è da poco stato rinviato a giudizio, a sua volta accusa Valeria Marini e sua mamma, parlando anche di una storia di sesso finita male con l’83enne. “Lui ha vinto una battaglia, vediamo la guerra chi la vince!”. Gianna Orrù, mamma di Valeria Marini, non riesce a trattenere le lacrime mentre parla con Filippo Roma. Come vi abbiamo raccontato nel primo servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti dedicato a questa vicenda, Gianna ha denunciato il produttore cinematografico Giuseppe Milazzo, sostenendo che le abbia scucito ben 325mila euro. Dall’altra parte, Milazzo, che per questa vicenda è stato rinviato a giudizio, accusa Valeria Marini e la mamma Gianna. “È tutto inventato”, ha detto Milazzo alla Iena. “Un’invenzione  di Valeria Marini perché ce l'ha con me”. La signora Gianna Orrù avrebbe conosciuto Milazzo nell’ufficio di sua figlia Valeria e da lì sarebbe nata una frequentazione, che secondo Gianna avrebbe avuto conseguenze pesanti. “È riuscito a far trasferire tutti i soldi che io avevo sul mio conto su un conto suo”, ha raccontato Gianna a Filippo Roma. “Dicendo che avrebbe fatto un investimento, che lui faceva da intermediario fra me e questo tale Valerio Andrea Inturri, che era il trader che faceva questi investimenti molto fruttuosi”. Gianna avrebbe quindi dato tutti i suoi risparmi a Giuseppe Milazzo, che ormai considerava un amico, per investirli tramite Andrea Valerio Inturri sulla piattaforma eToro, un sito che permetterebbe di vendere e comprare monete virtuali come i bitcoin e di guadagnare anche grandi percentuali. Ma i guadagni comunicati da Milazzo via messaggio di settimana in settimana non arriveranno mai sul conto di Gianna. Valeria Marini, insospettita, ha fatto però una scoperta a dir poco sorprendente sul presunto operatore finanziario Andrea Inturri. “Ho messo un investigatore privato e ho scoperto che questa persona non esisteva all'anagrafe”, racconta alla Iena. Quando abbiamo chiesto a Milazzo spiegazioni, ci ha dato una risposta che ci ha lasciati di stucco: “La signora Gianna Orrù aveva una storia di sesso con me, è innamorata di me”. "Siccome io non ci sono stato allora lei si è inventato tutto”, sostiene Milazzo. E non è finita qui. “Ti mando pure i messaggi della signora nuda”, ha detto il produttore alla Iena. Ma al momento, da parte sua, non è poi arrivato niente. “Io ti posso dire che non ho falsificato nulla”, dice Gianna a Filippo Roma. “Poi tanto ci vediamo in tribunale”. “Sesso zero”, aggiunge la signora. “Lui inizialmente faceva il galante, ma dopo ho capito faceva parte di tutta la preparazione a prendere la mia fiducia in modo che poi lui potesse portare a compimento questa sua opera d’arte”. Con l’aiuto di un ingegnere informatico e il consenso di Gianna, proviamo a recuperare i messaggi tra lei e il produttore precedenti al primo maggio 2019, che Gianna ci ha detto essere scomparsi dal suo telefono. “Da questo telefono che lei aveva in uso non è stato possibile recuperare i messaggi”, ci dice l'ingegnere informatico, “perché i messaggi erano stati cancellati da qualcuno che aveva accesso fisico a questo telefono”. Ma tramite il vecchio telefono riusciamo a recuperarli e la Iena li legge insieme a Gianna. Eccone alcuni. Il 15 febbraio 2018, il giorno dopo san Valentino, Milazzo scrive a Gianna: “Ieri volevo mandarti auguri per san Valentino ma tu come me non abbiamo innamorati e non l'ho fatto”. Gianna risponde: “Si possono fare gli auguri per affetto, anche perché l'amore è una fregatura, è una scemenza, l'amicizia vera è importante”.  “Lo so infatti son fortunato che ti ho incontrato”, risponde Milazzo. “Anche per me perché di te mi fido”, dice Gianna. Il 22 marzo 2018 c’è un audio di Milazzo: “Io nella mia vita non ho mai incontrato una donna come te nel senso che oltre a essere efficiente intraprendente in gamba in tutti i sensi non ho altri aggettivi da aggiungere anche se ne vorrei aggiungere altri mille, quindi perfetto, sei veramente in gamba”. E Gianna risponde: “Non è che mi stai prendendo per il culo?", "con tutti questi complimenti!”. “Macché dico solo la verità”, risponde Milazzo. Il 31 marzo 2018 c’è un messaggio di Milazzo: “Vediamo come procede e poi consideriamo l'idea di investire almeno 200, oggi ti porto quell'accordo tra me e te”. “Non è che poi finisco a mangiare alla Caritas ahahahah”, scrive Gianna. “Non credo proprio Gianna semmai andiamo a vivere... a Tenerife, c’è sempre il sole e il mare è 26 gradi di media”, risponde Milazzo. Insomma, Gianna ci ha fatto vedere tutti i suoi messaggi scambiati con il produttore, che dal canto suo invece non ci ha mostrato nessuna delle prove da lui annunciate. Magari le prove le fornirà in seguito in sede giudiziaria, ma intanto siamo stati contattati da più di una persona che aveva qualcosa di interessante da raccontarci. Tra queste c’è la manager responsabile della piattaforma eToro Italia. “Nessun nominativo coinvolto in questa vicenda ha un conto aperto all'interno della nostra piattaforma di investimento”, dice Emanuela Manor alla Iena. Non solo, quando gli mostriamo un report che Andrea Inturri avrebbe inviato a Gianna Orrù per farle vedere l’andamento dei guadagni di questi fantomatici investimenti, risponde che “tale documento è un fotomontaggio rilevabile dal fatto che i caratteri utilizzati per la scrittura del nome utente non sono i caratteri utilizzati dalla grafica della nostra piattaforma”. “Lui ha vinto una battaglia, vediamo la guerra chi la vince”, dice Gianna a Filippo Roma. “La battaglia è cominciata. Adesso ci vediamo in tribunale, vediamo cosa dice lui in tribunale”. 

·        Valeria Rossi.

Valeria Rossi: "Cantavo "sole cuore amore" adesso lavoro nell’ufficio anagrafe". Ernesto Assante su La Repubblica il 31 agosto 2021. A guardarla oggi è facile dire che fu l'ultima estate di un'era. Il mondo, dopo quell'estate, cambiò in maniera radicale, ma nessuno davvero ne aveva la percezione in quei caldi mesi del 2001. Era l'ultima estate con la lira in tasca, quella del G8 di Genova, e a settembre il crollo delle Torri Gemelle avrebbe portato con sé anche molti sogni e speranze, aprendo una lunghissima epoca di guerre e tensioni. Eravamo talmente ignari che da giugno cantavamo una canzone che all'improvviso era arrivata in classifica, recitando un mantra imbattibile, fatto di sole Tre parole, come diceva il titolo: "sole, cuore, amore". A farcela cantare era stata Valeria Rossi, che con disarmante semplicità aveva messo in fila le rime più ovvie della canzone italiana e le aveva trasformate in un tormentone al quale era impossibile sfuggire. Fu la seconda canzone più venduta dell'anno, dietro a Can't get you out of my head di Kylie Minogue, vendette oltre centomila copie, le fece vincere il Festivalbar tra le nuove proposte e proiettò Valeria Rossi, esattamente venti anni fa, in un universo per lei completamente nuovo. "Non ne sapevo nulla di televisione, di radio, di promozione, non avevo idea di cosa fossero i 'bagni di folla'", ricorda lei. "Ero un'autrice non una performer, non avevo alcuna esperienza dei meccanismi di show business, era tutto nuovo per me. Ero ovviamente contenta all'inizio, molto sorpresa ma anche molto divertita da quello che stava accadendo".

Solo all'inizio?

"Sì, perché capii abbastanza presto che tutto stava prendendo dimensioni anomale e capii che se non stavo attenta avrei perso completamente il controllo su me stessa e sulla mia vita. Tutto durò due anni, piuttosto rocamboleschi dal punto di vista professionale. Perché alla fin fine era una professione inventata, anzi è difficile anche chiamarla professione, io ero un'autrice e sapevo ben poco di palcoscenici".

Che estate fu quella del 2001?

"Per me fu un'estate completamente fuori dall'ordinario. E successe tutto insieme, il disco lo avevamo fatto uscire in primavera e all'improvviso letteralmente esplose. Quindi fu un'estate in immersione, nel senso che ero metaforicamente sott'acqua, totalmente travolta dalle cose che dovevo fare, promozione, interviste, televisioni, radio, tantissime cose arrivate all'improvviso che cambiavano completamente lo scenario della mia vita. Avevo la testa sotto la superficie, era difficile guardare su".

Però riuscì a non perdere la testa.

"Anche io non mi capacito, ma credo mi abbia ancorato a terra il fatto di essere sempre psicologicamente un po' fuori dal vortice, come nell'occhio del ciclone in cui tutto è calmo. Ero una sorta di osservatore, un po' distante dalle cose, e questo mi ha salvato. Quando ne sono uscita ho potuto riprendere il filo, quello era un labirinto in cui ci si poteva perdere".

Che ragazza era Valeria Rossi nel 2001 e che donna è adesso?

Dopo aver scavato a fondo dentro di me e dopo esser giunta, infine, a trovare le mie risorse interiori, sto di fatto vivendo quella che ritengo essere la mia stagione migliore, che in parte corrisponde al sentirsi funzionale alla crescita dell'altro. Nel 2001 ero una ragazza che inconsciamente sapeva di poter dare tanto e che man mano, a furia di tentativi, nel corso del tempo ha capito come farlo. Ovviamente si parte, e si torna, sempre al cuore".

Tre parole, comunque, parlava a tutti, piaceva dai bambini ai nonni.

"Una delle spiegazioni è che nella canzone c'è un mix di elementi, un elenco di immagini che è simile al linguaggio dell'anima, per cui ha bypassato la mente razionale ed è andata diretta nella sfera delle emozioni. In realtà è un testo taoista: io ho fatto la stessa scuola che ha fatto Battiato, che ha abbinato l'ascesi alla materia. Nel testo di Tre parole in realtà c'è tutto".

Fotografava l'ultimo grande momento dell'Italia prima del lungo buio degli anni Duemila?

"Al di là di un primo livello di lettura, in realtà, la canzone conteneva una specie di mappa del nostro territorio interiore, un invito ad andare in una determinata direzione al posto di un'altra. L'estate del 2001 è stata un grande bivio, non solo simbolicamente, la discesa in campo di una certa politica, l'ingresso nell'Euro, le Torri Gemelle, fatti macroscopici che hanno avuto un impatto enorme sulle nostre vite. Le cose che ci accadono, anche in via indiretta, possono rappresentare un invito a fare una scelta di responsabilità, in quel caso si è passati in maniera impercettibile dall'inconsapevolezza spensierata alla paura e le tre parole sono rimaste cristallizzate, come una dimensione di paradiso perduto, inaccessibile e, quindi, sempre desiderabile, e preziose. Oppure, sì, come una foto di un momento particolarmente felice che ci fa sorridere il cuore".

Quindi cos'è l'estate per Valeria Rossi?

"L'estate è come il carnevale, un momento di festa e di gioia ma anche un momento espiatorio. Volendola dire tutta non dovrebbe essere così, non dovremmo avere bisogno di vacanze o di tormentoni per non pensare. Ma dato che viviamo ordinariamente con la testa sotto la superficie, a un certo punto ci aggrappiamo a una stagione per poterla tirare fuori. Se lo facessimo sempre non avremmo bisogno di partire in massa, accodarci sull'autostrada e ammassarci in spiaggia. E pure 'sta storia dei tormentoni, ma basta. E' una scorciatoia, un esempio di assoluta pigrizia, una formula abitudinaria per lasciare aree del nostro cervello in quiescenza e non attivarle mai".

Lei, dopo Tre parole, ha letteralmente cambiato vita.

"Ho ripreso i libri della prima laurea, in diritto, ho fatto un concorso e sono stata assunta come ufficiale dello stato civile, redigo gli atti che afferiscono ai mutamenti di status delle persone. Ogni giorno ho a che fare con le vite delle persone, avevo voglia di andare nella pratica, nel concreto. E ora sto facendo una formazione specifica, in counseling a mediazione corporea".

Ovvero?

"Provare a portare le persone ad ascoltare il proprio corpo, stabilire una relazione d'aiuto che sia psicologica ma che non trascuri il corpo e lo inserisca nella terapia. Ho una grandissima passione per l'insegnamento del metodo chiamato 'Stream yourself' che tramite un mix di tecniche vocali, funzionali, meditazione e bioenergetica, permette il risvegliarsi e l'amplificarsi di creatività e di vitalità in senso ampio, con mille applicazioni in più ambiti, da quello artistico a quello relazionale, fino a quello di medicina integrata".

E quanto l'ha aiutata il saper comunicare con la gente attraverso le canzoni?

"In realtà non lo so, l'artista è un'antenna. Il messaggio di Tre parole in realtà mi ha preceduto, come certe volte mi succede. Una volta ho sognato Ivano Fossati che mi diceva 'tieni questa cosa', e mi dava una canzone completa di melodia e parole, stavo registrando il mio secondo album".

Quale canzone era?

"Si intitolava Ritratto. Alle volte funziona così, 'channelling medianico', l'artista annusa e veicola quello che ha intorno. Voglio dire che probabilmente quello che faccio oggi, con grande consapevolezza, aiutare le persone, dare voce alle donne, o più in generale a chi non ce l'ha, era l'obiettivo fin dall'inizio. Solo che prima lo facevo in modo dispersivo, la canzone conforta ma di certo non cambia le cose. La canzone ha una gittata breve, ma non una forza reale, le cose vanno discusse sulle piattaforme adeguate, per questo sono entrata nella sfera pubblica, statale".

Venti anni fa era un'estate di immersione. E quella di oggi?

"Per me, ma anche per tantissimi altri, dopo questo lockdown è un'estate di emersione. Vedo non solo la mia consapevolezza, ma quella di tanti, tutti vogliamo tirare fuori la testa e vogliamo che le cose vadano meglio".

·        Valerio Lundini.

Le sue “pezze”, una presa in giro dei talkshow. Chi è Valerio Lundini, il comico geniale che smonta la comunicazione tv. Filippo La Porta su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Comincio con una dichiarazione impegnativa: Valerio Lundini ha qualcosa di geniale (forse a sua insaputa, questo non lo so). La pubblicazione di un suo libro – Era meglio il libro (Rizzoli Lizard, pp. 176, 15 euro) – mi permette di farne un veloce ritratto, e di sottolineare la assoluta unicità – e carica eversiva – del suo personaggio televisivo (del libro parleremo dopo). Sono convinto che Valerio Lundini, con la sua aria disarmata, impassibile, straniata – chissà se un modello lontano è Buster Keaton – sia la figura più interessante e innovativa della nostra televisione (lo abbiamo visto in una comparsata al Festival di Sanremo). Per una ragione precisa, che non riguarda tanto una presunta “demenzialità” del suo umorismo (aspetto secondario): all’interno della autoproclamantesi “società della comunicazione” Lundini finge di comunicare – senza comunicare nulla – , e dunque ne svela l’inganno di fondo. È come se ogni volta dicesse “Il re è nudo”. Avete mai visto la Pezza di Lundini, andata in onda in tarda serata per i mesi autunnali (già si presentava ironicamente come “pezza”, come riempitivo, a coprire cioè il finto vuoto lasciato da una finta trasmissione saltata all’ultimo momento)? Si tratta dell’invenzione di un linguaggio altro, forse dell’unico vero esempio di satira culturale, e dunque “politica” in senso lato, ben oltre le imitazioni del pur bravo Crozza-Noschese o delle vignette sempre un po’ prevedibili degli “indignati” di professione. Il suo è un metadiscorso – raffinato ma anche comprensibile da tutti – che ha come oggetto se stesso, appunto la (falsa) promessa di comunicazione di ogni trasmissione, di ogni talk show. Prendiamo le interviste all’ospite, sia egli il cantante d’antan Edoardo Vianello o il saggista di moda e ateo professionale Piergiorgio Odifreddi o il calciatore Bruno Giordano o una straordinaria Sandra Milo (fatte in studio alla presenza di alcuni personaggi fissi: persone comuni, che dovrebbero rappresentare – ironicamente – il “popolo”). Memorabile la scena in cui per replicare all’ateismo si proiettano immagini di prati, monti, laghi, etc. e allora tutto lo studio balza i piedi per applaudire commosso alla bellezza della Creazione! Lundini, un meticoloso conduttore, attento alle regole – il suo tormentone è «Ma si può dire questa cosa in trasmissione?» – che contiene un finto tonto che contiene un meticoloso conduttore (come tante Matrioska: nell’ultima puntata finge di levarsi la maschera facciale e sotto compare Travaglio, ma lì vuole strafare…), pone domande al tempo stesso “normali” e insensate, tutte giocate sul nonsense e su una logica paradossale, controintuitiva («Ma un allenatore non pensa mai di fare il giocatore, a fine carriera?»). La sua inviolabile, impacciata serietà conquista la fiducia di tutti, che infatti lo prendono sul serio (o no?). Il significato è continuamente insidiato dal significante – il quale ha una logica indipendente, e si limita a seguire il gioco delle allitterazioni, delle analogie foniche – , già a partire dal nome del gruppo musicale di sfondo: “I Vazanicchi”. Non vorremmo caricare sulle spalle di Lundini un’eredità troppo gravosa ma sembra che, più o meno inconsapevolmente, abbia affrontato l’antico e complicato problema della parresia (ossia il principio filosofico dei cinici: “dire la verità”, “esprimersi con franchezza”) all’interno di una società come la nostra, satura di parole – e di “verità” -, dove ogni discorso, anche il più illuminato, diventa subito chiacchiera vuota, pretesto spettacolare (e di ciò sembrano non accorgersi i tanti intellettuali, filosofi, pensatori che affollano i talk). Perfino le provocazioni di Pasolini oggi sarebbero percepite come una trovata autopubblicitaria, e lui – se si prestasse al gioco delle ospitate televisive, poniamo dalla Gruber – diventerebbe presto una ennesima maschera del teatrino mediatico. Lundini non tanto “dice la verità” quanto gioca a un altro gioco, fa saltare il banco, decostruisce la macchina, e così mostra la impossibilità (sottilmente totalitaria) di dire oggi la verità, almeno in quel contesto lì. La parresia oggi si traduce in una esibizione di inadeguatezza al ruolo, sabotaggio e spiazzamento. Ora parliamo del libro, composto da storie, dialoghetti, apologhi, sketch, canzoni, ingegnosi palindromi, finta autobiografia, finte schede di film di un finto dizionario cinematografico, finte lettere di protesta a un ostello (ma non sarà invece tutto vero?). Godibilissimo, e interno a una nobile tradizione di racconto comico-surreale, da Campanile a Flaiano, e fino alle iperboli fantozziane. Però il libro non si mostra interamente all’altezza della invenzione televisiva. È fatalmente più tradizionale, deve comunque rispettare certe convenzioni narrative, certi canoni, deve tenere a bada il gioco sempre “anarchico” del significante. In “Casa di gente”, che chiude la raccolta, Lundini osserva che «bisogna imparare a dosare il proprio anticonformismo affinché non diventi idiozia». Sacrosanto! L’anticonformismo ci mette pochissimo a diventare maniera, snobismo, e una nuova, asfissiante retorica. Per evitare tutto questo occorrono intelligenza e autoironia, attitudini che Lundini mostra di avere. In fondo anche il suo libro potrebbe essere un’altra “pezza di Lundini”: come la trasmissione stava al posto di una trasmissione non più andata in onda così il libro sta al posto di un altro libro, e così questa stessa recensione ne sostituisce all’ultimo momento un’altra…

·        Valerio Staffelli.

Da tag43.it il 16 ottobre 2021. Aplomb, educazione e grande senso dell’ironia. Ambra Angiolini ha mostrato tutto questo nel momento in cui Valerio Staffelli le ha consegnato uno dei Tapiri d’oro più discussi della storia recente di Striscia la notizia. Le critiche sul programma, infatti, sono piovute numerose a causa del motivo, ossia la rottura della relazione, pare per un tradimento, con l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri. Accanimento da molti ritenuto ingiustificato, di fronte al quale Ambra ha sfoggiato una compostezza tale che lo stesso inviato è apparso in diversi momenti visibilmente imbarazzato. «Se vuole può venire lei a casa mia per una colazione o una cena», ha scherzato la donna dando prova di una notevole capacità di reazione a un periodo, comunque complicato. Così Staffelli alla fine si è dovuto accontentare soltanto qualche battuta. Altro che pugni e calci, o microfoni rotti, come pure è accaduto in passato. 

La microfonata in faccia di Fabrizio Del Noce

Con Fabrizio Del Noce, ad esempio. Quando raggiunto fuori da un locale, l’ex direttore di Rai1 prima rispose alle domande di Staffelli su una disputa con Bonolis, poi nell’instante in cui queste si sono fatte progressivamente più invadenti, ha cominciato a perdere le staffe. In un climax di insulti e tensione, i due rientrarono al ristorante e fu allora che Del Noce strappò il microfono all’inviato e inizialmente lo infilò in un secchiello per il ghiaccio, successivamente lo usò per rifilare un colpo al volto di Staffelli.

La rissa con il marito di Catherine Spaak

Nel lungo elenco degli attapirati arrabbiati rientra di diritto anche Catherine Spaak. L’attrice francese naturalizzata italiana ricevette il poco ambito riconoscimento in seguito alla decisione di abbandonare L’isola dei famosi. In quell’occasione venne fuori la storia di un contratto, in cui tra le clausole, compariva ad esempio la possibilità di non farsi riprendere in costume. Sarebbe stata proprio l’incompatibilità tra tali regole e l’essenza del reality a giustificare il premio. Ma al momento della consegna all’interno di un albergo Staffelli incassò gli spintoni e le minacce di Vladimiro Tuselli, marito della donna. «O ve ne andate o vi spacco la telecamera». Detto fatto. 

Vittorio Sgarbi e la corsa in ospedale

E nella lista non poteva di certo mancare un personaggio focoso come Vittorio Sgarbi, che quella volta superò, però, decisamente i limiti. L’episodio risale al lontano 2002, allora il critico d’arte finì nell’occhio del ciclone per delle consulenze rilasciate a Giorgio Corbelli, poi arrestato per truffa. Il sindaco di Sutri spaccò come riporta Repubblica letteralmente il tapiro in testa a Staffelli, che fu costretto a farsi medicare in ospedale. L’inviato rimediò un trauma cranico non commotivo, uscì dal pronto soccorso dopo sei ore e con una prognosi di tre giorni.

Sottotono, i finti abbracci al festival di Sanremo

Una compagnia variegata, in cui spiccano I Sottotono, protagonisti di una strana serie di abbracci ai danni dell’inviato. Le lancette tornano indietro e ci riportano al Festival di Saneremo 2001. Edizione nefasta per i due rapper, che si esibirono sul palco con il brano Mezze verità. Dapprima, infatti, agli artisti venne chiesto dagli organizzatori di modificare il testo per via delle parolacce presenti. Di tutta risposta questi si opposero e preferirono non cambiarle, scegliendo semplicemente di non pronunciare i termini oggetto della discordia. Non finì qui, però, perché nei loro confronti vennero mosse anche accuse di plagio. Il brano secondo alcuni ricordava Bye bye degli ‘N Sync. Staffelli, allora, si presentò dietro le quinte per donare loro il Tapiro, circondato da fischi e telecamere. Visibilmente irritato uno dei due rapper iniziò a stringerlo e baciarlo, facendogli in realtà male. Fu il preludio a una situazione che nel giro di poco degenerò, a furia di pugni, schiaffi e sputi. Non esattamente la più tenera delle accoglienze.

·        Vasco Rossi.

Michele Serra per “il Venerdì di Repubblica” il 16 novembre 2021. Vasco, si sa, è un monumento. Ma Vasco Rossi, nato a Zocca, nell'Appennino modenese, il 7 febbraio del 1952 da Novella Corsi, casalinga, e Carlino Rossi, camionista, è una persona. Il monumento incombe (la mia macchina è piena della sua voce, c'è il lancio del suo nuovo disco, Siamo qui) mentre sto per incontrare la persona, in un giorno qualunque di questo autunno quasi normale. Mi chiedo se, quando sarò con lui, riuscirò a dimenticare il monumento e parlare con la persona. L'appuntamento è in una delle sue tane, il grande locale multiuso che un poco gli fa da ufficio, un poco da sala di registrazione, lungo quella strada al tempo stesso modesta e decisiva che è la via Emilia, nel tratto che esce da Bologna verso oriente, in mezzo ai palazzi dell'ingloriosa architettura anni Settanta e Ottanta. E qui bisogna fare una piccola premessa. È spesso un'estetica ordinaria, in Emilia, modesta e ordinaria, popolare e ordinaria, a fare corona a vicende e persone straordinarie. Non è una terra, questa, dove il segno l'ha lasciato la borghesia. Non è dai palazzi importanti dei centri storici che sono partiti i vincitori, i maestri, gli inventori, gli incantatori. Da queste parti il segno lo ha lasciato il popolo. Enzo Ferrari è figlio di un meccanico, Lucio Dalla di una sartina, Francesco Guccini di un impiegato alle Poste, Gianni Morandi di un ciabattino, Ferruccio Lamborghini e Serafino Ferruzzi entrambi di contadini, Enzo Biagi di un magazziniere, il clan transoceanico dei Panini nasce dai campi e da un'edicola nel centro di Modena, Ligabue il cantante ha cominciato come operaio metalmeccanico, Ligabue il pittore era povero, rachitico e senza padre. Molti di loro neanche nati in città, sono scesi dai borghi e dai paesi dell'Appennino aspro e lontano, che dalla via Emilia sembra solo una vaga striscia ondulata all'orizzonte e invece è un mondo grande, sconosciuto e pieno di storie da raccontare. Nel giro di nemmeno cento chilometri, tra Reggio e Bologna, l'Emilia contadina e operaia, dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni, ha prodotto successo, ingegno, talento, denaro in quantità semplicemente inconcepibile da quei padri, quelle madri, quei nonni che faticavano a campare, avevano i geloni sulle mani e a cinquant' anni sembravano già vecchi, consumati dalla vita. Vasco è il figlio perfetto di questa terra che ha deciso di testa sua, dove non è chi ha fatto il Classico, ma chi ha fatto l'Istituto tecnico e Ragioneria, a battere ogni primato. E poiché, in un mondo dalla mitologia molto allargata e facilona come il nostro, la parola "monumento" non suoni retorica, o scontata, giova ripetere che il primato di Vasco, almeno il più vistoso, è quello (mondiale) del maggior numero di spettatori paganti per un singolo concerto: 225 mila, a Modena, nel luglio del 2017. Nemmeno gli Stones, nemmeno Springsteen: così che la vecchia idea, un poco provinciale, che chi non canta in inglese è tagliato fuori, meriterebbe qualche ripensamento e qualche ridefinizione geografica. Tagliato fuori da dove? Il mondo è grande, c'è Los Angeles e c'è Teheran, c'è New York e c'è Seul, c'è Londra e c'è Lagos, c'è Nashville e c'è Modena. Nessuno è la provincia di nessuno, se non accetta di esserlo, e la storia di Vasco è fatta apposta per dimostrarlo. (Uno dei suoi primi album, del resto, si chiamava Non siamo mica gli americani). Mi ritrovo davanti un bel signore non più giovane, in buona forma fisica (dimostra qualche anno meno dei suoi). Lo sguardo chiaro esce da occhi sottili, due fessure luminose, e sottile è anche il sorriso, quasi costante ma contenuto in un volto riflessivo, sorvegliato: c'è qualcosa di orientale nel ritratto dell'artista da quasi vecchio. Un copricapo rotondo e senza tese (tartaro? mongolo? cinese? turco? ho dimenticato di chiederglielo) completa il passaggio del suo volto dalla pura estetica pop-rock del giovane Vasco - era un capellone, come si diceva ai tempi - a questa compostezza un poco enigmatica, in forte sospetto di serenità, o addirittura di saggezza. Bastano un saluto e poche battute, e la persona fa subito dimenticare il monumento.

Tra quattro mesi la rockstar compie settant' anni...

«Pazzesco. Non me lo sarei mai aspettato. Di arrivarci, voglio dire. Miravo a Kurt Cobain, come genere. Mi sento un sopravvissuto, per meglio dire un supervissuto, per quantità e qualità delle esperienze. Ho avuto una vita incredibile, e me la sono cercata proprio così come è stata. Non ho fatto il commercialista, voglio dire. Come sognava mio padre. È stata mia madre a farmi cantare, le mamme fanno di te quello che vogliono, a dodici anni ero già una piccola star. Ho avuto la mia prima chitarra, era un gioco, poi è diventata un'arma, non potevo andare in giro senza, siamo diventati inseparabili. Ho cominciato a scrivere le prime canzoni, genere "cantautore". Da lì in poi ogni esperienza, ogni incontro, ogni cosa che mi succedeva, l'ho usata per salire su un palcoscenico, l'unica cosa che mi interessava era quella. Ho usato me stesso e anche molto abusato di me stesso, ma non è che l'ho fatto così, tanto per farlo. C'era un fine molto preciso, sempre quello, ben chiaro: volevo stare sul palco per arrivare al cuore della gente. Più gente possibile». 

E scappare da Zocca

«Beh sì, anche scappare da Zocca. In certi momenti credevo di impazzire, lassù. Per ingannare il tempo ho scritto anche una messa rock, d'accordo con il prete, non so se aveva capito bene - mi piaceva il coro delle ragazze del paese. Albachiara era una di loro. Poi ho fatto due anni dai salesiani a Modena, due anni buttati via, riuscivo a stare anche due ore con un libro aperto sotto gli occhi senza leggerlo, senza nemmeno vederlo. Scappavo a Bologna da mia zia, finché mio padre si è arreso e mi ha iscritto al Tecnico Commerciale. Mi sono diplomato, volevo fare il Dams ma mi sono iscritto a Economia e Commercio per far piacere a lui, più tardi a Pedagogia per fare piacere a me. Devo tutto a Bologna, la Bologna di quegli anni (i Settanta, ndr), a quel clima culturale, politico, artistico. Facevo teatro sperimentale, il mito era l'autocoscienza, l'uomo anarchico, senza condizionamenti, libero di esprimersi. Per me riuscire a rappresentare me stesso era tutto. Politica ne facevo poca, mi piacevano gli indiani metropolitani, ma quando è successo tutto il casino del '77 ero su a Zocca a fare la radio, Punto Radio, una delle prime radio libere italiane». 

C'è un dibattito acceso e un po' di campanile, su chi ha cominciato per primo. Carlo Petrini dice Radio Bra Onda Rossa, a Varese dicono Radio Varese, a Milano c'era Radio Milano International

«Mah, chissà, spuntavano tutte assieme. Noi ci divertivamo da matti, si arrivava in quasi tutto il Nord, ci ascoltavano anche a Venezia. La voce del movimento comunque era Radio Alice, a Bologna. Io, di mio, facevo il dee-jay e scrivevo canzoni». 

Vasco parla come scrive, le frasi sono brevi, dirette, senza fronzoli, forse è asciuttezza montanara, forse è la sinteticità del rock, che va per le spicce perché non ha tempo da perdere. Forse un mix di entrambe. È come se ci fosse una punteggiatura, quando parla lui, che non consente di menare il can per l'aia. E non è insicurezza («Ho letto per intero la Recherche, sono uno dei pochi al mondo!», dice sorridendo più del solito). 

È proprio uno stile. «Siamo qui, pieni di guai», il verso che introduce (e quasi contiene tutta intera) la sua ultima canzone, è fatto di cinque parole, tutte brevi, bisillabe o monosillabe. Un solo sostantivo, "guai", un solo aggettivo, "pieni". Una frase comune, persino banale. Sta di fatto che detta da lui suona come un breve bilancio della condizione umana. 

Sarà il carisma guadagnato in mezzo secolo di carriera, sarà la voce che sembra sciatta e strascicata, ma è guidata da una formidabile intonazione e molta più musica di quello che sembra, ma è così che succede, quando canta Vasco. E quando dice «la gente si riconosce nelle mie canzoni», altra frase semplice-semplice, proprio questo sta dicendo: riesco a farmi capire da tutti, e tutti sono convinti che io capisca loro. Se vi sembra poco, chiedetevi in quanti ci hanno provato e non ci sono riusciti. «Ho fatto la cronaca della mia vita scrivendo canzoni. Mi hanno ispirato esperienze di tutti i tipi, ogni periodo della mia vita ha prodotto le sue canzoni. Le delusioni, gli schiaffi, le voglie. E in quello che canto si riconosce un sacco di gente, proprio un sacco. Sai cosa dice Springsteen? "Ho un pubblico democratico e un pubblico conservatore, il trait-d'union tra loro sono io". Beh, io uguale. Non sono un maestro, né buono né cattivo, semplicemente non sono un maestro. Sono uno che scrive solo quello che sente. Scrivo, e spesso capisco solamente dopo quello che ho scritto. Lascio venire la prima frase, arriva da dentro, proprio da dentro, comincia tutto da lì, poi frase dopo frase vado avanti, un pezzetto dopo l'altro. Per rimanere attaccato a quel filo sottile, per non smettere di scrivere una canzone che mi piaceva, ho fatto di tutto e ho preso di tutto, pur di rimanere sveglio e andare avanti. Non so mai se riesco ad arrivare alla fine. Poi però ci arrivo. È un miracolo, ti dico». 

E una grande fatica, anche

«È un mestiere. Le canzoni sono come le pagnotte, devi farle una per una. Da ragazzo era solo una sfida e il primo disco è stato solo uno scherzo, poi poco a poco sono diventato un professionista, e quando dico poco a poco vuol dire che non arriva tutto e subito, bisogna sacrificarsi, sbagliare, riprovare. Io ci sono dentro da quasi cinquant' anni, nel tunnel della creatività, e niente è arrivato per conto suo, tutto mi è costato, tutto mi ha segnato. Mi fa paura, adesso, vedere che il successo arriva di colpo, tutto in una volta, non capisco nemmeno che cosa significhi, che sostanza c'è sotto. Come gli influencer: non va mica bene. Io quando ho cominciato ero convinto di essere uno di nicchia e che lo sarei stato per sempre, ero troppo strano per avere il grande successo, quello di massa. Ho cominciato a vendere molti dischi dopo parecchi anni che li facevo. Prima no, ne vendevo pochi. Ho fatto una cosa per volta, passo dopo passo, nel locale dove l'anno prima erano venute a vedermi cento persone, l'anno dopo erano mille. E il narcisismo non basta, per stare sul palco, l'ansia da prestazione è micidiale. Bevevo molto, prima dei concerti. Adesso ho smesso di bere prima, adesso bevo dopo (ride)». 

È professionismo anche questo.

«Diciamo che ho fatto tesoro di tutte le esperienze, anche quelle negative. Nell'83 sono finito in galera per droga, non dovrei dirlo ma ero anche contento, mi è servito per scendere dal pero. Mi hanno arrestato il Venerdì Santo e il giudice doveva pure fare le sue vacanze di Pasqua, poveretto, e dunque è venuto a interrogarmi solo il martedì. Mi sono fatto quattro giorni di isolamento, ho rivisto tutto, ripensato tutto, sesso droga e rock' n'roll. Vivevo come una star, però a Casalecchio di Reno, avevo una specie di capannone, - a New York sarebbe stato un loft, a Casalecchio era proprio un capannone. Dopo la galera salivo sul palco lucido. I miei si facevano tutti, io ero l'unico lucido. Mi sono accorto di cantare meglio. Certo, da lucido, proprio perché sei lucido, prima di salire sul palco la paura è tremenda. Ma passa subito, basta un attimo e pensi solo a cantare». 

E il resto? La vita fuori dal palco?

«Senza la musica non sono niente. Ma le mie cose le ho fatte. I primi due figli sono venuti per puro caso, diciamo che è stata la provvidenza, perché i figli non sono mai una disgrazia. In un caso è stata la storia di una sera, la seconda volta era una storia già conclusa, un addio, ma nel salutarci, sai come succede, è successo. Sono cresciuti con le loro madri. Mio nonno diceva "ti sposi, non ti sposi, ti penti lo stesso", ma negli anni Novanta ho letto Aut-Aut di Kierkegaard e ho deciso che non potevo essere sempre il centro del mondo. E dunque dovevo fare una famiglia. Laura era la donna giusta, non era una fan e anche questo ha contato molto, era una che ci credeva. È stata una grande vittoria, siamo insieme da trent' anni, c'è Luca, è un'avventura lunga, da tenere in piedi, anche lì faticando, sopportandosi. Non è mica facile. Niente è facile». 

C'è qualcosa che ti piace fare quando non sei dentro il tuo mestiere, quando sei senza musica?

«Ho provato con il giardinaggio ma non funziona. Ho ritrovato, questo sì, il piacere di camminare e di respirare, dopo tanti anni di anfetamina. Ci sono stati periodi che ero una comunità di recupero, io da solo. Leggo. Ti piace Han, il filosofo tedesco-coreano? A me piace molto. In pandemia ho letto Heidegger. Sai, io volevo fare il Classico e invece ho fatto la scuola tecnica, d'altra parte mio padre era camionista, bella grazia già che mi mandasse a scuola. Ma secondo me tutti dovrebbero fare il Classico o lo Scientifico, perché tutti dovrebbero studiare filosofia e sociologia».

Tu il lockdown l'hai anticipato, una decina di anni fa

«Non ero mai stato in ospedale, e sì, è vero, dieci anni fa ho fatto il mio lockdown privato e anticipato, se sono diventato saggio è stato dopo una lunga malattia. Vedi che tutto serve». 

Si dice, però, che il vero prezzo da pagare sia la fama. Una fama come la tua, voglio dire, una fama totale, di destra e di sinistra. Non credo esista un italiano che non ti conosce.

«Sì, quello è un prezzo vero, ed è un prezzo molto alto. La fama è una giostra dalla quale non puoi più scendere, un po' di tregua me la prendo solo quando vado a Los Angeles, o in un paese dove nessuno mi conosce. A Bologna ho provato a uscire con una parrucca ma mi hanno sgamato subito». 

Un disco vuol dire: finalmente torno sul palco

«Sì, ho sempre fatto dischi solamente per quello. Per tornare sul palco con le nuove canzoni. Il disco l'abbiamo costruito nel pieno della pandemia, da gennaio a maggio, venivo qui e cantavo, poi gli altri ci lavoravano sopra, tornavo dopo un po' con l'orecchio vergine per sentire, capire, decidere. Adesso non vedo l'ora. A giugno sarò di nuovo in mezzo al pubblico, il tour parte da Trento, la voglia è tantissima dopo l'isolamento di questi mesi». 

A proposito di pubblico. Sono "pubblico" anche i social, con i quali ultimamente hai avuto parecchi problemi. Per esempio con i No vax.

 «I social avrebbero potuto essere la cosa più bella del mondo. Come andare in giro a vedere tutto quello che succede, sentire tutto quello che succede, e farlo da casa propria. È diventato, invece, un mondo di tribù. Io sono esterrefatto, si incazzano per tutto, soprattutto per quello che non capiscono, vedo valanghe di ignoranza e l'ignoranza fa dei danni spaventosi. Anzi, li ha già fatti. In una canzone del nuovo disco dico che "conviene arrendersi", ma non so se sarò capace di farlo, cioè di uscire dai social, lasciare perdere e non pensarci più. Non ancora, non ora, anche se l'ignoranza mi fa male, molto male. Io sono social da molto prima di loro, comunico con il mio pubblico, non so farne a meno, non sono capace di tenermi dentro quello che penso. In fin dei conti mi affido ai vecchi princìpi di Zocca e dei miei vecchi, che alla fine sono due: onestà, sincerità».

Già, Zocca. I cerchi si chiudono, o tendono a farlo. È un cerchio buddista, l'enso, il logo del nuovo album di Vasco. Rotondo come il suo cappello. A parte la sincerità e l'onestà, che a un intervistatore non sono certo dovuti (basterebbe, per cavarsela, una cordiale formalità), nella persona ho trovato qualcosa che non avevo previsto: la misura. Misura di sé stesso, vedersi come si è stati, come si è, come si spera di essere domani. E dunque lunga vita a Vasco, lunga vita a chi voleva fare il Classico ma ha fatto il Tecnico e gli è bastato per conquistare il mondo. La via Emilia Levante, quando esco e risalgo in macchina, mi sembra tutta un'altra cosa. L'Appennino si vede poco, è nascosto dai palazzi piastrellati. Ma si sente nell'aria.

Estratto dell’articolo di Mattia Marzi per il Messaggero il 13 novembre 2021. Siamo qui è un disco attualissimo: da XI comandamento, rock distopico e apocalittico in cui Vasco immagina una società nelle mani di estremisti e populisti (gli spari sopra, stavolta, sono per Salvini e Meloni, che attacca pur senza menzionare direttamente nella canzone: «Sono divisivi, seminano odio»), a L'amore l'amore, una canzone che parla di amore fluido destinata a diventare un inno dei pride (Si fa con le mani / si fa con il cuore / si fa come si vuole: «Cambiano i tempi, ma la voglia di fare l'amore è sempre uguale», sorride), Vasco guarda il mondo intorno a lui e dice la sua.

Da “La Stampa” il 13 novembre 2021. Esce oggi «Siamo qui», diciottesimo album di Vasco Rossi, a sette anni da «Sono innocente». È un album molto vitale, a tratti travolgente e decisamente rock, sulla scia dei suoi ultimi lavori, con alcuni pezzi dominati dall'ironia, nei quali si fa beffa dell'ignoranza trionfante come in «XI Comandamento» esplicitamente diretto a una parte della classe politica, oppure benedice il nuovo senso delle relazioni amorose come in «L'amore l'amore», ribadendo la sua peraltro nota predisposizione alla libertà personale. La title track, uscita come singolo alcune settimane fa, è invece decisamente più profonda, mentre nelle altre canzoni Vasco vaga attraverso varie ispirazioni che hanno a che fare con la vita di tutti i giorni, i rapporti di coppia che sono fra i suoi argomenti preferiti, o i social dove più che altro ci si insulta, e un'inedita propensione per la mistica, contemplata attraverso una lente nihilista. Prodotto a quattro mani da Celso Valli per le ballads e dal suo chitarrista Vince Pastano per i pezzi più scatenati, «Siamo noi» vanta il contributo dei suoi autori preferiti, da Gaetano Curreri a Tullio Ferro (quello di «Vita spericolata»). 

I pezzi di “Siamo qui” raccontati da Vasco Rossi

Sento nell'aria un'enorme valanga di ignoranza che sta arrivando. Conviene arrendersi, non puoi discuterci. È chiaro che è ironico no? Dai nuovi governanti, che sull'onda degli estremismi dei populismi e delle fake news si prospettano all'orizzonte, non ci aspettiamo solo leggi speciali ma addirittura un undicesimo comandamento.

Mi sono divertito a raccontare come sono i rapporti di oggi, la sessualità fluida che c'è. Io sono proprio aperto, lei con lui lui con lei lei con lei lui con lui, quell'altro che ama l'altro, ognuno può far quel che vuole se c'è l'amore. Dico la mia posizione.

Già, pieni di guai. È stata scritta prima della pandemia e sono i guai della condizione umana. È la canzone portante dell'album, l'ho costruito intorno a questa idea.

È una fotografia del rapporto di coppia. Piove anche, è una giornata un po' storta, come un Natale che non nevica e magari non c'è niente alla tv. Una canzone divertente, comunque.

È un rockettone dove racconto quel che sento quando entro nei social... Ci insultiamo tutti a vicenda, uno con l'altro: non sono quello che racconti te, devi andare a farti fottere... tu ce l'hai con me. Il mondo come continua offesa da tutte le parti, dove viviamo oggi.

Ho notato che si sta poco con il respiro dentro. La vita è un respiro in più, quando avrai capito queste cose sarai anche capace di morire a questa vita per nascere in una nuova condizione mentale. Non morire e poi risorgere, anche se quello a me è capitato.

Ci sono molto legato, perché ho avuto un momento che mi son reso conto che avevo litigato con la vita, con me, con tutto. Non ho rimesso a posto il mondo, non ho nemmeno fatto la pace con me, ma ho ritrovato te. Può essere la chitarra che non suonavo da tanto tempo, oppure la persona cara.

È la prima canzone mistica che scrivo. A Los Angeles come dall'alta montagna e a Zocca c'è il cielo blu. Cado nel blu, credo nel blu... Prenditi questa bugia e mettiti comodo... è tutta una bugia, in realtà. Sali con me sulla scia di questo sogno, perché in fondo è tutto un sogno.

Capita adesso nei rapporti, è come se facessi un patto con riscatto che chiude tutto. Ti metti insieme e c'è già il foglio: se qualcosa non va bene, se mi sono innamorato di un'altra che è passata, addio. Ma se hai deciso di amare una persona e di costruire qualcosa, puoi innamorarti di tutte quelle che vedi? No.

Un rapporto di coppia è sempre complicato, bisogna sempre cercare di tenerlo vivo anche se a volte uno dei due sbaglia. Una notte ubriaca una sola bugia può capitare, ma non è che devi buttare via il bambino con l'acqua sporca... Per stare con una persona bisogna saper chiudere un occhio, a volte anche due.

Vasco Rossi ai detenuti: “Tenete duro, so cosa vuol dire il carcere ma date un senso a questa situazione”. Rossella Grasso su Il Riformista il 6 Giugno 2021. “Questa pandemia globale ha messo in ginocchio il mondo, è stata una tragedia. È stata dura per noi fuori, e non posso immaginare come sia stata per voi dentro. Oltre alla condizione dell’essere in carcere, che tra l’altro conosco, perché l’ho provata, capisco la vostra rabbia e la vostra tristezza”. Con queste parole Vasco Rossi ha parlato in un video messaggio a tutti i detenuti delle carceri italiane incoraggiandoli a tenere duro. L’artista è intervenuto nel corso della “Maratona oratoria” organizzata dalla Camera penale di Bologna del 5 giugno. Ed è proprio ai detenuti che ha rivolto il suo accorato pensiero parlando anche della sua personale esperienza in carcere. “Io ho cercato di fare tesoro di quell’esperienza, per cercare di diventare più forte e affrontare i problemi che ci sono nella vita. Vi consiglio di fare altrettanto: dare un senso a questa situazione anche se questa situazione un senso non ce l’ha”, ha continuato nel video messaggio. Le sue parole sono la citazione di un suo celebre brano “Un senso”, scritto con Saverio Grandi e Gaetano Curreri e in origine pubblicato nell’album del 2004 “Buoni o cattivi”. “Vi sono vicino, vi abbraccio forte, e vi auguro che i vostri problemi legali e umani si possano risolvere il più presto possibile, e per il meglio. Tenete duro. Teniamo duro. C’è poco da fare, bisogna tenere duro”, conclude nel messaggio.

Vasco Rossi e l’esperienza in carcere. L’esperienza di detenzione alla quale fa riferimento Vasco Rolssi risale alla primavera del 1983: il cantante venne fermato nei pressi di una discoteca di Bologna, e in seguito alla perquisizione del casolare dove viveva – a Casalecchio – insieme ad altri elementi della sua band di allora, consegnò spontaneamente alle autorità 26 grammi di cocaina. Fu rinchiuso per 22 giorni presso il carcere di Rocca Costanza a Pesaro, poi venne scagionato dall’accusa di spaccio, ma venne condannato a due anni e otto mesi (con sospensione della pena) per detenzione di sostanze illegali. Durante il breve periodo passato presso la casa circondariale l’artista ricevette la visita di Fabrizio De André, che lo raggiunse a Pesaro insieme a quella che di lì a qualche anno sarebbe diventata sua moglie, Dori Ghezzi.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Il messaggio ai detenuti del rocker di Zocca. Vasco Rossi e l’arresto per droga: il carcere e quella visita di Fabrizio De André. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Giugno 2021. Gli spari sopra sono sempre per gli altri, i cattivi, quelli sbagliati. E che Siamo solo noi – quelli che sbagliano, per l’appunto, che si perdono, che non si sanno limitare, che non hanno più rispetto per niente, che non ha voglia di far niente, generazione di sconvolti – lo aveva già scritto e cantato Vasco Rossi quando fu arrestato per droga. Si fece oltre 20 giorni di carcere, come ha ricordato nel suo messaggio di solidarietà ai detenuti in occasione della maratona oratoria organizzata dalla Camera Penale “Franco Bricola”, in collaborazione con l’Osservatorio del Carcere. “Questa pandemia globale ha messo in ginocchio il mondo ed è stata una tragedia epocale, è stata dura per noi fuori, posso immaginare come sia stata per voi dentro – ha detto nel suo messaggio il rocker di Zocca – Oltre alla condizione dell’essere in carcere che tra l’altro conosco, perché è una condizione che ho provato e quindi capisco la vostra rabbia e tristezza. Io ho cercato di fare tesoro di quell’esperienza, per cercare di diventare più forte per affrontare poi i problemi che ci sono nella vita – ha continuato, citando un suo brano – Vi consiglio di fare altrettanto, di dare un senso a questa situazione, anche se questa situazione un senso non ce l’ha”. Parole che istituzioni, politici, passati ministri della Giustizia, non si sarebbero mai sognati di dire. Anche se in Italia al 28 febbraio 2021, secondo il rapporto di Antigone i reclusi in Italia sono 53.697, con un sovraffollamento del 115%. 61 i suicidi in cella: mai così tanti. Ma questa non è mai un’emergenza. E andava bene, bene così anche nel 1984. Rossi aveva appena pubblicato il primo album dal vivo, Va bene, va bene così, per l’appunto. L’anno prima era stato il turno di Bollicine, per Rolling Stone il miglior album italiano della storia. Bollicine stessa, la title-track, con i suoi riferimenti, una critica per niente velata al capitalismo e alle logiche pubblicitarie, era stata criticata per essere un riferimento non troppo più velato alla cocaina. Rossi era già il rocker maledetto, il cantante della vita spericolata, quello che aveva portato al Festival di Sanremo Vado al massimo e la stessa Vita spericolata. Era per Nantas Salvalaggio “un bell’ ebete, anzi un ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumè dello zombie, dell’alcolizzato, del drogato ‘fatto’”, come aveva scritto il giornalista criticando la Rai che lo aveva ospitato durante una puntata di Domenica In nel 1980. L’agente Guido Elmi, mesi prima, aveva dovuto anche annullare alcuni concerti per via della dipendenza di Vasco da anfetamina e Lexotan.

L’arresto. Il 20 aprile Rossi è al locale Variety, appena aperto da Bibi Ballandi a Bologna, con Guido Elmi, Maurizio Lolli e Beppe Tondi, tutti membri della sua squadra. La settimana dopo c’è la diretta con la trasmissione Blitz di Gianni Minà per celebrare “quelli che hanno fatto grande Bologna”. Un sopralluogo. Il cantante ha gli occhiali da sole, jeans, sta bevendo un whiskey quando si avvicinano due carabinieri in borghese. “Lei è Vasco Rossi?”. Lui annuisce e sorride, li segue. “Vado con questi due amici, ci vediamo tra un po’”. La Repubblica dell’epoca racconta che prima va in caserma, quindi in una perquisizione al capannone nella zona industriale di Casalecchio di Reno, dove vive e dove spesso ospita gli amici e la sua band, e dove ha messo su uno studio di registrazione, vengono trovati 26 grammi di cocaina. Secondo gli inquirenti sono gli avanzi di una partita comprata mesi prima ad Ancona del valore di circa 100 milioni. L’inchiesta coinvolge centinaia di persone – una trentina gli arresti in quei giorni tra Verona, Milano e la Calabria – e ipotizza le Marche come punto di raccordo del traffico tra la Sicilia e Verona. Tutto parte prima dalla scoperta di una base di spaccio a via Magenta ad Ancona e poi di una villa di Civitanova Marche come luogo di coordinamento. Ancona è sconvolta: dall’inizio dell’anno sono già quattro i giovani morti per overdose.

Il carcere. Il nome di Vasco Rossi salta fuori da un’agenda con nomi, indirizzi e recapiti telefonici di uno spacciatore. “Detenzione di non modiche quantità di sostanze stupefacenti e spaccio non a scopo di lucro di modiche quantità”. Il cantante passa 22 giorni dietro le sbarre, cinque addirittura in isolamento, nel carcere di Rocca Costanza a Pesaro. La Repubblica cita un giornale di gossip dell’epoca che intervista la madre della rockstar: “La signora Novella Corsi grida a caratteri di scatola ‘Basta droga, pianta tutto e torna a casa’ dice che Vasco ‘beve troppo, prende un sacco di porcherie e ha sempre intorno una manica di sballati’”. L’istituto era stato scelto di nascosto per evitare manifestazioni e curiosità dei fan. Inutile: per giorni gruppi di persone si assiepano all’esterno del carcere per esprimere vicinanza al rocker di Zocca. Il leader dei Radicali Marco Pannella gli invia un telegramma. Gli unici artisti a solidarizzare con Rossi, andando a trovarlo in carcere, sono Fabrizio De André e Dori Ghezzi. “Vasco Rossi è l’unico credibile nel ruolo di rocker in Italia. L’unico ad essere riuscito a portare la canzone d’autore nel rock”, dice Faber, da sempre fonte di ispirazione per Rossi, che quando ottiene la libertà provvisoria ed esce, il 12 aprile 1984, dice: “Va bene, va bene. Sono tutte esperienze della vita. Adesso torno al mio pubblico con entusiasmo e qualcosa in più”. Il primo concerto dopo l’arresto, il 3 agosto 1984, a Milano Marittima allo Stadio dei Pini, Va bene, va bene così tour. Quelli che si aspettano dal nuovo album, Cosa succede in città, del 1985, il racconto delle sue (di Vasco) prigioni, resta deluso. Qualche cenno nella traccia di apertura Cosa c’è. Il processo lo scagiona infine dall’accusa di spaccio ma lo condanna a due anni e otto mesi con la condizionale per detenzione di sostanze stupefacenti. Non mancherà mai di stigmatizzare quegli anni, la vita troppo spericolata, l’uso e l’abuso di droghe, che provò tutte tranne l’eroina. La stessa che nel maggio 1999 stronca Massimo Riva, suo chitarrista, leader della Steve Rodgers band che aveva accompagnato per anni Rossi, autore con lui di capolavori come Stupendo e Vivere, suo figlioccio e sodale dai tempi di Punto Radio, la radio libera fondata dal rocker a Zocca. paese di circa 5mila abitanti in provincia di Modena, l’inizio di tutto. “Massimo era il mio fratello minore. era anche venuto a vivere insieme a me, sul palco lui era il mio Keith Richards. Quando se ne è andato l’ho vissuto un po’ come un tradimento, ma Massimo è vissuto e se ne è andato come ha voluto. Lo ricordo ogni volta, una parte di lui vive ancora oggi dentro di me, quindi non se ne è mai andato del tutto”. In ogni concerto Rossi lo ricorda dedicandogli Canzone.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da lastampa.it il 28 maggio 2021. Il pm di Roma ha chiesto una pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione per Davide Rossi, figlio del cantante Vasco, imputato per lesioni personali gravi e omissione di soccorso stradale. La vicenda è legata ad un incidente avvenuto nel settembre del 2016. A bordo dell'auto, oltre a Rossi, era presente un suo amico. Per quest'ultimo il rappresentante dell'accusa ha sollecitato una pena di 2 anni. L'amico di Rossi in aula, nel corso dell'udienza passata, aveva sostenuto di essere stato lui al volante, e una ragazza. «Ci siamo fermati, siamo scesi dall'auto e abbiamo chiesto alle ragazze nell'altra auto se fosse tutto a posto e loro ci hanno risposto che era tutto ok», aveva sostenuto in aula Davide Rossi. «Ho detto al mio amico di fare la constatazione amichevole - aveva ricostruito Rossi nel corso dell'udienza dello scorso 10 luglio - e me ne sono andato con la ragazza perché era molto scossa dall'incidente, sapendo che stavano facendo il cid ero tranquillo». Il giovane aveva aggiunto: «Non navigo nell'oro e non ho un lavoro stabile i giornali hanno scritto cose allucinanti su di me, ma mi prendo pregi e difetti di essere figlio di Vasco».

Scappò dopo un incidente: chiesti 2 anni e 8 mesi per il figlio di Vasco. Novella Toloni il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Il pubblico ministero ha chiesto due anni e otto mesi di reclusione per Davide Rossi, che nel 2016 avrebbe provocato un incidente stradale a Roma e non si sarebbe fermato. Due anni e otto mesi di reclusione. Questa la pena chiesta dal pm di Roma per Davide Rossi, figlio del cantante Vasco Rossi, nell'ambito del processo che lo vede imputato insieme ad altri due amici per un incidente stradale. Il giovane è imputato per lesioni personali gravi e omissione di soccorso. Nell'ultima udienza del processo il pubblico ministero del tribunale di Roma ha avanzato la richiesta di pena detentiva per l'incidente che Davide Rossi avrebbe provocato nel settembre 2016. La vettura sulla quale viaggiava Rossi, in compagnia di amico e di un'amica, si scontrò con un'altra automobile in zona Balduina a Roma. Ma Rossi non si sarebbe fermato a prestare i primi soccorsi per questo è stato denunciato. Nel capo di imputazione, il figlio di Vasco Rossi era a bordo della sua Audi, procedeva a velocità elevata e non si fermò allo stop, scontrandosi con un'auto su cui viaggiavano due donne, che riportarono ferite giudicate guaribili in oltre 40 giorni. "Subito dopo l'urto", secondo l'accusa, il 31enne si allontanò dal luogo dell'incidente senza "ottemperare all'obbligo di prestare assistenza alle persone". L'accusa ha richiesto, inoltre, una pena di due anni per Simone Spadano, 33 anni, che si trovava in auto con il figlio del celebre cantante al momento dell'incidente stradale. L'amico di Rossi è accusato di favoreggiamento perché avrebbe dichiarato il falso sostenendo di essere stato lui alla giuda del mezzo e di aver provocato lui l'incidente. Il processo si avvia dunque verso la conclusione, ma nel corso delle udienze sono state numerose le dichiarazioni rilasciate da Rossi e dall'amico. Quest'ultimo aveva sostenuto di essere stato lui alla guida della vettura al momento dello scontro. Il figlio di Vasco Rossi, invece, aveva ricostruito la dinamica dei fatti in modo diverso da quella riportata nella denuncia. "Ci siamo fermati - aveva raccontato nei mesi scorsi in aula - siamo scesi dall'auto e abbiamo chiesto alle ragazze nell'altra auto se fosse tutto a posto e loro ci hanno risposto che era tutto ok". Lo scorso 10 luglio, durante una delle fasi preliminari del processo a Roma, Davide Rossi aveva raccontato di aver lasciato l'amico sul posto per fare la constatazione amichevole e di aver portato via l'amica, che viaggiava con loro, perché molto scossa dall'accaduto: "Ho detto al mio amico di fare la constatazione amichevole e me ne sono andato con la ragazza perché era molto scossa dall'incidente, sapendo che stavano facendo il cid ero tranquillo". La denuncia invece parla di omissione di soccorso. Davanti ai giudici Rossi avrebbe poi aggiunto alcune considerazioni legate al padre, il rocker di Zocca: "Non navigo nell'oro e non ho un lavoro stabile i giornali hanno scritto cose allucinanti su di me, ma mi prendo pregi e difetti di essere figlio di Vasco". Ora è atteso l'esito finale del processo.

Da roma.corriere.it il 12 ottobre 2021. È stato condannato a un anno e dieci mesi con le accuse di lesioni personali stradali gravi e omissione di soccorso Davide Rossi, figlio di Vasco. Per lui anche il ritiro della patente. Condannato a nove mesi anche l’altro imputato Simone Spadano. Rossi, 35 anni, era accusato di lesioni e omissione di soccorso stradale per l’’incidente che causò il 16 settembre del 2016 nella zona della Balduina. Dopo lo scontro il figlio del cantante si allontanò da luogo senza prestare soccorso. «Sono indignato, è morta la giustizia — la reazione di Davide Rossi —. C’era anche un cid firmato a testimoniare tutto, hanno preso i soldi dell’assicurazione, è veramente assurdo, non me lo spiego». Ha aggiunto: «Purtroppo penso che questo sia avvenuto anche perché mio padre è una persona in vista . Ricorreremo in appello e speriamo che la giustizia alla fine trionferà». Per l’avvocato Fabrizio Consiglio, difensore dell’altro imputato Simone Spadano, «verrà dimostrata la sua estraneità ai fatti, presenteremo appello». A rimanere ferite nello scontro inevitabile visto che non si era fermato allo stop erano state due ragazze. Una catena di errori, compresa una fuga maldestra. I reati contestati a Rossi junior, attore di 35 anni: lesioni e omissioni di soccorso. Ma c’era un secondo protagonista di quella notte sul banco degli imputati, l’amico del figlio del cantante, Simone Spadano, 36 anni, che ha rischiato due anni perché avrebbe provato a coprire le responsabilità di Davide, sostenendo di essere lui al volante la notte dell’incidente. A rimanere coinvolte nell’impatto, Francesca Morelli e Rosella Nicoletti. La prima, oggi 27 anni, ha riportato un trauma al collo guarito in 30 giorni; la seconda si è rotta una costola. Il 35enne ha sempre sostenuto di non essere stato al volante dell’Audi. «La verità non ha bisogno di scuse» ha detto una volta Vasco Rossi parlando del processo del figlio. Secondo la ricostruzione della Procura, Rossi junior stava procedendo a velocità sostenuta su via Elio Donato. La strada interseca via Duccio Garimberti, dove, per immettersi, prima bisogna fermarsi allo stop e dare la precedenza. Tuttavia Rossi junior non si ferma e prende in pieno la Panda guidata da Francesca Morelli. È dopo lo scontro che entra in scena da protagonista Spadano. L’amico di Rossi junior si assume tutte le colpe, per avvalorare questa versione firma il cid. Rossi intanto è già sparito. Le due ragazze protestano subito per il tentativo di alterare la realtà, tanto che denunciano Rossi e Spadano. Del tutto opposta la versione resa dagli imputati, che nel corso del processo hanno ricevuto il sostegno di Virginie Marsan, 35 anni, figlia della moglie di Carlo Vanzina, Lisa Melidoni. La donna infatti non solo ha affermato che era in macchina con Davide e l’amico quella sera, ma soprattutto ha dichiarato che alla guida c’era Spadano. Queste invece le parole di Rossi in aula: «Ci siamo fermati, siamo scesi dalla macchina e abbiamo chiesto alle ragazze nell’altra auto se fosse tutto a posto . Loro ci hanno risposto di sì, poi me ne sono andato con Virginie». Anche Spadano ha confermato di essere stato lui al volante, benché avesse la patente scaduta: «Non me ne ero accorto». 

Il dj e attore ricorrerà in Appello. Chi è Davide Rossi, il figlio di Vasco Rossi condannato per lesioni stradali e omissione di soccorso. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. “Purtroppo penso che tutto questo sia avvenuto anche perché mio padre è una persona in vista”, ha detto Davide Rossi, figlio del cantautore e rocker di Zocca Vasco Rossi, dopo la sentenza di primo grado che lo ha condannato a un anno e dieci mesi di reclusione per lesioni personali stradali gravi e omissione di soccorso. I fatti risalgono al 2016, a Roma, in zona Balduina. Stamane la sentenza a Piazzale Clodio. “Sono indignato – ha aggiunto l’imputato che fino a sentenza definitiva, ovvero Cassazione, resta comunque innocente – è morta la Giustizia”. Ha annunciato che ricorrerà sicuramente in appello. Rossi, figlio dell’autore e cantante, è nato il 24 aprile 1986 a Pagani, in provincia di Salerno. È figlio di Stefania Trucillo e il primo del “Blasco”. Ha due fratelli: Lorenzo, nato il 5 giugno 1986, dalla relazione del padre con Gabriella Sturani; e Luca, nato il 17 giugno 1991, dalla relazione con Laura Schmidt. Attore, dj, autore di canzoni. Si è diplomato all’Istituto Kennedy di Roma e dopo la scuola ha seguito i corsi della NUCT a Cinecittà. Da attore è stato protagonista del cortometraggio Il sogno di Dean, di Abiel Mingarelli, e nel 2003 ha debuttato al cinema nel film Il posto dell’anima, diretto da Riccardo Milani, e poi in Caterina va in città, di Paolo Virzì. Quindi ha lavorato in Sopra e sotto il ponte, di Alberto Bassetti, Scusa ma ti chiamo amore, di Federico Moccia, Albakiara, di Stefano Salvati, dal titolo della canzone forse più famosa del padre, quella che chiude tutti i suoi concerti. Sul piccolo schermo ha invece lavorato alle miniserie di Rai Uno Lo zio d’America 2 e Provaci ancora prof 2. Per quanto riguarda la musica, oltre a serate e tour da dj, ha scritto canzoni anche per cantanti di un certo livello. Per esempio Parole di cristallo per Valerio Scanu, già vincitore del talent show Amici e del Festival di Sanremo. Rossi ha avuti un figlio, nato nel 2014, Romeo, con la compagna Alessia. “Ho sempre considerato un valore – ha raccontato l’attore del padre in un’intervista a Il Corriere della Sera – essere cresciuto con una ragazza madre. Ma lui c’è sempre stato, e non solo per telefono. Mi ha ascoltato ogni volta che ero in crisi, mi ha richiamato tutte le volte che trovava un mio messaggio in segreteria, perché ai tempi il telefono lo teneva perennemente spento, solo adesso lo lascia acceso e squilla. Non mi ha mai fatto mancare niente”. Rossi resta innocente: la condanna di Piazzale Clodio è il solo primo grado di una vicenda che va avanti dalla notte del 16 settembre 2016 a Roma, quartiere Balduina. Stando all’accusa Rossi, alla guida della sua Audi Q5, non avrebbe rispettato uno stop su via Elio Donato svoltando su via Duccio Garimberti. Avrebbe così colpito una Fiat Punto all’interno della quale sedevano Francesca Morelli e Rosella Nicoletti. Le due ragazze avrebbero riportato rispettivamente un trauma al collo e la rottura di una costola. Sempre secondo l’accusa Rossi si sarebbe a quel punto dileguato. Ad assumersi la responsabilità dell’impatto Simone Spadano, in auto con l’attore, e che proprio quella sera scoprì di avere la patente scaduta. Spadano è stato condannato a nove mesi per aver aiutato, sempre secondo gli inquirenti, l’amico “ad eludere le indagini dichiarando di essere stato lui al volante dell’autovettura e il responsabile del sinistro stradale sottoscrivendo il modulo di constatazione amichevole di incidente”. E anche Virginie Marsan, 35 anni, figlia della moglie di Carlo Vanzina, Lisa Melidoni, che ha deposto che quella sera al volante c’era Spadano rischia a questo punto l’incriminazione per falsa testimonianza. La difesa di Rossi, cui è stata revocata in via definitiva la patente, in udienza: “Ci siamo fermati, siamo scesi dalla macchina e abbiamo chiesto alle ragazze nell’altra auto se fosse tutto a posto e loro ci hanno risposto ‘sì, sì’. Ho detto al mio amico di fare il cid e me ne sono andato con la ragazza che era in auto con noi (Marsan, ndr) perché era molto scossa dall’incidente, sapendo che stavano facendo il cid, ero tranquillo – aveva aggiunto Rossi – Non navigo nell’oro e non ho un lavoro stabile, i giornali hanno scritto cose allucinanti su di me ma mi prendo pregi e difetti di essere figlio di Vasco”. La Procura aveva chiesto una condanna a due anni e otto mesi e a due anni, per favoreggiamento, a Spadano. “Non so come motiveranno questa sentenza, non hanno tenuto conto neanche degli atti. Ci sono incongruenze. Le vittime hanno preso un risarcimento basato su un cid firmato da un soggetto che secondo la sentenza di oggi non era alla guida. Allora quel documento è falso? Faremo appello”, ha commentato l’avvocato di Spadano, Fabrizio Consiglio.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Paolo Travisi per leggo.it il 18 febbraio 2021. Lorenzo Rossi Sturani è uno dei tre figli di Vasco Rossi. Sua madre, Maria Gabriella Sturani, è quella Gabri a cui il Blasco dedicò una nostalgica canzone al termine di un’intensa storia d’amore da cui nacque Lorenzo. Un’infanzia difficile, in provincia di Ferrara, per via di quel cognome, comune ma pesante e da adulto, la voglia di cercare la sua strada, lontano dall’ombra ingombrante della rockstar, che lui chiama papà. Oggi 34 enne, Rossi è nel marketing per VivaTicket, ma anche uno speaker radiofonico; conduce un programma a Radio 1909 di Bologna, ma i primi passi on air li ha mossi a Punto Radio, fondata a Zocca da Vasco Rossi.

Dopo 30 anni un altro Rossi come speaker. Perché ha cercato questa esperienza?

«E’ il mio hobby. Da piccolo, quando abitavo in provincia di Ferrara, ero in un momento traumatico, senza amici, senza famiglia, mio padre non era ancora nella mia vita, mia madre aveva i suoi problemi. Ascoltare la radio giorno e notte era la mia compagnia».

Perché proprio in quella radio?

«Una coincidenza, grazie a Biagio Antonacci, uno zio acquisito. Dopo un concerto mi fece conoscere Ruocco, che aveva le frequenze di Punto Radio e parlandogli della mia passione, mi disse di provare».

Non c’era l’idea di ripercorrere la strada di suo padre?

«E’ l’ultima cosa a cui ho pensato, non volevo seguire nessuna strada. Ero affascinato dalla libertà di parlare e di non provare imbarazzo nel farlo a tante persone».

Il suo cognome è stato maledetto nei momenti difficili?

«Si, ma non per colpa mia, ma di altre persone. Ci ho messo parecchio a tenerlo sulle spalle, ma nell’estate del 2017 quando ho deciso di fregarmene è stato tutto più bello. Avvicinai il cognome ad una causa benefica e questo mi ha cambiato».

Qual è stato il momento più duro?

«Ce ne sono stati diversi, legati anche a situazioni in casa».

Racconti.

«Non mi interessa parlarne».

Si, ma il peggiore?

«Alcuni anni fa, prima di conoscere mia moglie, perché non avevo un lavoro, una famiglia e mi chiedevo che senso avesse proseguire la mia vita. Finché non è accaduta la magia».

Ha mai pensato che la vita non valesse la pena di essere vissuta?

«Si, in passato. Quando scriverò la mia autobiografia, vorrei far capire che nei momenti in cui pensi che non valga la pena vivere, bisogna cercare una piccola speranza per andare avanti».

E negli anni dell’adolescenza era arrabbiato con suo padre?

«Mai stata rabbia. C’era solo la volontà, a 14 anni, di volerlo conoscere, anzi c’era molta gioia».

Nel primo incontro cosa vi siete detti?

«E’ stato emozionante, non ricordo cosa ci siamo detti, ma è stato molto bello».

Ha scattato una foto a Punto Radio, simile a quello che fece Vasco. Perché l’ha fatta?

«Una mia amica ha trovato la foto di mio padre sul web, fece un piccolo montaggio per scherzare, così la mandai a mio padre, in modo tenero, come un ricordo nostalgico della sua giovinezza».

E lui?

«La pubblicò su Facebook».

Mai sentito il richiamo del palco?

«Non canto e non suono, non ho mai avuto quella vocazione. Sono sempre stato lontano da qualsiasi palco musicale o televisivo, non mi ha mai interessato».

Da deejay ha mai messo Gabri, la canzone che suo padre ha dedicato a sua madre?

«No mai».

Cosa prova quando la sente?

«Mi passano le immagini di mia mamma, momenti di felicità, ricordi belli».

Oggi sembra una persona serena. Su Instagram appare così. Corrisponde?

«Da qualche anno a questa parte corrisponde molto, da quando ho trovato la mia compagna ed è nata mia figlia. Ho capito il significato della vita».

Quale?

«Dare agli altri. Da piccolo non ho mai avuto una famiglia e non sapevo neanche come costruirmela e fino a quel momento non sapevo neanche se ce l’avrei fatta».

Oggi Lorenzo Rossi chi è?

«Un papà, un marito che vuole dare tutto quello che non ha ricevuto da piccolo, presenza, amore e tanta continuità».

Le canzoni di Vasco che non può non ascoltare?

«Sally, è quella che mi ha aiutato, quando dice che “la vita è un brivido che vola via”, significa che bisogna stare attenti a tutto quello che si fa. E poi c’è Un gran bel film, che dice agli altri di farsi gli affari loro. Cambia-menti, fondamentale negli ultimi anni, quando dice che si può cambiare se stessi e fare la rivoluzione».

·        Veronica Pivetti.

Veronica Pivetti, la malattia e l’amicizia speciale con Giordana: «Ho sofferto per sei anni…» Oriana Cantini su Urbanpost.it il 13/3/2021. Si chiama Giordana “l’amica speciale” con cui Veronica Pivetti vive. L’attrice, che è stata tra gli ospiti della prima puntata del nuovo show di Raiuno “Canzone Segreta”, in varie interviste ha parlato di questa persona tanto importante, che l’ha aiutata ad uscire dalla malattia. Una carriera ricca di successi come “Provaci Ancora Prof”, “Commesse”, “Il Maresciallo Rocca”, caratterizzata però anche da momenti difficili, fatti di ansie e paure. Poca voglia di socialità, il pensiero che la vita stessa sia inutile e vuota, come pure altri sintomi che ad un certo punto le hanno reso impossibile anche lavorare. Veronica Pivetti ha parlato per la prima volta della depressione da Mara Venier: «Ho avuto una depressione bella tosta per 6 anni, da cui è uscito un libro comico. Era un problema lasciato alle spalle, ma un bagaglio», ha detto l’attrice, nota anche per il film “Viaggi di nozze”, ospite a “Domenica In”. «La depressione colpisce tante persone, ma viene sempre sottovalutata. Statemi a sentire, se ne può uscire. La depressione non è uno stato d’animo, è una malattia e va curata. Bisogna prendere le medicine, andare dallo psichiatra se necessario. Io ho fatto tutte queste cose… Il depresso è considerato una persona molto pesante, bisogna avere persone che ti vogliano molto bene e che ti sopportino così. E non è facile», ha confidato allora sempre la Pivetti.

«La depressione è una malattia che va curata. Quando ti rompi dentro, devi rimetterti a posto…». Ad aiutarla ad uscire da questo tunnel Giordana, con cui convive dal 2019 in compagnia dei quattro meravigliosi cani. «Mi ha aiutata molto anche la mia amica Giordana che poi è diventata la mia socia. Siccome viene da una famiglia di psicologici ha capito subito che io avevo bisogno di aiuto perché in pochi capiscono quando sei depresso. La depressione è una malattia che va curata. Quando ti rompi dentro, devi rimetterti a posto e devi farlo con le medicina», ha detto la Pivetti. Riguardo al loro rapporto, l’attrice ha detto: «Giordana è una cara, carissima amica, non lo definirei un amore, anche se è il rapporto più profondo che ho avuto nella mia vita ed è sotto gli occhi di tutti. Ci vogliamo molto bene…», ha dichiarato sempre il volto noto della tv. Leggi anche l’articolo —> Veronica Pivetti rivela: «Un incendio mi ha portato via tutto, a 50 anni mi è cambiata la vita!»

·        Village People.

Paolo Giordano per il Giornale l'11 settembre 2021. Village People e non c’è altro da aggiungere. Pochissimi altri gruppi rendono così bene l’idea, sono così iconografici, insomma basta la parola per identificare la dance che, dalla fine degli anni ’70, ha dato musica all’universo gay diventando subito trasversale, globale, universalmente riconoscibile. «In effetti siamo stati accolti benissimo dal pubblico fin dall’inizio», dicono loro che domani saranno presentati da Amadeus all’Arena di Verona nel cast di “Arena Suzuki ’60 ’70 ’80” (poi in onda su Raiuno probabilmente per due sabati di fila, il 25 settembre e il 2 ottobre). La prima volta di Amadeus come conduttore lì su quel palco, e anche per i Village People che riappaiono dopo tanti anni di assenza dalla tv, ma non dalle radio o dall’immaginario collettivo. «Suoneremo tre brani, Macho man, In the navy e il nostro più grande successo Y.M.C.A», spiegano senza troppe sorprese perché dici Village People e pensi proprio a quelle canzoni. Nonostante abbiano venduto oltre sessanta milioni di dischi, il loro racconto ruota proprio intorno a questi ritornelli diventati di uso comune, parodiati in mezzo mondo e tuttora simbolici di un pop coreografato e altamente connotato. Loro sono in sostanza sei personaggi considerati “archetipi dell’immaginario gay” (il poliziotto, l’operaio, il pellerossa, il motociclista, il soldato, il cowboy) che nel tempo sono stati interpretati da musicisti diversi ma comunque sempre vincolati a quel ruolo. I Village People, letteralmente la gente del villaggio dove villaggio era il Village di New York molto frequentato dalla comunità omosessuale, sono stati un’idea del compositore francese Jacques Morali, morto per complicazioni legate all’Aids pochi giorni prima di Freddie Mercury nel 1991, e sono subito entrati di diritto nella geografia della dance music, quella che dallo Studio 54 di New York si è ritagliata uno spazio nella storia della musica. E, dopo 44 anni dalla loro nascita hanno ancora un ruolo a metà tra nostalgia e attualità: «Non pensavamo di durare così a lungo e, se ce l’abbiamo fatta, è merito soprattutto delle nostre canzoni. Senza la musica, noi non saremmo niente». In realtà hanno un’immagine che funziona meglio di tante parole. Non a caso, c’è un rimando a loro nel video di Discoteque degli U2 e, in giro per il mondo, i personaggi di questa band sono stati «richiamati» in centinaia di programmi tv o manifestazioni pubbliche (non solo i Gay Pride, per capirci). Persino l’esercito americano ha utilizzato In the navy per una campagna pubblicitaria e i Village People sono ancora così popolari che anche l’ex presidente Trump (subito bloccato) utilizzava le loro canzoni durante la campagna elettorale. «In effetti oggi siamo tra i gruppi più iconici del mondo - spiegano - ma il nostro pubblico è molto più vasto e “largo” rispetto a quarant’anni fa. E di questo, sia chiaro, siamo molto orgogliosi. Ora ci ascoltano pure i giovani, i rockettari e chi ama il rap». Insomma, come riassumono con quell’innocente enfasi tipicamente americana, «tutti amano i Village People». Di certo tutti li riconoscono subito perché, sia chiaro, quando l’immagine e la musica trovano un punto di equilibrio, diventano fortissimi. E poi si rivelano imbattibili se riescono a non avere barriere. Perciò spiegano subito che «noi siamo pionieri della disco music. Nonostante alcuni di noi siano gay, non siamo tutti gay. Perciò la nostra musica è riferita a tutti senza distinzioni di orientamento sessuale». In poche parole: «Non avremmo mai potuto avere così tanto successo se ci fossimo riferiti a un solo segmento della società». In effetti. Ma oggi? Potrebbero nascere nuovi Village People? «Se iniziassimo oggi, molto probabilmente sarebbe più facile diventare famosi. Negli anni Settanta abbiamo veramente fatto tanta fatica. Ma ora ci sono i social network, cosa che era impensabile quarant’anni fa. Quindi sì, per i nuovi Village People sarebbe più facile». Loro intanto si godono non solo le royalties ma pure quella popolarità planetaria che li porta anche in Italia nell’epoca del politicamente corretto e della cancel culture: «Dalla politica restiamo rigorosamente fuori. E per quanto riguarda la cosiddetta “cancel culture”, non siamo d’accordo. È più importante dimenticare e concedere una seconda opportunità». Un punto di vista, anche questo, calibrato e per nulla estremista. In fondo non vogliono consegnarsi alla nostalgia canaglia. E difatti: «In primavera uscirà il nostro nuovo anno». Il ritorno di un gruppo che basta il nome per rendere l’idea.

·        Vina Sky.

Barbara Costa per Dagospia il 14 novembre 2021. Non è roba di tutti i giorni, non è per tutti, non replicate quanto lei fa a casa vostra! È strambo, insolito, altamente inusuale, che peni di tali dimensioni entrino in un c*letto così piccolo e stretto, eppure è vero, non c’è trucco, ma quale inganno, non sono magie di telecamere e inquadrature: quello che si vede è vero, è davvero un pene +30 cm quello che entra nel mini orifizio, e nella vagina, e nella bocca di questa pornoattrice qui: Vina Sky. Quello che questa micro-femmina col suo lato b combina attira l’attenzione famelica di un pubblico numerosissimo che ne segue le ardue performance su OnlyFans, dove tali speciali amplessi sono girati senza pose registiche. È semplicemente lei, con un lui, di volta in volta diverso, con cui fa sesso con l’intento di superare sempre più il limite e scoprire come, dove, quanto, riuscire ad arrivare. Vina Sky non lavora solo sui social ma pure sui set porno, e lei è la gioia di ogni produttore con cui lei accetta di lavorare: perché un porno con Vina Sky frutta soldi, e per un motivo preciso: non solo siamo davanti a un fenomeno di abilità e di flessuosità fisica e sessuale, non solo Vina, lo scricciolo che è, riesce a realizzare prove porno ricercate, e personali, ma è pure preziosa merce rara di cui il porno ha urgente bisogno dopo troppa astinenza: Vina Sky è asiatica, di origine vietnamita, e il porno è dalla "pensione" dell’indimenticabile Katzuni che cerca stelline porno asiatiche – nello specifico vietnamite – le quali coprono e fanno gola a un mercato immenso. Il problema – enorme – è trovarne di brave e serie: assi pornografici che abbinino glamour e seduzione a una testa pensante e sulle spalle. Vina Sky sembra racchiudere in sé queste prerogative, dato che è tra le asiatiche più scritturate sui set. L’odierno e indigesto politicamente corretto spinge a una pressante rimozione nel porno di definizioni etniche, ma è un fatto che nel porno le attrici asiatiche siano cercate e valorizzate perché a danno delle altre performer riescono a catturare occhi (e peni) di ammiratori che si legano a loro a mo' di porno-schiavi. Nessuna regge il paragone con Asa Akira, mantide porno a sé, ma è evidente che le star asiatiche vantino un potere seduttivo innato e tutto loro, fatto di roventi esotici sguardi, e corpi in fine armonia, seni appena accennati e curve per nulla accentuate, lambite da setosi capelli neri che le avvolgono come veli. Si ha voglia di asian, è asian una categoria porno mai in crisi di spettatori, e basta vedere come la piccola Vina Sky sale in views sui siti porno: chi resiste alla malia del suo lato b capace di dar piacere – fisico e visivo – nella sua straordinaria attitudine a inghiottire i sessi i più minacciosi? I video di Vina Sky lesbici, mirabili (specialmente dove fa la lesbica vergine) annaspano al vano inseguimento dei video anali che sfrecciano inarrivabili in alta classifica, e c’è un "vecchio" video, di Vina con Tony Rubino, che sta a 31 e oltre milioni di visite, e non pare arrestarsi. Toglie il fiato l’ultimo servizio fotografico di Vina per "Playboy USA" (sarà pure un magazine del secolo scorso, e però tanto di cappello in professionalità). Eppur di Vina Sky, di questo portento porno, si sa poco: è alta 152 cm, pesa 43 kg (ma alcune bio dicono 38), ha 23 anni e è nata e cresciuta a Houston, Texas. È diplomata, e a scuola era una secchiona. In curriculum pre-porno ha lavori da cameriera e segretaria, e da commessa in un sexy-shop. È lì che Vina ha "scoperto" il porno: lei voleva diventar come le pornostar che vedeva sui DVD che vendeva (a differenza dei suoi coetanei, lei non era una fruitrice porno via web). Vina Sky abita a Los Angeles dove, grazie al porno, ha appena comprato casa. Lei dei soldi ha grande considerazione, è una risparmiatrice, e già mette da parte ciò che intende investire: i suoi piani sono di non stare nel porno a lungo, confida di rimanerci qualche anno, non di più. Il porno è un lavoro duro dove, se ci sai fare e ti dai da fare, i soldi li fai, e ti fanno respirare quando non ce la fai: i guadagni porno di Vina sono stati ossigeno per la sua famiglia, in grave difficoltà con le chiusure anti-Covid. È coi soldi di Vina che sua sorella ha potuto seguitare i suoi studi da infermiera, è coi soldi di Vina che i suoi genitori sono andati avanti negli ultimi tempi (ehi, presidente Biden, ma i sussidi federali Covid non dovevano arrivare agli americani senza intoppi? Poi dici perché i consensi di questo "appisolato" presidente sono in caduta libera…)

·        Vincent Gallo.

Giada Tommei per mowmag.com il 12 aprile 2021. Ok, mi servono solo 50.000 dollari poi è fatta. No, non è un delirio ma un pensiero che certo condividerò con mille altre donzelle del globo dopo aver letto l’annuncio di un attore, regista, sceneggiatore, musicista, pittore ed ex modello statunitense che si offre per una notte di amore. Nascosto dietro una cifra così enorme, c’è lui: Vincent Gallo. “Ho deciso di mettermi a disposizione di tutte le donne”, dice: “Per la modica cifra di circa 50 mila dollari, spese escluse, potrete godere di una serata in mia compagnia”. Ironizza, il divo, o forse anche no: dato il suo carattere irriverente ed imprevedibile, se sia uno scherzo o meno lo saprà il cielo. Considerato il cambio valuta mi mancano 49.000 verdoni all’incontro con lui: insomma, anche Roma non è che fu fatta in un giorno. Una cifra un po' esosa, forse, che senza dubbio vale però un esoso come lui: Vincent Gallo, artista poliedrico made in U.S.A., è un cantante apprezzato, regista controverso e attore acclamato che l'11 aprile compie 60 anni confermando i suoi sei decenni da icona mondiale. Ma torniamo un momento all’annuncio sul web: Vincent si offre a real females (donne vere nel semplice senso che non vuole maschietti) e propone un listino prezzi che vede copiosi rincari se il tempo di una sera viene allungato all’intero fine settimana o se le ragazze interessate non sono una ma due. Se ce la fate”, puntualizza, e certo sulla sua degna prestazione ci sono ben pochi dubbi. Vincent afferma di esser disposto a soddisfare la lady di turno in ogni sua richiesta, assecondando ogni suo desiderio erotico e (sì) pornografico senza remore alcuna, pronto a tutto in nome del piacere. D’altronde, da uno che ha scandalizzato il Festival di Cannes del 2003 con The Brown Bunny, film da lui diretto e interpretato famoso per una reale scena di sesso orale con l’attrice Chloe Sevigny, ci si aspetta di tutto. Dal NY Post, poco dopo l’uscita della pellicola e della sconvolgente scena di fellatio, scrissero che “quel pene è senza dubbio una protesi”. Alle accuse, Vincent rispose semplicemente: “se il mio pene vi fa ingelosire son ca**i vostri”. Considerato uno degli uomini più sexy al mondo (col cavolo che ce l’ha finto) l’attore con radici italiane (ah ma allora è per questo che è figo!) inizia la sua carriera sul grande schermo con Martin Scorsese in “Quei Bravi ragazzi”. Nel 1998 esce il primo film da lui diretto, musicato e interpretato che lo consacra definitivamente nel mondo del cinema: “Buffalo 66” propone la storia autobiografica di un’infanzia difficile, svolgendosi in una trama intrigante degnamente supportata dalla presenza di una giovane Cristina Ricci e di Anjelica Huston (la famiglia Addams vi ricorderà certo qualcosa). Comunque, non è stato solo il cinema a interessare Vincent Gallo: nel 2001, infatti, esce il suo primo disco dal titolo “When”. Da quel momento, si snoda per il sex symbol una carriera musicale di tutto rispetto che lo rende molto noto nel settore. Il genere? Agli esordi rock, poi forse un po’ country con quella voce dolciastra e sinuosa che lo rende, come sempre, impossibile da inquadrare. D’altronde, uno come Vincent, l’animo colorito lo ha fin dalla nascita: chissà se per i suoi genitori, siciliani emigrati negli Stati Uniti in cerca di fortuna, è stato difficile veder loro figlio iniziare una carriera come performante di strada invece che come comodo impiegato o ristoratore. Quelle di Vincent erano esibizioni “a braccio”, davanti agli occhi dei passanti e con lo scopo, spesso avvalendosi di ospiti, di provocare quel senso di “shock” che per uno come lui significa smuovere le coscienze. Ce lo ricordiamo ne “La casa degli spiriti”, e lo ascoltiamo in “Sweetness” (album “Buffalo 66 soundtracks”) dove canta she brings the sunshine to a rainy afternoon: che nasconda dunque, dietro questo spirito rivoluzionario, un cuore da romantico? Può darsi, anzi: spesso chi è più ironico, non avendo timore di provocare indignazione non ne ha nemmeno di amare. Eppure, della sua vita privata si sa molto poco se non qualche storia del passato già ampiamente abbagliata dai riflettori ed il fatto che sia seguace di belle donne e buon sesso. Sul suo eros e sulla sua bellezza, l’eccentrico artista gioca e scherza da sempre proponendo tra i gadget del suo sito anche il proprio sperma, venduto alla modica cifra di un milione di dollari: in una cornice che ironizza in maniera così esemplare da parere estremamente seria, la sezione “personal service/servizi alla persona” del suo merchandising approfondisce lo smercio del suo liquido seminale sottolineando dettagli grotteschi, come le spese mediche per la fecondazione in vitro da pagare rigorosamente a parte, e l’uso obbligatorio di contanti o assegno. No credit card quindi: ah no?. Dollaroni sonanti, quelli di cui si parla, enormi come smisurato è il suo ego: navigando su vincentgallo.com si trovano certo anche cd, dvd, e t-shirt. Peccato che una maglietta costi fino a 700 dollari: forse tutto questo denaro gli è utile a pagare i mutui delle sue varie dimore in cui ammette di non vivere, che costituiscono un patrimonio di circa 7 milioni. Scorro le sezioni del sito e ancora non capisco se è uno scherzo o realtà. Ma chi la compra, questi gadget a queste cifre? Qualcuno lo farà, non c’è dubbio: per omaggiare un divo hollywoodiano di questo calibro c’è gente disposta a tutto. Tra i più incompresi e male interpretati personaggi degli ultimi 20 anni, Vincent Gallo non ha peli sulla lingua e questo a volte lo ha un po' tradito. Del giudizio altrui, tuttavia, pare non curarsene molto: mai ha nascosto il suo essere repubblicano, così come di non sopportare gli ideali di sinistra. Notevoli anche i suoi scivoloni in battute omofobe e razziste, ma insomma, come si suol dire: di 60 anni, ma so’ ragazzi. Che poi, malgrado il suo dark humor, sicuramente Vincent si dimostra onesto su tutto ciò che pensa. Come festeggerà, uno come lui, il suo sessantesimo compleanno? Una festa in grande stile, o magari degli sfarzi si è stufato? “A volte penso che a nessuno gliene importa molto di me: è come se nella vita non fossi riuscito a crearmi dei veri amici o una vera relazione”, confessa a un tabloid newyorkese. Potessi lo consolerei io, ma mi mancano giusto quei tre spicci per potergli mandare un messaggio. Comunque, molte delle sue più recenti dichiarazioni paiono rivelare un Gallo meno ruspante e più emotional, con il suo bizzarro genio a nascondere molta sensibilità. E dolore, dentro quell’essere ironico che ad alcuni fa impazzire mentre ad altri, evidentemente, spaventa. Restiamo in attesa di conoscere la sua prossima follia, ben consapevoli che, se solo avessimo metà del suo coraggio, un po' di irriverenza non farebbe male nemmeno a noi.

·        Vincenzo Salemme.

Dal corriere.it il 22 settembre 2021. Aveva cinque anni Vincenzo Salemme la prima volta che mise piede in un cinema: «Uscii di casa senza dirlo ai miei genitori e andai in una sala poco distante che era di un mio prozio, addormentato al botteghino. Entrai e vidi due film di seguito. Poi tornai a casa e trovai i Carabinieri, oltre a mia madre che piangeva perché non riuscivano a trovarmi. Da quel momento, iniziai ad andare al cinema tutti i giorni e ancora oggi guardo almeno un film al giorno». Attore, commediografo, regista, sceneggiatore e scrittore, Salemme, 64 anni, ha alle spalle una carriera pluridecennale all’insegna della comicità che si muove fra teatro, cinema e televisione. Se entrare in una sala da bambino lo ha reso uno spettatore voracissimo, a cambiargli la vita per sempre è stato l’incontro con Eduardo De Filippo, avvenuto quando aveva 19 anni a Cinecittà: «Arrivai da Bacoli, il mio paesino vicino a Napoli, perché sapevo che Eduardo cercava comparse per le commedie. Lui mi guardò e decise di farmi dire qualche battuta per farmi prendere lo stipendio di attore. Non capii il motivo, ma poi mi disse che mi aveva visto talmente magro che si era preoccupato che non mangiassi». Salemme spese quei primi soldi per l’altra folgorazione che l’aveva accolto a Cinecittà, arruolato sul set de «Il Cilindro»: «Incontrai Monica Vitti, me la ritrovai in reggicalze a due metri da me e mi venne un infarto. Persi la testa e usai quasi tutto lo stipendio per regalarle non so quante orchidee». L’attore e regista partenopeo si è raccontato ieri a Fuoricinema, la rassegna ideata da Cristiana Capotondi e Cristiana Mainardi che fino a stasera porta alla Triennale di Milano incontri e proiezioni. Con De Filippo, che lo scritturò nella sua compagnia, Salemme visse un momento d’oro del teatro: «Quando facevamo uno spettacolo, le persone facevano la fila di notte per i biglietti. Adesso bisogna pregarle per farle venire a teatro. Nel teatro si vede proprio la trasformazione di una società e quell’epoca lì non esiste più». Il cinema vero e proprio, invece, arrivò con Nanni Moretti all’inizio degli anni ‘80: «Venne a teatro a Roma e diventammo amici. Feci “Sogni d’oro”, “Bianca” e poi “La messa è finita”. Eravamo amici intimi, passavamo le vacanze insieme, ma poi Nanni tende a creare e a chiudere le amicizie. Ma è giusto così». Ironia sempre a portata di mano, Salemme ha confessato anche di identificare tutta la propria vita con il cinema: «Vado in analisi per questo perché per me è tutto un film e non riesco a stare nella realtà. Fuori mi perdo, divento un barbone, non ho neanche il portafogli addosso». 

Vittoria Puccini.

Vittoria Puccini compie 40 anni: bocciata al primo provino per «Elisa di Rivombrosa» e gli altri 10 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2021.Nata a Firenze il 18 novembre 1981 l’attrice prossimamente sarà nel cast del nuovo film di Umberto Carteni, «Praticamente orfano».

Il prossimo film

«L’età io l’abolirei. Ho un rapporto strano col tempo, a malapena so quanti anni ha mia figlia, non li conto mai, mi sono confusa un sacco di volte con la mia età, non mi interessa calcolare quanti anni sono passati dalla morte di mia madre o da quando mi sono fidanzata. Vivo nella piena consapevolezza di tutto ma non mi importa quantificarlo». Così Vittoria Puccini, in una recente intervista ad Elle, descriveva il suo rapporto con il tempo che passa in vista del suo 40mo compleanno, che cade proprio oggi. L’attrice, nata a Firenze il 18 novembre 1981, oggi ha alle spalle una carriera ventennale tra cinema e televisione, e (come vedremo) ha mosso i primi passi nel mondo dello spettacolo quasi per caso, dopo aver debuttato nel 2000 in un film di Sergio Rubini. Poi è arrivata la popolarità, con la celebre serie «Elisa di Rivombrosa», e nel corso degli anni Puccini si è alternata tra ruoli divertenti e ironici («Magnifica presenza», «Tutta colpa di Freud», «Tiramisù») e parti più intense («18 regali», uscito nel 2020 per la regia di Francesco Amato). Prossimamente sarà nel cast del nuovo film di Umberto Carteni («Studio illegale», «L'isola di Pietro», «Divorzio a Las Vegas») «Praticamente orfano» insieme a Riccardo Scamarcio, ma questa non è l’unica curiosità su di lei.

Non è parente di Giacomo Puccini

Figlia di Giusto Puccini, professore ordinario di diritto pubblico, e di Laura Morozzi, insegnante elementare, Vittoria Puccini non è parente del compositore Giacomo Puccini. Per quanto riguarda le parentele della sua famiglia è cugina di Orsola Branzi, conduttrice radiofonica di Radio Deejay nota come la Pina, e di Sofia Viscardi, youtuber e scrittrice milanese.

Gli studi universitari abbandonati

Dopo aver conseguito la maturità classica Vittoria Puccini si è iscritta all’università. Ha iniziato a frequentare Giurisprudenza ma non ha mai dato nessun esame perché si è subito dedicata alla carriera di attrice. Per una curiosa coincidenza nel 2019 ha girato la miniserie «Il processo», diretta da Stefano Lodovichi, e ha così potuto calarsi davvero nei panni di un pubblico ministero tra toghe e aule di tribunale.

Il provino (interminabile) con Sergio Rubini

«Sono stata molto fortunata perché ho debuttato con un grande maestro, un attore fantastico qual è Sergio Rubini e anche un bravissimo regista». Vittoria Puccini ha esordito nel 2000 interpretando Gaia in «Tutto l'amore che c'è». Di quel film l’attrice ricorda il provino, quasi «interminabile»: «È stato un provino lungo - raccontava nel 2019 intervistata nel programma di Rai Movie OffStage -, Sergio Rubini cercava delle giovani ragazze che interpretassero tre sorelle milanesi. Io venivo da Firenze e lui nel film mi ha fatto dire che avevo studiato lì per giustificare il mio accento (che si sentiva molto). Ai tempi lavoravo per un'agenzia di moda a Milano che mi ha mandata a fare questo provino, ma eravamo tantissime ragazze. Alla fine, provino dopo provino, è rimasto un piccolo gruppo. Di questo piccolo gruppo ha scelto tre ragazze, e io ero tra loro». Puccini tornerà a lavorare insieme a Rubini nel 2008, nel film «Colpo d'occhio».

Il primo provino per «Elisa di Rivombrosa»

Il ruolo che ha fatto conoscere Vittoria Puccini al grande pubblico è sicuramente quello di Elisa Scalzi in «Elisa di Rivombrosa» (2003-2005), fiction in costume ambientata nel 18mo secolo diretta da Cinzia TH Torrini. Il primo provino però non andò bene: «Era con la regista Cinzia TH Torrini e non andò bene. Mi scartò» ha rivelato in un’intervista a Sorrisi. L’audizione successiva avrebbe poi cambiato la sua vita: «Continuavano a cercare Elisa e non la trovavano. Dopo qualche mese Cinzia mi volle rivedere, il provino andò bene e sono partita per quella magnifica avventura».

Premio Diamanti al Cinema

Ha ricevuto due volte il Premio Diamanti al Cinema: come migliore attrice protagonista alla Mostra del Cinema di Venezia 2005 per «Ma quando arrivano le ragazze?» di Pupi Avati e alla Mostra del Cinema di Venezia 2008, sempre come migliore attrice protagonista (ex aequo con Violante Placido), per «Colpo d'occhio» di Sergio Rubini.

In «Baciami ancora» nel ruolo che fu di Giovanna Mezzogiorno

Nel 2009 Puccini è stata scelta da Gabriele Muccino come coprotagonista di «Baciami ancora», sequel de «L'ultimo bacio»: l’attrice ha prestato il volto a Giulia (personaggio interpretato nel film precedente da Giovanna Mezzogiorno). Per questo ruolo le è stato assegnato il Golden Goblet Award come migliore attrice protagonista alla 13ª edizione del Festival Internazionale del Film di Shanghai

L'Oriana

Ha prestato il volto ad Oriana Fallaci: nel 2015 Vittoria Puccini ha interpretato la giornalista nella fiction tv «L'Oriana», diretta da Marco Turco. «È stato motivo di grande orgoglio, una vera sfida. Ho cercato di rispettarla di non imitarla. La Fallaci è stata un vero mito, avanti anni luce a tante della sua generazione. Coglierne tutte le sfumature, mi ha ha messo a dura prova. Ho studiato la sua vita e letto i suoi libri per prepararmi. Non vorrei dire una banalità, ma per usare un paradosso Oriana Fallaci è stata una sorta di Forrest Gump al femminile, con la differenza che il primo era un personaggio di fantasia che si trovava per caso negli eventi epocali, lei invece era reale e si trovava lì perché voleva raccontarli quei fatti di cui è stata testimone diretta».

Nel videoclip di Ultimo (e non solo)

Nel corso della sua carriera Vittoria Puccini ha preso parte anche a diversi videoclip: nel 2008 ha interpretato una parte, insieme a Riccardo Scamarcio, per «Insolita» de Le Vibrazioni e l’anno successivo era - insieme ad altri attori - nel videoclip «Ancora qui» di Renato Zero. Nel 2019 ha partecipato con Edoardo Leo al video della canzone «Tutto questo sei tu» di Ultimo.

Maga Agata

Nel 2017 Vittoria Puccini si è cimentata con il doppiaggio: ha prestato la voce alla maga Agata ne «La bella e la bestia», remake in live action dell'omonimo film d'animazione Disney del 1991.

Vittoria Puccini e l’amore

Nel 2004 sul set di «Elisa di Rivombrosa» Vittoria Puccini ha trovato l’amore: lei e il suo partner di scena, Alessandro Preziosi, si sono conosciuti e innamorati. La coppia ha poi avuto una figlia nel 2006, Elena. In seguito alla rottura (avvenuta nel 2010, come dichiarò lei al settimanale F, per «una questione di alchimia, di ingranaggio: io non tiravo fuori il meglio di lui e viceversa») dopo una breve storia con Claudio Santamaria grazie alla fiction «Anna Karenina» (2012) l’attrice ha incontrato il direttore della fotografia Fabrizio Lucci (suo attuale compagno), la persona che l’ha fatta sentire per la prima volta «finalmente appagata, arresa bene, in pace. Come quando “non devi più”: avere paura, fremere, cercare altro, aspettare - ha raccontato Vittoria in un’intervista a Vanity Fair - Con lui ho scoperto l’amore vero, quello che non fa soffrire. Avete presente quella parola che tanto spaventa, felicità? Beh, io adesso sono proprio felice».

·        Vittoria Risi.

Da blitzquotidiano.it il 7 settembre 2021. Il magazine MOW ha intervistato, a margine della manifestazione “Biker Fest” di Granarolo (BO), la pornostar Vittoria Risi a riguardo della propria passata relazione con il noto critico e storico dell’arte, Vittorio Sgarbi. Vittoria Risi, intervistata dal magazine MOW, ha parlato così della sua relazione con Vittorio Sgarbi: “Ci sentiamo e siamo rimasti amici. Ultimamente mi ha chiamato anche alle 4 di notte – ha confidato l’attrice veneta –. Perché sa che sono una notturna”. La stella dell’intrattenimento per adulti è nata e vive a Venezia e ha illustrato la passione per l’arte, che l’accomunava all’ex fidanzato: “Sono diplomata all’Accademia di Belle Arti e nel 2019 avevo già avviato il mio studio, perché mi è sempre piaciuto dipingere ed è un po’ di tempo che mi dedico alla pittura – illustra l’attrice a mowmag.com – ma dopo è arrivata la pandemia e ha un po’ incasinato alcuni progetti”. Vittoria Risi si è esibita in conclusione del festival motociclistico all’aperto, in un breve spettacolo di Burlesque ed è stata presentata sul palco dall’ex collega e scrittore, Franco Trentalance, in veste di testimonial dell’associazione Motorlab per la sicurezza stradale, che ha animato la serata insieme alla conduttrice di Go-TV163, Francesca Agnati. Come informa il reportage su MOW, i due attori avevano interpretato insieme, nel 2010, una nota pellicola del settore: “Casino ’45”, film di ambientazione storica e primo lungometraggio europeo a luci rosse in 3D, diretto dal regista italiano Steve Morelli (alias di Vincenzo Gallo) e in nomination per l’Oscar dell’intrattenimento per adulti a Las Vegas, durante l’edizione del 2013.

·        Zucchero Fornaciari.

MATTIA MARZI per il Messaggero il 17 Novembre 2021. Primo album di cover in quarant' anni. E prima esperienza come doppiatore. A 66 anni Zucchero si mette in gioco. Lo fa incidendo un disco, Discover, nei negozi da venerdì 19 novembre, contenente canzoni non scritte da lui (tranne Luce, che firmò per Elisa e che ora cantano insieme): da The Scientist dei Coldplay a Fiore di maggio di Concato, passando per Natural blues di Moby (con Mahmood). Con te partirò di Bocelli e Ho visto Nina volare di De André (cantata in duetto virtuale con lo stesso Faber: «Non lo conoscevo, ma a quel brano sono legatissimo»). C'è anche Canto la vita, versione in italiano di Let Your Love Be Known di Bono, incisa insieme allo stesso frontman degli U2: «È stato divertente prestare la voce nella versione italiana del film d'animazione Sing 2 (nelle sale dal 23 dicembre, ndr) al personaggio di Clay Calloway, il leone rockstar che lui doppia nell'originale», sorride Zucchero. Nel disco non c'è Nel blu dipinto di blu, che in progetti del genere non manca mai. «Volare ha stufato, con tutto il rispetto per Modugno», disse.

La pensa sempre così?

«Sì. Quando vai all'estero sembra che la musica italiana si sia fermata lì. Rientra nell'elenco dei luoghi comuni: Spaghetti, pizza e Volare. Menomale che ora ci sono i Maneskin». 

Hanno aperto anche per i Rolling Stones.

«Io l'ho fatto prima di loro, in Austria e in Francia. Era il '95. La scorsa estate Jagger mi ha pure invitato al suo compleanno, in Toscana. Gli ho dedicato Con le mie lacrime, la versione in italiano di As Tears Go By». 

E lui?

«Si ricordava le parole, l'abbiamo cantata insieme».

Torniamo ai Maneskin. Volevo fare Honky Tonk Woman proprio degli Stones insieme a loro, ma erano in giro. È notevole che abbiano tutto questo seguito. Musicalmente sono come la scoperta dell'acqua calda. Ma hanno riempito un vuoto quanto a trasgressione e irriverenza». 

Come ha scelto le canzoni dell'album?

«L'idea di base era evitare di cantare brani già ampiamente coverizzati». Però c'è Con te partirò, di cui esistono numerosissime versioni. «Una sera Bocelli, per il quale avevo già scritto Il mare calmo della sera, me la fece ascoltare in anteprima. Non ne era convinto. Gli dissi: Sei pazzo? È straordinaria. L'ho fatta mia, togliendo la pomposità dell'orchestra e trasformandola in un pezzo minimalista».

Nel 2022 cadranno i quarant' anni dal suo primo Sanremo. Li festeggerà all'Ariston, come superospite?

«Ci sono stato già troppe volte. Non è nei piani, almeno per ora». Poi magari ci va. E canta Nel blu dipinto di blu. «Quello proprio no». 

Il 29 maggio 2022 suonerà a Berlino con Eric Clapton. Che ne pensa delle sue uscite no-vax?

«Chissà dove sta la verità». Scusi? «È tutto così nebuloso, le informazioni non sono chiarissime». Ma lei si è vaccinato, almeno? «Sì. Ma non me la sento di schierarmi né da una parte né dall'altra».

Da Oggi il 18 Novembre 2021. «I Måneskin? Sono andato al loro concerto a New York e sono rimasto sorpreso: non ho mai sentito un pubblico entusiasmarsi così per una rock band. La folla cantava ogni parola in italiano, le ragazze urlavano. Era emozionante, mai vista una cosa così». Parola di Little Steven, alias Steven Van Zandt, il chitarrista e leggendaria spalla di Bruce Springsteen che racconta a OGGI, in edicola da domani, il suo incontro con la band italiana del momento. «L’Italia può essere molto orgogliosa di loro: hanno riportato il rock alla ribalta». E nell’articolo che Oggi dedica alla Måneskinmania sono molti i musicisti ed esperti che dicono la loro sulla band romana. «La provocazione c’è, basta sentire Zitti e buoni. Sono trasgressivi, tengono il palco, alla loro età cosa si può chiedere di più?», osserva Red Canzian dei Pooh. «Comunicano una vitalità pazzesca. E poi se vinci l’Eurofestival significa che qualcosa da dire ce l’hai», osserva Iva Zanicchi. Non mancano le critiche: «I Måneskin rivoluzionari? Ma dai, il rock è un’altra cosa...», esclama Ivano Michetti dei Cugini di Campagna. «Non non si apre il concerto dei Rolling Stones portando solo due pezzi e poi andando avanti a cover…». Ma Franz Di Cioccio, leader della PFM, unico gruppo che molti anni fa ebbe successo negli Stati Uniti, stempera: «Certo, i social sono un bell’aiuto, a loro basta un click, noi ci conquistavamo i territori e le notizie dei nostri successi all’estero arrivavano in Italia un mese dopo. Ma io gli auguro il meglio: che il rock sia sempre con loro». Proprio con la PFM fa un paragone il collaboratore di OGGI Armando Gallo, giornalista che racconta da decenni cinema e musica prima da Londra e poi dall’America: «Nel 1974 la PFM fece una decina di concerti prima di arrivare al Long Beach Arena con 10 mila spettatori. Se ne parlarono i giornali? Certo… Per i Maneskin solo Variety… Il loro talento è chiaro e caldo come la luce del sole a Ferragosto… dire che hanno conquistato l’America con il rock italiano, ecco, mi sembra un pelino azzardato».

·        Wanna Marchi e Stefania Nobile.

Moreno Pisto per mowmag.com il 30 settembre 2021. Ti aspetti il male in persona, trovi una donna minuta, educata, che non dimostra i suoi 79 anni. Poi, mentre ci parli, ogni tanto cambia il tono della voce, che diventa acuto e stridulo, abbassa il mento, alza il sopracciglio sinistro, tira fuori uno sguardo che ti paralizza e la riconosci: è lei, Wanna Marchi. Accanto, sempre, sua figlia Stefania Nobile. Inseparabili. Hanno fatto la storia dell’Italia televisiva e moderna. Sono entrate nelle nostre case, prima come venditrici e poi come imputate. Sul canale ReteA negli anni 80 e 90 hanno venduto tutto, prodotti dimagranti con estratti di alghe, creme scioglipancia, rametti d’edera spacciati per miracolosi ma colti nel cortile della loro società Ascié, numeri del lotto, talismani, amuleti, kit contro le influenze maligne. Hanno curato l’anima, il malocchio e le pene di amore con l’aiuto del mago Do Nascimento sfruttando la credulità popolare insita in ognuno di noi. Wanna è stata chiamata “regina delle televendite”, “teleimbonitrice”, l’urlo per ottenere l’assenso dei telespettatori era il suo marchio di fabbrica: «D’accooordo?». Nel 2001 le inchieste di Striscia la Notizia e Mi Manda Rai Tre, l’accusa di truffa aggravata e associazione per delinquere, i processi, i nove anni di carcere per tutte e due. Dal 2013 sono fuori, e adesso che per la giustizia hanno pagato quello che dovevano pagare, sono pronte a tornare in tv. Lo fanno in modo estremo, alla loro maniera, con una diretta di cento e un’ora che partirà il 29 settembre alle 21:30 e terminerà domenica notte, il 3 ottobre. Sarà trasmessa da GOTV (canale digitale 163) e su Instagram. Stefania è gasatissima: «Nell’87 Patrizio e Susy di Turisti per caso fecero cento ore di diretta, precursori del Grande Fratello. Noi vogliamo battere il loro record. E a differenza loro noi non dormiremo, chiunque vorrà potrà venire o collegarsi e parlare con noi, sfogarsi, denunciare, dire ciò che vuole. A qualsiasi ora». Insomma, riecco le streghe. Torneranno pure a vendere, anche se non hanno mai smesso in realtà. Quando ci incontriamo, sono appena rientrate dall’Albania: lì hanno aperto e rivenduto locali, Durazzo e Tirana sono la loro seconda e terza casa. 

Pronti per questa maratona?

Stefania: «Reggere più di cento ore di diretta sarà durissima. Trasmetteremo dal nostro studio di produzione a Cinisello, 1.000 metri, bellissimo. Noi saremo sempre in piedi, io e mia madre non ci siamo mai sedute, mai».

Interviene Wanna: «Davanti al pubblico bisogna avere rispetto». 

Stefania: «Daremo la possibilità di parola a chi non trova lavoro, a chi si prostituisce, a chi vuole rivendicare determinati diritti, all’ex detenuto, alla moglie cornuta. A tutti. Saremo la voce del popolo. Non esiste che in tv parlano sempre quei quattro stronzi e basta. Ma è solo l’inizio, l’idea è quella di partire con un programma quotidiano, su YouTube, e tornare anche a vendere».

Irriducibili.

Stefania: «Anche in carcere quando hanno capito che insieme eravamo troppo forti ci hanno divise. Tra me e lei in fondo ci sono 21 anni, e verso di lei ho sempre avuto un forte senso di protezione».

Troppo forti in che senso?

«Che non ci piegavamo, noi non abbiamo mai preso un sonnifero in vita nostra, mai uno psicofarmaco, mai niente. Eravamo forti, ci bastavamo. Ci eravamo creati la nostra dimensione anche lì dentro e quindi ci hanno diviso. A me hanno mandato a Pisa, lei è rimasta a Bologna». 

La bambina di Castel Guelfo

Prima di affrontare il periodo in carcere, però, voglio tornare indietro. A quando Wanna Marchi era una bambina, perché della sua infanzia e adolescenza non si è mai saputo granché. Chi era la piccola Wanna? Quando glielo chiedo, mi fa: «In che senso, scusa?». Poi dice: «Non farmi piangere oggi, sennò ti odio. Non mi piace piangere, non piango più da una vita». 

Voglio sapere da dove arrivi…

Wanna: «Io sono figlia di contadini, i miei genitori non avevano un pezzo di terra, non avevano niente, erano - una volta si diceva così - sotto padrone: lavoravano la terra degli altri. Mio papà è morto che avevo 15 anni, lo hanno operato per un tumore e lo hanno mandato a casa con lo stomaco aperto, dopodiché con mia madre e il mio fratellino siamo andati a Bologna». 

Di dov’eravate?

«Castel Guelfo, metà romagnoli, metà emiliani, siamo ai confini. Io ero una bambina felice, ma molto povera. Molto povera e molto curiosa, una bambina strana per quei tempi, scappavo da tutte le parti hai capito? Ho sempre avuto chiaro che ero nata in un posto sbagliato». 

Perché?

«Ma dai, in mezzo alle pecore, alle capre, io? Ma per favore. Dopo la morte di mio padre ho cominciato a lavorare, facevo la figurinista, disegnavo abiti e guadagnavo bene, benissimo, guadagnavo più di un direttore di banca a quei tempi, mentre mia madre lavorare al mercato della frutta. Poi ho avuto la bella idea di sposarmi, il più grosso errore della mia vita».

Però…

«Però ho avuto due figli subito, meravigliosi, ma per amore non ci si sposa a 18 anni, credi a me». 

Né Maurizio né Stefania si sono mai sposati.

«Ringrazio Dio tutti i giorni di non avere nipoti, sono grata al Signore. Io ho passato tutta la mia giovinezza ad aspettare loro due che tornavano a casa dalla discoteca, di notte, ho fatto io da padre, da madre, da sorella, da vicina di casa. Non riuscirei a ripetermi». 

Ma il rapporto con i tuoi genitori com’era?

«Mio papà lo ammiravo e lo amavo a dismisura, mia madre invece l’ho sempre definita stupida e lo era veramente. Era sicuramente molto bella, bellissima, sembrava Marlene Dietrich, hai presente il tipo? Ma viveva nel suo mondo, non andavamo d’accordo, non parlavamo mai, per questo mi sono sposata presto: per uscire di casa e separarmi da lei». 

Chiudi gli occhi: il primo ricordo?

«Il regalo di una bicicletta usata che aveva lo scatto libero, mi spaccavo le gambe tutte le volte che la prendevo. Mi viene in mente il primo cappotto che mi sono comprata. Quando ho visto mia figlia uscire da me, era tanto grande, era grossa: 4 chili e 4, tantissimo». 

Da figurinista a estetista.

«Ho avuto sette negozi nella mia vita. Sono stata la prima ad aprire un negozio da estetista a Bologna. La PRIMA! (urla). In assoluto».

Da estetista a personaggio televisivo.

Wanna si alza, va in bagno. Per lei risponde Stefania: «L’abbiamo raccontato in centomila contesti: venne un ragazzo a proporle delle pubblicità, lei firmò sto contratto da 6 milioni di lire, ma l’aveva firmato per sbaglio, credeva fossero 600mila lire. Quando se ne accorse, disse a quel ragazzo che non poteva pagarlo e lui le propose: “Guardi, noi facciamo un programma meraviglioso, si chiama Gran Bazar, se viene può vendere anche lì”. Ed è nata così, parliamo del 77-78».

 L'ascesa e i no a Craxi e Berlusconi

Ritorna Wanna: «Ma che ho cominciato in radio lo sai? Secondo me tu non lo sai. Io in radio non temo NESSUNO! (urla), neanche Fiorello». 

Cioè prima di Gran Bazar, vendevi in radio?

«Certo, oooh sì, X Radio. Poi ne ho girate diverse, credo di essere stata l’unica persona a vendere qualsiasi cosa anche in radio. Dicevo una cosa tipo: "Se perdete i capelli vi aspetto giovedì in un albergo di Cesena, se li avete già persi non venite, ma altrimenti venite e io ve li faccio ricrescere”. Incassavo anche 150 milioni alla volta».

Ma quando hai capito che eri brava a vendere?

Wanna: «Ma sai che io non mi sono mai sentita brava? Però ho sempre avuto intuito. Camminavo per la strada e vedevo che erano tutti grassi, quindi mi venne naturale vendere un prodotto dimagrante. Poi va be’, vendere mi riesce facile». 

E secondo te da dove arriva questo talento?

«So solo che la prima cosa l'ho venduta a 8 anni: gli orecchini che mi avevano ficcato nelle orecchie e che non volevo. Mi servivano soldi, c’era la figlia di uno stronzo ricco del paese che gli piacevano i miei orecchini, le ho detto: “Dammi 1000 lire e te lo do”. Bene, il giorno dopo ho preso un sacco di botte dai miei perché a quell’epoca per le femmine gli orecchini erano preziosi. Intanto però li avevo venduti ed ero contenta. Dopo, sai, dovevo vendere per mantenere i miei figli, perché il loro padre non mi ha mai dato 50 lire, MAIIIII (urla)

I miei figli dovevano mangiare, non avevano le scarpe, non avevano niente, io non avevo i soldi neanche per pagare la luce elettrica, neanche per pagare la bolletta dell’acqua. Come li facevo, i soldi? Facendo la puttana? No. Allora ho iniziato a vendere, per me era un gioco, una sfida con me stessa. Tutte le volte che ho venduto tanto mi sono sempre detta: “Ah, potevi vendere di più”. A Rete A c’era il cartellone con la classifica dei venditori. Io non potevo mai essere la numero due, MAIII (urla)». 

Crescere con una mamma così è impegnativo, no?

Stefania: «Ma va, io e lei siamo complementari. Lei da sola non sa far niente». 

Wanna: «Non sono neanche capace di spendere i soldi, non so come dirti». 

Stefania: «Non sa amministrarsi, non sa usare il telefono...». 

Wanna: «Io ho la quinta elementare, ma a scuola ero talmente brava che le maestre chiamarono mio papà e gli dissero che dovevo continuare a studiare. Dopo quella telefonata per la prima volta l'ho visto piangere. PIANGERE! (urla). Ma servivano i soldi per mandarmi a scuola e i miei zii hanno detto di no, perché ero femmina e per una femmina non serviva studiare.

Mia madre mi obbligò a imparare il lavoro della sarta e quell’ago lo ricorderò finché vivo, lo odiavo, io volevo fare il medico, infatti tutti gli animali che trovavo e che stavano male li operavo, li tagliavo e li ricucivo sì, facevo delle cose pazze. 

Da madre ho pensato che i miei figli dovevano avere tutto ciò che io non avevo avuto. E nonostante la quinta elementare mi sono tolta delle soddisfazioni. Oh, io ho incontrato Craxi, l’ho frequentato, voleva che entrassi nel suo partito e ho detto di no; ho incontrato Berlusconi, voleva farmi fare “Ok, il prezzo è giusto”, ho detto di no…». 

Ma perché hai detto di no a “Il prezzo è giusto?”

«Me lo ricordo come se fosse adesso, Berlusconi era davanti a me, un ometto con un pulloverino azzurro sulle spalle nella villa di Dell’Utri, a Porto Cervo. Era seduto sulla scala perché la casa era piena di gente per una festa e lui mi propone questa cosa. Io dico: “Guardi, mi dispiace molto, ma io ho un’azienda di 92 persone”.

Mi risponde: “La chiuda”. Non accetto e rilancio: “E poi non è un programma che mi piaccia tanto, magari se si potesse cambiare qualcosa…”. Lui seccato mi dice: “È la prima volta che ricevo un no nella mia vita”. Si alza in piedi prima che lo facessi io. Penso: “Che maleducato”. Gira il culo e se ne va. Poi l’ho incontrato ancora, ma a me tutte queste persone laureate, famose, potenti, non mi hanno mai fatto effetto». 

Provi rimpianto?

«Per questo no. Lo provo perché avrei potuto dire di sì a Craxi quando mi offrì mezzo miliardo di lire, mezzo miliardo hai capito?, solo per fare uno spot dove dicevo che votavo socialista. Però pensai: “Se lo faccio compreranno da me solo chi vota così, ma chi non vota socialista lo perdo”.

Craxi era un signore. Una volta mi ha dato appuntamento a Pisa ma mi ingannò, pensavo che ci saremmo visti in un ufficio invece andammo in una piazza piena di gente. Mentre saliamo sul palco, mi mette una mano sulla spalla e mi fa: “Grazie di esser venuta”. Appena la folla mi vede comincia a gridare: “Wanna! Wanna! Wanna!”. Mi aveva voluto testare. E dopo questa apparizione mi ha offerto di fare la pubblicità».

Chi votereste oggi in Italia?

Wanna: «Io ho sempre votato per i radicali». 

Stefania: «Però da quando siamo andate in galera non abbiamo più votato». 

Wanna: «E non voterò mai più, se non ero degna da carcerata, non sono degna neanche oggi». 

Pro o contro liberalizzazione delle droghe?

Stefania: «Io aprirei i casini, liberalizzerei le droghe e tutto quanto. C’è il libero arbitrio no?».

Gli anni di carcere

Il percorso carcerario di Wanna e di Stefania è durato nove anni: carcerazione preventiva a San Vittore, poi i domiciliari a Bologna, il processo, la condanna definitiva, quindi il ritorno nel carcere di Bologna. Da qui le loro strade si sono divise. Stefania è tornata due volte a San Vittore, poi Pisa, ritorno a Bologna, ancora Pisa e ancora San Vittore: «A causa del mio stato di salute non mi voleva nessuno, io ho un importante artrite reumatoide, diagnosticata quando avevo 30 anni. In galera sono arrivata a pesare 41 chili e nonostante questo non mi hanno mai concesso i domiciliari né una detenzione in ospedale». Wanna invece dopo Bologna è stata trasferita a Bollate. Dai primi servizi di Striscia all’uscita dal carcere sono passati 12 anni, dal 2001 al 2013.

Come avete fatto a sopportare tutti questi anni?

Wanna: «Prima mi hai chiesto quali sono i miei ricordi. Allora, quando ci hanno arrestato e siamo arrivate là, una cosa che non dimenticherò mai è il momento in cui ti spogliano completamente e resti nuda. Per me uno shock. E poi ti dicono di fare le flessioni, alla mia età, capito? È umiliante. Non dimenticherò nemmeno le ciotole che ti mettono in mano». 

Stefania: «Le ciotole da cane».

Wanna: «Quando sono arrivata in cella, mi sono guardata intorno e ho pensato: “Oh mio dio, io qua ci devo stare, quindi è inutile che mi dispero. È inutile che pianga, è inutile che urli perché non serve a niente! Ho guardato fuori dalla finestra e ho pensato: “Be’ almeno posso guardare le nuvole”». 

Chiusa la cella e rimaste sole lì dentro cosa vi siete dette?

Stefania: «Evitavamo di guardarci, perché saremmo scoppiate a piangere tutte e due. Ti senti chiudere questo cancello alle spalle, senti queste 6 mandate, come a dire “cane, stai lì”, e mi è venuto istintivo cercare di respirare. Mi è subito sembrato che il respiro non fosse come fuori, è difficile da spiegare, mi è sembrato che lì dentro l’aria fosse di meno, e mi sono abituata a respirare in modo diverso, un po’ da cane, facevo mini inspirazioni, velocemente. Non abbiamo mai saltato un’ora d’aria, mai, anche se pioveva, nevicava o avevo la febbre, con 50 gradi o 20 gradi sotto zero, piuttosto uscivo gattonando ma uscivo. E quando ero fuori respiravo perché pensavo che l’aria mi sarebbe doveva durare per le altre 23 ore». 

Wanna: «Poi sai, il mondo dei carcerati non è il mondo a cui siamo abituati. I sorrisi son diversi, gli occhi della gente son diversi. Vivi di speranze. Io ricordo che ascoltavo continuamente Radio Radicale aspettando la notizia di un’amnistia. Con questa speranza vai avanti un giorno, un mese, un anno e di più, c’è gente che così va avanti 30 anni, hai capito?».

Stefania: «In carcere non sei niente, l’abbiamo visto anche ultimamente con i filmati di violenze sui detenuti. Devi sapere che a San Vittore abbiamo assistito a un pestaggio di una carcerata legata alla branda. Eravamo chiuse nella cella di fronte e io urlavo come un'aquila: “Maledettiiii”.  Il giorno dopo mi mandò a chiamare il direttore di S. Vittore, una persona eccezionale. “Nobile, si sieda”, mi ricordo ancora le sue parole. “Senta Nobile ma lei di sera non può guardare la televisione come fanno tutti gli altri detenuti, perché se quando io vado via, lei cade dalle scale o si fa male, come si fa?”. Io dissi: “Ma scusi, è pieno di telecamere, è possibile che lei non sappia cosa succede?”. E lui mi fulminò, passando al tu: “Quelle telecamere lì non sono mai andate, quindi io ti do un consiglio. Fatti i cazzi tuoi Nobile”. Si chiama Mario Pagano, una persona eccezionale. Da libera sono pure andato a trovarlo e lui quasi piangeva: “Non mi è mai successo che un detenuto mi venisse a ringraziare”. Wanna: «Un uomo straordinario. Il suo sguardo me lo ricordo bene, lui voleva dirmi: “Pagherai, pagherai anche per quello che non hai fatto, ma finirà, vai tranquilla che finirà, quindi sopporta perché finirà”».

Stefania: «Una cosa stupenda è che lui riceveva tutti, in nessun altro carcere sono riuscita a parlare con il direttore». 

“In carcere hanno provato in tutti i modi a farci suicidare”: questa frase l’hai detta tu, Stefania.

Wanna: «Ma non abbiamo mai pensato di farlo. I giorni passano lenti, ma passano». 

Stefania: «Io leggevo tantissimo. La bibliotecaria era Pina Auriemma, la co-imputata della Reggiani per l’omicidio Gucci. Con la scusa di portarci i libri mi veniva sempre a trovare in infermeria. Leggevo 3-4-5 libri alla settimana, un continuo, però adesso non riesco più, perché identifico la lettura con il carcere. Come lei non riesce a dipingere».

Wanna: «In carcere dipingevo ad acquarello. Un pittore tempo fa mi ha detto: “È strano che tu sappia dipingere ad acquarello perché è una tecnica che noi pittori impariamo dopo un po’”. Ma a me è venuto naturale. Peccato che non ci riesca più, era una bella evasione». 

Oltre a dipingere cucinavi.

Wanna: «Sì, ma quello lo facevo anche prima e infatti continuo tuttora. Come faccio i tortellini io…». 

Prego, la ricetta.

Wanna: «Innanzitutto occorrono materie prime che vengano da Bologna perché se no non riesci a farli così buoni. Poi ci vuole prosciutto crudo, lombo di maiale, mortadella, parmigiano rigorosamente reggiano, un pochino di noce moscata, rosso di uovo, brodo di carne di cappone e basta. Infine vai di impasto, tiri la sfoglia e fai i tortellini. Comunque è una fatica tremenda perché per farne tanti piccoli piccoli ti viene il mal di schiena. Il vero tortellino deve essere grande come l’ombelico di una donna». 

Gli errori, le scuse, le preghiere

In cosa avete sbagliato?

Wanna: «Talmente tante cose che non te le saprei neanche elencare». 

Stefania: «Ogni tanto dicevo: questo è l’ultimo anno e poi non facciamo più niente. Poi però guadagnavamo talmente tanto che ci ripensavo. Il mio più grosso errore è stato non fermarmi». 

Wanna: «Però, sai cosa?, siamo vive. I soldi sono carta straccia, vanno e vengono». 

Quanto avete in banca?

Stefania: «Il minimo indispensabile per vivere, ho il terrore delle banche. I soldi vanno investiti».

 Quando si parla di voi, spesso di parla solo di voi. Però c’è anche Francesco, il compagno di Wanna, Di lui, Wanna, hai detto: “Mi ama da trent’anni, la sua unica colpa è di amarmi”.

Stefania: «Be’ è il suo capo d’imputazione: “Poiché compagno di Wanna Marchi”. Così c’è scritto nella sentenza».

Wanna: «3 anni si è preso, ti rendi conto? L’uomo più onesto e più buono che esista sulla faccia della terra. Non c’entrava assolutamente niente. Eppure, vedi, è rimasto accanto a noi». 

Stefania: «Però anche lui ha subito un trauma. Per nove mesi ha vissuto in una capanna di legno in mezzo al bosco e ripeteva che lui non meritava niente e che se la natura gli offriva qualcosa da mangiare, mangiava. Adesso però si è ripreso, è il mio papino. Io, qualsiasi ora ritorni a casa, mi metto un po’ lì a letto con lui e ci raccontiamo le favoline».

E poi c’è il fratello maggiore, Maurizio.

Stefania: «Lui non l’abbiamo mai coinvolto». 

Lui cosa fa?

Wanna: «Non te lo dico».

Ai magistrati che vi hanno giudicato, Piercamillo Davigo e Antonio Esposito, non avete mai risparmiato critiche. Ritenete di aver pagato troppo?

Stefania: «Be’, cazzo. Ti dico solo questa, una cosa di cui non mi pento ma di cui mi sento in colpa nei confronti di mia mamma e Francesco. Ai tempi ci fu fatta la proposta di patteggiare e non fare un giorno di galera, io mi rifiutai perché ero convinta che mi avrebbero processato per ciò che avevo commesso, non per molto di più. Che sia chiaro: io non ho mai detto che sono innocente, ma di sicuro non siamo colpevoli di tutti i reati per i quali ci hanno incolpato. Non ci sono innocenti in carcere, ce ne è uno su un milione».

Wanna: «Ah, ma proprio uno su un milione. Esempio, mi espongo: per me Bossetti è innocente. Non ha ucciso lui la ragazzina Yara Gambirasio. E pura Rosa e Olindo di Erba lo sono, lei era in carcere con me a Bollate». 

In carcere hai conosciuto anche Annamaria Franzoni, la mamma di Cogne.

Wanna: «Sì, purtroppo sì. Lei è colpevole, non intendo parlarne». 

Stefania: «A noi ci hanno accusato di dare consulti di salute quando in realtà in sovrimpressione appariva la scritta che non lo facevamo. Donne che a noi avevano dato 100 mila lire, in tribunale si inventavano che ci avevano dato 100 milioni e venivano credute».

Wanna: «Ti racconto solo questa: arriva una in tribunale con un dente solo, e dice al giudice: “Sa, io per recuperare i 900 milioni che mi hanno rubato ho cominciato a prostituirmi”. 900 milioni? Be’, le sono stati riconosciuti». 

Stefania: «Ma vogliamo parlare delle nostre case che sono state svendute all’asta a meno di niente? E poi un’altra cosa: perché nessuna televisione che ci mandava in onda ha mai pagato? C’erano editori, direttori responsabili… Anche loro, per lavarsi la coscienza, ci hanno accusato. Oggi sono tutti falliti». 

Domanda di rito: dov’è il mago Do Nascimento?

Wanna: «Non si sa, ma dove vuoi che sia, secondo me è a casa sua». 

Cos’è il marketing per voi?

Stefania: «Due parole: Wanna Marchi. Lei è il marketing». 

Wanna: «Ognuno di noi si vende ogni giorno. Dalla mattina quando ti alzi, vai in bagno e fai la doccia e poi ti vesti… già da quel momento stai studiando una strategia». 

Stefania: «Mia madre si faceva fermare dalla Polizia solo per aprire il bagagliaio e vendere qualcosa pure a loro».

Wanna: «L’ho fatto anche poco tempo fa. Ho visto la Polizia, ho ingranato la marcia e questi mi hanno fermato. “Dove va”, mi hanno chiesto. “A casa”. “A quest’ora?”. “Sì”. “Documenti”. “Documenti? Ma mi conosce benissimo! Comunque io le do i documenti ma intanto lei mi compra un profumo”. Questo è rimasto spiazzato, si è messo a ridere e ha detto: “Ma sta bene lei? Ha bevuto?”. “Io bevo solo acqua”. Ho aperto il baule, tirato fuori un profumo e li ho convinti così: “Devo dimostrare a mia figlia che ho venduto anche a voi”. E alla fine ce l’ho fatta». 

Prezzo?

«55 euro. Voleva lo sconto, non gliel’ho fatto».

C’è qualcuno libero secondo voi?

«Forse Giletti con Non è l'Arena». 

Stefania: «Anche La Zanzara. Cruciani è un uomo intelligentissimo, gli voglio molto bene. Parenzo invece è terribile. A Tele Lombardia mi pregava in ginocchio di andare ospite da lui: “Ti prego Stefi, vieni ospite, ti prego”. Poi ha sposato quella ricca e ora si sente importante, per me è sempre quel povero sfigato e com’era è rimasto. Di noi ha pure detto che siamo due delinquenti. Non glielo permetto. Noi siamo le uniche due persone al mondo che hanno pagato tutto e che non devono neanche un centesimo ad Equitalia». 

Però non avete mai chiesto scusa.

Stefania: «Non lo chiederò mai. A noi hanno rubato 12 anni della nostra vita, dal 2001 quando sono cominciati i primi servizi di Striscia, al 2013 con l’uscita dal carcere. Ripeto: abbiamo pagato anche per quello che non abbiamo commesso».

Se non fosse successo niente, dove sareste adesso?

Wanna: «Solo Dio lo saprebbe». 

Ci credete?

Stefania: «Molto». 

Wanna: «Prego tutte le sere. Recito un’Ave Maria e un Padre Nostro e mi faccio tre volte il segno della croce. Io sono molto devota a Madre Teresa». 

Hai detto che non ti piace piangere, ma l’ultima volta che lo hai fatto?

Wanna: «Dopo una lite con lei». 

Ah, quindi non siete sempre d’accordo su tutto.

Stefania: «Litighiamo perché lei è troppo invadente, è un grande amore il nostro sì, ma come tutti i grandi amori, io son per la libertà, non mi sono mai sposata, non voglio rotture di coglioni, non voglio figli, neanche fidanzati, non sopporto nessuno, non possiamo stare insieme 24 ore su 24: è troppo».

Wanna, sei gelosa?

Wanna: «Di lei? Moltissimo». 

Stefania: «Pensa com’è mia madre: quando siamo state arrestate, io convivevo con Davide Lacerenza. Davide è stato il mio ultimo grande amore, poi sono finita in galera e lui, da uomo stupendo, si è trovata un’altra donna». 

Wanna: «Una cinese!». 

Stefania: «Viveva a casa nostra con lei, ma io l’ho scoperto quando sono uscita. Sono stata male, malissimo, però dopo 2 mesi mi era passata, ho capito che non poteva aspettarmi e siamo diventati grandi amici. Adesso lui ha la Gintoneria e io sono una sua dipendente. Ma mia madre sai che ancora non glielo perdona?».

Come vi chiamate tra di voi, nella vostra quotidianità?

Stefania: «Io la chiamo Beffy».

Wanna: «Beffy come befana, perché sono anziana, hai capito? Io la chiamo Stefy oppure ranocchio». 

Quali sono le vostre paure adesso?

Stefania: «Io ho paura solo dell’ignoranza». 

Wanna: «In questo momento delle malattie e basta, cioè io non ho paura neanche del demonio, guarda se il demonio incontra me è meglio che scappi lui».

Dormite bene?

Stefania: «Benissimo». 

Wanna: «Io sono serena, mi dispiace tanto di avere l’età che ho, quello sì, ma non perché invecchio ma perché ho in mente talmente tante cose da voler fare». 

Come vorresti morire?

«Di un colpo secco, dormendo». 

Stefania: «Io guardando il mare». 

E sulla lapide? Wanna Marchi, virgola, e poi…

Wanna: «Vi venderò anche la morte».

Stefania: «Eh sì, questo sarebbe bello».

 Ah, un’ultima cosa Wanna: mi fai un d’accordo?

Cambia postura, si sistema. «La giornata è finita, affrontiamo il domani con simpatia e allegria, con tanta voglia di fare». Poi porta la mano accanto alla bocca, a mo’ di megafono: «D’ACCOOORDO?».

·                        Wladimiro Guadagno, in arte Luxuria.

 

Da ilnapolista.it il 16 novembre 2021. Il Corriere della Sera intervista Vladimir Luxuria, all’anagrafe Wladimiro Guagliano. Scrittrice, personaggio tv,opinionista, attrice, cantante, drammaturga e direttrice artistica. Racconta si essersi sempre sentita donna.

«Da quando ho cominciato a camminare». 

E parla della sua famiglia.

«Vengo da una famiglia tradizionale del Sud, sono il primogenito di tre sorelle e un fratello. Ho avuto un’educazione rigorosamente maschile. Avevo il fiocchetto azzurro. A carnevale mi vestivano da sceriffo. Ho subito capito che ero un bambino diverso dai miei cugini, dai miei compagni di scuola. I vestiti da maschio li sentivo addosso come una camicia di forza. Invidiavo mia sorella Laura che poteva tirare i coriandoli vestita da spagnola» 

A sedici anni ha deciso di seguire la sua inclinazione e di diventare davvero se stessa. Dei genitori dice: «Non mi hanno mai picchiata né cacciata di casa, come è successo ad alcune mie amiche trans. Però prima che arrivassero a stare dalla mia parte è passato parecchio tempo. Ora è fantastico, sono diventati anche dei militanti». 

Il padre soprattutto la prese male, ma all’inizio non si accorsero di niente.

«Forse non volevano accorgersene. Quando ero ragazzina io uscivo di casa con i vestiti di mia sorella dentro una busta di plastica e mi cambiavo dentro i bar o nelle cabine del telefono. Hanno dovuto cominciare a farsi delle domande quando alla vigilia di Natale mi hanno visto arrivare alla cena con le sopracciglia rifatte. Avevo delle sopracciglia molto cispose. Non proprio come quelle di Frida Kahlo o di Ciampi, ma quella sera lo zio Antonio mi puntò il dito contro come una baionetta: “Hai le sopracciglia come le femmine”».

Racconta di essere stata bullizzata.

«Erano tempi durissimi, sono nata a metà degli anni Sessanta. A scuola mi scrivevano “ricchione” sui libri. Mi facevano la pipì nelle scarpe quando me le toglievo per cambiarmele con quelle da ginnastica. Mi davano spinte, mi tiravano oggetti. Quando avevo diciassette anni un gruppo di ragazzi mi ha anche inseguito con le spranghe. Ma mai ho avuto così tanta paura come una sera a Praga. Avevo ventiquattro anni e sembravo una donna ormai». 

Racconta l’episodio: era in un locale e aveva bevuto un po’, un tizio iniziò a corteggiarla e lei gli diede spago, fino a finire insieme in una camera d’albergo.

«Quando lui ha capito che non avevo la vagina l’ho visto trasformarsi in un assassino. Mi ha sferrato un pugno che ha provocato una crepa nel muro. Se non mi fossi spostata sarei morta».

 Racconta di non essersi mai drogata, come tante sue amiche del tempo, alle prese con gli stessi turbamenti esistenziali, ma di essersi prostituita.

«Sì, per un breve periodo. Ma non lo facevo per soldi. Era una sorta di vendetta. O forse di riscatto. Non lo so dire». 

Parla anche del decreto Zan.

«Adesso non basta dire che la società civile è fortunatamente molto più avanti della politica. È lo stesso Parlamento ad essere andato molto indietro, di tanti anni. Mi riferisco alla legge 164 del1982. Con quella norma si accettava che le persone transessuali operate ai genitali potevano essere riconosciute legalmente. È stata una democristiana come Rosa Russo Iervolino che ha dato una grande mano a quella legge. Oggi è sicuramente superata, ma stiamo parlando di quaranta anni fa».

Luxuria: «Usavo i vestiti di mia sorella mi bullizzavano. L’amore? Un sogno». Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2021. L’attivista: «Vengo da una famiglia tradizionale del Sud, a carnevale mi vestivano da sceriffo. Papà fece fatica ad accettarmi, ora è un militante». 

Vladimir Luxuria, a che età si è sentita donna?

«Sempre, direi. Da quando ho cominciato a camminare».

Il suo desiderio di essere una persona trans non è stato influenzato da un ambiente familiare, dalla sua educazione?

«Niente di più falso. Io vengo da una famiglia tradizionale del Sud, sono il primogenito di tre sorelle e un fratello. Ho avuto un’educazione rigorosamente maschile. Avevo il fiocchetto azzurro. A carnevale mi vestivano da sceriffo».

E poi?

«Ho subito capito che ero un bambino diverso dai miei cugini, dai miei compagni di scuola. I vestiti da maschio li sentivo addosso come una camicia di forza. Invidiavo mia sorella Laura che poteva tirare i coriandoli vestita da spagnola».

E poi?

«Già a sedici anni mi sono trovata a un bivio. Avrei potuto travestirmi da maschio, accontentare gli altri».

Oppure?

«Ho scelto di diventare me stessa».

È stata una scelta difficile?

«Necessaria, prima di ogni cosa. Non volevo diventare depressa e malinconica. Non volevo che l’invidia per il sesso femminile si trasformasse in cattiveria, mi facesse diventare una persona peggiore. Dopo non è stata certo una passeggiata».

Per via della famiglia?

«Non certo per mia sorella Laura: mi prestava i suoi vestiti, senza chiedermi niente».

E i suoi genitori?

«Non mi hanno mai picchiata né cacciata di casa, come è successo ad alcune mie amiche trans. Però prima che arrivassero a stare dalla mia parte è passato parecchio tempo. Ora è fantastico, sono diventati anche dei militanti».

E quando era ragazzina come l’hanno presa?

«Male, mio padre soprattutto. Comunque all’inizio non si accorgevano di niente».

Cosa vuol dire «non si accorgevano»?

«Forse non volevano accorgersene. Quando ero ragazzina io uscivo di casa con i vestiti di mia sorella dentro una busta di plastica e mi cambiavo dentro i bar o nelle cabine del telefono».

Poi un giorno...

«Una sera, piuttosto. Hanno dovuto cominciare a farsi delle domande quando alla vigilia di Natale mi hanno visto arrivare alla cena con le sopracciglia rifatte. Avevo delle sopracciglia molto cispose. Non proprio come quelle di Frida Kahlo o di Ciampi, ma quella sera lo zio Antonio mi puntò il dito contro come una baionetta: “Hai le sopracciglia come le femmine”. Avevo sedici anni ed erano i tempi in cui i calciatori non si sfoltivano le sopracciglia».

I calciatori si sfoltiscono le sopracciglia?

«Ma certo. Lo fanno praticamente tutti».

I calciatori erano un simbolo della mascolinità. È il sintomo dei tempi che cambiano?

«I tempi sono cambiati, sì. Negli anni Settanta i transessuali venivano trattati come delinquenti abituali, non potevano avere né la patente né il passaporto. Rischiavamo anche il carcere. Ma i problemi sono ancora tanti. In questi giorni mi sto occupando di una bambina di quattordici anni. Un giorno si è chiusa in bagno e i genitori hanno dovuto sfondare la porta: l’hanno trovata sporca di sangue, con una lametta stava cercando di togliersi via il seno».

È ancora una strada molto in salita quella per le persone transgender?

«Purtroppo sì, per molti lo è. Per troppi. Non dimentichiamo che soltanto nel 2018 l’Oms ha riconosciuto che la disforia di genere — il disagio di vivere in un corpo che non si sente proprio — non è una malattia. I pregiudizi, inevitabilmente, sono ancora tanti».

Lei è stata bullizzata?

«Sì. Erano tempi durissimi, sono nata a metà degli anni Sessanta. A scuola mi scrivevano “ricchione” sui libri. Mi facevano la pipì nelle scarpe quando me le toglievo per cambiarmele con quelle da ginnastica. Mi davano spinte, mi tiravano oggetti. Quando avevo diciassette anni un gruppo di ragazzi mi ha anche inseguito con le spranghe. Ma mai ho avuto così tanta paura come una sera a Praga. Avevo ventiquattro anni e sembravo una donna ormai».

Cosa le è successo?

«Ero in un locale, avevo bevuto un po’. C’era uno che mi corteggiava. Gli ho dato spago. Siamo finiti in un albergo. Quando lui ha capito che non avevo la vagina l’ho visto trasformarsi in un assassino. Mi ha sferrato un pugno che ha provocato una crepa nel muro. Se non mi fossi spostata sarei morta».

Era ormai diventata una donna e non si era operata?

«No, non ho mai voluto farlo. Una volta avevo anche assistito a un’operazione di questo tipo, ma ho capito che non volevo. Ho voluto che la mia femminilità convivesse con il mio passato. Non a caso ho mantenuto anche il mio nome da uomo: mi chiamo ancora Vladimir. Sono una trans donna, non una donna trans. E comunque prima di fare le operazioni chirurgiche è passato parecchio tempo».

Quanto tempo?

«La rinoplastica e la mastoplastica le ho fatte nel 2007. Dico sempre che sono un’adolescente perché le tette mi sono spuntate da poco».

E prima in che cosa era consistita la sua trasformazione?

«La prima cosa sulla quale mi sono accanita è stata la barba e tutti i peli in generale. A diciannove anni mi sono sottoposta a molte sedute di elettrocoagulazione, ho scaricato addosso al mio corpo tanta di quella elettricità che la lavatrice si azionava con il mio sguardo».

E dopo cosa ha fatto per diventare donna?

«Un lungo iter psicologico, soprattutto. Poi per fortuna la natura mi ha concesso tante cose. Non ho il pomo d’Adamo, ad esempio. Per toglierlo sarebbe servita un’operazione che penso non avrei mai affrontato. Inoltre ho un fisico esile e le mani affusolate. La voce, però, non è estremamente femminile, è la mia voce naturale del resto. Sono consapevole dei miei limiti».

Lei adesso è una persona famosa. Che effetto le fa?

«Il piacere di tornare nella mia città, Foggia, ed essere accolta come Sophia Loren quando torna a Pozzuoli. Quando vivevo lì mi insultavano, dovevo nascondermi. Negli anni Ottanta i transessuali come me nella mia città avevano una vita durissima. Ricordo Valerio, diventata Valeria. La mia prima amica trans».

Cosa ricorda di lei?

«Una vita drammatica. Lei venne cacciata di casa dai genitori. All’improvviso non sapeva nemmeno dove andare a dormire. Fu un anziano omosessuale a darle un tetto per rifugiarsi. Ma non fu sufficiente per salvarla».

Che cosa accadde a Valeria?

«Quello che all’epoca succedeva ai transessuali, ma anche a tanti gay che venivano ghettizzati. Si drogavano, e poi si prostituivano per trovare l’eroina. Valeria non ce l’ha fatta. Fu trovata morta dietro un binario della stazione. Overdose».

Lei si è mai drogata?

«No, per fortuna».

Le è mai capitato di prostituirsi?

«Sì, per un breve periodo. Ma non lo facevo per soldi. Era una sorta di vendetta. O forse di riscatto. Non lo so dire».

Che tipo di vendetta o di riscatto è stato?

«Con il tempo mi sono resa conto che gli uomini mi volevano soltanto per il mio corpo. Mi ero innamorata di uno che quando ha visto che si stava coinvolgendo mi ha lasciato. Ho sofferto molto. E allora ho pensato: “Gli uomini vogliono soltanto il mio corpo? E allora paghino”. È durata poco, comunque».

Come è stato il suo passaggio da una vita complicata al successo?

«Devo sicuramente dire grazie al Maurizio Costanzo».

Al suo Costanzo Show?

«Sì. Avevo già cominciato ad essere un personaggio pubblico, con i primi gay pride. Con le apparizioni al Muccassassina a Roma. Ma su quel palco era diverso. Andavo nel salotto pubblico più famoso d’Italia. Era il 1998. Due anni dopo ci sarebbe stato il Pride del 2000, un punto di svolta per gli omosessuali e per le persone transessuali in Italia».

Nel 2006 lei è arrivata in Parlamento. Oggi in Italia ci sono due consiglieri comunali transgender, una a Milano, l’altra a Bologna. Sembrerebbe che il mondo sia davvero cambiato...

«Ma il Parlamento adesso non è stato capace di approvare una legge come il ddl Zan. Non posso pensare a quelle urla da stadio in Senato, quando il ddl Zan è stato brutalmente affossato. Mi viene la nausea. Eppure...».

Eppure cosa?

«Adesso non basta dire che la società civile è fortunatamente molto più avanti della politica. È lo stesso Parlamento ad essere andato molto indietro, di tanti anni».

Cosa vuole dire?

«Mi riferisco alla legge 164 del 1982. Con quella norma si accettava che le persone transessuali operate ai genitali potevano essere riconosciute legalmente. È stata una democristiana come Rosa Russo Iervolino che ha dato una grande mano a quella legge. Oggi è sicuramente superata, ma stiamo parlando di quaranta anni fa».

Secondo lei cosa succederà adesso dopo l’affossamento del ddl Zan?

«Faremo sentire la nostra voce. Penso a una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare. Ne bastano cinquantamila, ma sono sicura che se ci mettiamo insieme — le associazioni e qualche partito — superiamo il milione».

Cosa vuole dire alle persone transgender che soffrono per la loro condizione?

«Di diventare se stessi, di non aver paura: una porta chiusa oggi può essere spalancata domani. Di non rinunciare alla propria identità, alla propria interiorità. Di aver fiducia nella vita, nell’amore».

A proposito: lei ce l’ha un fidanzato?

«L’amore io l’ho soltanto sognato, con i film d’amore, le canzoni. Ho sublimato con l’impegno civile, con l’approvazione della gente. Ma non mi arrendo. Mai dire mai. La vita mi ha sorpreso così tante volte».

Francesco Curridori per "il Giornale" il 17 settembre 2021.

«La mia identità di genere è nata insieme a me. È stato un processo molto naturale». Wladimiro Guadagno, 56 anni, in arte Luxuria, è stato il primo transgender ad essere stato eletto al Parlamento italiano.

Come hanno reagito i suoi cari di fronte al suo coming out?

«Gli amici veri mi hanno sempre appoggiato. La famiglia, invece, inizialmente non ha reagito bene. Non condanno mio padre perché lui è figlio della sua generazione. Pure mia mamma pensava che fosse per colpa del modo in cui mi aveva educata. Col tempo ho capito che anch' io dovevo fare dei passi avanti. Non è stato facile ma, grazie anche alle mie sorelle, oggi considero i miei genitori i miei principali alleati». 

E dopo il coming out?

«Ho avuto un po' di porte chiuse a scuola, ma soprattutto nella Chiesa. Facevo il chierichetto nella parrocchia della mia città, Santo Stefano, a Foggia, e il mio sacerdote, durante una confessione, mi disse che, se volevo continuare a frequentare la chiesa, dovevo reprimere la mia parte femminile. Per un certo periodo di tempo l'ho fatto, ma sono diventata una persona cupa e invidiosa. Per un po' ho abbracciato il buddismo, ma poi, una serie di frati e sacerdoti mi hanno spiegato che anch' io sono figlia di Dio, proprio così come sono. È iniziato un processo di riavvicinamento alla Chiesa e, ora, mi definisco una donna transcattolica. L'ultima volta, durante l'omelia, un sacerdote ha voluto che leggessi dall'altare la preghiera dei fedeli e, poi, ha chiesto a tutti di ripetere per tre volte: Dio mi ama così come sono. Se fossi nata in Afghanistan, ora rischierei di essere uccisa per la mia identità sessuale». 

Cosa pensa di Bergoglio?

«Il papa una volta disse: Io non sono libero di andare a mangiare una pizza da solo la sera. Per me, quella frase voleva dire: Non posso sostenere fino in fondo tutto ciò che vorrei dire. Sono stanca di pensare che la Chiesa sia nostra nemica. Omosessuali e trans credenti vorrebbero conciliarsi e tanti sacerdoti fanno anche da ponte tra i gay e le loro famiglie». 

L'Italia è un Paese razzista e/o omofobo?

«Credo che la gente perlopiù sia spaventata. Penso alle unioni civili contro le quali sono stati organizzati dei Family Day. Una volta approvate la gente si è resa conto che noi non abbiamo tolto nulla a nessuno. Credo che lo stesso succederà con il ddl Zan». 

 In tivù lei si è trovata meglio in Rai sia o in Mediaset?

«Mi danno un po' fastidio tutti questi integralisti di sinistra che, quando andavo ospite nelle trasmissioni Mediaset, dicevano che andavo ad arricchire Berlusconi. Quelle forme di integralismo non mi sono mai piaciute».

Le manca il Cavaliere?

«Sì, manca e probabilmente, in alcuni momenti è stato anche eccessivamente demonizzato. Manca perché, secondo me, il centrodestra avrebbe bisogno di un po' di forza nella parte di centro. Salvini e Meloni ok, però, credo ci siano tanti elettori del centrodestra che vorrebbero avere come rappresentati delle persone più moderate e sicuramente Berlusconi lo è». 

Qual è il suo più grande rimpianto?

«Ho pagato 50 euro per vedere uno spettacolo di Beppe Grillo. Era il 2006 e si era appena saputo della mia candidatura e lui, dal palco, disse: Dove andremo a finire con Rifondazione che candida i travestiti?. Lui forse non sapeva che io ero in sala e il mio più grande rimpianto è stato quello di non aver avuto la forza di alzarmi in piedi e dire a quel Beppe Grillo: Guarda che quel travestito sono io e ho dovuto addirittura pagare per sentirmi insultare».

·        Willie Nelson.

Marlow Stern per "The Daily Beast" il 14 febbraio 2021. Willie Nelson è molte cose. È il più grande cantautore vivente di musica country. È cintura nera di Gongkwon Yusul, un'arte marziale mista coreana. Ha anche 87 anni, il che è sconcertante visto quanto sia lucido nella conversazione, non risparmiando battute a destra e a sinistra. Oh, ed è incredibilmente prolifico. L'occasione per la nostra chiacchierata è il 71esimo (!) album da solista di Willie, “That’s Life”, una seconda raccolta di cover di Frank Sinatra. Quando parli con Willie si capisce che si è divertito abbastanza nelle sue diverse vite. Chi può dimenticare la volta che ha fumato erba sul tetto della Casa Bianca con il figlio di Jimmy Carter? O la volta in cui una donna gli ha fatto causa per $ 50 milioni? La signora sosteneva che lui avrebbe voluto sposarla e che avevano avuto una maratona di sesso di 9 ore che si era conclusa con un salto mortale all'indietro. O la volta che ha telefonato a Snoop Dogg e lo ha convinto a volare ad Amsterdam per fumare? (...) Parliamo del tuo nuovo album di cover di Sinatra, “That’s Life”. Hai delle storie divertenti su Frank? Lo conoscevo ed eravamo buoni amici. È ancora il mio cantante preferito e lui ha detto che io ero il suo. Abbiamo suonato a Las Vegas insieme un paio di volte, ma non sono riuscito a uscire con lui quanto avrei voluto. Adoro quel ragazzo, però. Uno dei principali rimpianti della mia vita è stato che io e Frank suonavamo entrambi a Las Vegas e, dopo che lo spettacolo era finito, aveva un posto lì a Las Vegas, e mi ha invitato a passare del tempo e uscire con lui per un po'. Per qualche motivo, ho dovuto prendere l'autobus per Los Angeles, ma questo è uno dei miei principali rimpianti: non aver più frequentato Frank. (...) Una delle storie preferite di Willie è quella volta in cui una donna ha affermato di aver fatto sesso con te per nove ore di fila, e che voi due avete fatto una capriola all'indietro alla fine mentre lo stavate ancora facendo. [Ride] Questa è una storia troppo bella per poterla negare!

·        Will Smith.

Da rockol.it il 24 novembre 2021. Nel nuovo libro di memorie intitolato 'Will' scritto da Will Smith, l'attore e musicista ha rivelato che quando era una giovane star faceva così tanto sesso che "sviluppò una reazione psicosomatica quando aveva un orgasmo", che "mi portava nausea e talvolta persino vomito". Will ha iniziato la sua spirale discendente dopo essere tornato a casa da un tour di due settimane per scoprire che la sua ragazza, Melanie, lo aveva tradito. Così racconta nel volume le sue vicissitudini: "Ho un disperato bisogno di sollievo, ma poiché non esiste una pillola per il crepacuore, ho fatto ricorso ai rimedi omeopatici dello shopping e del rapporto sessuale sfrenato. Fino a quel punto della mia vita, avevo fatto sesso solo con una donna diversa da Melanie. Ma nei mesi successivi sono diventato la iena del ghetto". Smith ha spiegato ancora: "Ho fatto sesso con così tante donne e ciò era costituzionalmente sgradevole per il centro del mio essere che ho sviluppato una reazione psicosomatica all'orgasmo. Ciò mi dava letteralmente la nausea e a volte mi faceva persino vomitare". In un'altra parte del suo libro, Will Smith ha dettagliato il sesso con la moglie Jada Pinkett Smith. "Abbiamo bevuto ogni giorno e abbiamo fatto sesso più volte al giorno, per quattro mesi consecutivi. (...) Ho iniziato a chiedermi se questa fosse una competizione. In ogni caso, per quanto mi riguardava, c'erano solo due possibilità: (1) avrei soddisfatto sessualmente questa donna, o (2) sarei morto provandoci”. 

Will Smith: "Tutte le volte che ho sentito il razzismo intorno a me". Will Smith su La Repubblica il 5 novembre 2021. Per gentile concessione della casa editrice Longanesi all'Ansa, uno stralcio sul razzismo dall'autobiografia di Will Smith, 'Will', che esce il 9 novembre e sarà nelle librerie italiane l'11 novembre, con un inserto fotografico inedito. Mi sono sentito chiamare apertamente 'negro' cinque o sei volte in tutta la mia vita: due volte da altrettanti agenti di polizia, in un paio di occasioni da perfetti sconosciuti, in una circostanza da un 'amico' bianco, ma mai da qualcuno che pensavo fosse intelligente o forte. Una volta ho sentito alcuni dei bambini bianchi a scuola 'scherzare' su una giornata di 'caccia al negro', una 'festività' apparentemente ben nota nei loro quartieri. Ai primi del Novecento, alcuni membri della comunità bianca di Philly sceglievano un giorno specifico per aggredire qualsiasi nero vedessero aggirarsi nel vicinato. Settant'anni dopo, alcuni dei miei compagni di classe della scuola cattolica trovavano ancora divertente scherzarci sopra. Ma qualsiasi vera esperienza io abbia avuto con episodi di aperto razzismo si è verificata con persone che nella migliore delle ipotesi consideravo come nemici fragili. Gente che ai miei occhi appariva ottusa e rabbiosa, e che non mi sembrava per nulla difficile da vincere o schivare. Di conseguenza, questa forma di razzismo palese, benché pericolosa e onnipresente come minaccia esterna, non mi ha mai fatto sentire inferiore. Sono cresciuto nella convinzione di essere intrinsecamente attrezzato per gestire qualsiasi problema potesse sorgere in vita mia, razzismo incluso. Una combinazione di duro lavoro, istruzione e fede in Dio avrebbe abbattuto qualsiasi ostacolo o nemico. L'unica variabile era il grado d'impegno che ho dedicato alla battaglia. Più crescevo, pero, più diventavo consapevole di certe forme di pregiudizio silenziose, inespresse e più insidiose perché sempre in agguato. Mi cacciavo in guai più grossi se solo facevo le stesse cose che facevano i miei compagni di classe bianchi. Venivo interpellato con minor frequenza e sentivo che gli insegnanti mi prendevano meno sul serio. Ho trascorso la maggior parte della mia infanzia a cavallo tra due culture: il mondo dei neri, a casa, nel quartiere, alla chiesa battista e al negozio di Papo; e il mondo bianco della scuola, della Chiesa cattolica e della cultura prevalente in America. Andavo in una chiesa frequentata esclusivamente da neri, vivevo in una strada abitata solo da neri e sono cresciuto giocando soprattutto con altri ragazzini neri. Allo stesso tempo, però, ero uno dei soli tre bambini neri che andavano alla Nostra Signora di Lourdes, la scuola cattolica locale. Alla scuola cattolica, per quanto fossi intelligente e parlassi bene, rimanevo pur sempre il ragazzino nero. A Wynnefield, per quanto fossi aggiornato in fatto di musica o di moda, non ero mai nero abbastanza. Sono diventato uno dei primi artisti hip hop ritenuto sufficientemente "sicuro" per il pubblico bianco. Ma il pubblico nero mi etichettava come rammollito perché non rappavo stronzate hardcore e gangsta. Una dinamica razziale, questa, destinata a darmi il tormento per tutta la vita. Ma proprio come a casa, dare spettacolo e fare ridere divennero la mia spada e il mio scudo. Ero il classico pagliaccio della classe, che raccontava barzellette, emetteva versi stupidi e non smetteva mai di rendersi ridicolo. E finché rimanevo il ragazzino spassoso, significava che non ero soltanto il ragazzino nero. Divertente è un concetto che esula dai pregiudizi razziali; la comicità disinnesca ogni negatività. È impossibile essere arrabbiato, rancoroso o violento quando sei piegato in due dalle risate.

Gloria Satta per "il Messaggero" il 5 novembre 2021. «Ho pensato di uccidere mio padre per vendicare mia madre che era stata picchiata da lui con estrema violenza. Avrei potuto farla franca, ma mi sono fermato in tempo». È la rivelazione-choc che Will Smith, 53 anni, tre figli e due nomination all'Oscar, una delle star più amate e potenti del mondo, consegna alla sua autobiogafia Will, in uscita il 9 novembre in 113 Paesi (in Italia edita da Longanesi con il titolo Me). L'attore e rapper americano, protagonista di film di successo come Men in black, Il principe di Bel Air, Ali, paladino dei diritti civili e dell'orgoglio afroamericano, si mette a nudo ripercorrendo con disarmante sincerità la sua vita. Sempre vissuta tra luci e ombre, successi e traumi, riconoscimenti e difficoltà come il tormentato rapporto con la moglie Jade Pinkett, senza dimenticare gli incontri decisivi tra cui il regista Gabriele Muccino che l'ha diretto in La ricerca della felicità e Sette anime. E proprio mentre sta per uscire il suo ultimo film King Richard - Una famiglia vincente in cui interpreta il carismatico padre-stratega delle tenniste Vanessa e Serena Williams, l'attore ha deciso di rivelare al mondo il terribile segreto che lo ha legato al proprio genitore Willard Carroll Smith, un ingegnere specializzato nella refrigerazione, morto di cancro nel 2016. «Quando avevo 9 anni ho visto mio padre prendere a pugni mia madre su un lato della testa», scrive Will nel libro di cui la rivista americana People ha pubblicato un ampio estratto, «l'ha colpita così forte che lei è crollata a terra e io l'ho vista sputare sangue. Quel preciso momento ha definito chi sono più di qualunque altro momento nella mia vita. Tutto quello che ho fatto da allora, tutti i premi e i riconoscimenti che ho vinto erano il mio modo di scusarmi con mia madre per non aver agito quel giorno. Per averla delusa in quel momento. Per non aver tenuto testa a mio padre. Per essere stato un vigliacco. Il personaggio capace di fare a polpette gli alieni che avete visto nei film, l'eroe del cinema sopra le righe è in gran parte un artificio creato per proteggermi e nascondere al mondo il codardo che è in me». Il proposito di vendicare mamma Caroline, una cantante che avrebbe divorziato dal marito nel 2000, si fa strada nella testa dell'attore quando, già ricco e famoso, nel 2016 decide di assistere il padre ormai in fin di vita. «Una notte, mentre lo spingevo sulla sedia a rotelle dalla sua camera da letto al bagno, il male si è impossessato di me», scrive Will, «il percorso fra le due stanze passa in cima alle scale. Da bambino mi ero ripromesso che quando sarei stato abbastanza grande e abbastanza forte, quando non sarei più stato un codardo, lo avrei ucciso. Così mi sono fermato in cima alle scale. Avrei potuto buttarlo giù e farla franca facilmente...Mentre decenni di dolore, rabbia e risentimento scorrevano e poi si allontanavano, ho scosso la testa e ho continuato a spingere mio padre verso il bagno». Ma chi era veramente Willard Carroll Smith? Un uomo a più facce, racconta ancora Will nell'autobiografia. «Era un violento eppure non si perdeva mai un mio spettacolo, una mia partita o una recita. Pur essendo alcolizzato, si presentava sobrio ad ogni anteprima dei miei film, ascoltava ogni mio disco, visitava ogni studio di registrazione». Ma il libro riserva un'altra, sconvolgente rivelazione relativa al passato della star che oggi incarna un modello vincente non solo sullo schermo ma anche a beneficio dei suoi 55 milioni di follower su Instagram. Quando la mamma decise che non ne poteva più e abbandonò il marito rifugiandosi dalla nonna Gigi, il tredicenne Will contemplò l'idea di suicidarsi. «Presi in considerazione le pillole», scrive l'attore oggi impegnatissimo nel sociale, a sostegno del Partito Democratico (ha appoggiato la campagna presidenziale di Obama), nella beneficenza, «sapevo dove un ragazzo aveva perso le gambe sui binari del treno. Avevo visto in tv la gente tagliarsi i polsi in una vasca da bagno...». Ma alla fine desiste dall'insano proposito perché nella sua testa riecheggiano le parole della nonna: «Mi aveva sempre detto che uccidersi è peccato».

 

·        Willie Peyote.

Rita Vecchio per leggo.it il 25 febbraio 2021. Twerk, rapper, hype, politica. E chi più polemica vuole scatenare, scateni. Willie Peyote, in “Mai dire mai (la locura)” - brano che porta al suo primo Sanremo - ironizza su tutto, pure sul Festival. Ma soprattutto su stesso. All’anagrafe Guglielmo Bruno, dagli esordi a Educazione Sabaudia, fino ad arrivare al singolo “La depressione è un periodo dell’anno”, è l’artista mix di idee e generi, dal “rock all’hip pop”, che presenta all’Ariston una delle canzoni più interessanti della kermesse.

Presentiamoci: chi è Willie Peyote?

«Un nichilista, torinese e disoccupato. Perché dire cantautore significherebbe dire festa dell’Unità. E dire rapper farebbe subito bimbominchia. Sono tutto e nulla. Come Cyrano de Bergerac».

Peyote è il nome di una pianta allucinogena.

«Di allucinogeno qui io ho solo la canzone».

Un po’ di “locura”, insomma. In parole semplici, un po’ di follia.

«Una bella citazione del film Boris ci stava, no? É l’episodio del dialogo con il regista René (Francesco Pannofino, ndr) in cui lo sceneggiatore spiega cosa è la locura. Volevo un brano diverso per Sanremo, pieno di ironia, satira, fuori dagli schemi. Non volevo fare il “professorone”, l’intellettuale di turno».

Ma ha scatenato una serie di tweet contro…

«Perché siamo più attenti alla forma che al contenuto. Che poi, è il significato vero della canzone. C’è stata una scarsa comprensione del significato. Il pezzo va in “cassa dritta” e un ritornello pop all’insegna della leggerezza fondamentale in questo momento storico. Prendo in giro me stesso, prima di tutto».

Un paese di musichette…

«Se qualcuno ci legge il riferimento al Festival, è vero. È un brano sfida. E se la direzione artistica ha preso il brano nonostante questo, significa che ha autoironia».

Ironia e satira, insomma.

«Dalla musica fatta di numeri, teatri che non riaprono, stadi chiusi al pubblico, del Sanremo dell’anno scorso dal caso Bugo-Morgan al twerkare della Lamborghini, diventato quasi simbolo contro il patriarcato e per la parità di genere (siamo sicuri che abbia significato quello?). Ed ecco i social scatenati: a loro scrivere, io non avendo l’utero non posso fare domande. E poi non è piaciuto il riferimento a Tik Tok, ad Achille Lauro… Insomma, se te la prendi con Salvini o con Berlusconi, fai ridere. E nessuno dice nulla. Sono affascinato dalla stand up comedy americana, da South Park e dalla satira che prende in giro. A stare dalla parte del giusto, siamo tutti bravi».

Come se lo aspetta il Festival?

«Come un circo. Come un rito pagano che mi crea emozione. E cantare nella serata cover Giudizi Universali con Samuele Bersani, è riuscire a essermi fatto un regalo».

Il testo di Mai dire mai (La locura) di Willie Peyote

“Questa è l’Italia del futuro, un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”

Ora che sanno che questo è il trend tutti ‘sti rapper c’hanno la band

Anche quando parlano l’autotune, tutti in costume come gli X-men

Gridi allo scandalo, sembrano Marilyn Manson nel 2020

Nuovi punk vecchi adolescenti, tingo i capelli e sto al passo coi tempi

C’è il coatto che parla alla pancia ma l’intellettuale è più snob

In base al tuo pubblico scegliti un bel personaggio, l’Italia è una grande sit-com

Sta roba che cinque anni fa era già vecchia ora sembra avanguardia e la chiamano It-pop

Le major ti fanno un contratto se azzecchi il balletto e fai boom su Tik-tok

Siamo giovani affamati, siamo schiavi dell’hype

Non si vendono più i dischi tanto c’è Spotify

Riapriamo gli stadi ma non teatri né live

Magari faccio due palleggi, mai dire mai

Siamo giovani affermati, siamo schiavi dell’hype

Non ti servono i programmi se il consenso ce l’hai

Riapriamo gli stadi ma non teatri né live

Magari faccio due palleggi, mai dire mai

Mai dire mai, mai dire mai

Mai dire mai dire mai dire mai dire mai

Ora che sanno che questo è il trend tutti che vendono il culo a un brand

Tutti ‘sti bomber non fanno goal ma tanto ora conta se fanno il cash

Pompano il trash in nome del LOL e poi vi stupite degli Exit poll?

Vince la merda se a forza di ridere riesce a sembrare credibile

Cosa ci vuole a decidere “tutta ‘sta roba c’ha rotto i coglioni?”

Questi piazzisti, impostori e cialtroni a me fanno schifo ‘sti cazzi i milioni

“le brutte intenzioni…” che succede? Mi sono sbagliato

Non ho capito in che modo twerkare vuol dire lottare contro il patriarcato

Siamo giovani affamati, siamo schiavi dell’hype

Non si vendono più i dischi tanto c’è Spotify

Riapriamo gli stadi ma non teatri né live

Magari faccio due palleggi, mai dire mai

Siamo giovani affermati, siamo schiavi dell’hype

Non ti servono i programmi se il consenso ce l’hai

Riapriamo gli stadi ma non teatri né live

Magari faccio due palleggi, mai dire mai

(Mai dire mai) non so se mi piego non so se mi spezzo

(Mai dire mai) non so se mi spiego, dipende dal prezzo

(Mai dire mai) lo chiami futuro ma è solo progresso

(Mai dire mai) sembra il Medioevo più smart e più fashion

(Mai dire mai) se è vero che il fine giustifica il mezzo

(Mai dire mai) non dico il buongusto ma almeno il buonsenso

(Mai dire mai) ho visto di meglio, ho fatto di peggio

(Mai dire mai) ecco, tu dì un’altra palla se riesco palleggio 

Siamo giovani affamati, siamo schiavi dell’hype

Non si vendono più i dischi tanto c’è Spotify

Riapriamo gli stadi ma non teatri né live

Magari faccio due palleggi, mai dire mai

Siamo giovani affermati, siamo schiavi dell’hype

Non ti servono i programmi se il consenso ce l’hai

Riapriamo gli stadi ma non teatri né live 

Magari faccio due palleggi, mai dire mai

Mai dire mai, mai dire mai

Mai dire mai dire mai dire mai dire mai

Mai dire mai, mai dire mai

Mai dire mai dire mai dire mai dire mai