Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2021

 

LA MAFIOSITA’

 

QUINTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L'alfabeto delle mafie.

In cerca di “Iddu”: “U Siccu”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il delitto Mattarella.

La Cupola.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Intimidazioni.

Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.

La Dia: Il Metodo Falcone.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare: segui i soldi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato - ‘Ndrangheta.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Camorra.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Depistaggio di via D’Amelio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il dossier mafia-appalti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P2 ed i Massoni rinnegati.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P4.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2020)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Cesare Terranova.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Antonino Scopelliti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Don Peppe Diana.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La ‘Ndrangheta.

Cosa Nostra. 

Cosa nostra cambia nome: l’Altare Maggiore.

La Mafia romana.

La Camorra. La Mafia Napoletana.

La Mafia Milanese.

La "Quarta mafia" del foggiano.

La Mafia Molisana.

Mala del Brenta: la Mafia Veneta.

La Mafia Nigeriana.

La Macro Mafia.

La Mafia Statunitense. 

La Mafia Cinese.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-AntiMafia.

Non era mafia: era politica.

Santi e Demoni.

La Moralità della Mafia.

I Mafiologi.

L'Antimafia delle Star.

Giovanni Brusca ed il collaborazionismo.

Il Pentitismo.

Hanno ucciso Raffaele Cutolo.

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Il reato che non c’è. Il Concorso Esterno.

Non era Mafia.

Antimafia: A tutela dei denuncianti?

Sergio De Caprio: Capitano Ultimo.

È incandidabile?

Il Business delle le Misure di Prevenzione: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

Il Contrabbando.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …“Viva i Boss”.

La Gogna Parentale e Territoriale.

Il caso di Mesina spiegato bene.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Caporalato a danno delle Toghe Onorarie.

Il Caporalato Parlamentare.

Gli schiavi del volantinaggio.

La Vergogna del Precariato. 

Il caporalato sui rider.

Il Caporalato agricolo.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Colpa delle banche.

Fallimentare…

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…la Lobby.

Una storia di Casta. Csm, il sistema non cambia per nulla.

Lo Scanno del Giudizio: da padre in figlio.

I dipendenti della presidenza del Consiglio.

I Giornalisti Ordinati.

Gli Avvocati.

I Medici di base.

I Commercialisti.

Che fine ha fatto il sindacato?

Le Assicurazioni…

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa c’entra la massoneria?

Le inchieste di Cordova e i giudici massoni.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’abbattimento delle case private. Abusivo: Condonato e distrutto.

L’occupazione delle case.

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

QUINTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Quelli che …”Viva i Boss”.

“Chi canta la mafia commette reato”. L’ultima idea dei grillini. Al bando canzoni che strizzano l'occhio alla criminalità organizzata. Il De Andrè di "Don Raffaè" avrebbe rischiato l'ergastolo. Il Dubbio il 20 marzo 2021. «La mafia vive di messaggi e certi messaggi vanno fermati. Qualsiasi sia il canale di cui si servono». Stefania Ascari, deputata M5s e componente della commissione Antimafia, è prima firmataria di una proposta di legge che prevede di introdurre nel nostro ordinamento l’aggravante dell’istigazione o dell’apologia del delitto di associazione di tipo mafioso. «È intollerabile che certi boss o certi stili di vita vengano lodati o addirittura proposti a modello», spiega Ascari, ricordando casi eclatanti come le esequie di Vittorio Casamonica o le processioni religiose con soste davanti alla casa del padrino di turno: «Una deriva inaccettabile, che negli ultimi tempi ha trovato nuova linfa nei social network e in alcune canzoni». Chissà che fine farebbe il povero Fabrizio De Andrè che con la sua (splendida) don Raffaè, visto che osò addirittura cantare le “gesta” del boss della camorra Cutolo.  Probabilmente sarebbe finito all’ergastolo. L’ultimo caso in ordine di tempo, spiega la deputata pentastellata, è quello del video rap di solidarietà ai fratelli Travali di Latina, uno dei quali ritenuto numero due del clan Di Silvio: nella clip, rimasta per diverse ore su YouTube, si vedevano giovani con il volto coperto da passamontagna e si inneggiava con parole e gesti alla violenza e ai “soldi facili”. Dell’argomento si era già discusso qualche tempo fa, quando in Calabria era esploso il caso dell’artista Teresa Merante, messa alla gogna e bollata come “cantante della malavita” per le sue strofe dedicate ai detenuti. «Di esempi come questo – stigmatizza Ascari – cominciano ad essercene tanti, troppi, è ora di intervenire». L’istigazione a delinquere nel nostro codice è prevista dall’articolo 414 del codice penale: «C’è una aggravante se l’istigazione o l’apologia riguarda delitti di terrorismo ma noi (gli altri firmatari sono i deputati De Carlo, Mariani, Martinciglio, Romaniello, Spadoni, Termini e Villani) crediamo che sia il caso di prevedere un’aggravante specifica, proprio per chi istiga alla mafia: è il caso di tenere separati i due piani, soprattutto per il valore simbolico che tutto questo può assumere». L’articolo 1 (la proposta di legge si articola su due) stabilisce che la pena è aumentata fino a due terzi «se il fatto è commesso durante o mediante spettacoli, manifestazioni o trasmissioni pubbliche o aperte al pubblico ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici». E che «non possono essere invocate, a esimente, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume». «Non ha senso parlare di censura – obietta però Ascari – La libertà d’espressione è sacra e nessuno si sogna di metterla in discussione: ma dire, come ha fatto qualcuno, che era giusto far saltare in aria Falcone e Borsellino con la libertà d’espressione non c’entra davvero niente. È solo una forma di istigazione. E come tale va punita. Anche tenuto conto del fatto che messaggi come quelli veicolati, ad esempio, dal rap o dalla canzone neomelodica entrano non solo nelle periferie ma anche nelle carceri. Dove, non lo dimentichiamo, sono tanti i giovani al 41 bis». L’articolo 2 prevede invece che quando il reato viene commesso «mediante l’utilizzo di social network ovvero mediante emittenti radio o televisive o per mezzo della stampa, il soggetto responsabile della divulgazione del contenuto non conforme al divieto di apologia previsto dal medesimo comma è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro e con l’obbligo di rettifica». «L’obiettivo – conclude la parlamentare M5s – è quello di responsabilizzare tutti gli operatori della comunicazione, nessuno escluso. Perché ancora oggi il fenomeno mafioso non viene preso con la dovuta serietà nemmeno a livello di istituzioni e di enti locali. Almeno in certe aree, più che di infiltrazioni, parlerei di radicamento. E il contrasto parte anche dal linguaggio».

Marco Cusumano per “Il Messaggero” l'1 marzo 2021. La polizia indaga su un video, pubblicato su YouTube, per celebrare i leader del clan Di Silvio-Travali colpiti da una raffica di arresti nell'operazione Reset. La clip, comparsa sabato e rimossa ieri sera, ha raccolto quasi tremila visualizzazioni rimbalzando tra cellulari e chat private. Nelle immagini si vedono ragazzi giovanissimi, alcuni con il volto coperto da passamontagna, che scandiscono in chiave rap frasi di questo tenore: «Se sei in zona mia faccio bang bang bang», «c'ho in mano un fero pronto, siamo cresciuti nella fame, tra coltelli e lame» per poi culminare in «Latina è cosa nostra», in riferimento al potere del clan. Un clan in realtà pesantemente colpito da retate e arresti della polizia, come avvenuto nell'ultima operazione Reset, con 19 ordinanze di custodia cautelare nelle quali viene contestata anche l'aggravante del metodo mafioso. Una delle donne arrestate, ora ai domiciliari, compare addirittura nella clip mentre conta il denaro. Una sfida che non è passata inosservata. «Abbiamo iniziato l'identificazione di tutte le persone che compaiono - spiega Giuseppe Pontecorvo, capo della Squadra Mobile - chiedendo al gestore di rimuovere il video. È un fatto molto grave che non può essere sottovalutato come una bravata». La clip è scomparsa ieri sera, ma non si sa ancora se per iniziativa di YouTube o per volontà degli stessi autori che potrebbero averla rimossa. Le immagini sono state girate nella zona dei cosiddetti Palazzoni, alla periferia della città, il quartier generale della famiglia Travali che gestiva il traffico di droga insieme ai Di Silvio. «Rispetto la strada, faccio una rapina a mano armata no contatti, solo contanti c'ho un amico e di sicuro non è pentito», è il riferimento ai pentiti grazie ai quali la polizia ha messo a segno diversi arresti negli ultimi tre anni. Sembra di assistere a una sorta di "Mo ce ripigliamm' tutt' chell che è o nuost" di Gomorra, ma qui la fiction non c'entra, i riferimenti sono tutti reali.

Da affaritaliani.it il 25 gennaio 2021. Canta in calabrese e “inneggia ai latitanti” col suo brano “U latitanti” nel quale definisce gli agenti “brutta compagnia”. La denuncia di Domenico Pianese, segretario nazionale del sindacato di polizia, Coisp. "Stiamo preparando attraverso l’avvocato Carmen Di Meo del Foro di Roma, che si è messa a completa disposizione, un esposto alle Procure della Repubblica di Roma e di Reggio Calabria nei confronti della cantante calabrese Teresa Merante per istigazione a delinquere. I suoi brani, compreso 'U latitanti', non solo inneggiano alla peggiore forma di delinquenza, ma sono un vero e proprio pugno allo stomaco per chi, come gli appartenenti alle Forze dell'Ordine, lavora ogni giorno rischiando la vita per estirpare dal Paese il cancro della criminalità organizzata". Così in una nota Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di Polizia Coisp. "Questa signora, che si definisce cantautrice, è interprete di una canzone che inneggia ai latitanti della 'ndrangheta e alle loro attività mentre invita a "sparare a tutta forza" contro i poliziotti, definiti "brutta cumpagnia" e pezzenti. Nel suo "curriculum" musicale infatti non ci sono che brani di questo tenore. Ciò che allarma, dunque, è che sui social questa sedicente artista abbia un seguito di quasi 90mila persone e che influenzi con i suoi messaggi devianti una grossa fetta dell'opinione pubblica.  Proprio per questo, segnaleremo anche ai social network di intervenire per censurare questi contenuti che istigano alla violenza e all’odio sociale”. contenuti conclude. 

"Sparate alla polizia, viva i boss": quelle canzoni shock pro mafia. Le canzoni choc che inneggiano ai boss come Totò Riina e invitano a sparare ai poliziotti definiti “pezzenti”, saranno oggetto di attenzione in parlamento e in commissione antimafia. Elena Ricci, Sabato 23/01/2021 su Il Giornale. Sui social è bufera per i video della cantante folk calabrese Teresa Merante, presenti in rete già da diversi anni, ma balzati alle cronache solo ieri per via del suo ultimo singolo pubblicato in occasione del capodanno. Video che su YouTube contano oltre 3 milioni e mezzo di visualizzazioni. Nulla di strano, se non fosse che la sua musica popolare si basa sulla vita e la storia di latitanti e boss mafiosi, ne esalta le gesta, ponendoli al di sopra della legge e di chi la rappresenta. Infatti, in un passaggio di una delle sue canzoni “U latitanti”, ispirata alla storia del latitante Rocco Castiglione, dice chiaramente: “Una luce fioca inizia a lampeggiare, fuggite giovanotti questa è la polizia, sparate a tutta forza verso quella brutta compagnia. Si stanno avvicinando con il mitra in mano ma non abbiate paura, sono solo quattro pezzenti. Noi siamo i latitanti noi siamo i più potenti”. Non un caso isolato, se consideriamo che un anno dopo, nel 2018, ha pubblicato un singolo intitolato “Il Capo dei Capi”, dedicato al boss mafioso Totò Riina. Il testo della canzone descrive Totò Riina come “uomo di tanto rispetto e onore” e ancora “Due giudici gli erano contro ed arrivò per loro il giorno. Li fece uccidere senza pietà” con chiaro riferimento ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. O, ancora, la canzone intitolata "Totò u curtu", cantata - come si legge sul canale Youtube della Merante "per gli amici carcerati". Nel suo ultimo videoclip pubblicato alla fine dell’anno, la Merante, che conta su Facebook 88 mila followers, inneggia alla liberazione di tutti i detenuti. “Un fatto davvero allucinante. Questi video sono assolutamente da bandire, sarà mio impegno portare la questione all’attenzione del parlamento e in commissione antimafia”, lo dichiara interpellata da IlGiornale.it, Wanda Ferro, deputata di Fratelli d’Italia e segretario della commissione parlamentare antimafia, “Ci siamo battuti tantissimo quando si parlava di scarcerazioni, non è ammissibile che si inneggi alla liberazione di chi commette crimini. Ci sono dei cantastorie, anche lontani politicamente da quelle che sono le mie idee, che però attraverso la musica raccontano la storia di donne che hanno pagato a caro prezzo il loro opporsi alla mafia, come ad esempio Lea Garofalo. Per diffondere la legalità, non bastano le forze dell’ordine e la parte buona della Magistratura, occorre soprattutto la cultura e le arti come la musica possono fare tanto. Questa donna – conclude Wanda Ferro – dovrebbe solo fare ammenda e chiedere scusa alle famiglie delle vittime di mafia”. L’Italia, in particolar modo Calabria, Sicilia e Campania, hanno pagato il prezzo più alto nella lotta alle mafie. Terre difficili che, però, cercano di riscattarsi ripudiando la violenza e promuovendo azioni volte alla diffusione capillare della cultura della legalità. Di canzoni come quelle della Merante, con connotazione folkloristica e con chiaro riferimento a persone e storie lontane dal concetto di legalità, ne esistono diverse. Lia Staropoli, presidente dell’Associazione “ConDivisa” e co - fondatore del Movimento Antimafia “Ammazzateci Tutti”, nel suo libro “La Santa Setta”, improntato sul potere che la ‘ndrangheta ha sugli affiliati e sul consenso sociale che questa ottiene sul territorio, affronta ampiamente l’argomento, condannando fermamente questo tipo di musica. “Sicuramente non tutti i cantanti e gli autori di queste canzoni sono degli affiliati. Ma il messaggio è comunque sbagliato”, dice Staropoli a IlGiornale.it, “Dobbiamo comprendere che l’attività prevalente della criminalità organizzata è proprio quella di tentare di sembrare attraente e, indubbiamente, certe canzoni le conferiscono parecchia propaganda. La criminalità organizzata ha bisogno di sembrare affascinante perché il fattore determinante per ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra è proprio il “consenso sociale”. Senza il consenso sociale la mafia non potrebbe contare sull’omertà e sulla reticenza. E lo cerca ovunque, persino attraverso la musica, ma per esempio anche durante le funzioni religiose con i cosiddetti ‘inchini’ delle statue dei Santi, per ammantarsi di sacralità. La mafia tenta di conferirsi potere per mezzo di canzoni, e proverbi che ritraggono boss e affiliati come benefattori, e per farlo utilizzava anche delle trasmissioni radiofoniche. Adesso – continua - tenta di usare i social network”. Per Lia Staropoli il rischio di emulazione è concreto e immediato, in quanto i giovani sono sempre più affascinati dai criminali celebrati nelle canzoni e, talvolta, anche in alcune serie tv. “Ragazzi che celebrano e legittimano le condotte criminali dei boss, contestualmente insultano e tentano di delegittimare carabinieri, poliziotti e militari della guardia di finanza. Ma i pericoli maggiori li riscontriamo nelle roccaforti di ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra, nelle zone fortemente interessate e controllate dalla criminalità organizzata. Qui i ragazzi potrebbero veder legittimate alcune condotte criminali che percepiscono direttamente”. La linea dura arriva anche dai sindacati della Polizia di Stato. “Gravissimi e vergognosi i testi di queste canzoni. Davvero uno scempio, nonché enorme mancanza di rispetto nei confronti di chi ha sacrificato la propria vita per combattere le mafie”, fa sapere Fabio Conestà, segretario generale del Mosap (movimento sindacale autonomo di polizia), “Chiediamo a gran voce che politici e autorità, compresi i nostri vertici, sul fronte comune si adoperino affinché tali obbrobri siano immediatamente censurati. Non è ammissibile che siano permessi messaggi di questo tipo”. A Conestà fa eco Franco Maccari, vice presidente nazionale della federazione sindacale di polizia Fsp: “Non sentivamo la mancanza di un’altra cantastorie che inneggia ai mafiosi e a sparare ai poliziotti – dice a IlGiornale.it - ma se ha pure un “manager” e l’appoggio di pezzi di Istituzioni come un sindaco disattento, il ragionamento da fare è quasi scontato: fin quando si può lasciare licenza di esprimersi e di far conoscere ‘personaggetti’ come questi? Forse dovrebbero emigrare verso lo “stato dell’arte” richiamato anche dalla ormai sorpassata Nannini” conclude. L’ultimo video della Merante, pubblicato da una piccola etichetta di Reggio Calabria, è stato girato a Nicotera, in provincia di Vibo Valentia. L’amministrazione comunale che ha concesso i permessi per le riprese, si è successivamente dissociata. Il sindaco Giuseppe Marasco, avrebbe ammesso la disattenzione, dichiarando di non aver letto il testo della canzone.

·        La Gogna Parentale e Territoriale.

Da Giuda a Salvini, due millenni di pregiudizi contro i calabresi. Francesco Pellegrini il 20 Dicembre 2021 su icalabresi.it. L’ articolo dei nostri Dalena e Coscarella sugli zampognari che lasciavano la Calabria per spingersi nelle varie parti d’Italia arrivando, almeno i più ardimentosi, sino a Parigi racconta la storia risalente di poveri pastori che con «i loro costumi ancestrali e pittoreschi realizzati con le pelli degli animali, i loro larghi mantelli, le scarpe grosse e i cappelli a punta non facevano altro che vivificare la brigantesca (e stereotipata) Calabria di Alexandre Dumas».

Dallo stereotipo al pregiudizio

Lo stereotipo di cui si fa cenno ci avverte che gli autori non si sono limitati a narrare l’origine di una tradizione che resta vivissima soprattutto nel Mezzogiorno e ancor di più, come è ovvio, in Calabria. E lo stereotipo lo si può chiamare luogo comune, frase fatta. Ma più correttamente esso è l’elemento fondante del pregiudizio.

Lo stereotipo nasce dalla pigrizia intellettuale o dall’angustia della fantasia. Può non essere sempre segno di malevolenza o disprezzo, il pregiudizio invece nella sua apparente innocuità o banalità è una pozione tossica. Stravolge la realtà, deforma l’umanità che ne è colpita. Introduce – non sempre per fortuna- all’intolleranza e al razzismo, che si camuffa talora sotto spoglie quasi ironiche che sembrano non fare danni.

Nord vs Sud

Prima di fare un viaggio nel passato, diamo uno sguardo al presente. Il leader della Lega Salvini, che con una torsione a 180 gradi, è passato dall’improperio ad una sorta di liaison amoureuse con la Calabria facendosi eleggere addirittura a Rosarno, si è emancipato dal pregiudizio contro noi calabresi e meridionali? 

Lo credono probabilmente solo quelli che per collocare il proprio didietro su uno scanno comunale o regionale venderebbero anche l’anima al diavolo o, in sua mancanza, a portatori di voti a forte tossicità. Salvini – e con lui decine di migliaia di concittadini del nord – in cuor suo considera i terroni come un male inevitabile .

Se dal presente imbellettato facciamo un salto indietro di qualche decennio, muovendoci tra i palazzi cadenti della cintura torinese il pregiudizio (cioè il rifiuto dell’altro) lo troviamo fisicamente realizzato in topaie come luoghi dove vivere, interi quartieri “signorili” del centro città di fatto preclusi ai non nativi, la socialità possibile circoscritta ai poveri disgraziati che condividevano lo stesso destino. 

Una storia antica

Ma il pregiudizio, che è una mala pianta difficile da estirpare, ha origini remote. La lettura di un articolo di Gabriele Petrone ci informa che la storia del pregiudizio anticalabrese è antica. Nel Medioevo resisteva la convinzione che la legione comandata della crocifissione del Cristo fosse di Reggio. Un fatto storicamente falso, eppure diffuso in molti documenti.

Per secoli, poi, l’immagine del calabrese rozzo, selvaggio e violento, figlio di una natura altrettanto selvaggia anche se bellissima, ha continuato a farsi strada.

Il massimo fu raggiunto nel Settecento – cito sempre dall’articolo di Petrone – all’epoca degli scrittori-viaggiatori che si spingevano nella nostra regione con lo stesso spirito di coloro che visitavano l’Africa, l’Asia o le lontane Americhe. 

Creuze de Lesser scriveva che «l’Europe finit à Naples et méme elle y finit assez mal. La Calabre, la Sicile, tout le rest est de l’Afrique». Per i cicli della storia teorizzati dal Vico in un tempo remoto i calabresi erano assimilati agli africani, con scorno dei pochi nativi odierni che si permettono la tentazione diabolica del razzismo verso i neri.

Il trionfo dei luoghi comuni

Sempre per dare corpo a questo viaggio sul pregiudizio a danno di noi calabresi, citiamo un intellettuale nostro corregionale, lo storico Umberto Caldora, che ci ricorda che «l’idea di Calabria che si è diffusa lungo i secoli si è formata essenzialmente attraverso i giudizi e i pregiudizi della cultura europea. Essa ha elaborato un’immagine mitica della regione, coltivando luoghi comuni presenti sin dall’antichità. Se i Bruzi della Calabria antica, infatti, erano visti come ribelli e infidi dai Romani, essi verranno ritenuti addirittura fustigatori di Cristo nel Medioevo. Se in età controriformista e barocca la Calabria sarà per i missionari gesuiti una parte significativa delle Indie di quaggiù, la cultura spagnola del tempo giungerà a identificare Giuda come calabrese».

Un esempio recente

Dunque nel destino dei calabresi c’è un compagno di strada sgradevole, maligno e nocivo. Lo si chiami pregiudizio, ma tenendo presente che esso come il virus del covid è cangiante e assume modi diversi per manifestarsi. Si nutre di ignoranza, di narrazioni false o ripetitive, molte addebitabili a noi calabresi o almeno ai governanti che un destino maligno – o un voto infelice – talora di regala.

Un esempio? Tra i tarli che mi angustiano non posso non ricordare il mitico corto di Muccino, un concentrato di pregiudizio stucchevole e ben pagato dalle sue vittime attraverso la dabbenaggine dei loro governanti.

Quei magistrati calabresi trasferiti, sospesi e arrestati. La storia recente dei togati dei distretti giudiziari della nostra regione inciampati in problemi con la giustizia. E poi i provvedimenti disciplinari per "incompatibilità ambientale" e i casi più “caldi” all’ombra dei tribunali. Vincenzo Imperitura il 20 Dicembre 2021 su icalabresi.it.

Trasferiti, sospesi, ridimensionati, in qualche caso finiti addirittura in manette. Non ci sono solo i magistrati protagonisti dell’indagine interna del Csm per l’affaire Palamara nella storia recente dei togati dei distretti giudiziari calabresi inciampati in problemi con la giustizia. In alcuni casi, trasferimenti e punizioni derivano da “incompatibilità ambientali” sorte tra magistrati. In altri le indagini alla base dei provvedimenti disciplinari sono naufragate in richieste di archiviazione presentate dalla stessa accusa. E in diverse circostanze gli approfondimenti degli investigatori hanno smascherato un vero e proprio sistema di corruzione giudiziaria.

Il mercato delle sentenze

Come nel caso di Marco Petrini, il giudice della Corte d’Appello di Catanzaro arrestato dai magistrati di Salerno (competenti per territorio) nel gennaio del 2020, sospeso dalle funzioni dal Csm e condannato in primo grado a 4 anni e 4 mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari. Una classica storia di malaffare quella scovata dai finanzieri di Crotone che individuarono una serie di personaggi – tra cui Mario Santoro, un medico in pensione ex dipendente dell’Asp di Cosenza – che avrebbero stipendiato il giudice per aggiustare, in secondo grado, una serie di processi penali finiti, in prima battuta, con condanne pesanti. Un sistema che tornava buono anche per ritoccare le misure di prevenzione reale come sequestri e confische di beni.

Il filone che coinvolge anche il sindaco di Rende

Un vero e proprio suq di sentenze di cui si è tornato a discutere, stavolta davanti ai giudici d’Appello salernitani, lo scorso venerdì con l’inizio del processo in secondo grado. In attesa di definizione poi – i pm di Salerno hanno chiuso le indagini nell’ottobre scorso – il secondo filone dell’inchiesta. Coinvolge, oltre all’ex giudice Petrini, anche il sindaco di Rende Marcello Manna, che secondo l’ipotesi dell’accusa avrebbe corrotto Petrini per ottenere in appello l’assoluzione del boss Francesco Patitucci (di cui Manna era legale) che era invece stato condannato in primo grado a 30 anni per l’omicidio di Luca Bruni.

Sullo stesso piano anche la posizione dell’ex procuratore aggiunto nella distrettuale antimafia di Catanzaro, Vincenzo Luberto, sotto processo a Salerno con l’ipotesi di corruzione, falso, omissione e rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex parlamentare Ferdinando Aiello. Trasferito dalla commissione disciplinare del Csm alle mansioni di giudice civile al tribunale di Potenza, Luberto, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto dall’ex parlamentare una serie di pagamenti per viaggi di lusso tra il 2018 e il 2019, in cambio di un suo sostanziale asservimento alle richieste avanzate dall’ex deputato.

Secondo quanto ricostruito dai magistrati campani (competenti territorialmente sui colleghi del distretto della Corte d’Appello di Catanzaro), Luberto avrebbe informato l’ex parlamentare rispetto alle indagini ai suoi danni, omettendo poi di iscriverlo al registro degli indagati quando le notizie via via raccolte dagli investigatori lo avrebbero richiesto. Accuse sempre rispedite al mittente dall’ex aggiunto catanzarese il cui processo è attualmente in corso.

Il trasferimento di Lupacchini

Fece molto rumore anche un altro intervento del Consiglio superiore della Magistratura sui togati del distretto catanzarese: il trasferimento dell’ex procuratore generale Otello Lupacchini, spedito a Torino senza compiti direttivi e con perdita di tre mesi d’anzianità per avere criticato, durante un’intervista televisiva, il procuratore capo Nicola Gratteri all’indomani della maxi retata di Rinascita Scott. Apice di un rapporto fortemente conflittuale tra i due magistrati, l’intervento del Csm arrivò, su sollecitazione dei consiglieri in quota Magistratura Indipendente e Area, per verificare se esistessero i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale.

Quel post su Facciolla

Magistrato di lungo corso – fu protagonista delle indagini sulla banda della Magliana e sul fronte del contrasto alla lotta armata nera e rossa – Lupacchini è finito davanti alla disciplinare del Csm per un’intervista video in cui lamentava il mancato coordinamento dell’ufficio retto da Gratteri con il suo, e definendo le indagini dell’antimafia catanzarese come «evanescenti». Tra i capi di “incolpazione” all’ex Pg del capoluogo, anche un post Facebook con cui Lupacchini sosteneva una campagna on line in favore di Eugenio Facciolla, ex Procuratore capo a Castrovillari, trasferito dal Csm in seguito ad un’indagine aperta nei suoi confronti dalla Procura di Salerno. Incolpazione poi caduta davanti al Plenum del Csm che nelle settimane scorse, ha reso definitivo il trasferimento di Lupacchini a Torino.

L’arresto del Gip di Palmi

E se nel distretto giudiziario centrosettentrionale le acque restano ancora agitate per gli inevitabili strascichi delle vicende penali che hanno coinvolto magistrati importanti, nel reggino bisogna tornare un po’ indietro nel tempo per trovare precedenti così pesanti. Nel 2011 furono i magistrati della distrettuale antimafia di Milano ad arrestare Giancarlo Giusti – all’epoca Gip a Palmi e con alle spalle un procedimento della disciplinare del Csm (da cui uscì assolto) per alcuni incarichi commissionati sempre agli stessi professionisti – nell’ambito di una maxi inchiesta sugli interessi del clan Valle – Lampada in Lombardia.

Sui giornali finirono i soggiorni milanesi pagati dal boss al magistrato di origine catanzarese (con corredo di tutto il campionario voyeuristico su gusti sessuali e goderecci) e Giusti, condannato in via definitiva a 3 anni e 10 mesi di reclusione, non resse il colpo, togliendosi la vita pochi giorni dopo la lettura della sentenza.

Intercettato mentre passava notizie al boss

E fu sempre l’antimafia milanese, con l’inchiesta Infinito, a stringere le manette ai polsi di Vincenzo Giglio, all’epoca presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria. Un arresto clamoroso per un magistrato considerato, all’epoca, tra i più intraprendenti del distretto reggino: protagonista di innumerevoli manifestazioni antimafia ed esponente di rilievo di Magistratura Democratica, l’ormai ex magistrato fu intercettato dagli investigatori mentre sul divano della sua casa reggina, passava notizie riservate al boss Giulio Lampada, che di quel salotto era un frequentatore abituale.

Una storiaccia che coinvolse anche l’ex consigliere regionale Francesco Morelli e che costò all’ex giudice una condanna a quattro anni e 5 mesi di reclusione ed a un risarcimento, stabilito dalla Corte dei conti pochi mesi fa, di oltre 50 mila euro nei confronti del ministero della Giustizia per il terrificante danno d’immagine provocato.

Moccia, da Afragola a Roma: un clan ad alta velocità. Dopo i ristoranti della capitale, la holding campana si butta sugli appalti ferroviari. Storia di una famiglia che si è riciclata grazie a protezioni eccellenti. E di un processo con un solo imputato che va avanti da dieci anni. Francesca Fagnani su L'Espresso il 2 dicembre 2021. Se di élite di camorra si può parlare, di certo i Moccia ne sono l’emblema. Una dinastia che ha le sue radici nella provincia nord di Napoli e che dagli anni ’80 esprime il livello più alto della criminalità mafiosa. Un numero imprecisato di omicidi, estorsioni, intimidazioni rappresentano un passato da cui oggi la famiglia di Afragola prende le distanze. Così dichiarano. Per la procura di Napoli, invece, quello dei Moccia resta un clan potentissimo che estende la sua influenza ben oltre il territorio di provenienza. Quella ferocia di allora del resto ai Moccia non serve più. Basta il nome e soprattutto l’enorme disponibilità di capitali liquidi che gli consente di fare affari in molteplici ambiti dell’economia. C’è un settore però particolarmente redditizio, nel quale i fratelli Moccia si mimetizzano meglio che altrove: gli appalti pubblici, che condizionano da anni a livello nazionale e sempre più alto. Il clan a base familiare è diretto dal nucleo ristretto dei fratelli Angelo, Luigi, Antonio, Teresa e suo marito Filippo Iazzetta, che si alternano alla guida ogni qual volta uno di loro sia impedito a farlo, perché latitante o in carcere. Luigi Moccia, Gigino, ’o colletto bianco che fino allo scorso luglio si trovava al 41 bis per mafia, ora è tornato libero per decorrenza dei termini della custodia cautelare. Anche la sorella Teresa è stata scarcerata ed è fuori con l’obbligo di firma. Gli altri due fratelli, Antonio e Angelo invece erano liberi fino allo scorso aprile, quando sono stati arrestati nell’ambito di due diverse inchieste. Desta particolare curiosità il caso di Antonio Moccia, sul quale pende un altro verdetto da oltre dieci anni in un processo dove compare come unico imputato e con un solo capo di imputazione: camorra. Cento udienze per un solo imputato.

GLI AFFARI

I Moccia sono una delle più potenti organizzazioni criminali del panorama nazionale; il loro non è un semplice clan ma una confederazione camorristica di vastissime dimensioni, per numero di affiliati ed estensione del territorio controllato: Afragola, Casoria, Arzano, Caivano, Cardito, Crispano, Frattamaggiore, Frattaminore e tutti i comuni della cinta nord di Napoli. E poi Roma. La passione dei Moccia per la Capitale, dove Angelo e Luigi hanno spesso vissuto, quest’ultimo tra l’altro in un appartamento di proprietà della famiglia Inzaghi, combacia con la necessità di riciclare immensi capitali, attraverso l’acquisizione di ristoranti, alberghi, appartamenti in zone prestigiose e Ferrari, mediante intestazioni fittizie a persone totalmente assoggettate al clan come Guido Gargiulo, che - intercettato nell’ambito dell’inchiesta condotta dai Carabinieri del Ros e del Nucleo investigativo - riferendosi ai ristoranti già sequestrati a Francesco Varsi, prestanome di Angelo Moccia, dice: «I ristoranti sono di Angelo Moccia. Tu lo sai chi è? Vedi che c’hanno un’organizzazione che per spaventarmi io… ti dico spaventosa! Non sai quanto!». La forza d’intimidazione del clan è tale che i nuovi gestori dei ristoranti sequestrati erano costretti a versare ad Angelo 300 mila euro, a fronte del suo benestare. «Pensa di gioca’ ma questi ti ammazzano», dice ancora Gargiulo riferendosi a Vittorio Dominici a cui il tribunale aveva appena affidato quattro ristoranti. I Dominici che all’inizio avevano raccontato ai Carabinieri di essere vittime di estorsione, hanno poi ritrattato tutto.

L’abilità imprenditoriale dei Moccia emerge con chiarezza nell’ultima inchiesta che li riguarda, Petrol-mafie Spa, condotta dallo Scico della Guardia di finanza con il Ros dei carabinieri, coordinati dalle procure di Napoli, Roma, Catanzaro e Reggio Calabria; un maxi-bliz che ha portato a 71 misure cautelari e al sequestro di quasi un miliardo di euro. Spicca la centralità dell’organizzazione che ruota intorno al più giovane dei fratelli Moccia, Antonio, elemento di vertice della cosca, che con l’aiuto di commercialisti e faccendieri, aveva messo in piedi una macchina per reinvestire denaro sporco e per moltiplicare i guadagni attraverso le frodi fiscali nel commercio del gasolio, venduto poi a prezzi troppo bassi per qualsiasi operatore onesto. L’egemonia dei Moccia nel business dei carburanti era tale da allarmare gli altri clan operanti nel settore, in particolare i Mazzarella che per mandare un segnale preciso ai rivali tentarono due agguati con colpi di pistola esplosi verso Alberto Coppola, braccio destro di Antonio Moccia. Ne derivò una pax mafiosa imposta da quest’ultimo attraverso la cessione di una quota dell’impianto di carburanti ai Mazzarella. Proprio l’affare del petrolio potrebbe essere tra i possibili moventi ipotizzati per un omicidio eccellente e ancora da capire, avvenuto ad Afragola nel 2017, nel cuore del feudo dei Moccia: quello di Salvatore Caputo, detto Usain, facoltoso imprenditore, molto vicino alla famiglia Moccia, attivo in diversi settori, tra cui proprio i carburanti. Il killer sceso da un furgone gli ha scaricato addosso un intero caricatore, lasciandolo in una pozza di sangue. Un’esecuzione esemplare, avvenuta nel territorio epicentro dei Moccia, un’offesa gravissima rimasta però, inaspettatamente, senza vendetta. A complicare il quadro (o forse a chiarirlo), sono le dichiarazioni rese da un pentito, ex affiliato di peso del clan Moccia, Salvatore Scafuto, detto Tore a’ Carogna, che pochi mesi prima che Caputo fosse assassinato, dichiarò che fu proprio Anna Mazza, la potentissima vedova di Gennaro Moccia a chiedergli di ucciderlo: «Quando sono iniziate le pressioni dei Moccia …mi sono reso conto che l’unica via di uscita per me, non era quella di scappare, ma di collaborare con la giustizia. Dopo aver ucciso Caputo, avrei rischiato di morire anche io ovvero di imbrigliarmi ancora mani e piedi con i Moccia». Salvatore Caputo si sentiva autonomo? Non aveva restituito dei soldi transitati nelle sue mani? Oppure non aveva favorito l’ingresso dei Moccia nel business del gasolio? Solo ipotesi, tutte da accertare.

FIORI D’ARANCIO E TRENI

Fatto sta che Antonio, il fratello di Salvatore Caputo, quattro mesi dopo l’omicidio figura tra gli invitati al matrimonio di Lucia Moccia, la figlia che Angelo accompagna all’altare appena uscito dal carcere, nella Basilica di San Lorenzo in Lucina, accanto al Comando provinciale dei carabinieri. Molto interessante è scorrere la lista dei numerosi invitati, che hanno poi proseguito i festeggiamenti nella prestigiosa Villa Miani. Oltre ad alcuni affiliati, finiti poi in carcere per indagini che hanno riguardato la famiglia, come Maurizio Esposito e Pasquale Puzio, a festeggiare le nozze di Lucia Moccia con Giosafatte Laezza erano presenti molti imprenditori dell’area nord-est di Napoli, affidatari d’importanti appalti, come Bartolo Paone, un imprenditore di Casoria che con la sua Cogepa ha stipulato contratti con Tim, Enel, Open Fiber , Enav, Terna; o come Giovanni Esposito, padre di Manlio e Angelo, proprietari della Kam Costruzioni con sede ad Afragola, che risulta nella lista degli operatori a cui Rfi (Rete ferroviaria italiana) ha affidato appalti per una serie di attività, in un caso addirittura per 13 milioni. A ben vedere risultano altre ditte, vicino ai Moccia, che lavorano per Rfi, come ad esempio la Railway Enterprice srl, per una classe d’importo pari anche qui a 13 milioni, intestata a Concetta Credentino, moglie di Giuseppe De Luca (condannato in passato per mafia), cognato di Angelo Moccia e ai figli Antonio e Leonardo De Luca. Anni prima, Railway, in un complicato valzer di passaggi societari, aveva acquisito la Del Gap Costruzioni srl, già destinataria di un’interdittiva antimafia perché sussistevano tentativi d’infiltrazione mafiosa da parte della criminalità organizzata. La lista degli amici imprenditori dei Moccia che si sono aggiudicati un appalto pubblico da Rfi incredibilmente non finisce qui. Nell’elenco degli operatori che lavorano per l’azienda pubblica compare anche la Edil-Fer srl, di proprietà dei figli di Enrico Petrillo, Gennaro e Antonio e amministrata da sua sorella da Orsola Petrillo. Chi è Enrico Petrillo? Un imprenditore edile, che entra molti anni fa nell’orbita dei Moccia attraverso amicizie pericolose con cui era in affari: Giorgio Salierno e sua moglie Immacolata Capone, tramite di Michele Zagaria, al vertice del clan dei Casalesi. Salierno e la Capone verranno assassinati in due distinti agguati camorristici, Enrico Petriello invece resterà contiguo alla famiglia Moccia, tanto che, la Edil.Mer, la società di cui Petrillo era titolare, sarà poi colpita da due interdittive antimafia proprio perché ritenuta condizionata dal clan di Afragola. Anche la famiglia della moglie di Petrillo, Francesca Mormile appare molto vicina ai Moccia: suo fratello Luigi fu arrestato a Gaeta per favoreggiamento, sorpreso in barca con i latitanti Angelo e Antonio Moccia e sua sorella Giuseppa Mormile è la dama di compagnia di Teresa Moccia.

LA STORIA

Parte dagli anni ’70, il capostipite era Gennaro Moccia, benestante imprenditore agricolo e in possesso di un ingente patrimonio immobiliare. Considerato un “uomo di rispetto” secondo il linguaggio e la cultura di allora, ben altro probabilmente secondo le leggi in vigore oggi. Una sera Gennaro, trovato in possesso di un’arma detenuta illegalmente, fu arrestato dal maresciallo Gerardo d’Arminio. Il 5 gennaio del ’76, mentre il sottoufficiale era con suo figlio di quattro anni, Vincenzo Moccia, il figlio sedicenne di Gennaro, gli spara. Un tragico errore, dirà Vincenzo, arrestato. Il vero obiettivo riferisce sarebbe stato Luigi Giugliano, esponente del gruppo rivale dei Moccia ad Afragola, che dopo qualche mese risponderà, colpendo il bersaglio più grosso: il capo. Gennaro Moccia viene assassinato il 31 maggio del ’76. Da quel momento, sua moglie Anna Mazza (oggi deceduta) diventa la temutissima “vedova nera” e il sodalizio passa nelle sue mani e in quelle dei figli, che si vendicheranno uccidendo uno ad uno tutti quelli coinvolti nell’omicidio del padre. Una guerra che durerà trent’anni, una catena infinita di vendette e lutti. Nel ’78 il tredicenne Antonio Moccia uccide nel cortile del tribunale di Napoli un esponente dei Giugliano, dieci anni dopo Vincenzo Moccia, 28 anni, appena uscito di galera viene assassinato; dopo quattro giorni, Giuseppe Fusco, ritenuto il killer di Vincenzo, viene torturato e ucciso. Accanto al cadavere faranno trovare una croce di legno, un modo per far sapere che la faida non era finita. «Ammetto anche l’omicidio di Fusco Giuseppe», dirà in un interrogatorio Angelo Moccia. «Anche» quell’omicidio, dice, compiuto insieme a Michele Senese detto ’o Pazzo, che diventerà capo indiscusso della camorra romana. Un legame indissolubile, se ancora nel 2016 Senese, intercettato in un colloquio in carcere affida alla moglie un messaggio per Antonio Moccia: «Devi dire di non avere paura, quello sa morire»: nonostante la condanna definitiva, cioè, può contare sul silenzio di Michele ’o Pazzo. Ma rispetto a cos’altro ancora?

Il salto nella carriera criminale della famiglia di Afragola avviene con l’ingresso nella Nuova Famiglia, una confederazione di clan, fondata dai boss Carmine Alfieri e Pasquale Galasso per mettere fine all’espansione della Nco di Raffaele Cutolo. La potenza militare e le capacità strategiche dei Moccia emergeranno subito, così come la ferocia. «Quanti omicidi ha commesso come esecutore?», gli chiederà nel ’96 l’allora pm Giovanni Melillo. «Una ventina», dice Angelo Moccia. «E come mandante?», replica il pm. «Abbastanza», risponde Angelo.

I PROCESSI

Nel frattempo, l’altro fratello, Luigi si rende protagonista insieme al terrorista Cesare Battisti di una clamorosa evasione dal carcere di Frosinone dove entrambi erano reclusi. La conoscenza con il mondo delle organizzazioni terroristiche fa scattare la scintilla per quella che sarebbe stata la strategia difensiva adottata per primi dai Moccia: la “dissociazione”, lo strumento utilizzato durante gli anni di piombo dai terroristi per ottenere vantaggi processuali, senza svelare nulla. In quegli anni a Napoli, molti camorristi stavano terremotando il sistema criminale attraverso la scelta della collaborazione. Angelo Moccia, allora latitante, aveva accumulato troppi capi d’imputazione e soprattutto troppi omicidi. Il 3 febbraio del 1992, Angelo si consegna al carcere dell’Aquila e dopo un anno dichiarerà le sue intenzioni: ammettere le proprie responsabilità, senza però fornire alcuna collaborazione né sull’organizzazione di cui faceva parte né su altri, a meno che non fossero morti o collaboratori; «La mia non è omertà, mi creda, non me la sento di fare qualcosa che è fuori della mia coscienza», dirà. Una strategia unitaria quella della dissociazione scelta dal gruppo Moccia per evitare l’ergastolo e per arginare il fenomeno del pentitismo, depotenziando il peso dei collaboratori. Consegnare le armi allo Stato e riferire solo di fatti di sangue era un modo, inoltre, per conservare il potere criminale sul territorio e soprattutto per preservare gli affari. La battaglia dei Moccia verrà sostenuta da importanti esponenti ecclesiastici come il vescovo di Acerra don Antonio Riboldi che si fece ambasciatore presso le istituzioni per veder riconosciuta processualmente la dissociazione anche per i camorristi. Che quella di Angelo Moccia invece fosse una linea difensiva meramente strumentale è dimostrato dal comportamento del fratello Luigi che, mentre in pubblico sosteneva la politica della dissociazione, contemporaneamente cercava di convincere, in un modo o nell’altro, i collaboratori a retrocedere dalla decisione di pentirsi. Il progetto era quello di far fuori i pentiti Umberto Ammaturo, Mario Pepe e Pasquale Galasso, il più pericoloso di tutti, attraverso le informazioni che passava al clan l’ex maresciallo dei Carabinieri Giovanni Russo responsabile della sicurezza personale proprio di Galasso. Nel frattempo la “vedova nera” Anna Mazza, faceva minacciosamente arrivare al pentito Dario De Simone, tramite suo fratello Aldo, «i saluti» da parte del figlio Angelo Moccia. Dopo due mesi, Aldo muore, raggiunto da colpi sparati in faccia. Negli anni successivi alcuni pentiti faranno un passo indietro, altri invece come Rocco D’Angelo, Angelo Ferrara e Antonio Giustino saranno trovati morti in cella: suicidi, come si è detto. La procura di Napoli non ha mai creduto alla dissociazione dei Moccia, altri magistrati invece sì: nel 2015 Angelo ha pubblicato la sua autobiografia “Una mala vita”, scritta con Libero Mancuso, un magistrato che è stato anche presidente della corte di Assise di Bologna. La prefazione è firmata da Nicola Quatrano, altro magistrato poi diventato avvocato dei Moccia. La postfazione è scritta da Paolo Mancuso, un pm che si è occupato a lungo di camorra e anche dei Moccia. «Questi hanno soldi e potere politico inimmaginabile», diceva il sodale Gargiulo: «Non è camorra, questi stanno a livelli istituzionali, politici, con i tribunali».

AGGIORNAMENTO 2 DICEMBRE: La replica di Luigi Moccia al nostro articolo.  

Preciso cheprecisoche. La replica di Luigi Moccia all'inchiesta dell'Espresso il 2 dicembre 2021.

Mi chiamo Luigi Moccia, fratello di Angelo ed Antonio, ed intendo prospettarLe la mia verità, per la parte stragrande del tutto alternativa ed anzi di autentica smentita di quanto riferito su di me, sui miei fratelli e sull'intero mio nucleo famigliare nell’articolo a firma Francesca Fagnani pubblicato sul numero de L’Espresso attualmente in edicola.

- E' esatto che negli anni '80 mio fratello Angelo sia stato - insieme ad Alfieri e Galasso - ai vertici della Nuova Famiglia, il sodalizio criminale che nacque per contrastare e finì col prevalere sull'organizzazione avversa, quella della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.

- E' invece errato che un tale passato criminale sia costituito da un numero imprecisato di omicidi, estorsioni etc. in quanto Angelo, da latitante, scelse di costituirsi ed arrendersi allo Stato confessando spontaneamente tutti gli illeciti anche gravissimi che aveva commesso, per molti dei quali non era mai stato neppure accusato.

- Quanto alla pretesa enorme disponibilità di capitali liquidi che consentirebbe alla mia famiglia di fare affari in molteplici ambiti dell'economia è vero invece che tutti noi siamo stati ripetutamente sottoposti a misure di prevenzione anche patrimoniali, procedure con cui le nostre effettive disponibilità economiche sono state ogni volta risvoltate come un calzino.

- Per quel che mi riguarda personalmente è vero anzi che il cospicuo patrimonio effettivamente nella disponibilità mia e della mia famiglia è stato ed è tuttora sottoposto a sequestro finalizzato alla confisca a dispetto del fatto che persino il perito nominato dal Tribunale ne ha ribadito la legittima provenienza dalle rendite degli immobili lecitamente ereditati dalla mia famiglia e la piena congruità rispetto ai redditi da me regolarmente dichiarati in sede fiscale.

- E' vero che, secondo alcuni PP.MM., la proposta dissociativa di Angelo sarebbe stata insincera ed anzi strumentale a godere di un qualche beneficio di pena.

- Ancor più vero è tuttavia che Angelo non ha mai goduto di alcun altro beneficio se non quello infine riconosciutogli per aver confessato l'interezza dei reati commessi; circostanza confermata da decine di sentenze passate in giudicato e soprattutto dal fatto che mio fratello ha scontato per intero gli oltre trenta anni di carcere cui è stato infine condannato.

- E' invece una panzana che i miei fratelli ed io si abbia a che fare con quegli appalti che tuttavia - secondo la giornalista - egualmente condizioneremmo da anni a livello nazionale e sempre più in alto; è infatti vero al contrario che il c.d.G. Scafuto (l'inventore di una tale panzana), controinterrogato sul punto, non ha saputo indicarne neppure uno; non meno eloquente la circostanza che nessun addebito di appalti truccati od altre irregolarità similari ci è mai stato rivolto neppure in astratta ipotesi di accusa.

- Anche la pretesa ultrattività a tutt'oggi di un clan Moccia riconducibile ai componenti del nostro ristretto nucleo famigliare è tale soltanto nel convincimento di alcuni PP.MM.; dunque costituisce nient'altro che una mera ipotesi accusatoria, quella per cui ormai già da anni pendono due distinti processi tutt'ora in corso, non ancora definiti neppure in primo grado; peraltro uno nei confronti miei, un altro nei confronti di mio fratello Antonio,

nessuno anche nei confronti di Angelo.

- Per non dire che Antonio è già stato assolto per l’appunto quanto all'ipotesi di perdurante condotta associativa sino al 2003.

- E' vero che sono stato scarcerato per decorrenza termini insieme a mia sorella Teresa dopo tre anni a mezzo dal mio arresto: un tempo lunghissimo e tuttavia impegnato pressoché per intero dal malgoverno dell'acquisizione della sola prova di addebito da parte del P.M.; a dispetto di udienze fissate con la frequenza parossistica di una ed addirittura due ogni settimana; nonostante il decisivo scorciamento dell'istruttoria dibattimentale consentito per l'appunto dalla mia difesa che ha prestato l’assenso all'acquisizione al dibattimento dei verbali resi al PM da innumerevoli cc.d.G. altrimenti tutti da escutere nella pienezza del contraddittorio.

- Altrettanto vero che il processo a carico di mio fratello Antonio pende effettivamente ancora in primo grado da poco meno di dieci anni ma anche tale paradosso dipende esclusivamente dall'accusa che continua imperterrita - da ultimo sino a poche settimane addietro - a mobilitare nei suoi confronti pentiti sempre nuovi quanto egualmente inconsistenti.

- Dunque niente e nessuno autorizza la tracotante sicumera con cui la Fagnani ha falsamente già accreditato non solo la permanenza di un nostro clan Moccia - infatti tuttora sottoposta al vaglio dei giudici di primo grado - ma addirittura la sua pretesa natura di confederazione camorristica di vastissime dimensioni.

- Niente e nessuno autorizza neppure le postulazioni della giornalista sulla pretesa attività di interposizione fittizia e riciclaggio addebitata a me ed ai miei famigliari in Roma; è infatti passata di recente in giudicato la sentenza con cui la III Sez. Pen. della Corte di Appello di Roma, ha integralmente ribaltato la condanna inflittami al riguardo in primo grado; ciò assolvendomi, insieme a tutti i miei più stretti congiunti, con la formula più ampia.

- Per un un addebito similare - per il quale risulta eloquente che sia stato anch'io arrestato, salvo archiviare la mia posizione subito poi - è effettivamente tutt'oggi in corso il processo nel quale Angelo sta ancora scalpitando in attesa che tocchi finalmente alla sua difesa poter articolare innanzi al Tribunale le prove della più totale inconsistenza dell'accusa anche nei suoi confronti.

- L'articolo continua spacciando per accertato ciò che - come si è visto - costituisce invece oggetto di processi tutti ancora da definire; accredita così in capo a mio fratello Antonio immaginifici protagonismi imprenditoriali illeciti nel settore delle petrolmafie, illeciti per cui l'O.C.C. correlativa, a suo tempo emessa nei confronti di oltre cento indagati, risulta non meno eloquentemente appena annullata dalla Suprema Corte solo quanto alla posizione di mio fratello.

- Indica appena dopo, con una agilità disinvolta francamente incresciosa, il predetto affare del petrolio come uno dei possibili moventi per l'omicidio di nostro cugino, Salvatore Caputo, un omicidio che per la verità mai è stato contestato né ad Antonio né ad alcun altro componente della mia famiglia nonostante le accuse rivolte in tal senso dal c.d.G. Scafuto; lo stesso che frattanto aveva altrimenti confessato al PM che odiava Caputo e che proprio lui voleva ammazzarlo; sicché pare davvero ovvio che si sia poi adoperato per sviare da sé la responsabilità dell'omicidio in parola; un c.d.G. che d'altra parte, certo non a caso, è già stato dichiarato del tutto inattendibile, se non contra se, dalla V Sez. Pen. del Tribunale di Napoli.

- Il che ben spiega perché permangono nei confronti del fratello di Salvatore gli stessi rapporti di genuino affetto a suo tempo esistenti tra la mia famiglia ed il defunto sicché Domenico (non Antonio) è stato anch'egli a buon titolo invitato al matrimonio della figlia di Angelo esattamente allo stesso modo che ad ogni altra similare ricorrenza famigliare.

- Né tocca a me difendere l'onorabilità personale e professionale dei molti imprenditori di livello citati subito poi dalla giornalista quali asseriti rappresentanti di ditte vicine ai Moccia: si tratta effettivamente di familiari e comunque di imprenditori di prim'ordine che - al netto della colpa di non aver anch’essi rinnegato gli annosi rapporti di parentela ed affetto con la mia famiglia - hanno già ampiamente dimostrato in tutte le competenti sedi la pulizia, solidità e serietà delle proprie aziende, peraltro - al di la delle chiacchere - presenti sul mercato da decenni e con un avviamento ed una storia imprenditoriale invidiabile.

- Ignobile prima ancora che arbitrario il successivo accostamento alla mia famiglia degli omicidi di Giorgio Salierno e della moglie Immacolata Capone, mai oggetto neppure di ipotesi di addebito a nostro carico.

- Non meno gratuita la successiva, fuorviante ricostruzione dell'omicidio del m.llo D'Arminio, che infatti letteralmente calpesta la sentenza correlativa passata in giudicato; una sentenza che spiega in modo ampio ed inequivoco che il sottufficiale venne ucciso da un colpo di arma da fuoco rivolto a tutt'altro soggetto, dunque non certo intenzionalmente né tantomeno per aver in precedenza arrestato mio padre, un uomo che a propria volta non ha mai avuto alcun atteggiamento o comportamento da uomo di rispetto nel senso mafioso del termine e che infatti è restato da ultimo vittima piuttosto che protagonista attivo della camorra.

- All'insegna di una qualche coerenza nell'indegnità, il pezzo propone poi al lettore un opinabile sunto di pretesa archeologia giudiziaria che culmina nel suggestivo richiamo a mia madre quale pretesa temutissima vedova nera nelle cui mani sarebbe passato il sodalizio recante il nostro cognome subito dopo la morte del marito: una donna che non ha fatto altro che la moglie, la madre e la nonna e che comunque non ha mai riportato alcuna condanna ex art 416 bis c.p.

- Un sunto di pretesa archeologia giudiziaria dominato dalla suggestione assai più che da riferimenti corretti agli effettivi atti processuali e comunque impotente a scalfire l'ormai definitivo riconoscimento giudiziario della genuinità delle confessioni e della proposta dissociativa di Angelo; quella che infatti viene tutt’oggi ancora negata solo da un paio di Procure, tra cui non a caso proprio quella di Napoli, la stessa a suo tempo costretta ad incassare la sconfitta bruciante di un tale riconoscimento.

- La successiva, generica insinuazione di nostre pretese, inusitate capacità corruttive non solo a livello politico-istituzionali ma sinanche giudiziari risulta infine piegata allo scopo di mascariare personaggi quali Libero e Paolo Mancuso nonchè Nicola Quatrano, uomini la cui storia personale prima ancora che professionale l'autrice del pezzo francamente non è certo all’altezza di mettere in discussione.

Resto ovviamente a Sua disposizione per documentare l'interezza delle circostanze che precedono. Resta tuttavia inspiegabile che esse siano state complessivamente ignorate a dispetto delle informazioni assai specifiche altrimenti utilizzate in senso contrario per la stesura dell'articolo in parola.

Il che autorizza a rilevare ed a fare presente che - in ragione di una tale disinformazione mirata - l'articolo in parola spende la inquietante valenza oggettiva di un intollerabile tentativo di condizionare e suggestionare proprio i giudici che devono pronunziarsi fors'anche a breve nei delicatissimi processi a nostro carico tutt'oggi in corso.

Persino un Moccia quale il sottoscritto ha pertanto il diritto di chiederLe di rispettare l'etica elementare della direttiva europea che ha ripristinato anche nel nostro ordinamento l'obbligo civile di rispettare la presunzione di innocenza che nessuno, tanto meno la testata da Lei diretta, ha il diritto di negarmi.

Riscoprendo le meritorie tradizioni di cultura dei diritti e del processo che almeno un tempo hanno certamente contraddistinto la testata che Lei dirige oggi, quelle stesse volgarmente tradite dalla suggestiva faziosità velinara del pezzo in parola. Ciò pubblicando con adeguato risalto tipografico questa mia sul prossimo numero della Sua rivista. In fede Sig. Luigi Moccia

Da "ANSA" il 30 novembre 2021. I familiari del capomafia di Sciacca Salvatore Di Gangi, 79 anni, trovato morto in circostanze misteriose sui binari della ferrovia di Genova, hanno nominato un perito di parte che assisterà all'autopsia disposta dalla procura della Repubblica. A chiarire i motivi della decisione il figlio Alessandro: "Mio padre - dice - non è stato investito da un treno come è stato detto, ma assai probabilmente è morto per un malore sopraggiunto per un deficit da insulina". Di Gangi aggiunge di avere appreso dalla polizia ferroviaria che il macchinista del treno si sarebbe accorto del corpo riverso sui binari, fermandosi in tempo e lanciando l'allarme. Il boss, che era detenuto nel carcere di Asti, era stato rimesso in libertà su disposizione della Corte d'Appello di Palermo, che aveva sostituito la pena detentiva a 17 anni (ridotti dai giudici a 13 anni e 4 mesi) con gli arresti domiciliari, che avrebbe dovuto scontare a Sciacca. "Ma della scarcerazione - dice il figlio - noi familiari non siamo stati avvisati, non è arrivata alcuna telefonata, non lo avremmo certamente abbandonato, anche perché mio padre era molto malato. È dal 2017 che presento istanze (tutte respinte) affinché gli venissero concessi gli arresti domiciliari per ragioni di salute, è chiaro che se fossimo stati informati ci saremmo precipitati per andare a prenderlo". Il figlio del boss ipotizza dunque che per la scarcerazione non sarebbero state osservate le procedure corrette, chiarendo poi che Totò Di Gangi era affetto da diabete, che la famiglia ritiene essere stata la vera causa della sua morte. "Ogni giorno - dice Alessandro Di Gangi - veniva sottoposto a 4 somministrazioni di insulina".

Fabio Albanese per "la Stampa" l'1 dicembre 2021. «Sono un fallimento, non sono il tuo mito». Le parole di un padre condannato per reati di mafia e in regime di 41 bis al figlio nemmeno quattordicenne, ma già nel suo quartiere temuto e rispettato «erede», nelle stanze del tribunale per i minorenni di Catania sono considerate un cambio di passo epocale. Un boss, che si è macchiato di gravi reati e che non si è mai pentito, ha capito che il figlio maggiore stava per seguire le sue orme: non andava più a scuola, veniva portato in giro in auto da persone adulte, omaggiato solo per il nome che porta. «Pronto a entrare nelle piazze di spaccio da boss», dice il presidente del tribunale per i minorenni Roberto Di Bella.  A lui, il boss che vuole salvare il figlio, ha detto: «Signor giudice, lo porti via da quel maledetto quartiere, via da Catania. Ho sbagliato e in carcere non posso nemmeno abbracciare i miei figli, lui non può fare la mia stessa fine». Quelle stesse cose le ha scritte al figlio: «Segui gli educatori, fai quello che ti dicono e sii rispettoso». Non se l’aspettava, il giudice Di Bella, quando mesi fa in videoconferenza ha sentito quell’uomo. Gli stava proponendo di aderire al progetto «Liberi di scegliere», che con l’associazione Libera e con le istituzioni ha varato qualche anno fa in Calabria, sua precedente sede di lavoro. Un progetto per togliere dagli ambienti criminali i «figli d’arte» e (ospiti in comunità) dar loro la possibilità di una vita lontana dall’illegalità. Ma quello che vedeva nel video era un «boss importante di un quartiere degradato della parte Sud di Catania, ad alta densità criminale»: «Mi aspettavo un’opposizione netta - racconta - invece ho trovato un uomo disperato, molto preoccupato per le sorti del figlio». Da giugno quel ragazzo vive lontano da Catania, seguito da educatori e psicologi. Un caso limite, certo, ma non il solo. «Stiamo intervenendo su una ventina di ragazzi e su due mamme. Pochi? Sono qui da un anno, a Reggio Calabria siamo riusciti a intervenire su 80 ragazzi e 25 donne, alcune diventate poi collaboratrici o testimoni di Giustizia». Il giudice Di Bella crede molto in questa battaglia, in una città che con il 22% vanta il triste primato della dispersione scolastica nella fascia 6-16 anni e il contemporaneo primato di criminalità minorile. È una sua idea quella di togliere il reddito di cittadinanza alle famiglie dei malavitosi che non mandano a scuola i figli: «Questo ragazzo aveva già un atteggiamento mafioso, tutti i familiari in carcere. Ma noi interveniamo per tutelare, non certo per togliere i figli alle famiglie. Cerchiamo di evitare loro le sofferenze del carcere».

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” l'1 dicembre 2021. «Mio figlio ha fatto una cavolata, ma è un bravo ragazzo e noi siamo una famiglia perbene». Questa frase è ormai un piccolo classico e si indossa su quasi tutto: risse, truffe, minacce, molestie, atti di bullismo, scippi con destrezza, pirateria stradale. Solo che stavolta a pronunciarla è stato il padre di un adolescente torinese che ha rapinato una farmacia e accoltellato un carabiniere. Da oggi il concetto di «cavolata del bravo ragazzo di famiglia perbene» va dunque esteso alle rapine con accoltellamento, quantomeno. Per adesso rimangono ancora fuori l'aggressione a mano armata e la tentata strage con lancio di granate, ma c'è da scommettere che si troverà facilmente un padre disposto a coprire tale lacuna. «Figlio mio, rispetta tutte le indicazioni che ti danno in comunità e soprattutto non mi considerare un mito, ma un fallimento». Questa invece è una frase pressoché inedita e l'ha scritta un boss catanese dal carcere duro, in una lettera inviata al primogenito per esortarlo a non seguire le sue orme e a resistere al fascino delle scorciatoie criminali. Può darsi che sia una trovata del suo avvocato e in ogni caso non mi permetterei mai di paragonare il padre del bravo ragazzo di una famiglia perbene a un famigerato capoclan, né tantomeno di ergere il secondo a modello del primo. Però, quando leggo certe notizie e le metto a confronto, mi ritrovo a dare ragione a Ennio Flaiano: «A volte mi vengono in mente pensieri che non condivido».

Il boss prega il giudice. "Allontani mio figlio così lo salverà da me". Valentina Raffa l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. La richiesta al magistrato: "Lo porti via da qui. Io sono un fallimento, non un mito". Il suo destino sembrava segnato. A soli 14 anni si era candidato a prendere il posto del padre, un boss mafioso detenuto al 41 bis. Ma, per fortuna, le cose sono andate diversamente. In questa storia hanno vinto l'amore, quello di un padre per il proprio figlio, e la legge dello Stato, che, avvalendosi di un valido progetto ramificato sul territorio, ha strappato il ragazzino a un destino segnato. Il primogenito di un boss mafioso nel 2021 non deve seguire le orme del padre, anzi, va seguito e indirizzato alla legalità. Così il minorenne è stato allontanato dalla sua città, Catania, per essere affidato a una comunità protetta fuori dalla Sicilia con il progetto «Liberi di scegliere». Perché ciò avvenisse, il boss ha chiesto aiuto al presidente del Tribunale di Catania, Roberto Di Bella, durante un colloquio previsto dalla legge. «Dottore, la prego gli ha detto - tenga lontano mio figlio da quel maledetto quartiere». «Durante il colloquio, mi ha parlato della sua sofferenza - racconta Di Bella -. Mi ha raccontato del dolore che prova nel non potere abbracciare i suoi figli, può incontrarli esclusivamente dietro al vetro blindato del 41 bis». Il giudice, accogliendo la richiesta del boss, gli ha proposto un «patto educativo» per «evitare a suo figlio la sofferenza che sta provando lei». Il ragazzino adesso si trova al sicuro e potrà crescere nella legalità, quella stessa che il padre gli ha raccomandato di seguire, lontano dal suo esempio. «Rispetta tutte le indicazioni che ti danno in comunità gli ha scritto in una lettera - e, soprattutto, non mi considerare un mito, ma un fallimento». Il lieto fine in questa storia non riguarda solo il 14enne in questione, perché ci sono altri due casi che sotto stati presi sotto l'egida della legalità. Sempre a Catania, due madri che erano rimaste destinatarie di misure cautelari «hanno chiesto di essere aiutate a lasciare con i figli i contesti di origine». «E così è scattato il protocollo Liberi di scegliere - dice Di Bella - che prevede un percorso di accompagnamento e sostegno da parte dell'associazione Libera, per un nuovo inserimento, anche lavorativo». Il presidente del tribunale di Catania ha sottolineato l'importanza della cooperazione tra le istituzioni e la società civile, magari partendo «dalla scuola e dal tempo prolungato, anche alla luce del fatto che in città «la dispersione scolastica ha livelli preoccupanti, arrivando al 22 per cento dei minorenni fra i 6 e i 16 anni». E quando i ragazzi abbandonano precocemente la scuola, si sa, c'è un rischio abbastanza alto che possano finire in brutti giri, anche date le scarse possibilità di inserirsi, lavorativamente parlando, nella società. Da qui l'idea per un'altra iniziativa: chi non manda i figli a scuola perderà il reddito di cittadinanza e gli altri sussidi legali alla scolarizzazione. Il Tribunale ha già fatto le prime segnalazioni all'Inps. Valentina Raffa

“Figlio mio non sono un mito”, il patto tra boss al 41bis e giudice: 14enne crescerà lontano. Riccardo Annibali su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Lui, il padre, è un capomafia detenuto al carcere duro, un boss. Suo figlio, è un ragazzo di 14 anni, cresciuto nello stesso quartiere dove suo papà dettava legge. Per il giovane il futuro era già segnato, non doveva far altro che seguirne le orme, in una scalata delle gerarchie del crimine già scritta nel suo dna. Tutto cambia quando il boss indossa i panni del padre e vede nel futuro del figlio quella che è stata la sua vita, allora si appella al presidente del Tribunale di Catania: “Dottore, la prego, tenga lontano mio figlio da quel maledetto quartiere”. In ballo c’è il futuro di un ragazzo di 14 anni. Adesso il ragazzo si trova lontano dalla Sicilia, ospite in una comunità. Il boss, sempre al 41 bis, collegato in video conferenza e il giudice hanno parlato durante l’udienza. Cosa si sono detti lo ha ricostruito Roberto Di Bella a Repubblica Palermo: “Mi ha parlato della sua sofferenza, del dolore che prova nel non potere abbracciare i suoi figli”. Ad impedirglielo, durante i colloqui, c’è un vetro blindato. Da regolamento serve ad evitare ogni contatto fra i capimafia e i propri cari. Il giudice e il boss hanno siglato “un patto educativo” per evitare che il figlio un giorno posa provare “la stessa sofferenza che sta provando lui”. I segnali sono confortanti a giudicare dal contenuto della lettera che il padre ha scritto al figlio: “Rispetta tutte le indicazioni che ti danno in comunità e, soprattutto, non mi considerare un mito, ma un fallimento”. Frasi chiare per tentare di scacciare dalla mente del figlio la seduzione del male per il suo cattivo esempio. Non c’è pentimento personale, nessuna notizia di una sua volontà di collaborare con la giustizia, solo un gesto verso il figlio. Lo stesso amore che ha spinto due madri catanesi, come ricostruito da Di Bella, a farsi avanti dopo essere state coinvolte in inchieste giudiziarie. Donne che hanno chiesto una seconda opportunità, per costruirsi un futuro con i figli lontano da tutto e tutti. Il protocollo si chiama ‘Liberi di scegliere’, e prevede un percorso di accompagnamento e sostegno da parte dell’associazione Libera, per un nuovo inserimento, anche lavorativo. Non accade sempre così. A volte è la magistratura a dovere intervenire, revocando la potestà genitoriale. Come accaduto alla Procura per i minorenni di Palermo che ha chiesto il trasferimento in comunità di sette minori, anche se i casi da valutare sono molti di più. Una cinquantina in tutto. Sotto gli occhi dei bambini i genitori preparavano le dosi di droga e contavano i soldi incassati con lo spaccio di stupefacenti nel rione Sperone, dove carabinieri e poliziotti di recente hanno arrestato più di sessanta persone. Riccardo Annibali

Fabrizio Miccoli andrà in carcere. Estorsione con metodi mafiosi, la durissima sentenza definitiva. Libero Quotidiano il 24 novembre 2021. L'ex bomber Fabrizio Miccoli dovrà andare in carcere. Definitiva la condanna a 3 anni e 6 mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso per l'ex attaccante di Juventus, Palermo e Nazionale, 42 anni, giudicato colpevole di aver commissionato una estorsione a Mauro Lauricella, figlio del boss della Kalsa Antonino "u scintilluni" (condannato a sua volta in via definitiva a 7 anni di carcere). Ora Miccoli, che nella sua lunga carriera in Serie A ha messo insieme anche 10 presenze in azzurro, dovrà decidere con i suoi legali dove costituirsi e iniziare a scontare la sua pena. Secondo indiscrezioni, l'ex calciatore chiederà appena possibile al Tribunale di Sorveglianza l'applicazione di misure alternative, ma una permanenza sia pur parziale in cella sarà inevitabile. La vicenda, molto chiacchierata nel mondo del calcio, risale a oltre 10 anni fa. Miccoli, nel tentativo di recuperare 12.000 euro dall'ex titolare della discoteca "Paparazzi" di Isola delle Femmine, Andrea Graffagnini, ricorse alla violenza e alle minacce di Lauricella. Intercettati al telefono, i due si scambiarono opinioni infamanti sul giudice Giovanni Falcone, che il calciatore definì "fango" salvo poi scusarsi pubblicamente una volta emerso il contenuto di quelle telefonate. La linea difensiva dell'ex capitano del Palermo, che ha sempre sostenuto di non conoscere l'appartenenza dell'amico alla potente famiglia mafiosa, non ha retto alla prova dell'aula. Per Miccoli la Procura aveva chiesto per due volte l'archiviazione, prima che si arrivasse all'imputazione coatta.

Da gazzetta.it il 24 novembre 2021. Diventa definitiva la condanna di Fabrizio Miccoli, l'ex capitano del Palermo che, come ha stabilito la seconda sezione della Cassazione, dovrà scontare la condanna a tre anni e sei mesi: secondo la giustizia, Miccoli commissionò un'estorsione aggravata dal metodo mafioso a Mauro Lauricella, figlio del boss della Kalsa Antonino "u scintilluni", già condannato a sua volta in via definitiva a 7 anni di carcere. Accolta dunque la richiesta del sostituto procuratore generale della Suprema Corte, Fulvio Baldi, di rigettare il ricorso di Miccoli. Sono ore drammatiche per il giocatore che vestì anche per 10 volte la maglia azzurra: insieme ai propri legali, dovrà decidere dove costituirsi per iniziare a scontare la pena. Quasi sicuramente, Miccoli, che oggi era a Roma per l'udienza in Cassazione, chiederà appena possibile al Tribunale di Sorveglianza l'applicazione di misure alternative, ma è inevitabile un passaggio in carcere, la cui durata è in questo momento impossibile ipotizzare. La vicenda giudiziaria nasce dal tentativo di Miccoli di recuperare 12.000 euro, con violenza e minacce, dall'ex titolare della discoteca "Paparazzi" di Isola delle Femmine, Andrea Graffagnini. L'episodio risale a più di 10 anni fa e fece scalpore perché Miccoli e "Scintilla" parlavano nelle intercettazioni del giudice Giovanni Falcone come di un "fango". Frasi per le quali l'ex capitano rosanero si scusò poi pubblicamente. Il calciatore era stato condannato sin dal primo grado, celebrato con il rito abbreviato. Una sentenza che ha retto in tutti i gradi di giudizio, anche se Miccoli ha sempre escluso di sapere che l'amico Lauricella fosse imparentato con dei mafiosi. Il verdetto definitivo è arrivato paradossalmente dopo quello emesso con il rito ordinario per l'altro imputato. Peraltro per Miccoli la Procura aveva chiesto per ben due volte l'archiviazione, prima che si arrivasse all'imputazione coatta, disposta dall'allora gip Ferdinando Sestito. 

Serena Gentile per gazzetta.it il 25 novembre 2021. Per la finale con la Cassazione, l’ultimo giudizio, ha schierato a sua difesa anche il professor Franco Coppi, noto penalista e già legale di Giulio Andreotti. È stata la partita più difficile della sua vita, è durata otto anni e l’ha persa. Fabrizio Miccoli è un uomo distrutto. Si è risvegliato nel carcere di Rovigo, ammesso che sia riuscito a dormire, dove si è costituito ieri pomeriggio alle 15.10, con addosso il peso enorme di una condanna definitiva a 3 anni e 6 mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso della seconda sezione penale della Cassazione. In questo video del 2013, Fabrizio Miccoli si presentò in conferenza stampa per scusarsi dopo le frasi dette su Giovanni Falcone nelle quali lo definì "fango" durante una conversazione con Mauro Lauricella, figlio del boss della Kalsa. Un dialogo che risale al 2011 quando gli investigatori della Dia di Palermo tenevano sotto controllo il figlio del capo mafia per tentare di arrivare al padre, Antonino detto “u Scintilluni” che allora era latitante. L’ex attaccante di Juve, Fiorentina e Palermo, quello che imitava Maradona e segnava dalla bandierina, si è presentato spontaneamente in carcere, accompagnato dal suo avvocato Antonio Savoia del Foro di Lecce. "Ha scelto lui il Veneto", a 900 chilometri da casa, scelta che ha il sapore dell’esilio. "Ne abbiamo parlato e ha preferito un posto dove nessuno lo conosce. Ha bisogno di stare lontano da tutto e da tutti, anche da Lecce, la sua città. Non dalla famiglia, che andrà a trovarlo tutte le volte che sarà possibile", ci racconta l’avvocato Savoia, poco dopo aver lasciato il carcere e il suo assistito. "Fabrizio è mortificato, disorientato, deluso — aggiunge —. Rispetta la sentenza, ma non la condivide, non si sente responsabile dei fatti per cui è stato condannato. Lui ha sempre fatto del bene, anche a Palermo. Me lo ha ripetuto mentre eravamo in Cassazione: ama quella città, l’ha aiutata anche pochi mesi fa con una donazione importante per affrontare l’emergenza Covid".

I FATTI —   Ma è un amore finito male, dopo sei anni di magie, 165 partite e 81 gol, tra amicizie sbagliate, sotto un albero di magnolia, quella che si trova davanti all’abitazione di Falcone. "Ci vediamo sotto l’albero di quel fango", aveva detto Miccoli del magistrato antimafia ucciso a Capaci, mentre parlava con (l’intercettato) Mauro Lauricella, il figlio del boss della Kalsa Antonino detto “u scintilluni” ricercato dalla Dia. Una dileggio di cui si è pentito, ma che brucia ancora. A Mauro (condannato nel 2015 a 7 anni), Miccoli aveva chiesto — dice la sentenza — di recuperare il credito di 12 mila euro dall’imprenditore Andrea Graffagnini, titolare della discoteca Paparazzi, per conto dell’ex fisioterapista del Palermo, Giorgio Gasparini. E, all’amico Gasparini, Miccoli aveva poi consegnato tre assegni da 8 mila euro. Fatti che risalgono al 2010-11, con avviso di garanzia arrivato nel 2013. La Procura, con i pm Maurizio Bonaccorso e Francesca Mazzocco, aveva chiesto l’archiviazione due volte, ma tutte e due le volte il gip Fernando Sestito ha detto di no. Condannato in primo e secondo grado, martedì pomeriggio, alle 19.30, la Cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza del gennaio 2020 della Corte di Appello di Palermo. Colpevole. Il macigno Fabrizio era lì, al Palazzaccio di Roma, tramortito. "E mentre aspettavamo la sentenza mi ripeteva di aver chiesto scusa mille volte e in tutte le lingue per quella frase. Il 23 maggio 2012, al Barbera aveva anche organizzato una partita con i magistrati per ricordare Falcone, dove giocò anche Totti. Non è bastato — aggiunge Savoia —. Ma quella frase alla fine non c’entra niente. L’accusa è di istigazione a recuperare un credito, ma Fabrizio ha solo tentato di aiutare un amico. E, quando ha capito che la cosa prendeva una brutta piega, ha mandato tre sms a Lauricella dicendogli di lasciar perdere, che la questione non gli interessava. Messaggi che sono a sentenza, ma che non sono stati valutati. Per noi la sentenza è ingiusta". 

IL FUTURO—   Ma definitiva. Così ieri mattina Miccoli ha salutato i suoi, i figli Swami e Diego, la moglie Flaviana, e si è presentato in carcere, dove dovrà restare a lungo. L’aggravante mafiosa non ha permesso ai legali di ricorrere alla richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena. Ora che la misura detentiva è eseguita, si potranno chiedere misure alternative al Magistrato di Sorveglianza. L’affidamento in prova ai servizi sociali, ad esempio. "Valuteremo, potremmo farlo già domani, ma non sono scelte che si fanno di pancia" conclude Savoia. C’è anche il rischio che Miccoli venga trasferito da Rovigo. "C’è, ma io mi auguro che Fabrizio venga scarcerato quanto prima".

DAGLI STADI DI CALCIO DELLA SERIE A AL CARCERE: LA PARABOLA DISCENDENTE DELL’EX CALCIATORE FABRIZIO MICCOLI. Daniela Guastamacchia su Il Corriere del Giorno il 25 Novembre 2021. L’aggravante del metodo mafioso ha escluso qualsiasi possibile beneficio in favore dell’ex calciatore. A pesare nella decisione della Cassazione, i rapporti dell’ex bomber dei rosanero “con soggetti gravitanti nel mondo criminale mafioso del capoluogo siciliano”, di cui secondo la Suprema Corte “aveva mutuato linguaggio e atteggiamenti”. L’ex calciatore Fabrizio Miccoli si è consegnato nel carcere di Rovigo dopo la condanna definitiva subita a 3 anni e mezzo per estorsione aggravata dal metodo mafioso nell’udienza in Cassazione davanti alla seconda sezione che ha respinto il ricorso. Si è bruciato con le amicizie pericolose come il nipote prediletto di Matteo Messina Denaro con cui aveva legato a Palermo, contatti inammissibili per un idolo delle folle. Ad accompagnare il 42enne ex attaccante nel carcere di Rovigo è stato il proprio legale Antonio Savoia del foro di Lecce, che si è lamentato della diffusione delle notizie riguardanti il suo assistito prima che gli venisse notificato l’ordine di esecuzione. “Fabrizio è un uomo distrutto”, il commento del suo avvocato. L’Ansa spiega anche il motivo per cui, Miccoli abbia deciso di costituirsi nel carcere veneto e non in quello di Lecce, città dove risiede con la propria famiglia, da quanto si è apprende, è riconducibile alla volontà dell’ex calciatore di “stare lontano il più possibile da tutto e da tutti“. Una carriera da campione ormai cancellata, a causa di una vicenda giudiziaria negativa sin dall’inizio, non solo per le parole in libertà e per i giudizi vergognosi nei confronti del giudice Giovanni Falcone, ascoltati con stupore nelle intercettazioni intercettate da parte degli investigatori: “Quel fango di Falcone, quel fango di Falcone”, aveva definito il magistrato ucciso a Capaci, mentre in un’altra occasione i due vennero intercettati mentre davano  appuntamento ad un amico con queste parole: “Ci vediamo davanti all’albero di quel fango di Falcone” in via Notarbartolo, nei pressi proprio della casa dove abitava il magistrato. Ma c’era ben altro, non solo questo. Quando la notizia venne fuori, l’imputato Miccoli era convinto che il commento su Falcone costituisse l’accusa più pesante nei suoi confronti mentre in realtà era solo un dettaglio di quanto scoperto dalla Direzione Investigativa Antimafia sul suo conto. Come le relazioni pericolose di Miccoli con Mauro Lauricella figlio del boss Antonino Lauricella, meglio noto come “lo Scintilluni”, latitante fino al 2011: gli uomini della Dia proprio mentre lo cercavano lui, nelle intercettazioni si erano imbattuti in Miccoli. I rapporti tra Mauro Lauricella e Fabrizio Miccoli si erano stretti e consolidati a seguito di una misteriosa rapina nella sua casa in via Archimede a Palermo. Mentre il giocatore idolo delle folle dei ragazzini palermitani era in campo allo stadio Barbera, dei banditi si introdussero a casa sua e rapinarono la moglie, in presenza dei figli piccoli. Secondo alcune ricostruzioni investigative, nacque in quell’occasione l’amicizia con Mauro Lauricella, abile nel presentarsi come una specie di “problem solver” per il fantasista della squadra rosanero, che in quel periodo militava in Serie A e faceva sognare con traguardi mai visti, come le vittorie a San Siro contro il Milan o contro la Juventus in casa, con la qualificazione europea e la Coppa Italia persa in finale contro l’Inter. Miccoli nella vicenda che lo ha portato in carcere, è ritenuto però l’ispiratore e il mandante di quanto organizzato da Lauricella, per recuperare un credito: l’ex fisioterapista del Palermo Giorgio Gasparini, che era amico del calciatore, si era rivolto a Miccoli per farsi aiutare nel recuperare 12 mila euro da un imprenditore palermitano con cui divideva  la gestione in società della discoteca “Paparazzi” di Isola delle Femmine (Palermo). Miccoli non aveva esitato a chiedere l’intervento del figlio del “capomafia” della Kalsa, che in quel periodo era latitante. Lauricella junior era già stato condannato definitivamente il mese scorso ed è già in carcere, dove sta scontando 7 anni. E’ stato in quell’occasione che si era concretizzato un rapporto già avviato da tempo e intercettato a lungo dagli agenti della Dia con i dialoghi spregiudicati in cui si parlava male di Falcone oppure in cui, avendo visto un movimento di agenti nei pressi del campo di allenamento del Palermo, Miccoli aveva chiamato il suo amico Francesco Guttadauro, figlio di una sorella del superlatitante Messina Denaro e oggi a sua volta in carcere, per avvisarlo di non farsi vedere da quelle parti. Relazioni e amicizie pericolose confermate dalle fotografie pubblicate sui social, che davano l’immagine di un Miccoli “double face”, donne, motori e personaggi poco raccomandabili. Ipotesi investigative confermate dai processi , e non smentite dalle lacrime di coccodrillo con cui aveva affrontato i giornalisti dopo essere stato interrogato in procura. L’aggravante del metodo mafioso ha escluso qualsiasi possibile beneficio in favore dell’ex calciatore. A pesare nella decisione della Cassazione, i rapporti dell’ex bomber dei rosanero “con soggetti gravitanti nel mondo criminale mafioso del capoluogo siciliano”, di cui secondo la Suprema Corte “aveva mutuato linguaggio e atteggiamenti”. Fabrizio Miccoli pensava di potersi presentare davanti ai pm per difendersi dalle parole volgari contro Giovanni Falcone mentre gli è stata contestato un’estorsione mafiosa in piena regola. I pm Maurizio Bonaccorso e Francesca Mazzocco della Procura di Palermo inizialmente avevano chiesto per due volte, l’archiviazione, ma il Gip Fernando Sestito aveva visto giusto in entrambi i casi ed aveva respinto le richieste dei pubblici ministeri che hanno cambiato idea. E ieri per Miccoli si sono aperte le porte del carcere di Rovigo, e non quelle di uno stadio di calcio dove rea abituato a segnare. L’ex-calciatore che era presente con suo avvocato a Roma per l’udienza in Cassazione, appena possibile chiederà al Tribunale di Sorveglianza l’applicazione di misure alternative, ma è inevitabile un passaggio in carcere, la cui durata è in questo momento impossibile ipotizzare.

Miccoli condannato per estorsione, parla il papà: «Fabrizio condannato per quella frase su Falcone».

Enrico difende il figlio, ora in carcere a Rovigo dopo la sentenza definitiva della Cassazione: «I giudici hanno voluto dargli una lezione». In una intercettazione si sente l’ex bomber chiamare il magistrato ucciso a Capaci «fango».  Claudio Tadicini su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2021. «È tutto assurdo, mio figlio sta pagando per qualcosa che non ha fatto. Gli hanno voluto dare una lezione». Ne è convinto Enrico Miccoli, padre di Fabrizio, ex capitano del Palermo e attaccante – tra le altre – di Juventus, Fiorentina, Benfica e Lecce, che mercoledì pomeriggio si è costituito in carcere a Rovigo, per iniziare a scontare la condanna definitiva a 3 anni e 6 mesi, confermata nei giorni scorsi anche dalla Cassazione. L’accusa: estorsione aggravata dal metodo mafioso, per avere recuperato un credito di 12.000 euro per conto dell’ex fisioterapista del club rosanero Giorgio Gasparini, rivolgendosi a Mauro Lauricella, figlio del boss della Kalsa Antonino, detto “U’ Scintilluni”, con cui era nata un’amicizia durante la sua lunga permanenza in Sicilia. L’inchiesta della procura di Palermo, inoltre, rivelò anche le offese che Miccoli rivolse durante una telefonata al giudice palermitano ucciso dalla mafia Giovanni Falcone, definendolo «quel fango». Frasi che, divenute di dominio pubblico, scatenarono una tempesta di polemiche.

Signor Enrico, come sono stati gli ultimi giorni vissuti da suo figlio Fabrizio da “uomo libero”?

«Era abbastanza sereno, ma non si aspettava di finire in carcere. Tutto il mondo del calcio è con lui, così come tutti coloro che lo conoscono veramente. Lui ha sempre fatto del bene: da 11 anni, con la scuola calcio che ha fondato a San Donato, organizza le “partite del cuore” per raccogliere fondi e donare strumentazione medica agli ospedali; durante la prima fase della pandemia, insieme al suo amico Checco Moriero, ha distribuito generi alimentari a chi era in difficoltà e tanto altro. Ha tolto tanti ragazzi dalla strada: stavolta, però, per fare del bene, si è trovato nei guai».

Cosa pensa di tutta questa vicenda?

«Non voglio pensare che sia così, ma credo che la magistratura gli abbia voluto dare una lezione, per quella parola (fango, ndr) che pronunciò durante quella telefonata, riferendosi al giudice Falcone. Per quella parola ha chiesto scusa davanti a tutte le televisioni, lo ha fatto in lacrime, a cuore aperto, ma c’è stato chi non lo ha perdonato. Lui è in carcere, mentre chi ha sciolto i bimbi nell’acido è libero».

Crede che i giudici abbiano agito in malafede?

«La procura aveva chiesto per due volte l’archiviazione del caso, ma il giudice ha poi disposto l’imputazione coatta per Fabrizio. È stato allora che ho capito che c’era qualcosa che non andava: ormai era segnato che mio figlio, che al massimo ha preso qualche multa con l’autovelox, avrebbe dovuto pagare. La condanna è stata confermata anche dalla Cassazione, ma credo che non abbiano neppure letto le carte».

In che senso?

«Agli atti c’è un’altra telefonata, in cui Fabrizio qualche giorno dopo chiese a Lauricella di “lasciarlo perdere”, ma non è stata presa in considerazione dai giudici. Sta pagando per avere aiutato gli altri: a Palermo era il capitano, capitava spesso che si rivolgessero a lui»

Cosa avete detto agli allievi della scuola calcio?

«I più piccolini non capiscono. I più grandi e i genitori ci sono vicini, ci stanno manifestando una solidarietà enorme. Ora dovremo avere solo pazienza. Fabrizio ci ha chiesto di andare avanti come se nulla fosse successo, anche più forti di prima: lo stiamo già facendo, anche per lui».

Fabrizio Miccoli e gli altri: senza benefici e murati vivi da una legge assurda. L'ex calciatore Fabrizio Miccoli da pochi giorni è entrato nel carcere di Rovigo per scontare una condanna definitiva aggravata dal metodo mafioso. Simona Giannetti su Il Dubbio l'1 dicembre 2021. La vicenda è quella del calciatore Fabrizio Miccoli, entrato in carcere pochi giorni fa dopo che la Cassazione ha confermato la sua condanna. Il tema è quello attuale dei reati ostativi dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, introdotto con d. l. 152 del 1991 e modificato dopo le stragi mafiose di Capaci e Via D’Amelio. Quella di Miccoli è la storia dell’esecuzione di una condanna a tre anni e sei mesi di reclusione, per cui l’aggravante dell’416- bis 1 c. p. impedisce ogni alternativa al carcere per tutta la durata della pena in assenza di collaborazione. Quindi non solo esclusione della sospensione dell’esecuzione, ma anche insormontabile divieto di misure alternative. E’ questo l’epilogo della vicenda, che rimanda a quel principio del diritto alla progressione trattamentale, di cui già aveva dedotto la Consulta in un insospettabile anno 2018 con la sentenza 149. Qui, la Corte aveva rilevato l’incompatibilità con l’assetto costituzionale delle previsioni, che escludevano in modo assoluto l’accesso ai benefici solo per certi condannati, pur in presenza di un percorso di rieducazione e solo in ragione della gravità del reato. Miccoli allo stato non può accedere all’affidamento in prova ai servizi sociali, neppure se dimostrasse nel corso della sua detenzione di aver portato a termine un percorso di rieducazione, salvo non scegliere la collaborazione. Forse apparentemente più una storiaccia di amicizie viziate prima ancora che una vicenda di malavita, la contestazione dell’aggravante “mafiosa” inserita nell’articolo 416 bis. 1 c. p. al calciatore è la ragione del vincolo ostativo assoluto. Si tratta dell’aggravante speciale, che presuppone che l’illecito sia stato realizzato con l’utilizzo della forza intimidatoria dell’associazione mafiosa. A parte la nota frase di innegabile gravità riferita a Giovanni Falcone, l’intercettazione che porta Miccoli alla condanna è infatti quella intercorsa con il figlio del boss Lauricella, a cui avrebbe chiesto di aiutarlo a far restituire del denaro. Il reato risalirebbe al 2011, ma l’avviso di garanzia al 2013: nell’occasione Miccoli chiese scusa in una conferenza stampa, per quanto detto nella conversazione intercettata rispetto alla memoria di Falcone. Sembra che ci fossero anche dei messaggi sulla sua inversione di marcia rispetto alla richiesta avanzata al Lauricella. Ebbene, è però da dire che numerose sono le vicende come quella di Fabrizio Miccoli. Col tempo l’assoluto vincolo della collaborazione ha infatti interessato sempre più reati inseriti nel catalogo “della prima fascia”, oltre a quelli di mafia e terrorismo dell’originaria previsione: l’ultima frontiera si è avuta con la cosiddetta legge “spazzacorrotti”, che ha gettato nel 4 bis numerosi delitti contro la pubblica amministrazione, secondo la ratio populista che li ha equiparati ai reati di mafia. Oggi il tema è sul tavolo della politica anche grazie alla Corte Costituzionale: con la sua ordinanza 97 del 2021, visto il carattere demolitorio della decisione e i suoi possibili “effetti disarmonici” sulla disciplina nel complesso, ha imposto a un legislatore, da anni impegnato ad evitare la discussione, di “ricercare il punto di equilibrio anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione”. Per questo motivo alla Camera è in discussione la modifica legislativa del 4 bis, che dovrebbe recepire le sollecitazioni della Consulta: il condizionale è d’obbligo, visto che quando si parla di mafia l’assedio conservatore schiera i suoi più autorevoli generali. Il dato certo è che il Parlamento dovrebbe portare a termine il mandato della Consulta almeno prima del 10 maggio prossimo, quando all’udienza pubblica la Corte tratterà le questioni di legittimità costituzionale sul vincolo della collaborazione a proposito della liberazione condizionale di ergastolano ostativo. E ciò seppur con la sua sentenza 253 del 2019 avesse già detto della collaborazione, che non dovesse essere sintomo di credibile ravvedimento, ma neanche indice del contrario.

Ferma l’irragionevolezza del vincolo assoluto della collaborazione, l’auspicio è che il legislatore non tralasci le applicazioni del diritto alla progressione trattamentale, ma nemmeno dimentichi le sollecitazioni della Consulta sulla diversificazione di trattamento rispetto ai vari gradi di offensività dei reati del catalogo del 4 bis. Gli articoli da non tradire sono 3 e 27 della Carta; sul punto la Corte Costituzionale si è conservata il diritto di replica al 2022, se così vogliamo chiamarlo. 

Il corpo distrutto con 50 litri di acido. La storia di Lea Garofalo, la donna e madre che sfidò la ‘ndrangheta e venne uccisa e data alle fiamme. Vito Califano su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Lea Garofalo venne uccisa 12 anni fa dalla ‘ndrangheta calabrese: alla quale apparteneva per nascita e dalla quale voleva fuggire. Voleva salvare anche sua figlia. Per lo Stato non è una vittima di mafia perché al processo non venne applicata l’aggravante di associazione a delinquere di stampo mafioso. Alla sua storia, alla storia di questa madre e donna, è stato dedicato il film Lea, diretto dal regista Marco Tullio Giordana, e interpretato dall’attrice Vanessa Scalera (diventata ormai nota al grande pubblico per la fiction Rai Imma Tataranni).

Garofalo era cresciuta all’interno di una famiglia di affiliati alla ‘ndrangheta. Era nata a Petilia Policastro, in provincia di Crotone, nel 1974. Orfana del padre. Con il compagno Carlo Cosco era andata giovanissima a Milano e a 17 anni aveva avuto una bambina. Lea aveva sviluppato una contrarietà spontanea e autentica alla criminalità, ai traffici e alle logiche che appartenevano anche alla sua famiglia. Per sottrarre, e in qualche maniera proteggerla, anche la figlia a quell’ambiente decise nel 2002 di denunciare la famiglia e il suo ex Cosco. Quando aveva comunicato al compagno di voler lasciare la casa, in carcere – dove l’uomo era stato arrestato nell’ambito dell’operazione “Storia Infinita” – Cosco la aggredì violentemente: fu necessario l’intervento degli agenti della polizia penitenziaria. Garofalo prima si trasferì a Bergamo, dove il fratello Floriano le lanciò un messaggio di avvertimento incendiandole l’automobile. A Petilia Policastro, dove aveva deciso di tornare, venne aggredita di nuovo dal fratello. E quindi decise di parlare. Fu ammessa subito al programma di protezione con la figlia e trasferita a Ascoli Piceno, Fabriano, Udine, Firenze e Boiano, vicino a Campobasso. Una vita stravolta. E che comunque non mollava: ci credeva in quella scelta Lea Garofalo. Floriano venne ucciso, Carlo uscì di prigione e cercò l’ex compagna che nel 2006 venne espulsa dal programma di protezione perché non ritenuta una collaboratrice attendibile. Un primo tentativo di rapimento a Campobasso: a sventarlo Denise, che era in casa. A Massimo Sabotino erano stati promessi 25mila euro. All’ex compagno Garofalo chiese allora di contribuire al mantenimento della figlia. La donna venne quindi sequestrata a Milano dove l’uomo l’aveva invitata per parlare e risolvere la questione. L’avrebbe strangolata in un appartamento in Corso Sempione dopo averla picchiata. Fu uccisa barbaramente, terribilmente. Il corpo – quello che ne rimaneva: 2.800 frammenti ossei e i resti di una collanina – distrutto e ritrovato il 24 novembre 2009 a San Fruttuoso, quartiere di Monza. Il cadavere venne dato alle fiamme insieme a 50 litri di acido e lasciato bruciare per quasi tre giorni, perché non ne rimanesse traccia. La figlia non credeva alla versione del padre: ovvero che la madre l’avesse abbandonata dopo aver preso i soldi. I carabinieri chiesero alla giovane di continuare a stare con il padre per raccogliere le prove. A tenerla sotto controllo, dietro ordine del padre, Carmine Venturino. La sentenza del processo d’appello arriva nel maggio del 2013, come ricostruisce Libera, e conferma quattro dei sei ergastoli. Giuseppe Cosco fu assolto mentre a Carmine Venturino venne ridotta la pena, in virtù della sua collaborazione. Le condanne sono state tutte confermate dalla Corte di Cassazione nel dicembre del 2014. Denise che al processo parlò contro suo padre e da allora vive sotto protezione e nell’anonimato. Ai funerali, il 19 ottobre 2013, a Milano parteciparono centinaia di persone con la partecipazione di Don Ciotti e del sindaco Giuliano Pisapia. Garofalo è stata seppellita al Cimitero Monumentale di Milano. Il film è uscito nel 2015. Gli altri attori, oltre alla protagonista, sono Linda Caridi nei panni della figlia Denise, Alessio Praticò, Mauro Conte, Matilde Piana e Bruno Torrisi.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Giacomo Galanti per huffingtonpost.it l'11 novembre 2021. È il battesimo più famoso del cinema. Al Pacino/don Michael, nuovo boss mafioso della famiglia Corleone al posto del padre Marlon Brando/don Vito, porta all’altare il figlio della sorella. Mentre dice di rinunciare a Satana e di credere in Dio, i suoi gangster fanno fuori tutti quelli che hanno cercato di uccidere il vecchio genitore. La scena, con le formule pronunciate in latino come usava allora, è molto forte. E si conclude con l’omicidio del padre del bimbo battezzato. Insomma, la figura del padrino (Godfather in inglese) che dà il titolo al film di Francis Ford Coppola non ne esce molto bene. Ma si tratta pur sempre di un’opera di fantasia. A quasi 50 anni dal film premio Oscar, però, la decisione di eliminare la figura spirituale del padrino (o della madrina) arrivata dalla Sicilia ha suscitato la curiosità del New York Times tanto da dedicarle un lungo reportage. Mentre in Italia è quasi passata inosservata. Fin dal titolo “Nella terra del padrino vengono banditi i padrini”, emerge come la saga di Coppola sia ormai salda nell’immaginario collettivo americano fino a identificarla con la Sicilia stessa. Il quotidiano newyorchese si concentra infatti sulla diocesi di Catania, dove, come in altre parti d’Italia, è stata decisa la sospensione di nominare un padrino durante la cerimonia del battesimo per almeno tre anni. Quale sarebbe il motivo della scelta? Su questo non c’è unità di opinione. Anzi, si è aperto un dibattito che potrebbe finire addirittura in tribunale. Da una parte infatti c’è l’articolo del celebre quotidiano che riporta il malcontento di tante famiglie. “È scioccante”, dice la 21enne Jalissa Testa, dopo aver celebrato il battesimo del figlio nella basilica di Catania. E aggiunge: “Nel nostro cuore sappiamo, e loro sapranno, che ha un padrino”. Una figura per tanti imprescindibile. Mentre il vicario generale di Catania, monsignor Salvatore Genchi spiega: “Si tratta di un esperimento” anche se non crede a un ritorno al passato. La Chiesa siciliana è infatti d’accordo che l’immagine del padrino abbia perso nella maggior parte dei casi il suo valore di accompagnamento alla fede. Fin qui tutto bene. Ma nel reportage si sottolinea in maniera insistita come la sospensione sia arrivata anche per eliminare l’occasione, tramite il padrino, di stringere rapporti con altre famiglie, o addirittura clan mafiosi, per avere regalie o altri favori. Viene poi citato anche il vescovo calabrese Giuseppe Fiorini Morosini che ricorda quando nel 2014, da vescovo di Reggio Calabria, chiese al Vaticano, per contrastare i legami della ’ndrangheta, di poter sospendere la presenza di padrini ai sacramenti. L’allora sostituto della Segreteria di Stato, il cardinale Angelo Becciu, rispose - secondo quanto Morosini dice al New York Times - che dovevano prima essere d’accordo tutti i vescovi della Calabria. E quindi in quel momento non fu possibile prendere una decisione in tal senso. Ecco, quest’ultima lettura non è andata giù alla diocesi di Catania. È lo stesso monsignor Genchi a far sapere che la sospensione della figura del padrino non c’entra nulla con la mafia o con la famosa saga della famiglia Corleone. Il vicario generale afferma al Quotidiano di Sicilia che chiederà una rettifica al New York Times “e siamo anche disposti a querelare”. Genchi aggiunge: “È capitato in diverse parrocchie di ricevere pressioni da parte di chi voleva fare il padrino pur non avendo avuto nessuna formazione religiosa, ma non abbiamo mai ricevuto pressioni di tipo mafioso”. A parziale scusante della presunta malizia che sottende l’articolo del New York Times c’è, come dicevamo, una certa narrazione sulle famiglie italoamericane portate con grande successo su grande schermo ed entrata ormai nell’immaginario collettivo. Il già ricordato Padrino nasce dalla penna di Mario Puzo, cresciuto a New York in una numerosa famiglia di immigrati. Il suo sogno era diventare un “pezzo da 90” della letteratura sulle orme di Hemingway e di Fitzgerald. Ma a un certo momento capisce che non è cosa: le recensioni sono mediocri e i soldi pochini. Così, pieno di debiti fin sopra ai capelli anche per il vizio del gioco che racconterà in un bel libro dal titolo I folli muoiono, decide di scrivere un bestseller con cui è convinto di diventare ricco: è Il Padrino. Puzo giura che per costruire il personaggio di don Vito Corleone, con tutti i suoi tic e le sue frasi memorabili, si è ispirato alla madre, riprendendo i loro dialoghi nel piccolo tinello della casa di Hell’s Kitchen. Il resto è storia che dopo l’incontro con Coppola diventerà, esageriamo, leggenda. Tanto che oggi negli Usa c’è grande attesa per la miniserie The Offer, racconto sul dietro le quinte dei film. Impossibile poi non ricordare Mean Streets e Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese. È lo stesso regista ad aver più volte detto di aver preso spunto per le scene più intime dei suoi gangster a episodi della sua giovinezza e ad alcuni racconti riportati dai suoi parenti. Centrale nelle sue opere saranno infatti la famiglia, le origini e il rapporto con la fede. Famiglia a cui dedicherà un approfondito documentario, Italoamericani, che comincia proprio con la madre che prepara le polpette mentre racconta la sua storia. Da ultimo, per sottolineare ancora una volta quanto il filone vada forte, è arrivato nelle sale il prequel della serie tv cult I Soprano, il film I molti santi del New Jersey. Insomma, il catalogo è questo. Forse difficile da ignorare.

Aveva onorato la toga, perciò la mafia uccise l’avvocato Famà. La Camera Penale di Catania, che porta il nome del legale ammazzato nel 1995, ha organizzato una serie di iniziative che si concluderanno domani alla presenza del presidente dell'Ucpi, Giandomenico Caiazza. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio l'11 novembre 2021. Martire in toga. Così può essere definito l’avvocato Serafino Famà. Il professionista venne ucciso a Catania in una uggiosa sera il 9 novembre del 1995. Aveva 57 anni e venne freddato all’uscita del suo studio. A sparare un killer della mafia. La sentenza di morte venne emessa dalla criminalità organizzata in quanto il legale catanese aveva fatto bene, fino all’ultimo, il suo lavoro, seguendo la deontologia e prima ancora la propria coscienza. Impegnato in un procedimento penale molto delicato, l’avvocato Famà volle dissuadere una sua assistita dal rendere una falsa testimonianza a favore di un criminale affiliato a Cosa nostra. Una falsa testimonianza che la criminalità pretendeva per esercitare ancora volta la propria forza prevaricatrice su tutti: comuni cittadini, avvocati, magistrati, uomini e donne delle Forze dell’ordine. Qualche anno dopo nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, la Corte di Assise di Catania si pronunciò con chiarezza usando queste parole: «Le risultanze processuali hanno dimostrato che il movente dell’omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà». Nel capoluogo etneo e in tutta la Sicilia è ancora vivo il ricordo di Famà non solo tra la classe forense. Parole piene di commozione sono state espresse da tutti gli esponenti dell’avvocatura siciliana. «Ricordiamo con grande emozione e trasporto Serafino Famà – dice Rosario Pizzino, presidente del Coa di Catania -, che, con la sua preparazione, correttezza e lealtà, ha impreziosito il Foro catanese. Ne siamo orgogliosi e, ancora una volta, in occasione del ventiseiesimo anniversario del brutale quanto insensato omicidio non possiamo non portare a conoscenza di tutti la sua figura». Il sacrificio di Famà deve fungere da esempio per i giovani togati. «Quella del nostro collega scomparso tragicamente – prosegue Pizzino – è un’eredità pesante, caratterizzata dalla massima attenzione ai doveri deontologici e dall’onestà. L’essere avvocato a tutti i costi, la volontà di non tradire l’etica forense, determinarono la fine dell’esistenza terrena del nostro collega Famà. La sua figura di uomo e professionista è un simbolo dell’autonomia e dell’indipendenza dell’azione professionale. Requisiti indispensabili per garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti. Autonomia significa libertà, indipendenza nelle scelte difensive. Noi avvocati più anziani abbiamo l’onere di instillare ai giovani praticanti, con costanza e pervicacia, con l’esempio quotidiano, che la nostra attività è peculiare perché caratterizzata dalla doppia fedeltà: verso il cliente e nei confronti della legge». Per mantenere vivo il ricordo umano e professionale dell’avvocato ucciso nel 1995 la Camera Penale di Catania, che porta proprio il nome di Serafino Famà, ha organizzato una serie di iniziative che si concluderanno domani alla presenza del presidente dell’Ucpi, Giandomenico Caiazza. Si parlerà di riforma penale con gli avvocati Fabrizio Siracusano (Università di Catania), Aldo Casalinuovo del Foro di Catanzaro e Lorenzo Zilletti del Foro di Firenze e responsabile del “Centro studi Marongiu”.

Salvatore Divuono riabilitato, l’ex sindaco di Cutro mai indagato era stato dichiarato incandidabile. Edoardo Corasaniti su Il Riformista l'11 Novembre 2021. Dipinto come “un amministratore coinvolto” in affari illeciti con le cosche del Crotonese, dichiarato “incandidabile” dal Tribunale, messo in panchina non dai suoi elettori o dai partiti ma dalla magistratura: alla fine Salvatore Divuono, ex primo cittadino di Cutro (Crotone), 66 anni, esce dal tritacarne della giustizia con una vittoria. Per la Corte d’Appello di Catanzaro «non risulta alcuna condotta posta in essere dal sindaco idonea a rivelare, in maniera significativa, una collusione tra lo stesso e la criminalità organizzata». Le 12 pagine della sentenza si concludono con l’esito richiesto dai suoi legali, gli avvocati Tiziano Saporito e Fabio Rizzuti: la dichiarazione di non sussistenza dei motivi di incandidabilità che invece avevano convinto i giudici di primo grado. E il riconoscimento di una vita politica rivolta alla trasparenza, alla legalità e all’antimafia, quella vera, non di facciata o di parata ma di azioni concrete. Già da quando era assessore alle finanze e poi da sindaco. Un risultato processuale opposto rispetto a quanto stabilito il 25 marzo scorso, quando Tribunale di Crotone- sezione Civile- esce con un dispositivo che decreta l’impossibilità per l’ex primo cittadino di presentarsi alle prossime elezioni, comunali, regionali o provinciali o circoscrizionali in Calabria. A portarlo in giudizio pochi mesi prima era stato il ministero dell’Interno: secondo l’Avvocatura dello Stato, Divuono era un “amministratore coinvolto” del Comune di Cutro, commissariato per mafia nell’agosto del 2020, dopo l’operazione “Thomas” della Dda di Catanzaro. Con il blitz del 15 gennaio 2020, i magistrati portano alla luce un presunto dialogo costante tra la cosca Grande Aracri e i palazzi del potere del crotonese, tra cui proprio Cutro. Divuono non è indagato e non lo sarà mai. Il tempo passa e a giugno del 2020 lo stesso sindaco rassegna le dimissioni. Le fibrillazioni interne alla sua maggioranza (una lista civica) lo costringono a mollare. Arriva il commissario prefettizio ma dopo due mesi il Governo manda i commissari antimafia per valutare il livello di permeabilità della criminalità organizzata negli uffici comunali. Per i giudici crotonesi che esaminano il caso di Divuono in primo grado, l’arrivo degli sceriffi antimafia è già di per sé un indizio sufficiente per arrivare una conclusione: la presunta cattiva gestione del Comune, non improntata su criteri di legalità e buon andamento, ha trovato «una naturale prosecuzione nel corso dell’amministrazione condotta dal sindaco Divuono». Di conseguenza, l’invasione di campo: “È incandidabile”. La palla passa ai magistrati di secondo grado, che ribaltano la decisione andando a fondo tra le carte, i documenti e le istanze della difesa: «Non si evince un chiaro collegamento tra l’operato dello stesso sindaco sul piano amministrativo e l’azione delle consorterie criminose, né un asservimento del medesimo alle volontà e agli interessi delle cosche locali, né, nello specifico, è stata evidenziata una frequentazione del Divuono con esponenti di spicco delle consorterie locali». Un legame tra l’ex sindaco e le cosche che non si è manifestato in nessuna occasione, soprattutto nel campo minato degli affidamenti pubblici, terreno fertile per le agenzie criminali. Anche in questo caso, scrivono i giudici, non si evince una responsabilità del Divuono nelle attività amministrative ritenute irregolari. Perché c’è un principio che vale nel giudizio di incandidabilità: la stretta correlazione che deve esistere tra le azioni del soggetto e il favoreggiamento alle cosche. Non astratta, teorica o immaginaria ma reale e verificabile. Invece, per il caso Divuono, non c’è nessuna collusione ma solo un’ombra che ha coperto ingiustamente la sua carriera politica e la sua vita. Dopo la decisione che ha il profumo della riabilitazione politica, l’ex sindaco ha detto di essere «contento della sentenza che rafforza la fiducia che ho sempre avuto nelle Istituzioni dello Stato. Contento anche che i giudici hanno evitato l’errore di dichiararmi incandidabile perché sono una persona per bene». Edoardo Corasaniti

L'Antimafia a Cosenza: «Toghe sporche e cronisti pavidi». I verbali secretati. Marta Spiana su Il Quotidiano del Sud il 29 ottobre 2021. Le cosche calabresi tendono a dialogare tra loro, a spalleggiarsi in un sistema federativo in cui si sorreggono vicendevolmente invece che sottrarsi clienti. In prima battuta Nicola Morra sintetizza così ai giornalisti calabresi le ultime analisi della commissione parlamentare antimafia, in visita ieri mattina negli uffici della prefettura di Cosenza. Ma poi frena: «Non posso dire di più, la maggior parte delle audizioni sono secretate, tanti argomenti sono stati oggetto di nascondimento». Quel che è certo, dice Morra, è che «la situazione è complessa e necessita di nuovi approfondimenti, soprattutto in merito alla gestione degli uffici giudiziari, alla tipologia di reati e di dibattimenti che si stanno portando avanti». L’intenzione, dunque, è quella di continuare a lavorare sodo, cercando di mobilitare tutti gli attori della lotta alla ‘ndrangheta «per realizzare una sinergia e una intesa ancora più efficace». Poi il presidente dell’antimafia entra nel vivo della discussione, puntando il dito contro le amministrazioni locali, colpevoli spesso, a suo dire, di favorire le cosche. Fa anche un riferimento al parcheggio di piazza Bilotti, a Cosenza: «Io stesso ho parlato della vicenda singolare della costruzione del parcheggio sotterraneo di piazza Bilotti, vicenda singolare perché la gara è stata vinta in presenza di un unico concorrente». Una dinamica che – rimarca l’ex grillino – «è sconosciuta ad altre realtà italiane e per la quale tutti sono invitati a farsi delle domande». Il punto, insomma, non sarebbe solo quel reato di voto di scambio che sistematicamente ingombra le pagine della cronaca calabrese, ma anche il fitto corollario di illeciti di cui si macchia troppo spesso la mala politica locale: «Soprattutto in territori in cui l’attività è promossa da amministrazioni pubbliche, la ‘ndrangheta ha interesse a infiltrarsi nella gestione dei soldi che il pubblico immette sul mercato; quindi ci sono tante altre azioni criminali, che riguardano in particolare affidamenti e gare d’evidenza pubblica». Al solito, la parte del leone nella partita contro le cosche mafiose la fa lo Stato. Che si dimostra troppo spesso incapace di fornire risposte credibili ai cittadini: «Noi sappiamo che gli uffici giudiziari di questa parte della Calabria sono oggetto di attenzione da parte della procura di Salerno e questo spiega anche una sorta di difficoltà da parte delle persone a denunciare, perché si fa fatica ad affidarsi allo Stato quando lo Stato vien meno al suo dovere. Se non ritorniamo ad avere fiducia nelle istituzioni preposte a contrastare la criminalità organizzata, la stessa vince facilmente». Una scommessa su cui il senatore punta, auspicando, se non proprio incontri a cadenza mensile, certo una maggiore continuità da parte della commissione. In coda al suo intervento, Morra non dimentica di indirizzare qualche stoccata ai giornalisti. Non quelli, dice con una punta di ironia, che «raccontano i fatti a 360 gradi, ma quelli che lo fanno a 36 gradi sottraendo lo 0». A quanto pare il tema degli «informatori infedeli» si aggiunge ai punti all’ordine del giorno del fitto dibattito della commissione. Oggi sarà il turno di Crotone, dove un analogo incontro è previsto con forze dell’ordine, stampa e rappresentanti delle istituzioni. Ieri mattina il parlamentare genovese aveva rilasciato delle dichiarazioni al pubblico sulla necessità da parte della politica di essere concorrenziale in settori cruciali quali la sanità, i servizi, il credito. E sulle liste degli impresentabili aveva chiamato in causa il codice che porta il suo nome e rende più stringenti i criteri per l’eleggibilità dei candidati, criticando la mancata ratifica del regolamento da parte della Camera e del Senato.

Nel frattempo, davanti ai cancelli dell’Annunziata di Cosenza, l’ennesima fila di striscioni denuncia le mancate assunzioni dell’Asp e la conseguente carenza di personale medico in ospedale. 

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli dei miei libri: "Contro Tutte Le Mafie" o "La Mafia dell'Antimafia" o “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri.

Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Sciolto il comune di Foggia, trionfa la cultura del sospetto. Michele Vaira su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. La relazione di scioglimento del Comune di Foggia si dilunga, dettagliatamente, sulla storia giudiziaria della mafia foggiana. Un dato chiaro, inequivocabile, che nessuno può e deve discutere. Si tratta di una mafia violenta, con (almeno) due distinte “batterie” che in alcuni periodi hanno cercato di sterminarsi reciprocamente; che ha un profondo controllo del territorio, imponendo la legge del pizzo; che gestisce i traffici di stupefacenti e l’usura. Ma le sentenze e le indagini vanno apprezzate non solo per ciò che accertano, ma anche per ciò che negano. Non è mai stato accertato giudizialmente quel “salto di qualità” (tipico di altre realtà mafiose) che introduce i capitali mafiosi nell’economia legale. Manca qualsiasi prova di una vera commistione tra mafiosi e imprenditori. Tantomeno di un rapporto con la politica. Si può quindi affermare che la mafia foggiana di oggi è paragonabile alla mafia siciliana di quaranta anni fa o quella calabrese di venti anni fa. Ciò non significa che non debba essere affrontata e debellata, ma commissariare l’amministrazione comunale non è la risposta più efficace al problema. Per impedirne l’evoluzione in forme di “mafia imprenditoriale” è necessario intervenire sulle dotazioni delle forze di polizia e, soprattutto, sulla geografia giudiziaria. È inconcepibile che Foggia non sia sede (quantomeno distaccata) di Corte d’Appello. Il numero di comuni di Capitanata sciolti per mafia è elevatissimo, del tutto sproporzionato rispetto ad altre realtà italiane; l’unica altra città capoluogo di provincia sciolta per mafia è Reggio Calabria. L’infiltrazione nei gangli della pubblica amministrazione è sintomo di uno stadio già metastatico del cancro mafioso, tipico delle mafie più strutturate ed evolute. La Quarta Mafia, per come emerge da sentenze e indagini note, è una mafia ancora “primordiale”. La relazione prefettizia è in larga parte una giustapposizione di elementi, alcuni ipotetici, altri parziali, altri ancora addirittura errati. Il trionfo della cultura del sospetto, nella totale assenza di contraddittorio con i diretti interessati. Una lunga (quanto inutile) digressione sulla storia (del tutto assodata e incontestabile) della mafia foggiana, un enorme (quanto ingiustificato) spazio sulle due meritorie e meticolose quanto approfondite indagini sulla corruzione, che non hanno alcuna attinenza con il fenomeno mafioso. Poi una serie di elementi eterogenei quanto inconcludenti: la considerazione che il clima di (presunta) corruttela costituisca terreno fertile per l’infiltrazione mafiosa; la fuorviante statistica sui precedenti di polizia relativi ai dipendenti comunali; elementi tratti da indagini poi archiviate per infondatezza. Per finire, poi, con la valorizzazione delle interdittive antimafia a carico di aziende locali, che a loro volta sono provvedimenti basati sul sospetto. Uno strumento che paradossalmente non colpisce le aziende effettivamente criminali, ma i parenti onesti di soggetti che si dedicano (o si sono in passato dedicati) al crimine. Aziende sane di gente incensurata vengono messe in condizione di scomparire. Sospetto che legittima il sospetto. La morte dello stato di diritto. Lo scioglimento del consiglio comunale è una decisione politica, adottata dall’esecutivo. Non certo emessa da un magistrato, indipendente da ogni potere, che applica, interpretandola, la legge, motivando la sua decisione. La sospensione della democrazia è rimessa alla valutazione di semplici funzionari che rispondono al potere esecutivo, e quindi indirettamente alla politica. Non ci sono veri e propri termini di paragone, precedenti giurisdizionali, parametri chiari, rispetto a quella che si manifesta come una discrezionalità talmente ampia da sfociare nell’arbitrio. Pur se formalmente adottata dai più alti livelli istituzionali (Presidente della Repubblica, Consiglio dei Ministri), nei fatti dipende da un semplice collegio di prefetti e Forze dell’Ordine. Di fronte a conseguenze così devastanti per la democrazia, ossia il diritto di scegliere i propri rappresentanti e amministratori, e per la libertà d’impresa – nel caso delle interdittive – lo Stato dovrebbe apprestare garanzie paragonabili a quelle che il processo penale riserva per la libertà personale. Quindi, contraddittorio effettivo, intervento della magistratura e standard di prova elevati. Nella legge del sospetto, invece, vale tutto e il contrario di tutto. Il fatto che una legge del genere abbia domicilio nel nostro sistema giuridico e resista al vaglio di costituzionalità è misura della violenza dello Stato nei confronti del cittadino. E hanno anche il coraggio di definire tutto ciò quale “forma di tutela avanzata”. La beffa, oltre al danno. Michele Vaira

A Palermo va in scena Kafka. La follia del processo Bacchi verso sentenza, Ingroia: “Vittima due volte”. Giorgio Mannino su Il Riformista il 13 Ottobre 2021. Assoluzione con formula piena e dissequestro di tutti i beni. Sono le principali richieste rivolte dall’avvocato Antonio Ingroia al collegio giudicante del tribunale di Palermo presieduto da Riccardo Corleo durante la sua arringa in difesa di Benedetto Bacchi, l’imprenditore di Partinico accusato di associazione mafiosa. Una “doppia vittima, prima della mafia e poi dell’antimafia”, secondo l’ex pm, schiacciata da un lato da Cosa Nostra e dall’altro dagli ingranaggi di quella macchina infernale che è diventata negli ultimi anni parte dell’antimafia giudiziaria, strumento di potere per assicurare folgoranti carriere o per eliminare scomodi avversari. Per Ingroia «del castello accusatorio non resta nulla. La procura si è aggrappata alle dichiarazioni dei collaboranti come fossero zattere alle quali agganciarsi per salvarsi dal naufragio». Il repertorio è sempre lo stesso: dubbi, sospetti, pregiudizi. E le prove? «Neppure l’ombra», tuona Ingroia. «Occorrono una condotta materiale, un evento materiale del reato e il dolo. C’è tutto questo? No!», prosegue l’ex pm rivolgendosi ai giudici. Ma facciamo un passo indietro. È il 2018. Bacchi, imprenditore nel settore delle scommesse, viene arrestato nell’ambito dell’operazione Game Over. Secondo la procura di Palermo Bacchi, grazie a un patto con Cosa Nostra sarebbe riuscito a monopolizzare il settore e a realizzare una rete di agenzie di scommesse abusive capaci di generare profitti per un milione di euro al mese. L’imprenditore viene rinviato a giudizio e nelle scorse settimane, dopo tre anni e mezzo di carcere, la Procura chiede per Bacchi la pena più alta tra tutti gli altri imputati del processo ordinario e cioè 20 anni di reclusione. In realtà Bacchi sarebbe vittima della mafia palermitana del pizzo. «Bacchi – dice Ingroia – ha ammesso di avere avuto a che fare con la mafia. Da vittima. È stato minacciato e ha avuto paura. Non si è fidato dello Stato. È sceso a patti per salvare se stesso, i suoi familiari e la sua attività imprenditoriale e ha pagato per limitare i danni e continuare a lavorare». Ma la mafia non si ferma. Continuano le minacce. Intanto interviene lo Stato che, però, reputa Bacchi complice di Cosa Nostra. L’imprenditore viene arrestato e tenuto in carcere tre anni e mezzo. Durante il processo la sua difesa riesce a dimostrare quello che Ingroia definisce «un clamoroso errore giudiziario, una vicenda costellata da errori marchiani, dannose superficialità e pregiudizi ingenerosi” ma la Procura di Palermo continua nella sua accusa. Intanto l’imprenditore partinicese si ammala di una grave depressione psichica che lo porta a tentare il suicidio in carcere. Per questo lo scorso luglio Bacchi viene ammesso agli arresti domiciliari. In famiglia la sua condizione di salute migliora e con coraggio, grazie al conforto familiare, accusa durante il dibattimento i suoi estorsori. Per la Procura, però, le sue dichiarazioni sono tardive e inoltre averle rese in pubblico dibattimento costituisce un danno alle potenziali indagini e un favore ai mafiosi. Secondo l’accusa Bacchi con le sue pubbliche dichiarazioni avrebbe agevolato Cosa Nostra accusandone alcuni suoi componenti di spicco, solo perché così li avrebbe “avvisati” delle sue dichiarazioni: «Davvero singolare considerazione del pm che, nel suo furore inquisitorio, arriva ad ipotizzare un insostenibile condotta di favoreggiamento nel dichiarante che accusi pubblicamente un mafioso perché vuole agevolarlo», dice Ingroia. Che aggiunge amaro: «Benedetto Bacchi non è Libero Grassi. E allora? Bisogna farsi uccidere per essere creduti? È vero che non ha mai denunciato i suoi estorsori finché non si è ritrovato accusato di complicità della mafia ed arrestato. Ma può essere ritenuto colpevole per questo? È vero che per anni ha pagato i suoi undici aguzzini piegandosi alle loro richieste di estorsione, ma può essere punito solo per questo?». Sarà la corte a decidere nel merito. Intanto, però, il dibattimento è durato tre anni. Bacchi è rimasto in carcere quasi quattro anni. Due mesi agli arresti domiciliari. Il 25 ottobre sono previste le repliche e poi sarà emessa la sentenza. Giorgio Mannino

Mattia Feltri per “La Stampa” il 6 ottobre 2021. Cammino anzi saltello. E canticchio: che sensazione di leggera follia sta colorando l'anima mia. Ah, Lucio Battisti è sempre qui, a porgermi le chiavi del cuore. Canticchio all'aria corroborante d'ottobre, mentre cinque anni fa sotto un cielo plumbeo, cattivo, i militanti meloniani e salviniani salivano al Campidoglio in nome del popolo a gridare fuori la mafia dal Comune. Era il Comune in cui s' era rinserrato il sindaco Ignazio Marino, arreso alla follia collettiva, e dunque sì, diceva, la mafia è entrata in queste stanze ma per sloggiare me. Poi il suo partito lo portò in pellegrinaggio di borgata in borgata a chiedere scusa per non aver riconosciuto la mafia a prima vista, e in una tale melma chi ci sguazzava come un pescetto nella boccia erano i cinque stelle. Beppe Grillo chiedeva alla gente onesta la forza di disinfestare la città, Luigi Di Maio invitava i cittadini a consegnargli notizie di stampo mafioso in busta chiusa, e in cambio dell'anonimato, Alessandro Di Battista esortava le persone perbene di Pd e Forza Italia ("ce ne sono!") a mandargli delazioni via mail, ché ci avrebbe pensato lui a ripulire la "Repubblica filomafiosa". Arrivarono pure i giornalisti americani a cercare le coppole e le lupare sotto la statua di Marco Aurelio, ma per fortuna passano anche le sbronze e no, la mafia non si era impadronita dell'amministrazione comunale, era una colossale e scema calunnia. Ma intanto sotto quel cielo plumbeo e cattivo, a liberarci dai padrini era stata eletta Virginia Raggi. Questo, cinque anni fa. Va sempre peggio: che sciocca espressione. E che sensazione di leggera follia sta colorando l'anima mia.

La polemica. La cultura antimafia è razzista. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 22 Settembre 2021. Se fossimo capaci di vedere bene la sostanza delle cose, senza che la vista rimanga solo impressionata dal tegumento retorico che la ammanta, allora riconosceremmo il segno profondo della cosiddetta cultura antimafia: il razzismo. Non mi riferisco – inutile precisarlo – alle persone, perlopiù in buona fede, che ispirano la propria militanza alla missione antimafiosa. I politici, i magistrati, i giornalisti che pure lo fanno sono seriamente convinti di parteggiare in tal modo sul fronte delle cose giuste. Mi riferisco piuttosto, e appunto, alla cultura che quella convinzione determina, una cultura in profundo razzista e tanto più pericolosa perché intride atteggiamenti che nemmeno vagamente si sospettano discriminatori. E il razzismo della cosiddetta antimafia sta in ciò, che essa criminalizza non già un comportamento ma una condizione. E così la sanzione per una testata sul naso di un giornalista si misura sul grado di mafiosità del picchiatore. Così, ancora, l’identica corruzione, l’identica estorsione, l’identico omicidio eccitano più o meno i meccanismi reattivi dello Stato secondo che a commetterli sia il criminale comune o invece il mafioso. Così, infine, è quel criterio discriminatorio, esattamente riferito a quella “condizione”, a fare che le cure di giustizia vadano dal degrado della normalità detentiva ai tormenti del carcere duro. Ed è tanto più evidente il presupposto razzista di questo meccanismo, quando si vede come esso funziona nel coinvolgimento indiscriminato delle “famiglie”, dei “clan”, i cui membri scontano una colpa non diversa rispetto a quella attribuita a un colorato in regime di apartheid. Iuri Maria Prado

Una mafia più percepita che reale. Per la Dia la mafia è cambiata, ora cambiate il 416 bis. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Settembre 2021. L’ennesima notizia su un pubblico amministratore arriva da Palermo, dove il gip ha prosciolto con la formula più ampia il sindaco di Castellamare del Golfo, Nicolò Rizzo, indagato da un anno e mezzo nell’ambito di un’operazione definita “Cutrara” per “favoreggiamento aggravato dal fatto di aver agevolato Cosa Nostra”. Un classico, che pare ricalcare quel che accade ogni giorno in Calabria, con l’uso a piene mani, anche per la contestazione di un abuso d’ufficio, dell’aggravante mafiosa. Il che serve alla polizia giudiziaria e al pm per poter arrestare e intercettare, ma anche a sancire sempre di più, giorno dopo giorno, che nelle regioni del sud tutto è mafia. E soprattutto per dimostrare che ormai la mafia è quella dei “colletti bianchi”. Nella stessa giornata in cui abbiamo appreso la notizia di Palermo, è stata resa nota la relazione della Direzione Investigativa Antimafia (Dia) al Parlamento relativa al secondo semestre del 2020. Lo schema riflette una certa miopia, troppo spesso voluta, nell’esaminare le evoluzioni e i cambiamenti delle mafie, a partire da quel 1982 in cui, dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fu introdotta nella legge Rognoni-La Torre la fattispecie dell’articolo 416 bis del codice penale, l’associazione mafiosa. Ci si deve domandare, prima di tutto, se quella formulazione oggi sia ancora attuale. Probabilmente in gran parte non lo è, a partire dalla Sicilia, la regione che più di ogni altra ha sofferto fino agli anni novanta la guerra tra cosche e l’assalto allo Stato con le armi e il tritolo. «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti…». Nelle parti successive al comma 3 dell’articolo 416 bis il legislatore si sofferma a lungo sul concetto di associazione mafiosa armata. Non per caso. Il possesso e l’uso delle armi sono sempre stati fondamentali ai boss per assoggettare e per controllare il territorio. Oggi la relazione della Dia, e non è una novità, ci dice che «la violenza delle mafie è ormai residuale, la strategia è infiltrare l’economia. Riciclano al nord, puntano i fondi pubblici nel meridione». I dati sono molto chiari, gli omicidi, i ferimenti, le faide di sangue sono quasi del tutto terminati. E questa è una buona notizia. Più preoccupante è il fatto che gli investigatori dell’antimafia non riescano a staccarsi dalla nostalgia di un proprio ruolo necessariamente diverso quando fischiavano le pallottole. Che senso ha infatti, invece di gioire, di farsi vanto anche, per questo radicale cambiamento della società meridionale, voler leggere la nuova situazione come «processo di trasformazione e sommersione, senza rinunciare alla pressione intimidatoria che garantisce il potere criminale»? Il fatto che nel mondo del narcotraffico o del mercato “sporco” dei traffici sui rifiuti o sul movimento terra ricorrano anche nomi di famiglie conosciute come appartenenti ad antiche storie di mafia, non qualifica necessariamente questi reati come “mafiosi”. E non tutti coloro che commettono questo tipo di reati devono per forza appartenere alle cosche. Questo non significa che non esiste più la mafia, ma semplicemente che non tutto è mafia. Che storicamente gli uomini della ‘ndrangheta siano impegnati nel traffico internazionale degli stupefacenti, e in particolare in collaborazione con i sudamericani, è cosa piuttosto nota. Ma la loro attività illegale è costruita ancora, come fu un tempo, sulla forza intimidatrice e la capacità di ottenere omertà tramite la forza di assoggettare, o non è semplicemente fabbrica di soldi? Non è una domanda da poco. Perché, se è vero, come dice la relazione della Dia, che questa attività si concretizza al Nord mediante il riciclaggio, al sud l’infiltrazione avviene nel settore pubblico e dei pubblici finanziamenti. E qui entrano in gioco le maxi-inchieste e i maxi-processi che paiono troppo spesso finalizzati a incastrare questo o quel politico, questo o quell’amministratore locale. Sempre tenendo in tasca la carta dell’aggravante mafiosa o del concorso esterno. Colpisce nella relazione della Dia che, nei dati, non si parli solo della diminuzione degli omicidi, ma anche dell’aumento delle «induzioni indebite a dare o promettere utilità», piuttosto che dei «traffici d’influenze» e delle turbative d’asta. I tipici reati dei “colletti bianchi”. Equiparati, persino nelle tabelle di dati statistici, ai reati di mafia. Se l’articolo 416 bis del codice penale racconta ormai più di una sorta di “mafia percepita” che reale, forse è ora di procedere a una revisione del tipo di reato. Anche se non piacerà a Nicola Gratteri, cui comunque va la nostra solidarietà per le minacce ricevute.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Era in corsa per il Municipio V della Capitale. “Casamonica non è mafia”, Pd sempre più giustizialista: scaricato il candidato Baldacelli. Redazione su Il Riformista il 23 Settembre 2021. “No, quella dei Casamonica non è mafia”. Il giudizio è di Fabrizio Baldacelli, candidato dem in corsa per il Municipio V della Capitale, che contraddice l’ultima sentenza sul clan Casamonica del Tribunale di Roma. E gli è costato caro. Il Pd ha deciso di scaricarlo. Sebbene il Partito democratico non possa intervenire direttamente sulle liste elettorali, ha diffidato ufficialmente il candidato consigliere dal fare campagna elettorale con il simbolo dei dem. Un intervento mirato ad per evitare imbarazzi e scossoni proprio durante la campagna elettorale per le amministrative, che vede Roberto Gualtieri candidato sindaco del centrosinistra. Ma soprattutto, la decisione è stata fulminea a seguito di uno scambio di messaggi su Facebook tra Federica Angeli, giornalista antimafia e ora delegata alle Periferie della sindaca Virginia Raggi, e l’aspirante consigliere. I post di Baldacelli, pubblici e accessibili a tutti, commentavano proprio l’ultima sentenza sul clan Casamonica. “Hai combattuto contro una banda di delinquenti e assassini, ma non credo sia mafia”, attacca il candidato consigliere. “Quindi i magistrati sono pazzi?”, replica la cronista. Chiude così l’ormai ex dem: “Assolutamente no, semplicemente credo che la mafia sia altro, è qualcosa di simile ma secondo me quella di Roma e di Ostia non è mafia”. Il botta e risposta non è sfuggito al Nazareno. I vertici del Pd hanno così deciso: “La sentenza è chiara, gli esponenti del clan dei Casamonica sono stati condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso. La mafia a Roma esiste e il Partito democratico è sempre stato in prima linea per estirpare l’erba velenosa insediata nella città e ha sempre sostenuto la lotta per legalità. Prendiamo nettamente le distanze dalle affermazioni del candidato Baldacelli che hanno scatenato la discussione e una serie di attacchi a tutto il Pd. Le sue affermazioni sono incompatibili con il pensiero del Pd e lo consideriamo fuori dalla lista municipale. Noi staremo sempre al fianco di chi le mafie le combatte. La mafia esiste a Roma, la sentenza è chiara”. Baldacelli ha accettato il colpo. L’ormai ex candidato dem ha rimosso dai social foto con i simboli del Nazareno.

Aboliamo i reati associativi? Condanne pesanti per i Casamonica, ma “se tutto è mafia niente è mafia”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Settembre 2021. A differenza del gigantesco processo Mafia-capitale, che si concluse con la certezza che la mafia non c’entrava niente con gli episodi di corruzione ai quali quel processo si riferiva, e non era padrona a Roma, il processo ai Casamonica si è concluso con la condanna per mafia. E il conseguente diluvio di anni di prigione e probabilmente di 41 bis. Fino a 30 anni per Domenico Casamonica, 20 anni per Giuseppe Casamonica, 25 anni per Salvatore, 23 anni per Pasquale, 20 anni per Massimiliano, 19 anni per Liliana detta Stefania. In tutto i condannati sono 44. È giusto così? Leonardo Sciascia, che è stato il più importante e il primo intellettuale italiano a denunciare la mafia già dall’inizio degli anni Sessanta – quando gran parte del giornalismo e dell’intellighenzia ne negava l’esistenza – qualche anno dopo avvertì che “se tutto è mafia niente è mafia”. Non è una affermazione che tende a ridurre l’importanza della mafia, al contrario: la amplifica. Lo stesso Falcone, del resto, in molte occasioni spiegò la peculiarità di Cosa Nostra, che lui considerava una organizzazione del tutto speciale e diversa dalle normali organizzazioni malavitose. La sentenza contro i Casamonica invece va esattamente nella direzione opposta. Cosa sono i Casamonica? Non sta a noi dirlo, saranno giudicati nei vari gradi di giudizio. A occhio sono un clan fuorilegge, probabilmente, accusato di reati molto gravi, come estorsione, spaccio, usura, violenza privata. E poi accusati di associazione mafiosa. Non di omicidio, che è di gran lunga il più terribile dei delitti esistenti.  Neanche di ferimenti o altri reati violenti. Sebbene non siano accusati di omicidio, sono stati condannati per associazione mafiosa e quindi è stato possibile decidere per loro pene pesantissime, fino a 30 anni di carcere. Cosa ha spinto i giudici a decidere che la banda dei Casamonica è mafiosa, sebbene operi in un territorio lontanissimo dai territori tradizionali dove la mafia è nata e vive, e sebbene a carico della banda non sia stata mossa nessuna accusa di omicidio? Perché una banda della malavita viene considerata efferata e mafiosa sebbene non abbia ucciso e non sia legata in nessun modo a Cosa Nostra, o alla camorra o alla ‘ndrangheta? Esiste una differenza tra mafia e malavita? Non è chiaro. È più chiaro invece il motivo per il quale, da diversi anni, una parte della magistratura tende a battere la via della mafia per perseguire ogni tipo di crimine. Il motivo è duplice. Da una parte perché contestare a un imputato l’aggravante mafiosa consente metodi di indagine più efficaci e sbrigativi, ma evidentemente meno garantisti, e questo aiuta il lavoro di perseguimento di un reato. Se per esempio ti accuso di furto – per capirci – non posso intercettare te, né tantomeno i tuoi parenti o amici. Se ti appioppo l’aggravante mafiosa posso, e tutto diventa più facile. Poi c’è il secondo motivo e riguarda le pene, il regime speciale di detenzione, l’abolizione dei benefici penitenziari. Ormai in Italia è così: c’è un regime giuridico e penitenziario per i reati ordinari e un regime del tutto diverso per i reati mafiosi. E di conseguenza c’è la tendenza a chiedere con grande facilità l’aggravante mafiosa, per ragioni tecniche o per ideologia. Il problema è molto complesso. Sia perché è assai discutibile la costituzionalità della doppia giustizia. Come si può conciliare il doppio regime con l’articolo tre della Costituzione che impone l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge? Se la legge è legge deve esserlo per tutti, e per tutti con gli stessi modi, gli stessi tempi, gli stessi benefici e la stessa severità. Ma anche per un’altra ragione. Che senso ha il reato associativo? Far parte di un’associazione è una colpa se questa associazione commette crimini; ma allora non sarebbe giusto che il colpevole fosse punito per i crimini che ha commesso e non per l’essere o no lui un associato? Se sono associato e non faccio niente di male, qual è la colpa? Il reato associativo fu introdotto in Italia (e non esisteva in nessuna altra parte del mondo) un po’ dopo la metà dell’800. Per colpire il fenomeno del brigantaggio, che era contemporaneamente un fenomeno di illegalità ma anche un fenomeno politico. Settori vasti del popolo del Sud resistevano a quella che consideravano una invasione piemontese. Allora scattarono le famose leggi Pica (nome di un feroce deputato abruzzese che le propose e trovò l’appoggio del governo Farini), le quali per stroncare l’appoggio da parte della popolazione di gruppi del brigantaggio, decise che il modo migliore era introdurre un nuovo reato che permettesse una repressione di massa durissima e crudele. Che portò perfino alla messa a ferro e fuoco di interi paesi. Le leggi Pica sospendevano lo Statuto Albertino, il quale, come la nostra Costituzione, prevedeva l’uguaglianza dei diritti giuridici. Possibile che più di 150 anni dopo quelle leggi liberticide, lo Stato italiano debba ancora tenere in vigore quei principi, chiaramente in contraddizione coi principi generali del diritto? Negli ultimi decenni l’idea del reato associativo è stata difesa dai settori conservatori (ampiamente maggioritari) dell’establishment e dell’intellettualità, con la necessità di combattere prima il terrorismo e poi la mafia, che seminavano morti. Discutibile che la lotta a fenomeni criminali possa essere condotta in contrasto col diritto. Comunque oggi la situazione è molto diversa. Non stiamo più combattendo contro bande di omicidi. I delitti mafiosi sono dieci volte meno dei femminicidi. Il femminicidio, almeno su basi statistiche, è un’emergenza molto più grande. E allora non sarebbe utile tornare ai principi costituzionali e abolire le legislazioni di emergenza, specie quelle varate contro i briganti dell’800?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Paola Pellai per “Libero Quotidiano” il 19 settembre 2021. Troppo facile andare a Scampia a farsi parare due calci di rigore su un campo da calcio con le righe bianche verniciate a lucido. Ancora più facile fingersi tennista in completo gessato, come ha fatto Giuseppe Conte nel suo tour elettorale. Scampia, periferia nord di Napoli, non si identifica in tutto ciò e neppure nell'omonima fermata metropolitana con installazione sonora "firmata" e un design da Guggenheim Museum. Scampia è la vergogna di quelle Vele che ancora disegnano un paesaggio di lamiere, degrado, inciviltà. Sono le nostre favelas, qui ci si intossica di cemento, amianto, fumo, infiltrazioni. Qui tutto è rotto, sporco, pericolante. Il campo da calcio non ha l'erba, non ci sono reti alle porte arrugginite, mancano le linee regolamentari: è uno spazio di terra rinsecchita e sterpaglia. Qui cammini nella paura e nel ventre di ruggine, infiltrazioni e amianto. Molte persone si sono ammalate di tumore e in troppe sono morte. Vedi l'acqua scendere dai muri già impregnati di umidità, trovi gli scheletri di appartamenti arsi dalle fiamme, annusi l'insalubre presenza dell'amianto e ogni pertugio è pieno di spazzatura e rifiuti. Qui si vive nell'anonimato, addensati senza controlli in gironi infernali, con numeri simili a pallottolieri impazziti. Ma sai per certo che in quelle scatole di latta vivono tanti bambini, te ne accorgi dalla sfilata baby di magliette, calzini, bavaglini, tute sui balconi. Non esistono citofoni e neppure cassette delle lettere. C'è chi scrive il proprio nome (mai il cognome) sulla porta in lamiera, talvolta c'è pure un numero di cellulare. Ci sono fili e cavi elettrici che penzolano ovunque e che passano da un ballatoio all’altro. Altri, insieme a lunghi tubi, sono a terra ed è facile inciamparci. Gli allacciamenti sono fai da te, se qualcosa va storto o vuoi fare un dispetto al tuo nemico, saltarein aria o appiccare un incendio è un attimo. L'ultima volta è successo a giugno, con un rogo domato dai vigili del fuoco e una colonna di fumo avvistata a chilometri di distanza. Si vive alla giornata in una delle aeree a maggior tasso di disoccupazione in Italia. Se t'infili nei dedali bui e intricati dei piani sotterranei ti accorgi in fretta che l'arte dell'arrangiarsi diventa per molti la sopravvivenza. C'è chi lava auto, chi le aggiusta, chi ha aperto un bar e chi vende generi alimentari. Chi abita qui invecchia nell'umidità, nella precarietà, nel pericolo. Questo è il luogo delle aspettative tradite e della vergognosa processione dei candidati politici che in campagna elettorale arrivano barattando finte promesse con i voti, ingolositi dalle 41 mila presenze, ma è una cifra al ribasso. La verità è che qui lo Stato non esiste, ne sta al di fuori e vogliono tenerlo al di fuori. Le originarie sette Vele di Scampia sono state costruite su un'area di 115 ettari tra il 1962 e il 1975 su progetto dell'architetto Francesco De Salvo. Un intervento di edilizia economica popolare a forma triangolare che, ispirandosi alle Unités d'habitation di Le Corbusier, doveva favorire l'integrazione, grazie ad ampi spazi verdi con percorsi pedonali, aree giochi, centri scolastici, commerciali e religiosi. Il modello architettonico è quello di due blocchi a gradoni - ciascuno alto al massimo 14 piani - separati da un vuoto centrale e collegati da scale, ascensori e ballatoi volti proprio a favorire le relazioni tra gli abitanti. Quella favola progettuale si limitò ad immensi agglomerati di cemento finiti presto in mano alla camorra, che li trasformò nel più importante supermercato europeo della droga. Quello che doveva essere un modello si trasformò in un ghetto, complice il terremoto dell'Irpinia del 1980 che portò molte famiglie senza tetto ad occupare anche abusivamente gli alloggi. Ad aggravare la situazione la totale assenza dello Stato: il primo commissariato di Polizia fu insediato nel 1987. Troppo tardi, mafia e delinquenza lì avevano già trovato alloggio. La camorra "dava lavoro" e l'illusione della ricchezza, le auto di grossa cilindrata dei boss erano il traguardo da inseguire: i bambini facevano le vedette sui ballatoi, i ragazzi erano i pusher e famiglie intere custodivano droga, soldi e armi in casa o nei garage. In seguito la guerra alla camorra e gli arresti eccellenti hanno mobilitato cooperative e associazioni, difendendo «le tante persone oneste che abitano le Vele». Eppure per tutti questo resta il regno di Gomorra, raccontato da Roberto Saviano e trasformato in fiction televisiva. La fantasia napoletana ha fatto di una piaga un business inventando i "Gomorra Tour", organizzati da diverse agenzie per "esplorare il quartiere con i suoi caratteristici edifici degradati" che hanno "fatto da sfondo alle storie dei personaggi della serie televisiva”. Si passeggia, talvolta si raggiungono Forcella e Secondigliano, magari con una colazione o un brunch di specialità napoletane su una terrazza panoramica: il tour dura 4 ore, costa dai 60 ai 75 euro ed è fortemente "sconsigliato a donne in gravidanza e cardiopatici”. Chi abita nelle Vele non ne può più di tour e serie tv, così a lettere cubitali scrivono che non sono Gomorra e neppure uno zoo. «Siamo stufi di essere trattati come un safari fotografico - mi racconta Pina -. Vengono qui fanno selfie, fotografano tutto e tutti come se fossimo leoni e giraffe in gabbia. Abbiamo il diritto di vivere e di essere rispettati». Quattro Vele sono già state abbattute (nel 1997, 2000, 2003 e 2020), altre due (la Vela Rossa e quella Gialla) seguiranno la stessa sorte mentre l'ultima (quella Celeste) verrà riqualificata, ospitando gli uffici della Città Metropolitana. Tutto ciò ha un costo, 26 milioni di soldi pubblici che si spingeranno fino ad un piano di fattibilità complessiva da 120 milioni, comprensivo di abbattimenti, ricostruzioni, riqualificazioni, servizi e un polo universitario. Si fa e si disfa, si costruisce e si abbatte: è il gioco degli appalti. Ho girato a lungo all'interno delle Vele, tutti mi hanno salutato, qualcuno mi ha sorriso. Ho visto la dignità della miseria in buchi "truccati" da appartamenti, una camera da letto sotto una tettoia all'aperto, un bimbo che spingeva un monopattino tra l'immondizia, un'anziana con due sacchi di spesa che saliva arrancando i tremolanti e infiniti gradini tra un piano e l'altro. Una ricerca universitaria condotta tra i giovani ha sottolineato che l'80% ritiene che a Scampia la camorra sia più presente della Chiesa (8%) e persino dello Stato (5%). Il 51% di loro ha contatti con chi si droga e il 44% ammette che la criminalità è una scorciatoia per avere tutto e subito, soprattutto oggetti "firmati". «In questo quartiere non c'è nulla - spiega Tony, 14 anni -, o scappi o ti schieri con la camorra o lotti per cambiare le cose, ma perché farlo? Per noi lo Stato non trova neppure il tempo di toglierci l'immondizia. Io non porto rispetto a chi non me ne porta».

La replica dell'artista dopo le polemiche cavalcate anche da Maresca. Tina Sacco a Manfredi: “Nessun passo indietro, non sono una criminale: ho rifiutato Scianel in Gomorra”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 16 Settembre 2021. E’ incensurata e fa l’artista (“non sono una neomelodica”) da 40 anni. Non conosce”. “Nel 2015 nel corso di una stesa alcuni proiettili finirono contro il basso dove viveva nella zona di corso Malta a Napoli, con i pistoleri che “pronunciarono il mio nome prima di sparare ma io con la malavita non ho mai avuto nulla a che fare e su quell’episodio non ci sono stati sviluppi investigativi”. Tina Sacco, nome d’arte di Immacolata Lamula, compirà 60 anni il prossimo 17 dicembre ed è candidata al consiglio comunale di Napoli nella lista “Centro Democratico” che sostiene la colazione di Gaetano Manfredi. Dopo la decisione di scendere in campo “per il popolo”, sono state sollevate polemiche sterili, relative al brano “L’omertà”, cantato con il neomelodico Anthony in cui la Sacco interpreta una madre preoccupata per la decisione del figlio di intraprendere la strada della malavita e che prova in tutti i modi a farlo tornare sui propri passi. Insomma “è una canzone che manda un messaggio completamente diverso” spiega Emilio Coppola, legale della Sacco. “E’ un messaggio per la legalità perché la madre spiega al figlio che facendo un determinato tipo di vita si rischia di perdere i propri affetti. Non vorrei che dietro questo polverone ci sia un attacco di tipo classista. Piaccia o meno Napoli è anche Tina Sacco” chiosa l’avvocato. Polemiche sterili prontamente cavalcate dal candidato giustizialista Catello Maresca che, senza conoscere la storia, ha subito puntato il dito (proprio come fa il suo principale sponsor elettorale, il leghista Matteo Salvini) contro la 60enne. Lo stesso Manfredi, intervistato da Fanpage.it, ha auspicato un passo indietro della candidata pur ammettendo che “non ha alcun precedente con la giustizia” anche se il brano in questione va “contro i nostri principi di legalità”. Passo indietro che la Sacco non ha intenzione di fare. “Vado avanti più forte di prima e mando un bacio a Manfredi. Perché non ero all’apertura della campagna elettorale di Centro Democratico? Semplice, non ne sapevo nulla ma non ritiro la mia candidatura. Di cosa dovrei pentirmi? Non ho fatto niente, mi pento solo quando litigo con mio marito”. Poi aggiunge: “Mi dicono che sono una criminale ma non so neanche la Questura come è fatta. Sono un’artista non una neomelodica, i miei riferimenti sono Mario Merola, Sergio Bruni. Mi hanno chiamato anche in Gomorra per interpretare la parte di Scianel ma ho rifiutato perché non mi piaceva interpretare quel ruolo”. Sulla canzone finita nel mirino di media e politici spiega: “L’omertà parla di una mamma che ha cresciuto un figlio con tanti sacrifici. Poi una volta cresciuto questo figlio ha deciso di prendere una strada diversa e la madre prova a spiegargli i rischi a cui va incontro”.

Ciro Cuozzo e Rossella Grasso

Brinda con l'ergastolano in pieno Covid. Il Csm grazia la pm: lavorerà altrove. Stefano Zurlo il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. Sorpresa in macelleria durante il lockdown con il criminale. Ma lei si trasferisce in Toscana e il procedimento si conclude. La pm e l'ergastolano. Sembra il titolo di una fiction, è la realtà sconcertante e per niente edificante che arriva dalla pancia profonda della provincia italiana. I carabinieri di Scandiano, il paese natale di Romano Prodi, fanno un controllo antiCovid in una macelleria equina, ancora aperta anche se la clientela a quell'ora, le 18.30 del 19 febbraio 2021, non dovrebbe più esserci. All'Interno ci sono tre persone: il proprietario del locale, una signora e un tizio che si scoprirà sprovvisto di documenti. Sono seduti al tavolo con un calice di vino fra le mani, ma appena scorgono le divise si alzano di scatto. Lei è Claudia Ferretti, pm nella non lontana Modena, e per giustificare la permanenza fuori tempo massimo, spiega che «avendo incontrato» i due, «intendeva salutarli, in quanto i due dovevano partire per la Sicilia il giorno dopo. Successivamente si erano dilungati in chiacchiere perdendo di vista l'orario». Imbarazzante. Ancora di più quando i militari verificano finalmente le generalità dello sconosciuto: si scopre che Pietro Armando Bonanno è un ergastolano, condannato per omicidio, e detenuto in regime di semilibertà nel carcere di Reggio Emilia. Da arrossire: non tutte le bugie sono reato e questa, se davvero lo è, non pare un illecito penale, ma risulta assai arduo credere al racconto del magistrato: salvo ipotetici e improbabili permessi, ancora di più in epoca di Covid, è più facile pensare che quella sera Bonanno fosse atteso in cella, come è normale per i semiliberi. Certo, l'uomo ha il permesso di lavorare in quel locale e questo spiega la sua presenza, ma resta «l'anomala frequentazione», come la chiamano i carabinieri, della pm. E il suo chiarimento assai stiracchiato della vicenda. Per carità, il caso può giocare scherzi antipatici, ma non è il massimo sapere che un pm sta brindando, in orario di emergenza da pandemia, con un soggetto all'ergastolo per associazione mafiosa, omicidio pluriaggravato, detenzione e porto abusivo di armi. E quella giustificazione sul viaggio dei due verso la Sicilia avrebbe meritato almeno un approfondimento, ma qualcuno ha studiato la pratica? Il Csm discute di altro: apre la procedura per un possibile trasferimento ad altra sede e ad altra funzione; insomma un pm che ha steccato può sempre riscattarsi traslocando altrove, sempre in toga. Non chiederà più le condanne, ma scriverà sentenze, magari non più nel penale ma nel civile. In ogni caso, a quanto si capisce dalle carte, lei gioca d'anticipo e chiede di essere spostata in Toscana. Va al tribunale di Firenze e il procedimento per incompatibilità ambientale viene archiviato perché ormai il problema non si pone più. Resta il disagio e rimane il disorientamento dell'opinione pubblica davanti a quelle parole da pesare e soppesare: la pm era dove non doveva essere e in compagnia di chi avrebbe dovuto evitare. Stefano Zurlo

Bruno Bossio: «Le carceri sono lo specchio dei pregiudizi sui meridionali». TAPPA ZERO: TORINO. Roberto incontra la parlamentare dem Enza Bruno Bossio, che lo accompagnerà anche nella tappa finale a Motta Santa Lucia. A proposito delle teorie lombrosiane sulla predisposizione a delinquere, Bruno Bossio spiega come abbiano dato origine ai pregiudizi sui meridionali, maggiormente presenti nelle nostre carceri e spesso detenuti ingiustamente. Il Dubbio il 4 settembre 2021. Il tour “Sui pedali della libertà”, appena iniziato, unisce infatti due luoghi significativi: il museo di Cesare Lombroso a Torino e il paese di provenienza in Calabria di Giuseppe Villella. Il cui teschio, per il fondatore dell’antropologia criminale, dimostrava la correlazione tra le fattezze fisiche e la predisposizione a delinquere. «Devo dire – spiega Bruno Bossio – che purtroppo le teorie lombrosiane segnano l’inizio di un pregiudizio che è rimasto, se è vero come ci dicono le percentuali che la maggioranza della popolazione italiana in carcere – spesso detenuta ingiustamente – è meridionale. Soprattutto quando ci sono esigenze cautelari e non condanne».

«Vi racconto quel pregiudizio sulle mie origini calabresi che mi ha distrutto la vita». Il Dubbio il 5 settembre 2021. Roberto incontra l'ex consigliere regionale della Valle d'Aosta, Marco Sorbara, assolto a fine luglio dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dopo 909 giorni in custodia cautelare. L’incubo giudiziario di Sorbara comincia il 23 gennaio 2019, quando i carabinieri bussano alla sua porta in piena notte per portarlo via assieme ad una decina di persone, tutte coinvolte nell’operazione “Geenna”. A fine luglio è stato assolto dalla Corte d’Appello di Torino perché il fatto non sussiste, dopo una precedente condanna a 10 anni con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E, soprattutto, dopo mesi di calvario, aggravati dal voltafaccia dei suoi colleghi, che subito dopo l’arresto lo hanno massacrato. Momenti terribili, tra carcere e domiciliari, compresi 45 giorni in isolamento, racconta oggi Sorbara: «Nella mia cella erano cinque passi per quattro, li contavo. E mi chiedevo tutti i giorni perché. Ma non ho mai trovato risposta».

«Il pregiudizio verso il Sud c’è ancora: siamo tutti mafiosi…» Il Dubbio l'11 settembre 2021. Dopo 1400 chilometri, il tour di Roberto "Oltre i pregiudizi" si chiude nella città del presunto brigante Giuseppe Villella, il cui teschio è rimasto al museo di antropologia criminale "Cesare Lombroso" a Torino. L'ultimo pregiudizio che resta da abbattere è quello nei confronti del Sud. Se, come spiega il giornalista Mimmo Gangemi, la «questione meridionale è ridotta a questione criminale». L’ultima tappa del viaggio di Roberto Sensi “Oltre i pregiudizi” è a Motta Santa Lucia, la terra del presunto brigante Giuseppe Villella, il cui teschio è rimasto al museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso” a Torino. L’ultimo pregiudizio che resta insepolto è quello sul meridione, una malattia autoimmune non ancora debellata. «La questione meridionale la si è ridotta a una mera questione criminale», spiega lo scrittore e giornalista Mimmo Gangemi. Parla del presente. Un presente che non sembra essersi allontanato di un passo da Lombroso.

Il pregiudizio contro i meridionali, davvero esiste ancora?

Esiste ma ha assunto forme più nascoste, camuffate da una finzione di civiltà che lo rigetta. Sono episodi sporadici le discriminazioni di un tempo, quando non s’affittavano case ai nostri emigranti e l’essere del Sud diventava una tara, un marchio d’infamia. Il pregiudizio però continua a camminare sottotraccia. Il Sud è additato e percepito come la palla al piede dell’Italia. Gli abitanti saremmo parassiti che si perpetuano lagnosi e vittime, sfaticati, mafiosi o con mentalità mafiosa.

Com’è nato questo odio?

Non siamo mai diventati nazione. A noi è stata tramandata la memoria della forzatura sanguinaria, mai appianata e taciuta dalla storia, in un regno che ci ha conquistato e trattato da sottomessi, da Ascari, con tasse e imposizioni, la leva obbligatoria, le morti innocenti e paesi distrutti pur di eliminare il dissenso, e i briganti, peraltro spesso resistenti all’invasore. E siamo rimasti indietro, o siamo stati lasciati indietro, anche per l’insipienza della classe politica e dirigente che esprimiamo. Nel cammino assieme, c’è stata una disparità di attenzione e di risorse e si è impattato in diversità sociali, culturali, economiche, storiche, caratteriali che hanno pesato e inciso fino a realizzare un’Italia a due diverse velocità, fino a dilatare il distacco e ad alimentare l’odio. Certo è, tuttavia, che le nostre valigie di cartone degli anni ’ 50, legate con lo spago, non differivano da quelle che tutti assieme, gente del Nord e gente del Sud, allestimmo per un’emigrazione alle Americhe che soccorresse il futuro.

Al di là degli stereotipi, esiste un’identità comune che unisce i popoli del Sud?

Il regno dei Borboni è morto e sepolto. Mai è stato un elemento di coesione. Siamo Italia e ci piace essere Italia. L’identità comune c’è perché ci accumuna la storia di oltre un millennio, e ancor prima, la Magna Grecia. Dall’unità d’Italia in poi si è aggiunto l’uguale disagio di essere considerati colonia e un ostacolo alla crescita della nazione. E talvolta i disagi, le democrazie a scartamento ridotto e lo stesso pregiudizio distribuito largo sanno diventare punti di saldatura.

A volte però a trovarsi ad avere pregiudizi verso di sé è lo stesso Sud, che subisce la narrazione dominante.

Il Sud non ha molte voci autorevoli da opporre all’Italia che lo pesa e lo giudica con un metro falsato. La Calabria è quella combinata peggio. Oltrepassa il Pollino una narrazione menzognera ed esagerata nella condanna. I personaggi che hanno ascolto e microfono, e spesso una credibilità mal riposta, sono pochi. Tra loro, c’è pure chi la racconta molto peggio di quanto sia, fa trasparire l’idea che tutto sia mafia, ha creato l’equazione “calabrese uguale ’ ndranghetista”. E l’Italia ha abboccato, senza ragionare che a taluni, anche giornalisti, torna comodo irrobustire il mostro ‘ ndrangheta, che mostro è, perché così irrobustisce le carriere e i meriti, con buona pace dell’innocenza maltrattata e dello Stato di diritto scappato altrove.

Come è accaduto che un partito come la Lega, che ha fondato la propria storia sull’antimeridionalismo, finisse per essere così largamente votato anche qui?

Ingenui creduloni stendono un velo sul razzismo di decenni ed è come infilarsi da sé l’amo in bocca. Una fetta della classe politica, pur di sedere a cassetta, non bada alla parte con la quale si schiera, insegue solo il successo elettorale, bianco o nero non importa. E troppi cittadini dalla memoria corta votano, per utilità e clientelismo, il compare, l’amico, l’amico degli amici.

Cosa si potrebbe fare, nell’immediato, per il Sud?

Un’equità sociale, livellando le disparità che si sono create. Ci sono priorità che mancano e sulle quali ormai non si protesta, perché si è talmente assuefatti al degrado che ciò che altrove appare ordinario al Sud lo si vede straordinario, un di più, una concessione. La sanità è impoverita ad arte, per l’obiettivo di avvantaggiare quella del Nord, magari sovradimensionata, che accoglie anche per prestazioni sanitarie di basso peso. L’agricoltura è stata penalizzata da dover scegliere o di lasciare marcire il frutto o di ricorrere al lavoro nero, altrimenti si va in perdita. L’autostrada A2 è un inganno: mai è stata davvero ultimata, se tra Reggio a Cosenza 52 chilometri, i più pericolosi, sono rimasti quelli di prima, senza corsia di emergenza e con tracciati da brividi. L’alta velocità ferroviaria da Salerno in giù è altina, non alta. La statale 106 è la strada della morte, a doppio senso di circolazione. I treni sono lo scarto del Nord. E i finanziamenti pubblici dipendono dallo storico, da quelli ottenuti nel corso degli anni, e diventa una storpiatura della democrazia che, per esempio, Reggio Calabria non possa avere nulla o quasi per gli asili nido solo perché nulla ha mai avuto, mentre l’altra Reggio, pur con meno abitanti, ha 16 milioni annui. Perciò, lo si metta alla pari, il Sud. Solo dopo potrà essere additato colpevole.

“Si è sempre a Sud di qualcuno”, a volte però stupisce vedere comportamenti razzisti da parte di chi a sua volta ne ha subiti. Perché accade?

È un’anomalia che chi, come i veneti e i friulani, agli inizi del Novecento, popoli più nella fame e più numerosi dei meridionali nell’emigrazione e che hanno subito il razzismo, si siano trovati loro razzisti, disprezzando così il sacrificio lontano degli antenati che hanno consentito di giungere meglio ai giorni nostri. Ma tant’è. Ed è vero che c’è sempre qualcuno più a Sud oggetto di discriminazione. È di fresca memoria quella svizzera sui frontalieri lombardi. Però non ha insegnato nulla.

Dall’inizio dell’anno sciolti 11 consigli comunali. Quanti comuni sono stati sciolti per mafia in Italia. Pasquale Simari su Il Riformista il 17 Settembre 2021. Lo scorso 26 agosto il Consiglio dei Ministri ha deliberato il commissariamento per infiltrazioni mafiose di tre comuni calabresi – Rosarno, Nocera Terinese e Simeri Crichi – raggiungendo il ragguardevole risultato di 11 consigli comunali sciolti dall’inizio dell’anno. Da quando, nel 1991, questo strumento “eccezionale” di contrasto alla criminalità organizzata è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano, sono stati ben 362 i decreti di scioglimento per mafia di un ente. In base a quanto emerge dalle accurate statistiche pubblicate sul sito dell’associazione antimafia Avviso Pubblico, sino a oggi solo 23 di questi decreti sono stati annullati dai giudici amministrativi. Si tratta di un dato impressionante, che molti utilizzano come riprova della validità e dell’efficienza dell’istituto disciplinato dall’art. 143 del Testo Unico degli Enti Locali. In realtà, l’analisi delle numerose decisioni adottate dai Tribunali Amministrativi Regionali e dal Consiglio di Stato consente di comprendere come l’esito dei giudizi risulti fortemente influenzato da due fattori: da un lato, l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli organi governativi nel valutare la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento; dall’altro, la forte limitazione del diritto di difesa che subiscono le Amministrazioni “sciolte”, stante la sostanziale impossibilità di effettuare accertamenti circa la fondatezza, nel merito, degli elementi indiziari che sorreggono il decreto dissolutorio. Con riferimento ai presupposti, è acclarato che, per sottoporre un Comune a commissariamento, non occorre che si accertino effettive infiltrazioni o concreti tentativi di condizionamento dell’azione amministrativa da parte della criminalità organizzata. Tanto il Ministero dell’Interno quanto la unanime giurisprudenza amministrativa ritengono, difatti, che la misura dello scioglimento abbia “natura preventiva” e, quindi, possa essere utilizzata ogni qualvolta appaia “più probabile che non” che un ente locale sia stato “infiltrato” o corra il pericolo di essere “condizionato” dalle mafie. Diversamente da quanto si è portati a credere a causa di eccessive semplificazioni giornalistiche, è raro che un Comune venga sciolto perché sono state riscontrate vere e proprie infiltrazioni mafiose all’interno del Consiglio Comunale o della Giunta. Ciò in quanto, secondo il Consiglio di Stato, “l’accertata e notoria diffusione nel territorio della criminalità organizzata e le precarie condizioni di funzionalità dell’ente si configurano come condizioni necessarie e sufficienti per disporre lo scioglimento del Consiglio Comunale”. Ma non basta. Perché alla grande discrezionalità di cui gode il Ministero dell’Interno nella individuazione delle situazioni sintomatiche del pericolo di “infiltrazione” o di “condizionamento”, si affianca l’estrema angustia del sindacato del giudice amministrativo che, secondo la tesi ormai maggioritaria, non può estendersi oltre il profilo della logicità delle valutazioni che sorreggono il decreto di scioglimento. Peraltro, se ormai anche soltanto “un atteggiamento di debolezza, omissione di vigilanza e controllo, incapacità di gestione della macchina amministrativa da parte degli organi politici, che sia stato idoneo a beneficiare soggetti riconducibili ad ambienti controindicati”, viene considerato valido motivo di scioglimento di un Consiglio Comunale, non può sorprendere l’incredibile incremento dei commissariamenti registrato nel corso degli ultimi anni (ben 166 dal 2010 ad oggi), né l’esistenza di decine di enti già sciolti due o tre volte, come appunto il Comune di Rosarno, con il non invidiabile record detenuto dal Comune di Marano di Napoli, che nello scorso mese di luglio ha visto la terna commissariale insediarsi per la quarta volta. E il fatto che, secondo i giudici amministrativi, la “ragionevole conclusione di un più che probabile condizionamento mafioso” possa essere raggiunta dal Ministero dell’Interno “anche a discapito della volontà, e del contributo, dei singoli amministratori”, e vi sia la possibilità di dare peso anche “a situazioni non traducibili in addebiti personali, potendo rilevare, ai fini dello scioglimento, i semplici vincoli di parentela o di affinità, i rapporti di amicizia o di affari e le notorie frequentazioni”, consente di comprendere come, in molte occasioni, il commissariamento di un Comune sia vissuto come ingiusto non solo dai diretti destinatari del provvedimento ma anche dalla stessa cittadinanza. D’altro canto, a fronte della mancanza di un effettivo contraddittorio nella fase istruttoria e della segnalata compressione del diritto di difesa in quella processuale, non appare affatto rassicurante il principio recentemente enunciato dal Consiglio di Stato secondo cui, trattandosi di provvedimento disposto con “decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’interno, formulata con apposita relazione di cui forma parte integrante quella inizialmente elaborata dal prefetto, è lo stesso livello istituzionale degli organi competenti ad adottare il decreto di scioglimento a garantire l’apprezzamento del merito e la ponderazione degli interessi coinvolti.” Quanto tutto ciò sia conforme ai principi costituzionali e alle regole dello Stato di Diritto è davvero difficile da comprendere. Pasquale Simari

I condizionamenti inesistenti. Comune sciolto per infiltrazioni, ma di reati neanche l’ombra: il caso Monte Sant’Angelo. Antonio Di Iasio su Il Riformista il 27 Agosto 2021. Il consiglio comunale di Monte Sant’Angelo è stato sciolto nel luglio del 2015, sei anni fa. La prefettura di Foggia ha chiesto la misura dissolutoria, in applicazione dell’art. 143 del Testo Unico degli Enti Locali (Tuel), per «condizionamenti della criminalità organizzata tali da alterare il libero esercizio delle funzioni politiche ed amministrative». Convincimento, questo, che la prefettura dovrebbe aver maturato dopo l’accertamento di infiltrazioni criminali nelle faccende comunali conseguenti a quei condizionamenti di cui parla. La sua relazione, infatti, si incarica di descrivere alcune vicende amministrative (appalti, servizi) che sarebbero state interessate «dai fenomeni di compromissione o interferenza con la criminalità organizzata o comunque connotati da condizionamenti o da una condotta antigiuridica». A corredo, non mancano paroloni e roboanti frasi fatte per descrivere una cattiva gestione della cosa pubblica tipo “patologiche forme di disorganizzazione e di disordine amministrativo” e “grave degrado amministrativo”. Solo che, nel leggere quella relazione, e poi anche le memorie dell’avvocatura dello Stato e alcune sentenze dei giudici, non potevamo non farci alcune domande: ma di cosa e di chi stanno parlando? Avranno sbagliato comune visto che una memoria dell’avvocatura, scritta per Monte Sant’Angelo che è in provincia di Foggia, veniva presentata a firma della prefettura di Reggio Calabria? E ancora: stanno applicando l’art. 143 del Tuel, lo stesso di cui si è occupato la Corte Costituzionale definendo lo scioglimento uno strumento straordinario per fronteggiare una situazione straordinaria, o qualche altro meccanismo infernale? Domande assolutamente legittime perché il mondo descritto nelle carte non trovava alcun riscontro nella realtà che, con i fatti, ci raccontava tutta un’altra storia. Nei confronti degli amministratori non sono stati indicati comportamenti non consoni al loro ruolo, né per frequentare soggetti sbagliati, né per svolgere azioni mirate a perseguire voti di scambio, né per tentare di alterare procedimenti amministrativi, né per favorire qualsivoglia persona, né per perseguire interessi propri. Nessuna foto compromettente, nessuna telefonata imbarazzante. Nei loro confronti sono state segnalate solo due o tre parentele e un unico contatto con un pregiudicato: un saluto in luogo pubblico, all’esterno di un ristorante; nessuno di loro è stato neanche mai indagato per nulla. La macchina amministrativa è rimasta intatta e nessun provvedimento punitivo è stato preso nei confronti di tutti i dipendenti e funzionari citati nella relazione prefettizia: a oggi, fine agosto 2021, sono tutti ai loro posti. Non è stato appurato alcun episodio di corruzione, concussione o peculato. Non è stato indicato alcuna gara d’appalto oggetto di turbativa d’asta o appalti frazionati per assegnare singoli lotti in modo diretto. Nessuna gestione di un bene pubblico e nessun lavoro pubblico sono stati interrotti con l’arrivo della commissione straordinaria. La stessa commissione straordinaria non ha modificato o revocato alcun atto deliberativo della cessata amministrazione, non ha revocato alcun contratto vigente e, per l’intera durata del suo mandato, due anni, ha lavorato con tutte le persone e tutte le ditte che lavoravano in presenza dell’amministrazione comunale. La gestione finanziaria era quella di un comune virtuoso, con casse comunali piene di soldi, nessun debito, nessun credito inesigibile e tasse ai cittadini le più basse della provincia. Non è stato segnalato nessun caso di inopportuna e ingiustificata esenzione fiscale e neppure un solo euro fuori posto, alcuna anomalia in merito alla pianificazione urbanistica, nessun caso di abusivismo edilizio e men che meno riguardante persone malavitose. Nessuna anomalia nella gestione di beni confiscati alla mafia perché inesistenti. Alcuna anomalia in merito al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani. Nessun caso di personale assunto in maniera clientelare. A cosa mai potessero servire i condizionamenti fantasticati dalla prefettura rimane un mistero. Per essere estremamente chiari, ripeto: nei due anni di amministrazione straordinaria, tutte le ditte “sospette” citate dalla prefettura hanno continuato i lavori che avevano in corso, anzi, si sono aggiudicate nuovi appalti pubblici e sottoscritto nuovi contratti. Tanto per dire, una di quelle ditte ha provveduto ad allestire i seggi elettorali in occasione delle elezioni comunali del 2017, quelle successive allo scioglimento. Dimostrazione lampante che la commissione straordinaria, composta da funzionari di lunga esperienza, in due anni non ha rilevato nessuna anomalia nelle gestioni appaltate, nessuna alterazione del “libero esercizio delle funzioni politiche ed amministrative” e nessun elemento utile per interrompere con loro ogni rapporto lavorativo. Però il consiglio comunale di Monte Sant’Angelo è stato sciolto. Rimane ancora da capire il perché. Antonio Di Iasio

Ma quale regia mafiosa: dietro i disordini solo la disperazione. La relazione della commissione Antimafia fa chiarezza sulle proteste degli operatori economici e le tensioni provocate dalle restrizioni anti-Covid. Simon eDi meo su Il Quotidiano del Sud il 26 agosto 2021. Cassonetti dati alle fiamme e altri rovesciati, lanci di pietre all’indirizzo di Palazzo Santa Lucia (sede della presidenza della Regione Campania), scontri con la polizia e lacrimogeni per disperdere la folla. Immagini andate in scena a Napoli il 23 ottobre scorso ma che, di lì a poco, si sarebbero replicate quasi in ogni parte d’Italia. Proteste, quelle partenopee, scatenate dalla solita retorica incendiaria del governatore Vincenzo De Luca che, dopo mesi di lockdown, annunciava l’intenzione di alzare di nuovo il ponte levatoio per l’emergenza Covid-19 isolando la Campania dal resto del Paese. «È necessario chiudere tutto, fatte salve le categorie che producono e movimentano beni essenziali. È indispensabile bloccare la mobilità. La Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo», affermò il governatore del Pd. Parole che, come benzina sul fuoco, scatenarono la rabbia di ristoratori, imprenditori, liberi professionisti e semplici cittadini terrorizzati dalla prospettiva di una nuova clausura senza alcun tipo di garanzia economica. A distanza di poche ore dalla diretta Facebook del politico dem, le strade di Napoli si trasformarono infatti in uno scenario che alcuni quotidiani definirono di guerra. Ma chi è che manifestava? Chi c’era in piazza? Secondo il Viminale e secondo lo stesso De Luca dietro quelle proteste si mossero i clan della camorra interessati a creare conflitti in seno allo Stato per approfittare delle condizioni di caos. Una narrazione che fece presa anche presso la pubblica opinione e che attecchì, come una malapianta, nel dibattito politico riuscendo a convincere anche qualche alto magistrato antimafia. A distanza di mesi, però, la verità è venuta a galla. E a scriverla è quella stessa commissione Antimafia che pure aveva contribuito ad etichettare i manifestanti come fiancheggiatori dei criminali e simpatizzanti della lupara. «I fatti di cronaca che hanno riguardato Palermo, Napoli, Roma, Torino – per citare solo alcune delle città che hanno visto manifestazioni più o meno spontanee contro le chiusure e le restrizioni imposte dal Governo – al momento non possono essere trattati come fenomeni organizzati o coordinati dai locali clan mafiosi», c’è scritto nella relazione sull’emergenza Covid depositata qualche giorno fa in Parlamento. Insomma, abbiamo scherzato. «La Commissione – si legge nel dossier – ritiene di poter affermare che l’atteggiamento tenuto dalle varie componenti mafiose sui territori sia sostanzialmente incompatibile, di conseguenza, con la regia e la gestione dei disordini che si sono manifestati in varie città italiane a ridosso della proclamazione del lockdown e delle successive zone rosse». «Questa analisi – c’è scritto ancora – viene sostanzialmente confermata nell’ultima relazione semestrale della Dia relativa al primo semestre 2020, all’interno della quale, con riferimento all’analisi delle varie province ove le mafie operano, viene riscontrato un impegno specifico sempre più orientato a modelli imprenditoriali, declinati sulla base delle specificità territoriali all’interno delle quali sono operative». Ragion per cui «tramare e rafforzare la propria posizione, per cogliere al meglio le opportunità imprenditoriali che il territorio offre, non richiede, tanto meno in questa fase, il ricorso alla violenza e quindi verosimilmente esclude la componente mafiosa nell’organizzazione dei disordini sociali riscontrati a macchia di leopardo sul territorio nazionale». E pensare che, proprio riguardo al caso napoletano, il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra era stato tra i primi a fare riferimento ai «clan della Pignasecca, del Pallonetto e dei Quartieri Spagnoli» dietro le ribellioni. Invece la storia è tutt’altra. Non mafiosi, dunque, ma semplicemente uomini e donne disperati. Operatori economici e commerciali messi in ginocchio dai ritardi (o dalla mancanza) di indennizzi adeguati, ancorché promessi dal governatore De Luca e dal premier dell’epoca, Giuseppe Conte. Oltre al danno di essere finiti sul lastrico pure la beffa di sentirsi chiamare mafiosi.

Il paradosso degli eredi di Falcone: accusati di mafia da giovani Pm che di Cosa nostra non sanno nulla. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Maggio 2020. Personalmente ricordo molto bene quel giorno di 28 anni fa. Arrivò la notizia in redazione poco prima del Tg3 e restammo sgomenti. Falcone in fin di vita, Falcone morto, e anche sua moglie, morta, e gli uomini della scorta, e la potenza e la scientificità mostruosa dell’attentato. La Fiat Croma demolita dalla bomba. E poi un’altra cosa: il pensiero di quel che avevamo scritto e fatto nei mesi precedenti. Dico noi dell’Unità. Allora ero vicedirettore dell’Unità. Da qualche giorno il direttore era cambiato ed era venuto a dirigerci un giovane e brillante leader politico: Walter Veltroni. Cosa avevamo fatto e detto noi dell’Unità? Semplicemente avevamo con una certa cocciutaggine dato sponda ad una campagna contro Falcone. Con l’idea che Falcone avesse ceduto alle pressioni di quel pezzo di politica che era compromesso con la mafia e che Falcone volesse nascondere il “terzo livello”. In gergo si chiamava così: terzo livello. Si diceva che la mafia fosse fatta a tre strati: la truppa, poi i capi (cioè la cupola, che allora era guidata da Totò Riina il quale aveva spodestato il vecchio Greco) e infine il terzo livello, e cioè la direzione vera, composta da un certo numero di esponenti altissimi della politica italiana. La suggestione era che nel seggio più alto ci fosse Andreotti. Falcone smentì quell’idea, disse chiaramente che per fare la lotta alla mafia si doveva fare la lotta alla mafia. Cercando i soldi, gli indizi, le prove, i colpevoli. Usando la tecnologia, i pentiti, le proprie capacità di indagine sul terreno. E non inseguendo teorie bislacche scritte a tavolino. E neppure affidandosi alle speranze che dalla lotta alla mafia potessero venire dei danni per i propri avversari e quindi dei vantaggi per se. Il terzo livello – disse – non esiste. Poco prima di lasciare la magistratura, costretto dalla guerra che gli facevano i colleghi – e la politica, e i giornali – Falcone aveva incriminato per calunnia un pentito – si chiamava Pellegritti – che voleva tirare in ballo Andreotti. Lo incriminò perché le sue accuse apparivano del tutto infondate e prive di riscontri. Falcone usò in modo molto spregiudicato i pentiti, però sapeva usarli: non andava dietro a chiunque e nemmeno pretendeva di imbeccarli. Li ascoltava, controllava, riscontrava, cercava prove. Dopo di lui nessuno più ha fatto così. I pentiti sono diventati i padroni delle Procure. Dicevo di quel pensiero: avevamo sbagliato tutto. Avevamo pensato che Falcone fosse un moderato, uno che voleva il compromesso. Che abbaglio. Falcone era semplicemente il più geniale investigatore mai apparso nel nostro paese, conosceva il suo mestiere, talvolta lo esercitava persino in modo spavaldo e forse eccessivamente aggressivo, e facendo così – in pochi anni – aveva inferto alla mafia i colpi più pesanti che mai la mafia avesse ricevuto in tutta la sua storia secolare. Falcone usò persino strumenti discutibili, come il maxiprocesso, e probabilmente lo fece sapendo che quegli strumenti erano discutibili, ma faceva queste cose dentro una visione politica e del diritto, e con la forza di una professionalità che nessun altro si è mai sognato di possedere. Falcone lavorava con un gruppo ristretto e molto fidato di collaboratori. Quando lasciò la procura di Palermo per andare a Roma con Claudio Martelli al ministero della Giustizia, lasciò in Sicilia alcuni dei suoi uomini più sicuri e combattivi. Volete un nome? Il più forte, il più illustre? Era un colonnello. Si chiamava Mario Mori. Aveva fatto esperienza col generale Dalla Chiesa, prima sulla frontiera del terrorismo e poi su quello di Cosa Nostra. Era abile, determinato, intelligente. Conosceva perfettamente Falcone, i suoi metodi, la struttura delle sue indagini. Stava lavorando su un dossier che aveva impostato con Falcone. Si chiamava Mafia e Appalti. Aveva messo insieme tutte le informazioni sui rapporti di Cosa Nostra con le imprese del Nord. Falcone fece pressioni perché il dossier fosse preso in mano da Borsellino. Anche Borsellino fece pressioni per averlo. Era un dossier che poteva travolgere la borghesia italiana. La mattina del 19 luglio (del 1992) il Procuratore di Palermo Giammanco telefonò a Borsellino e gli disse che gli avrebbe affidato il dossier. All’ora di pranzo però Borsellino fu ucciso. E in realtà cinque giorni prima della sua morte due sostituti di Giammanco avevano già firmato la richiesta di archiviazione di quel dossier. La storia del dossier finisce lì, muore con Borsellino tutto il lavoro di Falcone sui rapporti tra mafia e borghesia del Nord. Mori, dopo quel colpo, si ritirò in buon ordine, perché Mori è un carabiniere. E da carabiniere continuò la sua guerra strenua con la mafia. Era una guerra pericolosissima, perché aveva di fronte i corleonesi, quelli che i mafiosi siciliani chiamavano “I viddani”, che avevano travolto la mafia di Palermo e ora stavano conducendo una politica da esercito, non da cosca: da falange militare feroce, sparavano più che potevano, attentati, dinamite, morte morte morte. L’hanno persa quella battaglia i “viddani”, facendo e lasciando molte vittime sul campo. Mori l’ha vinta. Ma la compagnia dell’antimafia, quella che aveva perseguitato Falcone, gli si rivoltò contro, come aveva fatto con Falcone. Mori e i suoi uomini, cioè quel pugno di audaci militari combattenti che sconfisse l’esercito di Riina e salvò l’Italia da un bagno di sangue, oggi sono sotto processo. È il più spaventoso e triste paradosso della storia della repubblica. La mafia se la ride. Il processo “trattativa” quello voluto da Ingroia e Di Matteo è la più clamorosa ingiustizia della storia della Sicilia. Si fonda sulle accuse di un mafioso e del figlio di un mafioso: Brusca e Ciancimino. Gli eroi sono processati dai burocrati. I nemici della mafia messi sotto accusa da un apparato statale di dilettanti. Povero Falcone. Povero Falcone. P.S. Quel giorno, il 23 maggio, andai dal nuovo direttore e gli dissi che volevo scrivere un articolo per dire quanto e perché noi dell’Unità avevamo sbagliato a schierarci coi dilettanti dell’antimafia contro Falcone. Veltroni me lo fece scrivere e lo pubblicò, mi pare il giorno dopo. Io vado molto fiero di quell’articolo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

(ANSA il 2 ottobre 2021) - Il Tribunale del Riesame di Napoli ha rigettato l'istanza di revoca degli arresti domiciliari emessa nei confronti del senatore di Forza Italia Luigi Cesaro. Lo rendono noto fonti di stampa. La misura cautelare è stata emessa ad inizio settembre nell'ambito di un'indagine della DDA di Napoli sul clan Puca di Sant'Antimo, comune del Napoletano in cui è il parlamentare (difeso dagli avvocati Alfonso Furgiuele e Michele Sanseverino) è nato 69 anni fa. Gli inquirenti contestano al senatore e alla sua famiglia rapporti con l'organizzazione malavitosa locale. L'esecuzione della misura cautelare emessa per l'accusa di concorso esterno in associazione camorristica rimane sospesa fino al pronunciamento della Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato.

Due anni anche dietro le sbarre, poi...“Non era concorso esterno”, assolti i fratelli Cesaro dopo 4 anni di gogna. Viviana Lanza su Il Riformista il 25 Settembre 2021. Quattro anni di custodia cautelare, di cui due in carcere, e poi la gogna mediatica, le accuse e i sospetti, l’inchiesta e il processo. Una lunga attesa durata fino al pomeriggio di ieri, quando il giudice Francesco Chiaromonte, presidente del collegio del Tribunale di Napoli Nord, è uscito dalla camera di consiglio con un dispositivo di sentenza che vuol dire assoluzione per Aniello e Raffaele Cesaro, gli imprenditori fratelli di Luigi, il senatore di Forza Italia ed ex presidente della Provincia di Napoli. Assoluzione da un’accusa che è di quelle che possono marchiare a vita, che riescono a condizionare vite personali e professionali. Un reato su cui spesso la magistratura vira quando si tratta di implicare un politico in un’inchiesta antimafia. In due parole: concorso esterno. Sì, i fratelli Cesaro erano stati trascinati in giudizio con l’accusa di concorso esterno in associazione camorristica. La Dda napoletana sospettava che nel loro ruolo di imprenditori avessero in qualche modo favorito il clan Polverino, ritenuto egemone nel comune di Marano. Tutta la vicenda giudiziaria ha ruotato, infatti, attorno alla realizzazione del Pip di Marano, un insediamento industriale su cui, secondo pm e carabinieri, aveva messo le mani anche la camorra. Il teorema accusatorio era stato costruito sulla base, soprattutto, di dichiarazioni di collaboratori di giustizia e di esperti che avevano lavorato sui vari adempimenti tecnici del Pip, e l’accusa si concentrava sull’ipotesi che collaudi e servizi di urbanizzazione avessero risentito dell’influenza dei Cesaro e indirettamente del clan Polverino. Un’accusa che la difesa dei fratelli Cesaro ha demolito fino ad arrivare alla sentenza di ieri. I giudici hanno stabilito l’assoluzione con la formula «perché il fatto non sussiste». «Dopo quattro anni di custodia cautelare, di cui due in carcere, viene certificata l’innocenza di Aniello e Raffaele Cesaro rispetto alla infamante imputazione di essere venuti a patti con il clan Polverino», sottolinea il professor Vincenzo Maiello che con l’avvocato Michele Sanseverino ha difeso Aniello e Raffaele Cesaro nel processo davanti al Tribunale di Napoli Nord. «Dobbiamo dare atto al Tribunale – aggiunge il professor Maiello – di non essersi lasciato condizionare dal clima pesante e diffuso di pregiudizio che, anche grazie a una martellante campagna mediatica, si era venuto a determinare nei confronti dei miei assistiti. Resta l’amarezza di un processo caratterizzato da un regime cautelare di inusitata durata, che ha prodotto ai miei assistiti livelli indicibili di sofferenza fisica e psicologica e che ha arrecato danni enormi alle loro attività economico-imprenditoriali». Per Aniello Cesaro c’è stata, al termine del processo, una condanna a sei anni, pena dimezzata rispetto a quella chiesta dai pm, ma per reati che non risultano collegati ad attività di tipo camorristico. Condanna, inoltre, per il tecnico Oliviero Giannella (a dieci anni di reclusione) e per l’imprenditore maranese Antonio Di Guida (a sette anni). Assolti, infine, dall’ipotesi di fittizia intestazione dei beni Salvatore Polverino e Antonio Visconti. Si chiude così il processo sull’area Pip di Marano. Uno scandalo giudiziario scoppiato a dicembre 2016 con sequestri e accuse pesantissime soprattutto nei confronti dei fratelli Cesaro, con tutte le conseguenze che un’inchiesta di tale portata può avere sulla vita dei due fratelli imprenditori e delle loro aziende. Ieri l’assoluzione in primo grado.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il caso. Caso Cesaro, parla il penalista Maiello: “È la rivincita della giustizia sul processo mediatico”.  Viviana Lanza su Il Riformista il 30 Settembre 2021. Il 24 settembre scorso il Tribunale di Napoli Nord ha assolto i fratelli Raffaele e Aniello Cesaro dal reato di concorso esterno in associazione camorristica con una formula – il fatto non sussiste – che smonta la tesi su un presunto patto tra criminalità organizzata, imprenditoria e politica nella gestione dei lavori del PIP di Marano. La sentenza è arrivata al termine di un iter processuale segnato da anomalie e molti fattori di tensione amplificati dalla risonanza mediatica collegata al rilievo pubblico della vicenda e alla condizione degli imputati (sono i fratelli del senatore di Forza Italia Luigi Cesaro). Sbagliato, quindi, parlare di sentenza choc senza soffermarsi sui dettagli e analizzare i fatti nella loro completezza, cedendo al solo fascino di ricostruzioni a prova di prima pagina di giornale. Vale ripercorrere l’iter del processo. Il 25 maggio 2017 scattano gli arresti cautelari per i quali gli imputati trascorreranno quasi due anni in carcere più altri due ai domiciliari. L’inchiesta della Dda ha un enorme impatto mediatico, gli inquirenti la battezzano pure “Meatball”, dal termine inglese che significa polpetta, ed è noto ai più che corrisponde al soprannome di Luigi Cesaro. «Un’indagine che reca nell’etichetta lessicale che la definisce il riferimento a una persona estranea al processo appare una significativa ‘voce dal sen fuggita’, che finisce per rivelare gli obiettivi autentici ma reconditi, poiché tradisce una non confessabile orientazione politica dell’indagine», osserva il professor Vincenzo Maiello, l’autorevole penalista che ha guidato la difesa dei fratelli Cesaro. Questo è uno dei primi punti di anomalia che poteva pesare anche in dibattimento. Quali sono gli altri? Il processo cambia collegio perché sui giornali spuntano foto del suo presidente a una convention di Forza Italia. Poi c’è una questione relativa a verbali a sommarie informazioni e intercettazioni non depositati: per la Procura sono irrilevanti, per la difesa smentiscono un passaggio centrale della tesi accusatoria. Infine, il tentativo di dare una corsia preferenziale al dibattimento: accade quando diventa ufficiale che il presidente del collegio passerà di lì a breve a un nuovo incarico e il presidente del Tribunale ridefinisce i ruoli di udienza, disponendo il congelamento della trattazione di ogni altro processo. Gli avvocati insorgono, abbandonano la difesa, vengono denunciati al Consiglio di disciplina forense, che archivia l’esposto rilevando la correttezza della condotta processuale dei difensori. Il presidente del Tribunale revoca l’ordine di servizio: nessuna corsia preferenziale. Gli avvocati riprendono la difesa e dopo un ulteriore anno e mezzo di intensa istruttoria si arriva alla sentenza. «Una decisione imparziale, rivelatrice di un’ammirevole autonomia e indipendenza di giudizio del Tribunale, che ha saputo immunizzare pesanti fattori di condizionamento, taluni riconducibili all’autorevolezza dell’Ufficio di Procura ed alla forza di prevenzione del giudicato cautelare, altri al pregiudizio di una verità ostile agli imputati che era stata alimentata da una martellante campagna mediatica e che era stata esportata finanche in contesti istituzionali», commenta Maiello. Come a dire che, quando nel processo ognuno fa in fondo la propria parte, la giustizia non è una chimera.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il dietrofront dell’eurodeputato di Forza Italia. Martusciello sbaglia, il garantismo non può essere a targhe alterne. Amedeo Laboccetta su Il Riformista il 23 Settembre 2021. Ancora una volta, da cittadini che in qualche modo si sforzano di capire dove ci porterà la politica nostrana, siamo in debito di gratitudine con la stampa, forse oggi uno degli ultimi baluardi della libertà (quanto meno di pensiero) e della democrazia. È grazie al Corriere del Mezzogiorno, infatti, che ieri abbiamo avuto modo e possibilità di chiarirci un po’ tutti, una volta e per tutte, le idee su chi sia veramente Fulvio Martusciello. Dalle colonne del quotidiano cittadino, l’eurodeputato e coordinatore napoletano di Forza Italia ha chiarito come il partito debba «recuperare lo spirito delle origini» e presentarsi come la casa dei liberali e dei garantisti. Martusciello ha così tentato di sdoganare la pratica del garantismo del giorno dopo. Quello a scoppio ritardato. Beneficiario, nel caso di specie, è stato Armando Cesaro, lo stesso per il quale Martusciello tanto si adoperò perché fosse cacciato dalle liste regionali di Forza Italia per una vicenda giudiziaria dalla quale, alla fine, è uscito immacolato. Lo stesso, per intenderci, che mai e poi mai il candidato sindaco di Napoli sostenuto da Martusciello, cioè Catello Maresca, vorrebbe con sé su un palco. Ora, c’è qualcuno davvero disposto a credere ai salti di gioia di Martusciello alla notizia dell’assoluzione di Armando Cesaro e di suo padre Luigi? Non credo. Ma comunque, visto che parliamo di garantismo a giorni alterni, suggerirei alla “sua” Forza Italia di adottare la soluzione delle targhe alterne, di cui proprio Napoli fu capofila in Italia per contenere il traffico in città. In questo modo ci aiuterebbe a capire in quali giorni il partito di Martusciello è garantista e in quali non lo è. Così, giusto per regolarci. Ma di che predica questo signore che poi razzola male? Viste le durissime conseguenze del manettarismo di casa nostra – e lo scrive chi le ha sperimentate sulla propria pelle perché indagato – ci saremmo attesi ben altro contegno politico. Possibilmente non di facciata, sicuramente non del giorno dopo. Ma qual è il garantismo di Martusciello? Quello che si tributa esclusivamente al leader della propria forza politica? Mi chiedo davvero cosa se ne faccia Silvio Berlusconi, padre nobile del garantismo italiano e forse europeo, di un partito che non esita a lasciare nella solitudine più disperata quei compagni di viaggio che loro malgrado, il più delle volte innocenti, finiscono nel cruento e spietato tritacarne mediatico-giudiziario. Sarebbe questa, questa Forza Italia, la casa dei garantisti italiani?  Se davvero avessero voluto mostrarsi tali, se davvero avessero voluto dare una lezione di garantismo ai forcaioli di casa nostra, non avrebbero mai dovuto accettare il passo di lato di Armando Cesaro e avrebbero dovuto imporgli la candidatura alle scorse regionali. E invece giù a dar corda ai tintinnii di manette, ai veti di Matteo Salvini e al divieto di salire sul palco di Maresca. Quanta pochezza, quanta miseria politica! E allora la domanda è: qual è la vera Forza Italia? Quella del Cavaliere del garantismo o del Martusciello oggi giustizialista e domani garantista? Non credo che i posteri dovranno faticare granché per una così poco ardua sentenza. Amedeo Laboccetta

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 18 settembre 2021. Un filosofo disse: «La verità è figlia del tempo». E quel tempo, oggi, è arrivato. Dopo 6 anni di gogna il tribunale di Napoli Nord ha assolto «perché il fatto non sussiste» Luigi e Armando Cesaro dall'accusa di voto di scambio non aggravato contestata in occasione delle Regionali 2015. Luigi Cesaro è senatore di Forza Italia, mentre il figlio Armando è stato consigliere regionale in Campania dello stesso partito. Insieme con i Cesaro sono stati assolti, con la stessa formula, altre 27 persone. «Faccio politica da quando avevo 15 anni, è la passione della mia vita - si sfoga Armando su Facebook -. Ho fatto tutta la gavetta e mi sono fatto le ossa combattendo contro un pregiudizio che mi ha accompagnato, ma che non credo di meritare. E ho passato gli ultimi tre anni e mezzo a dover rinunciare a tutto questo, perché finito sotto inchiesta. Per senso di responsabilità e rispetto verso la mia gente, verso il mio partito, anzi, verso il capo del mio partito, mi sono fatto da parte. E oggi sono stato assolto perché il fatto non sussiste. Non festeggio, perché sono state tante, troppe le rinunce, le ingiurie, la tristezza». All'inizio del procedimento giudiziario, la difesa aveva sollevato un'eccezione sull'utilizzabilità delle intercettazioni. Il giudice si riservò la decisione ma sopraggiunse la cosiddetta «sentenza Cavallo» che, in sostanza, confermò gli argomenti posti a sostegno delle eccezioni sollevate dal legale. Tra le persone assolte anche Flora Beneduce, già consigliera regionale di Forza Italia in Campania, attualmente consigliera per la Sanità del governatore Vincenzo De Luca. «La fiducia che ho sempre nutrito nei confronti della magistratura è stata ripagata. La vicenda non mi ha solo provocato un enorme dolore legato alla consapevolezza della mia innocenza, ma è stata anche lesiva della mia immagine». Tanti i commenti del mondo della politica. I consiglieri regionali di Fi della Campania Annarita Patriarca, Stefano Caldoro e Massimo Grimaldi affermano che «la giustizia ha restituito al nostro partito e ai suoi dirigenti l'onore e la reputazione di cui mai abbiamo dubitato» e il coordinatore campano di Fi Domenico De Siano sostiene che questa è «una splendida, attesa, notizia: non abbiamo mai dubitato della correttezza del loro operato mantenendo sempre salda la fiducia nella magistratura». «Sono felicissimo dice Antonio Pentangelo, coordinatore di Forza Italia per la provincia di Napoli ma resta il forte dispiacere perché questa vicenda ha di fatto impedito a me e ad altri 30mila elettori di poter essere rappresentati nelle istituzioni regionali da un ragazzo davvero in gamba che ho visto crescere come uomo e come politico». Felice anche la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini che però polemizza sul fatto che si tratta «dell'ennesima dimostrazione di come fattispecie di reato troppo vaghe come il voto di scambio e il traffico di influenze aprano le porte a un eccesso di discrezionalità della magistratura. Troppe sono le inchieste aperte in base a elementi fragili e surrettizi».

Lo sfogo di Cesaro: «Assolto ma non festeggio, troppe ingiurie e tristezza». Con un lungo post pubblicato sulla sua pagina Facebook, Armando Cesaro, ex consigliere regionale campano di Forza Italia, commenta l’assoluzione nel processo che lo vedeva indagato per voto di scambio insieme al padre, il senatore di Forza Italia Luigi Cesaro. Il Dubbio il 19 settembre 2021. Il tribunale di Napoli Nord, in composizione monocratica, ha assolto con formula piena il senatore di Forza Italia, Luigi Cesaro, e il figlio Armando, con altre 27 persone dall’accusa di voto di scambio. Per la corte, «il fatto non sussiste». Insieme con i Cesaro, difesi da Michele Sanseverino e Alfonso Fiurgiuele, sono stati assolti, l’ex sindaco di Giugliano Angelo Liccardo, difeso dagli avvocati Roberto Guida e Roberto Saccomanno, e Flora Beneduce (Iv), consigliere per la Sanità del presidente della Campania Vincenzo De Luca, difesa da Alfredo Sorge. Il giudice Agostino Nigro ha accolto, tra l’altro, le richieste di assoluzione formulate dal pm Patrizia Dongiacomo. L’inchiesta che aveva portato al processo riguardava le elezioni regionali del 2015. «Sono Armando, faccio politica da quando avevo 15 anni, è la passione della mia vita e ho passato gli ultimi tre anni e mezzo a dover rinunciare a tutto questo perché sono finito sotto inchiesta. Oggi sono stato assolto perché il fatto non sussiste. Non festeggio perché sono state tante le rinunce, le ingiurie, la tristezza», ha scritto con un lungo post pubblicato sulla sua pagina Facebook, Armando Cesaro. Nel post ripercorre la sua carriera politica: «Ho fatto tutta la gavetta e mi sono fatto le ossa combattendo contro un pregiudizio che mi ha accompagnato, ma che non credo di meritare. Ho sempre avuto un solo obiettivo: rappresentare i miei concittadini nelle istituzioni, e difenderli. Essere il riferimento della mia gente, del popolo da cui provengo e con cui sono cresciuto. Di cui conosco ogni piccolo problema. Lavorando, senza mollare mai, ho raggiunto tutti i miei traguardi. Dal sogno di un bambino che guardava Silvio Berlusconi come il proprio mito, alla vice presidenza nazionale dei giovani di Forza Italia e all’elezione al consiglio regionale della Campania, con 30mila preferenze. Ho risolto problemi, presentato proposte di legge. Sempre presente, sempre attivo. Ho lavorato tanto, come mi piace e come so fare. Sono Armando. E ho passato gli ultimi tre anni e mezzo a dover rinunciare a tutto questo, perché finito sotto inchiesta». Cesaro ricorda che «per senso di responsabilità e rispetto verso la mia gente, verso il mio partito, anzi, verso il capo del mio partito, mi sono fatto da parte. E ho aspettato, silenziosamente. Sono stati mesi lunghi e difficili. Da titolare ho scelto di mettermi a bordo campo. Da dirigente ho scelto di tornare militante. Per non dare modo a nessuno di strumentalizzare la mia posizione. E mi è costato tanto. Sono Armando. E oggi sono stato assolto perché il fatto non sussiste. Gli amici veri, quelli che mi conoscono davvero, hanno sempre creduto nella bontà delle mie azioni e mi sono rimasti accanto. E li ringrazio. Non festeggio, perché sono state tante, troppe le rinunce, le ingiurie, la tristezza. Un filosofo disse: “la verità è figlia del tempo”. Quel tempo, oggi, è arrivato», conclude Armando Cesaro.

"Il fatto non sussiste". Voto di scambio, i Cesaro assolti dopo gogna e veto di Salvini: “C’è poco da festeggiare”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 17 Settembre 2021. Anni di gogna e come sempre più spesso capita l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Il tribunale di Napoli nord, con queste motivazioni, ha assolto il senatore di Forza Italia Luigi Cesaro e il figlio Armando (ex consigliere regionale della Campania) dall’accusa di voto di scambio, in occasione delle elezioni regionali del 2015. Insieme con i Cesaro (difesi dall’avvocato Michele Sanseverino e dal professore Alfonso Fiurgiuele), sono stati assolti perché il fatto non sussiste altre 27 persone. “Ho fatto tutta la gavetta e mi sono fatto le ossa combattendo contro un pregiudizio che mi ha accompagnato, ma che non credo di meritare – scrive sui social Armando Cesaro che alle regionali 2020, da capogruppo uscente, fece un passo indietro non ricandidandosi dopo la richiesta di Matteo Salvini, segretario della Lega-. Ho sempre avuto un solo obiettivo: rappresentare i miei concittadini nelle istituzioni e difenderli. Essere il riferimento della mia gente, del popolo da cui provengo e con cui sono cresciuto. Di cui conosco ogni piccolo problema”. “Faccio politica da quando avevo 15 anni, è la passione della mia vita. Ho frequentato le sezioni – spiega Cesaro jr – affisso i manifesti di notte, distribuito volantini ai gazebo, allestito palchi, principalmente per farci salire altri – sottolinea – Ricordo il profumo dei primi fac-simile con il mio nome, l’emozione di vedere i primi manifesti con la mia foto. Il mio primo comizio, ho ancora i brividi. Lavorando, senza mollare mai, ho raggiunto tutti i miei traguardi. Dal sogno di un bambino che guardava Silvio Berlusconi come il proprio mito, alla vice presidenza nazionale dei giovani di Forza Italia e all’elezione al Consiglio regionale della Campania, con 30.000 preferenze. Ho risolto problemi, presentato proposte di legge. Sempre presente, sempre attivo – aggiunge – Sono Armando. E ho passato gli ultimi tre anni e mezzo a rinunciare a tutto questo, perché finito sotto inchiesta”. Poi l’attacco al partito, Forza Italia, che nel 2020 si piegò, in silenzio, alla richiesta del leader della Lega: “Per senso di responsabilità e rispetto verso la mia gente, verso il mio partito anzi, verso il capo del mio partito mi sono fatto da parte. E ho aspettato, silenziosamente. Sono stati mesi lunghi e difficili. Da titolare ho scelto di mettermi a bordo campo. Da dirigente ho scelto di tornare militante. Per non dare modo a nessuno di strumentalizzare la mia posizione. E mi è costato tanto. Sono Armando. E oggi sono stato assolto perché il fatto non sussiste – dice ancora – Gli amici veri, quelli che mi conoscono davvero, hanno sempre creduto nella bontà delle mie azioni e mi sono rimasti accanto. E li ringrazio. Non festeggio, perché sono state tante, troppe le rinunce, le ingiurie, la tristezza. Un filosofo disse: ‘La verità è figlia del tempo’. Quel tempo, oggi, è arrivato”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute. 

Il gip firma l'ordinanza. “Arrestate Luigi Cesaro”, chiesti i domiciliari per concorso esterno: a decidere sarà il Senato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Luigi Cesaro deve andare agli arresti domiciliari. Il senatore di Forza Italia ed ex presidente della Provincia di Napoli è accusato di concorso esterno in associazione camorristica per presunti legami tra la sua famiglia e il clan Puca, attivo a sant’Antimo, città d’origine di Cesaro. Una presunta corruzione per agevolare, secondo l’impostazione accusatoria, la campagna elettorale di suo figlio Armando come candidato al Consiglio regionale della Campania nel 2015. Il gip di Napoli Maria Luisa Miranda ha infatti firmato l’ordinanza cautelare, accogliendo la richiesta della Procura antimafia partenopea che aveva delegato ai carabinieri del Ros l’inchiesta sui presunti accordi politico-mafiosi tra Cesaro e il clan Puca. Una misura cautelare che ovviamente non potrà essere eseguita senza l’autorizzazione del Senato, che sarà chiamato ad esprimersi sul “sì” all’arresto. Palazzo Madama aveva già autorizzato nel marzo scorso l’utilizzo di sei delle 28 intercettazioni riguardanti Cesaro, proposta avanzata dal relatore del provvedimento, il senatore di Italia Viva Giuseppe Cucca. Una decisione, quella del Senato, che potrebbe non avere conseguenze concrete sul processo: di fatto è stato autorizzato l’utilizzo di una fonte di prova che non è utilizzabile. Lo scorso ottobre 2020 il giudice Nigro del Tribunale di Napoli Nord aveva escluso il valore di prova di quelle conversazioni telefoniche e ambientali captate dagli inquirenti nell’ambito delle indagini su un presunto voto di scambio nel periodo tra maggio e giugno 2015 quando in Campania si tennero le elezioni regionali. Per questa indagine i fratelli del senatore di Forza Italia, Aniello, Antimo e Raffaele, sono già a giudizio. L’inchiesta coordinata dai pm Giuseppina Loreto e Antonella Serio, con la procuratrice aggiunta Rosa Volpe, aveva portato nel giugno 2020 a 59 misure cautelari: i magistrati antimafia avevano chiesto l’arresto in carcere per il senatore, richiesta poi rinviata dal gip per consentire l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni e poi modificata nei “semplici” domiciliari. Pronta e netta la reazione da parte dei legali del senatore forzista. Gli avvocati di Cesaro, Alfonso Furgiuele e Michele Sanseverino, hanno già annunciato ricorso al tribunale del Riesame sottolineando comunque che l’ufficio del pm “ha già rivisto l’originaria richiesta cautelare, invocando la sottoposizione agli arresti domiciliari invece della custodia cautelare in carcere”. Quanto alla richiesta di arresto, i due legali evidenziano che il provvedimento “sia meritevole di una ferma censura, sia in ordine al profilo della gravità indiziaria sia a quello dell’esistenza e permanenza attuale delle esigenze cautelari. Pertanto, indipendentemente dalla decisione che verrà adottata dal Senato in ordine alla richiesta di autorizzazione all’arresto, si proporrà immediatamente istanza di riesame al Tribunale della Libertà di Napoli”. Carmine Di Niro

Le toghe contro la politica. I giudici ci riprovano: “Cesaro va arrestato”. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Settembre 2021. L’accusa ci riprova, chiede gli arresti domiciliari. Il gip del Tribunale di Napoli accoglie la richiesta e firma la misura cautelare. Ma sarà il Senato a decedere se concedere o meno l’autorizzazione a procedere. Nel mirino c’è Luigi Cesaro, senatore di Forza Italia ed ex presidente della Provincia di Napoli. I pm vogliono vederlo in manette perché ritengono che tra la sua famiglia e il clan Puca di Sant’Antimo vi sia stato un presunto «patto di reciproca convenienza», una sorta di accordo politico-mafioso. Tutto si basa sul contenuto di alcune intercettazioni telefoniche, quasi tutte però inutilizzabili, tanto che a maggio scorso il Senato ne aveva autorizzato l’uso di sei su 28. E proprio all’esito di questa decisione sulle conversazioni captate nel corso delle indagini, la Procura aveva cambiato rotta decidendo di non chiedere più il carcere nei confronti del senatore, ma gli arresti domiciliari. La richiesta è rimasta poi sospesa fino a ieri, fino cioè alla decisione del giudice per le indagini preliminari di accogliere la richiesta dei pm della Dda: arresti domiciliari per Luigi Cesaro. L’ultima parola spetta, tuttavia, alla Giunta per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama: sarà quell’organo, infatti, a decidere se autorizzare o meno l’esecuzione della misura cautelare nei confronti del senatore di Forza Italia. Il provvedimento del gip, quindi, resta congelato in attesa che della decisione del Senato. Intanto non si non può notare come la notizia piombi nel bel mezzo della campagna elettorale per le amministrative di Napoli, una campagna della quale sono protagoniste anche molte persone politicamente vicine a Cesaro. E piomba, sul piano giudiziario, con una motivazione che secondo i difensori di Cesaro fa acqua da più parti. Gli avvocati Alfonso Furgiuele e Michele Sanseverino, che assistono il politico finito sotto inchiesta per l’ipotesi di concorso esterno in associazione camorristica, sottolineano innanzitutto che già l’ufficio del pm ha rivisto l’originaria richiesta cautelare, invocando la sottoposizione di Cesaro agli arresti domiciliari invece della custodia cautelare in carcere. «All’esito di un primo rapido esame della motivazione del provvedimento – osservano i difensori – si ritiene che esso sia meritevole di una ferma censura, sia in ordine al profilo della gravità indiziaria sia a quello dell’esistenza e permanenza attuale delle esigenze cautelari». Di qui la scelta difensiva di ricorrere subito al Tribunale del Riesame. «Indipendentemente dalla decisione che verrà adottata dal Senato in ordine alla richiesta di autorizzazione all’arresto – spiegano in una nota gli avvocati Furgiuele e Sanseverino – sarà immediatamente proposta istanza di riesame al Tribunale della Libertà di Napoli». Al centro del confronto tra accusa e difesa c’è in particolare la questione legata all’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, anche alla luce dalla cosiddetta sentenza Cavallo della Cassazione a Sezioni Unite: una pronuncia in base alla quale la Suprema Corte ha dettato la linea e posto chiari argini all’uso indiscriminato, da parte degli inquirenti, di conversazioni intercettate in più procedimenti diversi.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il caso di Luigi Cesaro. Sacrificare la libertà non può essere l’unica strategia delle toghe. Amedeo Laboccetta su Il Riformista il 13 Settembre 2021. La vicenda di Luigi Cesaro ripropone almeno due annose questioni: l’una attiene alla permanenza, ormai del tutto consolidata, con avallo della Corti europee, della fattispecie di creazione giurisprudenziale definita “concorso esterno in associazione mafiosa”; l’altra, attuale anche alla luce della campagna referendaria in atto, riguarda l’uso (o, forse, l’abuso) delle misure cautelari personali che spesso si consuma in Italia. Il concorso esterno in associazione mafiosa ha ormai assunto una sua stabilità nel nostro ordinamento e inascoltati sono rimasti i richiami al legislatore perché disciplinasse la materia. Non si nega l’opportunità che si disciplinino zone d’ombra che altrimenti resterebbero prive di sanzione, ma è il caso di ribadire come soltanto una legge possa e debba provvedervi e non un’interpretazione multiforme e mutevole rimessa al libero apprezzamento di chi giudica. E invece è accaduto che, in un Paese dove vige il criterio di stretta legalità, si è introdotto un reato di mera creazione giurisprudenziale. La circostanza che già di per sé appare allarmante, lo è ancora di più se si riguardano gli ultimi venti anni di storia italiana e si esamina il ruolo vicario che la magistratura ha assunto rispetto alla politica. Le sorti delle istituzioni sono condizionate da inchieste a orologeria, le norme sono create dalla giurisprudenza e i media sono invasi da “magistrati superstar” che impazzano e arringano folle che invocano vendette esemplari. Quanto alla richiesta di arresto di Cesaro, la norma di riferimento è l’articolo 275 del codice di procedura penale che disciplina i criteri di scelta delle misure cautelari. A una prima lettura, sembrerebbe non esserci spazio per la concessione degli arresti domiciliari in caso di contestazione di concorso nel reato di cui all’articolo 416 bis del codice penale; tuttavia, sin dal 2015, si sono succeduti interventi della Corte Costituzionale con cui si è chiarito come, nel caso del concorso esterno, a chi sia colpito da simile contestazione non possa applicarsi l’automatismo tra contestazione e custodia in carcere che, invece, riguarda i veri e propri concorrenti nel reato previsto dall’articolo 416 bis. E questo perché, nel caso del concorso esterno, mancano l’indispensabile intraneità e la costante condivisione del programma, del modus vivendi, degli scopi, degli obiettivi e della vita dell’associazione. Per questa strada si espande la discrezionalità, certo vincolata, del giudice nel valutare, in ragione del caso concreto, se le esigenze cautelari possano essere soddisfatte anche con l’adozione di altre misure. E cioè, nel caso di specie, degli arresti domiciliari. Mi chiedo: non era proprio possibile disporre altro rispetto agli arresti domiciliari? Possibile che la libertà valga così poco e che la tendenza sia sempre e comunque quella a sacrificare la libertà altrui? Pare quasi che in Italia si ragioni nei seguenti termini: è giunta notizia che un reato è stato commesso; arrestiamoli tutti; poi verifichiamo cosa è successo e, se è vero che è successo, chi è stato e, soprattutto, chi ha commesso cosa e perché. È in atto da tempo una disumanizzazione del processo e del processo penale in particolare. Il luogo del rito, dove lo Stato celebra la sua capacità di comporre i conflitti, anche lasciando che il tempo lenisca gli affanni, è diventato il ring dove, ad armi impari, si affrontano due contendenti: i magistrati e il cittadino spesso inerme, molte volte innocente, certamente presunto colpevole. Ma che razza di giustizia è questa? Amedeo Laboccetta

Cassazione: il figlio di Riina deve rimanere al 41bis anche se non era un boss. Respinto il ricorso alla proroga del carcere duro, decisa dal Tribunale di sorveglianza di Roma, che si è soffermato sul ruolo associativo ricoperto nell'ambiente mafioso, riconducibile alla figura egemonica del padre. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 24 agosto 2021. Pur non avendo ricoperto ruoli apicali, Giovanni Riina, il figlio dell’ex capo dei capi, resta al 41 bis. La Cassazione, con la sentenza numero 31835 di recente depositata, ha respinto il ricorso del figlio di Riina contro la proroga del regime del carcere duro. In sostanza, per la Corte suprema sono corrette le valutazioni del Tribunale di sorveglianza di Roma che ha rigettato il reclamo avverso al decreto di proroga del 41 bis. Quest’ultimo si è soffermato diffusamente sul ruolo associativo ricoperto da Giovanni Riina nell’ambiente mafioso corleonese, riconducibile alla figura egemonica di Totò Riina.

Per i giudici Giovanni Riina, pur non avendo ricoperto ruoli apicali, doveva ritenersi un esponente di spicco della criminalità organizzata. È stato evidenziato, infatti, che Giovanni Riina, pur non avendo ricoperto ruoli apicali, doveva ritenersi un esponente di spicco della criminalità organizzata isolana, radicata nell’area corleonese e collegata a Cosa Nostra, tanto è vero che il padre – che, per lungo tempo, era stato il capo indiscusso del raggruppamento consortile in questione e possedeva una caratura criminale addirittura notoria – risultava coinvolto in numerosi delitti riconducibili alla sfera di operatività del sodalizio in cui gravitava, avendo, tra l’altro, partecipato alla deliberazione di tutti gli omicidi “eccellenti” commessi in Sicilia tra la fine degli anni Settanta e il suo arresto, avvenuto nel 1993.

Il profilo criminale, la posizione rivestita nell’associazione: indicatori rilevanti. In questa, incontroversa, cornice, la mancata assunzione di ruoli apicali nel contesto associativo mafioso nel quale Giovanni Riina aveva militato nel corso degli anni, secondo la Cassazione non possiede una valenza decisiva, dovendosi valutare la posizione consortile del detenuto in un più in un più vasto ambito, collegato alla sfera di operatività di Cosa Nostra, rispetto al quale assumono rilievo indicatori differenti, come costantemente affermato dalla Cassazione stessa , secondo cui: «Ai fini della proroga del regie detentivo differenziato di c:ui all’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975 è necessario accertare che la capacità del condannato di tenere contatti con l’associazione criminale non sia venuta meno, accertamento che deve essere condotto anche alla stregua di una serie predeterminata di parametri quali il profilo criminale, la posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, la perdurante operatività del sodalizio e la sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, elementi tutti che devono essere considerati mediante l’indicazione di indici fattuali sintomatici di attualità del pericolo di collegamenti con l’esterno, non neutralizzata dalla presenza di indici dimostrativi di un sopravvenuto venir meno di tale pericolo». Sempre secondo la Cassazione, appaiono pienamente condivisibili le conclusioni alle quali è pervenuto il Tribunale di sorveglianza di Roma, che, nel passaggio argomentativo esplicitato nelle pagine 5 e 6 del provvedimento impugnato, ha evidenziato che «lo status in seno alla famiglia e, dunque, in seno all’associazione comporta la capacità di interlocuzione con una realtà criminale esterna, nonostante la “fluidità” della stessa (…)», con la conseguenza che «eventuali mutamenti dell’assetto del clan, verificatisi durante la detenzione dell’affiliato, non scalfiscono la collocazione da quest’ultimo assunta in ambito associativo ed il conseguente giudizio di perdurante pericolosità del medesimo (…)». I giudici di legittimità, nel dichiarare inammissibile il ricorso presentato da Giovanni Riina, ricordano che ai fini della proroga del 41-bis, non è necessario accertare la permanenza dell’attività della cosca di appartenenza e la mancanza di sintomi concreti di dissociazione del condannato dalla stessa, ma basta «una potenzialità attuale e concreta, di collegamenti con l’ambiente malavitoso che non potrebbe essere adeguatamente fronteggiata con il regime carcerario ordinario».

I partiti calabresi hanno inviato le liste dei candidati alla commissione antimafia, presieduta dal senatore Nicola Morra, per un controllo preventivo. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 13 agosto 2021. La decisione dei “partiti politici” calabresi (?) di mandare le liste dei candidati al consiglio regionale alla commissione parlamentare antimafia per un controllo preventivo, sembrerebbe una delle tante trovate demagogiche d’una classe politica mediocre. Invece, credo, nasconda ben altro e di molto più grave. Questi – e ribadisco questi- “partiti” (che non hanno nulla a che vedere con quelli previsti dalla Costituzione) sanno bene di essere strumenti nelle mani di pochi oligarchi che si sono assunti il compito di tenere lontani i cittadini comuni dalla vita pubblica. In Calabria (e non solo) sono “ladri” di sovranità popolare e, per come si raccolgono i consensi, “tangentisti” del voto. Quando le organizzazioni democratiche mancano, cresce il peso della ‘ndrangheta, dei poteri forti, dei demagoghi, che hanno una loro fitta rete di contatti su base regionale e, a volte, nazionale. Per dirla in parole semplici: meno conta la gente più contano le caste e nel frattempo, la Calabria muore. Nasce così- e detto senza offesa verso alcuno – un potere intrinsecamente “mafioso” ed oppressivo anche quando a gestirlo sono uomini estranei e, spesso, lontani e nemici delle cosche. “Mafioso” perché usurpato. Mafioso perché contro il proprio popolo. La naturale alternativa a tutto ciò sarebbe stata quella di restituire il potere decisionale ai legittimi “proprietari” cioè alla gente organizzata in partiti veri, sindacati, che non siano semplici patronati, organizzazioni intermedie. Invece gli oligarchi hanno scelto di tenere saldamente in mano le redini d’un potere che appare forte e inespugnabile solo perché la società civile calabrese è stata ridotta negli anni in una massa grigia in stato di programmata e veloce decomposizione. Così assistiamo ad uno dei tanti paradossi: il centrodestra ha annunciato di aver già mandato le liste dei propri candidati alla commissione antimafia. Si badi bene si tratta di liste, che a parte pochi addetti, di cui nessuno, ma proprio nessuno conosce i nomi (e tantomeno il programma.) Il comportamento del centro destra non è un’eccezione ed infatti poche “menti raffinatissime “per delega “altrui” stanno affinando le liste di tutti gli schieramenti, operando in modo tale da far eleggere solo “consiglieri” di stretta osservanza. La logica conseguenza sarà che gli “eletti” tuteleranno solo e soltanto gli interessi di coloro che li hanno fatti eleggere. Se ciò mafia non è (e non è perché, almeno per ora, manca la violenza fisica) molto gli somiglia. Ovviamente gli antimafiosi di professione possono condurre la loro bella e coraggiosa lotta firmando l’unitile registro dell’antimafia, o scaricare le proprie frustrazioni e la propria rabbia inneggiando a forche e galere. Ma senza mettere mai in discussione il brevetto mafioso che regola la vita dei partiti in Calabria e che costituisce una sicura garanzia per assicurare la sostanziale continuità del potere. I responsabili di tale stato di cose rivolgendosi alla commissione parlamentare antimafia chiedono di essere legittimati da “commissari politici” (a loro volta mai eletti) perché sanno di essere delegittimati dalla loro scelta di non coinvolgere per nulla la gente nella fase cruciale della formazione delle liste. A volte è ancora peggio, perché l’invio delle liste in commissione rappresenta solo un cinico espediente per saldare i conti tra “ras” di “partito” utilizzando a tal fine un organismo parlamentare nato con ben altri scopi e fini ben più nobili. Infine, sarei curioso di sapere come farà la commissione a stabilire chi sono gli impresentabili. Qualora si trattasse di valutare eventuali sentenze di condanna o i “carichi pendenti” dei singoli candidati, sarebbe bastata la richiesta d’un certificato rilasciato dal tribunale di competenza. In “commissione” probabilmente si utilizzeranno rapporti (veri o falsi) dei servizi segreti o della polizia giudiziaria (magari commissionati per la bisogna) e ciò costituirebbe una tale ferita alla democrazia da far rivoltare i Costituenti nella tomba. Sarebbe l’anticamera della dittatura dei peggiori ma con il lasciapassare dei caporali di giornata. In dialetto calabrese è diffuso un termine praticamente intraducibile in lingua italiana: “giobbijari”. Se provo a tradurlo mi viene in mente solo una frase volgare come “prendere per il c..” ma in questo caso il premio è la “giobba” e nel suo nome tutto diventa lecito. Almeno per la scellerata brigata che, ancora una volta, conduce i giochi sulla pelle del popolo calabrese.

In 500 sottoposti al "test Morra". Morra prepara le liste di proscrizione per le elezioni: il “tribunale etico” dell’Antimafia a caccia di presunti impresentabili. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Agosto 2021. Gli imputati, pronti a essere giudicati dal Tribunale Etico della Commissione Bicamerale Antimafia, sono già 459. Tanti sono i nomi già presentati dai partiti per una sorta di controllo preventivo che dovrebbe far conquistare ad alcuni il bollino blu e ad altri la stella gialla da portare sul petto. Cioè “presentabilità” o “impresentabilità” alle prossime elezioni amministrative di ottobre. Si tratta di pre-liste, in gran parte segrete (pochissimi eletti ne conoscono i nominativi), che i vertici dei vari partiti hanno compilato con una certa riservatezza, in modo da non correre il rischio, come già capitato in passato e con notizie che avevano suscitato molte polemiche, di trovarsi al centro di qualche scandalo il giorno prima delle elezioni. Nicola Morra, Presidente della Commissione Antimafia, cioè il più Puro dei Puri, uno che se un amico come Davigo gli rivela un segreto, lui va subito a spifferarlo in Procura, ha pensato, bontà sua, di metter mano al regolamento e di venire incontro ai partiti. Così, consegnando le pre-liste ed eliminando subito il materiale infetto, cioè depennando il nome di qualche indagato, si eviterà di arrivare a ridosso delle elezioni, quando ormai gli elenchi sono depositati e immodificabili, con qualche stella gialla al petto di qualcuno, che possa far perdere voti al partito di appartenenza. Poiché queste pre-liste sono per ora segrete, non sappiamo quali e quanti partiti abbiano aderito alla proposta di Nicola Morra. Ovviamente nessuno è obbligato a collaborare, siamo ancora su un terreno di opzione volontaria, un po’ come quella, ben più seria, di vaccinarsi. Ma il Presidente conta molto sull’implicito ricatto morale che sta dietro all’operazione, con il solito discorso ipocrita che chi non ha niente da nascondere può lasciare sbudellare a piacere la propria reputazione e la propria vita. Non è un caso che la prima lista di “impresentabili” sia stata creata da una Presidente come Rosi Bindi, la cui storia politica racchiudeva in sé il moralismo di certo mondo cattolico e di quello comunista. Era il 2015 e a Palazzo Chigi c’era Matteo Renzi, uno che non le stava simpatico. E ancor meno poteva piacerle quel rappresentante di una sinistra creativa (ma molto efficiente) che portava il nome di Vincenzo De Luca. Quello che aveva fatto faville come sindaco di Salerno e che in quei giorni ambiva a diventare nientemeno che il governatore della Campania. Sicuramente non fu per antipatia, ma perché, come avrebbe detto un famoso Pm di Milano, “la carta canta”, che De Luca fu definito “impresentabile” in quanto indagato per la vicenda del Sea Park, il parco marino realizzato a Salerno quando lui era sindaco. Sarà poi assolto, “perché il fatto non sussiste”, come spesso accade in questi casi. Ma intanto nel 2015, a quarantotto ore dal voto, il suo nome era già sbattuto ovunque, sui giornali, sui social, nelle tv e quasi sui muri di città e paesi. L’uomo non è abituato a mandarle a dire, e non venne meno alla sua reputazione. Querelò Rosi Bindi (poi un gip di Roma archiviò) e definì l’iniziativa della Commissione Antimafia come “infame e eversiva” . E poi, dopo l’assoluzione, su Twitter parlò della «vicenda per cui una avventurosa parlamentare ci aveva presentato come impresentabili». Lui nel frattempo era diventato il governatore della Regione Campania. In cui, insieme alla Puglia, erano stati altri 16 i nomi, in gran parte del centrodestra, che avevano meritato la famosa stella gialla dell’infamia. L’esempio della vicenda di Vincenzo De Luca non insegnò nulla purtroppo al successore di Rosi Bindi alla Presidenza della Commissione Antimafia. Un po’ perché Nicola Morra è uno di quelli, come tanti grillini, che la toga del moralismo ce l’ha sottopelle, ma anche perché ormai l’Antimafia serve solo a dare un po’ di consulenze agli amici magistrati e a fare le liste degli “impresentabili”. Che regolarmente vede la luce anche nel 2020, a tre giorni dal voto del 20-21 settembre. I nomi sono 13, e questa volta la selezione avviene, oltre che sulla base del codice di autoregolamentazione della Commissione, anche sulla base della legge Severino. Ma il punto di partenza è sempre lo stesso: quel che si giudica non è il reato ma la persona, quella su cui si dà un giudizio moralistico. Che cosa cambierà nel prossimo mese di ottobre? Sostanzialmente niente, perché alla vigilia delle elezioni amministrative comunque la sentenza del Tribunale Etico verrà emessa. Ma la cosa peggiore è che già da adesso – e siamo a metà agosto – alcuni partiti abbiano accettato di sottoporsi all’esame del sangue preventivo, mandando allo sbaraglio (perché tanto in Italia di segreto non c’è mai niente e i nomi escono sempre) persone probabilmente per bene addirittura sulla base di un progetto di candidatura, magari anche a loro insaputa.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Saviano per battere la mafia vuole distruggere la famiglia. Felice Manti il 12 Agosto 2021 su Il Giornale. Ogni famiglia è sempre una luce, per quanto fioca, nel buio del mondo, dice Papa Francesco. E quando i panni sporchi non si lavano in famiglia è lì che cominciano i guai. Ogni famiglia è sempre una luce, per quanto fioca, nel buio del mondo, dice Papa Francesco. E quando i panni sporchi non si lavano in famiglia è lì che cominciano i guai. Prendete Roberto Saviano. L'autore di Gomorra l'altro giorno sul Corriere della Sera mentre raccontava la vera storia di Maria Licciardi - diventata Scianel nella trasposizione televisiva di Gomorra, giunta (finalmente) all'ultima stagione - si è addentrato in un'analisi sociologica da quattro soldi per dire che «le mafie finiranno quando finiranno le famiglie e l'umanità troverà nuove forme di organizzazione sociale, nuovi patti d'affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite». Siamo a una fictio iuris che capovolge la realtà. Siccome la famiglia tradizionale non mi piace, dico che è il fondamento del male assoluto e così la abbatto tra gli applausi del pubblico. Un po' come usare Marcell Jacobs (che infatti si è incavolato) per beatificare lo ius soli. Ora, il delirietto di Saviano era passato semi inosservato, tranne qualche indignata reazione social (capirai che sorpresa), vista la capziosità del suo sconclusionato ragionamento. Ma ieri su Avvenire è comparsa una scomunica firmata da don Aldo Patriciello. Non uno qualsiasi dei fedeli della parrocchietta anticamorra che si nutre del verbo di Saviano, ma proprio il parroco in prima linea nella lotta ai boss. Uno che conosce la perfidia del fenomeno mafioso più di Saviano perché lo vede ogni giorno, non in tv dall'attico sopra Central Park, e che infatti ha scomunicato lo scrittore smontando pezzo per pezzo il fragile sillogismo mafia=famiglia: «Se non si riesce a estirpare il cancro maledetto delle mafie è perché l'asfissiante abbraccio mortale con i colletti bianchi e i danarosi moralmente miseri non è mai venuto meno», tuona il sacerdote. Che poi maledice la scelta di citare lo scrittore omosessuale André Gide: «Conoscendo purtroppo la simpatia di Saviano per l'utero in affitto, obbrobrio tra i più odiosi, mi domando se alludesse a questo lo scrittore quando parla di nuove dinamiche in cui crescere vite». «Anziché abolire la famiglia occorrerebbe abolire lo stupidario dei consumi ostentatori sui quale l'aristocrazia mafiosa sfoggia la propria onnipotenza», ha scritto l'altro giorno sul Sussidiario.net Salvatore Abbruzzese, ordinario di Sociologia della religione all'università di Trento e tristemente omonimo di uno degli attori del film Gomorra di Matteo Garrone del 2008, arrestato per spaccio a telecamere spente. Rappresentare la camorra come sfarzosa e spietata, invincibile e potente - come ha legittimamente fatto Saviano nella sua fiction, lucrandoci ma è affar della sua coscienza - non aiuta a disinnescare il fenomeno, anzi crea i presupposti perché in una terra in cerca di un perenne riscatto e abbandonata dallo Stato (non da Dio, grazie don Aldo) i ragazzini della paranza si identifichino negli spregiudicati boss della fiction, proprio adesso che la camorra, dopo aver avvelenato pezzi della Campania infarcendoli di scorie radioattive e rifiuti tossici ha esaurito la sua missione predatoria. Perdendo il rispetto di chi, in rassegnato e fatalista silenzio, ha accettato che la camorra risolvesse i problemi che lo Stato creava. Altro che la iurisfictio(n) che fa ricco Saviano. Felice Manti

Se lo Stato condanna il Sud: la questione meridionale ridotta a questione criminale. Dopo la riforma Cartabia i reati di mafia diventeranno imprescrivibili. I pm non perderanno l’occasione di contestare l’aggravante mafiosa. Ecco perché. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 3 agosto 2021. Dopo la riforma Cartabia i reati di mafia diventeranno praticamente imprescrivibili. Ed è proprio su questo punto che i pm di assalto avevano cercato e trovato un varco. La Riforma resta comunque un fatto di civiltà. “Comprendo” perfettamente che nella situazione attuale nessun “politico” se la sia sentita di “resistere” nella difesa del testo originario, approvato a unanimità nel Consiglio dei ministri.

I mafiosi e i delinquenti comuni. Se qualcuno avesse aperto bocca per dire che i tempi di prescrizione nei processi per mafia sono irrazionali e, probabilmente, indegni di un Paese civile si sarebbe trovato indifeso dinanzi ad un plotone di esecuzione che lo avrebbe fucilato facendolo passare per mafioso o amico dei mafiosi. Provo a formulare una domanda: cosa hanno di diverso i mafiosi rispetto ai delinquenti comuni? “Normalmente” sia gli uni che gli altri uccidono, minacciano, rubano, trafficano droga. Dal momento che i cittadini dovrebbero essere uguali dinanzi alla legge non si comprenderebbe perché ’ndranghetisti e mafiosi dovrebbero riceve un trattamento diverso. Ciò detto, riteniamo che il legislatore giustifichi il diverso trattamento per il fatto che, essendo la mafia una organizzazione ( a delinquere) presente da tempo e radicata in un determinato posto, i crimini commessi degli affiliati, oltre che essere odiosi come tutti gli altri, hanno come fine il controllo del territorio sottraendolo di fatto allo Stato. Quindi lo Stato è “naturalmente” in guerra con la mafia. A questo punto una domanda è d’obbligo: il processo può essere un momento di tale guerra? No! Per il semplice fatto che prima della sentenza tutti gli imputati dovrebbero essere considerati innocenti, e come la storia recente dimostra, in buona parte lo sono. Lo Stato ha tutto il diritto di giudicare ma non di muovere guerra a un solo innocente.

Il processo “Gotha”. Faccio un esempio. Ieri l’altro a Reggio Calabria s’è concluso il processo “Gotha” che contrariamente alla maggioranza dei processi allestiti in Calabria con operazioni spettacolari – ma miseramente falliti – ha retto al 50% (ripeto 50%) al primo grado di giudizio. Cioè su trenta imputati quindici sono stati assolti e quindici condannati. Molti degli assolti, prima della vicenda che li ha visti coinvolti, non erano mai stati in un’aula di giustizia. Per esempio, tra di loro è “capitato” uno stimato primario di cardiochirurgia, un ex presidente della Provincia; un senatore della Repubblica. Qualcuno tra questi ha trascorso qualche anno in carcere (complici) dei parlamentari pavidi. Tutti sono stati sotto processo da anni in quanto sospettati di essere mafiosi.

Sotto processo per 18 anni? A questo punto poniamoci una domanda: qualora la procura dovesse fare appello (cosa che probabilmente farà) verranno tenuti sotto processo per 18 anni e poi per altri 18 ancora? Non ci sono persone al disopra di ogni sospetto, né con diritto di essere tutelati più di altri ma in base a quale principio lo Stato potrebbe trattare queste persone molto peggio degli assassini seriali, degli stupratori, dai pedofili, tenendoli prima in carcere e poi sotto processo a vita? Non si tratta d’un “danno collaterale” accettabile pur di combattere la mafia ma di un abuso che ha come logica conseguenza la legittimazione e il rafforzamento delle mafie su un determinato territorio. Agli occhi di queste “vittime “lo Stato sarà una presenza tirannica di gran lunga peggiore della mafia. La verità è che le mafie devono e possono essere combattute prima e dopo del “processo” e con gli strumenti messi a disposizione dalla Costituzione. Viceversa, il processo dovrebbe assicurare un giudizio sereno ed in tempi umani attraverso regole e leggi uguali per tutti.

Se lo Stato condanna il Sud. Infine, la riforma Cartabia assicurerà nelle regioni del Centro- Nord una giustizia più efficiente ed umana mentre al Sud avremo in assoluta prevalenza il “processo infinito”. Infatti, nessun pm delle regioni meridionali perderà l’occasione, dinanzi ad una estorsione o ad un omicidio, di contestare l’aggravante mafiosa perché ciò gli consentirà tempi infiniti. E non sarà difficile in zone come la Calabria o in paesi come Africo o San Luca trovare rapporti di parentela, di frequentazione, di vicinato con qualche famiglia in odore di mafia. Il cerchio è chiuso. La questione meridionale diventa così, ed ancora di più, questione criminale da affrontare praticando la “giustizia dei sette capestri” aldilà del Pecos. Le mafie diventeranno l’alibi per spiegare il mancato sviluppo del Sud o per non ascoltare il grido del professor Gianfranco Viesti che ha dimostrato che dei fondi del Recovery solo 13 miliardi arriveranno nelle Regioni meridionali.

Ed in tutto ciò, la cosa che più fa salire il sangue alla testa è che non ci sia stata una sola voce in Parlamento, e neanche fuori, a difendere il Sud da questa follia giustizialista che avrà come unico risultato la mortificazione della Legge e della Costituzione da un lato e la legittimazione e l’invincibilità delle mafie dall’altro.

PAOLO ROMEO L'UOMO DEI MISTERI IN RIVA ALLO STRETTO. Conteso dai salotti della Reggio bene, ma di casa anche ad Archi, rappresenta una sorta di nodo gordiano dei mille misteri della città. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 30 luglio 2021. Un quarto di secolo di carcere al processo Gotha in primo grado. Una nuova puntata del romanzo criminale di Paolo Romeo. Tra patrie galere e Montecitorio, con il braccio teso dei fascisti e la grisaglia dei ministeriali socialdemocratici di Cariglia. Una sorta di nodo gordiano dei mille misteri di Reggio Calabria, città frequentata da mezzo secolo da barbe finte, affaristi, massoni a braccetto con caporioni della ‘ndrangheta. Paolo Romeo, intelligente, colto, raffinato, ha oggi 74 anni. Conteso dai salotti della Reggio bene, ma di casa anche ad Archi, regno dei suoi amici De Stefano. Aprì anche una libreria di libri di destra a Reggio ma non fu molto fortunata. Se sei forestiero e chiedi conto a Reggio Calabria a persone per bene, la loro voce si abbassa, cercano di spiegarti, ma la linea della Palma in quel posto è antica, parallela con Palermo e Catania. Un imprenditore mi dice sul ruolo svolto da Romeo: “Da Napoli in su certi affari economici vengono attribuiti alle lobby. Dal Volturno in giù diventa associazione mafiosa”. Romeo al Processo Gotha ha ammesso finalmente di aver svolto un ruolo nella latitanza di Franco Freda, il neofascista coinvolto in piazza Fontana. Ma poi dice che è sempre stato un socialista. Il vicesindaco Tonino Perna, suo compagno di scuola, ne ricorda bene il collocamento nei fascisti locali. Anche altri di sinistra ne ricordano il ruolo da capo mazziere in piazza. Un picchiatore duro e spietato. Non erano fascisti qualsiasi. Gli storici dell’eversione nera ne segnalano la presenza con quelli di Avanguardia Nazionale alla battaglia di Valle Giulia insieme ai sessantottini rossi che non sono scappati più davanti alla celere. Era nei fascisti con doppia tessera Msi e Avanguardia Nazionale. Sarà presente in tutti i processi di ‘ndrangheta da alto livello.  Il fratello ammazza a coltellate un Dominici ad una tarantella in piano centro. Fratelli Romeo e fratelli Dominici. Eversione nera e onorata società che s’incrociano tra pentiti e vicende oscure. Una carriera galoppante nel Psdi ministeriale. Eletto nel collegio di Catanzaro. Segretario della commissione di vigilanza della Rai, capello curato, faccia da dittatore sudamericano. Dicono sia stato candidato anche nel Pds alle comunali a Reggio. Ma non si trovano riscontri. Forse una leggenda urbana che ne ingigantisce il carisma. E’ stato anche nel Partito Radicale per difendersi. In consiglio comunale di Reggio Calabria ha seduto nei banchi del Msi e del Psdi. Preciso e chirurgico in ogni aspetto della sua altalenante carriera. Molti apprezzano di aver sanato a Villa San Giovanni l’area dismessa della Fiat diventata il Centro commerciale “La perla dello Stretto”. La magistratura non la vede nello stesso modo. A raccontare di lui ai magistrati reggini nei primi anni Novanta è il pentito di ’ndrangheta, Filippo Barreca, secondo cui l’anello di congiunzione tra Cosa nostra siciliana e la ’ndrangheta reggina era lui, l’avvocato Paolo Romeo, appartenente alla cosca De Stefano. Scrivono i magistrati palermitani: “È personalmente dall’avv. Romeo, indicato altresì dal Barreca come massone, appartenente alla struttura Gladio e collegato con i servizi segreti, che il collaborante ha riferito di avere appreso che nel 1990-91 egli era interessato a un progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del Paese”. Il burattinaio secondo i giornali, l’uomo più potente a Reggio Calabria nella voce popolare. Secondo Barreca il delinearsi dell’ennesimo piano politico era avvenuto a Milano dove era avvenuto un incontro tra i clan calabresi facenti capo ai Papalia e i padrini esponenti di Cosa nostra. Esponente della destra eversiva fin dagli anni 70, vicino ai servizi, massone, Paolo Romeo viene arrestato nel 1980 per aver coperto e favorito la latitanza di Franco Freda. Romeo procurava nascondigli al neofascista, tra cui l’abitazione del pentito Filippo Barreca. È Romeo che nel 1970 avrebbe organizzato un incontro tra il golpista Junio Valerio Borghese ed il gruppo mafioso dei De Stefano quando il comandante era in combutta con i capi di destra della rivolta di Reggio Calabria. I pentiti che hanno svelato la struttura della massomafia, la Santa, sorta di Spectre che avrebbe avuto al vertice sempre lui, Paolo Romeo. Di certo ha sulle spalle una condanna per concorso in associazione mafiosa. Quindi non era un capo per la Giustizia. Ha scontato 3 anni e mezzo di carcere a Vibo Valentia. Nel 2004 lo avevano arrestato per pressioni illecite nei confronti dei magistrati collusi. Indaga la Procura di Catanzaro e tra i sostituti c’è anche Luigi De Magistris. Paolo Romeo viene assolto “per non aver commesso il fatto”.

Fuori dal Palazzo non più deputato scrive le interrogazioni parlamentari, prepara le liste, avrebbe fatto da spin doctor a Peppe Scopelliti da lui definito “un cane di mandria”. C’è sempre un consiglio da dare, una riunione da organizzare per Paolo Romeo. Longa manus di esponenti dipietristi e dei vecchi camerati passati ad Alleanza nazionale. Compare in inchieste con Licio Gelli, nella latitanza di Matacena Junior ma è vittima di un altro errore giudiziario. Paolo Romeo a Reggio Calabria è come la Banda della Magliana a Roma. Qualunque mistero o affare, vero o falso che sia, Paolo Romeo sta sempre nell’elenco dei sospettati. Ha visto il tempo delle coppole storte che andavano a chiedere alleanza alla politica, e quello recente dei politici andare a bussare alle case riservate dei massomafiosi. Ora in primo grado a Gotha Paolo Romeo è la testa pensante della ‘ndrangheta, lui l’ideatore del laboratorio criminale di Reggio Calabria. Ai prossimi gradi di giudizio il compito di verificare questo duro giudizio. La storia di Paolo Romeo resta aperta.

L’incredibile storia del comune di Trecastagni, sciolto per due dipendenti indagati…Antonio Coniglio su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Raccontano i libelli di storia popolare che Trecastagni, borgo di poco più di diecimila abitanti alle pendici del vulcano Etna, si chiami così perché Alfio, Cirino e Filadelfo, i tre patroni del paese, abbiano soggiornato lì prima del martirio. Tres Casti Agni: quei santi erano “tre casti agnelli”. Può capitare pure che la “castità” di un ridente territorio, anche se consacrata finanche nelle storie dei santi, venga sacrificata sull’altare del sospetto di mafia e possa diventare talvolta il “martirio civile” di una intera comunità. Avviene sovente in Sicilia e la vittima sacrificale di una delle storie di straordinaria ingiustizia, che riguardano lo scioglimento discrezionale dei comuni del mezzogiorno per mafia, è stato proprio il paese dei “tre casti agnelli”: Trecastagni. Quel fazzoletto di terra è diventato esso stesso un agnello sacrificale. Sacrificata è stata la giunta di quel comune e il suo sindaco Giovanni Barbagallo, riconosciuto da tutti come politico onesto e rigoroso. Dalle parti del vulcano, la Prefettura catanese, notificò infatti l’8 maggio 2018, alle ore 14:30, un decreto di scioglimento. Proprio alla vigilia di una delle feste religiose più partecipate della Sicilia: il 10 maggio. La festa in onore di Alfio, Filadelfo, Cirino, aveva resistito pure alle bombe delle due guerre mondiale: si è arresa dinnanzi alla furia implacabile della nostra legislazione antimafia. Gli intendenti prefettizi dichiararono che gli amministratori dovessero andare a casa sulla base dello stigma peggiore: possibili rapporti con la mafia. Ciò, non perché vi fosse neanche la più lontana congettura che un pezzo del ceto politico avesse rapporti con la criminalità, ma per un’inchiesta che aveva colpito, a proposito di mafia, due dipendenti comunali. Cosa c’azzecchino due dipendenti con un sindaco, una giunta, un consiglio comunale, nel tempo della separazione tra indirizzo e gestione, è inspiegabile! Eppure quegli amministratori sono stati infangati, un intero territorio sporcato, ancorché il Tribunale (ordinanza n. 4011/2019) e la Corte d’Appello di Catania (n. 2722/2020) abbiano ex post chiaramente dichiarato che a carico del sindaco “non emergono collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata”. C’è di più: i dipendenti inquisiti sono stati condannati il 15 luglio 2021 dalla Prima Sezione Penale del Tribunale di Catania, escludendo però l’aggravante del metodo mafioso. È legittimo chiedersi: chi risarcirà mai gli abitanti di Trecastagni del danno di immagine patito; quel sindaco e quella giunta, ingiustamente espropriati dal ruolo che ricoprivano? Oggi occorre una riflessione vera intorno all’art. 143 del D.L. 267/2000 che non prevede il diritto alla prova, su una disciplina dello scioglimento dei comuni che non ammette contraddittorio, diritto alla difesa, parità di trattamento tra le parti. Siamo al di fuori dalle colonne d’Ercole del giusto processo. Si può davvero pensare che un funzionario prefettizio, chiunque esso sia, un prefetto, un ministro dell’interno possano inaudita altera parte annullare il corso democratico di una comunità? È ancora tollerabile la resistenza del Consiglio di Stato che continua a sostenere la natura preventiva e non sanzionatoria della disciplina, laddove la prevenzione è invero il viatico per evitare il confronto con le conquiste dello stato di diritto? Per quale ragione peraltro questi provvedimenti draconiani riguardano sempre e comunque solo comuni medio piccoli – ove nella maggior parte dei casi gli amministratori sono inermi e slegati da vere logiche di potere – mentre le grandi città appaiono protette da un’egida di intangibilità? Prevenire, scrive spesso Sergio D’Elia, a volte è peggio che punire. Prevenzione ed emergenza sono diventati pezzi dell’armamentario marziale del diritto dell’hostis, del nemico degli ultimi trent’anni di illegalesimo legale. Si legittima l’intervento di un prefetto sulla base di un’emergenza perenne, di un pericolo costante, del ripudio di fatto delle conquiste dell’illuminismo giuridico, della nostra civiltà. La verità è presto detta: lo scioglimento di Trecastagni è avvenuto in modo medioevale e ciò capiterà spesso sin quando il Parlamento non avrà il coraggio di interrompere una “continua corsa agli armamenti”, sminare il campo dalla discrezionalità e dall’arbitrio. Si potrebbe obiettare: a chi interessa di un piccolo comune di diecimila anime? Eppure la vicenda di Trecastagni non può essere condannata all’oblio come se nulla fosse accaduto. Sciascia forse redivivo gli avrebbe dedicato finanche un pamphlet. È vero: sono storie di provincia. Di quella provincia nella quale ci si alza la mattina per lavorare e ci si accontenta di poco. Di un caffè al bar la domenica mattina, della processione di un santo patrono. Sciascianamente “non v’è nulla di più provinciale dell’accusa di provincialismo”. Trecastagni come metafora nazionale? Proprio così. Se non si interviene presto su quei codici, su quelle pandette, il diritto morirà ogni giorno. Antonio Coniglio

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 19 settembre 2021. Tutto era stato progettato da alcuni esponenti della 'ndrangheta della Locride, nonostante fossero richiusi da tempo in carcere. L'idea era quella di uccidere uno dei figli di Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Catanzaro. In una maniera inusuale: doveva sembrare un casuale incidente stradale. La notizia è stata riferita da un nuovo collaboratore di giustizia, Antonio Cataldo,57 anni, esponente dell'omonimo clan di Locri. Antonio figlio di Michele e nipote di Pepè e Nicola Cataldo, due boss carismatici, ha deciso di saltare il fosso dopo una condanna a otto anni rimediata con rito abbreviato al processo «Mandamento Ionico». Da alcune settimane sta riempiendo pagine di verbali e già mercoledì prossimo potrebbe essere sentito dai magistrati nel corso dell'udienza del maxiprocesso «Riscatto - Mille e una notte», in corso davanti al tribunale di Locri. In realtà, però, già diversi anni fa la notizia del piano per uccidere uno dei figli del magistrato era stata intercettata nel corso di un'indagine sulle cosche della Locride. Più recentemente, nel 2016, un altro pentito, Maurizio Maviglia, esponente di un clan di Africo, aveva svelato un altro tentativo per uccidere uno dei figli di Gratteri. Alcuni individui, infatti, riuscirono ad intrufolarsi qualificandosi come poliziotti nello stabile, a Messina, occupato dal figlio dell'allora procuratore aggiunto di Reggio Calabria. I finti poliziotti riuscirono a farsi aprire dal ragazzo, ignaro di tutto. Una volta dentro i due presero l'ascensore per raggiungere il terzo piano dove si trovava l'appartamento del giovane universitario. Il figlio del magistrato attese il loro arrivo sull'uscio. Quando però, l'ascensore si fermò il ragazzo notò che dentro c'erano due persone mascherate con passamontagna. Con freddezza rientrò in casa, si barricò e chiamò il padre. Nei mesi scorsi Antonio Cataldo, nel corso delle sue deposizioni, ha rilanciato la possibilità di un agguato, sostenendo di averlo saputo in carcere, nel 2013 da Guido Brusaferri, altro esponente della 'ndrangheta locrese con il quale ha diviso la cella. In particolare al magistrato della distrettuale di Reggio Calabria Antonio Calamita che l'ha interrogato Antonio Cataldo ha riferito che si parlava di questo progetto nelle ore d'aria, e ha puntualizzato anche temporalmente il periodo. «I clan si sono allarmati quando il nome del procuratore Nicola Gratteri era stato indicato come possibile ministro della Giustizia» ha raccontato ai magistrati Cataldo. Precisando: «I clan, tutti, temevano delle ... dei processi... e leggi più ferree. C'era un allarme generale». La collaborazione di Antonio Cataldo, potrebbe aprire scenari inediti nel panorama della criminalità organizzata della Locride. Tanti sono i delitti rimasti impuniti negli ultimi 20 anni. E, soprattutto, il nuovo collaboratore di giustizia potrebbe rivelare particolari anche su omicidi eccellenti, come quello del vice presidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno, ucciso nel 2005 a Locri. Per anni i Cataldo si sono fatti la guerra con i Cordì, altra cosca di Locri. Decine sono stati i morti. Poi la pace, siglata in nome degli affari e di una possibile spartizione di lucrosi progetti imprenditoriali e anche interessi nel settore pubblico. 

La ricostruzione: pentiti e attentati, chi ha minacciato Gratteri. Paolo Orofino su Il Quotidiano del Sud il 19 settembre 2021. GLI INQUIRENTI calabresi e siciliani, già nel 2014, erano al corrente delle dichiarazioni di Antonio Cataldo, esponete di spicco dell’omonimo clan di Locri, circa un attentato che si stava pianificando contro il figlio di Nicola Gratteri. Antonio Cataldo, infatti, in quell’anno scrisse una lettera dal carcere dove si trovava, rivelando dettagli che aveva appreso da un compagno di cella, circa un piano ordito dalle cosche reggine per eleminare il figlio di Nicola Gratteri, magistrato che in quel periodo stava per diventare ministro delle Giustizia. La lettera di Cataldo, giunse prima negli uffici della procura di Catanzaro, competente sui magistrati in servizio nel distretto reggino, sia per reati commessi, che per eventuali minacce subite (all’epoca Gratteri era procuratore aggiunto a Reggio Calabria) e poi fu inoltrata alla procura di Messina, dove era domiciliato il figlio di Gratteri oggetto delle gravi rivelazioni, per gli accertamenti da svolgere e le iniziative a tutele da intraprendere. Cataldo, nipote di due boss indiscussi della ndrina locrese, nell’occasione fu poi sentito dagli investigatori, ma non intese rilasciare dichiarazioni su altre circostanze a sua conoscenza, non si dimostrandosi quindi intenzionato a “pentirsi”. Rimase agli atti solo il racconto sull’attentato che si sarebbe voluto organizzare contro il figlio del noto pm antimafia, circostanza che Cataldo avrebbe appreso in carcere, da altro detenuto “uno dei Cordì” altra temibile ndrina di Locri. Passano gli anni e lo scorso mese di giugno, a seguito di una sentenza di condanna subita, Antonio Cataldo ha deciso di non essere più un semplice “informatore” occasionale delle forze dell’ordine, ma di diventare un collaboratore di giustizia a tutti gli effetti. Ha cominciato così il percorso di collaborazione con i magistrati riferendo tutta una serie di fatti relativi alle cosche della Locride ed ha contestualmente confermato ciò che aveva scritto, sette anni fa, nella summenzionata lettera. I verbali del neo-collaboratore di Giustizia sono stati, quindi, utilizzati e resi pubblici dalla Dda di Reggio Calabria, l’altro giorno, in un processo e saranno utilizzati pure in indagini ancora in fase preliminare e coperte da segreto.

“Non chiamateli eroi”, la mafia guardata negli occhi nel nuovo libro di Gratteri e Nicaso. Uno sguardo in anteprima al volume che sarà in libreria da martedì: le vite di chi ha pagato per la difesa della legalità o perché si è trovato nel posto sbagliato. Saverio Puccio su Il Quotidiano del Sud il 6 giugno 2021. Un libro che racconta le storie di chi ha guardato la mafia diritto negli occhi e ha deciso di difendere ad ogni costo le proprie idee di libertà e legalità, ma anche di chi ha pagato con la vita l’essere nel posto sbagliato senza avere nessun’altra colpa. Nicola Gratteri e Antonio Nicaso hanno sorpreso tutti con un volume completamente diverso dalla gran parte dei testi scritti in precedenza: “Non chiamateli eroi. Falcone, Borsellino e altre storie di lotta alle mafie”. Il volume, edito da Mondadori, sarà nelle librerie a partire da giovedì 8 giugno, ma noi abbiamo avuto il piacere di leggerlo in anteprima e di scoprire un testo rivolto principalmente a giovani e ragazzi, ma che dovrebbe diventare un punto fermo per tutti perché capace di descrivere in modo semplice e chiaro tante storie. Vite completamente diverse tra loro, ma unite da un forte senso del dovere, aggrappate ai valori ostinati della legalità e dell’onesta. Il procuratore capo di Catanzaro e uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta nel mondo hanno scelto di raccontare questa eredità partendo dalle figure chiavi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inserendo però un percorso che inizia negli anni Settanta e finisce nei giorni nostri in un crescendo di emozioni che tolgono il fiato. Le storie sono quelle di Giuseppe Letizia ucciso a Corleone a soli 13 anni; Peppino Impastato e le sue parole “pericolose”; l’incorruttibile Giorgio Ambrosoli; la guerra in solitaria del generale Carlo Alberto dalla Chiesa; la missione del giudice Rosario Livatino; la caparbietà di Libero Grassi; la dolcezza coraggiosa di don Pino Puglisi; la libertà di Lea Garofalo; lo sguardo fiero del calabrese Rocco Gatto; il dramma di Giuseppe Di Matteo; la gioventù di Gelsomina Verde e Annalisa Durante; l’ingenuità di Cocò Campilongo. A queste si uniscono le storie di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I testi ti avvolgono sin dalle prime righe. Scritti in maniera semplice per coinvolgere prima di tutto le nuove generazioni, magari nell’ambito di un percorso di legalità da fare a scuola o in famiglia. Tutto il libro, con 192 pagine arricchite dalle illustrazioni di Giulia Tomai, è legato da un unico filo conduttore, con alcune vicende che si intrecciano come accade ad esempio per la morte di Placido Rizzotto e le indagini seguite dal generale dalla Chiesa, oppure le inchieste di Falcone e Borsellino sulle vittime della mafia. Il legame che si crea pagina dopo pagina è molto intenso e ti risucchia in ogni storia portandoti a divorare il libro tutto in una volta. Ogni storia è la storia, e ogni esperienza ti spinge a voltare pagina e a scoprire quella successiva. È così che, in poco tempo, leggi i brani e rivivi le immagini di quei fatti: la strada squarciata di Capaci, il fumo denso e acre di via D’Amelio, l’auto divorata dal fuoco insieme al corpo di Cocò, l’ultima immagine di Lea ripresa dalla videosorveglianza. Sono i testi semplici voluti dagli autori a immergerti ancora di più in queste pagine che raccontano tante altre storie collegate anche indirettamente alle vite dei protagonisti. E nonostante il lettore venga trasportato in ognuna di queste storie, è il titolo stesso del libro a ricordare che nessuno di loro avrebbe voluto essere chiamato eroe, a conferma di una scelta di vita dettata dalla consapevolezza di percorrere l’unica strada possibile. Nicola Gratteri e Antonio Nicaso non hanno dubbi: «I loro sogni, la loro speranza, il loro coraggio sono un modo per non dimenticare e per ricordare che “Si può fare qualcosa, e se ognuno lo fa, allora si può fare molto”». I due autori, nelle conclusioni a cui segue un prezioso glossario con i termini da conoscere, non hanno dubbi: «Raccontare la storia di chi è morto per mano delle mafie, i loro sogni, le loro speranze, la loro normalità, ma anche il loro coraggio, è un modo per non dimenticare, per farli rivivere. La memoria del loro sacrificio deve spingere a impegnarsi per costruire un Paese che sia veramente libero dalla paura, dal bisogno, ma soprattutto dal condizionamento mafioso e dai maneggi elettorali». Tenendo, però, la barra ben salda sul fatto che «è opportuno passare dalla eroicizzazione all’umanizzazione delle vittime». E se il libro raccoglie molte di queste storie, la realtà è ancora più drammatica, perché, come affermano Gratteri e Nicaso, «è lungo l’elenco delle vittime innocenti di una mafia silenziosamente legittimata da una società malsana che se n’è lungamente servita. Una società che ha bisogno di martiri per scrollarsi di dosso quell’indifferenza che ciclicamente la caratterizza, una società svelta a dimenticare, abile nel far finta di nulla, come se niente fosse. Se veramente si volesse onorarlo, si dovrebbe partire dalle azioni: di parole ne sono ormai state dette tante». Così, quando in piena notte giri l’ultima pagina, ti accorgi di avere divorato in poco tempo tutte queste vite, incamerando un forte messaggio che non ha confini temporali e fisici. E persino quei passaggi che conosci a menadito, dopo averli letti e riletti negli anni, appaiono rinnovarsi e catturarti nuovamente perché fanno parte di un percorso preparato ad arte da Gratteri e Nicaso.

Il ricordo. Chi era Renata Fonte, storia di una vittima di mafia. Suor Anna Monia Alfieri su Il Riformista il 27 Maggio 2021. Ogni anno, il 23 maggio, in concomitanza con l’anniversario della strage di Capaci, ritornano le iniziative legate alla Giornata della Legalità per ricordare le vittime della mafia, in particolare il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta, e l’amico e collega Paolo Borsellino, ucciso due mesi dopo, assieme alla scorta. Ricordare è certamente importante ma solo se il ricordo determina un cambiamento di rotta nelle nostre vite e nel nostro modo di pensare. Altrimenti è retorica. La mafia è una realtà che si deve e si può vincere; oggi, però, occorre che ci poniamo una domanda: con l’alto tasso di dispersione scolastica nel sud, con una povertà educativa che rende i nostri ragazzi facile preda della mafia e della camorra, quale alternativa siamo in grado di dare loro? L’unica difesa possibile contro il dilagare della criminalità è la scuola, perché la guerra contro la mafia inizia con la garanzia del diritto all’istruzione: il libro strappa i picciotti alla mafia. La scuola, infatti, favorisce quella conoscenza che consente a tanti ragazzi, una volta divenuti adulti, di dedicare la propria vita alla legalità, di vivere una vita buona, per sé e per gli altri. Ma, se la scuola abdica al proprio dovere, vani saranno gli sforzi per contrastare il fenomeno delle mafie. Vane saranno le morti dei giudici Falcone e Borsellino e degli altri servitori dello Stato barbaramente uccisi. Ancora una volta, allora, accanto ai giudici, vanno ricordati i docenti, il cui ruolo, davvero unico, va custodito, valorizzato, incentivato. Ammiro quei docenti coraggiosi e tenaci che ritengono che la cultura sia l’unica chance per far diventare bambini, adolescenti, giovani adulti di spessore, capaci di restare in piedi sul ring della vita e recuperare ogni giorno il senso di essere vivi. Quando i ragazzi si domanderanno “Che senso ha vivere?”, la risposta dipenderà molto dai maestri che hanno avuto. La cultura salva l’uomo. Da sempre. Io per prima lo posso testimoniare. La mia vita, grazie alla maestra Renata Fonte, ha preso una nuova direzione e ancora oggi, nei momenti di sconforto, ripenso al suo esempio, al suo sacrificio. Era il 31 Marzo 1984, un tardo pomeriggio; avevo nove anni ed era terminato il doposcuola, in una buona scuola pubblica statale che i miei genitori avevano scelto per gli ottimi docenti e per le attività pomeridiane di qualità. Anni spensierati con bravi maestri, che sapevano condire lo studio e l’applicazione con attività divertenti. A me piaceva andare a scuola e ricordo l’intesa (nessuna sbavatura, nessun contrasto, certamente perché cautamente evitato nel rispetto delle parti) fra i miei genitori, i primi responsabili della mia educazione, e il maestro. Allora c’era il rispetto dei ruoli, considerati come responsabilità vissuta in prima persona piuttosto che come rivendicazione da ring per giustificare il proprio fallimento. Ritorno a quel pomeriggio, avevamo terminato i compiti e le maestre visibilmente stanche (i docenti lavorano non solo in classe, molto del lavoro è nei consigli di classe, collegi docenti, incontri con le famiglie e preparazione personale) erano sulla porta della classe ad attendere i nostri genitori. La maestra di turno in quei giorni era Renata Fonte, quel pomeriggio era stanca e molto raffreddata. Io, bimba sensibile ma anche curiosa, ascoltavo il dialogo fra le maestre. Come è vero che i bambini ci guardano e i ragazzi assorbono da noi più con l’esempio che con mille regole! La collega le dice: «Sei davvero raffreddata, avrai anche la febbre! Quando arrivano i genitori, vai a casa!» – ho ripescato nella mia memoria il luogo, le parole esatte. Renata Fonte rispose: «Sì, avrò forse la febbre, ma oggi ho il Consiglio comunale: non posso mancare». Quelle parole chiare, semplici, forse anche un po’ ruvide risuonarono in me bambina come quel senso del dovere che porta a fare le cose bene, sino in fondo, senza sconti. Il giorno dopo risuonava in città e nella mia scuola, in modo lapidario, la notizia: «Hanno sparato a Renata Fonte». Alcune classi andarono al funerale, la mia no. La mia maestra decise così e a me bimba, in fondo, andava bene la scelta. Ho così conservato il ricordo di una maestra che mi aveva insegnato che è bello vivere impegnandosi per un ideale, spendendo la vita a favore di qualcosa di grande. Renata Fonte, vittima di mafia: così fu decretato negli anni a seguire. Assessore alla cultura e alla pubblica istruzione del comune di Nardò, eletta nel 1982 nelle liste del Pri, prima donna nel 1982 ad assumere quel ruolo, Renata Fonte venne uccisa da due sicari con tre colpi di pistola, mentre ritornava a casa dopo una seduta del consiglio comunale. Durante il suo mandato, al fine di difendere l’area di Porto Selvaggio dalla speculazione edilizia, promosse una modifica al piano regolatore; l’omicidio venne commesso pochi giorni prima dalla seduta nella quale si sarebbe decisa la modifica da lei proposta. È con figure come questa che si onora il ricordo del giudice Falcone e delle altre vittime della mafia: ricordare significa attualizzare e far rivivere le azioni compiute per il bene degli altri. A pensarci bene, nulla è cambiato, dall’antichità ad oggi: Ettore, consapevole che sarà ucciso, abbandona la moglie, il figlio, il vecchio padre, per andare incontro al suo destino eroico. Il suo ricordo è caro a tutti, forse ancor più di quello del forte Achille, anche lui vittima del proprio destino. «E tu, onore di pianti, Ettore, avrai, / ove fia santo e lagrimato il sangue/ per la patria versato, e finché il Sole/ risplenderà su le sciagure umane». Il ricordo di chi si batte per un ideale di bene è eterno, perché l’uomo arricchisce la propria umanità e si fa promotore di un messaggio che valica i secoli. Suor Anna Monia Alfieri

Giustizia, Gratteri attacca la commissione per il Sud: «Offensiva». Il Quotidiano del Sud il 9 giugno 2021. «La Commissione di studio per la giustizia nel Sud è offensiva nella sua impostazione». Nicola Gratteri non usa mezzi termini e boccia la proposta avanzata dai ministri Mara Carfagna e Marta Cartabia. Intervistato a “Otto e Mezzo”, su La7, da Lilli Gruber, Gratteri ha spiegato: «Non ho visto nulla di concreto con questa commissione, ci sono grandissimi amministrativi anche al Sud e Catanzaro ha smaltito tutte le pratiche arretrate durante il Covid». Una difesa dell’operato del Sud e di Catanzaro in particolare, con Gratteri che ha ribadito: «Abbiamo realtà efficienti e l’idea della commissione ci offende». Il procuratore capo di Catanzaro ha anche commentato il maxi processo in corso contro la ‘ndrangheta: «Rinascita Scott sta andando bene», ha concluso.

Giustizia al Sud, Gratteri: “Altro che Commissione, le buone prassi potremmo insegnarle noi”. Al procuratore capo di Catanzaro non piace affatto la commissione interministeriale per la giustizia nel Mezzogiorno istituita dalle ministre Cartabia e Carfagna. Il Dubbio il 27 maggio 2021. Non piace al procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, come agli altri magistrati del Sud, l’istituzione di una commissione per l’insegnamento delle «buone prassi» giudiziarie ai magistrati impegnati nelle regioni del Mezzogiorno. «A noi è dispiaciuta già l’idea di quella commissione, di chi ha ideato una commissione di due ministeri, Giustizia e Sud, di spiegare agli uffici del Sud le buone prassi. Ma vi sembra normale?», ha detto Gratteri a margine dell’inaugurazione dell’aula bunker di Lamezia Terme (Cz), commentando con i giornalisti l’istituzione, da parte del ministro della Giustizia, Marta Cartabia e del ministro del Sud, Mara Carfagna, della commissione interministeriale per la giustizia nel Sud. «Se lo stesso ministero della Giustizia – ha aggiunto Gratteri – dice che il distretto di Catanzaro è l’unico distretto in Italia che durante il periodo Covid ha smaltito il 110% dei fascicoli! Siamo l’unico distretto con segno positivo e ora si sente l’esigenza di creare una struttura per spiegare le buone prassi? Ma quali sarebbero le buone prassi? Voi pensate di poter sovrapporre un qualsiasi tribunale del nord con i carichi e col tipo di mafie che ci sono in Sicilia, in Calabria, in Basilicata o in Puglia? E chi dovrebbe insegnare a noi come si organizza un ufficio, nel momento in cui – ha ricordato il procuratore di Catanzaro – in quattro mesi e mezzo siamo riusciti a fare quest’opera, nel momento in cui siamo partiti da un convento del’400, abbandonato e chiuso da 10 anni, i cui lavori sono stati eseguiti dalla Sovrintendenza alle Belle Arti per riportarlo alla bellezza del ’400 e in quattro anni, tra pochi mesi, a fine anno, avremo una nuova Procura di 6000 metri quadri». Secondo Gratteri tutto questo «è una dimostrazione di capacità organizzativa da parte dei vertici degli uffici giudiziari del distretto di Catanzaro. Non dico io, io sono l’ultimo bullone del carro, però se nel distretto di Catanzaro si è in grado di fare queste cose, forse le buone prassi le dovremmo insegnare noi, con un po’ di modestia, e non altri che non so cosa hanno fatto nella vita possono venire a spiegarci come si organizza un ufficio. Il giorno in cui mi sono insediato c’erano 16 anni di fascicoli arretrati di fascicoli e adesso marciamo con ciò che arriva, con l’attualità. Forse – ha concluso il procuratore della Repubblica di Catanzaro – siamo in grado di organizzare un ufficio, siamo in grado di spiegare come si organizza un ufficio».

Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 5 maggio 2021. A leggerlo adesso che li hanno arrestati, quel biglietto lasciato con una bottiglia di benzina davanti all'ingresso della fabbrica può anche far sorridere. Perché sembra tirato fuori da uno dei film di Pif o di Ficarra e Picone. Con il classico estorsore di mafia pronto a sbandierare la sua ignoranza: «Mettiti a posto ho ti faccimo saltare in aria, cercati un amico». Minacce di morte rivolte a Giuseppe Condorelli, 54 anni, moglie e due figli, titolare della famosissima azienda dolciaria che non produce solo torroncini nel grande stabilimento all'ombra dell'Etna, ma che quei gustosi torroncini pubblicizza da trent' anni con la faccia accattivante di Leo Gullotta.

È storia di due anni fa. Non ebbe paura? Non ci fu un attimo d'esitazione?

«Mi chiamò di notte una domenica di marzo il guardiano spaventato davanti a quel "pizzino". Una volata fra le stradine di Belpasso. Ne parlai con mia moglie Serena e andai subito dai carabinieri».

Nel blitz che ha fatto scattare 40 arresti ci sono anche un paio di imprenditori che hanno usato la mafia per battere la concorrenza.

«Mai un dubbio per me e mia moglie. Noi vogliamo solo fare vivere i nostri due figli di 14 e 15 anni in una terra senza mafia, senza soprusi».

Eccolo il giovane cavaliere del lavoro, erede di un piccolo impero costruito nel 1933 dal padre Francesco, il vecchio saggio pasticciere che in quest' angolo della provincia catanese riuscì a conquistare l'appoggio di Leo Gullotta per una scalata pubblicitaria ed economica oggi specchiata in un impianto da 8 mila metri quadri dove 52 addetti e 40 stagionali producono 200 milioni di pezzi l'anno venduti in 25 Paesi del mondo. Un bocconcino prelibato, avranno pensato i mafiosi che forse si sono pentiti di questa tentazione costata cara, visto che ieri mattina dopo due anni di indagini i carabinieri del colonnello Rino Coppola hanno bloccato i 40 boss di vecchi clan locali e un paio di imprenditori che, al contrario di Condorelli, si sono piegati, spadroneggiando però contro i loro concorrenti.

Non era la prima minaccia?

«Il primo assalto risale al 1998, quando ancora c'era la lira e, rispondendo al telefono, mi sentii chiedere 100 milioni in contanti. Abbiamo subito tanti altri tentativi di estorsione, anche quando mio padre era vivo. Tutto sempre immediatamente denunciato alle forze dell'ordine».

E quei 100 milioni?

«Pensavo allo scherzo di un cretino. Misi giù la cornetta. Richiamarono 10 minuti dopo: "L'hai capito che ti facciamo saltare?". Lo dissi a mio padre: "Io vado dai carabinieri". E lui: "Ti accompagno". Per un mese restammo in casa aspettando le altre chiamate, fingendo di trattare, finché li arrestarono in una cabina telefonica appena fuori paese».

Sta dicendo che resistendo si vince?

«Dico che denunciare un'aggressione, una minaccia, un'estorsione è un obbligo per l'imprenditore che in questa Sicilia devastata non ha solo una funzione economica, perché noi svolgiamo un ruolo sociale, direi etico. Ecco perché occorre trovare il coraggio. Altrimenti il male non sarà mai sradicato e noi costringeremo i nostri figli a muoversi in una realtà sempre peggiore».

Perché tanti invece continuano a subire?

«Ormai ci sono le condizioni per stare dalla parte della legalità, come mi ha insegnato a fare mio padre. Allora forse c'era qualche incertezza. Oggi non ci sono più alibi. Ogni volta che ci siamo rivolti ai carabinieri della vicina Paternò o al comando provinciale dell'Arma l'impegno attorno a noi è apparso subito concreto e visibile. E scatta la mano dello Stato».

Proprio come è avvenuto ieri per Daniele Licciardello, 48 anni, l'estorsore bloccato con il gotha degli Alleruzzo, degli Assinnata, dei Puglisi e di altre famiglie collegate con i più noti boss di Catania che gravitano nell'area di Aldo Ercolano, il cognato di Nitto Santapaola. Vecchi nomi. Vecchie croste di cui liberarsi, assaporando il metodo Condorelli.

Il Sud «condannato» a non cambiare dai suoi stessi scrittori. Esce un importante saggio dello studioso lucano Giuseppe Lupo: da Verga a Saviano una linea immobilista Vittorini e Nigro fra le eccezioni. Oscar Iarussi il  21 Aprile 2021 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Che cosa c’entra Boccaccio con la questione meridionale? C’entra, eccome, sostiene il nuovo libro dell’italianista Giuseppe Lupo, lucano di nascita, romanziere di successo e docente alla Università Cattolica di Milano e Brescia. La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli esce domani per i tipi di Rubbettino (pp. 279, euro 18,00). La letteratura meridionale e la nostra stessa visione del Sud, esordisce Lupo, sarebbero diversi se avesse prevalso «l’aria napoletana più che toscana, con giardini di arance e odore di mare» delle novelle del Decameron (Pasolini ambientò il suo film da Boccaccio sotto il Vesuvio), un’aria lieve che ritorna nel tono fiabesco del secentesco Lo cunto de li cunti del campano Giambattista Basile. Quel «narrare angioino» della Napoli di mercanti e artigiani, cioè estroso miracoloso fantastico, nel corso dei secoli è stato invece surclassato dalla «mentalità conservativa dei dominatori spagnoli (meglio sarebbe dire la presunzione aragonese di gestire un potere politico in termini suppletivi)». Tale primato avrebbe sottratto il Sud alle traiettorie della Ragione, tanto più dopo la traumatica sconfitta della Repubblica Napoletana del 1799, bloccandolo nella dimensione della «anti-storia» o della «non storia» di cui è ancora prigioniero. Del resto, la rivolta contro il tempo storico e «il mito dell’eterno ritorno», secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade, sono le caratteristiche delle società arcaiche. Il Mezzogiorno entra nel canone della modernità a fine ‘800 - scrive Lupo - sotto il segno di Giovanni Verga con I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo: «Se da Manzoni la Storia veniva osservata come luogo del riscatto per gli individui, per Verga non c’è speranza di redenzione, non esiste prova che essa, la Storia, produca migliorie e modifichi le sorti degli uomini». Ecco la matrice o la quintessenza siciliana che presto si impone sul Meridione peninsulare e da cui deriva una tradizione pessimista fino alla paralisi, se non apocalittica. È la cornice nella quale Lupo iscrive - certo, con le varianti stilistiche e politiche dei singoli autori - Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo), Federico De Roberto (I Vicerè), Luigi Pirandello (I vecchi e i giovani), ma anche il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli, Ernesto De Martino, Rocco Scotellaro, Corrado Alvaro, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, e via via fino a noi, L’inferno di Giorgio Bocca, I traditori di Giancarlo De Cataldo e Gomorra di Roberto Saviano. «Se fosse prevalsa la linea tracciata da Boccaccio e Basile, avremmo avuto una letteratura meridionale modulata sulla leggerezza dei sogni e sulle oscillazioni dell’immaginazione. Ma ha prevalso l’atteggiamento aragonese che negli esiti letterari ha provocato uno sguardo da archivista, ha ratificato l’assenza della borghesia e dunque il fallimento di qualsiasi spinta al progresso». Eccezioni o alternative? Lupo ne individua ben poche: l’anelito alla modernità politecnica di Elio Vittorini, siciliano a Milano, e del suo allievo Raffaele Crovi; l’approccio interdisciplinare di Leonardo Sinisgalli, lucano al Nord che si sottrae alle «viscere di una fascinazione leviana»; la vocazione riformista e federativa di Adriano Olivetti, piemontese impegnato nel dopoguerra tra Pozzuoli e Matera, che echeggia in un pamphlet di Riccardo Musatti (La via del Sud, 1955, riedito nel 2020 da Donzelli con un’introduzione di Carlo Borgomeo). Fra tutte, nell’analisi dell’autore, spicca l’anomalia virtuosa di Raffaele Nigro, fin da I fuochi del Basento (1987): «A più di quarant’anni di distanza dal Cristo leviano, Nigro capovolge i termini del narrare meridionale con un romanzo di pronunciate ascendenze manzoniane, dove coniuga documentazione d’archivio e creatività... Per aver riscritto il patto tra epica e questione meridionale, I fuochi del Basento restituisce dignità letteraria a un argomento piuttosto marginale come il brigantaggio, contribuendo alla sua rivitalizzazione». E proprio con Nigro e con altri studiosi come l’antropologo Vito Teti, da tempo Lupo è impegnato in una prospettiva «appenninica» della questione meridionale (le aree interne, la dorsale dall’Emilia alla Calabria), che rivendica più attenzione all’«osso» montuoso rispetto alla «polpa» delle pianure e delle coste, di fatto ribaltando il celebre paradigma postbellico dell’economista Manlio Rossi-Doria. Un’Italia solo apparentemente «minore», quella degli Appennini, tornata «di moda» in era Covid, che, scrive Lupo, andrebbe valorizzata dotandola di servizi (logistica, istruzione, sanità, banda larga) e non retrocessa a «nuova arcadia» per le fughe dalle città dei ricchi settentrionali in cerca di borghi abbandonati. L’Appennino assunto quale cardine ideale, equidistante tra Est e Ovest, tra Europa e Mediterraneo - leggiamo - anche rispetto al «pianeta meridiano» di Franco Cassano, il sociologo che ha rilanciato la necessità di un pensiero radicale del Sud. L’esegesi dei testi letterari da parte di Lupo è rigorosa e la sua ipotesi è suggestiva, feconda: questo libro farà discutere. A noi pare - come dire? - forse troppo «severo» verso Levi, che, verissimo, ricalca le allegorie dantesche nella esplorazione dell’inferno contadino dove fu esiliato dal fascismo, ma la cui modernità letteraria (e politica) è testimoniata per esempio da L’orologio e dalla stessa mistura fra reportage, saggio e romanzo del Cristo. Simile osservazione avanzeremmo rispetto a Scotellaro e ad altri autori meridionali che l’editore Vito Laterza negli anni ’50 fece confluire nei «Libri del Tempo»: Danilo Dolci, Tommaso Fiore, Leonardo Sciascia, Giovannino Russo. Le loro sono indagini vivide lungo il confine di stagioni e sfide nuove. Nondimeno, La Storia senza redenzione di Giuseppe Lupo è un saggio originale e importante sulla «vera grande frontiera che deve valicare la letteratura d’impianto meridionalista: quella dei rapporti tra realtà e rappresentazione, cioè tra documento e mimesi». Oltre la descrizione o la denuncia del «mondo così com’è», narrare sognare concepire un altro Sud è possibile.

SputtaNapoli sport nazionale, Milano invasa da tifosi ma giornale scrive “Coprifuoco violato a Napoli”. Da Andrea Favicchio il 3 maggio 2021 su vesuviolive.it. Non chiamatelo vittimismo, questa è una vera e propria avversione nei confronti di Napoli, il solito SputtaNapoli. Sì perché ieri e sui giornali di questa mattina per l’ennesima volta si è vista la disparità di giudizio dei media italiani. Come se la festa per la Coppa Italia vinta dal Napoli fosse più contagiosa di quella scudetto (i numeri smentiscono chiaramente). Ieri l’Inter ha vinto lo scudetto e migliaia e migliaia di persone si sono riversate in città in festa. Direte voi, lo avrebbero fatto tutti è inutile giudicare. Infatti qui non si giudica il comportamento dei tifosi neroazzurri, perché qualunque tifoseria avrebbe fatto lo stesso, quanto più quello dei media nazionali.

Milano, festa scudetto dell’Inter: ma solo a Napoli siamo sciagurati. Spicca su tutti infatti il titolo de “Il Fatto Quotidiano” sull’argomento: “Folla di tifosi invade Milano. A Napoli coprifuoco violato”. Vi chiederete voi, cosa c’entrano le due cose insieme? La risposta è assolutamente nulla. L’Italia è il Paese dove si nasconde la polvere sotto al tappeto credendo di aver risolto tutti i problemi. L’Italia è il Paese dove per discolparsi di qualcosa si butta il fumo negli occhi della gente o la si fa guardare da un’altra parte. Un tentativo davvero goffo e ridicolo quello del quotidiano diretto da Marco Travaglio di distogliere l’attenzione su qualcosa che l’attenzione l’ha capitalizzata al 100%. Solo tra la gente comune però. Loro infatti sono gli unici ad essere sdegnati non solo dal comportamento dei tifosi ma anche dalla classe politica che avrebbe dovuto prevedere la situazione. Una festa che rischia di essere amara per tutti i milanesi e per la Lombardia intera. Staremo a vedere tra un paio di settimane come sarà la curva dei contagi – sperando ovviamente di essere smentiti in pieno.

L’ATAVICA AVVERSIONE A NAPOLI E L'OCCHIO BENEVOLO PER MILANO. DUE PAESI E DUE MISURE? E' RAZZISMO. Facebook. Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale il 3 maggio 2021. Pietro Fucile. Quando nel giugno scorso 5.000 tifosi festeggiarono per le strade di una città a zero contagi la vittoria della Coppa Italia, vennero definiti su tutti i giornali “Sciagurati!” con tanto di punto esclamativo per colmo d’indignazione. La situazione era per tutti “disgustosa”, gli amministratori, tanto De Luca quanto De Magistris “colpevoli” e per i napoletani si rispolverarono le analisi sociologiche (sempre le stesse da 160 anni in qua) che ancora parlano di “atavica avversione alle regole”. Oggi l’Inter vince lo scudetto, i tifosi festeggiano (sei volte più che a Napoli) assembrandosi in 30.000 nelle piazze di una città ancora in piena pandemia. Ma a fare il titolo è ancora Napoli per le violazioni delle norme anti-contagio, le stesse violazioni che si sono registrate nel weekend in tutte le città italiane. Occorrerebbe forse un’analisi sociologica relativa “all’atavica avversione a Napoli” del giornalismo italiano.

L’APARTHEID DELL’INFORMAZIONE GHETTIZZA IL SUD: SERVE UN’INDAGINE. Dai media una visione distorta del Mezzogiorno: almeno il servizio pubblico costituisca una commissione interna che controlli il tempo dedicato alle singole parti del Paese. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 5 maggio 2021. Al di là dei giudizi ovvi e contrapposti sull’intervento di Fedez al concertone del primo maggio esce fuori in modo dirompente come l’informazione della Rai sia sottoposta a un indirizzamento utilizzato, e che rispetta in ogni caso la lottizzazione esistente tra i partiti, che non si è mai riusciti a eliminare. Per cui diventa inopportuno e politically uncorrect un attacco a esponenti della Lega che si sono lasciati andare a frasi irripetibili, che magari risalgono ai tempi in cui il motto della Lega era anche “forza Vesuvio” o “forza Etna”.   Ma la domanda che ci si deve porre e che viene spontanea a chi si occupa, come il nostro Quotidiano del Sud, di un’informazione vista dal Mediterraneo e non dalle Alpi, è se l’informazione in generale, in particolare quella Rai, sia corretta. La Rai, infatti, è un servizio pubblico, pagato da tutti gli italiani, indipendentemente dal loro reddito, per cui viene anche finanziata dal 34% della popolazione meridionale, e quindi è opportuno sapere se l’informazione è neutrale ed equa rispetto ai territori.  Perché la sensazione netta è che ci sia una forma di apartheid. E che da Napoli in giù (ma un trattamento simile lo hanno il milione e cinquecentomila marchigiani e i 900mila umbri), vi sia una discriminazione inaccettabile.

I MANTRA DEI LUOGHI COMUNI. E tale atteggiamento non riguarda solo l’informazione pubblica. Infatti anche quella privata, in particolare La 7 e Mediaset, come l’informazione cartacea dei grandi giornali, cosiddetti nazionali, danno la sensazione che tutto quello che riguarda il Sud sia trattato con sufficienza, arroganza e grande protervia. Il tema è che qualunque giornalista che ne parla si sente autorizzato a trattare tale area per luoghi comuni, per mantra accreditati quanto falsi, per accuse non suffragate dai fatti. Intanto il Sud viene rappresentato prevalentemente come mafia, camorra e ’ndrangheta, sia dall’informazione che nelle fiction. E spesso ci si dimentica che la maggior parte delle vittime, che si sono immolate per combattere tali fenomeni, sono meridionali. Da Piersanti Mattarella a Falcone, da Chinnici a Levatino, il giudice ragazzino, a Don Pino Puglisi, ma l’elenco potrebbe continuare con i tanti campani o calabresi o pugliesi che hanno sacrificato la vita per la lotta alla criminalità. Anche quando lo Stato centrale, in un rapporto colluso con la periferia politica, spesso contigua alla criminalità, evitava interventi troppo radicali, lasciando i civil servant pubblici, ma anche i tanti eroi per caso, soli a combattere il mostro. E intanto ci si stupisce di trovare al Sud delle eccellenze universitarie e viene proposto da ricercatori titolati, come Tito Boeri per esempio, di concentrare tutte le risorse, come in parte già avvenuto, sui centri di ricerca migliori, per definizione settentrionali, spessissimo lombardi. Se poi si tratta di chiedere in televisione una opinione non si va mai al di sotto di Roma. Virologi, economisti, politologi devono avere un pedigree di nascita nordica, al massimo devono ormai essersi trasferiti da anni nel cuore pulsante del Paese, nella sedicente locomotiva, che alla fine ha trascinato il Paese in un binario morto. Si poteva capire che ciò avvenisse nei periodi in cui i talk show si facevano in presenza, ma oggi che è tutto via web non si giustifica assolutamente tale discriminazione, considerato peraltro che, per esempio, le università meridionali hanno delle tradizioni e dei ricercatori, in alcuni campi, che sono eccellenze riconosciute universalmente.

COMMISSIONE DI CONTROLLO. Anche quando si parla di economia l’approccio viene impostato sul ridicolo, per cui Stefano   Feltri o Giuseppe Sala si consentono di parlare del ponte sullo stretto definendolo un’infrastruttura ridicola. E se si parla di sviluppo del Mezzogiorno e di soldi a esso destinati si dice che è stato un pozzo senza fondo pur, invece, se la realtà è che il pro capite destinato al Sud è stato, nei settori della scuola, della mobilità e della sanità di gran lunga inferiore che nel Nord del Paese. Ragion per cui per un bambino nascere a Reggio Calabria piuttosto che a Reggio Emilia diventa una disgrazia che si porterà dietro per tutta la vita, come nascere in madre patria o in colonia. L’informazione è fondamentale, come è noto, non solo nell’agone politico ma anche in quello economico, rispetto ai territori. Quindi se il mantra è che il Sud spreca risorse, argomento che a forza di essere sostenuto convince anche i rappresentanti meridionali, in genere poco informati o solo dai cosiddetti giornali nazionali, è più facile che, quando si legifererà per distribuirne, il Sud farà la parte del parente povero, cornuto e mazziato. Per questo motivo è assolutamente necessario che la problematica dell’informazione venga affrontata adeguatamente e, perlomeno per quanto riguarda quella del servizio pubblico, si costituisca una commissione interna che controlli il tempo dedicato alle singole parti del Paese, come avviene per la Commissione di vigilanza in relazione alla presenza delle forze di maggioranza e di opposizione. La Rai è un patrimonio nazionale e tutti sappiamo benissimo quale ruolo svolga, tanto per fare un esempio, per il festival di Sanremo o per la Scala di Milano o per il festival del Cinema di Venezia e come influenzi anche i comportamenti di consumo e i movimenti turistici. Riuscire a capire che tutti i territori hanno diritti analoghi nel nostro Paese è sicuramente  rivoluzionario e il fatto che eventi come  le rappresentazioni classiche di Siracusa o il Festival della Taranta,  che  si svolge  nel mese di agosto in forma itinerante in varie piazze del Salento, iniziando da Corigliano d’Otranto e culminando nel concertone di Melpignano, che vede la partecipazione di musicisti di fama nazionale e internazionale, devono essere ugualmente promossi, non deve costituire una battaglia. Così si scoprirà che i concerti di Ravello non hanno nulla da invidiare agli spettacoli dell’arena di Verona.

GLI INTERESSI PREVALENTI. Ovviamente tutto ciò non avviene per caso, perché l’informazione in Italia non è pura attività editoriale, ma espressione di forze imprenditoriali che hanno centri d’interesse prevalentemente in una parte del Paese.  E su quella essa si concentra, pesando le parole quando si tratta di tutelare gli interessi di una parte e invece si va a ruota libera quando si parla della parte meno forte e spesso meno attenta a non far passare una informazione negativa e dannosa anche per i flussi turistici. Questo obiettivo, di una informazione corretta che in un Paese normale non sarebbe nemmeno tale, ma che dovrebbe essere il normale approccio dell’informazione a tutti i territori, da noi diventa una conquista, perché purtroppo in tutti i campi il Mezzogiorno, per partire dalla quota zero, deve fare un grande sforzo. D’altra parte i numeri dell’organizzazione con sede a Parigi sulla libertà di stampa non ci danno scampo. Secondo la tabella di Rsf, nel Vecchio continente siamo quelli messi peggio. Ci scalza anche Cipro e peggio di noi c’è solo la Grecia. È tutto dire.

Quell’equazione distorta “Sud uguale mafia e camorra” che nello Stato patrigno non muore mai. Anche nel programma di Augias su Rai3 un'immagine di Napoli distorta dai pregiudizi. Il tema dell’abbandono dello Stato non viene mai fuori e le colpe del degrado sono sempre addossate al Sud. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 20 aprile 2021. Un popolo dove ci si sbrana, dove la convivenza non è civile. Un paradiso abitato da diavoli. Città di lazzaroni e pulcinelli, semibarbara e africana. Così scrive Leopardi al padre parlando di Napoli. E così il programma “Città segrete” di Rai Tre riporta, ammiccando allo spettatore che forse questo vuol sentirsi dire. Corrado Augias ripercorre gli speciali sulle città meridionali con un pregiudizio imperante, che prevede che bisogna far prevalere le immagini di città degradate, in mano alla camorra, in cui il riferimento a Raffaele Cutolo e al sequestro Cirillo è d’obbligo.

IL MANTRA DEMAGOGICO. Un Paese che purtroppo non riesce a valorizzare il suo territorio, per cui se parli di Napoli o Palermo il riferimento alla camorra o alla mafia deve essere obbligatorio. Ma tant’è, l’approccio di una certa cultura demagogica e sinistrorsa che semplifica tutto in un approccio distorcente di una realtà complessa. Dove le cause dell’abbandono di uno Stato patrigno non vengono mai fuori e le responsabilità del degrado sono sempre ed esclusivamente dell’incapacità di una realtà lombrosionamente inferiore. «Non c’è nessuno, qui, che non sia un vinto, umano e storico, un messo a terra per sempre. Tutti quanti, andalusi, cretesi, turchi, arabi, occitani, armeni, siciliani, greci vixerunt, anche se di fuori sgambettano, la loro anima giace strangolata nel sottosuolo della storia, lo spettacolo, la scena, le parole sono sfoghi di vento, non c’è nulla dietro, popoli finiti… Sono i Mediterranei, morti come il loro mare, una specie mentalmente estinta, anche se in spermatozoi vivace ancora, ma non riproducono che sfinimento». Così il torinese Guido Ceronetti nel suo viaggio in Italia, ed è questo il mantra della parte “colta” del Paese.  Una maggior capacità di approfondimento, forse, avrebbe fatto capire meglio le ragioni per cui Maradona diventa un simbolo di riscatto. Ogni napoletano si riconosce in questo ragazzo nato a Buenos Aires. Voglio diventare l’idolo dei ragazzi di Napoli. Per cui finisce la storia d’amore tra Maradona e l’Italia ma non tra Maradona e Napoli. Perché la città lo sente come suo difensore rispetto a tutti i torti subiti da una colonizzazione che continua. E così la Rai che si permette di parlare in libertà, dando una immagine che certo non incoraggia i visitatori potenziali a confermare un viaggio, in una delle città più belle d’Italia che però nella classifica dei visitatori viene al 16° posto tra le città italiane con 3.200 presenze contro i 10 milioni di Firenze, così come Palermo viene al 38° posto, precedute entrambe da Riccione e Lazise.

GLI STEREOTIPI FASULLI. Per cui la gente oggi pensa di evitare un viaggio in una realtà descritta come un far west incontrollato. “Addà passá a nuttata” direbbe Edoardo De Filippo pensando a quel popolo stretto e accalcato in questi vicoli vocianti protagonista di una quotidiana messinscena con il viso segnato dalla malinconia! Perché la Napoli che non ha diritto di cittadinanza è quella dei ragazzi costretti a emigrare perché è morta anche la speranza di trovare un posto di lavoro nella Regione. Sono illuminanti le battute tratte dal film di Massimo Troisi “Ricomincio da tre”: «Ah lei è napoletano! Emigrante?». Eh sì, perché il meridionale scansafatiche, pizzaiolo, mandolinaro, poltronaro e con il reddito di cittadinanza oggi deve essere solo emigrante. Purtroppo anche la Rai, come tutti i media nazionali, non riesce a discostarsi da un approccio coloniale rispetto al Mezzogiorno e a una visione stereotipata che, piuttosto che valorizzare le bellezze di quella che è stata una delle capitali europee, insieme a Parigi e Londra, quando la Milano da bere era una piccola realtà di una zona nebbiosa, ne amplifica i tanti vizi che certamente esistono. Ma è un approccio che riguarda tutto il Sud, per cui se la sanità in Calabria non è all’altezza è colpa della ’ndrangheta e quindi dei calabresi, anche se la sanità in quella Regione è commissariata dallo Stato da oltre 10 anni. E il mantra che bisogna far correre Milano anche se Napoli affonda viene ripetuto da una classe dirigente settentrionale che non riesce a capire che la mediterraneità dello stivale è una virtù che va valorizzata più che un vizio che va represso.

LA MISTIFICAZIONE. E anche il miracolo di San Gennaro diventa in questa logica per Corrado Augias un evento da popoli sottosviluppati che credono a miracoli fasulli e viene affiancato ad un esperimento dell’ateo principe di Sansevero. Per cui ancora dai visitatori che, malgrado la vulgata di un Mezzogiorno da evitare, riportata ovviamente sui media internazionali, riescono ad arrivare a visitarlo, si sentono esclamazioni di meraviglia, perché le attese erano di dover uscire dall’albergo con il giubbotto antiproiettile. Anche l’accostamento con la cultura della morte delle anime pezzentelle dà una immagine lugubre di una città nella quale la luce e il colore sono invece i tratti predominanti. Nulla della grande tradizione della canzone napoletana, conosciuta in tutto il mondo, nulla di quel «’o sole mio» più noto dell’inno di Mameli. Nulla della grande tradizione giuridica, nulla degli ultimi 160 anni di unità che l’hanno degradata a periferia di un Paese proprio per questo ormai in declino. Purtroppo Augias di fronte a un impegno importante come raccontare Napoli o anche Palermo, si è fermato a tanti luoghi comuni. Il cambio di passo che serve ai nostri media per interpretare realtà in profondo cambiamento, come quelle del Sud, con una gioventù vivace che rappresenta il vivaio artistico nella musica come nel teatro nel cinema e nelle arti non si riesce ad avere. Più facile rifugiarsi nella storia da raccontare della camorra che, certamente, è ancora un dramma ma che è frutto di accordo scellerato tra classi dominanti locali e potere centrale che non ha impiegato tutta la sua forza per combatterla e annientarla, rimane il logo caratterizzante.

La foglia di fico di politici incapaci. Gratteri è intoccabile e riverito dalla stampa perché arresta calabresi, a Milano invece…Ilario Ammendolia su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Mai come in questo momento avverto un senso di frustrazione e di impotenza per il fatto che della Calabria non gliene fotte proprio niente a nessuno. Da quaranta anni sosteniamo che un vasto arco di forze ha trovato comodo ridurre la drammatica questione calabrese a mera questione criminale e, in tale ottica, Gratteri è stato letteralmente costruito, soprattutto dai media, come strumento dietro cui nascondere la scelta politica e istituzionale di non dare risposte credibili a una regione che si è andata disgregando giorno dopo giorno. E mai come oggi la Calabria è stata uno “sfasciume” umano, sociale e politico “pendulo sul mare”. La ‘ndrangheta fa da padrona e se non si sente è perché ha deciso di non farsi sentire. Questa è la vera grande colpa di quanti si sono prestati (Gratteri in primis) a un gioco che ha aiutato a cancellare la Calabria da ogni agenda di governo. Senza sconfiggere né la criminalità organizzata né tanto meno quella comune. Quindi, sono rimasto sorpreso e perplesso quando ho letto l’editoriale di Sallusti “Gratteri, don Chisciotte e Sancho Pancia” con il direttore de Il Giornale nella parte di cavaliere dell’Ideale per il presunto coraggio di criticare Gratteri ritenuto un “intoccabile”. Di vero c’è solo l’imbarazzato silenzio dei giornali che hanno dedicato intere paginate a Gratteri e tutte grodanti “ inni e canti “ al magnifico procuratore che il Cielo avrebbe destinato alla Calabria. Per il resto Sallusti si sbaglia e lo sa bene. Il procuratore di Catanzaro è realmente un intoccabile ma solo se arresta calabresi, meglio se “sciancati”, interpretando gli umori delle caste che comandano in Italia. Ma se pensa a Milano troveranno mille modi per sbarrargli il passo. Sto leggendo il libro Strage di Stato e, da quanto ho finora letto, mi sembra indubbio il fatto che Gratteri abbia sbagliato a fare la prefazione al libro. Ma una prefazione rispetto a quanto è successo in Calabria negli ultimi trenta anni, è nulla. Eppure tutto è stato colpevolmente ignorato da quanti avevano l’obbligo di sapere. Era il 2009 quando con un editoriale su Calabria ora diretto da Piero Sansonetti abbiamo denunciato quanto era avvenuto a Plati (Rc). E poi abbiamo parlato di “Metropolis” , di “Circolo Formato”, delle varie inchieste (sommarie) sulla sanità calabrese e sul delitto del vicepresidente del Consiglio regionale, on. Fortugno. Sino ad arrivare a “Rinascita Scott”, al confinamento (illegale) del presidente della Regione e all’arresto (illegittimo) del presidente del Consiglio regionale. E ancora (e soprattutto) , di vite spezzate, di democrazia sospesa, di economia al lastrico ad opera della mafia e dell’antimafia, di oltraggi costanti alla Costituzione. Abbiamo combattuto in solitudine e non senza rischi, mai contro le persone ma solo per rompere il muro di sopraffazione e di indifferenza verso la Calabria. I fatti ci hanno dato ragione su tutto…. ma – ed in questi giorni è più evidente che mai- la Calabria non è Milano.

Dagospia l'1 aprile 2021. ANCHE LA CHIESA SI È ACCORTA CHE LA MAFIA NON C'È SOLO IN SICILIA.

Giacomo Galeazzi per lastampa.it l'1 aprile 2021. Il dicastero vaticano per lo Sviluppo umano integrale ha riunito nei giorni scorsi la commissione che lavora alla scomunica dei mafiosi. Tra i presenti all’incontro il sacerdote anti-mafia don Luigi Ciotti, l’ex procuratore Capo di Roma, Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano e l’arcivescovo di Monreale, monsignor Michele Pennisi, nella cui diocesi è stato dato alle fiamme il portone della chiesa di Corleone. «La scomunica dei mafiosi va uniformata a livello nazionale perché questo vuoto normativo a livello generale è dovuto alla difficoltà nel conoscere i meccanismi con cui il malaffare legato a questa tipologia di associazioni criminali ha potuto insinuarsi e radicarsi in tutti i gangli della società a livello nazionale», puntualizza il presule siciliano.

In tutta Italia. Il gruppo di studio ha l’incarico in Vaticano di approfondire la minaccia delle mafie alla Chiesa e alla società civile. Per indicare alle Conferenze episcopali regionali come estendere a tutta Italia quella scomunica per i mafiosi che è già in vigore nelle diocesi siciliane. «La criminalità organizzata non è più un’emergenza solo del Mezzogiorno ma anche al Nord e al centro», sottolinea l’arcivescovo di Monreale, che he nel suo territorio ha i comuni di San Giuseppe Jato e di Corleone. E aggiunge: «I clan vanno dove ci sono i soldi e con la crisi è più conveniente per loro fare affari lontano dalle loro terre sempre più impoverite e intrecciare rapporti con potentati economici e politici in ogni regione».

Mentalità. La task force, in funzione al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, ha l’obiettivo di approfondire il fenomeno mafioso anche attraverso esperti, laici e religiosi, magistrati, italiani e stranieri. Alla ricerca di «nuove strade per combattere la mafia sensibilizzando la società civile e le istituzioni contro il crimine organizzato. La mafia danneggia la Chiesa e la mentalità ecclesiale perché propone modelli opposti alla Chiesa», precisa monsignor Pennisi. «Abbiamo definito le condizioni per la conversione dei mafiosi che non può essere ridotta a un fatto intimistico ma deve avere una dimensione pubblica, essere seguita da una riparazione del male fatto, da una richiesta di perdono alla vittime e dall’abbandono della criminalità organizzata. Chi non si converte è fuori dalla comunione ecclesiale, è scomunicato. E la scomunica comminata è una pena medicinale, un monito in vista di un possibile ravvedimento e della conversione».

Delitto canonico. Perciò, evidenzia il presule siciliano, «la legge penale universale deve contenere una configurazione del delitto canonico di mafia la più ampia possibile perché il fenomeno assume oggi contorni globali. Ci siamo chiesti perché la scomunica non valga in quei luoghi in cui vi sia la presenza di associazioni mafiose, i cui aderenti non risultano invece colpiti da scomunica in assenza di un decreto formale da parte dei singoli vescovi o delle conferenze regionali o nazionali. Il modello è la scomunica già in vigore per i mafiosi nelle diocesi siciliane. «L’obiettivo è estendere all’episcopato italiano e mondiale ciò che nelle diocesi siciliane è stato stabilito per chi si rende colpevole di peccato di omicidio collegato alla mafia-  spiega monisgnor Pennisi-. A tal fine, nell’anniversario monito di San Giovanni Paolo II ai mafiosi, la Conferenza episcopale siciliana ha pubblicato un documento intitolato ‘Convertitevi’ sull’incompatibilità tra l’appartenenza alla Chiesa e ai clan mafiosi». A sollevare la necessità di estendere al nord la scomunica ai mafiosi, evidenzia monsignor Pennisi, «sono stati i vescovi meridionali: nel Mezzogiorno la sensibilità verso la minaccia mafiosa è maggiormente avvertita. Ma oggi il connubio mafia-affari è nazionale ed è un problema pastorale che non può essere confinato nelle regioni del sud. L’impegno civile a favore della legalità riguarda ogni cittadino».

Pena canonica necessaria. «Per il cristiano la lotta alla mafia richiede un incremento di responsabilità, per questo sono state chiamate in causa categorie morali e teologiche come la conversione e il peccato - afferma monisgnor Pennisi -. I modelli a cui ispirarsi sono l’appello di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi e le prese di posizione forti di Papa Francesco, incluso lo storico incontro con i familiari delle vittime innocenti della mafia nella primavera del 2014. Francesco ci chiede di coinvolgere nello stesso atto di condanna sia la ’ndrangheta che la mafia, la camorra, la sacra corona unita e altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso, come a voler dire che si tratta di piaghe che non conoscono cittadinanza». Oltre al fatto di commettere specifici delitti è «l’esser di per se stesso un mafioso che costituisce un delitto e necessita di una pena canonica e cioè la privazione dei funerali religiosi, la scomunica», conclude l’arcivescovo di Monreale.

I precedenti. La Conferenza episcopale siciliana in una lettera collettiva già nel 1944, pur senza espliciti riferimenti alla mafia, dichiarava: «Per parte nostra dichiariamo colpiti di scomunica tutti quelli che si fanno rei di rapina o di omicidio ingiusto o volontario». Nel 1952 nel Concilio plenario della Sicilia questa scomunica fu estesa ai mandanti e ai collaboratori dei reati di mafia. Nel febbraio del 1973 i vescovi siciliani condannano con fermezza «il fenomeno perdurante della mafia che infetta alcune zone della nostra isola». Nel 1982 si scomunicava chi si fosse macchiato di crimini violenti che hanno «come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita». La scomunica è stata ribadita il 13 aprile 1994. La Chiesa siciliana, per bocca dei suoi pastori, ha ribadito un mese fa che la mafia è peccato e i mafiosi sono peccatori perché oppongono un «rifiuto gravemente reiterato nei confronti di Dio e degli esseri umani, che sono a sua immagine e somiglianza». A questo peccato «si rendono solidali anche i fiancheggiatori dell’organizzazione mafiosa e coloro che ne coprono i misfatti con la connivenza e con il silenzio omertoso».

Peccato gravissimo. «Far parte della mafia si configura come un peccato gravissimo, che di fatto pone al di fuori della comunione ecclesiale chi lo compie - chiarisce monisgnor Pennisi -. Per questo motivo noi vescovi abbiamo rimarcato l’incompatibilità tra la mafia e il Vangelo, consapevoli che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Chiesa, il suo impegno catechetico, la sua prassi pastorale, la sua azione sociale. Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle diocesi della Sicilia venga punito con la scomunica, mentre se commesso in un’altra regione possa restare indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica».

L’input di papa Francesco. Nel discorso di papa Francesco a Sibari del 21 giugno 2014 c’è l’esplicita condanna del comportamento mafioso di chi commette atti criminali tipici della mafia, ma anche della stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: «Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati». Francesco non mette solo in evidenza il peccato grave in cui si trovano i mafiosi. Dice che questa condizione di peccato dei mafiosi è anche un delitto penale che comporta la scomunica perché c’è l’idolatria, l’adorazione del male, del denaro che «prende il posto dell’adorazione per il Signore».

SILVIA DI PAOLA per la Verità il 4 aprile 2021. Il canale Nove ha trasmesso un documentario su 'ndrangheta e malaffare in Lombardia che era completamente falso: è stato girato da finti reporter che hanno intervistato attori che interpretavano i ruoli di boss, spacciatori e pentiti. Il reportage era stato acquistato per 425.000 euro. A smascherare la messinscena è stato un carabiniere davanti alla tv, il quale si è accorto che un edificio spacciato come una raffineria di coca per la Milano bene era in realtà una palazzina anonima in zona Barona. La Procura ha indagato 4 persone, tra cui il giornalista spagnolo David Berian Amaitrain, 43 anni, volto della serie tv incentrata sulle realtà criminali più pericolose del pianeta. Il canale Nove della società Discovery è parte lesa. (Federico Berni) [Corriere della Sera]

Affari d’oro coi falsi ‘ndranghesti in Tv. La procura di Milano che indagato un giornalista spagnolo accusato di aver confezionato e venduto un falso reportage sulla ndrangheta per quasi mezzo milione di euro. Il Dubbio il 26 marzo 2021. Che con la 'ndrangheta si fanno affari, era noto da tempo. Quello che era meno noto, ma in fondo neanche troppo, è la capacità di vendere il “prodotto” ndrangheta. La notizia arriva dalla procura di Milano che indagato un giornalista spagnolo accusato di aver confezionato e venduto  un reportage falso. Era stato presentato come una inchiesta esclusiva nel cuore della criminalità organizzata italiana, con interviste a esponenti della ‘Ndrangheta e rivelazioni dei diretti interessati. I carabinieri e la Procura di Milano ritengono invece che fosse tutta una finzione il programma “Clandestino”, realizzato dal giornalista spagnolo David Beriain e trasmesso da canale Nove nel novembre 2019. Un progetto costato 425mila euro. Ieri mattina la Procura ha emesso un avviso di conclusione delle indagini preliminari e ha indagato quattro persone per truffa in concorso. Il canale, che risulta parte offesa, è stato indotto a credere che il reportage – come scrivono i carabinieri – “contenesse fatti realmente accaduti, filmati da reporter infiltratisi sotto copertura, rivelatisi invece frutto di una recita ad opera di attori appositamente scritturati”. Le indagini sono partite grazie a un militare della compagnia Porta Magenta che durante la visione del programma si è accorto che un palazzo indicato come raffineria di cocaina a Milano, in realtà era un semplice condominio dove non c’era alcuna irregolarità. Tra gli indagati c’è un italiano di 53 anni, pregiudicato per reati di corruzione, favoreggiamento, accesso abusivo a sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio. Nel suo caso il provvedimento è stato notificato dalla compagnia carabinieri di Marcianise (Caserta). Destinatari anche il giornalista 43enne Beriain e i due responsabili di una società di produzione di documentari che vivono in Spagna, una 43enne e un 33enne.

IL COMMENTO. “C’È DA AVERE PIÙ PAURA DI TRE GIORNALI OSTILI CHE DI MILLE BAIONETTE”. Massimo Cogliandro, Partito del Sud, su SudOnline.it il 12 aprile 2021. Così diceva Napoleone Bonaparte stratega di indubbio spessore non solo sui campi di battaglia. Purtroppo il meridione ha un cattivo rapporto con buona parte della stampa ed io aggiungerei anche del cinema, della poesia della prosa e del teatro, sia per colpa dell’ignominia cucitaci ad arte sulle nostre spalle, sia per l’indole dimessa forgiata dagli anni di applicazione della famigerata Legge Pica. Ogni volta che assurgiamo agli onori giornalistici è solo per andare in cronaca nera ovvero ci troviamo da sempre di fronte al plotone d’esecuzione. Dopo la nascita di giornali meridionalisti come “Il Sud On Line”, ed altri, ed il fiorire di movimenti e gruppi meridionalisti, il modo di rappresentare il Sud ed il modo di approcciarsi ai meridionali è parzialmente cambiato. Ma non basta! Capita ancora oggi di ascoltare, da organi di informazioni anche nazionali, casi di più arresti nel nord Italia, ma farciti di sottolineatura/e dell’appartenenza geografica meridionale di qualcuno di questi individui; affermazione atta, per stereotipi, a giustificazione della situazione. Ovvero la sola presenza di un meridionale tra gli arrestati rende logico che abbia coinvolto, nella vicenda genti del nord come se lì si non abbia facoltà autonoma nel crimine ovvero che in quelle zone il fenomeno criminale non esista perché più evolute. Di contro se qualche meridionale assurge alle cronache per meriti scientifici, culturali o diversi ancora difficilmente sarà indicato come tale, si procederà ad un oltraggioso silenzio. Ad ulteriore riprova del modus operandi esistente vi chiedo se avete mai avuto per le mani una “Relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione sull’andamento della giustizia” che viene redatta annualmente in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Se si, vi sareste accorti che, specialmente negli anni passati, ad esempio in concomitanza delle cosiddette “guerre di mafia” numericamente i morti registrati in quell’anno erano di quantità inferiore ai morti ammazzati in altre città del nord. Con la differenza che un morto ammazzato a Reggio Calabria, a Bari o a Napoli otteneva un’eco mediatica assolutamente superiore di uno ammazzato a Milano o a Udine, ammesso che venisse pubblicato. Va anche detto che questo tipo di giornalismo scandalistico ha così fatto la fortuna di qualche giornalista e di qualche giornale in danno dell’immagine del Meridione e forse sull’altare della lotta alla criminalità organizzata. Papa Francesco ha detto “Stranamente, non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso, ma continuiamo a non sapere che cosa succede.” Ed ha perfettamente ragione anche nel nostro caso specifico! Infatti nel nostro meridione possiamo trovare: personaggi illustri, esempi di vita, imprese da additare, istituzioni pubbliche efficienti ed altro ma non sono oggetto di articoli stampa! Va detto che il “bene” comunque non fa notizia, non da scandalo e quindi non fa vendere giornali! È però arrivata l’ora, per noi meridionalisti, – e assurgo tali presupposti senza averne titolo, arbitrariamente, anche per i giornali meridionalisti, – di cambiare passo, dobbiamo iniziare a dare spazio alle biografie di personaggi noti meridionali, alle imprese dei nostri territori che meritano e così via dicendo. Abbiamo il dovere di remare verso una corretta idea di Meridione dobbiamo parlare di Noi esaltando ciò che c’è di buono nella nostra terra e tra i nostri paesani. Questo nuovo modo di fare oltre che moralmente servirà a ridurre i luoghi comuni che certe volte soffocano persino il turismo o il progredire delle attività commerciali. Per fare un esempio prendiamo in esame la nomea del paese di Corleone, premetto di non conoscere quella realtà a causa del fatto che abito lontano da lì, ma posso dire che l’immagine di quel comune è legata, purtroppo in maniera indissolubile in quanto nativi, a Totò Riina e Bernardo Provenzano. ma il cinema con il libro ed film “Il Padrino” ha dato il colpo finale all’immagine di quel paese e dei suoi abitanti. Sono sicuro che attualmente, ed anche negli anni passati, in quel paese saranno presenti esempi di buona vita o buona amministrazione. Corleone deve essere additato per altro, e mi piacerebbe vederlo scritto su qualche giornale, pur abitando lontano e pur solamente a mezzo di ricerche tramite internet ho appreso che Corleone è il paese natio di Filippo Latino, oggi San Bernardo da Corleone religioso dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, ex prima spada di Sicilia. Fu proclamato beato il 15.05.1768 da Papa Clemente XIII ed il 10.06.2001 proclamato Santo da Papa Giovanni Paolo II, da taumaturgo operò miracoli ed ebbe il dono della scrutazione e della profezia. Inoltre Corleone è poco nota per la fierezza di carattere dei suoi abitanti motivo per il quale fu chiamata “animosa civitas”, perché nel 1282, all’epoca dei famosi Vespri Siciliani, fu la seconda città, dopo Palermo, ad insorgere contro la dominazione di Carlo d’Angiò Re di Napoli. Ma Corleone non è nota per i suoi abitanti che hanno lottato contro la mafia e che per tale motivo sono stati ammazzati come: Bernardino Verro (sindaco di Corleone e sindacalista voleva l’equa ripartizione del latifondo), Placido Rizzotto, (anch’egli sindacalista e politico), Luciano Nicoletti (militante del Partito Socialista Italiano – corleonese d’adozione), Giovanni Zangara (assessore della giunta Verro), Calogero Comajanni (guardia campestre il quale arrestò Luciano Liggio per furto che poi si vendicò facendolo uccidere), Liborio Ansalone (comandante dei Vigili Urbani fu ucciso per avere collaborato con il Prefetto Antimafia Mori), Ugo Triolo (avvocato e Viceprocuratore onorario ucciso per queste sua attività di servizio), e perfino Giovanni Falcone, discendeva da parte di madre da Corleone ove addirittura visse una parte della sua infanzia. Come si vede il bene ed il male sono ovunque. Personalmente sono convinto che il bene è sempre superiore a ciò che c’è di male per cui mi appello ai compagni del Partito del Sud a tutti i meridionalisti ai componenti di questa testata ed a chiunque voglia e possa: innalziamo ciò che c’è di bene di prestigioso e di buono nel nostro meridione, scriviamolo, pubblichiamolo diamogli forza e diffusione anche parlandone vantiamolo contestando così i luoghi comuni su di noi! Massimo Cogliandro, Partito del Sud

Al Meridione è negato anche questo diritto. Il falso Sud delle serie tv: o sbirri o mafiosi. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Raccontarsi per come si è, né cartolina né necrologio, un po’ e po’, una miscela di tragedia, commedia, condita dalla farsa. La vita di ognuno è un misto di tutto, così la vita di una terra: un insieme di tutte le cose che accadono al mondo, in tutti gli angoli del mondo, con prevalenze e mancanze. A tutti dovrebbe essere permesso il racconto sincero, anche solo per lo sfizio di raccontare bugie. Il Sud questo diritto non lo ha, è quello che un narratore onnipotente e onnisciente vuole. Non è un pensiero a se stante, stratificato, complesso; è brandelli di pensate superficiali, in bilico fra quelle da cronaca nera e quelle da fiction. Perciò il Sud non è, resta un pianeta distante, confinato in una galassia lontanissima, di cui arrivano solo le leggende. Il Sud famigerato dei processi di mafia o quello colorato delle serie televisive. Falso uno e falso un altro: due bugie non hanno mai dato corpo a una verità. Una deriva a cui sembra impossibile sottrarsi: quasi nessuno prova a raccontarlo un Sud per come è, lo si racconta per come serve agli altri, a se stessi. Lo si racconta per come poi se ne possa fare pietanza. E non è che non ci siano stati grandi narratori a raccontarlo, passano gli sforzi di Pirandello, di Sciascia, di Alvaro, di Strati, e di una lunga e sacra schiera, come le puntate di un film neorealista non in tono con le tendenze attuali. Il Sud è commissari e procuratori, sbirri e banditi: tutti ora truci ora leggeri; una terra colorata, intrisa di zagare e sole che si sveglia tardi perché c’è sempre poco da fare, e poi finisce al tavolo di un ristorantino vista mare a godersi frittelle di fi ori e pescato freschissimo. Tutto si assonna nella certezza di un andrà tutto bene alla fine. E invece da secoli niente va a finire bene, perché il Sud non è un filmetto americano in cui i marine rimetteranno l’ordine dei giusti, o arriveranno i borghesi illuminati a distribuire carezze. Il Sud è il documentario su una zolfatara, i minatori si dicono l’un l’altro non ti schiantari, non aver paura, senza aspettarsi risoluzioni se non quelle che passeranno attraverso lotte e resistenze durissime. Dopo averlo vestito per decenni dei panni dell’imputato, si pensa di risarcire il Sud per mezzo di un inesauribile gomitolo di soap-fiction che tessono trame unendole a orditi fatti per tranquillizzare chi guarda, invitarlo in location da urlo. Nessuno ci pensa a raccontare il Sud di quelli che il Sud lo vivono, lo abbandonano, lo invocano e lo bestemmiano. Un Sud che sia un Sud vero, non la major di una cospicua stirpe di writer o storyteller, ma con un’aria che a volte sa di gelsomino e altre di cumuli di spazzatura bruciata. Un Sud che non è né arretrato né antimoderno, che semplicemente si sia scontrato con una modernità portata da lontano. Un incidente da cui una cultura ne sia uscita a pezzi, senza che nessuno si sia poi preso la briga di curarla, di sanarne le ferite. C’è un Sud che dovrebbe e vorrebbe raccontarsi da Sud, ma è un fi lm che quelli bravi, di fuori, dicono non potrebbe aver successo. E allora proseguiamo a narrare di camicie a fiori, di ozio creativo e di estati perenni. Proseguiamo a inventare finzioni patinate che lasceranno intonsa la sostanza di un mondo che continuerà a essere altro per chi davvero lo viva o lo abbandoni.

Il pizzo alle cosche, le interdittive, i sequestri…Il Sud in agonia sotto l’attacco di mafia, giornali e PM. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Novembre 2019. Le inchieste aperte da alcune Procure sulle attività della Mittal, e poi i sequestri e le nuove imputazioni – lo abbiamo scritto nei giorni scorsi – sono un tentativo, da parte dei settori più reazionari della magistratura, di assumere il comando della politica economica. Cioè di allargare le proprie competenze, dopo avere invaso largamente il campo della politica: in particolare quello del governo delle Regioni e degli enti locali, e poi quello delle competizioni elettorali e persino della definizione delle candidature. Esiste un aspetto di questo problema che riguarda la democrazia e la qualità della politica. È un aspetto del quale abbiamo parlato molte volte. Poi c’è un secondo aspetto, che è nuovo, e riguarda l’economia italiana e le prospettive della produzione di ricchezza e dell’orientamento dello sviluppo. In teoria queste materie sono di competenza in parte del mercato e in parte della politica. La discussione che da sempre si svolge, con risultati alterni, riguarda il rapporto di forza e di potere tra il mercato e la politica. Di solito la sinistra ritiene che il potere della politica debba essere prevalente sul potere del mercato, e la destra pensa il contrario. Entrambe però restano in questo ambito e ammettono che debba esserci un equilibrio tra politica e mercato (tranne le frange più estremiste della destra ultraliberista che vorrebbero tutto il potere al mercato, e le frange staliniste e stataliste che invece vorrebbero azzerare le competenze del mercato). La novità sta nell’invasione della magistratura che decide di delegittimare sia la politica che il mercato e di prenderne il posto. Il problema interessa tutto il Paese. Perché evidentemente si pone un’ipoteca molto seria sul funzionamento del sistema. Alle vecchie idee liberali e a quelle socialdemocratiche si sostituisce una idea piuttosto definita di repubblica delle Procure, governata dal potere giudiziario. Una questione, però, del tutto speciale è quella che investe il Mezzogiorno. Le scelte delle Procure, non contrastate dalla politica e sostenute attivamente anche dalla stampa, provocano, ovviamente, la fuga degli investitori. Non solo degli investitori stranieri ma anche degli italiani. Chi accetterebbe di rischiare una parte del suo patrimonio per avventurarsi in imprese imprenditoriali che possono essere spazzate via in un minuto dalla decisione di un giovane sostituto Procuratore? Una volta la dinamica era diversa. Il conflitto c’era, ed era una delle componenti del rischio di impresa del quale gli imprenditori tenevano conto. Ma il conflitto era tra i lavoratori e l’impresa. Tra i sindacati e il padrone. Se ne conoscevano le regole, le possibili ricadute, i probabili compromessi. A seconda dei rapporti di forza, anche politici, l’accordo poteva alla fine essere un po’ più favorevole ai lavoratori, e ai salari, o più favorevole al profitto. Ma il recinto della battaglia era chiaro e nessuno aveva il potere assoluto sugli altri. In questa nuova fase di Repubblica delle Procure non è più così. E oggi, chiunque decida di investire al Sud sa di rischiare di finire in una morsa: da una parte la mafia, che impone il pizzo e rende più costosa l’impresa e dunque meno remunerativo l’investimento, dall’altra le Procure, che possono azzerare l’impresa e produrre danni economici esorbitanti per l’imprenditore. Oltretutto non sono solo le Procure, perché al fianco delle Procure, e con il loro avallo, agisce il sistema dei prefetti, che adopera il sistema delle interdittive in modo assai spavaldo, ed è molto più agile delle Procure. In che consiste una interdittiva? Il prefetto, con il placet della Procura, stabilisce che una certa azienda ha un qualche legame con le cosche. Per esempio, un operaio, o un geometra dipendente di quell’impresa che ha sposato la sorella di una persona imputata per mafia. Basta questo, scatta l’interdittiva, si perde l’appalto. Talvolta poi interviene direttamente la magistratura e sequestra l’azienda, nomina un commissario, il commissario gestisce l’azienda per alcuni anni poi, spesso, la restituisce al proprietario ma dopo averla fatta fallire e coperta di debiti. Qualcuno dei proprietari si dispera e diventa povero. Qualcun altro si suicida. I casi di suicidio sono molti. Le interdittive peraltro sono in continuo aumento. Nel 2016 furono 510, nel ‘17 sono quasi raddoppiate arrivando a 972. L’anno dopo 1279. Quest’anno sono 1500. La situazione di una persona che decide di investire al Sud è questa. Mafia e Pm lo attaccano dai due lati. La mafia probabilmente gli chiederà un pizzo che semplicemente ridurrà i profitti. I Pm e i prefetti, se decidono di attaccarlo, lo annientano. E tutto questo, di solito, con l’appoggio fondamentale dei giornali e dei mezzi di informazione. Che spalleggiano le Procure e i prefetti e contribuiscono alla distruzione anche morale delle vittime. Voi pensate che in queste condizioni il Sud abbia qualche possibilità di riprendersi, di tornare a vivere? Evidentemente no: zero possibilità. Qualcuno reagirà a questo massacro? Capirà chi lo conduce? Proverà a fermarlo? Al momento le speranze sono poche poche. Cosa resta al Sud? L’unica via di salvezza è la fuga, l’emigrazione, come negli anni Cinquanta.

«Vittime anche i figli dei boss». Intervista al giudice Roberto Di Bella. Il magistrato racconta il progetto “Liberi di scegliere”, la speranza di un’altra vita. Luciana De Luca su Il Quotidiano del Sud il 21 marzo 2021. La sua esperienza di giudice prima, e presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria poi, lo ha portato a conoscere molti ragazzi nati nelle più potenti famiglie di ‘ndrangheta. Per Roberto Di Bella non è stato difficile comprendere che dietro tanti occhi apparentemente freddi, spavaldi, si celasse una profonda sofferenza e un disperato bisogno di aiuto. Grazie a lui ha preso forma il progetto “Liberi di scegliere”, la possibilità per tanti ragazzi e per le loro madri, di avere una seconda occasione. Ha raccontato la sua esperienza umana e professionale in un libro edito da Rizzoli, e scritto con la scrittrice e sceneggiatrice Monica Zapelli. La sua attività ha ispirato anche il film “Liberi di scegliere” prodotto da Rai Fiction e Bibi Film Tv. Dottor Di Bella, è grazie al suo impegno se il progetto “Liberi di scegliere” è diventato un protocollo governativo. Offrire una possibilità di salvezza a molti ragazzi nati nelle famiglie di ‘ndrangheta, ha di fatto impedito e impedirà in futuro, che tante giovani vite possano andare ad allungare il triste elenco delle vittime di mafia.

Che significato ha, alla luce della sua personale esperienza, questa giornata dedicata alla memoria e all’impegno.

«Ha un significato molto importante per vari ordini di ragioni. Ho lavorato in Calabria per tanti anni al Tribunale per i minorenni in un territorio, purtroppo, funestato dalla presenza della ‘ndrangheta, e vittime di reati nel corso dell’attività processuale, ne ho incontrate moltissime. Ho ben chiara la sofferenza che provoca questo tipo di attività criminale. Ma io vorrei ampliare la platea delle vittime della criminalità organizzata ed estenderla anche ai minorenni nati nelle famiglie di ‘ndrangheta. In venticinque anni di attività al Tribunale per i minori di Reggio Calabria, ho giudicato, purtroppo, prima i padri e poi i figli, tutti con lo stesso cognome, tutti appartenenti ai clan presenti sul territorio, tutti con la stessa tipologia di reati. Molti di loro, ancora ragazzi, avevano una luce nello sguardo, sentimenti e potenzialità per aspirare a una vita diversa da quella della carcerazione, della morte o comunque della sofferenza imposta dalle loro famiglie. Questi giovani sono delle vittime perché respirano fin da piccoli la cultura della violenza e della sopraffazione, sono abituati a controllare le loro emozioni per non tradirsi e per non tradire la famiglia. Ma soprattutto sono ragazzi ai quali viene negata la fase dell’adolescenza, non hanno un padre con cui condividere la quotidianità perché sono in carcere, o sono latitanti o sono stati uccisi, e per questo le prime vittime delle famiglie di ‘ndrangheta sono proprio i loro figli. Questi giovani sono cresciuti odiando lo Stato perché i carabinieri arrivavano nelle loro case in piena notte per fare delle perquisizioni o per arrestare i loro genitori e molti di loro, a dodici, tredici anni, sputavano per terra al passaggio di una Volante della Polizia. Altri, addirittura, si facevano tatuare la figura del carabiniere sotto la pianta del piede in maniera da calpestarla continuamente. Però, al di là di queste forme di ostentazione e di orgoglio di appartenenza alla famiglia mafiosa, in realtà questi ragazzi sono portatori di un vissuto di profonda sofferenza perché gli viene compressa la libertà di scelta, di espressione individuale, sono costretti ad uniformarsi ai diktat della loro famiglia. I report psicologici dei casi trattati sono veramente devastanti, spesso ricordano la sindrome dei reduci della guerra del Vietnam. Molti di loro, ragazzi e ragazze, hanno incubi notturni, provano un profondo senso di angoscia che scaturisce da sogni popolati da incubi in cui devono difendersi da un killer o devono salvare un loro congiunto da un pericolo imminente e quindi la loro condizione interiore è molto complessa. In tanti, per sostenere il peso e la reputazione del cognome che portano, sono costretti a prendere degli psicofarmaci».

E le donne, le mamme, davanti a questo scenario come si rapportano con i loro figli?

«Molte di loro sono donne provate da lutti, dalle loro carcerazioni e da quelle dei loro familiari. Noi occupandoci dei minori ci siamo imbattuti casualmente in queste madri e abbiamo intercettato la loro sofferenza, la loro richiesta di aiuto. Ci siamo trovati davanti a un vero e proprio bisogno sociale, e per questo il progetto “Liberi di scegliere” ha rappresentato e rappresenta un punto di svolta. Tante donne si sono presentate spontaneamente chiedendoci di allontanarle insieme ai loro figli. Alcune sono diventate collaboratrici di giustizia, altre, pur non avendo rapporti collaborativi da dare, hanno chiesto ugualmente di andare via. Per questo sono profondamente convinto che anche loro siano vittime della criminalità organizzata. E paradossalmente sono vittime e carnefici anche molti boss detenuti. Io intrattengo rapporti epistolari con molti di loro, alcuni sono anche al 41 bis, e oltre agli incoraggiamenti per la nuova strada intrapresa dai loro figli, spesso mi esprimono il personale rammarico per non aver avuto la possibilità di intraprendere un’altra strada, e mi raccontano di essere stati ritirati da scuola dalle loro famiglie, quando erano ancora molto piccoli, perché c’era una faida in atto e rischiavano la vita. In tanti rimpiangono quell’adolescenza che non hanno mai avuto la possibilità di vivere».

Se dovesse indicare il momento preciso in cui realizzò che allontanare questi ragazzi dai contesti mafiosi in cui erano nati e cresciuti, poteva significare per loro la salvezza, quale sarebbe?

«Il progetto “Liberi di scegliere” nasce anche da un mio percorso di maturazione personale e professionale. Quando arrivai in Calabria ero ancora un ragazzo e la mia preoccupazione era quella di assicurare un giusto processo agli imputati ma soprattutto quello di garantire adeguate tutele alle vittime dei reati che in questi territori restano spesso senza adeguate retribuzioni. Inoltre, mi resi subito conto che i ragazzi che giudicavo non erano dei criminali irriducibili ma erano soltanto dei ragazzi cresciuti odiando lo Stato e bisognava provare a prendere loro la mano. Dietro la loro apparente freddezza c’era sempre una grande sofferenza. Ma c’è stato un episodio, più degli altri, che mi ha in qualche modo segnato ed è la vicenda di un ragazzo, figlio di un boss calabrese, che io avevo processato e condannato per porto d’arma con matricola abrasa e colpo in canna. Durante l’udienza era molto sprezzante, io lo condannai e andò in una comunità che era annessa al Tribunale per i minorenni. Ci fu un giorno in cui la direttrice della struttura mi chiamò per chiedermi se volevo riceverlo perché quel ragazzo aveva bisogno di un riferimento paterno. Io le risposi che ero un giudice e lui il figlio di un boss, non potevo vederlo se non in presenza del suo avvocato. Lei insistette tanto perché il ragazzo stava molto male. Quando me lo trovai davanti era completamente smarrito, aveva perso la sicurezza che avevo visto qualche mese prima in udienza, e questo mi portò ad avere con lui un confronto franco, diretto. Gli chiesi subito cosa voleva fare, se finire all’ergastolo come i suoi fratelli o morto ammazzato come suo padre. Lui annuì e mi chiese se dopo aver espiato la pena, potevo aiutarlo. Poi, però, fui trasferito a Messina e non ebbi più l’occasione di vederlo, ma seppi in seguito che lui, una volta espiata la pena, cercò di me. Quando nel 2011 tornai a Reggio Calabria, seppi che non ce l’aveva fatta, che quel ragazzo era stato condannato per reati di mafia e che era finito in una struttura psichiatrica. Continuò, però, a mandarmi i suoi saluti perché diceva, ero stato l’unico giudice a trattarlo da essere umano. Provai in quel momento un profondo fallimento perché era il terzo ragazzo della stessa famiglia che avevo giudicato. Un paio di mesi dopo il mio ritorno a Reggio Calabria come presidente, arrestarono anche l’ultimo dei fratelli, il più piccolo, e allora in quella occasione mi resi conto che dovevamo fare qualcosa di più, mandarlo subito in un altro contesto sociale e così è partito tutto. Da allora abbiamo allontanato ottanta minorenni, venticinque donne con i loro figli e venticinque nuclei familiari. Dal 2012 a oggi il progetto ha fatto dei progressi enormi. Ciò che mi ha mosso è stato l’istinto di sopravvivenza personale e professionale, non potevo insieme ai colleghi assistere oltre, in modo inerme, alla distruzione che alcune famiglie facevano dei loro figli. Il contributo dato al progetto dall’associazione “Libera” è stato determinante. Con don Luigi Ciotti e l’avvocato Enza Rando abbiamo creato le condizioni necessarie per offrire un’opportunità vera, concreta, sia a questi ragazzi che alle loro madri. Ora hanno realmente l’opportunità di costruire una nuova vita».

Le storie di sei donne, sei madri che volevano salvare i loro figli dalla mafia: uccise per il “reato” di libertà. Cetta Cacciola, Tita Buccafusca, Rossella Casini, Lea Garofalo, Angela Costantino e Maria Chindamo morte per aver detto no alla 'ndrangheta. Luciana De Luca su Il Quotidiano del Sud il 21 marzo 2021.

Maria Concetta Cacciola, morta il 20 agosto 2011

Santa (Tita) Buccafusca, morta il 18 aprile 2011

Rossella Casini, scomparsa il 22 febbraio 1981

Lea Garofalo, uccisa il 24 novembre 2009

Angela Costantino, scomparsa il 16 marzo 1994

Maria Chindamo, scomparsa il 5 maggio 2016

Hanno tentato di riprendere in mano le loro vite facendo delle scelte di libertà. Ma in una terra segnata profondamente dalla cultura mafiosa, hanno pagato un prezzo altissimo. Sono tante le donne uccise dalla ‘ndrangheta, colpevoli di aver infranto le regole del silenzio o di aver scelto di essere altro da ciò che veniva imposto loro. Cetta Cacciola, Tita Buccafusca, Rossella Casini, Lea Garofalo, Angela Costantino, Maria Chindamo, tante storie diverse accomunate dallo stesso desiderio di cambiamento. I loro volti continuano a raccontare e i loro sogni sono diventati una bandiera per altre giovani donne che hanno trovato nel loro esempio, la forza e il coraggio di ribellarsi e mettere in salvo i loro figli.

Maria Concetta Cacciola, morta il 20 agosto 2011. “O stai cu nnui o cu iddi”, le diceva sua madre, riferendosi ai carabinieri ai quali la figlia si era rivolta. Aveva 31 anni e tre figli di 16, 12 e 7 anni, Maria Concetta Cacciola, “Cetta”, la giovane donna di Rosarno, che il 20 agosto del 2011 avrebbe ingerito dell’acido muriatico o sarebbe stata costretta a farlo, per sottrarsi alle pressioni della sua famiglia che voleva ritrattasse le dichiarazioni rese spontaneamente ai magistrati della Dda, sui legami di ‘ndrangheta di cui era a conoscenza, prima di essere allontanata e portata in una località protetta. Il padre, Michele Cacciola, con dei trascorsi criminali di tutto rispetto, era cognato del boss Gregorio Bellocco. E Cetta era cresciuta in quella famiglia di ‘ndrangheta con regole rigide e soffocanti. Per questo a tredici anni decise di accettare il corteggiamento di un ragazzo del suo paese, Salvatore Figliuzzi, che le appariva in quel momento come un’ancora di salvezza. Ma Salvatore, scegliendola, aveva soltanto pianificato il suo futuro criminale sancendo un’appartenenza mafiosa che ora gli spettava di diritto. Cetta capì di essere in trappola, di aver involontariamente rinsaldato quel sistema dal quale aveva voluto fuggire. Ma quando suo marito finì in carcere perché fu condannato insieme al boss Gregorio Bellocco e quasi una ventina di affiliati al suo clan, Cetta cercò altre strade per poter esistere e Facebook, seppur virtualmente, le offrì l’opportunità della parola e la libertà di scegliere con chi comunicare. E tra i tanti contatti, uno in particolare, le riaccese la speranza del cambiamento. Un uomo attirò la sua attenzione, la coinvolse, le parlò e nel contempo si dimostrò disponibile ad ascoltare la sua sofferenza. S’innamorò Cetta e accolse quella storia a distanza e solo immaginata, come quel segno del cielo che aspettava da troppo tempo. Ed è con questa consapevolezza e con la voce tremante che quando si recò in caserma perché a suo figlio sedicenne avevano rubato il motorino, vide nel maresciallo dei carabinieri che aveva davanti, una possibilità di salvezza. Ma sua madre, dalla località protetta dove era stata portata, la convinse a ritornare usando i suoi figli come esca. Qualche giorno dopo Cetta fu trovata morta. Si sarebbe tolta la vita.

Santa (Tita) Buccafusca, morta il 18 aprile 2011. Una sposa di ‘ndrangheta, questa è stata Santa Buccafusca, per tutti Tita, moglie di Pantaleone Mancuso, boss di Limbadi, soprannominato “Luni Scarpuni”, morta suicida il 18 aprile del 2011, dopo aver ingerito come Cetta Cacciola, un grosso quantitativo di acido muriatico. Una morte sospetta la sua, sulla quale gli inquirenti hanno lungamente indagato nella speranza di trovare un nesso causale tra il tentativo disperato di Tita di uscire dalla famiglia Mancuso che la portò appena due mesi prima, era il 14 febbraio, ad entrare nella caserma dei carabinieri di Nicotera Marina con in braccio il figlioletto Salvatore per chiedere protezione, e quanto avvenne appena un mese dopo essere ritornata a casa da suo marito. Fu l’omicidio di Vincenzo Barbieri, detto “u ragioniere”, noto narcotrafficante capace di trattare con i cartelli sudamericani per conto dei clan del vibonese, ucciso da un commando armato nel centro di San Calogero, a spaventare Tita. Comprese che lei e la sua famiglia erano in pericolo e che soprattutto dopo quell’omicidio altro sangue sarebbe stato versato. Aveva paura ma voleva soprattutto cambiare vita. Le era fin troppo chiaro ormai, cosa significasse essere la moglie di Mancuso e quali erano le regole alle quali doveva rigorosamente attenersi. A poche ore dal delitto, con il suo bimbo in braccio si presentò dai carabinieri di Nicotera Marina per chiedere di intervenire: “Si ammazzano come i cani – disse loro – mettete posti di blocco dappertutto”. Tita parlò con i magistrati e raccontò quanto sapeva ma prima di firmare i verbali, chiese di telefonare a suo marito. Pregò Pantaleone Mancuso di seguire la sua stessa strada, di cambiare vita e di farlo soprattutto per suo figlio. Lui la chiamò pazza e gli chiese di ritornare a casa. Ma fu la sorella di lei, chiamata subito dopo, a convincerla a ritornare da suo marito. Tita non firmò mai quei verbali, e qualche giorno dopo si sarebbe suicidata. Così dissero i suoi familiari.

Rossella Casini, scomparsa il 22 febbraio 1981. Rossella Casini, 25 anni, studentessa fiorentina, scomparve a Palmi il 22 febbraio del 1981. La ragazza era fidanzata con Francesco Frisina, un giovane studente universitario di Palmi, coinvolto nella faida in atto tra i Gallico e i Parrello-Condello. Rossella, figlia unica, conobbe Francesco nel 1977, quando il ragazzo di Palmi, studente di Economia, andò ad abitare nella palazzina ottocentesca dove viveva la famiglia Casini, nel quartiere di Santa Croce. I due ragazzi si fidanzarono e i genitori di lei più volte si recarono in Calabria ospiti della famiglia del giovane. Nessuno di loro inizialmente percepì il pericolo di quel sentimento, fino all’uccisione del padre di Francesco nelle campagne di Palmi il 4 luglio del ’79, e il ferimento del ragazzo alla testa, cinque mesi dopo, in un agguato. Da quel momento iniziò un’altra storia. Rossella fece trasferire il suo fidanzato alla clinica neurochirurgia di Firenze e oltre alle amorevoli cure gli offrì la possibilità di diventare altro, di tagliare definitivamente con le sue origini e con la storia della sua famiglia coinvolta nella terribile faida tra i Gallico e i Parrello-Condello che stava insanguinando le strade di Palmi. Francesco e la stessa Rossella affidarono le loro verità ai magistrati fiorentini che trasmisero gli atti alla procura di Palmi. Da quel momento la ragazza, considerata da tutti la forestiera, divenne anche una traditrice. Ma lei continuò ad inseguire il sentimento che la animava e che era più forte dei ragionevoli dubbi che ogni tanto l’assalivano. Dopo tredici anni dalla scomparsa della ragazza, il pentito palermitano Vincenzo Lo Vecchio, rivelò che Rossella era stata violentata, assassinata e il suo corpo tagliato a pezzi e buttato in mare al largo della tonnara di Palmi, per aver convinto il suo fidanzato a diventare testimone di giustizia. Quattro le persone rinviate a giudizio per la sua morte. Il processo per il sequestro e l’omicidio della studentessa fiorentina iniziò il 25 marzo del 1997 e si concluse nove anni dopo con una sentenza di assoluzione.

Lea Garofalo, uccisa il 24 novembre 2009. A Lea Garofalo uccisero il padre quando lei aveva appena otto mesi e suo fratello Floriano, boss di Petilia Policastro, nel 2005. Ad appena sedici anni Lea si innamorò di Carlo Cosco e l’anno dopo ebbe una figlia da lui, Denise. Si trasferirono subito dopo nel capoluogo lombardo dove insieme agli altri fratelli si occupava del traffico di droga e di affari poco puliti. Lea si rese ben presto conto della vita che l’attendeva e soprattutto per la sua bambina, nel 2002, decise di dare una svolta lasciando il suo compagno e reagendo alle sue minacce e alle intimidazioni, denunciandolo alle forze dell’ordine e rivelando anche le faide interne esistenti tra la sua famiglia e quella dei Cosco. Lea in seguito alla sua testimonianza venne ammessa al programma di protezione insieme a sua figlia ma nel 2006 venne estromessa perché le sue rivelazioni non furono più considerate particolarmente significative. Solo grazie a un ricorso al Consiglio di Stato nel 2007, le fu riconosciuto lo status di collaboratrice di giustizia ma non di testimone. Lea aveva problemi economici e soprattutto si sentiva abbandonata da quello Stato a cui lei si era rivolta per uscire da quell’inferno. Due anni dopo decise di rinunciare alla tutela e qualche mese dopo, era il 24 novembre del 2009, fu uccisa dal suo ex compagno Carlo Cosco a Milano.

Angela Costantino, scomparsa il 16 marzo 1994. Angela Costantino, 25 anni, sposata con il boss Pietro Lo Giudice e madre di quattro figli in tenera età, scomparve da casa il 16 marzo del 1994 e di lei non si ebbero più notizie. Il fratello della giovane ne denunciò la scomparsa e iniziarono le sue ricerche. Anche la famiglia del marito, che molti anni dopo risultò essere coinvolta nella sua morte, partecipò attivamente facendo fare anche degli appelli via radio nella speranza che Angela potesse ritornare a casa dai suoi figli. Una vera e propria messinscena per allontanare i sospetti. L’auto della donna, una “Fiat Panda”, venne ritrovata qualche giorno dopo a Villa San Giovanni con all’interno delle ricette mediche comprovanti il fatto che Angela in quel momento soffrisse di crisi depressive e il sedile posizionato in modo tale che a guidare l’auto non avrebbe mai potuto essere stata la ragazza bensì una persona molto più alta. Qualche giorno dopo inoltre, arrivò una telefonata anonima alle forze dell’ordine nella quale veniva affermato con certezza che la giovane donna era stata sequestrata ed uccisa. Nonostante le evidenti anomalie, non c’erano, però, elementi tali da dare corpo, sul piano investigativo, a quelle rivelazioni e il fascicolo inerente la scomparsa della donna rimase per molti anni fermo senza produrre verità sostanziali. La svolta arrivò 18 anni dopo, quando nel corso di un’operazione vennero arrestati, tra gli altri, Vincenzo Lo Giudice, considerato uno dei capi della cosca, il cognato Bruno Stilo e il nipote Fortunato Pennestrì, accusati di essere mandanti ed esecutori dell’omicidio di Angela Costantino, colpevole di aver avuto delle relazioni amorose mentre suo marito era detenuto in carcere. Pare addirittura che la giovane fosse rimasta incinta e che avrebbe abortito in una clinica privata. La sua condanna a morte fu decisa dalla famiglia per salvare l’onore di Pietro e perché Angela era ormai considerata ingestibile e pericolosa. Della sua esecuzione aveva già parlato anni prima Maurizio Lo Giudice, fratello di Pietro, che aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Le sue rivelazioni furono poi consolidate da quelle di altri due pentiti, Paolo Iannò e Domenico Cera. Il giudice Carlo Alberto Indellicati condannò a trent’anni di reclusione ciascuno, Bruno Stilo e Fortunato Pennestrì, ritenuti rispettivamente mandante ed esecutore materiale dell’omicidio di Angela Costantino. Il giovane con il quale Angela aveva avuto una relazione, scomparve qualche giorno dopo il suo sequestro e di lui non si ebbero più notizie.

Maria Chindamo, scomparsa il 5 maggio 2016. “Il sacrificio di Maria voglio che si trasformi in una possibilità di riscatto per la nostra martoriata terra”. Vincenzo Chindamo, nonostante il carico di dolore che si porta dentro da quel 5 maggio del 2016, giorno in cui sua sorella Maria scomparve davanti al cancello della sua azienda agricola, a Limbadi, cerca di dare forma e sostanza al suo bisogno di verità e giustizia, per lui e per tutta la sua famiglia ma soprattutto per i nipoti Vincenzino, Federica e Letizia, i figli che Maria avrebbe voluto veder crescere e che sono la testimonianza diretta di una vita vissuta nel rispetto dei valori e dei sentimenti. Ma di lei non c’è più traccia e tocca a suo fratello tentare di togliere quella coltre pesante che avvolge la storia di una donna bella e combattiva, colpevole soltanto di aver scelto come vivere la propria vita. Maria incontrò Ferdinando Puntoriero, il suo futuro marito, quando aveva appena 14 anni. Dopo gli studi universitari in Economia e Commercio portati avanti con tenacia anche dopo il matrimonio e la nascita di Vincenzino, prese l’abilitazione alla professione di commercialista e aprì uno studio a Rosarno. La crisi coniugale che investì in seguito la coppia, portò al suicidio di Ferdinando, incapace di reggere la richiesta di libertà avanzata da sua moglie. Qualche pentito ha raccontato particolari agghiaccianti sulla morte di Maria ma la verità sembra ancora lontana e la giustizia tarda ad arrivare.

Le scioccanti rivelazioni del pentito sull'atroce morte di Maria Chindamo. Il pentito Cossidente racconta alla Dda quanto riferitogli da Emanuele Mancuso, ex rampollo del clan di Limbadi, sulla sorte dell'imprenditrice. Gianluca Prestia su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2021. Nuove rivelazioni sul caso della scomparsa di Maria Chindamo, avvenuto a maggio del 2016. A parlarne (come riferiamo sull’edizione cartacea odierna) è il pentito Antonio Cossidente, ex componente del clan dei Basilischi, in Basilicata, in uno dei due verbali acquisiti al processo per le presunte pressioni al collaboratore Emanuele Mancuso da parte dei suoi familiari per farlo ritrattare dopo aver iniziato a collaborare con la Dda di Catanzaro. E a raccontare a Cossidente sarebbe stato, secondo quanto egli afferma, proprio l’ex rampollo di casa Mancuso, figlio del boss Pantaleone detto “L’ingegnere”.Il pentito lucano riferisce al sostituto procuratore della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci nel verbale del 7 febbraio del 2020 quanto appreso da Mancuso sulla sparizione dell’imprenditrice 44enne di Laureana di Borrello avvenuta nel territorio di Limbadi e di come sarebbe stata uccisa.

Una morte orribile secondo quanto emerge dal verbale.   «C’era un altro particolare che mi disse Emanuele, che era scomparsa una donna a Limbadi, una imprenditrice che non si è trovata più… se non sbaglio, Chindamo, una imprenditrice di Laureana di Borrello questa donna. E mi disse – che dato che lui era amico intimo di “Pinnolaro” (Salvatore Ascone, arrestato nel luglio del 2019 per concorso in omicidio, ma rimesso in libertà dal Tdl nell’agosto successivo, ndr), che sarebbe un grosso trafficante di cocaina legato alla famiglia Mancuso da vincoli proprio storici – e mi disse che… disse: “Antonio, quella… quella donna che è scomparsa qualche anno fa…”, dice, “…quello cioè è stato ‘stu “Pinnolaro” in accordo con… “Lui mi disse c’era lo zampino… allora, prima disse che era un fatto… perché questo “Pinnolaro” in sostanza si voleva… voleva acquistare il terreno di questa donna in sostanza perché, se non ricordo male, mi sembra che mi disse che erano confinanti con questo terreno questa donna, confinanti con le terre di questa persona che era… aveva anche degli animali, le pecore, insomma credo che facesse pure il pastore». La Chindamo, in pratica, si sarebbe «rifiutata in sostanza di cedere il terreno, diciamo le proprietà a questa persona e disse che, se non ricordo male, che in virtù di questo l’abbia fatta scomparire lui questa persona, ben sapendo che già… che se succedeva qualcosa sarebbe… la colpa sarebbe andata alla famiglia del marito di questa donna, perché questa donna… cioè il marito mi sembra… o l’ex, si era lasciata con un marito e questo marito mi sembra che si era suicidato, era morto comunque e quindi questo “Pinnolaro” sapendo un po’ diciamo la storia familiare di questa donna, sarebbe stato lui l’artefice di questo… questa scomparsa in modo tale che magari poi avrebbe… sarebbe entrato in possesso dei terreni di questa donna, ecco ora… e la colpa sarebbe andata alla famiglia di lei, cioè del marito di lei, insomma perché c’era questa storia di questa separazione di questa donna. Mi disse che avevano manomesso le telecamere, e che questa donna sarebbe stata scomparsa secondo lui o – racconta, riferendo particolari raccapriccianti sulla sorte della donna – sarebbe stata macinata con un trattore o data in pasto ai maiali. E comunque disse che era sto “Pinnolaro” che… che… che era un amico suo perché mi sembra che trattavano cocaina, droga, questo… ‘sto “Pinnolaro” di Limbadi». 

Storie di resistenza: imprenditori assassinati per aver detto di no. Antonio Musolino, Antonio Polifroni e Mario Dodaro hanno creato dal nulla le loro aziende e le hanno difese a costo della vita. Luciana De Luca su Il Quotidiano del Sud il 18 marzo 2021.

Antonio Musolino, ucciso il 31 ottobre 1999

Antonino Polifroni, ucciso il 30 settembre 1996

Mario Dodaro, ucciso il 18 dicembre 1982

Essere imprenditori in Calabria significa dover mettere in conto che la ‘ndrangheta un giorno si presenti per chiedere una parte dei tuoi guadagni in cambio di protezione. Ma protezione da cosa? Protezione da sé stessa, perché se vuoi continuare a lavorare paghi, altrimenti chiudi o muori. In tanti, purtroppo, hanno scelto di sopravvivere, convivendo con un sistema criminale che diventa sempre più oppressivo e che spesso, alla fine, finisce con l’appropriarsi di realtà produttive realizzate in tanti anni di lavoro e grandi sacrifici. Accanto a queste storie di violenza subita, c’è chi, invece, ha opposto una ferma resistenza alla ‘ndrangheta, pagando con la vita la propria scelta di libertà. Tanti i caduti sul campo, tante le storie esemplari che ancora oggi devono far riflettere sul valore del dissenso, su quel no urlato spesso in solitudine e che non è neanche servito a far ottenere a molti imprenditori, il giusto riconoscimento del loro valore.

Antonio Musolino, ucciso il 31 ottobre 1999. Antonio Musolino, impresario edile di Benestare, fu ucciso il 31 ottobre del 1999, per non essersi piegato alle richieste estorsive della ‘ndrangheta. Aveva 54 anni e tre figli. Era un uomo silenzioso, concreto, naturalmente autorevole, imbevuto di una profonda cultura del lavoro e del sacrificio che lo portavano a impegnarsi fino in fondo per realizzare i suoi progetti di vita.“Iniziò a lavorare già a tredici anni – racconta la figlia Rosaria -. Proveniva da una famiglia umile, modesta. Suo padre faceva il muratore e ancora ragazzino se lo portò a Milano per imparare il mestiere. Papà aveva un sogno: realizzare un giorno un’impresa tutta sua. Frequentò solo le scuole elementari, la licenza media e il diploma di geometra li conseguì da adulto, alle scuole serali”. Antonio riuscì a realizzare ben presto il suo sogno e diventare impresario. Il frantoio fu un’altra passione che arrivò dopo. Quando lo misero in vendita lo acquistò rendendolo in breve moderno ed efficiente. “Papà – spiega Rosaria – utilizzava il frantoio prevalentemente per lui perché aveva delle piante di ulivo e per pochi, piccoli produttori della zona. Diciamo che non ha mai rappresentato una fonte di reddito ma un’attività di tradizione che gli piaceva mantenere in vita. Mio padre lavorava moltissimo ed era molto legato alla sua famiglia. Le sue origini modeste lo avevano fortemente condizionato e sapeva, fin dalla più tenera età, che tutto era sulle sue spalle e che doveva guadagnarsi da vivere con il sudore della propria fronte. Il genitore non avrebbe potuto aiutarlo e questo, probabilmente, gli diede fin dalla più giovane età, maggiore consapevolezza sulle sue capacità personali. Mio padre non fece mai un giorno di vacanza e questo, a posteriori, rappresentò per mia madre sempre un grande rimpianto. Insieme avevano fatto grandi sacrifici senza mai poter godere di un giorno rubato al lavoro. Lo uccisero di sabato, durante il primo giorno di lavoro al frantoio che si trovava nel paese. La sera insieme a mio fratello e a mia madre, si fermò per pulire tutti gli attrezzi utilizzati per la spremitura delle olive. Io mi trovavo a casa della mia futura suocera. Mi raccontarono dopo che che da una Fiat uno due persone con il volto travisato, si fermarono davanti alla porta del frantoio e iniziarono a sparare. Mio padre era di spalle e fu colpito da una raffica di proiettili. Intervenne subito la guardia medica e poi i miei fratelli decisero di portarlo subito in ospedale a Locri. Ma quando arrivarono era già morto”. Antonio Musolino qualche anno prima aveva ricevuto delle richieste estorsive e lui era corso a denunciare collaborando attivamente con le forze dell’ordine. Inoltre, non aveva mai accettato le imposizioni fatte per assumere nella sua impresa operai che gli venivano raccomandati. Lui rivendicava il diritto di decidere pienamente chi doveva affiancarlo nel lavoro. Non era una persona abituata a piegare la testa e non lo fece neanche davanti agli uomini della ‘ndrangheta. La sua famiglia non ha mai ottenuto giustizia.

Antonino Polifroni, ucciso il 30 settembre 1996. “Mò cu to figghju nda pigghjamu”. Minacce a lui e alla sua famiglia, telefonate, lettere, attentati sui cantieri e colpi di fucile sparati prima solo per ferire, poi quel 30 settembre del 1996, per togliergli la vita. La ‘ndrangheta voleva farlo cedere a tutti i costi per annoverarlo, a pieno titolo, in quell’esercito di vinti che assicuravano entrate certe e potere sui territori. Ma Antonino Polifroni, classe 1947, orfano di padre carabiniere e cresciuto tra le intemperie del dopoguerra, da una madre rimasta sola troppo presto, aveva la scorza dura e soprattutto la consapevolezza che con la fatica e l’impegno avrebbe potuto costruire la sua fortuna. E così è stato. Da adolescente conseguì un brevetto di tornitore meccanico all’Istituto per orfani di guerra a Lecce. A 16 anni lavorava già come muratore e lentamente, mattone su mattone, cresceva, si organizzava con altri artigiani dell’edilizia per fare impresa. A 19 anni si sposò e l’anno dopo ebbe il suo primo figlio, Bruno. Poi arrivarono Enzo, Gianpiero, Leandro, Nicoletta e Danilo. “Mastru Ninu”, sempre con i piedi ben saldati a terra, spostò presto la sua attenzione verso i lavori pubblici, ponti, strade. I suoi cantieri erano sicuri, affidabili. La sua capacità imprenditoriale pubblicamente riconosciuta. Nel 1976 raggiunse l’ambito traguardo di iscrizione all’Albo nazionale dei costruttori, il primo a Varapodio, e con i successi e i guadagni arrivarono anche le richieste estorsive. La ricchezza andava condivisa. Così pensavano gli uomini di ‘ndrangheta che curavano gli interessi dei padrini della piana. Lo si evince dalle telefonate registrate dal figlio Bruno, nelle quali si chiedeva ripetutamente a Nino il pagamento di 100 milioni di vecchie lire, poi diventati 150, perché lui non voleva ascoltare “i consigli degli amici”. “Papà lavorava come un pazzo dalla mattina alla sera e questo lo rendeva consapevole e forte davanti alle richieste che gli venivano fatte – spiega Bruno -.Sarebbe stato pronto a offrire occupazione nella sua impresa, ma a dare i soldi che lui guadagnava onestamente a gente che riteneva fosse un suo diritto averli con la prepotenza, questo proprio no. Lui rifiutava questa logica e sapeva bene il rischio che correva. Ma nonostante tutto non si è mai piegato”. Il figlio ricorda la tensione del padre, i giubbotti antiproiettile da indossare per andare al lavoro e le serrande di casa abbassate appena iniziava a fare buio. Ai ragazzi veniva persino proibito di uscire la sera. Ma Nino non poteva e non voleva accogliere quelle richieste. Glielo impediva la sua coscienza di uomo libero che si era fatto da solo trasportando, ancora adolescente, le pietre dal fiume per costruire le case. Glielo vietava la consapevolezza che sarebbe diventato una marionetta nelle mani di uomini violenti e ignoranti e soprattutto la certezza che avrebbe lasciato ai suoi figli un’eredità sulla quale sarebbe gravata una ipoteca difficilmente estinguibile. Vent’anni di resistenza, ferite nel corpo e nell’anima. Due attentati a colpi di fucile che lo raggiunsero in parti non vitali, sotto gli occhi dei figli. Minacce continue e richieste sempre più invasive nella sua attività di imprenditore come la rinuncia a gare pubbliche o l’imposizione di subappaltatori e di fornitori. E Nino rispondeva: “Io i lavori me li faccio da solo con i miei operai e con le mie attrezzature”. Sempre fermo nelle sue convinzioni fino alla fine.

Mario Dodaro, ucciso il 18 dicembre 1982. Aveva 43 anni l’imprenditore cosentino Mario Dodaro quando fu ucciso. Pioveva a dirotto quel 18 dicembre del 1982 e lui stava ritornando a casa da sua moglie Lisa e dai suoi figli Francesco e Antonella. Era felice, stava per diventare padre per la terza volta e alcuni giorni prima, assalito dall’euforia della lieta notizia, aveva voluto addobbare personalmente l’albero di Natale. Quella mattina aveva anche festeggiato all’interno del suo salumificio con i suoi dipendenti, l’imminente arrivo delle feste e solo dopo averli aiutati a sgomberare i tavoli, si era congedato da loro. Ma chi era Mario Dodaro? Sono le stesse parole della moglie Lisa, nel raccontarlo qualche tempo fa, a far intravedere quanto fossero forti i valori morali che lo animavano: “Un giorno mio marito mi chiese se i soldi che mi dava per la spesa erano sufficienti per acquistare tutto ciò che serviva in famiglia. Rimasi interdetta davanti a quella richiesta e addirittura pensai a un controllo da parte sua. Ma quando capì cosa aveva suscitato in me quella domanda, mi tranquillizzò spiegandomi che voleva solo capire se pagava abbastanza i suoi collaboratori”. Mario iniziò a lavorare molto presto nella macelleria di suo zio. In poco tempo apprese i segreti del mestiere e già a 17 anni volle provare a camminare sulle proprie gambe. Riuscì ad ottenere un prestito ed aprire la sua prima macelleria. Appena sentì la sua attività più solida, scrisse ai suoi fratelli che nel frattempo erano emigrati all’estero, e gli chiese di ritornare per dargli una mano, perché “L’America era qua” e non dove erano andati a cercarla. Le macellerie Dodaro cominciarono a essere presenti in più zone della città Mario rivelò presto tutto il suo talento. Era capace di creare business e di coinvolgere emotivamente le persone nei suoi progetti imprenditoriali. Lui non aveva dipendenti ma collaboratori, persone con le quali condividere un’idea di futuro, di benessere, non solo per la sua famiglia, ma per tutti coloro che partecipavano alla creazione e al consolidamento delle sue iniziative. Una famiglia parallela la sua azienda, con la quale gioire per i successi e stringersi per affrontare le difficoltà. A contrada Andreotta di Castrolibero, dove aveva dato vita insieme ai suoi fratelli, nel 1968, al suo salumificio e aveva installato il suo quartier generale, si mise al servizio della giovane comunità aiutando la nascita delle agenzie di socializzazione sul territorio come la Chiesa, la scuola, le associazioni sportive. Con il parroco don Gino Luberto, al quale lo legava un’amicizia profonda, diedero vita alla parrocchia “Sacra Famiglia” e alla costruzione della prima chiesa sul territorio. Dodaro fece anche l’esperienza della politica e fu dirigente della squadra di calcio del Cosenza. La sua grande capacità relazionale, frutto di esperienza di strada e di rispetto e comprensione intima dell’altro, gli fecero guadagnare sul campo un ruolo di primo piano. E non solo perché era pronto ad aiutare economicamente tutte le più significative iniziative. Godeva della stima e della fiducia dei suoi fornitori e di tutte le aziende italiane ed estere con le quali collaborava e che avrebbero fatto di tutto per mantenere gli impegni presi con quell’imprenditore del Sud partito da zero, che aveva solo la quinta elementare e la profonda voglia di costruire un mondo migliore. Una settimana prima della sua morte, Mario raccontò ai suoi familiari di aver allontanato, con grande fermezza, cinque persone che erano andate al salumificio – e non era la prima volta che avveniva – a chiedergli di pagare una tangente di 200 milioni di lire. Lui gli aveva risposto che era pronto a dargli un lavoro se volevano, ma soldi no. Di questi episodi aveva parlato anche con alcuni carabinieri e altre persone ma in forma soltanto confidenziale. Non aveva presentato ancora una denuncia. Sperava in cuor suo che il suo rifiuto li facesse desistere dal continuare con le richieste estorsive. Ma così non è stato. I suoi assassini lo hanno atteso sotto casa e gli hanno sparato davanti ai suoi figli. Lisa Dodaro, nonostante il dolore per la perdita del marito, sei mesi dopo diede alla luce Maria Gabriella, la bambina a cui Mario fece appena in tempo a scegliere il nome.

«È parente di mafiosi!»: il Cosenza calcio caccia il giovane campione. Pietro Santapaola jr, pronipote di Nitto Santapaola, escluso dalla rosa per reato di parentela. E lui denuncia il presidente. Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 19 marzo 2021. Si è infranto alle soglie del paradiso il sogno calcistico di Pietro Santapaola Jr, promessa del calcio giovanile, sacrificato sull’altare di una perversa concezione della giustizia che lo vedrebbe “colpevole” di portare un cognome legato al crimine organizzato. Lontano parente del boss catanese Nitto Santapaola, il giovane calciatore originario di Messina era sbarcato a Cosenza carico di aspettative e di sogni di professionismo: tutto naufragato per una sorta di reato “parentale” che non avrebbe passato il severissimo vaglio dei dirigenti del Cosenza, squadra che milita nel campionato di serie B e a cui Santapaola era approdato nel gennaio scorso. Suo padre, storia di qualche mese fa, è stato condannato, in primo grado, a 12 anni di reclusione per associazione mafiosa per una serie di reati commessi prima ancora che il ragazzo venisse al mondo: tanto però sarebbe bastato al massimo dirigente della squadra silana per decretarne l’esclusione dalle giovanili del Cosenza. Una vicenda dai contorni kafkiani esplosa all’inizio di marzo con l’esclusione dalla rosa della primavera del giovane calciatore e sfociata poi nel volgere di pochi giorni, con l’allontanamento di Santapaola dalla foresteria usata dai ragazzi delle giovanili che non sono originari della città. Una deriva drammatica e velocissima, finita inevitabilmente sulla scrivania del procuratore della città bruzia, a cui si è rivolto l’avvocato Salvatore Silvestro che ha denunciato il massimo dirigente rossoblu, Eugenio Guarascio, per violenza privata e mobbing.

NEL NOME DEL PADRE. Il diciassettenne Pietro Santapaola Jr nella città di Telesio ci è finito grazie alle sue qualità pallonare: dotato di ottima tecnica nonostante la giovane età (il ragazzo era stato più volte convocato nelle nazionali giovanili di categoria), Santapaola è stato scoperto dagli osservatori del team silano a Licata, in Sicilia, e immediatamente messo sotto contratto nelle file della massima compagine giovanile. Metabolizzato il passaggio dalla romantica realtà dei dilettanti a quella ben più sfavillante delle soglie del professionismo, il giovane calciatore si integra con il nuovo gruppo di coetanei e riesce a trovare immediatamente un posto fisso negli 11 iniziali. Sembra il coronamento di un sogno, dopo gli anni passati a girovagare per i campi polverosi di mezza Sicilia, ma improvvisamente le cose cambiano e, siamo agli inizi di marzo, il ragazzo – racconta l’avvocato Silvestro nella sua denuncia – viene raggiunto dal responsabile del settore giovanile che gli comunica la decisione societaria di escluderlo dagli allenamenti. «“Questo era il volere” del Presidente, Eugenio Guarascio – scrive l’avvocato Silvestro nella denuncia contro il presidente silano, pezzo da ’90 nel settore dei rifiuti in Calabria che prese la squadra all’indomani del fallimento del titolo sportivo – perché lo stesso era venuto a conoscenza delle vicende giudiziarie che hanno interessato il padre». Una sorta di reato “etnico”, con buona pace di tutta la retorica patinata legata ai valori dello sport che riabilita e non emargina e che, nella querela presentata dal legale, si “arricchisce” di particolari ancora più paradossali. Una della paure del presidente sarebbe infatti che «”il figlio di…” potesse rendersi autore di efferati delitti quali rapine o lesioni gravi nei confronti dei propri compagni di squadra».

IL VUOTO ATTORNO. Nella ricostruzione fatta dal legale, un ruolo importante in questa vicenda avrebbe provato a svolgerlo l’allenatore della squadra primavera, Emanuele Ferraro. Il coach infatti, saputa della cervellotica decisione di allontanare il ragazzo da quel convitto che era diventata la sua nuova casa, ha provato ad opporsi, ricevendo in compenso il benservito. A due giorni dagli avvenimenti raccolti nella denuncia infatti il tecnico si è visto recapitare a casa la lettera in cui la società calcistica, forse non contenta del comportamento tenuto dal proprio tesserato, poneva fine al loro rapporto di lavoro augurandogli, ironia della sorte «le migliori fortune professionali».

LA MOSSA DELLO STRUZZO. E mentre, racconta ancora il legale, il ragazzo «non fa altro che piangere da quando è tornato a Messina dopo il suo allontanamento», la società protagonista di questa presunta epurazione su base parentale non ha preso nessuna determinazione ufficiale, rimandando le spiegazioni su quanto accaduto ai prossimi giorni e trincerandosi in un silenzio imbarazzante interrotto solo dai mugugni che emergono dal sottobosco della tifoseria organizzata. Storicamente schierati a sinistra e più volte protagonisti di episodi di inclusione tra lo stadio e il carcere, gli ultras cosentini non sembrano avere preso bene la cervellotica decisione del club. Gli fanno eco anche gli ultras di Messina, città d’origine del ragazzo, che nei giorni scorsi hanno manifestato la propria solidarietà affiggendo un manifesto eloquente all’ingresso dello stadio peloritano: «Diffamato per il tuo cognome, Pietro Santapaola vero campione». E se al Cosenza fanno orecchie da mercante, aspettando che il caso si sgonfi, sul pero sembrano essersi rifugiati anche la lega di serie B (la Confindustria del secondo campionato di calcio italiano) e l’Associazione italiana calciatori che, ufficialmente non investiti della questione, hanno preferito tirarsi fuori dalla contesa, non intervenendo. Non potranno far finta di niente invece alla Figc, visto che copia della denuncia presentata dall’avvocato Silvestro in Procura, è stata recapitata anche agli uffici di via Allegri. Da qui, il fascicolo potrebbe finire nelle mani della giustizia sportiva.

Pietro Santapaola verrà reintegrato nel Cosenza Calcio: “Esclusione fraintesa”. Le Iene News il 22 marzo 2021. Il giovane campioncino Pietro Santapaola tornerà a giocare per il Cosenza Calcio. Sarebbe stato allontanato per via del suo cognome “pesante” e per le stragi mafiose addebitabili al suo prozio. Dopo il servizio di Ismaele La Vardera, il 17enne ha ricevuto una comunicazione dalla sua squadra: potrà tornare ad allenarsi. Pietro Santapaola verrà reintegrato nel Cosenza Calcio. Abbiamo conosciuto il campioncino 17enne nel servizio di Ismaele La Vardera che potete vedere qui sopra. Il giovane attaccante ci ha raccontato che sarebbe stato allontanato dalla Primavera del Cosenza Calcio per via del suo cognome. Lui è il nipote di Nitto Santapaola, uno dei boss più sanguinari della Sicilia, coinvolto anche nella strage di Capaci. Dopo il servizio de Le Iene, il Cosenza Calcio, che milita in serie B, ha scritto a Pietro parlando di “circostanze del tutto fraintese che l’hanno portato ad allontanarsi dal nostro club presso cui potrà tornare appena le attività giovanili saranno riprese”. Al momento uno dei giovanissimi campioncini è risultato positivo al Covid 19 facendo scattare l’isolamento per tutti e l’interruzione degli allenamenti. Resta cauto il legale di Pietro: "È solo una comunicazione ufficiosa, perché in calce alla mail non vi è nessuna firma", sottolinea Silvestro Salvatore che qualche giorno fa ha presentato un esposto in Procura per mobbing contro il Cosenza Calcio. “Mi hanno stravolto la vita”, ci aveva detto Pietro nel servizio di Ismaele La Vardera. Con lui abbiamo provato a ricostruire tutta la vicenda. Dopo un paio di mesi dal suo acquisto riceve una notizia del tutto inaspettata: “Il direttore mi ha sospeso dicendo che avevo un cognome molto pesante… Mi sono messo a piangere perché temevo di non poter più tornare a giocare a pallone”. I Santapaola sono associati a omicidi e stragi di mafia. “Io non ho mai conosciuto Nitto Santapaola”, dice Pietro. Ma ci confida di non sapere della storia della sua famiglia. La Iena gli tira le orecchie per non aver studiato ma lo aiuta a tornare a giocare.

Mezzojuso, il sindaco Salvatore Giardina non è mafioso ma è incandidabile. Giorgio Mannino su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Prima l’indimostrata partecipazione al funerale del boss, poi le inconsistenti parentele dei congiunti con soggetti mafiosi e quindi la permeabilità dell’amministrazione comunale alle associazioni criminali del territorio seppur nessun rapporto con Cosa Nostra sia stato mai acclarato. Nonostante tutto ciò, la prima sezione civile della corte d’appello del tribunale di Palermo – presidente Daniela Pellingra – si è espressa sull’incandidabilità dell’ex sindaco di Mezzojuso, Salvatore Giardina: ricorso respinto e incandidabilità confermata. Nelle undici pagine della motivazione, però, sono tanti gli elementi che non tornano. Un passo indietro. Il comune viene sciolto per infiltrazioni mafiose nel dicembre 2019. Il paese, già da prima, è sotto i riflettori dei media con la trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti che ha raccontato in più puntate la storia delle sorelle Napoli. Le tre donne vittime di danneggiamenti alla recinzione dei loro campi con conseguenti invasioni da parte di bovini che ne hanno danneggiato le colture. Dietro queste azioni ci sarebbe la mano della mafia. Hanno denunciato i fatti e la loro storia ha avuto grande eco. La giunta comunale, allora guidata dal sindaco Giardina, ha espresso più volte solidarietà. Ma l’amministrazione è stata accusata di un comportamento troppo passivo. Lo scioglimento per mafia venne invocato in diretta tv a Non è l’arena. E il provvedimento arriva firmato da Antonella De Miro, ex prefetto di Palermo. Nelle pagine del documento prefettizio si parla di varie irregolarità amministrative e delle amicizie pericolose di singoli amministratori. Ma l’elemento centrale è la presunta partecipazione di Giardina alle esequie del boss Nicola “don Cola” La Barbera. Antonio Di Lorenzo e Filippo Liberto, legali di Giardina, presentano diverse cartelle cliniche del centro di fisioterapia di Villafrati in cui lavora l’ex sindaco. Documenti firmati dall’ex primo cittadino in un orario compreso tra le 15 e le 19 del 29 ottobre 2004, mentre si stavano svolgendo le esequie del boss. Il tribunale di Termini Imerese, lo scorso agosto, chiamato a pronunciarsi sull’interdittiva elettorale di Giardina, ridimensiona quanto scritto dalla commissione prefettizia: «L’effettiva partecipazione al funerale – scrivono i giudici – non è determinante alla luce della documentazione prodotta in corso di giudizio». L’impalcatura principale sulla quale si è determinato lo scioglimento per mafia scricchiola. E se i giudici termitani citano il dato relativo alle esequie del boss, questo scompare completamente nel pronunciamento della corte d’appello di Palermo. Che conferma la misura interdittiva elettorale di Giardina sulla base dell’azione amministrativa dell’ente condotta, secondo i giudici, in difformità della legge. Secondo la corte “non è calzante ai fini del reclamo” il fatto che nessuno degli amministratori sia inquisito per mafia. Inoltre “la misura interdittiva elettorale non richiede né l’accertamento di fatti di reato, né che la condotta dell’amministratore integri gli estremi di reati per mafia, essendo sufficiente che sia in colpa nella cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze delle associazioni criminali”. Se Giardina avesse amministrato un territorio non aperto alle associazioni criminali, forse sarebbe andata diversamente? «È sufficiente – continuano i giudici – la presenza di elementi tali da rendere plausibile, in base all’esperienza, l’ipotesi di una possibile soggezione del pubblico amministratore alla criminalità organizzata». In base all’esperienza? Infine a motivare la decisione è «l’inadempimento delle cautele antimafia sulle relative concessioni edilizie», le solite amicizie o parentele con soggetti pregiudicati e l’erogazione di contributi alla pro loco del paese di cui faceva parte Leonardo La Barbera, “legato ad esponenti mafiosi e al pregiudicato Giuseppe La Barbera”. Giardina si difende. «Sulla concessione edilizia data ad un soggetto vicino al boss Provenzano, i miei avvocati hanno dimostrato che questa persona non è mai stata condannata o inquisita. In ogni caso la concessione viene data dal responsabile dell’ufficio tecnico non dal sindaco. Sono documenti che non vanno né in consiglio comunale e neppure in giunta. Questi errori amministrativi li paga, solitamente, il segretario comunale. Comunque non si è mai sciolto un comune per errori amministrativi». Sul mancato rispetto delle cautele antimafia Giardina spiega: «Ci si riferisce al protocollo al quale degli 81 comuni della provincia palermitana hanno aderito solo in 13. Perché gli altri non vengono sciolti? La prima cosa che si domanda è il certificato antimafia. Se poi la ditta è iscritta alla white-list della prefettura, cosa bisogna fare di più?». La sentenza in sede d’appello per Giardina è un colpo duro da incassare: “Sto perdendo la fiducia nelle istituzioni”. I suoi legali annunciano il ricorso in Cassazione.

Riemerse le prove. Mezzojuso, il padre delle sorelle Napoli fu calunniato dalla polizia: ecco le prove. Giorgio Mannino su Il Riformista il 13 Dicembre 2020. «Trovo strano, se non addirittura inquietante, la circolazione di “veline” di polizia, mentre non sono stati diffusi gli atti giudiziari che attestano l’insussistenza di pericolosità sociale di Salvatore Napoli, padre delle mie assistite Irene, Marianna e Gioacchina Napoli. E che lo stesso sia stato scagionato dalle accuse infamanti solo dopo un processo che vide condannato per calunnia l’autore delle lettere anonime che lo infangavano». Così l’avvocato Giorgio Bisagna difende la memoria del padre delle tre sorelle Napoli vittime, a Mezzojuso, di danneggiamenti – dietro i quali ci sarebbe la mano della mafia – alla recinzione dei loro campi con conseguenti invasioni da parte di bovini che ne hanno danneggiato le colture. Una storia finita sotto i riflettori dei media con la trasmissione su La 7 di Massimo Giletti Non è l’arena che in diretta televisiva, sollecitò l’allora ministro degli Interni Matteo Salvini a sciogliere il comune per mafia. Cosa che avvenne esattamente un anno fa nonostante né l’ex sindaco, Salvatore Giardina, né i membri della sua giunta siano mai stati inquisiti per fatti di mafia. E siano incensurati. Secondo la prefettura di Palermo, uno degli elementi centrali che avrebbero portato al provvedimento, sarebbe stato la partecipazione di Giardina alle esequie del boss don Cola La Barbera il 29 ottobre 2004. Ma i legali dell’ex sindaco, Antonio Di Lorenzo e Filippo Liberto, hanno presentato diverse cartelle cliniche del centro di fisioterapia gestito da Giardina a Villafrati. Documenti firmati proprio dall’ex primo cittadino in un orario compreso tra le 15 e le 19 del 29 ottobre 2004, mentre si svolgevano le esequie. A cui avrebbero partecipato, secondo molte fonti del paese, circa mille persone. Due settimane fa, invece, durante la trasmissione di Giletti, un testimone anonimo ha raccontato di aver visto “con i suoi occhi, nel primo pomeriggio” Giardina al funerale di La Barbera. E di non potersi sbagliare perché “c’erano circa 20 persone”. La presenza di Giardina sarebbe confermata da una relazione “corposa e dettagliata” dei carabinieri della compagnia di Misilmeri, trasmessa poi alla procura di Termini Imerese. Ma di questo documento, al momento, non c’è traccia. Abbiamo fatto richiesta al comando dei carabinieri ma l’esito è stato negativo. Richiesta inoltrata, circa dieci giorni fa, anche alla prefettura. Siamo ancora in attesa di risposta. Gli avvocati di Giardina aspettavano di leggerla negli atti processuali, ma non è mai stata presentata. Sul caso delle tre sorelle l’amministrazione, inoltre, è stata accusata di un comportamento passivo e dunque di aver favorito un clima d’isolamento. Intanto la macchina mediatica, messa in moto da Giletti, aveva sbattuto il mostro su La 7 in un processo in diretta tv. Ad esacerbare un clima già avvelenato sono state le notizie riguardanti il padre delle sorelle Napoli, Salvatore “Totò” Napoli ex sindaco del paese. In particolare la sua presunta mafiosità, affibbiatagli a suon di calunnie, come accertato dalla magistratura, dai suoi avversari politici. Incartamenti che abbiamo potuto leggere solo pochi giorni fa. Il 30 maggio 1968, Napoli – già oggetto di diffida nel 1963 – venne proposto, sulla base di una serie di lettere anonime, dal questore di Palermo Zamparelli per l’emissione di un provvedimento di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno in un comune fuori dalla Sicilia in quanto «ha finito con l’aggiudicarsi il ruolo di capo della malavita organizzata del luogo e che è riuscito ad eludere ogni investigazione perché protetto». La polizia gli attribuisce un omicidio e un tentato omicidio, danneggiamenti e atti incendiari. Ma «su tali fatti non è stato possibile raccogliere quelle prove necessarie per denunciarlo, pur nella consapevolezza della sua responsabilità», scrive la questura. Il tribunale due mesi dopo rigetta la proposta di Zamparelli «in quanto le proposizioni del rapporto erano apparse generiche e che le accuse anonime mosse contro di lui, provenissero dai suoi avversari politici per frustrarne il suo operato». Giudizio confermato anche dalla Corte d’appello di Palermo nel 1969: «È molto verosimile che lo scopo sia stato quello di eliminarlo politicamente e che contro di lui sia stata ordita un’ignobile macchinazione». Nel 1971 Napoli viene iscritto nello schedario delle persone indiziate di appartenere alla mafia. L’autore dell’esposto anonimo contro Napoli inviato alla questura è stato poi identificato in Francesco Paolo Bonanno condannato per calunnia nel 1974. «La cultura del sospetto va combattuta. Sono i fatti e gli atti giudiziari che devono avere rilevanza», dice Bisagna. Al netto di tutto ciò – che era doveroso ricordare – restano in piedi i tanti dubbi sullo scioglimento di Mezzojuso durante l’amministrazione Giardina quando di mafia, in realtà, in quel palazzo non sembra esserci stata traccia.

Ignorato il primo cittadino infangato. Giletti Re dei processi mediatici: sindaco messo alla gogna da testimone incappucciato e ignoto senza alcuna prova. Giorgio Mannino su Il Riformista il 5 Dicembre 2020. «Questa sera faremo vedere un documento fortissimo che riguarda l’ex sindaco di Mezzojuso, Salvatore Giardina. Che ha sempre detto di non essere mai andato al funerale di don Cola La Barbera, il capomafia del paese. L’uomo che proteggeva la latitanza di Bernardo Provenzano. Un documento che chiarirà la vicenda in modo definitivo». Domenica scorsa, con un ingresso a effetto Massimo Giletti, durante la trasmissione Non è l’arena su La 7, ha aperto così l’ennesimo capitolo, il quattordicesimo, dedicato alla storia delle sorelle Napoli – vittime di danneggiamenti, dietro ai quali ci sarebbe la mano della mafia, alla recinzione dei loro campi con conseguenti invasioni da parte di bovini che ne hanno distrutto le colture – legato a doppio filo con lo scioglimento per mafia di Mezzojuso. L’attesa è trepidante. Il set montato è sempre lo stesso. Da un lato Rita Dalla Chiesa, dall’altro l’ex deputata Nunzia De Girolamo, in collegamento – alle spalle di Giletti – Irene, Marianna e Gioacchina Napoli. Le tre donne figlie di Salvatore “Totò” Napoli ritenuto, secondo fonti investigative, “capo indiscusso della famiglia mafiosa di Mezzojuso” già dalla fine degli anni Cinquanta e protettore, negli ultimi anni della sua latitanza, di Bernardo Provenzano nascosto proprio da Napoli in un monastero ortodosso del paese, e iscritto nel 1971 nello schedario degli indiziati per mafia, al numero 859, dall’allora capitano della stazione dei carabinieri di Corleone Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il grande assente è proprio l’ex sindaco Giardina, accusato nel tribunale mediatico allestito da Giletti, ma non invitato alla trasmissione, in barba al contraddittorio. Il programma va avanti. Monta la suspence. Giletti, più volte, ricorda di essere in possesso, mimando con la mano la presenza di una documentazione cartacea, di un «documento fondamentale per dimostrare la presenza di Giardina al funerale di don Cola La Barbera». Gli addetti ai lavori si aspettano la famigerata relazione, redatta dai carabinieri e citata nel provvedimento prefettizio di scioglimento per mafia, secondo la quale Giardina era presente, il 29 ottobre 2004, al funerale del boss La Barbera: «Tra i presenti – è scritto nella relazione prefettizia – anche il sindaco Giardina, all’epoca assessore, come annotato in una relazione di servizio dei CC». La presenza dell’ex sindaco a quelle esequie è stato uno degli elementi principali che hanno portato allo scioglimento per mafia del Comune. E che invece, la sezione civile del tribunale di Termini Imerese, pronunciandosi lo scorso agosto sull’incandidabilità di Giardina e di altri assessori della sua giunta, aveva definito «in questa sede non determinante, anche in considerazione dell’incertezza stessa della partecipazione». Un cortocircuito che desta più di qualche dubbio sulle reali motivazioni che hanno portato allo scioglimento per mafia di Mezzojuso. Antonio Di Lorenzo e Filippo Liberto, legali di Giardina, hanno presentato diverse cartelle cliniche del centro di fisioterapia gestito dall’ex sindaco a Villafrati. Documenti firmati proprio dall’ex primo cittadino in un orario compreso tra le 15 e le 19 del 29 ottobre 2004, mentre si stavano svolgendo le esequie del boss. Giardina non poteva trovarsi a Mezzojuso. L’altro documento che potrebbe mettere un punto sulla vicenda sarebbe proprio la relazione dei carabinieri. La lunga attesa, però, viene delusa. Quello che doveva essere un “documento fortissimo” si riduce a una testimonianza anonima. Che Giletti presenta in pompa magna: «Forse quella carta (la relazione dei carabinieri, ndr) non servirà più dopo questa dichiarazione». In realtà si tratta di una bolla di sapone che esplode poco dopo. Un soggetto incappucciato, di spalle, con la voce modificata, afferma di aver visto “con i suoi occhi, nel primo pomeriggio” Giardina al funerale di La Barbera. E di non potersi sbagliare perché “c’erano circa 20 persone”. L’uomo si dice, inoltre, «disposto a testimoniare davanti all’autorità giudiziaria». Ma perché la magistratura dovrebbe avvalersi di questa testimonianza se la procura di Termini Imerese, come confermato dal comando dei carabinieri di Misilmeri che l’ha trasmessa, possiede già la relazione “corposa e dettagliata che accerta la presenza di Giardina” su quel funerale vietato dalla questura? Di quali ulteriori elementi avrebbe bisogno e per quali obiettivi? Nel racconto del testimone, però, incappucciato qualcosa non torna. Come confermato da più fonti a Il Riformista, alle esequie di La Barbera sarebbero state presenti più di 1.000 persone. Un dato che trova un’ulteriore sponda con le affermazioni del collaboratore dell’ex generale dei carabinieri Nicolò Sergio Gebbia, ex assessore della giunta Giardina: «Mi disse – ricorda Gebbia – che aveva rivisto le registrazioni dell’evento, cui avevano partecipato più di mille persone. E che gli amministratori comunali coinvolti erano 5, quattro presenti all’interno del cimitero e il quinto, al vertice dell’amministrazione, che aveva reso una visita di condoglianze alla famiglia del morto. Escluse che fra i presenti ci fosse Salvatore Giardina». Dalla compagnia dei carabinieri di Misilmeri fanno sapere che “il testimone è attendibile”. Della relazione, intanto, non pare esserci traccia. Abbiamo fatto richiesta al comando dei carabinieri ma l’esito è stato negativo. Richiesta inoltrata anche alla prefettura, siamo in attesa di risposta. Gli avvocati di Giardina aspettavano di leggerla negli atti processuali, ma non è mai stata presentata: perché? A non averla è lo stesso Giletti, tra i maggiori sponsor dello scioglimento per mafia di Mezzojuso. La relazione, a detta di molti, conterrebbe il nome di Giardina tra i presenti al funerale. Perché finora non è saltata fuori? «Sono incensurato, non si è mai fatta un’indagine su di me. E sono stato crocifisso. Giletti ha buttato fango su un’intera comunità. La trasmissione è stata creata ad hoc per fare pressioni sull’udienza d’appello nella quale, a gennaio, si deciderà sulla mia riabilitazione. Quella testimonianza è un falso e temo che, a seguito delle grandi manovre che in queste ore si stanno profilando in paese, possano essere costruite altre falsità. Tuttavia sono fiducioso perché continuo a credere nella magistratura», dice l’ex sindaco. Intanto i suoi legali ventilano «l’ipotesi di un’attività querelatoria».

I 19 sono tutti quelli che il procuratore ama chiamare “colletti bianchi”. Inchiesta Basso profilo, blitz da film di Gratteri contro cosca: ma non erano mafiosi…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Marzo 2021. Almeno la metà degli indagati nell’inchiesta “Basso profilo” del crotonese, condotta dal procuratore Nicola Gratteri, non è fatta di mafiosi. Si tratta dei primi 19 indagati che hanno fatto ricorso al Tribunale del riesame, che ha annullato l’aggravante prevista dall’articolo 416 bis del codice penale. Per chi ama la spettacolarizzazione delle inchieste di mafia, può sembrare normale il fatto che vengano impiegati trecento poliziotti e dieci elicotteri per sgominare una cosca. Ma se, nel giro di un mese, a un gran numero di indagati che fanno ricorso al tribunale del riesame, come prima cosa viene annullata l’aggravante mafiosa, forse viene quanto meno il dubbio che il procuratore Gratteri abbia in mano un pugno di mosche, cioè abbia fatto arrestare degli innocenti, oppure che abbia sbagliato e ingigantito le imputazioni. E che abbia visto mafia anche dove non c’è. Ormai in Calabria è un refrain quotidiano con schema fisso: prima il blitz con grande impiego di mezzi e uomini, poi la conferenza stampa in cui si annuncia la maxi-operazione contro la ‘ndrangheta “dei colletti bianchi”. Così è accaduto anche lo scorso 21 gennaio, con l’operazione “Basso profilo”, quella che aveva conquistato titoli sui giornali solo perché nelle carte c’era anche il nome di Lorenzo Cesa, il segretario dell’Udc costretto alle dimissioni da un’informazione di garanzia per una colazione di quattro anni fa. Quel giorno il procuratore di Catanzaro aveva ricordato ai giornalisti la natura del suo schema fisso, quello tramite il quale pensa di smontare la Calabria e poi ricostruirla come si fa con un Lego. «L’indagine di questa mattina –aveva detto- è la sintesi di quello che diciamo ormai da decenni: la ‘ndrangheta spara meno però corrompe e ha sempre più rapporti nel mondo dell’imprenditoria e nel mondo della politica». Nicola Gratteri sembra non avere dubbi. Se le cosche smettono di sparare non è perché il fenomeno criminale si sta attenuando, come è già successo in Sicilia dopo la sconfitta dei Corleonesi. E neanche perché per esempio quello del narcotraffico rimane il mercato più appetibile e che non sempre necessita la conquista dei territori con il mitra. Dalle indagini della Dda di Catanzaro pare quasi invece che la deposizione delle armi da parte delle famiglie di ‘ndrangheta debba per forza coincidere da parte dei boss con l’abbandono di lauti guadagni, per accontentarsi di operazioni di piccolo cabotaggio insieme a consiglieri comunali e assessori di piccoli centri urbani. L’operazione che viene chiamata “Basso profilo”, ma che è stata presentata in grande spolvero, è un po’ così. Vediamo come sta andando. Parte con 49 indiziati, di cui 13 in carcere e 35 ai domiciliari. Viene coinvolto l’ex parlamentare europeo Lorenzo Cesa, proprio nei giorni in cui ancora il mondo politico è in fermento per l’ipotesi di arrivare al terzo governo di Giuseppe Conte anche con il coinvolgimento dell’Udc di cui Cesa è segretario. Il suo scalpo viene gettato nella conferenza stampa come un boccone prelibato: sarebbe stato coinvolto in una colazione in un ristorante romano dal responsabile regionale dell’Udc in Calabria, che lo avrebbe raggiunto con due persone che lo stavano aiutando in una campagna elettorale. L’accusa lascia intendere che si intendesse proporre a Cesa una sorta di voto di scambio (io offro voti al tuo compagno di partito e tu mi aiuti), ma di questo non c’è prova, anche perché non c’è stata nessuna captazione della conversazione, essendo il segretario dell’Udc all’epoca parlamentare europeo. Ma la cosa significativa, anche per lo stesso Cesa, cui questa “sciocchezzuola” è costata la segreteria del suo partito, è il fatto che già diciannove indagati di quell’inchiesta abbiano visto cadere nei loro confronti l’aggravante mafiosa. Ma soprattutto il fatto che tra questi ci sia proprio Mimmo Talarico, cioè il responsabile calabrese dell’Udc che aveva organizzato il famoso incontro a Roma. Tra l’altro i 19 sono tutti quelli che il procuratore Gratteri ama chiamare “colletti bianchi”: ex assessori, consiglieri comunali, commercialisti, dipendenti regionali, notai, avvocati. E anche imprenditori. E’ il crollo del teorema che fondava l’inchiesta “Basso profilo” sui collegamenti tra la mafia crotonese e reggina, il mondo dell’impresa e la politica. E se a questo aggiungiamo anche un certo numero di scarcerazioni disposte dal tribunale della libertà oltre a quella cui aveva provveduto il gip, nei confronti di un poveretto la cui voce era stata scambiata con quella di un altro solo perché ambedue si chiamavano Giuseppe, il quadro è completo.

Così si rafforza la 'ndrangheta. Blitz, 204 arresti e appena 8 condanne: presunto boss assolto ma per lui niente funerale. Ilario Ammendolia su Il Riformista il 4 Marzo 2021. Ricordate Platì? Un piccolo centro dell’Aspromonte di circa 4000 abitanti contro cui nel novembre del 2003 si scatenò l’operazione “Marine” che vide oltre mille carabinieri muoversi alle prime luci dell’alba all’assalto del Paese. Ne parlarono le televisioni a rete unificate, i giornali nazionali ed il caso finì anche sul New York Time e la Bbc. In effetti fu una autentica operazione di guerra con rastrellamenti ed arresti di massa. In carcere finì il sindaco che era anche il medico del paese, il segretario comunale, il tecnico e finanche lo ”scemo” del villaggio. Il poveretto non voleva salire sul cellulare dei carabinieri sino a quando i suoi compaesani, mossi da compassione, non riuscirono a convincerlo che l’avrebbero portato in pellegrinaggio da Padre Pio. Su 4000 cittadini ben 204 furono coinvolti. Almeno uno a famiglia. Ci pensarono i giudici a ristabilire la verità: quasi tutti assolti. Solo 8 su 204 furono condannati. In uno Stato serio, “Marine” avrebbe fatto scuola. I giovani “uditori giudiziari” avrebbero studiato il “caso” per capire come non dovrebbe comportarsi un magistrato, perché una cosa è chiara: l’operazione finì col rafforzare la ‘ndrangheta spingendo gli innocenti sulla stesa sponda dei mafiosi. Ed invece pur a distanza di tanti anni, quella sciagurata operazione continua a produrre danni contro gli inermi cittadini del Paese. A Platì, dopo aver sospeso la democrazia per decenni sciogliendo a ripetizione i consigli comunali, adesso si proibiscono i funerali in Chiesa. Platì è di fatto paese “scristianizzato”. Facciamo qualche esempio: il 14 febbraio scorso muore a soli 53 anni Domenico Perre, padre di 4 figli. La questura vieta il funerale a causa dei “trascorsi giudiziari” del defunto e per i “legami di parentela” dello stesso. In questo caso non vogliamo neanche invocare il principio costituzionale secondo cui “la responsabilità penale è personale” ma piuttosto capire quali sono i trascorsi giudiziari di cui parla la questura e quali sono i rapporti di parentela alla base del divieto. Ma prima occorre sgombrare il campo da un equivoco creato ad arte della questura nel momento in cui vieta funerali a raffica scrivendo con burocratica puntualità che «il divieto è necessario perché il funerale potrebbe essere l’occasione propizia per la commissione di azioni di rappresaglia». Ebbene, a Platì storicamente non è in corso alcuna faida e l’ultimo omicidio di mafia risale a qualche decennio fa. Di quale “operazione di rappresaglia” si parla? E contro chi? Ritorniamo ai fatti. Perre non ha mai riportato una condanna penale ma, si badi bene, è stato arrestato nell’operazione “Marine”. Assolto ed indennizzato per “ingiusta detenzione” rimane un “pregiudicato” perché, a queste latitudini, neanche le sentenze dei giudici possono cancellare il marchio a fuoco impresso da qualche Pubblico Ministero. La stessa cosa per il padre del defunto e per il suocero. Tutte e due arrestati nell’ambito dell’operazione “Marine” ed assolti già nel primo grado di giudizio. Tutte e due indennizzati per ingiusta detenzione. In conclusione né Perre Domenico, né il padre, né il suocero hanno avuto condanne penali passate in giudicato ma tutte e tre sono stati coinvolti nell’operazione “Marine” che è stata un’ecatombe di innocenti e che continua a produrre i suoi effetti scellerati e perversi sulla vita dei cittadini di Platì. In qualche occasione si va ancora oltre, è il caso del divieto di svolgere i funerali di Barbaro Giuseppe di cento anni e sei mesi. Poco tempo prima aveva festeggiato il secolo di vita in Chiesa. La festa sì, ma… non il funerale. Sarebbe bene che la ministra dell’Interno chiarisse in Parlamento con quale diritto si vieta di portare in Chiesa, per la funzione religiosa, la salma di un vecchio di religione cattolica, incensurato all’età di cento anni. Se il fatto si fosse svolto nella Cina “comunista” o nell’Afghanistan dei talebani sicuramente le autorità cattoliche avrebbero protestato. Ma… la Calabria è molto più lontana. Il parroco del Paese, un lombardo che ha vissuto quasi mezzo secolo in missione, in passato ha espresso la sua ferma indignazione puntando il dito contro gli arbitrari divieti del Ministero dell’Interno. È stato tutto inutile. Concludiamo: a Platì la ‘ndrangheta c’è ed è una cosa terribilmente seria. Sradicarla (e non solo attraverso la repressione) sarebbe un dovere dello Stato; far finta di combatterla arrestando gli innocenti, sciogliendo i consigli comunali, vietando i funerali, umiliando i parroci, intimorendo i sindaci ed ignorando le stesse sentenze della magistratura, significa percorrere la rovinosa strada imboccata nel novembre del 2003 con l’operazione “Marine”. Una operazione che ha ottenuto come unico risultato uno scatto in avanti della ‘ndrangheta a cui corrisponde il silenzio rassegnato dei cittadini onesti, anche se non possono dirsi più tali essendo stato impresso sulle loro carni il marchio indelebile di ex galeotti. Percorrendo tale via la credibilità dello Stato è scesa sotto zero. Mentre s’è creato l’humus che consente alla ndrangheta di crescere e svilupparsi. Toccherebbe alla politica, se ancora ve ne fosse uno straccio in Calabria, bloccare la spirale impazzita ma, anche in vista delle prossime elezioni regionali, i “politici” parlano d’altro. Cioè del nulla. E comunque il caso Oliverio (ma anche Tallini) sconsiglia fortemente (quantomeno ai pavidi) di opporsi a coloro che detengono il “Potere”. Quello vero!

Caro Pignatone, il tribunale del popolo che processò Sciascia è ancora in piedi…Davide Varì su Il Dubbio il 16 febbraio 2021. Sono passati anni dagli attacchi contro Sciascia ed è un bene che un ex magistrato del livello di Giuseppe Pignatone riesca a parlarne con serenità e intelligenza. «Rimane sempre valido, al di là dell’evoluzione del fenomeno criminale e dei progressi delle tecniche investigative, il nucleo essenziale del pensiero di Sciascia sulla mafia e sui temi della giustizia: “La repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli non sono gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come mafia, ‘ndrangheta e camorra”. E ancora: “La soluzione passerà attraverso il diritto o non ci sarà; opporre alla mafia un’altra mafia non porterebbe a niente, porterebbe a un fallimento completo”. Non credo che si possa dire altro, e meglio». Si chiude così l’editoriale dell’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, pubblicato su La Stampa di ieri; si chiude con questa lunga e bellissima citazione di Leonardo Sciascia. Diciamolo subito: l’omaggio allo scrittore siciliano da parte del magistrato di “Mafia Capitale” era tutt’altro che scontato. L’idea secondo cui le mafie “ non si combattono con la terribilità della giustizia ma col diritto” – per dirla sempre con Sciascia – è stata osteggiata per anni dall’ala dura dell’antimafia e da un certo numero di procure che spesso, in nome della guerra alla criminalità organizzata, hanno chiesto ( a volte preteso) di chiudere un occhio sul mancato rispetto dei diritti, quasi che la Costituzione fosse un ostacolo, un inutile intralcio. E non parliamo di Pignatone, naturalmente. Il quale sa bene che lo scrittore siciliano pagò cara la propria libertà di pensiero. Le truppe dell’antimafia militante lo misero all’indice e gli diedero del “quaquaraquà”. Sciascia subì attacchi violentissimi e volgarissimi, finì “sotto processo” e rispose in modo dolente a quegli insulti inaspettati: “Non molti anni fa – raccontò in quel periodo – si diceva che facevano il gioco di qualcuno o di qualcosa che bisognava invece combattere”. E poi, sempre più esplicito e sofferente, nella famosa e penosa polemica con Nando Dalla Chiesa, scrisse: “Il figlio del generale ( Dalla Chiesa ndr) arriva ad affermare, in una intervista, che con le mie dichiarazioni avevo fatto il gioco della mafia. Ora io non riesco a capire perché dicendo queste cose si faccia il gioco della mafia. Ma dire che si fa il gioco della mafia è gratuita e sciocca diffamazione”. E quando il Corriere della Sera pubblicò il suo famoso articolo sui “professionisti dell’antimafia”, gli attacchi furono ancora più brutali. L’autonominato Coordinamento antimafia, lo stesso che gli diede del quaquaraquà, scrisse parole rabbiose e durissime: “Siamo certi che Sciascia, un po’ per una certa affinità di cultura, oltre che per spirito di anticonformismo, preferisca ad Orlando i sindaci che lo hanno preceduto: magari quelli degli anni ‘ 60, come Ciancimino” E infine la “sentenza”: “Marchiarlo come mafioso sarebbe possibile solo facendo un torto alla nostra intelligenza ed alla sua memoria storica… Non ce ne voglia, allora, l’illuminato uomo di cultura Leonardo Sciascia, se per questa volta, con tutta la nostra forza, lo collochiamo ai margini della società civile”. Replica dello scrittore: “ Non so chi faccia parte di questo coordinamento, immagino però che ci sia una prevalenza comunista. Invece di darmi il confino di polizia mi hanno dato il confino ai margini della società civile. Ma il guaio è che dove finisce la loro società civile comincia il diritto”. E poi: “La lotta alla mafia si fa attraverso il diritto. Ad un coordinamento simile farei credito se avesse emesso un comunicato quando un cittadino è entrato vivo in questura e se ne è uscito morto”. Sono passati più di trent’anni da quelle polemiche, da quegli attacchi così sguaiati ed è un bene che oggi un ex magistrato del livello di Giuseppe Pignatone riesca a parlarne con serenità e intelligenza. Anche perché la macchina infernale che ha processato Sciascia in pubblica piazza, viaggia ancora a pieno regime. E quel meccanismo perverso che lo ha stritolato viene oliato quotidianamente dai nuovi professionisti dell’antimafia e dai “custodi della legalità”. Oggi come ieri chiunque alzi la bandiera dei diritti e delle garanzie è inserito d’ufficio nella black-list dei cattivi, quasi ci fosse una sorta di connivenza mafiosa da parte di chi invece sta solo riaffermando i principi costituzionali. Lo sanno bene le migliaia di avvocati che vengono descritti come complici dei presunti colpevoli (e ribadiamo presunti) mentre invece stanno esercitando il diritto inviolabile alla difesa. Insomma, Sciascia non c’è più ma il “tribunale del popolo” è ancora al suo posto.

La storia del campione del mondo. L’incubo di Vincenzo Iaquinta, dal Mondiale vinto alla gogna: “Fatti a pezzi perché calabresi”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 21 Maggio 2021. Da campione del mondo a cliente indesiderato dalle banche per la vicenda giudiziaria che ha travolto la sua famiglia. È il calvario che sta vivendo Vincenzo Iaquinta, ex attaccante di Juve e Udinese e della nazionale di Marcello Lippi che nel 2006 vinse il Mondiale in Germania. Suo padre, Giuseppe, 64 anni, è in carcere dal 2018 e sta scontando una condanna in Appello a 13 anni (in primo grado erano 19) per associazione di stampo mafioso. «Il cognome Iaquinta deve tornare pulito come era prima. Tutto questo è umiliante ma ho fiducia nella giustizia e nella Cassazione», spiega Iaquinta che prende le distanze dal mondo della ‘ndrangheta. «Ho guadagnato soldi puliti grazie al calcio, io e la mia famiglia non ci andiamo a sporcare con queste merde, perché così vanno chiamate». L’ex attaccante vuole andare fino in fondo per provare l’innocenza del genitore. E lo annuncia nello studio di Pasquale Muto, uno degli avvocati che sta seguendo l’inchiesta che ha coinvolto il padre, rientrato negli oltre 100 arresti dell’operazione Aemilia (gennaio 2015) contro la cosca Grande Aracri, originaria di Cutro (Crotone) ma radicata nel Centro Italia con base Reggio Emilia. Indagine condotta dall’allora sostituto procuratore Marco Mescolini, poi nominato capo della procura emiliana prima di essere trasferito per “incompatibilità ambientale” a Firenze perché coinvolto nelle chat con l’allora consigliere del Csm, Luca Palamara. Una inchiesta show in cui sono finiti nel tritacarne, oltre alla famiglia Iaquinta, politici e imprenditori edili (quelli originari di Cutro esclusi quasi a prescindere dalla White List, l’elenco delle imprese non compromesse con ambienti criminali e ammesse a partecipare agli appalti per la ricostruzione post terremoto). Nel tritacarne è finito anche l’avvocato Giuseppe Pagliani, consigliere locale di Forza Italia, assolto a fine 2020 in Appello dall’accusa di concorso esterno. Giuseppe Iaquinta è in carcere da tre anni «per le dichiarazioni dei pentiti e alcune intercettazioni dove ci sono persone (Romolo Villirillo, Nicolino Sarcone e Alfonso Paolini, ndr) che parlano di lui», spiega Vincenzo. «Non c’è nessuna prova che fa parte della ‘ndrangheta, solo indizi, supposizioni, tutto materiale non riscontrato. Eppure è lì dentro (carcere di massima sicurezza di Voghera, ndr)». Vincenzo, invece, è stato condannato a due anni (con il beneficio della sospensione condizionale) per la mancata custodia di due pistole, regolarmente denunciate, ma trovate a casa del padre, a cui in quel periodo non era stato rinnovato il porto d’armi dopo l’interdittiva. Secondo l’accusa papà Iaquinta era a disposizione della cosca per dar vita a un’associazione di imprese vicine alla ‘ndrina e chiamate a contrastare quelle con il bollino antimafia. Inoltre si avvaleva della cosca per recuperare ben due ombrelloni rubati in spiaggia in Calabria e veniva coinvolto in una operazione di riciclaggio (“affare Blindo”) mai concretizzatasi, in cui il suo nome viene pronunciato dai referenti del boss Nicolino Grande Aracri, pentitosi di recente (le sue prime rivelazioni sono al vaglio della procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri) e da una commercialista di Bologna (Roberta Tattini) che ha poi ritrattato tutto dopo aver inizialmente fornito particolari non riscontrati. «Il 19 giugno 2011 – racconta l’ex centravanti – ero di ritorno dal matrimonio di Bonucci. Ero in macchina con Marchisio e sono arrivato a casa mia, a Reggiolo, alle 16. La Tattini sostiene di avermi incontrato, insieme a mio padre, in un bar a Gualtieri, a 20 chilometri da Reggiolo, intorno allo stesso orario. Poi ha ritrattato tutto sostenendo che non era a Gualtieri ma a Reggiolo alle 19.30. Ci ritroviamo a doverci difendere da questa roba qua», commenta.

Oltre alle intercettazioni e alle parole dei pentiti, ci sono foto e partecipazioni a cene o pranzi. Non è mai stato tenuto in considerazione il contesto socio-culturale.

Lui conosce tutti. Con Paolini ha giocato a calcio tanti anni. Con Grande Aracri ha un legame di parentela perché la figlia ha sposato il figlio di una sorella di mio padre. Ma che ci può fare? Ha 10 fratelli e da quasi 50 anni vive al Nord. A Cutro ci tornava per matrimoni, funerali o d’estate. E poi veniva tartassato da tutti.

Per la tua notorietà?

Quando sono diventato famoso nel calcio anche lui era considerato un riferimento sia a Reggiolo che al sud. Tutti lo chiamavano per chiedergli una maglietta, una foto con me, i biglietti per le partite.

Come è nata la foto con il boss Grande Aracri?

Estate 2011, ero a Porto Kaleo con la mia famiglia. Il fratello mi dice che Nicolino Grande Aracri voleva incontrarmi per una foto, una maglietta. Io dissi che non c’erano problemi e all’incontro andai con tutta la mia famiglia: mio padre, mia moglie, i miei figli, mia suocera, mio cognato, i miei zii. Una persona presente scatta una foto, la pubblica sui social e per gli inquirenti quello è diventato un summit, a mezzogiorno e sotto il sole, per parlare dell’affare dell’eolico. Ma per piacere.

Da allora sono iniziati i problemi?

Di lì a poco. Mio padre è incensurato. Non ha dieci aziende ma una sola da decenni. Ha lo stesso commercialista da 40 anni. Con le banche aveva dei mutui. Non hanno mai trovato una fattura falsa né movimenti bancari sospetti. Nulla. Su consiglio dell’avvocato Taormina, che ci ha seguiti in primo grado, si era anche autodenunciato in Procura dopo aver subito l’interdittiva.

E i controlli?

Zero. Si sono solo presentati il giorno dell’arresto, nel 2015. Nei mesi successivi viene accolto il nostro ricorso ed esce dopo 58 giorni di carcere. Poi nel febbraio 2016 anche la Cassazione ha ritenuto il carcere non necessario per mancanza di gravi indizi di colpevolezza.

La sentenza di primo grado nel 2018 è stata pesante. In Appello, a dicembre 2020, alcuni racconti dei pentiti non hanno retto.

19 anni sono un macigno, soprattutto quando ti sbattono dentro senza prove concrete. Poi la condanna è scesa a 13 anni perché per i giudici mio padre faceva parte dell’associazione mafiosa dal 2012 al 2015 e non fino al 2018, come avevano raccontato dei collaboratori di giustizia. Aggiunge l’avvocato Muto: «Non sono mai emersi riscontri eterogenei su Iaquinta. La prova non è diretta su Giuseppe ma sempre tramite altri. L’accusa costruisce un puzzle secondo cui Iaquinta è colpevole perché non poteva non sapere che tutti gli altri si interessavano di lui in quel modo. Adesso attendiamo le motivazioni dell’Appello che dovrebbero arrivare entro metà giugno: capiremo perché è considerato un mafioso».

Tuo padre avrebbe chiesto l’aiuto della ‘ndrangheta per recuperare due ombrelloni.

Estate 2011. I miei sono alla casa al mare in Calabria e a mio padre rubano due ombrelloni dalla spiaggia. In una delle chiamate quotidiane con Paolini, si mostra amareggiato per l’episodio. Paolini chiama Romolo Villirillo, che non aveva neanche il numero di mio padre, che si vanta poi di aver risolto il problema.

L’affare Blindo?

Una banda del Nord ruba un milione e 400mila euro da un blindato ed entra in trattativa con Villirillo. Chiedono in cambio 800mila dollari puliti. Villirillo menziona mio padre a mo’ di garanzia perché tutti sapevano che aveva quella disponibilità economica grazie al mio lavoro. L’affare inoltre non si è mai concretizzato.

La cena organizzata da Pagliani?

(Risponde l’avvocato Muto) «Alcuni imprenditori edili organizzano la cena con Pagliani dopo essere stati esclusi dalla “White List”. Giuseppe Iaquinta, che nelle intercettazioni viene fatto passare come uno degli organizzatori, arriva verso la fase finale della cena e vi resta per poco più di mezz’ora. È tutto documentato».

Come sta tuo padre?

Non lo vedo da prima della pandemia, febbraio scorso. È forte, sta resistendo ma psicologicamente è dura. Nelle videochiamate ci dice di fare qualcosa per farlo uscire.

Che idea ti sei fatto della giustizia italiana?

Sono rimasto deluso. Mai avrei immaginato una cosa del genere. Siamo sempre stati una famiglia umile, partendo da mio nonno che ha cresciuto 10 figli. Poi a 16 anni mio padre è salito con una valigia di cartone insieme a mia mamma. Ha lavorato prima a Milano poi a Reggiolo dove viveva in un buco.

Nei tuoi confronti è cambiato qualcosa dopo l’arresto di tuo padre?

Sì. Per molte persone siamo colpevoli a prescindere, ci considerano mafiosi. Fortunatamente ho tanti amici che mi vogliono bene e nel mondo del calcio mi sento ancora con i compagni di squadra del Mondiale. Ma qui, a Reggio Emilia, la mia famiglia è stata martellata sui giornali. È successo di tutto…

Un esempio?

Avevo un conto corrente alla Credem e mi arriva una lettera in cui c’è scritto che non sono cliente accettato. Passo a Generali e dopo un po’ mi arriva la stessa lettera. Alla fine ho dovuto aprire il conto alle Poste. Ti rendi conto che umiliazioni? Con i soldi puliti guadagnati durante la mia carriera da calciatore. Sto vivendo una situazione difficile insieme a mia moglie e ai miei quattro figli.

I tuoi figli hanno realizzato quello che è accaduto al nonno?

Purtroppo sì. Soprattutto sui social dove leggi di tutto. Spesso quando pubblicano qualcosa arrivano commenti poco edificanti. Insulti gratuiti. Tutto questo non è bello.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

«Io, Iaquinta, ho vinto il mondiale ma ora mi chiamano mafioso…» Simona Musco su Il Dubbio il 12 febbraio 2021. Iaquinta, uno degli eroi di Berlino del 2006, racconta di come il suo mondo, fatto di gol e corse sui campi verdi, sia stato stravolto da un’operazione della Dda, che ha fatto finire in carcere centinaia di persone, compreso suo padre. «Perché me lo tengono in carcere? Così me lo ammazzano. È un accanimento». Vincenzo Iaquinta, uno degli eroi di Berlino del 2006, non si dà pace. Ci racconta la storia di suo padre dallo studio di uno dei suoi avvocati, Pasquale Muto. E racconta di come il suo mondo, fatto di gol e corse sui campi verdi, sia stato stravolto da un’operazione della Dda, che ha fatto finire in carcere centinaia di persone, compreso suo padre. Una tela che ha imbrigliato anche lui, il campione del mondo, che nella comunità calabrese dell’Emilia Romagna «è come Gesù bambino», spiega Muto per rendere l’idea di quanto sia amato. Iaquinta è stato condannato nel processo “Aemilia” ad un anno (in primo grado a due), pena sospesa, per la mancata custodia di due pistole e 126 proiettili, ceduti, secondo il pm, al padre al quale, fin dal 2012, un provvedimento del prefetto di Reggio Emilia ne aveva proibito la detenzione. Ed è per lui, accusato di essere una figura strategica delle cosche emiliane legate al clan di Cutro, che Vincenzo decide di parlare. Per i giudici del primo grado, che lo avevano condannato a 19 anni (ridotti a 13 anni in appello), «grazie alla sua brillante carriera di imprenditore edile, alla sua incensuratezza, alla disponibilità di denaro e alla positiva immagine pubblica del figlio Vincenzo, noto giocatore della serie A di calcio e campione del mondo, rappresenta una delle figure maggiormente importanti, strategiche, all’interno del sodalizio criminoso». Insomma, un nome buono – e famoso – da spendere per ottenere potere. Ma il figlio, che a quelle accuse non ha mai creduto, non ci sta. «Il mio nome serviva per dare lustro a questo processo – racconta al Dubbio -. Ma noi con la ‘ ndrangheta non c’entriamo nulla. A noi la ‘ ndrangheta fa schifo».

Come si passa da Berlino ad un’aula di tribunale?

«È stato un percorso durissimo, iniziato, in realtà, prima dell’arresto, ovvero nel 2012, quando mio padre è stato escluso dalla white list e si è visto negare il porto d’armi che deteneva da 30 anni. Tutto per le frequentazioni con gente che aveva avuto problemi con la giustizia e per una cena, diventata famosissima a Reggio Emilia, alla quale mio padre partecipò. Per dimostrare la sua innocenza, su consiglio dell’avvocato Carlo Taormina, che allora ci seguiva, si è autodenunciato alla Dda di Bologna. Quell’anno c’era stato il terremoto, mio padre, che è imprenditore edile e ha sempre lavorato da solo con la sua società, dopo questo episodio non ha più potuto lavorare».

In che senso si è autodenunciato?

«Ha chiesto una verifica sulla sua attività, affinché accertassero che era tutto apposto. Questo è successo prima dell’arresto, quindi non poteva minimamente sospettare che ci fosse questa indagine a suo carico. Ha chiesto agli organi inquirenti che controllassero tutta la sua vita. Ma ha mai visto un mafioso autodenunciarsi?»

Cos’è successo nel 2015?

«Il 28 gennaio, giorno in cui lo arrestarono con l’accusa di 416 bis, è stato un fulmine a ciel sereno sulla mia famiglia. Dal 2012, quando si è autodenunciato, fino al 2015, nessuno è venuto a controllare, a fare un sopralluogo dal commercialista, nella società, nelle banche. Tutto è successo dopo il suo arresto e non è mai stato trovato niente di illecito. Mio padre non aveva 80 società, ne aveva una sola. Vive al Nord da 50 anni ed è venuto su con una valigia di cartone. Se vedesse dove viveva da bambino rimarrebbe scioccata».

Qual è la storia di suo padre?

«Come tanti altri calabresi, è andato via per cercare lavoro. All’età di 16 anni era partito con il fratello più grande per Milano e lì dormiva in una fabbrica. Poi si è trasferito a Reggiolo, dove ha iniziato a lavorare sotto padrone. Piano piano, si è reso conto di avere le capacità per farlo e ha costruito la sua impresa da solo. Così come la casa in cui viveva con mia madre: dopo una settimana di lavoro, passavano il sabato e la domenica a tirarla su. Poi ho avuto la fortuna di giocare a calcio e diventare famoso e conosciuto, campione del mondo. Ma secondo lei avevamo bisogno dei soldi della ‘ ndrangheta, con quello che ho guadagnato nel calcio? Avevo bisogno di mescolarmi con gente così? Nessuno mai nella mia famiglia ha avuto problemi con la giustizia».

La sua famiglia era comunque molto ricercata.

«Ci avvicinavano per chiederci una foto, una maglietta, un autografo. Quando sono diventato famoso io, per così dire, è diventato famoso anche il papà di Iaquinta. È sempre stato martellato. A Cutro ci conosciamo tutti, ma io in Calabria ci vado in vacanza. Mio padre ci andava una volta l’anno, perché ha la casa al mare, o ai funerali, ai matrimoni: è tradizione, è un contesto socioculturale diverso da quello emiliano. Perché devo dire di no a chi mi chiede una maglietta o una foto? Mio padre, anche durante il processo, ha sempre detto queste testuali parole: se conoscere qualcuno è reato, io sono colpevole».

Cosa gli viene contestato?

«Di essere partecipe all’associazione di ‘ ndrangheta dei Grande Aracri».

Ci sono reati fine?

«No, niente».

E come partecipe avrebbe preso delle decisioni?

«Nessuna. Io posso dire che mio padre è innocente. Non avrei fatto nemmeno questa intervista se avessi sospettato che anche una minima cosa potesse essere vera. Siamo entrati in un vortice più grosso di noi e a dire la verità non ce la faccio più. Ho fiducia nella giustizia, anche se tra primo e secondo grado è stato tutto davvero allucinante. Sono senza parole».

Lei ha vissuto il processo assieme a suo padre da imputato. Com’è stato?

«Il mio coinvolgimento ha una motivazione vergognosa: io devo pagare per quello che ho fatto, non per altre cose. Se devo pagare perché mio padre ha spostato le armi ok, lo faccio, ma non mi si può accusare di avere agevolato la ‘ ndrangheta. Da questa accusa sono stato assolto, ma prima mi è stato contestato l’articolo 7: avrei agevolato i clan con armi legalmente detenute. Sono stato io a dire, durante la seconda perquisizione, dove fossero. Mi dissero: non si preoccupi, sarà una cosa amministrativa. Dopo quindici giorni fui convocato in caserma e quando ho letto cosa mi contestavano stavo per svenire. Sono cose gravi per la mia famiglia, per i miei figli».

Parliamo della cena del 21 marzo 2012 con Giuseppe Pagliani, consigliere forzista di Reggio Emilia, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’accusa, quella cena fu convocata dai clan per organizzare la controffensiva alle interdittive antimafia.

( Risponde l’avvocato Muto) «È tutto documentato: Giuseppe Iaquinta rimase lì non più di 40 minuti. Ma al di là di questo, l’avvocato Giuseppe Pagliani per questo fatto è stato assolto. Era una cena pubblica, con giornalisti, poliziotti, avvocati, insomma quanto di più lontano da ragionamenti criminali. A Iaquinta viene contestato di essere in contatto con affiliati, ma i contatti con Gianluigi Sarcone ( che recentemente si è dichiarato colpevole dell’accusa di aver fatto parte dell’associazione mafiosa, ndr) in questi anni sono pochi. Il contatto più frequente è con Alfonso Paolini: lui e Iaquinta sono amici di infanzia e qui a Reggio Emilia hanno giocato per tanti anni insieme nella squadra di calcio degli emigrati calabresi, della quale Paolini era l’allenatore. E fino al 2015, per quanto ne sapesse Iaquinta, era una persona normale. Insomma, Iaquinta non era nemmeno consapevole di far parte dell’associazione. Frequentava queste persone perché venivano dal suo stesso paese. È vittima di un contesto socioculturale che nessuno può cambiare, tanto meno la magistratura».

Durante le sue frequentazioni non aveva notato nulla di strano?

«È stato intercettato per mesi, ma non è emerso nulla».

Viene contestato anche il cosiddetto “affare Blindo”, ovvero di aver ripulito dei soldi rubati all’estero.

«Secondo l’accusa mio padre avrebbe messo a disposizione 800mila dollari puliti prendendo in cambio un milione e 400mila euro sporchi, da dividere in due. Ma non è stato trovato alcun movimento in banca: non c’è stato. La verità è che chi ha davvero fatto questa operazione ha sfruttato il cognome di mio padre per accreditarsi».

Chi?

( Risponde l’avvocato Muto) «Romolo Villirillo, che conosce Iaquinta, per fregare la controparte disse: guarda che noi i soldi ce li abbiamo, perché abbiamo dalla nostra parte Iaquinta. È ovvio che Iaquinta è una parte economica accreditata, con un figlio che prende 3 milioni e mezzo di euro l’anno dalla Juventus! Ma non c’è nulla che provi il suo coinvolgimento. Niente».

C’è un altro fatto, che per l’accusa prova l’atteggiamento mafioso: in occasione del furto di due ombrelloni alla casa al mare in Calabria, Iaquinta avrebbe contattato un mafioso locale per lamentarsene e gli ombrelloni sono riapparsi in poche ore Come andarono i fatti?

( Risponde l’avvocato Muto) «Gli ombrelloni sono stati pagati. Iaquinta sentiva quotidianamente questo Paolini, perché erano amici fraterni. In una conversazione Paolini chiede: come andiamo questa mattina? E Iaquinta dice: niente, stamattina mi hanno rubato gli ombrelloni. Punto. Paolini chiama Villirillo ( che non ha nemmeno il numero di telefono di Iaquinta) per far sì che vengano restituiti gli ombrelloni. E Villirillo fa credere che questi ombrelloni vengono restituiti tramite il suo intervento, ovvero se ne vanta. Ma gli ombrelloni sono stati pagati, acquistati dalla famiglia Iaquinta dall’amministratore del villaggio dove si trova la casa al mare. Che a sua volta si vanta con Villirillo di averli fatti arrivare da Pisa, mentre invece, probabilmente, li aveva già in magazzino».

Quindi in tutto ciò per voi c’è un leitmotiv: chi parla di Iaquinta lo fa perché vuole sfruttare questo cognome altisonante.

«Assolutamente sì. E anche al processo lo hanno usato per fare pubblicità, perché ogni volta che si parlava di mio padre ci sbattevano in prima pagina. I giornalisti fanno il loro mestiere, ma a volte per un titolo shock non si preoccupano delle conseguenze».

Le era capitato, prima di quest’evento, di vivere il pregiudizio nei confronti dei calabresi?

«Mai. Adesso ci additano come mafiosi. La gente che ci conosce non ci crede assolutamente. Ma chi legge un giornale e non sa niente di noi si fa prendere dai dubbi».

Cosa ha significato tutto questo per lei?

«Hanno ferito la mia dignità, quella della mia famiglia, che è sempre stata umile. Anche dopo aver vinto un mondiale. Mia madre è morta nel 2019, era malata da cinque anni. Gli ultimi due anni si è dovuta curare senza il marito, che era in carcere. È stato una roba massacrante. Forse sarebbe morta lo stesso, perché aveva un male incurabile. Ma si è lasciata andare. Sto vivendo male, ma bisogna andare avanti, devo avere giustizia. Adesso attendiamo queste motivazioni».

C’è stato uno sconto di sei anni, rispetto al primo grado. Cos’è cambiato?

( Risponde l’avvocato Muto) «In primo grado, a febbraio 2018, era stata fatta una contestazione suppletiva all’associazione. Dal carcere, alcuni esponenti del clan continuavano a dare ordini, secondo l’accusa. I pentiti tirarono in mezzo anche Iaquinta, a cui venne così contestata la partecipazione all’associazione fino a febbraio 2018. In appello, però, è stato dichiarato parte dell’associazione fino a gennaio 2015. Quindi le accuse suppletive, che sono quelle per le quali è stato tradotto in carcere dopo il primo grado, sono cadute in appello. Subito dopo la sentenza, partendo da questo fatto, avevamo presentato istanza di scarcerazione, ma è stata comunque rigettata. Ma faremo ulteriormente ricorso».

( Risponde Iaquinta) «La Cassazione ci ha dato ragione sul cautelare, per mancanza di gravi indizi di colpevolezza. Stiamo parlando del nulla, perché a mio padre non hanno beccato né un giro strano di soldi né un appalto strano né una chiamata strana. Si basa tutto su supposizioni. Non c’è alcuna prova di un qualsiasi reato. Ma essere ‘ndranghetista porta qualcosa in cambio o è un gioco? È impossibile che mio padre sia in carcere da tre anni, lo stanno facendo morire. Una roba incredibile. E io non posso fermarmi».

Quando lo ha visto l’ultima volta?

«Dal vivo a febbraio dell’anno scorso. Ora solo in videochiamata. Mi ha detto che dopo il carcere c’è la morte. E per un innocente è ancora peggio, perché se uno ha fatto qualcosa è giusto pagare, ma da innocenti è terribile stare tra quelle quattro mura. Gli contesti due cene e lo metti tre anni dentro con i delinquenti veri? Perché lì ci sono delinquenti veri. Lui è forte, però ha paura. Si sta consumando».

Cos’è per lei la ‘ ndrangheta?

«Mi fa schifo. Non sapevamo cosa fosse, prima d’ora».

Cosa farà per dimostrare la sua innocenza?

«Siamo in mano alla giustizia. Per il resto, posso solo raccontare la verità, come sto facendo ora. Non so cos’altro fare. Ho ancora fiducia, ma allo stesso tempo paura. Non pensavo che la giustizia italiana fosse così. Sulle nostre vite hanno costruito un castello».

Processo Lombardo, in Tribunale c’è un grande assente: la prova. Sergio D'Elia, Antonio Coniglio su Il Riformista il 4 Maggio 2021. C’erano una volta le categorie oggettive, newtoniane di “spazio” e “tempo”: se l’orologio batte le tre, non è possibile dire che siano le ore sei. Poi è arrivata la relatività di Einstein e la meccanica quantistica ci ha insegnato che il “campo di osservazione” risente inevitabilmente del punto di vista dell’osservatore. È stata la fine di ogni sicurezza anche in campo processuale: come si fa, con una scoperta simile, ad avere un giudice terzo e imparziale se chi giudica è parte del teatro, se gli arbitri non esistono, se la realtà è una proiezione della nostra mente, se noi stessi creiamo un campo di osservazione? Che fare se la terra ruota pure intorno al sole, se il giudice non può tolemaicamente imporre più un modello, una verità rivelata, una inquisizione? Come fa un giudice a non restare schiacciato dalla meccanica dei quanti? La soluzione è stata lo Stato di Diritto. Ci si è inventati il principio di legalità, le fattispecie tassative e determinate, la colpevolezza solo oltre ogni ragionevole dubbio, la prova, il fatto di reato. Solo, entro queste colonne d’Ercole oggettive, entro il diritto e non oltre il diritto, il potere giurisdizionale ha una legittimazione. Se si spinge oltre il fatto, se nega la prova, se è sciolto da questi vincoli, diventa illegittimo, non è più potere. Raffaele Lombardo per esempio ha i baffi. Per l’accusa, che ha chiesto per lui 7 anni di carcere, non saranno probabilmente quelli saggi di Hemingway de Il vecchio e il mare, ma al massimo quelli da “corvo”, gotici, di Edgar Allan Poe, o peggio ancora quelli del padrino catanese: Nitto Santapaola. È così perché ogni pubblico ministero crea, in perfetta buona fede, “un campo di osservazione”. L’ex presidente della Regione Sicilia dicono che ami la caccia, abbia una collezione di fucili, baci poco forse perché sa che Giuda non era proprio un sentimentale. Dicono alcuni che sia algido, finanche anaffettivo, altri che sia generoso e appassionato. Per alcuni, ha fatto politica per cambiare le cose, per altri è stato solo un potente satrapo. Chi ci dice che l’accusa, parte di un processo, non sia condizionata dal punto di vista sull’uomo? Ciascuno di noi è condizionato dal proprio “campo di osservazione”. Quid est veritas? L’unico argine a questa relatività dilaniante è che l’accertamento penale, dopo le scoperte della fisica quantistica, non si occupi dell’uomo ma del fatto. Le scoperte di Heisenberg sono pure la fine della dottrina unicista delle dichiarazioni dei pentiti come prova. Perché la mente crea, ha una forza performatrice del reale. Il summit di Barrafranca, del quale parla il pentito Caruana, privo di uno straccio di riscontro, non potrebbe forse essere una creazione della mente di quest’ultimo? Non potrebbe essere una proiezione celebrale il racconto di Squillaci che, sottoposto a isolamento diurno, affacciandosi dal carcere di Opera ove era recluso, dialoga amabilmente con il boss La Rocca preoccupato per Lombardo? Non potrebbe essere un costrutto mentale la rivelazione del boss Di Dio che si sarebbe raccomandato senza fortuna a Lombardo per un debito? Essere una “inventio” la vana preghiera di Mirabile per la licenza di una pizzeria, un “campo di osservazione” personale l’affidamento di D’Aquino per una promozione in una cooperativa sociale? E Maurizio Avola fresco di intervista su La7 al cospetto di Enrico Mentana che si proclama l’ultimo che ha guardato negli occhi Paolo Borsellino prima della strage, smentito dai pm di Caltanissetta che giurano che quel giorno trovavasi a Catania con un braccio ingessato? Quid est veritas? Se la nostra vita fosse un grande fratello di Orwell, la verità sarebbe presto detta: basterebbe rivedere le registrazioni delle telecamere nascoste. Giacché questo non è percorribile, conta il fatto, contano i fatti di reato. Il calvario giudiziario di Raffaele Lombardo ha inizio nel 2006 proprio con Avola. Mai in oltre dieci anni si è rintracciato un favore concreto alla mafia in un appalto, una concessione suffragata da prova, mai un voto di mafiosi a Lombardo. E che significa? È in fondo un processo nel segno della fisica quantistica, di un campo di osservazione forgiato, plasmato, dalla mente dei pubblici ministeri e dei pentiti. Oltre dieci anni di archiviazioni, imputazioni coatte, assoluzioni, una condanna. Sino a un precedente su cui riflettere drammaticamente: la Procura di Catania impugnò in Cassazione, oltre i termini perentori, l’assoluzione dell’imputato avvenuta in appello, ma quell’impugnativa venne ritenuta ammissibile. Immaginate se, a parti inverse, fosse capitato a un povero avvocato di provincia: nel processo italiano, come nella fattoria degli animali di Orwell, ci sono “animali più uguali di altri”: i pubblici ministeri, i detentori del “campo di osservazione” che può diventare ius vitae ac necis: diritto di vita e di morte sulle persone. Eppure il rispetto di un termine perentorio è oggettivo, newtoniano. Se fosse stato rispettato quel termine, Lombardo sarebbe fuori dal processo già da qualche anno, ma Lombardo evidentemente, come tipo d’autore non come autore di reato, è un cattivo: va inquisito fino a condanna definitiva. Non tiene neanche conto quel “campo di osservazione” della lezione del Pinocchio di Collodi contro il manicheismo che si impara sui banchi di scuola. Ma di questo laicamente non si può far colpa a un pubblico ministero. Parla mangiafuoco, l’omone cattivo: «Bada Pinocchio, non fidarti mai troppo di chi sembra buono, e ricordati che c’è sempre qualcosa di buono in chi ti sembra cattivo…». Alla fine di questa storia, all’imbrunire dell’appello bis, in sede di dichiarazioni spontanee, il cattivo Lombardo (reso così dal “campo di osservazione”) ha preso la parola per due ore. Ha raccontato la sua vita, le sue amicizie, ha autoprocessato la sua intimità: «Ho candidato in quel calatino, considerato la terra del boss La Rocca, come sindaco l’ex procuratore generale Giacomo Scalzo, ho bloccato l’affare dei termovalorizzatori, ho fermato l’eolico ho fatto solo danni alla mafia». Ha chiesto alla corte di essere giudicato come uomo, non come caso politico. È la richiesta di un giudizio umano, troppo umano, in cui c’è tutto il dramma degenerante del processo italiano che diventa “il processo dei quanti”. In un processo classico, non da stato etico ma da Stato di Diritto, nel tribunale entra il reato, l’uomo resta fuori. Mentre, nell’esecuzione della pena secondo Costituzione, nel carcere entra l’uomo, il reato resta fuori. In Italia vige ormai un capovolgimento del Diritto e della Costituzione: la fattispecie di reato resta fuori, nel tribunale entra l’uomo, il tipo d’autore; mentre in carcere non entra l’uomo ma il reato a cui rimani crocifisso per sempre. L’imputato, avvolto in un’atmosfera in cui il diritto del fatto è stato dato in pasto ai capponi di Renzo, ha assunto forse consapevolezza che non si giudicheranno i fatti, perché i fatti non esistono: se giustizia ci sarà, si farà giustizia sulla storia dell’uomo. Lo sanno tutti ormai che il fatto penale è stato sostituito dal personale campo di osservazione dei pubblici ministeri, tanto da far dire al presidente Giovanni Maria Flick: «Da tangentopoli, la magistratura ha ritenuto di dovere perseguire anche i costumi. Non si giudica il fatto ma si guarda all’uomo: il corruttore, l’associato a delinquere, ossia il tipo di persona espressa da quel fatto.» E allora che ci sta a fare in quel processo d’appello la difesa, che ci stanno a fare Maria Licata e Vincenzo Maiello, avvocati di Raffaele Lombardo? Cui prodest aver dimostrato che non c’è alcuna intercettazione telefonica, ambientale, alcun favore alla mafia? Manca il fatto di reato, non esiste la prova? Conta il “campo di osservazione” costruito dall’accusa e il nuovo processo nostrano diventa un processo all’intimità. È finanche una seduta di psicoanalisi: un accertamento dei processi mentali, del temperamento, di “io”, “super-io”, “es”. Lombardo ridotto a Zeno Cosini, un paziente che si è sottratto alla cura antimafia che viene rigorosamente prescritta in Sicilia. Non avrebbe dovuto frequentare il popolo, gli umili, la fiera di Catania, ove può capitare magari di esser ripresi per caso con tizio parente di un mafioso. La mafiosità si contagia, ammorba chiunque, ha un indice RT che ricorda solo la peste nera di Atene. La mafia non è più un’organizzazione: è una cifra incorporea, una categoria dello spirito. Lombardo sarà condannato perché ha preso il morbo secondo i PM e va accompagnato dai monatti nel lazzaretto? Nel 600, i monatti, che trasportavano i malati dietro compenso, in tempo pestilenziale, erano persone condannate a morte o carcerate. In questa storia siciliana, i monatti sono tutti pentiti che hanno accettato l’appalto: è la “vendetta dei quanti”. D’altronde con l’energia nucleare, creata dalla quantistica, puoi far evolvere la civiltà o lasciare macerie: nel processo penale, il suo utilizzo può creare desertificazione. Quid est veritas? Pilato interrompe il dialogo: solo il potere decide che cosa si debba o non si debba essere (non fare). In Italia, il potere è quello giudiziario che, in nome dei “quanti”, crea il campo della condanna. Eppure, proprio a Catania, quando un magistrato ritenuto pazzo, Giambattista Scidà, denunciò, con il “caso Catania”, le impurità della magistratura catanese, i magistrati, divenuti improvvisamente imputati, chiesero di esser giudicati e archiviati in modo newtoniano, secondo i fatti, in nome dello Stato di Diritto. È la doppia morale: anche in questo, “ci sono animali più uguali degli altri”. Quello di Lombardo sembra in fondo un film di Dino Risi: “In nome del popolo italiano”. Il giudice Bonifazi inquisisce Santenocito, un imprenditore, per l’omicidio di una donna. Per il “campo di osservazione” di Bonifazi, Santenocito è un assassino, ma il togato viene casualmente in possesso di un diario redatto dalla giovane defunta che scagiona l’accusato. Che fare per il giudice: ignorarne il contenuto o dire giustizia in ossequio alla sua funzione? In quegli istanti la nazionale italiana vince un’importante partita contro l’Inghilterra e masse di tifosi si riversano nelle strade urlando. Bonifazi rimane vittima del “campo di osservazione” e vede idealmente i peggiori vizi dell’italiano cialtrone in Santenocito. È disgustato e decide di distruggere tra le fiamme il diario della ragazza, facendo condannare un innocente. La fisica quantistica è la scoperta più bella di sempre: basta un pensiero per creare le cose, per modificare il reale. Senza ciò, senza una mente creatrice, saremmo ancora al sistema schiavista, alla pena di morte. Se entra, però, nel processo penale nostrano, diventa una mascariata. Perché la mente può mascherare la realtà e, in nome del popolo italiano, distruggere un diario che scagiona, far strage di innocenti, mettere a morte l’innocenza dei Raffaele Lombardo gridata dai fatti. Oggi è ancora il tempo di Newton? Allora, che lo sia anche nel diritto penale. Almeno fino a quando, con Gustav Radbruch e Aldo Moro, non verrà il tempo “non di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale”. Sergio D'Elia, Antonio Coniglio

Per Raffaele Lombardo chiesti 7 anni: contro di lui solo parole, nessun reato. Antonio Coniglio, Sergio D'Elia su Il Riformista il 5 Febbraio 2021. Della compresenza di vita e di morte, della luce e del suo passaggio in ombra, del lutto che spesso segue al lusso, hanno scritto grandi pensatori, romanzieri e storici meridionali. Uno dei più sensibili e raffinati tra loro, Gesualdo Bufalino, conterraneo e amico di Leonardo Sciascia, una volta parlò proprio del “luttuoso lusso d’esser siciliani”. La concomitanza di vita e morte, di amore e odio, di chiaro e scuro, di ascesa e caduta, è l’essenza del luogo e dei suoi abitanti. La Sicilia è un caso più unico che raro. Meno che nazione ma più che regione, la Sicilia è un lusso e il suo non è un presidente qualsiasi, è un Governatore. Raffaele Lombardo è uno di questi. O meglio è stato. Fino a quando ai piedi del “vulcano buono”, mentre danzava la lava purpurea e si moltiplicavano i travisamenti, è comparso l’uomo cattivo, un killer di mafia che aveva ammazzato molto. Guardando in televisione i lineamenti saraceni e gli occhi normanni dell’ex governatore, Maurizio Avola si ricordò di lui. Affermò che quell’uomo politico aveva incontrato finanche il boss dei boss: Nitto Santapaola. Correva l’anno 2006 e il racconto, per stessa ammissione di Avola, era riferibile all’inizio degli anni 90. Si può pensare di fare riferimento a fatti di vent’anni prima in uno stato di diritto? Lo si può fare in Italia, dove non c’è più differenza tra il giudice e lo storico o meglio il giudice può anche pensare di scrivere la storia. I pentiti a volte si adeguano a questa ambizione storicistica ed è così che la memoria di Avola, sospesa per vent’anni, incontrò improvvisamente il guizzo dell’illuminazione. Si ricordò del volto del presidente della regione che, nei vent’anni precedenti, era stato appena assessore regionale agli enti locali, europarlamentare, vice sindaco, presidente della provincia di Catania, assiduo frequentatore quotidiano degli studi televisivi. Per Lombardo, da quell’anno duemilasei, il lusso di fare il presidente divenne un “lusso luttuoso” come spesso accade in Sicilia. E accade non per il gioco di un destino cinico e baro, ma per volontà di giocatori cinici e bari, procuratori e collaboratori di giustizia volti non a contrastare il male ma a maledire i cattivi, a ricercare non fattispecie di reato ma tipi d’autore, a perseguire non il fatto successo ma il successo o… l’insuccesso, quello che doveva succedere e non è successo: fare della Sicilia la terra promessa dei mulini a vento e dei treni a vapore. Di Lombardo, subito dopo Avola, si sono ricordati in tanti: uomini di mafia e pentiti della mafia. Poco importa se non esista una sola intercettazione telefonica e ambientale che lo veda protagonista. Conta il “dicunt”, quello di tacitiana memoria, per fare i processi nel nostro paese. Eppure i saggi siciliani ammonivano che la narrazione degli uomini, alla stregua del mare, è “tradimintusa”: può essere ambigua, insincera, a volte tradire. Ancor più se si parla di mafia e pentimenti. Non ci vuole Alessandro Manzoni per dire che il “torto e la ragione non si dividono mai con un taglio netto”, ma bisogna certamente appellarsi al nipote di Cesare Beccaria e alla sua “storia della colonna infame” per capire che la collaborazione con la giustizia è fondamentale ma non può essere risorsa assoluta ed esclusiva in un processo penale. Esiste una collaborazione che serve alle indagini perché ricostruisce da dentro la mafia, quella di Buscetta e dei primi pentiti per intenderci, i quali – per dirla con Leonardo Sciascia – sono uomini di mentalità intimamente mafiosa impauriti e amareggiati che, vedendo cadere intorno a loro amici e parenti, restituiscono i colpi ricevuti, si vendicano. Di loro, dei “pesci grossi”, che ricostruivano la mafia, lo scrittore di Racalmuto si fidava, li considerava attendibili. C’è un racconto dei fatti accaduti che si accompagna al ravvedimento e ce n’è un altro che è invece calunnia, impostura, alla stregua dei sicofanti che, in Attica, ammazzavano il nemico denunciandolo come ladro di fichi. Un unico argine ha inventato lo stato di diritto per non edificare nuove colonne infami: mai la parola dei pentiti può costituire l’unico elemento probatorio, mai è possibile condannare se manchi un fatto di reato che prescinda dal loro dire, dal loro verbo che da solo diventa una corsa senza fari nel cuore della notte. Accade invece che, nella città del “Liotro”, si svolga un processo d’appello in cui manca un fatto di reato e questo Raffaele Lombardo, divenuto suo malgrado un tipo d’autore, rischi di essere condannato solo sulla base di un giogo di favella, di semplici racconti e suggestioni, sulla cui base il procuratore generale, pochi giorni fa, ha chiesto la condanna a sette anni e quattro mesi. Capita per esempio che un soggetto di mafia, D’Aquino, riferisca di aver incontrato un uomo (allora) vicino a Lombardo e di avergli chiesto la promozione in una cooperativa sociale. Quell’uomo vicino a Lombardo è stato assolto, la promozione non è mai avvenuta, ma quelle dichiarazioni hanno assunto rilevanza nel processo a carico dell’ex presidente. I fratelli Mirabile accusano Lombardo di aver avuto rapporti con il boss di Caltagirone Ciccio La Rocca: nelle migliaia di intercettazioni che li vedono protagonisti non viene mai pronunciato il nome Lombardo. C’è poi Paolo Mirabile che racconta di aver incontrato il principe Scammacca, a suo dire proprietario di un maneggio, vestito da cavallerizzo, per chiedergli di intercedere presso Lombardo nientedimeno che per la licenza di una pizzeria. Non solo non c’è traccia dell’incontro ma soprattutto Scammacca (che non è principe) non ha mai avuto a che fare con un cavallo e un maneggio in vita sua. La trama surreale prosegue. Che dire delle dichiarazioni di un certo Nizza che afferma di aver votato per un giovane vicino a Lombardo? Quel giovane sarebbe il fratello di Lombardo che ai tempi aveva solo 48 anni. In Sicilia si consumano a volte miracoli: si consegna l’elisir di eterna giovinezza. Un altro di nome Digati, mafioso agrigentino, racconta ancora di aver votato il partito di Lombardo sin dal 2000 (quando era in mente dei) onde poi, per il principio aristotelico di non contraddizione, dire di aver sempre votato per forze politiche lontane dal politico di Grammichele. Lombardo avrebbe incontrato a palazzo d’Orleans il pentito Tuzzolino (condannato per diffamazione aggravata nei confronti di un magistrato e ritenuto di personalità istrionica e inattendibile) ma le telecamere di sorveglianza h 24 dell’edificio non lo hanno mai ripreso. Non c’è traccia ancora del presunto summit di Barrafranca a cui fa riferimento il pentito Caruana. Il figlio del boss Di Dio, ipotetico raccomandato di Lombardo per regolare una situazione debitoria in un consorzio di bonifica, non viene neanche ricevuto dai dipendenti del consorzio. Un certo Squillaci avrebbe sentito dire da La Rocca, nel carcere di Opera ove erano reclusi in sezioni diverse, che questi era preoccupato per Lombardo. Se ciò può assumere rilevanza in un processo penale siamo oltre il teatro dell’assurdo di Beckett. Altri pentiti, come La Causa, dicono che la mafia avrebbe votato per Lombardo ma non si capisce il quando, il come e il perché. Se la licenza per la pizzeria di Mirabile non è mai arrivata, se la promozione nella cooperativa sociale non è avvenuta, se il figlio di Di Dio non ha mai parlato con il direttore del consorzio di bonifica, se Bevilacqua – altro mafioso chiamato in causa – non è mai riuscito a far assumere una signora all’aeroporto di Catania, se l’appalto della “Tenutella” – altro cavallo di battaglia dell’accusa – non è mai finito nella mani della mafia, è lecito chiedere di cosa viene accusato Lombardo? Per quale motivo quattro “pesci grossi”, capi mafia di blasone, come Ferone (che ammazzò finanche la moglie di Nitto Santapaola), Malvagna, Pellegriti, Di Fazio (rappresentante provinciale della mafia a Catania), appena sentiti dopo l’elezione a presidente della regione, hanno riferito che Lombardo non aveva a che fare con la mafia? Può uno del calibro mafioso di Umberto Di Fazio non aver sentito parlare di Lombardo? L’interrogativo è inquietante: esiste un solo riscontro fattuale delle dichiarazioni che veda la presenza dell’imputato intento a delinquere? In un sistema liberale può bastare che un uomo accusi un altro e che quest’ultimo venga condannato? Se manca il fatto, il processo è medioevale. È il processo alle streghe in cui Caterina, la presunta strega, viene fatta morire, a colpi di tenaglie ardenti, sol sulla base di un’accusa di stregoneria che diventa, vera o no, delazione mortifera. È un sillogismo scriteriato in una Sicilia nella quale spesso – sosteneva Sciascia nel ricordo di Giovanni Falcone – “si nascondono i cartesiani peggiori”. La logica direbbe: se per noi Lombardo è un cattivo, come è stato possibile che non abbia commesso il reato? Il reato è “in re ipsa”: il reato è nell’autore anche se non è autore di reato. Ragionando così, il terreno giudiziario diventa però sicotico o addirittura sifilitico. L’unico rimedio costituzionale hahnemanniano resta il fatto, il fatto di reato. L’unico anticorpo rispetto a una degenerazione terribile e luciferina. Senza ciò, si dà vita a una razionalità, per dirla con gli amici di Leonardo Sciascia, formale e immorale che è piegata a uno scopo abominevole: “mangiare carne, cavalcare carne, comandare carne”. Il rischio è quello che non si accerti la verità processuale. Che non si “dica” giustizia ma si “faccia” giustizia. Dietro l’angolo non c’è l’Areopago, il tribunale di Atena, ma una carnezzeria, la corte delle Erinni.

Processo senza prove, per il Pm Raffaele Lombardo “Aveva la mafia dentro…” Antonio Coniglio, Sergio D'Elia su Il Riformista il 29 Novembre 2020. È il 29 marzo 2010 e sull’Esa, la sede catanese della presidenza della regione, come in un romanzo gotico, cala improvvisamente un velo di inquietudine. La vicenda giudiziaria, che condurrà alle dimissioni da presidente della regione Raffaele Lombardo, si abbatte improvvisa sulla terra di Sciascia. È la stampa a notificarla, per pubblici proclami, ai siciliani. L’indagato, che allora è l’inquilino di palazzo d’Orleans, apprende dalla carta stampata di rischiare l’arresto. Non basterà la smentita della procura intenta a negare ipotesi di misure cautelari. L’informazione plasma, orienta, crea, divide. I titoli sensazionalistici vanno in scena per mesi, per anni. Serpeggiano come un crocchio di manzoniana memoria. Ben 16 titoli di apertura del Tg1 delle ore 20 vengono dedicati al processo Lombardo e il direttore Minzolini viene censurato dal comitato di redazione per accanimento. I magistrati catanesi appaiono in disaccordo: un procuratore capo e un aggiunto (attuale procuratore capo di Catania) derubricano il reato a voto di scambio ma i sostituti non ci stanno. La questione finisce dinnanzi al Consiglio superiore della magistratura. Sull’imputazione decide un Gup che dispone l’imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa. Lombardo si ritrova coinvolto in un doppio binario, sotto processo per concorso esterno e per voto di scambio, con buona pace del ne bis in idem. Oggi, dopo una condanna di primo grado, una assoluzione in appello, un annullamento con rinvio della suprema corte di cassazione, l’appello bis di quel processo è alle battute finali. In quel sacco dalle pareti elastiche, manca sempre il tassello principale: qual è il fatto di reato commesso dall’ex presidente della regione siciliana? In cosa Lombardo avrebbe favorito la mafia e in cosa la mafia sarebbe stata favorita da Lombardo? È un processo indiziario che si fonda sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che irrompono nel bel mezzo del bailamme mediatico. I collaboratori raccontano di vecchi incontri, di summit, di collegamenti con il presidente della regione. Non c’è però una sola intercettazione telefonica o ambientale, nonostante il politico siciliano sia finito nel grande fratello di Gioacchino Genchi, nella quale si trovi un riscontro fattuale, che configuri il fatto di reato. I pentiti parlano, accusano ed entrano nel romanzo. Marco Pannella avvisava che, quando i giornali anticipano le notizie, c’è sempre il rischio che scatti la presunzione utilitaristica in chi collabora. Il collaboratore arriva dopo la notizia, sa di servire al processo e diventa egli stesso l’unica ancora del fatto di reato. I Pm argomentano che Lombardo sarebbe nato in un contesto mafioso e avrebbe studiato dai salesiani. Come il boss dei boss: Nitto Santapaola. Una sorta di destino cinico e baro, di predestinazione alle relazioni pericolose. Lombardo mafioso perché nato nel territorio di Ciccio La Rocca (che poi è pure il territorio di don Luigi Sturzo), Lombardo mafioso perché conosce il boss Rosario Di Dio che però è stato pure sindaco e avrà incontrato pure prefetti, vescovi e procuratori. Il boss si sarebbe presentato a un consorzio di bonifica, raccomandato da Lombardo, per regolare una sua situazione debitoria. Particolare non di poco conto: non sarebbe neanche stato ricevuto dai dipendenti della struttura. Lombardo mafioso perché i pentiti dicono che è amico loro ma forse ha pure tradito la mafia. E il fatto, il re del diritto penale? Pare per esempio, secondo l’accusa, che Lombardo avrebbe agevolato l’organizzazione criminale nell’assegnazione di un appalto per la realizzazione di alloggi per i militari di Sigonella. Il tentativo ipotetico, mai provato, non sarebbe andato a buon fine ma basta ciò per aprire le porte al sospetto. Il geologo Barbagallo, in odore di mafia, si lamenta telefonicamente di essere stato penalizzato da Lombardo e, per le elezioni regionali, giura di non esser passato neanche dalla sua porta ma è un altro elemento chiave del processo. Lombardo avrebbe avuto rapporti con il boss Bevilacqua talmente stretti da redarguire un tale Bonfirraro perché quest’ultimo sostiene alle elezioni il candidato vicino a Bevilacqua e non il suo. Il pentito Caruana parla del misterioso summit di Barrafranca che non lascia traccia come i beati paoli, il mafioso Palio dice che il clan cercava voti per il politico di Grammichele da prima del ‘98, tesi confermata dal super pentito Santo La Causa. C’è da interrogarsi su come sia possibile che le accuse del pentito D’Aquino agli uomini di Lombardo, per le quali questi hanno raggiunto l’assoluzione, possano ricadere misteriosamente sull’ex presidente della regione. E ancora se possano, in uno stato di diritto, assumere rilevanza i racconti del collaboratore Francesco Schillaci che avrebbe appreso, affacciatosi come Romeo dalle finestre del carcere di massima sicurezza di Opera, dal boss La Rocca che Lombardo era un fidato amico di quest’ultimo. Sembra di trovarsi dinnanzi alla preoccupazione paventata da Luigi Ferrajoli in La mutazione sostanzialistica del modello di legalità penale. Sembra di assistere a un reato di status e non a un reato di azione o di evento. Per cosa si dovrebbe punire Lombardo, quale fatto ha commesso? Per un summit nel quale non c’è traccia della sua presenza, un favore alla mafia mai provato? È come se, nella terra nella quale si è passati dalla “mafia non esiste” al “tutto è mafia”, il consenso debba essere sempre e comunque inficiato dalla mano mafiosa. E Lombardo di voti ha fatto man bassa in ogni competizione elettorale. Raffaele Lombardo è diventato un tipo d’autore. È il taterschuld, la colpa d’autore, la colpa per il modo d’essere. Ciò che conta è il modo di essere dell’agente, ciò che si ritiene l’agente sia. L’essenza della colpa d’autore sta nel rivolgersi alla psiche dell’uomo, alla sua mentalità. Lo stato non si interessa soltanto dell’azione esterna ma si arroga finanche il diritto di assurgere a stato etico. La potestà punitiva incide sulla sfera spirituale dell’individuo. È la fine della separazione tra diritto e morale: il tramonto dello stato di diritto. Come ha scritto Tullio Padovani: «L’oggetto del rimprovero di colpevolezza consiste nell’aver plasmato la propria vita in modo da acquisire una presunta personalità delinquenziale». Quando il caso giudiziario è esploso Raffaele Lombardo compiva 60 anni. Qualche giorno fa ha festeggiato il suo 70° compleanno. L’esperienza di un governo regionale venne interrotta ex abrupto e, per dieci anni, un uomo è stato sottoposto alla potestà punitiva dello Stato accompagnato dallo stigma della mafiosità. Il punto non è se l’ex presidente della regione siciliana abbia governato bene o male, se sia simpatico o antipatico, se sia gelido o affabile, se sia un riformatore o una macchina di consensi clientelari. La questione è il fatto: indicateci il fatto di reato! Sarebbe possibile condannare un uomo, chiunque esso sia, solo sulla base delle dichiarazioni dei pentiti? No, non è possibile. I posteri ci diranno quanto nell’affaire Lombardo, nel suo crucifige, abbia inciso la sua scelta di bloccare i termovalorizzatori in Sicilia, di scontrarsi con poteri più forti di lui. Questo è il giudizio storico ma la potestà punitiva deve attenersi rigorosamente al fatto e non può trattare i fatti come pesci sul banco del pescivendolo. A colpi di mannaia, di giudizi moralistici un tanto al chilo. Il giudice deve stare lontano dal verminaio delle passioni. Solo così non si scriveranno romanzi gotici ma si recupererà il senso più profondo dello “ius dicere”, dell’affermare il diritto. Oggi, sul processo Lombardo, a un passo dalla sentenza, occorre finalmente esercitare la virtù del dubbio. Senza la virtù del dubbio, il finale è già scritto. La chiusa non sarà una manifestazione di forza della prova giuridica, ma una prova di forza del “diritto del nemico”. È la terribilità – come ammoniva Sciascia – nemica del diritto e della giustizia, che condanna non per quel che si è fatto ma per quel che si è, che non ci libera dal male, ma ci libera dai “cattivi”.

Da "corriere.it" il 28 maggio 2021. È stato scarcerato il figlio del boss di mafia Tano Badalamenti, arrestato lo scorso anno per una condanna per stupefacenti maturata alcuni anni fa all’estero. I giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Palermo, condividendo la posizione dei legali di Leonardo Badalamenti (61 anni), hanno anche respinto la richiesta di estradizione del Brasile. Il timore dei giudici è che nelle carceri brasiliani badalamenti possa essere sottoposto a trattamenti disumani e degradanti. Il detenuto ha già lasciato il carcere di Pagliarelli, in cui era recluso dal 4 agosto 2020. L’uomo - figlio di don Tano Badalamenti (mandante del delitto di Peppino Impastato) - era stato arrestato in Italia in seguito al tentativo di prendere nuovamente possesso di un casolare, prima sequestrato e poi restituito dalla Corte d’Assise di Palermo. In Italia non ha maturato alcuna condanna, mentre la richiesta di estradizione riguarda una pena di 5 anni e dieci mesi per «traffico di sostanza stupefacente» emessa dal Tribunale di San Paolo. «Non è qui richiesto, ne ritenuto opportuno riportare le prove e le scansioni procedurali che hanno giustificato la condanna definitiva del Badalamenti», hanno scritto i giudici della Corte d’appello. «Nell’impossibilità di accertare che Badalamenti non sarà sottoposto a `maltrattamenti, torture e trattamenti crudeli, disumani e degradanti´ - scrivono i magistrati - e, anzi, nella ragionevole convinzione che tali condizioni in concreto si verificheranno, la richiesta di estradizione a parere di questa Corte deve essere rigettata». Il figlio di «don Tano» il 4 agosto 2020 fu arrestato dagli agenti della Dia (Direzione investigativa Antimafia). Nel corso del procedimento il sostituto procuratore generale Carlo Marzella ha espresso parere favorevole all’estradizione, mentre legali gli avvocati Baldassare Lauria e Nino Ganci, avevano chiesto degli accertamenti istituzionali sulle condizioni carcerarie in Brasile e nello stato di San Paolo. La Corte, oltre ai report di organizzazioni non governative come Amnesty International o l’Unhcr, ha acquisito anche dei documenti inviati dall’Ambasciata del Brasile. Secondo i giudici, tuttavia, le informazioni ricevute per via diplomatica erano «assolutamente generiche», tanto che «non vengono indicate le misure `dell’alloggio´, ne `il numero degli occupanti´ evidenziando l’assenza di «informazioni `individualizzate´ sul regime di detenzione che sarà riservato in concreto all’estradando».

Lo Stato scongiuri la beffa dei Badalamenti. Gian Carlo Caselli su Il Corriere della Sera il 16/1/2021. Il Corriere di venerdì 15 gennaio racconta un paradosso che nella prosa di Pirandello o Sciascia avrebbe potuto essere divertente, mentre Felice Cavallaro — da buon cronista — ne fa un resoconto da brividi. La storia è quella di un caseggiato di don Tano Badalamenti , condannato all’ergastolo per l’omicidio di Peppino Impastato, «colpevole» di aver osato dileggiarlo chiamandolo «Tano seduto» e accusandolo pubblicamente di essere un pericoloso criminale mafioso. Il caseggiato viene confiscato in forza della normativa antimafia e l’Agenzia dei beni confiscati lo affida al sindaco di Cinisi, non più feudo dei Badalamenti. Il sindaco (avvocato di parte civile in processi di mafia) ottiene un finanziamento europeo di 400.000 euro impiegati per ristrutturare l’immobile da affidare in parte a «Casa memoria», che con iniziative destinate soprattutto ai giovani si propone di tener vivo il ricordo di Peppino Impastato. Quando i lavori sono in pratica ultimati, ecco che il figlio del boss, Leonardo (inquisito dalla magistratura brasiliana per traffico di stupefacenti: buon sangue non mente...) pretende dal sindaco le chiavi dell’immobile. Il rampollo sessantenne di don Tano sostiene di aver dalla sua una sentenza eseguibile, secondo il sindaco invece mai notificata al Comune. Leonardo involontariamente rivela che le cose non sono le stesse dei tempi del padre: questi avrebbe risolto il problema con i soliti metodi «spicci»; a differenza del figlio mai sarebbe ricorso agli odiati «sbirri». Che fa la Procura di Palermo? Apre un fascicolo contro il sindaco e lo fa interrogare dai carabinieri di Cinisi. Tutti sanno che la mafia vive anche di segnali. E per i cittadini di Cinisi «nostalgici» del passato, di certo è un forte segnale lo spettacolo di un sindaco che entra ed esce da una caserma per difendersi da una denunzia del figlio di don Tano, dopo aver ristrutturato con fondi europei un immobile consegnatogli dall’agenzia nazionale dei beni confiscati alla mafia. In Procura, nota Cavallaro, «sussurrano atti dovuti». Ma — dovuti o non dovuti — sono atti che in ogni caso pongono alcuni interrogativi. Primo: si è verificata preliminarmente l’effettiva eseguibilità della sentenza sbandierata dal figlio del boss, investendo — magari per il tramite del procuratore generale — la magistratura competente? Non conosco la sentenza (il tempo di farlo è per ora mancato), ma voglio sperare che in ballo non vi sia l’antica e arcisuperata questione della validità della confisca post mortem del mafioso «proposto». Sarebbe ben strano, posto che dall’entrata in vigore del Codice antimafia (2011), la legge lo consente espressamente, come del resto la giurisprudenza (Sezioni unite della Cassazione) aveva già affermato dal 1996 e ribadito più volte in seguito, in ciò confortata dalla Corte Costituzionale (2012). Secondo: sempre preliminarmente, si è chiesto a Leonardo Badalamenti se abbia depositato, o intenda farlo, una somma pari ai fondi europei usati per ristrutturare l’immobile, come indennizzo per l’ingiusto arricchimento che vi sarebbe nella denegata e malaugurata ipotesi di accoglimento della sua pretesa? Non può non essere di tutta evidenza, infatti, che registrare la sua denunzia senza nulla eccepire, sviluppandola anzi immediatamente, equivale ad innescare un meccanismo perverso: com’è anche solo l’eventualità del ritorno alla famiglia Badalamenti di un bene confiscato per mafia, ristrutturato con soldi europei e destinato a fini socialmente utili, senza alcun indennizzo. Un corto circuito che va assolutamente evitato, anche coinvolgendo tutte le Autorità pubbliche — nazionali e regionali — interessate, in quanto incompatibile con una giustizia giusta che rifugga da atteggiamenti astrattamente burocratici e si faccia carico del risultato migliore per il bene comune. Altrimenti, oltre al danno le beffe. Per i Badalamenti un trionfo! Uno smacco per l’antimafia dei fatti e gran letizia di coloro che predicano come nulla in realtà cambi... Cui prodest?

Di vaccini, Recovery e rischio infiltrazioni criminali. L’antimafia non diventi antiSud. Aldo Varano Il Dubbio il 10 gennaio 2021. Il Recovery dovrebbe modificare in modo drastico questo quadro. Impossibile credere che tutto ciò non solleciti gli appetiti mafiosi. Ma sarebbe un disastro, perfino maggiore, se questa preoccupazione dovesse bloccare o anche solamente rallentare investimenti e imprenditoria. Il Recovery dovrebbe modificare i le sorti del Sud. Impossibile credere che non solleciti gli appetiti mafiosi. Ma sarebbe un disastro, se questa preoccupazione dovesse bloccare gli investimenti. La paura delle mafie non deve fermare gli investimenti al Sud. «Nell’attuale fase pandemica la criminalità sembra aver orientato i propri interessi sull’indebita percezione delle rilevanti e diversificate misure economiche di sostegno disposte dal governo e, prevedibilmente, sulle future risorse che saranno garantite nell’ambito del Recovery Fund». È un passo del Report 4 dell’organismo permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio d’infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, elaborato sotto la direzione del prefetto Vittorio Rizzi responsabile del settore al Viminale. Che autorità e tecnici preposti lancino l’allarme e mettano in guardia su quel che potrebbe accadere nella fase drammatica che il paese attraversa è il minimo che si possa e si deve fare. Se poi dall’avviso si procede per deduzione logica o si tira a indovinare e a spaventare si arriva alle mani mafiose sulle siringhe e al controllo delle mafie sui vaccini. Ma si fa, in questo caso, solo disinformazione e confusione che alla fine, possono confondere tutti quando arriva il pericolo vero. Ed è questo che sta accadendo. Intanto, le dichiarazioni del Ministero dell’Interno vanno prese nell’insieme. E l’insieme dice che «A livello generale, negli undici mesi del 2020 ( 1° gennaio/ 30 novembre) è stata registrata una flessione del 20,9% dei reati, passati da 2.116.136 del 2019 a 1.673.208». Insomma, anche durante i mesi tragici del 2020 e nel pieno della pandemia s’è realizzata una diminuzione dei reati, un incivilimento del paese che da questo punto di vista continua a migliorare. E’ un dato, quello dei primi 11 mesi del 2020, coerente con quanto avviene da un periodo lungo che vede nel nostro paese, ma anche a livello internazionale, un abbassamento complessivo dei reati con la sola eccezione del cybercrime in netta contrapposizione ( in Italia i reati informatici, nello stesso periodo di cui stiamo discutendo, sono cresciuti del 32,7%). Nello stesso periodo sono stati commessi 244 omicidi ( 55 persone in meno rispetto al 2019), anche se, punto che merita particolare attenzione e allarme, cresce l’incidenza percentuale delle donne sul dato complessivo ( 102 nel 2020 e 103 nel 2019). Diminuiscono gli omicidi in ambito familiare e affettivo ( da 143 del 2019 a 132 del 2020), ma aumentano quelli di donne ( erano 88 nel 2019 mentre sono state 91 nel 2020). Il Ministero dell’Interno, diversamente dai social, è molto cauto. Ipotizza che le mafie possano intrufolarsi nel disagio. Lancia l’allarme anche se si cautela con un esplicito “sembra” piazzato fin dal primo rigo dell’argomentazione. Evidente il complicato obiettivo di mettere in guardia e, insieme, evitare allarmismi che potrebbero creare problemi allo sviluppo del nostro paese. Si mette in allarme perché le mafie nel nostro paese ci sono, esistono, operano. Si frenano gli allarmismi che potrebbero frenare la spesa e la gigantesca occasione del Recovery, soprattutto nel Mezzogiorno. Il Recovery dovrebbe rivoluzionare la situazione proprio nel Sud per promuovere uno sviluppo capace di avvicinare il suo Pil a quello del Centro-Nord. E’ questo, secondo i maggiori esperti di economia, uno dei punti chiave per rilanciare l’Italia che viene distanziata nella produzione della ricchezza dagli altri grandi paesi europei. Un fenomeno evidente da ben prima dell’esplodere della pandemia. Il cuore della difficoltà evidenzia che il Nord ha rallentato lo sviluppo mentre a Sud s’è registrata una netta regressione dovuta prima di tutto alla sua mancata infrastrutturazione. I due fenomeni insieme stanno bloccando l’Italia. Il Recovery dovrebbe modificare in modo drastico questo quadro. Impossibile credere che tutto ciò non solleciti gli appetiti mafiosi. Ma sarebbe un disastro, perfino maggiore, se questa preoccupazione dovesse bloccare o anche solamente rallentare investimenti e imprenditoria. Ma notizie rassicuranti arrivano dal Ministero per il Sud: la quota della parte investimenti per il Sud, trasversale a tutte le missioni e i progetti previsto dal Piano Recovery del governo italiano, ammonta al 50 per cento. È questo – secondo quanto si apprende – il calcolo fatto dalle valutazioni realizzate insieme al Ministero dell’Economi. Il paese deve attrezzarsi per spendere tutti i finanziamenti disponibili e recuperabili sapendo che mentre spende un flusso speriamo inedito di quattrini nel Mezzogiorno bisognerà tenere gli occhi parti perché non un solo euro finisca nelle mani delle mafie. E’ difficile, ma non impossibile.

Antonio Polito per corriere.it il 10 novembre 2021. Ci sono vicende della politica italiana che nascono nel segno del mistero, della trama, e lì restano per sempre. Speriamo che non faccia questa fine anche la vicenda della mancata nascita del Conte ter. Ricordiamo tutti che, quando Renzi fece cadere il governo giallorosso, o giallorosa se si preferisce, si creò un fronte molto attivo per ottenere la riconferma per la terza volta, con una terza diversa maggioranza, dell’avvocato pugliese. Per riuscirci, si cercarono freneticamente voti sparsi in Parlamento, una riedizione della saga dei «Responsabili» lanciata ai suoi tempi da Berlusconi. Poi non se ne fece niente, e Mattarella chiamò Draghi. C’è ora una pagina del nuovo libro di Vespa, Perché Mussolini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando), che apre nuovi inquietanti squarci su quei giorni convulsi. Vespa infatti racconta, sulla base di informazioni evidentemente di prima mano, che Lorenzo Cesa decise di dire no alle offerte di Conte perché questi si rifiutò di passare prima per una crisi di governo, considerata da lui invece indispensabile per giustificare il sostegno del suo gruppo. «Cinque giorni dopo, all’alba di mercoledì 21 gennaio — racconta Vespa — uomini della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro per ordine del procuratore Nicola Gratteri, perquisivano l’abitazione romana di Cesa contestandogli il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso». E se questa coincidenza può essere certamente casuale e giustificata solo dalle esigenze dell’inchiesta giudiziaria, più inspiegabile è la successiva: «Subito dopo la perquisizione, il segretario dell’Udc ricevette la visita di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». Non sarebbe la prima volta che pezzi dei Servizi tentano di influire sulla dialettica politica e parlamentare. Ma sarebbe interessante sapere, almeno, chi. 

Il passo indietro di Gratteri: Cesa non ha favorito le cosche. Il gip di Catanzaro archivia la posizione dell'ex segretario dell'Udc, dimessosi a seguito dell'avviso di garanzia nell'operazione "Basso profilo". A chiedere la sua archiviazione la stessa procura. Il Dubbio il 20 novembre 2021. Il giudice per le indagini preliminari di Catanzaro ha archiviato la posizione di Lorenzo Cesa, ex segretario nazionale dell’Udc, nell’ambito del procedimento scaturito dall’operazione “Basso Profilo”. Un’archiviazione chiesta dalla stessa procura guidata da Nicola Gratteri, che a inizio anno aveva evidenziato i rapporti tra le cosche della ’ndrangheta del Crotonese, imprenditori ed esponenti politici, ricostruendo alcuni incontri che lo stesso segretario avrebbe avuto nel 2017 con un imprenditore ritenuto legato alla cosca, nel periodo in cui era europarlamentare. Cesa, che in seguito all’avviso di garanzia rassegnò le dimissioni da segretario del partito, era accusato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso. Secondo il giudice delle indagini preliminari Valeria Isabella Valenzia, invece, non vi sono agli atti «elementi sufficienti in merito alla riconducibilità agli indagati dei reati ipotizzati e più in generale in ordine a un loro fattivo coinvolgimento nei fatti oggetto di indagine». L’inchiesta si era abbattuta sulle trattative allora in corso per salvare Giuseppe Conte. Il segretario nazionale dell’Udc era indagato per una frequentazione con l’imprenditore Antonio Gallo e con Tommaso e Saverio Brutto, tre degli indagati. Il M5S, all’epoca, erano a caccia dei “responsabili”, tentando di fare entrare in maggioranza anche i colleghi dell’Udc. L’inchiesta, però, scombinò i piani. Durante il blitz, che fece finire agli arresti 48 persone, gli uomini della Dia eseguirono, alle prime luci dell’alba, una perquisizione a casa di Cesa. Al centro dell’indagine una vicenda di appalti in cambio di voti. All’ex segretario Udc veniva contestato anche di essere stato a pranzo con alcuni degli indagati, legati alla ’ndrangheta, al fine di discutere dell’assegnazione di appalti. Al segretario nazionale venivano contestati, assieme a quello regionale calabrese e allora assessore regionale al Bilancio Francesco Talarico (ad ottobre condannato a cinque anni in abbreviato), i reati di turbativa d’asta, corruzione e abuso d’ufficio (agendo in questo caso nella veste di istigatori). «Gli elementi indiziari, unitamente ai gravi indizi di colpevolezza dei reati (fine) – scriveva allora il Gip – integrano la gravità indiziaria del delitto associativo, intesa quale associazione per delinquere capeggiata dal Gallo (Antonio, ndr) e costituita al fine di commettere una serie indeterminata di delitti». Per il Gip, dunque, «nell’ambito della societas sceleris sono individuabili» i ruoli di Cesa e Talarico quali «partecipi», con la centralità della figura di Gallo, principale indagato. Si tratta di colui che la Dda identifica come «il jolly», in grado di rapportarsi «con i membri apicali di ciascun gruppo mafioso non in senso occasionale e intermittente ma organico e continuo». L’incontro fra Cesa, Talarico, Tommaso Brutto, consigliere comunale di Catanzaro, e suo figlio Saverio, assessore in un Comune del catanzarese, con l’imprenditore Antonio Gallo, figura considerata centrale per i suoi rapporti con «famiglie» di ’ndrangheta non solo del crotonese, sarebbe avvenuto in un ristorante di Roma il 7 luglio 2017. Il gruppo calabrese, secondo quanto emerso dalle intercettazioni, sperava di ricavare da Cesa, grazie al suo ruolo di europarlamentare, appalti da parte di enti pubblici, ma anche possibilità di investire in Albania e nell’est Europa. Talarico, in quanto segretario dell’Udc, avrebbe fatto da tramite con Cesa nella speranza di ottenere da Gallo l’appoggio elettorale per le politiche del 2018. Secondo l’accusa, Cesa, all’epoca dei fatti eurodeputato del Udc, d’intesa con Talarico, si sarebbe impegnato ad appoggiare il gruppo per soddisfare le mire dei sodali nel campo degli appalti, condotte che avrebbero contribuito a salvaguardare gli interessi delle cosche dell’alto jonio catanzarese e del basso jonio crotonese, alle quali Gallo sarebbe stato legato. Ma oggi il ruolo di Cesa è stato riconsiderato, al punto che la stessa procura ha ammesso, con la sua richiesta, di aver sbagliato. «L’archiviazione è un epilogo scontato per chi conosce l’uomo e il politico Lorenzo Cesa. Restano amarezza e dubbi su una vicenda che ha influito pesantemente sulla vita personale del segretario dell’Udc e in qualche maniera sulle vicende politiche nazionali», ha commentato Mimmo Turano, assessore alle Attività produttive della Regione Siciliana ed esponente dell’Udc.

L'inchiesta e il giallo. Lorenzo Cesa, massacrato e assolto: finiscono nel nulla le accuse di Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Lorenzo Cesa? «Siamo sicuri al cento per cento che ne uscirà completamente scagionato». È accaduto nei giorni scorsi, con l’archiviazione del gip, e sono passati dieci mesi. E noi lo scrivevamo il 27 gennaio scorso, mentre raccontavamo il blitz del procuratore Gratteri, impegnato in un’operazione di nome “Basso profilo” . Basso lo era sicuramente il profilo. Ma: «Trecento poliziotti, dieci elicotteri per catturare… titoli sui giornali», era stata la sintesi del Riformista. Perché il nome del segretario dell’Udc, indagato per associazione mafiosa, era lo specchietto per le allodole per trasformare una modesta inchiesta locale calabrese in eclatante fatto di politica nazionale. È spesso così, con il procuratore Gratteri. Già in quel periodo si lamentava perché le sue inchieste, sempre gridate nelle conferenze stampa, non riuscivano a conquistare le prime pagine dei quotidiani nazionali. La stampa locale non gli bastava, perché tutta la sua attività giudiziaria era contornata da toni roboanti e gloriosi destini. Così quel giorno ci era riuscito. Se mettiamo a confronto il trafiletto di tredici righe a pagina 19 del Corriere di domenica scorsa con la notizia dell’archiviazione di Lorenzo Cesa dall’accusa di essere un mafioso con lo stesso quotidiano del 22 gennaio, c’è da arrossire. L’apertura della prima pagina era rafforzata da servizi di cronaca, commenti e una bella intervista al dottor Gratteri. Il quale nello stesso giorno si era concesso anche a Repubblica. Per dire (a reti unificate, si sarebbe detto una volta, perché a lui piace parlare al mondo intero) che «È quello che avevamo visto arrivare vent’anni fa: la ‘ndrangheta che si traveste da imprenditore. E bussa alla politica. E la politica, per lo meno una parte importante di essa, risponde. Aprendo la porta». Parole molto chiare, da cui si deve dedurre che il principale titolare dell’inchiesta credeva veramente (sarebbe gravissimo il contrario) nella responsabilità penale di Lorenzo Cesa. Della sua partecipazione a una cosca mafiosa. Se no, chi sarebbe stato il politico che aveva “aperto la porta” alla ‘ndrangheta? Certo che, persino per uno come il procuratore Gratteri, che si vanta in continuazione di essere diverso dai suoi colleghi, perché lui non si occupa di politica e non appartiene a nessuna corrente del sindacato delle toghe, il momento sembrava proprio scelto con cura. Che cosa succedeva infatti nello scorso gennaio? Il governo Conte-due era caduto per mano di Italia Viva e l’ex presidente del Consiglio con tutti i suoi amici giallorossi era alla ricerca disperata di voti parlamentari “responsabili” per restare in sella con un Conte-tre. I quattro senatori dell’Udc facevano gola. I telefoni di Cesa squillavano in continuazione. Finché lo squillo non trillò con l’informazione di garanzia che bollava il possibile capo dei “responsabili” come mafioso. Come se ciò non bastasse, erano partiti in quarta Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista a dire che loro con la ‘ndrangheta non volevano aver nulla a che fare. Lo stesso segretario dell’Udc del resto si era affrettato a dimettersi dal suo ruolo.

E Nicola Gratteri? Le sue parole erano state sconcertanti. Prima aveva detto che nella notte aveva saputo che Cesa non poteva aiutare Conte perché era all’opposizione. Poi che lui aveva solo calcolato di non fare il blitz durante le elezioni regionali della Calabria, la cui data però veniva continuamente spostata in avanti. Insomma, era apparso come un gran pasticcione. Uno fuori dal mondo della politica. Però la storia recente ci dice qualcosa di stuzzicante, di particolare. E pone qualche domanda. Come mai un politico accorto ed esperto come Lorenzo Cesa nei giorni scorsi, proprio alla vigilia dell’archiviazione della sua posizione processuale, ha confidato a Bruno Vespa, il quale l’ha riportato nel suo libro (Come Mussolini rovinò l’Italia e come Draghi la sta risanando), di un incontro con uno 007 nei giorni dell’incriminazione? E del fatto che questo agente segreto gli avesse detto che l’indagine sarebbe finita in niente ma che lui avrebbe dovuto comportarsi “con saggezza”? È chiaro che questa storia non può finire così, né sul piano politico né su quello della politica giudiziaria. Perché qui stiamo parlando dell’innocenza di Cesa, ma non dell’innocenza degli inquirenti o dei servizi segreti. Perché molte cose non quadrano fin dall’inizio.

Che dentro la bolla di sapone dei trecento poliziotti e dieci elicotteri impegnati nel blitz di quel 21 gennaio non ci fosse che aria lo si era capito subito anche dal modesto uso della custodia cautelare (13 indagati in carcere, 35 ai domiciliari, poi ancora ridimensionati in obbligo di dimora dal tribunale del riesame), giustificata sostanzialmente dal reato di associazione mafiosa. Su cui la vera notizia è che, nella sentenza della prima branca del processo con rito abbreviato di un mese fa, l’articolo 416 bis del codice penale è sparito nei confronti di 19 imputati su 21. Quindi chi sono i boss che hanno bussato alla porta della politica e chi l’ha aperta? Il segretario dell’Udc era stato coinvolto nell’inchiesta “Basso profilo” per via di un pranzo cui aveva partecipato a Roma al ristorante “Tullio” negli ultimi mesi del 2017, quando lui era parlamentare europeo. Era stato coinvolto dal referente del suo partito, l’Udc, in Calabria, Francesco Talarico, assessore regionale, che voleva candidarsi alle elezioni politiche del 2018, e che era appoggiato da un consigliere comunale di Reggio, Tommaso Brutto, dal figlio Saverio e da un imprenditore di nome Antonio Gallo.

Il punto debole dell’inchiesta era ed è che, se pure nelle carte si trovano intercettazioni tra queste persone nei giorni precedenti, non c’è quella che riporti la conversazione tra i cinque al famoso pranzo. Per un motivo molto semplice, che viene spiegato dallo stesso dottor Gratteri. Cesa era parlamentare europeo, quindi il trojan inserito nel cellulare di Brutto, venne spento. Quindi non si sa di che cosa i commensali abbiano parlato. Dalle conversazioni precedenti si intuisce che l’assessore Talarico intendesse rafforzare la propria posizione di candidato (resterò fuori dal Parlamento per soli 1.500 voti) agli occhi dei propri sostenitori con la presentazione di un personaggio importante come l’onorevole Cesa. Del resto, le richieste dei tre erano molto modeste, e riguardavano posticini di lavoro nell’ambito istituzionale. Nelle carte dell’inchiesta si parla della speranza di partecipazione a gare d’appalto per l’imprenditore, ma in modo molto generico e non confermato.

Che il nome di Lorenzo Cesa fosse utile solo ai titoli di giornale e che la sua posizione sarebbe stata archiviata lo abbiamo detto subito e lo ripetiamo. Resta da capire –oltre al fatto che una persona perbene è stata ingiustamente indagata per mesi come appartenente a cosche mafiose- se il tutto sia da ricondurre solo alla vanità di qualche inquirente. O se invece, come avrebbe lasciato capire il signor “barbafinta” che andò a trovare il segretario dell’Udc proprio mentre lui era sospettato di essere un mafioso, ci fosse dell’altro. Di molto politico, ma anche di molto inquietante. Anche perché il dottor Gratteri è candidato a diventare nei prossimi mesi il capo nazionale dell’antimafia.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

L’Arma gli ha tolto gradi e stipendio. Degradato e licenziato senza condanna, il colonnello Naselli “vittima” di Gratteri e Rinascita Scott. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Novembre 2021. Vi ricordate del colonnello dei carabinieri Giorgio Naselli, l’ex comandante provinciale di Teramo arrestato a dicembre del 2019 nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita Scott” condotta dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri? È stato prima degradato e poi licenziato. E tutto ciò senza che ci sia stata una sentenza di condanna, neppure in primo grado, e con la Cassazione che aveva addirittura annullato l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti. Breve riassunto per chi si fosse perso qualche passaggio di questa storia. Naselli viene arrestato all’alba del 19 dicembre del 2019 con l’accusa di associazione mafiosa e rivelazione di segreti d’ufficio in concorso con Giancarlo Pittelli, avvocato calabrese e parlamentare di Forza Italia. Insieme a loro altre 332 persone in quella che Gratteri definisce «la più grande operazione antimafia dopo il maxi processo di Palermo». Naselli e Pittelli si conoscono da tempo, in quanto il colonnello dal 2006 al 2017 aveva lavorato in Calabria ricoprendo l’incarico di comandante del Reparto operativo di Catanzaro. Secondo Gratteri, Pittelli, dopo aver avuto da Naselli la notizia “segreta” di una interdittiva antimafia in arrivo ai danni di un certo Rocco Delfino, l’avrebbe comunicata all’interessato. Piccolo particolare: la notizia era pubblica. Pittelli, nel frattempo diventato avvocato di Delfino, avrebbe quindi chiesto un favore a Naselli. La pistola fumante sarebbe l’intercettazione dove il colonnello risponde a una domanda di Pittelli sulla situazione di Delfino. Spiega che è complicata e poi dice: «Eventualmente lasciamo decantare la pratica». Da questa frase gli investigatori deducono che Naselli abbia promesso a Pittelli un rinvio sine die del provvedimento. Peccato che il provvedimento era stato eseguito esattamente sei giorni dopo la telefonata. Ma di questo nell’ordinanza di arresto non c’è traccia. Capita. Naselli, classe 1967, accademista e fino a quel momento destinato ad una prestigiosa carriera, viene allora tradotto da Teramo al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Assistito dagli avvocati Gennaro Lettieri e Giuseppe Fonte presenta ricorso per la scarcerazione al Tribunale del riesame, ottenendo però la sostanziale conferma del quadro accusatorio. Lettieri e Fonte si rivolgono alla Cassazione che a luglio del 2020 smonta in radice tutte le accuse, scarcerando Naselli, in quanto «l’aggravante agevolativa dell’attività mafiosa ha natura soggettiva e si applica al concorrente solo se da lui conosciuta». «La pronuncia non lascia scampo alla ipotesi accusatoria, definitivamente demolita», commentò soddisfatto Lettieri. «Il colonnello Naselli – aggiunse l’avvocato – viene restituito alla libertà, con piena dignità ed immutato onore, che nessuno della nostra comunità, in realtà, aveva mai messo in dubbio. Naselli è stato “punito” senza alcuna colpa e senza alcuna verità, sacrificando i valori di civiltà e di certezza del diritto» . «La giustizia in questo paese trionfa, ormai, soltanto dopo i suoi grandi fallimenti», aveva quindi concluso Lettieri. L’avvocato, presidente della Camera penale di Teramo, non aveva però fatto i conti con Gratteri e con l’Amministrazione militare. Invece dell’archiviazione a Naselli arriva dopo poco dalla Procura una bella richiesta di rinvio a giudizio e dal Comando generale la comunicazione del procedimento di stato per la sua degradazione sul campo. La scala gerarchica, pur senza alcuna sentenza di condanna, aveva deciso di aprire nei suoi confronti un procedimento disciplinare di “stato”, quindi per accertare se potesse rimanere nei carabinieri, continuando ad indossare sulle spalline i gradi di colonnello. Forti della pronuncia della Cassazione, gli avvocati erano fiduciosi del risultato finale. La Commissione disciplinare, composta da cinque generali nominati dal comandante dell’Arma, purtroppo per Naselli, lo scorso dicembre non ha seguito la Cassazione rimanendo ferma alle iniziali accuse di Gratteri. Risultato: licenziamento in tronco e perdita del grado. Da colonnello a soldato semplice per aver leso il prestigio ed il decoro dell’Arma. Ovviamente senza stipendio. L’ormai ex colonnello, con quattro figli, ha impugnato quindi il provvedimento davanti al Tar del Lazio. L’udienza era stata rinviata più volte perché l’Avvocatura dello Stato non depositava le memorie. Alla fine il Tar confermerà la decisione. L’ultima parola spetterà ora al Consiglio di Stato. A Naselli non resta che accendere un cero. Paolo Comi

Mafia e politica: quelle banalità dell’archimandrita riverito dalla tv. Otello Lupacchini su Il Riformista il 23 Novembre 2021. È mia convinzione che «Exigua his tribuenda fides, qui multa loquuntur»: tante, troppe, sono le persone che parlano a vanvera su argomenti che dovrebbero essere di loro competenza, ma anche di argomenti sui quali non hanno alcuna competenza, e alle quali, pertanto, si deve prestare poca fede, proprio perché parlano molto. Questo, ahimè, m’ha sempre impedito d’associarmi al gregge di coloro che pendono adoranti dalle labbra di supponenti «vanaloquidori», magari perché benevolmente considerati abitanti del «royaume de Quinte Essance, nommée Entelechie» di rabelaisiana memoria, da irritanti, spocchiose e, talvolta, anche attempate «maestrine dalla penna rossa» o da gentleman dai volti precocemente sgualciti o su cui sono perennemente stampati sorrisi enigmatici. Alcune sere orsono, per fare un esempio, è stato ammannito uno dei tanti esilaranti, se non fossero tragici, spettacolini a uso e consumo di lobotomizzati dagli schermi, che vedeva protagonista un notissimo archimandrita forcaiolo, dalle smodate ambizioni di carriera, inversamente proporzionali alle sue reali capacità professionali e ai suoi veri meriti. Costui esponendo, in una lingua tanto approssimativa e sgraziata da far sanguinare le orecchie, le tesi sostenute nel suo ultimo libro, scritto more solito a quattro mani con un emerito Carneade, accreditato tuttavia come «massimo esperto mondiale» di criminalità organizzata, dava chiara mostra d’ignorare come esse altro non siano che la banalizzazione, in chiave aneddotica, dei punti d’approdo di studi, condotti, quelli sì, con piglio genuinamente scientifico, risalenti alla seconda metà degli anni Ottanta e agli anni Novanta dello scorso secolo. Fu allora, infatti, che la migliore dottrina criminologica, nazionale e internazionale, evidenziò come le specificità della mafia rispetto ad altre organizzazioni criminali fossero in genere da rinvenire, per un verso, nei legami con la politica e nel condizionamento delle istituzioni, e, per l’altro, nelle funzioni di protezione e di controllo delle attività economiche che si svolgono su un determinato territorio; come quello mafioso sia, dunque, un fenomeno che, esprimendo continuamente fatti criminali, non si identifica pienamente e semplicemente con la criminalità, né può essere assimilato tout court alla criminalità organizzata, trattandosi di una forma di questa particolare, unica nel suo genere, in quanto tendente a svolgere su un determinato territorio funzioni di regolamentazione tipiche dello Stato; come, dunque, la mafia sia una struttura criminale dotata di una particolare valenza politica, vale a dire capace di azione politica, intesa non solo come «potere, esercizio e/o detenzione di potere, bensì come ricerca del potere, azione finalizzata al potere», che si contraddistingue altresì per la capacità di radicarsi in un territorio, di disporre di notevoli risorse economiche, di controllare le attività comunitarie e di influenzare la vita politica e istituzionale a livello locale e nazionale, ricorrendo all’uso di un apparato militare, ma ricercando anche un certo grado di consenso sociale; come, finalmente, la persistenza delle mafie possa essere interpretata con la capacità di selezionare risorse specifiche per adattarsi sia nei contesti originari, sia in contesti di nuova espansione: in altri termini, come le mafie si riproducano nel tempo e nello spazio grazie alla loro capacità di accumulare e impiegare capitale sociale; come i mafiosi siano in grado di costruire e gestire reti di relazioni che si muovono e articolano in modo informale in ambiti e contesti istituzionali diversi, riuscendo a mobilitare risorse materiali e finanziarie che utilizzano per il conseguimento dei propri fini: il capitale sociale dei mafiosi, connesso alla loro capacità di networking, permette di comprendere perché essi riescono a stabilire rapporti di cooperazione e di scambio con soggetti esterni all’organizzazione. Ed è sempre degli anni Novanta del secolo scorso, per quanto concerne specificamente le differenze organizzative delle mafie, la tesi per la quale i gruppi di ’Ndrangheta risultano più coesi e compatti rispetto a quelli di Cosa Nostra: quest’ultima è nel suo complesso più potente e ha a disposizione risorse più ampie, ma è frazionata al proprio interno, sicché, paradossalmente, in Cosa Nostra il potere è più diffuso, mentre invece la ’Ndrangheta, pur mancando di una vera e propria struttura unitaria, presenta un potere più centralizzato a livello di singola cosca e lascia minore spazio alla divisione interna. Nihil sub sole novum, dunque, ma nessuno degli interlocutori dell’archimandrita, prestato purtroppo alla letteratura, ha osato farglielo notare. Ma ben altro e di peggio è accaduto nel corso del talk show, stando alle cronache grondanti «servo encomio». Scontato, innanzi tutto, l’attacco dell’archimandrita alla riforma Cartabia: «Tutte le riforme della Giustizia che si sono succedute finora andavano bene, meno che questa. La Cartabia è di sinistra». Meno scontato, tuttavia, l’attacco sarcastico e denigratorio, nel solito italiano sgangherato, alla persona della professoressa Marta Cartabia: «forse potrebbe essere un buon capo dello Stato, meglio del ministro della Giustizia». Imbarazzanti, poi, le dichiarazioni relative all’emergenza Covid e al trattamento da riservare ai cosiddetti no vax e no green pass: «ognuno è libero di fare ciò che vuole fino a quando non mette a rischio la libertà della collettività (…) Il governo è in ritardo, doveva essere presa una decisione più dura già in estate, impedendo a chi non è vaccinato di andare al lavoro o di accedere ad un ufficio pubblico. E io sarei anche dell’idea di fargli pagare le spese mediche in caso si ammalassero perché non puoi mettere in pericolo la vita della collettività. Bisogna essere seri e prendere provvedimenti a monte, prima dell’estate, quando si sapeva che in autunno sarebbero aumentati i contagi. Così ci troveremo chiusi a Natale». Qualcuno, forse, avrebbe dovuto ricordare all’archimandrita la Prefazione da lui stesso firmata al libro di Angelo Giorgianni e Pasquale Bacco, Strage di Stato, nel quale i due Autori (v. quarta pagina di copertina) esplicitamente enunciano: «In questo libro tratteremo di omicidi, di sequestri di persone, di violenze private. Nella consapevolezza di usare le parole come macigni» ed è già un macigno l’endiadi «Strage di Stato», riferita alla gestione sanitaria della pandemia causata dal Coronavirus. Nessuno ha avuto, però, l’ardire di ricordare all’archimandrita la sua linea difensiva per sottrarsi alla responsabilità d’aver stilato quella prefazione, una vera e propria operazione di memoria selettiva: egli avrebbe parlato «solo» di come le mafie possono avvantaggiarsi dell’epidemia, senza affrontare né appoggiare il contenuto del libro; ma questo è solo parzialmente vero, dunque, parzialmente falso: nella seconda parte della Prefazione si appoggiano totalmente e acriticamente le tesi sostenute nel libro, secondo cui il virus sarebbe quasi innocuo, i numeri dei morti a causa di esso sarebbero gonfiati e i decessi sarebbero stati causati dai lockdown e dalle terapie dei medici in ospedale. Nessuno, insomma, ha ricordato all’archimandrita prefatore, oggi convinto fustigatore duro e puro dei no vax e no green pass, di aver definito Strage di Stato «un libro-inchiesta che ricostruisce la successione degli eventi, la fonte dei provvedimenti, le correlazioni talvolta insospettabili tra fatti e antefatti, sollevando angosciosi interrogativi (…) sulla gestione dell’emergenza pandemica»; e di essersi spinto ad aggiungere: «Nell’attenta esegesi del libro, affiora un mosaico in cui ogni tassello trova la propria collocazione. (…) Le criticità che emergono nella gestione pandemica sono state inserite in un quadro di plausibilità. Capitolo dopo capitolo, come mettono in evidenza i due autori: “Si viene così a delineare un possibile disegno in grado di riallineare ciò che solo apparentemente si profila come un’inspiegabile serie di errori ripetuti, che sono costati la vita a innumerevoli persone non solo in Italia ma nel mondo intero”». Ma ciò che è stato più sgradevole è l’intemerata dell’archimandrita sulla manifestazione romana no vax, culminata nell’assalto alla Cgil, e sulla gestione, nell’occasione, dell’ordine pubblico: «Penso che la linea soft adottata dalla Lamorgese sulle manifestazioni no vax porterà a strumentalizzazioni e infiltrazioni. Io, ad esempio, avrei impedito di toccare un simbolo come la Cgil, anche mettendo in conto duecento feriti. Ma costi quel che costi, tu lì non arrivi perché sennò poi i gesti di violenza vengono mitizzati». Nessuno gli ha ricordato che alla manifestazione stessa aveva partecipato attivamente il magistrato Angelo Giorgianni, coautore di Strage di Stato, pesantemente sanzionato, per questo, sia pure in via cautelare, in sede disciplinare. Caritatevolmente, mi fermo qui. Chiudo, però, ricordando il topos, oscillante dall’arroganza al piagnisteo e ritorno, a cui ricorre sempre l’archimandrita de quo agitur, quando, e non certamente dagli intervistatori di fiducia, si sente messo alle strette: «Mi vogliono demolire? C’è gente che si alza la mattina e pensa a me, per diffamarmi. Ma io ho spalle larghe e i nervi d’acciaio e ricevo l’affetto di migliaia di persone». Indirizzerei volentieri all’archimandrita forcaiolo l’avvertimento di Mercurio a Sosia: «(…) si me irritassis, hodie lumbifragium hinc auferes» (Amph., 454). Ma me l’impedisce la buona educazione.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il retroscena sulla (mancata) nascita del Conte Ter. “Comportati con saggezza, l’indagine si risolve”, la visita dello 007 a Cesa: la spy story dietro la trattativa per il Conte Ter. Carmine Di Niro su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Le “barbe finte”, agenti dei servizi segreti, hanno avuto un ruolo nel tentativo di far nascere il governo Conte Ter? La bomba la sgancia Bruno Vespa nel suo libro “Perché Mussolini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando)” in riferimento alle trattative, in quei giorni concitati, per portare un gruppo di ‘Responsabili’ nelle file della maggioranza e sostituire così i renziani di Italia Viva, decisi a far sloggiare da Palazzo Chigi Giuseppe Conte. Al centro di questa sorta di spy story all’italiana c’è Lorenzo Cesa, il segretario dell’Udc che alla fine si sfilò dicendo no all’offerta di Conte e del PD-M5S all’ingresso nella maggioranza come stampella del governo. Una scelta, ricostruire Vespa, arrivata per il rifiuto dell’ex presidente del Consiglio di passare prima per una formale crisi di governo, considerata invece dal leader dei centristi indispensabile per giustificare il sostegno del suo gruppo parlamentare. È nel mezzo di queste trattative politiche, scrive Vespa, che arriva l’intervento della magistratura. “Cinque giorni dopo, all’alba di mercoledì 21 gennaio — racconta Vespa, riportato dal Corriere della Sera — uomini della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro per ordine del procuratore Nicola Gratteri, perquisivano l’abitazione romana di Cesa contestandogli il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso”. Ed è qui che Vespa racconta del presunto intervento dei servizi. Il giornalista scrive infatti che subito dopo la perquisizione nella casa romana del segretario dell’UDC, Cesa ricevette la visita “di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza”. La domanda è ovvia: ammesso che quanto scritto da Vespa corrisponda al vero, chi si è mosso per far recapitare a Cesa l’avvertimento sulle future mosse politiche da fare? Già lo scorso mese dall’entourage di Cesa veniva raccontato a questo giornale, in un articolo di Aldo Torchiaro, una “insostenibile pressione”, in quei giorni di fine gennaio. “Apparati dello Stato e perfino del Vaticano” avrebbero sollecitato con insistenza una conclusione della crisi che portasse alla riconferma di Giuseppe Conte e impedito alla crisi di aprire la prospettiva che portò poi invece alla formazione del governo Draghi.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Le minacce degli 007 per convincere i riottosi ad appoggiare Giuseppi. Paolo Bracalini l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. L'avvertimento a Cesa: "Comportati bene". La "passione" dell'ex premier per i Servizi. Un pezzetto alla volta iniziano ad emergere particolari interessanti su quel periodo oscuro tra la fine del Conte Bis e l'investitura di Draghi. Tre settimane scarse in cui l'ex premier Conte avviò una campagna con pochi scrupoli e con molti mezzi (alcuni alla luce del sole, altri meno) per arruolare truppe di parlamentari e cercare di dare vita ad un terzo governo con la vecchia maggioranza più la «quarta gamba». Un'operazione sostenuta politicamente dal Pd, grande sponsor del Conte ter prima di scoprirsi fedele a Draghi, da gruppi di peones interessati a incassare poltrone, ma a quanto pare anche da apparati più nascosti. L'episodio che rivela Bruno Vespa nel suo libro Perché Mussolini rovinò l'Italia (e come Draghi la sta risanando) è inquietante e ha al centro un protagonista di quei giorni, il corteggiatissimo (da Conte) leader dell'Udc Lorenzo Cesa, che poteva offrire all'avvocato di Volturara Appula una dote di tre senatori, numeri succulenti in quei giorni di spasmodica caccia ai voti in Parlamento. Cesa non accettò le offerte di Conte, e pochi giorni dopo ricevette la visita degli uomini della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che «per ordine del procuratore Nicola Gratteri, perquisivano l'abitazione romana di Cesa contestandogli il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso». Una coincidenza temporale, certo. Tuttavia un secondo episodio getta una luce molto ambigua sulla vicenda. Subito dopo la perquisizione dell'abitazione, Cesa riceve infatti la visita «di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». Una frase che, in quel frangente politico molto delicato, suona come un avvertimento. Di chi si trattava? E per conto di chi recapitava quel messaggio? Misteri. Certo è che del dossier servizi segreti Conte si era sempre molto interessato, al punto da tenere a lungo per sè la delega sugli 007. Ma già molto prima, nel 2018, Conte aveva nominato un suo uomo di fiducia come Gennaro Vecchione a capo del Dis (Dipartimento delle informazioni per la Sicurezza) mentre come Sottosegretario di Stato con delega ai servizi di intelligence Pietro Benassi, cioè il suo ex consigliere diplomatico a Palazzo Chigi. È significativa non solo la consuetudine con i due uomini indicati da Conte ai vertici dei Servizi, ma anche la tempistica della nomina di Benassi: il 21 gennaio 2021. Il giorno successivo Conte completa i nuovi vertici dei Servizi segreti nominando tre vicedirettori all'Aise (servizi segreti estero) e Aisi. Il tutto, quindi, solo una settimana dopo che Renzi aveva ritirato i suoi ministri aprendo la crisi di governo, e dando quindi il via alle manovre di Conte per arrivare ad un ter. Utilizzando anche gli apparati segreti dello Stato? È un'ipotesi che è circolata spesso, e che ora si rafforza con l'episodio riguardante Cesa (che, interpellato dal Giornale, preferisce non commentare). Gli uomini dell'Udc, sentiti da Riformista, hanno raccontato di una «insostenibile pressione» in quei giorni per entrare nel Conte ter, un'operazione condotta non solo da Palazzo Chigi ma addirittura da «apparati dello Stato e perfino del Vaticano». Il direttore della Stampa, Massimo Giannini, scrisse che nella ricerca dei responsabili erano coinvolti «noti legali vicini al premier, presidenti di ordini forensi a nome dello Studio Alpa, generali della Guardia di Finanza, amici del capo dei servizi segreti Vecchione» e alte gerarchie ecclesiastiche. Una ricostruzione allora smentita da Palazzo Chigi, ovviamente. Non tutti però nel M5s remavano in quella direzione. Nel sui libro l'ex sottosegretario Spadafora, molto vicino a Di Maio, racconta che fu Fico a mettere in contatto Grillo e Draghi. Un passaggio decisivo per portare alla nascita dell'attuale maggioranza e seppellire le ambizioni di Conte per un terzo mandato. Anche le guerre intestine dentro il M5s, pro e contro Conte, sono un mistero da servizi segreti. Paolo Bracalini

Claudio Antonelli per "la Verità" l'11 novembre 2021. Il libro di Bruno Vespa (Perché Mussolini rovinò l'Italia e come Draghi la sta risanando) fa emergere un altro fantasma del Conte ter e del probabile uso dei servizi e delle agenzie di intelligence per stringere nuove alleanze dentro e fuori il Parlamento. A sottolineare la paginetta è un articolo di Antonio Polito pubblicato, o meglio imboscato, dal Corriere della Sera. Nelle poche righe si racconta la vicenda giudiziaria di Lorenzo Cesa, già deputato ed europarlamentare dell'Udc. Il centrista decise di dire no alle offerte di Conte, motivando il diniego in un modo molto semplice. Niente supporto, senza prima aprire una crisi di governo. «Cinque giorni dopo», si legge nel testo, «uomini della Dda di Catanzaro coordinati dal procuratore Nicola Gratteri perquisiscono l'abitazione romana di Cesa contestando l'accusa di associazione per delinquere». Fatto fin qui pubblico e avvenuto il 21 gennaio. Fatto di cui lo stesso Gratteri parla in almeno due interviste, spiegando che le tempistiche sono state dettate da esigenze investigative e che comunque lo stesso Cesa aveva già pubblicamente fatto sapere di non voler sostenere un eventuale Conte ter. Come dire, nessuna interferenza politica. Il fatto nuovo è però riportato poche righe sotto. «Subito dopo la perquisizione, il segretario dell'Udc riceve la visita di un agente dei servizi che conosceva da tempo che gli avrebbe detto più o meno: non preoccuparti, questa cosa si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». L'articoletto esplosivo ieri non ha suscitato reazioni. Cesa non ha replicato. Silenzio anche da parte di Conte. Eppure il direttore della Stampa, Massimo Giannini, aveva dedicato a metà gennaio un dettagliato articolo di accusa contro l'allora premier. Si descriveva un probabile utilizzo di alcuni generali della Gdf e di rappresentanti delle agenzie di intelligence per perorare la causa del terzo mandato. Palazzo Chigi smentì seccamente. Negando qualunque tipo di fondatezza. Giannini incassò facendo capire che sapeva altre cose e poi il mese successivo, il 13 per la precisione, a ricevere la campanella di Palazzo Chigi è ufficialmente Mario Draghi. Segue la nomina di Franco Gabrielli a sottosegretario con delega all'intelligence e a metà maggio il cambio di passo drastico al vertice del Dis, dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Gennaro Vecchione, uomo di fiducia di Conte, viene sostituito da Elisabetta Belloni. Con il trascorrere dei mesi da diverse inchieste giudiziarie o giornalistiche emergono pezzetti di notizie che ogni volta riportano a quell'editoriale di Giannini. Uomini vicini a Conte e Vecchione spuntano con costanza. Nell'inchiesta sulle presunte influenze di Luca Di Donna, ex partner di studio di Conte, è emerso il nome dell'allora capo di gabinetto dell'Aise, il generale Enrico Tedeschi. Presente insieme a un suo sottoposto a un incontro con un broker di mascherine cinesi. In un'altra inchiesta che riguarda Mario Benotti , mascherine cinesi e i rapporti con l'ex commissario Domenico Arcuri, è lo stesso Benotti a evocare i servizi quando afferma di avere avuto alert su possibili inchieste. La pax draghiana che ha sistemato con molta moral suasion anche la tensione che si era creata tra Lega e Fratelli d'Italia all'interno del Copasir ha avuto un effetto diretto anche su un'altra figura storica del Dis. Marco Mancini, celebre ai tempi di Pollari, è stato accompagnato alla porta dal neo direttore Belloni all'indomani di una inchiesta di Report che ha svelato un incontro tra lo 007 e il senatore Matteo Renzi. Un elemento che porta a unire i puntini e spiega quanto sia stata importante la delega ai servizi per l'intera durata del governo Conte e quanto impegno abbia messo Renzi nel far cadere l'esponente grillino. La notizia di Cesa non smentita è l'ultimo tassello. Almeno per ora. Per dire come il comparto sia con le orecchie alzate. Le fibrillazioni ieri sono derivate da un articolo pubblicato da Dagospia. Il sito ha riportato un comma finito in Gazzetta lo scorso 5 novembre lasciando intendere l'intenzione di Gabrielli di anticipare i pensionamenti per introdurre nuove leve. La notizia non appare fondata. Ma serve a misurare il polso. Comprensibile, quindi, che il governo Draghi voglia intervenire in modo selettivo con il bisturi, così come il nuovo presidente del Copasir abbia spiegato alla Verità in una intervista che il comitato si occupa di governo e di agenzie, non dei parlamentari. Sarebbe però interessante fare luce su quanto fatto da Conte per prorogare e nominare dirigenti. Lo stesso Mancini è stato in predicato di diventare vice di Vecchione. Bisognerebbe anche fare chiarezza su tutte le scelte attuate in contrasto con la legge statutaria del comparto. A chi tocca? Forse al Parlamento. Più che al Copasir. Per i motivi scritti sopra scritti. L'altroieri è stato audito dal Comitato il direttore dell'Aise, Giovanni Caravelli, su temi come Etiopia, sicurezza energetica e difesa europea. Sul tavolo sono finite anche domande sulle trasferte retribuite di Renzi all'estero. Tema non certo di competenza dell'Aise. Risultato? I giornali ci hanno titolato. Ma così il tema finisce nel nulla. Per questo e pure per i fantasmi del Conte ter sarebbe opportuno che il Parlamento dicesse la sua e chiedesse a chi di dovere.

Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 12 novembre 2021. Tra la tarda mattinata e il primo pomeriggio di sabato 16 gennaio il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa ebbe alcuni contatti politici del livello più alto in cui gli fu chiesto, senza girarci intorno, l’appoggio dei senatori Udc a Giuseppe Conte in una chiave di «responsabilità nazionale» nel voto di fiducia che si sarebbe dovuto tenere a Palazzo Madama il martedì mattina successivo, 19 gennaio. La risposta di Cesa fu aperta, ma non su un punto: per aprire un dialogo con i centristi occorreva passare da una crisi formale di governo. Proprio in quella giornata stava nascendo in Senato il gruppo Maie-Italia23, concepito per accogliere i sostenitori di Conte. La risposta di Cesa non piacque a chi in quei giorni faceva pressioni per un Conte ter. E furono tanti. Cinque giorni dopo, all’alba di mercoledì 21 gennaio, agenti della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, per ordine del procuratore Nicola Gratteri, perquisivano l’abitazione romana di Cesa contestandogli il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso. Una coincidenza, naturalmente, ma adesso Bruno Vespa ne racconta un’altra nel suo nuovo libro: «Subito dopo la perquisizione, il segretario dell’Udc ricevette la visita di un importante agente segreto che conosceva da tempo e gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». Vespa non ne rivela il nome, e Cesa si è chiuso nel silenzio. A La Stampa risulta che abbia parlato di nuovo ieri l’altro con il giornalista, e non abbia fatto nessuna smentita. Una fonte importante tra i centristi riferisce non di un incontro, ma di un altro tipo di contatti, con qualcuno dei servizi, fatto sta che il racconto è confermato. È solo l’ultimo tassello di una connessione di interessi e poteri trasversali che si mossero in quelle ore, soprattutto attorno ai democristiani, che però si riveleranno più ostici del previsto. Una fonte centrista che ha la massima conoscenza della storia ci racconta: «Cesa riceveva una telefonata al minuto, in quelle ore. Politiche, istituzionali, e anche da uomini del Vaticano». Chiarisce: «Molte erano pressioni vere e proprie. Dal Vaticano non pressioni, ma alcuni uomini del Vaticano ci esponevano la forte preoccupazione di una crisi al buio, in un momento così drammatico per l’Italia». Su La Stampa il direttore Massimo Giannini, in un editoriale del 17 gennaio che ora riceve nuove conferme, aveva scritto «di senatori contattati da noti legali vicini al premier, da presidenti di ordini forensi a nome dello Studio Alpa, da generali della Guardia di Finanza, da amici del capo dei servizi segreti Vecchione, da arcivescovi e monsignori vicini al cardinal Bassetti e alti prelati vicini alla Comunità di Sant’Egidio». Palazzo Chigi fece una smentita rituale. Alcuni testimoni diretti riferiscono anche di un attivismo di avvocati provenienti dallo studio Alpa. Sicuramente Andrea Benvenuti, diventato poi segretario di Conte. Un’altra fonte dice anche di telefonate da parte dell’avvocato senior dello studio, Luca Di Donna, circostanza che però altri negano. Come che sia su questo ultimo punto, proprio un’inchiesta su Di Donna (per un presunto traffico d’influenze in un’altra vicenda, riguardante gli appalti delle mascherine cinesi nella prima fase della pandemia) ha fatto emergere – scrisse La Stampa – che ricevendo un imprenditore, Di Donna si fece trovare «presso lo studio Alpa» con il capo di gabinetto dell'Aise (i servizi segreti esteri) Enrico Tedeschi. Una nostra fonte racconta come a quell’incontro fosse presente anche un altro alto ufficiale, che l’imprenditore fa però fatica a inquadrare. Sui servizi Conte è sempre stato assai criticato. Aveva tenuto il controllo per sé, accentrando tutto nella relazione personale con il generale della Guardia di Finanza Gennaro Vecchione, capo del Dis. Solo alla fine il leader M5S cedette all’ambasciatore Piero Benassi la delega di controllo. Il quale fu convocato con insistenza dal Copasir, nell’ultima settimana di Conte a Palazzo Chigi, ma la fine del governo fece cadere quella richiesta di capire alcuni passaggi cruciali. Mario Draghi tra i primi suoi atti ha nominato Franco Gabrielli autorità delegata all’intelligence, e Elisabetta Belloni al Dis, chiari segnali anche simbolici di fine di quella stagione. Ora il Copasir ha intenzione di sentire Cesa, per capire bene cosa sia accaduto in quei giorni.

La spy story dietro l'operazione (fallita) dei responsabili. Conte ter, così i servizi segreti provarono a salvare il governo dell’avvocato del popolo. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Novembre 2021. Il Conte Ter doveva nascere per forza. E la maggioranza che non c’era, si doveva trovare a tutti i costi. Tanto che sembra averci lavorato un pezzo del vertice di quei servizi segreti che con Conte erano diventati un’appendice di Palazzo Chigi. Dal libro di Bruno Vespa appena presentato (Perché Mussolini rovinò l’Italia e come Draghi la sta risanando) si assume una confidenza che l’autore non può che aver ricevuto dal protagonista di questa storia: Lorenzo Cesa. Il segretario Udc sarebbe stato al centro di pressioni fortissime, nei giorni in cui si cercava la maggioranza raccogliticcia (I “Responsabili”) per il Conte Ter. Cesa nicchiò e infine negò di dare l’appoggio della formazione centrista a Conte. Per pura coincidenza, tre giorni dopo il voto al Senato – era il 21 gennaio – ricevette in casa una perquisizione della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, per ordine del procuratore Nicola Gratteri. Gli contestarono il reato di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso. Anche nell’intervista recentemente fatta con il Riformista, Cesa fa riferimento alla singolare combinazione, nelle stesse giornate, di decisioni politiche e inchieste roboanti. Che nulla avevano di fondato: il leader Udc è stato prosciolto da tutte le accuse, anzi ha visto la sua posizione stralciata dall’inchiesta ancora nella fase preliminare. Come gli era stato pronosticato da uno 007 che lo ha raggiunto a casa, in quelle ore concitate. Con Conte appeso a un filo, Mattarella aveva evidentemente già iniziato a comporre il numero di telefono di Mario Draghi per sondarlo. Ma c’è ancora un margine per ripescare Conte, che fino all’ultimo si illude. Briga. Fa chiamare. È a quel punto che accade l’incredibile: «Subito dopo la perquisizione, il segretario dell’Udc ricevette la visita di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza», scrive Vespa nel libro. Chi decide di parlare oggi lo fa anche perché le partite aperte allora, sono oggi chiuse. Il generale Vecchione non dimora più a capo dei servizi, allontanato il 14 maggio da Mario Draghi. Legato a Conte da una solida amicizia, è stato al suo fianco dall’inizio del Conte I alla fine del Conte II. E l’ombra dei servizi la ritroviamo in più punti della cronistoria del Conte II. Si parlò insistentemente di uomini dell’intelligence che facevano pressioni per Conte, qualcuno anche transitando per le segrete stanze dello studio Di Donna-Alpa-Conte. Ed era in quello studio che – ancora indietro, nella primavera 2020 – l’avvocato Luca Di Donna, sotto le insegne del collega di studio più anziano, Giuseppe Conte, riceveva i clienti insieme con il capo di gabinetto dell’Aise, i servizi di controspionaggio, Enrico Tedeschi. E con un secondo generale, verosimilmente membro dell’intelligence, che il teste Giovanni Buini fatica a identificare. E d’altronde solo Cesa può fare il nome dell’importante dirigente dei servizi che lo andò a trovare, e tutto ieri Cesa è rimasto blindato: “non conferma e non smentisce”, ci fa sapere il suo portavoce Salvo Ingargiula che però si lascia sfuggire: «Di queste cose parla nelle sedi istituzionali, al Copasir». Parlerà al Copasir? La voce dal sen fuggita può trovare riscontro solo nell’agenda del Comitato parlamentare per la sicurezza. Le cordate degli 007 sono note, le poltrone che contano pure. Draghi ha imposto un cambio della guardia che però ha inciso fino a metà. «Chi comanda sempre è il giro di quelli che chiamiamo istituzionali, da Franco Gabrielli a Luciano Carta», ci dice una gola profonda dei servizi. Se solo Cesa può dire chi lo era andato a trovare e da chi era stato spinto, quel che si può escludere a una prima analisi è che fosse un uomo dell’Aise. E il campo si restringe all’Aisi, al cui vertice siede Mario Parente, generale dei Carabinieri la cui ascesa si lega a indicazioni di matrice dem. «Marco Mancini stava dall’altra parte», suggerisce la nostra fonte. A una attenta lettura l’evoluzione dei fatti – per come la concatena Vespa – tende a far pensare a una manovra ordita da chi è più vicino a Gratteri. E chi è più vicino a Gratteri si chiama Marco Mancini. «E non dovete farvi trarre in inganno: Mancini non era affatto tra gli uomini ai quali Giuseppe Conte avrebbe potuto rivolgersi», ci ricorda la nostra fonte. Il contestato scoop di Report, realizzato in circostanze mai del tutto chiarite, ha reso noto l’incontro di Mancini con Matteo Renzi. La cordata opposta, dunque. Di pressioni fortissime in quei giorni di fine gennaio se ne vedevano ovunque, e i discorsi di Conte a Camera e Senato erano infarciti di blandimenti sperticati. “Amici democratici cristiani”, si era lanciato Conte: ed ecco che Cesa viene messo sui carboni ardenti. Poi si era appellato ad “un uomo di cultura come il socialista Nencini”. Anch’egli protagonista di un giallo; Renzi gli raccomanda di votare contro la fiducia (Italia Viva e Psi integrano lo stesso gruppo) ma lui, appartatosi a palazzo Madama con Giuseppe Conte fino alle 22 della sera del 19 gennaio, ne uscirà con una carica insperata, correndo in aula per votarlo. Secondo una indiscrezione, un accordo su una posizione istituzionale di primo piano nel nascituro governo. Poi però i piani andarono diversamente. Arrivò Mario Draghi e con lui l’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica venne affidata nelle mani di Franco Gabrielli, ed Elisabetta Belloni venne incaricata di guidare il Dis dopo l’uscita di Vecchione. Da allora non si hanno più notizie di agenti segreti che girano di casa in casa a suggerire ai parlamentari come devono votare.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Da "il Giornale" il 18 giugno 2021. Nell'ambito dell'inchiesta «Basso profilo», coordinata dai Sostituti procuratori Paolo Sirleo e Veronica Calcagno, la Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri ha chiesto il rinvio a giudizio di 78 persone fra cui l'assessore della regione Calabria Franco Talarico, dell'Udc. Stralciata, invece, la posizione di sette persone fra cui quella dell'ex segretario dell'Udc Lorenzo Cesa, dimessosi poche ore dopo il suo coinvolgimento nell' inchiesta - arrivata nel pieno della crisi del governo Conte bis - e il cui nome figurava nel provvedimento di chiusura delle indagini dell'11 maggio scorso. E adesso l'ex segretario dell'Udc Lorenzo Cesa esulta: «Da credente ringrazio Dio. Questa vicenda mi ha creato un grande dolore. A mio figlio, quando il Covid mi ha costretto al ricovero, ho detto che se mi fosse capitato qualcosa di grave avrebbe dovuto difendermi fino in fondo, perché con questa storia non avevo nulla a che vedere. E oggi sono soddisfatto dall' esclusione del mio nome dalla richiesta di rinvio a giudizio. E un motivo di grande soddisfazione». A Cesa, nell' ordinanza emessa nel gennaio scorso, il Gip di Catanzaro Alfredo Ferraro contestava i reati di associazione per delinquere aggravata, al fine di commettere una serie indeterminata di delitti contro la pubblica amministrazione, in particolare (fra gli altri) turbative d' asta, corruzione e abuso d' ufficio. 

Il segretario dell'Udc si era dimesso per l'inchiesta "Basso profilo". La giravolta di Gratteri su Lorenzo Cesa: da indagato (e perquisito) allo stralcio dall’inchiesta sulla ‘ndrangheta. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Giugno 2021. Lo sottolinea bene Enrico Costa, deputato e responsabile giustizia di Azione: “A gennaio il segretario Udc Lorenzo Cesa fu indagato e perquisito per associazione per delinquere aggravata dalla mafia. Giornali con notizia in prima pagina. Interventi sulla stampa dei Pm. Dimissioni. Ora la sua posizione è stralciata: sui principali quotidiani neanche una riga”. A fare da contraltare infatti ai titoloni dei giornali sull’indagine che aveva visto coinvolto Cesa, sbattuto in prima pagina come se fosse già colpevole e con ampio risalto all’accusa, rappresentata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, c’è il silenzio sullo stralcio della sua posizione. L’indagine “Basso Profilo” aveva avuto non poche ripercussioni politiche: Cesa si era dimesso da segretario dell’Udc nel pieno della crisi del governo Conte bis, quando l’allora premier e la sua maggioranza erano in "trattativa" proprio con i centristi per allargare il perimetro della maggioranza per sostituire i renziani di Italia Viva. A Cesa il gip di Catanzaro Alfredo Ferraro contestava i reati di associazione per delinquere aggravata al fine di commettere altri reati come corruzione, abuso d’ufficio e turbativa d’asta. Ma Cesa non c’è tra i nomi dei 78 indagati per i quali è stata avanzata dalla Procura di Gratteri la richiesta di rinvio a giudizio: rispetto alle 85 persone coinvolte nell’avviso di conclusione delle indagini sono infatti 78 quelle per le quali è stato chiesto il processo. E l’ex segretario dell’Udc può giustamente ritenersi soddisfatto: “Da credente ringrazio Dio. Questa vicenda – ha detto – mi ha creato un grande dolore. A mio figlio, quando il Covid mi ha costretto al ricovero, ho detto che se mi fosse capitato qualcosa di grave avrebbe dovuto difendermi fino in fondo, perché con questa storia non avevo nulla a che vedere. E oggi sono soddisfatto dall’esclusione del mio nome dalla richiesta di rinvio a giudizio. E un motivo di grande soddisfazione”. Parlando con l’AdnKronos ha aggiunto: “Finire la mia vita politica infangato come persone legata alla ‘ndrangheta sarebbe stato triste, sono molto contento. Evidentemente i magistrati hanno letto meglio le carte, assumendo questa decisione per me vitale dal punto di vista morale, per la mia famiglia, innanzitutto, e anche per quello che rappresento per questa piccola comunità che è l’Udc. Fin dall’inizio – ha concluso Cesa – mi sono dichiarato estraneo a questa vicenda, ero coinvolto in qualcosa che non mi apparteneva. Io ho sempre avuto la massima attenzione ogni volta che sono venuto in Calabria, così come in altri luoghi. Il mondo della ‘ndrangheta l’ho sempre contrastato”. A cinque mesi dall’inchiesta della DDA di Catanzaro, che aveva ipotizzato favori di Cesa all’imprenditore Gallo e ai suoi presunti amici ‘ndranghetisti, salta quindi la richiesta di rinvio a giudizio della stessa Procura di Gratteri. Una mossa che dimostra come le accuse nei confronti dell’ex segretario Udc fossero inconsistenti già al momento delle indagini preliminari.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il procuratore aveva sentito con le sue orecchie...Cesa non è mafioso, ennesimo flop di Gratteri: 5 mesi di gogna per nulla. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Giugno 2021. Vien voglia di mollare due ceffoni, a chi aveva detto che Lorenzo Cesa era un mafioso. E chissà se il ministro Di Maio prima o poi chiederà scusa anche a lui. Il nome del segretario dell’Udc nelle richieste di rinvio a giudizio dell’inchiesta “Basso profilo” non c’è. È stato stralciato, il che pare preludere a una richiesta di archiviazione da parte della stessa Procura di Nicola Gratteri che lo aveva accusato di trattare con la mafia e lo aveva tenuto in graticola per cinque mesi. Così vanno le vicende politico-giudiziarie in Italia, e in particolare in Calabria. Il 21 gennaio si muovono trecento poliziotti e dieci elicotteri nonostante l’operazione si chiami “Basso profilo”, a indicare in modo esplicito che non si stanno catturando importanti boss mafiosi, ma personaggi marginali, quando non addirittura del tutto estranei a qualunque associazione riferibile alla ‘ndrangheta. Il procuratore Gratteri, nella consueta conferenza stampa, lo aveva detto chiaro. «L’indagine di questa mattina è la sintesi di quello che diciamo ormai da decenni: la ‘ndrangheta spara meno però corrompe e ha sempre più rapporti nel mondo dell’imprenditoria e nel mondo della politica». Il carniere però era semivuoto. E nessun quotidiano di tiratura nazionale avrebbe dedicato neppure uno sguardo distratto a un blitz definito dagli stessi autori come operazione di basso rango mafioso, se una manina astuta non avesse inserito nell’elenco degli indagati un personaggio politico importante. Che cosa c’entra Lorenzo Cesa con la mafia calabrese e con l’inchiesta “Basso profilo”? Assolutamente niente. Così, mentre lui stesso (ma lo si può capire) recitava la giaculatoria della “fiducia nella magistratura”, e i suoi amici e colleghi (meno giustificabili e con la sola eccezione di Gianfranco Rotondi) suggerivano che lui avrebbe dimostrato la propria innocenza come fosse suo compito, ecco che cosa scriveva Il Riformista: «Ma è sicuro al cento per cento che ne uscirà completamente scagionato». Non perché noi siamo più bravi, ma perché era evidente che tutta quanta la sceneggiata di elicotteri e uomini in armi (mancavano solo i cani lupo) sarebbe servita a poco se non ci fosse stato anche lo specchietto per le allodole acchiappa titoli di giornali e aperture tv. Il nome famoso. Più che famoso in realtà, forse addirittura fondamentale, in quel momento storico e politico. Perché Cesa, con la sua piccola pattuglia dei tre senatori Paola Binetti, Antonio Saccone e Antonio De Poli, si era ritrovato in quei giorni di crisi all’improvviso al centro della scena politica come possibile sostegno al progetto del governo Conte-ter dopo l’abbandono di Renzi e di Italia Viva. L’inchiesta del procuratore Gratteri era piombata come una valanga proprio in quel momento. I tempi si erano da subito fatti convulsi: Cesa indignato si era immediatamente dimesso dalla segreteria del suo partito, i due simpatici grillini Di Maio e Di Battista si erano affrettati a dire che con gli indagati non si trattava. Intanto Gratteri rilasciava a tamburo battente due interviste in cui si mostrava attentissimo ai tempi della politica. Spiegava al Corriere e a Repubblica che lui si era preoccupato di non far cadere gli arresti in mezzo alle elezioni calabresi, che però erano state spostate da gennaio ad aprile, e che comunque lui aveva sentito “con le sue orecchie” Cesa dire in televisione che non avrebbe appoggiato il governo. Neppure un mezzo tentativo di tenersi fuori, di dire che l’obbligatorietà dell’azione penale, eccetera. Lui aveva sentito con le proprie orecchie, quindi poteva tranquillamente sguinzagliare gli elicotteri e anche dare la patente di mafioso al segretario di un partito senza timore di interferire con il quadro politico. Povero Cesa! Solo coloro cui è capitato qualcosa di analogo sanno che cosa vuol dire alzarsi al mattino sapendo che c’è qualcuno che ritiene tu abbia a che fare con i boss. E sappiamo anche che poi nessuno ti chiederà scusa. Ma non sarebbe giusto che anche noi dedicassimo la nostra attenzione solo a una persona di quel blitz di gennaio. Il numero due della parte politica dell’inchiesta si chiama Francesco Talarico, è (speriamo ancora, non si sa mai l’avessero rimosso, in questi tempi di grillismo acuto) il responsabile regionale calabrese dell’Udc. Sicuramente svolgeva quel ruolo politico alla fine del 2017, quando sta coltivando la speranza di andare in Parlamento alle successive elezioni politiche del 2018 come candidato nel collegio di Reggio Calabria (resterà fuori per 1.500 voti). Si dà da fare nella campagna elettorale con il maggior numero possibile di contatti con persone che possano aiutarlo nella raccolta dei voti, come fanno tutti. C’è a dargli una mano Tommaso Brutto, consigliere comunale da vent’anni a Catanzaro, con suo figlio Saverio, cui Talarico promette un ruolo di assistente parlamentare in caso di elezione. Inutile fare commenti sulla procedura, si tratta della normalità di qualunque campagna elettorale di qualunque partito. Naturalmente c’è anche l’imprenditore, Antonio Gallo, detto il “principino”, descritto dagli stessi magistrati come uno che non è un boss e neanche inserito in qualche ‘ndrina. Ma come uno che conosce tutti, che traffica un po’ con tutti, che ha amicizie un po’ di tutti i tipi, anche quelle “così-così”, fino a quelle più compromettenti. E qui entra in scena Lorenzo Cesa, perché i quattro –Talarico, i due Brutto e Gallo- un bel giorno partono dalla Calabria per Roma e vanno a incontrarlo in un ristorante. Delle conversazioni a tavola non c’è nessuna registrazione perché il segretario dell’Udc all’epoca era parlamentare europeo. Lo dirà lo stesso procuratore Gratteri con rammarico, in un’intervista del giorno dopo. Il resto sono solo deduzioni, certamente secondo l’accusa avranno parlato di gare e appalti, anche se non risulta. Anzi, si scoprirà poi che le ambizioni di Gallo si sarebbero fermate alla speranza di un incarico in qualche organismo di vigilanza che gli potesse garantire qualche migliaia di euro al mese. Una bella cricca di mafiosi, non c’è che dire. Uno che vuole andare in Parlamento, l’altro che promuove il figlio come assistente del deputato e l’altro ancora che pietisce qualche euro in un organismo di controllo. Del resto non è che lo stesso gip si fosse affannato a riempire le carceri di mafiosi. Si era limitato a 13 provvedimenti di custodia in carcere e per tutti gli altri, a partire da Talarico, si era fermato ai domiciliari, poi trasformati in obbligo di dimora. E in seguito lo stesso tribunale del riesame aveva fatto piazza pulita in un bel po’ di aggravanti mafiose, pur mantenendo le imputazioni di corruzione elettorale. Intanto Lorenzo Cesa uscirà dalla scena politico-giudiziaria, immaginiamo. Ai giornali, salvo qualche piccolissima eccezione, non pare importare niente. Il Conte-ter infine non si è fatto e magari il progetto sarebbe affondato lo stesso. Ma i cinque mesi forse peggiori della sua vita sicuramente nessuno li restituirà a Cesa. In fondo, che cosa vuoi che sia? Il procuratore aveva sentito con le sue orecchie.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La candidatura Ventura nata sventurata e deragliata per l'antimafia. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 2 luglio 2021. Nata male e finita peggio la storia di Maria Antonietta Ventura, candidata presidente del centrosinistra alle prossime regionali. A fronte delle evidenze, stasera c’è stato il passo di lato dell’amministratrice del gruppo operante nel settore ferroviario (LEGGI) che a fronte dell’interdittiva antimafia emanata dalla prefettura di Lecce (ce ne sarebbe una seconda anche da Napoli), ha capito che non era il caso di continuare a sostenere difese con questioni di omonimie e altre pezze a colori. Un disastro da parte di chi ha gestito la partita a Roma. Ad iniziare dal segretario Enrico Letta, e poi Giuseppe Conte e Francesco Boccia, pronube del partito in Calabria come responsabile dei rapporti con i territori e da pochi giorni commissario della Federazione del Pd di Cosenza. Un dilettantismo da ragazzini ha caratterizzato i responsabili nazionali che nell’incontro romano che ha deciso di puntare sulla donna di Confindustria nonché presidente regionale dell’Unicef erano stati messi a conoscenza del problema in corso in evoluzione in Puglia per un subappalto finito ad un’azienda in odore di mafia per vicinanza ad una cosca di Isola Capo Rizzuto. La candidata sarebbe stata rassicurata che la vicenda non presentava grandi problemi e i vertici nazionali avrebbero anche avviati riscontri presso la prefettura di Roma che avrebbero dato esiti negativi rincuorando l’entourage dei Ventura. Una grande superficialità ha creato una situazione precipitata ieri. Le interdittive esistono. Accertata a Lecce ed emessa dalla prefettura il 9 aprile del 2021 e rimbalzate a quanto pare anche a Napoli. A quel punto, mentre si preparava la prima uscita pubblica per domenica a San Lucido, paese dove il marito della Ventura è sindaco, non è rimasto che chiamare la ritirata. Per il centrosinistra tutto da rifare. Il casting del candidato riprende. Per la Ventura un’avventura sventurata. Un deragliamento che si poteva evitare.

Il documento - L’interdittiva Ventura che ha provocato il ritiro. Il Quotidiano del Sud il 3 luglio 2021. Perché un candidato benedetto a Roma da Enrico Letta, Boccia, Giuseppe Conte, Spadafora a 48 ore dal suo primo comizio e con i manifesti stampati per la sua campagna elettorale decide di fare un passo a lato schiantando nel silenzio il centrosinistra nazionale e locale? Tutto ruota attorno ad una interdittiva della Prefettura di Lecce che abbiamo deciso di rendere pubblica per permettere ai nostri lettori di conoscere i motivi della clamorosa ritirata. È una materia ostica quella in questione. “L’interdittiva antimafia non va confusa con la comunicazione antimafia, infatti la comunicazione antimafia presenta una natura ricognitiva sull’esistenza di cause di revoca, decadenza o divieto tipizzate. L’informazione antimafia, invece, è il frutto di una valutazione dell’autorità prefettizia, che si basa su una serie di elementi sintomatici ed esprime un motivato giudizio, in via preventiva, sul pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa; in virtù di tale rischio, viene interdetto l’inizio o la prosecuzione di attività con l’amministrazione pubblica o l’ottenimento di sussidi, benefici o sovvenzioni, determinando la revoca di quelli già erogati. L’interdittiva antimafia è una misura preordinata alla tutela dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione. A differenza della comunicazione antimafia, l’informazione interdittiva si basa su una valutazione discrezionale, da parte dell’autorità prefettizia, in merito alla sussistenza (o meno) di tentativi di infiltrazione della criminalità. La suddetta valutazione è fondata su «fatti ed episodi i quali, seppure non assurgano al rango di prove o indizi di valenza processuale, nel loro insieme configurino un quadro indiziario univoco e concordante avente valore sintomatico del pericolo di infiltrazioni mafiose nella gestione dell’impresa esaminata» (Tar Toscana 910/2018).” I contenuti dell’interdittiva avrebbero allarmato i vertici romani nelle ultime ore, quando si è preso contezza dell’inchiesta “Passpartout” condotta da Nicola Gratteri. Pur se di fatti tutti ancora da provare, mediaticamente avere la famiglia della candidata indagata dal pm più famoso d’Italia non era sostenibile. Per questi motivi pubblichiamo integralmente questo documento (per la visualizzazione a schermo intero clicca sul quadrato in basso a destra).

Ormai in Calabria si candidano solo ex magistrati. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 22 gennaio 2021. Così le inchieste finiscono per condizionare la già disastrata “politica” locale senza avere alcun effetto concreto sulla corruzione dilagante e tantomeno sulla penetrazione della ‘ndrangheta. A Catanzaro è appena iniziato il processo Rinascita Scott ma ieri la procura del capoluogo calabrese ha aperto un nuovo fronte con l’inchiesta “basso profilo” con ben 81 indagati tra cui il segretario nazionale dell’UDC Lorenzo Cesa che si è subito dimesso dall’incarico. Contemporaneamente l’assessore regionale al bilancio, Talarico, esponente di primo piano dello stesso partito di Cesa, è finito agli arresti domiciliari. A quasi tutti gli indagati è stato contestato l’aggravante di aver operato, soprattutto nel campo dei lavori pubblici, a stretto contatto con la ndrangheta. Vedremo nei prossimi giorni se le misure richieste dalla procura, e convalidate dal GIP, reggeranno al filtro del Tribunale della Libertà. Tuttavia la prudenza è d’obbligo ed i dubbi, soprattutto in Calabria, sono molti. Ci sembra giusto ricordare che l’ex presidente della Regione Mario Oliverio (PD), a ridosso delle precedenti elezioni regionali, è stato relegato, su richiesta della procura di Catanzaro, a tre mesi di confino forzato tra le montagne dalla Sila, per essere poi completamente scagionato da ogni accusa perché “il fatto non sussiste”. Nel novembre scorso, sempre su iniziativa della procura guidata dal dottor Gratteri, il presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini di Forza Italia, veniva arrestato per fatti gravissimi che avrebbe commesso per favorire le cosche del Crotonese, ricevendo in cambio l’appoggio elettorale. Nel giro di due settimane il Tdl annullava l’arresto è faceva a pezzi l’ordinanza. Mentre in Rinascita Scott sono finiti nelle maglie degli inquirenti, politici calabresi di primissimo piano tra cui il segretario regionale del Partito Socialista, Luigi Incarnato, costretto agli arresti domiciliari, ma subito rimesso in libertà dal TDL. Mentre all’on. Nicola Adamo già parlamentare del PD è stato proibito di risiedere in Calabria. Anche in questo caso, l’accusa non ha retto al vaglio della Cassazione. Lungi da noi la pretesa di voler giudicare la strategia della Procura di Catanzaro, ma anche un cieco potrebbe constatare quanto le inchieste finiscono per condizionare la già disastrata “politica” calabrese senza però aver alcun effetto concreto sulla corruzione dilagante e tantomeno sulla penetrazione della ‘ndrangheta in tutti i gangli della vita regionale. Abbiamo finora esaminato solo la posizione dei politici coinvolti, ma se esaminassimo le posizioni degli altri indagati, il quadro diventa ancora più preoccupante. Non bisogna dimenticare che la Calabria, come aveva già autorevolmente denunciato il procuratore generale di Catanzaro, dott. Otello Lupacchini, in rapporto agli abitanti, è la prima regione d’Italia per il riconoscimento degli indennizzi per ‘ ingiusta detenzione’ o ‘ per irragionevole durata del processo. Il dramma è che nel clima attuale le “persone perbene” si tengono lontani dalla politica aprendo la strada ad avventurieri, oppure a persone che ritengono di avere le giuste tutele. Sarà un caso ma, sino a questo momento, l’unico candidato certo alla presidenza della Regione, è l’ex magistrato Luigi De Magistris, che ha lungamente lavorato nella procura di Catanzaro. Tra poco si dovranno svolgere le elezioni regionali, il rischio è che queste siano pesantemente condizionate dalla martellante attività delle procure. Ovviamente nessuno, e noi meno che mai, oserebbe chiedere che l’azione giudiziaria tenga conto dell’agenda politica. Basterebbe solo rispettare lo Stato di diritto e le garanzie costituzionali. Altrimenti il rischio è che l’azione di alcuni procuratori, soprattutto quando i loro provvedimenti vengono sistematicamente “neutralizzati” perché decisamente viziati oltre che ingiusti, contribuisca a legittimare la ‘ndrangheta spingendo gli innocenti stritolati nella morsa d’una giustizia ingiusta a far fronte comune i mafiosi. Determinando una spinta sempre più in giù dei calabresi avvitati in una spirale perversa di rassegnazione, incredulità, e legittimo sospetto.

Processo Rinascita Scott, il pentito racconta i rapporti tra 'ndrangheta e massoneria. Il Quotidiano del Sud il 9 marzo 2021. «Quando c’era interesse a eleggere un nostro rappresentate era la massoneria che si rivolgeva alla ‘ndrangheta attraverso quei soggetti, definiti “in giacca e cravatta”, come medici e avvocati che grazie al proprio lavoro erano i personaggi privilegiati per fare da collegamento con la criminalità organizzata». A dirlo è stato il collaboratore di giustizia Cosimo Virgiglio, massone e legato ad ambienti dei servizi segreti, deponendo al processo Rinascita Scott. Nel 2006, ha detto interrogato dal pm della Dda di Catanzaro Antonio De Bernardo, su intercessione dell’avvocato Cassadonte, decano di una loggia massonica catanzarese, fu deciso di appoggiare la candidatura a senatore dell’avvocato Giancarlo Pittelli – uno degli imputati – appartenente alla stessa loggia di Cassadonte. «Cassadonte ci aveva informato – ha detto Virgiglio – del fatto che Pittelli aveva capacità di relazionarsi e interfacciarsi con i magistrati». Anche per Pittelli, ha aggiunto rispondendo alle domande dell’avvocato Salvatore Staiano, venne coinvolta la criminalità organizzata. In quell’occasione Virgiglio andò a Rocca di Neto e si rivolse a Sabatino Marrazzo, maestro venerabile, che guidava sia la loggia Pitagora deviata che quella pulita. Sabatino Marrazzo «ha innescato subito i meccanismi per la campagna elettorale del 2006. Marrazzo si rivolse a un avvocato di Catanzaro appartenente alla propria loggia». Massoneria, ha detto Virgiglio, che nel primo decennio del 2000, era molto potente. «Non è un caso – ha aggiunto – che le più grandi inchieste sulla massoneria siano state fatte in Calabria. Ci sarà un perché se nel 2004 ci si riunisce in Calabria per parlare degli investimento sul porto di Gioia Tauro e sulla sanità. All’epoca c’era un’inflazione di iscritti. In ogni paese si voleva aprire una loggia. E per quanto riguarda la massoneria deviata la provincia di Vibo era la più potente e impregnata. Reggio non è neanche un satellite rispetto a Vibo». «C’era un tenente colonnello – ha poi detto il collaboratore – che ci riferiva di tutte le indagini grosse che c’erano sul Tirreno». Virgiglio ha poi riferito che c’era un locale a Settingiano dove si svolgevano le riunioni della massoneria. «Era uno dei posti preferiti – ha detto – perché sapevamo dai “fratelli” nelle forze dell’ordine che non c’era il pericolo di essere ascoltati». Secondo quanto ha riferito il collaboratore l’ex presidente della Giunta regionale della Calabria Giuseppe Chiaravalloti «gestiva la loggia coperta nella zona del catanzarese anche se il tempio era a Praialonga. Chiaravalloti è entrato nella massoneria nel ’93 insieme a Franco Tricoli. Facevano parte del gruppo dei magistrati».

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 15 febbraio 2021. Dietro gli scuri sbarrati e scrostati si aprivano sale e salotti per le tornate della loggia coperta Petrolo, i venerabili, i grembiuli, i riti dei compagni di spada. Il decadimento del palazzo - edificio imponente che si affaccia sulla Vibo Valentia borghese in questa Calabria profonda -, non deve ingannare. Anzi, esprime l' apparente contraddizione della 'ndrangheta, della sua espansione coloniale nella cosiddetta società civile quando povertà e abbandono mimetizzano ricchezza e potere. Così le case dei boss, facciate prive d' intonaco e dentro regge dai rubinetti d' oro, così i tesori, arsenali e denaro, protetti sottoterra, mitragliette e soprattutto banconote sigillate in sacchetti di cellophane, infilati in fusti interrati. Mica come invece quei rotoli viola di 500 euro sbattuti in faccia al mercato del pesce dalle donne dei casalesi. Qui la povertà è tutta simulata per celare potere assoluto, dominio e terrore. E lo dimostra anche il silenzio pneumatico o quasi che contorna il maxi processo «Rinascita Scott» che si sta celebrando nella nuova aula bunker dell' ex area industriale di Lamezia Terme dove 325 imputati del clan Mancuso devono rispondere a 400 capi d' accusa. E' il più grande processo mai celebrato in Italia alla criminalità organizzata, secondo solo a quello storico di Palermo, ma le udienze scivolano via nella distrazione pandemica. Lì conoscevamo i giudici come Pietro Grasso, Giovanni Falcone, qui, aldilà dello sforzo ciclopico del procuratore Nicola Gratteri - capace di far realizzare in cinque mesi quest' aula di 3.300 metri quadrati, lunga 103 metri -, si parla poco. Per niente lumeggiati i suoi impavidi pubblici ministeri, impegnati in dibattimento. Eppure raccontano di un' Italia che ci crede e vuole, giovani toghe trentenni che arrivano da Genova, Firenze, Nola e hanno scelto Catanzaro, la trincea sporca, per misurarsi senza indugi. Quando mi infilo nell' aula bunker - gioiello cablato con postazioni telefoniche per 600 avvocati -, un pentito mastica come un chewingum il declino dei suoi capibastone, che lo ascoltano silenti dai 25 carceri videocollegati. Racconta, ironizza ma dei 947 posti a sedere, nessuno è occupato dal pubblico. Deserto. Palermo e la Sicilia vissero la loro primavera, mentre qui in Calabria è ancora inverno profondo. Certo, la gente non ne può più. Applaude la polizia, le jeep in corteo che tagliano Crotone consegnando i boss catturati di notte, con i ragazzi della squadra mobile in piedi da trenta ore ma sempre entusiasti. Applaude Gratteri forse perché rappresenta l' ultima speranza rimasta, eppure ancora si affonda, si fatica. Dal capoluogo, dalla Catanzaro delle professioni, della borghesia, aldilà dell' ardire di pochi, echeggia soprattutto silenzio. E c' è anche chi ringhia per questa magistratura che sfonda gli equilibri, mina convivenze e convenienze. Anche quando Gratteri fece sentire il battito cardiaco dello Stato con la ristrutturazione dell' abbandonato convento del '400 da trasformare nella nuova procura. Insomma, cose mai viste, ma permane il silenzio. Di questo pentito che parla pochi sanno il nome. A Palermo, si conoscevano i Buscetta, qui quasi nulla. Eppure i collaboratori all' epoca furono in tutto una trentina qui 58, quasi il doppio, una svolta dopo decenni di indagini costruite con pochissimi pentiti. Adesso quasi a ogni operazione qualcuno si fa avanti, rompendo quel doppio legame, di affiliazione e di sangue, quella saldatura dei matrimoni tra primi cugini o combinati che rendeva impenetrabili i locali di 'ndrangheta. Ma chi li conosce? Chi conosce il collaboratore Cosimo Virgiglio, imprenditore di Rosarno, criminale di livello ma soprattutto nono grado della piramide iniziatica, cavaliere eletto, «sacrato all' interno della chiesa - ama ricordare - di sant' Anna del Vaticano». Da tempo lui accompagna il servizio centrale del Ros, le procure di Reggio e Catanzaro nei cunicoli del mondo di compassi e grembiulini: «Vibo Valentia è l' epicentro della massoneria sia legale che di quella cosiddetta deviata. Questa era formata da due filoni: i "sussurrati all' orecchio", persone che rivestivano delle cariche istituzionali e per questo non potevano essere inserite nelle liste segnalate alla prefettura; e i "sacrati sulla spada", soggetti con precedenti penali di vario genere compresi 'ndranghetisti ovvero i "rispettosi del vangelo di Giovanni", loro si reputano infatti angeli di Dio». Quindi dall'iniziazione ai grandi affari con grembiule e compasso consegnati al rito che si celebrava a Crotone, sotto l' ultima colonna dorica in piedi del tempio a Hera Lacinia, di fronte al mare. Qui insisteva la «loggia Pitagora con il maglietto affidato a Sabatino Marrazzo», secondo Virgiglio, ovvero a un «esponente di vertice, contabile, della 'ndrangheta di Belvedere Spinello», per il Ros. Proprio in quelle terre, intercettato, il boss Nicolino Grande Aracri, ovvero il capo della mafia a Crotone aveva focalizzato l'essenzialità del contesto massonico: «Lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di 'ndrangheta pure». Marrazzo era custode del tempio coperto a Rocca di Neto, ricavato nientemeno che in un ristorante. Una scelta logistica che non deve stupire. Le logge coperte scelgono palazzi abbandonati, villaggi turistici come a Praialonga, o i retro di bar come quello nel corso Mediterraneo di Scalea appena scoperto. O, ancora, le riunioni più importanti tra venerabili si tenevano all'Orso Cattivo, ristorante con piazzola tipo eliporto alle porte di Catanzaro. Eppure l'epicentro rimane ancora Vibo Valentia da dove eravamo partiti e dove tutto si mischia con percentuali mai viste: ogni 18 residenti maschi maggiorenni, almeno uno è massone. Qui sono attive quattro officine riconosciute (Carducci, Monteleone, Murat e Benedetto Musolino) per poi scendere nello scantinato della fratellanza sommersa con la loggia Erbert, la san Mango d'Aquino, la Petrolo e chissà quante altre ancora. Due mondi distanti ma che a volte si interconnettono a sentire intercettazioni e pentiti. A iniziare da Virgiglio quando si indicava venerabile nella gran loggia dei Garibaldini d' Italia, massoneria riconosciuta. Trame che svelerà proprio al processo Rinascita Scott, dibattimento che tratteggia la proiezione muratoria della 'ndrangheta e traccia nuovi orizzonti investigativi in violazione della legge Anselmi. Chissà se anche in quelle udienze non ci sarà pubblico e la Corte rinnoverà il diniego all' ingresso delle telecamere.

Dalla parte dei Pm. De Benedetti si allinea a Gratteri: "sguinzaglia" Nuzzi e Fierro a sostegno del procuratore capo di Catanzaro. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Finalmente Nicola Gratteri ha trovato il suo difensore di fiducia. E che difensore. L’ingegner Carlo De Benedetti si è mosso con l’artiglieria del suo piccolo sofisticato quotidiano-settimanale Domani e ha mobilitato due giornalisti-scrittori, Gianluigi Nuzzi e Enrico Fierro a gridare “giù le mani” dal procuratore capo di Catanzaro. Lenzuolate di tre pagine piene di virgolettati gratteriani, ma anche di inesattezze e falsità in cui mai sarebbero incorsi i vecchi cronisti giudiziari dei bei tempi, quando Repubblica indossava un’unica toga, quella del Pm, contro Craxi o Berlusconi. Carlo De Benedetti è un miracolato di Tangentopoli e sa bene come fare la “trattativa” con i magistrati. Quanto meno lo ha saputo fare con la procura di Milano all’inizio degli anni Novanta, quando era in vigore la regola citata da Luca Palamara, quella del tre, per cui un procuratore con un amico giornalista e un partito poteva fare la fortuna o la rovina di chiunque. Ma trionfò a Milano in quegli stessi anni anche un’altra regola, quella della guerra chirurgica della procura rispetto agli imprenditori coinvolti nelle inchieste giudiziarie: accordo con Romiti e De Benedetti, muro contro Gardini e (in seguito) Berlusconi. Naturalmente per Gratteri avere al proprio fianco, oltre al partito-Movimento cinque stelle, anche la stampa di un editore come De Benedetti ha un peso diverso dal piccolo Travaglio. Se conosce la storia politica e giudiziaria del nostro Paese, il procuratore di Catanzaro ricorderà come è andata in quel 1993 in cui essere imprenditore era pericoloso quasi quanto essere politico. Il presidente dell’Olivetti sente il fiato sul collo delle toghe. Ma tenta ancora di fare lo spavaldo e il 30 aprile si fa intervistare da Repubblica, giornale con cui aveva qualche confidenza, e dice spavaldo di «non aver mai corrisposto finanziamenti ai partiti politici o a entità a essi collegati». Crede di aver fatto una furbata, ma sottovaluta la capacità di comunicazione dei procuratori Borrelli e D’Ambrosio e gli altri del pool con il quotidiano suo avversario, il Corriere della sera. Il quale il 17 maggio spara la notizia: «L’ingegnere ha incontrato i giudici consegnando loro un memoriale sulle tangenti pagate dalla Olivetti». L’incontro era stato molto, molto segreto. Proprio come quello di Cesare Romiti in questura. Di domenica, nella caserma dei carabinieri di via Moscova, alla presenza dei sostituti Colombo, Jelo e Di Pietro, l’unico a non essere d’accordo sulla “trattativa”. Che però venne stipulata, secondo lo stile della procura della repubblica di Milano, regno di Magistratura democratica, l’ufficio che ha sempre usato l’obbligatorietà dell’azione penale come un elastico. Riuscendo anche a schiacciare come formiche sotto il tallone i colleghi romani cui scipparono la competenza territoriale in diverse inchieste, compresa quella nei confronti dell’ingegner De Benedetti. Il quale, dopo esser scampato all’arresto proprio a Roma e dopo aver concluso la “trattativa” a Milano, forse ignorando che qualcuno legge anche i giornali stranieri, rilasciava la seguente dichiarazione al Wall street journal: «Se dovessi rifare tutto di nuovo lo rifarei: pagherei le tangenti ai politici per ottenere le commesse pubbliche». Incoerente, certo, ma anche sicuro che con certe procure la “trattativa” è sempre possibile. Non per tutti, naturalmente. Ma la regola del tre, avere un procuratore un giornale un partito, è sempre interessante. L’approccio di questi giorni di De Benedetti a Gratteri segue lo schema classico dei “professionisti dell’antimafia”. Cui, nella necessità della propaganda, importa poco quel che un procuratore fa nella ricerca dei responsabili di stragi, uccisioni, incendi e ferimenti, ma sempre e solo il “contesto”. Cioè quel terzo livello in cui per esempio non credeva il giudice Giovanni Falcone, che fu per questo emarginato e sbeffeggiato dagli ambienti che allora facevano capo al sindaco di Palermo Leoluca Orlando e dal Movimento La Rete, cioè i progenitori dei Cinque stelle. Quello che dovrebbe essere l’interesse di tutti, proprio perché lo è per i parenti delle vittime, è sapere chi è l’assassino. Invece no, per i laudatores di procuratori come Nicola Gratteri, quel che conta è la contiguità, da cercare o costruire, proprio come fa il loro idolo. Che poi diventa ogni giorno di più il collezionista di buchi nell’acqua. C’è bisogno di risalire al fallimento clamoroso della retata di Platì del 2003, quando la cittadina della Locride fu svegliata da centinaia di carabinieri che misero le manette a 150 persone, tra cui due sindaci, dodici ex assessori, e consiglieri comunali e il comandante della polizia municipale? È bene sempre ricordare che di quei 150 nel processo solo otto furono condannati, cinque dei quali per reati lievissimi. Ma va ricordato che a ogni inchiesta, da “Nemea” a “Farmabusiness”, fino a “Lande desolate” e “Bassoprofilo”, fino alla stessa “Rinascita Scott”, il famoso Maxi in corso a Lamezia Terme, giorno dopo giorno i gip, i giudici del tribunale del riesame e la cassazione, demoliscono un pezzetto dopo l’altro l’ipotesi dell’accusa. Di “Rinascita Scott” parla anche, nel suo articolo di tre pagine su Domani di due giorni fa, il giornalista Enrico Fierro. Correttamente riporta che delle 334 ordinanze di custodia cautelare, “ben” (mia aggiunta) 203 sono state annullate, per poi concludere che «il processo… dirà se l’impianto accusatorio è valido». Già, il processo dirà. Ma il giornale dell’ingegner De Benedetti, quello che diceva di non aver mai versato tangenti, poi consegnava un dossier in cui le ammetteva e poi affermava che lo avrebbe rifatto, non ha nessun commento da fare su una così scarsa professionalità? Almeno su quella, secondo una logica di risultato, qualcuno potrebbe pronunciarsi. Ma è logico che si tiri via, perché non è quello che interessa lo schema dei “professionisti dell’antimafia”. Infatti, anche nel ricordare i risultati delle sentenze, quel che conta sono le condanne, non la proporzione con le assoluzioni. Come per esempio nella sentenza di Reggio Calabria dell’inchiesta “Olimpia”, in cui 176 furono i condannati. Si, ma gli imputati erano 282, il che significa che 106 sono stati assolti. Cioè persone arrestate e accusate ingiustamente di reati gravissimi. A qualcuno importa di costoro? Evidentemente no, l’interesse è un altro. Infatti Fierro lo dice con chiarezza: «Quello che per il momento ci interessa e colpisce è il “contesto” che viene fuori dalle migliaia di pagine dell’inchiesta. Quell’intreccio di rapporti tra boss e società civile…». Ci siamo, le migliaia di pagine. Quelle dell’accusa, supponiamo. Che sono lì come pietre miliari, immobili, pesanti, enormi. Ma tutto quel che è successo nel processo “Rinascita Scott” dal 19 dicembre 2019, giorno del blitz, fino a oggi, non è di poco rilievo. Così come il passato, visto che lo si vuole chiamare in causa. Per esempio, visto che metà dell’articolo di Fierro è dedicato all’avvocato Giancarlo Pittelli, oggi agli arresti domiciliari, perché non chiamare le cose con il loro nome e dire che l’ex pm Luigi de Magistris avviò nei suoi confronti una vera persecuzione con un’inchiesta finita con il proscioglimento, e si scrive invece che, visto che da quell’archiviazione sono passati quattordici anni, questi sono serviti a Pittelli «per rafforzare il suo ruolo»? Rafforzare il suo ruolo in quale contesto? Quello mafioso? Per essere precisi bisognerebbe ricordare che i suoi rapporti con Luigi Mancuso, che vengono descritti come relazioni tra complici, sono prima di tutto quelli che si hanno con il proprio cliente, cosa che non viene mai detta. E anche che l’accusa di violazione dell’articolo 416 bis del codice, cioè di appartenenza a una cosca mafiosa, inizialmente contestata nei confronti dell’avvocato Pittelli nell’ordinanza di rinvio a giudizio, è stata poi ridimensionata con l’applicazione del reato che non c’è, cioè il concorso esterno. Quello che si applica quando si ha in mano un pugno di mosche. Pare invece più interessante sottolineare che l’avvocato è «uomo di relazioni eccellenti», quasi fosse anche quello un reato. Se così fosse, l’editore del quotidiano Domani, e tanti come lui, non sarebbero a piede libero. O forse si sarebbero ancora una volta salvati con la “trattativa”.

Il sistema mafioso settentrionale si ferma con il metodo Falcone. Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud il 19 febbraio 2021. Una mafia sempre più sofisticata, che si avvale di facilitatori scovati nel mondo politico-istituzionale, e sempre più delocalizzata, capace cioè di proiettarsi dai territori del Sud messi sotto scacco con metodi violenti verso le aree più produttive del Paese. Perché là c’è più polpa da succhiare. Ne abbiamo parlato col dirigente superiore della polizia di Stato Lorena Di Galante, prima donna a divenire capo reparto della Dia nazionale (ne dirige la seconda Sezione).

Partiamo dall’inchiesta condotta dalla Dia di Catanzaro che ha portato nelle settimane scorse all’operazione “Basso profilo”, condotta contro una presunta cricca affaristico-mafiosa che aveva importanti referenti istituzionali. Emerge uno spaccato inquietante. Molti degli indagati sono funzionari pubblici o pubblici amministratori. Sono spesso i politici i facilitatori per ottenere appalti pubblici o importanti commesse in cambio di voti dei clan. È un po’ un emblema di come si sono evolute le mafie negli ultimi anni?

«Ciò che è emerso dall’indagine di Catanzaro è la conferma che la criminalità organizzata ha ormai assunto una forma liquida, andando ad occupare gli spazi che si creano quando vi è un vuoto dovuto sia alla presenza di soggetti infedeli sia quando è possibile il condizionamento degli assetti sociali che permettono di infiltrare un sistema che prima consente di produrre profitto, poi crea reinvestimento, come a volte accade nella complessa struttura dei procedimenti degli appalti. Ciò che è stato accertato con l’indagine coordinata dalla Procura distrettuale di Catanzaro è la conferma del realizzarsi di un livello sempre più sofisticato delle associazioni criminali che si avvalgono indistintamente di professionisti e pubblici ufficiali. Nel nostro caso, è stata fotografata la capacità del principale indagato di tessere relazioni in ambienti criminali, creando un equilibrio tra le cosche interessate agli affari, riuscendo ad accontentare tutti, ognuno con la sua parte di guadagno».

La cronaca degli ultimi anni dimostra che le infiltrazioni della ‘ndrangheta sono in tutte le regioni d’Italia e in particolare al Nord, la zona più produttiva del Paese. Il fatturato delle mafie al Nord è molto più consistente rispetto agli affari al Sud. E’ un dato che chiama in causa la società civile del Nord, che con boss e loro gregari fanno spesso affari?

«La criminalità organizzata cerca di attecchire là dove vi è la possibilità di produrre profitto, la forza è creare una rete di affari che vada oltre il territorio di provenienza. Il desiderio di ricchezza facile non ha esclusivamente identità geografica, è legato principalmente alla mancanza di scrupoli di chi si vuole arricchire illegalmente».

Le infiltrazioni delle mafie nei finanziamenti europei riaccendono l’attenzione su una delle possibili opportunità di espansione dell’economia criminale durante la pandemia. Da alcune inchieste sono già emerse forme di assistenzialismo da parte dei boss alla ricerca di consenso sociale. In Italia la rilevazione delle movimentazioni economiche sospette è iniziata, come annunciato dal procuratore nazionale antimafia. Ci sono già dati sul numero di aziende coinvolte in tal senso?

«La crisi pandemica iniziata lo scorso anno è stata oggetto di attenzione già dal mese di aprile del 2020, quando il capo della polizia, direttore generale della pubblica sicurezza, prefetto Franco Gabrielli, ha istituito l’Osservatorio permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata. L’Organismo è istituito presso la Direzione centrale della Polizia criminale ed è costituito dai rappresentanti della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza e della Direzione investigativa antimafia che si riuniscono periodicamente per realizzare una circolarità informativa sulle evidenze del fenomeno pandemico, anche per pianificare iniziative di prevenzione e contrasto all’infiltrazione della criminalità organizzata nei settori di maggiore interesse, che in questo momento potrebbe permettere l’acquisizione illecita di patrimoni e, conseguentemente, il loro reinvestimento. Inoltre, la Commissione Europea ha adottato un Piano di azione sulla prevenzione del riciclaggio dei capitali di illecita provenienza sotteso all’attuazione di regole comuni e alla trasparenza del mercato unico. La direttiva del Consiglio d’Europa del giugno 2019 promuove, infatti, la circolarità informativa in materia finanziaria, soprattutto con il fine di attuare una sempre più significativa azione di contrasto soprattutto nei confronti dei cosiddetti reati gravi, tra i quali figurano l’associazione di tipo mafioso, il riciclaggio e il terrorismo. Al riguardo, merita una particolare menzione l’attenzione che il nostro sistema pone alle movimentazioni sospette di denaro, che sono uno dei punti di forza delle strategie di contrasto del nostro Paese: le segnalazioni di operazioni sospette. L’Ufficio per l’informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia riceve dai soggetti obbligati una comunicazione qualora vi sia il sospetto che un’operazione finanziaria celi una operazione di riciclaggio ovvero qualora si sospetti che il capitale possa essere provento di attività criminali. In questo contesto istituzionale di prevenzione, dunque, più che di “aziende” parlerei di soggetti coinvolti e di settori economici aggrediti dalla criminalità, soprattutto in questo momento che vede protagonisti soggetti senza scrupoli propensi alla realizzazione di profitti illeciti sfruttando la difficoltà sociale in atto».

In Europa si sta prendendo finalmente coscienza dell’attacco globale sferrato dalle mafie e la Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu sulla criminalità transnazionale ha approvato all’unanimità la risoluzione italiana, il metodo Falcone, “Follow the money”, sia pure tardivamente. Ritiene che qualcosa nel resto del mondo cambierà e gli altri Stati terranno conto della legislazione italiana antimafia?

«Ritengo che vi sia già la presa di coscienza che la legislazione antimafia italiana sia un modello. Ad esempio, nel dicembre 2019, l’Albania ha istituito la Procura speciale anticorruzione (Spak) che ha competenza in materia di corruzione e criminalità organizzata. L’Albania ha condiviso il modello italiano nel contrasto all’espansione delle consorterie criminali anche con il rafforzamento dell’aggressione ai patrimoni illecitamente acquisiti e con l’individuazione dei reinvestimenti. Il recepimento di un modello europeo di legislazione antimafia da parte dei Paesi dell’Unione sarebbe un segnale forte, che permetterebbe di contrastare la transnazionalità delle organizzazioni criminali mafiose. Si realizzerebbe, così, la visione globale del metodo Falcone».

"E' stata dura, indagine senza pentiti". Gratteri scopre il segreto di Pulcinella della ‘ndrangheta…Giovanni Pisano su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. “La ‘ndrangheta che si evolve ha bisogno del mondo delle professioni, che a loro volta hanno abbassato di molto l’etica e la morale in nome del Dio denaro”. Nell’ennesimo blitz contro la criminalità organizzata calabrese Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, scopre il segreto di pulcinella. Da decenni infatti le indagini condotte dalle Procure di tutta Italia hanno evidenziato legami stretti, o presunti tali, tra cosche, colletti bianchi e il mondo dell’imprenditoria e delle professioni. Nell’ultimo blitz contro la ‘ndrina dei Forastefano, operante a Cassano all’Ionio e in tutta la Sibaritide, nel Cosentino, culminato con la polizia che ha arrestato 17 persone ritenute, dalla Dda di Catanzaro, appartenenti e vicini alla cosca, Gratteri per guadagnare l’attenzione dei media denuncia un modus operandi in realtà già cristallizzato da tempo dai suoi colleghi. In attesa del Riesame, in programma tra una ventina di giorni, i destinatari dell’ordinanza di oggi (10 sono finiti in carcere e sette ai domiciliari) dovranno difendersi dalle accuse, a vario titolo, di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, illecita concorrenza, esercizio abusivo dell’attività finanziaria, violenza privata, trasferimento fraudolento di valori, e truffa, delitti anche aggravati dal metodo e dall’agevolazione mafiosa. L’operazione, denominata “Kossa” (dall’antica denominazione di Cassano allo Ionio), è giunta al termine di “un’attività investigativa difficile, strutturata, che non ha il supporto di alcun collaboratore di giustizia” spiega Gratteri alla stampa. “Abbiamo deciso di investire più uomini e mezzi perché si tratta di una famiglia di ‘ndrangheta che aveva l’ossessione del controllo del territorio, non solo sul piano fisico , ma anche economico. Si tratta di famiglie che hanno un pedigree di ferocia, perché queste famiglie hanno insanguinato per anni interi ambiti e territori della provincia di Cosenza”. L’INDAGINE – In azione dalle prime ore del 16 febbraio le squadre mobili di Cosenza, Catanzaro, Salerno e Forlì-Cesena, appoggiate dal Servizio centrale operativo e da volanti del Reparto prevenzione crimine. Stando alla ricostruzione degli inquirenti la cosca dei Forastefano sarebbe ripartita dopo gli interventi giudiziari del 2008 infiltrando il tessuto economico del territorio, in particolare il settore agroalimentare, principale risorsa della zona. Nel mirino dell’organizzazione un’azienda di livello europeo, con sede in provincia di Ferrara, che commercializza prodotti ortofrutticoli. Altro settore dove la cosca si sarebbe inserita è quello legato al mondo degli autotrasporti, monopolizzato – secondo l’impianto accusatorio – con la complicità di un ‘cartello’ di ditte riconducibili, direttamente o indirettamente, al clan e votato all’acquisizione, spesso forzosa, delle commesse di altri operatori del settore. Una penetrazione quasi totalizzante nel tessuto sociale ed economico della zona, resa possibile anche dalla pax mafiosa stipulata con gli storici rivali degli ‘zingari’ con i quali si sono in passato contrapposti per il controllo criminale. Assieme alle ordinanze eseguite stamani è stato disposto anche il sequestro preventivo di terreni, fabbricati, quote societarie, imprese individuali e autovetture riconducibili a membri della famiglia Forastefano o ai loro prestanome, per un valore complessivo di oltre 10 milioni di euro.

Ennesimo show di Gratteri, fiumi di droga e armi ma il blitz è fumoso. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Sembra quasi la risposta a un’operazione gemella condotta un mese fa nella zona di Reggio Calabria dal procuratore Giovanni Bombardieri, quella presentata ieri mattina a Crotone dal dottore Gratteri e da Francesco Messina, capo della direzione centrale anticrimine. Siamo sempre in terra di ‘ndrangheta e finalmente anche dalla procura di Catanzaro si va a caccia non di antennisti e geometri, ma di narcotrafficanti. Infatti è la prima volta in cui, se titoloni di giornali ci saranno (e speriamo di sì, altrimenti il procuratore di Catanzaro ci infliggerà un’altra conferenza stampa per lamentarsene), non sarà perché sono state messe ai polsi di qualche esponente politico quelle manette che verranno poi tolte dai giudici del tribunale del Riesame o della Cassazione. Con strascico di figuracce e polemiche. I sequestri di materiale stupefacente erano stati oggetto della relazione annuale che il procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri aveva svolto alla fine del gennaio scorso per fare il punto sulla propria attività investigativa. I numeri sono impressionanti. Tra il primo luglio del 2019 e il 30 giugno del 2020 erano stati sequestrati 3.943,945 chili di sostanze stupefacenti, e nel solo giorno del 25 marzo di un anno fa in un terreno agricolo della zona di Gioia Tauro erano stati sottratti alle famiglie della ‘ndrangheta 537,256 chili di cocaina, probabilmente provenienti dal Sudamerica e destinati evidentemente al fiorente mercato del nord Italia. Nello stesso periodo anche sequestri e confische nel reggino avevano restituito allo Stato un patrimonio corrispondente a 1.200 milioni di euro. L’operazione di ieri nel crotonese si chiama “Golgota”, e viene presentata con i consueti squilli di tromba. “Questa è ‘ndrangheta di serie A”, annuncia il procuratore Gratteri. Salvo poi lamentarsi, al termine della conferenza stampa, perché si sente isolato e non capito. «Non è sufficiente da sola l’azione giudiziaria –ha confidato ai giornalisti- perché mi rendo conto che dovremmo dare di più e che altri pezzi dello Stato dovrebbero fare di più». Sembra abbastanza evidente l’allusione al governo (o a diversi governi), visto che le forze di polizia collaborano già con lui e sono state, anche in questa circostanza, da lui elogiate, insieme ai suoi sostituti procuratori che hanno partecipato all’operazione e che vengono da lui definiti “i migliori” dell’apparato investigativo antimafia. Può essere che in questi giorni in cui si sta per formare il nuovo governo, la memoria del procuratore di Catanzaro sia tornata ai giorni in cui l’incarico di formare il nuovo esecutivo era stato affidato dal presidente Napolitano a Matteo Renzi e lui si era presentato al Quirinale con in mano un solo nome per il ruolo di Guardasigilli, quello di Gratteri, appunto. Dell’episodio è riferito nel libro di Sallusti e Palamara Il Sistema, ed emerge chiaramente che i nemici del magistrato erano semplicemente altri magistrati. Il solito toga-contro-toga che abbiamo imparato a conoscere. In quelle pagine si dice anche che il dottor Gratteri aveva accettato l’incarico, che poi salterà, ponendo una sola condizione, quella di avere “carta bianca”. Forse anche in quel ruolo aveva sognato di ricostruire il sistema di giustizia “come un Lego”, cioè quello che vuol fare, nella veste di investigatore, della Calabria? Se la parte construens del suo Lego in Calabria ancora non si è vista, certo è che nella parte destruens il procuratore è molto attivo. Se qualcuno facesse una ricerca in internet alla voce “retata Gratteri”, scoprirebbe una sfilza di notizie, e vedrebbe che almeno una volta al mese in Calabria si muovono centinaia di uomini, spesso con l’aiuto di elicotteri, e fioccano perquisizioni e arresti. È il Gratteri style. Quello che lui avrebbe portato al ministero di via Arenula. Quello che ancora potrebbe portare se il professor Draghi, chissà, non si sa mai, dovesse chiamarlo a costruire il suo Lego. L’operazione di ieri è la somma di due diversi filoni di indagine, una che riguarda le famiglie Areba-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto e l’altra quella della famiglia Mannolo, i “pecorari” attivi soprattutto nel territorio di San Leonardo di Cutro. Sessantasette sono gli indagati, di cui trentasei in custodia cautelare in carcere. I reati sono sempre legati da quello che li contiene tutti, cioè l’associazione di stampo mafioso, quella prevista dall’articolo 416 bis del codice penale. Questa volta però, a differenza delle ultime inchieste cui ci avevano abituato le conferenze stampa del dottor Gratteri a partire da “Rinascita Scott”, il cui maxiprocesso è in corso nell’aula bunker di Lametia, c’è qualcosa di molto concreto e molto importante. Stiamo parlando di droga e di armi. Anche armi da guerra, sequestrate in zone come il Crotonese in cui, anni fa, ci erano state vere stragi di mafia, guerre sanguinose di cui ora si porta solo memoria. Il fatto che in certe case siano ancora state trovate armi è preoccupante. Ma bisognerà sapere anche quali e quante. Le investigazioni sulla zona di Isola di Capo Rizzuto sono la prosecuzione dell’operazione “Tisifone” del 2018 che, dice il magistrato, avrebbero all’epoca impedito la ripresa di una nuova guerra di mafia. Ma si parla più che altro di “azioni di disturbo” da parte delle forze dell’ordine, quasi che una perquisizione ogni tanto servisse da monito e da impedimento di azioni sanguinose. Il procuratore ci crede davvero. «Non avete idea –dice convinto- di quanti omicidi abbiamo evitato in questi anni conducendo questa indagine». Frase assai misteriosa, perché non viene spiegato quali motivi potrebbero stare dietro, oggi e dopo anni dagli ultimi delitti di sangue, alla necessità di possedere armi. Perché si parla di decine e decine di pistole e fucili, anche di armi da guerra. Conflitti per il controllo del territorio o altro? Egemonia nel settore del narcotraffico? Le imputazioni e gli arresti per la droga ci sono, nella retata di ieri. Ma, mentre conosciamo fino all’ultimo grammo quanti chili di cocaina o di altre sostanze psicotrope sono state sequestrate a Reggio Calabria, di Catanzaro o Crotone abbiamo solo notizie un po’ fumose, anche se altisonanti. Secondo il capo della direzione nazionale anticrimine Francesco Messina sarebbe addirittura stata «disarticolata la componente militare delle cosche di Isola Capo Rizzuto». Dove i termini “disarticolata” e “militare” lasciano proprio intendere un’operazione di guerra. Cui fanno eco le parole di Gratteri sul fatto di aver “importato una rivoluzione”. E di poter constatare che le cose stanno migliorando, e che questo «vuol dire che noi magistrati e forze dell’ordine cominciamo a essere credibili e questo ci conforta». Crediamo che anche i cittadini calabresi sarebbero confortati se le conferenze stampa mensili del dottor Gratteri fossero sempre fondate su fatti concreti (ieri ci siamo andati vicini), con cifre numeri e spiegazioni, non solo sulla quantità di droga sequestrata, ma anche sulle armi. E sul perché e come sono state salvate le vite umane. Il che è sempre comunque una buona notizia.

Gratteri, il “procuratore delle Calabrie” che rischia di veder finire il suo mito. Se Gratteri puntasse alla procura di Milano lo stesso arco di forze che hanno creato e diffuso il suo “mito” non avrebbero scrupoli a distruggerlo. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 4 aprile 2021. Giuliano Ferrara ha sparato sulla prima pagina de Il Foglio un deciso "j’accuse" contro il dottor Nicola Gratteri "colpevole", a suo dire, di avere scritto la prefazione al libro "Strage di Stato" dal contenuto delirante sino al punto da negare l’epidemia in corso, definire i vaccini "acqua di fogna" e immaginare un complotto dei "perfidi giudei" che userebbero il virus per dominare sull’umanità. Il confronto in atto è importante. Perché da sempre il dottor Gratteri ha goduto di uno straordinario favore e di una eccellente “generosità” da parte della “grande stampa” che, aldilà dei possibili meriti del procuratore di Catanzaro, ha letteralmente creato il “fenomeno”, a volte, spacciando dei semplici rapporti redatti dagli ufficiali di polizia giudiziaria per sentenze definitive. Soprattutto alcuni canali televisivi hanno diffuso dei semplici teoremi come fossero delle battaglie campali conto la ’ndrangheta. Ogni volta data come sbaragliata e vinta. Tutto ciò per poter creare il “personaggio” a prescindere dai risultati realmente ottenuti sul campo. Chi difende il procuratore di Catanzaro tende a dire che in verità la prefazione è costituita solo da “due paginette” scritte di getto e sorvolando sul contenuto. Un atto di generosità per fare un favore ad un collega e amico magistrato, il giudice Giorgianni, che è uno dei due autori del libro. Noi ci crediamo. Anzi ne siamo più che convinti dal momento che, in Calabria, con la stessa superficiale leggerezza migliaia di vite umane sono state spezzate da mandati di cattura successivamente annullati dai giudici. Però non fanno notizia. Senza alcuna rivendicazione di primogenitura, prendiamo atto, dopo aver denunciato per oltre trent’anni la “mattanza legale” che avviene in Calabria, che pochissimi se ne sono accorti. Perché? Certamente per i nostri seri limiti. Ma soprattutto perché della Calabria e, soprattutto dei calabresi, non gliene fotte niente a nessuno. La Regione è una terra “appaltata “a generali e super poliziotti, prefetti e commissari straordinari oltre che alla ’ ndrangheta e al peggiore surrogato della “politica” selezionato rigorosamente da “Roma” in base a criteri di subalternità, inconsistenza e fedeltà. Ora Gratteri, definito da Ferrara “procuratore delle Calabrie”, quasi a voler sottolineare i suoi metodi che riportano la regione al peggiore regime borbonico, punta alla procura di Milano. Dice un vecchio adagio “non ultra crepidam" . “Non oltre la toma”. Da vecchio lettore di Ferrara, sono convinto che la sua sia una battaglia di civiltà destinata a infrangersi contro il muro di silenzio alzato dalla grande stampa, dalla tv e dai poteri dello Stato. La musica potrebbe cambiare se Gratteri si mettesse veramente strane idee in testa su Milano. ( Forse spinto dalla volontà di non essere più in Calabria nel momento in cui “Rinascita Scott” arriverà in Cassazione.) Comprenda, il procuratore di Catanzaro che ciò che si ritiene giusto, legittimo e accettabile nei confronti dei calabresi, non potrebbe essere oggi tollerato nel cuore economico ( e non solo) del Paese. Sono convinto che qualora dovesse insistere, lo stesso arco di forze che hanno creato e diffuso il “mito” e la leggenda e solo perché hanno trovato comodo affidare “le Calabrie” a un viceré, non avrebbero scrupoli a distruggerlo con la stessa determinazione con cui l’hanno costruito.

Da "il Giornale" l'1 aprile 2021. «Non voglio che l'Italia sia teatro di deliri e che i deliranti giudichino. Il libro con prefazione di Gratteri è uno scandalo nazionale e deve essere discusso davanti a un giudice. Attendesi una querela, grazie» scrive sul Foglio Giuliano Ferrara, che definisce il libro «Strage di stato» di Pasquale Bacco e Angelo Giorgianni, con prefazione del procuratore Nicola Gratteri, «di scandalosa impudicizia e di sovrana insulsaggine». Tra le frasi incriminate « che i vaccini sono acqua di fogna, che è in corso una deliberata cospirazione giudaicoplutocratica per asservire il mondo, che le pratiche imposte da autorità e governi sono degne di Norimberga, un processo contro chi ha avallato l'esistenza di una patologia non superiore a un’influenza»

Covid, magistrato denuncia l’operato del governo al Tribunale dell’Aja: “Crimini contro l’umanità”. Rec News il 31 Marzo 2021. I governi stanno finendo a ruota sotto la lente del Tribunale dell’Aja per le misure improprie propugnate con la scusa di un virus a bassissima letalità. Questa volta a essere sottoposta all’attenzione della Corte Penale Internazionale è l’Italia di Conte e Draghi, quella delle chiusure immotivate – come ammetteva lo stesso Cts in uno dei verbali resi noti ad agosto del 2020 – e delle limitazioni incostituzionali alla libertà personale. Tutto parte dalla denuncia del magistrato Angelo Giorgianni, che in un esposto di oltre 30 pagine si è soffermato tra le altre cose sull’obbligo di indossare la mascherina, sull’allontanamento sociale e sulle chiusure indicandoli come “crimini contro l’umanità”, “in quanto – scrive il magistrato – costituiscono reati di reclusione e tortura e sono atti che provocano grandi sofferenze alla salute mentale e fisica”. “I costi economici, umani, psicologici e sociali di queste politiche – chiosa ancora il magistrato – sono notevolmente superiori alla loro efficacia nel salvare vite umane e ridurre la diffusione del virus”. Una presa di posizione chiara, netta e motivata che sta già scuotendo il mainstream che da oltre un anno si è adagiato supinamente sulle posizioni del governo e sui dati istituzionali che già lo scorso anno si rivelavano fallaci  e gonfiati. Tanto che magistrato, co-autore del libro “Strage di Stato – Le verità nascoste della Covid-19”, al pari di chiunque si permetta di esprimere pareri critici sull’affare coronavirus è vittima da giorni di una campagna di fango mediatico. Giorgianni tuttavia non demorde: annuncia la volontà di tutelarsi nelle opportune sedi e tira dritto.

L'audizione al Csm dopo l'"inchiesta" complottista. Dal libro scandalo sul covid a capo della Procura di Caltanissetta: Giorgianni fa sul serio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Aprile 2021. È tutto un complotto, questa storia. Questo attacco mediatico ai danni di Angelo Giorgianni, magistrato presso la Corte di appello di Messina. È stato falcidiato dalla stampa, per questo libro inchiesta: Strage di Stato – Le verità nascoste della covid 19, introdotto da una prefazione del Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, e non per le tesi che circolano nei peggiori blog di “contro-informazione” sulla pandemia come un complotto orchestrato; ma per la sua candidatura a diventare Procuratore Capo a Caltanissetta. Proprio così: e se non ci fosse da piangere verrebbe da ridere insomma. Ricapitolando. Giorgianni ha scritto con Pasquale Bacco un libro, Strage di Stato. Bacco è un medico con un passato nell’estrema destra, da Casa Pound a Fiamma Tricolore, amministratore delegato della società Meleam, che si occupa d medicina legale e sicurezza nei luoghi di lavoro. Lo scorso luglio, a una conferenza alla Camera promossa da Sara Cunial, deputata no-vax eletta con il Movimento 5 Stelle e poi espulsa perfino dai grillini per le sue tesi, diceva di “un virus ridicolo. Il Covid, dobbiamo dirlo sempre con più forza, non ha ucciso nessuno”. E che all’interno del vaccino c’è “acqua di fogna”, “tutte le schifezze possibili e immaginabili”, come ribadiva lo scorso ottobre durante una manifestazione a Taranto contro il lockdown. Giorgianni, collega di Gratteri, un passato politico, anche sottosegretario all’Interno nel primo governo Prodi, poi costretto alle dimissioni dallo stesso premier. Ha definito la pandemia “uno strumento di ingegneria sociale che serve per realizzare un colpo di stato globale” e, citando monsignor Viganò, l’ha descritta come una “glia biblica tra i Figli della Luce e i Figli delle Tenebre”. I vaccini poi possono trasformare “l’uomo in Ogm” e potrebbero “determinare la sterilità nell’uomo e nella donna”. Fonte di grande imbarazzo per Gratteri l’aver firmato quella prefazione. Il Procuratore di Catanzaro prima si è difeso dicendo di aver scritto per mettere in guardia sugli affari delle mafie nella crisi; poi ha detto che gli era stato inviato un abstract “non del tutto corrispondente”. Giorgianni ha smentito, comunque non si è mai scusato. A TgCom24 ha concesso un’intervista. “Io non sono complottista, sono complottologo. Personaggi più illustri di me ne hanno parlato come Donald Trump e monsignor Viganò – ha detto – Quel libro, è un libro inchiesta. Abbiamo raccolto oltre un migliaio di documenti. Ponevamo delle domande”. L’offesa più dolorosa, ha aggiunto, quella sull’antisemitismo: ha detto che un rabbino capo degli ebrei ortodossi d’Israele lo ha difeso promuovendolo tra i Giusti tra le Nazioni. Nientedimeno. Perché questo accerchiamento insomma, perché? La spiegazione pronta di Giorgianni: “Un attacco mediatico a decorrere dal 25 marzo, stranamente il 24 marzo avevo depositato una denunzia alla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità in riferimento alla gestione della pandemia. Potrei dirle che non era a me diretto (l’attacco, ndr): per esempio diretto alle aspirazioni di Gratteri ad andare alla Procura di Milano. E potrei aggiungere un altro fatto inedito: in coincidenza con la mia audizione al Csm che avverrà nei prossimi giorni, essendo il candidato più anziano per ricoprire il ruolo di Procuratore della Repubblica di Caltanissetta”. Il Foglio, che ha fatto esplodere il caso con gli articoli di Luciano Capone, riporta come non si tratti di una boutade. La candidatura di Giorgianni potrebbe trovare un seguito. La procura è stata liberata dallo scorso settembre da Amedeo Bertone. In corsa ci sono il reggente Gaetano Paci e il magistrato di Palermo Salvatore De Luca. Quella di Caltanissetta è una Procura pesante.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il potere del procuratore. Gratteri è il magistrato più temuto d’Italia: politici, giornalisti ed editori tutti in silenzio. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Aprile 2021. Chi ha paura del dottor Nicola Gratteri? Tanti, garantito. Ci sono i magistrati, i politici, ma soprattutto gli intellettuali e i giornalisti con i loro impavidi editori. Ci sono quelli che, in modo un po’ snobistico, lo scansano perché il procuratore di Catanzaro, pur osannato e incensato con parole alate su giornali e tv per le sue gesta eroiche contro la ‘ndrangheta, è alla fine considerato solo come una specie di Maradona dei poveri. Un parvenu che viene dalle favelas e puzza ancora di sudore e di miseria. Applausi dagli spalti certo, ma andarci insieme a cena, no. «Se poi, driin, si aggiungesse inaspettato a tavola il dottor Gratteri, allora via, mollare lì la carbonara e correre alla minestra della Caritas», ironizza (ma mica tanto) Andrea Marcenaro nella sua imperdibile Version sul Foglio, dopo aver magistralmente illustrato la ricetta del suo piatto preferito. Nella carovana degli snob, ma in questo caso lo snobismo ha una decisa caratura politica, ci sono tutti quelli che non vogliono Nicola Gratteri a Milano. Già nel 2016 quando lui aveva presentato domanda, fu spedito velocemente a presiedere la procura di Catanzaro. Non lo vogliono per due buoni motivi. Il primo è molto ben spiegato sul Riformista di ieri da Ilario Ammendolia, che lancia un grido disperato in favore della sua terra di Calabria e in sintesi dice che a nessuno importa niente di quella regione, tanto che lasciano che i rappresentanti dell’antimafia possano aggiungere disastri a quelli già gravissimi della ‘ndrangheta. Come a dire che arresti arbitrari e poi smentiti dai giudici, blitz scenografici ma spesso fondati sul nulla o su pochissimi indizi (gli esempi sono ormai tantissimi e li raccontiamo ogni giorno) vanno bene per i calabresi, ma non per quelli con la puzza sotto il naso del nord Italia. Tutto vero, ma c’è anche un secondo motivo per cui Nicola Gratteri non può venire a Milano. E perché e a chi fa paura. Lo temono i suoi colleghi, prima di tutto. Ma anche i politici che governano la città. Perché il capoluogo lombardo è da qualche tempo un po’ quel che era l’Emilia rossa fino a che l’elezione del sindaco di Bologna Guazzaloca non ruppe gli schemi di una società chiusa in cui tutti andavano a braccetto con tutti, il padroncino con l’operaio e il sindaco con il procuratore. La storia che abbiamo raccontato del siluramento del capo dei vigili di Milano, le vicende di Eataly, di Sea, dell’Expo, dei ripetuti ringraziamenti di Matteo Renzi alle toghe, raccontano una sorta di unità di intenti, qualcosa che è più di pura sintonia di pensiero politico. E la storia, ormai antica ma difficile da dimenticare, di Mani Pulite racconta dei semini che sono stati piantati dalla corrente sindacale di Magistratura Democratica non solo in Procura ma anche in città. E che sono germogliati, negli ultimi anni, di procuratore in procuratore, di sindaco in sindaco. Quando nel 2016 il Csm doveva nominare il nuovo procuratore di Milano, se ne occupò Luca Palamara, che, come racconta nel suo libro, incontrò Francesco Greco, con cui ebbe subito grande intesa, e ne sostenne la candidatura. Nessuno degnò di attenzione Nicola Gratteri, allora. Ma se lui arrivasse oggi sarebbe una bomba. E tra i sostituti milanesi c’è qualcuno, anche quelli di sinistra, che quasi se lo augura, pur di spezzare il clima da “Emilia rossa”. Sarebbe concepibile, in Lombardia, la presenza di uno che improvvisamente usasse quei metodi da sceriffo che in Calabria gli sono consentiti, a costo di decapitare nuovamente le istituzioni come già successo ai tempi di tangentopoli? Sì, in un certo senso sarebbe concepibile. Il terreno “culturale” è già arato. In fondo non gli è stato consentito di scrivere la prefazione a un libro i cui autori, il magistrato Angelo Giorgianni e il medico Pasquale Maria Bacco sostengono tesi complottistiche sugli ebrei che governano il mondo e che in piena pandemia negano l’esistenza del virus e persino delle bare di Bergamo? Si, gli è stato consentito, nonostante, dopo la scoperta di Luciano Capone, il Foglio se ne occupi tutti i giorni e noi stessi e pochi altri ne abbiamo scritto. Ma la cosa preoccupante, anche se molto comprensibile, è che quella prefazione non abbia destato scandalo. E perché la mentalità paranoica che sta dietro certe affermazioni non induca il sospetto che anche alcune gesta siano frutto della stessa ispirazione. Sabato scorso Giuliano Ferrara ha barrito. E ha chiamato per nome e cognome direttori di grandi quotidiani e conduttori di famosi talk, intimando loro di occuparsi di «una maleodorante e putrida chiassata negazionista e antisemita». Gli ha risposto uno che non era stato chiamato in causa, il direttore del Giornale, Sandro Sallusti, e ha detto semplicemente che il re è nudo. Non hai capito, caro Ferrara –scrive- che tutti hanno paura del magistrato “più temuto e coccolato” d’Italia? Hanno paura i giornalisti, tremano gli intellettuali, si fanno la pipì addosso gli editori. Così, se neghi la gravità del covid non puoi fare l’insegnante o l’infermiere, ma il procuratore sì. Ed è proprio così. Non si può scalfire la reputazione di Gratteri, perché lui ha nelle mani uno strumento formidabile per polverizzare la reputazione di tutti noi, il suo potere di manette. E non è un caso che, uno di quelli chiamati alla lavagna da Ferrara, Gian Antonio Stella, abbia ieri risposto con un breve articolo in cui, un po’ come si fa con i bambini, ha dato un buffetto a Nicola Gratteri, dicendogli che “l’ha combinata grossa”. Il tono è quello del papà che ha già perdonato. Anche perché, dice nelle due righe finali, in fondo le frasi peggiori i due autori Bacco e Giorgianni non le hanno scritte nel libro, ma le hanno dette alla Zanzara. Che, come sappiamo, è un programma satirico. 

Nordio: “Il caso Gratteri? Serve un esame psichiatrico per chi vuol fare il magistrato”. Il Dubbio l'1 aprile 2021. Carlo Nordio interviene, a modo suo, sulla polemica nata alla prefazione di Nicola Gratteri al libro negazionista. “Non ho letto il libro recensito da Gratteri e non so se un magistrato in servizio si sia pronunciato nel senso che i vaccini sono funesti e l’epidemia non esiste. Se questo fosse vero, e spero non lo sia, confermerebbe quanto ho scritto 20 anni fa nel mio primo libro sulla giustizia. E cioè che per l’accesso in magistratura manca l’esame fondamentale: quello psichiatrico”. Parole e musica dell’ex magistrato Carlo Nordio il quale interviene a modo suo sulla polemica nata intorno a Gratteri. Intervistato da Huffingtonpost Nordio ha poi insisitito: “Il Consiglio superiore della magistratura non ha competenza sulle idee “sanitarie” delle toghe, né sulla loro istruzione, relativamente a vicende extragiudiziarie. Tuttavia espressioni così bizzarre, se realmente sono state espresse da un magistrato, minano ancor di più il nostro prestigio e la nostra credibilità, già ampiamente compromessa dalla vicenda Palamara e dall’ultima infelice sortita dell’Anm”.

Che Stato è quello che tollera l’antisemitismo? Iuri Maria Prado su Il Riformista l'1 Aprile 2021. A questo punto il problema non è più soltanto Gratteri, né è più soltanto un problema di Gratteri. A questo punto il problema è chi, e di chi, lo lascia pendente. Qui si tratta di capire se è anche solo vagamente tollerabile che un funzionario pubblico non solo di altissimo rango formale, ma anche parecchio celebrato nella sostanza della vicenda italiana, e dotato del potere temibilissimo di infierire sui più delicati beni delle persone, possa abbandonarsi, senza ripudiarle e senza patirne conseguenza alcuna, a iniziative di pubblico consorzio con i responsabili di propaganda di stampo neonazista. Si tratta di capire se è anche solo remotamente ammissibile che la comunità civile, coloro che hanno voce e peso presso l’opinione pubblica, le rappresentanze delle formazioni istituzionali e di potere, a cominciare dalla magistratura, possano ancora assistere allo scempio della propria inerzia nel reclamare l’immediato e incondizionato allontanamento di questo personaggio dalle funzioni la cui credibilità egli ha in tal modo pregiudicato. La Repubblica non può ammettere, non può consentire, non può tollerare che nemmeno un cittadino, nemmeno uno e per nessuna ragione, possa essere sottoposto alle cure di giustizia di un magistrato che senza allegare una qualsiasi giustificazione, semmai ne esistesse una, offre la propria prefazione a un libro non solo ripieno di rivoltanti contraffazioni, ma scritto da chi ripropone e diffonde i motivi della più oscena cultura genocidiaria: quella contro cui (così si dice) si è impiantato e ha ragione di essere difeso il nostro ordinamento civile e costituzionale. Se chi ha potere nei giornali e nelle televisioni, nei luoghi della produzione culturale, presso le cosiddette forze sociali e tra gli eminenti dell’intelligenza militante, e tra coloro che chiedono il voto per scrivere le leggi che comandano la vita dei cittadini, e tra quelli che stendono sentenze in nome del popolo italiano, se insomma chi “può” non si incarica, come non sta incaricandosi, di fare ciò che deve essere fatto, cioè di liberarsi dalla propria noncuranza, allora significa che questo nostro Paese ha appunto un problema molto più grave rispetto a quel che fa un suo magistrato. Al tempo delle leggi razziali il problema non stava solo in quella legislazione: stava negli italiani che giravano la testa dall’altra parte. E questa volta non dico: peggio per chi non lo capisce. Dico: sia maledetto chi non lo capisce.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 28 marzo 2021. Da settimane, il suo nome agitava i sonni delle correnti delle toghe (soprattutto quelle di sinistra, ma non solo): da quando il Giornale, il 17 febbraio, aveva indicato Nicola Gratteri come il candidato più forte alla Procura di Milano, l'idea della sua irruzione nel santuario di Mani Pulite aveva sollevato paure di ogni tipo. Anche perché trovare un candidato alternativo in grado di sbarrare a Gratteri la strada verso il nord era reso arduo dalla sentenza del Tar del Lazio che, annullando la nomina del procuratore di Roma Michele Prestipino, aveva dettato regole rigide per la scelta dei capi delle Procure. Ma ora Gratteri rischia non solo di dover rinunciare al suo sogno milanese - ribadito ieri in una intervista - ma anche al suo posto attuale. Tutta colpa della prefazione elogiativa firmata per il libello no-vax e antisemita del suo collega Angelo Giorgianni. Su Gratteri piomba ieri un colpo di bazooka: quella prefazione è la dimostrazione che non è in grado di guidare alcun ufficio giudiziario. A dirlo è uno dei numi tutelari della sinistra giudiziaria, Guido Neppi Modona, con un intervento sul Riformista. Giudice, professore, cavaliere di Gran Croce, giudice della Corte Costituzionale, Neppi è uno che quando parla viene ascoltato. E ieri scrive testualmente che «il dr. Gratteri ha perso il prestigio di cui un magistrato - specie se posto a capo di un importante ufficio quale è la Procura della Repubblica - deve godere nei confronti della popolazione e dei suoi colleghi, e pertanto a norma dell'ordinamento giudiziario deve quantomeno essere trasferito in un'altra sede e con funzioni che non comportino alcun incarico direttivo». Un messaggio esplicito inviato alla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, quella che si occupa di sloggiare i giudici incompatibili, e che in questi giorni è alle prese con i veleni del caso Palamara. Con la prefazione al libro di Giorgianni, Gratteri si è autoaffondato. Per raccontare la gravità della situazione basta l'annuncio della casa editrice del libro, che ieri di fronte al putiferio annulla la presentazione prevista per le 19. Forse la Prima commissione del Csm non raccoglierà fino in fondo l'appello di Neppi Modona, e permetterà a Gratteri di continuare a fare il procuratore laggiù a Catanzaro, dove peraltro ha arrestato tutto l'arrestabile. Ma che possa ambire alla poltrona che fu di Francesco Saverio Borrelli è, allo stato attuale, del tutto inverosimile. E qua il Gratterigate si rincrocia con il caso Palamara, il gorgo che ormai sembra inghiottire tutto ciò che si muove in magistratura. Perché le chat e il libro di Palamara investono in pieno anche la Procura milanese, i suoi meccanismi di potere. L'arrivo di Gratteri era, nel bene e nel male, l'occasione per girare pagina. Ma adesso che si fa?

Pietro Senaldi tombale sul caso Nicola Gratteri: "Tutti contro il pm non Vax, ma nessuno si indigna se vengono incarcerati degli innocenti. Libero Quotidiano il 07 aprile 2021. Il direttore di Libero Pietro Senaldi oggi parla di giustizia e del curioso caso che riguarda il procuratore Gratteri: "Continuano a montare le polemiche sul caso del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri che nella prefazione al libro di un collega ha espresso delle tesi "No Vax" o comunque scettiche rispetto alla vaccinazione di massa. A  me non indigna tanto questo, perché io non andrei mai da Gratteri per curarmi dal Covid, ma neanche da un mal di pancia, quindi che un giudice non sappia nulla di profilassi o di medicina non mi stupisce. A me però fa specie che il giudice venga processato perché ha delle tesi No Vax e non perché negli anni ha arrestato centinaia di persone con delle accuse pesantissime che poi sono state scarcerate...". "...E'curioso come ai pm non si perdonino posizioni fuori dal coro su argomenti non loro e invece non si vada mai a indagare quanto fanno bene, quanto fanno male e se sbagliano gli si chieda conto. La conseguenza di tutto questo è che ormai siamo un Paese di pm, processiamo gli altri senza torto o ragione, ma semplicemente per il fatto che ci stanno antipatici o che non condividiamo le loro tesi...".  

Da huffingtonpost.it il 7 aprile 2021. “Se Nicola Gratteri ha scritto la prefazione senza leggere il libro, siamo di fronte a qualcosa di imperdonabile. Se l’ha scritta dopo averlo letto, è un’aggravante”. Il caso commentato da Giuseppe Ayala sulle pagine del Foglio è quello della prefazione di Nicola Gratteri al libro “Strage di Stato. Le verità nascoste della Covid-19 ” scritto da Angelo Giorgianni e Pasquale Bacco, che rilancia teorie complottiste e negazioniste. “Sono tesi ai confini della psichiatria” afferma il magistrato siciliano. “Apprendo che uno degli autori è un magistrato”, dice riferendosi ad Angelo Giorgianni, “non è un problema di sanzioni, non bastano provvedimenti anche se il Csm delle valutazioni dovrà pur farle”. Al posto di Gratteri, prosegue Ayala, avrebbe ammesso che ”è stata una gravissima leggerezza. Che ha sbagliato. Serve una presa di distanza inequivocabile. Una frase come questa: Non mi riconosco assolutamente nelle tesi degli autori”. Ayala rilancia poi una considerazione di Carlo Nordio a Huffpost sulla necessità di un esame psichiatrico per l’accesso alla magistratura: “Non solo è una buona idea. Io credo che servano esami psichiatrici periodici per i magistrati. Non solo all’entrata in magistratura. Negli anni, la capacità di giudizio si può appannare, deteriorare. Servono esami costanti”.

La foglia di fico di politici incapaci. Gratteri è intoccabile e riverito dalla stampa perché arresta calabresi, a Milano invece…Ilario Ammendolia su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Mai come in questo momento avverto un senso di frustrazione e di impotenza per il fatto che della Calabria non gliene fotte proprio niente a nessuno. Da quaranta anni sosteniamo che un vasto arco di forze ha trovato comodo ridurre la drammatica questione calabrese a mera questione criminale e, in tale ottica, Gratteri è stato letteralmente costruito, soprattutto dai media, come strumento dietro cui nascondere la scelta politica e istituzionale di non dare risposte credibili a una regione che si è andata disgregando giorno dopo giorno. E mai come oggi la Calabria è stata uno “sfasciume” umano, sociale e politico “pendulo sul mare”. La ‘ndrangheta fa da padrona e se non si sente è perché ha deciso di non farsi sentire. Questa è la vera grande colpa di quanti si sono prestati (Gratteri in primis) a un gioco che ha aiutato a cancellare la Calabria da ogni agenda di governo. Senza sconfiggere né la criminalità organizzata né tanto meno quella comune. Quindi, sono rimasto sorpreso e perplesso quando ho letto l’editoriale di Sallusti “Gratteri, don Chisciotte e Sancho Pancia” con il direttore de Il Giornale nella parte di cavaliere dell’Ideale per il presunto coraggio di criticare Gratteri ritenuto un “intoccabile”. Di vero c’è solo l’imbarazzato silenzio dei giornali che hanno dedicato intere paginate a Gratteri e tutte grodanti “ inni e canti “ al magnifico procuratore che il Cielo avrebbe destinato alla Calabria. Per il resto Sallusti si sbaglia e lo sa bene. Il procuratore di Catanzaro è realmente un intoccabile ma solo se arresta calabresi, meglio se “sciancati”, interpretando gli umori delle caste che comandano in Italia. Ma se pensa a Milano troveranno mille modi per sbarrargli il passo. Sto leggendo il libro Strage di Stato e, da quanto ho finora letto, mi sembra indubbio il fatto che Gratteri abbia sbagliato a fare la prefazione al libro. Ma una prefazione rispetto a quanto è successo in Calabria negli ultimi trenta anni, è nulla. Eppure tutto è stato colpevolmente ignorato da quanti avevano l’obbligo di sapere. Era il 2009 quando con un editoriale su Calabria ora diretto da Piero Sansonetti abbiamo denunciato quanto era avvenuto a Plati (Rc). E poi abbiamo parlato di “Metropolis” , di “Circolo Formato”, delle varie inchieste (sommarie) sulla sanità calabrese e sul delitto del vicepresidente del Consiglio regionale, on. Fortugno. Sino ad arrivare a “Rinascita Scott”, al confinamento (illegale) del presidente della Regione e all’arresto (illegittimo) del presidente del Consiglio regionale. E ancora (e soprattutto) , di vite spezzate, di democrazia sospesa, di economia al lastrico ad opera della mafia e dell’antimafia, di oltraggi costanti alla Costituzione. Abbiamo combattuto in solitudine e non senza rischi, mai contro le persone ma solo per rompere il muro di sopraffazione e di indifferenza verso la Calabria. I fatti ci hanno dato ragione su tutto…. ma – ed in questi giorni è più evidente che mai- la Calabria non è Milano.

Il procuratore sposa le tesi no-vax. “Vaccini sono acqua di fogna”, Gratteri firma la prefazione del libro dei negazionisti. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Nicola Gratteri come il peggiore dei cospirazionisti no-vax. Il procuratore di Catanzaro firma la prefazione di un libro, “Strage di Stato – Le verità nascoste della Covid-19”, che mette insieme alcune delle peggiori bufale e teorie del complotto su Coronavirus, vaccini e ruolo di fantomatiche lobby dietro la pandemia che ad oggi ha provocato nel mondo 125 milioni di casi e quasi 3 milioni di decessi, di cui 100mila solo in Italia. Autori del libro in questione sono Pasquale Bacco e Angelo Giorgianni: il primo è un medico con un passato nell’estrema destra, da CasaPound a Fiamma Tricolore, amministratore delegato della società Meleam, che si occupa d medicina legale e sicurezza nei luoghi di lavoro; il secondo è invece un collega di Gratteri, magistrato presso la Corte di appello di Messina e con un passato anche lui di politico ma sul fronte opposto, arrivando anche al ruolo di sottosegretario all’Interno nel primo governo Prodi. A "scovare" il passo falso di Gratteri e il suo sposare tesi negazioniste è Luciano Capone su Il Foglio, che riporta passi del libro di Bacco e Giorgianni. All’interno infatti si possono trovare affermazioni da mani nei capelli, tesi che circolano nei peggiori blog di “contro-informazione” che rimandano la pandemia ad un complotto orchestrato da ebrei, Big Pharma, Bill Gates and company. L’antisemitismo di fondo nelle tesi di Bacco e Giorgianni, da cui Gratteri non prende le distanze, è evidente in passaggi come questo. “Vogliamo dire chi comanda nel mondo? Comandano gli ebrei! Sta tutto in mano a loro! Tutte le lobby economiche e le lobby farmaceutiche, hanno tutto in mano loro… la grande finanza…”. Pare evidente che Gratteri non si sia informato sul curriculum dei due autori o, peggio, che ne condivida le tesi. Bacco infatti lo scorso luglio, intervenendo ad una conferenza alla Camera promossa da Sara Cunial, deputata no-vax eletta con il M5S e poi espulsa dai grillini per le sue tesi ormai indifendibili, diceva questo palando dal virus: “E’ un virus ridicolo. Il Covid, dobbiamo dirlo sempre con più forza, non ha ucciso nessuno”. Quanto al vaccino, per Bacco al suo interno c’è “acqua di fogna”, “tutte le schifezze possibili e immaginabili”, urlava lo scorso ottobre durante una manifestazione a Taranto contro il lockdown. Non meno pesanti sono le teorie di Giorgianni, che in qualità di magistrato avrebbe un ruolo pubblico che dovrebbe spingerlo a mordersi la lingua. Niente da fare invece, perché per il magistrato della Corte di appello di Messina la pandemia “è uno strumento di ingegneria sociale che serve per realizzare un colpo di stato globale” e, riprendendo le parole di monsignor Viganò, si tratta di una “glia biblica tra i Figli della Luce e i Figli delle Tenebre”. Come Bacco, anche Giorgianni si oppone con tutte le sue forze ai vaccini anti-Covid, che vogliono trasformare “l’uomo in Ogm” e che “potrebbe determinare la sterilità nell’uomo e nella donna”. Con questi curricula è possibile che Gratteri non abbia pensato di evitare di mettere la firma sul libro di Bacco e Giorgianni? Ebbene il procuratore di Catanzaro sembra sposare e supportare il complottismo dei due autori: per Gratteri infatti ci troviamo di fronte a “un libro-inchiesta che ricostruisce la successione degli eventi, la fonte dei provvedimenti, le correlazioni talvolta insospettabili tra fatti e antefatti, sollevando angosciosi interrogativi – degni di approfondimento nelle sedi competenti – sulla gestione dell’emergenza pandemica”. Un supporto tale alle strampalate teorie degli autori da spingere Gratteri ad essere ospite d’onore del dibattito che terranno i due autori sulla loro pagina Facebook “L’Eretico” sabato prossimo.

Coronavirus, Nicola Gratteri accusato dal Foglio: "Fa il no vax e intanto si vaccina". Calabria, l'accusa al super pm. Libero Quotidiano il 26 marzo 2021. Di questi tempi basta poco per distruggere la propria reputazione, è il caso del temerario pm anti 'ngrangheta Nicola Gratteri. Nella giornata di ieri, il Foglio ha rivelato che Gratteri ha partecipato alla pubblicazione del saggio definito "no-vax" Strage di Stato (edito da Lemma Press), scritto dal magistrato Angelo Giorgianni e dal medico Pasquale Bacco. Gratteri ha curato la prefazione del volume. Gli autori del saggio vengono descritti da il Foglio come autori di "tesi cospirazioniste e completamente deliranti su un presunto colpo di stato globale orchestrato da Big Pharma, Oms, Bill Gates, Soros e Rockefeller". Accusato di negare l'esistenza del virus, Gratteri risponde senza fronzoli: "Io negazionista? In Procura siamo tutti vaccinati". Come fa notare il Giornale, è interessante come in Calabria migliaia di over 80 siano ancora in attesa del vaccino, mentre ci sono "gruppi che vantano priorità probabilmente in base a qualche loro forza contrattuale, per dirla con le parole del premier Mario Draghi". Gratteri risponde spavaldo alle critiche: "Mi sono limitato a cogliere l'occasione per lanciare l'allarme contro le mafie". Il libro non mira soltanto a sbriciolare la comunità scientifica e l'operato del Cts, ma rivolge pesanti accuse alla gestione pandemica del Conte II, in particolare a Bergamo. Probabilmente le uniche accuse sensate dell'intero volume. Nel saggio, gli autori sostengono che il vaccino sia prodotto esclusivamente per alterare il genoma dell'essere umano, con un conseguente impatto sulla fertilità. Nel capitolo "Armiamoci, e vaccinatevi!", secondo gli autori il vaccino porterebbe ad "un'alterazione genetica tale da scompaginare l'intero sistema immunitario, trasformando in pericolosi killer dei normalissimi virus con cui conviviamo tranquillamente". Tra gli scienziati citati a supporto delle loro tesi, il premio Nobel Luc Montagnier che dall'inizio della pandemia ha esternato alcune dichiarazioni, insolite per una personalità della sua caratura. In precedenza aveva per esempio definito gli ideatori dei vaccini "apprendisti stregoni". Intanto, Angelo Giorgianni, uno dei due autori, non ha digerito la reazione dei media e dell'opinione pubblica, affermando in un'intervista esclusiva ad Adnkronos che "in quell'articolo (quello del Foglio) e in altri che poi sono stati pubblicati, ci sono affermazioni che hanno un contenuto diffamatorio". Il giudice presso la Corte d'Appello di Messina ha difeso fermamente la propria posizione: "Siamo in uno stato di diritto in cui uno può esprimere la propria idea, a maggior ragione quando io la mia idea la esprimo sulla base di una documentazione scientifica. Dunque, mi sembra quantomeno fuori le righe questo attacco. Non si può ingiuriare una persona ingiustamente" afferma, ribadendo la querela per diffamazione.

La difesa del procuratore di Catanzaro. Gratteri firma la prefazione dei no-vax ma tira in ballo la mafia: “L’ho fatto per lanciare l’allarme sui loro guadagni”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Quando la toppa è peggiore del buco. Nicola Gratteri tenta di respingere la pioggia di accuse arrivate in queste ore dopo la notizia della sua firma, come autore di una prefazione, sul libro dei negazionisti Angelo Giorgianni e Pasquale Bacco "Strage di Stato – Le verità nascoste della Covid-19". Il procuratore di Catanzaro usa le colonne (web) di Repubblica per tentare di riposizionarsi su una vicenda scomoda che lo ha messo in grande difficoltà, col suo nome in risalto nella copertina di un libro che contiene alcune delle peggiori teorie cospirazioniste sul Covid-19, sui vaccini e sui complotti della onnipresente lobby ebraica. Gratteri nega di essere un negazionista, rivendicando che per il suo ufficio giudiziario “sono state acquistate migliaia di mascherine e siamo tutti vaccinati”. Anzi, la sua procura si “blindata” contro il Covid: “Plexiglass in tutti gli uffici, dispenser di disinfettanti ogni cinque metri, sanificazioni regolari, accesso al pubblico limitato e tre nuove pec per il deposito degli atti” elenca il magistrato “questo non mi sembra certo l’ufficio di qualcuno che non crede nella pericolosità del Covid“. Quanto ai magistrati, nessuno ha rifiutato il vaccino che in Calabria è stato già somministrato a tutte le toghe, spiega ancora Gratteri al quotidiano. Ma allora perché Gratteri ha firmato la prefazione di quel libro? “Mi sono limitato a cogliere l’occasione che mi è stata offerta per lanciare per l’ennesima volta l’allarme sulla pandemia come nuova occasione di crescita e guadagno per le mafie. Un tema che da troppo tempo viene ignorato”, spiega il procuratore di Catanzaro. Argomentazione che però non regge perché Gratteri non può non sapere cosa scrivono nel libro i due autori, molto lontano da qualsiasi tipo di allarme su mafie e criminalità organizzata. Bacco e Giorgianni descrivono il Coronavirus come un “virus assolutamente banale”, mettono in dubbio le scene con la "sfilata" dell’esercito a Bergamo con i camion carichi di salme definendolo un “macabro scoop dei camion dell’Esercito che portavano le salme a Bergamo” per “convincere la città dell’esistenza della peste”. Gratteri nella sua difesa dimentica altre parti del libro, come quando nel capitolo “La matematica non è un’opinione. Forse” i due autori mettono in dubbio le cifre ufficiali sui morti per Covid-19 diffuse da Istat e Istituto Superiore di Sanità, oltre 100mila, e fanno poi riferimento nel capitolo conclusivo ad un “processo di Norimberga” nei confronti di chi ha cercato di contrastare il Coronavirus citando un fantomatico tribunale peruviano, ricorda Il Foglio, che accuserebbe “i creatori dell’ordine mondiale come Bill Gates, Soros e Rockefeller, che l’hanno gestita e continuano a dirigere con estrema segretezza all’interno dei loro ambienti e delle multinazionali”. Le argomentazioni di Gratteri nella sua autodifesa, insomma, non tornano: le idee dei due autori del libro erano arcinote e riscontrabili con una semplice ricerca online. Dal procuratore di Catanzaro serve ben altra chiarezza sulla questione…

Il pm ammette "il doppio errore". Gratteri e la prefazione al libro negazionista e antisemita: “Testo discutibile, non l’ho letto”. Redazione su Il Riformista il 10 Aprile 2021. “Ho fatto un doppio errore, di eccesso di affidamento e di generosità mal riposta”. Ci sono volute oltre due settimane per spingere Nicola Gratteri, capo della procura di Catanzaro, a prendere ufficialmente le distanze dal libro “Strage di Stato: le verità nascoste della Covid-19” scritto dal magistrato Angelo Giorgianni e dal medico Pasquale Bacco e di cui lo stesso Gratteri è stato autore della prefazione. Saranno forse state le festività pasquali recentemente trascorse a spingere uno dei magistrati più mediatici di sempre a fare un passo indietro e a pronunciare giusto qualche parola sul libro negazionista e antisemita che lo ha visto protagonista. In una intervista rilasciata a Repubblica, Gratteri si dichiara estraneo a queste tesi perché “la prefazione è assolutamente neutra, sarebbe bastato leggerla per escludere ogni collegamento. Nella mia vita di magistrato mi sono tenuto sempre lontano da teorie complottiste, ho cercato sempre prove, non trame”. Gratteri si giustifica ammettendo una cosa gravissima: ovvero di aver scritto la prefazione senza conoscere i contenuti del libro, nonostante le idee di Giorgianni e Bacco fossero tutt’altro che ignote. “La mia prefazione nasce da un abstract non del tutto corrispondente, inviatomi dal collega Giorgianni: in quel testo si faceva esclusivo riferimento alla situazione pandemica e ai riflessi economici e criminali. Nessun riferimento ai vaccini, né a un complotto internazionale a matrice ebraica, secondo categorie culturali utilizzate da negazionisti e no vax, di cui tra l’altro nel libro non c’è traccia”. Il procuratore di Catanzaro arriva finalmente alla conclusione che il libro è “certamente discutibile” anche se subito dopo il polverone dello scorso 25 marzo si era limitato a ripetere il solito ritornello: “Mi sono limitato a cogliere l’occasione che mi è stata offerta per lanciare per l’ennesima volta l’allarme sulla pandemia come nuova occasione di crescita e guadagno per le mafie“. Così come scriveva Tiziana Maiolo qualche settimana fa sul Riformista, nel libro emergono concetti come “vogliamo dire chi comanda nel mondo? Comandano gli ebrei! Sta tutto in mano a loro! Tutte le lobby economiche e le lobby farmaceutiche…”. Il che, inserito in un contesto in cui prima si nega l’esistenza stessa del virus che “non ha ucciso nessuno”, poi si strilla contro l’uso delle mascherine che andrebbero “buttate nel cesso” e si definisce il vaccino “acqua di fogna”, per poi emettere la sentenza su una “strage di Stato”, significa anche chiamare per nome e cognome i colpevoli da condannare. Gli ebrei, prima di tutto, perché governano il mondo e possiedono le banche (già sentita). E sono componente fondamentale della “strategia globale del terrore”, fanno parte di quel “governo mondiale da parte del Deep state guidato dalle alte vette del Vaticano, dalla famiglia Windsor, Rockefeller e Rotschild”.

Prefazione al libro no vax, Gratteri alla fine s'arrende. Il pm si scusa ma scarica sull'autore: "Mi sono basato su un abstract poco corrispondente". Massimo Malpica - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Mea culpa, ma non troppo. Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri alza le mani e ammette, in un'intervista a Repubblica, di aver sbagliato a firmare la prefazione al libro «negazionista» sul Coronavirus Strage di Stato: le verità nascoste della Covid-19, opera del suo collega magistrato Angelo Giorgianni e di Pasquale Mario Bacco. Così, dopo le polemiche degli ultimi giorni, deflagrate dopo che il Foglio aveva rivelato il «suggello» dello stimato magistrato su quel libro quantomeno controverso, ecco che ora Gratteri da quella fatica letteraria prende le distanze. «Non sono l'autore del libro e non rispondo del contenuto, certamente discutibile», sospira. Sostenendo di aver scritto la prefazione incriminata basandosi su «un abstract non del tutto corrispondente, inviatomi dal collega Giorgianni», nel quale non si parlava di vaccini ma «si faceva esclusivo riferimento alla situazione pandemica e ai riflessi economici e criminali». Quanto al resto dei contenuti del libro, che disegna scenari che ipotizzano un possibile colpo di stato, la riprogrammazione sociale e genetica (tramite i vaccini), il «nuovo ordine mondiale» al lavoro dietro le quinte della pandemia, Gratteri finalmente si dissocia. Rimarcando la «neutralità» della sua prefazione rispetto a queste tematiche, e non nascondendo una vena polemica per le critiche che gli sono piovute addosso. «Sarebbe bastato leggerla per escludere ogni collegamento. Nella mia vita di magistrato mi sono tenuto sempre lontano da teorie complottiste, ho cercato sempre prove, non trame», ringhia Gratteri, che poi mette un paletto anche quanto alle accuse di strizzare l'occhio ai teoremi cari ai no vax. «Mi sono vaccinato continua - ho sollecitato tutti i colleghi e gli amministrativi del mio ufficio a farlo. Tutti i miei familiari sono vaccinati e quelli che ancora non lo sono, per ragioni di età, sono in attesa. Un dato oggettivo, resto distante anni luce da quelle posizioni». Gratteri però difende anche il libro, che non avrebbe i contenuti di cui si è parlato, come la definizione di «acqua di fogna» per il vaccino anti-Covid, che non è nell'opera, ma è stata detta proprio dal dottor Bacco in una intervista di ottobre scorso. E ammette sì di aver fatto un «doppio errore», di «eccesso di affidamento e di generosità mal riposta», ma quando gli si chiede se lo rifarebbe, il procuratore capo di Catanzaro dice di no, ma non per la mal riposta generosità, bensì per quella che definisce una «incredibile strumentalizzazione» che, tra l'altro, «ha solo inasprito di più gli animi». Le accuse per quella prefazione proprio non gli vanno giù, insomma, tanto da insinuare che dietro i venti polemici per la sua scivolata si potesse nascondere altro: «È oggi evidente il rischio di infiltrazione delle mafie in tutti i settori dell'economia», ribadisce Gratteri, spiegando che «sembra quasi che intenzionalmente si voglia spostare l'attenzione su altri temi, soprattutto da parte di amministratori del bene pubblico o aspiranti tali», e questo, conclude, «per me è inaccettabile». Errore sì, insomma, ma «mai in malafede».

Alessio Candito e Giuseppe Smorto per “la Repubblica” il 10 aprile 2021. Procuratore Nicola Gratteri, lei ha scritto la prefazione di un libro controverso, "Strage di Stato: le verità nascoste della Covid-19", firmato dal suo collega magistrato Angelo Giorgianni e dal dottor Pasquale Bacco, negazionista, in passato candidato per liste di estrema destra. Lo ha letto?

«Non sono l'autore del libro e non rispondo del contenuto, certamente discutibile. La mia prefazione nasce da un abstract non del tutto corrispondente, inviatomi dal collega Giorgianni: in quel testo si faceva esclusivo riferimento alla situazione pandemica e ai riflessi economici e criminali. Nessun riferimento ai vaccini, né a un complotto internazionale a matrice ebraica, secondo categorie culturali utilizzate da negazionisti e no vax, di cui tra l'altro nel libro non c'è traccia».

Si parla di un colpo di Stato globale, di riprogrammazione sociale possibile grazie al Covid. Di nuovo ordine mondiale gestito da Gates, Soros, Rockefeller. Lei si dichiara estraneo a queste tesi?

«Certamente: la prefazione è assolutamente neutra, sarebbe bastato leggerla per escludere ogni collegamento. Nella mia vita di magistrato mi sono tenuto sempre lontano da teorie complottiste, ho cercato sempre prove, non trame. Mi sono vaccinato, ho sollecitato tutti i colleghi e gli amministrativi del mio ufficio a farlo. Tutti i miei familiari sono vaccinati e quelli che ancora non lo sono, per ragioni di età, sono in attesa. Un dato oggettivo, resto distante anni luce da quelle posizioni».

Lei cosa si rimprovera in questa vicenda?

«Ho fatto un doppio errore, di eccesso di affidamento e di generosità mal riposta».

Lo rifarebbe? Riscriverebbe quella prefazione?

«No, non la rifarei, per due ragioni. Primo perché, per motivi che non mi spiego, c'è stata una incredibile strumentalizzazione che mai mi sarei aspettato, ma della quale, anche a futura memoria, devo prendere atto e farne tesoro; secondo perché questo battage mediatico ha solo inasprito di più gli animi».

Non crede sia stato solo giornalismo? Esattamente cosa non si spiega?

«Molte cose. Prima di tutto non comprendo quali ulteriori chiarimenti dovrei fornire. Non comprendo come abbiano potuto attribuirmi impostazioni e convincimenti distanti anni luce dalla mia cultura e dalla mia formazione, vista la mia storia, personale e professionale. Non comprendo le dichiarazioni rese da autorevoli studiosi del diritto che hanno evidentemente espresso opinioni senza aver letto il libro e, soprattutto, senza aver letto la mia prefazione. Non comprendo perché si concentri su altro anche chi dovrebbe conoscere certe dinamiche: è oggi evidente il rischio di infiltrazione delle mafie in tutti i settori dell'economia. Spero di sbagliarmi, ma sembra quasi che intenzionalmente si voglia spostare l'attenzione su altri temi, soprattutto da parte di amministratori del bene pubblico o aspiranti tali: per me è inaccettabile».

Francesco Merlo ha parlato di "concorso esterno in pataccheria". Lei si sente messo in discussione?

«No. Sbaglio, come tutti, ma mai in malafede. Quanto è accaduto mi servirà senza dubbio da lezione. Vi dico una cosa scontata, ma necessaria. La libertà di pensiero, l' eguaglianza tra tutti i cittadini senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione o opinioni politiche sono diritti riconosciuti dalla nostra Costituzione, inviolabili e non negoziabili».

Anche in seguito a questa vicenda, viene contestata la sua candidatura per Milano.

«Escludo che la polemica nasca dal timore che io possa concorrere alla Procura della Repubblica di Milano. Un magistrato, come tutti sanno, non può suscitare allarme, agisce solo secondo legalità. Preferisco, comunque, non fare dietrologia».

Facendo domanda per Milano, non pensa di lasciare a metà il lavoro sull' inchiesta "Rinascita-Scott" e il maxiprocesso di Lamezia Terme?

«Sto benissimo a Catanzaro, voglio portare a compimento le attività di lotta alla criminalità organizzata, senza lasciare forze dell' ordine e Sostituti a metà del percorso, non ho nessuna fretta. Valuterò se chiedere Milano, subordinando il mio trasferimento al compimento dei percorsi intrapresi. In ogni caso, mi affiderò in maniera piena ed esclusiva alle sagge valutazioni del Csm, come ho sempre fatto».

Che intende per percorsi?

«Sicuramente il completamento di molte indagini e di processi in corso, ma anche, dopo la realizzazione dell' aula-bunker di Lamezia, l ultimazione dei lavori dell' ex ospedale militare, che dovrà accogliere la nuova Procura».

Lei da tempo ha lanciato l'allarme: l' economia indebolita dalla pandemia è sotto attacco della mafia.

«Il rischio che con la crisi le mafie si sostituiscano allo Stato è altissimo. Proveranno ad accedere a tutte le misure di sostegno, compreso il Recovery Fund. Sfruttano il disagio sociale e da sempre sono pronte a rilevare imprese e attività in sofferenza. Purtroppo è un film già visto, l' assalto delle mafie ai contributi erogati per fronteggiare pandemie e terremoti continua, ormai si è consolidata una sorta di economia e di politica della catastrofe. Ho più volte messo in guardia sui pericoli di infiltrazione, soprattutto in un momento caratterizzato da una crisi che molti paragonano alla Grande Depressione. Mai abbassare la guardia».

E per lei che futuro vede?

«Ma perché siete concentrati sul mio futuro professionale e non su quello di tanti altri colleghi procuratori in scadenza, anche prima di me e a capo, come me, di Procure medie o grandi? Ad ogni modo, dico sinceramente che non lo so: l' unica cosa che posso dire è che se potessi non lascerei mai la Calabria».

Intervenga Mattarella o la magistratura muore. Un giorno di ordinaria (in)giustizia: dall’antisemitismo di Gratteri alla lottizzazione di Palamara. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Marzo 2021. Dio mio, stavolta interverrà qualcuno? E quando dico qualcuno penso all’unica persona che ha ancora la credibilità e l’autorevolezza per intervenire. Mattarella. Vi faccio il riassunto della giornata di ieri sul fronte giustizia. Di prima mattina un articolo del Foglio ci informa che è uscito un libro firmato da un importante magistrato in attività (Angelo Giorgianni, che in passato è stato persino sottosegretario nel governo Prodi) oltre che da un medico ex Casapound, nel quale si sostengono tutte le tesi negazioniste possibili sul Covid e sui vaccini, e poi si mettono sul banco degli accusati Big Pharma, Bill Gates, Soros, Rockefeller e soprattutto gli ebrei. Sì: gli ebrei. Si legge nel libro: «Vogliamo dire chi comanda nel mondo? Comandano gli ebrei! Sta tutto in mano a loro! Tutte le lobby economiche e le lobby farmaceutiche, hanno tutto in mano loro… la grande finanza». Ancora sbigottiti dalla notizia che esistono in giro per le Procure italiane magistrati così ferocemente antisemiti, e per di più così suggestionabili dalle ipotesi più strampalate e infondate (è con questo rigore scientifico che eseguono le indagini e chiedono i mandati di cattura?) cerchiamo di scoprire cosa ha chiesto il Csm a Palamara e cosa Palamara ha risposto. E veniamo a sapere che il Csm ha chiesto a Palamara di parlare della procura di Milano e della procura di Roma, e Palamara ha spiegato per filo e per segno come gli stati maggiori di quelle procure siano stati perfettamente lottizzati dalle correnti. Non con criteri meritocratici o di cultura giuridica, o di esperienza, ma con puri criteri di camarilla. Palamara ha parlato di Milano e Roma, cioè delle casematte del nostro sistema giustizia, ma perché solo di quelle due procure gli hanno chiesto. Probabilmente se gli avessero chiesto di parlare di qualunque altra procura avrebbe detto le stesse cose. Cioè, Palamara ci ha informato che quando finiamo nella mani di una Procura, noi magari pensiamo di finire nelle mani di un credibile e oggettivo sistema giudiziario, invece andiamo alla mercé di una macchina di partito, che però – a differenza della vera macchina di partito – non ha neppure nessuna investitura popolare. e le inchieste, e le sentenze, saranno largamente influenzate non dalla legge ma da questi orientamenti e rapporti di potere. Ecco, vi abbiamo fatto un riassunto breve breve della mattinata. Se dobbiamo mettere un titolo al riassunto non possiamo che tornare a ripetere: al vertice della magistratura c’è una loggia segreta molto più potente, più arrogante, più pericolosa, più sovversiva della famosa Loggia P2 di Licio Gelli. Nel libro di Palamara abbiamo scoperto che però esistono, anche ai vertici della magistratura, frange che sono fuori dal sistema. Per esempio? Per esempio, appunto, c’è Gratteri che è fuori dai giochi. ma Gratteri è il Procuratore che avalla le follie di un libro antisemita e terrapiattista. Siamo proprio messi bene. Alla fin fine dobbiamo arrenderci a Di Matteo. Capite? Sì, a Di Matteo (col quale siamo in polemica furiosa, e anche in causa, da anni): lui è l’unico che ieri ha bersagliato di domande Palamara, come giorni fa era stato l’unico a incazzarsi per il modo nel quale la procura e il Csm avevano rinviato per anni l’esame della chat di Palamara. E Di Matteo, grazie a Dio, non va nemmeno appresso alle vecchie teorie naziste…Capite che non siamo messi bene se a cercare una lucina piccola piccola nel buio di un sistema giudiziario ormai andato a male, dobbiamo rivolgerci all’uomo del fantasiosissimo processo Stato-Mafia, dove il principale imputato è l’uomo che ha catturato Riina e mezza cupola. Vabbé. Però torniamo un momento a Gratteri, che nel pomeriggio ha rilasciato a Repubblica un’intervista da fare rizzare i capelli in testa a chiunque. Cosa ha detto, per giustificarsi della colpa di aver avallato il libro dei suoi due amici antisemiti e no vax? Ha detto che in Procura, a Catanzaro, lui ha fatto vaccinare tutti. Cioè, capiamoci bene: ha rilasciato una intervista senza dire una parola di pentimento per le tesi negazioniste e antisemite, non ha emesso neppure un fiato di condanna per quel libro vergogna, e per di più ha detto che lui fa il no vax in libreria e poi vaccina tutti i giovani virgulti della Procura. E perché li vaccina? E chi gli ha dato i vaccini? E come ha potuto passare davanti a migliaia e migliaia di ottantenni e di settantenni, e forse persino a qualche novantenne che ancora aspettano il vaccino? E con che diritto? E in nome di quale principio e di quale legge? E con quale carica di sfida al discorso tenuto appena il giorno prima dal presidente Draghi, furioso per l’assalto della corporazioni che danneggiano i deboli e gli anziani? Adesso io faccio un ragionamento semplice semplice. Ci sono consiglieri comunali della Lega o di FdI costretti a dimettersi per avere messo un cuoricino, su Twitter, a un messaggio un pochino antisemita, o nostalgico del duce o cose così. Non posso nemmeno immaginare cosa succederebbe se qualcosa del genere la facesse un deputato nazionale. È possibile che un Procuratore della Repubblica non senta la responsabilità, di fronte a uno scandalo morale così grande, di lasciare l’incarico? Ma se non succede questo, dico, cosa parlate a fare di questione morale? C’è una questione morale più grande di quella aperta dall’ammiccamento a vecchie tesi naziste? Poi c’è un altro problema. Più tecnico. Qualche Gip, se onesto, può dar retta a un Pm che gli porta una richiesta di arresto sulla base di congetture che – a occhio – possono essere basate sullo stesso rigore con il quale questo Pm avalla tesi folli sul Covid e sugli ebrei? Il Csm non è in grado di intervenire? E il ministro? Presidente Mattarella, metta da parte ogni ragionamento sull’opportunità politica. L’Italia ha bisogno di qualche gesto che almeno in minima parte riabiliti una magistratura la cui credibilità, ormai, è allo stremo. Intervenga in qualche modo, Mattarella. Intervenga. Almeno dica a voce alta di non dar retta ai Pm. Dica che il mondo non è in mano ai congiurati di Sion.

L'incredibile avallo del Procuratore. La follia di Gratteri: approva negazionisti e antisemiti, può ancora fare il Pm? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Marzo 2021. È possibile indossare la toga di magistrato e contemporaneamente avallare tesi antisemitiche e razziste? Guidare l’operazione “Rinascita Scott” e privare della libertà centinaia di persone mentre si va a braccetto con chi grida contro gli ebrei “che comandano il mondo” e chi accusa governi, medici e scienziati di aver attuato, tramite l’imbroglio del Covid (“che non uccide”), una “strage di Stato”? «Gratteri lo ha letto, e ha deciso di firmarne la prefazione, per noi questo presenta un avallo eccezionale». L’avallo è a un libro che si chiama La strage di Stato, un vademecum non solo negazionista sul Covid e i vaccini, ma complottistico, paranoico e decisamente razzistico. Non è solo questione di opinioni discutibili, qui siamo su un crinale molto serio che sfiora il codice penale. Anche se la legge Mancino è criticabile da chi non crede nei reati d’opinione, la sua violazione da parte di un magistrato qualche problema lo crea. Per la credibilità delle sue inchieste e delle sue azioni, prima di tutto. Ecco alcuni dei concetti che il procuratore Gratteri avrebbe “avallato”, secondo quanto dicono gli stessi autori del testo. «Vogliamo dire chi comanda nel mondo? Comandano gli ebrei! Sta tutto in mano a loro! Tutte le lobby economiche e le lobby farmaceutiche…». Il che, inserito in un contesto in cui prima si nega l’esistenza stessa del virus che «non ha ucciso nessuno», poi si strilla contro l’uso delle mascherine che andrebbero «buttate nel cesso» e si definisce il vaccino «acqua di fogna», per poi emettere la sentenza su una “strage di Stato”, significa anche chiamare per nome e cognome i colpevoli da condannare. Gli ebrei, prima di tutto, perché governano il mondo e possiedono le banche (già sentita). E sono componente fondamentale della «strategia globale del terrore», fanno parte di quel «governo mondiale da parte del Deep state guidato dalle alte vette del Vaticano, dalla famiglia Windsor, Rockefeller e Rotschild». Follia antisemitica, o semplicemente follia? Sembrerà strano (e ringraziamo il giornalista del Foglio Luciano Capone per avercelo segnalato), ma i nomi degli autori di questo libro, che si fa fatica anche a tenere in mano, non sono neppure rilevanti. Uno si chiama Pasquale Maria Bacco, è un medico il cui titolo fasullo di professore è già stato smascherato dai segugi di Striscia. È amministratore delegato della società Meleam, che si occupa di medicina legale, e sostiene di aver svolto 23 autopsie e di aver verificato che nessuna della persone ufficialmente dichiarate morte di Covid in realtà lo era. Erano anziani o malati di altro, dice. «Abbiamo smascherato tutto», scrive nel suo libro. Salvo poi ammettere, in un’intervista ad Affari italiani: «Da quando ho fatto le autopsie, ogni settimana ho un procedimento in corso. Per fortuna la società per cui lavoro mette a disposizione un avvocato». L’altro autore del libro è un magistrato della corte d’appello di Messina, Angelo Giorgianni, vecchia conoscenza della politica, eletto al Parlamento nel 1996 con Rinnovamento italiano di Lamberto Dini, per un breve periodo sottosegretario all’Interno del primo governo Prodi, poi silurato per quel “verminaio Messina”, un’accusa infondata su rapporti sospetti tra imprenditori, professori e magistrati, poi finita in niente. La sua esperienza politica finirà poi con l’adesione all’Udeur di Clemente Mastella e infine il ritorno alla toga. I due autori del libro sono accomunati dall’adesione al gruppo “L’Eretico”, molto attivo su Facebook, che da più di un anno, mescolando tesi antiscientifiche e propaganda su arbitrii travestiti da libertà, svolgono attività da imbonitori. Sono pericolosi, inutile nascondere la realtà. Perché se qualcuno si dovesse convincere che il virus non ha mai ucciso nessuno e che i centomila morti in realtà non esistono, perché sarebbero morti comunque, o perché erano troppo vecchi o troppo malati per poter continuare a vivere, tutto diventerebbe inutile, la prevenzione come le cure. Tanto erano tutte sbagliate, dicono gli autori con l’avallo di Gratteri, e quei medici colpevoli hanno solo accelerato le morti. E i medici sono quindi assassini? Lei dottor Gratteri “avalla” questa accusa? Dobbiamo farli arrestare? E quegli imbroglioni che hanno messo in scena le finte bare di Bergamo? Arrestiamo anche loro per il concorso esterno così diffuso in Lombardia? Se questo è il quadro, vediamo quale è il ruolo del procuratore Gratteri. Nella sua prefazione, il magistrato mostra di apprezzare moltissimo questa “inchiesta”. Quasi quasi gli ricorda il metodo di quelle che svolge lui. Se è così, è preoccupante. Perché il libro «ricostruisce la successione degli eventi, la fonte dei provvedimenti, le correlazioni talvolta insospettabili tra fatti e antefatti, sollevando angosciosi interrogativi –degni di approfondimento nelle sedi competenti- sulla gestione dell’emergenza pandemica». L’inchiesta sul Covid come “Rinascita Scott”. Con la stessa credibilità, lo stesso metodo investigativo. Manca solo il nome dell’avvocato Pittelli, al posto di quello di Rotschild. Questo ci sta dicendo tra le righe il magistrato inquirente. Che in fondo qualche reato lo sta già annusando. La cosa ci preoccupa, e ci induce a qualche riflessione. Ci sono tanti mestieri che si possono fare con la laurea in giurisprudenza che, come si diceva una volta, apre tutte le porte. O anche con la maturità scientifica. Magari in qualche ufficio in cui non si possano fare danni. Non è obbligatorio che il dottor Nicola Gratteri faccia il procuratore della Repubblica, cioè colui che dirige la polizia giudiziaria e ha il potere assoluto (salvo smentite successive, cosa che a lui succede piuttosto spesso), sulla libertà e sulla vita dei cittadini. Non è obbligatorio, ma lui lo fa, in quel di Catanzaro, Calabria, terra di povertà e anche di mafia. Nei suoi blitz le manette scattano a centinaia, colpevoli e innocenti insieme in un mosaico in cui tutto si incastra secondo una logica spesso non costruita sui fatti ma su connessioni che ricordano i finti sillogismi che studiavamo al liceo, del tipo “acqua salata fa bere e ribere, bere e ribere estingue la sete, quindi acqua salata estingue la sete”. Vorremmo sapere se è un po’ lo stesso mosaico che mette insieme le grandi famiglie ebraiche che governano il mondo insieme al Vaticano e ai poteri finanziari e che imbrogliano le persone “per trasformarle in Ogm”, mettendo in campo torme di medici e scienziati assassini che inoculano vaccini velenosi. E se il procuratore Gratteri “avalla”. E intanto, dalle colonne di Famiglia Cristiana con uno scritto di suo pugno che denota scarsa dimestichezza con la letteratura, lui di persona augura una sorta di Buona Pasqua in chiave anti-‘ndrangheta a «chi usa la parola garantismo per attaccare chi combatte le mafie». Anche i garantisti complottano insieme agli ebrei, a quanto pare.

Gratteri e il libro negazionista diventano un caso. Calenda: «Va rimosso». Il commento del premier Draghi: «Lo avesse detto uno scienziato o uno stimato virologo...» Il Dubbio il 28 marzo 2021. «Lo avesse detto uno scienziato o uno stimato virologo…». Il premier Mario Draghi preferisce buttarla sull’ironia e non alimentare la feroce polemica nata attorno al libro “Strage di Stato-Le verità nascoste della Covid-19”. Un libro scritto da Angelo Giorgianni, 66 anni, giudice presso la Corte d’Appello di Messina, a quattro mani assieme al medico Pasquale Bacco, secondo i quali la pandemia altro non sarebbe se non un grande complotto finalizzato al controllo del mondo. Nessuno, dunque, sarebbe morto per Covid, al punto da arrivare a parlare di “strage di Stato”. «In questo libro tratteremo di omicidi, di sequestri di persona, di violenze private. Nella consapevolezza di usare le parole come macigni. Lo facciamo per rendere onore alla verità, perché solo la verità può renderci liberi», si legge nella sua presentazione. Parole, appunto, pesanti come macigni. Ma ciò che più ha fatto discutere, al di là delle (discutibili) tesi del libro, è la prefazione a firma di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro. Prefazione che non smonta la teoria dei due autori, di fatto – questa la contestazione mossa al procuratore – avallandole. La polemica, ad oggi, ha prodotto un sicuro effetto: il libro è il primo nella classifica vendite di Amazon. E tutti ne parlano, anche il premier, che interpellato in conferenza stampa si è visto costretto a smontare la questione con ironia, forse consapevole dell’effetto pubblicità del tam tam mediatico. Ma la polemica infuria. Al punto che oggi l’ex ministro e leader di Azione Carlo Calenda ha chiesto la rimozione di Gratteri. «Deve semplicemente essere rimosso. Abbiamo già visto cose inaudite, discussioni sui media su inchieste in corso, interventi politici, ma l’avallo da parte di un magistrato di tesi antisemite non si può accettare. A casa. Subito». Il procuratore di Catanzaro, però, non ci sta ad essere definito negazionista. «Plexiglass in tutti gli uffici, dispenser di disinfettanti ogni cinque metri, sanificazioni regolari, accesso al pubblico limitato e tre nuove pec per il deposito degli atti. Questo non mi sembra certo l’ufficio di qualcuno che non crede nella pericolosità del Covid», ha dichiarato a Repubblica. «Io negazionista? Ma se per l’Ufficio sono state acquistate migliaia di mascherine e siamo tutti vaccinati», ha sottolineato, spiegando che il suo contributo al libro è stato quello di «lanciare per l’ennesima volta l’allarme sulla pandemia come nuova occasione di crescita e guadagno per le mafie. Un tema che da troppo tempo viene ignorato». La prefazione è, dunque, una conferma di quanto scritto nel libro “Ossigeno illegale”, scritto a quattro mani con il professore Antonio Nicaso, nel quale si affronta il tema della pandemia vista come ennesima emergenza sfruttata dalla criminalità organizzata per accrescere potere e consensi. «Ho più volte sottolineato – scrive Gratteri nella prefazione al volume di Giorgianni e Bacco – l’urgenza del fare. Ne sono ancora più convinto, alla luce dei tanti contrattempi che rischiano di favorire le mafie, come è sempre successo con le pandemie e le calamità del passato che hanno finito per creare una sorta di economia e di politica della catastrofe. La ricostruzione è sempre stata molto più appetibile della prevenzione: garantisce infatti molti più margini di lucro. Il rischio dell’impasse e dei ritardi è quello di dover arrancare nel singhiozzo delle indagini, cercando di contrastare un’attività criminale alla quale non si deve fornire l’occasione di manifestarsi».

Giorgianni contro i dpcm di Conte. L’intervento di Giorgianni alla Camera. «Siamo stati bollati come due dei peggiori negazionisti del Covid, antivaccinisti, e diffusori di pericolose fake news. E il mio collega Gratteri è stato attaccato, solo per avere accettato di firmare la prefazione del libro gli è stato appioppato l’epiteto di negazionista. Basta. Farò la querela», ha commentato Giorgianni. Nel libro lui e Bacco spiegano quali sarebbero stati, a suo modo di vedere, «gli errori commessi» dall’inizio della pandemia. «È un libro-inchiesta in cui ogni affermazione è circostanziata ed è legata a un riferimento preciso», spiega il giudice che ha già fatto sapere che non si vaccinerà ma che non vuole essere definito un «no vax». Nei mesi scorsi, insieme con Bacco, Giorgianni ha più volte ribadito i suoi «dubbi» sulla pandemia. E nel luglio 2020 aveva anche partecipato, alla Camera dei deputati, a una conferenza stampa in cui aveva detto: «Questa pandemia è uno strumento di ingegneria sociale, che serviva per realizzare un colpo di Stato globale. Quello che vediamo è la punta di un iceberg di un progetto di governo mondiale». Secondo Giorgianni abbiamo avuto «una strage di Stato, omicidi di Stato», convinto che in questo Paese ci sia stata «una dittatura sanitaria». Ma la notizia, apparsa l’altro ieri su Il Foglio, della prefazione firmata da Gratteri, ha sollevato un polverone. Adesso Giorgianni, che è anche Presidente dell’Associazione L’Eretico, Associazione che raggruppa scienziati eretici, giuristi e persone della società civile e portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Vita, va al contrattacco e spiega perché, a suo dire, ha subito «attacchi ingiusti» sul libro e perché anche il magistrato Gratteri, firmando la prefazione, «è stato diffamato». «Siamo in uno stato di diritto in cui uno può esprimere la propria idea, a maggior ragione quando io la mia idea la esprimo sulla base di una documentazione scientifica. Dunque, mi sembra quantomeno fuori le righe questo attacco. Non si può ingiuriare una persona ingiustamente», dice, ribadendo la querela per diffamazione.

Bacco: «Il Covid non ha ucciso nessuno». L’intervento di Bacco alla Camera. Ma perché la scelta di Nicola Gratteri per la prefazione? «Perché Nicola è un collega che stimo e con cui ho lavorato, è una persona apprezzata», dice sempre Giorgianni all’Adnkronos. Entrambi sono calabresi, reggini. «L’ho scelto io e gli ho chiesto io di fare la prefazione al libro e lui ha accettato di buon grado – dice – ma mi è sembrato davvero eccessivo chiamarlo in causa e appioppare anche a lui l’epiteto di negazionista». E aggiunge: «Si addebita a Nicola Gratteri la prefazione di un libro e nella prefazione si da per scontato che Gratteri approvi alcune tesi che non sono assolutamente nel libro. Questa è la verità. Si addebitano espressioni che sono delle vere e proprie fake news e nello stesso tempo si dice che sono nel libro».

 Il caso. Prefazione a libro antisemita, Gratteri ha perso prestigio: deve lasciare. Guido Neppi Modona su il Riformista il 27 Marzo 2021. Ho l’impressione che l’infortunio – se così possiamo chiamarlo – in cui è inciampato il Procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri firmando la prefazione di un libello di impianto palesemente antisemita, sia stato sottovalutato. Questo quotidiano ha riservato ieri ampio spazio alla vicenda, e il caso vuole che lo stesso giorno La Stampa di Torino abbia dedicato una pagina intera alle aspirazioni di carriera del Procuratore di Catanzaro, che punterebbe a dirigere la Procura della Repubblica di Milano e in un momento successivo la Direzione Nazionale Antimafia. La Stampa non riserva alcun cenno alla prefazione del libello antisemita intitolato La strage di Stato. Eppure quel libello sembra riportarci alle più odiose e abbiette invenzioni della campagna razzista contro gli ebrei del 1938, allora si parlava di congiura “demo-pluto-giudaica-massonica” che si proponeva di dominare il mondo e più tardi, con l’avvento nel 1943 della Repubblica sociale italiana, di complotto dell’internazionale ebraica, responsabile del crollo del regime fascista e della sconfitta dell’Italia in guerra. Ne La strage di Stato si leggono frasi di questo tenore: «Vogliamo dire chi comanda nel mondo? Comandano gli ebrei! Sta tutto in mano a loro! Tutte le lobby economiche e le lobby farmaceutiche…»; gli ebrei sarebbero inoltre responsabili di una non meglio precisata «strategia globale del terrore», e via dicendo. Il tutto basato su una sorta di inchiesta che mira a negare la gravità e la diffusione della pandemia da coronavirus e il numero delle vittime. Vi sarebbero cioè governi, medici, scienziati che, sfruttando “l’imbroglio” del Covid, si propongono di attuare una “strage di stato”. A fronte di questi demenziali stereotipi antisemiti e dell’irreale impianto negazionista, il dottor Gratteri scrive nella sua prefazione che il libro «ricostruisce la successione degli eventi, la fonte dei provvedimenti, le correlazioni talvolta insospettabili tra fatti e antefatti, sollevando angosciosi interrogativi – degni di approfondimento nelle sedi competenti – sulla gestione dell’emergenza pandemica». Si tratta di una adesione senza riserve all’ipotesi complottistica della strage di stato, per di più proveniente da un soggetto che, per la carica istituzionale ricoperta, ha il potere di esercitare l’azione penale, potere espressamente adombrato in quell’inquietante inciso in cui il dr. Gratteri parla di angosciosi interrogativi «degni di approfondimento nelle sedi competenti». Vi è quanto basta per concludere che il dr. Gratteri ha perso il prestigio di cui un magistrato – specie se posto a capo di un importante ufficio quale è la Procura della Repubblica – deve godere nei confronti della popolazione e dei suoi colleghi, e pertanto a norma dell’ordinamento giudiziario deve quantomeno essere trasferito in un’altra sede e con funzioni che non comportino alcun incarico direttivo. In diversi contesti si sono purtroppo verificati nelle ultime settimane altri episodi di antisemitismo di cui sono stati protagonisti soggetti che ricoprono cariche pubbliche. Il 27 gennaio di quest’anno, Giorno della Memoria, sul sito istituzionale di San Francesco al Campo, piccolo comune della provincia di Torino, il sindaco ha scritto che la persecuzione e la morte di sei milioni di ebrei sono fatti riportati dalle «tesi storiche tradizionaliste dominanti», dando spazio alle posizioni revisioniste secondo cui le morti sono state «sovrastimate» e causate dalle «condizioni igieniche» dei campi. Pochi giorni dopo una consigliera comunale di Torino del Movimento 5 Stelle ha inserito nella sua bacheca Facebook un post polemico nei confronti del gruppo editoriale Gedi (cui appartengono tra altri i quotidiani La Stampa e La Repubblica) in cui figurano atroci vignette antisemite (l’ebreo rappresentato con naso pronunciato, sorriso malvagio, coltello impugnato dietro la schiena), commentate dalla medesima consigliera come «interessante». Attualmente la consigliera, unanimemente censurata da tutte le forze politiche, è indagata per il reato di istigazione all’odio razziale. Vi è da chiedersi – ma purtroppo la domanda rimane senza risposta – cosa mai abbia indotto il sindaco e la consigliera comunale a occuparsi così maldestramente di questi temi e se si sono resi conto della portata delle loro esternazioni. In sé e per sé si tratta di episodi di non grande rilievo, che sollecitano però alcune riflessioni. Nel 1938 l’antisemitismo era razzismo di stato, sapientemente preparato passo per passo dall’inizio dell’anno sino alla promulgazione il 17 novembre del regio decreto legge sulla tutela della razza ariana (o italiana). Il regime fascista aveva evidentemente bisogno di un potenziale capro espiatorio, che era appunto stato individuato con quel decreto nei circa 40.000 ebrei presenti in Italia. Ora, nella nostra repubblica democratica, vi sono leggi che puniscono severamente la propaganda e l’istigazione all’odio razziale. Ma il problema non si risolve solo con il ricorso alla repressione penale. Gli episodi sopra menzionati si riferiscono a giovani che presumibilmente nel loro curriculum scolastico non hanno acquisito conoscenze sul passato razziale del regime fascista. È dalla scuola quindi che bisogna ripartire per estirpare questa lebbra dell’antisemitismo, che purtroppo continua a serpeggiare in pieghe profonde e non facilmente individuabili e raggiungibili della società italiana.

Fabrizio Caccia e Virginia Piccolillo per corriere.it il 27 marzo 2021. Perfino Mario Draghi ieri si è sentito d’intervenire: «Lo avesse detto uno scienziato o uno stimato virologo...». Battuta al vetriolo. A chi e a cosa si riferiva? A una recensione su Il Foglio e a un titolo che ha scatenato un putiferio: «I deliri del libro sul Covid che Gratteri ha scelto di elogiare». Deliri del tipo: «I vaccini? Acqua di fogna» o «Il virus non uccide». Cose così.

L’icona della lotta alla ‘ndrangheta. Il libro s'intitola Strage di Stato: le verità nascoste della Covid-19, lo hanno scritto il medico No Mask Pasquale Bacco e il giudice presso la Corte d’Appello di Messina Angelo Giorgianni, noti per le loro posizioni negazioniste. E la prefazione, ecco il punto, è proprio di Nicola Gratteri, non un nome qualsiasi, il procuratore capo di Catanzaro. L’icona della lotta alla ‘ndrangheta. Draghi, dunque, si riferiva a lui?

«A Catanzaro ho convinto anche gli impiegati a farsi vaccinare». Vaccini, acqua di fogna: davvero Gratteri pensa questo? «Ora ho un nervosismo addosso - dice - Se io considerassi in questo modo i vaccini, non mi sarei mai vaccinato come invece ho già fatto. Dico di più: non mi sarei messo al telefono con il medico dell’Asp di Catanzaro per farmi spiegare i possibili effetti collaterali per un archivista del mio ufficio che aveva timore di farlo. Non avrei convinto a vaccinarsi gli impiegati che tengono ogni giorno rapporti con il pubblico. La mia prefazione? Si tratta di due paginette in cui parlo solo di come le mafie possono approfittare della pandemia...».

Un milione di euro a chi trova la frase. Anche il giudice Angelo Giorgianni, coautore del libro, non ci sta: «Sfido chiunque a trovare la frase sui vaccini acqua di fogna, anzi a chi la trova darò un milione di euro! Io non sono un negazionista e non sono un no vax, vorrei solo che su questi vaccini anti Covid si approfondisse di più. Perciò attenzione: aspetterei qualche giorno per capire qual è l’obiettivo vero di questa polemica, quali saranno i suoi effetti. L’obiettivo, secondo me, è Nicola Gratteri».

Dalla Calabria alla Procura di Milano. Il quotidiano La Stampa ieri ha scritto che Gratteri presenterà la sua candidatura per succedere al procuratore capo di Milano, Francesco Greco (che lascerà a fine anno) ma anche per la superprocura antimafia. É tutto vero? «Sì», conferma lui. Vuole lasciare Catanzaro? «No, ma qualunque incarico direttivo dura 8 anni. Io qui ne ho trascorsi quasi 5 e quindi devo cominciare a presentare domanda altrove. Presenterò domanda come procuratore di Milano quando sarà bandito il posto, credo a luglio. E poi quello di capo della procura nazionale antimafia. Naturalmente, deciderà il Csm di assegnarlo a chi ne ha più titolo».

Felice Manti per “il Giornale” il 27 marzo 2021. «Se lo avesse scritto uno scienziato magari lo avrei letto...». Con una frase lapidaria Mario Draghi risponde a una domanda in merito al libro negazionista Strage di Stato (Lemme edizioni) scritto da Angelo Giorgianni, 66 anni, giudice presso la Corte d'Appello di Messina e dal medico Pasquale Bacco, con la prefazione del pm antimafia Nicola Gratteri. La frase incriminata nella domanda a Draghi, («leggerebbe un libro in cui si dice che i vaccini sono acqua di fogna?») ha fatto infuriare uno dei due autori, il giudice Giorgianni, che in una lunga intervista alle agenzie ha annunciato una raffica di querele contro i giornalisti che a suo dire hanno scritto il falso sul libro: «Siamo stati bollati come due dei peggiori negazionisti del Covid, antivaccinisti, e diffusori di pericolose fake news. E il mio collega Gratteri è stato attaccato, solo per avere accettato di firmare la prefazione del libro gli è stato appioppato l'epiteto di negazionista», dice Giorgianni, portavoce dell'Organizzazione Mondiale della Vita e presidente dell'Associazione L'Eretico che raggruppa scienziati, giuristi e persone della società civile. È lui a puntare il dito contro l'articolo del Foglio di qualche giorno che per primo ha definito «negazionista» il libro: «In quell'articolo, e in altri che poi sono stati pubblicati, ci sono affermazioni che hanno un contenuto diffamatorio. Il nostro invece è un libro-inchiesta in cui ogni affermazione è circostanziata, si documentano una serie di errori diagnostici, errori terapeutici, emergono delle carenze che poi oggi sono sotto gli occhi di tutti», ha spiegato il giudice Giorgianni. Che non vuole essere definito no-vax ma che ha già detto e fatto sapere che non ha alcuna intenzione di vaccinarsi, dice di non essere un negazionista eppure solo nel luglio scorso durante una conferenza stampa Giorgianni disse: «Questa pandemia è uno strumento di ingegneria sociale, che serviva per realizzare un colpo di Stato globale. Quello che vediamo è la punta di un iceberg di un progetto di governo mondiale». «Ma in uno Stato di diritto io ho il diritto di esprimere, a maggior ragione se le esprimo sulla base di una documentazione scientifica», ha aggiunto. Il giudice ha provato anche a giustificare il collega Gratteri, finito nella graticola per una prefazione nella quale si parla certamente più degli affari della 'ndrangheta che di vaccini. «Nicola è un collega che stimo e con cui ho lavorato, è una persona apprezzata», dice sempre Giorgianni, «mi è sembrato davvero eccessivo chiamarlo in causa e appioppare anche a lui l'epiteto di negazionista». Anzi, le fake news non sarebbero quelle contenute nel libro ma negli articoli che ne hanno parlato. «Si addebitano espressioni che sono delle vere e proprie fake news e nello stesso tempo si dice che sono nel libro. Ma non si parla di Bill Gates (che controllerebbe l'Oms assieme a Big Pharma, ndr) né della bufala sul vaccino contro il tetano usato in Kenya che ha portato alla sterilizzazione di oltre 1,5 milioni donne inconsapevoli». In realtà, alcune frasi rimbalzate ieri tipo «Il macabro scoop dei camion dell'Esercito che portavano le salme a Bergamo è stata una messa in scena per convincere la città dell'esistenza della peste», sono riconducibili solo a uno degli autori (Pasquale Bacco) ma di Kenya e di ormone abortista si parla a pagina 321, quando dopo i dubbi dell'ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli si riporta la «storia agghiacciante delle donne keniote che, se non fosse stato per l'intervento dei medici cattolici, sarebbero state sottoposte a una vaccinazione di massa contro il tetano, che nascondeva però la somministrazione di un ormone, il beta hcg, che produce anticorpi abortivi. Operazione malthusiana patrocinata dall'Oms e dall'Unicef», come correttamente riportato ieri dal Giornale. I libri, oltre a scriverli, bisognerebbe ricordarseli...

'Ndrangheta stragista, le motivazioni della sentenza: "Così i clan trovarono i loro referenti in Forza Italia". Alessia Candito su La Repubblica il 22 gennaio 2021. Dalla Corte d'Assise di Reggio Calabria parte la caccia ai mandanti politici delle stragi degli anni Novanta. La 'Ndrangheta ha partecipato da protagonista alla stagione delle stragi continentali degli anni Novanta. E quegli anni di bombe e attentati non sono state semplicemente una violenta ritorsione dei clan siciliani contro arresti e processi di boss, ma un progetto politico-eversivo teso ad identificare "nuovi e più affidabili referenti politici disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi" e che "lascia intravedere il coinvolgimento nelle vicende esaminate di ulteriori soggetti". Sono "mandanti politici" specificano i giudici. E adesso devono essere identificati. Con una formale trasmissione di atti alla procura, la caccia a chi fuori dal mondo dei clan ha ordinato le stragi è ufficialmente partita anche a Reggio Calabria. Lo ordinano i giudici della Corte d'Assise che nel luglio scorso, su richiesta del procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri e dell'aggiunto Giuseppe Lombardo, hanno condannato all'ergastolo il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il mammasantissima di Melicucco, Rocco Santo Filippone. Una pronuncia che è "un primo approdo" specificano, ma già riscrive un capitolo fondamentale della storia d'Italia.  Sono loro - ha dimostrato l'inchiesta guidata da Lombardo e ha confermato il processo -  i mandanti degli attentati che fra il '93 e il '94 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo e gravi ferite ad altri quattro militari. Ma quella scia di sangue - è stato accertato - non è stata né un caso, né una disordinata azione, ma il tassello di una "comune strategia eversivo-terrorista" che tiene insieme tutta la stagione delle stragi degli anni Novanta. Quei tre attentati scrivono i giudici "hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della "contaminazione" o "evoluzione" originata dall'inserimento della mafia siciliana e calabrese all'interno della massoneria". E tutto è successo in un momento storico molto preciso, quando equilibri apparentemente inalterabili sono improvvisamente venuti meno.  Era l'alba degli anni Novanta. Mentre in Europa crollava il muro di Berlino, in Italia il sistema della democrazia bloccata si scioglieva insieme ai grandi partiti che lo hanno sostenuto, Dc e Psi. Un terremoto nazionale e internazionale, che ha interessato anche quel blocco di potere occulto fatto di "forze massoniche di ispirazione gelliana e pezzi di apparati di sicurezza della rete di Gladio" che con il crollo del muro avrebbero perso il proprio potere contrattuale di "creditore di ultima istanza" in caso di "avanzata rossa". A cui non avevano alcuna intenzione di rinunciare. "Ciò che si ricava è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch'essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali". Non si tratta di deduzioni. Quella stagione convulsa, ancora non del tutto raccontata è stata ricostruita prima con un'indagine monumentale, poi in aula, testimone dopo testimone. Su richiesta di Lombardo, di fronte ai giudici hanno l'ambasciatore italiano all'Onu Francesco Paolo Fulci, che da segretario del Cesis - l'antenato del Dis, l'organismo di coordinamento dei servizi - fra i primi ha intuito l'esistenza di Gladio, Giuliano Di Bernardo, il Gran Maestro del Goi che per primo ha svelato la colonizzazione mafiosa delle logge, persino l'ex pentito "nero", Paolo Bellini, oggi imputato come "quinto uomo" della strage di Bologna. Un'istruttoria gigantesca. Ma "i fatti, in questo procedimento, sono parte della storia italiana e quindi - ricorda la Corte, citando i colleghi che hanno scritto la sentenza Italicus 2 - è impossibile valutarli correttamente senza tenere conto del contesto in cui si inseriscono". Poi, quella montagna di carte, faldoni, testimonianze, informative e note investigative chieste alla Mobile e allo Sco anche a processo in corso, sono servite ad inquadrare un'epoca. A ricostruire il percorso che ha portato le mafie e non solo a teorizzare le stragi come necessità e messaggio diretto in primo luogo a chi potesse capirlo. Questo era il significato di "Falange armata", la sigla che il clan dei Papalia prima e Totò Riina dopo, dice un esercito di pentiti, hanno ricevuto in dote da settori dei servizi segreti per firmare omicidi e stragi. Ed è la stessa che spesso hanno usato gli ambienti vicini a Gladio. Ecco perché, sottolineano i giudici, "appare piuttosto assai probabile" che dietro le stragi "vi fossero dei mandanti politici che attraverso la 'strategia della tensionè volevano evitare l'avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni". All'inizio degli anni Novanta, dice la Corte, "si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra". Settori su cui la procura di Reggio Calabria adesso ha l'ordine di indagare. A partire da tracce molto concrete, incluse le dichiarazioni in aula di Giuseppe Graviano e la memoria che il boss di Brancaccio ha voluto consegnare ai giudici poco prima che iniziasse la camera di consiglio. Trincerato dietro un silenzio pressoché totale durato decenni, Graviano al processo 'Ndrangheta stragista ha iniziato a parlare. Ha puntato il dito contro Silvio Berlusconi, raccontandolo socio occulto del nonno e di altri "imprenditori siciliani" a cui mai aveva restituito l'investimento o girato i benefici promessi. Ha rivelato di averlo più e più volte incontrato anche da latitante per questioni di affari.  Ha promesso rivelazioni importanti sull'agenda rossa di Paolo Borsellino, sull'omicidio di Nino Agostino e su altri fatti di sangue. Tra dire e non dire, nel corso di quattro udienze fiume, mentre si raccontava vittima di un complotto, ha evocato politici, ministri e grandi imprenditori, ha suggerito piste, ha accennato a scenari. Ha mandato messaggi. Poi si è trincerato nel silenzio. Gli avvocati di Berlusconi si sono affrettati a bollare le sue affermazioni come millanterie, ma indagini sviluppate anche mentre il processo andava avanti, le ha dimostrate ancora riscontrabili e riscontrate. E traccia si è trovata anche dei flussi finanziari che dalla Calabria arrivavano all'impero di Berlusconi. Perché tramite il loro imprenditore Angelo Sorrenti, i Piromalli sono entrati nell'affare Fininvest. Perché fin troppi pentiti parlano di quei capitali mafiosi che il clan De Stefano - di diritto uno dei sette del direttorio di clan che governa la 'Ndrangheta - girava ai Papalia, i boss di Platì trapiantati in Lombardia, perché lo investissero nei cantieri di Milano 2 e 3. Lì dove anche Graviano sostiene di avere investito. È una casualità che le stesse grandi famiglie ritornino nella storia di sangue delle stragi che proprio poco prima della nascita di Forza Italia si sono fermate? Per i giudici no.  Anche perché,  si legge in sentenza "può ragionevolmente ritenersi che il Graviano il 21 gennaio 1994, prima di incontrare lo Spatuzza per discutere degli ultimi dettagli riguardanti l'attentato allo stadio Olimpico, avesse avuto modo di colloquiare con il Dell'Utri che nello stesso giorno si trovava a Roma poco distante dal bar Doney". Ma questo - ha ordinato la Corte d'assise - deve essere solo il punto di partenza.  

Luigi de Magistris condannato per diffamazione ai danni del giudice Salvatore Murone. Libero Quotidiano il 16 aprile 2021. Luigi de Magistris condannato per aver diffamato il giudice Salvatore Murone. L'annuncio, dopo la puntata di PiazzaPulita, è arrivato proprio dal sindaco di Napoli. "Sono stato condannato dal tribunale di Lamezia Terme per diffamazione ai danni di Salvatore Murone" per un episodio relativo a "quando ero sostituto procuratore a Catanzaro lui era procuratore aggiunto", ha commentato sui social a corredo di un video. Nel filmato De Magistris ribadisce come questa sia "una condanna che per me è una medaglia per non essermi piegato al sistema". Ma la reputa anche una sentenza di primo grado "ingiusta, che non posso accettare e che sono certa verrà riformata da magistrati autonomi e indipendenti". Tutto ha avuto inizio nel 2017 dopo la trasmissione di Corrado Formigli. "In un'intervista dissi che l'indagine 'Why not' mi fu sottratta illecitamente e che fui vittima di un sistema criminale che operò ai miei danni - ha proseguito -. Dove sta la diffamazione se la storia, e in ultimo Palamara, dimostra che mi fu sottratta illecitamente. E come fa ad essere parte offesa se nella trasmissione non cito mai Murone e non fu lui a togliermi l'indagine". Una decisione che ha stupito lo stesso De Magistris: "Ho fatto il magistrato e non ho mai visto nulla di simile. Questo è il ben tornato in Calabria evidentemente ma io non mi faccio mettere il bavaglio da nessuno. Il tempo è stato galantuomo e lo sarà anche in questo caso". Secondo l’accusa, "tali affermazioni offendevano la reputazione del magistrato Salvatore Murone, destinatario individuabile delle riportate espressioni lesive, pur in assenza di indicazioni nominative, in quanto, all’epoca dei fatti, procuratore aggiunto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, coordinatore del settore reati contro la Pubblica amministrazione, autore della relazione, datata 19 ottobre 2007, trasmessa con nota riservata alla Procura generale di Catanzaro in risposta alla richiesta di informazioni sul procedimento Why Not".

L'ex pm e gli strascichi dell'inchiesta Why Not. Ha “diffamato” Procuratore, de Magistris condannato: “Sentenza ingiusta, c’è anche la confessione di Palamara”. Redazione su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris è stato condannato in primo grado per aver diffamato l’ex procuratore aggiunto di Catanzaro Salvatore Murone. Questa la decisione del giudice monocratico di Lamezia Terme, Luana Loscanna,  a carico dell’ex pm, oggi in corsa per la presidenza della regione Calabria, cui è stata inflitta una condanna a 4 mesi di reclusione (pena sospesa) e al risarcimento dei danni in favore della parte civile. “Una sentenza di primo grado ingiusta, che non posso accettare e sono certo che verrà riformata da magistrati autonomi e indipendenti” commenta de Magistris accusato di aver diffamato Murone (all’epoca dei fatti suoi capo alla procura di Catanzaro dove ricopriva il ruolo di sostituto procuratore) nel corso della trasmissione “Piazzapulita” del 9 marzo 2017 condotta da Corrado Formigli: “Non avrei mai ipotizzato di fare il sindaco. Avrei voluto fare il magistrato… Poi lei ha citato una mia inchiesta che si chiama Why Not, quella inchiesta non fu portata a termine proprio perché fummo fermati da un sistema criminale fatto di pezzi di politica, pezzi di magistratura e pezzi di istituzioni, a danno dei presunti innocenti, perché se tu fermi un’indagine … e venuto fuori chiaramente che mi sono state scippate inchieste e che le inchieste non dovevano essere scippate”. Secondo l’accusa le parole di de Magistris “offendevano la reputazione del magistrato Salvatore Murone, destinatario individuabile delle riportate espressioni lesive, pur in assenza di indicazioni nominative, in quanto, all’epoca dei fatti, procuratore aggiunto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, coordinatore del settore reati contro la Pubblica amministrazione, autore della relazione, datata 19 ottobre 2007, trasmessa con nota riservata alla Procura generale di Catanzaro in risposta alla richiesta di informazioni sul procedimento Why Not“. Le parole del sindaco di Napoli: “Dov’è la diffamazione?” “Qual è la cosa che ha portato la condanna in primo grado? Nell’ambito di un’intervista a un certo punto affermo ciò che ho affermato tante volte, dimostrato nelle sedi giudiziarie, che l’indagine ‘Why Not’ mi fu sottratta illecitamente e che fui vittima di un sistema criminale che operò ai miei danni. Dov’è la diffamazione? E provato dalla storia, da ultimo la confessione di Palamara, nei provvedimenti giudiziari, che quell’indagine mi fu sottratta illegittimamente. E come fa Murone a essere parte offesa di questo processo se in quella trasmissione non cito mai Murone? E non fu Murone che mi tolse l’indagine Why Not”. Poi aggiunge: “Ho fatto il magistrato, non ho mai visto nulla di simile. Un processo per diffamazione dove il fatto non esiste e dove la parte lesa non è mai citata. E il bentornato in Calabria, evidentemente. Ma io non mi faccio mettere il bavaglio da nessuno, né mi faccio intimidire da nessuno. Ho denunciato un sistema criminale, è stato dimostrato in tutte le sedi giudiziarie la correttezza del mio operato, è stata dimostrata l’interferenza illecita che ho subito insieme ai miei collaboratori in indagini particolarmente delicate, il tempo è stato galantuomo e mi ha dato ragione, sarà galantuomo anche in questo caso e si capirà come si è potuti arrivare a una condanna come questa in primo grado. Ho fiducia, come sempre, che all’interno delle istituzioni il bene prevalga sul male e che all’interno della magistratura ci siano donne e uomini autonomi e indipendenti in grado di rimettere a posto la storia e la verità”.

Calabria 2021. Tutta la paranza massomafiosa contro la candidatura di De Magistris. Da Iacchite il 19 Gennaio 2021. Finalmente è arrivato l’annuncio ufficiale: Luigi De Magistris sarà il candidato alla presidenza della Regione Calabria alle prossime elezioni regionali di una larga coalizione civica. Rompe gli indugi De Magistris dopo aver sondato in lungo e in largo la Calabria, e dice: “Mi candido perché è dal basso che arriva la richiesta. Ed è per questo motivo che accetto la sfida”. E sulla sfida non c’è dubbio: De Magistris sfida a viso aperto tutta la vecchia e stantia nomenklatura politica calabrese responsabile di oltre 40 anni di furti e saccheggi a danno dei calabresi. Ed infatti la risposta dei capibastone politici calabrese non si è fatta attendere. E via con le dichiarazioni contro l’ex pm: non è calabrese, la Calabria non ha bisogno di estranei, la sua candidatura è una offesa ai calabresi, non ha le capacità per governare una regione come la Calabria, ma l’accusa principale che i mammasantissima della politica calabrese rivolgono oggi a De Magistris è quella di aver “fallito” nelle sue imprese da pm, su tutte le inchieste Why Not e Poseidone, entrambe finite con un nulla di fatto. E questa per i boss dei partiti locali è una colpa che nessuno può cancellare: De Magistris è un nemico giurato della paranza politica calabrese, ha osato mettere alla sbarra gli amici degli amici. E a queste latitudine, pretendere legalità dalla classe politica, è un torto difficile da dimenticare. È chiaro che non hanno argomenti politici per contrastare quella che si annuncia come un candidatura forte che potrebbe risvegliare le coscienze addormentate della tanta brava gente che vive in Calabria, e questo fa paura alla casta dei magnaccioni. De Magistris potrebbe riaccendere le speranze di tanti che da tempo non si recano più alle urne. Una corposa fetta di popolazione che in Calabria è pari al 50% degli aventi diritto al voto: l’astensionismo, il più grande partito calabrese.  Ed è principalmente ai delusi, ai disillusi, a chi si sente tradito dalla politica che De Magistris si rivolge. Una mossa che ha creato il panico nei tanti maneggioni massomafiosi che per conto delle ‘ndrine organizzano i “pacchetti di voti” per i politici corrotti. Le accuse mosse a De Magistris da parassiti sociali, politici corrotti e collusi, e tutta la fetenzia che gli ruota attorno, sono l’ultima linea di difesa a loro disposizione: sperano ancora di poter “intortare” la gente con il finto garantismo che come sappiamo, in Calabria e in Italia, vale solo per gli amici degli amici. Accusano De Magistris di essere un manettaro, senza tener conto (o meglio fanno finta di non saperlo) che il lavoro di De Magistris da pm è stato boicottato da tutti: giudici corrotti, politici collusi, e partiti asserviti alle ‘ndrine. Quando tocchi i veri fili dei poteri forti è questo che succede a chi prova a denunciare il vero malaffare: isolamento, ostacoli di ogni tipo, accuse di infamità, e tutto il repertorio possibile e immaginabile utile a distruggere una persona. Gli argomenti usati dai massomafiosi per denigrare De Magistris, fanno ridere: come se in Calabria esistesse una magistratura seria e onesta. Lo sanno tutti, anche i bambini, come funziona la Giustizia in Calabria. E lo abbiamo visto con tutto quello che è successo nel distretto giudiziario a Catanzaro con l’allontanamento di pm corrotti dagli uffici della Dda, e con le inchieste di Salerno che parlano di 15 magistrati indagati per corruzione e collusione con la ‘ndrangheta. Su tutti il caso del giudice Petrini (ex presidente della corte d’Appello di Catanzaro arrestato dalla procura di Salerno per corruzione) che ben restituisce, a chi vuole realmente capire come stanno le cose, il funzionamento della Giustizia in Calabria: le sentenze si comprano tanto al chilo. Il che garantisce l’impunità a tutti gli amici degli amici. Ed è chiaro come la luce del sole che le inchieste dell’allora pm De Magistris sono state fatte a pezzi, con motivazioni che lasciano il tempo che trovano, dall’intero apparato della malagiustizia che da sempre opera indisturbato in terra di Calabria. Più che parlare degli insuccessi dell’allora pm De Magistris, la classe politica che lo accusa di questo, dovrebbe chiedersi a chi è affidata la giustizia in Calabria. Cosa che non fanno perché appartengono tutti alla stessa paranza malavitosa. E la prova di come funziona la Giustizia a cui fanno riferimento gli imbroglioni e gli impuniti, sta tutta nell’inchiesta di Salerno sul sindaco di Rende Manna, beccato dalle telecamere della GdF nell’atto di corrompere il giudice Petrini, con tanto di consegna di una bella bustarella farcita, e nonostante la prova schiacciante, Manna è ancora il sindaco di una delle città più importanti della Calabria: Rende. In questa situazione chiunque ha indagato pezzotti politici e massomafiosi, è finito con l’essere trasferito e le inchieste insabbiate. Che non è certo una novità in Calabria. Perciò di quale magistratura parlano i picciotti dei partiti incaricati di denigrare De Magistris, quando fanno riferimento al flop delle inchieste dell’allora pm? Di sicuro a quella che li protegge e gli garantisce l’immunità. Del resto se a muovere accuse contro il sindaco di Napoli sono personaggi del calibro di  Nicola Adamo, Madame Fifì, Roberto Occhiuto, Meloni, Salvini, Orsomarso, Bevacqua, Irto, Minniti, Cannizzaro, Tallini, Incarnato, e tutta la munnizza che gli sta attorno, ovvero i distruttori della Calabria, per chi conosce realmente tali personaggi, è un motivo in più per votare De Magistris. Per quel che riguarda invece l’accusa di non essere calabrese, il significato recondito di questa affermazione è presto detto: in Calabria a rubare devono essere solo politici calabresi, perché ai calabresi piace essere derubati solo da “paesani”. A dire questo anche quelli che fino a qualche tempo fa difendevano Gino Strada dalle accuse di colonialismo di Spirlì, una manica di poveracci che vede nella candidatura di De Magistris un impedimento alla prosecuzione dei loro intrallazzi. Intorno alla candidatura di De Magistris adesso si può costruire un progetto che parli di democrazia, diritti sociali e lavoro. Per tutti quelli che non credono più nelle parole dei soliti parassiti politici, quella che si presenta è l’occasione giusta per porre fine allo strapotere mafioso dei partiti in Calabria. E il sol fatto che tutto questo ha creato ansia, panico e sgomento in tutti i ladri di stato, i parassiti della sanità privata e i loro lacchè, è già di per se, vittoria o sconfitta elettorale a parte, un motivo di forte goduria. Ora spetta ai calabresi fare la scelta: confermare il vecchio sistema truffaldino, oppure aprire le porte alla legalità e alla democrazia: De Magistris presidente della Regione Calabria? Perché no! Why Not…

Calabria e massomafia. De Magistris: “Il tempo è galantuomo”.  Luigi De Magistris su Iacchite il 21 Gennaio 2021. Il tempo si sta mostrando galantuomo. Negli anni tra il 2005 e il 2007, da PM nell’ambito dell’indagine Poseidone sulla depurazione delle acque, rifiuti e gestione del denaro pubblico in altri settori vitali della Regione Calabria, indagai, tra gli altri, per fatti gravi, l’allora segretario nazionale dell’UDC, Lorenzo Cesa, unitamente all’allora parlamentare e sottosegretario di Governo Giuseppe Galati. Mentre ero in procinto di procedere anche alla richiesta di misure cautelari il Procuratore della Repubblica, invece di sostenermi, mi revocò l’indagine perché iscrissi nel registro degli indagati anche il parlamentare Giancarlo Pittelli, all’epoca coordinatore regionale di Forza Italia. Senza voler entrare nel merito delle indagini degli ultimi tempi, a cui va il mio sostegno, Cesa, ancora come allora segretario nazionale dell’UDC, viene oggi indagato per fatti altrettanto gravi; Galati è stato in tempi recenti anche coinvolto in indagini per fatti gravissimi; Pittelli è stato arrestato nel dicembre del 2019 per associazione mafiosa. Abbiamo perso dieci anni, quante ne hanno fatte loro ed altri in questi anni ai danni della Calabria e dei calabresi.

 Il superclan dei calabresi: la sanità, il sistema Calabria e la questione morale della magistratura. Da Iacchite il 22 Gennaio 2021. Il superclan dei calabresi. La Calabria e il malaffare. Soltanto da noi i venti di Tangentopoli e la successiva ondata di inchieste della magistratura non hanno mai attecchito per com’è successo praticamente dappertutto. Con la sola, lodevole eccezione della cupola politico-massonica-mafiosa di Reggio Calabria scoperchiata da Cafiero De Raho. Cui finalmente hanno fatto seguito gli ultimi blitz di Gratteri. E ancora, tuttavia, c’è tanta melma da far uscire fuori. E così tutti questi signori e la signora Madame Fifì, credendosi definitivamente intoccabili (Scopelliti, Caridi e Sarra, in qualche modo, erano ormai “segnati” così come Pittelli e Cesa), hanno continuato a delinquere credendosi protetti dai magistrati corrotti… Fincalabra, Calabria Lavoro, Calabria Etica, Calabria Verde… Qualcosa si è mosso  sperando che sia partita quell’inchiesta dall’effetto domino (che tutti auspicano) per mettere fine a questa dittatura ammorbante che non ha più colore politico da decenni. Giocano tutti con la stessa squadra: quella del magna magna. Noi, dal canto nostro, facciamo opera di retrospettiva e vi spieghiamo i meccanismi che aveva delineato Luigi De Magistris. Il magistrato aveva scoperto tutto, anche il flusso dei soldi. Ma i poteri forti lo hanno fermato. Ed era chiarissimo già allora che ci avesse visto giusto. E un giornalista della “squadra” di Marco Travaglio, Gianni Barbacetto, aveva scritto una bella inchiesta, dal titolo “Il superclan dei calabresi”, nella quale ci faceva capire tutto.

Il superclan dei calabresi – Quarta parte di Gianni Barbacetto. La sanità e il sistema Calabria. Eccoci alla sanità. E i soldi da dirottare verso imprenditori amici e uomini di partito diventano un fiume. Che bagna il centrodestra come il centrosinistra. In questo settore le indagini di De Magistris finiscono per incrociare le denunce di Francesco Fortugno, il politico della Margherita ucciso il 16 ottobre 2005 a Locri, davanti al seggio in cui si tenevano le primarie del centrosinistra. “Le mie interrogazioni urgenti”, scriveva Fortugno, “hanno come unico obiettivo quello di far rientrare l’Asl 9 di Locri nell’alveo della legalità”. A Locri esisteva un vero sistema di sprechi e favori: “Sono state buttate un mare di risorse per attribuire a persone scelte in modo scriteriato consulenze e contratti d’ogni tipo, quando il lavoro più appropriatamente avrebbe potuto essere svolto con maggiore profitto dai numerosi dipendenti ugualmente retribuiti dall’Asl”. De Magistris è convinto di trovare nelle segnalazioni di Fortugno anche i motivi della sua morte. Tangenti, favori, appalti, forniture. Ma anche quote e partecipazioni societarie. Il “sistema Calabria” è un intreccio complesso. C’è la ’Ndrangheta, la più potente, ricca e violenta delle mafie italiane. E poi c’è un sistema pervasivo di potere fatto da un coacervo di nomi, organigrammi, società, consorzi, investimenti, appalti, professionisti, delibere. C’è un piccolo documento che lo spiega, lo sintetizza, lo rende comprensibile più di mille discorsi: è il libro soci della Tesi spa, azienda costituita per informatizzare la pubblica amministrazione. Vi si trova il nome di Giovanbattista Papello, An, insieme a quello di Fabio Schettini, intimo dell’ex ministro di Forza Italia Franco Frattini, e i prestanome di Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio. Eccolo, il “sistema Calabria”. Le larghe intese? Qui sono già cosa fatta. Fin qui Gianni Barbacetto. Sappiamo tutti com’è andata a finire. C’è mancato poco che i poteri forti della Calabria alla fine facessero arrestare De Magistris…

L’AMARO EPILOGO. Negli atti di «Why Not», i cui faldoni sono stati oggetto di varie peripezie, prima sequestrati dalla procura di Salerno e in seguito risequestrati dalla procura di Catanzaro, si ipotizza ci siano le prove della riorganizzazione di una “nuova loggia P2” partendo proprio dalle logge calabresi. De Magistris, nel dicembre 2007, dichiarò alla Procura di Salerno  “le indagini Why Not stavano ricostruendo l’influenza di poteri occulti (…) in meccanismi vitali delle istituzioni repubblicane: in particolare stavo ricostruendo i contatti intrattenuti da Giancarlo Elia Valori, Luigi Bisignani (n.d.r. che dalle carte di Gelli risulterebbe l’affiliato alla loggia P2 tessera 203), Franco Bonferroni e ancora altri, e la loro influenza sul mondo bancario ed economico finanziario. Giancarlo Elia Valori pareva risultare ai vertici attuali della “massoneria contemporanea” e Valori s’è occupato spesso di lavori pubblici”. Nell’inchiesta Why Not compaiono i nomi di politici, consulenti che operano ad alti livelli nelle istituzioni, finanzieri, un generale della Guardia di Finanza, magistrati, affaristi e alcuni uomini appartenenti ai servizi segreti, tutti massoni. I reati ipotizzati erano di associazione a delinquere, truffa aggravata ai danni della Ue e violazione della legge sulle società segrete. Il destino di questa inchiesta è stato identico a quella iniziata dal procuratore Cordova. Cos’è cambiato da Cordova a De Magistris? Semplicemente che molti dipendenti pubblici tra il 2001 e il 2007, con il sostegno di politici, affaristi e ‘ndranghetisti amici, hanno fatto carriera e il loro potere è aumentato. Politica, affari e massoneria, dunque, ieri come oggi. Non c’è da stupirsi se sono gli stessi membri delle logge calabresi appartenenti alla Gran Loggia Regolare d’Italia che affermano che spesse volte all’interno di alcune logge si sono manifestati comportamenti che non si è esitato definire illegali o illegittimi. E’ il presidente della commissione parlamentare antimafia nella XV legislatura, Francesco Forgione, che parlando di ‘ndrangheta ebbe a dire: “La sua forza sta nell’alto livello di infiltrazione nella politica e nella presenza di un potere occulto come la massoneria che in Calabria ha una pervasività che non esiste in nessuna altra parte di Italia”. Qualcuno ha ricordato le parole con cui De Magistris aveva chiuso un suo intervento nel 2005: “È chiaro che chi ha la schiena dritta non se la farà mai spezzare, né si farà mai intimidire da nessuno. Ma questo clima, per certi versi infernale, che va ad aggiungersi a una questione morale che mi pare non si voglia far emergere al nostro interno, condiziona il sereno operare della giustizia, mina la credibilità della magistratura, isola ancora di più tutti coloro che sono impegnati a dare un senso vero a questo lavoro, senza risparmiarsi, in questa terra, in questa bellissima e amata Calabria”.

 ‘Ndrangheta e politica, quando Tursi Prato spiegava la “rete” della Calabria a De Magistris. Da Iacchite il 20 Gennaio 2021. Qualche tempo fa, raccontando la storia della massomafia calabrese, ricordavano i tempi in cui Paolo Romeo, il “Salvo Lima reggino” e Pino Tursi Prato, il faccendiere cosentino eterno capro espiatorio dei politici corrotti, al bar “Cordon Bleu” di Reggio Calabria, insieme a Marilina Intrieri (che ha sempre avuto un grande feeling con Tursi Prato), pianificavano l’elezione di Scopelliti a Governatore della Calabria. Tutto ciò accadeva nel 2009. Due anni prima, mentre Tursi Prato si trovava ancora in carcere a scontare una condanna definitiva per voto di scambio, gli era venuto lo schiribizzo di collaborare con la giustizia. Incontra De Magistris (erano i tempi di “Why not”) e parla con il pm Eugenio Facciolla che indagava sull’affaire “Eolico”, ma rinuncia al suo proposito quando l’attuale sindaco di Napoli viene sollevato dall’incarico. Pino Tursi Prato all’epoca spiega a De Magistris (anche e soprattutto per uscire prima dal carcere…) che cos’era “la Rete”.  Nel verbale di 43 pagine redatto l’11 ottobre 2007 nell’ambito dell’inchiesta Why Not, il faccendiere cosentino non aveva esitato a gettare fango e diffidenza sul meccanismo dell’assegnazione degli appalti pubblici e sulla trasparenza delle istituzioni. Un verbale esplosivo in cui il testimone, sentito come persona informata sui fatti, descrive minuziosamente il sistema di collusione e spartizione dei finanziamenti pubblici alla cui testa ci sarebbe stata una cupola e che ha coinvolto trasversalmente i più importanti esponenti della politica calabrese a livello locale, nazionale ed europeo. Compaiono i nomi di Abramo, Gentile, Morelli, Loiero, Minniti, Mastella, Prodi. Un sistema che, non a caso, Tursi Prato chiama “rete” per spiegare il grado di penetrazione, la vastità, la pervasività di un’organizzazione alla cui base ci sarebbero forti legami di solidarietà e mutuo soccorso. Un sistema che sfruttava la società Why not per il drenaggio di fondi pubblici, il piazzamento di uomini ad hoc e lo scambio di voti tra imprenditoria e politica. Con contatti assolutamente influenti anche a Bruxelles dove pare che Antonio Saladino si occupasse direttamente di seguire la questione del P.O.R. Calabria. Ed in merito al meccanismo di voto di scambio dà la sua lineare spiegazione: “Io ti finanzio un progetto, te lo finanzio a condizione che tu mi assumi le persone che dico io, le persone che ti dico io mi fanno i voti…”. Cioè, voglio dire poi, siccome poi lui deve accontentare tutti e lui è il centro, il perno del sistema poi, nel momento in cui si tratta di fare una campagna elettorale di tipo Loiero-Abramo, lui mette in moto una struttura a servizio del Presidente – in quel caso è stato LOIERO – ha messo tutta la struttura…”. Ma il 22 ottobre 2007, giorno in cui avrebbe dovuto essere risentito, l’incontro risulta annullato a seguito del provvedimento di avocazione sull’inchiesta. Insomma, De Magistris fermato esattamente come Cordova negli anni Novanta. Troppi “pezzi grossi” nel calderone. E proprio nell’ambito di questa inchiesta viene tirata in ballo anche la vicenda della TelCal, un consorzio a partecipazione pubblica deputato alla costruzione delle infrastrutture informatiche in Calabria. Il Consorzio TelCal era costituito da Regione Calabria con una partecipazione del 40%, Telecom Italia con il 20%, Intersiel con il 24% e Italeco con il 12% (queste ultime controllate da Telecom) e competente per l’attuazione del nuovo Piano Telematico Calabria. Il progetto fu finanziato con una pioggia di miliardi dal Ministero per la Ricerca Scientifica e tecnologica (oggi MIUR) con lo scopo di realizzare un’efficiente rete infotelematica regionale su cui fare viaggiare una vasta gamma di servizi di Information and Communication Technology. Dice ancora Tursi Prato: “Il progetto TelCal era un’operazione di centinaia e centinaia di miliardi. Produsse, secondo me, effetti minori rispetto a quelle che erano…”. Precisamente 409 miliardi. Che non si sa né dove siano finiti né tantomeno che benefici abbiano portato alla comunità. Dal 2003, infatti, “con la chiusura di tutti i servizi del Piano Telematico Calabria operata dalla Regione e la mancata certificazione da parte di questa delle competenze acquisite dal personale ex TelCal (la costosissima quanto inutile “formazione Consiel” effettuata con il placet regionale), la società diretta da Enza Bruno Bossio, moglie del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, Nicola Adamo, “alcuni dipendenti della TelCal vengono assorbiti da Why Not in qualche centinaio e questi dipendenti per un passaggio, diciamo, di qualche mese… poi non gli rinnovarono il contratto e alcuni di questi rimasero a lavorare nel giro della Regione in diversi dipartimenti. Li facevano girare con contratti a tre mesi, a due mesi, però gli davano, diciamo, la certezza, la garanzia: “Vediamo di sistemare la cosa…” E questo discorso parte proprio dal… Chiaravalloti…. Franco Morelli, il quale era il tramite di questo gruppo, dove anche la Bruno Bossio seguiva questo…”. Un consorzio che viene sciolto, con il primo abbandono di Telecom e delle controllate. perché non ci sono più fondi disponibili da sfruttare secondo quanto dichiarato da Tursi Prato. Quando compare una nuova società di gestione del personale concorrente alla Why Not, che “praticamente comincia a far firmare dei precontratti a questi ragazzi, lì succede la fine del mondo”. Tursi Prato (lo immaginiamo col suo inseparabile sigaro in bocca) non va per niente leggero nella sua ricostruzione e afferma testualmente: “Figuratevi che Saladino li minacciò, dicendo: “Guardate che questa società non avrà nessun finanziamento, il finanziamento ritornerà a noi e noi poi non vi garantiremo nessun tipo di lavoro… nessun tipo di posto di lavoro”. E poi affonda “Quindi questa vicenda della TelCal è passata anche tramite Why Not, una parte dei dipendenti TelCal sono passati anche nel progetto Why Not, poi sparita la Why Not, sono andati a finire nelle nubi, alcuni hanno operato con contratti senza capire chi erano le società, anche questo, una cosa stranissima, pagati dalla Regione, sarebbe opportuno sapere chi sono”. Già, chi sono. Immaginiamo clienti fedeli di Madame Fifì e di Nicola Adamo, non serve avere molta fantasia. E scorrendo ancora il verbale viene messa in mezzo la società TESI, fondata da Adamo ed in cui lavorano la stessa Bruno Bossio, assieme ad altri personaggi, ed il gruppo CLIC con il presunto intento di arrivare a gestire tutte le commesse dei poli informatici calabresi. Una storia che abbiamo raccontato tante volte e che non è mai stata approfondita dalla magistratura onesta perché ci si è messa di mezzo la massoneria.

Why Not, Rinascita-Scott e Basso profilo: da De Magistris a Gratteri, Lorenzo Cesa sempre presente negli affari della massomafia. Da Iacchite il 21 Gennaio 2021. Il blitz di stamattina del procuratore Gratteri riporta alla ribalta delle cronache giudiziarie ancora una volta il nome di Lorenzo Cesa, eterno “padre padrone” dell’Udc, un ricettacolo di corrotti e massoni deviati sempre a caccia di poltrone e prebende, come stanno facendo anche adesso nell’attuale crisi di governo proponendosi sfacciatamente a Conte. Da Why Not a Rinascita-Scott per finire a Basso profilo di oggi, il nome di Lorenzo Cesa è sempre presente nelle ordinanze delle operazioni della Dda di Catanzaro. La prima ad opera di Luigi De Magistris e le altre due ad opera di Gratteri. Le carte e gli atti delle ordinanze degli ultimi blitz di Gratteri, a più di 10 anni di distanza dalle indagini di De Magistris, riprendono le attività delinquenziali degli stessi “colletti bianchi” e ne descrivono compiutamente le condotte anche attraverso le dichiarazioni di diversi pentiti-chiave. Tra i protagonisti non poteva certo mancare il numero uno dell’Udc, partito politico ricettacolo di corrotti, riciclati e voltagabbana ovvero Lorenzo Cesa. Che puntualmente ha avuto anche un assessorato alla Regione per il suo prestanome, tale Francesco Talarico, oggi arrestato da Gratteri mentre per Cesa c’è stata una perquisizione nella sua casa romana e un avviso di garanzia.

BASSO PROFILO. Partiamo proprio dall’ultima operazione. Secondo la Dda di Catanzaro e il procuratore Gratteri “… la consorteria ‘ndranghetista, nelle persone di GALLO Antonio, BRUTTO Tommaso (consigliere comunale di Catanzaro legato a Mimmo Tallini, Sergio Abramo e Claudio Parente), BRUTTO Saverio, PIRRELLO Antonino e ERRIGO Natale ha manifestato la propria ingerenza anche in occasione delle Elezioni Politiche del marzo 2018, per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, nel corso delle quali ha stipulato un “patto di scambio” con il candidato TALARICO Francesco (nel collegio 8 di Reggio Calabria), consistente nella promessa di “entrature” per l’ottenimento di appalti per la fornitura di prodotti antinfortunistici erogati dalla sua impresa e banditi da enti pubblici economici e società in house, attraverso la mediazione dell’europarlamentare CESA Lorenzo in cambio della promessa di un “pacchetto” di voti…”. “… TALARICO incontrava ERRIGO Natale – imparentato con esponenti della cosca De Stefano/Tegano di Archi, segnatamente con SARACENO Francesco Antonio, condannato in via definitiva per il delitto di cui all’art 416bis c.p., UTANO Antonio (imparentato, a sua volta, con Paolo Rosario DE STEFANO CAPONERA, SCHIMIZZI Paolo e TEGANO Giuseppe) e imputato per il delitto di cui all’art 416bis c.p. nell’ambito del procedimento penale Gambling, VOTANO Francesco Paolo – e – PIRRELLO Antonino cl. 1979 – cugino di PIRRELLO Pietro cl ‘76, sottoposto a indagini nell’ambito del Proc. Pen. n. 5953.11 RGNR DDA RC (“OPERAZIONE ALCHEMIA”) – i quali gli confermavano il sostegno elettorale, peraltro l’ERRIGO facendosi chiarire esplicitamente – tramite il GALLO – la necessità che i patti venissero onorati, il tutto in cambio di utilità consistite, oltre a quelle già pattuite con GALLO e BRUTTO, in altrettante entrature nel settore degli appalti per ERRIGO Natale – consulente aziendale e referente di imprese che intendeva favorire – e PIRRELLO Antonino, titolare di impresa di pulizie con commesse in enti pubblici…”. La Dda poi fa rilevare che “… le elezioni si sono concluse con un ottimo risultato (il secondo ma non eletto) per il capolista nel collegio uninominale di Reggio Calabria che, sebbene non eletto, è poi diventato assessore esterno al bilancio e politiche del Personale della Regione Calabria, giunta Santelli…”. E questa è storia, visto che Talarico fino a stamattina è assessore regionale al Bilancio a tutti gli effetti.

WHY NOT. Ma, come accennavamo, Lorenzo Cesa entra negli affari della massomafia calabrese fin dal 2007 con Why Not. Secondo Luigi De Magistris, in Calabria era all’opera già da anni un comitato d’affari, una “cupola” degli appalti e dei finanziamenti europei. Quello dei depuratori è uno dei business, che ha già bruciato oltre 800 milioni di euro. In questo settore è centrale la Pianimpianti, con numero uno Roberto Mercuri e numero due Franco Bonferroni, vecchio democristiano passato all’Udc. Bonferroni è il gemello politico di Lorenzo Cesa, padrone più che segretario del partito. E Cesa, secondo altre indagini di De Magistris, ha succhiato consistenti finanziamenti europei. Con il sistema del sostegno pubblico alle imprese calabresi. La sua Sbp optical disk, che avrebbe dovuto produrre dvd, ha incassato dall’Europa almeno 5 miliardi di lire, ma non ha mai prodotto neppure un bottone. Ma Cesa ha attirato fondi anche attraverso una società romana, la Global Media, che ha fatturato quasi 7 milioni di euro l’anno organizzando eventi per società pubbliche e molto disponibili come Anas, Enel, Finmeccanica, Lottomatica, Alitalia (anche la Pianimpianti degli amici Mercuri e Bonferroni ha versato alla società di Cesa ben 360 mila euro). La Global Media ha ricevuto anche finanziamenti europei (s’ipotizza una cifra attorno ai 400 mila euro) per organizzare convegni e iniziative per gli italiani all’estero. I fondi passavano attraverso un’agenzia Onu (la Cif Oil), erano giustificati con fatture gonfiate e la differenza tra quanto ricevuto e quanto effettivamente speso veniva poi incamerata da Cesa, che la usava per sostenere l’Udc. A spiegare questo meccanismo ai magistrati romani (che ora lo stanno indagando per finanziamento illecito) è nientemeno che Francesco Campanella, uomo vicino a Bernardo Provenzano, grande riciclatore dei soldi di Cosa nostra e tra il 2003 e il 2005 associato al sistema truffaldino messo in piedi da Cesa. Anche Campanella, in politica, era schierato con l’Udc e quando si sposò ebbe, come testimoni di nozze, Totò Cuffaro e Clemente Mastella. Poi i magistrati palermitani scoprirono il suo spessore mafioso. Ora, diventato collaboratore di giustizia, Campanella racconta tante vicende siciliane, ma anche la sua esperienza politica e manageriale a Roma, accanto a Lorenzo Cesa, numero uno dell’Udc. L’Olaf, l’agenzia antifrode dell’Unione europea, ha contestato un reato di frode comunitaria a Papello, Cesa e Fabio Schettini, già segretario dell’ex ministro di Forza Italia Franco Frattini.

RINASCITA-SCOTT. Il nome di Lorenzo Cesa è apparso anche nell’ordinanza del blitz di Gratteri del 19 dicembre 2019 denominato “Rinascita-Scott” ed era legato al suo vecchio compagno di merende Giancarlo Pittelli. “Le dichiarazioni del pentito Virgiglio – si legge nelll’ordinanza – assumono rilievo pregnante perché consentono di dare conferma ad un quadro, per vero già granitico, abbondantemente emerso a carico del Pittelli, quale soggetto “sussurrato all’orecchio”, appieno inserito nella ‘ndrangheta che, riprendendo le parole di Peppe Mancuso, riportate nella prima parte, non è più semplicisticamente ‘ndrangheta, ma è massoneria. Non a caso si intersecano perfettamente le parole utilizzate dal Virgiglio, con la ricostruzione finora operata della ‘ ndrangheta unitaria e della individuazione della “mammasantissima” a Limbadi, nel descrivere Vibo come l’ “epicentro” della ‘ ndrangheta sia legale che deviata, ad entrambe le quali risulta legato l’avvocato Pittelli. Le parole del Virgiglio – oltre che a riscontrare le dichiarazioni del Mantella quanto ai collegamenti tra massoneria e ‘ndrangheta e alla messa a disposizione del Pittelli nei confronti della ‘ ndrangheta – trovano perfetto riscontro, altresì, negli approfondimenti investigativi che hanno consentito di accertare e documentare anzitutto i rapporti tra l’ avvocato Pittelli e il giudice Giuseppe Chiaravalloti, divenuto in passato Presidente della Regione Calabria, indicato quale massone, appartenenti alla stessa cerchia. Nella richiesta cautelare sono riportate le conversazioni intercorse tra i due che oltre ad organizzarsi per un incontro massonico all’Orso Cattivo di Settingiano – a riscontro di quanto detto dal collaboratore – si interessano di trovare una potente entratura per la nipote di Pittelli, Paola Pittelli, affinché potesse “sistemarsi” nell’Antitrust. Confermata anche l’appartenenza di Enzo Speziali e di Sabatino Marrazzo ai contesti massonici. E anche l’appartenenza di Giancarlo Pittelli alla massoneria ufficiale nonché a quella “coperta” (alla quale apparteneva anche il giudice Chiaravalloti). Con riguardo a quest’ultimo profilo, nell’ambito del presente procedimento sono state intercettate conversazioni dal contenuto esplicito (tra cui emerge la richiesta di Pittelli di passare dalla loggia catanzarese a quella romana e le modalità di organizzazione di questo passaggio), con Carlo Ricotti, appartenente al Grande Oriente d’Italia (personalità con cui il Pittelli si accreditava, tramite Giuseppe Messina per “l’investitura” romana); con Ugo Grimaldi; con Lorenzo Cesa (europarlamentare e segretario nazionale dell’UDC-NOI CON L’ITALIA) tramite il quale sperava di poter ottenere una sponsorizzazione per l’elezione a membro laico del CSM. Peraltro, emerge che il Pittelli abbia a sua volta sponsorizzato l’ingresso nella loggia massonica del “Colonnello” (da individuarsi in Francesco Merone, colonnello dei Carabinieri con cui sono stati censiti numerosissimi contatti con il Pittelli). Sono molte le conversazioni in cui Pittelli informa il Messina di altri amici, professionisti di Reggio Calabria (tra cui l’avv. Contestabile), che vorrebbe fare inserire nella loggia, comunicando anche che avrebbe incontrato Ricotti e Leo Taroni (una delle personalità più importanti della massoneria, anche nell’ambito del “rito scozzese”). L’importanza di figurare nella loggia romana, si spiega anche alla luce delle parole del collaboratore Virgiglio, che ne evidenziava i collegamenti con i maggiori esponenti, tanto che il capo bastone Marrazzo (condannato con sentenza non ancora definitivo nel processo “Six Towns”), proprio perché inserito nei contesti massonici romani, potè contare sull’aiuto di logge potenti per “aggiustare un processo” a suo carico…”.

 ‘Ndrangheta e massoneria: ecco come Minniti salvò Pittelli e Adamo da “Why Not”. Da  Iacchite il 20 Gennaio 2021.

OMBRE SULLE TOGHE DI WHY NOT DOPO DE MAGISTRIS. La corruzione della magistratura è uno dei problemi più gravi del nostro Paese, specie in regioni come la Calabria dove la cosiddetta trattativa stato-mafia va avanti da decenni senza che si perseguano i protagonisti. E se qualche magistrato come Cordova, Boemi o De Magistris per finire agli stessi Cafiero De Raho e Gratteri ha provato a fare luce è finito nel tritacarne dei colleghi collusi e della macchina del fango dei media asserviti al potere politico. Questa è la e-mail scritta da Gioacchino Genchi, stretto collaboratore di Luigi De Magistris all’epoca di Why Not, al pm di Salerno, Gabriella Nuzzi, subito dopo la perquisizione, disposta dalla Procura di Salerno, ai colleghi di Catanzaro, che avevano ereditato l’inchiesta Why Not avocata a De Magistris. Di lì a poco, anche la Nuzzi sarebbe stata punita dal Csm, proprio per quella perquisizione, insieme con il suo capo Luigi Apicella e il pm Dionigio Verasani quando ancora era titolare dell’inchiesta sul “caso de Magistris”. Genchi scrive di quanto ha scoperto sul nuovo titolare di Why Not, il sostituto procuratore Alfredo Garbati. “Come dicevo (…) mi sono accorto dell’esistenza e del riferimento, nei dati da me già elaborati, del cellulare del dr. Alfredo Garbati quando ho letto alcuni stralci del decreto di sequestro del Suo Ufficio. Mai avrei rilevato quello che mi accingo a riferirle, se non fossi stato direttamente chiamato in causa, proprio in relazione all’operato posto in essere contro di me e contro il dr. Luigi De Magistris. Ritengo doveroso portare a conoscenza del Suo Ufficio la significatività dei contatti telefonici del cellulare del dr. Alfredo Garbati con il cellulare di Nicola Adamo (tra i principali indagati in Why Not, ndr) dei giorni (…) contestuali e prossimi alla spedizione dell’avviso di garanzia e alle perquisizioni del febbraio-marzo 2007 ad Antonio Saladino e alle audizioni di Caterina Merante. (…)”. “E allora – scrive il giornalista Edoardo Montolli – l’uomo che coordina le indagini Why Not a Catanzaro è il più vicino di tutti agli indagati. Nell’inchiesta ‘eversiva’. Perché quelli di Genchi sono numeri. E non importa se gli indagati abbiano commesso o meno reato. Importa che quei contatti telefonici tra pm e il suo stesso indagato non possono esistere. Ma c’è ancora di più. Il dottor Garbati era risultato in strettissimi rapporti con l’onorevole Marco Minniti, nell’ordine di diverse centinaia di telefonate. Un dato fondamentale, se si considera l’arrivo delle scottanti intercettazioni su Marilina Intrieri, giunte da Crotone per essere inglobate in Why Not e in cui molto si parlava di Minniti. Ma tutto questo ancora non basta. Perché il 17 febbraio del 2009 si presenta da Gioacchino Genchi un giornalista calabrese, collaboratore de L’Espresso, Paolo Orofino. Gli porta un cartaceo, un doppio cartaceo (…). Si tratta della prima relazione di Alfredo Garbati a Jannelli su cosa farà di Why Not. Documento straordinario. Per prima cosa, spiega Garbati che su Mastella sono già tutti d’accordo e che bisogna muoversi a stabilire cosa fare anche con Pittelli, perché Pittelli, con cui Garbati risulta addirittura in contatto, si deve presentare alle elezioni e non può portarsi dietro una ‘macchia’. Bisogna muoversi a dargli una risposta: in un’Italia dove la gente crepa in prigione mentre i magistrati di sorveglianza sono in vacanza, c’è anche qualcuno che si preoccupa prima di ogni altra cosa di non far cosa sgradita ai suoi indagati. Si vede che la giustizia, finalmente, sta cambiando”. Avete capito come funziona(va)?

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 21 gennaio 2021. Nelle ultime settimane, nel pieno delle trattative per la sorte dell' esecutivo Conte 2, Lorenzo Cesa era ritornato centrale come non succedeva da anni agli eredi della diaspora democristiana. Corteggiato da destra e da sinistra, che gli hanno messo sul tavolo posti di governo e di sottogoverno, seggi elettorali. Il che dà la misura del peso che i suoi tre senatori potrebbero avere per le sorti della legislatura. Eppure, la ritrovata centralità del segretario dell' Udc si è dovuta scontrare con un avviso di garanzia per associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso. È dunque indagato all' interno di un' indagine della Procura distrettuale di Catanzaro ribattezzata «Basso profilo», che ha portato all' arresto di 49 persone, 13 in carcere e 36 ai domiciliari. La sua abitazione dell' Eur, dove vive con la moglie, viene passata al setaccio. Non solo. L' assessore regionale al Bilancio Franco Talarico, in quota Udc, finisce agli arresti domiciliari. L'accusa rivolta a Cesa ruota tutta attorno a un pranzo romano, avvenuto nel luglio del 2017, nel corso del quale l' imprenditore Gallo avrebbe chiesto appoggi a Talarico per appalti e entrature a livello relazionale. E a quell' incontro ci sarebbe stato anche Cesa, il quale «non è stato intercettato perché all' epoca l' onorevole Cesa era parlamentare». La linea difensiva dell' eterno democristiano è concordata con l' avvocato Francesco Scacchi. «Io mi ritengo totalmente estraneo e ho piena fiducia nella magistratura». Non vuole pensare che sia un' inchiesta ad orologeria per fermare il suo ritorno da protagonista e per sgombrare il campo da qualsiasi polemica, o forse per aiutare potenziali trattative, rassegna le dimissioni da segretario del partito. Cesa è frastornato, ma allo stesso tempo si dice «sereno» nelle continue telefonate con amici e dirigenti che lo hanno accompagnato nella sua carriera politica. «Certo che sono stato a pranzo con Talarico. Ora però farò tutte le verifiche necessarie. Se le persone parlano di incontri con me e io quel giorno non ero lì, ci vedremo in tribunale. Sia chiaro». Non a caso nella tarda mattina si rifugia nella sede del partito a via San Lorenzo in Lucina. Lì raccoglie tutte le carte, invita i collaboratori a ricostruire gli appuntamenti degli ultimi cinque anni. «Sono molto amareggiato per la mia famiglia. Non se lo merita», dice. Forse paga, ammettono, «la eccessiva generosità che spesso si trasforma in superficialità. Perché Lorenzo incontra tutti, saluta tutti. Ma in assoluta buonafede». E a sera, quando esce dalla sede dell' Udc, confida: «Credo nella fede». E tira fuori la coroncina del rosario.

L'operazione della DDA di Catanzaro "Basso profilo". Nuovo blitz show di Gratteri, 400 agenti in azione per 48 arresti: indagato il segretario Udc Cesa. Carmine Di Niro su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. Nuova inchiesta e nuovo show di Nicola Gratteri. Il procuratore antimafia di Catanzaro ha coordinato infatti una nuova operazione contro la ‘ndrangheta su tutto il territorio nazionale che da stamattina vede impegnati 200 donne e uomini della Direzione investigativa antimafia e 170 unità tra polizia di Stato, Arma dei carabinieri e guardia di finanza con il supporto di quattro unità cinofili e un elicottero. L’operazione, denominata “Bassa profilo”, ha visto finire in carcere 13 persone e 35 ai domiciliari. La procura della Repubblica di Catanzaro ha disposto l’esecuzione di numerosi sequestri di beni costituiti da compendi aziendali, immobili, autoveicoli, conti correnti bancari e postali. Nel corso delle indagini sarebbe stata accertata la movimentazione illecita di denaro per un valore di oltre trecento milioni di euro. Tra gli arrestati vi sarebbero anche diversi colletti bianchi di Catanzaro e provincia. Custodie cautelari sono state eseguite nei confronti di presunti esponenti della ndrine tra le più importanti di Crotone, Isola Capo Rizzuto e Cutro come "Bonaventura", "Aracri", "Arena" e "Grande Aracri", nonché di imprenditori di spessore ed esponenti della Pubblica amministrazione ritenuti colluso con le organizzazioni criminali. Tra gli indagati, c’è anche il segretario nazionale dell’Udc, Lorenzo Cesa, la cui casa romana è stata perquisita e passata al setaccio questa mattina dagli uomini della Dia di Maurizio Vallone.  Cesa è indagato per associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso. Sempre tra le file del partito centrista va registrato l’arresto, ai domiciliari, dell’assessore regionale al bilancio della Calabria, Francesco Talarico. Il segretario centrista ha confermato di aver ricevuto un avviso di garanzia su fatti risalenti al 2017″ e spiega: “Mi ritengo totalmente estraneo, chiederò attraverso i miei legali di essere ascoltato quanto prima dalla Procura competente”. “Come sempre – assicura – ho piena e totale fiducia nell’operato della magistratura. E data la particolare fase in cui vive il nostro Paese – annuncia – rassegno le mie dimissioni da segretario nazionale, con effetto immediato”. L’inchiesta che coinvolge Cesa potrebbe avere ripercussioni anche sul governo Conte. L’Udc era infatti indicato come partito di ‘Costruttori’ da portare nell’alveo della maggioranza per garantire al premier una maggioranza più stabile e larga in particolare al Senato. Ad oggi Cesa, così come i suoi senatori, si erano sempre espressi contro un cambio di casacca. Lorenzo Cesa era stato già indagato in Calabria, dall’allora sostituto procuratore di Catanzaro Luigi de Magistris, che proprio in Calabria si è candidato come candidato alla presidenza della Regione. Il segretario del partito centrista, all’epoca dei fatti europarlamentare e già segretario dell’Udc, venne coinvolto nell’inchiesta Poseidone con l’accusa di truffa, ma nel 2011 il gip di Roma Rosalba Liso archiviò definitivamente la sua posizione. Come sempre quando si tratta dell’amico Gratteri, immediata è arrivata la reazione del presidente grillino della commissione Antimafia, Nicola Morra. Dopo aver già decretato la colpevolezza degli imputati del processo nato dall’inchiesta Rinascita Scott, firmata sempre Gratteri, Morra stamattina parla di “azione concreta contro le mafie” che  “riporta la ricchezza nelle mani dei cittadini”. Non contento Morra aggiunge anche che l’operazione di Gratteri “è un reale Recovery Fund che deve essere sempre attivo. Questi arresti dimostrano che lo Stato non solo è presente ma è anche più forte e tenace”.

Nicola Gratteri, pm delle "rivoluzioni" in favore di telecamera. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 30 Gennaio 2020. Mettiamo in fila i fatti e poi ciascuno si fa l’idea che vuole. Qualche settimana fa il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, organizza una conferenza stampa. Davanti a una foresta di microfoni e telecamere, illustra i tratti dell’operazione di rastrellamento che ha condotto all’arresto di trecentotrenta persone. Spiega che si tratta del compimento di una “rivoluzione” alla quale pensa dal momento in cui ha preso posto in quel suo ufficio, una rivoluzione intesa a «smontare la Calabria come un trenino Lego, e poi rimontarla pian piano». Qualche giorno dopo, su Twitter, scrive: «‘Ndrangheta, la maxi-operazione scompare dalle prime pagine dei grandi giornali: niente su Stampa e Repubblica, un box sul Corriere». Gli dispiaceva dunque che i giornali, quelli “grandi”, non avessero nella dovuta maniera divulgato la notizia della “rivoluzione”. Non gli dispiaceva invece che i giornali riferissero che lui «sta ripulendo la Calabria», e allegava l’articolo in cui si spiegava che la politica in quella regione è «una montagna di merda». Ora ci pare che questi messaggi non appaiano più nel profilo Twitter del dottor Gratteri, ma siamo certi del fatto che non negherà di averli pubblicati. I fatti proseguono con il dottor Otello Lupacchini, sino a qualche giorno fa procuratore generale di Catanzaro, che, in merito alla “rivoluzione” e ai modi con cui il dottor Gratteri ne fa promozione, dice in buona sostanza due cose. La prima: che non gli piace troppo la spettacolarità di certe operazioni, le quali, a suo giudizio, si rivelano spesso evanescenti e improduttive di risultati. E la seconda: che le informazioni su queste faccende, sempre a suo giudizio, dovrebbero essere condivise tra gli uffici piuttosto che affidate a giornali e televisioni. E i fatti finiscono (siamo a questi giorni) con il dottor Lupacchini degradato e trasferito a Torino. Se abbiamo ben capito (non siamo del ramo…) a eccitare il procedimento che ha portato a questa misura disciplinare è stato il concerto delle istanze del ministro della Giustizia, l’avvocato Bonafede, e del procuratore generale della Cassazione, dottor Salvi, istanze poi accolte dal Csm il quale appunto ha rimosso dal vertice del distretto di Catanzaro Lupacchini e lo ha spedito, in rango subordinato, all’ufficio piemontese. Che dirne? Il difensore di Lupacchini ne dice peste e corna. Su alcune si sarebbe spinti a dargli credito alla cieca, per esempio quando denuncia che la richiesta del ministro Bonafede era “disseminata di errori perfino grammaticali”. Per il resto, com’è suo diritto, lamenta che il suo assistito è vittima di un provvedimento ingiusto, politicamente orientato e che ha fatto sacrificio del diritto del dottor Lupacchini a una compiuta difesa. Non abbiamo elementi né la competenza sufficiente per esprimere un giudizio in proposito. Ma quel che da profani si può osservare è che si tratta di una giustizia molto mal bilanciata: sbilenca proprio, diremmo. Perché da un lato c’è quello che arresta centinaia di persone e fa (e pretende dai giornali) l’elogio del suo lavoro, quando poi fioccano i provvedimenti che liberano una quantità di quei detenuti perché la misura cautelare si rivela ingiustificata. E dall’altro lato c’è quello che esprime, magari anche in modo appuntito, perplessità sulle maniere di quel modo di procedere: e perciò viene punito pur davanti alla riprova che forse non andavano arrestati tutti e che, in ogni caso, la concione dell’”uomo immagine” che spiega ai giornalisti i suoi sogni di una Calabria ribaltata non costituisce il profilo inevitabile di un ufficio giudiziario. È bene intendersi, dunque. Il magistrato avvezzo alla ribalta meglio farebbe a dismettere l’abitudine. Ma non è che lo censuriamo anziché celebrarlo se si azzarda a criticare l’amministrazione della giustizia piuttosto che cantarne le gesta eroiche. Dopo di che potrà anche essere che la presenza in Catanzaro del dottor Lupacchini, per aver egli usato parole inopportune, sia da giudicarsi incompatibile. Qualcuno tuttavia avrà pure il diritto di pensare che certe rivoluzioni in favore di telecamera si segnalano per incompatibilità anche più gravi, che mettono in sofferenza beni più importanti: la civiltà del Paese, lo Stato di diritto.

Quei pm che condannano a mezzo stampa e la politica ferma al ’92. Davide Varì su Il Dubbio il 23 gennaio 2021. Il problema non è (solo) Nicola Gratteri, ma una politica ferma al ’92 che cavalca le indagini o ne è terrorizzata…E’ ora di uscirne. Quella del procuratore Nicola Gratteri non è un’indagine a orologeria – non in questo caso – e non c’è alcun disegno delle procure per “prendere il potere”. Oltretutto dovremmo trovarci di fronte a “menti raffinatissime” e servirebbe una sottigliezza politica fuori dal comune per immaginare e portare avanti un piano del genere. Senza contare che mai come oggi la magistratura italiana è dilaniata, divisa in fazioni e in uno stato di guerra civile permanente: un ritratto ben rappresentato dalla drammatica istantanea del caso Palamara. Ma il fatto che non ci sia il “dolo” non vuol dire che non ci sia un’anomalia e uno slittamento delle regole di ingaggio da parte di alcune procure. E del resto la storia del nostro Paese è costellata di episodi del genere. È sufficiente fare un nome, Tangentopoli, per capire di cosa parliamo. Le indagini, gli arresti, le retate in diretta tv ordinate dal pool milanese non hanno semplicemente condizionato la politica ma l’hanno rasa al suolo; hanno smantellato la prima Repubblica permettendo la nascita di un nuovo sistema, di nuovi partiti, di nuovi leader e di un movimento che da allora in poi ha individuato nelle procure il centro da cui far partire il cambiamento politico del paese. Un filo rosso che lega le monetine del Raphael al Movimento 5Stelle arrivato in Parlamento con una narrazione panpenalista e populista. Insomma, l’indagine di Gratteri ci ha portato di nuovo dentro il conflitto tra politica e magistratura, un luogo molto familiare e domestico qui in Italia. Ma la via d’uscita di questo conflitto non è dentro le procure. O non solo. Una parte della responsabilità è dentro le segreterie dei partiti – o di quello che ne è rimasto – e non perché i politici non siano in grado di vigilare sull’onestà dei propri candidati e del proprio personale – il grado di corruzione di un politico rispecchia quello del paese, né più né meno – ma perché la politica e i partiti sono diventati talmente fragili da non essere più in grado di assorbire un semplice avviso di garanzia senza farsi travolgere e terremotare. Insomma, il potere delle procure non è altro che il frutto di un passaggio di consegne, una delega che nei primi anni ‘ 90 la politica ha firmato in bianco ai magistrati. Sarebbe ora che quella stessa politica ritrovi il coraggio e la forza di imporre il suo ruolo democratico e il rispetto della Costituzione per cui si è colpevoli solo dopo tre gradi di giudizio e non dopo una conferenza stampa di un procuratore.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 21 gennaio 2021. «Partiamo da qui verso le 4, le 5». «Hai capito? Partiamo con la macchina e... verso le 10 potrei combinare l' appuntamento con quello, ci sbrighiamo poi con quella là, e poi a pranzo siamo con Cesa. Come la vedi?». I progetti del quarantenne imprenditore in odore di 'ndrangheta Antonio Gallo e del suo interlocutore Tommaso Brutto, all' epoca consigliere comunale di Catanzaro, si realizzano dieci giorni dopo questo dialogo intercettato il 26 giugno 2017. Il 7 luglio gli agenti della Direzione investigativa antimafia li vedono pranzare assieme all' ex onorevole Lorenzo Cesa, leader nazionale dell' Unione di centro, e Francesco Talarico, segretario dell' Udc in Calabria, futuro candidato alle elezioni politiche del 2018 (risulterà primo dei non eletti) e assessore al Bilancio nella sua regione fino all' arresto di ieri. Si ritrovano al ristorante romano «da Tullio», frequentato da politici e vip. Per quel pranzo Cesa è indagato per associazione a delinquere con l' aggravante di aver agevolato la 'ndrangheta: secondo l' accusa della Procura di Catanzaro era il terminale politico più alto in grado nella rete di relazioni messa in piedi da Gallo. Il riscontro starebbe in altre intercettazioni, dove Cesa non c' è, ma si parla di lui. Per esempio il 28 giugno 2017, quando Talarico dice che «lui (Cesa ndr ) gli fa conoscere pure ad uno che è inserito in tutti questi Enti...». E Brutto risponde: «Sì, sì, bravo... Una volta che noi gli facciamo il contatto, Antonio (Gallo, ndr ) sa come addentrarsi». Poco dopo Talarico spiega che «lui» (sempre Cesa, ndr ) presenterà a Gallo un amico consulente di vari enti Enac, Eni, Telecom, Anas e tutto «quel gruppo se lo segue». Ma Brutto non si ferma agli affari in Italia: «Dice che ha saputo che Lorenzo (sempre Cesa, ndr ) potrebbe avere contatti anche con politici in Albania dove è conosciuto», e Talarico conferma: «È sicuro, lui da parlamentare europeo può creare buoni contatti direttamente con parlamentari europei».

Brutto: «Questo è pure importante... Una cosa è che ti crea un contatto Cesa in Albania...che là non è come qua, un ministro in Albania gli molli...».

Talarico: «Uuuuhhh... corruzione totale».

In un altro pranzo il 31 gennaio 2018, Gallo è con Talarico e Antonino Pirrello, altro imprenditore inquisito. «Sono stato vicino a Cesa... quindi... sai...», dice Talarico. Poco dopo Gallo chiarisce la sua strategia: «Soldi non ce ne servono, che ne abbiamo... Grazie a Dio lavoriamo, stiamo bene...Però ci serve un referente, se abbiamo bisogno di qualcosa... Non vogliamo imbrogli, sia chiaro... un punto di riferimento...». Per questa ricerca di contatti Gallo, Talarico, Brutto e Pirrello sono indagati anche per voto di scambio politico mafioso: appoggio nella campagna elettorale in cambio di «entrature» nel mondo politico e delle imprese di Stato.

In un' altra riunione romana vicino al Pantheon, il 16 gennaio 2018, Gallo dice a Talarico: «Noi abbiamo bisogno di dare una mano a uno e poi di avere un riferimento...». Con loro c' è pure Natale Errigo, che i magistrati definiscono «imparentato» con la famiglia De Stefano, al vertice della 'ndrangheta reggina, nonché dipendente di Invitalia (ieri sospeso da funzioni e stipendio), il quale chiarisce: «È un do ut des». Subito dopo Gallo chiede a Talarico un contatto con Lazio Innova che, chiarisce Errigo, «è una società in house della Regione Lazio che gestisce i finanziamenti». Dopodiché il dipendente di Invitalia aggiunge: «Siamo completamente... Noi siamo il gruppo... diciamo, che seguiva Antonio (l' ex senatore di Forza Italia Antonio Caridi, arrestato nel 2016 per associazione mafiosa, scarcerato dalla Cassazione e ancora sotto processo, ndr) dappertutto, andavamo... Cioè, per dirne una...andammo anche al compleanno di Berlusconi». Talarico commenta: «Una bella squadra...». E Pirrello chiosa: «Guarda Francesco... io non chiedo né posti di lavoro né niente, però un minimo di attenzione quando... Per essere ricevuto... Questo...». Tutto chiaro. Compreso il fatto - secondo gli inquirenti - che gli interlocutori fossero a conoscenza che Gallo era un referente delle cosche del crotonese e avesse collegamenti pure con esponenti delle forze dell' ordine, come il maresciallo della Guardia di finanza (ora in pensione) Ercole d'Alessandro. Nelle perquisizioni gli hanno trovato migliaia di euro in contanti e orologi di lusso, ma la sua ossessione erano le relazioni e le «entrature». Al punto che un giorno Saverio Brutto, fratello di Tommaso, sbotta: «Dobbiamo vedere come cazzo possiamo fare che Cesa gli fa chiudere qualche cazzo di cosa... hai capito?... Pure che gli prende un appuntamento con Lotito (presumibilmente il presidente della Ss Lazio, ndr ), capito? Cioè, se hai un aggancio importante...».

“Basso profilo”. L’intercettazione del consulente di Invitalia: “Andammo anche al compleanno di Berlusconi”. Da Iacchite il 21 Gennaio 2021. Di Lucio Musolino. Fonte: Il Fatto Quotidiano. Un parente di alcuni esponenti della cosca De Stefano sostiene di aver partecipato in passato a un compleanno di Silvio Berlusconi. Emerge anche questo sullo sfondo dell’inchiesta “Basso profilo” che ha portato all’arresto dell’assessore al Bilancio della Regione Calabria Francesco Talarico e che vede indagato il segretario nazionale dell’Udc, Lorenzo Cesa. “Siamo completamente… noi siamo, noi siamo il gruppo… diciamo, che seguiva Antonio dappertutto, andavamo… cioè per dirne una… andammo anche al compleanno di Berlusconi eh…”. L’Antonio nominato nell’intercettazione è l’ex senatore Antonio Caridi, imputato nel processo “Gotha”, in corso a Reggio Calabria, che gli è costato l’uscita definitiva dall’agone politico. A parlare, invece, è Natale Errigo, consulente di Invitalia ma soprattutto imparentato con esponenti della cosca De Stefano di Archi, a Reggio Calabria. Suo zio acquisito è Totò Saraceno, condannato per ‘ndrangheta nel maxi-processo “Olimpia” perché affiliato alla famiglia mafiosa dei De Stefano-Tegano. Per la Procura di Catanzaro, Natale Errigo è il soggetto al quale l’imprenditore Antonio Gallo si è rivolto per raccogliere i voti, a Reggio Calabria, in favore di Francesco Talarico, candidato alle politiche del marzo 2018. Finito in carcere perché destinatario dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Alfredo Ferraro su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, Errigo è accusato di scambio elettorale politico-mafioso. I pm lo descrivono come un “professionista e consulente di Invitalia, società pubblica di enorme interesse nazionale, il cui vertice, assolutamente estraneo alla indagine, è stato nominato commissario straordinario per l’Emergenza Covid 19, a dimostrazione della importanza dell’incarico ricoperto dall’Errigo”. È lui, per i magistrati, il colletto bianco che “ha mostrato una non comune capacità relazionale interagendo con politici e faccendieri”. Nel comunicato della procura si legge anche che Errigo “risulta essere stato nominato nella struttura del commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza Covid e fa parte del team per la gestione della distribuzione cui è affidata, per l’appunto, la distribuzione dei prodotti (mascherine, dispositivi per la sicurezza individuale, il vaccino anti covid) nonché il contatto con i fornitori e con le strutture destinatarie”. In Calabria c’è chi lo chiama “Nataluccio” e chi “Natalino”. Secondo i pm era qualcosa di più per un candidato di Lamezia Terme come Franco Talarico, che voleva essere eletto deputato e che, per farlo, avrebbe chiesto i voti della cosca De Stefano. I patti, stando alle carte, erano stati chiariti a Roma il 16 gennaio 2018. Nei pressi del Pantheon Talarico incontra il consulente di Invitalia Natale Errigo e l’imprenditore Antonio Gallo, il quale mette le carte in tavola: “Franco a noi ci serve… noi abbiamo bisogno di dare una mano a uno e poi di avere un riferimento… non possiamo fare le cose… nella massima trasparenza”. “È un do ut des” dice Errigo che, il 7 febbraio 2018, un mese prima delle politiche, spiega all’imprenditore Gallo le sue condizioni: “Allora io ti dico subito quelle che sono le mie necessità… io non ho nessuno (inteso verosimilmente come candidato di riferimento)… non ho nessuno… ma io dico… tu fai questo passaggio, vedi un attimo come… perché voglio dire a noi una persona qua ci fa comodo Antonio… ci fa comodo in tutto… a te ma anche a me… a tutti fa comodo avere una.. bravo… uno un problema va e parla… perchè… io ho necessità di avere un punto di riferimento”. Errigo non vuole essere frainteso e mette subito le cose in chiaro con l’imprenditore, che caldeggia la candidatura a deputato dell’ex presidente del Consiglio regionale: “Ti dico subito che cosa ho… che cosa che cosa mi deve dare qui dovrebbe dare Franco Talarico qua… o… un incarico in un organismo di vigilanza… di una società, che è compatibile… ho tutti i requisiti… ho tutti i requisiti… ho tutti i requisiti… 7-8000… 9000 euro all’anno… che voti ho? tutta la mia famiglia Antonio… gli amici stretti… ad Archi (storica roccaforte delle famiglie ndranghetiste De Stefano e Tegano, ndr)… capito che ti voglio dire?… io scendo due giorni prima pure… per andare a raccogliere un po’ di voti… la gente mi sta chiamando ‘Natale a chi dobbiamo votare?’. Sabato mattina prima di andare a votare andiamo da Franco Talarico… io posso garantirti… e ti dico pure i nomi delle sezioni… ad Archi… dove io non parlo ne di 100 ne di 500… la mia famiglia, ci muoviamo sempre in trenta quaranta… onestamente… poi possiamo stare qui a dirci tutto quello che vogliamo… io quando mi viene nella testa, mi gira nella testa chiamo a questo e mi presento mi ha dato il numero Franco Talarico… quando mi gira, quando mi pare a me… nel frattempo prendo l’impegno personale di appoggiare tutto quello che gira su Franco Talarico… come non ci fa quello che ci deve fare… io vengo da te… io vengo da te…”. Gallo comprende al volo la minaccia implicita di Errigo e lo rassicura di avere avvertito Talarico circa il terreno minato su cui si sta muovendo: “Io gli ho detto… (a Franco Talarico) vedi che io mi sto esponendo a Reggio… non vedere che vinci e ti dimentichi… che prendono e ammazzano me… chiaro… c’era pure Tonino (Pirrello l’altro imprenditore indagato, ndr) al discorso… non voglio che poi…”. Questa la presunta risposta del candidato, come riferisce l’imprenditore all’“arcoto” Nataluccio Errigo: “Datemi una mano che io sarò riconoscente perché i voti voi ce li avete non ce li ho io mi ha detto… non è che vado là e me ne scappo”.

Catanzaro, “Basso profilo”. E Floriano Noto disse a Brutto: “Quel finanziere è una testa di cazzo”. Da  Iacchite il 22 Gennaio 2021. Il gruppo delinquenziale composto dal Gallo, dagli esponenti politici e dalle forze dell’ordine deviate è teso alla commissione di un programma delittuoso ben delineato. Le indagini hanno tratto spunto dai contatti captati tra il Gallo, Brutto Tommaso (notoriamente molto vicino a Mimmo Tallini e ai ras della malapolitica catanzarese) e Brutto Saverio e riferiti, tra l’altro, ad un progetto imprenditoriale avviato in Albania per il quale veniva coinvolto anche Ercole D’Alessandro (all’epoca in servizio presso il Goa della Guardia di Finanza di Catanzaro) al fine di trovare contatti ed entrature presso le pubbliche amministrazioni e le strutture politiche albanesi. Il problema da superare sono le indagini in corso contro Antonio Gallo, nelle quali è impegnato un finanziere onesto, il maresciallo Mari. Ciò che emerge da questo incontro è l’interessamento mostrato da Tommaso Brutto per le vicende di Antonio Gallo, interessamento da intendersi ragionevolmente motivato dalla sua importanza ai fini del progetto imprenditoriale in Albania. E così Tommaso e Saverio Brutto si adoperano per recuperare informazioni sulle eventuali indagini in corso nei confronti del Gallo, dispiegando tutti i loro canali di conoscenze. I due si rivolgevano dunque sia al finanziere Ercole D’Alessandro, il quale suggeriva di avere pazienza e attendere l’esito delle attività investigative condotte dal maresciallo della Finanza Mari sia all’imprenditore Floriano Noto, il quale metteva in guardia Tommaso Brutto dal maresciallo Mari, definito “pericoloso e diffidente anche con i suoi colleghi”. Ma chi è Floriano Noto? Il suo ramo è la grande distribuzione, supermercati. La storia del Gruppo AZ, come recita il sito dell’azienda, guidato dalla famiglia Noto, è iniziata circa 40 anni fa. Nel 1979 nacque il primo supermercato AZ a Catanzaro, grazie all’intuito imprenditoriale del commendatore Leonetto Noto e dei suoi figli, Desiderio, Luigi e Floriano. La società catanzarese ha espanso i propri punti vendita, costruendo anche centri di distribuzione, e il proprio marchio nel corso degli anni, fino ad arrivare a legarsi a tutti i grandi gruppi del settore, dall’Auchan, alla Sidis, fino ad arrivare, nel 2017, a costituire la Coop Alleanza insieme al gruppo Coop. Il gruppo AZ spa che fa capo al presidente del Catanzaro ha oggi un fatturato di quasi 265 milioni di euro”. Floriano Noto, inoltre, è anche l’attuale presidente della squadra di calcio del capoluogo, l’Us Catanzaro. Quanto al suo impegno politico, tutti sanno che l’Udc catanzarese è cosa sua e Tommaso Brutto è stato eletto consigliere proprio nella lista dell’Udc formata nome per nome da Noto. Che, come vedremo, ha un rapporto diretto e stretto anche con Francesco Talarico.

Ma ecco la trascrizione della conversazione tra Tommaso Brutto e Floriano Noto.

BRUTTO: “Flo… Allora… per quanto riguarda la Guardia di Finanza…”.

NOTO: “Ah, quello lì dice che è una testa di cazzo quel Mari…”.

BRUTTO: “Aia la Madonna…”.

NOTO: “Ha detto… perché è una testa di cazzo, dice che… è uno stronzo che ad un collega, figurati, l’ha pure registrato…”.

BRUTTO: “Perciò Ercolino (D’Alessandro) se la spagna… pure Ercolino sa questo”.

NOTO: “No, no, ma figurati ti sto raccontando…”.

BRUTTO: “Questo è un po’ particolare…”.

Squilla un telefono e Noto chiede chi sia e Brutto risponde: “Ercole”

BRUTTO: “Ercole vuole parlare con Costanzo (Sergio Costanzo, consigliere comunale della lista “FareperCatanzaro”, che aveva sostenuto nel 2017 lo stesso candidato sindaco dell’Udc, Enzo Ciconte, ndr)… mo glielo porto… Flo… vuole parlare con Costanzo… pomeriggio glielo porto… anche perché (ride) dopo quello che Costanzo ha detto nell’aula… (si riferisce a un intervento in Consiglio nel quale Costanzo aveva rilevato fatti gravi contro l’amministrazione di Catanzaro, ndr)”.

NOTO: “Ehm….”.

BRUTTO: “Io chiamo Gratteri mo’… Io che cosa gli ho detto però ad Ercolino quella sera… “fuite” (scappate) al mattino, se no questi “ammucciano” carte…”.

NOTO: “Nooo, ma assolutamente, no, fanno protocolli pure…”.

BRUTTO: “Alle 8,30 si trova… sono andati 4 finanzieri e si sono prelevati pure la polvere”.

“Basso profilo”. Il braccio destro di Tallini, il finanziere corrotto e l’affare albanese. Da Iacchite il 22 Gennaio 2021. Il gruppo delinquenziale composto dal Gallo, dagli esponenti politici e dalle forze dell’ordine deviate è teso alla commissione di un programma delittuoso ben delineato. Le indagini hanno tratto spunto dai contatti captati tra il Gallo, Brutto Tommaso (notoriamente molto vicino a Mimmo Tallini e ai ras della malapolitica catanzarese) e Brutto Saverio e riferiti, tra l’altro, ad un progetto imprenditoriale avviato in Albania per il quale veniva coinvolto anche Ercole D’Alessandro (all’epoca in servizio presso il Goa della Guardia di Finanza di Catanzaro) al fine di trovare contatti ed entrature presso le pubbliche amministrazioni e le strutture politiche albanesi.

INCONTRO DEL 14 APRILE 2017 TRA TOMMASO BRUTTO ED ERCOLE D’ALESSANDRO

Gli interlocutori discutevano in merito ad una operazione della Dda di Catanzaro denominata “Eumenidi” e il Brutto manifestava il suo sentirsi rassicurato dalla presenza nell’affare del luogotenente.

D’ALESSANDRO: “Sono belle realtà: Romania, Albania, Montenegro, questi paesi qua li conosco tutti”.

BRUTTO: “Dopo che riusciamo qua, vorrebbe mettere piede anche in Polonia…”.

D’Alessandro dice che se uno apre un Brico in Albania fa molti affari basta che “ti metti la manipola, la caldarella… con quattro soldi tu là ti metti a vendere cose che lì non hanno…”.

BRUTTO: “Se ci sei tu, io mi sento più tranquillo, ti dico la verità”.

INCONTRO DEL 24 APRILE 2017

Nel corso della conversazione veniva fatto riferimento al Gallo e a come “fare affari” in Albania. “Tommaso Brutto ed Ercole D’Alessandro parlano di un’attività che terza persona vorrebbe intraprendere a Tirana, una rivendita subito, un magazzino. Ercole dice di caricare i container e basta che sono italiani… D’Alessandro chiede se ha detto (ad Antonio Gallo) dell’apertura del Brico e Brutto risponde che è d’accordo. Tommaso Brutto gli dice che gli deve dedicare lì almeno un giorno a loro…

INCONTRO DEL 26 APRILE 2017

Le conversazioni tra il luogotenente e il politico diventano sempre più confidenziali, arrivando il primo a discutere anche delle indagini in corso nei confronti del Gallo, e delineando le fondamenta del progetto imprenditoriale.

BRUTTO: “Allora, ho parlato di nuovo con Antonio Gallo, praticamente mi ha detto che ha fatto tutto ieri… Doveva vedere un po’ di cose, come rientra il sabato o la domenica ci incrociamo, ma pure alla casa mia per evitare di farci vedere a destra e a manca… Senza contatti non vai da nessuna parte, i contatti ci vogliono Ercolì… che tu apri senza contatti non fai niente… Mi ha dato un nominativo di un collega (tuo) che gli rompe il cazzo… Sai chi è? Si chiama Mari, Mari…”.

D’ALESSANDRO: “Riciclaggio? Cosa gli hanno dato? Mari è quello che sta a Sellia… (alludono al maresciallo Mari, ex comandante della Finanza a Sellia Marina che nel marzo 2015 ha denunciato Gallo e altre persone per reati fiscali legati alle fatture per operazioni inesistenti e altro)”.

BRUTTO: “Lui è un ragazzo pulito… che vuoi comunque qualche contatto ce l’ha (denunciato come imprenditore di riferimento della cosca Trapasso nell’operazione Borderland e controllato su strada in compagnia di Tommaso e Leonardo Trapasso)”.

D’ALESSANDRO: “Questo qua era in contatto con… i Trapasso”

In primis vi sono riferimenti diretti al coinvolgimento di Gallo nell’affare albanese anche alla luce dei suoi preziosi contatti. I due poi discutevano della figura del Gallo, facendo riferimento a “voci” sul suo coinvolgimento in affari illeciti giustificando il medesimo alla luce del fatto che sarebbe normale per un imprenditore avere contatti con gli ambienti della criminalità organizzata. Eclatante è poi il riferimento del militare alla cosca a cui il Gallo sarebbe risultato collegato a seguito delle indagini della Dda e cioè i Trapasso. Tale circostanza, invero, avrebbe dovuto ingenerare in un appartenente alle forze dell’ordine la ferma decisione di prendere le dovute distanze dal soggetto in questione, invece di entrarci in “affari”. Parimenti eclatante poi è quanto riferito dal Brutto allorquando suggeriva di incontrarsi presso la sua abitazione allo scopo di non essere visti in giro. Ebbene, tale accorgimento non può che essere inteso quale stratagemma che si decide di adottare proprio in considerazione della consapevolezza dell’illiceità degli affari in corso.

“Basso profilo”. Il “principino” e Glenda Giglio: una storia d’amore e di mafia. Da Iacchite il 22 Gennaio 2021. Nelle 422 pagine dell’ordinanza dell’operazione “Basso profilo” (o “Profilo basso”) messa a segno dalla Dda di Catanzaro c’è la fotografia della deriva morale della Calabria. E non a caso la figura-chiave di questa inchiesta è un imprenditore rampante chiaramente intraneo al sistema delle cosche ma anche a quello dello stato deviato, visto che può contare sul sostegno di un luogotenente della Finanza e di un maresciallo dei carabinieri. E naturalmente sui soliti politici corrotti sempre a caccia di voti e di visibilità. Ma procediamo con ordine e partiamo dal primo dato: l’imprenditore rampante ovvero il “principino” Antonio Gallo ha un punto debole che lo mette kappaò nonostante predichi il “profilo basso” ed è ‘u pilu… come direbbe Cetto Laqualunque ovvero un’amante… … In primis va rilevata la condotta del Gallo a seguito dell’operazione Borderland. Nell’ambito dell’inchiesta il “principino” veniva coinvolto quale riciclatore dei proventi della cosca Trapasso… e in tale contesto, caratterizzato dal crescere della paura che potesse disvelarsi tutto il retroscena, ben più ricco di quanto emerso all’alba di Borderland, il Gallo iniziava a dispiegare le sue risorse. L’indagato, infatti, prendeva contatti con esponenti delle forze dell’ordine, quali il maresciallo dei carabinieri Antonello Formica e il luogotenente della Guardia di Finanza Ercole D’Alessandro, altra figura cardine di questa operazione. Il motivo del contatto risiedeva nel cercare di reperire informazioni sullo stato delle indagini a suo carico in anticipo, così da poter contenere i rischi. Nel corso di una conversazione con il Formica il Gallo ammetteva di avere rapporti con Carmine Falcone (appartenente alla cosca Mannolo-Trapasso-Falcone-Zoffreo) e tale dato trova riscontro nell’esame del numero dei contatti del “principino” con Falcone o familiari o soggetti gravitanti intorno a lui, e con i Trapasso, che risultano infatti numerosi. La sussistenza e l’importanza dei rapporti con questi soggetti vengono non solo ammesse ma addirittura decantate dal Gallo nel corso di una conversazione con Glenda Giglio (attuale presidente di Confindustria Giovani Crotone), allorquando parlava espressamente del suo rapporto con Nicolino Grande Aracri e Carmine Arena.

GALLO: Gli facevi un baffo sia a Nicolino e sia alla buonanima di Carminuzzo…

GLENDA: Però li conosci tutti eh… in malandrineria…

GALLO: Guarda, tu non hai capito una cosa… allora c’erano due persone che stravedevano per me… uno era (si sente il suono di una mano che batte sull’altra, a significare Mani di Gomma, alias di Nicolino Grande Aracri, ndr)… quello là… e l’altro era la buonanima di Carminuzzu Arena.

Sulla veridicità della conversazione non si ritiene di dubitare, sia per la terminologia usata, sia per il tipo di rapporto sussistente tra il Gallo e la Giglio. I due infatti sono amanti, e tale relazione risulta chiaramente dalle intercettazioni, essendo stati captati anche dialoghi di natura sentimentale e sessuale. Non solo il rapporto sentimentale tra i due, ma anche quello di “affari” e i riferimenti al padre della Giglio, Gennaro Giglio, detto Rino, rendono il tipo di confidenza fatta dall’uomo alla sua amante del tutto attendibile e scevra di qualsivoglia millanteria…Nella conversazione del 15 settembre 2017 tra il “principino” e la Giglio, i due nominavano il Gigliotta, Mister centomila, e i suoi affari con i Trapasso (trasferimenti di somme di 100mila euro da cui deriva il suo pseudonimo), per poi il Gallo decantare la sua capacità di agire senza farsi scoprire. In particolare, il Gallo si vantava di come fosse riuscito a dare il suo contributo alle attivitò della consorteria (ad esempio gestendo qualche azienda per conto della cosca Trapasso) riuscendo al contempo a restare illeso da azioni giudiziarie mantenendo appunto un profilo basso e limitando, anzi annullando, la vita mondana per non attirare l’attenzione a differenza di altri.

GALLO: “No, perché tutti mi dicono che tiro (cocaina, ndr) perché faccio dei ritmi… ma io non tiro, ma la sai qual è la mia rabbia? Questi cornuti qua hanno saputo pure a Verona, perché c’hanno un’azienda, io lavoravo, gli curavo gli acquisti, hanno visto che io andavo a lavorare, sti bastardi venivano e andavano nei night la sera, io non andavo mai nei night… io mi sono salvato per questo, perché io non ho frequentato mai i night, facevo capannone-casa, casa-capannone… e questi bastardi venivano al capannone… tra cui un amico di Natale (Figorilli, marito di Glenda Giglio, ndr), pure un certo Turi Cappa, non so se lo conosci…”.

GIGLIO: “Sì, lo conosco!”

GALLO: “Lo conosci Turi Cappa! Era sotto controllo… oh… quindi veniva Tommaso, veniva Pasquale, andavano al night e io non uscivo apposta”.

Merita attenzione un ulteriore passaggio in cui il Gallo riconosceva di aver corso pesanti rischi in occasioni precedenti: “io l’unica parte che mi potevano incastrare e non mi hanno incastrato in vita mia è stato con Nicolino, con Mani di Gomma… con lui avevo un rapporto stretto ma non facevo niente, non è che io facevo lo ‘ndranghetista, rompevo i coglioni alla gente”… Tale frammento racchiude una forte carica indiziaria poiché manifesta da un lato un riscontro a quanto finora emerso con riferimento alla sua intraneità rispetto alla cosca del Grande Aracri, dall’altro mette in luce la sua personalità, caratterizzata da un’apparente freddezza nell’autogiudicarsi. In altri termini, emerge come il Gallo sia al contempo consapevole di essere uno ‘ndranghetista e negazionista di tale sua appartenenza, quasi illudendosi che gli accorgimenti da lui adoperati siano in grado di escludere, da parte delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria, tale sua appartenenza… Il monitoraggio delle conversazioni tra i due amanti ha messo in risalto altre circostanze… che vedono il coinvolgimento anche di politici quali Francesco Talarico (segretario regionale dell’Ydc, attuale assessore al Bilancio della Regione Calabria e candidato alle Politiche del 2018), per la cui candidatura il Gallo chiedeva appoggio alla Giglio, al pari della richiesta di “entrature” per la partecipazione al bando di gara per le pulizie straordinarie allo scalo aeroportuale di Crotone.

La Giglio, inoltre, a riprova del suo coinvolgimento, metteva a disposizione dell’amante la sua strumentazione per “bonificare” gli uffici e l’auto del Gallo in cui erano state installate microspie…

“Basso profilo”. La lettera-denuncia della segretaria collusa (e delusa): “Associazione mafiosa ad altissimi livelli”. Da Iacchite il 22 Gennaio 2021. 14 gennaio 2018 ore 20. Io Sinopoli Maria Teresa… scrivo tremando dalla paura queste due righe, in virtù di tutto quello che è successo e di cui mi sono resa conto già un anno fa, lavorando per alcune persone, quali Rosa Tommaso, Rolando Russo, Ketty Di Noia, Gallo Antonio e per ultimo Leone Andrea. Ho iniziato circa quattro anni fa a lavorare facendo la segretaria per il Rosa, che era stretto amico del Russo. Dopo aver dimostrato tutta la mia voglia di lavorare, e non meno la forte necessità di guadagnare onestamente il mio seppur piccolo e dignitoso stipendio, mi aspettavo di essere assunta regolarmente ma nonostante la mia incalzante richiesta di ciò, la cosa non è mai avvenuta, al contrario mi ritrovo a rendermi conto che avevo a che fare con persone false, disoneste, imbroglione e soprattutto pericolose, allorquando mi vedo arrivare a casa la Dda di Roma, venendo solo e soltanto in quel momento a scoprire che i miei sospetti erano ampiamente fondati. A quel punto comunico a Rosa Tommaso di non volere avere a che fare con cose illegali, avendo già avuto in passato i miei personali problemi con la Giustizia, ma lui, con tutta la sua prevaricazione, mi comunica che io non avrei potuto fare più nulla, perché per lui e per i suoi compari era stato un gioco da ragazzi falsificare a mia insaputa firme per cose di cui io non immaginavo nemmeno lontanamente l’importanza… accompagnato dalla classica minaccia, velata non più di tanto, che se solo mi fossi azzardata a dire o denunciare qualcosa, avrei messo in serio pericolo la mia vita e quella dei miei genitori. Vivo ormai da quel momento questa situazione… non riesco più a vivere e neanche a respirare… Vengo controllata, seguita, minacciata psicologicamente e fisicamente. Ho seriamente terrore che queste persone attentino alla mia vita, poiché si tratta di individui senza scrupoli, dediti evidentemente in modo seriale alla illegalità e alla criminalità evidenziata dal metodo mafioso… Purtroppo queste sono persone che non hanno paura di niente e di nessuno e che saprebbero sempre come cavarsela, corrompendo ed avendo a che fare con gli esseri peggiori di questa terra a livello di criminali…. In fede, Sinopoli Maria Teresa

Questa lettera veniva rinvenuta nel corso di una perquisizione effettuata l’11 maggio 2018 dalla Guardia di Finanza di Crotone e va considerata anche alla luce delle captazioni delle conversazioni della donna. Tali dialoghi, infatti, conferiscono genuinità alla lettera scritta dalla Sinopoli, eliminando dubbi in merito a eventuali intenti calunniatori della stessa. Va precisato che tale lettera veniva scritta dalla Sinopoli e indirizzata a se stessa, allo scopo (ragionevolmente deducibile) di autotutelarsi. Dunque, da un lato la circostanza della coincidenza tra mittente e destinatario e dall’altro le conversazioni captate conferiscono una valida e piena portata indiziante alla lettera. Ma soprattutto ciò che elimina ogni ragionevole dubbio in merito alla genuinità di quanto scritto dalla Sinopoli nella lettera, è un frammento di una conversazione col fidanzato Faldella Santo, allorquando la donna, a seguito del rinvenimento della missiva, cercava di inventare delle giustificazioni che ne screditassero l’attendibilità. Primo elemento che emerge dalla lettura è l’individuazione esatta dei soggetti di cui la donna ha paura e con cui la stessa ha intrattenuto diversi rapporti per lo più “lavorativi” e cioé Rosa Tommaso, Rolando Russo, Ketty Di Noia, Gallo Antonio e Leone Andrea. In secondo luogo, il fatto che la Sinopoli li definisca “pericolosi” avendo da questi ricevuto minacce ed essendo stata oggetto di pedinamenti e controlli. Infine la falsificazione della sua firma in diverse occasioni. Tale ultimo elemento, peraltro, evoca il tipo di attivitò celata dietro gli schermi societari costituiti dalle cosiddette “cartiere” ad hoc costituite. Trattasi invero di un sistema acutamente creato dagli indagati e che funzionava con le seguenti modalità sinteticamente elencate: 1) emissione di fatture per operazioni inesistenti da parte di società fittizie ad hoc costituite; 2) accumulo di credito Iva in diversi passaggi; 3) prelevamento dei contanti; 4) consegna del contante ai soggetti promotori/organizzatori. Orbene, in seno al sistema così delineato, la Sinopoli rivestiva sia il ruolo di “testa di legno” che di “prelevatrice”. Tra le conversazioni vi è quella avvenuta tra la Sinopoli e sua madre nell’aprile 2018, allorquando la prima diceva: “E’ un’associazione a delinquere di stampo mafioso… ad altissimi livelli, è tutta una rete, capito, sono tutti tra di loro… Valerio Drosi è praticamente il fratello di una che lavora nella Posta dove c’è il Direttore colluso con la sorella collusa… la Posta che gli dà più soldi in assoluto a loro… questo è intoccabile perché ovviamente è il fratello di una che lavora alla Posta… ha una sorella collusa… i rubinetti si sono chiusi… che la locale di Cirò ha chiuso che sono tutti dentro (operazione Stige)… alla fine risulta tutto e poi io sono stata minacciata fisicamente e verbalmente e nessuno può dimostrare il contrario… io non ho nulla da perdere… adesso abbiamo messo insieme i pezzi…”. Tuttavia, la Sinopoli non va considerata alla stregua di una vittima ignara del circuito in cui era inserita, ma tutt’altro. La donna infatti non solo era consapevole della caratura criminale dei soggetti per cui lavorava, ma era al corrente anche della presenza, dietro le quinte, di personaggi ‘ndranghetisti di spicco quali Bagnato Antonio Santo… La Sinopoli non solo è consapevole della caratura criminale dei soggetti ma altresì dell’apporto dalla stessa offerto all’attività del sodalizio rimasto, a parere suo, privo della giusta ricompensa. Pertanto si ritiene che la Sinopoli abbia consapevolmente deciso di delinquere sotto la direzione del Gallo e del Rosa, auspicandosi ed aspettandosi, però, un diverso e più favorevole trattamento remuneratorio e, allorquando tale aspettativa veniva disattesa, la stessa in un primo tempo assumeva un atteggiamento quasi di sfida, per poi spaventarsi delle possibili reazioni dei suoi “capi”…

Calabria, arrestato l’assessore Udc Talarico. Uomo forte di Cesa, fu indagato anche per Arpacal. Da Iacchite il 21 Gennaio 2021. Franco Antonio Talarico, arrestato oggi nell’operazione “Basso profilo” della Dda di Catanzaro, è assessore regionale nella giunta Santelli (ora Spirlì) in quota Udc ed è l’uomo forte in Calabria di Cesa, voluto a tutti i costi dal segretario dell’Udc. E’ stato eletto in Consiglio regionale per tre volte consecutive nella lista dell’Udc (2000, 2005 e 2010), nella circoscrizione di Catanzaro, ed è stato presidente del Consiglio Regionale sotto la guida di Scopelliti dal 2010 al 2014. Alle successive Regionali non fu eletto: una bocciatura che fece molto clamore soprattutto a Lamezia Terme, la sua città. Ma poi è stato “ripescato” nel 2020 nella qualità di assessore. Nel 2018 è stato candidato alle Politiche nel collegio 8 di Reggio Calabria senza essere eletto e secondo l’accusa proprio in quella circostanza aveva stretto accordi di scambio elettorale politico-mafioso con esponenti di spicco della ‘ndrangheta. E sempre in quella circostanza si costruì il “tesoretto” che poi è stato alla base della sua nomina nella giunta Santelli. Nato a Nicastro, ora Lamezia Terme, l’11 gennaio 1967, Francesco Talarico è laureato in Economia e Commercio ed esercita la professione di Dottore Commercialista. È stato anche consigliere comunale a Lamezia Terme dal 1997 al 2000 ed eletto, nel 2008, nel Consiglio Provinciale di Catanzaro. Dal ’97 ha guidato il suo partito a livello provinciale catanzarese: prima da segretario del Ccd e in seguito dell’Udc, di cui è stato tra i fondatori. Al congresso del 2005, Talarico è stato eletto Segretario regionale dell’Udc-Calabria, carica che continua a ricoprire attualmente. Aveva cominciato il suo impegno politico nel movimento Giovanile della Democrazia Cristiana. Per non farsi mancare niente è finito anche nell’inchiesta sull’Arpacal, insieme all’allora presidente Marisa Fagà, ai componenti del Cda Mario Russo e Ida Cozza, e al funzionario di valutazione delle schede relative alle nomine dell’Ente, Rocco. Per la Fagà, Russo e Cozza il sostituto procuratore della Repubblica, Gerardo Dominijanni, titolare delle indagini, ipotizzava il reato di falso in atto pubblico e abuso d’ufficio, quest’ultimo contestato in concorso con Talarico e Sirio. Si trattava di nomine irregolari. Talarico, essendo presidente del Consiglio Regionale, aveva potere di nomina e quindi faceva quel che gli aggradava di più. attestando falsamente per chi doveva entrare nel carrozzone dell’Arpacal il possesso dei requisiti di cinque anni di attività professionale riconducibile all’incarico di comprovata esperienza tecnico scientifica in materia ambientale. Per non parlare delle sue avventure lametine, nelle quali qualcuno ha individuato anche qualche “vruscio di classe” nelle sue estenuanti campagne elettorali.

Operazione contro la 'ndrangheta, arrestata una nostra vecchia conoscenza: l'assessore Talarico. Le Iene News il 22 gennaio 2021. Francesco Talarico, assessore al bilancio della Calabria e segretario regionale dell’Udc, è stato arrestato nell’ambito di una maxi operazione contro l’ndrangheta. Noi de Le Iene lo avevamo conosciuto anni fa, quando era stato accusato da un ristoratore di non aver pagato le cene elettorali organizzate. Francesco Talarico, l’assessore al bilancio della Calabria e segretario regionale dell’Udc, è stato posto agli arresti domiciliari nell’ambito di una maxi operazione contro l’ndrangheta. Secondo notizie di stampa nella stessa operazione risulta indagato anche Lorenzo Cesa, segretario nazionale ora dimissionario dell’Udc, con l’accusa di associazione a delinquere agevolatrice dell'attività mafiosa, la sua casa è stata perquisita. In totale sono 48 le persone arrestate, tra carcere e detenzione domiciliare, su richiesta della procura antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. Secondo gli inquirenti, “si è venuto a creare un connubio diabolico tra soggetti appartenenti a diverse estrazioni: uomini politici, imprenditori ed esponenti delle forze di polizia”. Al centro dell’inchiesta ci sarebbero gli imprenditori Antonio Gallo - detto “il principino” .- e Antonino Pirrello, ritenuti legati alla ‘ndrangheta. I politici e funzionari pubblici avrebbero, sempre secondo l’accusa, aiutato i due a espandere la loro influenza in cambio di pacchetti di voti. In occasione delle elezioni politiche del 2018 l’assessore Talarico, che all’epoca era candidato alla Camera dei deputati, “offriva il suo appoggio, in cambio di un consistente pacchetto di voti, per introdurre Gallo e Pirrello in ambienti politico istituzionali nazionali”, scrivono i magistrati. Noi de Le Iene avevamo conosciuto Francesco Talarico nel 2014, nel servizio che potete vedere qui sopra. All’epoca Talarico era il presidente del consiglio regionale della Calabria. Noi abbiamo incontrato Salvatore, il gestore di un grande locale a Lamezia Terme: l’uomo sosteneva di aver organizzato un banchetto elettorale su richiesta dello stesso Talarico. “Doveva cominciare la campagna elettorale, e mi ha detto anche come lo voleva organizzata”, ci aveva raccontato Salvatore. A quella cena ne sarebbero poi seguite altre, che secondo l’uomo gli sarebbero costate “130mila euro circa. Non mi ha dato i soldi. Mi ha dato 2.800 euro”. Una versione però contestata dallo stesso Talarico.

Catanzaro. “Basso profilo”. La sintesi di Gratteri: “Gallo aggancia Talarico e Cesa tramite Tommaso Brutto”. Da Iacchite il 21 Gennaio 2021. Il procuratore capo della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha illustrato nel corso di una conferenza stampa i dettagli dell’operazione contro la ‘ndrangheta “Basso Profilo”, che ha fatto scattare gli arresti domiciliari per l’assessore al Bilancio della Regione Calabria e segretario regionale dell’Udc, Francesco Talarico, e che coinvolge anche Lorenzo Cesa, segretario nazionale dell’Udc, che si è dichiarato estraneo ai fatti ma ha deciso comunque di dimettersi dopo aver ricevuto un avviso di garanzia. «Negli ultimi anni le nostre indagini sono sempre meno contrassegnate da reati come l’omicidio e sempre più da reati che coinvolgono il potere politico ed economico», ha detto Gratteri. «Quella di oggi – ha continuato – è un’indagine che dimostra il rapporto diretto tra ‘ndrangheta, imprenditoria e politica. Epicentro di tutto è l’imprenditore Antonio Gallo, una persona eclettica che lavorava su più piani, che si muoveva con grande disinvoltura quando aveva di fronte lo ’ndranghetista doc, l’imprenditore o il politico. Gallo aveva bisogno di più piani per creare un monopolio sul territorio, per avere la possibilità di vincere gare truccate per la fornitura di prodotti per la sicurezza sul lavoro o per le pulizie anche a livello nazionale. Ed ecco qui che avviene l’aggancio con la politica». L’aggancio sarebbe avvenuto, secondo il procuratore, tramite «l’ex consigliere comunale di Catanzaro Tommaso Brutto e il figlio Saverio, assessore comunale a Simeri Crichi. Attraverso i Brutto, Gallo riesce ad agganciare l’onorevole Francesco Talarico che aveva la necessità di candidarsi alle politiche del 2018. Per non destare sospetto, si candida nel circondario di Reggio Calabria. Ma lì aveva bisogno di voti e il pacchetto di voti a Reggio Calabria chi glielo trova se non Gallo? Compare d’anello di un altro parlamentare reggino, Gallo si rivolge a Bruno Porcino ma anche questo non basta. Si rivolge quindi ad altri due soggetti, Pirrello e Natale Errigo, inquadrati sul piano investigativo e giudiziario come soggetti vicini al clan De Stefano-Tegano. I voti arrivano, ma Talarico comunque non viene eletto per soli 1.500 voti. L’indagine non riguarda solo questo. Ci sarà infatti un successivo incontro a Roma tra Gallo e Lorenzo Cesa, un pranzo nell’estate del 2017 per avere aiuto su appalti di respiro nazionale. In questa indagine troverete inoltre decine e decine di imprese che servono solo per riciclare, false fatturazioni e molto altro». Talarico “era a conoscenza”. Ma Francesco Talarico, assessore al Bilancio della Regione Calabria era a conoscenza di questa attività che l’imprenditore Gallo avrebbe condotto in suo favore? “I risultati dalle nostre intercettazioni e dei nostri riscontri ci fanno dire – risponde Nicola Gratteri – che Talarico sapeva perfettamente che Gallo andava a rivolgersi alla ‘ndrangheta di Reggio Calabria, visto che Talarico ha pensato di candidarsi nel circondario di Reggio Calabria”. Mentre per quanto riguarda il segretario nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa “con Talarico erano nello stesso partito e per questo Talarico, per ricambiare per l’interesse nelle elezioni politiche, gli ha organizzato un pranzo per avere la possibilità di ottenere benefici, appalti”.

Gratteri e la bomba Cesa: “I tempi della politica non c’entrano”. Ma le interpretazioni fioccano lo stesso. Da Iacchite il 22 Gennaio 2021. Diciamocelo con tutta franchezza: sui lavori in corso per la costruzione di una nuova maggioranza, è piombata pesantemente l’inchiesta di Gratteri che ha coinvolto il leader Udc, Lorenzo Cesa. Questa è una certezza. Poi è chiaro che alla Camera come al Senato fioccano le interpretazioni sulle possibili conseguenze nell’operazione anti ‘ndrangheta del procuratore di Catanzaro. E’ vero che, riferisce chi conosce il mondo centrista, è soprattutto De Poli a voler restare ancorato al centrodestra, ma – osserva la stessa fonte – è evidente come il ‘blitz’ che ha provocato il primo scossone con le dimissioni di Cesa dalla segreteria del partito, “rischia di ‘liberare’ gli altri due senatori, Binetti e Saccone”, di far sì che siano questi ultimi il ‘volto spendibile’ dell’Udc. C’è chi, sempre nel centrodestra, azzarda sotto voce che l’iniziativa del procuratore capo della Dda, Gratteri, potrebbe giocare a favore dell’esecutivo, altri però danno una lettura contraria, ovvero che le manovre sulla ‘quarta gamba’ rischiano di essere frenate. Insomma, tutto e il contrario di tutto. E Gratteri? Il procuratore di Catanzaro sulle pagine del Corriere della Sera, spiega: “I tempi della politica non c’entrano. Noi abbiamo saputo che dovevamo arrestare l’assessore Talarico, assieme agli altri, quando è arrivata l’ordinanza del gip, all’inizio di gennaio, a un anno di distanza dalla nostra richiesta e a sei mesi dall’ultima integrazione. Le elezioni in Calabria erano fissate per il 14 febbraio, avremmo aspettato il 15 per non interferire sulla campagna elettorale, ma poi sono state rinviate ad aprile: non potevo lasciare arresti in sospeso per decine di persone altri tre mesi”. Gratteri parla così dell’inchiesta in cui è coinvolto anche Cesa dell’Udc, considerato nel limbo dei ‘responsabili’ per la sopravvivenza di questo governo: “Io fino all’altra sera gli ho sentito dire in tv che lui e l’Udc non sarebbero entrati nella maggioranza…”. E anche qui le interpretazioni su questa “sortita” potrebbero essere infinite, ma ci fermiamo. Per ora.

Alessandro Sallusti contro la magistratura: "Cesa indagato? Puntuali come la morte. Certo è solo una coincidenza". Libero Quotidiano il 22 gennaio 2021. Lorenzo Cesa indagato per concorso esterno in associazione mafiosa il giorno dopo che i suoi tre senatori hanno votato contro la fiducia al governo. Un dettaglio che fa riflettere Alessandro Sallusti. Il direttore del Giornale si lascia andare a un amarissimo sfogo: "Puntuale come la morte nei momenti di svolta la magistratura entra a piedi pari sugli stinchi della politica. L'ex segretario dell'Udc è stato indagato per aver frequentato un imprenditore finito nei guai - scrive ripercorrendo la storia -. I fatti risalgono al 2017 ma il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha scelto proprio queste delicate ore per recapitargli un avviso di garanzia". Una caso? Sallusti preferisce mettere le mani avanti: "A tutela personale aggiungiamo che la contemporaneità dell'avviso di garanzia a Cesa e la crisi politica che vede lo stesso Cesa ago della bilancia è soltanto e ovviamente una banale coincidenza". Il direttore del Giornale non può però fare a meno di ricordare che "la giustizia ha guardato con grande interesse non solo agli affari e agli intrallazzi della politica ma anche alle sue dinamiche e agli snodi che nulla hanno a che fare con ipotesi di reato". Non si tratta di una leggenda né una malizia, "è purtroppo - conclude - la storia recente di questo Paese".

Lorenzo Cesa, Gratteri: «Macché giustizia a orologeria. L’ho sentito io dire in tv: non entro in maggioranza». Le elezioni sono ad aprile, non potevamo aspettare ancora per gli arresti. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 22/1/2021.

Procuratore Gratteri, la sua inchiesta su ‘ndrangheta e politica esplode nel mezzo di una crisi di governo, e alla vigilia di nuove elezioni in Calabria. Come si fa a non parlare di “giustizia a orologeria”?

«Le giuro che i tempi della politica non c’entrano. Noi abbiamo saputo che dovevano arrestare l’assessore Talarico, insieme agli altri, quando è arrivata l’ordinanza del gip, all’inizio di gennaio, a un anno di distanza dalla nostra richiesta e a sei mesi dall’ultima integrazione. Le elezioni in Calabria erano fissate per il 14 febbraio, avremmo aspettato il 15 per non interferire sulla campagna elettorale, ma poi sono state rinviate ad aprile: non potevo lasciare arresti in sospeso per decine di persone altri tre mesi».

Non poteva attendere almeno la soluzione della quasi-crisi di governo? Cesa e l’Udc sono entrati nel gioco dei “responsabili” in soccorso del premier Conte...

«Io fino all’altra sera gli ho sentito dire in tv che lui e l’Udc non sarebbero entrati nella maggioranza, quindi questo problema non si è posto. Se ora qualcuno vuole sostenere il contrario lo faccia, ma io l’ho sentito con le me orecchie».

Su quali basi accusate Cesa di associazione per delinquere con l’aggravante di aver agevolato la ‘ndrangheta?

«Per i contatti con l’imprenditore Antonio Gallo, noto per essere il collettore della ‘ndrangheta nella provincia di Crotone, che mira ad allargare i suoi affari e le sue attività. E’ arrivato a Reggio Calabria e s’è rivolto al clan De Stefano-Tegano per organizzare la campagna elettorale di Talarico, e poi a Roma per cercare di ottenere appalti di livello nazionale. Per questo organizza, tramite Talarico, un incontro con Cesa. Talarico sapeva perfettamente che Gallo si rivolgeva alle cosche reggine; Cesa e Talarico erano nello stesso partito e quindi, per ricambiare l’interesse per le elezioni, ha organizzato il pranzo».

Però non sapete quello che si sono detti , in quel pranzo.

«In quel momento Cesa era deputato europeo e non lo potevamo intercettare. Però sappiamo da altre conversazioni che in quell’occasione hanno discusso di appalti con Anas, Enel e altri enti statali per far lavorare Gallo. C’è un’intercettazione in cui Talarico parla di Cesa, delle fornire di Gallo e del 5 per cento... In altre Gallo dice chiaramente che c’è un accordo, e che è salito a Roma appositamente per incontrare Cesa».

Ma restano sempre dialoghi tra terze persone che parlano di lui. La sua voce non c’è mai.

«E allora che facciamo, stiamo fermi e non chiediamo niente a nessuno? Non si tratta di amici al bar che parlano di calcio, bensì di imprenditori legati alle cosche che parlano di politica e rapporti con i politici. L’incontro con Cesa c’è stato, come posso non chiederne conto?».

Agli atti avete messo pure l’intercettazione di un arrestato che dice di aver incontrato il senatore Pierferdinando Casini, il quale gli avrebbe detto “qualunque cosa avete bisogno in Albania...”

«Su quello però non c’è alcun riscontro, sono parole che non sappiamo se corrispondono alla realtà e che da sole non significano niente, tant’è che il senatore Casini non è nemmeno indagato. Noi ci basiamo sui fatti riscontrati e dobbiamo procedere con le verifiche, perché quest’inchiesta rappresenta un ulteriore passo avanti nell’evoluzione della ‘ndrangheta nelle sue relazioni con il potere».

In quale direzione?

«Quella che porta un’organizzazione criminale a entrare nei salotti buoni della società grazie a imprenditori, avvocati, notai come quello coinvolto in questa indagine, il più noto di Catanzaro, ed esponenti politici di livello regionale e nazionale. Ci sono rapporti diretti con la pubblica amministrazione, coltivati da professionisti che hanno piena consapevolezza di avere interlocutori espressione della criminalità».

Ma perché le indagini della sua Procura con decine o centinaia di arresti, vengono spesso ridimensionate dal tribunale del riesame o nei diversi gradi di giudizio?

«Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni».

Che significa? Ci sono indagini in corso? Pentiti di ‘ndranghetisti che parlano anche di giudici?

«Su questo ovviamente non posso rispondere».

Alessia Candito per repubblica.it il 21 gennaio 2021. Politici, imprenditori, boss di primo livello. E fra gli indagati anche il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, la cui casa romana è stata perquisita e passata al setaccio questa mattina dagli uomini della Dia di Maurizio Vallone. È una maxi-operazione da decine di arresti quella eseguita oggi su tutto il territorio nazionale su richiesta della procura antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri e per ordine del giudice. In manette sono finiti maggiori esponenti delle ‘ndrine tra le più importanti di Crotone, Isola Capo Rizzuto e Cutro come “Bonaventura” “Aracri”, “Arena” e “Grande Aracri”, nonchè di imprenditori di spessore ed esponenti della pubblica amministrazione collusi con le organizzazioni criminali. L'indagine "basso profilo" ha accertato movimenti illegali di denaro per oltre trecento milioni di euro. Oltre alle misure cautelari, la Procura della Repubblica di Catanzaro ha disposto l'esecuzione di numerosi sequestri di beni aziendali, immobili, autoveicoli, conti correnti bancari e postali per un valore che è stato definito "ingente". Secondo le prime indiscrezioni, 13 persone sono finite in carcere e 35 ai domiciliari, tutte accusate a vario titolo di riciclaggio, turbativa d’asta, intestazione fittizia di beni ed associazione mafiosa. Fra loro, nomi noti della politica, dell’imprenditoria e delle professioni di Catanzaro, ma anche funzionari, dipendenti pubblici e politici. Quarantanove gli indagati. Il patrimonio sequestrato “torna nelle casse dello Stato ed è un reale recovery fund che deve essere sempre attivo” dice il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. “Un plauso sincero a questo immane sforzo investigativo che, la Commissione Antimafia ha potuto seguire grazie al lavoro del suo ufficiale di collegamento DIA colonello Luigi Grasso” spiega in una nota. “Questi arresti dimostrano che lo Stato non solo è presente ma è anche più forte e tenace".

Cesa molla Conte, autogol Gratteri: “Avevo l’ordinanza da inizio gennaio, Udc non è entrato in maggioranza…” Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. Nega che la sua sia una inchiesta ad orologeria, ma allo stesso tempo svela che su Lorenzo Cesa “fino all’altra sera gli ho sentito dire in tv che lui e l’Udc non sarebbero entrati nella maggioranza, quindi questo problema non si è posto. Se ora qualcuno vuole sostenere il contrario lo faccia, ma io l’ho sentito con le mie orecchie”. Il procuratore antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri prosegue il suo show mediatico dalle colonne di Corriere della Sera e Repubblica, i due quotidiani che stamane danno ampio risolto all’inchiesta “Basso profilo” che ieri, dopo il maxi spiegamento di quasi 300 poliziotti, ha portato all’arresto di 48 persone (13 in carcere, 35 ai domiciliari) per presunte collusioni con la ‘ndrangheta. Il nome noto, notissimo, è quello dell’ormai ex segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, perquisito e indagato per associazione a delinquere con aggravante mafiosa: Cesa da giorni è in ballo, come il suo partito, come possibile “quarta gamba” del governo Conte per rimpiazzare l’uscita dei renziani di Italia Viva. Nell’intervista a Repubblica, in alcuni passaggi, c’è da rimanere di sasso. “I processi si fanno nelle aule di giustizia. A me le chiacchiere non interessano”, dice il procuratore Gratteri proprio su uno dei più importanti quotidiani italiani, mentre sul diretto concorrente, il Corsera, esce una seconda intervista (non dimenticando la sua costante presenza in tv). Sul Corriere destano stupore quindi le parole sulla tempistica dell’ultima indagine che riguarda anche Cesa, corteggiatissimo dalla maggioranza per fare da "stampella" dell’esecutivo in Senato. Il Gratteri-pensiero, come da intervista a Giovanni Bianconi, è inquietante: il procuratore antimafia di Catanzaro indaga Cesa perché non è entrato in maggioranza? Ma sulle tempistiche dell’inchiesta altro scenario inquietante arriva ancora dalle parole di Gratteri, che sempre al Corriere dice di aver saputo che “dovevano arrestare l’assessore Talarico, insieme agli altri, quando è arrivata l’ordinanza del gip, all’inizio di gennaio, a un anno di distanza dalla nostra richiesta e a sei mesi dall’ultima integrazione”. Infine un passaggio sui flop registrati fino ad oggi dalle inchieste portate avanti dal magistrato idolo di Travaglio e Movimento 5 Stelle. Come noto, l’ampiamente pubblicizzata ‘Rinascita Scott’, partita con una richiesta di 334 ordini di cattura, è stata poi decimata dal gip, dal Riesame e dalla Cassazione, quindi “rabboccata” col blitz dal nome “Imponimento” che portò a casa altri 158 indagati, di cui 75 subito in manette. Per Gratteri non ci sono problemi se le sue inchieste vengono ridimensionate dopo gli arresti show: “Noi facciamo richieste – si giustifica dalla colonne del Corriere – sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”.

Cesa e Talarico indagati senza uno straccio di indizio. L’ultimo blitz di Gratteri? Per dare ossigeno a Rinascita Scott e catturare titoli sui giornali. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. “Dobbiamo vedere come cazzo possiamo fare che Cesa gli fa chiudere qualche cazzo di cosa”. Dovrebbe bastare questa dichiarazione di Tommaso Brutto, consigliere comunale a Catanzaro, intercettato a casa sua mentre parla con Francesco Talarico, responsabile regionale dell’Udc, per capire che Lorenzo Cesa non solo non ha avuto niente a che fare con le cosche mafiose, ma neanche con accordi pre-elettorali in Calabria. Siamo negli ultimi mesi del 2017, Francesco Talarico spera di andare in Parlamento con le elezioni politiche del 2018 (non ci riuscirà per 1.500 voti), si candida nel collegio di Reggio Calabria. Si dà da fare con Tommaso Brutto, che è consigliere comunale da vent’anni, e con suo figlio Saverio, cui promette il ruolo di suo assistente parlamentare, in caso di elezione. Entra in contatto anche con un imprenditore particolarmente eclettico, Antonio Gallo, detto “il principino”, uno di quelli che conoscono un po’ tutti, che si danno da fare per tutti, tanto che nelle intercettazioni si dice di lui che è “generoso”. Si combina un incontro con l’europarlamentare Lorenzo Cesa, allora come oggi segretario dell’Udc, e il 7 luglio 2017 i quattro (Talarico, i Brutto padre e figlio e l’imprenditore) partono per Roma. Del pranzo, delle conversazioni, di eventuali impegni, ci sono solo deduzioni, nessuna captazione. Ma dovrebbe essere abbastanza chiara l’inutilità di quell’incontro, se tre mesi dopo (l’intercettazione ambientale è del 25 ottobre dello stesso anno) Tommaso Brutto dirà quella frase e se, in un’altra captazione, quando siamo ormai al gennaio del 2018 a Reggio Calabria, lo stesso Gallo si mostrerà solo interessato a un incarico in qualche organismo di vigilanza da 7-8-9000 euro all’anno. Che non gli arriverà. Che cosa c’entra dunque Lorenzo Cesa, perquisito e indagato per associazione per delinquere con l’aggravante mafiosa, in un’inchiesta (modestissima) dal nome “Basso profilo”, che ha portato in carcere 13 persone, ne ha messo ai domiciliari altri 35, ma ha impegnato nel rastrellamento oltre trecento uomini delle forze dell’ordine con l’impiego di elicotteri? La presenza del suo nome nelle 422 pagine dell’ordinanza del gip Alfredo Ferraro, pare destinata soprattutto a catturare i titoli di giornale. Ma è sicuro al cento per cento che ne uscirà completamente scagionato. Quando? Intanto si è già dimesso dalla segreteria dell’Udc recitando la consueta giaculatoria del “ho piena fiducia nella magistratura”, cosa che gli è stata rimproverata (ci associamo) dal solo Gianfranco Rotondi, uno di quelli che ne hanno visto tante e si sono irrobustiti la spina dorsale. E poi, soprattutto in un momento così delicato per la vita politica, supponiamo che Cesa d’ora in avanti dovrà passare le giornate più in compagnia dei suoi legali che degli amici di partito. La vita ti cambia, quando hai sul collo il fiato di un magistrato. E ha poca importanza il fatto che tu sappia di essere estraneo alle accuse che ti vengono contestate. Anche perché la gran parte degli amici, credendo di aiutarti, comincia a dirti che saprai dimostrare la tua innocenza. Come se non spettasse al titolare dell’accusa, si chiami Gratteri o Rossi o Bianchi, dimostrare con qualche supporto la validità della sua ipotesi. Ma non è abitudine indagare, e spesso anche arrestare, portando prove a supporto dell’ipotesi accusatoria. Spesso neanche da parte del giudice per le indagini preliminari. Ormai in tanti, e anche il dottor Alfredo Ferraro che ha scritto l’ordinanza di ieri, invocano una sentenza della cassazione che li autorizza a copiare pedissequamente le richieste del Pm, per giustificare la propria mancanza di “creatività”, cioè di presa di distanza dall’accusa, in questo caso dalle richieste del procuratore Gratteri. Il quale, come suo solito, contrabbanda il Mini per Maxi. Sguinzaglia centinaia di uomini dall’Aspromonte alla Sila fino alle terre di mezzo a caccia di pastori, poi dice: ”L’indagine di questa mattina è la sintesi di quello che diciamo ormai da decenni: la ‘ndrangheta spara meno però corrompe e ha sempre più rapporti nel mondo dell’imprenditoria e nel mondo della politica”. Che è un po’ come rimpiangere il fatto che non ci sia più la mafia di una volta. O che la mafia in realtà non è più mafia. Ci sono affari o corruzioni che vengono, spesso arbitrariamente, definiti “mafia” ma che sono altro. Come è capitato a Roma, con l’abbaglio di “Mafia Capitale”. La retata di ieri infatti si chiama “Basso profilo”, a indicare che ci troviamo di fronte a capi-mafia che agiscono come registi occulti, che dirigono i lavori (illegali) senza mostrarsi ma poi raccolgono i frutti. Il leader indiscusso di questo comportamento sarebbe Antonio Gallo, il “principino”, uno che non è inserito nell’organizzazione di alcuna ‘ndrina, ma ha rapporti un po’ con i capi di tutte quelle conosciute in Calabria. Il che, sostiene il procuratore Gratteri e il gip (autorizzato dalla cassazione) concorda, lo qualifica non come un mero aderente alle cosche, ma come un vero promotore. Infatti Gallo conosce tutti i capi, interloquisce, “alimenta le bacinelle delle cosche”, è un imprenditore intoccabile, recluta prestanome, appiana contrasti, fa regali, invita al proprio matrimonio, si preoccupa per la indagini della Dda. Facile lavoro per il suo legale contestare questa interpretazione del suo ruolo, se non fossimo nella Calabria del dottor Gratteri. Ammesso che l’avvocato di Gallo riesca a parlare con il suo assistito in carcere. Visto che è stato proibito a tutti gli indagati di conferire con i legali per cinque giorni. Tutti si stanno domandando il perché. La speranza di metterli l’uno contro l’altro? Di costruire un “pentito”, che magari ricordi a modo suo il tenore di quella conversazione al ristorante di Roma cui partecipò anche Lorenzo Cesa? Certo che l’operazione di ieri ha dato anche una piccola boccata d’ossigeno al processo “Rinascita Scott” in corso nell’aula bunker di Lametia, dove sono stati riunificati tre diversi tronconi d’inchiesta e dove il procuratore Gratteri ha riversato tra le carte dell’accusa la deposizione del “pentito” Cannatà, che ha svelato come strategia difensiva di diversi imputati il fatto di scegliere il rito ordinario (in molti hanno optato per l’abbreviato) contando sulla scadenza dei termini della carcerazione preventiva. Il procuratore Gratteri ha quindi voluto mettere a verbale la necessità di correre, correre, correre per evitarlo. Ora, poiché il reato non si celebra in corte d’assise e non ci sono imputati accusati di fatti di sangue (del resto ormai la ‘ndrangheta non spara più, giusto?), il suo timore parrebbe fondato. Ma non è vero, dicono gli avvocati, stiamo parlando di scadenze a tre anni. E allora, qual è il problema? Tenere sempre alta la tensione? E ogni tanto, quando l’attenzione di ammoscia, risollevarla con una nuova operazione? Però Mini, non Maxi. Il Maxi era solo quello di Falcone. Grrr

Cesa, dalla Dc a Berlusconi. La parabola di un mercante di potere. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 21 gennaio 2021. Gli esordi nello scudocrociato, i guai giudiziari, la trasmigrazione nel centrodestra. Per qualche giorno ha anche avuto tra le mani il destino del governo Conte. Storia di un personaggio mai troppo sotto i riflettori ma sempre ottimo imprenditore di se stesso. Fa ancora più impressione, oggi, pensare che per qualche giorno i destini d'Italia sono stati in mano a Lorenzo Cesa, che conosce tutti, parla con tutti, a tutti promette qualcosa, ma poi si fa i fatti suoi. Anche questa volta deve aver lasciato intravedere se stesso e il simbolo ormai stilizzatissimo dello scudo crociato al presidente Conte, per poi negarsi, però magari in futuro, da cosa nasce cosa, mai dire mai, eccetera. La politica in genere è noiosa, ma ha sempre i suoi lati curiosi, per cui è probabile che gli abbiano offerto il ministero della Famiglia, amministrazione invero piuttosto misteriosa, ma che nel caso di Cesa avrebbe permesso di rievocare non solo l'importanza che nella sua vita ha assunto la sua, di famiglia - il papà roccioso e longevo sindaco di periferia, la moglie e il figlio coinvolti nei cospicui e sempre più vasti interessi di casa - ma anche l'unica e indimenticabile uscita che gli attirò l'attenzione del vasto pubblico. E dunque: quando nella primavera del 2007 un deputato dell'Udc, il pugliese Cosimo Mele, fu pizzicato all'hotel Flora con due escort, la cocaina e una di loro, soprannominata “Porcahontas”, si sentì male, ecco che per cavarsi d'impaccio, Cesa non trovò di meglio che proporre, contro simili incidenti, la soluzione del ricongiungimento famigliare, appunto, con il che si sarebbero potute utilmente ospitare a Roma, a spese dello Stato, le mogli dei parlamentari in trasferta in modo da non farli sentiti soli e cadere in tentazione. Ora, le accuse di giornata assumono un rilievo meno divertente. E tuttavia, a conoscerlo e rivederlo di persona, l'aria sardonica accentuata dall'occhio un po' da pesce, è difficile immaginare Cesa stringere patti con gente sanguinaria. O almeno: trenta e più anni fa, era il classico ragazzo democristiano del paese profondo, l'elevata Arcinazzo, là dove la campagna romana s'inerpica verso la Ciociaria, per vocazione e tratto genetico affiliato alla corrente dorotea, a denominazione lazial-petrucciana, poi una volta nella capitale apprendistato presso la prestigiosa bottega di Toni Bisaglia e in seguito alla morte di questi esperienza di portaborse di Prandini, che era un tipetto molto svelto e intraprendente, anzi troppo. Per cui nel crudo frangente di Mani Pulite il giovane Lorenzo dovette pagare il suo tributo alla fedeltà e venne arrestato per bustarelle Anas - ma poi prescritto. Altre volte ha avuto a che fare con la giustizia, sempre prosciolto. E' un uomo dal buon carattere, resistenza tipo caucciù. Alieno dall'apparire, diffidente rispetto a lustrini, coriandoli, fumogeni, poche letture, niente discorsi, zero tv. Grande organizzatore, piuttosto, ottimo gregario e uomo-ombra, misuratore e stratega del fatturato elettorale, scienza e intuito del rendimento voto per voto, seggio per seggio, la politica come arte di mescolare le promesse e gli interessi senza andare troppo per il sottile, tutto fa brodo nell'eterno underground del consenso senza aggettivi. E tuttavia quando si sente dire “Ah, ci fossero i democristiani!”, basta pensare a Cesa e l'entusiasmo si spegne, la nostalgia si ridimensiona. Perché quella sua grigia capacità elettorale rischia di farsi fantasmagorica nel campo degli affari. Fra i due ambiti, tanto più nel tempo del grande disincanto, il confine è mobile, incerto, rarefatto; ma se i voti fanno i soldi, i soldi fanno i voti. Così viene da pensare che sarebbe stato, anzi in qualche modo è stato un buon imprenditore o impresario di se stesso, là dove il doppio ruolo di eurodeputato e segretario di un partitello di maggioranza ormai autonomo perfino da Pierfurby Casini ma senza averci litigato, facilita senz'altro le cose. Compreso che la comunicazione rende, fonda una società, Global Media, che “fa eventi”: convegni, pubbliche relazioni, service, lobby; poi la vende e ne perfeziona un'altra, dal nome più pretenzioso, “I Borghi”, che arriva a gestire l'Auditorium. Sia nell'uno che nell'altro caso, i clienti sono quasi sempre enti che con la politica hanno parecchio a che fare: Sip, Anas, Enel, Alitalia, Finmeccanica, poi comuni, province, regioni con i loro sterminati circuiti meta-clientelari. Poi cede anche i “Borghi” e sempre più si accosta a Berlusconi, benigno imperatore di tutti i mercanti del potere. Ma senza sfarzo, in mesta penombra post-clientelare. Nel profilo Instagram, alimentato senza fantasia, perennemente in cravatta fra modeste torte, banchetti all'antica e le immancabili Frecce tricolori, Cesa celebra il ricordo dell'ultima campagna elettorale in Calabria. Insieme e con il suo amico e uddiccino Franco Talarico, oggi agli arresti, si fa un selfie su sfondo marino; e dispiega il faccione in una specie di sorriso che si direbbe innocente, si direbbe imprudente, si direbbe l'enigma sfuggente del potere che un giorno va e l'altro no.

Voti e affari: la rete di Lorenzo Cesa in Calabria. Nelle carte dell'inchiesta di Gratteri tornano i rapporti fra crimine organizzato e politica, mediati dai gradi di separazione. Fra clan di 'ndrangheta, Libano e Internazionale Dc ci sono gruppi imprenditoriali di livello nazionale. E persino un consulente Invitalia. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 21 gennaio 2021. Come minimo la Calabria non porta bene a Lorenzo Cesa. Ai tempi di Luigi De Magistris pm Catanzaro, il segretario dell'Udc uscì indenne dalle indagini dell'attuale collega che si è candidato alla regione Calabria dopo avere fatto il sindaco nella sua Napoli. Poi ci fu l'intricata vicenda di Claudio Scajola, ex ministro forzista arrestato per avere contribuito alla fuga di Amedeo Matacena junior, e di Marcello Dell'Utri, scappato da una condanna per mafia nel Libano dove troneggiava la figura di Amin Gemayyel, ex presidente della repubblica, ras della Falange cristiano-maronita ed elemento di spicco dell'Internazionale Democristiana con lo stesso Cesa. Del resto, Cesa è un puro prodotto del vivaio Dc con regolare arresto ai tempi della prima Tangentopoli quando era pupillo di Giovanni Prandini, vorace ministro dei lavori pubblici, e suo monomandatario all'Anas. La Calabria, portatrice di voti, è sempre stata un male necessario per l'ex europarlamentare nativo di Arcinazzo, paese di un migliaio di anime fra la provincia di Roma e la Ciociaria. Lo è stata almeno fino a maggio del 2019, quando Cesa non è stato confermato a Strasburgo e si è dovuto accontentare di piazzare il suo collaboratore nella giunta Santelli eletta un anno fa. Si tratta del commercialista Francesco Talarico, messo agli arresti giovedì 20 gennaio nell'operazione “basso profilo” della Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. I maligni romani osservano che adesso i tre senatori Udc sono più aggredibili dalle sirene del rimpasto contiano a palazzo Chigi. I maligni calabresi notano che la voce di Cesa su Wikipedia è stata aggiornata con pochi minuti dopo il lancio della notizia sui siti. Si presume, non da lui che si è dimesso dalla guida dell'Udc ma si proclama innocente ed esprime fiducia nella magistratura. A guardare con occhio spassionato la richiesta di misure cautelari, l'ex europarlamentare non dovrebbe correre troppi rischi. Il suo interessamento benevolo verso l'associazione criminale vera e propria sembra limitato a qualche incontro con la frangia imprenditoriale e alle dichiarazioni di Ercole D'Alessandro, maresciallo della Guardia di finanza ed ex braccio destro di polizia giudiziaria di Gratteri, quando il magistrato che lo ha spedito in galera era procuratore aggiunto a Reggio Calabria. D'Alessandro non dice sempre la verità, anzi a volte millanta. Lo fa, per esempio, quando indirizza il suo nuovo datore di lavoro dopo il pensionamento dalla Gdf, il palermitano Luciano Basile proprietario della Sicurtransport, al manager della Sacal e gestore dell'aeroporto di Lamezia per ottenere un appalto. Il manager, che è l'ex numero della Dia Arturo De Felice, cade dalle nubi di fronte alle strizzate d'occhio di Basile. Altre volte però l'inchiesta si avvicina alla sostanza dei veri rapporti d'affari, quelli che qualificano il crimine organizzato calabrese molto al di là del narcotraffico e delle estorsioni. È un terreno dove, da sempre, gli investigatori cercano soddisfazione trovandola raramente. Più si sale, più ci si confronta con figure capaci di applicare i gradi di separazione. Così, una volta ancora, emerge il rapporto molto stretto fra Cesa e Antonio Speziali, figlio dello scomparso parlamentare forzista Vincenzo, fondatore della Calme (cementificio) e componente del consiglio di reggenza di Bankitalia in quanto presidente della Popolare di Crotone. Antonio Speziali, 59 anni, è primo cugino di Vincenzo junior, residente a Beirut e sposato con una parente di Gemayyel, pedina fondamentale della rete dei fuggiaschi Matacena e Dell'Utri, secondo Giuseppe Lombardo, aggiunto della Dda reggina. Speziali è un nome che conta nell'imprenditoria nazionale. Ha soci locali come il gruppo Archinà ma lavora, o lavorava perché i fatti sono soprattutto riferiti al 2017, con Impregilo, Astaldi, Vianini, Pavimental (gruppo Autostrade) e Komatsu, che nel documento giudiziario viene storpiata in Comasso o Comazzo. Ha rapporti con Finmeccanica e un accesso all'Anas grazie a Rocco Girlanda, forzista ma vicino a Cesa. Eppure un collaboratore di giustizia del clan lametino Iannazzo-Cannizzaro-Da Ponte dichiara al pm catanzarese Domenico Guarascio: «Giovanni Trapasso mi diceva: non fategli truffe ad Archinà, è un amico. I lametini mi dicevano: non vi prendete il cemento da Speziali e non glielo pagate, che Speziali è una persona vicina a noi. Cioè queste forme di rispetto noi le abbiamo, tra virgolette». Il quadro non si ferma al catanzarese ma arriva fino allo Stretto. Sono finiti in carcere per l'appoggio elettorale a Talarico e per il comitato d'affari, Antonino Pirrello e Natale Errigo, 34 anni, imparentato con la cosca apicale De Stefano di Archi e consulente di Invitalia di Domenico Arcuri. È una delle piste più promettenti dell'inchiesta.

Blitz in Calabria, indagato Cesa. Gratteri: «Rapporto diretto tra 'ndrangheta e politica». Nella maxi operazione in tutto il territorio nazionale coinvolto anche il segretario nazionale dell'Udc, che si è dimesso. Il procuratore: «Quella di oggi è un'indagine dove appieno si dimostra il legame tra mafia e potere senza infingimenti». Lirio Abbate su L'Espresso il 21 gennaio 2021. I politici continuano ad andare a braccetto con la ‘ndrangheta. Lo raccontano le registrazioni di conversazioni intercettate di recente a cui si aggiungono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno affidato i loro segreti alla procura di Catanzaro, i quali hanno sviluppato inchieste e riscontrato le accuse. Ed è così che Lorenzo Cesa, segretario nazionale dell’Udc - incarico da cui oggi si è dimesso - classe 1951, europarlamentare e capo delegazione del gruppo del partito popolare europeo dei deputati Ucd- Ncd- Svp, si trova indagato di associazione per delinquere nell’inchiesta che riguarda le cosche del crotonese. L’indagine, come spiega Nicola Gratteri, «dimostra appieno il rapporto diretto, questa volta, tra 'ndrangheta, imprenditoria e politica». «Ci sono oltre 150 pagine di capi di imputazione per tantissimi reati, tra cui associazione per delinquere, voto di scambio, intestazione fittizia di beni, appalti, turbative, rivelazioni del segreto istruttorio, quindi tutta la gamma dei reati tipici che negli ultimi anni stiamo vedendo emergere sempre più nel corso delle nostre indagini, indagini di mafia in cui ci sono sempre meno omicidi, ci sono sempre meno reati violenti ma sempre più reati che riguardano il potere politico e sempre più reati che riguardano il potere economico» dice il procuratore, il quale aggiunge: «Questa indagine è la concretizzazione di cose che abbiamo anticipato anche 15-20 anni fa rispetto alle nostre sensibilità, conoscenze o percezioni. Quella di oggi è un'indagine dove appieno si dimostra il rapporto diretto, questa volta, tra 'ndrangheta, imprenditoria e politica, senza infingimenti ma con la piena consapevolezza che chi era di fronte aveva già avuto precedenti penali o era già espressione delle famiglie di elite della 'ndrangheta della provincia di Crotone». I fatti fanno riferimento al 2017, quando Cesa era eurodeputato dell'Udc, e d'intesa con Francesco Talarico (oggi assessore regionale in Calabria, arrestato nella stessa operazione e all'epoca segretario regionale dell'Udc) per gli inquirenti avrebbe aiutato due imprenditori, indagati nella stessa inchiesta e ritenuti legati a cosche del crotonese e del reggino a ottenere appalti nel settore della fornitura di materiali per l'antiinfortunistica. Cesa, secondo i pm guidati dal procuratore Nicola Gratteri, «si impegnava ad appoggiare il gruppo per soddisfare le mire dei sodali nel campo degli appalti. Con le condotte in parola contribuivano a salvaguardare gli interessi delle compagini associativa di tipo 'ndranghetistico di riferimento, in particolare le cosche dell'alto jonio catanzarese e del basso jonio crotonese». L’inchiesta fa emergere non solo il coinvolgimento – secondo gli inquirenti - dei politici locali e nazionali ma anche le trepidazioni dei clan: «Sono stati registrati timori dai componenti dell'organizzazione sia verso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dalla cui scelta di collaborare venivano prese le distanze, sia nei confronti della Dda di Catanzaro e della persona del Procuratore Gratteri definito dagli stessi componenti dell'organizzazione persona seria che stava scoperchiando 'il pentolone' anche se in modo, a loro dire, esagerato». «Il timore verso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia si è rivelato più che mai giustificato perché proprio quelle dichiarazioni hanno consentito non tanto di scoprire, quanto di 'verificare' risultanze di indagine già supportate da prove e riscontri», scrivono i pm. E così appena gli investigatori si sono presentati all’alba nell’abitazione di Cesa per perquisirla, il politico ha diffuso una nota: «Ho ricevuto un avviso di garanzia su fatti risalenti al 2017. Mi ritengo totalmente estraneo, chiederò attraverso i miei legali di essere ascoltato quanto prima dalla procura competente. Come sempre ho piena e totale fiducia nell'operato della magistratura. E data la particolare fase in cui vive il nostro Paese rassegno le mie dimissioni da segretario nazionale come effetto immediato». Nei giorni scorsi Lorenzo Cesa era entrato nella discussione politica sulla crisi del governo, e aveva dichiarato: «Non ci interessa fare da stampella a maggioranze raccogliticce». E spiegava in una intervista che: «Nella nostra identità democratico-cristiana dialoghiamo e diciamo la nostra. Abbiamo sempre sostenuto che un progetto fatto così, con maggioranze raccogliticce, con la caccia all'ultimo voto, non è utile al Paese. Non ci interessa fare la stampella. Questo lo abbiamo detto alle personalità estranee dalla politica, autorevoli e appartenenti a vari mondi, che ci hanno chiamato, confrontandoci sul quadro politico drammatico che si è venuto a creare». Cesa è diventato segretario dell'Udc nel 2005, eletto all'unanimità, per alzata di mano. Nel momento dell'insediamento, Pier Ferdinando Casini, anche lui Udc, è presidente della Camera dei deputati. L'Udc è in alleanza con la Casa delle Libertà, a cui chiede di scommettere di più sulle ragioni del partito. Due grandi questioni politiche, all'epoca, in mezzo alle altre, sul tavolo: la legge elettorale proporzionale e la modifica della legge sulla par condicio. Nel 2014 lascia il parlamento italiano optando per la carica di parlamentare europeo. Si candida alle politiche ma non viene eletto e resta in Europa. Ma i collegamenti con il territorio calabrese restano ancora forti.

Lorenzo Cesa indagato per 'ndrangheta? Poco prima, lo sfogo raccolto da Minzolini: "Ho bloccato Whatsapp, non lo capiscono". Libero Quotidiano il 21 gennaio 2021. La campagna acquisti dell'esecutivo non si ferma: l'obiettivo è tirare dalla propria parte un numero di responsabili che permetta di governare in tranquillità, senza dover necessariamente dipendere dalle bizze di Matteo Renzi. Molti in Parlamento, però, hanno già risposto picche a Giuseppe Conte. Tra questi, Lorenzo Cesa dell'Udc, che - stando a quanto riportato da Augusto Minzolini - avrebbe confidato: "Io ho bloccato pure WhatsApp. Non capiscono che noi non ci muoviamo". Un corteggiamento asfissiante sui centristi, che però si è rivelato inutile. Intanto oggi, dopo la pubblicazione di queste pesanti indiscrezioni, Lorenzo Cesa è risultato indagato per associazione a delinquere nell’ambito dell’operazione antimafia “Basso profilo” della Dda di Catanzaro. Questa mattina, infatti, l’abitazione del parlamentare è stata perquisita dalle forze dell’ordine su disposizione della procura. Che i due episodi siano collegati? Di certo il tempismo è alquanto sospetto.

Dice no a Conte? Indagato per 'ndrangheta, bomba giudiziaria su Cesa: si dimette dall'Udc. "Innocente, ma ha votato no a Conte...". Antonio Tajani, bomba su Cesa indagato. Libero Quotidiano il 21 gennaio 2021. “Indagine su Cesa? Io sono garantista, sono sempre convinto dell’innocenza. Ho letto le carte, sono assolutamente convinto dell’estraneità di Lorenzo Cesa da questa vicenda e mi pare un po’ ad orologeria, guarda caso ha votato no al Governo e dopo due giorni è arrivato avviso di garanzia”. Così il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani sull'accusa piovuta dai magistrati per il segretario dell'Udc di concorso esterno in associazione mafiosa. Cesa infatti è indagato nell'inchiesta della Dda di Catanzaro sulle cosche della 'ndrangheta. Tredici persone sono state arrestate e portate in carcere e 35 poste ai domiciliari nel corso dell'operazione "Basso profilo" 

Gratteri inguaia l’Udc. Lorenzo Cesa indagato per concorso esterno. Il Dubbio il 21 gennaio 2021. Una maxioperazione della procura di Catanzaro, con perquisizioni e arresti in tutta Italia, scuote l’Udc. E Cesa si dimette da segretario. Una maxioperazione della procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, con perquisizioni e arresti in tutta Italia scuote l’Udc. Ai domiciliari è finito il segretario regionale calabrese del partito, nonché assessore al Bilancio della Giunta Spirlì, Francesco Talarico, ma risulta indagato anche il segretario nazionale Lorenzo Casa, la cui abitazione romana è stata perquisita stamattina nell’ambito dell’operazione “Basso profilo”. L’accusa sarebbe pesantissimo: concorso esterno in associazione mafiosa. È lo stesso Cesa a confermare di avere «ricevuto un avviso di garanzia su fatti risalenti al 2017» e a precisare: «Mi ritengo totalmente estraneo, chiederò attraverso i miei legali di essere ascoltato quanto prima dalla Procura competente». Il leader politico conferma «piena e totale fiducia nell’operato della magistratura», ma annuncia le dimissioni dalla guida del partito con effetto immediato, «data la particolare fase in cui vive il nostro Paese». Secondo la Procura, ci sarebbe un patto consistente in una promessa di appoggio elettorale fra gli uomini dell’Udc ed esponenti della ’ndrangheta all’origine del coinvolgimento di Lorenzo Cesa. In particolare, la consorteria ’ndranghetista, nelle persone di Antonio Gallo, del consigliere comunale di Catanzaro Tommaso Brutto e del figlio Saverio, Antonino Pirrello e Natale Errigo, sarebbe entrata in scena in occasione delle elezioni politiche del marzo 2018, per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato. In quella circostanza, secondo gli inquirenti, sarebbe stato stipulato un «patto di scambio» con Francesco Talarico, assessore regionale al Bilancio finito agli arresti domiciliari, consistente nella promessa di «entrature» per l’ottenimento di appalti per la fornitura di prodotti antinfortunistici erogati dalla sua impresa e banditi da enti pubblici economici e società in house, «attraverso – scrivono gli inquirenti -la mediazione dell’europarlamentare Lorenzo Cesa in cambio della promessa di un “pacchetto” di voti». Una grana in più per il governo e per Giuseppe Conte, che proprio su Cesa e sui senatori dell’Udc contava per allargare il perimetro della maggioranza. «Lorenzo Cesa è un galantuomo, lo conosco da decenni e sulla sua onestà metto la mano sul fuoco», commenta a caldo Gianfranco Rotondi, deputato di FI e presidente della fondazione Dc. «Suppongo che la sua iscrizione nel registro degli indagati sia un atto dovuto in quanto segretario che ha presentato le liste Udc in Calabria, al cui interno erano gli arrestati. Per fortuna Gratteri è un magistrato autorevolissimo e stimato per la sua autonomia, sono dunque sicuro che la vicenda si chiarirà in tempi rapidissimi. Capisco le ragioni di stile ma penso che Lorenzo abbia fatto male a dimettersi da segretario del suo partito, essere indagati – per giunta per circostanze oggettive – non significa perdere credibilità»

Così l’effetto Gratteri si abbatte sulla conta dei “volenterosi”. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 21 gennaio 2021. L’inchiesta sul leader dell’Udc ricade sulle “trattative” di conte: dopo gli arresti e le perquisizioni allargare il perimetro della maggioranza diventa impresa ardua. «Meno male che quei tre non hanno votato la fiducia». Ai primi lanci d’agenzia che annunciano l’arresto del segretario regionale calabrese dell’Udc, Franco Talarico, e la perquisizione dell’abitazione romana di Lorenzo Cesa – indagati per associazione a delinquere con aggravante mafiosa – la prima reazione in casa 5 stelle è di sollievo. Essersi fermati a 156 voti di fiducia a Palazzo Madama, senza l’apporto dei corteggiatissimi senatori centristi, è stato un colpo di fortuna, col senno del poi. «Pensa cosa avrebbe detto oggi Renzi di noi se avessimo imbarcato quelli dell’Udc». Ma l’allegria per lo “scampato pericolo” lascia rapidamente il posto a una nuova angoscia: «E adesso come facciamo?», si chiedono preoccupati i grillini, consapevoli di dover ricominciare daccapo il conteggio dei “responsabili”. Sì, perché gli abboccamenti per fare entrare in maggioranza i colleghi dell’Udc non si erano mica interrotti col voto in Aula di martedì scorso, proseguivano indefessi, almeno fino a ieri mattina, con segnali incoraggianti. Anzi, l’arruolamento almeno di Paola Binetti veniva considerato praticamente «cosa fatta». Tutto da rifare. L’effetto Gratteri si abbatte sulle trattative in corso per salvare Giuseppe Conte. Il segretario nazionale dell’ Udc «è indagato per una frequentazione con l’imprenditore Antonio Gallo e con Tommaso e Saverio Brutto», tre degli indagati nell’inchiesta “Basso profilo” della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, spiega in conferenza stampa il procuratore del capoluogo calabrese. Gallo, spiega Nicola Gratteri,«è un imprenditore molto eclettico, che lavorava su più piani e riusciva a muoversi con grande disinvoltura quando aveva di fronte lo ’ndranghetista doc, o il politico o l’imprenditore». E per vincere gare d’appalto truccate per la fornitura di prodotti e servizi, Gallo aveva bisogno della politica. Ed è per questo che, tramite gli esponenti locali dell’Udc, l’imprenditore sarebbe entrato in contatto con Cesa, incontrato per un pranzo datato estate 2017. «Quel pranzo non potevamo documentarlo perché all’epoca Cesa era parlamentare. È grazie ad un’intercettazione ambientale che abbiamo capito che Gallo avrebbe dovuto pagare il 5 per cento di provvigione», spiega Gratteri. Toccherà a un tribunale accertare i fatti, ma intanto Cesa, a tre anni e mezzo dai fatti, si è dimesso da segretario del partito e rischia di pagare slatissimo il conto di quel pasto estivo.E a “pagare”, anche se di riflesso, potrebbe essere anche la maggioranza di governo, fino a 24 ore fa fiduciosa di convincere l’Udc a entrare in squadra.

Nessuno, nei prossimi giorni, oserà più avvicinarsi a un decmocratico centrista, nel frattempo diventato “appestato”, per non dare nell’occhio. Alessandro Di Battista ha subito chiarito i patti con i suoi: «Con chi è sotto indagine per associazione a delinquere nell’ambito di un’inchiesta di ’ndrangheta non si parla. Punto», dice il leader ortodosso del Movimento. «Tutti sono innocenti fino a sentenza definitiva ma non tutti possono essere interlocutori in questa fase. Si cerchino legittimamente i numeri in Parlamento tra chi non ha gravi indagini o condanne sulle spalle», aggiunge Dibba. Seguendo alla lettera il ragionamento dell’ex deputato non ci sarebbero in realtà problemi a parlare con Binetti e colleghi, visto che non sono coinvolti neanche lontanamente in quest vicenda. Ma è molto probabile che il purismo movimentista estenda le indagini di Cesa a tutto il partito. Così, i numeri vanno cercati altrove, è il mantra che per tutto il giorno si ripete tra i grillini. Certo, ma dove? Già prima dell’esclusione dei centristi dalla lista dei papabili nuovi compagni di strada l’obiettivo sembrava tutt’altro che semplice, adesso somiglia a un’impresa impossibile. Soprattutto se lo scopo reale dell’operazione responsabili fosse quello di arrivare a quota 170 al Senato, come indicato da Dario Franceschini, per non tirare a campare. Con l’uscita di scena dei centristi Conte diventa più debole mentre aumenta il potere contrattuale di forzisti indecisi e renziani, pronti a rientrare in gioco se a Palazzo Chigi sedesse un altro premier. Ma i grillini, almeno pubblicamente, non si muovono di un passo: «In queste ore siamo al lavoro per un consolidamento della maggioranza, un processo complicato e ambizioso allo stesso tempo, perché il Paese ha bisogno di ricominciare a correre: le imprese devono lavorare, le famiglie hanno il diritto di poter pianificare il loro futuro», scrive su Facebook il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Che aggiunge: «Con la stessa forza con cui abbiamo preso decisioni forti in passato, ora mi sento di dire che mai il M5S potrà aprire un dialogo con soggetti condannati o indagati per mafia o reati gravi». Qualcuno prova a rifare i conti: «Forse arriviamo a dodici. Dovrebbero passare con noi cinque di Italia viva, cinque di Forza Italia e due del Misto. Magari ce la facciamo». Sempre che una nuova inchiesta non rimandi in tilt il pallottoliere.

Giustizia giusta o ancora giustizia spettacolo? Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. Anche se il giornale che ospita i miei scritti non è mai stato molto tenero con il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, io, pur non conoscendolo personalmente, ho ammirazione per il coraggio di Nicola Gratteri. Quel coraggio che solo alcuni veri uomini del Sud, da qualunque parte essi stiano, spesso sanno dimostrare. Consci che, come ricordava Paolo Borsellino parafrasando il Giulio Cesare di Shakespeare, “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una sola volta”. È certo che Gratteri rischi ogni giorno la sua vita, assieme alla sua famiglia. E la vita blindata che ha scelto di vivere, peraltro da calabrese in Calabria, sarebbe per tanti una non vita. E merita solo perciò grande rispetto. Non conosco però le carte dei suoi processi. E alcuni suoi critici, a cominciare da Pietro Sansonetti, che stimo per altra forma di coraggio, che molti giornalisti non hanno, di cantare da sempre fuori dal coro, soprattutto in materia di giustizia, gli addebitano una percentuale non a prova di critica di successi processuali alle sue attività investigative. Per deformazione professionale, di quasi quattro decenni dedicati alla lotta alla criminalità, anche quella organizzata, soprattutto di tipo finanziario, e sul piano anche internazionale, è indubbio che nella battaglia tra chi rappresenta lo stato e la criminalità, sto sempre, in principio, dalla parte dello Stato.

Ma così come, crescendo in età, ho imparato che i buoni non erano sempre i visi pallidi ed i cattivi i pellerossa, come rappresentato nei film western della mia gioventù, avendo messo per anni le mani in molte carte investigative e processuali, ho imparato a non fermarmi mai alle apparenze. Soprattutto a quelle dei clamorosi annunci mediatici delle operazioni di polizia giudiziaria delle procure della Repubblica. Abituandomi ad esercitarmi alla pazienza della lunga attesa dei risultati processuali. Pazienza rafforzata nel tempo, per esperienza sul campo, assieme al rispetto della presunzione di innocenza. Che deve valere per tutti. Nella consapevolezza che il confondere i delinquenti, a cominciare dai mafiosi, con una serie infinita di presunti delinquenti poi giudicati completamente innocenti va solo a vantaggio dei tantissimi, e veri, delinquenti, mafiosi e ‘ndranghetisti che vivono impuniti nel nostro paese. Perché ho sempre pensato che urlare ”tutti sono corrotti, delinquenti, mafiosi” equivale a dire che “nessuno è corrotto, delinquente, mafioso”. Come penso che per la lotta alle mafie ci voglia la mano ferma e sapiente del chirurgo, capace di tagliare la parte malata, senza danneggiare quella sana. E non la foga dell’accetta del boscaiolo, incapace di provocare danni collaterali. Questa premessa l’ho fatta per spiegare la ragione per la quale un paio di giorni fa, prima quindi di leggere sulla stampa di oggi della clamorosa operazione anti mafia della Procura di Catanzaro, un sesto senso mi ha fatto desistere dal diffondere tra i miei amici e lettori un messaggio ricevuto via Whatsapp da alcuni amici che, conoscendo il mio impegno di una vita per la legalità, mi hanno inviato con invito a ridiffonderlo. Questo il messaggio, ricevuto tale e quale, da amici che rispetto per la loro buona fede: “** MAXI PROCESSO ** Mentre tutta Italia parla da giorni di un autentico citrullo, inutile e dannoso per il paese, in Calabria, tra misure di sicurezza eccezionali e giornalisti da ogni parte del globo, è in corso il processo più imponente degli ultimi 30 anni.

**Quattrocento capi d’imputazione**

** più di 300 imputati **

** un esercito di avvocati **

** un plotone di giornalisti sbarcati a Lamezia da mezzo mondo**

Il maxi processo  con numeri da capogiro, che vedrà alternarsi davanti alla Corte una sessantina tra pentiti e testimoni di giustizia, oltre a centinaia di testimoni tra accusa e difese in una corsa sfrenata che dovrebbe andare avanti ad un ritmo di cinque udienze settimanali.

«Quest’aula – ha detto Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro e coordinatore della maxi inchiesta che ha portato alla sbarra le più influenti cosche di ndrangheta del vibonese – è un simbolo di tecnologia e legalità: rispettosa delle norme anticovid con mille persone sedute a distanza di sicurezza ed ha la possibilità di fare 150 collegamenti video in diretta».

A dimostrare che in Calabria, se si vuole, tutto si può fare.

La cosa sconcertante che nessun Telegiornale, nessun giornale, nessun politico di ogni colore,  abbia speso una sola parola di sostegno su questo straordinario uomo che da solo sta sfidando la ndrangheta.

Diamogli noi la visibilità che merita:

COPIAMO E INCOLLIAMO sui nostri profili

COPIAMO E INOLTRIAMO ai nostri contatti Whatsapp

#grandeNicolaGratteri #IOSTOCONGRATTERI #NicolaGratteri”

Tralasciando ogni commento sulla penosa situazione politica del Paese, che monopolizza le pagine dei giornali da giorni, ora che i riflettori sono nuovamente accesi sulla povera Calabria, concludo con un’ultima considerazione. Ogni tipo di mafia – a cominciare da quella calabrese, che è tra le più terribili – deve essere combattuta senza se e senza ma e senza guardare in faccia nessuno. Ma troppi spettacolari show mediatico-giudiziari degli ultimi decenni (poi finiti a processo nel nulla assoluto) invitano, soprattutto chi conosce bene dall’interno certe dinamiche, a prendere alcuni rumorosi annunci col beneficio d’inventario. Ma anche a chiedersi se persino i più grandi processi non dovrebbero svolgersi nel silenzio delle aule giudiziarie, lasciando i giudici tranquilli nel loro difficile compito di giudicare delle vite degli imputati, come di quelle delle parti civili. Senza metterli sotto una pressione mediatica che può per alcuni risultare insopportabile, e per altri ingiustamente pregiudizievole. Se l’operazione di polizia giudiziaria presentata oggi all’opinione pubblica, e che ha già provocato le dimissioni di un leader politico nazionale, troverà successo anche processuale, oltre che mediatico, la Procura di Catanzaro meriterà l’assoluto plauso. E non solo per l’operazione. Ma anche, e soprattutto, per essere riuscita a gestirla (sapendo perfettamente cosa ciò significhi in concreto) in concomitanza non solo con la crisi di governo (che non deve condizionare in alcun caso il corso della giustizia), ma anche con lo svolgimento del mega processo ad oltre 300 imputati. Immaginando che ragioni investigative non avrebbero mai permesso né di anticipare né di posticipare il pubblico annuncio di oggi. Lo dico davvero senza polemica. Ma non senza il legittimo interrogativo che ogni addetto ai lavori dotato di un minimo di onestà intellettuale non può non porsi. Pur restando un romantico difensore della legalità e della Giustizia, con la G maiuscola. Che resta tuttavia molto distante da quella giustizia spettacolo cui siamo ormai abituati ad assistere nei tanti processi mediatici animati da troppi tribuni, pseudo giornalisti-investigativi. Ai quali le nostre coscienze sembrano essersi ormai assuefatte. A vantaggio esclusivo, non dimentichiamolo, dei veri – e non solo presunti – mafiosi e ‘ndranghetisti vari. Dei quali il nostro sfortunato Paese, nonostante i tanti colpi di accetta, continua da sempre ad abbondare.

Il vizio del procuratore di paragonarsi ai due magistrati...Il narcisista Gratteri continua a paragonarsi a Falcone e Borsellino, ed evoca i due giganti contro la Cartabia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Settembre 2021. Nicola Gratteri si è scagliato nuovamente contro la riforma Cartabia. Non è il solo tra i magistrati con tendenze politiche. Del resto è passata l’idea, in Italia, che se un politico critica la magistratura è un farabutto, se un magistrato critica una legge del governo o del Parlamento è una persona benemerita, e va ascoltata, perché almeno le leggi sulla giustizia sarebbe meglio se le facessero i magistrati. In realtà un po’ è vero: la possibilità di fare direttamente loro le leggi, e di modificarle quando serve, è l’unico potere che ancora non è stato riconosciuto ai magistrati. In particolare ai Pm. I Pm, secondo l’idea condivisa un po’ da quasi tutti i partiti, possono “dettare” le leggi. E lo fanno spesso. Ma hanno bisogno di un certo numero di parlamentari che poi gliele votino. Altrimenti le leggi non entrano in vigore. E questa – lo capite facilmente – è una forte limitazione dei poteri della magistratura. Un modo per legargli le mani. Negli ultimi decenni i Pm hanno aggirato il problema perché hanno sempre trovato parlamentari e governi ben disposti nei loro confronti. I quali scrivevano e votavano le leggi che i Pm chiedevano loro, quando chiedevano loro, come chiedevano loro. Poi i Pm sono riusciti addirittura a piazzare in Parlamento un vero e proprio gruppo parlamentare, anzi, il più numeroso dei gruppi parlamentari (dal 2018) e cioè i 5 Stelle. Ora però le cose sono un po’ cambiate. Draghi ha messo alla porta il fedele Bonafede, che di diritto ne sapeva poco ma era piuttosto obbediente ai Pm (e quando non lo era si prendeva delle sgridate epiche, tipo quella rimediata da Di Matteo e da Giletti). E ha insediato al ministero una professoressa che conosce il diritto un po’ troppo bene ed è abbastanza affezionata allo Stato di diritto. Dico Marta Cartabia. Questo ha mandato in bestia l’Anm e il partito dei Pm. Cosa ci sta a fare una giurista al ministero della Giustizia? In realtà Nicola Gratteri non è un esponente dell’Anm e nemmeno del partito dei Pm. È una avanguardia. Sta avanti. Tocca a lui anticipare le battaglie. Così ha fatto anche stavolta, parlando a un festival politico a Lamezia Terme, dove ha tirato a palle incatenate contro Marta Cartabia e la sua riforma. La quale consiste, in soldoni, nel ripristinare alcuni principi che rispondano all’articolo 111 della Costituzione, che prevede, per l’imputato, il diritto a una giusta durata del processo. La riforma Bonafede (targata Lega e 5 Stelle) aveva abolito questo principio. Stabilendo termini infiniti di prescrizione al processo di primo grado (sette anni per furto di mele, venti o trenta per truffa aggravata) e abolendo del tutto la prescrizione dopo la sentenza, persino se di assoluzione. In sostanza tu potevi essere processato per una decina d’anni, per un reato mediamente grave, sospeso da tutti i tuoi diritti ed eventualmente tenuto un po’ in prigione, poi assolto perché assolutamente innocente ma, su ricorso del Pm, tenuto ancora sotto processo, probabilmente per tutta la vita (la fine della prescrizione ai processi di appello avrebbe indotto giudici e Pm a non avere alcuna fretta). Diciamo che dopo la sentenza di primo grado, qualunque essa fosse, l’imputato veniva consegnato legato mani e piedi al Pm che aveva il diritto di fare di lui quel che voleva. La Cartabia ha pensato: ma nel 2021 non sarà necessario stabilire dei principi elementari di civiltà? E lo ha fatto (con molta, molta prudenza) ristabilendo la prescrizione in appello dopo un certo numero di anni. Siccome i 5 Stelle dicevano che ristabilire la prescrizione sarebbe stato uno schiaffo in faccia a Bonafede, che – poveretto – di schiaffi già ne aveva presi troppi – e questo è vero – si è deciso che invece di chiamarla prescrizione si sarebbe chiamata “improcedibilità”. Quanti anni può durare un processo di appello, ora, con l’improcedibilità? Due anni per i reati piccoli piccoli, tre per quelli più gravi, salvo proroghe (infinite) che possono essere concesse per tutti i reati con aggravante mafiosa, o per i reati di violenza, stupro eccetera; e un numero infinito di anni per tutti i reati gravi che, già prima di Bonafede, non godevano del diritto alla prescrizione. Per esempio l’omicidio. Apriti cielo. Gratteri l’altro giorno ha tuonato, e ha spiegato che Borsellino e Falcone, se fossero ancora vivi, farebbero i diavoli a quattro contro questa riforma. Perché? Ma perché – si immagina – se la Cartabia fosse stata ministra quando loro facevano il maxiprocesso alla mafia, negli anni 80, il maxiprocesso sarebbe morto per via dell’improcedibilità. È vero? No, è falso. Il maxiprocesso si concluse con una ventina di ergastoli il 16 dicembre del 1980. Il calcolo dei tre anni di tempo per l’appello – secondo la riforma Cartabia – scatta, credo, dal momento nel quale viene presentato ricorso, qualche mese dopo la sentenza. Comunque calcoliamo pure che scatti dal momento della sentenza, cioè dal 16 dicembre dell’87. La sentenza di appello arrivò il 10 dicembre del 1990. In ogni caso meno di tre anni dopo la sentenza di primo grado. Aggiungiamo il fatto che comunque in presenza di reati con aggravante mafiosa sono possibili infinite proroghe. E poi consideriamo il fatto che per molti dei reati del maxiprocesso l’improcedibilità non esiste mai. Chiaro? Con la riforma Cartabia non sarebbe stato dichiarato improcedibile nessuno dei circa 300 imputati al maxiprocesso, tra i quali – ve lo ricordo – Luciano Liggio, Totò, Riina. Bernardo Provenzano, Michele Greco (“Il Papa”) Pippo Calò, Bagarella, Badalamenti, Bontate…Si capisce che Gratteri è preoccupato per il suo maxi processo. Che lui ha sempre paragonato al maxiprocesso di Falcone. La verità è che i due maxiprocessi non si assomigliano molto. I reati contestati da Gratteri vanno dal traffico di influenze alla concussione. Al processo di Falcone erano contestati 120 omicidi. Se io ti influenzo un po’ o se ti faccio secco, ammetterete che una differenza c’è, no? Allora mi faccio la domanda: perché Gratteri ha citato Falcone e Borsellino, che con queste polemiche non c’entrano niente? Probabilmente non in malafede. Dubito, francamente, che Gratteri conosca bene la storia del maxi processo, altrimenti, immagino, non gli sarebbe mai venuto in mente di paragonare il suo “Scott” con quella ciclopica impresa giudiziaria, forse discutibile sul piano del diritto, ma clamorosa sul piano dei risultati. Il maxiprocesso di Falcone e Borsellino, e del giudice Giordano, diede un colpo micidiale alla mafia. La quale reagì con atroci colpi di coda, ma non riuscì mai a riprendere la sua forza, il suo ruolo, ed ora è ridotta a poca cosa. La storia della ‘ndrangheta è un po’ diversa. Gratteri forse la conosce meglio della storia di Cosa Nostra... È dal 1986 – ha detto l’altro giorno – che è impegnato nel tentativo di sgominare la ‘ndrangheta. Che però, nel 1986 era una piccola organizzazione criminale, e oggi è la più potente organizzazione malavitosa del mondo. Non è andata benissimo la lotta di Gratteri alla ‘ndrangheta, direi.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

QUELLA STRANA ALLUSIONE DI GRATTERI AI SUOI GIUDICI

'Ndrangheta: penalisti, gravissime dichiarazioni Gratteri. (AGI il 22 gennaio 2021) - Roma, 22 gen. - "Le gravissime dichiarazioni del procuratore Gratteri al 'Corriere della Sera' forniscono una rappresentazione destinata a creare sconcerto tra i cittadini, perchè di fatto attribuiscono annullamenti e riforme di provvedimenti giudiziari a ragioni diverse da quelle esposte nelle articolate motivazioni". Lo afferma l'Unione delle Camere penali in una nota, sottolineando che "queste affermazioni, provenienti inoltre da un procuratore capo, rappresentano un attacco di inaudita gravità all'autonomia e indipendenza dei giudici". Per questo la Giunta dell'Ucpi ha scritto un documento al Csm "per le sue opportune valutazioni", e all'Anm "per conoscere quali iniziative intende porre in essere a tutela dei giudici che non hanno condiviso, o eventualmente non condivideranno, le ipotesi accusatorie a fondamento delle indagini del dottor Gratteri".

Gianni Del Vecchio per huffingtonpost.it il 22 gennaio 2021. Stupore e inquietudine. Sono queste le sensazioni predominanti che lascia l’intervista a Nicola Gratteri fatta da Giovanni Bianconi per il Corriere. Non tanto per il messaggio complessivo delle parole del magistrato calabrese - che per l’ennesima volta ha acceso un faro sul sottobosco di relazioni fra ndrangheta, politica e imprenditoria nell’inchiesta “Basso Profilo” in cui è indagato anche l’Udc Lorenzo Cesa - bensì per le ultime due risposte. Risposte che dicono e non dicono - anzi, più precisamente, non dicono -, ma soprattutto lasciano intendere per chi vuole intendere, gettano ombre senza far luce su una questione non certo marginale: la collusione di alcuni giudici con le cosche. Insomma, Gratteri getta un macigno nello stagno ma nasconde le chiavi della ruspa.

Eccole, le due risposte: Ma perché le indagini della sua Procura con decine o centinaia di arresti, vengono spesso ridimensionate dal tribunale del riesame o nei diversi gradi di giudizio?

«Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni».

Che significa? Ci sono indagini in corso? Pentiti di ’ndranghetisti che parlano anche di giudici?

«Su questo ovviamente non posso rispondere».

Come si evince dal botta e risposta fra intervistato e intervistatore, Bianconi coglie subito la singolarità di quel “la storia spiegherà”, incalzando Gratteri con la seconda domanda, quella giusta, a cui però il giudice non risponde. Un non possum che finisce per ingenerare ancor di più il sospetto in chi legge. Alla fine la lettura delle parole del magistrato lascia in bocca un retrogusto acido più che amaro che presto fa spazio a una certa inquietudine. Davvero in Calabria ci sono frange di servitori dello Stato che sabotano le inchieste sulle ndrine? Davvero Gratteri ritiene che quei giudici che non hanno avvalorato le sue inchieste lo abbiano fatto per secondi fini? Due domande, queste, di non poco conto, cui Gratteri sembra conoscere la risposta. Ma se è davvero così, allora non si può far finta di niente, voltare pagina e leggere l’articolo successivo. In questi anni una delle parole che è stata più sulla bocca di tutti, che ha farcito i discorsi di politici e giudici, è “trasparenza”. La stessa fortuna politica dei 5 Stelle, movimento che in due lustri è arrivato a essere la prima forza parlamentare, si basa in gran parte su questo desiderio di voler sapere dell’opinione pubblica. Una salutare istanza da parte di chi viene da decenni di stragi e depistaggi mai chiariti, né sui giornali ma (ancor più grave) neanche nei tribunali. Ebbene, sembra che in questo caso i cittadini meritino di conoscere quello che accade da Cosenza in giù. E quindi, siccome al ministero della Giustizia c’è proprio il capo-delegazione di M5s, Alfonso Bonafede, quale migliore occasione per capirne un po’ di più? E se lui proprio non può, c’è sempre il suo collega di partito, Nicola Morra, per giunta calabrese, che può aiutare gli italiani a farsi un’idea visto che è presidente della commissione Antimafia. C’è bisogno di luce. Anche perché, come recita il motto del quotidiano statunitense Washington Post, “Democracy dies in darkness”, “La democrazia muore nelle tenebre”.

I penalisti contro Gratteri: «Accusa i giudici che assolvono. Ora intervenga il Csm». Il Dubbio il 22 gennaio 2021. La giunta Ucpi scrive al Csm e all’Anm dopo le dichiarazioni di Nicola Gratteri sul Corriere della Sera. «Le gravissime dichiarazioni del Procuratore Gratteri al Corriere della Sera forniscono una rappresentazione destinata a creare sconcerto tra i cittadini, perché di fatto attribuiscono annullamenti e riforme di provvedimenti giudiziari a ragioni diverse da quelle esposte nelle articolate motivazioni». A dirlo è l’Unione delle Camere penali, che ha deciso di scrivere al Csm e all’Anm affinché valutino le ipotesi accusatorie di Gratteri oltre che eventuali iniziative a tutela dei giudici interessati. «Nella intervista rilasciata dal Procuratore della Repubblica di Catanzaro a Giovanni Bianconi e apparsa oggi sulle pagine del Corriere della Sera, il Procuratore Gratteri esclude che vi sia stata – nella individuazione della data di esecuzione – una valutazione del quadro politico nazionale, mentre si è tenuto conto dei tempi delle elezioni in Calabria. Apprendiamo così – si legge nella nota dell’Ucpi – che il Pubblico Ministero ha svolto valutazioni in ordine alla opportunità del momento nel quale dare esecuzione ai provvedimenti. A tali affermazioni di per sé sconcertanti ne seguono altre che non possono non essere oggetto di attenta valutazione da parte dell’organo disciplinare dei magistrati». Alla domanda sul perché gli arresti spesso non vengano convalidati, Gratteri parla di future spiegazioni, lasciando intendere che qualcosa potrebbe accadere. Alla domanda “Che significa? Ci sono indagini in corso?”, Gratteri replica :“Su questo ovviamente non posso rispondere”. «Le affermazioni del Procuratore della Repubblica di Catanzaro si rivelano di inaudita gravità – afferma Ucpi -. Non si tratta qui di discettare sulla fondatezza o meno di un quadro indiziario o di prospettare come la serialità di annullamenti da parte dei Giudici superiori, chiamati al controllo delle condizioni per l’applicazione della cautela, abbiano dato conto – quantomeno sul piano del metodo – della fragilità di quelle investigazioni. La considerazione del dottor Gratteri propone al lettore l’idea che i provvedimenti dei Giudici, di censura dell’operato della sua Procura e delle valutazioni del gip, siano ispirati da motivazioni estranee alle dinamiche processuali. È una rappresentazione destinata a creare sconcerto tra i cittadini attribuendo di fatto annullamenti e riforme a ragioni diverse da quelle esposte nelle articolate motivazioni».

Dopo Gratteri toghe al bivio: svolta garantista o arriverà la separazione delle carriere. Errico Novi su Il Dubbio il 26 gennaio 2021. “Md” dice no a pm «lontani dalla cultura della giurisdizione»: ha capito che la sfida rivolta da alcuni inquirenti ai colleghi dà forza alla riforma invocata dall’Ucpi. Una lezione sul significato costituzionale del processo e su come il pm debba farsene interprete: la si legge nella nota diffusa domenica scorsa da Magistratura democratica, lo storico gruppo “di sinistra” delle toghe. Un punto di svolta, che sancisce la distanza rispetto alla “sfida” lanciata da Nicola Gratteri ai colleghi giudicanti. Ma anche il segnale di un allarme scattato fra i magistrati dopo l’intervista del procuratore di Catanzaro al Corriere della Sera. «Noi facciamo richieste, se altri giudici scarcerano non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni», ha detto Gratteri, senza confutare, nella successiva risposta, l’impressione, che volesse alludere addirittura a collusioni dei magistrati. Parole in ogni caso piene di spirito antagonista nei confronti dei giudici. Ne sono venuti un esposto dell’Unione Camere penali al Csm, e anche la seguente, coraggiosa considerazione da parte di “Md”: «Crediamo nel ruolo del Pubblico Ministero che, quale primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali, agisce nella consapevolezza della necessaria relatività delle ricostruzioni accusatorie e della necessità di verificarle nel contraddittorio, e non in quello di parte interessata soltanto al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo. E crediamo nell’impegno dei magistrati che, anche nei contesti territoriali più difficili, continuano a svolgere con questa consapevolezza le loro funzioni, incarnando una giurisdizione terza e imparziale, vera precondizione per un esercizio corretto del difficile compito di giudicare». Parole esemplari, che non a caso il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza ha definito «lucidissime» nella successiva lettera con cui ha invitato il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia a non «liquidare frettolosamente» il caso. Dietro lo “strappo” compiuto da Gratteri a proposito dell’indagine che vede coinvolto anche Lorenzo Cesa, c’è infatti qualcosa di assai più profondo, e “pericoloso” per la magistratura associata. Lo spiega quel passaggio in cui le toghe di “Md” dichiarano di non credere a un ruolo del pm «lontano dalla cultura della giurisdizione».

Formula, quest’ultima, cruciale nel dibattito sulla giustizia penale, perché sempre citata come ostativa alla separazione delle carriere. Consegnare il pm a un percorso distinto da quello del giudice — è la tesi con cui proprio l’Anm si oppone alla riforma — vorrebbe dire sollevarlo dall’onere di svolgere indagini anche a vantaggio della persona accusata. Ma di un simile approccio, quanto si è avvertita la mancanza, in tante indagini ostinatamente condotte? Una logica come quella affermata da Gratteri è propria solo del procuratore di Catanzaro o è coltivata, seppur in silenzio, da tanti altri pm? La propensione a ritenere vera la seconda ipotesi dà forza alla battaglia dell’Ucpi sulla separazione delle carriere, non a caso riaffiorata nella crisi politica di queste ore. In attesa di capire se il confronto sulla riforma costituzionale si riaprirà davvero, non è escluso che il pericolo spinga intanto la magistratura a cercare al proprio interno un’attenzione al garantismo che non sempre in questi anni i pm più “mediatici” hanno mostrato di coltivare.

Il caso. Inchieste combinate tra Gratteri e Travaglio: il Pm arresta senza prove, il Fatto ne fa uso politico. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. Avanti un altro. Il tribunale della libertà di Catanzaro ha annullato la misura cautelare nei confronti del notaio Rocco Guglielmo, indagato e al divieto di dimora dal 21 gennaio, quando il procuratore Gratteri lo aveva coinvolto nell’operazione “Basso profilo”. Era l’inchiesta che aveva costretto Lorenzo Cesa a dimettersi da segretario dell’Udc per un pranzo che lui neanche ricorda. Erano anche le stesse indagini condotte con tanto rigore da mandare ai domiciliari l’ex assessore Selvino solo perché si chiamava Giuseppe ed era stato confuso con un altro che aveva partecipato a una festa cui lui non era mai andato. Ora tocca al notaio. Certo che con i “colletti bianchi” va proprio male al procuratore Gratteri. E anche ai gip che manifestano pensieri conformi a quelli del rappresentante dell’accusa. Proprio sull’argomento, una botta micidiale è arrivata, oltre al solito Gratteri, che è ormai un habitué del flop, al giudice delle indagini preliminari Giulio De Gregorio, quello che si era impegnato per ben 357 pagine per dimostrare che Mimmo Tallini, ex presidente del consiglio regionale di Calabria, era mafioso (“esterno”) e dedito al voto di scambio con gli uomini della ‘ndrangheta. Una smentita che è un vero schiaffone arriva dal tribunale del riesame, che ha depositato le motivazioni che hanno imposto la cessazione delle misure cautelari nei confronti di Tallini, che era ai domiciliari. “Un’ombra dietro le ombre”, così il gip aveva definito l’esponente di Forza Italia. Contro il quale si erano subito scagliati i peggiori tagliagole militanti, Marco Travaglio e Nicola Morra. Sentenze definitive di “mafiosità” erano state emesse con la consueta pruriginosa fretta. Eppure sarebbe bastato leggere con calma le 357 pagine, anche senza aver svolto per tanti anni il ruolo di cronista giudiziario (come è capitato a me, ma anche a Travaglio), per scoprire tra riga e riga il nulla assoluto. L’inchiesta si chiama “Farmabusiness”. Mimmo Tallini, che all’epoca era assessore, avrebbe agevolato la costituzione di una società per la distribuzione di farmaci cui era interessata la famiglia della cosca Grande Aracri di Cutro. Famiglia con cui lui non ha avuto mai alcun contatto. Non c’è un incontro, non c’è un’intercettazione che lo colleghi. Ma questo per il giudice è molto sospetto. Non si capacita del fatto che Mimmo Tallini non salga mai su macchine altrui e voglia sempre guidare la propria, e anche il fatto che non si riesca mai a beccarlo al telefono con qualche mafioso. Forse perché le persone con cui lui era in contatto per quelli che lui riteneva fossero buoni affari, tanto che vi aveva trovato un posto di lavoro per il figlio, erano ai suoi occhi persone insospettabili. Uno in particolare, Domenico Scozzafava, era un antennista di sua conoscenza sia per la sua attività professionale, ma anche perché in passato si era mostrato utile come “grande elettore”. Scozzafava era un “cavallo di Troia”, scrivono oggi i giudici del tribunale presieduto da Giuseppe Valea. Una sorta di Giano bifronte, insomma. Da un lato favoriva l’ingresso della famiglia Grande Aracri nel business farmaceutico, dall’altro usava il suo rapporto professionale e politico con Tallini per avere qualche entratura in più nelle istituzioni che agevolassero la sua società con permessi e passaggi burocratici. Certo, magari se ne vantava un po’ nei suoi rapporti con gli “altri”, ma teneva la bocca ben cucita sulle sue relazioni inconfessabili quando varcava la soglia dell’assessorato. Non esiste nessun indizio, proprio nessuno, del contrario. Eppure, nella conferenza stampa del novembre dell’anno scorso il procuratore Gratteri era parso molto sicuro: «Grazie all’operato dell’onorevole Tallini – aveva detto – è stato possibile per l’associazione ottenere queste facilitazioni…In cambio ci sono i voti: per questo motivo gli contestiamo il concorso esterno e lo scambio elettorale politico-mafioso». E aveva chiesto per lui il carcere. Allo squillo di tromba aveva subito risposto il Fatto quotidiano, che ne aveva anche fatto un uso politico. Con grande spolvero di titoloni aveva chiesto “Dialogare con questi?” E poi: “Altro che inciucio. Mentre metà del Pd vuole B. come alleato, Gratteri scopre i voti di scambio del ras forzista con la cosca nel business sanità”. Tutto azzerato. Il tribunale del riesame contesta l’ipotesi dell’accusa e l’ordinanza del gip punto per punto. Nessun contatto Tra Tallini e i mafiosi. Nessuna intercettazione. Quanto ai voti, l’antennista “cavallo di Troia” è stato così utile che i numeri portati a casa in quella tornata in cui il candidato avrebbe avuto l’aiuto della cosca locale erano scesi da 11000 a 750.

Montante contro Morra: «Inquietante la sua presenza al processo, vuole intimidire la Corte». Il Dubbio l'11 luglio 2021. L'ex presidente degli industriali siciliani, imputato a Caltanissetta, si scaglia contro «l'invasione di campo» del presidente della Commissione Antimafia. «Morra, che si aggira nei corridoi dell’Aula Bunker, rilasciando interviste e lanciando anatemi, è un chiaro tentativo di intimidazione della Corte che dovrà giudicare Montante nel giudizio di appello». Lo dice, in una nota, Antonello Montante, ex presidente degli industriali siciliani, dopo l’udienza del processo sul cosiddetto “Sistema Montante” che si celebra, con rito abbreviato, davanti la Corte d’Appello nei confronti dello stesso Montante e di altri quattro imputati. «È una inspiegabile ed ingiustificabile invasione di campo di un organo istituzionale, che piuttosto che assumere il ruolo di arbitro imparziale, nelle sedi di propria competenza, assume il ruolo di dodicesimo uomo in campo – dice -Morra non è nuovo ad indebite esternazioni. Già nell’imminenza della camera di consiglio di primo grado aveva manifestato pubblicamente premonitori giudizi di condanna sommaria, esternati in articoli di stampa». Poi Montante punta il dito anche contro «il Questore di Caltanissetta, che dovrebbe mantenere un contegno istituzionale, si abbandoni e condivida sui social esternazioni di stile calcistico di giornalisti faziosi e di parte (non rendendosi neppure conto di quanto le stesse risultino offensive per la Corte) anticipando gli esiti di una sentenza di conferma (dallo stesso evidentemente auspicata). Io sono certo che la Corte non si lascerà intimidire. Ma ritengo inammissibili ed in violazione del diritto costituzionale di difesa, le pressioni mediatiche sul processo che mi vede imputato, soprattutto da parte di Istituzioni della Repubblica Italiana. È questa la ragione per cui avevo auspicato in primo grado che il processo venisse trasferito da Caltanissetta, anche se dopo le attente valutazioni della Corte di Appello, dimostrate nella puntuale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e nell’attenzione alle dichiarazioni da me rese in sede di esame testimoniale, sono certo che giustizia sarà fatta».

"Pure lui a quella cena". Gratteri lo fa arrestare ma è solo un'omonimia. Una perizia fonica scagiona un ex assessore finito ai domiciliari in un'inchiesta di mafia. Massimo Malpica, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. Galeotta è il caso di dirlo fu l'onomastica. Bello scivolone, quello capitato a Catanzaro, nella cornice dell'inchiesta «Basso profilo», quella «firmata» dal procuratore capo della città calabrese Nicola Gratteri che è finita sui giornali soprattutto per aver coinvolto l'ex leader Udc Lorenzo Cesa, ritrovatosi indagato per associazione per delinquere aggrava dal metodo mafioso proprio nei giorni in cui l'allora segretario del partito centrista era oggetto del corteggiamento di Giuseppe Conte a caccia di «costruttori» e «responsabili» per salvare la propria maggioranza dal naufragio. Ebbene, in quell'indagine, tra gli altri, era finito ai domiciliari pure Giuseppe Selvino, assessore del piccolo comune di Santa Severina, in provincia di Crotone. Accusato di aver favorito l'imprenditore protagonista dell'inchiesta, Antonio Gallo (lo stesso che per gli inquirenti avrebbe poi pranzato con Cesa a Roma, inguaiando l'esponente Udc) intenzionato ad aggiudicarsi alcuni appalti del consorzio di bonifica Jonio-Crotonese, per il quale Selvino aveva lavorato come dipendente, oltre ad essere stato membro interno della commissione giudicatrice di una gara d'appalto. Un bel guaio, per l'assessore, che si è ritrovato indagato per turbativa d'asta spedito agli arresti domiciliari, oltre a vedersi sospendere lo stipendio e a dire addio al suo scranno da assessore, immediatamente revocato dal sindaco di Santa Severina. A «incastrarlo» - si fa per dire, come vedremo le intercettazioni ambientali registrate dagli inquirenti alla festa di compleanno di un tale Valerio Scarpino, nel corso della quale, a tavola, tra un brindisi e un antipasto, lo stesso Gallo e una serie di invitati al party parlavano di questioni economiche di interesse per gli inquirenti, oltre ad altre registrazioni di incontri tra lo stesso imprenditore e Giuseppe. Giuseppe ossia lui, Selvino, secondo procura e gip. Non secondo il diretto interessato, che ha provato, in sede di interrogatorio di garanzia, a spiegare per esempio che lui a quel compleanno nemmeno era stato invitato, e che dunque a parlare non poteva essere la sua voce. Niente da fare. Addio posto da assessore, addio stipendio (per il momento), addio libertà. Finché, grazie a una perizia fonica di parte, Selvino e il suo legale, Eugenio Perrone, sono riusciti a convincere anche la polizia giudiziaria, autrice delle intercettazioni e delle trascrizioni dei brogliacci, che quella voce registrata di «Giuseppe» era sicuramente di un Giuseppe, ma non di Selvino il cui timbro vocale, registrato proprio durante l'interrogatorio di garanzia, non era compatibile nemmeno lontanamente con l'intercettato. «Erroneamente scrivono a quel punto gli agenti di Pg per avvertire procura e gip - veniva attribuita la voce parlante, in talune intercettazioni, a Selvino Giuseppe in luogo di un altro indagato dell'inchiesta». E a quel punto, senza nemmeno le scuse per il terribile equivoco e per le sue conseguenze devastanti per l'indagato arrestato «per sbaglio» nell'inchiesta da prima pagina di Gratteri, Selvino mercoledì scorso torna finalmente libero quando il gip Alfredo Ferraro accoglie la sua richiesta di scarcerazione, scrivendo che ma tu guarda anche «conformemente a quanto osservato dallo stesso pm, le esigenze cautelari risultano allo stato grandemente scemate». L'arrestato di fine gennaio può lasciare i domiciliari. Ma sarebbe bastato fare una verifica prima dell'operazione - e davvero basta un'omonimia, peraltro solo sul nome di battesimo, per privare una persona della propria libertà? - per evitargli venti giorni di gogna e l'addio che i fatti hanno dimostrato essere immotivato al suo posto di assessore.

L'inchiesta "Basso profilo". Scarcerato Selvino, Gratteri l’aveva confuso con un altro Giuseppe…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Fuori uno. Il “Basso profilo”, l’inchiesta di Nicola Gratteri, quella in cui è stato coinvolto anche il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, sta già rischiando di diventare “bassissimo”. È stato scarcerato dai domiciliari, dove era detenuto dal 21 gennaio scorso, Giuseppe Selvino, un ex assessore accusato di aver partecipato a una festa di compleanno del 4 settembre 2017, i cui commensali erano stati intercettati mentre discutevano di “questioni economiche”. La contestazione riguardava lo svolgimento di una gara per la fornitura di materiali e dispositivi antinfortunistici per il programma di forestazione del 2017, appalto rispetto al quale Selvino era membro interno della commissione giudicatrice. Era stato arrestato solo perché uno dei commensali di quella famosa festa di compleanno si chiamava Giuseppe come lui. Pare incredibile, ma le cose sono andate proprio così. Durante l’interrogatorio di garanzia l’ex assessore aveva negato di aver partecipato a quell’evento, ma non era stato creduto. Era quindi finito ai domiciliari (che, non dimentichiamolo mai, sono una forma di detenzione) e aveva dovuto nominare un legale, l’avvocato Eugenio Perrone, il quale aveva dovuto fare quel che sarebbe stato dovere del pubblico ministero Nicola Gratteri (o dei suoi sostituti) nonché del giudice per le indagini preliminari Alfredo Ferraro che aveva firmato l’ordine di custodia cautelare. Lo stesso che due giorni fa lo ha scarcerato. L’avvocato è evidentemente un bravo difensore e ha fatto il suo dovere. Ha assunto un perito fonico, il quale ha eseguito un’analisi comparativa tra le due voci, quella registrata al compleanno e quella di Salvatore Selvino. Ha portato in procura il file, che veniva quindi sottoposto all’esame della polizia giudiziaria che aveva condotto le indagini ed effettuato le registrazioni. Alla fine del giro difensore-pm-polizia-pm-gip, il giudice aveva dovuto ammettere che «quanto sostenuto dalla difesa viene confermato dalla polizia giudiziaria la quale, nella nota, specificava che erroneamente veniva attribuita la voce parlante, in talune intercettazioni, a Selvino Giuseppe» invece che a un altro Giuseppe. Ora, carissime toghe che rivestite i ruoli di pubblico ministero e di giudice, qualche considerazione va fatta. Quali sono la serietà e la professionalità dei magistrati, se pm e gip agiscono insieme e con grande superficialità, senza effettuare nessun controllo, mentre decidono sulla libertà (e quindi sulla vita) di un cittadino? Per avere dubbi non occorre neanche più citare Berlusconi, basta parlare di Selvino. È sufficiente esaminare il semplice caso di un cittadino che viene arrestato solo perché, se viene intercettato un certo Giuseppe, potrebbe essere lui perché porta quel nome. E quando la polizia porta al pm la registrazione, questi dice che va bene, e poi un giudice dice anche lui che va bene, perché comunque c’è una sentenza della cassazione che legittima il fatto che lui possa ricopiare le carte del rappresentante dell’accusa. E il cittadino viene messo in manette, deve nominare un avvocato e poi pagare anche un fonico e chissà, oltre ad aver perso la libertà, quali altre spese e seccature dovrà affrontare. Per il giudice è semplice, basta ammettere che «il quadro indiziario nei confronti del Selvino va ridimensionato, soprattutto alla luce della mancanza di elementi gravemente indizianti circa l’agevolazione di un’associazione ‘ndranghetista, di talché conformemente a quanto osservato dallo stesso pm, le esigenze cautelari risultano allo stato grandemente scemate in considerazione, peraltro della risalenza nel tempo dei fatti». Quindi, se non ha parlato di “questioni economiche” a una festa, non è neanche mafioso. Dobbiamo a questo punto ricordare che l’inchiesta “Basso profilo” è quella in cui risulta indagato Lorenzo Cesa e che la notizia è stata resa pubblica in un momento delicato della vita politica del Paese, che Cesa si è dimesso dalla carica di segretario del suo partito, che anche lui ha dovuto nominare un avvocato a dichiarare di avere la massima fiducia nella magistratura. Il che è visibilmente una balla, cui i politici sono un po’ obbligati. E questo perché gli stessi agenti della polizia giudiziaria che hanno preso un abbaglio sulle intercettazioni della festa di matrimonio cui non era presente Selvino sono quelli che hanno spiato un pranzo di Cesa a Roma, quello che non avevano potuto registrare perché il segretario dell’Udc all’epoca era parlamentare. E meno male, se no forse l’avrebbero arrestato. O scambiato con un altro Lorenzo.

Gratteri risponde alle critiche: «Sempre rispettato le norme processuali e sono convinto della bontà delle mie richieste». Il Quotidiano del Sud il 23 gennaio 2021. «Sono a conoscenza della nota inoltrata dalle camere penali, ma ribadisco nuovamente, come fatto anche in passato, che il riferimento alle scarcerazioni e a quello che accadrà in futuro sta a significare che io e il mio ufficio siamo assolutamente convinti, sulla base delle indagini fatte, della bontà delle nostre richieste nel Pieno rispetto delle norme processuali ivi compreso il diritto all’impugnazione dei provvedimenti riconosciuto ad entrambe le parti processuali». Lo afferma il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri in una nota all’ANSA a proposito del comunicato diramato dall’Unione camere penali nel quale si criticava le dichiarazioni del procuratore al Corriere della Sera all’indomani dell’operazione «Basso profilo» – che coinvolge anche esponenti della politica locale e nazionale – definendole un attacco all’autonomia e indipendenza dei giudici. Gratteri ha così risposto ad una domanda dell’ANSA in merito a quanto sostenuto dalle Camere penali in una nota. Oggetto della polemica da parte dell’Unione camere penali italiana è stata una specifica risposta alla domanda del giornalista Giovanni Bianconi: «Ma perché le indagini della sua Procura con decine o centinaia di arresti, vengono spesso ridimensionate dal tribunale del riesame o nei diversi gradi di giudizio?». «Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni», ha risposto il procuratore. Secondo l’Ucpi «la considerazione del dottor Gratteri propone al lettore l’idea che i provvedimenti dei Giudici, di censura dell’operato della sua Procura e delle valutazioni del gip, siano ispirati da motivazioni estranee alle dinamiche processuali».

Polemiche alle quali Gratteri ha risposto ribandendo «che il riferimento alle scarcerazioni e a quello che accadrà in futuro sta a significare che io e il mio ufficio siamo assolutamente convinti, sulla base delle indagini fatte, della bontà delle nostre richieste nel Pieno rispetto delle norme processuali ivi compreso il diritto all’impugnazione dei provvedimenti riconosciuto ad entrambe le parti processuali».

Liana Milella per "la Repubblica" il 23 gennaio 2021. Esiste un caso Gratteri? Esistono di certo le lamentazioni degli avvocati e di parte della politica contro un procuratore che difende la sua inchiesta. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri parla con i giornali del legame malato tra 'ndrangheta e politica calabrese. Lo fa con i toni forti che gli sono abituali. È uno che in battaglia non usa certo i swiffer. Ma un caso Gratteri non si apre al Csm. Pensano ad altro. E all'Anm il presidente Giuseppe Santalucia dice subito che «le sue non sono affatto parole eccessive». Nessun dubbio? «La legge riconosce al capo della procura il diritto- dovere di parlare quando lo stare in silenzio produrrebbe più confusione e più equivoci. E se l'equivoco c'è, come in questo caso, il procuratore deve fare chiarezza, perché altrimenti si alimentano tesi di giustizia ad orologeria. Gratteri ha spiegato che non è così, visto che ha chiesto misure cautelari un anno fa e una volta ottenuto il via libera non poteva certo tenerle nel cassetto ». Eh sì, però quel parlare di elezioni e di crisi di governo («Ho visto Cesa dire in tv che non era disponibile ad accordi con il governo e quindi il problema non si è posto », ha detto Gratteri nelle interviste spiegando l'incrocio tra inchiesta e trattative di governo). Santalucia è netto: «Un procuratore che ha in mano un'azione giudiziaria urticante che va a impattare con un momento difficile della politica, se sta zitto alimenta l'equivoco dell'interferenza con i giochi della politica, mentre una sua parola di chiarezza è doverosa. Anzi, sa cosa penso? Che forse ha ecceduto nel giustificarsi al contrario quando ha parlato delle regionali e dell'esigenza di aspettare». Stessa tranquillità al Csm, dove nessuno ha sollevato questioni su Gratteri. Ma i garantisti della politica non la prendono bene. La renziana Lucia Annibali storce il naso: «Esiste la presunzione di innocenza, ed esiste la separazione dei poteri, un magistrato dev' essere più prudente e più riservato». Enrico Costa di Azione spara a zero: «Nella direttiva europea sulla presunzione d'innocenza, che questa maggioranza non ha voluto recepire, si legge che gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata provata, le dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche non presentino la persona come colpevole». Un Gratteri che lascia freddo l'ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick. «Lo conosco da molto tempo, mi aveva fatto un'ottima impressione, faceva già vent' anni fa una vitaccia. Ma vede, un magistrato che conduce un'inchiesta di quelle dimensioni forse dovrebbe chiudersi nel silenzio, lasciando che parli il Csm. Il suo impegno contro la 'ndrangheta è fuori discussione, ma non deve farsi strumentalizzare dall'una o dall'altra parte». Ma l'Unione delle Camere penali di cosa accusa Gratteri? Di aver detto una frase sui giudici che bocciano le inchieste delle procure. Le sue dichiarazioni rappresentano "un attacco di inaudita gravità all'autonomia e indipendenza dei giudici". Ma forse gli avvocati ignorano che a Catanzaro s' indaga su un "sistema" che avrebbe legato giudici e imputati, portando a sentenze pilotate.

Il Csm “condanna” Lupacchini: l’ex pg aveva «denigrato» Gratteri. Il Dubbio il 16 giugno 2021. La sezione disciplinare del Csm infligge a Otello Lupacchini la sanzione della perdita di anzianità di 3 mesi, disponendo il trasferimento d’ufficio nella sede e nelle funzioni già disposte nel provvedimento cautelare. Condanna alla sanzione della perdita di anzianità di tre mesi e conferma del trasferimento d’ufficio a Torino. E quanto ha deciso la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura per l’ex procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, sotto processo con l’accusa, tra l’altro, di avere denigrato e delegittimato il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, per alcune dichiarazioni, rilasciate durante un’intervista televisiva, sull’operazione anti ’ndrangheta "Rinascita-Scott". Il collegio, dopo due ore di camera di consiglio, ha inflitto a Lupacchini una sanzione superiore a quella sollecitata dalla procura generale della Cassazione, che aveva chiesto la censura. L’ex pg di Catanzaro è stato invece assolto l’altro capo di incolpazione, relativo al fatto di avere postato su Facebook una petizione a favore di Eugenio Facciolla, procuratore di Castrovillari, poi trasferito dal Csm a seguito di un’indagine della Procura di Salerno, che conteneva espressioni ritenute denigratorie nei confronti del Consiglio.

Il monito dell'ex pg di Catanzaro. Storia di Lupacchini, magistrato con una carriera eccezionale finito in disgrazia dopo aver criticato Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Aprile 2021. Forse ci vorrebbe uno come Otello Lupacchini, invece di Nicola Gratteri, a Milano. Anche se il posto di Francesco Greco, che tra pochi mesi andrà in pensione, forse per lui sarebbe poca cosa, visto che, fino a che non è stato cacciato, occupava un ruolo di livello superiore, quello di procuratore generale a Catanzaro. Del resto, basta sentirlo parlare, come è accaduto nella seduta del 26 marzo davanti alla commissione disciplinare del Csm, per capire che, sul piano della competenza ma anche della cultura, di magistrati come Otello Lupacchini ormai non ce ne sono quasi più. Erano quelli che non dormivano la notte se dovevano chiedere o decidere di mandare qualcuno in cella o emettere una sentenza di condanna. Non c’era bisogno dell’uso del trojan per sapere che le toghe di quella tempra non passavano il tempo a brigare per la carriera o a chiedere privilegi vaccinatori. Per questo non c’è da stupirsi se, ascoltando a Radio radicale la seduta della commissione disciplinare del Csm sulle due “incolpazioni” di cui deve rispondere l’ex Pg di Catanzaro, si sente una certa insofferenza di coloro che sono chiamati a giudicarlo. Lui cerca di ricordare (senza bisogno di gridare “lei non sa chi sono io”, ma ci starebbe bene) di aver svolto il suo lavoro sempre con serietà ed equilibrio, mentre è stato trattato, solo per aver osato avanzare critiche nei confronti di certi comportamenti (in particolare quelli omissivi) del procuratore Gratteri, come una specie di “protettore dei masso-mafiosi”. Il tono mellifluo del consigliere Fulvio Gigliotti, membro laico in quota Cinque stelle del Csm, che presiede la commissione, lo interrompe continuamente, cerca di fargli perdere il filo, richiamandolo al tema. Le incolpazioni sono due, e non paiono così distanti dal problema dell’ immagine che del magistrato è stata data e che spetta a lui (o a chi altri?) riportare sul corretto binario. Otello Lupacchini è accusato di aver criticato l’inchiesta “Rinascita Scott” del 19 dicembre 2019 del procuratore Gratteri, quella messa in discussione prima di tutto da diversi giudici che avevano immediatamente ridimensionato i 334 arresti. In un’intervista al TGcom24 l’alto magistrato aveva osservato che “per quanto concerne l’operazione, sebbene questo possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato sulla stampa, in quanto vi è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale”. Parole gravi? Certo. Tanto più che il dottor Lupacchini era stato intervistato soprattutto come esperto di grande criminalità, sia come giudice che come pubblico ministero, e in tale veste non aveva potuto non notare l’”evanescenza” nell’impostazione di certe inchieste. Termine usato spesso, come ricordato nell’audizione, dalle sentenze di Cassazione quando si tirano le orecchie a certi provvedimenti. Parole che avrebbero dovuto allertare il ministro Bonafede e il procuratore generale Salvi a mettere gli occhi su quel che stava combinando il procuratore Gratteri. E’ accaduto il contrario. Hanno messo le manette a Lupacchini. Le manette a uno (ce ne fossero tanti di procuratori che parlano così!) che dice del proprio ruolo di inquirente, che non è quello di “derattizzatore” . Non è chiamato a fare pulizia, ma a fare giustizia. Ma non piace. Non piace che lui ricordi “superior stabat lupus” e dica che i lupi che nel passato amavano ululare oggi hanno mezzi più sofisticati per colpire. La maestra gli rimprovera di essere fuori tema. Come se nel corso del processo all’imputato venisse tagliata la lingua. Così tocca all’avvocato Ivano Iai fare il punto sulla seconda incolpazione di cui deve rispondere il suo assistito, quello di aver postato sul proprio profilo Facebook il testo di una petizione, sottoscritta da cinquemila persone, in favore del procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, trasferito dal Csm al tribunale civile di Potenza. Sono tanti i testimoni che andrebbero sentiti dalla commissione disciplinare per valutare se l’equilibrio di un magistrato si valuta dalla sua capacità di “derattizzare” o da ben altro. Il rappresentante della procura generale Marco Dall’Olio, esponente di Magistratura democratica, chiede che ogni richiesta dell’avvocato Iai venga respinta. La tenaglia sta per scattare. Dalla strage di testimoni si salva solo Paolo Liguori, il direttore di TGcom24, che verrà sentito nella seduta del prossimo 13 maggio.

Il caso. Al Csm dicevano: “Gratteri è pazzo”, ora processano Lupacchini. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. L’ex procuratore generale di Catanzaro ieri a Roma “processato” in sede disciplinare dal Csm, il procuratore capo due giorni fa a Lamezia incensato dalle telecamere al suo Maxi. Destini incrociati e opposti quelli di Otello Lupacchini, ex procuratore generale di Catanzaro, e Nicola Gratteri, attuale capo della procura della stessa città. Si erano annusati e subito respinti come due poli incompatibili. Ieri uno davanti a quella commissione disciplinare del Csm che ai suoi occhi non è nulla di meno che un plotone d’esecuzione, l’altro il giorno prima con la ruota del pavone e l’elicottero della polizia a proteggerlo dall’alto, a inaugurare l’aula-bunker dove si celebra il maxi-processo che dovrà renderlo famoso. Ancora di più, sempre di più. Se c’è un destino ingiusto, è quello che sta vivendo il magistrato Otello Lupacchini, uomo colto e raffinato come pochi, procuratore equilibrato e lungimirante, che si ritrova a esser processato in sede disciplinare dal Csm, dopo esser entrato in conflitto con Nicola Gratteri, uno che accetta (con qualche ragione) di esser definito “ignorante”, ma che è molto attivo come “lottatore”. Come se quello di combattere i fenomeni sociali o criminali fosse compito di un pubblico ministero e non delle forze di polizia. Ma sono sottigliezze che non possono albergare nella vita super-impegnata del dottor Gratteri. Ci sono varie questioni da chiarire, nelle vite incrociate dei due alti magistrati. Prima di tutto il Csm come istituzione è in debito nei confronti del dottor Lupacchini, perché negli anni scorsi quando nella veste di procuratore generale segnalava all’organo di autogoverno della magistratura, così come al ministro di giustizia e al procuratore generale della cassazione i comportamenti omissivi ed autoreferenziali del dottor Gratteri, faceva orecchi da mercante. E non si è mosso fino a che lo stesso procuratore capo di Catanzaro non ha inoltrato analoga e opposta protesta nei confronti del proprio superiore gerarchico. Come se fosse normale il fatto che all’interno di un distretto giudiziario si facessero blitz, si aprissero inchieste con centinaia di indagati, si scrivessero quindicimila pagine di accuse, si andasse in televisione a dichiarare che si sta smontando la Calabria come una costruzione Lego, senza mai informare il procuratore generale. Cioè la massima autorità degli uffici dell’accusa. Ma come funzionava quel Consiglio superiore della magistratura degli anni scorsi? Ci si occupava solo ciascuno della propria e altrui carriera per gli avanzamenti o qualcuno sapeva anche valutare la differenza tra un magistrato che svolgeva con competenza il proprio lavoro e altri che usavano come metodo la pesca a strascico, salvo essere poi sconfessati dal tribunale del riesame piuttosto che dalla cassazione? Fatto sta che alla fine del 2019, dopo che aveva definito “evanescenze” certi blitz del procuratore Gratteri, il dottor Lupacchini subiva un trasferimento cautelare da Catanzaro a Torino, con degradazione da capo a semplice sostituto del procuratore generale. E questo accadeva mentre lo stesso Luca Palamara, che aveva votato quel trasferimento, definiva Gratteri “un pazzo” da fermare. Ma questo lo si saprà solo dopo che saranno rese pubbliche tutte le chat, captate dal trojan, che l’ex capo del sindacato dei magistrati scambiava con i suoi amici e colleghi. I giornali e i siti calabresi si sono sbizzarriti a lungo su queste conversazioni nei mesi scorsi, quando tutte le conversazioni sono diventate pubbliche. Si riportano le dichiarazioni di Gratteri che sostiene di sapere che ci sono in Calabria almeno 400 magistrati corrotti. E Palamara che chiacchierava con il suo collega del Csm Massimo Forciniti e diceva: «Purtroppo è un matto vero… Però va fermato, non può continuare così». E quando parla con il procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, Palamara gli gira l’articolo con le dichiarazioni di Gratteri commentando: «Le solite cazzate, sta diventando patetico». Questo era il quadro che aveva portato Otello Lupacchini come incolpato davanti al Csm e a quella prima commissione che lo ha spedito a mille chilometri di distanza a prendere ordini da qualcuno che era stato suo pari fino a poco prima. Se il procuratore Gratteri era considerato dagli stessi componenti del Csm come un pazzo che andava fermato, perché imputare al dottor Lupacchini il fatto di aver definito “evanescenti” delle inchieste che spesso venivano poi sconfessate (come accaduto di recente con il processo “Nemea”) in sede giudicante? Certo l’ex procuratore generale aveva anche ospitato sulla propria pagina Facebook un appello perché un altro suo collega calabrese, trasferito dal Csm, fosse reintegrato al suo ruolo precedente, e qualche membro del Csm si era “offeso”. Ma siamo all’Asilo Mariuccia, come si dice a Milano? Cioè, i magistrati del Csm sono adulti o bambini che mettono il broncio? Ed è o no una provocazione il fatto di ritrovarsi poi giudicati, sia per il trasferimento che per l’azione disciplinare, davanti a quegli stessi colleghi che si erano offesi o ai loro compagni di banco con cui spesso si dividono vacanze e merende?

Per capire quel che è successo in seguito, basterebbe ricordare quei due giorni nuvolosi ma non troppo caldi del 2018, il 25 e il 26 luglio. Siamo a Roma, il Csm si è finalmente svegliato dal torpore e si è deciso a estrarre dal cassetto tutte le segnalazioni del dottor Lupacchini nei confronti del procuratore Gratteri. Sono fissate due audizioni riservate e separate. Il primo giorno Lupacchini dalle 14 alle 15, l’indomani Gratteri dalle 11,40 alle 12,35. Ci sono un po’ di ore di distanza tra l’una e l’altra, e il procuratore “più scortato d’Italia” pensa bene di farle fruttare. Cioè di cogliere l’occasione del viaggio a Roma per salutare un vecchio amico, anche lui calabrese. Casualmente il “vecchio amico” si chiama Luca Palamara, e casualmente è membro del Csm. Il procuratore lo cerca, l’altro in un primo momento non risponde. Poi, dopo uno scambio di messaggi, i due concordano di vedersi la mattina dopo, alle 8,10 al bar “Il Cigno” di viale Parioli. Cioè dopo l’audizione di Lupacchini, ma prima di quella di Gratteri. Tutto documentato, e tutto casuale, ovviamente. Non risulta che il dottor Palamara abbia mai chiesto al sindaco di Roma di provvedere con un Tso a far curare il “matto” e neanche che il Csm abbia aperto una pratica che lo riguardasse. Risulta solo che si sia invece solo infierito su un magistrato per bene come Otello Lupacchini, colpevole solo di essersi bruciato le dita, e la carriera, per aver detto piccole cose, rispetto a quelle più gravi che si scambiavano al telefono i membri dello stesso Csm che lo ha inquisito e scacciato. Ah, dottor Palamara, quando sono state rese pubbliche le sue opinioni su di lui, il procuratore Gratteri avrebbe detto, secondo il quotidiano calabrese online Iacchitè: «Io e Palamara non siamo mai stati amici». Quindi, quell’incontro del 26 luglio 2018 non era proprio una rimpatriata tra conterranei, giusto?

L’avvocato di Lupacchini: «Tra lui e Gratteri due pesi e due misure». Il Dubbio il 23 gennaio 2021. L’avvocato Ivano Iai, difensore dell’ex Pg di Catanzato Otello Lupacchini, pone degli interrogativi dopo l’intervista di Gratteri al Corriere della Sera. L’intervista al Corriere della Sera rilasciata dal Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha suscitato una serie di reazioni da parte di varie componenti del panorama giuridico. Tra questi va segnalata la nota inviata dall’avvocato Ivano Iai nell’interesse del Consigliere Otello Lupacchini ex Pg di Catanzaro, trasferito dal Csm alla Procura generale di Torino come sostituto Pg, dopo le considerazioni fatte da Lupacchini nel corso di un’intervista rilasciata a TgCom 24, all’indomani del maxi blitz “Rinascita- Scott”, nella quale lamentò un mancato coordinamento tra la procura antimafia e quella generale. Scrive l’avvocato Iai che l’intervista al Corriere della Sera del 22 gennaio 2021 “oltre a creare gravissimo strepitus, genera numerosi interrogativi sui presupposti – e forse anche sui condizionamenti e i c.d. doppiopesismi – delle iniziative disciplinari, cautelari e per incompatibilità assegnate dalla Costituzione e dalla legge al Ministro della Giustizia, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione e al Consiglio Superiore della Magistratura. Quando, in data 21 dicembre 2019, il Procuratore Generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, sollevò pubblicamente una questione seria sulle anomalie nel coordinamento e nei rapporti con il Procuratore Distrettuale, diversi magistrati, anche investiti di funzioni di rilievo costituzionale, chiesero e ottennero l’apertura di una pratica per incompatibilità del primo fulmineamente istruita davanti alla Prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura”. Nella nota dell’avvocato Iai si legge ancora: “Con intervento indebito nelle questioni dell’Ordine Giudiziario, un Ministro della Repubblica, l’On. Luigi Di Maio, capo, allora, del principale partito di Governo, prese posizione netta sulla vicenda in favore del Procuratore Distrettuale di Catanzaro. Il Ministro della Giustizia, dello stesso partito del Ministro degli Esteri, promosse con amplificata velocità, iniziative finalizzate al trasferimento fulmineo del Dott. Lupacchini, poi allontanato dall’Ufficio di Procuratore Generale prima della data di inaugurazione dell’Anno Giudiziario all’inizio del quale avrebbe dovuto rappresentare le tante e preoccupanti anomalie riscontrate nei due anni di lavoro nel Distretto di Catanzaro. Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione usò nei confronti del Dott. Lupacchini eguale celerità e rigore interpretativo nel ritenere l’intervista offensiva del Procuratore di Catanzaro e di altri magistrati del Distretto. Le procedure cautelari e disciplinari nei confronti del Dott. Lupacchini si sono svolte e consumate in un alito di vento che ne ha traumatizzato la dignità di magistrato e relegato in un angolo di silenzio i diritti difensivi. Escludo possa sorprendere che la scrivente difesa, cui sta a cuore segnalare la lesione dei diritti di qualsiasi persona, compresa la libera manifestazione del pensiero, non intenda sollecitare pubblicamente iniziative di natura disciplinare nei confronti del Procuratore della Repubblica di Catanzaro. La riflessione intorno alla quale occorre, invece, interrogarsi è, infatti, quella delle reali ragioni per le quali, nei confronti del Dott. Lupacchini, il Ministro della Giustizia, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione e il CSM abbiano attivato ben tre procedure a seguito e per effetto di un’intervista incomparabilmente meno aggressiva e per nulla intimidatoria di quella oggi ritenuta priva di rilievo disciplinare o paradisciplinare”.

L'intervista del procuratore al Corriere della Sera. Le insinuazioni di Gratteri contro gli altri magistrati: “Il giudice ha assolto, è mafioso”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Gennaio 2021. Un anno fa aveva denunciato l’esistenza di almeno 400 magistrati corrotti. Oggi lascia intendere che anche tra i giudici che puntualmente demoliscono le sue inchieste, chissà, potrebbe anche esserci qualcuno che ha motivi “particolari” per le proprie decisioni. A meno che il procuratore Nicola Gratteri, quando parla con Giovanni Bianconi del Corriere della Sera non intenda altro. Ma la frase: «…Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni», che cosa può voler dire? Magari che qualche “pentito”, lo incalza il consumato giornalista, ha parlato di giudici coinvolti? «Su questo ovviamente non posso rispondere». Ora, poiché anche il più giovane tra i cronisti giudiziari sa che questa, da parte di qualunque magistrato, è semplicemente una risposta di conferma (diversamente basterebbe smentire), sarebbe ora che il procuratore più famoso d’Italia fosse incalzato a dare qualche spiegazione. Va bene passare da un blitz all’altro, se sei il capo degli inquisitori di Calabria, perché non puoi essere uno che se ne sta con le mani in mano. Ma se regolarmente la base della tua costante ipotesi accusatoria – e cioè che la ‘ndrangheta ormai non esista più, perché si sarebbe trasformata in un’ associazione affaristica, composta, oltre che di quattro pastori dell’Aspromonte, di imprenditori, avvocati, commercialisti, notai e politici – viene demolita dai tuoi giudici, il problema c’è. E se tu allora insinui sospetti sul mondo giudiziario intero («il 6-7% è fatto di corrotti») e poi alludi a quei giudici che buttano giù pezzetto dopo pezzetto le tue inchieste, dicendo che «la storia spiegherà», non sarà il caso che qualcuno ti chieda conto delle tue affermazioni? Non dico il procuratore di Salerno, competente a indagare, ma anche a tutelare i magistrati di Catanzaro, ma magari il Csm, per chiedere conto o magari anche per aprire una pratica a tutela del procuratore Gratteri. Perché se è a conoscenza di qualche notizia di reato sarebbe suo dovere comunicarla. E altrettanto dovrebbe fare se si ritiene vittima di qualche collega che si è venduto alle cosche. Anche perché ci sono situazioni che non sono ancora state ben chiarite. Prima di tutto la vicenda che ha visto aprirsi un violento conflitto con il dottor Otello Lupacchini, ex procuratore generale di Catanzaro, e che ancora non si è conclusa, benché lui abbia già subito da parte del Csm un provvedimento cautelare di trasferimento a Torino. Nel 2018, il pg aveva presentato diversi esposti in cui denunciava proprio lo “strano” comportamento del dottor Gratteri nei confronti di colleghi che lui indagava trattenendo però l’inchiesta presso di sé invece di delegarla immediatamente, come dovuto, ai colleghi di Salerno. Non solo delle segnalazioni del procuratore Lupacchini il Csm non aveva tenuto conto, ma nello scontro tra i due procuratori di Calabria, quello uscito vincente, per lo meno nel primo round, con il trasferimento dell’altro, era stato proprio Gratteri. La cosa era tanto più assurda in quanto, proprio nello stesso periodo, l’opinione di diversi magistrati, tra cui almeno due componenti dello stesso Csm che poi trasferirà il dottor Lupacchini, era molto pungente, a tratti irridente, nei confronti di Nicola Gratteri. Lo si verrà però a sapere soltanto due anni dopo, cioè quando verrà portato a superficie il pozzo di San Patrizio delle chat del magistrato Luca Palamara. È il 25 luglio del 2018 il giorno in cui il procuratore Lupacchini fa la sua deposizione al Csm. Ma è il 12 aprile dello stesso anno il giorno in cui Luca Palamara, chattando su whatsapp con il collega Massimo Forciniti, come lui membro del Csm. I due commentano proprio le battute del dottor Gratteri su alcuni colleghi, ritenuti non degni di indossare la toga di magistrato. È in quell’occasione che Palamara dice «Gratteri è matto, va fermato». Ma non è tutto. Dalle chat emerge anche, sempre negli stessi giorni e sempre con riferimento alle interviste in cui il procuratore di Catanzaro alludeva ai magistrati corrotti, uno scambio di battute irridenti tra Luca Palamara e il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri. Sulle battute di Nicola Gratteri il giudizio è «le solite cazzate», «sta diventando patetico». Due mesi dopo, non Gratteri ma Lupacchini veniva trasferito. E oggi tutti tacciono. Se qualcuno esprime preoccupazione per certi comportamenti, è solo in ambiente politico, e solo a causa dell’inchiesta che si è abbattuta sull’incolpevole segretario dell’Udc, l’ormai dimissionario Lorenzo Cesa. E solo perché i tempi scelti per il blitz dell’inchiesta “Basso profilo” hanno disturbato il manovratore del governo, il presidente del consiglio Giuseppe Conte che forse contava anche sui tre senatori di quel partito per ritrovare la maggioranza perduta dopo l’uscita di Italia Viva di Matteo Renzi. Eppure, è lungo l’elenco dei flop delle tante inchieste avviate dal procuratore Gratteri, sempre con lo stesso copione: il blitz con allegata conferenza stampa e con il nome famoso del politico che vede sfumare la sua carriera, non può candidarsi, viene abbandonato dal suo partito e infine viene assolto. Eppure non molti giorni fa, in un’udienza del processo “Rinascita Scott”, il fiore all’occhiello di tutte le inchieste di Calabria, quello con trecento imputati e l’aula-bunker e l’ambizione di far concorrenza al maxi-processo di Falcone a Cosa Nostra, il dottor Gratteri si è permesso di tacitare la presidente del tribunale Tiziana Macrì dicendole «stai zitta, ora finisco di parlare io». In circostanze analoghe, e proprio in Calabria, quando un imputato si era permesso di usare la stessa frase nei confronti di un’altra toga, erano stati mandati subito gli atti alla procura della repubblica ed era stato aperto un fascicolo. Il fatto è ancora più grave se si ricorda che la presidente Macrì (che ha dovuto poi astenersi dal processo per una questione formale controversa) è la stessa che aveva ucciso con una sentenza gran parte dell’inchiesta “Nemea”, altro fiorellino all’occhiello del procuratore di Catanzaro. Certo, se le fosse stato consentito di continuare a presiedere il processo “Rinascita Scott”, sarebbe stata equa e inflessibile come, a quanto dicono coloro che la conoscono, è sempre stata. E sarebbe stato difficile poterle dire ogni giorno di stare zitta.

Corrado Carnevale, il giudice “ammazzasentenze” che rispettava il diritto. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 gennaio 2021. Accusato di aver influenzato il suo collegio per favorire la mafia, dopo dieci anni è stato assolto definitivamente perché «il fatto non sussiste». Le dichiarazioni del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri sui giudici che “scarcerano nelle fasi successive” ha fatto ritornare alla mente il clima che si respirava negli anni 80, quando salì agli onori delle cronache il giudice della corte di Cassazione Corrado Carnevale. Ispirando la sua azione a uno dei capisaldi dello Stato di diritto, la presunzione d’innocenza, ben riassunta nella massima: meglio un colpevole fuori, che un innocente dentro, Corrado Carnevale, ora 90enne, non è mai stato simpatico a molti dei sui ex colleghi. Senza peli sulla lingua criticò anche il pool antimafia dove c’era Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, perché li definiva “sceriffi”. Una cosa è certa. Non traspare da nessuna parte che Falcone e Borsellino ritenessero “colluso” con la mafia Corrado Carnevale. Non fecero mai nessuna insinuazione di questo tenore. Ma, nello stesso tempo, non nascosero che, a causa della sua proverbiale estrema puntigliosità, lo ritenevano un problema per l’esito del maxiprocesso costruito sul cosiddetto teorema Buscetta. Viceversa, non c’è da stupirsi se i mafiosi riposero le speranze in Carnevale. Oramai è storia che grazie a una idea di Falcone, l’ex ministro della giustizia Martelli attuò la rotazione del collegio giudicante, impedendo nei fatti al giudice Carnevale di presiedere la prima sezione della corte di Cassazione. Fu in quel momento che Falcone, agli occhi di Totò Riina, divenne un nemico da annientare. Corrado Carnevale è una persona che non ha mai aderito ad alcuna corrente della magistratura, e ciò è sconveniente per chi è desideroso di fare carriera. Fino al 1985, la carriera di Carnevale conosce un crescendo impressionante: in pochi anni brucia tutte le tappe e i record della magistratura. Dal 1986 in poi, a seguito della sentenza emessa dalla I sezione penale del Cassazione da lui presieduta nel cosiddetto processo Chinnici ( rinviò alla Corte la sentenza per una nuova valutazione), inizia l’attacco e l’isolamento ai suoi danni. Sui giornali nasce il mito del giudice ‘ ammazzasentenze’. Il primo avviso di garanzia lo riceve dall’allora capo della procura di Palermo Gian Carlo Caselli e dall’allora procuratore Antonio Ingroia, il 23 aprile 1993. L’inchiesta dura dieci anni, fino all’assoluzione del 30 ottobre 2002. Ma per capire bene di che cosa stiamo parlando, dobbiamo analizzare le sentenze. Le uniche che cancellano anni e anni di maldicenze e accuse, riportando il tutto alla giusta dimensione dei fatti. E c’è voluta sempre la Cassazione a sentenziare che Corrado Carnevale non influenzò i giudici del suo collegio per favorire la mafia. La Corte suprema ha scritto nero su bianco che la decisione del giudice di secondo grado è «assolutamente carente nella individuazione di elementi che possano ritenersi davvero idonei a dimostrare che le deliberazioni della I. Cassazione, oggetto di contestazione, non furono espressione della volontà collegiale formatasi liberamente attraverso l’apporto di volontà individuali determinatesi autonomamente, indipendentemente da influenze e condizionamenti altrui, bensì il risultato del comportamento dell’imputato, illecito in quanto volto a favorire l’associazione criminale Cosa Nostra». Per questo la sentenza di condanna viene annullata dalla Cassazione. Un annullamento senza rinvio, poiché le lacune non possono essere colmate in un eventuale giudizio di rinvio. «Tanto si ricava – si legge nelle motivazioni della sentenza di Cassazione dalla completa e minuziosa disamina degli atti compiuta in sede di merito, in cui si è indagato su ogni circostanza che a tal fine sembra rilevante. Indagine che tuttavia ha proposto o elementi inutilizzabili, o elementi già disattesi, o elementi non dotati di alcuna, rilevante significazione». In sostanza la sentenza viene annullata senza rinvio perché il fatto ascritto a Carnevale non sussiste. Fine di un incubo, ma le stimmate rimangono, perché – come disse Carnevale stesso in una intervista apparsa tre anni fa nel numero di marzo della rivista della Camera penale di Roma “CentoUndici”, firmata da Valerio Spigarelli e Giuliano Dominici, «facevo il lavoro dell’anatomopatologo, quello che fa l’analisi sul cadavere». Interessante sempre la sua testimonianza che fa comprendere il clima nel quale operavano i magistrati, il ruolo della stampa che cavalcava certi processi e l’inevitabile indignazione popolare. Corrado Carnevale racconta della lettura del ricorso contro l’ordine di cattura nei confronti di un famoso personaggio dell’epoca per omicidio. La lesse parola per parola davanti al collegio e alla fine il più anziano disse: «È acqua fresca». Allora Carnevale rispose: «Annulliamo!». I suoi colleghi però controbatterono: «E che vogliamo andare un’altra volta a finire sui giornali?». Un aneddoto che fa capire come la pressione politica e mediatica cercava di influenzare l’esito dei processi. L’ex giudice Carnevale se n’è infischiava, pagandone pure le conseguenze. Altri un po’ meno. E oggi, invece? I giudici hanno la forza di decidere sui grandi processi senza farsi influenzare dai mass media con tanto di pressione politica? La storia insegna che ci sono, esistono tuttora. Anche a rischio di finire potenzialmente alla gogna e ricevere insinuazioni di collusione dai propri colleghi. Nel nostro Paese i giudici vanno bene se condannano, ma non se assolvono.

Catanzaro – Roma – Bruxelles: chi aiuterebbe il vicino di casa accusato pubblicamente dalla famiglia di passare la vita al casinò? Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. In un mio commento di ieri per Il Riformista (Giustizia giusta o ancora giustizia spettacolo?) ho posto qualche perplessità sui tempi – concomitanti con la crisi di governo e con il mega processo alla ‘ndrangheta – della roboante presentazione alla stampa dell’operazione antimafia della Procura della Repubblica di Catanzaro, che ha portato alle dimissioni del Segretario Nazionale dell’UDC Lorenzo Cesa. Commenti fatti sulla base di altre vicende della storia recente del Paese, senza tuttavia alcuna conoscenza né dei fatti né delle carte in mano all’accusa. Che richiederebbero quindi, anche nei commenti sulla stampa, la stessa prudenza che dovrebbero avere gli investigatori antimafia. Quella cioé di usare la mano ferma, asettica e capace del chirurgo, indispensabile per estirpare la parte malata dei tessuti del Paese senza danneggiare quella sana. E non l’accetta del boscaiolo o sciabolate al vento, con le quali non sarà mai possibile evitare pericolosi danni collaterali. Che a volte possono essere anche peggiori del male che, con indiscusso merito, si vorrebbe estirpare. Leggo oggi alcune cronache e commenti di chi sembra abbia potuto vedere alcune delle carte dell’accusa, ed anche intervistare il Procuratore della repubblica Nicola Gratteri. Al quale confermo la mia piena ammirazione per il suo indiscutibile coraggio personale. Dalla lettura, in particolare del commento di Tiziana Maiolo sul Riformista, e dell’intervista a Gratteri di Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera, le mie perplessità ed i miei interrogativi non sono però affatto diminuiti. Soprattutto per quanto attiene le ragioni della gogna mediatico-giudiziaria cui è stato soggetto Lorenzo Cesa che, con responsabilità, ha rassegnato immediatamente le sue dimissioni da Segretario Nazionale dell’UDC. Oltre che per le ragioni spiegate ieri, le mie perplessità derivano anche per l’esperienza personale che ho avuto di Lorenzo Cesa. Quando lui era membro della Commissione Controllo Bilancio del Parlamento Europeo, ed io portavoce e capo della comunicazione dell’Ufficio Europeo per la Lotta alla Frode (OLAF). E soprattutto per la stima che aveva per lui, e che posso testimoniare personalmente, il compianto Direttore Generale dell’Ufficio Europeo della Lotta alla Frode (OLAF). Che non era proprio un calabrese, come il nome lo lascia intendere, ma un vero “tetesco di Germania”. Cioè il Procuratore bavarese Franz Hermann-Bruener. Quello che aveva rappresentato l’accusa, quale PM federale, nel processo al leader della DDR Erich Honecker, oltre che in alcune grandi, e non comuni, inchieste giudiziarie anti-corruzione in Germania. L’indipendenza nella funzione d’inchiesta di Bruener, che era rimasto scioccato da alcuni aspetti del metodo giudiziario (o giustizialista?) riscontarti in alcuni magistrati italiani, e dai tentativi che facevano pensare ai metodi del “corvo di Palermo”, di spodestarlo e limitarlo è stata fortemente difesa, al Parlamento Europeo, proprio da Lorenzo Cesa. Basta fare una ricerca negli archivi delle interrogazioni parlamentari, accessibili anche sul web, a chi volesse averne conferme e maggiori dettagli. Soprattutto in occasione di alcune orchestrate fughe di notizie riservate, e relative prevalentemente ad atti di indagine, provenienti dallo stesso OLAF e dal suo Comitato di Vigilanza. Sapientemente mischiate a quelle che oggi sarebbe facile definire “fake news”, ma che allora nessuno chiamava in questo modo, in nome della pretesa “libertà di stampa”. Cesa diede in quel tempo anche un suo interessante contributo ad una tavola rotonda sulla comunicazione anti-frode, che io stesso, assieme a Bruener, organizzai. Con un intervento che merita essere letto e che tutto può far pensare, tranne che possa essere stato scritto da qualcuno che sia disponibile ad essere colluso con organizzazioni mafiose.

Ma l’ultima parola spetterà, come sempre, soltanto ai tribunali. Che soli potranno e sapranno vagliare la fondatezza degli elementi dell’accusa. Anche se questi, da quanto riportato da Tiziana Maiolo, appaiono al momento piuttosto vaghi. Non ci permettiamo dunque di commentarli ulteriormente, come non ha invece perso occasione di fare ieri il sindaco di Napoli uscente, Luigi De Magistris. Che è già in campagna elettorale per la Regione Calabria, rendendo attonito un mio amico ufficiale in congedo dei Carabinieri che qualche giorno fa si diceva: “Dopo la ‘Ndrangheta e Cotticelli ora si candida pure De Magistris… di cosa sono colpevoli i calabresi?”. Di De Magistris ho ricordi personali non solo di alcune sue attività investigative in collaborazione con l’OLAF, quando era alla Procura di Catanzaro. In relazione ad alcune speculazioni miste a fughe di notizie mediatiche dalla Procura di Catanzaro, l’impassibile e ponderato Bruener, mai visto furioso come allora, scrisse una durissima lettera al Ministro della Giustizia italiano ed al CSM, e pretese un comunicato stampa congiunto OLAF e Commissione Europea.  Ma ricordo anche del suo passaggio, come europarlamentare e Presidente, in quella stessa Commissione Controllo Bilancio del Parlamento Europeo, di cui Cesa era stato qualche tempo prima membro. Non posso certo testimoniare per lui, e so di non essere solo, la stessa stima che Bruener manifestava invece per Cesa. Un Bruener che – prima di conoscere sul campo anche tanti italiani che sanno fare onore all’Italia, seppure nel silenzio e dietro le quinte – leggendo solo le cronache mediatiche aveva il pregiudizio che moltissimi nordici hanno sull’Italia: quello di essere il Paese del sole, della buona cucina e della dolce vita, ma, soprattutto, delle Mafie, della corruzione e dell’assoluta inaffidabilità. Frequentando i tanti che dall’Italia, spesso con agende personali di autoproclamati eroi della legalità e dell’inflessibilità (anche se spesso solo verso i peccati altrui), venivano a diffamare il nostro Paese a Bruxelles, chiedendo sponde offerte spesso in buona fede, senza distinguere mai il bene dal male e facendo di tutta l’erba un fascio, lui che aveva conosciuto anche il valore di tanti servitori silenziosi delle istituzioni, capì presto quale era la vera piaga dell’Italia. Quella di essere divorata da lotte intestine e per bande. Fatte non sempre e solo per interessi economici, ma anche, e soprattutto, per il potere personale. Molto simili alla mentalità proto-mafiosa che spesso viene attribuita a chiunque abbia il nostro passaporto. E non ebbe quindi bisogno di leggere Sciasca e la sua visionaria invettiva sul rischio dei nascenti “professionisti dell’antimafia” per capirlo. Ed è così che, per esperienza personale, divenne un grande estimatore dell’Italia, ma soprattutto delle sue forze di polizia, a cominciare dalla Guardia di Finanza, ma anche per Carabinieri e Polizia di Stato. Che citava spesso, assieme a Procuratori della Repubblica quali Piero Vigna e Antonio Lamanna, come esempio di serietà ed organizzazione (fatti salvi gli eccessi e le personalizzazioni di troppe prime donne o presunte tali) nella lotta alla criminalità organizzata. Anche e soprattutto con i suoi colleghi tedeschi.  Che spesso rimproverava pubblicamente di essere troppo indulgenti e non organizzati come l’Italia nella lotta al crimine organizzato ed alla corruzione. Vivendo all’estero da oltre trent’anni, ed avendo vissuto personalmente, quale suo portavoce per un decennio, la metamorfosi di giudizio sul nostro Paese del magistrato “tedesco di Germania” Bruener, so tuttavia molto bene cosa significhi per i nostri partners europei, dai quali invochiamo – spesso anche con molta arroganza e spocchia – la più grande solidarietà per i nostri disatri, leggere sui nostri e loro giornali (che spesso non fanno altro che riprendere i nostri, o le veline delle Procure o dei loro grilli parlanti) troppi muscolosi annunci mediatici roboanti. Soprattutto quando concomitanti a grottesche cronache dei teatrini politici nazionali. E allora concludo ponendomi un’altra domanda. Che pongo anche a tutti i miei compatrioti, per il bene che voglio a questo nostro splendido e dannato paese. Chi di noi continuerebbe ad essere disponibile ad aiutare economicamente il proprio vicino di casa in difficoltà, quando i suoi stessi familiari più stretti gridano al mondo intero che usa i nostri soldi per spassarsela al casinó (con o senza accento sulla o)? A chi mi legge lascio l’onere della sua onesta risposta. Scusandomi per la metafora che mi è ispirata, nel giorno in cui a Bruxelles, dove risiedo, l’Istituto Italiano di Cultura apre le celebrazioni del 700° anniversario della morte di Dante Alighieri, dalla celebre invettiva presente nel canto IV del Purgatorio della Divina Commedia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!”

Non solo i penalisti. Anche Magistratura democratica si dissocia da Gratteri. Il Dubbio il 24 gennaio 2021. Le parole del Procuratore di Catanzaro sono «un rischio per il libero dispiegamento della giurisdizione». Non solo l’Unione delle camere penali. Anche le associazioni dei magistrati cominciano a dissociarsi dalle parole rilasciate dal procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, al Corriere della sera. Magistratura democratica, la corrente progressista delle toghe, non apprezza il silenzio dell’Anm in merito alla questione e sceglie di sbilanciarsi. «Siamo ben consapevoli di quanto sia importante la libertà di parola dei magistrati, anche quale prezioso strumento di difesa della giurisdizione. Le parole del Procuratore Gratteri, tuttavia, si trasformano nell’esatto contrario e in un rischio per il libero dispiegamento della giurisdizione», scrive l’Esecutivo di Md in un articolo pubblicato sul sito della corrente. «Non crediamo che la comunicazione dei Procuratori della Repubblica possa spingersi fino al punto di lasciare intendere che essi siano gli unici depositari della verità, e di evocare l’immagine del giudice che si discosti dalle ipotesi accusatorie come nemico o colluso», aggiunge l’Esecutivo di Md, richiamando con preoccupazione l’intervista al Corriere della Sera di Gratteri che, «nel rispondere alla specifica domanda sul perché le indagini della Procura di Catanzaro vengano spesso ridimensionate dal tribunale del riesame o nei diversi gradi giudizio, afferma: “Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazione”. Affermazione oscura e il giornalista incalza: “Che significa? Ci sono indagini in corso? Qualche pentito che parla anche di giudici?” Replica: “Su questo ovviamente non posso rispondere”». Magistratura democratica, invece, crede nel ruolo del pm che «primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali, agisce nella consapevolezza della necessaria relatività delle ricostruzioni accusatorie e della necessità di verificarle nel contraddittorio, e non in quello di parte interessata soltanto al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo». Invece, «con un tale agire», aggiunge Md, richiamando ancora l’intervista di Gratteri, il pm «dismette il suo ruolo di primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali – a partire dal principio di non colpevolezza – e assume quello di parte interessata solo al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo». È talmente dura la presa di posizione delle toghe di sinistra da ricevere il plauso di Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, che prende carta e penna per scrivere una nuova missiva all’Anm che, a suo dire, avrebbe liquidato troppo in fretta le questioni sollevate dagli avvocati con una prima lettara. Il tema posto dall’Ucpi «non ha nulla a che fare né con le legittime certezze degli inquirenti circa la fondatezza delle indagini, né con il diritto di impugnazione dei provvedimenti adottati, che – e ne siamo lieti e risollevati – il dott. Gratteri parrebbe riconoscere come legittimo», scrive Caiazza. Ciò che contestano i penalisti, statistiche alla mano, è «il sistematico ridimensionamento quantitativo e qualitativo delle ipotesi accusatorie» che sorreggono le indagini condotte dal procuratore di Catanzaro. «Il dato di fatto è a tal punto notorio che l’intervistatore, Giovanni Bianconi, gliene chiede conto, né l’intervistato mostra di poterlo negare; ed il nocciolo della questione sta nella incredibile spiegazione che ne viene data. Di quegli esiti così deludenti per l’Accusa, e tuttavia sanciti dal libero esplicarsi della giurisdizione, il dott. Gratteri invoca un prossimo giudizio della Storia, che sarebbe dunque – o sarà, o starebbe per esserlo – ben diverso da quello descritto nelle sentenze dei Tribunali del Riesame, dei Giudici di primo e di secondo grado e di quelli della Suprema Corte», argomenta Caiazza. «Allo sbigottito intervistatore, che chiede se la Procura di Catanzaro abbia per le mani emergenze investigative che spieghino quegli esiti in termini di collusioni mafiose nella giurisdizione  il dott. Gratteri non liquida certo con sdegno la oltraggiosa intuizione del giornalista, ma anzi la avvalora e la consolida: “A questo ovviamente non posso rispondere”. Che significa: sì, certamente, tant’è che non posso parlarne». L’Unione delle Capere penali, assicura Caiazza, pensa a tutti quei giudici di merito e della Cassazione che nelle prossime ore saranno chiamati a esprimersi sugli arresti disposti dal gip a seguito delle indagini di Gratteri, che dovranno giudicare sotto pressione mediatica. «Non avvertite alcun problema? Non registrate un qualche possibile disagio? Non ritenete di dover far giungere a quei giudici la piena, solidale vicinanza dell’Associazione nazionale magistrati a difesa della loro indipendenza, integrità e libertà morale? O altrimenti dobbiamo immaginare che il tema della indipendenza e della autonomia della magistratura vale solo a salvaguardia delle iniziative giudiziarie delle Procure, ma non dei Giudici che ne vagliano il fondamento?», scrive Caiazza.

Il Csm tace e l'Anm seppellisce la questione. Insinuazioni Gratteri pericolo per la Giustizia, Md si ribella: “Giudici trattati da collusi”. Angela Stella su Il Riformista il 24 Gennaio 2021. Non si placano le polemiche per le improvvide dichiarazioni del Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri al Corriere della Sera: “Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”, ha risposto così il pm al collega che gli ha chiesto come mai spesso le sue inchieste vengano ridimensionate. Incalzato dal giornalista, “Che significa? Ci sono indagini in corso? Qualche pentito che parla anche di giudici?”, Gratteri ha replicato: “Su questo ovviamente non posso rispondere”. Poche purtroppo sono state le reazioni in questi giorni, e oggi per fortuna è arrivata anche quella dell’Esecutivo di Magistratura Democratica: seppur “ben consapevoli di quanto sia importante la libertà di parola dei magistrati, anche quale prezioso strumento di difesa della giurisdizione” tuttavia, sottolinea l’esecutivo presieduto dal Segretario Nazionale Mariarosaria Guglielmi, “le parole del Procuratore Gratteri si trasformano nell’esatto contrario e in un rischio per il libero dispiegamento della giurisdizione”. Non è affatto morbida l’analisi che fanno da Md, perché dicono chiaramente quello che a tutti, o quasi, è apparso chiaro, ossia che le parole del pm calabrese sono gravissime perché alluderebbero a pericolose complicità tra giudici e malavita: “Non crediamo – scrivono –  che la comunicazione dei Procuratori della Repubblica possa spingersi fino al punto di lasciare intendere che essi siano gli unici depositari della verità, e di evocare l’immagine del giudice che si discosti dalle ipotesi accusatorie come nemico o colluso“. “Con un tale agire – prosegue la nota di Md – il Pubblico Ministero dismette il suo ruolo di primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali – a partire dal principio di non colpevolezza – e assume quello di parte interessata solo al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo“. A Gratteri, sostengono da Md, andrebbe ricordato anche che “La Direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016, all’art. 4, prescrive agli Stati membri di ‘adottare le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persone come colpevole’. Crediamo  – conclude la nota – nel ruolo del Pubblico Ministero che agisce nella consapevolezza della necessaria relatività delle ricostruzioni accusatorie, della necessità di verificarle nel contraddittorio, e del ruolo del giudice terzo e indipendente”. Temiamo purtroppo che questa indignazione, arrivata se non erriamo nel silenzio delle altre associazioni di magistrati, non servirà a smuovere le giuste coscienze e i giusti organi che potrebbero invece aprire una seria riflessione, prodromica chissà anche ad un richiamo disciplinare, in merito a quanto affermato da Gratteri. Dal Csm tutto tace ovviamente, mentre l’Anm ha già seppellito la questione e lo ha fatto con una dichiarazione del Presidente Santalucia, giunta dopo che Gratteri aveva commentato a sua volta il durissimo comunicato dell’Unione delle Camere Penali.

Ecco ricostruita la sequela di dichiarazioni.

I penalisti italiani hanno fortemente stigmatizzato le dichiarazioni di Gratteri: “Queste affermazioni rappresentano un attacco di inaudita gravità all’autonomia e indipendenza dei giudici. L’Unione scrive al CSM per le sue opportune valutazioni, e ad ANM per conoscere quali iniziative intende porre in essere a tutela dei giudici che non hanno condiviso, o eventualmente non condivideranno, le ipotesi accusatorie a fondamento delle indagini del Dott. Gratteri”.

A ciò è seguita una nota all’Ansa del Procuratore di Catanzaro che si è rivolto proprio all’Ucpi: “Sono a conoscenza della nota inoltrata dalle camere penali, ma ribadisco nuovamente, come fatto anche in passato, che il riferimento alle scarcerazioni e a quello che accadrà in futuro sta a significare che io e il mio ufficio siamo assolutamente convinti, sulla base delle indagini fatte, della bontà delle nostre richieste nel pieno rispetto delle norme processuali ivi compreso il diritto all’impugnazione dei provvedimenti riconosciuto ad entrambe le parti processuali”.

Non occorre commentare l’antinomia di questa dichiarazione con quanto affermato invece al Corsera. Comunque a mettere una pietra sul “Caso Calabria”, come lo ha intitolato Md, è arrivato proprio il Presidente dell’Anm, Santalucia che in maniera pilatesca ha dichiarato: “La nota oggi diffusa (ieri da Gratteri, ndr) nella parte in cui sottolinea il rispetto delle norme processuali e fa richiamo agli strumenti delle impugnazioni come legittima reazione, dentro il processo, a provvedimenti non condivisi, sembra poter dissipare perplessità e chiarire equivoci”. A Repubblica Santalucia si è spinto oltre e, commentando l’altra incredibile dichiarazione di Gratteri sull’intreccio tra la sua inchiesta e la crisi di governo, ha detto: “Anzi, sa cosa penso? Che forse ha ecceduto nel giustificarsi al contrario quando ha parlato delle regionali e dell’esigenza di aspettare”.

Nel pomeriggio di domenica, è di nuovo l’Unione delle Camere Penali ad intervenire chiedendo che il “caso Gratteri non sia frettolosamente liquidato“. Lo fa indirizzando una lettera proprio al Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Crediamo sia doveroso mettersi tutti nei panni di quei Vostri Colleghi (Giudici del merito e della Corte di Cassazione) che già dalle prossime ore saranno destinatari delle iniziative di impugnazione avverso questa ennesima infornata di arresti; e magari, già che ci siamo, anche in quelli degli avvocati che dovranno patrocinarle. Ed è questa la ragione per la quale ci siamo permessi di rivolgerci a Voi. Non avvertite alcun problema? Non registrate un qualche possibile disagio? Non ritenete di dover far giungere a quei giudici la piena, solidale vicinanza dell’Associazione nazionale magistrati a difesa della loro indipendenza, integrità e libertà morale? O altrimenti dobbiamo immaginare che il tema della indipendenza e della autonomia della magistratura vale solo a salvaguardia delle iniziative giudiziarie delle Procure, ma non dei Giudici che ne vagliano il fondamento? Mi consenta di esprimere l’auspicio che questa vicenda, lungi dall’essere così frettolosamente liquidata, possa costituire l’occasione per un franco e leale dibattito pubblico, come merita la cruciale rilevanza delle questioni che essa implica”.

Non possiamo non concludere quindi con la domanda retorica (?) che si è posto l’avvocato Valerio Spigarelli in un suo dialogo con il professor Giorgio Spangher in un video sulla pagina facebook L’Asterisco: “Perché Santalucia non vede questa enormità? In questo contesto manca la difesa della giurisdizione proprio da chi la dovrebbe difendere”.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 25 gennaio 2021. «Questo libro deve molto a molti», scriveva il procuratore Nicola Gratteri nelle prime pagine del suo «Fratelli di sangue», pubblicato nel 2006. E tra i ringraziamenti a chi lo aveva accompagnato nel suo lavoro di ricerca e di indagine sulla 'ndrangheta, in mezzo a colonnelli, vicequestori, giornalisti celebri come Roberto Saviano, Gratteri ricordava «il luogotenente del Gruppo operativo antidroga della Guardia di finanza di Catanzaro, Ercole d'Alessandro». Lo stesso d' Alessandro che tre giorni fa Gratteri ha fatto arrestare nell' ambito del blitz «Profilo Basso», la retata che ha portato all' avviso di garanzia al leader dell' Udc, Lorenzo Cesa (con coda di polemiche sulla scoppiettante intervista del procuratore al Corriere). A d'Alessandro, che ora è in pensione, viene riservata una accusa pesante: avere usato i suoi rapporti per procacciare notizie riservate a uno degli imprenditori accusati da Gratteri di collusione con la criminalità organizzata. Anzi, stando alle conferenze stampa di Gratteri, il più alto in grado: Antonio Gallo, indicato dal magistrato come l' uomo simbolo di una imprenditoria capace di avere contatti con «forze dell' ordine, politica e 'ndrangheta». Tra i contatti di Gallo con le «forze dell' ordine» salta fuori proprio d'Alessandro. Che Gratteri arresta senza tanti complimenti. Una mossa che può da una parte dimostrare come il procuratore di Catanzaro sia uno che non guarda in faccia a nessuno. Ma che dall' altro solleva inevitabilmente una domanda: se Gratteri indaga Cesa accusandolo in sostanza di non avere scelto con cautela le sue frequentazioni (il solito Gallo, indicato come terminale della cosca Grande Aracri) il procuratore non ha nulla da dire su come si sceglieva i collaboratori? E non stiamo parlando di uno qualunque tra le decine di investigatori della polizia giudiziaria che ruotano intorno a un magistrato di prima fila. Il rapporto tra Gratteri e d'Alessandro era così stretto che nei giorni scorsi l' Espresso definisce il sottufficiale addirittura «l' ex braccio destro» del procuratore di Catanzaro. Non a caso il contributo di d'Alessandro è quasi una costante nel lavoro di Gratteri come prolifico autore di libri: anche in «Oro bianco», pubblicato da Mondadori nel 2015, Gratteri si profonde in ringraziamenti, una lunga sfilza di nomi importanti e alti gradi, ci sono generali, procuratori, questori. Un solo sottufficiale: «il maresciallo Ercole d'Alessandro del Goa della Guardia di finanza di Catanzaro». Un uomo di assoluta fiducia di Gratteri, che per anni gli ha assegnato compiti delicati e ad alta riservatezza: questo era d'Alessandro, come tutti sanno in Calabria. Una fama che non era stata scalfita dalla comparsa del suo nome in un' altra indagine, l' inchiesta sulla latitanza a Dubai dell' ex parlamentare Amedeo Matacena: tale Speziali, accusato di coprire la fuga, viene intercettato dalla Dia mentre telefona a d'Alessandro, «ti prego, Ercolino, ti supplico, ti imploro, parla con i tuoi colleghi». La richiesta non ebbe seguito. Ma ora d'Alessandro inciampa nelle intercettazioni disposte dal suo vecchio capo: e per lui stavolta non c' è scampo.

Gratteri arresta il suo ex braccio destro. I dubbi sul procuratore: nemmeno una parola sui suoi collaboratori. Luca Fazzo, Lunedì 25/01/2021 su Il Giornale. «Questo libro deve molto a molti», scriveva il procuratore Nicola Gratteri nelle prime pagine del suo «Fratelli di sangue», pubblicato nel 2006. E tra i ringraziamenti a chi lo aveva accompagnato nel suo lavoro di ricerca e di indagine sulla 'ndrangheta, in mezzo a colonnelli, vicequestori, giornalisti celebri come Roberto Saviano, Gratteri ricordava «il luogotenente del Gruppo operativo antidroga della Guardia di finanza di Catanzaro, Ercole d'Alessandro». Lo stesso d'Alessandro che tre giorni fa Gratteri ha fatto arrestare nell'ambito del blitz «Profilo Basso», la retata che ha portato all'avviso di garanzia al leader dell'Udc, Lorenzo Cesa (con coda di polemiche sulla scoppiettante intervista del procuratore al Corriere). A d'Alessandro, che ora è in pensione, viene riservata una accusa pesante: avere usato i suoi rapporti per procacciare notizie riservate a uno degli imprenditori accusati da Gratteri di collusione con la criminalità organizzata. Anzi, stando alle conferenze stampa di Gratteri, il più alto in grado: Antonio Gallo, indicato dal magistrato come l'uomo simbolo di una imprenditoria capace di avere contatti con «forze dell'ordine, politica e 'ndrangheta». Tra i contatti di Gallo con le «forze dell'ordine» salta fuori proprio d'Alessandro. Che Gratteri arresta senza tanti complimenti. Una mossa che può da una parte dimostrare come il procuratore di Catanzaro sia uno che non guarda in faccia a nessuno. Ma che dall'altro solleva inevitabilmente una domanda: se Gratteri indaga Cesa accusandolo in sostanza di non avere scelto con cautela le sue frequentazioni (il solito Gallo, indicato come terminale della cosca Grande Aracri) il procuratore non ha nulla da dire su come si sceglieva i collaboratori? E non stiamo parlando di uno qualunque tra le decine di investigatori della polizia giudiziaria che ruotano intorno a un magistrato di prima fila. Il rapporto tra Gratteri e d'Alessandro era così stretto che nei giorni scorsi l'Espresso definisce il sottufficiale addirittura «l'ex braccio destro» del procuratore di Catanzaro. Non a caso il contributo di d'Alessandro è quasi una costante nel lavoro di Gratteri come prolifico autore di libri: anche in «Oro bianco», pubblicato da Mondadori nel 2015, Gratteri si profonde in ringraziamenti, una lunga sfilza di nomi importanti e alti gradi, ci sono generali, procuratori, questori. Un solo sottufficiale: «il maresciallo Ercole d'Alessandro del Goa della Guardia di finanza di Catanzaro». Un uomo di assoluta fiducia di Gratteri, che per anni gli ha assegnato compiti delicati e ad alta riservatezza: questo era d'Alessandro, come tutti sanno in Calabria. Una fama che non era stata scalfita dalla comparsa del suo nome in un'altra indagine, l'inchiesta sulla latitanza a Dubai dell'ex parlamentare Amedeo Matacena: tale Speziali, accusato di coprire la fuga, viene intercettato dalla Dia mentre telefona a d'Alessandro, «ti prego, Ercolino, ti supplico, ti imploro, parla con i tuoi colleghi». La richiesta non ebbe seguito. Ma ora d'Alessandro inciampa nelle intercettazioni disposte dal suo vecchio capo: e per lui stavolta non c'è scampo.

Quando Napolitano svegliò il giovane Matteo dal sogno di vedere Gratteri in via Arenula. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 24 gennaio 2021. La stima tra Renzi e Gratteri risale al 2014, anno in cui l’allora giovane presidente del Consiglio, lo voleva alla guida del ministero della Giustizia. Corsi e ricorsi storici tra magistratura e politica. L’inchiesta del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che vede indagato per associazione a delinquere il dimissionario segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, sta involontariamente mettendo più di un bastone tra le ruote alle possibilità del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di allargare ai cosiddetti “volenterosi” ( tra i quali anche tre senatori dell’Udc) la maggioranza parlamentare che lo sostiene. Con il conseguente tentativo del leader di Italia Viva, Matteo Renzi, autore della crisi di governo, di abbassare i toni e costringere Conte al dialogo. La “stima” tra Renzi e Gratteri risale al 2014, anno in cui l’allora giovane presidente del Consiglio, appena incaricato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, voleva a tutti i costi alla guida del ministero della Giustizia. Gratteri al tempo era procuratore aggiunto a Reggio Calabria ma si era già fatto notare per la sua lotta alla criminalità organizzata e una popolarità sempre crescente anche al di fuori della magistratura Per questo Renzi voleva affidargli la guida di via Arenula, ergendolo a «segnale più importante della discontinuità che intendo dare al mio esecutivo». Gratteri era pronto ad accettare ma, disse, «soltanto se avessi la libertà di realizzare le cose che ho in testa». Voleva carta bianca, insomma, e l’allora neoinquilino di palazzo Chigi era disposto a dargliela. Ma non finì bene, perché a mettersi di traverso fu proprio Napolitano, che storse la bocca quando Renzi presentò la lista dei ministri. Si parlò di una regola non scritta, ma praticamente sempre rispettata, per cui un magistrato ancora in servizio non potesse ricoprire il ruolo di ministro della Giustizia. Non tutte le ricostruzioni di quei momenti convergono, fatto sta che dopo tre ore di colloquio la lista dei ministri cambiò e quella casella venne occupata da Andrea Orlando, democratico garantista, pro abolizione dell’ergastolo e contrario all’obbligatorietà dell’azione penale. Oggi, a distanza di quasi sette anni, l’ex guardasigilli Andrea Orlando è vicesegretario del Partito democratico, Renzi sta cercando di uscire dalla trappola che lui stesso si è costruito e Gratteri è diventato procuratore Capo a Catanzaro.

Il processo "Stige". Processo Stige, il solito Gratteri: metà condannati e metà assolti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Febbraio 2021. Si può dire che “l’impianto accusatorio ha retto”, come scrivono in genere i giornalisti amici dei pm, se la sentenza condanna il cinquanta per cento degli accusati e assolve l’altra metà? È quel che capita nelle giornate più favorevoli al procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. Quando piove e c’è tempesta può succedere anche che il castello dell’accusa venga raso al suolo completamente e comunque con percentuali così alte da creare imbarazzo. In Calabria la giurisdizione lavora a livelli altissimi, e questo sarebbe positivo se il procuratore Gratteri fosse in grado di operare una vera rivoluzione copernicana: cioè a ogni notizia di reato corrispondesse un’indagine che poi portasse (possibilmente in tempi conformi all’articolo 111 della Costituzione) a conferme processuali. Prendiamo la sentenza del tribunale di Crotone di giovedì sera al processo “Stige”, prima tappa processuale di un’inchiesta della Dda di Catanzaro che aveva coinvolto la cosca Farao-Marincola di Cirò Marina per reati di estorsione, autoriciclaggio, intestazione fittizia di beni e detenzione di armi. Nella cornice dell’associazione mafiosa e del concorso esterno, naturalmente. Non ci sono fatti di sangue (ormai sempre più rari), ma il sospetto di intrecci tra organizzazioni mafiose, economia e istituzioni. Infatti tra gli imputati, e anche tra i condannati, ci sono anche amministratori locali. Nulla da eccepire. Ma il punto è un altro, ed è sul numero. In questa occasione 54 sono stati i condannati e 24 le persone assolte. Ma c’è di più, perché, dopo la retata del 2018, un certo numero di indagati aveva scelto un percorso processuale alternativo, il giudizio abbreviato davanti al gup. E anche per questo gruppo di imputati, rispetto ai quali è in corso l’appello, in primo grado la sentenza aveva rispettato le stesse proporzioni: 66 persone erano state condannate e 36 assolte. Ora, senza essere i campioni del calcolo, e riuscendo a fare di conto anche con il pallottoliere o con le dita, possiamo dedurre da questi numeri che complessivamente i condannati dell’inchiesta “Stige” sono stati 120 e gli assolti 60. È un po’ come se uno studente all’esame di maturità avesse risolto metà dei problemi o risposto solo a una domanda su due. È vero che il processo serve proprio a verificare se l’ipotesi dell’accusa è fondata. Ma se in primo grado il castello è già stato demolito a metà, e per la Dda di Catanzaro è già un risultato brillante rispetto al solito, che cosa succederà in appello e Cassazione? E come si potrebbe definire il risultato della pesca a strascico, pratica abituale di queste inchieste?

Il processo "Decollo ter-money". Il fallimento di Gratteri e Lombardo: su 27 imputati solo 2 condannati (non per mafia…) Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Ancora un “flop” della procura di Nicola Gratteri. Non erano mafiosi. E 25 su 27 sono stati assolti, mentre in due sono stati condannati in primo grado per riciclaggio ma senza l’aggravante mafiosa ipotizzata dall’accusa. Parliamo del processo che si è celebrato a Vibo Valentia denominato “Decollo Ter-Money”, nato dalla fusione di due inchieste, una sul narcotraffico internazionale che dal Sudamerica sfociava in Calabria e l’altra sul riciclaggio e un tentativo di scalata di una banca di San Marino. La prima considerazione da fare è solo apparentemente formale, e riguarda i “soprannomi” che qualche graduato delle forze dell’ordine se non addirittura i pm “antimafia” danno alle inchieste. Proprio pochi giorni fa, con il recepimento definitivo in Senato della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, si è detto “basta” a ogni orpello che presenti indagati e imputati come colpevoli. Basta dunque – come esplicitato nell’emendamento del responsabile giustizia di Azione Enrico Costa– al processo mediatico, alle conferenze stampa dei pm, alle intercettazioni spiattellate sui giornali e anche ai nomignoli con cui vengono battezzate le inchieste, che alludono esplicitamente alla colpevolezza delle persone coinvolte nei blitz. “Money” vuol dire denaro. Quindi battezzare un’inchiesta con questo nome vuol dire alludere non tanto al più ricco dei paperi, quel Paperone nei cui occhi era rappresentato il dollaro, ma alle grandi quantità di danaro dei traffici della mafia. Però questa inchiesta, secondo le giudici Chiara Sapia (presidente), Giorgia Ricotti e Anna Moricca del tribunale di Vibo Valentia che hanno emesso la sentenza, non ha nulla a che fare con la mafia. Al massimo, ma la condanna riguarda solo due persone su 27, si è trattato di riciclaggio. Il che ha comportato due condanne a tre anni e quattro mesi. Una sproporzione rispetto alla valanga di anni di carcere richiesta dagli uffici del procuratore Gratteri che per alcuni si spingevano fino a 20 anni di reclusione. Ma è giusto come sempre dare al dottor Gratteri solo quel che gli compete. L’inchiesta nasce tra il 2010 e il 2011, quando il capo della Dda di Catanzaro si chiamava Vincenzo Antonio Lombardo. Il processo è iniziato sette anni fa, il procuratore Gratteri l’ha quindi ereditato solo nel 2016 quando è subentrato al suo predecessore. Tutto vero, però le richieste a condanne che andavano da tre a vent’anni le ha fatte il suo ufficio. Il “flop” lo può quindi condividere con il dottor Lombardo, oneri e onori compresi. Le indagini su un narcotraffico internazionale tra Venezuela Spagna Colombia con destinazione finale la Calabria aveva radici antiche, fin dal 2004, con un primo processo che aveva portato a un certo numero di condanne. Da lì era scaturita l’inchiesta del 2011, con un probabile abbaglio preso dai carabinieri del Ros coordinati dalla procura antimafia di Catanzaro, che hanno attribuito alla ’ndrangheta quella che era una semplice operazione di riciclaggio limitata a due persone, un calabrese, Giorgio Galiano, genero di un narcotrafficante legato alla cosca Mancuso di Limbiati, e Walter Vendemini all’epoca, tra il 2010 e il 2011, direttore generale del Credito sammarinese. Il progetto dei due, ricostruito dalla sentenza di condanna, era quello di dare la scalata all’Istituto di credito, che versava in cattive acque, attraverso l’acquisizione di quote di capitele fino ad assumerne il totale controllo. Un piano che comportava la possibilità di accedere a una consistente disponibilità di denaro liquido proveniente dal narcotraffico. Ma il problema è che tutto questo nulla aveva a che fare con un’associazione mafiosa. Ciò nonostante la Dda di Catanzaro ha pensato bene di coinvolgere nell’inchiesta con un processo lungo sette anni, il presidente del Credito sammarinese Lucio Amati e altri dirigenti della banca. Tutti mafiosi secondo l’accusa. Tutti innocenti per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, secondo i giudici. Ed è proprio questo il motivo dei tanti “flop” delle inchiesta del procuratore Gratteri. Continuando a distribuire le patenti di mafiosità, si rischia di fare il lavoro opposto a quell’intenzione di smontare e ricostruire come un lego la Calabria di cui l’alto magistrato si era vantato il giorno del suo insediamento a Catanzaro.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il personaggio. Nicola Gratteri, 20 anni di fallimenti: blitz, arresti e show ma poi tutti assolti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Gennaio 2021. Domani la corte d’appello di Catanzaro deciderà in camera di consiglio sulla clamorosa ricusazione che la Dda presieduta da Nicola Gratteri ha avanzato nei confronti del magistrato Tiziana Macrì, che dovrebbe presiedere il prossimo 13 gennaio la prima udienza del Maxi “Rinascita Scott”. Dalla decisione uscirà anche un verdetto in senso lato “politico” sul potere del magistrato più popolare d’Italia. Di cui ricostruiamo, attraverso tante sentenze che sconfessano le sua inchieste, un po’ di storia. Dalla retata di Platì del 2003 fino a “Rinascita Scott” e “Imponimento” del 2019-2020. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri agisce sempre in grande, fin da quando era ancora un semplice sostituto. Luminosa scenografia e tante, tante manette. Poi la montagna si sgretola, e tanti giudici, quello delle indagini preliminari, quelli del riesame, infine la cassazione, bocciano le speranze di colui che volle diventare il Falcone di Calabria. Di fallimento in fallimento, fino alla totale assoluzione, di Mario Oliverio, l’ex presidente della Regione Calabria che Gratteri voleva arrestare, che fu spedito al confino e indagato per due anni, che perse il suo incarico per niente, perché il fatto non sussiste, ha stabilito il giudice. E la formula più ampia di assoluzione prevista dal codice. Cioè chi aveva avanzato l’accusa aveva preso lucciole per lanterne, aveva visto un reato dove non c’era neanche il fatto. Le buone abitudini, il dottor Gratteri le aveva imparate da piccolo. Erano le tre del mattino del 12 novembre 2003 a Platì, quando l’intero paesino della Locride fu svegliato dall’arrivo di centinaia di uomini in divisa i quali, in diretta televisiva, assaltarono, perquisirono a arrestarono 150 persone accusate di associazione mafiosa. Tra di loro c’erano due ex sindaci, dodici ex assessori comunali, due ex segretari comunali, due tecnici, il comandante della polizia municipale e un vigile urbano. La richiesta portava la firma di un certo dottor Nicola Gratteri, sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria. Il quale riteneva con questa operazione, che sarà chiamata “Marine”, di aver distrutto il clan della famiglia Barbaro la quale, agendo da egemone sul territorio, avrebbe acquisito il monopolio totale sugli appalti pubblici. Con la complicità di una bella fetta della popolazione di un paese di tremila persone e delle istituzioni locali. I reati, dal voto di scambio all’estorsione, al falso e all’abuso d’ufficio, erano tenuti insieme dall’associazione di stampo mafioso. Fu il suo primo blitz scenografico in quel territorio. E anche il suo primo scivolone nella zona. Dopo undici anni che cosa resterà di quella montagna di accuse? Solo un risultato politico, perché il paese di Platì resterà sempre più abbandonato ai commissari governativi e sempre più impossibilitato a essere amministrato. Per una radicata presenza mafiosa che i blitz scenografici possono solo rafforzare. Se qualcuno ha la curiosità di sapere la fine della storia, eccola: nessuno condannato per mafia, tutti assolti tranne otto (di cui cinque per reati di lieve entità). Otto su centocinquanta, chiaro? Si potrà pensare che possa capitare di sbagliare (ma giocando con la vita e la libertà dei cittadini?), anche se va ricordato che quando sbagliamo noi che siamo senza toga, veniamo processati, e se per caso siamo recidivi scattano le aggravanti. Che aggravante vogliamo contestare a chi ripete sempre lo stesso “errore” giudiziario? Perché, se la notte di Platì era stata una sorta di prima esibizione del sostituto Gratteri nella sua veste di sostituto procuratore di Reggio, la sua azione non era stata da meno, negli anni novanta, quando aveva rivestito lo stesso ruolo a Locri. Indimenticabile, purtroppo, l’operazione Stilaro. Quando partì un’indagine nei confronti di 102 persone e in una gelida notte di febbraio furono portati in carcere 62 cittadini di Camini (40 indagati a piede libero), piccolo centro jonico. Finirono in manette il sindaco professor Giuseppe Romeo, persona stimatissima da tutti, l’intera giunta e gran parte del consiglio comunale. Tutti mafiosi? A quanto pare no, visto che risultarono tutti estranei a qualunque contiguità con la ‘ndrangheta. «Sappia la società civile – aveva detto in conferenza stampa il responsabile provinciale della Dda – che non ci fermeremo davanti a nessun santuario…». Il “santuario” era fatto di persone per bene, che furono trascinate in ceppi nel cuore della notte davanti ai bambini in lacrime e un intero paese che assisteva sgomento. Tutti assolti all’udienza preliminare, meno di un anno dopo gli arresti. Tutta la storia giudiziaria della Locride nei primi anni novanta è punteggiata dalle inchieste-bufala, cui si accompagnano arresti in diretta televisiva e spumeggianti conferenze stampa in cui ogni capitombolo del procuratore è trasformato in successo. Voglio dimostrarvi, disse una volta il dottor Gratteri in un’intervista, che io sono capace anche di far scattare le manette ai polsi di cinquecento persone in una sola volta. Lo ha anche fatto, nei confronti di amministratori e funzionari dei comuni della Locride. Tutti assolti. Come nelle inchieste “Circolo Formato”, “Ionica agrumi” e “Asl Siderno”. Lo stile è l’uomo, disse qualcuno. E quello che è servito quasi da esercitazione di un sostituto procuratore, ha la stessa impronta del presente e delle inchieste avviate, con la stessa scenografia, dal capo della procura antimafia di Catanzaro. E alla stessa maniera in gran parte fallite. Nicola Gratteri è nominato all’alta carica il 21 aprile del 2016, ma il suo impegno maggiore lo vedrà protagonista soprattutto tra il 2018 e il 2019. È in questi anni che ogni blitz, ogni inchiesta è sempre la più importante, quella decisiva e definitiva per l’azzeramento della ‘ndrangheta in Calabria. Nel 2018 è l’operazione “Stige”, che vedrà all’alba del 9 gennaio più di mille carabinieri impegnati nella provincia di Crotone a mettere le manette ai polsi di 170 persone. Naturalmente si tratta della «più grande operazione degli ultimi 23 anni». Anche se il primo risultato, nel processo abbreviato, non darà risultati brillanti. L’accusa porta a casa 66 condanne, ma anche 38 assoluzioni. Si attende la sentenza, dopo le richieste del pm (che ha già chiesto altre 18 assoluzioni), per gli altri imputati che vengono giudicati con il rito ordinario. Il 2019 è l’anno del grande blitz del 19 dicembre, «la più grande operazione dopo quella che ha portato al maxiprocesso di Palermo». Ci risiamo con le conferenze stampa-show. Si chiama “Rinascita Scott”, parte con una richiesta di 334 ordini di cattura, poi decimata dal gip, dal riesame e dalla cassazione, quindi l’inchiesta viene “rabboccata” con il blitz dal nome “Imponimento”, che porta a casa altri 158 indagati, di cui 75 subito in manette. E alla fine il procuratore Gratteri riuscirà a portare a termine solo in parte il proprio sogno di far celebrare il suo Maxi, che vedrà giudicati nell’aula della tensostruttura regalata dalla Regione Calabria 355 imputati, mentre altri ottantanove saranno davanti al gup per il processo abbreviato il 27 dello stesso mese.

Nel frattempo sono state però notti insonni per le ambizioni del procuratore. Vogliamo ricordare per esempio l’inchiesta “Nemea”, un ramo cadetto di “Rinascita Scott” sulla mafia nel vibonese, in cui con la sentenza dell’ottobre scorso, su 15 imputati, 8 sono stati assolti e gli altri 7 hanno avuto le pena dimezzate? Oppure della sentenza clamorosa sull’inchiesta “Borderland” con 20 rinviati a giudizio di cui 13 assolti, tra i quali spicca il nome di Francesco Greco, ex vicesindaco di Cropani, messo agli arresti domiciliari nel 2016 e dichiarato innocente ben quattro anni dopo “perché il fatto non sussiste”?. Si arriva quindi a tempi più recenti, con la decisione del tribunale del riesame di annullare la misura cautelare nei confronti dell’ex presidente del consiglio regionale calabrese Domenico Tallini, messo ai domiciliari come indagato nell’inchiesta “Farmabusiness”. E poi l’assoluzione nei confronti di Mario Oliveiro e il non luogo a procedere per Nicola Adamo e Enza Bruno Bossio nell’inchiesta “Lande desolate”. È solo un breve riassunto, probabilmente lacunoso. Cui andrebbero aggiunte considerazioni politiche e anche i comportamenti e le reazioni dei diversi partiti rispetto alle operazioni di certi pubblici ministeri. E anche, perché no, l’atteggiamento degli altri magistrati, a partire dalla gravità del trasferimento del procuratore Otello Lupacchini, e del Csm nei confronti di questa “anomalia” calabrese. Per esempio, nessuno ha ridire sul fatto che la Dda di Catanzaro presieduta dal dotto Gratteri, abbia chiesto la ricusazione del presidente Tiziana Macrì che dovrebbe condurre il processo “Rinascita Scott” del prossimo 13 gennaio? La decisione sarà presa dalla corte d’appello di Catanzaro in camera di consiglio proprio domani 8 gennaio.

Al via il maxi processo alla 'ndrangheta che può far rinascere la Calabria. Lirio Abbate  su L'Espresso il 12 gennaio 2021. Nell'aula bunker della piana di Lamezia Terme andranno alla sbarra 325 imputati. Un intero mondo delle cosche collegate ai politici e all’imprenditoria, a giudizio proprio nella terra in cui le ‘ndrine si sentono ancora forti. Ma adesso lo Stato tenta il contraccolpo. Al primo grande processo alla ‘ndrangheta, per il numero di imputati, è stato dato il nome di “Rinascita Scott”, che porta non solo a  una nuova vita per la Calabria, ma anche a  onorare un agente speciale dell’antidroga americana, la Dea, Sieben William Scott, scomparso nel 2013 dopo essere stato impegnato in una lunga attività investigativa fra l’Italia e gli Stati Uniti. E così dal 13 gennaio nella piana di Lamezia Terme, dove è stata realizzata una grande aula bunker di oltre tremila metri quadrati, andranno alla sbarra 325 imputati accusati di associazione mafiosa, estorsione, detenzione di armi, narcotraffico, rapina, usura, danneggiamenti, concorso esterno in associazione mafiosa e tentati omicidi. Al centro del dibattimento che si svolge davanti ai giudici del tribunale di Vibo Valentia, c’è la potentissima cosca dei Mancuso di Limbadi che domina con i propri uomini su un vasto territorio della Calabria e che in passato non si è fatta scrupoli di uccidere le donne di famiglia che avevano tentato di collaborare con la giustizia. Sono state “suicidate” grazie alla complicità di servitori infedeli dello Stato e di colletti bianchi collusi, oltre che dei familiari del clan che non hanno avuto dubbi nel procedere alla loro uccisione. E in questo maxi processo i pm della procura di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri, hanno raccolto sul banco degli imputati oltre agli ‘ndranghetisti, pure colletti bianchi, professionisti, politici e massoni. C’è dunque il mondo delle cosche collegate ai politici e all’imprenditoria che va sotto processo proprio nella terra in cui le ‘ndrine si sentono ancora forti. E adesso lo Stato tenta il contraccolpo, il gesto concreto di processarli tutti insieme, in tempi – si spera – rapidi. La giustizia riscalda i motori, e lo faranno anche i circa 600 avvocati che sono stati chiamati a difendere gli imputati. L’accusa in questo processo proverà a dimostrare tante cose brutte della ‘ndrangheta, compreso il fatto che se la droga rappresenta il core business delle cosche globalizzate, i clan continuano a operare un controllo penetrante in molte attività economiche della regione, esercitando un pesante condizionamento in tutti i settori dell’economia legale, dall’edilizia al commercio, dalla ristorazione ai trasporti, dall’import export di prodotti alimentari al turismo. È una ‘ndrangheta sempre più imprenditrice, che non si limita a esercitare le estorsioni e l’usura o taglieggiare imprenditori e commercianti in una logica parassitaria ma si è affermata con la gestione diretta delle attività economiche. E c’è la capacità di inquinare non solo il sistema economico privato ma soprattutto la pubblica amministrazione. Grazie alla rete di relazioni consolidate con esponenti della politica, delle istituzioni e delle professioni, le cosche - sia attraverso prestanome sia con imprenditori e professionisti di riferimento – sono riusciti ad aggiudicarsi importanti pubblici appalti, imporre le proprie ditte e la propria manovalanza nei sub-appalti. Un modus operandi che spesso non ha avuto bisogno di ricorrere alla violenza ma che trovava nella convergenza di interessi con ampi settori della classe dirigente locale e regionale una leva per mantenere potere e consenso e garantire l’impunità delle cosche. Nel distretto giudiziario di Catanzaro, che comprende anche le province di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia, le ‘ndrine si muovono con altrettanto cinismo e aggressività, e dove primeggiano le famiglie Grande Aracri di Cutro e i Mancuso di Limbadi con importanti proiezioni nell’Italia settentrionale e all’estero. E si è affermato il modello imprenditoriale, con le cosche che allargano il proprio raggio d’azione nel campo delle energie rinnovabili, della depurazione delle acque e nell’assistenza ai migranti. Il mondo delle professioni è decisivo per assicurare il radicamento e l’espansione delle attività criminali. Non è esagerato dire che non c’è professione che sia rimasta impermeabile alla penetrazione mafiosa: commercialisti, notai, ingegneri, medici, avvocati si sono messi al servizio delle cosche nei contesti più diversi, compresa la delicata funzione di amministrazione di beni sequestrati e confiscati alle cosche e purtroppo non sono rimaste immuni né la magistratura né le forze dell’ordine. Adesso la parola passa ai giudici e i calabresi possono sperare in una rinascita.

Giuseppe Legato per "la Stampa" il 14 gennaio 2021. Tra i campi verdi incolti e i capannoni dell' area industriale di Lamezia Terme si è scritto ieri un pezzo di storia giudiziaria di questo Paese. Perché lì, nella maxi aula bunker costruita ad hoc (e in tempi record) per ospitare mille avvocati e 335 imputati (di cui 150 in videocollegamento contemporaneo) è iniziato il più grande processo contro la 'ndrangheta in Italia: Rinascita Scott. Che nella mente dell' accusa guidata dal procuratore Nicola Gratteri è una mafia globale. «Che costruisce relazioni con il mondo esterno, edifica ponti tra l' ala criminale pura e la società civile delle professioni, la politica, la pubblica amministrazione, la massoneria deviata, gli infedeli servitori dello Stato» spiega lo storico Antonio Nicaso. Scorrere l' elenco degli imputati per credere. Tre controlli all' ingresso della struttura, pattuglie che scrutano l' area del "maxi" fin dall' uscita autostradale della Salerno-Reggio Calabria. Elicotteri. Un processo globale e blindato reso possibile da quello che fuori dalla Calabria è considerato un miracolo: e cioè che da quelle parti non si possono rispettare tempi e impegni. Smentita fragorosa, almeno stavolta: «L' essere riusciti a celebrare qui il dibattimento vuol dire che i calabresi non sono il popolo delle incompiute e che quando ci si siede allo stesso tavolo e si è tutti dalla stessa parte è possibile realizzare opere complete con grande efficienza» ha spiegato Gratteri. Che sa quanto pesa e peserà questo processo (e il suo esito finale) sulla credibilità collettiva della lotta a una mafia - in punto d' accusa - moderna e parallela a mondi legali. Il cui potere relazionale si sovrappone sulla fotografia dell' imputato eccellente tra i colletti bianchi: l' avvocato Giancarlo Pittelli che risponde di concorso esterno in associazione mafiosa. Che è a contatto coi boss supremi della malavita (Luigi Mancuso) che raggiunge «praticando a piedi posti impervi, facendosi accompagnare da auto staffetta». Modalità «tipiche dell' associato alla 'ndrangheta e non di un avvocato, che pure è stato senatore della Repubblica». E' lui in definitiva «l' affarista dei boss accreditato - scrive il gip Barbara Saccà - nei circuiti della massoneria più potente, in grado di far relazionare la 'ndrangheta con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università, con le istituzioni tutte, fungendo da passepartout del Mancuso». Colpiscono i saldi legami con alcuni "atenei universitari", ospedali, enti pubblici, politica (nazionale) e massoneria nella quale - secondo il pentito Cosimo Virgilio, già "Venerabile nella Gran Loggia dei Garibaldini d' Italia a Vibo Valentia- vanterebbe una doppia affiliazione: «una pulita con il Goi del distretto di Catanzaro, l' altra sussurrata con la loggia dei Petrolo di Vibo». La mattina in cui fu arrestato i carabinieri trovarono a casa sua un manoscritto con le condotte di reato - nero su bianco - che gli sarebbero state contestate. In mezzo ci sono i Mancuso, enclave in grado di governare un vastissimo territorio considerato, in un' ottica puramente criminale, di serie B fino a poco tempo fa. E ci sono numeri degli imputati a giudizio, ma anche dei più di 900 testimoni che saranno sentiti, dei 60 collaboratori di giustizia. Gratteri ha chiesto di riunificare la posizione di Pittelli (che ha chiesto il giudizio immediato) con quella degli altri 335. Dal 19 gennaio si prevedono udienze giornaliere nella corsa contro il tempo affinché non scadano i termini di custodia cautelare per i detenuti. «Questo è il giorno della Calabria - ha spiegato Nicola Morra prescindente della commissione parlamentare antimafia, presente in aula - e di quei pochi uomini capaci, con la loro determinazione di immaginarne una diversa».

Prima udienza a Lamezia Terme. Morra si inchina a Gratteri e anticipa la sentenza: “Processo Rinascita Scott farà storia”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Addio al garantismo e ai tre gradi di giudizio. Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia in forza al Movimento 5 Stelle, alla prima udienza del processo basato sull’inchiesta Rinascita Scott nata dal procuratore Nicola Gratteri, emette già la sua sentenza. Per Morra infatti, presente stamattina nell’aula bunker di Lamezia Terme, “questo processo potrà fare la Storia. Probabilmente verrà studiato ancora fra 50 anni nei manuali di criminologia e di storia criminale del territorio”. Questa mattina Morra aveva annunciato il suo arrivo in Calabria a sostegno di Gratteri: “Lo si deve alla Calabria, agli uomini dello Stato che tutte le mattine a quest’ora stanno già lavorando per bonificare questa terra meravigliosa, ma sofferente per le troppe ingiustizie ancora non sanate”. Poco importa del garantismo e della presunzione di innocenza dei 355 imputati, già condannati dal senatore pentastellato. L’inchiesta del procuratore antimafia Gratteri nasce dal blitz del 19 dicembre 2019, “la più grande operazione dopo quella che ha portato al maxiprocesso di Palermo”, come la definì Gratteri. Rinascita Scott parte on una richiesta di 334 ordini di cattura, poi decimata dal gip, dal Riesame e dalla Cassazione, quindi entra in gioco il secondo blitz-inchiesta dal nome “Imponimento”. Qui ci sono altri 158 indagati, di cui 75 subito in manette. Alla fine Gratteri riesce anche ad ottenere dalla Regione l’ambita tensostruttura per imbastire il suo personale maxi processo. Processo che non vedrà la partecipazione di Tiziana Macrì: la corte d’appello di Catanzaro ha infatti convalidato la richiesta di ricusazione da parte del procuratore antimafia. Il motivo formale richiama un provvedimento della presidente Macrì dei tempi in cui era giudice per le indagini preliminari a Catanzaro. In quella veste, nei primi giorni delle indagini preliminari dell’inchiesta “Rinascita Scott” (ma stiamo parlando del 2018, più di un anno prima del blitz), aveva autorizzato la proroga di un’intercettazione. Quanto a Gratteri, prima di entrare nell’aula bunker ha sottolineato con i giornalisti “l’importanza di celebrare il processo in Calabria, la regione delle incompiute, dove però quando si vuole è possibile realizzare grandi opere. Questa aula – ha aggiunto il magistrato – è un simbolo di tecnologia e legalità: rispettosa delle norme anti-covid con mille persone sedute a distanza di sicurezza ed ha possibilità di fare 150 collegamenti video in diretta. Ma soprattutto – ha aggiunto Gratteri – è un segnale di efficienza al resto d’Italia ed ai calabresi stessi, i quali negli ultimi tempi si sono avvicinati con coraggio alle istituzioni”.

Il processo Rinascita Scott. Violenta aggressione di Gratteri alla giudice Macrì: “Sta zitta, ora parlo io”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Lei stia zitta, adesso finisco di parlare io. Violenta aggressione del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri nei confronti della presidente del tribunale Tiziana Macrì ieri mattina nell’aula-bunker di Lamezia Terme dove è iniziato il processo “Rinascita Scott”. Il magistrato che ama chiamarsi “il Falcone di Calabria” è furibondo perché la giudice, da tutti descritta come severa e integerrima, ma anche molto autonoma, non è scattata sull’attenti alla sua richiesta di astenersi dal presiedere il tribunale di questo processo fin dal 9 novembre. Secondo il dottor Gratteri la presidente Macrì non avrebbe neppure dovuto attendere la decisione al riguardo della corte d’appello. Avrebbe dovuto dire “signorsì” a Sua Maestà, come purtroppo e troppo spesso fanno altri suoi colleghi, tanto che si leggono provvedimenti di giudici che sono la fotocopia della richiesta della procura. In ogni caso la presidente del tribunale ieri mattina ha dichiarato la propria astensione, dopo che la corte d’appello di Catanzaro aveva accolto (con entusiasmo, viste le argomentazioni identiche a quelle della Dda) la proposta di ricusazione. Ma sono passati due mesi e nel frattempo il procuratore fremeva, scalpitava, aveva fretta, e ha portato in aula tutto il suo nervosismo, senza alcun timore di apparire scorretto, tanto è abituato agli inchini di (quasi) tutti. Ma ieri ha veramente tracimato, non solo perché ha quasi portato alle lacrime una giudice con reputazione da dura, ma anche per qualche insinuazione che dovrebbe essere portata al vaglio del Csm. In sintesi, nel rimproverare la presidente Macrì di avergli fatto perdere del tempo non assecondandolo e non obbedendo alla sua (discutibilissima) richiesta di ricusazione, ha alluso al favore che “oggettivamente” questo ritardo avrebbe fatto alla ‘ndrangheta. Pare infatti – così avrebbe detto un pentito -, che ci sia stato un vertice, in questo periodo, in cui i capibastone avrebbero dato indicazione agli imputati di scegliere il rito ordinario (91 hanno già scelto l’abbreviato, quello che si svolge solo davanti al gup) per arrivare alla prescrizione dei reati. La giudice Macrì, per aver deciso di attenersi come sempre alle regole, avrebbe “oggettivamente” favorito la ‘ndrangheta? Un’accusa gravissima, di cui il procuratore Gratteri dovrebbe rendere conto all’organo di autogoverno dei magistrati, al Csm. Certo è che questa presidente non deve proprio essergli simpatica, probabilmente perché è molto autonoma. Anche rigorosa e riservata. Tanto che ieri ha vietato le riprese televisive del processo, fatto su cui hanno protestato i sindacati dei giornalisti. Questione spinosa, quando la necessità di salvaguardare la libertà di stampa e la pubblicità del processo può cozzare con la necessità di evitare che le aule di tribunale diventino baracconi delle vanità ed esibizione degli imputati come trofei, come animali da circo. Del resto il circo è già in piedi: 325 imputati, 600 avvocati, 224 parti offese (secondo la dda, perché in realtà si è costituita parte civile solo una trentina di loro) in una struttura di 3.300 metri quadri, lunga 103 metri. Tutta questa scenografia per un processo che tra l’altro non si celebra neppure in corte d’assise, visto che i tredici imputati di omicidio saranno giudicati a parte e altrove il prossimo 30 gennaio. Nulla a che vedere la giornata di ieri, dunque, con quella del 1986 in cui cominciò davanti a una giuria popolare il processo agli uomini di Cosa Nostra a Palermo. Deve essere anche per questo che il procuratore Gratteri, che anche ieri non si è sottratto, nonostante la sua proverbiale riluttanza, alle telecamere, sia pure all’esterno dell’aula, ha ribadito che ormai la mafia non spara più, ormai agisce più dentro le istituzioni che in montagna tra i pastori. Sarà anche vero, ma se si costruisce un’inchiesta che ha come collante solo la contestazione del reato di associazione mafiosa, bisogna anche essere in grado di dimostrare che il personaggio istituzionale che si vuole portare a processo sia soggettivamente consapevole, nella sua attività, di aver avuto a che fare con uomini d’onore. Fino a oggi al procuratore Gratteri e alla Dda in Calabria è andata malissimo. Tra derubricazioni, scarcerazioni e assoluzioni, ben poco è rimasto nel loro carniere, a parte la presenza nel processo di qualche avvocato come Francesco Stilo, che ieri i medici hanno consigliato di lasciare l’aula e andare a casa, viste le sue precarie condizioni di salute, che dieci mesi di carcere non hanno certo migliorato. Ma c’è un’altra questione procedurale che attende il procuratore Gratteri. Ci sono quattro imputati, di quelli della famosa “zona grigia” senza la quale tutto il teorema rischia di saltare, che si sono sottratti al processone e hanno chiesto il rito immediato. Cioè quello che consente, saltando la fase dell’udienza preliminare, di esser processati subito. “Immediato” vuol dire questo. E vuol significare anche la volontà di esser processati a parte, di non finire nel calderone di un maxiprocesso eterno nei tempi e ambiguo nella massa dei protagonisti. Al procuratore questa scelta non è piaciuta per niente. L’avvocato Giancarlo Pittelli, l’imprenditore Mario Lo Riggio, l’ex sindaco di Nicotera Salvatore Rizzo e l’avvocato Giulio Calabretta dovrebbero andare a giudizio in modi e tempi separati, anzi è già tardi, visto che la loro richiesta risale a qualche mese fa. La procura invece vuole la riunificazione con il maxi, e le ragioni sono chiarissime: può mai la zona grigia discostarsi da quella nera senza far crollare il teorema? Ma come la mettiamo con la necessità dell’immediatezza, che in un processo a parte e con solo quattro imputati sarebbe molto più veloce? Nell’udienza del 9 novembre scorso lo stesso tribunale presieduto dalla dottoressa Macrì ha deliberato per la fusione tra i due tronconi. La difesa con gli avvocati Stajano e Contestabile ha fatto ricorso su cui deciderà la corte di cassazione il prossimo 22 febbraio. Ma ci sarà anche un’altra decisione della suprema corte, perché i legali hanno impugnato anche la decisione della corte d’appello di Catanzaro sulla ricusazione del presidente Macrì. Insieme a lei ieri si sono astenute anche le due giudici laterali Brigida Cavasina e Gilda Romano, che avevano emesso qualche provvedimento nei confronti di indagati in qualcuno dei mille tentacoli del “Rinascita Scott”. Si attende ora la formazione del nuovo collegio per la prossima udienza del 19 gennaio. Poteva infine mancare, nel grande circo mediatico del processo la presenza, unica nel panorama politico, dell’onorevole Nicola Morra? Il presidente della Commissione bicamerale antimafia, dimentico del suo ruolo e senza pudore si è presentato con deferenza davanti al procuratore, poi ha dichiarato che con questo processo “si farà la Storia”. Con la S maiuscola. Ha già emesso la sentenza. A proposito della divisione dei poteri.

Il maxiprocesso. Processo Rinascita Scott, altri due giudici ricusati: manca un tribunale per Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Marzo 2021. Pare impossibile trovare un tribunale indipendente che possa giudicare il maxiprocesso di Nicola Gratteri. Prima era stata la stessa Dda a porre la questione dell’incompatibilità nei confronti della prima presidente designata Tiziana Macrì. E la ricusazione era stata fatta propria dalla corte d’appello di Catanzaro. Ora sono gli avvocati, un bel gruppetto di dieci, a ricusare altri due giudici del collegio per una questione sostanziale. Il giudizio della sentenza “Nemea” è un’anticipazione di convincimento su “Rinascita Scott”. L’avvocato Francesco Stilo, ancora ai domiciliari nonostante le gravi condizioni di salute, ha preso la parola personalmente, anche per lamentare le difficoltà a sottoporsi a visite specialistiche. Ma soprattutto per indignarsi per esser sempre sospettato di essere un “messaggero” di informazioni tra mafiosi. E di vederlo scritto da magistrati che dovrebbero non avere pre-giudizi. L’attuale presidente Brigida Cavasino e una delle giudici laterali Gilda Danila Romano, avevano emesso, insieme a Tiziana Macrì, la sentenza del processo “Nemea”, che era stato una sorta di antipasto del maxiprocesso in corso nella aula bunker di Lamezia. E che era stato uno dei più colossali flop dell’ipotesi dell’accusa, con 8 assoluzioni su 15 imputati e le condanne dei restanti dimezzate rispetto alle richieste della Dda. Le motivazioni della sentenza, depositate nei giorni scorsi, sono molto esplicite nello sconfessare alcune deposizioni dei pentiti: chi è stato assolto (e scarcerato) non aveva proprio commesso i reati di cui era stato accusato. Cioè non c’entrava niente. Tutta questa vicenda, che pare intricata ma in realtà ha profili di politica giudiziaria molto netti, ha molto a che vedere con il sogno del procuratore Gratteri di diventare il Falcone di Calabria. E anche di purificare la sua regione (per poi ricostruirla “come un Lego”) tramite un grande processo, derivato da due blitz del 2019 e 2020, “Rinascita Scott” e “Imponimento”. I primi arresti avevano poi subìto scremature da parte di diversi organi giudicanti, inoltre gli imputati avevano scelto diverse opzioni processuali, anche se poi è capitato per esempio all’avvocato Giancarlo Pittelli, che aveva deciso per il processo immediato, di ritrovarsi “ritardato” e gettato nel pentolone del rito ordinario, iniziato nello scorso gennaio. Il processo “Nemea” era una costola di “Rinascita Scott”, le motivazioni della sentenza lo dicono esplicitamente, anche per la concomitanza di alcuni imputati nei due processi. Tiziana Macrì era la presidente del tribunale, Brigida Cavasino e Gilda Danila Romano le due giudici laterali. Il problema si era posto fin dalle prime battute del maxiprocesso. Qualche giornale calabrese ne aveva parlato, prendendo di mira in particolare la presidente Macrì, una giudice molto stimata e poco condizionabile. Il tribunale si era comunque insediato. Ma era successo qualcosa di strano. All’improvviso, durante le vacanze di natale, la Dda aveva ricusato la presidente (e solo lei), ma non per il processo “Nemea”, ma per una questione formale su cui differenti sezioni della corte di cassazione avevano dato pareri discordanti. E cioè per aver firmato, nel suo precedente ruolo di gip di Catanzaro, la proroga di un’intercettazione. La corte d’appello aveva confermato: fuori Macrì, ma dentro le altre due giudici. È stata la lettura delle motivazioni con cui le tre giudici avevano emesso la sentenza “Nemea” a far scatenare gli avvocati, che leggevano in quelle pagine non solo i nomi dei propri assistiti, ma anche la definizione di “unico disegno criminoso” nei fatti ricostruiti nei due processi. Un unicum, insomma. E pre-giudizi che impediscono alla prova di formarsi in aula, come vuole il codice di procedura. 

Giustizia, il "pensiero" Gratteri divide l'Italia: dalle critiche nell'Anm all'ipotesi promozione. Saverio Puccio su Il Quotidiano del Sud il 15 marzo 2021. Centinaia di arresti, inchieste capaci di sfondare il muro dell’omertà fino a chiamare in causa, per la prima volta in maniera determinante, quei “colletti bianchi” che hanno da sempre condizionato le scelte politiche ed economiche della Calabria, fino a svelare quella connivenza politico – massone – ‘ndranghetista che era rimasta troppe volte sottaciuta. Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, è al centro di questo “nuovo corso” della giustizia. Un progetto iniziato con il suo insediamento alla guida della Procura di Catanzaro, il 16 maggio 2016, e alimentato giorno per giorno come un fiume in piena. Un lavoro che ha toccato diversi nervi scoperti e che registra reazioni contrastanti. Da un lato, infatti, c’è una sorta di “animale ferito” che scalcia davanti alle inchieste giudiziarie del procuratore che, proprio per il suo lavoro, è entrato nella cinquina del Win Win Gothenburg Sustainability Award, un “premio Nobel” della sostenibilità che viene conferito in Svezia. Un riconoscimento internazionale per l’impegno nella lotta alla ‘ndrangheta e alla corruzione. Eppure, in questo contesto, gli attacchi nei confronti del magistrato più esposto d’Italia non mancano. L’ultima discussione animata è arrivata addirittura nella riunione del Comitato direttivo centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati. Il tema, come evidenziato dall’edizione online di Repubblica, doveva essere quello del sostegno ai magistrati antimafia, ma in poco tempo si è trasformato in un tentativo di critica allo stesso Gratteri. Ad alimentare la discussione sono state Area e Unicost, la prima è la corrente considerata più a sinistra, la seconda fa capo al gruppo dei moderati. Il documento, alla fine, ha completamente diviso il Comitato direttivo, al punto da registrare diciotto voti a favore e diciotto contrari. Documento respinto e polemica aperta.

Il testo del documento Anm. Secondo quanto scritto da Repubblica, che riporta alcuni passaggi del documento anti Gratteri, i passaggi sono chiari: «È necessario che le parti e, in particolare, la pubblica accusa evitino esternazioni che possano turbare la serenità del giudizio o che, peggio, alludano a pregresse, quanto generiche, disfunzioni dell’attività giurisdizionale, specie quando l’esito delle iniziative procedimentali non coincida con le proprie aspettative». E ancora: «Il ruolo dell’ufficio di procura, non solo nella dinamica procedimentale ma, specialmente, nelle comunicazioni con i media, deve continuare a essere quello di primo garante dei principi costituzionali (e, in particolare, di quello di non colpevolezza) e della tutela del giudice indipendente, naturale conseguenza del pieno inserimento del pubblico ministero nel corpo della magistratura». Ed ancora: «Tutti gli attori devono porre attenzione alle dinamiche processuali evitando di proiettare all’esterno, specie nelle comunicazioni con i media, il confronto che solo in quel luogo deve essere utilmente e correttamente svolto». Il nome di Gratteri non era mai direttamente espresso, ma i riferimenti era scontati.

Il precedente. A gennaio scorso, quindi appena due mesi fa, era stata Magistratura Democratica (LEGGI) a bocciare le parole del procuratore dopo l’operazione “Basso Profilo”: «Non crediamo che la comunicazione dei Procuratori della Repubblica – aveva affermato l’esecutivo di MD – possa spingersi fino al punto di lasciare intendere che essi siano gli unici depositari della verità, e di evocare l’immagine del giudice che si discosti dalle ipotesi accusatorie come nemico o colluso», In questo caso, a gettare acqua sul fuoco delle polemiche era stato anche il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Giuseppe Santalucia.

Le ipotesi di “promozione”. Eppure, proprio in questi giorni, il nome del procuratore Gratteri è stato anche affiancato a due importanti ruoli: possibile nuovo procuratore di Milano oppure procuratore nazionale antimafia. In entrambi i casi, sarebbe una nomina di livello nazionale che, occorre dirlo, toglierebbe però allo stesso Gratteri la Procura di Catanzaro che il magistrato è riuscito a rifondare con il suo arrivo.

Un nuovo attentato. E che il periodo possa essere particolarmente complesso per il procuratore Gratteri, lo dimostrano anche le ultime intercettazioni, rese note meno di un mese fa. Nel corso dell’inchiesta “Kossa” sarebbe infatti emerso un progetto delle cosche cosentine di colpire il magistrato (LEGGI) che guida la Direzione distrettuale antimafia. Progetto mai andato in porto, ma che dimostra, qualora ve ne fosse bisogno, le “antipatie trasversali” del procuratore. Intanto, in questo clima convulso e lacerato, Gratteri non si ferma e continua a portare a termine un infinito numero di arresti, come mai era accaduto in Calabria. Difendendo i suoi principi con caparbietà, tra i quali anche l’assoluta valenza del carcere duro del 41bis, e portando avanti il processo “Rinascita Scott” che rappresenta il più grande simbolo di questa lotta incessante alla ‘ndrangheta.

Dagospia il 19 marzo 2021. Intervista esclusiva (di Antonello Sette) all’avvocato Federico Tedeschini, già docente di Diritto Pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma.

Professor Tedeschini, partiamo dalla strettissima attualità. La Corte europea ha circoscritto il ricorso alle intercettazioni solo ai casi più gravi. E’ la fine di un abuso?

C’è molto di più rispetto a quello che lei mi dice. La Corte europea, ha stabilito, una volta per tutte, senza possibilità di diverse interpretazioni, che l’utilizzo delle intercettazioni deve essere autorizzato solo da un giudice e non dal pubblico ministero, che difende per sua natura i diritti dell’accusa. Sinora, nella stragrande maggioranza dei casi avveniva esattamente il contrario, con l’abusata scusa dell’urgenza.

L’abuso delle intercettazioni da parte dei pubblici ministeri è anche frutto di quel corto circuito malagiustizia-informazione che lei ha più volte denunciato senza mezzi termini…

Io penso che i grandi problemi della giustizia italiana, non solo di quella penale, derivino dal consolidamento di un pactum sceleris fra i mezzi di informazione e i magistrati, intesi come un potere dello Stato rappresentato soprattutto dal Csm. Un patto scellerato in base al quale, in cambio della fornitura, a richiesta, di scoop e notizie della più varia natura, la stampa nasconde le inefficienze e gli errori, spesso drammatici, di tutto il sistema giudiziario. Inefficienze che, per quanto riguarda il diritto penale, nascono soprattutto dalla confusione che si fa nell’ambito della magistratura tra pubblico ministero e giudice.  E non c’è dubbio che la scelta della Corte europea di riservare al giudice l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni, apra uno squarcio di luce e di aria pulita su una deriva barbarica. E’ stato, infatti finalmente chiarito che il pubblico ministero non è un giudice. E’ solo una parte del processo.

A proposito di corto circuito giustizia-informazione è di strettissima attualità anche lo scalpore per il processo calabrese “Rinascita Scott” contro alcune cosche della ndrangheta, celebrato, prima ancora di iniziare, su Rai Tre, nel programma Presadiretta…

Sul processo in corso non mi pronuncio. E’, però, inquietante che, altri non abbiano ritenuto di osservare altrettanto silenzio. In un processo contro trecento persone, molti imputati sono finiti in carcere e successivamente la maggioranza di loro è stata liberata, nel silenzio dei media, dalla Corte di Cassazione. Si sbattono i mostri in prima pagina. Poi si scopre che mostri non erano, ma è troppo tardi, perché per l’opinione pubblica restano per sempre i mostri che erano descritti sui titoli dei giornali. Questa consolidata barbarie riguarda non solo “Rinascita Scott”, ma un’infinità di altri processi. E’ di strettissima attualità anche il caso dei manager dell’Eni. Per anni, molti giornali hanno promosso le loro vendite sul cosiddetto scandalo della corruzione internazionale per le tangenti, che sarebbero state riscosse in Nigeria. Ora si è accertato, una volta per tutte, che quelle tangenti erano un’invenzione. Mi domando chi risarcirà le persone colpite e affondate a livello mediatico. Io non dico che la giustizia non debba fare il suo corso, ma la gogna mediatica, per di più preventiva, è una vergogna inaccettabile in un Paese civile.

Tornando a Rinascita Scott, le pare ragionevole che un programma televisivo di grande ascolto dia quasi tutto lo spazio all’accusa e quasi nessuno alla difesa, contrabbandando le tesi dell’accusa come delle verità, senza ricordare che quelle verità devono essere ancora accertate nel processo.

Con l’aggravante che l’evento mediatico in questione è stato celebrato da un’emittente che dovrebbe per sua natura svolgere un servizio pubblico. In un Paese civile avrebbero già mandato a casa i vertici della Rai. C’è stato, invece, un sostanziale silenzio generale, a partire dalla Commissione di Vigilanza, salvo qualche intervento spot che lascia il tempo che trova. E’ tutto un sistema incompatibile con le regole europee sulla tutela delle libertà fondamentali. Dobbiamo decidere, una volta per tutte, se noi nel processo ci crediamo o no. Se decidiamo di non crederci, basta abolirlo. Le verità dell’accusa non sono ancora la verità processuale. Oltretutto, una volta sbandierate sui giornali, creano un clima di legittima suspicione, perché tutti quelli chiamati a giudicare saranno stati nel frattempo condizionati da quello che hanno letto sui giornali. Lo squilibrio fra accusa e difesa viola palesemente l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Del rapporto perverso fra i pubblici ministeri, giornali e tv ha parlato anche Luca Palamara nel libro-intervista di Alessandro Sallusti, da tempo in testa a tutte le classifiche di vendite. Ha letto il libro?

Un testo di contenuto tecnico, che viene stampato in trecentocinquantamila copie, è diventato un contraltare alla grande stampa. Io vi leggo, innanzi tutto, la prova dell’’abbandono da parte del nostro sistema di quel fondamentale principio, secondo cui l’esercizio del potere implica sempre una responsabilità. Un principio di civiltà giuridica, che vale per tutti, meno che per i magistrati. Ci sono state molte indignate smentite, qualche querela, ma nulla di più. Il libro è servito a spiegare agli italiani quello che la stampa non aveva neppure accennato. Gli italiani hanno potuto capire che il sistema giudiziario ha tutti difetti di un sistema politico. Con una differenza non da poco. I politici, se esagerano, non vengono rieletti. I magistrati restano, invece, in ruolo.

La tanto invocata e mai realizzata riforma del Csm potrebbe essere utile?

Lo dicono tutti, anche quelli che vorrebbero mantenerla così come è. Sarebbe necessaria perché si potrebbe rompere il sistema delle correnti. Qualcuno dovrebbe spiegarmi come quel sistema sia compatibile con il principio della certezza del diritto. Come può un giudice dispensare serenamente giustizia se appartiene a questa o a quella corrente portatrice di interessi diversi da quelli delle altre?

Che cosa l’ha fatta più arrabbiare?

La stessa cosa. Da sempre. Non accetto che i cittadini siano in balia dei pubblici ministeri, e anche purtroppo dei Tribunali della Libertà, senza potersi in alcun modo difendere. Uno stato di soggezione, prostrazione e frustrazione, incompatibile con il sistema disegnato dalla Corte europea dei diritti dell’umo. Ma ci stiamo arrivando.

A che cosa stiamo arrivando?

A renderci finalmente conto, nonostante il contributo nullo della grande stampa, della necessità di riformare il nostro sistema per renderlo uguale a quello degli altri Paesi europei. Una delle condizioni, imposteci dall’Europa per l’accesso al Recovery Fund, è la riforma della giustizia. E, anche a questo proposito, la stampa omette di scrivere che l’Europa vuole una giustizia non solo efficiente, ma soprattutto “giusta”. La giustizia italiana non è una giustizia garantista. E’ sotto gli occhi di chi voglia vedere. Oltre che guardare.

La giustizia che confonde la questione morale con la questione penale. Lunedì scorso nella trasmissione “Presa Diretta”, su Rai3, per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro, nel quale sono imputate oltre 400 persone. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 20 marzo 2021. Nella settimana nella quale il lungo processo all’Eni e in particolare a Scaroni e a De Scalzi, accusati della corruzione più scandalosa del secolo scorso, si conclude con l’assoluzione piena perché il fatto non sussiste, la Rai organizza una trasmissione in prima serata per anticipare il processo che è cominciato a Catanzaro da pochi giorni per oltre 400 imputati. Nella trasmissione televisiva tutti gli imputati sono stati dichiarati colpevoli a prescindere dalla conclusione del processo che avverrà fra molti mesi. Le notevoli sentenze che si sono concluse e si concludono con l’assoluzione dell’imputato non sono in grado di turbare la stampa e la Rai, che calunniano ed espongono al pubblico ludibrio persone in attesa di provare la propria innocenza. Aggiungo che quando la sentenza statuisce che il fatto non esiste, significa che il processo era pretestuoso, non doveva essere fatto: è il caso dell’ultima sentenza dell’Eni, ente prestigioso nel mondo che è stato sottoposto per lunghi anni a denigrazioni di ogni tipo. Come è possibile che un Paese che ha solide tradizioni giuridiche come l’Italia sia caduto così in basso e con l’indifferenza dei più, si calpesti diritti fondamentali, ma anche principi elementari di educazione, di rispetto per le persone?! Proviamo a dare una risposta. Assistiamo da anni allo scontro tra garantisti e giustizialisti con polemiche vivaci ma alla fine si scopre che ognuno è alternativamente garantista e giustizialista a seconda dei propri interessi personali. È la questione morale che viene invocata e al tempo stesso dimenticata. Negli anni 70 è stata posta in maniera forte e drammatica la “questione morale“ come problema sociale e istituzionale: lo fece per primo Enrico Berlinguer in presenza della crisi del comunismo sovietico per dare una linea politica al suo partito e per riscattarlo dai soprusi e dai finanziamenti sovietici. Invocò questa scelta giusta senza denunziare i “peccati” del Pci, solo per contestare il potere dei partiti della maggioranza che in quel periodo governavano. E la “questione morale” divenne prontamente “questione penale” e la magistratura, con le modalità ormai note, si impegnò a processare il “sistema” più che a indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili. Il giudice, nonostante le innumerevoli sentenze di assoluzione, che pur vi sono state, ha acquisito le caratteristiche del giudice etico che condanna il male per far vincere il bene! Siccome in Italia il giudice viene confuso con il pubblico ministero è quest’ultimo l’angelo vendicatore del malcostume: questo il messaggio che il servizio pubblico trasmette. Il confondere la “morale” con il “penale“ costituisce l’equivoco più deleterio per la comunità e per le istituzioni perché permette di “consentire” ma al tempo stesso di “criminalizzare” qualunque comportamento non trasparente o non opportuno! La Rai trasgredisce la questione morale in tutti i suoi aspetti, riservatezza, obbligo di informazione corretta sostenuta da prove che valgono anche fuori dal processo.Nel vecchio processo penale italiano il pm istruiva il processo inquisitorio nel senso che raccoglieva le “prove” e portava il suo elaborato al giudice; nella concezione del “nuovo” (si fa per dire!) processo accusatorio il pm è dominus dell’accusa, ma gli indizi che raccoglie, debbono diventare “prove” nel contraddittorio, dinanzi al giudice. La dialettica processuale individua il pm come “parte” e dà rilevanza al giudice “terzo”, al di sopra delle parti. Nella pratica quotidiana avviene in maniera profondamente diversa da come il codice stabilisce. E la Rai servizio pubblico che dovrebbe rispondere alle leggi dello Stato e alla Costituzione, ma dovrebbe soprattutto rispondere alla legge morale che è il presupposto di qualunque ordinamento, tiene conto solo degli indizi ricercati dal pm e li fa diventare prove nella trasmissione. Dunque lunedì scorso nella trasmissione Presa Diretta per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro e credo si sia superato qualunque limite. Il processo ha un suo valore sociale e questo dovrebbero saperlo paradossalmente più i pm che i giudici, perché il dibattito in tribunale deve essere finalizzato a far diventare prova gli indizi, i sospetti che hanno consentito l’indagine con i provvedimenti relativi. È il cittadino singolo e la società nel suo insieme che sono interessati e rendere giustizia e la democrazia si invera in questo rapporto istituzionale. D’altra parte questo accanimento a colpevolizzare le persone prima di un giudizio terzo non si comprende se non con il dilagare di un populismo penale irrazionale e pericoloso e soprattutto rancoroso. Nessuna democrazia al mondo può supportare una ferita così grave come questa, di fronte alla quale non si può assistere inerti. Il governo che negli anni scorsi ha voluto garantirsi una presenza consistente nella Rai, deve dare direttive per far applicare la Costituzione, e il Parlamento deve controllare che non ci sia una informazione distorta che allarmi il cittadino e renda un imputato colpevole prima del sacrosanto processo di cui ha diritto. Il signor Riccardo Iacona conduttore della trasmissione così come gli altri conduttori dovrebbero prendere atto di tutte le sentenze che scagionano i presunti colpevoli che in precedenza avevano abbandonatemene offeso. Aggiungo per ultimo che in particolare nella trasmissione di lunedì si è intervenuto in una problematica delicatissima costituita dal rapporto tra l’avvocato e il suo cliente che è l’anima del processo perché il diritto di difesa è sacrosanto e costituzionalmente garantito, e dunque l’onorevole avvocato Giancarlo Pittelli è stato offeso e calunniato. Ho ricordato tante volte una mia proposta di legge, mai approvata, volta a tenere segreto il nome del giudice e in particolare del pm, per tutelarli e metterli appunto al riparo da reazioni sconsiderate, ma anche da critiche ingiuste a cui a volte sono sottoposti. Se ci fosse questa legge il protagonismo dei pm, inevitabile per la umana debolezza, non alimenterebbe processi farlocchi in tv e il procuratore Gratteri, pm nel processo di Catanzaro, sarebbe maggiormente rispettato. Un appello al ministro della Giustizia che ha i poteri per evitare i processi in tv.

La lettera di un giudice ai colleghi. Colleghi magistrati, i processi non fateli in TV come Gratteri. Emilio Sirianni su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Emilio Sirianni è un giudice che da sempre vive e lavora in Calabria. Nei giorni scorsi, dopo la messa in onda di “Presa Diretta” (la trasmissione Tv della quale è stato protagonista il Procuratore Gratteri), ha scritto una lunga mail ai suoi colleghi. La mail è stata pubblicata ieri su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica. Ne pubblichiamo amplissimi stralci. Ero indeciso se scrivere di nuovo sull’argomento. La sensazione di inutilità, di prendersela contro i mulini a vento è forte, come pure la voglia di dire “ma chi me lo fa fare”. Però, in questo Sud io ci sono nato e ci vivo, l’oppressione e pervasività di “quel” potere le conosco bene e conosco bene la rassegnazione alla sconfitta. E relativi volti. Quelli di chi, letteralmente, ti rappresenta la fine della vita tua e di chi ti è vicino, pur non facendolo in modo esplicito, ma sempre con ragionamenti ellittici, dal suono amichevole persino e proprio per questo più terrorizzanti. Quelli di quanti stanno dietro o a fianco ai primi, ma mai nei luoghi della gente normale e che indossano toghe, siedono in c.d.a., presiedono enti, casse, partiti, fondazioni, frequentano le stanze di compensazione degli interessi che contano e decidono le sorti di queste terre da generazioni. Infine quelli dagli occhi bassi e i pugni stretti, che mordono le labbra e cedono e cedono e pare non debbano mai smettere di farlo. Ma io sono in grado di comprendere e svelare, per il mestiere che faccio e, proprio perché conosco quei volti, sento di dover continuare a parlare. (…) Su Rai3, nella trasmissione Presa diretta, si è parlato del noto processo Rinascita-Scott, che proprio in questi giorni muove i primi passi nella nuovissima aula bunker costruita in tempo record a Lamezia Terme. (…) Sento il bisogno di dire quanto questa riflessione mi costa. Mi costa molto, per tante ragioni che prima ho solo accennato. Perché ho riconosciuto nei molti filmati dei ROS i volti di cui dicevo. Perché ho riconosciuto, nelle parole intercettate, parole che mi suonano in testa e mi pesano sul cuore da una vita. Di più, mi costa molto perché, da tecnico, ho ben percepito –come chiunque di voi abbia visto la trasmissione- il valore e l’importanza di quegli elementi di prova. Il loro peso dirompente laddove vanno a incidere l’empireo degli intoccabili, squarciando la pesante coltre dietro cui si nascondono. Mi costa moltissimo perché sento sulla mia pelle la rabbia e il dolore di quei genitori che hanno perso i figli per mano di un potere criminale, di tutte quelle donne e quegli uomini che manifestavano a sostegno dell’indagine sotto le finestre dei carabinieri all’indomani degli arresti, invocando finalmente giustizia. Ma al tempo stesso, proprio per questo, non posso tacere. La stampa – lo sappiamo bene – fa il suo mestiere. Cerca notizie d’interesse pubblico e le diffonde e il valore di un giornalista si misura sulla sua capacità di trovare le notizie e sulla capacità di esporle. Il giornalista di cronaca le scova muovendosi fra segreti istruttori e fasi di discovery, fra prove nascoste e prove esibite, fra indiscrezioni carpite e indiscrezioni fatte filtrare. Del resto anche la polizia giudiziaria e gli organi inquirenti fanno il loro di mestiere. Cercando prove, custodendole gelosamente, coltivandole affinché, al momento giusto, germoglino e diano frutti. Ma anche in questo caso, in un gioco di specchi e di parti che è antico quanto il processo stesso, praticando sovente l’arte dell’indiscrezione veicolata e del consenso. Spesso utili anche per le sorti delle ipotesi d’accusa, ma altrettanto spesso per quelle delle carriere personali. In America ci hanno costruito, da sempre, un genere letterario e cinematografico che non conosce crisi. Nella trasmissione di ieri, però, abbiamo assistito ad una sorta di smascheramento. Tutto si è svolto alla luce del sole anzi sotto la luce delle telecamere. Negli studi televisivi ed in esterni, letteralmente sul luogo del reato. Niente segreti pazientemente carpiti o sapientemente filtrati nell’ombra del lavoro d’indagine giornalistica od investigativa, ma ufficiali dei carabinieri che illustrano il contenuto di intercettazioni telefoniche e video, indicano i luoghi in cui si sono appostati per eseguire le riprese, illustrano le storie criminali dei vari protagonisti e gli organigrammi delle rispettive cosche. E in alto su tutti, ovviamente, l’Inquirente. Tralasciamo gli aspetti personali che ognuno è libero di valutare come meglio crede. Penso ai reiterati riferimenti a concetti quali “codardia/vigliaccheria” o ai dialoghi interiori con compagna morte (intervista alla Gazzetta del Sud del 16 marzo). Quel che mi allarma, e che dovrebbe allarmare tutti, è che, proprio alla vigilia di un delicatissimo processo, si ritenga normale che il pubblico ministero partecipi, in veste di protagonista assoluto (pur se affiancato, come detto, da spalle di prim’ordine), al processo mediatico-televisivo che precede e affianca quello che s’avvia nell’aula bunker. Un processo nel quale tre giovanissime colleghe, che assieme non arrivano a sommare 10 anni di anzianità, dovranno affrontare, oltre all’ordinaria pressione che accompagna un processo di queste dimensioni e complessità anche la pressione mediatica, enorme, che una delle parti processuali oggettivamente contribuisce a determinare. So che sapranno farlo, che resistere a simili pressioni è la parte di bagaglio professionale che alle nostre latitudini si acquisisce più celermente, ma è giusto ed accettabile che ciò accada? Infine, noi, che siamo cresciuti alle lezioni di garantismo di Luigi Ferrajoli e di tanti altri maestri, abbiamo fermo in mente il loro insegnamento che ci ricorda come il soggetto da tutelare nel processo penale sia sempre l’imputato, a difesa dei cui fondamentali diritti sono predisposte tutte le regole e garanzie che ne scandiscono l’incedere. La prima delle quali è quella che stabilisce che la prova si forma nel processo. Non nelle indagini ed ancor meno nella rappresentazione mediatica delle stesse. Una regola, questa, che esprime anche un fondamentale principio epistemologico del processo penale accusatorio, che individua nel contraddittorio e nella dialettica paritaria tra le parti del processo il miglior criterio per giungere all’accertamento della verità. Ed a me, a noi tutti che in queste terre disgraziate ci troviamo o abbiamo scelto di vivere, quello che interessa, prima d’ogni altra cosa, è la verità. Per questo, principalmente, vorrei invitare chiunque indaghi sulla criminalità mafiosa, con toga sulle spalle o stellette sul petto, a non arruolarsi in quella guerra che il Procuratore Gratteri ha evocato in TV, continuando, molto più banalmente, a fare ciascuno la cosa più difficile: il proprio mestiere.

Iacona con Presa diretta ha fatto disinformazione, il giornalismo d’inchiesta è cosa seria. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 21 Marzo 2021. La Rai ha reagito duramente, per bocca del suo Amministratore Delegato Salini, alle veementi proteste che in particolare l’Unione delle Camere Penali ha indirizzato alla trasmissione Presa Diretta, condotta su RAI 3 dal giornalista Riccardo Iacona, dedicata alla indagine “Rinascita Scott” della Procura di Catanzaro. Secondo Salini, si tratta di un fulgido esempio di servizio pubblico, e di un giornalismo d’inchiesta del quale andare fieri. Il dott. Iacona a sua volta si è polemicamente rivolto al sottoscritto, chiedendo se per caso io sia dell’idea che i giornalisti possano interessarsi di una inchiesta giudiziaria solo dopo la sentenza definitiva. Entrambe le reazioni sono frutto di una speculazione retorica e polemica che elude il tema che abbiamo posto. Vediamo subito perché.

1. La trasmissione andata in onda non ha nulla del cosiddetto “giornalismo di inchiesta”. Il dott. Iacona e la sua redazione hanno semplicemente e comodamente preso visione degli atti di quella indagine, evidentemente messi a disposizione dalla Procura o dalla Polizia Giudiziaria, e confezionato in modo del tutto unilaterale una sintesi degli elementi di prova (intercettazioni e video riprese, in modo particolare) ritenuti più significativi ed efficaci in termini accusatori. Peraltro, l’adesione della narrazione al punto di vista accusatorio è manifesta.

2. Ciò avviene nello stesso momento in cui ha inizio il processo davanti al Tribunale di Catanzaro. Nel processo penale quegli atti sono ignoti al Tribunale, al quale è fatto divieto di conoscerli se non mediante la eventuale e futura acquisizione degli stessi in dibattimento, in contraddittorio tra le parti, dunque valutate e superate eventuali eccezioni difensive sulla loro utilizzabilità e legittimità, e valutati altresì i contributi difensivi (peritali, testimoniali, documentali) che ne contestino il significato probatorio. Si chiama “verginità cognitiva del Giudice”, garanzia imprescindibile della terzietà ed indipendenza del suo giudizio. Quale fine essa abbia fatto, grazie al nostro “giornalismo d’inchiesta”, è superfluo dirlo.

3. L’idea che intercettazioni, videoriprese e dichiarazioni accusatorie o apparentemente confessorie rechino in sé il crisma della oggettività è una delle più indecenti ipocrisie del giornalismo nostrano. Non facciamo altro nei processi, quotidianamente, che constatare – come è d’altronde perfettamente ovvio- che il significato di una conversazione o di una immagine sia destinata a confermarsi o invece a radicalmente trasfigurarsi alla luce, per esempio, di un’altra precedente o successiva. Qualunque conversazione, decontestualizzata o indebitamente contestualizzata, muta del tutto il proprio significato. Allo stesso modo, se mostro un filmato deprivato del suo sonoro (come esattamente accaduto in trasmissione), e lo faccio seguire da altra scena che però non è pertinente alla prima, sto confezionando una rappresentazione arbitraria e falsificata di quell’evento. La valutazione del significato di quelle immagini, così come la legittimità della scelta di quali rappresentare e quali no, non può che spettare alla sua sede naturale, cioè al processo ed ai suoi giudici, non certo alla redazione di una trasmissione televisiva, per di più palesemente partigiana a favore dell’organo dell’Accusa.

4. Lo stesso vale per la prova dichiarativa: se si riportano le dichiarazioni accusatorie ed autoaccusatorie di uno dei protagonisti della indagine, tacendo che già un Giudice (non un PM: esistono anche i Giudici) le ha qualificate come non attendibili, si opera una scelta deliberata di falsificazione del flusso informativo su quei fatti. Ancora una volta, ecco la ragione per la quale si tratta di materiale necessariamente riservato in via esclusiva al vaglio dibattimentale.

5. Se si informa la pubblica opinione – con toni apertamente elegiaci – di una indagine giudiziaria, accuratamente nascondendo gli oltre 140 provvedimenti di annullamento e revoca (spesso per “insussistenza del fatto”) di misure cautelari già pronunciati nel corso di essa, si fa una consapevole attività di disinformazione.

6. A proposito di “giornalismo di inchiesta” e di servizio pubblico: come mai non c’è verso di vedere, nemmeno per sbaglio, una puntata sui 140 indagati ingiustamente arrestati, detenuti ed infangati in questa, come in altre indagini precedenti di segno analogo? Poi, per carità, dott. Salini, ognuno ha la sua idea di cosa sia il servizio pubblico. Io di certo non apprezzo la Sua.

Affari d’oro coi falsi ‘ndranghesti in Tv. La procura di Milano che indagato un giornalista spagnolo accusato di aver confezionato e venduto un falso reportage sulla ndrangheta per quasi mezzo milione di euro. Il Dubbio il 26 marzo 2021. Che con la 'ndrangheta si fanno affari, era noto da tempo. Quello che era meno noto, ma in fondo neanche troppo, è la capacità di vendere il “prodotto” ndrangheta. La notizia arriva dalla procura di Milano che indagato un giornalista spagnolo accusato di aver confezionato e venduto  un reportage falso. Era stato presentato come una inchiesta esclusiva nel cuore della criminalità organizzata italiana, con interviste a esponenti della ‘Ndrangheta e rivelazioni dei diretti interessati. I carabinieri e la Procura di Milano ritengono invece che fosse tutta una finzione il programma “Clandestino”, realizzato dal giornalista spagnolo David Beriain e trasmesso da canale Nove nel novembre 2019. Un progetto costato 425mila euro. Ieri mattina la Procura ha emesso un avviso di conclusione delle indagini preliminari e ha indagato quattro persone per truffa in concorso. Il canale, che risulta parte offesa, è stato indotto a credere che il reportage – come scrivono i carabinieri – “contenesse fatti realmente accaduti, filmati da reporter infiltratisi sotto copertura, rivelatisi invece frutto di una recita ad opera di attori appositamente scritturati”. Le indagini sono partite grazie a un militare della compagnia Porta Magenta che durante la visione del programma si è accorto che un palazzo indicato come raffineria di cocaina a Milano, in realtà era un semplice condominio dove non c’era alcuna irregolarità. Tra gli indagati c’è un italiano di 53 anni, pregiudicato per reati di corruzione, favoreggiamento, accesso abusivo a sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio. Nel suo caso il provvedimento è stato notificato dalla compagnia carabinieri di Marcianise (Caserta). Destinatari anche il giornalista 43enne Beriain e i due responsabili di una società di produzione di documentari che vivono in Spagna, una 43enne e un 33enne.

Tansi: “Camere Penali contro Iacona? In Calabria è normale: si attacca chi denuncia, non chi delinque. Ma assordante è silenzio politica”. Danilo Loria il 18 Marzo 2021 su strettoweb.com. “Un attacco strumentale, che va ben oltre il libero diritto di critica di uno qualunque dei telespettatori paganti di una produzione televisiva del servizio pubblico garantito dalla Rai. Mi riferisco, come ovvio, a quanto l’Unci Calabria, vale a dire l’articolazione territoriale delle Camere Penali, ha sostenuto attraverso un comunicato ufficiale diramato a tutti gli organi di stampa, tuonando contro l’approfondimento giornalistico sullo storico primo maxi-processo alla ‘ndrangheta denominato Rinascita-Scott, proposto da Riccardo Iacona nell’ormai notissima Presadiretta lunedì scorso secondo la stessa Unci lesivo del diritto alla difesa degli imputati”, è quanto scrive in una nota Carlo Tansi. “Una posizione, quella assunta dalle Camere Penali calabresi –sottolinea Tansi- che francamente non sta in piedi, considerato come per un procedimento di tali dimensioni e così sfaccettato, con centinaia di presunti colpevoli alla sbarra, diventa impossibile creare una qualche forma di condizionamento di natura mediatica della Corte giudicante. E a riguardo mi permetto di ricordare, pur non essendo un tecnico della materia, che qui non si sta ad esempio parlando dei delitti di Erba, Cogne o Avetrana, con uno o al massimo due imputati e un numero imprecisato di talk-show interamente dedicati al tema con tanto di plastici illustrativi ed esperti consulenti nei vari studi televisivi intenti a spaccare il capello in quattro e ad analizzare apparenti prove e indizi come fossero sì, davvero, dei periti in un’aula di Giustizia. Nell’occasione di Presadiretta si discute infatti di ben altro, ossia di uno squarcio coraggiosamente aperto su un mondo blindato, impenetrabile, protetto a ogni livello ovvero quello della più potente consorteria criminale del mondo. Fatto che va molto oltre al medesimo processo Rinascita-Scott, assumendo peraltro una valenza altissima secondo il principio sancito dall’art. 21 della Costituzione mediante cui i nostri Padri Costituenti hanno tutelato la libertà di espressione e informazione. Iacona ha dunque scoperchiato il Vaso di Pandora, illuminando il tenebroso sottobosco in cui si saldano gli interessi perversi di vecchi boss ancora degni del Padrino, e simbolicamente legati a coppola e lupara, quasi fossero ‘chiddi cu i peri incritati’ tipo Riina e Provenzano; nuovi famelici capibastone più affaristici e intraprendenti; insospettabili colletti bianchi al completo servizio in cambio di fiumi di denaro da parte dei vertici delle varie ‘ndrine; appartenenti alle forze dell’ordine corrotti e alcuni di quei ‘bravi cittadini’ a disposizione del Sistema in cerca di utilità di qualsivoglia genere. Una Malapianta che cresce infestando una foresta sana e drogando l’economia e la società di una regione altrimenti fra le più belle d’Italia e non solo”. “Ma quello che mi fa più male, addirittura sconvolgendomi, non è tanto l’affondo dell’Unci regionale a salvaguardia dei suoi interessi fra avvocati secondo l’accusa asseriti burattinai di certi giochi di potere e soldi, tantissimi soldi, imputati eccellenti e capimafia ottimi clienti, bensì l’assordante silenzio della politica. Un’Istituzione che avrebbe dovuto urlare tutto lo sdegno e la rabbia per quanto mostrato da Rai3 in diretta nazionale e viceversa chiusa a riccio, per i troppi inconfessabili strusci con quel mondo di..mezzo, in attesa di veder passare la tempesta. Una vergogna senza fine. Una pagina nera, da voltare al più presto. Perché unicamente con una classe dirigente, intesa nel suo complesso, non impermeabile rispetto a certe lusinghe si è potuti arrivare a questo punto. Quasi di non ritorno. Alla politica di tutte le ‘colorazioni’ hanno insomma fatto gola voti e formidabili appoggi economici per le campagne elettorali, motivi alla base di un patto con il Diavolo che hanno pagato, e stanno pagando a caro prezzo, tantissime generazioni di calabresi onesti. Ecco perché è arrivato il momento di dire basta, ma serve una rivoluzione dal basso. Ogni persona perbene, per quel che può, inizi dunque a rendersi promotrice e artefice del cambiamento”, conclude Tansi.

l processo in Rai. Iacona beatifica Gratteri e dimentica di chiedergli dei suoi flop. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Marzo 2021. Caro Riccardo Iacona, ho letto le tue dichiarazioni in polemica con l’avvocato Caiazza. Ho visto che temi che le camere penali vogliano cancellare il diritto di cronaca e il tuo diritto di preparare, in modo libero e senza condizionamenti, una trasmissione televisiva a sostegno delle tesi dell’accusa contro alcuni degli oltre 400 imputati al processo Rinascita Scott. In queste dichiarazioni spieghi come si fa giornalismo e come si respingono le ingerenze. Io faccio giornalismo da 46 anni. Non mi è mai capitato – devo ammetterlo – di impegnarmi in iniziative a favore di una Procura. Non metto in discussione il tuo diritto di farlo, per le ragioni più diverse, compresa – immagino – la tua convinzione della bontà delle tesi dell’accusa e dell’irrilevanza di quelle degli imputati. Non contesto niente a te: contesto la Rai che ha deciso di mandare in onda il tuo servizio. Mandandolo in onda ha tradito la sua vocazione di servizio pubblico, ha violato il diritto e la Costituzione. E ha compiuto una azione di infangamento di alcuni cittadini, molti dei quali incensurati. E anche un tentativo di influenzare la Corte. La cosa che mi dispiace è che nelle proteste contro questa azione violenta della televisione di Stato intervengano solo le Camere penali e qualche sporadico esponente politico. Tutti gli altri, terrorizzati, e rincantucciati in silenzio tremebondo. Non sono belle queste cose, Riccardo. Noi viviamo in Italia, non in Turchia né in Venezuela. Almeno, così credevo. Tu dici che i giornalisti dovrebbero occuparsi di più di ‘ndrangheta. Può darsi. E anche di come si svolgono le inchieste. Tu, per esempio, qualche hanno fa mandasti in onda in Tv un altro servizio giornalistico su Gratteri. Con Gratteri un po’ beatificato. Si parlava dell’indagine di Gratteri chiamata “New bridge”, una inchiesta antimafia che fece gran clamore sui giornali. 24 mafiosi in gattabuia, 40 indagati. Poi, Riccardo, lo avrai saputo, si è scoperto che di quei quaranta i mafiosi erano pochini. Uno solo fu condannato con il famoso 416 bis. L’altro giorno ti sei scordato di chiedere a Gratteri come mai quell’inchiesta andò così male. E se furono risarciti gli innocenti e i diffamati. E non gli hai chiesto nemmeno come mai, la celebre inchiesta “Marine”, con 200 arrestati in una sola notte e in un solo paesino, produsse solo 8 condanne. E poi ti sei scordato, dopo aver detto che la Procura di Catanzaro era un porto di mare prima dell’arrivo di Gratteri, di intervistare il procuratore precedente, un certo Lombardi, magistrato stimatissimo. Per conoscere il suo parere. Né, mi pare, hai voluto sentire il parere di Otello Lupacchini, il Procuratore generale quando partì Rinascita Scott, il quale su Rinascita Scott aveva molti dubbi. Poi hai lasciato che fosse crocifisso Pittelli, ma non hai chiesto come mai alcune intercettazioni (quelle che avrebbero dovuto inchiodarlo) fossero state mutilate o manipolate (come racconta lo stesso Pittelli qui). Peccato. Magari quando uno fa un’inchiesta prova a raccontare un po’ tutto, non solo la tesi di un procuratore. Certo, ciascuno ha le sue idee sul giornalismo. Tutte legittime. C’è per esempio chi pensa che il compito nostro sia quello di raccontare più verità possibile e di metterci sempre, per riflesso condizionato, dalla parte dei deboli e contro i potenti. Qui i deboli sono i prigionieri e gli imputati. Il potente, sicuramente è il procuratore. Non discuto la tua libertà di stare dalla parte del potente. Mica è un delitto. Discuto il diritto della Tv di Stato di gettare vagonate di fango su persone che la nostra legge considera innocenti. Non so se questo è il miglior modo di fare giornalismo. Forse sì. Dovrò convincermi, prima o poi, che tra Sciascia e Travaglio il migliore è Travaglio. Tra Rossanda e Scanzi il migliore è Scanzi…

La lettera al presidente Marcello Foa. La Rai ha violato la Costituzione, Gratteri protagonista di processo mediatico contro Pittelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Carissimo Presidente Foa, la Rai ha mandato in onda un processo ad alcuni cittadini calabresi, e in particolare all’avvocato Pittelli, assumendo in pieno le parti dell’accusa e costruendo un monumento al Pm di quel processo. Il quale Pm – nonostante le ripetute raccomandazioni dello stesso Csm, del Procuratore generale della Cassazione e della ministra Cartabia – ha violato spavaldamente ogni riservatezza e si è prestato a diventare il protagonista indiscusso di un processo mediatico e di una gogna. Il processo – quello vero – è in corso a Catanzaro, e la Rai è intervenuta a gamba tesa a favore dell’accusa. In questo modo la Rai ha violato tutti i principi dello Stato di diritto e della nostra Costituzione. Prestandosi – come servizio pubblico – ad una operazione di giustizialismo che sarebbe impossibile in qualunque altro paese anche vagamente democratico. Presidente, io la conosco come esponente del giornalismo liberale, e le chiedo: l’avevano informata? Lei ha dato il permesso? Cosa pensa di questo plotone di esecuzione? Intende difendere in qualche modo i diritti dei cittadini infangati? Pensa che sia il caso di proseguire con queste trasmissioni? Progetta una trasmissione di riparazione? Conto sulla sua sensibilità e sono sicuro che vorrà rispondermi.

Il processo in tv. Processo sommario di Iacona a Pittelli sulla Rai: Gratteri star della puntata in stile sovietico. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Non è più il processo agli uomini di una cosca di ‘ndrangheta, è il processo a Giancarlo Pittelli, anzi non è più neanche un processo, è una sentenza sommaria di condanna. Lo ha deciso la Rai con la messa in onda, lunedì sera, di una puntata di Presa diretta di stile sovietico. Sarà perché ancora non è stato trovato un tribunale i cui giudici non siano incompatibili a giudicare gli imputati del Maxiprocesso di Nicola Gratteri. Sarà forse perché nessuno è Einstein ed è in grado di distinguere posizione da posizione dei 416 accusati che ogni giorno dal 16 gennaio compaiono all’interno della maxi-struttura di Lamezia dove si celebra il processo “Rinascita Scott”. O sarà per qualche insondabile motivo, di quelli da professionisti dell’antimafia che continuano a rimestare in un passato di stragi e devastazioni che (per fortuna) non esistono più, ma senza le quali rischiano in tanti di restare disoccupati. Sarà forse per tutti questi motivi messi insieme che la Rai, quel servizio pubblico che tutti gli italiani festosamente pagano sulla bolletta dell’energia elettrica, ha deciso di tagliare la testa al toro e di annullare il processo. Tanto a che cosa serve? La sentenza è presto emessa: tutti colpevoli. A dispetto di quel che proprio due giorni fa aveva detto con solennità la ministra della giustizia Marta Cartabia a proposito del principio costituzionale della presunzione di innocenza. Un giornalista all’uopo lo si trova sempre, Riccardo Iacona. Un regista è già lì pronto, Riccardo Iacona, e così un direttore d’orchestra e un tecnico delle luci. Sempre lui, Riccardo Iacona. La prima immagine è suggestiva, un tripudio di luci color cobalto e la voce narrante che ti mette subito le mani alla gola: Vibo Valentia e la sua provincia si illuminano di blu, con tremila carabinieri e gli uomini del Gis che stringono d’assedio 334 arrestati e 416 indagati. Sono state smantellate le mafie di questi luoghi con i loro 160.000 abitanti e 50 Comuni. Sono I Cattivi. Accompagnati da una musica assordante da marcia funebre in un film dell’orrore. Ma per fortuna c’è il Buono. Ecco la prima immagine di soddisfazione del procuratore Gratteri (nel film comparirà complessivamente sei volte) nella conferenza stampa di quel 19 dicembre del 2019, dopo la retata di 334 persone. Nulla si dice di quel che è accaduto nei giorni successivi, le scarcerazioni, gli annullamenti disposti da giudici di diversi gradi, intervenuti con precisione chirurgica sulla vera pesca a strascico attuata dai carabinieri guidati dal procuratore capo. La musica si fa più drammatica mentre l’occhiuto ufficiale dei carabinieri a bordo dell’elicottero mostra i territori ormai occupati dai mafiosi che “si sono inseriti in ogni ambiente della città”. Suggestivo, così come lo è l’arresto in treno del boss della ‘ndrangheta Luigi Mancuso, dopo due anni di pedinamenti. Seconda immagine di Gratteri in conferenza stampa, che conferma. Ma si capisce subito che, benché lui sia effettivamente un capo mafia di gran peso in quelle zone della Calabria, non è lui il vero protagonista del film girato dalla Rai. Si butta lì l’argomento vero che sta a cuore agli autori del film dell’orrore: Mancuso sapeva con precisione il giorno e l’ora in cui sarebbe stato arrestato, tanto che si è dovuto giocare d’anticipo. Chi gli dava le notizie? Prima dei titoli di coda, appare in video l’Autore, che ci allarma sull’esistenza di “uomini infedeli della Pubblica Amministrazione”, butta lì il nome dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ci rassicura perché all’inchiesta hanno lavorato centinaia di uomini. Terza immagine di Gratteri in conferenza stampa. Frase lapidaria: questa non è cronaca giudiziaria, questa è la democrazia. Fine dell’Anteprima.

Il 19 dicembre del 2019. “Rinascita Scott” parte come “la più grande operazione antimafia dopo quella di Palermo”. Ma dopo poco i numeri dovrebbero provocare rossore sulle guance di chi l’operazione ha condotto. Dei 334 ordini di arresto ben 203 sono stati annullati: 51 dal gip, 123 dal tribunale della libertà, 13 dalla cassazione senza rinvio e 9 con rinvio. Una disfatta. Tutto ciò accadeva oltre un anno fa. Ma l’orologio della Rai si è fermato a quel 19 dicembre, infatti parla solo dei 334 finiti in carcere omettendo il fatto che ai due terzi di loro le manette sono state rapidamente tolte. Si accenna al fatto che il procuratore di Catanzaro attua un blitz ogni due mesi. Nessun cenno ai tanti flop arrivati dai primi processi su quelle operazioni, fino a “Nemea”, con otto assolti su 15 e una sentenza che nei fatti anticipa già un giudizio di condanna nei confronti di alcuni personaggi della cosca Mancuso. Il motivo per cui, se nella corte d’appello di Catanzaro esistono giudici attenti e rigorosi, il dibattimento “Rinascita Scott” dovrebbe essere fermato per cambiare due delle tre giudici del tribunale, in quanto, come loro stesse ammettono, incompatibili per pre-giudizio: sono le stesse magistrate di “Nemea”. Tutta la ricostruzione porta a puntare la telecamera su un Nicola Gratteri in maglioncino nel suo ufficio (quarta uscita), che non parla tanto di mafia o di omicidi o di lupara bianca. Eppure nel corso degli anni anche la Calabria, come la Sicilia, non si è fatta mancare niente. Lui riferisce all’intervistatore-autore di quanto sia stato bravo a sgomberare gli uffici della procura da persone curiose e sospette, tra cui persino uno che non era calabrese e neanche sposato. Chissà che cosa mai facesse in quei corridoi. Questo non è un momento di pace, ma di guerra, dice il procuratore. La mente va subito al processo dell’aula bunker, che è poi quel che sta facendo il dottor Gratteri in questi giorni nel ruolo dell’accusa. Il processo che la Rai considera inutile ora diventa anche terreno di “guerra”. E del resto le immagini dell’ufficio del procuratore si alternano con quelle dello stesso giornalista in un altro ufficio ricco di librerie e boiserie con decine di scatoloni: sono gli atti dell’accusa, fogli e fogli intestati alla procura della repubblica. Neanche lo sforzo di consultare l’ordinanza del gip. La storia della ‘ndrangheta o la risposta alla domanda ossessiva: come hanno fatto i Mancuso a diventare i re della zona? Hanno fatto tutto da soli?

L’avvocato Giancarlo Pittelli. Giancarlo Pittelli dovrebbe essere, nelle intenzioni, il pesce grosso della pesca a strascico. Il suo arresto però non è casuale, l’avvocato era nel mirino da almeno tre anni. Il trattamento cui viene sottoposto è da subito particolare, stressante, umiliante: ore di attesa, trasferimento in Sardegna, rifiuto da parte dei magistrati di sentire la sua versione dei fatti, troppo lungo per le toghe il viaggio da Catanzaro. È accusato di tutto e di niente: prima di associazione mafiosa, poi di concorso esterno, ma soprattutto di rivelazione di atti d’ufficio. Che potrebbe sembrare poca cosa, ma non lo sarebbe, se veramente lui avesse fornito al suo assistito Luigi Mancuso un intero verbale del pentito che lo accusa. Pittelli nega che ciò sia accaduto e prove non ce ne sono. C’è piuttosto il pervicace sospetto che aleggia intorno a qualunque avvocato che difenda imputati per reati di mafia. Non solo si identifica la persona con il reato, ma si estende il sospetto anche al legale. Per dare un’idea del trattamento che, anche sul piano giornalistico, sta subendo l’ex parlamentare, quando sul suo tavolo viene sequestrato un suo foglio di appunti, persino nella trasmissione della Rai il manoscritto viene definito “pizzino”, neanche Pittelli fosse Totò Riina. Si gioca sul fatto che in Parlamento l’avvocato, come fanno tutti i suoi colleghi, ma anche i magistrati, lavorasse nella commissione giustizia (raramente i giuristi vanno all’agricoltura o alle politiche sociali) e che presentasse al ministro interrogazioni in tema di diritto penale. Si mostrano le immagini dell’aula di Montecitorio, quasi fosse un prolungamento di una situazione ambigua, e le si alterna con le riprese carpite per strada, mentre legale e assistito entrano nello studio dell’avvocato. Si arriva a dire che non è stato possibile captare il colloquio tra i due (il che sarebbe anche vietato, o comunque non utilizzabile processualmente), ma che comunque lo si può immaginare. Quindi si è anche autorizzati a virgolettare il frutto dell’immaginazione di qualche carabiniere. Dopo che il procuratore Gratteri ha fatto la sua quinta comparsata, viene finalmente data la parola per qualche minuto ai due avvocati difensori di Giancarlo Pittelli, Salvatore Staiano e Guido Contestabile. I quali cercano di spiegare che il reato concretamente non c’è, e si sforzano invano di capire che cosa l’accusa (e anche Iacona e anche la Rai) intenda per “messa a disposizione” di Pittelli nei confronti della cosca Mancuso. Ha raccomandato la figlia all’università, si è interessato perché fosse operato un bambino malato? E dove è la prova del verbale trafugato del pentito? Forse ha ragione la Rai, è inutile fare il processo, se queste sono le “prove”. O forse erano inutili le manette e tutto quel che ne è seguito? Intanto l’inconsapevole Riccardo Iacona, dopo averci propinato la sesta uscita di Gratteri, augura al procuratore “buon lavoro” e gli invia “un abbraccio forte”. Ognuno ha gli amici che preferisce.

Processo Rinascita Scott, non si trovano gli atti d’Appello della difesa di Pittelli. Il Quotidiano del Sud l'11 giugno 2021. Gli atti di Appello depositati dagli avvocati Salvatore Staiano e Guido Contestabile nell’interesse di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, imputato in Rinascita-Scott per concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione e utilizzazione del segreto di ufficio e abuso di ufficio, non si trovano e pertanto al Riesame che avrebbe dovuto esaminare la richiesta non è rimasto altro che rinviato l’udienza a data da destinarsi. I giudici ieri avrebbero dovuto ridiscutere la misura cautelare del penalista (attualmente sospeso dalla professione), sul presupposto delle sue precarie condizioni di salute, dovute ai 16 mesi di detenzione tra carcere e arresti domiciliari, dove attualmente si trova. Per la difesa di Pittelli il riesame avrebbe dovuto avere carattere di urgenza visto che il proprio assistito versa, come da perizia psichiatrica allegata in atti, in uno stato psicologico tra rabbia e disperazione, caratterizzata “dall’assenza di uno slancio vitale”, una “forma di annichilimento fobico” e continui “flashback” quando la mente ritorna al periodo vissuto dietro le sbarre, che lo distruggono giorno dopo giorno. Un quadro psicologico reso più grave dal parkinsonismo, contraddistinto dal rallentamento psicomotorio e da tremori negli arti inferiori. E invece i tempi di attesa per decidere sull’appello proposto contro la decisione del Tribunale di Vibo di mantenere inalterata la misura cautelare degli arresti domiciliari con un provvedimento datato 29 aprile 2021, adesso si allungano senza che vi sia una data per ridiscutere l’istanza.

Il caso dell'avvocato da due anni agli arresti. Pittelli deve marcire ai domiciliari, ormai è un sequestro di persona. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Non lo mollano, è socialmente pericoloso e va bastonato. Magari solo perché Giancarlo Pittelli è un bravo avvocato e si è un po’ messo contro un procuratore permaloso che dietro l’aspetto bonario maschera anche qualche rancore. O magari perché è l’unico politico rimasto nelle maglie dei tanti flop delle inchieste di Calabria. Fatto sta che ormai a quasi due anni da quella notte del 19 dicembre del 2019 in cui Nicola Gratteri condusse un rastrellamento con la richiesta di manette per 334 calabresi, ancora il tribunale del riesame di Catanzaro rifiuta di rendere libero l’avvocato Giancarlo Pittelli. Pare un sequestro di persona. Lo tengono ai domiciliari non perché abbia ucciso o rapinato o stuprato. E neanche perché sia sospettato di qualcuno di quei reati da “spazzacorrotti” che piacciono tanto ai tanti giacobini che siedono in Parlamento. No, lui deve stare in ceppi, anche se domiciliari (ma i primi dieci mesi li ha passati in isolamento, galera tosta, a Nuoro, proprio un luogo comodo da raggiungere per familiari e difensori) perché sospettato di aver letto e raccontato ai propri assistiti il contenuto del verbale secretato di un “pentito”. Cioè, stiamo parlando di quelle scartoffie che qualunque cronista giudiziario legge e conosce ogni giorno del suo lavoro in tribunale. Perché le carte, e le intercettazioni e le testimonianze, hanno la bella abitudine di “sfuggire” dalla proverbiale riservatezza dei pm e marciare verso le edicole, le tv e i social. Però se le vede un avvocato, vuol dire che è un mafioso. Ma del fatto che Giancarlo Pittelli abbia avuto in mano quelle carte, le abbia lette e poi promesse e infine raccontate al suo assistito, il boss della ‘ndrangheta Luigi Mancuso, non solo non c’è alcun indizio, ma anzi c’è la prova del contrario. Ci sono le captazioni del trojan inserito nel suo cellulare, per esempio. In uno lui dice al suo interlocutore: «Io non posso dare consigli al mio cliente Mancuso perché non so che cosa potrà dire su di lui il collaboratore». E in un’altra, in cui si parla ancora della deposizione del pentito Andrea Mantella, il legale afferma: «Non ho i verbali». Ci credereste? Una manina, nei provvedimenti degli inquirenti, aggiunge “ancora”. Come a dire: non mi sono ancora stati consegnati, ma li aspetto. Peccato però che una perizia, fatta disporre dagli avvocati Salvatore Stajano e Guido Contestabile, dimostri che nella trascrizione quell’ “ancora” non c’è. Quindi rimane in fatto che l’avvocato non aveva la deposizione del “pentito”. Del resto, negli anni trascorsi dal 1981 (data in cui Pittelli ha iniziato ad avere come cliente il boss Mancuso) fino al momento del suo arresto, tra lui e l’assistito ci sono state almeno un migliaio di conversazioni telefoniche, la gran parte delle quali è agli atti del processo. Sono tutte coperte dal segreto previsto dal codice per quel che riguarda i colloqui tecnici tra difensore e assistito, ma gli inquirenti ne hanno avuto accesso. Hanno mai trovato la prova del reato contestato all’avvocato Pittelli? Assolutamente no, perché la prova non c’è. Pure Giancarlo Pittelli continua a essere bastonato. A ogni ricorso – al riesame, in Cassazione – un’aggiustatina al reato e agli indizi che dovrebbero sorreggerlo, ma quell’aggravante mafiosa resta, anche se solo sulla questione del verbale “violato”. Quasi che in terra di Calabria la professione di avvocato non fosse legittima, o che si dovessero difendere solo gli innocenti. Ma in quella regione c’è questo procuratore intoccabile, che si esibì in quella conferenza stampa del 20 dicembre di due anni fa, dopo quel blitz chiamato “Rinascita Scott” che gli verrà distrutto in gran parte dai giudici di vari livelli, tanto che sarà costretto a inventarsene subito un altro dal nome bizzarro “Imponimento”. Quel procuratore aveva subito detto che «Pittelli era l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria». Gli aveva fatto eco il Gip, parlando di «Giano bifronte, Parca della nuova era». E poi giù con mazzate che rasentavano il ridicolo. Come quando si contestava all’avvocato, che difende il suo assistito dal 1981, una certa familiarità, tanto che i due si davano del “voi”, come se al sud d’Italia questo non fosse una cosa normale. Oppure il fatto che la moglie di Mancuso, parlando al telefono con l’avvocato, gli chiedesse notizie sulla sua famiglia. Cose così. Come l’elenco degli “indizi” messi insieme da procura e gip nell’ordinanza di custodia cautelare, sempre per dimostrare che il rapporto di “familiarità” tra legale e assistito dimostrava l’appartenenza del primo alla cosca. Si accusa Pittelli di aver raccomandato la figlia di Mancuso per un esame all’università, cosa non vera. Poi di aver chiesto aiuto ai medici di Catanzaro per un bambino affetto da leucemia, e anche di aver segnalato a Mancuso il nome di un cardiologo, piuttosto che l’indirizzo di un’enoteca dove vendevano una certa marca di champagne. Tutto questo condimento, mescolato al punto vero dell’accusa, la questione dei verbali del “pentito”. C’è da domandarsi che cosa stia dietro a tanto accanimento, da non concedere la libertà dopo due anni. C’è il timore che Pittelli espatrii o che ripeta il reato, essendo tra l’altro sospeso dall’Ordine degli avvocati? E quali prove potrebbe ormai inquinare? È pur sempre un cittadino in attesa di giudizio. magari invece la realtà è più semplice. E da più parti continua a esserci un certo timore reverenziale nei confronti del Grande Accusatore, il procuratore Nicola Gratteri. Intanto occorre ricordare che né lui né il gip probabilmente in futuro potranno fare quella dichiarazione nei confronti di nessun indagato o imputato, come hanno fatto con Pittelli, dopo che l’Italia ha aderito alla dichiarazione europea sulla presunzione di innocenza. E poi c’è un’altra storia da raccontare, anche se si basa sulla testimonianza di una persona che non c’è più, il direttore del quotidiano online “Corriere di Calabria” Paolo Pollichieni. Il giornalista, che aveva un buon rapporto con il procuratore, avrebbe riferito a Pittelli che il dottor Gratteri aveva una sorta di rancore nei suoi confronti, tanto che lo definiva «massone e amico dei Mancuso». Prima di morire (il 7 maggio del 2019), Pollichieni avrebbe detto a Pittelli che Gratteri lo avrebbe arrestato perché era responsabile di «aver scritto o detto qualcosa sullo stesso pm». Giancarlo Pittelli si è arrovellato a lungo su queste dichiarazioni, tanto da aver steso un promemoria difensivo, che gli è stato poi sequestrato nel suo studio dopo l’arresto. Si era poi ricordato di una sua eccezione di inutilizzabilità presentata al gup di Reggio Calabria in cui accusava il fatto che c’erano stati dei falsi nell’acquisizione di chat con sistema criptato. Possibile che Gratteri si sia offeso perché accusato di falsificazione? Possibile sì, se è vero quel che si dice sul suo carattere apparentemente cordiale ma in realtà ombroso e suscettibile. Storie di Calabria, che si intrecciano a vicende giudiziarie. Come quell’intercettazione del 2018 in cui l’avvocato Pittelli parla con un collega del suo studio e riferisce un’altra “dritta”, che viene da un collaboratore di fiducia del procuratore capo di Catanzaro, il maresciallo D’Alessandro. Anche lui gli avrebbe riferito che Nicola Gratteri aveva del “risentimento” nei suoi confronti. Storie di Calabria, appunto. Come i tanti fallimenti, le tante inchieste demolite dai giudici dopo che erano state presentate alla stampa, ogni volta, come la definitiva spallata alla ‘ndrangheta. Di politici come Pittelli, che è stato anche deputato per tre legislature, nelle mani il procuratore Gratteri non ne ha quasi più. E Pittelli è sempre un boccone prelibato. Poi ci sono le suscettibilità e i rancori, un po’ come pizzi e vecchi merletti…

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Carlo Macrì per il "Corriere della Sera" il 20 ottobre 2021. Da ex senatore di Forza Italia a «postino» delle cosche. Giancarlo Pittelli, avvocato, è ritornato in carcere - era stato già arrestato nell'ambito dell'inchiesta «Rinascita Scott» - con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché considerato «faccendiere di riferimento» della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Per i magistrati della direzione antimafia di Reggio Calabria, Pittelli avrebbe «veicolato informazioni dall'interno all'esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli, detenuti al 41 bis. Si sarebbe, inoltre, «messo a disposizione» di uno degli arrestati, Rocco Delfino, legato ai Piromalli, per «aggiustare» alcune sue vicende giudiziarie e societarie e tentare la revisione di un processo, «intercedendo» con l'ex presidente di sezione della Corte d'Appello di Catanzaro Marco Petrini, già condannato a quattro anni e 4 mesi per corruzione in atti giudiziari. E ancora, si sarebbe speso per cercare informazioni riservate sull'omicidio del giudice Antonino Scopelliti, su «delega» di Pino «Facciazza» Piromalli, tra gli indagati per l'omicidio eccellente. L'inchiesta «Mala pigna» sviluppata dai carabinieri del Comando di Reggio Calabria, assieme ai colleghi della Forestale e dal Nipaaf (nucleo investigativo ambientale), ha accertato l'esistenza di un'organizzazione che si era specializzata nell'interrare rifiuti speciali. I valori nocivi rilevati dalle scorie sotterrate nei terreni erano superiori del 6.000%, rispetto ai valori consentiti. Ettari di terreno, nel cuore fertile della Piana di Gioia Tauro, sono risultati inquinati da materiale ferroso, scorie e fanghi contaminati. L'operazione ha interessato anche Brescia, la Brianza e l'Emilia-Romagna, dove sono state sequestrate 5 aziende. Diciannove le persone arrestate, dieci ai domiciliari accusate a vario titolo di associazione a delinquere, disastro ambientale e traffico illecito di rifiuti. Tra questi Salvatore Trovato, di Taurianova, imprenditore nel campo dell'autodemolizione e padre di Sissy, l'agente penitenziaria di 29 anni, in servizio al carcere della Giudecca, morta nel 2019, dopo due anni di agonia,per un proiettile esploso dalla sua pistola d'ordinanza, all'interno dell'ascensore dell'ospedale civile di Venezia. I Piromalli sarebbero stati favoriti nella gestione dei traffici di rifiuti speciali, anche da amministratori giudiziari infedeli come Giuseppe Antonio Nucara e Alessio Alberto Gangemi, finiti ai domiciliari. I due nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati, si erano «stabilmente inseriti nell'organizzazione e partecipavano alle attività del gruppo», con avvocati, commercialisti e un sovrintendente della polizia.

L'ex senatore coinvolto in una inchiesta sui rifiuti. Pittelli arrestato per concorso esterno, l’avvocato "sequestrato" da 2 anni torna in carcere nonostante le condizioni di salute. Redazione su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. La scure della giustizia si abbatte ancora una volta su Giancarlo Pittelli. L’avvocato ed ex senatore di Forza Italia, già agli arresti domiciliari perché imputato nel processo Rinascita-Scott, dopo aver trascorso 10 mesi nel carcere speciale di Nuoro in Sardegna e dall’ottobre 2020 ai domiciliari nonostante condizioni di salute sempre più gravi, è nell’elenco dei destinatari delle ordinanze cautelari nell’ambito dell’inchiesta dalla DDA di Reggio Calabria "Mala pigna". Pittelli è stato condotto nuovamente in carcere: con lui sono stati arrestati altri 28 indagati, tutti destinatari di ordinanza firmata dal gip Vincenza Bellini su richiesta del procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, dell’aggiunto Gaetano Paci e dei sostituti della Dda Gianluca Gelso, Paola D’Ambrosio e Giorgio Panucci. Per l’ex senatore berlusconiano, già arrestato e condotto in carcere per l’inchiesta di Gratteri ‘Rinascita-Scott’ il 19 dicembre 2019, l’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa per traffico illecito di rifiuti. L’indagine verte su un presunto traffico di rifiuti gestito dalla cosca Piromalli di Gioia Tauro. Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria Pittelli, legale di fiducia della famiglia Piromalli, era “uomo politico, professionista, faccendiere di riferimento avendo instaurato con la ‘ndrangheta uno stabile rapporto "sinallagmatico"”. Un rapporto, scrivono i pm, “caratterizzato dalla perdurante e reciproca disponibilità”. Pittelli avrebbe garantito “la sua generale disponibilità nei confronti del sodalizio a risolvere i più svariati problemi degli associati, sfruttando le enormi potenzialità derivanti dai rapporti del medesimo con importanti esponenti delle istituzioni e della pubblica amministrazione”. L’ex senatore aveva secondo i magistrati della DDA “illimitate possibilità di accesso a notizie riservate e a trattamenti di favore”. Per questo “veicolava informazioni all’interno e all’esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli detenuti in regime carcerario ai sensi dell’articolo 41 bis”. In particolare ad usufruire dei "servizi" di Pittelli sarebbero stati Giuseppe Piromalli detto “Facciazza” e il figlio Antonio Piromalli, reggente della cosca. Giuseppe Piromalli è attualmente indagato quale mandante, in concorso con altri capi di cosche di ‘ndrangheta’ e di ‘cosa nostra’ siciliana, dell’omicidio del procuratore generale della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti.

Giancarlo Pittelli torna a casa, i magistrati lo trattano come un pacco. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Novembre 2021. Neanche fosse un pacco postale, l’avvocato Giancarlo Pittelli è stato finalmente lasciato libero di tornare a casa, dopo esser stato di fatto sequestrato indebitamente per tre giorni nel carcere di “San Pietro”, a Reggio Calabria. Mancava il braccialetto elettronico, e senza di quello gli amici del procuratore Gratteri non lo lasciavano andare. L’ex parlamentare di Forza Italia è l’unico politico ancora prigioniero delle inchieste dei magistrati calabresi, quindi su di lui si mena forte. Era ai domiciliari con il suo bel braccialetto elettronico che gli stringeva la caviglia, dopo che nel dicembre di due anni fa era stato arrestato nel blitz di cui va orgoglioso il procuratore Nicola Gratteri, quando il 19 ottobre scorso era finito di nuovo in carcere. Questa volta l’inchiesta era condotta dalla procura di Reggio Calabria nei confronti della cosca Piromalli e si chiama “Mala Pigna”. Ma come? Ma l’ultimo provvedimento votato dal governo Draghi dopo l’ampio consenso avuto anche dalle due commissioni giustizia di Camera e Senato, non dovrebbe aver abolito i set cinematografici e i nomi di fantasia delle inchieste giudiziarie? Evidentemente in Calabria non si usa così. Non si applicano le leggi, a quanto pare. “Mala Pigna” ha dunque trasformato l’avvocato di Catanzaro in pacco postale. Ricordiamo prima di tutto che Giancarlo Pittelli non è accusato di aver ucciso né rapinato né stuprato. E neanche di aver commesso uno dei reati tipici delle cosche mafiose, cioè le minacce, le estorsioni, i ricatti, piuttosto che il traffico di stupefacenti. Niente di tutto ciò. Siamo alle solite, al reato che non c’è, all’evanescenza di quel “concorso esterno” che è utile solo alla vanità di certi inquirenti per sbarcare sulle prime pagine dei giornali, e poi nei Tg e infine anche in qualche talk show. Nel caso dell’avvocato Pittelli, una volta è accusato di scambio di opinioni, di pissi pissi bau bau con gli uomini del clan Mancuso, in un’altra con gli accoliti della cosca Piromalli. Viene sempre messo in discussione il modo di svolgere la professione di difensore, quasi come si ritenesse che in Calabria sarebbe meglio che nessun avvocato debba assistere gli indagati per mafia, e si mettesse in guardia chi invece lo fa, con le inchieste giudiziarie. Nel caso di Pittelli le legnate sono a andate giù pesanti, fin dall’inizio dell’inchiesta “Rinascita Scott”. Carcere duro a Nuoro per otto mesi, lontano da familiari e difensori, poi domiciliari con braccialetto elettronico. Come se si potesse ipotizzare una fuga dell’indagato. Sempre trattato, nelle pubbliche dichiarazioni dei magistrati, come un leader, se non proprio un capo della ‘ndrangheta. Pur se esterno. Il dottor Gratteri lo considerava “…l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria”. E il gip aveva fatto eco definendolo “Giano bifronte”. Ma sono passati due anni, è anche cominciato il processo a Lamezia senza che mai uno straccio di prova sia emerso nei confronti dell’avvocato Pittelli. Poi, proprio quando qualcosa si stava muovendo a suo favore, perché almeno gli fosse restituita la sua libertà e la possibilità di difendersi nell’aula senza vincoli e senza braccialetto alla caviglia, ecco che si svegliano all’improvviso i procuratori di Reggio Calabria. E siamo alle solite, con i sospetti che un avvocato non sia un difensore ma un complice, uno che fa il trombettiere portando qua e là notizie riservate delle inchieste giudiziarie. Come se l’Italia non fosse da molti anni il luogo dove alcuni pm e rappresentanti delle forze dell’ordine dedicano un po’ del loro tempo a depositare atti d’indagine riservati direttamente in edicola. O, sempre più spesso, sulla scrivania di Marco Travaglio e dei suoi “complici” di redazione. Complici in bravura, naturalmente! C’è da domandarsi, da chiedere al gip di Reggio Calabria che ha disposto l’arresto e al pm che l’ha chiesto: era proprio necessaria la custodia cautelare in carcere? C’era veramente pericolo che l’avvocato Pittelli tentasse di scappare, di inquinare le prove o di ripetere il reato? Stiamo parlando di uno che, in un modo o nell’altro, era ristretto da due anni. Che cosa poteva combinare? Ma se non era libero neanche di fare una telefonata o di affacciarsi sull’uscio di casa. Eppure, alle sei del mattino –l’ora in cui nel Regno Unito di un tempo arrivava il lattaio- si erano presentati “quattro gendarmi” e gli avevano messo le manette ai polsi. Poi via in auto, o forse con il comodissimo blindato, da Catanzaro a Reggio Calabria. L’unico vantaggio nell’andare in galera, è che ti tolgono il braccialetto elettronico. Un piccolo sollievo, che infine diventerà però l’intralcio alla libertà. E sì, perché venerdi scorso il tribunale del riesame aveva accolto la richiesta degli avvocati Salvatore Stajano e Guido Contestabile e trasformato la custodia in carcere in domiciliari. Ed ecco il problema, perché per gli inquirenti del processo “Rinascita Scott” l’avvocato Pittelli avrebbe dovuto indossare ancora il braccialetto elettronico, anche se questo non era richiesto da quelli di Reggio. Come fare? Il “monile” indossato per tanti mesi dall’ex parlamentare di Forza Italia non c’era più, evidentemente era stato assegnato a un altro detenuto. Per capire come mai ciò sia accaduto, perché ci sia tanta fame di braccialetti, bisognerebbe ricordare la storia di questi strumenti dal 2001 a oggi, che nel corso di vent’anni ha visto impegnati ministri dell’interno che si chiamano Enzo Bianco, Beppe Pisanu, Annamaria Cancellieri, Marco Minniti. Fino all’ineffabile Alfonso Bonafede. Sono stati spesi centinaia di milioni e non ce ne sono mai a sufficienza. L’ultimo appalto da 45 milioni di euro per 12.000 pezzi nel 2017 è stato vinto da Fastweb. Il primo lotto era stato affidato vent’anni fa a Telecom. L’anno scorso però ne mancavano ancora 12.000, proprio nei mesi in cui il decreto “Cura Italia” aveva condizionato al loro uso la possibilità per detenuti condannati a reati non gravi di scontare gli ultimi sei mesi alla propria abitazione. Nel 2020 ne sono stati prodotti solo 4.700. Ma come è possibile? E, senza voler accusare nessuno, come mai a nessun pm è venuta la curiosità di capire il perché di questa grave disfunzione? Forse la risposta è una sola: si vuole più carcere. Così il pacco postale Pittelli è stato sequestrato tre giorni nell’istituto di pena “S. Pietro”. Ma stiamo parlando di un caso conosciuto. Vorremmo sapere a quanti altri prigionieri capita ogni giorno di essere privati per giorni e giorni del proprio diritto a un po’ più di libertà, di aria pura. Ogni giorno in prigione è lungo un secolo di sofferenza. Importa a qualche toga o a qualche divisa? O magari a qualche giornalista?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pittelli: «Contro di me campagna mediatica senza precedenti».  Nuova lettera di Giancarlo Pittelli dal carcere di Melfi. L'ex senatore: «Mi hanno dipinto in maniera totalmente distorta: nessuno ha voluto sentirmi». Il Dubbio il 20 dicembre 2021. Rompe il silenzio Giancarlo Pittelli, l’ex parlamentare imputato cardine del maxi processo “Rinascita Scott” contro la ’ndrangheta. Pittelli è intervenuto in udienza nell’aula bunker di Lamezia Terme in videocollegamento dal carcere di Melfi, dove si trova detenuto. Il primo aspetto ha riguardato la lettera inviata al ministro Mara Carfagna che gli è costata il carcere per avere violato le restrizioni degli arresti domiciliari: »Ho scritto la lettera ad una vecchia amica ed è stata vista con una improbabile e grave violazione che è stata sanzionata con durezza e severità. I contenuti di quella lettera, nella parte in cui fanno riferimento alla disattenzione della giurisdizione a favore della pubblica accusa – ha aggiunto Pittelli – non hanno nulla a che fare con il collegio. Ma si riferivano alla fase della misura cautelare lunghissima che io ho subito. Non ho mai tentato di intervenire nel processo e per il processo – ha proseguito – e vi spiegherò, quando i miei avvocati mi autorizzeranno a rendere dichiarazioni spontanee nel merito della vicenda, le ragioni per le quali lamentavo e lamento ancora un trattamento particolare e immotivato».  Pittelli, che è anche un noto penalista, ha poi detto: «Da dicembre 2019 esisto solo negli atti del processo e nei servizi televisivi e giornalistici che hanno inteso rappresentarmi in maniera completamente distorta. Sono stato sottoposto ad una campagna mediatica che in 43 anni di professione non ho mai visto. Esisto da dicembre 2019 solo negli atti e nel clamore mediatico creato anche e non solo per questioni di audience e di notorietà. La mia voce non è stata ascoltata da alcuno. L’avvocato Staiano (suo difensore, ndr) – ha concluso Pittelli – sostiene che avessero accordi sul fatto che io non venissi interrogato, io non ne conosco la ragione e pensavo diversamente».

Giancarlo Pittelli? Che aberrazione se un'implorazione diventa motivo di condanna. Libero Quotidiano il 17 dicembre 2021. Giancarlo Pittelli, che s' è fatto già un paio d'anni di custodia cautelare, e cioè da presunto innocente, è stato nuovamente mandato in carcere su delazione della ministra Carfagna, che ha girato agli sbirri la lettera con cui quel detenuto in attesa di giudizio la implorava di interessarsi alla sua vicenda. Non uso quella parola (sbirri) per mancare di rispetto agli agenti di pubblica sicurezza che, per ineludibile dovere d'ufficio, hanno a loro volta recapitato la prova del delitto (una lettera d'invocazione d'aiuto) alla piovra togata che ha rispedito in prigione Pittelli. E se poi uso l'altro termine (delazione) non è per attribuire alla onorevole ministressa chissà quale intendimento persecutorio, ma solo la spensierata per quanto non propriamente nobilissima condotta del capocaseggiato che s' intesta la protezione degli interessi nazionali denunciando il renitente al Sabato Fascista. Non spiegheremo che nel prescegliere tra il diritto dello Stato di imprigionare, prima del processo, il responsabile di una epistola mal diretta, e quello di un indagato - chiunque egli sia - di reclamare un pizzico di attenzione per la propria vita sconvolta, forse occorrerebbe affidarsi almeno al dubbio. E che se è vero che esiste l'obbligatorietà dell'azione penale, è altrettanto vero che non si è eletti al parlamento né si è nominati ministri per passare le carte, tanto meno quelle di corrispondenza privata, al pm specialista in rastrellamenti e requisitorie televisive. Che Pittelli abbia sbagliato - contravvenendo, con quella lettera, ai rigori della detenzione domiciliareè possibilissimo: anzi, visto quel che ne ha cavato, si può dire ha sbagliato senz' altro. Ma c'è qualcosa di osceno, qualcosa che ripugna al criterio minimo di umana civiltà, nella scena di quell'implorazione ripagata con quel freddo supplemento di pena.

Il retroscena. Pittelli aveva denunciato i pm di Catanzaro, che fine ha fatto l’esposto? Otello Lupacchini su Il Riformista il 21 Dicembre 2021.

«Eccellenza Lupacchini,

«Lei è l’unica persona alla quale posso rivolgermi e nella quale posso riporre tutta la mia fiducia.

«La giurisdizione calabrese e quella catanzarese, in particolare, ha abdicato completamente genuflettendosi dinanzi al potente di turno, personaggio privo di qualunque scrupolo morale e capace di qualunque nefandezza per il potere.

«…In questo lungo mese di detenzione, assieme ai miei collaboratori abbiamo ricostruito le vicende che, in un primo momento, avevamo ritenuto fossero completamente avulse dalla mia tragedia…»

Era il 20 gennaio del 2020, quando ricevetti la lettera manoscritta, datata erroneamente «Nuoro 11/3/2020», dell’avvocato Giancarlo Pittelli, all’epoca detenuto nel carcere di Badu e Carros dove era sottoposto al regime previsto dall’art. 41bis, di cui quello trascritto è soltanto l’incipit. Essa si concludeva con una disperata richiesta di aiuto: «Io La supplico di aiutarmi. Voglio che la verità si sappia e solo Lei può essere così forte e coraggioso da aiutarmi.» L’avvocato Giancarlo Pittelli, nel momento in cui, trovandosi in stato di detenzione, scriveva questa lettera, non era più, ormai da anni, l’uomo di potere di cui parlava nel 2007 Mariano Lombardi, all’epoca procuratore della Repubblica di Catanzaro, allorché aveva dichiarato, in due interviste a La Stampa e a Calabria Ora, che Luigi de Magistris sapeva da sempre dei suoi buoni rapporti con l’allora senatore di Forza Italia: «Un rapporto che in qualche occasione ha fatto comodo anche a de Magistris. Un rapporto, dunque, noto al pm e da lui anche utilizzato».

Mariano Lombardi, per dimostrare la fondatezza della sua affermazione, citò un episodio, che, pur senza dir troppo, lasciava intendere quanto, a quei tempi, «contasse» politicamente il senatore-avvocato Giancarlo Pittelli: «C’era un’indagine con parti offese magistrati di Reggio. Nell’indagine finiscono anche parlamentari di An: Angela Napoli, all’epoca vicepresidente dell’Antimafia, e Giuseppe Valentino, allora sottosegretario alla Giustizia. Capitò che vennero intercettati e registrati anche colloqui tra Valentino ed uno degli imputati, l’avv. Paolo Romeo. Il senatore Valentino era anche difensore di fiducia del Romeo, insomma quei dialoghi non potevano essere riprodotti per due gravi ragioni: lo status di parlamentare e quello di difensore di fiducia ed invece finirono sui giornali. Il presidente dell’Antimafia Centaro chiese chiarimenti e lo stesso fece il presidente della Camera, Casini. Insomma, stava montando uno scontro istituzionale terribile e noi avevamo delle difficoltà. Vengono da me de Magistris e Mario Spagnuolo, i due pm del processo in questione. Mi chiedono di fare qualcosa per saperne di più, parlo con loro e gli dico che conosco solo Pittelli ed allora gli telefono davanti a loro. Non mi faccia dire altro (…) Non so cosa fece Pittelli. So che io scrissi delle deduzioni che mandai a Camera e Antimafia. Erano deduzioni non certo esaustive, ma sta di fatto che le presero per buone».

Tutto questo non spiega, comunque, perché il detenuto Giancarlo Pittelli, ormai «fuori» dal giro politico che conta e raggiunto da accuse pesantissime, quel 20 gennaio 2020, si rivolgesse per aiuto proprio a me. Né capii allora e men che meno lo capisco oggi quale fosse l’aiuto che si aspettasse. È pur vero che quando ricevetti la sua missiva ero ancora il procuratore generale presso la corte d’appello di Catanzaro, tenuto, come tale, ad acquisire «dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti» (art. 6 d.lgs. n. 106 del 2006); ma era anche noto, specie a chi si occupasse di cose di giustizia, come il concreto esercizio di quel potere fosse pesantemente mortificato da una prassi prona agli interessi di esponenti normofobi dell’aristocrazia togata, allergici a qualsiasi forma di controllo.

D’altra parte, quel 20 gennaio 2020, era altrettanto noto come fossero in atto, addirittura in fase avanzata e irreversibile, le grandi manovre sinergiche del ministro della giustizia, della procura generale della cassazione, della sezione disciplinare e della prima commissione del consiglio superiore della magistratura, per rimuovermi dall’incarico: se mi si fosse stato contestato di aver fatto turpe mercimonio delle funzioni giudiziarie, magari ad adiuvandam concubinam, me la sarei anche potuta cavare con un trasferimento d’ufficio a una sede geograficamente «comoda», con carichi di lavoro agevolmente fronteggiabili e pure prestigiosa, ma a fronte dell’incolpazione mossami di un imperdonabile crimen lesae maiestatis, per avere dichiarato pubblicamente di non poter parlare dell’ecatombale operazione «Rinascita Scott», per il semplice fatto che di essa ignoravo tutto, visto che nessuno aveva ritenuto di informarne, come invece sarebbe stato doveroso, il procuratore generale, essendo più importante, invece, portarne a conoscenza la stampa; e, cosa ancor più grave, mi ero spinto a rivelare che il re era nudo, dichiarando che molte delle grosse operazioni contro la ’ndrangheta e la massomafia calabrese negli ultimi anni erano naufragate per evanescenza, «come ombra lunatica», dei rispettivi impianti accusatori. Insomma, affatto improvvidamente, il detenuto Giancarlo Pittelli, si rivolse proprio a me aspettandosi un non meglio precisato aiuto.

Ma perché, dopo quasi due anni dalla ricezione di quella missiva, ne parlo pubblicamente proprio e solo oggi?

Questo, naturalmente, non ha nulla a che vedere con la più recente missiva che lo stesso avvocato Giancarlo Pittelli, dal luogo di arresto domiciliare, ha indirizzato all’onorevole Mara Carfagna, già sua collega di partito, alla quale si è rivolto «In nome della vecchia amicizia» per farle presente la sua situazione giudiziaria: «Cara Mara, non potrei avere rapporti di corrispondenza con nessuno ma ti prego di credere che sono disperato. Aiutami in qualunque modo, io vivo da due anni in stato di detenzione, finito professionalmente, umanamente e finanziariamente (…) Ti chiedo di non abbandonarmi perché sono un innocente finito nelle grinfie di folli per ragioni che rivelerò alla prima occasione. Grazie per quanto potrai fare». Una missiva che, finita in mano ai suoi inquisitori, ne ha determinato l’aggravamento della misura cautelare e il rientro in carcere, avendovi letto i giudici la «manifesta (…) volontà di incidere sul regolare svolgimento del processo».

La ragione è un’altra e sento di doverla disvelare. Io non tenni per me la lettera indirizzatami il 20 gennaio 2020, ma la trasmisi, ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale, alla procura della Repubblica di Salerno, competente a conoscere dei reati commessi da o in danno di magistrati del distretto di Catanzaro: essa veicolava, fra l’altro, una notitia criminis per un fatto di assoluta gravità e di indubbia rilevanza penale, che non potevo tenere per me. Una denuncia nei confronti di ben individuato magistrato operante a Catanzaro, articolata, precisa, almeno in apparenza documentata e corredata dall’indicazione di testimoni. Tutti elementi, insomma, idonei a verificarla. Dopo due anni, mi chiedo e voglio qui condividere l’interrogativo: sono mai state aperte indagini sulle gravi accuse mosse dall’avvocato Giancarlo Pittelli? Ammesso che indagini preliminari siano state avviate, due sono i casi: se la notitia criminis veicolata dalla missiva 20 gennaio 2020 fosse stata verificata positivamente, ne sarebbe dovuto conseguire l’esercizio dell’azione penale nei confronti del magistrato accusato e dei suoi eventuali complici; se, invece, la verifica della notitia criminis fosse stata negativa, la conseguenza avrebbe dovuto essere l’apertura di un procedimento per calunnia nei confronti dell’accusatore, fatto questo ben più grave della violazione meramente formale del divieto di comunicare con terzi non conviventi in corso di arresto domiciliare.

Nel silenzio tombale sulla vicenda, mi chiedo cosa sia realmente successo. E, con la logica, magari naïfe, del quisque de populo, mi chiedo come la solerte magistratura salernitana abbia proceduto in ordine a un accertamento doveroso, evitando il rischio di creare un qualche imbarazzo al potentissimo magistrato catanzarese chiamato irriguardosamente in causa dall’ avvocato Giancarlo Pittelli, per sua sventura ormai raté.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il diritto costituzionale alla corrispondenza è inviolabile. Pittelli sbattuto di nuovo in cella, l’accusa: “Ha scritto una lettera alla Carfagna”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Sequestrato, murato vivo, prigioniero politico. Scegliete voi l’espressione più adeguata a descrivere la situazione dell’avvocato Giancarlo Pittelli, sbattuto per la terza volta in galera con motivazioni di volta in volta più paradossali. Prigioniero di uno Stato democratico in cui in tanti, giustamente, protestiamo perché il regime di Al Sisi ha trattenuto per due anni in carcere un cittadino egiziano per la semplice manifestazione del pensiero. E siamo felici della scarcerazione di Patrick Zaki, tanto quanto siamo, e dovremmo essere tutti quanti, scandalizzati e pieni di orrore perché invece un cittadino italiano, un onesto e bravo avvocato, viene tenuto in ceppi, sequestrato dallo Stato italiano democratico, da due anni per l’ineffabile “concorso esterno”. Che è meno di un reato d’opinione, perché non comporta concreti atti e neanche concrete parole.

Giancarlo Pittelli è stato arrestato per la terza volta per aver scritto una lettera, mentre era in detenzione domiciliare, alla ministra e parlamentare Mara Carfagna. Ha lanciato il suo urlo disperato a un’ex collega, visto che lui stesso è stato deputato e senatore, chiedendo aiuto. È un reato? Assolutamente no. Il diritto alla comunicazione e alla corrispondenza è costituzionale e inviolabile, tanto che non ne sono privati neanche i detenuti al regime di 41bis. Pure, quando la segreteria della ministra (non se ne capisce comunque la ragione) ha trasmesso la missiva all’Ispettorato di pubblica sicurezza di Palazzo Chigi, che a sua volta l’ha inoltrata alla squadra mobile di Catanzaro e quindi al procuratore Gratteri, il reato è all’improvviso saltato fuori. Articolo 276 del codice di procedura penale, quello sulla “trasgressione alle prescrizioni imposte”.  Ma Pittelli non si è mai allontanato dal luogo della detenzione domiciliare e neanche ha comunicato, per esempio con l’uso del telefono, con persone estranee a quelle conviventi. Ha urlato la propria disperazione a una persona che evidentemente riteneva amica con parole forti ma legittime da parte di chiunque. E forse un po’ di più quando ti vedi il mondo crollare addosso e non sai neanche perché. «Sono detenuto in ragione di accuse folli formulate dalla procura di Gratteri ed asseverate dalla giurisdizione asservita», ha scritto a colei che credeva amica. È un giudizio forte, e allora? Vogliamo contestargli anche qualche reato d’opinione?

Quando il legale dice “giurisdizione asservita” si riferisce alla magistratura giudicante che nel suo caso non si è mai, prima della cassazione, discostata dalle richieste del procuratore Gratteri. Il quale aveva da subito dato un giudizio politico (e illegittimo, secondo le norme sulla presunzione di innocenza) sul boccone grosso del suo blitz, definendo il legale «l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria». In ogni caso, asserviti o non asserviti che siano gli organi giudicanti al Gratteri pensiero, fatto sta che il tribunale di Vibo Valentia, competente a decidere sulla richiesta della procura, ha stabilito che…indovinate un po’? Che Giancarlo Pittelli tornasse in carcere. Per reato epistolare, evidentemente. Non solo per aver trasgredito alle regole del silenzio imposte, neanche dovesse abitare in un convento di clausura, ma anche per la sua intenzione -così è scritto nel provvedimento- di reiterare il reato. Perché, nel tentativo disperato di sentire una voce che riteneva amica, in fondo alla lettera che inizia con “Cara Mara” (confidenza ritenuta un’aggravante), l’incauto, con comportamento da vero innocente, ha fornito il numero di telefono della moglie.

Sperando magari in una chiamata da ascoltare con il vivavoce. «Aiutami in qualunque modo –conclude- Io vivo da due anni in stato di detenzione, finito professionalmente, umanamente e finanziariamente». Invece dell’aiuto sono arrivate le manette. E un giudizio sferzante da parte delle tre giudici del collegio che sta celebrando nella maxi aula di Lamezia il processo “Rinascita Scott”. Le quali (ci è consentito rimpiangere la presidente Tiziana Macrì, costretta all’astensione per un debolissimo precedente di giudizio su richiesta del procuratore Gratteri?) rilevano anche il fatto che «Pittelli manifesta la volontà di instaurare contatti con la precipua finalità di incidere sul regolare svolgimento del processo». Dire che c’è malizia politica in questa frase è usare un eufemismo. E anche stupore. Ci siamo tuffati all’improvviso in un tribunale egiziano? O non è diritto di ogni imputato battersi per la dimostrazione della propria innocenza? E, soprattutto da parte di un esponente politico, coinvolgere amici che lo sostengano presso l’opinione pubblica per raggiungere il risultato dell’assoluzione? Che cosa si intende per “regolare processo”, forse quello in cui i giudici danno sempre ragione alla stessa parte, quella dell’accusa?

Il 19 dicembre scadono due anni da quando l’avvocato Pittelli è stato trascinato in manette di notte insieme ad altre 300 persone nell’operazione “Rinascita Scott”, quella di cui si è vantato il procuratore Gratteri il giorno dopo in una di quelle conferenze stampa che, se verrà osservata la decisione del Parlamento in ottemperanza di decisioni europee, nessun procuratore potrà più mettere in scena. A meno che non stia scoppiando una guerra nucleare o non stiano arrivando gli alieni. Mentre l’avvocato giaceva nel carcere nuorese di Bad‘e Carros, quello in cui negli anni settanta e ottanta venivano rinchiusi i sospetti di terrorismo, l’ipotesi d’accusa del 2019 si era afflosciata come un soufflé subito in cassazione. Il legale non era un affiliato alla ‘ndrangheta, avevano detto gli alti magistrati, e neanche era responsabile di rivelazione di segreti d’ufficio e di abuso in atti d’ufficio. Non era stato “promotore” di cosche mafiose neanche come soggetto esterno. Però un po’ esterno comunque era considerato, secondo quella vulgata sbirresca per cui l’avvocato è contagiato dall’assistito, così, oltre a essere considerato un intralcio allo svolgimento del processo, è per forza il sodale della persona che difende. Se assiste il mafioso, o presunto tale, in qualche modo è un po’ mafioso anche lui.

Le accuse che lo riguardavano erano frutto di intercettazioni. Nella sbobinatura di una delle quali era addirittura risultata, da una perizia di parte, l’aggiunta di un avverbio che nel testo verbale non esisteva. Non è un particolare da niente, perché Giancarlo Pittelli è sospettato di aver divulgato al proprio assistito notizie apprese dal verbale di un “pentito”. Il che, per noi giornalisti, e in particolare per chi è stato cronista giudiziario, fa solo ridere. Ancora ieri alcuni quotidiani erano invasi da intercettazioni (coperte da segreto) tra mister Viperetta e la figlia. Da Mani Pulite in avanti alcuni pm hanno continuato a depositare gli atti direttamente in edicola. E nessuno di loro è mai stato neanche indagato. Di che cosa ci scandalizziamo, dunque?  Comunque l’avverbio che non c’era è “ancora”. Perché un conto è dire non ho visto la deposizione di Tizio, altro conto è dire non l’ho “ancora” vista. Sono cose così quelle per cui Giancarlo Pittelli è un murato vivo, un prigioniero politico di un Paese democratico, il Patrick Zaki italiano. Sono le cose che aveva scritto al deputato Vittorio Sgarbi, l’unico parlamentare che lo aveva visitato nel carcere di Nuoro e che gli ha promesso un’interrogazione. Sono le stesse scritte alla ministra Carfagna in una lettera che gli è costata il terzo arresto. Tra pochi giorni è l’anniversario del blitz. E poi è Natale. Rimandate a casa l’avvocato Pittelli, se l’Italia non è l’Egitto.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pittelli scrive al ministro Carfagna, Gratteri lo arresta di nuovo. Pittelli dai domiciliari aveva scritto una lettera al ministro Carfagna, professando la sua innocenza. La Dda di Catanzaro ha chiesto e ottenuto il carcere. Il Dubbio il 9 dicembre 2021. Torna in carcere Giancarlo Pittelli, l’ex parlamentare di Forza Italia e avvocato imputato per associazione mafiosa nel processo Rinascita Scott, era ai domiciliari. Lo ha deciso il Tribunale di Vibo Valentia. All’origine dell’aggravamento della misura, secondo quanto si è appreso, una lettera che Pittelli avrebbe scritto ai primi di ottobre alla segreteria del ministro per il Sud Mara Carfagna nella quale chiedeva al ministro “Aiutami in qualunque modo”. Lettera che poi, secondo quanto si è appreso, è giunta alla Dda di Catanzaro che ha chiesto al Tribunale l’aggravamento della misura cautelare per violazione dei domiciliari. Nella lettera, secondo quanto si è appreso, Pittelli ripercorre le accuse che gli vengono contestate e manifesta la propria innocenza. L’ex parlamentare si sarebbe rivolto alla Carfagna, sua ex collega di partito, dandole del tu e lasciando il numero di telefono della moglie per eventuali comunicazioni. La segreteria del Ministro, sempre secondo quanto si è appreso, ha inviato la missiva all’ispettorato di Palazzo Chigi che, a sua volta, l’ha trasmessa alla Squadra mobile di Catanzaro e, da qui, è giunta alla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. I magistrati, alla luce di quanto accaduto, hanno inviato al Tribunale di Vibo Valentia che giudica il processo Rinascita Scott (Brigida Cavasino presidente, Gilda Romano e Claudia Caputo a latere) una richiesta di aggravamento della misura cautelare. Il collegio ha accolto la richiesta e ha disposto una nuova misura cautelare in carcere per Pittelli, ritenendo che la vicenda dimostri l’insufficienza degli arresti domiciliari. Pittelli torna in carcere per la terza volta: la prima è stato a dicembre 2019 quando fu arrestato nell’ambito dell’operazione Rinascita Scott. Dopo quasi un anno di detenzione a Nuoro il legale è stato destinato ai domiciliari. Il 19 ottobre è stato riarrestato dalla Dda di Reggio Calabria con l’operazione “Mala Pigna” e ha scontato altri 27 giorni di carcere prima che il Riesame lo ridestinasse ai domiciliari. Revocati adesso e trasformati in detenzione in carcere per la lettera a Mara Carfagna.

Pittelli torna in carcere per una lettera. La difesa: «Temiamo per la sua tenuta». L’ex parlamentare, imputato per concorso esterno, ha chiesto aiuto alla ministra Carfagna, che ha informato la Polizia: «Sono innocente, da Gratteri accuse folli». Simona Musco su Il Dubbio il 9 dicembre 2021. «Aiutami in qualche modo». L’ex deputato di Forza Italia e penalista Giancarlo Pittelli ha deciso di affidare il suo grido di dolore ad una lettera indirizzata alla ministra per il Sud Mara Carfagna. Un appello fuori dalle regole, disperato, che si è rivelato un boomerang, costandogli nuovamente l’ingresso in carcere. Alla base della decisione del Tribunale di Vibo Valentia, che ha accolto la richiesta della Dda di Catanzaro, la violazione delle restrizioni imposte dal Tribunale della Libertà al legale, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Rinascita-Scott.

Per i giudici, infatti, gli arresti domiciliari sarebbero del tutto inidonei «a fronteggiare le persistenti e, anzi, aggravate esigenze cautelari». Pittelli, insomma, avrebbe interferito con il processo in corso, dimostrando anche la volontà di reiterare tali interferenze, fornendo alla ministra il numero di sua moglie. E proprio per tale motivo ora si trova in carcere a Catanzaro. «Ora temiamo davvero per la sua incolumità e che possa compiere azioni estreme. Sono molto preoccupato», dice al Dubbio Guido Contestabile, uno dei legali dell’ex parlamentare. Che oggi depositerà il ricorso contro l’ennesima misura cautelare in carcere rimediata dal penalista, che da mesi denuncia di essere vittima di una «persecuzione giudiziaria».

Pittelli di nuovo in carcere, parla l’avvocato Contestabile

«Sicuramente ha fatto una scelta improvvida – spiega Contestabile -, ma secondo noi si tratta di una non lettera, perché non chiede alla ministra di fare alcunché, se non di aiutarlo per quanto è nelle sue possibilità. È sicuramente una violazione delle prescrizioni, ma secondo noi non si tratta di una comunicazione, perché la comunicazione presuppone che ci siano almeno due persone e in questo caso non è così. È la lettera di un uomo disperato e la scelta di mandarlo in carcere mi appare esagerata e opinabile».

La missiva, datata 8 ottobre 2021, è arrivata al ministero di Carfagna, compagna di partito di Pittelli, che però ha deciso – pur in assenza di obbligo di denuncia – di inoltrare la lettera all’Ispettorato di Pubblica sicurezza di Palazzo Chigi, che ha dunque inviato il tutto alla Questura di Catanzaro. Da lì l’intervento della Dda, che ha chiesto al giudice di infliggere a Pittelli una misura più dura, rafforzando la propria idea di avere a che fare con un uomo che agisce consapevolmente al di fuori delle regole. A partire dall’incipit dellla lettera: «Cara Mara – si legge -, non potrei avere rapporti di corrispondenza con nessuno ma ti prego di credere che sono ormai disperato».

Pittelli: «Sono in mano a dei folli»

L’ex parlamentare sostiene di ritrovarsi agli arresti «in ragione di accuse folli formulate dalla procura di Gratteri e asseverate dalla giurisdizione asservita. L’accusa di concorso esterno rimessa in piedi nei miei confronti consisterebbe nell’avere rivelato ad esponenti della cosca di ‘ndrangheta denominata Mancuso il contenuto dei verbali secretati delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Andrea Mantella.

L’indizio sarebbe rappresentato dal contenuto di una conversazione captata nel corso della quale, il 12 settembre 2016, io, interloquendo con un cliente, ho affermato: “Dice (dicunt) che ha scritto (il pentito) una lettera alla madre e che accusa il fratello”. La Cassazione – aggiungeva – ha preso atto del fatto che dalla lettera scritta dal pentito alla madre i quotidiani calabresi ne avevano già parlato alcune settimane prima del 12 settembre 2016. Di contro ha ritenuto efficace il riscontro costituito dall’affermazione circa le accuse mosse nei confronti del fratello: fatto che avrei potuto apprendere soltanto dalla lettura dei verbali non estesi».

Pittelli e le dichiarazioni del pentito

Ma l’accusa nei confronti del fratello, spiegava Pittelli, si sarebbe verificata mesi dopo il 12 settembre 2016, motivo per cui «vi è la prova in atti che la mia altro non era che la corretta lettura di una previsione agevolissima da compiere, attesa la caratura criminale della famiglia del collaboratore».

Nella lettera, Pittelli, sostiene l’esistenza in atti della prova della «manipolazione» di un’altra captazione ambientale, relativa alle dichiarazioni del pentito: «Io affermo di non poter dare consigli in quanto “non sappiamo cosa dirà costui”. Gli inquirenti aggiungono alla frase l’avverbio “ancora” (la perizia trascrittiva lo dimostra indicandomi quale soggetto proteso comunque, alla ricerca dei verbali)».

Ma Pittelli sostiene di aver parlato con i suoi clienti soltanto della «esistenza di verbali con 250 omissis e da qui la considerazione dell’effetto devastante che avranno le dichiarazioni del pentito sulla criminalità del comprensorio. Tutto qui. Non ti nascondo nulla, ti rappresento la verità dei fatti. Stiamo preparando una nuova istanza nel merito e un’interrogazione parlamentare che Vittorio Sgarbi proporrà come primo firmatario», interrogazione in realtà mai presentata.

Pittelli: «Sono innocente, non abbandonatemi»

«Ti chiedo di non abbandonarmi perché sono un innocente finito nelle grinfie per ragioni che ti rivelerò alla prima occasione. Aiutami in qualunque modo. Io vivo da due anni in stato di detenzione, finito professionalmente, umanamente e finanziariamente – si legge ancora -. Tutto ciò non è giusto. A tutto questo aggiungi che non sono mai stato interrogato dai magistrati del Pm, né dal gip dopo essermi avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio di garanzia. Non avevo avuto il tempo di leggere le 30mila pagine di ordinanza e richiesta». Nel chiudere la lettera, Pittelli fornisce dunque a Carfagna il numero della moglie, confidando sull’immunità parlamentare che tutelerebbe la ministra, anche se «talvolta qualcuno se ne dimentica di proposito».

La decisione dei giudici su Pittelli

Per i giudici, però, «Pittelli ha consapevolmente trasgredito alle prescrizioni impostegli con il provvedimento di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nella parte in cui fa divieto di colloquiare o comunicare anche per telefono o con sistemi telematici con persone diverse da quelle che con lui coabitano. Peraltro dalla missiva emerge, altresì, la volontà di reiterare la violazione, laddove l’imputato invita il destinatario a contattarlo su un’utenza telefonica dallo stesso fornita e indicata come in uso alla coniuge – affermano i giudici -. Pittelli manifesta la volontà di instaurare contatti con la precipua finalità di incidere sul regolare svolgimento del processo, in cui è ancora in corso la complessa istruttoria dibattimentale, consistente, tra l’altro, nella trascrizione peritale di un compendio intercettivo corposissimo e nell’escussione di centinaia di testimoni». 

Storia di un accanimento: perché l’avvocato Pittelli deve tornare in carcere? Giancarlo Pittelli non è un semplice imputato, ma innanzitutto un simbolo, un paradigma. E in ciò che gli sta capitando si coglie il sapore acre di un inaccettabile avvertimento per tutti noi, chiamati ad indossare la toga. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 10 dicembre 2021. Nessuna persona dotata di buon senso e di un minimo di onestà intellettuale può ignorare la dimensione anomala dell’accanimento giudiziario che continua a colpire l’avvocato Giancarlo Pittelli. Il tema che deve discutersi non è “se” di accanimento si tratti, talmente solare ne è la evidenza, ma “perché” l’avvocato Pittelli ne sia destinatario.

Sul “se”, basterà ricordare i lunghi mesi di detenzione cautelare al 41 bis nel carcere più duro ed irraggiungibile d’Italia, Bad’e Carros, voluti ed ottenuti dalla Procura di Catanzaro. Quindi, dopo mesi di arresti domiciliari, la nuova misura cautelare, per una diversa inchiesta questa volta della Procura di Reggio Calabria, pretesa da quella Procura e disposta dal GIP nuovamente in carcere, pur riguardando ipotesi di reato ovviamente precedenti a quelle per le quali era da molti mesi ormai ai domiciliari. Una assurdità talmente eclatante da averne determinato l’intervento correttivo da parte del Tribunale del Riesame (ma altro carcere, intanto).

Ora siamo raggiunti dalla notizia di un nuovo aggravamento della misura cautelare, che ha precipitato l’avv. Pittelli per la terza volta nell’inferno del carcere preventivo (che, secondo Costituzione, deve essere la più estrema ed eccezionale delle soluzioni). Il motivo? Ha scritto una disperata lettera ad una Ministra della Repubblica, Mara Carfagna, supplicandola di occuparsi del suo caso, che lo vede privato della libertà prima ancora del giudizio da circa due anni, lui che – dettaglio generalmente avvertito come irrilevante – si protesta del tutto innocente.

Diciamo subito che Pittelli era ristretto in un regime di arresti domiciliari con divieto di comunicazione con persone diverse dai conviventi. Perfino se volessimo considerare la lettera di denuncia ad un Ministro della Repubblica come violativa di quel divieto – e formalmente lo è – è bene si sappia che non ogni infrazione dei divieti cautelari giustifica l’aggravamento della misura. La vita giudiziaria è quotidianamente segnata da casi anche più gravi, che ciascun giudice è chiamato a valutare nella loro concreta idoneità a mettere in discussione il quadro di adeguatezza della misura cautelare in esecuzione. Nessun automatismo, dunque. Ora, quale grado di allarme cautelare può suscitare un appello di un detenuto ad un Ministro, perché si occupi del suo caso? È forse messa in pericolo l’acquisizione della prova dibattimentale? O magari è indicativo di una intenzione di reiterare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa? O tradisce forse un progetto di fuga? Insomma, perché l’imputato Pittelli deve tornare in carcere, pur dopo aver infranto quel divieto?

Lo smarrimento di ogni proporzione tra l’azione e la reazione è talmente evidente da non meritare ulteriori illustrazioni. E dunque, perché? Ecco il punto. Giancarlo Pittelli non è un semplice imputato, ma – suo malgrado – innanzitutto un simbolo, un paradigma. Rappresenta, nel modo più estremo e drammatico, l’idea del difensore che si rende complice del proprio assistito, cioè una idea dominante in modo quasi ossessivo nella cultura poliziesca e nella vulgata giustizialista. Io non so se l’avv. Pittelli, tradendo in tal caso la sua funzione ed i suoi doveri professionali, si sia reso responsabile di una complicità con i propri assistiti, ciò che naturalmente è ben possibile che accada e che, sebbene in modo statisticamente eccezionale, accade e sempre accadrà nella comune esperienza forense. Non è mio, non è nostro il compito di giudicarlo, egli è affidato ad i suoi giudici. Ma è difficile pensare che questa durezza così sproporzionata e reiterata, questa tempesta perfetta che sembra voler annientare e distruggere un uomo prima ancora dell’accertamento delle sue ipotizzate responsabilità, sia indifferente al ruolo simbolico che, sventuratamente, egli si trova ad interpretare. E quando la giustizia penale abbandona il terreno suo naturale del giudizio sui fatti e sulle responsabilità, per lasciare spazio al valore simbolico ed esemplare dei suoi atti, essa apre la strada alle ingiustizie più feroci.

L’avvocato penalista assolve ad un compito straordinariamente difficile, che è quello di tutelare la presunzione di non colpevolezza dei propri assistiti, e di veder garantito il principio fondamentale per il quale l’onere della prova è in capo all’Accusa. Tra questo suo compito, vitale in ogni società civile, e la collusione criminale con il proprio assistito, corre uno spazio enorme, fatto anche – come in una tavolozza di colori dal bianco al nero – di comportamenti superficiali, avventati, negligenti, imprudenti, arroganti, deontologicamente censurabili, prima che schiettamente illeciti. La incomprensibile durezza di questo obiettivo accanimento cautelare sembra in realtà voler negare, sul piano ben più ampio dei principi generali, quei margini, avvicinando brutalmente il bianco al nero, nella inconfessata e magari inconsapevole idea che il difensore rappresenti comunque un ostacolo sulla strada della Giustizia, piuttosto che un protagonista indispensabile della giurisdizione. Non so cosa abbia fatto davvero l’avvocato Pittelli, e quali siano le sue eventuali responsabilità. Ma faccio fatica a non cogliere, in ciò che gli sta accadendo, il sapore acre di un inaccettabile avvertimento per tutti noi, chiamati ad indossare la toga con rigore etico e professionale certamente, ma con piena ed intangibile libertà, chiunque sia il nostro assistito, per consentire al Giudice la massima riduzione possibile dei suoi margini di errore. E questo noi non possiamo accettarlo. Abbiamo anzi il dovere di non accettarlo. 

Sgarbi: «Il caso Pittelli? È tortura. Da Carfagna azione indegna». L'ex parlamentare di Forza Italia torna in carcere per la terza volta dopo la lettera-appello a Mara Carfagna. La dura reazione di Sgarbi: «Dalla ministra gesto vergognoso». Il Dubbio il 10 dicembre 2021. «Arrestare Pittelli per una lettera è un’enormità, la misura di una forma prepotenza, una forma di tortura applicata dai magistrati, che dai domiciliari mettono in carcere una persona per punirla, quando il carcere dovrebbe rieducare». Non si dà pace Vittorio Sgarbi. Che dopo i nuovi risvolti nel caso dell’ex parlamentare di Forza Italia e penalista Giancarlo Pittelli, affida a un video su Facebook tutta la sua indignazione: «Mara Carfagna è indegna di essere un parlamentare, dovrebbe essere cacciata dal partito di Berlusconi, condannato da magistrati che hanno applicato una loro visione politica alla loro attività giudiziaria».

Imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Rinascita-Scott, Pittelli aveva deciso infatti di scrivere una lettera alla ministra per il Sud Mara Carfagna per chiederle aiuto. Un appello che si è rivelato un boomerang, costandogli nuovamente l’ingresso in carcere, per la terza volta. Alla base della decisione del Tribunale di Vibo Valentia, che ha accolto la richiesta della Dda di Catanzaro, la violazione delle restrizioni imposte dal Tribunale della Libertà a Pittelli. Ma come è arrivata la lettera nelle mani della Dda? Dalla scrivania della stessa ministra, che l’avrebbe trasmessa all’ispettorato di Palazzo Chigi che, a sua volta, l’ha inviata alla Squadra mobile di Catanzaro. E, da qui, la missiva è giunta alla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. Secondo un percorso e un’azione da parte della ministra Carfagna «vergognosa», anzi «inqualificabile» secondo Sgarbi, per il quale scrivere a un deputato rientrava perfettamente nelle garanzie difensive di Pittelli. Garanzie più volte violate, ribadisce il politico e critico d’arte. Che sul caso si era già espresso nel 2020 dopo aver subito un’ispezione a sorpresa nel carcere di massima sicurezza di Badu ‘e Carros, a Nuoro, dove al tempo Pittelli si trovava detenuto in regime di isolamento. «La carcerazione di Pittelli – denunciava Sgarbi – viola la Costituzione e lo stato di diritto perché viene tenuto in carcere senza che sia stato mai interrogato e senza che sia stato celebrato un processo. Nei suoi confronti accuse fumose, frutto di ipotesi senza prove, in spregio a ogni principio di civiltà giuridica». Le condizioni dell’ex parlamentare venivano definite «preoccupanti». «È visibilmente gonfio – riferiva – in uno stato di forte depressione, psicologicamente provato: condizioni di salute oggettivamente incompatibili con la detenzione». Nel mirino di Sgarbi il procuratore Gratteri, titolare di un’inchiesta che, sottolineava il parlamentare, è «nota per l’inconsistenza dei capi d’accusa e abuso della carcerazione preventiva». Per questa ragione, Sgarbi aveva quindi deciso di presentare un esposto al Csm contro Gratteri, per abuso di potere e violazione dei diritti umani. 

Caso Pittelli, l’Ocf: «Rimetterlo in carcere è un accanimento aberrante». Per l'Organismo Congressuale Forense il caso dell'ex parlamentare rispedito in carcere dopo la lettera alla ministra Carfagna, è «l'ennesima riprova della deriva giustizialista che pervade taluni uffici giudiziari». su Il Dubbio il 9 dicembre 2021. «L’Organismo Congressuale Forense stigmatizza l’accanimento giudiziario mostrato dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia, che ha deciso di rimandare in carcere l’ex deputato di Forza Italia, avvocato Giancarlo Pittelli, colpevole soltanto di aver cercato di difendersi scrivendo una lettera a un esponente politico per chiedere di interessarsi del suo caso». È la dura nota con con cui l’Ocf denuncia la «nuova aberrante circostanza» contro Pittelli. «Protagonista di una vicenda surreale, era finito in carcere il 19 ottobre scorso nell’inchiesta “Mala Pigna” della Dda di Reggio Calabria ed era stato rimesso ai domiciliari dal Riesame di Reggio Calabria, ma era stato trattenuto in carcere più del dovuto per mancanza di braccialetti elettronici», spiega l’organismo forense. Imputato per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Rinascita-Scott, ora Pittelli è tornato in carcere per la terza volta perché secondo i giudici – scrivendo al ministro Mara Carfagna – l’ex deputato avrebbe violato gli arresti domiciliari ai quali era sottoposto. Un’aggravamento della misura cautelare che per l’Ocf è «l’ennesima riprova della deriva giustizialista che pervade taluni uffici giudiziari».

Il nuovo arresto dell'ex senatore. Conosco le carte del processo Pittelli, per Travaglio sono un rompicoglioni: “I veri giornalisti credono ai Pm”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Il nuovo arresto dell’ex senatore Giancarlo Pittelli non ha indignato molto il mondo politico. Il mondo politico si indigna se arrestano qualcuno in Venezuela, o in Turchia, o in Thailandia, o in Egitto. Se in Italia prendono un avvocato, ex parlamentare, e lo sbattono in cella perché ha scritto una lettera alla ministra Mara Carfagna, il mondo politico non si indigna. O forse si indigna, ma l’indignazione se la tiene nell’intimo. Perché? Perché se la fa addosso di fronte ai Pm, cioè a quei Pm che sanno il fatto loro e che considerano la possibilità – grazie alla compiacenza di un Gip – di arrestare la gente e metterla, più o meno, alla tortura, come uno degli aspetti più interessanti e forse eccitanti del proprio lavoro. La storia di Pittelli l’ha raccontata benissimo Tiziana Maiolo, ieri, su questo giornale. Non serve tornarci. In sintesi, questo avvocato Pittelli è stato arrestato con accuse gravissime, incorniciate dal reato fantasma di concorso esterno in associazione mafiosa; poi le accuse si sono sgretolate una ad una ed è rimasto solo il reato cornice, che in queste condizioni diventa ancora più surreale. Non solo è un reato associativo (che già di per sé è un reato molto discutibile) non solo questo reato associativo esiste fino a un certo punto perché comunque in realtà è solo “concorso” (si potrebbe dire “concorso in concorso”), e non solo questo strano reato associativo è contraddetto – in punta di diritto e di vocabolario italiano – dall’essere l’imputato esterno (estraneo) all’associazione, e quindi, evidentemente, innocente; ma per di più, con la caduta di tutte le altre imputazioni di merito, si scopre che questa associazione era una scatola vuota. Dico io: ma se una associazione a delinquere non commette delitti, e tu comunque non ne fai parte, ma come è possibile considerarti colpevole di qualcosa?

Colpevole o no, Pittelli è stato tenuto un anno in isolamento a Badu e Carros, carcere di massima sicurezza per terroristi e mafiosi. Lontanissimo da casa. Mai interrogato dal suo Pm. Ridotto allo stremo delle forze e poi, finalmente, mandato ai domiciliari. Ma siccome dai domiciliari ha scritto una lettera a Mara Carfagna lo hanno arrestato di nuovo, accusandolo, credo, di epistolaggio illecito. Ma se il governo di un paese straniero venisse a scoprire che in Italia si arresta così la gente, e si perseguita un ex senatore, secondo voi ci sarebbe poi da scandalizzarsi se questo governo decidesse qualche sanzione economica nei confronti dell’Italia? L’unico che si è indignato per la vicenda Pittelli è Marco Travaglio. Il quale le ha dedicato molto spazio sul suo giornale e anche il suo editoriale. Ma non s’è indignato per l’eccesso di manette ma per il difetto di manette. Dice Travaglio che il delitto di Pittelli è spaventoso. Perché? Perché – e questa è anche la motivazione del giudice che ha dato il via libero all’arresto – con quella lettera Pittelli ha tentato di inquinare il processo. E come lo avrebbe inquinato? Forse Mara Carfagna ha il potere di influire sulle decisioni di Gratteri o dei giudici? Oppure è stato stabilito il principio che un imputato, accusato di reati infamanti, anche se si ritiene, e forse è, innocente, non ha il diritto di difendersi pubblicamente e deve comunque accettare la gogna come privilegio inalienabile dei pubblici ministeri, cioè degli inquisitori? Perché mai – mi dovrebbe spiegare qualcuno – un imputato non può scrivere a una sua ex collega raccontandogli le angherie subite o che ritiene di aver subito? E come questo può essere considerato un crimine? Credo che ormai neppure a Cuba sia negato questo diritto di parola agli imputati, ma forse mi sbaglio. Travaglio poi – ho visto, e la cosa mi ha fatto sorridere – se la prende anche con me perchè nella lettera di Pittelli c’è scritto che io non lo ho mai abbandonato e che conosco perfettamente le carte del processo. Dice il mio amico Marco: Scandalo, Scandalo, dunque un giornalista ha messo il naso nella carte del processo invece di accontentarsi delle dichiarazioni dei Pm? Dice Marco che questa è una vergogna, perché i giornalisti che cercano di capire consultando la difesa invece dell’accusa, sono dei gazzettieri…

Francamente non so come spiegarglielo il mio punto di vista. Il fatto è che tra me e lui c’è una fortissima differenza generazionale. Quando io ho iniziato a fare questo mestiere mi hanno insegnato che il giornalista deve fare le bucce al potere. Non a chi subisce il potere. In un processo, il potere lo hanno i Pm e gli imputati lo subiscono. Allora – mi hanno insegnato in quell’epoca lontana – bisogna stare bene attenti che i magistrati non approfittino del loro potere, e non bisogna dare mai per buone le cose che dicono, ma cercare di vedere le carte e capire che c’è dentro.

Il mio amico Marco, che è molto più giovane di me, ha iniziato a fare il giornalista, credo, dopo “mani pulite”. E dopo “mani pulite” è cambiato tutto: si è stabilito che il giornalista perbene doveva credere al Pm e non rompere i coglioni. Lui è cresciuto così, difficile fargli credere che fosse più ragionevole il vecchio metodo. Probabilmente Montanelli – che spesso lui dice sia stato il suo maestro – si è dimenticato di dirglielo. E lui, Marco, non si è accorto che Montanelli fu uno dei pochi – per esempio in occasione del caso Tortora – che usò il vecchio metodo che ora lui aborre, e non si fidò né dei Pm né dei giudici.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2021. Poi Patrick Zaki ha aperto bocca a margine delle tremila interviste rilasciate dopo la sua liberazione: e si è visto che non parla una parola d’italiano. Tutti di sale, ma guai a dirlo. Rispondeva in inglese. Cioè: «Zaki uno di noi», «cittadino italiano», le luci dei municipi accese, le candele alle finestre, centinaia di comuni a conferirgli la cittadinanza onoraria, una mozione in Senato per dargli la cittadinanza italiana, la richiesta al Governo di motivarla con «meriti speciali», quasi 300mila firme, l’appello della conferenza dei rettori, 26 europarlamentari e una lettera all’ambasciata del Cairo, una risoluzione a Bruxelles, studenti mobilitati, Patrick «affamato di conoscenza», appassionato di «letteratura napoletana, «Zaki il bolognese», la maglietta della «sua» università recapitata dall’Ateneo, la borsa di studio per lui «sempre teso alla condivisione, quell’ansia di conoscere e di sapere», il master frequentato nella «sua» Bologna: anche se non è chiaro in che lingua. Poi capisci che l’unica cosa che conta è che abbiano liberato un detenuto per un reato di opinione, anche se è accaduto in Egitto con un detenuto egiziano. Andrea Costantino e Marco Zennaro, invece, accusati di reati indefiniti, sono due detenuti incarcerati rispettivamente negli Emirati Arabi e in Sudan, ma, dopo il caso Regeni, sono solo italiani e non egiziani. 

Dalla rubrica delle lettere de “la Repubblica” l'11 dicembre 2021. Caro Merlo, il tunisino Wissem Ben Abdel, morto a 26 anni al San Camillo, secondo la famiglia e tre testimoni è stato picchiato dalla polizia nel Centro di accoglienza, il Pm è stato avvisato tardi e l'autopsia è stata fatta senza avvocati. La Tunisia protesta e nelle strade manifestano chiedendo giustizia. Lo abbiamo ucciso di botte! Pietà l'è morta. Ada Bolognesi - Roma

Risposta di Francesco Merlo

È morto legato a un letto, vedremo se di botte. L'Italia che aveva sognato si è rivelata una trappola di disumanità e i tunisini pretendono la trasparenza che noi pretendiamo dall'Egitto per Zaky e Regeni. Non ci si può indignare contro le violenze degli altri e balbettare quando di violenza siamo accusati noi.

Patrick Zaki, Nicola Porro e il paradosso della giustizia in Italia: "Quello che non viene scritto". Il Tempo il 09 dicembre 2021. Dopo 22 mesi di detenzione, il tribunale egiziano di Mansura ha ordinato il rilascio, in attesa del processo, per Patrick Zaki, l'attivista per i diritti umani e studente incarcerato a febbraio 2020. La prossima udienza si terrà il 1 febbraio, ma mentre difesa e pubblici ministeri prepareranno le loro argomentazioni finalmente Zaki sarà libero, probabilmente da mercoledì o nei giorni seguenti. Zaki, studente dell'Università di Bologna oggi 30enne, è stato arrestato nel febbraio 2020 poco dopo essere atterrato al Cairo per un breve viaggio di ritorno dall'Italia. Da allora è stato detenuto e accusato di aver diffuso notizie false sull'Egitto a livello nazionale e all'estero. Le accuse derivano da articoli di opinione scritti da Zaki nel 2019 e che parlano della discriminazione contro i cristiani copti in Egitto.  Nicola Porro, nella sua rassegna stampa mattutina segnala gli articoli più importanti della giornata evidenziando che su tutti i quotidiani c'è solo la notizia di Zaki fuori dal carcere dopo mesi di apprensione e di interessamento da parte dell'Italia: "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina" commenta il giornalista che evidenzia un particolare di cui invece pochi parlano: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". Porro ritiene "giusta l'indignazione nei confronti di Zaki ma poi - evidenzia - in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". "La cosa straordinaria - spiega Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". 

Patrick Zaki, Nicola Porro: "Sapete come funziona la giustizia in Italia?", quello che i giornali non dicono. Libero Quotidiano il 9 dicembre 2021. "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina": Nicola Porro, nella sua consueta rassegna stampa della mattina, annota gli articoli e gli argomenti più importanti della giornata. Oggi in primo piano c'era, appunto, la scarcerazione dello studente egiziano, dopo 22 mesi di detenzione. Il giornalista, però, ha voluto far notare un dettaglio, che molti giornali non hanno riportato: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". E' un discorso di giustizia e garantismo quello fatto da Porro, che poi sull'argomento chiosa in questo modo: "Giusta l'indignazione nei confronti di Zaki, ma poi in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". Specificando: "Che nemmeno conosco". 

Il sistema giudiziario italiano come quello egiziano. Il caso Pittelli è come quello Zaky, l’Anm si infuria con il Riformista. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. Il sindacato dei magistrati, quello così ben descritto nelle sue trame politiche nel libro Il Sistema di Palamara e Sallusti, se la prende con il Riformista. Perché abbiamo paragonato il sistema giudiziario italiano a quello egiziano e il caso di Giancarlo Pittelli a quello di Patrick Zaki. E anche perché abbiamo ironicamente qualificato come “malizia politica” e anche “stupore” le parole delle tre giudici del tribunale di Vibo che ha riportato in carcere l’avvocato calabrese, quando affermano che «Pittelli manifesta la volontà di instaurare contatti con la precipua finalità di incidere sul regolare svolgimento del processo». Se qualcuno si fosse aspettato una bella vigorosa lavata di capo da parte di un sindacato forte e con voce in capitolo, un ruggito alla Landini con le sue bandiere rosse, dobbiamo subito deluderlo. Anzi, possiamo persino buttarla in ironia, anche se chi indossa la toga, forse per deformazione professionale, in genere ne ha un po’ pochina. Pare quasi che nella sede centrale dell’ Anm, il sindacato dei magistrati, esistano delle schede prestampate a schema fisso, con scritto “autonomia e indipendenza” (quella da tutelare) e poi “finalità politiche”, quelle che gli altri attribuiscono alle toghe suscitando la loro indignazione. Come se non ci fosse più, nell’era post-Palamara, qualcuno in grado di elaborare un pensiero, non dico originale, ma almeno alfabetizzato. Mai una volta, per esempio, che il sindacato dei giudici e dei pm parli, oltre che di indipendenza e autonomia della magistratura anche dell’imparzialità, al pari degli altri due, valore costituzionale. Avrebbero potuto, i sindacalisti dell’Anm, descrivere le tre giudici del tribunale di Lamezia come “imparziali” soprattutto, visto anche che lo stesso avvocato Pittelli, nella lettera a Mara Carfagna che gli è costata la sua terza carcerazione, affermava che in Calabria esiste una giurisdizione “asservita” al volere del potente procuratore Nicola Gratteri. Noi stessi, che siamo maliziosi e non abbiamo reputazione di essere amici delle toghe, abbiamo avanzato dubbi sul fatto che la sciagurata contiguità tutta italiana tra giudice e accusatore sia sempre anche complicità. A maggior ragione dai vertici del sindacato impegnati nella difesa (un po’ anomala, perché mettono insieme il procuratore e i giudici) dei colleghi, ci si aspetterebbero parole del tipo: come vi permettete, voi del Riformista, di insinuare che le nostre giudici di Vibo non siano imparziali? Sarebbe stato un argomento –in questo caso sbagliato, perché noi non l’abbiamo messo in dubbio- ma in qualche modo sensato. Ma a chi pensate possa interessare invece la loro “autonomia e indipendenza”? Soprattutto affiancata a quella del procuratore Gratteri? E veniamo così all’indignazione più politica, quella che prende spunto dal paragone fatto dal Riformista tra il sistema giudiziario egiziano e quello italiano. Brucia, certo, è comprensibile. Ma brucia soprattutto a noi cittadini di uno Stato democratico, ogni volta che dobbiamo constatare quanto arretrata e contraddittoria e ingiusta sia la pratica quotidiana del nostro sistema processuale penale. La custodia cautelare, prima di tutto. Abbiamo scritto e riscritto gli articoli 273 e 274 del codice di procedura penale (mi permetto di dire “abbiamo” perché mi ci sono impegnata da presidente della commissione giustizia della Camera), ma il legislatore poco può fare di fronte al modo con cui la norma viene poi applicata. La verità è che nella testa di gran parte della magistratura, e in particolare dei pubblici ministeri, alberga ben poco il concetto del principio di non colpevolezza previsto dall’articolo 27 della Costituzione. E anche del fatto che per misura cautelare non debba necessariamente intendersi la detenzione in carcere. Prendiamo l’onorevole Pittelli, per esempio. È da Stato democratico o da regime totalitario il fatto che due anni fa, dopo il glorioso blitz del procuratore Gratteri, l’avvocato sia stato sbattuto (sì, sbattuto, non trovo altri termini che definiscano meglio) nel carcere speciale di Bad ‘e Carros, lontano dalla famiglia e dai difensori ma soprattutto dal suo giudice naturale e lì ristretto per quasi un anno? Stiamo parlando di un cittadino innocente secondo la Costituzione, e stiamo parlando di custodia cautelare. Siamo sicuri che il regime di detenzione di Patrick Zaki sia stato peggiore? Inoltre: nel frattempo i reati specifici per i quali l’avvocato Pittelli era stato arrestato, sia l’abuso d’ufficio che la rivelazione di atti d’ufficio e infine quello di essere una sorta di “capo” esterno dall’organizzazione mafiosa, erano caduti. È rimasta un’unica imputazione, il concorso esterno in associazione mafiosa. Il reato che non c’è nel codice penale italiano, e probabilmente neanche in quello egiziano. Un reato molto più evanescente rispetto a quelli d’opinione contestati a Zaki, accusato, oltre che di propaganda sovversiva anche di aver diffuso notizie false. Dando per scontato che siano comunque contestazioni infondate, hanno pur sempre in sé una concretezza maggiore rispetto a quelle su cui si basano le accuse contro l’avvocato calabrese. E questa è solo la fase uno della storia giudiziaria di Giancarlo Pittelli. Con la fase due si entra nel paradossale, perché la procura di Reggio Calabria arresta a sua volta e dopo Catanzaro l’avvocato –che nel frattempo era infine, dopo un anno, approdato alla detenzione domiciliare- con un’altra accusa. E porta in carcere una persona già in custodia cautelare, che il tribunale del riesame poi rispedisce, come un bel pacco postale, ai domiciliari. Ma c’è un intoppo: il vecchio braccialetto elettronico dell’avvocato nel frattempo è stato assegnato a un altro detenuto e per lui non ce ne sono più. Così l’onorevole Pittelli subisce anche l’umiliazione di restare quattro giorni in carcere più del dovuto nell’attesa di un nuovo braccialetto. Se la fase due è paradossale, la tre è semplicemente ridicola. È il terzo arresto, per “trasgressione alle prescrizioni imposte”, articolo 276 del codice di procedura penale. Quello che viene usato in genere nei confronti di quei detenuti che si allontanano dal domicilio coatto, o che comunque comunicano in modo diretto con persone estranee a quelle conviventi. Giancarlo Pittelli non è scappato, non ha neanche fatto un salto al bar per riassaporare un caffè ben fatto, e non ha neanche comunicato in forma diretta con nessuno, non ha telefonato, per esempio. Ha scritto una lettera. Ma la lettera non è un’interlocuzione, una forma immediata e diretta di dialogo, di conversazione, di rapporto con un’altra persona. È un foglio che viene imbucato e cui il ricevente può, se vuole, rispondere in modo diciamo sfasato rispetto a chi lo ha scritto e spedito. In che modo quindi Giancarlo Pittelli avrebbe comunicato con la ministra Carfagna destinataria della lettera? In nessuno, anche se lei gli avesse risposto. Cosa che non ha fatto, preferendo consegnare la missiva alla polizia. Con ciò sottraendosi anche all’ipotesi un po’ ridicola e ingenua, avanzata dal tribunale, che l’intervento di una vecchia amica e collega di partito avrebbe potuto turbare lo svolgimento regolare del processo. Questa è la storia. Ma un’ultima precisazione va fatta e ribadita. Giancarlo Pittelli non è solo un cittadino trattato da uno Stato democratico alla stessa maniera degli Stati totalitari, è anche e soprattutto un avvocato. Un penalista che svolge la propria professione in una regione del sud d’Italia dove, se non vuoi occuparti solo di furti d’appartamento, incontri facilmente persone imputate di associazione mafiosa. Vien quindi da domandarsi –e ne ha parlato diffusamente il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza– se dietro la persecuzione subìta da Giancarlo Puttelli non ci sia anche un pregiudizio di procuratori e giudici che porta a far coincidere la reputazione dell’avvocato con quella del suo assistito. E quindi, in definitiva anche con il reato. Mafioso l’assistito e mafioso chi lo difende. In questo l’Italia non è seconda a nessun altro Stato, democratico o totalitario che sia.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La replica del deputato. Nota Anm contro il Riformista, Sgarbi: “Ennesimo inchino a Gratteri”. Angela Stella su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. L’Anm ieri con un duro comunicato non solo attacca la nostra Tiziana Maiolo per aver criticato il nuovo arresto di Giancarlo Pittelli ma punta il dito anche contro Vittorio Sgarbi: «Inammissibile – scrive la Giunta esecutiva centrale – è la violenza verbale usata dall’onorevole Vittorio Sgarbi, il quale, tramite alcuni video postati sulla propria pagina Facebook, ha rivolto pesanti accuse alla collega Brigida Cavasino con parole (“usa la carcerazione come strumento di tortura… non si può torturare un cittadino innocente”) che mai dovrebbero essere pronunciate nei confronti della giurisdizione, specie da un esponente delle Istituzioni della Repubblica». Brigida Cavasino è la presidente del Tribunale di Vibo Valentia che giudica il processo Rinascita Scott e che ha accolto la richiesta di aggravamento della misura cautelare per Pittelli arrivata dalla Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, dopo aver saputo che Pittelli aveva inviato una lettera a Mara Carfagna in cui chiedeva aiuto perché innocente. Abbiamo raccolto la replica dell’onorevole Sgarbi: «ll mondo va alla rovescia: quello che ho detto è il minimo sindacale per quanto accaduto. La nota dell’Anm è solo l’ennesimo atto di ossequio a Gratteri da parte di un organismo oramai noto per la cieca difesa corporativistica dei propri iscritti e di un Procuratore che è solito arrestare persone che poi vengono scarcerate. L’Anm, ipocritamente, non dice nulla contro l’abuso della carcerazione preventiva utilizzata come strumento di tortura contro imputati, com’è il caso di Pittelli, che non hanno subìto alcun processo. Non si può utilizzare il carcere come ritorsione, è da dittature sudamericane. Il carcere dovrebbe rieducare, non essere usato come strumento di punizione. Io l’ho visto Pittelli, era prostrato, umiliato. Se Pittelli dovesse morire, dovesse suicidarsi di chi sarà la responsabilità? Lo vogliono indurre ad un gesto estremo. Invece l’Anm farebbe bene a pensare ai problemi che ha internamente con le degenerazioni delle correnti». E poi arriva all’altro nodo cruciale della vicenda: «Che Paese è quello in cui si va in carcere per aver scritto una lettera e il giudice s’inventa che con quella lettera Pittelli vorrebbe influenzare il processo? Tra l’altro ha scritto a un parlamentare, la cui corrispondenza non dovrebbe essere violata in alcun modo». E qui l’attacco finale alla Ministra Carfagna: «Di fatto è stato il ministro e parlamentare ad aver fatto arrestare Pittelli consegnando, come i peggiori delatori, alla Polizia la lettera del suo ex collega parlamentare: un gesto di una vigliaccheria inqualificabile. Ed è ancora più inqualificabile il silenzio di Forza Italia sull’intera vicenda. Sono tutti dei cacasotto». Angela Stella

Lo schiaffo della Rai alla presunzione di innocenza. Sigfrido Ranucci sfida Cafiero de Raho: per Report la legge non conta, l’imputato è colpevole. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Dicembre 2021. Bel colpo della Rai, nel giorno in cui entra in vigore la legge sulla presunzione di innocenza, nelle stesse ore in cui il procuratore nazionale antimafia denuncia come “patologia del giustizialismo” e “sollecitazione a una giustizia sommaria” certa stampa. Proprio nello stesso giorno il servizio pubblico emette una sentenza di condanna nei confronti dell’avvocato Giancarlo Pittelli, oltre a tutto per fatti per cui non è neppure indagato. Bel colpo, da parte di chi ci estorce ogni mese il canone in bolletta, cioè il servizio di cui ogni cittadino è finanziatore. Dobbiamo per forza sostenere economicamente Report e la sua puntata di lunedi sera, così come quella di Presa Diretta del marzo scorso? E la Commissione di vigilanza ha qualcosa da dire?

Giancarlo Pittelli è un cittadino innocente. Non colpevole secondo la Costituzione, per la precisione. Imputato solo del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa. Arrestato tre volte con una pervicacia torturatrice di stile egiziano. Vittima costante di gogna mediatica, nonostante la Costituzione, nonostante le leggi. Viviamo in un Paese in cui, per costringere la magistratura ad applicare i principi della Carta fondamentale, dobbiamo aspettare le ripetute condanne da parte della Corte Europea e poi anche far approvare dal Parlamento leggi specifiche. In poche parole, per convincere il procuratore di Catanzaro, che ha già dichiarato di infischiarsi della Cedu e delle leggi sulla presunzione di innocenza (e almeno lui non è un ipocrita) a non denunciare in conferenze stampa gli indagati come già colpevoli, dobbiamo metterlo nero su bianco. Se no, né lui né i suoi colleghi lo capiscono. Quindi tutto continuerà come prima, nelle aule di giustizia così come in quelle dei cronisti giudiziari? A giudicare da quel che è successo il primo giorno dell’entrata in vigore della nuova legge, pare proprio di si.

Giancarlo Pittelli entra nella puntata di Report mentre una musica assordante, di quelle dei più trucidi film di Netflix, accompagna la parola “Potere”. Si parla di Monte dei Paschi, di Banca D’Italia, di traffico di diamanti e c’ è sempre il Buono contro i Cattivi, quando improvvisamente si annuncia l’ingresso di “Lui”, il Potere. E ha la faccia dell’avvocato Pittelli. Il viso compare e resta sullo schermo per un bel po’. Non è tanto rilevante la storia che viene narrata, che non pare aver nulla di illegale, e che parla di un progetto di costruzione di un centro turistico su terreni di sua proprietà a Copanello, sulla costa jonica della Calabria, quanto la presentazione del personaggio. Una sorta di scheda biografica che pare un mattinale di questura. Il conduttore Sigfrido Ranucci, che pare sempre accaldato nella fatica della sua lotta di Puro contro gli Impuri, è accompagnato da un altro giornalista di quelli che amano e si indentificano con la toga del pm, Pietro Comito dell’emittente calabrese Lactv.

Ecco come il combinato-disposto giornalistico presenta il cittadino innocente Giancarlo Pittelli: anello di congiunzione tra poteri forti, massoneria, ‘ndrangheta e finanza. Naturalmente pare obbligatorio citare esponenti delle famiglie Piromalli e Mancuso come persone assistite professionalmente dall’avvocato “fin dal 1980”. Il che deve essere un grave reato, secondo la solita vulgata sbirresca dell’ottocento, per cui se l’imputato deve essere identificato con il reato per cui lo si accusa, a maggior ragione tale commistione deve valere per il legale. Mafioso l’assistito, mafioso l’avvocato. Peggio ancora se questi è anche “anello di congiunzione” tra ambienti sospetti quanto la ‘ndrangheta, cioè la massoneria e la finanza. Tutti delinquenti. E chi lo dice che l’avvocato calabrese svolge questo ruolo così importante? Lo dice il procuratore Gratteri, naturalmente. Ah, ma parliamo della stessa persona che nei giorni scorsi ha già detto di considerarsi “legibus solutus” e di conseguenza di non tenere in nessun conto le decisioni del Parlamento? Lo stesso che nella trasmissione di Riccardo Iacona del marzo scorso ha parlato in lungo e in largo, intervistato ben sei volte nel corso della puntata, dell’inchiesta “Rinascita Scott” di cui lui stesso è titolare?

Le premesse ci sono tutte perché la svolta garantistica sulla presunzione d’innocenza fortemente voluta dalla ministra Cartabia sia una strada tutta in salita. Troppo antica, almeno trentennale, è la complicità tra la casta dei pubblici ministeri e quella dei giornalisti fondata sul mercato nero delle notizie coperte da segreto e delle intercettazioni. Tanti cronisti ci campano e ci fanno carriera, anche perché ormai nessun editore o direttore chiede più loro di saper scrivere e parlare in buon italiano per essere assunti e poi emergere nella professione. Si chiede lo scoop, e quello te lo può dare solo il rappresentate del vero potere, il magistrato. La moneta di scambio per il pm che ti rifila le notizie sottobanco, che ti passa le intercettazioni, che ti fa virgolettare le ordinanze (così si sommano i due analfabetismi) è la sua visibilità.

La popolarità che un domani lo può portare anche alla carriera politica. Sarà possibile spezzare questo vincolo “mafioso” con una legge che vieta le conferenze stampa ma, come ogni forma di proibizionismo (anche quello più ricco di buone intenzioni) non può rompere il contrabbando e il mercato nero? Difficile, a vedere quel che è successo il primo giorno. Difficile, ma non impossibile, se è sceso in campo addirittura il procuratore nazionale antimafia. Ora aspettiamo i vertici dell’Ordine e dell’Associazione dei giornalisti. Coraggio, colleghi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Malapigna, il giudice Petrini, il poliziotto e Pittelli. La zona grigia delle cosche. Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud il 20 Ottobre 2021. «La prima cosa: meno girate e meglio è. Non dovete andare da nessuna parte. Secondo: devono risultare dei pagamenti che vengono direttamente dalla famiglia». Sono le direttive che avrebbe impartito Giancarlo Pittelli, noto avvocato penalista catanzarese e ex parlamentare di Forza Italia, a Rocco Delfino, imprenditore di riferimento della cosca Piromalli di Gioia Tauro, tra le più potenti della ‘ndrangheta, della quale il legale sarebbe stato il “faccendiere”. Da un lato, Pittelli si sarebbe attivato in favore di Delfino in occasione della revisione del procedimento di prevenzione nei confronti della società in confisca Delfino Srl, pendente dinanzi al Tribunale di Catanzaro, con l’intento di influire sulle determinazioni del presidente del Collegio giudicante al fine di ottenere la revoca del sequestro. Dall’altro lato, l’ex parlamentare, sempre secondo l’accusa, avrebbe sottoposto all’attenzione di Delfino, in quanto uomo di fiducia della famiglia mafiosa di Gioia Tauro, «una missiva proveniente da Antonio Piromalli finalizzata a far risultare un pagamento tracciato e quietanzato per il consulente tecnico che avrebbe dovuto redigere la consulenza per conto di Giuseppe Piromalli detto “Facciazza”, indagato quale mandante, in concorso con altri capi di cosche di ‘ndrangheta e di Cosa nostra siciliana, dell’omicidio del giudice Scopelliti facendosi portavoce delle esigenze della cosca». In sostanza, per la Dda reggina, Pittelli avrebbe pianificato «un sistema» volto a eludere la tracciabilità del denaro necessario alle strategie difensive e proveniente da profitti criminali. E’ una figura chiave nell’inchiesta che ieri ha portato all’operazione Mala Pigna, con cui è stato sgominato il business illecito dei rifiuti dei Piromalli tra Calabria e Romagna, tant’è che gli viene contestata l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il provvedimento di custodia cautelare in carcere è stato eseguito nell’abitazione dove già si trovava agli arresti domiciliari per l’analoga imputazione di cui oggi risponde nel maxi processo Rinascita Scott, e i legami tra le due indagini sono evidenti poiché sarebbe stato il boss di Limbadi. Luigi Mancuso, imputato principale nel processo contro le cosche del Vibonese, a incaricare il penalista di mettersi a disposizione dei Piromalli in considerazione della storica alleanza tra i due clan. In particolare, il legale si sarebbe messo a disposizione di Delfino ottenendo dal colonnello Giorgio Naselli, all’epoca in cui era comandante provinciale dei carabinieri di Teramo, notizie riservate su una “pratica” relativa alla Mc Metalli, pendente presso la Prefettura di quella città, su istigazione di Delfino; un episodio oggetto peraltro dell’inchiesta Rinascita. Ma Pittelli sarebbe stato tramite tra i capi assoluti delle due cosche poiché tra le sue mani sarebbe capitata – «mi è arrivata di traverso» – una lettera dal carcere di Giuseppe Piromalli, il boss 76enne indagato per l’omicidio di Antonio Scopelliti, il sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione ucciso il 9 agosto 1991 in un agguato a Campo Calabro, mentre rientrava a casa a bordo della sua autovettura. «Allora Rocco, io devo tirare prima di tutto i vostri interessi, prima ci siete voi, poi vegono gli altri», spiega Pittelli a Delfino, nella stessa conversazione durante la quale lo avverte di un’«indagine seria che riguarda tutti». Forse l’avvocato già sapeva dell’indagine del sostituto procuratore di Reggio Calabria Giulia Pantano – titolare dell’inchiesta Mala Pigna insieme al pm Paola D’Ambrosio – alludendo a possibili dichiarazioni di un pentito che aveva chiesto al magistrato se poteva parlare di «questo». Quattro pagine di lettera fattagli recapitare da «un mastino napoletano come me che il suo avvocato sa solo giurisprudenza e non sa fare le cause», sostiene Pittelli. Insomma, «un intermediatore» che cura gli interessi della famiglia mafiosa, si evince dal tenore della conversazione, almeno questo è quanto osservano gli inquirenti. Pittelli parla di fatture e bonifici che devono arrivare direttamente e di importo «normale» altrimenti «nessuno ci crede». E’ lo stesso brano in cui l’avvocato allude a un perito «che vuole essere pagato» e il bonifico deve arrivare «direttamente da loro». «Trenta», chiede Delfino. Il riferimento è a un consulente tecnico incaricato per la perizia balistica sull’arma che sarebbe stata utilizzata per il delitto Scopelliti. Ma gli intrecci sono anche con l’inchiesta “Genesi”, quella che ha portato al processo in cui l’ex presidente della Corte d’Appello di Catanzaro Marco Petrini è stato condannato a 4 anni e mezzo per corruzione in atti giudiziari. E’ il «presidente» di cui si parla nelle intercettazioni perché dinanzi a lui pendeva il ricorso per la revisione della confisca della Delfino srl. «Ho parlato con il presidente – dice, secondo la ricostruzione dei carabinieri, Pittelli – non mi ha dato assicurazioni o meglio non me le può dare… stiamo cercando di fare di tutto». Delfino ricorda che Petrini già lo ha assolto dall’accusa di associazione mafiosa e secondo gli inquirenti altro non è che un «tentativo di raccomandare il fascicolo al presidente» al fine di ottenere la restituzione della società. Infine, una chicca. Per un procedimento amministrativo davanti al Consiglio di Stato, il solito Rocco Delfino puntava a arrivare all’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, oggi presidente aggiunto del Consiglio di Stato, completamente estraneo all’indagine tanto che i pm sottolineano la sua «inconsapevolezza». Il nome di Frattini compare in un’intercettazione registrata dai carabinieri durante un pranzo tra Delfino e Pittelli. “Nell’occasione – è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Vincenza Bellini su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri, dell’aggiunto Gaetano Paci e dei sostituti Giulia Pantano e Paola D’Ambrosio- Delfino chiedeva a Pittelli se ci fosse una qualche possibilità di influire sulle determinazioni del giudice Frattini, al fine di assicurarsi il buon esito di un ricorso. Pittelli – scrivono sempre i magistrati – dopo aver rivolto nei suoi confronti frasi dal contenuto offensivo, rispondeva negativamente in quanto il dottore Frattini, inconsapevole della vicenda di cui parlavano gli interlocutori, non si sarebbe prestato a favore del Delfino». «Com’è Frattini… chiedigli chi è Frattini». Insomma, da una parte Pittelli, andando ben oltre «i doveri etici e professionali», avrebbe assunto un ruolo nelle dinamiche della cosca comportandosi da «corriere di informazioni» tra il boss in carcere e Delfino, ma il suo interessamento non si esaurisce nella vicenda delle spese da pagare al consulente per la perizia sul delitto Scopelliti, in quanto il legale si sarebbe proposto di mediare con i magistrati, dalla Corte d’Appello al Consiglio di Stato. Non c’era solo il “mastino” a ottenere notizie riservate, che a Delfino avrebbe svelato anche un poliziotto indagato, Bruno Ginardo, sovrintendente in servizio a Catanzaro, che avrebbe fornito informazioni grazie ad accessi abusivi alla banca dati delle forze dell’ordine.

Gratteri in Tv, i penalisti: «Espone i giudici a pressioni mediatiche». «Il dottor Gratteri, padre dell’inchiesta, sarà ospite di Presa diretta, a quanto par di capire dai trailer, addirittura personalmente e probabilmente senza alcun contraddittore o, al più, col contributo registrato anzitempo di qualche Difensore». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 marzo 2021. Il paradosso è servito: da un lato il Tribunale collegiale di Vibo Valentia ha autorizzato ieri le riprese audiovisive del maxiprocesso “Rinascita-Scott”, maxi-inchiesta del procuratore della DDA di Catanzaro, dottor Nicola Gratteri, vietando però di poterle trasmettere prima della lettura del dispositivo della sentenza del maxiprocesso per «garantire l’assoluta genuinità della prova». Dall’altro lato c’è la decisione di “Presa diretta”, la trasmissione di Rai3 condotta da Riccardo Iacona,  di dedicare la puntata del 15 marzo proprio alla maxi-inchiesta. Difficile spiegare questo corto circuito che comunque viene stigmatizzato da una nota dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane che critica la messa in onda, innanzitutto nello sbilanciamento tra accusa e difesa: «Il dottor Gratteri, appunto padre dell’inchiesta, sarà ospite della trasmissione, a quanto par di capire dai trailer, addirittura personalmente e probabilmente senza alcun contraddittore o, al più, col contributo registrato anzitempo di qualche Difensore». E poi la risposta al tweet con cui il conduttore ha lanciato lo speciale: «Raccontarla – ha scritto Iacona – non è cronaca giudiziaria, ma una questione di libertà e democrazia che riguarda tutti». Ma, dicono i penalisti, «di libertà e democrazia» si può parlare «solo evitando di esporre il processo penale alle indebite influenze di narrazioni giornalistiche, tanto più se unilaterali, ma comunque in grado di condizionare, non solo l’opinione pubblica, ma anche l’esercizio stesso della giurisdizione». Proprio l’obiettivo che si è prefissato il Tribunale con la nota divulgata ieri, ma che sarà evidentemente eluso. Poi l’Osservatorio ricorda che a fronte dell’interesse mediatico suscitato dall’inchiesta, vi è stato  «un numero elevatissimo di annullamenti delle misure cautelari irrogate nel procedimento» che «testimoniano indiscutibilmente quanto il clamore che ha accompagnato l’inchiesta e gli arresti di molte persone sia stato e sia del tutto ingiustificato». Eppure vi ricordate che disse il dottor Gratteri a Sky Tg24? «I giornali nazionali hanno boicottato la notizia». Scrivono i penalisti: «L’informazione è il sale della democrazia. Attenzione però: aprire i microfoni a una parte processuale (spesso la stessa e ancorché garantendo un contraddittorio solo apparente), ora per magnificarne l’importanza e l’impegno, ora per assicurarsi l’empatia del grande pubblico mentre il giudizio è in corso, offre una visione parziale e quindi potenzialmente distorta dei fatti oggetto dell’inchiesta medesima, non rappresentando affatto un esercizio democratico, men che mai liberale». Per queste ragioni, fermo il sacrosanto diritto di cronaca, «non si può che stigmatizzare l’iniziativa del Giornalista nonché il fatto che il Procuratore della Repubblica abbia consentito a prender parte alla trasmissione nonostante il processo sia ancora in corso, con il conseguente rischio di compromettere il sereno esercizio della giurisdizione così esponendo tutte le parti processuali e gli stessi giudici a indebite pressioni mediatiche. Al tempo stesso si auspica che nel corso del programma televisivo venga in ogni caso massimamente preservata la neutralità nell’esposizione dei fatti ed evitato ogni potenziale pregiudizio per il sereno svolgimento del processo pendente avanti l’Autorità Giudiziaria di Catanzaro». I processi si celebrano nelle aule giudiziarie, non in televisione con l’arbitro che tifa spudoratamente per una squadra.

Caro Iacona, le prove si formano in Aula e non in uno studio Rai. Presa diretta di Riccardo Iacona celebra il processo Rinascita-Scott sulla Rai. Gratteri ringrazia lo Stato di diritto un po' meno. Davide Varì su Il Dubbio il 14 marzo 2021. L’ex senatore e avvocato di grido di Catanzaro che si presta in mille modi ad aiutare il clan e poi il ruolo della “massoneria deviata” che aggiusta i processi insieme ai soliti “burattinai”. Saranno le motivazione di una sentenza di condanna di qualche mafioso, penserete voi. Neanche per sogno, sono le motivazioni con cui Riccardo Iacona spiega sul “Domani” di oggi – e scusate il calembour – la decisione di dedicare un’intera puntata di “Presadiretta” al processo anti-ndrangheta Rinascita Scott. Nulla di male, replicherà ancora qualcun altro. Certo: non c’è proprio nulla di male per chi pensa che un processo possa essere celebrato in Tv di fronte al “pubblico pagante”. E si perché c’è un piccolo dettaglio che molti non conoscono o danno per scontato: il processo in questione, chiesto dalla procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, è ancora in corso. Anzi, è appena all’inizio. E dunque la trasmissione di Iacona piomba su quel processo rischiando seriamente di condizionarne gli esiti. Ma non parliamo certo di un caso isolato: la lotta alla criminalità organizzata giustifica da tempo qualsiasi forzatura delle regole dello stato di diritto. E nonostante giornali e tv italiani nelle scorse settimane abbiano celebrato in pompa magna i cento anni di Leonardo Sciascia, nessuno pare aver assimilato la sua lezione. Soprattutto quella in cui lui, siciliano fino al midollo e nemico giurato di Cosa nostra, spiegava ai professionisti dell’antimafia che la criminalità organizzata non può essere sconfitta con la “terribilità della giustizia” ma solo con la forza del diritto. Ma visto che il centenario di Sciascia è passato e le belle intenzioni le porta via il vento, oggi accade che l’ordinanza di un magistrato diventa una sentenza: sentenza di condanna, naturalmente. E non è un caso che Iacona nel suo articolo peschi a piene mani in quell’ordinanza presentandola come verità provata. Ma evidentemente deve essersi perso un piccolo passaggio: la prova si forma in dibattimento e non in uno studio della tv pubblica.

Quel “processo sommario” di Presadiretta che non aiuta a sconfiggere i clan. Riccardo Iacona ha "celebrato" nello studio tv della Rai un processo di Gratteri del quale non c'è ancora neanche un grado di giudizio. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 16 marzo 2021. La trasmissione Presa diretta ha dedicato l’intera puntata di lunedì sera alla lotta alla ndrangheta per come declinata nell’inchiesta “Rinascita Scott”. Chiariamo subito una cosa: la ndrangheta in Calabria c’è ed è una cosa drammaticamente seria dal momento che, come sempre ed ovunque, tende ad accompagnarsi con il traffico di droga, l’uso della violenza, la pratica dell’usura ed il costante tentativo di intimidire i cittadini e corrompere funzionari pubblici, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. Focalizzare, così come hanno fatto le telecamere di Presa diretta, queste cose in terra di ndrangheta ci è sembrato persino banale. Farcele vedere di nuovo è come fare un servizio sull’acqua alta a Venezia o sulla nebbia in Val Padana pretendendo di rivelarci chissà quale novità. A meno che non si voglia “impressionare” e portare fuori strada l’opinione pubblica e dare una lettura distorta sul perché, nonostante le centinaia di “retate” , la ndrangheta sia riuscita a fare un salto di “qualità” trasformandosi nel giro di qualche decennio, da una modesta e, a volte, pittoresca associazione di uomini di malavita, in una delle più terribili organizzazioni criminali dell’Europa occidentale. Se il dottor Iacona, conduttore di Presa Diretta, ci avesse aiutato a comprendere come tutto ciò è stato possibile, avrebbe dato un importante contributo alla verità. Invece ha puntato alla lettura della realtà calabrese utilizzando solo la “filigrana” di Rinascita Scott, pur essendo questo un processo alle prime battute. Per farlo è stato necessario presentare come credibili pentiti e collaboratori di giustizia che potrebbero non esser ritenuti tali dai giudici e come sicuri colpevoli imputati (anche incensurati) che potrebbero essere assolti da ogni accusa. Mortificando così la presunzione di innocenza ed il ruolo stesso degli avvocati impegnati nella difesa. Iacona, per esigenze estranee alla trasmissione, ha voluto presentare Rinascita Scott come la “madre” di tutte le inchieste quando invece è in assoluta e perfetta continuità con le cento inchieste precedenti che hanno avuto tutte le stesse caratteristiche: l’altissimo numero di arrestati, un impiego massiccio di militari, le prime pagine sui giornali, l’inclusione di qualche personaggio noto, le luci della ribalta sul pm. Finora però quasi tutte le “grandi inchieste” precedenti che hanno ritmato la storia della Calabria, da “Stilaro” a “Marine”, a “Circolo formato” (che si appena conclusa), a “Lande desolate” sono state dei grandi flop che hanno portato alla assoluzione di quasi tutti gli imputati e prodotto dubbi, scetticismo e rassegnazione nell’opinione pubblica calabrese, stretta tra una mafia aggressiva da un lato e la giustizia sommaria dall’altro. Oltre che ad un grande spreco di risorse pubbliche ed umane. Come abbiamo detto sabato scorso , la trasmissione Presa Diretta, nel febbraio del 2014, aveva usato la stessa tecnica, la stessa regia e lo stesso Pm come protagonisti nell’inchiesta “New Bridge”. Senza però trarre le necessarie conseguenze sul fatto che, su decine di imputati per mafia coinvolti in quella inchiesta, uno solo (dico1) è stato condannato con il 416 bis. Nella trasmissione di lunedì sera, volendo far apparire il dottor Gratteri come l’alfa e l’omega della lotta alla ndrangheta, Iacona ha molto insistito sul fatto che, prima del suo arrivo, la procura di Catanzaro fosse una specie di porto di mare per tutti i mafiosi. Ma se così è, non si capisce proprio perché non abbiano fatto parlare il suo predecessore, un anziano procuratore della Repubblica, rispettato da tutti? Perché non si è fatto parlare l’ex procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini, trasferito ad altra sede perché ha osato avanzare qualche, pur correttissima, critica verso i metodi usati in Rinascita Scott? Così come è stata concepita la trasmissione Presa Diretta non aiuta a capire la realtà, anzi ci porta su un binario morto. Quello che è più inquietante è la sensazione (ma è qualcosa in più) che alcuni magistrati cerchino legittimazione e successo non ricercando la giustizia e la verità ma stabilendo rapporti forti con la stampa e soprattutto con giornalisti affermati e trasmissioni famose. Una cosa è certa: il successo così strappato (ma non meritato) può essere giocato nell’immediato su tutti i tavoli che contano. Ed infatti l’inchiesta “New Bridge” è stata utilizzata come possibile lasciapassare per far transitare il dottor Gratteri da un ufficio della Procura di Reggio Calabria a quello di ministro della Giustizia. Non saprei dire oggi a cosa si tende! Se veramente lo volesse, il conduttore di Presa Diretta sarebbe ancora in tempo ed avrebbe mille modi, tutti onorevoli, per riparare gli errori fatti finora e contribuire a sconfiggere la ndrangheta con una sana informazione di cui si sente un gran bisogno. Perché tanto Iacona che Gratteri dovrebbero capire che proprio la verità è il necessario antidoto per sconfiggere la ndrangheta.

Processo Rinascita Scott, ok alle riprese tv. L'Unione cronisti: «Provvedimento tardivo e parziale». Il Quotidiano del Sud il 13 marzo 2021. «È un provvedimento tardivo, parziale e tutt’altro che rispondente alle esigenze della libera informazione e, in particolare, del diritto costituzionale di informare ed essere informati». Così il gruppo calabrese dell’Unione nazionale dei cronisti italiani, guidato dal giornalista Michele Albanese, commenta la decisione assunta dal Tribunale di Vibo Valentia «che “dopo una lunga ed inspiegabile attesa” – evidenzia l’Unci in una nota – ha finalmente autorizzato le riprese audiovisive del maxiprocesso Rinascita Scott». «Preliminarmente – continua la nota – ci domandiamo quale evento nuovo sia intervenuto affinché il collegio giudicante di uno dei procedimenti penali più importanti della storia giudiziaria italiana, riconoscesse che “sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento”. Perché tale “interesse sociale” non è stato riconosciuto sin dall’inizio del processo? Perché le numerose richieste pervenute da colleghi di tutto il mondo al Tribunale di Vibo Valentia sono rimaste inevase?». L’Unci rammenta anche di «aver incontrato (attraverso il presidente Michele Albanese ed il segretario Pietro Comito) il presidente del Tribunale di Vibo Valentia Antonio Erminio Di Matteo affinché fosse latore delle osservazioni dei cronisti al collegio del maxiprocesso Rinascita Scott. Anche in quel caso, l’appello a superare il diniego delle riprese fu disatteso. Cosa è accaduto di nuovo? E soprattutto, ci domandiamo, perché autorizzare le riprese ma con una serie di limitazioni che finiscono, a conti fatti, col rendere questa stessa autorizzazione quasi inutile?». 

Il processo di Gratteri si celebra in Tv. Ma senza difesa. Il processo Rinascita Scott del procuratore Nicola Gratteri lunedì verrà promosso sulla Rai. Ma nessuno ha invitato gli avvocato difensori...Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 13 marzo 2021. Lunedì prossimo, in prima serata, la trasmissione “Presa diretta” si occuperà del processo “Rinascita Scott”. Ci dovrebbe essere in studio il procuratore capo di Catanzaro. Siamo contrari ad ogni censura ma, ancor prima di parlare d’altro, ci sembra giusto porci una domanda :è opportuno che una “parte” del processo(cioè l’accusa) intervenga in prima serata lasciando in ombra la difesa ed esercitando di fatto una pressione indebita sull’opinione pubblica che potrebbe avere un pur remoto riverbero sui giudici? C’è un precedente che, quantomeno a noi, sembra di estrema importanza e che riguarda lo stesso Pm e la stessa trasmissione. Siamo in una notte di febbraio del 2014.In contemporanea tra New York e la Calabria scatta l’operazione “New BRIDGE”. Un “ponte” criminale che collega (secondo gli inquirenti) la potente famiglia Gambino con la ndrangheta calabrese. In piena notte da Gioia Tauro partono le gazzelle della polizia con lampeggianti accesi e le telecamere di “Presa diretta” al seguito, per arrestare i capi della ndrangheta che tale “ponte” avrebbero costruito. L’intera operazione viene presentata prima in diretta dalla Calabria ed in collegamento da New York e successivamente negli studi di “presa diretta” come un formidabile e straordinario colpo assestato contro la ndrangheta e la famiglia Gambino che è una delle cinque “grandi famiglie” della mafia Italo-americana. Vengono operati 24 arresti, gli indagati sono una quarantina. Si badi bene, nessun tribunale, aveva ancora condannato gli indagati ma le telecamere non hanno rinunciato a riprendere la classica sfilata in manette degli arrestati. Il dottor Gratteri, allora sostituto alla DDA di Reggio Calabria, ha spiegato dagli schemi di Presa diretta e con dovizia di particolari la straordinaria importanza strategica dell’operazione e l’alto spessore criminale degli arrestati nella gerarchia del crimine organizzato. Sono passati sette anni, alcuni degli arrestati sono stati assolti, altri condannati a qualche mese di reclusione per reati minori. La ndrangheta è praticamente uscita dal processo ed infatti solo uno(dico 1) degli indagati è stato condannato per associazione mafiosa.(sentenza non definitiva) E, con la ndrangheta, è uscita dal processo anche la famiglia Gambino. Per tutti gli imputati e persino per quello che veniva indicato dagli inquirenti come il capo e la “mente” d’una pericolosa cosca calabrese è caduto il reato di associazione mafiosa (416 bis) e finanche l’aggravante (l’art. 7 L) che prende forma quando, pur non essendo organici alla mafia, si utilizza la forza intimidatrice della ndrangheta per raggiungere i propri fini. Quasi tutti i beni degli imputati, già sequestrati, sono stati dissequestrati. Non dico e non voglio dire che tutti gli indagati siano gigli di campo, anche perché alcuni imputati sono stati condannati ma -particolare non di poco conto – non per mafia. Una cosa però è certa: dell’imponente “ponte” tra “potenti cosche” della Locride ed i Gambino per come ha preso forma negli studi di “Presa diretta” resta solo uno scarno scheletro composto da trafficanti di droga come, purtroppo, ce ne sono tanti in ogni angolo d’Italia. Per cui, pur a distanza di tanti anni, non si capisce proprio perché dedicare un’intera trasmissione ad un’operazione di polizia che non ha avuto nulla di straordinario e niente di speciale. Sarà stato certamente un caso ma due giorni dopo la trasmissione, il dottor Gratteri, ospite centrale ed unico di Iacona in quella serata , verrà incluso da Renzi nella lista dei ministri come titolare del dicastero della giustizia così come caldamente “raccomandato” dallo studio televisivo. Alla luce dei fatti che abbiamo raccontato non saprei dire se il procuratore di Catanzaro ed il dottor Iacona siano ancora convinti che sia stata una scelta giusta quella di dedicare la prima serata di un canale RAI ad un’operazione che non ha avuto-ne potrà più avere – alcun serio riscontro nelle sentenze dei giudici. Una riflessione su quanto accaduto 7 anni fa, dovrebbe indurre a non riproporre lo stesso schema, la stessa regia e gli stessi commentatori proponendo in prima serata il processo, Rinascita Scott, ancora alle prime battute. Si potrebbe discutere di altre inchiesta su cui la Cassazione ha detto la parola definitiva. Per esempio “circolo formato” dal momento che proprio ieri i giudici, dopo aver letteralmente demolito in sede di appello l’inchiesta, hanno assolto in via definitiva e con formula ampia il sindaco di Marina di Gioiosa (RC) dopo anni passati nelle patrie galere. Mandare in onda “Rinascita Scott”, soprattutto se senza la presenza delle difese degli imputati e della stampa garantita, non ci sembra corretto nei confronti dell’opinione pubblica che potrebbe scambiare le ipotesi dell’accusa per giudizi inappellabili, ed , ancor meno, per i giudici impegnati nella ricerca della verità. Forse, ma il forse è di troppo, non è giusto per gli imputati che potrebbero essere innocenti. Infine non è accettabile che la Calabria venga trasformata in un set permanente in cui si gira sempre lo stesso “film” , senza alcun valore “artistico” e senza qualità. Probabilmente qualcuno vorrebbe rianimare “Rinascita Scott” che si trascina stancamente e nel disinteresse generale. In Calabria e fuori. Oppure, è non vorremmo crederci, si perseguono fini estranei alla Giustizia e che nulla hanno a che vedere con la giusta lotta alla mafia.

Con il tesoretto accantonato dai boss si potrebbe saldare il debito pubblico. Nei forzieri delle mafie ci sarebbero tremila miliardi di euro. Felice Manti, Domenica 24/01/2021 su Il Giornale. Nei forzieri delle mafie c'è un tesoretto. Se con una bacchetta magica si riuscisse a trasferirlo nei conti pubblici, il nostro debito monstre di 2.600 miliardi sparirebbe d'incanto. Anzi, resterebbe anche un bel gruzzoletto per tagliare le tasse e rilanciare le infrastrutture. Sono i calcoli della Fondazione che porta il nome di Antonino Caponnetto, nume tutelare e mentore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Siamo di fronte a un'Italia divorata dalla mafia», ha detto il presidente della Fondazione Salvatore Calleri, come scrive Michele Inserra sul Quotidiano del Sud di ieri, che ha calcolato in 3mila miliardi i soldi nascosti dalla criminalità organizzata. Quando si discute di lotta alle mafie, ci si impicca al boss che vota a destra o a sinistra, come se a loro interessasse davvero. Mafia, camorra e 'ndrangheta stanno con chi vince, annusano il vento, si muovono sottotraccia per tutto l'arco istituzionale, grillini compresi. Spesso ci si dimentica il cuore del problema, travolti dalle polemiche interne alla magistratura. Come è successo dopo le parole del Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, a difesa delle sue inchieste e sulla più volte evocata questione morale dentro la magistratura calabrese e nazionale - una materia su cui il Csm non potrà certamente sottrarsi neppure dopo la replica di Gratteri («Convinti dalle indagini della bontà delle nostre richieste»). Questo Paese è inchiodato al palo dal malaffare che ogni anno drena risorse pubbliche e private, ma è altrettanto vero che una parte di questi soldi viene immesso nuovamente sul mercato. Basti pensare all'imprenditore che si vantava di poter riciclare 500 miliardi di euro con qualche clic da un conto in Afghanistan a uno in Danimarca. Soldi da spendere attraverso operazioni speculative come gli 'ndrangheta bond scoperti quest'estate dal Financial Times, investimenti immobiliari, creazioni di nuove imprese per rilevare ristoranti e negozi, fiaccati dalle strampalate misure anti Covid e ingolositi dal contante di cui dispongono i faccendieri delle cosche, che in questi mesi stanno andando su e giù per lo Stivale. Una sorta di Prodotto interno sporco, di cui lo Stato beneficia perché una piccola parte finisce nelle casse pubbliche. E che crea welfare parallelo in alcune zone del Paese (anche in Europa) che impedisce al disagio di scoppiare con fragore. Non stupisce che alcuni politici locali treschino con imprenditori in odore di mafia. Il cuore del problema è l'impatto che l'economia sommersa ha sulla pace sociale, l'unica cosa che ai nostri governanti interessa davvero. I 3mila miliardi potrebbero saldare il nostro debito pubblico, ma a che prezzo? Se il Sud non esplode è perché - come dice la Dia - i boss tengono la rabbia al guinzaglio. Un guinzaglio fatto di lavoro nero, corruzione, favori. Se lo Stato funzionasse, se il disagio avesse delle risposte, i boss farebbero la fame. Poi si dovrebbe discutere dei tempi biblici della giustizia, dei processi monstre con centinaia di imputati, delle ordinanze di migliaia di pagine di riscontri, intercettazioni e ricostruzioni che friggono i pesci piccoli nella stesso olio nel quale si sciolgono le carriere dei politici, corrotti e no.

Caso Oliverio, Gratteri non impugnò l’assoluzione. Ma in Tv non lo dice…Ieri sera il procuratore di Catanzaro è stato protagonista di uno scontro televisivo su La7 con il giornalista Alessandro Barbano che lo ha incalzato sulla vicenda giudiziaria di Oliverio. Ma la vera notizia non è venuta fuori: La Dda di Catanzaro non ha proposto ricorso in appello contro l’assoluzione dell'ex governatore calabrese, che da circa un mese, quindi, è diventata definitiva. Antonio Alizzi su Il Dubbio l'8 settembre 2021. Di Mario Oliverio, il Dubbio ne ha già parlato in altri servizi, raccontando il calvario giudiziario relativo all’inchiesta “Lande desolate”, che lo aveva costretto a stare confinato nella sua San Giovanni in Fiore per tre mesi (nel dicembre del 2018 il gip di Catanzaro ordinò l’obbligo di dimora nel comune di residenza), fino al giorno in cui la Cassazione, nel mese di marzo 2019, annullò senza rinvio l’ordinanza del tribunale del Riesame di Catanzaro. Da quel momento, infatti, l’ex governatore della Calabria, oggi candidato alla presidenza della Giunta regionale, è ritornato a essere un uomo libero, senza alcuna misura cautelare, decaduta, come detto, a seguito della sentenza firmata dagli ermellini. Quel provvedimento ha spianato la strada alla successiva assoluzione ottenuta dinanzi al giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Catanzaro, Giulio Di Gregorio. All’epoca, i giudici della Suprema Corte avevano evidenziato il seguente passaggio: «La chiave di lettura delle conversazioni muove dal chiaro pregiudizio accusatorio che anche il ricorrente avesse condiviso le modalità fraudolente con cui dovevano essere finanziate le opere appaltate», relativamente alla realizzazione di piazza Bilotti a Cosenza, degli impianti sciistici di Lorica e dell’aviosuperficie di Scalea «e che il riferimento degli interlocutori allo scarso apporto del capitale privato fosse stato compreso effettivamente dal ricorrente per la valenza criminosa che aveva e non anche come una interlocuzione scherzosa intercorsa tra i predetti funzionari pubblici, a commento dell’incontro positivo avuto con il presidente della regione, per la soddisfazione di essere sostanzialmente riusciti a raggirarlo». A distanza di quasi due anni, dopo che la procura di Catanzaro aveva chiuso le indagini, chiedendo il rinvio a giudizio di tutti gli imputati, si è arrivati all’udienza preliminare, dove la difesa di Mario Oliverio – assistito dagli avvocati Enzo Belvedere e Armando Veneto – aveva comunicato l’intenzione del politico silano di scegliere il rito abbreviato, facendosi giudicare sulla base degli atti del fascicolo. Cos’è successo lo sanno tutti: il gup di Catanzaro ha assolto con formula piena Oliverio, rigettando la richiesta di condanna della Dda di Catanzaro a 4 anni e 8 mesi. Vi chiederete: “perché si parla di nuovo dell’ex governatore della Calabria?” Il motivo è molto semplice. Ieri sera su La7, durante la trasmissione “Dìmartedì”, condotta da Giovanni Floris, è andato in onda un acceso scontro verbale tra il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri e il condirettore del Corriere dello Sport, Alessandro Barbano, in passato direttore de “Il Mattino” di Napoli. Il giornalista è ritornato proprio sulla faccenda giudiziaria di Oliverio, ponendo delle domande al magistrato di Gerace. In realtà, la notizia non è venuta fuori. La Dda di Catanzaro, infatti, non ha proposto ricorso in appello contro l’assoluzione che da circa un mese, quindi, è divenuta definitiva. A tal proposito, il provvedimento di esecutività è stato notificato di recente ai due difensori dell’ex deputato che, allo stato attuale, rimane sotto processo per “Passe-partout” (procedimento nel quale sempre la procura di Catanzaro aveva chiesto il proscioglimento per quasi tutti i capi d’accusa) e per il Festival di Spoleto (dove viene contestato il reato di peculato). Per una volta, dunque, leggiamo in chiave positiva la decisione di una procura, nel caso di specie quella di Catanzaro, di fermarsi al giudizio di primo grado, ammettendo di aver commesso un errore. Perché di questo si tratta.

Definitiva la sentenza per l'ex governatore calabrese. Flop Gratteri, la procura alza bandiera bianca: non impugnata l’assoluzione di Mario Oliverio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 14 Settembre 2021. Il flop lo certifica la stessa procura guidata da Nicola Gratteri: non ci sarà nessun ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Mario Oliverio, l’ex governatore della Calabria accusato di corruzione e abuso d’ufficio dalla DDA di Catanzaro e assolto da tutte le accuse lo scorso gennaio con rito abbreviato. Il procuratore capo ha di fatto ammesso, rinunciando all’impugnazione entro i termini previsti dalla legge, il fallimento dell’inchiesta “Lande desolate” che aveva portato nel dicembre 2018 alle pesantissime accuse nei confronti dell’allora presidente PD della Regione Calabria, accusato di corruzione e abuso d’ufficio in relazione ad alcuni appalti per la realizzazione di opere pubbliche a Scalea, Lorica e Cosenza.

Per Oliverio Gratteri chiese gli arresti domiciliari, non accolti dal Gip e ‘ridotti’ all’obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore, comune di residenza dell’allora governatore in provincia di Cosenza. Dopo tre mesi confinato nella sua abitazione e le dimissioni, la Cassazione nel marzo di quello stesso anno annullò il provvedimento facendo a pezzi l’impianto accusatorio nei confronti di Oliverio, imputando alla procura di Catanzaro un “pregiudizio accusatorio”. Nonostante l’intervento chiaro della Cassazione, la DDA di Gratteri chiese nel processo con rito abbreviato una condanna a 4 anni e 8 mesi nei confronti del politico, incassando una seconda delusione con la decisione del gup di Catanzaro del 4 gennaio 2021, che decise per l’assoluzione in quanto “il fatto non sussiste”. Di fronte al secondo flop Gratteri & Co. Hanno quindi deciso di desistere: nessuna impugnazione della sentenza, come confermato al Foglio da Enzo Belvedere, legale di Oliverio. L’ex governatore è assolto definitivamente. Nel frattempo però la carriera politica dell’ex governatore ha subito sfracelli: il Partito Democratico l’ha mollato, tanto da portare Oliverio alla scelta di candidarsi alle regionali con una propria lista, mentre nella sua ex casa “regna l’amore” tra il segretario Enrico Letta e il Movimento 5 Stelle, con Dem e grillini che correranno insieme in Calabria a supporto di Amalia Bruni in quella che appare una sicura sconfitta contro il centrodestra di Roberto Occhiuto. E Gratteri? Dal procuratore capo di Catanzaro nessun accenno di scuse, anzi. Ospite di ‘Dimartedì’ su La7, il magistrato di fronte alle domande di Alessandro Barbano, ex direttore de Il Mattino, non ha voluto sentire ragioni scaricando le responsabilità prima sul gip e poi accusandolo di “leggere solo certi giornali”. Attualmente Oliverio resta sotto processo nell’inchiesta “Passe-partout”, procedimento nel quale sempre la procura di Catanzaro aveva chiesto il proscioglimento per quasi tutti i capi d’accusa, e per peculato riguardo per una presunta “cena elettorale” al Festival di Spoleto.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il tonfo del procuratore in tv. Editto di Gratteri contro il Riformista: “Non leggete i giornali che mi criticano”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Piomba in mezzo alla campagna elettorale della Regione Calabria il primo vero tonfo mediatico del procuratore Gratteri. Forte e imprevisto. E ha come protagonista quel Mario Oliverio che lui voleva arrestare e che da pochi mesi è stato assolto al processo di primo grado “perché il fatto non sussiste”. C’è da arrossire di soddisfazione, a sentire il procuratore di Catanzaro accusare un giornalista di “leggere solo certi giornali”. Che si tratti del Riformista? Noi pensiamo di sì e ci fa piacere, inutile negarlo. Del resto quanti quotidiani non fanno da scendiletto e non esaltano le nobili gesta del procuratore più famoso d’Italia? Non capita spesso che Nicola Gratteri venga sconfitto in tv. In genere gli capita nei processi, e lui tira dritto. Ma alla sua immagine di “Falcone di Calabria” lui tiene di più che non alle scaramucce giuridiche, anche quando, come gli succede spesso, sono pesanti. Quando chiede arresti che non gli vengono concessi o quando la Cassazione gli imputa “pregiudizio accusatorio”. Così due sere fa lui si è decisamente innervosito quando a Di martedì l’inconsapevole Floris gli ha presentato un giornalista che ai suoi occhi avrebbe dovuto servirgli domande di tutto rispetto. Soprattutto perché attualmente si occupa di calcio e affini, essendo il condirettore del Corriere dello sport. Il procuratore di Catanzaro è rilassato e sorridente mentre aspetta la domanda di Alessandro Barbano. Il quale non bacia l’anello e va dritto al punto. «Lei nel 2018 ha indagato Mario Oliverio per corruzione e abuso d’ufficio. Ha chiesto gli arresti, non è riuscito a ottenerli, ottenendo invece il domicilio coatto per nove mesi. Oliverio ha dovuto dimettersi e fare lo sciopero della fame. La Cassazione ha però detto che c’era un pregiudizio accusatorio. Lei ha insistito, chiedendo la condanna a 4 anni e 8 mesi. Oliverio è stato assolto in primo grado perché il fatto non sussiste, ma ha dovuto dimettersi dalla sua carica di presidente della Regione. Lei che cosa prova pensando a Oliverio?». Una bomba. Peggio, uno schiaffo sulla faccia di un magistrato abituato a essere lusingato e idolatrato dalla stampa, e soprattutto dai giornalisti che conducono o che partecipano ai talk. Mai nessuno si era permesso, a parte appunto noi del Riformista e pochi altri. Oltre a tutto nelle parole di Barbano si sente la sua storia di giornalista che non si è occupato solo di sport nella vita. Basti qui citare la direzione del Mattino dal 2012 al 2018. La sintesi perfetta della sua domanda è quasi il punto della storia politica della Calabria e della sinistra calabrese degli ultimi tre anni. E anche di tutto quello che è venuto prima. Mario Oliverio era il presidente della Regione Calabria, eletto nel 2014 con il 61% dei voti, uomo forte del Pd nella sua terra, quando la sua vita incrociò quella di Nicola Gratteri. Il procuratore parte morbido, con un’informazione di garanzia per abuso d’ufficio, che presto diventa anche accusa di corruzione e richiesta di custodia cautelare. Come sempre l’alto magistrato si copre le spalle con un’attenta comunicazione, e cala l’asso con un’intervista a Rai Uno. Dice che «con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a "ingrassare" alcune cosche grazie a lavori non eseguiti o eseguiti in minima parte». Il problema della giustizia nelle regioni del Sud, e in Calabria in particolare da qualche tempo, è che a qualsiasi ipotesi di reato viene sempre affiancata la parola “mafia”, quasi come se tutti i calabresi, anche quelli che al semaforo passano con il rosso, fossero affiliati alla ‘ndrangheta. In ogni caso, come succede spesso nelle inchieste avviate dal procuratore Gratteri, anche in quel caso il primo a distanziarsi da lui fu il gip che non concesse per Oliverio la custodia cautelare in carcere ma nemmeno al domicilio. Stabilì per lui una sorta di soggiorno obbligato al suo paese, dove lui si ritirò e iniziò uno sciopero della fame. E mentre i procuratori distrettuali antimafia infierivano su di lui anche con metodi particolari, addirittura presentandosi in tre ed esibendosi in tre distinte “arringhe” all’udienza delle indagini preliminari, la vera ferocia arrivò fuori dalle aule del palazzo di giustizia. Inutile dire che gli uomini del Pd si comportarono con quello stile che ormai non è più solo staliniano ma anche un po’ grillino, quello che davanti alle questioni di giustizia risale ai tempi del Pci, e poi del Pds e dei Ds, fino a oggi. Mentre Oliverio non era più presidente della Regione ed era al confino “come un mafioso”, gli incoraggiamenti più affettuosi dei suoi compagni di partito furono quelli di chi gli si diceva vicino “sul piano umano” (solo quello umano, non certo quello politico) e si augurava che lui riuscisse a dimostrare la propria innocenza. Beata ignoranza (o cinica ipocrisia)! Non dovrebbe essere il rappresentante dell’accusa a dimostrare la colpevolezza dell’imputato e a portare le eventuali prove? Ancora oggi, a tre anni di distanza, davanti a un giornalista che finalmente ha l’occasione di fissarlo negli occhi mentre gli chiede come si senta, guardandosi allo specchio, davanti a una vittima come Oliverio, Gratteri si smarca. Non molla, lui non sbaglia mai. Prima scarica sul gip, è lui che decide. Sì, gli viene obiettato, ma anche dopo che la Cassazione le ha contestato un certo pregiudizio accusatorio, lei al processo ha chiesto la condanna a quattro anni e otto mesi di carcere. Allora diventa quasi offensivo, accusa il giornalista di essere andato in trasmissione solo per mettersi contro di lui: lei è venuto mirato per attaccare me, lei è stato imbeccato, non mi conosce, gli dice con il suo linguaggio aristocratico. Poi, dopo avergli contestato che “legge solo certi giornali” (e di nuovo ci sentiamo arrossire), ricorda ad Alessandro Barbano che “finora si è occupato solo di sport”. E su questo non facciamo commenti. La storia di Calabria è andata avanti, e si può dire che almeno in parte, la politica ha lasciato che fossero le inchieste del dottor Gratteri a influenzare le urne, in una sorta di intreccio malato fino al dicembre del 2019, quando il procuratore Gratteri sarà incoronato dal suo blitz più famoso (e come gli altri da subito mortificato dai ritocchi dei giudici), quello denominato Rinascita Scott, il cui processo è ancora in corso nell’indifferenza generale. Perché si sa che le mafie vengono sconfitte dai primi ordini di cattura, poi chi se ne importa dei riscontri nel dibattimento. Poi nel gennaio del 2020 Jole Santelli ha vinto perché era brava, ma anche probabilmente perché di retata in retata anche Gratteri ci aveva messo del suo. Non perché volesse far vincere il centrodestra, sia chiaro. Ma perché chi vuole il potere cerca sempre di schiacciare quelli che ce l’hanno prima di lui. Così oggi Mario Oliverio si candida lontano dal suo partito di provenienza, come tutti quelli schiacciati dalla miopia politica, quella che vede oggi la candidata del Pd sostenuta anche dai Cinque stelle. È anche la storia di Bassolino, come lo fu di Penati e di tanti ex sindaci, presidenti di Regione o Provincia così come di parlamentari, trattati come parassiti nella criniera del cavallo di razza. La Calabria, con l’eventuale vittoria di Roberto Occhiuto, capogruppo di Forza Italia alla Camera, dato per vincente nei pronostici, ha decisamente svoltato. E probabilmente è giusto così.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

"Lande desolate" o desolata procura? Salvate la Calabria dal ciclone Gratteri, e dalle inchieste giudiziarie con risultati scarsissimi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Gennaio 2021. Conosco personalmente Mario Oliverio, Enza Bruno Bossio e Nicola Adamo. Da molti anni. Conosco le tante battaglie che hanno condotto, sempre dalla stessa parte: del lavoro, della lotta alla povertà, della giustizia sociale, dei diritti. Non ho mai avuto neppure il minimo dubbio sulla loro innocenza. Del resto mi pare che persino la Corte di Cassazione abbia avuto pochi dubbi, quando, due anni fa, annullò il provvedimento cautelare contro Mario Oliverio, cioè contro il presidente della regione Calabria, che era stato costretto al domicilio coatto in un paese di montagna dalla testardaggine di un magistrato. La Cassazione disse – e scrisse – che il provvedimento era dovuto ad un “evidente pregiudizio accusatorio” contro Oliverio. Da parte di chi? Immagino del procuratore di Catanzaro, che si chiama Nicola Gratteri. Non so se lo avete mai sentito nominare, magari lo avete scorto in qualche trasmissione Tv, dove è ospite fisso… Gratteri aveva chiesto al Gip l’arresto di Oliverio. Il Gip, che in genere è molto tenero con Gratteri (come quasi sempre i Gip lo sono nei confronti dei loro colleghi Pm) pare che sorrise e disse: beh, senza neppure un indizio è impossibile… Già. Io faccio questa semplice domanda: ma un procuratore della repubblica che chiede di arrestare il Presidente della regione, e poi viene schiaffeggiato prima dalla Cassazione che gli rivolge un’accusa pesantissima (grave pregiudizio accusatorio) e poi da un Gup che assolve per non aver commesso il fatto il Presidente e tutti gli altri imputati politici (che, anzi, non vengono nemmeno rinviati a giudizio dopo un paio d’anni di gogna), un procuratore della repubblica, dico, (sempre lo stesso) che invece di tacere, il giorno in cui viene eseguita la misura contro Oliverio, dichiara ai giornalisti, testualmente: “Posso dirvi che siamo tranquillissimi delle risultanze investigative e che anzi queste miglioreranno. Ci saranno altre novità, ci saranno sorprese…”, e poi aggiunge: “Con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a ingrassare alcune cosche”… beh – chiedo sommessamente – questo Procuratore deve necessariamente restare al suo posto? Voglio dire: Nicola Gratteri ha condotto molte inchieste giudiziarie in Calabria, tutte con risultati scarsissimi. Ora ha tentato – con successo – di mettere spalle al muro una giunta regionale che stava governando bene, e che aveva ottime possibilità di essere rieletta; ha messo a soqquadro tutta la politica calabrese creando un grave danno alla regione; è stato smentito decine di volte dalla Cassazione e dai giudici… è proprio indispensabile che resti lì, a spadroneggiare su tutta la vita pubblica? Se un dirigente politico presentasse un bilancio così devastante della propria attività, esisterebbe qualcuno che non ne chiederebbe le dimissioni? Come mai, invece, tra i politici, nessuno chiede che il Csm, o il ministro, o il Parlamento, assumano un’iniziativa per proteggere la Calabria dal ciclone Gratteri? C’è di più. C’è qualcosa di ancora più inquietante. Il Pd. Riflettiamo un momento: il Pd, che è il partito di Oliverio, di Adamo, di Enza Bruno Bossio, e che conosceva perfettamente l’innocenza dei suoi dirigenti, non ha mosso un dito quando è scoppiato lo scandalo che Gratteri chiamò “lande desolate”. Non so a cosa si riferisse, Gratteri, con quel nome. A me viene in mente il Pd e la procura di Catanzaro. È lì che la desolazione è infinita. Il Pd non difese Oliverio, Adamo e Enza Bruno Bossio, li abbandonò, intimorito. Non denunciò la manovra per condizionare le vicine elezioni regionali e togliere di mezzo un candidato scomodo come Oliverio. Fece di più: quando arrivò il momento di fare le liste elettorali tagliò via Oliverio e mise al suo posto un signore che veniva dal centrodestra e poi era passato vicino ai 5 Stelle: il dottor Callipo, eccellente imprenditore, ma che francamente aveva poco poco a che fare con la politica e con la sinistra. Il Pd sapeva che in questo modo rinunciava a una probabile vittoria e lasciava il campo libero. Lo fece lo stesso. Perché? Ve lo dico io: in ossequio al signore delle Calabrie. Non c’è nessun’altra spiegazione. Mi piacerebbe sapere se oggi i vertici del Pd, a Roma, ammetteranno l’errore, porteranno le scuse a Oliverio e gli metteranno a disposizione il partito. Io non so se Oliverio deciderà di candidarsi per le prossime elezioni. Io spero di sì, me lo auguro con tutto il cuore. Anche se è chiaro che questa vicenda giudiziaria lo ha incredibilmente indebolito, sia sul piano politico sia della resistenza umana. Ha subito una gigantesca ingiustizia (dovuta a imperizia o a persecuzione?), e difficilmente potrà riprendersi. Chi, immagino, non riceverà nessun danno dall’errore clamoroso è Nicola Gratteri. Che magari, incoraggiato dal silenzio della politica, ci proverà ancora. Cosa gli costa?

P.S. Bonafede!!! Se esisti batti un colpo. Cosa aspetti a mandare gli ispettori a Catanzaro??? Ricordi che il procuratore generale di Catanzaro, un anno fa, fu punito, degradato e trasferito a 1.000 chilometri di distanza per aver criticato Gratteri. Dunque criticare Gratteri è molto più grave che sbagliare clamorosamente una inchiesta e tentare di arrestare il Presidente della regione?

Quelle accuse “scolpite” sulla sabbia che rovinano le esistenze di centinaia di innocenti. Mimmo Gangemi su Il Dubbio il 6 gennaio 2021.  In Calabria capita troppo di frequente e Mario Oliverio, assolto dopo anni di gogna, non è che uno tra la moltitudine oltraggiata. Don Ciccio sparava solo ai tordi che si posavano sui rami nudi dei castagni, a botta sicura, in quella ch’era un’imboscata vera e propria. Mastro Gino invece li centrava al volo. Abbatteva persino quelli così alti nel cielo da non venire da credere che il colpo potesse raggiungerli. Don Ciccio non raccoglieva gloria come cacciatore. Mastro Gino, sì. Perché ne emergevano le capacità, la mira eccezionale, la pregevolezza del fucile, se raggiungeva vette parse impossibili. Una situazione simile, nel mondo della giustizia. Più la preda vola alto, maggiori sono gli allori per chi la abbatte. Ma capita spesso che, piuttosto che il tordo, si collimi nel mirino un uccello che non meritava quel piombo addosso. È successo a Mario Oliverio da presidente della giunta regionale della Calabria, fatto precipitare dalla cima pur estraneo ai reati contestati e sbattuto con ignominia sulle cronache nazionali. Adesso è stato assolto dall’accusa di corruzione e abuso d’ufficio perché “il fatto non sussiste” – assolti con lui, la deputata PD Enza Bruno Bossio e il marito, Nicola Adamo, ex consigliere regionale. Già era emersa l’inconsistenza delle accuse quando la Cassazione parlò di “grave pregiudizio accusatorio” in ordine alla richiesta misura cautelare dell’obbligo di dimora. Due posizioni distanti il giorno e la notte, quella della Cassazione e della sentenza e quella della procura di Catanzaro. Da supportare la tesi che si privilegi la corposa caratura del personaggio perché maggiori diventano i riconoscimenti al promotore dell’operazione, riconoscimenti che rimangono intatti anche se e quando l’indagine sbandierata a pieni polmoni si riduce ad aria fritta, si sgonfia lamentevole più che le zampogne dei pastori aspromontani accartocciate a chiusura del suono. Siccome le sentenze si rispettano, chi ha immaginato il quadro delittuoso, costruendo con sabbia incoerente un castello rovinato miseramente su se stesso, dovrebbe almeno scusarsi per l’abbaglio e porsi un problema di coscienza per il futuro. Uguale riparazione toccherebbe a strilloni e giornalisti di nome che hanno picchiato duro appresso alle tesi strampalate e che oggi tacciono, fischiettano indifferenti, quando correttezza e democrazia pretenderebbero che dessero all’innocenza il risalto dato alle restrizioni. Non ci saranno scuse. Non ci sono mai state e continueranno a non esserci, con buona pace dello sventurato che ci è incappato da ignaro, ha subito la gogna, si è visto trasformata la vita da così a così, è stato tranciato nella carriera e nelle aspirazioni e avrà sempre, a infracidirgli l’animo, la zavorra del torto subito. È innegabile che c’è un problema giustizia – solo i ciechi e quelli in malafede non lo vedono – con storture da dover riparare in fretta. A non farlo, proseguirà la caduta rovinosa della credibilità della giustizia stessa, già ai minimi storici, e in terre di frontiera, qual è la Calabria, è fondamentale per sconfiggere il bubbone ’ndrangheta. Ed è innegabile che c’è una parte di magistratura inquirente (e di affini), minoritaria ma incidente perché microfonata, showman, prezzemolo di ogni minestra, che scricchiola pericolosamente, che ha forgiato il pensiero unico a cui uniformarsi per sì o per forza – o lo si assume buono o si diventa collusi a prescindere – che non intende accettare l’obbligo del pubblico ministero di cercare con pari scrupolo le prove della colpevolezza e dell’innocenza. A parte le ossessioni di carriera e di visibilità, campeggia il tentativo di mettere in un unico calderone mafie, politica e sistema economico. Le convergenze e le collusioni esistono certamente, senza che però sia sistematico, una regola, stando almeno all’evidenza che gli intrecci ipotizzati il più delle volte si frantumano in fase processuale e che in carcere restano i malavitosi – cosa non malvagia e che sarebbe perfetta se non comparissero una miriade di politici e di imprenditori sui quali le teorie di partenza rovinano nella polvere. I numeri a svelare una giustizia che scotta di febbre. In Calabria sono impietosi e raccapriccianti. C’è un’incidenza di innocenza maltrattata, che tale risulta dopo il calvario dei processi, che si attesta oltre il 50%. E allora quant’è accettabile un’inchiesta che include con leggerezza innocenti e colpevoli? Qual è il confine dell’errore giudiziario entro cui si mantiene applicato il concetto di democrazia e di garanzie costituzionali? Fin dove l’errore è fisiologico? E da che punto in poi un’operazione di polizia smette d’essere un successo per trasformarsi in una storpiatura del sistema? Naturalmente, perfezione pretenderebbe che l’errore giudiziario non si verificasse mai. Ed è umanamente impossibile. Ma, se l’incidenza del carcere su estranei al delitto assume proporzioni vistose, se i malcapitati finiscono con il sommergere per numero i colpevoli, se i colpevoli non ci sono affatto, se le anomalie riguardano quasi tutte le grandi e strombazzate inchieste con arresti a raffica, allora si è in presenza di un crollo della capacità investigativa e di una pericolosa sospensione dei diritti umani – lo si è pure se il blitz ingabbia intere ’ndrine – allora s’impatta in una giustizia arruffona, frettolosa, distratta, cinica, ci si accosta a una deriva autoritaria, a una sorta di regime con il tanfo dello stato di polizia. E non può valere l’assunto che in guerra qualsiasi mezzo sia lecito e che gli agnelli debbano farsi una ragione d’essere finiti in bocca al lupo. In Calabria capita troppo di frequente e Oliverio non è che uno tra la moltitudine oltraggiata. Qui, la popolazione è compressa tra criminalità e criminalizzazione. Qui, esiste un caso giustizia più grave che altrove, e che nuoce alla regione, e al turismo che potrebbe soccorrerla, e che mai attecchirà, se si scoraggiano i vacanzieri alimentando un pregiudizio oltre i demeriti reali, se non si cede l’equazione razzista calabrese uguale ’ ndranghetista.

·        Il caso di Mesina spiegato bene.

Arresto Mesina: non ha opposto resistenza. (ANSA il 18 dicembre 2021) - Era in casa da solo, a Desulo (Nuoro) e non ha opposto resistenza, non era armato ma è stato trovato in possesso di seimila euro in contanti Graziano Mesina, l'ex primula rossa del banditismo sardo arrestato durante la notte dai carabinieri del Ros. Lo ha reso noto il comandate del Ros, generale Angelosanto, nel corso della conferenza stampa che si sta tenendo a Cagliari dopo l'arresto del latitante di Orgosolo avvenuto durante la notte. Sono stati arrestati per favoreggiamento i due coniugi che ospitavano in uno dei loro due appartamenti a Desulo, in provincia di Nuoro, Graziano Mesina, latitante da luglio dello scorso anno. Un individuo con le fattezze simili a Mesina è stato riconosciuto dai carabinieri impegnati in un'attività di osservazione proprio alla ricerca dell'ex primula rossa. Poi la decisione, ieri sera, di far scattare il blitz in quell'appartamento. C'era una task force impegnata nelle indagini e nelle ricerche di Graziano Mesina che si occupava di verificare e controllare parenti e conoscenti dell'ex primula rossa, durante la sua latitanza. Ed è grazie a questa attività di indagine che lentamente si è stretto il cerchio e si è individuato il possibile nascondiglio dell'ex primula rossa del banditismo sardo. Il blitz è scattato tra le 2.30 e le 3. L'azione è stata silenziosa, i carabinieri hanno circondato la casa in centro, in contrada Gennargentu, e hanno fatto irruzione. Le condizioni di salute di Mesina sono buone. Lo hanno confermato i carabinieri durante la conferenza stampa. Quando è stato bloccato nell'abitazione non ha detto nulla di particolare. Secondo i carabinieri non era da molto tempo in quella casa, sicuramente nel corso di quest'anno e mezzo di latitanza si è rifugiato in altre zone dell'Isola.

Graziano Mesina, Angelosanto (Ros): "Così lo abbiamo catturato". Elvira Terranova per adnkronos.com il 18 dicembre 2021. Graziano Mesina è stato "tradito" dalle mosse "di un favoreggiatore". Ecco come è stato arrestato, la notte scorsa, come racconta all'Adnkronos il generale Pasquale Angelosanto, Comandante del Ros dei Carabinieri. Il blitz è scattato intorno alle 3 a Desulo, un paese del Nuorese. Ad arrestare il bandito ricercato dal 3 luglio del 2020 sono stati i Carabinieri del Ros, in collaborazione con quelli del Gis, del Comando provinciale di Nuoro e dello Squadrone eliportato carabinieri cacciatori 'Sardegna'. Deve scontare una condanna a 24 anni di reclusione, che gli era stata notificata dalla Procura generale della Corte d'appello di Cagliari. Un arresto da "manuale", un "intervento pulito", nel corso del quale "Mesina non ha avuto il tempo per pensare", come racconta il generale Angelosanto mentre è in viaggio per la Sardegna dove si terrà alle 10 la conferenza stampa. I Ros e il Gis hanno seguito uno dei favoreggiatori di Mesina "che si muoveva in modo strano" fino al covo a Desulo, nel nuorese, dove abitava a casa di una coppia di insospettabili coniugi. "Era nascosto in una casa di due piani - dice il generale Angelosanto - e Mesina si nascondeva da mesi a piano terra dello stabile". Una indagine "lunga", all'antica, condotta "senza confidenti o collaboratori di giustizia", spiega ancora l'alto ufficiale. E all'arrivo dei Gis con il Ros il bandito Mesina non ha avuto "alcuna reazione". "Si è arreso subito - racconta il generale Angelosanto - Non ha avuto alcuna reazione". "Dal giorno della fuga" nel luglio del 2020 "lo abbiamo braccato senza sosta - dice ancora -da quel giorno è stato un lavoro incessante per la cattura". Il bandito poteva "godere di una ampia rete di favoreggiatori". E uno dei fiancheggiatori, senza volerlo, lo ha portato dritto al covo nel nuorese. La coppia di coniugi che ospitava Graziano Mesina è stata arrestata per procurata inosservanza di pena "un reato un po' più grave del favoreggiamento", dice ancora il generale Pasquale Angelosanto intervistato dall'Adnkronos. I Carabinieri stanno cercando di capire da quanto tempo Graziano Mesina fosse ospitato in quella abitazione dove è stato arrestato. 

AGI il 18 dicembre 2021- Graziano Mesina, 79 anni, noto anche come Grazianeddu, il più famoso esponente del banditismo sardo,è stato rintracciato e arrestato nel corso della notte dai carabinieri del Ros, con il supporto in fase esecutiva del Gis, del comando provinciale carabinieri di Nuoro e dello squadrone eliportato Cacciatori di Sardegna. Mesina era latitante dal luglio 2020, quando si era sottratto a un provvedimento di esecuzione pena a 24 anni di reclusione, emesso dalla procura generale presso la Corte di Appello di Cagliari. Graziano Mesina aveva lasciato la sua abitazione a Orgosolo la sera del 2 luglio di un anno fa, prima che gli venisse notificato l'ordine di carcerazione emesso dopo che la Cassazione aveva confermato la condanna a 30 anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga. L'ex primula rossa aveva già trascorso 40 anni in carcere prima di ottenere la grazia, revocata dopo la nuova condanna definitiva. Da latitante ha compiuto 79 anni il 4 aprile scorso, e da latitante ha subìto la perdita di due sorelle, Antonia e Rosa, e di un nipote, Giancarlo Pisanu, per il Covid. In questi mesi, i carabinieri non hanno mai smesso di cercarlo, sia a Orgosolo, che nel Nuorese e all'estero.

Arresto Mesina: era a casa di una coppia, ora indagata. (ANSA il 18 dicembre 2021) - È stato rintracciato nell'abitazione di una coppia, a Desulo (Nuoro) l'ex primula rossa del banditismo sardo, Graziano Mesina, latitante dal 3 luglio del 2020, quando fuggì dalla sua abitazione di Orgosolo prima di dover tornare in carcere per scontare in via definitiva 30 anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Non si sa bene da quanto tempo Mesina fosse ospitato in quella casa dove lo hanno bloccato i carabinieri del Ros arrivati in piena notte insieme ai colleghi del Gis e del Comando provinciale di Nuoro. Nei confronti dei due, indagati per favoreggiamento, potrebbero scattare provvedimenti. 

E’ finita la latitanza di Graziano Mesina arrestato dal ROS dei Carabinieri. Il Corriere del Giorno il 18 Dicembre 2021. I Ros e il Gis hanno seguito uno dei favoreggiatori di Mesina “che si muoveva in modo strano” fino al covo a Desulo, nel nuorese, dove abitava a casa di una coppia di insospettabili coniugi. “Era nascosto in una casa di due piani – dice il generale Angelosanto – e Mesina si nascondeva da mesi a piano terra dello stabile”. Una indagine “lunga”, all’antica, condotta “senza confidenti o collaboratori di giustizia”, spiega ancora l’alto ufficiale. Arrestato intorno alle 3 di questa notte “Grazianeddu” Graziano Mesina dai carabinieri del Ros, con il supporto in fase esecutiva del Gis, del comando provinciale carabinieri di Nuoro e dello squadrone eliportato Cacciatori di Sardegna, latitante dal luglio 2020, destinatario di un provvedimento di esecuzione pena a 24 anni di reclusione, emesso dalla procura generale presso la corte di Appello di Cagliari. Il latitante dormiva vestito e in casa c’era la somma di 6 mila euro circa cosa che secondo gli inquirenti è un indizio del fatto che fosse pronto a darsi di nuovo alla fuga. È stato un arresto da “manuale”, un “intervento pulito”, nel corso del quale “Mesina non ha avuto il tempo per pensare”, ha spiegato il generale Angelosanto comandante dei ROS. “Quando lo abbiamo arrestato ha alzato gli occhi al cielo, sembrava che stesse dicendo ‘E’ finita’. Ma è rimasto in silenzio. Non ha detto una sola parola. Non ha avuto alcuna reazione” ha raccontato uno dei carabinieri che ha messo le manette a Mesina. I Ros e il Gis hanno seguito uno dei favoreggiatori di Mesina “che si muoveva in modo strano” fino al covo a Desulo, nel nuorese, dove abitava a casa di una coppia di insospettabili coniugi. “Era nascosto in una casa di due piani – dice il generale Angelosanto – e Mesina si nascondeva da mesi a piano terra dello stabile”. Una indagine “lunga”, all’antica, condotta “senza confidenti o collaboratori di giustizia”, spiega ancora l’alto ufficiale. Una indagine “lunga e complessa” quella che ha portato i Carabinieri all’arresto di Mesina. Adesso gli investigatori sono alla ricerca di eventuali complicità dietro la sua fuga. Mesina sembrava “sorpreso” probabilmente non si aspettava che i Carabinieri riuscissero a scoprire il suo covo. Era ospite di una coppia anche loro rimasti in silenzio dopo l’irruzione del Gis e del Ros. I due sono stati arrestati accusati di favoreggiamento. All’interno dell’abitazione dove era ospitato i militari dell’Arma hanno trovato una somma di denaro che è stata sequestrata. La latitanza di Graziano Mesina è durata 17 mesi. L’ex primula rossa del banditismo sardo aveva fatto perdere le sue tracce il 2 luglio del 2020, giorno in cui era arrivata la condanna definitiva per traffico internazionale di droga. Mesina, che dei suoi 79 anni circa 40 li ha trascorsi dietro le sbarre, aveva ottenuto la grazia nel 2004 facendo così rientro nella sua casa di Orgosolo, nel cuore della Barbagia. Nel 2013 era stato nuovamente arrestato: stavolta l’accusa era quella di aver messo in piedi un sodalizio dedito al traffico internazionale di droga. Condannato a 30 anni di carcere in primo grado, la pena era stata confermata in Appello nel 2018 e a luglio dello scorso anno confermata dalla Cassazione. Ma quando i Carabinieri si sono presentati per notificare la decisione Mesina non si era fatto trovare. Il suo nome era così finito anche nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità con le ricerche che non si sono mai fermate fino al ritrovamento la notte scorsa. “Grazianeddu” Graziano Mesina è stato un “maestro” della fuga. Nella sua vita criminale, infatti, di evasioni, alcune delle quali rocambolesche, l’ex primula rossa del banditismo sardo ne ha totalizzate 22, dieci perfettamente riuscite. Finì in carcere la prima volta nel 1956, ad appena 14 anni, con l’accusa di porto abusivo di armi. Dietro le sbarre, però, ci rimase poco, riuscendo ad evadere dopo aver forzato la camera di sicurezza per poi far perdere le sue tracce nascondendosi sulle montagne di Orgosolo (Nuoro). Nel 1962 riuscì ancora a fuggire mentre veniva trasferito dal penitenziario di Sassari. Si liberò dalle manette e nel momento in cui il treno su cui viaggiava giunse nei pressi della stazione di Macomer, si lanciò per poi tentare di dileguarsi, ma stavolta venne preso subito. La terza fuga la tentò lo stesso anno. Mesina era ricoverato nel carcere di Nuoro, da dove in qualche modo riuscì a scavalcare il davanzale di una finestra per poi calarsi attraverso un grosso tubo dell’acqua, all’interno del quale rimase nascosto per tre giorni prima di sparire. Poco tempo dopo ancora un arresto e una nuova evasione. Mesina da detenuto nel carcere San Sebastiano di Sassari, si calò dal muro di cinta della sua cella e sparì fino al 1968. Nove anni più tardi ancora una fuga. Era rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di Lecce, quando misteriosamente riuscì a fuggire senza lasciare tracce per un anno. Di nuovo arrestato e imprigionato nel carcere di Porto Azzurro sull’Isola d’Elba, “Grazianeddu” riuscì ancora nell’impresa di darsi alla fuga. Nel 1984, poi, dopo essere stato nuovamente braccato e arrestato, ottenne un permesso di tre giorni per andare a far visita alla madre a Orgosolo. Un’occasione troppo ghiotta per non essere sfruttata. Mesina ne approfittò per fuggire a Milano e poi a Vigevano, dopo venne fermato dai carabinieri. Dopo molte altre fughe, soprattutto tentate, l’ex primula rossa del banditismo sardo venne arrestato definitivamente nel 1993, rimanendo dietro le sbarre fino al 2004, anno in cui ottenne la grazia. Nel 2013, però, il nuovo arresto per traffico di droga. Condannato a 30 anni, quando le forze dell’ordine, il 2 luglio del 2020, si presentarono a casa sua per condurlo ancora una volta in prigione, Mesina non si fece trovare. Era sparito di nuovo, l’ennesima fuga della primula rossa sarda durata 17 mesi.

Graziano Mesina, arrestato uno dei latitanti più pericolosi d’Italia. Alberto Pinna su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2021. «Grazianeddu», il più famoso esponente del banditismo sardo, è stato rintracciato e arrestato nel corso della notte dai carabinieri del Ros. Era latitante dal 2020. Arrestata anche la coppia che proteggeva la sua latitanza. «Non finirò i miei giorni in carcere». Graziano Mesina, stavolta, non è stato di parola. Dormiva in una casetta di Desulo — 2 mila abitanti, Barbagia del sud — quando si è trovato gli uomini del ROS con il mitra puntato e nessuna via di scampo. Finita dopo 17 mesi la fuga del più famoso dei banditi sardi, 80 anni al prossimo aprile, paese circondato da più di cento carabinieri. Erano le 3 della notte fra venerdì e sabato, su Desulo spirava un maestrale gelido, nessuno si è accorto delle pattuglie appostate sui tetti. Una squadra dei «cacciatioriu di Sardegna» ha sfondato la porta.  Mesina, Grazianeddu, il più famoso esponente del banditismo sardo, dormiva, si è rapidamente rivestito, due ore dopo era già a Nuoro nel carcere di Badu ‘e Carros, sezione di massima sicurezza, dal quale mai nessuno è riuscito a evadere. «Non era armato, non ha opposto resistenza». Nella sua stanza pochi vestiti, in un cassetto alcune migliaia di euro, denari necessari per pagare protezioni e latitanza. «Da quanto tempo è qui?» hanno chiesto a chi lo ha accolto in casa. Marito e moglie si sono rifiutato di rispondere e sono inquisiti per favoreggiamento (qui il ritratto: Graziano Mesina, dalle evasioni ai reality: la vita spericolata dell’ex re di Supramonte)

Mesina era fra i 10 ricercati più pericolosi d’Italia, sesto nella lista del ministero degli interni, poco dopo Matteo Messina Denaro e Attilio Cubeddu (altro big dell’Anonima Sequestri, 74 anni, non più reperibile dal 1997). Un ergastolo, sentenze cumulate per qualche centinaio di anni, più di otto evasioni, fama di bandito d’altri tempi, rude ma generoso, spazzata via dalle ultime condanne come capo di due bande che trafficavano droga: 30 anni di carcere, che la Corte di Cassazione ha reso definitivi. Un reato infamante per il mito di bandito/balente, ultimo fuorilegge d’altri tempi.  Quando i carabinieri sono andati a Orgosolo a casa della sorella Peppedda — luglio 2020 — con la notifica della sentenza e l’ordine di carcerazione, era già in fuga. «Sono stata con lui fino a poche ore fa, era tranquillo, sperava di essere assolto», dichiarò l’avvocato Maria Luisa Vernier. «Stava chiuso in casa, non è mai uscito, a Desulo nessuno si è accorto della sua presenza» afferma il generale Pasquale Angelosanto, che ha coordinato l’azione dei ROS.

La casa nella quale si era rifugiato Mesina è una palazzina a due piani, la stanza da letto (con coltri e una stufa) è al piano terra; c’è una porta verso il cortile, ma Grazianeddu non ha cercato di scappare. «Siamo stati rapidi, era sorpreso, non ha neanche avuto il tempo di pensare che era già In manette». Desulo è a una cinquantina di chilometri da Orgosolo, paese di Mesina. Case perquisite, familiari pedinati, blitz notturni: i carabinieri puntavano proprio sia Orgosolo e non hanno mai considerato seriamente le ipotesi di espatrio in Tunisia, Algeria o Corsica, probabilmente diffuse per depistare le ricerche. A Orgosolo Mesina ha mantenuto legami e affetti, particolarmente in questi ultimi mesi, con il Covid19 che ha colpito la sua famiglia (escomparsi le sorelle Rosa e Antonia e il nipote Giancarlo Pisanu) . Non ci sono state «soffiate», le informazioni decisive sono state raccolte da intercettazioni telefoniche e pedinamenti. Uno dei sospettati aveva frequenti contatti con amici di Desulo e nelle ultime settimane le indagini si sono concentrate su due utenze telefoniche e sugli spostamenti di un favoreggiatore.

Con l’arresto di Mesina si chiude un’epoca: in Sardegna non c’è più un rapimento dal 2006, la malavita ha aggiornato i suoi codici, il traffico di droga (con la richiesta alimentata d‘estate dai grandi flussi di turismo) ha sostituito, anche nel mondo agropastorale, i reati tradizionali. Graziano Mesina — dicono le sentenze che hanno cancellato la grazia ottenuta nel 2004 — lo aveva intuito, girava la Sardegna in Porsche Cayenne con autista, impartiva ordini in linguaggio cifrato («È arrivata la biada?», cioè la partita di cocaina), ma non è riuscito a calarsi completamente nel ruolo di boss della nuova «mala».

«L’arresto odierno è stato possibile solo grazie alla vostra capacità di lavorare in maniera sinergica, sfruttando a pieno le rispettive competenze. Con la vostra professionalità e il vostro esempio rendete me e tutti i Carabinieri che quotidianamente svolgono il proprio lavoro, con altrettanta serietà e passione, pieni di orgoglio. Bravi». Così il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, il generale Teo Luzi, ha espresso i propri complimenti a tutti i componenti del ROS, del Comando Provinciale di Nuoro, del GIS e dello Squadrone Cacciatori di Sardegna per la cattura del latitante Graziano Mesina. È stata arrestata per favoreggiamento la coppia che proteggeva la sua latitanza, nella casa di Desulo, a Nuoro. Al vaglio anche il reato di procurata inosservanza della pena. Lo ha confermato il comandante del ros Pasquale Angelosanto, nel corso della conferenza stampa a Cagliari. L’udienza di convalida sarà oggi a mezzogiorno. I coniugi non sarebbero suoi parenti.

Arrestato Graziano Mesina, tra i ricercati di "massima pericolosità". Monia Melis su La Repubblica il 18 Dicembre 2021. "Grazianeddu", il bandito di Orgosolo più ricercato d'Italia, era latitante dal luglio 2020. E' stato rintracciato nella notte dai carabinieri del Ros: ora è in caserma a Nuoro. Dormiva in un letto con pesanti coperte di lana, ma vestito. Niente cellulare, ma sei mila euro in contati a portata di mano. Così, Graziano Mesina – latitante da luglio 2020 -  la scorsa notte, tra le due e le tre, è stato bloccato e arrestato al primo piano di una casa di Desulo. Un blitz dei Carabinieri del Ros - in collaborazione con quelli del Gruppo di intervento speciale, del Comando provinciale di Nuoro e dello Squadrone eliportato carabinieri cacciatori 'Sardegna' tra via Nuoro e contrada Gennargentu. Non lontano dal via va del comune di montagna, anche se le finestre erano serrate. Al primo piano unito da una ripida scala dormiva la coppia, due coniugi non suoi parenti, arrestati per favoreggiamento. E così l'ennesimo arresto del più noto esponente del banditismo sardo, a 79 anni – già inserito dalla Criminalpol nella lista dei sei latitanti più pericolosi - è avvenuto a meno di trenta chilometri dalla sua Orgosolo, sempre nel Nuorese. Non in un ovile, né nel Supramonte, né tanto meno in Corsica o in Tunisia. Si trovava a meno di trenta chilometri dalla sua Orgosolo, sempre in Barbagia. La casa di due piani più cantina, secondo la ricostruzione dei carabinieri, era stata individuata da qualche giorno e – seppur brevemente – lo stesso Mesina era stato intercettato fuori dalle mura. Da lì appostamenti, fino all'irruzione: sono state sfondate le finestre e subito individuata la stanza, molto semplice. All'interno un letto, una stufa e poco altro.

Arresto Mesina, il colonnello: "Non ha opposto resistenza"

Al momento della cattura Mesina sarebbe rimasto in silenzio: solo una smorfia, nessuna dichiarazione, né opposizione. Con sé non aveva armi, e si trova apparentemente è in buona salute. Da lì perquisizioni, rilievi e altri interrogatori per tentare di individuare la rete di collaboratori che, al di là di marito e moglie, hanno provveduto a qualsiasi necessità del latitante. È probabile che, durante questo anno e mezzo, sia comunque rimasto in Sardegna, senza spostarsi poi di tanto. Sul fronte delle indagini smentite eventuali trattative di consegna o collaborazioni di informatori sul territorio. Durante il blitz notturno il paese è rimasto immobile, nessuno si è affacciato alle finestre. Altre volte, durante questi mesi, gli inquirenti pensavano di aver individuare un suo rifugio. Ma senza successo.

Sul capo di Mesina pesa una condanna a trenta anni, di cui sei già scontati, per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga internazionale. A poche ore dalla sentenza della Cassazione che confermava la reclusione Grazianeddu (il suo nomignolo di gioventù) a luglio 2020 era sparito nel nulla. Non si era presentato per l'obbligo di firma in caserma a Orgosolo ed era diventato ancora una volta latitante, nonostante i controlli in entrata e in uscita dal paese. Alle spalle Mesina ha comunque quaranta anni di carcere per omicidi, sequestri, rapine intervellati da evasioni e lunghi periodi di latitanza che hanno alimentato un mito criminale, non solo in Sardegna. Tra gli episodi più noti, la sparatoria di Osposidda nel 1967 e nel 1992 la sua intermediazione, tra mille ombre, per il sequestro del piccolo Farouk Kassam. Avava ottenuto nel 2004 la concessione della grazia da parte del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, poi revocata nel 2013 con l'arresto e di nuovo una reclusione. "È stato come se mi avessero dato la pena di morte", aveva dichiarato proclamandosi innocente.

Michela Proietti per il “Corriere della Sera” il 19 dicembre 2021. Rimane un mistero il suo ruolo nella liberazione di Farouk Kassam, sequestrato dall'Anonima sarda nel 1992. Graziano Mesina avrebbe fatto da intermediario tra la famiglia e i sequestratori, ma Kassam - che oggi ha 37 anni e vive tra Roma e Dubai - liquida con poche parole la sua cattura. «Si è giocato male la fortuna di avere avuto la grazia: per il resto non so che succederà ma di sicuro, a quasi 80 anni, in prigione non ci rimarrà, per cui alla fine gli è andata bene - dice Kassam al Corriere - . Meglio ai domiciliari legalmente, in una casa confortevole, che in latitanza in un buco a sopravvivere». La parola buco evoca proprio la grotta dove Kassam, che all'epoca aveva 7 anni, venne rinchiuso: un pertugio lungo 18 metri. Per il suo rilascio venne pagato uno dei riscatti più alti mai visti per un sequestro di persona (si parla di 5 miliardi e 300 milioni di lire) e nella trattativa si inserirono più figure. Ma proprio verso Mesina, Farouk durante un'intervista esclusiva a 7 ha avuto le parole più gelide: «Mediaticamente è stato molto abile a inserirsi nella mia vicenda, ma credo che l'abbia usata per qualche suo tornaconto».

Marcello Fois per “La Stampa” il 19 giugno 2021. Ricordate Hiroo Onoda? Era il militare giapponese che per trent' anni si era rifiutato di credere che la Seconda Guerra mondiale fosse finita e si era reso introvabile nella Jungla di Lubang fino al 1974. Con la stessa presa patetica, e un po' deprimente, è stato arrestato, a Desulo, poco distante da Orgosolo, dopo mesi di latitanza, Graziano Mesina. Proprio quel Grazianeddu, la primula rossa del banditismo sardo. A vederlo oggi bolso, rattristato è l'immagine di quanto sia reale quel verso di Guccini che canta «gli eroi son tutti giovani e belli». E fa capire fino a che punto i miti giovani sono quelli più duraturi. Si fatica a immaginare Marilyn Monroe ottuagenaria e sfigurata dal botulino, o James Dean calvo e con la pancia prominente. Grazianeddu era la quintessenza del barbaricino: agile, asciutto, scattante come un muflone tra le rocce. Era un giovane Robin Hood a cui ognuno per una brevissima stagione avrebbe dato una mano. È stato un Balente nel senso aureo del termine. Oggi di quel «balente» è rimasto poco, invischiato in quella modernità che asseriva di voler combattere quando aveva deciso di farsi giustizia da solo; alterato nella lettura della realtà dalla lente distorcente della leggenda privata; invischiato nelle malie di un narcisismo da rotocalco, quel ragazzo scattante e di poche parole è diventato un anziano che imita se stesso. Con la medesima incapacità di cedere le armi e le mostrine del suo triste collega giapponese, Graziano Mesina, non Grazianeddu, ha ridotto a poca cosa, fino al folk, quell'appellativo, Balente, che per noi sardi di Barbagia è diventato un passepartout antropologico. Ma anche l'espressione di un sentimento arrogante, presuntuoso, talmente limitato alla sua qualità reattiva e antagonista da essere la rappresentazione plastica di una resa definitiva piuttosto che di quella che è stata, erroneamente, intesa come «costante resistenziale del popolo sardo». Quel concetto così profondo, coniato da Giovanni Lilliu, basato sulla «fedeltà alle origini autentiche e pure», aveva a che fare col presupposto che un popolo è tale quando si accorda perlomeno sulle macrocategorie di «autenticità e purezza», e smette di esserlo quando quelle stesse macrocategorie diventano l'alimento di chiunque le proclami facendosene portatore unico, rappresentante monomandatario. Per potersi permettere queste categorie e questo concetto talmente complessi occorre dunque, innanzitutto, sentirsi popolo, se non, addirittura, esserlo. Occorre che il fenomeno si manifesti dal basso, non certo dall'alto tramite chi ha la sicumera di accreditarsi come unico «sardo autentico e puro» di turno. La nostra Regione è vessata da questi pezzi unici in gambali e vellutino autentici «a modo loro» come le famiglie infelici di Tolstoij. Tutti intelligentissimi e forbitissimi, tutti enfants prodiges, tutti tanto «autentici» da sembrare sintetici, un prodotto che alligna solo tristissimi luoghi comuni: abbigliamento e atteggiamento in primis. Costoro di volta in volta ci raccontano di una tipologia locale costruita a misura della loro presunzione, spesso più adeguata ai modelli di sopraffazione del colonizzatore che al raggiungimento di una grammatica resistenziale condivisa. Fateci caso, ma il senso di autenticità e purezza di questi individui speciali si ferma di fronte alla più comune, e tutt' altro che resistenziale, categoria del tornaconto personale. Mesina stesso, dopo aver scontato anni di galera venne riarrestato ufficialmente per detenzione di armi, ma i più informati dissero per punirlo di un'esposizione narcisistica, e ben pagata, avendo concesso, nonostante l'impegno del silenzio, interviste esclusive in merito alla sua mediazione per la restituzione del giovanissimo Farouk Kassam rapito dall'anonima. Accade di fare i sardi, piuttosto che esserlo, senza avvedersi che c'è una forma di colonialismo introiettato nel copione identitario che si sta recitando: s' indossa l'elaborazione glamour del semplice abito locale; si mostrano «meraviglie» a combriccole di amici continentali che contano o a gruppi di ricchi sponsor locali agognando di farne parte. Si può millantare autonomia nei toni, ma essere dipendenti, incapaci di evolversi, nella sostanza

(ANSA il 18 dicembre 2021) - "Siamo molto sollevate che la situazione sia rientrata nella legalità. Lo abbiamo trovato dimagrito e psicologicamente provato ma curato nell'aspetto e combattivo come sempre". Così all'ANSA le legali di Graziano Mesina, Beatrice Goddi e Maria Lusia Vernier. Alla domanda del perché si sia sottratto al carcere il 2 luglio 2020, Mesina ha risposto alle sue avvocate così: "Ho già fatto già troppa galera, oltre 45 anni e l'idea di tornare lì dentro per morirci, mi spaventava". Maglione grigio e jeans scuri, sbarbato, molto dimagrito, così è apparso Graziano Mesina, catturato stanotte a Desulo dalle forze dell'ordine dopo un anno e mezzo di latitanza, alle sue avvocate Beatrice Goddi e Maria Luisa Vernier che hanno varcato le porte del carcere di Badu 'e Carros a Nuoro, per una breve visita al loro assistito. "Ci ha spiegato che quest'ultimo anno per lui è stato durissimo: sono morti di covid tra dicembre 2020 e marzo 2021 gli affetti più cari, le due sorelle Antonia e Rosa e il nipote Giancarlo con cui lui viveva. Ma anche perché, ci ha raccontato di non essere mai rimasto nello stesso posto e di aver girato parecchio. Ha anche avuto problemi di salute, come diversi episodi di epistassi - concludono Beatrice Goddi e Maria Luisa Vernier - che però si è curato da solo". Le due avvocate attendono ora la comunicazione per l'udienza di convalida dal tribunale di competenza, probabilmente Oristano, in cui presteranno assistenza legale al loro assistito.  

Da quotidiano.net il 18 dicembre 2021. L’ultima latitanza di Graziano Mesina, il più famoso esponente del banditismo sardo appena arrestato in Sardegna, è durata diciassette mesi, 60 anni dopo la sua prima evasione. ‘Grazianeddu’ e il suo passato hanno rivestito un ruolo non secondario nel portare Orgosolo alla ribalta nazionale e farne il paese simbolo della ‘Sardegna criminale’. Ex primula rossa del banditismo sardo, conosciuto tanto per le sue rocambolesche evasioni che per il ruolo di mediatore in un rapimento famoso, quello del piccolo Farouk Kassam. Graziano Mesina, 79 anni compiuti da latitante lo scorso 4 aprile, noto come Gratzianeddu, è il più conosciuto bandito sardo, inserito anche nella lista dei latitanti più pericolosi varie volte, l’ultima dopo la sua fuga nel luglio 2020.

La carriera criminale

Nella sua lunga carriera criminale sulla sua testa vennero anche poste taglie milionarie. Penultimo di undici figli di un pastore di Orgosolo, Gratzianeddu fu arrestato la prima volta a 14 anni, nel 1956, per porto d’armi abusivo dato che aveva un fucile rubato. Quattro anni dopo un altro arresto, per aver sparato in strada, e la prima delle sue dieci evasioni riuscite: comprese quelle tentate, sono sinora ventidue. Il primo reato grave, un tentato omicidio, è del dicembre  1960. Una faida tra famiglie lo portò sul banco degli imputati come esecutore di un omicidio, quello di Andrea Muscau, nel bar 'Cavanedda', a Orgosolo. L’anno prima sarebbe stato sempre Mesina a ferire Luigi Mereu, altro avversario in una storia di sequestri e delazioni. Gli costarono tra le condanne più pesanti della sua lunga storia giudiziaria. Anche perché alla fine, con altre sentenze e ulteriori anni di reclusione, i giudici lo condannarono all’ergastolo. 

Evasioni e fughe d'amore

Condannato all’ergastolo per cumulo di pene, Mesina ha passato in carcere gran parte della sua vita, nonostante le tante evasioni. Nel maggio del 1962, durante un trasferimento dal penitenziario di Sassari, Gratzianeddu si lanciò da un treno in corsa. La libertà durò poco: Mesina fu stato catturato dopo un lungo inseguimento. Dello stesso anno è la terza evasione, questa volta dall’ospedale di Nuoro dov’era ricoverato. Per sfuggire alla cattura Mesina era rimasto nascosto due giorni e due notti in un grosso tubo nel cortile del presidio. Evase anche dal carcere di Lecce nel 1976, insieme ad altri detenuti, tra i quali un esponente dei Nap, i Nuclei armati proletari, attivi negli anni del terrorismo rosso e nero. Per non farsi riprendere, Mesina rimase nascosto una notte e un giorno, in mezzo alle fronde di una pianta, non distante dal penitenziario della città pugliese. Uscì solo quando le forze dell’ordine avevano spostato il punto delle ricerche. La latitanza durò quasi un anno. Dopo essere stato rinchiuso nel penitenziario di Porto Azzurro per scontare l’ergastolo, Mesina tenne un comportamento irreprensibile per ottenere il riesame della sua vicenda processuale. Nel 1985 si allontanò dal carcere per una ‘fuga d’amore’ ma era stato rintracciato e catturato. Le sue evasioni e la sua latitanza divennero mitiche in Sardegna e si racconta che spesso tornasse a Orgosolo per incontri con donne innamorate di lui. La quarta volta ‘Grazianeddu’ evase dal carcere di San Sebastiano di Sassari: assieme all’ex legionario spagnolo Miguel Atienza, si era lasciato cadere dal muro di cinta del carcere. Era il 1966: si disse che avesse indosso un abito da prete, per mischiarsi tra la gente della città e poi riguadagnare i monti della sua Orgosolo. Tanto che nel paese barbaricino in quei giorni finirono nel mirino delle forze dell’ordine quattro sacerdoti, che una sera passeggiavano per l’abitato, vestiti con la tonaca scura, ignari di quanto succedeva intorno a loro. Mesina rimase alla macchia fino al 20 marzo del 1968 quando fu catturato a un posto di blocco da una pattuglia della polizia stradale vicino a Orgosolo. La grazia del presidente della Repubblica, nel 2004, che aveva cancellato l’ergastolo restituendo a Mesina la libertà, è stata annullata con la conferma in Cassazione della condanna per traffico internazionale di droga. 

La latitanza

Quando un anno e mezzo fa è sparito da Orgosolo, dove faceva vita da pensionato, a parte l’obbligo di firma quotidiano in caserma, era difficile pronosticare una latitanza così lunga, anche se probabilmente preparata da tempo. 

I sequestri

All’ex primula rossa del Supramonte è stata attribuita una serie ininterrotta di sequestri di persona: Capelli, Campus, Petretto, Canetto, Papandrea, negli anni ‘60, e altri in quelli successivi. Condannato all’ergastolo per cumulo di pene, Mesina ha passato in carcere gran parte della sua vita, nonostante le tante evasioni. 

Il sequestro Kassam

Dopo un periodo di relativo silenzio, l’ex primula rossa del banditismo sardo tornò alla ribalta nel 1992 quando rientrò in Sardegna per occuparsi del sequestro di Farouk Kassam. La vicenda suscitò polemiche sul ruolo di Mesina nella liberazione del bambino. L’anno successivo Gratzianeddu fu rinchiuso definitivamente in carcere dopo che furono ritrovate alcune armi in un cascinale di San Marzanotto d’Asti, dove viveva.

Traffico di droga

Nel 2004 Mesina ottenne la grazia dall’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e tornò a vivere in Sardegna. Ma poi fu di nuovo arrestato il 10 giugno del 2013, per traffico internazionale di droga. Tre anni più tardi Mesina fu condannato a 30 anni di carcere per associazione a delinquere specializzata nel traffico di droga: era stato ritenuto il capo di un’organizzazione che aveva contatti con un clan di calabresi che operava sulla piazza di Milano e faceva arrivare la droga in Sardegna.

La sua figura era emersa come quella di leader carismatico di una banda composta da una trentina di persone. Il verdetto della seconda sezione penale del tribunale di Cagliari era stato più pesante della richiesta del pubblico ministero, che aveva chiesto la condanna a 26 anni di carcere. Nel 2018 la pena gli era stata confermata in appello. Mesina, che si è sempre proclamato innocente, era tornato in libertà il 10 giugno 2019 dopo sei anni di carcere a Nuoro per decorrenza dei termini di carcerazione. Un anno, fino ai primi di luglio del 2020, Mesina l’aveva trascorso a Orgosolo, a casa di una sorella e di un nipote.

Graziano Mesina arrestato a Desulo: tutta la storia di Grazianeddu, il «re del Supramonte» evaso 8 volte. Alberto Pinna su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2021. L’arresto del latitante: era nascosto nel Nuorese. Dai sequestri all’amicizia con Turatello. Poi il reato più infamante: lo spaccio della droga. Si spegne il mito dell’ex numero uno di un banditismo sardo che non c’è più: quello delle faide, delle Anonime Sequestri, delle rocambolesche evasioni, degli scontri a fuoco, dei miti di «balentìa» che a metà del secolo scorso accendevano gli entusiasmi di sprovveduti giovani (applausi al fuorilegge e non alla polizia che lo aveva catturato) e affascinavano non poche turiste in cerca di emozioni spinte sul Supramonte. Mai pentito Graziano Mesina: «Se ho sbagliato, ho pagato abbastanza»; 42 anni di carcere, una fedina penale chilometrica, la grazia concessa nel 2004 e vaghi propositi di «cambiare vita», spazzati via nove anni dopo da un ordine di cattura con un’accusa che aveva d’un colpo cancellato la fama di fuorilegge duro ma leale: essere il capo di una banda di spacciatori di droga. Reato che l’antico codice barbaricino annovera fra le peggiori infamie. La vita spericolata di Graziano Mesina è un crogiolo di delitti ed enigmi. Alle elementari, prese a sassate il maestro. Adolescente, precoci manette: oscurò a fucilate i lampioni di Orgosolo (arma rubata). Fuggì dalla caserma, mentre attendeva di essere interrogato. Prima condanna: sei mesi. Non ancora maggiorenne, vindice dell’onore di famiglia (11 figli, e zia Caterina, madre padrona): sparò all’uomo che accusava i fratelli di un rapimento con uccisione dell’ostaggio. Seconda condanna: 16 anni per tentato omicidio (i fratelli furono riconosciuti innocenti e scagionati). E anche seconda evasione, dal treno che lo portava da Nuoro a Sassari per un processo. Cattura, seguita subito da una terza evasione, da manuale. Fingendosi malato, all’ospedale di Nuoro, annodò le lenzuola, si calò dalla finestra e rimase tre giorni rinchiuso dentro un tubo. Da latitante, primo (e unico) omicidio: sventagliate di mitra contro un pastore sospettato di avere ucciso il fratello Giovanni. Ventenne, Grazianeddu aggiunge 24 anni a un casellario giudiziale già esuberante. Non c’è carcere dal quale Mesina non abbia tentato di evadere: Volterra, Montelupo Fiorentino, Porto Azzurro, Viterbo, Spoleto, Procida, Favignana, Trani, Fossombrone, Novara. Almeno otto fughe gli sono riuscite. A Sassari la più clamorosa, nel 1966: mura scavalcate con un balzo di sette metri, latitanza con lo spagnolo Atienza, disertore della legione straniera, e via all’Anonima Sequestri: sei rapiti e un conflitto a fuoco con la polizia, due agenti uccisi (Messina fu assolto: pallottole vaganti). Notorietà, interviste, vanterie: «Avrei potuto abbattere a mitragliate l’elicottero con il presidente Saragat». Sono gli anni del mito dell’imprendibile «re del Supramonte», del separatismo e del sogno di una Sardegna «Cuba del Mediterraneo», ma Mesina — dopo approcci con i servizi segreti — rifiuta il ruolo di capo guerrigliero offertogli dall’editore Giangiacomo Feltrinelli. E nel 1968 viene arrestato (o, vox populi, si costituisce in cambio di 300 milioni). Detenuto quasi modello, in attesa di una promessa semilibertà. Che non arriva. E nel 1976 ennesima evasione da Trani, con un gruppo eversivo neofascista; ma Mesina non è fatto per la politica e si rifugia a Milano da Francis Turatello. «Gli mandai due ragazze per divertirsi — è scritto nelle carte del processo al boss — dopo tre giorni chiesero di venir via. Grazianeddu era troppo esuberante». Nuova cattura a Trento, condanna, buona condotta e finalmente nel 1992 la semilibertà, con la «missione speciale» di mediatore per il sequestro di Farouk Kassam, liberato — secondo fonti ufficiali — senza che sia stato pagato alcun riscatto. «Vennero pagati 400 milioni», versione di Grazianeddu, che diceva di sapere molto (mai peraltro rivelato) su quel rapimento. Misteri ed enigmi non chiariti, neanche dopo la grazia; neanche dopo l’apparente ritorno alla vita «normale» di guida turistica, e di commerciante di prodotti per l’agricoltura, paravento — è scritto nella sentenza in Cassazione — della nuova attività: capobanda di spacciatori di droga.

In cella ha trascorso oltre 40 dei suoi 79 anni. Graziano Mesina, le latitanze, i lutti per Covid e l’unica certezza: “Ho fatto troppa galera, non voglio morire in carcere”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Dicembre 2021. “Ho fatto già troppa galera, oltre 45 anni e l’idea di tornare lì dentro per morirci, mi spaventava”. Graziano Mesina, che il 4 aprile prossimo compirà 80 anni, ha così giustificato alle sue legali la sua ultima latitanza durata poco meno di un anno e mezzo e iniziata quando, il 2 luglio 2020, è diventata definitiva la condanna a 30 anni di carcere per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Quel giorno Gratzianeddu (il suo nomignolo) lasciò l’abitazione dove abitava con la sorella Peppedda senza portare nulla con sé. “I vestiti e tutta la mia roba datela ai poveri”, avrebbe suggerito ai familiari prima di tornare ad esser una ‘primula rossa’. Ex primula rossa del banditismo sardo, è stato arrestato alle 2.30 del 18 dicembre al primo piano di una palazzina di Desulo, paesino di circa 2mila anime in provincia di Nuoro, dai carabinieri del Ros. Autore nel corso della sua lunga carriera criminale di numerose evasioni (ben 22 di cui dieci riuscite), dormiva vestito per essere pronto a scappare nuovamente.

Niente tv: coperte, stufa e contanti

I carabinieri l’hanno trovato a letto, riscaldato da più coperte e da una stufetta. Nell’abitazione nessun comfort, a partire dalla televisione, ma 6mila euro in contanti. La sua fuga dal carcere era curata, almeno negli ultimi tempi, da una coppia di coniugi cinquantenni che viveva al secondo piano, ora accusati di favoreggiamento e messi agli arresti domiciliari dai giudici del tribunale di Oristano.

Mesina si è consegnato tranquillamente, sul suo volto solo una smorfia di disappunto quando ha realizzato di dover tornare nuovamente in carcere. Negli ultimi giorni i carabinieri annusavano la cattura. Avevano ottenuto indizi e riscontri importanti ai fini investigativi (pare che Mesina fosse uscito per un giro in paese). Quando è scattato nella notte il blitz con decine di militari, tutt’attorno il silenzio più assoluto. Nessun curioso, nessuna finestra aperta per capire cosa stesse accadendo. Nulla. Nonostante il forte boato provocato da una esplosione con la quale i carabinieri hanno “aperto” la porta e fatto irruzione nell’abitazione.

Latitanza e lutti per Covid

Maglione grigio e jeans scuri, sbarbato, molto dimagrito, così Mesina ha accolto le sue legali qualche ora dopo nel carcere di Badù e Carros a Nuoro. A loro ha raccontato di essere molto provato per aver perso nell’ultimo anno le due sorelle Antonia e Rosa e il nipote Giancarlo, tutti per Covid. Ha detto anche di non essere rimasto nello stesso posto ma di aver girato molto, provvedendo da solo a risolvere qualche problema di salute.

Il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri Teo Luzi ha espresso i propri complimenti a tutti i componenti del ROS, del Comando Provinciale di Nuoro, del GIS e dello Squadrone Cacciatori di Sardegna che grazie al loro impegno e sacrificio hanno permesso di catturare il latitante Graziano Mesina, importante risultato operativo. “L’arresto odierno – ha precisato ai militari il Gen. Luzi – è stato possibile solo grazie alla vostra capacità di lavorare in maniera sinergica, sfruttando a pieno le rispettive competenze. Con la vostra professionalità e il vostro esempio rendete me e tutti i Carabinieri che quotidianamente svolgono il proprio lavoro, con altrettanta serietà e passione, pieni di orgoglio. Bravi.”

La storia di Graziano Mesina

Grazianeddu, ex primula rossa del banditismo sardo, arrestato per la prima volta nel 1956 e per la penultima nel 2013 (uscì dopo 6 anni per decorrenza dei termini e sparì, il 2 luglio 2020, quando la Cassazione confermò la condanna per traffico di droga), era stato inserito dal ministero dell’Interno tra i 6 superlatitanti italiani.

Penultimo degli undici figli di una famiglia di pastori di Orgosolo, Mesina ha passato in carcere oltre 40 dei suoi 79 anni di vita, alimentando costantemente il suo mito con fughe rocambolesche, evasioni clamorose e colpi di scena, tanto da aver guadagnato una ampia platea di sostenitori e ammiratrici in Sardegna, che anche oggi dopo il suo arresto hanno espresso disappunto e dispiacere.

Il primo arresto, quando Grazianeddu aveva 14 anni, per porto abusivo di pistola e oltraggio a pubblico ufficiale. Poi le fughe dall’ospedale di Nuoro, dalle carceri di Sassari e Lecce, quella per amore dal penitenziario di Porto Azzurro. Tra i primi a battersi perché gli fosse concessa la grazia fu Indro Montanelli, ma Giovanni Falcone disse no all’allora presidente Cossiga che si era espresso a favore. Nel 2004 la grazia arrivò per mano del presidente della Repubblica Ciampi su richiesta dell’allora ministro della Giustizia Castelli. Tornato in Sardegna dal carcere di Voghera, Mesina inizia a lavorare come guida turistica delle sue zone e poi negli anni apre un’agenzia di viaggi.

Nel giugno 2013 il nuovo arresto a 71 anni. Secondo gli inquirenti, con la sua banda stava progettando un sequestro di persona: aveva già fatto un sopralluogo e fornito dettagli precisi sull’ostaggio ai suoi sodali, così come è emerso dalle intercettazioni. Inoltre è ritenuto dai magistrati della DDA di Cagliari capo di una potente organizzazione a delinquere dedita a traffico di stupefacenti, furti e rapine.

Il suo nome comparve anche nelle vicende del rapimento di un bimbo di 7 anni, Farouk Kassam (figlio di un albergatore di Porto Cervo), dove venne condannato per favoreggiamento anche se, complice un permesso premio, fece da mediatore con i banditi. Circostanza questa raccontata al giornalista del Tg1 Pino Scaccia. Il piccolo, sequestrato nel gennaio ’92, venne liberato a luglio dello stesso anno in cambio di un riscatto considerevole. Le circostanze della liberazione non sono mai state del tutto chiarite: polizia e governo hanno sempre negato il pagamento di un riscatto, versione ribaltata da “Grazianeddu” in più interviste. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Resa dello Stato a Mesina: "Un latitante inafferrabile". L'ennesima fuga di "Grazianeddu", il bandito che scappa da 50 anni: scomparso da 24 giorni. Nino Materi, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. C'è un'angosciante «grandezza» in questa, ultima, ennesima, fuga di Graziano Mesina. È la «grandezza» di un bandito che anche ora, all'alba degli 80 anni, riesce a farsi beffe di uno Stato - il nostro - che ha sempre avuto nei suoi riguardi una specie di «complesso di inferiorità». Per oltre mezzo secolo lo abbiamo inseguito, catturato, fatto evadere, ricatturato, rifatto evadere, graziato (nel 2004, presidente Ciampi) e nei pochi momenti in cui era un uomo libero (o semilibero) gli abbiamo perfino chiesto aiuto per risolvere oscure vicende (vedi il rapimento del piccolo Farouk Assam, nel 1992). Ora Grazianeddu è un vecchio, ma pure da vecchio seguita, esattamente come faceva da giovane, a prendersi gioco del suo Paese, che forse è l'Italia, forse la Sardegna, o forse entrambe; o più, probabilmente, nessuna delle due. Chissà se dal 2 luglio, giorno in cui non si è presentato più a firmare nella caserma dei carabinieri di Orgosolo, Mesina si nasconde nella propria terra, quel Supramonte del quale è stato, è, e sarà sempre, il re. «Primula rossa»: ieri, come oggi. Le «Istituzioni democratiche» che Grazianeddu disprezza (ma con cui a flirtato per tornaconto personale, e non solo) si rassegnino: tornerà a farsi prendere solo se lo vorrà lui. Mesina è infatti protetto dalla sua gente che, se pure non lo stima, non sarà mai disposta a tradirlo. Difficile però che il bandito si rifaccia vivo. Ad attenderlo ci sarebbe infatti in carcere a vita dopo che la Cassazione ha confermato la sua condanna a 30 anni per traffico internazionale di stupefacenti. Un'infamia, la droga, per un personaggio sempre ammantato da un'aurea di «onore». Mentre, si sa, che la droga è roba per uomini che hanno tutto, meno che l'onore. Fatto sta che dall'altroieri, dopo 21 giorni di «irreperibilità», la Corte di Appello di Cagliari ha dichiarato Graziano Mesina «ufficialmente latitante». E così anche lo Stato è come se si fosse «ufficialmente» arreso, con tanto di decreto notificato ai legali del 78enne «neo» latitante, in realtà latitante «storico». Quando lo scorso 2 luglio i carabinieri si sono presentati per eseguire l'arresto nella casa della sorella, dove Mesina viveva dopo la scarcerazione per decorrenza di termini nel giugno 2019, di lui non c'era più traccia. Una caccia all'uomo durata tre settimane. Nel suo paese, ma non solo: al setaccio pure le case in Gallura, dove vivono i nipoti; e poi blitz pure in Goceano, in Ogliastra e nel Cagliaritano nella spernaza - vana - di snidarlo magari in qualche rifugio messogli a disposzione da «amici fidati». Gente che non dimentica i «bei tempi» delle rapine e dei sequestri. «Subito dopo la fuga - ha riportato la stampa - si era parlato di una trattativa tra gli inquirenti e i difensori di Mesina per assecondare le sue richieste: una pena più mite o una somma in denaro, come ricompensa per la sua consegna alle forze dell'ordine. Notizia che però non ha mai trovato conferme ufficiali». Gli inquirenti, si trincerano dietro la retorica delle frasi fatte, ma si vede lontano un miglio che è solo per salvare la faccia: «Oltre alla Sardegna seguiamo anche altre piste». Fonti non ufficiali giurano: «Mesina potrebbe essere sbarcato in Corsica già la notte tra il 2 e il 3 luglio, oppure aver fatto rotta sulla Tunisia». Ma chi lo conosce bene non ha dubbi: «Grazianeddu è in Barbagia. Al sicuro». E lui non ha certo in programma nuove «sfide». Non ci sarebbe gusto. Quelle con lo Stato italiano le ha sempre vinte. Tutte.

Sardegna, sparisce dopo la condanna il bandito Graziano Mesina. Pubblicato venerdì, 03 luglio 2020 da La Repubblica.it. A poco più di un anno dalla sua liberazione Graziano Mesina, l'ex bandito sardo di 78 anni, dovrà tornare in carcere. Lo stabilisce il verdetto della Cassazione pronunciato ieri sera: rigettato il ricorso dei suoi legali e confermata la condanna a trenta anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Questa l'accusa con cui nel 2013 era stato arrestato in Sardegna con un blitz all'alba: era considerato a capo di due bande criminali attive tra l'isola e la penisola. Non solo droga: estorsioni, minacce e anche il piano per un sequestro di persona. Mesina da allora aveva trascorso sei anni in cella, dopo la revoca della grazia concessa dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel 2004. Poi di nuovo la libertà dal carcere nuorese di Badu'e Carros – a giugno 2019 – e il rientro nella sua Orgosolo, con il solo obbligo di firma e di trascorrervi la notte. Una svolta inaspettata dovuta a un passaggio tecnico: era scattata la decorrenza termini e non erano state depositate in tempo le motivazioni della sentenza d'appello. Ma ora, proprio nel suo paese, secondo quanto riporta l'Unione sarda, da ieri sera Grazianeddu (questo il suo nomignolo) si è reso irreperibile. Ed è dunque, ancora, ricercato. Nella sua lunga carriera ci sono rapine, omicidi e rapimenti che gli sono valsi quarant'anni nelle carceri della penisola (da Regina Coeli a Roma a Lecce fino a Terni e Vercelli). E ancora fughe, evasioni rocambolesche e lunghi periodi di latitanza con tanto di taglie poste sulla sua cattura. A quattordici anni il primo arresto per porto d'armi abusivo, a oltre 70 l'ultimo. Nel 1992 fece da mediatore per il sequestro del bambino Farouk Kassam, in Costa Smeralda, e dopo la grazia si era reinventato come guida turistica del Supramonte che ben conosceva. Durante l'ultimo processo si è sempre dichiarato innocente, dopo la condanna di primo grado aveva detto: "È stato come se mi avessero dato la pena di morte".

Nicola Pinna per ''La Stampa'' l'1 agosto 2020. Al bar di fronte alla basilica di San Simplicio, nel centro di Olbia, non c' è il giornale e Farouk Kassam non sta dietro ai ritmi della cronaca. La prima domanda dunque la fa lui: «È ancora in fuga Mesina? Come ha fatto a sparire così?». Da quando l'eterno latitante ha organizzato la sua undicesima evasione è già passato un mese e la caccia all' uomo in Sardegna prosegue anche nel cuore della caotica stagione turistica. Nella mente dell' ex bambino rapito, che nel frattempo è diventato adulto, ripassa tutto in un solo istante: il dramma di un sequestro durato 177 giorni e i misteri mai chiariti sulla liberazione.

Dopo così tanti anni, ha capito finalmente che ruolo ha avuto Graziano Mesina nella fine del rapimento?

«No, ma diciamo che non sono ossessionato da questa idea. Mio papà non mi ha mai raccontato tutto nei minimi dettagli. È restio a parlare di quelle storie e io sono andato avanti».

Il carattere è più o meno identico a quello del padre e per questo anche Farouk ha scelto di parlare il meno possibile dell'incubo mai dimenticato del sequestro. Il flashback riparte dal 15 gennaio del 1992. Il figlio maggiore di Fateh e Marion, albergatori arabi oramai di casa a Porto Cervo, non ha ancora compiuto 8 anni. Un commando di incappucciati si presenta nella villetta di famiglia all' ora della cena: un blitz di pochi minuti è l' inizio di un dramma che tiene l' Italia col fiato sospeso. Il piccolo Farouk diventa il figlio di tutti: lenzuoli bianchi compaiono nelle finestre delle case, da Torino a Napoli, da Trento a Cagliari. Lui affronta giornate fredde, drammatiche e con tante lacrime, sempre dentro una grotta, in un anfratto irraggiungibile della Barbagia. I rapitori gli fanno credere che a consegnarlo a loro sia stato il padre e per costringere la famiglia a pagare il riscatto decidono di tagliargli un pezzo d' orecchio. Lo spediscono a casa per posta e così il caso diventa rischiosissimo. Le forze dell'ordine non riescono a sbloccare la situazione e così scende in campo Graziano Mesina, a suo dire chiamato in causa dai Servizi: lo storico nemico dello Stato si offre per riportare a casa Farouk. Cosa abbia fatto, con chi abbia trattato e se abbia davvero incassato una somma di denaro non è mai stato chiarito. Ma di certo c'è che il primo a sapere della liberazione, l' 11 luglio, è stato proprio lui: vuole offrire a tutti la prova di essere il mediatore e vende l' esclusiva della notizia al principale tg della Rai. Quel bambino sempre sorridente, che giocava a sparare con i poliziotti che lo avevano appena riportato a casa, ora ha 36 anni e un po' di barba bianca. Si sposta da una parte all' altra del mondo per curare il patrimonio immobiliare di grandi investitori: da Dubai a Roma, passando sempre per la Sardegna. La stagione dei sequestri sembra archiviata definitivamente, ma di tanto in tanto certi nomi tornano d' attualità.

«Trovo incredibile che dopo tutti questi anni certi personaggi facciano ancora parlare di sé. Mesina ha avuto la fortuna di ottenere la grazia e si ritrova sempre in queste situazioni: certa gente non cambia pelle. A conti fatti quest' uomo poteva giocarsi un po' meglio le opportunità che lo Stato gli ha dato».

Che effetto fa risentire i nomi dei suoi sequestratori o di chi allora ha agito nell' ombra?

«Sarò onesto: ogni volta mi faccio una risata. O ne hanno combinata un' altra o si sono cacciati nell' ennesimo guaio. È più forte di loro, evidentemente».

Cosa rappresenta Mesina nella sua vita?

«Se dopo quasi 30 anni si continua ad associare il suo nome alla mia liberazione direi che almeno un ruolo mediatico allora se l' era ritagliato. Non è chiaro se il suo intervento abbia migliorato o peggiorato la situazione».

Vi siete mai incontrati?

«Mai, se mi fosse capitato credo che l' avrei riconosciuto. Ma sono certo che non gli avrei rivolto la parola: d' altronde cosa avrei da dirgli?».

Sente di aver perdonato i rapitori e tutti quelli che hanno avuto un ruolo nel sequestro?

«Più precisamente direi che li ho fatti sparire dalla mia vita. Sono andato avanti per la mia strada. Anche se è vero che sono personaggi che non potrò cancellare. Credo che abbiano pagato per quello che hanno commesso e forse è giusto che abbiano ritrovato la loro libertà».

Matteo Boe, principale accusato del suo sequestro, è tornato al suo paese qualche anno fa. Mesina, che nella sua storia un ruolo lo ha avuto, è stato a lungo fuori dal carcere e ora è latitante. Che cosa prova oggi a quel bimbo che ha sofferto così tanto?

«Penso che questo sia il senso vero della giustizia. Nonostante quello che ho subito non direi mai che devono marcire in galera. Credo che ognuno debba avere una seconda chance. Mi fa piacere pensare che lo Stato abbia restituito la libertà anche a persone che l' hanno rubata agli altri. Sulla latitanza certo non posso esprimere giudizi. Spero solo che Mesina non faccia del male a nessuno».

Alcuni componenti della banda che organizzò il suo rapimento non sono mai stati individuati. È una ferita aperta?

«Direi che questa cosa mi preoccupa, perché penso che può capitare di trovarmi affianco a queste persone senza saperlo. Non è una bella sensazione».

Di quei 177 giorni in prigionia cosa le torna alla mente più spesso?

«Il momento in cui mi hanno tagliato l' orecchio, quando sono svenuto e mi sono svegliato pieno di sangue. Le giornate dentro la grotta, con un solo punto di osservazione e sempre al buio, non si possono dimenticare facilmente. Ma ciò che ha lasciato ferite più profonde è stata la privazione dei diritti più elementari, quelli che fanno parte della quotidianità di tutti noi. A iniziare dal momento dei bisogni».

Ripensa spesso a quel periodo?

«Tutte le volte che mi guardo allo specchio mi ricordo che è successo qualcosa. Ma tutta questa storia fa parte della mia vita, ho superato serenamente quella fase. Da bambino mi vergognavo di quell'orecchio mutilato, ma ora mi sembra una caratteristica estetica su cui nessuno esprime giudizi. D' altronde tutti abbiamo qualche difetto fisico: questo è il mio».

Michela Proietti per "corriere.it/sette" l'8 agosto 2020. Ci sono due date nella vita di Farouk Kassam che vengono ignorate nel calendario: il 15 gennaio e l’11 luglio, il giorno del suo sequestro e quello della sua liberazione. «Il primo è un lutto, l’altro è un avvenimento che in famiglia tutti evitano di ricordarmi e soprattutto di festeggiare», dice Farouk, che oggi ha 36 anni e vive tra Roma e Dubai, dove si occupa di investimenti immobiliari e finanziari. Due date: il 15 gennaio 1992 il suo volto di bambino è diventato famoso in tutta Italia, e non solo, dopo il sequestro nella villa dei genitori a Porto Cervo organizzato dal bandito Matteo Boe. Per il suo rilascio venne pagato uno dei riscatti più alti mai visti per un sequestro di persona, si parla di 5 miliardi e 300 milioni di lire (cifra più volte smentita, al ribasso), nonostante durante la prigionia i banditi gli ricordassero come per i genitori lui non contava nulla e preferivano tenersi stretti i loro soldi. Le parole pronunciate dal padre Fateh Ali Joseph all’epoca, «io non pago per ciò che è mio», con l’intento di abbassare le pretese dei sequestratori (fu fatta una richiesta iniziale di 15 miliardi di lire), inasprirono la situazione.

«Ho pensato spesso che sarei morto». «I sequestratori leggevano tutti i giornali: a 7 anni non avevo la percezione chiara di cosa stesse succedendo ma ho pensato spesso che sarei morto, perché ogni tanto veniva pronunciata la parola “uccidere”. Forse non parlavano di me, ma ero certo che a fare una brutta fine sarei stato io». Farouk Kassam è un ragazzo sorridente ed elegante: è l’evoluzione coerente di quel bambino con gli occhi vispi e il neo sulla guancia destra. Come tanti altri ragazzi della sua età sta trascorrendo le vacanze in Sardegna con un gruppo di amici. Ma l’isola, per lui, ha ovviamente un significato in più: «Questo posto è casa mia, non ho mai commesso l’errore di rinnegare la Sardegna per quello che è accaduto. Non è stata questa terra a ferirmi, è solo il luogo dove si è consumato un fatto grave: ma non posso dimenticare la bellezza che mi ha dato e la dolcezza dei primi anni di vita».

La prigionia nel bosco, l’escursionismo da libero. Oggi Farouk vive tra Dubai, Roma e la Sardegna: dopo gli studi alla l’École française di Roma si è laureato in Economia aziendale e ha frequentato a Los Angeles un master in Trade and Commerce, per poi lavorare a New York. Cinque anni trascorsi negli Stati Uniti, nel mezzo la parentesi di un bar aperto tra il 2007 e il 2009 ad Olbia, perché la Sardegna è rimasta una costante della vita di Farouk. «Sono sempre tornato, tranne quando ero negli Stati Uniti per via del visto: qui ho tanti amici, amo questa natura e appena arrivo faccio lunghe gite in gommone e passeggiate nei boschi, con il mio drone per fare riprese dall’alto». È proprio in un bosco che il piccolo Farouk si risveglia all’indomani del rapimento. Il suo sequestro avviene nella villa dei genitori a Pantogia, la collina sopra Porto Cervo, dove la famiglia gestisce l’hotel Luci di la Muntagna.

Mamma e papà legati con il filo di ferro. Quando Farouk viene strappato dalla sua famiglia griderà: «Non portatemi via, voglio stare con il mio papà». Papà Fateh e mamma Marion però sono immobilizzati, legati alla sedia della cucina con il filo di ferro. «Quella è la scena che ho rivisto per tanto tempo davanti ai miei occhi: uomini armati che si avvicinano in passamontagna al mio lettino, mentre ero già sotto le coperte e in pigiama», ricorda Farouk. «Tutto velocissimo e al tempo stesso al rallentatore. I sequestratori mi hanno preso sulle spalle, poi hanno puntato una pistola alla tempia di mio padre e hanno detto: “Vedi di vendere tutto ciò che hai, solo allora rivedrai tuo figlio”». Quando l’automobile si allontana Fateh Kassam riesce ad azionare il comando dell’allarme collegato con la centrale dei vigilantes. Le guardie giurate, i carabinieri e la polizia che si precipitano nella villa incontrano un’auto bianca che procede in direzione contraria alla loro, ma non sanno che lì dentro ci sono Farouk e i suoi rapitori.

Narcotizzato e portato in una grotta. «Sicuramente sono stato narcotizzato, perché in macchina ho dormito. Il momento in cui ho cominciato a rendermi conto di qualcosa è stato all’indomani, quando abbiamo cambiato l’auto e siamo saliti su un furgone». La grotta di Lula, dove Farouk trascorrerà i suoi 177 giorni di prigionia, è in cima a una montagna, un pertugio lungo 18 metri, rivestito di calcare per la grande umidità. Il letto preparato per lui è un giaciglio di foglie: solo una volta liberato si scoprirà che le gambe esili come grissini sono dovute a mesi di immobilità. «Dovevo stare sdraiato e voltato da una parte: mi era concesso un unico campo di visione». Le violenze dei suoi aguzzini sono purtroppo confermate. «Non credo fosse legato al fatto che mio padre è musulmano, ma l’unico cibo che mi veniva offerto era il porceddu, carne di maiale, che peraltro io mangio ma che per un bambino di 7 anni è molto pesante: i miei rifiuti venivano ricambiati con frustate sulla schiena».

«Mi hanno dato una pistola scarica per giocare». Nessuno svago: giornate interminabili ingannate disegnando con un sassolino sulla parete una casa. Probabilmente quella dove sognava di tornare. «A un certo punto mi hanno dato una pistola scarica, quello è diventato il mio gioco: ricordo giornate intere a maneggiare quell’arma tra le mani». E poi i topi, tanti, grandi. Quando Farouk viene liberato chiede alla madre di comperare tante trappole per topi, da tenere in casa. Poi, quando già si sono trasferiti a Nizza, esprime il desiderio di poter avere un hamster, uno di quei criceti che girano nella ruota. «Mia mamma era incredula: ma prima o poi credo che le persone debbano affrontare le proprie fobie e conviverci. L’unica cosa che ancora oggi mi dà un po’ di ansia è il campeggio: ai miei amici dico “Ok ragazzi, ma non più di una notte fuori”».

Credevano fosse parente dell’Aga Khan. Perché è successo proprio a me? Anche Farouk si è fatto più volte la domanda che le persone si pongono quando la propria vita viene travolta e devastata da una malattia o un fatto grave. «Fu un errore di valutazione che portò a confondere il grande legame tra la mia famiglia e l’Aga Khan con una parentela». Il nonno di Farouk, gran visir della religione ismailita, ha sempre curato gli interessi di Karim, dapprima in Costa Smeralda, poi in Costa d’Avorio e in Pakistan. «L’Aga Khan diede a mio nonno il terreno dove abbiamo costruito l’hotel, ma non eravamo quei nababbi che tutti immaginavano: quando venne disposto il blocco dei beni i miei genitori hanno avuto difficoltà a fare benzina e anche la spesa al supermercato». Mesi tragici, con la madre Marion che appare alla Messa solenne di Pasqua ad Orgosolo, patria del banditismo sardo. «Sono la mamma di Farouk, a voi e a tutte le mamme di quest’isola lancio il mio grido perché so che voi potete capirmi», dice in lacrime sull’altare, sfidando le regole della società barbaricina. Un gesto che muove l’opinione pubblica e di cui Farouk verrà a conoscenza molti anni dopo.

«Lungo recupero, ma la vera cura è stata la famiglia». «No, non ho mai ringraziato mia madre per questo gesto coraggioso. In fondo non ho ringraziato nessuno: però, la mia massima riconoscenza va proprio alla mia famiglia per quello che ha fatto dopo la mia liberazione. Ho fatto dei lunghi percorsi di recupero, ma è stata la famiglia la mia vera cura». Farouk si sposta i capelli, folti e mossi. «Ecco, anche se non ci pensassi più, questo mi ricorderà ogni giorno quello che è accaduto. Ma ormai fa parte del mio identikit». Mentre mostra l’orecchio sinistro mutilato con una forbice da Matteo Boe, ricorda il dolore e un forte calore che lo fanno scivolare in un sonno profondo. «Al risveglio sentivo un battito forte su tutta la parte sinistra della testa». L’efferatezza che rivolta lo stomaco e la coscienza italiana viene consegnata all’altezza di una pietra miliare di una strada del Nuorese, avvolta in una busta da pacchi gialla e che, a chi lo raccoglie, sembra l’incarto di un sigaro.

Orecchie tagliate e riempite di colla. Le orecchie sono tragicamente prese di mira. Quando Farouk viene liberato vengono impiegate diverse ore per ripulirle: i sequestratori le hanno riempite di colla, una specie di Bostik, per impedire al bambino di ascoltare i loro discorsi. Ci vorranno diverse ore a mollo in acqua calda per togliergli di dosso la sporcizia. «Avevo i vestiti incollati indosso, non sono stato mai cambiato, le mie unghie erano artigli». Gianmario Orecchioni, l’amico gallurese di famiglia che diventa il tramite tra i Kassam e i sequestratori, è presente al momento del rilascio: il suo ricordo del tanfo del piccolo Farouk è indelebile e costringerà a percorrere chilometri di strada con i finestrini dell’auto abbassati. Proprio a Gianmario, compagno di tiro al volo e di caccia al cinghiale di papà Fateh, Farouk consegna uno dei primi desideri: «Dammi un bazooka laser, quelli che “mi hanno rubato” da casa hanno tante armi e dobbiamo difenderci».

I danni fisici, i mesi di silenzio e il futuro. Ossa decalcificate e difficoltà di parola: i medici che sentono parlare Farouk dopo mesi di silenzio obbligato parlano di miagolio. Quando mesi dopo tornerà nella grotta con gli inquirenti, nonostante il pieno recupero della capacità verbale ed espressiva, lascerà tutti di sasso: Farouk, una volta dentro, ricomincerà a miagolare. Il perdono è un processo lungo, ma in questo caso impossibile. «Non potrò mai perdonare e lo dico senza rabbia, ma con la consapevolezza che non è nelle mie capacità. Non desidero incontrare nessuno di loro, non ho mai provato un senso di vicinanza a queste persone: oggi hanno saldato il loro debito con la giustizia, quello morale è un’altra cosa. Boe ha 60 anni ed è libero: mi auguro che spenda la tanta vita che ha davanti per fare cose migliori». Una freddezza che investe il latitante Graziano Mesina, uomo chiave nella trattativa. «Mediaticamente è stato molto abile a inserirsi nella mia vicenda, ma credo che l’abbia semplicemente usata per qualche suo tornaconto: non credo che all’epoca sia uscito di prigione per salvare Farouk. Oggi l’indifferenza è purtroppo la mia unica risposta».

Graziano Mesina e la fuga dal carcere a vita. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 5 Luglio 2020. Gratzianeddu s’avanza sul corso Garibaldi, l’ombra lunga, spropositata, sulla strada, a dispetto di un’altezza scarsa compensata dal magnetismo di uno sguardo che annulla ogni altra parte del corpo. Occhiate complici, che si scambiano con i ribelli tratteggiati sui murales. Orgosolo sa di Messico, di rivoluzioni inutili che si susseguono non per risolvere ingiuste sconfitte sociali, ma al solo fine di perpetuare il conflitto: fra lo Stato e uno spirito pagano, irredento e irredimibile. Graziano Mesina è la prova evidente che il carcere sia una afflizione che non serve, se il fine non sia la pacificazione fra l’individuo e la collettività che lo costringe a limare le proprie libertà, anche i propri vizi. Gratzianeddu ha trascorso in galera la maggior parte dei suoi 78 anni, si incontra e divorzia dal carcere da quando aveva 14 anni e fu sorpreso con un fucile da caccia rubato. Fughe e carcerazioni, che si sono alternate col respiro corto, che ancora una volta si affrontano. Ma ora lo scontro è quello definitivo: la Cassazione ha reso irrevocabile una condanna a trent’anni per traffico di droga. La Grazia che gli era stata concessa nel ‘92, in concomitanza con la liberazione di Faoruk Kassam, decade. Sarà prigione per sempre, fino alla morte, se vince lo Stato. Così, il giorno in cui la sua pena diventava definitiva in Cassazione, Mesina non ha attraversato il corso Garibaldi, per andare a firmare il registro nella caserma dei carabinieri, come faceva da un anno, da quando era uscito dal carcere per la scadenza dei termini di custodia cautelare. I carabinieri sono corsi inutilmente a casa di Peppedda, per trovare il fratello Graziano. Sul corso Garibaldi sono rimasti, a corona, gli sguardi dei vecchi, coevi di Gratzianeddu, che per anni lo hanno visto solo nelle sue ore di libertà. Hanno occhi murati, puoi guardarci dentro quanto vuoi, non lo si trova un indizio di verità, né se della fuga siano contenti o meno, o se l’abbiano odiato o amato Graziano. Sono occhi, però, che questa storia l’avrebbero potuta raccontare prima che accadesse, prima dell’ultima fuga, prima del primo arresto. Storie così da queste parti galleggiano nell’aria che arriva dalle grotte del Gennargentu. Storie così hanno il sapore dei lecceti, delle sugheraie del Supramonte, sanno del rancido del formaggio di pecora che il pastore si trascina dietro, per sfamarsi, nelle transumanze infinite che da queste parti avvincono uomini e bestie. Chissà cosa sceglierà Gratzianeddu: la libertà montana del latitante, fatta di cambi continui di ovile, di solitudine che toglie il fiato, grotte umide e sudore che si attacca al velluto delle eriche? O quella libertà a termine delle comodità di paese, cittadine? Se sceglierà la civiltà primordiale e intonsa della Barbagia, o un obiettivo da cine giornale, per recitare un’ultima volta la parte del bandito romantico?

Massimo Gramelli per il "Corriere della Sera" il 4 luglio 2020. La prima volta in cui Graziano Mesina venne arrestato a Orgosolo per un fucile rubato era il 1956. I Beatles, per dire, non esistevano ancora, i sovietici si accingevano a occupare l'Ungheria e uno sconosciuto Tomasi di Lampedusa stava finendo di scrivere «Il Gattopardo». La prima volta in cui evase da una caserma dei carabinieri correva l'anno 1960, quello delle Olimpiadi di Roma e di John Kennedy alla Casa Bianca. E la prima volta in cui lessi un articolo di Montanelli che ne tesseva un po' provocatoriamente le lodi, dovevo avere appena finito il liceo. Così, quando ieri ho saputo che Mesina era di nuovo uccel di bosco, per un attimo ho sperato che si trattasse di un nipote o di un omonimo. Invece era proprio lui, Graziano Mesina detto Gratzianeddu, di anni 78. Il dubbio fascino e la sicura dannazione del nostro Paese è questo eterno ripetersi del sempre-uguale. Un Supergiorno della Marmotta dove c'è sempre un governo che sta per cadere, un magistrato sotto accusa, una situazione economica sull'orlo del collasso e un pensionato di lungo corso che compie gesti per i quali non ha più l'età. Ammettiamolo: prima che a quelle dello Stato, un settantottenne alla macchia è una sfida alle leggi della natura. Neanche nel banditismo sardo siamo riusciti a garantire un ricambio. L'ultimo che hanno arrestato ieri, tra l'altro per sbaglio, è un ex compare di Mesina e ha 77 anni. Sarebbe ora di lasciare un po' di spazio ai giovani, almeno lì.

Mesina di nuovo in fuga sparito dopo la condanna.  Valentina Errante per "Il Messaggero" il 4 luglio 2020. IL CASO ROMA Giovedì, per la prima volta dopo un anno, non si era presentato alla stazione dei carabinieri di Orgosolo per firmare. La decisione della Cassazione, che ha rigettato il ricorso dei suoi legali, rendendo definitivi l'annullamento della grazia concessa nel 2003 e una condanna a trent' anni, ha tardato ad arrivare. Erano le 22.30, ma Graziano Mesina, a quell'ora, aveva già imboccato il sentiero che meglio conosce: quello della fuga. Di nuovo latitante a 78 anni. E così quando i carabinieri del Reparto operativo del comando provinciale di Nuoro si sono presentati in casa della sorella, per eseguire l'arresto di Grazianeddu e scortarlo di nuovo in carcere, la donna ha alzato le spalle: è sparito. Ancora una volta. La caccia a quell'uomo che negli anni è diventato un mito è partita immediatamente. Orgosolo, ieri, si è svegliata sotto assedio. Lo cercano anche nelle grotte del Supramonte, dove Mesina si è nascosto tante volte, durante le lunghe latitanze e dove, quando fingeva di aver cambiato vita, accompagnava i turisti. Una parentesi cominciata dopo la grazia del 2004 e durata per più di nove anni, fino a quando, nel 2013 la Dda di Cagliari ha scoperto che Grazianeddu era a capo di due associazioni criminali. E riforniva di droga tutta la Sardegna.

IL PROFILO. In tanti erano certi che, dopo 40 anni di carcere fosse cambiato. Roberto Castelli che, da ministro della Giustizia del governo Berlusconi, aveva controfirmato il provvedimento di clemenza concesso da Carlo Azeglio Ciampi non ha difficoltà a dire che per lui Mesina è stato «la più grande delusione dell'esperienza di Guardasigilli. E aggiunge: «Sembrava che la sua storia criminale fosse definitivamente chiusa, sembrava che si fosse messo sulla retta via. Ricordo anche che gli parlai direttamente e gli dissi mi raccomando, ora non deludermi e non tradire la fiducia del Presidente della Repubblica e lui mi rispose tranquillo!». La primula rossa del banditismo sardo viene cercato in paese, casa per casa, nelle campagne attorno e in tutta la provincia di Nuoro. Il comando dei carabinieri ha mobilitato tutto il personale disponibile: dagli uomini della stazione di Orgosolo ai militari del Reparto operativo, passando per le otto squadriglie in forza al comando. Impegnata nei rastrellamenti anche la polizia di Stato con gli agenti del Commissariato del paese e il personale della Squadra mobile e delle volanti di Nuoro. Di Mesina però nessuna traccia. Secondo alcune indiscrezioni avrebbe già iniziato una trattativa con le forze dell'ordine per la sua resa, ma la notizia non trova conferme. Per Mario Guerini giornalista, scrittore e studioso del banditismo, Mesina «resterà nascosto finché non si attenueranno le restrizioni per il Covid-19, poi cercherà di lasciare la Sardegna».

LA SENTENZA. Era stato scarcerato tra le polemiche il 7 giugno dell'anno scorso e aveva fatto ritorno a Orgosolo, suo paese natio, dopo sei anni trascorsi nel carcere nuorese di Badu e Carros. Liberato per decorrenza dei termini di custodia cautelare a causa del mancato deposito delle motivazioni della sentenza di condanna in appello a 30 anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga. Le motivazioni erano arrivate a ottobre: 174 pagine scritte dal presidente della Corte d'appello di Cagliari, Giovanni Lavena. Mesina era stato arrestato il 10 giugno 2013, in un blitz che aveva portato in carcere i componenti delle due organizzazioni criminali che dirigeva: 26 affiliati in tutto, tra Orgosolo, Cagliari e la penisola. Secondo la ricostruzione degli inquirenti i contatti con un clan di calabresi che operavano a Milano avrebbero garantito anche carichi di 15 chili di eroina per ogni viaggio.

La saga di Grazianeddu i sequestri, le evasioni la liberazione di Farouk. Valentina Errante per “Il Messaggero” il 4 luglio 2020. Di certo quel giovane pastore di Orgosolo, ultimo di undici figli, arrestato per la prima volta nel 56, non immaginava di diventare un simbolo per intellettuali come Giangiacomo Feltrinelli, protagonista di film e canzoni. Oggi Graziano Mesina, il bandito, aggiunge un'altra pagina alla sua saga: un omicidio, tanti sequestri, intervallati da rocambolesche evasioni. L'ultimo balente ha trascorso in carcere 40 dei suoi 78 anni di vita, ha occupato le pagine dei rotocalchi che hanno raccontato le avventure da latitante, quando, camuffato, riusciva ad entrare allo stadio di Cagliari per seguire Rombo di tuono, Gigi Riva. Ma è la presunta mediazione per la liberazione del piccolo Farouk Kassam a renderlo ancora più famoso.

LE EVASIONI. Ventidue tentate evasioni, dieci andate a segno. La prima volta a 16 anni, quando forza la porta della camera di sicurezza dove lo hanno rinchiuso. Nella sua lunga carriera, salterà da un treno, durante un trasferimento per partecipare a un processo, si calerà dalla finestra di un ospedale lungo un tubo dell'acqua, nel quale rimarrà nascosto per tre giorni. Nel 66 la fuga più sorprendente: con il compagno di prigionia, Miguel Atienza, disertore della Legione Straniera, scalerà il muro del carcere di Sassari, alto 7 metri, gettandosi poi nella centrale via Roma. La prima vittima dei sequestri messi a segno da Mesina è il proprietario terriero Paolo Mossa, liberato dopo aver promesso che avrebbe pagato il riscatto. Poi tocca a Peppino Cappelli. Grazianeddu e Atienza, travestiti da poliziotti, lo fermano a un finto posto di blocco. Il commerciante di carni sarà rilasciato dopo il pagamento di un riscatto di 18 milioni di lire. Nel 77 Grazianeddu partecipa al sequestro dell'industriale Mario Botticelli. Nel 91 Indro Montanelli è tra i primi a battersi perché Mesina ottenga la grazia, la buona disposizione dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga viene però stoppata da Giovanni Falcone all'epoca direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia.

FAROUK. Un anno dopo il nome dell'ultimo balente compare nel misterioso rapimento del piccolo Farouk Kassam: Mesina questa volta non ha un ruolo, racconta, però, di avere mediato con i sequestratori, favorendo la liberazione dell'ostaggio, costata alla famiglia un miliardo di lire. Una circostanza da sempre negata dalla polizia e dal governo dell'epoca. Nel 2003 Grazianeddu ci riprova e questa volta ottiene la grazia. A firmarla, un anno dopo, è il presidente Carlo Azeglio Ciampi che gli apre le porte del carcere di Voghera. Torna ad Orgosolo, diventa guida turistica nella Barbagia. Nel 2013 torna in carcere con le nuove accuse che gli costano un'altra condanna e la grazia. Adesso è di nuovo in fuga.

“Graziano Mesina ha passato 40 anni in carcere, ora lasciatelo vivere…”. Il Dubbio il 5 luglio 2020. Tra le strade di Orgosolo, Dove Grazianeddu Mesina è un mito popolare. Di lui nessuna traccia, non vuole passare gli ultimi anni della sua vita dietro le sbarre. Graziano Mesina intuiva che stavolta non sarebbe andata liscia, che quella condanna, l’ennesima, a 30 anni per associazione per delinquere, sarebbe stata confermata in Cassazione. Così l’ex ergastolano si era preparato a lasciare la casa della sorella Peppedda, che si affaccia sulla strada principale di Orgosolo (Nuoro) il suo paese, prima dell’arrivo dei carabinieri. A 78 anni, sebbene stanco e rassegnato, l’ex Primula Rossa del Supramonte ha un’unica certezza: dopo oltre 40 anni di carcere, non vuole tornare dietro le sbarre. Viene descritto come un uomo solo, molto cambiato rispetto a quella scintilla e quel furore che hanno alimentato il suo mito di bandito, conteso dai media, fra i protagonisti di una quarantina di tesi di laurea in criminologia.

Nelle strade di Orgosolo. Nelle strade di Orgosolo, in un giorno di fresco maestrale dopo una settimana di caldo infernale, il primo fine settimana di luglio si incontrano soprattutto turisti, anche stranieri, incantati dai circa 350 murales cui il paese deve la sua fama. Gli oltre 4 mila abitanti sono ormai abituati ai visitatori, sanno stupirli con un’ospitalità d’altri tempi e temono che a causa del Covid-19 arriverà solo una minima parte dei 150 mila turisti che ogni anno, in media, si fermano nel paese, anche per godere della natura selvaggia dei dintorni. Ci si imbatte in qualche giovane nei tanti bar coi tavolini all’aperto e negli anziani seduti a chiacchierare in piazza, a pochi passi dalla casa di Corso Repubblica dove Grazianeddu ha trascorso l’ultimo anno dopo che sono scaduti i termini di scarcerazione. "Tzia" Peppedda non abita più con lui, da tempo: malata, è stata portata a Nuoro da una figlia che se ne prende cura. Anche alle altre sorelle, Antonia e Rosa, che vivono assistite da una figlia, nel centro del paese, non lontano dalla casa di Peppedda e di Graziano, la vecchiaia e gli acciacchi hanno portato il bisogno di ritirarsi e proteggersi, anche dall’ombra ingombrante del fratello e dei suoi guai con la giustizia. Il taccuino della cronista di riempie di storie, di frammenti della personalità sfaccettata di "Grazianeddu", racconti tutti rigorosamente anonimi, se si vuole comprendere davvero cosa rappresenti davvero Mesina per la sua comunità. Fermo e gentile, non si lascia scappare niente neanche il parroco, don Salvatore Goddi, originario di Orune (Nuoro), tornato da tre anni a Orgosolo, dove aveva trascorso i suoi primi cinque anni da giovane sacerdote, dopo la sua ordinazione. Ha una parrocchia gioiello, in cui luccicano le più numerose fra le sempre più scarse vocazioni del territorio. Invece, Orgosolo fa eccezione, con un diacono e giovani che si iscrivono alla facoltà di Teologia o in seminario.

Il  mito di Grazianeddu Mesina. Parla, invece, il sindaco, Dionigi Deledda, che preferirebbe soffermarsi sulla bellezza, indiscutibile, e sulle potenzialità del suo paese, più che ritrovarsi da giorni assalito dai giornalisti sulla storia del residente piu’ conosciuto di Orgosolo o interpellato sul duplice raid vandalico che in una settimana ha messo fuori uso le telecamere della videosorveglianza davanti alla piazza principale del paese, a pochi passi dalla casa di Mesina. Ma non si sottrae: “Umanamente è una vicenda che dispiace, ma la giustizia deve fare il suo corso”, spiega il primo cittadino, paziente e disponibile con tutti, sintetizzando le due anime del paese. C’è chi vuole bene a Grazianeddu per la generosità di cui molti hanno goduto e c’è chi gli rimprovera di essere stato un cattivo maestro e di aver portato solo guai. Sono tutti d’accordo, invece, sul carisma del personaggio, sul fascino che ha sempre esercitato sugli altri, anche se si era affievolito dopo che si era giocato la grazia ricevuta nel 2004 dal presidente della Repubblica quando, neanche 10 anni dopo, si era scoperto che era tornato a delinquere. “Ha avuto la sua occasione, l’ha gettata via”, si rammaricano i suoi compaesani, che nell’ultimo anno lo incontravano tutti i pomeriggi mentre attraversava Corso Repubblica, la strada principale del paese, per raggiungere la caserma e firmare. Mesina non l’ha fatto il giorno della sentenza, non si e’ presentato dai carabinieri e non si è fatto trovare nella casa che condivideva con un nipote. Quando i militari sono andati da lui per notificargli l’atto che confermava la condanna a 30 anni, Grazianeddu si era rifugiato altrove. Le forze dell’ordine lo cercano ovunque, soprattutto in paese e nei dintorni, dove qualcuno potrebbe averlo ospitato. L’ex ergastolano non guida, si faceva accompagnare da amici e conoscenti che poi spesso gratificava con denaro o pranzi in ristorante prima di ritrovarsi di nuovo inguaiato. Nel suo periodo d’oro, dopo la grazia, era spesso invitato e mangiava gratis nei locali, forte della sua notorietà dovuta alle molteplici interviste, ai libri che parlavano di lui, alle tantissime conoscenze, anche fra persone che contano e fra i politici della Sardegna.

Rischia ancora il carcere. Ma ora, nell’ultimo anno, Grazianeddu non era più lo stesso: emerge da tutti i racconti. Gli piaceva ancora stare al centro dell’attenzione, ma ora aveva preso a fermarsi a parlare con gli anziani in piazza, cosa che prima di essere arrestato di nuovo, nel 2013, non faceva. Rientrato dal carcere, dopo la grazia, si era circondato anche di giovani, faceva la guida per gli escursionisti nel Supramonte che conosceva così bene e poi, come hanno scoperto le indagini, anche affari loschi che hanno portato alla condanna a 30 anni. Dal giugno 2019 Grazianeddu si poteva muovere esclusivamente in paese, aveva l’obbligo di dimora, si fermava a parlare con cordialità per strada, con tutti, perchè a Orgosolo, anche quando c’è risentimento non sia mai che non ci si saluti o non ci si offra un caffè. Al sindaco qualche tempo fa aveva segnalato un palo rotto. “Dionigi, guarda qui”, gli aveva segnalato, perchè il primo cittadino provvedesse. Chi lo conosce bene dubita che possa togliersi la vita, come qualcuno aveva ipotizzando: è convinto, invece, che Grazianeddu sia nascosto da qualche parte, non lontano da Orgosolo (se non addirittura in paese), e che voglia trattare prima di consegnarsi, per non dover tornare in cella, per scontare la pena con un’alternativa al carcere. Di questo negoziato non ci sono conferme. Polizia e carabinieri, che presidiano il territorio con pattuglie e posti di controllo agli ingressi del paese, si sono chiusi in un riserbo assoluto, concentrati sulle ricerche dell’ex ergastolano. Il suo mito è sbiadito, molti a Orgosolo hanno dimenticato le ragioni per cui è stato condannato e c’è chi arriva a pensare che sia il caso, alla soglia di 80 anni, di lasciarlo in pace, perchè più di metà della sua vita l’ha trascorsa in carcere.

G. Solinas e R. Secci per agi.it il 3 luglio 2020. Graziano Mesina è in fuga dopo che la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dai suoi legali, rendendo così definitiva la condanna a 30 anni di reclusione. Ne dà notizia il quotidiano L'Unione Sarda. "Ora per l'ex primula rossa si riaprono le porte del carcere con un provvedimento che potrebbe arrivare in queste ore, anche se lui al momento risulta irreperibile", scrive il giornale. Dopo la condanna in appello per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, Mesina era tornato libero per decorrenza dei termini. Mesina, che vive a Orgosolo non possiede telefono e non è reperibile. "Non abbiamo ricevuto alcun documento da parte della Cassazione, nessun documento ufficiale. Nessun ordine di esecuzione". Così l'avvocato di Graziano Mesina, Maria Luisa Vernier, raggiunta telefonicamente dall'AGI. Il legale ha spiegato di non aver avuto contatti recenti con Mesina: "Vive a Orgosolo e non ha telefono", ha detto. L'ex primula rossa del banditismo sardo, alla veneranda età di 82 anni e con qualche problema di salute, famoso per le sue spericolate e avventurose evasioni, si è reso irreperibile alla vigilia del pronunciamento della Cassazione che rende definitiva la condanna a 30 anni di carcere. Mesina sarebbe "sparito" da Orgosolo la notte tra mercoledì e giovedì scorsi. Si ipotizza che si sia rifugiato a casa di qualche amico: appare infatti poco probabile una latitanza in campagna, vista l'età e le condizioni fisiche. Da quanto si apprende nelle ricerche sono mobilitate tutte le forze dell'ordine anche se non è scattato il piano regionale anticrimine. I controlli, al momento, sono concentrati nel Nuorese, anche se sono stati messi in stato di allarme i comandi dei carabinieri e le questure di tutta l'isola.

In libertà da giugno 2019. Mesina era tornato in libertà il 19 giugno del 2019 dopo sei anni di carcere a Nuoro per decorrenza dei termini di carcerazione. L'ex primula rossa del banditismo sardo, che scontava una condanna a 30 anni per traffico internazionale di droga, era rientrato a Orgosolo accompagnato dai suoi legali. Mesina era stato condannato dalla Corte d'appello di Cagliari a 30 anni di reclusione con la revoca della grazia concessa nel 2004 dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Era stato arrestato il 10 giugno del 2013. Era in custodia cautelare in attesa delle motivazioni della sentenza. Decorsi i sei anni è tornato libero per scadenza dei termini. Mesina si era sempre proclamato innocente.

La storia di Grazianeddu. Ex ergastolano, Graziano Mesina era tornata libero nel 2004, dopo aver trascorso quasi 40 anni da detenuto. La sua 'carriera' di bandito era iniziata quand'era giovanissimo e il carcere l'aveva conosciuto presto, dopo una prima condanna per omicidio. Nato il 4 aprile del 1942 a Orgosolo, penultimo degli undici figli di Pasquale Mesina, pastore, e Caterina Pinna, "Grazianeddu" era stato arrestato la prima volta a 14 anni per porto abusivo d'armi. Poco dopo era fuggito compiendo la prima delle evasioni che l'avrebbero reso celebre. La seconda fuga risale al maggio del 1962, quando durante un trasferimento dal penitenziario di Sassari si era lanciato da un treno in corsa. La libertà era durata poco: Mesina era stato catturato dopo un lungo inseguimento. Dello stesso anno è la terza evasione, questa volta dall'ospedale di Nuoro dov'era ricoverato. Per sfuggire alla cattura Mesina era rimasto nascosto due giorni e due notti in un grosso tubo nel cortile del presidio. La quarta volta Grazianeddu era evaso dal carcere di San Sebastiano di Sassari. Mesina, assieme all'ex legionario spagnolo Miguel Atienza, si era lasciato cadere dal muro di cinta del carcere. Da allora era rimasto alla macchia fino al 20 marzo del 1968 quando era stato catturato a un posto di blocco da una pattuglia della polizia stradale nei pressi di Orgosolo. Ancora un'evasione dal carcere di Lecce nel 1976, con una latitanza durata quasi un anno. Dopo essere stato rinchiuso nel penitenziario di Porto Azzurro per scontare l'ergastolo Mesina aveva di tenere un comportamento irreprensibile per ottenere il riesame della sua vicenda processuale. Nel 1985 si era allontanato dal carcere per una 'fuga d'amore' ma era stato rintracciato e catturato. Le sue fughe e la sua latitanza sono diventate mitiche in Sardegna e si racconta che spesso tornasse a Orgosolo per incontri con donne innamorate di lui. Dopo un periodo di relativo silenzio, l'ex primula rossa del banditismo sardo era tornato alla ribalta nel 1992 quando era rientrato in Sardegna per occuparsi del sequestro di Farouk Kassam. La vicenda aveva suscitato polemiche sul ruolo di Mesina nella liberazione del bambino. L'anno successivo era stato rinchiuso definitivamente in carcere dopo che furono ritrovate alcune armi in un cascinale di San Marzanotto d'Asti, dove "Grazianeddu" viveva. Era stato condannato dalla Corte d'appello di Cagliari a 30 anni di reclusione con la revoca della grazia concessa nel 2004 dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Poi era stato arrestato il 10 giugno del 2013, per traffico internazionale di droga. Tre anni più tardi Mesina era stato condannato a 30 anni di carcere per associazione a delinquere specializzata nel traffico di droga. Il verdetto della seconda sezione penale del tribunale di Cagliari era stato più pesante della richiesta del pubblico ministero, che aveva chiesto la condanna a 26 anni di carcere. Nel 2018 la pena gli era stata confermata in appello. Mesina, che si e' sempre proclamato innocente, era tornato in libertà il 10 giugno dell'anno scorso dopo sei anni di carcere a Nuoro per decorrenza dei termini di carcerazione.

Graziano Mesina, assieme ad altre 26 persone di varie parti della Sardegna, è stato arrestato il 9 giugno 2013 dai carabinieri di Nuoro nell'ambito di un'operazione che ha condotto allo smantellamento di due associazioni dedite al traffico di stupefacenti, ma anche a rapine e furti, scrive “Il Corriere della Sera”. In progetto c'era anche un sequestro di persona. Nel corso delle indagini, infatti, gli investigatori hanno scoperto che Mesina aveva già fatto un sopralluogo e fornito dettagli precisi sull'ostaggio ai suoi sodali, così come è emerso dalle intercettazioni. Per diversi mesi infatti, dal 2009 al 2010 Mesina e complici programmarono il sequestro dell'imprenditore di Oristano Luigi Russo «e compirono una serie di atti preparatori tra cui almeno due sopralluoghi nell'abitazione del sequestrando» si apprende dall'ordinanza del Gip. Le indagini che hanno portato all'operazione, condotta dall'Arma provinciale in collaborazione i colleghi di Milano, Cagliari, Oristano, Sassari e Reggio Calabria, dai Cacciatori di Sardegna e dai militari del decimo nucleo elicotteri di Olbia, sono iniziate 5 anni fa. Mesina doveva infatti già finire in carcere nel maggio dello scorso anno per traffico di sostanze stupefacenti, ma l'arresto è stato differito dalla procura di Cagliari per non compromettere le indagini. L'ex ergastolano ha continuato ad essere monitorato fino a questa notte quando sono stati eseguiti i provvedimenti di misura cautelare anche nei confronti di altre 25 persone delle due organizzazioni scoperte dai carabinieri. I militari hanno colpito gli appartenenti a due organizzazioni dedite al traffico di droga ed altro. Dalle indagini è emerso che Graziano Mesina sarebbe stato a capo di quella più pericolosa. Tra i più famosi banditi sardi del dopoguerra, il 71enne è accusato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Mesina è stato sorpreso nel sonno a casa della sorella Antonia, ad Orgosolo. Non si è mostrato affatto sorpreso ed ha mantenuto la calma seguendo i Carabinieri in caserma a Nuoro. Poi sarà portato nel carcere di Badd'e Carros. Dopo l'arresto ha contattato il suo legale «storico», il penalista nuorese Giannino Guiso, con studio a Milano, già difensore dell'ex primula rossa. L'avvocato Guiso, 70 anni, in passato, ha difeso il leader socialista Bettino Craxi, ma anche il brigatista Renato Curcio e il sindaco socialista di Milano Carlo Tognoli. Mesina, secondo gli inquirenti, sarebbe stato capo carismatico di una organizzazione che aveva base a Orgosolo, con disponibilità di armi, e che non si occupavano solo di stupefacenti, ma anche, come detto, di rapine, furti e sequestri. Capo dell'altra organizzazione sgominata dai carabinieri, con base nel cagliaritano, è ritenuto Gigino Milia, con il quale Mesina ha una amicizia risalente nel tempo (sono stati coimputati e condannati rispettivamente per sequestro di persona e ricettazione il 23 giugno 1978 dal Tribunale di Camerino). Graziano Mesina e Gigino Milia, fino al 2010, sfruttando le loro conoscenze ed il credito riconosciuto loro dagli esponenti della criminalità isolana e della penisola, hanno acquistato grosse partite di droga - eroina, cocaina, marijuana - rivendendole a gruppi minori e persone dediti allo spaccio nelle province di Cagliari, Sassari e Nuoro. In seguito, Mesina - sempre secondo gli inquirenti - ha proseguito le sue attività illecite utilizzando canali autonomi di approvvigionamento. Conosciuto per le sue numerose evasioni (ventidue, di cui dieci riuscite) e per il suo ruolo di mediatore nel sequestro del piccolo Farouk Kassam, Mesina, dopo aver scontato 40 anni di carcere e aver trascorso cinque anni da latitante e 11 agli arresti domiciliari, era tornato libero il 25 novembre 2004, avendo ottenuto la grazia dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. La lunga storia dei conti di Graziano Mesina con la giustizia comincia nel 1956: «l'ultimo balente» aveva 14 anni e venne arrestato per porto abusivo di pistola e oltraggio a pubblico ufficiale. Ottenne il perdono giudiziale. Da alcuni anni era tornato nella sua Orgosolo, dove aveva avviato l'attività di guida turistica, accompagnando centinaia di persone nelle zone più impervie della Barbagia, luogo delle sue fughe rocambolesche. Sgomento e incredulità ad Orgosolo per l'arresto di Graziano Mesina. Nessuno nel paese barbaricino, a 25 chilometri da Nuoro, si aspettava che l'ex primula rossa del banditismo sardo finisse di nuovo in carcere. «Sono sorpreso, ho appena appreso la notizia dell'arresto e non ho nessun elemento per fare commenti - dice all'Ansa il sindaco Dionigi Deledda - Prendo atto della notizia ma essendo le indagini ancora in corso è meglio non entrare nei particolari della vicenda, non ne conosco i risvolti». Deledda, sindaco in carica dal 2010, ci tiene però a descrivere Orgosolo come un paese tranquillo e Mesina come una persona, da quando era tornato nel suo paese d'origine dopo la grazia, gentile e disponibile con tutti.

Graziano Mesina

• Orgosolo (Nuoro) 4 aprile 1942. Ex bandito. Graziato nel 2004 da Ciampi. «Nessuna delle persone che ho rapito si è mai costituita parte civile ai processi. Ci sarà un motivo. Con alcuni poi sono diventato persino amico».

• «Piccolo, robusto, agilissimo, penultimo di 10 figli, vivace fin troppo, orgoglio smisurato e spiccatissimo senso della famiglia e della giustizia fai da te» (Alberto Pinna), a quattordici anni fu arrestato per il furto d’un fucile (se la cavò con il perdono giudiziale), a diciotto, a conclusione della festa dei coscritti della classe di leva 1942, distrusse a fucilate un lampione di Orgosolo, il suo paese. «I carabinieri lo presero per la collottola e lo portarono in caserma. Se la sarebbe cavata con poco se non avesse avuto la dissennata idea di darsela a gambe. La “Prima evasione”, nella mitologia mesiniana. Sette mesi di galera, nella realtà della vita del giovane deviante. Il salto definitivo nella grande criminalità ha il più classico dei movimenti. È il 1962 e uno dei dieci fratelli viene assassinato per vendetta. Il ventenne Graziano irrompe in un bar di Orgosolo e spara contro quello che ritiene il responsabile dell’omicidio. Scoppia una rissa. Mesina viene tramortito con un colpo di bottiglia sulla testa. Finisce in ospedale e, non appena si riprende, fugge. Seconda evasione. Alla fine saranno in tutto nove. Quindi i sequestri di persona, le interviste esclusive a viso scoperto, col mitra in mano, e una corte di complici incappucciati attorno. Una sparatoria in campagna, un nuovo arresto. Nel 1968 il mito di Mesina è consolidato. Raggiunge Giangiacomo Feltrinelli che crede di poterne fare il Che Guevara sardo. La trattativa, come era ovvio, non porta a nulla. Ma contribuisce ad alimentare la leggenda e anche la paura quando, nel 1976, Grazianeddu evade dal carcere di Lecce con alcuni terroristi. In realtà della politica non gliene è mai importato niente. Quando, nel 1991, ottiene la libertà vigilata e partecipa alla trattativa per la liberazione del piccolo Farouk Kassam, s’invischia in una partita pericolosa con i servizi segreti. Poco dopo, nella villetta dell’astigiano dove si è stabilito, irrompono i carabinieri e scoprono un piccolo arsenale: un kalashnikov, due pistole automatiche, un revolver, due bombe a mano, cinquemila cartucce. “Una trappola”, accusa. Ma perde nuovamente la libertà» (Giovanni Maria Bellu).

• «Ero il latitante più ricercato d’Italia ma andavo alle partite del Cagliari nell’anno dello scudetto (1970). Sono entrato allo stadio, sempre travestito, anche da donna». (Alberto Pinna, Corriere della Sera 11/6/2013)

• «Piace tanto a Indro Montanelli, uno dei primi a battersi perché gli venga concessa la grazia. In un giorno del luglio del 1992 il grande giornalista si ritrova faccia a faccia con il bandito. Lui gli racconta aneddoti della sua vita (“Da bambino pescavo le trote con le mani, poi purtroppo fui costretto a usarle per altri scopi”), delle sue fughe “Mi portavano sempre in carceri di massima sicurezza ma non ne esiste uno incompatibile con l’evasione”), di se stesso (“Ero un po’ ribelle, scintilloso come si dice da noi: colpa dei soprusi dei proprietari terrieri e dei giudici”) e poi confessa: “Avrei potuto sparare a Saragat (l’ex presidente della Repubblica), ogni tanto ci facevo un pensierino. Saragat venne otto volte a Orgosolo, sempre per invitare la gente a farmi prendere. Sapevo esattamente dove sarebbe passato l’elicottero e a quale balcone si sarebbe affacciato. Volendo, lo tiravo già come un piccione». (Attilio Bolzoni, la Repubblica 11/6/2013)

• Ha tentato poi l’avventura nel campo del turismo (agenzia 11 Mori): «Voglio far vedere la Sardegna che conosco meglio, la zona di Orgosolo, i sentieri più nascosti, gli scorci più incredibili» (a Gianluigi Nuzzi).

• Nel 2009 una mancata partecipazione all’Isola dei Famosi di Simona Ventura, annullata all’ultimo per «motivi di opportunità». Spesso presente a dibattiti sul banditismo. A Gorizia, nel maggio 2013: «Non voglio mescolarmi con la delinquenza di oggi, senza regole e senza coscienza».

• All’alba del9 giugno 2013 è stato arrestato, insieme ad altre 24 persone, con l’accusa di avere «promosso, costituito, diretto e organizzato un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti». La banda, composta tutta da fedelissimi di Mesina, si sarebbe rifornita di droga in Calabria e a Milano grazie ai contati con la ’ndrangheta e la malavita albanese, per poi rivenderla a gruppi di spacciatori in Sardegna. Sullo sfondo, secondo gli inquirenti, anche l’idea di tornare ai rapimenti.

Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015, scheda aggiornata al 11 giugno 2013.

Mesina story tra evasioni e fughe d'amore. Dopo la grazia, pareva fosse diventato un uomo tranquillo, scrive “Televideo Rai”. Era a capo di una banda di trafficanti di droga. Una vita tormentata, quella di Graziano Mesina, fatta di periodi latitanza, lunghe detenzioni in carcere, molte evasioni, qualche fuga d'amore, e anche tanta notorietà che rischiava persino di farlo diventare una star televisiva. Dopo la grazia, sembrava che fosse diventato un uomo tranquillo, che vivesse di ricordi da raccontare ai turisti che andavano a visitarlo, e invece è tornato, a 71 anni suonati, dietro le sbarre di una cella. Mesina, detto "Grazianeddu", iniziò la sua "carriera" di bandito giovanissimo e giovanissimo finì in carcere. Nato il 4 aprile del 1942 ad Orgosolo, penultimo di dieci figli di Pasquale Mesina, pastore, e Caterina Pinna, fu arrestato la prima volta a 14 anni per porto abusivo d'armi. Poco dopo, fuggì compiendo la prima delle evasioni che lo resero celebre. La seconda fuga risale al maggio del 1962, quando durante un trasferimento dal penitenziario di Sassari si lanciò da un treno in corsa. La libertà durò poco: venne catturato dopo un lungo inseguimento. Nello stesso anno realizzò la terza evasione, questa volta dall'ospedale di Nuoro dove era ricoverato. Per sfuggire alla cattura rimase nascosto due giorni e due notti nel cortile dentro un grosso tubo. La quarta evasione di "Grazianeddu" fu quella dal carcere di San Sebastiano di Sassari. Mesina assieme all'ex legionario spagnolo Miguel Atienza si lasciò cadere dal muro di cinta dell'istituto di pena. Da allora rimase alla macchia fino al 20 marzo del 1968 quando venne catturato a un posto di blocco da una pattuglia della polizia stradale nei pressi di Orgosolo. Trasferito nella Penisola fece parlare ancora di sé per le sue fughe spericolate. Evase, ancora una volta, dal carcere di Lecce nel 1976 e rimase latitante per quasi un anno. Dopo essere stato rinchiuso nel penitenziario di Porto Azzurro per scontare l'ergastolo, l'ex primula rossa del banditismo sardo decise di tenere un comportamento irreprensibile per ottenere il riesame della sua vicenda processuale. Nel 1985 di allontanò dal carcere per una "fuga d'amore" ma venne rintracciato e catturato. Le fughe e i periodi di latitanza di Graziano Mesina contribuirono a costruire il mito del bandito indomabile, un mito che crebbe anche fra le donne e si racconta che spesso si recasse a Orgosolo per incontri con ragazze innamorate di lui. Dopo un periodo di relativo silenzio, Graziano Mesina tornò alla ribalta nel 1992 quando rientrò in Sardegna per occuparsi del sequestro del piccolo Farouk Kassam. La vicenda suscitò polemiche in particolare sul ruolo di Mesina nella liberazione del bambino. L'anno successivo venne rinchiuso definitivamente in carcere dopo che furono ritrovate alcune armi in un cascinale di San Marzanotto d'Asti, dove "Grazianeddu" viveva. Finì di nuovo in carcere sostenendo di essere stato "incastrato" e proclamando la sua innocenza. Dopo un lungo periodo di detenzione arrivò la grazia concessa da Ciampi, dopo diversi appelli, il 24 novembre del 2004. L'ex primula rossa del banditismo sardo tornò alla ribalta della cronaca per le polemiche suscitate dall'annuncio della sua partecipazione, nell'ottobre del 2009, all'"Isola dei famosi", il reality show condotto allora da Simona Ventura. In molti giudicarono inopportuna la sua partecipazione a una trasmissione televisiva di grande ascolto e perciò venne escluso. Mesina rimase quindi in Barbagia a fare la guida turistica e a tutti sembrava che la vita movimentata del bandito fosse per lui solo un ricordo. E invece, i carabinieri hanno bussato ancora una volta alla sua porta.

L'ex capo dell'Anonima in manette per spaccio di droga. E progettava anche di rapire un imprenditore, scrive Gian Marco Chiocci  su “Il Giornale”. L'ultimo ritratto giudiziario dello «zio», come il celeberrimo Graziano Mesina viene rispettosamente chiamato dai presunti complici più giovani, è quello di un uomo «dall'indole violenta», a dispetto dei 71 anni, «eccezionalmente pericoloso» e con una grande leadership criminale. Per la Dda di Cagliari, il bandito gentiluomo che ha fatto la storia dell'Anonima sarda facendosi trent'anni di galera inframezzati da decine di evasioni (ottenne la grazia dal presidente Ciampi) avrebbe allacciato e mantenuto i rapporti con i trafficanti calabresi trapiantati a Milano per importare e spacciare in Sardegna decine di chili di eroina e cocaina, finanziando lo stesso acquisto degli stupefacenti e regolando direttamente i rapporti commerciali coi corrieri. Accuse pesanti quelle riportate nelle carte della procura sarda. Accuse che lasciano perplessi gli addetti ai lavori perché Mesina, la droga l'ha sempre lasciata fuori dai suoi giri criminali. «Oh, tre viaggi: manco uno ne ha pagato... lo sai chi li ha pagati? Io. Ma pagati dalla tasca», dice Grazianeddu intercettato in ambientale mentre si lamenta del tiro mancino che il suo socio Gigino Milia gli ha giocato. Non si presenta agli appuntamenti e non anticipa i soldi per le spese vive, il vecchio amico con cui è stato condannato per un sequestro di persona anni addietro. Con lui, a un certo punto, Mesina decide di rompere. La droga che gli procura fa schifo - scrivono i carabinieri - è di pessima qualità. «Tutta roba che non valeva, era da buttare», ringhia Mesina. Che, a un certo punto, osservano gli inquirenti, medita il grande salto. Come? Mettendosi direttamente in contatto coi grandi narcos sudamericani. Ha già il passaporto in tasca, s'è pure informato sul costo della sostanza («dice che lì la vendono a 5mila euro al chilo», sussurra un complice). E per i viaggi in Sudamerica, ha pensato pure a un alibi di ferro. I viaggi transoceanici, annota il gip, «che non sarebbero certo passati inosservati, egli contava di giustificarli con visite ad un amico, il fotografo Antonello Zappadu (quello degli scatti nella villa di Berlusconi a Villa Certosa) che si era trasferito in Colombia». Ma il progetto naufragherà. L'inchiesta (30 indagati, 25 in carcere e il resto ai domiciliari) si regge quasi esclusivamente sulle intercettazioni. La voce di Mesina esce di continuo dalle attività di monitoraggio delle utenze telefoniche e dalle cimici piazzate nella sua Porsche Cayenne. Ore e ore di conversazioni in dialetto in cui spuntano parole considerate sospette, che gli inquirenti associano al traffico di stupefacenti: «foraggio», «cagnolino», «fieno». Lo stesso ex ergastolano viene ascoltato mentre si lamenta che «la vitella non è tanto grassa e in più ne mancano quattro». Con la droga addosso, però, Grazianeddu non è mai stato trovato. Così come i fucili mitragliatori che spuntano qua e là nelle intercettazioni, che sarebbero nella disponibilità di Mesina. La sua organizzazione, si legge nell'ordinanza d'arresto, si sarebbe estesa presto ad altre attività criminali se ne avesse avuto il tempo. Pare progettasse addirittura un sequestro di persona nei confronti di un uomo che «Mesina programmava di tenere in cattività per un anno prima di iniziare le trattative proponendosi come emissario». E, per chi non onorava i debiti, la vendetta dello «zio» sarebbe arrivata inesorabile come quando avrebbe costretto il figlio piccolo di un uomo che gli doveva dei soldi «a telefonare a suo padre per dirgli che aveva rotto i coglioni ed era ora di pagare». La cosa curiosa è che il notoriamente accorto Mesina, al telefono, straparlava senza alcuna cautela. Forse perché «se avesse trovato qualcuno che metteva delle microspie nella sua vettura l'avrebbe immediatamente ucciso». Eppoi, rimarcano il gip, non avrebbe esitato ad aprire il «fuoco sui carabinieri» se si fosse trovato al posto di alcuni rapinatori di Orgosolo, messi in fuga prima del colpo. Altro che «barbaricino taciturno», Grazianeddu si «è mostrato piuttosto loquace» rivelando ai propri interlocutori «dettagli che essi non conoscevano». E che pure i carabinieri ignoravano.

Orgosolo attende la verità su Mesina. "Il nostro è un paese come un altro". La precisazione di Antonia Mesina al microfono del Tg di Videolina ("Mai offerto un caffé alla polizia") continua a far discutere nelle strade di Orgosolo. L'arresto di Grazianeddu ha riacceso i riflettori, ma tra il dedalo delle viuzze illuminate dai murales vivono la vicenda con disincanto. Emerge anche dall'articolo sull'Unione Sarda di Piera Serusi. Un paese orgoglioso, "ma come tutti gli altri", è un commento quasi unanime. Nel corso, al bar, nel dedalo delle viuzze abbellite dai murales, nel piazzale della chiesa, ti aspetti musi lunghi alla vista del cronista ma, nella maggior parte dei casi, così non è. Orgosolo si conferma un paese ospitale anche quando, suo malgrado, si sono riaccesi i riflettori. L'arresto di Graziano Mesina e di altri compaesani ha messo a rumore il paese che, con un disincanto che non ti aspetti, appare sereno, "in attesa che giustizia sia fatta". Emerge dall'articolo pubblicato sull'Unione Sarda di oggi, a firma di Piera Serusi. Ed è emerso dal reportage dell'inviata del Tg di Videolina Mariangela Lampis, in onda in tutte le edizioni del tg. Quanto all'inchiesta, che ha portato in carcere 26 persone con l'accusa - in particolare - di traffico di droga, va avanti con gli interrogatori. Graziano Mesina, l'altro giorno a Badu e' Carros, si era avvalso della facoltà di non rispondere. Ieri a Buoncammino l'avvocato Corrado Altea, coinvolto nell'inchiesta, ha detto: "Ho fatto solo il mio lavoro con clienti che conosco da quasi vent'anni".

Antonia Mesina parla in esclusiva al microfono di Mariangela Lampis. Ecco l'intervista rilasciata al tg di Videolina. Orgosolo. Il paese è ancora frastornato. Gli anziani parlano dell'arresto di Grazianeddu, i giovani si esprimono sulle "loro" piattaforme. Hanno già postato i loro commenti sulla Rete e detto la loro sui social network. In fondo, l'arresto di Graziano Mesina è stato anche un modo per riaffermare una identità forte, troppo forte. In certi momenti storici dileggiata, ma sempre temuta. Orgoloso è più che un Paese. Sono passati appena tre giorni dall'arresto del fratello e forse per Antonia Mesina, lunedì mattina, è stato come rivedere un vecchio film.

(D: domanda. R: risposta)

«Lei si è spaventata quando ha visto le Forze dell'Ordine?», chiede la giornalista di Videolina.

R. «Non lo so se mi sono spaventata o che cosa, vedere tutta quella Giustizia...».

D. «Raccontano però che lei ha preparato il caffè e i biscotti».

R. «E' bugia. Io caffè non ne ho fatto. Io la polizia non la posso vedere neanche. Non mi potevo neanche alzare com’ero. Stia tranquilla che io caffè non ne ho fatto: è bugia quello che hanno scritto».

D. «Cosa è successo allora?»

R. «Io ero seduta nel divano, mio fratello si è alzato mentre hanno frugato la casa. Io non mi sono neanche alzata».

D. «Cosa l'ha infastidita di più di questa vicenda?»

R. «Quello che hanno ordito, è una cosa che hanno ordito».

D. «Lei non ha parlato con nessuno?»

R. «Con nessuno. Non ho scambiato parole con mio fratello».

D. «Lo chiamavano per vendere terreni...».

R. «Certo. Lo chiamavano. Per esempio, hanno fatto la tesi molte ragazze (sul banditismo e sulla figura di Graziano Mesina), sono venute qui a leggerle».

D. «Lui cosa le ha detto prima di essere portato via?»

R. «Mi ha detto di stare tranquilla. Nient’altro».

D. «Ha sentito l'avvocato nel frattempo?»

R. «Ho sentito adesso l’avvocato, che è andato ieri. Poi non l’ho più sentito».

Il legale Corrado Altea, accusato di far parte della banda di trafficanti diretta dall'ex primula rossa, davanti al Gip: "Mesina inferocito è una tigre". L'avvocato Corrado Altea risponde alle domande del giudice per le indagini preliminari Giorgio Altieri e del pubblico ministero Gilberto Ganassi, secondo quanto scrive “L’Unione Sarda”. Il 13 giugno, a Buoncammino, racconta: "L'ultima volta che vidi Graziano Mesina, mi pare fosse la quarta, era terribilmente trafelato. Lo ricordo come fosse oggi: era fine estate del 2009, il 14 agosto. Venne ai Pini, l'ultimo lido del Poetto. Ci mettemmo in un tavolo, bevemmo una birra, mangiammo qualcosa. Mia moglie era terrorizzata, perché Mesina se lo guardate negli occhi quando è inferocito sembra una tigre. Sembra abbia gli occhi anche dietro. Mi disse che aveva questioni con Gigino. Lo voleva uccidere subito". Gip e pm gli chiedono dei rapporti con Gigino Milia, Leone Bruzzaniti, Antonello Mascia, Guido Brignone, Christian Mancosu e gli altri (presunti) affiliati orgolesi, cagliaritani, albanesi e calabresi della banda di trafficanti che, in Sardegna, aveva al vertice l'ex primula rossa. Secondo le accuse, Altea aveva un ruolo importante nel gruppo capeggiato dall'ex ergastolano. Ancora, su Mesina dice: "Lo conoscevo di fama". Il primo incontro è del 2008: "Avevo fatto un processo a Tempio o Sassari e al rientro, sulla Carlo Felice, mi chiamò Gigino. Vieni a pranzo che sono con un amico , mi propose. Era a Zeddiani, lo trovai appartato con questa persona che riconobbi subito. Mi disse che Gigino gli aveva parlato bene di me e che aveva avuto in carcere contatti con alcuni miei clienti che avevano fatto altrettanto, così mi chiese: se malauguratamente ho bisogno, tocchiamo ferro, posso rivolgermi a lei? Io accettai, ritenevo prestigiosa la sua difesa". Poi vi fu l'episodio del Poetto a Cagliari, quello della tigre inferocita. Graziano Mesina voleva ammazzare Gigino Milia, considerato il capofila della banda parallela di trafficanti di droghe, scrive “La Nuova Sardegna”. Il bandito di Orgosolo ce l’aveva con lui, voleva farlo fuori subito. Era l’estate del 2009 e il bandito di Orgosolo cercò con insistenza Corrado Altea, l’avvocato finito in carcere nell’inchiesta della Dda con trenta arrestati e nuovi indagati in vista. Ed è stato proprio il penalista originario di Arbus a raccontare, nel corso di un’esame di garanzia durato quasi cinque ore, quell’incontro dai contenuti forti avvenuto al chioschetto i Pini, sulla spiaggia del Poetto: «Mia moglie Silvia era terrorizzata - ha riferito Altea al gip Giorgio Altieri e al pm Gilberto Ganassi - perché Mesina, se lo guardate negli occhi quando è inferocito, sembra una tigre». Il contenuto del colloquio lascia poco spazio alle congetture: «Mesina - ha raccontato il legale - mi disse che aveva questioni con Gigino. Te ne parlo perché sei il suo avvocato, disse, io lo devo ammazzare. Dimmi dov’è, perché quando mi viene a trovare viene con la moglie e i figli, che mi mette davanti come scudo e io non posso ammazzarlo». Altea, così ha raccontato, cercò di mantenere il controllo: «Mi chiedeva dove si trovasse e io ho gabbato, ci siamo bevuti una o due birre, ho cominciato a dargli del tu, una cosa per avvicinarlo. Graziano, gli ho detto, io non voglio sapere che questione avete voi due, però se è una questione di interesse, soldi o altra cosa non grave se ne parla, capperi! Avete fatto quello che avete fatto insieme, si può risolvere». Altea ha fatto riferimento a una rapina compiuta negli Anni Settanta, Mesina e Milia insieme, a una bisca del temibile boss milanese Francis Turatello: «Ci vollero dei pazzi come loro... lo seppi perché me lo disse il portinaio di corso Sempione, la bisca era piena di stecche di sigarette e il portinaio, un po’ più furbo di loro, sapeva dove tenevano l’oro e gli orologi, lasciati in pegno dai giocatori. Fecero man bassa». Tornato al presente, Altea ha illustrato la sua opera di paciere: «Calmati un attimo, se sei disposto a ragionarci su ti porto Gigino dove vuoi, però risolvetela pacificamente, la questione». Sarebbe stato questo, secondo Altea, l’ultimo incontro con Mesina: «Da allora non l’ho più visto, né tantomeno ha ammazzato Gigino. Si è calmato, non so come abbiano risolto i loro rapporti». I magistrati gli hanno chiesto di precisare le ragioni di quella lite finita senza sangue. La risposta: «Mesina mi ha detto solo che erano questioni di tanti soldi che lui avanzava da Gigino». Fin qui il rapporto Altea-Mesina, che per la Dda e per il gip Altieri è ampiamente provato come sodalizio d’affari tutt’altro che puliti. Ma nel corso di un monologo che copre undici delle venticinque pagine del verbale dell’esame di garanzia, l’avvocato - assistito dai colleghi Giuseppe Duminucu, Daniele Condemi e Jacopo Ruggero Porcu - ha cercato di chiarire uno per uno ciascuno dei rapporti sospetti che gli vengono attribuiti nell’ordinanza d’arresto. Con un dato generale di partenza: «Se tu vuoi essere l’avvocato dei grossi traffici (di droghe, ndr) ti devi prestare a questo gioco qui... io non mi sono prestato, ero un po’ ingolosito ma ho detto basta». La tesi difensiva è semplice: Altea era l’avvocato storico di Gigino Milia, trafficante conosciuto e temuto. Attraverso Milia il legale, arrivato in Sardegna dopo una lunga e lucrosa attività professionale in Lombardia, ha conosciuto altri personaggi della mala locale e nazionale. Da allora lavora borderline ma lavora e basta, segue le vicende giudiziarie per rimediare denaro, perché i clienti scarseggiano: «Ero arrivato a Cagliari a novembre del 1999 con un miliardo e centomila lire sul mio conto, me li sono fulminati». Poi sono arrivati i guai («subornato da Luigi Lombardini») e le conseguenti difficoltà: «Mi hanno veramente avvelenato - ha ricordato Altea, davanti ai due magistrati - poi ho superato questa forma di avvelenamento, dallo psicanalista non ci sono andato e ho cercato di reinserirmi chiedendo a Gigino. E guardate che cosa ho avuto». Quindi vittima del suo stesso cliente storico, di chi gli ha aperto la strada nei tribunali sardi per poi trascinarlo - così ha fatto capire - nella zona grigia tra professione e malavita: «Adesso ho capito - ha detto Altea ai giudici - dalla lettura dell’ordinanza ho capito che Gigino, approfittando della familiarità che aveva con me, mi ha strumentalizzato». Ma in realtà il rapporto era solo professionale: «Emerge chiaramente - ha sostenuto l’avvocato Condemi - che il collega non si è arricchito nell’attività, emerge che sia stato strumentalizzato e sia vittima di queste persone. Lui ha dato biglietti da visita, era certo di aver svolto attività di difensore».

In carcere per 40 anni, poi la grazia. Grazianeddu: "Ora dovrò fare qualcosa". Mesina venne scarcerato a Voghera nel novembre del 2004: ecco il racconto di quelle ore fatto dal giornalista Giorgio Pisano su L'Unione Sarda dell'epoca. Il 25 novembre del 2004, il giorno dopo la grazia concessa dal presidente della Repubblica Carlo Atzeglio Ciampi, Graziano Mesina tornava a essere un uomo libero dopo essere stato rinchiuso per anni nel penitenziario di Voghera. Ecco l'articolo di Giorgio Pisano che su L'Unione Sarda del 26 novembre di quell'anno racconta i momenti successivi alla scarcerazione.

L'altro mondo è a un passo, oltre la cancellata di sette metri, oltre gli agenti della polizia penitenziaria, oltre la vigilanza armata. Graziano Mesina, le braccia piegate da tre enormi bustoni di plastica, si guarda intorno sperduto. Porte aperte, anzi spalancate: ma lui sta fermo. Passetto avanti e uno indietro. Fuori lo aspetta un esercito di telecamere e fotografi. Affamati. Tentenna per un secondo, poi si ricorda d'essere un balente di Barbagia e avanza lentissimo. Sono quasi le tredici. Intorno al carcere, la nebbia agli irti colli buca il cielo piombo. Fa freddo, c'è umido, si respira facendo le nuvolette di vapore. Graziano è perplesso. Ciccìa di lana scura, giaccone a vento marca Passport, jeans e naso che cola. «Scusate, sono raffreddato». Per quanto possa sembrare banale e deludente, sono le sue prime parole da uomo libero. Ballore, il fratello maggiore, gli è venuto incontro al volante d'una vecchia Punto: vorrebbe portarlo via saltando la stampa. Vetri appannati e finestrini rigorosamente serrati, finge di non vedere il grappolo di microfoni toc toc, finge di non sentire l'inviata di Studio Aperto che accentua le labiali nella speranza di essere notata: Studio Aperto. Stu-dioAper-to, capisce signor Ballore? No, che non capisce. Intanto la retroguardia cede: al momento di aprire il baule per gettarci dentro le sue valigie vuoto a perdere, Graziano viene chiuso in angolo. E adesso, che gli piaccia o no, deve parlare. Certo che è contento, no che non se l'aspettava, sì che gliel'avevano annunciato, no che non vuole ringraziare. «C'è tempo per quello». Due parole per Ciampi? «Poi». Per il ministro Castelli? «Poi anche lui». Prospettive? «Non ne ho. Per il momento vado a salutare dei parenti». Dove? Interviene Ballore, strategia preventiva, filo di voce: «Destinazione ignota». Bugia: lo sanno tutti che la meta provvisoria è Crescentino (per pranzo), salutare cognata e nipoti, transito a Milano per un replay ad altri parenti e tappa conclusiva a Orgosolo. E dopo? «Questo è tutto un altro discorso». Pressato da altre domande-chiave («E' contento?, si sente felice?, qual è il primo pensiero che le è venuto in mente?»), Mesina intuisce che i giornalisti non hanno più niente di serio da chiedergli e si prepara alla fuga: «Se adesso mi volete scusare...».Scusato, ma non è finita. E' solo la conclusione del primo tempo, in attesa di interviste lunghe, racconti in esclusiva, reportage sulla primula rossa di Barbagia. Che appare, a dirla tutta, un po' ingrigita al di là dell'anagrafe (sessantadue anni). E appesantita da una vita, giocoforza, sedentaria. La giornata d'attesa, dopo la concessione della grazia firmata dal presidente della repubblica e controfirmata dal ministro della Giustizia, è cominciata presto. Alle 8. Sotto un freddo a cinque gradi, il primo nucleo s'è appostato davanti all'ingresso del carcere (garitta blindata, sbarra abbassata e nessuno osi avvicinarsi): c'era la certezza che di lì a poco Graziano Mesina sarebbe apparso, finalmente libero dopo quarant'anni di galera. Al suo posto si fa vivo il nipote, Tonino Pisanu, 35 anni, orgolese silenzioso e discreto. Vorrebbe non parlare. Vorrebbe. «Ringraziamo il capo dello Stato e Castelli per aver consentito che Graziano, dopo una breve e vecchia parentesi di libertà, possa definitivamente tornare a casa. Gli ultimi dieci anni trascorsi in carcere sono stati molto, molto più pesanti dei trenta precedenti». Mentre si chiacchiera infiorettando episodi della sua vita da fuorilegge, giusto per rinverdire l'epopea di Sardegna perché banditi, arriva un macchinone scuro. Ne viene fuori l'avvocato Enrico Aimi, che saluta con affabile cordialità e promette: torno subito. S'infila in guardiola e scompare dietro un portone blindato. Quasi tre ore più tardi, eccolo che torna. Palesemente turbato, anzi proprio infuriato. Solenne come un notaio davanti a uno stuolo di eredi, dichiara gelido: «Graziano Mesina è ufficialmente libero. Pochi minuti e lascerà il carcere. Questo è tutto quello che abbiamo da dire». Passo e chiudo. Salta in macchina e fa per andarsene fino a quando un cronista non gli blocca la strada come un ribelle cinese in piazza Tienamen di fronte ai carri armati. Scusi, non è che ha litigato con Mesina? «Quando mai». Allora perché non lo aspetta, perché se ne va? «A più tardi». L'avvocato Aimi non vuol raccontare quel che è accaduto quando s'è presentato alla guardiola della casa circondariale. Incaricato da una signora sardo-modenese (Greca Deiana) di occuparsi del caso, è entrato a passo di bersagliere: nel momento sbagliato. Ha chiesto del suo cliente: «Voglio vederlo». Manco per sbaglio: l'ordine di scarcerazione non era ancora arrivato e dunque niente visite. In seconda battuta, visto che gli agenti non sembravano solidali e commossi, ha proposto sicuro: «Vabbé, passatemelo al telefono». Quando si è sentito dire no per la seconda volta, ha vacillato. A seguire, s'è offeso. E senza aspettare cliente e scarcerazione, se n'è andato. I registri di Voghera dicono che non risulta essere «difensore di fiducia» e che ha avuto con Mesina due colloqui: uno nel 2001 e l'altro nel 2003. Insomma, c'era e non c'era. Mentre il suo avvocato sgommava nel desolante vialetto dell'addio, Graziano Mesina - secondo braccio, cella singola numero cinque - è stato informato alle 9,35 in punto dello straordinario regalo di Natale piovuto da Roma: la grazia. Nello stesso istante, è stato informato anche della gente che aspettava fuori. Sos. Ha chiesto di telefonare a Ballore: «Vieni a prendermi per favore». Ballore, che arriva molte ore dopo da Crescentino, avrebbe voluto entrare fin dentro il cortile, oltre le sbarre, ma gli viene impedito: vietato l'accesso agli estranei. Così, resta lì, di fronte all'ingresso, proprio in mezzo: tra Graziano e i giornalisti. Tanto vale, a quel punto, subire qualche minuto di supplizio. Ressa, spintoni intorno alla macchina,urla: Mesina vieni a dirci una cosa. Mesina tace. Allora si cerca un sardo per ripetere l'appello in limba, lessico familiare: chiamatelo in dialetto, magari risponde. Difatti lo sventurato saluta timidamente con la mano. E aspetta, sorrisetto di circostanza, la prima domanda: ha dormito stanotte? «E' da quattro notti che non chiudo occhio». Ansia per la liberazione? «No, influenza. Ho il naso tappato». Ma ansia niente niente? «Beh, un po' sì: in questi casi capita sempre, no?» Quando ha saputo? «Ieri. E ho detto: vediamo, se è vero, dovranno scarcerarmi». In realtà, Mesina era al corrente della faccenda da almeno una settimana, cioè da quando il direttore del carcere gli ha fatto sapere (ufficiosamente) che il ministro Castelli aveva espresso parere favorevole alla concessione della grazia. Voce baritonale nella calca: scusi Mesina, ma la grazia non l'avevano respinta? Domanda non raccolta, non è l'ora dei veleni questa. E nemmeno dei programmi per il futuro: «Un lavoro? Qualcosa dovrò fare, sicuro. Ma non so cosa». Tornerà a vivere ad Orgosolo? «Non ne ho idea. Sono appena uscito, datemi il tempo di pensare». Anche questa è una piccola omissione: aspettando la grazia (senza sperarci troppo perché in cella l'illusione può uccidere), Graziano ha programmato da tempo la sua prima settimana da uomo libero. «Appena possibile, voglio andare in campagna. Sentirne gli odori. A forza di stare in carcere, mi stanno uscendo dalla memoria: e questo mi dispiace». Inseguito da una cascata di parole, mostra stanchezza e s'immerge in macchina. Ultimo ciao e via, braccato da una pattuglia di inviati che spera (inutilmente) di bloccarlo lungo l'autostrada. Il freddo resta, il piazzale si spopola. Rimangono, divertiti e soli, dieci agenti: hanno perso il detenuto più importante di una galera che conta 250 ospiti e nemmeno un nome famoso. Quanto a Mesina, che dire? «Brava persona. Era qui da cinque anni, mai un verbale». E nemmeno un permesso premio, a voler essere precisi. Fino al giorno dei giorni.

Il vero volto di Graziano Mesina. Il Mesina boss emerso da questa inchiesta non è diverso dal Mesina brigante che aveva affascinato molti intellettuali: Grazianeddu appartiene ancora anche oggi a un mondo - quello della Barbagia - in cui i valori sono capovolti, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Emerge dalla notte dei tempi il volto segnato e antico di Graziano Mesina e fa quasi tristezza. Comincia bandito, finisce boss. Ma in fondo il bandito è tale, bandito buono o bandito sociale secondo la mitologia che appartiene a tutte le latitudini e a tutti i tempi, anche quando perde l’autenticità delle sue radici popolari e nelle cronache giudiziarie acquista il volto scontato dei furfanti ordinari. Mesina è tornato dietro le sbarre per traffico di quella droga che da bandito buono diceva di odiare. È stato in galera per più di 40 dei suoi 71 anni, 9 ai domiciliari o in libertà vigilata, e 5 di latitanza con le ben note parentesi giornalistiche degl’incontri nel profondo della Sardegna con il campione dei giornalisti, Indro Montanelli, cinicamente affascinato da briganti, dittatori e guerriglieri. Mesina boss non è diverso dal Mesina bandito, dal Mesina amico degli 007, dal Mesina mediatore nei sequestri di persona dopo essere stato sequestratore, dal Mesina che rivendica (anche in questo caso in aderenza a un immaginario banditesco consolidato) un senso suo di giustizia e ingiustizia che gli fa ammazzare un assassino per vendicare non solo la vittima ma gli innocenti condannati al suo posto, dal Mesina che libera il figlio di un sequestrato infilandogli in tasca mille lire per prendersi un gelato. Il boss, la parte cattiva, la faccia disgustosa della medaglia, fa parte dell’uomo. Il bandito buono è cattivo. Il bandito cattivo è buono. Mesina è un reduce, appartiene a quel mondo in cui i valori sono capovolti ma sono valori. Al mondo contadino. Al mondo della Sardegna che è un mondo a parte. Duro. Terreno. Terreo. La cronaca ci riserva ogni tanto queste parentesi di letteratura. Banditi che sono protagonisti di romanzo. Anche se lo squallore incalza pure lui. Ecco perché non mi piace il modo facile di tanti di raccontare la degenerazione del bandito in boss. Fu geniale da parte sua inventarsi una seconda vita da guida per i turisti tra Barbagia e Gennargentu. Sarò forse “montanelliano”, ma non riesco a vedere il boss. Io vedo ancora, dietro il volto invecchiato (male) dell’ex brigante, un “balente” della Sardegna. L’ultimo bandito.  

Quel giorno che  Mesina mi sequestrò per scherzo, scrive Gianluca Nicoletti su “La Stampa” del 6/luglio/2005. Una giornata di otto anni fa per le montagne di Orgosolo. Come guida Grazianeddu allora da poco uscito di carcere. Graziano Mesina, assieme ad altre 26 persone di varie parti della Sardegna, è stato arrestato  all'alba dai carabinieri di Nuoro nell'ambito di un'operazione che ha condotto allo smantellamento di due associazioni dedite al traffico di stupefacenti, ma anche a rapine e furti. In progetto c'era anche un sequestro di persona. Otto anni fa era stato da poco graziato quando lo intervistai per “La Stampa”. Mi fece visitare per una giornata intera i luoghi segreti della sua epopea di bandito. Allora sembrava davvero che per lui quello fosse un capitolo chiuso...  

La montagna è subito fuori da Orgosolo, saliamo tra i lecci e il ginepro, il viottolo termina sullo spuntone di roccia. Graziano Mesina si gira e dice serio: “signori ho una notizia per voi, siete sequestrati!” Nemmeno un istante dopo scoppia a ridere. Un fuoristrada appare dal tornante, riconoscono Grazianeddu, i due pastori salutano e lui insiste: “li ho sequestrati, non dite niente a nessuno!” Quelli proseguono muti. Oggi la Primula Rossa del Supramonte ci scherza sopra, ma quelle gesta gli hanno fatto passare quarant’ anni di vita dietro le sbarre. “Ecco lì sotto mi ero fatto un mio poligono di tiro, dovevo pur esercitarmi per stare in allenamento!” E i soldati che la braccavano? “Sentivano, sentivano, ma restavano la sotto, andremo a vedere-dicevano- ma domani.” L’ indomani certo lui non ci sarebbe stato più. Capace, come dice, di camminare senza fermarsi mai sette giorni e sette notti di seguito: “Mangiavo camminando, venivo qui da Nuoro in due giorni e mezzo, poi continuavo, con trenta chili sulle spalle di armi e munizioni.” Una semplice gita con amici sardi tra boschi e placidi armenti? No, piuttosto un sopralluogo sul terreno di battaglia decenni dopo la fine di una grande guerra, nemmeno tanto eroica. Da una parte rastrellamenti e violenti arresti in massa, dall’ altra famiglie sgrassate e ostaggi che, se tornavano liberi, erano larve umane, umiliati fino all’ inverosimile.  Per l’ antico capo dei briganti ogni cespuglio offre lo spunto per evocare un ricordo. Tra amnesie strategiche e reticenze racconta di fughe nella notte, sparatorie, marce forzate, ostaggi nascosti o da rapire. Il suo fisico è appesantito rispetto ai tempi in cui era il fuorilegge inafferrabile, il re di Orgosolo. Da quando è stato graziato, sei mesi fa, però ha già perso dieci chili e conta di mettersi presto in forma: “nulla fa dimagrire come correre tra gli alberi di notte -e indica un orrido scosceso fitto di rovi e tronchi. Poi si arrampica veloce sulle pietre e vorrebbe che lo seguissimo fino al cucuzzolo che ci si para davanti. E’ Monte Novo S.Giovanni, una torre di pietra dove in passato si celebrava la festa di Santu Juvanne ´e sos sordadeddonos. Sembra un castello frastagliato di merli, in alto volano silenziosi i corvi con le ali distese e il sole al tramonto infuoca le montagne: “Su questa roccia spesso vedo turisti in difficoltà. Arrivano a metà, poi il vento che soffia forte mette loro paura. Una volta ho chiesto a una coppia se volevano aiuto, ma mi hanno riconosciuto e non sapevano che dire.” Da quelle parti si parla da tempo di fare un grande parco nazionale, naturalmente la gente di Orgosolo non è d’ accordo. Me ne ero accorto vedendo in paese un murale che rappresentava avvoltoi: “questi sono gli animali che proteggerà il parco!” chiosava minaccioso. Anche Mesina è contro il parco e questo basti: “Non serve, qui è già tutto protetto!” Ride, ma fa capire che su quel territorio c’ è già lui come salvaguardia, nessuno ci provi a sostituirlo.  Quel paesaggio lo ha reso invulnerabile, a quattordici anni restava solo per mesi nello stazzo in mezzo alla neve, gli servirà poi a sopportare l’ isolamento, le celle di rigore, a saltare mura scardinare sbarre, tornare illeso dopo una sparatoria:” una volta avevo due buchi nel cappuccio, una pallottola aveva rotto il cinturone, un’ altra si era infilata in una scarpa…” Conosce ogni arbusto e sa tutto di ogni animale, vegetale e minerale che incontriamo per strada. Incrociamo una mandria di maiali scuri e setolosi che pascolano liberi: “questi secondo loro dovevano essere abbattuti tutti, per un solo caso di peste suina. Non è giusto.” Poi racconta dei mufloni, delle vacche, delle piccole trote che si pescano con le mani nei torrenti. Gli avvoltoi giganteschi che non si vedono più, i falchi che sono stati tutti catturati per essere venduti nei paesi arabi dove li usano ancora per cacciare. Sa ogni segreto di quella montagna, anche perché ci si è nascosto e ci ha nascosto dentro tanta gente: “Quello lo avevo messo in compagnia, giocava a carte e stava bene, poi un giorno gli ho fatto uno scherzo. Gli ho detto oggi puoi ordinare tutto quello che vuoi da mangiare, chiedi e te lo portiamo. E così fu, tutto quello che più gli andava lo abbiamo portato, mangiava soddisfatto quando sul più bello gli dico: tutto questo però costa caro, vorrà dire chiederemo alla tua famiglia cinquanta milioni in più di riscatto! Gli è andato il boccone di traverso, ha cominciato a strillare e a dire che non voleva più mangiare…” Già, ma chi era il fortunato? Tra i tanti a cui ha chiesto il riscatto questi era Giovanni Campus, possidente di Ozieri sequestrato il 7 marzo 1968, dieci giorni dopo per “fargli compagnia” a lui si aggiunse anche Nino Petretto, rapito in un agguato. I due erano talmente provati dall’ esser trascinati per le montagne che a un certo punto non ce la facevano più e nella disperazione dissero ai rapitori di volersi suicidare per non continuare con quello strazio: “Volete ammazzarvi? Ecco la pistola- racconta Graziano- ma quei due dicevano fallo prima tu! No fallo tu! Insomma non si decidevano mai, dissi che se volevano li avrei aiutati con il mio mitra, ma avevo capito subito che non avevano nessuna voglia di morire.”  I vicoli di Orgosolo sono pieni di gente che fotografa tutto, le ragazze del posto hanno l’ ombelico di fuori come nel resto del mondo, ma i pullman di turisti ancora vengono per conoscere il paese dei banditi, soprattutto ora che è tornato lui. Tutta la promozione locale vorrebbe puntare su gastronomia e folklore, ma la gente che arriva chiede di vedere la casa dove è nato Mesina. Lui si rende conto di essere un monumento vivente, mi porta sulla terrazza belvedere. Oltre lo strapiombo il teatro dei peggiori scontri a fuoco tra le forze dell’ ordine e i banditi. Graziano come un generale in pensione illustra le posizioni delle truppe: “laggiù nel 67 c’ erano seimila baschi blu, un vero esercito e io li guardavo dall’ alto.” Era il mese di giugno e i reparti speciali avevano circondato il paese, ci fu quella che chiamarono “la battaglia di Osposidda”. Mesina si salvò riempiendo di pietre lo zaino e facendosene scudo: “io da solo avrò sparato otto-novecento colpi e tirato almeno venti bombe a mano.” Fu uno scontro epico, le cronache raccontano che i proiettili dei mitragliatori dei soldati arrivarono fino alle prime case del paese, la gente di Orgosolo guardava il combattimento affacciata ai balconi. Due militari restarono stesi sul campo, la nostra guida ricorda ogni particolare: ”Lassù furono uccise le due guardie, me le attribuirono, ma era stato uno di loro a sparagli contro per sbaglio. Invece dietro quella collina hanno ferito lo spagnolo...” Fu la volta che il suo luogotenente Miguel Atienza ci lasciò la pelle. Era un ex soldato franchista fuggito dalla Legione Straniera, Mesina se lo era portato dietro quando evase dal carcere di Sassari nel 66.  A Osposidda quando lo vide ferito se lo caricò sulle spalle fino alla montagna: “Poi la notte sono sceso in paese a sequestrare un dottore per curarlo, ma non servì a nulla morì due giorni dopo.” Graziano non ha mai nascosto il suo debole per le donne, anche se non si è mai sposato: “venivano a trovarmi in carcere, erano spesso bellissime e anche ricche, dicevano che mi avrebbero aspettato, ma cercavo di far capire a tutte di lasciar perdere, io non avevo futuro, ero un ergastolano. Per starmi accanto una di loro voleva comprare una villa vicino ad Asti dove io ero recluso.”Sono leggendarie le migliaia di lettere che riceveva da femmine di tutto il mondo, ci fu chi cercò di acquistarle per farne un fotoromanzo, ma quelle Graziano non le ha mai volute dare a nessuno: “Poco tempo fa a casa di mia sorella ne ho ritrovata una cassa piena, lettere ancora mai aperte, erano arrivate trenta e più anni fa, io non c’ ero e me le avevano messe da parte.” Chissà che fine avranno fatto le maliarde che negli anni 60 da tutto il mondo si struggevano per il bel bandito barbaricino. Mandavano richieste di fuoco e …denaro, come se la passione avesse un prezzo: “C’erano marchi, dollari, piccoli oggetti d’ oro, ma le turiste straniere venivano anche fino a casa mia, soprattutto tedesche, chiacchieravano con mia madre e parlavano di futuri figli. Lei rispondeva che ne aveva avuti undici, che erano una bella cosa.” Fino a che un giorno la mamma capì che era il suo Graziano che le vichinghe avrebbero voluto come fecondatore. Nessuno si scandalizzi, ma la provetta era ancora da venire, si trattava di arcaica carnale follia, per cui da bandito a eroe il passo è sempre assai breve.  

Quando Mesina disse a Cagliari: "Con i sequestri e le cazzate ho chiuso". Ma cosa succede in Sardegna. Cosa combina Grazianeddu o meglio cosa avrà combinato per l'ennesima volta? Si chiede Marcello Polastri. Ex primula rossa dell'anonima sequestri, incarna il carattere schivo ma anche vendicativo di una certa Sardegna. Poi divenne un bandito redento. Ed ora l'ennesimo arresto. Lui che, graziato da Ciampi e quindi perdonato dall'Italia, per i tanti reati di una gravità assoluta, entrando nel bene e nel male (più nel male che nel bene...) a far parte della storia d'Italia, rifinisce in manette. Lo incontrai in un bar di Cagliari, a due passi dalla Torre dell'Elefante e mi disse "con i sequestri e le cazzate ho chiuso, mi dò al turismo e alla comunicazione colta". Per un attimo, mentre lo intervistavo, sono stato colto da un grande sospetto: e se mi piglia per il sedere? Poi mi chiese un obolo per l'intervista che mi rilasciò, e la mia reazione è stata: non se ne fa nulla, ciao a Mesina, addio all'intervista che ancora conservo e che forse mai pubblicheremo. Ed ora un nuovo sospetto esternato dai Carabinieri. Stava per davvero progettando un nuovo sequestro? Padre pastore e madre casalinga, Mesina subì il suo primo processo all'età di soli 14 anni. Il resto è storia risaputa permeata anche dalla leggenda. Lui che, dopo il carcere duro, da qualche anno è divenuto anche sotto i riflettori che non ha mai amato, una guida, in senso turistico, della sua Orgosolo. Rilasciò qualche intervista mentre accompagnava la gente alla scoperta di quel paradiso terrestre a due passi da Oliena e da Dorgali, nella Barbagia delle grotte e dei dirupi. Poi è divenuto, sempre di recente, conferenziere in tanti colti eventi sulla criminalità. La criminalità che Mesina conosceva evidentemente  bene. Lo hanno visto nel convegno di Gorizia: è intervenuto sul processo di Farouk Kassam. In quell'occasione, era il 27 del mese scorso, Grazianeddu ha asserito di esser stato lui a dare un indispensabile contributo alla liberazione del piccolo Farouk, evitando un conflitto a fuco con la polizia dal quale, diciamolo chiaramente, possiamo ipotizzare che Mesina ne sarebbe uscito disteso. La Polizia lo ha lasciato fare, forse. Allora come oggi. E come sappiamo, la giustizia, prima o poi, ti presenta il conto. Così, uscito dal carcere, sorvegliato speciale con quell'intelligente strumento di prevenzione e spionaggio dell'intercettazione telefonica, è stato pizzicato in fallo. Ancora una volta. Ed è finito in manette. Già. Sarà l'ultima volta? Intanto via a un nuovo processo, ad una nuova valanga mediatica. Ne riparleremo.

Perché fa così scalpore che Mesina torni in cella? Si chiede Giorgio Dell'Arti. Pensare che appena due settimane fa Graziano Mesina era a farsi intervistare al Festival della Storia di Gorizia, quest’anno dedicato ai banditi, e faceva la parte del malavitoso di charme, che però l’ha fatta finita con la vecchia vita e adesso porta i turisti a passeggio per la Barbagia. Invece l’hanno arrestato, lo accusano di traffico di droga e di aver progettato un sequestro di persona. In pratica sarebbe un capo-banda.

Ma quanti anni ha?

Settantuno. È nato a Orgosolo (in provincia di Nuoro) il 4 aprile del 1942.

E a settantun anni…?

Infatti il sindaco della città, Dionigi Deledda, s’è detto «molto sorpreso, anche se non voglio entrare nel merito della vicenda». Ora, i carabinieri dicono che l’indagine durava da cinque anni, è stata una grossa operazione, trecento uomini mobilitati, intercettazioni. I militari e il magistrato che li guida raccontano che in Sardegna operano due organizzazioni dedite al traffico di droga con il continente e Mesina sarebbe il capo della più importante delle due. Il tramite sarebbe l’avvocato Corrado Altea, di anni 62, che tirava fuori i primi soldi per la droga e, approfittando del suo studio, raccoglieva informazioni che poi passava a Mesina e al suo alleato Gigino Milia. C’è poi la storia di una progettato sequestro di persona, di cui avrebbe dovuto essere vittima Luigi Russo, imprenditore dell’abbigliamento all’ingrosso e accessori. Secondo i carabinieri, uomini del duo Mesina-Milia andarono anche a fare sopralluoghi nei dintorni della casa del sequestrando. E c’è una telefonata di due anni fa in cui tale Giovanni Filindeu e Mesina parlano della possibilità «di portare via la moglie e i figli» a una persona di cui non si fa il nome. Nella retata di ieri sono state messe in carcere 25 persone. Aspettiamo gli sviluppi per saperne di più. Mesina, intanto, s’è rivolto per la sua difesa all’avvocato Giannino Guiso, sempre sui giornali un tempo, perché, oltre a difendere lo stesso Mesina, s’era preso cura di Craxi, del brigatista Renato Curcio e dell’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli.

Il fatto è che questo Mesina, che fa tanto clamore, emerge da un passato lontano, sono certo che la maggior parte dei nostri lettori, gente giovane, abbia al massimo una vaga idea della persona di cui stiamo parlando.

Beh, l’ultima volta le cronache se ne sono occupate all’epoca del sequestro Kassam. Sa di che si tratta?

Veramente…

Farouk Kassam di sette anni, figlio di Fateh Kassam, un belga di origine indiana che gestiva un grande albergo di Porto Cervo. Il 15 gennaio del 1992 i banditi fecero irruzione nella casa dei Kassam e portarono via il bambino. Detenzione di quasi sette mesi, durante la quale i sequestratori, per mostrare che facevano sul serio, tagliarono al piccolo la sommità dell’orecchio sinistro. Il 10 luglio, finalmente, la liberazione, grazie proprio all’intermediazione di Mesina (messo da poco in libertà vigilata), che quella volta si mise in rete con i nostri servizi segreti e fu terminale di una trattativa di cui non s’è mai saputo granché. Il capo dei sequestratori era Matteo Boe, poi condannato a 20 anni. L’Italia riscoprì allora questo lato di Mesina, facendosi l’idea che fosse un bandito ravveduto, come abbiamo del resto creduto fino a ieri, anche se era finito in galera un’altra volta per via di un deposito d’armi che i carabinieri gli avevano trovato nella villetta dell’astigiano dove era andato a vivere. Per quel deposito, s’è sempre proclamato innocente («m’hanno incastrato»). Alla fine, nel 2004, Ciampi lo ha graziato.

Ma perché è tanto famoso?

Soprattutto per le evasioni. È scappato nove volte. I carabinieri lo conoscevano già, perché a 14 anni aveva rubato un fucile e se l’era cavata col perdono giudiziale. Ma a 18 anni, al termine di una festa, si mise a sparare su un lampione, distruggendolo, e i militari lo portarono in caserma. Probabilmente gli avrebbero fatto poco o niente, ma Graziano fece la scemenza di scappare (prima evasione), finì dentro per sette mesi e lì si rovinò per sempre. Quando gli ammazzarono il fratello, andò a farsi giustizia da sé, spalancò la porta del bar di Orgosolo dove si trovava il presunto assassino e lo riempì di pallottole. Aveva vent’anni. Da allora è stato un viavai nelle carceri di tutt’Italia, inframezzato da evasioni, sequestri, interviste ai giornali, storie d’amore con le solite donne che vanno pazze per i mascalzoni, tutto quello che ci vuole per farne una figurina italiana. Lui di se stesso ha detto: «Nessuna delle persone che ho rapito si è mai costituita parte civile. Ci sarà un motivo. Con alcuni sono diventato persino amico». Era il penultimo di dieci figli, Alberto Pinna lo ha descritto come «piccolo, robusto, agilissimo, vivace fin troppo, orgoglio smisurato e spiccatissimo senso della famiglia e della giustizia fa da te». Credevamo che fosse andato in pensione. Chissà.

In Barbagia un etnocidio culturale, anche grazie al falso mito Mesina, scrive Nicolò Migheli. Un bel pezzo di analisi su cultura, territorio e identità del cuore della Sardegna. Mesina è un mito urbano, dice il sociologo e scrittore Nicolò Migheli. Bisogna aver avuto sedici anni nel 1966 ed aver visto lo sguardo disperato di un tuo amico a cui avevano sequestrato il padre. Averlo visto quel povero corpo in decomposizione, buttato sotto un macchia di rovo e avere memoria del lezzo di cadavere che ti resta nelle narici per settimane. Bisogna essere stati ragazzi in quegli anni tremendi; a mezzo servizio tra scuola ed ovile, tra sogni di riscatto civile e il peso di una delinquenza cinica che uccide ogni aspirazione. Andare in campagna con lo sguardo rivolto da un'altra parte per paura di vedere cose che non dovrebbero essere viste. Bisogna aver stampato in mente carabinieri e poliziotti che controllavano i bollettini di proprietà, o di custodia, del bestiame, e una decina di tuoi compaesani che in ferri di campagna venivano condotti al confino. Ricordarsi dei manifesti con le taglie affissi nei muri del municipio. Esperienze come queste ti possono dare chiavi interpretative che superano ogni analisi sociologica, anzi costituiscono il filtro che demitizza le letture semplicistiche. Il banditismo sardo è stato una delle maggiori leve di distruzione della pastoralità, è stato l'alibi per un etnocidio culturale. Basta rileggersi le conclusioni dell'inchiesta parlamentare del senatore Medici, dove l'unica modernizzazione possibile era lo sradicamento di un modello economico antico in favore di una effimera industrializzazione. Togliere l'acqua ai pesci. Il pastoralismo come arte criminale. Come se il delinquere fosse legato ad una professione e non a comportamenti riproducibili in ogni ambito sociale. Una operazione così sofisticata aveva però bisogno di un immaginario forte, costruito in una ambigua positività. Il mito di Mesina è stato funzionale a tutto questo. Ha trasformato il banditismo in manifestazione ribellistica di giuste rivendicazioni, facendone di lui un fenomeno mediatico, con interviste nella latitanza, peregrinazioni di editori in cerca di un Che per la Cuba del Mediterraneo. Donne attratte dal fascino ambiguo del latitante con il contorno di agenti dei servizi. Una riproposizione in salsa barbaricina del mito del siciliano Salvatore Giuliano. Il bandito mafioso funzionale alla repressione del movimento di occupazione delle terre, all'assassinio di sindacalisti e politici di sinistra. Certa sinistra urbana che in Sardegna in quegli anni, sui fenomeni delinquenziali ebbe un comportamento ambiguo, anche essa soggiogata dal mito del ribelle, senza capire che quel fenomeno era una via facile verso l'arricchimento personale. Il reinvestimento in tanche allora, in narcotraffico oggi. Un mito etero imposto che ha finito per imprigionare Orgosolo. Quel paese è stato abile nel rovesciare lo stigma in opportunità, facendone una delle principali attrattive turistiche. Conosco bene gli orgolesi, per sapere che da tutto ciò vorrebbero liberarsi e le decine di associazioni che combattono per un paese normale, debbono fare i conti con un passato che non passa, con chi li appesantisce di continuo con i suoi comportamenti. Eppure il nuovo arresto di Mesina, se le accuse verranno provate in sede di giudizio, può essere il colpo mortale per questa mitopoiesi della vittima delle contraddizioni sociali, di chi non ebbe, secondo quella vulgata, altre possibilità se non la delinquenza, il sequestro di persona, l'omicidio. E' finito il tempo della facile giustificazione perché quell'uomo ha toccato l'intoccabile. Mentre il sequestro di persona, nonostante il suo abominio, poteva essere visto come una redistribuzione del reddito, del "ricco" che paga ed altri che ne godono, la droga tocca tutti. Distrugge famiglie e patrimoni, nega il futuro a generazioni intere; non conosce differenziazioni di classe e di reddito. Nonostante la Sardegna non sia indenne da questa piaga, non vi è nessuna ambigua giustificazione sociale per chi si arricchisce in questo modo. Ecco dove Mesina ha sbagliato, se è veramente così. Con le sue frequentazioni carcerarie ha creduto che sistemi di altre realtà fossero riproponibili qui da noi. Non è stato così, ed in questo modo ha ucciso l'immagine di redenzione, non solo sua, che altri gli avevano costruito addosso. Una sconfitta per tutti. Chie naschet corbu no si che mudat in columba. Chi nasce corvo non diventa colomba. Recita così un proverbio pessimista e determinista. Ci sono momenti che non si vorrebbe che quell'adagio avesse ragione. Nonostante tutto, questo è uno di quelli. La speranza che si possa cambiare è l'ultima a morire. Cominciamo però a liberarci dell'immagine eroica e giustificazionista del bandito. Questo tocca a tutti noi. Il resto verrà.

Roberto Castelli, l'ex Ministro della Giustizia che nel 2004 controfirmò la grazia concessa da Carlo Azeglio Ciampi a Graziano Mesina, è incredulo. «Spero proprio che non sia vero» esordisce al telefono con “Panorama” ricordando come fu lui a insistere con l'allora capo dello Stato perché gli desse la grazia. «Se l'impianto accusatorio fosse confermato sarebbe, per me, una grande delusione»  ripete l'ex Guardasigilli, ricordando come attorno alla primula rossa della Barbagia «c'era allora una sorta di aurea di benevolenza: aveva scontato quasi quarant'anni di carcere per essersi voluto vendicare, giovanissimo, per uno sgarro che la società gli aveva fatto. Lo consideravo sì un delinquente, ma anche un bandito che rispettava un proprio codice, con una propria dignità» racconta per spiegare le ragioni che lo indussero a insistere con Ciampi per la soluzione della grazia. «Il banditismo sardo era il contrario dei mafiosi col 41 bis». Poi aggiunge, con amarezza: «Se fosse vero che è coinvolto nel traffico di droga, avrebbe tradito - oltre alle persone che hanno creduto in lui - anche la sua sardità, il suo codice». Ma lei crede alle accuse dei magistrati? «E come faccio a sapere se siano vere o no?» risponde, ricordando anche un episodio di famiglia che gli è stato raccontato da suo suocero. «Lui, che ha sposato in seconde nozze una ragazza di Arabatx, mi ha raccontato che lo ha incontrato qualche settimana fa a Orgosolo e che Mesina gli ha detto: mi saluti il ministro». «Fosse vero - ripete, ancora una volta - sarebbe una grande delusione: anche perché io credo nel potere redentivo della pena. Vede, nella mia attività, ho incontrato moltissimi carcerati. E, salvo i mafiosi del 41 bis, devo dire che la gran parte di quelli che stanno nelle patrie galere sono ragazzi giovanissimi che  hanno sbagliato ma possono trovare la loro strada» continua, spiegando anche come, quando incrociò Mesina negli studi di Porta a Porta, si congedò da lui dicendogli dopo aver controfirmato la grazia con un Mi raccomando, non mi deluda».

Prima i sequestri, ora la droga. Dubbi e segreti di Graziano Mesina. Pino Scaccia, inviato del tg1 e profondo conoscitore dell'ultimo "bandito", a Carmelo Caruso su  “Panorama”  dice che non crede alle accuse di spaccio contro il malvivente sardo. “A volte i testimoni si screditano. La colpa di Graziano Mesina? Forse non aver mai dimenticato il ruolo che ebbe lo Stato nel sequestro del piccolo Farouk Kassam tanto da ribadirlo solo pochi giorni fa di fronte a me in un incontro avvenuto a Gorizia”. Diceva che si fidava di lui perché non usava taccuini (“Sei l’unico che non li usa, i taccuini mi ricordano i carabinieri”) poi lo scelse per dare la notizia in anteprima della liberazione del piccolo Kassam, “Stanotte sarà libero”. E adesso non riesce a crederci Pino Scaccia - inviato del Tg1, a cui il monarca della Barbagia, Graziano Mesina, consegnò lo scoop della liberazione - che quell’anziano bandito che ha ottenuto la grazia nel 1994 dal presidente Carlo Azeglio Ciampi sia un trafficante di droga. “Eravamo insieme a Gorizia per parlare del banditismo sardo solo dieci giorni fa, era ancora considerato una star. Chi gli chiedeva l’autografo, chi lo voleva fotografare. E’ rimasto Graziano Mesina non il sequestratore ma l’evaso per eccellenza. La sua fama si deve alle 22 evasioni, alcune per amore diceva lui, sempre rocambolesche, sempre progettate da una mente arguta”. Quarant’anni di carcere, di questi 16 in isolamento e adesso l’accusa di essere un narcotrafficante. “Mi sorprende, se ne sa poco e nutro qualche dubbio. Sarebbe stupido e Mesina non è stupido. Di certo è anomalo che dopo aver sollevato i soliti dubbi sul ruolo che ebbero i Servizi e lo Stato nel sequestro Kassam, Mesina sia stato arrestato con l’accusa di essere il capo di un cartello di narcotrafficanti. A volte i testimoni si screditano”. Addirittura screditarlo? “Sia chiaro, non conosco la vicenda, ma ho un ricordo nitido di solo dieci giorni fa. Sa cosa diceva: I latitanti famosi sono coperchi buoni per tutte le pentole. Parliamo di un uomo che è stato accusato anche di sequestri che mai aveva realizzato. Intorno a Mesina si era creata un’aurea sinistra. In realtà si macchiò di un solo omicidio: la morte dell’assassino del fratello”. Per i sardi è stato simile a Salvatore Giuliano, il mito contemporaneo tutto lupara, campagna, solitudine e amanti. Eppure si deve a Graziano Mesina, lo stesso uomo che oggi è stato arrestato dai carabinieri che lo ritengono ancora “un soggetto pericoloso”, se nel 1992, lo stato riuscì a liberare il figlio di Fateh Kassam, uomo vicino all’Agha Khan. Spedito con il pretesto di un permesso per partecipare al matrimonio della nipote (concesso dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli) Mesina in realtà ebbe il ruolo d’intermediario con i sequestratori che liberarono il bambino dietro il pagamento di un riscatto di 5 miliardi di lire. Ed è su quel riscatto che mai si è fatta luce e su cui si è avanzata la partecipazione diretta dei Servizi. “Seicentomilioni li diede la famiglia e gli altri?”, chiede Scaccia a cui Mesina rivelò in anticipo la notizia della liberazione. Ed è considerato un mito vivente a Orgosolo, ancora oggi, il paese dei banditi e del regista Cesare De Seta. “Ad Orgosolo si era cimentato nel ruolo di guida turistica, accompagnava e riceveva turisti che venivano dalla Svezia, dal Belgio e tutto per conoscerlo, conoscere l’ultimo bandito”. Era cambiato secondo Scaccia che adesso ricorda l’abbraccio che Mesina scambiò con un carabiniere che ebbe modo di arrestarlo in uno delle sue tante fughe. “Per parlare di Mesina bisogna immaginare un Robin Hood, ha impersonato questa figura per i sardi. Diceva sempre che si era dato al banditismo per colpa dello Stato. Era la Barbagia di che si opponeva allo sfarzo della Costa Smeralda, ai soprusi dei padroni, è l’essere barbaricino, un miscuglio di violenza e primitivismo. Voleva studiare, sognava di studiare Giurisprudenza, e anche in carcere chiedeva libri. La cosa che mi chiedeva era di trovare un lavoro per il nipote per portarlo via da lì”. E la grazia? “Aveva svolto il ruolo d’intermediario nel 1992 in cambio della grazia che gli venne concessa subito dopo. E mi anticipò la notizia, facendo fallire il blitz dei carabinieri proprio perché temeva di essere ucciso. E’ una vita legata a troppi misteri”. Misteri che secondo Scaccia non sono stati fugati anche per l’ostinazione con cui Mesina ha parlato del denaro che servì a liberare Kassam. “Sappiamo che 600 milioni erano stati dati dalla famiglia Kassam, ma la rimanete parte? Forse la sua colpa è non avere dimenticato. La mia impressione è di una persona tranquilla che fra l’altro non aveva bisogno di denaro. Certo, non era ricco, ma non viveva nell’indigernza”. Per alcuni semplicemente violento, per Scaccia invece un uomo diffidente. “Con il solito borsello in mano e il dolore di non aver avuto figli. Soffriva per questo. Del resto diceva sempre: i bambini non si toccano. Non era per intenderci un Vallanzasca”. Ma la Sardegna è ancora quella dei Mesina? “No, anche quella è cambiata, non si fanno più sequestri perché non sono remunerativi e non ci sono più latitanti. Adesso il crimine più frequente è l’assalto ai furgoni. Non è più la Sardegna di Mesina”.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Caporalato a danno delle Toghe Onorarie.

La protesta. Giudici di pace in sciopero: “Trattateci come le altre toghe”. Francesca Sabella su Il Riformista il 17 Settembre 2021. «Negare alla magistratura precaria il legittimo inquadramento e la giusta retribuzione è una vergogna di Stato che, tra l’altro, rende altrettanto precari i diritti dei cittadini e meno attraente per gli investitori stranieri»: ne sono convinte Olga Rossella Barone e Mariagiuseppina Spanò che annunciano l’astensione dei giudici di pace dalle udienze fino al 26 settembre. Una decisione, quella comunicata dalle presidenti delle associazioni che rappresentano i giudici di pace, nell’aria già da tempo. Sono anni, infatti, che la magistratura onoraria lamenta la precarietà del proprio lavoro e chiede di essere inquadrata nell’ordine giudiziario al pari dei magistrati togati. Il che significherebbe stipendio a fine mese, contributi versati, più tutele e più garanzie per circa 5mila professionisti in tutta Italia che, da un ventennio a questa parte, smaltiscono il 70% del contenzioso civile e penale. Una prospettiva di inquadramento sembrava essersi aperta dopo l’assegnazione al nostro Paese dei circa 209 miliardi del Recovery Fund. Niente da fare, invece. Ed è proprio questo che lamentano le rappresentanti del Coordinamento magistratura giustizia di pace e del Movimento autonomo giudici di pace: «In un periodo di grave emergenza giudiziaria, in cui lo Stato dovrebbe garantire ai suoi smarriti cittadini l’accesso qualitativo e quantitativo alla giustizia, e dopo che il 15 luglio l’Europa ha notificato all’Italia l’avvio della procedura di infrazione per le reiterate violazioni ai danni dei giudici di pace e dei magistrati onorari – attaccano OIga Rossella Barone e Mariagiuseppina Spanò – la soluzione più immediata e avvincente per la ministra della Giustizia appare non quella di ottemperare a quanto richiesto, ma quella di continuare a creare figure occasionali e ancillari, così consegnando definitivamente i cittadini e l’avvocatura a una stagione di caos giudiziario che inevitabilmente si ripercuoterà anche sulla struttura economica del Paese». I giudici onorari, infatti, hanno deciso di scioperare e di scuotere le istituzioni non solo nella speranza di essere finalmente “equiparati” ai magistrati di carriera. Il Coordinamento magistratura giustizia di pace e il Movimento autonomo giudici di pace, infatti, segnalano anche le conseguenze che la precarizzazione della loro attività può scatenare per i diritti dei cittadini e per l’economia italiana. «Mantenere la giustizia in uno stato di precarietà – proseguono Olga Rossella Barone e Mariagiuseppina Spanò – equivale a rendere precari anche i diritti dei cittadini e a privare gli imprenditori italiani e stranieri di quelle certezze indispensabili affinché essi possano investire con serenità e con profitto sul territorio nazionale». Di qui la decisione di scioperare, dopo la protesta scatenata durante la visita della ministra Cartabia a Napoli, e di ribadire al premier Mario Draghi le richieste della categoria: subito l’inquadramento economico, assistenziale e previdenziale per i giudici di pace «in misura corrispondente alla retribuzione complessiva riconosciuta alla magistratura di carriera».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Il Csm ha deliberato affinché intervenga davanti alla Corte di Giustizia europea la legittimità del trattamento riservato alle toghe onorarie. Il Dubbio mercoledì 3 marzo 2021. «Con atto del 24 febbraio, trasmesso all’Avvocatura Generale dello Stato, il Csm ha deliberato affinché il Governo italiano intervenga nella causa pregiudiziale, proposta dal Tar per l’Emilia Romagna, per sostenere davanti alla Corte di Giustizia europea la legittimità del trattamento che lo Stato italiano riserva da oltre due decenni – confermato con la riforma Orlando – a 5mila magistrati onorari, stabili precari senza diritti». Lo denuncia la Consulta della magistratura onoraria, evidenziando che «l’Organo di autogoverno della Magistratura, anche onoraria, invita così l’Italia a persistere nello sfruttamento di migliaia di lavoratori che quadriennalmente esamina, riconosciuti prima lavoratori e poi magistrati europei dalla sentenza della Corte di giustizia europea dello scorso16 luglio». «Invocheremo l’intervento del Presidente della Repubblica, a tutela della funzione giurisdizionale e di chi la esercita in un clima di palpabile disprezzo che non è più accettabile in quanto intacca l’onore ed il prestigio della funzione attribuitaci dalla Costituzione» annuncia la Consulta. E aggiunge: «La serenità invocata recentemente dal Presidente della Corte costituzionale Coraggio nell’esercizio della delicatissima funzione magistratuale è fortemente minata non solo dall’assenza di tutele, ma anche dall’immagine che viene fornita dallo stesso organo di autogoverno al cittadino della magistratura onoraria, descritta come un coacervo di volontari senza diritti, immeritevoli di rispetto, di quelle tutele sociali che un giudice ordinario mai si sognerebbe di negare ad altro lavoratore e attribuitaci dalla Costituzione».

L'Ue boccia l'Italia sui magistrati onorari: al via la procedura d'infrazione. Le Iene News il 16 luglio 2021. La Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione contro l'Italia sul caso dei magistrati onorari: per l’Ue "la legislazione nazionale applicabile ai magistrati onorari non è pienamente conforme al diritto del lavoro dell'Ue”. Il nostro Fabio Agnello ci aveva raccontato le condizioni in cui lavorano questi magistrati. La Commissione europea mette in mora l’Italia per il trattamento dei magistrati onorari. Il massimo organo esecutivo dell’Unione ha infatti avviato una procedura d’infrazione contro il Paese perché secondo loro "la legislazione nazionale applicabile ai magistrati onorari non è pienamente conforme al diritto del lavoro dell'Ue”. “Diverse categorie di magistrati onorari, quali i giudici onorari di pace, i vice procuratori onorari e i giudici onorari di tribunale, non godono dello status di ‘lavoratore’ in base al diritto nazionale italiano, ma sono considerati volontari che prestano servizi a titolo "onorario"”, spiega la Commissione. Che poi aggiunge: “Non avendo lo status di lavoratore, essi non godono della protezione offerta dal diritto del lavoro dell'Ue e risultano penalizzati dal mancato accesso all'indennità in caso di malattia, infortunio e gravidanza, dall'obbligo di iscriversi presso il fondo nazionale di previdenza sociale per i lavoratori autonomi, nonché da divari retributivi e relativi alle modalità di retribuzione, dalla discriminazione fiscale e dal mancato accesso al rimborso delle spese legali sostenute durante procedimenti disciplinari e al congedo di maternità retribuito".  Insomma, una dura critica che rischia di costare all’Italia una multa salata da pagare all’Unione europea. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato la loro situazione nel servizio di Fabio Agnello: nonostante siano considerati “un pilastro” della giustizia, come li aveva definiti l’ex ministro Bonafede, lo Stato garantisce loro pochissimi diritti. Una lamentela che, a quanto pare, è stata fatta propria anche dall’Unione europea. “Siamo magistrati che lavorano in nero, senza tutele”, aveva raccontato uno di loro a Fabio Agnello, che ne aveva poi seguiti alcuni per capire come funziona una loro giornata tipo e il ruolo cruciale che hanno nel garantire il funzionamento della giustizia in Italia. Potete rivedere il servizio in testa a questo articolo.

I braccianti del diritto: cinquemila giudici precari pagati a cottimo. Paolo Biondani Fraschilla su L’Espresso il 22 aprile 2021. I magistrati “onorari” gestiscono più di metà dei processi civili e penali. Molti lavorano a tempo pieno nei tribunali, ma non hanno diritti: guadagnano 56 euro a sentenza, senza pensione o maternità. L’Italia condannata dalla Corte europea per non averli tutelati. Sono quasi cinquemila, gestiscono oltre il 40 per cento delle cause civili e più di metà dei processi penali, eppure non sono magistrati: sono i precari della giustizia, i braccianti della legge. Vengono chiamati giudici onorari, ma sono privati investiti di funzioni pubbliche. Sono reclutati per concorso tra i laureati in giurisprudenza e fanno i supplenti dei magistrati: alcuni lavorano part-time, altri a tempo pieno. Ma non hanno le tutele dei lavoratori dipendenti: niente pensione, ferie retribuite o indennità di maternità. E vengono pagati a cottimo, senza uno stipendio sicuro. I più conosciuti sono i giudici di pace. Secondo i dati del Csm, sono 1.154. Decidono i processi minori, civili e penali: i più numerosi, che interessano la maggioranza dei cittadini. Sono stati istituiti nel 1991 per sgravare una magistratura oberata da milioni di fascicoli, come rimedio temporaneo, ma da allora sono in proroga. Precari permanenti. Guadagnano 56 euro lordi a sentenza. In caso di malattia, devono accontentarsi del fisso mensile: 258 euro. Il miraggio di una giustizia meno lenta ha portato al raddoppio, nel 1998, con la creazione dei giudici onorari di tribunale (got), che oggi sono 2.013, e dei vice procuratori onorari (vpo), che sono 1.700. Dovevano fare le riserve dei giudici e pubblici ministeri (pm), ma dal 2004 il Csm li ha inseriti nei ruoli dei tribunali, a prescindere dall’assenza o mancanza di magistrati. Oggi i vpo sostituiscono i pm nell’80 per cento dei processi penali, dove gli imputati rischiano anni di galera. Guadagnano 73 euro netti a sentenza.

Una categoria separata, con regole autonome, è costituita dai giudici onorari della giustizia tributaria, che sono spesso nella bufera: decidono cause fiscali anche milionarie, ma restano professionisti privati, liberi di incassare altre parcelle. Con rischi di favoritismi, corruzioni e periodiche retate. L’ex pm Piercamillo Davigo ne aveva proposto l’abolizione, per sostituiti con magistrati indipendenti, specializzati nelle cause fiscali, da selezionare dopo aver potenziati gli organici con nuovi giudici giovani. L’obiezione contro il doppio lavoro e relative parcelle dei privati, però, non vale per i giudici onorari a tempo pieno. Nel 2020 la Corte di giustizia europea ha condannato l’Italia per non averli tutelati. E in marzo la Corte Costituzionale ha fissato i primi paletti legali al loro utilizzo nei tribunali. Una riforma varata nel 2017 dall’allora ministro Orlando ne taglierebbe il numero, ma si applica solo a partire dal prossimo agosto 2021. E ora è in forse. Paola Bellone, vpo a tempo pieno dal lontano 2002 e portavoce del “Movimento 6 luglio” contro il precariato giudiziario, parla di corsa contro il tempo: «Marta Cartabia è il primo ministro della giustizia che ha definito “ineludibile” riconoscerci le tutele del lavoro dipendente. Ora è finalmente in cantiere una nuova legge, che però va approvata entro agosto, altrimenti scatta la vecchia riforma».

·        Il Caporalato Parlamentare.

Valeria Di Corrado e Alberto DI Majo per iltempo.it il 21 dicembre 2021. Deputati e senatori sono i primi a non rispettare le leggi che approvano quando si trovano a vestire i panni del datore di lavoro. Sono circa 80 i collaboratori parlamentari che in questa legislatura hanno segnalato irregolarità nei contratti stipulati e condotte di sfruttamento, spesso al limite del mobbing. Ci sono «onorevoli» donne che mandano le loro assistenti (pagate dai contribuenti per aiutarle nell'attività legislativa) a comprare gli assorbenti in farmacia e altre colleghe che spediscono giovani laureati al supermercato a fare la spesa, che poi vogliono anche ricevere a domicilio. Umiliazioni spesso subite in silenzio, per paura di non lavorare più nei palazzi della politica. C'è però chi trova il coraggio di trascinare deputati e senatori davanti al giudice del lavoro. Nell'attuale legislatura sono almeno una ventina le cause intentate dai collaboratori ai rispettivi parlamentari, per svariati tipi di prevaricazioni datoriali. «I contratti stipulati quasi mai corrispondono al rapporto di lavoro sottostante - spiega l'avvocato Fabio Santoro, legale di fiducia dell'associazione Aicp-I parlamentari che legiferano contro i contratti atipici, sono i primi a usare finti co.co.co., co.co.pro. o partite Iva per risparmiare sul costo del lavoro, a fronte di orari rigidi e un rapporto gerarchico che andrebbe inquadrato come subordinato. Poi ci sono collaboratori che hanno scoperto di non avere un contributo versato dopo anni di lavoro; ad altri non è stato pagato il trattamento di fine rapporto o la tredicesima; c'è addirittura chi si è visto negare documenti fiscali come la certificazione unica. Qualcuno è stato licenziato in maniera semiritorsiva, qualcun altro senza preavviso. Insomma, il Parlamento italiano è un Far West in cui il parlamentare spende come vuole il suo budget». Il collaboratore è la parte più debole, avendo nella maggior parte dei casi un contratto precario, che può essere interrotto in qualsiasi momento, senza una causale e con poco o nessun preavviso. A ciò, di contro, corrisponde una pressante richiesta di attenzione da parte degli onorevoli, spesso per incombenze personali. «Gli assistenti diventano una sorta di collaboratori domestici, obbligati a lavorare senza turni, anche di domeniche in orario notturno. Per questo - riferisce l'avvocato Santoro - in un primo momento deputati e senatori hanno una reazione muscolare quando sanno di essere stati citati in giudizio e minacciano l'ex collaboratore di chiedergli un danno all'immagine. Poi, però, la stragrande maggioranza di loro, piuttosto che arrivare a sentenza e rischiare la gogna mediatica in caso di condanna, preferisce arrivare a un accordo conciliativo che risarcisce integralmente l'assistente (anche per 20mila euro) ma, di contro, lo obbliga a rigide clausole di riservatezza». Lo scorso luglio la Camera ha finalmente pubblicato i dati ufficiali sul numero dei collaboratori dei deputati, richiesto da anni dall'associazione di categoria. In totale sono 488 gli assistenti contrattualizzati: solo il 24% di loro ha un contratto subordinato; il 40% circa ha un rapporto di collaborazione e il restante 36% è inquadrato come autonomo. Al Senato, invece, non è stato ancora fatto un censimento sui collaboratori, o almeno non è stato reso noto. Il nostro sistema rappresenta una vera e propria anomalia nel contesto europeo. Negli altri Parlamenti, infatti, è previsto un importo mensile specifico destinato alla retribuzione degli assistenti. In Francia, ad esempio, il deputato può scegliere se conferire un apposito mandato all'amministrazione ose provvedervi personalmente. In Germania e al Parlamento europeo la gestione dei collaboratori è effettuata direttamente dall'amministrazione; in Gran Bretagna è gestita dall'Autorità parlamentare indipendente per gli standard (Ipsa). In Italia, invece, non è previsto uno stanziamento specifico. I deputati - oltre all'indennità parlamentare di 5.246 euro netti, la diaria (3.305 euro netti al mese), i rimborsi per le spese di viaggio e per quelle telefoniche - si vedono accreditare sul proprio conto corrente un rimborso «per l'esercizio del mandato», paria 3.690 euro: il 50% di questa somma, se spesa, deve essere rendicontata ed è destinata appunto ai compensi dei collaboratori, ma anche a consulenze, ricerche, gestione dell'ufficio, utilizzo di reti pubbliche di consultazione dati, convegni e sostegno delle attività politiche; il restante 50% viene invece corrisposto al deputato in modo forfettario (ossia senza necessità di giustificativi). Ogni senatore, invece, può chiedere l'accredito per entrare a Palazzo Madama esclusivamente per i collaboratori con i quali abbia instaurato un rapporto di lavoro a titolo oneroso di durata non inferiore a 6 mesi, consegnando al Servizio di questura e del cerimoniale copia del contratto. Con una delibera fatta a suo tempo, era stata definita una prestazione minima di 25 ore mensili per gli assistenti parlamentari, pari a 375 euro. Quindi, considerando una media di 40 ore alla settimana, il compenso mensile dovrebbe essere di circa 2.400 euro. «Io ho visto tanti contratti da 500 o 600 euro al mese. Nel migliore dei casi, e sono casi isolati, i collaboratori vengono pagati 1.000-1.200 euro netti mensili precisa l'avvocato giuslavorista Santoro- C'è perfino chi ha lavorato in nero o chi, con la promessa di un futuro inquadramento, ha aggirato il sistema dei controlli all'ingresso della Camera o del Senato con inviti quotidiani e poi, dopo qualche mese, si guadagnava sul campo uno stage a titolo gratuito. La pretesa retributiva viene vista come un orpello dai parlamentari che spesso ritengono sia già un riconoscimento frequentare gli uffici delle loro segreterie. Ormai sono tre legislature che sento parlare di proposte di riforma, ma dal 2006 la situazione è andata addirittura peggiorando. Molti giovani onorevoli, pur avendo conosciuto il precariato nella propria carriera lavorativa, non hanno dimostrato la sensibilità che ci si aspettava nella veste di datori di lavoro». Nessuna differenza nemmeno per partito di appartenenza o sesso: «Queste prevaricazioni sono bipartisan e accomunano uomini e donne. Solo il 10% dei parlamentari stipula dei contratti dignitosi. Eppure l'articolo 36 della Costituzione sancisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro», conclude il legale. C'è infine un problema di sicurezza: chi controlla questo esercito di collaboratori che, dotati di badge email istituzionale, si aggirano liberamente a Montecitorio e Palazzo Madama? L'amministrazione, infatti, in barba ai principi di trasparenza, non chiede loro il curriculum, la fedina penale o il certificato dei carichi pendenti. La dice lunga il caso di Antonello Nicosia, ex assistente parlamentare della deputata molisana di Italia Viva Giusy Occhionero, condannato a marzo con l'accusa di associazione mafiosa.

Valeria Di Corrado per iltempo.it il 22 dicembre 2021. «L'epilogo della mia vicenda dovrebbe far prendere coraggio ai miei colleghi, spronandoli a denunciare». C'è un ex collaboratore parlamentare che, dopo due gradi di giudizio, è riuscito a ottenere la condanna definitiva di un ex deputato per averlo ingiustamente licenziato. Lorenzo Andraghetti, militante bolognese della prima ora dei meet up di Beppe Grillo, era stato assunto il 12 giugno 2013 dall'allora onorevole Paolo Bernini (M5S) come suo assistente, con un contratto a tempo determinato con scadenza al termine della legislatura: «Facevo l'addetto stampa, curavo i suoi social, scrivevo le interrogazioni e perfino una legge, insomma, tutto quello che fanno i collaboratori parlamentari».

Il 6 agosto 2015 il deputato grillino gli aveva comunicato di voler interrompere il rapporto di lavoro, di lì a due mesi. «Inizialmente mi ha detto che doveva licenziarmi perché, occupandosi della difesa degli animali, preferiva avere a che fare con persone che appoggiassero la sua causa vegana e io, non essendolo, non potevo capire fino in fondo questa sua battaglia - aveva spiegato Andraghetti in un servizio tv delle "Iene" - Fu una scusa per licenziarmi, in realtà scoprii che c'erano state delle pressioni dall'alto, da parte di altri onorevoli pentastellati, forse perché esprimevo delle espressioni leggermente discordanti rispetto alla linea generale del Movimento 5 Stelle».

L'8 febbraio 2016 Andraghetti ha citato in giudizio Bernini. Con sentenza del 12 aprile 2017, il Tribunale di Roma ha stabilito che il contratto del collaboratore aveva «chiaramente natura subordinata». Il giudice del lavoro ha dichiarato «l'inefficacia del licenziamento», in quanto non era stata «specificata alcuna motivazione» e ha condannato l'allora deputato al «risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dal ricorrente dal 5 ottobre 2015 sino alla fine della corrente legislatura»: circa 70mila euro. Bernini non ha pagato subito, tanto che Andraghetti ha chiesto e ottenuto dalla Camera il pignoramento del rimborso mensile di 3.690 euro concesso per le spese «per l'esercizio del mandato».

Nel frattempo, il 15 luglio scorso la Corte d'appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado. «Mi deve ancora 20mila euro-precisa Andraghetti- Nel frattempo mi ha querelato due volte per diffamazione per i servizi tv delle Iene e una volta per il presunto furto di un pc. Tutti procedimenti penali che sono state archiviati. La mia storia dimostra che bisogna denunciare i soprusi. So che può sembrare un'utopia, ma se i collaboratori scioperassero si paralizzerebbe l'attività delle Camere. Molti onorevoli, infatti, sono analfabeti dei procedimenti parlamentari, non sanno manco scrivere un'interrogazione».

La collaboratrice cacciata dalla senatrice del Movimento 5 Stelle. Ma c'era il blocco dei licenziamenti. Valeria Di Corrado - Alberto Di Majo su Il Tempo il 21 dicembre 2021. Dopo aver votato a favore della legge per il blocco dei licenziamenti durante l'emergenza Covid, ha licenziato in tronco la sua collaboratrice appena rientrata dal congedo per maternità, in piena pandemia. Una senatrice del Movimento 5 Stelle è stata citata in giudizio davanti al Tribunale di Roma dalla sua ex assistente per aver interrotto il rapporto di lavoro senza preavviso e violando la normativa voluta dal governo e convertita in legge dal Parlamento. La lavoratrice-madre (non ha compiuto ancora trent' anni) è stata licenziata lo scorso 22 luglio con decorrenza immediata; aveva un contratto di lavoro di tipo subordinato a tempo parziale. «Dopo un anno dalla nascita del figlio, la mia assistita è tornata regolarmente in servizio, ma è stata licenziata per ragioni organizzative. Peccato che nel frattempo era intervenuto il blocco-Covid - spiega l'avvocato Fabio Santori, legale di fiducia dell'Associazione italiana collaboratori parlamentari. La senatrice ha ritenuto di non aver più bisogno della figura di un'assistente per Roma, che è un po' paradossale, considerato che l'attività di un parlamentare si svolge prevalentemente nella Capitale. Fa specie che lo stesso soggetto, da un lato abbia convertito in legge i decreti sul blocco dei licenziamenti e dall'altro sia ricorso a questa causale». Il precedente che ha fatto scalpore riguarda l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. La sua assistente parlamentare, Roberta, aveva spiegato lo scorso marzo: «Il mio ruolo era anche quello di pagare gli stipendi alla colf, andarle a ritirare le giacche dal sarto, prenotare il parrucchiere. Praticamente facevo anche il suo assistente personale, che è un altro lavoro non dovuto». La Boldrini, però, aveva corretto il tiro: «Con me non si è mai lamentata. Vivo sola, mia figlia è all'estero, non mi muovo in autonomia avendo una tutela. Se prenotava il parrucchiere? Può essere capitato. Si occupava anche delle visite mediche. Gestiva la mia agenda e così riusciva a incastrare questi impegni con quelli pubblici».

·        Gli schiavi del volantinaggio.

Gli «schiavi» del volantinaggio, fino a 17 ore di lavoro al giorno per pochi euro e stanze dormitorio: 3 arresti a Novara. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 15 Dicembre 2021. La notte un giaciglio di fortuna, spesso letti matrimoniali, in appartamenti degradati e sovraffollati, privi di qualsiasi cautela sanitaria e di sicurezza. Lavoratori sfruttati per volantinare messaggi promozionali. Pagati pochi euro all’ora e costretti a vivere in condizioni igieniche precarie. La maxi operazione della polizia di Novara ha rivelato un mondo di sfruttamento del lavoro che aveva base proprio in città. Le indagini erano partite nell’agosto del 2020, quando la questura ha avviato controlli in alcune zone ad alto rischio degrado. Durante quegli interventi gli agenti avevano trovato condizioni igieniche precarie e sovraffollamento in alcuni appartamenti in zona Sant’Agabio. Chi abitava in quelle stanze ha ammesso di lavorare per alcune aziende di volantinaggio.

L’operazione è così scattata all’alba di ieri mattina ed è stata portata a termine dalla polizia di Novara, nell’ambito di un’articolata indagine svolta sotto la direzione della Procura novarese, per contrastare i reati contro la persona e gravissime forme di sfruttamento del lavoro. Tre le ordinanze cautelari emesse dal gip nei confronti di due cittadini pakistani, rispettivamente di 32 e 44 anni, con velleità imprenditoriali, ma soprattutto di un italiano, di 44 anni, ritenuto la mente del gruppo, un «colletto bianco» che aveva a carico precedenti penali e di polizia, anche di natura societaria, e già coinvolto a livello processuale per una vicenda di cronaca nera.

Nel corso dell’indagine la polizia ha scoperto persone che, prive di mezzi alternativi di sussistenza (per sé e per i propri familiari dimoranti nel paese d’origine) e, pertanto, in stato di bisogno oggettivo venivano reclutate dall’estero o da diverse zone d’Italia e poi portate a Novara dove erano costrette a vivere in condizioni precarie. Da Novara venivano poi portate a lavorare in lontane località del Piemonte, della Valle D’Aosta, della Liguria e della Lombardia, a bordo di furgoni obsoleti, scaricate in vari punti delle città, e costrette, a piedi, a distribuire migliaia di volantini, anche in presenza di avverse condizioni climatiche, senza l’uso dei dispositivi di protezione individuale e le pettorine.

Ai lavoratori veniva inoltre corrisposta una retribuzione palesemente sproporzionata alla quantità del lavoro prestato. I malcapitati erano costretti a lavorare anche 17 ore al giorno, e retribuiti per meno di due euro all’ora e costretti a dormire in condizioni di sovraffollamento e promiscuità, finanche in un periodo come quello attuale caratterizzato dal rischio di diffusione epidemiologica da Covid posto che, per consentire la collocazione di sufficienti posti letto nelle stanze a ciò dedicate, erano allestiti soprattutto letti matrimoniali.

·        La Vergogna del Precariato. 

Francesca, precaria da una vita a Milano: «Guadagno 5 euro lordi l’ora. Da 25 anni non metto da parte nulla». Giampiero Rossi su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2021. Il calvario economico della signora Francesca: «Ero appena arrivata a Milano lavoravo a cottimo: 800 mila lire per 40 ore alla settimana. Parliamo di 25 anni fa. Non avrei immaginato che a 45 anni mi sarei trovata a lavorare per 5,40 euro lordi all’ora per arrivare a 800 euro al mese».  

«Ero appena arrivata a Milano, lavoravo a cottimo: 800 mila lire per 40 ore alla settimana. Parliamo di 25 anni fa, ero giovane e come primo lavoro poteva anche andare. Infatti ho sempre lavorato, ma non avrei immaginato che a 45 anni, mi sarei trovata a lavorare per 5,40 euro lordi all’ora per arrivare a 800 euro al mese quando mi permettono di lavorare tutte le ore previste dal contratto». Cominciava così il racconto della signora Francesca, che non può esporsi perché teme ritorsioni sul lavoro. La ricostruzione del suo quarto di secolo milanese — sempre lavorando ma senza mai trovare una pace economica — è un paradigma per tante altre biografie di cosiddetti working poor, cioè persone che hanno un lavoro ma che vivono al limite della sussistenza, dibattendosi tra contratti fragili e redditi bassi. Qualcuno, giocando con i numeri, si ostina ancora a negare questa drammatica evidenza, ma le conseguenze dell’emergenza sanitaria e tanti racconti la ripropongono all’attenzione della città.

La formazione

La biografia di Francesca è emblematica anche a proposito di un altro tema di grande attualità: quello della formazione come opportunità di occupazione degna. «Sono arrivata nel 1996 — racconta — dalla provincia laziale alla capitale del lavoro e dell’economia. E in effetti iniziai subito a lavorare in una cooperativa, come addetta allo smistamento della posta e alla registrazione dei bollettini. Riuscivo a mettere insieme 800 mila lire, pagata a cottimo come socio dipendente con la promessa che dopo un anno sarei passata a uno stipendio fisso. Ci contendevamo tra colleghi le lettere da smistare e dopo un anno ho deciso di licenziarmi». Prima delusione, ma è un inizio. E Milano promette tanto...

Gli altri lavori

Dopo qualche mese da baby-sitter («10 mila lire all’ora in nero»), «tramite una cooperativa di servizi, lavorai per un’azienda che produceva attrezzature per laboratori: la paga era di 900 mila lire al mese per 8 ore di lavoro al giorno come socio dipendente». Ancora poco per vivere a Milano. Così, «iniziai a lavorare per alcuni istituti di indagini statistiche, come intervistatrice pagata a ore». Il reddito, quindi non cambia: 900 mila lire, se tutto va bene.

La crisi del 2008

La svolta arriva alla fine del millennio: «Trovai lavoro presso un’azienda tedesca del settore dell’ottica come addetta al trattamento e al controllo qualità delle lenti da sole. Lo stipendio non era alto considerando che i turni andavano dalle 6 della mattina fino alla mezzanotte: ricordo che il primo stipendio con la nuova valuta era di 1.070 euro, però c’erano la tredicesima e la quattordicesima, per cui decisi di rimanere perché in fondo quello era il miglior contratto visto fino a quel momento». Ma poi arriva la crisi del 2008, «la produzione fu trasferita all’estero e 33 persone, tra le quali c’ero io, furono lasciate a casa».

La «mobilità»

Francesca si trova così in «mobilità», tutto sommato anche quell’ammortizzatore sociale era una novità per lei, quasi un lusso, ma trovare un nuovo lavoro è urgente. «Ho ripreso a lavorare nel 2010, in un’azienda di indagini statistiche, due anni, contratto di collaborazione: niente malattia, niente ferie, 5,80 euro lorde all’ora per un’attività non continuativa». Di nuovo il girone della precarietà, insomma, senza avere mai assaporato la possibilità di «mettere da parte qualcosa». Non va bene, serve altro: «Passai a un’altra società di indagini, collaborazione a progetto per 7,75 euro di salario diurno, che diventavano 8,85 serale e 9,98 il sabato e la domenica. Lavoravo sei giorni su sette per fare un migliaio di euro al mese. Ma per tre mesi era tutto fermo, così le mie entrate, divise su 12 mesi, si riducevano a 750 euro mensili».

Al punto di partenza

Nuovo cambiamento, ma si torna praticamente all’inizio: «Dal 2018 lavoro per una cooperativa di servizi fiduciari: di 5,40 lordi ora e orario minimo contrattuale non rispettato. Dopo 25 anni mi ritrovo al punto di partenza. E vivo sola...».

·        Il caporalato sui rider.

Rider, la svolta di Bruxelles: "Sono dipendenti, le piattaforme li assumano”.  Claudio Tito su la Repubblica il 2 Dicembre 2021. Mercoledì la Commissione Ue vara una direttiva che definirà i lavoratori di Uber, Deliveroo e degli altri colossi digitali come subordinati. Spetterà alle aziende dimostrare il contrario. Una vera e propria rivoluzione per i rider. Ma non solo per loro. Per tutti i lavoratori delle piattaforme digitali. Dopodomani infatti la Commissione europea approverà il pacchetto lavoro messo a punto dal Commissario lussemburghese Nicolas Schmit. E tra le misure portanti c’è un riconoscimento: quello per le piattaforme va considerato lavoro subordinato a tutti gli effetti. Quindi le persone dovranno essere assunte. Sostanzialmente viene cancellato il dogma dell’attività autonoma e indipendente. Avete quindi presente i ragazzi - ormai non sempre ragazzi - che nelle nostre città vi consegnano a domicilio la pizza o l’hamburger ordinati sulle varie Deliveroo o Glovo? Oppure gli autisti di Uber? Ecco, tutti loro erano sottoposti ad un regime contrattuale a dir poco etereo. I giganti dell’economia digitale li hanno sempre considerati dei prestatori d’opera indipendenti. Spesso con retribuzioni infamanti e senza alcun tipo di tutela. L’Ue intende mettere fine a questa “indisciplina” e varerà mercoledì una direttiva - che quindi una volta approvata dal Parlamento e dal Consiglio sarà una vera e propria legge cui gli Stati membri dovranno uniformarsi - che inquadra quell’attività dentro i contorni del classico lavoro dipendente. Dunque se il “rider”, l’autista o i lavoratori online impegnati ad esempio nel crowdwork (una sorta di lavoro o professione in affitto per più imprese) rientrano in alcune specifiche caratteristiche non potranno essere paragonati agli autonomi. Quali sono queste caratteristiche? Ad esempio: se non corre il rischio di impresa. Ossia non espone le sue risorse al fallimento. Se non decide il prezzo del prodotto. In questi casi, allora, la piattaforma dovrà assumerlo. E tutto sarà semplificato dalla cosiddetta inversione dell’onere della prova: ossia sarà il datore di lavoro a dover eventualmente dimostrare in tribunale che si tratta di lavoro autonomo. Naturalmente l’assunzione implica una serie di tutele, come l previdenza. La direttiva non prevede l’obbligatorietà di un contratto a tempo indeterminato. Ma i limiti temporali dell’assunzione saranno individuati dalle normative nazionali. In Italia ad esempio non può superare i tre anni. Ma c’è un altro aspetto della direttiva che - salvo imprevisti dell’ultima ora - andrà a irrobustire la svolta: riguarda l’uso dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi per valutare e programmare il servizio. Che vuole dire? Anche in questo caso avete notato che sul vostro telefonino o pc vi chiedono di esprimere un voto al rider o all’autista? Quelle “stelline” compongono un insieme di dati, insieme ai tempi e alla quantità di consegne effettuate. Il tutto forma una vera e propria pagella per quel lavoratore. E in base all’elaborazione di tutti questi elementi, la piattaforma digitale decide se il compito svolto è stato all’altezza delle aspettative o meno; e se quindi quel “dipendente” (adesso si può definire così) è stato efficiente e può essere confermato o riutilizzato. Una valutazione che però viene effettuata dal computer, appunto da un algoritmo. Nessun rapporto diretto tra datore di lavoro e dipendente. Ecco, l’insieme dei parametri che regolano l’algoritmo dovranno essere resi pubblici con una comunicazione formale. Un modo per rendere consapevole il “rider” del metro con cui il suo lavoro viene giudicato. Del resto, questi stessi algoritmi sono stati una delle giustificazioni utilizzate dall’esecutivo comunitario per cambiare strada: rappresentano la dimostrazione che non ci può essere equiparazione rispetto all’attività autonoma. E anche il concetto che questi lavoratori decidono da soli se e quando lavorare - secondo la Commissione - è smentito proprio dal ricorso all’intelligenza artificiale. Uno stravolgimento, dunque, della normativa fin qui seguita. Il “pacchetto” della Commissione ha preso spunto dal modello già presente in Spagna e da molte sentenze che sono state emesse da diversi tribunali in giro per l’Europa. Il riconoscimento del lavoro subordinato, infatti, è avvenuto attraverso il contenzioso legale in Francia, in Germania e appunto in Spagna. In Italia lo ha fatto il Tribunale di Palermo. E la Cassazione ha fatto presente che il Jobs Act di fatto impedisce l’introduzione della subordinazione ma stabilisce che vadano applicate a questa nuova forma di lavoro tutte le tutele della subordinazione. Da mercoledì, fino a quando non ci sarà il via libera di Parlamento e Consiglio, inevitabilmente si consumerà una vera e propria battaglia da parte dei giganti del web per provare a correggere questo impianto. L’orientamento, sopratutto, dell’Europarlamento è però orientato a confermare l’impostazione. Anzi, tutto è nato proprio da alcune risoluzioni approvate dagli eurodeputati. Nel “pacchetto”, però, non sarà presente solo questo intervento. L’altro corno è formato dal “Piano d’azione sull’Economia Sociale”. È un complesso di misure per agevolare e favorire tutto il mondo del Terzo settore, delle attività solidali. Avrà una durata decennale e rappresenterà il “pilastro sociale” dell’Unione europea. L’obiettivo è rimuovere gli ostacoli di natura legale e amministrativa che spesso rendono difficile, se non impossibile, queste attività. Sono compresi programmi di cooperazione e l’uso di prodotti finanziari - a cominciare dai Grants, ossia le sovvenzioni europee - per finanziare l’universo dell’economia sociale.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera - Edizione Milano" il 19 novembre 2021. Non solo i pasti recapitati dai rider di Uber Italy, o le consegne fatte da Dhl, o i libri movimentati da Ceva: un altro contestato caso di «"esternalizzazione patologica" della forza lavoro, ormai una costante del mondo del lavoro popolato da soggetti che accettano qualsiasi condizione pur di lavorare», per la Procura di Milano investe infatti i trasporti della divisione italiana del colosso della logistica «Gls»: multinazionale da 4 miliardi e mezzo di euro fatturati in un anno nel trasportare 840 milioni di pacchi per 250.000 clienti in 41 Paesi, dove in 1.500 depositi il gruppo internazionale (nato in Germania, con testa in Olanda e controllo nel gruppo postale inglese Royal Mail) impiega 21.000 persone e utilizza 4.000 Tir e 31.000 furgoni. Una ventina di perquisizioni, operate dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano e dall'Agenzia delle Entrate non soltanto negli uffici del gruppo a San Giuliano Milanese e Assago Milanofiori, ma anche negli uffici del consorzio di cooperative «You Log» a Vimercate e Pero, fanno affiorare il fatto che le società «Gls Italy spa» e «Gls Enterprise srl» (oltre a cinque loro procuratori e a un commercialista) sono indagate, per l'ipotesi di reato di «dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti», in base alla legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per reati commessi da dirigenti nell'interesse aziendale. «Chi viene danneggiato sono i lavoratori e l'Erario, mentre il gruppo Gls trae enormi vantaggi da questa situazione in quanto diminuisce i propri costi per il personale», argomenta l'inchiesta del pm Paolo Storari sull'«utilizzo distorto e strumentale di cooperative a vita breve, legalmente rappresentate da prestanome, che dissimulano somministrazioni irregolari di manodopera a favore di committenti più o meno conniventi, massimizzando guadagni illeciti in virtù del mancato pagamento delle imposte dirette ed indirette, delle ritenute da lavoro dipendente e dei contributi previdenziali ed assicurativi». Il meccanismo, secondo l'impostazione dell'accusa, sarebbe quello già smontato dalle indagini nei casi precedenti, alcuni già voltisi in virtuosi esempi (come Ceva) di rientro nella legalità, e verrebbe attuato anche «attraverso l'ausilio di diversi professionisti agevolatori, commercialisti e consulenti del lavoro, che curano le formalità contabili e dichiarative al fine di creare le condizioni per la realizzazione degli illeciti». Tra gli uffici perquisiti dalla Guardia di Finanza e dall'Agenia delle Entrate c'è stato anche quello nel quale lavora, quando viene in Italia, l'amministratore unico (non indagato) di «Gls Italy» e di «Gls Enterprise», il tedesco Klaus Schaedle.

Marco Persico per corriere.it il 24 febbraio 2021. La Procura di Milano ha aperto un’indagine «fiscale» su Uber Eats, filiale italiana del colosso americano già finita in amministrazione giudiziaria per caporalato sui rider, «per verificare se sia configurabile una stabile organizzazione occulta» dal punto di vista fiscale. Lo ha annunciato il procuratore di Milano, Francesco Greco, nel corso di una conferenza stampa convocata per fare il punto sulle indagini a tutela dei fattorini avviate nel capoluogo lombardo. Indagate sei persone, tra amministratori delegati, legali rappresentanti o delegati per la sicurezza delle società Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo e la stessa Uber Eats. Nell’ambito dell’inchiesta, investigatori e inquirenti hanno controllato e interrogati, in un solo giorno, mille rider, arrivando a verificare decine di migliaia di «posizioni» in tutta Italia e colpendo le aziende (Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo) con multe per un valore economico complessivo superiore ai 700 milioni di euro. Secondo Greco, sono oltre «60 mila» i lavoratori di società del delivery che «dovranno essere assunti dalle aziende come lavoratori coordinati e continuativi», ossia passare da lavoratori autonomi e occasionali a parasubordinati. L’indagine, condotta dai carabinieri del Nucleo «Tutela del lavoro» guidato dal comandante Antonino Bolognani, è partita da «Milano e si è imposta su tutto il territorio nazionale perché ogni giorno vediamo per le strade migliaia di fattorini, alcuni di loro anche in infradito», ha spiegato la procuratrice Tiziana Siciliano. Visto che le condizioni sono simili ovunque «poi è stato naturale allargare al territorio nazionale». Le sanzioni sono state elevate sugli obblighi di prevenzione dei rischi, obbligo di visite mediche e protezione individuale e di formazione specifica per le attività». «È bene che sia aperta questa analisi fiscale su Uber Eats, peraltro già in corso», ha spiegato Greco, sottolineando che «non è più il tempo di dire sono schiavi ma è il tempo di dire che sono cittadini». Secondo Greco, anche in questo periodo di lockdown svolgono «una funzione fondamentale» perché consegnano a casa dei cittadini il cibo e hanno permesso a «molte imprese di non chiudere».

Maxi-indagine sui rider a Milano, obbligo di assumerne 60mila e multe sulla mancata sicurezza per 733 milioni alle società. Greco: "Non sono schiavi ma cittadini". Luca De Vito su La Repubblica il 24/2/2021. Verificata la posizione dei fattorini impiegati nelle piattaforme digitali di consegna del cibo. L'indagine avviata dalla procura dopo vari infortuni stradali durante il lockdown: sei indagati. In una chat la radiografia di una gamba rotta. I rider sono lavoratori subordinati, gestiti non da un capoufficio ma da un'intelligenza artificiale. Dopo un lavoro svolto in gran segreto, la procura della Repubblica di Milano tira le fila. E se il procuratore capo Francesco Greco cita lo "schiavismo", il comandante dei carabinieri Antonino Bolognani, ex investigatore dei tempi di Mani Pulite, dice: "Abbiamo verificato la posizione di 60mila fattorini che venivano impiegati da queste piattaforme digitali, rider, del cibo. Anche per la consegna di altri generi. Un'indagine complessa, qui ragioniamo in termini di numeri incredibili". L'indagine era stata avviata dalla procura, dopo vari infortuni stradali, perché durante il lockdown i rider, che, come dice il procuratore capo Greco "hanno svolto una funzione essenziale sia per portare da mangiare a un sacco di gente sia per permettere a molte imprese di sopravvivere", sono finiti in ospedale. Nelle carte degli inquirenti ci sono alcune chat tra i lavoratori. Per esempio in una compare la radiografia di una gamba spezzata durante un incidente e la frase: "E adesso come faccio a lavorare?". Le contestazioni della pm Maura Ripamonti e del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano hanno portato ad ammende per 733 milioni di euro che riguardano la violazione di norme sulla salute e sulla sicurezza del lavoro. Indagati anche sei datori di lavoro di quattro società che sono operative in tutta Italia: Just Eat, Uber Eats, Glovo e Deliveroo. Oggi sono stati inviati verbali alle aziende con cui si impone l'assunzione di circa 60mila lavoratori in tutta Italia. Le quattro aziende avranno 90 giorni per mettersi in regola ed estinguere il reato. Altrimenti arrivano i decreti ingiuntivi e il procedimento va avanti. I carabinieri del Nil, gruppo specializzato nella materia del lavoro, accertando anche con Inail e Inps sul tipo di rapporto di lavoro dei "ciclofattorini", hanno inquadrato la questione grazie a una serie di analisi sulla posizione dei rider e alla verifica in strada: in un giorno solo sono stati controllati mille lavoratori in tutto il paese. Parallelamente la procura ha annunciato anche una serie di accertamenti fiscali di cui si occupa il Nucleo di polizia economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Milano. Dopo l'indagine del pm Paolo Storari sui possibili "caporali digitali", e cioè sfruttatori del lavoro illegale, ha aperto un'indagine fiscale nei confronti di varie società, per verificare se non ci fosse una stabile organizzazione occulta e riportare a tassazione redditi prodotti in italia dai rider. Un fasciolo è già aperto per quanto riguarda Uber Eats, altri verranno aperti anche per le altre piattaforme. "Sono emersi - dice Greco - pagamenti fatti online e non sappiamo dove vengono recepiti, ma il rapporto di lavoro e l'organizzazione dei rider è guidata sul territorio italiano. Sono stati sentiti moltissimi rider sono state verificate le modalità di lavoro, sono state analizzate le conseguenze di eventuali comportamenti in caso di caduta del ranking di un rider e quindi la possibilità di non dare lavoro a chi si era fermato per bisogni fisici. Le conclusioni a cui siamo arrivati è che si tratta di un rapporto di lavoro subordinato". I contratti firmati sono per lavoratori autonomi, ma in realtà si tratta di collaborazioni coordinate e continuative e quindi di lavoratori parasubordinati. Un modo di vedere la questione che può cambiare radicalmente la situazione dei rider e degli acquisti a domicilio. "La cosa che mi ha colpito - conclude Greco - è che la maggior parte di questi rider controllati sono tutti risultati con permesso di soggiorno e in maniera regolare in Italia. Non è un approccio morale al tema, ma giuridico che è necessario. Non è più il tempo di dire sono schiavi, è il tempo di dire che sono cittadini che hanno bisogno di una tutela giuridica". E come sottolinea Bolognani, dal punto di vista dei carabinieri, "Qui c'è un aspetto rilevante dal punto di vista penale. Salute e sicurezza". E bisogna rispettare alcune prescrizioni, altrimenti "Ne va dell'incolumità dei lavoratori". Da qui la pesantezza delle ammende contestate.

"Io, ex rider di Uber pagato tre euro a consegna e mi sequestravano le mance". Luigi Bolognini su La Repubblica il 14 ottobre 2020. Parla Mohammed, una delle vittime dello sfruttamento al centro dell'inchiesta che ha portato al commissariamento dell'azienda. Sono bastati pochi mesi perché Mohammed (non è il suo vero nome, naturalmente) capisse la realtà in cui si era ritrovato, quella di dipendente, "anzi, collaboratore, siamo precisi, di contratti non ne ho mai visti", per conto di Uber. La realtà che è stata raccontata anche nelle carte giudiziarie, nell'inchiesta che ha portato al commissariamento dell'azienda per i tanti casi come quello di questo gambiano di 25 anni, arrivato in Italia nel 2015.

Quanto ha lavorato per conto di Uber?

"Una decina di mesi, a cavallo tra il 2018 e il febbraio 2019".

E come definirebbe il trattamento che ha ricevuto?

"Uno sfruttamento. E non solo per la questione economica, che però era la principale".

Ovvero per le consegne pagate 3 euro invece che 5, come era la cifra pattuita.

"Esatto. Noi avevamo, ma c'è ancora naturalmente, una app, grazie alla quale venivamo chiamati per fare tutte le consegne. E questa app fissava come prezzo stabilito quello di 5 euro. Ma le persone con cui avevo i rapporti di lavoro ci dicevano che il prezzo vero era 3, e così ci pagavano. Un prezzo fisso, non importava se la distanza fosse 2 chilometri o 20, e non importava neanche se pioveva. Anzi, con la pioggia in teoria avevamo una maggiorazione di 1,5 euro, ma loro si tenevano anche quella. Proprio per questo bonus io sono stato cacciato".

Ovvero?

"Un giorno andai a protestare perché non mi sembrava giusto. Il risultato fu che loro mi bloccarono dall'app, come facevano con tutti quelli che protestavano per un qualunque motivo. Bloccato quindi addio, con loro non lavoravi più. E ne bloccavano tanti, perché i motivi di protesta non mancavano".

Ad esempio quali?

"Beh che si tenessero pure le mance che ci davano i clienti. E che ci obbligassero a lavorare tutti i giorni fino alle 22, senza riposi".

Come venivate pagati?

"Ogni 15 giorni tramite bonifico bancario. E dovevamo accettare la cifra che ci trovavamo anche se avevamo dubbi, o certezze, che qualcosa non andasse. Io riuscivo a stare tra i 4 e i 500 euro, a volte 600, ma lavorando davvero per tutto il giorno fino a sera tarda. Per fortuna stavo in una comunità e non avevo problemi di vitto e alloggio".

Eravate tutti stranieri?

"No, ma con noi erano più cattivi perché eravamo migranti, richiedenti asilo, alloggiati in comunità, spesso senza documenti. C'era una sorta di ricatto insomma, sapevano che saremo stati buoni per non avere problemi con la legge, ci dicevano che non eravamo nessuno, che se loro ne bloccavano uno, il giorno dopo ne trovavano senza problemi uno nuovo pronto a lavorare".

Con i clienti che rapporti avevate?

"Buoni, erano sempre gentili e davano delle belle mance, anche se poi noi non le potevamo godere perché ci venivano tolte. Credo però che pochi sapessero della nostra situazione perché nessuno ce ne parlava mai".

Ora come le va?

"Molto meglio. Lavoro per un'altra azienda del settore che però è seria, fa contratti in regola, ci dà alcune tutele. Ma quando incrocio altri ragazzi di Uber e parliamo, mi dicono che la situazione è migliorata anche lì, ad esempio ora le consegne sono pagate la tariffa concordata di 5 euro e non 3".

Caporalato sui rider, chiesto il processo per ex manager Uber Italy e altri. La Repubblica il 17 dicembre 2020. La Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per 10 indagati, tra cui Gloria Bresciani, in qualità all'epoca di manager di Uber Italy, nell'ambito del procedimento per caporalato sui rider, ossia sui fattorini delle consegne di cibo a domicilio, e reati fiscali. Indagini che, il 29 maggio scorso, avevano portato il Tribunale a disporre, con un provvedimento mai preso prima nei confronti di una piattaforma di delivery, il commissariamento della filiale del 'colosso' americano. I rider, come emerso dalle indagini del pm Paolo Storari e del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf, venivano "pagati a cottimo 3 euro a consegna", "derubati" delle mance e "puniti" se si ribellavano. Nell'udienza preliminare alcuni indagati potrebbero anche provare la strada del patteggiamento. Bresciani è accusata di caporalato in concorso con Giuseppe e Leonardo Moltini e Danilo Donnini, responsabili delle società di intermediazione Frc e Flash Road City (la Frc è indagata per la legge sulla responsabilità amministrativa). Altri 5 gli indagati ma per reati fiscali. Era stata, invece, stralciata la posizione di Uber Italy, indagata per la legge sulla responsabilità amministrativa. Alla Sezione misure di prevenzione del Tribunale milanese (presidente Fabio Roia) è in discussione la prosecuzione o meno del commissariamento di Uber Italy. I rider del servizio Uber Eats hanno continuato a lavorare, ma a controllare "i modelli di gestione" della filiale italiana del gruppo americano c'è dal primo giugno un amministratore giudiziario: il Tribunale deciderà se revocare o meno il commissariamento.

Uber eats, un protocollo per la salute e la sicurezza dei rider: i primi risultati del commissariamento della società di delivery. La Repubblica il 10/2/2021. L'azienda è stata messa dal tribunale di Milano sotto amministrazione giudiziaria dopo l'inchiesta della procura per caporalato: "Ora sta seguendo le indicazioni virtuose indicate dai giudici". Un protocollo in materia di salute e di sicurezza sul lavoro per la tutela dei rider, con casco e altri dispositivi di sicurezza gratuiti, la fornitura dell'equipaggiamento protettivo anti-Covid e corsi gratuiti di formazione. Uber Eats, la piattaforma di delivery su cui nel maggio scorso il tribunale di Milano ha disposto l'amministrazione giudiziaria avvia un percorso per migliorare le condizioni di lavoro dei suoi fattorini, dopo l'inchiesta per caporalato aperta dal tribunale di Milano nei confronti di alcuni suoi manager e dipendenti. E sono gli amministratori giudiziari nominati dal tribunale adesso a parlare di "percorso virtuoso intrapreso dal management". "Con le attività che stiamo realizzando ora e nei prossimi mesi - ha spiegato Gabriele De Giorgi, Public Policy Manager di Uber Italia - miriamo a diventare il modello di riferimento per l'intero settore del food delivery nell'ambito della tutela della salute e sicurezza dei corrieri, e un esempio per tutte le realtà operanti nella consegna di beni a domicilio nel nostro Paese".

Nel dettaglio il protocollo prevede:

- disponibilità gratuita dei DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) per i rider, sia già attivi sulla piattaforma che di nuova attivazione. I DPI comprendono: casco di sicurezza per bicicletta, indumento ad alta visibilità, giacca e pantaloni antipioggia, supporto impermeabile per smartphone da applicare sulla bicicletta, luci da applicare sulla bicicletta e fascia da braccio catarifrangente;

- fornitura dell'equipaggiamento protettivo anti-Covid-19 diretta o mediante rimborso; introduzione nell'app Uber Eats per i rider di un tasto di emergenza utilizzabile in caso di problemi di sicurezza, che consente di contattare il 112 e di ricevere assistenza da parte di un team Uber;

- organizzazione di una campagna di sensibilizzazione per i rider in materia di salute e sicurezza e igiene alimentare, che prevede la condivisione di informazioni, suggerimenti e guide (in formato video) e l'invio di avvisi, comunicazioni e reminder in relazione al rispetto delle norme di sicurezza stradale, con particolare riferimento al corretto e sicuro utilizzo dell'App/cellulare mentre il rider è in movimento, e all'importanza dell'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale forniti dall'azienda; erogazione di corsi gratuiti di formazione dedicati alla salute e sicurezza sul lavoro e alla sicurezza stradale. I corsi sono obbligatori ed erogati in più lingue attraverso un fornitore terzo specializzato;

- verifica dell'idoneità dei veicoli per le consegne. Per verificare l'idoneità dei veicoli utilizzati dai corrieri per le consegne, Uber Eats ha attivato un sistema di controlli in fase di onboarding ai sensi del quale: con riferimento ai rider che effettuano le consegne tramite veicoli a motore, vengono richiesti e controllati la patente di guida e un valido certificato di assicurazione di responsabilità civile obbligatoria per legge; con riferimento ai corrieri che utilizzano la bicicletta, è richiesta una dichiarazione di idoneità del mezzo rispetto alla normativa vigente.

- verifica dell'utilizzo dei DPI. Al fine di ottimizzare e massimizzare i livelli di sicurezza, oltre alla campagna di sensibilizzazione e all'invio di specifici reminder, l'organizzazione Salute e Sicurezza di Uber Eats si accerta dell'effettivo e corretto utilizzo dei DPI attraverso attività di controllo in tempo reale costituite da verifiche in app tramite selfie del rider. Allo stesso modo, agli altri utenti della piattaforma (ristoranti e consumatori) potranno fornire (su base volontaria) feedback in merito ai corrieri anche in relazione all'utilizzo da parte degli stessi dei DPI.

Le indagini del pm Paolo Storari, condotte dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf, il 29 maggio avevano portato la Sezione misure di prevenzione del Tribunale, presieduta da Fabio Roia (giudice delegato anche Veronica Tallarida), a disporre, con un provvedimento mai preso prima nei confronti di una piattaforma di delivery, il commissariamento della filiale italiana del colosso americano. Davanti alla Sezione misure di prevenzione riprenderà con udienza il 3 marzo il procedimento sulla prosecuzione o meno dell'amministrazione giudiziaria. Un procedimento che va in parallelo all'inchiesta penale che riguarda una dirigente della società accusata - con altri soggetti - di caporalato nei confronti dei rider, che hanno raccontato di condizioni di lavoro e di paghe da fame. Intanto, l'amministratore giudiziario Cesare Meroni, coi suoi "coadiutori, gli avvocati Fabio Cesare e Marcella Vulcano", esprime "soddisfazione" per i risultati raggiunti: Uber "sta seguendo le coordinate tracciate dai giudici" e "ha osservato e progressivamente attuato l'imponente programma prescrizionale elaborato dall'ufficio dell'amministratore giudiziario". "Particolare attenzione - spiegano ancora - è stata posta alla salute e sicurezza dei rider con un programma specifico nel settore del food delivery che dimostra la posizione di contrasto della società rispetto a forme di sfruttamento del lavoro". La società "sta facendo un notevole sforzo di programmazione ed economico per posizionarsi nel settore del food delivery come un'impresa ad un elevato livello di connotazione etica e di responsabilità sociale". Con "l'obiettivo - concludono gli amministratori giudiziari - di qualificarsi come modello positivo e di riferimento per il settore del food delivery, a tutela della salute e del benessere dei corrieri e di tutti i lavoratori".

I rider hanno per la prima volta un contratto: Just Eat li assumerà come lavoratori dipendenti. su La Repubblica il 4/2/2021. Mentre gli accordi di categoria sono ancora fermi la piattaforma di delivery annuncia che da marzo i suoi fattorini in Lombardia verranno assunti stabilmente con diverse tipologie di contratto, base oraria di 9 euro con bonus consegne, tutele previdenziali, ferie e assicurazione. Sarà una prima volta in Italia: da marzo la piattaforma di food delivery Just Eat avvierà le prime assunzioni dei rider della Lombardia con contratti di lavoro subordinato con il modello Scoober, un modello con tre tipi di contratto - full time, part-time e a chiamata - che di fatto, almeno per il momento, supera lo stallo che c'è a livello nazionale sull'inquadramento dei rider. Un contratto che, è quello che almeno assicura Just Eat, permetterà ai fattorini di avere condizioni di assunzione eque, compenso orario, ferie, malattia, maternità e paternità, indennità per il lavoro notturno, festivi, assicurazione e dispositivi di sicrezza gratuiti in dotazione, tutele previdenziali e formazione obbligatoria. Insomma, quasi tutto quello che da anni e sempre più è al centro delle polemiche su come i rider vengano trattati e a volte sfruttati dalle piattaforme o dalle società collegate. "Il contratto di lavoro dipendente previsto dal modello Scoober è basato sulle linee guida internazionali di un accordo aziendale e sull'applicazione integrale della normativa e della legislazione italiana. Attualmente è in corso un confronto con le organizzazioni sindacali in merito all'individuazione di una disciplina collettiva che possa, con gli opportuni adattamenti e in aggiunta alle regole legali, regolare questa forma di lavoro. In attesa che questo confronto produca dei risultati soddisfacenti per tutti, Just Eat avvierà il nuovo modello mediante un regolamento aziendale che prevede di utilizzare diversi regimi di orario: contratti di lavoro dipendente full time, (40 ore settimanali), Part-time (variabile in base alla città e ai volumi di ordini previsti) e a chiamata", spiega Just Eat. Nella prima fase di applicazione del nuovo vontratto la società riconoscerà un trattamento non inferiore alle tabelle previste da contratti collettivi esistenti per profili e attività analoghe, con un compenso orario di 9 euro in media (valore indicativo, spiegano, che si ottiene applicando su una paga base di 7,50 euro l'ora, indipendentemente dalle consegne effettuate, il pacchetto di maggiorazioni previste dalla normativa in vigore). A questa somma si aggiungeranno i bonus legati al numero di consegne fatte dal rider e una indennità per l'utilizzo del mezzo proprio, assicurazione di responsabilità civile verso terzi e assicurazione sulla vita; indennità integrative per lavoro notturno, festività e lavoro straordinario; ferie, malattia, maternità/paternità; dotazioni di sicurezza gratuite fornite da Just Eat, come casco, indumenti ad alta visibilità e indumenti antipioggia e zaino per il trasporto del cibo, oltre agli strumenti per la pulizia dell'attrezzatura come spray e igienizzanti e mascherine; formazione relativa all'azienda, all'utilizzo dell'app Scoober; formazione specifica sui temi della salute e della sicurezza per il trasporto degli alimenti e sicurezza stradale.  In alcune città lombarde, inoltre, sarà aperto un hub in centro dove i rider potranno ritirare e utilizzare mezzi sostenibili come scooter elettrici e e-bike, dei centri logistici che saranno inaugurati nei prossimi mesi in diverse città tra cui Milano, Roma, Torino, Bologna e Napoli. "L'introduzione di un modello di lavoro dipendente per i rider - spiega Daniele Contini, Country Manager di Just Eat in Italia - rappresenta per noi una scelta etica e di responsabilità, in linea con la strategia che il Gruppo porta avanti con successo già in altri paesi europei. Si tratta di un grande investimento, economico e sulle persone, che ci permetterà di operare con rider tutelati dal punto di vista contrattuale e anche di supportare ulteriormente lo sviluppo del servizio in Italia, offrendo un'esperienza di food delivery sempre più completa ed efficiente per i consumatori e i nostri ristoranti".

Benedetta Vitetta per “Libero Quotidiano” il 27 febbraio 2021. Potrebbe risolversi con un nulla di fatto l'indagine dell'Ispettorato del lavoro e della Procura di Milano sui 60mila rider che secondo i magistrati vanno trasformati «da lavoratori autonomi a coordinati continuativi, con tutte le garanzie dei subordinati». Già perché l'inchiesta, portata avanti dal sostituto Maura Ripamonti e coordinata dall'aggiunto Tiziana Siciliano, che ha acceso un faro sull'invisibile mondo dei fattorini sembra non spaventare le multinazionali. Nel registro degli indagati ci sono i rappresentanti delle 4 società più importanti di delivery cui sono state comminate ammende per 733 milioni. Ma le aziende contattate da Libero si sono limitate a dire che «stanno studiando le carte», che «attendono notifiche» e che si sono già «rivolte ai legali». «Siamo sorpresi dalle dichiarazioni e stiamo approfondendo i documenti», si legge nella nota di Assodelivery, l'associazione di cui fanno parte anche due dei gruppi interessati dall'inchiesta, ossia Uber Eats e Glovo (l'altro è Just Eat). Medesima la posizione di Deliveroo Italy: «I documenti trasmessi fanno riferimento a vecchi contratti: dal novembre 2020, infatti, i contratti dei rider che collaborano con noi sono disciplinati dal Ccnl Rider». Ovvero il contratto nazionale di categoria - primo ed unico in Europa - firmato a settembre da Assodelivery con Ugl. Un'intesa che ora le Rider union si preparano a contestare assieme ai confederali nella manifestazione del 26 marzo. Il senatore di Fi, Maurizio Gasparri, auspica che «il governo si attivi per la loro regolarizzazione». Ma i giuslavoristi invitano alla cautela. «L'ipotesi che ai rider possa essere applicato il lavoro subordinato è deflagrativa: il rischio», spiega Roberto Pessi, prorettore alla Didattica della Luiss G.Carli, «è che vengano assunti per poi essere licenziati subito dopo». Diversa la strada da seguire per Pietro Ichino secondo cui «si deve passare dalla contrattazione collettiva» per questo è bene che i confederali riaprano con «Assodelivery il discorso sul Ccln, perfezionando quello già firmato con Ugl». Perché qualcuno cambi contratto e venga assunto.

«Senza una legge, i rider resteranno sotto ricatto. Come tanti altri invisibili». Valentina Stella su Il Dubbio il 26 Feb 2021. Intervista a Marcello Basilico, presidente della sezione Lavoro del Tribunale di Genova, sull’esito delle inchiesta sui rider. «Non è più il tempo di dire che sono schiavi ma è il tempo di dire che sono cittadini» : così due giorni fa il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco, durante la conferenza stampa indetta per fare il punto della prima fase delle indagini milanesi sui rider. Detti anche «ciclofattorini», in questo periodo di lockdown hanno svolto «una funzione fondamentale» perché, consegnando a casa dei cittadini il cibo, hanno permesso a «molte imprese di non chiudere». Greco ha parlato anche della necessità di un «approccio giuridico» e non morale al tema. Alle società del delivery che fanno lavorare i rider sono state contestate ammende sui profili di sicurezza dei fattorini per oltre 733 milioni di euro. Inoltre oltre 60mila lavoratori di società del delivery, ossia Uber Eats, Glovo- Foodinho, JustEat e Deliveroo, dovranno essere assunti dalle aziende come «lavoratori coordinati e continuativi», ossia passare da lavoratori autonomi e occasionali a parasubordinati. Ne parliamo con il dottor Marcello Basilico, presidente della sezione Lavoro del Tribunale di Genova, che ha coordinato a lungo la commissione Lavoro dell’Anm.

Dottor Basilico, cosa ne pensa di questo lavoro della Procura di Milano?

«Tengo a fare una premessa: nella giurisdizione, giudici e pm non accertano dei fenomeni sociali ma si pronunciano su singoli rapporti giuridici. Fino ad oggi abbiamo avuto delle sentenze di giudici del lavoro, che hanno riguardato i rider, a cui si è aggiunta questa iniziativa della Procura di Milano: hanno accertato dei rapporti riconducibili ad alcune norme a tutela del lavoro e, nel caso della Procura, violazioni diffuse ma pur sempre riferibili a rapporti specifici. Con questo voglio dire che la magistratura agisce o decide in base agli elementi di prova acquisiti. Pensare che questi fenomeni sociali possano essere necessariamente incasellati in qualche norma è sbagliato. Sulla base di questa premessa certamente l’indagine della Procura di Milano è destinata, come spesso avviene quando il penale subentra a decisioni di giudici civili, a suscitare probabilmente nuove reazioni sul fronte della politica».

Ci vorrebbe un intervento del legislatore? Come è noto nel 2019 la Cassazione decise che i rider andavano tutelati come lavoratori subordinati. Ci sono state anche altre sentenze a loro favore. Ma sembra non bastare.

«Certo, il legislatore è l’unico che può regolare il fenomeno. I giudici non possono rilasciare dichiarazioni alla stampa in merito ai loro casi. L’autorevolezza delle dichiarazioni del procuratore Greco, che giudice non è, saranno di stimolo per affrontare un fenomeno che è difficile da inquadrare dal punto di vista giuridico».

Secondo lei con questo nuovo governo e nuovo premier, quale potrebbe essere la strada che si prenderà in materia di tutela di questo tipo di lavoratori?

«Non so quale sia l’idea del presidente del Consiglio in merito. Ho conosciuto, anche per via della mia attività in Anm, il nuovo ministro del Lavoro, Andrea Orlando, e il nuovo ministro della Giustizia, la professoressa Cartabia. So quanto entrambi siano sensibili ai fenomeni sociali che hanno ricadute profonde sui diritti dei soggetti deboli. Troppo spesso fino ad oggi i fenomeni lavorativi sono stati esclusivamente regolati dal ministro del Lavoro o addirittura da quello dell’Economia, come se fossero solo aspetti di rilievo economico e non giuridico. Confido dunque in un intervento, anche attraverso l’ufficio legislativo di via Arenula, affinché si adegui la disciplina legislativa che abbiamo in Italia a fenomeni che non riguardano solo i rider ma tutti quelli in evoluzione, per i quali le tradizionali categorie del lavoro subordinato o autonomo non sono più soddisfacenti».

Nel famoso film di Ken Loach, Sorry we missed you, il datore di lavoro dice al protagonista «tu non lavori per noi, tu lavori con noi»: si tratta, come nel caso dei rider, solo di una apparente autonomia. Anzi diviene un escamotage per non inquadrarli come parasubordinati.

«Questo film richiama due situazioni non sufficientemente considerate nel nostro ordinamento: la prima è quella del coinvolgimento apparente o meno del lavoratore nell’attività societaria. C’è il coinvolgimento buono che ci viene dalle esperienze del Nord Europa e della Germania per cui, anche attraverso accordi sindacali, i lavoratori partecipano all’andamento economico della società, traendo anche benefici dai profitti. C’è, invece, il coinvolgimento cattivo, ossia quello del prestatore materiale di un lavoro, autonomo in apparenza, ma di fatto esposto alle pretese di un’azienda. La seconda situazione ricorrente che richiama Ken Loach nel film è quella del ricatto del datore che non dirige la prestazione, ma in concreto costringe ad accettare ogni proposta, perché il lavoratore sa che, in caso di rifiuto, dal giorno dopo non sarà più chiamato».

La Procura di Milano ha rilevato che i rider sono costretti «a lavorare anche in caso di infortunio, pena la perdita di fatto del lavoro».

«Ma pensiamo ad esempio ai collaboratori abusivi che popolano le redazioni giornalistiche: sono giovani che sperano un giorno di diventare giornalisti dipendenti e su questa loro aspirazione gioca la direzione del giornale. Perciò, anche se formalmente non vi siano tenuti, di fatto devono accettare ogni richiesta di servizi, a qualunque ora o condizione e di qualsiasi contenuto, perché sanno che, in caso di rifiuto, potrebbero perdere la loro occasione d’un lavoro stabile. Il dominio del datore di lavoro in una situazione di mercato in cui i posti di lavoro sono sempre più ridotti configura una forma diversa di subordinazione che prescinde da una relazione di gerarchia tradizionale con l’imprenditore».

In realtà, nel caso dei rider, è un algoritmo a gestirli: assegna i turni, favorisce chi è sempre disponibile e addirittura penalizza chi si ammala o si assenta per sciopero.

«In ciò la novità è relativa, rispetto a fenomeni tradizionali. Se non c’è l’algoritmo può esserci una grande azienda che non ti obbliga a rispettare le consegne, ma che poi ti pone comunque in una condizione di soggezione psicologica e morale: perciò, se dici di no, perdi appetibilità e di conseguenza l’opportunità di assunzione».

Nel caso dei rider parliamo del lato oscuro dell’intelligenza artificiale.

«Credo che dell’algoritmo dobbiamo temere soprattutto l’imperscrutabilità delle ragioni per cui si sceglie chi lavora e chi no».

Le norme. I rider hanno già un contratto, ma di cosa si impicciano i pm? Giuliano Cazzola su Il Riformista il 28 Febbraio 2021. La procura di Milano è il Guardiano Supremo della Repubblica teo – mediatico – giudiziaria italiana; e il capo pro tempore dell’Ufficio riceve le stimmate che l’Onnipotente concesse a Francesco Saverio Borrelli come riconoscimento dell’opera di redenzione dai peccati originali della politica. Ed è per questi motivi che la procura meneghina ritiene di essere legittimata ad agire oltre i confini della competenza territoriale e della materia penale. In fondo – come ha scritto Filippo Sgubbi (grande esperto in materia) nel suo saggio Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi edito da Il Mulino nel 2019 – questa branca del diritto è divenuta totale ‘«perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua». Ancora totale «perché anche il tempo della vita individuale e sociale è occupato dall’intervento punitivo che, quando colpisce una persona fisica o giuridica, genera una durata della contaminazione estremamente lunga o addirittura indefinita, prima della risoluzione finale». E, di nuovo, totale «soprattutto perché è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e a ogni male». Nell’ambito del diritto penale totale anche la fattispecie di reato non è più una condotta illegittima da sanzionare; è diventata una colpa per talune categorie sociali: non nel senso tradizionale di uno specifico fatto – sostiene Sgubbi – commesso da una persona e connotato da colpevolezza, bensì come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società. Il reato e la colpa sono uno status che precede la commissione di un fatto ed è legato al ruolo sociale ricoperto o alla tipologia dell’attività che il reo svolge nella vita (in particolare, la politica, ndr). Gli appartenenti alla categoria degli “impuri” sono tenuti a dimostrare – con una vera e propria inversione dell’onere della prova – che in quella particolare circostanza eccezionalmente a loro non può essere imputato nulla. Ma perché limitarsi – si sono chiesti al Palazzo di Giustizia più famoso d’Italia – a “colpirne uno per educarne cento”. È dovere dei missionari della giustizia risanare le situazioni sociali “impure”, non perché violino qualche legge, ma semplicemente perché non corrispondono più a un’etica tradizionale del lavoro. Perché limitarsi allora a restare nel campo del diritto penale, quando questa materia, se ben usata, può servire a rimuovere le ingiustizie sociali. Ecco allora che la procura di Milano ha voluto occuparsi nei mesi scorsi della ex Ilva di Taranto con una ordinanza che smentiva (in questo caso, per fortuna) quella dei colleghi di Taranto. Ora è il turno delle condizioni di lavoro e delle regole che devono essere applicate ai riders, i “nuovi dannati della terra”. Per raccontare i fatti senza incorrere in errori ci affidiamo alla sintesi che un giurista di vaglia e al di sopra di ogni sospetto, come Pietro Ichino, ha pubblicato sul suo sito. L’indagine della Procura ha riguardato le modalità di svolgimento dei rapporti di lavoro dei rider in tutta Italia tra il 2016 e l’ottobre del 2020, cioè nel periodo precedente all’entrata in vigore sia del Ccnl stipulato tra Assodelivery e Ugl-Rider, il 16 settembre 2020, sia della nuova disciplina legislativa dettata dal cosiddetto “decreto Di Maio”, applicato dal novembre 2020; i risultati dell’indagine inducono la Procura a qualificare quei rapporti come contratti di collaborazione (non occasionale, come era per lo più qualificata in quel periodo), ma coordinata e continuativa; in applicazione dell’articolo 2 del d.lgs. n. 81/2015 (uno degli otto attuativi del Jobs Act), la Procura ritiene applicabile (per quanto compatibile, ndr) a quei rapporti la disciplina generale del rapporto di lavoro subordinato; conseguentemente, Polizia giudiziaria e Ispettorato del Lavoro hanno emanato, a carico di quattro grandi imprese del settore, un verbale di accertamento di violazione di alcune prescrizioni in materia di sicurezza del lavoro. Tutta quest’operazione è stata oggetto, in data 24 febbraio, di un comunicato stampa della Procura (a firma del dottor Francesco Greco) a cui sono allegati i verbali dell’Ispettorato del Lavoro. La notizia ha suscitato un notevole scalpore – nonostante che un semplice comunicato, ancorché emesso da una autorevole procura, non abbia effetti legali – come se giustizia fosse fatta, lo sfruttamento sconfitto, le aziende schiaviste costrette ad assumere stabilmente 60mila lavoratori della cosiddetta gig economy. A qualcuno sarà venuto in mente la caccia ai call center che una decina di anni or sono rappresentavano una sorta di “male assoluto” a cui venivano persino dedicati film di denuncia. Salvo poi rincorrere le società quando sono sfollate all’estero chiudendo le postazioni italiane, lasciando a spasso migliaia di dipendenti. Non poteva mancare, a stretto giro di posta, un apprezzamento da parte di Maurizio Landini. «Una bella notizia per la “coesione” del nostro Paese, quella che arriva dall’esito dell’indagine della Procura di Milano», ha affermato il segretario generale della Cgil. «Le persone che di lavoro fanno i rider devono essere assunte e avere tutte le tutele contrattuali e di sicurezza che derivano dall’applicazione di un vero contratto nazionale di lavoro». «Del resto – ha aggiunto Landini – questi sono i nostri principi costituzionali: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e non sullo sfruttamento». «Pertanto – ha concluso il segretario generale della Cgil – chiediamo che si riattivino i tavoli di confronto con le imprese e la loro associazione presso il ministero del Lavoro. Non c’è più tempo da perdere». Bella pretesa, quando il tempo lo hanno perso loro per primi insieme alla ministra/amica Nunzia Catalfo. Il fatto è che un contratto di lavoro esiste già. È appunto quello intervenuto tra Assodelivery e Ugl. «Quel contratto, in estrema sintesi, qualifica – scrive ancora Ichino – anch’esso i rapporti in questione come di collaborazione continuativa. E utilizza una possibilità offerta dallo stesso articolo 2 del d.lgs. n. 81/2015 per sostituire la disciplina generale del lavoro subordinato con una disciplina speciale costituita da uno standard minimo orario di 10 euro, la stessa normativa di tutela della salute e sicurezza, di cui gli ispettori hanno rilevato la violazione nel periodo precedente, il diritto di controllo sull’algoritmo che governa la piattaforma con cui il lavoro è organizzato, e alcune norme poste a tutela della libertà sindacale. Tutto questo è, ovviamente, discutibilissimo; ma non è materia dell’indagine cui si riferisce il comunicato della Procura milanese». Cgil, Cisl e Uil sostengono che al settore va applicato il contratto della logistica, ma dimenticano che, secondo il diritto sindacale, l’area contrattuale non è un prius – come nel diritto corporativo – ma una libera scelta delle parti. Non solo; dopo l’amputazione subita per via referendaria, l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori stabilisce inequivocabilmente che «Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva». I sindacati storici sostengono – senza alcuna motivazione – l’illegittimità del contratto del 16 settembre. Come ribadisce puntualmente Ichino in un suo “editoriale telegrafico”: «Quella del lavoro dei platform workers, come del resto quella dello smart working, è una questione molto complessa di adattamento del diritto del lavoro all’evoluzione tecnologica, che non può essere risolta con un meccanico e indifferenziato assoggettamento del rapporto alla disciplina del vecchio rapporto di lavoro subordinato del secolo scorso: questa estensione, se operata in modo meccanico, equivale a mettere fuori-legge un modello di organizzazione del lavoro reso possibile dalle nuove tecnologie, che invece richiede una disciplina adatta alle sue caratteristiche». Ma Cgil, Cisl e Uil continuano ad urlare: «Fermate il mondo ché vogliamo scendere».

·        Il Caporalato agricolo.

IL COLMO PER IL CAPO DEL DIPARTIMENTO PER L’IMMIGRAZIONE DEL VIMINALE: AVERE LA MOGLIE INDAGATA PER CAPORALATO.

(ANSA il 10 dicembre 2021) - La moglie del capo del Dipartimento per le libertà civili e immigrazione del Viminale, Michele di Bari, è tra le 16 persone indagate in un'inchiesta per caporalato dei Carabinieri e della procura di Foggia che ha portato all'arresto di cinque persone, due delle quali in carcere. In carcere sono finiti due cittadini stranieri, un senegalese e un gambiano, mentre nei confronti degli altri tre arrestati da parte dei carabinieri sono stati disposti i domiciliari. Per gli altri 11 indagati, tra i quali appunto la moglie del prefetto Di Bari, è scattato l'obbligo di firma. L'indagine, che ha interessato attività comprese tra luglio ed ottobre 2020, ha portato anche ad una verifica giudiziaria su oltre dieci aziende agricole riconducibili ad alcuni degli indagati

(ANSA il 10 dicembre 2021) - La moglie del prefetto di Bari impiegava nella sua azienda "manodopera costituita da decine di lavoratori di varie etnie" per la coltivazione dei campi "sottoponendo i predetti lavoratori alle condizioni di sfruttamento" desumibili "anche dalla condizioni di lavoro (retributive, di igiene, di sicurezza, di salubrità del luogo di lavoro) e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie". Lo scrive il Gip del tribunale di Foggia nell'ordinanza nei confronti degli indagati per l'inchiesta sul caporalato. Rosalba Livrerio Bisceglia, moglie del prefetto Michele di Bari, "è consapevole delle modalità delle condotta di reclutamento e sfruttamento". Lo scrive il gip di Foggia nell'ordinanza che ha portato 16 persone nel registro degli indagati per caporalato nel Foggiano. Tra di esse anche Livrerio Bisceglie. (ANSA).

(ANSA il 10 dicembre 2021) - La moglie dell'ex capo del Dipartimento di immigrazione del Viminale Michele di Bari trattava direttamente con Bakary Saidy, uno dei due caporali finiti in carcere nell'inchiesta di Foggia. E' quanto emerge dall'ordinanza del Gip nella quale si legge che Saidy portava nei campi i braccianti dopo averli reclutati "in seguito alla richiesta di manodopera avanzata da Livrerio Bisceglia, che comunicava telefonicamente il numero di lavoratori necessari sui campi". Lavoratori "assunti tramite documenti forniti dal Saidy" che per questo "riceveva il compenso da Livrerio Bisceglia". "Porta da Nico tutti i documenti. Devi portare prima perché così io devo fare ingaggi... e poi il giorno dopo iniziate a lavorare". E' quanto afferma Rosalba Bisceglie Livrerio rivolgendosi al "caporale" Bakari Saidy in una intercettazione citata dal gip nell'ordinanza di custodia cautelare. "Sbarchi clandestini raddoppiati, 100.000 arrivi negli ultimi due anni, un'Europa su questo tema assente e lontana. E oggi le dimissioni del capo dipartimento dell'Immigrazione. Disastro al Viminale, il ministro riferisca immediatamente in Parlamento". Così riferiscono fonti della Lega in una nota. Non basta che il capo del dipartimento per le Libertà civili e l'Immigrazione del Viminale si dimetta dal proprio incarico. Dopo anni di continue criticità, serve una vera svolta per mettere la parola fine alla scandalosa gestione dei dossier in capo al ministero dell'Interno che ha in Lamorgese la principale responsabile. Dall'immigrazione alla sicurezza, gli errori e la superficialità del ministro evidentemente riguardano anche gli uomini da lei confermati in ruoli chiave per la gestione del dicastero. Lamorgese si dimetta o sia il presidente del Consiglio Draghi a rimuoverla quanto prima". Lo dichiara il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida.

Dai campi ai cantieri del Nord: il caporalato allarga i confini. Marco Patucchi su La Repubblica l'11 Dicembre 2021. Gli abusi sui lavoratori si estendono nelle aree più ricche del Paese: irregolarità nel 78% delle aziende monitorate con punte nelle regioni centrali e settentrionali. In due anni controlli quintuplicati, 6.594 le vittime accertate. Nel Milanese i “caporali” lavorano in doppiopetto e chiamano gli operai edili con whatsapp. Caporalato: “basta la parola”, parafrasando uno spot pubblicitario di altri tempi, e nell’immaginario degli italiani scattano i fotogrammi dei raccoglitori di pomodori sfruttati nel Sud come gli schiavi dei secoli passati. Così come lo stereotipo dei tentacoli delle mafie. Ma è solo una rappresentazione convenzionale, utile certo a denunciare il fenomeno, non sufficiente però a raccontare l’estensione e la complessità dell’emergenza.

Quel prefetto che vede reati ovunque tranne che in casa sua…La moglie del prefetto di ferro antindrangheta è indagata. Per noi vale la presunzione di non colpevolezza. Ma qualche domanda ce la facciamo...Ilario Ammendolia su Il Dubbio l'11 dicembre 2021. Credo di aver visto per la prima volta il prefetto Michele Di Bari a Roccella Jonica in occasione della presentazione d’un libro del dottor Nicola Gratteri e del prof Antonio Nicaso. Sembrava impegnato a fare gli onori di casa. E non poteva mancare data la sua “fama” di “Antimafioso” a 24 carati e custode della legalità. Negli anni della sua permanenza in Calabria, come prefetto a Reggio, si è mosso come fosse lo sparviero dello Stretto, capace di scorgere da lontano ogni tentativo della ndrangheta di infiltrarsi nei Comuni o nelle imprese. Non a caso ha chiesto ed ottenuto decine di scioglimenti di consigli comunali democraticamente eletti anche a costo di devastare la fragile democrazia calabrese.

Inoltre ha emesso centinaia e centinaia di interdittive contro le imprese. In proporzione ed in assoluto più che in qualsiasi altra parte d’Italia. Un massacro nel debolissimo tessuto economico dell’estremo Sud.

Ma il suo capolavoro è stato e rimarrà la distruzione del “modello Riace” dove le rigorose ispezioni ordinate dal prefetto di ferro hanno messo alla sbarra il sindaco Mimmo Lucano, trattato come il peggiore dei malfattori.

Forse per tale merito il prefetto Di Bari è stato promosso e trasferito al Ministero dell’Interno come responsabile nazionale del dipartimento immigrazione.

Nel momento di andar via da Reggio, con l’occhio rivolto ai posteri, il dottor Di Bari ha dato alle stampe un libro: “Prefetto in terra di ndrangheta”. Più o meno come aveva fatto Conrad pubblicando “Cuore di Tenebra” dopo un viaggio tra i cannibali.

Ora succede che la moglie del prefetto sia coinvolta in un’inchiesta giudiziaria con per una brutta vicenda legata allo sfruttamento degli immigrati.

Noi la consideriamo innocente e tale resterà per noi sino alla conclusione della vicenda. Ed anche oltre. Anzi saremmo disponibili a collocarci al suo fianco qualora fossero lesi i sui diritti con provvedimenti di giustizia sommaria e preventiva ed infatti riteniamo inutilmente afflittiva la misura che le impone l’obbligo di firma.

Se le accuse fossero vere, però, sarebbe ben strano che un prefetto dotato di un tale fiuto poliziesco in grado di vedere reati e ndrangheta ovunque, anche a chilometri di distanza, non sia stato capace di guardare bene tra le pareti di casi.

Il prefetto scelto da Salvini che sollevò il caso Riace. Giuliano Foschini e Fabio Tonaccici su La Repubblica il 10 Dicembre 2021. Michele Di Bari: "Sono un uomo delle istituzioni e mi pare giusto fare un passo indietro per coerenza, anche se sono certo che si tratti solo di un equivoco".

Prefetto, che succede?

«Ma niente…»

Beh, insomma, sua moglie Rosalba Livrerio Bisceglia è indagata a Foggia per sfruttamento di migranti e caporalato. L’azienda è sotto amministrazione giudiziaria.

«E infatti ho appena comunicato alla ministra Lamorgese le mie dimissioni dal Dipartimento per l’Immigrazione. Sono un uomo delle istituzioni e mi pare giusto farlo per coerenza, anche se sono certo che si tratti di un equivoco».

Sa quanti migranti hanno lavorato con l’azienda cerealicola di sua moglie?

«Non lo so, ma pochi, era l’anno scorso, per il raccolto dell’uva… tra l’altro per ognuno c’è un iban pagato al lavoratore, ci sono le distinte dei bonifici.

Caporalato, indagata la moglie del prefetto Michele Di Bari, autore della circolare contro lo sfruttamento lavorativo. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021. Mercoledì primo dicembre aveva inviato a tutti i prefetti d’Italia una circolare in cui richiamava l’attenzione sul «Protocollo d’intesa per la prevenzione e il contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura e il caporalato», siglato in estate tra i ministeri dell’Interno, del Lavoro e delle Politiche agricole, per ricordare alle «signorie Loro» che c’erano finanziamenti disponibili su un apposito fondo e che altri se ne potevano programmare per i prossimi sette anni; confermando dunque «il sostegno alle iniziative in tema di lotta al caporalato, per l’erogazione di servizi e azioni utili a una migliore gestione del fenomeno». Firmato: prefetto Michele Di Bari, capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. Ventiquattr’ore prima, il 30 novembre, la giudice di Foggia Margherita Grippo, aveva sottoscritto l’ordinanza in cui afferma che Rosalba Livrerio Bisceglia, moglie di Di Bari, trattava direttamente con il «caporale» gambiano Bakary Saidy, arrestato ieri, ed era «consapevole delle modalità di reclutamento e sfruttamento» da lui praticate. Un’accusa tutta da dimostrare, ma accompagnata dall’obbligo di dimora per l’imprenditrice e sufficiente a mettere in imbarazzo il prefetto. Il quale, avvertito ieri mattina dalla moglie della visita dei carabinieri nella sua casa in Puglia, ha subito informato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, comunicandole la decisione di presentare le dimissioni. Subito accettate dal ministro. Per una questione di opportunità, indipendente dal marito dell’indagine sulla donna. Nella lettera con cui ha ufficializzato la sua scelta Di Bari si dice certo che la moglie sia estranea ai fatti contestati, avendo sempre «assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità», guardando con fiducia a ciò che la magistratura potrà accertare. Tuttavia ritiene doveroso il passo indietro dal suo incarico per motivi di «lealtà e trasparenza». La ministra era stata informata la sera prima dai vertici dell’Arma dell'imminente operazione, ma ha semplicemente atteso la mossa del prefetto. Consapevole che la vicenda avrebbe scatenato un nuovo temporale sul suo ministero. Puntualmente arrivato con le dichiarazioni dei leader di centro-destra (da Salvini a Meloni) e in questo caso pure dalla sinistra di Leu, memore delle ispezioni che la prefettura di Reggio Calabria, all’epoca retta proprio da Di Bari, misero in crisi l’immagine di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace poi arrestato e condannato per i suoi metodi di accoglienza dei migranti. Tuttavia stavolta al Viminale pensano di avere un ombrello sufficientemente largo per proteggersi. Perché dell’indagine di Foggia Lamorgese non sapeva nulla prima dell’altra sera; e perché la nomina di Di Bari al vertice del Dipartimento Immigrazione non fu una scelta sua ma del suo predecessore: Matteo Salvini. Che lo propose al Consiglio dei ministri del 30 aprile 2019, prelevandolo proprio da Reggio Calabria, dove evidentemente ne aveva apprezzato il lavoro. Un anno e mezzo dopo, approdata al ministero, Lamorgese lo confermò nell’incarico. Un posto strategico, nella gestione del Viminale, e delicato. Basti pensare ai numeri dei migranti e alla situazione che Di Bari ha dovuto affrontare con la pandemia; è lui, ad esempio, l’ideatore e il «soggetto attuatore» delle navi-quarantena con cui s’è cercato di evitare pericoli sanitari connessi agli arrivi dall’Africa del Nord, di nuovo in aumento. Oltre al contrasto al fenomeno del caporalato, di cui Di Bari si occupa per competenza e come membro della Consulta istituita a ottobre dalla ministra e presieduta dal suo predecessore leghista Roberto Maroni. Il quale ieri ha preferito non commentare la vicenda, limitandosi a dire che «il prefetto avrà controllato bene la posizione dell’azienda della moglie, dal momento che molte imprese in Puglia sono soggette a questo fenomeno». Ma di là del merito dell’inchiesta, resta il problema di immagine e di opportunità è balzato immediatamente agli occhi di tutti. Non solo al Viminale, forse anche in Vaticano, dove Di Bari conta su entrature e ruoli importanti. È consigliere di amministrazione di Casa sollievo della sofferenza, l’ospedale di Pietralcina legato all’Opera di padre Pio e alla Santa Sede. E quando nel 2019 fu messo a capo del Dipartimento, sul profilo facebook dall’ospedale è comparso questo messaggio: «La sua nomina, oltre a riconoscere le sue elevate doti professionali, onora anche tutto il territorio garganico. Congratulazioni!». Un annuncio corredato dalla foto di Di Bari che incontra e stringe le mani a papa Francesco sorridente. Proprio ieri il pontefice è tornato a parlare contro il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori nell’agricoltura: «Quanti braccianti sono, scusatemi la parola, “usati” per la raccolta dei frutti o delle verdure, e poi pagati miserabilmente e cacciati via, senza alcuna protezione sociale? Negare i diritti fondamentali, il diritto a una vita dignitosa, a cure fisiche, psicologiche e spirituali, a un salario giusto significa negare la dignità umana». Nemmeno queste parole hanno un legame diretto con l’indagine in cui è rimasta coinvolta la moglie del prefetto, ma è un’altra sfortunata coincidenza.

Carlo Vulpio per il “Corriere della Sera” l'11 dicembre 2021. I neri che lavorano come schiavi per quattro soldi pagati in nero. Le fotocopie di assegni mai versati ma compilati solo per eludere i controlli. Le buste paga fasulle come i certificati medici per visite mai effettuate. Gli incontri clandestini nelle stazioni ferroviarie e nei distributori di carburante tra i datori di lavoro e i caporali per i pagamenti delle misere paghe in contanti spettanti agli schiavi. La vita stentata nei ghetti dai nomi tristemente noti da trent' anni, come il mussoliniano Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia: un sobborgo africano non tanto per gli africani alloggiati nelle baracche, quanto per le condizioni dei luoghi, che, tra rifiuti e strade sfondate come fossero state bombardate, gli amministratori e i poteri pubblici hanno abbandonato a sé stessi. C'è tutto questo nell'inchiesta «Terra Rossa» della procura di Foggia e dei carabinieri del Nil (Nucleo ispettorato del lavoro) di Manfredonia. Ma non è una novità. Tutto questo, qui, c'è sempre stato. E non è bastata nemmeno la clamorosa rivolta di un altro ghetto, quello di Rignano Garganico - marzo 2017 -, con incendi delle baraccopoli e braccianti immigrati sbandati come quelli di Uomini e topi di John Steinbeck, cento anni fa. I risultati dell'inchiesta, condotta da luglio a ottobre dell'anno scorso, sono alla base dell'ordinanza del gip di Foggia, Margherita Grippo, che vede sedici persone indagate per sfruttamento del lavoro e intermediazione illegale di manodopera e dieci aziende agricole sottoposte a controllo giudiziario, cioè un'amministrazione controllata per un periodo di un anno. Dei sedici indagati, due sono finiti in carcere (i caporali neri Bakary Saidy e Kalifa Bayo), tre agli arresti domiciliari (gli imprenditori bianchi Michele Boccia, Emanuele Tonti e Vincenzo De Rosa) e a undici è stata applicata la misura dell'obbligo di dimora. Cinque milioni di euro il volume di affari calcolato, sulla pelle di braccianti istruiti dai caporali a mentire sulla retribuzione: dovevano dire di percepire 65 euro al giorno per 7 ore di lavoro, invece non ne guadagnavano più di 35 per 10 ore, che diventavano 25 perché 5 euro dovevano essere versati per il trasporto e 5 per la intermediazione. Il clamore suscitato da «Terra Rossa» è tuttavia dovuto non a un sussulto umanitario collettivo, ma al coinvolgimento nell'inchiesta di Rosalba Livrerio Bisceglia, che è moglie di Michele Di Bari, capo dipartimento Immigrazione e libertà civili del ministero dell'Interno, ed è una imprenditrice agricola. La Bisceglia, con le sorelle Antonella e Maria Cristina, conduce l'azienda di famiglia «Sorelle Bisceglia», un nome che nell'agricoltura della Capitanata e del Gargano (uliveti, frutteti, frantoi oleari, l'agriturismo «Giorgio»), e a Mattinata, paese del prefetto Di Bari, è «una istituzione». Le accuse nei confronti della «moglie del prefetto» sono pesanti: sarebbe stata lei a trattare direttamente con i caporali e con il «sorvegliante» dei campi, Matteo Bisceglia, e a occuparsi delle buste paga fasulle (Matteo Bisceglia lo dice al telefono con Saidy: «Guarda che delle buste paga si occupa la signora»). E questo mentre la carriera di suo marito - per otto anni prefetto vicario di Foggia - procedeva spedita fino all'attuale carica e all'assegnazione di un compito delicato: trasformare l'inferno di Borgo Mezzanone, da cui provengono i braccianti sfruttati, compresi quelli dell'azienda «Sorelle Bisceglia», in una cittadella dell'accoglienza. Valore dei lavori: 3,5 milioni di euro, 150 mila dei quali erogati dal dipartimento di Di Bari. Inizio dei lavori: mai cominciati, causa Covid, nonostante la pomposa dicitura «Piano d'azione per l'integrazione e l'inclusione 2021-2027». 

Blitz anti-caporalato dei Carabinieri a Foggia: indagata anche la moglie del direttore Dipartimento Immigrazione del Ministero dell’Interno. Il Corriere del Giorno il 10 Dicembre 2021. Il Viminale ha comunicato che il prefetto Di Bari “ha rassegnato le proprie dimissioni” a seguito dell’inchiesta della procura di Foggia in cui è indagata la donna. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha reso noto di aver accettato la richiesta di dimissioni. L’operazione denominata “Terra Rossa” è stata condotta nella mattinata odierna nel Foggiano dai Carabinieri del Nil e della Compagnia CC di Manfredonia. Tra le 16 persone colpite dall’ordinanza di misura cautelare due sono cittadini stranieri, Bakary Saidy originario del Gambia e Kalifa Bayo originario del Senegal sono finiti in carcere. Vincenzo De Rosa di Troia, Emanuele Tonti di Foggia e Michele Boccia nato a Nola ma residente a San Giuseppe Vesuviano sono state poste ai domiciliari. Per tutti le accuse sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nei confronti di altri 11 indagati è scattato l’obbligo di presentazione per due volte a settimana presso i Carabinieri e obbligo di dimora nel comune di residenze per Giovanni e Christian Santoro, per Sergio Vitto di Conversano e per Alessandro Santoro di Trinitapoli. Residenti a Foggia gli indagati Alfonso e Giuseppe Calabrese, Saverio Scarpiello di 48 anni. Fra gli indagati compaiono Mario Borrelli nato a San Giorgio in Molara, Rosalba Livrerio Bisceglia nata a Manfredonia e residente a Foggia, Matteo Bisceglia nato a Monte Sant’Angelo ma residente a Manfredonia e Vincenzo Ciuffreda di Monte Sant’Angelo e residente a Foggia. 

Avrebbero utilizzato come manodopera decine di lavoratori africani, per coltivare terreni agricoli di dieci aziende della Capitanata, in condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie e dalla circostanza che essi dimoravano presso baracche e ruderi fatiscenti della baraccopoli dell’ “ex pista” di Borgo Mezzanone. Tra tra gli indagati compare anche Rosalba Livriero Bisceglia, 55anni socia amministratrice di una delle aziende coinvolte nell’inchiesta, che è la moglie del prefetto Michele Di Bari, 62 anni, capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, che in passato è stato prefetto a Vibo Valentia, Modena e Reggio Calabria e viceprefetto a Foggia. “La moglie del prefetto di Bari impiegava nella sua azienda manodopera costituita da decine di lavoratori di varie etnie per la coltivazione dei campi sottoponendo i predetti lavoratori alle condizioni di sfruttamento desumibili anche dalla condizioni di lavoro (retributive, di igiene, di sicurezza, di salubrità del luogo di lavoro) e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie” scrive il Gip del Tribunale di Foggia nell’ordinanza nei confronti degli indagati .

Il Viminale ha comunicato che il prefetto Di Bari “ha rassegnato le proprie dimissioni” a seguito dell’inchiesta della procura di Foggia in cui è indagata la donna. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha reso noto di aver accettato la richiesta di dimissioni. Il prefetto ha così motivato la sua decisione: “In relazione alle notizie di stampa, desidero precisare che sono dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità. Mia moglie, insieme a me, nutre completa fiducia nella magistratura ed è certa della sua totale estraneità ai fatti contestati”.

L’indagine che si è svolta nel periodo intercorso tra luglio e ottobre del 2020. Durante le indagini è stata richiesta l’assoggettamento al controllo giudiziario di dieci aziende agricole riconducibili ad alcune delle persone coinvolte nell’operazione di oggi.  Gli inquirenti avrebbero scoperto ed accertato che un cittadino gambiano di 33 anni – già coinvolto in una operazione anti caporalato nei mesi scorsi -, affiancato da un senegalese di 32 anni, anch’egli domiciliato nell’ex pista, svolgeva il ruolo di “anello di congiunzione” tra i rappresentanti delle dieci aziende agricole del territorio ed i braccianti.

Nell’ordinanza del gip emerge inoltre che Rosalba Bisceglia moglie dell’ormai ex capo del Dipartimento di immigrazione del Viminale, trattava direttamente con Bakary Saidy, uno dei due caporali finiti in carcere nell’inchiesta di Foggia. Nell’ordinanza si legge che Saidy portava nei campi i braccianti dopo averli reclutati “in seguito alla richiesta di manodopera avanzata dalla Livrerio Bisceglia, che comunicava telefonicamente il numero di lavoratori necessari sui campi”. Lavoratori che venivano “assunti tramite documenti forniti dal Saidy che per questo «riceveva il compenso da Livrerio Bisceglia”. Rosalba Livrerio Bisceglie in una intercettazione citata dal gip nell’ordinanza di custodia cautelare rivolgendosi al «caporale» Bakari Saidy gli diceva: “Porta da Nico tutti i documenti. Devi portare prima perché così io devo fare ingaggi… e poi il giorno dopo iniziate a lavorare”.

Alla richiesta delle aziende agricole di braccia di lavoro i due extracomunitari reclutavano i braccianti all’interno della baraccopoli, provvedendo al loro trasporto presso i terreni. Gli stessi extracomunitari che sorvegliavano i braccianti durante il lavoro, pretendendo da ognuno di loro 5 euro per il trasporto e altre 5 euro per avergli trovato un lavoro. Nelle indagini è merso che l’extracomunitario del Gambia si occupava anche di impartire le direttive ai braccianti sulle modalità di comportamento sul posto di lavoro in caso di possibili ispezioni da parte dei Carabinieri. I “caporali” extracomunitari, insieme ai titolari e soci delle aziende avevano messo in piedi un apparato, definito dagli inquirenti “quasi perfetto”, che spaziava dall’individuazione della forza lavoro necessaria per la lavorazione dei campi, al reclutamento della stessa, arrivando al sistema di pagamento.

La retribuzione agli operai era notevolmente lontana ed inferiore da quella prevista dal contratto nazionale del lavoro, nonché dalla tabella paga per gli operai agricoli a tempo determinato della provincia di Foggia. Le buste paga verificate, non. sono risultate veritiere, in quanto all’interno delle stesse venivano indicate un numero di giornate lavorative inferiori a quelle realmente prestate dai lavoratori, senza tener conto dei riposi e delle altre giornate di ferie spettanti. I lavoratori, tra l’altro, non erano stati neanche sottoposti alla prevista visita medica. Il gip del tribunale di Foggia ha anche disposto il controllo di dieci aziende agricole, riconducibili a 10 dei soggetti colpiti da misura cautelare. Il volume d’affari delle aziende coinvolte nell’inchiesta secondo gli inquirenti era di circa 5 milioni di euro.

Rosalba Livrerio Bisceglia, scrive il gip di Foggia nell’ordinanza “è consapevole delle modalità delle condotta di reclutamento e sfruttamento”. che aggiunge. “È emerso che la Livrerio Bisceglia ha impiegato per oltre un mese braccianti reclutati dal Saidy al quale ella si è rivolta direttamenteI Il magistrato aggiunge che la donna, “è consapevole delle modalità delle condotta di reclutamento e sfruttamento, nella misura in cui si rivolge ad un soggetto, quale il Saidy, di cui non può non conoscersi il modus operandi”.

La moglie del prefetto Michele di Bari, continua il documento, “dispone del numero di telefono del Saidy e chiama costui personalmente, si preoccupa, dopo i controlli, di compilare le buste paga, chiama Saidy e non i singoli braccianti per dirgli come e perché si vede costretta a pagare con modalità tracciabili e concorda, tramite Bisceglia Matteo (un altro degli indagato, ndr), che l’importo della retribuzione sarà superiore a quella spettante e che Saidy potrà utilizzare la differenza per pagare un sesto operaio che, evidentemente, ha operato in nero“.

In particolare, viene evidenziato che “i dialoghi sulle modalità di pagamento (successivi all’attività di controllo) costituiscono dati univoci del ruolo attivo dei Bisceglia nella condotta illecita di impiego ed utilizzazione della manodopera reclutata dal Saidy, in quanto rivelano una preoccupazione ed una attenzione per la regolarità dell’impiego della manodopera solo successiva ai controlli”. “Ci sentiamo…domani mattina noi andiamo in banca perché l’Ispettore del Lavoro mi ha detto che non posso fare in altro modo….non posso dare soldi in contanti..perché c’è stata anche l’ispezione… quindi.. vabbene…”. riporta una intercettazione tra Rosalba Bisceglie Livrerio e il «caporale» Bakari Saidy in una intercettazione citata dal gip nell’ordinanza di custodia cautelare. Dialogo aggiunge il gip che nasce “dal tentativo di mettersi d’accordo su come pagare un bracciante che non disponeva di Iban”.

Foggia, blitz anti-caporalato: moglie del prefetto indagata "Sapeva dello sfruttamento". Patricia Tagliaferri l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Rosalba Bisceglia è accusata di aver usato la manodopera. Si dimette il marito, capo del settore Immigrati del Viminale.

Trattati come schiavi, piegati a raccogliere pomodori nei campi anche 13 ore al giorno per pochi spicci e costretti a vivere in condizioni precarie nella baraccopoli di Borgo Mezzanone, a Manfredonia. Vittime dei caporali e di imprenditori senza scrupoli. Tra questi, secondo la Procura di Foggia, anche la moglie del prefetto e capo del Dipartimento per l'immigrazione del ministero dell'Interno, Michele di Bari, che si è subito dimesso. Un blitz scattato lo stesso giorno in cui Papa Francesco si è scagliato contro il caporalato.

Rosalba Bisceglia, indagata con obbligo di firma e di dimora in quanto socia e amministratrice di una delle aziende coinvolte, è accusata di aver utilizzato manodopera procurata dai caporali. Per i pm era «consapevole delle modalità di reclutamento» e delle «condizioni di sfruttamento» a cui venivano sottoposti i braccianti approfittando del «loro stato di bisogno». Con lei sono finiti nei guai i titolari di altre nove imprese, con un volume di affari complessivo di 5 milioni di euro l'anno. Sottoposti a misura cautelare in carcere Kalifa Bayo, senegalese di 32 anni, e Saidy Bakary, gambiano di 33 anni, considerati i mediatori tra le aziende e gli immigrati. Per tre persone il gip ha disposto gli arresti domiciliari, altre 11 sono indagate. Le accuse sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Le indagini, partite dalla situazione di radicata illegalità nelle campagne del foggiano e condotte da luglio a ottobre 2020, hanno portato alla luce un sistema di reclutamento della manodopera: le aziende cercavano forza lavoro e i due extracomunitari si attivavano per cercare i braccianti nella baraccopoli. Provvedevano anche al loro trasporto presso i terreni e a sorvegliarli durante il lavoro. Compiti per i quali pretendevano da ognuno 5 euro per il passaggio e altri 5 per l'attività di intermediazione. In cambio di un salario da fame, come risulta da un'intercettazione tra un caporale e un lavoratore. La paga? «Trentacinque euro al giorno per 6 ore». «Palesemente difforme - scrive il gip - alle tabelle del contratto collettivo nazionale che prevede una somma netta di euro 50.05 per 6.30 ore di lavoro». Il gambiano si occupava anche di dare specifiche direttive ai braccianti sulle modalità di comportamento in caso di ispezione da parte dei carabinieri. Un apparato «quasi perfetto», per i magistrati, che andava dal reclutamento al sistema di pagamento, con buste paga non veritiere, che indicavano un numero di giornate lavorative inferiori a quelle prestate, senza riposi e ferie.

La Procura ritiene che la moglie del dirigente del Viminale non potesse non conoscere il modus operandi del gambiano al quale si era rivolta per trovare i lavoratori. Lo avrebbe fatto per oltre un mese: comunicava il numero degli extracomunitari che le servivano e li assumeva grazie ai documenti forniti dallo stesso caporale. «Porta i documenti e il giorno dopo lavorate», dice in un'intercettazione. Solo dopo i controlli avrebbe mostrato «preoccupazione e attenzione per la regolarità dell'impiego della manodopera». Il suo legale, Gianluca Ursitti, è certo che sarà tutto spiegato: «I fatti, peraltro circoscritti nel tempo e nella consistenza, saranno al più presto chiariti nelle sedi competenti». Patricia Tagliaferri

Moglie indagata. Si dimette capo immigrazione del Viminale. Francesca Galici il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. 16 indagati dai carabinieri nell'ambito di in un'indagine contro il caporalato a Foggia: tra loro la moglie di un alto funzionario del Viminale. Blitz delle forze dell'ordine a Manfredonia e in altri comuni della provincia di Foggia. La moglie del capo del Dipartimento per le libertà civili e immigrazione del Viminale, Michele di Bari, è tra le persone indagate dai carabinieri nel corso di un'indagine per caporalato. Cinque persone sono state arrestate e due di loro, extracomunitari, sono state tradotte in carcere. Di Bari ha già rassegnato le sue dimissioni dall'incarico al ministero degli Interni.

Le forze dell'ordine hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di 16 persone (due in carcere, tre ai domiciliari e undici tra obblighi di dimora e obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria), tra cui anche la moglie di Di Bari. Per tutti le accuse sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nel corso delle indagini, da luglio a ottobre 2020, gli inquirenti avrebbero scoperto un sistema di selezione, reclutamento, utilizzo e pagamento della manodopera messo in piedi dai caporali e proprietari delle aziende. Il ministro Luciana Lamorgese ha accettato le dimissioni dell'alto funzionario, già prefetto a Reggio Calabria.

L'inchiesta va avanti da tempo. Gli inquirenti nel corso dei mesi hanno messo sotto la lente d'ingrandimento le condizioni di sfruttamento cui erano sottoposti numerosi braccianti extracomunitari provenienti dall'Africa. Venivano impiegati nelle campagne della Capitanata per i lavori nei campi ed erano tutti "residenti" nella nota baraccopoli di Borgo Mezzanone. Questo insediamento ospita circa 2000 persone, che vivono in condizioni igieniche e sanitarie disumane.

I braccianti venivano costretti a lavorare nei campi di pomodori dalla mattina alla sera alla misera cifra di 5€ per ogni cassone riempito. Ovviamente, tutti i lavoratori erano impiegati nei campi senza che avessero a disposizione i dispositivi di protezione e le minime tutele previste dalla legge. Venivano costantemente controllati nello svolgimento del lavoro e non risultavano sottoposti alle prescritte visite mediche e venivano trasportati sui campi con mezzi inidonei, "in pessime condizioni d'uso, pericolosi per la circolazione stradale e per la incolumità degli stessi lavoratori".

La bufera si è ora abbattuta sul Viminale. In una nota della Lega si legge: "Sbarchi clandestini raddoppiati, 100.000 arrivi negli ultimi due anni, un'Europa su questo tema assente e lontana. E oggi le dimissioni del capo dipartimento dell'Immigrazione. Disastro al Viminale, il ministro riferisca immediatamente in Parlamento".

Anche dall'opposizione si alza la voce contro i vertici del ministero dell'Interno. "Non basta che il capo del dipartimento per le Libertà civili e l'Immigrazione del Viminale si dimetta dal proprio incarico. Dopo anni di continue criticità, serve una vera svolta per mettere la parola fine alla scandalosa gestione dei dossier in capo al ministero dell'Interno che ha in Lamorgese la principale responsabile", ha tuonato Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera. FdI ora chiede che anche il titolare del Viminale si assuma le sue responsabilità: "Dall'immigrazione alla sicurezza, gli errori e la superficialità del ministro evidentemente riguardano anche gli uomini da lei confermati in ruoli chiave per la gestione del dicastero. Lamorgese si dimetta o sia il presidente del Consiglio Draghi a rimuoverla quanto prima".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Imbarazzo al Viminale per l'addio di Di Bari. E la Lega: "Riferisca subito in Parlamento". Chiara Giannini l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il Carroccio: "Il fenomeno si contrasta fermando gli sbarchi, 100mila in due anni". Fdi: "La ministra lasci". Ma lei: "Fu nominato da Salvini". È bufera sul ministro dell'Interno Luciana Lamorgese dopo le dimissioni del capo dipartimento dell'Immigrazione Michele Di Bari, la cui consorte risulta indagata nell'ambito dell'inchiesta di Foggia sul caporalato. La Lega non perde tempo e chiede che la titolare del Viminale «riferisca immediatamente in Parlamento», ricordando gli «sbarchi clandestini raddoppiati, i 100mila arrivi negli ultimi due anni, un'Europa su questo tema assente e lontana». I media si affrettano a ricordare che il prefetto, che comunque risulta estraneo ai fatti, fu nominato da Matteo Salvini quando ricopriva l'incarico di ministro, ma poco importa, perché i fatti risalgono al 2020, ovvero a quando la Lamorgese lo aveva già sostituito. E la stessa, che secondo Openpolis ha nominato dall'inizio del suo mandato la bellezza di 88 prefetti su 105, si è ben guardata dal rimuoverlo dal ruolo che ha ricoperto fino a ieri.

Il sottosegretario all'Interno Nicola Molteni spiega al Giornale: «Non voglio entrare nell'ambito dell'inchiesta, ringrazio i carabinieri e le Forze dell'ordine che hanno partecipato all'operazione, ma tengo a dire che il caporalato si contrasta sì con la legge 199 del 2016 votata anche da noi. Si contrasta con i tavoli appositi, con iniziative specifiche (la Lamorgese ha anche nominato Roberto Maroni a capo della Consulta per l'attuazione del Protocollo d'intesa per la prevenzione e il contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura e del caporalato, ndr), ma soprattutto si contrasta con il blocco dell'immigrazione clandestina, perché più migranti irregolari ci sono, più è facile arrivare a situazioni di questo tipo». E ricorda che sotto l'amministrazione Lamorgese, nel 2020 sono arrivati «34mila immigrati, altri 63mila quest'anno, più 5mila afghani». Numeri da record che danno da pensare.

Il Viminale ieri si è limitato a dare comunicazione dell'accettazione delle dimissioni di Di Bari da parte del ministro, che però non parla. I bene informati dicono che all'interno della sede del dicastero la Lamorgese, già turbata dai continui attacchi della Lega, dalle polemiche per l'attacco alla Cgil durante una manifestazione No Pass e dalle critiche per la mala gestione dell'ordine e della sicurezza pubblica durante il rave nel Viterbese, si sia trincerata dietro un preoccupante silenzio. Perché ora teme che la politica torni a chiedere le sue dimissioni.

«Chiediamo che il ministro dell'Interno riferisca immediatamente in Parlamento sul tema immigrazione - ha detto Salvini -, anche perché l'ultima missione europea è stata assolutamente fallimentare. L'Europa quindi non ci ascolta, gli sbarchi raddoppiano, i capi dipartimento si dimettono. Ci venga a raccontare che intenzioni ha». Sulla stessa linea LeU, con il senatore Francesco Laforgia che spiega: «Rispetteremo come sempre lo svolgimento delle indagini e il lavoro dei magistrati, nel frattempo però ci aspettiamo che la ministra dell'Interno venga in Aula a riferire sulla vicenda». La richiesta di dimissioni arriva però da Fratelli d'Italia, con il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida che chiarisce: «Dall'immigrazione alla sicurezza, gli errori e la superficialità del ministro evidentemente riguardano anche gli uomini da lei confermati in ruoli chiave per la gestione del dicastero. Lamorgese si dimetta o sia il presidente del Consiglio Draghi a rimuoverla quanto prima».

A difenderla resta come sempre il Pd, sempre più vicino alla titolare del dicastero dell'Interno, con Dario Stefàno, presidente della commissione Politiche europee al Senato che spiega: «Tirare in ballo la ministra Lamorgese per un'inchiesta che vede coinvolta la moglie di un dirigente del Viminale è davvero troppo. Questo è il garantismo delle destre italiane?».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dei barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.

Dalle politiche migratorie alle dimissioni: chi è il funzionario nella bufera. Francesco Curridori il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Michele Di Bari, capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l'Immigrazione, si è dimesso oggi dopo che sua moglie è stata arrestata nell'ambito di un'inchiesta sul caporalato. La notizia di un blitz delle forze dell'ordine contro il caporalato in provincia di Foggia scuote il Viminale. Michele Di Bari, capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l'Immigrazione, dipendente del Ministero dell'Interno, si è dimesso dopo che sua moglie è risultata tra la 16 persone arrestate.

Di Bari, classe 1959, nativo di Mattinata, in provincia di Foggia, vanta una lunga carriera come prefetto della Repubblica. Laureato con lode in giurisprudenza, consegue poi il diploma del corso di studio per aspiranti segretari comunali presso la LUISS e frequenta il corso biennale di "Management in sanità" presso la Scuola di Direzione Aziendale dell'Università Bocconi di Milano. In seguito si dedica al corso di perfezionamento su "Cittadinanza europea ed amministrazioni pubbliche", organizzato dalla Scuola Superiore dell'Amministrazione dell'Interno in collaborazione con l'Università degli Studi Roma Tre. Nel 1990 inizia la sua carriera prefettizia e, dopo undici anni, viene promosso viceprefetto. Diventa, poi, capo di Gabinetto e viceprefetto vicario presso la prefettura di Foggia. Nel corso della sua carriera ricopre numerosi incarichi, tra cui quelli di vice Commissario Governativo della nuova Provincia di Barletta-Andria-Trani e di Commissario ad acta per l'esecuzione di provvedimenti giurisdizionali del Tar - Puglia. Svolge il compito di commissario straordinario di numerosi comuni. Nel 2007 viene nominato esperto di sanità e politiche sociali dalla Presidenza del Consiglio, mentre nel 2010, dopo esser diventato prefetto, le funzioni di vice commissario del Governo nella Regione Friuli Venezia Giulia. Dal 2012 è prefetto di Vibo Valentia per un anno, prima di passare a Modena, dove lavora dal 2013 al 2016 e, infine, va a Reggio Calabria. Qui vi rimane fino al 14 maggio 2019 quando viene nominato capo del dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione. Oggi sono arrivate le dimissioni, subito accettate dal titolare del Viminale.

Nel corso di un'intervista rilasciata lo scorso giugno al quotidiano cattolico Interris, Di Bari definiva così il modello d'integrazione italiano: “Quello di costituire uno strumento di responsabilizzazione nei confronti del territorio e della comunità di residenza, che sia il principale anticorpo in grado di prevenire e neutralizzare fenomeni di radicalizzazione". L'integrazione, a suo dire, è un'opportunità: "L’Italia - aveva dichiarato -, storico crocevia di popoli e culture, ne è testimone privilegiato, come dimostrato dalle sue ricchezze artistiche e urbanistiche, realizzate nel corso dei secoli. Nel corso degli ultimi 50 anni il nostro Paese, che ha visto emigrare 60 milioni di Italiani in tutto il mondo, è diventato meta di migranti, intenzionati a migliorare le proprie condizioni di vita.”

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono

Da “Controcorrente” il 12 dicembre 2021.

«Io ho un’azienda di ortaggi e cerealicola, non ho bisogno di manodopera straniera. Il giorno prima che si iniziasse ho richiesto i documenti a una persona che conoscevo per tagliare l’uva». «Se questa persona era uno straniero? Sì, mi avevano passato questo numero, questo aveva persone per raccoglierle. Le ho assunte regolarmente». 

Questa sera in prima serata, su Retequattro a “Controcorrente – Prima serata”, andrà in onda l’intervista esclusiva a Rosalba Livrerio Bisceglia, indagata nell'inchiesta per caporalato a Foggia. Imprenditrice agricola, è la moglie del prefetto Michele Di Bari, capo del dipartimento per l’Immigrazione, che si è dimesso dopo quanto accaduto. La donna gestisce un'azienda agricola in provincia di Foggia. 

G: Signora Bisceglia, sono Marco Sales, Controcorrente Mediaset, volevamo soltanto capire come si difendeva dalle accuse di caporalato? Ce lo può dire?

R: «Io ho un’azienda di ortaggi e cerealicola, non ho bisogno di manodopera straniera. Non ho cose che si tagliano con le mani all’infuori di un piccolo vigneto dove si raccoglie l’uva. L’uva 2020, il giorno prima che si iniziasse ho richiesto i documenti a una persona che conoscevo per tagliare l’uva». 

G: Questa persona però era uno straniero, un caporale?

R: «Sì, mi avevano passato questo numero, questo aveva persone per raccoglierle. Le ho assunte regolarmente».

G: Secondo gli inquirenti però lei parlava con questo caporale e non direttamente con i lavoratori dei campi, anche rispetto ai pagamenti. Perché?

R: «Perché sono tanti e quindi quando è così c’è sempre uno che viene e fa un lavoro di sei giorni. Penso che tutto questo verrà fornito nella sede giusta» 

G: È un paradosso, considerato il lavoro di suo marito.

R: «Vi ringrazio…»

G: Lei si trova proprio in una posizione più delicata. Avrebbe dovuto parlare direttamente con i lavoratori.

R: «Sicuramente è stata una superficialità. Adesso però non mi sento di aver fatto una grande...la prego adesso mi lasci chiudere...» 

G: Soltanto una cosa signora, perché una persona straniera? Cioè, non c'erano altri interlocutori? Perché di fatto quello era un caporale e dalle carte lo si legge che quella è una persona che chiedeva cinque euro a viaggio.

R: «La lascio, mi scusi... »

La moglie del prefetto. "È stata una superficialità". Chiara Giannini il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. Caporalato, la donna indagata: "Assunti solo per raccogliere l'uva". Il conflitto d'interessi col marito. Rosalba Livrerio Bisceglia, titolare dell'omonima azienda agricola, la moglie del prefetto Michele Di Bari, ex capo del Dipartimento per l'immigrazione del Viminale, si difende dalle accuse che l'hanno portata a essere indagata insieme ad altre 15 persone nell'inchiesta sul caporalato in provincia di Foggia. Ieri sera la donna ha parlato a «Controcorrente - Prima serata», su Rete 4, i cui giornalisti sono riusciti a intervistarla. «Io - ha spiegato - ho un'azienda di ortaggi e cerealicola, non ho bisogno di manodopera straniera. Non ho cose che si tagliano con le mani all'infuori di un piccolo vigneto dove si raccoglie l'uva. L'uva 2020, il giorno prima che si iniziasse ho richiesto i documenti a una persona che conoscevo per tagliare l'uva».

E ha proseguito: «Mi avevano passato questo numero, questo aveva persone per raccoglierle. Le ho assunte regolarmente».

Secondo gli inquirenti la persona alla quale la Livrerio Bisceglia si era rivolta era il caporale Bakary Saidy, che si occupava di procurare la manodopera tra gli extracomunitari che vivevano nella baraccopoli di Borgo Mezzanone. Secondo l'ordinanza del gip, in effetti, la donna trattava direttamente con Saidy anche per i pagamenti ai braccianti. «Perché - ha spiegato a chi l'ha intervistata - sono tanti e quindi quando è così c'è sempre uno che viene e fa un lavoro di sei giorni. Penso che tutto questo verrà fornito nella sede giusta. Sicuramente è stata una superficialità. Adesso - ha concluso rivolgendosi all'intervistatore - però non mi sento di aver fatto una grande... La prego adesso mi lasci chiudere».

Secondo quanto risulta dalle intercettazioni degli inquirenti, tra i sedici indagati c'era persino chi ammetteva candidamente che gli africani venivano fatti viaggiare nel portabagagli delle auto per evitare i controlli. Molti sapevano che le verifiche potevano avvenire, per cui cercavano di posticipare l'orario di lavoro. Una prassi ormai consolidata, ma che consentiva di far risparmiare agli imprenditori un sacco di soldi, vista la misera paga che veniva data agli extracomunitari, molti dei quali provenienti da accampamenti illegali o alloggi di fortuna, per lo più dal ghetto di Borgo Mezzanone. Queste persone venivano retribuite con poco più di 5 euro all'ora per raccogliere pomodori, frutta e olive.

Dei 16 indagati, 2 sono in carcere, 3 ai domiciliari e 11 hanno un provvedimento di obbligo di dimora e presentazione alla polizia giudiziaria.

L'indagine Terra rossa dei carabinieri ha portato a scoprire come caporali, titolari e/o soci delle aziende avevano messo in piedi un apparato quasi perfetto, che andava dall'individuazione della forza lavoro per la lavorazione dei campi, al reclutamento della stessa, fino al sistema di pagamento.

Adesso si dovrà anche capire il perché il prefetto di Bari abbia mantenuto quel ruolo al Dipartimento immigrazione del Viminale quando la moglie, in chiaro conflitto di interessi, utilizzava extracomunitari immigrati per la raccolta dei prodotti della terra.

Al Sud due clandestini su dieci sfruttati in nero per 5 euro all'ora. Chiara Giannini il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. Degli oltre 60mila migranti arrivati da gennaio solo 2.200 sono stati rimpatriati. Gli altri delinquono, scappano o si arrangiano. Almeno il 20 per cento degli stranieri irregolari lavora al Sud come bracciante al nero. Un dato che emerge da un rapido calcolo ottenuto analizzando i dati dei vari rapporti annuali. In due anni sono approdati in Italia circa 100mila immigrati clandestini: 34mila nel 2020, 63.062 dal 1 gennaio 2021 a oggi, più 5mila afghani trasportati dalle nostre Forze armate durante l'emergenza in quel Paese. Ma quanti di questi lavorano e quanti sono stati rimpatriati? Le risposte sono poco confortanti. Partiamo dal numero di coloro che sono stati rispediti nei Paesi di provenienza. Sono stati 2.231 da inizio anno al 15 novembre scorso, ovvero appena il 49,7 per cento dei migranti trattenuti nei centri di rimpatrio (4.489). Nel 2020 furono il 50,89 per cento. Tra i motivi che ne hanno impedito il rimpatrio ci sono l'arresto, l'allontanamento arbitrario, la mancata identificazione o la mancata convalida del fermo da parte dell'autorità giudiziaria allo scadere del termine.

Secondo i dati del Dipartimento della pubblica sicurezza elaborati dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ed esposti durante un recente workshop, su «2.231 rimpatri di quest'anno la maggioranza (71,8%) sono stati effettuati verso la Tunisia con 1.602 persone, 259 verso l'Egitto, 142 verso l'Albania, 53 verso la Romania, 30 verso la Georgia».

La maggior parte di chi resta e richiede asilo viene ospitata in uno dei 5mila centri di accoglienza presenti sul territorio nazionale che hanno, secondo quanto riportato sul sito del Viminale, una capienza totale di circa 80mila posti. Queste persone rimangono nei centri, mantenute dallo Stato italiano, per il tempo necessario «per le procedure di accertamento dei relativi requisiti, diversamente, vengono trattenuti in vista dell'espulsione». Espulsione che non avviene quasi mai, viste le ingenti difficoltà. Solo il 10/15 per cento alla fine ottiene la protezione internazionale. Peraltro, di recente il governo Draghi ha aumentato la dotazione finanziaria dei capitoli di spesa necessari a sostenere le politiche di accoglienza per i richiedenti asilo. Fino al 2023 potranno essere spesi sino a «100 milioni di euro per rispondere ai bisogni di chi entra nel Paese e richiede protezione».

Insomma, i clandestini gravano sulle spalle degli italiani. Una volta ottenuta o meno la protezione internazionale, c'è chi si cerca un lavoro. E può accadere come a Foggia, dove centinaia di migranti irregolari vengono sfruttati dai caporali a fronte di un guadagno di non più di 5 euro all'ora per raccogliere frutta o verdura. Un sistema che porta solo degrado, perché laddove non si sia in grado di bloccare l'immigrazione clandestina, si creano inevitabili sacche di criminalità, con gente che bivacca, delinque, si arrangia come può non rispettando le regole. Una situazione vergognosa in quello che dovrebbe essere un Paese civile e che vede costrette le Forze dell'ordine a un super lavoro per bloccare comportamenti illeciti.

Secondo un recente rapporto governativo, la «popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2021 ammontava a 5,036 milioni. Rispetto al 2020, è rimasta sostanzialmente stabile (-4 mila; -0,1%)». A questa, però, vanno aggiunti i circa 600mila irregolari non censiti, molti dei quali lavorano al nero come braccianti nei campi (al Sud almeno il 20 per cento), come badanti o colf. Gli occupati stranieri regolari in Italia, invece, sono attualmente «2,3 milioni, circa il 10% del totale».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dei barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.

Valeria D'autilia per “la Stampa” il 12 dicembre 2021. Una realtà agricola da generazioni, guidata da tre sorelle. Nel cuore del Parco del Gargano, tra uliveti, vigneti e distese di grano. «I campi vengono coltivati rispettando l'ecosistema ambientale, valorizzando le piante autoctone e tutelando la natura del territorio» si legge sul sito dell'azienda agricola Bisceglia. Ma per la procura di Foggia, che ha aperto un'inchiesta per caporalato, è qui che si annidano le pieghe dello sfruttamento. E nel mirino finisce una delle socie: Rosalba Livrerio Bisceglia, 55 anni, moglie del dimissionario capo del Dipartimento Libertà civili ed immigrazione del Viminale Michele Di Bari. Il prefetto, alla notizia del coinvolgimento della donna, ha rassegnato subito le sue dimissioni, accolte dal ministro dell'Interno Lamorgese. Poi si è detto «dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità», sottolineandone la «totale estraneità ai fatti contestati». La prossima settimana si attende l'interrogatorio di garanzia. Livrerio Bisceglia è indagata (con obbligo di dimora) insieme ad altre dieci persone, mentre cinque- tra caporali e imprenditori- sono state arrestate. Dieci in tutto le aziende coinvolte, per un volume d'affari annuo di 5 milioni. Ai lavoratori andavano circa 35 euro al giorno: una parte era per il caporale. «Si sente la coscienza a posto» fa sapere il suo avvocato, Gianluca Ursitti, che sta preparando la documentazione per la difesa, mentre ci tiene a specificare che, in questi ettari di terra, la maggior parte del lavoro è meccanizzato e l'impiego di manodopera, di conseguenza, marginale. «Abbiamo tutti i pagamenti tracciati. Per noi questa è condizione già necessaria e sufficiente per escludere la sussistenza del reato». Stando alle accuse, non si rispettavano i contratti: i lavoratori avrebbero ricevuto «la somma di 5,70 euro all'ora e il pagamento avveniva anche conteggiando il numero di cassoni raccolti». E poi niente straordinario retribuito, né servizi igienici idonei o pause (ad eccezione del pranzo). Ma ci sarebbe dell'altro: venivano impiegati senza dispositivi di sicurezza e «spesso non provvedendo alla loro assunzione formale e non controllando che i documenti corrispondessero effettivamente ai braccianti poi presenti sui campi». Proprio qui, erano sotto il controllo serrato del loro sfruttatore, Bakary Saidy. «Porta da Nico tutti i documenti» si legge nelle intercettazioni della Livrerio Bisceglia. «Devi portare prima perché così io devo fare ingaggi...e poi il giorno dopo iniziate a lavorare» dice a Saidy. Per gli inquirenti l'imprenditrice era «consapevole delle modalità delle condotte di reclutamento e sfruttamento». Stando alle carte, le braccia venivano assoldate dal caporale nel ghetto di Borgo Mezzanone, in base alla manodopera richiesta dalla moglie del prefetto. Poi «venivano controllati e gestiti» da Matteo Bisceglia e «assunti tramite documenti forniti dal Saidy che riceveva il compenso da Livrerio Bisceglia». Soldi che il caporale distribuiva tra i migranti, facendosi pagare 5 euro per l'attività di intermediazione. «Noi, senza documenti, siamo andati via» racconta un bracciante, informando il suo superiore dell'ispezione dei carabinieri nell'azienda. Per il gip la conferma che alcuni di loro non erano assunti regolarmente e che erano fuggiti, proprio per eludere i controlli. In un'altra conversazione, è Bakary a dare indicazioni su come muoversi: «Quando andate al lavoro, portate la macchina in un posto lontano, non vicino a voi». Perché «quando il problema viene, nessuno si salva». Era settembre dell'anno scorso.

L’anti-ghetto di Foggia che libera i braccianti dal racket dei caporali. Fondata da un senegalese, dedicata al profeta della dignità africana, Casa Sankara accoglie e prepara a trovare un lavoro regolare. Mentre l’ennesima sanatoria arranca tra costi insostenibili e burocrazia. Marialaura Iazzetti su L'Espresso l'11 agosto 2021. A Casa Sankara abitano 500 persone. Il nome della cooperativa di San Severo, in provincia di Foggia, è ispirato a Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso morto nel 1987: un leader rivoluzionario che lottò per liberare l’Africa dal neocolonialismo. Il suo volto è dipinto sul muro di uno dei prefabbricati di Casa Sankara. I suoi occhi ti guardano, ti rapiscono. Nel ritratto il braccio è alzato, il pugno chiuso. Bisogna ribellarsi, diceva. Spiegare cos’è Casa Sankara non è facile, soprattutto per chi non la vive quotidianamente. Può essere utile partire dai motivi per cui questa comunità è nata: «Noi vogliamo distruggere i ghetti, i “non luoghi” in cui chi lavora la terra o ha altri impieghi di fortuna si rifugia per dormire, lavarsi e sopravvivere, e salvare le persone che ci lavorano dallo sfruttamento», racconta Mbaye Ndiaye, uno dei padri fondatori. La sua storia si intreccia con quella di Casa Sankara. È stato Mbaye a battersi fin dall’inizio per creare una realtà che potesse aiutare i migranti a uscire dall’illegalità e dalla miseria: «Chi arriva qui trova un luogo dove potersi rifugiare. Gli offriamo un posto dove dormire, lo aiutiamo a regolarizzarsi e a cercare un lavoro». Secondo il ministero delle Politiche agricole sono 150.000 i lavoratori irregolari impiegati nei campi. Vivono in condizioni disumane, soffocati da reti di sopraffazione ben radicate. Lavorano la terra e si riposano nelle baracche allestite nei ghetti, perché non possono permettersi di stare altrove. Ma le paghe sono così basse che alla fine finiscono per indebitarsi lo stesso: nei ghetti si pagano 50 centesimi per il bagno, 5 euro per mangiare, 10 per comprare un rapporto sessuale. Tutto ha un prezzo. In provincia di Foggia, dove si concentra gran parte della produzione italiana di pomodori, ci sono diverse realtà di questo tipo. Se ne parla solo quando c’è una rivolta o quando qualcuno, stroncato dalla fatica, perde la vita. Il 24 giugno è morto Camara Fantamadi, un ragazzo di 27 anni originario del Mali: zappava la terra nelle campagne di Tuturano, vicino Brindisi. Casa Sankara è nata a pochi chilometri dal ghetto di Rignano, quello che era stato smantellato a marzo del 2017 ed è poi rinato. «Io quel ghetto l’ho visto. L’ho visitato diverse volte con un’associazione di volontariato: ho parlato con le persone che ci vivevano, ho ascoltato i loro racconti, ho capito cosa gli facevano e come li trattavano», dice Mbaye. Non era lì per raccogliere pomodori ma per portare assistenza. «Dal Senegal sono arrivato in Italia legalmente. Lavoravo in un’azienda milanese, poi quando mi è scaduto il contratto ho perso tutto: il permesso di soggiorno e la possibilità di trovare un’altra occupazione», racconta Mbaye. In Italia, con la legge Bossi-Fini, funziona così: puoi avere un impiego regolare solo se hai già un permesso di soggiorno, altrimenti sei destinato a lavorare in nero. Mbaye diventa un venditore ambulante. La sua vita cambia. «Volevo uscire da quella condizione a tutti i costi», dice. Nel 2009 cerca di rientrare nella sanatoria predisposta dall’ultimo governo Berlusconi, ma viene truffato da un avvocato che gli chiede più di mille euro per aiutarlo a preparare i documenti necessari alla regolarizzazione. I raggiri e le estorsioni in questi casi capitano spesso; episodi simili si sono verificati anche con l’ultimo provvedimento di emersione introdotto dall’ex ministra per l’Agricoltura, Teresa Bellanova. Mbaye decide di denunciare l’avvocato che l’aveva ingannato e si rivolge all’associazione Libera di Don Ciotti. Viene ascoltato, aiutato e indirizzato a un’altra organizzazione che si occupa di offrire supporto a chi lavora nei campi del Foggiano. È a quel punto che Mbaye entra nel ghetto di Rignano. Incontrando gli stagionali pagati a cottimo e malnutriti, Mbaye capisce che l’unico modo per assistere realmente queste persone è portarle via da quell’inferno: «Non basta dargli un pasto caldo e un luogo dove dormire. Bisogna mostrargli un’alternativa, far in modo che in quel ghetto non mettano più piede». Mbaye ne è convinto, diventa la sua missione. Decide di creare un luogo dove poter dare accoglienza a chi fugge dallo sfruttamento. Fonda un’associazione “Ghetto out” e prende in affidamento una struttura abbandonata: in quel terreno, il 27 luglio del 2013, nasce Casa Sankara. La comunità cresce anno dopo anno: aumentano le stanze e gli ospiti. «Eravamo pochi, ora siamo centinaia», ripete fiero. Al telefono la sua voce è squillante, parla piano scandendo le parole per paura di non essere compreso. Si sente quanto sia legato alla realtà che ha costruito. «All’inizio era difficile convincere le persone a lasciare i ghetti, non credevano fosse possibile una vita diversa. Avevano paura di perdere quel poco che avevano. Dopo, quando hanno visto che non volevamo prenderli in giro e che farsi aiutare era possibile, sono corsi da noi». A Casa Sankara si coltiva: ci sono 16 ettari di terra da poter utilizzare. Chi vuole, torna nei campi, ma questa volta da uomo libero. «Abbiamo iniziato con la canapa quattro anni fa, poi siamo passati ai legumi invernali e alla fine abbiamo scelto di dedicarci alla raccolta di pomodori», racconta Mbaye. Il marchio è stato registrato l’anno scorso con il nome di “Riaccolto”, sui barattoli la ‘i’ è volutamente cancellata per ricordare a chi compra questo prodotto le condizioni dei braccianti “invisibili” pagati 3 euro all’ora. Le lettere della parola “Riaccolto” significano anche: Riscatto, Impegno, Accoglienza, Cooperazione, Condivisione, Occupazione, Legalità, Trasformazione e Opportunità. Nelle campagna di Casa Sankara oggi lavorano una quarantina di ragazzi e ragazze. Il progetto ha avuto il sostegno della Regione Puglia e del governatore del Pd, Michele Emiliano. A Casa Sankara si dorme, si mangia e si cresce insieme. «Noi ospitiamo le persone per poi prepararle a una vita autonoma». Chi arriva viene messo in contatto con gli uffici di collocamento o indirizzato verso le aziende che cercano lavoratori; vengono offerti contratti regolari con stipendi dignitosi. Mbaye ha costruito una realtà dove viene realizzato quello che per legge dovrebbe fare lo Stato: dare una possibilità di integrazione, sfruttare l’immigrazione affinché diventi una risorsa. «Casa Sankara non è una casa, ma un appoggio. Noi mettiamo le persone in condizione di poter assolvere ai propri doveri. L’immigrazione non deve essere alle spalle dello Stato». Integrare non vuol dire soltanto garantire un permesso di soggiorno: regolarizzare un migrante senza aiutarlo a uscire dallo sfruttamento e dalla miseria non serve a molto. Per rendere una persona libera bisogna cambiare le condizioni di lavoro che lo portano allo sfruttamento. Se non hai un’alternativa al lavoro a cottimo, ai turni di 12 ore consecutive e alle paghe in nero, avere un permesso di soggiorno non incide particolarmente. «Quando vivi in un ghetto ti pieghi a quel mondo, ti arrendi all’idea di non poter aspirare a nulla di diverso», dice Mbaye. Anche per questo motivo, forse, i risultati della sanatoria introdotta dall’ultimo governo Conte non sono stati quelli sperati. Pochi braccianti hanno presentato i documenti richiesti per la regolarizzazione e tra questi, per adesso, un numero ridotto di persone è riuscito ad accedere ai permessi di soggiorno. Per Mbaye «i costi a carico del datore di lavoro e del migrante irregolare erano troppo alti». Le domande potevano essere depositate, infatti, o dal dipendente che fino a quel momento aveva avuto un impiego irregolare o dal titolare: in un caso bisognava versare un contributo di 180 euro, nell’altro di 500. Queste spese hanno disincentivato moltissimo sia i datori di lavoro sia i dipendenti. Per chi vive in un ghetto 180 euro sono una risorsa difficile da accumulare. Alla sfiducia si è aggiunta la lentezza. Secondo i dati raccolti dall’associazione “Ero Straniero” su più di 200.000 richieste presentate, la regolarizzazione è stata concessa a circa 11.000 persone. Le difficoltà sono burocratiche, prevalentemente: le procedure devono essere esaminate dalle prefetture che lamentano poco personale. “Ero Straniero” calcola che con i ritmi attuali a Milano serviranno più di 30 anni per portare a termine la valutazione di tutti i documenti ricevuti. Le speranze dell’ex ministra Teresa Bellanova sono andate disattese, il governo intendeva dare un’opportunità ai braccianti, ma per chi sopravvive nei ghetti è cambiato poco. Da tempo le associazioni della società civile che si occupano di migrazione e sfruttamento ribadiscono l’importanza di strutturare una rete che favorisca l’integrazione, quella vera. Potrebbe essere utile avere tante realtà come Casa Sankara, diffuse sul territorio e supportate dalle istituzioni: come i vecchi centri di accoglienza (gli Sprar) gestiti da diversi enti locali, quelli che i decreti sicurezza voluti dal leader della Lega, Matteo Salvini, hanno abolito e che sono stati reintrodotti dal secondo governo Conte. La riforma del 2020 ha riaperto queste strutture ai richiedenti asilo e ha stabilito nuovamente qual è l’obiettivo a cui aspirare: l’inserimento nel tessuto sociale locale delle persone accolte. Secondo i dati elaborati dal ministero dell’Interno, nel 2020 i progetti avviati erano 794 in tutta Italia. L’obiettivo è continuare a diffondere capillarmente centri di questo tipo. Realtà in cui i migranti non devono essere solo “migranti” ma persone con desideri, bisogni e prospettive. A un convegno sul caporalato qualche anno fa Mbaye ha fatto notare ai presenti che per ore tutti avevano parlato in nome dei migranti, ma nessuno aveva pensato di interpellarli direttamente. A Casa Sankara i discorsi subalterni vengono scardinati.

Da "lanazione.it" il 10 luglio 2021. Dieci ore di lavoro, a volte anche dodici. Pagati 3 o 4 euro all’ora. Raramente si sale fino a 6. Trasportati su carri bestiame moderni, a motore e con le ruote ma pur sempre di mezze carrette si tratta. Uomini e donne, spesso di colore perché nordafricani, o dello ShriLanka. Sono i braccianti della Maremma addetti alla raccolta di pomodori, meloni, angurie, ma anche uva (a settembre) e olio a ottobre. Buona parte di loro lavora a nero: sono sfruttati dai cosiddetti ‘caporali’, imprenditori senza scrupoli di cui anche la provincia di Grosseto non è priva. Si stima siano in numero variabile tra 135 e 200, i caporali. Lo si calcola sulla base di un’altra stima, quella, appunto, relativa ai lavoratori "invisibili": secondo i sindacati sono in media 4mila a stagione, ma tra agosto e settembre possono arrivare anche a 5mila. E siccome una "squadra di raccolta" mette insieme tra le 20 e le 30 persone, ecco che il conto dei "caporali" torna tra le 135 e le 200 unità. Questi numeri sono forniti dagli operatori del Sipla, il progetto nazionale che ha a capofila Communitas e Arci e che ha aperto anche a Grosseto uno sportello. Sipla sta per "Sistema integrato di protezione dei lavoratori in agricoltura". In pratica gli operatori aiutano i braccianti a orientarsi sui loro diritti e a risolvere i problemi contingenti che il loro status comporta. Trovare un alloggio, per esempio, è uno dei più gravi perché sono in pochi coloro che vogliono affittare casa a lavoratori stagionali così precari. E spesso chi lo fa è perché poi chiede una contropartita: magari proprio quella di lavorare nel campo a pochi spicci. Sri Lanka, Tunisia e Marocco, sono i principali Paesi di provenienza dei braccianti nella Maremma. Ci sono poi comuni come Montieri e Monterotondo Marittimo che, dagli ultimi dati Istat, hanno una forte componente straniera, superiore al 25% rispetto agli autoctoni e quasi due terzi della popolazione migrante residente proveniente dalla Macedonia del Nord. I cittadini del Nord Africa sono per lo più stanziali, mentre gli srilankesi e i pakistani arrivano nelle aree agricole solo nel momento dell’occupazione. I primi si spostano fra il Sud Italia e la Maremma, i secondi hanno una mobilità che li porta a tornare nel Paese di origine una volta terminata l’occupazione. E non c’è soltanto il "lavoro nero" in provincia di Grosseto. Ma anche quello ‘grigio’: ovvero un rapporto non del tutto regolare che vede la presenza di un contratto e di una busta paga in cui, però, compaiono solo poche giornate rispetto a quelle realmente lavorate. Oppure capita che le giornate lavorate siano segnate tutte, ma che il datore di lavoro obblighi il bracciante a rifondere in nero parte di quanto percepito, pena non essere più chiamato al lavoro. 

Il caso. Drogati per lavorare nei campi, a Latina uomini usati come cavalli. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 28 Maggio 2021. Uomini come cavalli, e non che ai cavalli si possa fare di tutto, solo per costruire l’immaginario, magari trasformarlo in un film. Quel film è l’uomo chiamato cavallo: John Morgan si diletta in pieno west a una aristocratica battuta di caccia, i Mano Gialla, tribù della grande famiglia Sioux lo catturano e il capo fa dono della preda alla propria madre che lo trasforma in una bestia da soma. Fosse vero quello che si dice accaduto a Sabaudia, un terzetto di professionisti si sarebbe dedicato alla nemesi, una sorta di contrappasso, dall’immaginazione alla realtà: 222 indiani drogati per non arrendersi alla fatica del lavoro nei campi. E anche se gli indiani non sono dei Mano Gialla e sono quelli veri dell’India, la vendetta sarebbe compiuta. Sembra che un avvocato dirigesse, un medico di base prescrivesse oppiacei, e un farmacista evadesse le ricette. Appunto, roba da cinema: in bilico fra l’uomo chiamato cavallo e febbre da cavallo. Invece, pure se Cinecittà non sia lontanissima dai campi verso Latina, potrebbe essersi realizzata una tragedia, ignobile, l’ennesima che la quotidianità offre sul tema – questi ci rubano il lavoro – che qui si andrebbe oltre, lo si sarebbe rubato pure alle bestie, che, nel caso, difficilmente se ne lamenterebbero. Diventa persino stucchevole farci ironia. I lavoratori si stancano, pure quelli disperatissimi che arrivano dall’India, non gli si possono dar da masticare le foglie di coca, costerebbero care e si entrerebbe in un penale punito maggiormente. E allora si sarebbe fatto tutto in “regola”, per evitare la stanchezza, che è un po’ un inconveniente che blocca il lavoro, come le misure di sicurezza negli orditoi tessili e nelle cabine da funivia, si sarebbero mandati gli sfruttati dal dottore che ai 222 disperati, anziché prescrivere un indefettibile riposo, avrebbe rilasciato più di mille ricette munendole di un falso codice di esenzione per farli risparmiare. Così gli operai erano sempre freschi sui campi di lavoro, a spese pure dell’erario, e la farmacia, con i suoi prodotti allucinogeni, diventava il vero punto di ristoro. Un sistema della felicità, come la possibilità di mangiare a dismisura, senza ingrassare. La mano tesa di una certa imprenditoria, di un certa Italia, di questa Europa clemente che agli scampati dal mare offre le medicine. Un mondo di giusti che continua a vivere nel selvaggio west e agli indiani distribuisce ancora acqua di fuoco e perline colorate, senza che ciò avvenga nella cornice di un film.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

«Siamo corpi nelle mani dei padroni»: la vita d’inferno delle braccianti indiane. Chiuse in un capannone sette giorni su sette, per meno di quattro euro l’ora. Vessate dai caporali, senza diritti né orario, fanno arricchire le agromafie. Ecco chi sono le nuove schiave piegate sui campi per raccogliere le primizie destinate alle nostre tavole. Floriana Bulfon su L'Espresso il 25 maggio 2021. Le “paria” del Pontinistan sono cadute così in basso da non essere considerate in alcuna categoria sociale. Senza diritti, senza orari, senza tutele, sono trattate come anime morte, corpi a disposizione dei padroni pronti ad ogni abuso. Sono arrivate soprattutto dall’India, vivono ad un centinaio di chilometri dalla Capitale, a ridosso delle ville della borghesia illuminata, ma sono fantasmi: donne invisibili, piegate nei campi per raccogliere le primizie che arrivano sulle nostre tavole, vittime di una logica padronale e criminale. Alle prime luci dell’alba un furgoncino bianco si ferma sul ciglio della strada che costeggia le dune amate da Moravia e Pasolini. Il caporale – un cinquantenne indiano che convoca i lavoratori via WhatsApp - fa salire prima gli uomini, poi entrano le donne e se i posti finiscono le lasciano in piedi. Può bastare una frenata improvvisa o una sbandata in queste strade costellate di buche per cadere e farsi male, ma è un danno calcolato: come i paria delle caste indù, loro contano meno dei servi. Inizia così la giornata di centinaia di braccianti sfruttate a tempo indeterminato. Chiuse in un capannone a pulire, lavare e incassettare zucchine e ravanelli per 14 ore, tutti i giorni del mese, con una paga all’ora che non arriva ai quattro euro. I regolamenti prevedono sei ore e mezzo di lavoro con una retribuzione di nove euro, ma loro sono fuori da ogni legge. Quelle che ottengono un contratto, lo hanno solo come stagionali: una formula che nega sussidi di disoccupazione e di maternità. «Ci scrivono che siamo impiegate per quattro-cinque giornate al mese ma in realtà lavoriamo sempre, anche sabato e domenica. Se non accettiamo ci cacciano. E se rimani incinta, ti licenziano subito, anche perché non riesci a sollevare cassette di 30-40 chili». C’è chi è costretta ad abortire. Akhila - un nome scelto in ricordo dell’amica che è tornata in India per l’onta subita – ha un corpo esile piegato dal dolore, le mani accartocciate dalla fatica e la paura di essere riconosciuta e perdere il posto. È arrivata dal Punjab impegnandosi a restituire 15mila euro per pagare il viaggio, ma in Italia le hanno tolto tutto, persino la libertà di parlare la sua lingua: «Il padrone ci multa. Ci toglie dieci euro ogni volta che dici qualcosa in punjabi». Lavora con altre cinquanta donne, rinchiuse in una gerarchia dello sfruttamento: «Le italiane le pagano un po’ meglio; nel gradino successivo ci sono quelle dell’Est; quindi noi indiane che abbiamo bisogno del contratto per rinnovare il permesso di soggiorno e dobbiamo accettare tutto». La loro vita è nelle mani del “padrone”, come si fa chiamare il proprietario italiano dell’azienda agricola. «Lui è cattivo, ma ce ne sono di peggio. Come faccio a spiegarti…», Akhila fatica a trovare le parole per descrivere l’angoscia: «Se vede una ragazza bella la vuole. E se non va con lui la manda via». Violenza, prevaricazione e un ricatto che si estende alla comunità: «Se non ci stai, allora fa dire alla tua famiglia che sei una poco di buono e alla fine la gente inizia a pensarlo. La mia amica è dovuta tornare in India perché tutti avevano creduto al caporale. Invece è stata punita perché aveva rifiutato di passare la notte con il padrone». Il padrone è un imprenditore che gira su una fuoriserie, possiede decine di camion e centinaia di ettari dove si coltivano ortaggi certificati biologici.

«Quando sei minacciata così, ti senti completamente isolata ed è possibile che cedi al ricatto. Poi però non ti lasciano più in pace. Se accetti, hai finito di vivere», ammette Sunita. Lei madre single combatte ogni giorno «contro i leoni che pensano che tu sia una pecora». Una spirale di dolore e lo stigma che determina ulteriore emarginazione. «Sono prigioniere di un circuito sociale e produttivo fondato sulla discriminazione e la violenza di genere. Percepiscono un salario inferiore del 20-30 per cento rispetto ai connazionali. Pochissime fanno causa: denunciare viene visto come un atto di ribellione e per le donne è ancora più complicato», sottolinea Pina Sodano, ricercatrice del centro studi Tempi Moderni. Sono passati cinque anni da quel 18 aprile del 2016, quando in piazza della Libertà a Latina c’è stato il primo grande sciopero dei braccianti. Nel cuore della città littoria erano più di quattromila, chiedevano diritti e rispetto. Tra loro anche Ahkila. Il padrone l’ha punita per quel gesto, togliendole una settimana di paga: «La manifestazione è servita a farci avere un euro in più all’ora. Ma lui si è vendicato, ordinandomi anche di spargere i veleni senza alcuna protezione». Ore chinate a spargere pesticidi senza guanti e mascherine. È stata malissimo, le mani bruciate, gli occhi che lacrimavano ma non è andata al pronto soccorso. Tutti sopportano in silenzio. La scorsa estate un lavoratore è precipitato mentre riparava una serra, l’hanno abbandonato in un campo di patate a chilometri di distanza. Resistere alla fatica, andare avanti con la schiena spezzata e le piaghe ai piedi non è facile. Alcuni ingoiano semi d’oppio, altri usano anfetamine. E molti crollano: negli ultimi tre anni in queste campagne c’è stata una decina di suicidi. «Siamo solo schiave, siamo in carcere», ragiona Irina. È moldava. Il corpo e l’anima segnati dall’assenza di umanità. Fino a poche settimane fa raccoglieva zucchine: «Era già faticoso, ma nell’ultimo periodo hanno ridotto le squadre e in venti dovevamo dare lo stesso risultato che prima facevamo in settanta. La paga però era sempre la stessa. Sono crollata. Ho avuto un esaurimento nervoso. La gente non sa». Irina lo ripete spesso: «La gente non sa cosa c’è dietro alla frutta e alla verdura che mangia. Non sa che se sei una donna se ne approfittano perché ti considerano più debole. Sono ingegneri dello sfruttamento». Vietato portare il cellulare «così non ci sono le prove di quello che subisci» e buste paga formalmente corrette «perché si fanno scudo con avvocati e commercialisti che dicono di restare buona e in silenzio se vuoi lavorare». Questi sono professionisti dello schiavismo, preparano carte in regola per proteggere chi viola qualunque legge e nega ogni diritto. Paghe da fame e una catena di silenzio a cui Irina ha detto basta: «Avevo continue crisi per colpa dei loro ordini: pur di guadagnare di più ti distruggono. Ho chiesto aiuto a un sindacato e ho paura delle ritorsioni perché sono capaci di tutto, ma non ce la faccio più». Anche Akhila ha denunciato: «Ho raccolto prugne per sei mesi di fila e mi ha dato solo trecento euro. Caricavo camion diretti in tutta Italia e lui diceva di non avere soldi». L’indagine è in corso, ma sono poche le donne che riescono ad abbattere questo muro. «È difficile per noi italiane; se sei migrante e parli solo la tua lingua lo è ancor di più», riconosce Paola. Per quindici anni ha vissuto quell’inferno accanto a donne indiane o moldave, solo da tre mesi è riuscita a cambiare impiego: «Mi chiedo come abbia potuto sopportare così tanti soprusi». Paola elenca la divisione in caste dell’agro pontino: «Prima gli italiani, poi gli stranieri. O meglio al primo posto i braccianti italiani, poi le italiane come me. Quindi i migranti maschi, tranne nel caso in cui si tratti di caporali perché vengono pagati prima di noi. Infine le straniere. Insomma se sei donna e migrante, sei super sfruttata». Solo la paura del Covid-19 e della variante indiana ha spinto a occuparsi di loro. Davanti al “Residence Bella Farnia Mare”, tempio delle vacanze finito in malora e trasformato in ricovero per disperati, si cercano i vettori umani del virus mutato. Suman si affaccia dal cancello lungo via India, a ridosso di un alveare di cemento grigio e sgarrupato dove si sopravvive uno sopra l’altro. Suman è arrivata a Roma da piccola, poi con il matrimonio ha raggiunto la famiglia del marito e queste campagne. E ha deciso di rimboccarsi le maniche aprendo un’attività agricola: «La cosa peggiore che mi potessi inventare». I sacrifici, un prestito per affittare il terreno, comprare un trattore, assumere cinque operai: «Producevo zucchine, erano belle ma purtroppo mi davano 10 centesimi al chilo. Una tragedia. Volevo dimostrare che le donne indiane possono fare qualcosa e invece ho fallito». Uno studio dell’economista Bina Agarwal, docente a Manchester e membro dell’Accademia dei Lincei, sostiene che nei Paesi in via di sviluppo le imprese agricole con almeno un terzo di presenze femminili producono di più di quelle gestite da soli uomini. Suman però pensa alla sua esperienza italiana e si domanda come potessero guadagnare gli altri, «quelli che andavano allo stesso mercato con le stesse zucchine». La risposta? «Se sei in regola non ce la fai. Devi mangiare sugli altri». È l’ingiustizia che arriva sui nostri piatti. «Esiste un’alternativa ma bisogna attuare le politiche giuste», nota Margherita Romanelli, coordinatrice policy & advocacy di WeWorld, organizzazione italiana che lavora da 50 anni per difendere i diritti di donne e bambini. Oggi è una delle 16 realtà coinvolte nella campagna #OurFoodOurFuture finanziata dall’Unione Europea nell’ambito del programma Development Education and Awareness Raising: «Abbiamo condotto una ricerca nell’Agro Pontino, che sarà presentata in anteprima al nostro WeWorld festival, per raccogliere la testimonianza di chi subisce quotidianamente lo sfruttamento e mettere in luce le battaglie da combattere sul territorio». Romanelli cita due scelte necessarie: «Condizionare l’accesso ai sussidi europei al rispetto dei diritti di chi lavora, in modo da spingere tutte le aziende lungo l’intera filiera produttiva a imporre il cambiamento. La grande distribuzione sarà così obbligata a controllare che i subfornitori siano in regola. Questo ridurrebbe anche la concorrenza sleale delle imprese scorrette. Infine bisogna applicare subito la risoluzione dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro che il nostro parlamento ha ratificato per stroncare ogni forma di molestia e violenza sui luoghi di lavoro». Anche per Marco Omizzolo, il sociologo che da anni combatte per la difesa dei diritti nella provincia di Latina, ci vogliono riforme di sistema: «Dall’approvazione della legge che vieta le doppie aste al massimo ribasso, responsabile di una strozzatura che porta alla corsa al prezzo più basso e dunque allo sfruttamento, fino al superamento della disciplina sui permessi per i lavoratori migranti che determina una chiusura pressoché totale dei canali d’accesso: l’agricoltura italiana ha bisogno di braccianti stranieri, ma non c’è modo di legalizzarli e lo Stato così incentiva l’economia sommersa e la produzione illegale». Chi ha capito cosa significhi fare sistema, sono le mafie. A pochi metri da qui per anni hanno condizionato il mercato ortofrutticolo di Fondi, centro nevralgico da cui si smistano i prodotti dei campi in Italia e in Europa, stabilendo i prezzi dei raccolti, gestendo i trasporti e l’esportazione. Eurispes stima che il giro d’affari delle agromafie valga quasi 25 miliardi di euro. I boss sanno come renderlo profittevole: negare i diritti e sfruttare le persone è sempre stata la loro specialità. Sono diventati il modello, imitato da padroni e padroncini. Tutti spietati verso i più deboli, verso quelle donne a cui tolgono ogni forza e ogni dignità.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Colpa delle banche.

Usurati ed esecutati. Aste giudiziarie fallimentari. Il marcio sotto il tappeto: chi si scusa si accusa.

Il business delle Aste giudiziarie fallimentari e della gestione dei beni confiscati a presunti mafiosi.

L’intervento del dr Antonio Giangrande, presidente della Associazione Contro Tutte le Mafie.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sono presidente di una associazione Antiracket ed Antiusura, riconosciuta dal Ministero dell’Interno perché iscritta presso la Prefettura di Taranto nell’elenco dei sodalizi antimafia, finchè lo permetteranno. La mia peculiarità è quella di essere presidente di una associazione che non prende soldi da alcuno, né ha agganci politici o istituzionali. Per tale carica e per la mia storia sono l’unico destinatario delle lamentele di migliaia di cittadini usurati ed esecutati da tutta Italia. Accuse tutte uguali: sfiducia nella giustizia e nelle istituzioni. La mia risposta a costoro è una sola: non caverete un ragno dal buco.

L’assunto è provato dal mio libro “Usuropoli e Fallimentopoli. Usura e fallimenti truccati”. Saggio che raccoglie le storie piccole e grandi sparse in tutta Italia. Storie come quelle di cui si parla in questo periodo al tribunale di Taranto: Foro chiacchierato per questa e per altre vicende. Ma del chiacchiericcio si deve tacere, altrimenti capita quello che capita a me: perseguitato dalla magistratura di Taranto e Potenza perché oso parlarne.

Da tempo mi chiamano i cittadini tarantini per denunciare anomalie nella gestione delle aste giudiziarie fallimentari e di questi ne ho fatto un gran fascio, oggetto di prove, veicolati presso uno studio legale che le raccoglie. Solo in questo periodo è montata la polemica per la presentazione di interrogazioni parlamentari, che ha permesso di parlare pubblicamente del fenomeno senza ritorsioni e stranamente si è parata un’alzata di scudi a spada tratta da parte delle corporazioni coinvolte: Excusatio non petita, accusatio manifesta, ossia, chi si scusa si accusa.

Ma provare a chi? Ai magistrati?

Un fallimento? In Italia può durare anche mezzo secolo !!! Quarantasei anni: a tanto ammonta la durata della procedura fallimentare di un’azienda di Taranto. Lo racconta Sergio Rizzo nella “Cricca”, un saggio Rizzoli dedicato alle lentezze e ai mille conflitti d’interesse del nostro Paese. Leggiamone un estratto. A Berlino la costruzione del Muro procedeva a ritmi serrati. Papa Giovanni XXIII aveva scomunicato il comunista Fidel Castro e la Francia riconosceva l’indipendenza dell’Algeria. In Italia Aldo Moro apriva la stagione del centrosinistra, Enrico Mattei regnava sull’Eni, Antonio Segni entrava al Quirinale. E mentre per la prima volta, dopo 400 anni, le orbite di Nettuno e Plutone si allineavano e gli Stati Uniti mandavano il loro primo uomo in orbita intorno alla Terra, in quel 1962 falliva a Taranto la ditta del signor Otello Semeraro. Non meritò nemmeno due righe in cronaca la notizia che al tribunale del capoluogo pugliese stava per cominciare una delle procedure fallimentari più lunghe della storia della Repubblica. Quarantasei anni. Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente esilaranti. «Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto di cancelleria.» Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo, difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi. Come il tribunale di Taranto non poteva non sapere, avendo accertato, nel rendiconto del fallimento, un versamento di 10.263 euro «a favore della vedova di O. Semeraro». Quarantasei anni. Una lentezza inaccettabile per qualunque procedimento. Figuriamoci per un fallimento che ha fatto recuperare in tutto 188.314 euro, ai valori di oggi. Con la doverosa precisazione che un terzo abbondante se n’è andato in spese: 70.000 euro, di cui 50.398 soltanto per gli avvocati. Nei tribunali mancano i cancellieri, è vero. Nemmeno i giudici sono così numerosi. Poi la burocrazia, le procedure...Sulla scia del fenomeno denunciato è scandaloso quanto succede a Taranto. L’avv. Patrizio Giangrande, fratello del presidente Antonio Giangrande, e l’avv. Giancarlo De Valerio vincono la causa contro Equitalia Spa per risarcimento danni, sulla base di ipoteche su immobili emesse da detta società senza alcun avviso e per importi milionari attinenti presunti crediti, risultati inesistenti. Il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento di svariate migliaia di euro liquidati in via equitativa. La cosa scandalosa è che, purtroppo, sono migliaia i casi in cui avvengono invii di cartelle talvolta recanti debiti anche estinti e con scadenze decennali. Il sistema permette al Fisco di effettuare sequestri di immobili o fermo amministrativo di auto, senza aver verificato, come nel caso di causa, la effettiva esistenza debitoria applicando interessi e spese che spesso superano l’importo del debito stesso, stranamente somme non calcolate come usuraie. Allucinante è il fatto che gli avvocati, in virtù della sentenza di condanna, recatisi unitamente all’ufficiale giudiziario per rendere ad Equitalia il torto subito ed eseguire il pignoramento presso la loro sede a Taranto, gli è stato comunicato dalla stessa Equitalia spa che non intende pagare, ritenendo i beni e i fondi insequestrabili. Pazzesco è che solo il Quotidiano di Puglia, alla pagina interna su Manduria, a firma di Gianluca Ceresio, si è occupato della vicenda che interessa tutti i cittadini, non solo tarantini, per la disparità di trattamento dei diritti lesi.

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719: “…le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370”. Aste, stop alle accuse: “rispettate tutte le leggi”, scrive Campicelli su “Il Quotidiano di Puglia”. Il presidente del Tribunale di Taranto Francesco Lucafò respinge con fermezza qualsiasi insinuazione su “condotte non lineari” nell’esercizio delle funzioni svolte dai magistrati tarantini impegnati sul fronte delle esecuzioni immobiliari e delle aste giudiziarie: «La legge è chiara e le procedure si rispettano fino in fondo».

Già perché nei tribunali si rispettano le leggi? A questa domanda risponde un ex magistrato antimafia.

Ingroia: «Il tribunale di Roma ignora il lavoro dei pm nisseni». L’ex pm aveva chiesto che l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara venisse ascoltato come teste assistito nel processo sul riciclaggio del tesoro di Ciancimino, scrive il 2 novembre 2015 "Il Corriere del Mezzogiorno". «Sono rimasto sorpreso della decisione del tribunale di Roma di non acquisire gli atti dell’inchiesta della procura di Caltanissetta e del Consiglio Superiore della Magistratura sull’ex presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, e di non ascoltare l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara nella veste di teste assistito. Una decisione che trovo assolutamente incomprensibile e che rende purtroppo più difficile la ricerca della verità». Lo dichiara l’avvocato Antonio Ingroia, difensore di Raffaele Valente e del rumeno Victor Dombrovschi. «Il collegio - aggiunge Ingroia - ha totalmente ignorato le evidenti connessioni probatorie esistenti tra il processo di Roma e l’inchiesta di Caltanissetta, che vede indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e la giudice Silvana Saguto per fatti gravissimi all’esame del Csm e su cui si è pronunciato in modo netto anche il ministro della Giustizia Orlando. Nel procedimento romano, infatti, risultava che Cappellano Seminara era stato nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati, e sequestrati proprio grazie alle informative di Cappellano Seminara: come si può negare che ci sia una connessione con quanto emerso nelle ultime settimane a Palermo? La logica suggerisce di sì e invece il tribunale ha deciso di ignorare il lavoro dei pm nisseni. Evidentemente - conclude Ingroia - meglio non sentire, non vedere, non sapere. Ma non è così che si accerta la verità e si fa giustizia».

Ma provare a chi? Agli ispettori ministeriali?

Se, come è stato evidenziato nell’interrogazione parlamentare, tutto è stato insabbiato a Potenza, come può desumersi fonte di prova un atto che non si trova o che sia già valutato negativamente dal sistema giudiziario? E comunque, il Ministero della Giustizia, (andando contro corrente, anche in virtù delle risultanze di una certosina ispezione senza condizionamenti ambientali, da cui risultasse un sistema criminale collusivo non certificato dai magistrati), promuovesse un’azione disciplinare nei confronti dei responsabili, quale risultato ne conseguirebbe, se non un esito scontato?

PUNTATA DEL 29/11/2015. LA GIUSTA CAUSA di Claudia Di Pasquale

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO:…ma un procedimento disciplinare del CSM a carico di un magistrato può durare fino a 5 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE: Ogni anno quanti procedimenti vengono invece archiviati?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: La media è il 94% circa.

CLAUDIA DI PASQUALE: Che cosa?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: Delle archiviazioni sul numero degli esposti. Noi facciamo azione disciplinare sul 7% degli esposti.

FRANCANTONIO GRANERO - EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SAVONA: Quando un magistrato prende uno svarione nessuno gli fa un procedimento disciplinare.

Ma provare a chi? Ai Prefetti in funzione antiusura ed antiracket?

Nella migliore delle ipotesi, da rappresentanti istituzionali e governativi, ti impediscono di parlare di usura bancaria e di aste truccate, come di malagiustizia in generale; nella peggiore delle ipotesi si parla di Prefetti arrestati o condannati, come Ennio Blasco per corruzione in relazione alle certificazioni antimafia rilasciate, o Carlo Ferrigno per usura e sesso in cambio di aiuto o agevolazioni.

Ma provare a chi? Agli avvocati?

Avvocati? A trovarne uno meritevole di tale appellativo è un’impresa. E se lo trovi te lo tieni stretto, pur essendo sempre un avvocato, coi i suoi difetti e con i suoi pregi. Il fascio di prove sono in mano ad un avvocato coraggioso di Massafra, che per ripicca è isolato ed accusato di Stalking giudiziario. Per altro gli avvocati di Taranto hanno preso una netta posizione.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la Giustizia per scopi elettorali», Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: “preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi”, scrive Enzo Ferrari su "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Ma provare a chi? Ai commercialisti?

Vicenda Aste pilotate, i commercialisti: fiducia nei magistrati, scrive Marcella D'Addato il 15 novembre 2016 su "Canale 189”.

Ma provare a chi? Ai politici parlamentari?

I due parlamentari di Taranto (avvocati) scrivono al ministro per difendere la sezione fallimentare del tribunale. Chiarelli e Pelillo evidenziano quelle che ritengono le estraneità assolute con fatti riguardanti la malavita e attaccano i parlamentari M5S che chiedono di chiarire presunte anomalie, scrive il 16 novembre 2016 “Noi Notizie”.

La polemica. Abusi nella gestione dei fallimenti, bufera sul Movimento 5 Stelle. Pelillo e Chiarelli scrivono al ministro Orlando e attaccano i senatori pentastellati, scrive "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016. Diventa un caso politico la polemica sollevata da un gruppo di senatori del M5S su presunti abusi nella gestione dei fallimenti al Tribunale di Taranto. La reazione parlamentare all’interrogazione dei Cinquestelle arriva in modalità bipartisan con una lettera congiunta degli onorevoli Michele Pelillo (Pd) e Gianfranco Chiarelli (CoR) indirizzata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Una lettera nella quale, oltre a esprimere incondizionata fiducia agli operatori della giustizia, i due deputati accusano i senatori del M5S di aver voluto strumentalizzare politicamente situazioni che neppure conoscono.

Ma provare a chi? All’antipolitica parlamentare?

Aste Immobiliari del Tribunale di Taranto, il Meetup amici di Beppe grillo di Massafra risponde, scrive "Vivi Massafra” il 16 Novembre 2016. «Ma quali fini elettoralistici… il movimento 5 stelle non ne ha bisogno, cammina sulle sue gambe, anzi corre, e meno male che c’è!" Meetup Amici di Beppe Grillo Massafra». Da sapere che i 12 senatori della prima interrogazione che ha innescato la polemica ed i 15 senatori della seconda interrogazione sono quei parlamentari che hanno votato contro la responsabilità civile dei magistrati. Ergo: per la loro assoluta impunità ed irresponsabilità! Inoltre è risaputo il fenomeno dei concorsi pubblici farsa o truccati. Allora perché non chiedere ai rappresentanti delle categorie interessate pronti ad aprir bocca, come loro sono stati abilitati?

Ma provare a chi? Al regime omologato dell’informazione, che ha anch’essa assoluta fiducia nella magistratura?

Da premettere che ricevo segnalazioni di inchieste a carico di magistrati ed avvocati delle quali nessuno ha mai saputo nullo, compreso l’inchiesta sul bilancio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Ma è esemplare come la vicenda delle aste giudiziarie fallimentari a Taranto con conseguente interrogazione parlamentare e ispezione ministeriale a gennaio 2017, sia rimasta censurata sulla stampa nazionale e locale, salvo casi eccezionali. Nella cerchia nell’eccezionalità, nella maggioranza dei casi, però, deformando la realtà. Si pensi che il video della intercettazione privata ambientale in cui si dimostra la concussione di un delegato giudiziario è stato pubblicato da un giornale non tarantino, non pugliese, ma da un giornale lucano. E comunque nessuno ha avuto il coraggio di fare il nome dell’avvocato coinvolto a chiedere la presunta tangente.

Su come sono stati trattati i fatti vi è un esempio lampante: “Caso aste giudiziarie a Taranto, un'inchiesta per fare chiarezza. La procura farà chiarezza sulle denunce arrivate dagli agricoltori”. Servizio di Francesco Persiani del 9/11/2016 su TeleNorba. Breve intervista a Paolo Rubino, Tavolo Verde agricoltori: «Non possiamo che registrare una grande sfiducia nelle istituzioni. In questo caso della Magistratura». Il resto dell'intervista dedicata all'Avv. Fedele Moretti, Presidente Camera Procedure ed Esecuzioni Immobiliari. «La Procura indagherà, partendo dai servizi giornalistici di questi giorni, ritenute possibili notizie di reato e per questo acquisiti dall’autorità giudiziaria su disposizione del procuratore capo presso il Tribunale di Taranto Carlo Maria Capristo», chiosa Persiani.

Servizi giornalistici? Lo studio legale che ha il fascio di prove sulle aste di Taranto è tenuta ben lontana dagli autori dei servizi giornalistici mai nati. Perché? Perché i giornalisti son di sinistra e son amici dei magistrati. Ecco a voi una vera e propria perla andata in onda su Rainews24: durante la notte delle elezioni americane, Giovanna Botteri si è lasciata andare alla disperazione: «Che ne sarà di noi giornalisti se non riusciamo più a influenzare l’opinione pubblica?» Parole testuali: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump e non alla stampa!». Forse è per questo che la gente non si fida più di voi? Forse è per questo che non vendete più giornali? Forse è per questo che dovete andarvene tutti a casa?

Ma i giornalisti sono troppo di sinistra? Si chiedono Luigi Curini e Sergio Splendore di Lavoce.info il 20 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". I giornalisti italiani si collocano politicamente più a sinistra dei cittadini. Ne consegue una scarsa fiducia dei lettori nella carta stampata. Perché i giornali non reagiscono? Perché a leggerli e comprarli sono coloro che hanno una posizione ideologica in media più vicina a chi li scrive. Il difficile rapporto tra italiani e stampa. Stando ai sondaggi periodicamente effettuati da Eurobarometro, i cittadini italiani hanno poca fiducia nella carta stampata. Sostanzialmente più di un italiano su due esprime un giudizio negativo a riguardo: negli ultimi quindici anni la media del livello di fiducia verso la stampa è stata complessivamente del 43 per cento, quattro punti in meno del dato europeo nello stesso periodo. Le spiegazioni più ricorrenti riconducono la sfiducia al modello di giornalismo italiano contraddistinto da una propensione al commento, da un alto livello di parallelismo politico e da una stampa che storicamente si è indirizzata a una élite, producendo, come conseguenza, bassi livelli di lettura. In questo quadro, il rapporto tra giornalisti e cittadini rimane tuttavia in secondo piano.

Tra gli omologati spicca la figura dell’eccezione. «Cane non morde cane. Le certezze del sistema e i dubbi dei cittadini. Sul caso delle aste pilotate al tribunale di Taranto e delle facili archiviazioni alla Procura di Potenza levata di scudi contro i Cinque Stelle e la nostra inchiesta. A quando la verità? - Scrive Michele Finizio su "Basilicata 24", mercoledì 16/11/2016. - Può darsi che quanto raccontato negli esposti dei cittadini vittime delle “presunte” irregolarità sia tutto falso, Oppure tutto vero. Basta fare qualche verifica. Eppure, a quanto pare, tutti i signori della giustizia, della politica, delle professioni, della stampa, non hanno dubbi: “Tutto regolare”. Vorremmo toglierci il dubbio anche noi, per questo il nostro lavoro di inchiesta sulla vicenda, continua. A presto rivederci».

Ma provare a chi? Agli usurati esecutati?

Le vittime, accusate di mitomania o pazzia, anziché fare un fascio di prove aggregandosi tra loro, anche per rompere il velo di omertà e censura, pensano bene di smarcarsi e fare guerra a sé per salvare il proprio orticello.

La conclusione di questo mio intervento, quindi, è che ogni vittima di qualsivoglia ingiustizia non caverà mai un ragno dal buco perché per gli altri sarà sempre “Tutto Regolare”, mentre per quanto riguarda se stessi: chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

E comunque, dopo quanto ho scritto, non mi si chieda perché il mio sodalizio si chiama Associazione Contro Tutte le Mafie. Il perché dovrebbe essere chiaro…

L'incredibile caso dell'imprenditore siciliano. La vita distrutta di Andrea Bulgarella, da “prestanome” di Messina Denaro all’assoluzione: ma per le banche è colpevole. Nicola Biondo su Il Riformista l'11 Luglio 2021. Prima viene accusato di aver riciclato i soldi della cosca di Matteo Messina Denaro, il most wanted della mafia siciliana. Assolto in istruttoria, con tante scuse perché quell’inchiesta faceva acqua da tutte le parti, si trova bannato da tutte le banche. Questa è la storia di un tritacarne giudiziario che sta portando al collasso finanziario un imprenditore siciliano tra i più noti nel campo alberghiero, Andrea Bulgarella. In gergo si chiama “pregiudizio”. Vale a dire che poco importa che la giustizia dei tribunali abbia sancito che con la mafia non c’entri nulla. Nonostante questo si rimane in un recinto di sospetto diventando un appestato. La vicenda è recentemente approdata sulle scrivanie che contano, da quella del presidente del Consiglio Draghi al ministro di Giustizia Marta Cartabia fino a quella del governatore della Banca d’Italia. E proprio da via Nazionale è arrivata una risposta che dà la misura di come in Italia un’inchiesta giudiziaria archiviata perché priva di riscontri possa trasformarsi in una condanna all’ergastolo fuori dal carcere. All’imprenditore siciliano, che possiede grandi alberghi in Toscana e sulle Dolomiti, le banche italiane hanno chiuso tutti i conti e incredibilmente negano l’apertura anche di un conto corrente nominale senza possibilità di credito. Motivazione? “Ampi margini di rischio”. Ma quali sono questi “rischi” le banche non lo dicono. Bulgarella ha chiesto che il Garante della Privacy imponga alle banche di rivelare quali siano gli ostacoli, di quali colpe debba pagare lo scotto, quali siano i rischi. Insomma, se sia legale che una banca sulla base di motivi sconosciuti possa negare non solo l’accesso al credito ma anche di avere un conto. Una risposta è arrivata da Bankitalia e dà all’intera storia un sapore pirandelliano, indegno di una società economicamente avanzata o che si vorrebbe tale. «Il tema generale da Lei sollevato – scrive Pietro Raffa, direttore centrale della sede di Palermo – relativo al diritto al conto di pagamento anche per i soggetti diversi dai consumatori, quale possibile risposta alle esigenze di inclusione finanziaria, è alla nostra attenzione. Sul tema la Banca d’Italia ha infatti di recente svolto un’audizione alla Commissione del Senato della Repubblica. Abbiamo segnalato come le esigenze di inclusione finanziaria possano essere perseguite attraverso il riconoscimento, sul piano normativo, di un diritto al conto e ai servizi di pagamento, rispettoso dei principi fondamentali dell’ordinamento e disciplinato all’interno della normativa bancaria”. Della serie, il problema sollevato è reale, la legge è inadeguata ma noi non possiamo farci nulla. Poco importa che un cittadino non abbia nessuna pendenza, le banche italiane possono costringerti a scomparire senza che venga esplicitato il motivo. Per dare un’idea plastica della vicenda: secondo una stima del Sole24ore il gruppo imprenditoriale di Bulgarella possiede 750 milioni di euro in beni immobili, ma il suo proprietario è costretto a usare contanti anche per pagare un caffé perché nessuna banca gli rilascia un semplice bancomat. Ecco la follia di questo caso limite. Bulgarella inoltre ha sfidato il sistema creditizio denunciando alcune pratiche illegali subendo una “ritorsione” e una successiva segnalazione alla centrale rischi della Banca d’Italia. Ma quanti sono nelle stesse condizioni in Italia? A rispondere è Mario Bortoletto, imprenditore veneto diventato negli ultimi tempi uno dei maggiori studiosi del fenomeno. Le cifre che ci consegna sono spaventose. «Sono 16 milioni gli italiani segnalati come cattivi pagatori. E di questi sei milioni non hanno nessuna caratteristica per essere segnalati come tali in quanto hanno risolto il loro contenzioso con le banche». La cancellazione dello “stigma” è però assai complesso e penalizza proprio gli imprenditori che non vogliono scorciatoie. Basta avere un debito contestato e si consegna un cittadino e un’impresa a una morte silenziosa. Nicola Biondo

Rifiutati dalle banche, gli italiani impegnano i gioielli di famiglia. E prolifera l’usura. Federico Formica su La Repubblica il 6 marzo 2021. Il rapporto del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) parla di una situazione in rapido peggioramento a causa della crisi pandemica. Chi non riesce a ottenere prestiti si rivolge ad altri canali. Messi ai margini da banche e finanziarie, sono molti gli italiani che impegnano i propri averi al banco dei pegni o dal compro oro per avere liquidità immediata o, peggio, finiscono nelle mani degli usurai. L’ultimo rapporto del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) fa il punto sull’indebitamento degli italiani delineando un quadro preoccupante. Non perché il fenomeno sia nuovo - tutt’altro - ma perché quella di Cnca è l'istantanea della situazione pre-Covid che “probabilmente, con la pandemia, andrà ad acuirsi ancora di più” commenta Filippo Torrigiani, consulente del Cnca e della commissione parlamentare antimafia. Il dossier denuncia, utilizzando anche altre fonti di dati, come stia proliferando il mercato creditizio della disperazione, con ottimi profitti per chi presta. In modo legale o no. Pegni. Nati intorno al 1400, i banchi dei pegni oggi sono regolati in modo ferreo e devono essere approvati dalla Banca d’Italia. In sostanza erogano finanziamenti a breve termine in cambio di beni mobili come oro, argento, mobili di valore, opere d’arte, gioielli, orologi e altro ancora. Quello che non molti sanno, spiega il rapporto, è che queste attività sono di proprietà “di circa una quarantina di banche tra le quali Unicredit, gruppo Monte dei Paschi di Siena, Intesa San Paolo, Carige, Banco Bpm, tanto per citarne alcune”. I dati di Assopegno dicono che ogni anno sono tra le 270.000 e le 300.000 le persone che si rivolgono a questi istituti, per un volume d’affari complessivo di circa 800 milioni di euro e un prestito medio erogato di circa mille euro. Si parla, dunque, di cifre basse che si chiedono per varie necessità: “Spese inattese o impreviste, rette universitarie, ristrutturazioni edili, inizio di nuove attività lavorative”. Per molti, sottolinea il Cnca, è l’ultima spiaggia. E la crisi dovuta alla pandemia, con posti di lavoro persi, sussidi arrivati in ritardo (o non arrivati affatto) ha aumentato il numero delle persone che, “con sguardi disillusi in fila composta davanti alle filiali del credito, attendono il loro turno, accomunate da storie simili segnate da difficoltà e disperazione” scrive il Cnca.

Compro oro. Di fatto questi esercizi commerciali funzionano in modo molto simile al banco dei pegni, ma le garanzie per il cliente sono molto inferiori. Aprire questo genere di attività è infatti molto semplice: “E’ sufficiente aprire una partita iva, presentare la documentazione di inizio attività agli uffici comunali di competenza, iscriversi al registro delle imprese e avere a disposizione un locale di 20 metri quadri”, spiega il rapporto. Se è vero che il boom dei compro oro è passato, il numero degli esercizi per il commercio di preziosi è cresciuto dai 24.877 del 2018 ai 29.511 del 2019. L’aumento non è però attribuibile solo ai compro oro, perché in questa categoria rientrano anche le gioiellerie. Proprio perché ci sono meno garanzie, è più facile che il cliente di queste attività incappi in qualche fregatura. Per questo il Cnca ha fornito alcuni consigli utili per arrivare preparati all’appuntamento: Andare allo sportello solo una volta saputa qual è la quotazione dell’oro usato in quel momento. Solo così ci si può fare un’idea di quanto renderebbe la vendita dei gioielli; un’altra cosa da fare per evitare valutazioni ingiuste e quella di pesare i monili: “I compro oro offrono ai clienti un prezzo inferiore rispetto a quello che gli stessi hanno calcolato sulla base del valore dell’oro puro che è determinato dai mercati: questo perché altrimenti non otterrebbero un certo guadagno” spiega Cnca. Usura. Infine il capitolo più doloroso: i prestiti concessi a tassi usurari, che nel migliore dei casi superano del 50% le soglie massime ammesse dalla Banca d’Italia. I dati Eurispes dicono che per gli usurai questo è un periodo di grandi affari. Nel 2020 almeno un italiano su dieci - l’11,9% - si è rivolto al credito illegale: le cifre sono in aumento rispetto al 2019 (10,1%) e al 2018 (7,8%). Non è facile ottenere dati precisi su un fenomeno nascosto, per sua natura, nell’ombra: i dati di Sos impresa stimavano, a fine 2017, un volume d'affari di circa 24 miliardi di euro. È facile ipotizzare che la cifra sia aumentata. Le leggi ci sono e prevedono tutele forti per le vittime: la 108 del 1996 prevede che, nel momento in cui viene accertata l’usura, debba essere restituito quanto pagato, compresi gli interessi sia legali che usurai, oltre il risarcimento del danno patrimoniale e morale per le perdite subite e i mancati guadagni. Nonostante ciò, denuncia Cnca, le denuncie dal 1996 al 2016 sono crollate da 1436 a 408 “e non certamente a causa della decrescita del fenomeno”.

·        Fallimentare…

La Spezia, aste truccate: l’ex giudice chiede di patteggiare. Roberto Bufo ha proposto di chiudere la vicenda con 4 anni e 2 mesi di pena. Sei gli imputati, udienza decisiva il 7 dicembre. Tiziano Ivani su Il Secolo XIX il 5 novembre 2021. Ha chiesto di patteggiare 4 anni e 2 mesi di reclusione. Anche perché secondo il perito nominato dal giudice per l’udienza preliminare può essere processato, nonostante al momento dei fatti la sua capacità di volere fosse compromessa da un disturbo bipolare accertato dallo stesso specialista. Era il gennaio 2018 quando l’allora giudice Roberto Bufo, per anni in servizio alla Spezia, venne arrestato insieme ad altre sei persone coinvolte in una maxi-inchiesta, su presunte irregolarità nelle aste organizzate da alcuni tribunali toscani, condotta dalla Procura di Genova (Bufo all’epoca era in servizio a Pisa e ai pm del capoluogo...

Legge Salvasuicidi, ora anche chi non è in grado di pagare i debiti (se è senza colpa) ha la possibilità di ricominciare da zero. Con un emendamento al decreto Ristori, lo scorso dicembre, è stata infatti prevista la possibilità di depositare pratiche familiari evitando inutili e dispendiose duplicazioni. E il legislatore ha introdotto l'esdebitazione anche per l'incapiente, una sola volta nella vita. La nuova disciplina dovrebbe confluire all'interno del nuovo codice della crisi d'impresa che dovrebbe partire a settembre. Fiorina Capozzi su Il Fatto Quotidiano il 27 luglio 2021. Con un emendamento al decreto Ristori, lo scorso dicembre, è stata infatti prevista la possibilità di depositare pratiche familiari evitando inutili e dispendiose duplicazioni. E il legislatore ha introdotto l'esdebitazione anche per l'incapiente, una sola volta nella vita. La nuova disciplina dovrebbe confluire all'interno del nuovo codice della crisi d'impresa che dovrebbe partire a settembre. Sblocco dello stop ai pignoramenti, fine del divieto di licenziamento, invii di cartelle esattoriali. Si prospetta un autunno caldo per gli italiani, sempre più indebitati. Con il rischio concreto di far schizzare le domande di aiuto attraverso la legge 3 del 2012, la cosiddetta Salvasuicidi. La cui platea dei beneficiari però è stata ampliata: con un emendamento al decreto Ristori, lo scorso dicembre, è stata infatti prevista la possibilità di depositare pratiche familiari evitando inutili e dispendiose duplicazioni. E il legislatore ha introdotto l’esdebitazione – cioè la liberazione dai debiti residui – anche per l’incapiente, cioè chi non è in grado di pagare il dovuto, anche se per una sola volta nella vita. “Due importanti novità che saranno in grado di aiutare i debitori che non sono più in grado di restituire il denaro preso in prestito”, spiega Gianmario Bertollo, fondatore e consulente di Legge3.it, gruppo di professionisti specializzato nella soluzione a casi di sovraindebitamento. Nella pratica, la procedura resta identica: è possibile beneficiare della legge 3 se il debitore non si è sovraindebitato per sua colpa, se non è sottoposto ad altra procedura concorsuale e non ha già beneficiato della legge 3 nei precedenti 5 anni. L’interessato presenta istanza all‘Organismo di composizione della crisi (Occ) per definire una proposta di accordo finalizzata a ripagare parte del debito in funzione delle risorse di reddito e patrimoniali disponibili. In generale l’intesa, che deve ottenere il via libera della maggioranza dei creditori, viene poi poi depositata in tribunale per l’omologa con cui scatta l’effettivo rimborso dilazionato del debito decurtato. Rispetto al passato, poi, oggi i componenti di una stessa famiglia (parenti entro il quarto grado ed affini entro il secondo) possono presentare un’unica richiesta di procedura di sovraindebitamento quando sono conviventi oppure quando il debito ha un’origine comune. In questo modo, si abbatte il costo della procedura, incluso il compenso dovuto all’Occ che sarà ripartito fra i membri della famiglia proporzionalmente ai debiti di ognuno. Inoltre, la nuova disciplina offre al debitore incapiente la possibilità di ripartire da zero una volta nella vita. La procedura viene attivata su richiesta del diretto interessato all’Occ in base dell’analisi della situazione del debitore. E’ un’opportunità importante in una situazione estremamente delicata con gli italiani sempre più indebitati (+3,7% a marzo 2021, dati CRIFF) e la maggioranza delle famiglie (il 60%) che dichiara di avere difficoltà ad arrivare a fine mese (Bankitalia, indagine di maggio). La nuova disciplina dovrà poi confluire all’interno del nuovo codice della crisi d’impresa che dovrebbe partire a settembre. Il condizionale è d’obbligo visto che gli esperti si attendono uno slittamento alla primavera per l’entrata in vigore del nuovo corpo. Tempo necessario per evitare ulteriori problemi ad imprese e famiglie. Il nuovo codice prevede infatti degli automatismi nella registrazione di segnali di rischio sovraindebitamento attraverso le morosità registrate dall’Agenzia delle entrate e dall’Inps. Così, in questa fase, se entrasse in vigore, finirebbe col danneggiare le imprese colpite dall’emergenza Covid. Incluse quelle che normalmente hanno lavorato bene e all’interno delle regole e che oggi si trovano in affanno per effetto dell’impatto economico della pandemia. “La situazione è estremamente delicata – conclude l’esperto – ci vorrà del tempo prima che si possa far entrare in funzione il nuovo sistema di norme. Intanto è necessario usare al meglio gli strumenti della legge 3 per evitare pesanti pressioni su un numero crescente di famiglie e di imprese”. Anche perché già prima dell’emergenza sanitaria, in Italia c’erano 2,5 milioni di famiglie sovraindebitate in maniera irreversibile.

La “strana” asta per la masseria di Pulsano svenduta al senatore 5Stelle. Al di là di tutto, che non è poco, nessuno tanto più un senatore, del M5S, per aggiunta, non avrebbe dovuto mai partecipare all'asta contro una famiglia di Taranto dove è stato eletto. La Voce di Manduria sabato 04 maggio 2019. Al di là di tutto, che non è poco, nessuno tanto più un senatore, del M5S, per aggiunta, non avrebbe dovuto mai partecipare all'asta contro una famiglia di Taranto dove è stato eletto (che l'ha anche votato) a cui la banca ha pignorato la masseria e che ha trovato la forza per ricomperarla. O no?

(Sandra Amurri, autrice dell'articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano)

“Non ho più niente, mi hanno portato via la mia masseria, la mia vita. Mi incatenerò davanti al ministero della Giustizia, non ho più nulla da perdere”. Piange come un bambino, Enzo Papa, 52 anni, nel vedere i sigilli alla Masseria Galeota, che era anche la casa dove abitava con la compagna e la figlia di 16 anni, costruita con il sudore della fronte. Siamo a Leporano, sulla litoranea salentina, a 8 chilometri da Taranto, ai piedi del Parco archeologico di Saturo, tra costoni rocciosi, insediamenti in grotta, sorgenti d’acqua e natura rigogliosa. Enzo Papa, nel 2002, acquista per 300 mila euro, grazie anche alla buonuscita del padre, quello che era un rudere. Chiede un mutuo di 200 mila euro, erogato da Banca della Nuova Terra, per trasformarlo in una masseria B&B, oleificio, ristorante: costo della ristrutturazione 850 mila euro. L’attività va molto bene, fino a che, per la crisi economica, sommata alla tragedia dell’Ilva con le foto dei camini che spruzzano veleno e fanno il giro del mondo, i turisti iniziano a scarseggiare ed Enzo non ce la fa più a pagare le rate del mutuo. La banca, nel 2012, pignora la masseria: viene messa all’asta. La masseria viene valutata circa un milione di euro. Le prime tre aste vanno deserte, altre annullate per ricorsi vari, fino a quando il prezzo del bene arriva a scendere a 375 mila euro. Nel frattempo, Enzo, per poter continuare a lavorare, chiede – e ottiene dal giudice dell’esecuzione – l’affitto della masseria, per sette mesi versa 12.500 euro. Il 17 gennaio scorso decide di partecipare, con la società Kanapa srl, all’asta telematica per tentare di “ricomprare” la masseria: versa una “caparra” di 75mila euro (pari al 20% del prezzo minimo d’acquisto), come da procedura, depositando l’offerta al ministero della Giustizia che la invia, per prassi, al sito che gestisce le aste telematiche. Dal ministero, via Pec, arriva la ricevuta della registrazione dell’offerta. Ma quando Tonia Macripò, delegata alla vendita dal Giudice di Taranto, Andrea Paiano, apre l’asta, sul portale risulta una sola offerta: quella di Mario Turco, senatore del M5S, anche se i bonifici sono due (uno di Turco e uno di Kanapa). Dell’offerta di Kanapa non si ha traccia. Il sito “Aste telematiche” invia al delegato una comunicazione via email: l’offerta di Kanapa srl non era stata inviata dal ministero al portale delle aste, perché era stato rinominato il file generato all’atto della registrazione. Il delegato dal Giudice aggiudica quindi la masseria al prezzo d’asta di 375 mila euro a Mario Turco, senza mettere a verbale l’esistenza di un secondo bonifico, quello di Kanapa srl. Il legale di Kanapa srl, Stefania Maselli, deposita istanza di revoca al Tribunale di Taranto, chiedendo di invalidare l’aggiudicazione della masseria e di indire l’asta, in quanto non vi era stata alcuna competizione con i conseguenti rialzi, perché i partecipanti, visti i bonifici, dovevano essere necessariamente due, e dimostrando di non aver violato la legge nell’aver rinominato il file. Ma il senatore Turco si oppone all’istanza di revoca presentata da Kanapa. Il giudice Paiano rigetta l’istanza, motivandola con la presunzione che il bene non è detto sarebbe stato aggiudicato a un prezzo più alto, anche se si fosse svolta l’asta. Kanapa srl deposita, attraverso il suo legale, un reclamo formale al Tribunale di Taranto: l’udienza è fissata per il 26 giugno prossimo. Nonostante le diverse opposizioni pendenti con istanza di sospensiva, il 3 aprile scorso, il giudice Paiano, firma il decreto di trasferimento in favore del senatore Turco, e il 29 aprile, senza alcuna notifica al signor Papa, immette il bene nel possesso di Mario Turco. Lo stesso giorno, alla masseria Galeota arrivano due carabinieri, il funzionario senza delega dell’Istituto vendite giudiziarie Paolo Annunziato, e Grazia Peluso, mamma del senatore Turco, con il legale del figlio. L’inventario dei beni presenti dura otto ore, con tanto di beneauguranti paste e cappuccino offerti dalla mamma del senatore. “Lavoro da molti anni anche per il Sunia, il sindacato degli inquilini, faccio tanti sfratti, ma non ho mai visto tanta disumanità. Anche il suo legale avrebbe chiesto all’onorevole Turco di concedere po’ di tempo in più, ma inutilmente”, racconta Alexia Serio, l’avvocato della famiglia Papa presente in loco. Cambiata la serratura, consegnate le chiavi a un incaricato del senatore Turco, al cancello della masseria Galeota sono stati affissi i sigilli: dentro, chiusi, sono rimasti tutti gli animali allevati dalla famiglia Papa. “Prego che il senatore si muova a pietà”, aggiunge Enzo Papa. “Non so dove andare a vivere. Fra un mese, entro il 28 maggio, verrà tutto distrutto… E nel vedere svanire i sacrifici di una vita, ho creduto di morire… La vigilanza privata che ha istituito il senatore mi ha anche vietato di entrare in casa per prendere un cambio di vestiti, e i libri di scuola di mia figlia. Ho scritto un mese fa ai membri della Commissione Giustizia del Senato, spiegando la mia storia, ma non ho ricevuto risposta”. Nemmeno dal senatore Arnaldo Lomuti (M5S), che il 17 novembre 2018 aveva presentato un’interrogazione in Parlamento proprio sulle aste definite “vili”, con riferimento al meccanismo “consolidato e finalizzato all’espropriare a soggetti falliti ed esecutati”: un meccanismo più volte denunciato, inutilmente. Sandra Amurri

Attacco alla magistratura: l’avvocata Caramia si racconta senza veli. Lunga intervista al difensore che sfida i Tribunali sul “sistema” delle aste giudiziarie. Michele Finizio il 3 Settembre 2021 su basilicata24.it.

Avvocato Caramia, è passato del tempo dall’ultima intervista che ci ha concesso. Da allora lei ha lanciato una sfida con l’iniziativa “passo dopo passo”: 300 chilometri a piedi da Taranto a Napoli per accendere i riflettori sulla giustizia e sui suoi meccanismi “patologici”. È stata una sfacchinata inutile? Nel frattempo è uscito il libro intervista di Sallusti a Palamara che svela un sistema “malato” di gestione della giustizia e delle carriere dei magistrati. Lei che ne pensa?

Non è stata una sfacchinata inutile, ho avuto molto seguito e tanta solidarietà. Il problema è un altro. Ho letto il libro intervista di Sallusti a Palamara.  Non solo confermo l’esistenza di un Sistema dentro la magistratura, ma posso convintamente affermare che quel Sistema è così forte e chiuso, certo dell’impunità, da spingersi anche a strumentalizzare la funzione per realizzare le più disparate finalità, come quella di distruggere chi si oppone. Mi riferisco non solo ai soliti dinieghi di giustizia, in ogni sede, a cui ormai la gente è abbastanza abituata, ma ad azioni attive dirette ad arrecare danno e a realizzare, sotto la bandiera della legge, l’illegalità più vigliacca. Alcuni magistrati non rispettano la legge sotto la protezione e la copertura reciproche.

Illegalità più vigliacca? Magistrati che che non rispettano la legge? Si rende conto della gravità delle sue affermazioni? Per quale ragione un magistrato dovrebbe spingersi a tanto?

Certo che mi rendo conto. Confermo che alcuni magistrati non fanno il proprio dovere. Mi permetta di dettagliare il mio assunto, non prima di una doverosa precisazione che è quella per cui non faccio di tutta l’erba un fascio e sono certa dell’esistenza in magistratura di gente per bene; purtroppo però credo che resti un po’ ai margini perché ciò che prevale è giustappunto il sistema, e cioè la violazione della legge, le macchinazioni, gli abusi ad ogni livello, gli insabbiamenti da parte delle procure quando ad essere posta in discussione è la condotta di un magistrato. Per dirla facile, la magistratura non ammette di essere posta in dubbio e se lo fai, anche nelle sedi opportune, ovvero quelle giudiziarie, contestando i provvedimenti che a tuo parere professionale violano la legge, violazioni, anche sfacciate a volte, diventi vittima della loro ingiustizia.

Vale a dire?

Voglio dire che non solo non ottieni nulla per le persone che rappresenti, che anzi ricevono danno nelle forme di pesanti condanne, ma senza nemmeno rendertene conto entri in ambiti in cui sperimenti che da parte di quella ‘giustizia’ malata viene un ‘attacco’ alla tua persona che è tanto pericoloso, quanto miserabile. In men che non si dica ti ritrovi sotto procedimenti penali e disciplinari che ti piovono addosso come l’acqua in un temporale.

La cronaca è piena di magistrati arrestati, e anche condannati, da altri magistrati. Quindi faccio fatica a seguirla. Lei a che cosa si riferisce in particolare, di quale Sistema parla?  Per quanto ne sappiamo la sua esperienza riguarda le aste immobiliari e le esecuzioni fallimentari al Tribunale di Taranto, è esatto?

È esatto. Ma quell’esperienza mi porta continuamente a scontrarmi con un altro sistema che è quello delle coperture reciproche tra magistrati, dei tentativi di amministrare la giustizia con artifizi e raggiri. È proprio quello che accade nel Tribunale di Taranto, ma non solo di Taranto, da anni, a proposito delle vendite all’asta e delle esecuzioni fallimentari, che ha costretto me e i miei clienti a denunciare i magistrati per i loro abusi.

Ci vuole spiegare meglio?

Certo, con notevole piacere. Mi spiego con un esempio. È notorio che io sia un sassolino nella scarpa di alcuni magistrati e di conseguenza devo essere fermata con ogni mezzo. Come? Attraverso processi e procedimenti artificiosi. E fin quando è così mi va anche bene. Loro se la cantano e se la suonano come vogliono, hanno sempre ragione e tu sei quella che, con le tue azioni, ostacoli il loro esercizio della funzione giurisdizionale, che nelle loro teste gode di una legittimità a prescindere, cioè a prescindere dalla legge. Altrettanto notorio è che se in qualche modo metti in discussione qualcuno di loro, anche con eventuale denuncia penale,  i colleghi hanno il ‘dovere’ di tutelare il ‘malcapitato’ e in ciò la legalità va a farsi friggere. Mi soffermo su un episodio che secondo me può offrire un quadro piuttosto chiaro di quello che affermo.

Dopo tutte quelle accuse, qualche episodio a riscontro ha il dovere di fornirlo.

Certo. È opportuno che io faccia un accenno all’antefatto per consentire di capire anche a chi nulla conosce. Dopo circa 11 anni di sopportazione degli attacchi che mi sono stati riservati da pezzi della magistratura – sia nella professione (con rigetti di cause fondate e revoche di gratuiti patrocini) che a causa di essa (con situazioni che ho ritenuto vere e proprie trappole) – ho sporto la mia denuncia nei confronti di alcuni magistrati di Taranto (Paiano e Federici, per iniziare). Gli stessi si erano resi responsabili di vari reati che, nel complesso, realizzavano in mio danno un vero e proprio stalking giudiziario…

Faccia un esempio dei reati che avrebbero commesso questi magistrati

Un esempio semplice. Due persone anziane miei clienti, sottoposte a esecuzione immobiliare, praticamente buttate in mezzo alla strada a 80anni. Emerge che l’avvocato della banca creditrice aveva già incassato la somma di circa 300 mila euro, a pagamento del debito, somma mai dichiarata e poi chiesta nuovamente, anche con gli interessi. Per cui siamo passati dal ‘non mi spetta altro’ iniziale, al ‘mi dovete ancora 600 mila euro’. Questo fatto grave di omessa dichiarazione di denaro ricevuto io l’ho dovuto scoprire da sola perché, fatta la domanda in udienza, (avete preso i soldi?) la risposta è stata uno scambio di sguardi tra l’avvocato della banca e il giudice Paiano, entrambi rimasti in silenzio. Successivamente, dopo diversi mesi, nel corso di un’udienza con la stessa controparte e davanti allo stesso giudice Paiano attacco verbalmente l’avvocato della banca che, rispetto ai miei clienti (due anziani buttati per strada come stracci vecchi), si era spinto ad accusarli di malafede. Qual è stata la risposta? La controparte rimane in silenzio, mentre il giudice Paiano davanti al mio cliente fa cadere su di me la responsabilità di quella situazione paradossale e mi rinfaccia di non aver fatto opposizione all’esecuzione immobiliare.  Il giorno dopo presento l’opposizione. E sa che succede? Il giudice rigetta l’opposizione. E allora impugno il provvedimento di rigetto. Sa che cosa ottengo? Una condanna per il mio cliente a pagare le spese in favore di chi aveva nascosto l’incasso di 300mila euro e un doppio deferimento alla Procura e all’Ordine degli avvocati, contro di me. Motivo? Azione temeraria. Dunque noi, io e il cliente, veniamo bastonati e il signore che prende 300mila euro e non lo dichiara, commettendo verosimilmente anche un reato, non ha subito alcun provvedimento. Questa situazione con tutto il pregresso di accanimenti e accadimenti vari, sempre sui procedimenti relativi alle aste fallimentari, io l’ho denunciata alla Procura di Potenza, competente per i procedimenti nei confronti di giudici del Tribunale di Taranto, il 19 settembre 2018. Una denuncia contro due giudici del Collegio giudicante che mi ha deferito alla Procura di Taranto, Federici e Casarano, e contro lo stesso giudice Paiano. È questo l’antefatto.

Ora ci dica il fatto.

Quella mia denuncia viene assegnata alla pm Veronica Calcagno, allora in servizio a Potenza. Ebbene, nonostante la specificità e gravità dei fatti denunciati, circostanziati e riscontrati, Calcagno tratta il procedimento a modello 45 (registro dei fatti non costituenti reato). Che c’entra il modello 45? Cioè una denuncia di quel tipo va iscritta e trattata a modello 21, ossia dei fatti costituenti reato. Ritengo che la pm abbia commesso quanto meno un abuso d’ufficio poiché in quel modo evita di esercitare l’azione penale nei confronti dei giudici da me denunciati: in pratica li tutela. Non mi resta che denunciare la Calcagno alla Procura di Catanzaro, competente per le vicende giudiziarie che riguardano i giudici di Potenza. E così la storia è andata avanti; ad ora sono finita a Napoli con un procedimento nelle mani del dott. Henry Jonh Woodcock , e mi fermo qui altrimenti mi indagano di nuovo.

No, deve spiegarci Napoli, e dirci che cosa è accaduto ancora. Qual era l’esempio che voleva farci?

Faccio un passo indietro. Nell’anno 2019 sono stata convocata dalla Procura di Potenza per rendere sommarie informazioni testimoniali. Chiedo di sapere per quale pratica, di quale cliente, e mi viene detto che è per tutto, tutto ciò che riguarda le aste immobiliari. C’era qualcosa che non mi convinceva e così è stato. Infatti mi viene presentata una pila di fascicoli e, con condotta dubbia, la pm Santoro, cerca di convincermi che il procedimento su mia denuncia dell’anno 2018, nei confronti dei giudici tarantini (Paiano, Federici e Casarano), aveva un numero, e un registro, diverso da quello che io sapevo essere stato iscritto e trattato dalla pm Calcagno. Lo so che è complicato, ma provo a spiegarmi. Lei sa che quando si apre un procedimento o fascicolo gli si attribuisce un numero e un modello di trattamento (45, 46, 21 ecc.).  Ebbene la pm Santoro insiste, in quella circostanza, sul fatto che la mia denuncia nei confronti dei giudici di Taranto abbia generato un procedimento con altro numero e a modello 46 (notizie anonime di reato) trattato da altri pm. Capisco che l’artifizio serve a coprire la pm Calcagno e magari a colpirmi con un procedimento per calunnia. Procedimento per calunnia nei miei confronti che avevo previsto già da mesi. E mi spiego.  Se il procedimento che è stato generato dalla mia denuncia contro i giudici tarantini non è quello trattato dalla Calcagno, la mia denuncia contro la Calcagno ha un presupposto falso. La pm Santoro vuole convincermi di questa circostanza, e verbalizzarne la mia approvazione, con la convinzione che io non avessi intuito la trappola. Io mi oppongo in tutti i modi: il procedimento generato dalla mia denuncia contro i giudici di Taranto, esiste, è lì davanti a noi, con il numero 2301/2018 a modello 45 trattato dalla pm Calcagno. Tutto il resto è un fascicolo creato ad hoc con i documenti relativi alla mia denuncia contro i giudici tarantini a cui è stato assegnato un numero, 554/18, a modello 46.

E arriviamo all’aspetto più inquietante. Preciso che le mie sit (sommarie informazioni testimoniali) sono state fonoregistrate dalla Procura e, come sempre si fa quando c’è la registrazione, accompagnate da un verbale sintetico scritto, dove io appongo la mia firma. Ebbene, allorché ho avuto tempo di leggere il verbale scritto delle mie sit mi è venuto un colpo al cuore perché ci ho letto l’esatto contrario di quello che io avevo dichiarato alla pm in sede di escussione: lei cerca di convincermi di una cosa, io dico un no netto e poi loro ci scrivono ciò che volevano che io dicessi e che io non ho mai detto; ve lo dimostro con uno stralcio dell’audio delle mie sit.

Ma lei lo ha firmato quel verbale?

Certo e la firma è mia e la riconosco ma, come ho già detto al capo della procura di Potenza, l’unica spiegazione possibile è che quella parte di verbale, infedele rispetto alle mie dichiarazioni, fosse stata aggiunta dopo che mi era stato dato per la lettura; non lo avevo assolutamente letto e mai e poi mai avrei potuto sottoscrivere ciò che, da subito, e con fermezza ho rigettato affermando che si trattava di un falso. Mi chiedo: se non ci fosse stata la registrazione, come avrei potuto provare il mio diniego? E mi chiedo: se al mio posto ci fosse stata un’altra persona, un semplice cittadino a digiuno di procedure e diritto, come sarebbe andata a finire?

Ora ci spieghi come e perché questa storia coinvolge anche Napoli

Devo prima aggiungere che, mentre la mia denuncia contro la pm Calcagno è a Catanzaro, la stessa pm viene assegnata alla sede di Catanzaro e quindi la competenza passa a Salerno, con tutte le carte. A Salerno che cosa succede? Succede che la pm salernitana Guglielmotti esclude la Calcagno da qualunque reato e apre un procedimento a mio carico per calunnia ai danni della Calcagno e dei tarantini da ella coperti, Federici, Paiano e Casarano. Tutto come previsto. Ma c’è di più. La pm di Salerno chiede l’archiviazione anche nei confronti dei giudici tarantini e nei confronti di quelli pure mi accusa di calunnia, ma al tempo stesso, rispetto alle responsabilità di questi ultimi, dice che lei non può occuparsene perché non ha la competenza territoriale, che è appunto di Potenza. Quindi nei confronti dei tarantini accusati lei non è competente ad accertare nulla, ma lo è competente se gli stessi sono parti offese ed io l’indagata: i classici due pesi e due misure. Tutto sistemato. A quel punto denuncio la pm Guglielmotti per abuso d’ufficio. E siccome la competenza per vicende giudiziarie che coinvolgono i magistrati di Salerno è della Procura presso il Tribunale di Napoli, eccoci arrivati a Napoli, dove ho trovato il pm Henry John Woodcok. E qui sono accadute altre storie che sarebbe lungo raccontarle. Sarà per un’altra volta, promesso.

Me lo lasci dire, questa storia è assurda, ma non giustifica l’esistenza di un sistema

Le assicuro che questo modo di amministrare la giustizia è più esteso di quanto si pensi. Certo, non si deve generalizzare e io non generalizzo, parlo per esperienza diretta e per riscontri inconfutabili. Basta guardare a quanto accade sulle aste fallimentari in genere. Lei stesso su questo giornale ha scritto numerosi articoli e inchieste sul funzionamento della giustizia nel Tribunale civile di Taranto e non solo in relazione alle aste: dunque sa bene di cosa parlo. Non è un caso eccezionale, è la regola. Mi lasci fare qualche altro esempio, brevemente.

Prego

Nella questione di un mio cliente a Bari, signor Caprio Alessandro, sono stata costretta a proporre poco meno di una decina di procedure perché poi una tira l’altra e tra queste c’era un’opposizione contro la revoca del gratuito patrocinio. L’ha trattenuta per sé il giudice Ruffino. Ora, questo giudice si è già pronunciato in una vicenda connessa, ma soprattutto è stato denunciato in sede penale per vari abusi, gli ho solo chiesto di astenersi dal trattare quel giudizio, quanto meno per opportunità. Lui che ha fatto? Una cosa straordinaria: ha fatto un processo alle intenzioni e ha voluto intendere la mia semplice istanza di astensione come se si trattasse di un ricorso per ricusazione, peccato che sono due cose totalmente differenti: l’istanza è una sollecitazione, un invito, mentre il ricorso sospende il processo in corso e dà seguito ad un altro processo, quello appunto sulla ricusazione. A quel punto scrivo al Tribunale di Bari spiegando che non avevo proposto alcun ricorso per ricusazione e che non potevano suonarsela e cantarsela come volevano, anche perché l’eventuale rigetto comporta conseguenze per il ricorrente ricusante. E quindi d’accordo con il cliente non mi sono presentata all’udienza di un processo-farsa per ricusazione. E loro che fanno? Celebrano l’udienza di un ricorso mai proposto e condannano il mio cliente – da essi ritenuto ricusante temerario – all’ammenda per aver proposto un ricorso che non avrebbe dovuto proporre e che mai ha proposto. Studierò qui il da farsi e chiederò a Ruffino di accollarsi la sanzione, tanto più che ha fatto tutto lui. Potrei raccontarle di un anno e mezzo di discussione in tribunale, con la nomina di due consulenti (ingegnere e geometra) per valutare se i tavoli, le sedie, le affettatrici eccetera eccetera (cioè il complesso degli strumenti di lavoro di un macellaio) fossero fissi nell’immobile o rimovibili. Potrei raccontarle di procedimento penale per turbativa d’asta che resta così, nell’etere, oltre i termini di legge, forse perché l’aggiudicatario è un senatore dei Cinque stelle. Potrei dire della morte di un cliente la mattina di uno sgombero illegittimo. Potrei fare tanti altri esempi. Ma le ricordo che di queste vicende vi siete occupati ampiamente con questo giornale.

Sembrano episodi gravissimi

Lo ripeto, per quanto mi riguarda non sono episodi, sono la regola. La regola che prevale, non scritta ma cogente e applicata sempre, è quella per cui tu hai sempre torto e loro, di contro, sempre ragione. Io non so più dove denunciare e soprattutto non ci credo più nell’istituzione Giustizia, dai vertici agli ultimi anelli. Quando posso, evito di accettare mandati per non arrecare danno a chi vorrebbe farsi difendere da me. E sconsiglio vivamente di intraprendere le vie giudiziarie per evitare che la gente possa ottenere un danno maggiore di quello di cui chiede riparazione. Il classico mantra “noi confidiamo nella magistratura” è pura retorica. Diciamo che il mio livello di fiducia in questa giustizia, per ciò che vedo e vivo, è pari a zero.

E lei, nonostante tutto, con questo livello di fiducia nella magistratura continua ad esercitare la professione? Mi sembra contraddittorio

Guardi la situazione è peggiore di quella che ho cercato di raccontare. Mi sto contenendo per evitare il solito attacco e non perché temo quella gente, ma perché non ho tempo per scrivere e scrivere ancora. Ricordo che non molti mesi fa, a marzo 2021 se non sbaglio, ho avuto un colloquio con il Presidente del Tribunale di Lecce dove pendono alcune mie cause civili che io ritengo palesemente pilotate da Taranto. Nel corso del colloquio ho rappresentato al magistrato che a causa delle forzature di certi magistrati si costringe la gente a fare denunce che la gente nemmeno vuole fare, ma vi è costretta. Il Presidente, che comunque è stato molto garbato con me, mi ha detto parole di questo senso: “ma le denunce non servono a niente!”. Ed è così. Mi creda. Solo le loro denunce contro la gente normale vanno avanti, ma quelle contro di loro muoiono sempre e miseramente in un nulla di fatto: e tutto dopo anni e anni di spese, lotte e speranze. Pensi lei che, alla Procura di Potenza, un funzionario al quale facevo domande per capire ed esprimevo dubbi sulla condotta del pm di turno mi ha risposto serafico: “lei lo sa che i PM hanno un potere assoluto”. Io continuo ad esercitare solo perché so che, altrimenti, lascerei da soli tanti clienti vessati, massacrati, derubati, umiliati: sono loro che mi riacchiappano ogni volta che io lascio idealmente la professione, mi riacchiappano e mi dicono “ma dove vai… tu sei nata avvocato”!

Secondo lei che cosa bisognerebbe fare per superare questa situazione nel modo di amministrare la giustizia?

È sufficiente che magistrati applichino la legge, è così difficile? È sufficiente che i magistrati assumano la responsabilità dei propri errori fino in fondo. D’altronde hanno solo vinto un concorso pubblico, non li ha mica nominati Dio.

Ma dica la verità, un barlume di speranza, sia pure minimo, che le cose possano cambiare le è rimasto?

Le dico la verità, si: ho imparato a credere contro la ragione e a sperare contro la speranza e questo mi porta a continuare le mie lotte e le mie proteste.

Spero di incontrala per una storia bella di giustizia.

Corruzione nei fallimenti: chiuse le indagini per il giudice Rana. Chiuse le indagini anche per altri dieci professionisti indagati. Da quotidianodellumbria.it il 13 Novembre 2020. La Procura di Firenze ha decretato la chiusura delle indagini per il Giudice Umberto Rana, ex presidente della sezione fallimentare del tribunale di Perugia, indagato per corruzione, falso e abuso di ufficio. Il magistrato, molto conosciuto a Perugia per aver salvato nel 2017 la vita ad una collega Francesca Altrui, aggredita in tribunale da un imprenditore destinatario di un'esecuzione immobiliare, è stato accusato di aver ricevuto, tra il 2018 e il 2019, diverse agevolazioni, come favori personali o buoni acquisto, in cambio di consulenze ad amici e conoscenti. La difesa del Giudice Rana, affidata all'avvocato fiorentino Francesco Maresca, ha definito le accuse “fumose” dal momento che le ipotesi appaiono come “vaghe e il falso si basa non su fatti ma su valutazioni”. Oltre al giudice sono state chiuse le indagini anche per altri 10 indagati di varie professionalità, ai quali sono stati contestati reati a vario titolo che vanno dalla corruzione, per alcuni, fino all’abuso e al falso per altri.

LA RICOSTRUZIONE DEI FATTI E IL CASO DUCHINI. L’inchiesta condotta dalla Procura di Firenze sui presunti illeciti da parte del Tribunale fallimentare di Perugia sarebbe partita da un'altra inchiesta, quella relativa al caso Duchini, secondo cui l'ex procuratore aggiunto avrebbe rivelato notizie sottoposte a segreto istruttorio durante le indagini sul procedimento penale riguardante Franco e Giuseppe Colaiacovo, nel periodo a cavallo tra il 2016 e il 2017. A carico del giudice Rana, è stato infatti ipotizzato il reato di abuso d’ufficio in merito alla vicenda del caso Colaiacovo, in cui sono coinvolti anche Pier Francesco Valdina e Patrizio Caponeri (professionisti incaricati da Giuseppe Colaiacovo di presentare il ricorso per l'ammissione al concordato), e Andrea Nasini: il giudice li avrebbe suggeriti infatti all'imprenditore al fine di garantire il buon esito del suo procedimento. Secondo la ricostruzione da parte della Procura di Firenze (procuratore Luca Turco e sostituto Leopoldo De Gregorio), il giudice Rana avrebbe fornito “un ingiusto vantaggio patrimoniale permettendo a Pier Francesco Valdina e Patrizio Caponeri di prospettare all'imprenditore l'accoglimento del ricorso solo nel caso egli avesse incaricato alcuni professionisti”, che avrebbero quindi indotto Colaiacovo “a rinunciare ai suoi abituali professionisti”.

Aste truccate al tribunale di Lamezia Terme, indagini chiuse per28 indagati. Pasqualino Rettura su Il Quotidiano del Sud l'8 aprile 2021. A due anni di distanza dal blitz della Guardia di Finanza coordinato dalla Procura di Lamezia, il pm Santo Melidona ha emesso l’avviso conclusioni indagini per 28 indagati, ma in prima battuta erano 86 le persone coinvolte nell’operazione “Asta la vista – Nomos” che fece luce su un presunto meccanismo illecito che avrebbe condizionato per oltre un decennio le aste giudiziarie del tribunale di Lamezia Terme. Tutto ruotava attorno alla figura di Raffaele Calidonna, 59 anni, ritenuto l’artefice delle presunte aste truccate. Secondo le accuse, Calidonna in taluni casi partecipava personalmente e in altri si sarebbe avvalso di compiacenti collaboratori, tra cui avvocati e commercialisti, nonché “ganci” interni (tutti tra gli indagati) al palazzo di giustizia, e dell’interposizione fittizia di un’agenzia d’affari e servizi costituita ad hoc e intestata alla figlia di Calidonna. Le indagini ora sono state chiuse nei confronti dello stesso Raffaele Calidonna e della figlia Sara di 32 anni, nonché per Rosa Giampà 43 anni, Fabiana Aiello 38 anni, Pantaleo Ruocco 65 anni, Carlo Caporale 58 anni, Elia Anania 41 anni, Massimo Sereno 55 anni, Giuseppe Benincasa 59 anni, Antonio Iannazzo 64 anni, Vincenzo Iannazzo 31 anni, Chiara Caporale 28 anni, Attilio Floro 39 anni, Antonio Trovato 48 anni, Francesco Trovato 23 anni, Francesco Notaris 51 anni, Adele Benincasa 57 anni, Antonio Benincasa 26 anni, Francesco Benincasa 57 anni, Michele Amatruda 52 anni, Francesco Bevilacqua 48 anni, Gianpaolo Bevilacqua 53 anni, Gianfranco Caporale 58 anni, Benedetta Caporale 26 anni, Fulvio Amendola 62 anni, Danila Luana Mazzocca 49 anni, Nerea Mazzocca 27 anni, Vittorio Mazzocca 77 anni. Ad aprile del 2019 Raffaele Calidonna finì in carcere, mentre per altri 11 scattarono gli arresti domiciliari e per altri 9 furono disposte le interdittive (fu disposto un sequestro di beni per oltre 8 milioni di euro) ma gli indagati erano in tutto 86, fra i quali anche proprietari degli immobili finiti all’asta. Attraverso intercettazioni telefoniche, ambientali (anche negli uffici del tribunale), pedinamenti e appostamenti, la Finanza riuscì a mettere su il castello accusatorio che alla fine sfociò all’esecuzione delle misure per reati contro la pubblica amministrazione, tra i quali turbata libertà degli incanti, rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale, induzione indebita a dare o promettere utilità, e contro il patrimonio, tra i quali autoriciclaggio ed estorsione. L’indagine si incentrò su anomalie relative a numerose vendite giudiziarie nell’ordine di circa trenta aste pubbliche, che si sono tenute nel corso dell’anno 2018 presso il Tribunale di Lamezia Terme, ovvero presso l’associazione notarile ubicata all’interno dello stesso palazzo di giustizia, nell’ambito delle quali sarebbero state rilevate turbative finalizzate a dirottare l’esito finale verso l’obiettivo prefissato dagli indagati.

In carcere il giudice che incassava tangenti dalle famiglie di ragazzi morti negli incidenti o nati con malformazioni. Chiara Spagnolo,  Lucia Portolano su La Repubblica il 28 gennaio 2021. I genitori di un bambino disabile minacciati di perdere la patria potestà se non avessero corrisposto 150mila euro dei 2 milioni di danni liquidati dall’assicurazione al giudice civile di Brindisi Gianmarco Galiano, che li aveva aiutati a vincere la causa. E non è l'unico caso. I genitori di un bambino disabile minacciati di perdere la patria potestà se non avessero corrisposto 150mila euro dei 2 milioni di danni liquidati dall’assicurazione al giudice civile di Brindisi Gianmarco Galiano, che li aveva aiutati a vincere la causa. Il magistrato è stato arrestato insieme ad altre cinque persone in un’inchiesta su corruzione in atti giudiziari. Dalle indagini svolte dalla guardia di finanza di Brindisi, e coordinate dalla Procura di Potenza, emerge un sistema di malaffare, basato anche sulla disperazione e il dolore. Come quello delle famiglie di giovani deceduti o di bimbi nati con malformazioni, che sarebbero state aiutate a vincere cause civili milionarie, con l’obbligo di versare una parte del risarcimento al magistrato. Nel caso del bimbo nato con traumi per colpa medica si sarebbe trattato di 150mila euro, 300mila invece per la morte di una 23enne in un incidente stradale. In entrambi i casi - hanno ricostruito gli investigatori - il denaro sarebbe transitato sul conto corrente della suocera di Galiano (indagata) e le cause sarebbero state curate dalla moglie (oggi ex), l’avvocatessa Federica Spina, finita agli arresti domiciliari con l’accusa di estorsione. Oltre ai due ex coniugi sono stati arrestati l’imprenditore Massimo Bianco, titolare della Soavegel; il commercialista di Francavilla Fontana Oreste Milizia Pepe (entrambi in carcere); Annalisa Formosi, presidente dell’ordine degli ingegneri di Brindisi; l’avvocato Francesco Spina. Sono  indagati anche i giudici Francesco Giliberti (in servizio a Brindisi) e Giuseppe Marseglia  (in servizio al Tribunale civile di Bari e segretario del Consiglio giudiziario). Ventuno in totale le persone coinvolte nell'inchiesta, che dovranno rispondere a vario titolo, dei reati di corruzione in atti giudiziari, falsi in atto pubblico, concussioni, abusi d’ufficio, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, estorsione. Secondo le ipotesi accusatorie, Galiano avrebbe “abusato delle sue funzioni giudiziarie” distribuendo incarichi di consulenza per oltre 440mila euro presso il Tribunale fallimentare a professionisti amici e avrebbe inoltre pilotato cause, ottenendo in cambio somme di denaro. Le indagini bancarie effettuate dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza di Brindisi (guidato dal colonnello Gabriele Gargano) hanno documentato un’enorme mole di movimenti di denaro e anche un tenore di vita sproporzionato rispetto alle reali possibilità. Oltre all’attività di giudice, Galiano avrebbe gestito aziende agricole e agrituristiche, compreso un b&b aperto con quelli che vengono considerati i proventi delle attività illecite. Gli imprenditori amici, dal canto loro, avrebbero effettuato sponsorizzazioni gonfiate (Massimo Bianco, in particolare avrebbe pagato 220mila euro) per la sua imbarcazione a vela, la Kemit, che partecipava a importanti regate, come la Brindisi-Corfù. Insieme alle ordinanze di custodia cautelare, è stato notificato ad alcuni degli indagati il sequestro di beni per 1,2 milioni.

Brindisi, giudice in carcere per giro di mazzette e favori. In tutto gli indagati sono ventuno. Arrestato anche il commercialista del magistrato e ai domiciliari la presidente dell'ordine degli ingegneri di Brindisi. Emanuela Carucci, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Finisce in manette un giudice del tribunale di Brindisi. È Gianmarco Galiano di 48 anni originario di Manduria, un Comune in provincia di Taranto, e residente a Oria, in provincia di Brindisi. Si tratta di un giudice civile presso la sezione contenzioso ed era a capo di una associazione a delinquere. Il gip ha disposto anche il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, di denaro e beni per 1,2 milioni di euro. A portare avanti le indagini gli agenti della guardia di finanza che hanno scoperto affidamenti dati da Galiano ad amici professionisti in cambio di regali, come orologi di valore, e buste in denaro contante. In soli tre anni il giudice avrebbe ricevuto circa 400mila euro e questo denaro sarebbe stato investito anche nell'acquisito di una masseria. L'uomo, come detto, era a capo di un'associazione per delinquere di cui avrebbero fatto parte tredici persone. I reati commessi sono corruzione in atti giudiziari, falsi in atto pubblico, concussioni, abusi in atti d'ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni, in tutto o in parte inesistenti. Il giudice è stato condotto in carcere dai finanzieri in esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare ottenuta dalla procura della Repubblica di Potenza. Gli indagati sono in tutto ventuno e tra loro c'è anche la ex suocera del magistrato. A finire in manette anche un commercialista di Francavilla Fontana, un Comune in provincia di Brindisi, Oreste Pepe Milizia, che secondo gli inquirenti era il "braccio destro del giudice" e l'amministratore di una società di Francavilla Fontana che produce e vende all'ingrosso prodotti alimentari, Massimo Bianco. In merito a quest'ultimo caso, come si legge sul giornale locale "BrindisiOggi", l'azienda di alimentari, la Soavegel, ha dichiarato di avere "piena fiducia nell’estraneità del nostro amministratore". Ai domiciliari è finita anche la presidente dell'ordine degli ingegneri di Brindisi, Annalisa Formosi,e due avvocati. Altri due giudici del tribunale di Brindisi, invece, sono rimasti a piede libero. L'inchiesta nasce da una perquisizione nello studio di Milizia del 4 luglio 2017 sotto il coordinamento della procura di Brindisi che ha ceduto il testimone a quella di Potenza, per competenza funzionale quando è emerso il nome del magistrato. Dalle indagini è emerso che il commercialista "si prestava a predisporre per conto di Galiano le motivazioni di una serie di sentenze di processi tributari in seno ai quali il magistrato era relatore", come ha scritto nell'ordinanza il giudice per le indagini preliminari. Le indagini incrociate sono iniziate anche in concomitanza di un altro fatto. Il funzionario di una banca segnalò l'apertura di un conto corrente in favore della suocera del giudice, indagata a piede libero, con una provvista di 150mila euro. Da qui è emerso che dopo alcuni contenziosi civili c'erano degli accrediti. Più nello specifico, in un episodio, sul conto della suocera arrivarono 300mila euro. Il caso giudiziario era il risarcimento di un 1,1 milione per i genitori di una ragazza di 23 anni morta in un incidente stradale. Poi un altro bonifico di 150mila euro che, secondo l'accusa, sarebbero stati estorti dal giudice ai genitori di un bambino nato con traumi permanenti per colpa dei medici. "In tali procedure era nominata l'ex moglie del giudice, l'avvocato Federica Spina, come legale patrocinante", spiega in una nota il procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio. "Nel primo caso, il giudice otteneva anche che la moglie fosse nominata erede testamentaria, in cambio della protezione giudiziaria, mentre nel caso del bambino, le somme erano state ottenute con la minaccia di sottrarre la potestà sul figlio nei confronti di genitori che avevano un bimbo disabile" ha aggiunto, ancora, Curcio. In un altro caso, poi, un imprenditore che aveva procedimenti pendenti dinanzi al tribunale di Brindisi "Aveva concesso somme a Galiano per mezzo della sua azienda sotto forma di sponsorizzazioni fittizie ad associazioni sportive create da Galiano stesso". Le associazioni gestivano sulla carta una barca a vela di Galiano. Ci sono una serie di intercettazioni poi, anche delle chat su "WhatsApp", che avrebbero incastrato il giudice. In una conversazione Massimo Bianco e Oreste Pepe Milizia organizzavano un viaggio a Bari per comprare un orologio del valore di 13mila euro da dare evidentemente al magistrato. Bianco sosteneva di avere la disponibilità di sette-otto bottiglie di vino, ma ne servivano tredici. Si accordano per portare ciascuno una cassa da sette bottiglie. A Galiano, Bianco avrebbe regalato un orologio da 25mila euro e una busta con 5mila euro, a titolo di omaggio, per l'influenza che il giudice era in grado di esercitare nei processi che lo vedevano coinvolto.

Gia. Gre. per brindisireport.it il 28 gennaio 2021. In un caso avrebbe estorto 150mila euro ai genitori di un bambino nato con traumi permanenti causati da colpa medica, che avevano promosso un contenzioso civile contro una compagnia assicurativa. In un altro avrebbe ottenuto 300mila euro dai genitori di una 23enne morta a seguito di incidente stradale, sempre nell’ambito di un contenzioso civile contro una compagnia assicurativa. Gianmarco Galiano, giudice civile presso la sezione Contenzioso del tribunale di Brindisi, si sarebbe fatto erogare indebitamente somme di denaro, in cambio del buon esito delle cause risarcitorie. Questa una delle accuse che gli sono state mosse dalla Procura di Potenza, competente per giurisdizione sui giudici del tribunale di Brindisi, nell’ambito di una inchiesta condotta dal Nucleo di polizia economico finanziarie della guardia finanza di Brindisi e dalla sezione di polizia giudiziaria della procura lucana (aliquota locale) che stamattina (giovedì 28 gennaio) ha portato all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del tribunale di Potenza, nei confronti di sei indagati.

Gli arrestati. Lo stesso Galiano, figura apicale nell'inchiesta, è stato condotto in carcere. Medesima misura cautelare è stata adottata anche nei confronti di Oreste Pepe Milizia, commercialista di Francavilla Fontana, e Massimo Bianco, amministratore della ditta Soavegel, con sede a Francavilla Fontana, operante nel settore della produzione e vendita all’ingrosso di prodotti alimentari. Sono stati arrestati in regime di domiciliari, invece, Annalisa Formosi, di Francavilla Fontana presidente dell’Ordine degli ingegneri di Brindisi; l’avvocato Francesco Bianco, di Francavilla Fontana; l’avvocato Federica Spina, di Francavilla Fontana. Altre 15 persone sono indagate a piede libero. Fra queste anche altri due magistrati del tribunale di Brindisi: Francesco Giliberti, di Martina Franca (Taranto) e Giuseppe Marseglia, di Bari. A vario titolo vengono contestate le accuse di estorsione, corruzione passiva in atti giudiziari, corruzione attiva, associazione per delinquere, riciclaggio, auto-riciclaggio, emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Oltre alle misure cautelari, il gip ha disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro e beni per un valore complessivo pari a circa 1,2 milioni di euro. Nelle attività di notifica del provvedimento restrittivo e nelle perquisizioni sono stati impiegati circa 100 finanzieri del comando provinciale di Brindisi. Da quanto appurato dagli inquirenti, il giudice Galiano avrebbe abusato delle sue funzioni giudiziarie, “facendone in alcuni casi moneta di scambio o strumento di indebita pressione, coinvolgendo in parte nelle sue attività illecite imprenditori e liberi professionisti che ricevevano nomine e incarichi presso il tribunale di Brindisi, quale giudice civile o fallimentare. Tramite indagini svolte anche presso istituti bancari, i finanziari hanno scoperto “rilevanti movimentazioni di denaro per centinaia di migliaia di euro in entrata sui conti correnti nella disponibilità di Galiano, nonché cospicui investimenti dello stesso in diverse attività economiche, fra cui l’acquisto di una masseria”. Galiano avrebbe condotto un tenore di vita sproporzionato rispetto alle sue entrate ufficiali, “risultando altresì dedito – si legge in una nota della Procura di Potenza – ad attività economiche quali la conduzione di imprese agricole ed agrituristiche, gestione di attività di bed and breakfast, che avviava in seguito e nel corso della sua attività giudiziaria”.

"Minacce per ottenere somme di denaro". In particolare alcuni accrediti risulterebbero provenire, attraverso complesse operazioni bancarie, dalle somme erogate a titolo di risarcimento danni riconosciuti da compagnie assicurative. Nel 2007 una ragazza di 23 anni perse la vita in un incidente stradale. I genitori, al termine della causa promossa contro la compagnia assicurativa, ottennero un risarcimento pari a circa 1,1 milioni di euro, di cui 300 mila sarebbero giunti, da quanto accertato dai finanzieri, nella disponibilità di Galiano, attraverso il conto intestato alla suocera, indagata a piede libero per riciclaggio. Non solo. Nel 2011 un bambino nacque con traumi permanenti causati da colpa medica. Anche in questo caso il contenzioso civile aperto dai genitori contro la compagnia assicurativa culminò con il riconoscimento di un risarcimento pari a 2 milioni di euro, di cui 150 mila sarebbero stati estorti dal giudice, transitando sempre dai conti correnti della suocera. Galiano quindi, attraverso condotte “corruttive ed estorsive” e “con minacce o in cambio del buon esito delle cause risarcitorie, si faceva erogare – si legge ancora nella nota della Procura – somme di denaro. In tali procedure, tra l’altro, risultava nominata l’ex moglie, l’avvocato Federica Spina, quale legale patrocinante, anche lei raggiunta da misura cautelare con gli addebiti di estorsione, corruzione ed altro”. Nel caso del bambino con traumi permanenti, inoltre, Galiano avrebbe ottenuto le somme di denaro con la minaccia di sottrarre la potestà sul figlio, nei confronti dei genitori”. Nel caso del contenzioso scaturito dal decesso della 23enne in un sinistro stradale, invece, non solo il giudice avrebbe ottenuto la somma pari a 300 mila euro in cambio della protezione giudiziaria da lui assicurata, ma avrebbe altresì ottenuto che sua moglie fosse nominata dai corruttori quale erede testamentaria.

Sponsorizzazioni fittizie da parte dell'imprenditore Bianco. Per quanto riguarda il ruolo dell’imprenditore Massimo Bianco, gli investigatori sono risaliti a elargizioni per complessivi 220mila euro che l’indagato, tramite la sua azienda Soavegel, avrebbe concesso al giudice Galiano (quale corrispettivo della protezione giudiziaria da questi assicurata) sotto forma di quelle che, sulla base di gravi indizi, si è ritenuto essere sponsorizzazioni “fittizie” o “gonfiate” che l’azienda avrebbe assicurato ad associazioni sportive (create ad arte da Galiano e da Pepe Milizia), che gestivano (solo sulla carta) un veliero di proprietà di Galiano (ma, come detto, fittiziamente nella disponibilità di tali associazioni) che in sostanza, non solo consentivano al giudice di utilizzare e godersi l’imbarcazione senza oneri a proprio carico, ma che di fatto rappresentavano una ulteriore entrata per il magistrato. Secondo gli inquirenti tali erogazioni dell’industriale rappresentavano la contropartita di una tutela giudiziaria che Galiano avrebbe assicurato a Bianco che, “per ovvie ragioni- si legge nel comunicato della Procura – aveva, sia attraverso le sue imprese che attraverso suoi congiunti, numerosi procedimenti civili pendenti davanti al tribunale di Brindisi”.

La genesi dell'inchiesta. Ma come sono iniziate le indagini? L’input è arrivato nel luglio 2017, quando le fiamme gialle brindisine, nell’ambito di un altro procedimento penale incardinato presso la Procura della repubblica di Brindisi, hanno effettuato delle perquisizioni presso lo studio del commercialista Milizia, durante le quali è stata sottoposta a sequestro numerosa documentazione cartacea e digitale. Le indagini hanno consentito di appurare che Milizia si sarebbe prestato a “predisporre, per conto di Galiano, le motivazioni di sentenze pronunciate in esito a processi tributari nell’ambito dei quali il predetto ricopriva l’incarico di giudice presso la ‘Commissione tributaria regionale Puglia”. Galiano, Milizia ed altri professionisti della provincia di Brindisi che hanno prestato la loro opera presso il tribunale dii Brindisi devono rispondere del reato di associazione per delinquere finalizzata al mercimonio degli incarichi e dei provvedimenti giudiziari. Si tratta di un sodalizio “nel cui ambito – si legge nella nota della Procura – da una parte Galiano distribuiva incarichi ai suoi amici professionisti e, dall’altra, questi ultimi si prestavano ad agevolare il giudice nelle sue diverse attività di occultamento/reinvestimento di proventi illeciti”. In tale contesto, in particolare, è stato accertati l’affidamento, da parte di Galiano, alla ristretta cerchia di amici e sodali, di numerosi e remunerativi incarichi professionali (per circa 400mila euro complessivi di quelli individuati).

Nota della Soavegel. "Il Consiglio di Amministrazione della Soavegel S.r.l., nel prendere atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della Repubblica competente che, nell’ambito di una più ampia e variegata inchiesta giudiziaria, afferiscono alla persona del dott. Massimo Bianco, Amministratore Delegato della Soavegel S.r.l., esprime piena e convinta fiducia dell’assoluta estraneità dello stesso dott. Bianco ai fatti in corso di indagine che, comunque, risultano non interessare l’operato della Società. Nell’auspicare che la Magistratura possa fare piena luce sull’intera vicenda nel più breve tempo possibile, acclarando la verità dei fatti che escludano la responsabilità del dott. Bianco, si precisa che la Soavegel S.r.l. continua a svolgere tutte le proprie attività con operatività assolutamente piena ed immutata".

“MAZZETTE” NEL TRIBUNALE DI BRINDISI : 6 ARRESTATI FRA CUI UN GIUDICE. 21 PERSONE INDAGATE COMPRESI DUE MAGISTRATI. Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2021. Le indagini per associazione a delinquere e su presunti favoritismi nelle vendite fallimentari inizialmente sono state coordinate dal sostituto procuratore di Brindisi Raffaele Casto, e successivamente in seguito al coinvolgimento dei magistrati sono state trasferite a Potenza, per competenza funzionale, coinvolge avvocati, ingegneri e altri professionisti. Anche il giudice Gianmarco Galiano del Tribunale fallimentare di Brindisi tra le sei persone arrestate su mandato del gip di Potenza, nell’ambito di un’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, che coinvolge altri due magistrati al momento indagati. Galiano era stato coordinatore della sezione distaccata di Francavilla Fontana e successivamente giudice della sezione Fallimentare del Tribunale di Brindisi. L’inchiesta era partita nel 2017 in seguito alla richiesta di concordato preventivo avanzata da una società del Brindisino. Le indagini inizialmente sono state coordinate dal sostituto procuratore di Brindisi Raffaele Casto, e successivamente in seguito al coinvolgimento dei magistrati sono state trasferite a Potenza, per competenza funzionale. Tra il 2017 e il 2018 sono state eseguite una serie di perquisizioni negli studi dei professionisti coinvolti nelle procedure fallimentari. Questa mattina su ordine della Procura di Potenza che ha ereditato l’inchiesta iniziale avviata dalla Procura di Brindisi, sono stati arrestati dalla Guardia di Finanza con le ipotesi di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, oltre al giudice Gianmarco Galiano, anche l’imprenditore Massimo Bianco e il commercialista Oreste Pepe Milizia. Posti agli arresti domiciliari: l’avv. Federica Spina ex moglie del giudice Galiano, l’avv. Francesco Bianco e Annalisa Formosi ex presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brindisi, moglie del commercialista Pepe Milizia . Risultano essere cugini l’imprenditore Massimo Bianco e e l’avv. Francesco Bianco , legati quindi anche da rapporti di parentela. L’associazione sarebbe stata finalizzata a compiere reati di corruzione in atti giudiziari, falsi in atto pubblico, concussioni, abusi d’ufficio, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni in esistenti. Il “malaffare” giudiziario ruotava intorno alle consulenze ed incarichi giudiziari che sarebbero stati assegnati illecitamente. Sono 21 le persone indagate al momento, tra i quali due magistrati in servizio nella sezione Fallimentare del capoluogo brindisino: Francesco Giliberti e Giuseppe Marseglia, “indagati a vario titolo e secondo la rispettiva responsabilità” . Il procuratore di Potenza, Francesco Curcio, si è recato personalmente a Brindisi per coordinare il lavoro della Guardia di Finanza, che sta effettuando delle perquisizioni.

Brindisi, mazzette in Tribunale: un giudice tra i 6 arrestati. Indagate 21 persone, anche due magistrati. Tutti i nomi. Blitz della Gdf . L'accusa è associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Gennaio 2021. Professionisti e magistrati della Fallimentare di Brindisi sono stati arrestati stamattina dalla Gdf su ordine della Procura di Potenza con le ipotesi di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Tre persone in carcere (il giudice Gianmarco Galiano, l'imprenditore Massimo Bianco e il commercialista Francesco Pepe Milizia) e altre tre ai domiciliari: l'ex moglie di Galiano, l'avv. Federica Spina, l'avv. Francesco Bianco e Annalisa Formosi, moglie di Pepe ed ex presidente ordine ingegneri Brindisi. L'imprenditore Massimo Bianco e e l'avv. Francesco Bianco sono legati da rapporti di parentela (cugini). Ci sono 21 persone indagate, tra cui due magistrati: Francesco Giliberti e Giuseppe Marseglia, «indagati a vario titolo e secondo la rispettiva responsabilità», in servizio nella sezione Fallimentare del capoluogo dove si trova il Procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio. Per quanto riguarda Marseglia, la sua «posizione sembrerebbe assolutamente marginale rispetto al complesso delle condotte contestate»

I NOMI DEGLI INDAGATI 

-  Ada Argentieri, 69enne di Francavilla Fontana

-  Francesco Bianco, 47enne di Francavilla Fontana

-  Massimo Bianco, 50enne di Francavilla Fontana

-  Maria della Crove Brunetti, 78enne di Manduria

-  Mauro Calò, 44enne di Galatina

-  Antonio De Giorgi, 50enne di Brindisi

-  Olga Desiato, 41enne di San Pietro Vernotico

-  Annamaria Di Coste, 44enne di Francavilla Fontana

-  Pietro Di Coste, 47enne di Francavilla Fontana

-  Annalisa Formosi, 43enne di Francavilla Fontana 

-  Vincenzo Francioso, 54enne di Mesagne

-  Gianmarco Galiano, 49enne di Manduria

-  Francesco Giliberti, 59enne di Martina Franca

-  Concetta Alessandra Lapadula, 52enne di Francavilla Fontana

-  Giuseppe Marseglia, 43enne di Bari

-  Alessia Modeo, 49enne di Manduria

-  Rocco Palmisano, 58enne di Francavilla Fontana

-  Marina Peluso, 44enne di Nardò

-  Oreste pepe Milizia, 44enne di Brindisi

-  Massimo Ribezzo, 58enne di Oria 

-  Federica Spina, 48enne di Mesagne

FALLIMENTI PILOTATI E INCARICHI SPARTITI - Ruota attorno a incarichi giudiziari e consulenze, che sarebbero stati «spartiti" illecitamente l’inchiesta della procura di Potenza sull'attività della sezione fallimentare del Tribunale di Brindisi che ha portato all’arresto di un giudice civile, Gianmarco Galiano, e di altre cinque persone. Tra i 21 indagati, tredici sono coloro che sono accusati di avere partecipato a una associazione per delinquere. Secondo quanto contestato, l’associazione sarebbe stata composta da professionisti e consulenti e finalizzata a compiere reati di corruzione in atti giudiziari, falsi in atto pubblico, concussioni, abusi d’ufficio, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni in esistenti. Ruolo di capo e promotore è attribuito al giudice Galiano, già coordinatore della sezione distaccata di Francavilla Fontana e poi giudice della sezione Fallimenti del Tribunale di Brindisi, che con Oreste Pepe Milizia (con ruolo di organizzatore) commercialista e l'imprenditore Massimo Bianco, oltre ad altri imprenditori e professionisti, avrebbero influito o dato la disponibilità a influire sulle decisioni giurisdizionali. Nel mirino anche sponsorizzazioni «gonfiate» per la barca a vela di Galiano che sarebbe stata utilizzata anche da altri componenti dell’associazione per delinquere.

GALIANO: AVREBBE PRESO SOLDI PER CAUSA DANNI A NEONATO - Avrebbe incassato parte dei risarcimenti concessi dalle assicurazioni in giudizi civili, il giudice Gianmarco Galiano, arrestato e condotto in carcere stamattina in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Potenza nei confronti anche di altre cinque persone. Si parla di una causa del 2007 sulla morte di una ragazza di 23 anni, e di un giudizio riguardante un bambino nato con traumi permanenti per colpa medica. Nel primo caso 300mila euro sarebbero stati messi a disponibilità del giudice attraverso il conto intestato alla suocera, indagata a piede libero. Nel secondo si tratta di 150mila euro.

BENI SEQUESTRATI - Il gip di Potenza ha disposto il sequestro preventivo di 1,2 milioni di euro nell’ambito dell’inchiesta che riguarda il giudice civile Gianmarco Galiano, in servizio a Brindisi e condotto in carcere questa mattina. Il magistrato avrebbe ricevuto denaro sui propri conti correnti e avrebbe potuto acquistare una masseria con soldi ricavati dalla gestione illecita di procedimenti civili. Avrebbe gestito imprese agricole e agrituristiche, gestito bed and breakfast. I soldi sarebbero finiti sul conto corrente della suocera, che risulta indagata a piede libero per riciclaggio. Ai domiciliari anche la ex moglie, del giudice Federica Spina, che sarebbe stata nominata patrocinante legale nelle cause finite sotto la lente degli investigatori. E in un caso sarebbe stata nominata «dai presunti corruttori come erede testamentaria». Galiano avrebbe inoltre ricevuto sponsorizzazioni fittizie o gonfiate per la sua barca a vela (che era falsamente nella disponibilità di associazioni sportive) da parte dell’azienda Soavegel, dell’imprenditore Massimo Bianco, in cambio di tutela giudiziaria in alcuni procedimenti civili pendenti dinanzi al Tribunale di Brindisi. L'inchiesta è partita da alcune perquisizioni eseguite nel luglio del 2017 nello studio del commercialista Oreste Pepe Milizia, accusato di essersi prestato a scrivere le motivazioni di sentenze tributarie per conto di Galiano, giudice della commissione tributaria regionale della Puglia. Galiano avrebbe inoltre conferito incarichi per 400mila euro ai suoi «amici» professionisti.

Terremoto giudiziario al Tribunale di Brindisi, tangenti al giudice dai parenti delle vittime di incidenti stradali. Redazione su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. Un terremoto giudiziario ha travolto il Tribunale di Brindisi e la città di Francavilla Fontana. Un giudice, professionisti e noti imprenditori sono finiti nella rete degli inquirenti. Contestate a vario titolo le accuse di estorsione, corruzione passiva in atti giudiziari, corruzione attiva, associazione per delinquere, riciclaggio, auto-riciclaggio, emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Tra questi compare anche il giudice Gianmarco Galiano, 48 anni e la sua compagna Federica Spina. Galiano avrebbe chiesto denaro per agevolare vari contenziosi giudiziari e in un caso in particolare sarebbe riuscito a fare nominare sua moglie erede testamentaria di una vittima di incidente stradale. Contro di lui il procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, ha lanciato parole durissime: “Il giudice non si è limitato a percepire denaro per agevolare un contenzioso giudiziario, riuscendo ad avere 289mila euro dai genitori di una ragazza morta in un incidente stradale, ma è riuscito a far nominare sua moglie erede testamentaria: un episodio unico nel panorama delle corruzioni giudiziarie, forse non solo italiano, la corruzione morti causa”. “Chi ha il compito di giudicare gli altri, deve essere prima di tutto intransigente verso se stesso”, ha detto Curcio. “L’impianto accusatorio è solido: gli accertamenti bancari dei finanzieri mostrano in maniera inequivocabile che ci sono state consistenti somme di denaro sui conti correnti riferibili al giudice”, ha aggiunto. La somma più importante, secondo quanto si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, di cui LaPresse ha potuto prendere visione, si riferisce al periodo in cui Galiano era giudice nella sezione staccata a Francavilla Fontana. Galiano avrebbe ottenuto denaro dalla tranche finale del risarcimento danno che una compagnia di assicurazioni aveva liquidato ai genitori di una ragazza morta a 23 anni nel 2007, in un incidente stradale. “C’è stata l’intermediazione di un maresciallo dei carabinieri della provincia di Brindisi”, ha spiegato Curcio. Il militare è a piede libero. In totale gli indagati sono 21. La procura ha presentato appello al Riesame per chiedere altri due arresti in carcere e quattro ai domiciliari. Ci sarebbero stati tentativi di inquinare le prove con operazioni bancarie e concordando con alcuni testi le versioni da fornire ai finanzieri di Brindisi. Ma ci sarebbe altro. “L’esame di alcuni testimoni è stato drammatico, hanno pianto impauriti per le minacce”, ha detto Curcio. Sono i genitori di un bimbo che, per colpa medica, aveva subito danni alla nascita: hanno ottenuto un risarcimento di 2 milioni di euro, 150mila euro pretesi dal giudice, dietro minaccia di far revocare la patria potestà per le precarie condizioni della casa in cui vivevano. I genitori avrebbero raccontato di aver avuto paura che il giudice potesse fare qualcosa di brutto perché disse di conoscere sindaco e assistenti sociali. Galiano, inoltre, avrebbe chiesto ai coniugi di comprare, con il denaro del risarcimento, una casa in Grecia. L’avrebbe usata quando arrivava con la barca a vela. Sono stati sequestrati orologi di valore, quote immobiliari e due auto. Il gip ha ordinato il sequestro, finalizzato alla confisca, per 1,2 milioni di euro.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Quelli che…la Lobby.

Liberalizzazioni all'italiana, la sfida dei taxi a Draghi e all'Ue. Fabrizio Cicchitto su Il Tempo il 27 novembre 2021. Caro direttore, vogliamo esprimere la nostra solidarietà ai tassisti e ai gestori delle spiagge. Diversamente da Fratelli d’Italia e da una parte dei leghisti siamo nettamente per l’Unione europea fondata, dal punto di vista politico, sul riferimento al Partito Popolare Europeo e al Partito Socialista Europeo e ad un rapporto positivo, come Stati-nazioni, con la Francia, la Germania, la Spagna è il Portogallo. Riteniamo anche che i cosiddetti partiti sovranisti esprimono interessi molto lontani da quello dell’Italia sia per quello che riguarda la ripartizione per le quote dei migranti in tutta Europa, sia per quello che riguarda l’adozione di politiche economiche espansive perché alcuni di essi hanno posizioni molto restrittive nei confronti delle nazioni dell’Europa meridionale. Ciò detto, però, ci sono alcune specificità italiane che vanno tutelate. Prima che scoppiasse la pandemia abbiamo avuto modo di girare molto all’estero: sfidiamo chiunque a spiegarci che in Europa e negli Stati Uniti il livello dei taxi e delle spiagge è migliore di quello nostro. Anzi, essi in molti casi sono nettamente inferiori: francamente molto spesso il trattamento delle spiagge fa letteralmente pena (molto lontano rispetto a quello raggiunto in molte località del nostro paese) e idem vale per i tassisti, molto spesso privi di autonomia personale e operativa, ridotti allo stato di riders e super sfruttati. Allora manifestiamo la nostra solidarietà ai tassisti che hanno manifestato a Roma: è una professionalità che non va distrutta, è gente che ha pagato con duri sacrifici licenze da 100 a 200mila euro che non possono certo essere liquidate con due soldi. Di conseguenza l’articolo 8 del ddl Concorrenza va rivisto prescindendo dagli schieramenti di maggioranza e di opposizione e anche dagli interessi dei singoli partiti. Bene ha fatto l’onorevole Fabio Rampelli a ricevere una rappresentanza di tassisti nella su qualità di vicepresidente della Camera. È indispensabile un rapporto positivo fra le istituzioni e questa categoria che sta svolgendo un ruolo assai importante in un momento così delicato con la vita nazionale.

Alessandro Barbera per "La Stampa" il 10 novembre 2021. Addio ai canoni irrisori del Twiga, delle spiagge a cinque stelle, del lussuoso commercio di attività con alti margini e bassissimi rischi. La sentenza è senza appello: dal primo gennaio 2024 tutte le concessioni balneari dovranno essere assegnate con gara, senza eccezioni. Il Parlamento non potrà concedere ulteriori proroghe, né i giudici potranno accogliere ricorsi. Non accade spesso che una sentenza del Consiglio di Stato sia così chiara nell'imporre il rispetto della normativa europea, in questo caso ignorata da quindici anni. Con un però: il termine indicato nella sentenza evita conseguenze politiche al governo Draghi e alla legislatura, la cui scadenza naturale è nel 2023. Per capire meglio la faccenda occorre scorrere le cinquanta pagine di motivazione pubblicate ieri, pochi giorni dopo la decisione della maggioranza di non sciogliere il nodo nel decreto Concorrenza. I punti da sottolineare sono i numeri 47 e 48 di due ricorsi fotocopia del Comune di Lecce e di un concessionario privato, Comet srl. Il primo motiva la decisione dell'ulteriore proroga di quasi due anni, l'intervallo di tempo «necessario per svolgere la competizione». Il secondo spiega cosa accadrà oltre quel termine, quando «tutte le concessioni in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendente da se vi sia o meno un soggetto subentrante». Il Consiglio di Stato, organo di ultima istanza della giustizia amministrativa, ha approvato le due sentenze in «adunanza plenaria» e in «sede giurisdizionale», ovvero con la massima forza giuridica possibile. Da Palazzo Chigi non filtra alcun commento ufficiale, ma è un fatto che a Draghi non poteva andar meglio di così. La scorsa settimana aveva deciso di soprassedere, limitandosi a promettere un'operazione «trasparenza» sui canoni esistenti. La sentenza risolve drasticamente il problema, evitando al governo di fare alcunché: i giudici amministrativi riconoscono che il tempo concesso per l'ulteriore proroga serve a preparare il settore al cambiamento. Dal 2024 i bagnini d'Italia potranno parlare una qualunque lingua dell'Unione, in ossequio alla direttiva Bolkenstein. I giudici hanno cancellato con un tratto di penna la proroga fissata dal governo gialloverde nel 2019, e che avrebbe garantito lo status quo per altri dodici anni, al 2034. Lo status quo è garantito ancora per due anni e due mesi. Non tutte le concessioni sono uguali, ma i numeri fanno impressione. Il Demanio incassa poco più di cento milioni di euro l'anno, la metà di quel che sulla carta dovrebbe (è alto il tasso di evasione), ma soprattutto si tratta di una frazione dei fatturati del settore. Non tutte le spiagge sono uguali, ma qui basti citare il caso del Twiga di Flavio Briatore, a Marina di Pietrasanta. Lo ricorda il verde Angelo Bonelli, da anni impegnato nella battaglia per il superamento del privilegio. Lo Stato incassa da Briatore 17mila euro l'anno a fronte di un fatturato superiore ai quattro milioni. «C'è di più: il titolare della concessione demaniale non è Briatore, bensì un signore che gli ha ceduto il ramo di azienda per 3,5 milioni». I siti di compravendita immobiliare sono pieni di annunci di «vendita attività» nelle spiagge. In sintesi: finora il mercato è stato florido, ma solo per i privati. La prima conseguenza della sentenza sarà sul valore di quelle compravendite. Per questo Federbalneari, dopo anni di lobbying verso i partiti, si dice «sbigottita», promette ricorso alla Corte di Giustizia del Lussemburgo e dice che sono a rischio un milione di posti di lavoro. Il leader della Lega Matteo Salvini, che nel 2019 fu artefice della proroga, denuncia la «svendita» per mano dei «burocrati di Bruxelles e dei loro complici». Più o meno le parole di Giorgia Meloni, mentre il Pd invoca «una riforma organica». Qualunque sarà, non potrà più permettere casi come quello del Twiga.

Andrea Ducci per il "Corriere della Sera" il 10 novembre 2021. «È una sentenza dirompente che preoccupa una fetta importante dell'economia del nostro Paese, in ballo ci sono decine di migliaia di famiglie, che vivono ore di sconforto». A dirlo è Antonio Capacchione, presidente del Sindacato Italiano Balneari-Confcommercio, che a botta calda definisce «sconcertante, prima ancora che sconvolgente» la decisione del Consiglio di Stato. Le due sentenze dei magistrati di Palazzo Spada si configurano agli occhi dei titolari di concessioni su spiagge e coste come una mazzata. Un colpo a cui il sindacato guidato da Capacchione intende dare al più presto una riposta. «Sto cercando di capire le motivazioni di una sentenza così sconvolgente. Sembra saltata la certezza del diritto e con essa la giusta tutela per gli investimenti effettuati, sulla base di una legge dello Stato, dagli operatori del settore», osserva Capacchione. L'obiettivo dei balneari è individuare al più presto la strada per un ricorso, poco importa se il Consiglio di Stato ha già specificato che non saranno ammesse proroghe. «Questa vicenda darà luogo a un lungo contenzioso, se necessario ricorreremo fino alla Corte europea dei diritti dell'uomo, per tutelare le persone che per causa di queste sentenze perderanno il lavoro e la propria attività». Prima di ricorrere alla corte internazionale con sede a Strasburgo il sindacato dei balneari intende studiare a fondo le carte. «Ci riserviamo di leggere con attenzione e deferenza le motivazioni della sentenza del Consiglio di Stato, poi decideremo le iniziative da intraprendere per la tutela di decine di migliaia di famiglie di onesti lavoratori gettate nell'angoscia più totale per la prospettiva di perdere il lavoro e i loro averi», ribadisce Capacchione. Che intanto attacca a testa bassa il Consiglio di Stato, colpevole a suo dire di «affermare la contrarietà al diritto europeo delle proroghe disposte dal legislatore e dalla Pubblica amministrazione in quanto automatiche e generalizzate e nel contempo stabilisce una proroga altrettanto automatica e generalizzata però solo di due anni». A prendersela con i giudici che ieri, in adunanza plenaria, hanno fissato il termine perentorio del dicembre 2023 per le concessioni è anche Federbalneari. «Non condividiamo le motivazioni giuridiche di questa sentenza. Quanto deciso dal Consiglio di Stato mette a repentaglio oltre 30 mila famiglie che lavorano nel settore turistico balneare, decretando il blocco degli investimenti con gravi ripercussioni anche a livello occupazionale. In questo modo, infatti, si rende fortemente instabile un settore che conta circa un milione di lavoratori», protesta Marco Maurelli presidente, di Federbalneari Italia. L'orientamento per le prossime mosse è analogo a quello di Sib - Confcommercio, ossia tentare un ricorso. «Siamo sbigottiti: faremo ulteriori valutazioni legali perché sarebbe stato auspicabile ricorrere alla Corte di Giustizia europea confermando l'attuale periodo transitorio per scrivere subito la riforma delle concessioni». Le due sentenze di ieri fanno paura soprattutto nelle regioni dove sono più numerose le attività titolari di concessioni. «La decisione del Consiglio di Stato sulla proroga solo fino al 2023 delle concessioni balneari è folle soprattutto perché rende migliaia di aziende ostaggio della magistratura amministrativa. Tutto questo è stato possibile a causa del lassismo di una politica che, per tanti anni, è stata indecisa, superficiale e chiacchierona determinando la scadenza delle concessioni demaniali marino-marittime tra due anni. Questo è un colpo forte contro migliaia di aziende familiari che vedono messa in discussione la loro storia e anni di lavoro e di impegno sulle nostre coste», dice il coordinatore del tavolo interregionale del Demanio e assessore di Regione Liguria, Marco Scajola. 

Luca Monticelli per "La Stampa" l'11 novembre 2021. Persino Flavio Briatore chiese allo Stato di poter pagare di più, imbarazzato per il canone annuale del suo Twiga, lo stabilimento a Marina di Pietrasanta di cui è proprietario. Una struttura che occupa quasi 5 mila metri quadrati di lido per un affitto che costa 17 mila euro, a fronte di incassi intorno ai 4 milioni. Il disagio di Briatore è l'emblema di un sistema impazzito, che avrebbe bisogno di un riordino e invece ha eluso i richiami europei alla concorrenza grazie alla pressione delle lobby del settore sulla politica. Puntualmente la questione torna d'attualità ogni anno con la finanziaria. Stavolta è stata la legge sulla concorrenza a fare da teatro a uno scontro tra partiti, soprattutto il centrodestra, e il premier Mario Draghi che voleva mettere a gara le concessioni di balneari e ambulanti per attuare finalmente la direttiva Bolkestein del 2006. Il risultato è stato un rinvio del nuovo assetto, confermando la proroga al 2024 del governo gialloverde. Il compromesso di Draghi - stilare una mappatura dell'esistente in vista di un futuro intervento - ha perso forza dopo la sentenza del Consiglio di Stato che dispone la validità delle concessioni solo fino al 2023. Poi, infatti, dovranno essere rimesse a gara. Al di là dell'affidamento diretto e delle barriere all'entrata che non garantiscono la concorrenza, l'elemento più controverso è rappresentato dal gettito che lo Stato incassa dall'affitto delle spiagge. Per dirla con Briatore, è troppo basso. 

Il far west italiano

Gli ultimi dati disponibili certificano 115 milioni di euro di entrate ogni anno, di cui solo 83 effettivamente riscossi. E risultano ancora da versare 235 milioni di canoni non pagati dal 2007. Come dice Legambiente, sembra quasi che allo Stato non interessino i soldi delle spiagge. Eppure il giro d'affari dei 12.166 stabilimenti è stato stimato da Nomisma in almeno 15 miliardi. La novità introdotta con il Decreto Agosto ha innalzato il canone minimo portandolo da 363 euro a 2.500 e questo dovrebbe generare 39 milioni in più. Nel rapporto sulle spiagge di Legambiente sono indicati gli affitti pagati dagli stabilimenti più noti, dove il costo di lettini e ombrelloni arriva a mille euro al giorno come nel caso del Twiga. Qualche esempio: A Santa Margherita Ligure, il Lido Punta Pedale versa all'erario 7.500 euro l'anno, il Metropole 3.600, il Continental 1.900. A Forte dei Marmi il Bagno Felice corrisponde 6.500 euro per 4.860 metri quadri occupati. A Punta Ala, l'Alleluja 5.200 euro per 2.400 metri e il Gymnasium 1.200 per 2.100 metri. A Capalbio, lo stabilimento l'Ultima Spiaggia versa 6 mila euro per 4.100 metri quadri. Il Luna Rossa di Gaeta ne sborsa 11.800 mentre il Bagno azzurro di Rimini 6.700. In Sardegna, per le 59 concessioni di Arzachena, lo Stato porta a casa solo 19 mila euro. Il Papeete beach di Milano Marittima del leghista Massimo Casanova paga 10 mila euro di affitto rispetto a un fatturato di 700 mila. In Italia non esiste una norma che stabilisca una percentuale massima di spiagge che si possono dare in concessione. Secondo gli ambientalisti oltre il 50% delle aree sabbiose è sottratto alla libera e gratuita fruizione. In Versilia si raggiunge il picco: 683 stabilimenti su 30 chilometri di costa, una media del 90% di spiagge occupate.

Il modello europeo

In Spagna nessuno affida le coste senza gare. Le proroghe sono legate agli effetti ambientali e vengono fissate condizioni per la protezione del demanio. In Francia la durata delle concessioni non supera i 12 anni e gli stabilimenti vanno smontati alla fine della stagione perché l'80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per sei mesi l'anno. In Grecia si organizzano selezioni per consegnare il bene pubblico e sono i comuni a decidere per quanto tempo il privato può gestire la spiaggia. Da noi, invece, cresce la protesta delle associazioni dei balneari, sostenute dal centrodestra. Il vicepresidente di Legambiente, Edoardo Zanchini, chiede alla politica «di cogliere l'occasione per inserire nei bandi elementi di premialità per i temi della sostenibilità e dell'inclusività».

La riforma della concorrenza. Notai, balneari e ambulanti: sulle concessioni rinviate Draghi fa come Carlo V. Angelo De Mattia su Il Riformista il 7 Novembre 2021. Carlo V era famoso perché aggirava gli ostacoli dei negoziati costantemente con il rinvio: “ domani”, era la sua espressione ricorrente. A lui, fatte le debite, enormi proporzioni ovviamente, fa pensare la “ mappatura” decisa per le concessioni balneari e per il commercio ambulante che ha consentito il rinvio, nell’ambito della proposta di legge delega per la riforma della concorrenza, di decisioni immediati su questi punti controversi nell’ambito della maggioranza di Governo. Con un atteggiamento bonario si potrebbe arrivare a sostenere che la “mappatura” sia manifestazione di una linea einaudiana del conoscere per deliberare”. Ma non vi è dubbio che la ripetizione del ricorso a questa interlocutoria soluzione – si veda la precedente “mappatura” delle abitazioni ai fini della riforma del catasto – costituisca (anche) un comodo espediente per cortocircuitare dissensi e, in qualche modo, dare una certa soddisfazione alla contrarietà della Lega nei confronti di un intervento normativo ora su questa materia. Il riferimento a una imminente decisione del Consiglio di Stato su questo argomento, che il Governo intende conoscere prima di decidere la proposta legislativa, costituisce una motivazione traballante dal momento che la sentenza sarà naturalmente adottata “de iure condito”, mentre adesso si deve costruire una nuova normativa e il “legislativo” non può essere subordinato al “giudiziario”. Resta il fatto che da un quindicennio la Direttiva europea Bolkestein è inattuata. Tutto ciò non toglie che la proposta di delega, tra aspetti positivi, altri negativi e alcune omissioni, complessivamente si muova nella giusta direzione, ma, scarsamente ambiziosa, avrà bisogno di modifiche e integrazioni in sede parlamentare per rendere più ampio ed efficace l’arco delle riforme da introdurre con i successivi decreti legislativi. In effetti, il rinvio riguarda anche altri punti importanti: dalla possibilità per i notai dell’estensione dell’ambito della loro competenza alla disciplina degli inceneritori, mentre si rafforzano i poteri dell’Autorità Antitrust, ma non si coglie la favorevole occasione per introdurre una complessiva rivisitazione delle Authority di regolazione, controllo e garanzia. L’Antitrust, per di più, oggi ha un vertice ridotto a due soli esponenti, presidente compreso. Basta una lieve indisposizione di uno dei due e il vertice già in difficoltà (si ricordi il noto brocardo “ duo non faciunt collegium”) sarebbe paralizzato. La previsione, nella delega, dell’istituzione di un Comitato di saggi che dovrebbe compiere una prima valutazione sulle nomine da decidere per gli organi delle Authority in generale può finire con il creare sovrapposizioni di competenze e comunque risponde alla logica delle innovazioni frammentarie, laddove sarebbe stata necessaria una revisione complessiva e organica. Un tale approccio si imporrebbe, muovendo da un quadro d’insieme nel quale sia chiara la visione che il Governo propone dell’intervento pubblico in economia, considerato che il “pubblico” non è di per sé confliggente con la concorrenza, ma deve osservarne, anch’esso, le regole, insieme con quelle del libero mercato. Allontanandosi da tale impostazione organica, la delega diventa sostanzialmente una elencazione di “ disiecta membra”, di pezzi separati, seguendo l’approccio che annualmente non può non adottare l’Autorità Antitrust, tenuta a segnalare, appunto annualmente, le revisioni da introdurre nella normativa regolatrice. Altro “punctum dolens”, ma si tratta di un settore nel quale il Governo non poteva astenersi dall’intervenire, è quello della promozione della concorrenza anche nel conferimento delle licenze per i servizi di mobilità urbana che già sta sollevando reazioni di tassisti e titolari di attività di noleggio con conducente”. Sul rafforzamento della concorrenza in materia di bollette telefoniche, assicurazioni, colonnine di ricarica elettrica, selezione dei primari ospedalieri non si può che esprimere condivisione. Tuttavia non sarà semplice, per l’insieme dei principi e criteri della delega, la traduzione in norme legislative, mentre in generale si faranno sentire corporazioni e lobby. Allora bisognerà verificare quale capacità di tenuta l’Esecutivo sarà in grado di manifestare, ricordando la fermezza che all’epoca seppe dimostrare Pierluigi Bersani, allora Ministro delle attività produttive, su importanti aperture alla concorrenza. Insomma, la rivisitazione della concorrenza è in larga parte ancora da vedere. Angelo De Mattia

Lettera a FRANCESCO MERLO pubblicata da La Repubblica il 7 novembre 2021. Caro Merlo, e così anche l'efficientissimo, stimatissimo e validissimo governo Draghi si è andato a schiantare contro il muro costruito negli anni da ambulanti e balneari che, nonostante la Bolkenstein e le salatissime procedure d'infrazione che ci vedono protagonisti da più dieci anni, resistono ai cambi di clima e di maggioranze parlamentari. Non è ben chiaro di quali poteri di pressione (economica? Elettorale?) dispongano queste categorie per vedersi assicurata una così lunga e consistente franchigia, che si fa forte, di volta in volta, di motivazioni contingenti (anche se il danno da Covid 19 ai balneari, questa volta, dovrebbero spiegarcelo, visto che le estati del '20 e del '21 sono state affollate all'inverosimile, anche per le mancate vacanze all'estero) e della debolezza della politica e dei governi. Eppure si sono sottratte, entrambe le categorie, ai minimi principi di concorrenza e al pagamento di congrui canoni demaniali. (Sui balneari, per carità, sono pronto a rimangiarmi tutto a fronte di documentate prove di congruità...) E i tassisti sono sempre in agguato, con i loro emendamenti al disegno di legge pronti per essere presentati. Uno strano Paese, il nostro. Pierpaolo Cautela. Non ci sono solo ambulanti e balneari, caro Cautela. L'Italia è un Paese fondato sulle corporazioni che sono il filo che ha unito fascismo, regime democristiano e sindacato comunista. E ancora oggi la corporazione ha la forza della famiglia allargata o, se preferisce, del tribalismo ristretto, qualche volta della cosca. Ecco perché viene sempre promesso e sempre rimandato, anche dal governo Draghi, lo smantellamento delle rendite di posizione e dei privilegi, che rendono costosa e pesante la vita, dal prendere un taxi al comprare un'aspirina, dall'aprire un negozio al fare impresa, dal bagno al mare alla stipula di un contratto di vendita. Le liberalizzazioni, che erano il sogno dell'elettore di centrodestra, furono uno dei tradimenti dei governi Berlusconi e sono ora combattute da Salvini e Meloni più di quanto combattono l'immigrazione. In Italia ci hanno provato solo Bersani (ministro del governo Prodi) e Mario Monti. Ma il corporativismo non è solo di destra. È anche la difesa di privilegi che spesso sono spacciati per conquiste sindacali. E il sindacalismo corporativo non è un oltranzismo o una deviazione, ma è quella natura antica, prepotente e incapace di misurarsi con il mercato, si tratti di pescivendoli che fanno incetta di licenze, di notai, di professori universitari, di banchieri, di architetti.

Stessa spiaggia, stesso male. Le concessioni balneari e i possibili rimedi alla democrazia della rendita. Carmelo Palma su l'Inkiesta il 6 novembre 2021. Ambulanti, magistrati, taxisti, notai o insegnanti, pensionandi o dipendenti Alitalia. Tutte queste categorie difendono da anni lo status quo, senza alcuna visione prospettica o senso di responsabilità verso chi ha pagato i costi diretti e indiretti della mancata concorrenzza, come cittadini, contribuenti e operatori economici. Può apparire paradossale che l’esecutivo sia riuscito, con un tratto di penna, ad abolire quota 100, vincendo la resistenza di Lega, sindacati e destre e sinistre sociali assortite e invece abbia dovuto arrendersi di fronte alle resistenze dei concessionari balneari, perpetuando una condizione di illegalità ripetutamente contestata dalla Commissione europea e certificata praticamente da tutte le giurisdizioni italiane – dal Tar alla Corte costituzionale – e dalla Corte di Giustizia dell’Ue. Addossare le responsabilità di questa ennesima battuta d’arresto al capo dell’esecutivo sarebbe puerile. Anzi, questa vicenda offre due lezioni preziose su come e sul perché la democrazia italiana sia questa combinazione di immobilismo e di precarietà, di stato di anomalia e stato di emergenza e su quali, realisticamente, possano essere i parziali rimedi alla sua patologica inefficienza. La prima lezione riguarda il corpo della nostra democrazia, la seconda, per così dire, la sua anima. Partiamo dal corpo. Malgrado le più diverse soluzioni elettorali e istituzionali sperimentate sul piano nazionale e locale, all’inseguimento di una sempre più astratta stabilità di governo, il sistema politico italiano è rimasto ontologicamente particolaristico. Insomma: governa, stabilmente o instabilmente, così. Chi ha sperato, come il sottoscritto, che un sistema elettorale e istituzionale diverso – maggioritario e direttamente o indirettamente presidenzializzato – potesse produrre o incentivare una riforma della nostra democrazia deve ammettere un crescente senso di delusione e di fallimento. Non era il proporzionale a segmentare la rappresentanza degli interessi e a fare delle istituzioni il suq di un mercimonio di immunità e di benefici. Non era solo la partitocrazia primo repubblicana a fare del corporativismo democratico, erede di quello fascista, il principio della costituzione politica materiale dell’Italia. Anche nell’Italia delle coalizioni tutti frutti, delle leadership personali, del bipolarismo bellico e dell’o di qua o di là si è registrata una generale e spesso unanimistica convergenza verso il modello dell’un po’ a te e un po’ a me, del consociativismo di scambio e della difesa dello specifico italiano, che in genere è tanto più specifico quanto più è anomalo, tanto più rivendicato come diritto, quanto più somigliante all’abuso. E passiamo al problema dell’anima politica della nazione. In tutte le democrazie, gli interessi concentrati e rappresentati, anche se minoritari, tendono a soverchiare quelli diffusi e disorganizzati. Come (a tutti i livelli) occorre difendere il capitalismo dai capitalisti e dalle loro istanze anticoncorrenziali, così occorre difendere il welfare dall’appropriazione indebita di alcuni bisognosi. Su tutte le democrazie, incombe, insomma, il rischio della cattura della decisione pubblica da parte di stakeholder influenti. Però nella democrazia italiana questi pericoli impliciti nel funzionamento del circuito del consenso non sono mai stati, di fatto, considerati come problemi, bensì come veri e propri principi costituzionali, a misura della legittimità e del rango politico della categoria o della consorteria impegnata a difendere i propri interessi e il proprio potere. Poco importa che si sia trattato di ambulanti o magistrati, taxisti o notai, balneari o giornalisti, insegnanti, pensionandi o dipendenti Alitalia. Importa che in tutti questi casi a prevalere sia stato il principio della democrazia della rendita e del fermo immagine, senza alcuna visione prospettica e senza nessuna responsabilità verso quelli che non si sedevano al tavolo della negoziazione, ma ne avrebbero comunque pagato i costi diretti e indiretti, come cittadini, contribuenti e operatori economici. Infatti, non casualmente, le prime vittime di questa trappola sono stati i giovani e i primi beneficiari le classi di età più rappresentate nel corpo elettorale. Il classismo generazionale e il corporativismo economico sono sempre state due facce della stessa medaglia, dalla metà degli anni ’70 in poi. Parlare dunque con gli attuali titolari delle concessioni demaniali marittime come se questi rappresentassero gli interessi del settore o quelli dell’Italia – cioè quelli della crescita del comparto turistico con i relativi e maggiorati introiti per l’erario – è un esercizio di ignobile ipocrisia, a cui però praticamente nessun partito si sottrae. È del tutto evidente che, in democrazia, pensare di uscire gradualmente da questi paradossi rimanendo interamente in questa logica è, come minimo, un wishful thinking. Il vantaggio di queste rendite nascoste in follie regolatorie, costruite su misura per gli attuali rentier, è inoltre assai meno scalfibile dei privilegi legati a elargizioni pubbliche dirette. Mentre i costi di quota 100 si vedono nel bilancio pubblico, e a un certo punto mancano i soldi per pagarli, quelli legati al fatto che la gran parte dei concessionari di diritti balneari paghino canoni inferiori agli affitti di immobili turistici sono meno difficili da difendere, perché meno percepibili in una politica dominata dal percepito. Ragionare sui rimedi a questa situazione vuol dire ragionare sull’ubi consistam morale di un sistema politico disperatamente o volgarmente affaristico, in un senso ben più grave e distruttivo di quello della mera corruzione privata. Ma soprattutto significa togliersi dalla testa l’illusione che basti un Draghi a fare primavera, se il 90 o 95% dei partiti sono profondamente anti-draghiani e destinati a perpetuare il lungo inverno italiano.

Dalle spiagge ai taxi piccole imprese pronte a resistere contro gli "espropri". Lodovica Bulian il 6 Novembre 2021  su Il Giornale. Tassisti in guerra per evitare che le licenze si svalutino. Brunetta sfronda la burocrazia. La reazione dell'Ue arriva poche ore dopo il via libera al ddl Concorrenza che di fatto rinvia la liberalizzazione delle concessioni delle spiagge, col plauso dei balneari e degli ambulanti. Per ora è prevista solo una mappatura dello stato dell'arte. La procedura d'infrazione verso l'Italia è stata aperta l'anno scorso, perché la direttiva Bolkestein imporrebbe le gare per le concessioni. La Lega, con Claudio Durigon, parla di pericolo sventato: «Abbiamo evitato il ritorno alla direttiva Bolkestein, che avrebbe messo a rischio il futuro di migliaia di stabilimenti balneari e decine di migliaia di posti di lavoro. Continueremo a difenderli da certe logiche europee che vorrebbero favorire i grandi gruppi a danno delle piccole e medie imprese». Ma da Palazzo Chigi trapela che il pericolo è solo rimandato. La linea non sarebbe quella di lasciare il tema balneari in sospeso, ma di attendere la sentenza del Consiglio di Stato e, in base a quella, decidere l'intervento. Infatti, in caso di bocciatura della proroga al 2033 delle concessioni in essere, confermata già dal decreto Rilancio nel 2020, il nodo gare potrebbe tornare sul tavolo. Ma i partiti si dividono: «Chi ha veramente a cuore le spiagge italiane e il settore balneare non può gioire, dovrebbe al contrario essere seriamente preoccupato e furioso per l'ennesima deroga tanto grave da essere ormai quasi ridicola. Una barzelletta che ci stiamo raccontando per non affrontare il problema, per rinviarlo, per addossare ad altri responsabilità che, come classe politica, non siamo in grado di prenderci da anni», dice Sergio Battelli, M5s, presidente della commissione Politiche europee alla Camera. Oltre alle spiagge, si è aperto il fronte tassisti. Cresce la protesta della categoria, che si è ritrovata nel pacchetto normativo una delega per il riordino del settore. I sindacati minacciano mobilitazioni: «Al governo chiediamo l'immediato stralcio dell'ennesima ingiustizia e dell'ennesimo tentativo di consegnare il nostro settore in mano ai poteri economici forti e agli Ncc. Se il Governo non farà retromarcia risponderemo con le rime», avverte il segretario di Orsa Taxi, Rosario Gallucci. E aggiunge: «Natale avrà un sapore amaro per noi ma saremo sul piede di guerra anche perché non abbiamo più niente da perdere». Di rischi invece, parla Enrico Borghi, membro Pd del Copasir e responsabile sicurezza del partito, sulle concessioni idroelettriche e delle rinnovabili, su cui il governo è intervenuto concedendo poteri sostitutivi allo Stato in caso di ritardi delle regioni: il timore è di «scalate estere», dice il deputato, proprio mentre acquistano un'importanza sempre maggiore con la transizione energetica. Per la loro natura strategica, spiega, «serve una rilettura dell'impianto normativo del regime concessorio». Preoccupazione condivisa dall'unione dei Comuni montani, che temono che le «potenze economiche» possano «colonizzare l'Idroelettrico sui territori». Il ministro della Pa Renato Brunetta canta vittoria perché nel ddl «abbiamo approvato anche una delega per semplificare e razionalizzare i controlli sulle imprese. Tutte le imprese sono sottoposte a innumerevoli controlli da parte di innumerevoli autorità, tutti legittimi, ma indipendenti uno dall'altra, senza programmarli, con un'invasività quasi a voler vessare il mondo delle imprese. Questo non è più accettabile». D'ora in poi, ha assicurato il ministro, «prima di ogni controllo ci sarà una telefonata finalizzata a programmarlo». Lodovica Bulian

Quella lunga lotta ai lacciuoli. Carlo Lottieri il 6 Novembre 2021  su Il Giornale. Ora che il governo di Mario Draghi ha riaperto la questione delle liberalizzazioni si è costretti a constatare come tale tema affondi nella nostra storia. Ora che il governo di Mario Draghi ha riaperto la questione delle liberalizzazioni si è costretti a constatare come tale tema affondi nella nostra storia. Già negli anni Settanta l'allora governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, aveva richiamato l'attenzione sulla necessità di creare nuovi spazi per la libera iniziativa quando, in un celebre intervento, aveva parlato del persistere di «lacci e lacciuoli». Dopo di lui i tentativi di riformare in senso competitivo l'economia italiana sono stati numerosi. Senza dubbio, i più celebri si devono a Pierluigi Bersani, il quale recepì alcune indicazioni europee e allargò qualche spazio: nell'ambito dell'energia elettrica, delle assicurazioni, della telefonia e in altri settori. Anche se sotto la formula delle «liberalizzazioni» passarono anche scelte tutt'altro che orientate ad aprire il mercato, nell'insieme quelle riforme hanno un poco aiutato ad aumentare la concorrenza. Dobbiamo ammettere, in particolare, che l'Italia odierna non è più quella della vecchia Sip o di un Enel monopolista, assai simile all'Edf francese. Gli sforzi che a varie riprese si sono fatti, insomma, hanno cambiato un po' le cose. Eppure se oggi si torna a parlare di liberalizzazioni è perché troppe questioni rimangono irrisolte. Per giunta, il testo emerso dopo i negoziati tra le varie componenti della maggioranza non riguarderà il notariato, che ancora una volta è uscito indenne, e neppure i concessionari delle spiagge. Anche su un altro dossier «classico», quello dei taxi, il disegno di legge si muove con prudenza, anche se questo non è bastato a tranquillizzare i titolari di licenze, che sono già sul piede di guerra. Come già in passato, in molti casi sotto la dizione «liberalizzazioni» vengono poi collocate scelte che poco hanno a che fare con un ampliamento degli spazi di mercato: come quando, ad esempio, s'introduce la parità di genere nelle nomine o si prevedono tutele di varia natura per i consumatori.

Il punto vero è che da decenni si constata come non sia facile liberalizzare un'economia che nei fatti vive troppo spesso di protezioni e relazioni di favore. E se certamente è vero che molte resistenze vengono dalla cosiddetta «società civile» (si pensi ai tassisti), ancor più forti sono le opposizioni interpretate dal ceto politico e dai suoi numerosi tentacoli nell'economia pubblica e para-pubblica. Interi settori chiave potrebbero essere facilmente liberalizzati se solo si riuscisse a scalzare l'opposizione di un minuscolo, ma agguerritissimo, gruppo di boiardi di Stato e di oligarchi di provincia. È sufficiente pensare ai servizi pubblici locali, che dovrebbero in ogni modo permettere il sorgere di alternative private se si affermasse l'idea che bisogna puntare al miglior servizio al minor costo. E analogo discorso si dovrebbe fare per il settore bancario, ingessato da una forte ipoteca politica (da un lato) e da sistemi di vigilanza che invece che tutelare il consumatore finiscono per limitare la competizione (dall'altro). Carlo Lottieri 

Concessioni balneari, l'Europa a Draghi: "La pazienza è finita. Bisogna liberalizzare tutto quanto e subito". Gian Maria De Francesco il 6 Novembre 2021  su Il Giornale. Bruxelles è insoddisfatta del ddl Concorrenza e minaccia velatamente di far proseguire le procedure di infrazione avviate. Ma Lega e Forza Italia, che si intestano la difesa del commercio, non intendono arretrare sul tema. Bruxelles ha esaurito la pazienza ma il richiamo all'Italia sul rispetto della direttiva Bolkestein che impone la messa a gara delle concessioni demaniali resta soft nonostante il tema sia rimasto fuori dal testo del ddl Concorrenza. La Commissione è «consapevole dei recenti sviluppi sulla legislazione italiana», ha dichiarato ieri una portavoce nel corso del consueto briefing. «È prerogativa delle autorità italiane decidere come affrontare il processo di riforma per le concessioni balneari, per la Commissione è importante il contenuto non la forma di questo processo», ha aggiunto sottolineando l'importanza di procedere «velocemente per portare la propria legislazione in conformità con il diritto Ue e con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea». Identico il discorso in merito alle gare per le licenze dei venditori ambulanti. «La Commissione è a conoscenza della situazione ed è in contatto con le autorità italiane competenti», ha riferito la portavoce della Commissione Ue. Nel mirino di Palazzo Berlaymont e dei magistrati comunitari ci sono, infatti, le previsioni della legge di Bilancio 2019, che ha allungato le concessioni balneari fino al 2033, norme successivamente confermate dal decreto Rilancio dell'anno scorso (varati rispettivamente dai governi Conte I e Conte II). L'Unione europea ha aperto, in pratica, due procedure di infrazione e anche le autorità italiane stanno mettendo in questione la bontà delle decisioni prese. È in procinto di essere pubblicata la sentenza del Consiglio di Stato sulla materia e anche l'Antitrust ha dato alla Regione Sardegna, che aveva deliberato in questa direzione, 30 giorni di tempo per rivedere la legge. Il ddl Concorrenza, invece, ha lasciato la questione in sospeso, seguendo lo stesso metodo utilizzato per la riforma fiscale: prendere tempo. Entro 30 giorni dall'approvazione, infatti, dovrà essere varata una legge delega per la mappatura telematica delle concessioni che dovrà essere effettuata dal ministero dell'Economia. Su questo tema hanno prevalso Forza Italia e Lega, da sempre vicine al mondo degli esercenti e contrarie all'entrata in vigore di norme che potrebbero penalizzare un settore fondamentale per l'economia italiana. Il premier Mario Draghi ha preferito questa modalità non invasiva per avviare una riforma per ricompattare la maggioranza, tant'è vero che anche i Cinque stelle hanno ottenuto un rinvio delle nuove norme per facilitare la costruzione di termovalorizzatori. «La Lega ha evitato il ritorno alla direttiva Bolkestein, che avrebbe messo a rischio il futuro di migliaia di aziende e decine di migliaia di posti di lavoro», ha commentato Matteo Salvini, mentre i senatori del Carroccio in commissione Lavoro hanno stigmatizzato i richiami di Bruxelles rimarcando che «non è con i ricatti o le imposizioni che si affronta o si individua una equa soluzione per il comparto: il nervosismo che traspare dai palazzi di Bruxelles non aiuta la distensione». Anche Forza Italia ha voluto chiarire di essere al fianco di balneari e ambulanti. «Perché l'Europa, in una fase problematica, in cui si sono perse migliaia di posti di lavoro, con il sostegno di alcuni politici italiani continua ad accanirsi contro le nostre aziende cercando di imporre una direttiva, la Bolkestein che nulla ha a che vedere con le imprese turistiche e il commercio ambulante?», si sono chiesti il senatore Maurizio Gasparri e il capogruppo alla Camera, Paolo Barelli. «Grazie al lavoro di Forza Italia - hanno rivendicato - in questi anni siamo riusciti più volte ad arginare i tentativi di invasione da parte di multinazionali in settori strategici per la nostra economia attraverso l'imposizione di questa direttiva e abbiamo ottenuto che i due settori fossero esclusi dal ddl Concorrenza». Ma all'entusiasmo del centrodestra fanno da contraltare i malumori dei Cinque stelle e della sparuta minoranza degli «ultrà del vincolo esterno», i nostalgici dell'era Monti. «La questione balneari non può più attendere», ha chiosato il senatore grillino Marco Croatti auspicando un intervento dell'esecutivo contro «un oligopolio all'italiana sulle spalle dei consumatori». Duro il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova (+ Europa): «Nel no ideologico alla Bolkestein, resta il sovranismo economico di Salvini», ha chiosato. Il Pd è rimasto sostanzialmente in silenzio, pronto a scambiare lo stop alla Bolkestein con una frenata sulle liberalizzazioni delle concessioni idroelettriche e delle rinnovabili.

Gian Maria De Francesco. Barese, classe 1973, laurea in Filosofia e specializzazione in Giornalismo all’Università Luiss di Roma. Mi occupo dei maggiori avvenimenti economico-finanziari da oltre vent’anni. Ho scritto un libro nel 2019 intitolato «Tassopoly: dall’Irpef alla pornotax, il folle gioco delle tasse». Ho tre grandi passioni: la famiglia, il Bari e il Brit-pop.

Grandi affari e conflitti di interessi, ecco chi sono i lobbisti che governano l’Italia. I partiti sono sempre più deboli dopo l’avvento di Draghi. E i gruppi di pressione ne approfittano per condizionare le scelte della politica con l’obiettivo di tutelare i loro clienti. Compresi i manager di Stato che usano denaro pubblico per salvare la poltrona. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 22 ottobre 2021. Mario Draghi ha spento la luce. I partiti sono invisibili. La politica è dispersa. Il governo appare distante e soprattutto inaccessibile. Però ci sono i miliardi di euro del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), l’Italia che va ricostruita e rilanciata. Un’epoca sconosciuta che si avvicina. Nomine. Occasioni. Timori. Allora si muovono nel buio, come provvidenziali lanterne, decine di società di comunicazione, di relazioni istituzionali, di monitoraggio parlamentare, di pura lobby che offrono una speranza ai dirigenti pubblici che devono salvare le proprie poltrone e alle aziende private che devono salvare i propri affari. E lo fanno in questa notte della politica, con i pericoli che si corrono di notte, con discrezione, a volte con assoluta professionalità, altre con spirito avventuriero, spesso manipolando, alterando l’informazione, portano contatti con i ministri, riunioni riservate con i politici, analisi complicate di situazioni semplici, fatturano decine di milioni di euro, si destreggiano fra regole vaghe. Li conoscono in molti, ne parlano in pochi. Perché tutti ne hanno bisogno. Ci sono i lobbisti che vengono da Comunione e Liberazione come Sec newgate di Fiorenzo Tagliabue e Inrete di Simone Dattoli. Ci sono Giampiero Zurlo di Utopia, allievo di Marcello Dell’Utri e poi Annalisa Chirico, ispirata da Chicco Testa. Ci sono Cattaneo&Zanetto e Fabio Bistoncini che inondano i clienti di notizie rastrellate nelle commissioni parlamentari, dettano i tempi, anzi anticipano i tempi, leggono emendamenti, saggiano le norme quando sono ancora in cottura. Ci sono Auro Palomba e Gianluca Comin, i chirurghi dell’immagine. Palomba più milanese, Comin più romano, adesso riuniti e rivali nella Capitale perché fra Palazzo Chigi e ministeri vari si rifà l’Italia che non si è mai fatta. La stagione di Draghi ha riattivato la filiera di Paolo Scaroni, banchiere con Rothschild, presidente del Milan, a capo dell’Eni per un decennio fino al 2014 e di Stefano Lucchini (Banca Intesa) che ridà lustro a Costanza Esclapon, abile comunicatrice, non lobbista, componente del cda di Enel su indicazione dei 5 Stelle e di Mediaset da indipendente. In momenti non sospetti e anche un po’ sconvenienti, l’ex giovane prodigio Francesco Galietti di Policy Sonar si dichiarò estimatore del governatore di Bankitalia. Accadde all’ambasciata americana a Roma il 5 novembre 2008 come si legge in un cablogramma svelato da Wikileaks: il 26enne piemontese, assistente del ministro Giulio Tremonti, suggerì ai funzionari Usa di utilizzare Draghi come «contrappeso agli impulsi di riforme draconiane» di Tremonti. Oggi Galietti supporta i fondi d’investimento, in particolari inglesi (a Londra li presentò all’amico Luigi Di Maio), che cercano agganci al ministero del Tesoro. L’asso di Policy Sonar è Carlo Conte, veterano della Ragioneria di Stato. Nel centro che timidamente guarda a sinistra e si sublima al largo del Nazareno col Pd, si trovano da sempre le società di Mauro Lucchetti e del socio Marco Forlani, il figlio di Arnaldo, il coniglio mannaro, lo storico esponente Dc. Lucchetti e Forlani hanno rinnovato l’assetto di Hdrà e scorporato la struttura: Hnto si occupa di promozione; Hdrà digital, come intuibile, di digitale; Consenso Europa di lobby. Hdrà era specializzata in eventi e la pandemia li ha falcidiati. Non li ha penalizzati il processo per peculato che a Catanzaro coinvolge Lucchetti. Secondo l’accusa, l’ex governatore calabrese Mario Oliverio (Pd) utilizzò 100.000 euro di risorse europee, destinate a incentivare il turismo, per una manifestazione culturale di Hdrà in cui lo stesso Oliverio fu intervistato. I principali clienti di Lucchetti e Forlani, che valgono milioni di euro, sono Enel e Poste, due aziende a controllo pubblico. Qualche mese fa Hnto ha vinto il bando da 3 milioni di euro per promuovere le iniziative commerciali di Poste. Con la neonata Hdrà digital hanno ottenuto la gestione dei profili social di Poste per 721.000 euro. Per Enav, l’ente per la navigazione aerea, Hnto ha il compito di fornire pregiati servizi di «traduzione dall’italiano all’inglese di pubblicazioni finanziarie e legali»: 165.000 euro per il 2019 e 175.000 per il 2020. Per la lobby in Consenso Europa si sono affidati a Stefano Di Traglia, ex portavoce di Pier Luigi Bersani e capo ufficio stampa del Pd. Adesso più che mai è Roma la calamita delle lobby. E i lobbisti si attrezzano. Si prenda Auro Palomba, partito vent’anni fa dal Veneto con il suo Community group, che oggi con 37 dipendenti registra quasi 10 milioni di ricavi e 4,3 milioni di profitti. Palomba vanta a Milano una lunga lista di clienti tra le aziende quotate in Borsa e ha un ruolo nei duelli finanziari importanti come quello per il controllo di Generali, che lo vede consulente di Leonardo Del Vecchio. Proprio pochi giorni fa, però, ha deciso di rafforzare la sede romana con la nomina a «head of public affairs» di Lucia Bernabè, una professionista che ai dieci anni di carriera anche in grandi aziende come Wind, può aggiungere il bagaglio di relazioni di un manager di lungo corso come suo padre Franco Bernabè, rientrato in prima linea da presidente del gruppo Ilva, scelto dal suo vecchio amico Mario Draghi. Non che Palomba sia un neofita nei palazzi romani. Solido, per esempio, è il suo rapporto con l’ad di Enel, Francesco Starace, il cui nome è da mesi sul podio di una speciale classifica dei capi azienda con la migliore reputazione. La graduatoria è pubblicata ogni mese da vari media nazionali. Nel testo però non viene segnalato un particolare essenziale: a elaborare voti e giudizi è una società partecipata al 50 per cento da Community di Palomba, che ha fra i clienti Starace e altri manager presenti ai piani alti della classifica. Veicolare contenuti pubblicitari sotto forma di prodotti giornalistici è l’arte più consumata del mestiere di lobbista. Arte che pratica con successo Annalisa Chirico. Si è molto ingrandita la sua associazione “Fino a prova contraria”, la risposta ai «giustizialisti», che subito si è attirata le simpatie di Matteo Salvini, di Matteo Renzi e di un pezzo di Forza Italia. Chirico ha capito come far fruttare la sua agenda: sollecitando l’ansia di apparire e di coprire spazi, politici s’intende, dei boiardi di Stato. Un anno fa, in luglio, ha creato la società Ac Advocay&Communication che allestisce gli eventi della scuola di “Fino a prova contraria” e così è diventata esperta di idrogeno, agroalimentare, cantieristica navale. Come funziona lo spiega la stessa Chirico nella cartellina che ha consegnato alle aziende partecipate dallo Stato in cui espone il caso, che risale allo scorso autunno, di Starace di Enel: intervista al manager rilasciata in esclusiva al sito Lachirico.it; un incontro «riservato» con Antonio Misiani (Pd), viceministro dell’Economia nel governo Conte II; una spinta alla campagna per Enel One che grazie a Chirico in un mese ha raggiunto 330.000 utenti e altri loghini incollati qua e là. Il tariffario oscilla dai 10 ai 20mila euro a prodotto giornalistico, poi c’è la sponsorizzazione alla scuola (Sace ha pagato 6.000 euro) e per i più gentili la pubblicità sul sito Lachirico.it, 7.000 euro alla settimana trattabili. Chirico ha fatturato mezzo milione di euro in cinque mesi con 250mila euro di utili. Quest’anno sarà ancora più ricco: ha firmato contratti con Enel, Tim, Snam, Saipem, Pirelli, Ferrovie, Fincantieri, Intesa e via elencando. Chirico è ancora in fase di rullaggio, mentre quelli di Utopia lab sono già decollati da anni. L’avvocato Giampiero Zurlo si è dedicato alla lobby dal 2010 dopo aver sperimentato la politica tramite i circoli del Buongoverno di Dell’Utri, esperienza interrotta per le vicissitudini giudiziarie dell’ex senatore berlusconiano. In quella stagione Zurlo era socio di altri due avvocati in Juris Prudentia: Luca Di Donna, noto come l’amico di Giuseppe Conte e al centro di un’inchiesta per associazione a delinquere e traffico di influenze; Nicola Maione, ex presidente di Enav e nel cda di banca Mps. Col governo Conte I, Maione fu promosso da consigliere a presidente di Enav e durante il suo mandato Utopia ha ottenuto due non meglio specificati incarichi di consulenza da Enav per un totale di 69mila euro. Utopia lavora con poche aziende pubbliche, è molto attiva nel privato e ciò le permette di avere il fatturato in crescita, 4,2 milioni nel 2020, e soprattutto ha eccellenti entrature in Lega, Forza Italia e 5 Stelle. Con la pandemia ha inaugurato degli studi tv per le dirette su internet in cui discutono politici, imprenditori e lobbisti. Un anno fa Zurlo ha lanciato anche un proprio portale di informazione. Si chiama The Watcher Post e si presenta come una testata giornalistica che fa da «cane da guardia» al potere. Il direttore è Piero Tatafiore, responsabile comunicazione di Utopia, cresciuto alla Camera accanto all’ex deputato forzista Mario Valducci, a sua volta cresciuto in Fininvest. The Watcher Post tiene aggiornati i suoi lettori sugli atti parlamentari e sulle battaglie civili più sentite: la libertà per il gioco d’azzardo legale, per le sigarette a vapore, per gli autobus di Flixbus. Per i clienti di Utopia, insomma. Imperituri resistono il giornalista Enrico Cisnetto e ’o ministro Paolo Cirino Pomicino, archivi della Repubblica di qualsiasi edizione, che attingono da riserve di esperienza e di antiche amicizie. Pomicino ha introdotto a Roma il gruppo Psc di Umberto Pesce che nel consiglio di amministrazione colleziona boiardi Stato, in servizio o in pensione, come Mauro Moretti e Fulvio Conti. Cisnetto ha allargato la platea dei potenziali clienti con i convegni e le interviste organizzate a Cortina d’Ampezzo, dunque a Roma e infine in digitale per la pandemia. È un uomo che elargisce consigli ai capiazienda, vedi Alessandro Profumo di Leonardo. Ha tentato di adunghiare una difficile riconferma di Stefano Cao in Saipem. Non ci è riuscito. Con la collaborazione del collega Guido Rivolta, Cisnetto si è affacciato nel settore della lobby con un acquisto di peso. Un paio di mesi dopo l’investitura di Enrico Letta a segretario del Pd, il cerimoniere di “Cortina Incontra” ha assunto come responsabile “public affairs” Luigi Ferrata, già alla Community group di Palomba e membro del centro studi Arel che Letta ha ereditato da Beniamino Andreatta. La pandemia ha raffreddato la voce ricavi dei lobbisti, fa eccezione Gianluca Comin, comunicatore dalle infinite relazioni nei palazzi della politica e nelle grandi aziende partecipate dallo Stato. In una di queste, l’Enel allora guidata da Fulvio Conti, ha preso il volo la carriera del fondatore della Comin & Partners, che nel 2020 ha incrementato il fatturato da 8,3 a 9,1 milioni. Tra gli azionisti di minoranza, con una quota dell’11 per cento circa, c’è la vicepresidente Elena Di Giovanni, in passato all’Expo e alla Biennale di Venezia, moglie dell’ex segretario generale della Farnesina, l’ambasciatore Michele Valensise. Con gli anni Comin ha accumulato contratti con le maggiori società a capitale pubblico. Giusto per citare gli incarichi più recenti, la sua squadra è stata ingaggiata da diversi ministeri, da Rai, da Invitalia di Domenico Arcuri, da Cdp e anche da Ama, la disastrata azienda comunale che gestisce la raccolta dei rifiuti a Roma. Ricche commesse sono arrivate da Sogin, l’azienda di Stato nata per smaltire le scorie nucleari delle centrali atomiche chiuse dopo il referendum del 1987. La soluzione del problema viene continuamente rimandata, mentre lievitano i costi di un carrozzone pubblico con 1.200 dipendenti. Nella lista della spesa ci sono anche quelle destinate a sollevare l’immagine aziendale, a dir poco appannata. Tra dicembre 2020 e agosto 2021, Comin ha siglato due contratti di consulenza per un totale di quasi 200mila euro con l’incarico di formulare un «piano di reputation building», come si legge nelle carte. Ma prima ancora Sogin aveva provato con le strategie del già citato Cisnetto, di Utopia e anche di Sec di Fiorenzo Tagliabue, un maestro delle pubbliche relazioni che, dal giro ciellino dell’amico e sodale Roberto Formigoni, in trent’anni ha costruito un gruppo internazionale, la Sec newgate, con filiali a Londra e Berlino. Questo non vuol dire che Tagliabue, 71 anni, abbia rinunciato a presidiare la piazza milanese dove fa incetta di contratti e milioni, come quelli con Atm, l’azienda di trasporti comunale e Trenord, le ferrovie lombarde. Sotto la Madonnina si è consolidata la sintonia con Beppe Sala, prima ai tempi dell’Expo, quando Sec gestì le relazioni internazionali dell’ente guidato dal manager, e poi nel 2015 con la campagna che gli fruttò l’elezione a sindaco. La stessa rete meneghina è quella in cui da sempre opera un’altra società col marchio d’origine ciellino come Inrete, fondata una decina di anni fa da Simone Dattilo, comunicatore e lobbista che ha fatto carriera all’ombra dell’ex ministro Maurizio Lupi. La Lombardia traina lo sviluppo dell’azienda di Dattilo sin dai tempi della presidenza Formigoni. Un ampio accordo quadro garantisce a Inrete gli incarichi più disparati. Si va dall’organizzazione del premio Rosa Camuna al servizio, si legge nel contratto, di «media relation per eventi e iniziative istituzionali». Dattilo si è improvvisato anche editore con la società Inpagina, che gestisce il portale di notizie True News. Con uno scopo ambizioso: «Proporre un nuovo modo di fare informazione». Tutto fatto in casa: dalla lobby alla notizia. Ha ragione Claudio Velardi, l’ex comunista dalemiano che trasmette i segreti del mestiere a Utopia: ci si deve adeguare ai tempi. Così ha aperto il gruppo su Whatsapp “lobbisti del mondo nuovo” dove si chiacchiera fra chi fa lobby e chi paga la lobby. Non più nemici. Tutti insieme. A cazzeggiare e fatturare. Per sopravvivere al mondo nuovo che avanza.

È colpa delle lobby. Fenomenologia del capro espiatorio. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 24 Settembre 2021. Come si fa a liberarsi di un male? La strada più semplice è trovare un capro espiatorio, al quale attribuire la colpa di problemi difficili da risolvere. Da sempre, il capro dei capri è il lobbying, l’attività di rappresentanza degli interessi. Se apriamo i giornali, leggiamo titoli nei quali la “lobby” viene presentata come un’entità che gioca un ruolo manipolatorio e incontenibile: “La lobby che governa i medici di famiglia”; “La lobby della carne rossa fa pressione sulle Nazioni Unite”; “Le lobby delle Big Tech che influenzano le decisione dell’Unione Europea” e così via. Le lobby vengono presentate come ingestibili e fuori controllo. Esistono e ce le dobbiamo tenere. Non possiamo fare altro che subirle. Da lobbista dico che non mi è mai capitato di parlare con un decisore politico che mi trattasse come se fossi Voldemort e, in preda al terrore, dicesse pedissequamente sì a tutte le mie proposte. Ogni istanza che presentiamo i miei colleghi ed io viene valutata, analizzata e spesso modificata o rifiutata. Ed è giusto che sia così. Da cittadina non vorrei vivere in un Paese in cui la politica prende per buone le proposte dei lobbisti, come fossero diktat. Per la video-rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet, abbiamo parlato della regolamentazione del settore con Pier Luigi Petrillo, Professore di Teorie e Tecniche di Lobbying alla Luiss Guido Carli: “Chi non vuole la regolamentazione è prevalentemente la classe politica, perché oggi le lobby sono un paravento. La politica può nascondersi dietro le lobby se non assume determinate decisioni. […] È colpa delle lobby, lo sentiamo tante volte. È colpa delle lobby se certe cose non vengono fatte o vengono fatte in un certo modo”. Guarda il video. Certamente è più facile affermare pubblicamente che una decisione è stata o non è stata presa attribuendo la scelta ad un capro espiatorio. Come si dice: “ci sta”. Fa parte del gioco della comunicazione e non è una novità dell’era dei social, come dicono alcuni. È sempre stato così. Però, giochi a parte, la realtà è spesso diversa e io mi sento in dovere di ricordare che ogni classe politica, fin dalla nascita della democrazia, deve prendere in considerazione le istanze delle lobby. Poi, però, è lei e solo lei a decidere. Le scuse stanno a zero.

Il potere è invisibile agli occhi. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 6 Agosto 2021. Siamo abituati a pensare che il potere sia strettamente collegato alla visibilità mediatica. I Ferragnez sono una potenza con i loro 36 milioni di follower su Instagram (24 lei, e “solo” 12 lui), perché riescono a spostare i comportamenti delle persone, portandole a pensare e comprare in un certo modo. Ma ci sono persone che hanno un potere di gran lunga maggiore, malgrado abbiano zero follower (perché sui social non ci sono) e non facciano parte della compagnia di giro dei programmi televisivi di approfondimento politico. Quando Antoine de Saint-Exupéry ha scritto “l’essenziale è invisibile agli occhi”, una delle frasi più gettonate del merchandising, certo non si riferiva al gioco del potere. Tuttavia questa massima diventa rivelatrice se sostituiamo il soggetto “essenziale” con “potere”. Sarebbe bello vedere su Amazon poster e tazze con questa fatidica scritta. Non parlo di potere occulto, ma di quello necessario al funzionamento della macchina dello Stato, esercitato dai capi di gabinetto che si trovano ai vertici delle istituzioni italiane. Per la rubrica Lobby Non Olet di Telos A&S ne abbiamo parlato con il giornalista de La Stampa Giuseppe Salvaggiulo, che ha raccolto i segreti di un grand commis anonimo nel libro Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto (Feltrinelli). “L’idea di fondo è quella di raccontare tutto ciò che è sotto la superficie della comunicazione politica più tradizionale, più visibile e anche, se vogliamo, più debordante. Il mondo dei capi di gabinetto comunica poco, ma conta molto. Mi sembrava giusto portare all’opinione pubblica, e non soltanto agli addetti ai lavori, una parte di conoscenza di questo mondo” commenta Salvaggiulo. Ovviamente, a margine dell’intervista, abbiamo chiesto al giornalista di rivelarci il nome dell’anonimo, ma è stato irremovibile. E, altrettanto ovviamente, negli ambienti della politica girano voci più o meno fantasiose sull’identità del personaggio. Come lobbista ho conosciuto molti capi di gabinetto. Con uno di loro, Vito Cozzoli, qualche anno fa abbiamo organizzato un incontro nella sede della Treccani sul rapporto tra politica e alta democrazia. Era lì, in carne e ossa, a raccontare il suo lavoro, senza troppi misteri. Però è vero che molti di loro fanno vita ritirata, tenendosi a distanza di sicurezza dal circo mediatico. Secondo l’anonimo intervistato da Salvaggiulo, li riconosci perché sono gli unici che, nella Roma in cui un “dotto’” non si nega a nessuno, vengono chiamati “signore”, come quello degli anelli. Quindi quando in un ministero vedete un usciere che scatta in piedi e pronuncia questa fatidica parola, aguzzato lo sguardo. C’è la possibilità di avvistare un esemplare di “voi sapete chi”.

Da arenadigitale.it il 28 luglio 2021. Il Ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, Vittorio Colao, ha nominato i primi esperti che comporranno il Comitato Consultivo per la PA Digitale, organo di consulenza del Ministro e del Dipartimento sui temi di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, implementazione dei relativi progetti e supporto all’azione del Ministro in materia. Ne faranno parte Michela Bambara, Chief Digital and Information Officer Falck Renewables; Carlo Bozzoli Global Chief Information Officer di Enel; Michaela Castelli, Presidente di Utilitalia, Nexi, Sea e Acea; Gianluigi Vittorio Castelli Presidente di Ferrovie dello Stato Italiane (con il ruolo di co-coordinatore del Comitato); Roberta Cocco, Assessore alla trasformazione digitale e servizi civici Comune di Milano (con il ruolo di co-coordinatrice del Comitato); Anna Di Silverio, Direttore Generale di Avanade Europa; Roberto Lancellotti, Consigliere di amministrazione INPS e Massimo Enrico Proverbio, Chief IT Digital and Innovation Officer di Intesa Sanpaolo. Al Comitato di supporto al Ministro si affiancheranno due gruppi di esperti: uno che coinvolgerà i direttori dei sistemi informativi delle Pubbliche amministrazioni centrali, delle Pubbliche amministrazioni locali e delle in-house per individuare azioni sinergiche e risultati di breve periodo nel perimetro dei piani per il 2026 (coordinato dal Capo Dipartimento del MITD) e un tavolo tecnico per la transizione digitale del territorio, per identificare esigenze e indirizzare soluzioni verso servizi più utili, semplici e veloci

Chi ha paura dei portatori di interesse. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Le parole lobby e Roma sono spesso citate in contesti poco lusinghieri. I due termini si trovano incastonati tra le parole mafia e veleno e gli amministratori locali vengono di frequente presentati come animali braccati dai poteri forti. La lobby vive un’enorme ipocrisia. Se, da una parte, siamo tutti d’accordo sul fatto che la politica non può esistere senza confrontarsi con le esigenze dei cittadini, delle associazioni e delle imprese; dall’altra, gli incontri ravvicinati del terzo tipo tra politici e portatori di interesse – che rappresentano i cittadini, le associazioni e le imprese di cui sopra – vengono considerati una forma di inquinamento. Di qui emerge l’uso dei termini mafia e veleno. Si chiede insomma al politico una verginità che non può avere, a patto che rinunci del tutto a fare il suo mestiere. Di conseguenza, si parla di lobby quando il politico incontra soggetti che non godono dell’approvazione sociale, mentre si parla di ascolto del territorio quando il politico incontra soggetti socialmente accettati. Oppure, estremizzando, è lobby quando il politico incontra qualcuno che non rappresenta un nostro interesse, non lo è quando il politico incontra noi. Per la video-rubrica Lobby Non Olet di Telos A&S ne abbiamo parlato con Enrico Stefàno, giovane consigliere capitolino, negli ultimi cinque anni presidente della Commissione Mobilità e Trasporti del comune di Roma. “Forse siamo arrivati a una estremizzazione del ruolo della politica. Se io mi metto al tavolo col privato per forza devo fare qualcosa di losco. Talvolta ho visto nei colleghi una sorta di diffidenza o di paura che secondo me non deve esserci, perché come ascolto il comitato di quartiere che mi chiede la panchina o la fermata dell’autobus, chiaramente devo ascoltare l’istanza dei portatori di interesse del settore xy, che ovviamente portano la loro visione delle cose. Poi sta alla politica tracciare una linea […]”. Come sottolinea Stefàno, il ruolo della politica non è tentare di schivare incontri con i portatori di interesse, ma approfondire le proposte di ognuno di loro e decidere a quali dare seguito, sulla base di una scelta politica insindacabile, nel rispetto delle regole e procedure legislative e amministrative. Solo così il politico sarà in grado di dare conto delle proprie scelte ai cittadini. Lo dico da lobbista, quindi manifestando un punto di vista di parte: sarebbe bello se si chiamassero semplicemente le cose con il loro nome, la lobby è la rappresentanza di interessi, la delinquenza è delinquenza, quindi un reato. E queste definizioni sono uguali dappertutto. Roma inclusa.

·        Una storia di Casta. Csm, il sistema non cambia per nulla.

Una storia di Casta. Csm, il sistema non cambia per nulla. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Da un po’ di anni si sente dire che, se una certa magistratura militante (o quello che noi chiamiamo il Partito dei Pm) ha acquisito tanto potere fino a esercitare un ruolo di supplenza rispetto al compito dei partiti, la responsabilità è tutta del ceto politico. Le toghe sarebbero in un certo senso state costrette a riempire un vuoto lasciato da altri. Un vuoto politico riempito con la “loro” politica. Che è fatta delle loro carriere, ma anche della loro giurisprudenza, essendo il successo di tanti pubblici ministeri intriso delle une e dell’altra. Tanto da far balzare i più popolari non solo su qualche scranno in Parlamento, ma soprattutto a governare grandi città. In un tripudio di popolo e con la passività muta della gran parte del mondo politico. Poi è arrivato Luca Palamara a dire che anche nel mondo delle toghe il re era nudo e che tanti magistrati passavano il tempo a brigare per le proprie carriere e promozioni, e anche che ordivano complotti per impallinare qualche avversario che sedeva in Parlamento o al governo. I nomi più gettonati erano quelli di Berlusconi e di Salvini. Così chi voleva capire aveva capito quale era la vera “casta”. Altro che autonomia e indipendenza della magistratura! Il “Sistema” ha scompaginato un po’ le carte, aprendo gli occhi a migliaia di cittadini che non immaginavano che quel mondo fosse fatto di piccoli uomini più che di eroi. E ha iniettato quel po’ di coraggio che serviva al mondo politico per rialzare la testa. Anche perché –e forse la coincidenza non è così peregrina- era nel frattempo crollato il governo della maggioranza vestita in toga che sempre meno gridava “onestà-onestà”, avendo trovato altro tipo di “ideali” molto più concreti da portare a casa. Era arrivato Mario Draghi, con Marta Cartabia come guardasigilli. Così ora ci troviamo a un bivio. Da una parte un Csm che il lunedì pare fatto di pugili suonati e poi il martedì trova la forza di spedire in pensione il recalcitrante Davigo senza più subirne il fascino. Ma che compie poi il passo falso, con la radiazione di Palamara. Un gesto imprudente, perché di questo magistrato ex-potente la casta togata non si libererà facilmente, e non stiamo parlando di ricorsi. Stiamo dicendo che l’Italia intera conosce la persona ed è al corrente di quel che ha disvelato. E si domanda come mai lo Stato abbia coccolato e riverito fior di criminali “pentiti”, consentendo loro di dire verità e bugie, a volte persino, da liberi, di consumare vendette, anche con omicidi. E come mai, se il “pentito” accusava i politici era un eroe, e se invece disvela fatti gravi commessi dalle toghe viene addirittura cacciato. Tanta paura da arrivare a zittire lui e i suoi testimoni? Ma sarà difficile liberarsi di lui. Passo falso. Sembra che scatti una specie di giustizia sommaria, quella della fretta. La stessa che ha di fatto espulso dalla magistratura un uomo come Otello Lupacchini. Chi ha ascoltato a Radio Radicale lo svolgimento delle sedute della commissione del Csm che ha processato l’ex procuratore generale di Catanzaro non può non aver notato il senso di fastidio del presidente Fulvio Gigliotti e del procuratore Marco Dall’Olio mentre il dottor Lupacchini parlava. Avrebbero dovuto rispettare la sua competenza, la sua cultura. Invece avevano fretta. Ma la magistratura intera, quella associata nel sindacato unico e quella presente nel Csm, farà bene a riflettere su queste due (ancora) toghe, sulla frettolosità con cui li ha spinti fuori come fossero zanzare fastidiose. Perché, come ha detto quello più anziano, «non avranno pace». Anche perché non sta passando inosservato il fatto che, mentre il Csm pare avvitato in modo corporativo su se stesso, la ministra Cartabia non sta con le mani in mano. Sono pronti gli ispettori sugli uffici giudiziari di Verbania per verificare se nell’inchiesta sul grave incidente della funivia, la gip Donatella Banci Buonamici, che aveva scarcerato, sia stata tolta di mezzo perché troppo garantista. E sulla procura di Milano per capire per quale motivo il vertice dell’ufficio abbia impedito al pm Paolo Storari di arrestare per calunnia l’avvocato Piero Amara e l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, preferendo preservarli come testi d’accusa nel processo Eni, quello in cui gli imputati sono stati poi assolti, nonostante una serie di prove loro favorevoli non fossero state presentate dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. I quali, oggi indagati a Brescia, avrebbero però voluto far entrare nel processo Eni la testimonianza dell’avvocato Amara, il quale aveva definito il presidente del tribunale Marco Tremolada come “avvicinabile” dagli avvocati della difesa. Il che avrebbe costretto il presidente ad astenersi. Fatti molto gravi, su cui vedremo a che cosa porteranno le ispezioni della ministra. Ma anche che cosa avrà il coraggio di fare questo Csm ancora avvitato sulla propria storia di Casta.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il capo della task force di Cartabia voleva fare il vice. Chi è Massimo Luciani, il professore che deve abolire le correnti con cui intrallazzava…Paolo Comi su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Domanda: a chi affidare la Commissione ministeriale che dovrà riformare il Consiglio superiore della magistratura, sottraendolo al giogo delle correnti dell’Anm? Risposta: ad uno che voleva diventare vice presidente del Csm (il presidente è il capo dello Stato, ndr) ed aveva chiesto alle correnti di votare per lui. Il professore Massimo Luciani. L’incredibile circostanza, per la quale è anche difficile trovare le parole, è emersa dalla deposizione dell’ex segretario generale di Magistratura indipendente, il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli, davanti alla Prima commissione del Csm il mese scorso. Racanelli, per molti anni capo delle toghe di “destra”, era stato sentito a Palazzo dei Marescialli sui suoi rapporti con l’ex zar delle nomine Luca Palamara. Rispondendo ai quesiti dei consiglieri che volevano conoscere l’esatta natura di questi rapporti, Racanelli aveva “allargato” la discussione, riportando un curioso episodio accaduto nell’estate del 2018. Anche questa volta, bisogna ringraziare il consigliere Nino Di Matteo di aver colto “l’assist” di Racanelli facendosi raccontare con dovizia di particolari l’accaduto. Ma iniziamo dalla fine. Il professor Luciani, presidente dei costituzionalisti, è colui che su mandato di Marta Cartabia dovrebbe predisporre la riforma del Csm che elimini lo strapotere dei gruppi associativi della magistratura a Palazzo dei Marescialli. Nell’estate del 2018, quando si doveva rinnovare il Csm, giunto a scadenza naturale, Luciani sarebbe stato attivissimo. «Venne da me Cascini (Giuseppe, ndr), ancora non si era insediato, e aveva fatto sapere che (Luciani) avrebbe accettato la candidatura solo se avesse avuto la garanzia di fare il vice presidente», esordisce Racanelli. I voti di Magistratura indipendente erano importantissimi. Prima del ribaltone Mi aveva ben cinque consiglieri al Csm. Tre furono poi fatti fuori per aver partecipato all’incontro con Palamara e i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti all’hotel Champagne. Il racconto è molto circostanziato. «Nel luglio 2018 ricevetti una telefonata di Cascini». Cascini, procuratore aggiunto a Roma come Racanelli ed esponente di primo piano della sinistra giudiziaria di Area, era stato eletto da poche ore al Csm. Una elezione “scontata”: per i quattro posti nella categoria dei pm, le quattro correnti candidarono un candidato a testa. Per essere eletti era sufficiente che i candidati si votassero da soli. «Senti Antonello, qui bisogna pensare seriamente, qui è interessato, è un grosso professore di diritto costituzionale che però ha una richiesta: lui accetta di essere nominato tra gli eletti dal Parlamento solo se c’è l’accordo all’unanimità di tutti i gruppi sul suo nome», ricorda Racanelli, riportando le parole di Cascini che, pur non essendosi ancora insediato a Palazzo dei Marescialli, manovrava alacremente per la scelta del vice di Sergio Mattarella. La scelta di Luciani era prendere o lasciare. Racanelli: «Guarda Giuseppe, non tocca a me decidere, io posso trasmettere il tuo messaggio e la tua richiesta ai consiglieri di Mi». Racanelli, che in quel momento si trovava in spiaggia in Sardegna per un periodo di relax, inviò subito un sms ai cinque neo consiglieri in quota Mi. Il testo doveva essere all’incirca questo: «Guardate, Cascini mi ha chiamato, mi ha detto questa cosa, vuole l’appoggio di tutti i gruppi su questo nome. Decidete voi. Se siete d’accordo io dico a Cascini che Mi è d’accordo a eleggerlo». I consiglieri di Mi, ricevuto l’sms di Racanelli iniziarono a consultarsi fra loro. Non è dato sapere se qualcuno si sia chiesto a che titolo Cascini stesse “sponsorizzando” Luciani. Cascini a nome di chi chiamava? A nome suo? A nome del Pd, partito di riferimento delle toghe di sinistra, che doveva indicare Luciani? A nome dello stesso Luciani? Domande rimaste senza risposta. Anche perché Racanelli, giocando d’anticipo, aveva messo le mani avanti con i consiglieri che lo interrogavano: «Non lo so e comunque non mi interessa saperlo. Anzi, non tocca a me saperlo». Terminato il consulto, comunque, i cinque consiglieri di Mi fecero sapere al loro capo che Luciani non andava bene. Racanelli, allora, riportò la ferale notizia: «Guarda Giuseppe, i consiglieri di Mi non sono disposti ad appoggiarlo come vice presidente». Passa qualche settimana e Cascini, incassato il no a Luciani, riparte alla carica con Racanelli. L’allora segretario di Mi, terminate le ferie in Sardegna, era tornato in ufficio a piazzale Clodio. Proprio in quei giorni il Parlamento, in seduta congiunta, aveva eletto gli otto componenti laici del Csm. Il Pd aveva rinunciato a Luciani, la prima scelta e in ottimi rapporti con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ripiegando su David Ermini, ex responsabile giustizia dei dem, renziano di stretta osservanza. Cascini convocò Racanelli nel suo ufficio. E partì da lontano. «Sai – iniziò Cascini a cui evidentemente interessava moltissimo la nomina del futuro vice presidente del Csm – siccome sento dire che probabilmente Mi intende appoggiare il professore Lanzi (Alessio, eletto in quota Forza Italia, ndr), ti comunico che Lanzi è stato autore di un’audizione in Commissione bicamerale». Cosa aveva detto Lanzi di così tremendo da mettere in allerta Cascini? «Ha parlato della separazione delle carriere», la risposta di Cascini. Non sia mai. Parlare di separazione delle carriere a un pm è come parlare male della Madonna a Papa Francesco. Racanelli rimase spiazzato. «Io non sapevo – aggiunse – di questo particolare, ognuno ha il suo modo di rapportarsi e sapere le vicende degli altri». Racanelli, come San Tommaso, chiese le carte a Cascini. «Fammi sapere cosa ha detto». Cascini, che aveva già tutto, consegnò le copie delle audizioni incriminate di Lanzi. Su cosa sia successo dopo il racconto di Racanelli, purtroppo, si interrompe. Ma qui entra in scena il libro di Palamara e Alessandro Sallusti e siamo in grado di ricostruire gli sviluppi successivi. Palamara, con Cosimo Ferri, fra i leader indiscussi di Mi e allora renzianissimo parlamentare del Pd, convinceranno i togati di Mi ad abbandonare Lanzi al suo destino in favore di Ermini. Cascini e la sinistra giudiziaria, per tutta risposta, decideranno di puntare sul grillino Alberto Maria Benedetti. L’elezione del vicepresidente del Csm, il 27 settembre del 2018, sarà al cardiopalma: 13 voti per Ermini, 11 per Benedetti. Determinanti saranno i voti dei capi di corte: il primo presidente Giovanni Mammone (Mi) e il pg Riccardo Fuzio (Unicost), soprannominato da Palamara “baffetto”. I due laici leghisti, all’epoca eravamo in pieno governo giallo-verde, con Luigi Di Maio e Matteo Salvini in luna di miele con l’autorizzazione di Marco Travaglio, voteranno per Benedetti. Lanzi, che aveva visto sfumare sul traguardo la nomina a vicepresidente del Csm e sulla carta era il candidato che aveva più titoli di tutti, voterà scheda bianca. A fargli compagnia, l’altro laico di Forza Italia, l’avvocato napoletano Michele Cerabona. E Luciani? È diventato l’avvocato di fiducia di Piercamillo Davigo e di Michele Prestipino nei loro contenziosi contro il Csm. Che dovrebbe riformare. Paolo Comi

·        Lo Scanno del Giudizio: da padre in figlio.

Il giudice Gianni Garofalo sulle orme del padre: è lui il nuovo presidente del Tribunale di Lamezia Terme. Alla cerimonia d’insediamento presente il presidente della Corte d’Appello Domenico Introcaso: «La presenza dell’aula bunker qui è un messaggio di democrazia». Il Quotidiano del Sud il 7 luglio 2021. Giovanni Garofalo da oggi è il presidente del Tribunale di Lamezia Terme. L’insediamento è avvenuto stamani nel corso di una cerimonia emozionante, non solo perché per Garofalo è stato come un ritorno a casa, ma anche perché la stessa carica fino a 15 anni fa è stata ricoperta dal padre, Giulio, al quale, tra l’altro, è intitolata l’aula dove si è svolta la cerimonia. «Sono tanti anni – ha detto Garofalo – che nei sogni di bambino vivevo questo momento e sognavo di diventare presidente del tribunale della mia città. Non svegliatemi. Mio papà è stato un magistrato ed io sono diventato un magistrato. Sono molto contento di tornare nella mia città, come Ulisse, anche se mi ispiro di più a Penelope». Quindi, i saluti alla sua famiglia, tra cui la moglie Donatella e la sorella Francesca, magistrato anche lei, ai suoi amici «che ho in tutte le pieghe della mia città perché – ha detto Garofalo – sono lametino. In questo momento sto vivendo una tempesta emozionale: non molti anni fa mio papà è stato presidente qui ed in questa aula, che oggi porta il suo nome, ho fatto la mia prima udienza». Ad apertura della cerimonia, il giudice Angelina Silvestri ha dato lettura della nomina, seguita dai saluti del presidente della corte di appello di Catanzaro, Domenico Introcaso, che ha parlato di «giorno importante per la comunità giudiziaria di Lamezia». Quindi, ha raccontato del suo legame con il padre di Garofalo, «del quale – ha detto – ho apprezzato sagacia ed eleganza ed anche Giovanni ha lasciato traccia di sé in tutti gli uffici in cui è stato. Lamezia – ha aggiunto Introcaso – è un momento importante per il settore giudiziario per la presenza dell’aula bunker che è un messaggio di democrazia per cui i processi nati e sorti in Calabria si celebrano in Calabria. Un messaggio di democrazia – ha proseguito – che assegna a Lamezia Terme una funzione di centralità anche all’amministrazione giudiziaria». «In cinque mesi – gli ha fatto eco Beniamino Calabrese, pg della corte di appello di Catanzaro – è stata realizzata un’opera straordinaria a dimostrazione che quando l’obiettivo è unico, si realizza». Nel prendere la parola, il vescovo della Diocesi di Lamezia Terme, Giuseppe Schillaci, ha detto che «amministrare la giustizia è anche questo: stare accanto ai più deboli; avere l’ambizione di costruire una società sempre più giusta». Di «giorno importantissimo», infine, ha parlato Dina Marasco, presidente dell’ordine degli avvocati di Lamezia Terme, che ha assicurato «l’appoggio dell’avvocatura lametina» ad un giudice nel quale «il consiglio dell’ordine ha visto in nuce un presidente capace ed aperto al confronto».

·        I dipendenti della presidenza del Consiglio.

Francesco Bisozzi per "Il Messaggero" il 19 gennaio 2021. Il discorso di ieri a Montecitorio del premier lo hanno seguito con la coda dell'occhio, perché ai duemila dipendenti della presidenza del Consiglio in questo momento non interessa granché della crisi di governo e del destino di Giuseppe Conte. Ciò che a loro adesso interessa veramente è ottenere più soldi con il rinnovo del contratto 2016-2018. Eppure guadagnano già stipendi invidiati dal resto degli statali: occupano le scrivanie dorate della Pa. Dunque, cosa hanno da lamentarsi? Nemmeno il maxi-aumento proposto dall'Aran, l'agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, pari a 125 euro lordi mensili, superiore per intenderci del 50% circa rispetto a quello elargito al personale non dirigente dei ministeri, è riuscito a saziare l'appetito dei dipendenti di Palazzo Chigi e a sbloccare una trattativa che si trascina da troppo tempo. «Dopo 15 mesi di tira e molla, a Natale ho sottoposto il contratto all'attenzione dei sindacati, ma la mancata disponibilità alla firma da parte di Snaprecom, Sipre e Ugl, che in questo caso rappresentano nel complesso oltre il 51% dei dipendenti sindacalizzati, non ha permesso la sottoscrizione del documento. O ci ripensano o per me è finita qui. Oltre al maxi-aumento i sindacati ostili chiedono ulteriori interventi che però non sono oggetto della contrattazione», spiega il presidente dell'Aran Antonio Naddeo. Ora, il presidente Naddeo, con un passato anche lui a Palazzo Chigi, è noto per essere uno che non perde la pazienza tanto facilmente, ma questa volta sembra aver raggiunto il suo limite di sopportazione. Perché quella che sulla carta doveva essere una trattativa facile, quasi un'amichevole, si è rivelata strada facendo persino più impegnativa di quelle con comparti complessi, come quello dell'istruzione. Il rinnovo del contratto 2016-2018 dei dipendenti della presidenza del Consiglio - assieme a quello dei 300 dirigenti che è dato però in dirittura d'arrivo, al prezzo non indifferente di un aumento mensile superiore a 300 euro - costituisce l'ultimo miglio del percorso di sblocco dei contratti avviato nel 2017, un tassello piccolo ma indispensabile per riuscire a completare il mosaico dei rinnovi: mosaico che a questo punto rischia di rimanere incompiuto. Rispetto ai dipendenti di Palazzo Chigi, gli eroi della pandemia, infermieri e insegnanti, con l'ultimo rinnovo del contratto hanno ottenuto anche meno di 80 euro lordi mensili di aumento, ma non raccontatelo a quelli che lavorano alla presidenza del Consiglio perché non vi staranno a sentire. I sindacati contrari alla firma come Snaprecom, che è il più rappresentativo in questo ambito, non solo chiedono un aumento più corposo dello stipendio e dell'indennità di presidenza, ma anche specifiche indennità per certe categorie di funzionari e poi altri giorni di ferie. Con i loro rifiuti (e capricci) stanno mandando anche un chiaro segnale all'amministrazione, e al premier Conte in particolare, che a differenza di altri suoi predecessori si è mostrato meno compiacente nei loro confronti. Se l'avvocato dovesse uscire di scena, a Palazzo Chigi non si struggeranno in pianti. Gli altri funzionari pubblici farebbero carte false per conquistare una scrivania nel mondo dorato della presidenza del Consiglio, dove oltre ai guadagni sopra la media c'è anche il vantaggio che le attività sono smartabili al 90 per cento e perciò di questi tempi si lavora soprattutto dal divano di casa propria. Il personale non dirigente di Palazzo Chigi vanta retribuzioni complessive che in media sforano i 40 mila euro, mentre nei ministeri l'asticella scende sotto la soglia dei 30 mila euro. Il che ci riporta inevitabilmente alla domanda di partenza: di cosa si lamentano?

·        I Giornalisti Ordinati.

L’ INFORMAZIONE E LA COMUNICAZIONE SONO CAMBIATE. QUELLO CHE I GIORNALISTI ITALIANI NON RIESCONO A CAPIRE… Antonello De Gennaro il 13 Giugno 2021 su Il Corriere del Giorno. In altri Paesi europei come la Germania, Spagna, dove non c’è uno status giuridico vero e proprio dei giornalisti, esattamente come in Inghilterra e negli Stati Uniti d’ America. In Italia i corrispondenti dei quotidiani esteri esercitano la professione di giornalista senza aver alcun Ordine professionale. Un articolo di cronaca economica un giornalista americano lo può consegnare per la pubblicazione nella sostanza identico al Wall Street Journal o al New York Times. Arriva da Bari l’ultima querelle fra coloro i quali sono legati ancora a quel tesserino di giornalista, il cui possesso è sempre più facile grazie alla mancanza di controlli e regole da rispettare dell’Ordine dei Giornalisti. Oggi sul CORRIERE DEL MEZZOGIORNO, l’edizione pugliese del CORRIERE DELLA SERA è apparso un articolo molto critico nei confronti del Comune di Bari, che ha affidato la comunicazione ad un ingegnere regolare vincitore di un concorso bandito dal Comune anni fa. “Imbattibile con l’online, un vero mago nei contenuti e nei sistemi spesso complessi e oscuri della Rete – scrive il CORRIERE DEL MEZZOGIORNO – ma sicuramente non titolato a dirigere e coordinare una struttura che si occupa di comunicazione. In sostanza preparazione di comunicati, rassegne stampa e rapporti con gli organi di informazione”. Il CORRIERE DEL MEZZOGIORNO che riempie le proprie pagine grazie sopratutto a collaboratori periferici, pagati con pochi euro ad articolo, dopo il ridimensionamento del proprio progetto editoriale iniziale, rende noto che “la testata giornalistica del portale istituzionale del Comune (con tanto di autorizzazione del Tribunale di Bari del 16 marzo 2000, anno in cui nacque appunto il sito online) non ha un direttore responsabile. L’ufficio stampa si regge solo con due istruttori amministrativi, regolarmente iscritti all’Ordine dei giornalisti nell’Albo pubblicisti”. Qualcuno dovrebbe spiegare a questi colleghi che il mondo della comunicazione e dell’informazione è cambiato. In altri Paesi europei come la Germania, Spagna, dove non c’è uno status giuridico vero e proprio dei giornalisti, esattamente come in Inghilterra e negli Stati Uniti d’ America. In Italia i corrispondenti dei quotidiani esteri esercitano la professione di giornalista senza aver alcun Ordine professionale. Un articolo di cronaca economica un giornalista americano lo può consegnare per la pubblicazione nella sostanza identico al Wall Street Journal o al New York Times. Per il diritto di cronaca i giornalisti americani hanno il Primo Emendamento della Costituzione, e sono notoriamente molto più tutelati dei giornalisti italiani. Bisogna provare non solo che le informazioni sono state volontariamente riportate in maniera errata, ma anche che vi era l’intento di nuocere, molto difficile anche per un bravo avvocato lavorare sul confine dell’assenza o meno di malizia. Negli Stati Uniti i giornalisti amano i fatti, mentre in Italia molto spesso vengono mischiati troppo spesso con le opinioni, non solo scrivendo di politica. Le notizie e i commenti, dovrebbero essere sempre ben separati, in quanto sono due lavori diversi. Mentre nei giornali e televisioni italiane è la norma corrente. Basta dare un occhio alla proprietà editoriale per capire di cosa si parla, e sopratutto come si parla. Un giornalista americano Eric Sylvers, che è stato corrispondente americano dall’Italia per il New York Times e il Financial Times, in Italia avrebbe dovuto sostenere un esame di Stato per diventare giornalista professionista, e così commenta: “Lo so e francamente lo trovo ridicolo! Da noi sei un giornalista se ti pagano per fare questo lavoro. Ci risulta davvero difficile capire per quale ragione in Italia venga richiesta un’abilitazione, come se si trattasse di diventare un medico, per esempio”. A mio parere è semplicemente ridicolo ed anacronistico sostenere delle campagne di “casta” per la tutela di un titolo professionale, sempre meno qualificato e sicuramente poco redditizio come comprova la crisi occupazionale dei giornalisti in Italia. Qualcuno dovrebbe spiegare che in RAI la stragrande maggioranza di persone che lavorano nelle redazioni dei programmi sono assunti con contratti da programmatore-regista e non come giornalisti. Che i nostri vertici delle istituzioni e della politica corrono per farsi intervistare nei programmi popolari condotti da Mara Venier e Barbara D’ Urso che giornaliste non sono. Ma in tal caso nessuno dice una parola. Per l’Ordine Nazionale dei Giornalisti va tutto bene…Non è un caso che i programmi più seguiti e temuti in Italia siano “STRISCIA LA NOTIZIA” e “LE IENE”, i cui inviati non sono iscritti all’ Ordine dei Giornalisti, ma fanno un ottima informazione, inchieste incisive e risolutive, e lo fanno molto meglio dei giornalisti televisivi con il tesserino in tasca, che si preoccupano solo dei propri privilegi contrattuali. Così come i “comunicatori” del Movimento 5 Stelle che attraverso un buon uso del web hanno letteralmente scavalcato ed annientato la mediazione del giornalista politico o parlamentare. Evidentemente in molti non si sono accorti che il mondo è cambiato. Fa semplicemente sorridere leggere chi scrive e sostiene che qualcuno “Imbattibile con l’online, un vero mago nei contenuti e nei sistemi spesso complessi e oscuri della Rete”, sicuramente (da dove arriva questa sicurezza?) non sia “titolato a dirigere e coordinare una struttura che si occupa di comunicazione. In sostanza preparazione di comunicati, rassegne stampa e rapporti con gli organi di informazione”. Il giornalista del CORRIERE DEL MEZZOGIORNO scrive di “un’altra emergenza molto simile alla Regione Puglia dove con la prossima tornata di concorsi, preannunciata urbi et orbi dall’assessore al Personale” annunciando che “si dovrebbe colmare anche il sottorganico nell’ufficio stampa del consiglio regionale e della giunta con il reperimento di undici unità. Di cui almeno cinque giornalisti, mentre per le altre sei figure in lizza si parlerebbe genericamente di «comunicatori». Per i quali al momento non esiste in Italia né un ordine professionale, né tantomeno alcun titolo, ma solo la rappresentanza di alcune associazioni. Ma forse per la Regione Puglia la tessera di un’associazione vale di più dell’iscrizione a un importante ordine professionale”. La realtà è che spesso i comunicatori sono più preparati, competenti ed elastici dei giornalisti, sopratutto di quelli troppo attaccati ai millantati diritti sindacali, ma che in realtà si preoccupano esclusivamente dei propri interessi economici e non prestano alcun interesse a quei colleghi sottopagati e sfruttati dalle redazioni. E’ la stampa bellezza? No. E’ un mondo autoreferenziale che non ha capito che di anno in anno il loro ruolo sarà quello dei “passacarte”. Basta sfogliare i giornali per rendersi conto della valanga di comunicati stampa copiati ed incollati, che vengono spacciati come articoli, o guardare nei telegiornali filmati forniti dalle Forze dell’ Ordine e spacciati come propri.

·        Gli Avvocati.

Ne rimarrà uno solo: io!

Il problema non è, come si dice, se gli avvocati sono tanti a pascolare in campi senz’erba.

Il problema è se quei tanti sono all’altezza del compito, tenuto conto che l’esame di abilitazione è irregolare e non meritocratico (truccato e truccabile come tutti gli esami e concorsi pubblici), così come da me ampiamente provato negli anni.

Il problema è, anche, se l’ordinamento giuridico non abbia ristretto al massimo il campo operativo forense e quindi la tutela dei diritti del cittadino. Prima che mi impedissero di praticare, per ritorsione, potevo oppormi alle sanzioni amministrative o adoperarmi per i sinistri stradali, così come potevo attivarmi illimitatamente per ogni risarcimento del danno. Il principiante faceva pratica con i micro procedimenti. Oggi, ogni forma onerosa di inibizione al processo ha portato all’inaridimento degli sbocchi. Ergo: lavorano solo i principi del foro ed i loro amicali.   

Infine, ma non ultimo problema, è che se tocchi un privilegio dei magistrati solidali scatta il finimondo della casta, se ledono i diritti degli avvocati individualisti, la lobby non muove foglia.  

Claudia Osmetti per "Libero Quotidiano" il 13 settembre 2021. La toga appesa al chiodo e una nuova vita, magari nell'amministrazione pubblica. Ché vuoi mettere? Uno stipendio fisso, gli orari insindacabili, meno rogne da sbrogliare: gli avvocati italiani si fanno tentare e lasciano la professione. Da Torino, a Napoli, a Bologna: il 2021 è l'anno della "fuga", delle cancellazioni dall'albo, del lavoro che è in crisi e dei tribunali che vanno a singhiozzo. Il coronavirus, certo, che ha paralizzato mezzo Paese - Giustizia compresa - e che ha ridotto il numero delle cause e dei processi celebrati in presenza. Ma poi anche il reddito medio, che nell'ultimo decennio è pure diminuito: e chi l'ha detto che gli avvocati non conoscano la recessione? Nel foro di Modena (che rimane una cittadina di provincia, ma forse, e proprio per questo, è una cartina di tornasole del territorio), solo ad agosto, i legali che se ne sono andati sono stati sei. Dall'inizio dell'anno di addii se ne contano però il triplo: se continua così, dice chi in Emilia-Romagna ha il polso della situazione, entro dicembre le cancellazioni supereranno le iscrizioni (ferme a 23). Non era mai successo prima. E non c'è mica solo Modena. L'albo di Torino, nei primi sette mesi di quest'anno, ha registrato un ammanco di 276 iscritti e, nel 2020, i praticanti che archiviata la laurea in Giurisprudenza hanno bussato allo studio di turno per iniziare il loro percorso lavorativo sono stati appena 248 (nel 2018 se ne contavano 371). C'è un altro numero, tuttavia, in Piemonte, che certifica l'andazzo: durante la pandemia, sotto la Mole Antonelliana, un avvocato su due ha fatto domanda per il bonus da 600 euro del governo, per uscire dall'incertezza di una crisi che si stava già mangiando i faldoni sulla scrivania. A Bologna - i dati si fermano a luglio - i nuovi avvocati son stati 121, ma le cancellazioni 78: e di queste più della metà per "incompatibilità". Che poi vuol dire che 37 ex avvocati bolognesi han deciso di intraprendere una strada diversa, magari in Comune, magari in un ente pubblico. «Più che una crisi di vocazione - racconta Italia Elisabetta d'Errico, la presidente del consiglio dell'ordine bolognese, sulle pagine locali del Corsera di qualche settimana fa -, si tratta di una crisi economica in atto da tempo". A Napoli idem (in 70 han chiesto di andarsene); a Roma lo stesso (335 cancellazioni e siamo solo a metà anno); a Bari ancora (qui sono per lo più i giovani ad arrendersi e a chiudere il codice dentro la ventiquattrore). Chiariamo, per non cadere nell'equivoco: la professione forense, presa nel suo complesso, è viva e vegeta. Le facoltà di Legge continuano a sfornare corone d'alloro (secondo l'Istat, l'Istituto nazionale di statistica, si laureano in Giurisprudenza quasi 22mila universitari ogni anno), i concorsi di abilitazione non si fermano e il Consiglio nazionale degli avvocati riceve continue domande di iscrizione nei propri elenchi. Ché di avvocati entusiasti del proprio lavoro ce n'è, non è questo il punto. Però, adesso, inizia a vedersi anche chi ha deciso di invertire la marcia: e il covid non aiuta. Senza contare la concorrenza (spietata) che i professionisti dei cavilli sono costretti a fronteggiare ogni santissimo giorno. In Italia ci sono (ancora) circa 245mila legali, quasi la metà di loro (ossia il 45% del totale) opera e lavora nel Sud e nelle Isole. Lo dicono le tabelle fresche fresche del Censis, l'Istituto di ricerca socio economica: si tratta di una professione al femminile (il 50,03% di chi la esercita è donna: e questo è un sorpasso da non sottovalutare, specie se comparato al fatto che i maschietti in toga guadagnano mediamente 54mila euro all'anno mentre le signore appena 25mila) e l'età media degli iscritti all'albo di categoria è di 48 anni. Tanto per capirci: in Francia, che ha una popolazione simile alla nostra, gli avvocati abilitati sono appena 60mila, cioè circa quattro volte dimeno; in Germania, altro Stato equivalente, sono 163mila, quasi la metà dei nostri azzeccagarbugli. Noi abbiamo quattro avvocati ogni mille abitanti: saremo anche più "litigiosi" degli altri cittadini europei, il temperamento mediterraneo, epperò i numeri restano altini. Difficile pensare a un ulteriore exploit. In più ci sono i costi della professione: casse previdenziali e quote annuali per gli albi. Vero è che sono esborsi che accomunano tutti i liberi professionisti, ma il risultato (almeno stando ai parziali del 2021) è che il fascino della toga sta iniziando a subire un contraccolpo. 

Uomini, “maturi” e settentrionali. Ecco la foto delle toghe che guadagnano di più. I redditi delle toghe sono in deciso calo. I più colpiti sono i giovani e le donne, che guadagnano meno della metà dei colleghi: 25mila euro l’anno contro i 54mila degli uomini. Massimiliano Di Pace su Il Dubbio il 6 settembre 2021. L’ultimo rapporto del Censis sulla situazione reddituale e numerica degli avvocati, pubblicato a febbraio 2021, non lascia molto spazio alle interpretazioni: la professione dell’avvocato è redditualmente sempre meno redditizia, e permangono grandi differenze in termini di guadagni tra professionisti di varie aree del paese, tra uomini e donne, e tra classi di età diverse. Cominciamo ad analizzare il trend del reddito medio dei professionisti del settore legale negli ultimi 10. Rispetto al biennio 2011-2012, dove il reddito era pari o superiore a 47.000 euro, gli anni successivi hanno registrato un calo improvviso e intenso dei compensi, dell’ordine di quasi 10.000 euro l’anno, tanto che nel 2013 il reddito era già sceso abbondantemente sotto la soglia dei 40.000, per toccare il minimo di 37.500 nel 2014. Negli anni successivi, fino al 2017, il reddito medio si era stabilizzato intorno ai 38.000 euro, per risalire a quota 40.000 nei 2 anni successivi (2018-2019). Mancano i dati del 2020, che saranno disponibili presumibilmente verso la fine di questo anno, ma tutto lascia immaginare che si registrerà un calo, presumibilmente rilevante, del reddito medio, sia perché il blocco dell’attività dei Tribunali, e il loro successivo lento riavvio, non può non aver pesato sulla quantità e qualità dell’attività professionale degli avvocati, e sia perché il generalizzato calo del reddito di buona parte della popolazione non rappresenta certo una premessa per il mantenimento dei precedenti livelli di tariffe. Il dato medio del 2019 sopra richiamato nasconde in realtà una situazione molto composita, che vale la pena analizzare. E’ interessante innanzitutto capire la numerosità delle varie classi di reddito, ossia quanti dei 245.000 avvocati che risultano iscritti alla Cassa Forense si collocano sul piano dei guadagni lordi annuali. Per avere un’idea complessiva di questo aspetto, occorre osservare la tabella, riferita ai redditi del 2019, elaborata dal Censis, e pubblicata nel suo rapporto del febbraio 2021. Come si piò vedere la classe più numerosa (anche se di poco rispetto alla seconda) è quella degli avvocati “poveri”, ossia che hanno un reddito annuo lordo derivante dalla professione non superiore a 10.300 euro. Essi sono quasi 70.000, poco meno di un terzo di tutti gli avvocati, se si considera che 23.000 dei 245.000 non avevano dichiarato reddito. Altrettanti (circa 70.000) sono quelli che ottengono dalla professione un reddito compreso tra 20.000 e 50.000 euro l’anno. La terza classe per numerosità è quella che ottiene un reddito compreso tra10.300 e 20.000 euro, contando quasi 44.000 unità. La quarta classe per numerosità, con ben 22.000 unità, è quella che si situa in una fascia reddituale interessante, ossia quella compresa tra 50.000 e 100.000 euro l’anno. Sono invece meno di 10.000 i professionisti del settore legale che guadagnano più di 150.000 euro l’anno, di cui sono solo 1.359 quelli che dichiarano più di 500.000 euro l’anno. Come anticipato, elementi che influenzano il livello reddituale sono la localizzazione geografica, il genere e l’età del professionista. Il rapporto del Censis riporta infatti il reddito medio degli avvocati a seconda della loro collocazione geografica, di genere e anagrafica, che sono riportati in un’apposita tabella (qui riportata).Cominciando con il dato geografico, si scopre che il reddito lordo medio annuo degli avvocati che operano nelle regioni del Nord è in media di 57.600 euro, sensibilmente superiore a quello dei loro colleghi collocati nelle regioni del Centro Italia, che raggiungono un livello di reddito medio di 44.245 euro, e di gran lunga superiore a quello dei professionisti residenti nelle regioni del Sud (incluse le Isole), che si fermano ad un reddito medio annuale di 24.125 euro. La tabella evidenzia anche la differenza reddituale tra la regione “più ricca”, ossia la Lombardia, dove i professionisti forensi vantano un reddito medio annuo di 70.000 euro, e quella meno redditizia per la professione dell’avvocato, la Calabria, dove chi si dedica all’erogazione di servizi legali ottiene, in media, quasi 4 volte meno dei propri colleghi lombardi, non arrivando neppure ad un reddito medio di 20.000 euro l’anno. Anche se non così abnorme, la differenza di reddito a seconda del genere è notevole, e lascia perplessi; in effetti, in media gli avvocati uomini guadagnano più del doppio delle loro omologhe donne: i primi producono in media quasi 54.500 euro di reddito l’anno, mentre le donne impegnate nella professione forense superano appena la soglia di 25.000 euro. E’ invece comprensibile la crescita del reddito con l’età, come mostra sempre la tabella qui pubblicata. In effetti, chi ha sotto i 30 anni si ferma in media ad un reddito di poco superiore a 1.000 euro lordi al mese, che diventano quasi 1.500 nella fascia di età 30-34, per poi crescere a 2.000 euro al mese lordi quando si ha 35-39 anni. Il reddito medio mensile lordo raggiunge i 2.500 euro quando si ha tra i 40 e i 44 anni, per superare la soglia dei 3.000 nella fascia tra 45 e 49 anni. Si va oltre i 4.000 euro lordi mensili tra i 50 e i 54 anni, per arrivare ai 5.000 mensili nella fascia 55-59 anni. Tra i 60 e i 74 anni la media del reddito lordo rimane sopra i 5.000 euro mensili. Insomma, i dati reddituali mostrano che, in media, la professione forense consente di ottenere redditi interessanti solo dopo i 50 anni. I giovani sono avvisati. 

«Troppi avvocati!». Davigo, ancora tu. Sul Fatto quotidiano l’ex pm di Mani pulite torna a spiegare le lentezze della giustizia con i numeri della classe forense. Se diminuissero i processi, dice, l’avvocatura ci rimetterebbe. Dimentica che proprio i penalisti proposero inutilmente (e per giunta insieme con l’Anm) riforme in grado di ridurre i giudizi. E allude ancora una volta a un’idea di giustizia che non tiene al centro la persona, e dunque chi è chiamato a difenderla. Errico Novi su Il Dubbio il 2 settembre 2021. Colpiscono molte cose, del nuovo intervento firmato da Piercamillo Davigo sul Fatto quotidiano. L’ennesimo in cui mette gli avvocati nel mirino. Altre volte li aveva additati quali responsabili di impugnazioni pretestuose, così pretestuose da rendere giusto il blocca-prescrizione di Bonafede. Già si era soffermato negli anni scorsi, Davigo, sui numeri della professione forense e sull’asserita urgenza di abbatterli. E di nuovo, con l’articolo di oggi, riconnette il numero dei difensori alla mole di cause civili e penali. Sostiene che se si riducesse il numero dei procedimenti si darebbe un bel colpo al reddito complessivo dell’avvocatura. E sembra così alludere non solo a perfidi legali che inducono i loro assistiti in controversie o impugnazioni non volute. No, l’ex leader Anm non si limita a questo: sembra sottintendere un’ancora più subdola opposizione dell’avvocatura alle riforme in grado di snellire la giustizia. Dice che tante cause producono tanto reddito per la classe forense. E sembra lasciar intendere che se non si interviene con modifiche efficaci, è perché la professione legale non vuole rimetterci. Eppure la verità è un’altra. Perché quella modernizzazione del processo è nelle proposte che l’avvocatura avanza da anni. E che casomai la politica ha spesso preferito ignorare. Si possono dire tante altre cose. Ma ce n’è una che viene prima di tutte. Ancora una volta Davigo parla di avvocati come un orpello. Non una parola sulla loro missione. Non un cenno, anche implicito, di rispetto per il loro rilievo civile, per la loro irrinunciabile funzione di garanti dei diritti. Non si pretende che l’ex pm di Mani pulite chieda di far corrispondere, al ruolo degli avvocati, un riconoscimento esplicito in Costituzione. Ma sulla loro già oggettiva natura di coprotagonisti essenziali della giurisdizione, l’ex presidente dell’Anm fa finta di nulla. Ancora una volta. Un altro paio di osservazioni. Intanto, sottovalutare il ruolo dell’avvocatura, come fa Davigo, finisce per alimentare la sfiducia nella giurisdizione, terribile deriva che il magistrato dovrebbe ben conoscere. Poi Davigo forse non si accorge che la sua visone meccanicista del processo e della difesa allude a una visone essenzialmente burocratica della giustizia. E da persona in realtà colta e acutissima, non può negare a se stesso che burocratizzare e svuotare di significato le funzioni pubbliche è la via più rapida per renderle inefficienti. Ma soprattutto, va ripetuto, il magistrato che ha da poco lasciato le funzioni e il Csm si mostra indiscutibilmente ingrato, persino quando richiama soluzioni condivisibili. Ricorda opportunamente che tra le modifiche utili a ridurre almeno nel penale il volume dei processi avrebbe priorità il patteggiamento, nel senso di renderlo più appetibile. Bene: è una delle proposte avanzate con maggiore insistenza dagli avvocati. Dal Cnf come dall’Unione Camere penali. Come fa, Davigo, a lasciar intendere che i processi debordano perché la classe forense si oppone alle riforme pur di non perdere reddito? Rafforzare i riti alternativi e in particolare il patteggiamento, per giunta, è una base di riforma che l’avvocatura ha condiviso proprio con quell’Anm di cui Davigo è stato presidente. Al tavolo aperto due anni fa dall’allora ministro Alfonso Bonafede, Foro e magistratura associata concordarono una proposta che poi il guardasigilli accolse solo in parte nel proprio ddl. Accusare gli avvocati di non voler ridurre i procedimenti per poter guadagnare di più è dunque una distorsione che contrasta con circostanze ben note all’ex pm di Mani pulite, anche se, all’epoca del tavolo Bonafede, l’Anm era presieduta da altri. Si può sorvolare sui dettagli. Ad esempio, sull’idea di Davigo secondo cui, per rendere più desiderabile «l’applicazione di pena» (il patteggiamento, appunto), andrebbe inasprita la sanzione che si rischierebbe di subire altrimenti nel processo ordinario. Va invece notato come altre ipotesi, per esempio la depenalizzazione, siano ritenute irrilevanti dall’ex togato nonostante fossero apparse assai utili ai suoi colleghi dell’Associazione magistrati, che pure, nella già citata proposta avanzata con gli avvocati, suggerirono di sfrondare il codice penale. Ma la cosa di cui davvero non è possibile tacere è di nuovo la logica in cui il magistrato si muove nel suo intervento. La logica meccanicista, quantitativa, in cui oltre al difensore scompare pure la persona. Ci sono molte controversie civili e tanti casi in cui i cittadini non intendono arrendersi all’accusa di un pm. E non si può pensare di ridurre la giurisdizione a un gigantesco congegno tritatutto capace di smaltire le cause ma anche le vite che vi sono sospese. È quanto il Cnf ha ricordato con la propria “Proposta per il Recovery”. Le parole di Davigo dimostrano che una simile visione umanistica della giustizia fa fatica a farsi strada. Eppure i processi non riguardano i numeri: riguardano gli esseri umani. Che non possono rinunciare ai loro diritti, non possono essere puniti per il solo fatto di reclamarli (come rischia di avvenire in virtù di norme ancora non chiarite nella riforma civile), né possono rassegnarsi a essere colpevoli o a una condanna spropositata se sanno che un appello li vedrebbe assolti o procurerebbe una pena più lieve. I processi sono fatti di persone. E finché sarà così, dietro la persona dovrà sempre esserci, a difenderla, un avvocato.

Il problema della Giustizia? Troppi avvocati. Parola di Pignatone. Secondo l'ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, gran parte dei motivi che bloccano la giustizia sono dovuti all'alto numero di avvocati. Il Dubbio il 15 settembre 2021. «La giustizia è una cosa divina, peccato che sia affidata agli uomini». Avevo appeno superato il concorso per l’ingresso in magistratura e mi colpirono queste parole di un mio lontano parente, lo zio Luigi, un vecchio magistrato che aveva visto la guerra mondiale e che era poi stato protagonista di importanti processi contro il banditismo e la mafia delle campagne. Quella frase, espressione di fede popolare e del tipico pessimismo (o realismo) siciliano, mi è tornata in mente molte volte nel corso dei miei quarantacinque anni in magistratura e dei miei sforzi di “fare giustizia”. Non bisogna cadere nell’errore – favorito dai toni che facilmente assume il dibattito pubblico sul tema – di ritenere che il compito “divino” di amministrare la giustizia sia affidato ai soli magistrati né, tantomeno, come troppo spesso si vuol far apparire, ai soli pubblici ministeri. Quello della giustizia è un sistema complesso, il cui funzionamento può essere garantito solo dalla integrazione tra componenti diverse che sono le forze di polizia, i magistrati, il personale amministrativo, gli avvocati, nonché i cittadini nei vari ruoli di giudici popolari, periti, consulenti, testimoni e così via. (…) La complessità risulta ancora maggiore se si considera il ruolo rivestito dalla politica: sono infatti Governo e Parlamento che stabiliscono le regole e attribuiscono (o dovrebbero attribuire) le risorse necessarie. Tra tutti questi poli che rappresentano esigenze, interessi, finalità diversi – e perciò, come è proprio di un sistema democratico, periodicamente in tensione tra loro – si è sviluppato in questo periodo il dibattito sulla riforma della giustizia con l’obiettivo fondamentale di ridurre i tempi dei processi, anche penali, potendo finalmente contare su risorse adeguate, quali quelle previste nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un’occasione storica, forse irripetibile, per un apparato giudiziario afflitto da una cronica carenza di risorse (…). Alle peculiarità che incidono sulla già affannata gestione della giustizia, va aggiunto un ulteriore elemento, di cui si trova raramente riscontro nel dibattito pubblico: gli avvocati che operano in Italia sono ormai 240.000 a fronte, per esempio, dei 50.000 colleghi attivi in Francia. Questo fatto, oltre a ridurre inevitabilmente la qualità media delle prestazioni professionali e a innescare una concorrenza feroce all’interno della categoria, determina il moltiplicarsi del numero dei processi, la dilatazione della loro durata e, ancor più evidente, il proliferare di impugnazioni. Inoltre, come ha evidenziato l’economista Gloria Bartoli, l’Italia conta 55.000 avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione, a fronte dei logo della Francia e dei 5o della Germania, perché in quei Paesi gli avvocati devono scegliere se patrocinare dinanzi alla Suprema Corte o ai giudici di merito. Sono, cioè, gli avvocati per primi a operare una selezione dei ricorsi, consentendo così ai giudici di ultima istanza di assolvere alla loro funzione primaria di assicurare l’uniformità e la prevedibilità della giurisprudenza. Un compito oggi impossibile perla nostra Cassazione, chiamata a pronunziare una media di oltre 50.000 sentenze l’anno, dovendo porre oltretutto, ai fini del controllo sulle motivazioni e della decisione dei ricorsi sulle misure cautelati, una significativa attenzione alle particolarità del caso concreto. Etratto dal libro “Fare Giustizia” di Giuseppe Pignatone

Pignatone è arrabbiato con gli avvocati perché gli hanno smontato “Mafia capitale”. L'ex procuratore di Roma Pignatone ha detto che in Italia ci sono troppi avvocati. Francesco Damato su Il Dubbio il 16 settembre 2021. Giuseppe Pignatone, che da ottobre del 2019 presiede il tribunale del Vaticano dopo 45 anni di carriera giudiziaria in Italia conclusasi alla guida della Procura di Roma, non ha voluto lasciare solo il suo ex collega, ed anche ex consigliere superiore della magistratura, Piercamillo Davigo nell’attribuzione agli avvocati di buona parte, se non della maggior parte, dei guai della giustizia in questa nostra sfortunata Repubblica, quanto meno. Dove, per esempio, si sono dovuti aspettare 51 anni -dal 1948 al 1999- per vedere scritto nella Costituzione, modificando l’articolo 111, che il processo deve avere una “ragionevole durata”. Sono occorsi altri 22 anni perché un governo -quello in carica, molto atipico e fortunatamente presieduto da Mario Draghi- tentasse davvero con una legge delega ora all’esame del Senato, dopo l’approvazione della Camera, di dare concretezza a quella generica durata “ragionevole”, stabilendo quanti anni precisamente debba durare un processo in appello e quanti in Cassazione per non estinguersi nella “improcedibilità”. Che è la trovata “geniale”, come l’ha definita il buon Carlo Nordio, della guardasigilli Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, per ripristinare con altro nome la prescrizione disinvoltamente abolita all’esaurimento del primo grado di giudizio dal primo governo -gialloverde- di Giuseppe Conte, col grillino Alfonso Bonafede alla testa del Ministero della Giustizia. E con l’avvocato, senatrice e ministra Giulia Bongiorno, responsabile dei problemi della giustizia per la Lega, obbligata dal “capitano” Matteo Salvini a ingoiare il rospo originariamente definito “una bomba atomica”, pur di far durare quel governo qualche mese in più. Non volete chiamarla quanto meno sfortunata, come dicevo prima, una Repubblica costretta ad arrivare così tardi e così male, se davvero vi arriverà senza altre sorprese, ad un minimo di decenza in materia di durata dei processi? E ciò, peraltro, grazie ai vincoli in qualche modo esterni dell’Unione Europea, che ha condizionato i finanziamenti del piano della ripresa, dopo il disastro pandemico, alla realizzazione di certe riforme, fra le quali quella appunto per la durata davvero ragionevole e certa del processo. La responsabilità di questo ritardo, definiamolo così, per Davigo e ora anche per Pignatone, autore di un libro fresco di stampa anche sul modo in cui egli ha cercato di “fare giustizia” nella sua lunga carriera, non sarebbe solo dei magistrati, dei loro ritmi di lavoro, abitudini e quant’altro, visto che gran parte delle prescrizioni è sempre maturata nella fase preliminare del processo, in corso cioè di indagini, ma pure o soprattutto degli avvocati. E non per un presunto poltronismo ma per il loro numero ritenuto esorbitante, che praticamente abbasserebbe la qualità delle prestazioni professionali, e li costringerebbe di fatto, volenti o nolenti, a farsi concorrenza sui modi con i quali tirare alle lunghe i processi per salvare i loro clienti, o assistiti, con la prescrizione -e domani con la improcedibilità- anziché con una incerta sentenza di assoluzione. Pignatone è andato giù contro gli avvocati ancora più di Davigo puntando il dito non solo contro i 240 mila difensori che esercitano in Italia rispetto ai 50 mila in Francia, o contro i 380 per ogni centomila abitanti in Italia rispetto ai 100 in Francia, ma anche contro i 55 mila avvocati abilitati in Italia al processo in Cassazione rispetto ai 50 in Germania. Dove quindi sarebbero gli stessi avvocati a fare da filtro per non intasare di ricorsi pretestuosi l’ultimo grado di giudizio. Da noi invece la Cassazione sarebbe travolta dallo stesso numero dei difensori abilitati a ricorrervi. E sotto questo profilo -par di capire- neppure la riforma Cartabia, chiamiamola così, riuscirà a sanare l’amministrazione della giustizia. Occorrerebbe non dico eliminare gli avvocati, ma almeno rendere loro la vita durissima, ancor più di quella che s’intravvede nella quasi indigenza diffusa di ventimila euro l’anno di reddito che Davigo è appena tornato a sottolineare in televisione, alla riapertura del salotto televisivo di martedì su la 7, dove già era di casa, o quasi, prima dell’interruzione estiva.Non vorrei essere o sembrare scortese nei riguardi di Pignatone, e della fiducia accordatagli da Papa Francesco importandolo al di quà delle Mura, ma personalmente mi sento grato agli avvocati e alla Cassazione per avere smentito la rappresentazione fatta della Capitale dalla Procura allora guidata dallo stesso Pignatone, come di una terra praticamente conquistata dalla Mafia, con la maiuscola. E’ stata una rappresentazione notoriamente ridimensionata nei processi ad un’associazione a delinquere di notevole consistenza, per carità, ma comune. La cosiddetta “Mafia Capitale”, o “Mondo di mezzo”, come preferirono chiamarla altri, sempre dalle parti della Procura romana, decollata nel 2015 con arresti e incriminazioni clamorose, si è purtroppo tradotta nel miracolo politico della conquista del Campidoglio da parte dei grillini nelle elezioni amministrative del 2016, propedeutiche a quelle politiche del 2018. Che portarono il MoVimento 5 Stelle al 33 per cento dei voti, facendogli ereditare la postazione centrale che fu della Dc, resistita nella cosiddetta prima Repubblica anche all’avanzata del Pci guidato dal mitico Enrico Berlinguer. Ora sono curioso di vedere, svanita e smentita Mafia Capitale, e simili, che fine farà, tra le macerie peraltro del suo MoVimento dimezzato nei sondaggi, e in tutte le elezioni intermedie svoltesi dopo il 2018, la ostinata ricandidatura della sindaca Virginia Raggi sostenuta dal ribelle e ormai ex pentastellato Alessandro Di Battista ma anche dal nuovo presidente delle 5 Stelle Giuseppe Conte.

Replica a Pignatone: «Non siamo causa dei ritardi della giustizia». Francesco Greco replica all'ex procuratore di Roma, Pignatone. «E' paradossale leggere o sentir dire la giustizia va male perché ci sono troppi avvocati». Francesco Greco (consigliere Cnf) su Il Dubbio il 17 settembre 2021. È paradossale leggere o sentir dire che in Italia la giustizia va male perché ci sono troppi avvocati che provocano un ingolfamento del sistema giudiziario. È come dire che la sanità va male perché ci sono troppi malati. E se è vero che il numero dei malati influisce sull’efficienza di un ospedale, è altrettanto vero che in questi casi si interviene sulle strutture sanitarie e sul personale medico e paramedico, aumentandone le dotazioni organiche e migliorando le strutture. Dire che ci sono troppo avvocati che si occupano della tutela dei diritti è come dire che ci sono troppi malati. Fatta questa premessa e dando atto che in Italia il numero degli avvocati è superiore a quello di altri stati europei – circostanza di cui per primi noi avvocati non gioiamo – occorre considerare che l’incremento negli ultimi 20 anni del numero degli iscritti agli albi è stato determinato dall’ingresso di giovani affascinati dalla toga e dal ruolo che la nostra professione svolge, di tutela dei diritti fondamentali. L’avvocatura ha accolto questi giovani, assicurando loro un futuro – a fronte dell’incapacità dell’istituzioni del Paese di offrire altri sbocchi occupazionali – nell’ambito di una professione fondamentale in uno Stato di diritto, oserei dire posta a presidio della democrazia. Dunque, sentirci oggi rinfacciare che la giustizia non funziona a causa degli avvocati è veramente paradossale per non dire provocatorio; quando invece i mali della giustizia vanno ricercati altrove: nelle strutture carenti (vedi l’edilizia giudiziaria, che oggi è un grande problema), negli insufficienti organici dei magistrati – molti dei quali fuori ruolo e distaccati in vari ministeri – e del personale amministrativo, nella inesistenza, soprattutto, di un sistema che si occupi di garantire l’efficienza del comparto giudiziario. A mio avviso, il tema della verifica dell’efficienza del comparto giudiziario è il problema più grande. L’inesistenza di organi deputati a valutare efficienza, o meglio l’inefficienza, della macchina giudiziaria, dell’esito dei processi, del rispetto dei principi del giusto processo è un grande vulnus. Nessuno risponde se un processo, dopo anni ed anni di indagini, di udienze, di risorse finanziare impegnate finisce con un pugno di mosche. Tutto è affidato solo al gravame dei provvedimenti, mentre nessuno risponde dell’inefficienza, che invece costituisce, in qualunque settore, il principale indice di valutazione. Basti dire che in questo anno e mezzo in cui l’attività giudiziaria è rimasta sostanzialmente bloccata per la pandemia, in cui udienze non se ne sono quasi più svolte, ci si sarebbe aspettato un recupero dell’arretrato accumulatosi, che invece sembra addirittura aumentato per la serie di rinvii su rinvii dei processi disposti d’ufficio. Ma di ciò nessuno si occupa. L’efficienza, sembra, non interessare ad alcuno: non ai i capi degli uffici giudiziari, non al CSM (che ha promulgato circolari per cui le centinaia di magistrati che fanno parte dei consigli giudiziari di tutte le Corti Appello d’Italia beneficiano di un esonero, dal carico di lavoro, che può arrivare al 40%), non agli uffici ministeriali né al Governo. L’inefficienza del sistema giustizia rimane a carico dei cittadini. Non si può non ricordare, peraltro, come negli ultimi 20 anni siano state adottate tante riforme rivolte a sgravare la magistratura del carico giudiziario che, tuttavia, di fatto, hanno solo ridotto le garanzie costituzionali del diritto di difesa. A partire dal 1997, quando per smaltire l’arretrato civile venne approvata la legge n. 276 sulle così dette “sezioni stralcio”, con la cui entrata in vigore (l’anno successivo) le cause all’epoca esistenti sui ruoli dei giudici togati furono tutte riassegnate a giudici onorari, reclutati in quella occasione. La magistratura togata fu esonerata dal peso dell’arretrato e ripartì da zero. E mentre le sezioni stralcio, costituite, come detto, solo da giudici onorari in 5 o 6 anni esaurirono l’arretrato, le nuove cause, affidate alla magistratura ordinaria, ben presto si accumularono di nuovo. Nel rito civile sono innumerevoli le riforme che hanno previsto, a carico delle parti, preclusioni, limitazioni alla produzione di nuove prove in grado di appello, condizioni di procedibilità dell’azione, riduzioni dei termini per il deposito delle difese. Nessuna di queste riforme, invece, ha previsto termini perentori per il deposito delle sentenze da parte dei giudici. Nel processo amministrativo è stata persino introdotta la “perenzione del ricorso”, che comporta che se il tribunale amministrativo non fissa l’udienza entro 5 anni da quando il ricorso è stato presentato il procedimento si estingue, a meno che la parte non dichiari, con atto formale, di volere ancora la sentenza. Nel processo penale, per evitare la prescrizione dei reati, è stata abolita la prescrizione, quando invece è ormai accertato che il 60 – 70 % del periodo prescrizionale decorre durante le indagini, quando il processo non è nemmeno iniziato. L’effetto, inevitabile, sarà l’allungamento dei processi. In cassazione, si è raggiunto il culmine, assistendo all’introduzione, da parte della stessa Corte di Cassazione, del principio di “autosufficienza” del ricorso. Concetto assolutamente indefinito nel codice di procedura, grazie al quale la Cassazione dichiara inammissibili la stragrande maggioranza dei ricorsi, senza doversi preoccupare di esaminarne il merito. Smettiamola, dunque, di attribuire agli avvocati le colpe degli altri: riformiamo la giustizia, partendo dalle strutture e dagli organici dei giudici e del personale amministrativo; facciamo rientrare nei tribunali, a scrivere sentenze, le centinaia di magistrati distaccati nei ministeri e nei vari uffici; introduciamo organi che verifichino l’efficienza degli uffici giudiziari, monitorando il numero di procedimenti che vengono annullati dopo anni. Noi avvocati siamo pronti a collaborare e pretendiamo, per i nostri assistiti, un giusto processo, che coniughi celerità ed efficienza. 

Avvocati capro espiatorio di chi non vuol vedere i guai della giustizia. La presidente del Cnf Maria Masi replica all'ennesimo attacco sferrato contro l'avvocatura che ripropone il solito refrain: il numero "eccessivo" di legali in Italia rallenta la giustizia, riducendone la qualità. Maria Masi su Il Dubbio il 16 settembre 2021. Dispiace, ancora una volta, dover stigmatizzare quanto affermato sugli avvocati da esponenti di spicco del potere giudiziario italiano, per i quali la colpa della lentezza della giustizia in Italia sarebbe da attribuire al numero “eccessivo” di avvocati che rallenterebbero i tempi e la durata dei processi e renderebbero inefficace ogni proposta di riforma sul tema. Ripetutamente si tende a puntare il dito contro gli avvocati, colpevoli di essere “troppi”. Siamo costretti perciò a replicare, chiedendo conto di un’analisi che non sembra, nei numeri e soprattutto nei fatti, corretta e obiettiva. L’avvocatura, per vocazione e convinzione, rispetta le tesi di chiunque, nella rigorosa applicazione del principio dialettico, e quindi anche quelle che oggi mi si chiede di commentare. Ma a me pare che, ancora una volta, nella continua ricerca del colpevole sbagliato, si perda l’opportunità di fornire un contributo utile al dibattito sulla giustizia. Il numero ‘eccessivo’ di avvocati, sempre che ci si intenda in maniera corretta sull’aggettivo ‘eccessivo’, può far male solo all’avvocatura, non con riferimento alla qualità della prestazione professionale ma sicuramente alla sua sostenibilità, e non certo alla giustizia e meno che mai ai cittadini, i quali hanno maggiori risorse da cui attingere e a cui dovrebbero riconoscere gli adeguati compensi per l’attività da svolgere in difesa dei loro diritti. Le sanzioni che sono state comminate all’Italia sono sempre riconducibili alla mancata applicazione o all’errata applicazione di norme. L’equo indennizzo per l’eccessiva durata dei processi non viene riconosciuto se il processo è rallentato per fini meramente dilatori. Sarebbe interessante acquisire i dati relativi a fondate condanne per lite temeraria ma non se ne fa mai menzione nelle analisi che si sprecano, forse perché il dato può considerarsi trascurabile ai fini statistici. Non è dato, quindi, comprendere come il numero elevato di avvocati possa moltiplicare le cause e ancora meno come possa incidere sul numero delle impugnazioni senza voler considerare i filtri, inaccettabili, che inevitabilmente rischiano di limitare l’attività del difensore da svolgere nell’esclusivo interesse della difesa dei diritti e, come tale, a garanzia di una funzione che è pubblica al pari della magistratura. Se si avesse l’onestà intellettuale di riconoscere che le cause dell’eccessiva durata dei processi devono ricercarsi altrove (carenza di giudici, di organico amministrativo, di risorse economiche, di accentramento giudiziario), forse riusciremmo ad evitare gli effetti della denegata giustizia che noi avvocati non dobbiamo immaginare perché li conosciamo bene essendo chiamati ad assolvere anche alla funzione di tramite nel rappresentare fatti e diritto per la parte assistita al giudice e consentirgli, così, di amministrare la giustizia in nome del popolo italiano. L’avvocatura dovrà sicuramente ripensare in maniera costruttiva l’accesso alla professione, la formazione, il suo ruolo e le sue funzioni rendendosi capace di interpretare il cambiamento senza snaturarsi ma anzi nel solco dell’identità riconosciuta dalla Costituzione. Etica, competenza e responsabilità, sono componenti indefettibili di qualsiasi percorso professionale, princìpi ai quali l’avvocato è da sempre chiamato a rispondere. L’auspicio è che nel progetto di riforma della magistratura si valorizzino gli stessi princìpi anche per i giudici e insieme, avvocati e magistrati, contribuire all’efficienza del servizio giustizia, come più volte sottolineato dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “decisiva per la qualità e per lo sviluppo della nostra vita democratica”.

Francesco Bisozzi per "il Messaggero" il 23 settembre 2021. Avvocati a caccia di un lavoro nella Pubblica amministrazione. Il bando di concorso in scadenza oggi per assumere 8.171 addetti da destinare all'Ufficio del processo dovrebbe totalizzare, secondo fonti del ministero della Giustizia, circa 80mila candidature, molte delle quali proverrebbero proprio da avvocati pronti a riciclarsi nel settore pubblico. A spingerli verso la Pa sono i redditi in calo (oltre la metà degli avvocati in circolazione guadagna meno di 30 mila euro l'anno) e la troppa concorrenza. Risultato? L'effetto Pnrr, per via delle assunzioni previste nell'ambito della giustizia, rischia di tradursi in una valanga di cancellazioni dalla Cassa forense. Solo l'anno scorso se ne sono andati in 5800 (nel 2019 avevano salutato in poco più di 5mila). 

L'OFFERTA «La pandemia ha travolto molti giovani avvocati, costretti oggi ad abbandonare la professione. Un'avvocatura senza specializzazione, come ribadiamo da tempo, è debole sotto il profilo della qualità dell'offerta: oggi sono soprattutto gli avvocati cosiddetti generalisti, quelli che non si sono ritagliati una fetta di mercato specifica, a cercare un altro lavoro», spiega Gian Domenico Caiazza, presidente dell'Unione delle camere penali italiane. Per l'Ufficio del processo sono previste oltre 16mila assunzioni: il bando in scadenza oggi servirà a mettere sotto contratto il primo contingente di addetti. Ieri le domande di partecipazione al concorso superavano, sempre secondo fonti del ministero della Giustizia, quota 50mila. Cercasi laureati in materie giuridiche oltre a una quota di laureati in economia e commercio e scienze politiche o titoli equipollenti. I contratti sono a tempo determinato, ma garantiscono stipendi da 1800 euro al mese che di questi tempi per un avvocato non sono pochi. Per intenderci, oggi gli avvocati iscritti alla Cassa Forense (al lordo di quelli in pensione ma contribuenti nei confronti della cassa) sono in tutto 245.030 e guadagnano in media 40.180 euro, stando all'ultimo rapporto del Censis. Più nel dettaglio, il 26 per cento degli avvocati ha un reddito netto non superiore a 15mila euro, il 28 per cento circa si posiziona tra 15mila e 30mila euro, mentre giusto un terzo oscilla tra 30mila e 100mila euro. Sono i professionisti più giovani a guadagnare meno: chi ha un'età compresa tra 30 e 34 anni deve accontentarsi di circa 16mila euro lordi, invece per gli iscritti sopra i 50 anni il reddito professionale medio dichiarato ai fini Irpef supera i 50mila euro. E ancora. Gli avvocati del Nord guadagnano quasi il triplo (oltre 57mila euro) rispetto ai loro colleghi del Sud e delle isole (24mila euro circa). Notevole poi il gender pay gap. Sempre prendendo come punto di riferimento il reddito professionale medio dichiarato ai fini Irpef dagli iscritti alla Cassa Forense, emerge che per quanto riguarda gli uomini l'asticella arriva a 54mila euro e per le donne si ferma a 25mila euro. Così Antonino Galletti, presidente del Consiglio dell'ordine degli avvocati di Roma: «Non solo stanno ripartendo i concorsi pubblici, che fanno gola a molti dei nostri iscritti, ma stanno diminuendo anche gli iscritti alle facoltà di giurisprudenza. L'effetto combinato di questi due fattori rischia di portare presto a una decrescita degli iscritti agli albi anche in città come la Capitale, dove il fenomeno della fuga della toga finora si è avvertito meno».

LA VALUTAZIONE Insomma, non c'è da stupirsi se il numero degli iscritti alla Cassa Forense è rimasto praticamente stabile tra il 2019 e il 2020, passando da 244.952 a 245.030 unità. Fanno 78 iscritti in più. Tra il 2018 e il 2019 gli iscritti avevano fatto invece un balzo di 2mila unità, con una crescita dello 0,8 per cento, miglior risultato dal 2016, quando erano aumentati su base annua di quasi il 2 per cento. Il Censis ha anche rilevato che il 32 per cento degli avvocati giudica al momento molto critica la propria condizione lavorativa (il giudizio è molto positivo solo per lo 0,5 per cento). «I dati della cassa di previdenza degli avvocati testimoniano il calo dei redditi e la scarsa crescita degli iscritti, soffrono in particolare i piccoli studi e chiaramente le generazioni più giovani che prima della pandemia non potevano contare su una clientela consolidata», aggiunge l'avvocato Giovanni Nardulli. Tornando al concorso diretto al reclutamento del primo contingente di 8.171 giovani giuristi da assegnare all'Ufficio del processo, i candidati che verranno considerati idonei dovranno superare una valutazione dei titoli e un'unica prova scritta da 40 quesiti a risposta multipla. Come detto, l'infornata di addetti avverrà in due scaglioni: per quelli del primo scaglione è previsto un contratto a tempo determinato della durata massima di 2 anni e 9 mesi e di due anni soltanto per quelli del secondo.

Altro che “fuga” dalla professione: per gli avvocati l’accesso ai concorsi è una chance. Altro che fuga dalla professione: il numero di avvocati non è diminuito, ma sia pur con ritmi ben diversi dal più recente passato, aumenta. Domenico Monterisi, avvocato, Iuslaw Webradio, su Il Dubbio il 22 settembre 2021. Il Dubbio ha dedicato nelle ultime settimane di agosto molto spazio al tema della (presunta) “fuga” degli avvocati dagli Albi, intervistando presidenti degli Ordini e altri esponenti della politica forense nazionale. Dell’argomento si sono occupate anche altre testate e si è assistito ad un distopico succedersi di titoli contrastanti: da una parte la “fuga”, trattata come se si fosse al cospetto di una delle sette piaghe d’Egitto, dall’altra le statistiche, a volte impietose, sul numero (ancora) enorme di iscritti agli albi e sulla spaventosa proporzione fra cittadini e avvocati, soprattutto in alcune regioni italiane del mezzogiorno. Allora è opportuno fare chiarezza: non c’è una “fuga” dagli albi. Il numero di avvocati, come si legge nei dati di Cassa Forense e nel rapporto Censis che la stessa Cassa commissiona annualmente al prestigioso istituto di ricerca, non sono diminuiti, ma sia pur con ritmi ben diversi dal più recente passato – e ci credo! – aumentano. L’ultimo aumento è, in realtà, di poche decine di iscritti, ma mancano all’appello coloro i quali supereranno l’esame del Dicembre 2019, che, a causa della pandemia, è stato dapprima rinviato e poi sconvolto nelle sue modalità di svolgimento ed è tuttora in corso, per cui è facilmente ipotizzabile che, a fine esame, risulteranno iscritti altre migliaia di nuovi Colleghi. Le domande che ci si pongono di fronte a questo fenomeno sono le più diverse. Innanzitutto ci si interroga sulle cause dell’inversione del trend, ma forse la domanda è a monte. Cosa ha determinato, invece, l’impennata delle iscrizioni degli anni passati? Il vero è che per circa venti anni, a causa dei limiti di bilancio determinati dai patti di stabilità imposti dall’Europa, le possibilità per moltissimi giovani di accedere ai concorsi della P.A. sono state frustrate e ciò ha indotto i neolaureati a iscriversi agli albi professionali (quello forense in particolar modo). Zero o meno assunzioni, per anni, nella scuola, nei ministeri, negli enti pubblici hanno ingolfato gli albi, anche grazie a un esame, che, occorre ammetterlo, gestito dall’Avvocatura, non si è rivelato un adeguato filtro di preparazione e competenza. Non è un caso che negli ultimi concorsi pubblici, finalmente scongelati, quali per esempio quelli per cancellieri, siano risultati vincitori molti avvocati. In questo caso, io non parlerei di fuga, ma semmai di ritorno a casa di chi, non trovando quella casa, si è adattato a (soprav)vivere nello scomodo scantinato dell’Albo. Del resto, non si può far finta di dimenticare che per anni nei congressi nazionali forensi si è discusso del problema dei troppi iscritti, dello scadimento della qualità, del rischio di impoverimento anche del decoro professionale, ecc. Si è invocato il numero chiuso (agli Albi o all’Università, con percorsi specializzanti per coloro che fossero interessati allo svolgimento delle professioni giuridiche), si è citato, spesso in modo errato, il grido di pamphlet di Calamandrei (“Troppi avvocati”) del 1921. D’altro canto, ci si chiede – e la domanda stimola Cassa Forense a lavorare ormai da quasi un anno sulla riforma previdenziale – chi pagherà le pensioni degli attuali 250.0000 iscritti, se si dovesse verificare in futuro una netta contrazione di nuovi iscritti, posto che i calcoli attuariali, imposti dalla Fornero che portò lo stress test della sostenibilità della Casse private da 30 a 50 anni, si fondano su previsioni di crescita del numero di iscritti, che già adesso appaiono in riduzione? Domande particolarmente difficili che, inoltre, non tengono conto di un’ulteriore questione. Quanti sono gli iscritti agli albi che esercitano effettivamente la professione? Quanti restano iscritti pur dedicando la maggior parte del loro tempo ad altre attività, da quella dell’insegnamento nelle scuole o nelle università, a quello della magistratura onoraria? Quanti, poi, svolgono la professione quali giuristi di impresa (sia pure in forme camuffate che evitano di incorrere in espulsione dall’albo per incompatibilità) o dedicandosi esclusivamente all’attività stragiudiziale. Resta, poi, irrisolto il nodo dei c.d. monocommittenti  (a tal proposito, appare opportuno chiedere a OCF che fine abbia fatto la mozione congressuale approvata, sul tema, a Catania): moltissimi di loro, se assunti con regolare contratto e con le opportune garanzie anche di tipo previdenziale-assistenziale, non esiterebbero a cancellarsi dall’albo. Forse è venuto il momento di ripensare all’idea di un doppio albo: uno dedicato a chi svolge in modo preminente l’attività difensiva nelle aule giudiziarie e un altro a chi, invece, svolge attività prettamente stragiudiziale o rende quelli che vengono definiti “servizi legali”, facendo storcere il naso a qualche purista. Il che condurrebbe evidentemente a diversi regimi di incompatibilità, più stretti e simili a quelli attualmente in vigore, per i primi, più laschi per i secondi, e giustificherebbe anche un diverso sistema previdenziale, semmai anche all’interno del medesimo contenitore di Cassa Forense (portando semmai in Cassa uno sistema simile a quello della Gestione Separata INPS). Un tema da affrontare, magari con l’adeguata preparazione e non con affannose rincorse dell’ultimo minuto, sin dal prossimo congresso nazionale forense.

«Qui al Sud si lascia l’avvocatura per colpa dei redditi bassi». Viaggio nei Coa, parla il presidente dell'Ordine di Lecce Antonio De Mauro: «Alcuni iscritti lasceranno l'avvocatura perché hanno vinto i concorsi». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 17 settembre 2021. Al Salento è legata la figura di un giurista, oltre che politico, del calibro di Aldo Moro. Lo statista democristiano nacque a Maglie, in provincia di Lecce, e fu un insigne studioso del diritto e della procedura penale. A lui è intitolata l’Università degli Studi di Bari, dove insegnò. Un avvocato apprezzato in tutta Italia, originario di Lecce, fu Vittorio Aymone, che, in pieno Secondo conflitto mondiale, nel 1942, dopo la laurea alla Sapienza di Roma, ricevette la proposta di insegnare in quell’ateneo. Troppo forte, però, il legame con Lecce e la terra salentina. Aymone si trasferì nel capoluogo pugliese per dedicarsi anima e cuore alla professione. Nel 1948, si classificò al primo posto nel concorso nazionale per avvocato e a soli trentatré anni, con l’elezione nel Coa, iniziò la sua esperienza di infaticabile componente dell’Ordine leccese. Per quattro volte rappresentò il Distretto di Lecce nel Consiglio nazionale forense, ricoprendo la carica di segretario e vicepresidente. A riprova dell’autorevolezza di Aymone la sua presenza nell’ufficio di presidenza della Commissione per la riforma del Codice di procedura penale. È ricordato come uno dei migliori penalisti e per la sua oratoria sopraffina un esempio per diverse generazioni di toghe.  A questi esempi il Coa di Lecce tuttora si ispira. Con i suoi 5392 iscritti (compresi i praticanti) l’Ordine degli avvocati, presieduto da Antonio De Mauro, è uno dei più grandi del Sud Italia. Come vanno le cose in questa parte del Sud, considerato che, da diversi mesi sono tanti gli avvocati che stanno tentando di entrare nella Pubblica amministrazione con la partecipazione ai concorsi indetti da varie amministrazioni? La prospettiva di un posto fisso alletta gli avvocati, compresi quelli con più di vent’anni di iscrizione all’albo. «Nel nostro Coa – dice il presidente Antonio De Mauro – vi sono alcuni iscritti che lasceranno la toga in quanto sono risultati vincitori di concorsi. In particolare, negli ultimi tempi, diversi colleghi hanno superato il concorso a direttore di cancelleria e hanno deciso di optare per quell’impiego. Tale evento mi pare sintomatico in ordine alle difficoltà anche di carattere economico nelle quali si trova gran parte della categoria professionale. Basti pensare che molti colleghi che hanno chiesto la cancellazione dall’albo hanno superato i cinquanta anni, età che dovrebbe corrispondere alla piena maturità professionale e al conseguimento di un adeguato reddito. Certamente la scelta potrà essere stata dettata pure da altre valutazioni inerenti alla qualità della vita o a un regime di impiego che consenta una migliore pianificazione della propria vita». Nel Consiglio dell’Ordine di Lecce le cancellazioni, dal gennaio 2020 allo scorso 9 settembre, sono state 195. Al netto di queste prime considerazioni De Mauro, che insegna Diritto privato nell’Università del Salento, è convinto che fare l’avvocato adesso non sia più difficile rispetto al passato. «Certamente – commenta – la professione di avvocato, come altre, deve adeguarsi ai tempi e raccogliere le sfide che la modernità propone. Ad esempio l’implementazione dei sistemi informatici in tutti i settori della giurisdizione ha imposto all’avvocato di adeguare le proprie attitudini anche nel settore dell’informatica e ha comportato la necessità di dotarsi degli strumenti idonei allo svolgimento della professione. Altro profilo rilevante mi pare quello della settorializzazione dell’attività forense che in qualche modo porterà progressivamente alla scomparsa dell’avvocato “tuttofare”». Se le difficoltà nello svolgere la professione non sono aumentate, di sicuro assisteremo ad un numero minore di avvocati nel futuro prossimo. «Il numero degli avvocati – continua De Mauro – è fisiologicamente collegato al tessuto economico del territorio. Credo che storicamente vi sia stato un eccesso di offerta rispetto alla domanda. Da tanto discende la necessità di verificare la sostenibilità futura della professione. Io credo che in futuro ci sarà una riduzione del numero degli iscritti, traendo questo dato anche dalla progressiva riduzione del numero di iscritti presso la facoltà di giurisprudenza». Da Nord a Sud la richiesta dell’avvocatura non cambia. Serve il personale negli uffici giudiziari per cogliere davvero le opportunità offerte dal Pnrr. Il bando per l’ufficio del processo in scadenza fra qualche giorno prevede nel distretto di Corte d’appello di Lecce 303 posti (dodicesima città italiana per numero di assunzioni). «La fase post pandemica – rileva il presidente del Coa leccese – ha introdotto nel sistema alcuni elementi di novità che hanno consentito che il sistema della giurisdizione, compito indefettibile dello stato di diritto, potesse funzionare anche con le difficoltà conseguenti all’adeguamento dei sistemi informatici. I fondi del Pnrr potranno apportare utilità sotto il profilo dell’implementazione del personale di cancelleria, della costituzione dell’ufficio del processo e della modernizzazione delle strutture». Con l’investimento di maggiori risorse l’auspicio è che si creino circoli virtuosi con ricadute generalizzate per i legali. «I colleghi iscritti nel nostro Ordine – riflette De Mauro -, come nella maggior parte delle realtà del meridione, sono chiamati ad operare in un territorio che non è caratterizzato da grandi entità imprenditoriali e pertanto devono confrontarsi con questa realtà. Non a caso i redditi della classe forense al Sud sono sensibilmente inferiori rispetto a quelli di altre zone del Paese. La prevalente attività è quella giudiziaria, pertanto le difficoltà maggiori attengono alla inadeguatezza delle strutture, ivi incluse quelle relative all’edilizia giudiziaria. Qui da noi è stato fortunatamente avviato il percorso per la realizzazione della cittadella della giustizia». Un ultimo pensiero De Mauro lo rivolge all’avvocato Angelo Pallara, scomparso prematuramente nel 2015 all’età di 57 anni: «È stato un penalista molto conosciuto e stimato non solo a Lecce. Un nome che ha accresciuto l’autorevolezza del nostro Foro».

La verità sul luogo comune dei troppi avvocati in Italia. Nel rapporto sulla giustizia di EU Justice Scoreboard emerge chiaramente la lentezza delle sentenze: ci vogliono in media tre anni per ottenerne una. Colpa degli avvocati? Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 15 settembre 2021. Il tema dell’eccessivo numero degli avvocati in Italia ricorre periodicamente per corroborare alcune tesi ed argomentare su quanto funziona o meno in Italia. Una tentazione che non ha lasciato indifferente neppure Giuseppe Pignatone, uno dei migliori magistrati italiani, che nel suo ultimo libro, “Fare Giustizia” (Laterza), sfodera la questione, poco dibattuta o sottoposta a superficiali analisi, del numero eccessivo degli avvocati nel nostro Paese. Pignatone si lancia in un paragone trito e ritrito tra l’Italia e i nostri vicini di casa francesi. Da noi ci sono 240mila avvocati, in Francia solo 50mila. E da qui la solita giaculatoria: ridurre il numero di avvocati può fare solo bene. Può fare bene alla qualità delle prestazioni professionali, al clima di concordia nell’avvocatura (troppi avvocati portano ad una “concorrenza feroce”), ad un ridimensionamento del numero dei processi e alla loro durata e ad una riduzione delle impugnazioni. Ma non è finita qui. L’ex procuratore di Roma sottolinea pure il dato – a suo dire poco edificante – del numero degli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione: in Italia sono 55mila, in Francia 100, in Germania addirittura solo 50. L’ex numero uno della Procura della Repubblica capitolina sottolinea il fatto che all’estero sono gli avvocati a dover scegliere “se patrocinare dinanzi alla Suprema Corte o ai giudici di merito”. Con l’attestato di benemerenza, all’estero, che gli avvocati sono i primi artefici di una sorta di selezione naturale dei ricorsi, dando così una grossa mano a chi sta dall’altra parte, i giudici, che possono così assolvere “alla loro primaria funzione di assicurare l’uniformità e prevedibilità della giurisprudenza”. In Italia, dunque, la lentezza della giustizia, l’intasamento dei Tribunali e quello che ne deriva dagli uffici giudiziari sarebbe da imputare solo agli avvocati. Un po’ troppo semplicistica come conclusione, troppo ancorata ad una vulgata sempre ricorrente. Eppure i dati pubblicati nel 2020 dallo EU Justice Scoreboard indicano che l’Italia è quarta nella classifica dei 27 Stati della Ue con il maggior numero di avvocati ogni 100mila abitanti. Nel 2018 sono stati censiti 388 avvocati ogni 100mila abitanti, nel 2012 erano 379. La classifica è guidata dal Lussemburgo, con 488 avvocati per 100mila abitanti, seguono Cipro e Grecia, prima di noi. La Spagna, invece, registra 304 avvocati ogni 100mila abitanti, mentre in Francia si scende a 100 avvocati avendo sempre come riferimento la soglia dei 100mila abitanti. Nel rapporto pubblicato nel luglio scorso, sempre a cura di EU Justice Scoreboard, emerge che in Italia occorrono circa trentotto mesi (3 anni in media) per ottenere una sentenza definitiva nel civile. Occorrono 791 giorni per una sentenza in Corte d’appello. I dati, relativi al 2019, in questo caso fanno finire l’Italia all’ultimo posto tra gli Stati membri dell’UE. I procedimenti civili pendenti sono 3,7 ogni 100 abitanti. Dati che parlano chiaro. Questa lentezza è da imputare pure agli avvocati?

Ne rimarrà uno solo: io!

Ma io, avvocato, dico: sul numero di professionisti Davigo ha ragione. DILLO AL DUBBIO. Pubblichiamo le lettere inviateci da due avvocati dopo la nostra replica all'articolo di Piercamillo Davigo, che dalle colonne del Fatto torna a spiegare le lentezze della giustizia con i numeri della classe forense. Il Dubbio il 3 settembre 2021.

Cari Colleghi, attenzione… anche al Dott. Davigo (non me ne voglia…) può capitare di dire delle cose sacrosante! Che in Italia ci siano troppi avvocati è un dato oggettivo, che nessuno può negare! Che questo dato non sia positivo per “la buona salute” della nostra professione è, a mio parere, altrettanto incontrovertibile. Sono un vecchio avvocato, con esperienza ultraquarantennale e posso affermare, senza tema di smentita (almeno da parte di colleghi della mia epoca) che la considerazione “globale” della nostra professione si è notevolmente abbassata anche a causa dell’aumento degli iscritti agli Albi. Sul “perché” l’aumento del numero degli avvocati abbia comportato un abbassamento della “considerazione” della categoria io un’idea chiara ce l’ho; ma mi piacerebbe che in proposito si aprisse un dibattito (sempre che alla mia ipotesi fosse riconosciuto un fondamento, anche minimo).

Lettera firmata avvocato Nicola Ciafardo, Foro di Torino.

Non ho simpatie per Davigo. Ma sul punto specifico degli avvocati ha ragione. È innegabile che tanti processi, inutili e dannosi, dipendano dai troppi avvocati. Molti di questi (fortunatamente non tutti, ma molti) sono portati a consigliare a chi si rivolge loro di fare cause civili o di presentare denunce-querele anche infondate e a costituirsi parte civile. Comunque vadano i processi, gli unici a non rimetterci e anzi a guadagnarci qualcosa (o anche molto) sono loro, sia che li paghi la parte avversa o il loro cliente. Lettera firmata avvocato Umberto Melotti

“Troppi avvocati, ora un esame di riabilitazione straordinario”. Secondo l'avvocato Carrubba, la professione sta perdendo la sua credibilità e per questo propone un nuovo esame. «Sfido chiunque a smentirmi...». su Il Dubbio il 27 agosto 2021. Gentile direttore, finalmente anche da parte di almeno qualcuno dell’Avvocatura si leva una voce sulla ipertrofia della nostra professione. Io personalmente, dopo trenta anni circa di professione, la penso come il Collega D’Amico: in Italia siamo troppi. E molti avvocati non vuol dire molta tutela dei diritti. Questo in sintesi determina almeno tre problemi: un mercato (e mi spiace parlare di mercato) con troppi attori quindi con la corsa al ribasso nei corrispettivi, e ciò non si risolve con l’obbligatorietà delle tariffe minime legali perché la concorrenza sleale è comunque dietro l’angolo come la pressione dei soggetti forti; uno svilimento del valore della professione, perché per molti uomini e donne diviene la scappatoia alla disoccupazione intellettuale; infine, e questo è l’effetto peggiore, un decadimento complessivo della qualità e competenza nell’esercizio della professione forense a discapito della difesa dei diritti di chi si rivolge alle toghe. Aggiungo, e sfido chiunque abbia qualche decennio di esperienza alle spalle a smentirmi, che anche grazie alla ipertrofia professionale appare decaduta la stessa qualità complessiva dell’Avvocatura: dal rispetto della deontologia, alla correttezza tra Colleghi, alla dialettica con i  Magistrati, sino alla qualità delle stesse difese messe in campo. A volte, purtroppo, con buona pace anche dell’italiano scritto. E nulla hanno da tenere i giovani Colleghi da una seria riflessione sul punto: chi è bravo, competente, all’altezza della professione e dell’innovazione, avrebbe tutto da guadagnare e non da perderci. Concludo con una proposta, o provocazione, se ritenete: sono talmente convinto di ciò che prevederei un esame di riabilitazione straordinario a cui sottoporci tutti, a prescindere dall’anzianità. Con l’obiettivo di almeno dimezzare il numero degli iscritti agli Ordini territoriali. Io mi misurerei volentieri, sarebbe giusto, e non temo una verifica dopo trent’anni dal mio esame di Stato. Con viva cordialità. Corrado Carrubba, Ordine degli Avvocati di Roma. Lettera Firmata Corrado Carrubba, Ordine degli Avvocati di Roma.

Gentile avvocato Carrubba, intanto grazie per la chiarezza e la civiltà con la quale ha espresso il suo punto di vista, del resto la qualità dei nostri lettori è uno degli elementi che ci rende più fieri. Detto questo mi pare che il giudizio complessivo sia decisamente troppo duro nei confronti della nostra avvocatura che, in anni di populismo feroce e di spregio di ogni forma di garanzia, ha rappresentato un faro per il rispetto dei diritti e del diritto, e un appiglio saldo per le migliaia di cittadini che in questi ultimi due decenni hanno avuto a che fare col nostro sistema giudiziario. Per quel che mi riguarda finisco qui (ma io e i commentatori del Dubbio torneremo a dire la nostra sulla questione) perché sono più interessato a dare la parola ai lettori che in questi giorni stanno inviando riflessioni su questo stesso argomento che noi, naturalmente, pubblicheremo molto volentieri. La  ringrazio per il contributo che dà a noi tutti l’occasione per riflettere sul ruolo dell’avvocatura nei prossimi anni. Davide Varì Direttore del Dubbio

La mia provocazione a difesa del ruolo e del prestigio dell’Avvocatura. Il legale Corrado Carrubba torna sulla proposta di un esame "ri-abilitante" per l'Avvocatura dopo il dibattito sul Dubbio di questi giorni. Il Dubbio il 2 settembre 2021. Gentile direttore, torno sul tema discusso con la voluta provocazione della ri-abilitazione; mi fa piacere che esso abbia, come voleva, colto nel segno di suscitare un dibattito di cui ringrazio Lei ed il Dubbio per ospitarlo così autorevolmente. Come ringrazio i Colleghi che, anche altrove ad esempio sui social, hanno detto la loro. Chiarisco meglio il mio pensiero: continuo a ritenere che il numero totale dei professionisti forensi oggi operanti in Italia sia almeno eccessivo, per questo ho parlato di ipertrofia, basti pensare al confronto tra noi e i colleghi francesi, seppure paragone forse abusato. E credo che la Francia, almeno al pari dell’Italia, sia quantomeno dall’era moderna una culla del diritto, attenta alle tutele ed al funzionamento delle Giustizia, che vengono garantiti, seppure con diversa organizzazione, con circa un quarto dei nostri numeri; e se vogliamo lasciar stare i colleghi transalpini, in Spagna gli avvocati mi risultano essere circa la metà di noi, ed il resto dell’Europa è simile, e comunque non raggiunge i nostri numeri ed il nostro rapporto cittadini/avvocati. Se la Giustizia è malata, la Magistratura è affaticata a voler usare un eufemismo, l’Avvocatura non è esente da malanni o almeno sintomatologie gravi come questa. Quindi a mio avviso il tema esiste. Ed esistono gli effetti deteriori che cagiona o che contribuisce a cagionare. Almeno che, e la si prenda pure come una seconda provocazione, non si aboliscano gli Ordini forensi e relativa abilitazione di Stato lasciando tutto alle leggi del mercato: chi vuol fare l’avvocato metta una targa, magari iscrivendosi ad un registro tenuto da un soggetto privato. Con buona pace dell’articolo 33 della Costituzione, che anche io conosco e che reputo vada difeso a tutela di tutti. Quindi, aldilà della mia inopinabile ovvero peregrina idea provocatoria della ri-abilitazione, vogliamo tutti, anziani e giovani, garantire la qualità dell’Avvocatura? Ha diritto una persona ad essere certa di affidare i propri diritti, a volte la propria vita, alla difesa di un soggetto selezionato che abbia, non solo che abbia avuto in passato, adeguata capacità ed esperienza? Se è sì, come credo fermamente e so di essere in buona compagnia, allora troviamo e potenziamo mezzi e strumenti: abilitazione rigorosa all’esito di un vero e proprio percorso selettivo magari condiviso con i futuri magistrati, formazione professionale permanente seria, obbligatoria e verificabile (ad esempio non comprendo perché dopo 25 anni di professione si debba essersene esenti), vigilanza attenta e continua degli Ordini sugli iscritti anche sotto il profilo deontologico, un rinnovato ruolo di impulso, proposta, orgogliosa difesa del ruolo e prestigio dell’Avvocatura, che non si misura sul numero degli iscritti, da parte del Consiglio Nazionale Forense. E quant’altro chi più esperto di me vorrà indicare. E non è detto che debba essere un avvocato anche se noi siamo i più titolati a parlarne seppure, come la nostra stessa professione ci insegna, non deteniamo la verità. Lettera firmata da Corrado Carrubba, Ordine Avvocati di Roma

Gentile avvocato Carrubba, mi permetta di citare il pensiero di Henry Kissinger, controverso ma geniale politico e politologo tedesco-americano, quando spiegava che la peculiarità delle democrazie occidentali sta nella loro capacità di mettersi in discussione. Una qualità che può apparire come una sorta di fragilità ma che invece è il segno della loro grande forza. Allo stesso modo le sue intelligenti provocazioni sul ruolo dell’avvocatura sono un segno della vitalità di chi indossa la toga. Discutere alla luce del sole del futuro della professione è un elemento di grande civiltà e onestà intellettuale. Un indice della consapevolezza del ruolo sociale e “politico” dell’avvocatura. Detto questo non possiamo far finta che fuori da queste stanze non vi sia chi pensa di sfruttare la discussione dialettica tra avvocati in modo pretestuoso. Basti dare un’occhiata all’articolo di ieri di Piercamillo Davigo il quale, in modo ossessivo, torna a ripetere che il problema della giustizia è dato dall’eccessivo numero di avvocati. Nessuno vuol chiedere un “patrioct act” dell’avvocatura, sarebbe deleterio soffocare una discussione del genere con lo spauracchio del “nemico che ascolta”. Ma sarebbe altrettanto sbagliato non tenerne conto. Il direttore Davide Varì

“Riesaminare” noi avvocati? Semmai riformiamo il sistema universitario. Esame riabilitativo per gli avvocati? «No, Il problema deve essere risolto alla radice, cambiando il sistema universitario con un aumento del livello di selezione». Il Dubbio il 3 settembre 2021. Gentile Direttore, il tema dell’eccessivo numero di professionisti è noto a tutti e, indubbiamente, costituisce un problema. L’Avvocato Carrubba propone, con esplicito intento provocatorio, un secondo esame di “riabilitazione” per tutti i colleghi «con l’obiettivo di almeno dimezzare il numero degli iscritti agli Ordini territoriali». Da giovane avvocato, con soli pochi anni e non decenni di esperienza, cado ben volentieri nella provocazione per lanciarne un’altra, forse ancora più controversa, che tuttavia appare assai rilevante per chi, come me, è uscito da (relativamente) poco dal percorso formativo e deve oggi sudarsi ogni centimetro di progressione e sviluppo professionale. Si menziona la corsa al ribasso dei corrispettivi e la concorrenza sleale come naturali conseguenze di questa ipertrofia, vista come “scappatoia alla disoccupazione intellettuale” per molti uomini e donne. Ecco, mi permetto di dire che a tale problema non si rimedia con un secondo esame, o se per questo con nessun esame, neanche quello di ammissione alla professione. Un sistema funzionante non si dovrebbe trovare nella condizione di dover gestire decine di migliaia di richieste di accesso all’albo ogni anno, ma dovrebbe immettere nel mercato del lavoro neoprofessionisti già in parte preparati al lavoro, cosa che non avviene. Il problema deve essere risolto alla radice, cambiando il sistema universitario con un aumento del livello di selezione, con filtri in entrata ed a tappe prestabilite, e con formazione pratica e non solo teorica. Si dovrebbero obbligare gli studenti a rispettare tabelle di marcia, si dovrebbe obbligare chi è in ritardo o “fuori corso” senza una valida giustificazione a ripetere gli esami o interi anni accademici. Il diritto all’istruzione è sacrosanto ed inviolabile e da tutelare più di ogni altra cosa, ma non deve essere equiparato ad un diritto a conseguire una laurea senza lo sforzo necessario. Se questo titolo non vale più molto, almeno nel nostro paese, credo che sia anche a causa della necessità dei nostri atenei di fare cassa mediante alcuni corsi di laurea che ogni anno accolgono più studenti di quanti ne entrino in aula, invece di spiegar loro che ci sono migliaia di alternative valide ed altre professioni stimolanti e (spesso più) appaganti. Siamo, che io sappia, l’unico paese al mondo in cui uno studente fuori corso senza giustificazione paga una retta universitaria inferiore a quella ordinaria: viviamo nel paradosso di premiare i non virtuosi, spingendoli a rimanere per anni all’interno dell’università, invece di convincerli a cambiare corsi di studi o di inserirli nel mondo del lavoro. A tale problema si rimedia ridistribuendo gli iscritti tra le varie facoltà, convincendo i giovani che si affacciano al mondo dell’università che purtroppo, rivisitando il proverbio, c’è poca trippa per gatti, che ci sono mille nuove professioni che i nostri genitori neanche avrebbero immaginato: che la vita, in sostanza, non passa per forza dal fare lavori “convenzionali” (vedi avvocato, commercialista, architetto, etc.). All’Avvocato Carrubba dico che per chi si laurea in giurisprudenza oggi non ci sono molte alternative alla avvocatura e tutte, o quasi, sono ancor più selettive e di difficile accesso. Tacciare dunque la marea di persone che tentano l’esame di stato e le migliaia che lo passano ogni anno come persone che cercano una “scappatoia alla disoccupazione intellettuale” è, ancorché fatto in modo provocatorio, profondamente sbagliato. E altrettanto sbagliato è pensare che vi sia una soluzione semplice o a breve termine del problema. Se si vuole raggiungere un numero di professionisti paragonabile a Spagna, Francia o ad altri paesi Europei, allora è necessario intervenire sulla causa del problema, e non sulla sua conseguenza. In sostanza, se deve esserci un “imbuto” o un filtro di accesso alla professione, che sia all’inizio del percorso di studi, e non anni dopo la laurea, al termine del praticantato, figuriamoci dopo anni dalla abilitazione (quanti? dieci? venti?). Facciamo dunque convergere il dibattito sul tema dell’istruzione e della formazione dei giovani, invece di perdere tempo con proposte sbagliate che, francamente, quando provengono da professionisti con esperienze ultradecennali e carriere consolidate e floride, hanno anche il sapore della beffa per chi, come me, ha lavorato sodo per arrivare ad essere dov’è, spesso pagato stipendi ( e non chiamiamole parcelle) da fame durante il praticantato e anche dopo. Ecco in conclusione la mia provocazione: cerchiamo di cambiare questo sistema universitario o di implementare un corrispettivo minimo dignitoso per i praticanti ed i giovani avvocati, piuttosto che dare risalto alle voci di avvocati apparentemente ignari dei propri enormi privilegi che propongono di svolgere un altro esame di stato di riabilitazione. Concentriamoci sulle cose importanti.

«L’avvocato è la prima vittima di una giustizia ormai sgangherata». Economia stagnante, criminalità e incapacità della politica locale di intercettare i bisogni reali del cittadino. Il presidente del Coa di Foggia, Gianluca Ursitti, descrive il contesto in cui lavora. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 27 agosto 2021. Economia stagnante, criminalità diffusa e incapacità della politica locale di intercettare i bisogni reali del cittadino sono stati gli elementi per la tempesta perfetta. Con grande schiettezza il presidente del Coa di Foggia, Gianluca Ursitti, descrive il contesto in cui lavorano lui e i suoi colleghi. «La pandemia, qui nel foggiano – commenta l’avvocato Ursitti -, è stata la cartina di tornasole che ha solo mostrato il re nudo. Il problema, in realtà, nasce da molto lontano e trova le sue ragioni nella crisi economica che ci attanaglia da quasi quindici anni, ma, soprattutto, nel numero insostenibile degli iscritti rispetto al tessuto economico in cui si innesta».

La situazione al Coa di Foggia. Il Coa di Foggia ha quasi 3400 iscritti ed un migliaio di praticanti. «Un numero obiettivamente elevatissimo – dice Ursitti – in un territorio non ricco ed oggi oppresso da fenomeni di criminalità diffusa, organizzata e non, che di certo non favoriscono sviluppo e ripresa. Sappiamo tutti che quella dell’avvocato è una figura che per natura ha un rapporto simbiotico con il contesto di riferimento». L’analisi del numero uno degli avvocati foggiani è realistica e non cede alla tentazione del disfattismo. Le riflessioni di Ursitti derivano da una profonda conoscenza dell’ambiente in cui opera e sarebbe ipocrita coprirsi gli occhi o peggio fare descrizioni da realtà aumentata.

Le domande di giustizia e le scelte degli avvocati. «Più è degradato il contesto – afferma – più è difficile, per un professionista, operare ed immaginare scenari e prospettive di sviluppo. A ciò si aggiungano i tempi della risposta, obiettivamente lunghi, anche se in linea con il dato nazionale, alla domanda di giustizia. Ciò ha causato una sfiducia collettiva nella figura dell’avvocato, visto come inadeguato alla risoluzione del problema contingente». A Foggia diversi avvocati hanno recentemente riposto per sempre la toga nell’armadio, dopo essere risultati vincitori di concorso nella PA. Alcuni di loro non sono giovanissimi e neppure alle prime armi. «Questo dato riflette il presidente del Coa costituisce un forte indicatore empirico del crescente disagio che alligna all’interno dell’avvocatura. C’è chi sostiene che si tratti di una scelta di vita, legittima e rispettabilissima verso lidi più tranquilli. Io ritengo che per molti non rappresenti una scelta e neppure una ghiotta occasione, ma una necessità e, sul punto, penso siano sufficienti i dati pubblicati qualche tempo fa sui redditi medi degli avvocati italiani».

La figura dell’avvocato, secondo Ursitti. Ursitti ci conferma quanto affermato dal suo omologo di Catania, Rosario Pizzino (si veda Il Dubbio del 26 agosto 2021). Stiamo assistendo ad una fuga dai redditi bassi più che dalla professione. Di qui le ripercussioni sui numeri delle iscrizioni nell’albo professionale. «Credo che la figura dell’avvocato – prosegue abbia subito un obiettivo deficit di appeal e che, soprattutto nelle zone economiche meno evolute, costituisca ancora un “parcheggio” in attesa di orizzonti diversi. Foggia, alla data del luglio 2021, in controtendenza rispetto agli anni precedenti, ha un saldo negativo nel rapporto tra iscritti e cancellati, laddove a fronte di 45 nuovi iscritti abbiamo 95 cancellazioni. Più del doppio, quindi. Tuttavia, non ritengo che ciò costituisca necessariamente un dato negativo. Il numero degli iscritti è obiettivamente spropositato rispetto alle esigenze del territorio e ciò crea non pochi problemi». Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Foggia rivolge un pensiero ai colleghi penalisti e alla tutela dei diritti fondamentali: «Sento parlare poco di carcere, come se fosse svincolato dalla “questione giustizia”. Eppure le nostre carceri sono un cancro per un paese democratico».

Il Pnrr. Come si guarda in questa parte del Sud Italia al fiume di danari che scorrerà con il Pnrr? «Non possiamo che salutare con favore i soldi del Pnrr», evidenzia il presidente del Coa dauno. «Condivido – afferma Ursitti l’idea della ministra Cartabia, secondo la quale una giustizia rapida è imprescindibile per lo sviluppo di un paese moderno e per la crescita economica. Ad oggi rapidità e giustizia costituiscono un ossimoro. I tempi lunghi non sono più tollerabili, se si vuole restare competitivi nello scacchiere economico e non solo. Una giustizia lenta, nel tempo in cui tutto scorre a velocità prima impensabili, non serve a nessuno». Non serve agli avvocati, prima di tutto. Su questo tema Ursitti si infervora: «Occorre demolire il luogo comune che vuole gli avvocati avvantaggiati da cause lunghe e costose, secondo il brocardo «”causa che pende, causa che rende”. L’avvocato è neutralizzato dall’inefficienza del sistema giustizia, che lo vede impotente e disarmato. Non serve alle imprese che sono disincentivate agli investimenti perché temono controversie infinite, con conseguenze spesso irreversibili. Non serve alla comunità che, soprattutto in zone ad alto tasso criminale, è lasciata spesso sola. Una giustizia lenta, in un paese ad alto tasso di burocratizzazione, favorisce fenomeni corruttivi, ai quali sempre più il cittadino ricorre, talvolta anche solo per sopravvivenza». 

Il presidente del Coa di La Spezia: «Non possiamo più avere l’avvocato “tuttofare”». Enrico Angelini, presidente del Coa: «La liberalizzazione ha impoverito l'intera categoria. molti non riescono ad avere le risorse necessarie per ottemperare ai propri impegni». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 31 agosto 2021. La Spezia, con la sua importante storia di città di mare, è la prima tappa di questa settimana del nostro viaggio negli Ordini degli avvocati. Per la sua felice posizione geografica e per la sua vocazione il capoluogo ligure ha sviluppato negli anni varie specializzazioni giuridiche, nonostante le dimensioni del Foro. Il Coa di La Spezia, presieduto dall’avvocato Enrico Angelini, conta 805 iscritti (389 donne e 416 uomini). I praticanti sono invece 151. Il numero complessivo dei legali ha subito una contrazione rispetto agli ultimi anni, complice un calo delle iscrizioni alle facoltà giuridiche nelle Università di Pisa e Genova, atenei di riferimento. «Nel corso degli ultimi anni – dice al Dubbio Enrico Angelini – l’esercizio della professione di avvocato è divenuto più difficile. La cronica carenza di personale amministrativo nei Tribunali e di un numero di magistrati adeguato alle esigenze, ha prodotto, quale risultato, un sistema in costante affanno, che non riesce a garantire risposte adeguate alle istanze dei cittadini. Per questo è stato oggetto di reiterate condanne ad opera delle istituzioni sovranazionali». Angelini si sofferma sui mutamenti profondi ai quali è andata incontro negli ultimi venticinque anni la professione. Qualcuno, in passato, usando toni quasi sprezzanti, parlò di “proletariato forense”, lamentando un numero eccessivo di toghe in Italia. Un’analisi sin troppo frettolosa e dura. «L’aumento vertiginoso degli avvocati iscritti, avvenuto a partire dai primi anni Novanta del secolo scorso – riflette Angelini -, ha determinato un aumento dell’offerta, al quale troppo spesso non è corrisposto uno standard qualitativo adeguato. All’istituzione dell’obbligo formativo avrebbe dovuto fare seguito un serio programma di specializzazione, ancora oggi mancante, e senza il quale gli avvocati appaiono una categoria spesso magmatica e indefinita, nell’ambito della quale è difficile comprendere le specifiche attitudini». Il tema dell’avvocato che debba e sappia fare tutto emerge chiaramente nel ragionamento del numero uno degli avvocati spezzini: «Un avvocato “tuttofare” offre un pessimo servizio e, spesso, un altrettanto pessimo risultato. Sotto diverso profilo, gli interventi di cosiddetta liberalizzazione hanno progressivamente impoverito l’intera categoria. La realtà è che molti avvocati non riescono ad avere neppure le provviste necessarie per ottemperare ai propri impegni». Il Coa della Spezia non è stato risparmiato dalle cancellazioni dall’albo di alcuni legali vincitori di concorso nella Pubblica amministrazione. «Non sono mancati – afferma Angelini – diversi colleghi, anche di esperienza ultraventennale, che hanno partecipato e vinto concorsi pubblici e si sono cancellati dall’albo, abbandonando così la toga. In realtà quest’anno si tratta di cinque casi. È un fenomeno, mai riscontrato prima, che addolora. Anche se è stata una scelta ragionata e non deve essere necessariamente considerata una reformatio in peius, ma l’inizio di una nuova carriera soddisfacente, viene da considerare che al prestigio della professione si è sostituita la tranquillità economica garantita da uno stipendio, che la toga di avvocato non offre più». Questa situazione potrebbe essere considerata prodromica di altri profondi cambiamenti nella professione forense? A detta di Enrico Angelini, sì. «È verosimile – prosegue – che nel tempo il numero degli avvocati diminuisca. Questo, sempre attingendo a logiche commerciali, ma, badiamo bene, non è una nota negativa, anche in considerazione del fatto che gli interventi normativi succedutisi nel tempo sono in larga parte proiettati a ridurre il contenzioso e, quindi, a ridurre la domanda». Da queste considerazioni il presidente del Coa trae ottimismo e trova gli spunti per proposte costruttive, che, soprattutto in questo momento, non devono mai mancare. Anzi, devono sempre alimentare il dibattito nell’avvocatura. «La contrazione degli iscritti – commenta – dovrà essere l’occasione per dare lo slancio ad un intervento di riqualificazione della professione, che associ ad una maggiore preparazione e specializzazione, una tutela adeguata per il prestigio dell’avvocato». Per quanto concerne gli interventi connessi al Pnrr, il presidente del Coa è prudente: «Non è possibile preventivare oggi gli effetti del piano di ripresa e resilienza. Sicuramente l’iniezione di denaro garantita dai finanziamenti consentirà all’intero sistema di aggiornarsi e di essere finalmente al passo con i tempi. Occorre tuttavia vigilare, perché troppo spesso il legislatore, soprattutto negli ultimi anni, non esita a sacrificare diritti e garanzie in nome dell’efficienza del sistema e a discapito dei cittadini». Anche il presidente della Camera civile della città ligure, Virginio Angelini, già professore incaricato di Istituzioni di Diritto romano nell’Università di Pisa, si sofferma sulle aspettative derivanti dalle risorse destinate alla giustizia per fronteggiare la fase del dopo pandemia. «Il Piano nazionale di ripresa e resilienza – evidenzia il presidente dell’Uncc di La Spezia – ha la ambizione di riformare l’intero sistema della giustizia civile per arrivare all’obiettivo di ridurre i tempi delle cause vale a dire il 40 per cento entro cinque anni. Al netto delle discutibili scelte sul rito, che rischiano di sacrificare la piena tutela dei diritti sull’altare della contrazione dei tempi, si è proposto di incentivare le procedure di giustizia complementare, come l’Alternative dispute resolution. In questo caso si può valorizzare il ruolo dell’avvocato per creare una sorta di “giurisdizione forense”, finalizzata a cercare di comporre i conflitti per non arrivare nelle aule di Tribunale. Soprattutto, bisogna dare impulso all’arbitrato, riportando il processo civile alle sue origini romanistiche di risoluzione della lite con impulso di parte, con poteri che le parti danno agli arbitri, preparando gli avvocati a diventare buoni arbitri. Quello che ha portato la avvocatura al momento di crisi che sta attraversando e di cui tutti sembrano accorgersi solo oggi, come ha sottolineato il Presidente delle Camere civili, Antonio de Notaristefani».

«Non è una semplice fuga dalla toga: è più una fuga dal reddito basso…». Rosario Pizzino, presidente del Coa di Catania: «Le iscrizioni superano numericamente le cancellazioni a domanda». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 27 agosto 2021. Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catania non sta patendo una fuga degli iscritti. I dati parlano chiaro e dimostrano una tendenza che si consolida nel tempo. Indossare la toga, dopo la pratica forense, è un obiettivo ancora ambito per tanti professionisti catanesi. Nel 2020 l’Ordine ha registrato 134 nuove iscrizioni, mentre le cancellazioni sono state 99. Quest’anno, sino ad oggi, i nuovi iscritti sono stati 146 contro le 52 cancellazioni a domanda. Entrambi i dati del 2021 sono destinati ad aumentare sino alla fine dell’anno, ma è presumibile, come rileva il presidente del Coa di Catania, Rosario Pizzino, che non si avrà un numero di cancellazioni dall’albo particolarmente preoccupante. La tendenza nella città etnea è simile al resto d’Italia. I concorsi pubblici banditi o in corso di pubblicazione possono rappresentare l’occasione della vita per trovare certezze nella Pubblica amministrazione. I quasi 35mila posti già banditi nei concorsi dei ministeri e degli enti locali attirano i legali. «Anche a Catania – dice al Dubbio Rosario Pizzino -, un discreto numero di avvocati, in prevalenza donne e nella fascia di età tra i 36 e i 45 anni, entrerà nei ruoli del ministero della Giustizia. Si tratta di colleghi preparati, che, evidentemente, trasferiranno le loro competenze negli uffici giudiziari, e ciò a beneficio di tutti. Ci attendiamo, a breve, ulteriori partecipazioni ad altri concorsi della PA e, in particolare, per l’accesso all’ufficio del processo. In tal caso si tratterà di un apporto qualificato ed utile al miglior funzionamento dei servizi giudiziari». Nel distretto della Corte d’appello di Catania sono previste 331 assunzioni al termine del concorso pubblico riguardante l’ufficio del processo. Quanto è difficile fare l’avvocato negli ultimi anni in una regione che continua a patire anche la fuga di cervelli? «Le difficoltà legate all’esercizio della nostra professione – riflette il presidente del Coa catanese – durano da molti anni e hanno avuto cause diverse. In primo luogo la crisi economica del sistema- Italia iniziata nel 2007, e che, nel nostro territorio, storicamente, è più accentuata rispetto ad altre regioni». Un aspetto sul quale si sofferma Pizzino è quello dell’iniquità dei compensi professionali e le difficoltà di realizzo. «I clienti – evidenzia – pagano male e sempre più in ritardo, ma la pressione fiscale e previdenziale, invece, è sempre puntuale ed implacabile. Tutto ciò determina difficoltà ad assolvere gli oneri verso la Cassa forense. Su queste condizioni incidono i costi sempre più alti per l’accesso alla giurisdizione, che scoraggiano i cittadini, le spese di gestione degli studi, settore nel quale le associazioni professionali e le società tra professionisti non registrano ancora, nel nostro Distretto, numeri apprezzabili. La crescente inflazione degli albi, l’insufficiente tutela delle nostre riserve di competenza, e l’esponenziale e decennale riduzione dell’appeal della figura dell’avvocato, completano il quadro». Secondo Pizzino, «la pandemia non è stata la causa scatenante delle difficoltà richiamate, ma le ha certamente acuite, riportandole all’attenzione del dibattito tra gli avvocati». Ci sono dei momenti storici in cui il dibattito è destinato ad infervorare i protagonisti di vari mondi, compreso quello dell’avvocatura. «Ogniqualvolta si registra un periodo di crisi economica – aggiunge il presidente degli avvocati etnei -, si apre la discussione sulle difficoltà che affrontiamo nello svolgimento della nostra professione. Proprio questo è stato un periodo fortemente critico, con le misure emergenziali che hanno limitato la nostra attività professionale e gli effetti del lockdown sull’economia del nostro territorio, cronicamente depressa. Del resto, i redditi riportati dai report di Cassa, prevalentemente attestati su valori medio- bassi, sono eloquenti». Il quadro appena descritto non deve far sprofondare nello scoramento; deve indurre a riflessioni senza lacrime di coccodrillo e, soprattutto, senza andare fuori traccia. In futuro, a detta di Pizzino, l’avvocatura non dovrebbe patire un’emorragia di iscritti. La guardia va tenuta alta, comunque, e gli interventi devono essere coerenti. Più che fuga dalla professione stiamo assistendo ad una fuga dal reddito basso. «All’interno dell’avvocatura – afferma – si nota una evidente contraddizione. Sino a ieri ci si lamentava del sovraffollamento degli Albi, ritenuto, anche a ragione, una delle principali cause della nostra crisi. Oggi ci si straccia le vesti per quella che mediaticamente viene definita la fuga dalla professione. La riduzione numerica degli iscritti è un fenomeno chiaramente congiunturale viste le questioni economiche e le obiettive difficoltà di tanti colleghi, giovani e donne, soprattutto, che spingono verso il cosiddetto posto fisso ed un futuro più sicuro. Ma non solo. Va considerato che, dopo anni di blocco delle assunzioni e di pensionamenti, si sono riaperti i concorsi nella PA, tanti per categoria di funzionario, e che molti laureati in giurisprudenza, avviatisi alla professione per assenza di alternative, ora sono portati a rivalutare le loro scelte. È un fenomeno fisiologico. Non crediamo sia una fuga dalla professione. Piuttosto, è la fuga da un reddito basso e da una condizione di difficoltà verso un assetto più stabile e ben remunerato. Nemmeno guardando i numeri, che per esempio riguardano il Coa di Catania, sarebbe possibile parlare di fuga dalla professione. Le iscrizioni superano numericamente le cancellazioni a domanda». A proposito di interventi mirati, Pizzino è convinto che siano tanti i fronti sui quali intervenire: «Specializzazioni, formazione di alto livello presso le nostre scuole, riforma dell’accesso, nuova cultura sulle pratiche alternative alla giurisdizione statale, sviluppo del cosiddetto diritto collaborativo, sono alcuni degli strumenti più importanti con i quali gli avvocati potrebbero recuperare prestigio professionale, mercato e redditività. Così si rilancerebbero il nostro ruolo processuale e la funzione sociale dell’avvocato, quest’ultima da diverso tempo svilita non poco».

«Qui a Torino l’avvocatura è viva e vegeta: le iscrizioni all’albo superano le cancellazioni». (Da notare e ricordare che il distretto di Torino, inopinatamente ed in modo interessato, da sempre ha posto limiti all’accesso nella professione, limitando al di sotto del 30 % il numero degli idonei all’esame di avvocato. NDA). Una boccata d'ossigena dalla presidente del Coa di Torino, Simona Grabbi: "Il saldo tra cancellazioni dall’albo ed iscrizioni è ancora positivo, le seconde superano le prime. Un dato confortante". Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 25 agosto 2021. «Spero veramente che gli imponenti investimenti previsti, da sempre invocati in occasione delle inaugurazioni degli anni giudiziari, portino al rinascimento della nostra giustizia con benefici non solo per gli avvocati, ma soprattutto per i cittadini». Con la chiarezza che la contraddistingue l’avvocata Simona Grabbi, presidente del Coa di Torino, guarda al futuro, alla fase post pandemica, dopo tanti mesi di preoccupazioni e mutate prospettive per l’avvocatura. «Auspico – commenta Grabbi – un nuovo periodo di grandi cambiamenti e il raggiungimento di obiettivi fino a pochi mesi fa insperati, se si pensa che nel rapporto Censis del 2019, commissionato dalla Cassa Forense, alla domanda rivolta al campione di cittadini variamente composto per età, sesso, provenienza geografica, su quale fosse il problema principale della nostra giustizia, oltre il 60 per cento ha risposto che il problema più grave, sotto gli occhi di tutti, è la sua drammatica lentezza». I tempi lunghi sono la zavorra più ingombrante e pesante. Una vera e propria onta che rende la giustizia un’altra cosa con conseguente perdita di fiducia da parte dei cittadini e svilimento della professionalità degli avvocati. Per questo sono fondamentali interventi mirati e il più possibile condivisi. «La ministra Cartabia – ricorda Grabbi -, il lontano 25 aprile, alla domanda di un giornalista che le chiedeva informazioni sulle caratteristiche principali sulla sua riforma della giustizia, rispondeva, quando ancora non era pubblico il testo del Pnrr, che “come abbiamo scritto nel Recovery, la nostra idea è che una giustizia rapida e di qualità è fondamentale anche per lo sviluppo economico, aiuta la crescita, stimola la concorrenza e la competitività, facilita il credito bancario, aiuta gli investimenti». Una riduzione della durata dei processi civili del cinquanta per cento può accrescere la dimensione media delle imprese italiane di circa il dieci per cento. Una riduzione da nove a cinque anni dei tempi di definizione delle procedure fallimentari può generare un incremento di produttività dell’economia dell’1,6%».Il concorso per il personale da impiegare nell’ufficio del processo, bandito lo scorso 6 agosto, prevede in questa prima fase l’assunzione nel distretto della Corte d’appello di Torino di 401 persone (si tratta della settima sede italiana con il maggior numero di posti messi a disposizione). Oltre a questo, pure i concorsi precedenti hanno segnato una tendenza: per tanti avvocati si tratta di un treno da non perdere. «Nel Coa di Torino – dice la presidente Grabbi – sono pervenute domande di cancellazione per incompatibilità per futuri cancellieri, anche di colleghi con molti anni di professione sulle spalle. Al 31 luglio, tuttavia, il saldo tra cancellazioni dall’albo ed iscrizioni è ancora positivo, le seconde superano le prime. Un dato confortante. L’anno scorso è stato negativo per una cinquantina di cancellazioni in più rispetto alle iscrizioni». Fino allo scorso luglio, nell’Ordine di Torino le cancellazioni sono state 276, mentre le iscrizioni 337. Il numero dei praticanti registra, invece, confrontato con più anni, un andamento ondivago. All’ombra della Mole nel 2016 i praticanti iscritti sono stati 348, con un aumento nel 2018 fino a 371 iscrizioni ed un calo vistoso lo scorso anno (248), complice il Covid. «Indubbiamente – evidenzia – l’ambizioso piano di investimenti pianificati per il settore giustizia, grazie agli imponenti finanziamenti, con il Pnrr porterà finalmente all’integrazione dell’organico del personale amministrativo e giudiziario. Per il Piemonte sono previste, in totale, solo per la composizione dell’ufficio del processo ben ottocento assunzioni a tempo determinato in oltre due anni. Non possiamo escludere che possa essere considerato dalle giovani toghe un’esperienza interessante e foriera di una stabilità economica non prevedibile fino a questo momento». La presidente del Coa di Torino va in profondità nelle sue riflessioni. Rivolge l’attenzione ad un tema spesso posto su un secondo piano: la situazione complessiva in cui versano le professioni intellettuali, compresa quella dell’avvocato, alcune delle quali molto legate tra loro. «Non penso – dice – che sia diventato più difficile negli ultimi anni fare in particolare l’avvocato. Penso sia diventato più difficile esercitare diverse professioni intellettuali al servizio di cittadini e imprese che negli ultimi anni hanno conosciuto periodi di crisi economica, con le conseguenze che ne discendono in riferimento alla contrazione delle consulenze stragiudiziali e alle difficoltà di recupero degli onorari per le prestazioni giudiziali». «Altro aspetto peculiare della nostra professione sono indubbiamente i numeri, posto che, ad oggi, siamo circa 245mila. Il crollo dei redditi medi, avvenuto nell’annus horribilis del 2012, quando i redditi medi a livello nazionale scesero del 17 per cento, qui in Piemonte del 7 per cento, avveniva in un anno in cui la crescita del numero degli avvocati era numericamente coerente a quanto avvenuto nel passato, circa dieci-undicimila all’anno. Ma, evidentemente, complice anche la crisi di diversi settori dell’economia si era raggiunto il punto di massima saturazione». La sfida, a detta di Grabbi, «è investire nella formazione nei nuovi settori in cui la nostra professione può essere ancora, come ritiene la metà del campione intervistato dal Censis e come si legge nella relazione del 2020, essenziale». «Preciso – conclude la presidente degli avvocati torinesi – che un altro 40 per cento ha ritenuto la figura dell’avvocato e la sua funzione sociale non essenziale, ma utile. Ebbene, dobbiamo essere all’altezza di queste aspettative dei cittadini, specializzarci e dare loro risposte adeguate, che anche nei nuovi settori trainanti dell’economia, per esempio la sostenibilità ambientale e la digitalizzazione, apriranno di sicuro nuove prospettive lavorative».

Nei primi 6 mesi del 2021 più di 70 professionisti hanno chiesto la cancellazione. Avvocati in fuga, effetto Recovery Fund: addio alla toga a Napoli per rincorrere il "posto fisso". Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 19 Agosto 2021. Per qualcuno rappresentava il sogno di una vita, per altri una garanzia di guadagno e di prestigio, per altri ancora il trampolino di lancio verso la politica e l’amministrazione. Oggi non è più così. Anzi, la toga sembra essersi trasformata in uno spauracchio dal quale sempre più avvocati fuggono per puntare al posto fisso. Magari a uno di quelli previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che ambisce a rinforzare i ranghi di vari settori della Pubblica Amministrazione, a cominciare dalla giustizia. Succede anche a Napoli: dall’inizio del 2021 a fine giugno, circa 70 avvocati hanno chiesto la cancellazione dall’albo. I numeri confermano un trend consolidato dal Covid. La pandemia, infatti, ha travolto migliaia di professionisti, primi fra tutti gli ultra60enni, cioè quelli meno capaci di tenere il passo delle innovazioni tecnologiche che hanno caratterizzato il processo, e i giovanissimi, cioè quelli che vivevano di collaborazioni con gli studi legali oltre che di adempimenti e sostituzioni pagate poche decine di euro ciascuna. «In generale – spiega Gabriele Esposito, vicepresidente del Consiglio degli avvocati di Napoli – le liberalizzazioni di Bersani hanno scatenato una spietata concorrenza al ribasso e il taglio delle tariffe forensi ha fatto il resto. Senza dimenticare l’obbligo di versare alla Cassa forense contributi che non sono parametrati al reddito reale e l’eccessiva burocratizzazione del processo». Ma perché, anche a Napoli, sempre più avvocati dicono addio alla toga e si rifugiano nella Pubblica Amministrazione? Nel dettaglio, la prima motivazione riguarda il reddito medio che, nel 2019, si attestava intorno ai 40.180 euro annui per avvocato, già in calo di circa il 15% rispetto al 2010. A far crollare i guadagni dei professionisti hanno contribuito gli anni più duri della crisi economica del 2008-2009: non a caso il reddito medio dichiarato tra il 2013 e 2014 era inferiore addirittura del 20% rispetto ai precedenti “tempi d’oro”. Ovviamente, il calo dei guadagni è stato più sensibile al Sud dove oggi non mancano gli avvocati, soprattutto giovani, che in un anno incassano mediamente meno di 30mila euro, cioè meno della metà rispetto ai colleghi della Lombardia. Tutto ciò ha ulteriormente inasprito la competizione, legata anche al numero dei professionisti che in Italia resta particolarmente elevato: 245mila in tutto, cioè il 13% in più rispetto a una decina di anni fa, di cui 12.300 solo a Napoli. Se si aggiungono le difficoltà del sistema giustizia, si comprende perché circa 5.800 avvocati italiani abbiano chiesto e ottenuto la cancellazione dai rispettivi albi nell’ultimo anno e perché sempre più professionisti siano orientati a entrare nella Pubblica Amministrazione. «I concorsi pubblici – continua Esposito – rappresentano senza dubbio un’opportunità soprattutto per le colleghe che, con orari definiti e retribuzione fissa, possono conciliare impegni professionali e familiari». A fare gola, dunque, è soprattutto il posto fisso. È il miraggio dello stipendio a fine mese, dei contributi pagati e delle garanzie che caratterizzano il lavoro nel settore pubblico ad attirare i professionisti. Basti pensare che per potenziare l’ufficio del processo, cioè il team che dovrà affiancare i magistrati, il Pnrr prevede 16.500 assunzioni. I primi 8.171 posti sono stati messi a concorso il 6 agosto scorso. E qual è il distretto di Corte d’appello nel quale si prevede il maggior numero di immissioni in ruolo, cioè 956? Ovviamente è quello di Napoli, dove la Corte d’appello deve fare i conti con 57mila pendenze e per definire un processo penale in secondo grado occorrono cinque anni se non di più. Problemi che la guardasigilli Marta Cartabia punta a risolvere proprio attraverso massicce assunzioni di personale giudicante e amministrativo, oltre che investendo sull’ufficio del processo. Resta, tuttavia, la necessità di rinnovare una professione di cruciale importanza per la tutela di libertà e diritti fondamentali. «Bisogna adeguare le tariffe all’attuale costo della vita e velocizzare i processi – conclude Esposito – La lentezza della giustizia non aiuta chi, come un avvocato, spesso viene pagato al termine di ciascuna fase processuale. Ecco perché riforme strutturali della giustizia possono produrre effetti benefici anche per la nostra categoria».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

«Si cancellano dall’ordine anche avvocati con esperienze ventennali». Francesca Pierantoni, presidente del Coa di Bergamo, parla anche del dramma vissuto all'inizio della pandemia. «Così abbiamo compreso l’insidiosità del Covid». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 24 agosto 2021. Bergamo città martire della pandemia. Tra il febbraio ed il marzo 2020 il capoluogo lombardo ha pagato un prezzo altissimo. Le immagini dei mezzi militari che trasportavano decine e decine di feretri di persone stroncate dal Coronavirus hanno fatto il giro del mondo. Impossibile dimenticarle: resteranno nella storia del nostro Paese. Un contributo alto lo ha pagato anche l’avvocatura orobica. Sono stati cinque gli avvocati colpiti e uccisi dal virus. Perdite improvvise che hanno lasciato un vuoto tra i colleghi. Bisogna guardare, però, al futuro con ottimismo. È quanto pensa l’avvocata Francesca Pierantoni, presidente del Coa di Bergamo. «I bergamaschi – ricorda – hanno assistito per primi ad una escalation di dolore, quando ancora non si conosceva l’effetto devastante del Covid. Non vi è uno di noi che tra parenti, amici e conoscenti non abbia subito un lutto, aggravato dalla impossibilità di salutare chi ci lasciava e di congedarli con il rito funebre. Abbiamo avuto paura, ci siamo sentiti impotenti, abbiamo conosciuto il “nemico invisibile”. Inizialmente si manifestava con la febbre e subito degenerava in polmonite. Nel nostro Coa abbiamo perso cinque colleghi. Attraverso le loro storie abbiamo compreso l’insidiosità del Covid, che colpiva con una velocità inaudita. Li avevamo visti fino a febbraio in udienza, stavano bene, eppure nel giro di una settimana sono finiti in terapia intensiva e le loro condizioni si sono aggravate irrimediabilmente». Il dolore provocato dalle morti per Covid è per i legali di Bergamo la leva per la rinascita, nonostante i problemi che attanagliano l’avvocatura e che stiamo constatando nel nostro viaggio nei Fori italiani. Nello scorso mese di giugno il Consiglio dell’Ordine bergamasco ha ricevuto in una sola settimana sei richieste di cancellazione dall’albo. «Diversi avvocati – spiega la presidente Pierantoni – hanno superato il concorso per cancelliere esperto. Talvolta capita che qualcuno chieda la cancellazione dall’albo perché ha superato il concorso nella magistratura oppure perché assunto da un’azienda, ma sono casi più rari e sporadici. Le cancellazioni dello scorso giugno sono state un caso rappresentativo della situazione che stiamo vivendo. In un Foro di 2015 avvocati, dove in un anno riceviamo una trentina di richieste di cancellazione per cessazione di attività, fisiologicamente concentrate alla fine dell’anno, il particolare denota una nuova tendenza. Ciò in quanto a cancellarsi erano persino colleghi con anzianità ventennale». Troppo ghiotta, nel particolare momento che stiamo vivendo, l’occasione offerta dai concorsi pubblici per mettersi alle spalle – pensano tanti avvocati – una professione che negli ultimi dieci-quindici anni è diventata sempre più difficile e avara di soddisfazioni. «I concorsi nella pubblica amministrazione – dice Pierantoni – non venivano banditi da almeno trent’anni, quindi la novità si è tradotta in un’opportunità colta da molti colleghi, che ora esporteranno esperienza e capacità in luoghi che già conoscono per esserne stati utenti. È probabile che altri parteciperanno al concorso per addetti all’ufficio del processo, ma in quel caso l’assunzione a tempo determinato potrebbe costituire una parentesi per l’avvocato che si cancella e magari potrà nuovamente iscriversi all’albo terminata l’esperienza». Fare l’avvocato è diventato difficile negli ultimi anni anche in territori caratterizzati da un contesto economico più dinamico rispetto al resto d’Italia? Secondo Pierantoni, si stanno pagando le conseguenze di alcuni mutamenti che partono da lontano; la pandemia ha poi reso le cose ulteriormente complicate nella quotidianità tanto in studio quanto in Tribunale con sforzi ed ostacoli da superare per gli avvocati. «La professione forense – prosegue la presidente del Coa di Bergamo – sicuramente si è evoluta ed innovata. La formazione e l’aggiornamento che ne derivano richiedono impegno, costanza e fatica. La tecnologia e la digitalizzazione sono state grandi risorse, ma non per tutti sono state di immediato utilizzo. Inoltre, le continue riforme alle quali ci siamo adeguati e che hanno raggiunto l’apice con la copiosa normativa emergenziale dell’ultimo anno, a cui si è aggiunta la difficoltà di accedere agli uffici giudiziari, ci hanno messo a dura prova. Non avremmo mai immaginato di svolgere un’udienza in forma scritta, men che meno un processo penale di appello, eppure lo abbiamo fatto. Ci viene richiesta sempre maggiore competenza, aumentano le incombenze e agli assistiti dobbiamo sempre garantire un’informativa tempestiva e completa». La tecnologia non sempre è una fedele alleata e non sempre aiuta. Anzi. Alcune volte, a detta di Pierantoni, «manca la giusta gratificazione, non solo in termini economici, quindi si percepisce la preoccupazione ed il peso della responsabilità della professione a cui però fa da contrappeso la forte motivazione. Abbiamo scelto di essere avvocati proprio perché siamo consapevoli della funzione sociale di questa professione». Quanto sta accadendo, comunque, non dovrebbe avere ripercussioni dirette sul numero delle toghe. «Non credo – afferma Pierantoni – che assisteremo ad una diminuzione drastica del numero di avvocati, sicuramente non inversamente proporzionale alla crescita delle iscrizioni alla quale abbiamo assistito negli anni Duemila. Il Rapporto Censis di Cassa Forense ci conferma, al contrario, una crescita di iscrizioni, seppure lenta e questo trova conferma nei dati del nostro Foro, dove il numero dei praticanti che ogni anno iscriviamo è piuttosto stabile. In un periodo di crisi, come quello che stiamo attraversando, è plausibile che chi ne ha la possibilità opti per scelte lavorative più sicure. Questo non comporterà in ogni caso un eccessivo decremento delle toghe. Lo dico sperando che ad arrestare la fuga intervenga l’auspicata regolamentazione della mono-committenza, finalizzata proprio a dare più certezze a chi collabora presso studi professionali e che più spesso si trova nella condizione di dover abbandonare la professione».

Fuga dalla professione forense: «A Roma tante le cancellazioni». Tra la paralisi giudiziaria dovuta al Covid e al calo dei fatturati, tanti professionisti decidono di lasciare la toga per dedicarsi ai concorsi della pubblica amministrazione. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 17 agosto 2021. Negli ultimi tempi non è difficile incontrare nei tribunali alcuni ex avvocati. Sono coloro che hanno dismesso la toga, non affollano più le aule d’udienza, ma avendo vinto un concorso nell’amministrazione della giustizia si confrontano da un’altra posizione con i legali. È l’effetto dell’immissione nei ruoli degli uffici giudiziari, dopo i recenti concorsi. La fuga dalla professione forense è destinata a continuare, se si pensa che altri concorsi verranno banditi dal ministero della Giustizia. Tra questi quelli riguardanti l’ufficio del processo (in tutto 16.500 assunzioni a tempo determinato rientranti nel Pnrr).

I numeri. I primi 8.171 posti sono stati messi a concorso lo scorso 6 agosto. Per il distretto della Corte d’appello di Roma l’ufficio del processo mette a disposizione 843 posti, il numero più consistente dopo Napoli (956). È prevedibile che i concorsi pubblicati e da bandire portino tanti altri avvocati a scegliere di entrare nella PA. Iniziamo il nostro viaggio nei Coa italiani, partendo da Roma, per conoscere meglio la situazione in cui versa l’avvocatura e quali sono le prospettive nel breve-medio termine. Oggi gli iscritti al Consiglio dell’Ordine degli avvocati della capitale sono 26.194 (14.500 uomini e 11.694 donne).

Nel 2020 si sono cancellati dall’albo ben 610 avvocati. Quest’anno il numero è in crescita: sono già 335 le cancellazioni. Nel 2020 si sono iscritti invece 442 avvocati e nel 2021 sono per il momento 678 le nuove toghe. Occorre però evidenziare che gli esami di abilitazione del 2020 sono ancora in corso. Per la fascia d’età 25-30 anni il numero di iscritti è relativamente basso (869 avvocati), ma aumenta per le fasce di età successive (31-40 anni: 5.272, 41-50 anni: 8.679, 51-60 anni: 7.213, over 60: 4.161).

I praticanti iscritti sono 6.338 con una netta maggioranza femminile (3.783 donne e 2.555 uomini). In questo caso la ripartizione è inversa rispetto a quella degli iscritti all’albo degli avvocati. Prevalgono tra i praticanti quelli nella fascia di età tra i 23 ed i 30 anni pari a 3.681 (fascia 31-40 anni: 2.035, 41-50 anni: 350, over 50: 272).

Il presidente del Coa di Roma, Antonino Galletti, nel riflettere su quanto sta accadendo nell’avvocatura, ritiene utile fare subito una precisazione: «È opportuno fotografare la situazione attuale romana e compararla con i dati pre Covid per consentirci di svolgere ragionamenti che non siano influenzati dalla situazione attuale, che riveste caratteri di unicità ed eccezionalità».

I problemi della professione forense. Le difficoltà che hanno incontrato nell’ultimo anno e mezzo gli avvocati hanno di sicuro influito sulle aspettative. Esercitare la professione, tra calo di fatturati e riorganizzazione del lavoro, è sempre più complicato. «I dati che abbiamo esaminato – dice Galletti – ci indicano una riduzione importante del numero degli iscritti a partire dalla pratica forense ed un aumento costante del numero delle colleghe rispetto ai colleghi, destinati già nel prossimo futuro ed essere minoranza nell’albo degli avvocati come oggi lo sono nel registro dei praticanti. C’è poi il dato non censito di tanti giovani meritevoli, che, talvolta, pure avendone il titolo, non si iscrivono per problematiche economiche o per i costi fissi che non riescono ad affrontare e, su questo crinale, occorre trovare forme di finanziamento, sul modello di altri ordinamenti, con prestiti che consentano l’avvio dell’attività professionale anche ai giovani meritevoli provenienti fa famiglie meno agiate o in condizioni di fragilità».

Chi supera i concorsi pubblici lascia la toga. Pure a Roma sono molti gli avvocati vincitori di concorso nella PA, destinati ad abbandonare la toga. Una situazione che segna una nuova tendenza e potrebbe confortare perché negli uffici pubblici si trovano persone con conoscenze giuridiche derivanti dalla pregressa esperienza professionale. «Vari colleghi – commenta il presidente Galletti – in questi giorni stanno ricevendo chiamate a seguito del superamento di concorsi pubblici e dello scorrimento delle graduatorie degli idonei e mi chiamano per ricevere indicazioni e talvolta conforto circa la scelta da affrontare. È doloroso vedere che tanti lasciano la libera professione, ma consola verificare come costoro possano proseguire la loro attività di giuristi al servizio del pubblico interesse generale e, dunque, del nostro bene comune all’interno delle pubbliche amministrazioni, dove, sono certo, che forniranno un formidabile contributo grazie all’esperienza cumulata nel percorso professionale interno all’avvocatura».

Il futuro sarà con sempre meno toghe? «Le statistiche – prosegue il presidente del Coa di Roma – ci dicono che sono in diminuzione gli iscritti alle facoltà di giurisprudenza ed è da lì che occorre perciò ripartire per offrire percorsi più innovativi ed attrattivi per i giovani con esperienze estere e specializzazioni, almeno nelle macro aree. Io sogno da sempre un’università dell’avvocatura che formi i nostri giovani al meglio ed in modo utile, soprattutto negli ultimi anni del percorso accademico, per poi affrontare meglio le inevitabili difficoltà del percorso professionale».

Serve un rinascimento giudiziario. La fase post pandemica che sembra essersi aperta e le risorse del Pnrr sortiranno, a detta del presidente degli avvocati romani, effetti positivi per l’avvocatura. «I fondi che arriveranno – commenta Galletti – sono un toccasana per un sistema in crisi da anni e ben prima della pandemia. L’avvocatura deve vigilare affinché non sia sperato neppure un Euro. Occorrono politiche lungimiranti e riforme di sistema che abbiano effetti non solo nell’immediato, ma anche per il futuro al fine di meglio garantire i diritti e le libertà dei cittadini e, perciò, anche il nostro lavoro quotidiano quali primi garanti e custodi delle libertà e dei diritti».

I crinali di intervento sono chiari. «Li abbiamo indicati – conclude – alla ministra Cartabia in modo unanime nell’ultima sessione romana del congresso forense. Occorre una sorta di rinascimento giudiziario da realizzare con il contributo di tutte le forze in campo. Soltanto così saremo in grado di lavorare meglio, aumentare le nostre soddisfazioni professionali ed al contempo continuare a garantire prestazioni di qualità di cittadini».

«Ho lasciato la toga nell’anno più nero dell’avvocatura. Ma non è una fuga, è un nuovo inizio». La testimonianza di una (ex) avvocata. Il Covid ha aggravato la situazione. E ora i legali cercano nuove strade. «Ero a un passo dalla toga d'argento». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 18 agosto 2021. L’apporto degli avvocati che hanno abbandonato la toga, dopo aver vinto un concorso nella amministrazione della giustizia, potrebbe cambiare il volto della PA. La fuga dall’avvocatura se da un lato è la conseguenza di tante difficoltà che affrontano i legali dall’altro dovrebbe alzare il livello delle competenze e professionalità negli uffici pubblici. Siamo riusciti ad entrare in contatto con una ex avvocata, quasi toga d’argento, da poco vincitrice di concorso ed assegnata neppure un mese fa ad un importante Tribunale. La chiameremo Letizia per non metterla in difficoltà, considerato il ruolo importante che ricopre.

Una nuova vita professionale, dopo aver indossato la toga. Di cosa occupa adesso?

Dirigo uno degli Uffici del Tribunale in cui sono impiegata. Si tratta dell’unico ufficio dove ancora sopravvive la nobile funzione notarile del cancelliere. Difatti nonostante l’avvento del processo telematico, che ci ha consentito di ottenere copie esecutive telematiche dei provvedimenti giudiziari, firmati digitalmente dai funzionari di cancelleria, nel mio ufficio, il cancelliere, come accadeva nell’ 800 riceve il cittadino, lo identifica e attesta di ricevere le sue dichiarazioni di rinuncia o di accettazione di eredità, facendosi apporre in presenza le sottoscrizioni e apponendo la sua firma. Un servizio essenziale che lo Stato mette a disposizione dei cittadini a fronte del solo pagamento delle tasse e dei bolli.

Meno tribolazioni e meno ansie dopo anni nell’avvocatura? È più felice adesso che è una dipendente del ministero della Giustizia?

Sono sempre stata felice di adempiere al mio compito. È troppo presto per fare un bilancio di questo nuovo incarico dirigenziale. Gli uffici ci sono state assegnati a fine luglio, dopo un intenso corso di formazione in tutte le sezioni penali, civili ed amministrative di uno dei Tribunali più grandi in Italia. Le tribolazioni sono comuni ad ogni lavoro, confido di saperle affrontare al meglio.

Cosa ricorda con più piacere della sua precedente esperienza da avvocata?

Ho avuto la fortuna di svolgere per ben venticinque anni la professione che desideravo fare. Quest’anno mi avrebbero consegnato la toga d’argento e confesso che mi rattrista l’idea di non partecipare a quella cerimonia, visto anche l’impegno socio giuridico associativo che mi ha sempre vista in prima linea a favore dei deboli. Ma mi ero appassionata anche durante le precedenti esperienze di collaborazione e consulenza per la pubblica amministrazione. Io non ho ricordi da avvocato, io ho introiettato un modo di lavorare, pensare, studiare, assistere e difendere da avvocato che è ancora dentro di me. Benché la Costituzione non indichi l’avvocatura tra i “servitori dello Stato”, io mi sono sempre sentita al servizio dello Stato, ossia dei diritti dei cittadini. Sostanzialmente non è cambiato nulla. Anche oggi agisco, dirigo, organizzo un servizio a tutela del cittadino.

Il ricordo invece meno piacevole di quando indossava la toga?

Molte delle battaglie giuridiche e delle cause che ho patrocinato si sono concluse con successo. Ho indossato la toga con e per passione. Con lo stesso entusiasmo mi sto dedicando a questa nuova esperienza giuridica, perché mi piace sperimentare nuove dimensioni professionali. Il rapporto con i colleghi e con la magistratura è sempre stato ottimo, mentre negli ultimi sette anni è il rapporto con i clienti che è cambiato. Non mi riferisco alla difficolta di “far onorare le parcelle”, ma alla difficoltà di “rendere onore” alla funzione ed alla complessità delle attività che l’avvocato esplica per il cliente.

Pensa che ci sarà una fuga dall’avvocatura con i prossimi concorsi?

La maggior parte di vincitori del mio concorso sono avvocati. Non uso il verbo erano, perché sarebbe ingiusto negare ai neodirettori identità e ricchezza professionale. Auspico che anche altri avvocati superino brillantemente dei concorsi pubblici. Non parlerei di “fuga” dall’avvocatura, ma di cambio di direzionalità di competenze.

Il presidente del Coa di Roma, Antonino Galletti, ha evidenziato il valore aggiunto apportato negli uffici giudiziari dagli ex avvocati vincitori di concorso. Cosa ne pensa?

Il Presidente Galletti, da buon amministrativista ha sempre avuto una visione positiva della pubblica amministrazione. L’immaginario collettivo vede i dipendenti pubblici come “indolenti stipendiati”. In realtà la giustizia con la “G” maiuscola deve molto alla competenza ed all’impegno dei dipendenti amministrativi. Non solo Galletti, ma anche i magistrati sono convinti che la formazione forense sia un plus per la gestione della giustizia. Siamo stati accolti come delle vere ed autentiche “risorse” e con l’auspicio di introdurre buone prassi e trovare soluzioni tempestive, nonostante la carenza cronica di personale.

Sarete d’aiuto ai vostri ex colleghi conoscendone l’impostazione del lavoro e le esigenze?

Saremo di aiuto ai cittadini. Gli avvocati sono lo strumento a cui il cittadino si affida per azionare i suoi diritti.

Anche nella PA, come nell’avvocatura la declinazione al femminile della macchina giustizia è sempre più marcata. Quasi tutti i posti dirigenziali sono ricoperte da donne?

È proprio così. I posti di vertice ricoperti dalle donne aumentano. Non sono mancati casi di dirigenti donne insediatisi in pieno lockdown, riuscendo, ovviamente con l’aiuto di avvocatura e magistratura, a velocizzare la dematerializzazione degli atti ed i depositi telematici. Mi piace pensare che anche il Coronavirus abbia contagiato la giustizia con la virtù femminile della temperanza, simbolo di rigenerazione ed innovazione, oltre che della diffusione del sapere.

Dalla casta a “Il tuttofare”: così l’Italia storpia se stessa (avvocati inclusi). Più che un film, quello di Sergio Castellitto è un tormentone. “Il tuttofare”, pellicola che storpia con diffamante ferocia la figura dell’avvocato, è riapparso nel prime time della Rai a poco più di un mese dalla prima tv. Errico Novi su Il Dubbio venerdì 26 febbraio 2021. Più che un film è un tormentone. “Il tuttofare”, pellicola che storpia con diffamante ferocia la figura dell’avvocato, è riapparso nel prime time della Rai a poco più di un mese dalla prima tv: dato su Rai Uno il 4 gennaio, è tornato su Rai Movie mercoledì scorso. Lo share notevolissimo dell’esordio (12,6%, oltre 3 milioni e 300mila spettatori) ha entusiasmato gli esperti del palinsesto. Se ancora ci fosse qualcuno ignaro della trama, la si può riassumere come segue: un cacciatore di dote, Sergio Castellitto, sposa l’ereditiera di uno studio legale plurisecolare, Elena Sofia Ricci, si costruisce fama di penalista infallibile e nella scalata verso la gloria stritola un giovane collega, il tuttofare appunto, efficiente e solerte nello sfornare le massime della Cassazione come i caffè. Poi la situazione degenera perché l’avvocato- cannibale prima fa sposare la propria amante, incinta, con il collaboratore, poi schiera quest’ultimo nell’ufficio relazioni esterne della cosca mafiosa capeggiata da un assistito, finché lo stesso penalista sfruttatore è a propria volta travolto da un’indagine per evasione fiscale milionaria, finge il parkinson, dribbla le aspettative del collega- schiavo e si riabilita in veste di guardasigilli, mentre il tuttofare deve riconvertirsi sottocuoco in una bettola. Peggio di così la professione forense non potrebbe essere rappresentata. La vittima schiavizzata non compensa la spregevole condotta del mentore, giacché dà l’idea di essere più erudito che professionalmente sveglio. E comunque è talmente male in arnese da non emanciparsi mai come avvocato. L’immagine del Foro ne esce davvero deturpata. Ma insomma, immaginiamo che la percentuale di italiani adulti del tutto ignari del film sia davvero residuale. Gli avvocati, nella stragrande maggioranza dei casi, reagirono con superiore indifferenza già all’arrivo nelle sale, esattamente due anni fa. Però la traccia culturale lasciata dal film resta e merita di essere compresa al di là del danno arrecato all’avvocatura. C’è un aspetto che avvicina “Il tuttofare” alla retorica anticasta, al mantra del “tutti ladri tutti a casa”: il disgusto per le classi dirigenti. Che si tratti di classe politica o di ceto professionale. Resta il discredito, che è come uno specchio in cui si sono compiaciuti i milioni di spettatori che hanno visto o rivisto “Il tuttofare” di recente. Alcune sere fa Castellitto, in un’intervista retrospettiva sul suo esuberante personaggio, ha annoverato il film nella tradizione della commedia all’italiana. Quella scuola, ha detto, è consistita nel prendere dei caratteri dalla realtà, dei caratteri ricorrenti, e deformarli. Quanto a deformare, il film lo fa in pieno; che poi quel tipo di avvocato sia effettivamente un campione preso in prestito da una qualche realtà, è cosa francamente lunare. Ma non è questo il punto. Se pur si vuol concedere a Castellitto il beneficio dell’approssimazione, se pure si può ammettere che il grado di distorsione, come la chiama lui, può anche essere così alto da rendere irriconoscibile il carattere originario (nel nostro caso l’avvocato), comunque resta un gigantesco problema, rispetto alla commedia all’italiana tradizionalmente intesa. Il filone che ha segnato la storia del cinema dal dopoguerra in poi, nelle sue età dell’oro come nella decadenza, sceglieva un’angolatura del mondo, ne metteva in scena la farsa, dopodiché verso quel mondo, nel piano reale, permaneva un rispetto, una considerazione. Si è sempre scherzato su politici, professori universitari, avvocati, giornalisti, travet: si pensi al campionario meraviglioso di “I complessi”. Però col dileggio c’era anche la convinzione diffusa, nell’opinione pubblica, che di persone perbene e oneste, in quelle categorie, ce ne fossero. La disillusione, la totale sfiducia verso qualsiasi dimensione che possa essere assimilata all’idea di classe dirigente, o anche solo di classe, non era ancora arrivata. Se adesso invece non si salva nessuno, se lo spettatore medio è ormai convinto che tutto in Italia è inaffidabile, che tutti sono squalificati e impresentabili, chi è rimasto a dar voce a ogni singolo cittadino? Chi ha titolo per parlare a nome di tutti? Chi può riscuotere consenso se non a condizione di gridare all’impresentabilità e alla disonestà generali? Il meccanismo dell’anticasta è esattamente questo: la perdita del principio di rappresentanza. Si dirà: il Parlamento esiste ancora e i partiti continuano a prendere voti. Sì, ma è per una sorta di forza d’inerzia. C’è un piano irrazionale ed emotivo in cui la sfiducia predomina, poi esiste un residuo di realismo e ragionevolezza, che spinge bene o male le persone alle urne, ad affidarsi sinceramente a un avvocato, a chiedere la tesi a un professore universitario senza fulminarlo con lo sguardo obliquo che si riserva agli impostori. Il punto è che nel linguaggio pubblico, nel cosiddetto dibattito, in tv e sui social, prevale il piano emotivo. Il che implica un’ulteriore conseguenza: l’Italia è ormai un Paese afasico. Nessuno parla a nome della collettività. Se non per dire che la classe dirigente fa schifo. Che tutto, fa schifo. Film come “Il tuttofare” alimentano il processo. Il risultato? L’afasia e basta. Nessuno parla, nessuno è credibile. È vera solo l’ignominia, la disonestà. Nella percezione emotiva, diventa vero, appare cioè reale, solo l’avvocato lestofante di Castellitto. Non l’avvocato reale che si spezza la schiena ogni giorno per assicurare una decente tutela dei diritti ai propri assistiti. Uscirne è, in apparenza, impossibile. Se nessuno è credibile, se non a condizione che sia disposto a diffamare il mondo, non c’è speranza. L’anticasta ha compiuto il delitto perfetto. Tra le poche chance che vengono in mente ce n’è una tipica della psicologia sociale. In fondo il processo di autodiffamazione collettiva risponde a nient’altro che a una collettiva perdita di autostima. È passato bene o male il messaggio secondo cui l’Italia sarebbe un Paese di parassiti, evasori fiscali, farabutti e buonianulla. La lunga stagione della crisi, e dell’austerity e dalla troppo flebile ripresa, ora soffocata nella tragedia del covid, ha convinto i più che l’Italia sia il peggio e che si meriti il peggio. Forse, se si vuol restituire dignità alla classe dirigente, e rivedere in tv o nelle piazze qualcuno a cui si conceda il diritto di parlare per tutti, non è che vada glorificata e magnificata la classe dirigente: si deve solo parlare bene degli italiani. Dire che l’Italia è uno straordinario Paese. Che ha sopportato con dignità anni di povertà, privazioni, perdita di status, desertificazione produttiva, pressione fiscale mostruosa. Eppure è un Paese meraviglioso, come lo definì Sandro Pertini. Qualcuno, al cinema o in qualunque altro posto e con qualsiasi altro mezzo, dovrebbe dire agli italiani che sono meravigliosi. E allora forse la si smetterà di storpiarsi in uno specchio così deformante.

·        I Medici di base.

Medici di base, inchiesta sulla loro lobby di potere. Milena Gabanelli, Mario Gerevini, Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2021. Il sistema sanitario nazionale è costruito attorno al presidio numero uno: i medici di base. Devono assistere i pazienti il più possibile a casa, e ogni cittadino da lì deve passare per accedere a qualunque prestazione, dalle visite specialistiche alle ricette per i farmaci. Come abbiamo documentato durante i lunghi mesi dell’epidemia Covid-19, il loro ruolo diventerà sempre più cruciale: tra 10 anni ci saranno quasi 800 mila ultra 80enni in più, ovvero 5,2 milioni (quasi il 9% della popolazione), i malati cronici sono in aumento (23 milioni) e bisogna evitare di riempire inutilmente i Pronto soccorso di codici bianchi e verdi. Ogni anno sono 16 milioni di accessi (su un totale di 21 milioni), e l’87% non sfocia in un ricovero. Con la legge di Bilancio del 2020 sono stati stanziati 235 milioni di euro per dotare i dottori di famiglia di ecografi, spirometri ed elettrocardiografi, in modo da poter eseguire finalmente nei loro ambulatori gli esami di primo livello, evitando così ai pazienti penose liste d’attesa. Vuol dire nuovi compiti e competenze. Di qui la necessità di preparare al meglio chi intraprende la professione di medico di medicina generale.

Come sono formati?

In tutta Europa, dopo la laurea in Medicina, bisogna fare tre anni di corso tra teoria e pratica in ambulatorio e ospedale. Questo tirocinio è molto diverso da un Paese all’altro: in Baviera è governato dalla Bayerische Landesärztekammer, l’Associazione medica bavarese, e i medici sono pagati come dipendenti a 5 mila euro circa al mese. In Inghilterra i corsi e l’attività pratica sono coordinati dall’Health Education England, l’Agenzia governativa nazionale, e lo stipendio è di 4.166 sterline al mese. In Italia occorre un «diploma di formazione specifica in medicina generale», che si ottiene attraverso un corso post laurea di tre anni formato da 1.600 ore di teoria e 3.200 di pratica in ospedale e negli ambulatori dei dottori di famiglia. Sono pagati con una borsa di studio (dunque inquadrati come studenti) di 11 mila euro l’anno, cioè 966 euro al mese, soggetti a Irpef, con contributi a carico, ed erogati dal Ministero della Salute. Ben diversa dalla borsa di studio degli specializzandi ospedalieri, che è di 26 mila euro l’anno, contributi inclusi e senza Irpef. Già questo indica a monte la scarsa considerazione per il medico di base. 

I sindacati preparano i medici

Il finanziamento è affidato alle Regioni (d.lgs n. 368 del 17 agosto 1999) e ognuna decide come organizzare i corsi: attraverso centri regionali di formazione per le cure primarie (Friuli-Venezia Giulia), enti regionali (Lombardia), fondazioni (Veneto), aziende sanitarie Asl/Usl (Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Piemonte, Sardegna, Valle d’Aosta), laboratori regionali per la formazione sanitaria (Toscana). Ciascun corso di formazione ha poi una direzione, un comitato tecnico-scientifico e coordinatori territoriali per le attività teoriche e pratiche. Il criterio nella scelta di chi forma i futuri medici di famiglia dovrebbe essere solo quello della competenza, capacità, esperienza. Se si va a vedere chi gestisce i corsi, nome per nome, si scopre che nella quasi totalità dei casi sono soggetti con un ruolo di rilievo nei sindacati medici. Caso unico in Europa. La principale corporazione è la Fimmg che con 23.800 iscritti rappresenta il 63% dei medici di medicina generale, seconda lo Snami con il 19%, ma l’elenco è lungo e sorprendente. Oltre ai sindacati, i coordinatori dei corsi appartengono in numero significativo anche alla Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (Simg), fondata nel 1982 a Firenze per valorizzare il ruolo dei medici di base. Ai suoi vertici c’è da 30 anni ininterrottamente l’ematologo Claudio Cricelli, 71 anni, presidente dal 1998 dopo essere stato vicepresidente dal 1996 al 1998 e segretario generale dal 1990 al 1996. Nel 2017 la Simg viene riconosciuta come società scientifica. Vicepresidente nazionale è Ovidio Brignoli che è anche coordinatore del corso lombardo e consigliere dell’Ordine dei medici di Brescia. Ma cosa fa di scientifico questa società?

Ruolo pubblico e interesse privato

La Simg organizza congressi e corsi di aggiornamento sponsorizzati dalle case farmaceutiche: nel 2020 riceve 80 mila euro da Bayer, 42 mila dalla Grunenthale 452 mila dalla GlaxoSmithKline, di cui 309 milaa titolo di donazione e liberalità. Nell’aprile 2020 firma con Sanofi e Fimmg (il sindacato più importante) un protocollo d’intesa per un «innovativo programma di formazione dei medici» di 40 ore, valido per i crediti Ecm, quelli che devono essere obbligatoriamente acquisiti durante il triennio. Dopo mille polemiche per conflitto d’interessi le parti hanno fatto un passo indietro. Però il grosso dell’attività è sulla raccolta e gestione dei dati sanitari dei pazienti. Come società scientifica dal 2013 Cricelli promuove con gran successo presso i medici di famiglia dei software per il governo clinico, con cui vengono raccolti migliaia di dati sanitari dei malati. Sono 17 mila oggi i medici di medicina generale che li utilizzano. Questi software sono messi a punto da due società a lui strettamente collegate. Una è la Millennium, controllata dalla Dedalus, leader internazionale dei software clinici, di cui lo stesso Cricelli tra il 2004 e il 2013 è presidente del Cda e oggi è presidente di Dedalus Italia. L’altra è la Genomedics, già società di softwaredi Cricelli e Brignoli, dal 19 aprile 2011 all’85% di Iacopo Cricelli (figlio di Claudio) e al 15% di Silvia Tronci, contemporaneamente responsabile dell’assistenza clienti di Dedalus. A sorvegliare sull’attività dei medici c’è un organismo indipendente: l’Ordine dei Medici. Carlo Roberto Rossi per esempio è sia presidente dell’Ordine dei Medici di Milano che presidente del sindacato Snami Lombardia. E contemporaneamente tiene i corsi di formazione triennale. 

Dai corsi ai contratti

Finito il tirocinio i medici di base diventano liberi professionisti, e sono gli stessi sindacati che li hanno formati e hanno raccolto le iscrizioni alla loro associazione sindacale durante il corso, a trattare poi con il governo i contratti collettivi. L’accordo in vigore prevede che l’ambulatorio debba essere aperto (a seconda del numero di assistiti) dalle 5 ore settimanali (fino a 500 pazienti) alle 15 ore (per 1.500 assistiti). Ogni prestazione in più deve essere contrattata e retribuita, al contrario di quanto avviene per i medici ospedalieri, perché nei contratti non è mai stato definito nei dettagli quali sono le cure primarie da garantire. In mezzo ci sono i pazienti, che sanno bene quanto vedono il loro medico di famiglia. Regione Lombardia, che ha pagato pesantemente gli errori della sua politica sanitaria, a luglio scorso decide di cambiare tutto: negli ambulatori di medicina generale rimasti scoperti si fa l’apprendistato retribuito come in Baviera e Inghilterra. Il futuro medico di famiglia mentre fa formazione triennale, tiene aperto anche il suo ambulatorio (ovviamente sotto stretta sorveglianza dei tutor), e alla borsa di studio viene aggiunta una retribuzione di 2.400 euro al mese per 500 pazienti. Carlo Roberto Rossi e la Fimmg escono con comunicati stampa sdegnati. Il provvedimento al momento è bloccato.

Chi comanda?

Se in Italia i dottori di famiglia in formazione restano studenti mal pagati e quasi completamente in mano ai sindacati, la conseguenza è che la professione di medico di famiglia è destinata a restare una professione di serie B, spesso utilizzata come ripiego da chi non entra nelle Scuole di specialità per diventare cardiologo, cardiochirurgo, ginecologo, ortopedico, ecc. Ormai da anni è una zona grigia dove da una parte ci sono medici di famiglia che fanno solo i compilatori di carte, e dall’ altra quelli che cercano di assistere i pazienti al meglio delle loro possibilità, ma vengono danneggiati da un sistema poco trasparente e intriso di conflitti di interesse. Una lobby di potere che riesce spesso a tenere in scacco la politica in difficoltà a prendere decisioni che sradichino il sistema. Intanto i 7 miliardi di euro del Recovery Fund disponibili per migliorare l’assistenza territoriale rischiano di essere buttati al vento se i medici di famiglia non si convinceranno ad andare a lavorare dentro le 1.288 nuove case della Comunità previste entro il 2026.

·        I Commercialisti.

Commercialisti, fuga dagli studi: oltre 1.300 tirocinanti in meno. I giovani si offrono a decine di migliaia ogni anno alle Big Four della consulenza dove sanno che, insieme allo stipendio, riceveranno formazione. Alessandro Galimberti il 23 agosto 2021 su Il Sole 24 ore.com. Non solo autisti, tornitori, stagionali, raccoglitori. All’Italia fiaccata dal Covid - ma prima ancora da almeno due lustri di crescita piatta e di Pil stagnante- mancano anche i commercialisti, in piena crisi di vocazione.

Una professione non più attrattiva. Se i numeri già parlano chiaro (meno 1.345 tirocinanti al 1° gennaio 2020, ultima rilevazione ma - attenzione - periodo pre-Covid, calo del 10% rispetto al 2019), l’allarme rosso per una professione tra le più ambite nei magnifici anni 80 e negli espansivi anni 90, arriva dagli stessi addetti ai lavori. «Inutile nasconderlo, siano in piena crisi di vocazioni - dice Matteo De Lise, presidente dei Giovani commercialisti (gli under 43, ndr) - e non dovremmo nemmeno sorprenderci: la professione non è più attrattiva». Motivi e cause complesse, si potrebbe tagliare corto, ma alla fine riducibili a un paradigma basico: «La formazione del professionista tra università, tirocinio, esame di Stato è già sufficientemente lunga - spiega De Lise - ma poi un giovane sa che per aprire uno studio deve considerare, minimo minimo, spese fisse per 50mila euro l’anno, consapevole peraltro che i margini sono sempre più risicati e il lavoro sempre più esecutivo e “delegato” da Stato e agenzia delle Entrate. Non bastasse, a queste difficoltà fanno da “grancassa” responsabilità e rischi sempre più ampi e ogni giorno agganciati a nuove compliance legali».

Reddito reale in calo del 10,8%. Già, i redditi. Il capitolo che per decenni ha attratto i giovani universitari - quasi con la stessa forza dell’ascensore sociale ambìto da genitori boomer e nonni della Ricostruzione - è stagnante da prima ancora della grande crisi dei subprime e dei risiko bancari dei decenni scorsi. A testimoniarlo sono gli stessi report della Fondazione dei commercialisti: la media Irpef (quindi lato imposte sul reddito) dice che se nel 2008 l’imponibile medio si assestava a 59.847 euro nominali, 11 anni dopo il valore corrispondente non arrivava a 61 mila euro. Con due caveat importanti, però: il primo è che deflazionati e attualizzati i valori, non c’è stato alcun progresso reddituale ma piuttosto un calo di 7.150 euro l’anno, pari a una perdita di reddito reale del 10,8 per cento; seconda considerazione, questi dati sono ancora pre-crisi Covid, i cui effetti a questi fini saranno visibili solo a partire dal 2022.

Il delta tra regioni si sta livellando verso il basso. E anche se restano veri e ben percettibili pure qui i soliti divari dell’Italia a più velocità (la Lombardia spicca con 96mila euro, Trentino Alto Adige fuori classifica con 113mila, Campania, Molise e Sicilia in coda con 30mila euro di imponibile l’anno), il reddito mediano - più vicino alla realtà rispetto alla media matematica - abbatte a 56mila euro la dichiarazione annua del commercialista lombardo, a 73mila quella trentina, a 21mila quelle campane, pugliesi e siciliane, con un trend, tra l’altro, che sta livellando il delta tra regioni verso il basso. «Non proprio un buon segno», chiosa il presidente dei giovani commercialisti De Lise.

Convenienza per lo più per i figli d’arte. Il rischio di trasformazione della professione per i soli “figli d’arte”, a queste condizioni, è reale. «È sempre più difficile trovare praticanti anche in provincia e anche per gli studi “tuttologi” delle periferie - dice Gianluca Ancarani, dottore commercialista a Grosseto e Follonica e vicepresidente dell’Ordine locale - del resto la formazione è sempre più lunga e a ostacoli e le promesse di reddito tutt’altro che attrattive: oggi il commercialista conviene farlo solo a chi ha uno studio già avviato, inutile nasconderci dietro slogan, è per “figli d’arte”». Anche per Nicolò La Barbera, studio a Palermo, «la remunerazione è troppo bassa per attrarre i giovani, da Nord a Sud, la crisi della Pmi è un boomerang terribile per gli studi medio/piccoli, e se non si fanno aggregazioni e reti tra studi e competenze non c’è futuro».

·        Che fine ha fatto il sindacato?

Sindacati e giudici, i nuovi "no Italia". Alessandro Sallusti, la bordata: bravi soltanto a remare contro. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 10 dicembre 2021. Bloccare il Paese l'ultimo weekend pre natalizio, con la gente che si riversa per le strade dopo dodici mesi vissuti a singhiozzo e in libertà limitata, non è esercitare un sacrosanto diritto, è solo rompere i santissimi a milioni di italiani. Dove sta l'urgenza, dove il pericolo che giustifichi un gesto estremo quale è lo sciopero generale? Io mi auguro che Draghi non ceda a questo odioso ricatto che serve solo a Maurizio Landini, leader della Cgil, per fare sapere al mondo che esiste. Entrare nel merito della questione è inutile. Draghi poteva fare di più e di meglio con la manovra finanziaria? Può essere, ma anche no. A questo governo si possono rinfacciare tante cose, non di non avere a cuore una maggiore equità sociale messa peraltro a dura prova da una emergenza esterna quelle è quella del Covid. Si sta per bloccare il Paese per soddisfare l'ego di Landini, senza neppure che il sindacato, come avvenuto in passato (l'ultima volta è stato nel 2014 contro il governo Renzi) abbia un nemico politico da mettere in difficoltà. Chi è il nemico? Draghi, cioè un premier messo lì anche dalla sinistra per provare a salvare la baracca a vantaggio anche di lavoratori e pensionati? No, questa è una follia, un chiamarsi fuori dall'operazione di salvataggio con la quale tutti i partiti - destra e sinistra, persino Bersani- si sono sporcati le mani con i loro elettori, certamente per mancanza di alternative ma anche - ci piace pensarlo- per senso di responsabilità. Non sarà un caso che da questa operazione di unità nazionale si chiamano fuori in due, i sindacati e i magistrati che senza il minimo senso di vergogna dopo tutto quello che è successo, si stanno opponendo a una vera riforma del Csm, il loro organo di autogoverno - complice il tentennamento della ministra Cartabia che è la causa di molti dei mali della democrazia. Sindacati e magistrati sono la palla al piede del cambiamento, sono un tappo alla crescita. Non c'è Draghi che tenga, o si riesce a ricondurre il mondo del lavoro e quello della giustizia nel loro alveo, o non si va da nessuna parte perché è difficile mandare avanti una barca, per di più in acque agitate, con due a bordo che remano all'inverso. Per carità, in democrazia (quasi) tutto è lecito. Ma tra i No vax e i No Italia non vedo grandi differenze. 

«Davanti al governo dei ricchi, lo sciopero è un atto di coraggio». Fausto Bertinotti definisce «un atto di coraggio» lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil. «Il conflitto con i sindacati sarà utile al Paese». Giacomo Puletti su Il Dubbio l'8 dicembre 2021.

Fausto Bertinotti, che di barricate sindacali e scontri tra governo e parti sociali se ne intende, definisce «un atto di coraggio» lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil per il prossimo 16 dicembre.

Presidente, come si è arrivati a questa scelta?

A me sembra una decisione presa dopo un lungo periodo in cui i sindacati hanno tenuto a bada le istanze dei lavoratori in nome di un credito dato alla compagine governativa e legato al clima generale di “indiscutibilità” di tutto ciò che fa questo governo e all’assetto politico che lo sorregge. Ma molte istanze che avrebbero dovuto essere affrontate con tutt’altra radicalità, penso al salario minimo, non sono state affrontate. Non so come si faccia a non essere scandalizzati dall’aumento delle povertà e delle disuguaglianze presente nel Paese e certificato anche dall’Istat.

Il governo si difende e giudica «con sorpresa» l’annuncio dei sindacati. Se l’aspettava?

Beh, diciamo che le misure del governo che favoriscono i ceti abbienti hanno fatto traboccare il vaso. In altri tempi quello attuale si sarebbe chiamato il governo dei ricchi. Oggi queste denunce sono fuori moda ma Cgil e Uil hanno fatto una scelta dovuta e necessaria di fronte a provvedimenti che confermano la tendenza. Il governo, invece di mettere tutte le risorse a disposizione in favore della lotta alla povertà e per aumentare il lavoro, ha fatto un’altra scelta e per quello che mi riguarda lo sciopero è un atto di coraggio.

La Cisl si è tirata indietro spiegando che si rischia lo scontro sociale in un momento ancora difficile per il paese. Che ne pensa?

Penso che la matrice tecnico oligarchica del governo sia dannosa per il Paese e che il conflitto con Cgil e Uil sia anzi utile al Paese. Intendiamoci, le misure della manovra favoriscono la crescita. Ma non incidono minimamente sulla povertà che anzi si espande e sul lavoro che anzi viene ulteriormente penalizzato. Vorrei ricordare che il salario generale negli ultimi trent’anni in Italia è sceso del 2,9 per cento, mentre in Germania è aumentato del 30 per cento. Siamo di fronte a un lungo corso di penalizzazione del salario e se neppure di fronte a misure che utilizzano investimenti pubblici a favore della crescita si mette mano a questa ingiustizia, beh allora non resta che lo sciopero.

Crede sia ancora possibile un dialogo tra le parti, come auspicato dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando?

Il problema principale che oggi il Paese ha di fronte è quello del recupero di un rapporto tra istituzioni e popolo. Dove per istituzioni intendo sia il Parlamento sia i corpi intermedi come partiti e sindacati. C’è una frattura, uno iato drammatico che è un problema per la democrazia. Basti pensare che alle ultime Amministrative metà degli elettori non ha votato. Bisogna cercare di riallacciare il rapporto tra istituzioni e cittadini.

Guardando alle scelte fatte, dall’Irpef all’Irap, dai pensionati al caro bollette, cosa manca in questa manovra?

Manca l’essenziale. Cioè una misura perequativa ed egualitaria. Manca una politica per l’eguaglianza. È vero, ci sono aspetti positivi nella manovra, ma il quadro generale da cosa è segnato? Vorrei che il governo spiegasse quali misure prende per ridurre drasticamente la povertà e la precarietà nel lavoro. In Italia siamo di fronte a un fenomeno sconosciuto nei trent’anni gloriosi e che oggi affligge le nuove generazioni, per le quali spesso lavoro e povertà stanno scandalosamente insieme.

Una soluzione per risolvere la crisi?

Non un sindacalista arrabbiato, ma il presidente degli Stati Uniti, di fronte all’assunto che i giovani non accettano determinati lavori, ha detto semplicemente «pagateli di più». Ecco, servono misure che vadano in questa direzione. Con il salario minimo, con il salario sociale, con la tassazione ai ricchi, con qualunque cosa purché si trovi un modo. Invece ci sono solo misure che leniscono alcune di queste più drammatiche contraddizioni senza affrontare il problema che le genera. Se mai il giudizio dei sindacati non è severo quanto dovrebbe, altro che la difesa fatta da palazzo Chigi.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 18 dicembre 2021. È noto che non tutti i mali vengono per nuocere. Prendiamo lo sciopero generale di giovedì indetto dalla Cgil e dalla Uil allo scopo di protestare contro la famosa manovra del governo, giudicata dai tribuni del popolazzo iniqua. Molti commentatori sono stati critici nei confronti della iniziativa, pensando che sarebbe stata una sorta di turbativa di cui in questo momento il Paese avrebbe fatto volentieri a meno. Si dà il caso invece che la mobilitazione sia sostanzialmente sfociata in un fallimento per chi l'aveva promossa senza avere un obiettivo ragionevole, tantomeno raggiungibile. Non solo. I pochi che hanno incrociato le braccia, oltre a non aver torto un capello al premier Mario Draghi, hanno decretato la fine della cosiddetta unità sindacale, visto che la Cisl non ha aderito alla manifestazione di piazza, anzi l'ha criticata. Per decenni tale unità è stata ferrea nel senso che la Triplice ha agito all'unisono, adottando sempre una linea comune che rafforzava i lavoratori. Nella presente circostanza il giochino si è sfasciato, dopo questo sciopero a cui i cattolici non hanno partecipato, non si potrà più dire che il popolo dei dipendenti è coeso e portato ad agire di concerto. Il segretario Landini è riuscito, organizzando la chiassata in questione, a mandare a pallino una alleanza tra i signori della manodopera che durava da tempi immemorabili. In altri termini ha compiuto una impresa storica, ossia dividere in due tronconi il mondo operaio italiano. La Cgil ora, se fosse una organizzazione seria, dovrebbe provvedere a sostituire il suo leader con una persona più responsabile e cauta. Infatti la manifestazione avvenuta in ordine sparso ha decretato una sconfitta sindacale e un trionfo di Draghi, la cui opera a Palazzo Chigi, comunque la si pensi, appare più che mai inattaccabile. D'altra parte occorre ricordare che gli scioperi generali non si sono mai conclusi, dal 1960 in poi, con una vittoria di coloro che li hanno fortemente voluti. L'epoca dei cortei e dei roboanti comizi è finita da un pezzo e non sarà più di moda, anche perché la gente ha capito che le sfilate ricche di bandiere rosse non impressionano nessuno. L'economia e la gestione della cosa pubblica richiedono ben altro impegno rispetto ai vaniloqui di un capopopolo quale il povero Landini, che non sgobba da lustri e campa con lo stipendio che gli iscritti alla Cgil gli garantiscono. Segnalo infine che nonostante le chiacchiere di Maurizio il Rosso e dei suoi adepti, l'Economist, pubblicazione inglese delle più autorevoli, e non il Fatto Quotidiano, ha certificato che l'Italia è da considerarsi il "Paese dell'anno", grazie a performance superiori a quelle ottenute dalle altre nazioni europee. Indubbiamente siamo ancora pieni di problemi, ma qualcuno è stato risolto e se il futuro non è radioso non è neppure fosco.

Il lebbrosario della miseria. Lo sciopero dimostra che, sulla questione sociale, la Cgil è parte del problema. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 17 Dicembre 2021. Il sindacato è contrario a meccanismi che incentivino lavoro, investimenti e progresso tecnologico. E Landini non ha una direzione concreta da indicare, se non ricette utopiche e reazionarie. Al di là delle adesioni allo sciopero e delle presenze nelle piazze mobilitate dalla CGIL e dalla UIL, anche ieri è emerso con chiarezza che il grosso del sindacato italiano è parte del problema e non della soluzione di quella gigantesca questione sociale, aperta da vent’anni di ininterrotto declino economico. Landini e Bombardieri hanno proclamato esplicitamente uno sciopero “per i poveri”, sacrificati a loro dire dai provvedimenti del governo, continuando a interpretare i bisogni dei ceti più disagiati in base a un’analisi dei processi di impoverimento che rovescia l’ordine delle cause e degli effetti. 

La CGIL e buona parte della sinistra politica e sindacale ritiene che l’Italia, negli ultimi decenni, abbia duramente patito le trasformazioni del capitalismo globale non per averne sciupato le opportunità e averne declinato le sfide, ma per non essersi chiamata fuori dai suoi ingranaggi e non avere dichiarato la secessione economica e morale dalle sue ingiustizie. Questa è da tempo anche l’analisi della destra sovranista, che ha però dalla sua il vantaggio competitivo di un nazionalismo ad ampio spettro, dal protezionismo alla xenofobia, e sta quindi erodendo da quasi trent’anni – iniziò la Lega – i consensi elettorali anche tra gli iscritti alla CGIL.

A scandalizzare, in un sindacato progressista, dovrebbe essere un patto sociale fondato su un sistema di rendite e garanzie improduttive, destinato a impoverire gli stessi garantiti e a inaugurare la guerra tra i poveri. L’esempio è proprio rappresentato dalla spesa previdenziale – il frutto più caratteristico e più velenoso del welfarismo sindacale all’italiana – che si è dilatata a dimensioni abnormi, edificando un monumento mostruoso di iniquità sociali, di genere e generazionali e di pensioni insieme agevolate e miserabili, per cui è ormai impossibile distinguere la gravità del bisogno dallo stigma del privilegio. 

Di fronte a tutto questo, da buona parte del sindacato confederale e in particolare dalla CGIL non è mai venuta una parola, se non di autocritica, di consapevolezza della necessità di aggiornare la cassetta degli attrezzi e anche quella dei valori. 

Al contrario: la CGIL rimane programmaticamente contro ogni tentativo di porre mano a meccanismi efficientemente redistributivi, perché non finalizzati a togliere ai ricchi per dare ai poveri, fino a giungere a redistribuire la miseria, ma a migliorare il potenziale di crescita, cioè a incentivare lavoro, investimenti e progresso tecnologico e arrivare per questa via a fare in modo che i poveri siano di meno, siano meno poveri e meno disuguali. 

Basti ricordare lo sciopero generale del 2014 contro il Jobs Act, che Landini ieri ha appunto ricordato per rivendicare continuità e coerenza all’azione sindacale. Anche allora la CGIL era contro, malgrado fosse una riforma egualitaria, perché sfidava il profilo più identitario del sindacato contemporaneo, quello di considerare la legislazione la vera trincea della giustizia sociale. 

Il lavoro non può essere stabile, se la legge non lo stabilizza. La povertà non può essere battuta, se la legge non la combatte o – direbbe Di Maio – non la abolisce. Le aziende non possono rimanere in Italia se non c’è una legge che impedisca loro di delocalizzare. Il sindacato italiano sta ancora incredibilmente, tragicamente e irreparabilmente fermo qui.

È certo vero che povertà e disuguaglianza sono essi stessi prodotti politici, ma in senso opposto a quello indicato dalla CGIL. In Italia sono il prodotto dell’illusione che si potesse attraversare indenni la crisi politica dello stato nazionale e la crisi fiscale dello stato sociale aspettando semplicemente che passasse la nottata, che invece era qui per restare e che non sarebbe stata così cupa se l’Italia, a differenza di altri paesi europei, non avesse proseguito il proprio business as usual e la politica e il sindacato non avessero continuato, come se niente fosse, a vendere indulgenze per una salvezza ormai impossibile.

Dei poveri a questo sindacato è rimasto l’ingombro e il senso della frustrazione e dell’impotenza, senza una parola sensata da dire, una direzione da indicare, una meta da raggiungere che non sia quella, utopica e reazionaria, del ritorno all’età dell’oro dei diritti sociali. Della CGIL e della gran parte del sindacato italiano oggi potrebbe dirsi quello che Christopher Hitchens scriveva di Madre Teresa di Calcutta. Che non amasse i poveri, ma la povertà, e non si preoccupasse di guarire i malati, ma di santificare la malattia per offrirla all’amore di Dio attraverso la carità dell’uomo. 

Ma se così è – anche senza addebitare a Landini e Bombardieri le mire affaristiche che Hitchens sospettava in Madre Teresa – c’è davvero da dubitare che da un sindacato ridotto a lebbrosario della miseria possa uscire qualcosa di progressista. 

HANNO ABOLITO IL MEZZOGIORNO. Lo sciopero generale dei sindacati Cgil e Uil che ormai vivono sulla luna. Roberto Napoletano Il Quotidiano del Sud il 16 Dicembre 2021. Settanta minuti di comizio cumulati di Pierpaolo Bombardieri e di Maurizio Landini nel giorno dello sciopero generale di Uil e Cgil. Non abbiamo mai sentito pronunciare la parola Mezzogiorno. Nemmeno nella forma più abbreviata Sud. Nemmeno in quella forse più appropriata di divari territoriali che riguardano il Mezzogiorno d’Italia e i Sud del Nord. Venti milioni di persone che hanno un reddito pro capite che è la metà degli altri quaranta milioni non sono meritevoli di una valutazione sistemica e di un riconoscimento di priorità al pari di riforma delle pensioni, superamento della precarietà, riforma fiscale, politica industriale, sicurezza nel lavoro, nelle scuole, nelle piazze. Ignorata la priorità strategica della Nuova Ricostruzione del governo Draghi che ha fatto moltissimo. Questa priorità strategica le taglia tutte perché la lotta alle diseguaglianze si vince o si perde in questi territori dimenticati. Non per un euro in più o in meno di sconto sull’Irpef o mandando le persone in pensione quando hanno ancora tanta voglia di lavorare. Sottraendo occupazione e futuro ai giovani e alle donne

SETTANTA minuti di comizio cumulati di Pierpaolo Bombardieri e di Maurizio Landini nel giorno dello sciopero generale di Uil e Cgil in una bella giornata di grande partecipazione a Roma. Non abbiamo mai sentito pronunciare la parola Mezzogiorno. Nemmeno nella forma più abbreviata Sud. Nemmeno in quella forse più appropriata di divari territoriali che riguardano il Mezzogiorno d’Italia e i Sud del Nord. Venti milioni di persone che hanno un reddito pro capite che è la metà degli altri quaranta milioni non sono meritevoli di una valutazione sistemica e di un riconoscimento di priorità al pari di riforma delle pensioni, superamento della precarietà, riforma fiscale, politica industriale, sicurezza nel lavoro, nelle scuole, nelle piazze.   Avremmo molto da dire su una riforma delle pensioni concepita in modo tale che cancelli strutturalmente il futuro dei nostri giovani del Sud come del Nord. Avremmo molto da puntualizzare sulla sacrosanta tutela di chi un lavoro già ce l’ha e rischia di perderlo, ma che non si potrà mai tutelare per legge e appartiene a territori dove il contesto economico può consentire nuove opportunità di lavoro.

Il punto di fondo, però, è un altro: non riconoscere alla disparità territoriale da rimuovere, come ha fatto il governo Draghi con il Piano nazionale di ripresa e di resilienza, la priorità strategica della Nuova Ricostruzione, quella che taglia trasversalmente tutti i temi del lavoro, della politica industriale, della qualità delle grandi reti di comunicazione, significa chiudere gli occhi davanti al più urgente, macroscopico, strutturale dei bisogni sociali di questo Paese. Significa vivere sulla luna e non avvertire nella testa e nella pelle il cuore del problema strategico italiano che è una povertà territoriale diffusa, contagiosa, endemica. Dove il problema civile precede quello sociale e economico. Dove tutte le povertà di lavoro come di diritti di cittadinanza si saldano in una miscela esplosiva. Fatta di scuole che cadono, di ospedali privi di macchinari e di risorse umane, di istruzione tecnica ridotta al lumicino, di un’amministrazione pubblica che oscilla tra dissesto e pre dissesto. Fatta di persone in carne e ossa senza un lavoro e senza una speranza di lavoro. Fatta di poveri veri e di geni che scappano.  

Di tutto ciò che è il punto iniziale e finale della questione italiana perché l’uscita dal ventennale declino del Paese passa per la riduzione dei suoi divari interni e da una bussola strategica di interventi pubblici e privati che si muova coerentemente in questa direzione e punti preliminarmente sul capitale umano, non c’è traccia nei comizi di chiusura dei due leader sindacali. Francamente siamo amaramente sorpresi.

Non è un problema di parole. Quella più vicina a Mezzogiorno, Sud, divari territoriali, la ha pronunciata Landini parlando genericamente di “culla del Mediterraneo” riferita a cultura e turismo. Colpisce che all’interno di un disegno urlato di sviluppo complessivo non si riconosca alla priorità delle priorità della lotta alle diseguaglianze perfino il diritto di parola. È un’assenza vistosa che impressiona. Ci sembra un vuoto che non può riflettere le intenzioni reali di Cgil e Uil e dei loro leader, ma che pure c’è stato. Si è rumorosamente appalesato.

Qualcuno ci suggerisce interpretazioni tattiche perché  il solo citare il tema li avrebbe costretti ad ammettere che in questi dieci mesi di governo di unità nazionale è stato deciso il più grande intervento educativo e civile della storia repubblicana italiana. Avrebbero dovuto riconoscere che si è collocato nel Mezzogiorno oltre il 55% delle risorse del Pnrr per mense scolastiche, palestre, asili nido (solo qui oltre due miliardi in termini assoluti) o che per la prima volta nella legge di bilancio contro cui fanno sciopero generale ci sono i livelli essenziali di prestazioni sociali (leps) che garantiscono i diritti di cittadinanza negati da almeno vent’anni ai cittadini meridionali in materia di assistenza domiciliare agli anziani e di welfare per l’infanzia. Che è un modo serio per consentire alle donne del Mezzogiorno di recuperare diritti di lavoro.  Avrebbero dovuto ammettere che il governo contro cui fanno lo sciopero generale ha messo in atto il più clamoroso provvedimento di lotta alle  diseguaglianze sociali.

Per la verità avrebbero forse dovuto dire anche che qualcosa di molto simile è avvenuto per edilizia scolastica, istruzione tecnica, sanità, trasporto locale, banda larga ultra veloce, treni ad alta velocità e interventi nelle ferrovie regionali. Avrebbero dovuto dire che dopo dieci anni sono stati aperti i cantieri dell’alta velocità ferroviaria della Messina-Catania- Palermo. Sono tutti passaggi decisivi del progetto politico fondamentale della stagione della Nuova Ricostruzione che è la riunificazione delle due Italie.

I Capi partito fanno fatica a capirlo, non sanno nemmeno vendersi i risultati, ma sinceramente ci impressiona di più che il sindacato degli eredi di Di Vittorio, bracciante e figlio di bracciante,  e della sua  “cafoneria” pugliese, non senta questo progetto politico come il primo degli obiettivi di uno sciopero generale dichiaratamente politico. Perché la lotta alle diseguaglianze si vince o si perde in questi territori dimenticati. Non per un euro in più o in meno di sconto sull’Irpef o mandando le persone in pensione quando hanno ancora tanta voglia di lavorare. Sottraendo occupazione e futuro ai giovani e alle donne.

Il dibattito sullo sciopero. Sciopero generale del 16 dicembre, quante stranezze dietro un conflitto che non è di classe. Michele Prospero su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. “Finalmente sciopero generale” titolava il Manifesto per brindare alla benedetta spallata contro il governo dei padroni. Un nuovo biennio rosso alle porte? Il problema non riguarda in astratto il riconoscimento o la maledizione del conflitto. Il primo teorico moderno del conflitto (“i tumulti et altri scandoli non nuocono”) distingueva tra conflitti che costruiscono “ordini e modi civili” e conflitti che assumono un ruolo distruttivo (“quel male che ci ammorba, quella rabbia che ci consuma, quel veleno che ci uccide”). Nella storia concreta dell’Occidente il grande conflitto capitale-lavoro ha aperto spazi di libertà, strategie di cittadinanza, momenti di inclusione sociale, meccanismi di redistribuzione dei poteri con nuovi diritti individuali e collettivi. La fine del conflitto ha interrotto il processo di civilizzazione del capitale. Lo sciopero generale del 16 dicembre ha gli antichi requisiti “di classe” che erano alla base delle dense mobilitazioni del secolo socialdemocratico? Il costo delle richieste sindacali non sembra incidere sul saggio di profitto che dovrebbe essere eroso per indirizzare una parte più cospicua della ricchezza sociale verso i produttori. Il soggetto colpito non è la controparte aziendale, sono i redditi “elevati”. È la fiscalità generale, non il capitale a risentirne. Il bersaglio della rivendicazione sindacale, nelle parole di Landini a Repubblica sono gli stipendi ritenuti troppo elevati (attorno ai 50 mila euro) e dunque distorsivi del principio di egualitarismo (verso chi incassa 20 mila euro) non riguarda i profitti. Lo scontro parrebbe così tra lavoratori della conoscenza e prestatori d’opera manuale. Niente a che vedere con il conflitto sociale classico, ma munizioni contro il nuovo nemico, la cosiddetta Ztl intesa come la fascia dei contribuenti (il 13,2%) che dichiara oltre i 35 mila euro ma versa il 58,8% dell’Irpef.

Il lato insidioso della cultura del conflitto sposata dal sindacato, ma rilanciata anche da Barca e Cuperlo, poggia su una nozione di giustizia sociale che nella lotta al ceto medio evoca una nitida venatura sudamericana e non mostra alcuna connotazione di “classe”. Che il problema dell’uguaglianza post-moderna sia quello di penalizzare i percettori di salari che dai 1700 arrivano attorno ai 4 mila euro mensili (intorno ai 5 milioni di contribuenti) è rivelatore della torsione populista conferita alla idea della coalizione sociale. Il 44% dei 41 milioni di contribuenti che dichiara fino a 15 mila euro versa il 4% dell’Irpef totale e dalla manovra di bilancio trae vantaggi, modici certo, ma non è colpita. Far pagare a un lavoratore della conoscenza o a un medico, a un funzionario o quadro (al 4% che dichiara oltre i 70 mila euro e versa il 30% dell’Irpef totale) la bolletta dell’estetista, del commerciante, del padroncino che vantano introiti da incapienti (circa 13 milioni di contribuenti non versano Irpef) viene chiamato contributo di solidarietà. È anche questa una redistribuzione della ricchezza, ma che il ricercatore o il burocrate siano molto più benestanti di un meccanico, di un orefice, di un ristoratore, di un dentista, di un tassista, di un nanocapitalista con Suv (fette professionali che denunciano meno di 20 mila euro) lo attesta solo la dichiarazione dei redditi, che però unicamente per i percettori di redditi tassati alla fonte non mente.

L’equivoco del concetto della lotta alla diseguaglianza e alle povertà è evidente quando essa diventa la fonte di una battaglia aclassista e tutta protesa contro gli stipendi più cospicui (50 mila euro sono indicati come la montagna del privilegio) da sacrificare con sbarramenti fiscali. Non un conflitto per ottenere il salario più elevato e restringere l’accumulazione di capitale, ma una scaramuccia per avere un fisco più leggero pare l’orizzonte del sindacato, che così regredisce su un piano micro-corporativo e condivide con la rendita e l’impresa l’obiettivo di uno Stato minimo, alleggerito nelle entrate fiscali e quindi nelle risorse per le politiche pubbliche (per fortuna la manovra va in controtendenza e aumenta gli investimenti per la sanità).

Il trentennale processo di impoverimento e di precarizzazione, avviato sin dal pacchetto Treu, viene imputato tutto quanto ai sette mesi di governo Draghi, denunciato (in contrasto con i numeri che indicano un aumento delle assunzioni rispetto al 2019, un contenimento dei temuti licenziamenti e un efficace regime del green pass) come il responsabile di ogni nefandezza: esecutivo dei padroni, della precarietà, della ingiustizia, della povertà (non era servito il balcone grillino?). La finanziaria, che non è scritta da un governo di sinistra ma da un esecutivo di larghissima coalizione, ha di sicuro tutti i limiti indicati da Barca, non ha però il volto classista delle misure lacrime e sangue varate da Monti, censore dei bamboccioni, cantore della bellezza della negazione della noia del posto fisso, avversario inflessibile del sindacato e nemico di ogni concertazione alla Draghi. Senza essere una manovra di sinistra, quella proposta dal governo è comunque limitatamente espansiva con piccoli segnali di politiche attive.

Non è con semplici norme che si combatte la delocalizzazione, molto più incisivo per contenere lo spirito apolide del capitale sarebbe la efficace costruzione di una piattaforma sindacale calibrata su scala europea. E però il sindacato, dove è più forte, ripiega sul piccolo spazio, sulla contrattazione aziendale e per questo localismo esclusivo l’iscritto alla Fiom, ottenuto il welfare aziendale e ristretto così il gettito del fisco nazionale, vota anche per la Lega, che tratteggia un rifugio territoriale in uno stato del benessere a dimensione municipale. Un sindacato che accetta che il cosiddetto reddito di cittadinanza sia così vicino all’ammontare di un salario del lavoratore iper-sfruttato e sempre oppresso dalla minaccia di delocalizzazione non rappresenta la “classe”, coltiva invece una visione sanculottistica del mondo che non lotta più per aprire degli spazi di liberazione alla “corporeità vivente”, ma si agita contro il ceto medio per gestire uno spettrale appiattimento pauperistico. È vero, come dichiara Landini, che l’83% dell’Irpef è ricavato da pensioni e lavoro dipendente. Ma il 44% dei contribuenti che dichiara sino a 15 mila euro versa appena il 4% dell’Irpef complessivo. Solo il 6% dei percettori di reddito dichiara più di 50 mila euro e immette però il 40% nell’ammontare dell’Irpef.

Non ci sono impedimenti alla rivolta, anche in tempi di pandemia la repubblica garantisce la mobilitazione della piazza. Però lo sciopero generale politico è la variante moderna del diritto di resistenza. Prima di ricorrere all’appello al cielo dovrebbero essere conclamate delle condizioni di eccezionale gravità. Il giudizio politico sul governo, per quanto possa risultare critico, non sembra autorizzare una preoccupazione seria circa il deperimento degli spazi di libertà. La ventura sociale delle politiche pubbliche è certo insufficiente, ma non è in atto un restringimento delle coperture sociali essenziali (il reddito di cittadinanza è rifinanziato). Lo stesso sindacato ammette che Draghi (“il Migliore dei Migliori” ironizza “il Manifesto”) ha parlato con le organizzazioni collettive e quindi il “tecnocrate” non attenta in alcun modo (alla Monti) al vitale spazio del pluralismo sociale. In molti sognano il Sudamerica e scambiano quell’inferno di caccia al ceto medio, in uno Stato minimo ad economia stagnante, per il bel conflitto (su spostamenti di aliquote, esenzioni, bonus a rapporti di classe invariati) e persino come una ritrovata “igiene mentale” secondo le parole di Revelli. Attenzione (cari Fassina e Cuperlo), se il conflitto da benedire è quello contro il ceto medio della Ztl, si sta semplicemente prenotando la carrozza sulla quale tra poco marcerà trionfalmente Giorgia Meloni. Michele Prospero

La mala sindacalización. Lo sciopero sciagurato di Landini va a tutela dei privilegi e contro la crescita. Valerio Federico su L'Inkiesta il 13 Dicembre 2021. Una decisione dannosa sia perché rompe il consenso intorno al governo Draghi (prezioso in questa fase) sia per le sue ragioni. Il segretario generale della Cgil chiede più attenzione per dipendenti e pensionati quando la priorità sarebbe, al contrario, alleggerire il sistema previdenziale e investire nello sviluppo. Dopo il balcone dei 5Stelle ecco oggi Maurizio Landini che vuole ridurre la povertà per tutti, dimenticando – come da tradizione – crescita, bilancio ed equità intergenerazionale e trovando così uno spazio politico che va ad ampliare l’opposizione al governo insieme a Meloni/No vax & green pass. CGIL e UIL proclamano di scioperare per tutti, lavoratori dipendenti, pensionati e giovani (degli autonomi non c’è traccia), ma dimenticano che sono soprattutto gli under 34 ad essersi impoveriti negli ultimi 20 anni al contrario degli over 65, mentre si allargava il divario fra retribuzione dei lavoratori e importo delle pensioni, mentre l’età pensionabile effettiva con quota 100 ed altre misure si abbassava, mentre la spesa sociale comunque cresceva, mentre gli investimenti diminuivano e mentre la crescita con i governi di Giuseppe Conte si azzerava.

La priorità è una sola: investire in produttività e ridurre il costo del lavoro per puntare a una crescita dell’occupazione e dei salari e quindi, peraltro, dei contributi per le pensioni. Da Conte, meno crescita e in pensione prima, siamo passati a Draghi, cioè più crescita e in pensione pesando meno su giovani e lavoratori.

La manovra, espansiva grazie all’Unione Europea, che ci porta fuori da quota 100, destina 4 miliardi a mercato del lavoro e occupazione, non tralascia comunque la spesa sociale e il supporto ai veri ultimi a partire da un reddito di cittadinanza in questo senso rivisto. Il taglio dell’IRPEF per la metà è a beneficio dei redditi più bassi.

La speranza è che questa mala-sindacalizzazione non porti molti a scioperare in difesa di privilegi più che di crescita e sviluppo per tutti.

Lo sciopero del 16 è una sciagura non solo perché rompe il consenso alla politica del governo Draghi, così prezioso in questa fase, ma per il merito di ciò che afferma il segretario generale della Cgil che chiede più attenzione «ai dipendenti» e ai pensionati, e che ci sia una «vera» riforma delle pensioni grazie alla quale ognuno possa andare in pensione a 62 anni, e, infine, che il governo tuteli «le persone più bisognose».

Ricordando a Landini che i contributi previdenziali e assistenziali vengono versati anche dai lavoratori autonomi (che hanno pensioni più basse), categoria che mai cita, serve chiarire che negli ultimi 20 anni è raddoppiato il divario tra la retribuzione media dei lavoratori (che pagano i contributi) e l’importo medio delle pensioni. Quando l’età della povertà cala, il trasferimento di risorse si ha all’interno delle famiglie dove il pensionato aiuta il giovane, ma su questo meccanismo, profondamente iniquo, non possono contare molti giovani.

In percentuale su quanto i lavoratori producono (PIL) continuiamo ad avere una spesa pensionistica più alta di quasi tutti gli altri Paesi (spendiamo 70/80 miliardi in più all’anno rispetto alla Spagna), a scapito degli investimenti in produttività – spesa, questa sì, che porta a una crescita del PIL, dei salari, degli occupati (in primis giovani), e quindi dei contributi per pagare le pensioni. Dal 2019 il rapporto tra spesa pensionistica e PIL è tornato ad aumentare per via di quota 100 e della bassa crescita.

I contributi versati oggi dai lavoratori non bastano a pagare le attuali pensioni e la fiscalità generale integra con oltre 30 miliardi l’anno, quindi parte delle pensioni le pagano tutti i contribuenti.

Le previsioni macroeconomiche della Ragioneria Generale dello Stato per un quadro sostenibile della spesa pensionistica (comunque in crescita costante rispetto al PIL dal 2027 al 2046 per poi calare a seguito dell’applicazione generalizzata del calcolo contributivo) puntano su una costante crescita della produttività del lavoro, oggi ferma, fino a un +1,3 nel 2030 e un +1,5 nel 2050.

Prevedono altresì una crescita del PIL fino a un +2,1% nel 2030, nel 2019 pre-pandemia era stata pari a +0,3. Il tasso di disoccupazione, 9,3 nel 2020, è previsto che cali fino al 7,6 nel 2030. Le previsioni demografiche prevedono un flusso migratorio netto pari a 162 mila persone di media in più all’anno fino al 2070 e un tasso di fecondità che “dovrà” passare dall’1,24 del 2020 all’1,47 nel 2030. È certificato dunque che una politica economica che non persegua crescita, più produttività del lavoro, più occupati, più regolarizzazioni di migranti, sarebbe in contrasto con gli obiettivi dei governi e la sostenibilità del sistema pensionistico.

Le prestazioni pensionistiche sono suddivise in prestazioni previdenziali e assistenziali, queste utime – invalidi civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali e pensioni di guerra – sono in costante aumento da una decina di anni e pesano per circa 23 miliardi l’anno.

La spesa sociale in Italia è elevata e cresce a ritmi insostenibili, i trasferimenti a carico della fiscalità generale sono passati dai 73 miliardi del 2008 ai 114 del 2019, 41 miliardi in più all’anno, un aumento annuo superiore al 4% non giustificato dal peggioramento delle condizioni sociali di una parte della popolazione.

In conclusione, ogni misura, demagogicamente richiesta, non volta ad alzare gradualmente l’età effettiva di pensionamento, non volta a ridurre la spesa a carico della fiscalità generale a integrazione dei contributi versati dai lavoratori, non volta a ridurre il divario tra la retribuzione media dei lavoratori e l’importo medio delle pensioni, non volta a investire in formazione per allineare alla domanda immigrati e giovani, non volta a far crescere la produttività del lavoro, corrisponde a un attentato ai diritti dei giovani, dei lavoratori attuali e dei pensionati di domani.

«Se Draghi avesse ascoltato i sindacati il Pnrr sarebbe andato in fumo». Cazzola critica lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil, difendendo le scelte di Draghi sulla manovra. «Il governo ha fatto ciò che ha potuto». Giacomo Puletti su Il Dubbio l'8 dicembre 2021. Giuliano Cazzola giudica lo sciopero generale di Cgil e Uil «una trovata estemporanea» e sulla manovra spiega che «il governo ha fatto ciò che ha potuto».

Qual è il suo giudizio sulla scelta di Cgil e Uil di indire uno sciopero generale per il 16 dicembre contro la manovra?

Se avessi un po’ di stima per quei gruppi dirigenti sindacali, direi che sono sorpreso. In realtà, conoscendoli, seguono la loro natura, come lo scorpione che punge a morte la rana che lo porta sulle spalle per attraversare il fiume. Perché non riesce a sottrarsi alla sua indole. Lo sciopero è una trovata estemporanea. Che il disegno di legge di bilancio non fosse la Presa del Palazzo d’inverno o la conquista della Bastiglia si era capito subito.

Ma i sindacati erano stati al gioco, avevano trovato un modus vivendi sulle pensioni. Sul fisco non sembrava impossibile una soluzione e Draghi l’aveva anche proposta, ma era stato fermato nell’ambito della sua maggioranza. Quanto agli ammortizzatori sociali, Orlando aveva assunto l’impostazione dei sindacati, anche se era inadeguata nella nuova situazione economica. Poi che senso ha spaccare il fronte sindacale per fare uno sciopero in “zona Cesarini’’? Perché il 16 dicembre se non l’avrà già approvata il Senato sarà vicino a votare la manovra.

Per la prima volta dopo sette anni i sindacati non sono uniti nel proclamare uno sciopero generale, con il passo di lato della Cisl. Crede che questo rafforzi la posizione di Cgil e Uil o rischia di trasformare lo sciopero in un flop?

La linea della Cisl mi fa capire che non è tutto perduto. Dopo l’uscita “spontanea” di Marco Bentivogli credevo che questa organizzazione di grandi tradizioni riformiste, non avesse una leadership adeguata. Il fatto che non si sia prestata a questo colpo di teatro fa onore alla Cisl. Quanto allo sciopero, la sua riuscita o il suo fallimento non dipendono dal suo esito. È chiaro che Cgil e Uil puntano ad attribuirsi l’ondata di malessere che attraversa il paese.

Il governo ha reagito con «sorpresa» dicendo che molte delle istanze dei sindacati sono state accolte. Crede anche lei che l’esecutivo sia andato incontro alle loro richieste?

Il governo ha fatto ciò che ha potuto. Ma il problema non era quello di accogliere le proposte dei sindacati, ma di ridurre i danni che un’accoglienza più completa avrebbe comportato. La linea del governo non poteva essere che quella seguita da Draghi: aderire in toto alle richieste dei sindacati avrebbe significato mandare a gambe all’aria gli impegni assunti nel Pnrr.

C’è chi dice che la manovra abbia aspetti positivi ma fa poco per contrastare l’aumento della povertà che oggettivamente è uno dei problemi del paese post covid. Cosa ne pensa?

A chi fa queste affermazioni si potrebbe rispondere che il caposaldo della lotta alla povertà, come fu definito il Reddito di cittadinanza, è stato confermato, rifinanziato, salvo una modesta rimessa a punto. Poi, scusi, le li ha visti quei milioni di licenziamenti che venivano annunciati quando sarebbe cessato il blocco? Ha sentito dire che ci sono più dimissioni che licenziamenti? E che la quota dei posti vacanti è cresciuta, lo dice l’Istat, di un punto percentuale arrivando all’ 1,8 per cento?

Alcuni punti hanno fatto discutere, come il cambiamento delle aliquote Irpef che paradossalmente diminuisce le tasse più per i redditi medio alti che per quelli medio bassi. Come si contrastano queste imperfezioni?

Un momento. Questo punto era ancora in discussione e il governo aveva proposto una soluzione compensativa sul versante dei contributi. Poi, mi scusi, ma se si devono ridurre le tasse occorrerà cominciare a farli da chi ne paga tante e non da chi già ne paga poche. Ormai l’Irpef è diventata una imposta versata dai dipendenti e dai pensionati. I contribuenti che dichiarano guadagni annuali dai 35mila in su sono meno del 10 per cento della popolazione, ma pagano il 58,86 per cento di tutta l’Irpef. Poi, diciamoci la verità, nessuno rimaneva a bocca asciutta; magari il taglio delle sue imposte era inferiore a quello su altri redditi. Poi Draghi non aveva proposto un contributo di solidarietà?

Che poi è saltato per problemi in maggioranza. In ogni caso, si parla molto dell’aumento dell’inflazione, passeggero secondo Draghi, temuto dalla Fed al di là dell’Oceano. Dobbiamo preoccuparci?

È un reale pericolo sottovalutato, in primo luogo perché porterà a politiche più restrittive. Poi perché l’innalzamento del tasso è stato intenso e rapido. Infine perché si tratta di un’inflazione da costi ( delle materia prime, dell’energia, dei semilavorati e dei servizi) che si aggiunge ad un allargamento eccessivo della base monetaria. Si pensa sempre che sia possibile superare tutti questi problemi attraverso la crescita, salvo dimenticare che non si produce se non si trova ciò che serve per fare girare le macchine nelle officine.

Populismo sindacale. Lo sciopero politico di Landini, aspirante leader della sinistra anti Draghi. Mario Lavia su L'Inkiesta.it l'8 dicembre 2021. Il segretario della Cgil ha indetto per il 16 dicembre una protesta di otto ore contro la legge di Bilancio, ma in realtà nasconde un altro progetto: occupare lo spazio anti capitalista, massimalista e marxista. Indicendo uno sciopero generale di otto ore Maurizio Landini ha fatto quello a cui nessun leader della lunga storia della Cgil aveva mai pensato: uno sciopero politico che spacca il sindacato (la Cisl non aderisce). Ma in fondo va anche capito: non essendoci da anni una sinistra politica degna di questo nome, Landini è appunto da anni che ha in testa un sindacato politico, di classe, di vaga ascendenza marxista ma di esito populista che occupi quello spazio vacante. Dal tramonto di Rifondazione comunista, in Italia a sinistra del Pd – che è un partito, seppur confusamente, socialdemocratico con sottili venature liberali – c’è il deserto. Tuttavia esiste una costellazione di leader, da Andrea Orlando a Goffredo Bettini, da Giuseppe Conte a Pier Luigi Bersani, che ha bisogno di un soggetto collettivo, di un collante sociale, di un leader politico: e c’è tutta un’area di cani sciolti, normalmente di pessimo umore verso l’universo mondo e in lotta contro una realtà che non va nella direzione auspicata, che da 50 anni appare e scompare e poi riappare, restando sempre inevitabilmente minoranza e pure litigiosa. È un pezzo di quella che è stata la sinistra più dura. Che oggi si candida a fare l’opposizione al banchiere Mario Draghi che guida per loro un governo di destra, e non tanto per via di Salvini ma proprio per la sua natura istituzionale, tecnica, anti-populista. Ecco dunque che la Cgil dell’onorevole Landini, ormai un uomo politico, s’immagina di poter ricavare quello spazio politico che ormai socialmente, cioè nei posti di lavoro, ha perso da tempo. D’altronde la storia non è nuova. La Cgil, nel momento alto cofferatiano (ma si parla ormai di vent’anni fa) tentò di farsi soggetto politico e non vi riuscì. Ci ha riprovato sempre Landini da segretario della Fiom, la tradizionale punta di diamante del sindacato duro e puro, quando mise su una pasticciata iniziativa tutta politicista con gruppi vari (si chiamava “Coalizione sociale”) che l’allora capogruppo del Pd Roberto Speranza – vedi tu com’è strana la storia – bollò come «espressione di una sinistra massimalista che urla». Ora il numero uno della Cgil si è inventato per il 16 dicembre uno sciopero generale di otto ore, cioè il massimo livello della protesta, contro una legge di Bilancio del governo Draghi che come tutte le Finanziarie, come si chiamavano fino a pochi anni fa, presentano incertezze e insufficienze. Questa di Draghi però è forse la migliore legge di Bilancio che nelle condizioni date di un Paese in piena difficoltà si poteva avere, si tagliano un po’ di tasse, si investe soprattutto sulla salute. È una legge che non cambia il volto dell’Italia, ma non era questa la sua funzione affidata invece alle riforme strutturali che si spera arrivino l’anno prossimo. Ma non è certo una manovra di classe, per i ricchi, non è la macelleria sociale della destra classica, anzi. Draghi vuole rivedere la Fornero insieme ai sindacati ma intanto due su tre di quelli gli scioperano contro. Che logica è? Il Partito democratico considera la legge di Bilancio positiva, «espansiva»: i suoi iscritti sciopereranno contro il governo di cui il proprio partito fa parte e contro una manovra che non toglie un euro a nessuno ma anzi ne dà qualcuno a una parte importante della popolazione? Il partito che esprime il ministro del Lavoro come al solito si trincerà dietro la solita formula dell’autonomia sindacale ma siamo sicuri che al ministro del lavoro Orlando lo sciopero landiniano non faccia gioco per accrescere il suo peso nel governo e nello stesso Pd? E lo stesso dicasi per l’avvocato in fuga, quel Giuseppe Conte al quale un po’ di trambusto sociale non dispiace, se serve a mettere in difficoltà Mario Draghi. E questo vale per quei dirigenti del Pd che lavorano per scalzare l’attuale Presidente del Consiglio in vista di elezioni anticipate. Tutto fa brodo. E Letta che dice? Uno sciopero politico, dunque. Bloccare il Paese con uno sciopero generale di otto ore non ha molto senso sindacale, anche perché Landini sta quasi tutti i giorni a palazzo Chigi a discutere con il premier e i ministri, e non può certo lamentarsi, come ai tempi della disintermediazione di Renzi, di non essere ascoltato, ma può servire ad altro: mettere a disposizione del populismo italiano un po’ di ciccia sindacale magari attraendo nella protesta espressioni d malcontento di varia natura, non escluse aree No vax. Già, perché si ricorderà che proprio Landini all’epoca dell’introduzione del green pass e l’inizio delle polemiche No pass tenne un atteggiamento poco lineare (eufemismo) guardandosi bene dall’appoggiare senza se e senza ma l’azione del governo Draghi e del generale Figliuolo. La Cisl si è sottratta a questa operazione politica di Landini perché più attenta a non sfibrare il rapporto con Draghi. Il quale, malgrado la sorpresa negativa per la proclamazione dello sciopero che è stata fatta filtrare, non teme certo che il Paese si rivolti contro un governo che nell’opinione pubblica è considerata l’unica arma contro la doppia emergenza, sanitaria ed economica. E non saranno le piazze del 16 dicembre, pur gremite di bandiere e certamente piene, a mettergli paura: vedremo piuttosto i dati reali dell’astensione dal lavoro e se il Paese veramente si bloccherà. O se non sarà stato uno sciopero inutile, per di più in un momento come questo.

CGIL E UIL SONO FUORI DALLA REALTA'. L'AUTORETE DEL SINDACATO. Lo sciopero generale può distruggere il momento magico dell'economia italiana ma non ci riuscirà. Roberto Napoletano su il Quotidiano del Sud il 7 dicembre 2021. Il segretario della Cgil Maurizio Landini col presidente del Consiglio Mario Draghi. Sullo sfondo il segretario della Cisl Luigi Sbarra. Due sindacati che non hanno mai fatto un’opposizione vera contro i governi che hanno abbandonato 20 milioni di persone privandole dei loro diritti di cittadinanza, che hanno spaccato in due il Paese condannandolo alla crescita zero e a un divario di reddito pro capite tra Nord e Sud mai visto. Decidono invece di fare sciopero generale contro l’unico governo che sta risollevando il Paese, che si occupa dei poveri, che vuole riunire le due Italie e ha fatto ripartire l’occupazione. Che per la prima volta nella storia repubblicana assegna il 55% delle risorse europee al Sud per fare asili nido, mense scolastiche, palestre. Che decide il più grande intervento educativo e civile e fa saltare il cappio della spesa storica nella sanità per combattere le diseguaglianze, ma ha la colpa non redimibile di averlo fatto senza che fosse il sindacato a suggerirglielo.

SIAMO al marziano di Ennio Flaiano che scende sulla terra e vede cose che non capisce. Che desta curiosità, ma rimarrà malinconicamente solo. Questo è il Landini di oggi che porta la Cgil e, come ruota di scorta, la Uil di Bombardieri a proclamare otto ore di sciopero generale. Gli stessi due sindacati che non hanno mai fatto un’opposizione vera contro i governi che non hanno fatto niente, che hanno abbandonato venti milioni di persone privandole dei loro diritti di cittadinanza, che hanno spaccato verticalmente in due il Paese condannandolo per intero alla crescita zero e determinando un divario di reddito pro capite tra Nord e Sud mai visto nella sua storia repubblicana. Decidono invece di fare sciopero generale contro l’unico governo che sta risollevando il Paese, che si occupa dei poveri, che vuole riunire le due Italie con gli investimenti e ha fatto ripartire l’occupazione. Che per la prima volta nella sua storia assegna il 55% delle risorse europee al Mezzogiorno d’Italia per fare asili nido, mense scolastiche, palestre. Che concepisce e decide il più grande intervento educativo e civile per combattere le diseguaglianze. Che fa saltare, anche qui per la prima volta, il cappio della spesa storica dando alle regioni meridionali quello che non hanno mai avuto per fare ospedali, acquistare macchinari sanitari, assumere personale qualificato. Per realizzare scuole nuove, per fare i treni veloci e ammodernare la rete del trasporto pubblico locale. Che ha, insomma, la bandiera della lotta alle diseguaglianze scolpita nel suo DNA.

A fronte di tutto ciò ci tocca di assistere alla ripetizione dei canoni di una certa storia del Novecento che è rimasta al bertinottiano anche i ricchi piangono. Spiace molto doverlo dire, ma siamo a fare i conti con un capo della Cgil che è venuto su con il mito arcaico della lotta di classe e con lo stereotipo che si è guadagnato girando per i talk show della disfatta italiana. Fino al punto di farsi incastrare nella parodia di questo ruolo a prescindere dalla realtà, ma solo perché è vero che il governo ha fatto molte cose ottime per i lavoratori ma ha la colpa non redimibile di averlo fatto senza che fosse lui a suggerirlo.

Ora si capisce perché dopo il grande accordo sul pubblico impiego non si è riusciti a fare il grande accordo con il sindacato per la coesione sociale, la transizione energetica, il capitale umano dei giovani e le infrastrutture immateriali e materiali. Si è fatto tutto quello che si doveva fare per stimolare la crescita duratura nel quadro di compatibilità della finanza pubblica, ma non si è potuto fare il patto sociale per la crescita perché c’è un pezzo di sindacato che ha dimenticato la lezione innovatrice di Trentin, che non si preoccupa di valutare la qualità delle scelte, che ha il disperato bisogno di fare un altro mestiere. Che è quello di dettare un’agenda e di potere rivendicare di averlo fatto.

Nel settore del pubblico impiego dove la Cisl presidia, da Pastore a Sbarra, il valore del sindacato del negoziato che non ha nulla a che spartire con quello ideologico-politico, si è raggiunto un grande accordo sociale sotto la spinta dell’azione lungimirante del ministro Brunetta.

Non si è avuta una sola ora di sciopero, si sono fatte almeno tre riforme di struttura, sono stati assunti i mille professionisti che servono, molti altri arriveranno e settantamila application sono già operative. Si è coinvolta Cdp & C. per guidare il processo progettuale e esecutivo del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr). Sono in arrivo cervelli italiani che decidono di lasciare gli Stati Uniti e di rientrare in casa. Non c’è un solo osservatorio internazionale che non si sia accorto di quello che è avvenuto in Italia. Non c’è una sola agenzia di rating internazionale che non abbia promosso questo lavoro. Siamo davanti all’onda lunga di una reputazione che l’Italia recupera per il credito legato alla personalità del capo del governo di unità nazionale, Mario Draghi, e per come questo governo ha affrontato la pandemia conseguendo tassi di crescita da miracolo economico. Per come ha avviato il Piano nazionale di ripresa e di resilienza, concepito e realizzato riforme di struttura attese da venti anni.

La Nuova Ricostruzione non è più un’utopia, ma un sogno possibile. Non immune da insidie, ma finalmente possibile. Fanno finta di non vedere tutto ciò o addirittura non se ne sono accorti la Cgil di Landini e la Uil di Bombardieri. Quello che hanno fatto oggi Cgil e Uil esponendo le ragioni di uno sciopero generale di otto ore dentro il nuovo ’29 mondiale fa il paio con le chiacchiere sul voto anticipato e sulle ombre cinesi delle candidature al Quirinale.

Nessuno può seriamente pensare di sciogliere in anticipo il Parlamento non solo perché non potremmo più eseguire il Pnrr ma perché andremmo direttamente a gambe all’aria. Perdiamo i soldi dell’Europa e perdiamo la fiducia dei mercati. Questo è l’unico modo possibile per distruggere il momento magico dell’economia italiana che ha in Mario Draghi in casa e fuori il suo marchio di fabbrica. Saremmo di fronte a un capolavoro assoluto di masochismo. Il Paese non lo capirebbe, il mondo ancora meno. Per questo non avverrà.

Finanza e investimenti. Ccnl: sono 935 e 4 su 10 sono firmati da sindacati “fantasma”. Redazione di Investire il 29/06/2021 su Notizie.it. 351 contratti sono stati firmati da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali non riconosciute dallo stesso Consiglio Nazionale. Su 935 Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) vigenti e depositati al CNEL entro il 31 dicembre scorso, 351 sono stati firmati da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali non riconosciute dallo stesso Consiglio Nazionale: praticamente 4 su 10, precisamente il 37,5 per cento del totale. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA, la Cassa degli Artigiani di Mestre che da sempre si occupa di realizzare studi sull’economia reale. E oggi è il turno della proliferazione dei contratti di lavoro che si sono letteralmente moltiplicati in Italia e sigle sindacali “fantasma”. Intendiamoci, nessuno mette in discussione la libertà sindacale che, in un Paese democratico va sempre garantita. Tuttavia, non è un mistero che spesso sigle sindacali “fantasma” che non rappresentano nessuno, o quasi, sottoscrivono dei contratti di lavoro a livello nazionale che molti definiscono, correttamente, “pirata”. Sia chiaro: non siamo nel “far west”, ma in alcune filiere produttive poco ci manca. Sono accordi che spesso abbattono i diritti più elementari, indeboliscono la legalità, favoriscono la precarietà, minacciano la sicurezza nei luoghi di lavoro, comprimendo paurosamente i livelli salariali. Accordi fortemente al ribasso che creano concorrenza sleale delegittimando quelle organizzazioni che, invece, hanno una rappresentanza sindacale presente su tutto il territorio nazionale, fatta di storia, di cultura del lavoro e del fare impresa, di iscritti, di sedi in cui operano migliaia e migliaia di dipendenti che erogano servizi a milioni di imprese e milioni di lavoratori dipendenti.

Al CNEL il compito di “controllare” la regolarità dei contratti. In un momento in cui il mondo del lavoro sta vivendo delle tensioni sociali profondissime, secondo la CGIA è giunto il momento di rivedere il sistema della rappresentanza, consentendo alle organizzazioni datoriali e sindacali che sono riconosciute dal CNEL la titolarità di sottoscrivere accordi-contratti di lavoro a livello nazionale e locale, mentre a tutte le altre sigle che firmano un nuovo Ccnl, lo stesso dovrebbe essere “asseverato” da un’istituzione pubblica terza che, ad esempio, potrebbe essere proprio il CNEL. Senza questa “bollinatura”, il contratto non potrebbe essere applicato, fino al momento in cui le parti non apportano i correttivi richiesti. In alternativa, con una legge parlamentare si potrebbero stabilire i requisiti dimensionali minimi che le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese devono possedere per potersi definire tali, potendo così sottoscrivere su base nazionale un contratto collettivo di lavoro. Una soluzione, quest’ultima, più facile a dirsi che a farsi, visto che le parti sociali ne parlano da almeno 40 anni, ma risultati concreti ancora non se ne sono visti.

La crisi della rappresentanza. Che fine ha fatto il sindacato? È in una crisi profondissima…Astolfo Di Amato su Il Riformista il 2 Marzo 2021. Un soggetto è totalmente scomparso durante la pandemia: il sindacato. Dove è finito? In questo momento si parla molto di crisi della politica, tanto che il Governo Draghi è visto come una fase di tregua utile ai partiti per ridefinirsi. In realtà, prima ancora che i partiti appaiono in crisi tutti i grandi gruppi intermedi e, tra questi, innanzitutto i sindacati. Forse perché, da un lato, vivono una crisi non nata con la pandemia, ma molto più antica, e, dall’altro, la loro crisi interessa una parte sempre più ridotta della collettività. La crisi è iniziata negli anni 80. In quegli anni il sindacato, nella componente non solo maggioritaria, ma anche più agguerrita ed intransigente, e cioè la parte della Cgil che faceva riferimento al Pci, subì due sconfitte cocenti: prima, nel 1980, la riapertura dei cancelli della Fiat, a seguito della marcia “dei quarantamila” quadri a Torino, e successivamente, nel 1985, l’esito del referendum sulla abolizione della scala mobile. In tutti e due i casi, la sconfitta sottolineò la distanza che si andava allargando con la società, nel suo complesso. Proprio in quegli anni, difatti, si verificava, anche in Italia, il fenomeno, che aveva già segnato le economie più avanzate, della crescita dei servizi in misura tale da sopravanzare la produzione dei beni. Anche la società italiana diventava, dunque, postindustriale. Si è trattato di una rivoluzione silenziosa, che ha completamente stravolto le relazioni di lavoro. Il sindacato, restato ancorato allo schema dei rapporti di fabbrica, ha iniziato, in quel momento, a distaccarsi da una parte sempre più larga del mondo produttivo, quello dei servizi, creando le premesse per divenire progressivamente il sindacato degli operai andati in pensione. E, difatti, l’ultima imponente manifestazione sindacale fu quella, organizzata da Cofferati nel 1994, contro la riforma Berlusconi delle pensioni. Che, dopo alcuni anni, sono state colpite ben più duramente, senza alcuna significativa protesta. Nel frattempo, si sono verificati altri due fenomeni imponenti, che hanno ulteriormente rivoluzionato il mondo del lavoro: la globalizzazione e l’avvento di Internet. Il primo fenomeno ha, tra l’altro, avuto l’effetto di accentuare il fenomeno dello spostamento in paesi lontani dall’Italia della produzione di beni. Per le poche fabbriche restate in Italia, poi, la proprietà è in molti casi passata a gruppi esteri, come tali insensibili agli effetti in Italia di una lotta sindacale anche dura. Il secondo ha, a sua volta, avuto una duplice conseguenza. In primo luogo, ha consentito la delocalizzazione anche dei servizi, e non solo di quelli di contenuto elementare. Si pensi, da un lato, ai call center, e, dall’altro, alla contabilità che molte multinazionali affidano a centri di elaborazione collocati in paesi asiatici come le Filippine. Inoltre, ha consentito la creazione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro: si pensi allo smart working o al platform working, di cui tanto si parla in questi giorni, a proposito dei rider. Modelli tutti caratterizzati dal fatto di disarticolare la comunità dei lavoratori che si riuniva nel luogo fisico della fabbrica o dell’ufficio. Ebbene, di fronte a questi fenomeni, che hanno mutato definitivamente il volto della società, il sindacato è restato a piantonare, almeno in Italia, un orticello divenuto sempre più ridotto, quello della fabbrica, tentando, al più, di far applicare a queste nuove forme di lavoro lo schema di rapporto di lavoro, che nel secolo scorso era stato elaborato con riguardo all’operaio in fabbrica, e perciò palesemente inadeguato. Il risultato di tale evoluzione (anzi, di tale mancata evoluzione) del sindacato si è potuto misurare in questi mesi di pandemia: il sindacato è stato del tutto assente. Se ne è avvertita la presenza per il rinnovo del contratto degli statali, che ha registrato aumenti per una delle poche categorie protette e mentre una parte molto rilevante del mondo produttivo sprofondava nell’indigenza, e per le proteste dei sindacati degli insegnanti, quando il nuovo Presidente del Consiglio ha ipotizzato di estendere di 15 giorni l’anno scolastico, in considerazione dei molti mesi di chiusura forzata delle scuole. Nel frattempo, la cassa integrazione ha funzionato male e con ritardo, i posti di lavoro persi sono già centinaia di migliaia, la condizione dei giovani e delle donne è precipitata. E il sindacato? Proteste per il cattivo funzionamento degli ammortizzatori sociali? Nessuna. Quali le sue proposte, oltre ad una richiesta del blocco dei licenziamenti che non può durare all’infinito? In questo quadro, l’iniziativa del Ministro Orlando di voler subito incontrare i sindacati, addirittura prima ancora che le Camere dessero la fiducia al Governo, appare più come il patetico tentativo di piantare delle bandierine che come una seria manifestazione della volontà di risolvere i problemi del presente, avendo la capacità di guardare al futuro. In questo momento il lavoro è in una condizione di fragilità, ed avrebbe bisogno di una rappresentanza forte e capace di interpretare il nuovo che si è ormai radicato stabilmente nella società. Spesso, oggi, è proprio il lavoro estraneo al mondo sindacale, e cioè quello fuori dalle fabbriche e fuori dalle amministrazioni pubbliche, in una condizione di maggiore debolezza. Si deve aggiungere che le nuove tecnologie, consentendo il lavoro a distanza con orari più elastici, hanno reso meno netta la distinzione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo. Quest’ultimo, per di più, è spesso divenuto sinonimo di precariato. È di fronte a questa realtà complessiva che il sindacato deve ridefinire il proprio ruolo ed i propri obiettivi. Se non ci riesce, restando ancorato agli schemi del Novecento, è destinato ad una definitiva marginalizzazione. Ed il mondo del lavoro è destinato a restare senza presidi.

Dagospia l'8 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, L’Inpgi pretendeva da me e dalla collega Manuela D’Alessandro con cui curo il blog giustiziami.it un risarcimento danni di 75 mila euro perché in un articolo avevamo criticato la mancata costituzione parte civile dell’istituto nel processo a carico dell’ex presidente Camporese. Il Tribunale civile di Roma ha sentenziato che il blog aveva esercitato il diritto di cronaca e di critica in modo pertinente. L’Inpgi è stata condannata a pagare 8.000 euro. Lo farà con i soldi degli iscritti già utilizzati per pagare gli avvocati che avevano intentato la causa. I signori al vertice dell’Inpgi sono giornalisti che procedono in modo intimidatorio contro colleghi che fanno il loro lavoro e basta. Il sindacato dei giornalisti brilla per il suo silenzio. Frank Cimini

Dagospia il 29 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Carissimo Dago, nessun giornale oggi pubblica la notizia se non minuscola e ben nascosta che Inpgi finirà nell’INPS a partire dal 22 luglio prossimo. E te credo! Perché bisognerebbe pure scrivere che Inpgi stava fallendo e stava fallendo perché depauperato da un quarto di secolo di stati di crisi con i quali gli editori dei giornali hanno risanato i loro conti. L’Inpgi non si è mai lamentato perché è sempre stato nelle mani e diretto da colleghi collusi con il potere e con i giochetti della politica. Uguale discorso vale per FNSI, il sindacato dei giornalisti responsabile anche di altre tragiche scelte quando ha consentito di fare questo mestiere con contratti diversi. Del resto e per non farla troppo lunga in un paese in cui fa cacare il sindacato dei metalmeccanici producendo un soggetto come Landini che cosa ci si può aspettare dal sindacato dei giornalisti? Frank Cimini

Così l’Inpgi è finita sull’orlo del crac. Frank Cimini su Il Riformista il 2 Novembre 2021. Sarà anche un bel mestiere fare il gazzettiere, ma da adesso in poi bisognerà farlo senza l’Inpgi, l’istituto di previdenza privato dei giornalisti. L’Inpgi era sull’orlo del fallimento e finirà nell’Inps, la previdenza pubblica a partire dal primo luglio dell’anno prossimo. Ma in realtà ci è già finito perché si trova da subito sotto il controllo dell’Inps. Il consiglio di amministrazione dell’Inpgi non può prendere nessuna decisione autonomamente. A pagarne le conseguenze saranno i colleghi che hanno ancora un bel po’ di anni di lavoro da fare prima della pensione perché i meccanismi della quiescenza con l’Inps sono molto meno remunerativi rispetto all’Inpgi. Da questa storia non esce bene nessuno. E in prima fila c’è l’Inpgi che da un quarto di secolo si è fatto depauperare, subendo in silenzio, da una quantità infinita di stati di crisi richiesti dagli editori e concessi dai vari governi dopo che la stessa politica aveva stabilito la possibilità di accedere all’aiuto pubblico anche solo in previsione di un mero calo della pubblicità. Gli stati di crisi consentivano e consentono tuttora di prepensionare giornalisti con ottimi stipendi le cui posizioni vanno a pesare sulle casse dell’Inpgi, sgravando quelle delle aziende che in pratica si ristrutturano a spese dell’istituto previdenziale dei dipendenti. L’Inpgi ci rimette moltissimo perché i pochi nuovi assunti incassano stipendi molto più bassi dei loro predecessori versando di conseguenza contributi di valore largamente inferiore. Correva l’anno 1994 ed erano ancora tempi di vacche grasse, ma si avvertivano i primi scricchiolii di tempi brutti quando Il Mattino di Napoli e il Secolo XIX di Genova chiesero lo stato di crisi. Da allora è stata una valanga che continua tuttora. E va ricordato che in editoria come in altri settori si fa anche un largo uso della cassa integrazione che pesa sulle casse pubbliche. L’ultimo caso, strettissima attualità, è quello dell’Eco di Bergamo quotidiano di proprietà della curia arcivescovile (unico caso in Italia) dove azienda e comitato di redazione hanno raggiunto un accordo per la CIG al 14 per cento. Va detto che il giornale ha il bilancio in attivo, forte anche dell’enorme massa di soldi incassati con i necrologi in relazione al ruolo di capitale nazionale della pandemia. La cassa integrazione durerà un anno, 7 mesi subito e altri 5 mesi nel 2023. L’interruzione serve per allungare i tempi fino a chiedere e ottenere l’ennesimo stato di crisi con cui si prevede di pensionare un’altra decina di giornalisti, un quinto dell’intero organico. L’editore da un lato guadagna risparmiando a spese di tutti, ma dall’altro spende soldi dando in appalto all’Ansa la confezione delle pagine di interni e esteri finora fatti dalla redazione. Tutto va bene madama la marchesa. Il sindacato tace come del resto sugli stati di crisi in tutta Italia. Nonostante il presidente dell’Associazione Lombarda dei giornalisti sia un dipendente dell’Eco, Paolo Perucchini. Frank Cimini

Il paradosso di Landini: combatte per i giovani ma si tiene il posto per evitare la pensione. Pasquale Napolitano il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il leader Cgil avrebbe potuto lasciare già due anni fa. Veleni nei sindacati. «Disse il prete: fa quello che ti dico ma non fare quello che faccio io». Il proverbio calza alla perfezione, come un abito sartoriale, al numero uno della Cgil Maurizio Landini. C'è un paradosso che sta venendo fuori e che investe il capo dell'organizzazione sindacale rossa. Lo scivolone è sulle pensioni, il terreno su cui Landini muove la guerra al premier Mario Draghi. Una storia che alimenta veleni e malumori nel sindacato. Landini si eleva a paladino dei giovani. Ma conserva da «pensionato» la poltrona di segretario generale della Cgil. Alla faccia dello slogan «spazio ai giovani». Proprio lui che, tre giorni fa, uscendo da Palazzo Chigi, dopo il tavolo con Draghi sulle pensioni, ha dichiarato: «La mia battaglia è per le nuove generazioni. Serve una pensione di garanzia per i giovani. Con un sistema così tra 40 anni i giovani non avranno una pensione pubblica». Battaglia che, però, sembra aver accantonato quando, due anni fa, è stato chiamato a guidare il sindacato rosso. Landini è un segretario in età pensionabile. Ma non molla la poltrona. E non lascia spazio a quei giovani che dichiara di voler difendere. Una bella contraddizione. Landini è stato eletto segretario generale della Cgil, nel gennaio del 2019 all'assemblea di Bari. Quando, calcoli alla mano, avrebbe potuto già fare domanda di pensionamento e far spazio a forze fresche. Nulla da fare. Il segretario della Cgil, oggi, ha 60 anni; nel 2019 di anni ne aveva 58. In un'intervista al Fatto Quotidiano del 19 ottobre 2014 Landini dichiarava: «Sono andato a scuola fino a 16 anni. Dopo le medie, ho fatto due anni di geometra, poi dovevo iscrivermi al terzo anno ma sono andato a lavorare: in casa non c'erano più soldi. Studiare mi piaceva, sono sempre stato promosso. Ho iniziato come operaio nel 77 da un artigiano che faceva cancelli e finestre. Nel 78 sono andato a lavorare in una cooperativa metalmeccanica, a Cavriago». I conti sono semplici. A meno che non abbia lavorato come abusivo, dal 1977 fino al 2019 (anno di elezione al vertice della Cgil) Landini avrebbe maturato 42 anni di contributi. Nel 2019 i requisiti previsti dalla legge, 58 anni e 42 anni di contribuiti, avrebbero consentito al segretario Cgil di fare richiesta di pensionamento. Non l'ha fatta. È rimasto in aspettativa e al vertice del sindacato. Il mandato scadrà nel 2023. Rinnovabile per altri 4 anni. E così oggi il sindacato della Cgil si ritrova con un segretario in età pensionabile. Un leader che difende i lavoratori da pensionato. Chissà se Landini deciderà di cedere il passo a un giovane o rimanere in sella per altri 4 anni? Certamente non si vive male con lo stipendio da leader del sindacato. Cifra svelata dallo stesso Landini al programma Otto e Mezzo nell'aprile del 2019. «Non ho nessun problema - disse - a rendere noto quanto prendo. Essendo segretario generale dovrebbe essere circa 3.700 euro al mese netti. È lo stipendio più alto in assoluto. Io non ho mai preso uno stipendio di quel genere lì in tanti anni che lavoro». Si vive bene. La pensione può attendere.

Quando il sindacato era rivoluzionario. Francesco Perfetti il 6 Novembre 2021  su Il Giornale. Nato con Sorel come movimento di idee, attuò una profonda revisione del marxismo. Il sindacalismo rivoluzionario italiano del primo Novecento annoverò tra le sue file personalità di grande rilievo intellettuale e politico, da Arturo Labriola a Enrico Leone, da Walter Mocchi ad Angelo Oliviero Olivetti, da Sergio Panunzio ad Agostino Lanzillo e Paolo Orano, e via dicendo. L'essenza di questo movimento è stata tratteggiata con efficacia da Renato Melis in un bel volume antologico pubblicato originariamente alla metà degli anni Sessanta e riproposto ora con il titolo Lavoro e nazione: sindacalisti italiani (Oaks Editrice, pagg. XII-378, euro 25) a cura di Gennaro Malgieri: un volume che ancora oggi, a distanza di molti decenni, appare fondamentale per un primo e corretto approccio alle idee di quel movimento. Scrive dunque Melis: «nato in seno al socialismo e decisamente antistatalista; marxista e revisionista del marxismo; politico ed antipolitico insieme, nelle sue finalità e nei suoi atteggiamenti, nella sua teoria come nella sua pratica, il sindacalismo si annuncia subito come una dottrina insieme affascinante e difficile». E precisa ancora: «è politico perché tende a una profonda trasformazione sociale e la vuole ottenere con la lotta più strenua ed aperta; è antipolitico ed antiparlamentare, in quanto vede nel sindacato, libero da ogni soggezione di partito, lo strumento che le forze del lavoro debbono impiegare per la loro autoeducazione, per il loro trionfo sulle forze avverse e per il finale autogoverno, in cui dovrebbe attuarsi fino a sparire ogni sostanziale differenza tra governati e governanti, col massimo di libertà nel massimo di giustizia». È il ritratto, rapido ed efficace, di un movimento di pensiero, prima ancora che di un movimento politico, che Melis definisce «sindacalismo allo stato puro» e che, sulle orme di Georges Sorel, vedeva nello sciopero generale un «mito» in grado di catalizzare le energie del proletariato indirizzandole a fini ricchi di alta moralità. Il sindacalismo rivoluzionario nacque proprio con Sorel, il grande pensatore francese autore di opere come L'avvenire socialista dei sindacati o le Considerazioni sulla violenza o anche Le illusioni del progresso. Questi - cui Pierre Andreu dedicò una splendida, suggestiva e simpatetica biografia dal titolo Sorel il nostro maestro (Oaks, pagg. X-300, euro 25) - ebbe maggiore fortuna in Italia che in Francia. A tale fortuna contribuì anche l'amicizia con Mario Missiroli che lo volle come collaboratore nel quotidiano che allora dirigeva. L'influenza di Sorel, poi, e del sindacalismo rivoluzionario sul giovane Mussolini e sulla sua scelta politica di rottura con il partito socialista è, ormai, ben documentata. Il sindacalismo rivoluzionario, germinato dal dibattito internazionale sul «revisionismo» del marxismo, fu agli inizi un elemento dialettico interno al movimento socialista ma si trasformò ben presto in opposizione radicale al socialismo. In verità la derivazione marxista del sindacalismo rivoluzionario è quanto mai discutibile. I sindacalisti proponevano, sì, il metodo rivoluzionario, auspicavano, sì, una rottura violenta, ma la loro formazione culturale e intellettuale era tutt'altro che marxista. Si riallacciavano anzi - proprio sotto l'influenza di Sorel e dell'intuizionismo di Henri Bergson, del contingentismo di Émile Boutroux e del volontarismo di Maurice Blondel - alla reazione contro il positivismo e il materialismo. Non si interessavano solo di rivendicazioni economico-salariali, ma puntavano soprattutto sull'educazione del proletariato, sulla necessità di fornirgli una coscienza politica che favorisse il crollo di una società della quale il socialismo riformista e la debolezza borghese mostravano la decadenza. Nel caso italiano, poi, l'estrazione meridionalista della maggior parte dei sindacalisti puri o teorici, sottolineata da Antonio Gramsci nelle sue Note sul problema meridionale, poneva, a ben vedere, limiti sulla figliolanza marxista del sindacalismo rivoluzionario. L'estrazione meridionalista derivava non tanto dal fatto che il Mezzogiorno non fosse in grado di usufruire della politica riformista, quanto dal fatto che, a causa dell'analfabetismo e della scarsa industrializzazione, il marxismo non aveva possibilità di attecchirvi. L'arretratezza economica e la difettosa evoluzione industriale avevano, inoltre, lasciato permanere forme associative e corporative medievali cui i sindacalisti rivoluzionari, sia pur inconsciamente, si riallacciavano. Sempre Gramsci sottolineò che «l'essenza ideologica del sindacalismo» era «un nuovo liberalismo più energico, più aggressivo, più pugnace di quello tradizionale» e precisò: «se osservate bene, due sono i motivi attorno ai quali avvengono le crisi successive del sindacalismo e il passaggio graduale dei sindacalisti nel campo borghese: l'emigrazione ed il libero scambio; due motivi strettamente legati al meridionalismo». La citazione gramsciana - opportunamente ricordata da Melis nel suo saggio che ricostruisce con finezza la genesi e lo sviluppo del sindacalismo rivoluzionario nel contesto del dibattito internazionale - pone una questione apparentemente stupefacente, ma in realtà meno peregrina di quanto si possa pensare, tant'è che uno dei più importanti esponenti del sindacalismo rivoluzionario e grande giurista, Sergio Panunzio, già nel 1906 aveva scritto che il sindacalismo era «un liberalismo e un individualismo di gruppi e di sindacati, la nuova incarnazione dell'eterna idea liberale». A mostrare l'incompatibilità tra socialismo e sindacalismo intervenne nel 1911 la guerra di Tripoli, che segnò una svolta nella storia d'Italia e determinò l'avvicinamento tra nazionalisti e sindacalisti. Essa vide la maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari schierarsi per l'intervento, mentre i socialisti si battevano per la neutralità, ridotti al ruolo, per usare una colorita espressione di Angelo Oliviero Olivetti, di «cagnetta di madama democrazia». Seguì la campagna per l'intervento nella Grande Guerra, dove i sindacalisti ebbero un ruolo chiave nella «conversione» di Mussolini, nel fargli abbandonare cioè la posizione neutralista. Poi ci furono l'adesione al fascismo e il contributo alla elaborazione teorica del corporativismo. Tuttavia l'adesione al fascismo non fu priva di riserve e spunti polemici: Panunzio, per esempio, ironizzò sulla Camera dei fasci e delle corporazioni chiamandola «Camera dei fasci e delle commissioni» e, d'altro canto, Olivetti, malgrado l'antica e profonda amicizia personale con Mussolini, rifiutò sempre la tessera del partito. In fondo, il sindacalismo rivoluzionario italiano, il sindacalismo «allo stato puro» di cui discorre Melis, era una dottrina politica autonoma fondata sul sindacato unico di categoria giuridicamente riconosciuto alternativa alla democrazia parlamentare. Una dottrina che non si identificava appieno con il fascismo.  Francesco Perfetti

Truffa all'Inps, la Cisl nel mirino. Dirigenti indagati per false assunzioni. Luca Fazzo il 16 Dicembre 2021 su Il Giornale. I pm di Milano sequestrano 600mila euro al sindacato. Le prime denunce nel 2016. Un sistema di malcostume collaudato. C'è quello che quando gli chiedono qualche nome dei colleghi con cui dice di avere lavorato per mesi non se ne ricorda nemmeno uno. C'è l'altro che quando la Guardia di finanza gli domanda se abbia mai messo davvero piede nell'azienda di cui risultava dipendente, semplicemente si rifiuta di rispondere. Sfilano davanti alle «fiamme gialle» i funzionari della Cisl milanese, il sindacato investito dall'indagine della Procura che per la prima volta mette nel mirino un meccanismo che da decenni permette alle organizzazioni dei lavoratori di mantenere il proprio apparato a spese dell'Inps. Contributi figurativi per centinaia di migliaia di euro sono stati accreditati a favore di sindacalisti che risultavano in distacco da aziende grandi e piccole, ma che in realtà non vi avevano lavorato neanche un'ora, ed erano stati assunti solo per consentire alla Cisl di non versare i contributi previdenziali per i propri funzionari. Nei giorni scorsi, su richiesta del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e del pm Paolo Storari, sono stati sequestrati oltre seicentomila euro sui conti correnti della Cisl e delle sue sigle di categoria (metalmeccanici, tessili, chimico-farmaceutici, commercio: quasi l'intera organizzazione) coinvolte nella truffa all'Inps. Dieci dirigenti ed ex dirigenti cislini sono indagati, insieme a loro anche due dei dirigenti aziendali che si prestavano all'imbroglio. Ed è una inchiesta potenzialmente devastante, perché, come dice uno dei manager privati interrogati dalla Finanza, «è una modalità diffusa, l'assunzione di un sindacalista perché lo stesso possa continuare a esercitare il mandato con una copertura contributiva». Una «modalità diffusa» non certo nella sola Cisl, che è finita per prima nel mirino solo perché durante un'altra indagine i finanzieri milanesi sono inciampati in assunzioni talmente singolari da allarmarli. E perché, poco dopo l'inizio dell'inchiesta, un dirigente della stessa Cisl ha scelto di collaborare con gli inquirenti: Giuseppe Foti, ex segretario generale della Fisascat, la sigla Cisl per commercio e turismo, che ha detto di avere scoperto, dopo avere assunto la carica, «una serie di situazioni che non mi sono piaciute e che mi hanno fatto riflettere sul lasciare l'incarico»: e ha descritto nei dettagli il sistema delle assunzioni di comodo. Un sistema che Foti spiega di avere denunciato già nel 2016 alla Procura di Milano, che però decise di archiviare l'indagine: Foti cercò di opporsi, ma senza risultati. Ora invece la Procura cambia linea, e decide che la truffa all'Inps - cioè allo Stato - è evidente. Nelle carte ci sono le ammissioni di sindacalisti che confessano «specifico di non avere mai effettuato un giorno di lavoro presso la citata società», o di quelli che giurano di avere provato a protestare con i propri leader per l'assunzione fasulla, e di essersi sentiti rispondere «al momento questo è l'unico modo per continuare a lavorare qui». Ma oltre alla truffa, l'inchiesta solleva un altro scenario: perché le aziende si prestavano a fare queste «cortesie» al sindacato, in teoria loro avversario? Nelle carte c'è la storia surreale di una grossa azienda farmaceutica, la Formenti, che accetta di assumere il sindacalista Cisl di zona, che «aveva esplicitato la necessità di ottenere l'assunzione presso la nostra azienda al fine di mantenere la continuità contributiva». Un impiegato destinato a non mettere mai piedi in azienda viene assunto chissà perché anche dal colosso Maire Tecnimont, quotato in Borsa: che ieri non risponde a chi chiede di spiegare la decisione. In teoria non sono reati, ma il giudice che convalida i sequestri ricorda l'articolo dello Statuto dei lavoratori che punisce i «sindacati di comodo»: «È fatto divieto ai datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

·        Le Assicurazioni…

Angelo Allegri per "il Giornale" il 6 dicembre 2021. Una trafficata rotonda stradale nel centro di Milano: due vetture si toccano. I danni sono limitati, ma nel caos dell’ora di punta mattutina le guidatrici non riescono ad accordarsi su chi abbia ragione e chi torto. Si scambiano i numeri di cellulare, si danno appuntamento per un chiarimento in serata e ripartono ognuna per la propria destinazione. Una delle due la sera risulterà irraggiungibile al telefono, qualche giorno dopo l’altra riceverà una comunicazione dalla propria compagnia assicurativa: ha provocato un incidente con danni e ci sono due testimoni citati per nome e cognome dalla controparte che garantiscono che la colpa dell’accaduto è sua. Invano l'interessata cerca di controbattere che non c'è nessun testimone, che ha visto lei stessa l'altra conducente allontanarsi senza parlare con nessuno dei frettolosi e per nulla interessati passanti. La compagnia le fa presente che non esistono le condizioni per fare opposizioni o ricorsi e che approfondire la questione risulta impossibile; molto più conveniente per tutti mettersi l'animo in pace e rassegnarsi alla retrocessione in una classe di merito peggiore, con annesso rincaro del premio. Una storia minima, come ne accadono tante. Anzi, come ne accadono sempre di più. Secondo i dati dell'Ivass, l'autorità del comparto assicurativo, elaborati di recente dal Sole 24 Ore, dei 2 milioni di incidenti denunciati nel 2020 (un record in positivo per la mancanza di traffico legata ai lockdown, -30% rispetto all'anno precedente), 496mila sono da considerare a rischio frode. In pratica un incidente su quattro, per caratteristiche delle persone coinvolte, dei testimoni, delle circostanze o dei danni, suscita qualche sospetto. Davvero un mare, a cui fa da contraltare il rivolo dei sinistri finiti in tribunale: in tutto 4.117. La sproporzione è tale da far pensare che alle compagnie non interessi più di tanto approfondire davvero torti e ragioni su quanto accade per le strade. I maggiori costi vengono comunque trasferiti agli assicurati con polizze più care (secondo cifre ufficiali 90 euro in più rispetto alla media europea) e anche il meccanismo del risarcimento diretto è congegnato in modo da non garantire efficienza. Dal 2007 per i sinistri più semplici è l'assicurazione del danneggiato a versargli direttamente la somma dovuta per l'incidente. La società si rivarrà poi sulla compagnia del «colpevole»; non, però, secondo quanto effettivamente versato ma in base a dei versamenti a forfait. Se il danno risarcito non è particolarmente rilevante ci si può perfino guadagnare.

PROCESSI LENTI

Le compagnie, come ovvio, negano la disattenzione verso il fenomeno e, anzi, affermano il proprio impegno. Con qualche numero al proprio arco. Tanto per cominciare, dice l'Ania, l'associazione di settore, bisogna tenere conto non solo dei sinistri finiti in un processo, ma anche di quelli per i quali, a seguito delle indagini delle società assicurative, gli interessati rinunciano al risarcimento o comunque questo non viene versato: in tutto sono oltre 42mila, circa il 9% del totale, con un risparmio intorno ai 250 milioni di euro. Ma il vero problema è il funzionamento dei tribunali. Portare in giudizio un potenziale truffatore è inutile se poi il procedimento finisce nel nulla. Il 70% delle udienze viene fissato a 3 anni dalla richiesta. Per avere una sentenza di primo grado ce ne vogliono mediamente 4, un ricorso in appello garantisce di fatto la prescrizione, fissata a sei. Il risultato è, dicono le compagnie, che tra il 2013 e il 2019 i procedimenti penali avviati dalle imprese sono stati 22.644: solo il 34% si sono in qualche modo conclusi (con un'archiviazione, un'assoluzione o una condanna). E tra quelli conclusi più del 50% sono finiti con una archiviazione. È anche per questo che l'associazione delle imprese assicurative sta siglando con le maggiori Procure italiane (ultima quella di Roma) una serie di protocolli d'intesa per facilitare lo scambio di informazioni tra organi. 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Cosa c’entra la massoneria?

Marco Menduni per “Specchio – La Stampa” il 2 novembre 2021. Qualche settimana fa, era luglio, i Templari hanno rinnovato il loro Gran Consiglio e il ruolo di Segretario Generale, come raccontano le cronache, è andato a Fra Antonio AwanaGana Costantini Picardi. Su Linkedin, la comunità social che privilegia l'attenzione sugli incarichi e le professioni, la leggendaria voce di Radio Montecarlo per vent' anni si qualifica come Ministro degli Affari Esteri presso Nazione. Quale sia il significato della presenza di Awanagana nell'organizzazione contraddistinta dal complicato acronimo di V.E.O.S.P.S.S., il Pauperes Commilitones Christi Templique noto anche come Ordine del Tempi di Gerusalemme, lo vedremo poco più avanti. Nel frattempo ci accontentiamo di un primo approccio più profano, con una persona «che riesce benissimo a complicarsi la vita», così come si descrive. Poi racconta che cerca lavoro «nelle radio, in quelle che devono avere una filosofia molto particolare». Tradotto? «O faccio quello che vogliono loro, ma mi danno almeno 40, 50 mila euro, o mi pagano normalmente ma allora faccio quello che dico io». Lo sa, gliel'hanno sempre detto: «Crei dei problemi, non sei gestibile». Poi c'è il suo interesse per il patrimonio folclorico latino-americano, le serate con i Gipsy King, un po' di cabaret, in scena con Paola Melato, la nipote di Angela, e il chitarrista genovese Armando Corsi. Continua ad esser residente nel Principato dal 1972 e alle sue attività artistiche accompagna e accosta con orgoglio quelle più istituzionali: «Sono Cavaliere al cubo - sorride - a luglio mi è stata conferita la Stella d'Italia dall'Aire, l'anagrafe degli italiani all'estero, e sono membro del comitato per i rapporti con Monaco». Un po' di vanto ci sta. Poi la mente vola ai ricordi del passato («sono così tanti, a volte mi dicono se ricordo se rammento questa o quella circostanza, ma no, sono troppe») ma l'attenzione si fissa sulle origini, sul motto di «nulla accade mai per caso». A quando diventa animatore del villaggio turistico di Ostuni in Puglia ma poi si prende una brutta epatite virale, deve stare 60 giorni in isolamento a Venezia dove abitano i suoi, si ritrova con la stagione saltata. Aveva conosciuto Herbert Pagani ed era venuto a sapere che la nascente Radio Montecarlo italiana cercava conduttori. Contatta allora Annalena Limentani, l'assistente di Roberto Rossellini che era pure manager di Pagani, e chiede un colloquio con il leggendario Noel Coutisson. Dopo due giorni e mezzo di provini Noel gli spiega: «Bene, della sua vita faccia quello che vuole fino alle 17 di lunedì. Dalle 17 lei sarà in diretta qui». Racconta Awanagana: «Dovevo restare sei mesi, sono rimasto 20 anni». Poi la tv, Discoring, Domenica In, un ruolo ancora aperto in Un posto al sole, con Lino Banfi in Angelo il custode. Al cinema, da protagonista in White Pop Jesus. Lavora a Radio Dimensione Suono ed è lui che s' inventa la sigla, Rds. Dal colloquio con Awanagana traspare un altro dettaglio: l'etica per il lavoro. Ricorda quando, ventenne, partecipò come comparsa ad Asolo al film shakespeariano Il mercante di Venezia girato da Orson Welles, opera di cui si sono salvati pochi frammenti. «Il grande regista si voltò verso di noi, poi verso di me, e spiegò: non puoi essere sempre sulle vette, puoi anche cadere, rialzarti, cadere di nuovo e ora il grande Orson Welles sta facendo un telefilm, ma il lavoro è dignità e questo è un lavoro». Un insegnamento mai dimenticato. E i Templari? «Una notte di tre anni fa, tra 20 e 21 luglio, fu deciso di far fronte comune verso determinate realtà, di autodeterminarci. Abbiamo scritto alle Nazioni Unite, ci hanno riconosciuto come Nazione Templare. Anzi, abbiamo diritto a una particolare tutela come perseguitati nella storia. Ora lavoriamo perché un pezzo di terra possa divenire Stato a tutti gli effetti. Esiste sempre un modo per complicarmi la vita».

Da repubblica.it il 2 agosto 2021. Tutti gli atti sulla loggia P2 e l'organizzazione Gladio saranno resi pubblici. A stabilirlo è la direttiva firmata oggi, nel giorno della strage di Bologna, dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, che declassifica gli atti e stabilisce il versamento anticipato all'Archivio centrale dello Stato della documentazione. Con questa decisione, spiega in una nota Palazzo Chigi, il premier "ha ritenuto doveroso dare ulteriore impulso alle attività di desecretazione. L'iniziativa adottata potrà rivelarsi utile ai fini della ricostruzione di vicende drammatiche che hanno caratterizzato la recente storia del nostro Paese". Quanto stabilito da Draghi amplia la scia di precedente direttiva del 2014 che ha previsto la desecretazione della documentazione relativa agli eventi stragisti di piazza Fontana a Milano (1969), di Gioia Tauro (1970), di Peteano (1972), della Questura di Milano (1973), di piazza della Loggia a Brescia (1974), dell'Italicus (1974), di Ustica (1980), della stazione di Bologna (1980), del Rapido 904 (1984).

Draghi, desecretati i documenti delle stragi di Gladio e della Loggia P2. Ilaria Minucci il 02/08/2021 su Notizie.it. Il premier Mario Draghi ha apposto la propria firma a una direttiva con la quale ha stabilito la desecretazione dei documenti relativi alle stragi di Gladio e della Loggia P2. La direttiva firmata dal presidente del Consiglio dei ministri, infatti, dispone in modo ufficiale “la declassifica ed il versamento anticipato all’Archivio centrale dello Stato della documentazione concernente l’Organizzazione Gladio e la Loggia massonica P2”. L’iniziativa del premier Draghi, destinata a consentire la consultazione del materiale da parte dei cittadini interessati, si ricollega a quanto già decretato da una precedente direttiva emanata nel corso del 2014. La direttiva del 2014, in particolare, faceva riferimento specifico a tutta la documentazione annessa agli eventi che hanno caratterizzato le stragi di Piazza Fontana a Milano nel 1969, di Gioia Tauro nel 1970, di Peteano nel 1972, della Questura di Milano nel 1973, di Piazza della Loggia a Brescia nel 1974, dell’Italicus nel 1974, di Ustica nel 1980, della Stazione di Bologna nel 1980 e del Rapido 904 del 1984. Tutto il materiale legato ai drammatici eventi appena elencati era conservato presso gli archivi degli Organismi di intelligence e delle Amministrazioni centrali dello Stato italiano. A proposito della più recente direttiva firmata dal presidente Mario Draghi per desecretare i documenti delle stragi perpetrate dall’organizzazione Gladio e dalla Loggia massonica P2, è stato dichiarato che il premier italiano “ha ritenuto doveroso dare ulteriore impulso alle attività di desecretazione”. Inoltre, è stata anche sottolineata l’importanza, per quanto riguarda l’aspetto storico e la ricerca scientifica, intrinseca in una simile decisione. È stato, quindi precisato quanto segue: “L’iniziativa adottata potrà rivelarsi utile ai fini della ricostruzione di vicende drammatiche che hanno caratterizzato la recente storia del nostro Paese”.

Fabio Martini per "la Stampa" il 3 agosto 2021. Ha voluto firmare e divulgare la notizia in un giorno simbolico: nel quarantunesimo anniversario della strage di Bologna, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha dato il via libera alla direttiva che dispone la desecretazione degli atti ancora coperti che riguardano la loggia P2 e l'organizzazione Gladio, stabilendo il versamento anticipato all'Archivio centrale dello Stato di tutta la documentazione disponibile. Una desecretazione che prelude alla scoperta di verità nascoste o piuttosto un'operazione soprattutto simbolica in una giornata, il 2 agosto, che ogni anno richiama nella memoria collettiva una vicenda nella quale lo Stato non fece per intero il suo dovere? Gladio e P2: due vicende imponenti e strategiche, legate da un filo rosso: la collocazione strategica dell'Italia, per 40 anni Paese di confine tra due "imperi" in conflitto tra loro: quello atlantico e quello sovietico. Una collocazione che ha alimentato per decenni una "guerra sporca": organizzazioni segrete (Gladio), collegamenti con spezzoni opachi degli apparati italiani (la P2, segmenti dei Servizi), il tutto segnato da episodi criminosi, alcuni dei quali mai chiariti. Cosa ci sia dentro quei documenti ovviamente nessuno lo sa e soltanto pochissimi hanno potuto esaminarli, proprio perché si tratta di materiale secretato per decenni. Serviranno mesi per capirlo anche se le aspettative non sono illimitate. Spiega a La Stampa Giuseppe Fioroni, già presidente della Commissione Moro, che molto ha scavato tra materiali incandescenti: «Tutto ciò che nei dossier P2 e Gladio era connesso con le stragi è stato già desecretato, ma ovviamente non era tutto e dunque sarà interessante scoprire se esistano carte e documenti in grado di arricchire le conoscenze sulla nostra storia». Più scettico è Rino Formica, ex ministro socialista, già componente della Commissione d'inchiesta sulla P2: «L'atto del presidente del Consiglio è apprezzabile, ma ha un valore conoscitivo assai circoscritto e questi annunci resteranno rituali sino a quando non saranno seguiti da analoghe decisioni da parte delle più importanti Cancellerie europee. Per dirne una: da dove è partito il via libera per la nomina dei capi dei servizi piduisti? Davvero crediamo che sia stato un fatto domestico? Licio Gelli? In Italia era il "portiere" dell'Agenzia euro-atlantica, ma l'Agenzia non era sua e lui portava il caffè. Certo, traendone benefici personali, ma il suo era un ruolo di copertura». Ma proprio il ruolo di cerniera di Gelli spiega il dato più significativo: sono serviti sei anni dalla sua morte - era il 15 dicembre 2015 - perché lo Stato - nella persona di Mario Draghi - desecretasse tutte le carte che riguardano il capo della P2. Sarà interessante scoprire se tra le carte usciranno documenti utili a dipanare diversi misteri e tra i tanti due sui quali Gelli molto sapeva: la prigione di Aldo Moro e la reale dinamica della strage alla Stazione di Bologna. Chi ha letto le carte secretate, ha trovato tracce che potrebbero portare ad una pista palestinese, alla quale accennò anche l'ex Presidente della Repubblica. Misteri che potrebbero trovare almeno un po' di luce dai documenti che ora saranno disponibili. E Gladio? Il disvelamento dell'esistenza della organizzazione paramilitare, appartenente alla rete internazionale atlantica Stay-behind e promossa durante la guerra fredda dalla Cia per contrastare una possibile invasione dell'Europa occidentale da parte dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia, fu fatta alla vigilia di quella che sarebbe diventata la più cruenta battaglia per la conquista del Quirinale mai combattuta nella storia della Repubblica. Ne parlò il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti il 24 ottobre 1990: una rivelazione immaginata per screditare l'allora Capo dello Stato Francesco Cossiga, che, segretamente e da sottosegretario alla difesa, aveva avuto la delega alla sovrintendenza di Gladio e soprattutto era sospettato di esserne stato uno dei fondatori. E il colpo andò a segno: delegittimato a sinistra Cossiga si dimise prima della fine del mandato. 

IL PREMIER DRAGHI RIMUOVE IL SEGRETO DI STATO SULLA P2 E GLADIO. Il Corriere del Giorno il 2 Agosto 2021. Con questa nuova Direttiva il Premier Draghi ha ritenuto doveroso dare ulteriore impulso alle attività di desecretazione. L’iniziativa adottata potrà rivelarsi utile ai fini della ricostruzione di vicende drammatiche che hanno caratterizzato la recente storia del nostro Paese. Nel giorno del 41mo anniversario della strage di Bologna, arriva un colpo di scena ad opera del Presidente del Consiglio, Mario Draghi, che proprio oggi ha siglato una Direttiva che dispone la declassifica ed il versamento anticipato all’Archivio centrale dello Stato della documentazione concernente l’Organizzazione Gladio e la Loggia massonica P2. Lo rende noto Palazzo Chigi. Con questa nuova Direttiva il Premier Draghi ha ritenuto doveroso dare ulteriore impulso alle attività di desecretazione. L’iniziativa adottata potrà rivelarsi utile ai fini della ricostruzione di vicende drammatiche che hanno caratterizzato la recente storia del nostro Paese. Si tratta di una iniziativa che va ad ampliare quanto già stabilito con una precedente Direttiva del 2014 (Governo Renzi), con riferimento alla documentazione relativa agli eventi stragisti di Piazza Fontana a Milano (1969), di Gioia Tauro (1970), di Peteano (1972), della Questura di Milano (1973), di Piazza della Loggia a Brescia (1974), dell’Italicus (1974), di Ustica (1980), della Stazione di Bologna (1980), del Rapido 904 (1984) conservata negli archivi degli Organismi di intelligence e delle Amministrazioni centrali dello Stato. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso pubblico il suo pensiero nel giorno del 41* anniversario della strage della stazione di Bologna: “L’impegno di uomini dello Stato, sostenuti dall’esigente e meritoria iniziativa dell’Associazione tra i Familiari delle vittime, ha portato a conclusioni giudiziarie che hanno messo in luce la matrice neofascista della bomba esplosa la mattina del 2 agosto 1980. Non tutte le ombre sono state dissipate e forte è, ancora, l’impegno di ricerca di una completa verità. Quarantuno anni fa la città di Bologna e con essa la Repubblica vennero colpite al cuore. Un attentato dinamitardo, ad opera di menti ciniche che puntavano alla destabilizzazione della democrazia italiana, provocò una terribile strage in cui morirono donne e uomini inermi, bambini innocenti. I bolognesi e gli italiani seppero reagire con sofferto coraggio, offrendo solidarietà a chi aveva bisogno di aiuto, di cure, di conforto. Affermando un forte spirito di unità di fronte al gesto eversivo diretto contro il popolo italiano. Sostenendo nel tempo le domande di verità e di giustizia, che, a partire dai familiari, hanno reso la memoria di questo evento disumano un motore di riscatto civile e un monito da trasmettere alle generazioni più giovani”. 

Il presidente della Camera, Roberto Fico, nel messaggio inviato al sindaco di Bologna, Virginio Merola, tra l’altro aveva scritto: “Credo sia doveroso su questo non deludere le aspettative dei cittadini e procedere con una maggiore dose di coraggio e di coerenza nell’applicazione della Direttiva dell’aprile del 2014 sulla declassificazione ed il versamento straordinario di documenti all’Archivio centrale dello Stato, proprio con lo scopo di mettere a disposizione tutti i documenti necessari per fare piena luce su queste vicende. Occorre poi valutare con attenzione l’opportunità di riformulare, alla luce dei rilievi delle associazioni dei familiari delle vittime delle stragi, la Direttiva in questione in modo da realizzare la più ampia ed effettiva pubblicità dei documenti in questione. Non può esserci spazio per l’oblio e la mistificazione. Lo dobbiamo alla nostra democrazia”.

Anche la presidente del Senato, Elisabetta Casellatì ha ricordato che l‘”Italia che ha sconfitto il terrorismo” “oggi continua a perseguire, con instancabile tenacia, verità e giustizia su pagine di un passato da consegnare alla storia senza ombre e senza segreti”. “Un obiettivo di trasparenza, accessibilità e conoscenza a cui continuo a credere e per il quale intendo proseguire, come ho promesso, l’opera di desecretazione degli atti delle Commissioni di inchiesta che hanno lavorato sulle grandi stragi del passato”.

Morto in esilio. È morto Gianadelio Maletti, il colonnello che (forse) sapeva tutto sulle stragi. David Romoli su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Ancora pochi mesi e avrebbe toccato il secolo. Invece Gianadelio Maletti è spirato a 99 anni il 9 giugno scorso anche se, coerentemente con quella che era stata la sua vita, la notizia è rimasta segreta sino a due giorni fa. Era una delle spie più chiacchierate e sospettate d’Italia. E’ morto senza realizzare il sogno, che probabilmente alla fine aveva capito essere solo una chimera, di tornare da uomo libero in Italia dopo aver passato in Sudafrica oltre 4 decenni, dalla fuga nel 1980 per evitare la galera sino al giugno scorso. In Italia c’era tornato una volta sola, con tutte le garanzie del caso, nel 2001, per testimoniare ai processi per le stragi del 12 dicembre 1969 a Milano e del 1974 a Brescia. Disse poco e niente che lo potesse coinvolgere, nonostante la condanna per aver fatto fuggire Guido Giannettini, informatore del Sid (sigla dei servizi segreti dell’epoca) condannato e poi assolto in appello per la strage, e il testimone Marco Pozzan. Affermò solo di “aver saputo de relato” che l’esplosivo usato a Milano era arrivato dalla Germania, destinato ai gruppi di estrema destra italiana. Con Maletti sono stati sepolti certamente molti segreti. Non potrebbe essere diversamente con il lavoro che faceva e data l’epoca in cui lo faceva, gli anni delle stragi, dei conati di golpe, dei depistaggi in scala industriale. Segreti però non significa misteri, cioè altarini tali da modificare, se scoperchiati, la storia italiana recente. Forse avrebbe spiegato più a fondo quella storia, l’ex capo del “reparto D” addetto al controspionaggio e numero 2 del Sid, se avesse raccontato nei dettagli la sua “storia ufficiale” o semiufficiale: la carriera, i rapporti col potere politico, la guerra per bande tra spezzoni dei servizi segreti che facevano riferimento a diverse e spesso segretamente conflittuali potenze alleate. Non che Maletti non ne abbia mai parlato. Rispondeva via mail a tutti i giornalisti che lo cercavano e lo interrogavano. Mai però addentrandosi davvero negli angoli più ombrosi di quelle vicende. Mai restituendo, come avrebbe potuto fare, uno spaccato reale, non fantasioso e farcito di trame immaginifiche, di cosa è stato il potere reale nell’Italia della Prima Repubblica. Stava anche scrivendo la propria autobiografia ma chi l’ha letta, come il giornalista e storico Paolo Morando, sostiene che sia essenzialmente un testo nostalgico sugli anni della giovinezza e della prima carriera militare. A quella carriera Maletti era in un certo senso destinato dalla nascita. Torinese, figlio di un generale con una sfilza di nastrini e medaglie sul petto, Pietro Maletti, caduto in Libia nel 1940. Era stato compagno di scuola di un altro dei protagonisti degli anni ‘60 e ‘70 italiani, Eugenio Cefis, anche lui sospettato di essere stato a suo tempo una spia. I due amichetti si erano persi di vista e ritrovati poi già adulti e ben avviati sulla via del potere. Maletti però considerava l’ “uomo nero” dell’Eni un tipo troppo emotivo per il mestiere della spia. A lui quella critica nessuno avrebbe mai potuto muoverla. Era freddo, sempre controllato, asciutto. La celebre risposta data a chi notava la sua memoria prodigiosa, “Sì è vero. Ma solo quando mi fa comodo”, è più di una semplice battuta. Quasi una carta d’identità. Militare di carriera, nel 1967 fu spedito nella Grecia dei colonnelli golpisti. Fece amicizia con gli uomini di quel regime e non solo con loro. Aveva conoscenze internazionali, spaziava oltre il cortile dell’Italietta. Si immaginava e voleva essere un modernizzatore dell’angusto mondo dei servizi italiani, con modelli di riferimento ben precisi: i tedeschi e soprattutto gli israeliani. Il ruolo di addetto militare che aveva ricoperto ad Atene già sconfinava nell’universo delle spie. Nel 1971 diventò un dirigente dei servizi segreti a tutti gli effetti. Galloni da colonnello, incarico come numero due del Sid. La guerra tra il direttore del Sid Vito Miceli e il suo ambizioso e insofferente numero 2 fu durissima, segnò tutti gli anni 70. I due non avrebbero potuto essere più diversi. Irruento e facilone il primo, gelido e tecnocratico il secondo. Miceli giocava nella squadra che insisteva per una politica filoaraba. Maletti in quella legata agli israeliani e alla fazione più amica di Israele della Cia. Erano legati a settori diversi e in conflitto permanente tra loro della Dc. Non c’era dirigente dei servizi che non avesse la sua targa e rinviavano tutte a qualche capo della Dc. Il generale De Lorenzo era stato l’uomo di Segni, Henke era il protetto del potente Taviani, Miceli l’uomo della destra dorotea. Ma ciascuno faceva poi i propri giochi e sapeva se del caso cambiare casacca. Miceli si spostò verso Moro soprattutto in cerca di uno scudo contro le inchieste sul suo conto. Maletti, già vicinissimo al socialista Mancini, si trasformò in andreottiano di ferro nel 1974. Il primo conflitto tra i due (Miceli e Maletti) fu sulla nomina alla guida del Nucleo Operativo Diretto del Sid, di un uomo di Maletti, il capitano Labruna, convolto poi in tutte le inchieste a carico del suo capo. Non smisero più di duellare: una sfida tra le macerie perché su entrambi pesavano inchieste legate alle stragi e alle trame golpiste. Maletti fu arrestato e inquisito nel 1976 per aver fatto fuggire Giannettini e Pozzan. Fu accusato di aver depurato di alcuni nomi pesanti, tra cui quello di Licio Gelli, i documenti che consegnò ad Andreotti sul golpe Borghese del 1970. Fu anche condannato e poi assolto in appello e Cassazione per favoreggiamento nei confronti di Gianfranco Bertoli, autore della strage alla Questura di Milano del 1973. La condanna più pesante, però, gli arrivò in uno dei processi più complessi e confusi della storia, con dentro un po’ di tutto, dal petrolio alla finanza allo spionaggio, l’affare Mi.Fo.Biali: condanna definitiva a 9 anni. Di rivelazioni importanti Maletti, in quarant’anni di esilio, ne ha fatta una sola: sulla morte di Pino Pinelli. Però anche quella de relato, e chissà se vera. L’anarchico milanese sarebbe stato costretto a sedersi sul cornicione della finestra, giusto per indurlo a collaborare con la minaccia di un salto nel vuoto. A ogni risposta lo spingevano un po’ più in là. Involontariamente una delle spintarelle si rivelò fatale. Di quella fase sanguinosa il colonnello degradato a soldato semplice Maletti avrebbe potuto certamente dire molte altre cose. Quanto importanti non lo sapremo mai. David Romoli

Facebook. Carlo Palermo il 31 luglio 2021

IL MANIFESTO DEI ROSA+CROCE D’ORO. Di Aleister Crowley. Può essere concepibile che il Manifesto dei Rosa+Croce d’Oro dell’Italia - ispirato dall’occultista inglese Aleister Crowley (chiamato “La Bestia” e diffusore dei riti magici sessuali a Cefalù, Sicilia, negli anni Venti del XX° Secolo) e sequestrato dalla magistratura italiana nel 1981 durante le indagini sul falso rapimento del banchiere Sindona e sulla Loggia CAMEA di Palermo - integrante la superiore e internazionale piramide inversa della Loggia massonica P2 - sia rimasto sino ad oggi sconosciuto per quarant’anni con nascondimento da parte della stessa Commissione d’Inchiesta sulla loggia del venerabile Licio Gelli? Può ritenersi ammissibile e corretto che, oggi (15 giugno 2021) il Parlamento Italiano, accogliendo la domanda di inoltrarmi una copia del manoscritto dei Rosa+Croce (da me individuato rintracciato solo ora nel vecchio procedimento penale definito a Trapani sulle logge egizie nascoste dietro il vecchio Centro Studi Scontrino, MA SINO AD ORA NON PUBBLICATO DALLA COMMISSIONE P2 CHE NE ERA IN POSSESSO DAL 1982), mi faccia testualmente presente che:

“IL DOCUMENTO IN QUESTIONE NON PUÒ ESSERE UTILIZZATO IN CONTESTI CHE POSSANO RECARE PREGIUDIZIO AL PRESTIGIO E AL DECORO DELL’ISTITUZIONE PARLAMENTARE OVVERO AI DIRITTI DEI TERZI. NEL CASO IN CUI DALL’UTILIZZO, DALLA DIFFUSIONE OVVERO DALLA PUBBLICAZIONE DI TALE DOCUMENTO DERIVI PREGIUDIZIO AI SUDDETTI DIRITTI, LA CAMERA DEI DEPUTATI È ESONERATA DA QUALSIASI RESPONSABILITÀ”?

Fu lo storico, studioso e politico Sergio Flamigni che si accorse negli anni Ottanta della mancata pubblicazione di quel documento da parte della Commissione P2 di cui anch'egli faceva parte e lo inoltrò (inascoltato) alla magistratura di Trapani (vedi la conversazione e i riferimenti alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta di cui si parla nella conversazione di cui al link...Dopo Sergio Flamigni anche l’ex magistrato Ferdinando Imposimato evidenziò l’importanza di quei documenti in relazione ai rapporti tra Mafia, Politica e Massoneria internazionale nel 1992 (vedi:...), proprio in relazione alle stragi di Capaci e di via d’Amelio, con spiegazioni ribadite anche più recentemente, poco prima della sua morte, arricchendo la sua ricostruzione di riferimenti personali: "Ci furono i servizi segreti e la massoneria nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Quando nel 1984 incontrammo nella questura di Roma Tommaso Buscetta, appena giunto dal Brasile dove era stato arrestato da Gianni De Gennaro, Giovanni Falcone ed io facemmo l’impossibile per convincerlo a raccontare tutto sui legami tra mafia, politica, massoneria e poteri occulti. Ma lui, che pure collaborava a tutto campo, fu irremovibile: «non posso – disse – perchè lo Stato non è preparato ad affrontare un tema così grave che ancora oggi coinvolge persone e istituzioni insospettabili». Il tentativo di far parlare Buscetta fui costretto ad abbandonarlo, dopo la mia partenza per Londra e per Vienna. Ma Falcone lo proseguì, sia pure inutilmente. Buscetta non si lasciò convincere, pur avendo grande stima del magistrato di Palermo. Molti uomini delle istituzioni, dei servizi segreti, della politica e del governo del paese, legati a Cosa Nostra, erano saldamente ai loro posti di comando. Solo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Buscetta decise di rivelare i retroscena dei più gravi delitti di mafia e di fare i nomi dei politici, dei massoni e degli uomini dello Stato nemici di Falcone e di Paolo Borsellino. Oggi capisco che aveva ragione Buscetta: nessuna delle verità che egli rivelò nel corso dei processi di Palermo e di Perugia fu confermata da sentenze di condanna. LE SUE TESTIMONIANZE PRECISE E CIRCOSTANZIATE SUI LEGAMI MAFIA-POLITICA-MASSONERIA FURONO DISINTEGRATE. Nonostante le decine di conferme di altri mafiosi, che pure erano stati ritenuti attendibili per tutte le altre accuse contro i loro complici per omicidi e stragi. Nel 1992 Buscetta riprese a parlare davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia, di cui facevo parte anche io, sia pure in posizione di isolamento, tanto che la mia relazione sull’Alta Velocità non venne mai discussa, neppure dalle commissioni presiedute da Ottaviano Del Turco e da quelle che seguirono. E nemmeno le rivelazioni di oggi inducono all’ottimismo. Quelle degli anni ottanta e novanta furono insabbiate. Davanti a due pubblici ministeri di Palermo Buscetta rivelò, nel dicembre 1994: «ad uccidere Borsellino è stata Cosa Nostra, ma le ragioni della strage vanno al di là degli interessi stretti della mafia». Il pentito chiarì che Borsellino stava venendo a conoscenza da Gaspare Mutolo di verità scottanti. Ma di quelle dichiarazioni non si fece nulla; i colpevoli restarono “ignoti”. A maggio 1993, parlando con il giornalista Raffaele Lo Sardo del settimanale il Sabato sulla strage di Capaci, dissi cose che ancora oggi mi sorprendono. Parlai delle indagini che, come giudice istruttore, stavo conducendo con il pm VITTORIO OCCORSIO su alcuni casi di sequestri di persona. Scoprimmo che alcuni terroristi e criminali erano appartenenti alla massoneria. Non mi resi conto della importanza del collegamento, ma Occorsio sì. E morì. La mia condanna a morte fu pronunciata tre anni dopo. A quel tempo svolgevo anche indagini su Michele Sindona e P2, connesse con quelle di Falcone a Palermo. Ma Falcone era molto più avanti di me: aveva scoperto la loggia Camea di cui faceva parte Pierluigi Concutelli, tessera 4070, assassino di Occorsio. Del resto, la scoperta della Loggia Camea a Palermo fu l’inizio della fine di Falcone, come egli stesso presagiva. Egli aveva capito che la massoneria era il collante dei vari poteri criminali con la politica e le istituzioni. VENNE ALLA LUCE CHE IL FALSO SEQUESTRO DI SINDONA – USATO DAL BANCHIERE DI DIO E DAI COMPLICI MAFIOSI PER COSTRINGERE I SUOI BENEFICATI A SALVARE LE SUE BANCHE – ERA STATO ORGANIZZATO DA COSA NOSTRA E DA MASSONI: PERSONAGGI, COME JOSEPH MICELI CRIMI E GIACOMO VITALE ERANO MAFIOSI E MASSONI. QUANDO MANDAI A FALCONE, PER COMPETENZA, IL PROCESSO CONTRO MICHELE SINDONA, CONTRO CUI PROCEDEVO PER SIMULAZIONE DI SEQUESTRO, IL QUADRO DIVENNE COMPLETO E ALLARMANTE. Ma il pericolo per lui e per me aumentò a dismisura. Non ebbi la percezione di ciò che stava accadendo attorno a me. A raccontarlo al giudice Otello Lupacchini nel 1991 fu il mafioso Antonio Mancini, uomo della banda della Magliana…Quanto a Falcone, era assediato da sospetti infondati, propalati ad arte da mafiosi e loro alleati. Era addirittura accusato di favorire i pentiti che collaboravano con lui. Fu inquisito dal Csm, che lo interrogò sulle sue “inerzie”. L’accusa era di non avere, nonostante le prove – che non c’erano – arrestato alcuni imprenditori vicini a Cosa nostra. Falcone lasciò gli uffici di Palermo e si trasferì a Roma, alla direzione degli Affari Penali. Ma il “vizio” di indagare su mafia e massoneria non lo abbandonò. Ad una domanda del giornalista del Sabato sulle inchieste di Falcone, risposi: «Falcone è stato ammazzato per quello che aveva fatto, che stava facendo e che voleva fare: contro i tanti poteri occulti intrecciati ai poteri collegati, usando la Procura Antimafia, che era una sua creatura». Domanda di Lo Sardo: «Per esempio?». Risposta: «L’Italia è anche il paese della strategia della tensione, dello stragismo e di Gladio: ci sono tante pagine di verità ancora da scrivere. Se ripercorriamo certi sentieri, possono aprirsi squarci di luce sulla storia recente e passata». Domanda: «Vuol dire che Falcone voleva occuparsi anche di Gladio?». Risposta: «Sì, voleva occuparsi anche di Gladio». Domanda: «Come fa ad affermarlo?». Risposta: «Conoscevo Giovanni Falcone. Sono stato suo amico fraterno e collega per vent’anni. So bene come la pensava su queste cose». Gladio significava Servizi segreti guidati dai piduisti Giuseppe Santovito e Giulio Grassini, voluti, nel gennaio 1978, da Francesco Cossiga, ministro dell’interno, e Giulio Andreotti, presidente del consiglio. Che avevano inserito affiliati alla P2 ai vertici dei ministeri, sostituendo funzionari leali come il prefetto Gaetano Napoletano e il questore Emilio Santillo. Ma la morte di Falcone ebbe una accelerazione dopo la lettera dell’8 novembre 1982 al presidente della Commissione P2, Tina Anselmi.

«CON RIFERIMENTO ALLA NOTA N. 850 /C P2 DEL 15 OTTOBRE 1982, PREGIOMI COMUNICARE CHE NEL CORSO DI INDAGINI SU ORGANIZZAZIONI MAFIOSE SICILIANE, È EMERSO CHE ALCUNI PERSONAGGI, APPARTENENTI A COSCHE MAFIOSE, AVEVANO OPERATO PER IL TRASFERIMENTO DI MICHELE SINDONA DA ATENE A PALERMO NELL’AGOSTO 1979: TRATTASI DI GIACOMO VITALE E DI FRANCESCO FODERÀ, ENTRAMBI LATITANTI. COSTORO FANNO PARTE DELLA NOTA LOGGIA CAMEA, IL CUI CAPO È IL DOTT. GAETANO BARRESI, ARRESTATO SU MANDATO DI CATTURA DEI GIUDICI GIULIANO TURONE E GHERARDO COLOMBO».

PAOLO BORSELLINO, AL MOMENTO DELLA SUA MORTE, STAVA PROSEGUENDO LA RICERCA DELLA VERITÀ INIZIATA ASSIEME A FALCONE SUGLI STESSI TEMI SCOTTANTI.
SONO TRASCORSI VENTI ANNI DA ALLORA. ERCOLE INCALZA, DA ME DENUNZIATO NELLA RELAZIONE SULLA TAV PER LA QUESTIONE DEI GRANDI APPALTI A COSA NOSTRA E ALLA CAMORRA, HA FATTO CARRIERA. MENTRE SI RIPARLA DELLE STESSE INDAGINI COMPIUTE DA FALCONE E BORSELLINO. E APPRENDIAMO – MA LO SI SAPEVA DA ALLORA – CHE LA STRAGE DELL’ADDAURA, ORGANIZZATA DA MAFIA E AGENTI NEMICI DI FALCONE, FU EVITATA GRAZIE AL CORAGGIOSO INTERVENTO DI DUE UOMINI FEDELI A FALCONE: NINO AGOSTINO, CHE SCOPRÌ COLLUSIONI TRA POLIZIOTTI E MAFIOSI, UCCISO ASSIEME ALLA MOGLIE; E EMANUELE PIAZZA, COLLABORATORE DEL SERVIZIO SEGRETO CIVILE, STRANGOLATO IL 15 MARZO 1990, POCHI MESI DOPO L’ATTENTATO DELL’ADDAURA. UNA INFINITÀ DI DEPISTAGGI E DI OMICIDI IMPEDIRONO L’ACCERTAMENTO DELLA VERITÀ, QUELLA VERITÀ CHE ANCORA OGGI, NONOSTANTE IL BEL LIBRO DI ATTILIO BOLZONI E LA CORAGGIOSA INCHIESTA DI ANNOZERO, STENTA A VENIR FUORI”.

Ed oggi che sono emersi i nascondimenti della stessa Commissione d’Inchiesta sulla P2 sulla Piramide inversa e superiore della P2, verranno ricercate le superiori responsabilità che determinarono la storia da quegli anni8 ad oggi oppure tutto rimarrà come prima avvolto nel mistero e nelle lacune presentate solo da una ricostruzione che ha riguardato il livello esecutivo di quelle stragi e degli altri episodi comunemente etichettate come stragiste o mafiose?

E I SEGNI E DISEGNI APOCALITTICI DELLA MASSONERIA RIMASTI OCCULTATI DAL LONTANO PASSATO SINO AD OGGI NON INTERESSANO ALCUNO?

ERANO SOLO “FANTASIE” DI UN'OCCULTA CONSORTERIA SOVRORDINATA ALLA LOGGIA P2 CHE SI DILETTAVA DI DISEGNI SATANICI ED APOCALITTICI, DEI QUALI ERA COMUNQUE VIETATO ALLO STESSO PARLAMENTO FAR CENNO?

E PERCHÉ NASCONDERLE E PROTEGGERLE SINO AD OGGI?

ESCLUDENDO, ORA - GIUGNO 2021 - POSSIBILI RESPONSABILITÀ DELLE ISTITUZIONI PARLAMENTARI CHE DALL'ODIERNA RIVELAZIONE DI QUEGLI ATTI NASCOSTI E SINORA MAI DECIFRATI, POSSANO EMERGERE?

Come scrissi nell’introduzione del libro “La Bestia” nell’ottobre del 2018 dopo aver accennato ai segreti di Stato ancora presenti dietro gli episodi più drammatici della nostra storia - dal lontano passato all’odierno presente - “brandelli di corpi dilaniati non lo consentono: prima di trovare pace, reclamano giustizia e verità”. E queste non verranno impedite da abbreviamenti o improcedibilità dei processi oggi contrabbandati come riforme della giustizia. La giustizia e la verità non possono essere merci di scambio con un mucchietto di miliardi diretto a coprire l’attuazione del progetto di cambiare l’assetto dei poteri finanziari e geopolitici del pianeta.  Non passa giorno che ulteriori argomentazioni si aggiungano alle precedenti e spero presto di potervi confermare l’avvenuta individuazione del segno di Lucifero dei Rosa+Croce sulle stesse elezioni politiche svoltesi nell’aprile di quel 1992 a dimostrazione del fatto che tutto ciò che poi avvenne in quel tormentato periodo della nostra storia (dalle stragi c.d. mafiose agli eventi che si accompagnarono alla nascita della nuova Europa) faceva parte di un già programmata regia della Massoneria.

Carlo Palermo: ''Dalla P2 ai Rosacroce, c'è una loggia massonica che opera per il Governo Mondiale''. AMDuemila il 04 Agosto 2021. Dalle carte sui Rosacroce, a quelle della P2. Quindi i riti, le simbologie, i condizionamenti che si nascondono dietro una serie di fatti chiave che hanno riguardato la nostra storia. Anche di questo parla l'ex magistrato Carlo Palermo nel suo libro “Il Patto – La piramide rovesciata della loggia π2” (Il Sacro Monte Editore). Argomenti affrontati in questa nuova intervista rilasciata al ricercatore e documentarista Pier Giorgio Caria per ANTIMAFIADuemila Tv. Carlo Palermo mette in evidenza ulteriori documenti, raccolti quando già il libro era in stampa, che erano stati inseriti agli atti di processi e commissioni d'inchiesta, ma che non sono stati approfonditi. Una ricerca che parte anche dal lavoro svolto da Sergio Flamigni, membro della Commissione della P2, che individuò l'esistenza dell'organo superiore. "Il problema del governo mondiale - aggiunge Palermo - era scritto in alcuni documenti che erano stati sequestrati a Gelli e che riguardavano le attività svolte a Monaco, dalla super loggia. Il fatto che gli elenchi ci fossero anche in Uruguay e lì vi fosse l'elenco più completo, è un dato. Ma non ci furono insistenze della Commissione o viaggi o rogatorie".

Carlo Palermo racconta ''il governo criminale planetario'' - Prima parte. Karim El Sadi su AMDuemila l'11 Dicembre 2020. Dall'inchiesta di Trento alle vicende odierne, le analisi dell'ex magistrato sopravvissuto a Cosa nostra. Il 30 marzo 1983 Carlo Palermo, allora sostituto procuratore a Trento (oggi avvocato), fa sequestrare un numero non precisato di documentazioni relative a un'inchiesta avviata tre anni prima su un vasto traffico di armi e droga che coinvolge uomini della P2 e servizi segreti, criminali comuni, mafiosi ed affaristi di vario genere. Si tratta di carte che si legheranno a doppio filo con la sua storia e con l'attentato che due anni più tardi, il 2 aprile 1985, avrebbe dovuto mettere la parola fine alla sua vita e al suo lavoro di indagine a Trapani dove nel frattempo era stato trasferito. L'ex magistrato ha raccontato, in un'ampia e approfondita intervista suddivisa in tre parti rilasciata al ricercatore e documentarista Pier Giorgio Caria, che è stato anche regista del docu-video in tre parti e che ringraziamo per aver concesso ad ANTIMAFIADuemila questa esclusiva, l'importanza di quelle carte e cosa è riuscito a scoprire, solo a distanza di decenni, unendo i tasselli mancanti dell'inchiesta di Trento su quello che ha definito come "governo del pianeta". "Quando entrai in possesso di quella documentazione ebbi la percezione completa e totale della sua importanza", ha affermato Palermo. "Si trattava di una marea di carte da cui risultavano traffici di armi pesanti, anche nucleari, con l'indicazione diretta delle massime responsabilità governative in capo alle fabbriche degli armamenti mondiali che mi fecero rendere conto che erano il governo della guerra. Il governo planetario". L'avvocato ha poi detto di essersi "reso conto della stretta connessione tra questi fatti e la massoneria, e in particolare la P2 sulla quale da pochissimo tempo era emersa la possibilità di un'indagine visto che rimonta al 1981 il rinvenimento degli elenchi dei magistrati di Milano e l'istituzione della Commissione Anselmi in Parlamento". "Io sequestro questo materiale proprio nell'immediatezza dei fatti", ha spiegato. Ma poi nel 1984 viene fatta interrompere l'indagine e gli atti gli vengono sottratti. "Quella interruzione che subì ha condizionato la storia mia ma anche la storia nazionale e internazionale - ha affermato Carlo Palermo -. Perché a quell'epoca io, con un anticipo rispetto ai tempi, avevo raccolto prove documentali che fotografavano la situazione mondiale del traffico di armi intrecciati a quello della droga e del petrolio e con una vastezza che andava di gran lunga al di là degli inquadramenti che apprenderemo solo successivamente". Carlo Palermo ha sottolineato che "le strutture come Gladio erano fotografate negli atti che avevo sequestrato. E non contenevano una descrizione sommaria, come ancora oggi continuiamo ad avere. Quella documentazione dell'epoca non era divisa per cassetti geografici, era l'attività centrale che veniva diramata dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti che riguardava tutto il mondo. Conseguentemente - ha continuato - la situazione di tentativo di governo planetario trascendeva quelle distinzioni che sono state a noi sottoposte solo perché dopo il crollo del Muro di Berlino l'allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti ammise l'esistenza di questi apparati come Gladio e Stay Behind perché, come disse, era ormai venuta a mancare la contrapposizione tra il blocco atlantico e quello sovietico. In realtà - ha detto Palermo commentando quell'avvenimento storico - io ritengo che parlò perché pressato da indagini italiane di fronte alle quali sarebbero lo stesso emersi quegli elementi e, conseguentemente, lui cercò di anticiparle". "Oggi - ha avvertito l'avvocato Palermo - sono rimaste immutate quelle caratterizzazioni che erano presenti allora a livello planetario, ma anche a livello europeo e italiano".

''Mafie eterodirette'', Carlo Palermo spiega "Il doppio livello" - Seconda parte. Karim El Sadi su AMDuemila il

 15 Dicembre 2020. "Le massonerie condizionano lo svolgersi della vita nel nostro pianeta". Nella seconda parte dell'intervista a Carlo Palermo, gentilmente rilasciata al ricercatore e documentarista Pier Giorgio Caria per ANTIMAFIADuemila Tv, l'ex magistrato ha parlato delle mafie come organizzazioni in realtà "eterodirette da un livello di potere superiore". Secondo l'avvocato Palermo questo livello di potere usa le mafie come "una sorta di braccio armato" per "il raggiungimento di obiettivi prettamente geopolitici". Dunque, ha spiegato, "il magistrato che si occupa di queste indagini a livello territoriale si accorge subito che il suo potere di accertamento è piccolissimo perché si sviluppa in un livello superiore". "Se viene a mancare questa lettura di carattere più onnicomprensivo - ha aggiunto - e ci si sofferma ancora a dire che ciò che avviene in Sicilia è Cosa nostra, quello che avviene in Calabria è 'Ndrangheta e ciò che avviene in Campania è Camorra, non ne verremo mai fuori". Questo perché "le attività non sono mai state né oggi, ma nemmeno nel dopoguerra, legate ai territori nei quali si sono svolti i fatti. I fatti (intesi come le stragi e i delitti eccellenti, ndr) si sono svolti per motivi di occasionalità. In particolare - ha spiegato l'ex magistrato - si è voluto incentrare l'attenzione sulla Sicilia in quanto è la zona che ha costituito il collegamento tra le componenti occulte degli Stati Uniti con la criminalità italiana". "Nel concetto 'Stay Behind' (la rete segreta internazionale presente in Europa dal dopoguerra, ndr) era presente un capro espiatorio" che prevedeva di scaricare le responsabilità riguardo ad alcuni eventi tragici "sul soggetto che aveva il controllo del territorio a livello basso per coprire invece le attività direttive che avevano livelli più elevati". Questi livelli, ha affermato Carlo Palermo, sono due. "Il primo è quello dei servizi e il secondo è quello massonico". In questo senso, ha continuato l'avvocato, "ci accorgiamo che questi fenomeni non sono assolutamente comprensibili con una chiave di lettura temporanea e locale limitata al dopoguerra". Ecco il motivo per cui "per poter comprendere la dinamica della nostra storia - ha spiegato - si deve risalire a dei concetti diversi che sono rappresentati dalle famiglie, dalle dinastie, dalle oligarchie e da poteri occulti che non sono mai stati oggetto di indagine, che vanno al di là dei confini territoriali e hanno addirittura origini millenarie". Si tratta di logge massoniche aventi "quel centro organizzativo elitario le cui commissioni e conoscenze sono imputabili e rinvenibili in capo a un numero assai limitato di persone e sono quelle che - ha concluso - condizionano lo svolgersi della vita reale sul nostro pianeta".

Carlo Palermo: il lato occulto della Storia - Terza parte. Karim El Sadi su AMDuemila il 19 Dicembre 2020. L’ex magistrato presenta i suoi ultimi lavori: “Cerco di lasciare una traccia di quelle che sono le mie riflessioni”. “I fatti che riguardano tutta la nostra storia, negli episodi più salienti, sono stati caratterizzati da un marchio che indica una struttura direttiva”. A dirlo è l’ex magistrato Carlo Palermo nella terza ed ultima parte dell’intervista rilasciata al ricercatore e documentarista Pier Giorgio Caria per ANTIMAFIADuemila Tv. “L’episodio che riguarda il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro ad esempio è un fatto che sotto tantissimi profili individua la presenza delle indicazioni che ho dato”, ha affermato l’avvocato. Così come “l’attentato a papa Wojtyla, che non per niente viene eletto alla fine dello stesso anno, nel 1978, non è altro - ha spiegato - che la prosecuzione dello stesso identico problema esteso nei confronti del Vaticano che aveva per altro già assunto durante il sequestro Moro delle posizioni antagoniste alla rivelazione degli aspetti sottostanti le stesse azioni che avevano determinato l’effettuazione del sequestro e poi dell’uccisione”. Secondo Carlo Palermo “esistono delle contiguità di condotte da qui a 40 anni fa. E in 40 anni di storia non è possibile che non ci si ponga come obiettivo di far luce su questo episodi”. L’ex magistrato ha poi brevemente presentato il suo ultimo libro “X Day. I figli dell’aurora” (Il Sacro Monte Editore). “Dal periodo del 1975 ad oggi io cerco di lasciare una traccia di quelle che sono le mie riflessioni o considerazioni che potranno essere esatte o sbagliate, condivisibili o non condivisibili - ha detto Carlo Palermo - però io credo che le linee che ho individuato indichino con molta precisione che il problema risiede in finalità di potere e di dominio sul mondo oggi pervenuto ad un livello di effettiva realizzabilità”. (Fine)

Carlo Palermo: ''Sono un sopravvissuto alla rivelazione di alcuni segreti di Stato''. Giorgio Bongiovanni su AMDuemila il 28 Dicembre 2018. L'ex giudice istruttore racconta “La Bestia”. Carlo Palermo, già giudice istruttore presso il Tribunale di Trento (prima) e di Trapani (poi), ha scritto un libro (La Bestia-ed. Sperling & Kupfer) in cui ripercorre diversi accadimenti che lo hanno visto protagonista anche in prima persona. Palermo, oggi avvocato, è infatti un sopravvissuto di quella strage del 2 aprile 1985, anche nota come strage di Pizzolungo, che lo vedeva come obiettivo e che spazzò via le vite di Barbara Rizzo, 30 anni, e dei suoi figli, i gemellini Salvatore e Giuseppe Asta, di appena 6 anni. A 33 anni di distanza la richiesta di verità e giustizia su quel delitto è ancora forte ed è più che mai necessario comprendere ciò che è avvenuto in merito a questa storia. Una vicenda che ha segnato profondamente Carlo Palermo il quale, anche dopo aver lasciato la magistratura nel 1990, non ha mai smesso di indagare sui rapporti tra mafia e Stato. Anche se per l'attentato sono stati condannati i boss mafiosi, appare evidente che a voler eliminare il magistrato non fosse solo Cosa nostra. Di questo abbiamo parlato direttamente con Carlo Palermo, affrontando le tematiche del libro ma anche altro. 

Avvocato Palermo, lei è stato autore del libro “Il quarto livello”. Come si è arrivati alla nuova pubblicazione, “La Bestia”, in cui, in maniera significativa, cita anche l'Apocalisse?

Nel “Quarto livello” (prima pubblicazione nel 2002) indubbiamente io ebbi delle notevoli intuizioni su un fatto che all'epoca era sottostimato, ossia l'importanza del subentrare dell'integralismo islamico nelle problematiche italiane oltre che internazionali. Allora questa riflessione fu per me determinata dalla presenza, constatata nella mia inchiesta di Trento, dell'importanza fondamentale degli arabi nelle forniture di droga, nella destinazione di armamenti in svariate necessità politiche e militari di popoli del Medio Oriente, nelle forniture petrolifere e nell'attentato al Papa che aveva previsto la presenza del Turco Ali Ağca. Tutte queste presenze, manifestatesi e accresciutesi dopo la caduta del Muro di Berlino, già a quell'epoca mi fecero ponderare in termini essenziali l'importanza dell'integralismo islamico nel processo di formazione dei nuovi equilibri. Poi quello che è accaduto di fatto nel 2001 non è stato altro che l'effetto estremizzato di fatto di ciò che in realtà io avevo ipotizzato nella lettura precedente. Quello che è avvenuto invece nel periodo successivo è stato qualcosa di incredibile per me. È stato solo in questi ultimi quattro anni della mia vita che ho compreso praticamente le chiavi di lettura della mia storia, ma anche di quel gruppo di magistrati con cui io fui in contatto dalla fine degli anni Settanta fino al 1985. Personaggi come Ciaccio Montalto o Giovanni Falcone. Sia pur da luoghi diversi stavamo ricostruendo nei suoi frammenti una realtà complessa che non era diversa nelle finalità di indagine di Trento, di Palermo, di Trapani o di Milano. Era sempre la stessa realtà, solo che ognuno di noi seguiva dei filoni che riguardavano degli aspetti, degli imputati o dei personaggi differenti. Noi fummo dei tramiti e degli strumenti di accertamento di quella realtà. E ogni momento in cui taluno di noi si è accostato o ha messo a rischio il disvelamento dei maggiori segreti e delle maggiori ombre che hanno garantito l'impunità di questa regia suprema, ecco che è stato eliminato. Io nel 1985 ho avuto la fortuna di sopravvivere alla rivelazione di alcuni segreti di Stato e poi, in questi ultimi quattro anni, ho avuto occasione di vedere tutto. Ho visto purtroppo anche scomparire i principali testimoni di quella vecchia storia che ha riguardato la nostra Repubblica. Ho avuto la possibilità di comprendere e capire il filo conduttore che collega tutti questi elementi.

Possiamo dire quindi che lei è un sopravvissuto a quella mattanza di magistrati di quel gruppo. Attraverso le indagini che ha fatto sul suo stesso attentato ha compreso, e questo emerge in modo chiaro dal suo libro, che questi magistrati sono stati seguiti e uccisi da Cosa nostra ma che quest'ultima è stata “braccio armato” di qualcun altro. Come possiamo identificare il mandante delle stragi?

In realtà questo qualcuno è facilmente identificabile. Noi ci siamo posti questo problema quasi vent'anni dopo le ultime stragi che hanno visto l'uccisione di Falcone e Borsellino e tutto ciò che ne è seguito nel '93-'94, che ha cambiato la nostra storia. Abbiamo cominciato ad intuire e a capire meglio la situazione soltanto nel 2008-2010. Non è stato invece compreso ciò che è accaduto prima, perché i segreti fino ad oggi, a maggior ragione nelle epoche in cui venivano svolte le indagini da quei magistrati che sono stati eliminati, erano sottoposti a segreto di Stato come sono sottoposti a segreto di stato ancora a tutt’oggi dei fatti. In questa ricostruzione si può iniziare dalla strage di Portella della Ginestra del 1947. Oggi ci troviamo a 70 anni di distanza da allora ed ancora si continua a nascondere quello che potrebbe indicare la responsabilità dei mandanti. Chi e che cosa può motivare un tale nascondimento di prove se non i bossoli? Semplicemente i bossoli possono indicare il fatto più semplice, ossia che chi ha sparato non era Giuliano ma era un americano. E tutto questo, a livello storico, indica che la nostra democrazia non è mai nata, perché noi in Italia, quando abbiamo votato per una democrazia costituzionale, l’abbiamo battezzata con una strage che in realtà era diretta e finalizzata a non consentire l’esercizio della democrazia, perché il partito comunista non sarebbe potuto salire al potere. Ciò dimostra che, dalla nascita della Repubblica, il nostro paese risultava carente del principio di sovranità dello Stato. Questo perché l’apparato ‘Stay behind’ e gladio che si è manifestato in Italia nei primi anni '50 e '60 riconduceva al controllo territoriale degli Stati Uniti la sovranità sullo Stato italiano. Ciò significa che il carattere fondamentale dello Stato, ovvero la sovranità sul proprio territorio, in Italia non c’è mai stata per il semplice motivo che essa è appartenuta di fatto al potere militare degli Stati Uniti. Questa è la pura verità è semplice realtà. 

Dunque non c'è mai stata una vera democrazia?

Se noi partiamo da questo presupposto e cerchiamo di leggere i fatti avvenuti successivamente, tutto è più semplice. Si comprende infatti il motivo per il quale Aldo Moro non avrebbe potuto formare il governo con la sinistra, perché il partito comunista non poteva salire al potere. Se fosse andato al governo questo avrebbe significato per il PCI venire a conoscenza di fatti che erano sottoposti a segreto di Stato. Questa è la realtà. Quindi, come per il fenomeno della criminalità mafiosa alla quale si è attribuita tutta la responsabilità su tutti gli episodi che sono avvenuti in Sicilia, non a caso poi proprio per essere etichettati come tali, la stessa cosa è avvenuta per il terrorismo. Si è sempre sostenuto, ad esempio, che le Brigate Rosse da un lato e gli elementi dell’eversione nera dall’altro fossero movimenti di creazione nostrana, cioè un parto delle nostre ideologie. In realtà la loro matrice e regia è stata esterna, cosi che attraverso la conflittualità permanente e il terrore, ciò avrebbe impedito l’ascesa del partito comunista. Tutto ciò è rimasto in piedi fino al momento in cui è crollato il muro di Berlino. Logicamente anche la caduta del muro non è ascrivibile ad un fatto occasionale. Il muro è crollato intanto perché non è avvenuta l'invasione prevista da parte dell'Unione Sovietica dell'Italia e dell'Europa e quindi, accantonata quell'ipotesi e ridimensionato il fenomeno delle dittature comuniste per l'insuccesso già di per sé manifestato nei loro paesi, si è reso necessario un cambiamento degli equilibri internazionali tale da giustificare il conseguimento della stessa ideologia di potere che vi era prima. Un’ideologia identificabile con gli Stati Uniti e l'Inghilterra. Venuto meno il comunismo e crollata l’Unione Sovietica, questa impostazione ha dovuto richiedere un cambiamento di rotta ed è stato così necessario creare un altro terrore che potesse giustificare il potere sovrastante degli Stati Uniti. E’ stato quello il momento nel quale si è passati dallo stato dell'Europa anteriore al crollo del muro allo stato dell'Europa che è stato tentato tra il '91 e il '92 con il battesimo della guerra in Iraq che ha sancito l'inizio della creazione dell'avversario del Terzo Millennio. Invadere quel Paese e fare lo sterminio che è avvenuto a casa di queste persone è stato dilaniante. È stato dilaniante per i bombardamenti e per gli ordigni micidiali utilizzati dagli Stati Uniti. Gli arabi, senza voler giustificare quelle che sono le loro più estremizzate reazioni, sono stati colpiti duramente da lutti e distruzioni dopo quella guerra. Non esiste una famiglia di arabi che non sia stata colpita dal conflitto, dopo che già i palestinesi erano stati segnati dagli ebrei con il sistema di mantenere guerre permanenti e studiate a tavolino già dalla seconda guerra mondiale. È stato vissuto un qualche cosa di programmato e prestabilito terrificante. L'Italia si è trovata a giocare un ruolo decisivo per merito di giudici che, più che in altri paesi, erano riusciti a portare avanti diverse indagini, forse perché il potere giudiziario non ha e non aveva la stessa tradizione che allora aveva in Italia o forse perché c'erano certe manifestazioni di criminalità che in altri paesi sono più affievolite. In Italia infatti mafia, Camorra, ‘Ndrangheta e terrorismo sono fenomeni criminali che hanno via via nel tempo accresciuto anche le capacità di difesa del nostro Stato. I nostri magistrati sono stati veramente bravi nella ricostruzione della realtà. Certamente non potevano immaginare ciò che era scritto nei segreti di Stato. Questo è il problema.

Tornando al suo libro, “La Bestia”, lei fa delle scoperte partendo proprio dal suo attentato. Parte da lì per parlare anche di altre stragi, svelando un filo conduttore. In cosa consiste? Davvero ci sono poteri che addirittura ordinano all'organizzazioni criminali di compire certi atti?

Nel libro io indico dei nomi, ma non sono io che li indico. Questi nomi sono scritti perché Gladio non l’ho ipotizzato o inventato io. Gladio è il nome di un dispositivo e di un’operazione che è stata concepita dai servizi segreti americani. Io poi esprimerò anche su questo determinate ricerche. Gladio proviene dai servizi segreti americani e si rifà a dei concetti di una lettura e di un'impostazione eseguita da loro, per affermare un imperialismo, quello americano, definibile da loro stessi come fondamento del governo mondiale. Un’impostazione di lettura che vede un affievolito potere europeo e un impero paragonabile a quello romano o alla vecchia Chiesa Cattolica. Questa è stata l'impostazione che è scritta dietro la parola Gladio, inventata dagli americani e non dagli italiani. Il fatto quindi che si arrivi, ad un certo punto, ad utilizzare delle figure descritte nella Bibbia come la bestia venuta dalla terra che rappresenta il Comunismo e la bestia venuta dagli abissi identificata dall'integralismo, rimanda a concetti che hanno costituito fonte di ispirazione per gli americani, non per noi che li abbiamo subiti. Noi abbiamo semplicemente assurto a soggetti attuatori di principi legati a finalità di potere degli Stati Uniti e di quell’agglomerato di poteri che, attorno a loro, sono presenti. Non dimentichiamoci la componente inglese che ne è fondamento, quella ebraica e quella trasversale indotta da alleanze che si pongono addirittura in termini di anti-posizione rispetto alle attuazioni politiche e militari. I collegamenti che ci sono a livello massonico sono infatti di gran lunga anteriori rispetto alle attuazioni che si sono verificate con la seconda guerra mondiale e con tutta l'epoca successiva. In pratica, l’impostazione del nuovo sistema di potere del ventesimo secolo, e quindi il passaggio ai nuovi equilibri mondiali, è stato elaborato e studiato già all'inizio del ventesimo secolo. Questo è avvenuto quando sono state prima pensate e create queste forme di potere trasversale. Forme di potere che poi sono state attuate attraverso la prima e la seconda guerra mondiale, attraverso quel mutamento di situazione che si è determinato per forza di cose a seguito dei precedenti equilibri. Quindi, dopo la seconda guerra mondiale, vennero create nel Mediterraneo le due contrapposizioni fondamentali per reggere gli equilibri: il pericolo del comunismo e la questione mediorientale. Venuta meno la prima, è rimasta la seconda questione che poi è stata moltiplicata per se stessa ed è divenuta integralismo islamico. Per farlo vedere e capire ai proprie elettori, gli Stati Uniti se lo sono portati a casa e per farlo è stata creata quell'operazione definita ‘la Bestia’. Il giorno stesso dell’invasione dell'Iraq venne arrestata una persona di origine araba. Non si trattava di un arabo qualsiasi ma del primo utilizzatore del Sentex e delle autobombe. Ne fece tre nel 1973 che lo resero noto e famoso davanti agli Stati Uniti. Questo soggetto venne trovato a Roma, tenuto ben nascosto perché altrimenti avrebbe rivelato il progetto segreto che era stato fatto. Si trattava di un progetto micidiale. Noi con gli americani infatti non ci siamo limitati a fare semplicemente gli esecutori materiali dei loro piani, ma dall'epoca di Moro e poi di Craxi, abbiamo cercato di ritagliarci degli spazi nel Mediterraneo per le nostre posizioni tradizionali che derivano dalla nostra stessa storia. I nostri rapporti con gli arabi non sono solo legati al presente, perché qualche politico di sinistra ha voluto aiutare gli arabi immigrati. Oggi ci si dimentica della storia e della realtà siciliana. In cui sono arabi monumenti e vestigia storiche. Ci si dimentica del ruolo svolto dalla Sicilia nei millenni. Abbiamo cercato di ritagliarci questo ruolo, perché siamo quasi in Africa e in Palestina. Siamo vicini a loro e quindi non ci si può stupire di questa posizione di amicizia dell’Italia verso di loro. E così sono stati perseguiti prima Moro e poi Craxi. Ora tralasciamo tutte le condotte che possono essere ricongiunte ad altri tipi di attività censurabili sotto altri profili. Va dato loro il merito di aver ricercato degli spazi di manovra con il mondo arabo, cercando di avvicinare e di rendere possibile uno sganciamento dell'Italia dalle alleanze tradizionali con gli Stati Uniti. Quindi sia Moro che Craxi non hanno fatto altro che cercare di discostarsi, di prendere le distanze ed affermare delle posizioni autonome rispetto a questi altri paesi e puntualmente sono stati piegati. Sappiamo bene come è stato sequestrato Aldo Moro e come è stato sacrificato fittiziamente per l'intervento delle Brigate Rosse, mentre invece non è così. La stessa cosa è avvenuta per Craxi con quello che è avvenuto dopo Sigonella e dopo gli appoggi che gli italiani dettero in fin dei conti ad un fenomeno terroristico. Non dimentichiamo infatti che Abu Abbas era un terrorista. Craxi non fece quel passo per difendere un terrorista, ma perché doveva far valere l'Italia rispetto agli Stati Uniti. Queste posizioni qui hanno disturbato profondamente l’America. Poi è stata la volta dell’ultima posizione presa dall’Italia con il Presidente Andreotti che, dopo l'abbattimento del muro di Berlino, ha compiuto un atto rivoluzionario. Lui ha rivelato l’esistenza di ‘Stay behind’ e questo avvenimento è stato un fattore scatenante per quello che è accaduto dopo. La rivelazione di Andreotti è stata letta come un peccato mortale dagli americani. Non dimentichiamo che la nostra Costituzione prevede per la rivelazione dei segreti di Stato almeno 10 anni di reclusione, ma in altri Paesi è prevista addirittura la pena di morte, cioè l'eliminazione fisica. Quindi Andreotti, rispetto ai patti segreti che ci sono stati inculcati e che sono stati presenti nelle nostre situazioni fino al 1990 e al momento di quella rivelazione, avrà avuto le sue motivazioni e i magistrati che premevano, ma politicamente perseguiva la stessa identica finalità che era stata perseguita da Moro e da Craxi. Una finalità che aveva intenzione di realizzare, nel momento in cui avveniva il crollo del muro di Berlino, la possibilità di ampliare la semplice democrazia dello Stato italiano. Purtroppo quella è stata la goccia che ha fatto tracimare, perché in quel momento l'Italia doveva essere punita, perché politicamente non era stata fedele ai patti e nello stesso tempo i nostri magistrati, seguendo le indagini sul terrorismo, la mafia, Mani pulite e i finanziamenti, erano riusciti ad individuare, da nord a sud, le banche e i centri del potere che portavano dritti dritti agli Stati Uniti. Questa è la realtà.

Lei nel libro parla anche della massoneria deviata. Oggi sappiamo che queste grandi organizzazioni criminali come la mafia, il terrorismo, l’integralismo islamico, sono bracci armati. Questo nemmeno all'epoca di Falcone e Borsellino veniva ipotizzato. Falcone diceva che la mafia era una struttura verticistica che al massimo si alleava con altre organizzazioni criminali e invece oggi come si è evoluta la situazione?

Su questi punti non ci siamo trovati d'accordo, perché a quell'epoca abbiamo avuto delle indagini diverse da esaminare. Di fatto la magistratura di Palermo ci era arrivata lo stesso, perché la morfina che veniva portata dalla Thailandia mentre è stato fatto l'attentato a Rocco Chinnici, veniva dall'est o dal Libano e quindi dagli arabi. Quella droga era destinata non solo alla Sicilia, ma anche agli Stati Uniti e a tutta l'Europa. Loro non erano però ufficialmente amici degli arabi, ma come mai questi grandi affari avvenivano dal dopoguerra fino agli anni '80 e poi dopo, dagli anni '80-'85, si incrociano con gli affari legati alla cocaina dei paesi colombiani? Guarda caso pure quei paesi sono stati inficiati da dittature contrapposte all'imperialismo americano. Si parla di macro affari che muovono però i soldi di tutto il mondo e, se vengono mossi sempre nello stesso modo, vuol dire che quelli che sono apparentemente nemici poi in realtà a livello occulto non lo sono e quindi se non sono nemici, sono amici. Questi rapporti sono quelli che poi hanno determinato la nostra storia attraverso fondi illeciti che ci sono sempre stati. Attraverso questi scandali avvenuti a livello internazionale oggi lo sappiamo. Le responsabilità della nostra mafia, della mafia turca, di quella marsigliese e di quella di tutti i Paesi del terrorismo mediorientale non sono che semplici ingranaggi e ruote di un meccanismo più globale che riguarda tutti i paesi. Sono gli strumenti di potere che hanno consentito di governare il mondo nel modo in cui siamo stati governati. Questa è la realtà. La massoneria non è altro che una utilizzazione di scorta e di trame che sono state ricercate evocando storie di per sé meravigliose, perché rappresentative della storia dell'umanità. Come nella vita esiste un processo di crescita dalla nascita alla morte, così nella vita dell’uomo e della società esiste uno sviluppo di crescita culturale che è bellissimo. Si è venuta a creare erroneamente una contrapposizione tra tutto quello che c’era prima dell’avvento di Cristo che è considerato sacrilego e quello che è venuto dopo, invece non esistono culture o religioni di serie A ed altre di serie B. La massoneria a livello mondiale studia il sapere, la scienza, come è nata la coscienza e lo studio della creazione e dello sviluppo dell'uomo dall'antichità ad oggi. È accaduto che tutta questa meravigliosa scienza che ha costituito un modello di sviluppo e di crescita dell'uomo dal passato ad oggi, ad un certo punto nel ventesimo secolo è stata utilizzata e strumentalizzata per costituire un modello di ispirazione per governare il mondo. Quindi vi è stata un'utilizzazione distorta per utilizzare quei canali segreti e riservati che sono sempre stati mantenuti come patrimonio universale che ha collegato insieme anche pensieri contrapposti, ma che in questo ultimo secolo e mezzo ha finito per essere utilizzato invece come strumento di potere ispirando azioni che si sono rivelate finalizzate a governare il mondo. Questa è la semplice realtà.

Lei come mai chiede di andare a Trapani dopo lo stop dell'inchiesta a Trento? Di fatto lei costituisce ancora un pericolo per i suoi nemici, quelli di cui parla nel libro che non sono solo Riina o Provenzano. Che cosa temevano che lei potesse fare a Trapani o a Palermo?

Quello che è avvenuto nell'inchiesta di Trento è in qualche modo assai particolare. Quello che io feci esattamente il 30 marzo del 1983, in un’operazione che costituiva il proseguito delle precedenti attività, fu sequestrare gli atti e i documenti che contenevano non soltanto la fotografia di ciò che svolgevano gli americani nel mondo, come i traffici di armi con tutti i paesi. Non era solo ‘Stay behind’ perché la CIA non operava solo in Europa con ‘Stay behind’ o in America Latina con l'operazione Condor. Queste sono solo etichette che si danno a posteriori. Questi sono accordi, ma in realtà si parla di un governo militare, di un governo del mondo. Io purtroppo ebbi in qualche modo l'opportunità di sequestrare dei documenti massonici che allora io non fui in grado di valutare e nemmeno di esaminare, per il semplice motivo che sei mesi dopo venni fermato perché da marzo le indagini progredirono così velocemente che dovetti essere fermato. Per farlo accadde che i servizi mi diressero su Craxi e io, seguendo delle lettere anonime, sequestrai della documentazione che riguardava rapporti della società del Partito Socialista in Argentina durante la guerra delle Malvinas. Quelle circostanze non erano inventate, ma contenevano delle indicazioni precise. Quindi fu naturale per me e per gli organi investigativi dirigerci verso quel settore e individuare anche i traffici e i finanziamenti illeciti che poi sono risultati esattamente gli stessi che sono stati poi scoperti ben 10 anni dopo. Queste sono le ricostruzioni che mi hanno fatto capire ciò che avvenne all’epoca. Questo direzionamento delle indagini verso il Partito Socialista e verso Craxi, che era colui che cercava di prendere le distanze dagli Stati Uniti, non fu altro che un mezzo per mettermi contro questo soggetto e quindi procurargli tra l'altro anche dei disturbi e delle reazioni. Venne distolta quindi la mia attenzione da tutta quella parte principale delle indagini che riguardava gli Stati Uniti. Ecco quindi perché i servizi americani e quella parte dei servizi italiani definita atlantista, mi fecero direzionare sulla parte filo araba. Venni posto in conflittualità con chi in quel momento divenne pure Presidente del Consiglio dei Ministri che tra l’altro era un soggetto che aveva anche delle grosse ambizioni per l'Italia. Quindi la reazione fu quella di fermare quell’inchiesta. Io però avevo delle carte che sono riuscito a capire solamente sei mesi fa, dopo trentacinque anni perché sembra incredibile ma, esaminandone una ad una e ricostruendo passaggio per passaggio le figure e le immagini che sono rappresentate, si trovano i riscontri in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Francia. Si trovano i punti di contatto non tanto dei collaboratori di giustizia ma dei documenti ufficiali che indicano che quelle carte lì riguardavano Trapani, Erice e tutte quelle logge massoniche che in qualche modo vennero solo sfiorate nel 1986, quando dopo l'attentato a Trapani vennero scoperte le logge Iside, Osiride e a Palermo altre logge massoniche che individuavano anche dei personaggi sui quali si era posata l'attenzione di Chinnici, di Giovanni Falcone e di altri.

Perché fanno l'attentato a Pizzolungo?

Fanno l'attentato perché queste cose non potevano essere scoperte. Questi misteri rappresentano il patrimonio della massoneria. Può sembrare incredibile ma i riferimenti ad Erice, che purtroppo sotto questo profilo a me dispiace doverlo dire, sono presenti a Trapani. Sono presenti come testimonianza di un’evoluzione culturale che è meravigliosa, perché quel monte davvero può essere inteso come monte sacro. Li infatti sono presenti i primi segni fenici del nostro pianeta, solo che questi segni sono come marchiati dal diavolo. Presentano questi marchi non perché lo dica io, ma perché sono così disegnati dalla storia e dalla morfologia del terreno. È un triangolo quello che è presente a circa 600-700 metri di altezza e ciò che demarca questo triangolo sono delle mura ciclopiche. Ecco l’appellativo del gigante da cui è venuto il nome Ercole ed Erice e la storia successivamente tramandata legata a quel triangolo che rappresenta una piramide. Non a caso ha costituito da sempre una fonte di ispirazione per i poteri occulti che richiamano la filosofia di Pitagora, dei Greci e di quanti successivamente si sono ispirati alla magia, alle ricerche sul macrocosmo e il microcosmo per dare una spiegazione della lettura dell'uomo. Il fatto che si parli di questo monte addirittura nei libri che sono alla Royal Society in Inghilterra e che sia riportata la sua altezza pari a 666 metri, fa capire che chi lo ha scritto sapeva benissimo che non era così. Questo serviva ad assegnare a quel Monte e a quel triangolo esattamente il significato di assimilazione al diavolo, all'anticristo. Non ci si può meravigliare che al centro di questo triangolo ci sia una piazzetta che si chiama la Loggia o che in passato lì si venerasse Venere e sorgesse il tempio ispirato a questa Dea. Con l’avvento del Cristianesimo di fronte a queste presenze che evocavano quindi la parte più negativa dell'uomo, venne contrapposta la realizzazione di cento chiese nella città. Basta leggere la storia di Erice su google per sapere dell’esistenza di queste cento chiese in un luogo in cui forse ci sono solo qualche centinaio di abitanti. Questo è spiegabile perché ci devono essere delle contrapposizioni tra le credenze anteriori e quelle legate all’avvento del cristianesimo. Questi sono dei fatti oggettivi che vengono assunti dalla massoneria come fonti di ispirazione per celebrazioni effettuate ad esempio ai giorni nostri, come nelle giornate del solstizio d'estate che viene celebrato in una grotta famosa a Pizzolungo, nota come grotta di Polifemo dove all'altezza di un metro e mezzo da terra è stata scoperta nel 2000 questa grotta dove esiste un labirinto simbolo della grande madre. Questo è stato scoperto nel 2000 ma è stato realizzato qualche migliaio di anni fa e viene celebrato nel solstizio d’estate e il solstizio d’estate viene celebrato dalle logge massoniche che sono presenti lì, a Catania e in altre località del mondo. È presente a poche decine di metri dal luogo dell'attentato. 

La mafia che è esecutrice di questi attentati, anche del suo, e gli uomini di Cosa nostra che hanno messo la bomba, sono coscienti di eseguire un ordine o un indirizzo?

Io non sono in grado di sapere ciò che può essere solo oggetto di ordini e disposizioni. Di certo quello che posso dire e che ho raccontato su quello che riguarda Erice, è che sono delle realtà credo in qualche modo conosciute alle persone del luogo. Ciò che non è conosciuto è evidentemente tutto l'aspetto criminale che si è creato attorno, ma tra la criminalità e all’interno della mafia vi è sempre stata una consapevolezza della presenza di un determinato livello anche di cultura e di capacità imprenditoriale criminale. Questa consapevolezza ce l’hanno anche i magistrati e si trova negli studi sulla materia. Una cosa è ammazzare o ottenere appalti, un'altra cosa è riuscire ad investire nelle banche e a far girare i soldi nel mondo attorno alle compravendite di armi, armamenti e guerre. Stiamo parlando di livelli che sono separati ma che si intrecciano e che richiedono anche il capro espiatorio in basso, come dice Messina Denaro. Certi concetti vengono esposti quasi come se vengano raccontati e rappresentati da chi queste cose le conosce e sa quelle delineazioni che io ho indicato, perché certe nozioni sono un po' troppo corrispondenti rispetto a quelle che invece si desumono dall'esame della realtà. Quindi io credo che a determinati livelli le condizioni e le consapevolezze vi siano. Di certo non ci sono parità di connivenze e non ci sono parità di responsabilità. Chi ha voluto dirigere l'Italia verso una democrazia bloccata non è stata la mafia ma sono stati gli Stati Uniti e questo è pacifico. La mafia è stata uno strumento, così come le Brigate Rosse in un certo periodo della nostra storia hanno costituito il mezzo per attuare e rendere possibile il progetto di far governare l’Italia da una democrazia che non fosse pericolosa per i ruoli che erano stati disegnati e previsti in anticipo dai poteri occulti trasversali incentrati negli Stati Uniti e nell'Inghilterra. Non dimentichiamo l'Inghilterra in questa analisi. 

Parliamo ora dei passi in avanti che sono avvenuti dopo lo storico processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia a Palermo di cui è stato protagonista il dottor Nino Di Matteo, tra l'altro minacciato da Totò Riina nelle intercettazioni in carcere e da Matteo Messina Denaro. C’è stata una sentenza di condanna e per la prima volta uomini di Stato, e questo è un fatto storico, sono stati condannati insieme a uomini di Cosa nostra. È vero che c'è ancora il processo di appello, ma lei che idea si è fatto?

Certamente è stato fatto un passo in avanti. Quello che ho potuto ricostruire sulla base di altri avvenimenti che però si intrecciano, dimostra che vi è stato un patto di Stato ancora prima che venisse creata la nostra carta costituzionale e tutto ciò che è avvenuto nel periodo successivo come ‘Stay behind’ e Gladio è stato fatto per impedire l'ascesa al potere del Partito Comunista. Questo è qualche cosa di oggettivo quindi ciò che ha impedito la realizzazione di queste finalità sono stati il terrorismo e la mafia che nel corso del tempo sono stati strumenti utilizzati per non rendere possibile questo cambiamento. Questa è la pura e semplice realtà. Quindi il fatto di avere rinvenuto oggi delle carte e dei documenti di diversa provenienza e indicazione di banche internazionali che indicano l'esistenza di queste regie occulte, rende tutto questo una realtà che presenta delle costanti come i traffici di droga e di armi fatti dai servizi segreti, presenti in Italia, Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Non tutto avviene per caso. Abbiamo avuto in passato patti di Stato anche con terroristi. Il Lodo Moro e il patto fatto con i palestinesi sono ancora sottoposti a segreto di Stato ed è negato dalle autorità di Stato, ma è stato ammesso a cominciare da Aldo Moro che si appellò a questo nelle sue lettere, ma quel patto non si poteva rivelare perché andava contro ‘Stay behind’. Nella storia italiana un segreto chiama l'altro. C’è il segreto di Portella della Ginestra, c’è l’operazione fatta a Lima in Perù, c'è stato il terrorismo dei palestinesi poi ci sono state le leggi in favore dei brigatisti rossi che sono in qualche modo stati trattati in modo particolare. Che cosa è stato fatto per i mafiosi? Ad un certo punto nel '92 e '93 quando hanno tentato in qualche modo di ottenere qualche beneficio e si sono per caso molto discostati dai criminali che hanno ucciso e fatto le stragi invece nel terrorismo? Qual è la differenza? Perché deve essere premiale nei confronti di quelli che erano stati mossi da una ideologia politica e non per quelli che poi in fin dei conti sono stati solo esecutori di ordini? È qui che forse da una parte si capisce la motivazione reale del tentativo di ottenere i benefici della trattativa Stato-Mafia, perché ad un certo punto la mafia, intendendo con questo termine l'insieme dei mafiosi catturati, ad un certo punto si è resa conto che ciò che ha fatto si è rivolto contro lei stessa e che certi soggetti depistatori e conniventi con altri, sono finiti in carcere mentre altri no. Anche in questo caso allora che cosa è accaduto? È accaduto che chi ci si è avvicinato è stato punito. Sono stati puniti i magistrati, investigatori, politici ma soprattutto è stata punita l'Italia. L'Italia doveva essere punita, perché aveva cercato di diventare democrazia.

Le stragi di Falcone e Borsellino e quelle del '93 sono delle stragi anomale, soprattutto quella di Borsellino avvenuta 57 giorni dopo la morte di Falcone. È stato ormai provato che erano presenti servizi segreti e un collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, ha detto che c'era un soggetto estraneo a Cosa nostra quando si preparava l’esplosivo, un soggetto che quindi doveva provenire dallo Stato o comunque da poteri forti. È un dato di fatto che però nel 1994, dopo le stragi, abbiamo avuto come Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che ha governato per 20 anni e oggi il cofondatore di quel partito, Marcello Dell'Utri, è in carcere ed è anche lui condannato in primo grado nella trattativa Stato-Mafia. Oggi l'America ha ancora potere in Italia, queste trattative continuano? Il cordone ombelicale con gli Stati Uniti è stato tagliato?

Io non credo che questi cordoni siano stati tagliati perché i segreti di Stato sono ancora presenti. Quindi continuano queste situazioni fino a che non ci verranno mostrate le carte di Portella della Ginestra fino a quelle di ‘Stay behind’, Gladio e a quelle che riguardano tutti i traffici di armi i Col Moschin e Comsubin. Tutti i magistrati che si sono occupati di questi temi e che hanno approfondito queste strutture si sono trovati di fronte a segreti di Stato. Noi ci troviamo di fronte ad un Paese che teoricamente dovrebbe essere una democrazia, ma che in realtà non lo è perché le linee di demarcazione ci sono state date da altri. Quindi noi possiamo anche cambiare governi, ma se non ci vengono rivelati quelli che sono i patti segreti, le nostre regole risultano viziate. Io credo che noi abbiamo diritto alla verità, perché altrimenti la democrazia non è solo questione di sovranità sul territorio dello Stato ma è anche rappresentatività. Bisogna conoscere per sapere che cosa uno vuole e io credo che ormai siamo a 70 anni dall'inizio della nostra democrazia e che siano maturati i tempi per recidere queste collusioni che tengono concatenati non solo apparati militari, ma anche economici. Sulla base di questi segreti si sono infatti create società che hanno operato in altre strutture non solo italiane. Sappiamo ad esempio che tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio è avvenuto un fatto fondamentale, ossia lo sbarco del Britannia a Civitavecchia che ha fatto sì che l'Italia da settimo paese dell'economia mondiale venisse retrocesso a quello che è divenuto oggi. Questo evento non è ancora stato capito come fatto che rientra negli avvenimenti del '92 e, dato che risulta posto in essere in un contesto bancario che ricorre anche nelle indagini svolte sia da Falcone che in quelle svolte da Borsellino sull’agrigentino e i rapporti internazionali connessi alla guerra tra Stati Uniti e Saddam Hussein, gli aspetti bancari che emersero non sono da dimenticare. Non dimentichiamoci lo scandalo della Bnl Atlanta, connesso alle forniture belliche nei confronti di Saddam Hussein. Queste banche sono le stesse banche che poi svolgono un ruolo determinante nelle privatizzazioni che vengono decise esattamente in quel periodo, svolgendo tra l'altro un ruolo in particolare in Sicilia negli anni successivi in quanto vengono divorate le principali banche di Sicilia come il Banco di Sicilia e la Cassa di risparmio delle vecchie Due Sicilie. Questa è la pura e semplice realtà. Tutti questi misteri sono connessi e collegati. L'Italia è stata retrocessa ed è stata punita e noi oggi non facciamo altro che pagare le conseguenze di questa mancanza di democrazia incompiuta.

Secondo lei c'è ancora il rischio che possano accadere delle stragi nel nostro Paese se i suoi colleghi continuano questo lavoro di ricerca della verità?

Si tratta di possibilità che sono reali. Io non escludo assolutamente possibilità di questo genere, perché sono situazioni in evoluzione e quindi sono situazioni che possono esplodere da un momento all'altro, come dopo il periodo delle stragi del 2001 che hanno spostato l'attenzione negli Stati Uniti. Poi improvvisamente l'attenzione si è concentrata su Parigi con il Bataclan e quello che è avvenuto in seguito. Oggi gli equilibri sono instabili e quindi in qualsiasi momento possono costituire nuovamente oggetto di attenzioni e riflettori che possono servire per pilotare questi nuovi equilibri mondiali. L’Italia e la Sicilia sono al centro di tutto questo. Le vicende passate stanno ad indicare che il depistaggio, non era solamente previsto nei manuali. ‘Stay behind’ non è stato praticato solo in Italia ma anche in Vietnam, Afghanistan, Iraq, Iran, nella contrapposizione tra Corea del Sud e Corea del Nord, tra l’Italia del sud e l'Italia del nord. Noi viviamo un percorso già segnato e disegnato. Recitiamo una parte o almeno questo è quello che vorrebbero taluni che noi recitassimo. Oggi è molto difficile essere attori della propria vita ed è ancora più difficile esserlo per uno Stato. 

Oggi è più forte la massoneria rispetto al potere del Vaticano? Sono due soggetti separati?

Sono due soggetti separati perché il Vaticano a livello mondiale ha degli avversari di primo ordine. Ci sono anche altre religioni, però non dimentichiamo che il potere temporale della Chiesa è stato sempre presente. La massoneria ha radici più profonde e più antiche, perché rappresenta la storia dell'uomo quindi presenta dei legami e dei collegamenti internazionali anche trasversali molto più ampli. Certamente la Banca vaticana è determinante e istituzioni religiose, personaggi del passato hanno svolto dei ruoli che non sono stati chiariti. Ci sono state, da parte della Chiesa, delle preclusioni per l'accertamento delle effettive responsabilità. Io sostengo che non si dovrebbe fare chiarezza solo per i processi nei confronti dei sacerdoti pedofili, perché ci sono anche vittime di altro genere. Tutti noi abbiamo il diritto di conoscere le verità anche se sono compiute nell'ambito di istituzioni che hanno riferimenti religiosi. Io auspico che si trovino delle soluzioni anche per far emergere sotto tutti i fronti delle verità che sono state tenute nascoste in modo che io non ritengo ammissibile. 

In sostanza, dunque, è la massoneria che governa il mondo?

Ne sono profondamente convinto, perché direi che avviene tutto molto bene. L'esecuzione delle disposizioni dal passato ad oggi sembra che vengano disegnate da menti ben organizzate. Sarebbe assai preferibile che non fosse così, però purtroppo molti segni mostrano che le cose avvengono in questo modo. Carlo Palermo torna in libreria con "La Bestia". Giorgio Bongiovanni su AMDuemila il 22 Ottobre 2018. Tanto da magistrato quanto da avvocato la ricerca della verità è stata sempre il suo fine. Carlo Palermo, già giudice istruttore presso il Tribunale di Trento dal 1980 al 1985, anno in cui, da febbraio a ottobre, è stato sostituto procuratore presso la Procura di Trapani, ha scritto un libro (La Bestia - ed. Sperling & Kupfer) in cui ripercorre diversi accadimenti, a cominciare dalla strage di Pizzolungo, a Trapani, quella in cui morirono, al posto suo, la signora Barbara Rizzo e i suoi due figli, i gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe Asta, che stava accompagnando a scuola. Una vicenda che lo ha segnato profondamente. Anche dopo aver lasciato la magistratura, nel 1990, Palermo non ha smesso di indagare sui rapporti tra mafia e Stato ed anche se per l'attentato sono stati condannati boss mafiosi appare evidente che a voler eliminare il giudice non fosse solo Cosa nostra. In questa nuova pubblicazione vengono messi insieme una serie di elementi che evidenziano l'esistenza di una struttura occulta che regge le fila dei poteri politici, delle oligarchie finanziarie fino ai servizi segreti. Come è scritto nella sinossi le sue ricerche prendono corpo quando, nel 2016, scopre che pochi mesi prima di morire Giovanni Falcone aveva curato un'operazione segreta: l'estradizione negli Usa di un terrorista arabo, il primo fabbricatore di autobombe realizzate con l'esplosivo militare usato per gli attentati di Pizzolungo, dell'Addaura e di via d'Amelio. Uno scenario che lascia prefigurare una possibile chiave di lettura per le stragi che si sono consumate in quegli anni. Ma Palermo, nella sua pubblicazione, non si ferma a questo. Rileggendo vecchie carte ed atti processuali rimasti negli archivi, sviluppa nuove ipotesi legando tra loro l'omicidio dell'onorevole Aldo Moro, l'attentato a Papa Wojtyla, le stragi mafiose del '92, i traffici di armi fra Est e Ovest e la diffusione dell'islam estremista. Un'analisi che arriva fino agli attacchi terroristici alle Torri gemelle e al Bataclan, a Parigi. Così vengono messi in fila una serie di fatti e collegamenti criminosi documentati che mettono in evidenza l'esistenza di un gioco occulto che coinvolge servizi segreti, poteri politici e finanziari, cosche criminali, ma in cui le regole sono dettate da una sorta di "direttorio internazionale" radicato nella massoneria "superiore". Scrive Palermo che "le chiavi interpretative di questo complesso quadro sono massoniche. Sono nascoste nei palazzi del potere d'Italia, Francia, Svizzera, di Londra e New York". Ed è da questa prospettiva che prosegue l'inchiesta. Un libro da leggere, dunque, per capire e conoscere. E per conoscere di più basta anche seguire le vicende dell'inchiesta nel sito carlopalermo.net. Come annunciato dallo stesso autore qui verranno messe a disposizione le fonti documentali, anche quelle inedite, su cui si fondano le ricostruzioni descritte nel volume.

L'attentato: pezzi di verità per sconfiggere #Labestia. Lorenzo Baldo - Prima parte su AMDuemila il 10 Novembre 2018. Frammenti (ricomposti) di una storia occultata nel nuovo libro di Carlo Palermo. Tutto collegato. E’ questa la chiave di interpretazione che attraversa le oltre 400 pagine del libro “La Bestia - Dai misteri d’Italia ai poteri massonici che dirigono il nuovo ordine mondiale”. E sono proprio i collegamenti - noti o sconosciuti - tra fatti e circostanze, nazionali e internazionali, ad emergere prepotentemente nella ricostruzione dell’ex pm Carlo Palermo, autore del libro edito da Sperling & Kupfer. Sopravvissuto alla strage di Pizzolungo del 1985, nella quale morirono Barbara Rizzo, 30 anni e i suoi due gemellini Salvatore e Giuseppe Asta, 6 anni, Carlo Palermo porta sempre con sé il dolore, la rabbia e il senso di impotenza per non avere ancora ottenuto tutta la verità su quello Stato che ha armato la mano di Cosa Nostra per cercare di eliminarlo. Ma è soprattutto la sua spasmodica, disperata e non ancora conclusa ricerca di quella verità - che fa molta paura alla nostra Repubblica - a gridare forte nelle parole che si susseguono nervose sulla carta. Parole che confermano la tesi iniziale: è tutto collegato. Non si può comprendere chi - in Italia o dall’Atlantico - muove i burattini che compiono le stragi nel nostro Paese se non si collegano i pezzi di tante storie segnate dal sangue di innocenti. Uomini, donne, bambini accomunati dallo stesso destino: uccisi per una ragione di Stato, o per quel “Lodo Moro”, di cui tanto si parla nel libro, al punto da citare le stesse parole di un profondo conoscitore dell’argomento come l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. L’ex giudice Palermo è un fiume in piena: nomi, numeri, date, riferimenti documentali, testimonianze dirette e indirette, e poi ancora collegamenti con inchieste archiviate, finite su binari morti e soprattutto ostacolate, tolte dalle loro sedi naturali per essere smembrate altrove con il timbro di giudici compiacenti. “La Cassazione aveva stabilito il trasferimento a Venezia di tutti i processi da me istruiti. In quei cinque anni (dal 1980 al 1984, ndr) mi ero scontrato con la mafia turca, quella siciliana, la ’ndrangheta, i trafficanti di droga e di armamenti, i servizi segreti, la massoneria e certi politici. Con il diktat proveniente da Roma, le mie carte avevano preso la strada di Venezia e io avevo chiesto di essere assegnato alla Procura di Trapani”. Il primo flashback racchiude in sé tutta la tragedia che si sta consumando. E’ la fine del 1984, mancano pochi mesi alla strage di Pizzolungo. 

L’arabo degli abissi. La ricerca di Carlo Palermo parte dall’esame testimoniale, a Washington, del giudice Charles Rose, nelle indagini sulla strage di Capaci. L’ex pm racconta di questo magistrato degli Stati Uniti che era stato in contatto con Giovanni Falcone quando si trovava a Palermo e poi quando era a Roma a dirigere l’ufficio affari penali al ministero di Grazia e giustizia. “Rose viene interrogato nel novembre del 1993 da tre nostri magistrati che indagano sulla strage. Cercano di verificare a quando risalga l’ultima visita di Falcone negli Stati Uniti”. “Noto (nell’atto di citazione, ndr) il nome di un arabo a cui nessuno ha mai prestato attenzione (Khalid Duhham al-Jawary, ndr). Possibile che negli aspetti rimasti oscuri in quella strage, mi domando, sia esistita anche una sconosciuta componente terroristica?”. L’ex pm di Trento si domanda se l’arabo preteso nel 1991 dagli americani “fosse uno di quelli protetti con quei vecchi patti, poi denominati "Lodo Moro" con una terminologia, tuttavia, non del tutto corretta, in quanto costituirono espressione di volontà di interi nostri governi e non solo del politico democristiano sequestrato dalle Brigate rosse nel 1978”. Seguendo la ricostruzione emerge che il terrorista estradato da Falcone “risulta di parte palestinese; anzi appare stretto sodale dei due più terribili terroristi dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di quell’epoca: Salah Khalaf alias Abu Ayad, capo dei servizi di sicurezza di Arafat, e Abu al-Hol, capo della famosa Forza 17, il piccolo esercito clandestino dell’OLP incaricato anche dei suoi lavori sporchi”. “Come mai quest’arabo, legato a simili tradizionali "amici" dell’Italia, non venne protetto nel nostro Paese e fu invece consegnato agli americani in un accurato silenzio?”. E’ lo stesso Palermo a fornire una possibile chiave di lettura. La pretesa degli americani di ottenere l’estradizione del terrorista arabo “sembra quindi diretta a colpire e porre fine a quei segreti patti stipulati fra l’Italia e i palestinesi mai approvati dagli Stati Uniti e ormai forse ritenuti superati dalla fine della Guerra fredda”. Per l’autore del libro esiste un preciso collegamento tra l’estradizione di quell’arabo, le forniture di armi all’Iraq e gli accertamenti svolti da Paolo Borsellino a Mannheim, dove sarebbe dovuto andare il giorno dopo la strage di via d’Amelio. Per Carlo Palermo si tratta di una “chiave occulta” che spiega i rapporti tra il mondo arabo, Cosa Nostra, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e alcuni nostri noti politici.

Pizzolungo: quella macchia rossa sul muro. “Il tempo si ferma. Tutto si ferma. L’esplosione, il fuoco, il calore, lo spostamento d’aria, sono appena percepibili”. Il racconto del magistrato sopravvissuto alla strage di Pizzolungo è come un viaggio all’inferno. “È solo una frazione di secondo. Non c’è il tempo di chiudere gli occhi. Il cofano anteriore schizza per aria. Il vetro del parabrezza si frantuma. L’intera auto si accartoccia verso di me. Dagli squarci della carrozzeria si aprono spicchi di cielo. Il tempo è fermo. Sto morendo. Questo è l’attentato. Dio, mi pento... Il buio. Sono in piedi, fuori dall’auto. Salvo. In piedi. Sulle mie mani non vedo un graffio. Come sono uscito? Attorno non c’è nessuno. Da quel che resta della vettura si alza del fumo scuro. Un ronzio nelle orecchie è l’unica cosa che percepisco. Aiuto Maggio (Rosario, l’autista, ndr) a venire fuori dalla porta posteriore. Ha una profonda incisione sul volto. Mi porto la mano al capo. Mi stacco dai capelli un pezzo di lamiera bruciata, che cade per terra. Lo raccolgo. Mi tocco la faccia. Gli chiedo: 'Ho ferite?' 'No, dottore. Ce l’abbiamo fatta'”. Ma tutt’attorno regna la morte. “Un allucinante silenzio scandisce i secondi. Prendo la mia borsa in pelle che è ancora sul sedile. Schiacciata dalla lamiera, che è arrivata sino lì. La poggio sul prato. Non ho più gli occhiali. Ci vedo poco. Guardo verso la Ritmo della scorta. Si trova una ventina di metri indietro. Tra le due auto c’è per terra uno degli agenti che la occupavano (Raffaele Di Mercurio, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta, ndr). Ha ancora il giubbotto; il casco è spostato lì vicino. Sulla guancia un buco largo, netto e profondo alcuni centimetri, lascia vedere un pezzo di ferro incastrato dentro. Si lamenta, sussurra 'mamma'. Non ho parole, non ho lacrime. Ritorno verso la mia macchina. Sulla destra nella strada c’è una voragine di metri. Vedo per terra piccoli frammenti di lamiera di altri colori. Un flash nella mente mi fa muovere di scatto la testa. Le altre macchine? Dove sono? Scomparse. Mi giro attorno. Vedo tutto offuscato. Una macchia rossa in alto sulla parete di una casa richiama la mia attenzione. Mi avvicino. C’è un cancello, chiuso. All’interno, per terra, in corrispondenza della macchia in alto, piccoli resti... di un bimbo... di un elastico... fogli svolazzanti di libri di scuola. Ho gli occhi umidi. Ritorno alla mia auto. Vado avanti fino a un distributore di benzina. A una cinquantina di metri. Persone immobili, attonite, guardano mute. Chiedo un bicchiere d’acqua. Ritorno alla mia auto. Guardo l’ora. È sempre la stessa. Quindici minuti alle nove. Il tempo non passa mai. Mi gira la testa. Incomincia a dolermi il piede destro. Cerco le sigarette. Nella tasca del giubbotto trovo la mia penna. È completamente frantumata. Mi accendo una sigaretta. Mi siedo sul prato accanto alla macchina. Attendo”.

L’ombra nera di Craxi. E’ una presenza ingombrante quella dell’ex Premier socialista. Il viaggio a ritroso dell’autore ci riporta nel 1983. Le indagini di Carlo Palermo si incrociano con la figura di Bettino Craxi. Il suo nome viene accostato a forniture militari all’Argentina in cambio dell’appalto per i lavori della metropolitana di Buenos Aires. “Nel mese di giugno (del 1983, ndr), a seguito di una soffiata anonima - racconta l’ex magistrato -, sequestrai documenti che chiamavano in causa l’onorevole Bettino Craxi, che il 4 agosto 1983 sarebbe diventato presidente del Consiglio. Iniziai a svolgere verifiche sugli ambienti circostanti il PSI e in particolare su forniture di armi all’Argentina, alla Somalia e al Mozambico nel quadro della cooperazione governativa. Le reazioni furono durissime. Nel dicembre del 1983 procedevo su un doppio fronte: da un lato disponevo perquisizioni e sequestri di documenti su una società finanziaria di proprietà del PSI e dall’altro chiedevo al direttore del SISMI, Ninetto Lugaresi, documenti sulla cooperazione, in particolare sulla Somalia. Fu allora che Craxi si rivolse al procuratore generale della Cassazione, che intervenne immediatamente contro il mio lavoro. I provvedimenti che avevo emesso nei confronti di società legate al PSI mi vennero restituiti senza essere eseguiti. L’indagine rimase bloccata. Mi furono contestati abusi sia dal punto di vista disciplinare che penale. Mi si addebitò il mancato invio di una "comunicazione giudiziaria" al presidente del Consiglio. Altri reclami si aggiunsero da parte di imputati e avvocati”. Il 3 febbraio 1984 Bettino Craxi affida alle colonne de “Il Giornale” una sua lettera “che merita la prima pagina, in cui lamenta che io 'abbia provveduto ad estendere l’azione stessa anche alle violazioni commesse in danno mio e dell’onorevole Pillitteri [suo cognato]', auspicando che 'sul comportamento del giudice Palermo, rilevato e denunciato da molti mesi in pubbliche assemblee di avvocati con documentate accuse di abuso di potere, interesse privato in atti d’ufficio falsità ideologica ed altre violazioni di legge, mi auguro, come ogni cittadino, che sia fatta luce e giustizia nelle sedi competenti'”. Scatta il conto alla rovescia. La condanna a morte di Carlo Palermo è stata emessa. “Il 23 giugno (1984, ndr) sento che per me è scoccata l’ora delle decisioni. Prendo carta e penna e denuncio il finanziamento illecito del PSI al presidente della Camera Nilde Iotti e al presidente del Senato Francesco Cossiga. Il 17 luglio inoltro ancora a loro altri documenti sequestrati 'sui rapporti militari italo-argentini, sui rapporti militari italo-somali, sulle connessioni del traffico di armi con la P2, con attività dei servizi e terrorismo (Brigate rosse)'. Allego anche le stesse intercettazioni telefoniche confluite nella mia inchiesta, sulle quali effettuerò, trentacinque anni dopo, le odierne ricerche”. In quello stesso periodo “malgrado le fortissime pressioni a cui ero sottoposto, denunciai Craxi alla Commissione inquirente per il reato di finanziamento illecito al PSI, nonché per vicende legate ai traffici di armi. Nelle mie carte comparivano personaggi noti come Lelio Lagorio, Gianni De Michelis, Paolo Pillitteri, e altri allora meno conosciuti, tra cui Ferdinando Mach di Palmstein, Silvano Larini, Augusto Rezzonico”. Il 20 novembre 1984 arriva però la mannaia della Cassazione. “Fu accolta un’istanza presentata in segreto da imputati, avvocati e dallo stesso procuratore generale della Corte d’Appello di Trento, Adalberto Capriotti”. Capriotti è proprio l’ex direttore del Dap che dieci anni dopo, nel '93, non prorogherà oltre 300 decreti di 41bis, finendo per essere indagato per false informazioni ai pm nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.

Cronistoria. Merita di essere raccontata nel dettaglio la storia appena citata. E’ il 17 giugno 1983, Carlo Palermo riceve per posta due lettere anonime contenenti riferimenti a traffici di armi e in particolare “una spedita da un italoargentino di nome Gaio Gradenigo a una società di Milano, la Body Protector, apparentemente collegata ai traffici di cui mi occupo”. I documenti dai quali emergono il nome di Bettino Craxi e di “personaggi di area PSI assai noti in Argentina”, riguardano “forniture di armi italiane e appalti ricevuti in contraccambio”. Il racconto dell’ex pm prosegue fitto: “Che cosa scopro oggi? Intanto scopro che la Body Protector di Milano è collegata ai nostri servizi: in particolare al covo delle Brigate rosse di via Giulio Cesare (di proprietà di un’agente del KGB, poi assolta) e a giubbotti antiproiettile (da essa fabbricati) ceduti, a scopo commerciale, ai brigatisti (che comparivano nelle famose intercettazioni telefoniche disposte dal magistrato Piercamillo Davigo). Inoltre risulta collegata a Gaio Gradenigo per rapporti con militari argentini; è anche possibile ricondurla, verosimilmente, a fornitori militari di Gladio in Perù, nell’Operazione Lima del SISMI del 1987, anch’essa sottoposta a segreto di Stato”. L’analisi dell’ex pm è sempre più circostanziata. “Oggi conosco qualcosa di nuovo proprio su Gradenigo, l’autore della lettera che chiamava in causa Bettino Craxi. Nel 2016, infatti, ho fatto una scoperta sconcertante: Gaio Gradenigo in passato aveva fatto parte della milizia fascista, ovvero della GNR, la Guardia nazionale repubblicana nella Repubblica sociale italiana”. L’autore spiega che nell’interrogatorio Gradenigo “chiama in causa militari argentini, affaristi, industriali italiani e anche Bettino Craxi per i suoi interessi collegati agli elicotteri costruiti dalla società Agusta (guidata da un socialista, Raffaele Teti) e da fornire all’Argentina, ricevendo in possibile contraccambio l’assegnazione dei lavori per la metropolitana di Buenos Aires. Proprio durante questa mia missione a Buenos Aires qualcuno lascia nel frigorifero della mia camera d’albergo un biglietto scritto a penna contenente il primo avviso su ciò che in un futuro mi sarebbe dovuto accadere: sarei saltato per aria”. L’ex giudice Palermo ha indubbiamente superato il limite “consentito”. Di ritorno da Buenos Aires, trova sulla sua scrivania anche un’altra busta ufficiale, giunge del capo di gabinetto del ministro di Grazia e giustizia. Al suo interno c’è un appunto “riservato” del vicecapo di gabinetto del ministero dell’Interno. Oggetto: possibile azione terroristica in Trento. Riguarda lui. Il 15 dicembre 1983 dopo aver interrogato come teste l’on. Giulio Andreotti l’ex pm parte per Reggio Calabria, dove si tiene un convegno sulla criminalità. Ed è lì che lo raggiunge un’urgente comunicazione di mettersi subito in contatto con il presidente del Tribunale di Trento, Rocco Latorre. Che gli riferisce di aver ricevuto alcuni fonogrammi da parte del procuratore generale della Cassazione, Giuseppe Tamburrino. Quest’ultimo lo accusa di avere compiuto atti contro parlamentari minacciandolo di provvedimenti cautelari e cioè di sospenderlo dal servizio. “Alla Procura generale della Cassazione chiedo di parlare con il procuratore generale. Lui è presente, ma non mi riceve. Devo attendere. Mi viene indicato un suo sostituto procuratore generale. È anziano e mi scruta con occhio assai torvo. Si chiama Guido Guasco. Gli spiego la vicenda senza sbilanciarmi sulle carte che ho e che lui mi chiede di conoscere. Mi intima senza mezzi termini di 'non compiere più alcun altro atto'”. 

Craxi e Pizzolungo nelle parole di Luigi Ilardo. Pesano come macigni le parole dell’ex confidente del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio, Luigi Ilardo. L’ex boss della famiglia mafiosa di Caltanissetta, ucciso il 10 maggio 1996, prima che formalizzasse la sua decisione di collaborare, aveva parlato della strage di Pizzolungo. Vent’anni fa. “L’intesa tra la mafia e il PSI - aveva dichiarato Ilardo - nasce intorno al 1985, anno in cui quel partito aumenta le preferenze nella regione Sicilia. Tale accordo trova suggello con l’attentato eseguito da esponenti di Cosa nostra al giudice Carlo Palermo, su richiesta dei vertici del PSI [...]. Quando avviene l’attentato a Carlo Palermo, io ero ristretto a Favignana [...]. A un certo punto arrestano Vincenzo Milazzo, imputato per questa cosa, e un altro di là, un certo Calabrò [...]. Il vero motivo per cui era successa questa strage era che il giudice Palermo aveva alzato la testa e stava indagando su fatti pochi chiari che riguardavano la condotta del PSI in generale e la posizione di Craxi in particolare e qualche altro del suo entourage”.

Craxi, Gladio, P2 e quelle XI Tavole per indicare #Labestia. Lorenzo Baldo - Seconda parte su AMDuemila l'11 Novembre 2018. Sfogliando le pagine del libro si arriva alla sentenza dalla Corte d’Appello di New York del 10 maggio 1984 attraverso cui la Corte distrettuale di New York condanna la Artoc Bank a restituire al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi quindici milioni di dollari, da versare a una consociata del Banco Ambrosiano in Perù. “Mi domando dove siano finiti questi soldi dopo la sua morte - scrive Carlo Palermo - e poi lo chiedo anche al figlio di Roberto Calvi, ma senza ottenere risposte. Nel 1987 in Perù, località nemmeno rientrante nelle competenze della nostra Gladio né dell’ultima cellula operativa Scorpione, appena formata a Trapani, avverrà una strana missione segreta dei nostri servizi, su ordine di Bettino Craxi, da allora a oggi sottoposta a segreto di Stato, per contrastare, si dirà, i guerriglieri di Sendero luminoso. Tuttavia proprio in quel Paese risiedeva la 'società controllata del Banco Ambrosiano in Perù', in favore della quale la Corte distrettuale di New York pronunciava nel 1984 la sentenza di condanna”. L’immagine che esce dalla composizione di questo mosaico è quello di un potere criminale che attraversa gli stati di tutto il mondo e che obbedisce a logiche ben definite. “Dopo tanti anni - sottolinea l’ex pm - mi sembra di vedere come in un film quel giudice di Trento che si rode per lo stop inflitto all’inchiesta mentre scopre le proprietà del PSI riguardo a quelle società indagate nelle operazioni di esportazioni di armi. Lo vedo recarsi a Roma, incredulo e deciso ad andare fino in fondo, per un incontro con il ministro di Grazia e giustizia Mino Martinazzoli con in mano un esposto contro l’onorevole Craxi (che conservo come ricordo). Dopo averlo letto, il ministro mostra un volto serio e accigliato e dice: 'Se anche il presidente del Consiglio, intervenendo in quel modo, dovesse avere sbagliato, io, come ministro di Grazia e giustizia, che cosa potrei fare?'”. 

Un’inchiesta smembrata. Nel 1996 un ex collega di Torre Annunziata (Na) chiede a Carlo Palermo di aiutarlo a rintracciare vecchi documenti. “Il 10 novembre (‘96, ndr) andai a Venezia. Nell’archivio del tribunale, insieme a un magistrato della locale procura e agli investigatori, scoprii che quegli atti erano quasi tutti spariti, distrutti, cancellati. Ne restavano frammenti in uno scantinato. Faldoni aperti, fogli sparpagliati a terra. L’inchiesta di Trento finita così, fatta a pezzi. La denuncia che presentai non ha mai avuto una risposta”. La consapevolezza di Carlo Palermo racchiude una profonda amarezza. “Oggi sarei un bugiardo se dicessi che già allora sapevo tutto. No, non avevo capito molto. Mi ero però imbattuto in alcuni nomi importanti, non solo italiani ma anche stranieri, e avevo intuito che tutto era collegato: dalla droga alle armi, dai servizi deviati al terrorismo e alla politica, dal Libano alla Sicilia, a Trapani, agli americani e ai russi, ai turchi e ai siriani”.

Tracce di un “depistatore”. Ma cosa c’entra con Carlo Palermo l’ex questore del capoluogo siciliano, Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, più volte citato nell’inchiesta sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio?. E’ lo stesso autore a spiegarlo. “Di sicuro l’inchiesta di Trento, sin dal suo inizio, nel 1980, apparve frontalmente e formalmente contrastata dalla polizia giudiziaria e dalla magistratura di Venezia; in particolare da un dirigente ben preciso della sua Questura (più esattamente della Questura di Mestre), Arnaldo La Barbera, solo di recente individuato come possibile 'depistatore', nelle indagini sulla mafia negli anni Ottanta e Novanta. L’inchiesta si aprì a Trento con i più rilevanti sequestri di stupefacenti dell’epoca (circa duecento chili di eroina pura e di morfina base). Ma l’indagine corse il rischio di rimanere subito bloccata”. Ecco che entra in scena Arnaldo La Barbera che qualche anno dopo sarebbe stato affiliato al Sisde con il nome in codice di “Rutilius”. “Negli atti di sequestro firmati da La Barbera, questi non indicò la fonte che ne aveva consentito il rinvenimento per proteggere la 'sua incolumità'. Tuttavia gli specifici luoghi in cui la droga era stata recuperata, in bidoni sepolti sotto metri di terra, potevano essere conosciuti solo da chi l’aveva riposta lì”. “Il 31 dicembre 1980 - ricorda l’ex pm - nel mio ufficio di Trento, interrogai lui (Arnaldo La Barbera, ndr) e i suoi agenti. Dopo ammonimenti vari, sia La Barbera sia gli agenti della sua squadra ammisero di aver fatto uscire dal carcere di Venezia, d’accordo con un magistrato, il più importante socio di Karl Kofler (imputato nell’inchiesta di Trento), il turco Arslan Hanifi. Grande gloria per chi aveva condotto l’operazione. Ma la prova contro l’imputato era stata cancellata. Non figurando nomi, lui e i complici sarebbero rimasti fuori da ogni possibile indagine”. Certo è che “l’investigatore 'speciale' La Barbera continuerà invece a operare, anche di nascosto, per i nostri servizi (SISDE), tra Venezia e Palermo. Craxi e Martelli governeranno. Poi cadranno”. 

Le “XI Tavole”. Carlo Palermo non ha dubbi: è questa la chiave dei collegamenti fra traffici internazionali di armi, terrorismo e massoneria. “XI Tavole”, è così che le chiama l’ex magistrato. Si tratta di appunti, scritti a penna (che risalgono alla fine del 1983 o al massimo ai primi di gennaio del 1984) provenienti dal Comando generale del IV reparto della Guardia di finanza di Roma (da pag. 367), “quel suo supremo organo che opera in contatto con i nostri servizi di sicurezza”. L’ex pm sottolinea che il documento risulta consegnato alla Commissione parlamentare sulla P2, presieduta dall’on. Tina Anselmi, il 23 gennaio 1984, in un periodo in cui la stessa era in contatto con l’avv. Palermo. Carlo Palermo scopre queste “tavole” per la prima volta nel 2015, spulciando tra gli atti della Commissione P2. “E parlano proprio di coloro che cerco adesso, i 'sopravvissuti di Settembre nero' e in particolare quelli presenti nella mia vecchia inchiesta di Trento. Non le ho mai viste prima. Eppure quadrano perfettamente con le intercettazioni telefoniche, con i documenti allora sequestrati e anche con... le mie arrabbiature di allora nei confronti della Guardia di finanza”. L’ex giudice Palermo lamenta che a gennaio del 1984 queste indicazioni “avrebbero potuto confermare le mie indagini mentre ero sotto attacco da parte di tutte le istituzioni dello Stato. Nessuno me le ha mai mostrate. In esse si spiega non solo il ruolo dei palestinesi, ma anche l’intreccio di circa duecentosessanta nomi in torbide vicende di armi, di droga, di banche, di affari, di terrorismo dall’ultimo dopoguerra e anche da prima”.

La fonte occulta. “Nella lettera che accompagna questo documento viene scritto che provengono da 'fonte [...] non valutabile'”. La prima pagina delle “XI Tavole” è un organigramma, una sintesi, con quaranta nomi. “Al centro indica i principali personaggi allora presenti nell’inchiesta di Trento (Massimo Pugliese e Giuseppe Santovito, entrambi della P2, ex dei servizi segreti e allora imputati nei traffici di armi nell’inchiesta di Trento). Ai lati, sopra, sotto, a destra e sinistra, sono indicati numerosi altri personaggi di tutto il mondo. Alcuni di questi li conoscevo già all’epoca. Altri li ho incontrati in seguito. Altri ancora li apprendo soltanto adesso, sconosciuti, potenziali indagati, di allora e del futuro, sino a oggi. L’intero documento è dedicato ai traffici internazionali di armi, di droga, dei massimi affari di ogni tempo, del petrolio, dei rifiuti tossici, di omicidi, stragi, terrorismo, strategie della tensione, P2, massoneria, ordine mondiale”. L’ex pm evidenzia che “nella sintesi, a scendere sulla sinistra sono stati scritti nomi di faccendieri arabi e americani, dal Nord al Sud, legati a traffici internazionali di petrolio, armi e droga. Sulla destra viene indicata, in pochi passaggi, la catena dei flussi finanziari della Sicilia, ovvero quella chiave di lettura mai individuata né tantomeno oggetto di organiche indagini da ieri a oggi”. L’autore si addentra in un pericoloso labirinto che contiene centinaia di nomi, di citazioni, di fatti, di date, “di episodi, tra i più eclatanti della storia d’Italia, da quelli stragisti ad altri affaristici, finanziari e politici”. “In tutta la memoria non compare mai il nome del suo verosimile autore: Stefano Giovannone, ovvero il capogruppo dei nostri servizi segreti militari a Beirut dal 1972 al 1981, liquidato dagli stessi servizi perché risultato appartenente, anche lui, alla P2. Nonché, come sin da allora noto, in stretto rapporto con i fondatori di ‘Settembre nero’”. 

Le parole di un Gladiatore. “Dottore, per capire l’origine del patto tra lo Stato e la mafia bisogna risalire al dopoguerra e al ruolo svolto da quel vecchio aeroporto...”. E’ il 2016, Carlo Palermo incontra a La Spezia un ex appartenente a Gladio. Che non ha remore a raccontargli quanto di sua conoscenza. “Per quei traffici di armamenti che la interessano, dottore, viene spesso citato un aeroporto di Trapani, quello di nome Chinisia, ma per capire l’origine di quei traffici, non della ‘trattativa’ tra lo Stato e la mafia, ma del ‘patto’ Stato-mafia, bisogna risalire all’altro aeroporto. Quello di Milo”. Il racconto prosegue fitto. “Prima della guerra, la struttura SIM, ovvero il Servizio informazioni militari, si trova, come saprà [in effetti lo ignoro] a San Vito Lo Capo, vicino Trapani, e comprende due aeroporti, quello di Milo e quello di Chinisia. Il primo viene usato per i caccia, il secondo per i ricognitori. Quei campi di volo poi vengono presi dagli americani. L’aeroporto di Milo nacque come importante campo di volo della Regia aeronautica sin dagli anni Trenta e venne utilizzato durante la Seconda guerra mondiale. Poi, dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia nel luglio del 1943, fu usato dall’aviazione USA sino al dopoguerra. Venne abbandonato circa nel 1947, perché gli fu preferito quello di Chinisia. Nel 1961 i voli vennero spostati a Birgi, il nuovo aeroporto nella contrada vicina”. L’ex Gladiatore chiarisce quello che a suo dire è un pensiero errato. “Comunemente si ritiene che l’aeroporto militare di Milo sia stato in uso solo sino al 1947 o al 1949. In realtà non è così. Dopo l’abbandono, Milo rimase un campo d’atterraggio ‘fantasma’, in gestione a famiglie mafiose. Sono state queste, e non altri, a occuparsi dell’uso dell’aeroporto per fini militari. Sin dal 1974, e cioè da quando ho iniziato la mia attività lì”. Con la testa indica la sede del Comsubin (Comando subacquei e incursori “È un reparto della Marina, molto segreto, fa parte delle forze speciali italiane, svolge operazioni anche di guerra non convenzionale in ambiente acquatico e di difesa subacquea, e altro. Io provengo da lì...”). “Si sapeva che era la famiglia Virga a provvedere alla manutenzione dell’aeroporto - prosegue -. Il campo era abbandonato e pieno di erbacce alte così. All’improvviso i Virga lo ripulivano perfettamente e lo rendevano idoneo per l’atterraggio. Erano i loro uomini, persone distinte della zona, e non i militari, a dare accoglienza a quelli che atterravano e che poi prendevano in consegna quanto veniva scaricato lì...”. “Quelli che accoglievano i militari e li mettevano a proprio agio erano civili. Erano operazioni ‘coperte’, nascoste, per carico e scarico di materiali”.

Craxi, Forza Italia e quei 20 miliardi dal Perù. Il Gladiatore gli parla quindi dell’operazione “Lima” che a suo dire “dovrebbe essere consistita nel recupero di circa cinquecentosettanta milioni di dollari e svariati milioni in promissory notes (cambiali internazionali)”. “Craxi - sottolinea - dovrebbe avere ricevuto, in utilità, un totale di venti miliardi di lire. Il grosso però a quanto pare è finito in un’area di Mogadiscio controllata dall’imprenditore e trafficante Giancarlo Marocchino” (l’imprenditore sul quale non sono mai state chiarite alcune ombre relative all’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ndr). “Ma tutto proveniva dal Perù?” gli chiede Carlo Palermo. “No - replica il Gladiatore - in questi venti miliardi ricomprendo anche i contributi di svariata natura elargiti dal FAI (Fondo aiuti internazionali)”. “E per che cosa vennero utilizzati quei fondi?, lo incalza l’ex pm. La risposta è disarmante: “Vennero utilizzati in particolare per la costituzione della nascitura Forza Italia”. L’ex agente Gladio fa intendere che queste sarebbero le uniche informazioni riferitegli da Vincenzo Li Causi prima che restasse ucciso in un misterioso incidente in Somalia. 

Stato-mafia, un patto infinito. Il discorso si chiude così come era iniziato: il “patto” tra Stato e mafia. “All’epoca dell’attentato di Pizzolungo chi comandava era Messina Denaro padre, don Ciccio. Lì c’era [...] quel patto che non era soltanto tra alcuni settori del nostro Stato con la mafia, ma era soprattutto tra gli Stati Uniti, Stay-behind e Cosa Nostra”. Carlo Palermo si dice convinto che quel patto “era stato imposto prima ancora dalla massoneria, in quanto supremo potere occulto”. “Sì - prosegue l’ex magistrato - c’era quel mostro intuibile dietro Portella delle Ginestre, dietro il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, dentro i palazzi vaticani contro papa Luciani e contro papa Wojtyla, così come a Valderice contro Ciaccio Montalto, a Palermo contro Chinnici, a Pizzolungo contro di me, all’Addaura contro Falcone, nelle stragi degli anni Novanta, a Civitavecchia, a Palermo, Roma, Firenze e Milano contro chi avrebbe potuto osare di avvicinarsi alla verità”. Un “mostro” che negli anni a venire si sarebbe scagliato contro il pool di Palermo, Nino Di Matteo in primis, per aver osato indagare sul cuore nero del nostro Stato. 

Verità e Kintsugi. “Tornerò a Trapani, a Pizzolungo e pure a Erice - conclude Carlo Palermo -. Questa volta non lo farò per partecipare a celebrazioni. Cercherò di finire quel lavoro che lì ho iniziato e che ho dovuto interrompere. Qualcosa, sono sicuro, salterà fuori. Spero la verità”. Una verità scomoda, a tratti sconvolgente, che però può ricostruire ciò che è stato distrutto dalla furia omicida di uno Stato-mafia. Tornano in mente le parole di Margherita Asta, unica sopravvissuta della strage di Pizzolungo. Per ricomporre i pezzi di questo mosaico smembrato, Margherita si affida simbolicamente alla tecnica giapponese chiamata “Kintsugi”. I segni indelebili di una lacerazione che ha marcato a fuoco la nostra storia non devono essere nascosti, devono essere invece accentuati, resi ancora più visibili e valorizzati con un materiale prezioso: la verità.

Alessandro Cecchi Paone sospeso: il rapporto tra mondo profano e massoneria è occulto. Stefania Limiti su Il Fatto Quotidiano il 15/7/2021. Se sei massone devi stare zitto. Punto. Alessandro Cecchi Paone, invece, noto giornalista a cui non fa difetto il protagonismo, è un tipo che parla e parla e parla… Lo ha fatto di recente anche per il numero speciale di FqMillennium sulle logge massoniche, rivelando non solo di essere massone – lo aveva già detto nel 2005 – ma di essere anche un massone di un certo calibro proveniente da una famiglia massonica e prendendosi la scena. Naturalmente cita le origini mazziniane della sua famiglia, come se Giuseppe Mazzini fosse stato un massone – noto refrain – e non un antimassone (si veda i suoi Doveri dell’uomo). La faccenda non è piaciuta al Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi – Paone è iscritto alla Loggia 844 “Cinque Giornate” di Milano, una delle 35 logge milanesi e delle 75 in Lombardia, aderendo al Goi – che, persa la pazienza, non ha nascosto la sua ira chiamando a fare il loro dovere gli organi interni, sospendendo il massone chiacchierone che ha parlato del suo grembiulino rappresentando il Grande Oriente d’Italia nel mondo profano, come fosse lui il Gran Maestro. Tutta la questione dovrebbe interessarci perché non si tratta di una lite tra condomini ma di qualcosa che ci racconta delle regole massoniche e di come fondamentalmente la segretezza sia qualcosa di invalicabile per questo mondo. La massoneria pretende di rappresentare gli elevati nel mondo, di orientare i profani, di instillare il sapere, attraverso i legami speciali e il circuito reale della “catena”, detta dell’Unione, con cui ogni membro massone è legato agli altri: sembrano ambizioni innocenti, finanche apprezzabili, se non fosse che questo, calato nel semplice mondo profano, significa fondamentalmente l’orientamento degli affari pubblici, l’indicazione e la selezione delle classi dirigenti. Significa la pretesa di dare forma allo Stato nel laborioso silenzio della propria obbedienza. La segretezza non riguarda solo le logge, ovviamente, ma tutti quei gruppi che pur stando nel mondo con più disinvoltura tuttavia tessono le proprie reti, facendo ben attenzione a non renderle pubbliche: si pensi a Comunione e Liberazione, ad esempio. La sospensione di Cecchi Paone ci parla di questo, del rapporto tra mondo massonico e quello di noi profani: un rapporto occulto, a nessuno è dato scavalcarne i confini.

Estratto dell’articolo di Luciano Murgia per pu24.it il 14 luglio 2021. Viviamo settimane che hanno visto undici azzurri in campo, gli altri in panchina e milioni di italiani davanti alle Tv cantare Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa, Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò…Perché fratelli d’Italia? Perché i massoni si chiamano fratelli ed erano massoni sia Goffredo Mameli, l’autore del testo, sia Michele Novaro che lo musicò. Mameli si rivolgeva prima di tutto ai fratelli massoni, protagonisti del Risorgimento, che lottarono fino a morire, come Mameli a soli 22 anni, per liberare l’Italia dalla monarchia sabauda e per abbattere lo Stato pontificio. Mameli era mazziniano, Mazzini era massone, come Giuseppe Garibaldi. Due grandi che hanno fatto l’Italia, con la complicità – è giusto riconoscerlo – di grandi potenze. Potete immaginare i Mille che partono da Quarto e sbarcano a Marsala senza la complicità della flotta inglese?

“LA MIA MASSONERIA ERA UNA COSA SERIA, ORA TUTT’AL PIÙ SONO DELLE LOBBY, ATTORNO A CUI SGUAZZANO CRIMINALI E INTRALLAZZATORI”. Dagonews il 13 luglio 2021. “Spesso si fa un abuso denominando “loggia” questi gruppi di potere che con le vere logge della massoneria non hanno nulla a che fare”. Parola di Giuliano Di Bernardo, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia negli anni drammatici che vanno dal 1990 al 1993 – anno in cui si dimise denunciando le connessioni fra massoneria e criminalità organizzata – intervistato da Marco Lillo su FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da sabato 10 luglio con inchieste e approfondimenti sulla massoneria. “La massoneria che ho conosciuto io era una cosa seria, tutt’altra cosa da queste situazioni”, continua Di Bernardo, incalzato sulla reale natura della “Loggia Ungheria” di cui si legge nei verbali dell’avvocato Piero Amara. “La P2 era una loggia del Grande Oriente d’Italia. Quindi tutto ciò che ha fatto Gelli lo ha fatto all’interno della massoneria. Queste logge di cui si parla nelle più recenti inchieste, la P3, la P4, ora la Loggia Ungheria, tutt’al più sono delle lobby impropriamente denominate “massoneria”. Però potrebbero esserci legami reali con le logge massoniche. Per questo dico che i magistrati devono andare fino in fondo”. Oggi la massoneria è “un’organizzazione che avendo perso potere è quasi innocua, un simulacro di quella massoneria che partendo dal 1700 ha cambiato il destino dei popoli”, continua l’ex Gran maestro, che ha appena pubblicato l’autobiografia “La mia vita in massoneria”. “La massoneria italiana poi è diversa da tutte le altre. Solo qui ci sono rapporti così stretti con organizzazioni criminali come la mafia e la ’ndrangheta”. La Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi nel 2017 “ha tratto delle conclusioni di una gravità incredibile: nelle logge della Gran Loggia Regolare d’Italia ci sono affiliati non identificabili nel 73,3 per cento dei casi in Calabria e Sicilia. Anche nel Grande Oriente, in percentuale molto minore, secondo la commissione Bindi ci sono molti affiliati non identificabili. Bisogna riprendere quel lavoro. Ne ho parlato anche con il presidente Nicola Morra. Ma dice che non c’è molta volontà di andare avanti da parte soprattutto degli altri partiti come Italia Viva”. Nell’intervista a FQ MillenniuM, Di Bernardo ribadisce la certezza che esista un elenco di iscritti alla Loggia P2 ancora segreto, oltre alla lista sequestrata nel 1981 a Castiglion Fibocchi e poi resa pubblica. “Ho la certezza assoluta che questo elenco esista. Quando ero Gran Maestro, Licio Gelli mi fece sapere tramite un suo inviato che mi avrebbe dato quell’elenco se io l’avessi fatto rientrare nel Grande Oriente d’Italia. Il nome dell’emissario lo faccio per la prima volta nel libro: era Marco Urbini, un commerciante molto agiato con una bellissima casa lungo l’Arno, molto amico di Gelli che lo sostenne contro di me alle elezioni per il Gran Maestro dopo il periodo di Armando Corona. Dopo la mia vittoria Urbini mi disse: ‘Gelli è disposto a darti qualsiasi cosa se tu lo fai rientrare. Fissa tu una cifra’. Respinsi le sue offerte come già avevo fatto in passato”. Sul fronte politico, Di Bernardo racconta di aver ricevuto da Bettino Craxi, e con l’accordo di Giulio Andreotti, “il compito di provare a portare avanti la costituzione di un nuovo governo. Non tanto in qualità di Gran Maestro, ma perché si fidavano entrambi di me”. Era l’epoca del “Caf”, alla base c’era “un accordo segretissimo tra Craxi e Andreotti che prevedeva Andreotti alla presidenza della Repubblica e Craxi a Palazzo Chigi”. Poi però “tutto finisce con l’inizio dell’indagine Mani Pulite che distrugge il progetto e impedisce la formazione del governo”. E la politica di oggi? “Draghi è l’unica ancora di salvezza per l’Italia. Solo lui ha gli appoggi giusti in Europa e fuori. Per me dovrebbe continuare come presidente del consiglio e Mattarella alla fine penso che resterà un anno in più al Colle. Dopo la sua riconferma e le elezioni politiche, chiunque vinca, dovrebbe riconfermare anche Draghi a Palazzo Chigi per terminare il lavoro promesso all’Europa. Poi, passato questo periodo di un anno o poco più, Draghi potrà dare il cambio a Mattarella al Quirinale”. 

Il primo documentario su Francesco, Benedetto XVI, la Mafia di San Gallo e la massoneria ecclesiastica.

Il video, sconvolgente, affronta anche la rinuncia di Benedetto XVI giudicata invalida da molti canonisti. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 07 giugno 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Due giorni fa, è stato pubblicato il documentario in italiano e inglese “Il messaggio nella bottiglia”: 40 minuti sconvolgenti dove si analizzano, sulla base di oggettivi dati di fatto, temi scottanti come la rinuncia di Papa Ratzinger; la “Mafia di San Gallo”; la genealogia episcopale dei cardinali appartenenti ad essa; l’obiettivo storico della massoneria (ecclesiastica e laica) di demolire la Chiesa cattolica; la mistificazione del personaggio di San Francesco; la svolta materialista della neo-chiesa e l’incredibile potenza di fuoco mediatica che propone un’immagine di Francesco molto diversa da quella che, secondo gli autori, è la realtà. Tra gli intervistati, il frate italo-americano Alexis Bugnolo, il prof. Francesco Lamendola e lo youtuber Marco Cosmo del canale “Decimo Toro” che ha messo in rete il filmato. L’autore è un ignoto regista che ha preferito celarsi per non essere falciato nella carriera. Il documentario è visibile su Youtube QUI ma siccome potrebbe essere censurato o bloccato dagli amministratori (come già avvenuto per quelli di Mons. Viganò) è stato pubblicato anche su Rumble. Secondo gli intervistati, esiste una antica gerarchia infedele nella Chiesa, collegata anche all’ordine dei Gesuiti e fortemente ispirata alla Massoneria, che si è impadronita del potere dopo una preparazione di almeno duecento anni, praticamente dalle prime infiltrazioni della Libera muratoria nella Chiesa. Personaggio chiave di questa corrente, il card. Mariano Rampolla del Tindaro, che doveva diventare papa, ma la cui elezione fu bloccata dall’imperatore d’Austria, proprio per le sue aderenze alla Massoneria. Della Mafia di San Gallo, discendente da Rampolla, ha scritto, del resto, lo stesso primate del Belgio card. Danneels nella sua autobiografia, ammettendo candidamente che il gruppo di cardinali supermodernisti di cui faceva parte voleva deporre Benedetto XVI e che il loro campione era il card. Bergoglio. Citiamo dalla “Biographie” del 2015: “E’ un gesuita confratello di Martini e cardinale arcivescovo di Buenos Aires, si chiama Jorge Mario Bergoglio. L'atteggiamento di Bergoglio si guadagna la fiducia di molti dei partecipanti al Gruppo di San Gallo, compreso Danneels. […] Anche se i cardinali del gruppo di San Gallo presenti a Roma inviano a Ivo Fürer una cartolina con il messaggio: "Siamo qui insieme in spirito di pace", fu il cardinale Ratzinger ad essere scelto dal conclave come successore quasi ovvio del papa polacco, anche se durante il pre-conclave, il cardinale gesuita Jorge Mario Bergoglio era un'alternativa realistica”.

Il volume non è mai stato tradotto in italiano, né smentito dal Vaticano, nella probabile prospettiva che la questione venisse dimenticata. Tuttavia, un faro sulla vicenda della Mafia di San Gallo è stato tenuto strenuamente puntato fin dal 2015 dal teologo palermitano Don Alessandro Minutella, scomunicato due volte senza processo canonico (dal bergogliano card. Beniamino Stella) nel 2018 che, dal suo canale Youtube “Radio Domina Nostra”, ripete ogni giorno che Bergoglio non è il papa e che Benedetto XVI non si è mai dimesso. Il canale oggi è seguito da oltre 50.000 persone e le sue dirette, con catechesi o messe in latino, spesso doppiano gli spettatori in diretta della messa di Francesco messa in onda da Vatican News. E' il prete più seguito in Italia ma i media fanno finta che non esista (ovviamente). Spiega nel documentario il Prof. Lamendola, docente di Lettere e Filosofia, che l’obiettivo della Massoneria è quello di distruggere la Chiesa cattolica dall’interno per instaurare un Nuovo Ordine Mondiale, che adesso sta prendendo forma. Tornano in mente le parole di Francesco rilasciate a La Stampa addì 15 marzo 2021: “Sprecheremmo la crisi chiudendoci in noi stessi. Invece, edificando un NUOVO ORDINE MONDIALE basato sulla solidarietà, studiando metodi innovativi per debellare prepotenze, povertà e corruzione, tutti insieme, ognuno per la propria parte, senza delegare e deresponsabilizzarci, potremo risanare le ingiustizie”. La Massoneria - spiega sempre Lamendola - persegue obiettivi completamente all’inverso rispetto alla Chiesa di Cristo, obiettivi del tutto materialisti. La Fratellanza umana di cui scrive Bergoglio nell’ultima enciclica non è una fratellanza dovuta al fatto che si è tutti figli di Dio, ma che si è tutti figli della Madre Terra, la Pachamama appunto, di cui abbiamo scritto. Non per nulla, nell’enciclica non si parla mai di Dio, né di Gesù Cristo. Fra Bugnolo ribadisce come la scomposizione formale dell’incarico papale in munus e ministerium, alla base della trappola giuridica della rinuncia, fosse stata predisposta  a suo tempo da Giovanni Paolo II e dallo stesso card. Ratzinger. Emerge un fatto nuovo: Benedetto XVI ha, in effetti, inspiegabilmente nominato cardinali molti membri della Mafia di San Gallo, e/o modernisti e/o suoi nemici giurati. Questo si può spiegare con il fatto per cui la rinuncia invalida al papato fosse stata già programmata da molto tempo per annullare definitivamente questa corrente in seno alla Chiesa. Ospiti del vaticanista Aldo Maria Valli, abbiamo spiegato tutto il senso dell’operazione. Tempo fa avevamo ventilato che il “trucco” potesse essere ispirato al terzo Segreto di Fatima. In ogni caso, Francesco e i suoi possono dormire sonni tranquilli. Nessuno farà niente. Qualche tempo fa avevamo trovato un pronunciamento inequivocabile di Ratzinger in un suo libro intervista. Ha convinto molti, è stato ripreso anche dal più importante quotidiano cattolico tedesco, il Die Tagespost, ma ugualmente non si è smosso niente. Papa Benedetto potrebbe anche esporre una scritta al neon fuori della sua finestra con scritto “Il papa sono io” e tutti penserebbero a una distrazione, a una coincidenza, a un complottismo. Non interessa a nessuno la questione. I bergogliani fanno finta di niente, al massimo bullizzano gli interlocutori come fece l’Avvenire, dandoci esplicitamente degli imbecilli. I tradizionalisti, che detestano Benedetto XVI, pensano che, in quanto “modernista” (secondo loro), Ratzinger sia un impreparato e un approssimativo, del tutto inaffidabile, quindi queste “leggerissime” incongruenze non li sfiorano nemmeno. Per loro, il fatto che Ratzinger abbia invertito la parola munus con ministerium è solo una sbadataggine, anche se chiama in causa  i canoni 124, 332 § 2, 188, 17 del Diritto canonico che rendono clamorosamente nulla la sua rinuncia, stando a una quantità di canonisti. Ignorano una serie infinita di discrasie che abbiamo evidenziato e ricostruito secondo il disegno del “Piano B”. I conservatori, invece, sono concentrati sulle demolizioni esplosive della Chiesa cattolica che sta attuando Francesco: si disperano perché adesso dovranno rinunciare anche alla Messa in latino, ma non riescono a farsi venire un dubbio: forse qualcosa è andato storto nella rinuncia di Benedetto XVI e quindi magari lo Spirito Santo risulta “non pervenuto”? Forse Francesco non è il vero papa? L’interrogativo non li sfiora. Molti sperano di sistemare le cose alla dipartita di Bergoglio, dimenticando che se Benedetto non si è dimesso, Francesco è un antipapa e il collegio cardinalizio conta 80 cardinali invalidi: ergo, nella sua linea successoria saranno tutti antipapi. Quindi, il fatto che la Chiesa cattolica sia finita per sempre … è un dettaglio trascurabile. Tranquilli, sono solo coincidenze, distrazioni, complottismi… Anche questo documentario, per quanto ben fatto e fondato su fatti evidenti, sarà ignorato da tutti.

Dagospia il 7 giugno 2021. Intervista tratta da "Potere Massonico" di Ferruccio Pinotti (Ed. Chiarelettere)

Dottor Palamara, nella ricostruzione dei complessi giochi di potere che attraversano la magistratura e le sue correnti, e possibile includere anche il tema della massoneria? E noto infatti che, sia nel passato lontano sia in quello più recente, molti magistrati abbiano aderito a obbedienze massoniche. Lei che idea si e fatto in materia? Chi non e in una loggia parte svantaggiato in termini di potere?

La vicenda che riguarda il rapporto tra appartenenza a logge massoniche e potere in Italia e molto complessa ed e pertanto difficile sviscerarla in poche battute anche perchè, nonostante il nostro sia uno Stato molto giovane, ha una forte tradizione massonica che parte dalle periferie per arrivare ovunque. E ormai dato come un fatto certo che la prima loggia massonica, nota con il nome di Fidelitas, sia stata fondata sul territorio italico a Girifalco, in Calabria, nel 1723. Pochi anni dopo, nel 1728, Napoli diede vita alla Perfetta unione, prima loggia regolare in Italia ad avere autorizzazione della Gran loggia d’Inghilterra. Detto questo, sono fermamente convinto che sia un ossimoro essere magistrato e appartenere a una loggia, anche perchè verrebbe meno il principio per il quale la legge e uguale per tutti. Se chi giudica o conduce indagini e un massone, come si comporterà se colui che deve giudicare o indagare appartiene alla sua stessa loggia o a una loggia avversa? Ritengo che la contraddizione sia talmente forte che sia impossibile essere buoni magistrati e al tempo stesso affiliati.

Da quello che le e parso di poter notare, l’appartenenza dei suoi colleghi a logge massoniche aveva una caratterizzazione politica? Per meglio dire, erano più i magistrati di sinistra, di centro o di matrice conservatrice a aderire e a far parte di logge massoniche?

Non credo sia una buona idea inserire anche il campo della massoneria nell’analisi già complessa della magistratura e della sua autoregolamentazione in correnti. Mi considero un self made man perchè non appartengo a nessuno se non a me stesso e alla mia coerenza. Sono convinto di aver pagato anche il mio essere mai fazioso ma dinamico e forse poco ideologico in un contesto in cui c’è stata prima una sovrapposizione tra casta dei magistrati e fascismo, poi una suggestione togliattiana a «occupare» la magistratura. Mi sono limitato a fare vita associativa all’interno di correnti i cui appartenenti venivano eletti con metodo democratico da un sistema pienamente trasparente che nulla ha a che vedere con la massoneria, ma che è più simile – tanto per fare degli esempi – alle elezioni degli ordini nazionali degli ingegneri, dei notai o dei giornalisti, che in simili occasioni formano delle liste ad hoc all’interno delle quali scelgono i propri rappresentanti.

Ci sono state situazioni in cui la comune appartenenza a un’obbedienza o loggia massonica ha consentito di indirizzare l’assegnazione dei procedimenti giudiziari da parte di presidenti di tribunale? Anche su Milano se ne e parlato molto... e altrove?

Se così fosse, e se fosse dimostrabile, sarebbero fatti di una gravita inaudita. Ci sono alcuni deputati e senatori della Repubblica che chiedono a gran voce una commissione parlamentare di inchiesta per far luce sul Sistema, ovvero sui rapporti particolari tra politica e magistratura e tra poteri e magistratura degli ultimi decenni. Mi domando come mai questa richiesta sia rimasta inevasa da mesi. Come mai tutti invocano la verità, la trasparenza e la chiarezza, ma nessuno poi si assume la responsabilità di decidere davvero di istituirla? Cui prodest continuare con i proclami? Come e noto, lei stesso meritoriamente lo ha riconosciuto, sull’inchiesta di de Magistris che si occupava della sinistra e della gestione massonica dei fondi europei e intervenuta la scure della politica e di alcune componenti del Csm. Quanto ha contato la massoneria in questo tipo di interventi che miravano a distruggere il lavoro di inchiesta di de Magistris?

Sicuramente alcune ingerenze hanno avuto il loro peso e anche i mass media hanno fatto la loro parte. Quando si generano situazioni di grande confusione diventa più semplice per alcune «manine» agire indisturbate. Il tempo e galantuomo e mi pare che molti dettagli stiano venendo alla luce anche grazie alla moral suasion che il libro intervista con Sallusti ha provocato rispetto alla mobilitazione dell’opinione pubblica.

Lei ricorderà bene la famosa inchiesta condotta dal magistrato Luca Tescaroli e da altri suoi colleghi sulla questione dei mandanti esterni delle stragi del 1992. Lei saprà anche che quell’inchiesta fu a un certo punto avversata e quel team investigativo di magistrati fu delegittimato e smembrato. Quanto può aver contato in questo caso un intervento di carattere massonico di alto livello? Ritiene, come ha affermato Nino Di Matteo, che su questi temi (sui mandanti delle stragi e sulla trattativa Stato-mafia) si possa e si debba ancora fare chiarezza, o le pressioni massoniche per seppellire tutto sono ancora troppo forti?

L’Italia e un paese in cui molte verità devono ancora venire alla luce. I contrasti, ora superati, tra Procure distrettuali e Procura nazionale antimafia per l’individuazione dei mandanti delle stragi non hanno certo agevolato questa operazione. Ho avuto modo di sperimentare quello che le dico trattando un procedimento disciplinare a carico del dottor Gianfranco Donadio, oggi procuratore della Repubblica di Lagonegro e all’epoca dei fatti procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia allora guidata da Pietro Grasso. Ciò detto, credo che su questo versante non ci possa essere spazio per protagonismi individuali: dobbiamo provare a mettere le nostre intelligenze e le nostre esperienze al servizio di questo nostro paese, cercando di essere di ausilio per coloro che vorranno intestarsi una battaglia seria per rispondere alla sete di giustizia che ha il nostro paese e alle legittime istanze dei familiari; penso, per essere chiari, a quelle di Fiammetta Borsellino, e delle associazioni che rappresentano le vittime del terrorismo.

Nota: La vicenda che Palamara svela – con questa sibillina e sintetica indicazione – e una delle più eclatanti e simboliche fra le disavventure di quei magistrati coraggiosi che, senza guardare in faccia a nessuno, hanno osato indagare, ribellandosi alle logiche del «sistema», sulle stragi di mafia del 1992-1993 e su uno dei più oscuri misteri d’Italia, il caso Moro. Donadio poi è stato colpito da un duro provvedimento del Csm e “riabilitato” solo diversi anni dopo con la nomina a capo della procura di Lagonegro.

Dottor Palamara, anche il lavoro d’inchiesta di un magistrato coraggioso ma discusso come Antonio Ingroia ha incrociato spesso la massoneria, come per esempio l’inchiesta Sistemi criminali. Lei ritiene che nella caduta di Ingroia, oltre a errori personali, possono aver avuto un ruolo pressioni massoniche su ambienti politici e sullo stesso Csm? Come lei stesso ha riconosciuto nel suo libro, Ingroia e stato fatto «saltare» perchè andato contro il «sistema». Chi era, in quel caso, il «sistema»? Giorgio Napolitano? La politica? Il Csm stesso? Le interessenze tra la mafia e una certa imprenditoria sporca e in stretto rapporto con la massomafia?

Vorrei evitare di parlare nel dettaglio di un ex collega che ha fatto politica candidandosi come leader di un partito e che oggi svolge il ruolo di avvocato. Quando in situazioni delicate come quelle dei maxiprocessi – che sono per definizione crocevia di fatti, pressioni, interessi e spinte – nascono conflitti, poi la loro gestione può essere foriera di effetti collaterali che vanno ricercati anche in discrasie umane e non solo del Sistema. Sicuramente Ingroia era scomodo perchè la nostra categoria non ama gli uomini soli.

Nel passato recente sono emersi, da parte dell’ex presidente Napolitano, interventi apparsi quantomeno irrituali dato il suo ruolo nel Csm, come nel caso dell’inchiesta Why Not e nella vicenda delle famose telefonate relative all’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Lei ritiene che, nella sua qualita di vertice istituzionale del Csm, il presidente Napolitano possa avere travalicato i limiti delle proprie funzioni, come affermato ora da de Magistris e altri suoi colleghi?

Per mia esperienza personale posso dire che il presidente Napolitano sia stato un presidente molto interventista soprattutto sui temi della giustizia. Pensare che non abbia operato avendo come stella polare l’interesse di questa nazione significherebbe accusarlo di aver tradito la Costituzione.

In vicende come quelle relative all’inchiesta sui genitori di Matteo Renzi e sulla vicenda Banca Etruria, ritiene possano essere entrate dinamiche di tipo massonico o pressioni di questo tipo sul corpo della magistratura attraverso singoli appartenenti?

Credo che negli ultimi anni si sia verificata una corsa alla visibilità di troppi colleghi e ritengo purtroppo che cio sia avvenuto anche a scapito delle notizie di reato. 

In linea generale, lei ritiene che l’appartenenza alla magistratura sia compatibile con l’appartenenza alla massoneria? La cosiddetta «doppia loyalty» alla magistratura e alla massoneria non nuoce all’indipendenza nello svolgimento di una funzione così delicata? Ritiene che le obbedienze massoniche o comunque le logge che iniziano un magistrato debbano avere un obbligo di legge a dichiarare l’appartenenza al Csm o quantomeno alle prefetture? Come valuta la legge della Regione Sicilia che impone a chi occupa cariche pubbliche di dichiarare la propria appartenenza alla massoneria? Potrebbe essere estesa a livello nazionale?

Ritengo del tutto incompatibile l’appartenenza alla massoneria con l’essere magistrato, pm, giudice. Credo, come le accennavo all’inizio, che rappresenti un conflitto di interessi irrisolvibile, che lede il principio della legge uguale per tutti, oltre a molto altro. Credo che la Regione Sicilia abbia tentato di mettere un freno, ma ciò ovviamente non riguarda le centinaia di obbedienze massoniche occulte presenti nel nostro paese.

Come e stato evidenziato dai lavori della commissione Antimafia e dalla specifica sottocommissione sui rapporti tra mafia, ’ndrangheta e massoneria, in almeno quattro regioni italiane del Sud le sovrapposizioni tra logge massoniche e criminalità organizzata sono frequenti e preoccupanti. Un fenomeno denunciato con forza anche dal procuratore Gratteri, cosi come dal procuratore nazionale Antimafia Cafiero de Raho. Non crede che la politica debba farsi promotrice di leggi ad hoc in materia?

Credo che vadano chiarite queste sovrapposizioni, perchè possono fungere da dannose coperture al crimine, organizzato e non. La politica spesso finge di non vedere e non sentire perchè fa comodo intercettare consenso organizzato. 

Nella P2 erano presenti molti magistrati (tra cui anche il procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Carmelo Spagnuolo). In che modo, oggi, le istituzioni garantiscono che non si riformino logge coperte nelle quali i magistrati trattano nomine ai vertici delle procure, assegnazione dei processi e sistemazione di questioni delicate che attengono alla politica o alla finanza? O invece ritiene che situazioni del genere esistano ancora oggi?

La commissione Anselmi ha ampiamente chiarito le dinamiche della P2. Oggi l’emergenza a mio parere e quella di trovare una modalità di elezione dei magistrati che sia aliena da vizi e ingerenze.

La commissione nazionale Antimafia ha fatto emergere come la legge Spadolini-Anselmi sulle associazioni segrete mostri, a distanza di anni dalla sua approvazione, grandi limiti. E stata giudicata largamente insufficiente per combattere logge segrete, comitati d’affari e altre forme occulte di commistione. Non sarebbe giunto il momento di una legge ad hoc per la massoneria?

O forse sarebbe il momento di una riforma globale del paese che rimetta a posto la tripartizione dei poteri, impedisca a ciascun potere di ingerire sull’altro e rimetta le forme organizzative tipo partiti, movimenti, associazioni, club, fondazioni al loro posto nel giusto alveo. Altrimenti fra dieci anni staremo ancora a interrogarci su cosa sia davvero il potere o il Sistema, e se il potere – o il Sistema – sia qualcosa di autonomo o sia possibile incanalarlo.

Gianfranco Donadio, lucano originario di Chiaromonte, dal 2018 procuratore capo della Repubblica del Tribunale di Lagonegro ha vissuto una vicenda che prova come «il sistema» sappia muoversi quando un magistrato tocca i sottili fili che collegano mafia, politica, massoneria. Donadio ha iniziato la sua carriera da giudice a Lamezia Terme, poi e stato sostituto procuratore della Repubblica a Salerno e al Tribunale dei minori e in seguito ha assunto un incarico alla Direzione nazionale antimafia, dove ha ricoperto il ruolo di sostituto procuratore, membro del pool «servizio stragi». Donadio ha iniziato a indagare autonomamente sulle stragi che hanno coinvolto i giudici Falcone e Borsellino e sulle successive stragi del 1993, ascoltando le testimonianze di collaboratori di giustizia, incontrando detenuti, raccogliendo prove. Ha cosi «interferito» nel lavoro di varie Procure creando una tempesta che ha convinto il Csm ad aprire un provvedimento disciplinare contro di lui nel 2016. Cosi commentava un servizio di Andrea Cinquegrani su «la Voce delle Voci»: "Cerchi dopo anni di indagini a vuoto di alzare il velo su alcuni misteri di Stato? Sei un depistatore. Raccogli con enorme difficolta tasselli di verità che provano presenze non solo mafiose su alcuni scenari bollenti? Fai inchieste «parallele» e disturbi gli altri pm. Sei lì lì per dimostrare che a Capaci non c’era solo la mafia? Non rispetti le regole ed esci dal recinto della legalità. Succede a quelle mosche bianche, a quei magistrati che cercano di squarciare muri di gomma, complicità e connivenze ormai cementate nei decenni, arrivando a scoprire in che modo altri colleghi non hanno fatto il loro dovere, anzi: e per questo tu vai espulso, messo al bando, cacciato come un appestato, crocifisso. Un destino che oggi tocca a Gianfranco Donadio, un magistrato che ha investigato sulle piste del riciclaggio internazionale fin da quando Falcone e Borsellino, nella piu totale solitudine, se ne occupavano. Un inquirente, Donadio, che per ben undici anni ha lavorato alla Procura nazionale antimafia per decifrare la stagione delle stragi, seguendo piste che andavano ben oltre le manovalanze mafiose per arrivare molto più in alto. Ora Donadio e «braccato» dalla legge, sotto inchiesta disciplinare del Csm, dopo «l’atto d’accusa» promosso dalla Procura Generale della Cassazione, accusato, come riportava un articolo del «Corriere della Sera» firmato da Giovanni Bianconi, di «parlare con pentiti, inquisiti e testimoni, per sollecitare nuove letture sulle stragi di mafia, senza che i titolari delle inchieste ne sapessero nulla». L’iniziativa di un folle? Le indagini non autorizzate di uno studente di legge? Le vacanze spericolate di chi ha un mare di tempo da perdere? In servizio alla super Procura antimafia dal 2002, fin dai tempi di Pierluigi Vigna, Donadio venne incaricato non dal portiere della Direzione nazionale antimafia, ma dal suo procuratore Pietro Grasso, nel 2009, di svolgere indagini e ricerche sulle stragi, incarico portato avanti per quasi cinque anni, fino a tutto il 2013. Donadio, che dopo il provvedimento punitivo del Csm lasciava la Dna divenendo consulente della commissione parlamentare Antimafia, ha tirato fuori anche in quella sede scomode connessioni tra mafia, massoneria e servizi segreti deviati, come segnalava «il Fatto Quotidiano»: Una tecnologia molto sofisticata nelle stragi del 1992. E la presenza definita come certa negli attentati dell’anno successivo a Roma, Firenze e Milano. E poi la presenza sullo sfondo del biennio al tritolo della Falange Armata, l’oscura sigla che rivendicava gli attentati della banda della Uno Bianca ma anche gli attentati di mafia, la formazione delle leghe meridionali indipendentiste, il ruolo di Gladio e quello della massoneria del Grande oriente d’Italia. E il retroscena del biennio al tritolo che insanguino il paese tra il 1992 e il 1993 quello tratteggiato da Gianfranco Donadio nella sua audizione davanti alla commissione parlamentare Antimafia. Quattro ore d’audizione – in parte secretata – in cui l’ex sostituto procuratore della Dna ha raccontato ai commissari che nel 1992 i mafiosi erano già in grado di clonare i telefoni cellulari per schermarli. Una tecnologia utilizzata per organizzare la strage di Capaci, indagine sulla quale il magistrato ha lavorato ipotizzando l’esistenza di un «secondo cantiere» – diverso da quello preparato da Giovanni Brusca – per imbottire l’autostrada di tritolo e uccidere Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta. Donadio ha messo in fila i fatti più importanti che prendono vita in quello che e il biennio fondativo della Seconda Repubblica, citando le denunce dell’allora gran maestro del Goi Giuliano Di Bernardo sul coinvolgimento di ambienti della massoneria con i clan. Un racconto che comprende anche il grande business della droga, dominato almeno fino al 1993 da Cosa nostra, e dei flussi di denaro da riciclare che conducono al Nord, al ruolo emerso da alcune inchieste della Banca Rasini (dove lavorava il padre di Silvio Berlusconi), di Vittorio Mangano e di Marcello Dell’Utri. Solo nel 2018 il Csm ha «risarcito» Donadio affidandogli la guida della Procura di Lagonegro. Ma questo – lascia capire Palamara – non cancella l’onta di un procedimento disciplinare ingiusto e dal sapore persecutorio.

Dalla fine di Conte al Davigate. Cosa c’entra la massoneria? Martina Piumatti il 25 Maggio 2021 su Il Giornale. La loggia Ungheria e la nuova P2. Quanto c’è di vero tra millantatori e nuovi massoni? Due fatti, presunti, riaccendono la luce sul doppio fondo dell’Italia di ieri e, forse, di oggi. Una loggia massonica chiamata "Loggia Ungheria" sarebbe al centro del nuovo scandalo che fa tremare la magistratura. E una sorta di nuova P2 avrebbe pilotato la cacciata di Conte, spianando la strada al governo Draghi. Ma esiste davvero un potere ombra che tesse le trame della politica? Se esiste, non è la massoneria. Ne è convinto Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia. “Ogni massone dei 23mila iscritti - spiega a ilGiornale.it il capo della più importante e numerosa comunità massonica ufficiale italiana - ha la facoltà di dedicarsi ad attività pubbliche, ma non c’è nessun legame tra massoneria e politica. Anche perché nella loggia non si può parlare né di politica né di religione. Ed è assolutamente vietata ogni forma di politicizzazione o correntismo”. Dunque la “fratellanza” non ha niente a che fare con la politica? “Sebbene - sottolinea a ilGiornale.it Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico e autore di Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges - nei landmarks massonici settecenteschi (recepiti tuttora da molte Comunioni latomistiche) venga fatto divieto, ai liberi muratori, di 'intrattenersi in questioni di politica e di religione' durante i lavori rituali all’interno dei templi/officine, la massoneria, fuori dai templi, si è sempre occupata sia di politica che di religione. Ma lo ha fatto in termini metapolitici e metareligiosi: cioè per un verso cercando di stabilire Costituzioni laiche e leggi degli Stati sottratte all’influenza confessionale di vari gruppi religiosi, per altro verso promuovendo diritti civili, sociali ed economici di interesse collettivo, molto al di sopra delle schermaglie della politica politicante e dei piccoli interessi di parte. Questa è la storia della massoneria, maggioritariamente democratica, social-liberale e progressista sino agli anni ’70 del Novecento. Poi, nell’ultimo mezzo secolo si sono purtroppo affermate a livello globale reti massoniche neoaristocratiche e postdemocratiche sul piano politologico e neoliberiste su quello economico. E anche queste reti, ovviamente, hanno influenzato e influenzano società e politica, sia in Italia che ovunque”. A chiamare in causa la massoneria, denuncia Bisi, spesso sono forme di complottismo “comodo”, come nel caso della “fantomatica Loggia Ungheria”, che sfruttano proprio i trascorsi deviati per trovare un “capro espiatorio” a cui dare la colpa: il massone. Un metodo, secondo il gran maestro del Goi, che si nutre di un pregiudizio difficile da sradicare cresciuto all’ombra della P2, la “pagina più nera” nella storia della massoneria italiana. Ma se “nessuna Loggia Ungheria compare nella lista delle logge”, non è detto che non esista. Non potrebbe essere una delle tante logge cosiddette “coperte”, quelle “reti” di potere segreto che, al di là dei circuiti ufficiali, mischiando rituali e ambizioni, puntano a condizionare nomine, politica e affari? Gruppi “deviati”, di imprenditori, magistrati, banchieri, politici, giornalisti, militari, spie, mafiosi, in cui esserci per tessere relazioni che aprono le porte delle stanze che contano. “L’impressione - ci dice Claudio Cordova, direttore de Il dispaccio e autore de Gotha - Il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati - è che qui cose vere si mischino a cose inventate. Una tattica molto consolidata in Calabria, la patria dei depistaggi. E nel caso della Loggia Ungheria rintraccio una strategia affine a quella della masso-‘ndrangheta. In Calabria la ‘ndrangheta, che infiltra le logge massoniche per intessere rapporti con l’impresa e la politica, quando vuole colpire solo in estrema ratio scende alle minacce esplicite. Di solito usa due armi che orienta come un mitra: il giornalismo, scatenando campagne di stampa contro i suoi nemici, oppure la magistratura, sfruttandone il vincolo all’obbligo dell’azione penale. Il metodo consiste nel montare uno scheletro vero o verosimile e poi aggiungere parti false, in modo da rendere ancora più complicato capire dove stia la verità. Tutti meccanismi sottili confezionati per mandare un messaggio subliminale, per far capire che si sa qualcosa, o tutto, e che si è pronti a parlare, se non si ottiene qualcos’altro. E nel caso della Loggia Ungheria vedo entrambe le componenti: quella giudiziaria e quella mediatica”. Ed è ancora una ‘bomba’ mediatica che collega la massoneria alle sorti della politica di oggi. A sganciarla: Gianmario Ferramonti. Ex tesoriere della Lega, amico del “Venerabile”, vanta legami strettissimi con servizi segreti e ambienti massonici. Il faccendiere che bazzica le stanze del potere rivela a Report di aver promesso milioni di voti in cambio della testa di Conte. Il tutto con un sms inviato a Maria Elena Boschi. Millanterie o complotto reale manovrato da potenti lobby ostili all’ex premier? “I media - ritiene Magaldi - hanno ampiamente equivocato le dichiarazioni del mio amico Gianmario Ferramonti (peraltro non massone, per quanto ne so io, benché amico ed estimatore di Licio Gelli, almeno quanto il sottoscritto è sempre stato anti-gelliano e anti-piduista). Ferramonti, alla morte di Gelli, voleva costituire una sorta di 'nuova P2' (sebbene con caratteristiche legali e non in forma di associazione segreta o semi-segreta proibita dalla legge italiana), ma poi quel progetto si è interrotto, per quanto ne so io. Sulla cacciata di Conte, Ferramonti ha soltanto affermato di aver cercato di propiziarla mediante una serie di consigli e suggestioni a vari attori politici, ma non ha mai detto di averlo fatto in quanto "neo-piduista". D’altra parte, il governo Draghi nasce con una precisa matrice massonica, tutt’altro che "neo-piduisti" e piuttosto di ascendenza sovranazionale, rooseveltiana e postkeynesiana”. Anche se ci fosse “un disegno” dei poteri occulti dietro i recenti fatti di cronaca, a renderlo credibile sarebbe la presenza di un determinato contesto. “L’affermazione di Ferramonti - ci fa notare Cordova - se non fossimo in questa fase storica sarebbe stata bollata come una boutade. Negli ultimi mesi ci sono stati una serie di eventi, dal caso Palamara all’incontro in autogrill di Renzi con Mancini, alla storia della Loggia Ungheria, che spingono a rendere credibili le teorie complottiste. L’abilità di creare il caso parte da una base verosimile, poi, si alimenta nel contesto. La magistratura è a uno spartiacque che ricorda il passaggio dalla prima la seconda Repubblica. E siccome il sistema, che come tutti i sistemi è fatto di relazioni, non ammette vuoti, questi vuoti vanno colmati in qualche modo. Il clamore e il credito dato oggi a queste vicende è conforme alla stagione di veleni che stiamo vivendo”.

·        Le inchieste di Cordova e i giudici massoni.

L'ex pm Cordova condannato: "L'inchiesta sulla massoneria fu caccia alle streghe". Luca Fazzo il 4/11/2021 su Il Giornale. Nello scontro quasi trentennale tra la massoneria italiana e l'ex procuratore della Repubblica di Palmi Agostino Cordova, una sentenza segna un altro punto a favore dei "grembiulini". Nello scontro quasi trentennale tra la massoneria italiana e l'ex procuratore della Repubblica di Palmi Agostino Cordova, una sentenza segna un altro punto a favore dei «grembiulini»: il Grande Oriente d'Italia ha vinto la causa civile intentata dall'ex magistrato per alcune dichiarazioni, riportate dal Dubbio, del suo Gran Maestro Stefano Bisi. Al centro, la gigantesca inchiesta avviata nel 1992 da Cordova contro centinaia di appartenenti a logge più o meno deviate, e che portò alla perquisizione di sedi massoniche e al sequestro di innumerevoli elenchi di iscritti. L'inchiesta, che occupava ottocento faldoni di documenti, venne poi trasferita a Roma dove venne archiviata. Bisi in una allocuzione aveva definito l'indagine di Cordova «una caccia alle streghe finita con un buco nell'acqua». Cordova, oggi 84enne, intentò la causa civile che oggi termina con la sua sconfitta. Di azioni giudiziarie a tutela della propria inchiesta Cordova ne ha inanellate una serie: tra cui quella contro l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che gli aveva regalato un triciclo e un gioco da tavola per investigatori, invitandolo a prendersi «un po' di riposo»; e contro Vittorio Sgarbi, che lo aveva criticato durante una trasmissione televisiva. Le battute di Cossiga vennero considerate insindacabili dal Senato, mentre Sgarbi venne condannato in primo grado, Cordova fece sequestrare beni e oggetti d'arte del critico, ma poi dovette restituire quarantamila euro quando la condanna di Sgarbi fu annullata dalla Cassazione. Da Palmi Cordova fece domanda per la Procura nazionale antimafia, il Csm lo preferì a Giovanni Falcone ma la sua nomina venne bloccata dal ministro Claudio Martelli. Ilda Boccassini, ricordando l'episodio nel suo recente libro, definisce Cordova «magistrato modesto».

Massoneria, l'ex procuratore Cordova condannato per una causa contro il Goi. Il Quotidiano del Sud il 2 novembre 2021. L’ex procuratore di Palmi Agostino Cordova è stato condannato dalla seconda sezione civile del tribunale di Reggio Calabria a rifondere le spese legali nella causa per diffamazione intentata contro il Grande Oriente d’Italia e una giornalista del “Dubbio”. Cordova chiedeva un risarcimento danni in relazione alla pubblicazione del 13 aprile 2017 sul “Dubbio” di un articolo dal titolo “Dopo 25 anni crolla il teorema Cordova” che, secondo il magistrato, “sarebbe stato gravemente diffamatorio”. Il Goi, secondo Cordova, sarebbe stato colpevole della condotta diffamatoria “per aver riportato nel proprio sito web l’articolo de quo nella pagina destinata alla rassegna stampa denominata ‘dicono di noi’ accompagnato da un autonomo commento adesivo”. “Nel caso di specie – scrive il giudice civile – va rilevato che il riferimento ai provvedimenti giurisdizionali che vengono citati nell’articolo in esame sono sempre puntuali e mai le frasi utilizzate, seppur caratterizzate da gergo giornalistico (come nel caso di “passare la palla” con riferimento al trasferimento della competenza a Roma o “caccia alle streghe”) finiscono per alludere a comportamenti illegittimi posti in essere dal Procuratore Cordova. E’ da evidenziare, infatti che in alcune parti dell’articolo certamente la critica all’indagine che ha riguardato la Massoneria è più aspra, come laddove si parla di marchio d’infamia, ma tali affermazioni non vengono rivolte direttamente alla persona del dottor Cordova ma in generale all’indagine in sé ed alle conclusioni cui è giunta”. “Dall’analisi sin qui svolta è chiaro che non sussista la denunciata diffamazione – si legge nella sentenza civile – in quanto il contenuto dell’articolo è globalmente veritiero, seppur con qualche inesattezza non rilevante, il linguaggio utilizzato non è mai sconveniente, offensivo o pesantemente allusivo ed, infine, la notizia riportata e la complessiva ricostruzione della vicenda giudiziaria è certamente di pubblico interesse tenuto conto della risonanza già avuta in passato dall’indagine iniziata dal procuratore Cordova”. “La critica generale che emerge dall’articolo certamente si esprime con toni forti ma senza mai riferire fatti non veri o comunque aspetti dell’indagine mai affrontati prima dall’opinione pubblica tenuto conto del grande numero di articoli giornalistici che hanno menzionato tale iniziativa giudiziaria e della grande eco mediatica che ne era scaturita anche ad interrogazioni parlamentari ed alla istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta”, conclude il giudice civile.

Le inchieste di Cordova e i giudici massoni. Da Iacchite il 3 Marzo 2017. Da quasi un mese ormai stiamo ricostruendo la genesi dell’asse politico-massonico-mafioso tra Reggio Calabria e Cosenza. Le inchieste di Federico Cafiero De Raho sono inevitabilmente figlie di quelle di Agostino Cordova, dello stesso Nicola Gratteri, di Salvatore Boemi e di Luigi De Magistris. Nessuno di loro, dal 1992 ad oggi, è riuscito a dimostrare l’esistenza effettiva di questa “cupola” nonostante ci abbiano lavorato con grande impegno ed ardore. E in mezzo a tanti doppiogiochisti ed esperti in depistaggi, in una parola sola pezzi deviati dello stato. Siamo partiti dal bandolo di questa storia, Paolo Romeo, detto dai pentiti il “Salvo Lima reggino”, che muove le fila della politica a Reggio Calabria, grazie ai contatti organici con le cosche e la massoneria. Finita la prima guerra di mafia, secondo le dichiarazioni di diversi pentiti, Giorgio De Stefano, insieme al cugino Paolo e ad altri appartenenti alla nuova ’ndrangheta, entrò nella loggia massonica segreta fondata, tra gli altri, da Franco Freda e Paolo Romeo, esponenti della destra eversiva che il 14 luglio 1970 avevano organizzato la rivolta dei “Boia chi molla” a Reggio Calabria (per protesta contro l’elezione di Catanzaro a capoluogo di regione). Il pentito Giacomo Lauro affermerà: “Mi risulta personalmente che anche alcuni magistrati avevano aderito alla massoneria e, per garantirli, la loro adesione era all’orecchio e i loro nominativi venivano tramandati da maestro a maestro”.

Un sistema perfetto. Il vero “Modello Reggio” poi continuato da Scopelliti. Il gancio con Cosenza è Pino Tursi Prato, socialista prima vicino ai Gentile e poi ribellatosi al loro dominio per sposare la causa di Paolo Romeo nel PSDI di Antonio Cariglia “niente lascia e tutto piglia” come scriveva nei telegiornali di Telecosenza Giacomo Mancini, alla cui corte sarebbe poi approdato. Romeo e Tursi Prato, con l’aiuto di due capibastone della malavita cosentina come Franco Pino e Pietro Magliari, mettono a segno un’estorsione ai danni di un imprenditore reggino che aveva vinto un appalto nell’USL comandata dallo stesso Tursi Prato. E siglano la tregua con Tonino Gentile in uno studio legale cosentino, garante sempre Franco Pino. Il dado è tratto. Tursi Prato e Romeo vengono eletti a sorpresa alle Regionali del 1990 ma bussa alle porte il 1992, l’anno di Tangentopoli e delle grandi inchieste. E se Tursi Prato ha un rapporto privilegiato con la cosca reggina dei De Stefano, altri socialisti hanno intessuto trame con la ‘ndrangheta, a Rosarno, il regno dei Pesce. Ancora una volta la prova di un altro importante asse Reggio-Cosenza. Alla vigilia delle elezioni politiche nazionali del 1992 scattò quello passato alle cronache come il “blitz delle preferenze” ordinato dall’allora procuratore di Palmi, Agostino Cordova, e dall’allora pm della Procura di Locri, Nicola Gratteri. Durante l’operazione, gli investigatori trovarono in diverse abitazioni di ‘ndranghetisti della Piana di Gioia Tauro e delle Locride, numerosi santini elettorali e fac-simili elettorali di alcuni candidati alla Camera dei deputati ed al Senato, fra i quali anche quelli di Sandro Principe. All’epoca Principe era appena quarantenne, alla seconda esperienza da deputato e viveva ancora un po’ nell’ombra del padre Cecchino prima da giovane sindaco di Rende (il loro feudo indiscusso trasformato in città modello con tanto di università) e poi da altrettanto giovane deputato investito della carica di sottosegretario al Lavoro ai tempi delle prime grandi vertenze regionali. Il procuratore Agostino Cordova chiese due volte alla Camera dei Deputati l’autorizzazione a procedere contro l’allora onorevole Sandro Principe, autorizzazione però sempre negata. Nella richiesta del procuratore Cordova era dato leggere di una “campagna elettorale fatta per Sandro Principe da mafiosi e pregiudicati della Piana di Gioia Tauro (boss Versace di Polistena, Avignone di Taurianova, Pesce e Pisano di Rosarno ed altri)”. I carabinieri riuscirono pure a fotografare alcuni incontri di Sandro Principe con Marcello Pesce, esponente dell’omonimo clan, in un bar di Rosarno. Agli atti spediti nella richiesta di autorizzazione a procedere, anche le presunte lettere di “raccomandazione” inviate da Sandro Principe all’allora sottosegretario alla Difesa socialista al fine di far ottenere l’esonero dal servizio militare di un pregiudicato di Rosarno fratellastro di Marcello Pesce. Secondo i magistrati Agostino Cordova e Francesco Neri, tale ultimo favore sarebbe stato chiesto a Sandro Principe dall’allora consigliere comunale socialista di Rosarno, La Ruffa, ben noto alle forze dell’ordine e cognato degli stessi Pesce. Un atto assolutamente illegittimo, secondo i magistrati inquirenti, visto che il fratellastro di Marcello Pesce era stato dichiarato idoneo al servizio militare. L’intera vicenda si concluse per Sandro Principe nel migliore dei modi. Nel 1995 la Procura di Palmi (Cordova nel frattempo era già divenuto dal 1994 procuratore di Napoli) chiese ed ottenne dal gip l’archiviazione per le accuse rivolte a Sandro Principe. Agostino Cordova, figura controversa e testarda, da procuratore di Palmi firma, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata. Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Licio Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. “La massoneria deviata – sosteneva Cordova – è il tessuto connettivo della gestione del potere […]. È un partito trasversale, in cui si collocano personaggi appartenenti in varia misura a quasi tutti i partiti…”. Cordova pone sotto sequestro il computer del Grande Oriente d’Italia, contenente l’archivio elettronico di tutte le logge massoniche italiane. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni.

LA MASSONERIA COSENTINA: ETTORE LOIZZO. Ed ecco apparire all’orizzonte un altro cosentino dopo Pino Tursi Prato, Antonio Gentile, Franco Pino, Franz Caruso e Pietro Magliari, che abbiamo incontrato nelle puntate precedenti. “Ettore Loizzo di Cosenza, mio vice nel Goi, persona che per me era il più alto rappresentante del Goi, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d’Italia che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia”. A dirlo è stato l’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo – in carica nei primi anni ’90 e fondatore poi della Gran Loggia Regolare d’Italia – sentito il 6 marzo 2014 dal pm della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo nell’ambito dell’inchiesta Mammasantissima sulla cupola segreta degli “invisibili” della ‘ndrangheta.

Ma chi è Ettore Loizzo di Cosenza?

Prima Gran Maestro Aggiunto e poi reggente del Grande Oriente d’Italia, è il calabrese col “grembiulino” che ha raggiunto i più alti livelli della Massoneria di Palazzo Giustiniani, la più importante tra le “obbedienze” riconosciute nel nostro paese. E’ scomparso nel 2011.

Per capire bene chi era bisogna andare parecchio indietro nel tempo. Ma possiamo partire da un dato: Loizzo è stato per anni un brillante esponente del Partito Comunista Italiano prima di essere costretto a lasciarlo proprio perché massone dopo il caso eclatante della loggia P2 di Licio Gelli degli anni Ottanta e la successiva legge Anselmi che vietava le società segrete. E quindi consigliava ai partiti di imporre una scelta ai massoni più o meno esposti.

LE INDAGINI SU ETTORE LOIZZO. Ettore Loizzo finisce nel calderone. Ecco l’agenzia AGI del 5 novembre 1992.

(AGI) Cosenza 5 Nov – Proseguono, anche a Cosenza, le indagini disposte dalla Magistratura di Palmi alla ricerca delle prove circa l’ esistenza di logge massoniche” coperte”. Sono stati perquisiti lo Studio e l’ abitazione dell’ esponente massonico Ettore Loizzo (anche se l’ interessato ha negato il fatto) e quella di Mario Lucchetta, Gran Maestro della Loggia” fratelli Bandiera”. In quest’ ultima abitazione, secondo indiscrezioni, sarebbero stati sequestrati documenti e carteggi ritenuti importantissimi.  (AGI)

Così scriveva invece La Repubblica: Vengono fuori molte sorprese. A Cosenza, dove sono stati perquisiti lo studio e l’ abitazione dell’ ingegner Ettore Loizzo, uno dei massimi esponenti del Grande Oriente d’ Italia, i carabinieri hanno trovato carte e documenti relativi al processo su mafia, droga e politica da cui è scaturita questa maxi-inchiesta sulla massoneria deviata. In che maniera, con quale interesse e per farne quale uso Loizzo è entrato in possesso di quelle carte? Sono interrogativi che i magistrati cercheranno di chiarire. Ma nell’ inchiesta sulle cosche di Rosarno è coinvolto anche Licio Gelli. E in Calabria c’ era qualche massone che si era adoperato per far riammettere l’ ex capo della P2 nella massoneria. Una “trattativa” che si sarebbe conclusa nel 1991 con un accordo mai trovato dai magistrati di Palmi. Così come non furono mai chiarite le questioni che ruotavano intorno a Loizzo. Di sicuro, però, Di Bernardo si affretta ad uscire da questo grandissimo casino e lascia le responsabilità del suo incarico determinando la scissione. E così il cosentino Ettore Loizzo diventa Gran Maestro Onorario e reggente, con Eraldo Ghinoi, del Grande Oriente d’Italia nel 1993. Praticamente il nuovo capo della massoneria al posto di Di Bernardo. Già, Di Bernardo. Oggi che Loizzo non c’è più, è il solo che può riferire di quelle circostanze e nello specifico, dopo la clamorosa rivelazione del massone cosentino circa le 28 logge infestate dalla ‘ndrangheta, afferma testualmente. “Gli dissi: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui – ha detto Di Bernardo al pm – mi rispose: nulla. Chiesi perché. Mi rispose che altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse a prendere contatti con il Duca di Kent, che è al vertice della Massoneria Inglese che è la vera Massoneria. Mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie avute dall’Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi”. Ma Ettore Loizzo, già all’epoca, contestava con forza questa interpretazione dei fatti e definiva pesantemente Di Bernardo. “L’indagine di Cordova? Con questa rottura diplomatica tra noi e gli inglesi non c’entra – risponde Loizzo – anche se le menzogne di Di Bernardo hanno fatto da copertura a questo gioco. Non siamo stati neanche ascoltati dai fratelli inglesi – reclama più diplomatico Ghinoi – ma un imputato ha diritto ad un processo. Per quanto riguarda Cordova ci ha ricevuto ed ha specificato di non aver nessuno motivo di contestazione nei nostri riguardi, ma è interessato alla scoperta di eventuali logge deviate. Dal canto nostro abbiamo sospeso 75 fratelli sospetti, ma sono un esiguo numero di fronte agli altri 18mila iscritti oltre alle 1400 domande attualmente in attesa. Succede solo in in Italia – ha concluso Ghinoi – che l’iscrizione ad alcuni partiti politici sia vietata a membri della Massoneria. Ma la storia insegna che quando la Massoneria è attaccata, successivamente dopo viene attaccata la democrazia”. Il 27 maggio del 1993 Cordova inviò un rapporto al Csm sull’ingerenza dei massoni nel potere pubblico: consegnò i nomi di 40 giudici e due liste di parlamentari. Comunicò che almeno 40 degli inquisiti della tangentopoli milanese erano massoni, così come lo erano 11 dei parlamentari per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere. Provvidenziale arrivò l’ordine di trasferire per competenza a Roma le indagini. E ancor più salvifico fu il ruolo del pm che venne delegato.

Era Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, che sarebbe diventata di lì a poco personalità di spicco a via Arenula nei governi targati Berlusconi. Quell’inchiesta naufraga nel 2001 in una colossale archiviazione. «E da allora – raccontò Cordova alla Voce in un’intervista di qualche anno fa, alla vigilia del suo trasferimento forzato dalla Procura di Napoli – quei faldoni sono rimasti a marcire dentro i sotterranei di Piazzale Clodio».

Le inchieste di Cordova sulla masso-mafia tornano. Egidio Lorito su Panorama il 31 gennaio 2021. Le recenti indagini sulle «logge coperte» a Scalea e a Lamezia confermano la validità delle storiche intuizioni di Agostino Cordova, il primo magistrato a istruire un maxi-processo alla ‘ndrangheta nel 1992. Come racconta in quest’intervista, l’allora capo della Procura di Palmi aveva portato alla luce i legami indicibili fra massoneria deviata e colletti bianchi. «Ho sempre fatto il mio dovere, in termini rigorosamente obiettivi e verificabili, ma le conseguenze delle mie iniziative giudiziarie continuano a turbarmi». Nell’anno in cui compirà 85 anni, Agostino Cordova, calabrese purosangue («Reggino, lo sottolinei, mi raccomando!»), per tutti «Il mastino», tenta un bilancio di una vita al servizio dello Stato. Un’esistenza passata nell’alveo dell’obbedienza alla Carta costituzionale e ai codici, dei quali ancor oggi si considera paladino e strenuo difensore, soprattutto dopo aver operato in territori nei quali quello stesso Stato, in alcuni momenti, sembrava avesse rinunciato a mettere piede. Tanto nella sua Reggio Calabria, in cui esordì appena ventisettenne, quanto a Napoli, dove diresse con mano ferma la Procura partenopea. Per ritrovarsi, nel 1992, candidato a dirigere la nascente Superprocura nazionale antimafia, in corsa con Giovanni Falcone. Un percorso impervio, con gravi ripercussioni personali e familiari che rimangono testimoni dell’impegno profuso a muso duro. ‘Ndrangheta e camorra, massoneria deviata nazionale e internazionale, malaffare nelle istituzioni, corruzioni. E ancora, scontro con i poteri deviati, drammatiche audizioni al Csm e in Commissione parlamentare antimafia, il plauso e le invidie dell’ambiente giudiziario, le vittorie (molte e dalle gioie contenute) e le sconfitte (poche, con le immancabili aggressioni). Inchieste da far tremare i polsi, insomma.

Panorama.it lo ha incontrato per un dialogo serrato, caratterizzato da ricordi lucidissimi, da quell’inconfondibile e marcata “doppia r”, figlia di un legame mai reciso con la Città dello Stretto e da una costante profetica: le sue inchieste hanno anticipato sempre i tempi, aprendo la via ad importanti riforme penali e spianandola, nel contempo, alle successive roboanti indagini mediaticamente esplosive.

In fondo la «masso-mafia» fu una sua scoperta, appena 50 anni addietro, e «l’effetto rimbalzo», ancora in Calabria, è notizia proprio delle ultime ore: la Procura di Paola, nel cosentino, contesta anche la violazione della legge Anselmi a tre dei 18 indagati per un’inchiesta su una presunta associazione a delinquere finalizzata a commettere una «serie indeterminata di reati contro la pubblica amministrazione». Dalla turbativa d’asta alla corruzione passando per il falso, il procuratore capo Pierpaolo Bruni ed i sostituti Maria Francesca Cerchiara e Antonia Lepre avrebbero accertato anche che l’organizzazione avesse scelto un bar di Scalea per le proprie riunioni. Non proprio Villa Wanda, in quel di Arezzo, ma pare ce ne sia per fare cattivi pensieri. Ancora.

Dottor Cordova, il suo nome torna alla ribalta con scadenza impressionante.

«Il mio nome torna ripetutamente alla ribalta unicamente perché tornano di attualità le vicende di cui mi sono occupato, e non per esibizionismo».

Successe con le inchieste di De Magistris tra il 2005 e il 2008 e ora con quelle di Gratteri.

«Tali inchieste sono la riproduzione di quella mia del 1992, il che significa che la situazione è, evidentemente, rimasta immutata dopo tanto tempo».

Ce lo confessi: cosa avevano di straordinario le sue indagini?

«Lo straordinario era la natura dei fatti su cui indagavo, riscoperti per ultimo ora dopo 29 anni a Lamezia Terme, ancora in Calabria».

Aveva visto giusto…

«Avevo fatto il mio dovere di Pubblico ministero».

A proposito: è esistito un metodo-Cordova?

«Il mio metodo era quello di far osservare obbligatoriamente la Legge perseguendo coloro che la violavano, come dispone l’art. 112 della Costituzione, secondo cui il Pubblico ministero deve doverosamente esercitare l’azione penale quando abbia notizie di reato. Quel mio “metodo” sarebbe stato seguito da coloro che osservavano quella norma».

Nel 2017 Enzo Ciconte, uno fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose, ascoltato in Commissione parlamentare antimafia, aveva rievocato proprio la sua celebre inchiesta sulla masso-mafia del 1992.

«Ha avuto il coraggio di farlo».

E l’allora presidente della Commissione, Rosy Bindi, intese valutare la proposta di mettere mano al suo lavoro.

«È vero, ma ignoro quali siano state le sue iniziative e l’esito di esse».

Ci fu chi scrisse, invece, che quell’inchiesta si fosse risolta in una bolla di sapone.

«È bene precisare che mi occupai della massoneria deviata e non di quella regolare, di cui in passato avevano fatto parte addirittura Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini, Giosuè Carducci, Ugo Foscolo, Giovanni Pascoli, Alessandro Manzoni, Gabriele D’Annunzio. Altro che…».

Ci spieghi.

«Visto che nel quasi assoluto silenzio generale tali censure mi vengono ancora rivolte, ritengo necessario chiarire, ancora una volta, come quell’inchiesta venne avviata e quale parte io abbia avuto nel suo svolgimento. Altro che “bolla di sapone”».

Come Pubblico ministero non poteva non aprire quel fascicolo.

«Iniziai il procedimento doverosamente sotto il dettato dell’art. 112 della Costituzione, che, ripeto, obbliga il magistrato del pubblico ministero ad esercitare l’azione penale: sulla base delle dichiarazioni di numerosi pentiti e di ancora più numerose persone informate sui fatti non potevo non agire in quel senso. E molte Procure collaborarono con noi di Palmi».

A proposito di pentiti.

«Si trattava di Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Leonardo Messina, Gaspare Mutolo: resero importanti dichiarazioni, nel 1992, innanzi alla Commissione parlamentare antimafia: quei verbali sono pubblici e girano ancora sulla Rete».

Ovvero?

«Riferirono, fra l’altro, sui rapporti tra massoneria deviata e Cosa Nostra, su diversi procedimenti aggiustati tramite la prima, sul procacciamento di voti mafiosi, sull’interesse comune di Cosa Nostra, politica e massoneria deviata per gli appalti, su una Loggia che aveva chiesto che due mafiosi per ogni provincia entrassero a far parte della massoneria per influenzare pubblici personaggi».

Massoneria deviata e invasiva.

«Non dimentichiamo che anche nell’inchiesta milanese “Mani Pulite”, 39 indagati erano massoni e sette ex piduisti».

La sua celebre inchiesta «Mani segrete» durò un anno.

«Nelle funzioni di Procuratore di Palmi la iscrissi il 16 ottobre del 1992 contro ignoti, per trasformarsi contro “noti” nel marzo successivo e me ne occupai formalmente fino al 6 ottobre del 1993, quando fui trasferito a Napoli».

Appena un anno per un’inchiesta di tale spessore?

«Anche meno, se calcoliamo le ferie, le audizioni al Csm e le due alla Commissione antimafia, la preparazione delle relative relazioni, la trattazione di diversi altri importanti procedimenti. E ci fu pure un clamoroso ritardo».

In che senso?

«Per oltre tre mesi, a causa della mancata autorizzazione a custodire, a Roma, l’enorme numero di atti acquisiti, non essendo la sede della Procura di Palmi dotata di locali sufficienti in cui custodirli».

Immaginiamo il carico giudiziario di quei mesi.

«La Procura di Palmi doveva occuparsi anche del gran numero di procedimenti pretorili per i quali era stata istituita la Procura della Repubblica presso la Pretura circondariale ed erano stati nominati magistrati e personale: ma proprio nel dicembre di quell’anno, cioè due mesi dopo l’inizio del procedimento, quella “nuova” Procura, mai entrata in funzione, venne soppressa».

Effetto della soppressione?

«Un enorme aggravio di lavoro, tant’è vero che dei sei sostituti applicati per l’indagine sulla Massoneria, tre dovettero occuparsi degli altri procedimenti. In quei mesi, i miei detrattori, contrariamente alla realtà, sostennero che a causa delle indagini sulla Massoneria stavo trascurando un gran numero di altri procedimenti. E i successivi sei applicati, diversi dai primi, dovettero esaminare nuovamente gli atti. Altro che trascuratezza e scarso impegno dei miei sostituti!».

E le indagini furono trasferite a Roma.

«Il procedimento venne trasmesso a Roma l’8 giugno del 1994 e archiviato il 3 luglio del 2000 su richiesta, nel dicembre 1997, dei Pubblici ministeri della Capitale: ignoro ancora i motivi di tale trasmissione, che comunque ormai non mi riguardano più».

Non è che stesse scoperchiando qualche pentolone?

«Lo ripeto: si tratta di argomento che non mi riguarda più, così come quello relativo alle indagini svolte a Palmi dopo il mio trasferimento, e poi a Roma. Il nuovo Procuratore si insediò nella cittadina reggina 12 giorni dopo l’anzidetta trasmissione».

Clamorosa la motivazione dell’archiviazione.

«La motivazione per 48 dei 63 indagati, fu che “per tutti gli altri indagati, alcuni dei quali iscritti nel registro, per la consistenza del materiale loro sequestrato o per la loro dichiarata appartenenza massonica, non sono emersi elementi significativi e concludenti in merito ai reati ipotizzati”».

Ma fu certificata la competenza della Procura di Palmi.

«Sia il Riesame che la Cassazione avevano confermato la competenza di Palmi in base all’art. 9 comma 3 del Codice di procedura penale, visto che era stata proprio la mia Procura ad aver iscritto per prima la notizia di reato e, quindi, il relativo procedimento».

Le diedero ragione anche i nuovi colleghi di Roma.

«Sia i due Pubblici ministeri romani cui passò l’inchiesta che il Giudice per le indagini preliminari diedero atto che tale trasmissione non era sorta su loro iniziativa! Ancor oggi ignoro quale elemento nuovo, che abbia spostato la competenza a Roma, sia sopravvenuto dopo il mio trasferimento».

E venne ascoltato in Commissione parlamentare antimafia.

«Sì, il 9 luglio del 1993 e riferii lo stato delle indagini».

Ovvero?

«Ovvero quel che fino allora avevo accertato. Inoltre rilevai che la Legge Anselmi aveva solo in parte colmato il vuoto legislativo dovuto al fatto che l’articolo 18 della Costituzione vietasse sic et simpliciter le associazioni segrete, per cui dovevano configurarsi due reati: l’associazione segreta di per sé e quella, più grave, prevista da detta legge per le attività illecite di interferenza nelle funzioni e nei servizi pubblici».

Un bel groviglio normativo…

«Restava il fatto che le associazioni segrete diverse da quelle classificate dalla Legge Anselmi fossero vietate, ma non costituissero reato: quindi, ad esempio, le logge coperte e mascherate come circoli culturali, pur essendo vietate dalla Costituzione, non lo sono dalla legislazione ordinaria, e si ignora, tuttora, come applicare tale divieto».

Altro che bolla di sapone…

«Lo ripeto ancora: avevo doverosamente, cioè obbligatoriamente, instaurato quel procedimento sulla base di concrete notizie di reato e non per mia mera invenzione ed avversione verso la massoneria, e potei occuparmene concretamente per meno di un anno, quando le indagini erano ancora quasi tutte nella fase ricognitiva. Quel che accadde dopo non avrebbe dovuto riguardarmi, pur nel generale silenzio subentrato sulla vicenda».

Le singolari illazioni contro il suo lavoro sono continuate per anni.

«Quelle di avere inconsistentemente instaurato un procedimento finito nel nulla sono completamente infondate e l’avere fatto il proprio dovere, come talvolta accade, è stato per me controproducente. Forse, in quell’inchiesta avrei dovuto comportarmi come nella raffigurazione delle classiche tre scimmiette, cioè non vedere, non sentire e non parlare?».

Invece usò bene tre dei cinque sensi…

«Proprio per la fondatezza delle mie indagini, nel marzo del 1993 il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo, si dimise da tale Obbedienza fondando la Gran Loggia Regolare d’Italia: e anche su questo è calato l’assoluto silenzio».

Torniamo indietro, al 1963, a Reggio Calabria.

«Ero stato Pretore, Giudice a latere e poi Giudice Istruttore».

Addirittura, nel 1976, promosse l’istituzione presso la Polizia Scientifica del primo Archivio balistico comparativo.

«Fu il primo del genere in Italia e aveva lo scopo di repertare e catalogare, secondo gli elementi identificativi, tracce lasciate dal percussore o dall’estrattore, i bossoli rinvenuti in occasione di omicidi o di altri reati commessi con l’uso di armi da fuoco, nonché quelli esplosi probatoriamente, per tale catalogazione, dalle armi sequestrate in diverse occasioni».

Un bel salto in avanti.

«Lo scopo era di poter risalire, mediante la comparazione e con i supporti probatori del caso, agli autori di altri reati ove fosse identificato quello di uno di essi che avesse usato la stessa arma. Tale schedario precorse di ben 27 anni il “Sistema automatizzato per le comparazioni e le identificazioni balistiche”, avviato dal Ministero dell’Interno in via sperimentale nel 2003 nei Reparti di Investigazione Scientifica (Ris, nda) dei Carabinieri di Parma, Roma, Cagliari e Messina».

Nel 1978 impresse una vera svolta investigativa.

«Quale Giudice istruttore a Reggio Calabria, “promossi” l’allora non esistente reato di associazione mafiosa poi introdotto col successivo articolo 416 bis del codice penale. Cioè integrando l’associazione per delinquere comune di cui all’art. 416 con le caratteristiche mafiose».

Passaggio centrale del «metodo Cordova».

«Si trattava del procedimento penale n. 60/’78 nei confronti di Paolo De Stefano e cinquantanove affiliati, inquisiti per associazione per delinquere di cui all’art. 416 del codice penale, che io qualificai con le caratteristiche mafiose. Soltanto nel 1982, cioè dopo la tragica uccisione del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, quella norma sarebbe stata introdotta nel nostro ordinamento».

Precorse i tempi, come sempre.

«Ero recidivo specifico».

Fu il primo maxi processo contro la ‘ndrangheta calabrese?

«Aveva riunito tutti quelli riguardanti inquisiti cui veniva contestato di appartenere alla ‘ndrangheta operante nel circondario, sotto il profilo del comune reato di associazione per delinquere di cui all’art 416 del codice penale, ma connotandolo con le tipiche modalità mafiose. Tale inquadramento fu poi mutuato dal legislatore nel formulare, quattro anni dopo, il reato associativo».

E si ritrovò un riconoscimento giudiziario di spessore.

«Nella lettera di commiato e di elogio del Procuratore Generale di Catanzaro, dott. Antonio Chiliberti, del 16 Novembre del 1978, si dava atto fra l’altro che “a tacere di ogni altra benemerenza del dottore Cordova – che pure può vantare per la serietà ed il senso di responsabilità con cui si dedica al proprio compito – basterà citare, a titolo di merito non comune, l’avere istruito e portato a termine il ponderoso processo a carico di 60 presunti mafiosi».

Soddisfazioni.

«Mi faccia terminare, che non è finita: “(…) che costituisce elaborato pregevole sia nella parte espositiva che in quella più propriamente motiva, nella quale viene puntualizzato, con ammirevole scrupolo, la configurazione esposta in linea tematica. La sua opera, schiva di clamore, animata da grande forza morale, è da considerare esemplare servizio reso alla causa della giustizia”».

Dirigendo la Procura di Palmi per tutti divenne «il mastino».

«Così venni definito, ma perché mordevo: non mi limitavo ad abbaiare».

Fioccavano gli elogi.

«Il 30 gennaio del 1989 un altro Procuratore Generale di Catanzaro dava atto che nella mia attività a Palmi avevo “dato un impulso veramente eccezionale all’Ufficio nella lotta alla criminalità organizzata”».

Nel 1992, alla vigilia delle elezioni politiche, scoprendo relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, lei s’imbattè nelle trame degli affari miliardari di Licio Gelli e di una miriade di personaggi legati ad associazioni occulte.

«Ne scaturirono 135 imputati di associazione mafiosa, traffico di armi e stupefacenti, voto di scambio, rapporti mafia-politica, sotto il profilo della mera violazione delle norme elettorali».

Un duro colpo alla ‘ndrangheta imprenditrice.

«Disposi 180 perquisizioni nei confronti di altrettante persone indicate come affiliate o collegate alla ‘ndrangheta (ovviamente, non a candidati): informai anche la Procura di Locri che si associò disponendone contestualmente altre 120».

Operò sequestri interessanti.

«Sì, di imponenti quantitativi di materiale elettorale riguardante numerosi candidati di svariati partiti politici dell’arco costituzionale ed extracostituzionale».

Altre indagini, altra norma del codice penale.

«Proprio per effetto di quelle indagini, e nonostante le immediate reazioni di rito, dopo pochi mesi, con il decreto legge 306/1992 convertito in legge 356/1992, venne introdotto l’art. 416 ter del codice penale, concernente lo scambio elettorale politico-mafioso, e venne integrato lo stesso art. 416 bis, nel senso che costituiva attività mafiosa anche il procacciamento di voti».

Tecnicismi non di poco conto.

«Il reato fu limitato alla promessa di voti contro erogazione di somme di denaro e non contro scambio di contributi, concessioni, appalti, come prevedeva l’originario disegno di legge: ebbene, fin da allora rilevai che era sufficiente riferirsi a qualsiasi “altra utilità”, specificazione, quest’ultima, aggiunta solo nel 2014, cioè dopo ben 22 anni».

Dicono che abbia un brutto carattere.

«Non sono diplomatico».

In che senso?

«La diplomazia è, talvolta, una bellissima dama che suole avere intimi rapporti con il compromesso e generare brutti figli che si chiamano condizionamenti, “apparamenti”, cioè aggiustamenti, come si dice nel gergo napoletano».

Ricatti, insomma.

«Faccia lei».

Si sente oggi «il mastino» di un tempo?

«Il mastino è tale per natura per cui non può mutarla col passare del tempo».

Cosa fa oggi Agostino Cordova?

«Il prossimo 5 maggio compirò 85 anni. Soffro di affezioni varie, non mi occupo più di quel che succede nell’attuale contesto e passo il mio tempo libero leggendo i classici della letteratura».

Eppure ancor oggi le inchieste di Agostino Cordova sono imprescindibili.

«Sarà, ma le loro conseguenze resistono al trascorrere del tempo e si sono trasformate in una pesante e ineliminabile cappa».

Ha servito lo Stato.

«Ho sempre fatto il mio dovere, in termini rigorosamente obiettivi e verificabili. Amen».

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L’abbattimento delle case private. Abusivo: Condonato e distrutto.

L’inerzia delle amministrazioni pubbliche: ambientalismo militante e toghe politicizzate.

Il privato con diritto alla casa, rinunciando all’assegnazione o all’occupazione abusiva di un appartamento pubblico, non aspetta i tempi biblici degli intimoriti amministratori che, per interessi privati o per lo spauracchio dell’abuso d’ufficio, negano il diritto ad una salubre esistenza, non adottando gli strumenti urbanistici adeguati, o non approvando in tempi accettabili un progetto lecito presentato. Il buon padre di famiglia provvede, per necessità, a dare un tetto ai suoi cari, investendo i risparmi di una vita. Chi è abituato a chiedere ed a ottenere una casa senza sudore della sua fronte in conto alla comunità, si oppone a tutto ciò.

Chieste anche case popolari per le famiglie rimaste senza un tetto. Case abusive, i comitati scrivono a Draghi e a De Luca: “Fermate le ruspe e regolarizzate le case di prima necessità”. Redazione su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Quella degli abbattimenti delle case abusive è diventata una tragedia sociale e umanitaria. In Campania è un vero e proprio dramma se si considera che solo nella zona Flegrea rischiano di rimanere senza casa 65mila famiglie. Si tratta di case di prima necessità dove vivono famiglie con bambini e che furono costruite anche 30 anni fa in territori dove non c’era certezza di piani regolatori fermi agli anni ’70 e dove il modus operandi delle amministrazioni consentiva di costruire in assenza di regole certe. Giusto o sbagliato quelle case ora ci sono e sono abitate da persone che rischiano di vedersi buttate giù le loro case costruite con anni di sacrifici e fatica. A questo si aggiunge che migliaia di persone rischiano di rimanere in strada da un momento all’altro. Per questo motivo continua il “Coordinamento dei Comitati per la Difesa del Diritto alla Casa della Regione Campania” ha deciso di scrivere una lettera in cui chiedono la definitiva soluzione di questa enorme problematica sociale. Il documento è stato inviato al Presidente del Consiglio Mario Draghi, ai Ministri e ai Parlamentari di Camera e Senato, al Presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca, agli assessori e ai consiglieri regionali. “Premesso che le demolizioni delle case di necessità – si legge tra l’altro nel documento inviato ai rappresentanti istituzionali del nostro Paese – stanno assumendo un carattere sempre più tragico a causa della diffusione della pandemia globale denominata COVID-19 che ha fortemente danneggiato l’economia nazionale con un impatto di forte crisi economica per le famiglie italiane. Tenuto conto che negli ultimi quarant’anni i cittadini sono stati costretti a costruire senza titolo sia a causa delle inadempienze e mancanze perpetrate dallo Stato in ambito legislativo, sia a causa delle amministrazioni locali silenti ed opportuniste che con i rappresentanti politici che negli ultimi decenni hanno trovato conveniente far proliferare l’abusivismo edilizio come strumento di ricatto politico ed elettorale, venendo meno al loro dovere di adoperare tutti i necessari strumenti urbanistici per dare a tutti la possibilità di costruire nella legalità”. “Visto che – continua il documento – così come avviene da circa dodici anni a questa parte, si continuano ad abbattere sempre e solo case di prima necessità abitate da famiglie umili e modeste, che hanno riposto in quel tetto costruito ormai oltre venti, trent’anni fa l’unico bene realizzato con anni e anni di sacrifici e debiti e giammai le grandi costruzioni, i palazzi, le ville e gli immobili della grossa speculazione edilizia ed affaristica del cemento selvaggio con cui sono state distrutte coste e colline del nostro Paese e che continuano a costituire fonte di profitto per i potentati economici, Il ‘Coordinamento dei Comitati per la Difesa del Diritto alla Casa della Regione Campania’ chiede al Governo italiano l’approvazione di un decreto legge di sospensione immediata degli abbattimenti delle prime case di necessità su tutto il territorio Nazionale sia in funzione della drammatica situazione sociale venutasi a determinare a causa della pandemia da Covid-19 in corso, nonché per la profonda crisi economica che sta attanagliando in modo particolare le fasce più deboli del Paese”. “Chiede al Governo l’approvazione di una legge speciale – conclude il documento – da valere sull’intero territorio nazionale, per una regolamentazione amministrativa generale delle case di necessità, realizzate in assenza di titolo, anche nelle aree sottoposte a vincoli ma che insistano fuori dalle aree a rischio idrogeologico, idraulico e marittimo. Inoltre si chiede allo Stato di assegnare rapidamente un’abitazione di edilizia economica e popolare alle famiglie esecutate i cui immobili sono stati già oggetto di demolizione e pertanto rimaste senza casa”. 

"Dove sono i politici? Noi traditi dallo Stato". Dramma abusivismo a Napoli, palazzina abbattuta e quattro bimbi in strada: “Trattati come animali”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 24 Settembre 2021. Nonostante le proteste andate avanti per settimane e il presidio sin dall’alba di venerdì 24 settembre, è stata abbattuta nel corso della giornata una palazzina abusiva a Pianura, periferia occidentale di Napoli, dove fino a pochi giorni fa vivevano due famiglie con quattro bambini. Le ruspe sono entrate in azione al civico 6 di via Vicinale Masseria Grande, in una zona dove nei decenni scorsi sono state costruite centinaia di abitazioni non in regola. Un vero e proprio dramma quello vissuto dai fratelli Ciotola, uno dei quali portato in ambulanza in ospedale dopo aver accusato un malore, che al momento hanno trovato una sistemazione temporanea in casa di vicini (anch’essi residenti in una casa abusiva) e parenti. Tensione alle stelle nel quartiere napoletano, storicamente noto per la forte speculazione edilizia avvenuta negli anni post terremoto con il benestare dei politici di turno. Ed è proprio a politici, magistrati e prefetto di Napoli che è rivolto l’appello di diverse associazioni per la tutela del diritto alla casa nonché di decine di cittadini che da tempo vivono in case non condonate. “Venite qui, venite a vedere questo dramma sociale, lo Stato ci ha tradito” denunciano in tanti. “Oramai le case abusive ci sono, abbiamo un comune in dissesto: create un piano di recupero, queste persone sono disposte a pagare. Troviamo una soluzione perché Pianura e Soccavo sono quasi tutte abusive: che dobbiamo fare, buttare tutte le case a terra?” chiede l’attivista Roberto Clemente, originario del quartiere di Soccavo. “Non vogliamo la violenza, ringraziamo la polizia che sta gestendo la situazione in modo intelligente. Siamo consapevoli che queste case sono abusive, così come sappiamo che molte abitazioni del quartiere lo sono. I proprietari vogliono pagare per mettersi in regola o vogliono una soluzione alternativa. Dove sono i politici? Noi vogliamo parlare con chi comanda, non con la polizia che è costretta ad eseguire gli ordini”. Aggiunge Emanuele Vitale, altra attivista che risiede in una casa abusiva che potrebbe essere buttata giù nelle prossime settimane: “L’abitazione abbattuta non è stata costruita per speculazione ma per necessità. Ho assistito a un discorso chiaro e tondo del magistrato che ha specificato di non avercela con le persone ma con i comuni che all’epoca non hanno gestito bene la situazione. Adesso però chi ne fa le spese sono i cittadini, qui il quartiere è al 90% abusivo. Vogliamo che magistrati e prefettura vengano qui a vedere con i propri occhi la situazione”. Le famiglie Ciotola hanno ricevuto la visita inaspettata della polizia alla vigilia del primo giorno di scuola. Ad aprire la porta di casa agli agenti proprio uno dei quattro bambini. “Anche gli avvocati hanno sbagliato – incalza Vitale – perché non hanno avvisato le famiglie in questione dell’avvenuta notifica dello sfratto e della demolizione. Questi legali sono stati pagati profumatamente e adesso non ci sono”.

Franco Ciotola, padre dei due figli che da oggi si trovano ufficialmente senza casa, non ci sta: “Ci hanno buttato in strada all’improvviso con i mobili e altre cose. Siamo accampati. Non è possibile quello che sta succedendo, non c’è stata nessuna notifica. Adesso i miei figli vivono a casa di uno zio e in una piccola abitazione che ha solo una stanza e un bagno. Vogliamo un aiuto, un ferma-ruspe, nessuno però fa qualcosa”. “Nemmeno gli animali vengono trattati così” commenta Rosa Terracciano. “Come date rifugio ad altre persone, aiutate anche noi. Non buttateci così. Tutta Napoli si trova in questa situazione quindi adesso trovate una soluzione a questo dramma”

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Il caso dell'"abusivismo" condonato e distrutto. Palazzina in abbattimento, 15 persone in mezzo a una strada durante la pandemia: “È come la pena di morte”. Rossella Grasso su Il Riformista il 10 Novembre 2020. I camion per svuotare la casa sono arrivati alle 9 del mattino scortati dalle forze dell’ordine. Una delle case di via Luigi Beccali, nel comune di Quarto, provincia di Napoli, deve essere abbattuta perché è un abuso edilizio. Lo ha stabilito il Tribunale disponendone la demolizione immediata. Eppure la famiglia Fabozzi che ha costruito quella palazzina di 3 piani negli anni ‘90 fa con il sudore della propria fronte ha speso circa 100 milioni di vecchie lire versate allo Stato e al Comune, tra concessioni e oblazioni, per il condono avvenuto nel 1994. “Abbattere una casa dopo 30 anni in cui ci vivono nuclei familiari, se non è una pena di morte questa, ditemi cos’è”, dice Olga Marinanno, accorsa sul posto per supportare la famiglia Fabozzi. All’epoca della costruzione la famiglia Fabozzi era stata autorizzata dal Comune di Quarto a costruire. “Nel 2013 il Comune ci ha anche rilasciato un permesso di costruire la mansarda – racconta Giovanni Fabozzi, proprietario dello stabile – Poi nel 2017 ci è stata notificata una lettera con l’ingiunzione a demolire perché queste concessioni erano illegittime”. Tutti i certificati e le autorizzazioni la famiglia Fabozzi le ha esposte su cartelli fuori alla loro palazzina in cui abitano tre famiglie e circa 15 persone, tra adulti e bambini. Ma i Fabozzi, persone dal carattere mite, hanno accettato lo sgombero e l’abbattimento della casa per non andare contro legge, sebbene con il dolore nel cuore. Oltre il danno di vedersi demolire in poche ore il lavoro di una vita intera, anche la beffa: la famiglia aveva deciso di auto demolirsi lo stabile. “Il preventivo chiesto a una ditta privata per l’autodemolizione era di circa 20mila euro per la famiglia – racconta Valentina Vitolo del Comitato Io Abito, sopraggiunto a Quarto per supportare la famiglia Fabozzi – Ma è stato negato alla famiglia. L’abbattimento coatto invece costerà 280mila euro circa. Soldi che arriveranno in bolletta ai Fabozzi che però, dopo aver costruito la casa e aver pagato tutti i condoni, saranno nullatenenti dopo che gli avranno distrutto tutto. E poi perché allo Stato costa così tanto e ai privati tanto meno? Questi soldi finiranno sulle spalle dei cittadini di Quarto o della Campania…chi pagherà per questo?”. “Eppure stiamo parlando di persone che pagano le tasse, l’Imu sulla prima casa, che hanno la licenza per le utenze conferita dal Comune stesso. Solo un reato di abusivismo contestato più di 40 anni dopo”, racconta Emanuela Vitale, una ragazza di Pianura, quartiere della periferia di Napoli, che ben conosce la situazione della demolizione delle case nella periferia. Quello che sta succedendo ai Fabozzi lo sta vivendo anche lei con la sua famiglia. “Vogliono abbattere la mia casa perché mentre mio padre la costruiva cercando di rispettare delle regole che non esistevano, perché per 40 anni non c’è stato un piano regolatore, queste norme venivano inventate di sana pianta – Racconta Emanuela – Così all’improvviso dove è stata costruita casa mia c’era un vincolo paesaggistico, probabilmente perché siamo in prossimità degli Astroni, anche se non ci siamo dentro. Hanno vincolato tutta la zona senza senso: si tratta di una zona urbanizzata dove vivono tantissime persone. Per tanti anni non è esistito un piano regolatore ma adesso a Pianura, in una zona fortemente urbanizzata esce un vincolo paesaggistico. Cosa c’entra questo vincolo? A chi devo fare questa domanda?” “La mia casa ha superato tutti i criteri antisismici, di rischio idrogeologico – continua il racconto – Noi siamo a favore degli interventi della magistratura dove è a rischio l’incolumità delle persone e la salute, ma se parliamo di una bella casa come quella di Fabozzi, costruita con tutti i criteri, che fastidio dà? Siamo in tanti ad avere una sentenza di demolizione passata in giudicato nel momento in cui riceviamo una notifica di demolizione potremmo vederci le ruspe arrivare da un momento all’altro. La mia casa doveva essere demolita il 3 novembre ma poiché il 10 c’era l’udienza in cassazione è stata rimandata. E la battaglia legale per queste cose costa. Lo stato ci sta massacrando”. Adesso i Fabozzi sono costretti a trovare riparo arrangiandosi tra parenti e amici. Considerato che la Campania potrebbe presto andare in lockdown significa che nelle case dove troveranno ospitalità ci saranno anche 9 persone. Stessa cosa potrebbe succedere presto a tante altre famiglie della zona che non sapranno cosa fare.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

La casa è stata abbattuta lasciando in strada due famiglie e 4 bambini. I pm ordinano l’abbattimento della casa abusiva, il sindaco si dimette: “Avevo chiesto altri 100 giorni, questo non è il mio Stato”. Viviana Lanza su Il Riformista il 2 Settembre 2021. «Le mie dimissioni non sono una resa ma un momento di lotta, di rappresentanza degli interessi della città, di azione nel solco di una vita spesa per difendere i deboli dagli oppressori». Renato Natale pronuncia queste parole mentre si spoglia della fascia tricolore. Parla dalla sede del Comune di Casal di Principe, la città che amministra ormai da sette anni. Una città difficile, salita tante volte agli onori delle cronache, in passato, per fatti sempre drammatici e legati alla presenza della camorra. Una città che, anche con il supporto di tanti cittadini di buona volontà e di associazioni di volontariato, il sindaco Natale ha guidato verso un percorso di riscatto e di rinascita che non è ancora ultimato. Per ricostruire, a volte, bisogna demolire, certo. Ma non al costo di drammi sociali gravi e che coinvolgono quattro bambini, secondo Natale. Il sindaco che ha deciso di dimettersi per protestare contro la decisione della Procura di Santa Maria Capua Vetere di non rimandare la demolizione di uno stabile abusivo in via Ancona dove vivono due famiglie indigenti con quattro bambini, di età compresa tra i tre e i sette anni. L’avvio dell’abbattimento è fissato per oggi. Fino all’ultimo giorno Renato Natale si è speso per evitare che quei bambini finissero in strada e, oltre allo choc di non avere più la loro casa, subissero anche il dramma di non avere un’alternativa. Ieri il sindaco ha ufficializzato la scelta di dimettersi dalla carica di primo cittadino e la sua decisione «dolorosa e sofferta» è destinata a varcare i confini della provincia casertana. «Lo Stato che dovrei rappresentare con questa fascia oggi si fa vedere con un volto, un viso, una faccia che non è la mia. In queste condizioni io non posso rappresentare lo Stato», dice protestando contro la decisione della Procura di applicare rigidamente la burocrazia giudiziaria. «Avevo chiesto cento giorni di tempo», spiega il primo cittadino. Cento giorni per ultimare la ristrutturazione di un bene confiscato e consentire ai bambini di via Ancona di avere un nuovo tetto sulla testa. «L’abusivismo va contrastato. Noi – precisa il sindaco – non siamo contro la magistratura né siamo qui a difendere le case abusive, ma solo a tentare di difendere il diritto di quattro bambini a non finire in strada». Nella lettera di dimissioni Natale sottolinea: «Non sono in grado di coniugare legalità e giustizia, pertanto non intendo coprire questa carica quando l’applicazione della legge comporta la messa in discussione dei diritti fondamentali del cittadino». Da una parte, quindi, c’è un sindaco che vuole fare fino in fondo il suo dovere a tutela della propria comunità. Dall’altro ci sono dei magistrati ancorati a una burocrazia che non sempre è garanzia totale di giustizia. Si pensi, per esempio, alle varie lungaggini che appesantiscono il nostro sistema giudiziario. Anche la storia del palazzo abusivo in via Ancona a Casal di Principe ha alle spalle una vicenda giudiziaria che si trascina da anni. Lo stabile fu realizzato nel 2000, nel 2005 fu dichiarato abusivo da una sentenza e da allora – come ricordato dal sindaco Natale – il nulla: per anni nessuno si è interessato delle sorti di quel palazzo. Ora che la sentenza è passata in giudicato, per i magistrati non c’è più tempo per ulteriori proroghe: la casa va demolita. La questione sollevata dal sindaco Natale, però, va anche oltre il rigido protocollo giudiziario. «Solo a Casal di Principe si contano 1.700 ordinanze di abbattimento. Il Comune – spiega – ha provveduto senza perdere tempo alle richieste di varie Procure e finora si è indebitato per un milione e 600mila euro per consentire l’abbattimento di undici delle 250 case abusive da demolire». E qui emerge un’altra delle più grandi criticità a cui lo Stato non è ancora riuscito a trovare soluzione. «Ogni demolizione costa tra 150 e 200mila euro. Per abbattere tutte le 250 case abusive di Casal di Principe ci vorrebbero 35 milioni di euro. Ma – conclude – il fondo per le demolizioni, la Cassa Depositi e Prestiti, dispone di 50 milioni di euro per tutta l’Italia».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Per la procura “avevano già un’altra sistemazione”, ma il sindaco smentisce. Abbattuta casa abusiva, in strada due famiglie con 4 bambini: “I pm non hanno voluto aspettare”. Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Settembre 2021. “Cosa spiegherò ai miei figli? Che fine ha fatto la nostra casa dove è nato e cresciuto?”. È questo che si chiedono gli Stabile, due nuclei familiari di Casal di Principe, Caserta, con 2 bambini minori di 8 anni ciascuno, che il 2 settembre all’alba si sono cisti arrivare le ruspe sotto casa in via Ancona. E con esse un grosso dispiegamento di forze dell’ordine. La loro casa è abusiva, la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha disposto che andasse abbattuta. Nemmeno le dimissioni del sindaco di Casal di Principe, Renato Natale, è riuscito a evitarlo. Per gli Stabile e per il Comune di Casal di Principe, sono stati due giorni lunghissimi. Tutto è iniziato con le dimissioni del sindaco Renato Natale. L’amministrazione comunale aveva chiesto senza successo una proroga di 100 giorni alla Procura per adibire un ben confiscato a social house, così da poter ospitare le due famiglie con 4 minori che vivono in quell’immobile. Ieri pomeriggio c’era stata una protesta di cittadini e associazioni. Poi all’alba l’arrivo delle ruspe. Polizia, carabinieri e vigili del fuoco hanno transennato la zona. Gli Stabile si sono barricati in casa. Intanto tutt’intorno amici, parenti e sostenitori del Coordinamento dei Comitati a Difesa del diritto alla casa della regione Campania si sono radunati per supportare gli Stabile in questo drammatico momento. Il problema dell’abbattimento delle case abusive riguarda tanti cittadini di Casal di principe. In quel comune sono infatti 250 le case da abbattere. Molti non possono permettersi di pagare la demolizione come previsto per legge e per loro il comune dovrà investire circa 200mila euro a casa. Per tutta la mattinata i funzionari della Polizia di Stato hanno cercato di convincere gli inquilini del palazzo da demolire a lasciare l’immobile. Una delle donne ha accusato un malore. Tanti cittadini sono giunti sul posto per portare solidarietà, ma carabinieri e polizia hanno “sigillato” gli accessi mettendo in obliquo i furgoni per il trasporto degli agenti. Sono otto in totale i residenti nel palazzo, due coppie con due figli piccoli ciascuna. “Si sono sposati da poco e sono entrati in casa quando ancora non era finita – dice una donna a proposito di una delle coppie residenti – stavano concludendo la casa piano piano non avendo molti soldi e facendo lavori saltuari. Ora che fine faranno?” L’abusivismo a Casal di Principe è una piaga enorme. Molte delle costruzioni, tra cui la casa degli Stabile, è stata costruita circa 20 anni fa quando mancavano piani regolatori e altri strumenti urbanistici; una zona dove le strade non sono asfaltate e mancano servizi. “Qui c’era un altro Stato, quello reale ci ha accantonato per anni: tutti costruivano affidandosi a false promesse di politici o credendo ad altre promesse. Poi ora si ricordano di quegli edifici costruiti 20 anni fa – spiegano Comitati a Difesa del diritto alla casa della regione Campania – ancora una volta oggi ci sentiamo abbandonati dallo Stato”. “Ogni colpo della ruspa è una pugnalata al cuore” dice la proprietaria di un altro stabile vicino, pure abusivo. “Tanti sacrifici inutili”. Alla fine della mattinata gli Stabile sono usciti senza opporre resistenza e sono andati via in lacrime. “Li buttano in strada con 4 bambini piccoli, che vergogna!”, gridano i manifestanti. “La casa è stata abbattuta, ma ora ci aspettiamo delle risposte dal tavolo interministeriale convocato dal ministro Mara Carfagna”. È quanto afferma l’assessore all’istruzione del comune di Casal di Principe (Caserta) Marisa Diana, intervistata dall’Ansa, al lavoro in queste ore con il sindaco dimissionario Renato Natale per cercare di trovare una sistemazione alle due famiglie che risiedevano fino a stamani nell’immobile di via Ancona. Le due famiglie sono legate da stretti legami di parentela, in quanto nelle due coppie di coniugi con due figli ciascuna, i mariti sono fratelli gemelli. Subito dopo le dimissioni del sindaco, per i due nuclei si è mossa la Diocesi di Aversa, attraverso il vicario don Franco Picone, che ha proposto la sistemazione nella parrocchia di San Nicola di Bari di Casal di Principe, la chiesa dove Don Peppe Diana celebrava e fu ucciso, o di reperire un appartamento il cui fitto sarebbe a carico della Curia. Intanto molti hanno criticato la scelta della Procura di procedere ugualmente con gli abbattimenti.

La risposta della Procura alle critiche. “Le famiglie dell’immobile abusivo di via Ancona a Casal di Principe hanno già soluzioni alternative”. E’ in sostanza questo il messaggio diffuso dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, in una nota, per far chiarezza sulla vicenda balzata alla cronaca negli ultimi giorni. A poche ore dall’avvio delle operazioni di demolizione, la Procura ha voluto far chiarezza sia sulla situazione in generale che sulle richieste negate al sindaco Renato Natale, dimessosi ieri proprio per tale vicenda. “Questa situazione venne rappresentata dal sindaco il 29 marzo 2021, e ha dato luogo, da parte di questo ufficio, all’accoglimento delle richieste di rinvio, tant’è che l’esecuzione è stata differita al 2 settembre” – spiegano dalla Procura – “Decorso ampiamente il termine concesso, è stata fissata pertanto l’esecuzione del 2 settembre, non potendo ulteriormente rinviare la demolizione anche in virtù delle situazioni di pericolo del fabbricato”. Questa mattina le famiglie, all’arrivo delle ruspe, si sono barricate in casa, uscendone solo dopo una lunga mediazione con le forze dell’ordine. La Procura di Santa Maria Capua Vetere, attraverso una nota, ha però spiegato che “I nuclei familiari hanno reperito soluzioni alternative. Uno dei due era già anagraficamente residente, sin dal dicembre 2020, in un’abitazione diversa da quella oggetto della demolizione, usufruendo di alloggio popolare, così come riferito da uno dei componenti del nucleo alla polizia giudiziaria operante. Il secondo nucleo familiare – aggiunge – ha ugualmente riferito alla polizia giudiziaria, alcuni giorni prima dell’esecuzione, di aver rinvenuto una soluzione alloggiativa in affitto. Pertanto, appaiono venuti meno i presupposti posti a fondamento della richiesta di rinvio, atteso che le due famiglie hanno trovato sistemazione altrove, circostanza che ha reso possibile l’esecuzione della demolizione del fabbricato che versava in situazione di pericolo”.

Il sindaco Natale smentisce. “Ho rassegnato le dimissioni per lanciare un messaggio alla politica. Sull’abusivismo è necessario modificare la legge. Il mio è un grido d’allarme, una richiesta di aiuto al governo. So che oggi si è riunito un tavolo interministeriale per discutere anche le nostre proposte, e ce ne sarà presto un altro. Se ci saranno risultati, se ci saranno le condizioni per poter governare, allora potrò pensare di revocare le dimissioni. Altrimenti no, perché fra qualche settimana potrei ritrovarmi nella stessa situazione”. Così a LaPresse Renato Natale, sindaco dimissionario di Casal di Principe, dopo l’abbattimento di un immobile abusivo che ospitava due famiglie con 4 minori. La Procura, che ha negato la proroga chiesta dal Comune per adibire a social house un bene confiscato alla camorra, ha spiegato in una nota che le due famiglie avevano trovato soluzioni alternative. “Una famiglia si è appoggiata temporaneamente a casa di un genitore, in una struttura piccolissima. L’altra in una casa popolare che era dei genitori, con il dubbio dell’illegittimità. Non credo che queste siano soluzioni alternative. Hanno dovuto arrangiarsi per paura di perdere i figli”, ha aggiunto Natale. “Queste persone, soprattutto i bambini, pagheranno per anni le conseguenze psicologiche. Noi avremmo potuto ridurre i danni”.

A Casal di Principe sono 200 case da demolire: “Dove metteremo questo esercito di senza tetto?” “Vogliono abbattere il nostro tetto sicuro costruito con gli ultimi risparmi”, il dramma della famiglia Stabile. Rossella Grasso su Il Riformista il 5 Agosto 2021. È un vero e proprio dramma quello che stanno vivendo tanti cittadini di Casal di Principe: lì ci sono 200 case da demolire e altre 1700 che attendono una data certa. Praticamente un terzo del paese. Il motivo? Le loro case, costruite anche 30 anni fa su terreni agricoli privati, sono abusi edilizi. E ora scatta l’allarme: dove finiranno tutte queste famiglie? È questa la situazione che denuncia Valeria Vitolo del Coordinamento dei Comitati a Difesa del diritto alla casa della regione Campania. La storia di Aniello Stabile, classe 1985, sposato con figli a carico è una di queste. “Non ha una qualifica né un lavoro: mantiene la famiglia con quel poco che gli arriva dallo Stato. Dal 2 settembre 2021 non avrà nemmeno più una casa: la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha emanato un ordine di demolizione per l’immobile che con sacrifici ha lentamente rifinito. Il sindaco di Casal di Principe Renato Natale non riuscirà a trovare un alloggio alternativo per Aniello e la sua famiglia”, racconta Valeria. Aniello ha vissuto tutta l’infanzia con papà Tommaso, mamma Angelina ed i tre fratelli in uno scantinato nel palazzo della nonna. “Dormivamo tutti in una stanza, il bagno era nel cortile. C’erano pochi soldi ma tanto amore: mamma e papà non ci hanno mai fatto mancare nulla” racconta Aniello. “Nel 2000 la nonna è morta e gli zii ci hanno cacciati di casa, mamma e papà hanno deciso di investire i pochi risparmi che avevamo in un terreno alla periferia di Casal di Principe: papà voleva che darci un tetto sicuro dove metter su famiglia, senza la paura di essere cacciati di casa da un giorno all’altro. E poi…”, continua il racconto. “Io e Rita ci siamo sposati nel 2015, dopo 8 anni di fidanzamento – continua con l’amore negli occhi Aniello – Dopo poco è arrivato il piccolo Tommaso: gli abbiamo dato il nome di mio padre perché speriamo che diventi un uomo tutto d’un pezzo, come il nonno”. Pochi mesi fa arriva l’ordine di sgombero: Aniello non lavora, ha due figli piccoli e non sa dove andare. Si rivolge al sindaco Renato Natale. “L’amministrazione stanzia i fondi per rendere abitabile un bene confiscato alla camorra ma ci vuole qualche mese per terminare i lavori. Il giudice non vuole aspettare, non sente ragioni: il 2 settembre le ruspe arriveranno a Casal di Principe e demoliranno casa Stabile, sbattendo per strada due famiglie con 4 minori a carico”, dice Valeria. “Il sindaco sta provando ad aiutare le famiglie Stabile, conosce la loro situazione economica e la fragilità che vivono” spiega Fabio Zippo Cipriano, referente per Caserta del Coordinamento dei Comitati a Difesa del Diritto alla Casa della regione Campania: “Ma il tempo stringe e se il governo Draghi non interverrà immediatamente per fermare le ruspe, altri 200 nuclei familiari finiranno per strada solo a Casal di Principe: dove metteremo questo esercito di senza tetto?”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Il dramma degli abbattimenti delle case abusive. “Casa era il mio posto sicuro, ora non c’è più”: in un tema a scuola Castrese racconta il suo dramma. Rossella Grasso su Il Riformista il 13 Settembre 2021. “Una situazione inaspettata”, è questo il titolo del tema in cui Castrese, 14 anni, ha raccontato un suo dramma intimo che non aveva mai avuto il coraggio di raccontare nemmeno ai suoi: quel giorno terribile in cui hanno abbattuto la sua casa. E il suo dramma è comune a tante altre famiglie che vivono a Pianura, quartiere della periferia di Napoli e su cui incombe la minaccia della ruspa: quelle case sono abusive e vanno demolite. Poco importa che siano frutto di 30 anni di sacrifici e nemmeno che in tanti abbiamo pagato milioni di lire per il condono. Vanno giù e il dramma diventa umanitario: che fine fanno quelle famiglie? Ed è proprio questo Castrese e sua mamma Pina vogliono testimoniare. “È una violenza troppo grande, mio figlio non mi aveva mai parlato della sua sofferenza – racconta Pina Caianiello, 60 anni, mamma di Castrese – Poi ho letto il suo tema e sono stata ancora più male nel capire quanto vedere la casa che non c’era più era stata per lui un trauma. Ma di tutta questa sofferenza, dei bambini, lo Stato non se ne importa?” “Era il 30 settembre 2018 – scrive Castrese nel suo tema – Io ero a scuola e i miei genitori stavano vedendo la nostra casa cadere a pezzi. In quella casa c’era sudore, lacrime e sacrifici che hanno fatto i miei genitori”. Castrese è un ragazzo molto sensibile dagli occhi dolci. Mentre racconta quel dramma gli vengono le lacrime agli occhi, come se raccontandolo stesse ripercorrendo minuto per minuto il film di quella tragedia familiare. “Mi dissero che avevano buttato giù la casa – racconta – ma io non ci ho creduto finchè non l’ho vista con i miei occhi. Casa è il posto sicuro, quello che c’è sempre, e invece non c’era più. Non ho detto niente perché non volevo che i miei genitori soffrissero…già i pensieri e il dolore che avevano erano tanti”. Ora Castrese con mamma e papà vive in una casa che degli amici gli hanno dato in prestito. Stanno appoggiati in piccole stanze umidissime e sono grati di quella ospitalità. “Non solo il dolore per la casa che ti hanno abbattuto ma anche il pensiero di non sapere dove andare – dice mamma Pina – La nostra casa è stata costruita 30 anni fa, abbiamo pagato anche il condono 25 milioni di lire al Comune di Napoli ma niente, ce l’hanno buttata giù e con lei tutti i nostri sogni. Vorremmo sapere perché nonostante i nostri pagamenti ci hanno fatto questa violenza”. “A questa domanda dovrebbe rispondere il Comune, a pina e a tutte le famiglie nella stessa situazione”, racconta Emanuela Vitale, abitante di Pianura che da anni è in prima linea nel raccontare il dramma degli abbattimenti delle case. Anche sulla sua famiglia pende lo stesso dramma. “Giusto o sbagliato 30 anni fa si costruiva e poi si chiedevano le autorizzazioni. Non c’era un piano regolatore ma il Comune puntualmente rilasciava gli agganci per le utenze e inviava bollettini da pagare per il condono edilizio. Tante famiglie hanno speso milioni di euro per poi vedersi quella stessa casa abbattuta. Persino la beffa di doversi pagare l’autodemolizione che diventa un debito insormontabile. Ma intanto il Comune ha incassato”. Pina soffre ancora tantissimo. Non riesce a dormire, si smarrisce facilmente e si sta facendo aiutare da una psicologa per superare quel trauma enorme. “È un trauma che non passa – conclude Pina –  al signor Presidente Draghi dico: fermatevi, basta. Questa è la guerra che teniamo noi in casa nostra, mandano le persone in mezzo alla strada e le fanno stare male. La mia stoia è come quella di tanti altri a cui presto sarà abbattuta la casa, fermate tutto questo dolore”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Parla l’assessore regionale all’urbanistica. Case abusive, un dramma lungo 36 anni: “Ora serve atto di responsabilità del Parlamento”. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Diritto alla casa, pianificazione urbanistica, edilizia pubblica, assetto territoriale. Chiudete gli occhi e immaginate di applicare queste espressioni alla realtà che ci circonda, quella di Napoli e della Campania tutta. Cosa vi viene in mente? Basta guardare cosa sta accadendo in questi giorni a Casal di Principe, nel Casertano, e ricordare quello che ciclicamente accade a Ischia o nei quartieri della periferia napoletana: ruspe, sgomberi, proteste, drammi sociali. La stessa sequenza cui si è assistito ieri a Casal di Principe. L’unica novità sono state le dimissioni del sindaco Renato Natale che, dopo sette anni di mandato, ha dismesso la fascia tricolore in segno di protesta contro la Procura di Santa Maria Capua Vetere che non ha concesso proroghe per consentire al Comune di trovare un’alternativa alle due famiglie, formate da quattro adulti e quattro bambini tra i tre e i sette anni, sotto sfratto. Novità perché mai nessun sindaco ha fatto una scelta così drastica per tutelare e porre l’attenzione su un diritto, come quello alla casa, che lo Stato dovrebbe garantire a tutti. Detto questo, per il resto i fatti di Casal di Principe richiamano episodi già visti: famiglie che si oppongono allo sgombero, forze dell’ordine che presidiano la zona, funzionari che provano a mediare con gli inquilini perché lo sfratto avvenga senza tensioni, malori, grida, proteste di piazza, le ruspe che alla fine entrano in azione e i costi per l’abbattimento che finiscono per pesare sui conti già disastrati dell’amministrazione comunale di turno. «Serve un atto di responsabilità che deve necessariamente fare il legislatore nazionale, quindi anche le forze politiche», spiega Bruno Discepolo, architetto, urbanista e assessore regionale della Campania. «In Parlamento ci si deve misurare su questo argomento fuori da ogni semplificazione o radicalizzazione ideologica come purtroppo è stato in questi anni a fronte di ogni tentativo di aprire una pagina di riflessione». Basta, quindi, con le fughe di responsabilità. Discepolo dice di non amare la definizione “abuso di necessità”, ma evidenzia come esistano abusi di diversa entità. «Come Regione – racconta l’assessore campano – abbiamo provato a introdurre delle proposte ma c’è stato un muro posto dal Governo, da alcune forze politiche, da una parte dell’opinione pubblica». Posto che l’abusivismo non può non essere sanzionato, i piani di recupero previsti dalla legge del 1985 si sono rivelati un flop perché i Comuni non hanno investito le cifre dei condoni nella riqualificazione delle aree degli immobili condonati, ma le hanno usate per sanare i loro debiti su altre voci. «È stata la prima distorsione, il primo tradimento anche a una legge che aveva tanti tanti limiti ma si spingeva in positivo sul concetto di condono proponendo anche di recuperare il territorio», osserva Discepolo. Se ne parla da 36 anni. «La vera scelta fatta dalla politica e dalle istituzioni – aggiunge l’assessore regionale – è stata quella di pensare che l’unico modo di risolvere il problema fosse evitare di affrontarlo, lasciando le pratiche in un cassetto. Molte amministrazioni evitano di prendersi la briga di decidere se condonare oppure no e quando il caso finisce all’attenzione della magistratura, seguendo un iter che porta, anche se a distanza di anni, a una sentenza. E a quel punto scoppia il caso». In generale, assetto del territorio ed edilizia abitativa sono due materie che viaggiano di pari passo, intrecciano le competenze degli amministratori locali e non possono fare a meno di una politica illuminata e strutturata. Se per assetto territoriale si intende tutto quello che riguarda la riqualificazione urbana, l’arredo e il miglioramento degli spazi pubblici, l’edilizia pubblica abbraccia tutte le iniziative e i servizi finalizzati allo sviluppo delle abitazioni, inclusi quelli per gli alloggi popolari. Un report della fondazione Openpolis ha analizzato il numero di investimenti che le amministrazioni delle città italiane hanno sostenuto annualmente. I dati sono aggiornati a prima della pandemia del 2020. Tra le più grandi e popolose città italiane, è Milano a spendere di più per abitante in materia di territorio ed edilizia: 93,85 euro pro capite. Napoli arriva a 52 euro. Nel 2019 la spesa complessiva per territorio ed edilizia nel capoluogo campano è stata di 50 milioni e 151.677 euro per una popolazione di circa un milione di abitanti. Confrontando i dati degli ultimi cinque anni, si nota un incremento degli investimenti in materia di urbanistica ed edilizia (+26,6%) ma la strada è ancora lunga e le criticità ancora troppe, come la drammatica vicenda di Casal di Principe insegna.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

·        L’occupazione delle case.

Negozio "occupato" da un anno: "Così calpestano la proprietà privata".  Elena Barlozzari Alessandra Benignetti il 27 Novembre 2021 su Il Giornale. Francesco, 65 anni, in lotta da un anno per rientrare in possesso del negozio di famiglia, abitato abusivamente da inqulini morosi: "Le forze dell’ordine devono intervenire subito, non mesi o addirittura anni dopo. Siamo all’impunità totale". "Non riesco più a dormire, la violenza che sto subendo è una violenza inaudita". Francesco ha 65 anni ed una preoccupazione che gli toglie il sonno: il suo negozio. Un piccolo locale in zona Tor Pignattara. Da quasi un anno, ormai, la coppia di italiani a cui lo aveva affittato non paga più. Dicono sia colpa della pandemia. La crisi economica li ha ridotti sul lastrico e così si sono dovuti arrangiare, adibendo il negozio di Francesco ad appartamento abusivo. Il tutto ovviamente senza che l’anziano ne sapesse nulla. "Il locale glielo avevo affittato a gennaio 2020 per uso parrucchiere, poi – si sfoga il proprietario – è arrivata la pandemia ed hanno smesso di pagare, trasformando il mio negozio in un appartamento. E non solo, da qualche mese si è addirittura aggiunto un personaggio che ha avuto problemi con la legge ed è stato messo agli arresti domiciliari nella mia proprietà, a mia insaputa". Proprio così. A Roma c’è un giudice che scambia un locale commerciale per abitazione, ritenendolo una alternativa idonea al cercere. Francesco strabuzza gli occhi: "Vi pare normale?". No, non lo è. Soprattutto perché, ben prima di quel provvedimento, il tribunale di Roma aveva già convalidato lo sfratto per morosità. Sfratto che, da verbale, doveva essere eseguito entro il 30 giugno 2021. Sono passati sei mesi. Francesco non ha ancora riavuto il negozio, non ha visto un euro di quanto gli spetterebbe ed ha persino dovuto mandar giù la beffa di ritrovarsi un detenuto in "casa". "Sono in attesa dell’intervento dell’ufficiale giudiziario, i tempi – si sfoga – si stanno dilatano a dismisura ed io nel frattempo sto perdendo più di seimila euro tra avvocati, affitti non percepiti, tasse. Non me lo posso più permettere". La paura più grande è di non riuscire a rientrare in possesso dell’immobile. Non è solo un discorso economico, Francesco è legato a quel posto, gli ricorda i suoi genitori: "Era loro, lì dentro ci hanno lavorato per cinquant’anni ed io ci sono cresciuto, mi fa male vederlo così". Anche se tutto sembra statico e insormontabile, un piccolo cambiamento c’è stato. "Qualche giorno fa – racconta Francesco – hanno finalmente trasferito altrove l’uomo che era ai domiciliari nel mio negozio". Rimane però la sua compagna, una donna sulla trentina che chiameremo Maria. Con lei abbiamo parlato poco prima che la situazione evolvesse, quando erano ancora in due a dividere il piccolo locale, ingombro di scatoloni, effetti personali e ciò che rimane del vecchio salone di parrucchiere. "Chiamasse l’ufficiale giudiziario, perché io da qui non mi muovo. Pur volendo non saprei proprio dove andare", ci aveva detto. "I soldi non li fabbrico, mi dispiace". È stata la replica quando le abbiamo presentato il conto dei mesi passati a vivere a sbafo. Maria non ci sta a farsi dare della furba. Si definisce "una vittima della crisi". "Io capisco tutto – tuona Francesco – ma possibile che la fragilità di questa persona debba ricadere su di me? Dove sono le istituzioni? I servizi sociali?". A dargli man forte è intervenuta la consigliera regionale della Lega Laura Corrotti, che ormai segue il caso da vicino. "Quella del signor Francesco è una vicenda assurda. La proprietà privata dovrebbe essere tutelata rispetto a questo genere di abusi. Eppure – denuncia la consigliera – negli ultimi tempi ricevo continue segnalazioni, ci sono tantissime persone in questa situazione e, proprio insieme a loro, sto organizzando un sit-in di protesta davanti al negozio". La speranza, sulla falsa riga del caso Di Lalla, è che l’iniziativa serva ad accendere un faro sulla storia di Francesco, sbloccando la restituzione dell’immobile. "Siamo tutti Ennio Di Lalla, a tutte le persone che subiscono una violenza del genere dico che dobbiamo farci forza, uscire allo scoperto, farci sentire", spiega il 65enne. "Ormai in alcuni quartieri vanno in scena veri e propri furti di case. Le forze dell’ordine devono intervenire subito, non mesi o addirittura anni dopo. Siamo all’impunità totale. Non si può più tollerare – conclude – che il diritto di proprietà venga calpestato e sminuito in questo modo".

Elena Barlozzari. Sono nata a Roma, in un quartiere dove i ruderi antichi dormono da secoli, imperturbabili da fare invidia. Invece io sono un’anima inquieta. Le suole delle mie scarpe mi raccontano molto meglio di qualche riga impilata. Se potessero parlare, probabilmente, chiederebbero pietà. Collaboro con Il Giornale.it dal 2016 e mi occupo soprattutto di cronaca, con qualche sconfinamento nella politica e negli esteri. La laurea in Giurisprudenza mi è servita moltissimo, a capire che l’avvocatura non fa per me. Sono giornalista pubblicista perché “è sempre meglio che lavorare”.  

Alessandra Benignetti. Nata nel 1987, vivo da sempre a Roma, città che amo. Sono laureata cum laude in Scienze Politiche all'Università La Sapienza, giornalista pubblicista, moglie e mamma. Appassionata di geopolitica e relazioni internazionali, per il Giornale.it realizzo video reportage e inchieste seguendo da vicino i fatti di cronaca e l'attualità. Il mio obiettivo? Raccontare la realtà senza filtri e descrivere i fatti con obiettività, con uno sguardo sempre oltre il sipario.

Arrestati 4 fratelli, i genitori sfrattati dall'immobile del comune. Occupano casa abusiva e massacrano di botte i vicini: donna lapidata, è grave in ospedale. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 26 Novembre 2021. Armati di pietre e bottiglie di vetro, hanno lapidato e massacrato di botte i vicini di casa, riducendo in gravi condizioni una donna di 61 anni e ferendo, per fortuna in modo lieve, il marito e la figlia. Protagonisti quattro fratelli di 21, 22, 27 e 29 anni che insieme ai genitori in passato hanno occupato abusivamente un’abitazione popolare del comune di Casoria, realizzandovi successivamente una serie di lavori, senza alcuna autorizzazione, e minacciando gli stessi vicini di casa di non far emergere gli abusi edilizi in via di realizzazione. L’inquietante storia emerge al termine delle indagini condotte dai carabinieri della Compagnia di Casoria e coordinate dal Tribunale di Napoli nord che hanno portato nelle scorse ore all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal gip del Tribunale che si trova ad Aversa, nei confronti dei quattro fratelli – due dei quali già noti agli archivi delle forze dell’ordine – ritenuti gravemente indiziati, a vario titolo, di tentato omicidio, lesioni personali aggravate, violazione di domicilio e danneggiamento. La violenta aggressione è andata in scena il 7 novembre scorso quando ai carabinieri è arrivata la segnalazione di una violenta lite condominiale tra gli inquilini delle case popolari di via Giovanni Pascoli ad Arpino di Casoria. Secondo quanto emerso nel corso dell’attività investigativa, i quattro fratelli si sarebbero resi protagonisti, per futili motivi, del tentato omicidio della 61enne, aggredita insieme al marito e alla figlia (che hanno riportato 5 giorni di prognosi per trauma cranico) con pietre e bottiglie di vetro. A distanza di 20 giorni la donna è ancora ricoverata all’ospedale Cardarelli di Napoli dove era inizialmente arrivata in codice rossa dopo la selvaggia aggressione. Parte per un viaggio e le occupano la casa: “Ora costretta a pagare bollette e la domestica che non ho mai avuto”. I quattro fratelli indagati sono ritenuti gravemente indiziati, anche, dei reati di violazione di domicilio e danneggiamento visto che si sono introdotti nell’abitazione della vittima contro la sua volontà, prima di aggredire l’intera famiglia. I genitori dei quattro fratelli dovranno invece rispondere del reato di violenza privata avendo imposto a vicini con minacce e violenza di accettare gli abusi edilizi in corso di costruzione. Nel medesimo provvedimento cautelare, è stato disposto anche il sequestro preventivo dell’abitazione dove vive il nucleo familiare gravemente indiziato della violenta aggressione, in virtù dell’occupazione abusiva nonché della realizzazione di opere edilizie prive di autorizzazione. Per tali ragioni, componenti della famiglia interessati dal provvedimento sono stati sgomberati dall’unità abitativa. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da blitzquotidiano.it il 23 novembre 2021. I rom continuano ad occupare case e dopo le vicende di Ennio Di Lalla e Bruno ecco un’altra abitazione occupata abusivamente, sempre a Roma. Questa volta si tratta addirittura di un immobile di proprietà dell’Inps, occupato dai parenti della famiglia rom che prese possesso della casa di Ennio Di Lalla. Il problema delle case occupate dai rom è tornato infatti a farsi prepotente dopo la storia di Ennio e quella di Bruno, entrambi costretti a non poter entrare nelle loro abitazioni. Il primo a Roma, il secondo a Palombara Sabina. Bruno addirittura multato per la discarica a cielo aperto che i rom hanno fatto nel suo terreno dopo avergli occupato casa. E dietro sembrerebbe esserci una vera e propria organizzazione che punte le case, segue le vittime e poi entra in azione. 

I rom e la casa dell’Inps

Come riporta Il Giornale a poche decine di metri dall’appartamento di Ennio, infatti, ce n’è un altro che dall’estate scorsa è occupato proprio dalla zia di Nadia Sinanovic. Si tratta di un immobile di proprietà dell’Inps in via Calpurnio Fiamma 130. La donna, Lilana M., una 40enne rom, è tra quelle che hanno aiutato l’unica indagata per l’occupazione di casa Di Lalla ad andare via dopo l’intervento delle forze dell’ordine. Ha preso possesso dell’abitazione assieme a sua figlia a luglio, subito dopo che la legittima assegnataria l’aveva restituita all’Inps. 

Rom e case occupate, la signora che chiederà scusa

Durante la puntata di ieri di Storie Italiane, condotta da Eleonora Daniele, si è parlato molto del caso. Durante uno dei servizi viene mandata in onda anche un’intervista a una donna che ha occupato abusivamente un appartamento che afferma: “I Carabinieri mi hanno dato un foglio per stare qui. Ho una ragazzina che è cresciuta senza un padre, che devo fare? Un giorno andrò a chiedere scusa”.

Da blitzquotidiano.it il 24 novembre 2021. Va dalla figlia e quando torna a casa la trova occupata. Tutto è avvenuto a Napoli. Protagonista della sfortunata vicenda una professoressa novantenne in pensione. Questa storia sembra riecheggiare quella di Enrico Di Lalla, l’86enne del quartiere Don Bosco a Roma che, uscito dall’appartamento per andare a fare degli accertamenti in ospedale, l’ha trovata occupata al ritorno da una giovane rom. A fatica e dopo che il suo caso è stato al centro dell’attenzione dei media è riuscito a rientrarne in possesso.

Cosa è successo

L’anziana napoletana, la cui vicenda è stata raccontata dal Mattino, era andata dai parenti in Irpinia per necessità di assistenza dopo i problemi di salute che aveva avuto. La sua casa si trova in pieno centro città, vicino a piazza Plebiscito, in via Egiziaca a Pizzofalcone. Chi è entrato nella sua casa ha provveduto a cambiare la serratura e rimosso gli arredi di proprietà. Il suo caso è diventato di dominio pubblico grazie alla coraggiosa denuncia di un sacerdote. Dall’altare, infatti, don Michele Pezzella, parroco della chiesa Immacolata a Pizzofalcone ha tuonato contro chi ha occupato quella casa spiegando che “non è un vero cristiano”. Il sacerdote ha anche però spiegato di aver notato una certa assuefazione rispetto a un fenomeno così grave, anche perché non sarebbe il primo caso di un’occupazione abusiva proprio a Pizzofalcone. 

Il fenomeno delle occupazioni abusive

Ma il fenomeno delle occupazioni abusive di alloggi popolari sottratti ai legittimi proprietari è un fenomeno diffuso, soprattutto nei quartieri periferici. Due casi eclatanti si sono verificati nella zona di Monterusciello, a Pozzuoli. A un uomo hanno occupato la casa mentre pranzava al ristorante con la figlia: in cinque mesi non è ancora riuscito a farla sgomberare. A prendere possesso dell’alloggio popolare di cui era legittimo assegnatario una donna con due bambini. All’inizio del mese, sempre a Pozzuoli, lo Stato è intervenuto liberando una casa occupata abusivamente. Secondo un censimento reso noto dal consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli, in Campania sono 8.000 le case popolari occupate abusivamente, circa 3.000 delle quali solo in provincia di Napoli. Secondo un dossier del 2020 della società partecipata Napoli Servizi, in città sono 2.600 le case popolari occupate abusivamente su 24 mila alloggi.

Il parroco: "C'è assuefazione su un fenomeno così grave". Case occupate a Napoli, l’incubo della nonnina 90enne: mobili tra i rifiuti e serratura cambiata. Redazione su Il Riformista il 22 Novembre 2021. Ha trovato la sua casa occupata dopo un periodo trascorso dalla figlia a causa di problemi di salute. E’ quanto accaduto a una donna di 90 anni a Napoli. L’abitazione, che si trova alle spalle di piazza del Plebiscito, in via Egiziaca a Pizzofalcone, è ora in possesso di una famiglia che ha anche provveduto, oltre a cambiare la serratura, a rimuovere gli arredi di proprietà della nonnina, una professoressa in pensione. La vicenda, raccontata dal quotidiano Il Mattino, è diventata di dominio pubblico grazie alla coraggiosa denuncia di don Michele Pezzella, parroco della chiesa Immacolata a Pizzofalcone. Il sacerdote dall’altare ha attaccato gli occupanti abusivi definendoli “non veri cristiani”, spiegando poi che episodi del genere in quella zona si sono già verificati nel recente passato. Secondo don Michele ci sarebbe una certa assuefazione rispetto a un fenomeno così grave. Un fenomeno che si verifica sempre più spesso sia a Napoli che in provincia e che riguarda le case popolari sulla cui gestione il comune non sempre riesce a dimostrarsi all’altezza. “Dopo le nostre segnalazioni -ha raccontato don Michele – la polizia viene, ma quando una persona entra in un appartamento poi si autodenuncia, dichiarando di avere moglie e figli: e questo fa sì che sloggiarli diventa difficile. Ci vogliono mesi, se non anni. E quasi sempre chi occupa abusivamente lo fa portandosi i bambini dietro”. La vicenda della prof in pensione, che si era trasferita per qualche tempo ad Avellino dalla figlia a causa di problemi di salute, è molto simile a quella di Ennio Di Lalla, l’86enne del quartiere Don Bosco a Roma che, uscito dall’appartamento per andare a fare degli accertamenti in ospedale, ha trovato la casa occupata al ritorno da una giovane rom. A fatica e dopo che il suo caso è stato al centro dell’attenzione dei media è riuscito a rientrarne in possesso.

Gli ultimi precedenti a Napoli

Due i casi eclatanti che si sono verificati nel quartiere Monterusciello, a Pozzuoli. Il primo riguarda un uomo a cui hanno occupato la casa mentre pranzava al ristorante con la figlia: in cinque mesi non è ancora riuscito a farla sgomberare. L’alloggio è ora in possesso di una donna con due figli piccoli. Il caso più eclatante si è verificati nelle scorse settimane quando in legittimo assegnatario di un’abitazione popolare di Monterusciello è stato intervistato in strada da una troupe di Rai 1, successivamente aggredita da alcune donne. L’uomo si era trasferito a casa della madre a Marano per problemi di salute e una volta tornato a Pozzuoli ha trovato l’appartamento popolare occupato da una donna incinta, poi sgomberata dopo l’episodio di aggressione. La stessa occupante-abusiva ha chiesto scusa spiegando che il suo gesto era stato dettato dallo stato di bisogno in cui si trovava evidenziando un aspetto particolare del problema delle occupazioni.

Un altro episodio ha riguardato, in tempi recenti, anche una donna di 63 anni che, tornata dalla Spagna, ha trovato occupata l’abitazione dell’Iacp di viale Miranda a Ponticelli, periferia est di Napoli.

Secondo un censimento reso noto dal consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli, in Campania sono 8mila le case popolari occupate abusivamente, circa 3mila delle quali solo in provincia di Napoli. Stando a un dossier del 2020 della società partecipata Napoli Servizi, in città sono 2.600 le case popolari occupate abusivamente su 24 mila alloggi.

Case occupate, l’ultima vergogna: va a pranzo con la figlia e gli abusivi lo sbattono fuori. Meloni: intollerabile. Ginevra Sorrentino domenica 21 Novembre su Il Secolo d'Italia. Lo rilancia la cronaca quotidiana. Le vittime lo testimoniano. E Giorgia Meloni, sensibile al tema, lo denuncia a chiare lettere, una volta di più. Il dramma delle case occupate e la sfida degli occupanti abusivi a cittadini e sistema è una tema purtroppo all’ordine del giorno. Di stringente, tragica attualità. A fronte del quale, però, amministratori locali e apparati istituzionali, dimostrano di intervenire poco se non addirittura male. Dopo il caso del pensionato romano residente nel quartiere Don Bosco della capitale. Cacciato da casa sua da un rom abusiva che, mentre l’uomo era a fare una visita medica, si è insediata nell’abitazione dell’anziano, saccheggiandola e devastandola al momento dello sfratto, oggi da Pozzuoli arriva l’ennesima, vergognosa vicenda. «Ero al ristorante con mia figlia, quando ho ricevuto la telefonata di un vicino che mi ha detto che mi avevano occupato casa. Mi sono precipitato sul posto e ho notato il cancello di casa forzato e la porta blindata danneggiata. All’interno c’era una donna con due figli, che non avevo mai visto prima». È solo l’incipit di un racconto drammatico cominciato il 7 giugno scorso e da cui oggi il protagonista e vittima di una odissea inaccettabile. Lui è un 63enne di Pozzuoli Bruno Illiano, che come riferiscono Napoli Today e Today.it. sui loro siti, «da cinque mesi non riesce ad entrare in possesso dell’alloggio popolare di via Matilde Serao a Pozzuoli, di cui era legittimo assegnatario». Da quel giorno di inizio estate, l’uomo, che viveva in quell’alloggio dal 1992, non è riuscito a recuperare gli oggetti personali e i beni di famiglia rimasti dentro la casa che gli occupanti abusivi gli hanno indebitamente e prepotentemente sottratto. Il legale di Illiano – riferiscono i siti citati – l’avvocato Gennaro Caracciolo del foro di Santa Maria Capua Vetere, ha presentato denuncia-querela, presso la Stazione Carabinieri di Monteruscello. E chiede alla Procura della Repubblica «di voler disporre, con la massima urgenza, tutti gli atti necessari allo sgombero immediato. Unitamente o disgiuntamente al sequestro preventivo sull’immobile assegnato al signor Illiano, al fine di limitare al minimo gli effetti lesivi del reato». Ma al momento, tutto tace. E si ferma al dibattito mediatico che, nonostante il tam tam delle denunce e delle rivendicazioni, riesca a dare seguito pragmatico alla gestione e definizione di un fenomeno in escalation continua. Un trend in costante aumento, stando ai casi che la cronaca denuncia. E su cui, ancora una volta in queste ore è tornata la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Che in queste ore, in un post su Facebook ha stigmatizzato: «Viviamo con la paura. Se vai a fare una visita non rientri più in casa tua. Ascoltate le amare parole dei residenti di quartieri dove gli occupanti abusivi fanno ormai da padroni. Come Fratelli d’Italia continueremo a fare le barricate per tutelare la proprietà privata dalla prepotenza di occupatori e delinquenti vari. Questa situazione è intollerabile». Intollerabile e ferma al dibattito. Che appena quattro giorni fa, la numero uno di Fdi è tornata a denunciare esprimendo solidarietà alla giornalista di Fuori dal coro, Costanza Tosi, aggredita durante il servizio da una occupante abusiva. E a cui la Meloni ha inviato virtualmente «un abbraccio, sicuri che questa violenza non fermerà lei e la trasmissione guidata da Mario Giordano dal grande lavoro di denuncia contro le occupazioni abusive in Italia. Siamo con voi», ha scritto in quell’occasione la leader di Fdi, Giorgia Meloni su Facebook. Tornando poi sul caso giusto dieci giorni fa, sottolineando nuovamente: «Siamo orgogliosi dell’approvazione alla Camera dell’odg di Fratelli d’Italia al decreto Giustizia e a tutela contro le occupazioni abusive e in difesa della proprietà privata. Difendere i proprietari di immobili dai ladri di case – ha ribadito la Meloni – è una priorità assoluta. Gli episodi – ha poi rimarcato in quell’occasione la presidente di Fdi – sono ormai quotidiani. E sarebbe inaccettabile assistere nuovamente a casi come quello del signor Ennio Di Lalla, anziano romano di 86 anni che si è visto occupare e devastare casa da due rom. Ora ci aspettiamo che il Governo Draghi dia seguito all’impegno che si è preso davanti al Parlamento».

Da fanpage.it il 10 novembre 2021. Sgomberata la casa di Raffaele, cittadino puteolano che si era visto occupare abusivamente da una donna incinta e la sua famiglia l'appartamento che gli era stata legittimamente assegnato. Lo sgombero è avvenuto in seguito all'aggressione in diretta della troupe di "Storie Italiane", il programma di Rai 1 condotto da Eleonora Daniele, che era collegata da Monterusciello, frazione di Pozzuoli, comune in provincia di Napoli, proprio per raccontare la vicenda di Raffaele. Durante la diretta, un gruppo di persone si è avvicinato agli operatori della Rai e all'inviata, Carla Lombardi, e ha iniziato a minacciare Raffaele, la sorella e l'avvocato che li assiste. A quel punto i presenti si sono dovuti allontanare, mentre la redazione ha allertato le forze dell'ordine. Sull'episodio è intervenuto Vincenzo Figliola, sindaco del comune dell'area flegrea, che, sulla sua pagina Facebook, ha espresso piena solidarietà alla troupe di Rai 1 «balordamente aggredita» durante il servizio. «Mi auguro – prosegue Figliolia – che le forze dell'ordine possano individuare i responsabili dell'inaudita e vile aggressione nei confronti di chi stava svolgendo il proprio lavoro. Siamo e saremo sempre dalla parte della legalità e di chi è stato privato di un diritto». Il primo cittadino ha annunciato che «d'accordo con la Prefettura, Questura e forze dell'ordine sono stati stabiliti 30 sgomberi, di cui 15 già in esecuzione». Dopo essere risultato positivo al Covid a marzo di quest'anno e aver trascorso la quarantena a casa della madre a Marano di Napoli, comune della città metropolitana, Raffaele è tornato nel suo appartamento per riprendere le sue attività quotidiane. Lo scorso 2 giugno, l'uomo aveva deciso di uscire a festeggiare questa festività con la sua famiglia tutto il giorno. Ritornato alle 23 di sera,  il legittimo assegnatario ha trovato la sua casa occupata da una donna incinta insieme alla sua famiglia. L'uomo si è così rivolto ad un legale per denunciare. L'avvocato, Teresa Liguori, ha inoltrato tre diffide all'amministrazione comunale, chiedendo che si procedesse con lo sfratto. Alle diffide, però, non era seguita alcuna risposta, fino all'aggressione di oggi. 

Alberto Francavilla per blitzquotidiano.it l'11 novembre 2021. I genitori della rom che ha occupato la casa di Ennio Di Lalla giustificano la figlia. “Non c’è nulla di male” perché “a lei la baracca non piace” e quindi “cercherà ancora nuove case da occupare”.  Ennio è l’anziano di Roma che si è visto occupare l’abitazione nel quartiere Don Bosco. Era andato a fare degli accertamenti medici e al ritorno ha trovato la porta sbarrata. All’interno dell’appartamento c’era una ragazza rom, che se n’è andata solo dopo 20 giorni. La ragazza viveva nel campo di via Gordiani. 

Cosa dicono i genitori della rom che ha occupato casa di Ennio Di Lalla

Questo ha detto la madre: “Mica lo ha ammazzato quel vecchio, è pure rientrato in casa sua, cosa vuole ancora?”. “Quel vecchio si è inventato tutto, dice un sacco di bugie, la casa era abbandonata e non è vero che dentro c’era l’oro, se l’avessero trovato l’avrebbero rubato e sarebbero andate subito via”. Questo invece sostiene il padre: “Se trovassi una casa abbandonata me ne andrei anche io di qui. È normale. Nadia non ha fatto nulla di male, non è un reato. È andata lì per vivere meglio”.

La casa di Ennio Di Lalla ridotta a letamaio

“La casa è inaccessibile, un letamaio, ci sono escrementi di cane dentro la cucina. La telefonata del sindaco Gualtieri ha emozionato molto il signor Ennio anche se arriva a cose fatte. In ogni caso, dice Ennio, ‘meglio tardi che mai’”. Lo aveva detto l’avvocato Alessandro Olivieri, legale di Ennio Di Lalla, nel giorno in cui l’anziano era tornato a casa.

La rom che cacciò di casa di Ennio occupava già un altro appartamento. Alessandra Benignetti il 25 Novembre 2021 su Il Giornale. Il blitz dei carabinieri dopo il soprallugo dei giorni scorsi. Denunciati per invasione di edifici e furto di elettricità tre nomadi che avevano occupato i due appartamenti di proprietà dell'Inps. Una è la zia di Nadia, la rom denunciata per l'occupazione della casa di Ennio Di Lalla. Alla fine si sono arresi i rom residenti nel campo di via dei Gordiani, a Roma, che occupavano abusivamente ben due appartamenti di proprietà dell’Inps in via Calpurnio Fiamma, nel quartiere Don Bosco. Dopo mesi hanno deciso di restituire le chiavi ai carabinieri e traslocare. La zona è la stessa in cui abita Ennio Di Lalla, l'anziano sfrattato da casa sua per ventitré giorni da un gruppo di nomadi, tra cui Lilana Mariukovic, protagonista di una delle due occupazioni. Per i fatti di via Pasquale del Giudice è indagata a piede libero per occupazione abusiva e danneggiamento sua nipote, Nadia Sinanovic. Ma a promettere davanti alle telecamere dopo il blitz dei carabinieri per liberare casa di Ennio che avrebbe occupato ancora era stata proprio lei, che, a ben vedere, si era già sistemata abusivamente dallo scorso luglio in un altro appartamento di proprietà dell’Inps. Aveva preso possesso dell’immobile introducendosi da una delle finestre che affacciano sul cortile condominiale, non appena l’ultima assegnataria aveva riconsegnato le chiavi. La donna, come racconta Il Tempo, inizialmente si era allacciata illegamente alla rete elettrica dello stabile. Poi, dopo le proteste degli inquilini, aveva messo a punto un sistema per generare elettricità da alcune bombole del gas. Un espediente pericoloso, capace di mettere a rischio l’intero palazzo. A rubare la corrente erano anche i due nomadi che avevano occupato l’appartamento al civico 142 della stessa via, un trentenne romeno e la sua compagna di 20 anni. Tutti sono stati denunciati per furto di energia elettrica e invasione di edifici. E dopo i due sopralluoghi delle forze dell’ordine dei giorni scorsi, hanno deciso di fare i bagagli e restituire le chiavi degli immobili dell’Inps. I carabinieri li hanno messi in sicurezza murando porte e finestre con i blocchetti di cemento, mentre il personale dell’Acea ha provveduto a rimuovere gli allacci abusivi. Ora resta di capire se ci sia una regia dietro la raffica di occupazioni nel quartiere. Ed è proprio su questo che si concentrano le indagini partite dal caso Di Lalla. "Secondo i residenti, solo negli ultimi mesi sono molte le famiglie che si sono insediate in questa zona in modo del tutto illegale; - denunciava la consigliera regionale leghista Laura Corrotti - aumenta così la paura tra i cittadini costretti a convivere con questa situazione di allarme che evidenzia sempre più una vera e propria organizzazione mirata all'occupazione di appartamenti nella Capitale". L’intervento dei carabinieri nei due appartamenti, ha commentato l’esponente della Lega, è uno di quegli "atti di legalità che trovano pian piano sempre più spazio grazie anche ad un grande lavoro di informazione che non smette di fare luce su queste vicende che interessano la proprietà privata". 

Alessandra Benignetti. Nata nel 1987, vivo da sempre a Roma, città che amo. Sono laureata cum laude in Scienze Politiche all'Università La Sapienza, giornalista pubblicista, moglie e mamma. Appassionata di geopolitica e relazioni internazionali, per il Giornale.it realizzo video reportage e inchieste seguendo da vicino i fatti di cronaca e l'attualità. Il mio obiettivo? Raccontare la realtà senza filtri e descrivere i fatti con obiettività, con uno sguardo sempre oltre il sipario.

Michele Brambilla per “QN - Quotidiano Nazionale” il 5 novembre 2021. La storia che state per leggere è incredibile. Ma è vera. Il 14 ottobre scorso a Roma, quartiere don Bosco, un uomo di 86 anni - celibe, senza figli, vive da solo - è uscito di casa per andare a fare alcuni esami medici. Quando è tornato ha provato a infilare la chiave nella serratura, ma si è reso conto che non girava. Ha pensato di essere sopra pensiero e di aver sbagliato piano, così ha guardato il nome sul campanello: in effetti non era il suo, c'era il nome di una donna. Eppure, l'appartamento era proprio il suo. Mentre era fuori casa, una donna gli aveva cambiato la serratura e si era piazzata lì, in casa sua, insieme con la figlia e un cane. Pazzesco. Ma molto meno pazzesco di quello che sarebbe accaduto poco dopo, e che purtroppo accade ancora. Infatti. Sentitosi dire dalla donna «qui ora ci abito io, faccia quello che vuole», l'uomo ha chiamato i carabinieri per ottenere un'elementare e immediata giustizia. Ma i carabinieri gli hanno risposto che, non essendoci un furto in corso, non potevano procedere a uno sfratto forzato. «Con mio immenso stupore, forse anche per evitare problemi di ordine pubblico nei miei confronti - ha raccontato il malcapitato - i militari mi invitavano ad allontanarmi dalla mia abitazione, nonostante avessi rappresentato loro che vivo e ho sempre vissuto lì. Quindi sono dovuto andare via e quella donna è rimasta dentro senza che io potessi fare nulla». E tutto questo perché la legge, che diamine, ha un suo iter da rispettare: l'occupazione abusiva prevede solo una denuncia a piede libero e per sfrattare la donna occorre l'ordine di un giudice. Così, da più di due settimane in quella casa ci sta l'usurpatrice (una rom, a quanto pare) fra arredi, quadri ed elettrodomestici di un anziano costretto a vivere dal fratello che l'ha ospitato. Ma la barzelletta non è finita. Ieri le autorità competenti hanno fatto sapere, tramite un'agenzia di stampa, che l'occupazione «avrebbe le ore contate» in quanto «sarebbero già in atto contatti tra la Prefettura e la Procura per individuare soluzioni che possano portare a un intervento rapido ed efficace per restituire così l'appartamento al proprietario». Rapido????? Ma se è dal 14 ottobre che il poveraccio è fuori casa! È una piccola storia ignobile, come cantava Guccini, ma racconta tanto di come funziona la giustizia in Italia: dei suoi tempi biblici, delle sue procedure cervellotiche, delle sue pastoie burocratiche concepite e tenute in vita solo per soddisfare le esigenze degli azzeccagarbugli, non certo quelle dei cittadini, che poi magari qualche volta hanno pure ragione di incazzarsi e di andare in piazza.

Alessandro Farruggia per "QN - Quotidiano Nazionale" il 5 novembre 2021. Dopo un paio di giorni a fare esami voleva solo tornare a casa sua Ennio Di Lalla, 86 anni, romano. Qualche ora prima l'amministratore l'aveva avvertito che secondo un paio di condomini si sentivano «strani rumori» dal suo appartamento, e lui, compatibilmente con le sue condizioni di salute, si è precipitato a casa. Ma la chiave non girava nel portoncino. Allora ha chiamato il 112 che ha mandato una pattuglia di Carabinieri. Che ha scoperto la realtà: la casa era stata occupata da una straniera di etnia rom - con la figlia e un cane - che aveva forzato la porta. E che ai Carabinieri, ai quali ha infine aperto, ha detto che lei sì, si autodenunciava per l'occupazione, ma non avrebbe lasciato l'appartamento «perché ho un minore». Tecnica spregevole ma ampiamente usata occupare con donne incinta, bambini o anziani, e poi farsi scudo dello «stato di necessita». All'allibito anziano i Carabinieri hanno spiegato che a quel punto, non essendoci più flagranza di reato, serviva un decreto firmato dalla Procura ed eseguito da un ufficiale giudiziario, che loro avrebbero eventualmente assistito. È una follia, ma a stretta norma di legge. E lo scandalo è che dopo 22 giorni il signor Di Lalla non è ancora potuto tornare a casa, ed è ospite di un fratello. Il suo avvocato Alessandro Oliveri ha presentato denuncia penale ma dopo 22 giorni la Procura non ha ancora deciso. Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, è intervenuto per sollecitare lo sgombero, che è stato infine chiesto dal pm ed è all'esame del Gip. I soliti tempi biblici della giustizia italiana. Probabilmente si riuscirà a mandare l'ufficiale giudiziario a breve, filtra. Probabilmente. Senza considerare che dopo 22 giorni l'«a breve» è paradossale, vista la palese ingiustizia. Di sicuro il caso Di Lella è la punta dell'iceberg. Il fenomeno è particolarmente diffuso nelle 750 mila case popolari, dove il fenomeno delle occupazioni, anche, nel 5-6% dei casi, di alloggi occupati come quello del signor Di Lalla, è incredibilmente diffuso. Secondo i dati di Federcasa le case occupate con la forza erano 24 mila nel 2016 e 24.574 nel 2019. E circa un migliaio non erano sfitte ma già occupate. persone come il signor Di Lalla. Uno scandalo. «Il fenomeno non solo non cala ma è leggermente in crescita - osserva il presidente di Federcasa, Riccardo Novacco - e per questo sono andato una decina di giorni fa a denunciarlo al ministro dell'Interno Lamorgese. In Italia questo problema non viene seguito adeguatamente serve una svolta per far sì che le forze dell'ordine abbiano la possibilità di agire». E il fenomeno, seppure con numeri di molto inferiori, è presente anche nel patrimonio abitativo privato. «Il caso del signor Di Lalla - osserva il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa - è assurdo ma, purtroppo, non isolato. La tutela del diritto di proprietà dovrebbe essere il primo compito dello Stato, ma in Italia nei fatti manca e si traduce in una sostanziale impunità per chi commette un reato grave come l'occupazione abusiva: è urgente cambiar leggi e mentalità». Contro le occupazioni il proprietario - a meno che le forze dell'ordine non assistano alla flagranza del reato - oggi può solo agire sia per via civile (azione di rivendicazione o, più efficace, azione di reintegro, con provvedimento del giudice "urgente e immediato" - si fa per dire - per chiedere la liberazione dell'immobile) oppure denunciare penalmente l'occupante per invasione di edificio, danneggiamento, violazione di domicilio e, se del caso, furto. In entrambi i casi, ci vogliono mesi, se non anni. E non è detto di vincere perchè l'occupante, se avrà occupato con minori, anziani, handicappati, malati o donne incinta, farà ricorso all'articolo 54 del codice penale (stato di necessità) che fa scattare la non punibilità. A quel punto il proprietario può solo usare il codice civile. Ma per arrivare l decreto del giudice e all'esecuzione forzata con la forza pubblica i tempi sono, come per gli sfratti, biblici. E non da paese civile

Adelaide Pierucci per "il Messaggero" il 5 novembre 2021. Ventuno giorni di attesa per ottenere un decreto di sgombero, o per lo meno un sequestro dell'alloggio occupato. E alla fine, dopo che la storia è finita in prima pagina sui quotidiani ed è stata trattata nei notiziari, sembra essere stata trovata la soluzione per far rientrare nella sua casa Ennio Di Lalla, l'ottantaseienne del quartiere Don Bosco sfrattato da una occupante rom, dopo che era uscito per sottoporsi a delle visite mediche. I carabinieri nei prossimi giorni, o più probabilmente nelle prossime ore, dovrebbero sgomberare la cittadina dell'Est che, spalleggiata da sconosciuti, ha occupato l'appartamento portando con lei una bambina e un cane, impedendo all'anziano di recuperare anche le sue medicine. La procura, che ha aperto un fascicolo per occupazione abusiva, su sollecito del legale della vittima quattro giorni ha firmato la richiesta di sequestro dell'appartamento e ha atteso l'autorizzazione dell'Ufficio delle indagini preliminari. Notificato il decreto, ora si dovrà procedere in tempi stretti allo sgombero, che dovrà essere eseguito evitando problemi di ordine pubblico. Il pensionato, intanto, resta fuori da casa, senza la possibilità di recuperare le sue cose, dai farmaci al vestiario, fino ai libri, a cui tiene particolarmente.  «Mi è stata fatta una mascalzonata - si dispiace l'anziano finito al centro di un caso mediatico lanciato dal Messaggero - Sono stato lasciato fuori da casa mia, sembra surreale. Per di più, pare che la signora occupante abbia riferito che mi conosceva. Credo si tratti di una cittadina dell'Est, l'ho vista la prima volta quando ho trovato la serratura cambiata e ho chiesto l'intervento dei carabinieri. Io e i militari sul pianerottolo, e lei dentro». «Ho saputo allora - specifica il pensionato - che per rientrare in una casa occupata, anche se solo dal giorno precedente, come nel mio caso, ci vuole necessariamente l'ordine di un magistrato. Da giorni aspetto che arrivi. Sembra che sia vicina una soluzione. Nel caso ringrazierò tutti». Di Lalla abitava in quella casa dagli anni Cinquanta: «Prima che l'acquistassi da un ente, i miei pagavano la pigione. E lì voglio passare il resto della mia vita». Ad accelerare i tempi della giustizia, i contatti tra Procura, Arma dei carabinieri e Prefettura. «Il mio cliente, dopo essere stato letteralmente sfrattato da una abusiva, sicuramente spalleggiata nell'intrusione da altre persone, ha presentato una prima denuncia e poi una seconda - ha spiegato l'avvocato Alessandro Olivieri, deciso a far rientrare in casa il signor Di Lalla - Il mio scopo era ottenere una misura cautelare che aprisse la strada allo sgombero. Restiamo in attesa. A questo punto con fiducia». L'anziano, nonostante tutto, cerca di mantenere la calma: «Se mi arrabbio mi fa male il petto e rischio anche che mi schizzi la pressione. Pochi giorni fa la massima ha raggiunto i 183». La vicenda scoppia la sera del 13 ottobre. L'amministratore del condominio, un palazzo in via Pasquale Del Giudice, avverte l'inquilino: «Hanno sentito strani rumori provenire dall'appartamento». Il pensionato non chiama subito le forze di polizia, pensa che i ladri, disturbati, siano scappati. «Verificherò domani», ha pensato. Ma il giorno successivo, il 14 ottobre, ha provato a inserire le chiavi nella toppa e si è accorto che non funzionavano: la serratura era stata cambiata. «Avendo paura di trovare ancora qualcuno all'interno - ha denunciato la vittima - mi sono recato in un ufficio di polizia per chiedere un immediato intervento, ma mi veniva consigliato di tornare a casa, cioè fuori casa, chiamare il numero di emergenza e aspettare l'arrivo di una pattuglia». Gli agenti, dopo aver constatato l'impossibilità di entrare con le chiavi del proprietario, hanno suonato. A quel punto è comparsa sulla soglia una donna. «Ora ci abito io qua», ha detto. Ieri Claudio Durigon, il coordinatore regionale della Lega ha annunciato un sit in davanti alla casa occupata. «Siamo pronti a una mobilitazione - ha fatto sapere - La proprietà privata è sacrosanta».

Ennio Di Lalla, l'incredibile difesa delle rom a Dritto e rovescio: "È lui che ha sfasciato tutto". Il Tempo l'11 novembre 2021. Negare l'evidenza, contro ogni possibile ragionevolezza. A Dritto e rovescio, la trasmissione di Rete 4 condotta da paolo Del Debbio, va in scena la difesa delle rom protagoniste del clamoroso furto di  una casa, a Roma. È il caso di Ennio Di Lalla, la cui abitazione è stata occupata abusivamente per tre settimane da due donne rom mentre l'inquilino, un uomo di 86 anni, era uscito dalla sua casa per recarsi a fare una visita medica. Il caso ha interessato stampa e tv e alla fine  è riuscito a rientrare in casa, anche se l'abitazione non era come era stata lasciata. Gli interni erano stati devastati in sua assenza: "Sembra bombardata, hanno messo i loro nomi, hanno cambiato le tende. Ma uno che fa questo lavoro pensa di starci molti anni no? Per prima cosa, la devo disinfettare" aveva detto sconsolato l'uomo facendo notare che nel locale cera di tutto, cibo per cani, sigarette in terra, rifiuti, perfino escrementi. I cronisti della trasmissione di Del Debbio hanno intercettato le due donne, e quello che dicono ha dell'incredibile. Oltre ad ammettere di non voler lavorare, anche se una delle due è giovane e in buona salute così come l'uomo, provano a ribaltare le accuse nei loro confronti.  "Io non ho fatto un'occupazione, il signor Ennio mi ha fatto entrare", dice una delle due rom. La vicenda, evidentemente, non torna. "Ci sono le immagini, l'appartamento è stato sfasciato. Chi l'ha fatto?" chiede il conduttore. "Già era così", risponde la giovane. La casa "l'aveva lasciata Ennio così, l'aveva lasciata lui che aveva riempito una stanza con quella roba perché era andato in un'altra casa. Dice bugie".

Le rom che occupano beffano la legge: "Lo faremo ancora..." Elena Barlozzari il 5 Novembre 2021 su Il Giornale. Ci sono voluti 21 giorni per restituire al signor Ennio Di Lalla, 86enne residente nel quartiere romano Don Bosco, l’appartamento che i rom gli avevano sottratto. Saranno a carico dell’anziano le ingenti spese per riparare i danni subiti. Perché non si è agito in tempo? Ne abbiamo parlato con il suo avvocato. Ci sono voluti ventuno giorni per restituire al signor Ennio Di Lalla, 86enne residente nel quartiere romano Don Bosco, l’appartamento che un gruppo di rom gli aveva sottratto. Era lo scorso 13 ottobre. L’anziano si era ritrovato fuori casa all’improvviso, di ritorno da una visita medica. È iniziato così un calvario lungo quasi un mese. Tanto il tempo che c’è voluto per ottenere un decreto di sequestro preventivo che ponesse fine all’occupazione abusiva. Di questa inaccettabile attesa e di come questo tipo di reati rimanga spesso impunito, ne abbiamo parlato con l’avvocato Alessandro Olivieri, difensore del signor Ennio.

Come è possibile che ci sia voluto tutto questo tempo?

"Il giorno in cui il signor Ennio mi ha conferito l’incarico, ho subito presentato alla procura istanza di sequestro preventivo. Si tratta di una misura cautelare che serve proprio ad evitare il depauperamento del bene, in attesa che le indagini – i cui tempi sono quelli che sono – facciano il loro corso. Per ottenere l’emissione della misura da parte del gip abbiamo dovuto aspettare 17 giorni. Ed è un fatto inaccettabile considerato che per loro natura le misure cautelari sono misure urgenti."

Quindi cosa non ha funzionato?

"Non lo so, posso solo immaginarlo. A livello pragmatico c’è stata una lentezza nel considerare i fatti esposti ed agire. Questo nonostante i miei solleciti giornalieri."

Oggi finalmente la misura è stata eseguita, come sta il signor Ennio?

"Ennio è svenuto. Ha avuto un malore. Mi è caduto tra le braccia non appena si è reso conto delle condizioni in cui era ridotto l’appartamento."

Ovvero?

"Da una prima ricognizione superficiale ci siamo resi conto che mancano dei quadri ed è sparita la vetrinetta con dentro la collezione di accendini d’oro e sterline. Oggetti di valore, a cui però Ennio era anche legato affettivamente. Sono spariti anche i suoi vestiti, e poi l’appartamento è ridotto ad un campo rom. All’interno c’era anche un cane, relegato in balconcino tra le sue feci. Quello dell’utilizzare un animale per rallentare le procedure di sgombero è uno degli escamotage più in voga tra gli abusivi, perché prima di effettuare l’intervento bisogna trovare un luogo idoneo per sistemarlo."

Chi pagherà i danni lasciati dalle occupanti?

"Sono tutti a carico di Ennio. Questa è un’altra vergogna, non solo il danno ma anche la beffa di dover ripagare i danni fatti da altri. Solo per cambiare la serratura ha già speso 300 euro."

E delle occupanti cosa ne è stato?

"Si sono allontanate con buste e carrelli, portandosi via i loro effetti personali, tra cui anche uno schermo al plasma."

Dove sono andate?

"Non ne ho idea. Attualmente risultano indagate a piede libero."

Quindi possono tranquillamente far perdere le proprie tracce…

"Guardi, non credo. Non ne hanno bisogno. Queste sono le classiche indagini che vanno alle calende greche. Se il reato non andrà in prescrizione e si arriverà prima o poi a una sentenza di condanna, difficile si facciano anche un solo giorno di carcere. E poi se nullatenenti non pagheranno un euro."

Allora c’è il rischio che possano occupare ancora?

"Direi la quasi certezza, per loro stessa ammissione. Le ultime parole che hanno detto prima di andare via sono state proprio: “Tanto ne occupiamo un altro”."

Elena Barlozzari. Sono nata a Roma, in un quartiere dove i ruderi antichi dormono da secoli, imperturbabili da fare invidia. Invece io sono un’anima inquieta. Le suole delle mie scarpe mi raccontano molto meglio di qualche riga impilata. Se potessero parlare, probabilmente, chiederebbero pietà. Collaboro con Il

MASSIMO GRAMELLINI per il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. Una mattina di metà ottobre il signor Ennio Di Lalla - ottantasei anni, cardiopatico - uscì dall'appartamento del quartiere romano di Don Bosco in cui viveva da solo e si ricoverò in ospedale per delle visite mediche. Al ritorno, qualche giorno dopo, trovò la serratura cambiata e un altro nome sul campanello. Ad aprirgli venne una donna sui trent' anni e lo informò che quella adesso era casa sua. Ennio chiamò i carabinieri, ma non essendoci un furto in corso (la famosa flagranza), l'occupante abusiva poté solo essere denunciata a piede libero. Il proprietario fu costretto ad andarsene senza neanche potersi portare via le sue cose. Per fortuna aveva un fratello in grado di ospitarlo, altrimenti sarebbe dovuto andare in albergo. O sotto un ponte. Ventitré giorni dopo, un giudice ha finalmente firmato l'ordine di sfratto e ieri mattina Ennio è tornato a casa, trovandola, dice, «come se fosse stata bombardata». L'abusiva è uscita mostrando il dito medio ai passanti e gridando che non è pentita per nulla, anzi, che lo rifarà altrove. Una persona così decisa meriterebbe di avere di fronte uno Stato altrettanto reattivo. Separando con chiarezza i casi alla Ennio da quelli in cui c'è un immobile abbandonato, cosa ci vuole a scrivere una legge composta da un unico articolo? «Il legittimo occupante - proprietario o inquilino - che si trova la casa invasa da altri ha diritto di ottenerne la disponibilità immediata». Dai, non è difficile. È di destra? È di sinistra? Non lo so, ma è giusto.

Adelaide Petrucci per il Messaggero il 6 novembre 2021. Dopo aver cambiato la serratura e occupato la casa avrebbero voluto anche la chiave del portone. L'avevano chiesta ai vicini. E invece è arrivato lo sgombero. Epilogo positivo per il caso di Ennio Di Lalla, l'ottantaseienne del quartiere Don Bosco che per tre settimane si è ritrovato sfrattato dalla sua abitazione da una occupante abusiva spalleggiata da due uomini poi usciti di scena. Un appartamento di cui Di Lalla aveva l'usufrutto, perché aveva venduto la nuda proprietà. Ieri mattina, su ordine di piazzale Clodio, i carabinieri di Cinecittà hanno posto sotto sequestro e poi liberato l'appartamento, tra gli applausi dei passanti e la stampa assiepata da giorni. Un momento atteso dai romani, increduli e indignati per l'occupazione di una casa di proprietà, per di più di un pensionato, cardiopatico e solo. L'anziano, commosso, ha sfiorato un malore appena ha rimesso piede nell'appartamento; il salotto completamente sottosopra, i quadri staccati, i cassetti svuotati. Per accertare se sia stato saccheggiato, però, dovrà stilare un inventario di quanto aveva e quanto sarà ritrovato. L'occupante, Nadia S. una donna di 28 anni, di origine slava e nata in Italia, proveniente al campo rom di via Gordiani, sotto stretta vigilanza dei carabinieri, ha dovuto fare i fagotti e andare via. Ha portato con se una stufetta, il televisore e pure un giaciglio che aveva portato nella casa. «Mi avevano detto che era disabitata», si è giustificata, incassando, per ora, una doppia denuncia all'autorità giudiziaria per il danneggiamento della porta e per l'invasione dell'appartamento. «Piango per i miei ricordi», si è sfogato l'anziano, supportato dall'avvocato Alessandro Olivieri, «Ho vissuto una situazione surreale. Spero di ritrovare tutti i miei quadri, la collezione di accendini, i libri, le foto. Vivo qua dagli anni 50. Mi è stata fatta una mascalzonata. La casa irriconoscibile...». 

UN PAIO DI GIORNI L'appartamento, per ora, però resta sotto sequestro. I sigilli alla porta d'ingresso, sbarrano ancora il rientro del proprietario che probabilmente potrà tornare solo entro un paio di giorni. Intanto l'assessore regionale alla Sanità Alessio D'Amato ha chiesto alla Asl di attivare un servizio di supporto per l'anziano. «La vicenda ha dell'incredibile», ha fatto sapere l'assessore D'Amato, «Ho chiesto al direttore generale della Asl Roma 2 di attivarsi per garantire un'attività di supporto psicologico ed eventualmente anche assistenziale».

Ennio Di Lalla: «Sfrattato dai rom, mi hanno ridotto la casa a una latrina. Sono stato male». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. Ennio Di Lalla, 86 anni: «Ora voglio solo tornare nella mia abitazione nel quartiere Don Bosco». «Quando venerdì, dopo 23 giorni, sono rientrato finalmente a casa mia, ho avuto un malore. Mi è preso uno spavento, non la riconoscevo più».

Racconti, signor Ennio, se può, quello che ha visto.

«C’erano decine, che dico, centinaia di sigarette spente sul tavolo. La pipì del loro cane, un dogo, sparsa dappertutto. La cera delle candele era sciolta sul pavimento e sopra i mobili, perché l’avvocato Olivieri nel frattempo aveva fatto staccare a quelli la corrente e i rom si facevano luce con i moccoli. In 23 giorni hanno avuto perfino il tempo di traslocare: dentro c’è un televisore che non è mio, hanno cambiato pure le tende del salotto. Dovrò ripulirla da capo a fondo». Ennio Di Lalla, 86 anni, molisano, dirigente dell’Acea in pensione, è a casa del fratello. Sta aspettando che arrivi domani o al più tardi martedì, quando il giudice firmerà l’ordinanza di dissequestro dell’appartamento di via Pasquale Del Giudice nel quartiere Don Bosco e lui potrà riprendersi la vita.

Non vede l’ora, vero?

«Proprio così. Ci vivo dal ‘53 e sapete qual era la prima cosa che facevo la mattina dopo essermi svegliato? Guardavo le foto al muro di mamma e papà, le foto dei viaggi, l’Hermitage di San Pietroburgo, le cascate di Iguazu, che bella la Patagonia, prima del Covid avevo messo in programma di tornarci. Ecco, adesso, dopo questa storia brutta dei rom, se la salute mi assiste ho deciso che ci tornerò». È una storia brutta, ma se c’è una cosa bella che gli ha regalato, è l’amicizia con l’avvocato Alessandro Olivieri, che adesso protegge il signor Di Lalla come fosse suo figlio. Il pensionato soffre di cuore e dopo lo stress enorme dei giorni scorsi, l’avvocato lo fa parlare solo per telefono mediando tra lui e i vari interlocutori. Tra l’altro, in questi giorni, i due hanno scoperto una grande passione in comune: quella per Pier Paolo Pasolini. Olivieri è stato l’avvocato di Pino Pelosi, l’unico condannato per l’omicidio dello scrittore. Insieme a «Pino la Rana», 10 anni fa, scrisse anche un libro, Io so come hanno ucciso Pasolini, per raccontare un’altra verità sul delitto dell’Idroscalo. «Io li ho tutti i film di Pasolini — dice il signor Di Lalla — Mamma Roma, Accattone, La ricotta. Oddio, ce li avevo! Perché adesso non so mica se li ritroverò. I rom hanno svuotato tutto: le vetrinette dove tenevo gli orologi e i 60 accendini d’oro. Dai muri hanno staccato pure le tele di Domenico Purificato, il pittore era un amico di famiglia. Per farsi spazio, i rom hanno ammucchiato tutto nel mio studio. Speriamo che la roba sia ancora là: avevo centinaia di film in Vhs, non solo Pasolini, anche Cleopatra di Cecil DeMille, Ombre rosse di John Ford. C’erano le madonne di gesso che comprai con mia madre a Lourdes, a Fatima, a Medjugorje. Io non sono sposato e non ho figli, così la mia vita l’ho passata a viaggiare, prima con i miei genitori e poi da solo. Ah dimenticavo: le scarpe, i vestiti, le piante sul balcone sparite. Ci sarebbe pure un arco con le frecce degli Indios dell’Amazzonia: una volta arrivai fin là».

Il suo incubo iniziò il 13 ottobre, giusto?

«La notte del 13 i rom hanno occupato, io non c’ero, stavo da mio fratello dopo aver fatto un Ecg e altri esami in ospedale. Non so chi possa aver passato l’informazione, nel palazzo ci sono altri due appartamenti occupati. Il giorno dopo mi ha chiamato l’amministratore: mi ha detto che gli inquilini avevano sentito di notte dei rumori. Nessuno, però, ha chiamato i carabinieri. Ci sono andato io quella mattina per fare denuncia dopo che mi ero accorto che la chiave non entrava e la serratura era stata cambiata. Quando i carabinieri hanno suonato il campanello, si è affacciata una signora con accento straniero, una certa Nadia, con un bimbo in braccio e il dogo. Situazione kafkiana: io sul pianerottolo, lei dentro casa. E pure con un contratto nuovo della luce, il suo nome sul citofono e sulla buca delle lettere. Pazzesco no? Un proprietario sfrattato da un’abusiva. Solo da noi può succedere una cosa così. Ora il Gip ha sequestrato tutto e nominato me il custode. Sono il custode di casa mia».

E le quattro donne che hanno dovuto sloggiare?

«Che mascalzone, ma il peggio è passato, non m’interessa più. Ho passato questi giorni a passeggiare, me l’ha detto l’ortopedico che devo camminare. Una cosa che voglio fare subito, è pagare il fabbro che l’altro giorno ha messo la serratura nuova dopo lo sgombero. C’erano così tante telecamere che non ho capito più niente. E poi appena arriverà il dissequestro voglio festeggiare con l’avvocato Olivieri. Gli devo una pizza: ma la mangeremo a casa, non si sa mai».

Una legge per le case rubate: la proposta per sgomberare gli immobili occupati. Francesco Storace su Il Tempo il 07 novembre 2021. Non può esserci solo indignazione per le “case rubate”. Lo scandalo che emerge sui proprietari di alloggi che si vedono sottrarre un loro bene senza avere giustizia, deve essere risolto. Se occorre, anche con un decreto-legge. Perché ci chiediamo che cosa ci possa essere più necessario e urgente che restituire al proprietario casa sua. “Ridateci la nostra casa” potrebbe essere il titolo di una campagna per porre fine ad una vergogna: a Roma, per stare al caso più recente, abbiamo assistito al caso incredibile dell’anziano – 86 anni – che si è trovato il proprio immobile invaso da una banda Rom al rientro dalle cure mediche. C’è voluta la grancassa mediatica - a partire da quanto denuncia sempre più spesso Mario Giordano nella trasmissione Mediaset “Fuori dal coro” – per restituire la casa devastata al signor Ennio Di Lalla. La Lega ha dovuto persino ricorrere al sit-in per sollevare il problema. Ma sono davvero tanti i casi simili che accadono in tutta Italia. E proprio un deputato della Lega, il toscano Manfredi Potenti, sta lavorando ad una proposta di legge: ne parlerà in settimana con i suoi colleghi e il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari. “Il problema – dice - va portato immediatamente anche all'attenzione del Governo”. Perché se si occupa un immobile senza aver mai stipulato col proprietario un contratto – di locazione o compravendita – non puoi farla franca. Soprattutto perché nella maggior parte dei casi non parliamo di persone facoltose, che magari hanno camerieri in casa a sorvegliare l’abitazione o sofisticati sistemi di allarme. La legislazione vigente sembra invece punire i malfattori, “il diritto ad abitare” prevale nell’interpretazione delle norme, il possesso senza titolo superiore alla proprietà. Roba da matti.

E proprio il signor Ennio ha dovuto faticare non poco per riuscire a rientrare a casa sua, sia pure nelle condizioni in cui gliel’avevano ridotta. L’on. Manfredi Potenti è molto chiaro nella soluzione possibile del problema. “Per liberare una casa rubata c’è bisogno dell’ordine del giudice. Fai la causa, ma la sentenza non basta per riaverla. Perché poi tocca all’ufficiale giudiziario”. E sappiamo quale odissea comincia. Occorre una norma che preveda il “rafforzamento dei poteri giudiziari, in questo senso penali”, che potrebbero essere previsti come obbligatori al riscontro (su querela) di uno dei reati previsti dal codice (Invasione di terreni od edifici od altri come l’usurpazione o la Turbativa con violenza di cose immobili). Sarebbe garantito l’intervento rapido della polizia giudiziaria per le occupazioni brevi compiute con effrazione in assenza del titolare dell’immobile. “Una proposta di modifica codicistica che non tarderemo a formalizzare in sede parlamentare per estirpare una piaga sociale ormai dilagante”. Se non si interviene che succede? Quello che ad esempio accade in Spagna. Lì sono nate varie società private il cui lavoro è sgomberare, spesso con metodi aggressivi o intimidatori, le persone che hanno occupato case di proprietà di altri. Quello delle case occupate in Spagna è un fenomeno piuttosto diffuso sia per la mancanza di alloggi popolari, sia per via di leggi piuttosto permissive. Il direttore della società FueraOkupas, Jorge Fe, ha raccontato a BBC che il 75 per cento delle richieste arriva da agenzie immobiliari che vogliono sfrattare gli inquilini morosi. Fe ha detto che se gli occupanti mostrano resistenza i dipendenti di FueraOkupas fanno qualcosa di più che parlare con loro: evitando di riferirsi esplicitamente a violenze e intimidazioni, ha detto che di solito dopo alcune visite gli occupanti capiscono che devono negoziare. Probabilmente è meglio evitare che si passi alle maniere forti per garantirsi giustizia faidate, anche perché un pensionato non potrebbe proprio permetterselo. È il caso che il governo fissi questa priorità per mostrare anche capacità di comprensione per chi ha il diritto di non vedersi defraudato di un bene su cui paga già una valanga di tasse. Ci mancano solo l’occupazione e la spoliazione…Tanto ai Rom occupanti la casa di Ennio Di Lalla pare che ci stia pensando Roberto Gualtieri, gliene troverà una tutta per loro, dicono…

Ennio torna a casa (distrutta). È caccia alla talpa. Alessandro Imperiali il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Ennio di Lalla, l'ottantaseienne a cui i rom hanno occupato casa, torna nella sua abitazione (distrutta dagli abusivi). La Procura indaga su chi ha dato l'informazione dell'assenza di Di Lalla. Ha fatto grande scalpore la notizia della casa di Ennio Di Lalla, signore di 86 anni, occupata da un gruppo di rom. Dopo 23 giorni (della vergogna) l'abitazione è tornata al suo proprietario. A preoccupare però è il fatto che nell'ultimo periodo le occupazioni lampo abusive registrate sono state numerose. Proprio nei quartieri Don Bosco e Cinecittà, periferie romane dove si trova anche la casa di Di Lalla, ci sarebbero stati molti casi simili a quello dell'anziano. La procura di Roma ha così deciso di aprire un fascicolo sul racket delle occupazioni nel quartiere vicino la Tuscolana e raccogliere le prime informative. Inoltre, c'è anche da capire chi è la talpa, vale a dire colui che ha dato l'informazione che il pensionato, nei giorni in cui è stata occupata la sua casa, si era recato all'ospedale per degli accertamenti che lo avrebbero tenuto fuori per una settimana circa. L'indagine, dunque, non si chiuderà con la denuncia dell'occupante abusiva Nadia Sinanovic, ventottenne di origine rom, nata in Italia e residente al campo di Via Gordiani. Giovanni Conzo, il procuratore che coordina l'inchiesta, ha come obiettivo primario quello di individuare l'informatore. Vuole capire se si tratta di una persona interna al palazzo o più semplicemente di un vicino che, conoscendo i problemi di salute dell'anziano ultimamente impegnato molto spesso in visite ed esami, ha informato i rom.

I particolari

Per questo motivo i carabinieri della stazione di Cinecittà hanno ascoltato tutti gli inquilini del palazzo. I primi elementi sull'occupazione che si è riusciti ad avere fanno sapere che la donna non era sola. "La signora che si è trasferita nella casa del signor Ennio non era sola- specifica una vicina al Messaggero - un giorno era in compagnia di un uomo e lui ci ha chiesto le chiavi del portone. Senza di quelle, infatti, non potevano rientrare facilmente. Ma abbiamo glissato. Mai, ovviamente, avremmo consegnato copia della chiave a sconosciuti". Inoltre, stando ad altre informazioni, gli uomini che hanno forzato la porta dell'appartamento del signor Di Lalla, sarebbero stati altri due. Sempre loro avrebbero poi cambiato la serratura e permesso all'abusiva di entrare, trasferirsi e senza vergogna cambiare il nome sul citofono. Ora che Ennio è potuto tornare a casa, nella teoria perché nella pratica "la casa è sudicia e inagibile", si dice sollevato e assicura di non aver mai avuto a che fare con "persone sospette". Ha avuto anche un colloquio con Gualtieri, il quale ha promesso che il Comune lo aiuterà. Una chiamata, quella del sindaco di Roma, arrivata oltre 20 giorni dopo l'accaduto. L'ottantaseienne ha commentato la chiamata con un più che esplicativo: "Io aspetterò. Meglio tardi che mai...". L'unica cosa certa al momento è che Di Lalla ora dovrà pagare la parcella del fabbro che ha cambiato la serratura messa dagli occupanti. "Trecento euro, una parcella che mi pare esagerata. Eppure, l'occupante aveva lasciato almeno le chiavi", commenta l'uomo.

Come funziona

Il racket dei furti di case è molto ampio e complesso. I cosiddetti ladri di case individuano le dimore vuote e in cambio di soldi indicano agli occupanti quando è il momento migliore per agire. Meno di due anni fa nello stesso quartiere è stata arrestata Lady occupazioni, così è stata ribattezzata l'agente immobiliare che dai domiciliari riusciva a gestire il business di appartamenti. Per ogni soffiata sulle abitazioni lei arrivava a chiedere dai 4 agli 11 mila euro. La clientela principale è formata dalle comunità straniere, in particolare quella sudamericana.

Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che

A.Mar. e A.Pier. per "il Messaggero" il 9 novembre 2021. Non solo la casa di Ennio Di Lalla. Sono state registrate altre occupazioni lampo tra Don Bosco e Cinecittà. La procura di Roma, dopo il caso dell'anziano sfrattato da una occupante abusiva, ha raccolto le prime informative e aperto un fascicolo sul racket delle occupazioni nel quartiere a ridosso della Tuscolana. C'è anche da stanare la talpa, ossia chi ha dato la dritta sull'abitazione lasciata vuota dal pensionato che era andato in clinica. Per ora si procede per invasione di appartamenti. L'indagine, non si chiuderà, insomma, con la denuncia dell'occupante abusiva, Nadia S., la 28enne di origine rom, nata in Italia e residente nel campo di via Gordiani. Il primo obiettivo dell'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Giovanni Conzo, è quello di identificare il basista, forse una persona interna del palazzo o un vicino che potrebbe aver notato l'assenza dell'anziano, cardiopatico, sempre più impegnato in visite e esami medici. Proprio per fornire i primi elementi sull'occupazione, infatti, i carabinieri della stazione di Cinecittà, hanno ascoltato tutti gli inquilini del palazzo. «La signora che si è trasferita nella casa del signor Ennio non era sola- ha specificato una vicina - un giorno era in compagnia di un uomo e lui ci ha chiesto le chiavi del portone. Senza di quelle infatti non potevano rientrare facilmente. Ma abbiamo glissato. Mai, ovviamente, avremmo consegnato copia della chiave a sconosciuti». In base ad altre indiscrezioni sarebbero stati due gli uomini che avrebbero forzato la porta dell'appartamento del pensionato e poi cambiato la serratura permettendo all'abusiva di trasferirsi e mettere il suo nome sul citofono.

LADRI DI CASE I ladri di case, infatti, individuano gli appartamenti vuoti e in cambio di soldi indicano il momento opportuno per l'occupazione. Meno di due anni fa nel quartiere era stata arrestata Lady occupazioni, una donna italiana ribattezzata l'agente immobiliare che anche dai domiciliari gestiva il racket dei furti di case; per ogni abitazione chiedeva dai 4 agli 11mila euro. Nel suo bacino soprattutto comunità straniere, in particolare sudamericane. Ennio Di Lalla, ora, è sollevato: «Non credo di aver mai avuto a che fare con persone sospette - dice - Ho parlato parecchi minuti col sindaco. La casa è ancora sudicia, inagibile. Dal Comune mi ha promesso un aiuto. Io aspetterò. Meglio tardi che mai...». Intanto al signor Di Lalla è stata fatta recapitare la parcella del fabbro che ha cambiato la serratura messa dagli occupanti. «Trecento euro, una parcella che mi pare esagerata. Eppure l'occupante aveva lasciato almeno le chiavi».

Adelaide Pierucci Fabio Rossi per "il Messaggero" il 10 novembre 2021. La cucina lercia, tappezzata persino dagli escrementi di un cane, gli armadi svuotati. La casa di Ennio Di Lalla non è abitabile. Deve essere bonificata e in parte riallestita e Roma ha risposto con la solidarietà. Campidoglio e due comitati di quartiere si sono offerti di contribuire. Ieri, l'ottantaseienne del quartiere Don Bosco che si è ritrovato per tre settimane sfrattato da una occupante abusiva, ha ricevuto la visita della neo assessora capitolina ai servizi sociali, Barbara Funari, accompagnata da un rappresentante della Comunità di Sant' Egidio. «L'assessore si è offerta di darmi una mano, sono rimasto sbalordito - dice Di Lalla - Da solo non ce l'avrei mai fatta. Non ho trovato nemmeno una giacca, un pullover». Che la casa sia stata saccheggiata prima dello sgombero, però, deve essere ancora verificato: parte degli arredi sono stati accatastati nello studio del pensionato, ora chiuso per motivi di igiene. «Nell'armadio non ci sono più nemmeno le grucce. Anche la vetrinetta è vuota - spiega però l'anziano - Lì conservavo la mia collezione di accendini, una cinquantina, di cui alcuni comprati in Cina nel 1989 e in altri angoli del mondo. Li collezionavo, ero molto affezionato. Come ero affezionato ai miei quadri di Purificato, il grande neorealista romano, un amico di famiglia».

L'INCHIESTA Intanto la Procura potrebbe aggiungere nuove contestazioni all'occupante abusiva, una ventottenne di origini nomadi residente al campo di via Gordiani che si era trasferita con il figlio e un cane: violenza privata e furto, oltre al danneggiamento e all'invasione di edificio. Antonino Di Maio vuole individuare la talpa che avrebbe indicato all'occupante la disponibilità dell'appartamento, considerato che l'anziano si assentava spesso per questioni private, soprattutto per accertamenti medici. Il magistrato vuole accertare se il signor Di Lalla possa avere avuto contatti, anche involontari, con qualcuno che poi ha spianato la strada all'occupazione: nei prossimi giorni sarà convocato in procura. Il Campidoglio dovrebbe pianificare il primo intervento per sabato mattina. «Ora non è possibile intervenire perché il signor Di Lalla, una volta accertata l'occupazione, aveva chiesto il distacco dell'energia elettrica», spiega il suo legale, Alessandro Olivieri. «La telefonata col sindaco Gualtieri è stata emozionante - racconta il pensionato - Anche se un po' mi dispiace che debbano pagare i romani. Mi commuove anche l'interessamento della gente del quartiere. Due comitati si sono offerti di dare una mano per le pulizie. Vogliono anche ricomprarmi il materasso».

IL GIRO DI VITE A portare avanti un giro di vite contro soprusi e atti di questo tipo è la deputata di Forza Italia, Annagrazia Calabria, che ha presentato una proposta di legge per garantire «il rilascio tempestivo dell'immobile occupato e il rientro in possesso del legittimo proprietario». Il documento si propone di intervenire sull'articolo 633 del Codice penale, che riguarda proprio l'invasione di terreni o edifici, «prevedendo l'aumento di un terzo della pena nel caso in cui l'occupatore abusivo di un immobile non lo liberi entro 48 ore dalla presentazione della querela». Inoltre è previsto «l'aumento di un terzo della pena anche nel caso in cui la persona danneggiata sia over 65, disabile o affetta da grave patologia

Rom senza vergogna attaccano Ennio: "Occupare? Non c'è nulla di male". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. I genitori di una delle rom protagoniste dell'occupazione della casa di Ennio Di Lalla difendono la figlia: "Non ha fatto nulla di male, voleva solo vivere meglio". Si erano allontanate dall’appartamento di Ennio Di Lalla promettendo che avrebbero occupato ancora. Ora delle nomadi che hanno messo a soqquadro la casa dell’ottantaseienne, dopo essercisi barricate per ventitré giorni, non c’è più traccia. Nel campo di via dei Gordiani, dove viveva Nadia S., la sola del gruppetto ad essere indagata a piede libero per occupazione abusiva e danneggiamento, regna l’omertà. "Siamo stanchi di voi giornalisti, non ne possiamo più. Volete sapere dov’è Nadia? Cercatela", taglia corto un’anziana all’ingresso dell’accampamento. Nessuno in questo labirinto di lamiera e cartoni sembra essere al corrente di dove si trovi la ragazza. Nessuno ci dà indicazioni precise. Sussurrano si sia rifugiata in una delle tante roulotte dell’insediamento. È come cercare un ago in un pagliaio. Anche i suoi genitori ci assicurano di non saperne nulla. "Non la sento da una settimana, l’ultima volta abbiamo pure litigato", ci dice suo padre Zoran, di origine serba. Vive assieme alla moglie Mira in una casupola in fondo al viale principale della baraccopoli. È una delle più disastrate del campo. Dai buchi sul tetto l’acqua piovana si riversa sul pavimento allagandolo. Mira, la madre di Nada, come la chiamano a casa sua, si lamenta del freddo e dell’umidità. Quello che ha fatto sua figlia non gli appare poi così grave. "Mica lo ha ammazzato quel vecchio, è pure rientrato in casa sua, cosa vuole ancora?". Non è chiaro se Nada e Ennio si conoscessero o meno. La madre ci racconta che la ragazza lavorava come addetta alle pulizie nei condomini. Forse la soffiata sulla casa da occupare, ipotizzano nel campo, è arrivata proprio da qualcuno che abita nel palazzo. “Quel vecchio si è inventato tutto, dice un sacco di bugie, la casa era abbandonata e non è vero che dentro c’era l’oro, se l’avessero trovato l’avrebbero rubato e sarebbero andate subito via", obietta la mamma. Papà Zoran, con un trascorso da topo d’appartamento, conferma la sua tesi: "Che sarebbe rimasta a fare? Se ci fossero stati oggetti di valore li avrebbero presi e sarebbero scappate, si fa così". La madre minimizza anche sulle condizioni in cui è stato lasciato l’appartamento: "Non mi sembra che la casa fosse distrutta. Era vivibile". Non la pensa così Ennio. Quando si è ritrovato davanti a quelle stanze in subbuglio e agli escrementi di cane lasciati sul pavimento, ha avuto persino un malore. I danni sono ancora da quantificare. Sicuramente l’anziano ha già dovuto sborsare di tasca propria 300 euro per sostituire la serratura. Dove sono finiti gli oggetti di valore che il proprietario di casa non trova più? La famiglia di Nada insiste nel dire che non sono mai esistiti e che l’anziano è solo un "bugiardo". "Non abitava lì dentro, quella casa era abbandonata, lui ne ha quattro o cinque". Il ragionamento è: una in più o una in meno che differenza fa? Non ci abitava neppure. Circostanza smentita con veemenza dall’anziano, che si è pure dovuto giustificare per aver trascorso in passato alcuni mesi ospite dal fratello. Come se quell’andare e venire avesse in qualche misura pregiudicato il suo diritto di proprietà. "Se trovassi una casa abbandonata – conclude Zoran – me ne andrei anche io di qui. È normale. Nadia non ha fatto nulla di male, non è un reato. È andata lì per vivere meglio". Strana la concezione che hanno quaggiù del codice penale. 

Elena Barlozzari. Sono nata a Roma, in un quartiere dove i ruderi antichi dormono da secoli, imperturbabili da fare invidia. Invece io sono un’anima inquieta. Le suole delle mie scarpe mi raccontano molto meglio di qualche riga impilata. Se potessero parlare, probabilmente, chiederebbero pietà. Collaboro con Il Giornale.it dal 2016 e mi occupo soprattutto di cronaca, con qualche sconfinamento nella politica e negli esteri. La laurea in Giurisprudenza mi è servita moltissimo, a capire che l’avvocatura non fa per me. Sono giornalista pubblicista perché “è sempre meglio che lavorare”. 

Non è l'arena, Ennio Di Lalla e la casa occupata da due donne rom. Le telecamere di Giletti dentro l'appartamento: devastato. Libero Quotidiano l'11 novembre 2021. La storia di Ennio Di Lalla ha sconvolto Roma e l'Italia. E Massimo Giletti, a Non è l'Arena, fa entrare le telecamere nell'abitazione occupata abusivamente per tre settimane da due donne rom mentre l'uomo,  86 anni, era uscito dalla sua casa per una visita medica. Da due soli giorni è riuscito a rientrare in possesso del suo appartamento. Una volta varcata la porta, la drammatica sorpresa: l'abitazione è stata letteralmente devastata dalle due occupanti. "Sembra bombardata, come nel 1943. Hanno messo i loro nomi, hanno cambiato le tende. Ma uno che fa questo lavoro pensa di starci molti anni no? Per prima cosa, la devo disinfettare". Escrementi per terra, cibo per cani, mozziconi  e rifiuti sparsi ovunque, sacchi neri. "Quando sono tornato a casa dalla visita medica - ha spiegato l'anziano - ho messo la chiave ma vedevo che non girava, niente. Ho capito che era stata occupata perché l'amministratore aveva visto della gente che armeggiava dietro la porta, come se volessero entrare". Le due donne rom, che risultano residenti nel campo rom di via Gordiani sono state denunciate a piede libero. "Saranno libere fino a condanna passata in giudicato, se non ci sarà la prescrizione. Qualcuno pagherà? - chiede polemicamente Alessandro Olivieri, avvocato difensore di Di Lalla - Ma pagherà in termini di pena, perché economicamente chi risarcirà il danno? Nessuno. Pagherà Ennio". "Qualcuno avrà dato comunicazione che l'appartamento era tendenzialmente vuoto - spiega ancora l'avvocato -, perché Ennio faceva avanti e indietro tra strutture sanitarie e casa del fratello. Sappiamo come funziona a Roma, le due rom non passavano da qui per caso".

I Costagliola sono il clan che controlla il racket delle case popolari a Roma. Ad Acilia, periferia Sud della Capitale, hanno in mano il business degli alloggi. Per i giudici non sono una cosca di mafia ma il loro potere è enorme. “Siamo solo benefettori”, dice il rampollo del capo.  Francesca Fagnani su L’Espresso il 7 Ottobre 2021. Non danno nell’occhio come gli Spada, non sono tanti come i Casamonica, non girano in Ferrari, non fanno gli smargiassi, anzi si muovono (quasi sempre) sottotraccia, attenti a non attirare le forze di Polizia, abilissimi nel mettere a sistema lo sfruttamento dei bisogni degli indigenti, temuti come sono da tutta la zona. È così che nella sottovalutazione generale, da almeno dieci anni, la famiglia Costagliola è riuscita ad imporre la propria supremazia criminale attraverso il racket delle occupazioni abusive ad Acilia e Dragoncello, area sud e complicata di Roma, vicino ad Ostia. Esattamente come gli Spada, a poca distanza da lì, i Costagliola tra minacce, intimidazioni e sfratti forzosi disponevano delle case popolari come fossero di loro proprietà: «Te buttano subito fuori… zio Carmine li ammazza, ma che stai a gioca’… lo sai che fa quello, va su e li ammazza a tutti», dice Barbara Scutti, sodale del gruppo, in una delle tante conversazioni captate dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Ostia, coordinati dalla Procura di Roma, riferendosi a persone estranee all’organizzazione e intenzionate ad occupare case popolari a Dragoncello. «Ma che cazzo sta a capi’ sta Monica? Io la piscio addosso a lei e ai soldi», dice Carmine Costagliola, a capo del sodalizio, riferendosi a tal Monica che sarebbe intenzionata a vendersi una casa popolare senza il suo consenso. Le indagini hanno portato nel giugno scorso all’arresto dei promotori del racket, Carmine e Gerardo, e alla denuncia di una trentina di persone. Un’operazione passata più o meno sotto silenzio, ma che racconta invece di come l’abbandono del territorio, l’inefficienza nelle assegnazioni delle case popolari e l’emergenza abitativa mai risolta, nel X Municipio come in tutta Roma, abbiano favorito il mercato nero delle occupazioni; un’attività che, come ha dimostrato la vicenda degli Spada a Ostia, è sempre spia di un quadro più allarmante, della presenza cioè di un potere criminale forte, ben radicato e riconosciuto sul territorio, un potere che con la violenza si fa welfare e lucra sulla disperazione delle persone, ma che offre loro – e lo fa velocemente - quella soluzione che le istituzioni non riescono a trovare, come ad esempio un tetto a chi non ce l’ha. Il degrado, la ghettizzazione all’interno di vaste aree di edilizia pubblica di cittadini in condizione economiche e sociali precarie, l’altissima concentrazione di pregiudicati e di persone agli arresti domiciliari hanno fatto il resto. Basterebbe farsi un giro tra i lotti Ater di San Giorgio ad Acilia, dove tra spaccio H24 e altri espedienti, si fa “di necessità virtù”. Ma chi sono questi Costagliola che negli anni, senza trovare un argine, sono diventati i padroni di un’intera zona di Roma? I fratelli Carmine, Gerardo, Antonio e Salvatore Costagliola, i “napoletani” di Acilia, come sono chiamati, hanno lasciato Napoli anni fa per traferirsi a Roma, gravati da vari precedenti penali tra cui per Carmine il 416 bis per associazione a delinquere di stampo mafioso, camorra, per il quale ha trascorso in carcere circa vent’anni. Arrivati nella Capitale, forti del loro pedigree criminale, hanno colonizzato alcune borgate di Roma, come fecero al tempo i Casamonica e gli Spada. I Costagliola però hanno scelto un’altra linea, hanno scelto la zona d’ombra, decidendo di dedicarsi prevalentemente al racket delle case occupate, un’attività che crea un certo consenso sociale, è meno rischiosa del traffico degli stupefacenti e non espone al contrasto con i clan più importanti, che infatti da anni li lasciano fare. «Io non m’ impiccio con certa gente, c’ho paura», mi dice una ragazza che occupa una casa ad Acilia e che per mesi ha pagato l’affitto al sodalizio: «Mi faccio gli affari mia sennò quelli mi fanno occupa’ casa da qualcuno». «Loro c’hanno un altro peso rispetto a noi», mi spiega un pregiudicato che occupa una casa Enasarco a Dragoncello, «si sa chi so’ e da dove vengono, ma da me non possono veni’, perché io sono rispettato», «In quanto?», chiedo: «Sto con gli Spada e i Casamonica, mi sono fatto dieci anni di galera per traffico internazionale di droga per una cazzata con i calabresi. Basta?». Basta. I Costagliola evidentemente sanno chi poter vessare e chi no. «Se volevamo mangia’ di quel pane, saremmo restati a Napoli, tu che dici?», mi spiega, alludendo alla camorra, Emanuele Costagliola, figlio di Gerardo, che accetta di parlarmi sotto casa, nel loro fortino, in via Petra, a Dragoncello. E quando provo a chiedergli di come funzionasse il meccanismo di assegnazione abusiva delle case e della percentuale che intascavano su ogni famiglia mi risponde: «Noi abbiamo fatto solo del bene alla gente, facevamo favori pe’ gentilezza». «Mica tanto, se incassavate la stecca», dico: «Ma che c’hai preso pe’ Tecnocasa?», risponde. Effettivamente funzionavano proprio come un’agenzia immobiliare, coadiuvati da soggetti che facevano da intermediari, con il compito di individuare le abitazioni da far occupare e di selezionare le famiglie che avevano bisogno di una casa, disposte a pagare ai Costagliola tra i 10 mila e i 20 mila euro che avrebbero recuperato solo in piccola parte come “buonauscita”, quando a loro sarebbe subentrato un nuovo occupante abusivo, scelto ovviamente dall’organizzazione. Gli abitanti di zona ben conoscono la loro pericolosità e per questo tacciono. Tre anni fa, davanti al bar Grease a Dragoncello i Costagliola e i Sanguedolce - un gruppo criminale rivale, legato alla batteria di Ostia che fa capo a “Barboncino” - si sono affrontati in pubblico, con armi da fuoco e pestaggi. Sembra una versione romana di “Gomorra”, ma invece è cronaca: i fratelli Alessio e Daniele Sanguedolce in pieno giorno aggrediscono Gianluca Tirocchi, uomo dei Costagliola, che fugge verso il bar. Mentre scappa Daniele gli spara, ma la pistola s’inceppa. Arrivano in soccorso di Tirocchi Gerardo Costagliola con l’arma nascosta all’interno dei pantaloni e suo figlio Emanuele con la pistola in mano. I Sanguedolce però se ne sono già andati. Emanuele spara in aria, urlando a chi si era affacciato alle finestre: «Fatevi i cazzi vostri», poi lui e suo padre Gerardo afferrano Valerio Antonacci, detto Petecchia (che aveva assistito all’agguato) e lo pestano brutalmente per farsi dire dove si erano rifugiati i Sanguedolce. Le spedizioni punitive dei Costagliola proseguono per giorni, perfino dentro al Cineland di Ostia. Nessuno apre bocca, nessuno denuncia, la Squadra Mobile riuscirà a far luce sul grave episodio, solo attraverso le intercettazioni ambientali e le immagini registrate dalle telecamere. Provo a chiedere ad Emanuele dello scontro con i rivali Sanguedolce: «Non li conosco… Ostia, Dragoncello, Fiumicino, ‘ndo stanno?». I conti, d’altronde, si regolano altrove. Un clima di omertà che rivela il saldo controllo criminale del territorio e l’assoggettamento dei suoi cittadini. Nel 2015, del resto, il X Municipio è stato commissariato per mafia, ma la mafia è uscita totalmente dalla campagna elettorale. Come se gli arresti degli ultimi anni avessero chiuso il capitolo criminale del litorale romano. E invece no. È un risiko complicato e in evoluzione quello della criminalità di Ostia. Le condanne per mafia e i sequestri hanno indebolito i clan più importanti: i Fasciani, i Triassi, i Casamonica e gli Spada, la batteria di Barboncino, sono stati piegati e messi all’angolo. Alcuni sono stati azzerati, altri sopravvivono senza il potere di un tempo. Eppure, nella fisica come nella mala, i vuoti non esistono e gli appetiti su Ostia e su tutto il litorale romano, compreso il porto di Fiumicino, sono tali da attrarre nuovi pesi e vecchie glorie criminali, pronte a ribaltare le alleanze. Basterebbe farsi un giro a Piazza Gasparri, in viale del Sommergibile, in via Marino Fasan o tra le palazzine Ater di via Baffigo per capire che la malavita cambia pelle ma i problemi restano sempre gli stessi: abbandono, racket delle occupazioni, usura e droga che gira a fiumi, giorno e notte. Ma a far gola, oltre alle floride piazze di spaccio, c’è anche altro: ci sono appalti da ottenere e stabilimenti balneari e attività commerciali da acquisire per ripulire capitali accumulati illegalmente. Per esempio. Chi sono oggi i nuovi padroni di Ostia? È certamente in corso un riassetto degli equilibri criminali. Fiaccate le più importanti famiglie, sono subentrati cani sciolti e personaggi di spicco, intorno ai quali si vanno aggregando le diverse consorterie criminali. Di certo alcuni nomi, ieri come oggi, restano molto influenti, come quello, pesantissimo, del clan napoletano dei Senese, molto attivo sul litorale romano, come dimostra il tentato omicidio di un anno fa di Paolo Ascani, cognato di Roberto Spada, il cui mandante per gli inquirenti sarebbe Girolamo Finizio, parente di Angelo Senese, fratello di Michele detto ‘O Pazzo. Per il clan di Afragola, gli Spada dovevano essere annientati, tanto più dopo le inchieste che ne avevano decapitato i vertici. È in tal senso che Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, uomo dei Senese ma sempre più indipendente, avrebbe compiuto un passo falso con quella pax mafiosa, siglata tra Barboncino e gli Spada della quale si era auto-proclamato garante insieme a Salvatore Casamonica durante un pranzo a Grottaferrata svelato dal Gico di Roma. Ma a chi conta davvero quella pace decisa in autonomia non poteva piacere per troppi motivi, al netto del potere criminale che nessuno a Roma può permettersi di scalare da solo. Quell’accordo avrebbe finito per rianimare da una parte il potere chiassoso degli Spada e dall’altra avrebbe rafforzato ancora di più il gruppo in ascesa di Barboncino. “Due piccioni con una fava” per Salvatore Casamonica e Fabrizio Piscitelli, ma non per gli altri, tantomeno per i Senese. Per i Costagliola, intanto, è stato escluso, al primo grado di giudizio, il reato di associazione mafiosa, un déjà vu fortissimo, del resto: ci sono voluti anni prima che si riconoscessero come mafiose le condotte dei Fasciani, degli Spada, dei Casamonica, dando ai clan una sorta d’impunità morale e tutto il tempo per inquinare il tessuto economico e sociale della città.

Claudia Osmetti per “Libero Quotidiano” il 30 agosto 2021. Non ci vanno tanto per il sottile, in Spagna. Ché la piaga delle occupazioni abusive è un problema planetario: di furbetti che s'insediano in casa, magari non pagano nemmeno le bollette della luce e non sloggiano neanche quando è l'ufficiale giudiziario che suona il campanello, ne è pieno il mondo. Col coronavirus, poi, apriticielo: chiedetelo agli agenti immobiliari di Madrid, è un incubo. Uno si rivolge alla legge, certo, funziona così anche da loro. Ma la burocrazia, i cavilli, le lungaggini: per riavere indietro le chiavi sudi sette camicie e, forse, pure qualcuna in più. Se sei fortunato, liberi l'appartamento in qualche anno. Però gli spagnoli si son inventati la soluzione: è El Pais, il principale quotidiano del Paese iberico, a fare il punto, inchiesta ripresa in Italia dal Post. E dunque, sotto i Pirenei sono le società private che si occupano di sgomberare gli abusivi. Nel 2019, cioè prima che la pandemia ci scombussolasse l'esistenza, c'erano appena tre ditte che facevano lo "sporco" (in un certo senso) lavoro: oggi se ne contano almeno nove. Sono triplicate, insomma: chiedono mediamente 2.500 euro a "sfratto" (che è comunque un risparmio di fronte alla parcella di un avvocato che, magari, è costretto ad aprire un contenzioso infinito) e promettono di risolverti la grana in 72 ore. Al massimo. Loro, le "aziende dello sfratto", giurano e spergiurano che non sono altro che semplici mediatori: epperò, tra i loro addetti, figurano pugili e atleti di arti marziali (come alla FueraOkupas) oppure improvvisati "ricattatori" che minacciano di diffondere fotografie sui social network (come alla catalana Desokupa). Non è un mestiere per tutti, ci vuole fegato: gli inquilini morosi, quelli che delle regole, in sostanza, se ne infischiano, non li metti alla porta con una tazza di tè e una pacca sulle spalle. Il sito IlPost.it riporta la testimonianza di Jorge Fe, il direttore della Fuera, che, glissando sui particolari, ammette: sì, i suoi dipendenti "fanno qualcosa di più che parlare" con gli occupanti illegali. Ma, allo stesso tempo, chiarisce: bastano un paio di visite e lor signori "capiscono che devono negoziare". Fe, tanto per intenderci, ha aperto la sua attività nel 2019, è tra i primi ad aver fiutato l'affare e, adesso, i suoi centralini sono sommersi da qualcosa come 150 chiamate ogni santissimo giorno. Da noi, un sistema del genere è ancora fantascienza. Troppe norme, troppi pretesti. Te lo insegnano alla prima lezione di Procedura civile, all'università, a Giurisprudenza: prima che uno sfratto diventi esecutivo, in Italia, cambiano almeno un paio di governi. Una legge pure c'è, ma il diritto all'abitazione ha la precedenza e per provare che il tuo inquilino non è in regola mica basta andare in Questura e presentare gli affitti non corrisposti. Certo, parliamoci chiaro: i codici servono a tutelare anzitutto i "contraenti deboli" (altro termine che ti ripetono fino allo sfinimento, a Legge), ed è giusto così. Però di proprietari che restano con un pugno di mosche in mano, e magari devono persino fare i conti con danneggiamenti e magagne mai sistemate, ne è pieno il Paese. Federcasa, la federazione che associa 114 enti che gestiscono il patrimonio dell'edilizia residenziale pubblica, già qualche anno fa, cioè nel 2017, diceva che, in Italia, gli alloggi occupati abusivamente sarebbero più di 48mila. Una stima che riguarda solo le case popolari le quali, in tutto, da Nord a Sud dello Stivale, sono 750mila: significa che un appartamento ogni quindici ospita inquilini che non hanno il diritto di stare dove sono. Dati ministeriali e numeri più recenti è impossibile trovarli, ma di contro, va aggiunto che poi si è messo di traverso il covid. Che di certo non ha risolto la situazione e, anzi, ha finito solo per esasperarla. Con il blocco sfratti che, di proroga in proroga, ha legato le mani ai proprietari e, nei fatti, ha cristallizzato gli abusi, ma anche con la crisi economica, che assottiglia i portafogli e obbliga i tanti onesti (che pure ci sono) a fare i salti mortali per arrivare a fine mese. L'81% delle occupazioni (dice sempre il report di Federcasa) avviene con la forza, e nell'ultimo decennio gli episodi sono cresciuti in maniera esponenziale, in pratica del 20,9%. Rispetto al totale delle abitazioni, infine, è più del 6% quello interessato al fenomeno, con picchi da capogiro nel Sud e al Centro.

Lorenzo De Cicco per "il Messaggero" il 16 giugno 2021. Il primo confronto tra i candidati del centrosinistra alle primarie (superflue) di domenica prossima va in scena nello scantinato di un palazzo occupato nel cuore di Roma, non lontano dalla stazione Termini: lo Spin Time, in mano agli antagonisti dalla fine del 2012. Oltre 16mila metri quadri, per due terzi condominio illegale, per il resto discoteca abusiva, con tanto di rave che tengono sveglio fino all' alba chi abita nei paraggi. Un business da oltre 250mila euro l'anno - calcoli pre-Covid - tra pigioni imposte sotto banco agli occupanti, il ristorante senza permessi, le feste illegali con alcolici spacciati perfino ai minorenni. Tutto al nero. Un «modello» a sentire alcuni candidati che hanno sfilato all' adunata di ieri pomeriggio. Di fatto, il primo dibattito in vista delle consultazioni tra i militanti di domenica, che ratificheranno la candidatura di Roberto Gualtieri a sindaco di Roma. Proprio l'ex ministro dell'Economia sembra il più imbarazzato quando mette piede nel sottoscala trasformato in auditorium. «Perché partire proprio in uno stabile occupato? È capitato... - risponde al cronista - Siamo stati invitati. Ma ne parlerò meglio durante l'intervento». E in effetti nei dieci minuti conclusivi, dopo un'ora di comizi sul palco da parte di leader e leaderini degli abusivi, Gualtieri prova a barcamenarsi tra i due opposti, le occupazioni e la legalità. «Sulla casa - dice - penso abbiamo il dovere di realizzare un patto per il diritto all' abitare e la legalità». Poi, strizzando l'occhio ad Andrea Alzetta detto Tarzan, ex consigliere comunale antagonista, promotore di svariate okkupazioni tra cui questa, afferma che «la vostra esperienza ce lo insegna, bisogna avere capacità di guardare al tema dell'abitare nel suo complesso» e arriva a sostenere, Gualtieri, che «c' è differenza tra un'occupazione che porta un'esperienza sociale e le occupazioni criminali». In ogni caso, chiosa l'ex ministro, il Pd è schierato contro il «piano sgomberi» voluto dall' ex prefetto di Roma, piano peraltro già formato lumaca, con gli interventi per liberare gli immobili spalmati in 7 anni e per giunta congelato dal blocco degli sfratti. «Noi crediamo nel modello casa-per-casa», è convinto Gualtieri.

Non è l'unico a mostrare un po' d' impaccio, allo Spin Time.

«Il primo dibattito in un palazzo occupato? Che dire...», risponde laconico Tobia Zevi. Il civico Paolo Ciani dice che «la legalità è un tema, ma dobbiamo essere presenti in ogni luogo dove ci invitano, diciamo comunque che la prima occupazione qui era più dura, dobbiamo trovare un equilibrio».

Altri candidati addirittura esaltano l'occupazione. Imma Battaglia, ex consigliera di Sel con Marino (che rimpiange, tanto che dal palco attacca il Pd che andò dal notaio), dice in premessa: «Stare qui mi restituisce il senso del mio impegno in politica». Cristina Grancio, ex grillina folgorata dai socialisti, si spella le mani quando qualcuno rievoca il cardinale Krajewski, l'elemosiniere del Papa che nel 2019 riattaccò la luce ai morosi.

«Non esiste l'immobile, esiste il cittadino», proclama. A meno che l'immobile non sia occupato, a quanto pare. 

Giovanni Caudo, il controverso ex assessore di Marino, oggi presidente del III Municipio, celebra gli illegali: «Spin Time è lo spazio pubblico per eccellenza». Stesso mood per l'altro candidato della sinistra, Stefano Fassina. Alzetta si gode la sfilata Pd, lo vede come «un riconoscimento. Questo è un posto occupato e illegale - ammette candidamente - ma c' è la bellezza». 

LE REAZIONI Com' era inevitabile, lo scivolone dem ha attirato gli attacchi del centrodestra. A partire da Giorgia Meloni: «Un palazzo occupato, sede di bivacco e di illegalità, diventa il luogo di confronto tra i candidati del centrosinistra - attacca la leader di FdI - Una vicenda sconcertante che lascia increduli. Mi chiedo con quale coraggio certe forze politiche che si candidano a governare la Capitale d' Italia possano erigere a simbolo chi fa dell'illegalità la propria bandiera».

Marco Pasqua per "il Messaggero" il 16 giugno 2021. «Un luogo non sicuro», in cui vengono portate avanti «attività illegali». E' contenuto in una Pec il warning della Investire Sgr inviato, ieri mattina, a Prefettura, Comune, al commissariato di zona e al Pd, appresa la notizia del contestato dibattito per le primarie. Una mail ufficiale, partita per mettere in guardia chi aveva organizzato quell' incontro ma, soprattutto, chi vi avrebbe partecipato che lo stabile occupato di via di Santa Croce in Gerusalemme è un posto dove non vengono rispettate le più basilari norme di sicurezza. Non solo, quindi, quelle relativa alla presenza di un adeguato numero di uscite di emergenza, che sono state sigillate (per impedire eventuali blitz da parte delle forze dell'ordine), ma anche quello sul numero degli estintori e sulla capienza dei luoghi. Per non parlare degli alloggi abusivi, con decine di bombole del gas usate dagli occupanti per cucinare e nei mesi invernali per riscaldare gli ambienti. 

UNA ZONA FRANCA Una Pec inviata anche per evitare che la responsabilità di eventuali incidenti ricada sulla proprietà. Del resto, è dall' ottobre del 2012, che la Investire Sgr segnala a più riprese alle autorità quanto quel palazzo sia ormai diventato una zona franca, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, tra festini e attività di ristorazione abusiva. E dove, tanto per citare un caso, si continua a rubare l'energia elettrica dopo che, nel maggio 2019, l'elemosiniere del Papa ha rotto i sigilli apposti al contatore mentre gli occupanti pagano, ogni mese, un affitto ad un comitato che decide chi può e chi non può dormire tra quelle mura. Non solo. Da otto anni, la Investire, che per conto del Fondo Immobili Pubblici gestiva, prima dell'occupazione del 2012, la vendita dello stabile, deve continuare a pagare Imu e Tasi: da allora, secondo quanto si apprende, ha speso quasi un milione e mezzo di euro. Oltre al danno, la beffa. Come quando i vigili hanno inviato alla proprietà una lettera, in cui la invitavano a risolvere il problema dei clochard che dormivano nel porticato attiguo e, quindi, a tutelare il decoro. Complessivamente, sono almeno cinque gli esposti presentati alla Procura dalla Investire, sempre per chiedere uno sgombero di uno stabile che sarebbe dovuto diventare un hotel: se la trattativa, con un grande gruppo, fosse andata in porto, nel 2012, quel palazzo avrebbe dato lavoro ad oltre 150 famiglie. Oggi, ci vivono circa 400 persone - tanti immigrati ma anche diversi pregiudicati - sotto la guida di Andrea Alzetta, ovvero Tarzan, e di Paolo Perrini. Uno stabile di 8 piani complessivi, e due interrati, per quasi 17mila metri quadrati: il valore di mercato è stimato intorno ai 50 milioni di euro.

DUE DECESSI Nel corso degli anni, qui vengono registrati due fatti drammatici: nel gennaio del 2015, un nigeriano viene trovato morto (l'autopsia chiarirà che si è trattato di un decesso per cause naturali); l'anno dopo, a marzo, un marocchino si toglie la vita. Difficile controllare le attività illegali che avvengono nello stabile, nonostante le lamentele dei residenti, soprattutto in occasione delle feste abusive che vi vengono organizzate.

Milano in mano ai centri sociali: spunta un'altra "okkupazione". Francesca Galici il 31 Maggio 2021 su Il Giornale. Ancora una denuncia di Silvia Sardone nel silenzio delle istituzioni: i centri sociali occupano un altro immobile a Milano e lo rivendicano sui social. Proseguono le occupazioni degli edifici a Milano nella totale indifferenza dell'amministrazione di Beppe Sala, che nonostante l'annuncio social da parte del centro sociale responsabile non ha ancora fatto intervenire le forze dell'ordine per lo sgombero. Una situazione che sta diventando insostenibile in città, dove i centri sociali si sentono liberi di agire a loro piacimento per prendere possesso di stabili pubblici in disuso. Anche il consigliere comunale ed europarlamentare in forza Lega, Silvia Sardone, ha denunciato quanto accaduto poche ore fa a Milano nel silenzio delle istituzioni. L'approssimarsi delle elezioni amministrative e la chiusura di più di un occhio davanti a certi illeciti non è casuale secondo il consigliere comunale: "Un'altra occupazione, l'ennesima, da parte dei centri sociali a Milano, questa volta in via San Faustino: loro requisiscono immobili pubblici e privati e la sinistra sta a guardare. Si avvicinano le elezioni e magicamente gli antagonisti godono di impunità ancora maggiore rispetto a prima". Infatti, secondo Silvia Sardone, "questi figli di papà arroganti rappresentano un buon bacino elettorale per Sala e compagni, lo sanno tutti, però coprirsi gli occhi davanti a un reato penale come l'occupazione abusiva è davvero molto pericoloso. Il collettivo Kasciavit è abbastanza fresco all'interno della galassia antagonista milanese ma ha già sulle spalle uno sgombero da via Trentacoste sempre nel quartiere dell'Ortica lo scorso settembre". La libertà concessa ai centri sociali inizia a infastidire i milanesi. Spesso, infatti, attorno agli edifici occupati gravitano personaggi che vivono ai confini della legalità, spesso immigrati che si mantengono con espedienti. Il caos generato e, soprattutto, l'inerzia delle istituzioni non è ben vista da parte dei cittadini. "Quello che fa davvero indignare i cittadini è il doppiopesismo della sinistra: se un commerciante sbaglia il colore degli ombrelloni viene multato, se un cittadino qualsiasi montasse una tenda in un parchetto verrebbe giustamente allontanato, perché allora se un gruppo di ragazzi viziati prende possesso di un immobile con la forza è da tollerare o peggio ancora da regolarizzare come il Comune vuole da sempre fare con Macao e Leoncavallo?", si chiede Silvia Sardone. La conclusione della nota dell'europarlamentare è categorica: "I centri sociali non hanno nulla di sociale e vanno solo sgomberati: la legalità non si può barattare con nulla". Su Facebook, il collettivo Kasciavit ha rivendicato l'azione: "8 mesi fa le porte di L.OC.K. sono state chiuse dalle Forze dell'Ordine, ma questo non ha fermato i nostri progetti e la voglia di creare spazi liberi per comunità libere. È per questo che oggi abbiamo aperto uno stabile in Via San Faustino 64, è per questo che oggi riprende l'esperienza del Laboratorio Occupato Kasciavìt". Il tutto, ovviamente, in barba a qualunque legge.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Catene, morsi e graffi: la violenza shock degli abusivi. Francesca Galici il 14 Aprile 2021 su Il Giornale. Due episodi drammatici di aggressione nei confronti delle troupe di Fuori dal coro da parte degli abusivi: 20 giorni di prognosi a una giornalista. Non si fermano le inchieste di Fuori dal coro, il programma di Mario Giordano in onda su Rete4 il martedì sera. La trasmissione di approfondimento politico e di attualità da diverse settimane si occupa di indagare sull'occupazione abusiva degli appartamenti, che spesso avviene a opera di cittadini stranieri e non sempre regolari sul territorio italiano. Negli ultimi due giorni i giornalisti di Fuori dal coro e le loro troupe sono stati vittima di aggressioni violente da parte degli occupanti, che hanno mandato all'ospedale una delle inviate della trasmissione. I due servizi sono stati trasmessi questa sera e hanno documentato la violenza e la spregiudicatezza nei comportamenti da parte di chi vuole vivere, e sa di poterlo fare, al di sopra della legge.

L'aggressione in Veneto. La troupe di Eugenia Fiore, inviata di Fuori dal coro, si trovava questa settimana a Monastier di Treviso, un piccolo paese non distante dal capoluogo trevigiano e da Venezia. L'obiettivo era di documentare una delle tante occupazioni abusive da parte di cittadini stranieri. In questo caso si tratta dell'abitazione di un uomo anziano ormai residente in una casa di riposo. Rimasta incustodita, la casa è stata indebitamente occupata da una immigrata nigeriana. All'arrivo dei giornalisti di Fuori dal coro, la situazione è rapidamente degenerata, tanto che si è reso necessario l'intervento delle forze dell'ordine per ristabilire la calma. Nonostante l'arrivo delle volanti dei carabinieri, che la stavano identificando, l'immigrata ha dato in escandescenza e si è scagliata contro l'operatore che stava effettuando le riprese, urlando frasi irripetibili nei confronti di Eugenia Fiore e della troupe. "Ti faccio vedere!", ha minacciato rivolgendosi all'inviata e al cameraman, prima di spaccargli un iPad sul volto. L'uomo ha riportato numerosi graffi sul volto, gli sono stati strappati gli occhiali e, come se non bastasse, la donna si è accanita sul cameraman mordendogli il braccio. Nonostante indossasse la giacca a vento e il maglione, la nigeriana è riuscita ad addentare la carne del cameraman, lasciandogli evidenti segni e un ematoma di dimensioni importanti. "Abbiamo avuto paura, temevamo che la donna avesse con sé un coltello", riferiscono dalla troupe di Fuori dal coro. Al termine dell'aggressione, la donna, che ha un decreto di espulsione datato agosto 2020, ha fatto ritorno nella abitazione che occupa abusivamente. Come se nulla fosse.

L'aggressione shock in Piemonte. Diversa regione ma circostanze molto simili, con un'altra aggressione choc a Cuneo, dove un abusivo cubano ha aggredito a colpi di catena un'altra troupe di Fuori dal coro. Armato di una pesante catena in ferro, l'occupante ha prima colpito gli uomini della sicurezza, poi si è diretto verso l'auto nella quale si era rifugiata la giornalista, Carmen La Gatta, spaccando i cristalli mentre la compagna del cubano cercava di tirarla fuori dalla vettura con violenza. I vetri hanno colpito in pieno la giornalista, che ha riportato numerosi graffi ed escoriazioni. "Ammazzala, ammazzala", urlava la donna del brasiliano rivolgendosi alla giornalista di Fuori dal coro. Portata in ospedale per le cure del caso, ha rimediato 20 giorni di prognosi. Gli uomini della sicurezza, invece, si sono portati a casa diversi lividi sulle gambe.

L'abusivo gli ha rubato la casa: "Ci minaccia e lo Stato lo aiuta". Da un anno e mezzo una coppia della provincia di Brescia non può più vivere nella propria casa. Un abusivo l’ha occupata e li minaccia di morte. E il blocco degli sfratti causa Covid impedisce lo sgombero. Martina Piumatti, Martedì 09/02/2021 su Il Giornale. Un intruso si impossessa della vostra casa. Cambia le serrature, mette il suo nome sul citofono, imbratta, distrugge e vi impedisce di riprendere i vostri oggetti personali. Minaccia di morte voi e la vostra famiglia, chiedendovi 30mila euro per riavere casa vostra. E in più dovete pagargli le bollette di gas e luce. Le autorità non possono fare nulla. In più il blocco degli sfratti causa Covid impedisce l'esecuzione della sentenza di sgombero. E, nonostante le numerose denunce per i ripetuti episodi di minacce e devastazioni subiti, alla richiesta ufficiale (che riportiamo sotto) della "misura cautelare di divieto di avvicinamento” o di "altra misura cautelare idonea ad assicurare l’incolumità", la procura non ha mai presentato domanda al giudice. Sembra incredibile, ma è quello che è successo a S. e P., una giovane coppia della provincia di Brescia, che da un anno e mezzo vive in un incubo. S. ha raccontato a IlGiornale.it come un abusivo sia riuscito a rubargli casa, tenendo in ostaggio le loro vite.

Com’è iniziato il vostro incubo?

"Il mio ragazzo ha comprato questa villetta bifamiliare nel 2018. Sono due appartamenti, uno al piano di sopra e uno al piano di sotto. La nostra intenzione era vivere al piano di sotto e affittare il piano di sopra per coprire le spese e poi con l’allargarsi della famiglia unificare i piani e farla diventare un’unica casa. Il piano di sotto era da ristrutturare. Così abbiamo affittato una stanza al piano di sopra a questa persona. Era un contratto transitorio valido per 11 mesi senza possibilità di rinnovo. Lui ha pagato due mesi, poi basta. Noi abbiamo iniziato ad avviare lo sfratto. A fine contratto se ne è andato e noi abbiamo portato le nostre cose al piano di sopra per vivere lì e, nel frattempo, ristrutturare il piano di sotto. Dopo una settimana, però, è ritornato e ha cambiato le serrature della porta, ha messo un catenaccio al cancellino in giardino. E da quel momento ci ha impedito di entrare, di recuperare le nostre cose. Abbiamo chiamato il 112 che non ha potuto fare niente. Poi, ha iniziato a tenerci lontani anche dal piano di sotto".

Ma non si è limitato a rubarvi la casa, è andato oltre.

"Prima ha iniziato a mettere la colla liquida nelle serrature. Ha imbrattato i muri esterni con il suo nome. Poi, è passato alle maniere forti, minacciandoci di morte. A gennaio 2020 è entrato nel giardino e ha distrutto con un martello le porte del piano di sotto. Noi abbiamo visto tutto grazie alle telecamere e siamo corsi sul posto. Arrivati lì, ci ha minacciati con un martello. Fortunatamente lui era dentro e noi fuori. Ci si è scagliato contro come una furia, dicendo che ci avrebbe ucciso. Alla fine è stato fatto anche un tso, ma poi è tornato a vivere lì. E ci sono stati altri episodi violenti. È entrato in giardino e ha vandalizzato tutto, distruggendo le telecamere di sorveglianza che abbiamo messo per controllare a distanza la nostra casa. Abbiamo chiamato la polizia che, al di là di aver notificato il fatto, non ha potuto fare nulla. Ha rintracciato il padre del mio ragazzo, le zie con nomi e indirizzi e ha scoperto che mio suocero lavora in un ospedale della città. Così ha chiamato l’ospedale minacciando di appiccare un incendio. Due notti dopo sono entrate due persone a volto coperto, riprese dalle telecamere, e il giorno dopo sono stati ritrovati segni di combustione nei bidoni della spazzatura del cortile dell’ospedale".

Le forze dell’ordine non non sono intervenute?

"Il 112 interviene, ma ci risponde che non è compito loro liberare la casa e che va depositata una denuncia. Per tutte le denunce depositate, le questure e le caserme ci dicono che loro agiscono da intermediari tra noi e la procura. Loro depositano in procura le denunce, però, poi serve il provvedimento del pm".

E l’autorità giudiziaria?

"Noi abbiamo ottenuto dal giudice la sentenza di sgombero a gennaio 2020, ma con il blocco degli sfratti a causa Covid non si può eseguire la sentenza. Sul versante penale, abbiamo depositato tantissime denunce in procura per chiedere l'ordinanza restrittiva di allontanamento per stalking con il divieto di avvicinamento a noi e luoghi da noi frequentati. Ma la procura ha stabilito che non c'erano 'gli estremi per richiedere al giudice l'emissione di un'ingiunzione restrittiva'. Primo o poi, probabilmente, ci sarà un processo, ma tra quanto tempo? La prima denuncia l’abbiamo depositata nel maggio del 2019, poi ce ne sono state molte altre. Una anche per tentata estorsione, perché lui ci ha chiesto 30mila euro per riavere la casa senza distruggerla. Ad ora, siamo nel febbraio 2021, e non c’è l’ombra di un processo. Il pm, sappiamo dal nostro avvocato, ha visto le denunce, ma non ha richiesto le misure cautelari. Una volta concluse le indagini preliminari forse il giudice disporrà il rinvio a giudizio. Ma è una via molto lunga, mentre le misure cautelari potevano agire da subito. Invece, dobbiamo prima aspettare il processo e poi la sentenza. Ci vorranno anni. Non si vede la fine".

Ma Stato e istituzioni, invece di aiutarvi, sembrano più remarvi contro?

"Noi abbiamo scritto a tutte le istituzioni. Ma niente. Abbiamo scritto ai deputati e senatori per non prorogare il blocco degli sfratti che ormai è stato prolungato quattro volte da marzo. E adesso con il decreto mille proroghe, lo hanno differito di nuovo fino al 30 giugno 2021. Tutti, però, rispondono con un niente di fatto. Il prefetto ha risposto che la situazione è assolutamente monitorata, però i fatti violenti sono continuati anche durante questo suo ‘monitoraggio’. Il Comune ha detto che gli ha offerto un altro alloggio di cui erano disposti a pagare una grossa percentuale, ma lui ha rifiutato. Gli assistenti sociali dicono che lo conoscono, che è una persona con cui è difficile mediare. Ci provano ma non hanno l’autorità per costringerlo, possono solo offrirgli aiuto. Tutti la buttano sul fatto che non è competenza loro e che gli sfratti sono bloccati. Ormai non è più solo una questione di sfratto o meno. Ci sono episodi violenti, quindi, c’è un’autorità che potrebbe disporre l’allontanamento. Lui occupa il piano di sopra e se fosse una persona tranquilla potremmo andare a vivere al piano di sotto. Ma il problema è che lui ci tiene lontani anche da lì. È come se il tuo vicino ti rubasse casa tua e ti impedisse di entrare minacciandoti".

Poi, oltre al danno anche la beffa di dover pagare le bollette accumulate da un intruso che vive nella vostra casa al posto vostro?

"Fino a poco tempo fa pagavamo tutte le bollette di luce e gas. Poi sono arrivate delle ricevute allucinanti da 500 euro e noi per pagarle ci siamo indebitati con l’azienda fornitrice. Così abbiamo deciso di chiudere i contratti, anche se non si può perché si commette il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Lo Stato dice che non puoi farti giustizia da solo, ma devi rivolgerti al giudice. E noi rischiamo la condanna, perché a causa di un pazzo che occupa casa nostra siamo stati costretti a staccare le utenze. Avevamo accumulato un debito di 1500 euro. Una cifra che con il blocco degli sfratti sarebbe cresciuta chissà quanto".

Perché avete aperto una pagina Facebook e lanciato una petizione?

"Visto che ci siamo rivolti a tutte le istituzioni e nessuno ci ha ascoltati, abbiamo deciso di aprire questa pagina Facebook: 'La casa fantasma: storia di come ci hanno rubato casa nostra'. Ne abbiamo discusso molto, perché la paura che il pazzo possa vederla e agire con le solite ritorsioni violente c’era eccome. Ma ci sembrava che far conoscere la nostra storia ad altri potesse servire a smuovere le acque. E così è stato. Qualche giornale locale ci ha contattati e poi abbiamo lanciato anche la petizione su Change.org".

Cosa significa vivere così da quasi due anni?

"Significa svegliarsi ogni giorno con una frustrazione pazzesca, perché siamo completamente impotenti. Qualsiasi persona a cui ci rivolgiamo non ci può aiutare. Viviamo separati da un anno e mezzo, quando avevamo programmato un matrimonio, una famiglia, una vita insieme. Io abito con i miei genitori e durante il lockdown, vivendo in due case diverse non ci siamo neanche potuti vedere. Un’ingiustizia nell’ingiustizia. Poi, le conseguenze si fanno sentire anche sulla salute. Io - dice S. a IlGiornale.it - ho perso 10 chili, non riesco a mangiare e vivo in uno stato di costante nervosismo che si ripercuote sul nostro rapporto di coppia. Qualsiasi cosa decidiamo di fare siamo in balìa delle ritorsioni di questo pazzo. Viviamo nel terrore".