Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2021
LA MAFIOSITA’
QUARTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L'alfabeto delle mafie.
In cerca di “Iddu”: “U Siccu”.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il delitto Mattarella.
La Cupola.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Intimidazioni.
Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.
La Dia: Il Metodo Falcone.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nulla è come appare: segui i soldi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato - ‘Ndrangheta.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Camorra.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Depistaggio di via D’Amelio.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il dossier mafia-appalti.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P2 ed i Massoni rinnegati.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Inchiesta P4.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2020)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Cesare Terranova.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Antonino Scopelliti.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Don Peppe Diana.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La ‘Ndrangheta.
Cosa Nostra.
Cosa nostra cambia nome: l’Altare Maggiore.
La Mafia romana.
La Camorra. La Mafia Napoletana.
La Mafia Milanese.
La "Quarta mafia" del foggiano.
La Mafia Molisana.
Mala del Brenta: la Mafia Veneta.
La Mafia Nigeriana.
La Macro Mafia.
La Mafia Statunitense.
La Mafia Cinese.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-AntiMafia.
Non era mafia: era politica.
Santi e Demoni.
La Moralità della Mafia.
I Mafiologi.
L'Antimafia delle Star.
Giovanni Brusca ed il collaborazionismo.
Il Pentitismo.
Hanno ucciso Raffaele Cutolo.
Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.
Il reato che non c’è. Il Concorso Esterno.
Non era Mafia.
Antimafia: A tutela dei denuncianti?
Sergio De Caprio: Capitano Ultimo.
È incandidabile?
Il Business delle le Misure di Prevenzione: Esproprio Proletario.
Il Business del Proibizionismo.
Il Contrabbando.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che …“Viva i Boss”.
La Gogna Parentale e Territoriale.
Il caso di Mesina spiegato bene.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Caporalato a danno delle Toghe Onorarie.
Il Caporalato Parlamentare.
Gli schiavi del volantinaggio.
La Vergogna del Precariato.
Il caporalato sui rider.
Il Caporalato agricolo.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Colpa delle banche.
Fallimentare…
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…la Lobby.
Una storia di Casta. Csm, il sistema non cambia per nulla.
Lo Scanno del Giudizio: da padre in figlio.
I dipendenti della presidenza del Consiglio.
Gli Avvocati.
I Medici di base.
I Commercialisti.
Che fine ha fatto il sindacato?
Le Assicurazioni…
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa c’entra la massoneria?
Le inchieste di Cordova e i giudici massoni.
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’abbattimento delle case private. Abusivo: Condonato e distrutto.
L’occupazione delle case.
LA MAFIOSITA’
QUARTA PARTE
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-AntiMafia.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Lupo: «L’antimafia “nostalgica” è come uno Stato contro lo Stato». Intervista allo storico: «L’antimafia è indietro di trent’anni, e spesso si schiera contro lo Stato». Errico Novi su Il Dubbio il 28 novembre 2021. «Uno Stato nello Stato: l’antimafia degli anni Novanta è una forza, una componente formata da persone con responsabilità e funzioni istituzionali che ritengono di dover conservare un sistema di risposta alla mafia adatto al quadro di trent’anni orsono. E pur di conservare tale prospettiva, da cui non riescono a sciogliersi, qualcuno è pronto a contrapporsi persino ai giudici: ai magistrati di sorveglianza o ai giudici della Corte costituzionale».
Salvatore Lupo è uno storico, non un giurista. Ed è forse la formazione che prescinde dalla sola meccanica del diritto a dargli la forza di guardare negli occhi le cose. Incluse la mafia per come è oggi e l’antimafia per come si è conservata immutabile rispetto ad alcuni decenni fa. Il professore di Storia contemporanea dell’università di Palermo, autore di alcuni volumi decisivi sulla mafia, è impietoso nel definire il paradigma antimafioso: un po’ nostalgico, un po’ irriducibile nei propri schemi.
Della mafia s’è cristallizzata l’immagine stragista degli anni Novanta.
È quanto dico e scrivo da tempo. Parliamo della mafia stragista, o corleonese, anche se il secondo aggettivo risente di un’estensione forzata, perché i primi mafiosi stragisti non erano corleonesi. In ogni caso si tratta di un periodo che è cominciato e finito da un pezzo. È trascorso quello che si definisce un tempo storico, dall’epoca in cui lo stragismo mafioso ha concluso la propria vicenda.
Quindi siamo aggrappati a un totem?
Semplicemente, quello schema non esiste più. Lo suggeriscono i dati. La violenza delle cosche è stata innanzitutto inframafiosa, e sappiamo come oggi l’incidenza degli omicidi legati al crimine organizzato sia diminuita nettamente: ora parliamo dei femminicidi, cioè di delitti legati a dinamiche sociali e sottoculturali. Il fenomeno di trent’anni fa ha poi avuto, come sappiamo, una connotazione violenta proiettata all’esterno, terroristica, e in questo deriva dal modello del terrorismo politico. Ma è evidente come non solo sia scomparso lo stragismo mafioso, ma anche come il suo modello, il terrorismo politico, sia a propria volta archiviato da tantissimo tempo.
Ci siamo affezionati allo stato d’eccezione?
Alla mafia stragista, lo Stato ha risposto in modo efficace e rude. Non mi stupisco, non trovo incomprensibile quel tipo di reazione. Affermare lo Stato di diritto e difenderlo non significa ignorare le diversità della storia. D’altra parte l’opinione pubblica ha apprezzato quel tipo di risposta. Solo che non è più tempo per quella rudezza.
Non tutti sono d’accordo: c’è chi chiede di preservare gli stessi istituti di allora, a cominciare dall’ergastolo ostativo senza possibilità di un perdono slegato dalla collaborazione.
Ecco, mi dispiace che l’antimafia, che dovrebbe costituire un crogiuolo di legalità, un laboratorio contro fenomeni di malaffare, di illegalità complessivamente intesa, si riduca a un paradigma forcaiolo che contraddice i principi generali del diritto. Nella vicenda dell’ergastolo ostativo come in altre simili. Non esistano più i presupposti di quella reazione brutale operata trent’anni fa dallo Stato: pensare di perpetrarla non è utile né alla libertà né all’ordine. Tutti sanno che un po’ di indulgenza, persino nelle carceri, è funzionale e necessaria.
Alcune letture critiche dell’antimafia intravedono anche una tendenza a preservare funzioni, interessi, vere e proprie vicende professionali possibili solo in quella cornice.
Guardi che si potrebbe dire la stessa cosa per gli interpreti del modello passivo e indulgente affermatosi negli anni Settanta: non parliamo di cose nuove, tutti gli apparati funzionano secondo una logica di continuità. Anche Carnevale, per dire, era legato a un modello del passato, lo giudicava degno, agiva di conseguenza. Allo stesso modo alcuni magistrati antimafia si sentono allievi di Falcone. Mi limito a dire che non è più il tempo in cui Falcone ha dovuto adottare determinate strategie di risposta, perché non è più nemmeno il tempo di Riina. Non si può far finta che la storia sia ferma: ma alcune figure, alcuni protagonisti dell’antimafia, inclusi alcuni magistrati, si sono formati in quell’atmosfera e non riescono a uscire da quella logica. Però vorrei che un concetto emergesse senza equivoci.
Dica pure.
Anche in chi resta ancorato a un modello ormai estraneo al presente, non c’è né complotto né cattiva volontà, si tratta semplicemente della tipica cultura degli apparati.
Parlamentari e magistrati convinti che nella nuova legge sull’ergastolo ostativo servano paletti più severi sembrano quasi diffidare della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’istituto per com’è ora.
Sì, comprendo la sua analisi, ma questo dimostra semplicemente che non si può semplificare e dire che quell’impostazione sia sempre a favore dei magistrati: è per i magistrati solo quando condannano. Se assolvono, li si contrasta. Avrà visto che le più scomposte correnti del movimento antimafia si sono distinte in scene vergognose, in proteste pubbliche nelle aule di tribunale, quando degli imputati sono stati assolti.
Ma scusi, quindi l’antimafia è una specie di partito nostalgico?
Aspetti. È un partito la parte di questo fronte che sta nell’opinione pubblica. Nel caso della magistratura, si tratta di un pezzo di istituzione: è lo Stato, la burocrazia che si è formata a una certa cultura, in una data situazione storica. Ha difficoltà, e non ha interesse, ad abbandonare quella impostazione. Ha interesse piuttosto a giocarsi, nelle istituzioni, partite che possono condurre a polemizzare con chiunque. Anche con il Capo dello Stato, In altre parole, non possiamo spiegarci la posizione di tali componenti della magistratura come ispirate a un assoluto e intransigente rispetto per lo Stato: sono componenti che vogliono giocarsi le loro partite. Nel processo trattativa si è ritenuto di colpire il ministro della Giustizia o il ministro dell’Interno per scelte e atti compiuti nel pieno delle rispettive competenze costituzionali. Spesso si dice che non avrebbe dovuto essere il governo, o un ministro, ad assumere certe decisioni, ma qualcun altro. E ci risiamo: ci risiamo con la logica dell’eccezionalismo. Che però, alla luce della storia, non si giustifica più.
E invece abbiamo ancora una legislazione antimafia da stato d’eccezione.
È sbagliata l’idea per cui le leggi contro la mafia debbano essere eccezionali, prescindere dai principi generali del diritto. Devono invece essere leggi intese a colpire un fenomeno deteriore e pericoloso ma nel quadro dei princìpi generali del diritto.
E vale anche per l’ergastolo ostativo.
Se deve esserci, secondo Costituzione, la possibilità che l’ergastolo sia lenito, che contempli un perdono, così deve essere. Non si può dire che in certi casi il perdono è escluso.
Si diffida della Consulta, ma più di un partito, più di un magistrato, vuole sottrarre le decisioni sulla liberazione degli ergastolani ostativi ai giudici di sorveglianza e attribuirle al solo Tribunale di Roma. Come se non fosse materia adatta a loro, a quei singoli magistrati territoriali.
Però un’idea simile implica l’idea di una magistratura speciale, che è un’idea pericolosa, e che il pensiero liberale e democratico ha sempre contrastato. Ci sono gli incidenti della storia e tra questi anche eventuali decisioni giudiziarie cedevoli, condizionabili, ma vanno risolte con gli strumenti già a disposizione, con le inchieste. D’altronde, anche il magistrato penale che non assolve mai opera in modo non condivisibile. Ciascuno è esposto a condizionamenti, ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità e per ciascuno è possibile intervenire in caso di errore. Ma non è con lo stato d’eccezione che ci si mette in salvo dagli incidenti della storia.
Il paradosso di Sciascia: denunciò i professionisti dell’antimafia e gli diedero del mafioso. Valter Vecellio su Il Riformista il 19 Novembre 2019. Ricordare Leonardo Sciascia a trent’anni dalla morte… non è facile, non è semplice. Un modo, forse ne sarebbe contento, potrebbe essere l’invito del ministro dell’Istruzione Pubblica a tutte le scuole, agli studenti, ai professori, di dedicare qualche ora per leggere un paio di pagine tra i tanti libri che ci ha lasciato. Credo proprio che gli farebbe piacere. Per lui un efficace impegno anti-mafia era magari una marcia in meno, ma leggere un libro di più. Un antidoto simile a quello suggerito dal grande amico Gesualdo Bufalino: «Per combattere Cosa Nostra più maestri di scuola». La cultura, insomma. Contro la mafia, l’ignoranza, il cretino. Sciascia: poco dopo l’alba del 20 settembre, stanco, logorato da una malattia che non ha rimedio, finisce di soffrire. Un soffio; china la testa di lato. La lunga agonia finisce. Come parlarne, senza scadere nel cliché? Qualche sua pagina, appunto, sulla sua “ossessione”: la giustizia, su come viene amministrata. Per un libretto scritto con Raffaele Genah, Storie di ordinaria ingiustizia, gli chiedo un paio di cartelle da utilizzare come prefazione. Si viene afferrati da un senso di avvilimento, nel constatare quanto siano attuali. Scrive dell’errore giudiziario, e raccomanda di tener sempre a mente il monito di Manzoni: «…quasi sempre si tratta di “errori” ben visibili ed evitabili; e in particolare visibili ed evitabili proprio da parte di chi li commette: “trasgredir” le regole ammesse anche da loro…se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa…». Per dare spiegazione di come l’amministrazione della giustizia sia quella che è, spiega che «deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a estrovertirlo, a esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il loro potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto…». Un’altra citazione viene in soccorso da Una storia semplice, l’ultimo libro, scritto con grande fatica, straordinariamente lucido. Un vecchio professore è interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente. «Posso permettermi di farle una domanda?… Poi ne farò altre, di altra natura…», dice ammiccante il magistrato. «Mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Una volta mi ha dato cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente», risponde il professore. Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». Il professore fulminante: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto». Può bastare per comprendere l’amara, radicale, “visione” di Sciascia non tanto della giustizia, quanto di come (e da chi) viene amministrata. Sul capo di Sciascia, in vita (ma anche dopo), si rovesciano una quantità di insulti. È una parzialissima, antologia di meschinità quella che segue: «Codardo»… «Sprazzi di autentica balordaggine»… «Amara e inutile vecchiaia»…«Lancia avvertimenti mafiosi»… «Precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese»… «Travolto dagli anni e da antichi livori»… «Stregato dalla mafia»… «La sua funzione è esaurita»… «Non ci serve più»… «Fa l’apologia della mafia… «Iena dattilografa»…«Trozkista»… «Quaquaraquà»… Ascolto, ma soprattutto osservo Emanuele Macaluso, da sempre amico di Sciascia. Gli ricordo che qualcuno ha detto che Il giorno della civetta è un libro che esalta la mafia. «Questa sciocchezza che purtroppo è stata detta da un parlamentare… della sinistra – sillaba Macaluso – è la stupidità più clamorosa che ho sentito su Leonardo. Quel libro fu il primo che fece capire cos’è la mafia: non una delinquenza comune, ma personaggi che avevano anche un rapporto politico con la politica, ma anche con la gente: la Grande Mafia, la mafia-mafia che ha contato, aveva un rapporto politico con il potere, ma anche con la popolazione: si prestava a risolvere i problemi, una specie di tribunale per le questioni… altrimenti non era mafia, era delinquenza…Per la prima volta Sciascia fa capire che cos’è la mafia: con un carattere, una storia…Perché altrimenti non si capisce perché la mafia c’è da più di cento anni, e si discute ancora del suo potere». Mafiologi ai quattro formaggi non sanno (non vogliono) cogliere l’essenza di quel romanzo: il “metodo” che anni dopo adottano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano e i tanti caduti nella lotta alla mafia. Il capitano Bellodi, a un certo punto si rende conto che il capomafia, grazie alle protezioni politiche, gli sta per scappare di mano; ha la tentazione di far uso di quei metodi al di sopra e al di là della legge del prefetto Cesare Mori, negli anni della dittatura fascista. Tentazione/illusione che subito rigetta, perché non bisogna uscire mai dai binari della legge, del diritto; sempre e comunque. Piuttosto «…bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena, e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende: revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze, o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…». Questo è il romanzo che «fa piacere alla mafia e la esalta». Questo il destinatario del sanguinoso insulto «quaquaraquà», quando pubblica sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 l’articolo redazionalmente titolato “I professionisti dell’antimafia”. Tra i non molti, lo difende Tullio De Mauro, il celebre linguista, fratello di Mauro, il giornalista de L’Ora, atteso da sicari mafiosi sotto casa: rapito, neppure il corpo viene mai stato trovato. Racconta Tullio: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fatto folcloristico siciliano. Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 con la scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in un’altra serie innumerevole di circostanze…». Mi confida Macaluso: «Una cosa ignobile. Una cosa vergognosa e ignobile del cosiddetto Comitato Antimafia di Palermo, dove c’erano alcuni personaggi che non voglio ricordare…Sciascia aveva espresso un’opinione che non coinvolgeva tanto – era solo un esempio – Borsellino, quanto un metodo di affrontare la questione delle carriere…quando Leonardo individuò in quei metodi del Csm dei limiti e delle storture, credo che avesse ragione: i fatti recenti ci dicono che quelle polemiche non erano campate in aria o strumentali, ma avevano un fondamento…». Non solo il Csm, e i suoi metodi di nomina. Francesco Forgione, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, è autore di un libro, I Tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti; utile, preziosa lettura, ricco com’è di fatti ed episodi che documentano come una parte dell’antimafia abbia fatto uso di un impegno di facciata per raggiungere ben altri. Per tornare a Sciascia: dopo aver consigliato la lettura di alcuni libri, presuntuoso, ne segnalo uno recentissimo, mio: Leonardo Sciascia, la politica, il coraggio della solitudine (Ponte Sisto editore). Scritto con l’obiettivo di ragionare su un aspetto che si tende – non a caso – a omettere, ignorare: il suo essere stato scrittore politico, immerso consapevolmente e totalmente nella realtà; il suo aver voluto sempre fare politica in senso etico. Il motivo per cui, pur deluso da precedenti esperienze, dopo aver rifiutato gli inviti a candidarsi nelle liste del Psi e del Pli, accetta di farlo in quelle del Partito Radicale: un partito a cui era sempre stato vicino, come Elio Vittorini, Ignazio Silone, Pier Paolo Pasolini. Ma a candidarsi non ci pensa proprio, ed è ben intenzionato a dire un cortese “No, grazie” a Pannella, volato a Palermo per convincerlo. Vecchia volpe, Pannella sa trovare la chiave giusta: «Non ti chiediamo di aderire al nostro programma. Siamo noi radicali che aderiamo al tuo». È fatta: accende l’ennesima sigaretta, con lo sguardo osserva le volute del fumo; infine, passa dal “Lei” al “Tu”: «Hai bussato perché sapevi che era già aperto». Valter Vecellio
C’era una volta l’antimafia. Guido Ruotolo il 17 Giugno 2021 su terzogiornale.it. C’era una volta l’antimafia, che si nutriva di rivolta civile – ricordate le lenzuola bianche stese sui davanzali di Palermo, all’indomani delle stragi Falcone e Borsellino? – che dava linfa al lavoro delle forze di polizia e della magistratura. Che produceva mutamenti profondi nella società, soprattutto quella meridionale. Era minoritaria, all’inizio, l’antimafia. Peppino Impastato fu ucciso a Cinisi nel 1978, in una tragica solitudine. Riaprendo così quella catena di sangue di sindacalisti e militanti di sinistra che la mafia aveva ammazzato da Portella delle Ginestre in poi. E anche poliziotti e carabinieri, magistrati e giornalisti, furono uccisi dalla mafia perché estranei a una società sonnolenta che non vedeva la convivenza tra pezzi delle istituzioni, mafia, classi dirigenti e massonerie varie. E dunque rappresentavano un pericolo per questo sistema. Nell’arco di un decennio i corleonesi tentarono due golpe cruenti. Il primo, a partire dal 1980, all’interno di Cosa nostra. I ‘viddani’ di Totò Riina fecero fuori i palermitani lasciando sul campo centinaia di morti ammazzati. Il secondo, a partire dal 1991, un golpe contro lo Stato, per contrattare le nuove regole della coabitazione. Ma fallirono i corleonesi. E dopo le stragi del 1993 e 1994, Cosa nostra si inabissò, tramortita, con morti e pentiti e i gruppi dirigenti in carcere. Mentre lo Stato, a partire dagli anni Ottanta creò una nuova legislazione antimafia e nuove strutture investigative che si rilevarono efficaci. La legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni, la legge sui collaboratori di giustizia, il 41 bis, e poi nacquero le procure antimafia e la Direzione nazionale antimafia, e la Dia. E la legge sullo scioglimento dei consigli comunali e delle Asl infiltrati dalla mafia. Quante vittime innocenti sono state seppellite nella Sicilia di quegli anni? Magistrati come Livatino e Ciaccio Montalto tra Agrigento e Trapani, e poi Rocco Chinnici e Falcone e Borsellino. E poliziotti e carabinieri, e anche politici che non volevano piegarsi alla dittatura mafiosa, da Pio La Torre a Piersanti Mattarella. La resistenza dei militanti di quell’antimafia sociale che non ha mai smesso di fare testimonianza ha poi prodotto una nuova primavera, quella della rivolta civile e del riscatto dello Stato. In questo Olimpo dei martiri e dei testimoni sicuramente c’è anche posto per Libero Grassi, l’imprenditore palermitano ucciso dalla mafia perché non volle piegarsi al pizzo. E dal suo esempio nacque poi il movimento antiracket dei commercianti di Tano Grasso, a Capo d’Orlando, e via via in tutta la Sicilia. I commercianti denunciavano, venivano protetti dallo Stato, gli estorsori condannati dai giudici. Lungimirante fu don Luigi Ciotti che nel marzo del 1995 diede vita a Libera, l’associazione delle associazioni antimafia che nel frattempo erano nate in Sicilia e nel resto del Paese. Una scelta politica per mettere in sicurezza un patrimonio di idee e di iniziative sul territorio. Dopo un quarto di secolo e poco più, tutto questo non c’è più. O quasi. L’antimafia è appassita e avvelenata. Sono residuali anche le esperienze più importanti sul territorio. Naturalmente l’antimafia istituzionale della Dia, Dna, delle procure distrettuali, di investigatori – e sostanzialmente l’impalcatura della legislazione antimafia – tutto questo c’è ancora, per fortuna. Solo che investigatori e magistrati si trovano ad operare in un mondo che guarda all’indietro. È una contraddizione, una sensazione sgradevole. Le nuove generazioni si stanno formando con il dubbio che le stragi del ’92 e del ’93 siano opera di servizi segreti e poliziotti infedeli. Sembra un paradosso che la mafia sia scomparsa dal lessico di professionisti e divi dell’antimafia, che sulla mafia hanno fatto carriera. La trattativa, l’agenda rossa di Borsellino, il ruolo dei servizi segreti, l’esistenza di investigatori infedeli tutto questo ha fatto rimuovere la presenza se non la stessa esistenza di Cosa nostra. Sono oltre venticinque anni che si parla della presenza di 007 nelle stragi dei due magistrati senza che i titolari delle indagini abbiano mai esplicitato questa pista investigativa. Sono oltre quindici anni che la procura di Palermo indaga sulla trattativa tra mafia e pezzi delle istituzioni anche se il reato di trattativa non esiste e il processo d’appello, dopo le condanne di primo grado, potrebbe riservare delle sorprese. Si guarda indietro, dunque, come se la partita fosse una resa dei conti di protagonisti del secolo scorso. Ma oggi, sì proprio oggi, che percezione abbiamo della mafia? Gli analisti più accorti avvertono che la Cosa nostra che avevamo conosciuto nel secolo scorso ha cambiato pelle. La struttura organizzativa non c’è più, la mafia è diventata liquida, ha esplorato e occupato nuove attività economiche, dal gioco online all’energia alternativa. Altro discorso riguarda la ’ndrangheta, che sempre di più occupa territori inesplorati al Nord, e la camorra che a Napoli è tornata a sparare. Sono intuizioni. Nulla sappiamo dell’ultimo dei corleonesi, quella primula nera che dal ’93 si è volatilizzato: Matteo Messina Denaro. Dei vecchi capi della mafia stragista parla solo Giuseppe Graviano, il capo della famiglia di Brancaccio che ha gestito in prima persona le stragi di Paolo Borsellino e quelle sul continente, nel 1993. Lui era l’anello di congiunzione con l’imprenditoria e la politica del Nord. E oggi, il processo contro la ’ndrangheta stragista ha visto Graviano protagonista, pur non essendo un pentito da imputato gli è stato concesso di lanciare messaggi oscuri. L’antimafia appassita e avvelenata continua a percorrere la strada dell’inquinamento dei servizi nella stagione stragista della mafia. Guardano al passato dai vetri corazzati delle loro blindate. Come se la guerra non fosse mai finita. Sono venticinque anni che non si spara. Ma loro non se ne sono accorti. Guido Ruotolo
La trattativa Stato-Antimafia La triste e ripetitiva rivolta dei magistrati star sulla prescrizione. Carmelo Palma il 22 Luglio 2021 su L'Inkiesta. Da Gratteri a De Raho, i nomi illustri della magistratura criticano aspramente il ddl Cartabia, basando le proprie opinioni sull’idea che il diritto dello Stato all’azione penale sia prevalente sul diritto dei cittadini a un giusto processo. Oltre a ignorare i diritti della Costituzione, si sta verificando l’ennesima conferma del pessimo stato della giustizia e della politica italiana. Tra le poche certezze che la politica italiana riserva al suo fedele pubblico pagante, la principale è quella della indignata rivolta del Consiglio superiore della magistratura e dell’Associazione nazionale magistrati pre e post-palamariani, delle toghe antimafia, del partito delle procure e delle vestali e prefiche del sanfedismo giudiziario contro qualunque norma processuale o sostanziale, che riconosca negli indagati e negli imputati anche dei soggetti di diritto e non solo dei meri oggetti della pretesa punitiva dello Stato. Il cosiddetto ddl Cartabia, che se non civilizza il processo penale tenta perlomeno di arginarne la barbarie, con ambizioni peraltro abbastanza limitate, dopo essere finito nel mirino di Giuseppe Conte e dell’ala militare del Movimento 5 stelle – quella critica contro il trattativismo di Grillo – ed essere stata salutata dagli orfani del contismo come una nuova legge salvaladri, è ora discussa in quella sorta di terza camera della Repubblica rappresentata dai sinedri formali e informali del potere giudiziario e delle sue rappresentanze politico-giornalistiche. E dalle discussioni esce opportunamente sfigurata come un decreto di morte sui processi, un favore alla criminalità e una minaccia alla sicurezza dello Stato e alla tenuta della nostra democrazia. Come è normale che sia, le reazioni più indignate e ascoltate giungono dai nomi più illustri della lotta alla mafia, da Nicola Gratteri a Federico De Raho, e si fondano esplicitamente sull’idea che il diritto dello Stato all’azione penale sia prevalente sul diritto dei cittadini a un giusto processo, la cui ragionevole durata, che costituzionalmente la legge è tenuta ad assicurare, può considerarsi tale solo nella misura in cui riflette la ragione di Stato della lotta alla criminalità e al malaffare. Insomma, se per condannare definitivamente un imputato servono vent’anni, la ragionevole durata del processo è di vent’anni. Se ne servissero quaranta, sarebbe di quaranta. Anche perché, in questa logica, la colpevolezza è presunta e incorporata nell’imputazione, che di fatto moralmente prescrive l’innocenza dell’imputato, che solo l’astratta lettera della Costituzione riconosce perdurare fino alla condanna definitiva. Questo osceno sfondamento dell’articolo 111 della Carta è possibile perché lo Stato non è dal potere togato inteso come un ordinamento giuridico, che tutela la libertà dei cittadini, ma come una «sostanza etica consapevole di sé», secondo la definizione hegeliana, cioè come la fonte della libertà dei cittadini, che dunque non può rappresentare un limite alla sua azione, essendo al contrario un prodotto della sua azione, che non esiste né in termini morali, né giuridici al di fuori di essa. In questo Stato non esistono diritti inviolabili, perché in senso stretto non esistono diritti individuali, se non determinati dalla norma etica dello Stato. I magistrati antimafia, dunque, si sentono lo Stato non in quanto funzionari pubblici, ma in quanto incarnazioni della sua eticità. In uno stato assoluto anche la giustizia è assoluta e qualunque relativizzazione del suo potere appare insopportabilmente eversiva. Che ne siano consapevoli o meno, questi magistrati non si sentono solo titolari di una fondamentale funzione civile, per cui rischiano la vita, ma anche investite di uno speciale ufficio spirituale, per cui possono permettersi di rovinarla agli altri, senza troppo angustiarsi delle vittime innocenti che lascia sul campo il perseguimento della loro missione.
Questo conferma che l’idea inquisitoriale della giustizia, non come amministrazione del diritto, ma come affermazione del potere sovrano su chiunque, in qualunque modo, lo minacci, è consustanziale a un’idea totalitaria dello Stato. E che l’inquisizione e il totalitarismo siano democratici, cioè assistiti da un vasto o plebiscitario consenso popolare cambia solo la forma, ma non la sostanza del loro potere assoluto. Insomma, la rivolta indignata sulla prescrizione è l’ennesimo tristissimo déjà vu assolutistico-inquisitoriale della storia patria e l’ennesima conferma del pessimo stato della giustizia e della politica italiana. E visti i precedenti, per come è iniziata la trattativa Stato-Antimafia sulla prescrizione si può già immaginare come andrà a finire: male.
I professionisti dell'antimafia di Leonardo Sciascia dal Corriere della sera, 10 gennaio 1987. Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono «eroi della sesta»:
1) «Da questo stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l'angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti... Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).
2) «Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966).
Il punto focale. Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell'antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s'intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane « ricercatore» dell'Università di Oxford e allievo dì Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione dell'autore è rivolta non tanto alla « mafia in sé» quanto a quel che « si pensava la mafia fosse e perché»: punto focale, ancora oggi, della questione: per chi - si capisce- sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco di un'isola pittoresca, al colore locale, alla particolarità folcloristica. Ed è curioso che nell'attuale consapevolezza (preferibile senz'altro - anche se alluvionata di retorica - all'effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l'impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga, Pirandello e Guttuso.
Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l'illusione che quei miei due libri, cui i passi che ho voluto ricordare, siano serviti - a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia poiché c'è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione un libro) - siano serviti ai tanti, tantissimi che l'hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo i più li abbiano letti, per così dire, « en touriste», allora; e non so come li leggano oggi. Tant'è che allora il «lieto fine» - e se non lieto edificante - era nell'aria, per trasmissione del potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In nome della legge, in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.
Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la «pièce» era stata dal, suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e, vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un «esempio» (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al, problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un'indagine e un'analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n'è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.
Nel primo fascismo. idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l'istanza rivoluzionaria degli ex combattenti dei giovani che dal Partito Nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell'invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello Stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell'ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi «risorgimentali» - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena, dopo lì delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l'arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).
Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange «rivoluzionarie» per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - garantire al fascismo almeno l'immagine di restauratore dell'ordine - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.
Le guardie del feudo. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto.
Mori, dice Duggan, «era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva «forte fede nello Stato», «rigoroso senso del dovere». Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse - quel periodo di ozio - a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.
Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole.
Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come «mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.
E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: «et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico.
Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel «notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il "superamento" da pane del più giovane aspirante".
Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come «la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel «superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria - è «magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire come «magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna « a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza «che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo «piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava.
I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?
Le recensioni di AntimafiaDuemila. IL PADRINO DELL'ANTIMAFIA. Autore: Attilio Bolzoni
Recensione. Un siciliano che è “nel cuore” di un boss di Cosa Nostra diventa misteriosamente il faro dell’Antimafia italiana. Il delitto perfetto. «Un libro destinato a spaccare in due la storia di mafia e antimafia» - Piero Melati, Il Venerdì. Con la complicità di ministri dell’Interno e alti magistrati, di spie e generali, Calogero Antonio Montante in arte Antonello è il personaggio che più di ogni altro segna l’oscura stagione delle “mafie incensurate” che dettano legge dopo le stragi del 1992. Simbolo della legalità per Confindustria e a capo di una centrale clandestina di spionaggio, fra affari e patti indicibili la sua storia fa scorgere un pezzo d’Italia con il sangue marcio. Chi è davvero Montante? Solo il prestanome di un sistema imprenditoriale criminale? Il pezzo “difettoso” di una perfetta macchina di potere? È pupo o puparo? Ma c’è un intrigo nell’intrigo: le telefonate del Presidente. Qualcuno sospetta che nelle mani di Montante siano finite le registrazioni delle conversazioni fra l’ex Capo dello Stato Napolitano e l’ex ministro Mancino, quei quattro colloqui agli atti del processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia che la Corte Costituzionale aveva ordinato di distruggere.
“Il padrino dell’antimafia” e il potere infetto, il saggio di Attilio Bolzoni sul caso Montante. Antonino Cangemi il 17/08/2019 su blogsicilia.it. Essere chiari, diretti, senza mai ricorrere a perifrasi, fare nomi e cognomi senza temere nessuno, dire le cose come stanno anche a costo di conquistarsi una nutrita schiera di nemici accade a pochi, anzi a pochissimi. Uno dei pochissimi è Attilio Bolzoni, giornalista di lungo corso che da decenni si occupa, con rara competenza, di fatti mafiosi. A Bolzoni, nell’ultimo decennio, era accaduto di vivere una sorta di “stanchezza professionale”. Si era accorto che le vicende giudiziarie legate alla mafia, da cui scaturivano i suoi articoli, si assomigliavano tutte senza destare un particolare interesse, legate com’erano a logiche e dinamiche del vecchio corso quando invece si intuiva che la mafia – non più protagonista di eclatanti delitti ma subdolamente presente – stava mutando pelle. Agli inizi del 2000 si era poi assistito a quella che sembrava essere una svolta nell’imprenditoria siciliana: il mondo produttivo, con in testa la Confindustria, si era schierato apertamente per la legalità e, nel nome e nel segno di Libero Grassi, aveva costituito un fronte comune contro il “pizzo”. Difficile non credere all’autenticità delle tante iniziative per promuovere la legalità degli imprenditori siciliani. Tra di loro in primissimo piano, chi più di tutti si ergeva a paladino dell’antimafia era Antonello Montante, originario del Nisseno proprio come Bolzoni. Tutto nuovo e positivo: la mafia non sparava più, le imprese alzavano le barricate contro la sua tracotanza. Ma le cose stavano davvero così? I dubbi cominciarono a insinuarsi quando trapelò un’inattesa, clamorosa notizia: Montante era indagato per fatti intimamente connessi alla mafia. Nel recentissimo saggio “Il padrino dell’antimafia”, sottotitolo “una cronaca italiana sul potere infetto” edito da Zolfo, Bolzoni ripercorre le tappe del suo lavoro investigativo-giornalistico su Antonello Montante, sulle associazioni imprenditoriali siciliane e su tutto ciò – ed è tanto, tantissimo – che vi ruotava attorno. Un lavoro certosino in cui spiccano la destrezza professionale, il fiuto, ma anche la prudenza di Bolzoni e che conduce a risultati eclatanti quanto inquietanti: Antonello Montante è il più clamoroso dei bluff, un personaggio creato ad arte tutt’altro che esempio di legalità, semmai d’illegalità, come si evincerà dagli atti giudiziari (nel maggio di quest’anno la condanna a quattordici anni di reclusione poi patteggiati), il movimento antimafia degli imprenditori siciliani è quasi tutto marcio, invischiato nei più nefasti giochi e interessi di potere. Il libro di Bolzoni parte dai fatti per arrivare ai fatti. Non si perde in supposizioni, sospetti, illazioni. Tutto è documentato e riscontrabile in atti giudiziari. Ma i fatti sono esplosivi, rivelano una rete vastissima creata dal boss della Confindustria siciliana e che coinvolge i palazzi del potere politico, giornalisti e persino uomini delle più alte istituzioni e dell’antimafia. Le conclusioni cui perviene Bolzoni sono presenti nel sottotitolo del saggio: in Italia una parte del potere è “infetto”. Quanto all’antimafia, la posizione di Bolzoni è chiara. Bisogna distinguere e non fare né generare confusione. Vi è un’antimafia contaminata da Cosa Nostra – le cui capacità mimetiche sono notorie – e un’antimafia che nulla ha a che spartire con la mafia che però, nel corso del tempo, salve eccezioni, si è rivelata inadeguata o addomesticata da prebende varie. “Il padrino dell’antimafia” è un libro da leggere per capire meglio la realtà italiana in tutte le sue sfaccettature, anche quelle più sinistramente amare. Ed è anche un libro molto utile per chi nutre passione per il giornalismo. Leggendolo, infatti, un aspirante cronista apprende come va condotta un’inchiesta giornalistica: con scrupolo, determinazione, coraggio, cautela.
· Non era mafia: era politica.
Le riforme e le misure di prevenzione. Codice antimafia, va riformato per tornare allo stato di diritto.
Paolo Giustozzi su Il Riformista il 17 Dicembre 2021. Le oramai consolidate Riforme che incidono gravemente sui diritti fondamentali, quali quelle che estendono le drastiche misure di prevenzione contenute nel codice antimafia a nuove categorie di soggetti, colpiti soltanto da indizi di determinati delitti, dovrebbero essere valutate con attenta meditazione. Con il rispetto che si deve ad un testo del disegno di legge ancora inedito, quale quello in materia di contrasto alla violenza di genere, l’attenzione va rivolta all’ennesimo intervento espansivo del codice antimafia e del catalogo della pericolosità qualificata, che si manifesta come il segnale di un preoccupante indirizzo di politica criminale che incrementa e rafforza incessantemente, ormai da diversi anni, l’utilizzo di un sistema, quello appunto delle misure di prevenzione, che meriterebbe invece se non la sua totale eliminazione, quanto meno, una seria ed urgente riforma esso stesso. Una integrale rivisitazione – di questo si parla – del codice antimafia, in passato vanamente promessa dai legislatori, dovrebbe ambiziosamente mirare a riportarlo velocemente entro i canali delle garanzie minime, sostanziali e processuali, di un processo giusto, che in un sistema di ispirazione liberale e democratica non si possono derogare neppure facendo ricorso ad ellittiche soluzioni terminologiche, che richiamano imperscrutabili distinzioni fra ciò che è semplicemente “afflittivo” e ciò che invece è dichiaratamente “repressivo”. Le misure di prevenzione, a dispetto della loro origine di strumenti eccezionali, sono divenute un autentico sottosistema ipertrofico del tutto parallelo a quello penale, del quale tuttavia esse emulano soltanto estesi poteri di indagine e strumenti afflittivi sulla persona e sui patrimoni, senza godere delle garanzie riservate alla materia penale. Interi patrimoni vengono sottratti a soggetti, anche post mortem, attraverso indagini che, svincolate da limiti di durata e di controllo di un Giudice terzo, toccano i meandri più intimi di soggetti e della cerchia dei più stretti parenti e conviventi del proposto, mettendo in controluce il tenore di vita tenuto per la intera vita. Sul piano della tipicità, ossia della precisione della legge, sembra arduo pretendere che dal quadro fumoso della “qualità di mero indiziato”, i cittadini possano orientare i propri comportamenti in previsione delle conseguenze che un determinato atto potrà comportare loro, in termini di limitazione della libertà e del patrimonio. La nozione di “indiziato” d’altro canto è elemento normativo che non individua il fatto storico dal quale doversi difendere in giudizio, ma è un dato che si indirizza a colui che dovrà applicare la norma, attraverso l’indicazione di uno “standard probatorio” che oltretutto nell’area della prevenzione può assumere spessore dimostrativo insufficiente per addivenire ad una condanna in sede penale: persino una soluzione assolutoria in sede penale potrebbe legittimare in taluni casi la applicazione delle misure di prevenzione, in nome del noto principio della autonomia di valutazione delle prove del Giudice delle misure antimafia. Il sistema della prevenzione è uscito sostanzialmente indenne dalla ardua prova di resistenza cui è stato sottoposto dalla Consulta dopo la demolitoria sentenza della Corte Edu, sulla base del principio secondo il quale la norma, pur essendo imprecisa, sarebbe stata colmata di chiarezza e tipicità dalla costante interpretazione giurisprudenziale assurta a diritto vivente. È legittimo il timore proclamato da illustri commentatori di questa storica decisione dalla quale si intravedono le avvisaglie di una transizione dall’“età della legge” all’“età dell’interpretazione” connotata da un diritto liquido e senza codice, in cui la figura del Giudice si trasforma (con dubbi evidenti circa la compatibilità con la nostra struttura costituzionale, ben diversa dai sistemi di “common law”) in un coartefice del prodotto legislativo, con il disco verde della Consulta che passa per la bollinatura della prevenzione come norma estranea al penale. Senza esagerazioni retoriche, viene da domandarsi in conclusione se il sacrificio enorme che il sistema della prevenzione impone sotto il profilo della rinuncia delle garanzie della persona, sia giustificato dal perseguimento degli obiettivi che esso mira a raggiungere, tanto più in presenza di una estensione continua e progressiva del perimetro applicativo, originariamente pensato per il contrasto ai reati di mafia. E ancora, se è vero che si tratti di misure irrinunciabili in vista della tutela dell’economia sana posta a rischio dalla concorrenza malata di capitali infettati ab origine dalla loro illecita o opaca provenienza, va considerato che l’ordinamento possiede efficacissimi strumenti di contrasto, in materia di evasione e riciclaggio, in grado di assicurare risultati efficaci al pari o superiori rispetto a quelli della confisca di prevenzione. In conclusione, non vorremmo che la prevenzione diventi un nuovo modello di processo, un semilavorato frutto di esperimenti avanzati su cui realizzare il prototipo di un nuovo sistema processuale che ci proietti verso il futuro, richiamando però di fatto vecchi e familiari sapori che sembravano dispersi dai tempi del 1889. Paolo Giustozzi
L'ammissione e i tanti distinguo. La mafia stragista non c’è più, ma l’antimafia è diventato un partito: lo ammette anche Pignatone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Agosto 2021. Finalmente qualcuno l’ha detto: Cosa nostra non c’è più. Quindi: viva l’antimafia! Il tono del giudice Pignatone ha la morbidezza che si addice al presidente del tribunale vaticano, ma il concetto è chiaro. E non significa che non esista ancora qualche forma di mafia che faccia i propri affari, ma che la stagione sanguinaria che ha lasciato sul selciato delle strade di Palermo centinaia di morti, quelli delle istituzioni e gli altri, è ormai lontana nel tempo e solo nei tristi ricordi di chi ha una certa età. Una realtà che pare rivivere ogni anno, a ogni ricorrenza di luglio o di agosto, quasi fosse vero che La mafia uccide solo d’estate, il famoso film di Pif del 2013. Pignatone le elenca con puntiglio, le vittime più significative, quelle uccise per vendetta e quelle per la loro simbologia: da Rocco Chinnici fino a Falcone e Borsellino. E non può fare a meno di notare, anche se non lo dice esplicitamente, che nel suo elenco, fatta eccezione per l’assassinio di don Pino Puglisi, avvenuta nel 1993, le stragi terminano proprio lì, tra il 29 maggio e il 19 luglio del 1992, con l’annientamento dei due giudici che rimarranno per sempre i simboli della “lotta alla mafia”. È lì che è terminato il potere di Cosa nostra. Ed è lì che anche l’antimafia avrebbe dovuto deporre le armi, dopo gli arresti dei boss latitanti. Invece si sono costruiti carriere e processi, come quello sulla “trattativa” o quelli contro Silvio Berlusconi. La realtà è che restano solo le ricorrenze, con le celebrazioni e le sfilate degli uomini dello Stato. Ma resta anche quel comma tre dell’articolo 416 bis del codice penale che non dovrebbe avere più senso, e che recita “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti…”. Un concetto anacronistico, che pare però così inamovibile da aver indotto il legislatore ad aumentare le pene all’infinito, fino a 26 anni di carcere solo per il reato associativo, se l’organizzazione mafiosa dispone di armi. Anche se, come abbiamo visto dalla ricostruzione storica del dottor Pignatone, per fortuna le armi paiono ormai in disuso. È ormai un ritornello, lo dice sempre anche il procuratore Gratteri di Catanzaro, che ormai le mafie sono nulla di più che comitati d’affari. E i reati dovrebbero esser perseguiti più come reati economici che non di tipo “mafioso”. Ma il punto è che della mafia resta solo l’antimafia. In un articolo su La Stampa (ma quello di ieri è di Repubblica) del gennaio scorso il presidente del tribunale vaticano operava un distinguo non da poco tra i reati di mafia e quelli di corruzione. Contro i primi si deve “lottare”, sosteneva, per i secondi dovrebbero bastare le regole dello Stato di diritto. Se l’ex ministro Bonafede, è sottinteso (ma neanche tanto), con l’introduzione della legge “spazzacorrotti”, non avesse equiparato i due fenomeni. Che sono diversissimi perché quello della criminalità organizzata è un fenomeno deviante che va studiato e approfondito prima di poter essere combattuto, diceva il dottor Pignatone. Trasformando quindi il pubblico ministero in una sorta di soggetto multitasking. Più che sbirro, meglio sociologo, storiografo, storico. Anche psicologo, suggerisce Gratteri. Poco laico, in definitiva. Ma pur sempre guerriero, in lotta contro i fenomeni criminali. Così succede che, mentre con la mano destra il giudice Pignatone scrive che Cosa nostra è morta, con la sinistra introduce i suoi “però”. E il però sta nella lotta antimafia come il baco sta nella mela. Pare turbato da un piccolo episodio che non dovrebbe preoccupare ma solo far ridere. Racconta dell’intercettazione recentissima di un boss che si lamenta perché la figlia di una sua amica aveva chiesto alla mamma di partecipare a una commemorazione di Giovanni Falcone. Ma stiamo parlando di un pericoloso criminale sanguinario o di Maria Montessori che discetta sull’educazione dei pargoli? Se un capomafia occupa il suo tempo a discettare sulle abitudini di una ragazzina, è proprio vero che Cosa nostra non c’è più. L’antimafia rappresenta un po’ la nostalgia dei tempi andati, quando la lotta aveva un ruolo reale: loro sparavano e tu li arrestavi. Ma continuare oggi con questa insistenza da giapponesi nella giungla a guerra finita è un po’ patetico e un po’ ancoraggio a quello Stato Etico unico governatore del bene e del male che poi rimproveriamo ai Talebani, senza renderci conto di quanto ancora alberghi nella cultura di tanti magistrati, compreso Giuseppe Pignatone. Che è uomo di cultura, ma anche di potere. Se così non fosse non avrebbe avuto lunga vita al vertice della Procura di Roma. Probabilmente non ci sarebbe neppure arrivato. Vero, Palamara? Se oggi neppure lui può mollare l’antimafia, è perché questa è diventata nel corso degli anni un vero partito, oltre che un centro di potere molto redditizio dal punto di vista politico. C’è la Commissione parlamentare il cui ruolo ormai consiste solo nel dare prebende sotto forma di consulenze a un po’ di magistrati, ma che controlla i partiti attraverso le liste elettorali. E poi c’è tutta la schiera dei pubblici ministeri “antimafia”, i più titolati a influenzare anche governo e Parlamento e a gestire processi come quello sulla “trattativa”. E a dare la benedizione del bollino blu. Un po’ come quello, ancor più obsoleto, dell’antifascismo.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
· Santi e Demoni.
Giuseppe Legato per "la Stampa" il 17 novembre 2021. Chi lo ha visto a Torino, all'opera nel progetto «Liberi di scegliere» governato dall'associazione Libera contro le mafie fondata da don Luigi Ciotti, dice che era un ragazzo intelligente. Che si dava da fare in una comunità di persone fragili che assisteva con qualche lavoretto saltuario. Ma il sospetto che mai fosse riuscito a tranciare il legame con le radici mafiose del casato a cui apparteneva, aleggiava come un fantasma su quella promessa di redenzione: «Poteva cambiare, ma è stato risucchiato nel vortice della sua famiglia», dicono al quartier generale dell'associazione, a Torino. E bisogna partire da qui per raccontare la storia di uno dei boss emergenti della 'ndrangheta in Italia, Rocco Molè, 26 anni, erede di una dinastia lineare di nonni, padre, zii e cugini, che ha scritto la storia della malavita calabrese nella piana di Gioia Tauro e a Milano. Da una promessa non mantenuta quando anni fa chiese al Tribunale di Reggio Calabria di svolgere i lavori socialmente utili nella più importante e attiva realtà associativa contro le mafie. Più di due mesi, forse tre, trascorsi nel tempio della legalità dove decine di giovani si rifugiano per riscrivere il proprio destino lontano da boss e picciotti. La Dda di Reggio Calabria gli ha notificato in carcere un altro ordine di arresto: 'ndrangheta. E con ruoli di vertice. In pieno lockdown, a marzo 2020, era finito dietro le sbarre. Nel giardino della sua masseria, in Calabria, gli investigatori avevano trovato 534 kg di cocaina. Perché Rocco aveva preso in mano gli affari della famiglia anche sul versante del narcotraffico internazionale. Glielo aveva detto il padre, Girolamo, detto Mommo, Molè, in un colloquio in carcere intercettato dai pm: «Sto puntando su di te perché sei quello più intelligente. È finito il tempo di giocare. Siamo in guerra e dobbiamo fare i conti con questi». Chiosano i pm: «Rocco Molè doveva seguire le orme (del padre ndr) e subire l'apparato di cui fa parte quasi per nascita e dal quale non può dissociarsi. Era tempo che assumesse le redini della famiglia». Da qui parte la scalata di uno dei rampolli della mafia calabrese. Nuove generazioni fagocitate dalle urgenze dei clan. Come a Milano è stato per Giorgetto De Stefano ribattezzato Malefix dalle cronache rosa per il fidanzamento con una nota influencer del capoluogo meneghino. O per Luigi Crea, giovanissimo figlio dei capi della 'ndrangheta a Torino o - ancora - per Domenico Agresta, giovane tutto crossfit e followers, erede dei casati tra i protagonisti della stagione dell'Anonima sequestri. È caduto, come loro. Un cognome, un destino. Rocco usa torni perentori coi suoi fidati colonnelli. Promette vendette nei confronti degli ex alleati Piromalli: «Appena posso gli mangio il cuore». Entra in rotta di collisione con alcuni boss di Rosarno: «Faccio in modo che non gli rimangano neanche le case». Coordina l'esercito della famiglia anche a Milano e a Gioia Tauro manda i suoi emissari per riscuotere il pizzo «con modalità asfissianti e cadenze quotidiane». Così lontano da quel giovane che a Torino voleva uscire dal labirinto di violenza e business che ha invece risposato in Calabria «con pervicace accanimento, intento a far riacquistare alla cosca gli antichi fasti precedenti all'omicidio della zio omonimo».
Donato Ceglie radiato dalla magistratura. Il Csm ha deciso in base alle accuse della Procura generale della Cassazione: l’ex pm che combatteva le ecomafie a Caserta avrebbe ricevuto soldi in cambio di favori. Il Corriere della Sera l'8 ottobre 2021. La Sezione disciplinare del Csm ha rimosso dalla magistratura Donato Ceglie, che da pm era stato un simbolo della lotta alle ecomafie in Campania e che attualmente era sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. La sanzione più drastica e contro la quale potrà ricorrere alle Sezioni Unite della Cassazione gli è stata inflitta per due delle condotte che gli venivano contestate dalla Procura Generale della Cassazione: aver ricevuto denaro da un imprenditore e da suo fratello in cambio di favori legati al suo ruolo di magistrato; e aver ottenuto l’uso gratuito di un appartamento di proprietà di un consulente tecnico per incontri con donne, anche in questo caso facendo leva sul suo ruolo. Ceglie è stato pm a Santa Maria Capua Vetere e a Bari.
Nicola Morra nella bufera: “Mafie nelle prefetture e al ministero dell’Ambiente”. Chiara Nava il 10/10/2021 su Notizie.it. Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia, ha rilasciato delle dichiarazioni davvero molto forte, finendo nella bufera. Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia, ha rilasciato delle dichiarazioni davvero molto forte, finendo nella bufera. Le sue affermazioni hanno scatenato tantissime polemiche. Le dichiarazioni di Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia, hanno scatenato tantissime polemiche. “Il caso Tunisia mostra come la criminalità organizzata non vada ricercata solo nelle periferie e nei posti degradati ma anche nelle Prefetture e al Ministero dell’Ambiente dove ci sono colletti bianchi che non fanno l’interesse delle comunità. Siamo abituati a pensare alle mafie come una parte avversa al sistema ed invece sono parte integrante perché consentono di nascondere la polvere sotto il tappetto e di far arricchire ancora di più quelli che accumulano profitti illeciti. È chiaro che i reati ambientali in questa logica, sono i primi ad essere omissati e addirittura bollati di improcedibilità nel silenzio generale perché i danni che ne derivano non sono immediatamente visibili. Le conseguenze sono più lente ma decisamente più massive” ha dichiarato al Polieco di Napoli. Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno, ha dichiarato che si tratta di “affermazioni gravissime e inaccettabili in quanto rivolte alle istituzioni impegnate sui territori per garantire legalità e sicurezza al servizio di cittadini“. La ministra ha chiesto a Morra di chiarire “immediatamente sulla base di quali elementi o valutazioni ha reso le sue dichiarazioni“. Roberto Cingolani, ministro della Transizione Ecologica, ha dichiarato che Morra deve “rendere note tutte le informazioni di cui è in possesso per poter intervenire nelle sedi opportune“. Le parole di Nicola Morra sono state al centro di diverse critiche anche da parte di molti esponenti della Lega. “Ha fatto accuse gravissime senza fornire prove: ora ci aspettiamo le dimissioni immediate di Nicola Morra, Draghi e Lamorgese intervengano” ha commentato Matteo Salvini.
Da "La Stampa" il 10 ottobre 2021. Non è la prima volta che scatena un putiferio, ma stavolta forse è andato davvero oltre. Nicola Morra, presidente della commissione parlamentare Antimafia, parla di mafia «nelle prefetture» e nel «ministero dell'Ambiente», lo dice come se non avesse un ruolo istituzionale: «La criminalità organizzata non va ricercata solo nelle periferie e nei posti degradati ma anche nelle Prefetture e al ministero dell'Ambiente dove ci sono colletti bianchi che non fanno l'interesse delle comunità». Non è una frase scappata per caso, il concetto viene argomentato: «Siamo abituati a pensare alle mafie come una parte avversa al sistema ed invece sono parte integrante perché consentono di nascondere la polvere sotto il tappeto e di far arricchire ancora di più quelli che accumulano profitti illeciti». Una bomba, che provoca la reazione immediata della ministra dell'Interno Luciana Lamorgese e che spinge la destra a chiedere le dimissioni di Morra. La ministra è dura: «Sono affermazioni gravissime e inaccettabili. Il presidente Morra chiarisca immediatamente sulla base di quali elementi o valutazioni ha reso le sue dichiarazioni. Non può essere in alcun modo messa in discussione l'attività che viene svolta dalle prefetture per contrastare le organizzazioni criminali e i loro interessi illeciti». Brusca anche la reazione del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani: quelle di Morra sono parole che «offendono la credibilità e il lavoro dei dipendenti del ministero. Chiediamo che il presidente renda note tutte le informazioni di cui è in possesso per poter intervenire nelle sedi opportune». Franco Mirabelli, Pd, aggiunge che «buttare fango sulle istituzioni non è certo il compito del presidente della commissione Antimafia», per Davide Faraone, Iv, «uno come Morra non può più stare al suo posto». Ma è soprattutto il centrodestra a chiedere le dimissioni del presidente dell'Antimafia: «Morra abbia la decenza di dimettersi e consentire che alla guida dell'Antimafia sia eletta una persona autorevole», dice Giorgia Meloni. Matteo Salvini, poi, parla di «accuse gravissime senza fornire prove: ora ci aspettiamo le dimissioni immediate di Nicola Morra, Draghi e Lamorgese intervengano».
ESCLUSIVO - Leoluca Bagarella prende a pugni un agente della penitenziaria. Lirio Abbate su L'Espresso il 20 luglio 2021. Le immagini parlano, e ci fanno toccare con mano la violenza di cui è capace un boss detenuto che riesce ad aggredire a mani nude, senza alcuna apparente ragione, un agente di polizia penitenziaria che lo stava accompagnando verso il cortile del carcere per l'ora d'aria. Una violenza a sangue freddo. Improvvisa. In cui ha la peggio un poliziotto dell’istituto di pena che riceve un violento gancio destro che lo centra al volto. Il detenuto è il corleonese Leoluca Bagarella, ha un centinaio di omicidi sulle spalle, compreso quello di donne e bambini. Esecutore materiale di delitti eccellenti, è fra gli stragisti che hanno sostenuto e organizzato gli attentati di Falcone e Borsellino e poi quelli di Roma, Milano e Firenze, accanto ai capimafia Giuseppe Graviano e Filippo Graviano. In carcere da giugno del 1995, dopo una lunga latitanza, la sua vita è tracciata da omicidi, bombe e misteri, fra cui quello della morte di sua moglie, il cui corpo è stato fatto sparire dal boss. Oggi, nonostante i suoi 79 anni, le immagini ci mostrano come Leoluca Bagarella è un leone che ruggisce, capace di essere brutale, prendendo a pugni un agente, proseguendo la sua ira su altri due poliziotti che intervengono subito in difesa del collega e fanno fatica a placarlo. E si vede come gli agenti in servizio in queste strutture carcerarie sono ben addestrati e preparati, e sanno come bloccare con professionalità un detenuto senza usare violenza, evitando di fargli male. Queste immagini sono allegate all'informativa di reato inviata alla procura della Repubblica di Sassari, territorio in cui ricade il carcere di Bancali dove è detenuto Bagarella, redatta un paio di mesi fa quando si è verificata l’aggressione. Bagarella non è nuovo a questi episodi, alcuni mesi fa aveva preso a morsi un agente del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria mentre lo stava accompagnando nella sala videoconferenza da dove avrebbe dovuto partecipare ad uno dei processi in cui è imputato. E in precedenza aveva lanciato in faccia ad un agente olio caldo. In questo modo il boss corleonese, che è stato cognato di Salvatore Riina, viene emulato da altri criminali, i quali tentato di aggredire gli agenti in carcere, che subiscono, ma non reagiscono. Il quasi ottantenne boss corleonese è strategicamente lucido, appare ancora forte come un toro, e violento come i mafiosi sanno essere. E le immagini lo dimostrano.
Filippo Di Giacomo per "il Venerdì - la Repubblica" l'1 giugno 2021. Il 9 maggio il giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia nel 1990, è diventato beato. Dopo don Pino Puglisi, portato sugli altari il 25 maggio 2013, davanti a una folla di circa centomila fedeli, è il secondo "martire della Chiesa" riconosciuto tale perché vittima della mafia. Mancano all' appello don Peppe Diana, ucciso a 38 anni il 19 marzo 1994, a Casal di Principe, mentre si accingeva a celebrare la Messa, e don Cesare Boschin, parroco di Borgo Montello in provincia di Latina, misteriosamente assassinato il 29 marzo 1995 perché si opponeva alle infiltrazioni della camorra nel Lazio. Nonostante la loro vita specchiata, dopo la morte, tutti e quattro sono stati vittime di racconti calunniosi, anche da parte di legulei in toga e in uniforme. Oltretutto, don Boschin aveva 81 anni e fu ritrovato morto sul suo letto incaprettato e vestito di tutto punto, talare compresa. La causa per la morte di Rosario Livatino era caduta in queste e altre sabbie mobili fino a quando, dopo numerose sollecitazioni, da Casa Santa Marta è partita l'indicazione di rivolgersi a un vaticanista noto al Pontefice per trovare una testimonianza dirimente. Compito che il professionista ha assolto rintracciando, contattando e convincendo a deporre uno dei quattro mandanti dell'omicidio. È stato questo interrogatorio (al quale il giornalista era presente) a contenere gli elementi decisivi, hanno scritto gli esperti della Congregazione, perché fosse processualmente riconosciuto al giudice di essere stato ucciso «in odium fidei». La cosa strana è che in un libro, prefato da papa Francesco, il lavoro del giornalista viene taciuto e appaiono i nomi di due-tre personaggi che se ne attribuiscono il merito. Come se al "giudice ragazzino", oltre ai colpi sparati da chi spaccia droga e morte, toccasse subire anche quelli di chi spaccia fake news.
Ucciso dalla mafia a 38 anni. La storia di Angelo Rosario Livatino, il giudice ragazzino proclamato beato: il killer tra i testimoni. Giovanni Pisano su Il Riformista il 9 Maggio 2021. “Accogliendo il desiderio del cardinale Montenegro, concediamo che il venerabile servo di dio Angelo Rosario Livatino d’ora in poi sia chiamato beato e che, ogni anno, si possa celebrare la sua festa il 29 ottobre”. Ammazzato dalla mafia il 21 settembre 1990, il giudice Livatino è stato proclamato beato nel corso di una cerimonia celebrata nella cattedrale di Agrigento con la camicia indossata dal beato il giorno in cui venne ucciso collocata in una teca della cattedrale. Il 19 luglio 2011 è stato firmato dall’arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, il decreto per l’avvio del processo diocesano di beatificazione, aperto ufficialmente il 21 settembre 2011 nella chiesa di San Domenico di Canicattì. Durante la fase diocesana hanno testimoniato 45 persone sulla vita e la santità di Rosario Livatino, e tra questi anche Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer mafiosi del giudice, intervistato in carcere dal giornalista canicattinese Fabio Marchese Ragona per il settimanale Panorama nel dicembre 2017 e per il Gruppo Mediaset TGcom24 nel settembre del 2019. “Il giudice Livatino lavorava per tutti quei giovani che si erano persi nell’abbraccio mortale della criminalità. Lavorava, quindi, anche per me, per vedermi libero e vivo. Io non l’avevo capito”,ha recentemente dichiarato l’uomo, condannato all’ergastolo. Il giudice a poche settimana dal suo 38esimo compleanno (era nato il 3 ottobre 1952). Era il 21 settembre 1990 e Rosario Livatino, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, dal piccolo comune di Canicattì, dove viveva, si stava recando al tribunale di Agrigento quando fu avvicinato e ucciso da un commando di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa nostra. Il giudice venne affiancato da una Fiat Uno e da una motocicletta di grossa cilindrata e costretto a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino ha tentato una disperata fuga, ma è stato bloccato. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato; da Palermo l’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, e da Marsala Paolo Borsellino. Rimane ancora oscuro il vero contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, furono uccisi il presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo Antonino Saetta e il figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo, mentre, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo. In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino è stato ammazzato perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.
“Martire della giustizia e della fede”. Giovanni Paolo II lo definì “martire della giustizia e indirettamente della fede”, quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, aggrappato al Crocifisso, lanciò il suo grido di pastore e profeta, in un contesto dilaniato dalle stragi e dalle faide di mafia e caratterizzato da posizioni ancora troppo timide da parte delle istituzioni, Chiesa compresa. Poco prima Wojtyla aveva incontrato i genitori di Livatino, papà Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell’esattoria comunale, e la mamma Rosalia Corbo. Per don Giuseppe Livatino, primo postulatore del processo di beatificazione nella Diocesi di Agrigento, apparve “subito chiaro che la storia e il miracolo di Rosario Livatino non rispondevano al cliché del ‘giudice ragazzino‘ che va incontro alla morte senza sapere e capire”. Livatino affronta “il sacrificio supremo nella piena consapevolezza perché erano già chiare le indiscrezioni che circolavano nell’estate del 1990”. Il sacerdote richiama soprattutto due episodi: “L’ultima frase, prima del colpo di grazia, guardando in faccia gli assassini che lo avevano inseguito: “Piccio”, che cosa vi ho fatto?’. Li richiama. Aziona l’arma del dialogo. Lascia un quesito che germoglia e lentamente porterà chi spara a pentirsi”.
“Giustizia è redimere che sbaglia e reinserirlo nella società”. “Nel corso di un regolamento di conti, un boss mafioso viene colpito a morte. A un ufficiale dei carabinieri tutto soddisfatto e gongolante accanto a quel corpo senza vita, Livatino dice: ‘Di fronte alla morte chi ha fede, prega; chi non ce l’ha, tace!’“. Per il religioso, Livatino è stato un giudice “giusto” in quanto “alla legge bisogna dare necessariamente un’anima, sosteneva. Spiegando che l’obiettivo della giustizia è redimere chi sbaglia e reinserirlo nella società civile”. Livatino conseguì la laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo il 9 luglio 1975 a 22 anni col massimo dei voti e la lode. Nella sua attività si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la ‘Tangentopoli siciliana‘ e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni. La sua storia è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro “Il giudice ragazzino”, titolo che riprende la definizione di Francesco Cossiga. “Livatino e la sua storia – scriveva Dalla Chiesa – sono uno specchio pubblico per un’intera società e la sua morte, più che essere un documento d’accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d’accusa contro il complessivo regime della corruzione”.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
L'omicidio di "Nino D'Angelo" e lo scontro Silenzio-Formicola a Napoli est. Camorra e tradimenti, boss esce dal carcere e vendica le corna: donna giustiziata e case popolari al suo clan. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'1 Dicembre 2021. L’ha fatta inginocchiare e ha sparato cinque volte, colpendola prima al petto, poi, con ben tre proiettili, alla testa. Uccisa, giustiziata davanti a tutti per vendetta, per lavare con il sangue l’onore di uomo tradito dalla moglie (che poi lo ha lasciato) mentre era in carcere, e per riaffermare nuovamente il predomino della sua organizzazione. E poco importa se la vittima, Annamaria Palmieri, detta Nino D’Angelo (per la somiglianza al cantante napoletano) o anche ‘a Masculona (per i suoi atteggiamenti maschili, ndr), stesse portando da mangiare proprio al figlio di chi, di lì a poco, l’avrebbe barbaramente ammazzata. Le corna, o presunte tali, superano tutto. E così Franco Silenzio, 46 anni, scarcerato da appena un mese, la sera del 22 gennaio 2018 avrebbe consumato così la sua vendetta contro il clan alleato, quello dei Formicola di San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli. Si presentò intorno alle 20 nel “Bronx” insieme a un gruppo di fidati sodali. Voleva cacciare dalle case popolari i familiari della moglie, Assunta Formicola, figlia del boss Ciro (detenuto da anni). Minacciò abitazione per abitazione i parenti acquisiti, poi approfittò del rientro in via Taverna del Ferro di “Nino D’Angelo”, la trascinò per le scale fino in strada e la finì davanti a tutti. La donna aveva 54 anni ed era una persona di fiducia della famiglia Formicola. Accompagnava Maria Domizio e Assunta Formicola, rispettivamente moglie e figlia del boss Ciro, ai colloqui in carcere. Per Silenzio, stando a quanto emerso nelle indagini grazie alle testimonianze anche dei collaboratori di giustizia, non poteva non essere a conoscenza, così come il resto della famiglia, dei tradimenti della sua donna (Assunta) mentre era detenuto. Così il boss tradito portò a termine il suo piano, costringendo successivamente i parenti della coniuge a lasciare le case popolari del “Bronx”, ‘assegnate’ ai suoi fedelissimi, tra cui il nipote Demetrio Morra, 23 anni, al quale toccò l’abitazione della moglie di Silenzio, allontanata in maniera violenta. Un segnale di affermazione sul clan Formicola con il quale era in corso un’alleanza da anni (fino al 2012 sotto l’orbita del clan Mazzarella, poi il passaggio nell’Alleanza di Secondigliano). A distanza di quasi quattro anni le indagini della Squadra Mobile di Napoli (sezione criminalità organizzata guidata dal vice questore Andrea Olivadese), coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia, hanno fatto luce sul brutale omicidio e sui traffici illeciti del clan Silenzio. Una indagine, portata avanti con attività investigativa, intercettazioni e dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (quest’ultimi hanno di fatto confermato un movente già noto sin dalle ore successive all’omicidio Palmieri) culminata nelle scorse ore con l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip Chiara Bardi, nei confronti di 26 persone, ritenute gravemente indiziate di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso e di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, nonché, per alcuni di essi, dei delitti di omicidio, detenzione e porto di armi da sparo, ed estorsione.
Ventiquattro le persone finite in carcere, due ai domiciliari. Cinque quelle che, al momento dell’esecuzione dell’ordinanza, erano già detenute. Un ordine di sfratto dalle case popolari dovuto sia al tradimento della moglie di Silenzio che a un debito non saldato dai Formicola. Un ingente somma di denaro secondo quanto ricostruito dagli investigatori. “Ti sparo in faccia“, queste le parole rivolte da Silenzio ai coniugi Vincenzo Formicola e Annunziata Puccinelli, il primo legato da vincoli di parentela con Assunta Formicola. Il 46enne si recò personalmente davanti alla casa di Vincenzo Formicola per obbligarlo a lasciare l’abitazione che gli era stata legittimamente assegnata e dove vive con la moglie: “Se scendi giù – gli ha urlato il boss dal pianerottolo del primo piano – ti devo sparare in faccia, ti devo scaricare l’intero caricatore della pistola in faccia”, “ti devo fare andare via dall’abitazione, come ho fatto con altre persone”. I coniugi si sono rivolti successivamente alle forze dell’ordine dando un contribuito importante alle indagini.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
L’amore al tempo della mafia. Enrico Bellavia su L'Espresso il 30 novembre 2021. Una donna in carriera e un uomo di borgata al centro di un’inchiesta di Cosa nostra. “Negazione”: un romanzo su una storia vera, in una Palermo contraddittoria. Alba, buona famiglia, un matrimonio agli sgoccioli, incontra Sandro, sposato e self made man di borgata. Iniziano una relazione quando lui finisce travolto dall’accusa di mafia e omicidio e si dà alla latitanza. Lei, da amante, diventa confidente e investigatrice spregiudicata. Un passo falso porta alla luce l’intreccio. Ma nulla è come sembra. Sullo sfondo, la doppiezza di una città, Palermo, e le sue contraddizioni. Tratto da una storia vera, «Negazione», del giornalista de L’Espresso Enrico Bellavia, edito da Laurana, sarà in libreria dal 2 dicembre. Pubblichiamo qui un estratto. L’aula bunker, dentro il carcere dell’Ucciardone, mi appare gigantesca rispetto a come l’ho vista in tv e per quanto si sia radunata una discreta folla di avvocati, parenti e detenuti a piede libero, appare vuota. Prendo posto tra il pubblico. Ascolto parlare di lui i suoi avvocati per l’arringa finale. Usano parole molto belle, non sfiorano mai l’argomento dello scambio di persona. L’avvocato Di Patti spesso alza lo sguardo verso di me, sembra voglia chiedermi: «Ma che ci fa lei qui?». Comprende che sono finita in una situazione più grande di me. Poi i giudici si ritirano in camera di consiglio e non rimane altro da fare che aspettare. Le posizioni da vagliare sono tante, ma il mio unico interesse è per il destino di Sandro. Sono entrata nel primissimo pomeriggio. Le prime ore sono volate via rapidamente. Poi l’attesa diventa snervante. Il tempo lo impiego a cogliere i segni premonitori della fine della camera di consiglio. Un trambusto, un frenetico muoversi del cancelliere, un agitarsi dei parenti degli altri imputati può tradire l’imminenza della pronuncia. Al contrario, i giudici sbucano senza preavviso. Gli avvocati balzano in piedi e cade il silenzio. La lettura del dispositivo brucia via altri minuti. Sento pronunciare il suo cognome e poi il suo nome, letti gli articoli, visti gli atti, condanna l’imputato ad anni otto di reclusione. Una schioppettata. Secondi che sono ore. Un tempo infinito. Calcolo che quando lui avrà finito di scontare quella pena io avrò superato abbondantemente i quaranta. (...)
Lo avevo sentito nel pomeriggio.
«Vedrai andrà benissimo, sono fiducioso». Si era preparato per festeggiare la vittoria. «Si accorgeranno dell’errore che stanno commettendo, stai tranquilla, stasera andiamo a cena fuori», mi aveva ripetuto al telefono durante l’attesa della sentenza.
All’uscita dall’aula mi avvicinai agli avvocati. Uno di loro fece una smorfia. L’altro riuscì a dire: «Mi dispiace, non lo meritava». Il primo aggiunse: «Tecnicamente è già latitante». In quel momento il mio telefono prese a squillare. «Otto, sono otto», pronunciai costernata.
Lui gelido replicò: «Non c’è nulla da festeggiare, allora. Ti chiamo dopo, tu aspetta ancora un po’ e fatti dare il dispositivo».
Avrei voluto dirgli: «Decidi quello che devi fare». In realtà, avrei voluto dirgli mille cose, immaginando che fosse l’ultima volta che lo avrei sentito, qualunque fosse stata la sua scelta.
Presi il dispositivo, come mi aveva chiesto, raggiunsi il parcheggio. (...)
Sandro da uomo libero a ricercato, è successo in pochi istanti, il tempo necessario a pronunciare quelle due parole: anni otto. Come un automa raggiungo l’interno del negozio per dare il dispositivo della sentenza a Matteo. Sono distrutta ma decisa a non tradire alcuna emozione. Il clima è teso, lì sono tutti preoccupati ma si stanno già riorganizzando. Sandro è un riferimento importante per gli equilibri familiari, in ogni caso determinante. Sento Anna che parla al telefono con Matilde, la moglie di Sandro, la consola. «Non ti preoccupare, non sei sola», le dice. «Ti aiuteremo noi, ti insegneremo a guidare la macchina. Antonio, tuo figlio, è grande, ti aiuterà anche lui».
Reggo fino alla fine e quando già sono passata ai saluti, il telefono squilla di nuovo. È lui. Non dovrebbe, non deve.
Sembra allegro, un’altra persona. Mi dice di vederci subito al solito posto.
Ho voglia di piangere. Balbetto un: «Puoi?»
«Ti voglio salutare, non posso non farlo», dice con la sua voce di sempre, sicura e fiera. «Ti aspetto qui».
Il fratello e il padre di Sandro e gli altri ammessi al mio racconto dell’udienza si lanciano un’occhiata e affrettano i convenevoli. Daniele mi accompagna all’auto: «Stai attenta».
Dopo un paio di chilometri sono al «solito posto». È il bar sulla strada di casa mia e anche della sua. Il luogo dei nostri appuntamenti. Un posto comodo all’inizio e alla fine delle nostre giornate, il luogo che non c’è bisogno di nominare. Lui è lì, come sempre. Camicia bianca e jeans, abbronzato, bellissimo. «Andiamo, prendiamo un caffè».
«Sandro, non puoi, forse non ti rendi conto, è affollato, potrebbero essere già qui».
«Devo salutarti, non so quando potremo rivederci, ma intanto prendi questo». È un telefono con un carica batterie. «Ti chiamerò su questo, non so quando sarà possibile, ma lo farò non appena mi sistemo. Tu non chiamarmi, io ti cercherò da un nuovo numero. E quello sarà il mio recapito. Tu tienilo sempre acceso».
Afferro la busta con dentro il telefono e scendo dall’auto. Prendiamo un caffè, lo osservo a lungo, voglio imprimermi nella mente ogni gesto, ogni dettaglio, sicura che è l’ultima volta che posso vederlo. È chiaro che ha pianificato tutto nei dettagli ma intende dargli i connotati di condizione normale che, a parte qualche inevitabile limitazione, in alcun modo cambia il corso della nostra vita. Lui è disinvolto. Io atterrita dalla dimensione nella quale già vivo, ma, cosa più strana, al punto in cui sono, non ho alcuna intenzione di uscirne. (...)
Lo vedo salire su una Cinquecento, una delle sue tante auto e scartare subito a destra per una via che non conosco e che, passandoci davanti, a me sembra essere l’ingresso di una villetta. Saprò molto tempo dopo che si è accorto di una macchina della polizia in borghese e ha dato corso al piano B. Per quel viottolo ha raggiunto il retro di un’officina, mollato l’auto e ripreso la strada maestra con un’altra che ha tenuto in custodia da un meccanico che non gli ha chiesto nulla e lui, che quelle strade le conosce a menadito, è ricomparso sicuro di aver seminato chi lo stava seguendo.
Negazione, di Enrico Bellavia, Laurana 2021
L'ultima di Saviano: "Combattete la mafia tradendo vostra moglie". Il Tempo il 19 novembre 2021. Tradire la moglie? Ribellarsi ai "vecchi vincoli familiari" praticando l'amore libero? E' l'ultima provocazione di Roberto Saviano, che si scaglia contro la famiglia tradizionale in un delirio che farebbe impallidire il senatore Pillon, quello del Family Day. Ma andiamo con ordine. L'autore di Gomorra affronta il tema nel suo ultimo, lunghissimo articolo per il Corriere della sera. L'argomento è il modo in cui la mafia e le organizzazioni criminali in genere hanno sempre vissuto il tema della sessualità. Applicando tra le regole più stringenti quella della monogamia. Se si litigava per soldi, sostanzialmente, si doveva cercare di mettersi d'accordo. Ma se un affiliato aveva un amante o praticava altri comportamenti sessualmente riprovevoli per Cosa nostra (vedasi l'omosessualità) poteva essere giustiziato senza neanche il bisogno di chiedere il permesso al boss. Un destino che, in particolare, riguardava le poveri mogli di mafiosi carcerati che cercavano consolazione e compagnia tra altre braccia e che poi, invece, puntualmente trovavano la morte. Talvolta per mano dei loro stessi familiari, ansiosi di intestarsi la "pulizia" morale. Saviano racconta una serie di episodi criminosi al riguardo, partendo dal famoso confronto in tribunale tra Riina e Tommaso Buscetta, quanto Totò 'u curtu si tirò indietro all'ultimo momento giudicando il pentito moralmente non alla sua altezza, perché "ha avuto troppe amanti". Insomma, uno stragista poteva perdonare un omicidio, un furto. Ma non una scappatella. L'articolo è godibile e ricco di riferimenti. Il finale, però, è spiazzante. Se la mafia sostiene la monogamia, il modo migliore di ribellarsi a Cosa nostra è rifiutare la stessa monogamia. Per evitare di equivocare, si riportano le parole dello stesso scrittore: "La prima scelta contro la prassi mafiosa è rompere le sue regole, scardinare la sua aberrazione moralista, smontare nel vivere quotidiano i meccanismi socialmente accettati che risultano da concime al potere criminale. Scegliere la vita, la sessualità libera di vincoli, un corpo non assoggettato dalla morsa della convenzione è un atto antimafia. Anzi: è l’atto antimafia". Nella peggiore delle ipotesi, può diventare l'autodifesa perfetta: "Cara, non è come pensi. Non ti stavo tradendo. Stavo combattendo la mafia".
Roberto Saviano per il "Corriere della Sera" il 19 novembre 2021. Palermo, novembre 1993. Totò Riina è seduto nella gabbia dell'aula bunker dell'Ucciardone. Il presidente della corte ha appena accolto la richiesta di quello che si prefigura come un confronto epico: quello tra l'ex capo dei capi di Cosa nostra, arrestato pochi mesi prima, e il più importante pentito di mafia, quel Tommaso Buscetta cui Riina ha massacrato la famiglia. Riina ha uno scatto. Si agita, chiede la parola. E a sorpresa, dopo averlo richiesto, rifiuta il confronto. «Non è un uomo adatto a me», dice. «Non è della mia statura, è un uomo che ha troppe amanti». Per capire come la regola monogamica sia sempre stata il pilastro di quella mafiosa - l'ossatura su cui costruire la catena di vincoli che strozzano la vita di ogni affiliato e ogni territorio - non si può che partire da qui. Dal momento in cui l'uomo che diede l'ordine di uccidere Falcone e Borsellino decide di accusare chi lo accusa non di essere un ciarlatano, un golpista, o un assassino (e poteva dirlo: Buscetta aveva ucciso). No, l'accusa è quella di essere un uomo «con troppe mogli».
LA «MORALITÀ» DA BOSS
Per qualche strana ragione, dovuta soprattutto alle rappresentazioni americane delle organizzazioni criminali, è pensiero comune che i boss siano uomini dissoluti, donnaioli. Eppure nelle organizzazioni criminali italiane la monogamia è ancora l'elemento fondante per misurare valore e affidabilità degli affiliati: ogni violazione basta per decretare una condanna a morte. A rivelare le regole è stato lo stesso Buscetta: in Cosa nostra non si entra da divorziati o figli di divorziati, né c'è posto per chi frequenta prostitute, ha «amanti», è stato iscritto al partito fascista o al Pci, fa uso di droghe, è omosessuale. Per questo, davanti ai giudici esterrefatti, Riina parla con voce ferma della sua «moralità»: «E parto», dice, «dalla mia famiglia. Mio nonno è rimasto vedovo a 40 anni e aveva cinque figli con papà, e non ha cercato più moglie. Mia madre è rimasta vedova a 33 anni. Noi viviamo, nel nostro paese, di correttezza morale». (Il confronto, poi, prima di bloccarsi per via di Totò u Curtu ebbe un breve svolgimento e Buscetta disse a Riina: «Quest' individuo può parlare di moralità quando ha ucciso tanta gente innocente. Dov' è la tua moralità, Riina? Perché sono andato a letto con tua moglie? Io lo so perché. Tu eri troppo preso a seguire le tue cose mafiose... a diventare la star di Cosa Nostra, quindi non ti preoccupasti delle donne...»). La regola monogamica assoluta non è limitata solo a Cosa nostra. Il boss Paolo Di Lauro decretò, per l'organizzazione camorristica secondiglianese, vincoli chiari. Non ci si uccide per soldi: quando ci sono problemi economici si convoca una riunione tra vertici e si prova a negoziare. Non ci si uccide se c'è un conflitto territoriale con un'altra famiglia, a meno che non sia stata l'intera camera formata dai vari boss a dare l'autorizzazione. Per la camorra secondiglianese riformata da Di Lauro in un caso si può uccidere senza chiedere permesso: uno solo. Quando un uomo ha una relazione fuori dal suo legame, e corteggia la donna di un altro affiliato. In quel caso l'esecuzione è lecita, con la sola clausola di portare delle prove. La regola della monogamia In tutte le organizzazioni mafiose è persino il corteggiamento ad essere vietato. Nel 2001, nel Casertano, Domenico Bidognetti ordina l'eliminazione di Antonio Magliulo perché aveva osato corteggiare una ragazza nonostante fosse sposato: lo fa legare su una sedia, in spiaggia, e dinanzi al mare gli fa riempire bocca e narici di sabbia, fino a strozzarlo. Gaetano Formicola, all'epoca 21enne, scopre che un suo amico, Vincenzo Amendola, ha iniziato a inviare a sua madre messaggi che vengono considerati come avances. L'idea che la madre possa avere una «sessualità» è intollerabile, come lo è il pensiero che il padre, carcerato, possa venirlo a sapere. Attira Vincenzo in campagna, lo fa inginocchiare, gli spara in testa. È la fame mafiosa di possesso a determinare la necessità di una regola monogamica priva di eccezioni. E in una società dove la morale sessuale ha fatto progressi minimi (come racconta quel piccolo capolavoro intitolato Ancora Bigotti. Gli italiani e la morale sessuale, di Edoardo Lombardi Vallauri, pubblicato da Einaudi), le mafie usano i comportamenti sessuali dei loro obiettivi per delegittimarli.
LA MAFIA E LE RELAZIONI PROIBITE.
Sanno che se la nostra vita sessuale è resa pubblica ci espone alla derisione. Qualsiasi vita sessuale, anche la più ordinaria, resa pubblica, appare grottesca. Per questo, nelle organizzazioni criminali, prima di arrivare alle pistole si delegittima; quando si deve agire contro qualcuno, la prima cosa che si usa è l'insinuazione, prima scherzosa e poi più pesante, il sospetto di tradimento, della violazione della monogamia. Alcune organizzazioni decidono di eliminare chi ha «tradito»; altre fanno fuori entrambi gli «amanti». La decisione è presa in base al caso specifico: si uccide la donna quando «poi se ne sceglierebbe un altro» (sono parole di Marchese, boss di Cosa nostra); si uccide solo il «traditore» maschio quando si pensa di poter così interrompere la «vergogna» dando una lezione di morale al territorio ma salvando la moglie, la figlia, la sorella. In ogni caso, aleggia una sorta di solidarietà criminale, tra tutte le famiglie, che fa eliminare gli «amanti» di mogli e fidanzate degli affiliati in carcere. Chi tocca una donna che ha il compagno detenuto deve morire: pena il rischio che tutti i carcerati diventino «cornuti». È successo a Rocco Anello, capo della 'ndrina di Filadelfia, in provincia di Vibo Valentia. Sua moglie, Angela Bartucca, rimasta sola in giovane età col marito in carcere, ebbe una storia con Santino Panzarella. Quando gli uomini del clan se ne accorsero lo pestarono a sangue e lo chiusero nel bagagliaio di un'auto in attesa di liberarsi del corpo. Ma lui era ancora vivo, quando riaprirono il cofano allungò una gamba per evitare che richiudessero: gliela spezzarono sbattendoci contro il portellone e gli spararono in faccia. Era il 2002, Santino aveva 27 anni. Bartucca ebbe un'altra storia con Valentino Galati, ex seminarista. Quando fu scoperto Galati scrisse ad Anello: «So che questi errori si pagano con la morte, venga a uccidermi perché so che sarà questa la vostra decisione». Ancora: pochi mesi fa Antonio Abbinante, boss dell'omonimo clan di Scampia, aveva già scavato la fossa dove seppellire un uomo, poi salvato dagli inquirenti, che aveva avuto una relazione con la moglie di un recluso. E Maria Buttone, moglie del boss di Marcianise Domenico Belforte, lo costrinse a uccidere Angela Gentile, con cui aveva intrecciato anni prima una storia. Da questa donna Belforte aveva avuto una bambina, 13enne all'epoca dell'omicidio: la Buttone la accolse in casa, ma la madre della ragazza doveva sparire, per lavare il nome della famiglia. La «questione di genere» Come tutte le morali repressive, negli uomini la violazione della monogamia è maggiormente tollerata. A due condizioni: che il tradimento avvenga in assoluta segretezza e che si rimanga incasellati nei ruoli tradizionali di maschile e femminile. Ferdinando Caristena, commerciante di 33 anni di Gioia Tauro, aveva iniziato una relazione con la sorella del cognato del boss Mimmo Molè. Tutto procedeva bene: ma prima delle nozze emerse che, in passato, Caristena aveva avuto relazioni anche con uomini. Fu lui stesso ad ammetterlo con i suoi assassini: fu ucciso nel maggio 1990. Sul «tradimento» femminile si articola il potere di vendetta e intimidazione di un cartello. Angela Costantino aveva 25 anni e 4 bambini. Il marito 'ndranghetista Pietro Lo Giudice era nel supercarcere di Palmi: è destinato a rimanerci anni. Lei inizia a frequentare un uomo. Non vuole lasciare il marito: cerca solo passione, tenerezza. Quando i parenti del marito la scoprono viene strangolata. Era il '94, il corpo fu fatto sparire. Rosalia Pipitone, ventenne, moglie e madre, fu uccisa durante una rapina nel 1983, a Palermo. Anni dopo un pentito, Francesco di Carlo, spiegò che la rapina era una copertura: era Lia - «nata per la libertà, morta per la sua libertà» - il vero obiettivo. Quando Ciccio Madonia convocò il padre mafioso di Lia, Nino Pipitone, dichiarandogli la necessità di uccidere la figlia, «colpevole» di tradimento, fu lo stesso genitore della ragazza a convocare l'uomo che avrebbe portato a termine l'esecuzione. Il giorno dopo verrà inscenato il suicidio dell'«amante» di Lia, scaraventato dal balcone. E ancora: Giuseppe Lucchese fece uccidere nel '84 la cognata, nel bar Alba di Palermo, perché «si lasciava corteggiare» mentre il marito Antonio era in cella. Nel 1982 aveva ucciso la sorella, Pina, perché seppur sposata aveva una relazione con un cantante neomelodico, Giuseppe Marchese, che fu incaprettato. Non deve stupire che spesso a decretare la condanna sia la famiglia della donna «fedifraga»: ordinare la morte del proprio congiunto significa intestarsi la pulizia e mostrare che nulla è perdonato a chi viola il codice d'onore. Come avvenuto nel '95 ad Alessandro Alleruzzo, figlio del boss Santo detto «a' vipera», che guidava il gruppo di Paternò di Cosa nostra. La sorella Nunzia, lasciato il marito, aveva deciso di non avere una nuova relazione esclusiva. Alleruzzo la portò in campagna, la rimproverò per essere uscita con uomini diversi; poi - mentre era di spalle, non riuscendo a sostenerne lo sguardo - le sparò in testa. Alcune donne, in queste dinamiche di terrore, scelgono di farsi carnefici prima di diventare vittime: alla fine degli anni 80 il camorrista Nicola Nuzzo fu ucciso a martellate in una clinica romana su ordine della moglie, Carmela Frezza De Rosa. Nuzzo aveva scoperto che lei aveva una relazione con il medico di famiglia: la donna temeva la vendetta su di sé e i figli. L'«onore» camorristico della famiglia fu vendicato dal fratello di Nuzzo, Raffaele, che fece uccidere il medico. Sono comportamenti estremi, certo. Ma la premessa per l'esistenza di una morale mafiosa è la capillarità di una morale repressiva - «ancora bigotta» - nella società. Una morale per cui il sesso è male, va praticato in circostanze limitate, riscattato col sentimento dentro un impegno monogamico. Se le mafie sono strutturate sempre intorno all'ossessione monogamica, se i boss sentono il proprio potere vacillare quando la monogamia è violata, allora scegliere la vita, la sessualità libera dai vincoli, un corpo non assoggettato dalla morsa della convenzione è un atto antimafia. Anzi è l'atto antimafia.
· I Mafiologi.
Ma a che serve questa commissione antimafia? La sua utilità si è ridotta a concedere ad un parlamentare che ha peso, ma meno peso di tutti gli altri parlamentari che hanno peso, il titolo di Presidente e, insieme al titolo, tutte le prebende annesse e connesse. Aldo Varano su Il Dubbio l'8 dicembre 2021.
UNO. Ormai da tempo studiosi ed esperti nelle loro analisi distinguono con nettezza la “condizione di sicurezza” di un paese, che misurano sulla base di dati oggettivi e verificabili, dalla “percezione di sicurezza” che ne hanno i suoi abitanti. Per esempio in Italia in pochi, se interrogati, si rendono conto di vivere in uno dei paesi più sicuri del mondo grazie ad una drastica riduzione dei reati più gravi che si consumavano nel Belpaese nei decenni scorsi. Questa tendenza, in Italia più accentuata rispetto ad altri luoghi, si colloca all’interno di un processo mondiale che negli anni scorsi il sociologo Pino Arlacchi, il teorico di “mafia imprenditrice”, intervistato dal Corsera, ha spiegato e definito di “ingentilimento progressivo del Pianeta”. In Italia tutti i reati, o quasi, a cominciare da quelli più gravi e devastanti, sono clamorosamente precipitati. Nel 2017, anno per il quale c’è un dato certo grazie allo svolgimento definitivo di indagini e processi, gli omicidi sono stati 368. Un numero inaccettabile per i luoghi avanzati della coscienza civile del nostro presente storico. Ma niente di paragonabile neanche lontanamente ai 1938 ammazzati nell’anno 1991. Ed è straordinaria la circostanza che da allora in Italia abbiamo iniziato a scendere sempre di più e sempre più rapidamente. Ovviamente, la contrazione progressiva, talvolta addirittura precipitosa, del più grave inquietante e inaccettabile dei reati, è connessa ai colpi subiti dalle organizzazioni criminali in Italia a cominciare da Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra che sono state drasticamente ridimensionate nella loro furia omicida. Insomma, siamo stati bravi anche a farci spingere dai sacrifici e dal sangue di forze dell’ordine, magistrati, uomini di giustizia, uomini e donne di buona volontà. Nel 2020 anno della pandemia, atteso con grandi paure e preoccupazioni per la fosca previsione dello scatenarsi di istinti incontrollabili, gli omicidi complessivi (dato provvisorio) sono crollati a 271, tra questi e in crescita, 112 femminicidi e, secondo il trend degli ultimi anni, 28 attribuiti alle mafie. Si può fare di più e meglio. Ma intanto, sulla base dei dati odierni verificabili (la “condizione di sicurezza” di un paese) l’Italia è una delle nazioni più sicure del pianeta. Anche il paragone tra l’Italia e gli altri paesi europei (e l’Europa sulla base dei dati è il continente più sicuro del mondo) mostra insospettabili successi dell’Italia. I paesi, secondo le convenzioni sociologiche internazionali, vengono confrontati rapportando il numero degli omicidi annui a ogni 100mila abitanti. L’Italia è allo 0,6 (cioè registra in media poco più di mezzo omicidio ogni 100mila abitanti). In Europa ci superano in virtù soltanto Lussemburgo, Repubblica Ceca e Cipro. Virtuosi quasi quanto noi sono invece Spagna, Portogallo, Grecia e Austria. Un po’ più indietro ancora, Olanda e Polonia. Abbiamo la migliore performance, cioè registriamo un tasso più basso di omicidi, rispetto a Francia (1,3), Regno Unito (1,2) Germania (1,3). Solo il Giappone (0,3) è più virtuoso di noi tra le nazioni del G8. E nel mondo, Europa a parte, solo la Cina registra l’identico 06 italiano. Impossibile il paragone col 5,3 americano (ogni cittadino di quel paese rischia dieci volte di più di un italiano, di morire ammazzato) o il 9,2 della Russia. Per non dire del 30,5 brasiliano o del 35,9 del Sudafrica. Ma tornando alla “condizione di sicurezza” del paese, bisogna subito ragionare sul fatto che gli omicidi non sono tutti uguali. Ci sono quelli degli uomini (omicidi) e quelli delle donne (femminicidi) e qui l’ingentilimento progressivo del pianeta sembra essersi bloccato. Infatti in Italia gli uomini ammazzati diminuiscono mentre le donne uccise aumentano. In realtà, la drastica contrazione registrata nel trentennio che abbiamo alle spalle è interamente dovuta alla riduzione complessiva degli omicidi degli uomini (a partire dalle vertiginose quote degli omicidi di mafia) mentre è rimasta costante o è addirittura lievitata la quota dei femminicidi e delle donne uccise in ambito familiare e affettivo. Non è quindi infondata la conclusione che la più urgente emergenza italiana da affrontare, non sia più ormai a tempo quella mafiosa ma quella del femminicidio. Chiarificatrice la valutazione di Salvatore Lupo, forse lo storico italiano più autorevole rispetto alle mafie, che intervistato nei giorni scorsi da Errico Novi per questo giornale, ha osservato che “La violenza delle cosche è stata innanzitutto inframafiosa, e sappiamo come oggi l’incidenza degli omicidi legati al crimine organizzato sia diminuita nettamente: ora parliamo dei femminicidi, cioè di delitti legati a dinamiche sociali e sottoculturali”.
DUE. Se questo è il quadro che emerge dalla “situazione di sicurezza” del paese si rafforza la legittimità di una domanda. Serve ancora la Commissione nazionale antimafia, istituita per la prima volta nel nostro paese nel 1963 per una legislatura, e da allora rinnovata puntualmente, con una nuova legge a ogni inizio di nuova legislatura? L’interrogativo è antico, anzi vecchio, come sanno quanti hanno letto o studiato un classico sociologico di dimensione mondiale come La mafia Siciliana di Diego Gambetta (1992). Il sociologo che ha costruito la teoria della mafia come “industria della protezione privata” di attività illegali (forse l’unico schema imperniato su una lettura del fenomeno mafioso scardinato da ogni suggestione antropologica e quindi razzista), nell’introduzione del ’93 (per Einaudi Tascabili, firmata da Oxford dove Gambetta lavorava in quella università), annotava: “In passato l’apporto della Commissione non fu privo di ambiguità…”. Per poi concludere: “Si ha l’impressione che questo istituto – di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia (fatta nella società reale e non, ovviamente, nella Commissione, ndr) – sia servito come una palestra in cui le forze al governo permettevano all’opposizione di sinistra di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto”. E tralascio, perché non bisogna mai esagerare, le considerazioni e le ironie dirette o indirette sull’Antimafia sparse negli scritti e negli interventi di Giovanni Falcone. L’impietoso giudizio di Gambetta a trent’anni dall’istituzione della prima Antimafia appare oggi, passati altri trent’anni, educato e generoso rispetto a quanto è nel frattempo accaduto a quell’istituto. In realtà, l’esperienza dell’Antimafia, se si esclude il periodo, peraltro molto discusso e criticato in cui fu presieduta da Luciano Violante (uno dei pochi o forse l’unico magistrato a dimettersi dalla magistratura quando venne eletto in Parlamento), si ritrova per intero nella sferzante valutazione di Gambetta. Ma trent’anni dopo di allora (cioè 58 anni dall’inizio di questa vicenda, un periodo storico troppo lungo per non capire che tutto nel frattempo è cambiato) la Commissione sembra avere assunto una funzione ancora più inutile e priva di prestigio. Non servono infatti particolari ricerche specialistiche per verificare che l’Antimafia si è via via trasformata in una specie di ricovero per personaggi politici decaduti o emarginati, lì confinati perché sconfitti nello scontro politico interno al proprio partito, o perché considerati inadatti allo svolgimento di ruoli di rilievo e responsabilità. Senza voler mancare di rispetto ad alcuno dei presidenti degli ultimi anni, il loro succedersi alla guida della Commissione, via via sempre più degradata politicamente, racconta quel che è accaduto in modo impietoso. Il ministro dell’Interno senatore Pisanu (Fi) cade in bassa fortuna dopo le elezioni del 2013 nel suo partito per la strisciante e sottintesa accusa di aver malgestito le elezioni? Forza Italia lo marginalizza facendolo eleggere Presidente dell’Antimafia. Rosy Bindi, già ministra della Repubblica, viene rieletta alla Camera nelle liste Pd nonostante la guerra che le muove contro l’allora potente Matteo Renzi? Per lei niente ministero o ritorno al governo: si accontenti della presidenza dell’Antimafia. In passato, la Rifondazione comunista di Bertinotti, quando si era ormai appassita facendo tutti i guai possibili, non contava nulla ma aveva ancora voti utili alla Camera e in Senato? Il centrosinistra le rifila la presidenza dell’Antimafia. E ancora oggi: il pentastellato Morra è stato considerato dai capi dei 5s (chissà perché e forse ingiustamente, ma non lo sapremo mai) inadatto al ruolo di ministro, specie dell’istruzione, come avrebbe preferito? Anche lui Presidente Antimafia dove il Pentastellato, qualche dichiarazione a parte, non può fare danni. Ci sono giornali che ad ogni inizio di legislatura parlamentare pubblicano articoli (cambiando solo la data) per chiedere che si metta fine al cinismo che usa l’Antimafia per coprire qualche buco. Sempre inutilmente. A Roma un posto in più (con tutti i connessi) fa bene alla maggioranza, e anche all’opposizione. L’Antimafia serve a concedere ad un parlamentare che ha peso, ma meno peso di tutti gli altri parlamentari che hanno peso, il titolo di Presidente e, insieme al titolo, tutte le prebende annesse e connesse: supplemento di stipendio, autista, struttura e staff nei fatti alle dipendenze del Presidente per aiutarlo a far meglio il suo (in questo caso inutile) lavoro. Lo sanno tutti che le cose stanno così. Compresi i parlamentari che alla fine accettano di farsi nominare perché un titolo, l’autista, un aumento sia pur modesto dello stipendio, uno staff di persone è sempre meglio di un calcio negli stinchi.
La dirigente del Miur indagata. Caso Boda, nelle intercettazioni spunta Lirio Abbate: un passaggio di denaro al cronista antimafia? Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. Lirio Abbate, attualmente vice direttore de L’Espresso (sotto scorta da anni per minacce mafiose) entra nell’inchiesta Boda-Bianchi di Castelbianco. Una inchiesta che compie sei mesi. Mezzo anno è infatti trascorso da quando Giovanna Boda, dirigente e capo del dipartimento delle risorse umane del Miur è stata indagata per corruzione, insieme a due suoi collaboratori successivamente finiti ai domiciliari. Tre settimane fa Federico Bianchi di Castelbianco, editore della Dire, presidente della società italiana di ortofonologia, è finito in carcere. Custodia tramutata nei domiciliari dopo sei giorni, anche per un piccolo merito agli occhi del magistrato di sorveglianza: avrebbe iniziato a collaborare con gli inquirenti. La mole delle informazioni da confermare è notevole. Per i dati sin qui acquisiti, Boda avrebbe ricevuto promesse e utilità per un valore di oltre 500 mila euro in cambio di affidamenti pilotati per 23 milioni di euro. In mano a chi conduce le indagini al momento parziali ammissioni, riscontri probatori e una corposa messe di intercettazioni. Chi ha avuto accesso al materiale vi trova un elemento finora rimasto in ombra: i rapporti con i giornalisti, capitolo delicato e dolente. Giovanna Boda presta particolare attenzione alle campagne mediatiche. Agli articoli di stampa, alla televisione, alla percezione dell’opinione pubblica. Non per caso si muove sempre spalla a spalla con l’agenzia Dire. Ma non solo. Venendo in aiuto alla contestatissima immagine della ministra Azzolina, diventata bersaglio della satira e dell’opposizione, si fa alfiere delle sue relazioni con i media, in particolare stringendo accordi con le emittenti tv più attente al mondo della scuola e della politica. Sky Tg24 diventa oggetto di interesse di Giovanna Boda per la possibilità di offrire qualche tribuna televisiva più attenta a dar luce alla ministra. Ne aveva scritto senza sconti Carlo Tecce su L’Espresso del 11 settembre 2020: “La dirigente Giovanna Boda, capo dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali, ha intessuto la trattativa con Sky e poi ha elaborato la strategia sui media di più ampia diffusione. Come gli altri colleghi che si prendono cura dei ministri con spirito di nutrice, il capo dipartimento di Azzolina costudisce un vecchio segreto della politica: ciò che non esiste non si può realizzare, ma si può comunicare”. La comunicazione di Lucia Azzolina, in tempi di polemiche al calor bianco per la protratta chiusura della scuola e l’introduzione dei banchi a rotelle, divenne un ciclone: aveva superato Conte nell’elenco dei politici presenti a La7, è arrivata a una incollatura dalla presenza di Luigi Di Maio nei telegiornali Rai. Fino a quando quell’articolo de L’Espresso accese i fari, e insinuò anche qualche dubbio. Giovanna Boda non la prese bene. Oggi sappiamo come e quanto si diede da fare. Al punto da interessare una delle firme di punta del settimanale: Lirio Abbate. È Boda, in una conversazione intercettata con Bianchi di Castelbianco – parlandosi con la disinvoltura di sempre – che tira in ballo esplicitamente il nome del giornalista antimafia. Lo troviamo nero su bianco sui fogli della Procura. «Hai presente Lirio Abbate, il giornalista de L’Espresso?», dice lei all’amico. Bianchi le risponde senza enfasi: «Sì, più o meno». Boda precisa, in un crescendo di toni: «È il vice direttore de L’Espresso». Federico Bianchi di Castelbianco si fa assertivo. «Di quella storia dell’articolo che mi avevano fatto su di me, su Sky, te lo ricordi?», pungola lei. «Sì, come no», assicura lui. «Poi ho chiamato Lirio Abbate, lo abbiamo recuperato. Non ha più avuto niente…». E di nuovo Bianchi di Castelbianco: «Sì, come no?». Lei riassume la telefonata che dice di aver ricevuto, e la polizia giudiziaria trascrive: «Questo che cosa fa? In bel modo mi comunica che ha fatto un libro per le vendite a maggio sulle donne di mafia, (…) io in bel modo gli ho detto ‘sicuramente venderemo le copie ai ragazzi dell’aula bunker». Federico Bianchi di Castelbianco sbotta. «Oh, fermati! Adesso lui vuole i ventimila euro, te lo ricordi, no?». E l’altra: «Vuole…?». E lui: «Quindi c’è una …» a cui segue una parola che non viene captata. Riprende la Boda: «Però questi come dici tu sono utili». Lui conferma: «Certo». È lei a sottolineare il ruolo del giornalista antimafia: «Perché questo non è un deficiente, questo è il vice direttore. Direttore è Marco Damilano». Lui allora capisce che bisogna passare ai fatti, dare seguito a un’operazione bancaria. Si rivolge a lei per poter eseguire: «I dati come li prendo?», domanda. Lei fa il nome della persona che fa da tramite: «Sara». L’altro capisce e non replica altro se non: «Ok». Di questo dialogo, riportato nero su bianco sul brogliaccio della Procura, abbiamo chiesto conferma a Lirio Abbate, che non ha ritenuto di risponderci. A partire dalle cifre, dai bonifici, dagli accordi veri o presunti con il giornalista, sono ancora molte le ombre che i magistrati inquirenti dovranno portare alla luce. Da quanto emerge dalle carte c’è l’evidenza un rapporto diretto e quasi confidenziale tra Lirio Abbate e Giovanna Boda. Ed è naturale che vi fosse: è stata lei ad organizzare e gestire per dieci edizioni la Giornata della Legalità, quella kermesse per cui si affittava una nave da crociera a Civitavecchia, si imbarcavano studenti di Roma, poi si andava a Napoli, infine si attraccava a Palermo. Una iniziativa nella quale fu spesso coinvolto, con ruoli diversi, Lirio Abbate: una volta a Palermo, come relatore. Una volta a Roma, come il 23 maggio 2018 quando da UnoMattina, Rai Uno, commentava in diretta l’arrivo della nave da crociera in Sicilia. Peccato che adesso si stia indagando anche sugli esorbitanti costi di quelle giornate, che tra navi, feste e libri venduti, della legalità sembravano avere soprattutto l’insegna, come al negozio.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 4 giugno 2021. «Giovanni se ne è andato da Palermo perché non poteva più lavorare, perché il procuratore Giammanco non gli permetteva più di svolgere il suo lavoro come avrebbe voluto farlo». A dirlo, il 30 luglio del 1992 al Csm, è la sorella Maria Falcone. Il Csm, dopo la strage di via d'Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e dopo la diffusione di un documento firmato da otto pm contro Giammanco, decise di procedere a delle audizioni per capire cosa stava succedendo alla Procura di Palermo. «Non è compito mio indagare sul perché Giammanco ha operato questa strategia di non farlo lavorare. Io vi posso dire soltanto cosa Giovanni diceva in famiglia», aveva sottolineato la sorella in una deposizione rimasta per un quarto secolo secretata. Il perché Pietro Giammanco ostacolasse Falcone non lo sapremo mai. Il magistrato è morto nel 2018 senza che nessuno glielo abbia mai chiesto. Falcone si era sempre lamentato di subire umiliazioni e di non essere messo in condizioni di lavorare. La testimonianza della sorella di Falcone stride con le dichiarazioni dei colleghi del magistrato ucciso a Capaci e che in questi giorni lo ricordano come un grande investigatore e un precursore dei tempi per aver voluto la legge sui pentiti che permise di sferrare un colpo micidiale a Cosa nostra. Fra gli ex colleghi intervenuti nel dibattito c'è Giuseppe Pignatone che ha scritto un articolo per Repubblica dal titolo "La legge e il valore dei pentiti", commentando la liberazione di Giovanni Brusca, il killer che premette il pulsante che innescò l'esplosivo. Nel pezzo l'ex procuratore della Repubblica di Roma esprime parole di apprezzamento per la legislazione premiale in materia di collaboratori di giustizia «ispirata e fortemente voluta» da Falcone «sulla base delle esperienze palermitane».
Ecco, però, che cosa scriveva di Pignatone Falcone nei suoi diari.
18 dicembre 1990: «Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina (Michele, segretario della Dc, ndr), Mattarella (Piersanti, presidente della Regione) e La Torre (Pio, segretario del Pci, ndr), stamattina gli (a Giammanco, ndr) ho ricordato che vi è l'istanza della parte civile nel processo La Torre di svolgere indagini sulla Gladio (organizzazione promossa dalla Cia, ndr). Ho suggerito, quindi, di richiedere al giudice istruttore di compiere noi le indagini in questione. Invece sia egli sia Pignatone insistono per richiedere al giudice soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo».
10 gennaio 1991: «I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del giudice Grillo dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati per ordine di Curti Giardina (Salvatore, procuratore di Palermo prima di Giammanco, ndr) tre anni addietro con imputazione di peculato (per la pubblicazione dei verbali del pentito Antonio Calderone, ndr). Il giudice ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l'imputazione di peculato era cervellotica. Pignatone aveva sostenuto invece che l'accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di "furbizia" di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una "ardita" ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un'iniziativa assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina».
26 gennaio 1991: «Apprendo oggi da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte (Guido, ndr) si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara (segretaria di Licio Gelli, ndr). Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo (...)». A conferma della "effettiva" posizione di Pignatone all'interno della Procura di Palermo, prima, in contemporanea e dopo l'uccisione di Falcone, ci sono le sue dichiarazioni, secretate per anni, al Csm. «Per quanto riguarda quella parte del documento che sembra contenere una critica nei confronti del procuratore sono totalmente dissenziente (...) io esprimo un giudizio positivo sull'operato del procuratore», disse Pignatone. Ignazio De Francisci, altro pm palermitano ascoltato all'epoca dal Csm, raccontò che Giammanco si fidava solo di tre magistrati in Procura, uno era Pignatone. A trent' anni dalla morte di Falcone e Borsellino sarebbe l'ora, almeno, di una verità "storica" sulle stragi di mafia. La verità processuale, nel caso di Borsellino siamo al "quater", è lontana.
Contro la mafia leggiamo Sciascia. Antonio Ciniglio su Il Riformista il 14 Maggio 2021. Quando scrisse Il giorno della civetta negli anni in cui in Sicilia, per tanti, la mafia non esisteva, lo accusarono di vilipendere l’immagine del Mezzogiorno. Poi i negazionisti di allora ascesero a una casta superiore, divenendo “professionisti dell’antimafia”, e si chiosò che Leonardo Sciascia da Racalmuto fosse divenuto “mafioso”: affascinato, stregato dalla mafia. Accorsero tutti però ai suoi funerali nel tentativo di integrarlo forse nella “ufficialità del regime”. Tutti, tranne Marco Pannella che vent’anni prima gli aveva detto: «Siamo noi radicali ad aderire alla sua politica». Per Leonardo Sciascia, il figlio di Voltaire che non amava la tensione dei cortei, delle sirene, la terribilità, «la mafia si lotta con il diritto». Serve lo stato della ragione, la nonviolenza, il coraggio di scacciare qualsiasi forma di manicheismo. Chissà cosa avrebbe detto se, in viaggio con Nessuno tocchi Caino nelle regioni del Sud, avesse incontrato Pietro Cavallotti e le vittime delle misure di prevenzione che distruggono il sistema economico, sacrificando posti di lavoro, in territori già falcidiati dalla disoccupazione, o toccato con mano intere comunità amputate sulla base del semplice sospetto di mafia! Avrebbe sostenuto forse quello che sosteneva sempre e, per il quale, noi lo sentiamo eternamente “compresente” ai Laboratori di “Spes contra Spem” di Opera, Rebibbia, Voghera, Parma, Secondigliano: si abbandona la mafia se si approda a nuovi livelli di coscienza, non se si viene annientati dal diritto penale del nemico. Sciascia capì più di ogni altro il fenomeno mafioso, intuì che «il fine non giustifica i mezzi» ma che i mezzi prefigurano i fini, che un armamentario anti-mafioso bellico, marziale, diventi solo foriero di morte e disperazione. Comprese la mafia come la comprese Paolo Borsellino: i due si abbracciarono e sorrisero, uniti da una comune “filia”, appartenenza allo stesso sentire, mentre il sistema dell’informazione li voleva contrapposti e nemici. Dopo Aldo Moro, oggi è il turno di Leonardo Sciascia, un altro “testimonial” della campagna “Compresenza” che Ambrogio e Niccolò Crespi hanno realizzato per Nessuno tocchi Caino. Seguiranno nei prossimi giorni Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia. I personaggi di questi spot sono tutti morti che non sono morti, sono ancora vivi, compresenti accanto a noi. Questa campagna è un’occasione straordinaria per far riflettere il nostro Paese. Non è esercizio abusivo della memoria, ad esempio, appendersi la mostrina dell’intellettuale siciliano, battendosi il petto. È continuare a far parlare la sua voce, credere che la giustizia non si specchi mai nella idea luciferina della “società dei giusti”, della igienizzazione e sterilizzazione della società, che le questioni sociali non possano esser mai ridotte a questioni di ordine pubblico. Per lottare la mafia serve il Diritto e, se eserciti invochiamo, per dirla con Gesualdo Bufalino, gli unici degni di nota sono «gli eserciti di maestri elementari». Soltanto uscendo da una condizione di perenne emergenza, abbandonando i ferri vecchi della “terribilità” (dal 416 bis al 4 bis, al 41 bis e a tutti gli altri articoli bis che sono spesso sinonimi di recrudescenza penale e penitenziaria), le presunzioni iuris et de iure, assolute e incontestabili, sarà possibile sciascianamente «tirare il giusto senso»: la vertigine interiore delle cose e la capacità di avere una direzione di marcia. Oggi rileggere Sciascia, un intellettuale “dalle parti degli infedeli” senza chiese, senza principi, significa capire che «la democrazia ha in mano, nella lotta alla mafia, lo strumento che la tirannia non ebbe mai: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia». La dittatura dell’anti, i pennacchi e le fanfare, ci consegnano invece un mondo che, a furia di combattere la mafia, finisce per somigliare a essa. La campagna “Compresenza” è un viaggio nella memoria: quella saudade intraducibile che è speranza nel futuro. È un sentimento che ci conduce nei territori del nostro Paese, non per occuparli come i colonialisti, ma per liberarli, per liberarci insieme e salpare nuovamente con tutti coloro i quali credono che lo Stato di Diritto sia la più grande invenzione dei tempi moderni. Sciascia è ancora lì, forse su uno scoglio affacciato sul mar Jonio o immerso tra i vitigni e i fiori di zagara dell’olismo siciliano. Noi di Nessuno tocchi Caino, ci sentiamo un po’ come quando Marco Pannella, quarant’anni fa, digitò il numero della casa editrice Sellerio, annunciando di voler parlare urgentemente con Sciascia: «Siamo noi ad aderire al suo programma». Antonio Ciniglio
Marco Ciriello per Dagospia il 13 marzo 2021. La Street art è diventato il modo delle amministrazioni comunali di assolvere alle mancanze politiche, decorando le pareti cieche delle stecche architettoniche di periferia, affibbiando ai loro spazi eroi sconosciuti persino a chi abita gli attici delle stesse città, ma quando quelle periferie decidono di decorare i loro muri con gli eroi che gli appartengono, lo stato glieli cancella come è avvenuto a Napoli tra la gioia di giornali e abitanti di altri quartieri. In una città che parla con i morti, e se ne prende cura, aspetta che si sciolga il sangue di un santo facendone discendere il futuro prossimo, che riempie le bare come solo gli egiziani, poi, per un capriccio di legalità, cancella il rispetto per i morti – che non appartiene ai tribunali –, anche quelli che hanno sbagliato in vita, in un purgatorio terrestre che anticipa quello promesso nell’aldilà. Signori miei, torniamo in noi direbbe Totò. In una città che ha una frenesia di raffigurazione, c’è gente che davvero pensa che la faccia su un muro di un ragazzino sparato da un carabiniere in una tentata rapina sia pericolosa? Marca il territorio dicono i camorrologi, perché senza la faccia di quel ragazzino il suo quartiere sarebbe libero? E la finestra aperta senza concessione edilizia? E la tettoia bucata della fermata del bus che non passa? E se passa finisce in un buco. E gli standard urbanistici non rispettati? Forse bisognerebbe far sentire una presenza migliore, di qualità, piuttosto che imbiancare una parete e cancellare per la seconda volta la vita – sbagliata – di un ragazzino, replicabile non per un murale ma per l’assenza di legalità, quella vera, nonostante i maestri di strada, le tante associazioni, i preti di periferia non delle canzoni di Jovanotti, che prima o poi avrà il suo murale tra un Gramsci, un palestinese in kefiah e Martin Luther King. E Malcolm X non è voluto venire? E perché il mitra non glielo disegnate mai? Napoli è diventata un grande album Panini veltroniano con le figurine delle facce buone disegnate sui muri dall’artista Jorit, che va compilando una estesa nazionale che fa leva sull’emozionalità e che annoda Pasolini e Maurizio Sarri in una intercambiabilità da social. In questa grande opera autorizzata – dove un tempo si richiedeva “Le Sette opere della Misericordia” – che tocca le professoresse e gli assessori alla cultura, indugiando sulla palpebra di Fabrizio De André e il carisma di Diego Maradona non dimenticando l’Angela Davis che c’era e sfioriva già nelle canzoni di De Gregori di tanti anni fa, disturbano le facce degli sconosciuti, dei ragazzi che hanno sbagliato, i dimenticati, i laterali, quelli che si sono arrangiati con quello che gli han fatto trovare: poco, niente e una pistola. Questi intrusi vanno cancellati, perché rovinano l’album, sporcano la vetrina, dimenticando che molti dei raffigurati nell’album dei giusti di Jorit sarebbero stati contrari alla cancellazione dei pericolosissimi fantasmi senza bibliografia. De André in uno degli ultimi concerti aveva detto che da anarchico capiva i ragazzi che sceglievano la ’ndrangheta nell’assenza dello stato. Malcolm X era come quei ragazzi prima di incontrare l’islam, e Pasolini quei ragazzi li andava a cercare per scopare. Non è curioso questo corto circuito? A Napoli, poi. D’improvviso la legalità con una mano di vernice. E le altre mani, quelle che mancano? Niente racconta meglio Napoli di un murale con la faccia di un ragazzino criminale a poca distanza dalla casa che fu di Benedetto Croce, perché Napoli è questa qua, ammiscata, fastidiosa, scorticata, non quella ordinata con le facce giuste e i due indianissimi segni rossi sulle guance che Jorit s’è pure fatto tatuare, l’unico sangue autorizzato con delibera comunale, un tatuaggio da corpus domini, per una Napoli da Dolce&Gabbana&DeMagistris. Cancellare il paganesimo, distruggere gli altari improvvisati, significa negare una città che pure esiste, è un gesto vigliacco oltre che inutile, perché significa relegare ai cimiteri l’unico spazio del ricordo, mascherandolo da legalità. E allora si smetta anche di portare fiori al murale di Maradona ai quartieri spagnoli – che nonostante la pandemia è diventato un tour paganissimo – che poi è probabilmente anche l’unico eroe santo ed esempio che quei ragazzi morti per strada, in tentativi maldestri di rapina, avessero. Tutto si tiene, cancellandone una parte non regge nemmeno l’altra. Verrebbe da domandare a Luigi Piccinato – morto per morto parliamo con quello giusto – ma una città si salva con le riverniciazioni o con i piani regolatori? E agli urbanisti, ai questori, ai giudici, ai giornalisti che contenti si sentono al sicuro dietro una mano di bianco, siete proprio sicuri che l’illegalità sia il viso d’un ragazzino rimasto sull’asfalto? E quale sarà il prossimo passo: chiedere a Sky di cancellare “Gomorra” dal palinsesto?
Don Ciotti. Roberta Scorranese per corriere.it il 26 marzo 2021.
Don Luigi, ma lei non è mai da solo?
«Ho scelto di condividere tutto con altri. Progetti, visioni, risorse. Non credo che i cambiamenti siano cose per navigatori solitari».
No, don Luigi Ciotti non è mai da solo. Per arrivare da lui si deve raggiungere un caseggiato anonimo in un quartiere popolare di Torino, poi incontrare quattro agenti in borghese che lo scortano giorno e notte. Solo dopo, circondato dai più fedeli collaboratori (come Fabio Cantelli Anibaldi), il prete che ha fondato il Gruppo Abele e Libera ti accoglie con una gentilezza modulabile in passione o rabbia o dolore sordo, a seconda degli argomenti. Settantacinque anni e migliaia di battaglie sociali.
Quanta forza fisica ci vuole?
«Tanta e qualche volta viene meno. Ma io mi porto dietro sempre la consapevolezza di essere nessuno. Sono un radiotecnico, uno che a Torino ha cominciato vivendo con la famiglia in una baracca in un cantiere in costruzione, quello del Politecnico. Da immigrato».
Immigrati da Pieve di Cadore. Com’era la sua vita da bambino, lassù?
«Ricordo il mulino di mio nonno. Ha funzionato fino al 1949. Poi la ditta incaricata di costruire la diga del lago di Cadore lo espropriò per poche lire. Venne sommerso dalle acque, ma quei soldi servivano a chi non poteva mangiare. Avevo quattro anni».
Poi Torino. Un padre muratore prima e capomastro dopo, sempre fuori per lavoro; una madre umile ma intelligente, che leggeva libri alla luce di una candela in baracca. Due sorelle. Come si diventa don Ciotti?
«Mi hanno insegnato una fede fatta non di retorica ma di concretezza. Ispirata alla giustizia. Certo, poi c’è l’episodio del calamaio».
Racconti.
«A scuola una maestra mi rimproverò ingiustamente chiamandomi “montanaro”. Cieco di rabbia presi il calamaio e glielo scagliai addosso. Questo per dire che mi portavo dentro il bisogno di arrabbiarmi di fronte alle ingiustizie. E poi, certo, ero segnato dalle difficoltà. Torino è una città che mi ha accolto e, anzi, di recente mi hanno chiesto di diventare ambasciatore della sua cultura. Ma non era facile arrivare qui negli anni Cinquanta. Avevo un occhio allenato agli ultimi, li scovavo».
Così, anni dopo, intuì prima di molti altri che stava arrivando l’eroina?
«Me lo fece capire Mario nei primi anni Sessanta. Era un medico che era finito sulla strada dopo aver perso tutto. Io ero già nell’Azione Cattolica, mi avvicinai per parlargli ma lui mi indicò un gruppo di giovani davanti a un bar. Bevono, mi disse, e prendono anche delle pasticche. All’epoca le amfetamine te le vendevano in farmacia, per aumentare la concentrazione. Ma Mario aveva visto lo “sballo”».
Nacque così il Gruppo Abele, da una domanda tra le più difficili: «Sono forse io il custode di mio fratello?» E la risposta è «sì».
«Erano gli anni Sessanta, cominciammo con i senza dimora poi presero ad arrivare i tossicodipendenti. Non volevano tornare a casa. Mi dicevano: “Spacciano sotto casa mia, se torno lì ci ricasco”. Il punto è che lo Stato non poteva riconoscere quel disagio senza ammettere anche che la cosiddetta società del benessere era piena di storture e di ingiustizie».
Così fingeva di non vedere, affidandosi a figure carismatiche come la sua.
«Capimmo che l’assistenza non bastava. Bisognava prendere posizione, l’impegno sociale doveva avere una coscienza politica. Qualche giorno fa mi ha scritto un poliziotto in pensione, confessandomi che nel 1974 era stato sul punto di arrestarmi. Il fatto era che anche chi aiutava i tossicodipendenti, prima della legge 685, era a sua volta colpevole. Noi ci autodenunciammo. Ma, come dico anche nel libro (Giunti, ndr) L’amore non basta, io ho due guide: il Vangelo e la Costituzione».
Don Luigi, i suoi ragazzi ad un certo punto presero a morire. Quanti ne ha seppelliti?
«Anche due o tre alla settimana, per overdose o per Aids. Faticavo pure a trovare una lettura del Vangelo che non fosse uguale a quella proclamata pochi giorni prima».
Una volta in cui le è mancato il coraggio?
«Un ragazzo mi chiese i soldi per una dose. Decisi di essere rigoroso e glieli negai. Lui si tolse la vita. Lasciò un biglietto nel quale diceva che aveva capito il mio no, ma non cambiò nulla in me. Mentre lo accompagnavo al cimitero continuavo a chiedermi se quella ostinazione alla rettitudine non fosse stata dannosa, se mi era mancato il coraggio di guardare oltre e di immaginare che cosa sarebbe potuto succedere. A volte la giustizia è questo: visione».
Libera, la rete contro le mafie, nacque negli anni Novanta, negli anni del dolore per le stragi in Sicilia. Ciotti, Gian Carlo Caselli e poi Luciano Violante. Immaginava che sarebbe arrivato a girare sotto scorta pure lei?
«C’è un legame tra la lotta alla droga e quella contro le mafie. Sin dagli anni Settanta la droga è la fonte di maggiore introito delle mafie. Non puoi combatterla senza combatterla anche come mercato criminale. Non amo l’assistenza fine a se stessa, la cosiddetta paccaterapia, le pacche sulle spalle. Mi sono preso i miei rischi, ma le dico una cosa: gli unici mazzi di fiori che arrivarono al cimitero quando mio padre morì, a 99 anni, furono quelli degli uomini della scorta. Una famiglia, per me».
Totò Riina, parlando di lei, disse: «Ciotti, Ciotti, putissimo pure ammazzarlo».
«Parlo malvolentieri di questo».
Ma deve aver avuto paura.
«No. Non in quel senso. Ero più preoccupato per la salute di mamma e papà, che venivano a sapere di queste minacce e ne soffrivano. Quando morì la mamma scoprii che aveva conservato decine e decine di ritagli di giornale che parlavano di me. Non mi aveva mai detto nulla. Vede quel macinacaffè? Apparteneva a lei. Lo tengo qui, con me. Quando ho incontrato per la prima volta papa Francesco ho pensato a mamma Olga e a quanto sarebbe stata felice di sapermi lì, a Roma, quel giorno».
Un ricordo di suo padre?
«Una volta con la mamma andammo a prenderlo alla stazione, di ritorno da uno dei suoi viaggi di lavoro. Ad una lotteria aveva vinto un gigantesco uovo di Pasqua. Quando scese dal treno vedemmo solo quel grande uovo. La felicità di quel regalo la sento addosso ancora adesso. Papà è vissuto a lungo assieme a me, ha visto quello che ho fatto, che abbiamo fatto. Eppure fino alla fine dei suoi giorni cercava di rendersi utile: una riparazione qui, una commissione là. Una colonna di Abele».
Almeno con i suoi ricordi riesce ad essere da solo?
«No perché tutto quello che ho fatto è stato assieme agli altri. E anche i ricordi sono condivisi. Ho avuto tanta gente che mi ha appoggiato. Le racconto uno dei regali più bizzarri: delle mucche. Mucche gravide, dono della Juventus. Ed erano pure bianche e nere!».
Ma perché le mucche?
«Sapevo che Boniperti aveva chiesto in premio alla sua società, per ogni goal segnato, una mucca gravida. Da uomo lungimirante e intelligente non voleva investire in attività finanziarie, ma nell’agricoltura. Allora contattai la squadra tramite Gian Paolo Ormezzano e proposi un patto: ci avrebbero donato una mucca per ogni scudetto vinto. Bene, la Juve vinse sette dei dieci campionati successivi. Ero felice anche perché io sono tifoso juventino».
Inoltre, negli anni vi eravate ingranditi, era arrivata anche Cascina Abele.
«Una follia. La visitammo e la prendemmo. Ci diedero ventiquattro ore per trovare venti milioni di lire per l’acconto. Cominciammo a vendere di tutto, dai mobili alle biciclette. Ma poi si scatenò la solidarietà. E lo sa chi ci aiutò, tra gli altri? I detenuti de Le Nuove, carcere di Torino. Avevano saputo della cosa e misero a disposizione anche le loro magre risorse».
Mi racconta un suo sogno ricorrente?
«Non sogno, anche perché dormo poco, qualche ora per notte, se va bene. Posso dirle che cosa mi angustia».
Prego.
«Che ancora troppe persone siano costrette a genuflettersi per far rispettare i propri diritti. All’istruzione, alla sanità, al lavoro. La pandemia non c’entra: anche prima eravamo messi così. Ho fatto scioperi della fame, ho fatto obiezioni di coscienza: perché sono convinto che la legalità non sia un fine ma un mezzo per ottenere giustizia. In nome della legalità possono nascere mostri giuridici, come le norme sui migranti. Oppure certe leggi come la Fini-Giovanardi, che criminalizzano il consumo di stupefacenti. Con il risultato che oggi un terzo di quelli che stanno in carcere sono condannati per violazione di queste norme».
Che cosa la rende felice oggi?
«Quando per strada mi capita di incontrare uomini e donne ormai in là con gli anni, dei nonni che portano a spasso i nipotini, i quali mi fermano e mi dicono: “Ti ricordi? Io ero uno dei tuoi ragazzi, ce l’ho fatta, sono uscito dalle dipendenze e ho trovato l’amore”».
Don Luigi, me lo dice finalmente com’è lei quando sta da solo?
«Non lo faccio mai con nessuno, ma venga con me. Le mostro dove dormo».
Entriamo nella stanza-santuario. Semplice, ma con tante foto alle pareti. Su uno scaffale pochi libri, tra i quali spicca una raccolta di scritti del cardinal Martini. E poi c’è una foto di Sandro Pertini, regalo di Carla Voltolina, la moglie del presidente. Ma soprattutto ci sono mamma Olga e papà Angelo. Giovani e in bianco e nero, anziani che sorridono incerti nelle foto a colori. Ci sono tante montagne, le Dolomiti, che se ci nasci poi ti restano dentro. Eccolo com’è don Luigi quando è da solo: è dentro un paesaggio sfocato e forse soltanto immaginato. Ma è l’unico dove ci si senta in pace.
L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE.
Qui si vi presenta Don Ciotti, che agli occhi della gente, mediaticamente strabica, è il simbolo dell’antimafia militante e partigiana. Per tutti non è Leonardo Sciascia l’icona dell’antimafia, ma è un prete venuto dal nord. Si presenta con una sua intervista resa a Fabrizio Ravelli pubblicata su “La Repubblica”. Per fare corretta informazione bisogna che all’auto biografia si presenti il contraltare della biografia non autorizzata, ossia quello che su di lui dice chi ne conosce le più nascoste virtù o i più sordidi vizi. E’ importante conoscere colui il quale, di fatto, con la sua rete di associazioni e comitati che fanno capo a “Libera” e tutti vicini alla CGIL, ha il monopolio delle assegnazioni dei beni confiscati ai cosiddetti mafiosi, quindi un bene comune da condividere anche con chi non è di sinistra e non santifica i magistrati. Tra i tanti non appartenenti all’antimafia di regime troviamo il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’antimafia truccata ha scritto un libro “Mafiopoli. La mafia vien dall’alto. L’Italia delle mafie che non ti aspetti”. Libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Va giù pesante Antonio Margheriti “Mastino” con un suo articolo pubblicato su “Papalepapale”. Si prendono le distanze dal tono dissacrante e satirico, a volte sprezzante, ma non diffamatorio, ma si condivide il contenuto di fondo, per questo, per diritto di critica e di cronaca, è indubbio che non si può tacere quello che altri non dicono, specialmente se lo scritto è il contraltare ad una intervista che racconta una verità personale.
Don Ciotti, prete di lotta e di governo: "Ho cominciato sui treni dei disperati". Incontro di Frabrizio Ravelli con il fondatore di Libera: "Il vescovo mi disse: affido a Luigi una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada. Don Luigi Ciotti è uno di quei preti lottatori che non mollano mai, che trovi per strada e non in sacrestia, che dà del tu a tutti (anche nel primo incontro con l'avvocato Agnelli, che non fece una piega). Il Gruppo Abele lo conoscono tutti. La sua vita, un po' meno. Si incontrano una maestra nervosa, un medico disperato, un vescovo coraggioso, e tanti altri. Conta molto che Ciotti sia un montanaro.
Montanaro veneto, no?
«Sì sono nato a Pieve di Cadore nel '45, ed emigrato in Piemonte con mio padre, mia madre e le mie sorelle per la ragione che nel dopoguerra spinse migliaia e migliaia di persone ad andare a cercare altrove la dignità di lavoro, la speranza».
E te ne sei andato a cinque anni.
«Mi ricordo l'impatto traumatico con la città di Torino, perché mio padre aveva trovato lavoro ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino. Mio padre lavorava nell'impresa che ha costruito la parte più vecchia. Quegli anni hanno segnato la mia vita insieme con la baracca, il cantiere, le facili etichette che la gente ti mette perché tu vivi dietro uno steccato. Un pensiero sempre sbrigativo, che generalizza, e che tuttora resta una delle ferite aperte. Mio padre era muratore, poi è diventato il capocantiere, il capomastro».
A Torino da immigrato che viveva in una baracca.
«Sì, la baracca del cantiere. Dignitosa. Una delle cose che mi ricorderò sempre come un avvenimento è di quando una volta all'anno andavamo a comprare la carta da zucchero, quella blu, poi con le asticelle di legno che papà tagliava dalle assi attaccarla al soffitto. Era festa, festa in famiglia. Certo, il gabinetto era una baracca all'esterno. Però ho alcuni dei ricordi belli della mia infanzia. Il padrino della cresima che ho fatto nella parrocchia lì vicino era il gruista, Paolo il gruista. Eri un po' coccolato dagli operai. Poi venne la drammatica sera, credo fosse proprio un tornado che buttò giù i 42 metri della Mole Antonelliana, fece saltare tutti i tetti della Grandi Motori, e ci portò via gran parte della baracca. Ricordo la mia mamma che ci teneva stretti, un po' disperata. Volò via un pezzo di tetto, e il gabinetto lì vicino, che era fatto di assi».
E com'eri tu, bambino della baracca?
«L'altro ricordo è quello legato alla mia esperienza scolastica in prima elementare. Io dovevo andare a scuola in quel territorio, nella zona ricca di Torino. E avvenne un fatto che mi ha segnato molto. Questa scuola, la Michele Coppino, aveva un regolamento: tutti con il grembiule. Mia madre andò dalla maestra a dire che non era in grado di comprare il grembiule e il fiocco per me, perché aveva dovuto comprarlo alle mie sorelle, e non c'erano soldi. Quindi disse: per un mese manderò mio figlio a scuola senza il grembiule. Sai, tu puoi essere povero ma dignitoso, la dignità di andare a dire: guardi, non ce la faccio. Quindi io mi son trovato a essere diverso, dentro una scuola dove tutti avevano questo benedetto grembiule e questo fiocco interminabile, e tutti che ti chiedevano come mai tu non avevi il grembiule. Tu ti senti diverso, ti senti etichettato, ti senti giudicato. Al punto che quando qualcuno mi chiedeva dove abitavo, io non dicevo che abitavo dietro quello steccato, ma in un palazzo».
Finisce che il diverso si ribella.
«Dopo venti giorni di prima elementare, e io che già mi sentivo diverso e in difficoltà, la maestra è arrivata a scuola quel giorno nervosa, magari aveva litigato col marito. E mentre in fondo alla classe i miei compagni ridevano e scherzavano, lei non se l'è presa con loro, ma se l'è presa con me, che ero il più vulnerabile, il più visibile, mi aveva anche messo al primo banco. E io devo averle detto: ma che cosa vuoi, non c'entro niente. Lei chissà cosa ha capito, e le è scappata un'espressione che per me è stata una ferita: ma cosa vuoi tu, montanaro? Detto quasi con disprezzo. I miei compagni tutti a ridere, e quindi mi sentivo ancora più umiliato da quella affermazione. Allora io ho tirato fuori il calamaio dal banco, uno di quei vecchi banchi di scuola, e gliel'ho tirato. L'ho colpita in pieno. Espulso subito dalla scuola, dopo venti giorni. Portato a casa da un bidello. Io non l'ho mai più incontrato, ma mi ricordo quella mano che mi portava a casa, e io piangevo perché sapevo di avere sbagliato e perché sapevo che mi aspettava una punizione, e mia madre me la diede sonora. Anche se anni dopo mia madre mi disse: Luigi, io lo sapevo che tu avevi difeso la nostra dignità, però non si fa a questo modo. Il vero problema venne quando i miei compagni uscirono di scuola alle 12,30 - io ero già espulso - e avevano qualcosa di nuovo da raccontare ai genitori o alla cameriera. Lo sai mamma cosa è successo oggi a scuola? Dimmi, cicci. Un nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra. Ah, povera maestra. E come si chiama quel compagno? Ciotti. Guai se ti vedo con quel compagno. Sono diventato il compagno cattivo».
Montanaro, e ribelle.
«Meno male che frequentavo la parrocchia. Andavo lì, eravamo un gruppetto, nella parrocchia di questo quartiere molto ricco di Torino. E' stato per me un momento importante, quando la tua vita viene segnata da quelle etichette. L'altro episodio che mi ha segnato è successivo, io dopo le medie andrò a scuola per prendere il diploma di radiotecnico, e lì avviene l'incontro con un signore su una panchina. Un disperato, che mi aveva colpito, perché io passando col tram lo vedevo sempre lì a leggere libri, sottolineando con una matita rossa e blu. Io avevo 17 anni, con gli entusiasmi e le fantasie di quell'età. Un giorno sono sceso dal tram, sono andato lì e gli ho detto: vuole che vada a prenderle un caffé? E lui niente. Torno alla carica: vuole un té? Lui zitto. Penso, sarà sordo, ma mi accorgo che non lo è. Era un medico, amato e stimato dalla gente, ed era successa una vicenda drammatica nella sua vita, che l'aveva portato su quella panchina. Era andato ubriaco in sala operatoria, e aveva provocato la morte di una donna, la moglie di un amico. Poi era uscito di testa, stava male. Però studiava ed era curioso. Dalla panchina lui vedeva dei ragazzi al bar di fronte, che entravano e uscivano - allora non c'era l'eroina - prendevano delle amfetamine, ci bevevano dei superalcolici e sballavano, facevano la bomba. Un giorno, quando alla fine nasce un rapporto fra me e lui, anche se stentato, mi dice: vedi, dovresti fare qualcosa per quei ragazzi. Lui era un uomo disperato e sofferente, morirà pochi mesi dopo. E io mi sono detto: questo incontro non sarà un incontro qualsiasi. Mi ha indicato una strada. Anche questo episodio ha lasciato un graffio nella mia vita».
E poi?
«Poi sono andato a vivere da solo. Ho fatto un gruppetto. Poi nasce il Gruppo Abele, che a Natale ha compiuto 45 anni. Io in seminario andrò dopo, avevo già il Gruppo Abele, avevo una storia dietro. Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove i disperati senza casa dormivano: i treni arrivavano caldi. Ho pensato, caspita io incontro questa gente fuori, facciamo delle cose insieme, non li lascio soli. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva, e ci trovavamo a Chivasso. Passavano i controllori, te la davi a gambe. Perché sai, se parli a tavolino non capisci questi mondi. E lì nasce la storia del Gruppo Abele, nasce sulla strada, poi le prime comunità, il lavoro al Ferrante Aporti, la casa di rieducazione del Buon Pastore. Le prime comunità in alternativa a quelle strutture. Una storia che è cresciuta, e che non è un Luigi Ciotti, è un noi: ho fatto questo perché l'ho fatto con altri. Io difendo questo noi, vuol dire che non è opera di navigatori solitari. E quando verrò ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, grande vescovo che si faceva chiamare padre, in una chiesa zeppa di mondo di strada, alla fine di quella celebrazione non volava una mosca, lui guardò tutti questi ragazzi e disse: Luigi è nato con voi, è cresciuto con voi, e io ve lo lascio. Però affido anche a lui una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada».
Michele Pellegrino, insigne grecista, vescovo coraggioso e innovatore.
«Lui veniva da noi. Ai nostri campi in montagna. Venne una volta e c'erano tutte le ragazze del mondo della prostituzione. Lui ascoltò e poi mi disse: quando hai una sera libera vieni a cena da me, tu mi hai aperto una finestra e io voglio capire di più questo mondo. Non giudicava, non semplificava, voleva capire. Un anno dopo andrà a celebrare il Natale con le prostitute del centro storico di Torino. Uno che non si è mai tirato indietro. E sarà lui quello che prenderà posizione quando il quotidiano La Stampa farà la grande campagna per ripulire la città dalle prostitute. La redazione si spaccò in due, per quella iniziativa di legge popolare. E lui fece quell'omelia nella notte di Natale, nel duomo di Torino, partendo dal Vangelo di Giovanni, e pose delle domande sulle cause, non solo sulle donne costrette a prostituirsi ma anche sui clienti, sulla prevenzione. Tu immagina un cardinale che fa questa omelia nel duomo, e si mette contro il quotidiano della città che raccoglieva firme. Pensa che venne Gina Lollobrigida con l'aereo per mettere la firma, e Claudio Villa il reuccio della canzone italiana. E poi la tenda di Porta Nuova, era il 1973, ti faccio vedere le foto con lui: disadattati e delinquenti non si nasce ma si diventa. Quando abbiamo preso posizione contro le carceri per minorenni, perché fossero solo l'extrema ratio, e si cercassero soluzioni diverse. Il Gruppo Abele cominciò un lavoro dentro le carceri, siamo andati dentro a vivere».
Dentro le carceri?
«Sì, a Roma al ministero c'era un direttore dell'Ufficio quarto, Umberto Radaelli, che ebbe l'intuizione e ci portò dentro. E dodici di noi hanno vissuto in carcere: fu la prima esperienza grande in Italia, di condivisione e di progetto dentro il carcere dei minorenni, qui al Ferrante Aporti. Poi a Roma qualcuno si agitò, fu costruita ad arte tutta una cosa per bloccare questa sperimentazione. Noi uscimmo facendo una denuncia, e Pellegrino verrà a quella denuncia del sistema, e con accuse false fummo messi sotto inchiesta col direttore, che fu sospeso. Noi uscimmo, ma dieci anni dopo quello diventò il grande progetto Ferrante Aporti. E una volta dimostrata la falsità delle accuse il direttore Antonio Salvatore fu promosso andò al Beccaria di Milano, e ne divenne il grande direttore. Ma la sua storia cominciò qui, con quell'atto di coraggio che abbiamo condiviso, con lui e con Umberto Radaelli».
Un momento indietro. Quando già c'era il Gruppo Abele sei andato in seminario.
«Sì, sono andato in seminario qui a Rivoli, uscivo ed entravo. Il cardinale Pellegrino capì che era un servizio per i poveri, per gli ultimi, per quelle fasce dimenticate. Il Gruppo Abele fu il primo in Italia ad aprire un centro droga sulla strada, trovando un gruppo di magistrati che avevano capito che la legge era un mostro giuridico. Noi ci siamo autodenunciati per aprire il centro droga. La legge stabiliva che tu dovevi denunciare, e le strade erano due: o il carcere o l'ospedale psichiatrico. Noi abbiamo aperto in via Giuseppe Verdi a Torino, giorno e notte, dove arrivava un sacco di gente anche per essere accudita, per mangiare e per dormire. Davamo i primi supporti in una città che negava l'esistenza di quel problema, che diceva fosse poca cosa. In due anni quattromila persone arrivarono, perché non c'era nulla, quindi si andavano ad aggrappare dove trovavano dei riferimenti. La città comincia a prendere coscienza, noi cominciamo a fare la battaglia politica per avere una legge diversa, che sfocerà nello sciopero della fame del '75 in piazza Solferino, che porterà il Parlamento italiano a far la legge con cui nascono i Sert, nascono i servizi. Pellegrino sarà presente in tutti questi momenti».
Poi quando succedono cose come la spedizione punitiva contro un campo rom ti cadono le braccia.
«Sì, io l'ho detto, sono stato lì. Mi sono stancato di sentir parlare di emergenze in questo Paese. Queste non sono emergenze, sono percorsi che si sono consolidati nel tempo. E se c'è uno sgombero da fare nel nostro Paese è lo sgombero dei pregiudizi, dell'ignoranza, della non conoscenza. Questo dei rom è un popolo che ha voglia di vivere, un popolo gioioso, un popolo poetico. Che dev'essere aiutato a poter vivere delle condizioni di legalità. Questi vivono la terra di nessuno. Non si può parlare di emergenza. Io mi arrabbio quando si scopre con un misto di sorpresa e di vergogna che la miseria, la segregazione, la discriminazione, la violenza sono un problema anche nostro. Qui a Torino è avvenuta un'aggressione razzista, spiace doverlo dire, una vendetta. Ci sono belle esperienze concrete che dimostrano come l'accoglienza e le regole possono mettersi insieme. Qui a Settimo, come a Reggio Calabria per la raccolta dei rifiuti. Noi ne abbiamo assunti alcuni: vai a rubare il rame, e allora vieni qui a lavorare il rame. Si guadagnano la pagnotta in maniera onesta».
A un certo punto hai cominciato a occuparti di terroristi che stavano in galera.
«Da me venne una figura stupenda, padre David Turoldo. E mi disse: dobbiamo fare qualche cosa per dare una mano a sbrogliare questa situazione, nel rispetto della legalità. Così ho accolto diversi di loro, alcuni sono ancora qui, a una condizione: che si mettessero in gioco, che lavorassero. Che ci fosse, nel rispetto dei percorsi della giustizia, un cambiamento dentro le persone. Il paradosso, se così si può dire, è che in questo settore lavorava come volontario il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Coordinava un gruppo, e si trovava a lavorare con quelli che aveva mandato in galera. Cose che sono successe in questo Gruppo Abele. Come il fatto che oggi accompagniamo in grande silenzio storie di testimoni di giustizia, nella lotta alla criminalità e alle mafie».
E poi nella tua vita entra la mafia.
«E' stata una serie di tappe. A Torino è nato il coordinamento delle comunità di accoglienza. Poi quando scoppia il problema Aids nasce la Lila, la lega per la lotta all'Aids, e io sono stato il primo presidente. Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, mi sono chiesto: noi continuiamo a dare una mano ai giovani vittime delle dipendenze, alle ragazze sfruttate dalla prostituzione, ma chi guadagna dietro a questi? E ti dici: continuiamo a stare sulla strada, a lavorare all'accoglienza, però il problema della mafia attraversa tutto il nostro Paese. E quindi nasce Libera, per mettere insieme tante esperienze, per creare un fermento sociale. Ci chiediamo: cos'è che bisogna portare via a questi signori, i mafiosi? Il denaro, i beni, era il sogno di Pio La Torre, ma lo ammazzeranno quattro mesi prima che si facesse la legge. Però quella confisca dei beni mafiosi, che non parlava ancora di uso sociale, non funzionava, così raccogliamo un milione di firme per una legge ad hoc. E oggi ci sono più di quattrocento associazioni in Italia che gestiscono questi beni e li utilizzano. Cooperative che sono partite autofinanziandosi, tirando la cinghia, andandosi a cercare i soldi da sole. Una storia meravigliosa nata dal basso, dalla gente stufa di essere mortificata. La vendita dei beni mafiosi può esistere, ma dev'essere l'eccezione, non un dogma. Così come ho sentito che ci sono delle proposte: vendiamoli tutti e diamo il ricavato allo Stato. No, perché è uno schiaffo per il mafioso vedere i giovani che arrivano sulla tua terra, quella terra con cui hai gestito il tuo potere, la tua forza. E che sia uno schiaffo si vede dagli attentati. Quest'estate ci hanno fatto fuori trentacinque ettari di grano. Hanno bruciato olivi secolari in terra di Calabria. Distrutto impianti in provincia di Latina. Tagliate le pompe dell'acqua in un altro territorio. Eppure si è andati avanti, non s'è mai fatto un passo indietro, s'è dato lavoro a tanti giovani. Oggi qualcuno vorrebbe impossessarsene, tutti i giorni leggiamo di confische di denaro che non si sa dove finisca. Secondo me quel denaro liquido deve servire per i testimoni di giustizia, e per il risarcimento alla vittime di mafia».
Che vita fai, ti tocca correre di qua e di là come una trottola?
«Abbastanza. Ma vivo qua nel gruppo, in questa ex-fabbrica. Poi c'è il gruppo che dà lavoro a seicento persone. La mia vita è qui: stare con la gente è per me la cosa più importante e fondamentale. Poi s'è creata una rete di comunità, il lavoro di strada, il drop-in, il settore culturale, la casa editrice, la rivista Narcomafie, un centro di documentazione e ricerca, la sede dell'università della strada per la formazione degli operatori. Qui c'è tutto il lavoro per le vie di fuga che facciamo per la tratta e la prostituzione, le ragazze vengono nascoste e reinserite, in luoghi protetti perché questi le cercano. Per me l'accoglienza è fondamentale, se viene meno il faccia a faccia con le persone perdi la vita. Poi c'è Libera».
Un'ultima cosa. In questo Paese si parla del volontariato, straordinario e meritevole, come di un alibi per chi non fa niente. Non ti manda in bestia?
«Lo dico da sempre, mi auguro che ci sia meno solidarietà e più giustizia. Non verrà mai meno l'attenzione agli altri, l'accoglienza, la relazione. Però noi non possiamo diventare i delegati a occuparsi dei poveri e degli ultimi. Noi continueremo a occuparcene, perché non abbiamo mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ma in questo Paese, oggi, il sociale è mortificato: chiudono cooperative, chiudono associazioni. E si dimentica che la solidarietà è indivisibile dalla giustizia, non si deve dare per carità quello che spetta alla gente per giustizia. Guai se diventiamo il tappabuchi. Abbiamo anche il dovere della denuncia seria e documentata, il dovere di chiedere conto alla politica. E se è lontana dalla strada, dai problemi della gente, dalla sua fatica, allora la politica è lontana dalla politica. C'è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità».
Posizione antitetica ed aspramente critica sul personaggio pubblico è quella di Antonio Margheriti “Mastino” che, nel suo articolo, definisce Don Ciotti come il prete da marciapiede: don Ciotti. Dolce&(volta)Gabbana e antimafia delle chiacchiere. Sottotitolo: riflessioni cattoliche a partire dall’attentato di Brindisi.
L’articolo è diviso in Paragrafi:
Siamo tutti “addolorati” col culo degli altri;
Il figlioccio di Michele Pellegrino, il cardinale rosso;
Ladri benefattori e derubati ladri. Una storiella su don Ciotti;
Il Dolce&(volta)Gabbana della Chiesa: Ciotti, il cappellaio… ops… cappellano delle mode;
Il radical-ciottismo porta infine laddove dall’inizio era stabilito dovesse portare: alla religione civile;
Diffidate dei preti pieni di patacche;
La mosca sarcofaga;
Il silenzio se non ti “uccide”, ti evita molte figure di merda;
Ciotti grida “è mafia!”. Ma i giudici chiedono aiuto proprio alla mafia;
Se per l’inchiesta Jacini al Sud “tutto è Africa” per Ciotti “tutto è mafia”;
Ciotti si scusa: gli è scappata una parolaccia: ha citato Gesù;
Dio, il Grande Sconosciuto d’Occidente;
“Ho visto pezzetti di carne sparsi”. Ma l’ha colpito solo “un quaderno di educazione civica”;
Sostituire il Decalogo con la costituzione, il confessore col magistrato;
“Non importa chi è Dio, ma da che parte sta”. Il mancato leader socialista;
Quegli studenti che marciano per marinare la scuola lecitamente: senza fantasia, senza sincerità;
E’ politicamente scorretto dire “la mafia non esiste”, anche se è vero che non esiste;
La vera mafia che pretende omertà è quella del professionismo dell’antimafia delle chiacchiere;
Dio è lui, don Ciotti. E “Libera” è il suo corpo mistico, la sua chiesa.
SIAMO TUTTI “ADDOLORATI” COL CULO DEGLI ALTRI. I fatti di Brindisi, dunque. Ognuno dice la sua, stante il fatto che gli strascichi mediatici caricaturali di stragi e delitti sono una passionaccia arcitaliana: non chiedono di meglio i teledipendenti che fare tifoseria colpevolisti-innocentisti, scoprire alla fine chi è l’assassino come in un giallo della Christie. Tanto siamo tutti “addolorati” col culo degli altri. Solo che invece di sfogliare libri gialli, fanno zapping da talk-show in talk-show nella tv delle lacrime, dei sentimentalismi, del macabro, e, subito dopo, delle sganasciate di risate mignottesche con la caccia al chi ha scopato chi, chi s’è lasciato con chi, chi ha incornato chi.
Brindisi, dunque. Napolitano e Bersani dicono: “E’ terrorismo”. Don Ciotti: “E’ mafia”. Criminologo: “Forse squilibrato”. Complottisti professionisti: “Strage di Stato” (anche se tecnicamente neppure strage c’è stata). Procura: “Non sappiamo”. Tutti insieme in comune hanno una cosa: parlano senza sapere di che parlano… e come potrebbe essere diversamente dal momento che 5 minuti dopo avevano già tutti il loro teorema buono per ogni evenienza?! Ognuno cerca di trascinare cadaveri entro la propria specializzazione e contingenze immediate, se politiche tanto meglio. Non mi meraviglierò se presto interverrà Radio Radicale a dire: “Preti pedofili”. Dopo tanti castelli costruiti sul fango di lussuose teorie politico-criminologiche, si scoprirà (come si scoprirà!) che si tratta d’un semplice sfigato di mentecatto, certamente qualche disoccupato nevrotizzato dalla mancata assunzione al bidellaggio, qualche altro che ce l’ha in modo parossistico con l’agenzia delle entrate, qualcuno che ce l’ha col prospiciente tribunale che gli ha fatto perdere o non ha mai discusso la causa che gli stava a cuore; qualche “inventore” pazzo. La banalità del male! Ma certo non è di questo che voglio parlare, non si occupa di cronaca questo sito. È un pretesto per dire d’altro.
IL FIGLIOCCIO DI MICHELE PELLEGRINO, IL CARDINALE ROSSO. Don Ciotti ha fatto tutti i suoi studi da prete, se così posso chiamarli, nel lustro peggiore della storia della Chiesa: fra il ’68 e il ’72, anni di autodemolizione, autopersecuzione, autocontestazione della Chiesa. Anni pazzi. Soprattutto anni rivoluzionari: i seminari erano diventati, in quel lustro, covi di pazzissimi sediziosi dottrinali, bordelli teologici, fucina di rivoluzionari spompati, evirati e inutili persino ai rivoluzionari al caviale laici. Ininfluenti sul mondo, ma funestissimi dentro la Chiesa. Ecco, quei cinque anni maledetti, sono tutta la formazione di Ciotti: psicologicamente, retoricamente tuttora là è fermo, non s’è mai mosso; e spesso proprio questo suo modaiolo anacronismo è travisato, in un qui pro quo ridicolo, scambiandolo per avvenirismo, futurismo. In realtà, da quaranta anni, è uno spacciatore abusivo di ricette (“salvavita”, buone parimenti per la Chiesa e per la “società”) scadute. A complicare le cose per l’allora seminarista Ciottino intervenne il fatto che il suo seminario si trovava nella Torino operaista e laicista, e per giunta il suo cardinale era il vescovo più rosso della storia d’Italia: Michele Pellegrino. Tutte le fortune, poveraccio! E allora ti spieghi tante cose. Il cardinale rosso della Torino di quel tempo infame che vide nascere proprio nelle sue fabbriche i teorici e la manovalanza del terrorismo comunista, Michele Pellegrino, definì bonariamente il suo comiziante pretino, il giovane Luigi Ciotti, “prete da strada”, e aggiunse: “la strada sarà il tuo altare”. Una permuta a tutto vantaggio non si sa bene di chi, della Chiesa dubito. Se è vero come è vero che il programma ciottesco è questo: “Non si va per la strada ad insegnare ma ad apprendere”: affascinante come slogan, bellissimo, non v’è dubbio, ideologico anche; l’apice del buonismo delle “anime belle”, di quelle che s’innamorano dell’idea già bella impacchettata e infiocchettata a prescindere da quello che c’è dentro il pacco (in questo caso: il vuoto), ignorando trasognati e poeticanti la realtà, quel sano realismo che deve essere sempre il compagno di viaggio del cattolico. Sostituito in questo caso con un tanto al chilo di sociologismo vittimistico, piagnone e melodrammatico. Che suona sempre la stessa sinfonia dagli anni ’70: “Le colpe della società!”, qualsiasi cosa uno abbia fatto, “è colpa della società”. Anche se oggi ha mutato un po’ registro: qualsiasi cosa succeda, foss’anche il crollo di Wall Street, il Nostro dice che è “colpa della mafia”. Almanacco del “clima sociale mafioso” e, va da sé, “omertoso”.
Ciotti, l’uomo che “apprendeva dalla strada”, dunque, invece che insegnare la Strada, che poi sarebbe Cristo. Senza contare che Cristo non è andato per le strade del suo tempo ad “apprendere” ma a insegnare, appunto. La stessa cosa che avrebbe dovuto fare Ciotti, insegnare le cose del Maestro, che aveva infatti detto “non chiamate nessuno maestro”, neppure una strada, “perché uno solo è il Maestro”, cioè Lui; e poi aggiunse che siccome Lui “era la via, la verità, la vita…” ai suoi toccava andare “per le strade” ad annunciarlo, a “insegnare le cose del Padre mio”. Ma siccome Ciotti è capitato in epoca materialista (infatti ripropone il “Gesù rivoluzionario” tipico degli anni ’60 e dell’agnosticismo), le cose si sono ribaltate: strada e asfalto son diventati “maestri”, Cristo un semplice passante. E uno sconosciuto. Mentre invece era Lui la Strada. E la vita. La sola salvezza possibile. Non l’antropocentrismo ideologico del Nostro. Se c’è una cosa che dalla bocca di Ciotti non s’è mai sentita è questa: “E’ peccato”. Proprio non manda giù l’idea che il singolo possa avere dei peccati, delle colpe agli occhi di Dio e che possa pagare per queste; che ci sia un Giudice Supremo diverso dal pubblico ministero. È proprio l’idea di peccato individuale che gli è estranea. Il libero arbitrio gli va bene per tutto, lo applica a tutto, ne fa uso abbondante egli stesso, è tutto un arbitrio Ciotti; però nel peccato no, l’uomo-individuo non pecca secondo “libero arbitrio”: “è la società che pecca”… anzi no (ha abolito pure la parola “peccato”) commette “ingiustizie”; è la società “che è sbagliata”, in ogni caso “è colpa della società” (quella che non vota comunista, almeno). Mai si dica che l’individuo “ha sbagliato”, peggio di peggio poi “ha peccato”, “ha scelto” liberamente di peccare.
LADRI BENEFATTORI E DERUBATI LADRI. VI RACCONTO UNA STORIELLA (PARADOSSALE E SATIRICA) SU DON CIOTTI. Se ti entra un ladro in casa, ti svuota casa, ti bastona il nonno: è colpa tua, pezzo di merda!, merdaccia che bivacchi e ti abbeveri in questo cesso di società!, sei tu che hai ridotto quel “poveraccio”, quella “vittima della società” a entrarti in casa, derubarti di tutto, bastonarti il nonnetto magari pure reduce della RSI (e un po’, quindi, se lo meritava!) e andarsi poi a ubriacare con gli amici gaglioffi, ossia le “altre vittime”. Sai che c’è di nuovo? Te lo dice un don Ciotti, uno che impara dalla strada invece che insegnare la retta via a quelli che per strada, quella sbagliata, ci stanno: sei tu il ladro, sei tu il bastonatore di tuo nonno; dovresti vergognarti e chiedere scusa al ladro bastonatore di tuo nonno, e se proprio vuoi essere perfetto, purgarti del tuo “peccato sociale” (tale perché nella società ci vivi), dovresti rendere al ladro pure quello che non ti ha ancora rubato, perché il possederlo da parte tua è un “furto”, verso tutte le altre “vittime della società”. Ossia tutti gli altri ladri. Ovvero, sei tu, in fondo, che hai rubato in casa dei ladri… perdon… delle “vittime della società”. Non è manco più il tuo un “peccato sociale”. È proprio mafia! Sei un mafioso. Cornuto e mazziato, dunque. La domanda curiosa che ti fai su questa de-forma mentis clericale ferma a sociologismi radical anni ’70, è una: perché tali principi di “vittimismo” sociale validi per qualsiasi criminale (o detta alla cattolica: peccatore), non possono valere, a sentire Ciotti, anche per la criminalità organizzata, per i mafiosi, appunto? Non sono criminali e dunque “vittime” l’uno e gli altri, il ladro e il mafioso? Perché no? Del resto, secondo dottrina cattolica entrambi violano lo stesso Decalogo, entrambi altro non sono che peccatori… e in questo il cattolicesimo è molto “democratico”. Perché no, Ciottino-ino-ino? Io un sospetto lo avrei, me che sono di natura maligna (realista): la mafia ha fama di essere anticomunista; un tempo persino d’essere “democristiana”; poi – dicono gli ex sputtanatori di Falcone vivo, ossia la sinistra al caviale che da morto ne ha fatto bandiera – divenne “berlusconiana”. Ha fama, cioè, di farsela coi “potenti”. Tutte cose che il Ciotti dovrebbe avere in gran dispitto. Dovrebbe. Ma pure lui, Ciotti, a suo modo è un “potente”: la potenza oggi non è data più solo dai soldi e dalle poltrone, ma dalla visibilità mediatica e dal servilismo plaudente (e ipocrita) dell’establishment televisivo nei tuoi confronti. È o non è il Ciotti un nuovo potente, “intoccabile” da qualsiasi schermo o palco appaia, qualunque cosa dica (ché poi: dice sempre le stesse cose)? È vero o no che per diventare un “intoccabile televisivo” del genere devi essere messo a contratto dalla sinistra radical-chic che di quella fanghiglia è padrona gelosa? È o non è sempre sotto telecamera? È o non è sempre in compagnia di potenti, purché comunisti o almeno catto-comunisti? Non sono i suoi commensali abituali ormai?
IL DOLCE & (VOLTA)GABBANA DELLA CHIESA: DON CIOTTI. IL CAPPELLAIO… OPS… IL CAPPELLANO DELLE MODE.
Fine anni ’60. Per via dell’anarchismo “antiautoritario” e “antirepressivo” del ’68, in quegli anni era di gran moda la questione “abolizione del carcere”, da sostituire (diceva l’ideologo radical-chic) con “pene alternative”. Subito Ciotti se ne appassiona e fonda gruppi alternativi al carcere minorile per il “recupero dei piccoli carcerati” che spesso avevano un curriculum criminale poco sotto quello di Riina. Erano “vittime della società”. E fu la prima moda che condivise il suo talamo: tanto di applausi mondani e dell’intellighenzia radical ne derivarono. Poi la moda “abolizionista” decadde e Ciotti passò ad altro.
Primi anni ’70. Anni di piombo. L’ultima moda erano l’operaismo (in genere aizzato dalla ricca, balorda, annoiata borghesia radical, come eccentricità d’alta società) e le più assurde “rivendicazioni sindacali”. Torino ne era il sanguinoso epicentro. Il Ciottino si beccò la passione degli “operai”. Fondò associazioni e s’incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Poi passarono di moda pure questi, e lui li abbandonò al loro destino, che era diventato terrorismo, nel frattempo.
Sul finire degli anni ’70. Dopo la sbornia anarcoide e marxista immaginaria del ’68, se ne ebbero i primi frutti fra quei giovincelli generosi “contestatori”: oltre al terrorismo portarono in Italia anche la “moda” e le abitudini “culinarie” dei figli dei fiori (oppiacei) d’oltreoceano: droga a colazione, pranzo e cena. Comparvero i primi tossici italiani, ex contestatori del sistema. L’ultimo Maritain, quello considerato “pessimista”, “e perciò rimosso”, scrive Messori, all’apparire di questo fenomeno fra la satolla (di pane e ideologie arruffone) gioventù d’Occidente, disse una cosa profonda e atroce, atroce perché vera, “profetica” direbbero i progressisti se non fosse null’altro che una constatazione: “Quel buco è il sacramento di Satana. E’ la cresima, è l’effusione dello spirito di una cultura che ha preso congedo dal Cristo per volgersi all’Ingannatore”. Tutte queste cose non disse e tantomeno pensò il Ciotti. Troppo affaccendato in chiacchiere, affari e presidenze pluripremiate, per pensare all’essenziale delle cose. L’affare era grosso, guadagnava ormai le prime pagine dei giornali, si facevano inchieste di grido, faceva notizia, insomma. Ciotti non se lo fece ripetere due volte: ci si buttò a capofitto, fondò associazioni, se ne incoronò presidente. I risultati sono dubbi, e più che altro contraddittori. Ossia al fondo c’era sempre e solo l’ideologia radical di Ciotti, il vero motore del suo chiacchierificio itinerante buonista e indignato speciale di professione; mentre tutto il resto era carrozzeria, pretesto e contorno, foglia di fico sulle vergogne. Illustrazioni di copertina del suo personale Capitale all’amatriciana. Leggo da una biografia del Nostro: “In quegli stessi anni, all’accoglienza delle persone in difficoltà l’Associazione comincia ad affiancare l’impegno culturale (con un centro studi, una casa editrice e l’“Università della strada”) e, in senso lato, politico, per costruire diritti e giustizia sociale, con mobilitazioni come quella che nel 1975 porta alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685”. Paraponziponzipò! Per aiutare i drogati, la prima cosa che questa anima bella propose, fu una “legge non repressiva” sull’uso di droghe. Pannella non avrebbe saputo fare di meglio. Come dire? Ci sono troppi malati di cancro ai polmoni in giro? Bene, abbassiamo il prezzo delle sigarette. I primi risultati di questo buonismo vittimista si videro un quinquennio dopo, quando in Italia scoppiò una vera pandemia di tossicodipendenza. Naturaliter: l’intellighenzia mondana e radical-chic, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ciotti era ormai una star. Sulla pelle di chi lo divenne non sappiamo.
Con il primo lustro degli anni ’80 venne dopo la sbornia di “comunismo” al sangue, la sbornia di consumismo alla puttanesca. Con questo dilagarono sì i vizi tipici dei nuovi sazi e indifferenti, alcol, gioco e droghe (come risultato ultimo delle prediche “libertarie” radical post-68) e ottenevano i galloni della cronaca i “drogati” e i loro “recuperatori”. Venne pure dell’altro, però: il clima euforico e orgiastico, il culto del sesso sfrenato e promiscuo, nel quale il massimo della gloria effimera, della sbornia e quindi dell’indecente capovolgimento del mondo la raggiunsero gli omosessuali, nuova rumorosa e attivissima setta pagana. Che nel cuore di Ciotti dovevano immediatamente avere il sopravvento sui drogati. Infatti, manco fece in tempo a scoppiare, facendo un boato immane su tutti i media del mondo, la peste del XX secolo, l’Aids, che subito Ciotti ne divenne un “appassionato”, un santo patrono, la ennesima “voce dei senza voce” (con tutte le categorie sociali alle quali crede di aver dato “voce”, potrebbe doppiare l’intero cast di un film colossal del cinema muto). Qui pure, come aveva dato “voce” a tutti gli altri: con le chiacchiere e i tour di chiacchiere in giro per l’Italia. A confermare i “senza voce” nel loro errore, e, se battevano la strada, a “prendere lezioni da loro invece che insegnare”, senza mai affrontare la scaturigine di quell’epidemia mortifera. Ossia il peccato, quello contronatura in questo caso, la sessuomania di massa, che proprio i modaioli maitre a penser radical-chic avevano predicato e propiziato dal ’68. I risultati ultimi ora erano sotto gli occhi di tutti: ma Ciotti vedeva solo questi, ignorando come sempre le cause prime: un gatto che si morde la coda. E al solito fondò associazioni e se ne incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, radical-chic, la stessa responsabile ideologica di questa strage, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte.
Poi viene il 1988. E diventa abortista. Se andaste a scovare le ciottate di quegli anni ne provereste brividi: posa il suo bacio bavoso su tutte le più infami mode ideologiche del tempo, indossa tutte le più spettrali, e melense al contempo, svergognate maschere dell’epoca, e diventa femminista, abortista, contraccettivista, divorzista. Ma sempre per “solidarietà umana”, è chiaro. Come i peggiori radicali, approfittando del dramma dell’Aids, fa sciacallaggio pro contraccezione, pro aborto, pro aborto selettivo: tutto questo, al solito, per “solidarietà”, per la “bella idea” dell’ideologo, per “buonismo”. Quella solidarietà, quella bella idea, quel buonismo che senza rimorso alcuno ora gli fanno sostenere il diritto di scelta per una donna di abortire un figlio malato; “per rispetto umano” verso i sieropositivi si mette a propugnare le più “umanitarie” teorie sull’aborto selettivo, che poi erano le stesse teorizzate e applicate dai nazisti (ché però quelli almeno ad un certo punto ebbero scrupoli, e si sottrassero: don Ciotti e gli abortisti no). Così così così arriva, con l’ambiguità tipica del Maligno che mescola la verità alla menzogna, ad ammettere che “abortire i bambini che potrebbero nascere sieropositivi è una possibilità che deve essere riconosciuta a una donna”. E poi naturalmente per “eliminare alla radice” il problema, cioè uccidere bambino e sieropositività, buttare bambino e acqua sporca. Ma non si rende conto che proprio la “radice”, proprio quella è il problema, non le fronde, la sieropositività: quella “radice” che questo prete vorrebbe “recidere” è la vita umana stessa, la maestà di Dio su di essa. Ma che prete è questo? Per chi lavora? Come fa a parlare così? Ah, non è affar suo dice lui, lui riconosce che v’è “una pluralità di vedute” e per non offenderne alcuna, non intende affermare quella della Chiesa. Che poi non è manco quella di Ciotti. Lui, intanto, “riconoscendo la pluralità di vedute” se ne sta in ogni organizzazione “umanitaria” fuori e radicale e abortista dentro: per dare “speranza”, pur nella “pluralità di vedute”. “Speranza” basata su cosa non è dato sapere. Il Nostro, racconta Luigi, un testimone di allora, “fece molte interviste pro contraccettivi e surrettiziamente pro aborto. Allora io scrissi ad Avvenire protestando: il direttore in persona mi onorò con una sua risposta in cui mi disse che ero inutilmente severo…”. Guardate, il discorso, giunti a questo punto, mi fa tanto schifo che lascio a voi la facoltà di approfondirlo cliccando sui ritagli di giornale del 1988 che l’amico Guido mi ha gentilmente mandato, sapendo che stavo affrontando questo articolo. Ma se proprio volete saperne di più sulle schifose prese di posizione su questi temi del Ciotti, nel fragore degli applausi delle sue platee di post-cristiani, post-comunisti, vetero-radicali, leggete online questo resoconto agghiacciante di Vittorio Agnoletto.
E siamo già a cavallo fra anni ’80 e ’90. Cominciò a scemare sui media l’interesse per drogati e sieropositivi, ed entrambi cominciavano a subire un “calo fisiologico”, che li rendeva ormai poco numerosi e perciò ancor meno appetibili. Dai media. Don Ciotti cercava altri stimoli mondani. Che infatti vennero sicuri come la morte. Iniziarono i primi flussi migratori, sino al botto scuro della nave che rovesciò miriadi di albanesi sulle coste di Brindisi. Che scappavano dai rottami di quel comunismo “nuovo” ossia “maoista” del quale proprio quelli come Ciotti & compagni radical-chic, qualche anno prima s’erano fatti cantori e sponsor, come “non plus ultra di civiltà” (era passata di moda la loro vecchia passione per l’Urss come paradiso terrestre e modello da imitare, anche per la Chiesa). Che ve lo dico a fa’? Ciotti subito andò in prima linea col suo solito armamentario chiacchierone: tour di convegni in giro a spiegarci quanto erano belli buoni e bravi i clandestini, e più ce n’erano meglio era; i soliti numeri verdi e telefoni amici, le solite leghe, associazioni e l’auto-incoronazione napoleonica del Ciotti a loro presidente-imperatore. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ma dopo un po’, pure questa “moda” buonista con relativa retorica dell’accoglienza a prescindere, che aveva saturato tutti i media, i pulpiti e la bocca dei Ciotti e dei Tonino Bello, cominciò a scemare. Specie quando si vide che questa stessa retorica altro non aveva prodotto che un’infornata pazzesca di criminalità organizzata che invase tutte le città e che ancora scuote e insanguina la pacifica penisola e la sicurezza dei troppo generosi italiani. Generosità che nel frattempo, giustamente, s’era trasformata in risentimento.
Sentendo puzza di bruciato, mancando ormai di stimoli e di visibilità, don Ciotti stava col dito umido per aria per captare che altra corrente modaiola spirasse. Uomo fortunato, e contraddittorio, la trovò subito bella e pronta.
Contraddittorio, sì. Se è vero che alle sue spalle ora si lasciava la moltiplicazione di pani e pesci dell’immigrazione clandestina indiscriminata e persino aizzata; ossia un dilagare di manovalanza criminale anche al servizio delle mafie. E proprio adesso il Don, proprio lui, sta per buttarsi anema e core nell’oceano mediatico della “lotta”, a forza di mitragliate di logorrea, “alle mafie e alla criminalità” organizzate. Contraddittorio… Ma tant’è! Lo dico con un sorriso: sembra che prima di imbracciare una nuova moda solidaristica, si premuri, negli anni che la precedono, di coltivarne la potenziale clientela con cui “solidarizzare”. Fateci caso: per un tot di anni, come ogni radical, predica per una presunta “buona” cosa, poi quella cosa accade davvero e puntualmente è un disastro, dunque da predicatore diventa infermiere dello stesso male che ha coltivato (in buona fede, spero). Un ideologo consumato!
E infatti siamo nel 1992. Salta in aria il giudice Falcone e poi Borsellino: ne deriva un immane e giusto clamore, non sempre sincero (e mai da dove te l’aspetti) da parte di troppi . È l’argomento di fine secolo. E qui Ciotti darà il meglio e dunque, alla fine, il peggio di sé. Fonda Libera, e inizia allora un chiacchiericcio che dura da vent’anni. Ma siccome spesso manca di pretesti per gridare “al lupo al lupo”, alla fine è diventato una specie di don Villa dell’antimafia delle chiacchiere: come don Villa vede massoneria dappertutto foss’anche in un circo equestre, alla stessa maniera il Nostro grida “è mafia è mafia”, anche dinanzi a un petardo natalizio. Purché se ne parli. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaude e molteplici volte lo premia. Ormai è un abbonato speciale.
IL RADICAL-CIOTTISMO PORTA INFINE LADDOVE DALL’INIZIO ERA STABILITO DOVESSE PORTARE: ALLA RELIGIONE CIVILE. Tuttavia nel nuovo millennio pure la mafiologia e la mafiopolite acuta da talk-show, l’antimafia delle chiacchiere, ha cominciato a scricchiolare, almeno nell’interesse dei media. Vuoi perché i successori di Falcone e Borsellino erano palesemente indegni e marchiati a sangue di ideologia radical-comunista, e la lotta alla mafia è rimasta tale solo sulla carta diventando invece nei fatti un gioco sporco al massacro di lobby togate estremiste ai danni di Berlusconi; vuoi anche perché il fenomeno mafioso, almeno in Sicilia, per così come lo abbiamo conosciuto sta mostrando un fisiologico calo di peso, un ridimensionamento e una trasformazione, essendo prossimo a diventare qualcosa d’altro, per ragioni che non sto qui a spiegare. E allora, stante tutte queste magre vacche mediatiche, Ciotti ha rimesso il dito per aria per capire dove tirava il vento giornalistico. E in men che non si dica… l’ha indovinato.
Porta laddove sin dalle origini era stabilito dovesse portare, perché era inscritto nel suo Dna, l’ideologia radical-ciottista, fatta passare per clericato “impegnato”. Alla religione civile. Al culto del dio Stato; al feticcio della Costituzione; all’estremismo legalista; alle liturgie politiche; alla sociologia come nuova teologia. All’ideologia che è alla base della fine della civiltà cristiana: quella sorta dalla Rivoluzione Francese. Con tutto il corollario trombone ma pericoloso che ne deriva: mondialismo, ecologismo, monetarismo, pacifismo da paci-finti, umanitarismo ateo e peloso, filantropismo rapace ed esibizionista. È scritto ne Il Nome della Rosa: “Il Diavolo sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto”. Perciò le mode del mondo, ossia le ideologie, anche clericali, sono la Sua strada e il Suo arco trionfale. E il trionfo di chi ne viene a patti. Quei “falsi trionfi” dettati dalle mode, che sono lo spirito del mondo e lo spirito del mondo è Lucifero, e che hanno la forza di far perdere la testa ai saggi ai potenti ai preti. “Trionfi” contro i quali Gesù stesso ci metteva in guardia. Lo stesso Gesù che ripetutamente nei vangeli ci ammonisce a guardarci dalla “gloria del mondo”, perché è un inganno. Soprattutto perché non è questo il destino del cristiano; poiché, ha predetto il Signore, il suo destino vero sarà sempre, fino alla fine dei tempi, la persecuzione e il martirio, l’infamia e non gli onori del mondo. “Hanno perseguitato me: perseguiteranno anche voi. Ma io vi dico: beati voi quando a causa mia diranno di voi, mentendo, ogni sorta di male”. Da questo si può discernere fra il vero e il finto cristiano, fra il vero servo di Dio e il servo del Mondo, fra l’agnello e il lupo travestito da agnello.
DIFFIDATE DEI PRETI PIENI DI PATACCHE . Io l’ho per regola. Diffido sempre di quei (rari, va detto) cattolici che sono ospiti “d’onore” ovunque, travolti da applausi, specie da parte di chi più è lontano dalla Chiesa, dai suoi nemici più spietati talora; diffido dei preti invitati a tutte le trasmissioni e a tutti i convegni, premiati con ogni patacca e in ogni circostanza pacchiana. Lì qualcuno sta barando: la gloria del mondo ha per compagna la menzogna. E poi la “tristezza”, dice l’Ecclesiaste. Mi fido dei martiri e dei perseguitati, dei preti umiliati a causa della loro fede, di coloro che parlando delle cose sante suscitano scalpore, sdegno, rifiuto, oltraggio dal mondo. Non dei pavoni che fanno sempre la ruota nel giardino zoologico dei preti da baraccone per la gioia del documentarista e per arruffianarsi la sazia apostasia di questo mondo che prima si è fatto nemico e poi estraneo a Dio. Lo spirito del mondo, le mode ideologiche, sono un’attrazione irresistibile per Ciotti. Questo intendo dire quando ribatto al suo definirsi “prete di strada” con un “prete da marciapiede”. Badate, non sono così cretino da mendicare in giro querele che a questo punto sarei io stesso a consigliare alla parte “offesa”: non intendo dire che don Ciotti è una puttana o una persona di costumi equivoci (e anzi, da quel punto di vista lì – spero di non sbagliarmi – credo sia stato sempre pulito). Niente di tutto questo. Intendo dire proprio che sta sul marciapiede ad aspettare che passino le carrozze con a bordo le nuove mode ideologiche: andrà con quella che offre di più. “La gloria del mondo ha per compagna la tristezza”, dice l’Ecclesiaste, dunque. Al momento, però, il Nostro ci pare abbastanza su di giri. Lo è da 40 anni.
LA MOSCA SARCOFAGA . Stavo vedendo uno dei brutti film horror anni ’70 di Dario Argento. In uno, un tale, una specie di sbirro, alleva delle grosse mosche sarcofaghe, o meglio: la mosca sarcophaga carnaria. Ora, chi come me s’intende di medicina legale e fenomeni cadaverici, sa che questa strana mosca è affamata di cadaveri, ne è la principale cliente e devastatrice: ci depone sopra le sue larve. Ma soprattutto ha un fiuto infallibile nello scovarli. Ecco perché lo strano sbirro le allevava: liberandole e inseguendole, riusciva a ritrovare nei boschi i corpi degli assassinati. M’è saltato in mente don Ciotti: pure lui appena succede qualche plateale e misterioso fatto di sangue, da Roma in giù, non si sa come questo qui mezz’ora dopo è già sul posto. Naturalmente, subito dopo i fotografi. Più fulmineo delle mosche sarcofaghe. E, in tutto questo macello di Brindisi, non poteva che piombare come mosca sarcofaga sul luogo della tragedia, don Ciotti, con la sua “Carovana” carioca, di post-cattolici, post-comunisti, post-femministi, post-brigatisti, post-figli dei fiori, post-conciliaristi, post-preti, post-italiani, post-tutto. Il carro variopinto degli hobbisti dell’antimafia delle chiacchiere, con i loro slogan a misura unica, unisex e buoni per tutte le stagioni: per protestare indistintamente e con la stessa disinvoltura, a suon di chiacchiere, contro la mafia immaginaria, contro i terroristi, la guerra, la pena di morte, il carcere, il capitalismo, Berlusconi, il fascismo, l’antisemitismo, per la “pace” (da quando non c’è più l’Urss a invadere paesi inermi, almeno… da quei paci-finti che sono), l’acqua, il vino, la pagnotta, la patonza… per tutti, meno pene ai carcerati, più pene ai mafiosi, più pene e basta, più marce e meno messe (e forse, visto il senso della liturgia del Nostro, è pure meglio), più “strada” e meno altare. Ma la cosa che fa più ridere di questi professionisti del carnevale permanente e di questo post-prete, don Ciotti e i suoi fratelli e fratelle, è una in particolare. Che sinistramente schiamazzanti come avvoltoi piombano in tempo reale laddove sentono odor di carne bruciata, non importa se umana o da kebab o da arrosto di fiera della porchetta. È ininfluente. Loro imperterriti ci piombano addosso, la impugnano con gli artigli, la sollevano in aria sventolandola e qualunque cosa sia, foss’anche un gatto morto, a prescindere, si mettono isterici a gracchiare “è mafia!”; e via con gli stessi slogan, le stesse sentenze apocalittiche, le stesse soluzioni ideologiche, le stesse frasi ad effetto (lassativo), gli stessi cartelli appesi al collo usati per qualsiasi altro evento negli anni passati, magari contro Berlusconi: “E adesso uccideteci tutti!”, “La mafia uccide, il silenzio anche”, per tacer dei barattolini Manzoni-style con su scritto “La mafia è merda”.
IL SILENZIO SE NON TI “UCCIDE”, TI EVITA MOLTE FIGURE DI MERDA. Tuttavia, molte volte, il silenzio se non ti “uccide” ti evita molte figure di… merda, giacché siamo in tema. E non è un caso che appena il Ciotti ha saputo che c’era “carne sul fuoco” a Brindisi, non si sa come, in pochi minuti ci è atterrato su, gridando ai quattro venti: “Mafia! È mafia! La mafia uccide! Il silenzio pure! Venite allo scoperto mafiosi!”. Ancora si dovevano spegnere le fiamme, che lui già denunciava a tutti i microfoni “l’omertà” della popolazione brindisina che, appena sveglia e stordita com’era per il botto, non riusciva a capire manco cosa fosse successo. Anche quando già da subito a tutti era evidente che la Sacra Corona non c’entrava una mazza perché non erano cose che rientrassero nel suo stile quelle, né aveva la forza politica ed economica per osare tanto, il Nostro non ha desistito: non avendo da trent’anni altri slogan, passando solo questo il convento, essendo solo quello il suo repertorio circense, lo usa indiscriminatamente ad ogni replica e in ogni situazione: “Mafia purchessia!”. Però siccome il senso del ridicolo, infine, lo ha pure lui, ha annacquato dopo 24 ore il “sola Mafia” (variante del “Sola Scriptura” di Lutero) con “e anche la massoneria”. A quel punto non restava che ridere! Se non altro perché la prassi politicamente corretta e la filantropia pelosa di Ciotti, nel quale ogni residuo di Dio cristiano scompare nel solo umano, anzi, nel solo sociale, disciolto nell’acido della “società civile” insomma, altro non è che la quintessenza, la realizzazione pratica manu sacerdotali delle più viete teorie della più classica massoneria.
CIOTTI GRIDA “E’ MAFIA!”. MA I GIUDICI CHIEDONO AIUTO PROPRIO ALLA MAFIA. La situazione diventa ancora più paradossale se si pensa che la stessa (non sai se più stravagante o imprudente) magistratura pugliese, attraverso il procuratore Cataldo Motta, che – almeno dicono – essere il “massimo esperto di questo fenomeno criminale” (la Sacra Corona Unita), cioè ha (papale papale) chiesto alla mafietta pugliese di “collaborare” in qualche modo con la giustizia per scovare gli attentatori. Non basta. Mentre il prete con la “carovana” ancora sbraita a destra e manca, “mafia… omertà… c’è la mafia e pure un poco di massoneria”, mentre avviene tutta questa pretesca ridicola sceneggiata, avviene pure un’altra cosa. Vi leggo dal giornale: “Raffaele Brandi, ritenuto uno dei capi più rappresentativi della frangia brindisina della Sacra Corona Unita, ha avvicinato il caposcorta del pm Milto de Nozza e gli ha comunicato non solo che la SCU non c’entra ma che si muove in parallelo alla giustizia. ‘Dite al procuratore che se li prendiamo noi gli attentatori, ce li mangiamo vivi, è questo il messaggio’”. E mò? Che dire? Mentre don Ciotti straparla di “mafie”, pure il capo della Sacra Corona Unita “cerca il colpevole”. E lo va a dire direttamente al capo della scorta del procuratore di Brindisi De Nozza. Oltre a notare che dinanzi ai teledrammi (che non sono mai il dramma vero) tutte le istituzioni dello Stato italiano, mafie comprese, sono unite; oltre a capire che tutti hanno capito che il colpevole deve essere un pazzo isolato che non conta una mazza; oltre tutto questo, viene da domandare una cosa, al caro Milto de Nozza in primis: a Brindisi esiste ancora il reato di associazione mafiosa? Siamo o non siamo qui in presenza di un capomafia reo-confesso? Non è per arrestare questi qui che gli paghiamo la scorta? E allora: perché è a piede libero il capomafia di Brindisi? Dunque, dinanzi a tutto questo, a questi professionisti, a questi acchiappafantasmi dell’antimafia delle chiacchiere, che precipitano ogni tragedia in farsa e in carnevale… ma come fai a no ride’?
SE PER L’INCHIESTA JACINI AL SUD “TUTTO È AFRICA” PER CIOTTI “TUTTO È MAFIA”. Ma don Ciotti non ride. Insiste. Celebra la messa – se così posso chiamarla – a Mesagne, presente il povero padre della vittima. Dal pulpito urla, sbraiti, tempeste di slogan antimafia; sussultano ammutoliti i tabernacoli e le incolpevoli sacre statue, al gracchiare del prete “da strada”, del cappellano degli acchiappafantasmi contro l’immaginaria “omertà” (a indagini in corso) del popolo brindisino. Anche ora che è chiaro non c’entri nulla la mafia, che anzi è oltremodo, oltre la legalità persino, collaborazionista; ora che tutti cominciano a vedere chiaro che di qualche psicopatico deve essersi trattato.
Mentre accade tutto questo ti chiedi cosa centri questo post-prete con Mesagne? E quell’omelia, se così posso chiamarla, col solito bollito misto riscaldato, che c’entra con Mesagne, Brindisi, Melissa? “La malattia da sconfiggere è l’indifferenza” dice il presidente di Libera, nella piazza di Mesagne dove ha fatto tappa la Carovana contro tutte le mafie, Berlusconi compreso, è chiaro. “La forza sta in chi si rialza, e noi ci rialzeremo”. “Il problema della criminalità, della mafia, della massoneria è un problema di tutti ed ecco perché la Carovana continuerà a ‘sgrattare’ le coscienze”. Poi ha invitato tutti a “non avere paura”: “Bisogna evitare che tutto diventi terrore, paura, è necessario reagire”. Mafia? Massoneria? Omertà? Ma cosa crede questo acchiappafantasmi che Mesagne sia El Salvador? Giacché è un torinese, come tutti i torinesi dabbene per quanto “da strada”, crede che da Roma in giù, tutto quello che si incontra, fosse anche un vigile urbano, tutto è mafia. Da vero epigono dell’altro nordico, Stefano Jacini, quello dell’Inchiesta meridionale famigerata e insolente, che andando al Sud era convinto di trovarci l’Africa, e tanto ne era convinto che standoci altro non vedeva che “Africa” davvero, e dopo esserci stato, tornando a Torino, scrisse nell’Inchiesta parlamentare: “E’ Africa! Anzi, no: l’Africa al confronto è fior di civiltà”. Sono invasati da strisciante razzismo tutto torinese e dai più vieti e spocchiosi pregiudizi sebbene spacciati per compassionevoli, e non se ne rendono conto. “Omertà” poi… Se c’è mai luogo dove si fa più chiasso intorno a ‘sta roba è proprio la Puglia! Basti pensare ai casi di Avetrana, dei fratellini di Gravina, della piccola Maria Geusa, solo per citare i più noti. “Omertà”, “indifferenza”, dice: se i brindisini davvero sapessero chi è il colpevole dell’attentato, lo andrebbero a prelevare e lo squarterebbero vivo. Persino la mafietta locale ha garantito farebbe lo stesso. Tutto ‘sto solito casino parolaio, tutte queste carovanate, per una tragedia provocata da nient’altro (a quanto pare) che un matto! Se vai da don Ciotti e gli dici, “sai chi è stato? Uno psicopatico”. Sapete cosa dirà don Ciotti, appena individua una telecamera? “E’ il clima mafioso che genera questa follia!”. È un po’ come i medici ciarlatani degli anni ’30, che per qualsiasi malattia, dalla febbre alla varicella al cancro maligno, prescrivevano sempre e solo una cura: una purghetta di olio di ricino. Così come pure, qualsiasi fossero i sintomi psicosomatici, la malattia che diagnosticavano aveva un solo nome: “esaurimento nervoso”. Così Don Ciotti, qualsiasi cosa accada, ovunque accada, in qualsiasi forma accada, anche un incidente stradale, ha una sola diagnosi: “mafia!”; e una sola cura: “antimafia!”… della chiacchiere. Che permettono di fare pubblicità in ogni caso alla sua florida e ricca creatura: l’associazione Libera.
CIOTTI SI SCUSA: GLI È SCAPPATA UNA PAROLACCIA: HA CITATO GESÙ. Mi raccontava un mio amico veneto, Federico: “E’ venuto a parlare da noi don Ciotti. Sono andato a sentirlo per curiosità. Ha fatto un sacco di chiacchiere, ha detto un sacco di parole a getto continuo e a ruota libera, cose che poteva dire qualsiasi laico, laicista persino. Ad un certo punto si è bloccato, è sembrato vacillare, incerto e ha detto timidamente: ‘Vi chiedo scusa se mi permetto di citare per una volta una frase di Gesù’”. Lui, prete, si è scusato per essersi fatto scappare una frase di Gesù invece che di Gaetano Salvemini! Sì è scusato per l’eventuale equivoco e confusione che avrebbe potuto ingenerare nella folla di comunisti trinariciuti, arcobalenisti, pacifinti, cattolici adult(erat)i e post-cattolici adult(erin)i, dicendo qualcosa di cristiano, invece che, magari, di sociologia fatta in canonica; se ha citato Cristo, invece che, chessò, il Dalai Lama. La verità è che è un uomo e un prete nato vecchio, è il seminarista sessantottino di sempre, progressista ma non aggiornato: è fermo ad arrugginiti luoghi comuni e sulfurei schematismi ideologici degli anni ’70. Quella poltiglia di “buoni sentimenti” e “sensibilità sociali”, umori viscerali e sociologismi, classisti e al contempo umanitaristi, che, proprio in quegli anni, nella Chiesa si trasmutarono in apostasia, con i preti contestatori; nella politica, in proiettili, con i terroristi: i primi volevano “liberare” la Chiesa e la “coscienza individuale”, i secondi il “popolo” e la “coscienza operaia”. Gli uni demolirono mezza Chiesa, gli altri mezzo Stato. Nel sangue molto spesso. E infatti vedi che in alcune nazioni, i primi si unirono ai secondi: ne nacquero i preti guerriglieri. E chiamarono tutto questo “teologia della liberazione”. Oggi abbiamo Libera. Dice l’amico Francesco da Bari: “Mafioso e omertoso. Per Libera questi termini equivalgono ad eretico e scomunicato, laddove invece legalitario ha preso il posto di santo, e sull’ambone invece che le Scritture trovi il codice penale. Il Padre eterno non è il Giudice, è un semplice presidente di corte d’Assise”. Sì, è vero. Come è vero che nella sua logorrea incontenibile, in questi 40 anni, c’è una sola parola che Ciotti non ha mai usato: “Cristo”. Abbiamo visto: gli è scappata una sola volta e se n’è scusato. Ma è un’altra la parola che non gli è mai “scappata”, che proprio non riesce a pronunciare, gli si blocca in gola: “peccato”! E tutto quello che ne deriva: pentimento, penitenza, conversione. E pur di non pronunciarla mai ha sostituito la parola “peccato” con quella di “reato”, “peccatori” con “mafiosi”, “colpa” con “imputato”, “confessore” con “magistrato”, “penitenza” con “pena”, “comandamenti” con “codice penale”, “legge divina” con “costituzione”, “convertito” con “pentito o collaboratore di giustizia”. Per lui, fermo com’è agli schemi arrugginiti degli anni ’70, non esiste il peccato individuale, ma solo la “colpa sociale”. Per questo, per non dover usare la parola “peccato” si è messo a marciare, ha sostituito le messe con le marce, la Chiesa con Libera, la coscienza cristiana con la coscienza civile (ridotta a farsa pure questa). Ed è così che gli sfugge la vera madre di tutti gli eccessi, l’origine d’ogni male: il Peccato. Che egli ha abolito motu proprio. Come mi scrive un mio amico, Vincenzo, riferendosi sardonico al Nostro: “Ma che confessione… non c’è bisogno: basta una chiacchierata mentre sei in un corteo!”.
DIO, IL GRANDE SCONOSCIUTO D’OCCIDENTE. Proprio adesso ascoltavo le parole del Papa, su Cristo che in Occidente è diventato il “Grande Sconosciuto”. E ho pensato al Ciotti che chiede scusa perché gli è scappato di citare Gesù. Dice Benedetto XVI: “Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede (…). E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. (…) Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso. In questo contesto, come possiamo corrispondere alla responsabilità che ci è stata affidata dal Signore? (…) In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio”.
“HO VISTO PEZZETTI DI CARNE SPARSI”. MA LO HA COLPITO SOLO “UN QUADERNO DI EDUCAZIONE CIVICA”. Due giorni dopo don Ciotti è a Cecina: essendo prete “da strada” batte tutti i marciapiedi della nazione. A parlare di se stesso. Dei suoi “secondo me”. Di fantasmi. Di carovane e associazioni acchiappafantasmi. Di Costituzione. Di tutto, meno che della sola cosa della quale dovrebbe parlare: di Cristo, del peccato, della conversione. Ho spesso informatori volontari, che mi si fanno vivi con notizie fresche che non ho richiesto ma che poi mi tornano sempre utili. Un amico di Cecina, infatti – dove il Ciotti è andato dopo Mesagne a “predicare” le meraviglie del costituzionalismo – mi manda un essenziale ed espressionista quadretto della situazione. Lascio a lui la parola. “Se ti interessa ieri il Ciotti ha raccontato un aneddoto sulla sua visita a Mesagne: ‘Ho chiesto alla scientifica di sorpassare l’area che avevano recintato, mi hanno fatto passare, sono rimasto impressionato dai pezzi di carne sparsi su tutto il piazzale, ma mi sono soffermato su un particolare: un quaderno scritto da una delle ragazze coinvolte nell’attentato, ho sfogliato le pagine ho trovato che avevano fatto una lezione sulla nostra Costituzione (aria commossa), sì, avete capito bene, avevano fatto lezione di educazione civica a scuola. È proprio da qui che il nostro paese deve ripartire‘. Standing ovation.” Chi ha ucciso, non ha violato l’apposito comandamento divino, no: ha violato la Costituzione; chi uccide non è un peccatore, ma un reo; non la dottrina, ma l’educazione civica. L’uomo si salva da sé attraverso le sue leggi e i suoi organigrammi, le sole cose che possano giudicare e salvare gli uomini. Dio è un attore impotente, e anzi, è giudicabile persino attraverso quelle stesse leggi. Se quelle leggi sono contro Dio, non sono sbagliate le leggi, è “sbagliato” o è stato “malinterpretato” Dio stesso. Cosa sta strisciando nelle vene di Ciotti, oltre al peccato di orgoglio, l’archetipo dei peccati, il primordiale, il primo che fu commesso e che ha lambito persino l’arcangelo Lucifero, precipitandolo dai cieli, e Adamo ed Eva, precipitandoli dal paradiso terrestre? Che cos’è a strisciare sibilante nelle sue vene se non il riemergere di antiche eresie, soprattutto gnostiche e pelagiane?
SOSTITUIRE IL DECALOGO CON LA COSTITUZIONE, IL CONFESSORE COL MAGISTRATO. Come avrete notato da voi stessi, non sembra particolarmente interessato ai “pezzetti di carne”: sono un dettaglio secondario ai suoi fini ideologici. Ciò che gli interessa è la Costituzione, il culto di quella carta giuridica che è il totem, il sancta sanctorum, il vitello d’oro dei nuovi pagani di oggi, i laicisti con corollario di post-preti “adulti” sino al punto di essere ormai anche post-cristiani. E qui viene fuori anche tutto il cinismo inconsapevole dell’ideologo. Erano un’occasione quei “pezzetti di carne” per riflettere e far riflettere sul Decalogo, sul peccato, la morte, gli assoluti. Ma no, gl’interessava impugnare il feticcio dell’ideologo, la “Carta”, la nuova Rivelazione: la Costituzione. Ossia una banalissima lezione scolastica di educazione civica in un istituto professionale, fatta alla meno peggio nell’ora prevista, immaginiamo nella totale catalessi degli studenti col pensiero rivolto alla campanella. Ma siccome il Nostro è un ideologo fermo agli anni ’70, non gli interessa la banale e demitizzante realtà dei fatti, il tran-tran quotidiano, le cose viste nella loro reale giusta misura, no: gli interessa la “bella idea”. E così nella sua testa dal capello sempre unto, quel quaderno di svogliati appunti della lezione di educazione civica, diventa una gran cosa, immagina studenti dall’acuto senso civico, novizi ardenti del neo-costituzionalismo pendenti dalle labbra dell’insegnante precario che gli annuncia le verità rivelate e le secrete cose che da quella Carta secernono. Immagina un popolo di giovani eroi, che, Costituzione alla mano, commossi e coraggiosi marciano invitti per tutta la nazione incontro alla Città del Sole, la nuova Gerusalemme della religione civile.
“NON IMPORTA CHI È DIO, MA DA CHE PARTE STA”. IL MANCATO LEADER SOCIALISTA. L’amico di Cecina, infatti, aggiunge: “Riassunto della serata: Culto della Costituzione, dello Stato, della democrazia, della legalità (tranne che per la Bossi-Fini) e soprattutto della Scuola (statale, ca va sans dire); dice cose condivisibili (no alla mafia, all’illegalità) e mi parla male di Eminenze e sottolinea che senza lavoro non si è liberi. Parla con un certo carisma e ha ottime doti di recitazione e buona oratoria: sarebbe stato un ottimo leader del Partito Socialista Italiano. Slogan della serata: Non importa sapere chi è Dio ma da che parte sta, cantato da un menestrello napoletano con voce solista di un sacerdote toscano di Libera”. Non importa chi è Dio, ma da che parte sta. Naturalmente, non avendo più nessun connotato, essendo Uno Nessuno Centomila, amorfo e sfigurato come l’hanno fatto diventare questi qui, non può che stare da qualunque parte lo si voglia portare, “trascinato da tutte le parti secondo ogni nuovo vento di dottrina”, dirà il cardinale Ratzinger alle esequie di Wojtyla. Per questo don Ciotti lo sente sempre dalla sua. Il suo dio minore non è altri che il “secondo me”, la cui rivelazione è contenuta nella carta costituzionale, nuovo libro sacro. Egli ne è il cappellano. Non è un caso che l’ultima volta che l’ho incontrato, è stato davanti alla bara del sommo pontefice della religione fatta di carta… costituzionale: Oscar Luigi Scalfaro.
QUEGLI STUDENTI CHE MARCIANO PER MARINARE LA SCUOLA LECITAMENTE: SENZA FANTASIA, SENZA SINCERITÀ. Vedo il tg e leggo l’Ansa a una settimana dalla tragedia di Brindisi. E noto con fastidio alcune cose. La prima è la canonicissima ennesima “marcia” all’italiana: la liturgia madre, la messa cantata del politicamente corretto di piazza, negli ultimi tempi. Che naturalmente si tiene nella città che ha dato i natali a me e a Melissa: Mesagne. Chi marcia sono gli studenti. E la prima cosa che ti domandi è se non sia (siamo realisti!) più un marinare la scuola e una scampagnata, per giunta illuminata da flash e telecamere. Basta fare un calcolo: una marcia che non significava niente e che pestava acqua nel mortaio, la si tiene un mattino di un giorno scolastico. Eppure potevano farla in un giorno festivo, o meglio ancora nel pomeriggio, quando le scuole son chiuse. E invece no. Quella marcia in cui dei brufoloni berciavano e blateravano di “mafia” senza una logica, un fondamento, e anzi con già pesanti indizi che la discolpavano del tutto, quella marcia lì priva di senso, un senso lo avrebbe avuto se il marciare avesse comportato anche un sacrificio: la mattina andare a scuola, il pomeriggio invece che andare in giro a cazzeggiare, impegnarlo per marciare. Così non è stato: dunque era, a mio avviso – ché studente brufolone pure io son stato, e ben le conosco queste babbiate – , un marinare la scuola. Con l’aggravante dell’ipocrisia. E del cinismo. Ma poi. Bastava guardare i loro slogan per capire che non erano sinceri: la solita roba usata da vent’anni in tutte le salse: “Io non ho paura”, “E adesso uccideteci tutti”, “La mafia è una montagna di merda”, “La mafia uccide, il silenzio pure” e bla bla bla. Slogan senza fantasia, solita frittata parolaia, solita minestra a merenda, pranzo e cena. Da qui t’accorgi che non erano sinceri: dalla mancanza di fantasia (oltre che dall’aver marinato la scuola). E’ quando le cose ti coinvolgono, le senti veramente, che la fantasia si scatena. Ma in questa stanca parata delle vanità? Questo usare a casaccio il solito repertorio ciottesco senza fare uno sforzo d’immaginazione, metterci del proprio, adattarlo al contesto, indica che non sapevano di che stessero parlando, che avvertivano l’artificiosità della situazione. Perché non erano sinceri. Sapevano bene che era tempesta in bicchier d’acqua, simulazione a uso e consumo dei media. Che di altro non si trattava che sindrome da marcite cronica, nella variante mediterranea di chiacchierite da antimafiosite mitomane.
È POLITICAMENTE SCORRETTO DIRE “LA MAFIA NON ESISTE”, ANCHE SE È VERO CHE NON ESISTE. Naturalmente, in questa marcia, c’era pure tutto il resto dell’armamentario giornalistico standard per i casi falsi o presunti di “mafia”. C’era pure in questa occasione un’altra volta don Ciotti a sbraitare nella Mesagne che mi ha visto nascere “contro la mafia”, “l’omertà”, “la gente che ha paura della mafia” e “tace”… e tace soprattutto perché di tutte quelle porcherie sopra elencate non ce n’è manco l’ombra, e quindi che deve dire? C’era pure l’immancabile altro classico della tv italiana, il solito giornalista imbecille e, direbbe Sgarbi, “raccomandato e rottinculo”, che accosta col microfono un povero vecchio che ignaro prende il sole davanti al BarSport a domandagli d’improvviso: “La mafia a Mesagne esiste?”. E quello cade dalle nuvole, ma avvertendo subliminalmente, dinanzi alla tirannia nazista del microfono sciacallo, che è politicamente scorretto dire che la mafia non c’è anche se è vero che non c’è, nell’imbarazzo tace, tanto se dicesse la verità, che la mafia a Mesagne non c’è non solo non sarebbe creduto, ma passerebbe pure per “omertoso”, forse “colluso” e certamente un poco “fascista”. E dalla sera alla mattina un contadino ottantenne che ha lavorato onestamente la terra per una vita, si troverebbe “uomo d’onore”; e infatti, l’altro vecchio, più spigliato, dice giustamente “io non l’ho mai vista”. Risultato: giornalista Rai grida ai quattro venti: “Aveva ragione don Ciotti, ecco la città mafiosa, la gente ha paura della mafia, l’omertà dilaga”. Retorica da antimafia delle chiacchiere. E che, chiacchierando chiacchierando, calunnia. Mesagne non è la prima vittima dei professionisti dell’antimafia delle chiacchiere: le sue vittime, più numerose ormai di quelle della mafia stessa, contano nomi sempre più eccellenti: da Andreotti a Berlusconi. Tutti, naturalmente, assolti con formula piena da tribunali non certo di destra. Mentre quelli che davvero torturarono in vita giudici come Falcone, per poi farselo “amico” appena saltato in aria, quelli non li processa nessuno, anzi, sono fra i massimi notabili dell’antimafia della chiacchiere: parlo per esempio di Leoluca Orlando, o anche del giornale la Repubblica. E infatti scopri che chi ha tentato di aiutare Falcone, con leggi durissime che la mafia l’hanno messa in crisi sino a spingerla a sparargli addosso e a passare allo stragismo terrorista pur di farsele abolire; che chi ha tentato di salvare per amicizia Falcone dall’orda infame, calunniatrice e vigliacca dei suoi colleghi magistrati rossi siciliani, sino a prospettarne la candidatura al Senato per la DC, per strapparlo a quell’ambiente avvelenato di futuri professionisti dell’antimafia delle chiacchiere e dei comizi, furono proprio due personaggi a loro volta perseguitati dai persecutori di Falcone: Andreotti e Calogero Mannino. Guardacaso gli stessi che poi i professionisti dell’antimafia dichiararono “mafiosi” e trascinarono, naturalmente senza una prova, in tribunale. Per sfregio, per odio ideologico. Guardacaso i soli (insieme a Martelli) su cui Falcone potè contare.
LA VERA MAFIA CHE PRETENDE OMERTÀ È QUELLA DEL PROFESSIONISMO DELL’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. Da oggi, quindi, per bolla pontificia di don Ciotti, sommo pontefice dell’antimafia delle chiacchiere, l’attentato di Brindisi è opera della mafia, e la Mesagne che diede i natali al Mastino, ossia a me, è città di mafia. E non lo sapevo. Per riflesso condizionato, quindi, occhio e croce dovrei essere mafioso pure io. Potrebbe essere. Ma voi ve lo immaginate un Mastino “omertoso”?! E proprio perché non sono né mafioso né omertoso, la dico tutta: l’unica mafia, l’unico atteggiamento mafioso e che pretende omertà qualunque cosa dica o faccia, è proprio il professionismo dell’antimafia delle chiacchiere, con tutte le su “Carovane” donciottesche. Dulcis in fundo, leggo l’Ansa del 29 maggio, attenti alle sottolineature: Marcia della legalità a Mesagne (Brindisi), il paese di Melissa Bassi. ”Melissa – ha detto Don Luigi Ciotti, presidente di Libera – è viva, anche se fisicamente non c’é più. Stamani al cimitero ho visto che qualcuno ha attaccato due pezzi di carta. C’era scritto: Melissa vive dentro di noi. Noi ci sentiamo un po’ tutti Melissa”. No, non è vero: i morti sono morti, morti per davvero per il mondo, fisicamente e prestissimo anche “dentro” tutti: solo i genitori si porteranno dentro un dolore che appartiene solitario allo scrigno del loro cuore. Tutto il resto sono chiacchiere. Se non sei una grande mistica, una grande leader, una maitre a penser, che ha segnato la storia, le cose stanno così: sei morta davvero. Mi fa schifo l’ipocrisia che dice le cose “che si devono dire” in determinate circostanze anche se non sono vere: l’ipocrisia sui morti, la menzogna invece della preghiera sparsa sui loro resti, sono sacrilegio e blasfemia.
DIO È LUI, DON CIOTTI. E “LIBERA” NE È IL SUO CORPO MISTICO, LA SUA CHIESA. Come vedete, Ciotti è capace di dire di tutto, persino cose tra il pagano e lo gnostico, purché abbastanza sentimentalistico e formato La Vita in Diretta; tutto, compreso che è “viva” e magari “dentro di noi”, anziché ammettere l’unica cosa che, da prete, avrebbe dovuto dire, la più semplice: “E’ morta, è risorta in Cristo, finalmente ha visto il Suo Santo Volto”. Non lo dice perché è fuori moda, perché in fondo non ci crede, perché se ne vergogna, perché in definitiva gli sembra irrilevante ai suoi fini. Soprattutto perché gli interessa il consenso dell’intellighenzia, delle platee, i galloni della cronaca. Gli applausi del mondo. E per ottenerli è necessaria l’apostasia silenziosa: che non consiste più (solo) nella negazione plateale delle verità cattoliche, quanto piuttosto nella rimozione discreta di Dio. Da ogni contesto. Dalla propria lingua, anzitutto. Perché Dio è lui, don Ciotti. E Libera ne è il suo corpo mistico, la sua chiesa. Costruita sulle sabbie mobili delle mode del mondo. Dello spirito del mondo, cioè. Che poi, come detto, è sempre Lucifero. Tra donchisciottismo e donciottismo non vedo la differenza: Don Chisciotte combatte contro tutti i mulini a vento, scambiati per mostri dalle braccia rotanti; don Ciotti pure, credendo però di combattere la mafia. Ho qui davanti a me Il Mercante di Venezia di Shakespeare. Lo sfoglio a caso e leggo, pensando immediatamente a Ciotti e a quelli come lui: “Le forme esteriori possono ingannare, sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce graziosa, non maschera il volto del male? Nella religione, quale colpa tanto maledetta che una fronte grave non la benedica e approvi usando un testo sacro, con una bella frase celando l’ignominia? Non c’è vizio elementare che non assuma qualche segno di virtù sulle sue parti esterne. Quanti codardi hanno cuori ingannevoli come gradini di sabbia, eppure portano sul mento la barba di Marte corrucciato e di Ercole, loro che, frugati dentro, hanno fegati bianchi come il latte. L’ornamento così, non è che l’insidiosa riva d’un mare periglioso, il velo sfarzoso che nasconde una bellezza barbarica: in una parola, la falsa verità che i tempi astuti indossano per intrappolare i più saggi”. Non a caso ho sotto gli occhi una frase rivelatrice di don Ciotti, a proposito della causa di beatificazione di Tonino Bello, suo omologo pugliese, con un curriculum simile: “Occorrono due miracoli per la beatificazione di don Tonino? Ci sono! Il primo è stato l’elezione di Vendola a governatore della Puglia; il secondo, la sua rielezione”. Non c’è niente da aggiungere.
L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL.
Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.
Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.
Quel romanzo che fa a pezzi il prete antimafia, scrive Alessandro Gnocchi “Il Giornale". Domani arriva in libreria I Buoni di Luca Rastello. È il primo titolo di narrativa pubblicato da Chiarelettere, editore più noto per le inchieste giornalistiche. La collana «Narrazioni», che accoglierà titoli di Gianluigi Nuzzi (sul Vaticano) e Luigi Bisignani (sul direttore di un quotidiano, forse ispirato a Ferruccio De Bortoli) è in linea con lo spirito battagliero del resto del catalogo. I Buoni non mancherà di fare discutere, perché racconta in modo impietoso il mondo dell'associazionismo, del volontariato e soprattutto dell'antimafia. La vicenda ruota attorno a don Silvano, prete anti-cosche, uomo santo per definizione, (ex) predicatore di strada, paladino degli ultimi. Ma anche manipolatore, parolaio, condiscendente oggetto di idolatria, amico di politici e rockstar. L'antimafia esce, dalle pagine de I buoni, come un sistema non troppo dissimile, nei fini e nel linguaggio, alla mafia stessa. L'associazione di Don Silvano, che amministra i beni sequestrati ai clan, favorisce la «mafia» dei propri amici e utilizza i soldi pubblici per scopi privati. Mentre don Silvano recita omelie in memoria dei caduti sul lavoro, i dipendenti della sua onlus sono privati dei diritti elementari. Legalità e trasparenza valgono solo per gli altri. In casa propria ci si regola invece secondo convenienza. E se i bilanci sono truccati, amen. L'intimidazione, riassunta nella frase omertosa «ci sono cose che non sai», è lo strumento per zittire chiunque osi avanzare una critica. Chi manifesta dubbi, viene liquidato senza cerimonie. È il potere dei più buoni, così come lo cantava Giorgio Gaber, «costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni». Il finale apocalittico però suggerisce che il castigo (divino?) giungerà dalle mani di un criminale (un Cattivo, dunque). Il giornalista e scrittore Luca Rastello, tra le altre cose, ha esperienza di questo mondo, avendo lavorato per il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti in qualità di direttore della rivista Narcomafie. Adriano Sofri, sul Foglio, ha già messo in luce le analogie tra finzione e realtà, tra don Silvano e don Ciotti. I riscontri sono puntuali, dai luoghi fino all'arte oratoria passando per fatti di cronaca. Rastello in un'intervista a Nicoletta Tiliacos, sul Foglio, ha spiegato che I Buoni è un romanzo, non un pamphlet, «un'operazione narrativa» che fa «riferimento alla realtà». Don Silvano, dunque, è solo don Silvano: «uso personaggi reali - dice l'autore - come paradigmi di un mondo, di un sistema di manipolazione, di sequestro delle coscienze, non come oggetto di denuncia indirizzato a qualcuno in particolare». Comunque la somiglianza con «i personaggi reali» non passerà inosservata, anzi: scatenerà un uragano che nasconderà i pregi del romanzo. Rastello propone una visione anti-retorica della memoria e della legalità. Ma più interessante è la riflessione sulla nostra dipendenza dai simboli e dalle icone. Don Silvano è un impostore. Come dice Andrea, uno dei protagonisti, «abbiamo bisogno di lui» perché abbiamo bisogno di «convivere col male, fingendo di combatterlo». Don Silvano è l'alibi, la consolazione, l'anestetico, la foglia di fico di una società senza slancio e dalla falsa coscienza.
Roberto Saviano vende fuffa al Corriere. Max Del Papa, 17 gennaio 2021 su Nicolaporro.it. L’epocale passaggio di Roberto Saviano da Repubblica al Corriere è un affarone (a proposito: si potrebbe saperne di più o siamo vincolati al silenzio degli omertosi?) per molti, ma non per tutti: ci guadagna ovviamente il maitre a petit penser sponsorizzato, ci guadagna Repubblica che se ne libera, ma il Corrierino a giudicare dall’esordio ci smena: il biglietto da visita di Roby “Bory” Saviano è una videoinchiestina-soufflè sull’obbligatorio tema delle mafie che col Covid ci guadagnano. Chi abbia mai impacato Roby al ruolo di esperto di Cosa Nostra, non è mai stato chiarito: la leggenda parla della brillantissima intuizione di Gian Arturo Ferrari, che, all’epoca, trasse un ragazzotto ambizioso dalle nebbie vaporose di “Nazione Indiana”, uno dei tanti sotterranei di paraletteratura antagonista, e ne fece una macchina da soldi per Mondadori; l’intendenza mediatica sarebbe seguita di conseguenza, a partire dal martirologio. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: Gomorra funzionò come il Libretto Rosso dell’antimafia comunista, lo leggevano nei centri sociali, nelle chiese sconsacrate e non, se non l’avevi sul comodino minimo minimo eri un picciotto di Totò Riina.
Più che inchiesta, tesina da terza media. In effetti, un mattone d’acqua calda che si ispirava, senza renderle né giustizia né rispetto, alla sceneggiatura di “Piedone lo Sbirro”. Il resto è storia e, soprattutto, business. Perché, ammoniva Gordon Gekko, è sempre una questione di soldi, il resto è conversazione. Roby Boy letterariamente si ispira a Simenon: tre camere a Manhattan (con vista su Central Park), come giornalista invece è nella media. Nel senso che la sua opera prima per il Corriere pare una tesina di terza media: una pioggia dorata di banalità – l’usura che strozza, la mafia che ne approfitta, a Rimini fa incetta di alberghi, pensate, fino alla rivelazione suprema, escatologica: “[oggi] l’estorsione ha un volto diverso e si manifesta mettendo a disposizione capitali”. Scemi noi che pensavamo mettesse a disposizione profiteroles. Due palle così. Per gonfiare le quali, Roby s’affida alle esplosive testimonianze di due interlocutori due: un procuratore aggiunto antimafia e un ex commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e anti usura: se ce la fate a recitarlo tutto senza prendere fiato vincete una cena con Saviano: io, mammeta e ‘a scuorta. Non dicono niente di che, ma si parla molto, di “rapporto, molto complesso, tra criminalità organizzata e usura”, ma chi l’avrebbe detto, si parla di un tale di Sos impresa che racconta come “nel Napoletano i clan abbiano minacciato e in alcuni casi pestato preti per ottenere gli elenchi dei bisognosi che ricevevano aiuti dalla Caritas”. Nooo! E perché mai? Vediamo se ci arriviamo da soli: forse per sovvenzionarli loro, in modo da incravattarli per benino? Ma per capire questo bastava Amici Miei con Savino Capogreco lo strozzino. Meglio ancora, bastava un libro vero, serio, sulla camorra, “Napoli siamo noi” che Giorgio Bocca firmò alla veneranda età di 85 anni: centocinquanta pagine che dicevano tutto quello che Saviano non avrebbe mai detto in fiumi di parole. Pensare che all’Espresso gli diedero proprio la rubrica di Bocca, l’Antitaliano, ci sarebbe da carcerarli. Tutti.
Apprendista tuttologo. E insomma, l’esplosiva prima inchiesta di Roby per il Corriere è tutta qui. Breve ma elefantiaca: uno ad arrivare in fondo non ce la fa tanto è stoppacciosa, faticata, zoppicante a cominciare dall’odioso vezzo di narrare in prima persona, io, io, io-io-io. Si parla di questo, si parla di quello, si parla addosso: le paginette di Boy Rob restano inchiodate ad una superficie di constatazione, non si scende mai in profondità, non si scopre mai altro che acqua calda, si milita molto, si fa parecchia ideologia, si pratica l’inesausto vittimismo dell’autoproduzione. Ma niente di più. Mai. “Ciò dimostra che ormai nessun luogo è immune, che Milano non è immune, che la Lombardia non lo è, che non lo è il Nord – e questo lo sapevamo già…”. Se lo dice pure da solo, meno male. “Ormai”, Roby? Ormai oggi Milano non è immune da mafia e usura? E su, che hai 40 anni, informati, chiedi chi erano quei ceffi che negli anni ’60 e ’70 stavano con le macchine davanti al Ragno d’Oro e dirigevano il traffico di chi entrava a sentire Tony Dallara. Documentati sulla pittoresca e pericolosa clientela del Derby. Prova a informarti su Turatello, Ugo Bossi, Vallanzasca e i rapporti burrascosi tra di loro e con i mafiosi di Liggio a Milano. Vuoi una mappa dei luoghi già controllati allora dalle organizzazioni criminali, la vuoi oggi? Tutto è molto irritante, perché puerile; perché questa tuttologia di cui resta poco e niente sa molto di apprendista a dispetto del pompaggio che da una quindicina d’anni gonfia questo ragazzo transitato da Repubblica al Corriere, abbiamo letto, per intercessione di Fabio Fazio. Perché oggi per cambiare giornale ci vuole un conduttore vicino al Pd, il cui impresario, Beppe Caschetto, è un ex funzionario Cgil. E va bene, diteci pure che siamo miscredenti, blasfemi, che Roby è un martire anche per noi ingrati, anzi diteci che rosichiamo perché lui fa Central Park – Che tempo che fa in 8 ore nette, Lindbergh is nothing. Prima però leggete il compitino di Roby Saviano, possibilmente arrivando in fondo (è roba da duri, ma ce la si può fare). E poi ne riparliamo.
· L'Antimafia delle Star.
Fiammetta Borsellino: «L’attuale Csm omissivo sulle stragi del 1992». Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso da Cosa Nostra, accusa l'attuale Consiglio Superiore della Magistratura. «Si faccia una vera indagine». Il Dubbio il 21 dicembre 2021. Il comportamento dell’attuale Csm «sulla stagione delle stragi del ’92» è stato «omissivo». È la denuncia di Fiammetta Borsellino che a Palermo, nel corso del convegno “Ricostruire l’Antimafia”, alla presenza del Presidente dell’Antimafia all’Ars Claudio Fava e della ex Presidente dell’Antimafia nazionale Rosy Bindi, ha detto: «Devo ringraziare la commissione regionale Antimafia perché ha dato uno sguardo molto attento a quello che è stata la terribile stagione delle stragi del ’92 e, in particolare, su quella di via d’Amelio. Sarebbe stato auspicabile che a questo lavoro, tuttavia, fosse seguita un’attività di indagine investigativa e di approfondimento da parte del Consiglio superiore della magistratura, ma il comportamento omissivo di questo organo in tal senso è un dato di fatto e non una mia opinione». Il lavoro della Commissione, per Fiammetta Borsellino, «si è concluso con due relazioni: una sul più grande depistaggio nonché sul più grave errore giudiziario del nostro Paese, e una seconda sul terribile clima all’interno della Procura di Palermo retta da Pietro Giammanco, peraltro mai sentito dalla magistratura e su tutti i soggetti esterni a Cosa nostra parimenti interessati alle stragi».
Fiammetta Borsellino: «Basta fare carriera con l’Antimafia». Il Dubbio il 22 dicembre 2021. Fiammetta Borsellino parla delle recenti indagini che hanno riguardato esponenti cosiddetti "antimafia". «Non devono mirare al potere e non è un potere». Il comportamento dell’attuale Csm «sulla stagione delle stragi del ’92» è stato «omissivo». È la denuncia di Fiammetta Borsellino che a Palermo, nel corso del convegno “Ricostruire l’Antimafia”, alla presenza del Presidente dell’Antimafia all’Ars Claudio Fava e della ex Presidente dell’Antimafia nazionale Rosy Bindi, ha detto: «Devo ringraziare la commissione regionale Antimafia perché ha dato uno sguardo molto attento a quello che è stata la terribile stagione delle stragi del ’92 e, in particolare, su quella di via d’Amelio. Sarebbe stato auspicabile che a questo lavoro, tuttavia, fosse seguita un’attività di indagine investigativa e di approfondimento da parte del Consiglio superiore della magistratura, ma il comportamento omissivo di questo organo in tal senso è un dato di fatto e non una mia opinione».
Il lavoro della Commissione, per Fiammetta Borsellino, «si è concluso con due relazioni: una sul più grande depistaggio nonché sul più grave errore giudiziario del nostro Paese, e una seconda sul terribile clima all’interno della Procura di Palermo retta da Pietro Giammanco, peraltro mai sentito dalla magistratura e su tutti i soggetti esterni a Cosa nostra parimenti interessati alle stragi».
L’Antimafia secondo Fiammetta Borsellino
«L’antimafia non può non essere disinteressata, non può mirare al potere e non può diventare essa stessa potere» ha detto Fiammetta Borsellino, nel corso del convegno “Ripensare la mafia – Ricostruire l’antimafia”, in corso allo Steri. «Quando l’antimafia diventa potere il suo campo di azione viene fortemente vincolato e circoscritto – ha aggiunto Fiammetta Borsellino – e questo non deve assolutamente accadere».
Secondo la figlia di Paolo Borsellino, che nel suo intervento ha citato i casi della ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto e dell’ex presidente di Confindustria Sicilia Calogero Montante, «l’antimafia non può essere il trampolino di lancio per facili carriere, non può essere orientata ad abusi o a rendite di posizione».
L’eredità di Falcone: quegli eroi silenziosi della lotta alla mafia. Gabriele Romagnoli su La Repubblica il 23 ottobre 2021. Fu lui trent’anni fa a inventare la Dia: adesso un film ne ricostruisce la storia. Una voce fuori campo dice: "Falcone è stato ammazzato perché si era inventato la Dia". A trent'anni dalla fondazione, il film che ne celebra l'attività non può che cominciare e finire intorno al cratere di Capaci, perché è da quel giorno che la creatura del giudice massacrato con la moglie e la scorta cominciò finalmente a muoversi. Dia 1991 - Parlare poco apparire meno non è un film d'azione, è la storia, a tratti straziante, di un padre e dei suoi figli, inevitabilmente la storia di un'eredità. Giovanni Falcone, racconta il suo collega Giuseppe Ayala, si era sentito dire in America che da noi "si combatteva il crimine organizzato in modo disorganizzato" e aveva concepito una sorta di Fbi all'italiana. Le diede vita con il suo sacrificio. È da quel 23 maggio 1992 che la Dia opera realmente. La sua è un'avventura di uomini che di Falcone imparano il metodo (ragiona come i tuoi nemici, parla come loro, muoviti come loro) e di Falcone adottano lo stile di vita, che significa essenzialmente rinuncia, ombra, attesa. Uno racconta: "Mio figlio a chi gli chiedeva il mestiere del padre rispondeva: pulisce le strade. E in qualche modo era vero". Un altro: "Io, mio figlio non l'ho visto per otto anni. Avevo la valigia sotto il letto in attesa della chiamata per una missione. Chi la iniziava, la finiva. Facevamo la stessa vita dei latitanti a cui davamo la caccia. E quando li prendevamo, nessun merito. Solo la nostalgia, la sindrome del reduce, i problemi psicologici". Un altro ancora: "È stato tutto bello, tutto brutto. Ma ne è valsa la pena". Gli esordi sono stati una partita impari: "Non avevamo niente. Né sedie, né palette, niente. I mafiosi usavano i cellulari noi correvamo alle cabine telefoniche con i gettoni. Di tasca nostra ci comprammo un faldone per tenere i documenti e gli appunti". Poi arrivarono le cimici per le intercettazioni e ci fu il salto di qualità, il sorpasso tecnologico sulla mafia che non si aspettava quel tipo di controllo a distanza. E vennero le vittorie. Il film ne racconta quattro: la cattura di Leoluca Bagarella, quella di Sandokan (il capo dei Casalesi), l'operazione Olimpia contro la 'ndrangheta e quella che stroncò un giro di usura in Veneto. Il senso dell'avventura non è nel risultato, ma nella maniera in cui lo si è ottenuto. È nella dedizione assoluta che porta a lavorare senza sosta per giorni, trascurando ogni altra cosa con la certezza, l'invidiabile certezza, di essere in guerra dalla parte giusta. È un sentimento raro, inseguito invano da generazioni, coronato da pochi individui in attività diverse, svolte a macchia di leopardo nel tempo e nello spazio. Questi uomini ne fanno parte. Non vedendoli, ma sentendoli parlare (pur con poche parole, come da motto) si capisce che il loro punto fermo non sia avere fede nello Stato, vanno oltre: lo incarnano. Lo Stato è anche quello che dà incarichi ma non risorse a un giudice coraggioso, che non permette ai suoi servitori di battersi ad armi pari, che non entra a Casal di Principe. Lo Stato è un'idea, vuota come tante finché qualcuno non la indossa, se ne fa portatore, modello, esempio. C'è un passaggio trascurabile ma simbolico nel capitolo dell'arresto di Leoluca Bagarella. È un successo, certo, ottenuto scommettendo sulla soffiata di un pentito, credendo all'intuizione di un agente che riconosce il latitante, rischiando per bloccarne la via di fuga. Fin qui, siamo nel manuale. Fin qui è attività investigativa. Poi accadono tre cose. La prima: quando il convoglio rientra con la preda, via radio viene proposto l'ingresso trionfale dal cancello principale, invece viene scelta l'ombra, ancora l'ombra, passando dai garage. La seconda: la prima telefonata per annunciare la cattura è al figlio di una vittima del boss. La terza: mentre Bagarella aspetta, in manette, su una sedia, un agente gli offre un panino, che lui rifiuta sdegnato. L'offerta di quel panino, riflette una delle voci, è l'immagine dello Stato, la sua forma. Ragionare, parlare, muoversi come loro finché li hai battuti. Poi tornare a ragionare, parlare e muoversi diversamente. Disse il padre: "Si è costituita una rete di comuni ideali che prescinde dalla mia persona e che non sarà dispersa". Lo vedi con una camicia azzurra aperta, le maniche arrotolate, la sigaretta tra le dita, si muove su una strada, scena di un delitto. Ha nello sguardo l'ombra di sempre, la luce di sempre, E ha, come sempre, ragione.
Eroi troppo soli e cattivi da Spectre: vizi e virtù della mafia da fiction. Giudici abbandonati da tutti. Capibastone ispirati dal “Gattopardo”. Uniti nel disegnare una situazione ineluttabile. Come spiega Morreale in un saggio che va dalla “Piovra” a Pif. Dal nuovo blog de L’Espresso su mafia, antimafia e dintorni. Tano Grasso su L'Espresso il 21 ottobre 2021. Per una volta inizio con l’editore, in questo caso Donzelli: per esprimere apprezzamento e gratitudine per aver realizzato con il libro di Emiliano Morreale “La mafia immaginaria” una ideale trilogia con “La storia della mafia” di Salvatore Lupo e “Mafie vecchie, mafie nuove” di Rocco Sciarrone. In queste opere la mafia (e l’antimafia) viene analizzata secondo tre diverse prospettive, quella storica, quella sociologica e, ora, quella cinematografica. Quando in libreria ho iniziato a sfogliare “La mafia immaginaria”, ho subito pensato: finalmente! A fronte di numerose pubblicazioni sul tema, il rapporto dell’arte cinematografica con la mafia è stato argomento marginale. Adesso, con questo libro, tanto desiderato e invocato e atteso quanto utile, viene offerta una visione d’insieme su “settant’anni di Cosa Nostra al cinema” (è il sottotitolo), fiction incluse. Il cinema con la sua grande potenza comunicativa favorisce una certa rappresentazione della mafia destinata a divenire senso comune, influenzando la percezione del fenomeno in ampi strati di popolazione. Una forza naturalmente incommensurabile rispetto ai libri. A partire dall’auto-rappresentazione degli stessi mafiosi. Numerosi collaboratori di giustizia hanno raccontato come abbiano subito il fascino del cinema: a proposito del Padrino, scrive Morreale, e dell’«influenza del film nell’auto-rappresentazione di Cosa Nostra. Non si contano le storie di boss che, dopo il film, ripetevano mosse e atteggiamenti di Marlon Brando» (p. 158). A Tommaso Buscetta «una notte, in sogno» gli appare Falcone nelle vesti di Guido Schiavi, il pretore interpretato da Massimo Girotti “In nome della legge”, e, come lui, «era la calma, la forza tranquilla della giustizia che lui rappresentava». Il film, continua Buscetta, si conclude con la sottomissione del capomafia alla giustizia: «La storia mi era piaciuta molto”», nonostante le critiche di altri mafiosi, perché «il comportamento di Passalacqua [il boss] era indegno di un uomo d’onore» (il film piace a Buscetta perché la mafia rappresentata coincide con l’idea di mafia del pentito, un’idea solo da cinema, per nulla corrispondente alla realtà). Morreale è particolarmente efficace nell’opera di decodificazione e di demistificazione di una parte della produzione filmica. Il problema decisivo è che la mafia come oggetto mediale condiziona l’approccio e può rendere problematica e parziale la stessa conoscenza del fenomeno, con evidenti ricadute nell’azione di contrasto. In questo il libro non è solo un pregiato prodotto accademico, ma offre una visione che va ben oltre il prodotto cinematografico, una prospettiva politica che, attraverso la critica, mette in discussione gli stessi modi di combattere le mafie. Il cinema è specchio della realtà e allo stesso tempo è deformazione della realtà. Solo l’approccio critico dirada le nebbie. “La mafia immaginaria” suscita nel lettore una speciale sensazione: leggere le 311 pagine del libro è come attraversare dimensioni conoscitive diverse: c’è l’analisi rigorosa di film e serie tv; ma tutto ciò non è chiuso in un recinto autoreferenziale; si passa con naturalezza, anzi si viene sollecitati a farlo, alla dimensione della politica, della cultura, degli stessi fatti giudiziari. Insomma è un libro “non recintato”, aperto a ogni tipo di incursione, dal cinema ai fatti reali e viceversa. Ad esempio, si prenda il tema sollevato a suo tempo da Sciascia nel famoso articolo sui “professionisti”, quello di un eccesso dei riti e delle cerimonie dell’antimafia. Morreale, scrivendo di film, non usa giri di parole. Prendendo spunto da Ciprì e Maresco mette il dito nella piaga: «Il problema non è più l’assenza di informazioni ma l’eccesso di rappresentazioni», per concludere: «La denuncia non basta più: raccontare seriamente le mafie, oggi, implica rimettersi in discussione in quanto produttori di storie e di immagini, spiazzare gli spettatori rispetto a narrazioni evasive e rassicuranti» (p. 17). Nient’altro che le “profetiche” intuizioni di Leonardo Sciascia, quando scrivendo del “Mafioso” di Lattuada (1962), veniva assalito dal «dubbio se il continuare a parlarne non finirà col rendere alla mafia quell’utile stesso che prima le rendeva il silenzio» (p. 68). Per noi, resta aperto il problema, noi impegnati nel movimento antimafia, di “rimetterci in discussione”. Non è vero che l’alternativa è sempre tra silenzio e denuncia, anzi, come alcuni esempi recenti dimostrano quest’ultima può ridursi ad acqua fresca e, quindi, legittimare ulteriormente le mafie. Un altro esempio di “incursione” è la puntuale analisi del film “La trattativa” di Sabina Guzzanti che dentro “una Grande Teoria” mette insieme le ambiguità di organi dello Stato, le stragi del 1992-93 e la nascita di Forza Italia. Il film «utilizza la trattativa per spiegare tutto, cerca un disegno univoco in una materia irriducibilmente opaca»; di conseguenza, «non solo la politica viene spiegata attraverso i fenomeni criminali, ma inversamente i fenomeni criminali sono essenzialmente visti in ottica politica; l’economia e la società rimangono fuori dal circuito» (p. 262). Una prospettiva “auto-consolatoria” che riduce la vittoria di Forza Italia a una specie di golpe e non a fattori politici, sociali, culturali. Un’impostazione che riappare nel film di PIF “In guerra per amore”: l’evento storico è lo sbarco degli Alleati in Sicilia utilizzato per stabilire una linea di continuità con la storia presente («rivelare verità che si riverberano sull’oggi») come a segnare «una sorta di peccato originale». Una filosofia della storia semplicistica con l’effetto di una «autoassoluzione della cultura e dello spettacolo di sinistra» (p. 278). Di un libro così ricco di analisi, riferimenti, suggestioni, è impossibile offrire una sintesi. È un bel libro, da leggere e da “godere”, con un particolare interesse per alcuni titoli: il “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi, “Tano da morire” di Roberta Torre sino alla geniale produzione di Franco Maresco e “Il traditore” di Marco Bellocchio. Ho trovato molto intrigante il riferimento al “Gattopardo”. In una certa fase il cinema ha proposto una immagine stereotipata del capomafia: «I vecchi boss ieratici, sempre in posizione seduta e da fototipo normanno, sono figli ideali del principe Salina del Gattopardo» (p. 64), scrive Morreale. L’idea di una terra irredimibile fa il paio con quella di una mafia invincibile e la raffigurazione cinematografica del principe interpretato da Burt Lancaster «è l’antenato di tutti i vecchi boss che sanno e osservano con disincanto i destini della Storia», basti pensare alla versione cinematografica di don Mariano Arena o a don Vito Corleone. L’irredimibilità coincide con rassegnazione, accettazione, impossibilità di cambiamento, rinuncia alla lotta. Aspetti questi, però, estranei al "Giorno della civetta"; basti pensare alle ultime parole del capitano Bellodi nel romanzo di Sciascia: si è scontrato nel suo lavoro d’investigatore con un potere, quello mafioso e quello politico, assolutamente sproporzionato rispetto ai mezzi disponibili all’epoca; ha giocato una partita e l’ha persa. L’ha persa per l’impossibilità dei tempi, senza mai smarrire nella sconfitta la lucidità; anzi, proprio da qui rilancia la sfida: «Si sentiva un po’ confuso [Bellodi]. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. "Mi ci romperò la testa", disse a voce alta». Una delle caratteristiche del mafia movie è che «non c’è traccia di opposizione organizzata a Cosa Nostra, né politica né sociale. Gli eroi sono soli, e come loro i giornalisti o poliziotti che momentaneamente li aiutano» (p. 63), insomma: «L’antimafia al cinema la fanno i singoli» (p. 49). Il modello comunicativo “Spectre/James Bond” ha sempre il successo assicurato al botteghino, non solo perché offre una rappresentazione semplicistica della realtà, l’eroe solitario che con le proprie capacità, unico valore aggiunto della storia, combatte contro il “mostro”, personificazione del male assoluto, organizzato e potente di mezzi e complicità, invincibile, ma perché offre il più perfetto alibi al disimpegno e alla rassegnazione. Giovanni Falcone metteva in guardia dal rischio di esorcizzare il male proiettandolo su comportamenti radicalmente distanti dai nostri: «Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia». "La Piovra" e la serie di "Gomorra" (la prima) rappresentano due estremi opposti, ma entrambi sbagliati. Nella serie del commissario Cattani si ha una personalizzazione dello scontro con la mafia, secondo un’impostazione eroica e salvifica del protagonista, un eroismo velleitario: la conseguenza è quella di offrire un modello di lotta alla mafia vocato alla sconfitta. L’opposizione alle mafie non può mai, se vuole essere incisiva, ridursi all’opposizione eroe/male, deve avere una dimensione strategica e organizzata (ancora Falcone). "Gomorra", con un punto di osservazione opposto (dalla parte del “male”), sortisce analogo effetto, una prospettiva di ineluttabilità e di invincibilità radicata nelle dinamiche camorriste. In entrambi i casi a prevalere è la sconfitta ("La Piovra") o l’irrilevanza dell’antimafia ("Gomorra"). Nella serie sui casalesi la cosa che più colpisce è la scelta, meditata e convinta, di esprimere un mondo del tutto chiuso all’esterno: ma così non è nella realtà: il fenomeno mafioso si definisce necessariamente nel confronto con l’azione di contrasto che, inevitabilmente, incide sulle stesse dinamiche interne. Nell’introduzione Morreale svolge un’impegnativa affermazione che è bene avere sempre presente: «Nessun film o prodotto televisivo ha mai scosso il mondo di Cosa Nostra: l’organizzazione, che ha ucciso e minacciato decine di giornalisti, non si è mai sentita infastidita dal cinema e dalle fiction antimafia» (p. 16). Forse una spiegazione è nelle parole “ciniche” di Franco Maresco nelle ultime due righe del libro. La mafia è un fenomeno complesso, non solo criminale, ma anche sociale, economico, culturale, politico. Non sempre il cinema ha saputo dar conto di queste sfaccettature. Ma la risposta dell’autore di “La mafia non è più quella di una volta”, più di tanti saggi, film, narrazioni indica questo senso della complessità (e della difficoltà): «I ragazzi ti rispondono: "Mi piacerebbe fare il killer, ma se non posso, anche il carabiniere va bene". Tanto sono comunque eroi da fiction, di un super-Blob» (p.311). Emiliano Morreale, "La mafia immaginaria" (Donzelli, pp. 344, euro 30)
Pane, amore e stato di polizia. Ingroia in difesa della Lollo e altre fantastiche perversioni del circo cinematografico-giudiziario. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 15 Novembre 2021. All’eterna docufiction politico-manettara in cui siamo costantemente immersi da quasi trent’anni si aggiunge ora un fantastico spin-off: l’ex magistrato antimafia divenuto avvocato, scoperto (e assunto) dalla Bersagliera grazie a Netflix. In questi giorni, sull’onda dell’inchiesta sulla fondazione Open, e della consueta congerie di intercettazioni, e-mail, sms e whatsapp quasi sempre penalmente irrilevanti di cui puntualmente si riempiono giornali e televisioni, si torna a parlare molto di politica e giustizia. Se ne torna a parlare in questi giorni, come ogni giorno da circa ventotto anni, a dire il vero, perlomeno quando non si parla di legge elettorale o di riforme istituzionali. In pratica, siamo costantemente immersi in una sorta di perenne 1993 – da un’idea di Marco Travaglio – dal quale sembra proprio che non riusciamo a uscire, prigionieri di un’interminabile docufiction politico-giudiziaria in trentamila puntate, tutte uguali. Mi perdonerete quindi se stavolta proprio non mi va di tornare sulla questione, per spiegare ancora una volta, oggi a proposito di Matteo Renzi e del caso Open come ieri a proposito di Massimo D’Alema, Piero Fassino e del caso Unipol (ma ogni lettore aggiunga pure i suoi esempi preferiti), che in Italia da troppi anni la lotta per il potere ha assunto la forma della caccia alla volpe: uno sport che si gioca solo in cento contro uno, sui giornali e in tv, senza nemmeno quel minimo di regole che persino la caccia alla volpe prevede (tanto meno da quando a giornali e tv si sono aggiunti anche i social network). Stanco come sono di ascoltare e di ripetere io per primo sempre le stesse cose, oggi vorrei dunque occuparmi di cinema. Perché, con mia grande sorpresa, molte delle cose che penso a proposito della docufiction di cui sopra le ha dette, certo senza rendersene conto (cioè senza rendersi conto del profondo significato che le sue parole assumevano, al di là della notizia di cronaca che ne costituiva lo spunto), pensate un po’, Antonio Ingroia. Per la precisione: Antonio Ingroia, intervistato ieri dal Corriere della Sera nelle inedite vesti di avvocato di Gina Lollobrigida. Proprio lui. Il già celebre pubblico ministero impegnato tra l’altro nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-Mafia (a proposito di docufiction), processo da lui lasciato nel 2012 per guidare la lotta al narcotraffico in Guatemala per conto dell’Onu (a proposito di fiction), salvo lasciare anche quell’incarico appena due mesi dopo, per candidarsi alle elezioni con un partito nuovo di zecca, fondato per l’occasione: Rivoluzione civile. Come ricorderete, è finita anche peggio del processo Trattativa: 2,25 per cento. Ma lui, non lasciandosi abbattere dal magro risultato della formazione con cui si era di fatto candidato a presidente del Consiglio, ci riprova alle politiche del 2018 con la Lista del Popolo, totalizzando uno squillante 0,02 per cento (nessun refuso: zero virgola zero due), e due anni dopo, abbassando leggermente il tiro, con la candidatura a sindaco di Campobello di Mazara, ovviamente senza essere eletto neanche lì. A dire la verità, la storia della sua controversa uscita dalla magistratura e delle sue successive occupazioni, a cominciare dagli incarichi assai ben remunerati ottenuti dalla Regione Sicilia (e relative vicende giudiziarie), sarebbe molto più lunga, ma credo di aver rinfrescato la memoria del lettore con i dati essenziali della sua biografia. Del resto, stiamo parlando di una delle figure più note e più intervistate dalla stampa e dalla televisione italiana, che in questi anni non ha fatto mancare il suo autorevole parere su tutte le più delicate, controverse e scottanti questioni politiche e giudiziarie: persino negli scarsi due mesi di lavoro per la Comisión Internacional contra la Impunidad riuscì a ottenere una surreale rubrica sul Fatto quotidiano dal titolo «Diario dal Guatemala». Ebbene, come mai «la regina del cinema italiano», domanda il giornalista del Corriere della Sera che lo intervista, Felice Cavallaro, ha scelto proprio lui, Ingroia, come avvocato? «Nasce tutto da Netflix», risponde l’ex magistrato, riferendosi alla docufiction sul caso di Pino Maniaci in cui Ingroia ha effettivamente recitato nel ruolo di se stesso (piccola avvertenza per il lettore distratto: qui il termine “docufiction”, come il fatto che Ingroia recitasse nel ruolo di se stesso, e come tutto il resto, non sono metafore, immagini, allegorie di un bel niente, ma puri dati di fatto, da intendersi in senso letterale). Gina Lollobrigida si sente vittima di un’ingiustizia e accusa il figlio – da ultimo anche in un video in cui si rivolge agli italiani guardando direttamente in camera, seduta accanto al suo nuovo avvocato – di volerle togliere la sua libertà e anche i suoi soldi. Sta di fatto che finora i giudici hanno dato ragione al figlio. E così l’attrice, che ha apprezzato la serie tv e soprattutto, dice Ingroia, la sua grinta («Gli avvocati hanno bisogno di mostrare pure un necessario aspetto scenico, dall’eloquio alla presenza»), si è rivolta all’ex pm, nonché collega attore, per passare al contrattacco. Con una scelta che forse non depone a favore della sua lucidità. «Cinema o giustizia?», domanda a questo punto l’intervistatore. «L’uno e l’altro. Si integrano le mie passioni di sempre», risponde Ingroia. E se non vi sembra una confessione questa, davvero non saprei cosa aggiungere.
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 14 novembre 2021. «Mi chiamo Gina Lollobrigida e sono una donna che ha rappresentato l'Italia nel mondo. Oggi, a più di 90 anni, sono piena di energie e di voglia di fare ancora. Purtroppo sono anni di grande amarezza perché subisco attacchi alla mia libertà e al mio patrimonio...». Alt, d'accordo, la storia è intricata, per quanto abbastanza nota: ruota sull'età dell'attrice e soprattutto su un bel mucchio di soldi e diversi soggetti che ci girano attorno generando una malsana, ma irresistibile curiosità. Però chi è quel signore soddisfatto seduto sulla poltrona al suo fianco? Sorpresa delle sorprese: sì, è proprio Antonio Ingroia, già campione fra i paladini dell'antimafia e dopo mille avventure candidato alla presidenza del Consiglio quale fondatore e leader del partito arancione "Rivoluzione civile". L'attrice vegliarda l'ha scelto come avvocato "guerriero" nelle sue peripezie famigliari e giudiziarie. Lui l'ascolta guardando in camera, annuisce, sorride, quando lei affronta la questione del figlio, «sangue del mio sangue», Ingroia si gratta la pancia e alla fine protettivo le prende le mani. Quindi mette in scena la sua vibrante concione nella quale, invocate giustizia verità, libertà, si designa «avvocato d'attacco» e come tale s' impegnerà a restituire Lollobrigida «all'arte», eccetera. Il video dura sei minuti, a loro modo formidabili. Lo si guarda come un documento che esalta le meraviglie del possibile, ma anche con un certo senso di colpa perché, pur affrontando vicende abbastanza tristi, come succede in Italia fa anche un po' ridere. C'è un attimo in cui Ingroia sembra guardare nel vuoto; forse si è solo distratto, o forse sta pensando anche lui all'imprevedibilità del destino, dalle aule popolate dai più sanguinari mafiosi e dalla Costituzione minacciata dal più torbido e complice berlusconismo, a una prossima, magari, incantevole puntata di "Un giorno in Pretura" a base di cospicue eredità e pseudo truffe sentimentali. Per cui, dopo aver impiegato un'oretta a ricostruire una biografia densa di accuse e applausi, quindi di arrivismo, aggiustamenti e ghirigori, alla fine ci si sorprende a chiedersi quale modello letterario incarni Ingroia: Bel Amì o Don Chisciotte? Ma non funziona così, essendo la vita più ricca dei libri, mentre l'umile cronaca certamente aiuta a inquadrare il personaggio nella sua originaria passione, ma pure nelle sue debolezze. E va bene: chi non ne ha? Ma Ingroia ha sempre puntato sul macroscopico, parente stretto dell'eccesso, dal Guatemala alla Val d'Aosta, dai trionfi come pm ai ruzzoloni come imputato. Sempre troppo eroe, troppo narciso, troppo litigioso, troppi talk-show, troppa fiducia in se stesso, nella sua intelligenza e nella sua astuzia, che invece si ribaltano nell'ingenuità con una punta di grottesco. Una concezione del suo essere magistrato troppo elastica, a dir poco. Troppi politici bazzicati, Di Pietro, Fini, Grillo, i rifondaroli, i comunisti italiani, alla fine cattolici tradizionalisti, generali e filorussi: per un esito troppo povero. Un soggettone, in definitiva, tre quattro esistenze compresse e un po' a vuoto, "Azione civica", "La mossa del cavallo", la confessione radiofonica, la partita del cuore, il red carpet a Venezia, la serie Netflix (sul caso Maniaci: bravissimo), penultima tappa la 'ndrangheta dietro il Covid. Adesso Gina Lollobrigida che l'ha scelto. Capacità d'intendere e di volare (oh-oh).
Da ansa.it il 14 novembre 2021. "Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l'attività del Consiglio superiore della magistratura e dell'intera magistratura". Lo ha detto il togato del Csm Nino Di Matteo, ex pm del processo 'Trattativa', intervistato da Andrea Purgatori ad Atlantide, trasmissione in onda stasera su La7. Con l'appartenenza alle cordate - prosegue Di Matteo - "vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera" e l'avversario "diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare". E in fondo - aggiunge il togato, "la logica dell'appartenenza è molto simile alle logiche mafiose", è "il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura". Secondo Di Matteo, il "sistema" delle correnti del quale Luca Palamara era solo una "pedina", al quale si affianca quello delle "cordate", è uno schiaffo al sacrificio dei 28 magistrati uccisi dalla criminalità organizzata e dal terrorismo come Falcone e Borsellino, che gli stessi appartenenti al 'sistema' "fingono di onorare" e "utilizzano la loro tragica morte per attaccare i magistrati vivi". Come la politica, che ha rinunciato alle sue responsabilità per "usare i magistrati come alibi" e - sottolinea Di Matteo - sta discutendo una "pessima riforma" della Giustizia presentata dalla ministra Marta Cartabia, che "rischia di mandare in fumo tanti processi". Da pochi giorni è uscito il libro 'Nemici della giustizia' scritto da Di Matteo con il giornalista Saverio Lodato.
GIUSEPPE SALVAGGIULO per la Stampa il 5 dicembre 2021.
Nino Di Matteo, da due anni lei è al Csm, eletto dopo il caso Palamara. Le correnti sono più forti o più deboli?
«Il Csm si dibatte tra spinte al cambiamento e controspinte conservatrici, come la difficoltà di liberarsi delle vecchie logiche, dure a morire, e nella tentazione di sopire, ridimensionare».
Se l'aspettava?
«Avevo sempre diffidato del Csm: isolava e delegittimava, anziché difendere, i magistrati liberi e coraggiosi, non intruppati. Quelli che, come dicevano di me, non "coltivano" le domande per gli incarichi direttivi».
Ora parla di spinte al cambiamento: quali?
«Il voto spesso non unanime dei membri delle correnti, che scalfisce la ferrea logica di appartenenza».
I segnali di conservazione?
«La valutazione di intercettazioni e chat con Palamara, con magistrati che chiedevano il sostegno di correnti ed esponenti politici. Talvolta emergono logica di minimizzazione, prudenza sospetta e perfino riflesso di protezione per chi nei rispettivi gruppi aveva incarichi importanti».
Che spiegazione dà?
«Si pensa che destituito Palamara e puniti i suoi accoliti dell'hotel Champagne, il problema sia risolto».
Non è così?
«Palamara da solo non decideva nulla. Grave errore demonizzarlo come organizzatore o perno fondamentale. Era una pedina importante, non di più, di un sistema alimentato da una base di consenso e dalla spinta dal basso di magistrati che chiedevano aiuto a fini di carriera».
Il libro di Palamara le è piaciuto?
«È un libro utile, perché la verità è sempre necessaria». Nel libro "I nemici della giustizia" elogia e difende il suo collega Ardita.
Che idea si è fatto dei verbali sulla loggia Ungheria in cui è citato, e che furono portati al Csm da Davigo?
«Senza scendere in dettagli perché ci sono inchieste giudiziarie e pratiche al Csm, non voglio essere ipocrita. La vicenda è di una gravità non minore, in termini di intralcio al regolare funzionamento del Csm, della riunione dell'hotel Champagne con Palamara, Ferri, Lotti e i cinque membri del Csm».
In cosa consiste la gravità?
«Nella circolazione, dentro e fuori il Csm, di verbali giudiziari coperti da segreto, senza che nessuno dei consiglieri informati ne ufficializzasse la ricezione o trasmissione né prendesse iniziative formali. Al di là di singole posizioni, un grave danno al tentativo di recupero di credibilità e autorevolezza del Csm».
Secondo lei di quella vicenda sappiamo tutto?
«Spero che nelle sedi giudiziarie si possa chiarire il dubbio angoscioso che ho dall'inizio e con il tempo, anziché svanire, si è rafforzato». Ovvero? «Che questa circolazione impropria dei verbali sia stata in qualche modo strumentalizzata per interferire sul Csm, condizionando un organo di rilievo costituzionale».
Con le regole differenziate per i processi di mafia il suo giudizio sulla riforma Cartabia è migliorato?
«Continuo a ritenerla dannosa e pericolosa. Sono perplesso per la prevalenza delle esigenze legate ai fondi del Pnrr su quelle di giustizia, in una visione della società dominata dall'economia e non dal diritto. Contesto la soluzione tecnica dell'improcedibilità, estranea alla nostra cultura giuridica, che manderà in fumo i processi anziché velocizzarli. E sono allarmato dall'attribuzione al Parlamento del potere di stabilire criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale».
Diffida del Parlamento?
«No, del vulnus ai principi di separazione dei poteri e obbligatorietà dell'azione penale, un'arma formidabile per condizionare l'attività giudiziaria in mano alle mutevoli maggioranze politiche. Il Parlamento potrà dire ai pm di perseguire prioritariamente gli scippi e solo se avanza tempo la corruzione».
Però avete evitato l'improcedibilità per i reati di mafia.
«Ancora una volta c'è stato bisogno della denuncia dei soliti quattro o cinque magistrati antimafia. Gli stessi periodicamente accusati di invadere il campo di una politica che, al di là dei proclami, mai ha davvero posto in cima all'agenda politica un serio contrasto alle mafie».
Come mai solo pochi e non tutti i magistrati come ai tempi di Berlusconi?
«Ho notato anch' io una reazione blanda e limitata. Per diversi fattori. Primo: le iniziative di quei governi compattavano tutte le componenti della magistratura. Secondo: nel governo attuale ci sono quasi tutte le parti politiche. Terzo: la magistratura è in questo momento un pugile alle corde, che si limita a schivare i colpi per limitare i danni senza reagire, avendo il ripiegamento su sé stessa come unica prospettiva».
Non c'è anche una ventata culturale antigiustizialista?
«A me questa rappresentazione mediatica giustizialisti-garantisti pare una semplificazione fuorviante. Io difendo la massima espansione delle garanzie di indagati e imputati, ma vorrei che la certezza della pena non fosse sistematicamente vanificata da benefici e scappatoie. Se vuol dire essere giustizialisti, allora sono il primo dei giustizialisti».
Vale anche per il decreto sulla presunzione di innocenza?
«Si usa un principio giusto per imbavagliare le autorità pubbliche. I processi mediatici proseguiranno, ma solo con imputati e avvocati. Si silenzia chi indaga sul potere impedendo ai cittadini di sapere. Per me è una questione di democrazia e libertà».
Alle elezioni Anm di Palermo ha vinto il gruppo 101, che chiede il sorteggio del Csm.
«Segnale da non sottovalutare: tanti magistrati chiedono una cura forte per un organismo malato. Il sorteggio temperato, magari per un tempo limitato, è il vaccino per il virus del correntismo».
Di Matteo entra nella questione Quirinale e prova ad affossare Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Avrebbe potuto tagliar corto con una risposta sobria ma secca, alla domanda sulla candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale: “Sono un magistrato e non mi occupo di politica, per me ogni candidato ha il diritto e la dignità per aspirare alla Presidenza della repubblica”. Avrebbe potuto e dovuto dire così, Nino Di Matteo, membro del Csm, intervistato da Lucia Annunziata. Ha preferito invece, come già aveva fatto nella stessa trasmissione due anni fa, entrare diritto in politica come un coltello nel burro, e gli va dato atto di non disperdersi mai in sottili allusioni. La sintesi è: non mi occupo di politica, però. I “però” sono due. Il primo: poiché chi va al Quirinale diventa anche automaticamente capo del Csm (sarebbe interessante verificare se Berlusconi avrebbe il coraggio di Cossiga, che un giorno mandò i carabinieri), occorre che si tratti di una persona equanime ed equidistante, e che non abbia motivi personali di rancore nei confronti della magistratura. Berlusconi, fora di ball, si direbbe in modo poco elegante a Milano. Ma Nino Di Matteo ha anche nel sangue il suo passato di pm “antimafia” e non può, non riesce a prescinderne. E fargli il nome del presidente di Forza Italia è un po’ come agitare il drappo rosso davanti al toro. Sarà perché in quel di Sicilia hanno provato una e due e tre volte a indagarlo prendendo solo legnate sui denti. Sarà anche perché bruciano a questi pm “antimafia” la sconfitta sul falso pentito Scarantino e quella più clamorosa del processo “trattativa” tra lo Stato e la mafia. Fatto sta che la tentazione di mettere i puntini sulle “i” è forte. E, sebbene Di Matteo sia sufficientemente accorto da non citare inchieste in corso, come quella fiorentina sulle stragi, finisce per aggrapparsi, per l’ennesima volta (Lucia Annunziata dovrebbe ricordarlo) a un presunto caso di estorsione di cui Berlusconi sarebbe stato vittima. E’ sufficiente andare a pescare nelle carte dell’unica sentenza che ha condannato Marcello Dell’Utri per il reato che non c’è, e di cui si sta occupando la Cedu, cioè il concorso esterno in associazione mafiosa. O anche, in alternativa, aver letto sul Fatto qualche articolo di Marco Lillo, quelli in cui si vaneggia sui fratelli Graviano (ambedue condannati per le stragi del 1992 e del 1993) e sul ruolo di “garante” che l’ex senatore avrebbe svolto, tra il 1974 e il 1992, tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. Il quale sarebbe stato costretto a versare ogni anno un “obolo” alla mafia per proteggere se stesso, la propria famiglia e le aziende. Ora, ha senso che un magistrato –uno che dice di non aver ambizioni politiche e neanche di carriera, pur con qualche contraddizione- assuma la responsabilità di questo attacco frontale a un personaggio politico che la stessa Annunziata ha definito come “candidato forte, grande protagonista” della storia anche imprenditoriale degli ultimi decenni? Il consigliere Di Matteo sa bene di essersi limitato a raccogliere qualche cicaleccio interessato di “pentiti”, cioè di assassini e mafiosi che ogni tanto fanno quel nome solo perché sanno che fa piacere sentirlo ai pm “antimafia”. Il dottor Di Matteo sa altrettanto bene che non esiste nessuna sentenza nei confronti di Berlusconi in tema di mafia, se non per qualche ipotesi in cui lui sarebbe stato una vittima, come nel processo “trattativa”. Perché allora insiste con questa storia dell’estorsione che lui avrebbe subìto ma rispetto alla quale nessun mafioso è mai stato condannato? Certi pm si arrabbiano quando scriviamo che fanno politica. Quindi quando il dottor Di Matteo dice che lui non esprime giudizi ma che “il vizio della memoria andrebbe coltivato” che cosa intende dire? Per esempio di aver dimenticato di precisare il fatto che Silvio Berlusconi, benché lui stesso ci avesse provato più volte, in Sicilia non è neanche indagato? Ma che però –l’insinuazione è nostra- si può indurre il sospetto che se hai pagato la protezione della mafia, un po’ mafioso lo sei anche tu? Il discorso del resto è molto esplicito. Secondo il dottor Di Matteo non esiste la guerra tra magistratura e politica, ma solo “l’offensiva unilaterale” di una parte composta da uomini del potere politico economico finanziario e anche magistrati, contro quelli come lui, i “liberi e coraggiosi”, gli onesti che volevano una giustizia uguale per tutti, quelli che hanno indagato e giudicato con sacrifici e spirito di abnegazione. Mai, questi capitani coraggiosi sarebbero stati influenzati dagli scandali, le beghe, le trattative per fare carriera, tutto quello che è emerso nel “Sistema” svelato da Luca Palamara. Sembra quasi di assistere, nella lunga intervista di domenica pomeriggio, a un pezzetto di Eden, al mondo dei Buoni. Ma siamo così sicuri del fatto che mentre i Buoni erano ancora nella terra di noi mortali peccatori, siano stati del tutto estranei alle normali ambizioni di carriera, anche politica, che vengono negate con tanta sicumera? Ci pare di ricordare per esempio che nel 2018 gli uomini del partito di Grillo avessero offerto proprio al dottor Di Matteo un ruolo di ministro. E non risulta il gran rifiuto. Poi c’è tutta la vicenda del Dap, quella che segnerà anche una rottura (che non osiamo definire politica, se no qualcuno si arrabbia) con il ministro Bonafede, quello che era diventato guardasigilli. Lo stesso che aveva proposto al pm “antimafia” il posto di capo del Dap salvo poi rimangiarsi la parola. Poi non c’era stata anche l’esibizione per 42 minuti a parlare in una trasmissione tv anche di inchieste in corso e di mandanti delle stragi, cosa che gli costò la cacciata dal pool antimafia? E l’elezione al Csm non era stata sponsorizzata da quel Davigo nei cui confronti era poi stata consumata la vendetta con il voto contrario alla sua permanenza in consiglio anche dopo che aveva raggiunto l’età della pensione? Può farsi che tutto ciò non sia politica. Ma come dovremmo qualificarla? La “guerra di Nino”?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il j’accuse di Di Matteo: «Magistratura collaterale con la politica». Il consigliere del Csm, Nino Di Matteo, da Palermo lancia pesanti accuse alla magistratura e alla politica. «Alcuni processi ostacolati da un sistema malato». Il Dubbio il 2 dicembre 2021. «Troppi in magistratura vogliono minimizzare e far finta che sanzionati Palamara e pochi altri il problema sia risolto. E invece non si può far finta di nulla o ritenere la vicenda nata dal caso Palamara come il frutto di poche mele marce. Quel che è accaduto all’hotel Champagne è l’epilogo determinato dal carrierismo esasperato, dal correntismo e dal collateralismo con la politica che affligge certa magistratura». Lo ha detto il consigliere del Csm Nino Di Matteo intervenendo alla presentazione del suo libro “I nemici della giustizia” in corso a Palermo. «Sui media inoltre – ha aggiunto – è passata un un teorema secondo il quale i vizi che hanno afflitto la magistratura si riverberano in tutti i processi agli aspetti criminali del potere».
«Cioè – ha spiegato – certi episodi hanno determinato la convinzione che tutto quel che la magistratura ha fatto quando ha processato le azioni criminali di certa classe dirigente sia viziato. Molti di quei processi fatti dalla parte libera della magistratura – ha concluso Di Matteo – sono stati ostacolati dal sistema malato di cui fanno parte anche quote della magistratura e del Csm».
Di Matteo e la politica
«Negli ultimi anni la politica ha fatto molti passi indietro delegando completamente alla magistratura il controllo di legalità sull’esercizio del potere. L’esempio politico a cui guardare, invece, è Pio La Torre che nella sua relazione di minoranza alla Commissione Antimafia, insieme alla sua parte politica che ora attende le sentenze definitive prima di prendere posizione, scriveva i nomi dei politici collusi o in affari con la mafia prima ancora che quei nomi finissero nei rapporti di polizia. Al di là delle parole – ha aggiunto l’ex pm – nessuno dei governi che si sono succeduti ha messo la lotta alla mafia in cima alla sua agenda politica».
Di Matteo critica la nuova riforma della Giustizia
«Nella prima stesura della riforma Cartabia non c’era alcuna eccezione, nella parte relativa alle improcedibilità, per i processi di mafia. Se fosse passata quella versione della legge molti processi alle cosche sarebbero finiti nel nulla con buona pace dei parenti delle vittime e della giustizia. C’è stato bisogno che si alzassero e protestassero alcuni magistrati antimafia dire quali conseguenze ci sarebbero state per far cambiare il testo» ha detto Nino Di Matteo. «Ma un ministro della Giustizia – ha aggiunto – ha ancora bisogno che si espongano certi magistrati per capire che la lotta alla mafia è una cosa seria che non consente distrazioni, ammesso che di distrazioni si tratti?». Infine, secondo Di Matteo la riforma Cartabia contiene aspetti «inquietanti e preoccupanti».
Nino Di Matteo teme i “corleonesi” che da oltre 30 anni non esistono più. Nino Di Matteo, nella sua audizione in commissione Giustizia, ha sostenuto che la modifica dell'ergastolo ostativo era l'obiettivo della mafia di Totò Riina attraverso le stragi del '92 e del '93. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 novembre 2021. «Il rischio che si corre, è quello di far raggiungere l’obiettivo dei mafiosi stragisti». È questa la messa in guardia, non nuova, esternata dall’attuale consigliere del Csm Nino Di Matteo durante la sua audizione in commissione Giustizia della Camera a proposito della modifica della legge sull’ergastolo ostativo. La tesi sostanzialmente è questa: l’obiettivo delle stragi del ’ 92 e ’ 93 consisteva nel ricattare lo Stato per ottenere, tra gli altri benefici, l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis. La tesi di Nino Di Matteo è sostanzialmente quella di una parte di magistrati antimafia che ha stigmatizzato le pronunce della Corte Europea di Strasburgo e della Consulta sulla violazione di alcuni articoli della Convenzione europea dei diritti umani e articoli della nostra Costituzione. In sostanza, secondo le Corti, è illegittima la preclusione assoluta dei benefici penitenziari per chi decide di non collaborare con la giustizia. Secondo il consigliere del Csm, tali pronunce rischierebbero di far raggiungere l’obiettivo dei corleonesi. Eppure parliamo di un’ala che non esiste più, sconfitta ramai quasi 30 anni fa. Un’ala che fu soppiantata subito dopo da quella che ha scelto la via della “sommersione”. Una Cosa nostra diversa, quella che ha scelto di compiere il suo sporco malaffare senza uno scontro “militare” contro lo Stato. Di fatto, la nuova Cosa nostra ha scelto una via più funzionale al suo sistema. D’altronde le stragi di mafia in realtà hanno sortito l’effetto contrario. La strage di Via D’Amelio ha accelerato l’attuazione del 41 bis, stragi che hanno di fatto anche inasprito l’ergastolo ostativo, diverso da quello ideato da Falcone stesso. Ma Nino Di Matteo, legittimamente, ha una sua idea irremovibile: la nuova legge sull’ergastolo ostativo non deve scoraggiare la collaborazione con la giustizia e, soprattutto, non deve far ritornare in libertà i mafiosi condannati per le stragi. In realtà, come hanno detto alcuni magistrati di sorveglianza auditi in commissione, ciò è davvero difficile, basti vedere il permesso premio respinto ai vari boss stragisti. Più in generale, sono numeri da prefisso telefonico coloro che hanno avuto accesso ai benefici. Senza tener conto, che la stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi, non sono boss stragisti. Di Matteo, precisa che le sue opinioni sono nel pieno rispetto della Corte costituzionale e del principio dell’articolo 27 della Costituzione, ma per gli ergastolani ostativi bisogna essere più rigidi possibile. Per questo ritiene condivisibile che sia «onere del detenuto, dimostrare effettivamente, oltre alla condotta trattamentale, gli elementi concreti che dimostrino il mancato pericolo di ripristino con la criminalità organizzata». Eppure tale previsione è a rischio di incostituzionalità, come hanno sottolineato diversi magistrati come i rappresentanti dell’Anm e i giudici si sorveglianza. Altra perplessità espressa da Nino Di Matteo, è l’esclusione dal testo base della competenza specifica a un unico tribunale a cui demandare le decisioni. «Mi preoccupa la frammentazione delle competenze – ha spiegato il consigliere -, penso al rischio di un magistrato di sorveglianza sulla richiesta della liberazione condizionale su uno stragista. Aumenta il rischio di condizionamenti e di minacce». In realtà gli stessi magistrati di sorveglianza respingono duramente tale tesi. Si viola il principio della competenza del giudice naturale e rischia di burocratizzare le scelte, visto che solo i giudici di sorveglianza, essendo territoriali, hanno la conoscenza diretta dei luoghi di detenzione e hanno gli strumenti necessari per compiere una scrupolosa valutazione.
Di Matteo: «Altro che correnti. A condizionare il Csm anche cordate di polizia giudiziaria». Intervistato da Andrea Purgatori, su la 7, l'ex pm della presunta "Trattativa" parla di «cordate» attorno ad alcuni magistrati e «composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura». Il Dubbio il 14 novembre 2021. «Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura». A parlare così, secondo anticipazioni riportate ilfattoquotidiano.it, è Nino Di Matteo, ex pm del processo Trattativa e ora consigliere del Csm. Intervistato da Andrea Purgatori ad Atlantide, in onda stasera su La7, l’autore del libro I nemici della giustizia spazia dal caso Palamara alle inchieste di mafia e corruzione alla contiguità tra politica e criminalità organizzata. Fino alla riforma della Giustizia, voluta dalla ministra Marta Cartabia, liquidata come «pessima». «Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera» e l’avversario «diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare», secondo Di Matteo. Non solo, «la logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose», è «il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura». Secondo il consigliere del Csm, il «sistema» delle correnti del quale Luca Palamara era solo una «pedina», al quale si affianca quello delle «cordate».
Le memorie di due magistrati. Il sogno folle di Boccassini e Di Matteo: sentirsi come Falcone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Novembre 2021. Quando si scontrarono, vinse Lei. Forse era più brava? Ilda e Nino, Nino e Ilda. Non una coppia, no. Ma una coppia di fatto, questo sì. Per come se ne parla, per come porgono se stessi, ben convinti, ambedue, sia loro dovere spiegare al mondo “come sono” davvero. Perché il mondo intero non aspettava altro. Ilda Boccassini, dopo la pubblicazione del suo libro, si rivela a Enrico Mentana, che la presenta in uno speciale di La 7 come “figura particolare importante forte”. Nino Di Matteo si lascia intervistare in un libro di Saverio Lodato, che lo qualifica subito come “giudice”, e vien voglia di fermarsi solo per questo alla prima riga. Un uomo una donna, non è solo il titolo di un drammatico film di Lelouch degli anni sessanta. È in questo caso il diverso sguardo con cui un uomo e una donna, due pubblici ministeri che il circo mediatico ha reso “eroi” , porgono se stessi. Eroi della lotta alla mafia in una guerra che non dovrebbe riguardare, se non indirettamente, la stessa magistratura requirente. Nessuno dei due è, o è stato, un secondo Giovanni Falcone. Ma sotto sotto sia Lei che Lui pensano di esserne la reincarnazione. Sarà per questo che tutti e due insistono sul concetto di dovere. Ho il “dovere” di far sapere a tutti chi è davvero Ilda, dice Boccassini. Ho sentito il «bisogno di testimoniare, di far conoscere lo stato d’animo di un magistrato che stenta a riconoscersi in un mondo dominato da logiche che non gli appartengono», rilancia Di Matteo. Certo, Lui non direbbe mai «mi sono messa nuda», come fa Lei. Che precisa: «Ho sentito il bisogno di raccontarmi per far capire chi è Ilda». Non nudo, Lui. Ma solo contro il mondo, questo sì. Il mondo che non gli piace, quello fatto dai “Nemici della Giustizia” (il titolo del libro di Lodato, edito da Rizzoli). Chi sono? I grandi criminali, va da sé, quasi inutile citarli. Perché i “nemici” sono soprattutto certi politici, certi uomini della finanza, certi imprenditori, persino certi magistrati. Per Lei i nemici sono tutti quelli che sono stati contro “Giovanni”, e di conseguenza contro Ilda. «Ho giurato all’obitorio che nessuno avrebbe distrutto la sua immagine». Amore amicizia passione solidarietà rimpianto. Ma anche tanto autocompiacimento. Certo, se pensiamo all’immagine altera e un po’ arrogante che ha rappresentato Nino Di Matteo in tanti passaggi televisivi e nella forza della toga nel processo “Trattativa”, quello della sua finta vittoria, poi cestinata con l’assoluzione degli imputati nell’appello, Ilda Boccassini appare molto più sensibile, più “umana”, direbbe Fantozzi. Non quella esibizionista e maleducata che ci raccontano le cronache di chi la conosce e non la ama, ma quella che ha sacrificato la sua vita personale e anche l’amore per una passione più grande, quella per la giustizia. E qui le due figure finiscono con il combaciare. Di Matteo è l’uomo più scortato d’Italia, e anche questo è un groppo sacrificio. Ma ce l’ha un po’ con tutti. Con le correnti della magistratura, con i capi delle procure che creano i propri cerchi magici cui elargiscono prebende e promozioni, con il carrierismo e le carriere. Parla da “puro”, come se lui e lui solo avesse meritato i vari incarichi del suo percorso, quelli avuti e quelli che gli sono stati negati, come il ruolo di vertice del Dap, prima promesso e poi sottratto da parte dell’ex ministro Alfonso Bonafede. Lui non fa sconti, lancia il sospetto che qualcuno, i soliti poteri forti, i soliti politici corrotti, voglia usare questo momento difficile della magistratura per assoggettarla all’esecutivo. Magari attraverso i quesiti del referendum proposto dai radicali e dalla Lega. Gli argomenti sono i soliti, i più banali: il pm deve mantenere la “cultura della giurisdizione” (come nel processo Eni?), la responsabilità civile dei magistrati ne condizionerebbe l’autonomia, soprattutto dai ricchi e potenti, eccetera. Non parliamo poi della riforma Cartabia, addirittura incostituzionale, di cui non vede la parte più innovativa, ma solo quella che impedisce l’eterna durata dei processi.
Anche Ilda Boccassini ce l’ha con tanti. Per esempio con quelli che avevano criticato Giovanni perché era andato a lavorare con il guardasigilli Claudio Martelli, e poi avevano fatto la fila per poter andare anche loro a infrattarsi in qualche ministero. Sottinteso: io non l’ho fatto e mai avrei potuto avere quel tipo di aspirazione. Anzi: io gli ipocriti li ho ben bacchettati. Come dimenticare, e infatti Mentana non lo dimentica, quel giorno, quarantotto ore dopo l’uccisione di Falcone, Morvillo e gli uomini della scorta? Quell’immagine di Ilda vestita di scuro, quasi una vedova, nell’aula magna del tribunale di Milano a lanciare il suo j’accuse contro tutti i colleghi (di sinistra, in particolare) che avevano lasciato solo Giovanni? Lo specchio della storia, per come lei la ricostruisce, le rimanda la sua immagine, perché ancora una volta sta parlando di sé, coinvolta nel mito del bravo magistrato che aveva saputo capire che cosa era la mafia. Lei che arriva all’aula magna dalla sala accanto, quella dove era stata emessa la sentenza del processo “Duomo connection”. Dove Lei aveva rappresentato l’accusa e aveva ottenuto le condanne, suggerisce Mentana. E lei non lo smentisce pur sapendo che quel giorno aveva segnato una sua clamorosa sconfitta, dopo che per mesi il circo mediatico aveva tuonato “le mani della mafia su Palazzo Marino”, me lei non era riuscita a incastrare nessun politico. E quello che avrebbe dovuto essere il primo processo di mafia a Milano era stato derubricato alla condanna di un paio di piccoli avventurieri-spacciatori. Le parole con cui Di Matteo liquida il “processo trattativa” sono speculari e altrettanto autocelebrative. Il concetto di sconfitta non fa parte del suo vocabolario. Lui è orgoglioso e fiero di aver messo a disposizione della storia fatti importanti, perché tutti devono sapere quale era il piano della mafia negli anni novanta, dice con sussiego. Certo, tralasciare il fatto, stabilito in sentenza, che nessun uomo dello Stato ha ceduto alla mafia né ha commesso alcun reato ti può far sentire un vincente anche quando dovrebbe bruciare sulla tua pelle il fatto di aver perso la partita. Se ti senti un “eroe”. Se ti dicono che lo sei. Se fanno un libro per celebrarti. Un po’ quel che succede anche a Ilda quando si parla di Berlusconi e del processo Ruby. Lei si sentiva “una piccola donna” che doveva rappresentare lo Stato e il principio dell’uguaglianza per tutti della legge, contro uno che si difendeva “dal” processo. Solita tiritera. Ma resta il fatto che anche lei ha perso quando Berlusconi è stato assolto in via definitiva. C’è stata però una volta in cui Ilda ha vinto. Quando ha battuto Nino, sulla vicenda Scarantino, il piccolo truffatore palermitano che qualcuno voleva trasformare in “pentito” a suon di botte e torture nel carcere di Pianosa. Di Matteo e gli altri pm del processo Borsellino gli avevano creduto e avevano contribuito a fare arrestare gli innocenti. Solo Boccassini aveva fiutato l’imbroglio. Quella volta Ilda e Nino combattevano su fronti opposti e ha vinto lei. Forse era più brava?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Di Matteo e quell’idea populista e approssimativa del potere giudiziario. L'affondo di Caiazza su Di Matteo: "La magistratura non si occupa di fenomeni sociali, ma deve accertare e poi giudicare responsabilità personali". Giandomenico Caiazza su Il Dubbio il 3 novembre 2021. Il dott. Nino Di Matteo ha certamente una virtù: pratica ed esprime con autentica onestà intellettuale una idea della magistratura che la gran parte dei Pubblici Ministeri (e tanta parte delle toghe nostrane) condivide e coltiva, ma evita prudentemente di esplicitare con la trasparente sincerità del P. M. palermitano. Ma è quella esattamente l’idea, caro dott. Di Matteo, che ha – allo stesso tempo- consumato in questi trent’anni la credibilità della magistratura agli occhi della pubblica opinione, e gravemente alterato gli equilibri costituzionali tra i poteri dello Stato, a tutto vantaggio del potere giudiziario. L’intervista che il Fatto Quotidiano, non certo a caso, lancia in prima pagina, è ricca di spunti. Mi limito a coglierne qualcuno. Il dott. Di Matteo teme che si voglia approfittate della crisi della magistratura per “regolare i conti” ed “impedirle il controllo di legalità”. È un linguaggio allarmante, che tradisce una idea “antagonistica” confusamente populista e gravemente approssimativa del potere giudiziario. Al quale, sia detto con chiarezza, la Costituzione non affida affatto “il controllo di legalità”. La magistratura non è chiamata ad occuparsi di fenomeni sociali, ed a governarli (criminalità comune, corruzione, mafie), ma ad accertare e poi giudicare responsabilità personali, rigorosamente dopo aver ricevuto una precisa notizia di reato riferibile ad una o più persone. Il controllo di legalità è semmai affidato all’autorità amministrativa e di polizia, che investe la magistratura solo di eventuali notizie di reato emerse nel corso di quella attività di controllo. E poi, chi esattamente vorrebbe “regolare i conti… per vendicarsi ed evitare che la Magistratura sia troppo incisiva”? Personaggi pubblici che impegnano la propria credibilità in affermazioni di questa gravità hanno il dovere di uscire dalle fumisterie semantiche e dalle semplificazioni fumettistiche, assumendosi la responsabilità di definire con chiarezza i destinatari di una simile, eclatante accusa. Affermare poi che in questo nostro Paese ci sia chi progetti di «trasformare la magistratura in organo collaterale e servente rispetto al potere esecutivo» connota il ragionamento del dott. Di Matteo di un tratto di un umorismo stralunato degno di Groucho Marx. Basterebbe ricordare che appena un mese fa, per dire solo l’ultima di mille, le roboanti e scomposte critiche di due “magistrati antimafia”, basate peraltro su una eclatante falsità (“con la riforma della prescrizione saltano tutti i processi di mafia”, gli unici invece che si celebrano nei ben più brevi termini di scadenza della custodia cautelare) hanno determinato a furor di media la precipitosa (oltre che incostituzionale) riscrittura di una norma appena approvata all’unanimità dal Governo legittimo del Paese.
O altrimenti che il Ministero di Giustizia è da sempre occupato – unico caso al mondo – nei suoi gangli decisori ed amministrativi cruciali, da un centinaio di magistrati all’uopo di volta in volta distaccati. O che, più in generale, da trent’anni il Parlamento di questo Paese, da chiunque governato, salvo isolate eccezioni non approva leggi rilevanti in materia di Giustizia penale senza il placet preventivo del potere giudiziario. Suvvia, dott. Di Matteo, non scherziamo! La riforma Cartabia, poi, sarebbe la peggiore della storia repubblicana, per le più varie ragioni. Per esempio, perché affida (era ora!) al Parlamento, e non al Procuratore di Campobasso piuttosto che di Termini Imerese, la indicazione delle priorità della politica criminale (visto che i Procuratori, a differenza del Parlamento, non ne rispondono a nessuno, dott. Di Matteo, pur essendo la scelta delle priorità un atto tecnicamente “politico”, come ci insegnava Zagrebelsky, mica Previti, già nel 1992). La separazione delle carriere, poi, sarebbe un orrore perché piaceva a Licio Gelli. Tipico ma assai diffuso caso di argomentazione ossessivo-compulsiva. Come dire che se a Gelli piaceva la matriciana, chi la predilige è uno piduista. Peccato che gli ordinamenti a carriere separate connotano le più grandi democrazie contemporanee (una volta tanto che possiamo apprezzare una idea di Gelli, gli spariamo addosso. Mah!). Infine, quale che sia l’esito del processo sulla Trattativa (una gragnuola di assoluzioni), il dott. Di Matteo è orgoglioso perché grazie ad esso la pubblica opinione “finalmente sa”. Con il che, badate bene, è definitivamente conclamata l’idea della indagine giudiziaria (e del processo) come strumento di divulgazione di “verità” presunte, beninteso): delle vite umane coinvolte, e delle loro effettive responsabilità, chissenefrega. Grazie dunque al dott. Di Matteo ed al Fatto Quotidiano per questa impietosa, chiarissima fotografia di ciò che la magistratura italiana in tanta parte è ma soprattutto dovrà necessariamente smettere di essere, se vogliamo tornare davvero a vivere in un Paese rispettoso della propria Costituzione.
Di Matteo ultimo giustizialista: "Riforma incostituzionale". Stefano Zurlo il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel bunker delle toghe è rimasto da solo a sabotare il rinnovamento: "Legge Cartabia? La peggiore in 30 anni". È l'ultima toga in trincea. E bisogna dargli atto di aver sempre agito fuori dagli schemi e dalle cordate. Basterà ricordare che è stato lui, davanti al plenum del Csm, a svelare l'andirivieni dei verbali dell'avvocato Amara schierandosi senza se e senza ma a difesa di Sebastiano Ardita, finito nel mirino di Piercamillo Davigo. Davigo è appunto fuori gioco, Francesco Greco si trova a guidare a un passo dalla pensione una procura di rito ambrosiano divisa in fazioni, Ilda Boccassini coltiva la memorialistica. Lui, Antonino Di Matteo, scrive con Saverio Lodato un libro, I nemici della giustizia, Rizzoli, nome che è tutto un programma: sembra di essere tornati a dieci-quindici anni fa, quando i magistrati parlavano ex cathedra, scomunicavano le proposte della politica, falciavano l'erba nuova del cambiamento con giudizi affilati. Il primo bersaglio è la riforma Cartabia, peraltro caldeggiata dall'Europa: «La ritengo una delle peggiori degli ultimi trent' anni - spiega al Fatto quotidiano - L'Europa chiedeva di accelerare i processi, ma se fosse stata in vigore la riforma Cartabia, processi importanti come quello per il crack Parmalat, la strage di Viareggio e per le violenze nella scuola Diaz di Genova del 2001, si sarebbero conclusi nel nulla». È una storia che si ripete con disarmante continuità dai tempi di Mani pulite: ogni ipotetica riforma porterebbe fatalmente - a dare retta ai giustizialisti di turno - all'azzeramento di dibattimenti importantissimi, sarebbe un assist per colletti bianchi corrotti e delinquenti di ogni risma, avrebbe un impatto drammatico se non apocalittico sul sistema. Con questa tecnica collaudata, tutti i tentativi di rinnovare la macchina si sono arenati, oggi la percezione è cambiata ma non per tutti. Dal suo bunker, Di Matteo lancia l'allarme e chiama a raccolta le truppe disperse nella nebbia che ha avvolto i giudici italiani. «Questa normativa - insiste a proposito della Cartabia - presenta per me aspetti di evidente incostituzionalità. Va nella stessa direzione del processo breve voluto dal premier Berlusconi e dal ministro Alfano nel 2009». Insomma, l'ex presidente della Consulta avrebbe messo la faccia e il nome su una legge fuori dal perimetro della nostra Costituzione. E, oltre tutto, pericolosamente vicina alla norma voluta dal Cavaliere nel 2009. Insomma, l'Italia ha voltato pagina, ma le ossessioni per qualcuno restano sempre le stesse. E il cantiere legislativo finalmente aperto avrebbe solo lo scopo di punire le toghe: «Dobbiamo indignarci. Sono tanti quelli che vogliono approfittare di questo momento difficile per regolare i conti con i magistrati che hanno saputo esercitare il controllo di legalità». Certo, con l'onestà intellettuale che gli si deve riconoscere, Di Matteo punta il dito contro «il correntismo, la corsa sfrenata alla carriera... il collateralismo con la politica» di tanti colleghi che hanno giocato di sponda con il Palazzo. Di Matteo è e resta un libero battitore, un uomo esemplare per coraggio e tenacia, ma la sua visione è prigioniera di quella mentalità militante: si dice contrario a 5 dei referendum, mentre il sesto è inutile, e quando si arriva alla separazione delle carriere non rinuncia a citare Licio Gelli, esattamente come facevano molti dirigenti dell'Anm nei convegni di 15 o 20 anni fa: «Il primo piano in tal senso era quello di Rinascita Democratica di gelliana memoria, poi è diventato una bandiera di Forza Italia e del centrodestra. L'appiattimento dei giudici sui pm è un falso storico». Avanti di corsa, verso un passato glorioso, rivendicato anche se conteneva i germi della malattia e del declino. E il verdetto sui rapporti Stato-mafia che ha smontato la sua inchiesta? «Nessuna sentenza - risponde l'inscalfibile Di Matteo - potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo». Stefano Zurlo
Di Matteo non si rassegna: “La Trattativa? Fatti emersi nel processo”. Nino Di Matteo, consigliere togato del Csm, prima critica la riforma Cartabia, poi dice di avere la coscienza a posto sulla trattativa "Stato-mafia". Il Dubbio l'1 novembre 2021. Nino Di Matteo, consigliere togato del Consiglio Superiore della Magistratura, nel suo ultimo libro critica le Istituzioni che rappresenta e rivolte un attacco diretto al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ritenendo che l’ultima riforma approvata sia dalla Camera che dal Senato “violi la Carta Costituzionale”. Le dichiarazioni dell’ex pm della trattativa “Stato-Mafia” arrivano nell’ambito di un’intervista rilasciata dal magistrato siciliano al “Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio. Nel libro, infatti, Di Matteo, in riferimento al caso di Luca Palamara, scrive che l’ex capo dell’associazione nazionale magistrati “era una pedina di un sistema collaudato. Le toghe sbagliano se credono di aver guarito i loro mali punendo solo alcuni dei protagonisti del gioco”.
Referendum sulla giustizia
Di Matteo, rispondendo a una domanda del giornalista Marco Lillo sui referendum sulla giustizia, afferma di essere contrario a cinque dei sei quesiti posti. “Il sesto, quello sulle firme necessarie per presentare la candidatura al Csm, per me è inutile perché non serve a evitare lo strapotere delle correnti”. E spiega, inoltre, il motivo per il quale è contrario alla separazione delle carriere. “Il primo piano in tal senso era quello di Rinascita Democratica di gelliana memoria. Poi è diventata una bandiera di Forza Italia e del centrodestra nella seconda repubblica. L’appiattimento dei giudici sui pm è un falso storico. Basta vedere le statistiche: i giudici disattendono spesso le richieste dei pm. Inoltre sul passaggio da una funziona all’altra i paletti sono già alti”.
Riforma Cartabia
Netta, dal suo punto di vista, la bocciatura sulla riforma voluta da Marta Cartabia. “La ritengo una delle peggiori riforme degli ultimi 30 anni”. Parole già sentite da Nicola Gratteri. “L’Europa chiedeva di accelerare i processi ma se fosse stata in vigore la riforma Cartabia, processi importanti come quello per il crack Parmalat, la strage di Viareggio o per le violenze nella scuola Diaz di Genova nel 2001, si sarebbero conclusi nel nulla. Questa normativa presenta per me aspetti di evidente incostituzionalità. Va nella stessa direzione del processo breve voluto dal premier Berlusconi e dal ministro Alfano nel 2009. Allora però ci fu una forte reazione” da parte della magistratura che secondo Di Matteo oggi è “silente o addirittura favorevole alla riforma Cartabia”.
Di Matteo e la Trattativa “Stato-mafia”
La Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha ribaltato il giudizio di primo grado, assolvendo i carabinieri e i politici dalla presunta trattativa “Stato-mafia”. Di Matteo sull’argomento preferisce attendere le motivazioni per dare un giudizio complessivo, anche se qualcosa la dice. “Sono a posto con la coscienza e sono orgoglioso di aver contribuito con i miei colleghi, pm e giudici, a far emergere fatti oggi incontestabili che solo la nostra tenacia ha fatto riemergere da archivi nascosti e polverosi. L’opinione pubblica aveva anche il diritto e forse anche il dovere di sapere che nel periodo delle stragi, Cosa Nostra ha agito nell’ottica di un dialogo a suon di bombe con lo Stato. Nessuna sentenza potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo”.
Boccassini: "Pressioni da De Gennaro Per non far processare Berlusconi". Affari Italiani l’8/10/2021. Ilda Boccassini: "Pressioni da De Gennaro per prosciogliere Berlusconi". Ilda Boccassini nel suo libro in uscita "La stanza numero 30" si racconta apertamente. Dall'amore segreto con Giovanni Falcone alle pressioni ricevute dall'ex capo della polizia De Gennaro per non processare Berlusconi. "Dall’inizio alla fine - si legge su Repubblica - sono stata una figura ingombrante per la mia categoria, per la politica e per quei cittadini che mi vedevano come un demonio o come un angelo vendicatore. Ovviamente non sono mai stata né l’uno né l’altro, ma questo è il destino di “Ilda la Rossa” ed è arrivato il momento di accettarlo con serenità, di elaborarlo come si fa con i traumi e le ferite che guariscono, ma lasciano in ricordo una cicatrice permanente». Nel suo libro - prosegue Repubblica - ci sono la rivelazione di episodi, tanto importanti quanto per lei dolorosi. Il 10 novembre 2000 Gianni De Gennaro, il capo della Polizia la chiama a Roma. Tra loro c’è stato «un rapporto intenso: gli volevo bene, lo stimavo». Ma quel giorno si trova davanti una persona diversa: «Senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese cosa stessi “combinando a Milano”, aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che si era speso per “evitarmi il peggio”. Rimasi sbalordita, spiazzata da quel discorso così diretto che nemmeno mi venne in mente di collegare quella rampogna alla contestazione suppletiva (proprio contro Berlusconi ndr) che avrei depositato pochi giorni dopo al processo Sme-Toghe sporche. Invece era proprio quella scadenza imminente — anzi, il tentativo di neutralizzarla — che rendeva De Gennaro tanto aggressivo». Boccassini se ne va sbattendo la porta.
Gianluca Di Feo per “la Repubblica” l'8 ottobre 2021. - ESTRATTO: 10 novembre 2000. Gianni De Gennaro la chiama a Roma. Tra loro c'è stato «un rapporto intenso: gli volevo bene, lo stimavo». Ma quel giorno si trova davanti una persona diversa: «Senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese cosa stessi "combinando a Milano", aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che si era speso per "evitarmi il peggio". Rimasi sbalordita, spiazzata da quel discorso così diretto che nemmeno mi venne in mente di collegare quella rampogna alla contestazione suppletiva (proprio contro Berlusconi ndr ) che avrei depositato pochi giorni dopo al processo Sme-Toghe sporche. Invece era proprio quella scadenza imminente - anzi, il tentativo di neutralizzarla - che rendeva De Gennaro tanto aggressivo». Boccassini se ne va sbattendo la porta. In altri capitoli contesta «i cattivi maestri, capaci solo di infiammare le coscienze dei giovani con messaggi falsi e fuorvianti, discorsi piagnucolosi sulla fatica di vivere scortati». Dedica un cameo ruvido a Nicola Gratteri, «che creava tensione con il suo vantarsi di una conoscenza della 'ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti». Critica Antonio Ingroia e Nino Di Matteo per le scelte investigative e gli errori sulla Trattativa. E di Roberto Scarpinato scrive: «Non ho mai apprezzato il suo stile da narciso siciliano perfettamente rappresentato dalla sua acconciatura alla D'Artagnan ». Molto negativo il giudizio sul procuratore di Milano Francesco Greco, un altro amico da cui si è sentita tradita. «La situazione in cui mi trovavo si faceva ogni giorno più incresciosa, ma non volevo lamentarmene con i colleghi. Ne parlavo soltanto con Paolo Storari, pur sapendo che molti altri magistrati erano indignati per il prolungarsi delle non-scelte di Greco. I mesi trascorrevano lenti, mentre cominciava a prendere forma il progetto organizzativo del nuovo procuratore, tanto favorevolmente accolto dai membri della commissione che ne aveva deciso la nomina, a cominciare da Paola Balducci, convinta sostenitrice di Greco, oltre che indiscussa rappresentante della logica spartitoria, come sarebbe emerso dalle chat di Luca Palamara». Valutazioni destinate ad avere un riflesso nelle indagini sul caso Amara, che hanno spezzato la procura di Milano, mettendo Greco e Storari l'uno contro l'altro. E prosegue: «Quanto alla vicenda che, a partire dal cellulare di Palamara, ha terremotato il Csm, il dato sconfortante che emerge, oggi ancora più che in passato, è la ricerca spasmodica di fette di potere da parte di troppi magistrati, la svendita della propria funzione per pochi spiccioli, un regalo, un favore, una poltrona per sé, una spintarella per un parente». Boccassini è spietata verso il Csm, l'Associazione magistrati e le correnti, diventate volano di un sistema contaminato. «Sono ancora troppi i comportamenti opachi, forse non penalmente rilevabili, ma senza dubbio deontologicamente censurabili. Se Cosa nostra in Sicilia ha potuto vivere e prosperare per decenni, lo si deve anche - non solo, ovviamente, ma anche - all'inerzia di una magistratura pigra, pavida, in alcuni casi collusa. E se la corruzione ha potuto minare le fondamenta dello Stato, lo si deve anche a pezzi di magistratura che hanno volutamente distolto lo sguardo, oppure non hanno capito o si sono lasciati corrompere». Boccassini sa che la sua ostinazione le ha stroncato la carriera - è andata in pensione come semplice pm - e le ha complicato la vita.
Così Boccassini nascose i "consigli" di De Gennaro. Luca Fazzo il 9 Ottobre 2021 su Il giornale. L'ex pm svela, vent'anni dopo, il pressing dell'allora capo della Polizia: "Provò a fermarmi su Berlusconi". Forse era meglio dare retta a Gianni De Gennaro. O forse era più giusto denunciarlo: come si permette il capo della Polizia di urlare contro un pubblico ministero, premere perché non indaghi contro un potente, impedirgli di fare il suo dovere? Invece Ilda Boccassini non fece nessuna delle due cose. Non denunciò il suo amico De Gennaro. Ma nemmeno gli diede retta: proseguì a testa bassa nella sua offensiva contro Silvio Berlusconi, sfoderando contro l'ex premier una nuova accusa, nuova puntata di un assedio che durava ormai da cinque anni. Una accusa destinata nel giro di una manciata di anni a rivelarsi infondata. Il ruolo di De Gennaro - l'uomo più potente della sicurezza pubblica italiana - nei processi a Berlusconi non si sarebbe mai saputo se non l'avesse rivelato la Boccassini nel suo libro di memorie, La stanza numero 30, appena uscito da Feltrinelli: e che sta facendo notizia soprattutto per quanto la dottoressa rivela sui suoi rapporti affettuosi con Giovanni Falcone. Ma nel libro c'è molto altro. C'è l'autoritratto della protagonista di una stagione cruciale della giustizia italiana. E ci sono rivelazioni (vere fino a prova contraria) su episodi chiave. Come quello su De Gennaro che nel novembre 2000 convoca la pm nel suo ufficio al Viminale (e già questo sarebbe irrituale), e quando arriva le chiede «cosa stai combinando a Milano?». Il riferimento è la nuova accusa che la dottoressa sta preparando in quei giorni contro Silvio Berlusconi nel processo Sme: corruzione giudiziaria, un reato assai pesante che metterebbe il processo al riparo dalla prescrizione. De Gennaro rivela a Ilda che i suoi colleghi, a partire dal capo Gerardo D'Ambrosio, non sono d'accordo con lei. E «per il bene di tutti» le chiede di ripensarci. Come andò a finire? Lei non ci ripensò, formulò la nuova accusa contro il Cavaliere. E anche da quella imputazione, come da tutte le altre del caso Sme, Berlusconi venne assolto «per non avere commesso il fatto»: esito del processo cui, nel suo libro, Ilda la Rossa dedica due righe. Ma la domanda vera è un'altra: perché ha taciuto per vent'anni? Perché non fece una relazione sull'ingerenza senza precedenti del superpoliziotto in un processo così delicato? Non è l'unica domanda che il libro lascia sospesa. C'è la storia del pentimento di Salvatore Cancemi, che accusa Berlusconi di avere pagato Cosa Nostra: rovinato in buona parte, scrive, da uno scoop di Repubblica. Ilda dice di essere rimasta «annichilita e sconvolta» dalla fuga di notizie. Ma aggiunge anche che anni dopo, davanti a un bicchiere di whisky, il cronista autore dello scoop le rivela l'identità della fonte. È un uomo che Ilda dice di «conoscere bene». Ma che non denuncia, anche se ha danneggiato un'indagine cruciale. Perché? Chi era la «talpa»? Storie recenti e storie remote, in cui Ilda - e qui è difficile darle torto - si dipinge come una «selvaggia», fuori dalle correnti e dai giochi di potere dei colleghi. Ma costellate di valutazioni impietose. Alcune destinate a chi non può più difendersi, come Giovanni Tinebra, suo capo a Caltanissetta. Alcune, spassosissime, dedicate alla vanità di Giancarlo Caselli (che in missione in Usa cerca la lacca per la chioma) o di Roberto Scarpinato, «narciso siciliano con l'acconciatura alla D'Artagnan». Alcune di violenza sorprendente, come il passaggio dedicato al suo ultimo capo, Francesco Greco, suo amico per decenni: che la emargina non solo dalle inchieste antimafia ma anche dai dibattiti, dove «senza interagire con me intratteneva le platee su tematiche di cui non era esperto». E, su tutte le trecento pagine, l'ombra di Falcone. Che, tra un viaggio e un tuffo in mare, l'ammoniva a fare processi solo con prove irrefutabili. Invano. (17 ottobre 1991, Falcone fuma nel cortile della prefettura di Milano. Un cronista gli chiede una parola di solidarietà per la Boccassini, che Borrelli ha appena cacciato dal pool antimafia. E Falcone, sbuffando: sta parlando con la persona sbagliata")
Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Ilda Boccassini scaricata dal Fatto Quotidiano: "Fuori il nome della talpa che salvò Silvio Berlusconi. Libero Quotidiano il 13 ottobre 2021. Quando si tratta di andare contro Silvio Berlusconi, al Fatto Quotidiano sono disposti pure a “torchiare” un loro totem come Ilda Boccassini. Nell’edizione odierna, Peter Gomez si è soffermato su un passaggio del libro scritto dall’ex magistrato sulla talpa che salvò il Cav alla vigilia delle elezioni del 1994. “Fa rabbia - ha scritto uno dei fondatori del Fatto - leggere nel libro di Ilda Boccassini come qualcuno (un funzionario di Stato o un magistrato?) Abbia con una fuga di notizie ‘consapevolmente’ bruciato le indagini sul denaro che, secondo i pentiti, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri versavano periodicamente a Cosa Nostra”. I fatti risalgono al 18 febbraio 1994, quando la Boccassini si trovava a Caltanissetta per indagare sull’omicidio di Giovanni Falcone: quel giorno interrogò Salvatore Cancemi, leggende del mandamento mafioso di Porta Nuova. L’ex magistrato ha scritto nel suo libro che quel giorno Cancemi ricordò “di aver assistito, in più occasioni, al passaggio di decine di milioni di lire in banconote usate” e che la consegna dei soldi era ancora in corso. Allora la Boccassini si rivolse al capitano Ultimo per mettere sotto sorveglianza Pierino Di Napoli, il capo della famiglia di Malaspina che secondo i magistrati riceveva il denaro di Berlusconi. Il 24 marzo 1994, tre giorni prima delle elezioni vinte da Berlusconi, su Repubblica venne pubblicato il verbale di Cancemi: a quel punto l’indagine morì, dato che Di Napoli si chiuse in casa. “Per 17 anni il mistero resiste - scrive Gomez - poi una sera D’Avanzo (uno degli autori dello scoop, ndr) rivela alla sua amica Boccassini il nome della fonte. Racconta di aver ricevuto una telefonata a casa da parte di una persona che conosceva da anni. Di essere stato invitato dalla fonte nella sua abitazione romana, distante una decina di minuti in auto, di aver trovato lì un uomo ‘con le lacrime agli occhi e delle carte in mano’: i verbali segreti di Cancemi”. Boccassini però non ha rivelato il nome nel suo libro e questo fa schizzare Gomez: dovrebbe farlo, d'altronde c'è Berlusconi di mezzo...
"Niente analisi delle sue carte di credito". Boccassini e quel no alle indagini su Falcone. Felice Manti e Edoardo Montolli l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Resta il giallo sul viaggio in Usa del giudice, a caccia di conferme da Buscetta. Al di là delle polemiche sull'amore per Giovanni Falcone rivelato da Ilda Boccassini, l'inedito risvolto privato riaccende i fari su uno dei fatti più misteriosi della Prima Repubblica: il viaggio a Washington del giudice palermitano alla fine di aprile del 1992. Fu infatti proprio Ilda Boccassini, da titolare delle indagini, a vietare che venissero controllate le sue carte di credito - cosa che avrebbe permesso di accertare l'esistenza del viaggio - per non invadere la sfera privata di Falcone, così come avrebbe testimoniato al Borsellino quater molti anni più tardi. Ossia apprendiamo oggi la privacy dell'uomo che amava. Per capire l'importanza di quel viaggio, bisogna tornare al 18 marzo 1992, quando venne diffusa una circolare del Sisde a tutti i prefetti. Il documento ipotizzava un presunto piano di destabilizzazione dell'Italia ordito all'estero con attentati da marzo a luglio. E venne diffuso perché una settimana prima, il 12 marzo, era stato ammazzato Salvo Lima. Fu allora che Falcone disse al ministro della giustizia Claudio Martelli che sarebbe andato in America da Tommaso Buscetta, per i rapporti che il pentito sosteneva di aver avuto con Lima. Ma verosimilmente per chiedergli lumi sul piano di destabilizzazione. Di fatto, tre giorni dopo la strage si diffusero varie voci di un viaggio a Washington del giudice un mese prima di morire. Ma il ministero della giustizia smentì. Un lapsus collettivo? Forse. Solo che Falcone aveva due agende elettroniche, una Casio e una Sharp, su cui segnava gli appuntamenti. I consulenti informatici Luciano Petrini e l'allora commissario capo Gioacchino Genchi scoprirono che una di esse, la Casio, era stata cancellata in maniera non accidentale dopo il sequestro. Recuperarono il contenuto e si accorsero che tra il 28 aprile e il 2 maggio Falcone aveva davvero appuntamenti negli Stati Uniti. Non solo. Dai tabulati telefonici Genchi si accorse che in quei giorni i telefoni del giudice non andarono, segno che poteva trovarsi all'estero, dove non prendevano. Chiese così di acquisire i dati dell'American Express di Falcone, per accertare se il giudice fosse stato o meno negli Usa. D'altra parte il viaggio negli Usa venne presto confermato anche dal procuratore di Brooklyn Charles Rose, dall'avvocato Dick Martin, ex Fbi, e da Larry Byrne, funzionario del dipartimento di Giustizia americano. Ma poi giunse, anche qui, una smentita collettiva. Tuttavia, e questo è inquietante, il ministero non disse mai dove fosse stato Falcone in quella settimana: diede modo di conoscerne tutti gli spostamenti, tranne che per quella settimana. Appare impossibile che nessuno sapesse dove fosse stato l'uomo più scortato e protetto d'Italia. C'era davvero un piano per destabilizzare l'Italia? Falcone ne parlò con Buscetta? Buscetta era come avrebbe sostenuto il boss Gaetano Badalamenti coinvolto in un piano contro Giulio Andreotti? Ilda Boccassini, il 21 gennaio 2014, a Caltanissetta, definì di aver verificato che il viaggio era «una menzogna», ma nemmeno lei disse dove fosse stato tra il 28 aprile e il 2 maggio 1992. Quanto ai controlli della carta di credito chiesti da Genchi e negati: «... non ritenevo che dovesse essere oggetto lui di indagini... una ricerca ossessiva dei suoi tabulati, le carte di credito, i viaggi effettuati... Dissi a Tinebra che... avrei avuto difficoltà a continuare una collaborazione con la polizia di Stato se fosse rimasto Genchi». Ma le cose non tornano. Il procuratore Sergio Lari fece presente che agli atti non c'era nulla sul suo disagio per Genchi, anzi: risultava una lettera di disappunto perché il poliziotto aveva lasciato il gruppo d'indagine nel maggio 1993. Di più. Allo stesso processo Genchi ricorderà che la sua richiesta di acquisire le carte di credito risaliva a molto prima, all'ottobre 1992 «quindi se io dovevo essere allontanato, non dovevo essere applicato forzatamente con delega ad personam». E infine: «Tra l'altro avevo i tabulati di Falcone, sapevo tutte le chiamate che faceva e che riceveva sui due telefoni, quindi che invasività c'era?». Felice Manti e Edoardo Montolli
Giustizia nel caos: Boccassini in tv dopo 23 anni e Berlusconi ne esce a pezzi: “Così la democrazia muore”. Da Iacchite il 31 Ottobre 2021. Ilda Boccassini, ex pm milanese che ha scritto più di una pagina della storia giudiziaria italiana, è tornata in tv dopo 23 anni (l’ultima volta fu intervistata da Enzo Biagi su Rai Uno), sbarcando su La7 per una chiacchierata esclusiva con Enrico Mentana. Diversi i temi trattati, inevitabile che si parlasse di Silvio Berlusconi. “Non si doveva arrivare al processo Ruby“, scandisce, per poi aggiungere: ”Il problema era che in discussione c’era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che è stato utilizzato, le leggi ad hoc (o ad personam) e i rinvii, è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano”. L’ex magistrato sottolinea che ”non si sono mai difesi nel processo; si sono difesi fuori dai processi dilatando i tempi. Lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore”. La Boccassini non ha nemmeno risparmiato alcuni colleghi: “Non ho sentito il canto delle sirene che hanno sentito troppi colleghi. Rimanere con i piedi per terra quando ti dicono che sei Dio in terra non è facile”. ”La maggior parte dei magistrati fa il suo mestiere – aggiunge – ma la pubblicizzazione di alcuni personaggi ha determinato la deriva e la sindrome imitativa”. Spazio poi alla discussa confessione sentimentale relativa al legame che ebbe con Giovanni Falcone. Confessione che ha sollevato critiche. A biasimare ‘Ilda la Rossa’ c’è stata anche la sorella del giudice assassinato dalla mafia: “C’è questa voglia di creare scandali dappertutto, è la deriva che mi dispiace come lettrice. Ho deciso di mettermi a nudo e dovevo mettere a nudo anche i pezzi più privati, non puoi separare pubblico e privato”. E ancora: “Omettere questo non sarebbe stato giusto per i miei figli, per me e per Giovanni. Io voglio bene a Maria Falcone e lei sa che suo fratello è stata una persona importante e ho giurato all’obitorio che mai nessuno potesse distruggere la sua immagine. Se questo libro, ha fatto pensare invece il contrario allora vuole dire che ho fallito”. Per quel che riguarda se stessa, si è descritta come una donna “fragile ma forte, mamma imperfetta, che si commuove spesso e che si è commossa spesso nella vita”, ma che allo stesso tempo ha dovuto “crearsi un’immagine da dura”, proprio come fece Falcone: “Anche lui metteva delle maschere, perché lui si difendeva”.
Ilda Boccassini da Mentana, che mazzate a Berlusconi. L'amore segreto, cosa rivela (ancora) su Falcone. Il Tempo il 31 ottobre 2021. "Perché ho voluto scrivere quelle parole? Domanda inevitabile". Ilda Boccassini, la magistrata e storica antagonista giudiziaria Silvio Berluconi, è stata la protagonista dello special Esclusivo La7 di Enrico Mentana, sabato 30 ottobre. Non poteva mancare un passaggio sulla storia con Giovanni Falcone rivelata nel suo libro e che ha provocato aspre polemiche sull'opportunità di tirare fuori la storia - di cui molti sapevano, sottolinea Mentana - a tanti anni di distanza. "La cosa che più mi ha ferito è perché non immaginavo che ci fosse questa voglia di trovare scandali dappertutto. Mi dispiace per la malvagità", premette la Boccassini. "Ho deciso di mettermi a nudo, mettendo in questi puzzle anche i pezzi più privati. Non sarebbe stato giusto per me e per i miei figli, anche per Giovanni", sostiene l'ex magistrata che torna in tv per la prima volta dai tempi dell'intervista a Il Fatto di Enzo Biagi. Insomma, nessun pentimento di aver rivelato la vicenda. "L'innamoramento per la bellezza di Falcone" è stato pe me "come una statua di Michelangelo, un quadro di Caravaggio", dice la Boccassini. "Un atto di coraggio", sottolinea abbastanza clamorosamente Mentana. Su quanto ha scritto Maria Falcone, che ha risposto con sdegno a una satira sul libro della Boccassini, "Ilda la rossa" non entra nel merito: "La conosco bene, e lei sa molto di me. Sa che suo fratello è stato molto importante per me. Ho giurato in obitorio che non avrei permesso a nessuno di distruggere" l'immagine di Falcone. Nell'intervista la Boccassini e Mentana hanno affrontato le vicende giudiziarie che costellano la carriera della magistrata. Con il convitato di pietra Silvio Berlusconi, naturalmente. "Quando andavo in giro venivo bombardata dai fotografi, riconosciuta da tanta gente, mi è capitato persino di essere applaudita mentre mi trovavo al ristorante. Pur essendo stata oggetto non solo di linciaggio ma anche di affetto, non mi sono però mai fatta prendere dal canto delle sirene. E non è facile restare con i piedi per terra quando tutti ti dicono 'Tu sei Dio'. Un esempio? La copertina dell'Espresso del 1996 su cui c'era scritto "Forza Ilda": quando l'ho vista mi sono inc***ata" racconta. Si entra pure nel dettaglio, con un passaggio sulla vicenda di Karima El Marough, nota come Ruby Rubacuori. "Il problema era che in discussione c’era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che e stato utilizzato, le leggi ad hoc e i rinvii è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano" attacca l’ex pm milanese sul processo Ruby. L’ex magistrato ricorda che "non si sono mai difesi nel processo; si sono difesi fuori dai processi dilatando i tempi, lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore", è l'affondo della Boccassini a La7.
Boccassini intervistata da Mentana: «Nelle inchieste ho sempre cercato di non fare la fine di Squid Game». Redazione cronache su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2021. L’ex magistrato allo Speciale di Mentana su La7 dopo le polemiche sulle rivelazioni nel suo ultimo libro: «Giovanni ostacolato anche da quelli che si definivano amici». Le inchieste sulla mafia, i processi a Berlusconi, il ricordo di Giovanni Falcone. L’ex magistrato Ilda Boccassini si è raccontata in una lunga intervista a «Esclusivo 7. Parla Ilda», lo speciale di Enrico Mentana andato in onda venerdì sera su La7. Dopo l’uscita del suo ultimo libro (La stanza numero 30. Cronache di una vita) e le polemiche che ne sono scaturite, Boccassini è tornata a parlare del magistrato ucciso a Capaci nel 1992. «Giovanni Falcone ha avuto persone che gli hanno voluto bene nella magistratura, come Paolo Borsellino, ma in troppi lo hanno ostacolato, quelli che si definivano amici, quelli che lo detestavano». Poi ha aggiunto: «Quando ho conosciuto Giovanni Falcone ho cominciato a “sfruttarlo”, la sua sapienza, il suo modo di fare indagini, volevo apprendere tutto». E quanto al legame personale rivelato nel libro, Boccassini ha aggiunto, rivolgendosi anche a Maria Falcone, la sorella del magistrato ucciso dalla mafia con la moglie e la scorta: «Ho giurato, quando sono andata all’obitorio, che non avrei mai consentito che qualcuno potesse distruggere la sua immagine. Se questo libro in qualcuno ha creato questo meccanismo allora vuol dire che ho fallito nell’impresa».
Processo Ruby
Boccassini interviene anche su Berlusconi e il processo Ruby: «Il problema era che in discussione c’era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che e stato utilizzato, le leggi ad hoc e i rinvii è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano». L’ex magistrato commenta che gli imputati «non si sono mai difesi nel processo; si sono difesi fuori dai processi dilatando i tempi, lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore».
Squid game
In generale sulla sua lunga carriera di inquirente osserva: «Quello che mi è capitato non cercandolo, in tutte le inchieste, in un mondo molto più grande di me e che era difficile starci dentro con i piedi giusti, era di non fare la mossa sbagliata e fare la fine di Squid Game, perché muori, non solo fisicamente, ma anche dentro». E , infine, un’accusa ai colleghi che hanno scelto strade diverse: «Non no sentito il canto delle sirene che hanno sentito troppi colleghi. Rimanere con i piedi per terra quando ti dicono che sei dio in terra non è facile».
Il ritorno della Boccassini in tv e il nuovo fango su Berlusconi. Domenico Ferrara il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le premesse c'erano tutte. E alla fine l'attacco nei confronti dell'acerrimo nemico è arrivato. Le premesse c'erano tutte. E alla fine l'attacco nei confronti dell'acerrimo nemico è arrivato. Il ritorno di Ilda Boccassini in tv dopo 23 anni dall'intervista con Enzo Biagi su Rai 1 non ha lasciato spazio a grandi sorprese. Il fango contro Berlusconi è sempre il solito refrain. Un'ossessione che non sparisce neppure sotto i riflettori degli studi di La7. "Il problema era che in discussione c'era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che è stato utilizzato, le leggi ad hoc e i rinvii è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano. Non si sono mai difesi nel processo; si sono difesi fuori dai processi dilatando i tempi, lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore", ha sparato a zero l'ex pm di Milano, intervistata da Enrico Mentana, ricordando il processo Ruby. Ilda la rossa rammenta anche un altro episodio, per certi versi emblematico, quando il leader di Forza Italia si presentò in tribunale a Milano per rilasciare delle dichiarazioni spontanee e allora "fui costretta a stringergli la mano". Una frase che lascia trapelare una sorta di odio e di disgusto nei confronti dell'allora imputato Berlusconi con il quale "c'è stata una conflittualità che spero non ci sia mai più". Nel resto dell'intervista, l'ex magistrato torna a parlare della discussa confessione dell'amore nei confronti di Giovanni Falcone. Confessione che ha destato molto scalpore arrivando a scatenare anche l'ira della sorella del giudice assassinato dalla mafia: "C'è questa voglia di creare scandali dappertutto, è la deriva che mi dispiace come lettrice. Ho deciso di mettermi a nudo e dovevo mettere a nudo anche i pezzi più privati, non puoi separare pubblico e privato. Omettere questo non sarebbe stato giusto per i miei figli, per me e per Giovanni. Io voglio bene a Maria Falcone e lei sa che suo fratello è stata una persona importante e ho giurato all'obitorio che mai nessuno potesse distruggere la sua immagine. Se questo libro, ha fatto pensare invece il contrario allora vuole dire che ho fallito", dice la Boccassini. Che poi, durante il corso dell'intervista ne ha anche per i colleghi, rei di aver "sentito il canto delle sirene" che lei non ha sentito. Perché "rimanere con i piedi per terra quando ti dicono che sei dio in terra non è facile". Lei si descrive come una persona "fragile ma forte, mamma imperfetta, che si commuove spesso e che si è commossa spesso nella vita", ma che allo stesso tempo ha "creato un'immagine da dura", ha "sfruttato" Falcone per apprendere, per la sua sapienza. Anche lui metteva delle maschere, perché lui si difendeva".
Domenico Ferrara. Palermitano fiero, romano per cinque anni, milanese per scelta. Sono nato nel capoluogo siciliano il 9 gennaio del 1984. Amo la Spagna, in particolare Madrid. Sono stato un mancato tennista, un mancato giocatore di biliardo, un mancato calciatore, o forse preferisco pensarlo...
Ilda Boccassini schifata, "costretta a stringere la mano a Berlusconi": la frase vergognosa dell'ex pm. Libero Quotidiano il 31 ottobre 2021. Ilda Boccassini si è lasciata intervistare da Enrico Mentana negli studi di La7, ben 23 anni dopo la prima (e fino a ieri unica) apparizione televisiva con Enzo Biagi. Un evento di un certo peso, che non è passato inosservato data l’importanza storica della figura dell’ex magistrato, ma allo stesso tempo non sono mancate delle uscite contro Silvio Berlusconi, per il quale sembra nutrire una sorta di ossessione, comune a diverse toghe. Ricordando il processo Ruby, la Boccassini ha infatti sparato a zero: “Il problema era che in discussione c’era proprio la possibilità di fare il processo. Tutto quello che è stato utilizzato, le leggi ad hoc e i rinvii, è stato fatto perché non si doveva arrivare al momento in cui si dice in nome del popolo italiano. Non si sono mai difesi nel processo, si sono difesi fuori dilatando i tempi. Lì si è fatto di tutto per allungare e creare un ostacolo alla democrazia, abbattere il diritto vuol dire che la democrazia muore”. Ma non è finita qui, perché a un certo punto l’ex magistrato ha tirato fuori anche un episodio riguardante il Cav che si può definire piuttosto emblematico: “Si presentò in tribunale a Milano e fui costretta a stringergli la mano. Con Berlusconi c’è stata una conflittualità che spero non ci sia mai più”.
Ilda Boccassini, ritorno in tv 23 anni dopo da Enrico Mentana: tam-tam a La7, fango e siluri contro Silvio Berlusconi. Libero Quotidiano il 30 ottobre 2021. Ventitré anni dopo, Ilda Boccassini torna in televisione. A suo modo, un appuntamento storico: l'ultima volta in cui "Ilda la Rossa" si era concessa al piccolo schermo risale al 1998, quando l'allora sostituto procuratore di Milano si fece intervistare da Enzo Biagi, su Rai 1. Questa sera, sabato 30 ottobre, la Boccassini apparirà in prima serata su La7 per un'intervista esclusiva condotta da Enrico Mentana a partire dalle 21.15. Un colloquio su mafia, magistratura e ovviamente su Silvio Berlusconi, bersaglio grosso della Boccassini per gran parte della sua carriera, bersaglio grosso contro il quale, c'è da scommetterci, tornerà a picchiare durissimo (soprattutto ora che il leader di Forza Italia è in corsa per il Quirinale nella successione a Sergio Mattarella). Dunque, si parlerà anche di Giovanni Falcone, dopo che Ilda, nel suo libro, ha recentemente confermato che con il giudice ebbe una tormentata relazione sentimentale: "Me ne innamorai. È molto complicato per me parlarne. Sicuramente non si trattò dei sentimenti classici con cui siamo abituati a fare i conti nel corso della vita. No. Il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di vita quotidiana, il bisogno di vivere l’amore momento per momento", scrive la Boccassini nel suo libro autobiografico. Per quel che riguarda la Boccassini, nella sua ultima apparizione televisiva da Biagi nel 1998, disse di non condividere "assolutamente" che un magistrato possa passare alla politica. E ancora, raccontò la sua esperienza al pool di Milano, che disse aver avuto "soltanto il merito di scoprire che l’Italia è stata governata per anni da un sistema di corruttela.
Ilda Boccassini e Alberto Nobili indagati per abuso d’ufficio. Ilda Boccassini e l'ex compagno Alberto Nobili, attuale pm di Milano, sono indagati per abuso d'ufficio. Ma la procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione. Il Dubbio il 9 settembre 2021. L’ex pm della procura di Milano, Ilda Boccassini, è stata iscritta nel registro degli indagati per per abuso d’ufficio assieme all’ex compagno, il magistrato milanese Alberto Nobili e il comandante della Polizia locale di Milano Marco Ciacci. Gli accertamenti investigativi sono partiti alcuni mesi fa dopo l’esposto presentato dall’ex comandante dei vigili di Milano Antonio Barbato, candidato oggi per la Lega di Matteo Salvini a Milano. Tuttavia, la procura di Brescia ha chiesto l’archiviazione del pm. La palla quindi palla al gip.
La ricostruzione dei fatti. I fatti risalgono al 3 ottobre 2018, quando Alice Nobili, figlia di Ilda Boccassini e dell’attuale capo dell’antiterrorismo, investì con lo scooter sulle strisce il medico Luca Voltolin, 61 anni, deceduto dopo qualche giorno in ospedale. Il processo alla figlia di Ilda Boccassini La figlia di Ilda Boccassini fu condannata a nove mesi di carcere per omicidio stradale più un risarcimento in denaro. Secondo quanto riporta il Fatto Quotidiano, nelle chat agli atti dell’inchiesta, uno degli agenti della polizia municipale scriveva: «”L’alcol test non l’hanno fatto. Il comandante è andato sul posto, io ho rilevato anche tripli mortali e non ho mai visto un comandante sul posto”». E quindi le domande sono rimaste le stesse. Il pubblico ministero, però, non ha individuato alcun abuso di ufficio. Dopo l’incidente, «non sarebbe stato eseguito l’alcol test, cosa che di norma, anche se non obbligatorio, in incidenti del genere andrebbe fatto». Quindi, il 3 settembre il pm ha chiesto l’archiviazione.
La Bocassini è indagata. L'accusa chiede l'archiviazione. Luca Fazzo il 9/9/2021 su Il Giornale. Un dato è certo: la figlia di Ilda Boccassini, pm simbolo della lotta alla mafia, non venne sottoposta ad alcol test la sera in cui a Milano, a poca distanza da casa della madre, investì e uccise un pedone. Un dato è certo: la figlia di Ilda Boccassini, pm simbolo della lotta alla mafia, non venne sottoposta ad alcol test la sera in cui a Milano, a poca distanza da casa della madre, investì e uccise un pedone. Per questo la Procura della Repubblica di Brescia, competente per i reati commessi dai magistrati in servizio a Milano, ha iscritto tre persone nel registro degli indagati: si tratta della stessa Boccassini, del suo ex compagno e padre della ragazza Alberto Nobili, tuttora in servizio a Milano come pubblico ministero, e dell'attuale comandante della Polizia locale del Comune di Milano, Marco Ciacci. Ma pochi giorni fa, il 3 settembre, il pubblico ministero titolare dell'inchiesta ha chiesto l'archiviazione delle accuse di tutti gli indagati. Ora la richiesta dovrà passare al vaglio di un giudice preliminare, ma evidentemente la pubblica accusa ha ritenuto che non vi sia stata un abuso d'ufficio da parte di Ciacci, né una pressione illecita in questo da parte dei due illustri genitori della investitrice. A rendere nota l'esistenza dell'inchiesta a carico di Ciacci, di cui si parlava da tempo, è stato ieri il suo predecessore, l'ex comandante dei vigili Antonio Barbato, che ha reso noto di essere stato interrogato il 21 aprile a Brescia proprio nell'ambito del procedimento a carico dell'attuale capo dei «ghisa». A generare l'indagine era stata peraltro una denuncia dello stesso Barbato. Il tutto era reso delicato dal fatto che Barbato aveva perso poco tempo prima il posto proprio in seguito a una inchiesta del pool antimafia della Procura, in cui era stato intercettato; e che a indicare Ciacci come suo successore ideale al sindaco Sala erano stati proprio i vertici della Procura, che di Ciacci - fino a quel momento in servizio alla Polizia di Stato - avevano potuto saggiare nel corso degli anni la affidabilità. Barbato, che attualmente è sotto processo ma anche candidato al Consiglio comunale, non ha mai nascosto di sentirsi vittima di un complotto per spianare la strada a Ciacci, e di considerare il mancato esame etilico alla figlia delle due toghe una sorta di ringraziamento dovuto. Ma l'indagine bresciana ha accertato che Ciacci si limitò a intervenire per pochi minuti sulla scena, quando l'incidente sembrava ancora lieve. La figlia della Boccassini, peraltro, è astemia.
"Pressioni sui testimoni" Così i colleghi pm graziano la Boccassini. Stefano Zurlo il 10 Settembre 2021 su Il Giornale. La Procura ha chiesto subito l'archiviazione dell'indagine. Piena di stranezze e omissioni. Un brutto incidente stradale. Uno scooter investe un uomo che morirà in ospedale. È la sera del 3 ottobre 2018, ma a creare scompiglio quel giorno a Milano è il fatto che a guidare la moto è la figlia di due notissimi magistrati: Ilda Boccassini, allora procuratore aggiunto e oggi in pensione, e Alberto Nobili, capo dell'antiterrorismo. Sul posto arriva anche il comandante dei vigili urbani Marco Ciacci; una presenza irrituale, ma non l'unica stranezza di questa storia: la ragazza non viene sottoposta all'alcol test e nemmeno all'esame per stabilire se abbia assunto droghe. L'ex comandante della polizia municipale Antonio Barbato presenta un esposto alla procura di Brescia per segnalare le presunte anomalie della vicenda: ora si scopre che Boccassini, Nobili e Ciacci sono indagati a Brescia per abuso d'ufficio, ma il Fatto Quotidiano svela anche che la procura ha chiesto l'archiviazione per il terzetto eccellente. E Barbato, oggi candidato per la Lega a Milano, rilancia: «Ho già presentato opposizione, non sono soddisfatto per come sono state condotte le indagini, forse ci vorrebbe un supplemento di inchiesta». Insomma, per l'ex capo dei vigili, Brescia avrebbe potuto e potrebbe ancora fare di più. «Due testimoni - spiega lui al Giornale - mi hanno raccontato di aver subito pressioni in quei giorni nel corso del loro lavoro investigativo, ma con mia grande sorpresa ora mi dicono che la procura di Brescia non li ha mai convocati e ascoltati». Si ritorna dunque al 3 ottobre 2018. Un medico, Luca Valtolin, sta attraversando sulle strisce con la spesa in mano: siamo in viale Montenero, nel cuore della metropoli. La moto lo travolge: l'ambulanza parte col ferito in codice giallo, ma già all'arrivo in ospedale la situazione è cambiata. Valtolin, che ha picchiato la testa sull'asfalto, è in codice rosso e non sopravviverà allo scontro. In viale Montenero accorre Nobili e poco dopo giunge anche il comandante Ciacci. Chi l'ha avvisato? Davanti alla Commissione sicurezza del Comune di Milano, Ciacci dirà che è stato Nobili a dargli la notizia, ma ne sminuirà la portata spiegando che il luogo era sulla traiettoria del ristorante cui era diretto con la moglie. Certo, la presenza di un pm così titolato sulla scena è ingombrante, anche se Nobili in quel momento è solo un padre angosciato. E ancora più controverso è il passaggio di Ciacci: ha dato o suggerito direttive e consigli ai colleghi impegnati nei rilevamenti? Fra l'altro, in viale Montenero ci sono anche gli specialisti del Radiomobile che svolgono i loro accertamenti, ma non vanno oltre. Niente etilometro e nemmeno l'analisi per rilevare la presenza di droghe. Nelle chat dei vigili spuntano messaggi sarcastici: «Io ho rilevato anche tripli mortali e non ho mai visto un comandante sul posto». Oltretutto, punto assai delicato, presentandosi in viale Montenero, Ciacci avrebbe violato il codice di comportamento dei dipendenti pubblici: in passato ha collaborato con Boccassini e circa 180 vigili lavorano a Palazzo di giustizia nelle squadre di polizia giudiziaria. Fin troppo facile scorgere sullo sfondo possibili conflitti di interesse e motivi di imbarazzo reciproco. Che cosa è accaduto esattamente in quelle ore concitate? La ragazza viene indagata per omicidio stradale, poi risarcisce i familiari della vittima e patteggia nove mesi. La procura di Brescia invece indaga e conclude per l'archiviazione. Deciderà il gip. Barbato, infine, proprio oggi va a processo per frode in pubbliche forniture e falso. A denunciarlo, guarda caso, è stato proprio Ciacci. Stefano Zurlo
DAVIDE MILOSA per il Fatto Quotidiano il 9 settembre 2021. Il comandante della Polizia locale di Milano Marco Ciacci, il capo dell'antiterrorismo Alberto Nobili e l'ex procuratore aggiunto Ilda Boccassini sono indagati per abuso d'ufficio in concorso dalla Procura di Brescia. L'inchiesta nasce diversi mesi fa anche sulla base di un esposto-denuncia dell'ex comandante dei vigili di Milano Antonio Barbato, candidato oggi per la Lega di Matteo Salvini a Milano e imputato sempre a Milano per frode in pubbliche forniture e falso. L'indagine bresciana riguarda le modalità d'intervento rispetto a un incidente stradale avvenuto il 3 ottobre 2018 in viale Montenero nel quale la figlia di Nobili e Boccassini, a bordo di uno scooter ha investito il medico infettivologo Luca Valtolin che in quel momento stava attraversando sulle strisce pedonali con le borse della spesa in mano. Valtolin cadendo ha battuto la testa in modo violento. Ricoverato in codice giallo, si aggraverà nei giorni successivi e morirà. La figlia dei due importanti magistrati di Milano, titolari ieri e oggi di indagini decisive sia sul fronte della mafia sia su quello della corruzione e della lotta al terrorismo anche interno e attuale, nel gennaio 2020 ha patteggiato una condanna a nove mesi per omicidio colposo risarcendo i familiari della vittima. L'indagine di Brescia è ora arrivata alle battute finali con la richiesta di archiviazione scritta dalla Procura solo pochi giorni fa. La palla quindi passa al giudice perle indagini preliminari. Il fascicolo, seguito dalla Procura in modo più che accurato, prende il via dall'esposto di Barbato che, nella sostanza, fissa due punti principali: da un lato la presenza sul posto dell'incidente del capo dei vigili Ciacci, cosa, a suo dire, del tutto irrituale e in apparente violazione del codice di comportamento dei dipendenti pubblici, visto, in particolare, i rapporti professionali pregressitra Ciacci e uno dei due magistrati. Il secondo punto è invece legato al fatto che, pur con la presenza del comandante sul posto, non furono disposti né l'alcol test né le analisi per capire se l'investitore avesse assunto sostanze stupefacenti. La ragazza sarà indagata per omicidio stradale non avendo rispettato le norme del codice stradale e meno di due anni dopo patteggerà 9 mesi per omicidio colposo. Il fascicolo sarà preso in carico dalla Procura di Milano in un periodo dove non solo Nobili ma anche Boccassini erano nel pieno delle loro funzioni. Secondo quanto si legge nella denuncia, che riprende testimonianze di agenti della polizia locale giunti in viale Montenero, sul posto era presente Nobili e subito dopo Ciacci. La tesi accusatoria, messa nella denuncia e seguita dalla Procura di Brescia, che ora però ha chiesto l'archiviazione, è che vi fu una chiamata del magistrato al capo dei vigili. In alcune chat messe agli atti, un operante scrive: "L'alcol test non l'hanno fatto, comandante è andato sul posto, io ho rilevato anche tripli mortali e non ho mai visto un comandante sul posto". Ciacci, giorni dopo l'incidente, sarà sentito dalla Commissione sicurezza del Comune. Qui, si legge nella denuncia, ammetterà di aver ricevuto la telefonata da Nobili senza però spiegarne il contenuto. Confermerà anche di essere andato sul posto. Ma solo per caso, perché mentre andava al ristorante con la moglie, vedendo i lampeggianti si era fermato sul luogo dell'incidente per parlare con il dottor Nobili. Nella denuncia, che in parte ha alimentato un fascicolo durato diversi mesi, si fa presente che quel 3 ottobre sul posto intervenne una pattuglia del reparto Radiomobile con personale altamente specializzato "per i sinistri stradali gravi". E nonostante questo, spiega il documento agli atti, a questa unità fu chiesto solo di fare rilievi e planimetrie, senza passare ai vari test sulla persona. Insomma il caso, che per le prime settimane dopo il 3 ottobre 2018 rimase sotto traccia, ora sembra avviarsi a una conclusione. Toccherà al giudice valutare se le prove messe agli atti in questi mesi sono bastanti per ottenere l'archiviazione o se sarà necessario un supplemento di indagini.
Ilda Boccassini graziata dai colleghi? "Pressioni sui testimoni", chi vuota il sacco in procura: il caso si complica. Libero Quotidiano il 10 settembre 2021. Il 3 ottobre 2018 a Milano uno scooter con a bordo la figlia di due notissimi magistrati: Ilda Boccassini, allora procuratore aggiunto e oggi in pensione, e Alberto Nobili, capo dell'antiterrorismo, mette sotto un uomo che poi morirà in ospedale. Sul posto arriva anche il comandante dei vigili urbani Marco Ciacci. Per questo fatto Boccassini, Nobili e Ciacci sono stati indagati a Brescia per abuso d'ufficio, ma la procura ha chiesto l'archiviazione. "Ho già presentato opposizione, non sono soddisfatto per come sono state condotte le indagini, forse ci vorrebbe un supplemento di inchiesta", svela l’ex comandante della polizia municipale Antonio Barbato, oggi candidato con la Lega a Milano. "Due testimoni mi hanno raccontato di aver subito pressioni in quei giorni nel corso del loro lavoro investigativo, ma con mia grande sorpresa ora mi dicono che la procura di Brescia non li ha mai convocati e ascoltati", racconta al Giornale. Dopo l'incidente, quel giorno dell'ottobre 2018, accorre immediatamente Nobili e poco dopo anche il comandante Ciacci. "Davanti alla Commissione sicurezza del Comune di Milano, Ciacci dirà che è stato Nobili a dargli la notizia, ma ne sminuirà la portata spiegando che il luogo era sulla traiettoria del ristorante cui era diretto con la moglie. Certo, la presenza di un pm così titolato sulla scena è ingombrante, anche se Nobili in quel momento è solo un padre angosciato", scrive il Giornale. "Niente etilometro e nemmeno l'analisi per rilevare la presenza di droghe. Nelle chat dei vigili spuntano messaggi sarcastici: 'Io ho rilevato anche tripli mortali e non ho mai visto un comandante sul posto'. Ciacci in passato ha collaborato con Boccassini e circa 180 vigili lavorano a Palazzo di giustizia nelle squadre di polizia giudiziaria. Fin troppo facile scorgere sullo sfondo possibili conflitti di interesse e motivi di imbarazzo reciproco", si chiede ancora il Giornale. La ragazza viene indagata per omicidio stradale, poi risarcisce i familiari della vittima e patteggia nove mesi. La procura di Brescia invece indaga e conclude per l'archiviazione. Deciderà ora il gip se accettare la richiesta della procura.
Ilda Boccassini, Filippo Facci attacca: "La doppia morale dei magistrati indagati", il sospetto sulla procura di Milano. Libero Quotidiano il 10 settembre 2021. Ora che è in pensione, possiamo dire ancor più liberamente che la stima per l'ex magistrato Ilda Boccassini (o la stima di chi scrive, perlomeno) è sempre stata altissima e incurante delle caricature a cui lei stessa talvolta ha prestato il fianco: sanguigna ma distaccata, napoletanissima ma indifferente, insomma: un ossimoro con la toga, ma, soprattutto, con una testa rigorosamente sua, come se avesse sempre condiviso il motto di questo secolo: detrattori e adulatori, pari sono. Dopo questo pistolotto tocca andare alla notizia, questa: la Boccassini è indagata a Brescia per la triste vicenda che vide protagonista sua figlia Alice Nobili - il padre è Alberto, magistrato in attività a Milano - che nell'ottobre 2018, con l'auto, investì e uccise il medico Luca Voltolin in viale Montenero a Milano. Gli indagati sono tre e comprendono anche l'ex compagno Alberto Nobili e l'attuale comandante della Polizia locale milanese Marco Ciacci, ma non si fa in tempo a dare una notizia che subito ne spunta un'altra: pochi giorni fa, il 3 settembre, il pm bresciano titolare dell'inchiesta ha chiesto l'archiviazione per tutti, richiesta dovrà essere vagliata da un giudice delle indagini preliminari, il gip.
ALCOL-TEST - L'accusa, evidentemente, ha già ritenuto che il comandante dei vigili non abbia commesso abusi, e che i genitori di Alice, la figlia investitrice, non ne abbiano chiesti né ottenuti. Stiamo parlando del fatto che la ragazza, dopo l'incidente, non venne sottoposta ad alcol-testo test antidroga, come sarebbe stato di prassi soprattutto quando ci scappa il morto. Del caso del comandante Ciacci, accorso sul luogo, si era occupato anche il cosiddetto «comitato per la legalità, trasparenza ed efficienza amministrativa» presieduto dall'ex magistrato Gherardo Colombo, che nell'operato del comandante non ravvisò alcuna irregolarità: pare che sul luogo dell'incidente si sia fermato pochissimo. A completare il quadro: Alice Nobili, nel 2020, ha patteggiato 9 mesi di reclusione per omicidio colposo su decisione del gip Alessandra Di Fazio, con un quantum di risarcimento economico che non è stato reso noto per clausola di riservatezza. Bene: a dirla tutta, cioè quasi tutta, piacerebbe chiuderla qui; è successa una disgrazia come ne capitano tante, la responsabile (astemia, pare) ha saldato il suo debito anche economico con la giustizia, tutto questo in tempi ragionevoli, dopodiché madre e padre della condannata sono stati formalmente indagati da due pm bresciani (inquirenti sugli eventuali reati dei magistrati milanesi) e, in tempi ancor più ragionevoli, diciamo ragionevolissimi, è giunta una richiesta di archiviazione e arrivederci.
NORMALITÀ - Se non l'abbiamo detta proprio tutta, e se l'articolo prosegue, è perché sappiamo che la normalità purtroppo è un'altra. È raro che tutti questi «pare» siano ritenuti sufficienti. I fatti, perciò, restano che la figlia di un simbolo della lotta alla mafia non venne sottoposta ad alcol e droga test dopo che investì e uccise un pedone. I fatti restano che i tempi della giustizia, per gli altri, non sono così ragionevoli: come invece è stato in entrambi i casi menzionati. I fatti restano che 9 mesi di patteggiamento sono da considerarsi pochi, una pena mite: non oggettivamente - figuriamoci - ma rispetto alla media. I fatti sono che la clausola di riservatezza sul risarcimento economico ha denotato davvero riservatezza: e anche questo non è semplice che accada in quei colabrodo che sono di norma le procure. I fatti, ancora, restano che le conclusioni innocentiste del «Comitato per la legalità, la trasparenza e l'efficienza amministrativa» presieduto da Gherardo Colombo, quelle che hanno discolpato il comandante dei Vigili, beh, noi non le abbiamo mai lette da nessuna parte: ma potrebbe essere un problema nostro. Con il che nessuna polemica sterile: solo un blando richiamo, precisino come lo è sempre stata Ilda, alla famosa «moglie di Cesare», quella che non dovrebbe essere toccata nemmeno dal più remoto dei sospetti, nel senso che un ex magistrato come la Boccassini - un simbolo del suo calibro, che finì su L'Express e sul Times tra cento donne più importanti del globo - non solo dovrebbe restare linda su un piano formale e da casellario giudiziario, ma forse dovrebbe ossequiarsi a un surplus di chiarezza e di spiegazioni esaustive forse superiore a quello che riguarda la gente comune, quella che di trattamenti ragionevoli - dai tempi alla riservatezza - ne riceve forse un po' meno. Attenzione che non si tratta di abbassarsi a speculazioni giornalistiche, come quando l'altro figlio di Ilda Boccassini, Antonio, restò coinvolto in una banale rissa a Ischia (luglio 1997) che coinvolse anche dei carabinieri e per cui dapprima scattarono accuse per oltraggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale: finì parte in caserma, parte al Pronto soccorso e parte finì e basta, con Antonio che se la cavò con una denuncia a piede libero e insomma: non ci fu processo né altro. O così, ancora una volta, «pare». Ma il caso di Milano è un po' diverso. C'è di mezzo un morto, i fatti sembrano chiari, e dove non lo sono pare quasi (pare) che non lo siano volutamente. Forse si potrebbe chiarirli quanto basta. Forse qualche giornalista ancora affidabile e pur esso ragionevole, da qualche parte, esiste ancora: anche se lei, Ilda, i giornalisti non li ha mai inseguiti. Potrebbe cominciare ora, così da farci capire ancora meglio perché continuare a stimarla.
Ilda Boccassini: i figli, le inchieste, gli attacchi. Storia di un’irregolare. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 07 ottobre 2021. Roberto Saviano e il libro autobiografico di Ilda Boccassini, ex procuratore aggiunto di Milano: le sue battaglie contro la mafia, tanti potenti e le zone grigie. «Provarono davvero ad atterrarla: come spiegare il periodo delle indagini antimafia senza scorta?» Se questo libro avesse potuto esser scritto con il sangue, le lacrime, la saliva, le unghie, ciocche di capelli, brandelli di vestiti, vetri d’auto blindata, forchette, ebbene sarebbe stato scritto con ogni singolo elemento di questo elenco. Ilda Boccassini ha messo tutto, potrei dire che su queste pagine si è spogliata d’ogni cosa, nuda. Dovrei scegliere un termine più preciso: scorticata, perché va oltre la pelle, affronta tutto, l’osceno mondo del potere, il tenero spazio delle alleanze, il romantico slancio degli ideali. Questo libro è il racconto di una donna magistrato, che non si è mai sentita davvero comoda nel suo ruolo in una Repubblica malata, ferita, e che nei momenti di maggior tensione, così come in quelli di formazione, sempre è stata un’irregolare. Certo, essendo un mondo di quasi tutti uomini si potrebbe pensare a una questione di genere, ma sarebbe riduttivo. Ben presto si accorge che lo spazio del diritto, che lei con ogni forza ha voluto occupare, quasi mai coincide davvero con lo spazio dei tribunali, delle procure, delle sentenze. Questo toccante mémoire si apre e termina accanto a una Ilda intenta a rimettere a posto nelle sue stanze piene di lettere e nei suoi ricordi. Mette a posto le carte, Ilda, e prova a far ordine dentro di sé. Il primo, fatale incontro, con le pile di carta tra le quali gioca, bambina, nello studio del padre magistrato, lì dove tante volte le capiteranno tra le mani fotografie di omicidi che le turberanno il sonno e le orienteranno l’esistenza. La bambina cresce, diventa una donna, «Ilda la rossa» che non risparmia nessuno, nemmeno se stessa. Davanti all’etica, alla professione, è di un rigore inscalfibile, lei che, come la pianta di agave a cui è stata paragonata una volta in un articolo, resiste caparbia nelle condizioni più ostili. Sì, perché questa dedizione totale alla giustizia, se fosse stata sfoggiata da un uomo gli sarebbe valsa riconoscimenti e apprezzamenti, ma portata da lei si trasforma in condanna sociale, delegittimazione, motivo di biasimo e attacchi personali. La prima di una sterminata serie di volte in cui si scontra con questa realtà misogina, la seguiamo, giovanissima, in un’aula di tribunale in veste di uditrice: un collega si presenta sempre armato e lei e un’amica, per prendere in giro questo gratuito sfoggio di machismo, un giorno portano con sé delle pistole ad acqua colorate. Inutile dire su chi si siano riversate le ire dei più anziani. Il libro non può esser svelato, va semplicemente letto, perché si rivela al lettore, non è possibile disvelarlo. È un concentrato di storia della nostra democrazia nei momenti di crisi più importanti. Il centro narrativo, che tracima di felicità e dolore al contempo, è l’incontro con Giovanni Falcone, per Ida un mentore, un riferimento umano e professionale al quale è legata da un profondo sentimento di rispetto e stima reciproci, tanto che, come scrive la stessa autrice, il 23 maggio 1992 sarà per lei «il giorno in cui tutto finisce e tutto comincia». Finisce quel giorno il rapporto con una persona importante per la sua crescita umana e professionale, dagli altri magistrati tanto pianta da morta quanto odiata, invidiata, ignorata quando non apertamente osteggiata in vita. Comincia quel giorno il personalissimo modo di Ilda Boccassini di portare nella pratica gli insegnamenti e l’esperienza di Falcone, la strenua difesa del suo nome dagli sciacalli che prima l’hanno isolato, per poi tentare di saccheggiarne la memoria per un tornaconto personale. Sulla scia del suo amico e collega, accetta, come una sorta di pesante testimone, la condizione di emarginata, irrisa, odiata, perseguitata, contrapponendo sempre all’isteria di massa, alle facili euforie collettive, un lavoro silenzioso e incessante. Ilda, da Falcone, eredita il metodo di indagine, la prudenza investigativa, l’uso mediatico delle proprie dichiarazioni, che non devono mai impattare sulla sua credibilità, nemmeno per andare in cerca di un consenso troppo spesso usato per sopperire a mancanza di prove o di capacità di indagine. Cita le parole del suo mentore, che in Cose di Cosa nostra (1991) scriveva: «Oltre ad avermi insegnato una lingua e una chiave di interpretazione, Buscetta mi ha posto di fronte a un problema decisivo. Mi ha fatto comprendere che lo Stato non è ancora all’altezza per fronteggiare un fenomeno di tale ampiezza […] e ha aggiunto: ‘L’avverto, signor giudice. Dopo questo interrogatorio diventerà una celebrità ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?’». Eccolo qui, il coraggio, che non è il lanciarsi nell’ignoto o il rischiare, tutt’altro, è il dover raccogliere su di sé una scelta. È quello che fa Ilda quando sceglie il trasferimento in Sicilia, sulle tracce dei responsabili della morte di Giovanni. Non si accontenta di sapere chi ha materialmente fatto cosa: lei vuole tutti, punta ai mandanti. Ma il suo modo di scandagliare i fatti, andando oltre la superficie, rischiarando le «zone grigie» dove sfumano i contorni tra mafia e potere, bene e male, risulta scomodo in un’Italia che si trincera dietro l’illusione che esistano solo il bianco e il nero, gli eroi e i nemici. Ilda Boccassini ne incontra tanti, di colleghi che «accettano di sponsorizzarsi come si fa con una batteria di pentole», di giornalisti asserviti e senza etica, di parlamentari che fanno gli interessi unicamente dei propri demoni, e li chiama tutti per nome, attirandosi addosso un arsenale pesantissimo che ha munizioni legali e mediatiche capaci di atterrare chiunque. Come se scegliere di stare dalla parte di chi non accetta a capo chino ingiustizia e corruzione significhi rinunciare alla propria vita privata, Ilda si ritrova più volte a fare i conti con un’enorme lente d’ingrandimento perennemente puntata addosso, pronta a mettere in evidenza qualsiasi imperfezione e a deformare ogni suo spostamento. Eminenti giornali scandalistici del calibro di Chi, di proprietà della famiglia Berlusconi, le dedica pagine e pagine, interi servizi basati sul nulla, su un mozzicone di sigaretta spento per strada, un acquisto in un negozio di lusso, un calzino decretato fuori moda a insindacabile giudizio di qualche ormai dimenticato articolista, un pomeriggio al cinema. E quanti «scandalosi amori segreti di Ilda» sono fioriti all’insaputa dei diretti interessati, rei magari di aver attraversato una strada a braccetto? Ma la fantasia non ha limiti, se ripensiamo al magnifico capolavoro di pura fiction pubblicato da Lino Jannuzzi in un numero del 2001 di Panorama, settimanale affezionatissimo al Cavaliere: racconta di un conciliabolo tra i procuratori Ilda Boccassini, Carla Del Ponte e Carlos Castresana, in combutta con la parlamentare Elena Paciotti per incastrare e arrestare Berlusconi. Per chi non ricordasse, era all’epoca indagato come «concorrente necessario» in reati di corruzione contestati a Renato Squillante, Attilio Pacifico e Cesare Previti e che paventavano l’esistenza di svariati falsi in bilancio e fondi neri. D’altra parte, ci provano davvero, ad atterrare Ilda, e non solo metaforicamente: come spiegare altrimenti il periodo in cui, con le indagini che porta avanti nell’Antimafia, le viene negata la scorta? Molto più rispetto dei colleghi corrotti, nei suoi racconti, viene riservato a Tommaso Buscetta, il pentito di Cosa nostra al quale Falcone si rivolgeva sempre dandogli del lei. Boccassini lo incontra spesso, dopo la strage di Capaci. Gli si rivela in tutta la sua umanità. Si parlano da pari a pari. Atteggiamento che riprende dall’esperienza del compianto collega, e che negli incontri con La Barbera e Cancemi la porterà a raccogliere informazioni fondamentali per le indagini. Proprio Cancemi darà la chiave per scoperchiare tutte le convergenze di interesse tra Cosa nostra, politica, finanza, imprenditoria, e le implicazioni nella stagione stragista. Dichiara, infatti, che Riina aveva incontrato «persone importanti» prima che venisse ucciso Falcone, persone che avrebbero garantito la revisione dei processi. Da qui riparte Boccassini, arrivando a sentire il pentito parlare degli accordi economici tra Riina e un certo Marcello Dell’Utri, emissario per conto di Berlusconi. Accordi che garantivano alle mafie un’entrata fissa di milioni e milioni di lire ogni anno. Accordo, non pizzo, ci tiene a precisare Cancemi, che nel corso degli interrogatori parlerà dell’eliminazione di Falcone come di un’operazione che permetteva di prendere due piccioni con una fava: l’interesse di Riina nel togliere di mezzo un nemico personale coincideva con quello di altri, persone potenti disturbate da questo cercare il marcio nelle intercapedini, negli anfratti dove si annidavano i potenti. Di fronte a queste dichiarazioni del pentito, i capi di Ilda cercheranno di farle capire con modi «soft» che non può pensare di intromettersi sul fronte dei «magistrati collusi» e dei mandanti occulti delle stragi, ma lei è irremovibile. Viene coniata in quel periodo l’espressione «toghe rosse», una frangia di magistrati comunisti che, a detta di Berlusconi, complottano ingiustamente contro di lui e che ce l’hanno tanto con la sua persona, che negli anni tornano spesso alla carica, per giri di soldi poco puliti, per il coinvolgimento di ragazze minorenni in sordidi festini a sfondo sessuale… eppure, i colleghi, quelli che con Ilda avrebbero dovuto condividere, se non la qualità dell’impegno, almeno la passione civile, sono stati coesi solo nell’abbandonarla, come a suo tempo avevano fatto con Falcone, ispirando al suo funerale un’invettiva che da Goffredo Buccini è ricordata, in un articolo del Corriere della Sera, come «un violento atto d’accusa di un giudice contro altri giudici, contro un’intera corporazione e una parte della classe politica». Ma se i fatti sono così chiari, come mai la storia si è ripetuta identica? Chi c’era al fianco di Ilda, mentre lei denunciava e in cambio ne aveva solitudine e minacce di ripercussioni? Viene incolpata, dai suoi stessi colleghi, di aver «violato il dovere di correttezza e leale collaborazione nei confronti di un organo istituzionale». Viene definita immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato. Da questo, da questo sporco mondo che da ogni lato tenta di soffocare l’unica voce dissonante che nomina le cose per quello che sono, capiamo quanto è vero quello che l’autrice sembra voler gridare da ogni pagina, che la mafia non è un cancro che intossica una comunità di brave persone, ma che per iniziare davvero a combatterla «è invece necessario riconoscere che la mafia ci somiglia». Riconoscere lo sporco sotto le nostre unghie significa togliere potere a chi dalle «zone grigie» professa eroismo e intanto muove pedine per renderci tutti la peggiore versione di noi stessi. È un libro colmo di delusione e diffidenza, ma senza mai perdere la speranza del riconoscersi. Non mancano gli amici, da Peppe D’Avanzo a Lionello Mancini, giornalisti che accompagnano ma non superano i suoi perimetri, l’ascoltano ma non saccheggiano le sue informazioni. Sembra esserci sempre, dietro ogni sua pagina, uno slancio, un rinfrancarsi nel pensiero di aver trovato, in mezzo a tutta la merda, anche alcuni diamanti. Tra gli incontri più densi di storia e significato, quello con Saverio Borrelli, il capo che subentra poco dopo il suo ingresso in tribunale e che finalmente dà fiducia e responsabilità a lei e alla squadra di giovani giudici nuovi arrivati, per la prima volta in prevalenza femminile. Non mancheranno frizioni, anche dolorose, eppure Borrelli rimarrà, leale e presente, a vigilare con la sua autorevolezza «benefica e capace di risvegliare la voglia di combattere senza risparmiarsi». Ilda Boccassini sceglie di rivelarsi, pur nella consapevolezza che ancora una volta ci sarà chi andrà ad attaccarla dove trova nervi scoperti. Nervi che pulsano del senso di colpa all’idea di non aver dedicato abbastanza tempo ai figli, ma anche della pace che prova quando sente che il loro legame è più forte. Il libro è disseminato di dettagli e persino pratiche di resistenza psichica. A chi non ha smesso di insultarla, attaccarla, isolarla, risponde come ha imparato a fare negli anni, trasformando la cura di sé, la scelta della collana più bella, da rituale catartico in gesto di resistenza contro chi vorrebbe abbrutirla. Il senso dei suoi gesti cresce con lei, evolve, così come oggi cambia l’uso parsimonioso che ha finora fatto delle parole. Rompe con generosità il suo lungo silenzio, per raccontarsi in quanto donna che ha rivendicato, fin dal primo istante, il diritto di scelta, senza dover considerare di aggiungere al dolore delle decisioni più sofferte il giudizio pungente di chi vede in lei una donna aspra, che abbandona gli affetti per inseguire le sue battaglie. Scegliere costa, su questo è molto chiara. Costa alla madre che accompagna la crescita dei figli filtrata da una cornetta del telefono e salvificamente mediata da una comunità di donne, le mamme dei compagni di classe dei suoi bambini, che fanno rete per sostenerla, nella gestione dei figli come nelle sue stesse emozioni. Costa alla donna che tanto spesso si è sentita sola. La sua è «una scelta quotidiana, sofferta, lacerante», davanti alla quale non si tira mai indietro, nella convinzione che «difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non è una battaglia persa» e che il passaggio di testimone alle giovani professioniste di oggi avviene in un momento in cui è di nuovo possibile sperare che le cose cambino. Perché a nessuna potenziale Ilda di domani venga mai più preclusa la prospettiva di fare carriera perché «sei brava, ma sei Ilda». Leggerete la storia di Ilda, ma vi troverete nel cuore pulsante della storia della nostra democrazia, quella che avrebbe potuto essere, quella in cui forse è ancora lecito sperare.
Boccassini contro Gratteri: «Si vantava in continuazione, a stento ci salutava». Dure parole dell’ex procuratore aggiunto di Milano nella sua autobiografia: «Creava tensione, chi lo conosce dice che per Gratteri far parte di un pool senza esserne il leader non ha alcun significato». Il Quotidiano del Sud l'8 ottobre 2021. DURANTE l’indagine che tra il 2009 e il 2010 ha dato un duro colpo alla ‘ndrangheta e ha portato a centinaia di arresti, Nicola Gratteri, allora aggiunto a Reggio Calabria, si «vantava continuamente» e creava tensione tra gli altri magistrati del pool. È il duro giudizio che Ilda Boccassini dà dell’attuale procuratore di Catanzaro nella sua autobiografia “La stanza numero 30. Cronache di una vita”. L’indagine, chiamata “Crimine infinito”, ha svelato l’unitarietà della ‘ndrangheta e la sostanziale autonomia delle sue articolazioni territoriali in «un modernissimo – scrive l’ex procuratore aggiunto di Milano – e complesso equilibrio tra il centralismo di regole e rituali e il decentramento delle ordinarie attività illecite». «Capii molto presto, una volta presa in mano l’indagine, che sarebbe stato utile coinvolgere la procura di Reggio Calabria, allora guidata da Giuseppe Pignatone, per impostare una strategia comune», scrive Boccassini sottolineando che da quel momento «le riunioni si susseguirono con cadenza regolare, ci dividevamo i compiti, gli obiettivi, i soggetti sui cui indagare e cominciammo a scambiarci carte, contenuti delle intercettazioni». C’era però una «nota stonata» che «creava un po’ di imbarazzo»: l’atteggiamento di Nicola Gratteri. «Creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del fenomeno ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti». «Un comportamento – sottolinea Boccassini – che non ci ha mai permesso di legare, dato che a stento ci salutava, ma soprattutto perché ogni giorno di più si rivelava culturalmente e professionalmente molto diverso dalla squadra. A detta di chi lo conosce a fondo, per Gratteri far parte di un pool senza esserne il leader non ha alcun significato».
Ilda Boccassini: «Gratteri? Si vantava continuamente…». Le rilevazioni dell’ex procuratore aggiunto di Milano, per il quale l'atteggiamento di Gratteri «creava un po' di imbarazzo. Non ci ho mai legato, dato che a stento ci salutava». Il Dubbio il 9 ottobre 2021. Una rivelazione dopo l’altra nel libro autobiografico “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, firmato dall’ex procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini. Dopo aver parlato dell’amore per Giovanni Falcone – “Cosa avrebbe riservato il destino a me e Giovanni, se non fosse morto così precocemente?” si domanda il magistrato in pensione, riporta il Corriere della Sera – ora saltano fuori indiscrezioni anche sul procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Secondo Boccassini, l’allora aggiunto a Reggio Calabria, si «vantava continuamente» e creava tensione tra gli altri magistrati del pool nell’ambito dell’inchiesta “Crimine infinito” che che tra il 2009 e il 2010 ha dato un duro colpo alla ‘ndrangheta e ha portato a centinaia di arresti. «Capii molto presto, una volta presa in mano l’indagine, che sarebbe stato utile coinvolgere la procura di Reggio Calabria, allora guidata da Giuseppe Pignatone, per impostare una strategia comune», spiega l’ex procuratore aggiunto di Milano. «Le riunioni si susseguirono con cadenza regolare – aggiunge – ci dividevamo i compiti, gli obiettivi, i soggetti sui cui indagare e cominciammo a scambiarci carte, contenuti delle intercettazioni». Ma c’è una «nota stonata» che «creava un po’ di imbarazzo», dice Boccassini a proposito dell’atteggiamento di Nicola Gratteri. «Creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del fenomeno ‘ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti. Un comportamento – sottolinea – che non ci ha mai permesso di legare, dato che a stento ci salutava, ma soprattutto perché ogni giorno di più si rivelava culturalmente e professionalmente molto diverso dalla squadra. A detta di chi lo conosce a fondo, per Gratteri far parte di un pool senza esserne il leader non ha alcun significato».
Quello che Ilda non dice: reticenze e confidenze superflue. L’autobiografia di Boccassini parla troppo di Falcone e troppo poco di collusi e potenti. E sembra avere l’unico scopo di riaccendere i riflettori sull’autrice. Dal nuovo blog de L’Espresso su mafia, antimafia e dintorni. Francesco La Licata su L’Espresso il 14 ottobre 2021. Con questo articolo inizia la pubblicazione di un nuovo blog, “Il conTesto”, coordinato da Tano Grasso e animato da persone che a vario titolo, nei rispettivi ambiti, si sono occupate di mafia, antimafia e dintorni. Uno spazio di servizio per conoscere, analizzare, criticare ciò che intorno a questo tema viene scritto e prodotto: libri – come l’autobiografia di Ilda Boccassini e “Fare giustizia” di Giuseppe Pignatone – ma anche film, serie Tv, documentari. Un luogo virtuale per accendere il dibattito, nella convinzione che opporsi alla mafia non significa limitare la libertà delle idee. Anzi. Il punto di vista di Ilda Boccassini, sia sui fatti pubblici che su quelli privati, non può essere né banale né trascurabile. Per questo la lettura della sua autobiografia richiede uno sforzo di concentrazione maggiore e un tempo di riflessione solitamente non concesso agli sforzi letterari che in stagioni come la presente ci vengono propinati. Abbiamo perciò letto con l’attenzione dovuta il lungo racconto del magistrato (ma forse Ilda preferirebbe magistrata) più "divisivo" della nostra recente storia giudiziaria e perciò politica. Una lettura per molti versi istruttiva: anche se non sempre fatti e retroscena narrati appaiono del tutto inediti, viene offerta quella angolazione particolare che li rende ancora appetibili. La storia di Ilda Boccassini è indissolubilmente legata al suo percorso professionale che, per sua stessa ammissione, l’ha portata ad essere avversata, quando non addirittura odiata, dall’intero mondo in cui è stata costretta a muoversi per via del proprio mestiere. Contestata persino per la sua "fisicità" (non le hanno perdonato neppure il rosso dei suoi capelli o i tailleurs che indossava in udienza), considerata propedeutica all’aggressività che metteva nelle sue indagini e nella difesa della propria autonomia anche rispetto all’invasività dei poteri e della sua stessa corporazione. Avversione che assumeva evidenza plastica nelle "contromisure istituzionali" che tradivano la voglia di normalizzare un elemento destabilizzante del quieto vivere paludato della politica. Basti pensare a quando il ministro Claudio Scajola, con sospetta sollecitudine, le tolse la scorta. Tutto questo tragico "teatrino" è un racconto interessante e riavvolge il nastro di un film che non va dimenticato: la stagione dei grandi processi alla corruzione (Tangentopoli milanese), la ricerca spasmodica dei misteri legati allo stragismo mafioso, la battaglia con Berlusconi e col sottobosco economico e finanziario del capitalismo nordico. E poco importa che il filo della narrazione scorra sui binari di un eccessivo protagonismo della principale attrice. Un filo più di qualche volta incompleto quando non addirittura reticente. Oggi, per esempio, racconta della indebita intromissione dell’allora capo della Polizia, Gianni De Gennaro, in favore del Silvio Berlusconi indagato. Confessione tardiva che sarebbe stata più appropriata nel momento in cui il fatto avveniva. Evasiva la vicenda della sua uscita di scena dalle indagini sulla strage di Capaci nel momento in cui maturava il depistaggio affidato al falso pentito Scarantino, che a Ilda non piaceva. Boccassini andò via lasciando due relazioni negative sul pentito che, però, rimasero saldamente nelle mani di chi non aveva interesse a denunciare quel depistaggio. Ed è reticente, Ilda la Rossa quando non parla del suo rapporto privilegiato col compianto giornalista Beppe D’Avanzo di cui ricorda solo le «liti furiose». Ma tradisce tutta la sua frustrazione nel momento in cui ammette di essere stata sottostimata dal potere: «Nessun parlamento ha mai chiesto una mia consulenza». Eppure non è tutto ciò finora scritto che ha segnato la overdose di visibilità della "Stanza numero 30" di Ilda Boccassini, appena uscito e già su tutte le prime pagine. Il libro è famoso ormai esclusivamente per la "rivelazione" sull’"amore perduto" dell’autrice: Giovanni Falcone. È difficile pensare che la linea editoriale scelta non abbia preso in considerazione la certezza che l’interno racconto si sarebbe ridotto al solo "capitolo Falcone", come dimostrano le recensioni di giornali e siti on line, per non parlare dei "tribunali social". E allora viene da pensare: ma quanto sarebbe stato meglio tenersi dentro gelosamente il gran segreto? Ma evidentemente Ilda la Rossa, nella sua infinita ansia da ego, tra le mille puntualizzazioni e piccole vendette, aveva anche da precisare al mondo il privilegio, a suo dire, di una storia, una tenera storia d’amore con Falcone. Una esperienza che ancora la prende, tanto da farle scivolare la penna senza che nessun intervento di editing sia riuscito a frenarla. E allora si lascia andare a particolari anche imbarazzanti, persino dal punto di vista della scrittura. Difficilmente le potrà esser perdonata la descrizione di un momento d’intimità con Giovanni, nel mare dell’Addaura: «Giovanni prima mi prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto...». Per non parlare del «lusso rilassante» della prima classe del boeing che li portava in Argentina a chiedere l’estradizione di Tanino Fidanzati. Forse sarebbe stato meglio rivelare tutte le confidenze di lavoro che dice di aver ricevuto da Falcone e tenersi dentro tutto il resto. Falcone non amava raccontarsi nel pubblico, figurarsi nel privato. Sposò Francesca quasi in clandestinità e rimandava al mittente ogni tentativo di sapere di più della sua vita privata. E non soltanto per questioni di sicurezza. Resisteva alla tentazione delle dichiarazioni eclatanti, insomma non amava la pubblicità. Rimproverò a Borsellino il clamore provocato da una sua intervista in favore dell’amico Giovanni "bocciato" dal Csm per il ruolo di consigliere istruttore. E arrivò a firmare le conclusioni dell’inchiesta sui delitti politici, che non condivideva, solo per senso istituzionale e avversione ai gesti clamorosi «buoni solo per i giornali». Ma non c’è più e non possiamo chiedergli cosa pensi del racconto privato di Ilda Boccassini.
Ilda Boccassini, La stanza numero 30 (Feltrinelli, pp.352, euro 19)
Quei sospetti di Ilda sulle stragi. Avete presente il depistaggio sulla bomba di via D'Amelio, scoperto solo vent'anni dopo? La Boccassini lo aveva già intuito nel '94 e ne parlò in due lettere ai colleghi. Che oggi appaiono profetiche. E molto inquietanti su quello che accadde allora. Lirio Abbate su L’Espresso il 19 marzo 2012. Diciotto anni fa aveva visto che nelle indagini sulle stragi stava accadendo qualcosa di poco chiaro. E aveva cercato di segnalarlo riservatamente al suo procuratore capo. Ma Ilda Boccassini non fu ascoltata. Oggi le ultime inchieste coordinate dal procuratore Sergio Lari fanno emergere un crogiolo di depistaggi e tradimenti di Stato che hanno segnato la morte di Paolo Borsellino e coperto la verità sull'attentato di via D'Amelio. Ci sono le accuse della vedova Borsellino, che ha descritto il marito sconvolto per avere saputo che l'allora comandante del Ros Antonio Subranni era "punciuto", ossia uomo della mafia. E tanti misteri irrisolti, a partire dalla scomparsa dell'agenda rossa del magistrato ucciso. I pm che stanno facendo luce su quella fase oscura della storia italiana, quando le bombe di mafia scandirono il passaggio tra prima e seconda Repubblica, l'hanno chiamata a testimoniare, per capire chi avesse giocato sporco. Ma Boccassini è rimasta cauta sulle anomalie rilevate nel 1994, quando lasciò la Sicilia per tornare a Milano: "Non condividevo l'impostazione degli interrogatori e la relativa gestione dei collaboratori di giustizia". Già allora Ilda "la rossa" era un pm celebre. Aveva condotto la prima indagine sull'infiltrazione di Cosa nostra nei palazzi del potere milanese, la Duomo Connection con la squadra di carabinieri del capitano Ultimo. Le sue lacrime sulla bara di Giovanni Falcone e la denuncia di quanti nella magistratura lo avevano ostacolato erano diventate un caso nazionale. E anche la sua scelta di offrirsi "volontaria" per contribuire alle istruttorie della procura di Caltanissetta sulle stragi conquistò le prime pagine. Emersero le sue distanze dal pool guidato da Giovanni Tinebra, che poi farà carriera come direttore dei penitenziari e oggi è procuratore generale di Catania. Boccassini si era resa conto che troppe cose non funzionavano nella gestione dei pentiti, a partire dalla collaborazione di Vincenzo Scarantino. Il quale, con accuse inventate, ha costruito false verità sulla fine di Borsellino accettate persino dalla Cassazione. Lei lo scrisse in due lettere, fino a oggi rimaste nei cassetti. La prima, inedita e inviata a Tinebra il 10 ottobre '94, mette in evidenza sbavature nelle indagini e una mancata circolazione delle informazioni tra gli inquirenti. La pm fornisce chiaramente l'impressione di aver annusato qualcosa che non va. Inserisce fra le righe anche una piccola annotazione sulle "sorprendenti dichiarazioni rese da Scarantino", e aggiunge: "Ufficialmente assunte a verbale". Ma cosa intendeva dire? Per un magistrato è obbligatorio verbalizzare, perché evidenziarlo? Su questo punto, oggi, Boccassini risponde ai pm di non avere ricordo di un fatto specifico. In quella missiva la pm appare infastidita dall'atteggiamento dei colleghi, evidenziando che è stata estromessa dalle indagini, che non è stata più avvisata di nuovi atti istruttori. Descrive uno scenario di disgregazione. Non fa accuse, anzi cerca di dare un'apparente spiegazione con il fatto che da lì a poco lascerà la Sicilia. Non vuole far ricondurre questo atteggiamento "alle scelte investigative" o alla "dissonanza delle opinioni espresse in una riunione in procura da quelle degli altri colleghi". Al procuratore fa presente una serie di punti critici delle inchieste e sottolinea la "necessità di tempestivi interrogatori" per i pentiti, "da assumere esclusivamente con le forme imposte dal codice di rito". Ancora una volta Boccassini specifica che gli interrogatori andavano fatti secondo la legge. Perché dirlo a Tinebra? Forse non tutto era fatto secondo la legge? Ai colleghi di Caltanissetta Lari, Gozzo e Marino che oggi glielo chiedono, prima dichiara di non ricordare di aver scritto la lettera. E quando gliela mostrano risponde in modo vago che "non condivideva l'impostazione degli interrogatori e la gestione dei collaboratori". Poi spiega: "Si fa riferimento ad una riunione in procura, in occasione della quale i colleghi evidentemente non avevano condiviso le mie perplessità su Scarantino". Storie strane quelle vissute in trincea dai pm fra il 1993 e il '94, periodo che coincide con le bombe nel continente e il proseguimento della trattativa Stato-mafia. La seconda lettera la firma insieme al collega Roberto Saieva e riporta decine di punti che per loro provavano "una condotta processuale", riferita a Scarantino, "non ispirata a linearità", piene di bugie tanto che il pentito non sapeva riconoscere nemmeno in fotografia i volti dei mafiosi coinvolti nella strage, che lui accusava, confondendoli con altre persone. Le indicazioni non vengono seguite da Tinebra. La lettera è un segnale d'allarme importante: l'ultimo avviso prima che le inchieste sulle stragi cominciassero a deragliare nelle aule di Corte d'Assise. Arriva alla vigilia del processo di Capaci e Boccassini suggerisce di riconsiderare subito l'attendibilità dei pentiti, perché rinviare questi accertamenti per la pm "potrebbe avere come effetto quello di lasciare a Scarantino una via aperta verso nuove e piroettanti rivisitazioni dei fatti". Così come è poi avvenuto durante le fasi del dibattimento per via D'Amelio, dove innocenti sono stati condannati all'ergastolo e una richiesta di revisione della sentenza definitiva è stata avanzata nei mesi scorsi. Ma la "verità" di Scarantino ha permesso di nascondere mandanti ed esecutori dell'uccisione di Borsellino e della sua scorta. E lasciare nell'ombra la trattativa tra Stato e mafia che si è intrecciata con gli ultimi giorni di vita del magistrato assassinato il 19 luglio 1992. Agli inquirenti che adesso cercano di ritrovare il filo nero delle responsabilità Boccassini ha descritto il caos di quei mesi: "Quando arrivai a Caltanissetta, c'era da organizzare un po' tutto e in particolare riordinare gli atti e coordinare le forze di polizia. La scelta, al mio arrivo, era già caduta, come forze di polizia, sulla Squadra mobile di Palermo, i carabinieri del Ros e la Dia, che operavano in piena armonia. Delle indagini per la strage di via D'Amelio si occupava la Squadra mobile di Palermo in via quasi esclusiva". Proprio sul ruolo dell'ex capo della Mobile, Arnaldo La Barbera che gestì la collaborazione di Scarantino, oggi si concentrano i sospetti. Quando nel 2009 ha infine ritrattato le sue dichiarazioni, il pentito ha detto di essere stato "costretto a farle da alcuni funzionari della polizia". Ma la Boccassini non crede che qualcosa del genere potesse sfuggire ai pm: "Le forze dell'ordine non avevano un'autonomia investigativa avulsa dal controllo del pm". E aggiunge: "Il nostro interlocutore principale era La Barbera il quale godeva della piena fiducia di tutti i colleghi; egli non si risparmiava in nulla". Poi ricorda: "La notizia che Scarantino intendeva collaborare ci fu fornita da La Barbera che a sua volta l'aveva appresa dalla polizia penitenziaria del carcere di Pianosa". Perché, chiedono i pm, Scarantino non fu messo a confronto con i pentiti Salvatore Candura e Francesco Andriotta, anche loro oggi considerati depistatori? "Non sono in grado di rispondere perché non ho trattato lo sviluppo delle indagini successive alla collaborazione di Scarantino in quanto Tinebra decise di affidare la gestione del pentito ad altri colleghi".
Brigate rosso-azzurre. Quando, nel 2007, la Boccassini fece arrestare dal gip Guido Salvini 15 presunti brigatisti del Partito comunista politico-militare fu elogiata da Vittorio Feltri e Alessandro Salluti su 'Libero'. Ma oggi, di nuovo, le stesse voci la accusano di “soccorso alla sinistra”. Marco Travaglio su L’Espresso il 27 gennaio 2011. Quattro anni fa, 12 febbraio 2007, il pm Ilda Boccassini fece arrestare dal gip Guido Salvini 15 presunti brigatisti del Partito comunista politico-militare e ne indagò altri quattro: progettavano attentati al giuslavorista Pietro Ichino, a una delle residenze di Berlusconi (quella in via Rovani a Milano), alla sede milanese di Forza Italia, al palazzo di Mediaset a Cologno Monzese e alla redazione di "Libero". Indagati e arrestati gridarono all'"operazione politica volta a spegnere le voci di dissenso" e si dichiararono "perseguitati politici". Infatti due di loro, i fratelli Toschi, erano assistiti dall'avvocato Piero Longo, lo stesso di Berlusconi. Un documento su Internet accusò di "furia anticomunista" la Boccassini, che commentò divertita: "Mi vien da ridere, perché spesso mi sono sentita dire tutt'altro". Negli ultimi dieci anni il Cavaliere e i suoi sostenitori l'avevano accusata di tutto: toga rossa, golpista, falsificatrice di prove, subornatrice di testi e così via. Nel 2007 invece, dopo lo scampato pericolo, il direttore editoriale di "Libero", Vittorio Feltri, disse "grazie a magistrati e polizia". Lo stesso Feltri che nel marzo '96 scriveva sul "Giornale": "Ilda Boccassini è troppo per il mio grado di tenuta nervosa. Non giudicatemi male: con lei non salirei neppure in ascensore", e giù insinuazioni sul movente politico dell'inchiesta su Berlusconi, Previti e le toghe sporche romane: "Tra poco vi saranno le elezioni, difficile credere che sia solo una coincidenza. Dati i personaggi, più che scandalo, questo sarà archiviato come un impiastro. Alla puttanesca". Undici anni dopo, all'indomani del blitz anti-Br, Feltri esaltò su "Libero" "i meriti della magistratura (nelle persone della dottoressa Boccassini e del dottor Salvini) che, grazie al suo intervento, permette un brindisi al posto di qualche funerale". Il suo condirettore Renato Farina, che aveva vomitato insulti e accuse a Ilda quando si occupava del Cavaliere, turibolò elogi alla "rete tesa da Ilda Boccassini (bravissima)". Insomma, per qualche giorno, "Libero" divenne l'house organ della Procura di Milano. E sapete chi era, all'epoca, il direttore responsabile? Alessandro Sallusti. Il quale oggi, direttore del "Giornale", accusa la Boccassini di "soccorso alla sinistra", "agguato al premier con violenza fisica e psicologica", "giustizia politicizzata per abbattere il governo", di tenere "Berlusconi nel mirino da 16 anni con odio malcelato", di "spiarlo nella sua vita privata", "minacciare lo Stato italiano", di essere "un pm fuori controllo", di "montare un processo da Inquisizione", di "violare leggi e regole". E Feltri? Di nuovo direttore editoriale di "Libero", la accusa di aver ordito "una persecuzione per fare secco il premier". E il suo giornale aggiunge che è "arcinemica del Cavaliere", è "come la Fiom", "ammazza il segreto istruttorio" e "conduce abusivamente l'inchiesta". Ma non era bravissima? Appunto. Infatti ha messo d'accordo le brigate rosse e quelle azzurre.
Chi è Brigandì, leghista anti Ilda. Il membro del Csm che ha passato al "Giornale" il dossier sulla Boccassini in passato ha avuto parecchi problemi con i giudici. Sia come imputato sia quando era onorevole del Carroccio. Paolo Tessadri su L’Espresso il 2 febbraio 2021. 15 ottobre 2021. Ricapitoliamo, per chi si fosse perso qualche puntata. "Il Giornale" ha pubblicato in prima pagina un presunto scoop sulla pm di Milano Ilda Boccassini (che sta conducendo con due colleghi l'inchiesta Rubygate): nel 1982 era stata sottoposta a procedimento disciplinare da parte del Csm (e poi prosciolta) perché era stata sorpresa a baciarsi con un giornalista in Tribunale. Soltanto un membro del Csm poteva consultare le vecchie carte sul procedimento del 1982: infatti è subito emerso che la notizia era stata passata al "Giornale" da un membro attuale del Consiglio, Matteo Brigandì, inserito nell'organo come politico in quota Lega. Brigandì, 59 anni a marzo, leghista della prima ora, è stato uno dei primi avvocati di Umberto Bossi. Poi è diventato "procuratore generale" dell'autonominata Padania, quindi senatore, assessore alla Regione Piemonte e deputato. Nato a Messina ma piemontese, iscritto al foro di Pinerolo ma eletto deputato nelle Marche, Brigandì è membro del Csm dall'estate scorsa. In passato ha incrociato più volte i giudici e non solo nella sua veste di avvocato. Ad esempio, in un'intervista a "La Padania" nel 2002 , aveva caricato frontalmente Giancarlo Caselli: si era subito beccato una querela, a cui è seguita una condanna in primo grado (ora pende l'appello). Nel 2008 l'onorevole leghista è tornato alla carica con un'interrogazione al ministro Alfano per chiedere conto di alcune dichiarazioni dello stesso Caselli alla Fiera del libro di Torino. Ma con i magistrati Brigandì ha avuto a che fare anche per altri motivi. Nel 2003 è stato indagato per un caso di truffa aggravata alla Regione sui rimborsi ai falsi alluvionati del 2000. Condannato in primo grado nel 2004, è stato assolto in appello due anni dopo, benché le aziende siano state comunque condannate. Poi il processo è continuato su altro filone: diffamazione nei confronti di Marco Cavaletto, dirigente della Regione, che si era opposto al rimborso. E qui Brigandì si è beccato due condanne di fila, l'ultima in appello a ottobre dello scorso anno, con relativo risarcimento danni. Solo un mese prima, nel settembre 2010, era arrivata un'altra condanna in appello: per il mancato versamento degli alimenti per la figlia alla prima moglie. La sentenza del tribunale recitava: «L'imputato fa presente che le pretese del partito erano 'cogenti', dimenticando che ben più cogente è l'obbligo alimentare verso la figlia». Secondo la difesa, infatti, Brigandì non aveva potuto versare gli alimenti alla figlia dal 2004 perché doveva dare i soldi al suo partito, la Lega Nord. Da parlamentare, Brigandì si è fatto notare soprattutto per gli attacchi contro il procuratore capo di Vicenza Ivano Nelson Salvarani che indagava su grosso giro di evasione fiscale in Veneto. Era la cosiddetta inchiesta "Dirty Leather", pelle sporca, che ha scoperchiato un vortice di evasione e tangenti nel settore della concia delle pelli ad Arzignano, nel Vicentino. Alla Lega l'inchiesta non piaceva e nell'aprile dello scorso anno è arrivata un'interpellanza contro Salvarani: 31 deputati, 28 del Carroccio e due del Pdl, hanno chiesto ad Alfano di disporre «iniziative ispettive al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per la promozione di un'azione disciplinare» contro il magistrato. Primo firmatario, Matteo Brigandì, che in Aula ha detto: «Salvarani farebbe meglio a cambiare mestiere». Da membro del Csm, Matteo Brigandì ha invece sollevato la presunta incompatibilità ambientale di due giudici, Fabrizia Pironti e Sandra Casacci, che in passato a Torino si erano occupate di lui in due processi. Se vi fosse un procedimento contro la Pironti, potrebbe fermarsi il famoso processo Eternit e i morti per cancro con 600 parti civili, dov'è giudice a latere. Adesso il caso Boccassini, con il dossier passato ai suoi amici del "Giornale". Perché per Brigandì e Sallusti non è degna di condurre un'indagine sul premier una giudice che 29 anni fa si era addirittura baciata in pubblico con il suo fidanzato.
Ilda Boccassini: “Ecco quello che avveniva nelle procure siciliane”. Nel suo libro, “La stanza numero 30”, l’ex pm restituisce il clima che si respirava nelle procure di Palermo e Caltanissetta attorno alle figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 ottobre 2021. Se Ilda Boccassini si fosse limitata esclusivamente alla sua lunga avventura giudiziaria contro Berlusconi, avrebbe sicuramente ricevuto appezzamenti unanimi dalla sua categoria, quella della magistratura. Ha avuto la pecca di raccontare, nel suo libro (edito da Feltrinelli) “La stanza numero 30”, il vissuto nell’ambiente delle procure di Caltanissetta e Palermo, periodo che l’ha particolarmente segnata nella sua vita. Ha avuto l’ardire di puntare il dito contro il “sistema” che, a differenza di quello denunciato dal libro di Palamara, ha la terza gamba: quella mafiosa.
Il coraggio di dire che hanno ostacolato Falcone quando era in vita
Leggendo il suo libro, passaggio dopo passaggio, mette a nudo sé stessa. Dietro la sua durezza, a volte sgarbata, c’è invece una donna con tutte le sue vulnerabilità. Il suo “cattivo carattere” è stato una protezione, ma anche la sua salvezza dall’inevitabile cedimento ai palcoscenici, ai legami con i giornalisti e alle tentazionI del potere. Ma lei, da come si evince dal suo racconto, è istintiva, non asseconda, ha avuto il coraggio di dire in faccia ai suoi colleghi, anche amici se pensiamo al pool di mani pulite (avevano mandato a Falcone una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati), che hanno ostacolato il giudice quando era in vita. Con un atto di ribellione aveva stracciato la tessera di Magistratura democratica.
Boccassini non è mai salita sul carro dei vincitori
È di sinistra Boccassini. Non lo ha mai nascosto e si è visto quanto l’ideologia possa rendere non imparziale l’agire. Lei non ne è stata immune. Ma nello stesso tempo, le va riconosciuto che non ha fatto parte di alcuna cricca e cricchetta. Non è mai salita sul carro dei vincitori. Lei, a differenza di altri miti di carta, non ha fatto carriera. È entrata e uscita in punta di piedi dalla sua stanza numero 30 della procura di Milano, da semplice pubblico ministero. Mai nessuno ha avuto il coraggio di togliersi qualche sassolino dalle scarpe in questo modo. Ma più che sassolini si tratta, in realtà, di macigni. Non ha nulla a che fare con quelli che hanno avuto un potere che tuttora gli rimane incollato grazie alle pubbliche apparizioni televisive.
Mette in guardia i giovani da taluni paladini antimafia
Lei, nel libro, ha messo in guardia i giovani da taluni paladini antimafia, presunti eredi di Giovanni Falcone, ma che in passato l’ostacolavano. Lei stessa, raccontando i suoi trascorsi lavorativi con Falcone (prima tra tutti l’inchiesta “Duomo Connection”) che si sono trasformati in una forte amicizia (non nascondendo il suo innamoramento verso quel grande uomo), è testimone di tante e dolorose confidenze ricevute, delle persone e dei colleghi di cui – scrive nero su bianco – «aveva letteralmente paura». Prosegue: «Potrei raccontare di segreti che mi ha confidato, ma non lo farò, non voglio farlo e tutto resterà chiuso nella mia memoria e nel mio cuore». E aggiunge: «Quanto ho disprezzato, in questi anni, gli omuncoli che hanno mentito raccontando o riferendosi a fatti mai accaduti e circostanze di assoluta fantasia, certi di non essere smentiti da un morto».
Testimone dei fatti che Falcone scriverà nei suoi diari
Ilda Boccassini è testimone di quello che poi Falcone stesso scriverà negli appunti del suo diario, quello pubblicato dalla giornalista Liana Milella del Sole 24ore. Gli stessi diari che visionerà Paolo Borsellino, altro grande magistrato che si è ritrovato in solitudine, nella morsa della procura palermitana. Ricordiamo le sue parole, qualche giorno prima di essere stritolato in Via D’Amelio: «Non sarà la mafia ad uccidermi, ma saranno i miei colleghi e altri che lo permetteranno». Se prima Boccassini ha conosciuto indirettamente – grazie alle confidenze di Falcone – l’aria irrespirabile delle procure siciliane, dopo la vivrà in prima persone come applicata, per indagare sulle stragi. In principal modo quella di Capaci. Non le è stata facile quella scelta. Ha dovuto abbandonare per un lungo periodo i figli, il compagno, la sua famiglia. E qui, ancora una volta, mette allo scoperto la sofferenza che diamo quasi per scontato come non possa colpire lei, una donna che si è sempre mostrata dura. Ma ora sappiamo che si è trattato di una corazza per proteggersi. E in Sicilia, quella corazza si è dovuta rafforzare ancor di più.
Non ha mai creduto alle parole di Scarantino
La vicenda Scarantino è nota. Parliamo del più grande depistaggio della storia giudiziaria di questo Paese, sentenza sigillata definitivamente dalla Cassazione qualche giorno fa. Un depistaggio – quello che aveva fatto condannare persone innocenti per la strage di Via D’Amelio – facilitato anche grazie all’incompetenza (e forse qualcosa di più) dell’allora procura nissena sorretta da Tinebra. Una vicenda già sviscerata, ma Ilda Boccassini si è tolta altri sassolini dalle scarpe. Ribadisce ciò che è stato chiarito nel Borsellino Quater: lei non solo disse che Scarantino era un ciarlatano ma, insieme al suo collega Roberto Saieva, lo ha cristallizzato attraverso due relazioni. Aggiunge un altro particolare, cristallizzato già nell’archiviazione della procura di Messina nei confronti dei magistrati indagati per depistaggio. Sappiamo che Gaspare Spatuzza si pentì, svelò la sua partecipazione all’attentato e sconfessò le ricostruzioni di Scarantino.
Le discussioni per la concessione del programma di protezione a Spatuzza e alla sua famiglia
Boccassini ha partecipato a una riunione del 22 aprile 2009: il tema era la concessione del programma di protezione a Spatuzza e alla sua famiglia. Si oppose il magistrato Nino Di Matteo perché «potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, ormai consacrate in sentenze irrevocabili», ma – ed è questo l’episodio inedito – anche Antonio Ingroia aveva escluso che ci potessero essere «le condizioni perché la Dda di Palermo possa chiedere un programma speciale di protezione». Boccassini, nel ripercorrere i suoi trascorsi nella procura nissena e quella palermitana, denuncia qualcosa di più terribile. Non nasconde che ha respirato aria di collusione. Parla della sconfitta dell’ala militare dei corleonesi. Ma – si domanda – «si può dire altrettanto sul fronte dei rapporti di Cosa nostra con le istituzioni, la borghesia dominante a Palermo, gli imprenditori?». Lei, senza mezzi termine dice di no. Perché? Si è fatto poco, forse «anche per l’apporto di quei magistrati collusi, basilare per l’organizzazione criminale siciliana». E qui lancia un dardo: «Sono convinta che molti siano ancora in servizio e che alcuni abbiano addirittura percorso una brillante carriera». Dice chiaramente che le indagini non furono mai incisive. Parla di reciprocità tra la procura di Palermo e quella di Caltanissetta che consentiva una sorta di ricatto morale.
L’interrogatorio negli Usa a Marino Mannoia e i dubbi sui suoi silenzi
Altro che sistema denunciato da Palamara! Più avanti dice di più. Racconta del suo viaggio, assieme ai colleghi nisseni e palermitani, negli Usa per interrogare il pentito Marino Mannoia. «Il collaboratore appariva – scrive nel libro Boccassini – (o voleva mostrarsi) spaesato, davanti a certe domande, in particolare quelle sui magistrati collusi, prendeva tempo dicendo che soffriva di una forte emicrania (una scusa, secondo me)». Come mai? Altro dardo: «Magari mi sbagliavo, ma avevo la sensazione che Mannoia sapesse molto più di quello che diceva. Ma era frenato da cosa? Dai magistrati presenti?». Ilda Boccassini sarà chiamata anche per essere applicata alla Procura di Palermo. Fu isolata dai suoi colleghi, visse malissimo l’esperienza, tanto che la lasciò. Ma bisogna leggere il libro per capire, forse sarà da aiuto per comprendere in quale morsa vivevano Falcone e Borsellino e quanta verità è ancora nascosta. Si rivolge lo sguardo verso le “entità”, ma mai lì dentro. Vale la pena concludere con un messaggio importante di Ilda Boccassini. «I fan – dice la ex pm -, soprattutto giovani, troppo spesso sono stati ingannati da falsi miti; la mia speranza è che se ne avvedano prima che il tempo, che è galantuomo, faccia cadere quei miti nella polvere». Alla fine si diventa polvere, dovrebbero ricordarselo tutti.
Il libro dell'ex pm. Il falso pentito Cancemi, Ilda Boccassini racconta il suo flop su Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. Nel 1994, nell’intervallo tra il 26 gennaio, giorno in cui Silvio Berlusconi annunciò la sua entrata in politica (“L’Italia è il Paese che amo..”) e il 28 marzo con la sua vittoria elettorale, in Sicilia un pubblico ministero coltivava uno “spunto investigativo” per verificare se il leader di Forza Italia avesse commissionato, insieme a Totò Riina, l’assassinio del giudice Giovanni Falcone. La pm si chiamava Boccassini, la vicenda è raccontata nel dodicesimo capitolo del suo libro La stanza numero 30 (Feltrinelli editore), e sono pagine tra le più interessanti, senza nulla togliere al botto editoriale con il lancio della storia d’amore tra Ilda e Giovanni. Dopo la strage di Capaci, la pm si era trasferita da Milano a Caltanissetta, non senza aver prima insultato in un’aula affollatissima e infuocata del palazzo di giustizia un bel po’ di toghe, accusandole, non senza molte ragioni, di aver lasciato solo ed esposto alla vendetta dei corleonesi il magistrato siciliano. La procura di Caltanissetta aveva il compito, a norma di legge, di svolgere le indagini sugli assassinii di Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della scorta. Anche se Boccassini scoprirà, una volta arrivata sul territorio, che, in modo un po’ inusuale, della strage di Capaci si stava occupando già anche il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Non è un mistero il fatto che tutte le indagini sulle stragi mafiose sono state costruite sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, i famosi “pentiti”. I quali mettevano in campo il massimo della loro astuzia. Prima di tutto cercando di capire che cosa i pubblici ministeri che li interrogavano volevano sentirsi dire, e poi cogliendo l’occasione per mettere in campo vendette contro le cosche avversarie. Fu così che la dottoressa Boccassini, che lavorò per tre anni a Caltanissetta giorno e notte chiusa nel bunker del tribunale e anche in un altro bunker alberghiero creato apposta per lei e altri magistrati, entrò in contatto, tra gli altri, anche con il “pentito” Salvatore Cancemi. Uno dei più lesti a saltare il fosso. Arrestato nel luglio del 1993, con l’anno nuovo era già lì davanti ai magistrati a dire la sua. Con lo schema classico del mafioso, si parla a rate. Si getta la rete per vedere l’effetto che fa. Se il pm abbocca, si comincia ad arricchire la polpetta, soprattutto se è avvelenata. Un altro trucco del collaboratore mafioso è quello di parlare spesso “de relato”, cioè riportando parole di altri, spesso orecchiate sbirciando dal buco della serratura. Non si sa se Cancemi fosse o meno informato del fatto che gli investigatori siciliani, pur senza notizie, avessero già messo le mani avanti aprendo inchieste, oltre che (ovviamente) sugli esecutori della strage, anche sui “mandanti occulti”, prima ancora che qualcuno ne accennasse. Se il collaboratore non lo sapeva lo intuiva, anche perché, è o no il sogno di ogni pm quello di mettere le mani su un famoso politico, un banchiere, un imprenditore? Ca cettu, direbbero i siciliani. La prima esca messa sul tavolo da Cancemi è piuttosto scarna: un altro mafioso, Raffaele Ganci, mentre tornavano in auto da Capaci vero Palermo, dopo aver partecipato a una riunione preparatoria dell’attentato contro Falcone, gli avrebbe parlato di “persone importanti”, estranee a Cosa Nostra, con cui era in contatto Totò Riina nei giorni di allestimento della bomba. Niente nomi, per il momento. La pm Ilda Boccassini arriva in caserma a incontrare il “pentito” Cancemi il 18 febbraio 1994. Non aspetta il procuratore capo (cioè il suo capo) Giovanni Tinebra, che era in ritardo, e si butta a capofitto nell’interrogatorio. «La prima domanda che rivolsi al collaboratore riguardava proprio quel dialogo con Ganci sui rapporti tra Riina e le ‘persone importanti’ non affiliate a Cosa Nostra». Guarda caso. Quindi lo incalza per sapere i nomi. Lui tergiversa: «Ribadisco di non aver saputo da Ganci né in quell’occasione né successivamente i nominativi dei personaggi importanti con cui Riina era sceso a patti». Aggiunge però che, anche se non ha notizie precise, è però convinto che l’accordo ci sia stato e che si sia concretizzato. Cioè Cancemi si traveste un po’ da Pasolini: non ho le prove ma “io so”. Poi accade un piccolo miracolo. Arriva l’avvocato difensore e la memoria del “pentito” si risveglia d’ improvviso. Non so i nomi delle persone con cui si incontrava Riina, “ma ho il dovere di riferire queste circostanze…”. Dopo aver trovato il modo di fare il nome di Vittorio Mangano (che Riina detestava) e anche di Marcello Dell’Utri, dice che «… una cosa è certa e corrisponde al ‘cento per cento’ a verità: Riina era in contatto con Dell’Utri e quindi con Silvio Berlusconi». Come lo sa? Perché ogni anno arrivavano a Totò Riina 200 milioni di lire, in rate di 40-50 per volta, in contanti di banconote usate, tenute con un elastico e dentro sacchetti di plastica, “dal Nord”. E chi le portava a Riina? Un certo Pierino di Napoli. Fino a questo punto, Silvio Berlusconi viene descritto più che altro come un imprenditore vittima di un’estorsione, poiché in Sicilia ha diverse “antenne” televisive, come dice il “pentito”. Infatti l’ipotesi di una sorta di pagamento di pizzo viene buttata lì dal magistrato. Ma subito dopo ecco la domanda insidiosa messa lì su un piatto d’argento: «Lei ricorda se nel maggio 1992, cioè dopo che lei apprese da Salvatore Biondino che il giudice Falcone doveva essere ucciso e prima della morte di quest’ultimo, ha avuto modo di assistere a una consegna di una rata dei 200 milioni da parte di Pierino Di Napoli a Raffaele Ganci?». «Sì, certamente», la scontata risposta. Altro che “spunto investigativo” aveva ottenuto la pm quando finalmente era arrivato all’interrogatorio il procuratore capo Tinebra! Riina che veniva pagato per uccidere Falcone! Il collaboratore di giustizia ormai va a ruota libera. Ha capito di aver suscitato l’interesse (quanto interesse, dimostreranno tutti gli avvenimenti degli anni successivi, dal Lodo Mondadori fino a Ruby) della dottoressa Boccassini e non si tiene più. «Sono stati presi due piccioni con una fava», «Ecco perché io dico che gli interessi di Riina sono coincisi con gli interessi di quelle persone importanti cui ha fatto riferimento Raffaele Ganci». Dunque ricapitolando: un certo Pierino portava soldi a Riina, tramite Ganci, provenienti dal “Nord”. Chi c’è al nord? Silvio Berlusconi, ovvio. Perché gli dava questi soldi? Per far uccidere Falcone. Per quale motivo? Non si sa, interessi coincidenti. «In buona sostanza –conclude il libro- Cancemi aveva dichiarato, verbalizzato e sottoscritto che fino al luglio 1993 un intermediario di Cosa Nostra si era adoperato per far transitare verso il capo della sanguinaria mafia corleonese somme di denaro provenienti da Silvio Berlusconi…». E, bocca della verità, il collaboratore «escludeva che quei passaggi di denaro costituissero una ‘normale’ estorsione…» Ecco perché, conclude la pm, «non solo era necessario indagare a fondo, ma anche farlo subito, senza perdere un minuto». Bisognerà ben trovare quel tal Pierino, prima di tutto. Anche perché –ma questa è una nostra malizia- le urne sono vicine e il presidente di Forza Italia è già in campagna elettorale. Ed ecco l’imprevisto. Le uova nel paniere le romperà un caro amico di Ilda Boccassini, quel Giuseppe D’Avanzo che in seguito ossessionerà Berlusconi con le famose 10 domande, il quale con il collega Attilio Bolzoni farà un grosso scoop, rivelando tutto su Repubblica del 21 marzo, ormai a ridosso delle elezioni. Ottenendo come primo risultato la lesta fuga del famoso Pierino. I verbali dell’interrogatorio di Cancemi erano nelle mani di tre procure, Caltanissetta, Palermo, Firenze. Piccolo giallo nel giallo: chi è l’uomo che “in una tiepida notte romana” tira giù dal letto D’Avanzo e “con le lacrime agli occhi” gli mostra le carte e gli consente di prendere appunti? Boccassini lo sa perché il giornalista glielo ha detto molti anni dopo e prima di morire per un improvviso infarto. Lo sa, ma non lo dice. Un po’ alla siciliana. Senza offesa per nessuno, ovviamente. L’inchiesta è finita lì, il giorno dello scoop. E della vittoria elettorale di Berlusconi del 27-28 marzo 1994. Volata via, come si conviene alle bolle di sapone.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La parte sul collaboratore di giustizia non va fino in fondo. Falso pentito Scarantino, Ilda Boccassini fiutò le balle ma qualcuno lo istruì…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. Altro che affair d’amour con Giovanni Falcone. Il libro di Ilda Boccassini, nella parte in cui racconta la sua vita siciliana, è storia di guerra tra toghe, di quelle in cui non si fanno prigionieri. Al centro la figura e il ruolo di Vincenzo Scarantino, Enzino, il meccanico del quartiere palermitano della Guadagna, quello che si era autoaccusato dell’omicidio di Paolo Borsellino senza neanche sapere chi fosse e che non conosceva neppure via D’Amelio, il luogo dove collocare la 126 rubata stipata di 90 chili di tritolo. Siamo a Caltanissetta nel periodo successivo alla strage di Capaci, quando Ilda Boccassini era impegnata nelle indagini sulla morte di Falcone (un suo ex collega milanese, Guido Salvini, ha fatto notare nei giorni scorsi quanto inopportuno sia stato quell’incarico, dopo la diffusione del legame sentimentale tra i due) e le aveva portate a termine nell’arco di due anni. Stava quindi per tornare a Milano, siamo nell’ottobre del 1994, quando venne incaricata dal procuratore Tinebra di andare al carcere di Pianosa per interrogare un certo Scarantino che si era dichiarato disponibile alla collaborazione. Lei non ne aveva voglia, e ancor meno sarà entusiasta di quell’incarico in seguito, quando si renderà conto del fatto che quel nuovo aspirante “pentito” con le sue dichiarazioni rischiava di incrinare lo stesso castello accusatorio che proprio lei aveva messo in piedi con le richieste di rinvio a giudizio per la strage di Capaci dell’intero vertice di Cosa Nostra sulla base delle accuse di tre collaboratori, Salvatore Cancemi (quello che aveva inventato il ruolo di Berlusconi nella strage), Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera. Vincenzo Scarantino sarebbe parso inattendibile a chiunque, tranne che ai suoi difensori d’ufficio come i pm palermitani Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, insieme a una squadra di poliziotti e al questore Arnaldo La Barbera, che lo avevano a lungo imbeccato e coccolato. Ma va a merito della dottoressa Boccassini e del suo collega Roberto Saieva il fatto di aver fiutato da subito il falso “pentito” costruito a tavolino nel carcere speciale di Pianosa. Certo la capacità di intuito dei due magistrati sarebbe stata più limpida se avessero avuto il coraggio di raccontare come e perché, e soprattutto con quali metodi, il picciotto della Guadagna era stato portato a inventarsi una volontà di collaborazione che probabilmente non era mai stata neanche nelle sue fantasie più audaci. Una sola parola: tortura. Il fatto fu denunciato dalla moglie del falso “pentito” con una lettera che accusava esplicitamente il questore La Barbera e il clima creato nel carcere di Pianosa: si andava dalle secchiate di acqua gelida buttata all’improvviso dentro le celle sui detenuti dormienti fino a vermi e pezzi di vetro trovati nei cibi. Per non parlare di botte e pestaggi che erano all’ordine del giorno. Quel che diceva la moglie di Scarantino sarà oggetto di diverse interrogazioni di parlamentari che erano andati a verificare di persona le condizioni del carcere e dei detenuti, e poi confermato da alcune sentenze della Cedu che aveva condannato l’Italia proprio per quei “sistemi educativi”. I pm Boccassini e Saieva, preoccupati per le parole di Scarantino che miravano a coinvolgere nella strage di via D’Amelio quei tre “pentiti” che erano stati fondamentali per l’altra strage, quella di Capaci, avevano stretto da subito l’aspirante collaboratore su alcuni particolari in cui si era contraddetto. Salvatore Cancemi, il giorno della riunione preparatoria della strage, aveva i baffi? E Di Matteo aveva la barba? Il povero Scarantino aveva barcollato, ed era apparso chiaro che lui aveva descritto le persone che avrebbero partecipato all’incontro dopo aver fissato la loro immagine secondo quello che aveva visto sui giornali. Qualcuno di loro non lo aveva neanche mai conosciuto. Così avevano detto i tre “pentiti”. Del resto, ben diverso era tra loro il livello di importanza nel mondo di Cosa Nostra. Anzi, il meccanico, pur avendo qualche parentela di rango, probabilmente non ne aveva neppure mai fatto parte. Pur con il limite di occuparsi solo dei “suoi” tre pentiti (altre persone innocenti fecero ingiustamente 15 anni di carcere), Ilda Boccassini ebbe coraggio. Insieme al suo collega Saieva fronteggia tutto il gotha degli inquirenti che volevano a tutti i costi dare credibilità al “pentimento” di Enzino: il procuratore capo Tinebra, i sostituti Palma, Petralia, Giordano, Di Matteo. Scrivono due relazioni, che prenderanno anche la via di Palermo, ma che verranno ignorate. Ormai il processo è costruito e non si torna indietro. Si muoverà addirittura il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, dopo la pubblicazione della lettera della moglie di Scarantino, a difendere in una conferenza stampa, convocata all’apparenza per salvaguardare la reputazione del questore La Barbera, il picciotto della Guadagna. Purtroppo di tutto ciò nel libro di Ilda Boccassini non si parla. Lei pare invece molto presa dalla polemica con i colleghi. Con il procuratore Tinebra, per esempio, che lei stessa ha visto appartarsi con l’aspirante “pentito” ogni volta che lui pareva recalcitrante ad aggiungere particolari ai suoi racconti. Del resto, nei vari processi, undici per la precisione, che si sono tenuti sull’omicidio Borsellino (proprio nei giorni scorsi la Cassazione ha detto la parola definitiva sul “quater”) sono emerse annotazioni scritte di pugno dai pm, e poi i suggerimenti e le vere e proprie “lezioni” che venivano impartite ai “pentiti” in preparazione delle udienze dibattimentali. Tre poliziotti sono ancora indagati a Caltanissetta, mentre due pm sono stati prosciolti. Eppure restano indimenticabili le parole del pm Nino Di Matteo, che svolse la requisitoria al processo nel 1998 e che così stigmatizzò qualunque osservazione critica sulla genuinità di quella testimonianza, di quel continuo ammettere e ritrattare del “pentito”: «L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa Nostra». E poi ancora: «Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarli di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale, praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di far esplodere il sistema giudiziario». Dieci anni dopo, sarà la sua ipotesi a esplodere, con la testimonianza di Gaspare Spatuzza, cui lui non volle mai dare credito, scontrandosi di nuovo, spalleggiato da Antonio Ingroia, nel corso di un vertice nazionale di procuratori “antimafia”, con Ilda Boccassini. La Grande Bufala costruita intorno a Vincenzo Scarantino è stata fatta a pezzi. E subito dopo anche quella della Trattativa Stato-Mafia. Poveri procuratori, quanti fallimenti! E finalmente il “Borsellino quater” ha fatto un po’ di giustizia. Ma intanto Di Matteo ha fatto carriera fino al Csm e Boccassini è andata in pensione.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Ilda Boccassini: «Mi innamorai di Giovanni Falcone, temevo quel sentimento». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 7 ottobre 2021. «Cosa avrebbe riservato il destino a me e Giovanni, se non fosse morto così precocemente?». Nel suo libro Ilda Boccassini si interroga e svela anche particolari inediti sul rapporto che la legava a Giovanni Falcone, il giudice istruttore che conobbe negli anni ‘80 e del quale, come una ragazzina di liceo, subito pensò «comunque è un figo». Scrive del magistrato, ma anche dell’uomo e del fascino che lo circondava. «Me ne innamorai. È molto complicato per me parlarne. Sicuramente non si trattò dei sentimenti classici con cui siamo abituati a fare i conti nel corso della vita. No. Il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di vita quotidiana, il bisogno di vivere l’amore momento per momento. Ero innamorata della sua anima, della sua passione, della sua battaglia, che capivo essere più importante di tutto il resto. Sapevo di non poter condividere con lui un cinema o una gita in barca, pur desiderandolo, ma non ero gelosa della sua sfera privata, né poteva vacillare la mia. Temevo che quel sentimento potesse travolgermi. E così in effetti sarebbe stato, perché lo hanno ucciso». E poi racconta dei tanti incontri, di lavoro e no. Dalla giornata al mare all’Addaura, nell’estate del ‘90, e di quando lui la invitò a tuffarsi. «...io pensai alla messa in piega appena fatta. Pensieri da donna che non mi fermarono e lo raggiunsi. Giovanni prima mi prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto...». «Ilda la rossa» svela che in realtà i suoi capelli sono «un normale castano senza infamia e senza lode, ma fin dagli anni della giovinezza mi piaceva tingermi con l’henné, un segno di libertà molto in voga tra le ragazze che negli anni Settanta tenevano alla loro emancipazione e volevano farlo vedere». A Giovanni «piacevano molto i miei riccioli. Quante volte mi ha detto che i miei occhi “erano bellissimi”». E racconta anche dei viaggi di lavoro insieme, come quello fatto in Argentina nel giugno del ‘91, per interrogare il boss Gaetano Fidanzati. «Avevo anche un walkman con una cassetta di Gianna Nannini, che ho imposto a Giovanni per tutta la durata del viaggio. Alcune canzoni mi facevano pensare alla nostra storia e le ascoltai più volte, per ore, stringendomi a lui. In top class non c’erano altri passeggeri, eravamo soli in quel lusso rilassante, la nostra intimità disturbata solo dall’arrivo delle hostess. Rimanemmo abbracciati per ore, direi tutta la notte, parlando, ascoltando Gianna Nannini e dedicandoci di tanto in tanto ad alcuni dettagli dell’interrogatorio e ai possibili sviluppi dell’indagine. Che notte...».
Ilda Boccassini: le lotte, la malattia, il rapporto con Falcone. "Io donna e magistrata, un prezzo altissimo". Natalia Aspesi su La Repubblica il 6 Ottobre 2021. "La stanza numero 30", ritratto dell'inquirente più famosa d'Italia: dalle indagini di mafia al pool di Mani Pulite. Ritrovarsi pensionata, nonna a tempo pieno come sono certe nonne di oggi, ex cardiochirurghe o esperte di big data, o come lei, magistrata, è una bizzarria, una fatica, una limitazione, un rifugio? O invece una scoperta, una vita nuova da assaporare, una serenità mai provata? Martino 4 anni, Sebastiano 2, figli di Alice, e Giona, pochi mesi, figlio di Alberto, hanno questa nonna speciale che sta vivendo lo stupore e la passione di chi forse si è spesso sentita con angoscia una madre assente, colpevole, perché in lei prevaleva la passione per le istituzioni, l'orgoglio della sua toga, e bisognava partire, stare lontano settimane, mesi, ed Alice piangeva e Alberto ammutoliva e il suo compagno di...
Ottavio Cappellani per la Sicilia il 10 ottobre 2021. E niente. Da quando è venuta fuori questa cosa della Boccassini e di Falcone c’è una domanda che mi frulla in testa, che in realtà non è una domanda, ma una battuta, un “joke”, un “punch”, della quale io stesso mi vergogno, come se ci fosse un pazzo battutista che si è impadronito del mio cervello e mi suggerisce cose indicibili, frasi capaci di rovinarti a vita, battute che sembrano fatte apposta per sollevare uno shit-storm al quale anche io parteciperei con entusiasmo e indignazione e rivolta e scandalo e ripugnanza e ancora adesso, mentre sto scrivendo, non so se farò questa battuta all’interno di questo articolo, ma penso di no. Cioè… no, no, penso proprio di no. Sicuramente deve essere questo turpe individuo che abita una parte del mio cervello che mi costringe a maratone su Netflix dei peggiori “comedian”, da Louis C.K. a Dave Chapelle a Jim Jeffreries a Ricky Gervais e non mi fanno bene: non mi fanno bene tutti quei discorsi sulla comicità che non ha limiti e che non deve tenere conto dell’offesa che potrebbe suscitare. Perché poi io mi ritrovo, vergognandomi, a pensare che è stata la Boccassini a dare la stura alla faccenda, non io, e che obbiettivamente e indubbiamente la scena fa ridere, no dico, fa ridere molto (lo so che tra di voi ci sono quelli che dicono “sono indignat*, a me non fa ridere per niente”), lei con tutta quella capigliatura riccia sull’aereo per l’Argentina, in quel “lusso rilassante” - lo ha detto la Boccassini, mica io, “lusso rilassante”, che poi fa rima con “cena elegante” e ci si potrebbe scrivere un’ora di stand-up solo su questa frase, “lusso rilassante” - appoggiata per tutto il tempo, dico “per tutto il tempo”, dall’Italia all’Argentina, sulla spalla di Giovanni Falcone, ascoltando Gianna Nannini, che uno si immagina Falcone, “per tutto il tempo”, con Gianna Nannini nell’orecchio e i capelli ricci della Boccassini nel naso che gli prudono, col braccio addormentato e la Boccassini che si struscia e canticchia. Dico, già questi pensieri non andrebbero fatti su due magistrati, impegnati nella lotta alla mafia, uno dei due ucciso anche dalla mafia, insieme alla scorta e alla moglie, che poi uno, anzi non “uno”, io! - e di questo mi vergogno non potete immaginare quanto – gli viene di pensare alla moglie di Falcone che mette la cassetta di Gianna Nannini in macchina e Falcone che si chiede se non sia un avvertimento trasversale o una cosa del genere, e queste cose NON si dovrebbero pensare di due magistrati, di cui uno ammazzato dalla mafia, ma non è colpa mia se ci penso, ma della Boccassini, e nonostante questo non riesco ad assolvermi. Perché la domanda che mi gira in mente da due giorni, è molto peggio di questi pensieri assurdi e malati che mi invadono il cervello, e mentre sono ancora cosciente mi dico “no, quella domanda, cioè quella battuta, no, non puoi farla, te ne pentiresti”. E infatti non la faccio e me la tengo per me. (Ma quella sera, sull’aereo, il GHB chi l’ha portato?).
Lettera a Francesco Merlo pubblicata da la Repubblica il 10 ottobre 2021. Caro Merlo, la Boccassini e Falcone…Qual è il vero motore del mondo: l’economia o l’amore? Ferruccio Ferrigno
LA RISPOSTA DI MERLO
Stia attento a non perdersi come Amleto: è meglio essere amati o essere temuti?, vale più la bellezza o l’intelligenza, meglio una vita da porco contento o da filosofo infelice?, sino a “è nato prima l’uovo o la gallina”. Ma la prendo sul serio e le rispondo così: Falcone non è passato alla storia per avere amato Ilda Boccassini.
Maria Falcone su Ilda Boccassini: "Smarrito senso del pudore e del rispetto". La sorella del giudice contro La Sicilia per un commento satirico sul libro della ex pm: "Superato il limite". HuffPost l'11/10/2021. “Finora ho preferito evitare commenti su una vicenda che mi ha molto amareggiata, ritenendo che il silenzio, di fronte a parole tanto inopportune, fosse la scelta più sensata. Quando, però, si supera il limite e si arriva, forse paradossalmente con fini opposti, a commenti inappropriati che scadono nella ridicolizzazione è, secondo me, impossibile non replicare”. Lo scrive Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni, in una lettera inviata a ‘La Sicilia’ a commento di un intervento ‘satirico’ apparso sul quotidiano a firma dello scrittore Ottavio Cappellani sul libro autobiografico dell’ex magistrato Ilda Boccassini. ll riferimento del pezzo di Cappellani è al racconto personale che la Boccassini fa del viaggio in aereo affrontato nel 1990 insieme al giudice Falcone verso l’Argentina per l’interrogatorio di un boss. L’articolo è stato riportato dallo scrittore anche sulla propria pagina Facebook. “Quel che allarma innanzitutto - afferma Maria Falcone - è che sembra si sia smarrito ormai qualunque senso del pudore e del rispetto prima di tutto dei propri sentimenti (che si sostiene essere stati autentici), poi della vita e della sfera intima di persone che, purtroppo, non ci sono più, non possono più esprimersi su episodi veri o presunti che siano e che - ne sono certa - avrebbero vissuto questa violazione del privato come un’offesa profonda. Quanto al commento ospitato dal vostro giornale - aggiunge - del quale non riesco bene neppure a comprendere il senso - forse voleva essere una critica al libro della dottoressa Boccassini, ma anche leggendolo più volte non è chiaro - mi pare si sia superato il limite”. “Questo immaginare scenette da sit-com di basso livello - osserva Maria Falcone - questo descrivere due persone, che hanno fatto della compostezza e della riservatezza regole di vita e che sono state uccise per difendere la democrazia nel nostro Paese, come ridicoli protagonisti di un romanzetto di quart’ordine è vergognoso. In nome della libertà di espressione del pensiero non si può calpestare la memoria di chi non c’è più e la sensibilità di chi è rimasto e ogni giorno deve confrontarsi con un dolore che non può passare”.
Lettera di Maria Falcone a "la Sicilia" l'11 ottobre 2021. Finora ho preferito evitare commenti su una vicenda che mi ha molto amareggiata, ritenendo che il silenzio, di fronte a parole tanto inopportune, fosse la scelta più sensata. Quando, però, si supera il limite e si arriva, forse paradossalmente con fini opposti, a commenti inappropriati che scadono nella ridicolizzazione è, secondo me, impossibile non replicare. Quel che allarma innanzitutto è che sembra si sia smarrito ormai qualunque senso del pudore e del rispetto prima di tutto dei propri sentimenti (che si sostiene essere stati autentici), poi della vita e della sfera intima di persone che, purtroppo, non ci sono più, non possono più esprimersi su episodi veri o presunti che siano e che - ne sono certa- avrebbero vissuto questa violazione del privato come un’offesa profonda. Quanto al commento ospitato dal vostro giornale, del quale non riesco bene neppure a comprendere il senso - forse voleva essere una critica al libro della dottoressa Boccassini, ma anche leggendolo più volte non è chiaro - mi pare si sia superato il limite. Questo immaginare scenette da sit-com di basso livello, questo descrivere due persone, che hanno fatto della compostezza e della riservatezza regole di vita e che sono state uccise per difendere la democrazia nel nostro Paese, come ridicoli protagonisti di un romanzetto di quart’ordine è vergognoso. In nome della libertà di espressione del pensiero non si può calpestare la memoria di chi non c’è più e la sensibilità di chi è rimasto e ogni giorno deve confrontarsi con un dolore che non può passare. Maria Falcone
Risposta de "la Sicilia" a Maria Falcone l'11 ottobre 2021. Di fronte ai sentimenti - dolore, rabbia, sconcerto - di Maria Falcone e di tutte le vittime della violenza mafiosa non ci sono mai risposte da dare, ma solo rispettoso silenzio, oltre alla ovvia precisazione, in questo caso, che nessuno - neanche un autore dai toni pulp e provocatoriamente sempre sopra le righe qual è Ottavio Cappellani, nella sua settimanale rubrica satirica ospitata da La Sicilia - voleva offendere la memoria di eroi di questo martoriato Paese. Poi è giusto chiedersi quale debba essere il confine è della satira. Se questa volta si ritiene che lo sia superato, urtando la sensibilità altrui, i primi a dispiarcene siamo noi.
Risposta di Ottavio Cappellani a Maria Falcone l'11 ottobre 2021. Alla signora Falcone rispondo, con rispetto e con l’affetto che porto a chi si batte da anni per una Sicilia migliore. Innanzitutto sono onorato che abbia voluto rispondere a me e non alla Boccasini. Anche se Le assicuro che non ho mai avuto momenti di intimità con suo fratello e se li avessi avuti avrei taciuto. Lei reputa “vergognosa” la mia satira. Le riporto un paio di frasi dal pezzo incriminato: “E niente. Da quando è venuta fuori questa cosa della Boccassini e di Falcone c’è una domanda che mi frulla in testa, che in realtà non è una domanda, ma una battuta, un “joke”, un “punch”, della quale io stesso mi vergogno, come se ci fosse un pazzo battutista che si è impadronito del mio cervello e mi suggerisce cose indicibili...”, “Perché poi io mi ritrovo, vergognandomi, a pensare che è stata la Bocassini a dare la stura alla faccenda, non io...”, “ma non è colpa mia se ci penso, ma della Boccassini, e nonostante questo non riesco ad assolvermi...”. Cara signora Falcone, apparteniamo a due mondi retorici differenti: il mio mondo “comprende” (anche in termini matematici di insiemi e sottoinsiemi) il Suo, il Suo mondo non comprende il mio. Ma è una questione, appunto, di retorica: Le assicuro che i fini, più o meno, sono gli stessi. Ma non si può chiedere alla satira di vergognarsi perché essa ti supera e satireggia anche sulla vergogna, su quella altrui e sulla propria. RinnovandoLe la mia stima e il mio affetto. Suo Ottavio Cappellani
Paolo Colonnello per “La Stampa” il 12 ottobre 2021. Terminate le 343 pagine di queste «cronache di una vita» di Ilda Boccassini, raccontate dall'ex magistrato con una sincerità al limite dell'autolesionismo, viene da chiedersi: perché? Perché questa donna, ormai settantenne, invece di essere ringraziata per aver catturato gli assassini del giudice più amato dagli italiani, ogni volta che parla o che scrive, suscita scandalo? Perché, invece di essere portata in giro per le scuole a spiegare quanto sia difficile e impervia la strada della legalità, viene insultata e presa in giro per le sue intemperanze o per quel candore quasi adolescenziale con cui rivela, «giovane e flessuosa», di essersi innamorata di Giovanni Falcone? L'ultima bordata, è arrivata proprio dalla sorella di Falcone, Maria, che ieri su La Sicilia, ha scritto: «Sembra si sia smarrito ormai qualunque senso del pudore e del rispetto prima di tutto dei propri sentimenti (che si sostiene essere stati autentici), poi della vita e della sfera intima di persone che, purtroppo, non ci sono più, non possono più esprimersi su episodi veri o presunti che siano e che - ne sono certa - avrebbero vissuto questa violazione del privato come un'offesa profonda...». L'unica risposta possibile al putiferio sollevato da Ilda la rossa è che Boccassini, anche adesso, rimane una donna fuori dagli schemi, lontana dal potere politico e dallo stesso potere giudiziario cui è appartenuta, e che ha sempre ferocemente criticato. Per capirlo bisogna leggerlo fino in fondo questo libro, La stanza numero 30 (ed. Feltrinelli), che la racconta nel ruolo, unico e irripetibile, avuto nella lotta al crimine in Italia. Un ruolo scomodo, privo di compromessi, ma non di umanità e talvolta di una sensibilità esasperata, ben distante dall'immagine pubblica di donna dura e spietata. Tutto ciò nonostante alcune omissioni (chi fu a far vedere al giornalista D'Avanzo in anteprima i verbali del boss pentito che parlava di Berlusconi mettendo così a rischio un'indagine delicatissima? Ilda lo sa, ma non lo scrive) o denunce tardive, tipo quella sull'indebita pressione dell'ex capo della polizia De Gennaro per farla desistere sempre da un'inchiesta su Berlusconi. Stare vicino alla donna che ha sgominato le cosche più feroci e insidiose, a Milano come a Palermo, che ha rivelato lo squallore prostituivo di certe «cene eleganti», così come la corruzione dei magistrati della capitale (caso Squillante), non è mai stato semplice per nessuno. Perché Ilda non è mai stata capace di fare sconti nemmeno a sé stessa: «Non nego di aver contribuito a dare di me un'immagine pubblica che so diversa da quella reale - scrive a pagina 106 -. Insomma, per difendermi ho indossato una maschera che con il tempo è diventata la mia faccia, ho lasciato che si ricamasse sul mio essere una donna severa, poca incline ai sentimenti, tutta codice e tintinnio di manette. Sgradevole? Forse, a volte». Critiche e gustose prese in giro della vanità altrui (la descrizione di Giancarlo Caselli, in trasferta negli Usa per interrogare un mafioso, che chiede alla scorta Fbi di fermarsi davanti a un supermercato per comprare la lacca per i capelli è strepitosa) e della propria (dal parrucchiere ai tailleur scelti per partecipare ai processi), non mancano. C'è il giudizio severo per le «non scelte» del procuratore di Milano Francesco Greco; e la critica dura al procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri («Si vantava sulla conoscenza della 'ndrangheta, creava tensioni»). Ma in realtà è il racconto inedito delle sue paure, della solitudine, delle tecniche investigative, degli incontri con boss mafiosi come Buscetta o Cangemi, a colpire. C'è il fastidio per l'esibizione mediatica della giustizia, come avvenne per la cattura di Giovanni Brusca, il boss della strage di Capaci. «Le scene di giubilo a volto coperto e con i mitra fra le mani evocavano gli Stati totalitari, dove non c'è spazio per giustizia e legalità». Pagine che scorrono veloci e raccontano in definitiva la storia il più delle volte dolorosa di una donna che, come tante altre, ha sofferto sulla propria pelle l'impegno professionale che ha anteposto, dilaniandosi, alla famiglia; e che ha pagato duramente, in termini di carriera, essere stata brava e coraggiosa. Poco amata dai colleghi, invisa al mainstream giornalistico, detestata apertamente dal Potere, che tentò di delegittimarla in ogni modo fino a toglierle la scorta, decisione caldeggiata dall'allora ministro degli Interni Claudio Scajola (governo Berlusconi). Boccassini, come un altro suo illustre collega, Gherardo Colombo, ha «il vizio della memoria», con cui ricorda, ad esempio il dimenticato ed esplosivo verbale del boss pentito Salvatore Cangemi: «Una cosa è certa - dice il pentito - e corrisponde al cento per cento a verità: Riina era in contatto con Dell'Utri e quindi con Silvio Berlusconi» che versava ai "cortonesi" 200 milioni di lire all'anno in contanti. No, non è stato semplice combattere la mafia stragista indossando non di rado tacchi a spillo e orecchini, circostanza intollerabile per gli ayatollah di Cosa Nostra e la loro becera cultura maschilista. «Nonostante la mia esperienza, negli ultimi 30 anni nessun Parlamento ha mai chiesto la mia consulenza». L'amarezza è sconfinata ma la voglia di riprendersi la vita, anche. «L'isolamento, la profonda incertezza del domani, la paura di morire, hanno sprigionato in me una smisurata voglia di vivere». E' il karma di chi ha imparato a risorgere.
Anticipazione da “Oggi” il 13 ottobre 2021. Sui due discussi capitoli dell’autobiografia «La stanza numero 30» dove Ilda Boccassini rivela il suo amore per Giovanni Falcone, intervengono su OGGI in edicola da domani anche Maria Venturi e Barbara Alberti. «Cose come questa non si giudicano. Io l’avrei tenuta per me per la sola volontà di non correre il rischio di fare un torto postumo alla moglie, certo, ma soprattutto a una figura come Falcone. Non conta quanti anni siano passati dalla sua morte: Falcone è il presente storico del nostro Paese. Per tutti, giustamente, un martire, un eroe, e gli eroi non devono avere nei», dice la Venturi. Mentre l’Alberti commenta: «Al suo posto non lo avrei detto per egoismo: le cose importanti vanno taciute, se le racconti si disperdono e, come in questo caso, finiscono in mano al tribunale permanente di chi cerca un colpevole sempre, su tutto, come le tricoteuse che sferruzzavano in attesa di veder ruzzolare teste dalle ghigliottine. Un libro è arte, quella confessione è una scelta artistica, il sollievo a una pena antica e un modo per rivendicare che i soli padroni delle nostre vite siamo noi e chi le giudica non rispetta le differenze e ci condanna a un moralismo conformista di cui davvero non c’è bisogno».
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 13 ottobre 2021. In questi giorni in cui è successo di tutto, è scoppiato uno scandalo anche per una sciocchezza di cui è stata protagonista Ilda Boccassini, famosissima magistrata che lavorò a lungo alla Procura di Milano, segnalandosi per tenacia e aggressività. Insomma una donna tosta la quale, abbandonata la toga ha deciso legittimamente di raccontare la propria vita non banale in un libro. Niente di eccezionale, nessuna rivelazione inedita, semplicemente una descrizione piacevole di una esistenza non comune trascorsa nelle trincee della giustizia. Ma i recensori, o meglio i censori, hanno colto alcune pagine relativamente piccanti e moderatamente scandalose, nelle quali la cosiddetta Rossa, per via del colore dei capelli, rivela di essere stata innamorata del povero Falcone, trucidato dalla mafia, e di aver avuto con lui una relazione. Non avesse mai messo nero su bianco il fatto: non appena questa storia del tutto trascurabile è stata resa nota al pubblico è successo il finimondo come se la Boccassini fosse l'unica donna al mondo ad essersi intenerita per un uomo sposato. Se fosse una tragedia l'amore extraconiugale l'umanità intera dovrebbe essere messa alla berlina. Il cosiddetto tradimento credo sia più diffuso del raffreddore, ma se una persona confessa di averlo commesso, invece di ricevere la solidarietà dei cornificatori e dei cornuti, viene deplorata quasi fosse l'unica peccatrice sulla faccia della terra. Ilda ammettendo il suo amore ha detto la verità, forse non sapeva che la gente ti perdona tutto tranne la sincerità. Ciò che maggiormente stupisce di questa vicenda in sé ordinaria non sono tanto i rimproveri all'innocente Boccassini quanto l'assoluzione generale ricevuta da Falcone. Lei massacrata, lui neppure sfiorato dalle reprimende dei benpensanti. Pur essendo noto anche agli imbecilli che le scappatelle si fanno regolarmente in due, altrimenti che scappatelle sono? Ma Ilda è una donna, quindi può essere vilmente colpita, mentre il grande giurista era un uomo pertanto meritevole di essere perdonato, neppure giudicato, tanto più che è morto e i defunti sono tutti buoni. Io con la signora Pm ebbi in passato un contenzioso e fui condannato per una frase che voleva essere spiritosa. Questa: la Boccassini mi intimorisce al punto che con lei non salirei nemmeno in ascensore. Ma nonostante la citata battuta, l'ho sempre rispettata e non cesso di apprezzarla solo perché si è accompagnata con un illustre collega.
La procuratrice e l’autobiografia. Quando l’ego oltrepassa la comune decenza. Il magistrato Guido Salvini commenta le rivelazioni di Ilda Boccassini sulla storia d'amore con Giovanni Falcone. Guido Salvini su Il Dubbio l'11 ottobre 2021. George Orwell e altri autori inglesi la chiamavano common decency. È un’espressione che non è facile rendere in italiano. Provandoci con una parafrasi, richiede, ad esempio, che chi parla, anche in pubblico, di se stesso o di altri non superi una linea oltre la quale la dignità dell’uno e degli altri è ferita, sminuita. Richiede misura, rispetto per il prossimo, istintiva correttezza morale, in sintesi appunto non oltrepassare certi limiti. Una virtù propria, secondo Orwell, soprattutto della gente comune, dell’”inglese medio” al tempo in cui lo scrittore viveva. Quello, che più che un atteggiamento è un principio, mi è venuto in mente leggendo dell’autobiografia di Ilda Boccassini. L’ho conosciuta bene, era entrata in servizio a Milano pochi anni prima di me. Ha sempre avuto qualità eccellenti quasi uniche. Un intuito investigativo straordinario, conosceva come pochi altri i fenomeni criminali di cui si occupava, soprattutto mafia e ‘ndrangheta, aveva dedizione al lavoro e caparbietà anche nel senso migliore del termine. Sul piano umano invece non brillava. Era sgarbata, quasi ai limiti della maleducazione e poco propensa, così si comprende anche dal libro, a lavorare in gruppo con gli altri colleghi. La storia della sua vita professionale è indubbiamente istruttiva, racconta fatti, quelli della Sicilia negli anni 80-90 in particolare, che chi non ha vissuto quel periodo rischia di dimenticare o di non conoscere affatto. Ma le pagine che raccontano la storia con Giovanni Falcone superano ampiamente il limite della common decency. Sono le pagine che alla fine saranno certamente quelle più lette e con maggiore curiosità anche oscurando anche il resto. Ed infatti i mass-media nel lanciare l’uscita del libro hanno insistito soprattutto su quella storia d’amore. Tutti nel mondo giudiziario lo sapevano ma non c’era alcun bisogno, se non per una pulsione personale, di raccontarlo a tutto il paese. Si prova un senso di pena per la moglie di Giovanni Falcone, la collega Francesca Morvillo dilaniata insieme a lui dalla bomba, e per i parenti e gli amici ancora in vita che una mattina dal Corriere hanno saputo di quel libro e dei suoi svolazzi da letteratura minore. I maligni e i nemici del magistrato potrebbero anche a questo punto obiettare che se Ilda Boccassini aveva intessuto una relazione amorosa con Giovanni Falcone, non doveva accettare di essere applicata a Caltanissetta per condurre le indagini sulla sua morte perché da quello, da quell’unico caso, aveva il dovere di astenersi come richiede il Codice di procedura penale. Ilda Boccassini era ormai in pensione da quasi due anni, era uscita del tutto dall’ambiente, in silenzio, lasciando le scene come Greta Garbo, e il paragone è un omaggio. Non aveva più fatto apparizioni, come tanti illustri pensionati, in convegni e interventi sui mass-media né aveva sollecitato qualche incarico politico grande o piccolo. Questo ritirarsi a vita privata dopo tanti anni di impegno era una scelta non comune. Ma, l’ho scritto tante volte, i magistrati, quelli famosi, hanno un ego, ingigantito nel corso di processi ed indagini, che è difficile da tenere a bada e che non vuole scivolare nell’anonimato. E alla fine prevale. Penso sia accaduto così in questa autobiografia. Certo un libro non è una requisitoria in aula e non incide sulla giustizia e sugli esiti dei processi. Ma credo, che alla radice, e visto in profondità, il fenomeno dell’oltrepassamento, possiamo chiamarlo così, sia lo stesso che ha portato indagini acclamate dai mass media ad essere coltivate, oltre la common decency, oltre il loro limite sino a sgonfiarsi, anche se dopo anni, nelle aule. Chi legge immagina di cosa parlo, è storia giudiziaria recente. Credo che i magistrati cerchino giustamente indipendenza dalla politica e dal potere ma l’indipendenza dal loro ego personale è altrettanto importante. E non sempre riesce.
"Amavo Falcone", "Infanghi la moglie": scontro Boccassini-Barra. Francesca Galici il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Francesca Barra a valanga contro Ilda Boccassini dopo la pubblicazione di alcuni passaggi del nuovo libro dell'ex magistrato di Milano. Hanno fatto discutere le dichiarazioni di Ilda Boccassini su Giovanni Falcone affidate al libro La stanza numero 30. "Il mio era un sentimento profondo, ero innamorata della sua anima, della sua passione... Ricordo quella nuotata insieme all'Addaura nel 1990 e una notte in volo verso l'Argentina", scrive Ilda Boccassini. Parole molto forti, riportate in anteprima dal Corriere della sera, che spiazzano anche a distanza di oltre 30 anni, e che hanno creato un grande dibattito pubblico. A scagliarsi contro l'ex magistrato del tribunale di Milano è stata soprattutto Francesca Barra, autrice della biografia di Giovanni Falcone. "Me ne innamorai... Ero innamorata della sua anima, della sua passione, della sua battaglia, che capivo essere più importante di tutto il resto", scrive ancora Ilda Boccassini, oggi 72enne magistrato in pensione. I due si conobbero negli anni Ottanta e oggi, a distanza di tre decenni, la Boccassini si chiede: "Cosa avrebbe riservato il destino a me e Giovanni, se non fosse morto così precocemente?". Nessun accenno alla moglie, solo un vago riferimento: "Sapevo di non poter condividere con lui un cinema o una gita in barca, pur desiderandolo, ma non ero gelosa della sua sfera privata, né poteva vacillare la mia. Temevo che quel sentimento potesse travolgermi. E così in effetti sarebbe stato, perché lo hanno ucciso". Ilda Boccassini racconta anche di un viaggio fatto in Argentina, in prima classe, ad ascoltare le canzoni di Gianna Nannini per tutta la durata del volo. "Alcune canzoni mi facevano pensare alla nostra storia e le ascoltai più volte, per ore, stringendomi a lui", scrive nel suo libro. Queste parole hanno fatto scattare la giornalista Francesca Barra, che con un lungo post su Facebook ha criticato aspramente l'ex magistrato. "Giovanni Falcone era sposato con Francesca Morvillo che ha perso la vita perchè era accanto a lui durante l’attentato. E non credo che la Boccassini, per vendere un libro, possa raccontare così liberamente della sua relazione con il Giudice, infangando la memoria di una moglie", scrive la Barra. Il suo tono è duro, per la giornalista è come "se tutto normalizzato in questo cazzo di Paese, anche le corna fatte ad una vittima. Doppiamente vittima a questo punto, che nemmeno può tirarle una scarpa in faccia".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
L'autobiografia. Boccassini, l’odio per le donne nel libro dell’ex pm: e che violenza esibire il flirt con Falcone. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Ottobre 2021. La passione per Falcone, l’odio per Berlusconi. Ilda Boccassini è Ilda Boccassini e i suoi sentimenti non sono sorprendenti. Quello che è poco elegante, volgare e violento nei confronti di una persona che non c’è più e che viene ricordata in tutto il mondo come un grande investigatore, è mettere in piazza la sua parte intima con il racconto di una relazione sentimentale. Che forse ha vissuto più lei che lui, e del resto gli è stato risparmiato l’imbarazzo di leggersi in un libro (di cui parleremo nei prossimi giorni, vale la pena di spigolarlo per bene), e che lei non ha mai nascosto. Clamoroso e pieno di rancore urlato fu il discorso che Ilda Boccassini, in un’assemblea di magistrati a Milano, fece il giorno in cui Falcone fu ucciso. Avete tradito Giovanni, fu il suo “J’accuse”, vestita di nero (lei ora dice fosse blu scuro), con gli occhiali affumicati a celare il pianto, come una vedova. Quel giorno anche chi ancora non sapeva, aveva saputo. E intanto l’Italia intera, e non solo, piangeva Giovanni e Francesca, marito e moglie magistrati, morti insieme alla scorta, assassinati a Capaci dalla mafia. Qualcosa di grande, reso piccolo dal racconto su un uomo che tradisce la moglie, come se avesse qualche importanza se non per l’io immenso di una donna che vuole, che ha sempre voluto essere presente, ritagliarsi almeno un angolino nella vita di chi è diventato un mito. Esserci. Essere chiamata a grandi cose. A Caltanissetta per indagare sulla morte di “Giovanni”, magari dopo averlo chiesto. A Milano a indagare su Silvio Berlusconi e il suo rapporto con una ragazza non ancora maggiorenne per pochi mesi, a frugare nella vita sociale, sentimentale e anche sessuale del Presidente del consiglio in carica, lasciando da parte le carte ben più urgenti, delle indagini sulla criminalità organizzata di cui Ilda Boccassini era coordinatrice alla procura di Milano. Esserci, essere chiamata. La parte politica del complotto, dei cecchini appostati sul tetto con il mirino puntato su Berlusconi, ha raccontato in modo esplicito e senza escludere le proprie responsabilità il magistrato Luca Palamara. Era venuto in luce il ruolo svolto dal procuratore capo della repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati, il suo conflitto con l’aggiunto Alfredo Robledo, responsabile dei reati contro la Pubblica Amministrazione, scippato dell’inchiesta su una presunta concussione . E poi la “porcata” del Csm che avrebbe dovuto dirimere in modo equo la competizione tra i due magistrati e invece, con l’aiuto del referente interno di Bruti, Giuseppe Cascini, e dello stesso presidente della repubblica Giorgio Napolitano, decretò il game over per Robledo e aprì un varco più largo di un’autostrada per il processo politico a Silvio Berlusconi. E la storia infinita dei processi “Ruby”, uno, due, tre…Ilda Boccassini la racconta a modo suo. L’insistenza del procuratore capo perché si occupasse lei di quel che non le competeva. Di quell’indagine su reati che non c’erano, la concussione di cui non si era accorto neanche il concusso e la prostituzione minorile di una ragazza di cui tutti ignoravano l’età e che ne dimostrava molti di più. L’ex pm non ha nel mirino il solo Presidente del consiglio però, il fatto è che i suoi colpi bassi vanno a segno sempre sulle donne. E non le manca il coraggio di dedicare il libro alle donne afghane. Punta la stessa Ruby quando in aula le attribuisce l’astuzia delle donne orientali, e Nicole Minetti, “un’igienista dentale venticinquenne trasformata in consigliera regionale”. Trasformata? Si dice “eletta”, dottoressa, non “trasformata”. E poi Daniela Santanché, descritta come “fedelissima” (subalterna?) dell’odiato cavaliere nero. E ancora, la cronista del Giornale Anna Maria Greco, solo perché aveva raccontato una vecchia storia in cui Boccassini aveva subito un procedimento disciplinare al Csm perché vista in atteggiamento affettuoso con un amico giornalista dalle parti del palazzo di giustizia di Milano. Una storia nota, non c’era bisogno di grandi investigazioni per conoscerla. Il procuratore capo dell’epoca Mauro Gresti, un conservatore piuttosto rigido, aveva chiesto il trasferimento della giovane pm, ma il Csm aveva archiviato. Giustamente. Ma siamo sicuri che la dottoressa Boccassini avrebbe mostrato altrettanta tolleranza rispetto alla vita personale, nei confronti di altre donne? Magari di una di quelle che un’altra “progressista” come lei, la giornalista di Repubblica Natalia Aspesi, proprio ieri nella recensione del libro definisce “donnine” (le ragazze che partecipavano alle cene di Berlusconi) o “donnicciole”, cioè le aderenti a Forza Italia, facendo anche il nome dell’attuale presidente del Senato Elisabetta Casellati? Ilda Boccassini se la prende persino con Livia Pomodoro, che all’epoca del processo “Ruby” era la presidente del tribunale di Milano, per una sua decisione di grande sensibilità. L’aula del dibattimento si era rivelata piccola, a causa della grande presenza di giornalisti, anche stranieri. Così tutta la baracca era stata trasferita in un’aula bunker che era stata allestita negli anni del terrorismo, quando gli imputati erano numerosi. Un’aula ormai abbandonata, con le sue gabbie di ferro disumane, oltre che anacronistiche. La presidente Pomodoro un po’ si vergognava di mostrare al mondo quell’immagine medievale della giustizia italiana e aveva posto il problema anche in Procura. Ilda Boccassini forse invece voleva proprio dare quell’ immagine: un presidente del consiglio tra le sbarre. Fingeva però di fare spallucce: “Le gabbie dell’aula mi erano del tutto indifferenti, ma turbavano i sonni del presidente del tribunale dell’epoca Livia Pomodoro…”. Quanto sprezzo nei confronti di un alto magistrato, in quel “turbavano i sonni”! Fu poi deciso di coprire le gabbie della vergogna con teli bianchi, il che turbò parecchio il senso estetico della pm, che si consolò indossando “un paio di orecchini pendenti di corallo rosa”, anche perché “..il corallo è di buon auspicio, porta bene a chi lo indossa”. Non le ha portato tanto bene, visto che Berlusconi, pur condannato in primo grado da un tribunale fatto tutto di donne che lui ha definito come “comuniste e femministe”, è stato poi assolto in via definitiva. Qualcuno pensa che il libro di Boccassini racconti anche la storia per come è andata a finire? La risposta è sì. In tre righe. Ecco il testo: “La sentenza fu ribaltata in secondo grado e il presidente del collegio Enrico Tranfa si dimise in aperta polemica con quella decisione. La cassazione confermò l’assoluzione”. Punto. E no, non può cavarsela in questo modo, dottoressa Boccassini. Dal momento che Palamara ha già chiarito come nei confronti di Berlusconi sia stato attuato un vero cecchinaggio politico, che in fondo neanche lei smentisce, quando dice che “Bruti Liberati aveva già in mente il suo obiettivo…mi disse che era preoccupato per i possibili sviluppi giudiziari e il loro riflesso politico internazionale”. Soprattutto perché, in seguito a quella vostra iniziativa giudiziaria (su cui torneremo, perché tutta la storia degli interrogatori di Ruby nell’estate del 2010 è un po’ diversa da come viene raccontata) il pornofilm delle serate di Arcore non finisce mai. E, tra Ruby primo, secondo e terzo, ogni tanto si sveglia qualcuno – come è accaduto due giorni fa all’uscita di una delle tante udienze per bocca di due ragazze – dice che ha delle rivelazioni da fare. E fatele, una volta per tutte, queste rivelazioni! Quali reati si consumavano durante quelle cene? Perché se sono “peccati” non ci interessano. E dai reati Silvio Berlusconi è stato assolto. Processo politico, politico, politico. E il punto lo mettiamo noi.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” l'8 ottobre 2021. Tiziana Maiolo, ex parlamentare di Forza Italia «Certo che in procura si sapeva della relazione tra Ilda Boccassini e Giovanni Falcone, solo che come tutte le storie "clandestine" c'era molto riserbo tra i colleghi e sbandierare i dettagli adesso, lo trovo decisamente poco elegante». Tiziana Maiolo, ex parlamentare, già presidente della Commissione Giustizia alla Camera con Forza Italia e assessore al Comune di Milano, politica, giornalista, profonda conoscitrice del mondo delle toghe milanesi, sta leggendo con attenzione l'autobiografia di Ilda "la rossa". «Non potevo non farlo», spiega.
Cosa le pare?
«Non sono ancora arrivata in fondo, ma io ho conosciuto bene la Boccassini, so come sono andate molte delle cose che ha scritto nel libro».
Sapeva quindi della relazione con Falcone?
«La storia a Milano era nota. Non si trattava di una semplice infatuazione di lei per lui, ma era una vera relazione, emersa con prepotenza agli occhi di tutti quando lui è stato ucciso».
Cosa è accaduto in quella circostanza?
«Ilda si è comportata da vedova. All'assemblea dei magistrati convocata all'indomani della strage lei è arrivata tutta vestita di scuro, proprio come una donna distrutta a cui hanno appena ucciso il marito e ha molto gridato contro i colleghi colpevoli di avere lasciato solo Giovanni. A nessuno è sfuggito quanto fosse scossa e, del resto, Falcone per il suo lavoro e per la sua tragica fine è un eroe della storia italiana. Un mito. Mi domando che senso ha, adesso, rovinare la sua immagine e la sua storia raccontando di una relazione extraconiugale. In quell'attentato è stata uccisa anche sua moglie Francesca Morvillo. Giovanni e Francesca non ci sono più».
Maria Falcone, la sorella del giudice vittima di Cosa Nostra a Capaci, ha scelto di non commentare le rivelazioni contenute nel libro.
«E ha fatto bene. Sono cose troppo private, intime. Giovanni e Francesca sono morti insieme, con la loro scorta, per mano della mafia e tirare fuori adesso il tradimento di lui rischia d'infangarne la memoria. Se la Boccassini era così innamorata di Falcone perché non si è tenuta per sé quel sentimento? Lei dice che è la casa editrice ad averle chiesto di scrivere l'autobiografia, ma io penso ci voglia del pudore...».
Perché la Boccassini ha scritto un libro, con dettagli così riservati, in questo momento?
«La prima cosa che mi viene da dire è che Ilda è sempre stata un'esibizionista. Ha dedicato l'autobiografia alle donne afghane. Si professa dalla parte delle donne... Poi ora è in pensione dopo una vita in prima linea con le sue inchieste dove le va dato atto, ad esempio, di avere subito capito che il pentito Scarantino era inattendibile sulla strage di via D'Amelio».
Cos' altro l'ha colpita del testo?
«Le pagine sul processo Ruby: ha dedicato tre righe di numero all'assoluzione di Berlusconi sia in Appello che in Cassazione. Mentre ha raccontato a modo suo tutta la storia e gli interrogatori della ragazza. L'inchiesta, poi, doveva essere condotta da Robledo».
Chi arriverà alla procura di Milano dove perfino il numero uno, Francesco Greco, è indagato?
«Spero un papa straniero. Non più un esponente di Magistratura democratica. Serve discontinuità, anche perché l'immagine della mitica procura di Milano, ultimamente, è stata danneggiata da troppi errori».
Paolo Guzzanti per "il Giornale" l'8 ottobre 2021. Ilda la rossa non era rossa ma castana. Ilda la rossa è una donna che ha superato la settantina, che ha vissuto di passioni enormi per il suo mestiere di magistrato, per la sua famiglia che è rimasta più volte disarticolata dai conflitti di interesse delle sue numerose e passionali attività, come Ilda (Boccassini) la Rossa rivela ciò che non sapevamo e che non siamo sicuri di avere voluto sapere. E cioè principalmente - di essere stata l'amante segreta di Giovanni Falcone, di cui si era fulmineamente innamorata fin da quando all'Addaura la invitò a tuffarsi in mare benché appena uscita dal parrucchiere, per poi guidarla per mano, in mare aperto. Un amore segreto, almeno per noi e certamente per la moglie di Falcone, l'affascinante magistrato e accademica Francesca Laura Morvillo che morì col marito nell'inferno di Capaci. Ilda Boccassini ora racconta nel suo libro con quale disperata furia corse a vedere il corpo di Giovanni Falcone, dove pronunciò fra le lacrime un giuramento di giusta vendetta contro gli assassini. Non c'è cenno di un suo saluto al corpo senza vita della sua rivale, perché così si comportano gli innamorati, specialmente quando lo nota lei stessa non hanno alcun futuro insieme. Ne esce fuori un racconto nostalgico di intere notti abbracciati durante il volo transatlantico per l'Argentina o durante le trasferte che rendevano possibile i loro incontri. Che dovremmo fare, noi lettori e cittadini? Commuoverci? Dire che tutto ciò è umano, molto umano, troppo umano? Noi personalmente avvertiamo una ferita nella memoria e nell'immagine di Giovanni Falcone che aveva tutt' altro spessore e ha un posto alto e drammatico nella storia d'Italia. Un conto sono i fatti così come sono accaduti, tutti umani, umanissimi. Tutt' altro è darli alle stampe con pretese letterarie veramente fuori luogo in «La stanza numero 30» per l'editore Feltrinelli, con una passerella di luoghi comuni del genere: a «Giovanni piacevano i miei riccioli. Quante volte mi ha detto che i miei occhi erano bellissimi». Fino all'inflizione per tutta la durata del viaggio di una cassetta di Gianna Nannini perché «alcune canzoni mi facevano pensare alla nostra storia e le ascoltai più volte, per ore, stringendomi a lui approfittando del fatto che in Top Class non c'erano altri passeggeri e la nostra intimità in quel lusso rilassante poteva essere disturbata soltanto dall'arrivo delle hostess». Altro che D.H Lawrence con la sua scialba lady Chatterley. Qui siamo al fotoromanzo del parrucchiere. Non c'è nulla di male, si dirà: è umano, perché la vita narrata nell'autobiografia di Ilda Boccassini dovrebbe suggerire indomito coraggio nella consapevolezza stampata per il pubblico (dunque eroicamente?) di aver fatto soffrire molte persone e di aver messo in piazza una condotta passionale che chiede ai lettori quella cosa orrenda che è la «complicità». A noi fa impressione che la stessa magistrata nelle vesti di pubblico ministero abbia condotto la sua crociata a fil di Codice penale contro Silvio Berlusconi per le sue pretese passioni nella vita privata, mai dimostrate e anzi negate. Quando Ilda Boccassini pronunciò la sua requisitoria sull'affare Ruby, molti pensavano che quella fosse la tempesta perfetta contro l'ex presidente del Consiglio. Ascoltammo la sua retorica inefficace e rumorosa, guardammo i suoi capelli perfetti, i tacchi altissimi, tutte cose poco consone agli usi e costumi delle grigie e sorde aule di giustizia. E alla fine, che delusione! Non c'era nulla che potesse provare neanche alla lontana la colpevolezza dell'imputato. Falcone si sarà girato nella tomba. La sua foga oratoria concedeva troppo alle distorsioni dialettali. Ma questo è il minimo: quel processo non le portò fortuna perché fu sconfitta. Ieri si sprecavano gli alti osanna a questa triste storia spacciata per genio e sregolatezza passionale. Un pubblico ministero è un impiegato statale di alto livello assunto per concorso. Ma ieri sembravano tutti d'accordo nel celebrare il limpido coraggio di Ilda la Rossa che, fra l'altro, non è neppure rossa ma castana corretta con l'Henné, tintura rossastra a poco prezzo. Questa donna italiana si è certamente scavata un posto nella storia per aver vanamente perseguito e umanamente perseguitato il più votato ma il più detestato dalle sinistre uomo politico. Non si capisce bene perché abbia scelto ora di raccontarsi come un fiume in piena, preda di passioni imbarazzanti e prevedibili che però rivelano i tradimenti coniugali di un grande magistrato ucciso. Certo, è una storia umana. Ma come può spiegare, proprio lei, la donna eroica detta «la rossa» senza esserlo e che perse la sua furiosa battaglia, come abbia potuto perseguitare con professionale passionalità un anziano signore accusato di avventure passionali mai provate? Quelle proprie, le ha spiattellate con eccessiva generosità nella lussuosa privacy della Top Class, svilita soltanto dal gracchiare delle canzoni della Nannini in un vecchio mangianastri. Se Ilda cercava il modo di chiudere comunque in bellezza, qualcuno l'avverta perché a noi sembra il flop finale.
Estratto di un capitolo del libro “Ilda Boccassini, La Stanza numero 30, cronache di una vita” Serie Bianca-Feltrinelli. L’anno prima, il 21 giugno 1989, c’era stato l’attentato alla scogliera dell’Addaura, dove Giovanni e Francesca avevano preso in affitto una casa. Sulla dinamica di quel fatto non mi soffermo perché se n’è scritto in lungo e in largo, dicendo di tutto e spesso a sproposito. Mi piace soltanto ricordare la volta in cui andai in quella casa meravigliosa. Ero a Palermo, per attività istruttorie, una settimana prima del fallito attentato e andai a colazione da loro. Era una bella giornata, anche se i raggi del sole non erano ancora quelli dardeggianti della calura estiva. Con l’entusiasmo di un bambino, Giovanni mi fece visitare la casa. Si capiva benissimo che era felice di stare lì, di poter andare a nuotare quando voleva, di godersi i tramonti le poche volte che il lavoro glielo permetteva. Aveva imparato proprio dagli uomini d’onore, costretti a vivere in uno stato di perenne allerta con il rischio costante della morte, ad apprezzare la bellezza dell’attimo, a godere di quello che la vita offriva come fosse stato l’ultimo dono. Certo, l’Addaura è un posto incantevole, ma avvertii immediatamente dentro di me un’ansia, un sentimento di paura e gli dissi che stare lì era pericoloso, che era un bersaglio troppo facile, nonostante la stretta vigilanza, che anche quel mare così amato poteva diventare un suo nemico. Giovanni mi ascoltò e sorrise senza rispondere nulla: lo sapeva anche lui. Al telefono, prima che andassi, mi aveva raccomandato di portare un costume da bagno, cosa che feci, anche se mi pareva che persino in Sicilia fosse troppo presto per tuffarsi. Eppure mi propose – anzi mi impose – di fare un bagno. Francesca si rifiutò, mentre io, come un soldato, obbedii. Mi cambiai e scesi i gradini di pietra che portavano sugli scogli dove qualche giorno dopo sarebbe stato collocato il borsone da sub imbottito di esplosivo. Come pensavo, il mare era freddo. Giovanni si tuffò e iniziò a nuotare verso il largo, poi si girò e mi disse: “Vieni! L’acqua è bellissima!”. Caspita se era fredda, quell’acqua, e poi pensavo alla messa in piega appena fatta. Insomma, pensieri da donna che però non mi fermarono e lo raggiunsi. Giovanni prima mi prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto... Nel pomeriggio Francesca andò via e rimanemmo soli. L’atmosfera magica di quella mattina si era dissolta, Giovanni era di nuovo preoccupato, angosciato. Non parlò quasi più, voleva solo che gli stessi accanto. Sapeva – sentiva – che lo avrei sostenuto senza fare domande. Quando conobbi Giovanni ero giovane, flessuosa, scattante, un viso mediterraneo, che parlava da solo con una risata oppure rabbuiandosi, una massa di riccioli rossi. Già, i famosi capelli di “Ilda la rossa”. In realtà il colore dei miei capelli è un normale castano senza infamia e senza lode, ma fin dagli anni della giovinezza mi piaceva tingermi con l’henné, un segno di libertà molto in voga tra le ragazze che negli anni settanta tenevano alla loro emancipazione e volevano farlo vedere. Nel corso del tempo ho cambiato tante sfumature, a volte più leggere, a volte così intense da sfiorare l’arancione. Penso dipendesse dall’umore, o meglio dal grado di arrabbiatura del momento in cui andavo dal parrucchiere. Potrà sembrare frivolo, ma il colore dei capelli di “Ilda la rossa” ha inciso sulla mia vita. E anche sul mio rapporto con Giovanni. A lui piacevano molto i miei riccioli. Quante volte mi ha detto che i miei occhi “erano bellissimi”, che – specie con l’effetto della luce del sole – tendevano al verde e non potevano che abbinarsi al rosso dei capelli, un colore cangiante che rispecchiava appieno il mio carattere a volte impulsivo, a volte ribelle, a volte sottomesso, soprattutto nei suoi confronti. In realtà ci confrontavamo e anzi litigavamo spesso, perché – per esempio – non capivo ancora certe sue scelte di mediazione, così lontane dalla mia visione dei rapporti con il mondo. (...) La mattina dell’attentato di Capaci ero andata dal parrucchiere per correggere il colore dei capelli, che mi sembrava troppo acceso, un rosso sgargiante che mi avrebbe messo in imbarazzo per il lunedì successivo, quando era prevista la lettura della sentenza del processo “Duomo connection”. Invece, ironia della sorte, quella correzione del colore servì per affrontare le ore della morte di Giovanni, una tonalità meno vistosa e più consona alla tragedia che avrei vissuto. Ogni dettaglio, anche il più banale, mi riporta al ricordo doloroso di Giovanni, a tutto quello che gli hanno fatto subire, alla sua morte. Ma arrivata a questa età, dopo quasi trent’anni, vorrei riuscire a liberarmi dei demoni e dei rimpianti con cui ho convissuto finora e che hanno offuscato i ricordi meravigliosi che mi legano a lui. Anche per questo, forse, sto scrivendo: perché vorrei tentare di lasciarmi alle spalle il passato e godere di quello che la vita ha ancora da offrirmi in questi ultimi anni.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” l'8 ottobre 2021. Non si leggono i libri in mezz'ora, o in un'ora, e neanche in due ore come fanno certi lettori «forti» a cui poi non rimane nulla, o come fanno certi giornalisti che scorro-no le righe in apnea, senza il respiro che lo scrittore auspicava e ritmava assieme ai pensieri. Oggi è il nostro penoso turno (ma ci rifaremo, il libro ci interessa davvero) e ieri invece è stato quello parimenti penoso del Corriere della Sera, dove Roberto Saviano ha palesemente scritto del libro senza leggerlo e dove Alfio Sciacca, sempre a pagina 23, circoscrive poco dignitosamente "la rivelazione" (capirai) che Ilda Boccassini e Giovanni Falcone ebbero un rapporto affettivo non solo professionale, nonché imperniato sul fatto che una è una donna e l'altro era un uomo. Più che una rivelazione, è la conferma che Giovanni Falcone meritava certa altra fama che aveva: frequentava Ilda Boccassini, ovviamente frequentava la moglie Francesca Morvillo (dilaniata a Capaci con lui) e frequentava anche una giornalista ancora in attività: ci fermiamo qui. Annotarlo non è mancanza di rispetto, ma solo una differente angolatura da cui inquadrare "l'effetto scorta" che sospinge o produce strani effetti su chi lo subisce o su chi ne è rapito: Roberto Saviano lo sa bene. Ciò posto, chissenefrega: è anche colpa del giochino demenziale delle case editrici che ancora giocano con "l'anteprima" di un libro e poi ne ricavano una paginata di gossip. L'autrice, Ilda Boccassini, ringrazi. Noi il libro ce l'abbiamo anche di carta, l'unica meritevole - nei giorni prossimi - di lettura autentica. Nel frattempo eccoci a ripartire dalla fretta di scrivere e quindi di annotare il rapporto che legò Ilda (oggi 71enne) al giudice istruttore siciliano conosciuto negli anni Ottanta: «Me ne innamorai... Il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di vita quotidiana... il bisogno di vivere l'amore momento per momento. Ero innamorata della sua anima, della sua passione, della sua battaglia, che capivo essere più importante di tutto il resto... non ero gelosa della sua sfera privata, né poteva vacillare la mia. Temevo che quel sentimento potesse travolgermi. E così in effetti sarebbe stato». Poi la giornata al mare all'Addaura nell'estate del '90 (Falcone aveva una casa) quando lui la invitò a tuffarsi e «io pensai alla messa in piega appena fatta». Il Corriere ci ha dato importanza, alla messa in piega: al pari dell'altra «rivelazione» sui capelli della Boccassini che sono di «un normale castano» e tinti di rosso con l'henné, come sanno anche i cornicioni del Palazzaccio di Giustizia. Poi nel libro, e sul Corriere, si legge del viaggio in Argentina con Falcone nel giugno del '91 (per interrogare un boss) e del supplizio di un «walkman con una cassetta di Gianna Nannini, che ho imposto a Giovanni per tutta la durata del viaggio». L'estrapolazione sfiora il comico quando isola il loro rimanere «abbracciati per ore, direi tutta la notte, parlando, ascoltando Gianna Nannini e dedicandoci di tanto in tanto ad alcuni dettagli dell'interrogatorio e ai possibili sviluppi dell'indagine. Che notte». Già, che notte. Ridicolizzata dalla sintesi giornalese che straccia il senso del tempo, della sequenza, del prima, del dopo, di quel «passo» che in ottanta righe non si può imprigionare. Sempre meglio della Boccassini arrangiata dal non-lettore Roberto Saviano, che s' inventa una magistrata che tipicamente «punta ai mandanti» (proprio lei, che per prima, vanamente, smontò il falso processo per la strage di via D'Amelio, quella in cui morì Paolo Borsellino) ma senza precisare che i mandanti non erano la Spectre ola Trilaterale, bensì i vertici di Cosa nostra. Saviano poi ci spiega che Ilda aveva un modo di «scandagliare» i fatti «andando oltre la superficie» (che gergo originale) e divenendo così un personaggio «scomodo». Scomodo. Magari controcorrente. Ultime due perle savianesche: 1) nella storia di Ilda troverete «il cuore pulsante della storia della nostra democrazia, quella che avrebbe potuto essere, quella in cui forse è ancora lecito sperare» (infatti siamo in lizza con la Corea del Nord per la dittatura peggiore); 2) immancabile il riferimento a quando, per un breve periodo, a Ilda «viene negata la scorta» come uno come Saviano non può concepire, visto che lo chiamano «sotto la scorta niente». Da capo. "La stanza numero 30" (Feltrinelli, 352 pagine, 19 euro) è quella al quarto piano del palazzo di giustizia milanese, la stessa in cui ha lavorato dal 1979 (aveva trent' anni) sino a praticamente ieri, visto che è pensionata ed è nonna di tre bambini. A Milano arrivò quando i pregiudizi sulle donne magistrato erano ancora forti (maternità, preoccupazioni familiari, solite cose) e la scheda Feltrinelli sintetizza «i successi ottenuti insieme a Giovanni Falcone nell'indagine Duomo connection, che svela la presenza di Cosa nostra a Milano». Sintesi infelice, perché è vero che ai tempi se ne parlava poco, è vero che ci furono le collaborazioni di Falcone e di Sergio Di Caprio (il capitano Ultimo) e che finirono in galera un po' di siciliani: ma, nel 1995, il processo è stato annullato dalla Cassazione e il nuovo dibattimento ha visto condannati solo gli accusati di traffico di droga: nessuna illecita attività edilizia e nessuna condanna per corruzione contro gli indagati Attilio Schemmari (assessore all'Urbanistica) e il sindaco Paolo Pillitteri, veri bersagli di un battage mediatico che per alcuni molti aspetti anticipò lo stile collaborazionista del giornalismo di Mani pulite. Inoltre, l'individuazione nell'hinterland milanese di componenti di una famiglia mafiosa di Resultana (Palermo) non fu anticipatore divere infiltrazioni mafiose: come "La stanza numero 30 Cronache di una vita" (Feltrinelli, 352 pagine, 19 euro) è il titolo dell'autobiografia di Ilda Boccassini, ex magistrato ora in pensione (è stata tra l'altro è stata procuratore aggiunto della Repubblica a Milano), inquirente di alcune delle inchieste più clamorose della storia recente italiana. Nata a Napoli, 72 anni, è entrata in magistratura nel 1979, prestando servizio dapprima alla Procura della Repubblica di Brescia, e ottenendo poco dopo il trasferimento alla Procura della Repubblica di Milano. Dopo il suo arrivo a Milano, quasi subito inizio a occuparsi di criminalità organizzata. Iniziò a collaborare con Giovanni Falcone alla fine degli anni '80, con l'inchiesta Duomo Connection sulle infiltrazioni mafiose nella città lombarda. è noto, ci furono solo tempo dopo, e protagonista ne fu la 'ndrangheta. C'è il racconto dei "passionali" contrasti col suo nuovo capo Francesco Saverio Borrelli: lui algido napoletano ma dei quartieri alti, anzi altissimi, perché a Napoli vie di mezzo non ce ne sono; a casa Borrelli si parlava francese, la Boccassini invece era del rione popolare di Piedigrotta. «All'epoca del mio allontanamento dal "pool criminalità organizzata" deciso da Borrelli ero -come mi definì Falcone - una "selvaggia", ovvero una giovane donna con il vizio di fare di testa sua e di dire a chiunque quello che pensava». Una passionale, al solito. Ma ci sono anche omissioni in stile magistratese: Ilda, per esempio, non ripercorre le parole terribili che rivolse a Gherardo Colombo e alla magistratura milanese dopo la morte di Giovanni Falcone, pubblicate infinite volte in giornali e libri: si limita a scaricare sul defunto Borrelli («Ricordo altri momenti di frizione con lui») e poi, il discorso in cui accusò il Pool di non fidarsi palesemente di Falcone, nel libro lo affida a un estratto di una cronaca del Corriere. Anche se in seguito descrive il suo isolamento in procura e la decisione di partire alla volta di Caltanissetta, a indagare sull'assassinio di Giovanni, lasciando a Milano affetti e figli. È la parte più dura e nascosta di Ilda Boccassini, la madre assente e i sensi di colpa, la passione e l'orgoglio per la toga, le partenze per settimane o mesi. Ed è una parte, bella, dove per un'istante il magistrato cede quote all'essere umano: ma poi torna la toga, e il magistratese. Lo fa quando deve (non) parlare del credito concesso per 15 anni a Vincenzo Scarantino, il falso pentito che fece condannare vari innocenti per la strage di via D'Amelio con protagonisti i pm Nino Di Matteo, Anna Palma e il procuratore capo Giovanni Tinebra. Ci gira intorno, Ilda: «Non mi dilungherò su questa vicenda... Mi limito a ricordare che una sentenza ha dipinto il falso pentimento di Scarantino come uno dei più gravi depistaggi mai architettati nella storia giudiziaria italiana». La miglior Boccassini investigatrice - opinione personale - inizia a declinare subito dopo i processi Lodo Mondadori e Sme-toghe sporche, dove è ancora una macchina da guerra e dove pure aveva già incrociato Silvio Berlusconi. Poi è come se un certo berlusconismo (e l'età?) l'avesse condotta a una passione supplementare, non richiesta, extra-codice: nel 2006 andò a vedere "Il caimano" (oggettivamente malriuscito tra altri bei film di Nanni Moretti) e nel libro riesce a scrivere che «il film mi piacque molto e sono grata a Nanni». Da lì - sarà un caso -il caso Ruby prese le sembianze di un'ossessione ormai scambiata per passione, opinione certo non solo nostra. Berlusconi era il potere, il governo, i soldi, i suoi avvocati e le sue donnine, in altre parole - se ci si passa l'espressione - uno scontro anche culturale tra piani inclinati senili: «Quella del corpo delle donne è una questione molto delicata, ed è difficile, alla mia età, capire cosa possa spingere ragazze giovani e belle a barattarlo per un po' di successo in tv...». Ilda Boccassini cercò di capirlo in un'aula di giustizia, e non fu un bel vedere.
“La sinistra ha creduto troppo ai Pm”, il mea culpa di Claudio Fava. Angela Stella su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Dal 1992 «abbiamo ritenuto, sbagliando, di dover considerare sempre infallibile la magistratura, soprattutto se si occupa di mafia, una sorta di atto di fede a prescindere dai risultati»: a parlare è l’onorevole Claudio Fava, Presidente della Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, che su Fiammetta Borsellino aggiunge: «Vogliamo lasciare il diritto ad una donna di pretendere la verità dopo che ha visto il padre fatto a pezzi e una parte dello Stato depistare la ricerca sulle ragioni di quell’attentato?». Lo intervistiamo dopo che la relazione sulla gestione dei beni confiscati presentata qualche giorno fa dalla Commissione da lui presieduta ha raccolto molti pareri positivi, fatta eccezione per due velenose reazioni, come quelle del rettore dell’Università di Palermo Fabrizio Micari, a cui è seguito un intervento altrettanto critico del giurista Costantino Visconti, a cui replica: «L’unica voce fuori dal coro arriva da un docente palermitano assai empatico con la dottoressa Saguto».
Onorevole, come si risolve il conflitto tra «l’antimafia dei fatti» e quella «delle star»?
«Credo che un lavoro importante debba farlo anche l’informazione che a volte contribuisce a costruire le facili mitologie. Conosco trenta o quaranta giornalisti, sconosciuti ai più, che davvero rischiano la pelle giorno per giorno. Di loro nessuno scrive. Si sente parlare solo di un paio di furbi cronisti, quelli che pensano alla carriera dell’antimafioso minacciato come alla più nobile delle autocelebrazioni. Dietro a volte c’è solo un circo mediatico che ama i titoli ad effetto, che coltiva un’antimafia di cartone col giubbotto anti-proiettile. Fare buon giornalismo, dedicarsi a un’informazione che provi a comprendere i motivi profondi e innominabili degli scandali di corte e delle collusioni di potere non significa sbattere su Facebook il nome di qualche malandrino di periferia facendo il copia e incolla dei mattinali di polizia».
Lei in una intervista su LiveSicilia ha detto: «La mia generazione ha un peccato originale: avere preteso di affermare un crisma fideistico di infallibilità dei magistrati dopo la stagione delle stragi». Può spiegare meglio questo concetto?
«Nel 1992 tutti ci siamo sentiti in colpa per quello che era accaduto a Palermo. Da quel momento abbiamo ritenuto, sbagliando, di dover considerare sempre infallibile la magistratura, soprattutto se si occupa di mafia, una sorta di atto di fede a prescindere dai risultati. Forse c’è stato anche il bisogno di trovare almeno un’istituzione alla quale poterci affidare acriticamente, senza condizioni, dopo l’inabissamento dei partiti e della politica. Credo che ci siano stati e ci siano magistrati straordinari che rappresentano una risorsa per la tenuta democratica del Paese: in mezzo però ci sono state anche altre storie. C’è chi ha costruito carriere alzando i decibel della propria voce, chi ha ritenuto di indagare anzitutto in direzioni che portavano verso il clamore dei titoli dei giornali, chi ha pensato di celebrare se stesso come se fosse un protomartire cristiano. Alla fine si sono offuscate risorse importanti per la giustizia: l’umiltà, la sobrietà, l’autonomia rispetto alle convenienze di carriera e ai conciliaboli del potere. Le vorrei fare un esempio».
Prego
«Un magistrato come Armando Spataro, l’unico che abbia avuto la capacità di istruire un processo a Milano – il caso Abu Omar – pretendendo che le leggi della Repubblica valessero anche per i servizi segreti americani e italiani. Su quel processo è stato messo il segreto di Stato – totalmente pretestuoso – da tutti i governi, di destra o sinistra. Penso che la sua rettitudine nell’applicazione delle regole del codice e al tempo stesso il rispetto per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura siano un esempio straordinario. Poi ci sono altri magistrati, talmente saturi di vanità da assumere il crisma della loro infallibilità come un precetto di fede, per cui ogni richiesta di spiegazione o di comprensione diventa un atto di blasfemia».
A proposito di questo, Lei ha stigmatizzando coloro che criticano Fiammetta Borsellino solo perché solleva dei dubbi sulle indagini per la morte di suo padre. Proprio al Riformista la donna ha detto: «Nessuna fiducia nei pm antimafia e nel Csm, hanno depistato».
«Credo che Fiammetta Borsellino stia subendo un linciaggio mediatico, per fortuna molto limitato, per un ragionamento che qualcuno potrà non condividere ma che lei ha tutto il diritto di proporre pubblicamente: ovvero, il depistaggio su via d’Amelio e le ombre che si proiettano sull’intera indagine sono conseguenza anche d’una attività di indagine frettolosa, avventata, miope. Questo è un fatto, non una velleità interpretativa di Fiammetta Borsellino. È un fatto che Vincenzo Scarantino sia stato considerato un collaboratore di giustizia credibile solo da coloro che lo utilizzarono per istruire quei processi mentre coram populo si sapeva – e lo spiegavano anche gli altri collaboratori di giustizia messi a confronti con Scarantino – che era solo un poveraccio semianalfabeta. E allora io mi chiedo: vogliamo lasciare ad una donna il diritto di ricercare la verità dopo aver visto il padre fatto a pezzi e aver assistito impotente al fatto che una parte dello Stato aveva lavorato – dolosamente o colpevolmente, per strafottenza, con forzature procedurali, con insensibilità istituzionali – per depistare le indagini e quindi allontanare la verità sulle ragioni di quella strage? Avrà oggi tutto il diritto di dire “io non mi fido”? Avrà il diritto di poter giudicare caso per caso, dopo quello che la magistratura a Caltanissetta ha prodotto sull’indagine Borsellino?»
Fiammetta critica anche Nino Di Matteo: «Non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».
«Non si tratta di personalizzare. Ma ci sono i fatti. A Caltanissetta c’è stato un gruppo di pm – e all’epoca c’era anche Di Matteo, anche se era il più giovane – che hanno sostenuto e difeso, anche contro ogni evidenza, la credibilità di Scarantino. Al vertice di quella procura c’era un Procuratore della Repubblica che – nel silenzio di tutti i suoi PM – ha violato o forzato obblighi di legge, prassi e procedure, decidendo di affidare funzioni di polizia giudiziaria ai servizi segreti. Quella Procura ha ritenuto di non dover mai interrogare il procuratore di Palermo Pietro Giammanco, pur sapendo lo scontro, all’interno di quella procura, fra il suo capo e Paolo Borsellino. La sensazione, intatta a distanza di 29 anni, è che ci sia stata da parte di alcuni ambienti della magistratura siciliana una chiusura corporativa sui vizi, gli errori, le stravaganze delle indagini su via D’Amelio».
Onorevole, a proposito della relazione sui beni confiscati, il professore Visconti è arrivato a scrivere che in essa «viene preferito lo stile della sceneggiatura a quello del cauto approfondimento documentale». Come replica?
«La relazione ha ricevuto apprezzamenti da tutti gli ambienti istituzionali. L’unica voce fuori dal coro arriva da un docente palermitano assai empatico con la dottoressa Saguto e ben felice, come raccontano le intercettazioni telefoniche, di mettersi a sua disposizione. Credo che questo spieghi le ragioni del suo malanimo».
Nella relazione finale si legge che «le testimonianze raccolte, i dati analizzati, gli approfondimenti svolti da questa Commissione non lasciano dubbi: la disciplina sul sequestro e la confisca dei beni alle mafie pretende, subito, un investimento di volontà politica e di determinazione istituzionale che fino a ora non c’è stato. Insomma, un sistema da ripensare». Cosa non ha funzionato fino ad oggi?
«L’Agenzia del beni confiscati è stata considerata e gestita come un ente di sottogoverno, senza rendersi conto invece che occorrono, come mai prima d’ora, risorse umane, competenze, denari. Continua ad essere gestita da un prefetto, la pianta organica è in debito, molti funzionari sono “comandati” da altre sedi, e spesso hanno scarsa competenza tecnica. Alfano collocò l’Agenzia a Reggio Calabria solo perché all’epoca il suo partito aveva in quella regione la sua più forte base elettorale, e mandò nel comitato direttivo Antonello Montante per poi fare rapidamente marcia indietro quando si seppe che era indagato per mafia. Sottogoverno, appunto. Ma i vulnus sono numerosi, e non riguardano solo l’Agenzia. Diciamo che su questo tema c’è un clima, non solo istituzionale, distratto e confuso. Le porto un esempio che è anche un paradosso: fino a quando un’azienda appartiene a un mafioso spesso ha ampio credito nel circuito bancario; appena lo Stato la toglie alla mafia il rating bancario diventa negativo: non ci si fida più».
A chi fa paura la Commissione e il metter mano alla disciplina sui beni confiscati?
«Non parlerei di paura. Credo più semplicemente che in taluni ambienti ci si sia disabituati all’idea di una commissione di inchiesta che fa domande, che cerca di ricostruire l’origine dei contesti corruttivi, che non si limita ad invitare i propri auditi a prendere il caffè e a discettare sulla storia della mafia o sull’etimologia della parola. In tre anni abbiamo prodotto sette relazioni, dal business dei rifiuti in Sicilia al depistaggio Borsellino, dall’improvvido scioglimento di alcuni comuni per mafia al sistema Montante. Centinaia di audizioni, migliaia di documenti acquisiti, relazioni apprezzate anche per aver messo insieme nomi, fatti e comportamenti. Qualcuno forse preferirebbe che il nostro lavoro si limitasse alla buona pedagogia antimafiosa, la cosiddetta educazione alla legalità, e all’organizzazione qualche convegno con le suffragette dell’antimafia».
I fatti e gli errori. Intervista a Costantino Visconti: “L’Antimafia siciliana ha sprecato una chance”. Angela Stella su Il Riformista il 24 Marzo 2021. In questi ultimi giorni la relazione sulla gestione dei beni confiscati presentata dalla Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, presieduta dall’onorevole Claudio Fava, è stata oggetto di due critiche: quella del rettore dell’Università di Palermo Fabrizio Micari, e quella del professore Costantino Visconti, ordinario di diritto penale nell’Università di Palermo, recentemente nominato dal ministro Cartabia nel gruppo di esperti per la revisione della Convenzione Onu di Palermo contro la criminalità organizzata. Proprio con quest’ultimo proviamo a spiegare le ragioni della contestazione.
Professor Visconti, quali sono gli aspetti della relazione che non condivide e perché?
Ho criticato non solo quella sui beni confiscati, ma anche quella su Montante e su Antoci: quelle che ho avuto modo di studiare. La commissione regionale ha perso l’occasione per fare un buon lavoro, di ricostruzione di eventi e questioni con il metodo dell’analisi politica, molto più pertinente dell’indagine giudiziaria o storica. E invece hanno seguito uno spartito più simile a una sceneggiatura che a un’indagine che si conviene a una commissione parlamentare, talora anche in modo anche disdicevole dal punto di vista istituzionale. Le faccio tre esempi. Scegliere come consulente il figlio del procuratore di Caltanissetta mentre la commissione si occupa di indagini condotte da quell’ufficio è un pugno nell’occhio per chi ha a cuore l’autonomia e indipendenza della magistratura e delle istituzioni parlamentari. Oppure far diventare esperto della materia il dott. Pietro Cavallotti, qualificandolo come “imprenditore”, senza dire che lui ha costituito, peraltro legittimamente, un’associazione di “vittime delle misure di prevenzione” perché con provvedimento definitivo la sua famiglia ha subìto la confisca dell’intero patrimonio aziendale (a proposito: mi risulta che alcune aziende, ora di proprietà dello Stato, lavorano ancora molto) e perfino di beni personali. Lo doveva ascoltare in questa veste, e sarebbe stato un gesto nobile e di dialogo con un punto di vista normalmente non preso in considerazione. Per non parlare del caso Antoci: il gip di Messina definisce “farneticanti” le conclusioni della Commissione. O Fava tutela il lavoro della sua commissione e agisce giudizialmente – anche con un esposto disciplinare contro questo giudice – , o si dimette lui. Tertium non datur.
Nella relazione si mettono in evidenza criticità dell’Agenzia dei beni confiscati (mancano risorse finanziare e umane adeguate, ad esempio). Qual è il suo parere in merito?
L’agenzia è un progetto ancora incompiuto: ma lo dicono da tempo e molto meglio gli stessi direttori che l’hanno guidata, Fava scopre l’acqua calda.
Aziende ben avviate sono state restituite in stato di fallimento: in diversi casi gli imputati sono stati ritenuti dalla giustizia completamente estranei alla mafia ma si sono trovati con montagne di debiti delle loro aziende. Come risolvere questo problema?
Lei ha dati statistici al riguardo o parla per sentito dire? Ci saranno casi del genere, indubbiamente, e il nostro sistema prevede meccanismi di accertamento delle responsabilità. Ma bisogna capire che spesso non ci si intende bene su cosa significa “aziende ben avviate”: spesso si tratta di aziende tutt’altro che floride la cui “legalizzazione” nel campo del lavoro e degli altri oneri imposti quando vengono amministrate dallo Stato le fa andare in crisi. In ogni caso, gli imprenditori a cui è stato sottratto il patrimonio ingiustamente hanno tutto il diritto di farsi risarcire. Certo, se fosse capitato a me, avrei indossato l’elmetto per avere giustizia sotto tutti i profili.
Come si risolve il conflitto tra «l’antimafia dei fatti» e quella «delle star»?
Studiando, confrontandosi in modo pluralistico, e logorandosi sui mille dubbi e interrogativi che ancora affollano il passato e l’attualità senza pensare che si è più bravi e onesti dagli altri. Da questo punto di vista Fava individua bene il problema ma ne fa parte lui stesso… direi a sua insaputa! Ad esempio, come mai la Commissione e il suo presidente non lavorano su una pista che molti analisti considerano fondamentale, il gas? È la chiave di molti misteri irrisolti. Negli anni precedenti allo scandalo Saguto, avevamo due procure a Palermo: una parte inseguiva i soldi di Ciancimino e arrivava perfino a scoprire la vendita delle reti siciliane a una Holding spagnola per 105 milioni di euro (quelli dichiarati); un’altra procura, invece, trasforma il figlio del mafioso corleonese in testimone chiave nel processo sulla trattativa. Ebbene, si sappia che attorno ai miliardi spesi per la metanizzazione della Sicilia (e di tutto il sud) ruotano gli interessi delle più importanti famiglie imprenditoriali, mafiose e politiche di Palermo. Le confische a Ciancimino jr e alla famiglia Brancato (eredi di un semplice funzionario regionale rivelatosi titolare di ingentissimi capitali legati proprio al gas) se diventeranno definitive, sono soltanto la punta di iceberg.
· Giovanni Brusca ed il collaborazionismo.
Giovanni Brusca, il killer mafioso di Falcone torna libero dopo 25 anni. Salvini: "Ha sciolto un bimbo nell'acido, è giustizia?" Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. Il pentito di mafia Giovanni Brusca torna in libertà dopo aver scontato 25 anni di carcere, lascia Rebibbia e si scatena la protesta di politici e vittime di Cosa Nostra. "Autore della strage di Capaci, assassino fra gli altri del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido perché figlio di un pentito. Dopo 25 anni di carcere, il boss mafioso Giovanni Brusca torna libero. Non è questa la "giustizia" che gli Italiani si meritano", accusa sui social Matteo Salvini, leader della Lega nonché ex ministro degli Interni. "Sono indignata, sono veramente indignata. Lo Stato ci rema contro. Noi dopo 29 anni non conosciamo ancora la verità sulle stragi e Giovanni Brusca, l'uomo che ha distrutto la mia famiglia, è libero. Sa qual è la verità? Che questo Stato ci rema contro. Io adesso cosa racconterò al mio nipotino? Che l'uomo che ha ucciso il nonno gira liberamente?", sono le parole durissime di Tina Montinaro, vedova di Antonio Montinaro, il caposcorta di Giovanni Falcone, "Dovrebbe indignarsi tutta l'Italia e non solo io che ho perso mio marito - dice in una intervista all'agenzia Adnkronos -. Ma non succede. Queste persone vengono solo a commemorare il 23 maggio Falcone e si ricordano di 'Giovanni e Paolo'. Ma non si indigna nessuno". "Quando questi signori prendono queste decisioni, come la scarcerazione di Brusca, non pensano a noi familiari, non pensano alle vittime. Lo Stato non sta dando un grande esempio - conclude -, abbiamo uno Stato che ha fatto memoria per finta. Mancano le parole. Cosa c'è sotto? A noi la verità non è stata detta e lui è fuori e loro continuano a dire perché ha collaborato... E' incredibile. O ha detto una verità che a noi non è stata raccontata". Ex boss di San Giuseppe Jato, Brusca è il killer che il 23 maggio 1992 azionò il telecomando per la strage di Capaci: è stato scarcerato per effetto della della legge del 13 febbraio del 2001 grazie alla quale per lo Stato italiano ha finito di scontare la propria pena detentiva. Avendo scelto di collaborare con la giustizia ha ottenuto gli sconti di pena previsti dalla legge.
Il fratello dell'agente ucciso con Borsellino: “Ho arrestato io Brusca, non lo perdono. Non ha detto tutto quello che sa”. Salvo Palazzolo su La Repubblica l'1 giugno 2021. Parla Luciano Traina, ex poliziotto della squadra mobile, il fratello di Claudio, ucciso nella strage di via D’Amelio con il giudice Borsellino. “Non potrò mai dimenticare lo sguardo di Giovanni Brusca quella sera del 20 maggio 1996, mentre facevamo irruzione nella villetta di Cannatello, ad Agrigento. Era al telefono, chissà quale altro ordine stava dando. Non l’ho mai perdonato”. Luciano Traina, ex poliziotto della squadra mobile di Palermo, è il fratello di Claudio, uno dei cinque poliziotti morti con Paolo Borsellino nella strage di via D’Amelio.
Torna libero l’ex boss Giovanni Brusca. Dopo 25 anni arriva il fine pena per l’attentatore di Capaci. Nel pomeriggio ha lasciato il carcere di Rebibbia. Dopo il piano per screditare i pentiti, ha collaborato con la giustizia accusando gregari e colletti bianchi e rivelando la strategia terroristica di Cosa nostra. Lirio Abbate su L'Espresso il 31 maggio 2021. Ha lasciato definitivamente il carcere il mafioso Giovanni Brusca, l’uomo della strage di Capaci, l’assassino di donne e bambini che operava sotto le direttive di Salvatore Riina. Ma anche il collaboratore di giustizia che ha svelato ai magistrati di tutte le procure d’Italia segreti e retroscena di Cosa nostra, non solo dell’ala militare, ma anche di quella che ha avuto contatti con il mondo politico e imprenditoriale. Oggi è stato l’ultimo giorno di carcere per Brusca. Le porte di Rebibbia si sono spalancate nel pomeriggio per richiudersi alle sue spalle. Ha scontato tutta la pena che gli era stata inflitta, e a differenza di altri collaboratori di giustizia, lui la condanna l’ha espiata in cella. Adesso è un uomo libero, sottoposto a controlli e protezione, ma libero. Tecnicamente resta però sottoposto a quattro anni di libertà vigilata. Così ha deciso la corte d’Appello di Milano, l’ultima a pronunziarsi sul conto del condannato in relazione al processo più recente. Non c’è mai stata una collaborazione con la giustizia più discussa di quella di Giovanni Brusca. Arrestato da agenti della polizia di Stato il 20 maggio 1996 in una villetta vicino ad Agrigento, dove il boss era con il fratello Enzo e le rispettive mogli e figli, ha ottenuto la “patente” di pentito nel marzo del 2000 dopo lunghe polemiche.
Quando, venticinque anni fa, venne pubblicata la notizia che la sua compagna e il figlio erano sottoposti alle misure urgenti di protezione riservate ai familiari dei collaboratori di giustizia, l'allora difensore del boss, l'avvocato Vito Ganci, rivelò di avere ricevuto dal suo assistito confidenze su un “complotto” in cui voleva coinvolgere uomini delle istituzioni.
Brusca aveva fatto al suo difensore, tra gli altri, il nome dell'ex presidente della Camera Luciano Violante. Si trattava di un piano ideato dallo stesso Brusca per screditare l'antimafia, i collaboratori di giustizia e creare difficoltà in importanti processi di mafia. Questa idea non venne mai attuata. Ma a confermare il piano del falso pentimento fu il fratello, con il quale Giovanni Brusca si era accordato a gesti durante un'udienza di un processo, affinché anch'egli si fingesse pentito e sostenesse quello che il fratello dichiarava. In seguito lo stesso Giovanni Brusca ha ammesso la circostanza. La collaborazione vera e propria è stata segnata da un lungo travaglio interiore. «La mia non è una scelta facile. Pesa la storia della mia famiglia, il dover accusare altri, il giudizio che mio padre darà di me», disse Giovanni Brusca. Suo padre, Bernardo Brusca, deceduto in carcere, è stato capo della cosca di San Giuseppe Jato, ed è stato un autorevole esponente della cupola. Giovanni ne aveva ereditato il “prestigio” mafioso. Nei lunghi interrogatori davanti ai magistrati di Palermo, Caltanissetta e Firenze, che si occupavano anche delle stragi del 1992 e del 1993, il boss ha ammesso la sua partecipazione all’attentato a Giovanni Falcone, a numerosi delitti eccellenti e all'uccisione di Giuseppe Di Matteo, il figlio undicenne del pentito Mario Santo Di Matteo strangolato e sciolto nell'acido per vendetta nei confronti del padre che aveva parlato con i magistrati. Ha rievocato le riunioni in cui fu decisa la strategia criminale di Cosa nostra, ha accusato altri boss, ha parlato degli “aggiustamenti” dei processi. Oltre a ricostruire una lunga catena di sangue, Brusca ha parlato anche dei rapporti tra Cosa nostra, la politica e la vasta area grigia dei fiancheggiatori. Nel 2002, dopo lunghe e burocratiche autorizzazioni, il mafioso si è sposato in carcere con la sua compagna, dalla quale aveva avuto un figlio. Negli anni passati aveva ottenuto l'autorizzazione dei giudici del tribunale di sorveglianza di Roma, grazie alla “buona condotta”, di godere permessi premio di qualche giorno. Adesso per lui è arrivato il fine pena grazie ad un ultimo abbuono di 45 giorni di liberazione anticipata, deciso dal tribunale di sorveglianza di Roma e recepito dai giudici di Milano.
Giovanni Brusca torna libero: "Un'offesa per le vittime". Rosa Scognamiglio il 31 Maggio 2021 su Il Giornale. L'ex boss di Cosa Nostra, Giovanni Brusca, è tornato in libertà dopo aver scontato una condanna a 25 anni di reclusione. Fu responsabile della morte di Giovanni Falcone. Giovanni Brusca, l'attentatore della strage di Capaci, è tornato in libertà. Stando a quanto riporta L'Espresso, l'ex boss di Cosa Nostra ha lasciato il carcere di Rebibbia nel primo pomeriggio di martedì 31 maggio dopo aver scontato per intero la condanna a 25 anni di reclusione. Nel corso della sua vita, "u verru" - soprannome con cui era noto negli ambienti malavitosi - ha commesso più di 100 omicidi tra cui quello del piccolo Giuseppe di Matteo, strangolato e poi sciolto nell'acido. "Non è questa la giustizia che gli italiani meritano", ha commentato la notizia il leader della Lega Matteo Salvini. "Inaccettabile che un personaggio del genere sia in libertà", ha aggiunto il presidente di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni.
Chi è Giovanni Brusca. Figlio del boss Bernardo Brusca, e fratello di Emanuele ed Enzo Salvatore, della Famiglia di San Giuseppe Jato, all'età di 19 anni entrò a far parte della cosca dei Corleonesi capeggiati da Totò Riina. Nel 1977 partecipò all'omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo. Nel 1983 si occupò di preparare, insieme ad Antonino Madonia, l'autobomba utilizzata per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli agenti di scorta. Quando nel 1992 i Corleonesi iniziarono a fare la guerra contro lo Stato, Brusca divenne uno dei killer di spicco della cosca. Assassinò il capo della Famiglia di Alcamo, Vincenzo Milazzo e, pochi giorni, ordinò lo strangolamento anche della compagna di Milazzo, Antonella Bonomo, che era incinta di tre mesi. Brusca diresse la fase esecutiva della strage di Capaci, occupandosi sia del reperimento dell'esplosivo fino alla deflagrazione dell'ordigno che uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Fu lui ad azionare il telecomando che provocò l'esplosione di una bomba contenente circa mille chili di tritolo nel cunicolo sotto la superficie dell'autostrada per Capaci. Giovanni Brusca è stato anche l'assassino Giuseppe Di Matteo, figlio 13enne del pentito Santino Di Matteo. Per vendicare "il tradimento", con la collaborazione di altri criminali, sequestrò il ragazzo nei pressi di un maneggio e, per i due anni successivi, lo spostò continuamente in vari nascondigli. I tentativi di Cosa Nostra di convincere il padre a ritrattare le sue confessioni fallirono così Brusca decise eliminare il piccolo Di Matteo, facendolo prima strangolare e poi sciogliere nell'acido. Fu incarcerato in via definitiva nel maggio del 1996 dopo aver commesso numerose stragi e omicidi. Divenuto collaboratore di Giustizia, qualche anno fa, ha ottenuto l'autorizzazione dei giudici del tribunale di sorveglianza di Roma, grazie alla “buona condotta”, di godere permessi premio di qualche giorno. Adesso per lui è arrivato il fine pena grazie ad un ultimo abbuono di 45 giorni di liberazione anticipata, deciso dal tribunale di sorveglianza di Roma e recepito dai giudici di Milano.
Vedova Montinaro: "Perché libero pochi giorni la commemorazione?" "Se sapessi a chi chiederlo farei una sola domanda. Perché pochi giorni dopo il 23 maggio? Perché le più alte cariche dello Stato sono venute a Palermo a commemorare Giovanni Falcone, mio marito, se poi la scelta già si sapeva che era questa", ha commentato ai microfoni di LaPresse Tina Montinaro, vedova di Antonio Montinaro, capo della scorta di Giovanni Falcone che fu ucciso nella strage di Capaci. ""Sento dire che ha dato un grande contributo ma vorrei sapere quale perché non è che sappiamo ancora in effetti chi ha voluto la strage di Capaci", ha concluso.
Salvini: "Non è giustizia questa". "Autore della strage di Capaci, assassino fra gli altri del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido perché figlio di un pentito. Dopo 25 anni di carcere, il boss mafioso Giovanni Brusca torna libero. Non è questa la “giustizia” che gli Italiani si meritano", ha commentato a caldo il leader della Lega Matteo Salvini. Anche l'assessore regionale dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana, Alberto Samonà (Lega), ha commentato con sgomentano la scarcerazione dell'ex boss di Cosa Nostra. "Mi domando che Paese è - dice Samonà - quello in cui un feroce assassino, ancor di più collaboratore di giustizia, può uscire dal carcere, nonostante si sia macchiato di orrendi omicidi. Non è questa la giustizia che vogliamo".
Giorgia Meloni: "Inaccettabile". "Il boss di Cosa Nostra Giovanni Brusca, lo "scannacristiani" che ha "commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti, ha fatto saltare in aria il giudice Falcone e la sua scorta e ha ordinato di strangolare e sciogliere nell'acido il piccolo Di Matteo, è tornato libero. E' una notizia che lascia senza fiato e fa venire i brividi", dice Giorgia Meloni. Poi aggiunge: "L'idea che un personaggio del genere sia di nuovo in libertà è inaccettabile, è un affronto per le vittime, per i caduti contro la mafia e per tutti i servitori dello Stato che ogni giorno sono in prima linea contro la criminalità organizzata. 25 anni di carcere sono troppo pochi per quello che ha fatto. E' una sconfitta per tutti, una vergogna per l'Italia intera". "Giovanni Brusca Assassino. Oggi torna libero. Le anime delle sue vittime e le loro famiglie si consolino sapendo che i limiti delle leggi umane saranno compensati dall'inesorabile e ferma giustizia divina". Così in un tweet il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera Francesco Lollobrigida dopo la notizia della scarcerazione per fine pena di Giovanni.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Alessandro Sallusti e l'ingiustizia terrena: così il feroce assassino Giovanni Brusca ci ha fregato. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Giovanni Brusca, uno dei più feroci assassini nella storia della mafia - oltre cento omicidi, un bambino sciolto nell'acido e la strage in cui morirono Giovanni Falcone e la sua scorta - è tornato libero dopo soli 24 anni di carcere. E in molti a dire: è avvenuto "in punta di legge" quindi va bene. No, non va per nulla bene, al massimo si può sostenere che è "inevitabile", cosa diversa dal "giusto". È "inevitabile" perché con quel mostro-macellaio lo Stato a suo tempo fece un patto del diavolo del tipo "tu parli e io sarò clemente", cioè avvenne una trattativa stato-mafia sia pure ad personam. Ovvio che uno Stato i patti li debba mantenere, e magari lo facesse tutti i giorni con lo stesso millimetrico rigore anche con i cittadini onesti oltre che con i criminali mafiosi, ma resta il fatto che Giovanni Brusca libero è uno schiaffone agli italiani di quelli che fanno veramente male. Ci ha fregato, il Brusca, tra tentativi di depistaggio, reticenze e mezze verità soprattutto sui suoi nemici dei clan rivali e mai sui compari veri. Come tanti anni fa ci fregarono i terroristi che si rifugiarono in Francia camuffati da perseguitati politici nonostante assassini conclamati e che ancora oggi, nonostante i recenti annunci, se la godono in quel di Parigi. Casi diversi, si dirà. Certo, il primo sfrutta i vantaggi della giustizia premiale riservata ai pentiti (leggi sconto di pena), i secondi la latitanza protetta dalla dottrina Mitterrand. Ma il risultato è identico: chi ha fatto carne di porco della democrazia, chi ha ucciso il giudice Giovanni Falcone e il commissario Luigi Calabresi è in libertà e nessuno può farci nulla. Io per carità resto garantista. Ma non mi ci arriva il cervello a comprendere che più la fai grossa meno la paghi. È un po' come per gli evasori o le esposizioni bancarie: se sei fuori di mille euro fisco e banche ti fanno un mazzo tanto, se sfori di milioni male che vada tratti e lo sconto è assicurato. Si chiama ingiustizia terrena che proprio nulla ha a che fare con quella divina. Possiamo consolarci che Brusca graziato da uno Stato debole pagherà il suo conto una volta giunto al cospetto di Dio? Non ne sarei così sicuro. Anche da quelle parti, dicono, il pentimento - vero o falso che sia - permette di accedere a consistenti sconti di pene.
La sinistra dell'antimafia va in corto circuito su Brusca. Augusto Minzolini il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Questa volta non è neppure colpa dei giudici, ma sapere che un pluriomicida come Giovanni Brusca è uscito dal carcere, ebbene questo sì che è un vero pugno allo stomaco della giustizia. Questa volta non è neppure colpa dei giudici che, in fondo, hanno applicato solo la legge, ma sapere che un pluriomicida come Giovanni Brusca, che ha più di 150 vite sulla coscienza, che non ha esitato a sciogliere il corpo di un bambino nell'acido o a far saltare in aria la macchina di Giovanni Falcone, è uscito dal carcere, ebbene questo sì che è un vero pugno allo stomaco della giustizia. C'è da chiedersi se il suo ritorno in libertà, almeno nell'immaginario collettivo, faccia più male alla lotta alla mafia di quanto i suoi racconti da collaboratore di giustizia abbiano fatto danni a Cosa Nostra. È un interrogativo legittimo, che magari avrà risposte diverse (anche perché quella legge la volle lo stesso Falcone), ma al punto a cui è giunta la storia, c'è da chiedersi se c'è un inedito, una ricostruzione, un risvolto di tanti omicidi che valesse la pena al punto da spingere lo Stato a rimettere in libertà un mezzo mostro. Dubbi che non possono non assalirci, anche perché con questa logica se, per assurdo, si fosse pentito Totò Riina, la legge gli avrebbe garantito il ritorno a casa. O, per portare il ragionamento alle estreme conseguenze, teoricamente potrebbero ravvedersi tutti i picciotti e i boss di questo mondo, e lo Stato finirebbe per rimettere sulle strade la stessa Mafia che ha combattuto. Sono ragionamenti sicuramente sull'onda del paradosso, ma cosa può esserci di più paradossale che aprire la porta del carcere al più efferato killer della mafia? Ciò che è avvenuto, secondo i dettami della legge, è uno schiaffo alla retorica antimafia della sinistra, a quella strana filosofia che, inseguendo i fantasmi del terzo livello (che sono rimasti tali e popolano tra supposizioni e tesi solo una ricca bibliografia di comodo), alla fine ha avuto come unico risultato quello di dare l'opportunità a molti dei protagonisti del primo e del secondo di farla franca, inventandosi un pentimento tutto da verificare. Una filosofia che aveva come finalità non tanto, o non solo, quella di spazzare via la mafia, quanto quella di riscrivere la Storia attraverso la mitologia dei baci di Andreotti a Riina o di un Silvio Berlusconi invischiato negli affari degli uomini con la coppola. Insomma, l'uso politico della mafia e dell'antimafia. Risultato: sono state gettate ombre su pezzi di Storia patria e, nel contempo, non si sono beccati i fantasmi ma si è rimesso in circolazione un personaggio come Brusca in carne e ossa, offendendo la memoria delle sue vittime e i sentimenti dei loro famigliari. Per poi arrivare, in un dialogo sui massimi sistemi non tra Salviati e Simplicio, gli scienziati del celeberrimo trattato di Galileo, ma tra Maurizio Avola, altro killer mafioso con ottanta omicidi sulle spalle, e uno dei narratori più suggestivi dell'epica lotta alla mafia, Michele Santoro, alla conclusione di quest'ultimo che «né Berlusconi né Marcello Dell'Utri abbiano potuto ordinare a Cosa Nostra le stragi». Triste epilogo, per citare la memorabile espressione di Leonardo Sciascia, dei «professionisti dell'antimafia». Solo che in tutti questi anni, tentando di mettere alla sbarra gli imputati eccellenti, a volte riuscendoci, a volte creando nuove ingiustizie (basta pensare alle traversie passate da Calogero Mannino), si saranno pure ottenuti dei risultati, ma si è anche dato modo a qualche supposto pentito di mafia di inventarsi una verità per strappare un salvacondotto. Ecco, a guardare l'immagine di un Brusca tornato in libertà, c'è da chiedersi se non sia forse arrivato il momento di ripensare la legge sui pentiti. Rendendola più rigorosa sul modello di quella prevista nella legislazione Usa, dove non per nulla l'hanno inventata. Ponendo, comunque, dei limiti, cioè che non possa essere applicata a chi si è macchiato di decine e decine di delitti di sangue e che per rifarsi una vita potrebbe essere disposto ad inventarsi qualsiasi cosa con la stessa nonchalance con cui premeva il grilletto della lupara.
L'aria che tira, Maria Giovanna Maglie sulla liberazione di Giovanni Brusca: "Una magistratura al minimo storico". Libero Quotidiano l'01 giugno 2021. A L'Aria che tira si parla della scarcerazione per fine pena di Giovanni Brusca, ex capomafia responsabile della strage di Capaci e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell'acido. A spiegare il suo punto di vista ci pensa Maria Giovanna Maglia che, ospite di Myrta Merlino alla trasmissione in onda su La7 ha così commentato la vicenda: "Penso che se necessario e lo dico per l'Ilva, per Mottarone e lo dico anche e persino per Brusca: Bisogna separare il livello emotivo nazionale e popolare dall'applicazione della legge" sostiene Maria Giovanna Maglie e aggiunge "Io mi sento una vera garantista. Deve essere separato quello che provo io da quello che decide la giustizia". "Quello che purtroppo capita oggi - spiega la saggista - è che tutti i politici ritengono di dover interpretare prima il sentimento popolare che il rispetto della legge e questo è il segno di una debolezza della politica" accusa Maglie. "Il termine 'pentiti' l'ho sempre trovato odioso, il termine giusto è 'collaboratori', perché che siano pentiti o che stiano soltanto facendo un affare non ce lo dice nessuno. Anzi conoscendo Giovanni Brusca dubito fortemente che sia pentito, ma solo collaboratore". "Che cosa succede però" spiega Maglie "Che tutte queste vicende: Ilva, Mottarone, e in specie quella di Giovanni Brusca, sono avvolte dalla non conoscenza e dalla non spiegazione dei passaggi e della storia. Bisogna spiegare che situazione c'era in quegli anni in cui Falcone ha deciso quella legge. E forse oggi quella legge non andrebbe applicata più. Oppure, nel caso di Brusca sarebbe stato necessario fare degli accordi che prevedessero un trattamento migliore in carcere, senza per forza farlo uscire" sottolinea l'opinionista. "È necessario spiegare perché questo Stato, che in buona parte ha combinato il pasticcio dell'Ilva, non ritenga mai di dare spiegazioni, di esporsi, di spiegare ed è per questo che vado a firmare il referendum sulla giustizia. Abbiamo una magistratura al minimo storico che continua a fare cose senza spiegarcele" conclude Maria Giovanna Maglie.
"C'è stata troppa indulgenza dai magistrati". Paolo Bracalini il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ex Guardasigilli: "Inaccettabile premiare uno stragista, negli Usa molto più severi". «Io sono tutto tranne che un giustizialista, ma trovo che la scarcerazione di un criminale come Giovanni Brusca sia inaccettabile, è qualcosa che lascia un senso di profonda ingiustizia che rasenta lo sgomento». Claudio Martelli ha vissuto in prima persona gli anni delle stragi mafiose da ministro della Giustizia, a stretto contatto con Giovanni Falcone nella lotta a Cosa nostra, anche con l'introduzione del carcere duro per i boss con un decreto del '92 che porta il suo nome. «Se fosse successo trent'anni fa mi sarei incatenato al ministero per protestare, ma questo è uno dei rari casi in cui il tempo non cambia la situazione, vedere oggi Brusca che esce dal carcere mi fa lo stesso identico effetto di trent'anni fa».
Quello di un'ingiustizia. Che però deriva da una legge sui cosiddetti pentiti.
«Brusca non è un pentito, è un criminale che ad un certo punto ha deciso per i suoi interessi di collaborare con i magistrati che lo interrogavano. Ha parlato e ha raccontato alcune cose. Quante, del repertorio dei suoi delitti, non è dato sapere. Ma per sua ammissione è responsabile di almeno 150 omicidi, di stragi, e io ricordo che nei casi di stragi le indagini non si possono mai prescrivere, questo significa che c'è qualcosa che non può essere superato. Ai miei tempi il ministero si chiamava di Grazia e Giustizia, Cossiga volle forzarmi a concedere la grazia a Renato Curcio, ma io dissi di no. Se fossi ancora ministro l'ultima cosa che farei è dare la grazia a Brusca, uno che si è macchiato di crimini efferati, ha ucciso bambini, giudici».
Però ha collaborato con la giustizia.
«Ma fino a che punto? La sua collaborazione è stata così fondamentale da giustificare un trattamento di riguardo? Nel '96 ha cominciato a parlare, a rate, è diventato una sorta di jukebox per cui se metti dentro uno sconto di pena lui parla. É una procedura che dà luogo ad abusi e consente al collaboratore di giustizia un grande margine di discrezionalità. Già Falcone metteva in guardia dai rapporti intimistici, così diceva lui, tra pentiti e pubblici ministeri, perché il rischio è che si crei un rapporto confidenziale in cui è il collaboratore a usare il magistrato. Se capisce cosa vuole il pm, lui glielo dà, ma non è detto che sia la verità».
Sta dicendo che i magistrati sono stati troppo indulgenti con Brusca?
«Mi piacerebbe poter valutare tutte le carte, ecco. Capire quale è il contributo che Brusca che ha dato alle indagini, e in secondo luogo quanti sconti gli sono stati concessi. La collaborazione è stata così preziosa da annullare tutti gli ergastoli che meritava? Mi sembra sproporzionato che il responsabile di una strage possa essere libero dopo 25 anni. È stato tutto perfettamente legale o c'è stata molta indulgenza, forse troppa, anche nella concessione dei permessi a Brusca, 45 giorni di libertà ogni sei mesi. E perché è stato escluso dal 41 bis? Mi chiedo se tra suoi i meriti rientrino anche le calunnie che ha fatto nei confronti di molti, tra cui Violante e me».
Va cambiata la legge, come chiedono alcuni non solo nel centrodestra?
«Il problema non è nella legge ma nella sua applicazione. A me risulta che negli Stati Uniti sugli sconti ci vadano molto prudenti e molto attenti. La tenaglia stringe solo se ha due denti: gli sconti di pena e il carcere duro. Credo che in Italia invece sia prevalente l'indulgenza».
La Consulta recentemente ha definito il carcere a vita anche per i mafiosi «incompatibile con la Costituzione».
«Ma è evidente che il crimine organizzato vada trattato in modo diverso, più severo, rispetto al crimine occasionale. La recidività, il carattere sistematico dei clan genera un pericolo sociale molto maggiore di cui il legislatore deve tenere conto. Ricordo che quando fu introdotto il 41-bis l'allora presidente Scalfaro ebbe delle riserve, ma il presidente della Corte Costituzionale mi suggerì di renderlo temporaneo. Poi da allora è stato sempre rinnovato fino a diventare permanente, ma la Consulta non ha avuto nulla da ridire. Il doppio binario per i mafiosi va mantenuto. Brusca non è un criminale normale e non va trattato come tale».
Perché Giovanni Brusca ha lasciato il carcere ed è un uomo libero. Nexquotidiano l'1/6/2021. Giovanni Brusca, pentito e ex boss di San Giuseppe Jato, ha lasciato il carcere. Ha finito di scontare la pena e da ieri l’ex killer di Cosa nostra è libero. Cosa ha portato alla sua scarcerazione. Giovanni Brusca, pentito e ex boss di San Giuseppe Jato, ha lasciato il carcere. Ha finito di scontare la pena e da ieri l’ex killer di Cosa nostra che il 23 maggio 1992 azionò il telecomando per la strage di Capaci, è un uomo libero. “U verru” (il porco), come era soprannominato negli ambienti mafiosi, è uscito dal carcere di Rebibbia. Brusca è stato scarcerato per effetto della legge del 13 febbraio del 2001 grazie alla quale per lo Stato italiano ha finito di scontare la propria pena detentiva. Avendo scelto di collaborare con la giustizia ha ottenuto gli sconti di pena previsti dalla legge. Ovvero sono stati applicati i benefici previsti per i collaboratori “affidabili”. Se ne era già tenuto conto nel calcolo delle condanne che complessivamente arrivano a 26 anni. “U verru” era stato arrestato nel 1996 e la sua scarcerazione sarebbe dovuta avvenire nel 2022. Ma la pena si è accorciata ulteriormente per la “buona condotta” perché Brusca ha potuto usufruire di alcuni giorni premio di libertà. Come stabilito dalla corte di appello di Milano però l’ex boss deve ancora scontare quattro anni di libertà vigilata e vivrà sotto protezione. Brusca ha beneficiato di oltre 80 permessi premio in 25 anni di carcere. L’ex boss, che ora ha 64 anni, due anni fa aveva chiesto la scarcerazione ma la Cassazione disse di no. Era il 19 ottobre del 2019, quando i giudici con l’ermellino bocciarono la richiesta dei legali del killer di Giovanni Falcone e del mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe che voleva usufruire degli arresti domiciliari. La Cassazione aveva respinto l’istanza dei legali per ottenere gli arresti domiciliari. La procura generale della Corte di Cassazione aveva chiesto, con una requisitoria scritta, ai giudici della prima sezione penale di rigettare il ricorso dell’ex boss di Cosa Nostra contro la decisione del tribunale di sorveglianza di Roma. I legali di Brusca, infatti, avevano chiamato in causa la Cassazione, perché decidesse in merito alla sentenza del tribunale che, nel marzo 2019, aveva respinto l’istanza del mafioso per la detenzione domiciliare. Brusca ha ammesso le sue responsabilità nella progettazione della strage di Capaci, in cui morì Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Oltre ad altri crimini confessati nella zona di San Giuseppe Iato “U verru” ha ammesso di aver preso parte al rapimento e all’uccisione del figlio di Santino Di Matteo, collaboratore di giustizia. Giuseppe Di Matteo aveva 13 anni quando il 23 novembre 1993 fu prelevato da uomini travestiti da agenti della Dia e, per fare pressioni affinché il padre ritrattasse, fu tenuto in ostaggio, in diversi covi, fino all’11 gennaio 1996 quando venne strangolato e sciolto nell’acido nelle campagne di San Giuseppe Jato. Dopo un mese dall’arresto, nel 1996, Brusca iniziò a fornire dichiarazioni ai magistrati delle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze. Grazie alla sua collaborazione, in cui rivelò i retroscena e il contesto di tanti delitti e degli attentati a Roma e Firenze del 1993, ebbe diversi benefici: fu condannato a 27 anni di carcere e non all’ergastolo per la strage di Capaci, era lui l’uomo che ha premuto il telecomando che ha innescato l’esplosivo, e anche per l’omicidio di Giuseppe Di Matteo la sua pena fu ridotta a 30 anni di reclusione. Quando nel 2000 ottenne lo status di collaboratore di giustizia potè lasciare il regime di carcere duro previsto dall’articolo 41 bis. Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone, dopo la notizia della scarcerazione ha detto: “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso. Ogni altro commento mi pare del tutto inopportuno”, aggiungendo “La stessa magistratura in più occasioni ha espresso dubbi sulla completezza delle rivelazioni di Brusca, soprattutto quelle relative al patrimonio che, probabilmente, non è stato tutto confiscato: non è più il tempo di mezze verità e sarebbe un insulto a Giovanni, Francesca, Vito, Antonio e Rocco che un uomo che si è macchiato di crimini orribili possa tornare libero a godere di ricchezze sporche di sangue”.
Felice Cavallaro per corriere.it l'1 giugno 2021. Gliel’ha fatto sciogliere nell’acido suo figlio Giuseppe, 13 anni, la faccia di un bambino felice nella foto mentre cavalca al maneggio. E Santino Di Matteo, il pentito vittima dell’atroce vendetta, non può tollerare che lo Stato rimetta in libertà «questa feccia dell’umanità». Parla da una località segreta l’ex mafioso di Altofonte che Giovanni Brusca, con il fratello Enzo, per conto del padrino di un tempo, Totò Riina, voleva zittire. Nel peggiore dei modi. Sequestrando per quasi due anni quel ragazzino trasferito da casolare in casolare con una catena al collo fino a quando Brusca, vinto dalla resistenza di un padre deciso a collaborare con lo Stato, non diede l’ordine di fare sparire ogni traccia del piccolo aspirante fantino. È questa la storia che tormenta Santino Di Matteo, stanco di zompare da un tribunale all’altro: «Dopo trent’anni mi fanno ancora testimoniare ai processi. Io vado per dire quello che so. Ma a che cosa serve se poi lo stesso Stato si lascia fregare da un imbroglione, da un depistatore?».
Da collaboratore di giustizia, sostiene che la giustizia non funziona?
«Non trovo le parole per spiegare la mia amarezza. A chi devo dirlo? È passato meno di un anno da quando avevano liberato un carceriere di mio figlio, a Ganci, il paesino delle Madonie, uno dei posti del calvario. Ma la verità è che tutti i sorveglianti e gli aguzzini della mia creatura sono liberi. Tutti a casa. E ora va a casa pure il capo che organizzò e decise tutto. Lo stesso boia di Capaci. Si può dire boia? Lo posso dire io?».
La norma consente la liberazione. Diciamo che la legge è uguale per tutti...
«La legge non può essere uguale per questa gente. Brusca non merita niente. Oltre mio figlio, ha pure ucciso una ragazza incinta di 23 anni, Antonella Bonomo, dopo avere torturato il fidanzato. Strangolata, senza motivo, senza che sapesse niente di affari e cosacce loro. Questa gente non fa parte dell’umanità».
Dopo 29 anni qualche magistrato forse sostiene che può essere cambiato.
«Si fanno prendere per i fondelli. Suo ‘parrino’, Riina, è morto in carcere. E così doveva andare per Brusca. Tu hai fatto cose atroci. Statti tranquillo, dentro. Ti diamo qualcosa, ma non puoi uscire. Perché se esce, che giustizia è? Se lo dico io, forse vale poco, ma dovrebbero essere tanti a ribellarsi. Invece, so come finirà».
Come finirà?
«Giornali e Tv ne parleranno per due giorni, poi il silenzio trionferà e quel mascalzone si godrà la libertà. Ormai so come va l’Italia. E mi faccio il sangue amaro».
Era una notizia annunciata da tempo.
«Due anni fa il presidente della Cassazione bloccò tutto. Gli disse: stati dentro. E Tina Montinaro, la vedova del caposcorta di Falcone, tuonò che non doveva accadere. Come invece ora regolarmente accade. Che cavolo di Stato è questo?».
Che cosa si dimentica in questa storia?
«Si dimentica che ‘u verru, cioè il maiale, come chiamavano Brusca, conosceva Giuseppe, mio figlio, da bambino. Ci giocava insieme con la play station. Eppure l’ha fatto sciogliere nell’acido. E questo orrore si paga in vent’anni? Io non posso piangere nemmeno su una tomba e lui lo immagino pronto a farsi una passeggiata. Magari ad Altofonte. O in un caffè davanti al Teatro Massimo di Palermo. Mi auguro di non incontrarlo mai, come chiedo al Signore. Se dovesse succedere, non so che cosa potrebbe accadere».
Brusca libero, la rabbia di Santino Di Matteo: “Lo Stato si è fatto fregare, quello non è umano”. Fan Page l'1/6/2021. "Ha sciolto mio figlio nell'acido, ha strangolato una ragazza incinta, Brusca non appartiene alla razza umana: se lo trovo per strada non so cosa succede". A parlare è il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, padre di Giuseppe, ucciso e sciolto nell'acido a 13 anni proprio da Giovanni Brusca, il boss scarcerato ieri per fine pena. Volevano farlo tacere, per quello Giovanni Brusca, il fratello Enzo e Totò Riina, avevano deciso di sequestrargli il figlio, lo hanno tenuto prigioniero con una catena al collo. Per due anni. Prima di ucciderlo e scioglierlo nell'acido. "Dopo trent’anni vado ancora testimoniare ai processi – dice l'ex mafioso intervistato dal Corsera – . Io vado per dire quello che so. Ma a che cosa serve se poi lo stesso Stato si lascia fregare da un imbroglione, da un depistatore? Non trovo le parole per spiegare la mia amarezza. A chi devo dirlo? È passato meno di un anno da quando avevano liberato un carceriere di mio figlio, a Ganci, il paesino delle Madonie, uno dei posti del calvario. Ma la verità è che tutti i sorveglianti e gli aguzzini della mia creatura sono liberi. Tutti a casa. E ora va a casa pure il capo che organizzò e decise tutto. Lo stesso boia di Capaci. Si può dire boia? Lo posso dire io. La legge non può essere uguale per questa gente. Brusca non merita niente. Oltre mio figlio, ha pure ucciso una ragazza incinta di 23 anni, Antonella Bonomo, dopo avere torturato il fidanzato. Strangolata, senza motivo, senza che sapesse niente di affari e cosacce loro. Questa gente non fa parte dell’umanità". Parole dure e da un certo punto di vista comprensibili: "Lo Stato si fa prendere per i fondelli. Riina è morto in carcere. E così doveva andare per Brusca. Tu hai fatto cose atroci. Statti tranquillo, dentro. Ti diamo qualcosa, ma non puoi uscire. Perché se esce, che giustizia è? Se lo dico io, forse vale poco, ma dovrebbero essere tanti a ribellarsi. Invece, so come finirà: giornali e tv ne parleranno per due giorni, poi il silenzio trionferà e quel mascalzone si godrà la libertà. U verru, cioè il maiale, come chiamavano Brusca, conosceva Giuseppe, mio figlio, da bambino. Ci giocava insieme con la play station. Eppure l’ha fatto sciogliere nell’acido. E questo orrore si paga in vent’anni? Io non posso piangere nemmeno su una tomba e lui lo immagino pronto a farsi una passeggiata. Magari ad Altofonte. O in un caffè davanti al Teatro Massimo di Palermo. Mi auguro di non incontrarlo mai, come chiedo al Signore. Se dovesse succedere, non so che cosa potrebbe accadere".
Riccardo Arena per “la Stampa” il 2 giugno 2021. «Non può perdonare lei, figuriamoci se possiamo farlo noi familiari». La domanda, un po' banale in verità, sul perdono possibile per Giovanni Brusca da parte delle sue vittime, incontra la risposta decisa, affilata, dritta al cuore, di Nicola Di Matteo. Non è più un bambino e nemmeno un ragazzino: è un uomo di 40 anni, sposato, ha due figlie. «Avessi avuto il maschietto si sarebbe chiamato Giuseppe»: come Giuseppe Di Matteo, il fratello che il cosiddetto "Verru", il porco, il boss di San Giuseppe Jato da 150 fra stragi e omicidi, gli fece uccidere nel gennaio del 1996. «Eravamo insieme a pranzo, quel giorno, poi Giuseppe è uscito e non è tornato più. Sparito nel nulla. Se ci siamo allarmati? Certo, subito. Io ero piccolo ma ricordo tutto bene: con Giuseppe stavamo sempre insieme, avvertivamo quel clima pesante, quella brutta situazione, sapevamo che volevano vendicarsi di nostro padre». Era il 23 novembre 1993, quel giorno, il giorno in cui il piccolo Di Matteo, uscito per andare al maneggio di Villagrazia in cui si esercitava con la passione della sua brevissima vita, i cavalli, fu rapito da un gruppo di mafiosi capeggiati dai fratelli Graviano. Loro erano palermitani, il figlio tredicenne del pentito Santino Di Matteo era di un paese poco sopra il capoluogo siciliano, Altofonte: i rapitori andarono a colpo sicuro. Dopo due anni e due mesi di prigionia inumana, Giuseppe fu ucciso e poi sciolto nell' acido. Su ordine di Brusca, dal fratello di lui, Enzo Salvatore, da Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo. Tutti pentiti, tutti liberi. Da lunedì lo è anche Giovanni. «Erano persone, i Brusca, che venivano regolarmente a casa nostra. A Giovanni, a Enzo abbiamo dato da mangiare, me lo ricordo bene anche se eravamo piccolini: io ho un anno meno di Giuseppe, allora ne avevo 12. Noi bambini non sapevano cosa facessero, che avessero attività illecite con nostro padre. Ma come hanno potuto farci quello che hanno fatto? Non ci aspettavamo certamente che Brusca ci avrebbe fatto questo regalo. Del resto il giudice Falcone ha voluto la legge sui pentiti e anche a lui ha fatto questo regalo». Però la legge è legge, dice ancora Nicola Di Matteo, impiegato regionale, assunto perché vittima di Cosa nostra: «Ma io quel posto non lo volevo, ho un'azienda agricola per i fatti miei, io avrei voluto mio fratello con me. E sì, la legge è servita per colpire Cosa nostra e arrestare un sacco di gente, accettiamo che le cose vadano così, accettiamo le sentenze e il fatto che Brusca abbia finito di scontare la pena. Ma perdonare no, mai. A noi non ha mai chiesto scusa, ma anche se lo facesse Se la potevano prendere direttamente con l'interessato, non le pare? Che c' entravamo noi? I bambini che ne sanno?». L' interessato, cioè il pentito Mario Santo Di Matteo, cioè il padre di Giuseppe e Nicola. Traspare una presa di distanze da Santino, detto Mezzanasca, mezzo naso: «In effetti con mio padre non riesco a parlare di quei fatti. Ho avuto un po' di rabbia verso di lui, perché frequentava queste persone, commetteva reati e grazie anche a lui è successo quello che è successo. Abbiamo un rapporto normale, con mio padre, ma non posso perdonare né da una parte né dall' altra». Né Brusca né Di Matteo padre: «Ha sbagliato anche lui, ma ha collaborato, ha svelato i responsabili della strage di Capaci, è stato uno dei primi a parlare». Però pure Brusca ha dato un contributo ritenuto importante: «E sì, e lo Stato gli ha fatto questo regalo. Io conosco il figlio di Brusca, è poco più piccolo di me. Non ho nulla contro di lui. Purtroppo il padre, i mafiosi, sono gente che non ragiona. E noi non perdoneremo mai».
Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 2 giugno 2021. Reazioni fisiche, prima ancora che politiche. La scarcerazione di Giovanni Brusca è «un pugno nello stomaco», dice Enrico Letta, «uno schiaffo alle vittime», secondo Giorgia Meloni, «una cosa disgustosa», attacca Matteo Salvini, «fa venire i brividi», aggiunge Antonio Tajani. Il giorno dopo l'uscita dal carcere di Rebibbia del killer mafioso, l'uomo che azionò la bomba che uccise Giovanni Falcone a Capaci, la polemica si divide tra chi si indigna e chiede di cambiare la legge sui pentiti e chi si indigna ma richiama il rispetto delle norme, visto che Brusca ha usufruito dei benefici previsti per i collaboratori di giustizia e ha finito di scontare la sua pena. Alla prima squadra si iscrivono, con toni diversi, i partiti di centrodestra, a cominciare dalla Lega: «Se la legge lo permette bisogna cambiare la legge - dice Salvini - è inaccettabile che una persona che ha ammazzato cento persone possa passeggiare per Roma». Sulla stessa linea il presidente della Sicilia, Nello Musumeci, secondo cui «se una norma è palesemente sbagliata va cambiata». Giorgia Meloni non fa riferimenti normativi, ma è comunque durissima: «Che orrore, una vergogna, uno schiaffo morale alle vittime - il suo tweet - Brusca torna in libertà anche grazie agli sconti di pena. Solo le vittime, in Italia, scontano una pena senza fine». Per il coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani, «è impossibile credere che un criminale come Brusca possa meritare qualsiasi beneficio: questa non è giustizia giusta». Dice la sua anche Claudio Martelli, ministro della Giustizia all' epoca degli attentati di Capaci e via D' Amelio: «Brusca avrebbe meritato non uno ma più ergastoli - attacca - Non credo si sia pentito, né redento, se c' è stata collaborazione con lo Stato è perché c' è stato uno scambio: la confessione dei delitti, la delazione rispetto ad altri mafiosi». Poi c' è l'altra squadra, di chi non nasconde lo sconcerto per il ritorno in libertà di Brusca, ma ricorda che «questa è la legge», come il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, che cita Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso nel 1992: «Ha detto che quella legge l'ha voluta anche il fratello e quindi va rispettata, perché è una legge che ha consentito tanti pentimenti e arresti e ha permesso di scardinare la criminalità e la mafia». La pensa così anche la capogruppo di Italia Viva alla Camera, Maria Elena Boschi, perché «è chiaro che ci fa male e faccio fatica ad accettarlo, ma chi sceglie la strada della Costituzione e dei diritti pensa che vadano rispettati anche quando non fa comodo». Per l'ex presidente del Senato ed ex procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso (Leu), addirittura «lo Stato con Brusca ha vinto tre volte: la prima quando lo ha arrestato, la seconda quando lo ha convinto a collaborare, la terza ora che ne ha disposto la liberazione, mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi in carcere, che la libertà, se non collaborano, non la vedranno mai». A proposito di magistrati, scontata la presa di posizione del presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, in difesa di «regole che sono state correttamente applicate. Non credo che il pentitismo abbia esaurito la sua funzione e la sua efficacia nel sistema giudiziario». Non sembra d' accordo Tina Montinaro, moglie di Antonio, caposcorta di Falcone morto con lui a Capaci: «È vero che la legge l'ha voluta Falcone, ma lui aveva pochi pentiti - spiega - dopo, invece, ne sono arrivati altri mille, ma la verità sulla strage ancora non si conosce. Vuol dire che qualcosa non ha funzionato, lo Stato in questa vicenda dimostra un fallimento». Non ci sta nemmeno Rosaria Schifani, vedova di Vito, anche lui tra gli agenti morti a Capaci: «Ma che Stato è questo che celebra con il presidente della Repubblica a Palermo il 23 maggio e, otto giorni dopo, manda a casa uno che fa saltare un'autostrada - si sfoga - È un regalo a Falcone? Così si dimentica tutto quello che noi abbiamo passato». Non vuole sentir parlare di perdono Franca Castellese, la madre di Giuseppe Di Matteo, il bambino di 12 anni, figlio di un pentito, rapito, ucciso e sciolto nell' acido da Brusca, alla fine del 1993: «Rispettiamo le leggi e le sentenze dello Stato - fa sapere attraverso il suo avvocato - ma Brusca mi ha ucciso il figlio che conosceva bene e con cui ha giocato a casa. Non c' è stata mai una forma di pentimento, nel mio cuore come posso perdonarlo?».
Il poliziotto che prese Brusca è finito nella polvere. Felice Manti il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Renato Cortese non fa rumore perché è un uomo di Stato, è uno sbirro come pochi, un calabrese impastato di Sicilia. Un cortese silenzio. Tutti parlano di Giovanni Brusca, nessuno ricorda chi quel macellaio lo ha stanato il 20 maggio 1996, grazie a una moto smarmittata, mentre guardava un film su Giovanni Falcone assieme a suo fratello Enzo nel suo covo vicino al mare nell'Agrigentino. Renato Cortese non fa rumore perché è un uomo di Stato, è uno sbirro come pochi, un calabrese impastato di Sicilia, eppure per una vicenda su cui persino il capo della polizia Lamberto Giannini nutre fortissimi dubbi, è stato condannato in primo grado a cinque anni di carcere. Si tratta della rendition (gestita da capo della Squadra Mobile di Roma) di Alma Shalabayeva, catturata con la figlia nella notte tra il 28 e 29 maggio 2013 a Casalpalocco. La moglie del dissidente kazako Muhtar Ablyazov, ricercato dall'Interpol che ne chiedeva l'arresto con tanto di red notice, aveva un passaporto falso della Repubblica centroafricana e in base alla legge Bossi-Fini fu espulsa e rimpatriata con il nullaosta della procura guidata da Giuseppe Pignatone e l'ok del tribunale dei minori di Roma. Si scoprì poi che il magnate aveva fatto richiesta a Londra della protezione umanitaria. Un pasticcio. Si dimise Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto dell'allora ministro dell'Interno Angelino Alfano. «Fu un sequestro di persona», dice il tribunale di Perugia, che ne ha chiesto l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. «Ma in quel momento Ablyazov era considerato un pericoloso delinquente», ricorda il suo legale Franco Coppi. Niente da fare. Cortese era diventato questore a Palermo, coronamento di una carriera da superpoliziotto antimafia, invece se n'è andato in silenzio «con il cuore spezzato». Ma chi aveva dato l'ordine dal Viminale è stato risparmiato. Quando ricorda la cattura di Brusca Cortese ama sottolineare lo spartiacque della sua carriera, «centinaia di cittadini sotto la Mobile ad applaudirci anziché a insultarci». Qualcuno dice che dietro la sua condanna ci fosse un pizzino contro Pignatone, suo mentore da Palermo a Reggio Calabria, per colpa dei difficili equilibri tra la procura della Capitale e Perugia descritti da Luca Palamara nel libro Il Sistema. Se sette italiani su dieci e sempre più ragazzi continuano a nutrire fiducia nella Polizia, come dice l'Eurispes, è merito degli sbirri come Cortese, mascariato da una condanna che per molti non merita.
Da tgcom24.mediaset.it l'1 giugno 2021. Dopo la liberazione del boss mafioso Giovanni Brusca, il senatore ed ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nega qualsiasi "buonismo o perdono" e chiarisce: "Con lui lo Stato ha vinto tre volte. Quando lo ha arrestato, perché era e resta uno dei peggiori criminali della nostra storia. Quando lo ha convinto a collaborare. Quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere, mandando un segnale ai mafiosi. Ora Brusca va protetto". Pietro Grasso con un post su Facebook prende posizione su una vicenda che sta aizzando l'opinione pubblica. Comprendo il dolore dei familiari - Penso, scrive Grasso, "agli omicidi e alle stragi in cui ho perso colleghi e amici, avrei anche motivi strettamente personali per serbare rancore. Giovanni Brusca e altri collaboratori hanno raccontato, tra gli altri, due episodi che mi riguardarono direttamente: l’organizzazione di un attentato nell'autunno del 1993 che doveva farmi saltare in aria mentre andavo a trovare mia suocera a Monreale e la pianificazione del rapimento di mio figlio. Il dolore e la rabbia delle vittime e dei loro familiari lo comprendo e lo rispetto nel profondo. Eppure non vedo scandalo nella notizia di ieri, peraltro nota e attesa da molti anni". Tre volte lo Stato ha vinto contro Brusca - "Con Brusca - prosegue Grasso - lo Stato ha vinto non una ma tre volte. La prima quando lo ha arrestato, perché era e resta uno dei peggiori criminali della nostra storia per numero di reati e ferocia. La seconda quando lo ha convinto a collaborare: le sue dichiarazioni hanno reso possibili processi e condanne e hanno fatto emergere pezzi di verità fondamentali sugli anni in cui Cosa nostra ha attaccato frontalmente lo Stato. La terza ieri, quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere, rispettando l’impegno preso con lui e mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi che sono rinchiusi in cella e la libertà, se non collaborarono, non la vedranno mai". Ora dobbiamo proteggere Brusca: ecco perché - Pietro Grasso invita a riflettere e a non scandalizzarsi della protezione che il ministero ha approntato per Brusca. "Ora lo Stato dovrà proteggere Brusca: è un dovere perché è importante che Brusca resti vivo e possa andare a testimoniare nei processi. Oltre al punto morale c'è un interesse specifico, quasi egoistico, affinché le sue parole possano essere ripetute nelle aule di giustizia dove servono per condannare mandanti ed esecutori di omicidi e stragi". I politici si indignano? Non capiscono la mafia e questo mi spaventa - "L'indignazione di molti politici che di codice penale e di lotta alla mafia capiscono ben poco mi spaventa. Se davvero facessero quello che dicono, ovvero ridurre gli sconti per chi collabora con la giustizia, - conclude Grasso - diminuirebbe l’incentivo a pentirsi. Se a questo aggiungiamo che si sta cercando di limitare l’ergastolo ostativo, e lavorerò affinché questo non avvenga, potremo anche dichiarare chiuso il capitolo del contrasto a Cosa nostra. Al contrario, servono sconti di pena forti per chi aiuta lo Stato e prospettiva di ergastolo senza sconti per chi non collabora".
Mafia, Violante: "Brusca moralmente disprezzabile ma ha aiutato la lotta alla criminalità organizzata". Liana Milella su La Repubblica il 2 giugno 2021. L'ex presidente della commissione Antimafia dopo la scarcerazione del pentito: "Alla radice di quelle leggi che ci hanno consentito di smantellare prima le Br e poi gran parte di Cosa Nostra c'è un calcolo anche da parte dello Stato che ha il compito di salvare vite umane in pericolo". "Brusca è moralmente disprezzabile, ma ha aiutato la lotta contro la mafia". L'ex presidente della commissione Antimafia Luciano Violante, che nell'autunno del 1992, a palazzo San Macuto, tenne le audizioni di famosi pentiti come Tommaso Buscetta, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia, commenta con Repubblica la scarcerazione di Giovanni Brusca.
Mafia, il caso Brusca: la legge e il valore dei pentiti. Giuseppe Pignatone su La Repubblica l'1 giugno 2021. I collaboratori di giustizia rimangono a oggi uno strumento fondamentale per conoscere i clan dall'interno ed essere così nelle condizioni di meglio contrastarne le attività criminali. La definitiva scarcerazione di Giovanni Brusca ha suscitato un vivace dibattito nell'opinione pubblica e reazioni molto negative specialmente tra alcuni familiari delle vittime dei delitti di cui egli si è riconosciuto colpevole. Maria Falcone, sorella del giudice assassinato a Capaci, ha invece correttamente commentato la notizia, dicendo: "Umanamente è una notizia che mi addolora, però questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello, e quindi va rispettata".
La pm che raccolse le confessioni di Brusca: “Mi tese la mano, io la rifiutai ma ci aiutò a smantellare i clan”. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 2 giugno 2021. Franca Imbergamo, ex pubblico ministero della procura di Palermo, oggi è il sostituto della procura nazionale antimafia. "La prima volta che l'ho interrogato - ricorda Franca Imbergamo - c'erano ancora tanti dubbi sulla sua collaborazione, era stato arrestato da poco. Giovanni Brusca mi tese la mano, io mi rifiutai di dargliela. Era il 1996. Venticinque anni dopo, invece, risponderei a quel saluto. Brusca è un uomo che ha avviato un percorso di ravvedimento. E non lo dico io, ma le tante persone che lo hanno seguito in questi anni". Franca Imbergamo, ex pm della procura di Palermo, oggi è il sostituto della procura nazionale antimafia che segue il "dossier Brusca". Sul suo tavolo, arriva tutto quello che riguarda l'ex padrino di Cosa nostra diventato collaboratore di giustizia.
Che percorso ha fatto Brusca?
"Bisogna innanzitutto dire che ha lasciato il carcere perché ha finito di scontare le condanne che gli erano state inflitte dai giudici che si sono occupati di lui. In tutti i processi, sono state riconosciute a Brusca le speciali attenuanti previste per i collaboratori di giustizia che danno un contributo ritenuto attendibile e importante".
Dopo la sua scarcerazione, si sono però sollevate non poche polemiche, soprattutto da parte dei familiari delle vittime.
"Ho grande rispetto per il dolore dei familiari. Ma vorrei che non si dimenticasse che lo strumento dei collaboratori di giustizia ha consentito di assestare colpi determinanti alla Cosa nostra delle stragi, che è stata quasi del tutto smantellata".
Anche Maria Falcone ha detto: "È doloroso, ma è la legge voluta da mio fratello, quindi va rispettata". Però ha auspicato controlli da parte delle istituzioni per "scongiurare il pericolo che Brusca torni a delinquere".
"La legge sui collaboratori può essere di sicuro migliorata, come sarebbe auspicabile il rafforzamento del servizio centrale di protezione, soprattutto per controllare i collaboratori di giustizia in libertà".
Cosa racconta il percorso fatto da Brusca in questi anni in cella?
"Io faccio il magistrato, non sono un sacerdote e non devo occuparmi della sua coscienza. Io devo leggere le relazioni fatte dagli operatori carcerari che hanno seguito il collaboratore: psicologi, assistenti sociali, insegnanti, cappellani. Tutti hanno scritto di un positivo percorso di ravvedimento fatto dall'ex mafioso di San Giuseppe Jato, un percorso valutato sulla base di atti concreti".
Per questo Brusca ha ottenuto anche permessi premio negli ultimi quattro anni?
"Le legge prevede che si valuti anche il comportamento nei processi: Giovanni Brusca non ha mai smesso di dare un contributo alla ricerca della verità. E nel corso dei permessi premio ha sempre rispettato le prescrizioni che gli erano state imposte dai giudici".
Oggi, anche alcuni mafiosi non collaboratori di giustizia invocano permessi premio perché dicono di essere dissociati. È il caso di Filippo Graviano.
"Non basta una dichiarazione di principio, bisogna contribuire concretamente a smantellare l'organizzazione mafiosa. Questo ha fatto Giovanni Brusca in questi anni, mai tirandosi indietro quando i magistrati delle varie procure lo hanno convocato per chiedergli di rendere dichiarazioni".
Negli anni a Palermo si occupò anche di un'altra figura particolarmente complessa di pentito: Balduccio Di Maggio, il mafioso che aveva fatto arrestare Riina e poi aveva parlato del bacio, smentito, fra Andreotti e il capo di Cosa nostra. A un certo punto, Di Maggio tornò in Sicilia per creare una nuova cosca. Come si smaschera un falso pentito?
"Il presupposto per una corretta applicazione della legge è una gestione severa dei collaboratori. Così come ha insegnato Giovanni Falcone. Non bisogna pendere dalle labbra degli ex mafiosi, non bisogna fermarsi alle cose che vogliono dirti. E poi vanno cercati i riscontri in maniera rigorosa. Balduccio Di Maggio lo cogliemmo quasi in flagranza di reato".
Ha mai avuto il sospetto che Brusca, collaboratore sempre ritenuto attendibile dai giudici, possa sapere ancora qualcosa che non ha detto?
"È possibile che sappia ancora qualcosa, non possiamo escluderlo. Brusca è stato un capomafia di alto livello e molte cose sui mandanti delle stragi del 1992-1993 continuiamo a non saperle. Non escludo neanche che in futuro possa dirci quello che ancora sa. Una cosa però è certa: fino ad oggi, le dichiarazioni di Brusca sono state sufficientemente riscontrate".
«La legge sui pentiti è una vittoria: solo così la mafia è stata scalfita». Intervista a Gian Carlo Caselli, ex procuratore a Palermo nel periodo successivo alle stragi del 1992: «Grazie ai collaboratori i risultati delle indagini possono essere disastrosi per i mafiosi». Simona Musco su Il Dubbio il 3 giugno 2021. «Insieme al collega Alfonso Sabella (“Il cacciatore di mafiosi” nel titolo di un libro molto documentato che scriverà) ho partecipato ad alcune riunioni nella sala operativa della Questura di Palermo finalizzate alla cattura di Giovanni Brusca. Posso quindi dire di aver seguito molto da vicino l’operazione che pose fine alla sua latitanza. Come Procuratore capo di Palermo ho poi partecipato, con altri magistrati, ai primi interrogatori disposti non appena Brusca manifestò segnali (per altro all’inizio piuttosto ambigui e tortuosi) di disponibilità a collaborare. Ma i ricordi personali con le relative emozioni vorrei lasciarli da parte». A parlare è Gian Carlo Caselli, che ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo nel periodo successivo alle stragi del 1992.
La scarcerazione di Brusca ha diviso l’opinione pubblica, vittime comprese. In molti, per deprecarla, hanno citato Falcone, vittima di Brusca ma anche sostenitore della legge che oggi gli consente di stare fuori dal carcere. Come giudica, lei che è stato tra i primi a interrogarlo, la sua fuoriuscita dal carcere?
È vero, Falcone, vittima di Brusca nella strage di Capaci, è stato uno dei principali sostenitori della legge che oggi consente al suo killer di essere scarcerato. Anzi, poiché la legge che egli chiedeva a gran voce (dall’alto della sua straordinaria competenza quasi la pretendeva) tardava ad essere approvata, ad un certo punto arrivò ad esprimere il sospetto che dietro la “perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo” si nascondesse la voglia di non “far luce sui troppo inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”. E attenzione: Falcone non parlava mai a vanvera, ma sempre a ragion veduta. Innanzitutto perché il suo capolavoro investigativo giudiziario, il maxi processo che ha segnato la fine del mito dell’invulnerabilità della mafia, lo ha costruito sulla base proprio delle rivelazioni dei pentiti Buscetta, Contorno, Calderone e Marino-Mannoia. Poi perché lavorando a stretto contatto con gli Usa sapeva bene che in questo come in moltissimi altri paesi l’uso dei pentiti nella lotta al crimine organizzato è pratica abituale. Con una differenza: che noi li processiamo e li condanniamo, sia pure a pene ridotte, mentre altrove (ad esempio proprio in Usa) i collaboratori possono godere di una completa immunità per i reati commessi.
È una vittoria dello Stato, dunque?
Se vogliamo chiamare vittoria l’applicazione di una legge dello Stato, ebbene è una vittoria. Ma di vittoria (volendo usare termini un po’ bellicistici) dovremmo piuttosto parlare con riferimento alla legge nel suo complesso. Per il semplice motivo che senza la legge sui pentiti di strada contro la mafia ne avremmo fatta e ne faremmo molto poca. Mi spiego con una metafora persino banale. Essendo fondato su vincoli associativi segreti, il gruppo mafioso può essere paragonato ad una roccia, rispetto alla quale le indagini senza “pentiti” appaiono come un semplice scalpello. Se non si rompe, lo scalpello riesce a scheggiare la superficie esterna della roccia ma non a penetrarci dentro. Invece, le indagini collegate alle ricostruzioni fornite dai collaboratori di giustizia riescono a trasformare lo scalpello in una sorta di carica esplosiva. Una carica posta all’interno della roccia, che la spacca mettendone a nudo la parte più segreta. Insomma, grazie all’apporto dei collaboratori di giustizia i risultati delle indagini possono essere disastrosi per la roccia, cioè per i mafiosi. E questo dato è quello che più dovrebbe interessare nel contesto della lotta alla mafia. E che poi porta a riflettere su una realtà ineludibile. Se allo Stato i pentimenti dei mafiosi sono utili (e lo sono), proprio per questo uno Stato responsabile deve incentivarli. Con misure previste da una legge ad hoc, senza i sotterfugi e le vischiosità che fisiologicamente caratterizzano la collaborazione dei semplici “confidenti”.
I familiari delle vittime chiedono un controllo ferreo del suo comportamento fuori dal carcere. Molti pentiti lamentano, però, di essere abbandonati a se stessi. Si può potenziare il servizio centrale di protezione?
Dico subito che i familiari delle vittime, vittime a loro volta di un continuo, immenso dolore dell’anima che non lascia respiro, meritano proprio per questo ogni rispetto. Non è pertanto accettabile che qualcuno (come invece è avvenuto), temendo un “approccio accentuatamente vittimo-centrico” ai problemi di mafia, arrivi a sostenere “che occorrerebbe creare un nuovo binario per la rieducazione delle vittime, da affidare alla competenza di eserti psicologici in gradi di aiutare ed elaborare il dolore con strumenti psicologicamente adeguati”. Ci mancherebbe solo questo… Quanto al controllo ferreo di Brusca in libertà, è persino ovvio pretenderlo. Non possiamo assolutamente consentirci altri Antonio Gallea: condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Livatino, di recente egli ha approfittato dei benefici penitenziari ottenuti per rientrare in posizioni di rilievo nella sua organizzazione criminale (Stidda). Se si ripetesse con Brusca sarebbe uno tsunami. Quanto al servizio di protezione, l’ideale sarebbe qualcosa che si avvicini al “Marshall service” Usa, la cui efficienza persino spietata ho personalmente constatato quando son dovuto andare in Usa per interrogare alcuni pentiti italiani. Ma il nostro Servizio centrale di protezione (pur funzionando bene) ha problemi di bilancio e di un numero molto elevato di persone da proteggere, problemi che in Usa non esistono.
Per molti Brusca è un pentito controverso e due anni fa la Cassazione ha respinto la sua richiesta di poter scontare i suoi ultimi anni ai domiciliari, in quanto non avrebbe mostrato il necessario pentimento civile, oltre che processuale. Quanto ha davvero contribuito nella lotta alla mafia la sua collaborazione?
Preferisco non rispondere a domande che riguardano il caso specifico di Brusca.
In molti ora, gridando allo scandalo, chiedono di cambiare la legge sui pentiti. C’è davvero qualcosa da cambiare?
La legge originaria del 1991, che ha funzionato benissimo, è stata modificata nel 2001, secondo me in senso peggiorativo. Non è un caso che da allora i pentiti (che prima erano stati letteralmente una slavina) siano decisamente diminuiti. Per cui, basta così con le modifiche. Abbiamo, come usa dire, già dato… Il vero problema è l’uso corretto dei pentiti. Non si chiedono analisi ai pentiti: si pretendono fatti, ricostruzioni, il racconto di vicende da verificare, da sottoporre al vaglio critico della ricerca di concrete e oggettive conferme. E se tutto funziona secondo le regole (in particolare quella che senza adeguati riscontri le parole non sono prove) il contributo dei collaboratori di giustizia è davvero insostituibile.
Quanto sono ancora utili i pentiti nella lotta alle mafie?
È vero che oggi si sono sviluppate in misura esponenziale le indagini basate su intercettazioni telefoniche e/o ambientali. Ma dove piazzare le “cimici” , quali siano i posti dove i mafiosi si trovano o si riuniscono, sono proprio i pentiti che possono indicarlo. Di nuovo: si tratta di segreti e senza la password fornita dai pentiti i segreti restano tali.
La Consulta ha chiesto al Parlamento di legiferare affinché la collaborazione non sia l’unico criterio per ottenere dei benefici quando si sconta l’ergastolo ostativo, in quanto la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento. Che posizione ha a riguardo?
Sull’ergastolo ostativo ho detto e scritto persino troppo. Rispetto ovviamente e senza mere clausole di stile l’orientamento della Consulta, anche se alcuni passaggi della motivazione mi lasciano dei dubbi. In ogni caso prendo atto che è la stessa Corte costituzionale che mette in guardia contro “il rischio di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera. E la Consulta usa proprio questo “rischio” per spiegare il differimento di un anno dell’effettività della sua ordinanza di incostituzionalità in tema di ergastolo ostativo e liberazione condizionale. La Consulta inoltre afferma esplicitamente che il valore della collaborazione va salvaguardato. Rischio di interventi inadeguati e valore del pentimento sono dunque paletti di cui, secondo me, nell’anno a venire il Legislatore non potrà non farsi carico, salvo preferire che restino solo macerie e la soddisfatta allegria dei mafiosi. Non si tratta di giustizialismo manettaro, ma di semplice realismo. Per non finire come il don Ferrante di Manzoni, che discettava sulla peste che non esisteva mentre ne moriva….
Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2021. Giuseppe Ayala, lei che con Giovanni Falcone condivise la stagione del pool antimafia di Palermo e fu pm al primo maxiprocesso, come ha accolto la notizia della scarcerazione di Giovanni Brusca?
«Ho fatto un salto sulla sedia e ho detto: "Porca p...". Poi però...».
Poi?
«Mi sono messo a ragionare. Purtroppo bisogna essere pragmatici e quasi cinici. È una questione di costi e benefici».
Il killer di mafia ha il beneficio di tornare a casa. E lo Stato ?
«Vederlo uscire, dopo 25 anni di galera (che ha fatto) è il costo. Ma la legge ha portato vantaggi enormi. Prima della legge sui pentiti ce n' era stato solo uno. E non aveva fatto una bella fine».
Cioè?
«Si chiamava Leonardo Vitale. Ebbe una crisi mistica e parlò. Tutti assolti tranne lui che fu spedito in manicomio criminale. E quando uscì fu ammazzato».
Il fratello di Nino di Matteo, sciolto nell' acido, dice che è «inaccettabile».
«Ha ragione, come Rita Dalla Chiesa, o il figlio di Antonio Montinaro, caposcorta di Falcone. Anch' io fatico: Giovanni Falcone per me era il fratello maggiore che non ho avuto. Ma i benefici che ha portato la legge sono enormi. Pensiamo soltanto a Buscetta, a quanto fu importante per il maxiprocesso».
Escludere personaggi come Brusca dai benefici?
«Non si può sezionare la legge in sala chirurgica. E spesso è da lì che arrivano le collaborazioni più utili».
C'è chi lamenta che le collaborazioni siano parziali.
«Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia vengono passate al vaglio dei magistrati, cosa che in altri Paesi non accade. E viene separato il falso dal vero».
La Fondazione Caponnetto avverte: se si abolirà l' ergastolo ostativo usciranno anche i boss che non hanno voluto collaborare. Che ne pensa?
«Io stracondivido l' ergastolo ostativo che esclude dai benefici chi non contribuisce alle indagini . Certo dal punto di vista costituzionale è un po' una forzatura».
Matteo Salvini chiede di cambiare la legge sui pentiti.
Pensa sia pericoloso?
«Se il Parlamento si vuole assumere la responsabilità di una legge alla base di un forte ridimensionamento della Mafia lo faccia. Io la lascerei. Anche perché quella legge non l' ha voluta uno che passava per strada, ma Giovanni Falcone».
Francesco Bechis per formiche.net il 2 giugno 2021. “Giovanni ha voluto così. E se fosse vivo sarebbe d’accordo”. Ci vuole un filo di “cinismo”, Giuseppe Ayala lo ammette. Quello che serve per ingoiare un boccone amaro, la scarcerazione di Giovanni Brusca, mafioso, criminale, assassino, mandante ed esecutore di decine, centinaia di omicidi per Cosa Nostra, fra gli altri Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la scorta, di Paolo Borsellino. Venticinque anni sembrano pochi, niente, per chi ancora non ha rimarginato quelle ferite. Figurarsi per chi, come Ayala, ha incriminato Brusca nel maxi-processo, quando era procuratore capo di Palermo e coordinava il pool anti-mafia.
Venticinque anni per Brusca. Ventun anni per Girolamo Archinà, responsabile delle relazioni istituzionali di Ilva, dice la Corte d’Assise di Taranto. Come si può spiegare un paradosso del genere?
Si spiega con un calcolo estremamente razionale. La scarcerazione di Brusca ha una contropartita. Senza le sue confessioni non avremmo mai messo in carcere decine di pericolosi criminali e mafiosi. A Taranto c’è una sentenza di primo grado, e ha una sola contropartita: il disastro ambientale e l’inquinamento che ha ucciso uomini, donne e bambini negli anni. Non si possono paragonare. E parla una persona che vive con un nodo alla gola i fatti di queste ore.
Come ha reagito alla notizia?
Emotivamente. Molti negli anni lo hanno definito “bestia”, io credo che gli animali non meritino un simile insulto. Ma sono anche consapevole che questa scarcerazione è permessa da una legge che Falcone ha fortemente voluto a suo tempo.
Perché?
Perché l’apertura ai collaboratori di giustizia ci ha dato risultati impensabili. È una questione di costi e ricavi. Per lo Stato è un costo ridurre le pene a criminali di questa portata. È un ricavo enormemente superiore arrestare grazie alle loro confessioni centinaia di assassini.
Certo è difficile spiegarlo a chi ha perso un parente, un amico, un collega.
Io sono fra questi. E se avessero ammazzato mio padre, avrei reagito proprio come la mia amica Rita Dalla Chiesa. Per non parlare del piccolo Di Matteo sciolto nell’acido, o della strage di Capaci, che ancora mi toglie il sonno.
Falcone approverebbe?
Io credo di sì. Perché questa scarcerazione è frutto di una legge per cui si è battuto. Peraltro non esiste solo in Italia. All’epoca guardammo all’esperienza americana, dove esistono continui rapporti di collaborazione fra Giustizia e criminali. Al punto di arrivare all’eccesso, talvolta, di sospendere i processi.
Brusca non si è mai pentito.
Questo vale per quasi tutti i collaboratori di giustizia. I pentiti si contano sulle dita di una mano. È una scelta opportunistica e tornacontista. Per questo i magistrati devono sempre fare le opportune verifiche sulle dichiarazioni rese. Con Brusca, le ripeto, ho un trascorso personale.
Cioè?
Al maxi-processo era imputato solo di associazione a delinquere di stampo mafioso. Io da Pm chiesi la condanna, la corte lo assolse. Impugnai la sentenza e in Cassazione fu condannato. Poi ha deciso di collaborare. Ha detto chi ha azionato quel telecomando nella strage di Capaci. Ne abbiamo arrestati tanti, lo Stato ne è uscito vincitore.
Eppure tutte le forze politiche condannano il rilascio di Brusca. Anche se, all’epoca, la legge che lo ha permesso fu votata con il consenso unanime del Parlamento.
Salvo rari casi, siamo alle solite sortite. L’opinione pubblica è scossa dalla notizia, e qualche politico parla di vergogna dello Stato per cavalcare i consensi. Un copione già visto. Ma la giustizia non può dare ascolto alla pancia.
Riccardo Arena per "la Stampa" l'1 giugno 2021. Doveva succedere e alla fine è successo: Giovanni Brusca torna libero, un mese e mezzo prima del previsto, grazie agli sconti per la buona condotta, dopo 25 anni filati di carcere. Giorno più, giorno meno, dato che quando gli agenti della Squadra mobile presero, a Cannatello, località di mare vicino ad Agrigento, il boia di Capaci e il mandante dell'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, era il 20 maggio 1996. Fu la notte in cui l'esultanza degli uomini guidati dall' attuale questore Luigi Savina, all' epoca capo della Squadra mobile di Palermo, suscitò qualche scandalo tra i non pochi benpensanti e fra i sinceri garantisti. Ma la tensione della cattura e l'impresa realizzata in anni di piombo mafioso, terribilmente vicini ai giorni delle stragi, magari rendeva comprensibili le braccia levate al cielo degli omoni col Mephisto calato sul volto. Ora Brusca torna libero, lo scrive L' Espresso, commenta Matteo Salvini dicendo che gli italiani non lo meritano e Maria Falcone, sorella di Giovanni, non un giudice qualsiasi ma purtroppo una delle tantissime vittime del capomafia di San Giuseppe Jato, dice che la legge è legge e che bisognerà stare attenti che l'uomo chiamato u Verru, il porco, non torni a delinquere. Futuro incerto, in questo senso: il carcere e la condanna a 30 anni hanno veramente cambiato colui che fece rapire e poi strangolare - con lo scioglimento nell' acido - un ragazzino di 15 anni, tenuto prigioniero in condizioni selvagge sol perché figlio di un pentito? Quattro anni di libertà vigilata, decisi dalla Corte d'appello di Milano, protezione assicurata dallo Stato e un servizio di scorta che servirà anche a controllarlo, serviranno o saranno inutili? I dubbi non sono pochi. Quella collaborazione subito accennata, l'offerta fatta al capo della Direzione nazionale antimafia Piero Luigi Vigna e al procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, le infamie che cercarono di macchiare anche Luciano Violante, attraverso il rimpallo di racconti inquinati e inquinanti fra Brusca e il suo ex avvocato. Non nacque nel migliore dei modi, quella collaborazione, il pentimento "24 carati", come scrisse un anonimo su un muro di San Giuseppe Jato, nei giorni di agosto del 1996 in cui la notizia cominciò a trapelare. E poi il battesimo del processo Andreotti, le torride giornate di agosto del 1997 in cui Brusca - preceduto nella collaborazione dal fratello Enzo Salvatore, arrestato con lui - fece l'ingresso nel mondo dei pentiti doc, accusando di collusioni e intelligenze col nemico mafioso il sette volte presidente del Consiglio di collusioni con i boss, ma negando di conoscere la storia del bacio fra lui e Totò Riina. Anche perché quella vicenda l'aveva raccontata il suo acerrimo nemico, Balduccio Di Maggio, che Brusca avrebbe voluto uccidere e che poi tornò in armi a San Giuseppe Jato per rendergli la pariglia e sterminare i non pochi fedelissimi che al Verru erano rimasti in patria. Di Maggio nell' ottobre del 1997 fu preso con il suo gruppo di assassini ma la storia servì a far capire anche che Brusca aveva ancora molti agganci sul territorio. E questo, nel momento in cui ieri Palermo ha conosciuto un nuovo omicidio di mafia, getta una luce quanto mai sinistra sul suo ritorno in libertà. Dopo avere confessato di aver premuto il telecomando della strage di Capaci, Brusca è sempre stato considerato un pentito attendibile, anche il procuratore nazionale antimafia e poi presidente del Senato, Piero Grasso, ha sempre sostenuto la necessità di rispettare la legge e le norme premiali per i collaboranti. Ma Giovanni Brusca è stato uno specialista nel seminare dubbi. Come quando la Dda di Palermo gli sequestrò 200 mila euro, poi restituiti, ritenendo che avesse dei beni nascosti e mai rivelati. Oppure come quando iniziò ad aggiungere sempre nuovi particolari sulla vicenda della Trattativa Stato-mafia, parlando del "papello" di Totò Riina, fino ad arrivare al presunto terminale di quell' elenco di richieste che il capo dei capi avrebbe fatto allo Stato nel periodo delle stragi di mafia.
Michele Serra per “la Repubblica” il 2 giugno 2021. Come è brava Maria Falcone, sorella di Giovanni, che a proposito della scarcerazione per fine pena del killer seriale Brusca dice: "Umanamente mi addolora, ma questa è la legge, una legge che per altro ha voluto mio fratello e va rispettata". È una frase perfetta, disegna con semplicità e chiarezza la differenza tra il ruolo della legge e i sentimenti delle parti in causa. Proprio perché questi sentimenti sono fortissimi, le offese tremende, il dolore una voragine incolmabile, esiste la legge. Serve a sollevare le vittime dei delitti dal peso della vendetta, che della giustizia è l'antenato primitivo, la scimmia che ancora non ha sviluppato discernimento. Per questo la giustizia è spesso impopolare. Ricordo ancora lo sgomento (anche mio) per la condanna blanda - 21 anni, massimo della pena in Norvegia - del più disgustoso criminale della storia europea recente, quel Breivik, suprematista bianco, autore di una mattanza di ragazzini per puro odio politico. Settanta figli inermi uccisi come pecore. Una merda d' uomo, pensai e penso ancora: sparò con metodo, per ore, da quel boia nazista che è. Ma la legge norvegese prevede un trattamento rispettoso anche per uno come lui. Perfino per uno come lui. L' abietto non deve essere trattato con abiezione: e a ben vedere negare all' abietto l'abiezione è il solo vero modo per non confondersi con lui. Brusca non è peggiore di Breivik: è un massacratore di inermi tanto quanto lui. O li si impiccano alle querce, quelli come loro, o li si lapidano, o li si fanno squartare dai cavalli; o li si tratta secondo il dettato dei codici, considerando ogni imputato, anche il più esecrabile, come se fosse una persona. Lui forse non se lo merita. La società, sì.
Maurizio Belpietro per “La Verità” il 2 giugno 2021. Siccome siamo in un Paese civile e la pena di morte è stata abolita da un pezzo, non si può dunque pretendere che Giovanni Brusca, il killer della mafia con un curriculum da 150 delitti, sia sciolto nell' acido come lui sciolse nell' acido Giuseppe Di Matteo, un ragazzino di 14 anni che aveva la sola «colpa» di essere figlio di un pentito di mafia. Tuttavia, se non lo si può segregare in un bunker senza finestre, né lo si può strangolare a mani nude, come pure lui fece dopo due anni di prigionia con il piccolo Di Matteo, almeno penso che si dovrebbe lasciarlo marcire in galera, buttando la chiave fino a che morte non intervenga. Lo so, la legge di fatto ha abolito l'ergastolo, poi c' è la Gozzini che concede sconti di pena anche agli assassini più crudeli, e però la scarcerazione di Giovanni Brusca, uno che sulla coscienza ha la strage di Capaci e pure quella di via D' Amelio, mi fa venire il voltastomaco. Sì, la legge è uguale per tutti, anche per i carnefici, ma 150 omicidi, la sofferenza delle vittime e dei familiari di magistrati e poliziotti morti a causa del boss, non può essere risarcita con 25 anni di galera, cioè con meno di due mesi di detenzione per ogni omicidio. La legge è uguale per tutti, ma esiste un limite oltre il quale non si può andare e nel caso di Giovanni Brusca credo che lo si sia abbondantemente superato. Ha ragione il padre del piccolo Giuseppe, Santino Di Matteo, l'uomo a cui Brusca sequestrò il figlio per impedirgli di collaborare con la Giustizia, a cui all' epoca fu negata la possibilità di abbracciare il cadavere del ragazzo e ancora oggi gli è inibita quella di piangerlo su una tomba. «Non trovo parole per spiegare la mia amarezza», ha detto in un'intervista al Corriere della Sera, «È passato meno di un anno da quando hanno liberato un carceriere di mio figlio. La verità è che tutti i sorveglianti e gli aguzzini della mia creatura sono liberi. Tutti a casa. E ora va a casa pure il capo che organizzò e decise tutto». Il giornalista gli obietta ciò che ho scritto all' inizio, e cioè che esiste una norma che ne consente la liberazione, perché la giustizia è uguale per tutti. «La legge non può essere uguale per questa gente», replica Di Matteo: «Brusca non merita niente. Oltre a mio figlio, ha pure ucciso una ragazza incinta di 23 anni, Antonella Bonomo, dopo aver torturato il fidanzato. Strangolata, senza motivo, senza che sapesse niente di affari e cosacce loro. Questa gente non fa parte dell'umanità». Difficile dargli torto. Perché è impossibile credere che siano sufficienti 25 anni dietro le sbarre per dimenticare e redimersi, tornando a 64 anni a una vita normale senza più le mani lorde di sangue. Può essere cambiato un uomo che con Giuseppe Di Matteo giocava con la playstation, uno che lo ha visto crescere ma non ha esitato a tenerlo in catene per due anni, per poi disfarsi di lui, cioè di un ragazzino, quando ha capito che non gli sarebbe servito più a nulla e per questo lo ha strangolato e sciolto nell' acido? Si può giustificare uno sconto di pena in cambio della testimonianza contro i complici dei suoi stessi omicidi? Perché questo è il tema. Brusca si è pentito un secondo dopo essere finito in manette e da criminale capace di delitti efferati, con la stessa freddezza ha consegnato ai magistrati i nomi di chi lo aveva affiancato nelle stragi e negli omicidi. Da mafioso si è trasformato in un collaboratore di giustizia, cioè in una persona che ha diritto a uscire dal carcere e magari, come ha detto Santino Di Matteo, a farsi una passeggiata sul corso del paese che per anni è stato il suo feudo. Il padre del piccolo Giuseppe si dice disgustato. «Dopo trent' anni mi fanno ancora testimoniare ai processi. Io vado per dire quello che so. Ma a che serve se poi lo stesso Stato si lascia fregare da un imbroglione, da un depistatore». Già, perché quello che Brusca ha raccontato ai pm non è tutto oro che luccica. Molte delle sue testimonianze non sono state riscontrate o, peggio, hanno avuto riscontri negativi. E nessuno sa dire quanti altri segreti il boss si sia tenuto per sé, evitando di raccontarli nei tanti processi che ha subìto. Ma anche se il suo pentimento è dubbio, anche se è aberrante sapere a piede libero l' autore di una strage (non penso solo a Giovanni Falcone e alla sua scorta e nemmeno a Paolo Borsellino e agli agenti che lo proteggevano, ma a quei 150 cadaveri che in altro modo non saprei definire se non una carneficina), lo Stato lo libera. È la legge, dicono tutti in coro. Beh, allora cambiate la legge, perché è vero che la Costituzione dice che la legge è uguale per tutti, ma non tutti gli omicidi sono uguali, così come non tutti gli assassini sono del calibro di Giovanni Brusca.
Francesco La Licata per “La Stampa” il 2 giugno 2021. Gaspare Mutolo è uno dei pentiti storici della mafia. Collabora con lo stato da quasi trent' anni e viene considerato una fonte attendibile, come si può leggere nelle motivazioni di molte sentenze importanti. E' uno dei primi, a ridosso di Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, ad avere intrapreso "la via del cambiamento" come lui stesso definisce la sua determinazione alla collaborazione con lo Stato. Perché, dice "Asparino" ormai approdato da un anno agli 80, «la cosa importante è il cambiamento». Cioè «comprendere appieno gli errori che si sono fatti e impegnarsi a non ripeterli». Abbiamo scelto lui, "Asparino", per districarci nell' ingarbugliata vicenda che vede protagonista Giovanni Brusca, il pentito tornato libero dopo aver pagato con 25 anni di detenzione l' eccidio (confessato) di Capaci e la terribile fine (anche questa accertata e confessata) del piccolo Giuseppe Di Matteo, tenuto prigioniero in condizioni disumane per due anni e due mesi, usato come merce di scambio per indurre il padre, Santino, a ritrattare la confessione sulla strage di Capaci e, alla fine strangolato e disciolto nell' acido. Mutolo afferma, ed è una premessa che la dice lunga sulla considerazione riposta nella figura di Brusca, di non conoscere abbastanza «i figli di don Bernardo Brusca, sia Giovanni che Enzo. Ci siamo incrociati per brevi periodi in carcere, nulla di più. Altro discorso vale per il padre: don Bernardo era un mafioso di altissimo livello, uno che comandava nel territorio di San Giuseppe Jato già dai tempi di Salvatore Giuliano». Ma le puntualizzazioni di Mutolo non si fermano qui: «Una famiglia di mafia antica ma sempre legata a doppia mandata con i corleonesi di Totò Riina, dei Bagarella e di Provenzano». Sottolineatura non richiesta, ma che fa intendere appieno quanta distanza vi sia tra i Brusca e Mutolo, rappresentate della mafia palermitana in eterno conflitto coi "viddani" di Corleone. «Don Bernardo lo vedevo spesso - continua "Asparino" - perché negli anni Settanta facevo da autista a Totò Riina e lo accompagnavo ai "Dammusi" (la contrada dove abitavano i Brusca e dov' è morto Giuseppe Di Matteo vent' anni dopo ndr) per gli incontri fra le famiglie. Spesso si aggregavano Calogero Bagarella, fratello di Leoluca e di Antonietta, la moglie di Riina, e un boss che si chiamava Vito Cascio della famiglia di Roccamena». Mutolo va a memoria, fa domande e si dà risposte: fa tutto da solo. «Mi chiedevo - riprende - il perché di tanto trambusto, non capivo il via vai da e per Corleone. Lo avrei capito qualche mese dopo, davanti alle terribili immagini della strage di viale Lazio, a Palermo. Senza saperlo avevo avuto un ruolo, seppure marginalissimo, nella preparazione di quella spedizione che sarebbe andata sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. E avrei capito anche perché Riina non mi aveva mai fatto entrare nelle stanze dove si riunivano e con grande gentilezza mi pregava di attenderlo in macchina». Giovanni Brusca, insomma, per un lungo periodo - almeno a sentire Mutolo - non aveva fatto parlare di sé. Viene alla ribalta alla fine degli Anni '80, quando comincia lo sterminio dei corleonesi che azzera la mafia palermitana: quasi una pulizia etnica portata avanti da gruppi di fuoco di grande spessore criminale. E neppure allora si impone all' attenzione generale. «Quando i corleonesi fanno le stragi - ricorda Mutolo - dentro Cosa nostra si comincia a delineare la personalità di Giovanni Brusca. Le voci correvano, si cominciava a sapere cosa avevano raccontato i neo pentiti Di Matteo (il padre del piccolo Giuseppe ndr) e La Barbera. E si delineava l' importanza di Brusca nella politica stragista di Totò Riina». Così il primogenito di don Bernardo diventa il killer più temuto e odiato, anche dentro Cosa nostra. E' indicativo il fatto che in molti comincino a chiamarlo "u verru", cioè il maiale riproduttore che gode in mezzo al fango. Poi si scoperchiò l' ignobile storia di Giuseppe Di Matteo. Non era mai avvenuto che nelle vendette trasversali e nelle storie degli scontri tra famiglie mafiose si fosse arrivato a coinvolgere i bambini, considerati sacri (almeno a parole, visto che nei fatti non era proprio così) da una legge non scritta di Cosa nostra. «Per questo motivo - racconta Mutolo - ci siamo molto meravigliati quando abbiamo saputo che Brusca aveva fatto richiesta di collaborare ed entrare nel programma di protezione». Chi si è stupito? «Mi trovavo con Masino Buscetta - riprende - nella sua casa sul lago di Bracciano e commentavamo che mai gli sarebbe stato concesso di entrare nel programma di protezione. E invece la sua richiesta fu accettata. Allora abbiamo deciso di protestare, ma senza eccessivo clamore. Sapevamo di essere intercettati e ci siamo chiamati al telefono esponendo in modo abbastanza deciso i motivi del nostro dissenso, in modo che chi doveva sapere sapesse». Quindi è contrario alla liberazione di Brusca? «Col sentimento sì, col cervello dico semplicemente che è stata applicata una legge dello Stato che, come dice la signora Maria Falcone, fu voluta dal giudice morto per noi. Io dico che, ora, da libero, Brusca dovrà legittimare la sua scelta di cambiamento. Io sono cambiato, specialmente dopo la morte di mia moglie, e sono cambiato quando ho visto le vedove, le mamme e i figli di tanti morti ammazzati, sfilare sulle sedie dei testimoni al maxiprocesso. Ho sentito più volte Brusca giustificare la sua violenza con la scusa che si era in guerra. Ecco quando lui abbandonerà questo alibi e non troverà più giustificazioni a quegli orrori forse sarà davvero cambiato».
Polemiche per la scarcerazione ma lo prevede la legge. La storia di Giovanni Brusca, da killer spietato a pentito eccellente: lo "scannacristiani" libero dopo 25 anni. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 31 Maggio 2021. Giovanni Brusca è un uomo libero dopo 25 anni di carcere, trascorsi in carcere nonostante la decisione segnata da numerose polemiche di passare dalla parte dello Stato avvenuta pochi mesi dopo l’arresto. L’ex killer della mafia ha lasciato nel pomeriggio di lunedì 31 maggio il carcere di Rebibbia a Roma. A riportare la notizia è “L’Espresso“. Brusca, 64 anni, in passato capo del mandamento di San Giuseppe Jato e soprannominato in lingua siciliana ‘u verru (il porco), oppure lo scannacristiani per la sua ferocia, è colui che il 23 maggio 1992 azionò il telecomando della strage di Capaci dove persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il fine pena è arrivato con un anticipo di 45 giorni deciso dal tribunale di sorveglianza di Roma e recepito dai giudici di Milano. Brusca, inserito nel programma di protezione, resta sottoposto a quattro anni di libertà vigilata e continuerà a vivere sotto protezione. Una notizia che ha scatenato polemiche a 360 gradi (in ambito politico soprattutto da parte dei populisti Lega, Fratelli d’Italia e Movimento 5 Stelle) ma che non rappresenta altro che l’applicazione della legge per chi decide di collaborare con la giustizia. Nel corso della sua lunga detenzione, Brusca ha usufruito di oltre 80 permessi premio e, a differenza di altri pentiti, ha scontato l’intera pena in carcere. Il 19 ottobre 2019 la Cassazione bocciò la richiesta dei legali del killer di Giovanni Falcone di scarcerazione e di passaggio agli arresti domiciliari. Brusca durante la sua lunga esperienza in Cosa Nostra è stato uno dei principali killer di Totò Riina. Poi una volta passato a collaborare con la giustizia ha svelato ai magistrati segreti e retroscena della cupola di Corleone, portando a galla anche i rapporti che la mafia aveva con il mondo politico e imprenditoriale.
L’arresto dopo “meno di duecento omicidi”. Brusca venne arrestato il 20 maggio del 1996 in una villetta vicino Agrigento dove si era rifugiato con il fratello dopo anni di latitanza. Figlio di Bernardo Brusca, capo del mandamento di San Giuseppe Jato, dopo la sua morte ne ereditò il comando e il prestigio mafioso.Per la fredda ferocia il suo delitto più terribile rimane quello del piccolo Di Matteo. “Allibertativi du cagnuleddu” (liberatevi del cagnolino), ordinò Brusca. Suo fratello Enzo Salvatore lo teneva per le braccia, Giuseppe Monticciolo per le gambe, Vincenzo Chiodo lo strangolò. Poi venne sciolto nell’acido. Fu uno dei tanti omicidi commessi e ordinati dal boss di San Giuseppe Jato che grazie al suo pentimento ha evitato l’ergastolo e ha scontato una condanna a trent’anni. Tale era il distacco nel commettere i più feroci delitti che quando gli chiesero quante persone avesse ammazzato, rispose “Meno di duecento, il numero preciso non lo ricordo”.
Il finto pentimento e l’inizio della vera collaborazione. Un mese dopo l’arresto (avvenuto nel gennaio del 1996), Brusca iniziò a rendere dichiarazioni ai magistrati delle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze ma dopo poco, messo alle strette, confessò di aver ideato tutto per screditare le cosche rivali. Poi nel 1997 iniziò a rendere nuovi interrogatori, questa volta ritenuti attendibili, grazie ai quali fu possibile condannare decine di mafiosi in diversi procedimenti penali, dove anch’egli era imputato ed in cui ottenne rilevanti sconti di pena grazie al suo contributo: nel 1997 infatti evitò l’ergastolo al processo per la strage di Capaci ed ebbe ventisette anni di carcere e la stessa cosa avvenne nel 1999, quando gli furono comminati trent’anni di reclusione per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Nel 2000 gli venne riconosciuto lo status di collaboratore di giustizia. Nei numerosi interrogatori sostenuti, Brusca ha ammesso la sua partecipazione a numerosi delitti eccellenti e all’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il figlio undicenne del pentito Mario Santo Di Matteo strangolato e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre che aveva parlato con i magistrati.
La sorella di Falcone: “Questa è la legge”. “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso. Ogni altro commento mi pare del tutto inopportuno”. Queste le parole di Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone, dopo la notizia della scarcerazione per fine pena di Giovanni Brusca.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Dopo 25 anni torna libero Giovanni Brusca, l’uomo che premette il pulsante della strage di Capaci. Maria Falcone, sorella del giudice ucciso: «Lo prevede la legge, una legge che ha voluto mio fratello e che rispettiamo, ma restano il dolore, la rabbia e il timore che un individuo capace di tanto male possa tornare a delinquere». Il Dubbio l'1 giugno 2021. È tornato in libertà, dopo 25 anni di carcere, Giovanni Brusca, alias “Verru” o “Scannacristiani”. Fedelissimo di Totò Riina, ha diretto la fase esecutiva e ha poi premuto il telecomando per azionare il tritolo nella strage di Capaci, che provocò la morte del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. E fu sempre lui a sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato per oltre 700 giorni e poi ucciso per cercare di zittire suo padre Santino, che aveva deciso di pentirsi. Fu poi lo stesso Brusca a scegliere la strada della collaborazione, scelta che gli ha consentito di evitare l’ergastolo, nonostante le decine di omicidi commessi, e ottenere permessi per buona condotta e sconti di pena. Il pentito ha lasciato il carcere di Rebibbia e verrà ora sottoposto a protezione, controlli e libertà vigilata per quattro anni. Era finito in carcere il 20 maggio del 1996 insieme al fratello Vincenzo, in provincia di Agrigento. Brusca ha “scannato” tante persone da non ricordare l’esatto numero delle vittime. Forse cento, addirittura centocinquanta. Niente ergastolo per tutto questo, ma una condanna a trent’anni che avrebbe dovuto finire di scontare a novembre, ma che grazie a sconti di pena – l’ultimo è di 45 giorni – e una sfilza di permessi, un’ottantina, alcuni dei quali per trascorrere le festività a casa, è uscito dal carcere il 31 maggio. Non si saprà mai quanta sincerità ci sia nella richiesta di perdono, peraltro tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato. Certe, invece, sono le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi racconti. Pentito dal marzo 2000, la sua è stata una collaborazione tortuosa, che ha lasciato più di qualche perplessità. Ai magistrati di Palermo, Firenze e Caltanissetta, il figlio del capomafia Bernardo, esponente della Cupola e morto in carcere, ha parlato delle proprie responsabilità in ordine al suo ruolo nella progettazione ed esecuzione della strage di Capaci del 23 maggio 1992, ma anche in diversi delitti e omicidi efferati che non hanno risparmiato donne e bambini. «La mia non è una scelta facile – aveva detto, parlando della sua decisione – pesa la storia della mia famiglia, il dover accusare altri». «Quello che temevamo da tempo si è avverato: Giovanni Brusca, il “macellaio” che ha premuto il telecomando a Capaci, è libero – ha commentato Maria Falcone, sorella del giudice -. Lo prevede la legge, una legge che ha voluto mio fratello e che rispettiamo, ma restano il dolore, la rabbia e il timore che un individuo capace di tanto male possa tornare a delinquere. La sua collaborazione con la giustizia è piena di ombre, la stessa magistratura lo ha detto più volte. “U Verru”, il porco, così lo chiamavano i suoi complici, ha nascosto molte verità, specie sulle sue ricchezze che, sono convinta, non sono state confiscate interamente. Ci auguriamo che la magistratura e le forze dell’ordine vigilino: sarebbe un insulto a Giovanni, Francesca, Rocco, Antonio e Vito che possa tornare indisturbato a godere di soldi che grondano sangue». «Sono indignata, sono veramente indignata. Lo Stato ci rema contro. Noi dopo 29 anni non conosciamo ancora la verità sulle stragi e Giovanni Brusca, l’uomo che ha distrutto la mia famiglia, è libero. Sa qual è la verità? Che questo Stato ci rema contro. Io adesso cosa racconterò al mio nipotino? Che l’uomo che ha ucciso il nonno gira liberamente?…», ha commentato Tina Montinaro vedova di Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone. «Dovrebbe indignarsi tutta l’Italia e non solo io che ho perso mio marito – ha detto in una intervista all’Adnkronos -. Ma non succede. Queste persone vengono solo a commemorare il 23 maggio Falcone e si ricordano di “Giovanni e Paolo”. Ma non si indigna nessuno». Per la donna, tutta la Sicilia «dovrebbe scendere in piazza». «Lo Stato non sta dando un grande esempio – dice – Abbiamo uno Stato che ha fatto memoria per finta. Mancano le parole. Cosa c’è sotto? A noi la verità non è stata detta e lui è fuori e loro continuano a dire perché ha collaborato… È incredibile. O ha detto una verità che a noi non è stata raccontata». Insomma, per Montinaro «c’è una giustizia che non è giustizia».
CartaBianca, Roberto Saviano attacca Salvini e la Meloni: l'indignazione per la liberazione di Brusca? "Propaganda". Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. L'ex boss mafioso Giovanni Brusca è libero. La decisione, arrivata dopo 25 anni di carcere per fine pena, (comunque in anticipo di 45 giorni rispetto alla scadenza della condanna ndr), ha sollevato l'indignazione della politica intera che per una volta ha dimostrato di essere dalla stessa parte. I primi a commentare la scarcerazione dell'uomo che uccise Giovanni Falcone non potevano che essere del centrodestra: "Una vergogna - l'ha definita Giorgia Meloni -, uno schiaffo morale a tutti coloro che sono caduti sul fronte della lotta alla criminalità organizzata. Il mio pensiero è rivolto alle vittime innocenti uccise dalla mafia. Noi non dimentichiamo i nostri eroi". A farle eco Matteo Salvini: "È inaccettabile, umanamente, moralmente e politicamente. Se la legge lo prevede e lo permette, vuol dire che va cambiata la legge sui pentiti". Eppure per Roberto Saviano quelle del numero uno di Fratelli d'Italia e della Lega non è altro che propaganda. Lo dice chiaro e tondo a Cartabianca, il programma di Rai3 condotto da Bianca Berlinguer. "La liberazione di Brusca è una notizia dolorosissima - premette -, ma la Corte ha rispettato la legge, che è la legge sui collaboratori di giustizia. Ho trovato un po’ di propaganda nel fatto che una certa politica populista abbia cercato la scorciatoia emotiva". Ma non è tutto perché nella puntata di martedì 1 giugno lo scrittore si scaglia contro il centrodestra anche sull'immigrazione, ancora una volta esortando a "regolarizzare i migranti clandestini". "Senza diritti, queste persone vengono usate dalle sacche criminali. Dobbiamo smettere di vederci come la Cenerentola d’Europa. Non siamo solo noi che accogliamo". Finita qui? Niente affatto. Questa volta la critica è più generale e punta dritto al governo: "Sull’immigrazione c’è stato un cambio di tono importantissimo da parte di Draghi su Erdogan e la Turchia. Mi è sembrato un equivoco, invece, ringraziare la guardia costiera libica. L’unica soluzione sono i corridoi umanitari protetti".
Giovanni Brusca, il collaboratore che compiace i pm. Il boss di San Giuseppe Jato è libero. È considerato affidabile dal 2000, dopo una prima fase di falso pentitismo per la quale fu dichiarato un depistatore. È rimasto l’unico teste chiave del processo Trattativa. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 giugno 2021. Giovanni Brusca non è stato un ergastolano ostativo. I suoi delitti, che appunto si contano oltre il centinaio solo per stare agli omicidi, non hanno dato luogo a un fine pena mai proprio in virtù della sua “collaborazione”. È stato condannato a 30 anni. Essendogli stati riconosciuti i benefici della pena in qualità di collaboratore, scalando gli ultimi 45 giorni di liberazione anticipata, ora è un uomo libero seppur con delle restrizioni per altri quattro anni.
Il fine pena mai è incostituzionale. Il fine pena mai è incostituzionale, il nostro giornale si batte per questo. Così come si batte contro il discorso della collaborazione della giustizia come elemento imprescindibile per ottenere i benefici. Sono tante le ragioni, ma una è proprio quella espressa dalla Consulta quando ha dichiarato incostituzionale il 4 bis nella parte in cui subordina la collaborazione all’ottenimento del permesso premio. Ovvero che «la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali».
Falcone si raccomandava di vagliare con la massima scrupolosità i pentiti. Il punto è se la collaborazione con la giustizia è stata dettata da sicuro ravvedimento, oppure utilitaristica. Il pentitismo è fondamentale nella lotta contro la criminalità organizzata. Era stato questo l’intuito di Falcone sul discorso “premiale”. Ma sempre lui si è raccomandato di vagliare con la massima scrupolosità i pentiti. Cosa che lui faceva e se scopriva menzogne, li inquisiva per calunnia così come fece con Giuseppe Pellegriti e Angelo Izzo.
Le contraddizioni hanno sempre accompagnato i racconti di Brusca. Quindi parliamo di Giovanni Brusca, ora libero. Un pentito affidabile? Due anni fa la Cassazione aveva respinto la sua richiesta di poter scontare i suoi ultimi anni ai domiciliari. Secondo i giudici, Brusca non ha mostrato il necessario pentimento civile, oltre che processuale. Non si saprà mai quanta sincerità ci sia nella richiesta di perdono, peraltro tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato. Certe, invece, sono le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi racconti quando è stato sentito come teste in diversi processi.
Per il giudice Fontana Brusca fa confusione. Interessante leggere le motivazioni del giudice Fontana che assolse gli ex ros Mario Mori e Mauro Obinu per il cosiddetto mancato arresto di Bernardo Provenzano. Fa confusione, colloca la trattativa dopo la strage di Via D’Amelio, poi si ricorda che si è confuso e dice che no, era prima. Ed ecco che così si concilia con la tesi dell’accusa sulla presunta trattativa Stato-mafia. «È perfino superfluo osservare che nella ricostruzione di Brusca emergono molte oscillazioni – scrisse il giudice Mario Fontana – che suggeriscono una certa improvvisazione e mettono in seria crisi la possibilità di fare pieno affidamento sulle indicazioni di dettaglio (soprattutto temporali) da lui fornite». Non lo aveva convinto affatto la giustificazione di Brusca del tanto tempo trascorso che metteva a dura prova la sua memoria e richiedeva una faticosa «rimeditazione della sequenza dei fatti». Anzi non si poteva escludere una «possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza». Insomma, il giudice disse chiaramente che Brusca poteva avere voluto compiacere chi lo interrogava.
Per la Gip Petruzzella le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state «suggerite dalle molteplici sollecitazioni». Non solo Fontana, ma pure la Gip Marina Petruzzella che nelle motivazioni dell’assoluzione di primo grado dell’ex ministro Calogero Mannino (assoluzione nella quale viene smontato il teorema trattativa Stato- mafia, confermato in Cassazione), scrisse che le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state «suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogativi, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami».
Poco dopo il suo arresto fece finta di collaborare. Ma non è la prima volta. In realtà bisogna ricordare che la patente di collaboratore, quindi con la fine del 41 bis e possibilità di benefici, l’acquisì nel 2000. Pochi giorni dopo il suo arresto, avvenuto il 20 maggio del 1996 in una villetta sul litorale di Agrigento, Giovanni Brusca aveva attuato un piano diabolico: fare finta di collaborare e propinare le sue “polpette avvelenate” a magistrati e investigatori. E quando nell’agosto del ’96 venne fuori la notizia che Brusca si era pentito, scoppiarono subito polemiche e veleni. Fu il suo ex avvocato a mettere le mani avanti sostenendo in un’intervista che Brusca gli aveva raccontato i suoi rapporti “fra mafia e politica” e di un incontro con un'”alta personalità dello Stato” per organizzare un complotto contro Giulio Andreotti. Ma non è risultato vero nulla. Brusca aveva fatto confidenze inquinate al suo legale e poi, interrogato dai magistrati di Palermo e di Caltanissetta, il boss di San Giuseppe Jato aveva confermato che il racconto era tutto falso. Più precisamente, il 28 agosto 1996 Brusca venne interrogato dalle tre Procure e gli fu espressamente richiesto di chiarire il significato delle affermazioni dell’avvocato. In quella occasione, di fronte all’esplicita sollecitazione da parte di tutte e tre le Procure, dichiarò che aveva elaborato un piano per buttare fango sull’onorevole Luciano Violante, piano che egli poi abbandonò.
Fu smascherato dal fratello Enzo che si era pentito sul serio. E non finì li. Giovanni Brusca allora fece molte ammissioni raccontò mezze verità, poi però fu smascherato dal fratello Enzo che si era pentito sul serio e aveva rivelato il piano di Giovanni, quello di “depistare”. Dopo essere stato indagato per calunnia e messo alle strette, Giovanni Brusca, cominciò a dire un po’ di verità. Da quel momento fu ritenuto attendibile dai magistrati e per il suo contributo alla lotta alla mafia, cominciò a ottenere anche sconti di pena. Effettivamente le sue dichiarazioni per il processo sulla strage di Capaci, nel quale ha confessato la sua partecipazione attiva per l’esecuzione, si rivelarono importanti. L’8 febbraio 2000, il giorno prima in cui veniva perfezionata la nomina della commissione per i programmi di protezione, la procura della Repubblica di Caltanissetta ha inviato una nota nella quale confermava ulteriormente la rilevanza della collaborazione di Brusca, con particolare riguardo al processo di secondo grado.
È rimasto l’unico testimone chiave del processo trattativa. Ma Brusca, da tempo, è diventato fondamentale per la pubblica accusa di Palermo, specie dopo che sono state smascherate le panzane di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. E pensare che il processo trattativa, senza Ciancimino jr., non sarebbe mai iniziato. È rimasto Giovanni Brusca, però, a reggere il peso del ruolo di testimone chiave. Anche per questo, nella memoria depositata dalla procura generale di Palermo, si bacchettano le giudici della sentenza Mannino che hanno, con carte in mano, dichiarato inattendibile Brusca. Nonostante ciò, la sentenza trattativa di primo grado, non si sa per quale legge della dinamica, rende carta straccia tutte le altre. Resta il fatto che la svolta per Giovanni Brusca è arrivata quando ha cominciato ad accusare gli ex Ros. Nel processo trattativa medesimo la sua posizione è stata prescritta, Mori e De Donno condannati. Ora esce, mentre forse rischiano di entrare dentro coloro che hanno arrestato il suo ex capo Totò Riina.
I “nuovi” garantisti non difendono i diritti di Brusca ma i loro teoremi sulla trattativa Stato-mafia. La manciata di "garantisti per un giorno" sta solo legittimando il racconto mafioso del quale Brusca è la pietra angolare. Da domani torneranno ad attaccare diritti e garanzie. Davide Varì su Il Dubbio il 3 giugno 2021. E dell’improvviso garantismo di alcuni “insospettabili” vogliamo parlarne? Miracoli del caso Brusca, il boss scarcerato col beneplacito dell’antimafia col marchio Doc, che ha improvvisamente svelato l’esistenza di benefici e pene alternative anche per chi ha commesso i crimini più duri. Intendiamoci, noi siamo convinti che anche Brusca abbia diritto a immaginare una vita fuori dal carcere: siamo da sempre critici nei confronti dell’ergastolo ostativo e abbiamo difeso il diritto a una vita (e spesso a una morte) dignitosa anche per Riina, Provenzano, Cutolo. Perché non dovremmo farlo per Brusca? Quel che invece ci sorprende è la lunga e inaspettata lista di compagni di viaggio che stavolta abbiamo accanto. E siamo tanto più sorpresi perché la metà buona di chi oggi difende la scarcerazione di Brusca ha ingaggiato una battaglia feroce a favore del fine pena mai e del 41 bis. E c’è chi è addirittura arrivato a contestare la pronuncia della Consulta quando ha osato mettere in discussione la costituzionalità dell’ergastolo ostativo. Ciò non toglie che a noi fa piacere trovare questi nuovi compagni di viaggio nella marcia per la difesa dei diritti. Eppure qualcosa non torna. Insomma, siamo garantisti, certo, ma non del tutto ingenui e sappiamo bene che molti di coloro che oggi inneggiano allo Stato di diritto, lo fanno perché Brusca è la pietra angolare su cui poggia l’intero teorema della presunta trattativa Stato-mafia. E allora abbiamo il sospetto, e non ce ne vogliano, che molti di loro non stiano difendendo i diritti di Brusca ma la loro ricostruzione degli ultimi 30 anni di storia della mafia, oltre che la legge sul pentitismo (della quale bisognerebbe discutere seriamente dei suoi benefici, certo, ma anche dei suoi drammatici effetti collaterali che hanno colpito centinaia di innocenti: il nome di Tortora dice qualcosa?). Insomma, Brusca è una tessera fondamentale di quel mosaico e la difesa della sua scarcerazione non è così disinteressata come vogliono far apparire. Ma noi sappiamo bene che molti di loro da domani torneranno nel proprio campo di battaglia e che li ritroveremo di nuovo di fronte come fieri avversari. Ma chissà se in questo piccolo tratto di cammino comune avranno colto qualcosa che di solito ignorano. Perché il garantismo è un virus: una volta contratto, una volta capita la forza e la bellezza della difesa dei diritti, è difficile liberarsene…
DAGONOTA il 7 giugno 2021. Dura lex sed lex. Ai media e ai molti postillatori (compresi i suoi ex colleghi di lavoro) basta una sentenza latina per voler mettere fine alla cupa tragedia che si è consumata alla vigilia delle festa della Repubblica (solo una lugubre coincidenza?): l’uscita dal carcere con il fine pena del killer mafioso del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta a Capaci. Nonché il responsabile materiale di oltre 150 omicidi tra i quali lo scioglimento nell’acido di un bambino, Giuseppe Di Matteo, il cui padre Santino stava pentendosi in tribunale. Il profilo criminale di Giovanni Brusca, troverebbe una giusta collocazione in quell’atlante dei “mostri” classificato a suo tempo dal medico e antropologo, Cesare Lombroso. E di tragedia si tratta in cui alla fine la vittima è soltanto la Giustizia. Neppure la trilogia di Eschilo scritta nel 460 a.C, avrebbe potuto mettere in scena un’Eumenidi in cui l’Aeròpago, l’istituzione tribunale che nonostante le furia accusatrice delle Erinni, oltrepassa l’antica legge del taglione per pronunciare infine un verdetto assolutorio per Oreste-Brusca a seguito dello scambio di ragionamenti razionali (pentimento e collaborazione). “L’ingiustizia si sopporta con relativa facilità. Quel che fa male è la giustizia”, ammoniva il saggista americano Henry Louis Mencken. Una giustizia che a un quarto di secolo dall’inizio di Mani pulite, attraverso il rovesciamento degli stessi dieci comandamenti della Chiesa, ha promosso nell’immaginario collettivo (e con le accuse) il rubare (tangenti) a crimine penalmente forse più grave e rilevante dall’uccidere. Lo stesso ordine delle pene e delle indagini è stato invertito: la presunzione d’innocenza sostituita con la carcerazione-confessione. E la gogna mediatico-giudiziaria è stata innalzata dai giornali dei poteri marci per fare tabula rasa di una classe politica e dirigenziale. L’uscita dal carcere in semilibertà di Brusca non fa che allargare una ferità già apertasi sulla credibilità (perduta) nel nostro sistema giudiziario. Nel recente sondaggio Ipsos pubblicato dal “Corriere della Sera” nel giro di undici anni la fiducia nei magistrati è passata dal 66 al 39 per cento. L’ultimo “potere” (o Casta) sopravvissuta alla cosiddetta “rivoluzione italiana” annunciataci via stampa e dalle tv. Un “potere” diventato tale, e non un ordine dello Stato indipendente come dovrebbe essere per la Costituzione e non come vorrebbero farci credere. Un “potere assoluto” che con il suo organo di autocontrollo (Csm) si autopromuove e si autoassolve nel gioco delle correnti o delle logge. L’affaire Palamara-Davigo-Amara con i loro indecenti balletti in tv è soltanto l’ultimo atto delle lotte intestine tra le correnti al Consiglio superiore della magistratura. Un meccanismo-tritacarne che, vale la pena ricordarlo, nella stagione siciliana dei corvi ha stritolato pure il povero Giovanni Falcone, ch’è stato soltanto uno degli ispiratori della legge sui collaboratori di giustizia che ora manda libero il suo boia Brusca. A capo della procura di Palermo la corrente di sinistra di Magistratura democratica gli preferì Antonino Mele. Una coltellata alla schiena inferragli anche dai pm di Mani pulite. «Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale?”, ricorderà quella stagione tormentata Ilda Boccassini. E ancora: “Giovanni è morto con l'amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l'ultima ingiustizia l'ha subìta proprio da quelli di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Giovanni mi ha telefonato e mi ha detto: Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali”. Già, nel giorno dei rimorsi di Brusca per i media è meglio dimenticare la Palermo dei veleni, dei corvi e delle contrapposizioni. “Giusto pensare per iscritto” sosteneva Voltaire, ma il mestiere d’informare, aggiungeva il filosofo Jean Francoise Revel, “comporta obblighi precisi” anche per la stampa in un sistema democratico. Ma anche sul “caso” Brusca è tutto uno sragionare in punta di diritto e di rovescio. “C’era la legge, ha funzionato”, azzarda l’ex pm Giuseppe Ayala perdendo di vista l’orrore della tragedia percepito dalla pubblica opinione. Quasi a voler giustificare quella che, sempre per Revel attento osservatore della vita dei tribunali, è una giustizia che alla gente “appare impersonale, inumana e meccanica”. Ed è quello che pensa davvero il popolo. “Del pentimento di Brusca mi importa poco. E’ un patto con lo Stato che credo utile. Ma la più umiliante violenza per i morti di Capaci è che lui è libero e la verità prigioniera”, osserva tagliente Claudio Fava, il figlio di Pippo ucciso dalla mafia. Le reazioni indignate dei familiari delle vittime di Cosa nostra, però, sono schiacciate sul Corrierone dal fiume di piombo del video-racconto di Giovanni Brusca. Camuffato come un narcotrafficante colombiano, il killer di Falcone chiede perdono ai parenti degli uccisi. Di che si tratta? Di un mea culpa spontaneo o di una messinscena imposta dal programma di collaboratore di giustizia?
Giovanni Brusca, nuova vita dopo il carcere: casa segreta e assegno mensile pagato dallo Stato, ecco le cifre. Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Nuova identità, nuova casa in una località segreta e anche un cospicuo "stipendio" erogato dallo Stato: è questo che attende il boss Giovanni Brusca dopo 25 anni di carcere. Il mafioso che ha azionato il telecomando di Capaci, provocando la morte di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti di scorta, dopo la scarcerazione era "frastornato" e - come riporta il Messaggero - ha contattato il suo avvocato Antonella Cassandro, per ringraziarla del lavoro svolto. Poi è sparito. I termini dell'accordo che Brusca ha firmato prima di lasciare Rebibbia prevedono anche che il boss rispetti regole precise. Innanzitutto sarà sottoposto al regime di libertà vigilata e probabilmente anche all'obbligo di dimora, nel luogo segreto dove adesso risiede. E ovviamente non dovrà tornare a delinquere. Per quanto riguarda l'indennità, invece, già in carcere - a partire dal 2000 - il collaboratore di giustizia percepiva un piccolo stipendio per provvedere alla famiglia. Un mantenimento garantito dallo Stato anche adesso che è libero. In genere - come fa sapere il Messaggero - l'indennità per i collaboratori di giustizia varia tra i mille e i mille e 500 euro al mese. Ai quali vanno aggiunti altri 500 euro per ogni familiare a carico. In realtà però Brusca, 63 anni, è solo: ha divorziato dalla moglie mentre si trovava in carcere e il figlio, nato da questa relazione, è ormai adulto. In ogni caso, al pentito potrebbero essere garantiti, oltre all'affitto e alle spese mediche, anche altri benefit inclusi nel programma di protezione. La rinuncia a tale programma e quindi a vantaggi economici, invece, prevederebbe comunque una sorta di liquidazione.
L'affitto pagato e l'indennità statale: la nuova vita di Brusca. Ignazio Riccio il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Per quattro anni il boss dovrà sottostare a un periodo di libertà vigilata, con obbligo di firma settimanale, orari controllati e pernottamento fisso. Dopo la scarcerazione per fine pena è cominciata una nuova vita per Giovanni Brusca, il mafioso diventato famoso per aver fatto esplodere la bomba di Capaci che ha ucciso il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta. Il collaboratore di giustizia adesso dovrà voltare pagina, dopo aver chiuso i conti con la giustizia. L’uscita dal carcere era prevista per il prossimo autunno, ma gli ultimi calcoli hanno fatto sì che ci fosse un’accelerata decisiva. Adesso Brusca dovrà sottostare a un periodo di libertà vigilata, con obbligo di firma settimanale, orari controllati e pernottamento fisso. Tutto ciò avverrà in un luogo sconosciuto, in modo che possa essere garantita la sua sicurezza. Avrà una nuova identità e un lavoro che possa integrare l’assegno previsto dal programma di protezione.
Quei 150 omicidi: chi è l'ex boss tornato libero. La mafia non ha certo dimenticato la scelta dell’ex mafioso di testimoniare contro i “corleonesi” e ora è considerato un bersaglio di Cosa nostra. Brusca stesso ne è consapevole, conoscendo le regole della malavita organizzata. Possibili vendette sono all’ordine del giorno, per questo ci sarà massima cautela nell’occultarlo da parte dello Stato. Come ex uomo d’onore, che ha tradito il patto mafioso, è condannato a morte dai suoi ex sodali. Eppure, il suo “pentimento” è avvenuto già da molti anni, nel 1996, quando comincio a depositare le prime dichiarazioni davanti ai magistrati, consapevole che ma mafia potesse ucciderlo da un momento all’altro, com’era accaduto in precedenza per altri boss. Brusca, con le sue rivelazioni, ha fatto condannare centinaia di persone in cambio di protezione e sconti di pena. Un ergastolo trasformato in trent’anni di carcere (poi diventati venticinque), terminati proprio in questo periodo. Ora, per il boss una vita libera in una località top secret, un nuovo passaporto e l’indennità di mantenimento. Intanto, per quattro anni, dovrà ancora rispettare il regime di libertà vigilata e, probabilmente, l'obbligo di dimora nel luogo segreto dove adesso risiede. Il patto con lo Stato è che non dovrà ritornare a delinquere e non potrà violare le regole previste dal programma di protezione. Su quanto prenderà di indennità Brusca non ci sono notizie precise. Come riporta il Corriere della Sera, in genere lo “stipendio” per i collaboratori di giustizia varia tra i mille e i mille e 500 euro al mese. Ai quali vanno aggiunti altri 500 euro per ogni familiare a carico. Ma lo Stato, paga al boss anche l'affitto, le spese mediche e, nel programma di protezione, possono essere inclusi altri benefit. Strumenti che dovrebbero servire al collaboratore di giustizia, che oramai ha 63 anni, a reinserirsi nella società. A quanto pare, il boss vivrà da solo essendosi separato dalla moglie, sposata in carcere nel 2002, alcuni anni fa. Il figlio, nato dall' unione della coppia prima dell'arresto, è oramai adulto e autonomo.
Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (testo di narrativa per gli istituti secondari di primo grado), edito da Libriotheca Editore, è stato pubblicato a marzo 2019. Amo in particolare la lettura, il cinema e il teatro; sono appassionato di calcio e tifo Fiorentina.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2021. Con la donna che era con lui la sera dell'arresto, venticinque anni fa, la storia è finita da tempo, durante la detenzione c'è stato il divorzio. Con il figlio, invece, il rapporto è rimasto. L'ha lasciato che era un bambino di cinque anni, l'ha visto crescere dal carcere, si sono incontrati più volte durante i permessi di cui il pentito ha potuto usufruire. Ora quel bambino è diventato un uomo, e rappresenta l'ultimo legame di Giovanni Brusca con la vita di un tempo. Adesso ne comincia un'altra, piena di incognite, tutta da pianificare e costruire assieme agli angeli custodi del Servizio centrale di protezione, l'ufficio che si occupa dei collaboratori di giustizia. L'ex mafioso divenuto il simbolo dei killer di Cosa nostra, l'assassino che ha fatto esplodere la bomba di Capaci e ha dato l'ordine di strangolare Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito che lo accusò della strage), ha chiuso i conti con la giustizia ma mantiene il proprio legame con lo Stato che continuerà a vigilare sulla sua sicurezza. E programmare con lui un futuro ancora incerto. La scarcerazione per «fine pena» era prevista per l'autunno o poco prima, ma gli ultimi calcoli su un altro segmento di liberazione anticipata a cui il detenuto aveva diritto hanno provocato un'accelerazione inattesa. E sono rimasti tutti spiazzati, Brusca e chi deve continuare a occuparsi di lui. Adesso c'è un periodo di libertà vigilata, con obbligo di firma settimanale, orari controllati e pernottamento fisso. Bisognerà scegliere un luogo dove vivere che offra sufficienti garanzie, soprattutto di sicurezza. Un'abitazione, ma anche un contesto in cui possa mimetizzarsi, senza destare sospetti e curiosità che possano svelarne la vera identità. E poi si cercherà di trovargli un lavoro, in modo da integrare lo «stipendio» previsto dal programma di protezione. Dettagli tecnici e operativi da definire in fretta, per i tempi anticipati del «fine pena». Fa tutto parte del contratto che il pentito ha sottoscritto con le istituzioni, il patto che lo Stato ha siglato per ottenere la collaborazione di uno dei killer più fidati della mafia corleonese, ma divenuto uno dei pentiti-simbolo dell'antimafia; forse il più importante e significativo della nuova era, dopo la stagione dei Buscetta, Contorno e Marino Mannoia. Anche per questo Brusca continua ad essere un obiettivo di Cosa nostra, o di quello che ne resta. Lui è il primo a saperlo, e il primo ad essere consapevole che dovrà guardarsi dalle vendette; il conto con lo Stato è chiuso, quello con la mafia no. E non lo sarà mai. Lo ha raccontato lui stesso, qualche anno fa, in un'intervista per un documentario franco-tedesco sui corleonesi, ricordando il momento della sua affiliazione davanti a Totò Riina, alla presenza di suo padre Bernardo capomafia di San Giuseppe Jato: «Mio padre mi dice "entra che Riina ti vuole parlare". Entro, Riina mette sul tavolo un coltello e una pistola incrociati, una santina e un ago, e mi dice "questa è un'organizzazione in cui siamo tutti fratelli, un'associazione che ha le sue regole, se ci si separa ci si rimette la vita"». Quel giorno Giovanni Brusca divenne «uomo d'onore», carica che ha mantenuto fino al giorno delle prime dichiarazioni davanti ai magistrati, nell' estate del 1996. Ma i dubbi su Cosa nostra avevano cominciato ad assalirlo già prima, quando con il suo carico di stragi e di morti ammazzati per ordine di Riina, capì che anche lui poteva fare la stessa fine, morto ammazzato su ordine di Riina. Temeva quello che svelerà un altro pentito, Salvatore Cancemi, il quale disse che il «capo dei capi» aveva commissionato l'omicidio di Brusca e di Salvuccio Madonia. Una volta finito in carcere, i tempi per saltare il fosso e tradire Cosa nostra sono stati rapidi. Consumato e smascherato in pochi giorni un falso pentimento concordato in precedenza per delegittimare l'antimafia, nel giro di qualche settimana Brusca diede agli uomini della Squadra mobile palermitana guidati da Luigi Savina (futuro vicecapo della polizia) le indicazioni utili ad arrestare il boss Carlo Greco; e subito dopo Pietro Aglieri, boss in ascesa e salito in cima alla lista dei ricercati. Erano le garanzie di affidabilità richieste dagli investigatori, che convinsero i magistrati della sua attendibilità. È in quel momento che si salda il patto tra il killer e lo Stato: indicazioni per ottenere arresti e dichiarazioni per infliggere condanne (che sono arrivate a centinaia, come le vittime assassinate) in cambio di protezione e sconti di pena. Il suggello è arrivato con il verdetto che ha tramutato l'ergastolo in trent' anni, una pena a termine giunta a compimento. Ma il tribunale della mafia sconti non ne fa, e non c'è investigatore di ieri e di oggi che non sia certo del rischio che accompagnerà Brusca fino alla fine dei suoi giorni: incontrare qualcuno, fosse anche l'ultimo canazzo di bancata (espressione siciliana per indicare persone di infimo livello) con qualche aspirazione da boss, che voglia fargli pagare il suo tradimento.
Valentina Errante per “il Messaggero” il 2 giugno 2021. Dopo 25 anni di carcere il boss Giovanni Brusca da San Giuseppe Jato, può ricominciare. Oltre alla libertà, ha ottenuto una casa in una località segreta, una nuova identità, pulita, e quella che tecnicamente si chiama indennità di mantenimento. Ossia uno stipendio da parte dello Stato. I termini dell'accordo che Brusca ha firmato lunedì, prima di lasciare la cella di Rebibbia, sono noti solo al Servizio centrale di protezione del ministero dell'Interno. Documenti riservati, anzi classificati, perché Brusca non è un collaboratore di giustizia da poco. L' impegno riguarda però anche il boss, che dovrà rispettare regole precise. Tra l'altro, per quattro anni, sarà sottoposto al regime di libertà vigilata. Probabilmente l'obbligo di dimora, nel luogo segreto dove adesso risiede. Ovviamente non dovrà tornare a delinquere e non potrà violare alcune regole previste dal programma di protezione al quale ha aderito. Ieri, mentre infuriavano le polemiche sulla sua scarcerazione, il boss che ha azionato il telecomando di Capaci, era ancora «frastornato», ha contattato il suo avvocato Antonella Cassandro, per ringraziarla del lavoro svolto. Poi e sparito. Fino a tre giorni fa neppure lui sapeva della scarcerazione anticipata. Anche il legale, da oggi, avrà bisogno di un'autorizzazione per incontrarlo. Non dovrebbe essere così per i familiari stretti. Dal 2000, Brusca, in carcere percepiva un piccolo stipendio per provvedere alla famiglia. Adesso che è libero ci sono accordi precisi a regolare la sua nuova vita. Anche un mantenimento garantito dallo Stato. In genere l'indennità per i collaboratori di giustizia varia tra i mille e i mille e 500 euro al mese. Ai quali vanno aggiunti altri 500 euro per ogni familiare a carico. Ma Giovanni Brusca è da solo, con la moglie, sposata nel 2002, quando era già in carcere, ha divorziato alcuni anni fa. E il figlio, nato dall' unione della coppia prima dell'arresto, è oramai adulto. Ma lo Stato, paga al boss anche l'affitto, le spese mediche e, nel programma di protezione, possono essere inclusi altri benefit. Strumenti che dovrebbero servire al collaboratore di giustizia, che oramai ha 63 anni, a reinserirsi nella società e a trovare un lavoro. La rinuncia al programma di protezione e quindi a vantaggi economici, se mai avverrà, prevederà comunque una sorta di liquidazione. Una collaborazione con la giustizia ancora avvolta da molte ombre quella di Brusca. Continua ad aleggiare il sospetto che abbia coperto alcuni favoreggiatori e che non abbia mai rivelato dove fosse il suo tesoro. La liberazione del boss sanguinario, che agli inquirenti non ha saputo neppure dire quanti omicidi avesse commesso, suscita reazioni contrastanti. L'avvocato Cassandro ribadisce: «Ha scontato la pena interamente in carcere ed espiato la sua colpa», ma sulla liberazione si dividono anche i parenti delle vittime. Maria Falcone (tra l'altro citata dal segretario del Pd Enrico Letta) ammette che la scarcerazione «è stata un pugno nello stomaco», ma ricorda che la legge applicata è stata voluta anche da suo fratello Giovanni e «ha consentito tanti arresti», sulla stessa linea la mamma e il fratello del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell' acido dal boss: «Umanamente non si potrà mai perdonare. Ma abbiamo fiducia nella magistratura che ci è stata sempre vicina. Brusca ha ucciso Giuseppe, ma espiato la pena nel rispetto della legge», dicono. Molto dura la vedova del capo scorta di Falcone, Tina Montinaro che si è detta delusa dallo Stato. E mentre la magistratura difende la legge sui pentiti, il leader della Lega Matteo Salvini suggerisce di cambiarla, mentre la presidente dei senatori di Fi Annamaria Bernini e Giorgia Meloni, leader di Fdi, parlano di «schiaffo alle vittime».
Maurizio Belpietro per “La Verità” il 3 giugno 2021. Ieri vi ho raccontato la storia di Giovanni Brusca, il mafioso che, nonostante abbia una fedina penale da film dell'orrore e sulla coscienza anche la morte di un ragazzino, strangolato e poi sciolto nell' acido per farne sparire il cadavere, a 64 anni è un uomo libero. Essendosi pentito e avendo collaborato denunciando i propri complici, Brusca è stato premiato con uno sconto di pena. In pratica, per la lunga serie di omicidi (si stima che in qualche modo siano attribuibili a lui circa 150 assassinii) è stato condannato a soli due mesi di carcere per ciascun delitto. Cinicamente per lui si può parlare di una sentenza un tanto al chilo, anche se naturalmente la legge è rispettata, perché chi collabora con la giustizia può essere anche un serial killer ma è trattato come una mammoletta e coccolato dai pm. Ciò detto, i premi per il boss non si limitano alla scarcerazione dopo soli 25 anni, ma si accompagnano ad altri comfort. Oltre alla libertà, Brusca godrà di uno stipendio a carico dei contribuenti. La somma al momento non è nota, ma pare che superi quella di molti pensionati, i quali pur avendo lavorato una vita faticano a ottenere dall' Inps un assegno mensile che arrivi a 1.000 euro. Nel caso del killer di Cosa nostra invece si parla di 1.500 euro, ma non è tutto. Se le persone oneste devono farsi bastare la pensione, saldando affitto e bollette, Brusca avrà a disposizione una casa, ovviamente gratis, e riceverà anche 500 euro per ogni familiare a carico. Senza dire poi della tutela di cui godrà, anche quella a spese dello Stato. In pratica, si guadagna di più ammazzando le persone che ammazzandosi di lavoro. Immagino che a questo punto, come il sottoscritto, siate abbastanza indignati, ma vi invito a trattenere la rabbia perché la storia non è finita. Il killer del piccolo Giuseppe Di Matteo, il ragazzino tenuto in catene per due anni e il cui corpo fu poi sciolto nell' acido per non lasciare tracce, non è il solo criminale che lo Stato tratta in guanti bianchi. Da una rapida indagine condotta dal nostro Fabio Amendolara sono emersi i nomi di altri mafiosi e camorristi in procinto di tornare in libertà, molti dei quali con la stessa cortesia riservata al killer di Giovanni Falcone. Dei pluricondannati sulla rampa di lancio per uscire dal carcere pare ci sia Francesco Schiavone, detto Sandokan, un camorrista pentito che al pari di Francesco Bidognetti, altro pezzo da novanta della criminalità organizzata in Campania, sarebbe vicino alla fine della pena. Tra i boss che potrebbero presto lasciare la cella si segnalano anche altri capi della Cupola come Leoluca Bagarella, autore di svariati omicidi oltre che tra i responsabili della strage di Capaci, e i due fratelli Graviano, che nel curriculum possono vantare l' organizzazione degli attentati del 1993, a Roma, Firenze e Milano, oltre che l' omicidio di don Pino Puglisi. Infine, si prepara alla libertà anche Giovanni Strangio. In altri tempi questi signori sarebbero stati definiti avanzi di galera, assassini da lasciare dietro le sbarre per tutta la vita. Ma grazie alla cosiddetta legislazione premiale, ovvero agli sconti di pena per chi collabora, e a quella che pur non premiale riduce le condanne annullando di fatto l' ergastolo, tutti questi stinchi di santo potrebbero presto circolare a piede libero e, in qualche caso, siccome non hanno neppure sessant' anni, ricostruirsi una vita. Come nel caso di Brusca, magari con l' aiuto dello Stato, con un nome nuovo e un salotto ultimo modello è uno stipendio a vita. Sì, sarà anche come dicono in coro gli ex magistrati Luciano Violante, Pietro Grasso e Giuseppe Ayala che lo Stato può permettersi di scarcerare i mafiosi perché ha vinto. Ma a leggere la storia di Brusca e dei suoi compari di delitti si capisce una sola cosa è cioè che il cittadino onesto ha perso e paga sempre il conto di delitti che non ha commesso.
Giovanni Bianconi per corriere.it il 2 giugno 2021. «Chiedo scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime a cui ho provocato tanto dolore e tanto dispiacere». Con queste parole, cinque anni fa — dopo venti di detenzione e di collaborazione con la giustizia — Giovanni Brusca cominciò una lunga intervista con il regista-documentarista francese Mosco Levi Bocault, che stava realizzando il film «Corleone», una produzione di Arte France e Zek, presentato al festival di Roma nel 2018. Nel film ci sono le immagini e le voci di pentiti di mafia, investigatori antimafia e testimoni della stagione di sangue e di terrore scatenata dalla cosca di Totò Riina. Tra quelle testimonianze spicca quella di Giovanni Brusca, registrato per alcune ore in una sala colloqui del carcere romano di Rebibbia, dove l’esecutore materiale della strage di Capaci si presentò bardato per non essere riconoscibile, ma con la sua voce inconfondibile già tante volte ascoltata nei processi di mafia. Davanti alla telecamera il killer di fiducia di Riina raccontò la sua affiliazione a Cosa nostra, i principi dell’organizzazione mafiosa, i delitti a cui ha assistito e quelli che ha commesso, compresi quelli per i quali è diventato famoso in tutto il mondo: l’eccidio in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santo Di Matteo. Ma prima di cominciare a svelare i segreti di Cosa nostra e della sua vita di assassino e collaboratore di giustizia, Brusca volle fare una dichiarazione preliminare per chiedere perdono ai parenti delle tante vittime che ha sulla coscienza; e colse l’occasione per scusarsi anche con la donna che all’epoca era ancora sua moglie e con il figlio, per la doppia scelta che ha segnato la propria esistenza e quella della sua famiglia: prima mafioso e poi pentito. «Quella di collaborare con la giustizia è una scelta sempre denigrata — spiegò — ma è giusta perché serve a mettere fine a quella fabbrica di morte che si chiama Cosa nostra». Il video con la richiesta di perdono è finito agli atti del fascicolo del detenuto Brusca, per essere valutato dai giudici che nel tempo gli hanno accordato i permessi premio per uscire di tanto in tanto dal carcere, nonché i giorni di liberazione anticipata che spettano ai reclusi che mantengono una buona condotta, ma gli hanno negato la detenzione domiciliare, tenendolo in cella fine della pena. Arrivata due giorni fa.
Giovanni Brusca, il video inedito: "Chiedo perdono alle vittime e alla mia famiglia, i pentiti sempre denigrati". Libero Quotidiano il 2 giugno 2021. Giovanni Brusca, in una intervista di Zek e Arte France pubblicata in esclusiva sul sito del Corriere della Sera, parla del suo pentimento. Il boss, che nel 1992 fu tra gli autori materiali della strage di Capaci in cui rimase ucciso il giudice Giovanni Falcone, è stato liberato il 31 maggio scorso, dopo aver trascorso 25 anni in carcere. Questa intervista risale a cinque anni fa. "Ho riflettuto e ho deciso di rilasciare questa intervista: non so dove mi porta, cosa succederà, spero solo di essere capito", dice il boss. "Ho deciso di rilasciare questa intervista per fare i conti con me stesso, perché è arrivato il momento di metterci la faccia, anche se mi dispiace non poterlo fare per motivi di sicurezza, ma è nello spirito e nell’anima di farlo". Quindi Brusca continua dicendo di voler "chiedere scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime, a cui ho creato tanto dolore e tanto dispiacere". In questi anni, spiega il pentito, "da collaboratore di giustizia" ha deciso "di dare il mio contributo, il più possibile, e dare un minimo di spiegazione ai tanti che cercano verità e giustizia". "E chiedo scusa principalmente a mio figlio e a mia moglie, che per causa mia hanno sofferto e stanno pagando anche indirettamente quelle che sono state le mie scelte di vita", aggiunge il boss, "prima da mafioso, poi da collaboratore di giustizia". Quindi attacca; "Purtroppo nel nostro Paese chi collabora con la giustizia viene sempre denigrato, viene sempre disprezzato, quando invece credo che sia una scelta di vita importantissima, morale, giudiziaria ma soprattutto umana", continua Brusca. Che conclude: "Perché consente di mettere fine a questo, Cosa nostra, che io chiamo una catena di morte, una fabbrica di morte, né più né meno. Un’agonia continua".
“Brusca mi disse: lo Stato ha vinto dopo le stragi non vivevo più”. Salvo Palazzolo La Repubblica il 13 giugno 2021. Tre anni fa, Giovanni Brusca, il boia del giudice Falcone reo confesso di tanti omicidi, ha chiesto di parlare con un sacerdote, don Marcello Cozzi, l’ex vice presidente di Libera, che in carcere ha incontrato collaboratori di giustizia, ma anche mafiosi. E lui è andato. «Non sembra affatto la persona che avevo visto nelle foto sui giornali o in tv — racconta oggi il sacerdote per la prima volta — se l’avessi incrociato per strada, l’avrei scambiato per un anonimo impiegato.
«Sono stato un automa del male»: Giovanni Brusca piange e chiede perdono al processo, l’audio esclusivo. Durante l’udienza del 2013 per la strage di via D’Amelio, il killer pentito si commuove per le sue vittime e le atrocità compiute. E con le lacrime agli occhi dice: «Ho fatto del male a tante famiglie, di giudici e altre persone, e ai loro familiari chiedo perdono». Lirio Abbate su L'Espresso il 2 giugno 2021. Giovanni Brusca aveva mostrato pubblicamente il suo pentimento e la sua richiesta di perdono ai familiari delle sue vittime il 14 giugno 2013 durante l’udienza del processo Borsellino Quater, davanti alla corte d’assise di Caltanissetta. In questo audio originale parla Brusca. E lo si sente piangere in udienza davanti a giudici e avvocati. Chi lo ha visto in faccia dice che a Brusca, il killer che ha confessato più di cento omicidi, l’assassino di Falcone, un boss che molti hanno descritto privo di sentimenti, sono scese le lacrime fino a impedirgli di proseguire nelle parole. Così per la prima volta dal suo arresto Giovanni Brusca ha chiesto pubblicamente perdono ai familiari delle sue vittime. Lo ha fatto ricordando di essere l'assassino di Giovanni Falcone, degli agenti della scorta e di tante altre vittime «di cui non capivo il motivo per cui Cosa nostra e Riina ne decideva la morte. E continuo a non comprenderlo adesso ... Sono stato un "automa" del male, perché credevo in Salvatore Riina e per me Cosa nostra era una istituzione e la rispettavo». Il colpo di scena di otto anni fa spiazza tutti in aula. Brusca rompe gli indugi e si commuove quando il suo avvocato Alessandra de Paola gli chiede il motivo per il quale ha iniziato a collaborare. «Ho vissuto per Cosa nostra e ne rispettavo le regole e il mio "altruismo" verso l'organizzazione mi ha portato a commettere fatti orrendi, perché non avevo nulla di personale contro Falcone o contro molte delle mie vittime. Vivevo per Cosa nostra e per rispettare le sue regole. Mi rendo conto solo adesso delle atrocità che ho fatto e ancor peggio non sapevo per conto di chi le ho fatte e quale fosse il motivo». Con le lacrime agli occhi dice: «Ho fatto del male a tante famiglie, di giudici e altre persone, e ai loro familiari chiedo perdono». Il collaboratore torna al giorno del suo arresto che ricorda come un momento tremendo per la forte azione degli agenti: «Comprendo lo stato d'animo Che avevano i poliziotti, ai quali non porto rancore. Avevo ucciso Falcone e gli uomini della scorta e quindi non mi aspettavo un trattamento particolare. Ho pensato che durante il blitz i poliziotti fossero arrivati per uccidermi. Per fortuna c'è un Dio: mi sono buttato a terra, perché se non fosse stato così non sarei qui». L'inizio turbolento della collaborazione è quello che marchia la carriera da pentito di Brusca. «All'inizio ho commesso un errore, ma quando ho deciso di essere serio, privo dei rancori nei confronti di pentiti che erano miei ex nemici, ho iniziato a fare sul serio ma avevo la sensazione di un muro di gomma che veniva alzato dai magistrati perché quasi tutto quello che dicevo mi veniva rivolto contro». E conclude: «Difficile è stato in passato il mio rapporto con alcuni pm. Ho dovuto riconquistare la fiducia di tutti grazie ai riscontri processuali che sono stati trovati alle mie dichiarazioni».
Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2021. Brusca chiede perdono. E i familiari delle vittime? C' è chi dice «no», come il fratello di Giuseppe Di Matteo sciolto nell' acido. E chi non vuole parlarne. Ma tutti gridano una sola cosa: «Vogliamo la verità». «Del pentimento di Brusca mi importa poco. È un patto con lo Stato che credo utile.
Ma la più umiliante violenza per i morti di Capaci è che lui è libero e la verità è prigioniera», scandisce Claudio Fava, figlio di Pippo, intellettuale ucciso nell'84. «Ci sono stati depistaggi e responsabilità di settori dello Stato ad accompagnare la mano della Mafia. A cominciare da chi autorizzò che il Sisde affiancasse il procuratore Tinebra dal giorno dopo l'omicidio Borsellino e fornì il primo tassello del depistaggio: il pentito Scarantino. Il patto è stato di reciproca reticenza: Brusca non ha detto tutto quello che sapeva e pezzi delle istituzioni hanno accredito la versione semplicistica che gli omicidi di Falcone e Borsellino fossero la vendetta di Totò Riina. La legge va modificata con l'obbligo di racconto totale». «Si pente? Potrebbe anche essere sincero. Ferme restando le sue colpe, ha contribuito con segmenti di verità. Il problema è chi sa e non lo fa», dice Margherita Asta, sorella dei gemellini morti con la mamma nell' attentato a Carlo Palermo. «La mafia mi ha portato via la vita, ora, leggo, nella sentenza sulla loro morte, che la forza della mafia sta nelle "collusioni con settori importanti dello Stato". Allora il problema è chi tace. Attenti a modificare l'ergastolo ostativo. Spesso la collaborazione impossibile è una scusa». «Perdono? Non sta a noi. Si può razionalizzare la rabbia perché i collaboratori servono» spiega Daniela Marcone, figlia di un funzionario coraggioso ucciso dalla mafia del foggiano. «Attenzione a non smontarne il valore. Magari ce ne fossero anche da noi». Nando Dalla Chiesa reagisce: «Non è una guerra privata. Ci dica il capo dello Stato cosa dire. Non scaricateci tutto il peso mettendo contro chi perdona e chi no. La scarcerazione era un prezzo da pagare. Ora si dice: non è più come una volta, basta pentiti». E rincara: «Sull'ergastolo ostativo chi decide la scarcerazione? Ci fosse un'autorità centrale, lontana dalle pressioni, sarei d' accordo. Ma quanti boss in permesso premio che partecipano a summit abbiamo visto? E quante relazioni psichiatriche e di assistenti sociali fatte ad hoc? Il giudice di sorveglianza non ha l'esperienza di chi indaga e rischia di vanificarne il lavoro. La verità è che chi ha più soldi paga campagne di consenso. Altrimenti perché quando si parla di riforma della giustizia si parte sempre dai mafiosi?».
Alfredo Mantovano per “Libero quotidiano” il 4 giugno 2021. Cambiamo la legge sui pentiti! Allo sconcerto dopo la scarcerazione di Giovanni Brusca, più d' un leader politico ha fatto seguire quest' imperativo; senza tuttavia indicare le modifiche da apportare. Provo a immaginarne un paio, con un cenno di storia. La prima legge sulle collaborazioni mafiose è del gennaio 1991: dal 1980 i "pentiti" godevano di benefici soltanto per il terrorismo. L'estensione alla mafia è voluta da Giovanni Falcone, che già prima del 1991 aveva sperimentato i vantaggi delle collaborazioni nel maxiprocesso a Cosa nostra: lì furono decisive le dichiarazioni di Buscetta e di Contorno. Del primo Falcone diceva che «prima di lui avevamo un'idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro», e lo definiva «come un professore di lingue che permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti».
I PALETTI La legge del 1991 apre una stagione nuova: da quel momento, contare sulle informazioni provenienti dall'interno delle cosche consente all'autorità giudiziaria grande efficacia operativa. Il suo uso massiccio determina però abusi e distorsioni: quello che avrebbe dovuto restare uno strumento di indagine, in troppi processi è diventato lo strumento. Questo ha motivato nel 2001 una riforma, ancora in vigore, per razionalizzare i decrementi di pena e stroncare le collaborazioni fasulle. Per rendere meno gravoso il costo sociale e la tollerabilità etica di mostri che tornano in libertà, si potrebbe cominciare col far rispettare una delle norme introdotte da quella riforma, l'art. 16 quater. Esso impone all'aspirante collaboratore di dichiarare: a) tutti i temi della collaborazione entro 180 giorni dal momento in cui inizia a parlare, per scongiurare le c.d. "dichiarazioni a rate" e la contrattazione, che in precedenza condizionava le informazioni ai benefici; b) i beni da lui acquisiti con la propria attività criminale, pur se intestati fittiziamente ad altri, al fine di evitare che il "pentimento" costituisca lo strumento, una volta tornato libero, per godere del provento dei delitti commessi.
LE COLPE Chi non adempie a questi obblighi non dovrebbe essere ammesso nel programma di protezione o, se ammesso, lo vedrebbe revocato, insieme con i benefici. Con questa norma Brusca non sarebbe mai entrato nel programma, perché certamente per più di 6 mesi ha dichiarato il falso e ha depistato, e solo in un secondo momento ha deciso di fare sul serio. Uso il condizionale perché quest' articolo è largamente disatteso: la giurisprudenza penale ha ben presto ritenuto utilizzabili nel processo quanto dichiarato oltre i 180 giorni, sostenendo che la mancata osservanza del termine comporti solo effetti sulla prosecuzione della protezione; qualche Tar ha poi vanificato anche le ricadute amministrative dell'inadempimento, poiché ha annullato i decreti di revoca del programma nelle ipotesi di sforamento del termine. Qui non si tratta di "cambiare la legge", ma di renderla effettiva, con l'aggiunta di espressioni che ne impediscano l'aggiramento.
GLI INTERVENTI Una modifica vera potrebbe invece interessare l'art. 192 del codice di procedura penale, che fa utilizzare come prova le dichiarazioni del collaborante, purché accompagnate da «altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità». Nell'applicazione, anche in tal caso giurisprudenziale, gli «altri elementi» consistono talora nelle dichiarazioni di altri collaboranti: in tal modo, se i "pentiti" Tizio e Caio vogliono inguaiare Sempronio, concordano quanto dovranno dire, e le loro dichiarazioni si riscontreranno reciprocamente. Sarebbe sufficiente aggiungere che gli «altri elementi» non consistono nelle dichiarazioni di ulteriori "pentiti" per spingere a collaborazioni più concrete e autentiche. Sono solo un paio di ritocchi: non scardinano il sistema, ma potrebbero renderlo meno indigesto.
E dopo Brusca si accende la speranza dei boss mai pentiti: tornare liberi. Lirio Abbate su L'Espresso il 7 giugno 2021. Con la cancellazione dell’ergastolo ostativo ai mafiosi, molti killer condannati definitivamente che non hanno collaborato con la giustizia pensano di poter lasciare il carcere. La sera dell’arresto di Giovanni Brusca i poliziotti che lo portano negli uffici della Squadra mobile a Palermo perdono le chiavi delle sue manette. Non si trovano. O forse nessuno ha voglia di trovarle. Gli agenti che lo hanno bloccato in una casa di campagna nell’agrigentino sono quasi tutti amici dei poliziotti saltati in aria a Capaci. Nella squadra della “Catturandi” che è entrata in azione c’è pure il fratello di una delle vittime di via D’Amelio. Fosse per loro, quelle manette a Brusca non gliele toglierebbero più. A tarda sera devono intervenire i vigili del fuoco per liberare i polsi del mafioso. Ricordo bene quella serata del 20 maggio di venticinque anni fa per averla vissuta direttamente da giovane cronista. All’imbrunire il corteo di auto sulle quali sono stati divisi Giovanni Brusca, suo fratello Enzo e uno dei favoreggiatori, arrestati nell’Agrigentino, parte a forte velocità in direzione di Palermo. Alle porte della città, gli agenti che hanno in custodia l’assassino di Capaci decidono di deviare il percorso, allungano per una strada del centro, arrivano in via Notarbartolo e qui si fermano davanti all’albero Falcone, ricoperto da immagini delle vittime, da fiori e messaggi sui biglietti lasciati da migliaia di persone. Lo mostrano all’uomo che ha le mani bloccate dalle manette. E poi volano dritti alla Squadra mobile. Le prime due auto vengono accolte davanti alla questura da un tripudio di clacson e sirene. Ci sono cittadini che applaudono. Poliziotti con il volto coperto che agitano i mitra in aria dai finestrini delle auto, in segno di vittoria. Lo sfogo, legittimo e umanamente comprensibile, di chi ha lavorato a lungo alla ricerca di un assassino e adesso festeggia il risultato dello Stato che vince sui mafiosi. Nel cortile della palazzina della Squadra mobile c’è un folto gruppo di poliziotti che attende l’ingresso dell’auto. Sono agitati ma commossi. Pensano ai loro colleghi uccisi. Arriva un’auto, viene fatta entrare e bloccata nel cortile. Gli sportelli si aprono, scendono gli agenti in borghese che proteggono l’arrestato e in una frazione di secondo hanno addosso una decina di persone che provano ad afferrarlo, fino a quando, dopo meno di un minuto, si sente una voce urlare: «Unnè iddu! (non è lui, ndr)». Tutti si fermano, si girano verso l’ingresso dove sta per entrare un’altra auto, pensano che l’assassino dei loro colleghi possa essere su questa vettura, la puntano e la scena violenta si ripete. Ma non è lui l’uomo stretto fra i poliziotti, è uno dei favoreggiatori. Dopo pochi minuti si fa largo tra la piccola folla di poliziotti un furgone scortato. E da qui scende ammanettato Giovanni Brusca. In quel momento i poliziotti di Palermo vedono in faccia l’uomo della strage, stretto fra gli agenti, e gli urlano contro scaricando rabbia e dolore. È una scena che traumatizza Brusca, come poi ricorderà. Nell’estate del 1996 inizia a fare dichiarazioni ai magistrati. All’inizio tenta una manovra per screditare l’antimafia e alcuni politici come Luciano Violante, ma questa azione viene smascherata. E fornisce una collaborazione più ampia: è il primo a rivelare “il papello” e la trattativa tra mafia e Stato nel 1992. Ma nel settembre 2010 scoprono che continua a gestire traffici e ricatti, proteggendo un tesoro accumulato con i crimini. Rischia di perdere i benefici e di essere retrocesso da “collaboratore” a “dichiarante”. Di fronte alla possibilità di vedere chiudersi le porte del carcere per sempre, senza più permessi e sconti di pena, sostiene di volere raccontare la seconda parte della sua storia criminale. Completando un quadro che era già stato in parte intercettato dalle microspie nella sua cella. Rompe il silenzio mirato a «non rendere dichiarazioni su persone che sono state “disponibili” con Cosa nostra». E per paura di non riprendersi la libertà, si mostra davanti ai giudici con le lacrime agli occhi. È il 2013 e Giovanni Brusca piange di fronte alla corte d’Assise di Caltanissetta. Le lacrime scendono, non riesce a proseguire nel discorso. A 17 anni dal suo arresto, per la prima volta, chiede pubblicamente perdono ai familiari delle sue vittime. Lo fa ricordando di essere l’assassino di Falcone, degli agenti della scorta e di tanti altri «di cui non capivo il motivo per cui Cosa nostra e Riina ne decideva la morte. E continuo a non comprenderlo adesso… Sono stato un automa del male, perché credevo in Riina e per me Cosa nostra era una istituzione e la rispettavo». Il boss torna al giorno del suo arresto che ricorda come un momento tremendo per la forte azione degli agenti: «Comprendo lo stato d’animo che avevano i poliziotti, ai quali non porto rancore. Avevo ucciso Falcone e gli uomini della scorta e quindi non mi aspettavo un trattamento particolare. Ho pensato che durante il blitz i poliziotti fossero arrivati per uccidermi. Per fortuna c’è un Dio: mi sono buttato a terra, perché se non fosse stato così non sarei qui». L’inizio turbolento della collaborazione è quello che marchia la carriera da pentito di Brusca. «All’inizio ho commesso un errore, ma quando ho deciso di essere serio, privo dei rancori nei confronti di pentiti che erano miei ex nemici, ho iniziato a fare sul serio ma avevo la sensazione di un muro di gomma che veniva alzato dai magistrati perché quasi tutto quello che dicevo mi veniva rivolto contro». E conclude: «Difficile è stato in passato il mio rapporto con alcuni pm. Ho dovuto riconquistare la fiducia di tutti grazie ai riscontri processuali che sono stati trovati alle mie dichiarazioni». La data di fine pena era fissata per il prossimo 15 luglio, a poca distanza dalla ricorrenza della strage di Borsellino. Il ricalcolo fatto dai giudici di Milano ne ha anticipato la scarcerazione al 31 maggio. Brusca è l’unico collaboratore che ha scontato fino all’ultimo giorno la sua pena in carcere. Altri hanno goduto di arresti domiciliari o del ritorno direttamente in libertà, anche gli assassini come lui. In tanti dicono di provare sconcerto per questa scarcerazione, ma è conseguente ad una legge, ispirata da Falcone. È nelle regole. Questa liberazione anticipata deve però far riflettere su quello che accadrà nei prossimi undici mesi, quando l’ergastolo ostativo, come indicato dalla Corte costituzionale, verrà cancellato anche per i mafiosi che non collaborano, e allora inizieranno ad uscire dal carcere i killer, gli stragisti, i boss che mai si sono pentiti e che hanno già fatto 27 anni di galera. Torneranno liberi gli ergastolani come Giuseppe Graviano e Filippo Graviano, e guarderanno i loro “picciotti” con la spavalderia che loro non sono “infami”, cioè non “tradiscono” e che quindi sono “uomini d’onore”, sui quali purtroppo potrebbe rinascere una nuova Cosa nostra, come lo è stata cinquant’anni fa con i Corleonesi. Su questo punto occorre che si rifletta. Nella speranza che qualcuno possa salvarci da questa nuova mostruosità.
La polemica sulla scarcerazione del boss. Perché il sistema dei pentiti non funziona, le contraddizioni di una legge imperfetta. Alberto Cisterna su Il Riformista il 3 Giugno 2021. La scarcerazione di Giovanni Brusca per fine pena ha sollevato, com’è era logico attendersi, un nugolo di polemiche. A venire in discussione in queste ore è il fatto stesso che un uomo di efferata violenza possa aver espiato la propria condanna e possa intraprendere una nuova esistenza senza la prova di un vero ravvedimento interiore. Reazione, sia chiaro, in gran parte giustificabile alla luce dei gravissimi delitti di cui Brusca si è reso protagonista e soprattutto quando a indignarsi siano le vittime innocenti e i loro parenti. La legge sui collaboratori di giustizia che si è applicata a Brusca ha avuto un’esistenza tutt’altro che facile e ha, in gran parte, risentito di troppi plateali abusi in cui si è incorsi nel maneggiare il pericoloso strumento, almeno dall’arresto di Enzo Tortora in poi. Tanto che, nel 2001, la legislazione venne profondamente riscritta proprio per evitare il ripetersi di scandali, più o meno noti, nella gestione dei pentiti. Il fatto, poi, che anche queste modifiche, a distanza di venti anni, meritino di essere nuovamente considerate è un altro discorso che il vistoso attenuarsi della virulenza mafiosa per ora tiene in disparte. Si potrebbe discutere a lungo delle perduranti criticità del sistema e del preoccupante profilarsi di una generazione di inquirenti che, all’oscuro degli abusi di un tempo, appare spesso a traino, se non in balia, di qualche smaliziato dichiarante dai ricordi “a rate”. Se la storia tende a ripetersi, quella giudiziaria ancor di più e sarebbe bene por mano in modo più radicale al problema prima che si producano danni maggiori. D’altronde, nei suoi chiaroscuri, la vicenda dell’avvocato Amara sta lì a dimostrare quanto acuta sia le necessità di una più generale riforma delle norme relative alle cosiddette dichiarazioni eteroaccusatorie – a prescindere dal contesto mafioso o terroristico di riferimento – per scongiurare trappole o timidezze di sorta affidate solo al buon senso di qualche operatore di giustizia. Un mondo turbolento e malmostoso, quindi, in cui si continua a registrare una pericolosa commistione di piani tra l’interesse dello Stato a procurarsi conoscenze qualificate circa la commissione di taluni reati, il vantaggio del pentito a poter usufruire dei benefici messi a disposizione dalla legge e la pretesa che la collaborazione con la giustizia debba promanare da una sorta di capovolgimento morale che nottetempo avrebbe diradato le nebbie della persa coscienza del resipiscente. Certamente alcune collaborazioni hanno una genesi di questo genere. Alcune volte è effettivamente successo che a rendere piena confessione siano stati uomini e donne liberi da ogni costrizione che hanno consapevolmente affrontato una pena che mai gli sarebbe stata comminata dallo Stato per i delitti da loro spontaneamente ammessi. Pochissime volte, sia chiaro. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di detenuti che mal reggono la detenzione carceraria e che, dopo un tempo più o meno lungo, decidono che sia arrivato il momento di vuotare il sacco per riconquistare più in fretta la libertà. Quale che sia stato il percorso prescelto ha poca importanza o poca dovrebbe averne in generale. Il più contrito e penitente dei collaboratori potrebbe rendere dichiarazioni totalmente sprovviste di riscontri obiettivi e il più callido e infido dei pentiti potrebbe portare con sé messe di prove a sostegno delle proprie accuse. L’uno potrà aspirare al perdono divino, l’altro alle prebende statali di questa vita. E guai se non fosse così. Guai se si cedesse alla tentazione, come troppe volte accade, di poter supplire alla fredda e oggettiva valutazione dei fatti con la propria, ipertrofica autostima di infallibile investigatore. Gli annali sono pieni di inquirenti che pretendono di “fiutare” la genuinità del pentito, come se la natura li avesse dotati di un’infallibile bacchetta rabdomantica su cui fanno pieno affidamento, finendo poi per sbattere contro la mancanza di riscontri e le assoluzioni. Talvolta la lezione serve, malgrado i gravi danni collaterali che ha generato, altre volte il segugio la ignora e impreca contro i lacci e lacciuoli del sistema che ostacolano la ricerca della verità in nome di qualche superflua rassicurazione e garanzia. È troppo avventato dirlo, ma a spanne potrebbe essere accaduto qualcosa del genere anche di recente per le prime, concitate indagini sul disastro della seggiovia di Mottarone, quando i cronisti erano estasiati a fronte delle iniziali notizie sulla crisi religiosa e sulle giaculatorie in carcere del primo sospettato che, immerso in cella nelle preghiere, aveva chiamato in correità gli altri. In fondo è proprio ciò che desideriamo. Vogliamo che il reprobo ammetta le proprie colpe e si liberi del peccato che ha commesso confessandosi in pubblico e chiedendo perdono; non vogliamo una solida e gelida collaborazione con la giustizia, ma l’ammissione corale dell’errore che ci fortifica e rassicura, rendendoci migliori, eticamente superiori, rispetto a chi sbaglia e lo riconosce con un atto di sottomissione. La celebrazione dell’autodafè, elaborato dall’inquisizione spagnola, in cui si proclamava la sentenza e si raccoglievano le abiure dei condannati. Nelle ultime settimane questo universo retorico è in fibrillazione e scricchiola. L’ordinanza della Consulta sull’ergastolo ostativo ai benefici senza la collaborazione di giustizia, la pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione sull’affiliazione di mafia come mero atteggiamento interiore privo da solo di autosufficienza sanzionatoria, la liberazione di Giovanni Brusca di cui taluno lamenta che si ignori il vero ravvedimento interiore, sono nient’altro che le declinazioni di una grammatica giuridica che stenta ancora a fare laicamente i conti con l’insondabilità dell’animo umano, con l’inesplorabilità della coscienza, con l’impossibilità di misurare la rieducazione se non con canoni oggettivi ed esteriori. E questa, si badi bene, non è una resa di fronte alla dissimulazione astuta o al camouflage comportamentale, ma la indispensabile presa di consapevolezza che l’ordinamento quando viene a contatto con le opzioni interiori dell’uomo si deve ritrarre e giudicare le parole alla luce dei fatti e mai il contrario.
Mattia Feltri per “La Stampa” il 3 giugno 2021. È difficile restituire il significato di surreale meglio di quanto abbiano fatto i partiti, di sinistra e di destra, nella quasi totale interezza, con la geremiade per la scarcerazione del pentito di mafia Giovanni Brusca. Un' eccezionale unanimità nello scandalo per lo schiaffo allo Stato, mollato però per mano di una legge votata dal Parlamento, come tutte le leggi, e che soltanto il Parlamento può cambiare. Dunque, i partiti indignati per la legge votata da loro e mai cambiata da loro, precisamente con chi ce l'hanno? (Chiedo scusa se, per le attuali consuetudini, mi sono spinto troppo nel tecnico). A destra perlomeno c' è una tradizione: negli anni Novanta si progettava una riforma, sebbene su presupposti leggermente più meditati di «Brusca è un uomo molto cattivo». Si temeva che, spinti dalla premialità in cambio del pentimento, i pentiti si pentissero oltre il dovuto, e tirassero in ballo chi non c' entrava niente. E si temeva che alcune procure ne approfittassero per mettere fuori gioco dei competitori politici. Naturalmente il competitore politico era Silvio Berlusconi, e non sempre su di lui i pentiti erano stati di una precisione chirurgica, diciamo così. A sinistra, dove ricordo un giovane e brillante leader come Enrico Letta, si imputò a Forza Italia di fare gli interessi della mafia, di tradimento nei confronti di Giovanni Falcone, sulla cui dottrina del pentitismo si erano raggiunti eccellenti risultati, e soprattutto di imbastire leggi al solo scopo di salvare il capo dai pm. A sinistra ci si oppose, come suggerisce il ribaltone di oggi, al solo scopo di aiutare i pm a farlo fuori.
Mai più un caso Brusca. "Ora si cambia la legge". Sabrina Cottone il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Il killer, mascherato, si scusò in un'intervista tv. Tra le norme da rivedere l'ergastolo senza benefici. Un passamontagna nero copre interamente il viso, occhiali scuri impediscono di vedere l'espressione degli occhi, sotto il giaccone chiaro persino le mani sono nascoste dai guanti. Riappare nella mente il ghigno spalancato sull'anima di Totò Riina, nella foto da belva in gabbia. Qui l'unica possibilità di guardare dentro Giovanni Brusca, nel video della sua intervista di cinque anni fa rilasciata al documentarista francese Mosco Levi Boucault, è ascoltarne la voce, seguire il flusso delle parole, provare a intonare quel lungo sospiro dopo aver chiesto «scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime a cui ho creato tanto dolore e dispiacere». Un interminabile «eeeeeeeeeeee» cela tutto ciò che resterebbe da dire, il tentativo di essere creduto da chi ne avrebbe valutato le dichiarazioni per la scarcerazione, forse la speranza di arrivare a uomini e donne con le vite travolte dai suoi centocinquanta omicidi confessati. Poi le scuse alla moglie e al figlio per aver rovinato la loro vita sia da mafioso che da pentito e chissà quante altre intenzioni del cuore illeggibili agli uomini. «Una cosa è la conversione cristiana, un'altra la collaborazione con la giustizia. Non bisogna fare confusione tra pentito e convertito», dice l'arcivescovo di Monreale, Michele Pennisi, la cui diocesi è stata segnata da tanto sangue. Pennisi, che lavora nella commissione creata da Papa Francesco in Vaticano per la scomunica delle mafie, invita i collaboratori di giustizia a «fare penitenza per tutta la vita per gli atroci delitti commessi, riparare al male fatto, chiedere perdono ai familiari delle vittime e applicare la giustizia riparativa», ovvero rimediare agli effetti della propria condotta. Impresa anche questa spesso sovrumana. In termini giuridici la medesima questione è posta dall'ergastolo ostativo: introdotto dopo la strage di Capaci, nel 1992, esclude benefici, permessi, lavoro esterno, misure alternative, libertà condizionata per i colpevoli di reati di mafia (e di altri crimini tra i più efferati) che non abbiano accettato di collaborare con i magistrati e quindi di aiutare le vittime ad avere giustizia. Insieme al carcere duro, il 41 bis, e agli sconti di pena per i pentiti che abbiano rivelato gravi reati riscontrabili, è uno dei pilastri della legislazione contro la mafia legata alla memoria di Giovanni Falcone. «La legge nel 2021 va cambiata» dice il leader della Lega, Matteo Salvini, con il consenso dei Cinque stelle. Sull'ergastolo ostativo il Parlamento dovrà pronunciarsi entro maggio 2022 dopo una sentenza della Consulta che l'ha dichiarato illegittimo nella formulazione, ma senza smantellarlo. A chiedere subito la riforma che ne confermi l'efficacia è Maria Falcone, la sorella di Giovanni: «La politica trasformi l'indignazione in legge. Concedere benefici a chi neppure ha dato un contributo alla giustizia sarebbe inammissibile e determinerebbe una reazione della società civile ancora più forte di quella causata dalla liberazione, purtroppo inevitabile, del macellaio di Capaci». Vanno oltre Lega e M5S. Matteo Salvini dichiara che «chi ammazza deve stare in galera fino alla fine dei suoi giorni senza sconti e senza scorciatoie». Dopo la condanna della sindaca di Roma, Virginia Raggi, anche il grillino Nicola Morra è convinto che «la legge va cambiata» e che Brusca possa continuare a collaborare con la mafia, nonostante l'ex boss scarcerato abbia definito Cosa nostra «fabbrica e catena di morte, agonia continua». A difendere i successi delle leggi antimafia, nella consapevolezza dei limiti da rivedere, restano la sinistra, Iv, magistrati e giuristi. Se ne lamentava invece proprio Giovanni Brusca, adesso scarcerato, nascosto in una località segreta e con obbligo di firma: «Chi collabora con la giustizia viene sempre denigrato e disprezzato».
La strage di Capaci e il racconto di Cosa Nostra. Chi è Giovanni Brusca, il soldato killer di Totò Riina che ha ucciso Giovanni Falcone. David Romoli su Il Riformista il 2 Giugno 2021. Lo si può ammettere senza sforzo, un certo brivido è inevitabile di fronte alla notizia della scarcerazione di Giovanni Brusca, l’uomo che a domanda diretta sul numero delle sue vittime non seppe rispondere: «Sicuramente più di 100 ma sicuramente meno di 200». E tuttavia quel comprensibile sussulto è del tutto immotivato dal punto di vista legale, come hanno segnalato la sorella di Falcone, la più eminente tra le cento e passa vittime di Brusca, e il fratello di Paolo Borsellino. Brusca è un pentito e come tale ha goduto di uno sconto di pena, che comunque è rimasta alta. È uscito dopo 25 anni, senza mai aver goduto degli arresti domiciliari, a differenza di molti altri pentiti. Li ha chiesti più volte ma sempre ricevendo risposta negativa. C’è qualcosa di assurdo in un sistema politico che vara le leggi sui pentiti, li usa a man bassa, introduce persino, con il famigerato art. 41bis, una forma di carcerazione durissima, sconfinante nella tortura, al solo scopo di indurre pentimenti e poi trasecola di fronte all’applicazione di quelle stesse leggi. Con la levata di scudi di questi giorni Brusca paga una notorietà sinistra e non indebita. Ci sono stati collaboratori di giustizia altrettanto sanguinari, usciti di galera con maggiore anticipo senza che nessuno se ne accorgesse o comunque fiatasse. Quella torva celebrità è il prezzo dell’essere uno dei pochi sopravvissuti tra i killer di prima fila adoperati da Totò Riina nella grande mattanza passata alla storia come “seconda guerra di mafia” mentre si trattò di un golpe e dell’instaurazione di una dittatura feroce in quella che, a modo suo, era stata sino a quel momento una specie di democrazia. Quasi tutti gli altri sono morti, per lo più fatti ammazzare dallo stesso Riina: Pino Greco “Scarpuzzedda”, Filippo Marchese, Mario Prestifilippo. A quel livello sono scampati solo Nino Madonia, che non ha mai scelto di collaborare con la giustizia, e lui, Giovanni Brusca detto U Verru, il porco. Brusca è figlio di Bernardo, capo della famiglia di San Giuseppe Jato, il più fedele alleato di Totò Riina e dei corleonesi, un viddanu come loro, niente a che vedere con l’aristocrazia mafiosa di Palermo sterminata da Totò “u Curtu” spesso mettendo in campo proprio i picciotti di don Bernardo e di suoi figli, Enzo e Giovanni. Nel libro-intervista a Saverio Lodato Ho ucciso Giovanni Falcone, l’aspetto più interessante ma anche raggelante, sono i racconti della “normalità” di Cosa nostra. Le feste. Le cene, spesso organizzate per festeggiare un omicidio. Gli scherzi, tra un’esecuzione e l’altra. Ne emerge il quadro di un mondo a parte, nel quale l’omicidio è a modo suo norma, e Brusca, quasi con candore, si sforza di dimostrare che in fondo don Totò non era quel mostro che sembra. Nell’intimità sapeva giocare con i più giovani e con i bambini. Anche Brusca giocava con Giuseppe Di Matteo, di cui era stato padrino: figlio di Santino, uomo d’onore della famiglia di Altofonte. Poi Santino fu arrestato, iniziò subito a collaborare, fece i nomi dei responsabili di due attentati eccellentissimi, la strage di Capaci, quella dove saltarono in aria Falcone, la moglie e la scorta, e l’uccisione di Ignazio Salvo, cuore del potere andreottiano nell’isola. Brusca era dentro fino al collo in entrambi i fattacci. La strage la aveva organizzata, pianificata e diretta lui su mandato di zu Totò. Con le autobombe aveva già una certa esperienza: ne aveva usata una, insieme a Nino Madonia, per eliminare il magistrato Rocco Chinnici e la sua scorta, quasi 10 anni prima, nel 1983. A ammazzare Salvo c’era andato di persona, con Leoluca Bagarella e Nino Gioè. Per tappare la bocca al pentito, fu Brusca ad avere l’idea di rapirgli il figlio. Travestiti da agenti della Dia lo prelevarono da un maneggio, il 23 novembre. Santino però non ritrattò. U Verru tenne il bambino prigioniero per 25 mesi, spostandolo da una località all’altra. Poi, dopo essere stato condannato in contumacia per l’omicidio Salvo, decise che non ne valeva più la pena e diede l’ordine «Aliiberati di lu cagnuleddu», Liberati del cagnolino. Fu strangolato e il cadavere venne sciolto nell’acido, anche quella un’abitudine: «Ne bastavano 50 litri per cadavere», spiegherà anni dopo in aula, aggiungendo che forse, se avesse avuto più tempo per pensare, l’esecuzione del figlioccio non la avrebbe ordinata. Una probabilità su mille, specificò, c’era. La liberazione di Brusca non è una sorpresa. Era attesa, anche se è arrivata con un mese e mezzo d’anticipo. Non è neppure il primo del gruppo dinamitardo di Capaci a uscire di galera: Di Matteo e La Barbera sono liberi da molti anni. Dubbi sulla sua piena onestà come pentito ce ne sono. Mise da parte l’omertà quasi subito, appena un mese dopo essere stato arrestato con il fratello Enzo vicino ad Agrigento nel maggio 1996. All’inizio le deposizioni erano mirate, spesso bugiarde. Provò a tirare in mezzo Luciano Violante, accusandolo di aver cospirato con lui per colpire Andreotti. Secondo la consolidata pratica mafiosa i fare anche del pentimento un’arma prendeva di mira l’arcinemico Baldassarre Di Maggio evitando di chiamare in causa gli uomini d’onore a lui più vicini. Entrò in contraddizione con le testimonianze del fratello, anche lui pentitosi in tempi record. Rischiò di perdere la qualifica di collaboratore di giustizia: pena scontata e 500mila lire al mese. Ci ripensò, ritrattò le prime testimonianze, iniziò a parlare sul serio anche se il dubbio che sul suo patrimonio proprio tutto non abbia detto è dilagante. Giovanni Brusca non è tipo la cui liberazione possa essere salutata con gioia e bottiglie di spumante. Ma non è neppure pensabile che nel suo caso si possa soprassedere su una legge voluta prima di tutto proprio dall’antimafia perché troppo famigerato. La sua scarcerazione, a pena scontata, era un atto dovuto. David Romoli
Il vero scandalo del pentimento di Brusca è uno solo: non sappiamo ancora chi uccise Falcone e Borsellino. Nella giurisprudenza non esiste una cosa così abbietta e non misurabile come il pentimento. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 3 giugno 2021. L’Italia e la patria dell’ipocrisia e delle eccellenze. Le eccellenze servono a coprire la qualità medio pessima dei servizi, come la sanità, per esempio. L’ipocrisia copre, come un’enorme mutanda ottocentesca, piena di bottoni, nastri e carrucole, la pessima coscienza di una buona parte del Paese che viene accuratamente mantenuta con apposite campagne piagnone e inginocchiate. Il caso Brusca (LEGGI) e esemplare. Brusca è quel serial killer che tutti conosciamo, il boia che ha strangolato un bambino per poi di scioglierlo nell’acido, ma è anche uno che ha permesso di sviluppare le inchieste antimafia. Tecnicamente parlando è un traditore a pagamento. Nel linguaggio della mala, un infame. Giuridicamente parlando è un collaboratore di giustizia. In America si chiamano testimoni sotto protezione. Se tu sei un delinquente occasionale, o giusto per una volta, puoi chiedere di entrare nell’apposito programma in cui tu offrirai informazioni verificabili in cambio di sconti di pena.
PRATICA ABBIETTA, VISCIDA E NON MISURABILE. Non esiste in giurisprudenza una cosa così abbietta, viscida e non misurabile con alcuno strumento come il pentimento. Si deve dire invece che Brusca è un pentito. Brusca non è pentito di nulla, mentre l’altro e primo grande pentito della mafia fu Tommaso Buscetta. Io ho in casa rilegate le copie fotostatiche che mi regalò Falcone contenenti tutti i verbali autografi scritti a mano da Giovanni Falcone mentre interrogava Tommaso Buscetta. A tu per tu. Nessun cancelliere, perché Falcone non voleva terze persone. Tu parli, io ti sconto. Tu menti, io ti aumento la pena. Quando Buscetta tentò di incastrare Andreotti mentre vuotava il sacco con Falcone, questi se ne accorse e lo denuncio. Tutta la storia della guerra tra lo Stato e gli assassini delle Brigate Rosse è una storia di collaboratori di giustizia, immediatamente definiti pentiti, che semplicemente avevano capito di aver perso la loro sporca guerra e preferivano passare dalla parte dello Stato denunciando i compagni delle loro campagne omicide. Quei brigatisti non avevano alcun onore perché i loro delitti erano delle esecuzioni eseguite alla schiena di uomini inermi, assassinati per l’abito che rivestivano: carabiniere, giornalista, giudice, poliziotto, sindacalista, politico, ed erano omicidi vili e abbietti. Non erano meno abbietti di quelli della mafia che agisce per il denaro e per il potere.
IL VERO SCANDALO. Il vero scandalo dell’affare Brusca è che noi tuttora non sappiamo perché e chi esattamente ha ucciso Falcone. E anche Borsellino. La mafia non assegna gli Oscar alla carriera. Di conseguenza Falcone e Borsellino non sono stati assassinati per odio, perché la mafia non tratta l’odio come una merce, ma soltanto l’omicidio come un’estrema necessità e le maniere con cui uccide costituiscono messaggio. Un pesce in bocca, i genitali in bocca del cadavere indicano tradimento alla famiglia o tradimento sessuale. Far saltare in aria con un’operazione da commando militare il giudice Falcone significherà ben qualcosa. Ma non hanno detto esattamente che cosa, e se lo chiedeva proprio Brusca durante il processo quando disse a un giornalista al microfono: «Ma vi pare a voi, dottore, che un uomo ignorante come me può mettere insieme un macchinario come quello con cui hanno ucciso il giudice Falcone, dandomi a me soltanto un pulsante da spingere?».
LA FUNZIONE DEL PENTIMENTO. Tutti ricordiamo il pentimento di Patrizio Peci delle Brigate Rosse e di suo fratello. La prima operazione di successo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che sconvolse la struttura e criminale della banda armata. Il fratello di Peci fu fucilato dai Brigatisti Rossi e l’esecuzione fu filmata (non esistevano i cellulari) e diffusa per video. È il destino di molti pentiti. Tutti i parenti del pentito Buscetta fecero una brutta fine. Chi si pente lo sa e fa una scelta. Resiste la tentazione di parlare dei pentiti come se la giustizia fosse una questione cattolica e come se i rapporti personali tra l’uomo e il suo Dio, almeno tra l’uomo e la sua coscienza, fossero un affare giuridico. Non lo è. Il pentitismo serve unicamente a svolgere indagini: è un mercato in cui si scambiano informazioni controllabili e verificate con anni di galera. Lì comincia e lì finisce il pentimento. Tutto il resto e solamente teatro e propaganda e lo vediamo ogni volta che viene rimandata in onda quella scena da tragedia greca della vedova Schifani che recita il pezzo di «pentitevi, pentitevi – inginocchiatevi, inginocchiatevi» che lei stessa rese meno autentico con le sue parole più tardi.
LA MANIPOLAZIONE CHE CI CONDANNA. L’Italia è un Paese inferiore agli altri civili Paesi europei perché pratica questo voodoo delle coscienze, questa manipolazione che finge la bontà, che simula quanto di più abbietto possa esserci: il mercimonio di coscienze imbalsamate esposte sulle prime pagine. Forse dovremmo essere noi a vergognarci per il fatto di dare ospitalità a questi spettacoli tribali. Nei Paesi in cui è stato legalizzato il valore di merce dell’informazione in cambio di sconti, la questione del pentimento come moto della pretesa coscienza morale del criminale che vende informazioni non è considerata parte del valore aggiunto: te la vedrai col tuo Dio, ma non romperci le scatole con i tuoi tormenti di cui non vogliamo sapere nulla. Dicci piuttosto: dove hai detto che hai sepolto quella pistola? Dove sta il cadavere di cui parlavi? Chi sono i testimoni rintracciabili che hai citato? Lì comincia e lì finisce. Tutto il resto è trucco di scena, manipolazione, cattiva coscienza collettiva e individuale. È così che noi italiani siamo diventati figli di un Dio minore ed è (anche) per questo che tutti ci guardano come pericolosi, infidi, inclini al pianto, al pentimento, alle urla e alle scenate. Brusca è un manovale della morte come ne abbiamo incontrati milioni nel secolo scorso. È il loro mestiere ed è antico e abominevole quanto l’uomo. Può anche darsi che talvolta si pentano: in fondo, sono mestieri logoranti. Ma non è nostro compito esaltare la loro messinscena e poi l’indignazione per il fatto che il finto pentito sia tornato libero con tutto il sangue che ha versato. Dovremmo smettere di giocare a questo gioco: è la nostra cattiva coscienza, della quale dovremmo se non pentirci, almeno liberarci.
Vittorio Feltri sulla scarcerazione di Giovanni Brusca: "Se fossi in lui non girerei sereno". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 giugno 2021. A bocce ferme e dopo una breve riflessione si può discutere a freddo della scarcerazione di Giovanni Brusca, 64 anni, un curriculum delinquenziale spaventoso: si parla di oltre 100 omicidi, inclusi quelli del magistrato Falcone e di un bambino sciolto nell'acido per farlo scomparire dopo la morte. Solo a rammentare le prodezze criminali di questo individuo vengono i brividi e si è assaliti dal disgusto. Ovvio che la gente abbia appreso con rabbia della liberazione di Brusca avendo questi scontato 25 anni di detenzione. Non riesce a capacitarsi che un mafioso che ha sparso tanto sangue e dolore possa uscire dalla cella e rientrare nel consorzio civile. In certi casi, di fronte a delitti atroci, si evoca la pena di morte, è normale che non si pensi a una punizione più idonea perché l'offesa arrecata alla comunità è irreparabile. Ma attenzione cari lettori, sono d'accordo che un assassino seriale come quello di cui trattiamo meriti la stessa crudeltà da lui espressa quando commetteva reati gravissimi. Però bisogna tenere conto di un fatto inequivocabile: l'Italia da tempo ha ripudiato la pena capitale e ha deciso di cancellarla dai codici. Quindi non si può decretare. Inoltre fu proprio una vittima illustre, lo stesso Falcone, del picciotto sanguinario a proporre una legge premiale per favorire il fenomeno del pentitismo: se l'omicida confessa e collabora con la giustizia deve usufruire di qualche agevolazione, che lo invogli a cantare, per non essere condannato all'ergastolo ma a una pesante reclusione. E Brusca, una volta arrestato, questo ha fatto: ha raccontato per filo e per segno le sue imprese da omicida, senza tacere delle complicità di cui si giovò. A questo punto, dato che la legge è uguale per tutti, compresi i malviventi, egli dopo due decenni e mezzo ha ottenuto quello che gli spettava, uscire di galera. Dal punto di vista etico ciò è ripugnante, ma da quello tecnico-giudiziario è un atto legittimo, direi doveroso. Nei panni di costui non circolerei sereno in Sicilia dove ha seminato tanti lutti, avrei paura che qualche familiare delle persone cui ha tolto la vita si vendicasse e mi facesse fuori. Il resto è solo chiacchiera che non incide sulla realtà. Tuttavia i sentimenti popolari vanno rispettati e compresi. Dinanzi a uno stragista crudele e spietato è impossibile non provare una forte repulsione.
Fabio Amendolara per "la Verità" il 3 giugno 2021. «Un elenco dei boss a fine pena non c' è», dicono dalla commissione parlamentare Antimafia. E con molta probabilità una lista non l'ha isolata neppure chi deve occuparsene, visto che ieri Nicola Morra, che della commissione è il presidente, a proposito della scarcerazione del pentito Giovanni Brusca, ha denunciato: «Uno Stato serio ha coscienza della cronologia delle future scarcerazioni, le affronta in anticipo, senza soccombere all' animosità del momento». E ha ricordato che a breve verranno scarcerati anche i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, capi del mandamento di Brancaccio, entrambi con meno di 60 anni di età. Che torneranno liberi, portandosi sulle spalle condanne in qualità di mandanti dell'omicidio di padre Pino Puglisi e di responsabili delle stragi di Capaci e di via D' Amelio. Filippo ha già affermato davanti ai magistrati di Firenze di essersi dissociato e ha chiesto di poter accedere a un permesso premio. All' indomani delle stragi di mafia del 1992, per questi boss fu pensata una norma specifica, l'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario: l'ergastolo ostativo. Una misura che, dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e quella della Corte costituzionale, è destinata a saltare. La Consulta, avendola giudicata incompatibile con la Carta, ha infatti dato un anno di tempo al Parlamento per modificarla. Ciò permetterà ai boss ergastolani di accedere a scarcerazioni anticipate, permessi premio e vantaggi vari. Ma i Graviano non sono gli unici. La Verità ha scoperto che anche il corleonese Leoluca Bagarella, 79 anni, che si porta sulla coscienza l'omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo con la complicità di Brusca, del capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano e del giornalista Mario Francese, che investigava sugli affari dei corleonesi, pare stia facendo i calcoli perché a fine pena. Dopo essere stato scarcerato nel 1990, dal 1992 fu di nuovo latitante e dopo l'arresto di Totò Riina, Bagarella prese il comando dell'ala militare di Cosa nostra. È considerato uno dei responsabili dell'omicidio dell'esattore Ignazio Salvo. È stato condannato a due ergastoli e, con un'ulteriore sentenza, a 30 anni di reclusione. È a fine pena anche Giovanni Strangio, uomo della 'ndrangheta arrestato nel 2009 dopo essere finito nella lista dei 30 latitanti più pericolosi. Anche se il fine pena non è proprio dietro l'angolo, potrebbero chiedere dei permessi premio e agevolazioni anche Domenico e Girolamo Molè, boss della Piana di Gioia Tauro condannati all'ergastolo. E di ergastolani calabresi che sperano di uscire o nei permessi premio, come ricostruito dal quotidiano online calabrese LaC24, ce ne sono diversi: «Giovanni Tegano, sanguinario capobastone reggino, il boss cosentino Ettore Lanzino, l'esponente di vertice del clan Mancuso, Pantaleone alias Luni Scarpuni, Franco Abruzzese di Cassano, Giuseppe e Domenico Gallico di Palmi, Sebastiano Nirta di San Luca». E poi ci sono «i mandanti ed esecutori dell'omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale, Francesco Fortugno, Salvatore Ritorto, Alessandro e Giuseppe Marcianò». Anche un camorrista del calibro di Francesco Schiavone, detto Sandokan, ergastolano, sta facendo i conti in quanto a fine pena. Potrebbe uscire presto anche Francesco Bidognetti, detto Cicciotto 'e mezzanotte, che negli anni Novanta avrebbe ordinato l'assassinio del medico Gennaro Falco, colpevole di non aver diagnosticato in tempo una neoplasia alla prima moglie. È stato condannato all'ergastolo nel 2008 nel processo Spartacus insieme agli uomini più influenti del clan Schiavone. Agli inizi di maggio è già uscito, in gran silenzio, anche Pino «Facciazza» Piromalli, dopo 22 anni di 41 bis. Il boss, che era stato condannato all'ergastolo, ha finito di scontare la pena nel carcere di Viterbo ed è tornato a Gioia Tauro. C' è poi un misterioso boss, il cui nome non è saltato fuori, ma del quale ha parlato il consigliere del Csm Nino Di Matteo: «Ci sono molti di quei mafiosi che hanno fatto le stragi che sono ancora vivi e hanno seguaci dentro Cosa nostra e sperano di poter anche uscire dal carcere e di ottenere dei benefici come la liberazione condizionale. E c' è il rischio che qualcuno che ha partecipato alle stragi di Capaci o di via D' Amelio e che è stato arrestato la prima volta a fine 1992-1993 tra un anno, pur non avendo iniziato a collaborare con la giustizia possa accedere a dei benefici penitenziari. Io credo che sia come uccidere un'altra volta Giovanni Falcone e tutte le altre vittime delle stragi». Un altro alert, contenuto in un lungo dossier di cui La Verità è in possesso, lo aveva inviato il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho al presidente della Camera, Roberto Fico, il 24 novembre 2020. A proposito del ritorno in libertà dei collaboratori di giustizia aveva intimato: «Non va dimenticato che la ratio della disciplina legale in tema di liberà personale dei collaboratori di giustizia è complessivamente ispirata dall' esigenza di evitare fenomeni di anticipata e persino precipitosa scarcerazione di collaboratori macchiatisi di gravissimi reati». Sei mesi dopo Brusca è uscito dal carcere.
Dagospia il 4 giugno 2021. Da “Belve”. Il pentimento di Anna Carrino ha rappresentato l’inizio della fine dell’impero criminale dei Casalesi. La compagna del boss Francesco Bidognetti ospite a Belve rivela a Francesca Fagnani circostanze mai chiarite durante la sua collaborazione. Una guerra nella guerra all’interno della famiglia del boss: lotte per il potere, scandali da nascondere, ricatti e minacce. “Lei ha conosciuto Francesco Bidognetti quando aveva 13 anni e lui invece quanti ne aveva?” chiede Francesca Fagnani: “Ventinove”, risponde Carrino, “E che tipo di rapporto c’era tra voi all’inizio, è stata subito una relazione?” - insiste la giornalista- “fino a 13 anni sono stata in collegio. Mi sono molto avvicinata a lui perché lo vedevo come un papà, poi man mano cominciava a nascere non dico l’amore, perché amore è una parola molto grande, ma tantissimo affetto”. E poi un passaggio drammatico e inedito della sua vita… “E’ possibile che Bidognetti avesse una relazione, un rapporto già con sua mamma?... (Silenzio, Carrino muove nervosamente le mani intrecciate, ancora silenzio, non smentisce e guarda la Fagnani facendole capire di passare oltre…) “Vado avanti? Andiamo avanti…?” dice Fagnani, comprendendo che era stato toccato un argomento delicato… “lei è rimasta incinta ed era una ragazzina, ha partorito da sola in bagno?” prosegue Francesca: “Quella mattina sono rimasta da sola a casa” racconta Carrino “mi sono venuti dei dolori di pancia, pensavo di dover andare in bagno ma d’un tratto mi sono sentita l’acqua che mi colava tra le gambe e ha cominciato a uscire la testolina della bambina e io con le mani la infilavo dentro per non farla uscire”. Altro capitolo sono i figli, in particolare la primogenita, Katia Bidognetti, che in una lettera al padre boss ha chiesto implicitamente di potere fare uccidere la madre. Lei ne ha viste di cotte e di crude, chiede Fagnani, ma come può sopportare una figlia che chiede di far fuori la madre? “Non si spiega” risponde Carrino “perché anche la mamma più cattiva del mondo i figli la perdonano sempre. Se è arrivata a tutto questo vuol dire che ha un odio nei miei confronti”. Tutto questo odio, che non può essere attribuito solo alla sua scelta di collaborare, è possibile che sia riferibile a un'interpretazione ambigua di un rapporto tra lei e suo genero? Che avesse sospettato in qualche modo che ci fosse un rapporto ambiguo tra lei e suo genero? “All'inizio c'è stato quel rapporto tra suocera e genero, poi dopo ha cominciato ad allungare le mani. E quando uno comincia ad allungare le mani...”. Diciamo quindi che lui si è allargato con lei? In modo improprio, mettiamola così. E questo Katia l'ha interpretato attribuendolo a lei forse, è possibile? “Sì. Come lo attribuiscono tantissime persone. Perché dicono che io non ho parlato, mi sono stata zitta, l’ho coperto, perché ho fatto... Ma invece non parlavo per paura”. Indomabili, ambiziose, sempre all’attacco e mai gregarie alle 22.55 le protagoniste di Belve si prendono il venerdì sera di Raidue, con un ciclo di dieci puntate. Il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani con domande dirette e mai cerimoniose puntano a far emergere forza e fragilità delle protagoniste, parte quindi con due donne dello spettacolo. Feroci e fragili, al tempo stesso.
Michele Orsi: ucciso dalla camorra, lo Stato nega ogni risarcimento. Le Iene News il 03 giugno 2021. Michele Orsi, imprenditore attivo nel settore dei rifiuti, viene ucciso a Casal di Principe dalla camorra. Prima collegato ai clan dei Casalesi, poi collabora con la giustizia (ma mai ufficialmente riconosciuto dallo Stato): lo Stato però nega ogni risarcimento. Ce ne parla Antonino Monteleone. Casal di Principe è considerato il feudo del clan dei Casalesi. Qui fare l’imprenditore è molto difficile: se si ha successo, è quasi impossibile non entrare in contatto con loro. Il nostro Antonino Monteleone ci racconta la storia di Michele Orsi. Il 1 giugno 2008 a Casale l’imprenditore Michele Orsi esce di casa per andare a comprare una bevanda a Florinda, la sua figlia più piccola. Sulla soglia del bar qualcuno esplode venti colpi di pistola, cinque di questi lo feriscono a morte: i marchi di una vendetta di camorra. “Guardai dalla telecamera e vidi che c’erano parecchie persone che correvano incuriositi all’angolo della strada”, racconta la vedova di Michele Orsi alla Iena. “Pensai: che cos’è successo? Non capii nulla in quel momento, vedevo le persone che si mettevano le mani al viso e dicevano: guarda che è successo qualcosa a tuo marito. E allora ho capito”. Michele Orsi aveva 46 anni e il commando che lo uccise quella mattina era guidato da Giuseppe Setola, boss della Camorra noto per essere l’esecutore materiale di decine di omicidi tra cui la strage di Castel Volturno. Ma come mai uno dei killer più sanguinari dei Casalesi decide di ammazzare con le proprie mani in pieno giorno un imprenditore campano? “Michele Orsi non è un imprenditore qualsiasi, è una pedina centrale di un sistema di potere tra politica, imprenditoria e criminalità organizzata”, ci dice Nello Trocchia. Per conoscere questa storia, guardate il servizio di Antonino Monteleone in testa a questo articolo.
Le polemiche sul fine pena del boss. Brusca, 25 anni sono più che sufficienti per il killer pentito: ingiusto è l’ergastolo ostativo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Giugno 2021. Il più sincero è proprio Santino Di Matteo, quello che fece il “pentito” per primo e pagò con il sangue del suo figlio bambino, strangolato e buttato nell’acido. Lui dice, chiaro chiaro, che se incontra Giovanni Brusca appena scarcerato dopo aver scontato la pena con 25 anni di detenzione, colui che emise quella sentenza infame nei confronti di un innocente, colui che fece mettere le mani al collo a un bambino, non sa «che cosa accade». Tra due mafiosi che la pena di morte l’hanno conosciuta e applicata giorno dopo giorno nella loro vita, si può anche immaginare che cosa “può succedere” se si ritrovano faccia a faccia. Senza ipocrisie, senza “sono garantista però”. Per il resto, dai magistrati ai politici, il giorno dopo l’uscita da Rebibbia del “pentito” numero uno di Cosa Nostra, le differenze si distanziano solo tra i vomitatori e i virtuosi. I primi sono quelli che non vanno per il sottile, che sotto sotto sono a favore della pena di morte ma non possono dirlo, quindi lasciano che sia il proprio corpo a esprimersi. Vocabolario ristretto, quindi c’è poca libertà di scelta tra disgusto, rabbia, schifezza, vergogna, brividi, pugno nello stomaco. Si va da Matteo Salvini a Enrico Letta. I virtuosi, guidati da Maria Falcone e seguiti da Mara Carfagna, sono altrettanto schifati ma costretti ad allargare le braccia in segno di resa davanti alle leggi sui “pentiti”, comunque considerate utili e fondamentali per la lotta alla mafia. Per cui, il fatto che un mafioso che ha confessato circa 150 omicidi, che ha schiacciato il pulsante per far saltare in aria l’auto di Giovanni Falcone e poi ha fatto arrestare tanti suoi complici, e soprattutto che ha aperto la strada al processo sulla trattativa che non c’è, sia stato condannato a 30 anni di carcere invece che all’ergastolo (ostativo), è un tributo da pagare. A malincuore, con l’ipocrisia del “dolore”, strano sentimento sulla bocca di parlamentari o esponenti del governo. Ben pochi resistono alla tentazione del nulla dei propri pensieri espressi in coro, banalmente uno simile all’altro. Giovanni Brusca era il pupillo di Totò Riina, rampollo d’oro della stagione sanguinosa dei Corleonesi. Fu arrestato nel 1996 nel tripudio scomposto degli agenti che fecero una sorta di girotondo con le moto, urlando di gioia con l’adrenalina a mille. Fu un traguardo fondamentale nella lotta a Cosa Nostra. Dopo un tentativo imbroglionesco, lui impiegò ben poco a fare il “pentito”. Proprio lui che con la vicenda Di Matteo era stato il giustiziere della vendetta trasversale nei confronti del primo grande traditore, seppe giocare la carta pesante di una carriera criminale molto intensa. Capì da detenuto quel che forse aveva intuito anche da libero, e cioè che le leggi speciali giovano a chi delinque di più, perché più ne uccidi e più hai da raccontare. E più racconti, con abilità, mescolando il vero e il falso, il reale e il fantastico, più sarai ascoltato e premiato. Dal 1996 sono trascorsi 25 anni, quelli giusti da scontare per chi sia stato condannato a 30 anni di carcere, e che diventano appunto 25 calcolando 45 giorni di sconto ogni sei mesi. Tutto regolare. Tranne che per un piccolo particolare. Perché in genere i mafiosi della stazza di Brusca non vengono condannati a 30 anni, ma all’ergastolo, e non a un ergastolo qualunque, ma a quello “ostativo”, che non consente l’applicazione di nessun beneficio penitenziario e la cui applicazione consiste nel “fine pena mai”. Nel coro delle prefiche disgustate perché uno come Brusca vorrebbero vederlo solo morto e di quelle virtuose del “dura lex sed lex”, è difficile captare una qualche stonatura positiva. C’è Peppino Di Lello, che fu un esponente di rilievo della componente garantista di Magistratura democratica e che sedette nel pool antimafia con Falcone e Borsellino, che all’ennesima sollecitazione a scandalizzarsi, sbotta: «Ha scontato la pena, che vogliamo fare? Impiccarlo?». È poi lui a ricordare, nel silenzio generale, che in molti Paesi occidentali non esiste neppure l’ergastolo e che altri si accingono a eliminarlo. L’Italia invece non solo si tiene ben stretta la pena a vita, ma l’ha addirittura appesantita con lo zaino della disciplina “ostativa” che oscilla tra la tortura e la pena di morte. Vogliamo scandalizzare un po’ i vomitatori professionali dell’antimafia? Giovanni Brusca è un cittadino dei peggiori, il Caino più cattivo di tutti. Perché ha assassinato e compiuto stragi. Poi perché ha tradito. E infine perché, per far piacere a qualche pubblico ministero più o meno invasato, si è inventato la balla della “trattativa Stato-mafia”, vendicandosi così di qualche alto poliziotto che gli aveva dato la caccia. Questo Caino numero uno è un cittadino che è stato processato e condannato a trent’anni di carcere e secondo le leggi vigenti e che riguardano tutti, ne ha scontati venticinque. Venticinque anni sono quasi un terzo della vita di un uomo, secondo le aspettative degli anni duemila. Facciamo insieme un esercizio di memoria, cerchiamo di ricordare che cosa abbiamo fatto negli ultimi venticinque anni della nostra vita. Forse non riusciamo neanche a ricordare tutto. Proviamo a immaginare come sarebbero stati se li avessimo trascorsi in cattività, nella delizia delle carceri italiane. Sul fatto che Giovanni Brusca li meritasse tutti, pochi sarebbero in disaccordo. Ma i suoi anni di detenzione sono stati tanti. Più che sufficienti. Ora basta. Ma il punto è un altro. L’11 maggio scorso sono state depositate le motivazioni dell’ordinanza con cui la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità di quella pena che Brusca non ha avuto, ma i suoi complici non “pentiti” sì, cioè dell’ergastolo “ostativo”. E ha detto chiaramente, pur concedendo un anno al Parlamento perché corregga la rotta, che quella legge speciale del 1992 che partorì tra l’altro questa sorta di pena capitale mascherata, è fuori dalla Costituzione. Perché tra l’altro, come ha ricordato di recente il pm Henry John Woodcock, «ha delineato un sistema mirante all’annientamento di un presunto “nemico”, e bandito qualsivoglia prospettiva di un suo reinserimento nella società civile, lasciandogli come unica via d’uscita la “scelta” imposta di collaborare con la giustizia». La fabbrica dei “pentiti”, in poche parole, la costruzione dei Brusca. Con il ricatto, neanche tanto sotterraneo, di subordinare la possibilità di un normale percorso riabilitativo, pur in una lunga permanenza in carcere, alla delazione. C’è qualche differenza con la pratica della tortura? Che cosa si chiedeva alle streghe sul rogo, se non di confessare peccati propri e altrui in cambio del perdono? Se c’è dunque qualche motivo per scandalizzarsi oggi, non è l’uscita di Brusca dal carcere, ma il fatto che tutti coloro che lui ha denunciato e fatto arrestare, e che sono detenuti magari da 25 anni, siano ancora dentro con tutte le limitazioni degli articoli 4 bis e 41 bis, e che non lo abbiano potuto accompagnare nel giorno della sua liberazione. È questa la vera ingiustizia.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
· Il Pentitismo.
Mafia, a luglio è morto il pentito Angelo Siino, fu il "ministro dei lavori pubblici dei boss". La notizia tenuta segreta dalla famiglia. La Repubblica il 26 Novembre 2021. L'ultima audizione nel 2014, al processo "Trattativa Stato-mafia". Da molto tempo era ammalato. Negli anni Ottanta lo chiamavano il "ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra" perché era l'ambasciatore dei Corleonesi nel palazzo della Regione e in tutti gli altri dove si spartivano gli appalti. L'uomo del 3 per cento. Angelo Siino, collaboratore di giustizia dal 1997, è morto il 31 luglio nella località segreta dove viveva, la famiglia ha voluto tenere riservata la notizia, che è trapelata solo oggi. "Bronson", lo chiamavano anche così per la somiglianza con l'attore, aveva fatto la sua ultima apparizione in aula al processo "Trattativa Stato-mafia": quel giorno aveva parlato di un progetto di attentato nei confronti dell'ex presidente della Regione Siciliana Rino Nicolosi: "Voleva rompere sugli appalti - disse - me lo rivelò Giovanni Brusca". Il suo ruolo ed i suoi rapporti con l'alta finanza ed i politici era stato delineato da tre pentiti di primo piano di Cosa nostra: Balduccio Di Maggio, Leonardo Messina e Giovanni Drago. Ma a raccontare fatti inediti e di grossa portata su Siino era stato il boss ormai pentito Giovanni Brusca che faceva da tramite tra Totò Riina ed il "ministro" di Cosa nostra. Qualche anno fa Siino decise di raccontare tutti i segreti di Cosa nostra in un libro, scritto con il suo legale storico Alfredo Galasso. Nel libro ("Vita di un uomo di mondo") ha raccontato personaggi come Salvo Lima e Michele Sindona, senatori della Repubblica come Giulio Andreotti e Marcello Dell'Utri. Ci sono i ricordi dei viaggi fra i lussi di Parigi e quelli nei gironi del carcere dell'Asinara, delle battute di caccia con le "mangiate" e le "parlate" nelle masserie dei boss, ma anche i retroscena di alcune vicende che hanno fatto tremare un'isola e anche l'Italia intera. "Sono e mi chiamo Angelo Siino, nato a San Giuseppe Jato il 22 marzo del 1944. Ho ripetuto queste generalità cento volte dinanzi ai Tribunali e alle Corti di tutt'Italia, fino a perderne il senso reale, il senso della mia vita". E' questo l'incipit del suo libro. Due anni fa, la sua vita era stata stravolta dal suicidio del figlio Giuseppe, di 47 anni, che si è ucciso sparandosi un colpo di pistola alla testa dopo un litigio con la moglie.
Camorra, il figlio di Sandokan inizia a collaborare coi magistrati. Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2021. Walter Schiavone, figlio secondogenito del capo del clan dei Casalesi Francesco sta rendendo dichiarazioni al Gup e alla Dda di Napoli sul business della mozzarella. Walter Schiavone, figlio secondogenito del capo del clan dei Casalesi Francesco «Sandokan» Schiavone, ha iniziato a collaborare con la giustizia, in particolare con la Dda di Napoli, cui avrebbe reso già due interrogatori. La circostanza è emersa ieri al tribunale di Napoli nel corso dell’udienza preliminare dell’indagine anticamorra relativa al controllo da parte del clan del business della distribuzione di prodotti caseari, come la mozzarella di bufala, nel Casertano; un’inchiesta per la quale Walter Schiavone fu arrestato nel giugno di quest’anno. Dinanzi al gup Salvatore, Schiavone ha ammesso che Antonio Bianco e altri suoi soci imponevano la vendita dei prodotti caseari sul mercato. Il collegio difensivo è composto da Paolo Caterino, Emilio Martino e Romolo Vignola. La prossima udienza si terrà il 17 dicembre e sarà utile per chiarire altri punti sulle pesanti accuse e collegamenti con il clan dei Casalesi
Si pente Walter Schiavone: è il figlio di Sandokan. Today il 26 Novembre 2021. È il secondo figlio del capoclan dei Casalesi ad iniziare il "nuovo percorso". Il rampollo del boss, già prima di iniziare a collaborare, era entrato nel programma di protezione per via del pentimento del fratello Nicola. Walter Schiavone, figlio secondogenito del capo del clan dei Casalesi Francesco "Sandokan" Schiavone, ha iniziato a collaborare con la giustizia, in particolare con la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, cui avrebbe reso già due interrogatori. La circostanza è emersa ieri al tribunale di Napoli, nel corso dell'udienza preliminare dell'indagine anticamorra relativa al controllo da parte del clan del business della distribuzione di prodotti caseari, come la mozzarella di bufala, nel Casertano. Un'inchiesta per la quale Walter Schiavone fu arrestato nel giugno di quest'anno, imputato per ricettazione aggravata dalla modalità mafiosa. Un business fatto anche dalla località protetta, dove Walter si trovava dopo l'inizio della collaborazione del fratello Nicola, con incontri con i suoi sodali, secondo gli inquirenti. Schiavone ha riferito che la distribuzione di prodotti caseari avveniva con meccanismi di concorrenza sleale: "Sapevano che eravamo del clan e ci agevolavano sui prezzi", ha chiarito in aula. Agevolazioni che riguardavano "sia i fornitori sia i rivenditori dei prodotti". Poi, replicando ad una domanda del suo difensore, ha confermato l'inizio della sua collaborazione con gli organi inquirenti: "Sto parlando anche di altro", ha dichiarato Walter Schiavone. Il rampollo del boss, già prima di iniziare a collaborare, era entrato nel programma di protezione per via del pentimento del fratello maggiore Nicola, primogenito di Sandokan. Secondo la Dda di Napoli, dopo l'arresto di Nicola nel 2010, il clan sarebbe stato gestito proprio da Walter, che in alcuni processi precedenti alla collaborazione aveva già ammesso di aver fatto parte del clan, sebbene negli anni 2013 e 2014. Dal carcere del sito protetto dove si trova, in videocollegamento con il tribunale di Napoli Nord, Schiavone aveva già fatto dichiarazioni ammissive: "Ho preso lo stipendio dal clan per conto di mio padre e mio fratello Nicola".
Le rivelazioni sul "racket della mozzarella". Walter Schiavone collabora con i magistrati: è il secondo figlio del boss dei Casalesi Sandokan a "vuotare il sacco". Carmine Di Niro su Il Riformista il 26 Novembre 2021. Walter Schiavone inizia a collaborare con la Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Il figlio secondogenito del capo del clan dei Casalesi Francesco ‘Sandokan’ Schiavone ha infatti iniziato a parlare con la magistratura, circostanza che sarebbe avvenuta già in due interrogatori. Una circostanza emersa soltanto ieri nel tribunale di Napoli, dove era in corso l’udienza preliminare sull’inchiesta relativa al controllo da parte dei Casalesi del business della distribuzione di prodotti caseari (come la mozzarella di bufala, ndr), indagine che ha portato all’arresto di Walter Schiavone nel giugno di quest’anno. Schiavone, 40 anni, era già entrato nel programma di protezione dopo il pentimento del fratello maggiore Nicola, il primogenito del boss ‘Sandokan’. La DDA partenopea accusa tra l’altro Walter Schiavone di aver gestito il clan dopo l’arresto del fratello Nicola nel 2010. Walter aveva in realtà già parzialmente ammesso la sua appartenenza al sodalizio criminale dei Casalesi nel corso di un secondo processo: “Ho preso lo stipendio dal clan per conto di mio padre e mio fratello Nicola”, aveva riferito in videocollegamento il secondogenito di ‘Sandokan’. Nell’udienza di ieri, come riferisce Casertanews, Schiavone jr ha spiegato ai magistrati che il business della distribuzione e imposizione della mozzarella ai caseifici avveniva anche mentre lui era ‘confinato’ in una località protetta dopo l’inizio della collaborazione del fratello Nicola: anche da lì Schiavone emanava i suoi ordini per mandare avanti il racket della mozzarella. In particolare Walter Schiavone, secondo l’accusa, avrebbe obbligato i titolari di diversi caseifici della penisola sorrentina a vendere sottocosto e in via esclusiva i loro prodotti alle aziende riconducibili al clan dei Casalesi, che poi si sarebbe occupato della distribuzione in ‘regime di monopolio’ nella stessa penisola sorrentina e in alcune zone della provincia di Caserta. “Sapevano che eravamo del clan e ci agevolavano sui prezzi“, ha spiegato Schiavone, sottolineando che le agevolazioni nella distribuzione dei prodotti caseari riguardavano “sia i fornitori sia i rivenditori” della merce. Collaborazione con la DDA confermata anche rispondendo a una domanda del suo avvocato, Domenico Esposito, al quale ha spiegato che con i magistrati antimafia sta parlando “anche di altro”. Sul nuovo status di ‘collaboratore’ ulteriori novità sono attese dalla prossima udienza fissata per il 17 dicembre.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
E' in isolamento da 20 giorni. La moglie: "Chiediamo solo il trasferimento". L’ex pentito Luigi Giuliano è in carcere, l’appello disperato: “Mi uccido, non posso stare con i detenuti comuni”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 26 Luglio 2021. “Nel reparto con i detenuti comuni non ci posso stare, rischio la vita“. E’ il grido disperato di Luigi Giuliano, 48 anni, ex collaboratore di giustizia dopo aver militato nell’omonimo clan che tra gli anni ’80 e ’90 governò nel centro di Napoli. Luigi Giuliano jr è il figlio di Nunzio Giuliano (morto ammazzato 20 anni dopo essersi dissociato dalla camorra), primogenito di Pio Vittorio e fratello di Luigi, colui che è stato ribattezzato ‘o Rre di Forcella. E’ cresciuto in una famiglia nata con il contrabbando e affermatasi nel mondo della criminalità organizzata durante la guerra alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Dopo essere uscito dal programma di protezione, Giuliano jr vive da anni a Reggio Emilia dove nel novembre 2020 è stato arrestato dopo aver accoltellato in un negozio di elettrodomestici un uomo per ragioni di natura passionale. Condannato a un anno e otto mesi di reclusione, il 48enne era stato sottoposto agli arresti domiciliari dai quali è evaso lo scorso 6 luglio quando le forze dell’ordine lo hanno sorpreso in un parchetto vicino la sua abitazione.
Trasferito nel carcere di Reggio Emilia, si trova da 20 giorni in isolamento e non vuole andare in cella con altri detenuti. Il motivo? Teme per la sua vita perché in passato è stato collaboratore di giustizia e in carcere queste cose non si dimenticano. Nei giorni scorsi, attraverso la moglie, ha contattato il garante dei detenuti del comune di Napoli, Pietro Ioia, per denunciare quanto accaduto e chiedere di essere trasferito in un altro carcere dove è presente il reparto riservato ai collaboratori di giustizia. “Deve scontare circa un anno in carcere e chiede solo di essere trasferito perché teme per la sua incolumità” spiega la moglie al Riformista. Luigi Giuliano jr è stato collaboratore di giustizia, così come buona parte dei suoi zii (a partire dall’ex boss Lovegino), all’inizio degli anni Duemila. “Anche se per lo Stato italiano non è più in pericolo, in carcere queste cose funzionano diversamente e chi è stato pentito viene considerato alla stregua di un collaboratore di giustizia attuale” prosegue la donna. “I regolamenti di conti la camorra non li dimentica” aggiunge. Luigi negli ultimi giorni ha tentato anche gesti di autolesionismo. Nella giornata di domenica 25 luglio si è inferto dei tagli ed è stato trasferito in una cella di isolamento priva di materasso e di altri oggetti considerati pericolosi per la sua incolumità. “Dorme a terra, è disperato. Chiede solo di scontare la sua pena in un posto sicuro, nulla di più” chiarisce la moglie. Sulla vicenda è intervenuto anche il garante di Napoli Pietro Ioia: “E’ psicologicamente provato, sono in contatto con il garante dell’Emilia Romagna Marcello Marighelli e speriamo di risolvere la situazione quanto prima”.
La storia di Nunzio Giuliano, morto ammazzato 20 anni dopo essersi dissociato. Il percorso di Nunzio Giuliano, nato nel 1948 e morto ammazzato la sera del 21 marzo 2005 in via Tasso, non è stato come quello dei sui cinque fratelli Luigi, Guglielmo, Carmine, Raffaele e Salvatore. Loro sono stati spietati camorristi fino a quando hanno potuto. Poi quando le cose si sono messe male hanno deciso di passare dalla parte dello Stato raccontando quel che sapevano sulla criminalità organizzata di Napoli e provincia in cambio di sconti di pena, protezione e soldi, quelli che vengono garantiti ai collaboratori di giustizia durante e al termine del loro percorso. Nunzio Giuliano, dopo una giovinezza segnata da piccoli precedenti, sin dall’inizio degli anni ’80, quando l’ascesa dei suoi fratelli, capeggiati da Luigi detto Lovegino (‘o Rre di Forcella) era sotto gli occhi di tutti, decise di defilarsi, di mettersi alle spalle un cognome pesante e iniziare una vita lontano da Forcella e dalla camorra. Decise così di trasferirsi nel quartiere Chiaia con la moglie e i due figli, Pio Vittorio e Luigi (Gemma nascerà invece nel 1987) dove li “costringeva” ad andare a scuola e a stare lontano dall’ambiente contaminato di Forcella. “La mattina prima di scendere – raccontò anni fa il figlio Luigi Giuliano a VocediNapoli.it – controllava se io e mio fratello avevamo messo il profumo e se nelle tasche dei pantaloni c’erano dei soldi. Lo faceva per capire se la nostra intenzione era quella di andare a scuola o dai nostri zii e cugini a Forcella dove potevamo fare quello che volevamo, anche solo giocare con le moto”. Luigi Giuliano all’epoca era adolescente e già subiva il fascino criminale della sua famiglia. “Mio padre era l’unico che ha sempre provato a portarci sulla retta via. Non amava la musica neomelodica e non voleva che parlassimo in napoletano. Ha provato in tutti i modi a farci crescere con la schiena dritta. Da Forcella ci ha portati a vivere in un quartiere borghese come quello di Chiaia iscrivendoci alle medie alla scuola Tito Livio. Poi le cose andarono diversamente perché venne arrestato nel 1983, incastrato dalle dichiarazioni dei pentiti”. “Ricordo ancora – racconta Luigi – che il giorno in cui la polizia si presentò a casa nostra per arrestare mio padre io ero quasi felice. Vi sembrerà strano, mi sentivo liberato, scarico, consapevole che non sarei più stato obbligato ad andare a scuola. Potevo così andare dai miei zii a Forcella. A distanza di anni – aggiunge – ho capito quello che lui voleva trasmetterci e oggi non posso far altro che essergli grato per i suoi insegnamenti. Certo, li ho recepiti in ritardo ma adesso, dopo anni in carcere e un periodo da collaboratore di giustizia, ho iniziato una nuova vita”. Nunzio Giuliano esce dal carcere dopo circa tre anni, nel 1987, e nei mesi successivi, il 10 dicembre, muore per overdose il primogenito Pio Vittorio. Aveva 17 anni. Lo trovarono nel bagno dell’abitazione della nonna con l’ago ancora conficcato nel braccio. Fu la mazzata più grande. Durante il periodo di detenzione Nunzio aveva provato in tutti i modi di farlo smettere, rivolgendosi anche a Don Riboldi, il vescovo di Acerra autore di mille battaglie a favore della legalità e della giustizia. Ma tutto fu inutile. Pio Vittorio andò incontro a una morte annunciata per chi sin da piccolo sceglie quella strada. Nonostante la giovane età aveva un figlio di 2 anni che aveva chiamato come il padre. Furono giorni burrascosi culminati con il prelievo forzato della salma di Pio Vittorio dal vicino ospedale Ascalesi per riportarla a casa dei nonni per la veglia funebre. L’allora capo della squadra mobile di Napoli, Matteo Cinque, si recò a casa del nonno del 17enne e utilizzò le parole giuste per farsi riconsegnare il corpo per sottoporlo all’autopsia disposta dall’autorità giudiziaria. Il giorno dei funerali in migliaia si presentarono davanti alla chiesa egiziaca a Forcella. Non mancarono momenti di tensione che lo stesso Nunzio Giuliano fece rientrare. “Il gruppetto di fotografi – scrive Renato Caprile – in un articolo pubblicato su Repubblica il 13 dicembre 1987 – che non è riuscito a guadagnare il sagrato è pronto ad usare gli attrezzi del mestiere. Ma la madre di Vittorio ha un gesto di stizza. E subito un paio di guardaspalle partono minacciosi in direzione dei paparazzi. Volano parole grosse. Ma l’intervento di Nunzio Giuliano, 38 anni, il padre di Vittorio, calma gli animi. Lasciateli in pace ordina Nunzio sono qui per lavorare. E’ un loro diritto, capito?”. Dopo l’uscita dal carcere, Nunzio venne condannato a tre anni di soggiorno obbligato in un paese del Veneto. Fu in quel periodo che diede inizio alla sua battaglia contro la droga con tanto di manifesti affissi per le vie del centro di Napoli. Poi iniziò a girare per le scuole cittadine raccontando ai giovani la propria esperienza, partecipò a numerose iniziative sociali anche in altre regioni italiane e venne invitato in diverse trasmissioni televisive. Il suo “verbo”, la sua nuova vocazione, vennero sempre visti con sospetto dall’Antimafia e più in generale dallo Stato italiano che non si “fidava” di una persona cresciuta in un ambiante malavitoso da cui si è però allontanato prima che compisse 30 anni e iniziasse l’ascesa criminale dei suoi fratelli. Eppure i temi affrontati negli anni ’80 e ’90 da Nunzio Giuliano oggi – dopo 30 anni – sono più che mai attuali. Dopo la sua morte (di cui non si conoscono, a distanza di 13 anni, mandanti ed esecutori materiali) venne pubblicato “Diario di una coscienza”, una raccolta di considerazioni dello stesso Giuliano: “Questo non è un libro su Nunzio ma intende essere il libro di Nunzio, quello che tante volte lui stesso era stato sul punto di scrivere, ma che per tanti motivi non aveva mai visto la luce. Il compito che Nunzio ha lasciato a noi è stato dunque quello di realizzare un testo di questo tipo, ricco di riflessioni vive, composte in maniera del tutto originale, fatte da un uomo che ha affrontato la sua esistenza come un viandante affronta un viaggio che dura tutto l’arco di una vita. Niente di residuale, ma il pensiero lucido di chi ha saputo emergere dalla sua condizione, indirizzando la propria riflessione su temi che spaziavano dal sociale al politico, dal religioso al filosofico […] L’abitudine di Nunzio di annotare tutto su foglietti sparsi, che spesso rileggendo metteva da parte, e alcuni frammenti di interviste, ci hanno consentito di farlo parlare quasi sempre in prima persona e di sottrarre all’oblio i suoi pensieri”. (dalla prefazione di Maria Rosaria Rivieccio e Roberto Marrone). Lo scorso 21 marzo 2018 a Nunzio Giuliano è stata intitolata una panchina all’interno del Real Bosco di Capodimonte di Napoli. La sua famiglia ha voluto ricordarlo così, partecipando al progetto “Racconta la tua storia al Bosco di Capodimonte. Adotta una panchina, un albero o una fontanella” lanciato dal direttore del bosco Sylvain Bellenger in collaborazione con l’associazione Amici di Capodimonte onlus. “Ragazzi ribellatevi ad un destino scritto da altri. Studiate! La cultura è libertà”. Questa la frase, che Nunzio Giuliano ha ripetuto migliaia di volte nel corso della sua vita, presente sulla targhetta commemorativa installata su una panchina che si trova nei pressi di un campo di calcio presente all’interno del Bosco di Capodimonte.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Lara Sirignano per "Il Messaggero" il 6 luglio 2021. Il libro in cui ha raccontato la sua storia si intitolava Ero cosa loro, una biografia fatta di violenze, destini già scritti, sopraffazione, fino alla scelta di uscire dalla prigione di una famiglia mafiosa che, su designazione dei fratelli, suo malgrado, aveva finito per guidare. Sarebbe stato l'amore per il figlio, che avrebbe voluto allontanare da una sorte criminale quasi naturale, a spingerla a pentirsi. «Mentre ero in carcere mi portarono mio figlio. Aveva solo sei anni e mi chiese perché fossi detenuta e cosa era la mafia. Io lo presi in braccio e tentai di spiegarli che la mafia è una brutta cosa», disse durante uno dei primi processi in cui vestiva i panni della collaboratrice di giustizia. Un ravvedimento durato poco quello di Giusy Vitale, 50 anni, sorella di due padrini, storici alleati di Totò Riina, alla guida del mandamento di Partinico, paesone a 50 chilometri da Palermo ostaggio dei fumi maleodoranti di una distilleria. Gli antichi legami si sarebbero riannodati attorno ai vecchi affari. E Giuseppina detta Giusy, che vantava il primato della prima boss in gonnella e della prima donna ad aver voltato le spalle al clan, è tornata in cella. Secondo la Dda di Palermo sarebbe a capo di una organizzazione di narcotrafficanti che, insieme ad altri 4 gruppi criminali, si spartiva la gestione dei flussi di stupefacenti tra Palermo, la provincia e Trapani.
L'ORDINANZA. «È assolutamente chiaro come la donna non si sia dissociata dall'ambiente criminale in genere e da Cosa nostra in particolare», scrive il gip nella ordinanza che applica la misura cautelare a 85 tra boss e trafficanti di droga, Giusy compresa. Tra gli episodi che dimostrerebbero che l'ex pentita, protagonista di documentari di diverse tv straniere, non ha mai rotto il suo rapporto con il clan c'è una sua conversazione con il nipote Michele Casarrubia del dicembre 2018. I due sono a Roma per trattare l'acquisto di una grossa partita di cocaina con il clan dei Casamonica. Casarrubia, nell'informare la zia delle dinamiche criminali della cosca di Partinico, le riferisce che, a seguito di un furto di marijuana commesso dal cugino, Michele Vitale, questi era stato convocato dai vertici della cosca per rendere conto del suo gesto. La donna, per nulla sorpresa, risponde che l'iniziativa è assolutamente fisiologica perché conforme alle regole di Cosa nostra. Regole che Giusy non ha mai dimenticato. Ma l'inchiesta della Dda che ha svelato il bluff della prima pentita ai vertici di un clan, racconta, ancora una volta, che a comandare in Cosa nostra sono sempre gli stessi personaggi. I Vitale, in questo caso. Il 41 bis, che ha ormai messo fuori gioco Leonardo e Vito, non ha interrotto la tradizione. E se Giusy è tornata alla famiglia in nome del business non hanno mai abbandonato la strada tracciata da Cosa nostra il nipote Michele, la sorella Antonina e il genero di Leonardo Vitale, Nicola Lombardo. A Michele appena adolescente, cresciuto a pane e mafia, il padre ergastolano sussurrava durante i colloqui in carcere di riferire «che c'era una vacca da scannare», chiaro riferimento a un omicidio da eseguire. Sulle orme del genitore il giovane Vitale entra ed esce di galera, poi passa a occuparsi degli affari e prende in mano un gruppo criminale capace di coltivare e produrre enormi quantità di marijuana e di gestire un vasto traffico di droghe. La banda controlla diverse piazze di spaccio e per la cocaina si approvvigiona dalla ndrina dei Pesce di Rosarno e da un noto narcotrafficante romano poi catturato in Spagna. Di peso nell'organigramma del mandamento anche Lombardo, deputato alla risoluzione di controversie tra privati. In virtù del prestigio criminale che gli derivava dall'inserimento organico nella famiglia di Partinico amministrava l'ingiustizia mafiosa dirimendo le liti tra imprenditori in disaccordo sulla concessione d'uso di alcune macchinette del caffè, recuperava trattori rubati a un uomo d'onore, faceva ottenere risarcimenti ad agricoltori il cui raccolto era stato devastato dagli animali di un allevatore. Ordinaria gestione di potere di un clan che ha potuto contare anche sull'appoggio di insospettabili: amministratori locali collusi il Comune recentemente è stato sciolto per infiltrazioni mafiose - ma anche un agente di polizia penitenziaria che, in cambio di ricotta, vestiti e buoni benzina portava fuori dal carcere gli ordini del boss detenuto.
Gennaro Panzuto, l’ex killer: “Se mi uccidono diranno che ero tornato nella camorra. Io sotto protezione? Solo a Napoli”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 25 Ottobre 2021. Dice che lo Stato lo ha scaricato da quando, lo scorso febbraio, non gli ha rinnovato lo status di collaboratore di giustizia, liquidandolo con poco meno di 30mila euro di capitalizzazione dopo 14 anni vissuti sotto protezione e invitandolo a lasciare la Liguria perché persona non gradita. Così da quasi nove mesi Gennaro Panzuto, 46 anni, detto “Terremoto“, ex reggente del clan Piccirillo nella zona della Torretta a Chiaia e killer di fiducia del potente clan Licciardi dell’Alleanza di Secondigliano, è tornato a Napoli dalla sua famiglia perché “qui ho un tetto dove dormire e non pagare le spese di affitto”. Spese che avrebbe voluto pagare senza problemi ma il reinserimento nella società di un ex pentito non è cosa facile, soprattutto in un periodo di pandemia, e “senza una busta paga, un contratto” non posso richiedere altri fondi che lo Stato prevede per chi ha collaborato con loro. Vive a Napoli da mesi. Ha rilasciato numerose interviste per far si che la “mia storia di merda sia da esempio per le giovani generazioni, per i tanti figli di Gomorra che ostentano, sono affascinati dalla malavita ma in realtà hanno solo bisogno di una guida sana, di qualcuno che indichi loro la strada”. La sua ambizione è quella di aprire una associazione antiracket alla Torretta, il suo quartiere, diventare un punto di riferimento per i cittadini che “hanno ancora paura di denunciare quando subiscono richieste e soprusi”. Vive a Napoli da nove mesi nonostante i clan che ha accusato da collaboratore sono ad oggi attivi sul territorio. Dai Licciardi, e quindi l’Alleanza di Secondigliano (Contini, Mallardo), ai Piccirillo e i Frizziero di Chiaia fino ai nemici dei Mazzarella. E’ consapevole di essere in pericolo ma non vuole andare via da questa città né tornare sotto protezione perché la considera “un meccanismo trappola” nonostante, tuttavia, i benefici, almeno in termini di pena da scontare, ricevuti. “La mia vita è rovinata, i miei figli (ben nove, ndr) vivono lontano e con loro spero di recuperare, ex compagne permettendo, il rapporto. Io per ora voglio restare qui ed essere d’aiuto. E’ l’unica cosa che chiedo a chi, di fatto, mi ha costretto a tornare a Napoli. Se devo essere protetto dallo Stato voglio che ciò avvenga nella mia città”. Poi la provocazione alla Direzione Distrettuale Antimafia che lo scorso anno ha dato parere favorevole alla sua uscita dallo status di collaboratore nonostante “diversi processi sono ancora in corso e i clan accusati sono tutt’oggi attivi”. “Che piaccia o meno – osserva Panzuto – senza i collaboratori non si va da nessuna parte. Senza il nostro apporto le indagini non si sbloccano così come le carriere”. Poi aggiunge: “Se oggi mi ammazzano, le persone che mi hanno fatto uscire dal programma di protezione diranno che sono stato ucciso non per rappresaglie vecchie ma perché volevo reinserirmi nella malavita di Napoli”.
Gennaro Panzuto. Facebook il 2 agosto 2021:
Salve mi chiamo Gennaro Panzuto, sono un ex collaboratore di giustizia e attualmente mi trovo a Napoli vorrei con la mia triste esperienza far capire ai giovani che la camorra e un cancro senza cura e siccome ancora oggi nonostante sia un collaboratore paradossalmente x loro sono una sorta di mito ed è x questo che mi piace pensare se certe cose dette da me vengono x loro prese più in considerazione spero che ho l'opportunità di fare con voi qualcosa di costruttivo x questa bellissima città e sopratutto x tutti questi figli di Napoli che non hanno riferimenti positivi da seguire a presto.
Antonio Giangrande: Di lei ho ripreso e pubblicato l’articolo de Il Riformista sul mio ultimo saggio di aggiornamento 2021 sulla Mafia, nel capitolo riguardante pentiti e collaboratori di giustizia. Ed in calce allo stesso inserirò questo messaggio senza data di nascita e numero di telefono. Essendo un saggista e non un giornalista, pubblicherò, al fine di ricerca e discussione, tutti gli articoli che riportano la sua testimonianza, indicando doverosamente autore ed editore. Testi di cui lei mi comunicherà i link da cui prelevarli. Io della cronaca faccio storia.
Gennaro Panzuto. Facebook il 2 agosto 2021: Stanotte guardavo questo noto film di Pasquale Squitieri GUAPPI con un superlativo Fabio testi e un incantevole Claudia cardinale ...oggi il mondo intero e convinto che vedendo gomorra ha capito come viviamo a Napoli e sopratutto che la nostra cultura è legata alle dinamiche narrate di gomorra ...mentre invece quella che gomorra fa vedere e una sub cultura che non ha niente a che vedere con le nostre radici e la nostra cultura ...quel genio di pasquale squitieri gli e dovuto che lo chiamo così...anni indietro e riuscito a creare l'esatta fotografia sia culturale che umana di questa bella e paradossale città.. si narrando una realtà come la camorra ma facendo bene attenzione a far capire da dove nasce la camorra dalla fame dalla poco istruzione e della coerente mancanza dello stato ....lasciando anche spazio nella figura di coppola rossa che ci può esistere in questa città la speranza di un cambiamento ..e no come purtroppo gomorra ha fatto credere al mondo intero che la camorra nasce x la conquista del monopolio della droga e basta ....la realtà è quella di pasquale squitieri e senza se e senza ma posso dire chi vuole capirci qualcosa di questa triste realtà che è la camorra guardasse questo film ...io speriamo che me la cavo di Paolo villaggio...scugnizzi...mi manda picone...questi film raccontano napoli ...gomorra a fatto solo si che questi giovani senza riferimenti imitano goffamente i personaggi di gomorra e solamente x ottenere uno status simbolo e no x la FAME che davvero si è vissuto in passato ..ricordatevi lo stato prima ci ha affamati poi ci ha etichettati e dopo ci ha anche usato da diversivo così la gente litalia intera mentre era distratta e giustamente impaurita dalle guerre di mafie ..loro indisturbati facevano i loro porci comodi creando carriere e creandosi tesori che ancora adesso custodiscono ......io lo dirò fin che campo ho trovato più misericordia nell'antistato che dallo stato ....e detto da me che sono stato un cammorrista e un assassino siamo obbligati a fare una lunga riflessione .......gp
"Oggi sono tutti figli di Gomorra ma è solo apparenza". Gennaro Panzuto, il killer pentito torna a Napoli: “Lo Stato ti abbandona, rischio la vita qui ma non vado via”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 22 Giugno 2021. “Rischio di morire tutti i giorni ma da Napoli non voglio andarmene, se ne devono andare loro”. A parlare è Gennaro Panzuto, 46 anni, ex killer di camorra e per 14 anni collaboratore di giustizia. Dallo scorso mese di febbraio 2021 è tornato nella sua città d’origine e non ha intenzione di andarsene. Anzi. Vuole raccontare alle nuove generazioni, soprattutto a quei ragazzini che imitano la serie Gomorra e ne subiscono il fascino, che la malavita non porta a nulla. “Carcere o morte, non ci sono altre alternative” racconta l’ex pentito, da tutti conosciuto come “Genny terremoto” perché “in tutte le cose criminali che facevo creavo uno scossone”. Gennaro oggi ha nove figli, avuti da tre donne diverse, che vivono lontano da Napoli. In passato elemento apicale e braccio armato del clan Piccirillo della Torretta, zona popolare del quartiere Chiaia, guidato dallo zio Rosario Piccirillo (attualmente in libertà vigilata lontano da Napoli dopo quasi 20 anni di carcere), l’ascesa criminale di Panzuto è avvenuta a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. La sua cosca era manovrata dall’alto dall’Alleanza di Secondigliano e soprattutto dal clan Licciardi. Genny è stato arrestato nel 2007 in Inghilterra, dove si era trasferito per gestire alcune attività illecite dell’organizzazione (“aprivamo società nel settore dell’abbigliamento, poi le facevamo fallire trattenendo però tutti i capi e rivendendoli”), e dopo pochi mesi è passato a collaborare con la giustizia. Era accusato di omicidio e di associazione camorristica, rischiava l’ergastolo. “E’ stata la mia compagna a convincermi. Avevamo figli e mi ha fatto capire che passare dalla parte dello Stato sarebbe stata la scelta migliore per il futuro. Così – racconta – dopo diverse settimane al 41 bis, decisi di pentirmi e raccontare tutto quello che sapevo. Non è stato facile perché in quei 180 giorni, dove le tue dichiarazioni sono al vaglio dei magistrati, ho tentato più volte il suicidio”. Panzuto punta però il dito contro il sistema dei pentiti in Italia: “E’ solo un modo per i magistrati per fare arresti e fare carriera perché noi ex collaboratori di giustizia non riusciamo più a reinserirci nella società. Dopo 14 anni da pentito (passati in carcere e ai domiciliari), lo Stato mi ha liquidato con 30mila euro. Che ci faccio con questi soldi? Non posso nemmeno fittarmi una casa perché le referenze non sono dalla mia parte. Il problema è che lo Stato, purtroppo, non ci crede nel cambiamento di una persona e ci lascia allo sbaraglio”. Per Panzuto il modello da seguire è quello americano: “Ti cambiano identità e di danno un lavoro vero, poi appena commetti il primo errore torni subito in carcere”. Il ritorno nella sua città non è passato inosservato. Panzuto non vive più alla Torretta ma è spesso in giro e non ha paura: “Nel mio quartiere pensano che sono tornato per dare una mano a mio zio, altri clan pensano invece che sono tornato per rimettermi in gioco nella malavita. Ma le forze dell’ordine sanno perché sono a Napoli: io non sarò mai più lo strumento di morte per nessuno. Oggi – prosegue – rischio tutti i giorni di morire perché i miei clan storici sono ancora attivi. Sto parlando dei Contini, dei Licciardi, dei Mallardo, così come i clan nemici. Noi criminali abbiamo fatto diventare questa città come Beirut e per me collaborare con lo Stato era anche per provare a dare il mio contributo. Tuttavia, nonostante le mie dichiarazioni, tanti processi non sono mai partiti”. Panzuto è il cugino di Antonio Piccirillo, 25 anni. Antonio è il figlio di Rosario e più volte in questi anni ha preso le distanze dalla criminalità organizzata scendendo in piazza con l’Antimafia. “Invito mio cugino, visto e considerata la sua posizione, a supportarmi in questa lotta sociale che sto facendo anche io, per invitare i giovani a fare lo stesso passo” auspica "Genny terremoto". “I ragazzi oggi sembrano tutti figli di Gomorra. All’apparenza sembrano tutti malavitosi per come si vestono, come si pongono. E’ uno stile che è diventato uno status. Oggi tutti pretendono rispetto, vogliono prevalere sugli altri. In realtà questi giovani vengono utilizzati dai grandi clan per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e continuare in silenzio a portare avanti i propri affari”. “Oggi vorrei essere un esempio per i ragazzi. Vorrei raccontare la mia esperienza e far capire loro che ci sono altre strade. Da piccolo sognavo di fare il contrabbandiere perché pensavo fosse davvero un mestiere lecito. Purtroppo sono cresciuto così, in un ambiente dove c’era poco da scegliere. I ragazzi oggi invece devono avere l’opportunità di scegliere e capire bene cosa è giusto e cosa è sbagliato. La fascia d’età 15-25 anni è quella più delicata: se non vieni seguito bene, allora rischi davvero di prendere una brutta strada e pagarne poi le conseguenze. Quando sei più grande, invece, hai una consapevolezza diversa”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso
Il sistema e la mafia. A cosa servono i pentiti e cosa gli viene chiesto: la verità o nuovi arresti? Nicola Quatrano su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Decine tra Procuratori, Sostituti Procuratori, giornalisti allineati e politici di scorta ci hanno ammonito in questi giorni a non scandalizzarci per la liberazione di Giovanni Brusca, che ha saldato, con 25 anni di carcere (non duro), la pena inflittagli per “non mi ricordo” quanti omicidi (en passant, anche un bambino), ma stimabili più o meno in 150. E si capisce la soddisfazione dei Pm (e dei giornalisti allineati e politici di scorta) che hanno fatto carriera grazie agli arresti che Brusca ha reso possibile, meno digeribile è il giudizio del Procuratore Antimafia, Cafiero de Raho, secondo cui si sarebbe trattato di «una vittoria dello Stato». Poteva anche essere meno enfatico, tutto sommato! Il canovaccio è comunque sempre lo stesso: i testimoni a contratto (questo sono i “pentiti”) sono sgradevoli, moralmente discutibili, ma essenziali. E sono indispensabili per battere le Mafie. Con la stessa pacata sicurezza però, dopo 30 anni e forse centinaia di “pentiti”, gli stessi Procuratori, Sostituti Procuratori (giornalisti allineati e politici di scorta), ad ogni tentativo di rendere meno sadica la tortura del 41 bis, ci ammoniscono che “la Mafia non è morta, è viva e vegeta, e non bisogna abbassare la guardia”. E allora – viene da chiedersi – a che cosa sono serviti tutti questi “pentiti” ben pagati? La “vittoria” dello Stato si risolve in definitiva nell’assicurare una tranquilla pensione a Giovanni Brusca? Da parte mia, non voglio negare che i “pentiti” siano utili, e nemmeno che molti altri ordinamenti se ne servano. Si tratta però di capire che cosa ad essi viene davvero chiesto, in cambio di sontuosi vantaggi processuali ed economici: la verità? O semplicemente altri arresti (e i progressi di carriera che spettano a chi li esegue). Sembra un sofisma, ma non lo è. Ce lo ha insegnato il caso Tortora. Anche lì i “pentiti” erano la novità che poteva consentire di sgominare la terribile Nco di Raffaele Cutolo, ma ad essi non si chiedeva la “verità”, soltanto “arresti”, e magari eccellenti. Il resto è storia. Il difetto – come sempre – sta nel manico. La speciale attenuante ex art. 8 dl 152/91 prevede rilevantissimi sconti di pena (e altri vantaggi) a chi aiuti “concretamente” gli inquirenti a raccogliere “elementi decisivi” per la ricostruzione dei fatti, e per la individuazione o la cattura degli autori dei reati. Immaginate però quale può essere il dramma di chi vorrebbe assicurarsi tutto questo ben di Dio, ma non ha magari niente di aggiungere a tutto quanto hanno già detto le centinaia di pentiti che affollano le località protette! O desiste, e si tiene il suo ergastolo al 41 bis… O si inventa qualcosa. Tanto – penserà – i Pm sono di bocca buona e, pur di arrestare, non vanno troppo per il sottile. Vero che c’è un’altra strada (una “terza via” non manca mai), e la raccontò un pentito che chiameremo “Procopio”, a proposito di un altro che chiameremo invece “Cesare”. Ebbene Procopio disse che, quando militavano insieme in un clan camorrista dell’hinterland napoletano, Cesare a un certo punto cominciò a fare cose strane. Commetteva e, soprattutto, commissionava omicidi che non avevano ragione né senso. «Allora – dice Procopio – capimmo che aveva intenzione di pentirsi». E preparava il suo canestro di arresti da fornire agli inquirenti. Certo, se ci fosse un Giudice davvero terzo, tutto questo non sarebbe possibile. Un Giudice che analizzasse e valutasse la prova con lo scrupolo necessario. Ma in un Paese in cui l’unicità delle carriere dei magistrati, invece di ancorare il Pm alla cultura della giurisdizione, ha solo finito col trascinare il Giudice verso la cultura poliziesca che pervade irrimediabilmente le Procure dell’intera Repubblica, il famoso Giudice di Berlino non si distingue quasi più dall’ago nel pagliaio. Nemmeno la Corte di Cassazione, zeppa di ex Pm, che si è distinta in questi anni per travisare, a vantaggio delle Procure, quelle poche norme garantiste lasciate intatte da Parlamenti che, quanto a loro, cercavano il consenso riducendo le garanzie. Quel che forse è peggio, è che più o meno tutto quanto oggi sappiamo delle Mafie – in assenza di vere indagini – ci viene dalle bocche dei pentiti. Non solo i nomi, ma anche il contesto e le dinamiche criminali. Notizie fornite con l’esigenza di stupire, di fornire a tutti i costi quegli “elementi decisivi” capaci di cambiare la vita. Non so perché (non è vero, lo so) mi viene in mente l’annotazione (ricordata da Sciascia e credo anche da Manzoni) del giudice Giovan Battista Sacco nel fascicolo processuale di Caterina Medici, bruciata al rogo come strega nel 1617 a Milano. Egli segnalava che la stessa imputata, sotto tortura, aveva rivelato che tutte le streghe hanno la pupilla dell’occhio più bassa e più profonda delle altre donne. Con ciò indicando un segno di riconoscimento da tener ben presente nei casi futuri. Chissà quante altre sventurate hanno subito il rogo per colpa delle loro pupille. Nicola Quatrano
"Il Boss dei due Mondi" o "Don Masino". Chi era Tommaso Buscetta, il “traditore” della Mafia che ha svelato Cosa Nostra a Giovanni Falcone. Vito Califano su Il Riformista il 24 Maggio 2021. Tommaso Buscetta è stato definito il “Boss dei due mondi”, era soprannominato Don Masino, l’uomo che svelo Cosa Nostra. Considerato il primo collaboratore di Giustizia, “uomo d’onore”, a svelare ai magistrati il funzionamento e i meccanismi della Mafia. La sua figura ha ispirato molte opere e compare in quasi tutti i film e i libri che raccontano gli anni della Mafia stragista. L’ultimo in ordine di tempo, Il traditore di Marco Bellocchio del 2019, è valso numerosi riconoscimenti all’attore Pierfrancesco Favino, nel ruolo di Buscetta, a Luigi Locascio e al regista, ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento tra gli altri. Buscetta era nato a Palermo, nel 1928, da una famiglia poverissima, ultimo di 17 figli. Sposò a 16 anni Melchiorra Cavallaro dalla quale ebbe quattro figli. Avrebbe sposato nel 1966 in Messico la soubrette Vera Girotti, con la quale ebbe la figlia Alessandra. E quindi due anni dopo, in Brasile, conobbe Cristina De Almeida Vimarais, che sposò anni dopo, nel 1978, in carcere a Torino, e con la quale ebbe quattro figli. A Enzo Biagi raccontò di aver perso la verginità a 8 anni con una prostituta in cambio di una bottiglia d’olio. Fin dall’adolescenza iniziò una serie di attività illegali nel mercato nero. Divenne celebre, degno di “rispetto”, quindi soprannominato “Don Masino”. Nel 1945 venne affiliato a Cosa Nostra ed entrò a far parte del mandamento palermitano di Porta Nuova. Si trasferì in Argentina e in Brasile prima di tornare a Palermo. Divenne un killer, coinvolto nel contrabbando di sigarette e nello spaccio di droga. Fu arrestato per contrabbando e associazione a delinquere.
PRIMA GUERRA DI MAFIA – Quando scoppiò la cosiddetta “Prima guerra di Mafia” si schiero con Angelo La Barbera per poi passare al gruppo di Salvatore “Cicchiteddu” Greco. Dopo la strage di Ciaciulli, della quale negò ogni responsabilità, fuggì in Svizzera, Messico, Canada e quindi negli Stati Uniti d’America, dove aprì una pizzeria con un prestito della famiglia Gambino. Nel 1968 venne condannato in contumacia a 10 anni per associazione a delinquere. Nello stesso processo fu assolto per i fatti di Ciaculli.
Riuscì a eludere la legge per anni, viaggiando in Italia e in tutto il mondo sotto falso nome, con documenti contraffatti. Dopo un arresto a Brooklyn fu rilasciato dopo il pagamento di una cauzione da 75mila dollari. Una volta in Brasile fece partire un traffico di eroina e cocaina verso il Nordamerica. Reinvestì il denaro in una compagnia di taxi. Fu arrestato nel 1972: nel suo deposito blindato in Brasile fu trovata eroina per un equivalente di 72 miliardi di lire. Era ritenuto a capo di una rete di trafficanti còrsi, italo-brasiliani e italo-americani. Estradato, fu rinchiuso nel carcere dell’Ucciardone a Palermo, condannato a otto anni per traffico di stupefacenti. Raccontò anni dopo che in carcere a Cuneo fu avvicinato da uomini di Francis Turatello affinché si occupasse di liberare Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse nel 1978. Trasferito nel carcere piemontese le Nuove, evase nel 1980 e si nascose nella villa dell’esattore Nino Salvo, sotto la protezione dei boss Stegano Bontate e Salvatore Inzerillo, che volevano arruolarlo nella loro lotta a Salvatore Riina, il nuovo boss della famiglia dei corleonesi. Fece ritorno in Brasile e si sottopose a due operazioni: alla faccia e alla voce per non essere più riconoscibile.
SECONDA GUERRA DI MAFIA – Quando la seconda guerra di Mafia finì nel 1984, con la vittoria dei corleonesi, Riina decise di eliminare Buscetta. Due figli di quest’ultimo scomparvero nel nulla e non vennero mai ritrovati, furono uccisi un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti per un totale di 11 parenti. Fu arrestato mentre era nella sua abitazione di San Paolo in Brasile con Leonardo Badalamenti. Rifiutò di collaborare con i giudici Giovanni Falcone e Vincenzo Geraci. Provò ad avvelenarsi con la stricnina quando fu concessa l’estradizione. Arrivò in Italia accompagnato dagli uomini del vicequestore Gianni De Gennaro e decise di collaborare.
LA COLLABORAZIONE – A Falcone raccontò organigrammi e piani della Mafia: perché non si riconosceva più nella nuova Cosa Nostra, quella dei corleonesi, che a suo dire aveva perso la sua identità. Il traditore insomma non era lui, ma proprio i sanguinari di Totò Riina che per conquistare il potere avevano abbandonato “dei valori, dei principi conosciuti e condivisi da tutti”. Le sue dichiarazioni aprirono il mondo della Mafia fino ad allora ignoto per l’omertà degli affiliati. Mandamenti, famiglie, la Commissione che era l’organo di vertice di Cosa Nostra. I magistrati riuscirono a capire quello che stava succedendo a Palermo. Rifiutò però di parlare dei legami politici di Cosa Nostra. Fu estradato nel 1984 negli Stati Uniti, con una nuova identità e la libertà vigilata in cambio di nuove rivelazioni contro la Mafia americana, testimoniando nel 1986 al Maxiprocesso di Palermo e nel processo Pizza Connection di New York. Dopo gli attentati mortali ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Buscetta cominciò a parlare dei legami politici di Cosa Nostra facendo i nomi dell’onorevole Salvo Lima e di Giulio Andreotti come principali referenti dell’organizzazione. Fu quindi tra i principali testimoni nei processi a carico di Andreotti per associazione mafiosa e per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli del 1979. Andreotti fu assolto per quest’ultimo e ritenuto connivente con la mafia per fatti precedenti al 1980, prescritti al momento della sentenza.
LA MORTE – Buscetta fece molto discutere con una sua crociere nel Mediterraneo e in un libro intervista con Saverio Lodato criticò lo Stato per non aver distrutto Cosa Nostra. È morto a 71 anni, a New York, stroncato da un tumore che lo aveva colpito da anni. È sepolto sotto falso nome a North Miami.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Il caso. La testimonianza di Brusca può scagionarlo, la direzione nazionale antimafia si mette di traverso. Angela Stella su il Riformista il 28 Marzo 2021. «Non è accettabile che le dichiarazioni dei pentiti siano utilizzate solo quando sono funzionali alle tesi accusatorie, mentre siano ostacolate quando potrebbero servire per esigenze difensive»: a parlare è l’avvocato Michele Capano, membro del Consiglio Generale del Partito Radicale, e difensore di Stefano Genco, condannato in via definitiva nel 2000 per concorso esterno in associazione mafiosa a 4 anni di reclusione. L’avvocato Capano, nell’ambito dell’attività propedeutica al deposito di un’istanza di revisione della condanna, il 17 settembre 2020 ha chiesto di escutere il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, detenuto al momento nel carcere romano di Rebibbia. Il 28 settembre il magistrato di sorveglianza di Roma autorizzava il legale a sentire Brusca, per poi precisare che la modalità per lo svolgimento del colloquio con Brusca sarebbe dovuta avvenire in video collegamento, secondo le indicazioni dettate dal Servizio Centrale di Protezione, che fa capo al Ministero dell’Interno. «Da quel momento, nonostante il sollecito dello stesso Magistrato di sorveglianza al Servizio Centrale di Protezione e al carcere di Rebibbia, non ci è stato consentito di effettuare l’investigazione difensiva. A sei mesi di distanza dall’autorizzazione – prosegue Capano – dobbiamo prendere atto della condotta eversiva di importanti articolazioni dello Stato, che si ostinano a ignorare il disposto di un provvedimento giurisdizionale, come un qualunque latitante. Ben due Ministeri – Giustizia per il carcere e Interni per il Servizio Centrale – si fanno beffe della decisione di un Magistrato di Sorveglianza, alla faccia della divisione dei poteri. Mi chiedo, sempre alla faccia della divisione dei poteri, da chi queste articolazioni del potere esecutivo prendano effettivamente ordini. Mentre la Direzione Nazionale Antimafia interviene “a monte” della procedura, rilasciando un parere che viene richiesto dal magistrato prima di autorizzare, tali articolazioni del potere esecutivo, “a valle”, aspettano il definitivo benestare della stessa Direzione Nazionale Antimafia, al di fuori di ogni norma. Mi chiedo, ed ho chiesto nei giorni scorsi al Ministro della Giustizia Marta Cartabia ed al Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese inviando loro una nota, se viviamo in un Paese nel quale le Istituzioni siano libere di non rispettare provvedimenti giudiziari o se sia possibile pretendere la concreta vita dello Stato di Diritto». Tale condotta, secondo Capano, lede il diritto di difesa del suo assistito: l’istanza di revisione serve infatti a sottoporre al vaglio di alcuni magistrati acquisizioni utili ad evidenziare un possibile errore commesso ai danni del Genco dai giudici dell’epoca, avvalendosi anche del contributo di verità che potrebbe fornire Giovanni Brusca. «Brusca, a quanto pare, invece è “Cosa Loro”: neanche a venticinque anni di distanza dall’ inizio della sua collaborazione, quando hanno avuto ogni agio nel chiedere ed ottenere dal collaboratore tutte le informazioni di cui avevano bisogno, si consente ad un difensore di valersi di quella fonte di prova per un contributo di verità. È un’esperienza, l’ennesima, che induce a riflettere sul reale “stato” della possibilità del difensore di fiducia di svolgere attività investigativa a beneficio del proprio cliente, secondo la disciplina che la legge 397 del 2000 inserì nel corpo del nuovo codice del 1988». Alla prova dei fatti, una volta di più, «si rivela l’ ipocrisia di apparenti “poteri difensivi” che necessiterebbero – per rendersi concreti – della collaborazione di quelle stesse Procure che hanno interesse contrario alle investigazioni stesse: è un sistema che non funziona. Ci vuole un’Autority per queste investigazioni: un soggetto terzo che garantisca la difesa in evenienza di questo genere: lo dico e propongo all’Unione delle Camere Penali. Proprio nel corso del lavoro per quest’istanza di revisione, mi sono imbattuto in una chiusura assoluta (priva di tutela giurisdizionale rispetto ai dinieghi) a richieste documentali da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, cioè di quella Procura i cui errori secondo la prospettazione difensiva – noi vorremmo sottolineare attraverso la revisione». In conclusione, ci dice Capano: «Voglio pensare che contributi utili all’accertamento della verità abbiano un valore anche quando propiziati da esigenze difensive tese a pronunce assolutorie, oltre che quando necessitati da ragioni accusatorie tese all’individuazione di reati. Questo vorrebbero il codice di procedura penale ed il Magistrato di Sorveglianza di Roma che ci ha coraggiosamente autorizzato, questo non vogliono “altrove”. Mi auguro che l’alto intervento delle Ministre cui mi sono rivolto possa risolvere questa situazione incancrenita».
La riflessione dopo la morte di Cutolo. Il paradosso di uno Stato contro la tortura che usa il carcere duro per estorcere collaborazioni. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. La morte di Raffaele Cutolo era, purtroppo, prevedibile. Non tanto per la sua età, ma perché, da tempo, in gravissime condizioni di salute. Il 6 luglio scorso, l’Unione Camere Penali Italiane, con l’Osservatorio Carcere, aveva denunciato che, nonostante il quadro sanitario allarmante, non era stata autorizzata la visita del medico di fiducia, per non meglio specificate “ragioni di opportunità”. Ciò nonostante quanto riferito dalla moglie e dalla figlia del detenuto che, in una delle poche occasioni d’incontro concesse, avevano constatato come il loro congiunto non fosse in grado di alzare gli occhi, di portare un bicchiere d’acqua alla bocca, di parlare e comunque di interagire. Stato comatoso confermato anche dal suo difensore che descriveva una persona immobile, condotta in sala colloqui con la sedia a rotelle, con il capo reclinato verso il petto, in silenzio e privo di reazioni di qualsiasi genere. All’epoca, Cutolo assumeva quindici pillole al giorno, straziato dal diabete, dalla prostatite, dall’artrite ed era fortemente ipovedente. Eppure quella piccolissima parte della riforma dell’Ordinamento Penitenziario divenuta legge aveva ribadito che «i detenuti e gli internati possono richiedere di essere visitati a proprie spese da un esercente di una professione sanitaria di loro fiducia» e aggiunto che «possono essere autorizzati trattamenti medici, chirurgici e terapeutici da effettuarsi a spese degli interessati da parte di sanitari e tecnici di fiducia». Le “ragioni di opportunità” evidentemente furono ritenute prevalenti sul principio costituzionale del diritto alla salute e sulle norme dell’Ordinamento Penitenziario. Non sembrò “opportuno” che un ottantenne, capo di un’associazione criminale che non esiste più da almeno 40 anni, detenuto da 57 anni, potesse avere le cure di un medico di fiducia. Egli doveva attendere che la vendetta giungesse a termine. Oggi il nemico è morto e alla Questura di Napoli è stato affidato il compito di organizzarne il trasferimento da Parma a Ottaviano e la sepoltura. Non vi è dubbio che Raffaele Cutolo sia effettivamente stato un “nemico”, un colpevole di efferati delitti, un uomo che ha voluto la morte di altri uomini, ma dobbiamo continuare a interrogarci su quale sia la strada maestra per avversare tali condotte criminali e, soprattutto, se quella intrapresa sia la migliore e conforme a giustizia. Su questo tema, più volte l’Unione Camere Penali Italiane è intervenuta per denunciare l’illegittimità della detenzione speciale prevista dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario nel giugno del 1992. Una norma di carattere emergenziale, divenuta poi definitiva e quindi a pieno regime, introdotto nel 2002. Circostanza che conferma, ancora una volta, che nel nostro Paese ciò che è provvisorio diventa definitivo e che non si è in grado di affrontare concretamente un’emergenza destinata a essere cronica. Dal 1992, cioè da circa trent’anni, siamo quindi in perenne allarme. Ma qual era, all’epoca, l’emergenza? Il 23 maggio 1992 vi era stata la strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e di altre quattro persone. Il Governo pensò di affrontare la gravità della situazione con il carcere duro, per dare il segnale di uno Stato forte. Ma dopo poco più di un mese dal decreto legge, il 19 luglio 1992, il dramma si replicò con la strage di Via D’Amelio dove persero la vita Paolo Borsellino e altre cinque persone. Quanto accaduto dimostra, senza possibilità di smentita, che la scelta politica non fu delle migliori e che non era – e non è – la strada da intraprendere. Il 41 bis prevede che, quando ricorrono gravi motivi di ordine o di sicurezza pubblica, il Ministro della Giustizia possa sospendere il trattamento rieducativo nei confronti di alcuni detenuti. Tale sospensione dovrebbe avere lo scopo d’impedire i collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza. Quanto accaduto dall’entrata in vigore della norma, fa comprendere che la scelta – oltre a essere a nostro avviso illegittima – non paga e che sarebbe meglio, invece, intensificare l’opera di risocializzazione verso queste persone, intervenendo anche all’esterno sul tessuto sociale di appartenenza. Oggi i detenuti che scontano la pena in regime previsto dall’articolo 41 bis sono ben 700. Certamente non sono tutti capi di cosche criminali. La maggior parte sono gregari a cui la vita – e dunque lo Stato – non ha offerto alternative e continua a non offrirne, impedendo anche quel trattamento previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Ma la detenzione speciale non è solo sospensione del trattamento. Nella pratica va molto oltre quello che prevede la norma e si concretizza nel termine usato di “carcere duro”. “Duro” perché si è reclusi in istituti o sezioni speciali, sorvegliati da personale specializzato della polizia penitenziaria. Si ha diritto a un solo colloquio al mese, video controllati e registrati, in locali in cui non è possibile alcun contatto. Se non si fa il colloquio, una telefonata al mese di dieci minuti, registrata. Limitazione dei beni e del danaro ricevuto dall’esterno. Censura della corrispondenza. Massimo due ore di aria al giorno con non più di quattro persone. È, di fatto, una detenzione che mira all’annientamento della personalità dell’uomo, in nome di una ragione ufficiale d’impedire i contatti con l’esterno. Ma vi è anche un altro scopo, denunciato più volte dall’Unione Camere Penali Italiane e detto a “bassa voce” da altri, quello investigativo. La collaborazione alle indagini può far venire meno lo stato di detenzione speciale. A fronte di tale unica via d’uscita, per ragioni di sopravvivenza, chi non ha nulla da offrire al suo carnefice, deve recitare un fantasioso copione, con le devastanti conseguenze giudiziarie per altri soggetti spesso innocenti. Vi è poi l’interpretazione restrittiva della norma, nella sua applicazione concreta. Si potrebbero citare un’infinità di casi. Basti per tutti quanto accaduto il mese scorso. È stato vietato ad un recluso al 41 bis l’acquisto del libro scritto dall’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, oggi Ministro della Giustizia. Le ragioni: possibile aumento del suo carisma criminale. Ci si chiede, pertanto, come abbia fatto Raffaele Cutolo a sopravvivere a 34 anni e 2 mesi in regime di 41 bis e se della sua detenzione lo Stato – quello di diritto, che ha abolito la pena di morte e introdotto, seppur recentemente, il delitto di tortura – debba essere fiero.
La trattativa infinita sulla dissociazione dei boss. Enrico Bellavia su L'Espresso il 23 febbraio 2021. Ventotto anni di negoziato tra offerte, disegni di legge e proclami per una via d’uscita morbida dalle organizzazioni criminali. Così i padrini inseguono la fine del 41 bis. Dici dissociazione e pensi trattativa. Per questo conviene andare indietro almeno a 28 anni fa. 1993. Per capire cosa accade intorno al ciclico ritorno del tema, bisogna tornare a quell’anno. L’anno delle stragi al Nord, l’anno che precede l’arresto di Giuseppe e Filippo Graviano, l’ultimo boss in ordine di tempo ad avere annunciato la presa di distanza dall’organizzazione senza però "farsi pentito". In mezzo c’è la revoca unilaterale del 41 bis che ferma gli eccidi e scongiura l’attentato all’Olimpico. Le manette ai due fratelli stragisti, a gennaio 1994, interrompono il negoziato ma non mandano in soffitta il progetto di una via morbida all’uscita da Cosa nostra: assunzione di responsabilità ma senza accuse ai sodali. L’idea, mutuata dalla legislazione sul terrorismo, non trova applicazione nelle norme antimafia, ma tenta più di un magistrato di sorveglianza, indotto a vedere nella scelta di dissociarsi quel venir meno dell’attualità del pericolo che intanto fa cadere il regime di carcere duro. Poi, forse, consente l’applicazione dei benefici premiali per chi ha buona condotta da esibire e lunga espiazione. Cade così il tabù dell’ergastolo ostativo. Picconate su picconate, con bollo di Cassazione e Corte Costituzionale, in nome delle garanzie, con più di un sospetto che si tratti di un espediente svuota carceri. Trattativa e dissociazione compaiono insieme in una informativa ufficiale dello Sco del settembre del 1993, proprio nel pieno della stagione delle bombe: «Obiettivo sarebbe quello di giungere ad una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’organizzazione: il “carcerario” e il “pentitismo”». In realtà il negoziato, scolpiranno i giudici di Firenze in sentenza, è già un pezzo avanti. Il perimetro è quello delle carceri. Lì si gioca la partita. Allora come adesso. Perché il dissociato è solo un ex, non un collaboratore di giustizia il cui profilo era stato disegnato da Giovanni Falcone, ma un “mafioso in sonno”. Se le carceri sono il perimetro, la Chiesa spesso è stata la leva. L’intenzione è buona ma di buone intenzioni, si sa, è lastricata la strada per l’inferno. Febbraio 1994, il vescovo dei terremotati, un insospettabile come monsignor Antonio Riboldi, lancia l’idea della resa per centinaia di camorristi. Vogliono accedere al rito abbreviato, che garantisce lo scontro di un terzo della pena. In soldoni significa: niente ergastoli e massimo 30 anni. E a cascata i benefici: lavoro esterno, semilibertà, permessi premio. A settembre di quello stesso anno il pentito Domenico Cuomo gela gli entusiasmi e rivela che quel progetto è la risposta meditata dei vertici della camorra al pentimento di Pasquale Galasso e all’arresto di Carmine Alfieri. A raccontarla più o meno negli stessi termini è anche il casalese Dario De Simone. Carceri, Chiesa e, naturalmente, Parlamento. Il 29 marzo del 1995 il vice presidente della Camera Luciano Violante tende la mano: «Uscite, venite fuori dalla organizzazione, consegnatevi, e lo Stato saprà valutare con equilibrio questo vostro comportamento. Noi non vi chiediamo necessariamente il pentimento, cioè la collaborazione». L’autorevolezza del personaggio consente uno sfondamento a sinistra. Don Luigi Ciotti ha il prestigio per metterci il proprio doppio bollo d’assenso. Ma Giancarlo Caselli, procuratore capo a Palermo, nel luglio del 1996 è costretto a raffreddarlo: «La «dissociazione è pericolosa, potrebbe rallentare l’insostituibile contributo di collaborazione e sarebbe un lusso che noi non possiamo consentirci». Proprio in quei giorni è deflagrata la notizia che a dissociarsi è stato Salvatore Cucuzza, il killer del segretario regionale del Pci Pio La Torre, ucciso nel 1981. Cucuzza, in realtà, prova a rimanere nel limbo ma quando i pm di Palermo gli dicono che deve collaborare, non senza qualche tentennamento, finisce per saltare il fosso. Ma il Parlamento ha ricevuto: il 13 dicembre del 1996 il senatore Bruno Napoli, del Centro cristiano democratico insieme con i colleghi Davide Nava e Melchiorre Cirami (quello del legittimo sospetto) presentano i 15 articoli del disegno di legge ‘‘Misure a favore di chi si dissocia dalla mafia’’ che nelle intenzioni dovrebbe offrire la «la via istituzionale più genuina e trasparente», quella legislativa. L’alt dei magistrati è fermo e la questione viene accantonata fino al febbraio del ‘99 quando a riproporla è l’autista di Totò Riina, Salvatore Biondino. Chiede un incontro al procuratore nazionale Pierluigi Vigna e ai procuratori di Palermo e Caltanissetta, Piero Grasso e Giovanni Tinebra. Grasso dice no, Tinebra sì, Vigna vuole spingersi oltre e continua i colloqui investigativi fino ai primi mesi del 2000 oltre che con Biondino con Pietro Aglieri, Giuseppe Madonia e Michele Greco. Tempo dopo, in Antimafia, raccontò che a colpirlo furono le parole di uno dei mammasantissima: «Cosa nostra un tempo era onorata, in un altro tempo faceva paura, ora fa schifo». I boss proposero di riunirsi per redigere un testo comune che servisse a formalizzare la loro scelta. A parole non chiedevano neppure la revoca del 41 bis, ma solo un invito alle nuove generazioni a non seguire il loro esempio. Vigna disse che dal governo non arrivò il via libera e la questione si arenò ancora. Il 6 giugno del 2000 è l’avvocato Carlo Taormina dice al Giornale: «Credo che lo Stato sia divenuto abbastanza forte in confronto della mafia. Mi chiedo se non sia il caso di intraprendere quella strada (la dissociazione) anche per i mafiosi al fine di riconsiderare razionalmente la questione carceraria di questi detenuti». Due giorni dopo parla il procuratore nisseno Tinebra e apre alla dissociazione, ma poi l’anno dopo, frattanto diventato capo delle carceri, dirà al Corriere della Sera di aver cambiato idea. Ma nel giugno del 2000 vuole dire la sua anche l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino che al Messaggero offre anche la data di morte della mafia, 1958: «Dopo è solo delinquenza». Tira in ballo i tentativi di Vigna e lancia un segnale diretto alla politica. «Lo Stato non è Vigna e per trattare bisogna essere in due». Il 6 febbraio del 2001 Repubblica rivela ciò che è accaduto. Racconta di Biondino e degli incontri con Vigna, della linea concordata dai boss e della posizione diversa assunta da Pietro Aglieri, dissociato sì ma disinteressato a qualunque contropartita, in linea con un proprio percorso spirituale. Sarà per questo che il suo avvocato ribadisce: «Dissociazione? Per me è una malattia mentale». A settembre del 2001 un pezzo da novanta come Pippo Calò, il plenipotenziario a Roma della cupola mafiosa si dissocia pubblicamente ammettendo di aver fatto parte della commissione mafiosa ma negando la propria responsabilità nelle stragi: «Decideva tutto uno solo e il nome non posso farlo». Sul finire di quell’anno il procuratore aggiunto di Palermo, Guido Lo Forte denuncia: «Temiamo patti con le istituzioni». Proprio in quei giorni il collega Alfonso Sabella magistrato di Palermo in forza al Dap è stato messo alla porta dal ministro della giustizia, il leghista Roberto Castelli. La cacciata ha una ragione precisa: si è opposto alle manovre sulla dissociazione all’interno delle carceri. Anzi, di Rebibbia in particolare, dove convivono Biondino, libero di spostarsi di cella in cella come scopino, Salvatore Imerti, big della ‘ndrangheta calabrese, Pietro Aglieri, Giuseppe "Piddu" Madonia, Salvatore Buscemi, e Giuseppe Farinella, ovvero tutti i boss siciliani della linea morbida. Il 12 luglio 2002 il cognato di Riina, Leoluca Bagarella parla da L’Aquila e legge un proclama in cui allude a «promesse che non sono state mantenute» e dice che i detenuti al 41 bis si sentono «presi in giro». Poi dà la scossa: «Siamo stanchi di essere strumentalizzati dalle forze politiche». A seguire ci tengono a far sapere che sono d’accordo Salvatore Madonia, Cristoforo Cannella e Giuseppe Giuliano che il 16 luglio 2002 scrivono a Daniele Capezzone, allora segretario dei Radicali per dare una strigliata ai legali che ora siedono in Parlamento: «Erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l’applicazione del 41 bis. Allora svolgevano la professione solo per far cassa». Come dire: siete arrichiti con i processi, siete ora in condizione di fare leggi e scardinare il 41 bis e ve ne state fermi? Nel 2003 e 2004 dalle carceri partono altri segnali, uno arriva all’ex ministro Roberto Castelli che lo rivelò nel 2011, dicendo che respinse l’offerta dopo essersi consultato con dei magistrati. Nel 2013 in Parlamento arriva il ddl del senatore di Gal Lucio Barani, che «ipotizza un indulto fino a 8 anni che comprende reati di mafia alla sola condizione della completa divulgazione di reati commessi durante la militanza in organizzazioni di tipo mafioso». Ed è l’allora procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi ad alzare lo scudo: è «l’ennesimo tentativo surrettizio di introdurre una blanda dissociazione per concedere a pericolosissimi criminali un salvacondotto per gravissimi crimini di mafia».
Lo stragista Filippo Graviano si dissocia da Cosa nostra perché vuole uscire dal carcere. Lirio Abbate su L'Espresso il 18 febbraio 2021. Il boss palermitano condannato all’ergastolo per le stragi di Falcone e Borsellino e del 1993 vuole usufruire della nuova normativa per lasciare il 41 bis. Per ottenere il permesso premio. Grazie allo spiraglio aperto dalla Corte Costituzionale presieduta da Marta Cartabia, oggi ministra della Giustizia. Il capomafia Filippo Graviano, quello che ha ordinato l’uccisione del beato Pino Puglisi, che ha organizzato l’attentato a Paolo Borsellino e progettato ed eseguito l’attacco allo Stato con le bombe del 1993 a Roma, Milano e Firenze, ha chiesto al giudice di sorveglianza dell’Aquila un permesso premio. Ma non è solo questa la novità: l’ergastolano vuole uscire dal carcere per un giorno perché ha maturato, come ha comunicato ai magistrati, il proposito di dissociarsi dalle scelte del passato. Tutto ciò apre nuovi scenari nel contrasto alle mafie. Non è un “pentimento” del boss di Brancaccio, ma il tassello di una più grande strategia che punta a disarcionare il 41 bis, il carcere impermeabile, e far tornare liberi i boss condannati per omicidi. E una vicenda significativa che si collega alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo e poi a quella della Corte costituzionale che nel 2019 ha dato una spallata all’ergastolo ostativo che impediva la concessione di benefici ai mafiosi che non collaboravano. Una norma introdotta all’indomani della strage di Capaci, proprio per “premiare” boss e gregari che saltano il fosso. Per Filippo Graviano il ripensamento normativo è una strada strategica su cui sta cercando di muoversi per tornare ad assaporare la libertà. «Perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività, ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete», è il percorso che nell’aprile dello scorso anno l’allora presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, oggi ministra della Giustizia, indicava alla magistratura di sorveglianza. Parole particolarmente significative pronunciate nello stesso periodo in cui i giudici erano al centro di polemiche per la scarcerazione di boss della mafia. Le affermazioni di Cartabia erano contenute nella relazione annuale sull’attività della Corte, nella parte dedicata al carcere e all’esecuzione penale, con il richiamo alle più importanti sentenze della Consulta in quel periodo. Di «speciale rilievo», ricorda l’allora presidente, oggi Guardasigilli, che ha dichiarato illegittimo l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui ai condannati per una serie di gravi delitti, a cominciare da mafia e terrorismo, non consentiva la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia e anche in presenza di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo di un loro ripristino. Quella disciplina impediva «ogni verifica in concreto del percorso di risocializzazione compiuto in carcere dal detenuto, rischiando di arrestare sul nascere questo percorso». Così ora quella e altre pronunce hanno dato gli strumenti alla magistratura di sorveglianza per poter esercitare «con attento discernimento i propri poteri discrezionali». Filippo Graviano è fratello di Giuseppe, quello che fino a pochi mesi fa dall’aula della corte di Reggio Calabria che lo processava per la ’ndrangheta-stragista, in accordo con Cosa nostra, ha lanciato messaggi ricattatori a Silvio Berlusconi, per il loro passato. Entrambi sono stati condannati all’ergastolo per le stragi di Falcone e Borsellino, per l’omicidio del beato Puglisi e per le bombe del 1993 in cui vennero uccise pure due bimbe. Ora Filippo ha fatto mettere a verbale ai magistrati di Firenze che indagano sulle stragi al Nord e sul leader di Forza Italia e su uno dei fondatori del partito, Marcello Dell’Utri, che si dissocia da Cosa nostra. Filippo ammette la sua partecipazione alla cosca di Brancaccio. Sul resto tace. I pm gli hanno fatto presente di essere interessati alle stragi e ai rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e la famiglia Graviano, e a questo punto Filippo – ormai dissociato – ha voluto sottolineare che c’è “una questione pregiudiziale” rispetto alle domande che i pm gli hanno posto. Cosa significa? Tutto questo appare come una strategia messa in campo dalla famiglia Graviano. Un progetto di lungo corso che i fratelli di Brancaccio stanno portando avanti. Non dimentichiamo che sono stati capaci, grazie alle loro complicità, di procreare nel 1996 mentre si trovavano detenuti al 41 bis all’Ucciardone. Quello che doveva essere un regime impermeabile, di fatto per loro non lo fu, e così Giuseppe e Filippo diventarono papà e i loro figli sono stati partoriti dalle loro compagne in una clinica in Costa Azzurra. Il dissociato adesso sostiene di non avere più contatti con il fratello Giuseppe, ma, sarà una coincidenza, alcune persone disegnano una traiettoria convergente: hanno lo stesso difensore, l’avvocato Carla Archilei che spessissimo va a trovare Giuseppe nel carcere di Terni, e poi Francesca Buttitta, la moglie di Filippo, ha sporadici contatti con il cognato Giuseppe e frequenta a Roma la stessa abitazione in cui vive gran parte della famiglia Graviano. Di questo progetto di dissociazione aveva già parlato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, il quale ricordava che nel 2004 era stato proprio Filippo Graviano a comunicargli, mentre erano in carcere che «se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati». In quel momento erano trascorsi dieci anni da quando Giuseppe sosteneva di aver agganciato Berlusconi tramite Dell’Utri, avviando una trattativa. Emerge il progetto della dissociazione, già percorso più di vent’anni fa dai boss in accordo con alcuni politici. Spatuzza, ricordando un episodio avvenuto durante la detenzione, rivela: «Filippo Graviano mi dice che in quel periodo si sta parlando di dissociazione, quindi a noi interessa la dissociazione». I boss di Brancaccio, per Spatuzza, «avevano in mano il Paese» grazie ad un tavolo aperto con Berlusconi e Dell’Utri, e chiedevano la cancellazione del 41 bis e provvedimenti legislativi che legittimassero la semplice dissociazione dei boss, alla maniera degli ex brigatisti. In passato ci sono stati diversi tentativi di dissociazione e di estensione dei benefici dei collaboratori di giustizia anche ai dissociati di mafia, e alcuni magistrati si sono opposti a dare questo riconoscimento legale. «La dissociazione poteva avere senso da un’ideologia politica, non certamente da un’attività criminale, che sarebbe stata una specie di condono, di amnistia o di nulla osta, in cambio di un impegno, ad esempio, a non trafficare più nella droga», lo diceva Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e già al vertice dei servizi segreti, in audizione alla Commissione parlamentare antimafia nel 2012, ricordando che questa era la sua posizione fin dal 1994. Adesso i fratelli stragisti di Brancaccio sono alla ricerca di spunti “giudiziari” per far revisionare i loro processi e allo stesso tempo ottenere l’uscita dal 41 bis così da permettere a entrambi, dopo 27 anni di detenzione, di usufruire dei benefici di legge che li possono portare alla scarcerazione. E puntano ad annientare il regime di detenzione carceraria per i boss e tutto quello che rende forte il contrasto alle mafie impedendo le comunicazioni con l’esterno, e aprendo di conseguenza le porte d’uscita ai capimafia.
Il boss Giuseppe Graviano ha parlato con i pm dei soldi di Silvio Berlusconi. di Lirio Abbate su L'Espresso il 5 marzo 2021. Aperta a Firenze una nuova inchiesta sui capitali iniziali del leader di Forza Italia, con i giudici che volano a Palermo. Mentre il boss prosegue con la sua strategia, iniziata con una lettera del 2013 all’allora ministra Lorenzin e che oggi passa da un libro in lavorazione. C’è un’inchiesta giudiziaria destinata a creare seri problemi a Silvio Berlusconi. È stata aperta nei mesi scorsi dalla procura antimafia di Firenze. L’inchiesta parte dalle dichiarazioni fatte davanti ai giudici della corte d’Assise di Reggio Calabria dal boss Giuseppe Graviano, già condannato a diversi ergastoli per aver ordinato, tra gli altri, gli omicidi del beato Pino Puglisi, del piccolo Giuseppe Di Matteo, di altre vittime innocenti, donne e bambini, e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993, quando decise che Cosa nostra doveva attaccare lo Stato. Il capomafia ha aggiunto che nel periodo in cui era latitante, avrebbe incontrato tre volte a Milano Silvio Berlusconi. E il boss ha sostenuto che l’ex Cavaliere, prima di iniziare la sua attività politica, gli avrebbe chiesto di essere aiutato in Sicilia. Secondo Graviano, però, molte delle attese che Cosa nostra aveva riposto in Berlusconi vennero meno: il “ribaltamento” del regime carcerario del 41bis non ci fu e neppure l’abolizione dell’ergastolo. «Per questo ho definito Berlusconi traditore», ha spiegato Graviano rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, aggiungendo di essere stato latitante dal 1984 e che questa sua situazione non gli ha impedito di incontrare Berlusconi, «che sapeva della mia condizione». «Mio nonno», un facoltoso commerciante di frutta e verdura, ha detto Graviano «era in contatto con Berlusconi» e fu incaricato da Cosa nostra di agganciare l’ex presidente della Fininvest per investire somme di denaro al Nord. Missione riuscita, a detta del boss, sostenendo che «sono stati investiti nel settore immobiliare una cifra di circa venti miliardi di lire». Graviano dice che suo nonno è stato di fatto socio di Berlusconi: «I loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino Salvo».
L’INTERROGATORIO. La procura di Firenze che indaga su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nell’ambito delle stragi del 1993, adesso scava pure sui patrimoni iniziali dell’ex Cavaliere. In passato sui soldi di provenienza della mafia avevano indagato anche i pm di Palermo nell’ambito del processo in cui Dell’Utri è stato condannato per concorso in associazione mafiosa. Le dichiarazioni dell’ergastolano sembrano più una minaccia all’ex premier, un modo per tentare di incassare soldi e libertà. Lo scorso novembre, sulla base di queste esternazioni, i procuratori di Firenze sono andati nel carcere di Terni e hanno interrogato Giuseppe Graviano, che ha accettato di incontrare i magistrati rispondendo pure alle loro domande, assistito dal suo difensore di fiducia. Un lungo interrogatorio che i pm toscani hanno secretato. I riscontri alle sue affermazioni sono già stati avviati.
LA STRATEGIA. Nonostante le condanne all’ergastolo per delitti di mafia a cui Giuseppe Graviano e suo fratello Filippo sono stati definitivamente condannati, dalle loro mosse si intuisce che vogliono lasciare il carcere sfruttando tutti i mezzi possibili per tornare liberi. C’è il tentativo di smontare le accuse dei collaboratori di giustizia per poi chiedere di avviare una revisione dei processi e allo stesso tempo provare ad uscire dal circuito del 41bis, il carcere impermeabile, per transitare nel regime ordinario da cui è più facile ottenere la possibilità di essere scarcerati. Per questo motivo Giuseppe Graviano da diversi mesi ha coinvolto tutti i componenti della sua famiglia nel raccogliere dati e documenti e far scrivere un libro sulle sue vicende giudiziarie, raccontandole secondo la sua visione e il suo interesse, mettendo in discussione - secondo lui - le vecchie sentenze di condanna. Emerge il profilo di un uomo presuntuoso, ostinato ma anche di un abile oratore, attento osservatore e opportunista, un personaggio che vuole essere carismatico e al centro dell’attenzione, non a caso è un capo importante fra i corleonesi di Cosa nostra, con solidi agganci con il latitante Matteo Messina Denaro. Il fatto che abbia scelto di parlare in aula di Berlusconi è frutto di un calcolo che ha valutato con accortezza per lo sviluppo della sua strategia.
LA LETTERA ALLA MINISTRA. I segnali lanciati da Giuseppe Graviano a Silvio Berlusconi si leggono già nel 2013, quando il Cavaliere entra con il suo Popolo delle libertà, nel governo delle larghe intese di Enrico Letta. Il boss sceglie di scrivere una lettera di cinque pagine alla nuova ministra della Salute, Beatrice Lorenzin. Il capomafia apre il suo testo presentandosi e dichiarandosi innocente, «in espiazione dell’ergastolo ostativo», e «condannato solo per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, senza riscontri», e poi «come ben sapete voi esponenti del Pdl, perché dal primo giorno del mio arresto mi è stato detto che se non avessi accusato il presidente di Forza Italia e collaboratori, venivo accusato di tutte le stragi del 1993 in poi, lo stesso i miei fratelli di altre accuse di associazione mafiosa, invitandomi a confermare le accuse dei collaboratori di giustizia nei confronti del senatore Berlusconi».
La lettera del boss Giuseppe Graviano alla ministra Beatrice Lorenzin del 2013. Scrive a Lorenzin, e la lettera è stata acquisita dalla procura di Firenze, e ricorda «la provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi». All’allora ministra indicata da Berlusconi, Graviano scrive che dimostrerà la sua estraneità «a tutto ciò che mi viene contestato e ingiustamente condannato e non maledico la causa che mi ha portato a questa tragica situazione e non giudico i politici che hanno varato queste leggi, in particolare il Centro destra, inumane e inesistenti in nessun altro paese del pianeta terra, non danno la possibilità di uscire dal carcere, se non si confermano le contestazioni, anche accusando persone innocenti, nel mio caso confermare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia» e sottolinea che ci vorrebbe il coraggio di qualche politico «alle successive elezioni» rivolto ad «abolire la pena dell’ergastolo». Nel circuito dei detenuti al 41bis c’è molta fibrillazione per il disegno strategico che i Graviano stanno portando avanti. E forse il boss, approfittando del nuovo cambio in via Arenula, sta pure pensando ad una lettera da inviare alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per spiegare le sue ragioni da mafioso ed ergastolano che vuole uscire.
LA DISSOCIAZIONE. Il giorno prima di interrogare Giuseppe Graviano, i procuratori aggiunti di Firenze, Luca Turco e Luca Tescaroli, hanno sentito Filippo Graviano. I pm hanno subito sottolineato il motivo della convocazione: «Siamo interessati al tema del concorso di altre persone nelle stragi del 1993-1994 e ai rapporti economici tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, lei (Filippo Graviano ndr) e la sua famiglia. È disponibile a parlarne? Vorremmo partire dal 28 luglio 2009 quando lei ha manifestato il proposito di dissociarsi “verso le scelte del passato”». La risposta del boss è immediata: «Fino al 2009 il mio nome non era di interesse di nessuna procura; nel 2009 ci fu l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, io mi ero reso conto che la mia vita passata non era corretta e stavo facendo un percorso interno. Lui sosteneva che nel carcere di Tolmezzo gli avevo detto che stavamo aspettando qualcosa dall’esterno». In quell’occasione, come ha ricostruito Spatuzza, il boss gli disse che se certe cose non si fossero verificate, sarebbe arrivato il momento di parlare coi magistrati, annunciando la possibilità di una scelta di dissociazione dall’organizzazione. Per il collaboratore sarebbe l’ulteriore prova che un accordo con pezzi della politica ci fu. Ma il capomafia continua a negare questa circostanza. «Fatta questa premessa», dice ai pm Filippo Graviano, «mi proclamo innocente rispetto ai reati che mi sono stati attribuiti nella sentenza di Firenze (quella sulle stragi del 1993 ndr) e ritengo che, per me, questa sia una questione pregiudiziale rispetto alle domande che mi avete posto. Il mio interesse è quello di ottenere una revisione della mia posizione giudiziaria. Non sono disponibile a rispondere alle vostre domande. Mi sono dissociato da Cosa nostra facendo una dichiarazione espressa di dissociazione». E poi conclude: «Ammetto la mia responsabilità in relazione alla partecipazione a Cosa nostra palermitana, mandamento di Brancaccio, non sono mai stato capo del mandamento neppure come sostituto». L’interrogatorio, dopo un’ora, si conclude così.
IL SOPRALLUOGO A PALERMO. In relazione a questa indagine sulle stragi e sui soldi che secondo Graviano sono stati versati a Berlusconi, i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze sono stati in trasferta dall’8 al 12 febbraio nella zona di Palermo per effettuare “accessi”, verifiche e sopralluoghi. Una spedizione tenuta riservata in cui i pm erano accompagnati da un gruppo di investigatori che si occupano proprio dell’inchiesta sugli attentati a Roma, Milano e Firenze in cui sono stati già condannati Giuseppe e Filippo Graviano. Questa trasferta, per le modalità con le quali è stata condotta, sembra la stessa usata quando si deve far effettuare il sopralluogo ad un nuovo collaboratore di giustizia che ricostruisce storie di cui è stato testimone o protagonista. Il piano dei Graviano è in atto, aspettano che qualcuno lo porti a compimento.
Le accuse. Articoli ad orologeria di Espresso e Fatto: tornano le falsità dei Graviano su Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Marzo 2021. I signori Filippo e Giuseppe Graviano, ergastolani condannati per reati gravissimi legati a Cosa Nostra, sono liberi, come ogni detenuto, di difendersi, di dichiararsi non colpevoli, di tentare un alleggerimento della propria posizione accusando altri, di fare i dissociati o i pentiti anche a scapito di altri. In poche parole, è loro diritto anche inventarsi le solite balle nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Vogliono agitare sotto il naso di qualche pubblico ministero il nome del presidente di Forza Italia come carotina per ingolosire? Liberissimi di giocare al gatto e il topo con l’amministrazione della giustizia per trarne qualche personale vantaggio. La prospettiva di un’intera vita al 41-bis non piace a nessuno. Ma quel che è intollerabile, inaccettabile e persino un po’ disgustoso è il fatto che esistano ancora magistrati disponibili, fin dall’inizio degli anni novanta, quando qualche ambiente di barbe finte aveva tentato di incastrare Berlusconi con l’operazione “Oceano”, a credere che quelle carotine siano davvero commestibili. Soprattutto dopo che, una prima volta negli anni novanta e una seconda nei duemila, precedenti tentativi di indagare Berlusconi e Dell’Utri per collegamenti alle cosche sono falliti e le inchieste hanno portato sempre e solo all’archiviazione. Energie investigative e soldi pubblici buttati via. Finirà così anche questa volta. E c’è da domandarsi a che cosa possa portare tanta testardaggine nel continuare a frugare, scavare, sapendo benissimo che se i fratelli Graviano, così come i loro predecessori esperti nell’arte della calunnia, avessero davvero qualche storia di vita che possa anche solo aver sfiorato quella – intensa e sempre pubblica – di Berlusconi, sarebbero già diventati gli eroi dell’antimafia militante. Meglio di Spatuzza, forse addirittura meglio di Buscetta. Due pubblici ministeri di Firenze che indagano sulle stragi (forse) mafiose del 1993 sono stati per cinque giorni a Palermo del novembre scorso. Ce lo raccontano i giornali in servizio permanente effettivo dalla parte dei Buoni contro colui che rappresenta il Male Assoluto. Funziona più o meno così: il settimanale L’Espresso, ridotto dalle glorie del passato a due paginette allegate come omaggio domenicale alla Repubblica, lancia l’amo come anticipazione il venerdì, disciplinatamente raccolto dal Fatto quotidiano del sabato. Apprendiamo così che il viaggio al sud è stato determinato dalle pubbliche, solite (nulla di nuovo) dichiarazioni di Giuseppe Graviano , nel novembre dell’anno scorso, davanti alla corte d’assise di Reggio Calabria, durante un processo che riguarda la ‘ndrangheta. Una storia trita e ritrita e già archiviata: Giuseppe Graviano avrebbe incontrato due volte l’imprenditore (non ancora politico) Berlusconi in latitanza, ma poi ne sarebbe stato tradito perché il leader di Forza Italia, dopo aver vinto le elezioni nel 1994 non aveva eliminato l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e neanche l’ergastolo. Che cosa c’entra tutto ciò con le stragi del 1993 su cui ancora indaga la procura di Firenze? Assolutamente niente. A meno che non esista davvero qualcuno che pensi che Berlusconi e Dell’Utri abbiano chiesto ai fratelli Graviano di mettere per loro conto le bombe in cambio di qualche riforma in tema di giustizia. Se mi è permessa una piccola divagazione, vorrei ricordare che Vittorio Sgarbi e io nel 1996 siamo stati indagati per concorso esterno in associazione mafiosa per otto mesi proprio perché nella campagna elettorale del 1994 in Calabria avevamo proposto quelle riforme come nostra iniziativa individuale. Riforme che il centro-destra quando fu al governo si guardò bene dall’attuare, proprio perché non le aveva nel programma. Ve lo immaginate Ignazio La Russa che abolisce il 41-bis? O Bossi che si impegna contro l’ergastolo? Roba da Pannella, piuttosto. Non è chiaro se, come insinua il Fatto, Giuseppe Graviano abbia scelto il momento politico per lanciare il suo (piccolo) petardo, come già aveva fatto nel 2013 quando Silvio Berlusconi aveva aderito al governo di larghe intese guidato da Enrico Letta. Di certo non ha avuto un movente politico nel novembre 2020, quando c’era il governo Conte due e Forza Italia era all’opposizione. Ma forse la scelta politica e temporale l’hanno fatta proprio i giornali delusi dalla nascita del governo Draghi e incattiviti dalla presenza in maggioranza e anche dal rilancio politico di Berlusconi in Italia e in Europa. Non c’è oggi nessuna lettera, come quella inviata nel 2013 al ministro Lorenzin, in cui Graviano diceva che lo avevano obbligato a denunciare Berlusconi e che in caso contrario gli avrebbero attribuito tutte le stragi del 1993. Non c’è niente di niente che spieghi il momento scelto dall’Espresso e dal Fatto per pubblicare notizie di quattro mesi fa. Notizie? Ma lo sono davvero? L’unico fatto è il viaggetto (spero non sia costato troppo) dei pubblici ministeri fiorentini in Sicilia. Starebbero anche indagando, senza senso del ridicolo, sulla nascita del patrimonio iniziale dell’imprenditore Berlusconi. E già, perché il nonno dei fratelli Graviano sarebbe stato una sorta di socio occulto per conto di Cosa Nostra. Tutto già esaminato e archiviato da tempo come barzelletta. Durante il viaggio i due pubblici ministeri avrebbero però effettuato una piccola deviazione al carcere di Terni, dove è ristretto il fratello maggiore di Giuseppe, Filippo Graviano. E qui il discorso si fa serio, perché questo detenuto da dieci anni si dichiara un “dissociato” da Cosa Nostra, e dopo 27 anni di permanenza al regime del carcere impermeabile previsto dall’articolo 41 bis e dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2019, ha cominciato a chiedere di avere un permesso premio. Ai magistrati ha però detto che non vuol parlare delle dichiarazioni di suo fratello se prima non si rimette in discussione la sua condanna per le bombe del 1993, rispetto alle quali si dichiara innocente. E si torna sempre lì, a quelle esplosioni (con vittime ) di Roma Milano e Firenze, che sono parse sempre strane rispetto agli obiettivi propri di Cosa Nostra. Ma non sono i fatti del passato a preoccupare oggi, piuttosto i messaggi. Perché ogni volta che Filippo Graviano prova a chiedere un permesso premio, ecco pronto il Fatto quotidiano a gridare allo scandalo, non senza ricordare che se un mafioso di quella levatura osa tanto, la colpa è della Corte Costituzionale e della sua sentenza che lo consente. E oggi pare già presa di mira la neo ministra di giustizia. Ecco che cosa scrive l’Espresso: «E forse il boss, approfittando del nuovo cambio in via Arenula, sta pure pensando ad una lettera da inviare alla ministra della giustizia Marta Cartabia, per spiegare le sue ragioni da mafioso ed ergastolano che vuole uscire». Ecco, il gioco è fatto: da Graviano a Cartabia, passando per Berlusconi. Due piccioni con una fava. Qual è l’obiettivo dei professionisti dell’antimafia?
Per Graviano un altro ergastolo e se la prende con Berlusconi, ma perfino il Fatto ci crede poco…Redazione su Il Riformista il 25 Luglio 2020. La Corte d’assise di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Filippone, come mandanti di tre attentati avvenuti in Calabria contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994 nei quali morirono Antonio Fava e Vincenzo Garofalo, brigadieri, e furono feriti altri quattro militari. Filippone è stato condannato anche a 18 anni per associazione mafiosa con il clan Piromalli. Il processo per gli attentati del ‘93 e del ‘94 ha avuto una corsia principale, nella quale si è discusso di quei due omicidi, e una corsia “complanare” nella quale si è parlato di Berlusconi. Anche se col processo Berlusconi non c’entrava proprio niente. Il protagonista assoluto della scena è stato Giuseppe Graviano, che all’inizio degli anni novanta ebbe un ruolo importante in Cosa Nostra, e che è il figlio di un vecchio boss di Brancaccio. Graviano, sollecitato più volte dal Procuratore aggiunto di Reggio Giuseppe Lombardo, ha parlato molto di Berlusconi, ma sempre in modo vago, senza mai affondare. Attirando su di sè le attenzioni dei sostenitori del processo ”Trattativa Stato mafia” e della teoria che Berlusconi c’entri con Cosa Nostra. Però anche loro non sono rimasti molto soddisfatti delle dichiarazioni di Graviano, che ha consegnato un suo memoriale ai giudici, nei quali accusa sì Berlusconi, ma per una questione che con la mafia c’entra poco: Graviano sostiene che suo nonno, insieme ad altri, avrebbe prestato 20 miliardi (di lire) a Berlusconi negli anni 60, e che non li avrebbe mai riavuti indietro. E sostiene anche (cosa che fa inorridire i sostenitori di Stato-Mafia) che non era Dell’Utri il tramite dei rapporti con Berlusconi. Il Fatto Quotidiano ieri ha dato un grande spazio al memoriale offerto da Graviano ai giudici. Il titolo principale della prima pagina era “Con noi B. guadagnò miliardi” (dove la B. sta per Berlusconi). Però, nelle pagine interne, l’articolo di Marco Lillo e Rocco Musolino è molto più prudente. Precisa cento volte che Graviano non è attendibile e che la sua versione è contraddittoria.
Il Domani al traino di Graviano. “Mafioso e stragista”, De Benedetti all’attacco di Berlusconi scatenando il suo "Domani". Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Marzo 2021. Questa volta a mettere in campo il carro armato contro Silvio Berlusconi, dopo l’Espresso e il Fatto, provvede direttamente un antico antagonista, forse vero nemico nei sentimenti, come Carlo De Benedetti. E usa il suo giocattolo privo di orpelli e controlli, il nuovo quotidiano Domani, che pare talvolta più un volantino di propaganda politica o giudiziaria che un giornale. Le prime quattro pagine sono dedicate interamente a lui, quel Silvio Berlusconi che, se pur ha dovuto alla fine della lunga battaglia sulla Mondadori pagare denaro sonante all’antico antagonista, resta un uomo di grande successo da invidiare: grande imprenditore, due volte presidente del consiglio, con una bella famiglia di figli e nipoti che lo adorano. Non è questa l’immagine che l’editore e il direttore di Domani e anche una antica firma di Repubblica come Attilio Bolzoni hanno dell’ex presidente del Consiglio. “L’ombra delle stragi torna su Berlusconi”, così l’apertura di Domani di ieri. E giù quattro pagine di non-notizie. Ma, scrivono i cronisti Attilio Bolzoni e Nello Trocchia, “basta incastrare insieme i fatti, metterli in fila, rileggere qualche documento…e tornare all’Italia di quasi trent’anni fa”. Eh si, perché prima delle 49 citazioni con cui il libro di Sallusti-Palamara commenta i complotti giudiziari che hanno preso di mira Berlusconi inaugurando il filone di investigazione sessuale, in tanti ci avevano già provato, nel percorso del professionismo dell’antimafia. Nessuno lo ricorda, ma prima ancora dell’inchiesta “Sistemi criminali” ce ne fu una chiamata “Oceano”, che presto si inabissò. Lo so, perché ci fu una parte di servizi segreti avversa agli uomini della Dia che svolgevano quelle indagini, che per lungo tempo mi inviò, mentre ero alla presidenza della commissione giustizia della Camera, lettere e documenti in perfetto stile “barbe finte”. Non ho mai fatto alcun uso di quei documenti. Ho solo dato riscontro del fatto di averli ricevuti indossando un foulard della Dia nel corso di un’intervista che mi aveva fatto Emilio Fede quando era direttore del Tg4. Era chiaro fin dal 1994 che Silvio Berlusconi fosse il bersaglio non solo di ambienti politici, ma anche giudiziari. I meno pericolosi erano i milanesi, fin da quando Saverio Borrelli aveva intimato “chi sa di avere scheletri nell’armadio non si candidi”. Altri furono più agguerriti. E puntarono alto. Da dove arriva questo palazzinaro brianzolo così volgare, dove ha preso i soldi per inventare e avere successo con le televisioni commerciali e comprare una squadra di calcio, il Milan, che mieterà successi nel mondo come nessun’altra? E come mai decide di entrare in politica subito vincendo le elezioni? Chi gli ha dato i voti? Quattro indagini ufficiali (più “Oceano”), quattro archiviazioni non sono ancora sufficienti. Qualche “pentito” lo si trova sempre, un tanto al chilo. Così oggi, a leggere gli informatissimi tre organi di stampa, Espresso, Fatto e Domani, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sarebbero di nuovo iscritti sul registro degli indagati a Firenze per “concorso in strage”. E si, sarebbero i mandanti delle bombe messe (forse) da Cosa Nostra nel 1993 in luoghi d’arte di Milano, Roma e Firenze. Lo scopo di quegli attentati? Creare paura e affidarsi all’ “uomo nuovo”. Bisogna risalire ai giorni che precedettero la famosa “discesa in campo”. C’è oggi un ergastolano al 41 bis, condannato per diverse stragi di mafia, Giuseppe Graviano, che sta assaporando gli ultimi provvedimenti della Corte Europea e della Corte Costituzionale sul regime del carcere impermeabile, e la possibilità, a certe condizioni, di poter avere permessi premio pur senza essere un “pentito”. Graviano è uno che dice e non dice, fa giochi di prestigio con le parole, si fa “sorprendere” a fare confidenze mentre passeggia nei cubicoli dell’aria nel carcere pieno di microspie. Ma l’ultima volta ha parlato anche in un’aula processuale, a Reggio Calabria, verso la fine del 2020, e ha detto che nel 1993, mentre era latitante, avrebbe incontrato tre volte Berlusconi a Milano e che quest’ultimo gli avrebbe chiesto aiuto in Sicilia per le future elezioni cui si sarebbe candidato nel 1994. Ma non è sufficiente Graviano, c’è anche Gaspare Spatuzza, quello le cui parole sono d’oro perché ha smascherato il complotto ordito tramite il falso pentito Scarantino, quando tutto avrebbe potuto essere chiaro fin dal 1992. Spatuzza dice che Graviano gli aveva già parlato di Berlusconi durante un incontro al bar Doney di via Veneto a Roma il 21 gennaio 1994. E, guarda caso, dice Domani, proprio in quei giorni anche Dell’Utri era a Roma, per partecipare alla convention di presentazione di Forza Italia. Chiaro il nesso? Cose di piccoli uomini, mafiosi a assassini, che cercano qualche via d’uscita dalla loro misera vita. Ma il punto è che i pubblici ministeri di Firenze si sono precipitati nei mesi scorsi in Sicilia e anche nelle diverse carceri a interrogare pentiti e non. E il punto è anche che “basta incastrare insieme i fatti, metterli in fila, rileggere qualche documento…” per far scattare le ghigliottine, senza prove, senza indizi, senza riscontri. E senza pudore. Facciamo un esempio facile, tenendo nelle mani l’articolo di “Domani”. Si parla dell’attentato contro Maurizio Costanzo. E lo si definisce “..protagonista di trasmissioni contro la mafia ma anche contrario alla discesa in campo di Silvio Berlusconi”. Chiara l’allusione? La mafia voleva uccidere il conduttore di Mediaset forse per un motivo o forse per l’altro o forse per tutti e due. Si potrebbe far notare che per esempio Fedele Confalonieri era molto perplesso sul fatto che Berlusconi entrasse in politica, mentre altri come il liberale professor Urbani gli spiegavano il disastro che avrebbe investito l’Italia qualora le elezioni fossero state vinte dalla gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, mentre le forze politiche del pentapartito che avevano governato l’Italia erano state spazzate via dalle inchieste di Tangentopoli. E come dimenticare quanto l’allora imprenditore di Arcore abbia supplicato Martinazzoli perché si candidasse contro Occhetto? Basterebbe un po’ di memoria sulla nascita di Forza Italia. O forse un po’ di volontà. Invece basta mettere insieme un po’ di pere e un po’ di mele, sale quanto basta. I famosi dati sui trecento detenuti cui non fu rinnovato il 41-bis, oggetto di “trattativa”, mentre si dimentica che di questi solo 18 erano di appartenenti alla mafia. O addirittura il “decreto Biondi”, che sarebbe stato emanato dal governo Berlusconi non, come era stato detto fino a ora, per scarcerare i corrotti, ma gli uomini delle cosche. E quali? Fare nomi e cognomi please, visto che dopo che il provvedimento fu ritirato in seguito al disconoscimento di paternità del ministro dell’interno Maroni, che ne era stato l’estensore insieme al collega guardasigilli, meno del 10 per cento degli scarcerati fu riarrestato. Quante stupidaggini! Una volta dell’Utri condannato per aver fatto da cerniera tra Cosa Nostra e Berlusconi, l’altra, nel processo “trattativa”, per aver tramato “contro” lo stesso presidente del consiglio. Ma intanto, ci racconta Domani, c’è un grande movimento di pubblici ministeri di mezza Italia di questi tempi che convergono sugli stessi due indagati come mandanti di stragi. Perché, come dice Graviano, “lui voleva scendere”, e ci voleva “una bella cosa”. Cioè le bombe e anche… – ci credete? – il decreto Biondi. Senza senso del ridicolo “Domani” scrive che “il contenuto del provvedimento sarebbe stato conosciuto con anticipo da Cosa Nostra”.
Berlusconi e De Benedetti, storia di una passione autentica tra due ex amici. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Allora, dilemma: che gli ha preso all’Ing (con la maiuscola, come Avv per Agnelli e Cav per il cavaliere) Carlo De Benedetti quando ha commentato la malattia (Covid a 83 anni con un sacco di problemi pregressi, come da manuale) di Silvio Berlusconi dandogli dell’ «imbroglione» e parlando del proprio personale orgasmo – «la mia maggior goduria» – quando quello fu costretto a rimborsare alla sua Cir un bel pacco di miliardi? Qui ci sarebbe da rifare la storia d’Italia con tutta la “guerra di Segrate” fra Berlusconi e De Benedetti quando fu giocata una partita mortale sulla Mondadori. Ma occorrerebbero pagine per chi non sa e non ricorda. Mettiamola invece sul piano personale. Li ho conosciuti e anzi li conosco entrambi, De Benedetti e Berlusconi, umanamente parlando. E quando ho visto questa sparata dell’ingegnere a commento della malattia che aveva costretto Berlusconi al ricovero recalcitrante per polmonite da Covid mi sono chiesto se avesse avuto una botta di follia. Ho pensato in questi giorni durante i quali si è scatenata la zuffa all’italiana con violenza verbale, battute da querela e da fogna, e insomma sono rimasto ipnotizzato come spettatore cronista dal solito clima da guerra civile mentale e verbale che ci accompagna dalla fine della guerra fredda, anzi da molto prima. Con calma, anzi con rammarico, direi che De Benedetti si è fatto prendere da uno dei suoi personali attacchi di odio. Carlo De Benedetti ed io scrivemmo insieme un libro intervista qualche anno fa e diventammo amici, io bevevo la sua stessa tisana giallina che gli portavano in caraffe e rievocammo la sua vita e le sue guerre. E devo dire che mi colpì presto la dicotomia, o se preferite la contraddizione, fra il suo aspetto pacioso, florido senza essere grasso, apparentemente misurato e contegnoso, ma colmo di disprezzo e con una schiuma interna di conti non saldati. Dette a me l’anteprima di aver voluto letteralmente licenziare Eugenio Scalfari proprio perché voleva cacciarlo via e sostituirlo dalla mattina alla sera con Ezio Mauro che dirigeva la Stampa, lasciando in braghe di tela l’avvocato Agnelli, editore de la Stampa, che non credeva ai suoi occhi. Mi parlò molto, molto male, di persone che sono morte e di cui dunque taccio il nome. Ne parlò in maniera sferzante. E anche con qualche ragione, penso. Mi colpì molto quando disse che essendo fuggito da bambino in Svizzera con i suoi a causa delle persecuzioni razziali, sperimentò la fame e la povertà e giurò a sé stesso di non voler più essere povero, ma anzi di voler diventare ricco, ricchissimo, straricco. E lo fece. Fu un imprenditore di motociclette, di auto, entrò e uscì dalla Fiat litigando con Agnelli cui lasciò in compenso la Panda («una specie di carrarmato brutto e solido che costava poco e rendeva molto»), mi parlò con commiserazione altera di Francesco Cossiga che dopo le loro guerre gli venne a portare come dono di pace un coltello da pastore sardo (ma non una parola sul fatto che Cossiga insieme a De Michelis perorarono la sua causa presso la Casa Bianca dopo che la Olivetti era stata messa sul libro nero delle aziende che passavano segreti americani ai russi). E naturalmente mi parlò della Olivetti di Adriano Olivetti, il gioiello italiano delle macchine da scrivere e anche dei primi computer (con scheda Ibm) che lui, l’Ingegnere, gettò nella spazzatura perché non rendeva. Mi disse di quando gli offrirono di finanziare un giovanotto, un certo Bill Gates, che fabbricava computer in garage e che purtroppo non lo fece. Una bella storia di vittorie e qualche sconfitta, ma con un bel cesto di sassi nelle scarpe che non cessavano di dolergli. Una di queste era il comportamento dei figli che lo avevano sostituito nelle aziende e che non volevano sapere dei giornali perché i giornali portano solo rogne e niente soldi. In particolare, il dente avvelenatissimo col figlio Rodolfo con cui ebbe dei chiarimenti che sembravano regolamenti di conti e che si conclusero poi con la vendita del gruppo Repubblica-L’Espresso che passò alla Fiat poco dopo aver insediato nella direzione lo sfortunato e bravo Carlo Verdelli che sarà poi cacciato dai nuovi padroni dalla mattina alla sera. Una vita di lotte feroci fra combattenti italiani in un panorama molto italiano, con qualche ombra russa dei tempi sovietici. Quando iniziammo la nostra intervista mi disse: «Immagino che lei voglia prima di tutto sapere qual era la storia degli agenti russi nell’Olivetti». E me la raccontò, a suo modo. Aveva distrutto Scalfari, un altro giornalista storico di Repubblica, Cossiga, Craxi, Agnelli. Ma più di tutti, naturalmente., l’oggetto del suo odio al vetriolo era Silvio Berlusconi di cui parlava peraltro – e con mia sorpresa – come di un vecchio amico che di tanto in tanto lo andava a trovare per chiedergli consiglio, cui lui benignamente accordava qualche suggerimento utile. I due, quanto ad essere nemici, lo furono in maniera totale, da grande gioco del capitalismo italiano con ogni sorta di colpo di scena, accusa di falso, corruzione, imbroglio. Schiere di avvocati se le dettero di santa ragione per anni. La Mondadori alla fine andò a Berlusconi con Panorama ma senza Repubblica e l’Espresso che andarono invece a De Benedetti, con passaggi milionari di soldi decisi dai giudici nei vari livelli della causa. Tutto ciò detto, resta aperta e non risolta la domanda: perché De Benedetti ha di fatto augurato la morte anziché la guarigione all’ex nemico caduto malato? Qualcuno forse obietterà: ma non esageriamo, certo che gli ha augurato la guarigione ma con una battutaccia senza conseguenze. Ecco: quando si vuole augurare lunga vita al nemico caduto da cavallo, si fa come fece Bersani il quale, senza farsi pubblicità, andò a trovare Silvio Berlusconi in ospedale ferito e scioccato dal lancio di una madonna di piombo, da parte di un odiatore di passaggio. L’odio, sia detto per amor di verità banale, è un sentimento umano che ha il suo ruolo nell’economia selvatica dell’essere. Quell’espressione di De Benedetti usata per esprimere disprezzo persino per la malattia fisica del corpo di Berlusconi, appartiene o no all’armeria dell’odio ideologico? Naturalmente le risposte saranno divise in due fra chi conferma e chi dissente, ma nel caso di diniego per dissenso – De Benedetti non voleva manifestare odio e augurare la morte, ma gli è soltanto sfuggito il piede dalla frizione – resterebbe in piedi la domanda d’obbligo successiva: De Benedetti ha superato il limite del logoramento e ha perso il controllo definitivo della muscolatura liscia del pensiero che dovrebbe regolare l’emissione dei gas emotivi? Nessuno può garantire, ma io voto sì. Per De Benedetti, penso, e per una discreta fetta di italiani andati in acido e fuori controllo, tutto ha a che fare con Berlusconi, come prima con Craxi. Berlusconi ha impedito – storicamente e vorrei sapere chi si sentisse di negarlo – che con la decapitazione della prima Repubblica vincesse la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto e del nuovo “coso” uscito dalla Bolognina. De Benedetti ha detto che per lui Berlusconi è ed è stato «una specie di Alberto Sordi» della politica italiana. Ora, ammesso che De Benedetti intendesse paragonare i personaggi miseri e imbarazzanti creati da Sordi, davvero lui o chiunque altro può dire che l’impensabile operazione politica che fece saltare i piani e le speranze del Pds con una impossibile alleanza fra i leghisti separatisti di Bossi e gli ex fascisti di Fini, fosse una “albertosordata”? Davvero? Una cosa da Ambra Jovinelli? Da Fratelli De Regie o da Sarchiapone di Walter Chiari? Davvero? Qui secondo me casca l’asino dell’innocenza pretesa nelle parole di De Benedetti. Il suo (mal)augurio a Berlusconi è stato maldestramente mascherato da sbuffo di insofferenza nei confronti di un preteso pagliaccio, un “albertosordo” dell’impresa e della politica. Sarebbe da imbecilli pensare che davvero De Benedetti lo pensasse perché tutta la sua (di De Benedetti) vita politica con la tessera numero uno del Partito Democratico è stata dedicata a combattere su tutti i campi sia alla luce del sole che nei vicoli notturni, contro quell’uomo che rovesciò il tavolo e bloccò il ribaltone destinato ad instaurare in Italia un sistema politico egemomìnizzato dal vecchio Pci. Per molti fu un lutto e fra quei molti c’era sicuramente De Benedetti. E tuttavia, come può un uomo del suo rango, fingere di essersi battuto contro un imbroglione che “albertosordeggiava”? È impossibile. Dunque, a mio parere, questa verità storica e fattuale esclude qualsiasi attenuante benevola per la maledizione che l’Ingegnere ha lanciato contro il vecchio nemico spaventato dalla morte, sorpreso dalla polmonite, ricoverato quasi con la forza, messo a brutto muso di fronte alla prospettiva di lasciarci la pelle. Come se non bastasse, e infatti non basta, De Benedetti come i bambini capricciosi che rifiutano di chiedere scusa alla nonna accoltellata in un momento d’ira, ha ribadito che diceva sul serio, che non si scusava di nulla e che aveva ragione lui. L’uscita di De Benedetti ha comunque funzionato anche da test di Rorschach, quello delle macchie d’inchiostro di fronte alle quali ognuno vede quel che ha già nella testa. C’è stata una pletora di gaglioffi che per il piacere di giocare come i pirati che si giocavano una bottiglia di rhum, si sono gettai nel gioco malaticcio sotto la rubrica “Piatto ricco mi ci ficco”. L’Italia dei codardi ha fatto quasi tutta un passo avanti per applaudire. De Benedetti ha giocato un pessimo finale di partita e purtroppo non saprà trovare dentro di sé la forza che altre volte ha trovato per fare un passo indietro e giocarsi la carta magnifica non dell’autocritica – che detesto – ma del decoro e del rispetto. Orsù, Ingegnere: ha ancora l’età per esibirsi in un colpo di reni che la restituisca alla postura del coraggio, l’unica uscita da questa storia.
Graviano e il permesso premio: dalla disinformazione alla “trattativa Consulta-mafia” il passo è breve. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 Feb 2021. Dopo 27 anni, a seguito della sentenza della Corte costituzionale sul 4 bis, Filippo Graviano ha chiesto un permesso premio. Ogni volta, come nel caso di Graviano, che un detenuto mafioso “eccellente” fa istanza per chiedere un permesso premio, puntualmente arriva il Fatto Quotidiano a ricordare la famosa sentenza della Consulta che ha ritenuto incostituzionale l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui vieta il permesso premio. Non solo. Subito in qualche modo si evoca la presunta trattativa Stato-mafia, una tesi giudiziaria che è diventata una spada di Damocle sopra la testa di chiunque ha cuore la nostra Costituzione, nata per arginare qualsiasi forma autoritaria e concezione da Stato di Polizia. Ma fin dai tempi antichi, la paranoia e complottismo sono da sempre andati a braccetto con quei poteri che vogliono soffocare lo Stato di Diritto e avere sempre più potere ricorrendo perfino all’utilizzo dei nomi di quelle persone che hanno seriamente servito lo Stato come, in questo caso specifico, quello di Giovanni Falcone. Per farlo hanno bisogno di chi inconsciamente crea disinformazione, o fa allusioni come quando viene ricordato che tra i giudici della Consulta c’era anche l’attuale ministra della Giustizia Marta Cartabia. La colpa di quest’ultima è quella di essere una fine giurista, che ha come unica via maestra la Costituzione. Una carta che fa da scudo a ogni singolo cittadino dagli abusi di qualsiasi potere, economico, politico o giudiziario che sia.
La dissociazione non è contemplata giuridicamente per i mafiosi. Ora è la volta di Filippo Graviano, il quale assieme al fratello Giuseppe ebbe un ruolo importante nell’organizzazione delle stragi continentali del 1993 a Firenze, Milano e Roma e nell’omicidio di don Pino Puglisi. Dal 1994 è ininterrottamente al 41 bis. Dopo 27 anni, a seguito della sentenza della Consulta, Filippo Graviano ha chiesto il permesso premio. «Si dice dissociato. Basterà?», si chiede l’autore dell’articolo de Il Fatto. No, per la Consulta non basta assolutamente come parametro di valutazione. La dissociazione è un fatto personale, che a differenza di chi è dentro per terrorismo non è contemplato giuridicamente nei confronti dei mafiosi. Per quest’ultimi esiste solo lo status di collaboratore di giustizia per avere diritto a tutti i benefici penitenziari. Basti pensare al pentito Giovanni Brusca, colui che ha sciolto un bambino nell’acido e ha commesso quasi un centinaio di omicidi. Lui da tempo ha usufruito di vari permessi e nessuno si è scandalizzato. Un suo diritto, nulla da obiettare.
Per Falcone il 4 bis non esclude i benefici in assenza di collaborazione. Così come, dal 2019 è un diritto poter richiedere il permesso premio anche da parte di chi non ha collaborato con la giustizia. Si fa il nome di Falcone che ha ideato il 4 bis dell’ordinamento penitenziario per i detenuti mafiosi. Verissimo, peccato che si omette di dire una verità “indicibile” per chi usa l’antimafia come strumento di potere: consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale, non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. In soldoni, ciò che aveva ideato Falcone contemplava questa ratio: se non collabori non è preclusa la misura alternativa, devi solo attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Ebbene sì, la sentenza della Consulta, dove all’epoca – lo ricordiamo con piacere anche noi – c’era anche Marta Cartabia, avvicina il 4 bis al decreto originale ideato da Falcone: l’assenza di collaborazione non deve precludere a vita la possibilità di accedere ai benefici della pena. Era accaduto che, dopo la strage di Capaci e di Via D’Amelio, lo Stato italiano, non solo non si è giustamente piegato alla mafia, ma per reazione ha approvato il secondo decreto legge, quello del 1992, che introduce nel nostro ordinamento un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello voluto da Falcone. Con il decreto legge post strage, senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Uscendo, di fatto, dal perimetro costituzionale che Falcone voleva invece salvaguardato. Anche questo episodio dovrebbe far riflettere sul fatto che non c’è stata nessuna trattativa che aveva alleggerito la carcerazione dei mafiosi. Esattamente l’opposto. Una reazione durissima, tanto da approvare il 41 bis e rinchiudervi centinaia e centinaia di persone. Un vero e proprio rastrellamento dettato dall’emergenza del momento che però, oltre ai boss veri, hanno recluso al carcere tantissime persone non appartenenti a cosa nostra. Ci furono numerose istanze presentate dinanzi alla magistratura di sorveglianza che, a sua volta, ha sollevato il problema alla Corte costituzionale. Quest’ultima, con la numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993, ha sentenziato che per decidere la proroga del 41 bis, bisogna valutare caso per caso. Detto, fatto. A ben 300 detenuti non è stato rinnovato il carcere duro, ma solo 18 di loro appartenevano alla mafia. Non solo. A seguito di una nuova applicazione, si era ridotto a soli undici soggetti mafiosi. Il mancato rinnovo del 41 bis è frutto di scelta dettata dalla sentenza della Corte costituzionali e altri fattori che nulla c’entrano con la presunta trattativa. Casomai, ancora una volta, il “mostro” è la Consulta, rea di far applicare la Costituzione italiana e quindi difendere lo Stato di Diritto anche in tempi emergenziali. A meno che non si pensi che ci sia stata una trattativa Consulta- mafia. Non diamo limiti all’immaginazione.
La Corte costituzionale ha posto paletti molto rigidi. Ma ritorniamo alla “dissociazione” mafiosa. Un falso problema sul quale, forse per ignoranza, alcuni giornali tentano di specularci sopra. Nonostante la portata “rivoluzionaria” della sentenza, la Consulta dimostra comunque di aver preso attentamente in considerazione le particolari esigenze di tutela alla base della previsione dell’articolo 4 bis. Essa, infatti, si cura di precisare che la presunzione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – che da assoluta diviene relativa, nei limiti in cui opera la pronuncia in esame – può essere superata solo in base a valutazioni particolarmente rigorose, che non si limitino alla regolare condotta carceraria, alla mera partecipazione al percorso rieducativo o a semplici dichiarazioni di dissociazione del detenuto. Viene messo in rilievo, in proposito, che già la prima versione dell’art. 4-bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario prevedeva che l’accesso alle misure alternative e premiali per i reati di prima fascia fosse subordinato all’acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva», requisito tuttora necessario ai sensi del c. 1-bis dell’articolo in parola per i casi di collaborazione inesigibile, impossibile o irrilevante. La magistratura di sorveglianza, pertanto, secondo quanto indicato dalla Corte, non dovrà solo svolgere una seria verifica della condotta penitenziaria del detenuto, ma dovrà altresì considerare il contesto sociale esterno, acquisendo dettagliate informazioni per il tramite del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente. Viene ricordato, poi, che ai sensi del comma 3-bis dello stesso art. 4-bis, tutti i benefici in questione non possono mai essere concessi allorché il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale evidenzino l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.In sintesi, la sola “dissociazione” non basta. È uno dei tanti elementi che la magistratura di sorveglianza deve valutare per concedere o meno il permesso premio che può essere richiesto dopo l’espiazione di tantissimi anni. La collaborazione con la giustizia rimane la “via maestra”. Esattamente come prevedeva Falcone.
Quei collaboratori di giustizia diventati “consulenti a vita” delle procure. Dal rigore del metodo Falcone all’uso indistinto del pentitismo per combattere i clan mafiosi: funzionamento (e limiti) del programma di protezione testimoni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 marzo 2021. I criteri del programma di protezione dei collaboratori di giustizia sono fissati da una legge del 1991 scritta su impulso di Giovanni Falcone, che allora era direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia. Con il tempo, poi, il parlamento ha affinato lo strumento più volte, soprattutto sulla distinzione tra chi si pente dopo aver fatto parte dei clan e chi è vittima o testimone dei fatti e decide di parlare. Le dichiarazioni agli inquirenti dei collaboratori di giustizia, ad esempio, devono avvenire entro 180 giorni dalla dichiarazione di volontà di collaborare. Come funziona la protezione? La prima fase è il trasferimento del “pentito” e dei suoi familiari, che viene allontanato dalla sua zona di origine e residenza. La seconda fase è il trapianto del nucleo familiare in una nuova realtà sociale dove possono sorgere problemi di rapporti umani, di amicizie, di parenti abbandonati (sindrome da sradicamento). I benefici possono riguardare il lavoro, la scuola, l’arredamento e tutto il necessario per una vita decente, a cui si aggiungono i benefici carcerari se il collaboratore deve scontare la pena. Il contributo mensile ai pentiti, che si aggiunge alla disponibilità di un appartamento dignitoso, è parametrato all’indice Istat sul costo della vita, alla misura degli assegni sociale e via discorrendo.
Un patto tra lo Stato e il pentito. In sostanza la collaborazione si fonda su un patto tra lo Stato ed il pentito. Una trattativa: tu fai i nomi e noi ti garantiamo una vita decente. Se da una parte la figura del pentito è sacrosanta per la lotta alla mafia, dall’altra si rischia di trasformarlo in una sorta di “consulente” a vita. Questo perché i pentiti sono sempre considerati imputati di reato connesso. Ecco perché, anche nei processi su episodi recenti, ci ritroviamo pentiti “storici” che non possono conoscere i fatti attuali. Può anche accadere che lo Stato possa diventare inconsapevolmente il braccio armato della lotta tra clan. Non di rado accade che i pentiti siano una testa di legno di un clan che li usa per smantellare i loro rivali senza ricorrere allo spargimento di sangue. Può anche accadere che nel corso del tempo ci siano pentiti che ricordino improvvisamente degli eventi; a volte gli eventi si incastrano con i teoremi giudiziari del momento.
Il “Nano” e gli altri e la strage di Via D’Amelio. In particolare, sulla strage di via d’Amelio, diversi pentiti si sarebbero inseriti nel raccontare le loro verità solo dopo che erano emersi nuovi nomi nelle accuse degli inquirenti. Tra questi, figurerebbero anche pentiti che non erano di Cosa Nostra, come Nino Lo Giudice, che un tempo era a capo di un clan di Reggio Calabria. Il “Nano”, così era soprannominato, sapeva, ma non lo aveva mai detto prima, che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, uomo da qualche anno morto d’infarto, su cui si era concentrato l’imbuto dei misteri. Glielo avrebbe confidato anni prima Pietro Scotto, quando erano insieme in carcere all’Asinara. Non solo, sempre a dire del “Nano”, anni dopo lo stesso Aiello avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio nel 1989. Le sue dichiarazioni, rese a Reggio Calabria, furono trasmesse alle Procure siciliane. Inutile dire che parliamo di un pentito che in diverse occasioni è risultato inattendibile, parla e ritratta a seconda di come tira il vento.
Quei pentiti che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. Ma ogni tanto c’è anche un giudice a Berlino. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla Trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia, che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. Il giudice parla di cautela nelle valutazioni, perché «non consentono, in via astratta, di escludere che le indicazioni fornite siano state indotte dalla volontà di compiacere gli inquirenti, in dipendenza della particolare importanza che alle stesse indicazioni sarebbe stata attribuita». La notazione che si legge nelle motivazioni vale, in particolare, per il pentito Giovanni Brusca «nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, concernenti indicazioni di notevole rilievo, che potrebbero essere state influenzate da improprie interferenze inquinanti, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali». Non solo Fontana, ma pure Marina Petruzzella che nelle motivazioni dell’assoluzione di primo grado dell’ex ministro Calogero Mannino (assoluzione – dove smontata il teorema trattativa stato mafia – confermata in cassazione), scrisse che le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state «suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogativi, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami».
Lo Stato magnanimo con Giovanni Brusca. Eppure con Brusca, proprio perché pentito, lo Stato è stato magnanimo. Ha sciolto nell’acido un bambino, Giuseppe Di Matteo, per zittire il padre che pentito lo era diventato prima di lui. Ha “scannato” tante persone da non ricordare l’esatto numero delle vittime. Forse cento, addirittura centocinquanta. Ha schiacciato il telecomando dando il via all’inferno di Capaci. Niente ergastolo per tutto questo, ma una condanna a trent’anni che finirà di scontare il prossimo novembre nel 2021 e una sfilza di permessi, un’ottantina, alcuni dei quali per trascorrere le festività a casa. Non si saprà mai quanta sincerità ci sia nella richiesta di perdono, peraltro tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato. Certe, invece, sono le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi racconti. Il sospetto che dica ciò che i PM vogliono sentirsi dire è abbastanza concreto. Tanti pentiti rischiano di comportarsi così. Il pentitismo è importante, ma pochi Pm seguono le orme di Falcone: vagliare le dichiarazioni dei pentiti, senza assecondarli. E se raccontano menzogne, inquisirli per calunnia.
Sosteneva Falcone che per sconfiggere la mafia bisogna saper distinguere i pentiti veri dai falsi pentiti…Il Dubbio il 22 gennaio 2021. Pubblichiamo una raccolta di articoli a firma di Giovanni Falcone che rovesciano il “senso comune” sul magistrato antimafia. Sono dunque diventato una sorta di difensore di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso, come in parte Contorno. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà. Provate a mettervi al loro posto: erano uomini d’onore, riveriti, stipendiati da un’organizzazione più seria e più solida di uno Stato sovrano, ben protetti dal loro infallibile servizio d’ordine, che all’improvviso si trovano a doversi confrontare con uno Stato indifferente, da una parte, e con un’organizzazione inferocita per il tradimento, dall’altra. Io ho cercato di immedesimarmi nel loro dramma umano e prima di passare agli interrogatori veri e propri, mi sono sforzato sempre di comprendere i problemi personali di ognuno e di collocarli in un contesto preciso. Scegliendo argomenti che possono confortare il pentito nella sua ansia di parlare. Ma non ingannandolo mai sulle difficoltà che lo attendono per il semplice fatto di collaborare con la giustizia. Non gli ho dato mai del tu, al contrario di tanti altri; non lo ho mai insultato, come alcuni credono di essere autorizzati a fare, e neppure gli ho portato dolci siciliani, come qualcuno ha insinuato: «Falcone porta tutti i giorni i cannoli a Buscetta…». Tra me e loro c’è sempre un tavolo, nel senso proprio e metaforico del termine: sono pagato dallo Stato per perseguire dei criminali, non per farmi degli amici. A volte ci si chiede se ci sono pentiti «veri» e pentiti «falsi». Rispondo che è facile da capire se si conoscono le regole di Cosa Nostra. Un malavitoso di Adrano (Catania), un certo Pellegriti che aveva già collaborato utilmente coi magistrati per delitti commessi in provincia di Catania, aveva stranamente dichiarato di essere informato sull’assassinio a Palermo del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. Nel 1989 mi reco con alcuni colleghi a trovarlo in prigione per saperne di più e il Pellegriti racconta di essere stato incaricato da mafiosi palermitani e catanesi di recapitare nel capoluogo siciliano le armi destinate all’assassinio. Era chiaro fin dalle primissime battute che mentiva. Infatti è ben strano che un’organizzazione come Cosa Nostra, che ha sempre avuto grande disponibilità di armi, avesse la necessità di portare pistole a Palermo; né è poi pensabile, conoscendo le ferree regole della mafia, che un omicidio «eccellente», deciso al più alto livello della Commissione, venga affidato ad altri che a uomini dell’organizzazione di provata fede, i quali ne avrebbero dovuto preventivamente informare solo i capi del territorio in cui l’azione si sarebbe svolta; mai comunque estranei come il Pellegriti. I riscontri delle dichiarazioni di Pellegriti, subito disposti, hanno confermato, come era previsto, che si trattava di accuse inventate di sana pianta. Nel 1984 ci viene segnalato un altro «candidato» al pentimento: Vincenzo Marsala. Nel corso del processo per l’omicidio del padre, aveva pronunciato accuse molto gravi contro le famiglie di Termini e di Caccamo, sostenendo di aver ricevuto le informazioni in suo possesso dal padre. Lo faccio condurre a Palermo e dal tenore di alcune sue risposte mi convinco che si tratta al novantanove per cento di un uomo d’onore, nonostante i suoi dinieghi. Gli dico allora: «Signor Marsala, a partire da questo momento lei è indiziato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Decida che cosa fare». Mi guarda e insiste di non far parte di Cosa Nostra. Interrompo l’interrogatorio e lo rinvio. Qualche settimana dopo ha fatto sapere di essere pronto a parlare seriamente. La sua confessione di mafioso si è rivelata utilissima. Conoscere i mafiosi ha influito profondamente sul mio modo di rapportarmi con gli altri e anche sulle mie convinzioni. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni. Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso – il tradimento, o la semplice fuga in avanti – provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi. L’imperativo categorico dei mafiosi, di «dire la verità», è diventato un principio cardine della mia etica personale, almeno riguardo ai rapporti veramente importanti della vita.
· Hanno ucciso Raffaele Cutolo.
Lo Stato ha trasformato la sua detenzione in tortura. Raffaele Cutolo sepolto al 41 bis, l’autopsia conferma: morto per le multiple patologie croniche. Viviana Lanza su Il Riformista il 27 Luglio 2021. «La causa del decesso di Raffaele Cutolo può essere identificata in una patologia naturale a genesi spontanea in un paziente il cui stato di salute appariva già gravato da multiple patologie croniche». È uno dei passaggi della relazione del medico legale che ha eseguito l’autopsia sul corpo di Cutolo, il vecchio capo della Nuova camorra organizzata (Nco) deceduto in carcere, al 41 bis, la sera del 17 febbraio scorso. Sfogliando le oltre trenta pagine della relazione depositata di recente, viene fuori il complicato quadro clinico nel quale il detenuto ha vissuto gli ultimi mesi della sua vita. L’avvocato Gaetano Aufiero, legale di Cutolo, sottolinea quanto labile sia stato il confine tra reclusione e tortura nel caso del suo assistito, tanto labile da annullarsi in alcuni momenti. Sono stati i momenti dei ricoveri prolungati, delle crisi, delle cadute, delle malattie incalzanti. A leggere la relazione del medico legale che ripercorre la storia penitenziaria e clinica di Cutolo, viene da riflettere sul senso del 41bis applicato a un uomo ultraottantenne, seriamente malato, non più autosufficiente, alimentato solo con cibi frullati e liquidi addensati, impossibilitato a camminare e a stare seduto. Cutolo era il più anziano detenuto d’Italia al 41 bis. Dal 6 aprile 2014 era nel supercarcere di Parma, alloggiato in una sezione separata da quella della restante popolazione detenuta. Nel febbraio 2019 si verificarono i primi episodi di decadimento cognitivo e fisico. Un anno dopo la situazione cominciò irrimediabilmente a precipitare. Ci furono una serie di episodi di cadute accidentali, se ne verificarono una dopo l’altra, a distanza di giorni e persino di ore. Cutolo veniva trovato in cella a terra, disorientato. Il personale del carcere lo soccorreva di continuo. L’11 aprile, il 13 aprile, e l’1, il 2 e poi 9, 14, 17, 23, 24, 28 maggio, e ancora l’8, il 13, il 15 e il 20 giugno. Raffaele Cutolo, quello che in un lontano passato era stato uno dei più temuti capi della camorra, era diventato un uomo molto anziano e molto malato. Una fragilità fisica che la giustizia ha sempre bilanciato con il passato del detenuto, impedendo a lui qualunque concessione. Nei mesi più duri della malattia e della detenzione la difesa di Cutolo ha inoltrato più di una richiesta ai giudici della Sorveglianza, non per ottenerne la libertà piena ma almeno un’attenuazione delle restrizioni del 41 bis. A Cutolo non è stato concesso nulla. Nel frattempo entrava e usciva dall’ospedale. Negli ultimi mesi di vita subì due lunghi ricoveri. Ormai disidratato, con reni e polmoni compromessi, era considerato dai medici un paziente affetto da grave deperimento organico. Nella relazione della professoressa Rosa Maria Gaudio, docente all’università di Ferrara che su disposizione della Procura ha eseguito l’autopsia sul corpo di Cutolo, sono riportati tutti i passaggi della storia clinica del vecchio capo della Nco. Nei circa sei mesi e mezzo ininterrotti di ricovero si riscontrarono «manifestazioni cliniche di patologie naturali ad andamento cronico, a coinvolgimento di diversi organi e apparati con funzionalità compromesse sin dall’ingresso presso nosocomio parmense», si legge nella relazione che ripercorre l’aggravarsi dello stato di salute di Cutolo. L’autopsia è servita ad accertare le cause della morte dell’anziano detenuto, i mezzi e le modalità che l’hanno prodotta e verificare se eventualmente ci siano state altre cause concomitanti, in ipotesi anche in ambito sanitario. L’ispezione sul cadavere ha escluso responsabilità di altri: Cutolo è morto perché era molto malato. La moglie del vecchio boss, Immacolata Iacone, valuterà con il suo legale, l’avvocato Gaetano Aufiero, se presentare ricorso alla Corte europea di Strasburgo. Negli ultimi mesi di vita Cutolo non riusciva a portarsi un bicchiere d’acqua alla bocca, non riusciva a stare seduto, figurarsi a camminare, pesava all’incirca 40 chili, poteva alimentarsi solo con cibi liquidi, respirava con l’aiuto dell’ossigeno. Lasciarlo in quelle condizioni al 41 bis è stato davvero qualcosa di tanto diverso dalla vendetta e dalla tortura?
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Morto Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova camorra organizzata. Roberto Galullo su Il Sole 24 ore il 17/2/2021. All’età di 79 anni è morto Raffaele Cutolo boss camorrista fondatore della Nuova camorra organizzata. Era ricoverato nel reparto sanitario detentivo del carcere di Parma. Era il carcerato sottoposto al 41 bis più anziano. Il decesso è avvenuto alle 20.21 all’ospedale Maggiore di Parma. Nell’ultimo periodo era stato più volte trasferito dal carcere al reparto ospedaliero. Nel respingere l’ultima istanza di differimento della pena, fatta dalla difesa del boss per le condizioni di salute, il tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva sottolineato, a giugno 2020, come le sue condizioni fossero compatibili con la detenzione. Ma soprattutto come, nonostante l’età, Cutolo fosse ancora un simbolo. «Si può ritenere che la presenza di Raffaele Cutolo potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco, gruppi rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma», scrivevano i giudici. E subito proseguivano: «Nonostante l’età e la perdurante detenzione rappresenta un “simbolo” per tutti quei gruppi criminali» che continuano a richiamarsi al suo nome. Nativo di Ottaviano, comune dell’Hinterland vesuviano, negli anni Settanta fu protagonista del processo di riorganizzazione della malavita organizzata napoletana, sganciatasi dai cliché della «guapparia» e sempre più dedita al traffico di armi e droga. Intrattenne legami con la Banda della Magliana e, negli anni Ottanta, guidò la Nco in una sanguinosissima guerra con la Nuova famiglia di Carmine Alfieri. Fu al centro della trattativa con i servizi segreti per la liberazione di Ciro Cirillo, un assessore regionale campano rapito dalle Brigate Rosse. «O’ prufessore» di Ottaviano era condannato in via definitiva a 14 ergastoli. Tra le altre cose, era stato giudicato colpevole anche degli omicidi dell’ex vicedirettore del carcere di Poggioreale Giuseppe Salvia e per il delitto di Marcello Torre, avvocato e sindaco di Pagani. La sua figura ha profondamente inciso sull’immaginario collettivo italiano degli anni Settanta e Ottanta. Il camorrista, la sua biografia scritta da Giuseppe Marrazzo ed edita da Pironti, fu un bestseller assoluto e ispirò l’omonimo film, esordio cinematografico di Giuseppe Tornatore. Alla figura di Cutolo è ispirata anche Don Raffaé, celebre brano di Fabrizio De André.
Cutolo morto per setticemia alla gola, aveva avuto la polmonite. Pierluigi Frattasi su Fanpage.it il 17/2/2021. Da due giorni soffriva di una setticemia del cavo orale ed era in choc settico. Era già fortemente debilitato ed aveva perso molto peso, arrivando fino a 40 chili. Il "Professore" di Ottaviano, come era soprannominato, si è spento questa sera all'ospedale di Parma, dove era ricoverato da diversi mesi, prima nel reparto detenuti e poi in reparto ordinario. Nonostante le cure del personale sanitario, però, le sue condizioni si sono aggravate fino al decesso. Lunedì la famiglia è stata informata del peggioramento della sua salute. Secondo le prime ricostruzioni, Cutolo sarebbe stato affetto da un problema di ossigenazione legato ad una polmonite bilaterale che aveva già avuto 15 giorni fa e per un paio di giorni era stato in prognosi riservata. Quando la moglie ha appreso del suo peggioramento avrebbe manifestato l'intenzione di partire per Parma per andare a trovare il marito di persona. Le sarebbe stata riconosciuta, infatti, la possibilità di avere un colloquio straordinario, ma non ha fatto in tempo. La famiglia, dopo aver appreso la notizia della scomparsa, avvenuta questa sera, ha poi cominciato i preparativi per la partenza per andare a trovarlo. Cutolo era detenuto da decenni col regime del 41bis, ovvero il carcere duro per i responsabili di reati di tipo mafioso, aveva 79 anni e da tempo era gravemente malato. Negli anni Settanta era stato il fondatore della Nco, Nuova Camorra Organizzata, dando il via a una sanguinosa guerra con gli altri clan, che si riunirono appositamente nella Nuova Famiglia. Ad agosto dello scorso anno, era stato ricoverato in ospedale a causa dell'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il ‘professore' di Ottaviano, che negli anni Ottanta consorziò gran parte della camorra della provincia di Napoli creando un cartello criminale che controllava estorsioni, spaccio e carceri, aveva 79 anni e soffriva da tempo di numerose patologie collegate all'età e alla sua permanenza in carcere. Lo scorso anno in pochi mesi è stato costretto a due ricoveri d'urgenza a Parma lì dove è recluso, all'interno della struttura ospedaliera destinata ai ‘ristretti'. Nell'ultimo periodo era stato più volte trasferito dal carcere al reparto ospedaliero.
Morto Raffaele Cutolo, Roberto Saviano: “Si porta nella tomba i suoi segreti”. Pierluigi Frattasi su Fanpage.it il 17/2/2021. “Cutolo fu boss potente, più di un primo ministro. Un potere che lo tenne in carcere tutta la vita; i segreti – che si porta nella tomba – non riuscirono a ricattare il potere politico che l’aveva usato”. Commenta così lo scrittore Roberto Saviano la morte di Raffaele Cutolo, spentosi stasera, 17 febbraio 2021, all'età di 79 anni, nel cacercere di Parma dove era ricoverato. In un tweet l'autore di Gomorra, e allievo dello storico napoletano Francesco Barbagallo, autore di importati monografie sul fenomeno camorrista e sulla Nco di Cutolo, definisce ‘o Professore di Ottaviano un “Uomo violento e disperato partorito da un un territorio violento e disperato”.
Il caso Cirillo. Tanti i misteri italiani che resteranno irrisolti, come il caso Ciro Cirillo, l'assessore regionale democristiano della Campania sequestrato il 27 aprile 1981, con l'intricata commistione tra Democrazia Cristiana, Brigate Rosse, Servizi Segreti e Camorra. Cutolo è rimasto al carcere duro del 41 bis fino alla fine. Per il senatore Sandro Ruotolo (Gruppo Misto), Cutolo fu “un capo sanguinario della camorra – scrive in un tweet – protagonista della trattativa tra i servizi segreti ed esponenti della Dc per la liberazione di un assessore regionale campano rapito dalle Brigate Rosse. Ha portato con se i misteri del caso Cirillo". Lo scrive in un tweet il senatore Sandro Ruotolo del Gruppo Misto.
“Potevo salvare Moro, fui fermato”. Il 25 ottobre 2016, Cutolo rese dichiarazioni anche sul Caso Moro, rispondendo alle domande del pm Ida Teresi e del capo di allora della Dda, Giuseppe Borrelli. "Potevo salvare Moro, fui fermato – disse Cutolo ai giudici – Aiutai l'assessore regionale Ciro Cirillo, potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi”. Nel 1978, anno del rapimento Moro, Cutolo era latitante e si sarebbe fatto avanti per cercare di salvare Moro. “Per Ciro Cirillo si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava”. L'interrogatorio si svolse nel supercarcere di Parma, dove il boss venne ristretto per scontare quattro ergastoli ed avvenne nell'ambito dell'indagine sul percorso criminale del suo luogotenente storico, Pasquale Scotti, arrestato dopo 30 anni di latitanza.
Fulvio Bufi per il "Corriere della Sera" il 18 febbraio 2021. Raffaele Cutolo si porta nella tomba una infinità di omicidi, qualche inconfessabile segreto che ha sempre detto di conoscere ma mai ha voluto svelare, e la più lunga detenzione al 41 bis che un recluso italiano abbia mai fatto: trentaquattro anni e due mesi. Quando, nell'ottobre del 1986, fu istituito il carcere duro, lui era già un detenuto sottoposto alla massima sicurezza, e da allora non ha mai ottenuto alcuna attenuazione del regime detentivo. Né lui ha mai fatto passi verso la giustizia che potessero indurre i giudici a valutare positivamente le tante istanze - prima di uscita dal 41 bis e poi di detenzione domiciliare - presentate dall'avvocato Gaetano Aufiero, che lo ha assistito negli ultimi anni. Cutolo non ha mai dato segnali di pentimento e nemmeno di collaborazione con i magistrati, anche solo per ricostruire una fase storica della camorra napoletana in cui la sua Nco comandava su tutti gli altri clan, e lui, seppure sempre da detenuto (a eccezione di un breve periodo di latitanza dopo l'evasione dal manicomio giudiziario di Aversa) governava le carceri e ogni genere di attività illecita che veniva svolta all'esterno. Trattava con uomini dei servizi segreti e con i politici che gli chiesero di mediare con le Brigate Rosse per la liberazione di Ciro Cirillo, assessore regionale fedele ad Antonio Gava per il quale la Dc si mosse come non aveva fatto per Moro, pagando addirittura un riscatto. E soprattutto veniva ricompensato con gli appalti miliardari per la ricostruzione in Irpinia, che arrivarono a pioggia alle imprese guidate da uomini di sua fiducia. Tutte cose emerse nelle aule di giustizia, eppure lui ha sempre continuato a ripetere che se avesse voluto, avrebbe potuto rivelare segreti in grado di terremotare lo Stato. Non lo ha mai fatto, e mentre lui minacciava e lanciava messaggi, tutti i potenti dei suoi tempi sono usciti di scena, lo Stato è cambiato e se Cutolo aveva davvero messo da parte un tesoro di segreti, quel patrimonio è diventato solo un accumulo di monete fuori corso. Forse dieci anni fa lo ha capito lui stesso, quando ha deciso di seppellirsi ancora di più: rinuncia alla socialità, che spetta anche ai detenuti al 41 bis. Smette di uscire dalla cella per la passeggiata all'aria, smette di interagire con altri reclusi e con gli operatori e i volontari. Solo ai colloqui con la moglie Immacolata Iacone e con la figlia (nata tredici anni fa grazie alla fecondazione assistita) non rinuncia. Una volta al mese parla con loro. Poi, se parla, parla da solo. Nel frattempo invecchia precocemente. Accusa numerose patologie, comincia ad avere problemi anche con la memoria. Fino al ricovero in ospedale, dove le sue condizioni peggiorano ulteriormente. Cutolo alterna fasi di lucidità a momenti in cui non riconosce nemmeno la moglie. In uno degli ultimi colloqui la figlia scappa piangendo, perché il padre non la guarda nemmeno in faccia, mentre invece scambia la moglie per una cognata morta da anni. Il suo avvocato chiede che possa andare ai domiciliari, anche restando in ospedale. Ma i giudici dicono di no. Cutolo è stato troppo potente e pericoloso per poter essere considerato ora soltanto un vecchio ammalato. La sua uscita dal circuito carcerario - scrive il Tribunale di sorveglianza di Bologna - «sarebbe un accadimento eclatante» con «effetti dirompenti» sugli equilibri criminali in Campania. Nel nome di Cutolo, insomma, qualcuno avrebbe potuto ricominciare a uccidere. Che lui lo volesse o no.
Isaia Sales per “la Repubblica” il 19 febbraio 2021. Un giovanissimo della provincia di Napoli commette un delitto per una banale rissa, finisce in carcere per il resto della sua vita (tranne pochissimi anni di latitanza) e diventa il più potente uomo di camorra della storia criminale del nostro Paese. Nei vari istituti di pena in cui viene rinchiuso (compresi i manicomi giudiziari) mette su un esercito di massa di giovani delinquenti (più di tremila reclutati agli inizi degli anni ottanta del Novecento) offrendo loro soldi per pagarsi l' avvocato, sussidi alle famiglie, vestiti per presentarsi decentemente nelle udienze o ai colloqui con i parenti, riti di iniziazione per sentirsi parte di una élite delinquenziale e, infine, un credo ideologico in base al quale non dovevano sentirsi volgari assassini ma dei moderni Robin Hood, così come aveva scritto nel suo libro Poesie e pensieri che circolava nelle celle come una vera e propria Bibbia criminale. I direttori delle carceri e dei manicomi gli lasciano fare quello che vuole, compresi i giudici di sorveglianza e gli agenti penitenziari. All'apice del suo potere scatena una carneficina con più di 1500 morti ammazzati nello scontro con gli altri clan federati contro di lui. Tutto questo ha dell' incredibile, eppure è successo. In Italia, nella seconda metà del secolo scorso. E il protagonista di tutto ciò, Raffaele Cutolo, è morto l' altro ieri. Egli è il primo boss di un'organizzazione criminale di tipo mafioso che ha trasformato un luogo di espiazione delle pene e di recupero dei rei nella più grande scuola di formazione delinquenziale che si conosca in Occidente. Potrebbe succedere ancora? Anche oggi alcune carceri (nonostante tante persone generose che ci lavorano) sono luoghi permanenti di educazione criminale, e migliaia e migliaia di giovani sottoproletari cercano nel crimine una bandiera, un credo, una possibilità di uscire da una vita di niente con una morte da boss. Com'è stato possibile che da Cutolo si siano recati nel 1981 degli agenti dei servizi segreti (su sollecitazione di alcuni esponenti dei vertici della Dc dell' epoca) a chiedergli di intercedere con le Brigate rosse, per la liberazione di Ciro Cirillo, l'assessore regionale della Campania rapito dai terroristi? E quando quest'uomo nel 1994 prova a pentirsi, chiamando nel carcere di Carinola i magistrati per registrare le sue dichiarazioni, uomini degli stessi servizi segreti sono presenti prima che arrivino i magistrati e lo dissuadono con argomenti evidentemente convincenti. Altre trattative dello stesso tipo si sono ripetute in Sicilia, in Calabria, e chissà in quante altre parti d'Italia. L'uomo che autorizzò la visita a Cutolo in carcere dei rappresentanti dei servizi segreti si chiamava Ugo Sisti ed era il direttore degli istituti di prevenzione e di pena dello Stato italiano. Recentemente il suo nome è tornato alla ribalta per la strage alla stazione di Bologna dell'agosto 1980 quando era il capo della procura in quella città e indirizzò le prime indagine per fuorviarle. Chi è stato, dunque, Cutolo? E chi lo ha fatto diventare un boss del livello descritto? L'indole, l' intelligenza, l' ambiente in cui è vissuto e si è formato, o anche le condizioni delle carceri italiane, il comportamento dei direttori, dei magistrati e le occasioni che le istituzioni gli hanno permesso di sfruttare? E infine quanto ha inciso sulla sua carriera la legittimazione degli apparati dello Stato e la volontà di alcuni esponenti della Dc di liberare un loro uomo quando tre anni prima erano stati intransigenti nel non trattare per la vita di Aldo Moro? Sono domande che un osservatore dei fatti criminali deve porsi, perché le carriere dei camorristi e dei mafiosi non si formano solo negli ambienti di provenienza ma nelle interrelazioni con potenti di altri ambienti non formalmente criminali. Cutolo fa parte a pieno titolo di un capitolo della storia italiana, cioè il rapporto di alcuni rappresentanti delle istituzioni di sicurezza (e di ambienti politici) con i capi delle maggiori organizzazioni criminali. Ma il più importante e influente boss della camorra contemporanea, non ha lasciato né eredi né un regno criminale da trasmettere. È stato un fiero avversario dei mafiosi siciliani ma ha cercato di imporre il loro modello centralizzato a un mondo criminale, quello campano, riottoso ad ogni forma di centralizzazione. Oggi la frammentazione dei clan camorristici è impressionante, ben 180 in Campania, un numero record in rapporto alle altre criminalità mafiose italiane. Se è fallito il modello cutoliano di camorra, tutto ciò che si è sprigionato in quegli anni di dominio e di lotta con gli altri clan ha prodotto invece notevoli risultati. Dalla seconda metà degli anni novanta del Novecento è radicalmente cambiata la gerarchia all' interno delle mafie italiane: le camorre napoletane e casertane (assieme alle 'ndrine calabresi) hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla sconfitta dei corleonesi. Tre lezioni fondamentali Cutolo ha lasciato: non si è nessuno nel mondo criminale se non si entra nel campo delle imprese legali; se non si obbliga chi dalle istituzioni dovrebbe combatterti a fornirsi dei tuoi servizi; se non si ha sempre pronto un esercito criminale di riserva con grande voglia di riscatto sociale attraverso la violenza. Cutolo è stato il criminale più mediatico e più ideologico. Più vicino ad Al Capone che a Riina. Così scriveva nel suo libro: «Napoli è divisa in signori e pezzenti. Se io ho un carisma è quello di poter offrire il passaggio immediato dalla seconda alla prima categoria». I numerosi clan che lo hanno sostituito tengono ferma la barra in quella direzione. E ci sono riusciti.
Raffaele Cutolo, boss senza segreti potente solo in cella. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 19/2/2021. Cutolo non porta nella sua tomba segreti, porta nella tomba prove. Di quello che ha fatto si è sviscerato, intuito, saputo quasi tutto, e certamente le dinamiche più importanti sono state illuminate; le prove però quelle le ha portate con sé. Non volle mai pentirsi perché l’ultimo capitale della disperazione che gli era rimasto era la sua storia, quella di capo, senza regno, senza fedeli, senza più nessuno, ma il suo passato di re non volle scambiarlo con qualche anno di libertà. Sono convinto non fosse più capace nemmeno di immaginare la sua vita fuori dal carcere, sì perché Cutolo tutto il suo potere lo ebbe e organizzò in carcere. Più il carcere è punitivo, più diventa potere nelle mani delle organizzazioni criminali, e la storia del Professore ’e vesuviano la conferma. Muore un boss che fece strage di innocenti, massacrò Mimmo Beneventano (medico e consigliere comunale) nel 1980 perché si oppose alle infiltrazioni camorriste proprio nel feudo di Cutolo, Ottaviano; nello stesso anno massacrò Marcello Torre, sindaco di Pagani che voleva bloccare la camorra negli affari legati agli appalti. Uccise nel 1981 Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale colpevole di averlo fatto perquisire. Furono uccisi da sicari agli ordini di Cutolo perché il boss uccise solo una persona (che aveva osato fare apprezzamenti alla sorella) e con le mani. I boss dell’epoca usavano per uccidere l’arma bianca o le mani, la distanza dal nemico che impone l’arma li avrebbe fatti sentire codardi. Diede ordine di non toccare giudici e giornalisti ma nel 1981 spararono nelle gambe a Luigi Necco, cronista sportivo, perché riportò la notizia di un calciatore dell’Avellino, Juary, che al processo aveva portato una medaglia a Cutolo da parte del presidente della squadra. Il suo fu un impero violentissimo, violenza che ha cercato sempre di coprire con la retorica dell’uomo di testa, di raziocinio, quasi di intelletto. Cutolo unì la galassia pulviscolare della camorra in un’unica organizzazione. Questa divisione frammentaria degli anni ’50, ’60 e ’70 rendeva la Campania terra di tutti; bastava che i marsigliesi si alleassero con due famiglie per egemonizzare, o che i siciliani si alleassero ai rivali dei marsigliesi per ottenere territorio. Cutolo capì che bisognava unirsi in una sola struttura forte con gerarchie, una struttura piramidale con un solo re: lui. La scelta dell’acronimo fu fatta per moda, tutto ciò che contava e metteva paura aveva un acronimo negli anni ’70: le Br, Prima Linea, i Nap, Raf, l’Eta, l’Ira, l’Mrta in Perù, l’Fsln in Nicaragua. Cutolo si disse: come è possibile che l’organizzazione tra le più antiche e feroci del mondo, precedente anche allo stato unitario italiano, non abbia un suo acronimo? E allora creò la Nuova Camorra Organizzata. L’elemento sorprendente di questo nome non sta nell’aggettivo “nuova” ma è la parola “camorra” perché è un termine utilizzato solo dagli esterni all’organizzazione; nessun affiliato era solito chiamare “camorra” il proprio clan. Prima di Cutolo veniva chiamata Onorata Società, dopo sarà chiamata Sistema. Cutolo capì invece che quell’acronimo aveva un potenziale pubblicitario – sì, proprio così – e politico enorme: chiamiamoci come ci chiamano le persone che non ci appartengono, questo pensò. E “nuova” però serviva a segnare il cambio di rotta con le famiglie del passato da cui lui non discendeva, ma che faceva entrare nella sua rete, e “organizzata” per ribadire che non si trattava più di clan che cambiano di continuo passo e obiettivo. Cutolo discendeva da una famiglia di contadini sfruttati come bestie e maltrattati nei latifondi vesuviani, era però stato cresciuto e protetto da Vittorio Nappi, un guappo, ossia un proto camorrista che gli consegnò soprattutto una regola: il capo deve vivere le regole che chiede di professare; ad esempio il capo, per essere rispettato, non doveva avere un pasto buono spedito in carcere dai ristoranti, mentre i suoi uomini la sbobba che passava la mensa, un capo non doveva essere difeso da bravi avvocati, mentre lasciava avvocati d’ufficio agli associati; doveva non insidiare le donne dei suoi uomini se voleva che i suoi uomini non insidiassero le donne dei loro fratelli di sangue dell’organizzazione. Cutolo provò a darsi quest’aurea divenendo un capo politico-mafioso, la sua organizzazione si legò subito alla politica locale determinando assessori, consiglieri comunali, sindaci, e poi alla politica nazionale. Voleva che la Nco agisse dove le istituzioni erano completamente assenti. Aveva una visione politica della realtà Cutolo, lo Stato è una struttura teatrale costruita dai potenti (aveva osservato come era gestito il potere a sud in modo feudale della Democrazia cristiana) che si danno una regola che chiamano legge. Ed ecco che Cutolo inizia a dire che, per contrastare quel potere, bisogna costruirne un altro. Per farlo bisogna corrompere (svelando la vera natura della politica) i politici e i giudici e prendersi le ricchezze che si vogliono fottere o che ci hanno fottuto fino a questo momento. Con questa narrazione, Cutolo ha fatto della camorra un’ideologia, ed è quello che lo contraddistingue da tutti gli altri capi camorristi mafiosi e ndranghetisti. Ovviamente la sua era una grande menzogna, la camorra cutoliana era come tutte le organizzazioni criminali, e cioè una struttura volta a far danaro, a spremere profitto da qualsiasi cosa e a mettere il territorio sotto controllo. Cutolo non vuole cambiare per nulla il sistema economico o politico, vuole semplicemente prendersi la sua fetta. Le regole della Nco erano semplici: avere una struttura militare efficiente, con uomini in grado di informare in ogni paese e in ogni città sui movimenti economici e su quanto avvenisse, immediatezza delle decisioni, tribunali di camorra in grado di dirimere qualsiasi questione in poco tempo – dal decretare se lasciare un inquilino o sfrattarlo sino alla decisione se uccidere qualcuno perché accusato di pedofilia o assolverlo dall’accusa. Tutto avveniva sommariamente ma in pochi giorni, efficienza che i tempi infiniti dei tribunali istituzionali non davano. La Nco costruiva il suo consenso in questo modo, con la presenza e dando risposte. Fu responsabile di un numero innumerevole di morti perché il suo regime di monopolio venne rotto quando le altre famiglie di camorra campane si consorziarono in una struttura meno verticale e federale, la Nuova Famiglia. La faida Nco e Nf generò una vera e propria guerra civile, dal 1980 al 1983 da cui Cutolo uscì sconfitto. Sedusse, questa ideologia camorrista che Cutolo propagandava, anche l’ultima parte dell’estremismo brigatista. Giovanni Senzani, capo delle Br (partito della guerriglia), teorizzò il Pel, il proletariato extralegale che aveva come obiettivo quello di coinvolgere, come forza della rivoluzione, gli strati popolari vicini alla malavita, finiti in carcere, renderli grimaldello sovversivo. Alla fine questo delirio si risolse in un omicidio, nel 1982, quello del vice questore Antonio Ammaturo, che le Br uccisero come dono da offrire ai clan di camorra. Fu proprio il momento in cui lo Stato negoziò con lui per la liberazione di Cirillo, rapito dalle Br, che Cutolo credette di avere il potere dello Stato sotto ricatto: errore. Lo Stato, che era andato a negoziare con lui, si alleò con i suoi nemici una volta ricevuto il favore, e la sua organizzazione collassò come tutte le strutture rigide quando si scontrano con organizzazioni più flessibili e fluide. Cutolo non fu l’Antistato, ma esattamente ciò che sono le mafie, ovvero parte dello Stato: questo è il punto di partenza per ogni discussione. Per tutta la vita e in tutti i processi lasciava intendere che i camorristi non sono diversi da imprenditori, politici, giudici; tutti – secondo lui - seguono carriera e interessi, tutti cercano profitto e potere: i camorristi nati in miseria sono i più sfortunati perché devono sparare ed esporsi al fuoco nemico. Retorica seduttiva che abbiamo un modo solo per smentire: dimostrare in ogni momento che no, non siamo affatto la stessa cosa, è questa l’unica antimafia della prassi. Cutolo non riposerà in pace chi uccide non ha pace nemmeno dopo morto, il vecchio boss lo sapeva bene, uomo disperato nato in un territorio disperato. Amen.
Camorra: è morto il boss Raffaele Cutolo. Dario Del Porto e Conchita Sannino su La Repubblica il 17 febbraio 2021. Aveva 79 anni, era ricoverato a Parma in regime di carcere duro. E' morto con i suoi segreti Raffaele Cutolo, il boss fondatore della Nuova Camorra Organizzata e protagonista di una delle trame più controverse della storia d'Italia, il caso Cirillo. Era ricoverato in ospedale a Parma in regime di carcere duro, aveva 79 anni ed era il detenuto più anziano al 41 bis. Le sue condizioni si erano aggravate da un paio di giorni. Resterà l'uomo dei misteri, il padrino criminale che aveva condotto la trattativa con pezzi dello Stato e i vertici dell'allora Democrazia cristiana affinchè le Brigate rosse liberassero l'allora assessore regionale Ciro Cirillo, rapito dai terroristi il 27 aprile 1981 e liberato il 24 luglio 1981. Un enorme caso politico e giudiziario che si è trascinato per decenni e al quale si è dedicato quasi per una vita il magistrato napoletano Carlo Alemi. L'allora giudice istruttore del tribunale di Napoli il 28 luglio 1988 firmò un lungo atto d'accusa: era l'ordinanza di oltre 1500 pagine con cui venivano rinviati a giudizio Cutolo e altri 14 imputati, in cui si raccontava come figure apicali della Dc avevano portato avanti una trattativa sul caso Cirillo con il padrino e fondatore della Nco, soprannominato "'o Professore". Raffaele Cutolo sarebbe morto a causa di una setticemia del cavo orale conseguenza di una polmonite bilaterale che si è ripresentata dopo essere stata inizialmente curata 15-20 giorni fa. Il boss della Nco era da sei mesi in ospedale a Parma. Due giorni fa il suo difensore, il penalista avellinese Gaetano Aufiero, aveva ripresentato istanza di scarcerazione con remissione ai domiciliari per gravi motivi di salute. Il decesso di Cutolo è stato comunicato al telefono alla moglie, Immacolata Iacone, e al suo avvocato, da un assistente della polizia penitenziaria. Nato nel 1941 ad Ottaviano, paese della provincia di Napoli ai piedi del Vesuvio, la figura criminale di Raffaele Cutolo ha ispirato il film "Il camorrista", girato dal futuro regista premio Oscar Giuseppe Tornatore e tratto dal libro del giornalista Giuseppe Marrazzo, e a lui facevano pensare i versi della canzone di Fabrizio De André "Don Raffaé". Gli uccisero il primo figlio, Roberto, assassinato in un agguato a Tradate, in provincia di Varese, nel 1991, poi è diventato padre per la seconda volta nel 2007, di una bambina concepita con la moglie Immacolata Iacone attraverso l'inseminazione artificiale autorizzata dal ministero di Giustizia sei anni prima. Più volte condannato all'ergastolo, commise il primo omicidio nel 1963, uccidendo un ragazzo al culmine di una lite. Da quel momento, iniziò la parabola criminale del boss. Era in cella ininterrottamente dal 1979, gli ultimi 28 anni in regime di 41 bis. Un anno fa aveva ingaggiato la sua ennesima battaglia contro la giustizia italiana, chiedendo il rinvio dell’esecuzione della pena, con detenzione domiciliare, per consentire all’ex padrino di curarsi. Ma il tribunale di Sorveglianza di Bologna non si era limitato a ritenere le sue condizioni di salute compatibili con il carcere. I giudici avevano aggiunto che, pur anziano, malato e in cella, Cutolo era ancora un simbolo. "Si può ritenere che la presenza di Raffaele Cutolo potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco, gruppi rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma - avevano scritto - Nonostante l'età e la perdurante detenzione rappresenta un 'simbolo per tutti quei gruppi criminali" che continuano a richiamarsi al suo nome. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi due giorni. Lunedì era stato comunicato alla difesa che a Cutolo si era ripresentata dopo un paio di settimane una polmonite bilaterale che aveva determinato una setticemia del cavo orale. Martedì l'avvocato Gaetano Aufiero aveva presentato una nuova istanza di scarcerazione e aveva ottenuto l'autorizzazione ad un colloquio straordinario fra il padrino e la moglie, Immacolata Iacone. Ma il tempo dell'uomo dei misteri era scaduto e ieri, in ospedale, il suo cuore si è fermato per sempre.
Quell’interrogatorio con Cutolo: "Sotterrato vivo in cella, vi chiedo di portare via di qui mio figlio". Paolo Mancuso su La Repubblica il 18 febbraio 2021. Il magistrato che indagò sul capo della Nco ricostruisce il personaggio e il suo potere criminale. "Dottore, io sono qui come sotterrato vivo, ma per me non chiedo niente. Vi chiedo invece di portare via di qua mio figlio Roberto, che non ha mai fatto male a nessuno, è in cella con me e vive il mio stesso tormento e non se lo merita". Questo il ricordo indelebile che ho del primo interrogatorio reso da Raffaele Cutolo, il "capo della camorra", ormai vinto ed isolato. Era il 1987, carcere dell'Asinara, che avevo raggiunto, da giudice istruttore, per interrogarlo sul suo ruolo nelle decine di omicidi perpetrate dall'ultima sua "colonna", quella che faceva capo prima a Vincenzo Casillo, poi al suo luogotenente, Pasquale Scotti. Si contendevano l'ultimo territorio in cui erano stati ricacciati, il cosiddetto "triangolo della morte" Caivano-Acerra-Afragola, con il rivale gruppo di fuoco dei fratelli Moccia. Ma dove era cominciato il suo potere? Arrestato per un omicidio nel 1963 e, dopo, una rocambolesca evasione dal manicomio giudiziario di Aversa, ripreso nel 1979 ad Albanella, i lunghi anni di detenzione gli avevano prodotto un colpo di genio criminale: trasformare il carcere da luogo di sconfitta e di emarginazione in luogo di potere e di reclutamento. Mai nessuno più avrebbe ottenuto un simile risultato: ancora nel 2000, quando dirigevo il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, mi resi conto che era dato per scontato che i gruppi di detenuti che si riconoscevano nella sua ombra dettavano legge: e dalla fine del suo potere sul territorio erano ormai passati almeno 15 anni. Come era potuta avvenire una cosa del genere? Attraverso - ma questo lo capimmo, con i miei colleghi, a prezzo di anni di indagini, interrogatori, studi della corrispondenza di ogni genere fra gli affiliati - un meccanismo semplice. Una volta latitante, in primo luogo non aveva abbandonato i suoi "compagni", ma aveva fornito loro, dall'esterno, contributi di sopravvivenza. In secondo luogo aveva garantito la loro sicurezza attraverso un clima di terrore per chiunque osasse attaccarli (e gli omicidi in carcere in quel periodo furono decine ); soprattutto aveva costantemente avuto cura delle loro mogli e dei loro figli rimasti senza capofamiglia. Ma la possibilità di garantire tutto questo aveva un costo crescente, man mano che gli affiliati sempre in maggior numero venivano arrestati: a questo costo, Cutolo faceva fronte con il vecchio strumento dell'estorsione. Che aveva un metodo scientifico e semplice: non si salvava nessuno. Strada per strada, vicolo per vicolo, caseggiato per caseggiato, famiglia per famiglia: la richiesta di un "aiuto per i detenuti" non risparmiava nessuno. E anche questo, a sua volta, aveva un costo: il completo controllo del territorio, mediante l'eliminazione di chiunque osasse interferire con il potere di quella esazione. E la cosa funzionò. Furono gli anni dei massacri: fra il 1977 ed il 1984 (anno dell'arresto di Pasquale Scotti), gli omicidi ogni anno erano fra i duecento ed i duecentocinquanta, e gli anni precedenti e successivi solo poco di meno. Il suo potere sul territorio fu incontrastato: a subirne i colpi non solo i nemici in camorra, ma anche persone che ne denunciavano i misfatti: Marcello Torre, avvocato di Pagani, Mimmo Beneventano, assessore Pci di Ottaviano, ed i ricordi potrebbero proseguire. Fino a che, la sua megalomania (aveva anche acquistato dalla principessa Capece Minutolo il Castello Mediceo di Ottaviano, aveva fronteggiato i potentissimi boss della mafia palermitana, aveva dettato le condizioni per la liberazione dell'assessore della Dc Cirillo, aveva fatto uccidere il suo amico di sempre, Pasquale Antonucci, per una sciocchezza, aveva praticamente sottomesso il carcere di Ascoli, in cui era detenuto ed in cui uccise materialmente e quasi pubblicamente il suo nemico di sempre, Giuseppe Serra) lo perse. Sandro Pertini intervenne personalmente per ottenerne il trasferimento all'Asinara, in regime di carcere duro (41bis O.P.). Ma prima Cutolo aveva imprudentemente aggredito ed ucciso il fratello di Mario Fabbrocino, il fratello di Pasquale Galasso, il fratello di Carmine Alfieri. Furono questi, alleati con i "pungiuti" campani (i Gionta, i D'Alessandro, i Nuvoletta) a decretarne, con fiumi di sangue, il declino e l'isolamento, almeno sul territorio. È morto ieri nel carcere di Parma, ottantenne, solo e dimenticato se non dai suoi affetti di sempre, la moglie, Immacolata Iacone, sposata in carcere e mai abbracciata, e la figlia, dopo quasi 40 anni di carcere duro, senza un "pentimento". La camorra dopo di lui è diventata altro, sempre sanguinaria e parassitaria, ma con obiettivi più alti, più moderni, più complessi. Hai scritto una storia terribile, "professore", una storia di dominio sull'uomo, di sangue, di violenza cieca. Ti posso solo augurare, se puoi, di riposare in pace.
Paolo Berizzi per "la Repubblica" il 18 febbraio 2021. L' ultima volta fu quella che fece più rumore. Due marzo 2015. «Mi tengono sepolto vivo in una cella perché se esco e parlo crolla il Parlamento », disse dal carcere di Parma. Nove anni dopo la prima intervista - me la concesse nel 2006, all' epoca era detenuto a Novara - Raffaele Cutolo accettò di rispondere alle domande di Repubblica (sempre attraverso il suo legale Gaetano Aufiero, del foro di Avellino). Ne venne fuori un polverone. Perché le parole dell' ex spietato boss della camorra, pluriergastolano, record di detenzione (oltre mezzo secolo di carcere, di fatto in isolamento dal 1982), già allora fiaccato da una serie di patologie, erano sì, a metà tra l' atto di accusa e la rassegnazione di chi sapeva che sarebbe morto dietro le sbarre. Ma andavano dritte a un punto: «I miei segreti fanno tremare tutti. Chi è al comando oggi, chi siede in parlamento, è stato messo lì dai politici che venivano a pregarmi ». Vero? Verosimile? Cutolo faceva Cutolo. Sempre sospeso tra l' iperbole suggestiva e la narrazione del vecchio padrino che per conservare l' onore non è (più) disposto a scendere a compromessi. Guapperia scarica. Di uno che è diventato boss in carcere e, quando era temuto e potente, in carcere cercava di esercitare quel potere. Don Rafaè - per dirla con Fabrizio De André - non ha mai voluto pentirsi. «L' ho fatto davanti a Dio e non davanti agli uomini. Voglio pagare i miei errori con dignità. Andare a gettone come i pentiti solo per avere dei privilegi, vorrebbe dire offendere due volte le mie vittime ». È su questo che, dopo lo sfogo del 2015, lo incalzò l' allora procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. «Cutolo dica quel che sa e sarà valutato, noi siamo pronti a indagare». Una sfida lanciata dallo Stato a uno che lo Stato l' ha sempre combattuto. Perché con la sua Nco Cutolo questo si sentiva: l' anti-Stato. Vedere le carte, insomma, gli disse Roberti. Anche un segno: se Cutolo avesse deciso di collaborare, di rivelare i suoi "segreti inconfessabili", la situazione detentiva - un 41bis praticamente perenne - avrebbe potuto forse cambiare, chissà. Ma, come prevedibile, lo sfogo rimase sfogo e basta. «Per dignità non mi sono mai venduto ai magistrati - disse 'o professore, lo chiamavano così gli affiliati - . Loro se la sono legata al dito e hanno buttato la chiave». Sequestro Cirillo, caso Moro, ricostruzione post terremoto (Irpinia 1980). Queste ed altre sono le vicende nelle quali Cutolo ebbe, o sostenne di avere avuto, un ruolo: in alcuni casi decisivo. Ombre, segreti, patti sotterranei. «La prima trattativa Stato-mafia l' ho fatta io», rivendicò. Un figlio di contadini che diventa un mistero italiano: l' ennesimo. Da quando era ormai a tutti gli effetti un invisibile - a parte i colloqui sempre più rari con la moglie Immacolata Iacone che da Ottaviano saliva a Parma portandosi a volte la figlia Denise, 13 anni, e con l' avvocato Aufiero - , l' 80enne Cutolo aveva un po' scelto di arrendersi. All' avanzare degli anni. A un corpo provato. All' isolamento totale, sempre e comunque. «Gli è stato negato tutto fino alla fine - dice Gaetano Aufiero - . Prendo atto che si era deciso di farlo morire da detenuto, solo, senza il conforto dei familiari. Nemmeno in punto di morte». Passo indietro: febbraio 2006. Novara. Era da molti anni che Cutolo non parlava col mondo. Aveva scelto questa linea di chiusura (nelle teche Rai è conservato uno straordinario botta e risposta con Enzo Biagi). Dopo delle lettere e un lungo lavoro con i suoi avvocati, va in porto l' idea dell' intervista. Domande e risposte attraverso i legali Gaetano Aufiero e Paolo Trofino (altro storico difensore). Il titolo: Cutolo, l' ultimo desiderio. Il mio seme per un figlio. Caso non unico ma raro per un detenuto del suo calibro, con qualcosa come tredici ergastoli sule spalle, l' ex boss e la moglie avevano ottenuto l' ok dai magistrati per l' inseminazione artificiale. Risultato: nella notte del 30 ottobre 2007 nasce Denise Cutolo. Secondogenita di "don Rafaè" (il primo figlio, Roberto, fu ucciso a Varese il 19 dicembre 1990). Anche di Denise parlava Cutolo. La figlia del 41bis. In carcere a Parma si lamentava del fatto che, allo scoccare dei 12 anni, non avrebbe più potuto abbracciarla: solo vederla attraverso il vetro. «Se non posso più accarezzare mia figlia, preferisco mi facciano un' iniezione letale». Nell' intervista del 2006 gli chiesi se si sentiva di chiedere perdono a qualcuno. Rispose così. «Il perdono si chiede espiando la pena fino all' ultimo, e basta».
Colpe di Stato: quando Cutolo parlò all’Espresso. Sandro Acciari e Roberto Chiodi su L'Espresso il 18 febbraio 2021. Il 10 dicembre 1989 rivelò: «Senza il mio intervento, oggi Cirillo non ci sarebbe più». Per la prima volta il capo della Nuova camorra spiegò quale era stato il suo ruolo nella trattativa per la liberazione dell'esponente democristiano rapito dalle Br. Un bel vagone di sabbia è sceso sul caso Cirillo. Il più grave scandalo politico dei cosiddetti anni di piombo, descritto nelle migliaia di atti processuali raccolti dal giudice Carlo Alemi, si è chiuso con una sentenza che assolve tutti. La trattativa della primavera dell'81 tra Brigate rosse, camorra e uomini dei servizi segreti. Il pesante, ripetuto intervento di esponenti nazionali della Democrazia cristiana. Le contropartite, le immunità giudiziarie, garantite, gli appalti assegnati e spartiti. Un'carcere di massima sicurezza divenuto un porto di mare per terroristi, camorristi latitanti, ufficiali dei servizi di sicurezza: tutti che entravano e uscivano, falsificando i registri, in coda per farsi ricevere dal boss incontrastato, Raffaele Cutolo, capo della Nuova camorra organizzata. E le morti, tante e strane, di testimoni veri o potenziali. Tutto questo, per i giudici del tribunale di Napoli e per il pubblico ministero non e mai accaduto. Per loro, non ci sono responsabili. Tranne uno, Raffaele Cutolo, condannato per estorsione. A lui, al boss della camorra che di questa vicenda conosce tutti i segreti, ''L'Espresso" ha chiesto di parlarne per la prima volta dopo la conclusione del processo Cirillo.
Allora, signor Cutolo, in tutto il caso Cirillo c'è un solo responsabile: lei. Si attendeva un simile verdetto?
«Una sentenza cosi ambigua la prevedevo da tempo. Ormai sono anni che mi trascino le catene di tanti altri, quindi è giusto che venga condannato solo io, così continuerò a trascinarle. Lo Stato è salvo. In fin dei conti, io mi sono limitato a comportarmi come fece il mi padrino Vito Genovese, che fu chiamato in aiuto dallo Stato, e come fece Lucky Luciano per lo sbarco in Sicilia degli americani. Senza presunzioni, ho contribuito anch’io a salvare le istituzioni».
Lei continua a ritenersi il salvatore di Cirillo?
«Senza il mio autorevole intervento, oggi il dottor Cirillo non ci sarebbe più. Le Brigate rosse, con tutto il rispetto, non potevano permettersi il lusso di negarmi la cortesia».
Il suo legale, avvocato Antonio Della Pia, ha detto in aula che l'attuale ministro dell'Interno Antonio Gava, era a conoscenza della trattativa tra Br, camorra, servizi segreti e uomini politici della Democrazia cristiana. Lei è della stessa opinione?
«Se il mio legale ha detto questo, si vede che l’ha capito leggendo le carte processuali. Io posso solo dire che il ministro Gava non l’ho mai conosciuto, anche se è uno dei rari uomini politici che stimo e rispetto moltissimo»
Chi venne nel carcere di Ascoli a chiedere aiuto per Cirillo?
«In quella occasione mi hanno fatto incontrare con i più disparati personaggi, autorevoli e non. Non basterebbe un’intera intervista per citarli tutti…»
Quali furono i termini della trattativa per salvare Cirillo. Cosa le fu promesso?
«Non ci fu alcuna trattativa, almeno da parte mia. Io feci un gesto umanitario. Anche perché tanti amici, tra cui Enzo Casillo (un altro camorrista, successivamente assassinato, ndr.) ci tenevamo moltissimo alla salvezza di Cirillo. Per aver salvato questa vita, dallo Stato ho ricevuto in cambio sei anni di duro, inumano, isolamento, in una cella-stalla nel carcere dell’Asinara».
A proposito di Casillo, chi lo ha ucciso?
«La morte del mio amico Casillo è stato un maledetto incidente. Però credo che se non si fosse invischiato nella vicenda-trattativa Cirillo, oggi il mio carissimo Enzo sarebbe ancora vivo».
In questa storia sono stati fatti i nomi di alcuni esponenti politici democristiani: oltre a Gava, Enzo Scotti, Patriarca, Flaminio Piccoli. Lei cosa può dire in proposito?
«Di Gava vi ho detto. Scotti mi è sempre stato antipatico. Patriarca è un uomo onesto e quindi non poteva avere rapporti con me che venivo tacciato di essere il capo della Nuova camorra organizzata. Piccoli l’ho visto e sentito in aula. La sua deposizione mi ha fatto ridere non poco. Lui che era il segretario della Democrazia cristiana, il più grosso partito italiano e che doveva combattere Cutolo e la camorra, ha avuto la faccia tosta di affermare che nel 1981 non sapeva che esisteva Cutolo e la camorra. E il presidente Pasquale Casotti, beato lui, gli ha creduto! Ecco, questo è soltanto un esempio di come si è svolto il processo Cirillo e di come viene amministrata la giustizia».
Ma lei che prove ha della sua versione? Ci sono persone che possono testimoniare?
«Le prove le ho. Sono in mani sicure. Vi sono anche testimoni e resteranno segreti. Uno di questi era Raffaele Vaino, quello che mi fece il telegramma in cui mi riferiva che Cirillo sarebbe stato liberato otto giorni dopo, come puntualmente avvenne. Vaiano è stuto ucciso, cosa strana, proprio il giorno in cui io avevo deposto in aula».
Torniamo a Flaminio Piccoli, all’epoca segretario Dc. Si è molto parlato (ma non è stato mai trovato) di un biglietto di ringraziamento che Piccoli le avrebbe fatto avere. Storia vera?
«lo non ho mai detto che il biglietto, tuttora in mio possesso, fosse di Piccoli. Posso soltanto dire che mi fu consegnato (con tante altre cose, nastri, qualche foto, l'interrogatorio di Cirillo da parte delle Br, altri documenti) dal mio amico Enzo Casillo. Sul suddetto biglietto, scritto a mano, mi si ringraziava per il mio concreto interessamento. Il biglietto, intestato alla segreteria della Dc, era firmato Flaminio Piccoli. Però non posso dire se l’ha scritto o non l’ha scritto Piccoli».
È stato detto che lei in passato ha svolto il ruolo di grande elettore di alcuni uomini politici. È vero?
«Purtroppo è la verità, anche se non ho mai avuto simpatie per i signori politici che sanno vendere soltanto speranze a chili alla povera gente. Negli anni '78-79 feci prendere un mare di voti a politici tuttora importanti. Per onestà devo dire che proprio in quegli anni Gava perse quasi centomila voti e li prese un altro politico campano. Tutto quanto vado affermando era registrato su nastro, perché il mio telefono era sotto controllo. Però il procuratore capo Francesco Cedrangolo [successivamente deceduto, ndr.] ritenne opportuno far bruciare il tutto. Forse perché era più interessato al maxi-blitz contro Tortora e altri innocenti (ma vi erano anche tanti colpevoli, intendiamoci). Maxi-blitz che è tutt’ora una pagina sporca della magistratura napoletana».
A Napoli e in tutta la Campania, è in corso una guerra tra bande di camorra che ha fatto più di duecento morti. Lei cosa pensa stia succedendo?
«Non vi posso rispondere concretamente, anche perché sono anni che ho detto basta con il mio passato, senza rinnegarlo. I fattori di questa guerra sono molteplici: la disoccupazione, la miseria, le responsabilità dei governanti, la droga che ha annebbiato le menti. Tutti dovrebbero capire che continuando ad ammazzarsi, fratelli contro fratelli, non si fa altro che il gioco dei politici corrotti».
Da "esperto" di fatti della camorra non darebbe un consiglio al ministro dell'Interno?
«Io ormai sono in pensione. Comunque, sono convinto che l'onorevole Gava è davvero l'uomo giusto al posto giusto».
Teme per la sua incolumità?
«Io ho sempre detto che un uomo che ha paura, muore mille volte al giorno. Non ho mai avuto paura e non ne ho. Un vero uomo deve sapere innanzitutto morire. Altrimenti non è degno di vivere».
L'intervista finisce qui. Un racconto, quello di Cutolo, fatto di molti ammiccamenti, tante reticenze, alcune certezze: trattativa ci fu, (Cutolo nega di avervi partecipato, ma ammette che il suo braccio destro Casillo morì proprio per aver gestito l'operazione) e Cirillo fu salvato grazie al suo intervento, sollecitato da personaggi «autorevoli e non». La sentenza? Inattendibile. E i segreti che restano? In mani sicure: «Sto scrivendo un libro», dice beffardo il boss, con l'immancabile sorrisetto sulle labbra.
Raffaele Cutolo, il "professore" delle trattative Stato-mafia. Enrico Bellavia su L'Espresso il 18 febbraio 2021. Nel 1981 Don Raffae’ negoziò con i Servizi la liberazione di Ciro Cirillo rapito dalle Br. Ammise il patto ma non rivelò i dettagli. Minacciò sempre di parlare ma si consegnò al segreto sulle trame italiane. Più segreti che misteri. A chi crede che le trattative Stato-Mafia siano iniziate dopo le stragi del 1992, la vicenda umana di Raffaele Cutolo, il feroce scalatore della Camorra napoletana, morto in carcere a Parma a 79 anni, alle 20.21 di mercoledì 17 febbraio, servirà quantomeno a retrodatare la consuetudine a patti e ricatti. La storia della Repubblica ne è intrisa. E Cutolo ne ha incarnato lo spirito, custodendo la memoria dei dettagli di un quadro che a volerlo guardare bene è sufficientemente delineato. Freddo e determinato, vorace accumulatore con la prosopopea del boss che non ha discendenze da esibire ma voglia di arrivare, il “professore” di Ottaviano conquista a suon di piombo il primato criminale in una buona fetta della Campania che nel novembre del 1980 sarà piegata dal sisma. Il terremoto è una sciagura, ma, come sempre avviene, per Cutolo e i suoi, solo una formidabile opportunità. Per intessere relazioni, negoziare con la politica da posizioni di forza, fare buoni affari e acquisire benemerenze. Poco meno di quarant’anni fa, il 28 aprile 1981 Cutolo è nel carcere di Marino del Tronto, Ascoli Piceno. Vanno a fargli visita agenti del Sisde, il servizio segreto civile. A cinque mesi da quel terremoto che ha devastato l’Irpinia, il giorno prima, l’assessore regionale ai Lavori pubblici della Campania Ciro Cirillo, l’uomo simbolo della ricostruzione malata, e? finito nelle mani delle Brigate Rosse a Torre del Greco. Un commando di cinque persone ha neutralizzato la scorta del politico democristiano, ha ucciso l’autista e l’agente che lo protegge, ferito il segretario e si è volatilizzato portandosi dietro l’ostaggio. Stessa dinamica del sequestro di Aldo Moro, il presidente della Democrazia cristiana, sequestrato e poi ucciso nel 1979, in un’azione ancora più cruenta. A differenza di quanto accaduto tre anni prima, questa volta la Dc non tentenna, non si interroga tra fermezza e cedimento. Tratta e subito. E bussa alla porta della cella di Cutolo. Ci vogliono 4 giorni perché il negoziato arrivi al punto di svolta. Ad accompagnare gli agenti c’è Vincenzo Casillo, il braccio destro del boss, che in carcere avrebbe più di un motivo per starci ma da detenuto, visto che è latitante e uno degli uomini di fiducia del rapito. Alla conclusione della trattativa giunge però il Sismi, il servizio segreto militare di allora, in perenne competizione con il cugino civile, nato dalle ceneri della disciolta polizia fascista. Protagonisti sarà il generale Pietro Musumeci, iscritto alla loggia P2 di Gelli, affiancato dal suo fedelissimo Adalberto Titta, e dal faccendiere Francesco Pazienza. E così il 24 luglio del 1981 gli uomini di Giovanni Senzani, il sociologo che insegnava all’Universita? e guidava le Br, lasciano libero Cirillo. Ci guadagnano quasi tutti. Cirillo torna a casa. Casillo gira per altri due anni con una tessera dei servizi in tasca fino a quando un’autobomba piazzata dalla Nuova Famiglia, il clan rivale della Nco cutoliana, guidata da Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, non lo farà saltare in aria. Al Sismi tocca prendersi qualche merito ma cancellare anche un po’ di tracce. I cutoliani fanno man bassa di appalti. Il capo fa completare il repulisti seminando altri morti ma quel che spera davvero non l’otterrà mai. Andrà decisamente meglio al “viceré” Antonio Gava, leader dei dorotei e capocorrente dell’assessore rapito, considerato il regista dell’operazione. Nel 1988 diverrà anche ministro dell’Interno. Proveranno poi a processarlo per mafia ma lo assolveranno e dovranno anche risarcirlo. Le Br intascano un riscatto miliardario. Senzani, dopo aver ucciso Roberto Peci, il fratello di Patrizio, il primo pentito delle Br, finirà? a dividere la cella con Ali Agca, l’attentatore di papa Wojtyla. Tornerà libero un bel po’ di tempo dopo glissando sempre sulla storia della trattativa. Cutolo, ininterrottamente al carcere duro dal 1993, non è mai entrato nel dettaglio, dosando accenni di rivelazioni, mezze frasi, sorrisi e promesse. Spiegò però: «E? stata la prima trattativa Stato-mafia. Forse anche la mia vera condanna». E in parte aveva ragione. Chi doveva onorare il patto scomparve di scena o ebbe gioco facile nello scaricarlo. E a lui restò solo il carcere e una minaccia inefficace: “Se parlo io, cadono i palazzi”. In cella, da solo, senza la “dama di compagnia” (il detenuto per reati comuni che di solito fa compagnia ai superboss) per tacito accordo con le guardie dava un colpo di tosse ogni quarto d’ora e rassicurava i custodi sull’esistenza in vita. Per il resto, silenzio. Come quello che nelle carceri gli hanno tributato i detenuti all’indomani della notizia della sua morte, sospendendo il rito del buongiorno mattutino tra le gabbie.
È morto Raffaele Cutolo, il fondatore della nuova camorra organizzata aveva 79 anni. Michele Inserra il 17 febbraio 2021 su Il Quotidiano del Sud. ‘O’ professore di Vesuviano non c’è più. E’ deceduto all’età di 79 anni Raffaele Cutolo. Con una licenza elementare in tasca, figlio di un mezzadro e di una lavandaia era diventato un mammasantissima, con la costituzione della Nuova camorra organizzata. Era ricoverato nel reparto sanitario detentivo del carcere di Parma. Soffriva da tempo di numerose patologie collegate all’età e alla sua permanenza in carcere. Negli ultimi mesi era stato costretto a due ricoveri d’urgenza a Parma lì dove è recluso, all’interno della struttura ospedaliera destinata ai ‘ristretti’. I familiari di Cutolo – le cui condanne erano ormai tutte definitive – avevano chiesto più volte la revoca del regime carcerario duro, poiché ritenevano che le sue condizioni di salute non fossero compatibili con il 41 bis. Il superboss era uno dei detenuti più anziani d’Italia se non il più anziano in assoluto al carcere duro. La leggenda Cutolo nasce il 24 settembre 1963, quando ‘o professore (all’epoca 22enne) ammazza nel corso di una rissa Mario Viscito per un apprezzamento di troppo alla sorella Rosetta, la donna che lo ha affiancato anche anni dopo nella gestione del potere criminale. Prima fugge, poi si costituisce dopo due giorni e viene condannato all’ergastolo in primo grado e poi a 22 anni in Appello, che comincia a scontare nel carcere di Napoli-Poggioreale. Ed è in questa galera che emerge la sua personalità e il suo carisma, quando, nelle dinamiche di relazione dei detenuti, sfida a duello il boss Antonio Spavone, una sfida con il coltello a scatto alla quale questi non si presentò. Don Raffaele diventa così il protettore di tutti i detenuti. Nel 1970 torna libero per decorrenza termini e si occupa di contrabbando di sigarette, un business lucroso che lo mette in contatto con la criminalità pugliese e poi con le famiglie di ‘ndrangheta reggine dei Mammoliti, dei Cangemi e dei De Stefano. Finisce nuovamente in manette nel 1971, e varca ancora il portone di Poggioreale. Qui fonda la Nuova camorra organizzata (Nco). Un modello nuovo di clan, basato sui meccanismi piramidali (picciotto, camorrista, sgarrista, capozona e santista) della mafia siciliana e della ‘ndrangheta, con affiliazione attraverso rituali di ispirazione massonica e culto della personalità del capo; ma soprattutto una concezione della malavita ideologizzata, con una ispirazione meridionalista e ribellista, dotata anche di una grossa capacità economica. E poi c’è l’organizzazione paramilitare, la base di picciotti giovani e spietati reclutati nel sottoproletariato desideriosi di riscatto e di denaro facile. Nel 1977 la Corte di Appello gli riconosce l’infermità mentale che lo porterà nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa da cui evade l’anno dopo con una carica di nitroglicerina piazzata a squarciare le mura dell’edificio. Dal 1995 era al regime del carcere duro. Ma la sua vita è stata attraversata anche dallo scontro con il cartello della Nuova famiglia, alleanza messa in piedi dal clan Nuvoletta di Marano per contrastare la sua ascesa economica e militare, che vedrà le strade del Napoletano bagnarsi dal sangue di decine di morti e feriti in agguati a ridosso degli anni Ottanta. Ha costruito la sua carriera criminale incrociando misteri e fatti importanti della storia repubblicana. Nel 1981 pochi mesi dopo il suo arresto e il trasferimento nel carcere di Ascoli Piceno, l’assessore democristiano Ciro Cirillo viene rapito dalle Brigate Rosse. Il mondo istituzionale e i servizi segreti chiedono la mediazione di Cutolo riuscendo così a liberare l’assessore napoletano in cambio di “favori”. Anni dopo, Cutolo dichiarò che avrebbe potuto salvare anche Aldo Moro ma fu fermato da alcuni politici. Ha sempre rifiutato di pentirsi. Nella tomba porta con sé tanti misteri dell’Italia.
Morto per una polmonite associata a setticemia. «Raffaele Cutolo era ricoverato da diversi mesi nell’ospedale di Parma ed è morto per le complicazioni legate ad una polmonite a cui si è associata una setticemia del cavo orale. Purtroppo era da due giorni in choc settico e non ce l’ha fatta». A dirlo a LaPresse è l’avvocato Gaetano Aufiero, legale del boss della Nuova Camorra Organizzata. «Le esequie – ha aggiunto il legale – si svolgeranno in forma privatissima ad Ottaviano», paese natale di Cutolo. L’avvocato Aufiero, dopo aver appreso la notizia dal carcere di Parma, ha «sentito un nipote di Raffale Cutolo – ha spiegato – e ho cercato di mandarlo a casa dalla moglie, in modo che non apprendesse della morte del marito dalla televisione, ma purtroppo – ha concluso – temo di aver fallito».
Quaranten(n)a - Boss, siete fessi non professori. Valerio Giacoia su Il Quotidiano del Sud il 19 febbraio 2021. Pasquale Cafiero è sopravvissuto a Raffaele Cutolo, e sempre sarà così. E siamo noi quei brigadieri. Siamo noi, Pasquale. Gente comune, nemmeno santi e forse pure disgraziati perché non sempre abbiamo detto la verità, raramente abbiamo compreso il prossimo, giocato a terra con i figli, fatto una carezza a madri e padri quando questa era necessaria, e abbiamo pure tradito sì. Ma siamo meglio di Cutolo e dei mafiosi e sopravviviamo ad essi nonostante gli omicidi, perché alla gente comune dei soldi e del potere non frega nulla. Noi non dobbiamo andare dal cardiologo ogni sei mesi. Le nostre arterie sono libere, non sono intasate di pazzie e brame, non puzzano di polvere da sparo delle pistole sotto al cuscino per timore che ci facciano fuori. Nemmeno ci spazzola del metallo con il quale vengono forgiati i rubinetti. A noi basta il rubinetto. E l’acqua. E se l’acqua va e viene, fa lo stesso. Nei bidoni avremo raccolto qualche scorta, ed è pulita non inzaccherata di scorie, sangue e veleni. L’abbiamo presa facendo un’arrendevole fila alle fontanelle, e anche bottiglia dopo bottiglia assaporandola con lo sguardo mentre il livello cresceva e cresceva e dentro sentivamo un bene piccolo piccolo, sconosciuto, ignorato dalla Storia, ma niente affatto marginale rispetto al movimento dell’universo. A casa possiamo berla addirittura contenti ogni tanto, nonostante i soldi che ci mancano, nonostante il Covid e le mascherine che ci segnano il viso. A ogni vostro bicchiere buttato giù in gola corrisponde invece una bestemmia perché l’acqua è la vita e voi siete, come i falsi fattorini della luce, rappresentanti vestiti male della morte. Non di sorella morte, quella di Francesco d’Assisi che è sorella davvero, ma sorella morte ottusa degli inetti. Siete inetti, incapaci, zero lungimiranti, non forti e intelligenti come vi siete andati convincendo. Ecco perché morite in carcere come Raffaele Cutolo. Come scemi, pure convinti che a non pentirvi avete fatto cosa buona. Chi ve lo ha fatto fare. E tutti quei soldi, quel potere? In gabbia siete morti, alla fine. Pure noi moriamo, ma nessuno tira per noi un sospiro di sollievo quando andiamo sotto terra. Ordinary people siamo, però ci muoviamo nel mondo, prendiamo un treno, decolliamo in aereo, e se proprio non possiamo con un Boeing lo facciamo con un carrello pieno come Marcovaldo di Italo Calvino. E’ il mondo reale, non quello vostro di cartone. E’ stato facile terrorizzare, ammazzare, sciogliere nell’acido, far saltare autostrade per risolvere i problemi. Se aveste avuto davvero gli attributi sareste andati a lavorare, allora sì che quelli che avete dove non batte il sole non sarebbero state ridicole biglie, come sono, ma proiettili pesanti. Noi ce li abbiamo, non voi. Perché andare a fare la spesa senza soldi è più difficile che sparare. La nostra è una straordinaria vita piena di anonime, ma fondamentali minuzie. E’ vero, Fabrizio De André fa dire a Cafiero, quel secondino di Poggio Reale che quando arriva la sera e al centesimo catenaccio si sente uno straccio e per quattro lire al mese che gli passa lo stato, che “c’è un uomo geniale” dietro le sbarre. Però Pasquale Cafiero dopo quel caffè torna a casa. E la sua casa e la nostra avranno pure un bagno soltanto che occorre aspettare se c’è tua figlia, un frigo che ghiaccia, un cassettone di finestra da cui passa la Siberia, ma è una casa, non una prigione come era la tua, professor Cutolo, come la vostra, colleghi suoi professori liberi ma peggio ancora messi. Non siete uomini geniali, siete fessi. Siete come James Gandolfini de I Soprano, con la faccia da scemo davanti alla psicanalista. E quanto sei stato fesso, professor Cutolo. Perché forse qualche talento lo avevi, finanche le poesie mandasti a De André. Ma quello non fu l’inizio di un carteggio, come forse speravi. Ti era rimasto il brigadiere Pasquale Cafiero. Ma lui, noi, torniamo a casa. Ti sopravviviamo. Sarà così sempre, per quanti ne potrete ammazzare. Tu, voi, morite come fessi invece. Siete, fessi. Non professori.
Morto Raffaele Cutolo, il boss della Nuova camorra. Cutolo è morto, a 79 anni, nel reparto sanitario del carcere di Parma dove stava scontando la detenzione sotto regime del 41 bis. Simone Savoia, Mercoledì 17/02/2021 su Il Giornale. Chi volesse avere un'idea della vittoria dello Stato sul potere criminale di Raffaele Cutolo potrebbe andare a vedere il Palazzo Mediceo di Ottaviano, che fu confiscato al boss della Nuova Camorra organizzata e assegnato in comodato d'uso nel 2002 all'Ente Parco Nazionale del Vesuvio. Ora che Cutolo è morto, a 79 anni, nel reparto sanitario del carcere di Parma dove stava scontando la detenzione sotto regime del 41 bis, consegna alla storia definitivamente una parabola criminale già sconfitta. Cutolo era nato nel 1941 a Ottaviano, paese arrampicato sulle pendici orientali del massiccio che domina l'orizzonte napoletano, il Veuvio e il Monte Somma. A Uttajan, come si dice in dialetto, era figlio di un contadino che lavorava la terra in mezzadria e di una lavandaia. Una fame che spesso fa fare grandi imprese e spesso, purtroppo, terribili architetture criminali. Quella di Cutolo partì da un delitto privato il 24 settembre 1963, quando uccise il giovane ottavianese Mario Viscito. Entrò per la prima volta in quel carcere di Poggioreale di Napoli che sarebbe diventato il primo luogo di affiliazione per i camorristi della NCO. Che poi sarebbe forse più corretto parlare di mafia, dal momento che Cutolo pensò a una piramide gerarchicamente organizzata e verticistica, simile appunto alla criminalità organizzata dei corleonesi in Sicilia. Al vertice della piramide lui, "il professore", come lo chiamavano tutti, perché aveva imparato a leggere e a scrivere e si era fatto un'istruzione. Purtroppo il contesto fu favorevole all'espansione della criminalità organizzata. Tra la metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta venne abbandonato progressivamente il business delle sigarette di contrabbando per investire in quello infinitamente più redditizio della droga. E poi il 23 novembre 1980 il terremoto che devastò l'Irpinia facendo piovere in Campania 50mila miliardi di vecchie lire, in parte andare a ingrossare un business politico-mafioso; in questo contesto i cutoliani uccisero il sindaco di Pagani Marcello Torre l'11 dicembre 1980. Presto il controllo del territorio portò Cutolo in contatto sia con altri sistemi criminali come la romana Banda della Magliana sia con il banditismo lombardo di Renato Vallanzasca. La NCO fu cercata per trattare la liberazione del presidente della Dc Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e assassinato il 9 maggio. Stesso ruolo ma con esiti opposti Cutolo lo ricoprì quando trattò con la colonna napoletana delle Brigate Rosse il sequestro dell'assessore all'urbanistica di Regione Campania Ciro Cirillo, rapito il 27 aprile 1981 e rilasciato il 24 luglio 1981. Molti segreti di quella trattativa oscura tra apparati statali, servizi segreti, settori della Dc e camorra sono finiti nella tomba con Cutolo. La guerra con altri potenti clan di camorra come i Nuvoletta, gli Alfieri, i Bardellino, i Gionta, riuniti nel cartello criminale della "Nuova Famiglia" lasciò a terra nel 1979 solo nel napoletano 71 morti; l'anno successivo sono 134 e salgono a 193 nel 1981, a 237 nel 1982, a 238 nel 1983, per scendere a 114 nel 1984. Dimenticate il pur significativo film "Il camorrista" di Giuseppe Tornatore del 1986 o la canzone "Don Raffaè" di Fabrizio De André del 1990. In questa storia non c'è nessun riscatto del Sud povero, nessun benessere per la collettività, nessun mito carbonaro che rivive. È una spietata storia che ha insanguinato per almeno 15 anni la terza città d'Italia, Napoli. Che ora può guardare a quella camorra che voleva farsi Stato, in un oscuro gorgo d'onnipotenza, con gli occhi attenti della memoria storica. Perché oggi è morto un criminale che ha insanguinato la sua terra. La nostra terra.
Cutolo: "Se parlo crolla il Parlamento" Morto don Rafè , capo della Camorra. Affari Italiani il 18/2/2021. "Se parlo crolla il Parlamento". Morto Raffaele Cutolo, il boss della Camorra. Raffaele Cutolo è morto. Il superboss della Camorra si è spento nel carcere di Parma, dove era sottoposto da 28 anni al 41 bis. Se n’è andato con la scatola nera dei suoi segreti di mafia e di Stato. Aveva fondato - si legge su Repubblica - la sanguinaria Nco, Nuova camorra organizzata, inquinando economia e Palazzi e inondando di sangue e vendette la Campania e non solo, fin dai primi anni Settanta. Il suo nome resterà per sempre legato a una delle pagine più buie della storia repubblicana: la trattativa tra camorra e Brigate Rosse, di cui fu regista assoluto dalla sua cella incontrando Servizi deviati e esponenti della Dc, per la liberazione dell’allora assessore regionale democristiano Ciro Cirillo. Un patto scellerato, sviscerato in migliaia di pagine dal giudice napoletano Carlo Alemi, che porta 2 miliardi e mezzo alle Br e, stando ai suoi, altro denaro a lui. Il due marzo 2015, rilasciò un'intervista a Repubblica che fece molto rumore. "Mi tengono sepolto vivo in una cella perché se esco e parlo crolla il Parlamento", disse dal carcere di Parma. Ne venne fuori un polverone. Perché le parole dell’ex spietato boss della camorra, pluriergastolano, record di detenzione (oltre mezzo secolo di carcere, di fatto in isolamento dal 1982), già allora fiaccato da una serie di patologie, erano sì, a metà tra l’atto di accusa e la rassegnazione di chi sapeva che sarebbe morto dietro le sbarre. Ma andavano dritte a un punto: «I miei segreti fanno tremare tutti. Chi è al comando oggi, chi siede in parlamento, è stato messo lì dai politici che venivano a pregarmi".
Lo Stato ha lasciato morire in carcere Raffaele Cutolo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 17 Febbraio 2021. Alla fine Raffaele Cutolo è morto tumulato al 41 bis del carcere di Parma. Nell’ultimo periodo ha fatto un via vai tra carcere e ospedale, per questo aveva chiesto la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute. Alla fine Raffaele Cutolo è morto tumulato al 41 bis del carcere di Parma. Nell’ultimo periodo ha fatto un via vai tra carcere e ospedale, per questo ha chiesto la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute. A maggior ragione quando, a inizio pandemia, la Ausl locale ha dipinto il penitenziario parmense ad “alta complessità sanitaria”. Molti sono i passaggi del documento della Ausl dove veniva evidenziata una presunta inadempienza da parte della precedente amministrazione penitenziaria sulla collocazione di alcuni detenuti al centro clinico (ora denominato Sai) del super carcere di Parma. Un documento nel quale viene indicata una lunga lista di persone over settanta e con varie patologie che sono “curate” nelle sezioni “comuni” e non nel Sai (Servizio di assistenza integrata – ex centro clinico), tanto che la stessa Ausl consiglia di valutare un differimento pena per la tutela della loro salute. C’era una prima lista, la più urgente, che è composta da 51 nominativi classificati a rischio per l’età e presenza di importanti comorbidità (la coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo, ndr). Tra i nomi compariva anche quello di Raffaele Cutolo. Ma niente da fare, per la magistratura di sorveglianza, nonostante le sue gravi malattie conclamate e in un ambiente penitenziario non adatto, poteva rimanere benissimo in carcere. Negato perfino il differimento pena provvisorio. ”Ho incontrato mio marito in carcere a Parma un mese fa, era previsto un colloquio normale attraverso il vetro, ma mi sono ritrovata davanti una persona 90enne con una bottiglia in mano, non parlava, non dava segni, è stato bruttissimo vederlo in quelle condizioni. Mia figlia non si è sentita bene, non ha voluto restare più di tanto, e siamo andati via perché era inutile parlare con una persona che non alzava gli occhi, non riusciva a portare la bottiglia alla bocca, una persona che non rispondeva quando lo chiamavamo”. Ad affermarlo, a tratti piangendo, è stata Immacolata Iacone, moglie di Raffaele Cutolo, intervenendo quest’estate al Consiglio Direttivo di ”Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem” dal titolo ”41-bis: monumento speciale della lotta alla mafia, fossa comune di sepolti vivi”.Raffaele Cutolo è morto a 79 anni, afflitto da gravissime malattie e recluso da 40 anni, delle quali 25 al 41 bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana. Nasce nel 1941 a pochi passi dal Castello mediceo di Ottaviano, da genitori contadini. A soli 22 anni commette il suo primo omicidio per una questione d’onore. Dopo tre anni entra in carcere. Qui, con brevi periodi di latitanza, passerà l’intera sua vita, e da qui inizierà a lavorare al suo progetto criminale.Cutolo, all’interno del carcere napoletano di Poggioreale, formò un’associazione criminale sul modello di quella calabrese e siciliana, con una precisa data di fondazione: il 24 ottobre del 1970. Da decenni la sua camorra non esiste più. Non è rimasto capo di più nulla, ma secondo i magistrati rimane un simbolo. Resta il dato oggettivo che “Don Raffaè”, reso famoso da Fabrizio De Andrè in una canzone a lui dedicata, e da Giuseppe Tornatore nel film “Il camorrista”, interpretato da Ben Gazzara e ispirato al libro di Joe Marrazzo, è morto senza uscire dal carcere duro. Ha senso il 41 bis visto che lo scopo originario era finalizzato esclusivamente ad evitare che un boss mandi messaggi al proprio gruppo di appartenenza criminale? Ma soprattutto, è meglio la pena di morte, oppure la pena di morte lenta che esiste di fatto per le persone come Cutolo?
Cutolo dopo la trattativa osò troppo e fu condannato a morire al 41 bis. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 18 Febbraio 2021. In questi anni, soprattutto nel periodo pandemico, Cutolo è stato ricoverato più volte in ospedale. Sono state presentate istanze per i domiciliari. «Sto troppo male, non ce la faccio a parlare con nessuno in questo momento. Capisco tutti, rispetto tutti ma ora sono io a chiedere rispetto». Immacolata Iacone risponde così alla stampa all’indomani della morte di suo marito, Raffaele Cutolo, avvenuta nel reparto ordinario dell’ospedale di Parma. Prima ancora era nel reparto detenuti, ma con l’aggravarsi della sua crisi respiratoria è stato trasferito in quello ordinario perché poteva essere monitorato ogni ora. La moglie più volte si era pronunciata contro la detenzione a vita del fondatore di Nuova Camorra Organizzata (Nco), lasciato in carcere nonostante la malattia. Nel corso di questi anni, soprattutto nel periodo pandemico quando la malattia si è acuita con gravi crisi respiratorie, è stato ricoverato più volte in ospedale. Diverse sono state le istanze per chiedere la detenzione domiciliare, puntualmente respinte. L’ultima riguarda la richiesta di revocare il 41 bis: rigettata. L’avvocato Gaetano Aufiero, legale di Cutolo, ha spiegato a Il Dubbio che negli ultimi otto mesi, l’ex boss della nuova camorra organizzata, era affetto di una grave demenza senile. Non si alzava dal letto, non riconosceva la moglie, la figlia e l’avvocato stesso. «Quello che voglio sottolineare – spiega l’avvocato Aufiero – è la vergogna del carcere duro, perché Cutolo è morto con il 41 bis. L’applicazione di questa norma in questa vicenda, ma anche in altrettanti casi simili, è una barbarie. Chi pensa che il 41 bis debba accompagnare alla tomba una persona che da tempo aveva non solo gravi patologie tanto da non alzarsi più dal letto, ma dei deficit cognitivi certificati da una perizia psichiatrica, per me o è ignorante oppure in malafede. Tralascio il discorso che da decenni non esiste più la sua organizzazione mafiosa, come si giustifica il 41 bis nei confronti di un uomo che non può dare ordini a nessuno visto che non si rendeva conto nemmeno in che giorno e anno si trovava?». Che senso ha avuto il 41 bis nel suo caso? L’importanza strategica che ha svolto il regime differenziato nella lotta alla criminalità organizzata dovrebbe essere ben chiara. L’obiettivo è volto a impedire che il detenuto continui a mantenere collegamenti, e possa dunque impartire ordini e direttive, pur dal carcere, con le associazioni criminali di riferimento. Se il 41 bis ha più volte superato il vaglio della Corte costituzionale e della Corte europea dei Diritti dell’uomo, questo è grazie a quei magistrati di sorveglianza che hanno emesso misure come quelle che nell’ultimo hanno creato indignazione. Intervenire con una norma (il decreto Bonafede che scoraggiava le “scarcerazioni”) per limitare questi provvedimenti, vuol dire rischiare proprio di porre fine al 41 bis. Il paradosso è che potrebbe non superare più il vaglio, proprio perché impone il carcere duro anche nei confronti di chi non ha più la capacità cognitiva nel dare ordini all’esterno.
La vera trattativa camorra – Br – Stato. Il 27 aprile 1981 le Brigate rosse sequestrarono Ciro Cirillo, assessore regionale all’Urbanistica, presidente del comitato per la ricostruzione ed ex presidente della giunta regionale campana. Il sequestro avviene a pochi metri dall’abitazione di Cirillo, a Torre del Greco. Nel corso dell’azione brigatista vengono uccisi l’appuntato Luigi Carbone, addetto alla tutela dell’assessore democristiano, e l’autista Mario Cancello. È ferito il segretario Ciro Fiorillo. In un rapporto delle forze dell’ordine del 29 giugno 1981, l’assessore, legato all’onorevole Antonio Gava, è descritto come «un personaggio realmente discusso per un modo quanto meno spregiudicato di gestire la cosa pubblica». Il 24 luglio 1981, l’assessore Cirillo viene liberato. A questo esito non si giungerebbe dopo un’efficace opera di intelligence, né dopo una brillante azione di polizia. Vi si giunge dopo trattative condotte da funzionari dello Stato e uomini politici con camorristi e brigatisti. Circostanze confermate da Carlo Alemi, titolare dell’istruttoria sul sequestro: «Le sentenze hanno dato atto in modo inequivocabile che c’è stata una trattativa tra Stato, camorra e Br». Tre anni prima, durante il tragico sequestro dell’onorevole Aldo Moro, il mondo politico e lo stesso partito dello statista avevano, invece, respinto qualsiasi ipotesi di trattativa con i terroristi. In quel caso Moro fu lasciato morire. Non è un caso che l’egemonia della Nco all’interno della camorra raggiunge il punto più alto tra la fine del 1981 ed i primi mesi del 1982. Ciò dipende in larga misura dai rapporti che Cutolo aveva costruito o rinsaldato nei due mesi del sequestro Cirillo. Non va dimenticato che proprio nel periodo successivo al sequestro, Cutolo sferrerà un durissimo attacco contro il clan Alfieri, per togliere di mezzo un centro di aggregazione alternativo alla Nco. Il disegno di occupazione e di controllo del territorio è ambizioso e si ispira per certi aspetti al totalitarismo di Cosa nostra.
I patti non più rispettati: l’inizio della fine. Ma poi accade qualcosa. È la relazione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante a spiegarlo. Il 17 marzo 1982 viene pubblicato su l’Unità un falso documento, apparentemente del ministero dell’Interno. In quel documento si attestava che l’onorevole Scotti ed il senatore Patriarca si erano recati nel carcere di Ascoli Piceno per trattare con Cutolo. Ispiratore del falso è lo stesso Cutolo. Lo scopo principale, secondo la Corte d’appello di Napoli del 1993, è la vendetta contro chi non ha osservato i patti. La pubblicazione richiama infatti l’attenzione sulle trattative e sui coinvolgimenti politici. Il fatto che il documento contenga notizie false non può non preoccupare chi ha effettivamente negoziato. Cutolo intende cosi vendicarsi per il mancato adempimento delle promesse e premere su tutti i suoi interlocutori perché rispettino gli impegni. Ma le conseguenze del messaggio sono controproducenti perché Cutolo ha sottovalutato tanto i suoi interlocutori quanto la situazione complessiva. Fu l’inizio della sua fine. Il fatto esterno più significativo è la presa di posizione del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che interviene personalmente perché Cutolo sia trasferito nel famigerato carcere dell’Asinara. II trasferimento era già stato proposto con urgenza dal ministro dell’Interno il 25 febbraio 1982, subito dopo un vertice sulla situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica in provincia di Napoli. Con una missiva inviata al ministro di Grazia e Giustizia Clelio Darida, veniva indicata dal ministro Virginio Rognoni come possibile destinazione di Cutolo proprio l’Asinara. Il Guardasigilli non dava seguito alla proposta fino al 17 marzo: il giorno stesso della pubblicazione del falso documento. In quella data veniva disposto il trasferimento, consegnando direttamente nelle mani del direttore del carcere di Ascoli una copia del relativo provvedimento.
Il cambio di alleanze politiche. Secondo il pentito di camorra Pasquale Galasso, la decisione di colpire in questo modo Cutolo sarebbe dipesa da un cambio di alleanze politiche. I politici che avevano negoziato con Cutolo, impossibilitati a mantenere le promesse a causa della pubblicità che la vicenda aveva acquisito, intimoriti per la pubblicazione del falso documento, che poteva preludere anche più corposi ricatti, si erano rivolti ai nemici di Cutolo chiedendo aiuto. E l’aiuto era stato immediatamente restituito con robuste contropartite nei lavori della ricostruzione. Viene così eliminato il più importante collegamento fra Cutolo, i politici e i servizi. Viene lasciato a Cutolo un messaggio inequivoco: ha osato troppo; la sua era è finita e lo azzerano. Da 26 anni tumulato per sempre al 41 bis, nonostante non fosse più capo di nulla, nonostante le sue gravi patologie lo rendevano, di fatto, incompatibile con il 41 bis. Insieme a sua moglie Immacolata decise di mettere al mondo nel 2007 la loro figlia Denise, la loro unica ragione di vita. L’ha potuta abbracciare fino a quando Denise non ha compiuto 12 anni. Per il 41 bis lei è “maggiorenne”, quindi da quel momento in poi ha potuto vedere il padre solo dopo un vetro. Nell’ultimo periodo ha visto il padre peggiorare sempre di più, con lo sguardo assente, non la riconosceva più. Poi, come sappiamo, mercoledì sera è morto.
Provenzano, Cutolo e gli altri: quando la giustizia si trasforma in vendetta di Stato. Paolo Delgado su Il Dubbio il 19 Feb 2021. Le istanze di scarcerazione di Cutolo sono state puntualmente respinte. Non per vendetta, come si dice di solito, ma per paura. Paura dell’opinione pubblica, delle critiche, delle forze politiche giustizialiste sempre pronte a puntare il dito. Raffaele Cutolo, don Rafaele, è stato lasciato morire in carcere. La crisi polmonare che alla fine lo ha ucciso durava da un anno. La richiesta di arresti domiciliari era stata respinta perché la condizione di detenuto in regime di 41 bis, in cella singola, garantiva il rispetto delle norme anti Covid. Le istanze di scarcerazione erano state respinte anche dopo l’aggravamento delle sue condizioni. Non per vendetta, come si dice di solito, ma per paura. Non paura dell’uomo che era stato un tempo feroce, pericolosissimo, mandante di centinaia di omicidi fuori e soprattutto all’interno delle carceri dove i suoi killer avevano instaurato all’inizio degli anni ’80 un vero regime di terrore. Paura dell’opinione pubblica, delle critiche, delle forze politiche giustizialiste sempre pronte a puntare il dito. Anche e quando a essere scarcerate perché in fin di vita sono persone che non rappresentano più alcun pericolo. Raffele Cutolo aveva smesso da un pezzo di essere ‘ O Professore. Era stato sconfitto nella guerra di camorra che insanguinò Napoli a cavallo tra gli anni ‘ 70 e ‘ 80. Il suo miraggio di costruire una camorra ricalcata sul modello di quella ottocentesca, che aveva studiato sui libri dell’antropologo De Blasio, della quale cercava di farsi raccontare tutto dai vecchi camorristi nei primi anni della sua lunghissima detenzione e poi di estendere il dominio sull’intera Campania era affogato sotto le testimonianze dei suoi uomini più fidati diventati pentiti, l’uccisione del figlio, i tradimenti. "Credetemi, il crimine non paga. Non seguite i falsi ideali di organizzazioni perché siamo, e mi metto anche io in mezzo, una razza d’infami che si pentono appena gli scattano le manette ai polsi. E’ molto meglio andare a lavorare per un solo tozzo di pane che arruolarvi nelle organizzazioni". Cutolo non poteva uscire neppure per morire, come non aveva potuto passare un solo giorno con la moglie sposata nel 1983 non perché ancora temibile ma perché, come scrivono senza perifrasi i magistrati rigettando le istanze di scarcerazione, “era un simbolo”. Non è il primo caso. Sono morti in carcere, vecchi, malati, senza più alcun potere Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capi dei Corleonesi. Nessuno di loro, né Cutolo né i terribili corleonesi meritava forse la libertà. Erano boss spietati, con sulle spalle centinaia di omicidi, forse migliaia. Ma a condannarli a una morte spietata e solitaria non son stati i loro delitti ma il loro nome. Il "simbolo" e ancor più la paura delle reazioni alla sola notizia che quei "simboli" siano fuori da quelle quattro mura. Non solo i criminali comuni sono soggetti a questa legge non scritta ma inesorabile. Mario Moretti, ex capo delle Br, è l’unico dell’intero commando di via Fani, ma quasi di tutte le Br a dover ancora tornare in carcere a dormire la notte. Moretti non firma la ‘ lettera di scuse’ ai parenti delle vittime, una formalità vuota e ipocrita che di solito viene redatta dagli avvocati e poi fatta firmare dall’interessato. Anche Mario Tuti, sul fronte opposto della barricata politica, all’estrema destra, è in carcere dal 1975, condannato non dai reati, gravissimi ma non più di quelli di tanti ex terroristi liberi da decenni ma dal nome e dal rifiuto di porgere scuse formali. Renato Vallanzasca, il bel René, è stato uno dei nomi più noti della malavita milanese e italiana. Bello spavaldo, provocatori. Ha pagato il nome e il caratteraccio quasi più dei delitti per cui è stato condannato a quattro ergastoli. Nel 2010, dopo una trentina d’anni di carcere e molti rifiuti ottiene il lavoro esterno al carcere ma perde subito il beneficio per essersi appartato con una donna. Il lavoro gli viene restituito ma lo perde subito per le proteste degli abitanti del paese dove aveva trovato impiego. Pochi mesi dopo è di nuovo in regime di lavoro esterno ma nel 2014 si fa prendere mentre ruba in un grande magazzino calzini e mutande. Verrà condannato a 10 mesi ma nel 2018, senza che nel frattempo sia mai uscito di nuovo di galera, il tribunale di sorveglianza di Milano, nonostante le richieste non sol dell’avvocato di Vallanzasca ma dello stesso carcere, stabilisce che deve scontare tutta la pena in carcere, non avendo dato segni di ravvedimento. Una giustizia che nega ogni possibilità ai condannati per reati gravi è discutibile, poco civile, contraria ai princìpi della nostra Costituzione ma ha una sua logica, non differente da quella che ispira la pena di morte. Una giustizia condizionata dal nome del condannato più che dalla sua situazione reale e ostaggio di un’opinione pubblica spesso sollecitata nel modo e nel senso peggiore, invece, non è giustizia ma arbitrio.
O professore aveva 79 anni. "Stava male, scambiò la moglie per la cognata morta". Raffaele Cutolo è morto al 41 bis, l’ex boss seppellito in carcere per 57 anni. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Raffaele Cutolo è morto. L’ex boss sanguinario della Nuova Camorra Organizzata, soprannominato ‘o professore dai suoi compagni di carcere perché l’unico capace di leggere e scrivere e che in galera ha scontato 57 dei suoi quasi 80 anni, era ricoverato nel reparto riservato ai detenuti dell’ospedale di Parma. Era recluso al 41bis nel carcere di massima sicurezza della città ducale. Al carcere duro era ristretto da oltre 25 anni. Il quadro clinico di Cutolo, che negli anni ’80 aiutò i servizi deviati dello Stato a trattare con le Brigate Rosse per la liberazione dell’allora assessore regionale Ciro Cirillo, era compromesso in seguito a diverse patologie che si portava dietro da decenni.
COME E’ MORTO – “Raffaele Cutolo era ricoverato da diversi mesi nell’ospedale di Parma ed è morto per le complicazioni legate ad una polmonite a cui si è associata una setticemia del cavo orale. Purtroppo era da due giorni in choc settico e non ce l’ha fatta”. A dirlo a LaPresse è l’avvocato Gaetano Aufiero, legale dell’ex boss della Nuova Camorra Organizzata, che è morto nella serata del 17 febbraio. “Le esequie – ha aggiunto il legale – si svolgeranno in forma privatissima ad Ottaviano”, paese natale di Cutolo. Aufiero, dopo aver appreso la notizia dal carcere di Parma, ha “sentito un nipote di Raffale Cutolo – ha spiegato – e ho cercato di mandarlo a casa dalla moglie, in modo che non apprendesse della morte del marito dalla televisione, ma purtroppo – ha concluso – temo di aver fallito”. La moglie Immacolata Iacone aveva deciso di partire per Parma perché era stata riconosciuta la possibilità di avere un colloquio straordinario, ma purtroppo non ha fatto in tempo”.
“PESAVA 40 CHILI”– “L’ultima volta che si sono visti – ha spiegato Aufiero – è stato 20 giorni fa, ma avevamo chiesto un colloquio straordinario perché avevamo saputo lunedì scorso di un improvviso peggioramento. Purtroppo era da due giorni in choc settico e non ce l’ha fatta. Ci è stato detto che si era ripresentato un problema di ossigenazione per una polmonite bilaterale che aveva già avuto 15 giorni fa e per un paio di giorni era stato in prognosi riservata”. Cutolo “era già fortemente debilitato, non credo pesasse più di 40 chili, i sanitari ci avevano detto che non c’erano grandi speranze di recuperarlo” ha spiegato Aufiero all’Adnkronos aggiungendo: “Lo hanno curato nel migliore dei modi e, per quanto ci risulta, con la massima umanità”.
IL RIFIUTO DI PENTIRSI – Durante i lunghi anni della sua detenzione, Cutolo ha sempre rifiutato di collaborare con la giustizia. Porterà via numerosi segreti, a partire dalla morte di Aldo Moro. Fu arrestato una prima volta, a 22 anni, nel 1963 dopo aver ucciso un uomo che aveva fatto avance alla sorella. Dopo sette anni di carcere, venne scarcerato nel 1970 per decorrenza dei termini e dopo circa un anno di latitanza, nel 1971, tornò nel carcere di Poggioreale dove fondò la Nuova Camorra Organizzata. Nel maggio del 1977 una sentenza della Corte d’Appello riconobbe al boss l’infermità mentale, disponendone il ricovero nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa dove evase “rumorosamente” (i suoi fedelissimi piazzarono una bomba dinanzi l’ingresso) il 5 febbraio 1978. La latitanza durò fino al 15 maggio 1979. Dal 1995 era ristretto al carcere duro.
NO DOMICILIARI E SI AL 41 BIS – Lo scorso ottobre 2020, un anno dopo il reclamo presentato dal suo legale Gaetano Aufiero, il Tribunale di Sorveglianza di Roma confermò il carcere duro (41 bis) nonostante le gravi condizioni di salute. In precedenza, nella primavera del 2020 il Tribunale di Sorveglianza di Bologna gli negò i domiciliari nonostante i problemi di salute e l’emergenza coronavirus. “Questo provvedimento – commentò al Riformista Gaetano Aufiero, legale di Cutolo – dimostra che il nostro sistema giuridico, e penitenziario in particolare, è indecente. Sono senza parole: come si può pensare che un uomo di 80 anni con uno stato patologico conclamato e una grave disabilità mentale possa continuare a mantenere indisturbato i contatti con l’esterno? Non mi resta che dire che siamo in presenza della stessa inciviltà giuridica di quando si condannava alla pena di morte un disabile mentale che aveva commesso un reato senza rendersene conto”. Cutolo era allettato da mesi e non poteva avere contatti fisici nemmeno con la moglie. “Quando è andata a trovarlo in ospedale sono stati messi tra loro suppellettili per evitare che la donna lo accarezzasse o gli prendesse la mano. Tutto questo – spiegò Aufiero – è inumano. Lei non sa manco se lo rivedrà vivo la prossima volta”.
LO STATO CONFUSIONALE – Lo scorso 7 agosto 2020 la moglie Immacolata Iacone si è ritrovata davanti una persona con la mente quasi completamente offuscata: ha confuso la donna con la propria cognata, moglie di suo fratello, deceduta 8 anni fa; ha affermato di aver sposato la propria moglie ad Ottaviano, laddove invece le nozze furono celebrate presso il Carcere dell’Asinara; non ricordava che il fratello di sua moglie fosse stato ucciso. “Cosa c’entra il 41 bis con tutto questo? La stessa cosa è stata fatta qualche anno fa con Provenzano. Era un vegetale ma negarono ai suoi familiari di salutarlo con affetto prima che morisse”.
I PROBLEMI DI SALUTE – Le sue condizioni di salute, anche per via dell’età, erano precarie da anni. Recluso in una cella di 5-6 metri quadri, camminava poco e non faceva attività fisica da tempo. Aveva problemi di diabete, alla vista ed era affetto da artrite e prostatite. Da circa un anno poteva vedere solo attraverso un vetro la figlia (avuta con l’inseminazione artificiale) dopo che quest’ultima aveva compiuto 12 anni.
Gli ultimi mesi di vita di Raffaele Cutolo: “Moglie e figlia non potevano nemmeno toccarlo, una barbarie”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. Quando la moglie Immacolata Iacone e la figlia Denise sono andati a trovarlo nei sette mesi di ricovero all’ospedale di Parma, Raffaele Cutolo non poteva essere nemmeno toccato. “Non poteva sentire il calore della sua famiglia neanche in punto di morte. Gli incontri erano presidiati dagli agenti penitenziari e tra l’ex boss allettato e le sue due donne c’erano delle sedie per impedire qualsiasi tipo di contatto”. A parlare al Riformista è Gaetano Aufiero, avvocato storico, insieme al collega Paolo Trofino, dell’ex capo e fondatore della Nuova Camorra Organizzata morto nella serata del 17 febbraio all’età di 79 anni di cui ben 57 trascorsi dietro le sbarre e gli ultimi 25 al carcere duro. Cutolo era malato da tempo ma nonostante le denunce di legali e familiari non è cambiato nulla. Era il detenuto al 41bis più anziano. Ristretto nel carcere di massima sicurezza di Parma, è morto per le complicazioni legate ad una polmonite bilaterale a cui si è associata una setticemia del cavo orale.
Cutolo è morto anche per Covid?
“Questo non lo so, ho parlato solo con la polizia penitenziaria ma conoscendo la serietà e la grande umanità dei medici dell’ospedale di Parma non metto in dubbio quello che è emerso. Sicuramente è morto col 41bis”.
Le sue condizioni si sono aggravate nell’ultimo mese, nessun familiare è riuscito a vederlo?
“Cutolo è morto da solo in ospedale senza potere avere la moglie e la figlia vicino: nessun colloquio straordinario è stato autorizzato in questi mesi. Li avevo chiesti da luglio ma le istanze, che dovevano essere autorizzate direttamente dal ministro della Giustizia Bonafede, non sono mai state prese in considerazione”.
Moglie e figlia quando l’hanno visto l’ultima volta?
“Una ventina di giorni fa, a metà gennaio. Lui in quella occasione ha riconosciuto solo la figlia ma non riusciva a interloquire con lei”.
Lei invece?
“A fine agosto, credo il 30 o il 31, e non mi riconobbe. Pesava intorno ai 40 chili, secondo la moglie anche di meno. Poi non sono più andato a trovarlo perché francamente era inutile”.
Cosa ha pensato lo scorso ottobre quando il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha respinto, a un anno esatto dalla presentazione, l’ultima istanza contro 41bis?
“Invocai rispetto dopo la sentenza della Corte Europea dei diritti umani che condannò l’Italia perché decise di continuare ad applicare il regime di carcere duro a Bernardo Provenzano. I giudici nelle motivazioni dissero che Cutolo non poteva essere paragonato al boss siciliano perché quest’ultimo era un vegetale… Commentate voi”.
Cosa può insegnare questo accanimento contro un boss sanguinario che resta pur sempre un essere umano?
“Non insegna nulla, mai vista una barbarie del genere, non capisco magistrati e politici inermi di fronte a tanta inciviltà e brutalità. Come si fa a tenere al 41bis un uomo che non sapeva nemmeno in che giorno dell’anno vivesse, in che città si trovasse. Una visone distorta della giustizia e della legge”.
Perché non c’è mai stata alcuna apertura?
“Togliere il 41bis a Cutolo equivaleva ammainare bandiera anticamorra. Invece la lotta alla camorra deve andare avanti a prescindere, ma anche la dignità di una persona, e quindi un detenuto, va rispettata. Lui è stato per 40 anni in isolamento. Ci rendiamo conto?”.
Lei ha presentato istanza contro il 41bis solo negli ultimi anni. Come mai?
“Cutolo non chiedeva sconti, non si aspettava nulla. Nessun vittimismo, nessuna pietas, chiedeva solo di poter vedere la figlia anche dopo i 12 anni d’età. Fino a quando era ancora lucido, e stiamo parlando di tre-quattro anni fa, ho rispettato questa sua volontà. Ma nell’ultimo periodo ho impugnato il carcere perché non era umano quel regime: lui da solo non riusciva a fare più niente. Non parlava, non mangiava, non riconosceva le persone”.
Da quanto tempo era in ospedale?
“Da giugno. La moglie e la figlia quella volta al mese che gli facevano visita non potevano toccarlo, non potevano dargli la mano. Tra loro e Cutolo c’erano sedie utilizzate come divisori”.
Cosa pensa del 41bis?
“Che è disumano, ci sono alcune norme surreali. Cutolo viveva in una cella di 4-5 metri quadri. L’ora d’aria non la faceva perché che senso ha camminare in un corridoio lungo e stretto con pareti altissime? Nemmeno la sua raccolta di poesie, pubblicata qualche tempo fa, poteva avere. Quando andai ad aprile 2019 a fargli visita non era autorizzata la consegna. Ci rendiamo conto?”.
Come è morto Raffaele Cutolo, l’ex boss di Ottaviano “era un vegetale, non riconosceva moglie e figlia”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Il 4 novembre avrebbe compiuto 80 anni di cui 57 trascorsi in cella e oltre 25 al carcere duro. Raffaele Cutolo è morto nel tardo pomeriggio di giovedì all’ospedale di Parma, dove era ricoverato da diversi mesi nel reparto riservato ai detenuti. Recluso al 41bis nel carcere di massima sicurezza da diversi anni, dopo aver girovagato per numerose carceri italiane, il quadro clinico di Cutolo, era compromesso in seguito a diverse patologie che si porta dietro da decenni. “Raffaele Cutolo era ricoverato da diversi mesi nell’ospedale di Parma ed è morto per le complicazioni legate ad una polmonite a cui si è associata una setticemia del cavo orale. Purtroppo era da due giorni in choc settico e non ce l’ha fatta”. A dirlo a LaPresse è l’avvocato Gaetano Aufiero, legale dell’ex boss della Nuova Camorra Organizzata, che è morto nella serata del 17 febbraio. “Le esequie – ha aggiunto il legale – si svolgeranno in forma privatissima ad Ottaviano”, paese natale di Cutolo. Aufiero, dopo aver appreso la notizia dal carcere di Parma, ha “sentito un nipote di Raffale Cutolo – ha spiegato – e ho cercato di mandarlo a casa dalla moglie, in modo che non apprendesse della morte del marito dalla televisione, ma purtroppo – ha concluso – temo di aver fallito”. La moglie Immacolata Iacone aveva deciso di partire per Parma perché era stata riconosciuta la possibilità di avere un colloquio straordinario, ma purtroppo non ha fatto in tempo”. PESAVA 40 CHILI – “L’ultima volta che si sono visti – ha spiegato Aufiero – è stato 20 giorni fa, ma avevamo chiesto un colloquio straordinario perché avevamo saputo lunedì scorso di un improvviso peggioramento. Purtroppo era da due giorni in choc settico e non ce l’ha fatta. Ci è stato detto che si era ripresentato un problema di ossigenazione per una polmonite bilaterale che aveva già avuto 15 giorni fa e per un paio di giorni era stato in prognosi riservata”. Cutolo “era già fortemente debilitato, non credo pesasse più di 40 chili, i sanitari ci avevano detto che non c’erano grandi speranze di recuperarlo” ha spiegato Aufiero all’Adnkronos aggiungendo: “Lo hanno curato nel migliore dei modi e, per quanto ci risulta, con la massima umanità”.
I PROBLEMI DI SALUTE – Le sue condizioni di salute, anche per via dell’età, erano precarie da anni. Recluso in una cella di 5-6 metri quadri, camminava poco e non faceva attività fisica da tempo. Aveva problemi di diabete, alla vista ed era affetto da artrite e prostatite. Da circa un anno poteva vedere solo attraverso un vetro la figlia (avuta con l’inseminazione artificiale) dopo che quest’ultima aveva compiuto 12 anni.
LO STATO CONFUSIONALE – Lo scorso 7 agosto 2020 la moglie Immacolata Iacone si è ritrovata davanti una persona con la mente quasi completamente offuscata: ha confuso la donna con la propria cognata, moglie di suo fratello, deceduta 8 anni fa; ha affermato di aver sposato la propria moglie ad Ottaviano, laddove invece le nozze furono celebrate presso il Carcere dell’Asinara; non ricordava che il fratello di sua moglie fosse stato ucciso.
“Cosa c’entra il 41 bis con tutto questo? La stessa cosa è stata fatta qualche anno fa con Provenzano. Era un vegetale ma negarono ai suoi familiari di salutarlo con affetto prima che morisse”.
NO DOMICILIARI E SI AL 41 BIS – Lo scorso ottobre 2020, un anno dopo il reclamo presentato dal suo legale Gaetano Aufiero, il Tribunale di Sorveglianza di Roma confermò il carcere duro (41 bis) nonostante le gravi condizioni di salute. In precedenza, nella primavera del 2020 il Tribunale di Sorveglianza di Bologna gli negò i domiciliari nonostante i problemi di salute e l’emergenza coronavirus. “Questo provvedimento – commentò al Riformista Gaetano Aufiero, legale di Cutolo – dimostra che il nostro sistema giuridico, e penitenziario in particolare, è indecente. Sono senza parole: come si può pensare che un uomo di 80 anni con uno stato patologico conclamato e una grave disabilità mentale possa continuare a mantenere indisturbato i contatti con l’esterno? Non mi resta che dire che siamo in presenza della stessa inciviltà giuridica di quando si condannava alla pena di morte un disabile mentale che aveva commesso un reato senza rendersene conto”.
La sentenza imposta dai media. Raffaele Cutolo è stato condannato a morte. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Maggio 2020. Il tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia, come fu anticipato più di una settimana fa da Matteo Salvini, ha rigettato la richiesta di scarcerazione di Raffaele Cutolo. La motivazione è semplice: sta male, ma non abbastanza male. E c’è un rischio, in caso di scarcerazione, per la sicurezza. Raffaele Cutolo ha 79 anni. E’ seriamente malato da diverso tempo. Ha problemi polmonari gravi. E’ al 41 bis, cioè al carcere duro. E’ molto complicato, per una mente che ragioni senza pregiudizi faziosità e odii, immaginare che ci sia qualcosa di legittimo, o di compatibile con la Costituzione e con la dichiarazione dei diritti dell’uomo, nel tenere al carcere duro un signore di ottant’anni. Cutolo è al carcere duro da 25 anni. Dei suoi 79 anni di vita, 24 li ha trascorsi in libertà, gli altri 55 in prigione. Sta scontando una pena infinita. E’ del tutto evidente che la Nuova Camorra (Nco) che fondò 40 anni fa non esiste più, è sepolta, non ci sono più i suoi sodali, i luogotenenti, gli amici gangster. Quasi tutti morti, o spariti, o vecchissimi. 55 anni in cella vi sembrano pochi? 25 al carcere duro vi pare una pena ragionevole 600 anni dopo la fine del medioevo? Avete mai letto l’articolo 27 della Costituzione? Dice che le pene non possono “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Quale senso di umanità trovate nel tenere una persona in prigione per 55 anni? E 25 anni al 41 bis? Chi ha preso la decisione di non scarcerarlo conosceva l’articolo 27 della Costituzione? Cutolo ieri è stato condannato a morte. Con questa “sentenza”, richiesta a gran voce nei giorni scorsi dai partiti e dai giornali, tutti, a partire da quelli dello schieramento democratico e liberale (penso alla campagna di Repubblica) viene sancita l’uscita dall’ipocrisia. In Italia la giustizia si ispira e si uniforma a un solo principio e a tre parole: vendetta, vendetta, vendetta!
I giudici condannano Cutolo a morte per paura di stampa e tv…Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Ottobre 2020. Il tribunale di sorveglianza di Roma ha deciso che Raffaele Cutolo, ex boss della camorra, deve andare a morte. La sua vita deve finire nella brandina di una cella in regime di carcere duro. Siamo nel 2020, sembra il medioevo. Raffaele Cutolo è un signore di 80 anni, in pessime condizioni di salute e con fortissimi problemi cognitivi, ha passato in prigione 57 anni della propria esistenza (e poco più di venti ne ha trascorsi in libertà, tra i quali i primi 18, quelli della scuola) ed è stato il fondatore di un’associazione camorristica che non esiste più da circa 40 anni. Si muove con gran difficoltà, ha notevoli problemi di attenzione e la memoria corta sta svanendo. Di questo i magistrati hanno preso atto, e sulla loro ordinanza, nella quale rigettano la richiesta degli avvocati quantomeno di sospendere il 41 bis, hanno copiato il parere drammatico del medico che ha svolto la perizia su Cutolo. Poi hanno concluso: no, Cutolo forse ha problemi fisici e intellettivi ma qualcosa capisce e dunque, se interrompessimo il regime di isolamento e il carcere duro, c’è il rischio che lui riesca a mettersi in contatto coi suoi vecchi compagni d’arme (quasi tutti, o forse tutti, morti o in carcere da anni) e a riorganizzare il gruppo camorristico. Potrebbe mettere su una banda, magari piccolina, composta da quattro o cinque ultranovantenni, un po’ rincoglioniti ma molto esperti. Questo disegno va fermato, hanno pensato i giudici. Quindi, istanza rigettata e 41 bis, cioè carcere duro, confermato. I magistrati romani hanno anche preso in considerazione la sentenza della Corte europea che condannò l’Italia per aver tenuto in prigione, moribondo, il capo della mafia Bernardo Provenzano, ma hanno ragionato sul fatto che Provenzano era in coma e Cutolo no. E dunque le condizioni di Provenzano non possono essere accostate a quelle di Cutolo e la sentenza della Corte europea non può valere per lui. Il tribunale che ha preso questa decisione precisa, nell’ordinanza, di non essere chiamato a decidere sulle condizioni di salute del detenuto, e dunque sulla compatibilità tra le sue condizioni e il carcere. Questa è una valutazione che spetta al tribunale di sorveglianza della città dove Cutolo oggi è in carcere (quindi Parma). Il tribunale di sorveglianza di Roma deve solo stabilire se Cutolo è ancora pericoloso o no. E ha stabilito che un vecchio traballante, praticamente privo di memoria breve, con forti problemi cognitivi, con quello che i medici definiscono “un disturbo neurocognitivo maggiore”, affetto da diverse malattie cardiocircolatorie, dal diabete e da altri disturbi, ha tutte le carte in regola per uscire di prigione, o almeno per uscire dal regime di isolamento nel quale vive, murato vivo, dal 1992, e mettere a ferro e fuoco Napoli, o forse tutta la Campania. Come può succedere che dei magistrati scrivano una ordinanza di questo genere? Le spiegazioni possibili sono solo due. La prima si riassume in una parola: Burocrazia. Del resto è impossibile non notare che nella prima pagina dell’ordinanza, è stampata la seguente scheda: Detenuto: Raffaele Cutolo/pena da espiare: ERGASTOLO/scadenza della pena: MAI (concessi giorni 1035 di anticipazione anticipata). C’è scritto esattamente così. Cioè, alla lettera, Cutolo dovrà essere liberato 1035 giorni prima della propria morte, però non si sa ancora chi potrà stabilire con almeno tre anni di anticipo la data della sua morte…
La seconda spiegazione sta nel clima di forca che si è creato ormai da molto tempo nel paese. La furiosa campagna di stampa condotta dai giornali contro i tribunali di sorveglianza che mesi fa liberarono alcuni detenuti in cattive condizioni di salute, ha avuto il suo effetto. Oggi i tribunali di sorveglianza sono terrorizzati e non si azzardano a prendere provvedimenti che rientrino nell’ambito della civiltà giuridica.
La vendetta di Stato. Cutolo era un criminale ma anche un essere umano: come tutti noi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. È morto Raffaele Cutolo. È stato un criminale spietato. Ha fatto uccidere moltissime persone. Ha guidato una sanguinosa guerra all’interno della camorra. È stato capace, giovanissimo, dal carcere o dalla breve latitanza, di creare e guidare una delle più potenti associazioni malavitose del Novecento. La sua era una cosca e poi diventò quasi un partito politico. Aveva circa 2000 associati. Cioè soldati: armati e ben distribuiti sul territorio. Negli anni Ottanta ha dominato, a Napoli e in Campania. A lui si sono rivolti uomini politici e dello Stato, in più occasioni – persino durante il sequestro Moro – per avere aiuti e trattare. Poi Cutolo è stato anche il re delle prigioni. Era una potenza in carcere, ma il carcere è diventato la sua vita. Ha trascorso quasi 60 dei suoi 79 anni in cella. Poi Cutolo è invecchiato. La sua organizzazione camorrista è stata sconfitta, sgominata. Dai concorrenti e dallo Stato. I suoi sodali uccisi, o arrestati, o spariti, qualcuno morto di vecchiaia. Era rimasto solo. Senza più nessuno, tranne qualche familiare. Pochi. Stava male, malissimo. I suoi avvocati hanno chiesto che lo facessero uscire, o almeno uscire dal 41 bis, dal carcere duro. Morire in pace. Cutolo era un criminale, sì, ma anche un essere umano: esattamente come tutti noi. I magistrati hanno detto di no. Hanno detto che non stava poi così male, anche se non riconosceva più neppure i suoi parenti. E poi che era pericoloso. Ferocia, vendetta. L’altro giorno la Dna ha sostenuto che il carcere duro va inasprito, anche se forse è incostituzionale. Perché – ha detto – le ragioni della sicurezza prevalgono sui diritti, sulla civiltà. E ha spiegato che bisogna essere sicuri che i banditi non possano mai più comunicare con l’esterno. Allora, come lo scrittore Jonathan Swift, avanziamo anche noi una “modesta proposta”: cambiamo la Costituzione e reintroduciamo la pena di morte. Fuciliamo i mafiosi, così siamo più sicuri. Giusto? In fondo, spesso, la pena di morte è persino meno crudele del 41 bis a vita.
La vendetta dello Stato contro i figli cattivi. Cutolo come Riina e Provenzano: ucciso da una pena di morte a lento rilascio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Raffaele Cutolo come Totò Riina, come Bernardo Provenzano. Uccisi dalla pena di morte lenta, quella esistente in Italia da circa trent’anni, dopo che era stata abolita nel 1948 quella ripristinata dal fascismo. Quella erogata con il regime del 41 bis, che oggi la Direzione Nazionale Antimafia vuole rafforzare e moltiplicare. Ricordo le parole di Immacolata Iacone, moglie di quello che un giorno fu il capo della Nuova Camorra organizzata, ma che era ormai solo un corpo non più persona, che in lacrime descriveva, nella riunione del direttivo di “Nessuno tocchi Caino” sul 41 bis, la larva d’uomo che era stato suo marito. Sono passati pochi mesi, durante i quali lui, o meglio il suo corpo è stato trasportato come un pacco postale avanti e indietro dall’ospedale al carcere di Parma dove è morto. Quell’istituto che era stato considerato, fin dai primi giorni dell’epidemia di un anno fa, non adatto alla detenzione di persone anziane e malate. Era stata stilata una sorta di graduatoria delle incompatibilità con la prigionia, e Cutolo era ai primi posti. Ma il tribunale di sorveglianza, che non lo ha mai spostato dal regime impenetrabile del 41 bis, lo ha sempre e fino all’ultimo considerato pericoloso e in grado di dare segnali criminali ai suoi associati all’esterno del carcere. Ma associati a che cosa, visto che l’organizzazione da lui fondata qualche decennio fa non esiste più e i suoi amici di un tempo sono tutti morti? Cutolo come Riina. La vendetta dello Stato contro i suoi “figli cattivi”, quelli che hanno ucciso dispensando la propria privata pena di morte, è particolarmente sadica e viene erogata con lentezza attraverso la tortura del 41 bis. La logica è volta a piegare la persona, sottoporla a ricatto (péntiti!) e somministrare lentamente la morte. Totò Riina ha finito di vivere nel novembre del 2017, dopo due interventi e cinque giorni di coma. Era detenuto al 41 bis da 24 anni. Solo in extremis il ministro alla giustizia Andrea Orlando aveva concesso un permesso speciale ai parenti perché potessero portargli l’ultimo saluto. Non avevano fatto in tempo. Ben prima avrebbe potuto e dovuto intervenire con senso di umanità il guardasigilli. Almeno da quando la corte di cassazione, proprio quella prima sezione che un giorno lontano era stata presieduta da Corrado Carnevale, aveva bocciato l’ennesima ordinanza del tribunale di sorveglianza che aveva respinto ogni domanda di quel detenuto così malato. La cassazione, cinque mesi prima che Riina chiudesse gli occhi, gli aveva riconosciuto “il diritto a morire dignitosamente”, citando più volte il necessario “senso di umanità” con cui bisognerebbe governare le carceri e ricordando che “la pericolosità del detenuto deve essere attuale”. E difficilmente può esserlo nel caso di persone anziane che presentano diverse patologie. Ma Totò Riina doveva morire in manette e così è stato. Riina come Provenzano. Quello che, ridotto a pura vita vegetativa, che non parlava e non si muoveva, che ogni giorno veniva ripulito e nutrito con il sondino naso-gatrico, giaceva in una cella dell’ospedale S. Paolo di Milano, dove è morto nel luglio del 2016. Forse lo tenevano in vita (che vita!) per portarlo in ceppi a testimoniare alla farsa del processo Stato-mafia. O forse, mentre lui sillabava “mmm”, l’unico suono che ormai usciva dalla sua bocca, qualche particolare interprete era pronto a capire di quale messaggio mafioso si trattasse. Perché anche quel vegetale comunque non si era mai pentito. E solo in quel caso quel corpo prigioniero sarebbe stato quanto meno alleggerito dai ceppi del 41 bis. Ma il ministro Orlando, cui pure i medici avevano inviato corposa documentazione sanitaria, fu irremovibile: Provenzano (cioè quel vegetale che era diventato) era pericoloso e doveva morire in galera. Provenzano come Riina, Riina come Cutolo. Ed è paradossale che, proprio mentre il capo di quella che fu la nuova camorra organizzata stava morendo, la Direzione nazionale Antimafia abbia depositato la propria lugubre relazione annuale sulle carceri. Nella quale, dopo aver ammesso con costernazione che ogni provvedimento adottato nei mesi della pandemia per alleggerire l’affollamento carcerario era fallito, si stabilisce che il regime del 41 bis “deve essere potenziato e mai attenuato”. La pena di morte lenta è confermata. Fino al prossimo.
Vendetta di Stato. Raffaele Cutolo lasciato morire da solo come un cane. Angela Stella su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. Raffaele Cutolo è morto ieri sera nel reparto sanitario del carcere di Parma. L’uomo, che fu fra i fondatori della Nuova camorra organizzata, aveva 79 anni. Era recluso da 57 anni, e fin dagli anni ‘90 era tra «i sepolti vivi del regime di carcere duro», come spesso evidenziato da Sergio D’Elia di Nessuno Tocchi Caino. Le condizioni di salute dell’uomo erano peggiorate già l’estate scorsa tanto che ne era stato disposto il trasferimento nel settore sanitario del carcere. Come ci spiega il suo avvocato storico, Gaetano Aufiero, «Cutolo era in ospedale da luglio, negli ultimi giorni si è purtroppo presentata una polmonite, associata ad una setticemia del cavo orale. Tre giorni fa ci hanno comunicato che era in shock settico e che la situazione era molto grave». Due giorni fa il legale aveva inviato l’ennesima istanza di scarcerazione ma il magistrato di sorveglianza non ha fatto in tempo a valutarla «o forse a rigettarla – prosegue Aufiero – considerato che tutte le nostre richieste sono state sempre respinte». Già nel febbraio 2020 Cutolo era stato ricoverato per una crisi respiratoria. L’uomo assumeva circa quindici pillole al giorno, soffriva di diabete, prostatite e artrite ed era fortemente ipovedente. Questo quadro, nel frattempo peggiorato, aveva indotto l’avvocato proprio ad agosto 2020 a presentare al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia una integrazione urgente all’istanza del 30 luglio precedente in cui chiedeva un differimento della pena per motivi di salute per l’uomo detenuto in regime di 41 bis a Parma. Ad ottobre scorso era stato il Tribunale di Sorveglianza di Roma a rigettare l’istanza di revoca del carcere duro, ed è su questo punto che l’avvocato Aufiero torna a commentare con noi nella tarda serata di ieri: «ho capito che avrebbero lasciato morire Cutolo in carcere, solo come un cane, quando il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha motivato il rigetto della nostra richiesta dicendo che non era un vegetale come Provenzano. Proprio con lei dissi con amara ironia che Cutolo doveva sperare di andare in coma per lasciare il 41bis». Nelle sue numerose istanze l’avvocato aveva sempre sottolineato che era venuta meno la capacità di Cutolo di mantenere collegamenti con qualsivoglia associazione criminale e/o di rivestire ruoli all’interno delle stesse. Di conseguenza, non sussistevano più i gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica giustificativi del mantenimento del regime detentivo speciale che in considerazione delle condizioni di salute del condannato era inutilmente afflittivo. Ma lo Stato ha deciso che Cutolo doveva morire in carcere e solo. Tuttavia, per quanto risulta all’avvocato Aufiero, «è stato curato bene e con grande umanità. L’ho riscontrato con i miei occhi quando sono andato a trovarlo». Cutolo ha potuto incontrare la moglie Immacolata Iacone per l’ultima volta circa venti giorni fa: «in questi mesi – conclude Aufiero – il Ministero della Giustizia non ha mai concesso un permesso straordinario per un colloquio. L’unico è stato accordato ieri, la moglie sarebbe dovuta partire nella notte ma non è servito a nulla».
La decisione. Carcere a vita per Raffaele Cutolo, il Tribunale conferma il 41bis. Angela Stella su Il Riformista il 16 Ottobre 2020. Raffaele Cutolo resta al 41 bis: lo ha deciso ieri il Tribunale di Sorveglianza di Roma. L’udienza di reclamo per la revoca del carcere duro si era tenuta lo scorso 2 ottobre, ad un anno esatto dal reclamo dall’avvocato Gaetano Aufiero. Proprio il legale di Cutolo commenta così al Riformista questa decisione: «Questo provvedimento dimostra che il nostro sistema giuridico, e penitenziario in particolare, è indecente. Sono senza parole: come si può pensare che un uomo di 80 anni con uno stato patologico conclamato e una grave disabilità mentale possa continuare a mantenere indisturbato i contatti con l’esterno? Non mi resta che dire che siamo in presenza della stessa inciviltà giuridica di quando si condannava alla pena di morte un disabile mentale che aveva commesso un reato senza rendersene conto». A proposito delle condizioni di salute, l’uomo è ricoverato presso l’Ospedale Maggiore di Parma dal 30 luglio e la relazione del perito di parte parla di “condizioni psicofisiche particolarmente scadute, di memoria a breve termine particolarmente compromessa, e di disturbo neurocognitivo maggiore”. Nonostante questo, il Collegio del Tribunale di Sorveglianza sostiene che nella stessa perizia si scrive che il detenuto è “lucido”: è un termine – ci dice sempre l’avvocato Aufiero – «che il Tribunale estrapola strumentalmente. Lucido vuole dire che ha gli occhi aperti se gli parli e ti risponde “Raffaele” se gli chiedi come si chiama. Ma se i magistrati avessero letto – loro – con maggiore lucidità la relazione avrebbero visto che Cutolo è completamente decontestualizzato, non sa nemmeno in che città si trova e che giorno è oggi. Non riconosce me che sono suo avvocato da 25 anni né sua moglie. Come può mantenere i contatti con l’esterno in questi condizioni?». Tuttavia la parte del provvedimento che più lo scandalizza è quella in cui si fa il paragone con Bernardo Provenzano: «Si dice che Cutolo non è nelle stesse condizioni dell’ex boss di Cosa Nostra. Ricordo che lo stesso Tribunale di Sorveglianza di Roma ha determinato la condanna dell’Italia da parte della Cedu proprio perché Provenzano era stato mantenuto al 41bis nonostante fosse in uno stato neurovegetativo. Il richiamo a Provenzano è offensivo, perché si dice chiaramente che fin quando Cutolo non sarà in coma e un vegetale come Provenzano dovrà rimanere al carcere duro». Le altre due motivazioni addotte dal Collegio per mantenere al carcere duro l’uomo, detenuto dal 25 marzo 1971 e in 41bis dal 20 luglio 1992, è che esistono “congrui elementi a sostegno della permanenza della capacità del condannato di mantenere contatti con la criminalità organizzata” e che è ancora elemento di “spiccatissima pericolosità sociale”. Questo passaggio non meraviglia particolarmente l’avvocato Aufiero: «In sostanza si colpisce una mera astratta potenzialità perché in realtà non c’è un solo elemento per dire che lui abbia mantenuto i contatti con l’esterno. Sulla spiccata pericolosità sociale si rifanno sempre a quello che è successo 40 anni fa. Il Procuratore Generale in udienza è venuto addirittura a ricordarci le estorsioni che Cutolo faceva imponendo i prezzi ai contrabbandieri a Napoli negli anni ‘70. Ma di che parliamo? Invece non si spende una parola sul fatto che sia isolato da 40 anni. Non mi sorprende questo passaggio. Figuriamoci se il Tribunale di Sorveglianza di Roma, in questo clima politico, poteva dire che Cutolo non è pericoloso». A ciò, ci dice Aufiero, bisogna aggiungere che «sia il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia sia il Tribunale di Sorveglianza di Bologna non si sono mai degnati, nonostante mia formale richiesta, di accertare le condizioni mentali di Cutolo mediante una perizia terza». Se l’avvocato non l’ha richiesta invece ora al Collegio del Tribunale di Sorveglianza di Roma è perché ci sarebbero voluti altri mesi per istruirla e alla fine sarebbe terminato il biennio di proroga del 41bis disposto con decreto ministeriale. Un ultimo punto che i magistrati contestano è la condotta intramuraria non partecipativa di Cutolo: «Cosa c’entra con il 41bis? Cosa volevano, che Cutolo a 80 anni iniziasse ad avere una condotta partecipativa con l’assistente sociale? Essendo lui un fine pena mai è consapevole che non potrà ottenere nulla sotto il profilo delle misure alternative alla pena detentiva».
Dopo la morte di Cutolo persino Ingroia ha dubbi sul 41bis…Angela Stella su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Sulla morte di Raffaele Cutolo sono intervenuti in molti. Il magistrato Catello Maresca all’Ansa ha detto: «Da cristiano mi auguro che sia riuscito ad ottenere il perdono di tutti i familiari delle vittime cadute per le sue drammatiche decisioni criminali. Lo Stato con Cutolo ha mostrato, dopo pagine opache e inquietanti anche di presunti accordi, di essere diventato autorevole mettendolo in carcere al 41 bis e riducendo al lumicino la sua potenzialità criminale». L’avvocato di Cutolo, Gaetano Aufiero, commenta così con noi: «Sono anche in parte d’accordo con il pensiero di Maresca perché il 41bis è uno strumento per fronteggiare la camorra. Il dottor Maresca fa appello alla sua matrice cristiana: ed è qui che non comprendo perché l’applicazione del carcere duro è stata estremizzata ad un uomo malato come Cutolo che ormai non riconosceva più i familiari, non riusciva a tenere una penna in mano, veniva imboccato e alimentato con le pappine. Era necessario tenerlo al 41bis fino alla fossa? Questa è stata una tortura». D’accordo l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di Bernardo Provenzano, che a Lapresse ha detto: «I detenuti malati al 41 bis come Provenzano e Cutolo sono tenuti in ostaggio per dare spazio alla vendetta. I parenti delle vittime meritano rispetto, ma è necessario tenere presente che secondo la nostra giurisdizione il momento punitivo è legato al recupero: cosa recuperi se il detenuto è in fin di vita?». Ad associare il carcere duro alla tortura ci ha pensato anche Alfonso Sabella, giudice del Tribunale del Riesame di Napoli che all’Adn ha spiegato: «il carcere duro è stato dichiarato costituzionale nonostante vìoli i principi fondamentali dell’individuo, è stato ritenuto legittimo perché serve ad interrompere i contatti dall’interno del carcere verso l’esterno; senza questa logica il 41bis viene applicato come tortura»; e su Cutolo chiude così: « non so in concreto che influenza potesse avere a distanza di trent’anni, su personaggi storici della camorra. Probabilmente la sua capacità di intervenire sulle dinamiche di camorra era molto, molto ridotta. Anche se non conosco le dinamiche investigative riguardanti Cutolo, temo che lo Stato abbia fatto male a tenerlo al 41 bis fino alla morte». Il caso Cutolo ha riaperto il dibattito sul 41bis. Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte Costituzionale, si è espresso sulla possibile incostituzionalità: «dipende dalle sue applicazioni. Ha diversi risvolti. Per quanto riguarda la rigidità nel trattamento penitenziario non deve essere ulteriore rispetto a quello che sia necessario. Ma d’altro canto è una forma giustificata se c’è un rischio nel permanere di contatti o di posizione dominante d’indirizzo su un gruppo criminale organizzato». Per il Presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, «uno Stato forte, autorevole ma non autoritario, capace di essere pedagogicamente forte, non deve aver paura di un uomo che sta morendo, che magari ha perso la sua capacità di autocontrollo psichico». Anche Antonio Ingroia, ex magistrato celebre, si è detto molto perplesso sul 41 bis applicato a una persona non più capace di delinquere.
Sedie in ospedale per impedire contatto. Cutolo sta morendo, silenzio di Stato da 10 mesi e lui scambia la moglie per la cognata morta. Angela Stella su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Perché Raffaele Cutolo è ancora ristretto al 41 bis? È quanto si chiede il suo legale Gaetano Aufiero che il 10 agosto ha inviato una istanza al ministro Bonafede per chiedere la revoca del regime di carcere duro: «È venuta meno la capacità del condannato di mantenere collegamenti con qualsivoglia associazione criminale e/o di rivestire ruoli all’interno delle stesse. Di conseguenza, non sussistono più i gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica giustificativi del mantenimento del regime detentivo speciale che, allo stato, in considerazione delle condizioni di salute del condannato, è inutilmente afflittivo». E perché, si chiede sempre il legale, il Tribunale di Sorveglianza di Roma dopo dieci mesi dal reclamo difensivo ancora non fissa l’udienza per stabilire se sussistano le condizioni per trattenere al 41 bis Cutolo? Il decreto di proroga del 41 bis veniva emesso dal ministro della Giustizia l’11 settembre 2019; contro tale decisione il difensore ha proposto reclamo il 2 ottobre. «Ebbene, ad oggi – ci dice Aufiero – a distanza di oltre 10 mesi dalla proposizione del reclamo e di 11 mesi dall’esecuzione del decreto, l’atto di impugnazione non è stato ancora fatto oggetto di discussione in quanto, nonostante l’inoltro di ben due solleciti, il Tribunale di Sorveglianza di Roma non ha ancora provveduto alla fissazione della relativa udienza, così di fatto impedendo al condannato l’esercizio del suo legittimo diritto all’impugnazione del gravoso provvedimento eseguito nei suoi confronti». L’ordinamento penitenziario prevede, sia pure in termini meramente ordinatori, il termine di 10 giorni per la decisione del reclamo da parte del Tribunale di Sorveglianza, per non vanificare la portata dell’eventuale rimedio giurisdizionale che deve intervenire su un provvedimento avente la durata di due anni. Inoltre le condizioni di salute di Cutolo meritano maggiore attenzione, anche giudiziaria, e non consentono di aspettare tempo ulteriore. Come vi abbiamo infatti raccontato qualche giorno fa, l’uomo è ancora ricoverato nell’ospedale di Parma per un quadro clinico compromesso sotto diversi punti di vista. Inoltre lo scorso 7 agosto sua moglie Immacolata Iacone è andata a trovarlo ma ha trovato davanti a sé una persona con la mente quasi completamente offuscata: ha confuso la donna con la propria cognata, moglie di suo fratello, deceduta 8 anni fa; ha affermato di aver sposato la propria moglie ad Ottaviano, laddove invece le nozze furono celebrate presso il Carcere dell’Asinara; non ricordava che il fratello di sua moglie fosse stato ucciso. Tali evidenti vuoti di memoria e disordini mentali rappresentano, secondo il legale e secondo il Primario del reparto dove Cutolo è ricoverato, sintomi inconfutabili di demenza senile. Pertanto in una seconda istanza, sempre del 10 agosto, l’avvocato Aufiero torna a chiedere una perizia medico legale sul suo assistito e il differimento della pena per motivi di salute. Si vuole lasciar morire Cutolo al 41bis? Ci si vuole accanire contro di lui come avvenuto con Provenzano? Il dubbio viene se la moglie racconta che durante il suo colloquio in ospedale non ha potuto toccare il marito allettato perché tra di loro sono state frapposte delle sedie ad impedire alcun contatto.
Il caso di Raffaele Cutolo. Cutolo ha già un letto ed è assistito bene, no alla scarcerazione. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Maggio 2020. «Il paziente può contare su presenza e monitoraggio costante degli operatori sanitari». È uno dei passaggi del provvedimento con cui il magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha rigettato l’istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute presentata da Raffaele Cutolo, il vecchio capo della Nuova camorra organizzata e protagonista di un pezzo importante della storia criminale campana e italiana. In sintesi, Cutolo può essere efficacemente curato nel carcere di Parma, anche perché lì di recente sono stati assunti nuovi operatori socio sanitari e nella cella è stato predisposto “un letto dotato di sponde e un materasso anti-decubito”. «Io – commenta l’avvocato Gaetano Aufiero, difensore di Cutolo – non sarei tranquillo a farmi curare da operatori socio sanitari se avessi gravi patologie polmonari. Rispetto ma non condivido la decisione del magistrato». La decisione arriva dopo settimane in cui il dibattito sulle scarcerazioni ai tempi del Covid ha assunto toni forti, scatenato aspre polemiche, creato fazioni e scandalizzazioni. La decisione del magistrato di Sorveglianza non mette un punto alla vicenda. Il provvedimento sarà a breve al vaglio del Tribunale di Sorveglianza. «Non mi aspetto nulla», aggiunge l’avvocato Aufiero facendo riferimento al clima di queste settimane. «Rispetto tutte le decisioni ma non posso condividere un’idea di morte della giustizia, l’idea che chi è condannato per determinati reati debba morire in carcere». Cutolo ha 79 anni, da oltre 40 anni è ininterrottamente detenuto ma aveva già fatto 15 anni, in regime di 41bis dal 1992. I problemi respiratori che il 18 febbraio scorso aggravarono il suo quadro di salute rendendo necessario il ricovero in ospedale fino al 9 marzo saranno curati in carcere. La documentazione acquisita dalla direzione sanitaria del penitenziario dove Cutolo è recluso, a Parma, «comprova – scrive il magistrato di Sorveglianza – una situazione detentiva rispettosa della dignità personale». Esclusa la possibilità di trasferire il detenuto in un’altra struttura adeguata a fornire le cure di cui ha bisogno, il Dap, interpellato sul punto, il 9 aprile aveva fatto sapere che nel circuito dei detenuti al 41bis, il famigerato carcere duro, «non ci sono standard assistenziali più elevati rispetto a quelli garantiti a Parma». Come a dire che lì, nell’istituto di pena emiliano, Cutolo potrà sicuramente essere ben curato. A integrare la comunicazione, il Dap ha fatto anche sapere che nel carcere emiliano a fine aprile ci sono state assunzioni di operatori socio sanitari, con nuove 14 unità, otto delle quali si occuperanno della salute di detenuti come lo stesso Raffaele Cutolo. Quanto all’ipotesi di un possibile aggravamento delle condizioni di salute dell’anziano boss, ipotesi che l’avvocato Aufiero aveva indicato tra i motivi a sostegno della richiesta di consentire al detenuto di lasciare la cella per la detenzione domiciliare, il magistrato di Sorveglianza ha chiarito che, se la salute di Cutolo dovesse peggiorare, l’ex capo della Nco potrebbe contare su strutture territoriali esterne, un ospedale come quello dove fu portato d’urgenza a febbraio. Mentre sul rischio di contagiare il Covid-19, il 41 bis – si è sottolineato – prevede una cella singola con i necessari presidi sanitari. Inoltre, si legge nel provvedimento, «Cutolo ha da anni rinunciato ai momenti di socialità così di fatto riducendo ulteriormente i contatti interpersonali e le vie di contagio».
"Per lui nessun pericolo di contagio". Giudici senza pietà, Cutolo malato a 80 anni resta in carcere: “Ancora un simbolo”. Redazione su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Respinto il ricorso della difesa di Raffaele Cutolo per la detenzione domiciliare, dettata dai motivi di salute. Il fondatore della Nuova camorra organizzata, 78 anni, resta in carcere a Parma, dove è detenuto in regime di 41 bis. Il tribunale, che ha fatto un’ampia valutazione conferma che le condizioni del boss non sono incompatibili con la detenzione carceraria. “Le patologie di cui è portatore Raffaele Cutolo – si legge nell’ordinanza- appaiono allo stato trattabili adeguatamente anche in ambiente carcerario“. Per il collegio, presieduto dal giudice Antonietta Fiorillo, dalla documentazione sanitaria analizzata si può dire che la detenzione di Cutolo non si svolge “con quella quota di afflittività ulteriore tale da comportare una sofferenza che eccede il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione della pena”. In particolare si sottolinea la presenza di un piano assistenziale personalizzato, la predisposizione di presidi come il letto con le sponde e il materasso antidecubito, la dotazione di un treppiede per gli spostamenti, la presenza di un detenuto lavorante che assicura l’igiene della camera, la presenza dell’oss e il monitoraggio quotidiano di medici e infermieri. Nel caso del boss “non appare ricorrere con probabilità il rischio di contagio da Covid-19”, scrive il tribunale di Sorveglianza di Bologna. Nell’ordinanza si sottolinea come nessun detenuto è risultato positivo al Covid nel carcere di Parma, e che le informazioni acquisite dal dipartimento di salute pubblica dell’Asl di Parma segnalano che “l’evoluzione dell’epidemia nel tempo e nello spazio, su base regionale, rientra nella curva discendente”. In tanti anni di detenzione Cutolo “non ha mai mostrato alcun segno di distacco dalle sue scelte criminali” scrivono i giudici, che ricordano un colloquio avuto in carcere il 22 luglio 2019 con il giornalista Antonio Mattone durante il quale il boss ha rivendicato la “giustezza” di alcune scelte operate, affermando di avere “fatto anche del bene”, di non aver ordinato atti delittuosi indiscriminati, a differenza dei criminali attuali. In sostanza, ragiona il tribunale, rivendica “il proprio ruolo carismatico che aveva favorito l’unione di più gruppi“. Per il tribunale, dunque, le condizioni di salute valutate anche in ragione dell’età, non sono tali da eliminare o ridurre grandemente il pericolo di recidiva: “Nonostante l’età e la perdurante detenzione rappresenta un ‘simbolo’ per tutti quei gruppi criminali che continuano a richiamarsi al suo nome”.
Non sono i boss vittime del 41bis ma la Costituzione…Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. «Esiste una norma costituzionale, l’articolo 27, che stabilisce che la detenzione debba avere una finalità punitiva ma anche rieducativa: il regime carcerario del 41bis incarna la negazione ontologica di questo principio. Impossibile individuare la finalità precipua voluta dai Padri Costituenti nell’isolamento del detenuto da chiunque, dagli stessi affetti primari, negare il diritto a ricevere e leggere libri o ricevere determinati cibi. E questo per sempre quando la durata della detenzione coincide col fine vita. Questa disumanizzazione non può in alcun modo essere identificata con la finalità rieducativa imposta dalla Costituzione ma si giustifica con l’unica esigenza di mostrare capacità repressiva coincidente con la presunta capacità dello Stato di contenere i fenomeni criminali. Ciò che appare sempre più evidente è l’esigenza di mostrare contrapposizione impositiva cieca e apodittica». Lo afferma l’avvocato Mara Esposito Gonella, componente del consiglio direttivo del Carcere Possibile, partecipando alla riflessione sulla necessità di un carcere più umano che la storia di Raffaele Cutolo ha riportato di attualità. «L’umanizzazione, il riconoscimento dei diritti dei detenuti anche del cosiddetto carcere duro – spiega – non costituirebbe un segno di debolezza dello Stato ma, al contrario, un segno di civiltà che avanza». «Un pregevole esercizio politico sarebbe avere la capacità di sensibilizzare l’opinione pubblica a comprendere che il carcere ha questa funzione senza cavalcare la segregazione come unica vittoria sulla criminalità». L’esperienza di molti altri Stati europei dimostra che un carcere più umano e più rieducativo che punitivo è possibile, basterebbe deporre la sciabola del giustizialismo. La morte di Cutolo in carcere, in regime di carcere duro, senza alcuna clemenza o considerazione per l’età avanzata e lo stato di salute sempre più precario, «ha siglato la sconfitta dei principi costituzionali, della finalità della pena e della funzione normo regolatrice dello Stato – osserva l’avvocato Annamaria Ziccardi, presidente del Carcere Possibile, la onlus della Camera penale di Napoli impegnata per la tutela dei diritti dei detenuti – Le analisi, sia pur retrospettive, devono rappresentare un percorso, una luce, un monito». Di qui l’appello del Carcere Possibile rivolto al nuovo ministro della Giustizia Marta Cartabia «che già tanta sensibilità ha mostrato verso la inquietante deriva del tema penitenziario».
Parla il garante dei detenuti di Parma. “Cutolo era una larva, il carcere l’aveva consumato”. Il racconto di Roberto Cavalieri, uno degli ultimi a vedere l’ex boss. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. «Un uomo molto anziano, molto debilitato, a tratti poco lucido, con risposte non sempre pertinenti nello spazio e nel tempo. Ricordo che gli chiesi se sapeva quale giorno fosse e non seppe rispondermi». Roberto Cavalieri, garante dei detenuti di Parma, è stata una delle persone che ha incontrato Raffaele Cutolo negli ultimi periodi della sua vita nel supercarcere emiliano dove era recluso da anni. Cavalieri ricorda due incontri con il vecchio boss della Nco. «Doveva dare l’assenso per una radiografia, ricordo che lo fece tempo dopo». Vecchio, malato, incapace di reggersi in piedi sulle sue gambe senza l’aiuto dell’operatore socio-sanitario che nel carcere di Parma gli era stato affiancato ma non certo per accudirlo ventiquattro ore su ventiquattro. «Era come se il lungo tempo trascorso in detenzione lo avesse consumato sul piano cognitivo più velocemente di quanto possa accadere a un uomo libero», aggiunge Cavalieri. Cutolo è stato il detenuto che ha trascorso più tempo al famigerato carcere duro: era al 41-bis dal 1992. Ed era sottoposto alle restrizioni più severe che l’ordinamento penitenziario prevede anche l’altro giorno quando il suo fisico non ha più retto e ha ceduto all’ennesima complicazione sopraggiunta con una polmonite. Nessun magistrato di Sorveglianza, negli ultimi anni, ha voluto concedergli un minimo beneficio in considerazione del suo stato di salute, un allentamento delle misure restrittive. Nonostante l’età anagrafica e i lunghi anni della detenzione, il nome di Cutolo ha continuato ad avere un peso sulle valutazioni con cui magistrati e giudici sono stati chiamati a bilanciare la storia criminale del boss con la storia umana dell’uomo detenuto, anziano e malato. Dai ricordi del garante dei detenuti di Parma emerge il ritratto di un uomo stanco e indebolito nel fisico e nella mente, come lo sono la gran parte dei detenuti per i quali il carcere diventa soltanto prigionia, privazione e compressione dei diritti anche i più elementari. Nel supercarcere di Parma Cutolo viveva da solo in una cella di uno dei reparti a più alta sicurezza della struttura. Una cella spartana, con una finestra per filtrare la luce ma non per consentire allo sguardo di spaziare, perché la visuale era sbarrata da un muro a poca distanza. La fine del boss della Nuova camorra organizzata si è consumata in una cella alla fine di un corridoio isolato e silenzioso, un settore del carcere dove non c’era nessun altro detenuto. La notizia della morte di Cutolo ha riaperto l’antico dilemma sulla funzione rieducativa della pena, sulla necessità di un carcere più umano, sul conflitto tra il 41bis e l’articolo 27 della Costituzione e riacceso il dibattito sui diritti che dovrebbero essere garantiti anche a chi ha commesso il più feroce dei crimini e sull’importanza degli spazi della detenzione. «L’età media dei detenuti al 41-bis a Parma, per esempio, è oltre i 63 anni – spiega il garante Cavalieri ponendo l’accento su un altro aspetto che andrebbe rivalutato in un’ottica di riforma della giustizia e del sistema carcerario – ma per il nostro ordinamento gli ergastolani dovrebbero rimanere sempre dei giovanotti», aggiunge con un pizzico di ironia che vale a evidenziare il problema e non certo a minimizzarlo. «La dimensione della vecchiaia in carcere è violata come quella dei detenuti disabili, anziani e malati. Il nostro sistema non considera che chi sconta un ergastolo ostativo diventerà un detenuto anziano», aggiunge il garante che sposta la riflessione sul detenuto geriatrico e sulla difficoltà di conciliare una lunga pena con il deperimento fisico di chi la sconta. «Le carceri non sono attrezzate per gestire queste persone – spiega Cavalieri – mancano soluzioni intermedie, mi riferisco a strutture di tipo sanitario geriatrico». E l’aspetto sanitario non è l’unico da considerare: per gli ergastolani anziani, condannati all’ergastolo ostativo, non ci sono attività trattamentali, c’è solo l’ora d’aria a cui i detenuti stessi finiscono per rinunciare scegliendo di restare tutto il giorno in cella ad attendere solo che il tempo scivoli via giorno dopo giorno. Basti pensare che le ore dedicate alla cultura per ciascuno di questi detenuti sono 2 o 3 all’anno. E così, lentamente, scontando una pena che è solo privazione, in carcere si muore.
"Lo Stato non si dimostra forte ma violento". Vietati i funerali di Cutolo, lo sfogo: “Seppellito vivo al 41bis e ora negata cerimonia”. Redazione su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. “Lo hanno prima seppellito vivo nel 41bis per un quarto di secolo e ora gli negano anche un degna sepoltura, una vera cerimonia religiosa”. E’ lo sfogo all’Adnkronos di Sergio D’Elia, segretario dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino‘, dopo il divieto del questore di Napoli Alessandro Giuliano allo svolgimento dei funerali in forma pubblica per Raffaele Cutolo, l’ex boss della Nuova Camorra Organizzata detenuto per oltre 57 anni e morto a quasi 80 anni mercoledì 17 febbraio all’ospedale Maggiore di Parma dove era ricoverato da giugno scorso a causa di gravi problemi di salute. “E’ uno Stato davvero spietato quello che si comporta così nei confronti di un morto. Da Stato di diritto diventa uno Stato Caino – aggiunge D’Elia – uno Stato che non si dimostra forte, ma violento. Cutolo è stato condannato e messo in un buco nero del carcere, lasciato morire come un cane senza il minimo senso cristiano di pietà”. La salma dell’ex boss della camorra tornerà a Ottaviano, comune in provincia di Napoli, nella giornata di sabato 20 febbraio dopo l’autopsia disposta dal pm incaricato dalla Procura di Parma in programma alle ore 11. La moglie Immacolata Iacone, la figlia Denise e altri familiari stretti daranno l’ultimo saluto a Cutolo, in forma privata, direttamente al cimitero.
L’addio al boss morto al 41bis. Cutolo, funerali blindati ad Ottaviano: al cimitero moglie, figlia e parenti stretti. Carmine Di Niro su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. Erano da poco passate le 23 di sabato quando, in gran segreto, il feretro di Raffaele Cutolo è arrivato ad Ottaviano, il paese natale dell’ex boss della Nuova camorra organizzata. Funerali in forma strettamente privata quelli per Cutolo, morto mercoledì 17 febbraio in regime di carcere duro, il 41bis, nel carcere di Parma. Sabato era stata eseguita nell’istituto di Medicina Legale dell’Ospedale Maggiore di Parma l’autopsia di Cutolo, procedura di routine per i decessi in carcere. Prima dell’autopsia la salma era stata vista per alcuni minuti dalla moglie del boss, Immacolata Iacone, e dalla figlia 13enne Denyse, arrivate a Parma subito dopo la notizia della morte. Le stesse hanno fatto ritorno ad Ottaviano assieme al feretro, dove è stato sepolto nel locale cimitero subito dopo la benedizione durante la notte. Ad assistere alla cerimonia anche il fratello e la sorella di Cutolo, Pasquale e Rosetta, e pochi altri parenti: un totale di dodici le persone ammesse nel cimitero di Ottaviano per la benedizione. Come disposto dal questore di Napoli Alessandro Giuliano, alcune delle strade in prossimità del camposanto sono state chiuse al pubblico per tutta la mattina. All’esterno del camposanto cittadino erano presenti solo le camionette della Polizia di Stato e dei Carabinieri, mentre il sindaco di Ottaviano Luca Capasso ha deciso di chiudere per la giornata odierna il cimitero al pubblico.
41 bis, la regola illegale e feroce. Raffaele Cutolo al 41bis anche nella tomba: pericoloso anche da morto, vietati funerali. Sergio D'Elia su Il Riformista il 20 Febbraio 2021. È morto Raffaele Cutolo, l’uomo che ha “vissuto” tre vite. La prima l’ha bruciata nell’unica scuola che ha potuto frequentare, quella del crimine, un po’ per strada e un po’ in prigione. La seconda l’ha consumata tra delitti e castighi in un carcere “normale”. La terza vita è stata per lui solo castigo, una pena senza fine espiata al carcere “duro”, fino alla morte. È morto lì dove era stato sepolto vivo nel 1995, nella tomba dei “mafiosi per sempre”, gli irredimibili, marchiati a vita dalla pena di infamia che si commina a chi perde la dignità di persona, la speranza, il diritto a una vita civile e sociale. Con Maurizio Turco ho incontrato Raffaele Cutolo a Belluno nel 2003, alla fine di un giro tra i dannati del 41 bis da cui è poi nato il libro Tortura Democratica. Il regime di carcerazione dura era coperto da un segreto di stato ferreo e la nostra ispezione era considerata una minaccia grave allo Stato e alla sicurezza pubblica. Non potevamo sapere chi erano i detenuti speciali, quanti erano e dove erano detenuti. Da una audizione in parlamento dell’allora capo del DAP sapevamo solo che il 41 bis non albergava “al di sotto di Secondigliano”. Avevamo un punto di partenza e con il già visto e sentito dire dei detenuti potevamo creare la nostra catena di Sant’Antonio che, anello dopo anello, ci avrebbe portato a scoprire la mappa delle Guantanamo italiane. Cutolo era stato isolato in un’area del carcere riservata tutta a lui. Avevano creato un deserto dove il tempo sembrava essersi fermato, in un luogo non luogo dove regnavano il silenzio, la monotonia e la monocromia tipiche del braccio della morte. In questo deserto chiamato civiltà, quintessenza della privazione della libertà, nel nome della lotta alla mafia, Cutolo era sottoposto a un dominio pieno e incontrollato, un regime di isolamento che lo Stato ha riservato ai nemici dello Stato. Le “regole di Mandela”, adottate dall’ONU nel 2015 in onore dell’ex Presidente del Sudafrica, Nelson Mandela, definiscono isolamento il confinamento per 22 ore o più senza significativi contatti umani e proibiscono perché inumano l’isolamento prolungato, quello superiore e 15 giorni. L’abbandono di Raffaele Cutolo sul binario morto del sistema penitenziario italiano si è protratto senza interruzioni per oltre 25 anni. La privazione di significativi rapporti umani è durata un quarto di secolo. In questo stato, sono stati compromessi sensi umani fondamentali come la vista e l’udito, sono state interdette facoltà sociali minime come il dialogo e la conoscenza. Gli è stato proibito dire al detenuto nella cella di fronte “buonanotte” prima di dormire o “buon appetito” prima di mangiare perché tali convenevoli avrebbero potuto veicolare un messaggio mafioso. Proibito vedere, proibito sentire, proibito parlare, proibito pensare, proibito amare. È questo il “codice penitenziario del nemico” che vige ormai da trent’anni nel nostro Paese. Neanche l’età avanzata fino alla soglia naturale del trapasso, una malattia che lo ha scarnificato fino a ridurlo a un mucchietto di ossa, una mente quasi del tutto offuscata, hanno salvato Raffaele Cutolo da un castigo eterno da scontare in un buco, in catene, in isolamento. È morto come un cane, solo e abbandonato nella sua cuccia, senza il conforto di una carezza, una parola, un addio da parte di una persona da lui amata, in un luogo a lui caro. Un giudice gli ha negato perfino il differimento provvisorio della pena perché il boss, pur moribondo, rappresentava ancora un pericolo, non aveva perso tutto il suo carisma, rimaneva ancora un simbolo del male nell’immaginario collettivo. Cosa si pensa di fare, ora che è morto, del suo corpo per cancellare il valore simbolico della sua persona? Dopo aver vietato il funerale, gli negheranno anche una degna sepoltura? Lo seppelliranno in un’altra “area riservata”? Una tomba del 41 bis anche al cimitero? Oppure faranno come con Bin Laden, bruceranno il suo corpo e spargeranno le ceneri nell’Oceano? Con Cutolo è morto anche lo stato di diritto, lo stato di grazia e giustizia, il senso cristiano di pietà. Il diritto non è un lusso, è un bene essenziale. È il limite insuperabile, la soglia sacra dell’inviolabile che noi Stato, noi comunità fissiamo e imponiamo a noi stessi, nel momento in cui dobbiamo affrontare il male assoluto, il pericolo pubblico, la minaccia terribile alla nostra pace e alla nostra sicurezza. Senza il rispetto del diritto lo stato diventa delittuoso, senza il dono della grazia la giustizia diventa disgraziata. Per questo diciamo “no” alla tortura, “no” alla pena di morte, “no” alla pena fino alla morte, “no” alla morte per pena. Con Cutolo, lo Stato ha superato il limite invalicabile, ha violato la soglia sacra, e ha mostrato la sua faccia feroce. Lo ha tenuto in galera per cinquantasette anni, lo ha condannato alla pena di morte mascherata dell’ergastolo, per un quarto di secolo lo ha sottoposto a un regime di tortura, lo ha sotterrato nella fossa comune dei sepolti vivi. Uno Stato che si comporta così non è uno stato forte, è uno Stato feroce e violento tanto quanto il delitto dell’uomo che ha condannato e punito fino alla morte. Povero Stato! Fai letteralmente pena. Povera Italia! Un tempo (ormai lontano) culla, oggi tomba del diritto. Non è un mondo migliore, non è una società più civile ciò che resta dopo la morte di Raffaele Cutolo. Se questo è lo Stato che emerge, se questa è la giustizia che è stata fatta.
Da "ilmattino.it" il 21 febbraio 2021. Il cimitero di Ottaviano, dove nella tarda serata di ieri è stato sepolto Raffaele Cutolo, ex boss della nuova camorra organizzata, oggi resterà chiuso per motivi di ordine pubblico. È quanto disposto in un'ordinanza a firma del sindaco Luca Capasso. Alla sepoltura, ieri sera, hanno assistito 12 persone: la moglie Immacolata Iacone e la figlia, la sorella ed il fratello di Cutolo, Rosetta e Pasquale, ed alcuni altri parenti del «professore», mentre il paese era presidiato dalle forze dell'ordine. Diverse pattuglie di carabinieri, infatti, hanno evitato l'ingresso di curiosi e giornalisti al cimitero, mentre altri uomini dell'Arma erano dislocati davanti al municipio e sulla strada che porta al Castello Mediceo, conosciuto anche come «castello di Cutolo» dopo che il boss lo acquistò e ne fece il suo covo negli anni bui della storia criminale del vesuviano. Il castello fu poi confiscato e restaurato, ed un'ala del palazzo è stata intitolata a Mimmo Beneventano, consigliere comunale impegnato nella lotta alla camorra, che fu ucciso ad Ottaviano nel 1980, proprio mentre in città regnava la Nco di Cutolo.
L’addio al boss morto al 41bis. Cutolo, funerali blindati ad Ottaviano: al cimitero moglie, figlia e parenti stretti. Carmine Di Niro su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. Erano da poco passate le 23 di sabato quando, in gran segreto, il feretro di Raffaele Cutolo è arrivato ad Ottaviano, il paese natale dell’ex boss della Nuova camorra organizzata. Funerali in forma strettamente privata quelli per Cutolo, morto mercoledì 17 febbraio in regime di carcere duro, il 41bis, nel carcere di Parma. Sabato era stata eseguita nell’istituto di Medicina Legale dell’Ospedale Maggiore di Parma l’autopsia di Cutolo, procedura di routine per i decessi in carcere. Prima dell’autopsia la salma era stata vista per alcuni minuti dalla moglie del boss, Immacolata Iacone, e dalla figlia 13enne Denyse, arrivate a Parma subito dopo la notizia della morte. Le stesse hanno fatto ritorno ad Ottaviano assieme al feretro, dove è stato sepolto nel locale cimitero subito dopo la benedizione durante la notte. Ad assistere alla cerimonia anche il fratello e la sorella di Cutolo, Pasquale e Rosetta, e pochi altri parenti: un totale di dodici le persone ammesse nel cimitero di Ottaviano per la benedizione. Come disposto dal questore di Napoli Alessandro Giuliano, alcune delle strade in prossimità del camposanto sono state chiuse al pubblico per tutta la mattina. All’esterno del camposanto cittadino erano presenti solo le camionette della Polizia di Stato e dei Carabinieri, mentre il sindaco di Ottaviano Luca Capasso ha deciso di chiudere per la giornata odierna il cimitero al pubblico.
Come si è svolto il funerale di Raffaele Cutolo, moglie e figlia solo un minuto a visitare la salma. Redazione su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Un sostituto Procuratore della repubblica di Parma, su carta intestata della Procura, ha scritto agli avvocati di Raffaele Cutolo e alla squadra mobile di Parma, la seguente lettera: «Facendo seguito all’istanza avanzata dalla moglie e dalla figlia di CUTOLO Raffaele, nonché al provvedimento di rigetto della scrivente Pm datato 18-2-2021, si comunica che, allo stato, NON sarà possibile effettuare o autorizzare alcuna operazione di spostamento della salma del predetto, essendo stati disposti – come è noto – accertamenti autoptici. Tuttavia, al sol fine di consentire alla citata moglie e alla figlia di porgere l’estremo saluto al proprio congiunto, si AUTORIZZA l’effettuazione di una brevissima visita alla salma del medesimo, la mattina di sabato. A tal fine si pongono le seguenti prescrizioni che, pertanto, codesta Polizia giudiziaria dovrà osservare e fare osservare:
– La visita sarà consentita solo a moglie e figlia, per un brevissimo arco temporale, comunque contenuto in pochi minuti.
– La visita avverrà solo a distanza e in presenza di più operatori di Polizia Giudiziaria.
– NON sarà assolutamente consentito alcun contatto fisico con la salma.
-NON sarà assolutamente consentito prelevare o appoggiare alcunché sulla salma.
Si chiede alla polizia giudiziaria in indirizzo di riferire, all’esito, mediante apposita relazione scritta».
La lettera finisce qui. Riassunta: un minuto per salutarlo e nemmeno una carezza. Certo, si sa, Cutolo era un criminale. Un capo, un boss. Era – ed evidentemente è – pericoloso. C’è bisogno di fare dei commenti? È semplicemente la prosecuzione del 41 bis dopo la morte. L’idea che la camorristeria è una malattia, una malattia contagiosa ed eterna. Che si estende dai corpi all’anima. E che va affrontata con il rigore e la ferocia con la quale, nel Medioevo, in alcuni luoghi, si realizzava la caccia alle streghe e la si risolveva col fuoco purificatore che trasformava in cenere i corpi dei rei. C’è chi dice che questi atteggiamenti e questo trionfo burocratico sia dovuto a una concezione della lotta alla mafia che sconfina nel l’insensatezza e nell’ossessione. Chi invece immagina che esista un aspetto di sadismo in alcuni comportamenti delle autorità. Può anche darsi che non sia così. Che invece tutto risponda a un disegno di infinita saggezza che alle nostre menti sfugge. Come sfuggiva, ad alcuni, la lungimiranza dell’Inquisizione. Non so: leggete bene la lettera e giudicate voi con la vostra testa.
Non si placano le polemiche. Cutolo, esposto della moglie in Procura: “Hanno vietato di avvicinarci alla salma, l’abbiamo visto per 5 minuti”. Redazione su Il Riformista il 1 Marzo 2021. Sulla morte di Raffaele Cutolo l’onda lunga delle polemiche non si è ancora fermata. Gaetano Aufiero, avvocato del boss della Nco Raffaele Cutolo e dei suoi familiari, intervenuto a Cusano Italia Tv, ha annunciato che presenterà un esposto-denuncia al procuratore capo di Parma “firmato dalla moglie di Raffaele Cutolo Immacolata Iacone, affinché la Procura di Parma valuti se sono stati consumati, come io credo, dei reati nella gestione della vicenda successiva alla morte di Cutolo”. Ricordando i fatti accaduti dopo la morte dell’ex boss, scomparso a 79 anni dopo 58 anni dietro le sbarre, Aufiero ha infatti sottolineato che “due giorno dopo la morte, il magistrato di Parma titolare, che ha disposto l’autopsia sul corpo dell’ex boss, ha individuato i criteri per consentire alla moglie di Cutolo e alla figlia 13enne Denise di porgere l’estremo saluto al congiunto, e ha disposto che le due donne non si avvicinassero alla salma, che non potessero porre sulla salma alcun oggetto, non un fiore, non una corona, non un’immagine sacra, e che la visita fosse realizzata a distanza e alla presenza di più operatori delle forze dell’ordine. La visita di moglie e figlia al defunto è durata solo 5 minuti”. Per questo “ci sarà un esposto e la competente autorità giudiziaria valuterà se questo è giusto e legittimo. Io trovo tutto ciò abnorme e irragionevole”. Ma non è l’unica cosa che non torna per il legale della famiglia, che ricorda “le eccezionali misure disposte per tumulare il corpo di Cutolo”, ovvero “un corteo di auto di Polizia e Carabinieri partito da Parma per raggiungere in piena notte il cimitero di Ottaviano, circa 200 uomini impegnati per 700 chilometri: una vera e propria scorta”. Con ironia l’avvocato dei familiari del boss evidenza come “arrivo a essere d’accordo con chi ironicamente dice che alla fine a Cutolo sono stati fatti funerali di Stato”. Critiche arrivano anche per la cerimonia blindata avvenuta nel cimitero di Ottaviano, una sepoltura “durata pochi minuti alla presenza di una decina di persone vicine alla famiglia”, mentre il sacerdote che ha officiato il funerale “è stato prelevato presso la sua abitazione e portato pochi minuti prima al cimitero di Ottaviano. Tutto questo era proprio necessario? Anche perché come eco ha avuto l’effetto contrario rispetto a quello che magari lo Stato avrebbe voluto avere”, conclude Aufiero.
Marco Di Caterino per “Il Mattino” il 2 marzo 2021. Il 41 bis applicato in vita ha continuato a «seguire» Raffaele Cutolo anche da morto. E nella notte dei funerali, il 20 febbraio scorso, funzionari della prefettura e questura di Napoli effettuarono un sopralluogo nel Castello Mediceo di Ottaviano. «Forse per scacciarne il fantasma», dice al telefono l’avvocato Gaetano Aufiero, difensore del fondatore della Nco, che rivela il particolare, ancora turbato per come si sono svolti i funerali del suo assistito. «Ho appena fatto firmare dalla vedova Immacolata Iacone un dettagliato esposto che invierò alla Procura di Parma, per fare piena luce sui funerali del mio assistito e per accertare se siano stati commessi abusi e reati per le incredibili e inumane modalità con le quali si sono svolti i funerali», tuona Aufiero: «Una cosa sono i reati, la pericolosità di un condannato. Un’altra è l’umana pietà che nella morte non si può negare a nessuno, in uno Stato democratico». Nell’esposto-denuncia sono riportati fatti sui quali si chiede chiarezza. A iniziare dal decesso di Raffale Cutolo, morto nella tarda serata di mercoledì 17 febbraio nel centro clinico del penitenziario di Parma, con l’immediata disposizione del sequestro della salma da parte del pubblico ministero della procura parmense. Un provvedimento che ha di fatto impedito alla moglie, giunta a Parma nelle prime ore del mattino del giorno seguente, di vedere la salma del marito. Eseguita l’autopsia due giorni dopo la morte, il pm ha poi dissequestrato la salma per la riconsegna ai familiari, concedendo alla moglie e alla figlia tredicenne Denise di entrare nell’obitorio. «E qui accade una cosa incredibile – dice il legale di Cutolo - perché nel provvedimento di dissequestro il magistrato aveva ordinato che né l’una né l’altra potevano avvicinarsi alla salma. Vietato porre sulla bara alcun oggetto, né corone, né fiori, o immagini sacre. Un “saluto” – continua Gaetano Aufiero – a debita distanza e con la tassativa presenza delle forze dell’ordine, per appena cinque minuti. Misure abnormi e irragionevoli. Come può una persona priva di vita “capire” il senso di quest’ultima pena inflitta? Questa forma di 41 bis post mortem - conclude Aufiero - ha finito per colpire due donne innocenti, alle quali è stato tolto il diritto di piangere un loro caro». Il capo della Nco ha trascorso più di cinquant’anni dietro le sbarre, più della metà dei quali al carcere duro, iniziando dall’Asinara dove lo aveva spedito il presidente Sandro Pertini dopo lo scandalo della trattativa Stato-camorra–Brigate rosse per la liberazione dell’assessore Ciro Cirillo, fino a Parma dove è morto. «C’è stato un vero e proprio accanimento contro il mio assistito», aveva gridato il legale di Cutolo poche ore dopo la sua morte: «Una volontà di mantenere inalterate tutte le restrizioni del 41 bis nei confronti di un uomo che non era capace nemmeno di provvedere ai minimi bisogni quotidiani e che nemmeno riconosceva più moglie e figlia. Per questo - conclude Aufiero - chiederemo di avere tutti i video dei colloqui, come peraltro è stato concesso ai boss mafiosi, in modo da poter ricorrere all’Alta Corte di Giustizia Europea per detenzione inumana». L’organismo comunitario più volte ha infatti lanciato avvertimenti e sollecitato il nostro Paese ad abolire o modificare le norme durissime del carcere duro al 41bis. Sotto accusa, oltre alle modalità dell’estremo saluto a Raffaele Cutolo, nell’esposto–denuncia ci sarebbero anche i provvedimenti imposti per l’ultimo viaggio del padrino di Ottaviano, con la sorveglianza su tutti i settecento chilometri percorsi dal feretro da parte di centinaia tra poliziotti e carabinieri, che hanno costretto più volte a soste prolungate del carro funebre. Un viaggio doloroso e stancante per la vedova, che più volte aveva infatti telefonato all’avvocato Aufiero per chiedergli di intervenire. Una strategia, quella delle continue fermate, decisa per far in modo che la salma giungesse ad Ottaviano nel cuore della notte, riducendo così al massimo i rischi di gesti dimostrativi o feticistici dei tanti «nostalgici» che in quelle ore si sfogavano sui social. «La sepoltura poi – continua il legale di Cutolo – è durata lo spazio di una manciata di minuti alla presenza della vedova, della figlia e della sorella Rosetta stretta ai fratelli. Persino il povero parroco si è visto prelevare da casa e portato al cimitero dove gli è stata consentita la sola benedizione. Non so se era necessario agire in questo modo – conclude il legale – certo tutto è stato fatto affinché nulla passasse sotto silenzio. Ora vediamo se riusciamo ad ottenere giustizia nel nostro Paese e in Europa».
La denuncia alla Procura di Parma. Funerali di Stato a Cutolo, 200 agenti per impedire a moglie e figlia di toccare il cadavere. Viviana Lanza su Il Riformista il 2 Marzo 2021. Per Raffaele Cutolo il regime di 41 bis non si è interrotto con la morte. Le restrizioni, i divieti, le eccezionali misure di sicurezza sono state in vigore anche dopo che il vecchio boss della Nuova camorra organizzata, ormai piegato dall’età e dalle malattie, aveva esalato l’ultimo respiro. «A mio giudizio tutto questo umanamente non è stato giusto. E se è stato legittimo o meno lo stabilirà l’autorità giudiziaria dopo l’esposto della famiglia Cutolo»: così il penalista Gaetano Aufiero, storico avvocato di Cutolo e ora della sua famiglia, ha annunciato l’intenzione di chiedere l’intervento della magistratura per valutare se siano stati commessi reati o violazioni nella gestione di tutto ciò che è accaduto dopo la morte di Cutolo. L’esposto, che sarà presentato alla Procura di Parma, sarà firmato da Immacolata Iacone, moglie di Cutolo. «Basti pensare – ha aggiunto Aufiero a Cusano Italia Tv – che, due giorni dopo la morte di Cutolo, il magistrato di Parma, dopo aver disposto l’autopsia sul corpo dell’ex boss, aveva indicato i criteri per consentire alla moglie di Cutolo e alla figlia 13enne Denise di porgere l’estremo saluto al loro congiunto. Le due donne non hanno potuto avvicinarsi alla salma né porre sul feretro alcun oggetto, non un fiore, non una corona, non un’immagine sacra. Inoltre è stato disposto che la visita avvenisse a distanza e alla presenza di più operatori delle forze dell’ordine come se le due donne rappresentassero chissà quale pericolo». E non è tutto. Perché secondo quanto denunciato dal penalista, alla moglie e alla figlia di Cutolo sono stati concessi soltanto cinque minuti per rendere l’ultimo saluto alla salma. «Anche la legittimità di questo aspetto – ha spiegato Aufiero – sarà verificata dall’autorità giudiziaria. Trovo tutto abnorme e irragionevole, inoltre ho grandissime riserve sulle eccezionali misure disposte per tumulare il corpo di Cutolo. Senza dimenticare la velocissima sepoltura, durata pochi minuti, alla presenza di una decina di persone vicine alla famiglia». Cutolo è morto il 17 febbraio scorso a Parma: era stato portato in ospedale dopo l’aggravarsi delle sue condizioni. Nel carcere emiliano il vecchio boss ha vissuto gli ultimi anni della sua condanna all’ergastolo, e sempre in regime di 41 bis, il famigerato carcere duro che non gli è mai stato revocato. Dopo l’autopsia, la salma è stata portata a Ottaviano, la città della provincia di Napoli dove Cutolo era nato e dove era cominciata la sua storia criminale. Un viaggio di 700 chilometri superblindato, avvenuto di notte e con un eccezionale schieramento di forze, circa 200 uomini. «Addirittura il sacerdote che ha officiato la breve cerimonia è stato prelevato dalla sua abitazione e portato pochi minuti prima al cimitero di Ottaviano – ha raccontato Aufiero – Tutto questo era proprio necessario?». Di qui le considerazioni su motivazioni e conseguenze di tali restrizioni («Ha ragione chi dice che a Cutolo sono stati fatti funerali di Stato perché si è avuto l’effetto contrario rispetto a quello che lo Stato avrebbe voluto avere») e la richiesta di indagini per verificare se sia stato tutto legittimo oppure ci siano stati diritti violati.
Sulla morte di Cutolo non serve un’opinione, basta un brano di Hegel. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. La morte di Raffaele Cutolo ha riaperto per “Il Riformista”, unico giornale italiano aspramente critico sul tema amato dai forcaioli, la questione del carcere duro, anzi durissimo, del 41 bis, che corrisponde a una pena di morte, a un patibolo, e anzi peggio di esso perché prolungato negli anni. Non intendo fare un commento personale, lascio la parola nientemeno che a Hegel il quale, nel 1807, scrisse un frammento, quasi un appunto, restato celebre, che intitolò: “Chi pensa astrattamente”, un frammento che ebbe un ruolo anche nella storia della sinistra italiana. Del lungo appunto hegeliano trascrivo la parte essenziale, per me è stato sempre un testo capace di muovere un sentimento di commozione. Il breve corsivo è mio: “Dunque, un assassino è condotto al patibolo: per la gente comune è nulla più di un assassino. Forse delle signore osservavano che è un uomo forte, bello, interessante. Quella gente trova questa osservazione orribile. Cosa? Un assassino bello? Come si può essere così malpensanti e dire bello un assassino?…Questo pensare astrattamente, nell’assassino non vedere altro che questo astratto, e con questa semplice qualità cancellare in lui tutta la restante essenza umana. Ben diversamente si comportò il sensibile mondo di Lipsia: cosparse e coronò di fiori la ruota e il reo a essa legato. Ma questa è di nuovo l’astrazione opposta. Ben diversamente udii una volta una vecchia popolana uccidere l’astrazione dell’assassino e vivamente rendergli onore. Il capo mozzo giaceva sul patibolo, c’era la luce del sole – “Eppure come è bello”, disse, il sole benefico di Dio illumina la testa di Binder! A un ribaldo così con il quale si è in collera, si dice: tu non meriti che il sole ti illumini. Quella donna vide che il capo dell’assassino era illuminato dal sole, e che dunque era ancora meritevole. Ella lo solleva dal castigo del patibolo alla grazia raggiante di Dio: non realizza la sua conciliazione mediante le sue violette, bensì lo vede accolto nella grazia del più alto sole”. Questo testo che oggi trascrivo anche per acuire la sensibilità al tragico tema dell’umanizzazione delle carceri, fu pubblicato da Palmiro Togliatti senza commento, su Rinascita in occasione della denuncia dei crimini di Stalin. Credo che lo tradusse lui stesso.
Parla Claudio Salvia. Cutolo fece uccidere il padre: “Non provo odio, mi batto per prigioni più umane”. Viviana Lanza su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. «Ogni anno partecipo con la comunità di Sant’Egidio al pranzo di Natale nel carcere di Poggioreale che porta il nome di mio padre. Servo a tavola gli ospiti, non mi va di chiamarli detenuti». È così che Claudio, figlio di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso il 14 aprile 1981 dalla camorra guidata da Raffaele Cutolo, trasforma il dolore in impegno sociale. Claudio aveva tre anni quando suo padre fu ucciso, quell’evento ha segnato profondamente la vita della sua famiglia e inevitabilmente anche la sua. «Quando ho appreso della morte di Cutolo mi è dispiaciuto perché non ho mai augurato la morte a quella persona nonostante sia stato il carnefice di mio padre. Io e mio fratello siamo vissuti con valori alti e in quei valori, nell’insegnamento che ci ha dato mio padre con il suo esempio, non c’è spazio per la vendetta, per il rancore. Ciò che mi sono sempre augurato da quando ho saputo dell’omicidio di papà è stato solo che la giustizia facesse il suo corso, e così è stato». I responsabili dell’omicidio di Giuseppe Salvia sono stati processati e condannati. Il vicedirettore fu assassinato per non essersi piegato ai tentativi di corruzione con cui la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo aveva provato a comprare lui, dopo aver fatto lo stesso con altri. Erano gli anni ’80 e la corruzione era lo strumento con cui il boss di Ottaviano riuscì a creare un clan malavitoso all’interno del carcere. L’episodio della perquisizione a cui Cutolo fu sottoposto al rientro da un processo come era da prassi e che Salvia eseguì personalmente visto che tutti gli agenti si erano rifiutati di farlo fu solo la goccia che fece traboccare il vaso. Prima di quell’episodio, infatti, Salvia aveva già ricevuto minacce. Provarono anche a fargli credere che il fonogramma con cui si disponeva un trasferimento di Cutolo da parte del ministero della Giustizia fosse un documento vero, ufficiale. Ma Salvia non si fece ingannare e solo successivamente si scoprì che quel fonogramma era effettivamente un falso realizzato grazie a una talpa che il clan di Cutolo era riuscito ad agganciare all’interno degli uffici romani. «Mio padre – racconta Claudio Salvia – sapeva bene a cosa andava incontro ma aveva un alto senso dello Stato, e ha rappresentato la resistenza di fronte a una camorra dilagante». Oggi sono questo esempio e questa resistenza a ispirare il suo impegno sociale per detenuti e giovani a rischio. Servendo il pasto ai detenuti, Claudio Salvia ha potuto osservare più da vicino il mondo del carcere, «un mondo di privazione – racconta – e di mancanza di rapporti sociali. È vero che si tratta di persone che scontano una condanna ma sono soggetti che la nostra società ha il dovere di recuperare perché se chi esce dal carcere, espiata la pena, torna a delinquere, il problema è dello Stato e della società». Certezza della pena ma in un carcere più umano, ecco il primo auspicio di Salvia al quale fa seguito un secondo non meno importante: «A chi si è smarrito intraprendendo la strada della legalità – conclude il figlio dell’ex vicedirettore di Poggioreale – rivolgo l’invito a tornare indietro e valutare che essere camorristi in fondo non porta vantaggi ma distruzione, sofferenza e tanto dolore per sé e per gli altri».
Marco Ciriello per Dagospia il 20 febbraio 2021. All’inizio era un disperato con un’idea. Aveva un omicidio alle spalle e ventiquattro anni di prigione come orizzonte, per questo ribaltò il dentro col fuori, la vita con la sua rappresentazione, per poi rivelare il gioco alla fine, sul manifesto che ne avrebbe annunciato la morte. Raffaele Cutolo era per tutti ’o prufessore, Don Raffae’, Il Vangelo, se ne è andato scrivendosi d’e monache, con il soprannome familiare che diventa patronimico e racconta l’altra vita, quella che poteva essere: la terra, il fuori, la natura. Invece, è diventato il capo della NCO col sangue, il cemento e i muri. Alla fine si è preso la libertà di rinunciare alla maschera, di smettere la rappresentazione e tornare a quello che gli sarebbe spettato se non avesse scelto il male. Antonio Tabucchi immaginò un personaggio che sulla tomba si faceva mettere tutte le foto della sua vita per raccontare l’esistenza avuta: quelle di Cutolo sarebbero state tutte cementizie, grigie, dietro le sbarre, al massimo con la cattiva luce dei tribunali, e il ghigno pre-Joker. Gli restava solo il manifesto di congedo, l’ultimo passo prima dell’addio, per cambiare, dirsi altro, tornare a casa. Uscire dallo spettacolo per tornare nella storia: ogni cosa a suo posto, a modo suo, ancora una volta. Una resa, silenziosa, non intesa. Un sono questo, in fondo in fondo. Negandosi, riaffermava. Cutolo che era uno stratega, ha sempre conservato nel linguaggio una spia del salto sgangherato e della disperazione che l’aveva portato al potere. Aveva unito e militarizzato quello che era diviso e disprezzato: la camorra napoletana, dato rito, codice e speranza a un esercito di pezzenti che reiteravano i reati e si autocondannavano al carcere; ha capitalizzato la disperazione degli altri perché era un disperato, quindi conosceva quello stato d’animo, uno che si era trovato a sopraffare Mario Viscito, per onore, per difendere sua sorella, consegnando il suo corpo alle carceri italiane. E dalle celle ne ha sancito il fallimento. Perché non si è redento, ma è divenuto un demone che ha generato guerre, un impero e dato struttura a una camorra che era un fenomeno metropolitano. Ha avuto, dato, e perduto: figli e amici, vita, vite, soldi e potere. E tutto questo salto di mondi, che diventa cesura, sta in una lettera: la y di Denyse, l’ultima figlia: il cui nome stride con ’e monache, rappresentando il distacco, l’apostasia in-dolore. È la terza donna fondamentale, quella del salto. La prima è Rosetta, la sorella, papessa e certezza. La seconda è Immacolata, moglie devota, e poi c’è Denyse: il cambio. Cutolo da prodotto della terra, fuori le mura di Napoli, altro paradosso, stando dentro le mura di Poggioreale, s’è preso la città e il Mezzogiorno, divenendo più o meno volontariamente l’ultimo vero meridionalista. È un ossimoro, ma è la verità. Aveva una idea, malsana, malata, surreale, sanguinosa, ma era una idea del sud, dove altri avevano promesse e mancate risposte, convegni e piani che non si attuavano, sociologia con più pagine che fatti. Cutolo dava risposte, seppure sbagliate, ma le dava a chi non ne poteva più avere, a chi non aveva mai avuto credito né possibilità di richiesta. L’ultima possibilità per i banditi, anche quelli scarsi, senza famiglia, storia, biografia. Per questo il suo mito non muore, perché come faceva dall’altra parte dell’oceano, in Colombia, Pablo Escobar, aveva capito che per prendersi la società dei ricchi aveva bisogno dell’amore dei poveri, e li conquistò, illudendoli con una quotidianità che mancava. Il reddito di cittadinanza l’ha inventato Cutolo, il suo era un welfare parallelo per gli affiliati e le loro famiglie, la sua era una preoccupazione interessata che passava per carità da corte borbonica, invece era progetto. Mentre Margaret Thatcher smantellava il welfare inglese e diceva che la società non esiste, esiste solo l’individuo, Cutolo costituiva l’onorata società dove l’individuo che non contava trovava ristoro e possibilità di riscatto. Disegnando la grande assenza dello stato italiano, fuori e dentro, in carcere e nelle scuole. Il fallimento del sud è un’opera dello stato data in appalto a Cutolo. Le carceri aiutano a pensare, dandoci espressioni del bene: Silvio Pellico e Antonio Gramsci, e grandi espressioni del male come Raffaele Cutolo, che era un po’ inciarmatore – secondo la definizione di Ernesto de Martino –, un po’ demagogo, molto bandito e tanto disperato: nell’insieme una maschera meridionale. Per capirlo bisogna vederlo al cospetto delle corti giudicanti nelle sue varie fasi: l’andante con pazzia, il dimesso mellifluo, il rispettoso con gli acciacchi grammaticali – la sua vera carta d’identità: copierà le poesie di Ferdinando Russo, perché la legittimazione prima che economica è sempre culturale –, l’aggressivo criptico e l’allusivo suadente, tutte fasi che hanno come denominatore la bugia, la recita, l’ordine sotterraneo, il disegno della maschera: non difensiva, ma dominante. Per tutta la vita si è in-scenato. Cutolo è brechtiano, ma come nei film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, c’è sempre qualcosa che rovina, anche Buster Keaton ci finì dentro e ne uscì maluccio. È kafkiano nelle sue trame incomplete: era convinto di poter ricattare lo stato e ci riuscì per un periodo, ma poi fu fregato, in un processo secondario – ancora una volta per il gioco di tutta la sua vita è tra fuori e dentro – che si svolge in cella e non nei tribunali, nei sottoscala e non davanti alle telecamere. Il mistero carcerario. Cutolo perde dove pensava d’essere forte: in cella; e vince dove non si immaginava più: fuori.
La morte in cella. Fantasmi e sangue di Raffaele Cutolo, l’ultimo Re del Sud è sceso dal trono. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Mario Viscito è stato il primo, Raffaele Cutolo l’ha ucciso con le proprie mani, quarant’anni in due, entrambi ventenni. Mario commise l’errore di apprezzare a voce alta le fattezze di Rosetta, la sorella di Raffaele. Dopo, i tribunali raccontano, i morti da attribuire a Cutolo sono centinaia, forse mille e più. E chissà se prima di quel momento, senza quel momento sulla strada di Ottaviano, il destino avrebbe potuto prendere un altro corso, se i fantasmi del Professore avrebbero potuto continuare a calpestare la terra, ad essere, molti, ancora sulla terra. È andata così, invece, le vittime di Cutolo si sono trasformate in fantasmi, si sono infilate insieme a lui in un viaggio infernale attraverso 57 anni di galera, follia, sangue: tutta una vita, forse una lunghissima morte, trascorsa dietro le sbarre, continuando a produrre pazzia e lutti. Più di un filosofo sostiene che il potere sia una delle più pericolose forme di malattia mentale, che il Re più buono abbia sangue e sangue, spesso innocente, sulla coscienza, qualche cantante sostiene che non esistano i poteri buoni. Cutolo è stato folle e potente. Come per tanti sovrani il suo trono di sangue se lo è conquistato con la forza, lo ha mantenuto col terrore, e come per molti potenti, il suo potere non aveva legittimazione legale. Ma la Nco e lui, fra le mafie e i mafiosi, sono stati gli unici a portare un attacco vero allo Stato, a farsi forza contrapposta, alternativa, in questo senso folle, o’ Professore è stato l’ultimo sovrano meridionale: ha messo sotto i piedi la camorra in senso classico, il guappismo evoluto in famiglie mafiose. Ha costruito un esercito di derelitti che per uno spazio brevissimo ha dominato, costringendo tutti, perfino il terrorismo, a scendere a patti con lui. Questo, più che il mare di sangue di cui è stato responsabile, gli ha costruito contro un muro spietato che gli ha soffiato addosso fino alla morte; che tira un sospiro di sollievo: don Raffaele se n’è andato, coi suoi morti, con la sua follia, con i suoi segreti e col suo regno macabro. Di lui hanno avuto pietà in pochi, le sue donne soprattutto: Rosetta, la sorella; Immacolata, la moglie; le sue figlie. E alla fine a nutrire il suo dolore, che con buona pace dei giusti anche i cattivissimi ce lo hanno un proprio dolore, sono state, impietose, le sue vittime. I fantasmi hanno tenuto vivo Raffaele nei suoi 57 anni di morte terrena. I fantasmi si sono attaccati al suo capezzale: hanno ascoltato i suoi deliri, gli hanno sentito declamare le poesie, ostinatamente delicate, obbligatoriamente pompose. I fantasmi lo sapevano quanto davvero fingesse, quanto davvero fosse malato: gli ingarbugliamenti della sua mente glieli contavano sui giri infiniti della sua unghia al dito mignolo; le balbuzie gliele leggevano negli biascichi di lingua, lo aiutavano di tanto in tanto a riconoscere le persone, a ricordare qualche fatto. Sono stati i fantasmi a suggerirgli le risposte da dare ai periti e ai giudici: è stata la loro vendetta di vittime. Così lo Stato ha potuto stabilire che era lucido e sano. Che ci avrebbe messo un attimo a riprendersi il suo trono nero. Ora tutti possono essere tranquilli: l’usurpatore ha terminato di fingere, sarà in luoghi meno ameni a continuare la recita. In questa Italia, salva dal mostro, può imperare ancora la dittature delle vittime, fra quelle vere e dolorose, e quelle che si prendono le ingiustizie altrui per il proseguimento di un potere che è quello di qualche canzone.
La poesia di Raffaele Cutolo sulla droga, il testo di “Polvere bianca”. Redazione su Il Riformista il 13 Maggio 2020. Il boss della Nuova Camorra Organizzata (Nco) Raffaele Cutolo è rinchiuso in carcere da 55 anni. All’età di 49 anni ha rilasciato un’intervista a Enzo Biagi in cui ha dichiarato di trascorrere le giornate a leggere e scrivere. Alla domanda sulla droga Cutolo ha detto di aver anche scritto una poesia. Ecco lo scritto del boss di Ottaviano. “Polvere bianca / polvere bianca / ti odio! / Sei dolce e sei amara / come una donna / sei pura e sei buio. / Giovani odiatela / la polvere bianca / sì! vi fa volare / per poi farvi / ritornare nel buio più cupo. / Vola per l’ aria / limiti di un’ anima / fatta a pezzi / si tocca il fondo / i fatti diventano voragini buie… / e poi di colpo / i dolori si placano / e il cielo è un’ esplosione di luce / poi più nulla. / L’ indomani / solo un trafiletto sui giornali / ennesimo giovane morto: per droga. / Polvere bianca / ti odio”.
Cutolo e la «provocazione» di De André. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 20/2/2021. Alla morte di Raffaele Cutolo, è di nuovo uscita la storia che Fabrizio De André si sarebbe ispirato al boss camorrista per la celebre canzone «Don Raffaè», scritta nel 1990 con Massimo Bubola e musicata con Mauro Pagani. De André non ha mai confermato l’attinenza, ma di certo quella non era una tarantella «dedicata» al fondatore della Nuova Camorra Organizzata. Era un pretesto narrativo e musicale per denunciare la situazione critica delle carceri e l’impotenza dello Stato. Nell’agosto del 1998, dopo aver cantato in un concerto «Don Raffaè», De André osò fare una constatazione: «Se nelle regioni meridionali non ci fossero la ’ndrangheta, la mafia, la camorra, queste espressioni di criminalità organizzata, probabilmente la disoccupazione sarebbe molto più alta». Era una evidente provocazione, ma la vasta schiera dei «professionisti dell’antimafia» si scagliò con rara violenza contro di lui. «È un’affermazione che indigna chiunque abbia una coscienza civile», fu la frase più gentile. Dunque, Don Raffaè era Cutolo. Avevano dimenticato, quelle guarnigioni a presidio della «sincerità democratica», che il verso più significativo ed eterno della canzone è questo: «Prima pagina, venti notizie/Ventuno ingiustizie e lo Stato che fa/Si costerna, s’indigna, s’impegna/Poi getta la spugna con gran dignità». "Un piccolo frammento domenicale che il Corriere della sera offre a chi ha ancora voglia di notare la contraddittorietà dell'esistere, le luci e le ombre di tutto ciò che ci passa sotto gli occhi, curiosando nelle pieghe di qualche personaggio. Con un po' d'ironia e disincanto. Da noi, purtroppo, l'assenza di grandi moralisti ha permesso il dilagare dei moralizzatori."
Don Raffae'
Fabrizio De André
Io mi chiamo Pasquale Cafiero
E son brigadiero del carcere, oiné
Io mi chiamo Cafiero Pasquale
E sto a Poggio Reale dal '53
E al centesimo catenaccio
Alla sera mi sento uno straccio
Per fortuna che al braccio speciale
C'è un uomo geniale che parla co' me
Tutto il giorno con quattro infamoni
Briganti, papponi, cornuti e lacchè
Tutte l'ore co' 'sta fetenzia
Che sputa minaccia e s'a piglia co' me
Ma alla fine m'assetto papale
Mi sbottono e mi leggo 'o giornale
Mi consiglio con don Raffae'
Mi spiega che penso e bevimm' 'o café
Ah, che bell' 'o cafè
Pure in carcere 'o sanno fa
Co' a ricetta ch'a Ciccirinella
Compagno di cella, c'ha dato mammà
Prima pagina, venti notizie
Ventuno ingiustizie e lo Stato che fa
Si costerna, s'indigna, s'impegna
Poi getta la spugna con gran dignità
Mi scervello e m'asciugo la fronte
Per fortuna c'è chi mi risponde
A quell'uomo sceltissimo immenso
Io chiedo consenso a don Raffae'
Un galantuomo che tiene sei figli
Ha chiesto una casa e ci danno consigli
Mentre 'o assessore, che Dio lo perdoni
'Ndrento a 'e roulotte ci alleva i visoni
Voi vi basta una mossa, una voce
C'ha 'sto Cristo ci levano 'a croce
Con rispetto, s'è fatto le tre
Volite 'a spremuta o volite 'o cafè?
Ah, che bell' 'o cafè
Pure in carcere 'o sanno fa
Co' a ricetta ch'a Ciccirinella
Compagno di cella, c'ha dato mammà
Ah, che bell' 'o café
Pure in carcere 'o sanno fa
Co' a ricetta di Ciccirinella
Compagno di cella, preciso a mammà
Ca' ci sta l'inflazione, la svalutazione
E la borsa ce l'ha chi ce l'ha
Io non tengo compendio che chillo stipendio
E un ambo se sogno 'a papà
Aggiungete mia figlia Innocenza
Vuo' 'o marito, non tiene pazienza
Non vi chiedo la grazia pe' me
Vi faccio la barba o la fate da sé?
Voi tenete un cappotto cammello
Che al maxi-processo eravate 'o cchiù bello
Un vestito gessato marrone
Così ci è sembrato alla televisione
Pe' 'ste nozze vi prego, Eccellenza
Mi prestasse pe' fare presenza
Io già tengo le scarpe e 'o gilley
Gradite 'o Campari o volite o cafè?
Ah, che bell' 'o café
Pure in carcere 'o sanno fa
Co' a ricetta ch'a Ciccirinella
Compagno di cella, cc'ha dato mammà
Ah, che bell' 'o café
Pure in carcere 'o sanno fa
Co' a ricetta di Ciccirinella
Compagno di cella, preciso a mammà
Qui non c'è più decoro, le carceri d'oro
Ma chi l'ha mai viste chissà
Chiste so' fatiscienti, pe' chisto i fetienti
Si tengono l'immunità
Don Raffae' voi politicamente
Io ve lo giuro, sarebbe 'nu santo
Ma 'ca dinto voi state a pagà
E fora chist'ati se stanno a spassa'
A proposito tengo 'nu frate
Che da quindici anni sta disoccupato
Che s'ha fatto cinquanta concorsi
Novanta domande e duecento ricorsi
Voi che date conforto e lavoro
Eminenza, vi bacio, v'imploro
Chillo duorme co' mamma e con me
Che crema d'Arabia ch'è chisto cafè
Fonte: Musixmatch
Compositori: Mauro Pagani / Massimo Bubola / Fabrizio De Andre'
Sono fantasmi sconfitti che dovremmo perdonare. L’unghia di Cutolo e il sogno d’emancipazione affogato in carcere: solo pietà per essere migliori. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Ciò che ognuno di noi è realmente, la personalità (o le tante) che ci guida, si annida nei particolari. Tic, vezzi, balbuzie, segnali a volte vistosi, a volte minuzie. Certo, solo i professionisti possono coglierne il senso, trarne conclusioni. C’è un video in cui Raffaele Cutolo rende dichiarazioni spontanee in corte d’assise, non è tanto recente, per cui l’imputato parla di presenza, addirittura esce dalla gabbia, si siede davanti alla corte, a mani libere. Cutolo parla delle dichiarazioni di Giovanni Pandico, anche lui presente in aula. Sembra una gag famosa di Totò: il pazzo che cerca di convincere il medico che il pazzo sia un altro. Il presidente lascia parlare l’imputato, e quando Cutolo si sente di soverchiare dialetticamente il giudice, il suo tono, da bonario diventa arrogante, cattivo. La follia di Pandico risiederebbe nell’avergli chiesto una ciocca di capelli e un pezzo d’unghia del mignolo, feticci di un uomo che il futuro avrebbe trattato da grande. “Pandico faceva paura agli altri carcerati, sapeva fare citazioni in latino, girava con un’agenda e si sentiva il direttore del carcere”. Cutolo è sicuro di aver dimostrato la pazzia del suo accusatore, di dominare la scena. “Ma lei gli ha dato un po’ dei suoi capelli, un pezzo d’unghia, ha acconsentito che il Pandico scrivesse la sua biografia”, lo fulmina il presidente. Cutolo raccoglie le spalle a guscio, annaspa e torna a usare il tono bonario. Cutolo e Pandico hanno inizi criminali simili: una terribile reazione a quella che ritenevano un’offesa imperdonabile, una parola di troppo alla sorella per uno, un eccesso di zelo di un impiegato per l’altro. Cutolo ammazza un uomo che fa un apprezzamento a Rosetta, Pandico spara all’impazzata nel Comune, uccide un vigile, perché gli fanno troppe domande per rilasciargli un documento. I due si conoscono in carcere, fanno un percorso nei manicomi giudiziari. Cutolo negli anni realizza un sogno orribile e folle: atterrare la camorra vera, tradizionale. Fonda una sua organizzazione mettendoci dentro i rifiutati e gli offesi della mafia dei Bardellino, dei Nuvoletta, degli Alfieri: scarti di crimine. È il padrone delle carceri, e davvero per qualche anno impera nella malavita. Il suo è un regno di sangue. Ma lui era già tutto dentro la lunghezza spropositata dell’unghia del suo dito mignolo, stava infisso nelle cellule morte che corrono nello spazio e poi si incurvano, si fermano, perché la fuga è impossibile. L’unghia del mignolo nelle culture rurali era il simbolo dell’emancipazione dal bisogno: chi lavora la terra deve avere unghie cortissime perché non gli siano d’impedimento. Chi ha unghie lunghe non fa lavori manuali. L’unghia di Cutolo era il suo sogno d’emancipazione, finito nel sangue, affogato nel carcere. De Andrè rispose male ai suoi ringraziamenti per la canzone Don Raffaè, negò che fosse riferita a lui. E Cutolo che aveva solo una follia da raccontare non aveva altro aedo a cui affidarla se non il compagno di manicomi giudiziari, Giovanni Pandico. C’è una foto bellissima del carcere di Reggio Calabria, mostra un passeggio sul cui muro è disegnato un arcobaleno, sopra c’è una rete di copertura: dentro ci sono rimasti incastrati tre palloni. Pedate troppo forti li hanno mandati fuori dal gioco, per sempre, ma non sono state abbastanza forti per mandarli oltre il muro, in un altro gioco. Quei palloni, da lontano, sembrano gonfi e turgidi, ancora nuovi. Se ricadono a terra si afflosciano al suolo, se gli si dà un calcio rimangono infilzati nel piede. Se si buttano fuori dal muro non potranno più animare nessun gioco. Bisognerebbe portarli in un angolo sicuro per consentirgli di esalare l’ultima aria avvelenata, per gli altri e anche per loro. Per quei palloni e per i vecchi arnesi del male come Cutolo bisogna trovare un posto al riparo dagli altri. Sono solo fantasmi su cui, dopo averli sconfitti, si dovrebbe esercitare solo la pietà. Ne uscirebbero rafforzati lo Stato, la società, i sentimenti, sarebbe davvero la prova di essere diversi e migliori.
La provocazione. Cutolo morto al 41bis che secondo l’antimafia va inasprito, abbiate il coraggio di fucilare i condannati! Redazione su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti dice la sua sulla morte di Raffaele Cutolo. “Cutolo era uno dei capi della camorra. E’ morto in carcere dopo circa 60 anni di detenzione a quasi 80 anni. Stava molto male. Da più di un anno i suoi avvocati chiedevano i domiciliari perché delle perizie mediche stabilivano che stava molto male. Anche il nostro giornale ha chiesto che si rispettassero le regole della civiltà e di dare i domiciliari a Cutolo. Questo perché era anziano, non più pericoloso, perché era malato. Perché ha i diritti umani come tutti gli altri esseri umani“. “La magistratura, però, ha risposto di no perché le sole perizie non bastavano. In fondo – prosegue Sansonetti – non stava così male e non c’era motivo di liberarlo. Per i magistrati era addirittura pericoloso. Cutolo è stato il capo di un gruppo camorristico del tutto annientato, disperso, in gran parte addirittura morto per motivi di età”. “Non c’è più nessuno dei suoi uomini in giro. Ma hanno detto di no. Lo volevano far morire in carcere ed è morto in carcere. E’ stata rispettata l’idea che la legge è vendetta, la giustizia è vendetta come secoli fa. Questo principio è stato affermato e oggi molti sono soddisfatti”.
Guappo, genio, spietato. Storia di Raffaele Cutolo: ascesa e caduta del più grande boss napoletano. David Romoli su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Mercoledì sera, annunciando la morte di Raffaele Cutolo, un tempo potentissimo capo della Nuova Camorra Organizzata, un telegiornale ha detto che l’ex boss era anziano, 79 anni, e molto malato, tuttavia ancora estremamente pericoloso. Non è così: don Rafele era un vecchio amareggiato e deluso dallo stesso mondo che aveva creato, era isolato, ridotto da mesi allo stremo, senza più alcun potere. E’ rimasto in carcere invece di morire a casa solo per il nome e l’eco del passato. Era il fantasma di se stesso e qualsiasi giustizia gli avrebbe concesso il permesso di morire fuori dal carcere, dopo aver passato l’intera vita tra quelle mura. Dal 1963 Cutolo è stato libero, una volta per decorrenza termini seguita da una breve latitanza, l’altra dopo un’evasione nel febbraio 1978 fino alla cattura nel maggio 1979, meno di tre anni. Sui documenti di Cutolo la data di nascita è 10 dicembre 1941. Errore dell’anagrafe. Il futuro boss era nato oltre un mese prima, il 4 novembre, a Ottaviano, figlio di un uomo di rispetto, Giuseppe Cutolo, don Peppe ‘e Monaco, un contadino che aveva fatto qualche soldo, tanti comunque da poter diventare creditore dei signorotti del luogo, i principi Lancellotti, il cui castello lo stesso don Rafele avrebbe poi comprato nel 1980. Futuro capo di un’organizzazione nella quale affluirono negli anni ‘80 migliaia di giovani poverissimi, sottoproletari senza altro orizzonte che il crimine, Cutolo non era della stessa pasta. Era un lettore avido, conosceva a menadito la storia dell’antica camorra napoletana e quella della sua Regione, aveva studiato i libri dell’antropologo Abele De Blasio sulla cultura e i riti di quella camorra ottocentesca. Finì in carcere per un omicidio assurdo, dettato dalle regole della guapparia. Una passeggiata al centro d’Ottaviano di quello che era allora solo un giovane autonoleggiatore, con la sorella e futura alter ego nella NCO Rosetta, di 4 anni più grande. Un altro giovane con la macchina ferma per un banale incidente che azzarda un commento greve. La questione d’onore che impone la rissa e l’altro giovane, Mario Viscito, anche lui di Ottaviano, stessa età del suo uccisore, ci rimette la pelle. L’omicidio viene punito con la condanna all’ergastolo più 12 anni di carcere, pena ridotta a 24 anni in appello. Per 7 anni, prima della breve scarcerazione per decorrenza termini nel 1970, l’ex autonoleggiatore continua a coltivare il sogno di resuscitare la camorra del passato. In carcere impara i riti della delinquenza, dà prova di coraggio sfidando il più potente tra i camorristi dell’epoca, Antonio Spavone, ‘o Malommo. Il boss manco si degna di accettare la sfida ma Cutolo inizia a emergere, diventa ‘o Professore. La svolta arriva nei mesi di libertà del 1970. Cutolo e l’amico Pasquale Barra, futuro killer delle carceri e poi pentito. Incontrano i capi delle ‘ndrine calabresi che suggeriscono di dar vita a una vera struttura criminale organizzata, come quelle della ‘ndrangheta e di Cosa nostra. La suggestione si concretizzerà una volta rientrato a Poggioreale, il 24 ottobre 1970. Cutolo aveva a modo suo una visione. Non mirava solo a organizzare un’associazione criminale. Sommava la suggestione dei riti camorristi del passato con una confusa ideologia sottoproletaria e campana e con una struttura organizzativa all’epoca del tutto sconosciuta nella Camorra, in parte derivata dai modelli di gruppi armati politici. La struttura della NCO era piramidale. Al vertice ‘o Professore, poi i suoi vice, uno fuori e uno dentro il carcere, i Santisti, nome ripreso dalla ‘ndrangheta, detta anche Santa, i capizona, tra cui Rosetta Cutolo, e la truppa, i Cumparielli, le Batterie di fuoco. La NCO di Cutolo non offriva ai suoi affiliati solo guadagni ma un senso di appartenenza e di potere. La base del potere di Cutolo erano le carceri, dove i suoi killler dettavano legge. Nel momento di massimo fulgore, la NCO raccoglieva oltre 2000 aderenti e sancì per la prima volta l’egemonia della cintura intorno a Napoli sulla camorra della città. Nei primi anni ‘80, e soprattutto dopo il terremoto, la NCO estese il suo controllo su tutte le attività della malavita a Napoli. Cutolo trattava da pari a pari con Cosa Nostra, legato soprattutto alle vecchie famiglie destinate a essere distrutte dai corloenesi, con la Sacra Corona pugliese, che era quasi una filiazione della NCO, con le ‘ndrine ma anche con Cosa Nostra americana. Cutolo ebbe un ruolo centrale nell’organizzare la trattativa con le Br che portò nell’81 alla liberazione di Ciro Cirillo, esponente della Dc campana rapito dalle Brigate rosse. Tre anni prima lo Stato lo aveva contattato, come fece con altri leader della criminalità organizzata, chiedendo il suo aiuto per rintracciare Aldo Moro. ‘O Professore cercò di mettere sotto controllo l’intera camorra napoletana. Chiese un pizzo su ogni cassa di sigarette di contrabbando scaricata al porto. I suoi sicari chiedevano ai camorristi di aderire alla camorra cutoliana e, in caso di rifiuto, li uccidevano e ne uccidevano i parenti. I gruppi attaccati si unificarono nella Nuova Famiglia. La guerra di camorra seminò morti a centinaia per le strade di Napoli. La notte del terremoto, 23 novembre 1980, le guardie carcerarie aprirono le celle di Poggioreale per evitare che i detenuti rischiassero di finir sepolti. I sicari di Cutolo ne approfittarono per assaltare i rivali e massacrarli. Alla fine Cutolo perse la guerra con la Nuova Famiglia, anche perché le inchieste avevano smantellato la sua organizzazione e i pentiti, tra cui lo stesso Pasquale Barra amico d’infanzia, santista e primo tra i suoi killer in carcere, avevano dato il colpo di grazia. Cutolo ha avuto tre figli. Il primo nato da una relazione finita prima che entrasse in carcere nel 1963 è stato ucciso nel 1990. Poi una figlia nata dalla relazione con una donna tunisina conosciuta dopo l’evasione del 1978 e infine la figlia avuta con inseminazione artificiale da Immacolata Jacone, sua moglie, sposata nel 1983 e mai incontrata fuori dal carcere. Cutolo è stato un uomo pericoloso e feroce. Ma quando è morto, ucciso dalle conseguenze di una polmonite bilaterale probabilmente da Covid, non lo era più da un pezzo. Il suo sogno fosco era crollato seppellendolo. “Siamo una razza d’infami che, guarda caso, si pentono appena gli scattano le manette. Credetemi, è molto meglio andare a lavorare per un solo tozzo di pane che arruolarvi nelle organizzazioni”. Che don Rafele non costituisse più un pericolo in realtà lo sapevano tutti. Lo hanno lasciato in carcere anche quando era ormai solo una larva perché, come recitano le stesse sentenze, era “un simbolo”.
La Federazione criminale. Cosa è la NCO, la Nuova Camorra Organizzata fondata da Raffaele Cutolo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. La Nuova Camorra Organizzata poteva contare su circa mille affiliati. Era il clan che era stato formato da Raffaele Cutolo, “o’professore”, il Camorrista del film di Giuseppe Tornatore con la faccia di Ben Gazzara, il Don Raffaè della canzone di Fabrizio De Andrè. Cutolo è morto nel carcere di Parma, per una polmonite aggravata da una setticemia del cavo orale, questa la diagnosi finale. Aveva 79 anni. Era detenuto al 41-bis al reparto sanitario del carcere. La Nco è stata fondata agli inizi degli anni ‘70, nel padiglione Milano del carcere di Poggioreale a Napoli. Il cartello ereditava le caratteristiche piramidali della Camorra ottocentesca – La Bella Società Riformata napoletana e la garduna spagnola del XIX secolo – e alcuni rituali e termini della criminalità organizzata calabrese. Con la nuova organizzazione il vertice diventava uno solo, lo stesso Cutolo, le famiglie facevano capo a lui, detto “Il Vangelo”. La piramide proseguiva con i cosiddetti “Santisti” e quindi gli “Sgarristi”, i “Picciotti” e le “Batterie”. Le regole del “battesimo” o “fidelizzazione” sono state fissate nel “giuramento di Palillo”, un’audiocassetta con i rituali della Nco. La leggenda raccontava di tre cavalieri camorristi spagnoli che dopo l’esilio giunsero in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna e lì fondarono una “società divina e sacra”. La cerimonia includeva il taglio sul braccio e il patto di sangue. L’elenco degli affiliati sarebbe stato conservato in una delle stanze del castello di Ottaviano, paese natale di Cutolo, che aveva sempre esercitato un fascino peculiare sul Professore. Il clan era una sorta di federazione, come una rete tra bande che gestivano un specifica area territoriale. Le fila dell’Organizzazione sono state riempite da sbandati, delinquenti della micro criminalità, da sottoproletariato urbano o delle periferie. Cutolo investiva le tangenti all’interno del carcere per assumere consenso: questa la strategia iniziale. La sua retorica, quella del criminale intellettuale che “sapeva leggere e scrivere”, si nutriva anche di una sorta di sciovinismo campano contro l’avanzata dei siciliani. Sedava anche risse e incomprensioni tra detenuti. Dopo il terremoto del 1980 le cellule della Nco cominciarono a infiltrarsi negli appalti per la ricostruzione. “Ad un ceto delinquenziale sbandato e fatto spesso di giovani disperati, Cutolo offre rituali di adesione, carriere criminali, salario, protezione in carcere e fuori. Si ispira ai rituali della camorra ottocentesca, rivendicando una continuità ed una legittimità che altri non hanno. Istituisce un tribunale interno, invia vaglia di sostentamento ai detenuti più poveri e mantiene le loro famiglie”, recitava la Commissione Parlamentare Antimafia del 1993. Cutolo formò alleanze con le famiglie ‘ndranghetiste dei Piromalli, De Stefano e Mammoliti e con le bande lombarde di Renato Vallanzasca e Francis Turatello oltre con la romana Banda della Magliana. A gestire la situazione fuori dal carcere la sorella di Cutolo Rosetta e i capi fidati come Enzo Casillo, Pasquale Barra, Davide Sorrentino, Pasquale Scotti, Giuseppe Puca. Ogni 15 giorni Rosetta Cutolo teneva una riunione con i capi e poi riferiva negli incontri in carcere al fratello. La guerra con la Nuova Famiglia è esplosa a fine anni ‘70 per l’imposizione, da parte della Nco, di una tassa sulle casse di sigarette di contrabbando gestite da tutti gli altri clan camorristici. Fu la miccia che fece esplodere il conflitto: una resistenza a Cutolo era attiva da anni, soprattutto il centro storico di Napoli era sempre rimasto piuttosto autonomo. Numeri quasi da guerra civile: tra il 1980 e il 1987 furono contati circa 800 morti. La Nuova Famiglia era stata creata nel 1978, sulla base della pre-esistente “Onorata Fratellanza”, composta tra gli altri dai Giuliano, gli Ammaturo, i Maresca, i Bardellino. Anche questi si rifacevano al cerimoniale cutoliano, con tanto di giuramento sulla fedeltà e l’omertà. La Nco si è sfaldata completamente sulla fine degli anni ’80. Con l’allargamento della Nuova Famiglia, la Nuova Camorra usciva indebolita. I blitz e gli arresti fecero il resto. L’organizzazione finì. In nome della Nco, scrive l’Agi, si continuano a esercitare le proprie attività ad Albanella, nella piana del Sele, come provato dall’inchiesta della Dda di Salerno. Proprio lì dove Cutolo si rifugiò in uno dei suoi periodi di latitanza.
· Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.
Ecco come nascono. Cosa sono le regole di Nelson Mandela, adottate nel 2015 dall’Onu. Daniela De Robert su Il Riformista il 23 Marzo 2021. Sono dedicate proprio a lui, Nelson Mandela, le Regole delle Nazioni Unite che stabiliscono gli standard minimi delle condizioni di detenzione. Lo ha deciso l’Assemblea generale Onu nel dicembre del 2015 quando le ha adottate dopo anni di lavoro. Il primo testo, infatti, risale al 1955, quando ancora le ferite della Seconda guerra mondiale erano aperte e il ricordo delle violazioni dei diritti delle persone private della libertà, dei trattamenti crudeli, inumani e degradanti era vivo e doloroso. Le 95 regole adottate dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento degli autori di reati definivano le norme minime universalmente riconosciute per la gestione delle strutture detentive e per il trattamento delle persone detenute. Stabilivano cioè gli standard minimi, al di sotto dei quali nessun Paese doveva mai scendere. I principi fondamentali erano due: il rifiuto della discriminazione sulla base dell’origine etnica, del colore, del sesso, del linguaggio, della religione, della politica o di altre opinioni, della nazionalità o contesto sociale, della proprietà, della nascita o di altri status; e il rispetto del credo religioso e dei precetti morali della comunità a cui la persona detenuta appartiene. Le regole saranno approvate dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite con una prima risoluzione del 1957 e saranno poi rivedute con una successiva risoluzione nel 1977. Ma bisognerà aspettare il 2011 perché l’Assemblea generale istituisca un gruppo di esperti intergovernativi con il compito di rivedere e aggiornare il testo, e altri quattro anni perché si raggiunga un documento condiviso. Si arriva così al 2015 quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta gli Standard minimi delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti, scegliendo di chiamarli Nelson Mandela Rules, per onorare la memoria del Presidente sudafricano che trascorse 27 anni della sua vita in un carcere. Cinque principi di base, a cominciare dal diritto di ognuno a essere trattato con il rispetto dovuto alla propria intrinseca dignità e valore come essere umano, per un totale di 122 regole suddivise in diverse aree tematiche. Come le precedenti, queste regole non vogliono descrivere un modello di istituzione penale, ma si limitano a definire ciò che è generalmente accettato come buoni principi e pratiche nel trattamento delle persone detenute e nella gestione delle carceri. Ma se la sorella maggiore del 1955, si limitava a definire la soglia minima di accettabilità al di sotto della quale un determinato aspetto rischiava di configurarsi come trattamento inumano o degradante, con una sorta di obiettivo al ribasso, le Nelson Mandela Rules puntano più in alto, invitando gli Stati a considerare gli Standard minimi come un punto di partenza, come uno stimolo verso un impegno costante a innalzare i livelli di tutela delle persone private della libertà. Essi indicano cioè obiettivi accessibili, seppur nella differenza dei contesti culturali e politici dei vari Paesi, e nello stesso tempo in grado di far evolvere una situazione verso un suo progressivo miglioramento, in una prospettiva, per così dire, generativa. Le Nelson Mandela Rules delle Nazioni Unite, insieme alle Regole penitenziarie europee approvate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2006 e aggiornate recentemente nel luglio 2020, e agli Standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa definiti sulla base delle visite che il Comitato effettua ogni anno, costituiscono un insieme di soft law, cioè di norme non giuridicamente vincolanti. Qualcuno per questo motivo considera quell’aggettivo soft sinonimo di debolezza se non di inefficacia. Ma così non è. Sempre più le soft law condizionano le scelte delle Amministrazioni e dei Paesi. Sempre più sono recepite come riferimenti forti, seppur non obbliganti. Sempre più la loro forza giuridica attenuata presenta una legittimità internazionale che difficilmente può essere negata. La loro efficacia si basa su una logica diversa: non sul dover fare, ma sulla condivisione e sul cambiamento della cultura, che è alla base delle scelte e delle azioni. Il recente richiamo alle Nelson Mandela Rules fatto dalla Ministra della giustizia, Marta Cartabia, al quattordicesimo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine è un segnale importante in questa direzione. Queste regole, non vincolanti sotto il profilo giuridico, non possono e non devono essere ignorate, anzi devono fare da guida a cambiamenti normativi e culturali tesi al miglioramento delle condizioni di vita delle persone private della libertà e dell’effettività dei loro diritti, memori del contesto in cui tali regole sono nate: all’indomani, cioè, di un periodo in cui l’integrità psicofisica e la dignità delle persone non era considerata un bene inviolabile, in cui parlare di diritti delle persone detenute appariva un nonsenso, in cui la discriminazione aveva seminato morte e violenza. Il richiamo della Ministra è, dunque, un invito anche al nostro stesso Paese non solo a rispettare tutti gli standard minimi di detenzione, ma ad andare in quella direzione che le Nelson Mandela Rules indicano: il superamento, cioè, di una logica minimale. Una direzione perseguita anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, attraverso le Raccomandazioni contenute nei Rapporti sulle sue visite. Le Nelson Mandela Rules, dunque, segnano una svolta verso un cambiamento possibile, come possibile e reale è stato il superamento non violento del regime dell’Apartheid in Sudafrica. Nei prossimi giorni sul Riformista torneremo a parlare di Nelson Mandela, dell’iniziativa di riconciliazione e pacificazione che portò avanti in Sudafrica dopo la fine del regime dell’apartheid. Pubblicheremo anche alcune delle “Mandela Rules”, come quelle sull’isolamento: ignorate per chi in Italia è detenuto in regime di 41bis.
La polvere sotto il tappeto. Ergastolo ostativo il club dei forcaioli ignora la Consulta e irride il diritto. Otello Lupacchini su Il Riformista l'8 Dicembre 2021. La pazienza del cupo ottimista, il quale sa da sempre di vivere in tempi calamitosi, diversamente dal pessimista che se ne accorge, invece, ogni mattina, viene messa a dura prova da quanti, con supponenza intollerabile, non perdono occasione di ribadire che il «“pacchetto antimafia” post stragi (che ha funzionato e funziona) rischia di essere fortemente indebolito per alcune aperture dell’ergastolo ostativo ai mafiosi non pentiti, con evidenti ripercussioni sullo stesso pentimento, che – in quanto non più indispensabile per ottenere i benefici – risulta ridimensionato sia come rilevanza in sé sia come potenzialità favorevole al collaborante». Contestualizziamo. Correva l’anno 1992, all’indomani della strage di Capaci, quando nacque il regime cosiddetto dell’«ergastolo ostativo», per escludere dai benefici della liberazione anticipata, dei permessi premio, del lavoro all’esterno, della semilibertà, della liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di pena, i condannati per reati di mafia, terrorismo ed eversione, che rifiutano di collaborare con la Giustizia: se per l’ergastolo comune resta possibile un progressivo miglioramento del trattamento penitenziario, che va di pari passo con la crescita dell’opera di rieducazione del reo, solo la volontà di collaborare, per contro, comproverebbe il distacco del condannato dai legami con l’associazione delinquentesca. La illegittimità costituzionale della normativa in questione è stata reiteratamente percepita come pure ne è stata denunciata l’eterodossia rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma il percorso per rimuovere il discutibile automatismo istituito tra la collaborazione processuale del condannato e la concessione dei benefici, lungo e variamente accidentato, è ancora lontano dall’essere concluso. In particolare. La questione di costituzionalità, portata all’attenzione della Corte Costituzionale nell’anno 2003, venne respinta, sostenendo i Giudici che gli ergastolani che rifiutavano di collaborare con la giustizia, esercitavano una propria «scelta» e non erano dunque esclusi definitivamente dai benefici. Nessun automatismo: bastava in fondo che il condannato decidesse di cambiare «idea» sulla volontà di collaborare con la giustizia. Analoga affermazione si ritrova, dopo dieci anni, nella sentenza n. 135 del 2013. Quando, tuttavia, con sentenza n. 149 del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 58 quater dell’Ordinamento penitenziario che escludeva dai benefici gli ergastolani condannati per sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione da cui fosse derivata la morte della vittima, si aprì, per quanto concerne l’ergastolo ostativo, una prima crepa nel consolidato orientamento della Corte di legittimità delle leggi al riguardo, essendo state riconosciute, altresì, tanto l’irragionevole disparità di trattamento con gli ergastolani condannati per altri reati, quanto l’illegittimità del meccanismo automatico di preclusione previsto dalla legge, senza alcuna valutazione del giudice sul percorso individuale del detenuto. È stata successivamente la Corte Europea dei diritti dell’uomo, nell’affaire Marcello Viola vs. Italia, nel 2019, a ritenere che la legislazione nazionale in tema di ergastolo ostativo viola l’art. 3 della Cedu, per un verso, affermando che la pena deve sempre mirare alla rieducazione del reo e che vietare a un condannato di reinserirsi nella società lede il principio di dignità umana e, per l’altro, censurando proprio la presunzione di pericolosità del condannato che non collabora con la Giustizia, spiegando che la mancata collaborazione ben può dipendere dal timore di ritorsioni sulla propria vita e sui propri cari e non sempre vale a dimostrare la persistenza dei legami criminali. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 253 del 2019, ha quindi dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non consentiva ai condannati all’ergastolo ostativo di avvalersi dei permessi premio, pur in presenza di elementi per escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o il pericolo del loro ripristino, così minando irreversibilmente la presunzione assoluta di pericolosità del reo che rifiuta di collaborare con la giustizia e aprendo, dunque, alla possibilità che il giudice compia una valutazione caso per caso. Investita, finalmente della questione se l’esclusione del beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, che non abbiano collaborato con la Giustizia, sia contraria all’art. 27 della Costituzione e all’art. 3 della Cedu, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 97 del 2021, rispettosa sul piano del dialogo istituzionale ed equilibrata nel salvaguardare le esigenze di tutela della collettività, evitando di indebolire il sistema di contrasto della mafia, ha scelto di rinviare la decisione, per dare tempo al Parlamento di porre mano a una riforma, che sappia tener conto della particolare natura dei reati mafiosi, e della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia. È qui che s’inserisce il «testo base» per la riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di ergastolo ostativo licenziato dalla commissione Giustizia alla Camera lo scorso 17 novembre, maldestro tentativo di neutralizzare le spinte riformatrici della Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo: i detenuti condannati all’ergastolo potranno accedere ai benefici penitenziari (come l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio o le misure alternative alla detenzione), anche senza collaborare con la giustizia, «purché oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento»; al contempo, tuttavia, servirà l’accertamento di «congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso», compreso il «pericolo di ripristino» dei contatti. Sic stantibus rebus, fingendo di non notare che, col «testo base» in discussione si prospetta, a tacer d’altro, l’innalzamento della soglia di certezza della prova, anche negativa, diabolica e inarrivabile per il recluso, in chiaro conflitto con il senso delle misure premiali ancorate a un giudizio prognostico impossibile da cristallizzare in verità assoluta, gli archimaestri del coté degli addetti alla repressione, con la proposizione da cui si son prese le mosse, enunciano un dogma che urta contro la logica e contro i fatti, dunque da dover essere imposto come motivo di fede e via della salvezza. Un dogma che tradisce un luogo dell’anima, a chiamare così situazioni radicate nel cervello e nelle midolla, sopravvissuto ai cambiamenti, dalle lingue all’ambiente geologico, avvenuti negli ultimi secoli sul continente europeo: il «metodo inquisitorio». Al fondo di esso, infatti, risuona l’eco del pensiero dell’abate di Vayrac, secondo cui l’imputato è libero di «confessare la propria colpa, chiedere perdono e sottomettersi a certe espiazioni religiose (…) digiuna, prega, si mortifica, anziché andare al supplizio recita dei salmi, confessa i peccati, sente la messa, lo scusano, lo assolvono, lo restituiscono alla famiglia e alla società. Se il delitto è enorme, se il colpevole si ostina, se bisogna versare del sangue, il prete si ritira e non riappare che per consolare la vittima sul patibolo» (J. De Maistre, Oeuvres complètes, Lyon Paris, 1931, 3, p. 325 s.). Insomma, è duro a morire l’assioma gnoseologico, colpevole o innocente, l’imputato sa quanto basta; bisogna che lo dica e non essendo più esperibili tecniche brutali ad eruendam veritatem, opportunamente stimolato con compensi allettanti, fino all’impunità, commisurati agli apporti, tanto più svela tanto meglio esce.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
“Riformate l’ergastolo ostativo”, Strasburgo striglia l’Italia. Angela Stella su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Il tema dell’ergastolo torna al centro del dibattito politico: ieri, nell0 stesso giorno in cui il Consiglio d’Europa ha chiesto all’Italia di adottare quanto prima una legge sul carcere a vita, la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, ascoltata dalla Commissione Antimafia, si è appellata al Parlamento affinché «non perda l’occasione per riscrivere la norma» sul fine pena mai. Ha indicato anche una possibile strada come quella di «prevedere, sempre a titolo esemplificativo, specifiche prescrizioni che governino il periodo di libertà vigilata, anche regolandone diversamente la durata». Dunque due moniti importanti – uno dall’Europa, l’altro dalla Guardasigilli – arrivano alla politica chiamata a trovare la quadra entro maggio 2022, come richiesto dalla Corte Costituzionale in una recentissima decisione che, pur dichiarando l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, ha dato un anno di tempo al Parlamento per originare una legge che bilanci il diritto alla speranza dei detenuti e le esigenze di sicurezza e lotta alla criminalità organizzata. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa questa settimana ha esaminato i passi compiuti dall’Italia dopo la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’uomo sul caso di Marcello Viola, pronunciata nel 2019. L’uomo, sempre proclamatosi innocente, fu condannato all’ergastolo ostativo in via definitiva per associazione di stampo mafioso, oltre che per altri delitti, quali l’omicidio. In carcere dagli anni ‘90, aveva chiesto ai magistrati di sorveglianza di poter accedere ai benefici – permessi premio e liberazione condizionale – , dopo 26 anni di reclusione. Richieste più volte respinte a causa della mancata collaborazione con le autorità. Da lì il ricorso alla Cedu che con una sentenza del 2019 condannò l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione (nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti) a causa dell’impossibilità per un detenuto, condannato per uno dei reati previsti dall’articolo 4 bis comma 1 della legge sull’amministrazione penitenziaria, di poter accedere ai benefici penitenziari in assenza di utile collaborazione con la giustizia. Nonostante siano passati tre anni, il Comitato dei Ministri da un lato «ha preso atto con preoccupazione che il ricorrente non può accedere alla liberazione condizionale» e dall’altro ha rilevato che è necessaria «l’adozione di misure legislative per garantire la possibilità per i tribunali nazionali» di valutare il percorso rieducativo del detenuto al fine di ottenere la liberazione condizionale, pur in assenza di collaborazione. Di conseguenza «preso atto con soddisfazione» della sentenza 97/2021 della Consulta, il Comitato dei Ministri «ha sottolineato l’urgenza di porre fine alla violazione subita dal ricorrente e di garantire la non reiterazione della violazione dell’articolo 3 della Convenzione, disposizione che non consente alcuna eccezione o deroga; ha pertanto invitato le autorità ad adottare senza ulteriori ritardi le misure legislative necessarie per rendere l’attuale quadro legislativo conforme ai requisiti della Convenzione». L’avvocato Antonella Mascia, legale di Viola, accoglie con «soddisfazione» questo monito europeo. Tuttavia ci racconta che, nonostante la sentenza Cedu e quella della Consulta sui permessi premio, «le nostre richieste per ottenere almeno un permesso premio per concedere qualche ora di libertà a Viola con i figli fuori dal carcere sono state respinte con diverse motivazioni, tra cui un parere negativo della DNA e il fatto di non aver richiesto la revisione del processo, visto che Viola si ritiene innocente. Eppure noi abbiamo portato all’attenzione dei giudici di sorveglianza diverse relazioni che dimostrano che l’interessato ha una condotta esemplare, lavora in carcere, aiuta gli altri detenuti, si è separato dalla moglie con la quale non ha più contatti dal 2013 perché ancora legata ad un contesto criminale». La conclusione per l’avvocato Mascia è che «il legislatore dovrebbe comprendere che occorre guardare al percorso rieducativo del detenuto e non considerarlo pregiudizialmente parte di un tutto, ossia di una categoria di uomini mafiosi irrecuperabili. Dopo tanti anni di detenzione gli uomini possono cambiare e non possono quindi rimanere incatenati per sempre alla loro condanna. E’ giunto ora il momento che il giudice esamini in concreto il percorso riabilitativo intrapreso dal detenuto, nel pieno rispetto della nostra Costituzione e della Convenzione». Angela Stella
Il monito del presidente emerito della Corte costituzionale. “Il 4 bis è incostituzionale, la Consulta doveva intervenire”, l’accusa di Onida. Angela Stella su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Nel collegio difensivo di Marcello Viola alla Cedu c’era anche l’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida che ci spiega: «Quando siamo intervenuti dinanzi ai giudici di Strasburgo abbiamo fatto riferimento all’impossibilità per il signor Viola di poter accedere alla liberazione condizionale, perché all’epoca era applicabile l’art. 4-bis che escludeva i benefici; e anche la liberazione condizionale, in mancanza della collaborazione con la giustizia, era preclusa. Oggi (ieri, ndr) il Consiglio di Europa non ha detto che occorre concedere tale beneficio al detenuto, ma semplicemente che l’Italia, adeguandosi anche alla recente ordinanza della Corte Costituzionale (n. 97 del 2021), deve dotarsi di una legge che escluda l’attuale automatismo tra assenza di collaborazione e divieto di concessione della liberazione condizionale». Tuttavia, nonostante la sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 ha escluso che la collaborazione con la giustizia sia condicio sine qua non per la concessione dei permessi premi ai condannati ostativi, Marcello Viola non ha ottenuto neanche un permesso premio: «Questo – spiega Onida – è un altro discorso. L’automatismo tra mancata collaborazione e divieto di concessione dei permessi premio è già caduto e non occorre attendere una legge per decidere su di essi. Se non gli è stato concesso, evidentemente ci sono valutazioni della magistratura di sorveglianza contrarie alla concessione: ma si tratta di vedere se le motivazioni sono plausibili (per esempio, il fatto che un parente o una sua ex moglie, in ipotesi, abbia tuttora rapporti con la mafia, non potrebbe essere motivo sufficiente di per sé per ritenere che anche per Viola questi rapporti sussistano tuttora)». Chiediamo al Presidente Onida come dovrebbe comportarsi la magistratura di sorveglianza in attesa che il Parlamento faccia una legge entro maggio 2022 sull’ergastolo ostativo: «Attualmente il Tribunale di Sorveglianza che viene investito di una richiesta di liberazione condizionale da parte di un detenuto “ostativo” non potrebbe appoggiarsi, per respingere la richiesta, sulla circostanza che la norma del 4-bis è ancora in vigore nel testo attuale. Anzi, dovrebbe sospendere la decisione e sollevare un nuovo dubbio di legittimità costituzionale (stante la sua evidente non manifesta infondatezza), in attesa dell’intervento del legislatore o della decisione futura della Corte costituzionale sulla questione ora rinviata al 10 maggio 2022». Anche se l’incostituzionalità è accertata, dovendo attendere una legge del Parlamento, i detenuti che in teoria potrebbero accedere alla liberazione condizionale rimangono sospesi in un limbo, in una situazione di privazione della libertà personale: «Senza dubbio rappresenta una anomalia il fatto che una norma sia stata ritenuta incostituzionale ma resti ancora in vigore. Per questo il giudice di sorveglianza non potrebbe respingere le richieste in nome dell’articolo 4-bis motivando con l’assenza di collaborazione». Però, nonostante la fermezza delle sue argomentazioni, facciamo presente al presidente Onida che la scarcerazione di Giovanni Brusca ha riaperto la discussione sull’ergastolo ostativo e molti parenti di vittime di mafia e diverse forze politiche chiedono la riforma della legge nella direzione di chiusura ai benefici. La cornice però l’ha data già la Consulta e non si può tornare indietro: «Certamente, lei ha ragione. Manca ancora una legge che, accogliendo l’impostazione della Corte Costituzionale, regoli l’ipotesi di liberazione condizionale per gli ergastolani ostativi in un modo conforme alla Costituzione. Il minimo, ripeto, è che i giudici non possono applicare semplicemente il 4-bis così com’è, per cui se non c’è collaborazione niente liberazione condizionale. Nel frattempo però questi ergastolani potrebbero chiedere e ottenere altri benefici come i permessi premio, già sganciati dalla condizione della collaborazione ad opera della sentenza n. 253 del 2019». In ultimo chiediamo al presidente Onida se la decisione della Consulta era la migliore possibile o si poteva evitare il rinvio al Parlamento: «Probabilmente, dinanzi a una palese incostituzionalità, la cosa migliore sarebbe stata quella di adottare una decisione dichiarativa di questa incostituzionalità. Eventualmente con quei tipi di sentenze – manipolative, additive, additive di principio – che tante volte la Corte ha pronunciato intervenendo direttamente sulla legge. In ogni modo la norma denunciata non può più essere applicata». Angela Stella
41 bis, no della Cassazione al ricorso di Graviano: dissociazione priva di effetto e sarà sempre così. La Suprema Corte con questa sentenza smentisce la fake news sul rischio di riconoscere benefici a chi si dissocia senza collaborare: infatti non è questo l’unico “parametro” di valutazione. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 10 novembre 2021. La dissociazione dei cosiddetti “irriducibili” detenuti mafiosi al 41 bis viene interpretata da taluni detrattori della sentenza della Corte Europea e della Consulta sull’ergastolo ostativo, come una strategia efficace per ottenere un “tana libera tutti”. Si incute quindi il timore che con la fine della preclusione assoluta dei benefici per chi non collabora con la giustizia, la dissociazione diventa un fattore decisivo per ottenere la libertà. Niente di più falso. Tutto ciò viene smentito dalla sentenza numero 39868 della Cassazione, appena depositata, che ha respinto il ricorso di Filippo Graviano contro la decisione della proroga del 41 bis.
Martedì sarà votato il testo base sull’ergastolo ostativo
A proposito dell’ergastolo ostativo il presidente della commissione Giustizia di Montecitorio e relatore del provvedimento, Mario Perantoni del Movimento 5Stelle, fa sapere che martedì prossimo sarà votato il testo base sulla riforma dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. «Sono soddisfatto dichiara Perantoni – che vi sia stata ampia convergenza sulla proposta di testo base che, tra l’altro, prevede che i condannati all’ergastolo ostativo non possano accedere ai benefici penitenziari se non vi è certezza della inesistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata o del pericolo di un loro ripristino, oltre alla condizione dell’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato». Perantoni spiega che «il boss mafioso non collaborante non potrà accedere ai benefici penitenziari secondo i criteri ordinari: questo resta un punto fermo in piena coerenza con gli orientamenti della Consulta».
Filippo Graviano aveva chiesto l’annullamento della proroga del 41 bis
Per quanto riguarda Filippo Graviano il suo difensore aveva chiesto l’annullamento del provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza di Roma il 3 dicembre 2020, recante il rigetto del reclamo proposto avverso il decreto emesso dal ministro della Giustizia, concernente la proroga del 41 bis. Nel ricorso per Cassazione si deduce erronea l’applicazione del carcere duro, nonché vizio di motivazione.Come spiega la Corte Suprema il 41 bis stabilisce che i provvedimenti applicativi del regime di detenzione differenziato sono prorogabili nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni, quando «risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno».
Per la Cassazione il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva proceduto correttamente
Ma veniamo al punto. Nel caso in esame, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha proceduto – sottolinea la Cassazione – «con corretta interpretazione ed esatta applicazione dei principi di diritto in materia», alla verifica della permanenza dei dati indicativi della capacità di collegamento di Filippo Graviano con la criminalità organizzata, valorizzando gli elementi sui quali ha fondato la valutazione della pericolosità del medesimo e della legittimità e fondatezza della proroga della misura in oggetto. In particolare, il Tribunale di sorveglianza ha evidenziato la correttezza del decreto ministeriale, alla luce: del ruolo di vertice rivestito dal Graviano nel gruppo mafioso di appartenenza; dell’irrilevanza della circostanza che prevalentemente si occupasse della gestione finanziaria dei crimini; dell’inidoneità del percorso di studi universitari compiuti dal detenuto a recidere il vincolo associativo; della circostanza – che la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo ha valutato come priva di qualsiasi effettività la dichiarazione di dissociazione resa dal Graviano il 6 maggio 2010; del fatto che lo stesso è indicato, nelle note degli inquirenti, come attualmente inserito nel clan di appartenenza; dell’attuale operatività di quest’ultimo; dell’assenza di elementi sintomatici dell’acquisizione di valori di legalità da parte del ricorrente.
La dissociazione non è l’unico parametro di valutazione
Quindi, nonostante la dissociazione resa nel 2010, tutti questi elementi elencati sono stati ritenuti idonei a dimostrare il pericolo di una ripresa di contatti, da parte del ricorrente, con il clan di appartenenza, e sono stati – sottolinea la Cassazione – «pertanto valorizzati, secondo un ragionamento logico e nel rispetto della disciplina di riferimento, al fine di giustificare le ulteriori restrizioni trattamentali». In conclusione, per la Cassazione, il ricorso di Filippo Graviano deve essere dichiarato inammissibile. Cosa significa tutto ciò? Che c’è il rischio di riconoscere benefici o sconti di pena a chi si dissocia senza collaborare con la giustizia, è una fake news. La dissociazione, che tra l’altro non è normata per i detenuti condannati per mafia, non è l’unico parametro di valutazione per concedere o meno i benefici. Figuriamoci per gli ex boss condannati per le stragi.
Così si omologa la misura di sicurezza alla pena detentiva. 41bis per gli internati, la Consulta dice sì: “Ma devono poter lavorare”. Angela Stella su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. È legittima la disciplina che consente di applicare il regime del carcere duro (41 bis) agli internati in casa di lavoro? La Corte Costituzionale ha risposto ieri di sì con la sentenza n. 197 ma ponendo una condizione. Ribadendo che le speciali restrizioni previste dall’art 41 bis sono «applicabili anche agli internati, cioè alle persone considerate socialmente pericolose e, in quanto tali, soggette, dopo l’espiazione della pena in carcere, alla misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione a una casa di lavoro», tuttavia ha precisato che, proprio in considerazione della specifica natura di quest’ultima misura, «e alla luce dei principi costituzionali di ragionevolezza e di finalità rieducativa, il trattamento differenziale previsto dall’articolo 41 bis deve adattarsi alla condizione dell’internato e consentirgli di svolgere effettivamente un’attività lavorativa». A sollevare il dubbio di legittimità costituzionale era stata nel 2020 la Cassazione, investita da un ricorso proposto da una persona assoggettata alla misura di sicurezza della casa di lavoro, già condannata per gravi delitti di criminalità organizzata, contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che aveva confermato la legittimità del decreto ministeriale di proroga del 41bis nei suoi confronti, in considerazione della perdurante pericolosità criminale dell’interessato. Qual è il problema: per gli internati il trattamento previsto consiste in misure risocializzanti realizzate attraverso interventi finalizzati alla rieducazione da parte degli educatori che operano nelle case di lavoro, sperimentazione di reingresso sociale, interventi di sostegno esterno sul contesto familiare e socio-lavorativo. Tuttavia, quando la casa di lavoro è vissuta con la contemporanea sottoposizione al 41bis, si assiste, secondo la Cassazione, «ad una fortissima compressione delle regole ordinarie trattamentali, con sostanziale omologazione della misura di sicurezza alla pena detentiva, determinando un regime sostanzialmente identico tra internati e detenuti». Invece, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le censure sollevate dalla Cassazione «a condizione che all’articolo 41 bis, in quanto riferito agli internati, sia data una lettura costituzionalmente conforme», che consenta l’applicazione agli internati delle sole restrizioni proporzionate e congrue alla condizione del soggetto cui il regime differenziale di volta in volta si riferisce: «trattandosi di un internato assegnato ad una casa di lavoro, le restrizioni derivanti dalla sua soggezione all’articolo 41 bis devono adattarsi, nei limiti del possibile, alla necessità di organizzare un programma di lavoro, e, a sua volta, l’organizzazione del lavoro deve adattarsi alle restrizioni (quelle necessarie) della socialità e della possibilità di movimento nella struttura. Ad esempio, devono essere identificate attività professionali compatibili con gli effettivi spazi di socialità e mobilità a disposizione degli internati soggetti al regime differenziale, modulando opportunamente l’applicazione a costoro della limitazione della permanenza all’aperto disposta dalla lettera f) del comma 2-quater del citato articolo 41 bis». In definitiva, secondo l’interpretazione affermata dalla sentenza, gli internati in regime differenziale restano esclusi dall’accesso alla semilibertà e alle licenze sperimentali, non potendo uscire dalla struttura in cui sono collocati, ma, quanto alla socialità e ai movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilità di lavorare. Angela Stella
Ergastolo ostativo: da cosa nasce e perché non va abolito. Dopo la pronuncia della Corte Costituzionale si riaccende il dibattito su una misura che nel campo della lotta alla mafia fu varata come risposta alle stragi. Stefania Pellegrini su L'Espresso il 19 aprile 2021. A pochi mesi dalla precedente pronuncia, nella quale si mettevano in discussione i principi fondanti l’ergastolo ostativo, la Corte Costituzionale si è nuovamente espressa ritenendo che il regime carcerario disciplinato dall’art. 41 bis ord. pen. sia in contrasto con il principio di rieducazione della pena (art. 27 Cost.), con quello di eguaglianza (art. 3 Cost.) e con il divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu). Nello specifico, viene messa in discussione la preclusione assoluta a chi non abbia collaborato con la giustizia, di accedere alla libertà condizionale, anche quando il ravvedimento è sicuro. Appare evidente come la Suprema Corte ritenga che il ravvedimento del mafioso possa essere desunto anche da elementi non necessariamente sfocianti in una collaborazione di giustizia e che il regime carcerario speciale riservato ai condannati per reati di mafia c.d. irriducibili debba sottostare ai principi che la carta costituzionale riserva alla carcerazione tradizionale, e quindi finalizzato alla rieducazione degli stessi. Con questo ulteriore intervento dell’Alta Corte, il timore è che si sia inesorabilmente innescato un processo di affievolimento di uno strumento di lotta alla criminalità organizzata che ha già ampiamente dimostrato la sua efficacia. Per comprendere la portata di questa svolta epocale è necessario attivare un dibattito che prenda in considerazione una serie di elementi dai quali non si può prescindere.
Specificità del reato di mafia. Considerare la mafia alla stregua di un sistema criminale comune è del tutto erroneo e pericoloso, poiché, in quanto cultura si impone come identità totalizzante. Si tratta di un “fondamentalismo”, un tipo di pensiero che è dentro la persona, ma non consente la soggettività: non è il soggetto che decide e pensa, ma è la realtà sovrapersonale in cui è inserito. L’associato di mafia non è un criminale comune, ma è un soggetto che, nel momento in cui commette un delitto fine dell’associazione, ne ha già condiviso pienamente, non solo la fase realizzativa, ma anche quella della gestione post delictum. Il mafioso aderisce consapevolmente ad una associazione che ha come elemento identitario e di forza quello di resistere all’intervento statale anche mediante il mantenimento del vincolo tra l’associazione e l’associato, perfino quando questo si trovi sottoposto ad una carcerazione perpetua. Il legame che unisce gli affiliati affonda le proprie radici in una cultura del comparaggio e della fedeltà, in cui il silenzio funziona come segno di riconoscimento. Un silenzio manifestazione di quella omertà che porta il mafioso al rifiuto incondizionato ed assoluto a collaborare con gli organi dello Stato. Una scelta assunta, non solo per timore di vendette, ma anche per proteggere la consorteria alla quale si appartiene e per disconoscere ogni legittimazione allo Stato. Di fatto, il cemento che lega tra loro gli associati, più che dal timore e dalla soggezione, è costituito dalla comune adesione ad una specifica subcultura che il regime carcerario tradizionale non è in grado di affievolire. Solo una forma detentiva differenziata ed idonea ad interrompere la comunicazione operativa tra il detenuto e l’associazione di appartenenza può recidere quel vincolo che lega indissolubilmente i consociati ad un sistema di valori.
Isolare non educare. Il regime del 41 bis nasce in specifiche circostanze storiche. Siamo all’indomani della strage di via d’Amelio. La notizia venne accolta con disperazione da parte di tutta la popolazione, ma festeggiata con un brindisi dai mafiosi incarcerati all’Ucciardone. Ulteriori indagini rivelarono che lo champagne venne condotto in carcere in concomitanza con la preparazione dell’attentato, avvalorando l’ipotesi che i capi mafia detenuti fossero a conoscenza del progetto criminale e che celebrarono la strage stappando le bottiglie. Divenne urgente introdurre un provvedimento finalizzato ad assicurare la recisione dei legami esistenti tra le associazioni criminali e i soggetti detenuti, riducendo e filtrando i contatti tra i boss detenuti e gli affiliati all’esterno. Una misura non volta ad impedire la materiale commissione dei delitti, piuttosto orientata ad ostacolare che l’ideazione e la programmazione di crimini si realizzasse all’interno del carcere. Emerse chiara la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un singolare fenomeno criminale che necessitava di interventi specifici, in grado di recidere la fitta rete di comunicazioni non ostacolata dalle mura carcerarie. Proprio tale singolarità ha consentito al nostro legislatore di stabilire una diversa graduazione tra le molteplici funzioni della pena, riducendo lo “spazio educativo” a favore della finalità generalpreventiva che impegnerebbe lo Stato a tutelare i diritti fondamentali, prima che gli stessi siano offesi.
Il valore della collaborazione. Il regime carcerario speciale trova la sua ragione nelle lapidarie parole del suo ideatore. Giovanni Falcone asserì come la mafia non fosse «una semplice organizzazione criminale, ma un’ideologia che, per quanto distorta, ha elementi comuni con tutta il resto della società - una sorta di subcultura dalla quale - non è possibile staccarsene, spogliarsene come si smettesse un abito». La decisione di non collaborare conferma l’adesione ad un credo irrinunciabile. Il boss in carcere continua ad esercitare il potere carismatico criminale ed il rifiuto di collaborare con la giustizia lo rende un modello positivo per il suo ambiente. Per contro, la valutazione di collaborare ha insita la consapevolezza che fuoriuscire dal mondo mafioso vuol dire affidarsi totalmente alla capacità di protezione dello Stato: quello che prima rappresentava il nemico da fronteggiare, diventa l’amico con cui cooperare. In molti casi, è proprio l’esperienza del carcere che porta il detenuto verso la collaborazione. Le lunghissime giornate di isolamento, hanno spesso portato a sviluppare un’introspezione sul senso delle proprie scelte di vita. Nell’universo culturale mafioso la collaborazione con la giustizia rappresenta l’unica vera dimostrazione che l’affiliato ha rescisso i suoi legami con l’organizzazione. Non si tratta di una semplice volontà di “emenda del condannato”, ma assume un valore profondo nel senso che collaborare significa tranciare di netto un cordone ombelicale che fino a quel momento ha garantito un’identità forte e robusta, ancorché dogmatica e ripetitiva. Di fatto, solo con la collaborazione si attesta una nitida presa di distanza dal mondo criminale. In mancanza di questa, i boss continueranno ad essere capi rispettati, ai quali si deve obbedienza, rappresentando un modello “positivo” che per essere scardinato necessita di misure straordinarie e adatte ad intervenire su di una struttura fondamentalista e paranoica. I boss sono equiparabili a figure mitologiche, invincibili ed il regime dell’isolamento, può provocare il crollo della loro onnipotenza. Anche quando la scelta non è conseguenza di un ravvedimento profondo, ma determinata da un calcolo utilitaristico di vantaggi e benefici, la decisione di fornire informazioni rilevanti comporta l’indebolimento della struttura che viene fiaccata anche dalla presa di distanza pubblica ed inequivocabile di un consociato. Per contro, il ravvedimento del detenuto per mafia non può essere desunto dal suo comportamento. È notorio come il mafioso, vesta gli abiti del detenuto modello. Basare la sua “redenzione” sulla valutazione del percorso trattamentale potrebbe essere del tutto fuorviante. Il magistrato di sorveglianza incaricato dovrebbe vagliare l’animo dell’ergastolano, assumendo un incarico estremamente delicato e, sulla base di “elementi” non meglio definiti, valutare caso per caso se i boss detenuti siano ancora pericolosi, soprattutto quando non si siano mai distaccati dall’organizzazione, mantenendo quel “silenzio” che rappresenta un potentissimo collante per mantenere saldi i legami associativi. È facile pensare come questa attività possa facilmente esporre a ritorsioni, andando così a mettere a rischio la serenità della verifica. Si torna quindi ad affermare come solo attraverso la collaborazione l’affiliato possa dimostrare di avere effettuato un percorso, più o meno intimo ed interiore, di distacco dal sistema criminale e culturale dal quale proveniva. Solo questo può essere un chiaro segnale di un avvio di un percorso di rieducazione che potrà poi essere implementato e sostenuto con una serie di progetti atti a ricollocare il soggetto in una dimensione sociale ben diversa da quella di provenienza. L’art. 27 della Costituzione riconosce la finalità rieducativa della pena. Una rieducazione che deve tendere ad abbracciare e rispettare i valori fondamentali del vivere democratico. Esattamente quei valori che il sistema mafioso calpesta e disprezza. Ora, come si può ritenere che un mafioso che non vuole discostarsi da un sistema di disvalori, rifiutandosi di collaborare, possa compiere un percorso di rieducazione verso quegli stessi principi che il proprio sistema di appartenenza rifiuta e rinnega? Da ultimo, preme ricordare come il collaboratore, con le sue dichiarazioni, non si limiti a descrivere episodi o fatti, ma delinei una societas con le sue strutture fondanti, le sue gerarchie di valori. Attraverso le sue narrazioni, quindi, aumentiamo anche la conoscenza di un fenomeno, giungendo a comprendere le dinamiche criminali che sottendono alla commissione di tanti delitti. Conforta la decisione della Corte di rimandare l’accoglimento del ricorso ad un momento successivo, dando la possibilità al legislatore di intervenire in modo sistematico sulla normativa. I giudici richiamano l’attenzione sulla peculiarità dei reati di mafia e sulla necessità di preservare il valore che in questi casi riveste la collaborazione con la giustizia. La riforma che si sollecita sarà estremamente complessa e delicata. Il rischio che si corre sarebbe quello di indebolire, sino al totale svilimento, uno degli strumenti più efficaci di lotta alla criminalità organizzata. Procedere verso lo sgretolamento del regime penitenziario differenziato equivarrebbe ad abdicare al nostro stardard di efficienza nella lotta alla criminalità organizzata, un unicum a livello internazionale. Riuscirà il Parlamento, oberato nel proporre interventi che permettano al Paese di emergere dalla crisi economica e sociale nella quale la pandemia lo ha gettato, a raccogliere questo testimone, senza tradire lo spirito che ha pervaso colui che fermamente ha voluto il regime del 41 bis? Sarà all’altezza di misurarsi con una simile prova nell’arco di un solo anno? La sorte, la beffa o una congiunzione astrale favorevole o contraria, ha indotto la Corte a stabilire un limite temporale a questo intervento legislativo. La trattazione è stata rimandata al maggio del 2022. I rappresentanti istituzionali che presenzieranno alla commemorazione del 30ismo anniversario della strage di Capaci avranno la responsabilità di guardare quelle steli dell’autostrada, quel groviglio di lamiere appartenenti alla Quarto Savona 15, specchiarsi negli occhi dei parenti delle vittime e dichiarare di aver mantenuto fede al sacrificio di chi ha lottato anche perché il 41 bis diventasse legge.
L’autrice è ordinaria di Sociologia del diritto e Mafie e Antimafia all’Università di Bologna.
La lesione dello Stato di diritto. L’ingiusta censura del 41 bis: vietata la corrispondenza tra difensore e prigioniero. Guido Camera su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Il 1° dicembre la Corte costituzionale è chiamata a decidere se una parte dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario – cioè la norma che disciplina il regime di detenzione speciale del c.d. “carcere duro” – è compatibile con i principi costituzionali che tutelano il diritto di difesa e il diritto ad avere un giusto processo. ItaliaStatoDiDiritto, come già aveva fatto in relazione alle questioni di costituzionalità sollevate sulla disciplina emergenziale della sospensione della prescrizione, ha deciso di produrre a sostegno della fondatezza della questione una propria opinione scritta alla Consulta (integralmente scaricabile su italiastatodidiritto.it), che è stata ammessa nel giudizio costituzionale con decreto del Presidente della Corte dello scorso 21 ottobre. Come noto, il regime del “carcere duro” colpisce i detenuti il cui legame con le associazioni criminali di appartenenza sia ritenuto tale da non poter essere spezzato senza il ricorso a misure speciali che riducano drasticamente le occasioni di contatto con l’esterno. Tra le numerose limitazioni vi è anche la censura della corrispondenza tra il detenuto e il proprio difensore. Questa è la parte dell’articolo 41 bis della cui costituzionalità è chiamata a decidere la Consulta il 1° dicembre. La questione di legittimità è stata sollevata dalla 1 sezione penale della Corte di Cassazione lo scorso 19 marzo: l’ordinanza di rimessione ha efficacemente sviluppato il proprio ragionamento muovendo dai principi sanciti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 143/2013, che ha riconosciuto «il diritto a conferire con il proprio difensore e a farlo in maniera riservata, connaturato alla difesa tecnica che rientra nella garanzia ex art. 24 Cost. ed appartiene al novero dei requisiti basilari dell’equo processo». In passato, la Corte costituzionale ha ricordato che detto diritto è inviolabile e deve potersi esplicare non solo in un procedimento già instaurato, ma altresì in relazione a qualsiasi possibile procedimento suscettibile di essere instaurato per la tutela delle posizioni garantite, e dunque anche in relazione alla necessità di preventiva conoscenza e valutazione – tecnicamente assistita – degli istituti e rimedi apprestati allo scopo dall’ordinamento (sent. n. 212/1997). Il passaggio è cruciale, visto che il carcere duro può essere applicato sia a detenuti in attesa di giudizio, sia a quelli che hanno riportato condanne definitive. ItaliaStatoDiDiritto, nella propria opinione scritta, ha chiesto che venga dichiarata illegittima la norma censurata perché la grave compressione dei diritti costituzionali che essa determina è fondata sulla presunzione che il difensore sia un soggetto potenzialmente pericoloso. Si tratta di una presunzione inaccettabile, visto che l’esercizio della professione forense è l’unica garanzia per l’effettiva tutela del diritto costituzionale di difesa; una professione regolata da precise norme deontologiche, nonché esposta a gravi e specifiche sanzioni penali, come il favoreggiamento. La censura della corrispondenza con il difensore, peraltro, non riguarda altre figure non dotate delle stringenti prescrizioni deontologiche e requisiti di professionalità della categoria forense: il riferimento, in particolare, va ai “membri del Parlamento”, per i quali il visto di censura non opera. Pur riconoscendo l’alto ruolo di controllo rispetto al trattamento dei diritti umani in ambito penitenziario che possono avere i parlamentari, va osservato che non si può aprioristicamente escludere che ci possa essere un uso distorto, nel singolo caso, della deroga al visto di censura. Inoltre, la corrispondenza tra il detenuto e il parlamentare non è preordinata all’esercizio della difesa tecnica, nel cui contesto, come visto, la confidenzialità delle informazioni scambiate tra avvocato e parte assistita in ordine alle strategie processuali è condizione essenziale perché si possa compiutamente dire garantito il diritto di difesa all’interno del giusto processo previsto dalla legge. In definitiva, la presunzione assoluta di pericolosità dell’esercizio della funzione difensiva forense che caratterizza il visto di censura previsto dall’articolo 41 bis è una manifestazione distonica rispetto allo statuto delle garanzie costituzionali, che non può essere in alcun modo giustificata, in una prospettiva di ragionevole bilanciamento tra il diritto di difesa e altri interessi contrapposti di pari rilevanza costituzionale, anche se legati alla protezione dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità organizzata. Manifestazione distonica che – tra le altre cose – mortifica la valenza solenne del giuramento forense, in forza del quale tutti i nuovi avvocati si impegnano “ad osservare con lealtà, onore, e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia ed a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento”. Guido Camera
La commemorazione del giudice. Ergastolo e pentiti: di Giovanni Falcone avete capito zero! Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Maggio 2021. Il modo peggiore di ricordare Giovanni Falcone, nell’anniversario della strage di Capaci, è quello di non rispettarlo, proprio come avevano fatto, quando lui era in vita, coloro che lo descrivevano diverso da come era. Quelli che lo accusavamo di tenere le carte nel cassetto perché lui non si accontentava della parola del “pentito” (è solo l’apriscatole, diceva), o di essere traditore e carrierista perché era andato a Roma a dirigere la Direzione Affari Penali al Ministero. Così è offensivo, ancora oggi, a ventinove anni dalla strage con cui Cosa Nostra ha eliminato colui che per primo “aveva capito”, insultare la sua intelligenza come se Giovanni Falcone fosse stato solo un confessore di collaboratori di giustizia. Che cosa vuol dire –come fa oggi il consigliere del Csm Nino Di Matteo in un’intervista a Fq Millennium– buttare lì, nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci, frasi come «oggi stanno cominciando a realizzarsi alcuni degli scopi che Cosa Nostra intendeva perseguire…»? E citare esplicitamente le recenti sentenze della Corte Costituzionale e della Cedu sull’ergastolo ostativo come tentativi di «smantellamento del sistema di norme concepite da Falcone» e «approvate solo dopo la strage di Capaci»? Le cose non stanno proprio così. Prima di tutto perché il famoso decreto Scotti-Martelli, che aveva determinato lo sciopero degli avvocati e che non piaceva alla sinistra, fu convertito in legge dal Parlamento non subito dopo la morta di Falcone, ma dopo la strage di via D’Amelio, cioè tre mesi dopo. Le date non sono irrilevanti, perché senza l’uccisione di Paolo Borsellino quelle norme non sarebbero mai state approvate. Ma soprattutto non è secondario il fatto che Giovanni Falcone, che pure aveva lavorato a quell’impianto normativo, non avrebbe mai introdotto principi incostituzionali come quello dell’inversione dell’onere della prova, lasciando nelle mani del detenuto il compito di dimostrare con la collaborazione il proprio distacco dall’organizzazione mafiosa. Il principio ispiratore era un altro. Falcone non aveva mai legato l’accesso ai benefici penitenziari previsti dalla legge penitenziaria del 1975 al “pentimento” del detenuto, ma semplicemente alla necessità che fossero acquisiti elementi per escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Giovanni Falcone la pensava esattamente come i giudici della Corte Costituzionale che hanno pronunciato le due sentenze del 2019 e di un mese fa e come i pronunciamenti della Cedu. Per questo forse il modo migliore per ricordarlo non è quello del consigliere Di Matteo. Il quale racconta di aver indossato per la prima volta la toga proprio quando aveva appena vinto il concorso in magistratura e aveva preso parte al picchetto d’onore alla bara di Falcone. Bel ricordo, ma Di Matteo sa chi era quel magistrato? Ne ha capito davvero il pensiero e l’intelligenza? È pur vero che le toghe non sono tutte uguali, come finalmente ha capito anche l’opinione pubblica che non sta più dando loro la propria fiducia. Così, proprio mentre alcuni ricordano il giudice assassinato a Capaci facendo torto alla sua intelligenza, un lumicino si accende nelle stanze della Corte di Cassazione. È datata 21 maggio l’ordinanza numero 20338 con cui la prima sezione penale solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41 bis nella parte in cui prevede la necessità di sottoporre al visto di censura della corrispondenza tra il detenuto e il proprio difensore. Sembra incredibile, ma è così: gli uomini-ombra non hanno diritto neanche alla riservatezza nella relazione epistolare tra imputato e avvocato. E questo nonostante proprio una sentenza della Corte Costituzionale del 2013 già avesse riconosciuto “il diritto a conferire con il proprio difensore e a farlo in maniera riservata”. I giudici della Cassazione pongono la questione di costituzionalità sotto tre profili, quello più scontato del diritto inviolabile alla libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 della Costituzione), ma anche al diritto alla difesa e a quello al giusto processo previsto dell’articolo 111. Un’altra piccola bomba. Non crediamo che i sospetti del dottor Di Matteo si spingerebbero fino a ritenere che anche i giudici della cassazione stiano tentando di realizzare gli scopi di Cosa Nostra. Ma il fatto che il giudice delle leggi, così come la Corte europea dei diritti dell’uomo, mettano mano, pur se tardivamente e quasi trent’anni dopo, a togliere qualche mattoncino a un apparato disumano e incostituzionale dovrebbe essere nell’interesse di tutti. Non c’entrano i programmi di Cosa Nostra. Che peraltro, nella struttura e nelle modalità operative di un tempo, non esiste neanche più. Basterebbe solo per esempio leggere qualche libro di quelli scritti di recente da ex direttori di carceri come Luigi Pagano e Giacinto Siciliano. Quest’ultimo in particolare racconta quasi con commozione la sua esperienza nel carcere di Opera, dove ha potuto partecipare a cambiamenti radicali di detenuti al 41 bis per fatti di mafia non “pentiti” in senso giudiziario, ma molto pentiti e cambiati in senso letterale. Ex mafiosi e assassini che sarebbero pronti a una nuova vita, se non avessero condanne ostative. Nell’anniversario della strage di Capaci c’è stato anche un confronto su Rai storia tra il ministro Marta Cartabia e Maria Falcone, sorella del magistrato assassinato dalla mafia. Hanno parlato anche dell’ergastolo ostativo e delle sentenze della Corte Costituzionale. Si sono confrontate non solo due opposte opinioni, ma, purtroppo, proprio due culture, non solo giuridiche. Colpisce che Maria Falcone citi da principio Tommaso Buscetta per confermare le sue parole e poi Cesare Beccaria per contraddirlo. Che cosa diceva di fondamentale il “pentito dei due mondi”? Sosteneva che il mafioso non esce dall’organizzazione se non con la morte o con il “pentimento”. E che cosa non funzionava nelle parole di Beccaria? Il fatto che il carcere sia un momento per arrivare alla riabilitazione, diceva lui. Ma non per un mafioso, dice Maria Falcone. Parole lapidarie. La ministra Cartabia si affanna, in modo un po’ didascalico, a spiegare la sentenza dell’Alta Corte del 2019 sui permessi premio. E poi quella più recente, di cui cita testualmente le parole usate: «La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento». Così come non è escluso, dice ancora la Corte, che «la dissociazione dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia». È la storia di ogni giorno, la storia che conosce chi sa ascoltare le voci provenienti dalle carceri. Ma pare difficile che riescano a incontrarsi questi due mondi. Quello che vede in Giovanni Falcone il “lottatore”, quello che ha portato a giudizio ed è riuscito a fare condannare il vertice di Cosa Nostra. E quello del magistrato lungimirante e riformatore che non aveva fiducia cieca nei “pentiti” e incoraggiava la separazione delle carriere tra pm e giudici. Infatti a Maria Falcone della sentenza della Corte Costituzionale interessa soprattutto la parte più politica e meno coraggiosa, il rinvio di un anno e il compito al Parlamento di riformare l’ergastolo ostativo. È con un sospiro di sollievo che la sorella del magistrato ucciso dalla mafia si dice speranzosa in un’attività per così dire contro-riformatrice delle Camere. E conclude: io sono fiduciosa che quando c’è un interesse collettivo, deve avere la prevalenza sull’interesse soggettivo. E sicura che Giovanni la pensasse proprio così?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Lasciate in pace Falcone: il suo ergastolo ostativo non vietava i benefici. Nella proposta di legge dei 5s sulla liberazione condizionale ai non collaboranti si vorrebbero accentrare le decisioni al tribunale di sorveglianza di Roma, snaturando il principio del giudice naturale. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 maggio 2021. Giovanni Falcone viene tirato puntualmente per la giacchetta. Lo si fa quando si parla di “terzo livello”, laddove il giudice in realtà ne stigmatizzò la teoria, parlando di una mafia che non si fa eterodirigere. Così come lo si fa quando si parla dell’ergastolo ostativo: Falcone aveva previsto la possibilità di concedere i benefici penitenziari anche al detenuto che decide di non collaborare con la giustizia. Falcone viene tirato nuovamente in ballo dai parlamentari del M5S, in particolare dal deputato e ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, dal capogruppo in commissione Eugenio Saitta e dal senatore dell’Antimafia Marco Pellegrini. Lo hanno citato per presentare la loro proposta di legge sulla concessione della liberazione condizionale ai non collaboranti, dopo che la Consulta ha dato un anno di tempo affinché il Parlamento intervenga per ridisegnare l’ergastolo ostativo, premettendo che la preclusione assoluta ai benefici è incostituzionale. L’ex guardasigilli Alfonso Bonafede ha così esordito: «Non possiamo permetterci che l’impianto normativo fortemente voluto da Giovanni Falcone per contrastare l’azione delle mafie venga gravemente indebolito». In realtà, le recenti sentenze della Consulta hanno esattamente riportato l’ergastolo ostativo proprio vicino all’intuizione di Falcone. Se si vuole onorare la sua memoria, bisogna evitare di manipolare il suo pensiero e le sue azioni. Basterebbe approfondire il decreto legge ideato da Falcone quando, appunto, è stato introdotto per la prima volta il 4 bis nell’ordinamento penitenziario. Nella prima formulazione, quella di Falcone, l’articolo 4 bis prevedeva una semplice differenziazione del regime probatorio per accedere ai benefici penitenziari. Esso, infatti, raggruppava i delitti in “due distinte fasce”: nella prima rientravano i delitti ritenuti di certa riferibilità al crimine organizzato; nella seconda, invece, quelli di elevata gravità, ma non direttamente riferibili a tale genere criminale. Nel primo caso si poteva accedere alle misure alternative soltanto se fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Viceversa, per i delitti di seconda fascia, l’accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari era condizionato al semplice rilievo oggettivo dell’assenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata.
I paletti per l’ergastolo ostativo ci sono e sono rigidissimi. Ora i grillini, in nome di Falcone, vorrebbero arginare la sentenza della Consulta introducendo dei paletti. In realtà ci sono già e sono rigidissimi. Basterebbe osservare che la concessione dei permessi premio per i non collaboranti, sono numeri da prefisso telefonico. Attualmente, per concedere benefici ai non collaboranti, non si valuta solo la semplice buona condotta penitenziaria, visto che si tratta di un prerequisito minimo per ogni detenuto per qualunque reato. Nei confronti dei detenuti ostativi si effettua una osservazione che deve riguardare invece la riflessione critica sui fatti di reato, il suo atteggiamento verso le vittime e verso lo stile di vita che a suo tempo aveva abbracciato. La stessa nozione di buona condotta deve comprendere un focus sui comportamenti specificamente tenuti: ad esempio l’abbandono nel tempo di atteggiamenti prevaricatori o di pressione su detenuti che abbiano magari un livello criminale più basso. O il mantenimento di uno stile di vita ancora rappresentativo di quegli approcci: ad esempio il rifiuto di lavori semplici e umili, come quelli spesso disponibili in carcere.
Vengono già fatte delle valutazioni serie e scrupolose. Diventa inoltre importante valutare le rimesse in denaro che arrivano dai famigliari e gli acquisti che si fanno al sopravvitto. Si può verificare cosa succede alle famiglie sui territori, cioè se vi siano ancora degli stili di vita incompatibili con i redditi dichiarati. Naturalmente a questo poi si aggiunge una valutazione particolarmente seria, che riguarda i profili di pericolosità sul territorio, attraverso le informazioni che arrivano sull’operatività dei gruppi criminali di riferimento.
L’accentrare le decisioni fa venire meno il principio del giudice naturale. Forse il Movimento 5Stelle dovrebbe aggiornarsi, magari sentire i magistrati di sorveglianza per informarsi e proporre con cognizione di causa una legge. Invece, nella loro proposta di legge, vogliono accentrare tutte le decisioni al tribunale di sorveglianza di Roma. Senza rendersi conto, non solo delegittimano i magistrati di sorveglianza, ma la previsione di un accentramento confligge con il principio costituzionale del giudice naturale. Per altro allontanerebbe il giudice dalla conoscenza della persona, che è invece fondamentale per apprezzarne le evoluzioni nel tempo.
Bruti Liberati: «Le mafie si sconfiggono con la forza del Diritto». Ergastolo ostativo, l'intervento dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati: il segnale di civiltà offerto dalla sentenza della Consulta è una sfida al crimine. Edmondo Bruti Liberati su Il Dubbio il 13 maggio 2021. La Corte Costituzionale lo scorso 15 aprile ha ritenuto che la attuale disciplina che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada a disposizione ai condannati all’ergastolo ostativo per accedere alla liberazione condizionale è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma ha deciso di rinviare il giudizio al 10 maggio 2022, così da garantire al legislatore il tempo necessario per affrontare la materia. La motivazione della ordinanza depositata l’11 maggio consente, a mio avviso, di superare allarmi e preoccupazioni da più parti avanzati. La Corte si è data carico del fatto che un intervento meramente “demolitorio” avrebbe potuto produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio della disciplina dell’ergastolo ostativo, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa. Ha riconosciuto il rilievo della collaborazione con la giustizia, ma ha giustamente rilevato che «non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali». La scelta della Corte è stata criticata da punti di vista opposti. Si è proposto l’allarme per il cedimento che si determinerebbe nel contrasto alla criminalità mafiosa; all’opposto si è rilevata la incongruenza di mantenere in vita per un anno una disciplina ritenuta incostituzionale, con il rischio che nel frattempo il legislatore non intervenga. Occorre ricordare che nella sentenza Cedu del 13.6.2019 nel caso Viola contro Italia si legge: “La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’art.3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena”. Attenendosi a questa indicazione la nostra Corte ha inteso rimettere al legislatore la elaborazione delle condizioni che, eliminata la presunzione assoluta della non collaborazione, consentirebbero l’accesso alla liberazione condizionale: tra queste “potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione”. Oltre un anno addietro con la sentenza n.253/2019 la Corte aveva dichiarato direttamente la incostituzionalità della preclusione assoluta limitatamente alla concessione dei permessi premio. Una grande responsabilità veniva assegnata alla magistratura di sorveglianza, non maggiore peraltro di quella che quotidianamente viene affrontata in tutti gli altri casi. È una responsabilità che la magistratura di sorveglianza affronta da quasi mezzo secolo, da quando il Parlamento ebbe il coraggio nel 1975, pur nel clima di allarme per la criminalità organizzata e per il terrorismo, di adottare la riforma penitenziaria. Nel 1975, nominato magistrato di sorveglianza a Milano, ho avuto modo, per la prima volta nella storia della Repubblica, di applicare questo istituto: il primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta, l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella” e del “lasciamoli marcire in carcere”. La Corte con la sentenza n.253/2019 sottolineava che alla magistratura di sorveglianza deve essere assicurato “un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia” . È una assunzione di responsabilità che si richiede anche alle forze di polizia che “devono acquisire stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” e non limitarsi, aggiungo io, a pigre formulette “ non si può peraltro escludere che…”. Ed inoltre sarà necessario rendere più incisivi i controlli richiesti dal regime di libertà vigilata. È un mutamento culturale e organizzativo che si richiede anche alle forze di polizia. Il percorso di reinserimento dei condannati nella società, i dati statistici lo dimostrano, è un efficace, anche se ovviamente non risolutivo, antidoto alla recidiva. Tutt’altro che “buonismo” , ma efficace politica per garantire maggiore sicurezza. Gli allarmi lanciati come reazione alla sentenza della Corte sui permessi sono stati smentiti dai fatti. I permessi concessi ad ergastolani ostativi si contano sulle dita di una mano e non hanno posto problemi. I detenuti in regime di ergastolo ostativo oltre 1200. Cosa ci dicono questi dati? Anzitutto che i magistrati di sorveglianza sono stati oculati e prudenti della concessione dei permessi. Inoltre si deve considerare che la concessione della liberazione condizionale (così come della altre misure alternative) è sempre la conclusione di un percorso che prevede l’esito positivo di una pluralità di permessi. Sembra dunque eccessiva la critica secondo la quale il rinvio precluderebbe la concessione della liberazione condizionale, che comunque presuppone la positiva esperienza dei permessi per un congruo periodo. Per altro verso il rinvio disposto dalla Corte consentirà di sperimentare questi percorsi ed offrirà al legislatore concreti elementi di fatto sui quali modellare la nuova disciplina. Queste sono considerazioni di mero fatto, ma ogni tanto fare i conti con i dati di fatto anche su grandi questioni di principio non è inutile. Penso che la decisione della Corte sia stata, sotto i diversi punti di vista, una saggia decisione. Non si tratta di “allentare la guardia” di fronte alle organizzazioni mafiose ma di ricordare che in carcere non ci sono “organizzazioni”, ma persone. L’offrire una prospettiva di “uscita” dal carcere e di “rientro nella società” andrà incontro inevitabilmente anche a fallimenti, a errori valutazione. Ma sull’altro piatto della bilancia è il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose e non è illusorio pensare che forse potrà contribuire alla messa in crisi, silenziosa, di consolidate appartenenze.
Le motivazioni e gli interventi. Ergastolo ostativo, le motivazioni della Consulta lezione a chi ha diviso i detenuti in buoni e cattivi. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Il deposito delle motivazioni dell’ordinanza della Corte costituzionale 97/2021 sul cosiddetto ergastolo ostativo fa giustizia di troppo affrettate interpretazioni del comunicato stampa con cui essa era stata annunciata qualche settimana fa. E pone il legislatore di fronte alla responsabilità di un intervento equilibrato, libero dai condizionamenti del fazionismo urlato che, in queste materie, impera. È un’occasione da non perdere per più di una ragione. Innanzitutto perché dopo mesi di marginalizzazione, dovuta anche alle vicende della pandemia, il Parlamento è chiamato a dimostrare di essere un organo vitale capace di assumersi le proprie responsabilità. L’abbandono dell’ubriacatura da Dpcm, il recupero dello strumento del decreto-legge (che il Parlamento deve convertire controllando così l’azione del governo), i compiti che a esso sono affidati nel quadro delle politiche di attuazione del Pnrr, restituiscono all’organo rappresentativo una centralità importante, seppur nella distinzione di ruoli tra maggioranza e opposizione. Si tratta di dimostrare che l’ubriacatura giacobina inneggiante alla democrazia della rete, da un lato, e la passiva subalternità a forzature operate con i poteri di ordinanza, dall’altro, non sono un ineluttabile destino per le nostre affaticate istituzioni. Inoltre il Parlamento è chiamato a dimostrare la propria capacità di interloquire autorevolmente con l’organo di suprema garanzia costituzionale che ha, per la terza volta negli ultimi anni, scelto un’apertura molto significativa alla leale collaborazione istituzionale con il potere politico. La decisione di sospendere il giudizio di legittimità sull’ergastolo ostativo consentendo al Parlamento di intervenire, calibrando una disciplina che rientra nella sua discrezionalità, è un’ulteriore mano tesa al legislatore, malgrado la pessima prestazione nel precedente del caso Cappato. Anche in quell’occasione la Corte aveva dato tempo alle Camere, ma alla fine dovette decidere comunque, avendo preso atto «di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza». Il terzo motivo per il quale l’occasione è importante attiene al merito della questione. Siamo in un’epoca in cui sulla giustizia grava il cielo plumbeo di una crisi fatta di scandali, di sospetti e di drammatiche preoccupazioni per la tenuta di un sistema affetto ormai da mali endemici. Di fronte a questa situazione, la politica, peraltro pesantemente coinvolta in molte vicende della giustizia, è tentata di proseguire in quella guerra di religione che ormai dura da decenni. Il fazionismo, le contrapposizioni ideologiche, le tifoserie dei talebani impazzano, esasperando conflitti che richiederebbero invece il rasoio di Occam per la delicatezza e la drammaticità di questioni che, in ultima istanza, si scaricano sulla carne viva dei cittadini. E le prime reazioni alla decisione della Corte, prima che ne fossero conosciuti i dettagli, non lasciavano ben sperare. Al contrario le motivazioni del giudice delle leggi fanno ragione delle posizioni più oltranziste, siano esse perdoniste o colpevoliste. Anzi, si può, in una battuta, dire che la Corte ha deciso di offrire una chance al Parlamento proprio in considerazione della delicatezza della materia, della complessità delle decisioni possibili, che richiederanno anche valutazioni di merito politico in relazione alle varie possibili alternative. Una forma di deferenza verso la rappresentanza popolare che spetta al legislatore dimostrare di meritare. Il problema è complesso proprio perché non può ridursi al semplice annullamento delle norme sull’ergastolo ostativo. La questione è nota e si risolve nella domanda: chi non ha collaborato con la giustizia può meritare di essere liberato (in via condizionale e poi, eventualmente, definitiva)? E la risposta della Corte parte da un approccio laico, in cui si fa strame di un doppio tabù. Quello per cui chi collabora possa dirsi per definizione “ravveduto” e quello per cui chi non collabora sia, per definizione, “pericoloso”. Il giudice delle leggi dà una lezione di cultura giuridica, rinunciando a una visione paternalistica e moralistica della politica criminale, ma cogliendone gli aspetti realistici e la necessità di distinguere. Non ci sono automatismi discendenti dall’avvenuta o mancata collaborazione: “La condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali». Ciò non significa squalificare il ruolo di chi collabora, ma significa guardarlo senza retorica in funzione dell’utilità per lo Stato. Chi non collabora dal canto suo, non può essere inappellabilmente tacciato di conservare legami criminali, anche ciò non vuol dire che la mancata collaborazione non possa suscitare sospetti che vanno dissipati attraverso un rigoroso e specifico scrutinio. Non è dunque un “liberi tutti”, ma, al contrario, il riconoscimento della necessità che siano adottate procedure, prima e dopo l’eventuale liberazione condizionale, volte ad accertare in concreto, con modalità severe e tranquillizzanti per la comunità, che il percorso di ravvedimento, malgrado la mancata collaborazione, possa dirsi effettivamente provato. Per questo sarebbe più che opportuno l’intervento del Parlamento. Perché la calibratura di queste misure implica scelte discrezionali importanti nell’equilibrio tra principi costituzionali come l’interesse alla sicurezza dei cittadini e quello alla rieducazione dei condannati. Piuttosto che esultare o rammaricarsi per la decisione, la politica dovrebbe adesso dimostrarsi all’altezza della sua responsabilità. Giovanni Guzzetta
Non sono boss di mafia, continuano a mandarli al 41 bis, ma la Consulta lo ha vietato. Lo ha detto in Antimafia il segretario Uilpa De Fazio e la Consulta nel 1997 ha ribadito che i ricorsi al 41 bis devono essere «concretamente giustificati». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 aprile 2021. Si ricorre troppo spesso al 41 bis, con il rischio di rinchiudere anche persone che dovrebbero stare in alta sicurezza. Il rischio? «Paradossalmente, inflazionando l’assegnazione ai predetti circuiti si finisca per immettervi soggetti estranei alla criminalità organizzata e che, da un lato, potrebbero essere da quest’ultima “arruolati”, dall’altro, sviliscano lo scopo di ridurre i contatti e le possibilità di comunicazione dei boss». A dirlo innanzi alla commissione nazionale Antimafia è Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Ciò che ha osservato in commissione il segretario della Uilpa è di particolare rilievo. Il 41 bis, ricordiamo, nasce per rinchiudere i boss mafiosi, quelli che potenzialmente possono dare ordini all’esterno indirizzati al proprio gruppo di appartenenza. L’alta sicurezza, invece, è una sezione del carcere in cui sono riuniti tutti i condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga, etc.), che sono sottoposti ad una sorveglianza più stretta rispetto ai detenuti comuni. «Sempre più spesso, del resto, – ha osservato De Fazio in commissione – si ha la sensazione che si ricorra all’applicazione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario proprio perché l’Alta Sicurezza non offre sufficienti garanzie». Appare quindi che la magistratura abbia questo tipo di percezione e per questo ricorre sempre più spesso al 41 bis. Ma se così fosse, viene meno la ratio del carcere duro che non può essere dato con estrema facilità visto il suo carattere – almeno sulla carta – eccezionale. Eppure, l’alta sicurezza è un regime certamente non morbido. Il rapporto tematico redatto dal garante nazionale delle persone private della libertà, ci aiuta a capire di che cosa stiamo parlando. Si apprende che le sezioni del circuito di Alta sicurezza (As) sono state istituite con il «compito di gestire i detenuti e gli internati di spiccata pericolosità, prevedendo al proprio interno, tre differenti sotto-circuiti con medesime garanzie di sicurezza e opportunità trattamentali». Esse sono definite con un Atto amministrativo e non con una norma di carattere primario. La decisione di prevedere tre sotto-circuiti nasce, nel 2009, dall’esigenza, specificata nella citata circolare, di rispondere alla eterogeneità dovuta alle differenti connotazioni di natura criminale alla base della presenza delle persone nell’allora circuito “Elevato indice di vigilanza”, da quel momento sostituito dal circuito dell’Alta sicurezza.
La Consulta, già nel 1997, ha chiarito che i ricorsi al 41 bis devono essere «concretamente giustificati». Ciò che ha denunciato De Fazio, se fosse vero, è grave. Va contro alcune sentenze della Corte costituzionale. La Consulta, nella sua sentenza n. 376 del 1997, ha espressamente detto che i ricorsi al 41 bis devono essere «concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di ordine e sicurezza». Poiché – afferma la Corte – «da un lato, il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell’imputazione, ma sull’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa; dall’altro lato, le restrizioni apportate rispetto all’ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere – sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità – solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza. Non vi è dunque una categoria di detenuti, individuati a priori in base al titolo di reato, sottoposti a un regime differenziato: ma solo singoli detenuti, condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata, che l’amministrazione ritenga, motivatamente e sotto il controllo dei Tribunali di sorveglianza, in grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni ed esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività, e che per questa ragione sottopone – sempre motivatamente e col controllo giurisdizionale – a quelle sole restrizioni che siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo, attraverso la soppressione o la riduzione delle opportunità che in tal senso discenderebbero dall’applicazione del normale regime penitenziario».
Il dibattito sull'ergastolo ostativo. Gli italiani sono per la pena di morte, ecco perché. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Abbiate il coraggio di dirlo, se volete seppellire in un buco nero quel vecchio che un giorno fu ragazzo crudele. Se volete condannarlo alla morte sociale senza tenere in nessun conto il suo cambiamento, allora siete per la pena di morte. È così. In Italia c’è una parte della classe politica e della magistratura favorevole alla pena capitale. Non lo dicono, ma lo pensano. Vogliono eliminare dalla società civile coloro che hanno commesso gravi delitti o che comunque per reati di mafia o terrorismo siano stati condannati. Li vogliono togliere di mezzo, nasconderli dietro l’ergastolo ostativo e non vederli più, cancellarli, annientarli. Esprimono una forma di ferocia vendicativa, anche se ben nascosta, nel momento in cui negano alla persona l’esistenza come individuo e fanno coincidere il reo con il reato. Per questi soggetti – esponenti politici o pubblici ministeri che siano – non esistono il mafioso o il terrorista, ma solo la mafia e il terrorismo. Chiudendo le porte del carcere con il “fine pena mai”, hanno così chiuso la vita stessa del condannato. Mi ha colpito l’intervista (Sole 24 ore, 18 aprile) alla dottoressa Alessandra Dolci, coordinatrice della Dda di Milano da quando è andata in pensione Ilda Boccassini. Un magistrato che, ne sono certa, si considera di sicura fede democratica e contraria alla pena di morte. E anche, persino, a un eccessivo uso delle manette. Tanto da dire che «in un mondo ideale sarei pure d’accordo nel destinare il carcere solo a pochi criminali a elevatissimo tasso di pericolosità. Purtroppo però non viviamo in un mondo ideale». Anche perché, in un mondo “ideale”, o forse anche soltanto in una società liberale, dovrebbe essere soprattutto il concetto di prigione come unica forma di pena, a essere messa in discussione, prima ancora che il numero di persone da catturare. E tralasciamo una questioncina piccola piccola, che è quella del carcere preventivo, cioè quella custodia cautelare che riempie le carceri del 40% del totale dei detenuti e che è semplicemente una forma di pena anticipata, nei confronti di colpevoli e innocenti. Ma guardiamo alla qualità della detenzione. Non è ammissibile che magistrati ed esponenti politici ignorino due riforme essenziali dell’ordinamento penitenziario del passato, quella del 1975 e la Gozzini del 1986. Cui andrebbe aggiunta quella che ha cambiato radicalmente nel 1989 il codice di procedura penale. Stiamo parlando di cose del secolo scorso, certo. Ma se hai vinto un concorso per entrare in magistratura o se hai vinto le elezioni e sei entrato in Parlamento non puoi ignorarle. Proprio come siamo tutti obbligati, dal momento che abbiamo almeno il diploma della scuola dell’obbligo, a saper leggere scrivere e far di conto. Ma pare non essere così. È vero che nel corso degli anni nessun Parlamento ha avuto il coraggio di abolire l’ergastolo come era stata abolita (per due volte, dopo che il fascismo l’aveva ripristinata) la pena di morte, ma l’insieme delle riforme del secolo scorso l’aveva nei fatti reso inoffensivo, fissando allo scadere dei 26 anni di carcere il momento per poter chiedere l’accesso alla liberazione condizionale. E le mura dei penitenziari erano state rese valicabili anche dalle misure alternative. Questi importanti cambi di passo erano stati una vera rivoluzione copernicana, che metteva al centro il detenuto, prima del reato. Il “trattamento” è l’apriscatole per il percorso di cambiamento della persona. Il reato è lì, fermo e immutabile, fa parte della storia da cui non si può tornare indietro. Ma l’individuo cambia. Nel suo discorso programmatico alle Commissioni giustizia di Camera e Senato la ministra Marta Cartabia ha messo l’accento con particolare passione sulla necessità che nel processo penale entri la “giustizia riparativa”, punto di incontro tra chi ha rotto il patto con la comunità e chi ne è rimasto vittima. L’opposto del concetto di pena eterna, di carcere senza speranza. Un inno al cambiamento. Vorrei chiedere ai vari Salvini o Meloni (tralasciamo per un attimo la banda dei Cinquestelle) o Grasso, o ad altri di sinistra, piuttosto che alla dottoressa Dolci e a tutti i suoi colleghi “antimafia”, se riescono a volgere i propri occhi all’indietro per un attimo e a guardare se stessi come erano dieci o venti o trent’anni fa. Che cosa vedete, quale persona vedete rispetto a quel che siete oggi? Rispondete con sincerità e poi riflettete. Quando nel nostro ordinamento furono introdotti l’ergastolo ostativo e l’articolo 41-bis, erano appena stati ammazzati dalla mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il che determinò (cosa che non dovrebbe mai accadere) una reazione emotiva da parte del Parlamento e la conseguente approvazione di norme incostituzionali. Cosa che l’Alta Corte non ha mai fino a poco tempo fa voluto constatare. Ma i tanti piccoli passi cui ci sta conducendo oggi, insieme a una serie di sentenze della corte di cassazione, dovrebbero servire a far aprire gli occhi anche a chi finora non ha voluto vedere. Per esempio, quando vengono sbloccati il divieto di saluto tra detenuti, o l’impossibilità di tenere cibo o di leggere un giornale o di sottoporsi alla fisioterapia se si è gravemente malati, mi domando, quanti leader politici che straparlano di buttare la chiave, conoscevano l’esistenza di questi divieti vessatori? O c’è ancora qualcuno che pensa che il carcere speciale, o anche quello normale, siano hotel di lusso? La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte l’Italia per i suo trattamenti inumani e degradanti nelle carceri. Tra questi c’è il “fine pena mai” dell’ergastolo ostativo. Oso dire che la gran parte dei detenuti al carcere a vita è profondamente cambiato. Non è l’intuizione di un’ottimista sognatrice, è la realtà scritta nero su bianco da decine e decine di operatori e volontari che ogni giorno si dedicano al “trattamento” dei detenuti. E anche da tanti giudici di sorveglianza, categoria di magistrati spesso sottovalutata. Vede, dottoressa Dolci ( e con lei i tanti suoi colleghi “antimafia”), quando lei dice “in assenza di elementi di collaborazione, come è possibile arrivare a dire con esattezza che il detenuto ha rescisso i legami con l’associazione criminale di provenienza?” è a questo mondo carcerario che dovrebbe chiedere. A persone che trattano con altre persone. Con quei detenuti che non sono la fotografia di quel che ciascuno di loro era alla data in cui hanno commesso il delitto, ma che sono i protagonisti di un film che si è evoluto nel corso del tempo. Se lei, se voi, guardate solo quell’immagine fissa, se volete seppellire in un buco nero quel vecchio che un giorno fu ragazzo crudele, allora dite chiaramente che volete la condanna a morte. Siate sinceri e ditelo, almeno.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il carcere come strumento di pressione. Ergastolo ostativo, la sentenza della Consulta infrange il teorema o pentito o mafioso. Alberto Cisterna su Il Riformista il 20 Aprile 2021. La decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo ha suscitato contrapposte prese di posizione, e prevale tra quanti si attendevano una decisione definitiva l’impressione che la Consulta abbia voluto guadagnare tempo e riservarsi l’ultima parola sul punto solo se costretta (chiare le parole di V. Zagrebelsky, “Se la Corte sceglie di non decidere”, su La Stampa del 16 aprile). Dar tempo al Legislatore, come insegna la vicenda Cappato, è in gran parte inutile in questo paese e l’ostinazione con cui la Corte applica un rigido self-restraint in casi come questo è il segno che anche questa partizione della Costituzione dovrebbe essere ampiamente rimaneggiata per conferire all’Alto consesso i poteri di intervento che la modernità e il consolidarsi di una legislazione multilivello (regionale, nazionale, europea, sovranazionale) esigerebbero ormai. Certo la presenza di un ministro della Giustizia di altissimo spessore induce, questa volta, a qualche speranza. Se non fosse che l’oculato e misurato comunicato stampa della Consulta evoca scenari tutt’altro che rassicuranti circa la possibilità di una reale riforma; soprattutto in presenza di una legislatura al suo secondo quadrante e con una maggioranza eterogenea e fortemente contrapposta sui temi della giustizia. Veniamo al pronunciamento della Corte, o meglio, all’anticipazione delle motivazioni a sostegno della dilazione temporale concessa al Parlamento (maggio 2022). Poche righe che, per un verso, hanno dato forza alle tesi abolizioniste e, per altro, hanno lasciato un barlume di speranza ai teorici dell’oltranzismo sanzionatorio. Una scelta, certo, non casuale che concede al legislatore poche opzioni sul versante dell’ergastolo ostativo, ma che gli lascia mano ampia sul crinale della collaborazione di giustizia. Il regime attuale è chiaro: se sei mafioso e non collabori non puoi accedere alla liberazione condizionale. Questo regime è, secondo il giudizio già anticipato dalla Corte, incostituzionale perché «…tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Punto e a capo. Sennonché la Consulta non si è limitata a questo rilievo sulla singola norma – con un contegno per così dire ortodosso e in linea con le sue funzioni – ma è andata oltre constatando che «… l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Ragione per cui si deve «consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». Qui la questione si complica, e non di poco. Si prefigura una sorta horror vacui, ossia il timore che – rimuovendo il divieto per i condannati per mafia – si possa aprire una falla nell’intero sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Una valutazione di scenario certamente politica, anche se non irrituale nella giurisprudenza della Corte. Veniamo alla parole. Il tema della «peculiare natura» del delitto di mafia introduce argomenti e suggerisce riflessioni molto ampie che, in questa sede, possono essere solo menzionate. È chiaro che, negli ultimi tre decenni, si è costruito non solo un binario sanzionatorio, processuale e penitenziario alternativo a quello applicato ai reati ordinari, ma si sono anche poste le basi per una più profonda classificazione dei detenuti distinguendoli non sulla scorta della loro personalità, ma delle condotte di cui rispondono. Un approccio antropologico radicale ed esclusivo fondato su una sorta di teorema per cui il mafioso non si rieduca mai, almeno che non diventi un pentito. Secondo questo pensiero solo la collaborazione di giustizia può smentire la presunzione assoluta che avvinghia il condannato per mafia, poiché l’umanità del mafioso non è emendabile in alcun modo e ogni atteggiamento remissivo durante la sua detenzione è una mera finzione. Libri di basso conio, film, serie televisive, interviste, dichiarazioni di asseriti esperti hanno alimentato e sostenuto questa presunzione conseguendone la inevitabile implementazione normativa; proprio quel radicamento legislativo con cui le Corti nazionali ed europea sono ora chiamate a fare in conti tra mille dubbi e cautele. Per sviluppare un dibattito sul punto che coinvolge l’etica del legislatore, la sua capacità di costruire un sistema normativo scevro da suggestioni, campagne di stampa e connessi carrierismi, occorrerebbe trovare un punto di riflessione in comune. Punto di riflessione che, al momento, semplicemente non esiste. Talmente sedimentata è la convinzione che semel mafioso semper mafioso – ossia che la mafia sia innanzitutto una scelta esistenziale e interiore irretrattabile e non uno dei modi (neppure il più conveniente) per arricchirsi illecitamente – che in questa impostazione è impossibile ritenere che il carcere possa davvero emendare, correggere, purgare, risollevare. Solo se ti penti e collabori, solo allora lo Stato può fidarsi di te, perché compi una scelta incompatibile con il tuo status interiore, rinnegandolo. Uno stereotipo vetero-antropologico, ovviamente, ma ampiamente e agguerritamente sostenuto da un manipolo di agitatori più o meno interessati. Ecco la Corte, con le poche parole di quel comunicato, sembra voler infrangere definitivamente il muro di questo teorema e riportare al centro della discussione l’idea, democratica e costituzionale, che non si possono creare correlazioni tra pena e pentimento o generalizzazioni tra mafia e collaborazione di giustizia. Eppure il punto di crisi dell’assolutismo carcerario sarebbe abbastanza evidente: se la detenzione non corregge e non rieduca di per sé, ci si dovrebbe chiedere il pentimento così auspicato da quali pulsioni interiori deriva. Se il trattamento non aiuta l’emenda interiore, perché la delazione dovrebbe meritare una così decisa considerazione. In fondo sono, sono state quasi sempre, scelte di mero interesse. L’ergastolano collabora, quasi sempre, perché soffre la detenzione e la sua durezza. Ma questo cosa abbia a che vedere con la Costituzione e con la funzione rieducativa della pena, non è chiaro. Certo si può e si deve conservare l’importanza della collaborazione di giustizia in tema di mafia che, però, già l’ordinamento (dal 1991) favorisce e incoraggia. Impedire la concessione personalizzata e motivata dei benefici carcerari da parte del giudice di sorveglianza sino a quando non si collabori è un modo per ammettere che il carcere è uno strumento di pressione e di coercizione e non il luogo della rieducazione. Ecco chi sostiene le ragioni infrante dalla Corte costituzionale dovrebbe uscire dalla penombra dei giudizi morali e delle valutazioni antropologiche e dire la verità sul punto. Certo non guasterebbe prima aver letto qualcosa di serio e proveniente da ambienti scientifici non contaminati dal sospetto, a esempio Frederick Schauer, Di ogni erba un fascio. Generalizzazioni, profili, stereotipi nel mondo della giustizia, Cambrigde Mass., 2003, tra.it. 2008. Ma per troppi è chiedere troppo. Alberto Cisterna
Perché è anacronistico il “fine pena mai” nato durante l’emergenza mafiosa. Dopo la strage di Capaci è stato inasprito il 4 bis, mettendo la preclusione ai benefici per chi non collabora con la giustizia. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 17 aprile 2021. L’ ergastolo, pena perpetua, fu introdotto nell’ordinamento italiano con il Codice Zanardelli nel 1890 che, all’art. 12, prevedeva per i condannati a tale sanzione, la segregazione cellulare continua con obbligo di lavoro per i primi 7 anni, successivamente l’ammissione al lavoro insieme ad altri condannati, con obbligo del silenzio, pur sussistendo la misura della segregazione cellulare notturna. In seguito, con il Codice Rocco, venne riformata la disciplina dell’ ergastolo che fu spogliato del carattere intensamente afflittivo previsto dal precedente Codice mediante l’abolizione della segregazione cellulare continua. Prevedeva che i condannati scontassero la pena in uno stabilimento ad hoc, l’obbligo del lavoro, l’isolamento notturno e solo dopo l’espiazione di almeno 3 anni di pena l’accesso al lavoro all’aperto. Con la legge n. 1634/1962 venne introdotta una modifica mediante l’inclusione dei condannati all’ ergastolo tra i soggetti ammissibili alla liberazione condizionale, qualora avessero effettivamente scontato 28 anni di pena, in seguito ridotti a 26 anni con la legge n. 663/1986, nota come legge Gozzini. La stessa legge ha introdotto delle ipotesi in cui il detenuto potesse uscire temporaneamente dal carcere, tenuto conto dell’andamento del percorso rieducativo, per lo svolgimento di lavoro all’esterno e per permessi premio dopo aver espiato 10 anni di pena mentre, trascorsi 20 anni, poteva essere disposto l’accesso alla semilibertà. Sempre la Legge Gozzini ha ammesso che l’ergastolano che avesse dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione potesse fruire, come riconoscimento di detta partecipazione, di una detrazione di pena di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata con conseguente riduzione dei termini per l’ammissione ai benefici penitenziari.Ma poi arriva l’emergenza mafiosa che oggi non esiste più. I corleonesi trucidarono carabinieri, magistrati, gente comune, figli piccoli dei mafiosi per vendetta. Grazie a Falcone, nel 1991 il legislatore ha introdotto l’art. 4 bis, norma che detta la disciplina di accesso ai benefici penitenziari, con la quale si sono individuate due categorie di detenuti: quelli di prima fascia, condannati per delitti particolarmente gravi quali quelli di associazione di tipo mafioso, terrorismo ed eversione; quelli di seconda fascia, invece, rientravano gli autori di delitti che facevano presumere una minore pericolosità sociale del condannato, per i quali era richiesta l’assenza di elementi che facessero ritenere ancora sussistente il collegamento con la criminalità organizzata. Per entrambi le fasce, non c’era alcuna preclusione assoluta ai benefici penitenziari. A seguito della strage di Capaci, hanno inasprito il 4 bis, mettendo la preclusione ai benefici per chi non collabora con la giustizia. Venne fato in nome dell’emergenza stragista. Lo Stato vinse, l’emergenza finì, ma la legge è rimasta. C’è voluto l’intervento della Consulta affinché si ritorni sui binari dettati dalla Costituzione.
Trattazione rinviata a maggio 2022. Ergastolo ostativo, per la Consulta è incostituzionale: “Intervenga il Parlamento”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Aprile 2021. L’ergastolo ostativo è incostituzionale. Dovranno farsene una ragione i forcaioli e i manettari. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, riunita oggi in Camera di Consiglio, esaminando le questioni di legittimità sollevate dalla Corte di Cassazione sul regime applicabile ai condannati alla pena dell’ergastolo per reati di mafia e di contesto mafioso che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale. La Corte ha tuttavia stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022. La Consulta ha rilevato che “la vigente disciplina del cosiddetto Ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ha quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo“. Gli articoli 3 e 27 della Costituzione recitano, rispettivamente, che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” e “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo detta che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Perché allora la Corte ha deciso per rinviare tutto a maggio 2022? L’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata, secondo la Consulta. Una sollecitazione dunque al legislatore a intervenire, tenendo conto “sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. L’ordinanza sarà depositata nelle prossime settimane. Bicchiere mezzo vuoto per l’esponente del Partito Radicale e Presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. “Mi viene in mente la battuta sulla ragazza un po’ incinta. Se la norma è incostituzionale, allora la Corte Costituzionale avrebbe dovuto avere il coraggio di dirlo, non di aspettare un anno che il parlamento la rimuova e la renda costituzionale – ha detto ad AdnKronos – La Consulta si è comportata un po’ come ha fatto con la sentenza Cappato sull’eutanasia, però lì non c’era una legge, qui siamo in presenza di una norma esistente che produce i suoi effetti nefasti. Perché aspettare un anno? Se tu Consulta scopri la violazione di una norma della Costituzione, beh, c’è l’obbligo di rimuovere subito quella norma, non di aspettare un anno. E se poi il parlamento non legifera? La Consulta non ha avuto il coraggio di prendere una decisione”. Stato d’allerta invece sul fronte opposto: “perplessi” i parlamentari della del Movimento 5 Stelle della Commissione Antimafia; “per mafiosi e assassini l’ergastolo non si tocca, dicano quello che vogliono. E basta”, il tweet del senatore e segretario della Lega Matteo Salvini.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Il Parlamento ha 12 mesi per legiferare. Ergastolo ostativo, le motivazioni della Consulta: collaborazione non può essere unica via per uscire dal carcere. Fabio Calcagni su Il Riformista l'11 Maggio 2021. Dodici mesi di tempo, col giudizio rinviato al 10 maggio 2022 per una nuova discussione, così da garantire al legislatore tempo necessario per affrontare la materia. Quest’ultima, spinosissima, riguarda l’ergastolo ostativo, tema su cui deve intervenire il Parlamento cui spetta modificare l’aspetto della disciplina. A scriverlo è Nicolò Zanon, il giudice che ha redatto le motivazioni dell’ordinanza numero 97 della Corte Costituzionale depositata oggi, e anticipata in una nota lo scorso 15 aprile. La ‘palla’ passa dunque al Parlamento perché un intervento meramente “demolitorio” della Consulta potrebbe produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio di tale disciplina, “compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa”, si legge nelle motivazioni. Secondo la Corte appartiene infatti alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale. Fra queste scelte “potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione”. L’intervento di modifica di questi essenziali aspetti deve essere, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa, la Corte ha concluso che “esigenze di collaborazione istituzionale” impongono di disporre il rinvio del giudizio in corso.
LA CHIAVE DELLA COLLABORAZIONE – Attualmente per il condannato all’ergastolo ostativo l’unica strada per accedere al procedimento che potrebbe portarlo alla liberazione condizionale è quella della collaborazione con la giustizia, con l’accesso ad un periodo di libertà vigilata, a conclusione del quale, solo in caso di comportamento corretto, consegue l’estinzione della pena e la definitiva restituzione alla libertà. Ma secondo la Consulta “la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali”. Al beneficio della restituzione alla libertà possono accedere, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia. Ed è questo il punto chiave dell’ordinanza della Consulta, che spiega come “in base alla giurisprudenza costituzionale, è proprio l’effettiva possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione; se questa possibilità fosse preclusa in via assoluta, l’ergastolo sarebbe invece in contrasto con la finalità rieducativa della pena”, previsto dall’articolo 27 della Costituzione. L’attuale disciplina ostativa metterà però “in tensione” questo principio. Secondo la Consulta “da una parte eleva l’utile collaborazione con la giustizia a presupposto indefettibile per l’accesso alla liberazione condizionale, dall’altra sancisce, a carico dell’ergastolano non collaborante, una presunzione assoluta di perdurante pericolosità. Assoluta appunto perché non superabile da altro se non dalla collaborazione stessa, e che non consente in radice l’accesso a nessun beneficio”. L’incompatibilità con la Costituzione per i giudici della Corte “deriva dal carattere assoluto della presunzione, che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada a disposizione dell’ergastolano per accedere alla valutazione della magistratura di sorveglianza da cui dipende la sua restituzione alla libertà”. Altro punto chiave dell’ordinanza riguarda ancora una volta il fattore collaborazione dei detenuti: può essere dubbio, si legge nella motivazione, che questa “sia frutto di una scelta sempre libera”. Pur non essendo in discussione “il rilievo e l’utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale”, l’ordinanza sottolinea che l’attuale disciplina prefigura una sorta di “scambio” tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità di accedere ai benefici penitenziari. Per l’ergastolano ostativo che aspira alla libertà condizionale, questo scambio può assumere “una portata drammatica allorché lo obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine”. “In casi limite – scrive la Corte – può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Ergastolo ostativo incostituzionale, ma decida il Parlamento. La Consulta non decide sulla liberazione condizionale, senza aver collaborato con la giustizia, per chi è detenuto all'ergastolo ostativo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 aprile 2021. L’ergastolo ostativo è incostituzionale, ma ci dovrà pensare il Parlamento a varare una legge. La Corte costituzionale non decide sulle questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione in merito all’ergastolo ostativo, in particolare a chi chiede l’accesso alla liberazione condizionale senza aver collaborato con la giustizia. A differenza della sentenza del 2019 che ha dichiarato incostituzionale la preclusione assoluta del permesso premio a chi non collabora, questa volta i giudici delle leggi hanno preferito attendere un intervento legislativo nel merito.
Per la Consulta la disciplina ostativa è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Cedu. Nel contempo, però, la Corte ha osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, sottolinea la Consulta, «l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Quindi, nonostante che le questioni sollevate trovino accoglimento, la Corte preferisce rinviare la trattazione a maggio 2022 per consentire al legislatore «gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». Quello che appare, a differenza della decisione di un anno e mezzo fa, è la prevalenza della ragione politica sulla ragione giuridica. Dopo due settimane di attesa, alla fine la Consulta ha preferito dare un altro anno di tempo al Parlamento. Eppure, ricordiamo, c’è stata già una chiara condanna di quasi due anni fa da parte della Cedu proprio sulla preclusione assoluta della libertà condizionale per chi non collabora con la giustizia. Ma il Parlamento ha preferito non assumersi la responsabilità per adeguare la legge secondo l’indicazione dettata della Corte europea.
L’ergastolo ostativo impedisce di beneficiare della liberazione condizionale a meno che non si collabori. Ricordiamo di cosa si tratta. L’ergastolo ostativo, di cui all’art. 4 bis ordinamento penitenziario, impedisce al condannato in via definitiva per reati particolarmente gravi (tra i quali associazione mafiosa) di beneficiare della liberazione condizionale e degli altri istituti “premiali” penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, a meno che lo stesso – oltre ad avere buona condotta, partecipare a programmi di reinserimento, dare prova di resipiscenza – non collabori per prevenire la commissione di ulteriori reati ovvero facilitare l’accertamento e la identificazione degli autori di quelli già commessi, salvo che tale collaborazione non sia impossibile o inesigibile. La Corte Europea dei diritti dell’uomo si è occupata della tematica dell’ergastolo ostativo in riferimento al caso Viola contro Italia. Marcello Viola è stato un boss di ‘ndrangheta condannato all’ergastolo ostativo fin dagli anni 2000 che aveva presentato al Tribunale di sorveglianza, almeno in due occasioni la concessione di permessi premio, entrambi rigettati per la mancanza del requisito della collaborazione. Nel marzo 2015 il ricorrente chiedeva la concessione della liberazione condizionale, che veniva rigettata sia dal Tribunale di Sorveglianza che dalla Corte di Cassazione perché, secondo il Tribunale, la condizione specifica della cessazione dei vincoli con l’organizzazione di appartenenza si doveva necessariamente esprimere attraverso una attività di collaborazione con la giustizia; in particolare, la sentenza della Suprema Corte evidenziava l’irrilevanza della dichiarazione di innocenza del ricorrente, che avrebbe potuto essere valutata solo in sede di revisione. Nei sei mesi dal rigetto della condizionale, Viola ha proposto ricorso alla Corte europea lamentando plurime violazioni: violazione dell’art. 3 della Convenzione, in quanto l’ergastolo ostativo sarebbe pena non comprimibile, con violazione del principio di proporzionalità e del principio di reinserimento sociale; violazione dell’art. 3 della Convenzione sotto il profilo procedurale in quanto la sola dichiarazione di inammissibilità dell’istanza ha impedito una vera valutazione del merito della stessa e per il mancato accesso a generiche “risultanze istruttorie” alle quali le pronunce interne avevano fatto riferimento; violazione dell’art. 5 par. 4 della Convenzione perché l’ordinamento interno non garantirebbe il ricorso finalizzato alla verifica delle condizioni procedurali e sostanziali di legittimità della misura restrittiva; violazione dell’art. 6 par. 2 in materia di presunzione di innocenza e del principio del nemo tenetur se detegere anche in fase esecutiva; violazione dell’art. 8 intesa come coercizione alla collaborazione di chi si proclama innocente, con esposizione a grave rischio del ricorrente e dei propri familiari.
Per la Cedu serve una riforma dell’ergastolo. La Corte Europea, esaminando la richiesta solo sotto l’aspetto dell’art 3, con sentenza del 13 giugno 2019 ha condannato l’Italia, specificando che l’ergastolo ostativo limita la prospettiva di un mutamento futuro dell’interessato e la possibilità di revisione della pena, in violazione dell’art. 3 Cedu: «La Corte considera che la pena perpetua alla quale è soggetto il ricorrente, in virtù dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ossia il cd. “ergastolo ostativo”, limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena. Pertanto, questa pena perpetua non può essere qualificata come comprimibile ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. La Corte rigetta in tal modo l’eccezione del governo, riguardante la qualificazione di vittima del ricorrente e conclude che in questo ambito le esigenze dell’articolo 3 della Convenzione non sono state rispettate». Ed ancora: «La natura della violazione accertata ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione impone allo Stato di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena; cosa che permetterebbe alle autorità di determinare se, nel corso dell’esecuzione della pena, vi è stata una evoluzione del detenuto e se è progredito nel percorso di cambiamento, al punto che nessun motivo legittimo di ordine penologico giustifichi più la detenzione. Inoltre, la riforma deve garantire la possibilità per il condannato di beneficiare del diritto di sapere cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le condizioni applicabili. La Corte, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della “dissociazione” dall’ambiente mafioso, considera che questa rottura possa esprimersi con strumenti diversi dalla collaborazione con la giustizia e dall’automatismo legislativo attualmente in vigore».Nonostante la condanna della Corte Europea sulla preclusione della libertà condizionale e la successiva sentenza della Consulta sul solo permesso premio, il Parlamento ha preferito non adeguarsi al dettato di diritto internazionale. Ricordiamo che i giudici delle leggi avrebbero dovuto trattare la questione di illegittimità costituzionale sollevata dalla Cassazione per la libertà condizionale dell’ergastolano ostativo Francesco Pezzino. Ora se ne parla a maggio del 2022, in attesa che il Parlamento intervenga con una legge. Quindi, tra la condanna della Cedu e la trattazione della questione rinviata a maggio dell’anno prossimo, c’è il rischio che passino tre anni di limbo giuridico.
Valentina Errante per “il Messaggero” il 16 aprile 2021. L'ergastolo ostativo, che impedisce ai condannati per reati moto gravi di ottenere i benefici di legge in caso di mancata collaborazione con la giustizia, è incompatibile con la Costituzione. Il varco si potrebbe aprire per criminali del calibro di Giovanni Riina, figlio del capo dei capi di Cosa Nostra, e tra qualche anno per Nadia Desdemona Lioce, esponente delle nuove Br e condannata per gli omicidi di Massimo D' Antona e Marco Biagi, e Giovanni Strangio, ndranghetista organizzatore ed esecutore della strage di Duisburg. Ma la Consulta non esaminerà la questione prima di maggio del 2022: i mafiosi, che abbiano scontato almeno 26 anni, non potranno chiedere sin da oggi di ottenere la libertà condizionale, perché il Parlamento dovrà prima fare una legge. La Corte, attraverso una nota, anticipa l' ordinanza che sarà depositata nelle prossime settimane. Rileva che la preclusione assoluta ai benefici, anche quando il ravvedimento risulti sicuro, è incostituzionale, ma sottolinea che la bocciatura, senza un intervento normativo, rischierebbe di pregiudicare e condizionare il contrasto alla criminalità organizzata. Per questo la Consulta dà un anno al Parlamento per una nuova legge, ma sembra chiaro che, se il legislatore non provvederà nei tempi previsti, la norma sarà cancellata.
INCOSTITUZIONALITÀ. Secondo i giudici, vincolare alla sola collaborazione, come unica via, il recupero della libertà contrasta con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l' articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell' uomo. Ossia il principio di eguaglianza tra tutti i cittadini, il divieto di pene disumane e il postulato che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Era stata la Cassazione a sollevare la questione di legittimità sul regime applicabile ai condannati all' ergastolo per reati di mafia, di contesto mafioso e di terrorismo, che non abbiano collaborato con la giustizia e chiedano l' accesso alla liberazione condizionale.
UN ANNO. «Tuttavia, l' accoglimento immediato delle questioni - si legge in una nota dell' ufficio stampa che anticipa l' ordinanza - rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell' attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». La Corte ha perciò stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, «per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi».
MAFIOSI E TERRORISTI. Di fatto la questione riguarda per la maggior parte detenuti per reati di mafia. La legge, entrata in vigore, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, è stata estesa ai reati di terrorismo nel 2002, all' indomani dell' omicidio del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle nuove Br. L' ergastolo ostativo non riguarda quindi i condannati per stragi o agguati degli anni di piombo. Attualmente su circa 1.700 detenuti, che scontano in carcere l' ergastolo, sono 1.271 le persone che, per non avere collaborato, si vedono negare i benefici. Tutti condannati per reati particolarmente gravi, come i sequestri di persona a scopo di estorsione. Tra loro ci sono Giovanni Riina, figlio del capo dei capi di Costa Nostra e Leoluca Bagarella, finito in carcere nel 1995. Ma anche Michele Zagaria, capo clan dei Casalesi e Giovanni Strangio, affiliato alla ndrangheta e arrestato nel 2009. Dei pochi terroristi fanno invece parte Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma scontano una pena ostativa, proprio per l' omicidio Biagi e per quello dell' agente Emanuele Petri, ucciso nel 2003 al momento dell' arresto della Lioce. Ma per loro, che difficilmente chiederebbero di accedere ai benefici, non sono maturi neanche i tempi.
LA POLEMICA. La questione, però, divide già la maggioranza di governo. «Per mafiosi e assassini l' ergastolo non si tocca», attacca il leader della Lega Matteo Salvini. In trincea anche i parlamentari M5S della commissioni Antimafia e Giustizia (nessun «passo indietro» sull' ergastolo ostativo, chiedono). Mentre il Pd apprezza la «scelta saggia» della Consulta di dar tempo al Parlamento di intervenire, già compiuta in due altre occasioni, sul suicidio assistito cioè sul caso del Dj Fabo, e sul carcere per i giornalisti condannati per diffamazione. Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni, si augura che il legislatore intervenga «presto» ma «in modo da non pregiudicare l' efficacia di una normativa antimafia costata la vita a tanti uomini delle istituzioni». Per Antigone invece «l' incostituzionalità è accertata e non si potrà tornare indietro». La decisione critica della Consulta sull' ergastolo ostativo non giunge però inaspettata: anche in due pareri resi dall' ufficio legislativo del ministero della Giustizia, quando ancora a guidarlo era Alfonso Bonafede, si evidenziavano le «notevoli possibilità» che la questione di costituzionalità fosse accolta.
La decisione e le reazioni. Perché l’ergastolo ostativo è incostituzionale, la decisione della Consulta. Angela Stella su Il Riformista il 16 Aprile 2021. L’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione, ma serve una legge che il Parlamento emani entro un anno: così ieri la Corte Costituzionale chiamata a valutare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario in riferimento agli articoli 3, 27 e 117 della Costituzione e all’articolo 3 della Convenzione edu. La Corte, come spiega una nota, «ha anzitutto rilevato che la vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ha quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Tuttavia – prosegue – «l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Per questo i giudici costituzionali hanno stabilito «di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». A sollevare il dubbio di legittimità era stata la Cassazione sul caso di Salvatore Pezzino, il cui legale Giovanna Araniti dice: «sicuramente è positivo che abbiano dichiarato l’incostituzionalità in maniera chiara, spezzando l’equazione tra collaborazione e ravvedimento. Ora spetterà alla politica fornire le regole su come operare in futuro. Spiegherò tutto al mio assistito che, tra detenzione effettiva e riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata, aveva fin qui espiato oltre 27 anni di carcere con un percorso rieducativo esemplare. Si tratta di una norma incostituzionale che incide sulla libertà personale delle persone: mi auguro quindi che la politica non aspetti fino a maggio 2022 per ripristinare lo Stato di Diritto. Attendiamo comunque le motivazioni». Per Riccardo De Vito, giudice di sorveglianza e Presidente di Magistratura democratica: «il dato più importante è il fatto che la Corte ha messo nero su bianco che la disciplina dell’ergastolo ostativo è in contrasto sia con la Costituzione che con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di una conquista importante perché segna sulla carta la fine dell’ergastolo ostativo. Ci sono altri due elementi significativi. Primo: si è stabilito che il ravvedimento di un mafioso può risultare sicuro anche quando non abbia utilmente collaborato con la giustizia. Secondo: rispetto a quanto auspicato da alcuni commentatori, l’Italia non può essere un’isola in Europa; oltre al rispetto della Costituzione siamo chiamati a rispettare anche la Convenzione europea, come richiesto dalla sentenza Viola. Ora la politica non ricostruisca il meccanismo in altre forme». Per Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino, « il fatto rilevante è che la Corte Costituzionale ha considerato l’ergastolo ostativo contrario alla Costituzione italiana e alla Convenzione edu. La parola è rimessa ora al Parlamento. La sfida è chiara: è stato stabilito un luogo e un tempo per trovare un compromesso impossibile tra una questione di diritto in linea di principio già risolta – l’ergastolo ostativo è incostituzionale! – e una questione di politica criminale – il contrasto alla criminalità organizzata – che i professionisti della lotta alla mafia vorrebbero risolvere ‘more solito’ con la terribilità di leggi speciali e misure di emergenza, pene senza fine e regimi penitenziari mortiferi». Secondo Gianpaolo Catanzariti, co-responsabile Osservatorio carcere Ucpi, «la decisione è diversa da quella Cappato sul fine vita: qua la norma esiste ed è incompatibile con la Costituzione e con la Cedu. Affermare che una decisione di incostituzionalità possa compromettere il contrasto alle mafie fa paura. È la certificazione che dinanzi ad un delitto particolare, quello mafioso, si possa sospendere la Costituzione e lo Stato di diritto e non va bene». L’associazione Antigone, intervenuta con un amicus curiae, promette: «lavoreremo incessantemente affinché il legislatore superi gli automatismi preclusivi alla reintegrazione in società. Il percorso individuale va sempre esaminato caso per caso dal magistrato». Per quanto concerne la politica: per Salvini «l’ergastolo non si tocca»; la sentenza «lascia perplessi» i parlamentari M5S della commissione Antimafia, mentre il Pd con Ceccanti, Bazoli e Mirabelli chiede che il Parlamento dia seguito alla decisione della Consulta. Per il come occorre attendere le motivazioni. Una maggioranza alquanto disunita. Angela Stella
Ergastolo ostativo, Meloni contro la Consulta che vuole abolirlo: «Oltraggio alle vittime della mafia». Redazione venerdì 16 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Una «sentenza scandalosa». Non usa mezzi termini Giorgia Meloni per commentare la decisione della Consulta che ha definito l’ergastolo ostativo «incompatibile con la Costituzione». Un giudizio innescato da una questione di legittimità sollevate dalla Cassazione sul regime applicabile ai condannati all’ergastolo per reati di mafia che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale. La disciplina in vigore (ancora per poco, alla luce dell’ordinanza, che sarà depositata nelle prossime settimane) esclude in maniera categorica che un boss mafioso che non abbia collaborato con la giustizia possa richiedere la liberazione condizionale. E questo anche quando il suo ravvedimento risulta sicuro. Sembrerebbe una norma di buon senso. Per la Consulta, invece, «è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». E questo perché fa della collaborazione «l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà». Com’è tipico delle cose italiane, dopo l’acceleratore arriva subito il colpetto di freno. «Tuttavia – si legge infatti nella nota dell’Ufficio stampa – l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Ma tu guarda… «La Corte – prosegue la nota – ha perciò stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022». Da qui l’esigenza di mettere d’accordo il diavolo con l’acqua santa. Toccherà dunque al Parlamento armonizzare il contrasto alla criminalità organizzata con la «necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». Un coacervo di buone intenzioni che finirà solo per indebolire la lotta alla Piovra. Nel frattempo, il fronte politico è già in ebollizione. «Fratelli d’Italia – ha aggiunto la Meloni – lavorerà fin da subito in Parlamento per scongiurare che questa norma sia considerata incompatibile con il nostro ordinamento. Mi auguro che tutte le forze politiche siano al nostro fianco per impedire questo oltraggio senza precedenti alle vittime di mafia. E ai tanti servitori dello Stato caduti nella guerra alla criminalità organizzata».
Ergastolo ostativo, Meloni chiama a raccolta. Ma risponde il Pd: «Basta propaganda». Si apre lo scontro Pd-FdI. La senatrice dem Rossomando: «È più forte di loro, provare a cambiare le tutele costituzionali sembra un chiodo fisso della destra». Il Dubbio il 18 aprile 2021. «Fratelli d’Italia rivolge un appello a tutte le forze politiche: difendiamo insieme la legittimità dell’ergastolo ostativo, una norma sacrosanta e fondamentale per combattere la criminalità organizzata. Siamo già al lavoro per presentare una proposta di legge, senza escludere la possibilità di una modifica costituzionale, per mantenere intatto uno dei pilastri della normativa antimafia, da sempre combattuto e osteggiato dai boss. Il Parlamento deve parlare con una voce sola e condurre unito questa battaglia di legalità e civiltà». A lanciare l’appello è la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, dopo la decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato «illegittimo» l’ergastolo ostativo e ha dato dato tempo un anno al Parlamento per legiferare. «Non possiamo cedere e consegnare alla mafia la vittoria su quella che da sempre considera la madre di tutte le battaglie che consentirebbe ai peggiori boss di usufruire di diversi benefici penitenziari o di uscire di prigione. Sarebbe la resa totale dello Stato», ha aggiunto Meloni. «Le forze politiche raccolgano l’appello di Giorgia Meloni affinché l’ergastolo ostativo non sia cancellato dal nostro Ordinamento», scrivono in una nota il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato e componente della Commissione Antimafia, Luca Ciriani, il capogruppo di FdI in Commissione Antimafia, Antonio Iannone e il segretario della Commissione Antimafia, Wanda Ferro, deputato di FdI. «La recente decisione della Consulta impone al Parlamento di intervenire ma questo va fatto rispettando quei tantissimi servitori dello Stato che hanno sacrificato la loro vita nella lotta alla mafia. Infatti, l’ergastolo ostativo è un baluardo nell’azione di contrasto alla mafia, uno strumento decisivo nelle mani dei magistrati e adesso sarebbe assurdo e inaccettabile che questo fosse messo da parte. Senza considerare che rappresenterebbe un pessimo segnale, se non di resa ma senza dubbio di minore intensità, nell’azione di contrasto alla mafia. Una mafia, e i recenti arresti lo confermano, che continua ad essere una minaccia per la nostra Nazione. Per questo non si può rimanere a guardare, l’istituto dell’ergastolo ostativo va sostenuto e difeso nella sua legittimità», concludono i deputati di FdI. «È più forte di loro, provare a cambiare le tutele costituzionali sembra un chiodo fisso della destra. Su ergastolo ostativo assicuriamo a Giorgia Meloni che il Parlamento sarà in grado di difendere la legalità ma coerentemente con i principi costituzionali», replica su Twitter la senatrice Pd e vicepresidente del Senato, Anna Rossomando. «La proposta della Meloni è irricevibile. Per noi non devono essere contrapposti il rispetto dei principi costituzionali e la lotta alla mafia», aggiunge il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori dem e capogruppo del Pd nella Commissione Antimafia. «La stessa Corte Costituzionale invita il Parlamento a pensare a una nuova norma, che escluda la possibilità per i mafiosi condannati di tornare ad avere rapporti con le organizzazioni criminali, senza violare i principi costituzionali sulle finalità delle pene. È possibile farlo e il Parlamento deve impegnarsi per questo», scrive Mirabelli. «Meloni – conclude il senatore – preferisce fare propaganda e addirittura prefigurare pericolose modifiche costituzionali, ma non è così che troveremo le soluzioni per continuare a combattere le mafie». «Quando la Corte Costituzionale accerta l’illegittimità del carcere ostativo e la ministra della Giustizia riconduce alla Costituzione i principi di giustizia e brevità della funzione giurisdizionale, i tempi sono maturi per fare un passo avanti verso una società orizzontale in cui lo Stato garantisce diritti, doveri e libertà di tutti», scrivono invece Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, segretario e tesoriera di Radicali Italiani. «A chi, spesso fregiandosi del tricolore, rivendica il fine pena mai e l’assoggettabilità a indagini e processi sempiterni, rispondiamo con i principi che da sempre fanno parte del nostro patrimonio costituzionale. È arrivato il momento di rompere gli indugi e rendere vivi quei principi. Lo Stato che uccide di carcere colpisce una persona diversa da quella che ha commesso un reato e quindi è anch’esso un omicida. Lo Stato che non si preoccupa di conformare l’amministrazione della giustizia al concetto di giustizia tratta i suoi cittadini da sudditi. Uno Stato così deve essere cambiato. Bisogna farlo oggi in un momento in cui gli equilibri sociali sono tanto instabili. È necessario edificare sui valori di una società più giusta in cui chi nessuno è perduto per sempre e la divisione tra buoni e cattivi è una semplificazione irresponsabile che prima o poi colpisce tutti. Siamo con Cartabia se avrà il coraggio di andare fino in fondo», concludono i Radicali.
Risorto l’asse giallo-verde. L’ergastolo ostativo riunisce Salvini e 5 Stelle. La sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo spacca la maggioranza e ridisegna la geografia delle alleanze. Lega e Movimento 5 Stelle tornano a marciare insieme contro la modifica della norma. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 18 aprile 2021. La Consulta spacca la maggioranza e ridisegna la geografia delle alleanze. Almeno su un tema, quello dell’ergastolo ostativo, su cui la Corte costituzionale ha concesso al Parlamento un anno di tempo per rimettere mano alle norme in vigore, considerate incostituzionali. E così, nel governo di tutti e di nessuno i partiti si posizionano liberamente sull’argomento in base alle proprie sensibilità: sull’ergastolo ostativo non c’è ragionamento di opportunità politica che tenga. L’alleanza tra Pd e M5S, ad esempio, può anche andare in malora, la differenza tra dem e grillini su argomenti legati alla giustizia è troppo profonda per essere colmata in pochi mesi: convinti della necessità di assecondare la Corte i primi, mossi dalla fede nella pena severa i secondi. Così, potere della Consulta, risbocciano all’improvviso vecchi amori che il rancore sembrava aver sepolto, come quello tra Lega e Movimento, i coniugi del primo governo Conte finiti a scagliarsi l’argenteria addosso dopo il “tradimento” del Papeete. L’ergastolo ostativo potrebbe ridistendere gli animi. O così sembra ad ascoltare il punto di vista intransigente dei vecchi alleati. Anche se con sfumature e toni diversi, salviniani e contiani si schierano sulla stessa parte della barricata: l’ergastolo ostativo non si tocca. «La nostra legislazione antimafia è la migliore al mondo, ed è stata scritta con il contributo di persone che hanno sacrificato la loro vita per servire il Paese», dice l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, prima di annunciare: «Subito dopo il deposito delle motivazioni della decisione della Corte costituzionale, il Movimento cinque stelle presenterà una proposta di legge per proteggere e salvaguardare quell’impianto normativo che ha consentito di fare passi avanti enormi nella lotta alle mafie». Bonafede è sicuro che in Parlamento il M5S riuscirà a trovare ampia convergenza sulla proposta pentastellata «in quanto la battaglia contro la criminalità organizzata di stampo mafioso è patrimonio comune a tutte le forze politiche». L’ampia convergenza auspicata dall’ex Guardasigilli, al momento si esaurisce però alle forze della destra. E neanche tutta, visto che Forza Italia esprime una posizione molto diversa dagli alleati. Salvini in compenso è perentorio: «Per mafiosi e assassini l’ergastolo non si toca, dicano quello che vogliono. E basta», twitta senza giri di parole il leader della Lega. La Corte costituzionale, in altre parole, può dire ciò che vuole, con chi non collabora bisogna buttare la chiave, è il messaggio neanche troppo velato dei sostenitori della galera fino alla morte. «Le indicazioni della Consulta vanno tenute nel doveroso conto ma con altrettanta chiarezza va riaffermato che la lotta senza quartiere a mafie e criminalità organizzate non può tradire incertezze o passi indietro», scrivono in una nota i parlamentari in commissione Antimafia del Carroccio. «Chi sceglie la via dell’illegalità e non sente alcuna necessità di pentimento, non può vedersi riconosciuti benefici», aggiungono, assicurando il contributo della Lega per rispondere alla Consulta, senza però mettere in discussione le proprie convinzioni: nessuno «spazio o ambiguità verso chi delinque impunemente». Parole che sembrano rubate di bocca ai colleghi del Movimento impegnati in commissione Giustizia alla Camera, che a loro volta scrivono: «L’unico modo che il mafioso ha per ravvedersi è collaborare con la giustizia». Dare invece «la possibilità di accedere a benefici penitenziari e liberazione condizionale, in assenza di collaborazione, significa indebolire principi e capisaldi nella lotta alle mafie voluti, tra gli altri, da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». L’intransigenza pentastellata si scontra però con l’atteggiamento “laico” del Pd, convinto che non si possano ignorare le indicazioni della Corte costituzionale su un tema così delicato. «Il Parlamento non può rimanere ostaggio di chi pensa di dovere affrontare una questione così delicata con frasi superficiali del tipo “l’ergastolo non si tocca” o “la sentenza è una vergoga”», dice il deputato dem Carmelo Miceli, componente delle commissioni Giustizia e Antimafia. Bisogna invece trovare il «giusto bilanciamento tra la funzione emendativa della pena e l’aspettativa di giustizia delle vittime, tra la tutela del principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e la necessità di interrompere la pericolosità sociale che deriva dal carattere permanente del vincolo associativo mafioso», aggiunge Miceli. Tutto questo si può fare, concluce l’esponente Pd, «basta avere il coraggio e la determinazione di affrontare il dibattito senza cedere alla demagogia spicciola e al populismo sconsiderato».
Il dibattito. Caro Caselli, quel doppio binario ci porta dritti allo stato di eccezione. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 19 Novembre 2020.
1. Giunge inatteso il dibattito sulle criticità del 41-bis avviato dal procuratore Henry J. Woodcock sulle pagine del Fatto Quotidiano (6 novembre). Così inatteso – per firma, tema e tribuna – da strappare un plauso ai direttori del Foglio (7 novembre) e di questo giornale (10 novembre). Come insegna il vangelo, «oportet ut scandala eveniant», specialmente quando squarciano il velo dell’apparenza rivelando la realtà delle cose. È questo il caso, grazie anche ai successivi interventi dell’ex procuratore antimafia Giancarlo Caselli (8 novembre) e del pm Luca Tescaroli (13 novembre), ospitati sul quotidiano di Marco Travaglio.
2. Woodcock sospetta che il 41-bis sia un regime punitivo inteso a fabbricare pentiti. Lo nega invece Tescaroli: la ratio dell’istituto è tutelare la collettività, interrompendo le comunicazioni con l’esterno di capimafia finalmente dietro le sbarre. Che cosa prevede il 41-bis? «La facoltà di sospendere, in tutto o in parte», e solo temporaneamente, talune regole del trattamento penitenziario, all’unico fine di «impedire i collegamenti» tra il dentro e il fuori. È davvero così? Verifichiamolo empiricamente. Accade di rado, ma accade che un tribunale di sorveglianza revochi a un detenuto il regime del 41-bis. La notizia non passa mai inosservata: la stampa amplifica lo sconcerto dell’opinione pubblica, alimentato da sponde parlamentari e sdegnate arene televisive. Eppure, se il magistrato ha così deciso è perché ha verificato, nel caso concreto, che non ricorrono più i presupposti per l’applicazione del regime speciale: cioè che il cordone ombelicale tra quel detenuto e il sodalizio criminale esterno è stato reciso. Il 41-bis ha, dunque, raggiunto il suo fine (dichiarato). Il magistrato si trova, così, nel tritacarne mediatico avendo semplicemente applicato la legge per ciò che essa espressamente prevede. È un paradosso che scaturisce, svelandola, da una premessa normativa fasulla. Simili grida, infatti, rivelano l’autentico fine del 41-bis: indurre alla collaborazione con la giustizia o punire chi non collabora, attraverso un regime aspramente afflittivo mascherato da misura di prevenzione.
3. Questa (mal)celata finalità emerge anche dalla difficoltà di ottenere la revoca del 41-bis in modo diverso dalla collaborazione. Il regime speciale ha durata pari a quattro anni, prorogabile per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. A giustificarlo è la circostanza che «vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti» tra l’associazione criminale e il detenuto. Spetta a lui dimostrare il contrario, ma come? Per legge, il mero decorso del tempo – lustri, se non decenni, trascorsi isolati in “carcere duro” – non costituisce, di per sé, elemento sufficiente. Gli indizi su cui può fare leva il ministro di Giustizia nel disporre la proroga (dal profilo criminale del reo al suo ruolo apicale, dal tenore di vita dei familiari alla perdurante operatività dell’associazione a delinquere) sono vere e proprie presunzioni legali. Finisce così per gravare sul detenuto la pretesa dimostrazione dell’inesistenza di suoi legami con l’esterno. Una prova negativa, dunque. Ma la prova negativa di qualcosa che non esiste appartiene alla sfera della teologia, non del diritto processuale. Si spiega così la serialità stereotipata dei rinnovi del regime speciale, giustificati con un inespugnabile condizionale: «potrebbe ancora…». Si può dire anche così (cfr. Commissione Antimafia, 9 luglio 2002): «Le motivazioni delle proroghe appartengono a quella categoria di cose che si firmano previa bendatura degli occhi»; l’opposizione a tali proroghe «è quasi una probatio diabolica»; «l’inversione dell’onere della prova è una questione sempre molto borderline, se non oltre il borderline». Così si esprimeva l’allora sottosegretario alla Giustizia, e già membro del pool palermitano antimafia, Giuseppe Ayala, alla vigilia della legge n. 279 del 2002 che stabilizzerà nell’ordinamento il 41-bis, trasformandolo da misura emergenziale a strumento ordinario di politica criminale. Gli oltre 600 detenuti in 41-bis (e gli oltre 1.000 pentiti sottoposti a speciale regime di protezione) sono lì a dimostrarlo: su ciò, Woodcock ha ragione.
4. Dal dato normativo, invece, Caselli prescinde del tutto. Ad esso antepone convinzioni maturate «sul campo» della lotta alla mafia, espresse con parole di rara ferocia nella loro inappellabilità: pentimento «significa solo confessione» e «confessione significa delazione», poiché l’affiliazione mafiosa «può cessare solo col pentimento/confessione o con la morte». Testuale. Il presupposto di tale ragionamento è che per i membri della criminalità organizzata non è possibile alcuna prospettiva di recupero, perché è un dato storicamente e culturalmente certo che mafiosi non si diventa per scelta: mafiosi si nasce. Da qui la «regola» – conclamata anche da Tescaroli – per cui da Cosa nostra non si può uscire «se non con la morte o il tradimento». È un argomento ontologico che riveste assunti sociologici da verità fattuali incontrovertibili. Soprattutto, evita di fare i conti con la Costituzione secondo cui nessuno è mai perso per sempre: parlando di risocializzazione del «condannato», infatti, il 3° comma dell’art. 27 usa deliberatamente la forma singolare. Perché l’esecuzione penale riguarda singole persone, e non organizzazioni criminali. Perché – come si legge nella sent. n. 148/2019 della Corte costituzionale – «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile, ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento». Da giuristi, Caselli e Tescaroli non possono ignorare il principio costituzionale «della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena» (così, ancora la sent. n. 148/2019).
5. Conosco l’obiezione: davanti a mostruose biografie criminali, l’orizzonte di una risocializzazione è colpevolmente irenico. Anche in questi casi, però, resta fermo il divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanità: è un limite negativo che il regime differenziato del 41-bis travalica? Lo adombra Woodcock, cui Caselli contrappone l’alternativa di un progressivo ritorno al passato, quando in carcere comandavano i mafiosi, giustificando una modulazione della detenzione sulla caratura criminale del reo: «in breve, il 41-bis “punisce” la maggior pericolosità dei mafiosi irriducibili». Senonché, a dispetto della sua denominazione gergale, il “carcere duro” non è – né può diventare – una pena ulteriore, di specie diversa, più afflittiva delle altre, neutralizzatrice, riservata a determinati detenuti. Qui il dato normativo recupera tutta la sua cogenza: le misure penitenziarie legittimate dal 41-bis devono essere finalizzate all’unico scopo di interrompere la catena di comando tra chi è in galera e chi è fuori. Diversamente, la misura applicata è illegittima perché «puramente afflittiva» (sent. n. 351/1996 della Corte costituzionale). Che così debba essere lo ammette persino Tescaroli («il 41-bis non è una ulteriore pena afflittiva»), denunciando il problema della carenza di spazi detentivi «rispondenti a esigenze di umanità, idonei ad assicurare l’isolamento effettivo». Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra, sottaciuta, è l’applicazione di uno stillicidio di misure – dettagliate da severissime circolari ministeriali – che vanno a comporre un trattamento degradante per la dignità di detenuti i quali, ancorché irredimibili, restano esseri umani. È questa la preoccupazione che percorre, come un filo conduttore, le principali indagini sul regime del 41-bis: la relazione della Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani nella scorsa legislatura, il report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura all’indomani della visita in Italia nel marzo 2019, il rapporto del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, reso noto nel febbraio 2019 dopo aver visitato tutte le sezioni per detenuti in 41-bis. Non si spiegano altrimenti le numerose questioni di costituzionalità promosse dalla magistratura di sorveglianza sul 41-bis, come pure le non poche pronunce contro l’Italia della Corte europea dei diritti umani, pronunciate in relazione a specifiche applicazioni del regime speciale.
6. L’art. 41-bis esprime, de jure e de facto, la tendenza normativa a configurare i detenuti per “tipi di autore”, individuati sulla base del titolo astratto del reato commesso, e per i quali opera di default un regime ad hoc (processuale, penitenziario, premiale, giurisdizionale). Nei loro confronti il momento dell’esecuzione penale, invece di guardare (come dovrebbe) a un futuro possibile, risponde a esigenze investigative e di difesa sociale. Costi quel che costi. Magistrati di grande esperienza e preparazione, la cui biografia fa tutt’uno con il rispetto sacrale della legalità, dovrebbero ben sapere che questo “doppio binario” rischia di condurre, progressivamente, sul binario morto dello stato d’eccezione e del diritto penale del nemico, cui non vanno riconosciuti né diritti né garanzie. Chi teme questa deriva, ritiene che il contrasto alla criminalità organizzata non debba essere impermeabile alle regole e ai limiti imposti dal costituzionalismo, italiano ed europeo. Perché non è vero che il fine giustifica i mezzi. È semmai vero il contrario: in una democrazia costituzionale, sono i mezzi a prefigurare i fini. Ecco perché certi mezzi sono fatti oggetto di divieto assoluto e incondizionato, anche in caso di «pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» (art. 15 CEDU). Il divieto di trattamenti inumani e degradanti è esattamente uno di questi.
7. Il dibattito è destinato ad allargarsi: il 24 marzo 2021, infatti, è calendarizzata a Palazzo della Consulta la quaestio sul divieto di concessione della liberazione condizionale all’ergastolano non collaborante, condannato per un reato associativo incluso nella blacklist dell’art. 4-bis, 1° comma, dell’ordinamento penitenziario. Se ne è già parlato su queste pagine (Il Riformista, 9 luglio). L’augurio è che si sviluppi una discussione laica e razionale. Non una fatwa pronunciata da chi esibisce al petto lo stemma dell’antimafia contro chi non lo sarebbe abbastanza. Se tanto mi dà tanto, temo non andrà così. Accetto scommesse. Andrea Pugiotto
«Sull’ergastolo ostativo scelta inedita: il giudice delle leggi si è spinto oltre i limiti, più che sul fine vita». Intervista al presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick a proposito della decisione della Consulta sulla legittimità costituzionale dell'ergastolo ostativo. Errico Novi su Il Dubbio il 16 aprile 2021. «Guardi, mi trovo in una duplice difficoltà, di fronte alla scelta compiuta dalla Corte costituzionale. Da una parte la Corte dichiara l’incostituzionalità della norma che, per gli ergastolani ostativi, consente la liberazione condizionale solo se collaborano, ma lo dichiara senza perfezionare la decisione perché ritiene che il Parlamento debba predisporre una legge ordinaria in modo da non compromettere contrasto alla mafia e premialità per chi si pente. E già qui si tratta di una pronuncia senza precedenti, solo in parte assimilabile alla decisione sul fine vita. Dall’altra parte, è veramente problematico commentare non un’ordinanza ma un comunicato stampa. Che per forza di cose deve essere sintetico. E che dunque non può soddisfare tutti gli interrogativi né eliminare alcune perplessità». Giovanni Maria Flick è schietto nell’esprimere una valutazione non del tutto entusiastica della notizia venuta da Palazzo della Consulta. L’ergastolo ostativo senza possibilità di liberazione, neppure di fronte alla certezza del ravvedimento, è giudicato chiaramente illegittimo, eppure la Corte ritiene di non poter rendere, almeno per un anno, efficace tale pronuncia prima che il legislatore abbia preparato una pista d’atterraggio sicura.
È una sentenza inedita?
È solo in parte assimilabile alla scelta con cui nell’ottobre 2018 la Corte concesse un anno di tempo al Parlamento per disciplinare il fine vita. Scelta che, vista l’inerzia legislativa, fu seguita dalla declaratoria di parziale illegittimità arrivata esattamente un anno dopo. C’è l’analogia del termine imposto al legislatore ma, come chiarì definitivamente la sentenza del 2019, in quel caso la pur complessa opzione era legata alla necessità di dichiarare non punibile l’aiuto al suicidio in determinati casi senza negare, nello stesso tempo, la tutela di soggetti più deboli in generale. Allora si disse che la Corte si era spinta un po’ oltre i propri confini. Nella decisione appena sintetizzata dal comunicato, sembra si vada ancora un po’ più oltre. Soprattutto perché viene indicato un necessario intervento per legge ordinaria, un precauzionale argine normativo a possibili ricadute sulla lotta alla mafia e sulle collaborazioni. Sembra si vada al di là del perimetro che la Costituzione alla Consulta.
La valutazione della Corte sui necessari interventi per legge ordinaria complica le cose?
Può complicarle nella misura in cui non sappiamo cosa accade se il Parlamento, come avvenne per il fine vita, resta inerte. Dato che la Corte ritiene necessario preservare sia ogni forma di contrasto della criminalità sia l’efficacia dei meccanismi premiali per chi collabora, quale sarà la strada percorribile se il Parlamento non dovesse piantare quei paletti?
Se negare il diritto alla liberazione condizionale è illegittimo, vuol dire che la Corte, nel riconoscere tale illegittimità, accetta anche che quel diritto resti sospeso per un altro anno ancora: è così?
È una delle ragioni che mi inducono a dirmi perplesso. Una norma o è incostituzionale o non lo è. Oltretutto, dal comunicato la Corte sembra chiarissima nell’indicare quali principi sono violati: l’articolo 3 della Costituzione, dunque l’uguaglianza e la ragionevolezza, e l’articolo 27, secondo cui fine della pena deve essere rieducativo ed esiste perciò un diritto alla speranza per qualsiasi condannato. Subordinare la liberazione condizionale ad unico presupposto immodificabile, salvo eccezioni, vale a dire la collaborazione, è inoltre, secondo la Corte, in contrasto con l’articolo 3 della Convenzione europea. Eppure, di fronte a una illegittimità cosi chiara e cosi chiaramente affermata, non si perfeziona la decisione. O almeno così sembra. Parliamo pur sempre di un comunicato stampa, non di un’ordinanza.
Qualora un ergastolano ostativo che non si è pentito, ma del quale il giudice abbia già apprezzato l’effettivo e sicuro ravvedimento, nell’attesa che il legislatore eventualmente introduca le precauzioni invocate dovesse morire, ci troveremmo di fronte a una persona che non ha potuto beneficiare di un diritto nonostante la stessa Corte ne avesse accertato l’intangibilità. Come la mettiamo?
È una situazione che non piace. Nelle poche parole che inevitabilmente la Corte poteva affidare a un comunicato, si ricorda come detto la necessità di non compromettere gli effetti premiali della collaborazione. Il che è giustissimo. Si inserisce esattamente nel discorso già proposto dalla Corte stessa secondo cui è necessario premiare chi collabora, ma non è possibile punire chi non collabora. Ripeto, oltre a tutte le conseguenze problematiche che possono derivare da un regime di sospensione, da una pronuncia che congela gli effetti di quanto afferma, c’è quell’interrogativo molto pratico: cosa avviene se il Parlamento non agisce, o se ribadisce la propria contrarietà all’abolizione o alla modifica dell’ergastolo? Ne sapremo di più, forse, quando leggeremo l’ordinanza. La sospensione è tanto più problematica se si pensa alla rilevanza del pregiudizio di cui si discute. Come è stato più volte detto in passato, l’ergastolo è da considerarsi una “pena di morte” civile. E in quanto tale, nella sua definizione, è una pena in contrasto con la Carta. Non lo è nella sua attuazione soltanto perché la liberazione condizionale fa in modo che quella morte civile, a determinate condizioni, possa essere scongiurata. L’ostatività è un’eccezione evidentemente non sopportabile. La Corte lo dice con estrema chiarezza. Sul merito, la valutazione della Consulta è coerente con i principi appena richiamati. Solo che la Corte fa un passo in più e almeno per un anno non se ne avranno conseguenze. Non c’è una contraddizione in tutto questo? La Corte è chiamata a giudicare sulla legittimità costituzionale delle leggi, non sul loro inserimento in modo adeguato nel sistema di contrasto alla criminalità.
Presidente, la Corte legittima lo stato d’eccezione di fronte ai reati di mafia?
No, per la chiarezza sopra ricordata con cui afferma che è incostituzionale subordinare alla collaborazione la liberazione condizionale dell’ergastolano ostativo. Non vedo un pericolo di sdoganamento dello stato d’eccezione. Casomai c’è un ulteriore piccolo passo oltre i confini della Consulta quando si parla di compatibilità con il quadro delle leggi ordinarie in materia. È del tutto inconsueto. La Corte non può entrare nel campo d’azione del legislatore.
Già la maggioranza è divisa, sulla giustizia. Adesso il quadro sarà ancora più complicato, anche per la guardasigilli Cartabia.
Non riesco a immaginare uno sconvolgimento politico considerato anche il tempo ormai breve che separa il Parlamento dalla fine della legislatura. Ma a me le valutazioni politiche non interessano e soprattutto non competono. Sta di fatto che con la decisione appena comunicata, la Corte costituzionale ha compiuto un passo inedito, perché nel passato ha più volte ripetuto i cosiddetti moniti al legislatore, ma non li ha collegati a una affermazione esplicita di incostituzionalità nei casi in cui ha ritenuto inammissibile la domanda che le si rivolgeva, ancorché fondata nel merito.
E' una pena di morte sociale. Ergastolo ostativo, la Consulta decide di non decidere e 1.750 detenuti finiscono in un buco nero. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Aprile 2021. L’ergastolo ostativo, cioè l’unica forma vera di carcere a vita esistente nel nostro ordinamento, è sicuramente in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, oltre che con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo afferma senza ombra di dubbio la Corte Costituzionale, riunita ieri per decidere su stimolo della cassazione. Un’incostituzionalità palese di cui sono convinti i giudici dell’Alta Corte e quelli della Corte suprema, cioè i vertici massimi della giustizia. Ne sono convinti però non emettono una sentenza, ma rimbalzano al Parlamento, dando un anno di tempo per decidere di sbloccare con una legge la situazione di 1.750 detenuti che stanno scontando nel frattempo la pena di morte sociale. Cacciati come sono in fondo a un buco nero da cui non possono uscire, benché abbiano spesso scontato la pena massima, se non si trasformano in “pentiti”. Non pentiti nel senso letterale, cioè prigionieri di quel moto dell’animo che induce a prendere le distanze da un comportamento del passato, ma delatori sui comportamenti altrui. Succede così che molti di questi detenuti non siano in grado di raccontare niente di nuovo al magistrato, magari perché sono innocenti (capita persino questo) o perché degli episodi di cui sono stati protagonisti gli inquirenti sanno già tutto, o semplicemente perché nel percorso di cambiamento che hanno vissuto in tanti anni di carcere non rientrano la delazione e magari la calunnia. Ma ai magistrati pare non interessare molto dei progressi fatti dal detenuto attraverso il famoso “trattamento” individuale in carcere, vogliono solo la collaborazione processuale. E questo benché la storia di qualche decennio, da Contorno a Scarantino, mostri quanto poco attendibili siano spesso i famosi “pentiti”. Ma il problema è che chi non collabora è sempre considerato mafioso, tutta la vita, anche quando il cambiamento lo ha dimostrato giorno dopo giorno. Il punto è che, come ha ben ricordato nei giorni scorsi Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, è proprio il concetto stesso di ergastolo, cioè di pena a vita, a essere contrario ai principi costituzionali. È vero che ci sono state due importanti riforme, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, quella del 1975 e la legge Gozzini del 1986, che avevano demolito il principio del “fine pena mai”, aprendo numerosi spiragli su permessi premio, semilibertà, lavoro esterno, liberazione anticipata e libertà condizionale, prevista per tutti i detenuti che avessero scontato 26 anni di pena. L’introduzione del “trattamento penitenziario” con al centro la personalità e il progetto di cambiamento del detenuto condannato (riforma del 1975), e la conquista delle misure alternative al carcere (legge Gozzini), avevano portato l’Italia a un clima culturale di grande civiltà giuridica. Dopo essersi liberato per la seconda volta dopo il fascismo della pena di morte (che nell’ordinamento militare rimase però fino al 1994), il nostro Paese eliminava nei fatti anche la condanna alla morte sociale. Consentendo a chiunque avesse spezzato il patto con la comunità, di attuare in seguito un percorso diverso, con la speranza di poter ricostruire il patto sociale. Saranno poi l’aggressione feroce della mafia e in particolare l’assassinio di Giovanni Falcone (e subito dopo quello di Paolo Borsellino) a far perdere il lume della ragione e i principi dello stato di diritto a governi imbelli ormai agli sgoccioli della prima repubblica. L’ergastolo ostativo, insieme all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, l’inversione dell’onere della prova sulla persistenza dei rapporti tra il detenuto e la criminalità organizzata, nascono di lì. Non dalla mente di Falcone, ma dopo la morte del magistrato. La legge numero 306 del 1992 ebbe un’accelerazione improvvisa dopo il 19 luglio, quando la mafia fece saltare in aria l’auto di Paolo Borsellino. Sono passati trent’anni, e almeno se ne discute. Ma ci saremmo aspettati più coraggio dalla Corte Costituzionale. Si tratta di sanare un’ingiustizia.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Ergastolo ostativo, Consulta: incompatibile con la Costituzione. Cambiare è possibile? Le iene News il 16 aprile 2021. La Corte costituzionale ha deciso che l’ergastolo ostativo, ossia il regime carcerario durissimo destinato a terroristi e mafiosi che nega una serie di benefici carcerari, è incompatibile con la Costituzione. Il Parlamento ha un anno per modificare la legge. Il nostro Antonino Monteleone aveva incontrato Carmelo Musumeci, il primo condannato all’ergastolo ostativo. L'ergastolo ostativo è "incompatibile" con la Costituzione italiana. A stabilirlo è stata la Corte costituzionale, secondo cui la pena è in contrasto con i principi di uguaglianza e di funzione rieducativa della pena, dettati dagli articoli 3 e 27 della Costituzione, e con il divieto di pene degradanti sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani. L’ergastolo ostativo è quella forma particolare di ergastolo che nega una serie di benefici penitenziari, come ad esempio il lavoro all'esterno, i permessi premio, le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale. È stato introdotto nel nostro ordinamento all’inizio degli anni ’90 per combattere lo stragismo mafioso. È riservato a pochissimi casi di reati particolarmente gravi. La Corte costituzionale in particolare ha bocciato la disciplina che "preclude in modo assoluto", per chi è condannato all'ergastolo per delitti di mafia e "non abbia utilmente collaborato con la giustizia la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro”. La Consulta non ha comunque immediatamente accolto la questione di legittimità, perché “rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Insomma, la norma per adesso rimane in vigore ma il Parlamento ha un anno di tempo per intervenire e sanare l’incompatibilità rilevata dalla Corte. Del tema dell’ergastolo ostativo noi de Le Iene ci siamo occupati con Antonino Monteleone. La Iena nel 2019, all’indomani di un pronunciamento analogo della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha incontrato Carmelo Musumeci, criminale siciliano classe 1955, il primo a cui è stato applicato l’ergastolo ostativo: condannato per vari reati tra cui omicidio. La fine della sua pena è prevista il 31 dicembre 9999: tra 7.978 anni. Condannato all’ergastolo, mentre è in isolamento decide di studiare e diventa scrittore. Oggi ha una voce su Wikipedia, dove viene descritto come “scrittore e criminale”. Prima scrittore, poi criminale. “Sono entrato in carcere con la quinta elementare, ora ho tre lauree”, racconta con orgoglio. Da quando si è istruito, ha fatto parlare molto di se e in tanti gli hanno offerto sostegno. Dopo 27 anni ha ottenuto la libertà condizionale con una sentenza storica del tribunale di Perugia e vive in un convento dove fa volontariato.
Il dibattito sul fine pena mai. Giancarlo Caselli sbaglia, l’ergastolo ostativo non è da Paese civile. Riccardo Polidoro su Il Riformista l'8 Aprile 2021. L’attesa per la decisione della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’ergastolo ostativo ha indotto i media a occuparsi del cosiddetto “fine pena mai”, vigente nel nostro Paese nonostante sia stata abolita la pena di morte e la stessa condanna a vita. L’istituto “estraneo”, per chi non lo conoscesse, consente di tenere ristretta in carcere una persona per sempre, senza alcuna speranza che un giorno possa uscire. Unica possibilità è collaborare con la Giustizia, augurandosi che si abbia qualcosa da riferire. Ove ciò non avvenga, non vi è più alcun futuro se non quello di “marcire”, fino alla morte, in uno stato detentivo privato di qualsiasi prospettiva di rieducazione. È la più macroscopica eccezione ai principi a cui dovrebbe essere informato il nostro sistema penitenziario, così come descritto nell’Ordinamento e nella stessa Costituzione. In questi giorni leggiamo, pertanto, i pareri di chi vorrebbe la sua eliminazione e di chi, invece, propende per la sua permanenza in nome di una difesa dello Stato dall’attacco mafioso. Dovrebbe essere una contesa in punto di diritto, ma spesso si vola basso e ci si chiede cosa sia più utile alla comunità, dimenticando che della collettività fanno parte anche le persone destinatarie dell’atroce misura: autori di altrettanto atroci delitti, ma puniti dall’Autorità giudiziaria, in nome di una legge “del taglione” che non fa onore a uno Stato civile. Tra i difensori dell’ergastolo ostativo vi è Giancarlo Caselli che, sulle pagine del Corriere della Sera, ha spiegato che «non c’è alcun motivo di smantellare quel che funziona» perché «la mafia è viva e vegeta». A chi legge non può sfuggire l’evidente contraddizione di quanto affermato. L’istituto, inserito nella nostra legislazione nel 1992, quindi circa 30 anni fa, «funziona», ma la mafia è ancora «viva e vegeta». Se l’ergastolo ostativo fosse un veleno – e in parte lo è – chiunque se ne sarebbe già liberato, non producendo alcun effetto concreto. Il magistrato afferma poi che se è vero che la Corte europea dei diritti dell’uomo «ha già demolito l’ergastolo ostativo con una sentenza del 2019», non è detto che la Consulta «debba – sempre e comunque – prestare incondizionato ossequio alla giustizia Europea»: una sorprendente dichiarazione che ci fa pensare ai sostenitori dell’Italexit che vogliono liberare il nostro Paese dalla “gabbia” dell’Unione europea. In tal caso, l’obiettivo sarebbe lasciare “in gabbia” a vita i condannati per alcuni delitti. Insomma, usciamo dall’Europa, ovvero ci restiamo a intermittenza, solo un po’, quando ci conviene. Non vi è dubbio che la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta rappresentino il nemico da combattere, ma siamo certi che la strada seguita, non indicata dalla Costituzione ma da una legislazione emergenziale divenuta poi definitiva, sia quella giusta? Può uno Stato essere in continua emergenza? Oppure ha il dovere di praticare altre strade? È meglio sospendere il trattamento o intensificarlo verso coloro che si sono macchiati di gravi delitti? Giova davvero annientare la personalità del detenuto, quale deterrente per altri a non seguire la stessa strada? E non è questa una modalità del tutto contraria ai principi della nostra Costituzione e a quelli che ispirarono il legislatore del 1975 quando emanò l’Ordinamento penitenziario? Oggi sono più di 1.750 i detenuti condannati all’ergastolo in tutta Italia. In Campania sono 69. Le statistiche ci dicono che, in tutti questi anni, i numeri sono in costante aumento. Dato, quest’ultimo, che deve ancora di più far riflettere: la strada intrapresa è quella sbagliata. Sono altre le modalità per sconfiggere – davvero e definitivamente – la criminalità organizzata ai membri della quale quale vanno tolte le etichette, dal sapore “vintage”, di «mafiosi», «camorristi» e «‘ndranghetisti» in un mondo in cui tutto è globale, compresa la delinquenza. Contrariamente a quanto sostenuto da Giancarlo Caselli, non abbiamo l’esclusiva della malavita di alto livello, ben conosciuta anche in altri Paesi, che la combattono con altri mezzi. Occorre uno Stato sociale che possa intervenire sui territori, mentre la Giustizia dovrà fare la sua parte superando finalmente la legislazione dell’emergenza, dimenticando qualsiasi istinto vendicativo e garantendo sempre e dovunque la legalità, anche nella condanna per i delitti più atroci. I dibattiti – forse inopportuni alla vigilia di un’importante decisione della Corte Costituzionale – proseguiranno anche dopo l’esito tanto atteso. Non ci saranno vinti né vincitori, ma sempre e solo una strada da seguire: quella indicata, sin dal 1948, da coloro che abolirono la pena di morte e che certamente non volevano una pena fino alla morte.
Il 41bis nega la vita. L’ergastolo ostativo educa il detenuto a morire. Domenico Bilotti su Il Riformista l'8 Aprile 2021. Ho sempre avvertito una certa difficoltà a spiegare agli studenti il meccanismo dell’ostatività. È una difficoltà che avvertono direttamente loro, senza la mediazione di alcuna sovrastruttura mentale. Per afferrare la nozione di ergastolo ostativo devi dare per acquisiti quattro precedenti passaggi logici che tutto sono fuorché logici, quattro forzature che rendono l’ergastolo ostativo un vestito troppo stretto o troppo largo secondo dove lo tiri. Bisogna innanzitutto ammettere che in un sistema costituzionale come quello italiano, fondato sull’umanità della pena e sulla sua funzione rieducativa, possano esistere pene perpetue. E cosa sarebbe allora questa rieducazione? Formazione permanente e continuativa all’evento di morire? Se la mia educazione è nel rapporto con l’altro, solo in me stesso vita natural durante, a cosa mi sto educando? Alla misura di una bara. Seconda forzatura che accettiamo solo per convenzione, e non per ragione. Essere detenuti non significa, o non dovrebbe significare, finire in cella con la chiave seppellita in un fosso. Se da detenuto scompaio al tuo sguardo, non scompaio come persona: che sia colpevole o innocente. In ogni momento posso interrogare un giudice (ne ho diritto) e in ogni momento un giudice avrà da rispondermi (ne ha dovere). Potrei star male e non essere più in grado di sopportare la detenzione; potrei accedere a un sistema meno rigoroso perché sto rigando dritto e ho voglia di lavorare, anche in modo gratuito o semigratuito, per impegnarmi. Potrei dopo molto tempo pensare addirittura di meritare la scarcerazione, certo dovendo far verificare che non mi dedicherò al crimine e dovendo far ritorno in prigione se invece riprenderò a delinquere. Al detenuto ostativo non viene applicato questo elementare principio democratico: non può chiedere al giudice che dovrebbe valutare come sta eseguendo la pena di arrivare a nuove condizioni, di accedere a un diverso trattamento, di far esaminare se quel trattamento può (o deve!) cambiare. Terza stranezza: noi parliamo di “ergastolo ostativo”. Pensiamo a un “fine pena mai” per reati gravissimi, che non può essere alleggerito per ragioni né di spazio, né di tempo, né di condotta. E già ci suona illogico per tutte le considerazioni che abbiamo già fatto. Eppure ormai l’ostatività si applica per una serie di ipotesi di reato che non riguardano solo mafiosi e serial killer (in Italia gli uni e gli altri sono assai meno di quello che siamo soliti pensare). L’ostatività sta diventando una struttura della pena, un’illusione comoda: questo detenuto ostativo non potrà “chiedere” nulla. Lo mettiamo in cella: vada come vada; se uscirà, vedremo. In carcere non importa se continuerà a pianificare affari illeciti, soffrirà o vorrà davvero cambiare vita. Nessuno, chiusi i cancelli e lette le sentenze definitive, potrà mai più esaminare cosa gli stia accadendo. Tutti indistintamente tutti ingabbiati alla stessa maniera. Infine, ultima medaglia della contraddizione suprema. Noi spieghiamo alle ragazze e ai ragazzi che seguono i nostri corsi che gli ostativi non accedono ai “benefici”. Usiamo un termine equivoco. A volte qualcuno crede che i benefici siano la liberazione, l’impunità, la latitanza, i biglietti della lotteria o il pernottamento nei resort. Cose che abbiamo visto fare al più ad alcuni parlamentari della Repubblica, e nemmeno sempre. Il mondo è pieno di lavatrici che funzionano male e di rubinetti che perdono e saponi che stingono: non per questo possiamo rinunciare a lavare i vestiti… Comunque, questi famosi “benefici” non sono né scorciatoie né villaggi vacanze: sono ore di fatica mal retribuita, ritorni in carcere ad orario (guai a sbagliare!), periodi di intervallo tra pezzi di pena e pezzi di processo. L’ostativo non è qualcuno cui impediamo di giocare al lotto: è qualcuno cui impediamo di vivere e rivivere (anche quando è un ostativo che non ha ucciso nessuno). Gli studenti si sbalordiscono. Chiedono se abolire l’ergastolo ostativo o l’ergastolo in quanto tale farà tornare in vita boss di mafia sepolti da decenni -si deve insegnare di più e più approfonditamente la storia della mafia; chiedono se significa liberare qualcuno che non lo meriterebbe. E allora bisogna dire che abolire l’ergastolo, in special modo quello ostativo, non significa affatto liberare chicchessia. Significa semmai vivere in uno Stato sereno e maturo che concede la seconda opportunità non perché sia stupido, ma perché sa proteggere tutti i cittadini: quelli che dopo anni o decenni di detenzione non torneranno a guidare clan veri e presunti e potranno dimostrare di essere e fare altro; quelli che quel male hanno subito e mai più dovranno subire. Se torturi chi ha sbagliato per prima, non impedisci a nessuno di fare anche molto, molto, peggio dopo. Se tratti il peggiore, il peggiore per eccellenza, con civiltà… hai un’opportunità irripetibile. La civiltà che dici di avere, puoi metterla in campo. Gliela puoi insegnare.
Altro che Guantanamo, in Italia 759 persone seppellite al 41 bis: il report infernale. Claudio Paterniti Martello su il Riformista il 12 Marzo 2021. Nelle carceri italiane ci sono oggi 759 prigionieri in regime di 41 bis, cioè di carcere duro. Pensate che nel momento di massimo allarme antiterrorismo, mentre erano in corso le guerre di Iraq e di Afghanistan, e Bush aveva scelto la linea dura, repressiva – condannata da moltissimi governi e da tutte le organizzazioni di difesa dei diritti umani – nella famigerata Guantanamo, carcere duro per eccellenza, erano stati rinchiusi, secondo le stime più sfavorevoli, circa 500 detenuti sospettati di terrorismo internazionale. Il 41 bis è un regime carcerario, italiano, sicuramente in contrasto con la Costituzione e con le norme internazionali, previsto allo scopo di impedire ai capi della mafia (o ai sospetti) di comunicare con l’esterno. Per ottenere questo risultato, molto spesso, si impedisce ai detenuti al 41 bis di vestirsi come vogliono, e di cucinare i propri cibi, di leggere quel che gli interessa, di avere alcun contatto fisico coi propri familiari, di parlare con altri detenuti o con altre persone umane, escluse le guardie carcerarie. Domanda: possibile che i capimafia siano addirittura 759? Se lo è chiesto persino un esponente politico del Pd molto moderato come Franco Mirabelli. Chissà se gli daranno qualche risposta. Del resto è stata proprio la ministra Cartabia che l’altra sera, parlando a un convegno internazionale, ha invocato il rispetto delle norme scritte nelle cosiddette “Mandela Rules”, che proibiscono il 41 bis per una durata superiore ai 15 giorni (oggi il 41 bis dura un numero imprecisato di anni: anche più di 20). Questi dati sul 41 bis vengono dal rapporto annuale dell’associazione Antigone sulla situazione nelle carceri. Dal rapporto risulta anche che ci sono in prigione 851 persone sopra i 70 anni (la legge prevede che possano essere mandate a casa) 500 in più rispetto al 2005. Nel 2005 forse la criminalità era meno pericolosa? No, oggi è molto meno pericolosa. Gli omicidi sono scesi sotto la soglia dei 300 all’anno, (erano più di 2000 alla fi ne del secolo scorso), tutti in costante diminuzione tranne i femminicidi. Anche gli ergastolani sono in aumento, 1784 (500 più del 2005). Ci sono 9000 persone nelle celle di massima sicurezza. I suicidi sono in aumento (61: circa 10 volte sopra la media nazionale). Il XVII rapporto di Antigone arriva a un anno esatto dall’inizio della pandemia. Racconta un sistema penitenziario sovraffollato, che al 28 febbraio ospitava 53.697 detenuti a fronte di 50.931 posti disponibili (di cui 4.000 in realtà sono inagibili, e dunque chiusi). Il tasso di affollamento è del 115%. Gli istituti in cui è più alto sono Taranto (196,4%), Brescia (191,9%), Lodi (184,4%) e Lucca (182,3%). La popolazione detenuta è comunque in calo rispetto a 12 mesi fa, quando i detenuti erano 7.533 in più. Un calo dovuto più all’attivismo della magistratura di sorveglianza (che ha concesso più misure alternative) che agli interventi del legislatore. Ma non basta: siamo in piena pandemia, servono più spazi, e servono adesso. I dati dicono che in carcere è più facile contrarre il Covid. A febbraio i detenuti positivi erano in media 91 ogni 10.000. Fuori erano 68,3. Non è vero dunque che il carcere è un posto sicuro. I morti per Covid sono stati 18 tra i detenuti e 10 tra gli agenti. Per fortuna la campagna vaccinale è partita in diverse regioni (Friuli, Abruzzo, Sicilia, Calabria, Emilia Romagna, Marche), e nelle altre sta per iniziare. Al 10 marzo erano stati vaccinati 1005 detenuti. L’anno trascorso è stato durissimo, per la paura del contagio e per il vuoto in cui è trascorso. Lo testimonia il più tragico fra i dati, quello sui suicidi, che è il più alto degli ultimi 20 anni. Nel 2020 si sono tolte la vita 61 persone. Avevano un’età media di 39,6 anni. 8 avevano tra i 20 e i 25 anni. In carcere ci si ammazza 10 volte di più che all’esterno. E lo testimonia anche il numero di atti di autolesionismo: 24 ogni 100 persone detenute. Un dato che è più alto negli istituti più sovraffollati. Sono ben 19.040 detenuti i detenuti a cui restano da scontare meno di 3 anni, e che dunque avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative (tranne quelli a cui il reato preclude questa possibilità). Se solo la metà di loro uscisse il problema del sovraffollamento sarebbe risolto. La popolazione detenuta è composta per il 32,5% da stranieri. Nel 2009 erano 6.700 in più e rappresentavano il 37,5% del totale. Si assiste dunque a un calo. Gli stranieri sono il 3,5% dei detenuti per reati legati all’associazione di stampo mafioso e ben il 34,5% dei detenuti per violazione della legge sulle droghe. È chiaro che si tratta dell’anello debole della catena criminale. Debole e discriminato, in quanto subisce più degli italiani la custodia cautelare e beneficia meno delle opportunità di reinserimento. Solo il 18% delle persone in carico agli uffici per l’esecuzione penale esterna era composto da stranieri (che dunque accedono meno alle misure alternative). Il carcere è un luogo di poveri. Le regioni che forniscono più detenuti sono la Calabria (19,2 ogni 10.000 residenti), la Campania (15,7), la Sicilia (14) e la Puglia (11). Poveri e con basso tasso di istruzione: solo un detenuto su 10 ha un diploma. Uno degli aspetti più tragici di quest’anno penitenziario è stato dato dall’assenza della scuola. Che è la più importante delle attività, in quanto occupa un detenuto su 3 per 4-5 ore al giorno. Da febbraio a giugno 2020 è stato fornito solo il 4% delle ore previste. A gennaio 2021 invece, quando la scuola di fuori si era bene o male organizzata, in metà degli istituti non si faceva scuola in presenza. E tra questi solo in 1 su 4 si faceva didattica a distanza. Conseguenza anche del divario tecnologico che separa il carcere dalla società libera, per colmare il quale sarebbe bene usare i fondi del Recovery Fund. Fondi con i quali va rinnovato il sistema penitenziario, investendo di più sul personale, e non costruendo nuove carceri. Se la politica non ha il coraggio di adottare misure deflazionistiche serie è anche per la sovrarappresentazione nell’immaginario legato al carcere dei detenuti affiliati alla criminalità organizzata. Che in realtà sono solo un quinto della popolazione detenuta (9.000 in Alta Sicurezza e poco meno di 1.000 quelli al 41-bis). Da tempo diciamo che bisogna agire sul fronte della depenalizzazione. Un detenuto su 3 è in carcere per reati legati alle droghe. E il carcere costa: per la precisione il 35% del bilancio della Giustizia. Ogni detenuto costa in media 143 euro al giorno. Mentre una persona in misura alternativa ne costa 12, e ha tassi di recidiva di gran lunga più bassi. Il carcere non è un grande investimento. Sarebbe l’ora di guardare altrove.
Ha creato il “pentitificio” e il regime di tortura del 41-bis. Ergastolo ostativo, ecco perché Falcone non l’avrebbe mai voluto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Sarà prima di Pasqua o sarà dopo Pasqua, ma una cosa è certa. Che l’ergastolo ostativo, quello del “fine pena mai” debba essere dichiarato incostituzionale. E che i tempi sono ormai maturi perché si spazzi via l’intera legge voluta nel 1992 dal governo Andreotti dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, quella destinata a creare il “pentitificio” e anche il regime di tortura del 41-bis. Quella normativa che il giudice assassinato, contrariamente a quanto affermano oggi i magistrati “antimafia”, non avrebbe mai voluto. All’interno della legge che aveva creato l’ergastolo ostativo del “fine pena mai” e che nasceva da un decreto dei ministri Scotti (interno) e Martelli (giustizia), oltre alla modifica dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, c’era anche la nascita del 41-bis, quello che creava il carcere impermeabile e che isolava una serie di detenuti dal resto del mondo trasformandoli in uomini-ombra. La morte di Falcone non solo aveva creato un grande lutto nel Paese, ma aveva letteralmente fatto saltare i nervi a un governo ormai agli sgoccioli insieme alla Prima Repubblica, incapace di catturare i principali boss di Cosa Nostra, tutti ancora latitanti, ma anche di attenersi a quelle basi dello stato di diritto cui il magistrato assassinato si era sempre ispirato. A coloro, dal consigliere del Csm Nino Di Matteo fino al leader della Lega Matteo Salvini, che minacciano “giù le mani dal 4-bis di Falcone” occorre un breve ripasso. Il provvedimento del magistrato non ha mai legato l’accesso ai benefici previsti dalla riforma del 1975 al “pentimento” del detenuto, ma semplicemente alla necessità che fossero acquisiti elementi per escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Non c’erano quindi criteri oggettivi e neppure l’inversione dell’onere della prova. Era compito del giudice di sorveglianza accertare la mancanza di rapporti tra il mafioso in carcere e l’organizzazione esterna. Filosofia opposta quella del decreto Scotti-Martelli dell’8 giugno 1992, che attribuiva al detenuto il compito di dimostrare, solo e soltanto attraverso la collaborazione con i pubblici ministeri, di non essere più organico alle cosche. Va ricordato che quel decreto aveva suscitato non solo l’immediato sciopero degli avvocati, ma anche la ferma opposizione in Parlamento di tutta la sinistra, quando ancora era in gran parte garantista. Dalla parte del governo si schierò poi, in un certo senso, proprio la mafia, che il 19 luglio fece saltare in aria l’auto di Paolo Borsellino. Vinsero loro, e fecero crollare lo Stato di diritto e gli ultimi barlumi di civiltà giuridica. Così la legge fu votata. Sono passati quasi trent’anni. E si deve arrivare al 2019 perché la Corte Costituzionale presieduta da Giorgio Lattanzi e di cui era componente anche Marta Cartabia, cominci a mettere lo sguardo, anche fisicamente, dentro le carceri e scopra l’esistenza degli uomini-ombra del 41-bis, quelli che non possono neanche scambiare tra loro una mela o un libro. E a notare che anche persone in carcere da trent’anni, quindi oltre il limite previsto dal codice per aprire le porte anche agli ergastolani, non potevano godere neppure di brevi permessi-premio. Nasce così la sentenza numero 253 che, se pur su un tema limitato, scavalca le legge del 1992 e ritorna ai principi del provvedimento di Falcone, riaffidando ai giudici di sorveglianza il dovere di verificare caso per caso se il detenuto merita di andare in permesso. Quasi in contemporanea, il 13 giugno del 2019, una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia (processo Viola) per l’incompatibilità tra l’ergastolo ostativo e l’articolo 3 della Convenzione. La strada è aperta. Si arriva così alla sentenza della corte di cassazione su un caso specifico, quello del detenuto Salvatore Francesco Pezzino, che più volte aveva avanzato richieste di libertà condizionale denunciando la propria impossibilità a collaborare con i magistrati. La cassazione prende di mira finalmente l’incostituzionalità dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, proprio perché con i suoi automatismi impedisce al giudice la verifica sul comportamento e la possibilità di reinserimento. Concetti cui si è allineato due giorni fa l’Avvocato generale dello Stato, cioè il rappresentante del Governo, che non è più il governo Conte con il ministro Bonafede, ma quello di Draghi e Cartabia. Cui chiediamo di dare un’occhiata anche agli uomini ombra del 41-bis, quell’articolo dell’Ordinamento penitenziario che la Direzione nazionale antimafia, nella sua relazione annuale di un mese fa, ha chiesto venga “potenziato” e “mai attenuato”. Un buon motivo per riformarlo, o magari abolirlo. Ricordando che le emergenze del 2021 non sono proprio le stesse del 1992.
Caro Caselli, l’ergastolo ostativo era dettato dall’emergenza delle stragi mafiose del ’92. L'ergastolo ostativo venne adottato sull’onda delle emozioni e dell’allarme sociale suscitato dalla morte di Giovanni Falcone. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 24 marzo 2021. Alcuni magistrati antimafia sono ancora rimasti fermi ai primi anni 90. Eppure, lo stragismo della mafia corleonese è stato sconfitto quasi 30 anni fa con il sacrificio dei giudici trucidati dal tritolo e di tutti quei carabinieri e poliziotti uccisi perché davano la caccia ai boss corleonesi e messo mano ai loro affari miliardari. L’ergastolo ostativo, in particolare il 4 bis che preclude i benefici penitenziari a chi non collabora con la giustizia, ha avuto un senso quando lo Stato ha rischiato di piegarsi al ferocissimo attacco mafioso. Lo Stato, quindi, ha reagito forzando la nostra Costituzione. Sull’onda delle emozioni e dell’allarme sociale suscitato dalla morte di Giovanni Falcone, venne adottato il decreto legge dell’8 giugno 1992, numero 306, secondo il quale i condannati per i delitti mafiosi e terroristici potessero essere ammessi ai benefici premiali solo se avessero collaborato con la giustizia.
Giovanni Falcone aveva pensato un 4 bis diverso. Non è stato un decreto voluto da Falcone, il quale ha ideato un 4 bis diverso e che non precludeva i benefici ai non collaboranti: parliamo di un decreto inasprito a causa della sua uccisione. Un attentato senza precedenti nei confronti di un giudice. Alle 17:58, al chilometro 5 della A29, nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, il mafioso – poi collaboratore di giustizia – Giovanni Brusca ha azionato una carica di cinque quintali di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio. Non è un caso che, dopo l’indicibile strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, l’allora guardasigilli Claudio Martelli ha convinto il Parlamento ad approvare di fretta e furia il 41 bis. Come lui stesso testimonia, ha firmato – addirittura sul cofano della macchina – una serie di decreti per spedire diverse centinaia di detenuti al carcere duro.
Si prorogò in automatico il carcere duro per tutti. Ribadiamolo. C’era una emergenza, la sensazione che lo Stato rischiasse di mettersi in ginocchio era palpabile. Il risultato è che finirono al 41 bis diverse centinaia di detenuti che mafiosi non erano: in automatico si prorogava il carcere duro per tutti. Pe questo motivo, nel 1993, grazie ai magistrati di sorveglianza che sollevarono la questione, è dovuta intervenire la Corte Costituzionale ordinando allo Stato di valutare caso per caso. Ed è stato l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso a non prorogare il 41 bis per circa 300 detenuti. Tutti mafiosi? Ebbene no, perché – come già detto – sull’onda dello stragismo, non si è avuto tempo per essere equilibrati. Infatti, a differenza di cosa dice la tesi giudiziaria sulla presunta trattativa Stato-mafia, i fatti ci dicono che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo del 41 bis, soltanto 18 appartenevano alla mafia. Non solo. A sette di loro, peraltro, nel giro di poco tempo, dopo un ulteriore valutazione, è stato nuovamente riapplicato. Ma erano boss di calibro i pochi mafiosi ai quali non è stato rinnovato il 41 bis? Assolutamente no. Dalle carte risulta che né dalla Procura di Palermo e né dalle forze dell’ordine, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro. Nulla di oscuro, se non l’ulteriore dimostrazione che durante l’emergenza era facilissimo cadere in errore e non badare ai principi della costituzione italiana.
La mafia stragista è stata sconfitta. Per questo, a distanza di 30 anni, il 4 bis, varato sull’onda emergenziale, non ha più giustificazione alcuna. Può rimanere benissimo quel 4 bis voluto da Falcone, nome evocato a sproposito questi giorni. Cosa prevedeva il 4 bis originario? Nessuna preclusione assoluta ai benefici, ma se uno collabora con la giustizia non è costretto ad aspettare più di 26 anni. Si premia chi collabora, ma non si preclude la speranza in chi non lo fa. Lo Stato di Diritto non può compiere estorsioni, altrimenti il confine tra il metodo mafioso e quello “legale” diventa labile, quasi del tutto inesistente.
Lo Stato e la criminalità. Perché il 41 bis oggi non è più legittimo. Alberto Cisterna su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Era il 1986. Il 10 febbraio a Palermo iniziava lo storico maxiprocesso a “cosa nostra”. A fine anno venne inserito nell’ordinamento penitenziario l’articolo 41-bis. Poche righe destinate ad arginare le rivolte nelle carceri, pensate soprattutto per tenere a bada soprattutto i terroristi più irriducibili. La norma prevedeva che «in casi eccezionali di rivolta» o in «altre gravi situazioni di emergenza», il Ministro della giustizia potesse sospendere l’applicazione delle regole di trattamento dei detenuti. Con una limitazione fondamentale, tuttavia: la sospensione doveva avere «la durata strettamente necessaria» al fine di «ripristinare l’ordine e la sicurezza». Insomma, si trattava di gestire in via eccezionale situazioni carcerarie fuori controllo. Da allora sono trascorsi 35 anni. Un’eternità nel frullatore impazzito della modernità. Quella norma è ancora lì, anche se è rimasta praticamente inutilizzata. Eppure, la regola a qualcosa è servita. Messo in piedi lo “stato d’eccezione”, a quell’unico comma, se ne sono aggiunti nel tempo altri dieci che hanno regolato minutamente il cosiddetto regime speciale di detenzione per come lo conosciamo. Aperta una breccia nel trattamento eguale dei detenuti e scardinato l’orientamento della pena verso la rieducazione, i carcerati sono stati distinti non più secondo la loro personalità, ma per classi di reati. Da una parte i detenuti ordinari dall’altra quelli speciali perché sono quelli che rispondono di reati speciali. La discussione sul cosiddetto carcere duro è sempre stata al calor bianco. Gli scontri sulla severità delle restrizioni, sull’inumanità di taluni vincoli, sull’asprezza delle condizioni detentive hanno impegnato settori non marginali della pubblica opinione e hanno registrato l’intervento, a più riprese, della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale preoccupate di mitigare alcune evidenti esagerazioni. Non è questo però, o meglio non solo questo, il prisma attraverso cui occorre guardare a questo fenomeno che non può dirsi trascurabile perché mette in fibrillazione le istituzioni e la società civile in quella terra di confine in cui più precario è l’equilibrio tra la funzione rieducativa della pena (per i condannati), la presunzione di innocenza (per i tanti sottoposti a regime speciale, ma in attesa di giudizio) e il divieto di irrogare «trattamenti contrari al senso di umanità» (articolo 27 della Costituzione). Comunque mettiamo pure da parte le singole prescrizioni e le piccole vessazioni su cui in tanti si accapigliano a torto o a ragione. Mettiamo in conto che vada tutto bene e che tutto sia non solo legittimo, ma finanche giusto. Il punto è un altro. Per un attimo non occupiamoci delle minute proibizioni e sforziamoci di osservare lo scenario come fosse decantato dalle grida d’allarme dei supporter della carcerazione dura, sempre pronti a segnalare minacce incombenti che, si dice, qualunque attenuazione del carcere speciale non farebbe altro che accrescere. Per cogliere questa diversa prospettiva non è necessario avere pregiudiziali ideologiche, basta tornare all’ odierno articolo 41-bis per come si è innestato su quel piccolo virgulto del 1986: «quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica … il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti … in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento .. che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza». In tanti guardano al dito e trascurano la luna, anche se riluce sotto il riflettore di parole chiare. Perché il carcere duro sia legittimo è indispensabile che «ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica». Occorre cioè che il paese o parti di esso versino in una condizione di insicurezza e di disordine generalizzati. C’è da chiedersi chi sia disposto a fare una simile affermazione quanto meno a partire dagli inizi di questo nuovo secolo e a portare solide argomentazioni a riprova di quanto sostiene. La domanda a cui occorrerebbe dare una risposta equilibrata e fondata su dati oggettivi è se davvero la situazione della criminalità in Italia sia tale da mettere in stato di pericolo l’ordine e la sicurezza collettiva e, per giunta, in modo grave. Sia chiaro non è una conclusione che può trarsi a cuor leggero prendendo in prestito le periodiche denunce di sacerdoti e vestali di una certa antimafia ampiamente screditata da manigoldi di vario genere e che non può neppure essere affidata alle valutazioni di soggetti più o meno interessati al mantenimento dello stato d’emergenza per ragioni a occhio e croce poco commendevoli. È indiscutibile che negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso associazioni, donne, uomini, case editrici e produttori televisivi hanno svolto, a prezzo carissimo, un ruolo essenziale nel denunciare connivenze, debolezze, assenze dello Stato nella lotta alle mafie. Ma questo, decenni dopo, non può essere il termometro con cui lo Stato definisce uno snodo così fondamentale della propria azione nella materia vitale della sicurezza e dell’ordine pubblico. Qualunque osservatore esterno, volgendo lo sguardo al nostro sistema penitenziario e penale, ne ricaverebbe l’impressione di un paese in stato d’assedio, in cui la vita dei cittadini è resa precaria da orde di criminali invincibili, e soprattutto nel Mezzogiorno. Per carità, può darsi che sia così, ma certo manca da sempre una pacata riflessione sulla giustificazione stessa dell’articolo 41-bis ossia se davvero la condizione della sicurezza e dell’ordine pubblico sia oggi gravemente compromessa dalle mafie oppure se si possa convenire sul fatto che centinaia di arresti e di confische hanno fiaccato e indebolito i clan un po’ dappertutto con capi storici che muoiono in cella. Declaring Victory si è solito dire quando una guerra volge irrimediabilmente in favore di uno dei belligeranti. Lo hanno fatto gli Alleati nel 1943 quando mancava ancora tanto per battere le forze dell’Asse. Alla vigilia dell’arrivo di oltre 200 miliardi di euro dai paesi del nord Europa il tema è cruciale. È chiaro che si debba fare il massimo sforzo per impedire che anche un solo centesimo finisca nelle mani delle cosche e dei sodalizi illegali. Quel che non dovrebbe essere consentito, però, è che il solito circuito mediatico-giudiziario scaldi i motori e attraversi in lungo e in largo la penisola e il continente denunciando infiltrazioni, malversazioni, accaparramenti di cui non si abbia prova concreta e per cui non si disponga di evidenze inoppugnabili. Lo si sta facendo persino con i vaccini, da stoccare a meno 80 gradi. Tanto, come diceva un vecchio cronista, finché le mafie non si danno un ufficio stampa non possono smentire. È indiscutibile che i boss siano alla continua ricerca di contatti con l’esterno. È indiscutibile che gli stessi boss intendano riallacciare contatti con i propri affiliati per continuare i propri affari. Quel che, tuttavia, non deve andare smarrito è che una Nazione ha il dovere di chiarire se questi comportamenti, comuni invero a tutte le carceri del mondo, possano giustificare lo stato d’eccezione ovvero se il Paese ha ormai la forza per reprimere ogni devianza, senza necessità di creare tante piccole Guantanamo.
Rinchiudere i mafiosi al 41 bis aiuterà pure la lotta ai clan ma rade al suolo lo Stato di diritto. Davide Varì su Il Dubbio il 23 Feb 2021. È bastata una sola settimana e l’eterno ricorso a una sorta di “ragion di Stato” per convincere Giuseppe Pignatone ad archiviare la lezione di Leonardo Sciascia sui diritti. È bastata una sola settimana e l’eterno ricorso a una sorta di “ragion di Stato” per convincere Giuseppe Pignatone ad archiviare la lezione di Leonardo Sciascia sui diritti. In un bellissimo articolo di qualche giorno fa l’ex procuratore di Roma aveva infatti citato uno dei pensieri più limpidi e netti di Sciascia il quale, sulla lotta alla mafia, aveva le idee assai chiare: per nessun motivo la battaglia contro le organizzazioni criminali deve scalfire diritti e garanzie dell’imputato. Di ogni imputato.
«La repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli non sono gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come mafia, `ndrangheta e camorra», aveva scritto Pignatone citando Sciascia. E ancora: «La soluzione passerà attraverso il diritto o non ci sarà; opporre alla mafia un’altra mafia non porterebbe a niente, porterebbe a un fallimento completo». Come dire: c’è una linea, la linea tracciata dal nostro Stato di diritto, che non va superata neanche in nome della lotta alle mafie. Ma nell’editoriale uscito su La Repubblica di ieri, l’ex magistrato sembra tornare sui suoi passi. La “pietra d’inciampo” è il 41bis, l’istituto del “carcere duro” che il nostro Paese riserva a boss – talvolta solo presunti boss – e affini. Una misura contestatissima dagli altri stati europei e più volte bocciata e liquidata come tortura proprio così: tortura – dalla Corte europea dei diritti umani. Pignatone, come molti altri magistrati antimafia, insinua il dubbio, o meglio la convinzione, che il 41bis sia uno strumento indispensabile per la lotta alle mafie perché impedisce le comunicazioni tra il carcere e l’esterno: «un flusso vitale per i mafiosi che solo così possono mantenere il controllo sui loro affari e il loro ruolo nell’organizzazione». E a suffragio del suo ragionamento Pignatone porta l’esempio di un mafioso che, potendo beneficiare di nuovi spazi di libertà, si era riavvicinato all’organizzazione criminale. E in effetti non c’è alcun dubbio che isolare una persona per 23 ore al giorno in una cella di 10 metri quadrati, consentirgli l’ora d’aria solo quando gli altri detenuti sono rinchiusi e proibirgli la visita di figli, mogli e nipoti, di certo rende difficile qualsiasi attività criminale. Ma una democrazia moderna deve sempre chiedersi: è legittimo tutto questo? Chiudere le nostre Guantanamo rischia di indebolire la lotta alla mafia, ma indebolire il nostro Stato di diritto forse è ancora più rischioso.
L’avvocata di Provenzano replica a Pignatone: «Il 41 bis è una vergogna incostituzionale». Il Dubbio il 22 Feb 2021. Rosalba Di Gregorio commenta l’editoriale di Repubblica in cui l’ex procuratore difende il carcere duro per i mafiosi. «Il 41 bis, instaurando di fatto una discriminazione fra detenuti e derogando al regime ordinario, è di per sé incostituzionale. Nasce come “reazione” alle stragi del 1992 e, dopo un periodo di vergognosa applicazione, basti pensare alla tortura di Pianosa, ha finito con essere “mantenuta” per finalità che non sono chiarissime». A dirlo, in una intervista all’Adnkronos, è l’avvocato Rosalba Di Gregorio, legale del capomafia Bernardo Provenzano fino alla morte del boss nel luglio 2016. Commentando l’editoriale di Giuseppe Pignatone, su Repubblica, in cui l’ex Procuratore di Roma ribadisce che il carcere duro per i boss non va cancellato. E che «tra le questioni più delicate che la nuova titolare del ministero della Giustizia dovrà ben presto affrontare c’è quella relativa al trattamento dei detenuti per reati di mafia», il legale spiega: «La vicenda dell’avvocatessa che, secondo l’accusa, faceva riunioni di soggetti, evidentemente liberi, o veicolava messaggi ai detenuti, non c’entra nulla con il 41 bis». «Lo stesso dottor Pignatone ammette la necessità di attenzionare posizioni di soggetti, detenuti da anni e anni, per cui andrebbero rivalutate le condizioni di applicabilità, con ciò ammettendo, correttamente, che l’automatismo nella applicazione di tale trattamento è la regola e che i decreti applicativi non sono, di fatto, motivati!». «Si va da soggetti, abbondantemente sostituiti sul territorio nei loro ruoli, cui si rinnova il 41 bis perché la associazione di cui 30 anni fa faceva parte, è ancora viva!». «È chiaro che se è viva è perché ha operato fregandosene dei pareri del detenuto. Se il 41 bis ha funzionato, infatti , dalle gabbie del 41 non è uscito alcun messaggio – prosegue l’avvocato Di Gregorio – Ma il tema diventa inquietante, laddove si mantiene il 41bis a soggetti privi di capacità intellettive. Ricordo Provenzano, leggo di Cutolo…». «Se incapaci addirittura di formulare pensieri, perché è stato lasciato loro il regime speciale, così dimostrandone palesemente la totale incostituzionalità? Bel tema per il nuovo Ministro». «Quelli vecchi, i ministri intendo, proprio sul punto dei “morti” lasciati in 41 bis non hanno certo brillato per preparazione», conclude Rosalba Di Gregorio.
Quante persone al 41 bis ci sono in Italia? Rossella Grasso su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. Il 41 bis è una disposizione dell’ordinamento penitenziario italiano che prevede un particolare regime carcerario. È detto anche “carcere duro” ed è destinato agli autori dei reati ritenuti più gravi, per lo più legati alla criminalità organizzata. In Italia sono 759 i detenuti sottoposti a questo particolare regime carcerario. Sono 22 gli istituti penitenziari che prevedono il regime del carcere duro, dislocati su tutto il territorio nazionale. Secondo i dati del Ministero della Giustizia nella relazione annuale 2020, all’Aquila c’è la concentrazione maggiore con 152 detenuti di questo tipo. A Opera ne sono 100, a Sassari 91 e a Spoleto 81. Sono 304 quelli che hanno ricevuto la sentenza di ergastolo, di cui 204 con una sentenza definitiva. Il carcere duro fu pensato in funzione preventiva: l’isolamento avrebbe impedito ai detenuti di comunicare con l’esterno e continuare a svolgere o almeno a comandare le attività criminose all’esterno. Per questo motivo tra le persone al 41 bis ci sono soprattutto appartenenti alle organizzazioni mafiose. I più numerosi sono gli appartenenti alla Camorra che sono il 35% del totale. Seguono gli appartenenti a Cosa Nostra, che sono 203 e alla ‘Ndrangheta, che sono 210. Ci sono anche 3 detenuti al 41 bis per motivi di terrorismo, in particolare islamico. La condanna al 41 bis comporta particolari e rigide disposizioni. In primis l’isolamento dagli altri detenuti, anche nell’ora d’aria, la limitazione dei colloqui con i familiari, solo uno al mese della durata di un’ora, e dietro un vetro. Le autorità carcerarie controllano la posta in uscita ed entrata, la riduzione del numero e del tipo di oggetti che si possono detenere in cella, che è ovviamente singola. Riduce al minimo sia i contatti tra il detenuto e l’esterno (con i familiari e gli avvocati) sia con gli altri detenuti e anche con le guardie penitenziarie. Insomma si tratta di una condizione di totale isolamento. L’estrema durezza del 41 bis ha aperto molte volte un dibattito circa la sua legittimità: se è vero che la Costituzione stessa ammette un particolare regime detentivo per criminali altamente pericolosi è anche vero che in alcuni casi il 41 bis si traduce in una vera e propria privazione dei diritti umani. L’estrema durezza del 41 bis ha richiamato più volte l’attenzione della Corte dei Diritti Umani di Strasburgo che ha sanzionato l’Italia in diverse occasioni.
La regola feroce. Come funziona il 41 bis, il carcere duro che umilia il detenuto. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 20 Febbraio 2021. Lo intitolammo Barriere di vetro il libro che la Camera Penale di Roma pubblicò nel 2002 sul 41 bis. Nella quarta di copertina scrivemmo «questo libro non è imparziale: la tesi che propugna è che tutto questo non dovrebbe avere cittadinanza in una società democratica». Il “tutto” che veniva raccontato nel libro erano le storie che avevamo raccolto nei mesi precedenti direttamente dai detenuti allora sottoposti al regime speciale: le condizioni di vita, la segregazione totale, le limitazioni alla socialità, la difficoltà nelle cure mediche, l’impedimento ad ogni sia pur minima manifestazione della personalità, l’impossibilità degli incontri con i familiari. Barriere di vetro erano, e sono, le massicce lastre di vetro antisfondamento che impediscono, negli incontri con i familiari, ogni sia pur minimo contatto fisico; una misura di sicurezza volta ad impedire la trasmissione di messaggi, è la giustificazione ufficiale, un simbolo dell’isolamento totale che si impone affinché non passi, a quegli uomini detenuti, neppure un briciolo di umanità. All’epoca dietro a quel vetro stavano anche i figli piccolissimi, poi la pelosa carità legislativa ha permesso, nel periodo successivo, che fino ai dodici anni possano toccare i genitori; compiuti i dodici anni fine della concessione, nessun contatto fisico. Quando leggemmo quei racconti ci trovammo di fronte alla natura vera, e cruda, del 41 bis, quella di un trattamento disumano, volto a piegare il detenuto al fine di farne un collaboratore; cosa che lo Stato italiano confessò impudicamente quando la questione finì di fronte alla Cedu. Quello che colpiva, nei racconti di gente che pure era ritenuta responsabile di fatti gravissimi, erano i particolari, le vessazioni inutili, i divieti assurdi ed arbitrari, che meglio di qualsiasi altra cosa dimostravano che la sicurezza, totem avvolgente che avrebbe dovuto esserne la giustificazione, in larga misura non era in discussione. C’era quello che ti diceva che nel carcere dove si trovava, al nord, in nome della sicurezza, erano vietati i cappelli di lana, oppure quello che ti raccontava l’assurda selezione dei cibi ammessi e di quelli vietati. «Perché non mi posso cucinare pasta e ceci?» ci chiedeva uno. Roba che non si è modificata, da allora, se anche negli ultimi tempi, uno dei temi affrontati – da quel vero e proprio Tribunale speciale che ha sede a Roma con competenza nazionale sul 41 bis – è stata il divieto di acquisto di un certo tipo di cibo perché dimostrerebbe, di fronte non si sa bene a chi visto che campano in reparti isolati, un supposto ruolo “dominante” all’interno del carcere. La logica del 41 bis è feroce, simbolica e allo stesso tempo infantile: se mangi bene rivendichi il tuo ruolo di boss, persino se leggi libri e giornali la cosa diventa sospetta. Del resto ogni forma disumana di detenzione è fondata su di una idea infantilmente rozza della pena. È inutile a fare distinzioni: il 41 bis serve a far star male il detenuto, ad umiliarlo, è una forma di vessazione legalizzata, chi dice il contrario sa bene di mentire. Tra cento anni starà sui libri di storia come un arnese di cui anche la magistratura si vergognerà; oppure come l’antesignano della galera del futuro per i cattivi, e i suoi apologeti celebrati come salvatori dell’umanità. Dipende da quanto sarà incattivita la società del futuro. Per ora registriamo che i grandi criminali, anche se ridotti a larva umana come Provenzano, anche se incapaci di riconoscere i propri familiari dietro a quella sbarra di vetro, come Cutolo, devono crepare al 41 bis. In caso contrario qualche jena manettara, che campa in televisione e in parlamento di populismo giudiziario, inizierebbe la solita danza macabra al cui rituale i sinceri democratici non si possono sottrarre perché hanno paura di quella pubblica opinione, ancor più feroce, che loro stessi hanno creato. La sicurezza c’entra poco, si può tutelare in altra maniera, il 41 bis è un totem simbolico, la bandiera del volto duro che lo Stato non può ammainare senza perdere la faccia. Il 41 bis è una contraddizione dello Stato di diritto ma una società democratica dovrebbe saper fare i conti con le sue contraddizioni. Tempo fa sono stato all’Asinara, carcere oramai chiuso che si mostra ai turisti come un sito archeologico. Arrivati in uno dei padiglioni la guida ci ha spiegato che lì vigeva la regola del silenzio: ai detenuti non era permesso parlare. Ognuno poteva immaginare cosa comportasse la violazione della regola. Poi ci ha illustrato le meraviglie di un altro padiglione, chiamato all’epoca la discoteca, che doveva il suo nome al fatto che era illuminato giorno e notte da enormi fari così da impedire ai detenuti di distinguere l’uno dall’altra. Lo raccontava col sorriso sulle labbra, senza alcun imbarazzo: eppure quelle erano torture, secondo la definizione delle convenzioni internazionali già nel ‘900. In nome della lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, persino al contrasto del fenomeno dei sequestri di persona, la società italiana, il mondo giuridico, la magistratura, permisero quelle pratiche per decenni. In pochi si opposero, i soliti radicali e qualche altra anima bella. La grande stampa no. Nessuno fece pubblicamente i conti con quella stagione neppure dopo, anche quando i casi di Triaca, o quelli che avevano riguardato la vicenda Dozier, avevano dimostrato che in Italia lo Stato torturava nel senso vero e proprio del termine. Nessuno, anche quando il rischio era passato, come invece succede nelle altre grandi democrazie. Oggi si fa lo stesso col 41 bis e la lettura dei grandi giornali di informazione, l’ascolto dei tg lo conferma. È morto il Boss, ci dicono, magari qualcuno ci racconta come era ridotto, niente di più. Nessuno che dica, per come è morto, che non c’era senso a tenerlo al 41 bis se non quello simbolico della deterrenza. Tra qualche anno i nostri figli andranno a visitare vecchi carceri e reparti 41 bis, vedranno le telecamere e i microfoni accesi ventiquattrore al giorno, i cortili angusti con le grate ad oscurare il cielo, oppure scenderanno qualche piano sottoterra senza aria né luce. E ci sarà una guida che col sorriso sulle labbra racconterà che lì è morto un grande boss ridotto talmente male da non riconoscere la propria figlia; quello che non dirà è che, assieme a lui, a quei tempi, in Italia era morta la pietà. Tra le lettere di quel libro semiclandestino che pubblicammo venti anni fa, ce ne era una che mi colpì. Narrava che in carcere girava la notizia che un magistrato di sorveglianza aveva permesso al cane di un detenuto per reati comuni di far visita al padrone per avere una carezza, perché il cane stava morendo di dolore per il distacco. «Vorrei che mio figlio fosse trattato come quel cane» si concluse quella lettera. Penso che lo stesso pensiero sia venuto anche alla figlia di Cutolo.
Al 41 bis è vietato anche compilare il proprio testamento biologico. Maria Brucale su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. La legge “in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, n. 219/2017, entra in vigore dal 31.01.2018. Nel rispetto dei princìpi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge.” Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. È un approdo importante che si nutre delle battaglie storiche di Marco Pannella e di quanti, come l’Associazione Luca Coscioni, fondata da Luca Coscioni nel 2002, hanno posto la libertà di scelta individuale, in particolare per quel che concerne il fine vita (ma ogni libertà di scelta, dall’inizio alla fine della vita, per tutti) al centro della propria azione politica. Un cammino ancora incompiuto, una materia certamente difficile che raccoglie in sé l’evoluzione del sentire collettivo rispetto al concetto della dignità della vita e della dignità della morte e, soprattutto, alla lenta affermazione del principio che le scelte sulla propria vita sono personalissime e che c’è, nella malattia, una soglia del dolore tanto insopportabile da mutare la stessa semantica della parola suicidio che diventa fine di una non vita. Accade allora che un detenuto in 41 bis immagini di contrarre il virus in tempo di pandemia e decida di depositare il proprio testamento biologico. I familiari, allora, su sua richiesta, gli mandano i moduli dell’Associazione Luca Coscioni. La corrispondenza è soggetta, come sempre, a censura ma dovrebbe essere legale un modello del tutto asettico da compilare con le proprie disposizioni, ai sensi della legge 219/2017. Già, perché è per tutti “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”. Anche per i detenuti, perfino per i ristretti nel luogo di silenzio trattamentale ed emozionale del 41 bis. E invece no! Perché un magistrato di sorveglianza di Roma decide di non consegnare la corrispondenza al ristretto. La motivazione è che, ritenuto ancora di alto spessore criminale (in 41 bis da 24 anni!) “attraverso eventuali interpolazioni del testo, lo stesso potrebbe veicolare messaggi illeciti.” […] “Occorre contemperare il principio dell’efficienza dell’attività amministrativa con le esigenze poste alla base della sicurezza interna ed esterna che si concretizza attraverso la puntuale verifica di contenuti criptici eventualmente inseriti mediante la possibilità di interpolare i documenti inviati”. Non c’è (ovviamente) nulla di criptico, indebito, fraintendibile nel modulo che non viene consegnato, ma nel compilarlo il recluso potrebbe veicolare messaggi criminali. È surreale, abominevole, tanto assurdamente in violazione di legge da sembrare una burla. E, invece, è proprio scritto, nero su bianco. È una censura all’ipotesi di intenzione, una aberrazione del sospetto sulla eventuale e futuribile possibilità che la persona detenuta, per comunicare un volere delittuoso all’esterno, si faccia mandare un modulo per le disposizioni anticipate di trattamento e nel compilarlo introduca indicazioni per i sodali che saranno sempre filtrate dall’ufficio censura del carcere che ogni scritto, in entrata o in uscita, capillarmente analizza. Oltre alla feroce violazione di un diritto garantito a tutti dalla legge che involge principi fondamentali di rango costituzionale – la libertà, la salute, la vita – si trova nell’assurdo provvedimento, la negazione per il ristretto di scrivere alcunché restando aperta la possibilità che trasmetta il proprio comando oltre le sbarre. Vietato pensare, sperare, desiderare. Perfino scegliere come morire.
Chi è al 41 bis non può acquistare il cibo come fanno i detenuti comuni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 Feb 2021. La Cassazione ha accolto il ricorso dell’amministrazione penitenziaria che si era opposta alla decisione del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila. Per la Cassazione, il detenuto al 41 bis non può acquistare il cibo che è invece consentito ai detenuti comuni. Il Magistrato di sorveglianza de L’Aquila ha accolto il reclamo presentato da Carlo Greco, sottoposto nella Casa circondariale de L’Aquila al regime del 41 bis, avente ad oggetto il mancato inserimento nel “modello 72” di una serie di prodotti alimentari che sono invece consentiti ai detenuti non sottoposti al regime differenziato e la previsione di determinate fasce orarie in cui ai detenuti sottoposti al predetto regime penitenziario era consentito cucinare. Per questo ha disposto che la Direzione di quell’Istituto consentisse al reclamante di acquistare al “modello 72” gli stessi cibi acquistabili presso le altre sezioni del carcere e di cucinare cibi senza la previsione di fasce orarie.Con successiva ordinanza il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila ha rigettato il reclamo proposto dall’Amministrazione, rilevando, preliminarmente, come la Corte costituzionale, con sentenza n. 186 del 2018, avesse ritenuto che il divieto di cuocere cibi al 41 bis, costituisse una limitazione, non contemplata per i detenuti comuni, contraria al senso di umanità della pena e costituente una deroga ingiustificata all’ordinario regime carcerario in quanto estranea alle finalità proprie del regime differenziato e, dunque, dalla valenza meramente e ulteriormente afflittiva. Per tale ragione, doveva garantirsi che i detenuti in regime duro fossero assimilati, sotto l’aspetto relativo all’alimentazione, ai detenuti delle sezioni comuni e di Alta Sicurezza: per questo, secondo il tribunale di sorveglianza, in assenza di ragioni di sicurezza per un trattamento diverso, non c’è alcuna giustificazione una restrizione dell’orario in cui i detenuti potevano dedicarsi alla cottura dei cibi; così come la mancata omologazione dei generi alimentari presenti nel “modello 72” dei detenuti appartenenti ai vari circuiti configura una ingiustificata disparità di trattamento, con la sottoposizione dei soggetti al 41 bis un trattamento ulteriormente afflittivo privo di qualunque giustificazione, trattandosi di beni non di lusso.L’amministrazione penitenziaria a quel punto ha fatto ricorso in Cassazione che è stato accolto, con la sentenza numero 4031, con la premessa che l’acquisto di cibi pregiati diventa una possibile dimostrazione di potere, annullando l’ordinanza, ma con rinvio al tribunale per un nuovo giudizio. Perché? La Cassazione ritiene necessario sollecitare, da parte dei giudici di merito, un ulteriore sforzo motivazionale, volto a chiarire di quali beni si sia chiesta l’inclusione nel “modello 72”, in modo da poter verificare la ragionevolezza o meno della scelta in rapporto alle finalità proprie del regime differenziato.
Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni. Maria Brucale su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Sono passati quasi trent’anni da quando la feroce uccisione dei Giudici Falcone e Borsellino portò una società stordita dalla violenza di quelle morti ad accettare una legislazione di emergenza che si annunciava già palesemente incostituzionale: l’introduzione del regime “41 bis”, una carcerazione sostanzialmente sottratta alla tensione rieducativa della pena per chi fosse accusato di essere al vertice di un sodalizio mafioso. Con una riforma del 2002 l’emergenza si è tradotta in immanenza in un solco sempre più profondo di insicurezza sociale e di giustizialismo e quella norma che impedisce alla carcerazione di proiettare il ristretto alla restituzione in società è entrata definitivamente nel nostro ordinamento. Dal 2009, poi, il 41 bis ha subito una ulteriore stretta con una modifica che individua nel tribunale di sorveglianza di Roma il solo giudice deputato a decidere sui reclami avverso la detenzione di rigore. Una violazione vistosa del criterio di prossimità connaturato all’esistenza stessa della figura del magistrato di sorveglianza, vicino al detenuto, che ne conosce il percorso e le progressioni ma, soprattutto, la creazione di un monolite giurisprudenziale attestato sulla pressoché fideistica approvazione dei decreti ministeriali. Così ci sono persone che dal 1992 si trovano diuturnamente in 41 bis. Alcune ci sono morte. Quasi trent’anni, appunto, di “carcere duro” che si fa sempre più espressione di una spinta esasperatamente punitiva. Numerosi i segnali della giurisprudenza di merito e di legittimità di una carcerazione che vuole i ristretti non più uomini. Con una recentissima pronuncia la Corte di Cassazione ha ritenuto legittima la sanzione di 15 giorni di isolamento inflitta a un detenuto in 41 bis per avere affermato, in una sua lettera, di essere stato deportato in un lager (il carcere in cui si trova) dove molti elementari diritti vengono negati. La Cassazione rileva «l’atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari o di altre persone che accedono nell’istituto per ragioni del loro ufficio o per visita. Non può essere revocato in dubbio – secondo i giudici di legittimità – senza che possa invocarsi il diritto alla manifestazione del pensiero, che la definizione del carcere di Rebibbia come lager, ove si sarebbe ristretti per “deportazione”, implica giocoforza una offesa alla professionalità di quanti in quella struttura operano, perché il loro lavoro e il loro impegno viene automaticamente oltraggiato con la riconduzione al ruolo di aguzzini e torturatori». Eppure la censura della corrispondenza dovrebbe essere ammessa soltanto per impedire la veicolazione di messaggi potenzialmente criminogeni. Non è lecito utilizzarla per menomare un recluso della possibilità di sfogare, in una comunicazione che resta privata (seppure letta dal censore) il proprio strazio, la propria sofferenza, anche con toni accesi, iperbolici, perfino rabbiosi. Ancora, dalla suprema Corte: il detenuto non può comunicare ad altro ristretto, con cui è in contatto epistolare, il suo trasferimento in altro istituto di pena. Viola le disposizioni di sicurezza del regime. Non può condividere con altri reclusi un modello di reclamo avverso provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Ciò lo porrebbe, secondo i giudici di legittimità, in un rapporto di supremazia e gli darebbe una indebita autorevolezza. Contro ogni logica, contro ogni umanità, lo si priva del conforto di una corrispondenza soggetta a censura e gli si impedisce di condividere la propria esperienza e di offrire aiuto a una persona che si trova nella sua stessa condizione. Dalla magistratura di sorveglianza, invece, arrivano provvedimenti di divieto di acquistare libri, pur di alto contenuto formativo, a firma della Presidente emerita della Corte Costituzionale, Marta Cartabia e del Prof. Adolfo Ceretti, perché, dice il pm: «il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti e aumenterebbe il carisma criminale» e, conferma il giudice: «il possesso del libro determinerebbe una posizione di privilegio rispetto agli altri detenuti». Conoscere, migliorarsi, dunque, determina supremazia. Ancora. Trattenuta dal magistrato di sorveglianza la lettera di un avvocato al proprio assistito perché contiene un’ordinanza relativa ad altro ristretto, il cui nome è omissato, utile alla sua difesa perché «attraverso eventuali interpolazioni del testo, potrebbe veicolare messaggi illeciti». Insomma si ipotizza che l’avvocato abbia manipolato il provvedimento per trasmettere al detenuto contenuti criminogeni. La suggestione esplicita, dunque, che il difensore sia correo o, quantomeno, favoreggiatore del clan e la palese violazione di legge perpetrata nel bloccare la corrispondenza, peraltro con il difensore, in virtù di una vaga, inconcludente e calunniosa ipotesi di sospetto. Divieto di pensare, di conoscere, di migliorarsi. Per l’amministrazione penitenziaria anche di desiderare. Vietata la fantasia sessuale. No alle riviste porno, un mero interesse del ristretto, secondo il DAP, non un diritto per poter dare vita, almeno nel sogno, nell’astrazione, nel totale isolamento di una condizione di totale privazione, all’istinto che appartiene a tutti, che è connaturato alla persona, che non può essere soppresso, pena la mutilazione della essenza di uomo. Ma sembra ormai tutto lecito per i dannati di quel mondo, il 41 bis, di sterile agonia, di silenzio della mente, delle coscienze.
· Il reato che non c’è. Il Concorso Esterno.
Il reato che non c’è. Concorso esterno, il reato che i Pm usano quando non sanno come incolpare i politici (che non sono mafiosi). Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Marzo 2021. Due sono i messaggi di politica giudiziaria che si possono trarre dalla sentenza con cui la prima sezione della corte di cassazione ha confermato le condanne dell’ex assessore della Regione Lombardia Mimmo Zambetti e del regista Ambrogio Crespi. Il primo messaggio è una sorta di sigillo a un asse virtuale Boccassini-Gratteri, cioè la Milano-Catanzaro che giudica l’insediamento delle cosche calabresi al nord finalizzato a fare affari con la complicità di uomini delle istituzioni e della società civile. E questo è il secondo messaggio politico-giudiziario: l’uso del reato fluido, del reato che non c’è, l’uso del concorso esterno in associazione mafiosa, per colpire quella famosa zona grigia, il terzo livello politico cui non credeva Giovanni Falcone, cui non credono molti giuristi e in parte anche la stessa Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Il processo nasce in Lombardia una decina di anni fa con l’arresto dell’assessore regionale Mimmo Zambetti, fatto che determinerà conseguenze politiche disastrose, con la Lega pronta a indossare gli abiti dell’antimafia e la caduta dell’ultima giunta di Roberto Formigoni. Le indagini della procura di Milano e della responsabile della Dda Ilda Boccassini, con l’uso abbondante di intercettazioni ambientali, punta a dimostrare che, attraverso il voto di scambio tra l’assessore Zambetti e alcuni personaggi ritenuti contigui ad ambienti calabresi “sospetti”, l’esponente del pdl avrebbe incrementato il proprio successo alle elezioni regionali del 2010 con 4.000 voti (degli 11.00 totali) comprati. Ambrogio Crespi lo avrebbe aiutato nella campagna elettorale. In che modo non si sa, visto che non risulta i due si siano mai incontrati né conosciuti. Prima di finire in galera. La Dda alza subito di parecchio il tiro, mettendo insieme un banale pagamento in nero di rimborsi spesa a sostenitori elettorali, e un’altra inchiesta che riguardava detenzione di armi, sequestri di persona ed estorsioni. La mafia appiccicata alla campagna elettorale. Collegamenti artificiosi, come il coinvolgimento di Alfredo Celeste, sindaco del Comune di Sedriano, che diventerà il primo Comune lombardo sciolto per mafia. Peccato però che due anni dopo Celeste sia stato assolto con la formula più ampia (“perché il fatto non sussiste”) dall’accusa che aveva portato il ministro dell’interno Angelino Alfano a una decisione così drammatica. Tutto l’impianto accusatorio di questo processo arrivato ormai alla sentenza di terzo grado è fondato su quei soldi, 30.000 euro e poi altri 20.000, che Zambetti avrebbe dato come rimborsi elettorali a persone che erano “contigue” ad altre. Soggetti che lo avevano anche minacciato a un certo punto, dicendo tra loro al telefono “lo abbiamo in pugno” e riducendolo in lacrime, terrorizzato dalla paura che qualcuno facesse del male ai suoi nipotini. Una vittima, altro che “esterno”! Certo, avrebbe dovuto andare a denunciare tutto dai carabinieri, come ha ricordato ieri nel suo blog Gianfranco Rotondi, suo vecchio amico, ammettendo anche la violazione della legge elettorale sui soldi. Mafioso? Esterno? Sette anni e sei mesi di carcere. Per non parlare poi della posizione di Ambrogio Crespi, il cui nome viene fatto in alcune telefonate. E che è stato persino costretto a commissionare una ricerca al professor Roberto D’Alimonte per dimostrare come nel suo quartiere e nelle zone in cui lui era più conosciuto e avrebbe potuto fornire un aiuto elettorale, il risultato di Zambetti fosse stato proprio modesto. Un’indagine che forse sarebbe spettata alla magistratura, non all’imputato. Mafioso? Esterno? Sei anni di carcere. Incomprensibile verdetto, visto anche che il procuratore generale aveva chiesto l’annullamento del reato. Ma il concorso esterno in associazione mafiosa, cioè la fusione degli articoli 110 (concorso) e 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) è sempre più l’unico strumento a disposizione di chi non sa che pesci prendere nei confronti degli esponenti politici. Quelli di cui si sa che non sono mafiosi, come sicuramente non è e non è mai stato Mimmo Zambetti. Possiamo giurarlo, tutti noi che lo conosciamo. E lasciamo perdere Ambrogio Crespi, che in questa storia non c’entra proprio niente e che è giustamente difeso da tante persone che conoscono lui e la sua attività culturale. Due vittime dell’”esterno”. È dal 1987, da una prima sentenza della Cassazione, che si è creato il reato fluido, il reato che non c’è. Chiamato a sostituire, con la forza del reato associativo, la vecchia accusa di favoreggiamento, inadatta per pestare con forza con intercettazioni e custodia cautelare. Ma da quel primo provvedimento, molte furono le sentenze della stessa cassazione che negavano si potesse applicare il concorso proprio ai reati associativi. Se è vero che nel 1994 la “sentenza Demitry” delle Sezioni Unite sembrerebbe aver messo la parola fine agli scettici, è altrettanto vero che non è facile dimostrare che l’indagato per concorso esterno in associazione mafiosa abbia dato “un concreto specifico consapevole e volontario contributo” alle cosche. Cioè bisogna prima di tutto avere la consapevolezza di trovarsi davanti a un mafioso. E poi ci vuole anche la certezza della volontà consapevole di aiutare l’attività della mafia. La strada è ancora lunga. Il caso Contrada e il caso Dell’Utri insegnano.
· Non era Mafia.
«Nessun asservimento ai clan». Sorbara riabilitato dopo la gogna. Le motivazioni dell’assoluzione dell’ex consigliere regionale della Valle d’Aosta, che ha passato 909 giorni agli arresti: nessuna prova che fu eletto coi voti della ’ndrangheta. Simona Musco su Il Dubbio il 20 ottobre 2021. «Nessun asservimento nelle funzioni pubbliche esercitate alle esigenze del clan risulta dimostrato». A dirlo è la Corte d’Appello di Torino, nelle 640 pagine che motivano la sentenza del processo “Geenna”, che a luglio scorso ha ribaltato la condanna a 10 anni inflitta in primo grado per concorso esterno a Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, assolto dopo 909 giorni di custodia cautelare. Giorni «terribili», aveva dichiarato al Dubbio l’ex politico, resi ancora più insopportabili dal sospetto che la sua carriera politica fosse il frutto di un patto scellerato con la ‘ndrangheta, arrivata fino in Valle d’Aosta per avvelenare ogni cosa. Sorbara, 57 anni, è uscito pulito dal processo perché il fatto non sussiste, dopo aver trascorso 214 giorni, di cui 45 in isolamento, in carcere prima di vedersi concedere i domiciliari, giorni durante i quali ha anche pensato al suicidio. Un’assoluzione che, stando alle parole dei giudici d’appello, sarebbe potuta arrivare subito: «Analizzando complessivamente le risultanze probatorie afferenti alla condotta intera del Sorbara-politico», si legge nella sentenza, non è stata raggiunta «la prova dell’elemento oggettivo che identifica, per insegnamento del giudice nomofilattico, la modificazione del mondo esteriore dovuta al concorrente esterno nel delitto ex art. 416 bis cp». Insomma, nel comportamento di Sorbara non c’era nulla che potesse far concludere circa un suo possibile coinvolgimento in attività mafiose. Il sospetto si basava in gran parte sulla sua amicizia con Antonino Raso, titolare della pizzeria “La Rotonda” di Aosta, che «pur svolgendo un ruolo fondamentale nella cementazione del gruppo, non mostra in nessuna occasione di esercitare, neppure per delega, poteri decisionali». Da qui la riqualificazione del suo ruolo a partecipe del gruppo malavitoso e non più promotore, con una pesante condanna a 10 anni di carcere. Con lui, però, Sorbara avrebbe intrattenuto soltanto un sincero rapporto di amicizia, basato anche sulle comuni origini calabresi. Rapporto confermato da entrambi, che non basta, da solo, a creare quei «presupposti logici» – assenti secondo i giudici – che testimonierebbero il «“previo” arruolamento di Marco Sorbara tra i politici stabilmente “satelliti” del sodalizio attraverso un decisivo appoggio elettorale». Tant’è che «un sereno ed attento esame del materiale captativo non consente di ritenere provato che Sorbara stesso ricevette l’investitura preelettorale dal gruppo facente capo a (Fabrizio, ndr) Di Donato», condannato in secondo grado a 9 anni di reclusione con rito ordinario e con il quale, invece, i rapporti erano inesistenti, scrivono i giudici. Un eventuale sostegno di quest’ultimo sarebbe peraltro smentito anche dal tenore complessivo delle intercettazioni relative alla campagna elettorale per le amministrative del 2015, dove «Di Donato mai fa il nome di Sorbara, e lo stesso amico Raso non fa mistero di puntare sui nomi dei non indagati/imputati Valerio Lancerotto e Fabrizio Porliod». Per quanto riguarda la campagna elettorale del 2018, inoltre, le intercettazioni dimostrerebbero perfino «elementi favorevoli all’imputato», tant’è che il suo nome non compare nell’avviso di conclusione indagini di un altro procedimento, denominato “Egomnia”, nel quale invece compare Raso. Secondo i giudici, in ogni caso, è «provata al di là del limite del ragionevole dubbio l’esistenza di una locale valdostana», capitanata da Di Donato. Oltre a Raso, sono stati condannati a otto anni anche l’ex consigliere comunale di Aosta Nicola Prettico e l’ex dipendente del Casinò di Saint-Vincent Alessandro Giachino, entrambi accusati di associazione mafiosa, mentre l’ex assessora comunale di Saint-Pierre, Monica Carcea, accusata di concorso esterno in associazione mafiosa, è stata condannata a sette anni. Un profilo, il suo, completamente diverso da quello di Sorbara, scrivono i giudici, secondo i quali pur non essendo stata eletta grazie all’aiuto della cosca, avrebbe consentito alla stessa «una significativa penetrazione istituzionale». La vera vocazione di Sorbara, invece, pur essendo un libero professionista, era proprio l’attività politica, praticata ben prima della formazione dell’associazione a delinquere scovata dall’indagine. «Non è certo un politico spiccatamente social come oramai, per vocazione o per forza, sono o sono diventati i maggiori esponenti politici del nostro Paese – scrivono i giudici -, è invece un politico abituato a relazionarsi direttamente con la gente comune (che poi sono ‘‘giustamente” gli elettori), a fare politica, come lui stesso rivendica in una delle centinaia di intercettazioni che lo riguardano, “porta a porta”, probabilmente teso anche oltre l’obiettivo di diventare quel “campione della calabresità” a cui, davanti agli occhi attenti di Raso e dell’immancabile Petullà, mostra comunque di tenere parecchio». Una «impostazione “tradizionale”» che, secondo i giudici, lo avrebbe trasformato in quel campione di preferenze tanto invidiato dai colleghi. Ma nel suo comportamento nulla farebbe pensare ad un «contributo che si risolva in una “condizione necessaria per la conservazione o per il rafforzamento della capacità operativa” dell’associazione». La sua attività amministrativa, anzi, è stata passata al setaccio dagli inquirenti «senza che emergessero irregolarità di sorta e men che meno foriere di poter sortire sviluppi in sede penale o di giustizia contabile». «Una sentenza che restituisce la giusta dignità e moralità a mio fratello, sia umanamente che come politico che ha da sempre creduto nelle istituzioni e lavorato con grandi sacrifici al servizio della comunità – commenta al Dubbio Sandro Sorbara, difensore dell’ex consigliere regionale -. Sono molto soddisfatto come fratello e uomo di legge. È una motivazione esemplare che, con vaglio accurato dettagliato di ogni aspetto giuridico e anche umano (questo ultimo passaggio dimostra altresì l’esatta applicazione costituzionale del ruolo del giudice), pone al centro l’assoluta correttezza e integrità del mio assistito, in ogni contesto dell’agire umano politico, contabile e amministrativo».
Quasi mille giorni in custodia cautelare, ma quel politico era innocente. Marco Sorbara, ex assessore del Comune di Aosta ed ex consigliere regionale, fu arrestato nel 2019 con l'accusa di concorso esterno. Dopo 909 giorni è stato assolto perché il fatto non sussiste. Simona Musco su Il Dubbio il 12 agosto 2021. Marco Sorbara ha passato 909 giorni in custodia cautelare da innocente. Giorni «terribili», ha dichiarato dopo l’assoluzione l’ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, appesantiti dal sospetto che la sua carriera politica fosse il frutto di un patto scellerato con la ‘ndrangheta, arrivata fino in Valle d’Aosta per avvelenare ogni cosa. Sorbara, 57 anni, a fine luglio è stato assolto dalla Corte d’Appello di Torino perché il fatto non sussiste, dopo una precedente condanna a 10 anni con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E, soprattutto, dopo mesi di calvario, aggravati dal voltafaccia dei suoi colleghi, che subito dopo l’arresto lo hanno massacrato. In carcere ha trascorso 214 giorni, di cui 45 in isolamento, per poi vedersi concedere i domiciliari, prima di essere assolto. «Un periodo drammatico», dice oggi suo fratello Sandro, che da avvocato lo ha difeso in aula producendo una marea di documenti e come familiare ha vissuto il dramma di una famiglia travolta dagli eventi. «Per mia mamma sono state necessarie cure psicologiche continue per riuscire a reggere questa gravissima ingiustizia che ha colpito come un fulmine una famiglia nata e cresciuta con sacrifici e onestamente – racconta -. Ora mio fratello è stato completamente assolto, ma il devastante dramma di un gravissimo errore giudiziario nessuno potrà cancellarlo. Una vita distrutta psicologicamente ed economicamente per il nulla più totale».
L’arresto di Marco Sorbara. Sorbara viene portato via dalla sua casa il 23 gennaio 2019, assieme ad una decina di persone, tutte coinvolte nell’operazione “Geenna”, la valle maledetta simbolo dell’inferno. Quando i carabinieri bussano alla sua porta il primo pensiero è terribile: «Ho pensato a un incidente di mio fratello», confida dopo l’assoluzione al Corsera. Invece cercano proprio lui, accusandolo di essere sceso a patti con i clan. La Dda di Torino è sicura di aver snidato gli ‘ndranghetisti della Valle d’Aosta, collegati alle famiglie più pericolose della Calabria. E in questo contesto – confermato dalle sentenze, secondo le quali ad Aosta era operativa una locale capace di esercitare un forte controllo sull’elettorato calabrese -, Sorbara sarebbe stato uno degli uomini politici che dell’appoggio dei clan avrebbe usufruito «per tornaconto personale», risultando il primo per preferenze e restituendo il favore strizzando l’occhio ai malavitosi. Secondo la Dda, infatti, avrebbe confidato informazioni riservate, accettando “consigli” sul suo operato, dai componenti della “locale” cittadina, in particolare dal ristoratore Antonio Raso. Un’accusa devastante per lui, che all’improvviso vede il suo mondo crollare: in carcere, sospeso dall’ordine dei commercialisti e rifiutato dalle banche, così come anche sua madre.
Ascesa e caduta di un politico di punta. Eletto nel 2010 in Consiglio comunale ad Aosta nella lista dell’Union Valdôtaine, viene confermato alle elezioni del 2015, ricoprendo il ruolo di assessore alle politiche sociali fino al maggio 2018, quando entra in Consiglio regionale sempre nella lista dell’Uv. In carcere Sorbara piomba nella disperazione e pensa anche al suicidio. E intreccia anche il lenzuolo, convinto di affidare a quello il dolore e farla finita una volta spente le luci. Ma resiste, convinto della sua innocenza. In carcere perde molti chili, scrive tantissimo, legge 105 libri, attende di tornare a casa e che la verità venga fuori. Ci spera, quando a luglio la Dda di Torino dà parere favorevole agli arresti domiciliari, dal momento che «le esigenze cautelari sono affievolite e possono essere adeguatamente fronteggiate con una misura meno grave». Ma il gip non ci sta, decidendo che non c’è altra misura adeguata e diversa dal carcere. Dopo essersi sentito dire cinque volte “no”, però, Sorbara riesce a tornare a casa, ad agosto 2019. Intanto, però, sono passati sette mesi e un giorno quando il Riesame accoglie finalmente la richiesta dei suoi avvocati.
Il processo. A casa sua il politico studia il suo caso, raccolto in 42 faldoni assieme alle vite degli altri imputati. Il primo grado, ad Aosta, si chiude il 16 settembre 2020: Sorbara viene condannato a 10 anni di reclusione e nella sua vita si affaccia di nuovo l’ipotesi di farla finita lanciandosi giù dal balcone. Desiste ancora una volta, ma la speranza a tratti vacilla. Durante il periodo trascorso ai domiciliari viene autorizzato a lavorare. Ma non può più fare il commercialista e dunque si procura un lavoro come magazziniere, riuscendo a trascorrere fuori casa tre giorni a settimana. «Sin dall’inizio abbiamo dimostrato che tutto l’impianto accusatorio non aveva alcun fondamento, già dalla lettura del capo di imputazione – spiega Sandro Sorbara -. Mio fratello, fin da subito, mi ha detto di essere innocente e ci ho creduto ciecamente. Il suo elettorato era riconoscibilissimo: è sempre stato in mezzo alla gente, tra gli anziani, a cui serviva la cena a Natale e capodanno, è un ex sportivo. Le testimonianze in aula sono state chiare: lo hanno descritto tutti come un uomo del popolo». Ma soprattutto sono le prove quelle che mancano, spiega l’avvocato. «Faccio un solo esempio: subito dopo l’inchiesta, al Comune di Aosta è arrivata una Commissione d’accesso per verificare eventuali infiltrazioni mafiose, prendendo a dettaglio l’ordinanza di custodia cautelare – spiega -. Secondo l’accusa, Raso (Antonio, condannato a 10 anni ndr), tramite mio fratello, si sarebbe infiltrato nell’amministrazione per ottenere appalti. Ecco, l’amministrazione non è stata sciolta, perché non sono stati riscontrati elementi di infiltrazione». Nella relazione, infatti, viene certificata una situazione «caotica», non riconducibile, però, «ad una connivenza tra il “locale ‘ndranghetista di Aosta» e l’amministrazione. Sorbara ripropone tutte le argomentazioni già usate in primo grado, ma mai prese in considerazione dai giudici. «L’ho detto anche durante la discussione in appello – sottolinea il legale -, non pensavo, dopo 20 anni di professione, di leggere una sentenza piena di termini denigratori. I giudici hanno perfino deriso mi fratello, che in aula ha spiegato di come nostro padre fosse arrivato dalla Calabria con la valigia di cartone. Non hanno citato nessuna delle testimonianze, senza valorizzare il pignoramento che mio fratello aveva fatto alla famiglia di cui, secondo l’accusa, avrebbe avuto paura».
Famiglia distrutta. Marco Sorbara ora pensa a riprendersi. Ma ha già deciso, dopo aver vissuto l’esperienza del carcere, di avviare un percorso di sostegno per chi, invece, vive dietro le sbarre. «Lui poteva contare su di me non solo come avvocato, ma anche come fratello – conclude -, ma cose del genere non dovrebbero verificarsi più. Questa storia ha distrutto la mia famiglia. Bisogna lottare per il principio della presunzione d’innocenza e il corretto vaglio delle esigenze cautelari e l’applicazione legittima della custodia cautelare, in conformità ai principi scolpiti nel nostro ordinamento giuridico»».
«Contavo i passi della mia cella e pensavo al suicidio. Ma credo ancora nella giustizia». Intervista a Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d'Aosta, assolto dall'accusa di concorso esterno dopo 909 giorni in custodia cautelare: «Mi chiedevo perché, ma non avevo risposte». Simona Musco su Il Dubbio il 13 agosto 2021. «Ci sono stati fiumi di giornali per mesi e mesi, poi dopo l’assoluzione i soliti due articoli e basta…», dice Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta, prima di sciogliersi in un fiume di parole per raccontare il suo incubo. L’incubo di un uomo innocente che ha trascorso 909 giorni in custodia cautelare con l’accusa di concorso esterno prima di sentire riconosciuta la propria innocenza, dopo una prima condanna a 10 anni. Momenti terribili, tra carcere e domiciliari, compresi 45 giorni in isolamento. «Erano cinque passi per quattro, li contavo. E mi chiedevo tutti i giorni perché – dice al Dubbio -. Ma non ho mai trovato risposta».
Come si sente ora che è stato assolto?
Inizialmente c’è stato un crollo. Fin dal primo giorno speravo di sentire quelle parole, ma dopo il primo grado c’era tanta paura. Dopo sette mesi di carcere, l’isolamento, i cinque no alla richiesta di domiciliari, da incensurato… È come avere un demone dentro che ti massacra. Quel giorno è stato fantastico, perché avevo al mio fianco la mia famiglia, che mi ha sorretto ogni giorno: mia madre e i miei due fratelli, uno dei quali è il mio avvocato. Ma tutti i giorni, per 909 giorni, mi sono chiesto: perché?
E si è dato una risposta?
È difficile rispondere. Io verniciavo i bagni pubblici con i ragazzi disabili nei quartieri, portavo gli anziani in soggiorno… A capodanno 2018, 20 giorni prima di essere arrestato, ho servito loro, assieme ad altri ragazzi, la cena. Questo, per me, era il mio mandato politico. Ecco perché non capivo. Mi chiedevo come fosse possibile, leggendo le carte, tenermi dentro. Non c’era un elemento che confermasse un’accusa infamante e devastante come il concorso esterno in associazione mafiosa. Mi aspettavo che qualcuno, leggendo, lo avrebbe capito, ma non accadeva. Eppure non ho mai aiutato qualcuno a scapito di qualcun altro. Non c’erano storie di droga, di armi, di appalti, di soldi. Anzi, vengo da una famiglia umile, ho fatto qualsiasi lavoro: il cameriere, il gelataio, il cantoniere, pulivo le scale… Ero convinto al 100% che la verità sarebbe venuta fuori in primo grado. Ma ad Aosta sono stato anche deriso.
In che modo?
In famiglia siamo tre fratelli. Mia madre, casalinga, cuciva la notte, noi ci alzavamo alle cinque del mattino per pulire le scale per pagare le spese condominiali, abbiamo fatto qualsiasi lavoro. Mio padre è partito per davvero con la valigia di cartone da San Giorgio Morgeto, in Calabria. Ho raccontato tutte queste cose durante il processo e per la Corte farlo è equivalso a deridere e prendere in giro i giudici. Ma era solo la verità.
Le sue origini calabresi, secondo lei, hanno influito?
Sicuramente, è inevitabile. Io sono nato ad Aosta, come mia madre, ma tra il mio Comune e quello in cui è nato mio padre c’era una “carta dell’amicizia” che risaliva alle precedenti amministrazioni. Ma date le mie origini ero io il rappresentante della giunta che si recava a San Giorgio per la festa patronale. A mie spese, perché l’ho intesa sempre così la politica. Ma tutto ciò non è stato considerato, anzi, per i giudici di primo grado avrei messo il timbro della ‘ndrangheta sui quartieri. Un’accusa devastante per me.
Cosa ricorda del giorno dell’arresto?
Alle 3.15 del mattino, quando abbiamo sentito il citofono, ho guardato mia madre e le ho detto di sedersi: il primo pensiero è stato che Sandro o Cosimo, i miei fratelli, avessero avuto un incidente. Non potevo immaginare minimamente potessero cercarmi per questo. Sono entrati, mi hanno bloccato e hanno perquisito casa. Mia madre urlava, ma non potevo avvicinarmi. Poi sono andato in caserma e mi hanno detto che mi avrebbero portato in carcere.
Cosa ha pensato?
Che fosse uno scherzo. Non mi hanno nemmeno portato ad Aosta, ma a Biella. E poi basta, non hai più informazioni: vieni buttato in carcere, ti spogliano, ti perquisiscono… Non riesci nemmeno ad andare in bagno, perché ti blocchi. Sei umiliato, non esisti più come uomo. Vieni completamente annientato. E poi c’è stato l’isolamento per 45 giorni.
Com’è stato?
Gli agenti hanno avuto una sensibilità meravigliosa. Ho trovato delle persone che capivano il mio dramma, perché forse capivano di avere davanti una persona perbene. E messo in quelle condizioni, in cui perdi la dignità e la voglia di vivere, è tanto. Ho visto mia madre e mio fratello dopo 33 giorni: ero convinto che non volessero più vedermi. Che ne sapevo delle regole da seguire quando ti trovi carcere per accuse del genere? Fortunatamente mio fratello Sandro, essendo il mio avvocato, veniva a trovarmi costantemente. Ma alla fine ti ritrovi devastato.
Ero in una cella dove contavo cinque passi per quattro, dove avevo solo l’acqua fredda, senza radio, con una tv che non si vedeva, un letto in ferro e un materasso impossibile. Ma gli agenti non potevano farci nulla. Avevo talmente freddo che quando veniva mio fratello gli mettevo le mani sulla pancia per riscaldarmi. Dopo due settimane ho provato ad uccidermi. Ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo. Perché non aveva più senso la mia vita.
E perché ha cambiato idea?
Perché ero innocente. E avevo la mia famiglia vicina e la fede. Questo mi ha aiutato ad andare avanti. Mio fratello mi ha chiesto: c’è qualcosa che non so? Gli ho giurato che non c’era nulla. E poi mi ha fatto giurare sulla tomba di mio padre che non mi sarei tolto la vita. Ero convinto del mio giuramento, però ci sono momenti in cui perdi tutto. Per un innocente anche un’ora in più in carcere è devastante. Ho sentito fisicamente quella violenza e ancora oggi sento il bisogno di farmi la doccia per togliermi quella sensazione di dosso. Poi ho avuto un altro crollo il 16 settembre, il giorno della sentenza ad Aosta.
Com’è andata?
Sono arrivato lì sicuro di essere assolto. La gente fermava mio fratello e mia madre per strada per esprimere solidarietà, le persone sono venute davanti al tribunale ad applaudire. Per i giudici era un segnale della ‘ndrangheta, invece erano solo persone che capivano il dramma della mia famiglia. Quando ho sentito di essere stato condannato a 10 anni e 600mila euro di risarcimento sono uscito, sono tornato a casa e una volta aperta la porta ho tirato dritto verso il balcone: ero deciso a buttarmi di sotto.
Abitiamo ad un quarto piano basso, sotto c’è l’erba e per l’ennesima volta il pensiero è andato a mia madre, che ha 80 anni, e mi sono fermato. Mi sono detto: ma se mi butto e rimango paraplegico? Sarebbe stato un ulteriore peso sulla mia famiglia, per quello non l’ho fatto. Ma io sono fortunato, ho una famiglia meraviglia, chi non ha nulla cosa fa? Non so cosa farò, ma mi dedicherò a chi non ha queste opportunità. E non parlo di soldi: noi ci siamo indebitati fino alle orecchie. L’altra cosa che ti devasta è che fino al giorno prima sembra che i tuoi colleghi politici ti apprezzino, il giorno dopo ne dicono di cotte e di crude. Questo fa male.
Ora va meglio?
Rimane la paura di parlare, di uscire. La gente ti saluta, ma tu rimani inchiodato al meccanismo dei domiciliari, durante i quali non puoi avere contatti con nessuno. Non riesci ad uscire da quello schema. Quello che mi aiuta a superare questo demone è la voglia di tornare a fare politica come l’ho sempre fatta, in mezzo alla gente. Quella che ha detto, sin dall’inizio, che non c’entravo nulla. Ci sono pure le intercettazioni in cui si parlava di me come persona onesta, ma non sono state considerate.
Le hanno contestato il rapporto con Antonio Raso, che è stato condannato come uno degli esponenti di punta della locale di ‘ndrangheta ad Aosta. Come ha spiegato la vostra conoscenza?
Dico solo che Aosta è una realtà piccola: conoscevo tutti e parlavo con tutti. Era una conoscenza come un’altra, frequentavo il suo ristorante, dove andavano tutti, comprese le forze dell’ordine e i magistrati.
Che idea si è fatto della giustizia, ora che l’ha vista da vicino?
Ho ancora fiducia, perché in due occasioni la magistratura mi ha salvato: quando, dopo sette mesi, un giudice mi ha concesso i domiciliari e ora, in appello a Torino, dove una Corte ha letto gli atti e ha ascoltato mio fratello, che nell’udienza del 21 giugno, in tre ore, ha smentito punto per punto quanto detto dal procuratore. Abbiamo prodotto centinaia di documenti, ma mi sentivo dire sempre no, cinque volte no. E quelle sono legnate. Ho fiducia, ma bisogna far in modo che i giudici ascoltino, che non abbiano pregiudizi e siano lontani da qualsiasi contatto con l’accusa. Non può esistere che una Corte relazioni con l’accusa: c’è disparità con la difesa. Avevo quasi l’impressione di trovarmi di fronte ad una nave gigante mentre io ero piccolino e provavo a spingere, ma non succedeva nulla. Il mio fascicolo non è un fascicolo, è una persona. Dov’è la presunzione di innocenza? Io ho letto oltre 72mila pagine, per tre volte. Ho ascoltato tutte le intercettazioni, anche dei procedimenti precedenti, e quando in aula ho detto di averlo fatto e di non aver trovato nulla a mio carico il giudice mi ha deriso. L’unica cosa che chiedevo era che qualcuno leggesse quelle carte e ammettesse quella terribile ingiustizia. La mia paura era di non arrivare alla fine e che non ci arrivasse mia madre. I giudici dovrebbero entrarci in carcere, per capire cos’è e che in carcere ci deve andare solo chi è colpevole.
Cos’altro ricorda del carcere?
Che i poliziotti ci portavano le arance e le mele ed io, che sono appassionato di statistica, contavo gli spicchi e i semi e facevo le proporzioni. E poi che c’era un uomo che stava dentro da 27 anni e mi diceva: io non oso immaginare cosa tu abbia provato sapendo di essere innocente. Lui ne aveva fatto di cotte e di crude, aveva gambizzato, ucciso e voleva ascoltare le mie parole, cercare di capire. Spero di riuscire a togliermi tutto questo di dosso e che non ricapiti più a nessuno. Non mi importa nulla dei risarcimenti, quello che fa male è che nessuno ridarà a mia madre due anni e mezzo di vita. Era talmente disperata che ha scritto al Papa. E lui ha risposto, dicendole che le stava vicino e di continuare ad avere fede. Ora spero di tornare a vivere. Come dico sempre a mia madre, io ho 51 anni: gli ultimi tre non li considero.
Francesco Cramer per “il Giornale” l'1 agosto 2021. La fine di un incubo durato cinque anni per l'ex parlamentare azzurro, poi transitato in Gal (gruppo Grandi autonomi e libertà, ndr), Antonio Caridi. Assolto venerdì sera dai giudici di Reggio Calabria perché il «fatto non sussiste». L'accusa era infamante: «associazione a delinquere» nell'ambito del processo «Gotha» sulla ‘ndrangheta. Un dibattimento durato cinque anni il cui epilogo, in primo grado, è finito bene. Ma l'odissea è stata tostissima: il pm aveva addirittura chiesto 20 anni per Caridi. Invece le accuse si sono sciolte come neve al sole. Eppure l'ex parlamentare è stato arrestato nel 2016, sbattuto in carcere a Rebibbia, distrutto politicamente e umanamente. «Sono soddisfatto, ho sempre avuto un comportamento improntato alla massima trasparenza», la sua prima reazione. La seconda: «Mi voglio riprendere la mia vita, che è stata mortificata, anche da 18 mesi di carcere a Rebibbia, in alta sicurezza. Una barbarie. Voglio ringraziare i miei avvocati Carlo Morace e Valerio Spigarelli che mi sono sempre stati vicini anche umanamente». Rabbia per gli ex colleghi che l'hanno mandato in carcere? Al Giornale Caridi giura: «Non ho mai portato rancore, sono un cattolico io». Di politica, però, non vuol parlare: «Non ho ancora firmato per i referendum e in ogni caso con la politica ho chiuso. Dal 2016 non voto nemmeno più». Il politico era stato indagato dalla Dda con l'accusa di fare parte di una associazione segreta, capeggiata dall'ex parlamentare del Psdi, Paolo Romeo, condannato invece a 25 anni, con l'obiettivo di condizionare la politica cittadina e per avere agevolato le cosche De Stefano e Gullace, in cambio di sostegno elettorale. Con Caridi, sono state assolte altre tredici persone. Nel 2016, l'indagine e la richiesta di arresto con tanto di «ok» del Senato, pieno di polemiche: voto segreto, 154 favorevoli, 110 contrari, 12 astenuti. A far tintinnare le manette, Pd e Movimento 5 stelle in coro. Unico dem a rifiutare l'ordine di scuderia, il senatore Luigi Manconi che evidenziò «palesi carenze e gravi debolezze delle motivazioni addotte a sostegno della richiesta di arresto». E ancora, parlando di fumus persecutionis, alzò il dito: «Se fossero state sussistenti le necessità cautelari per l'arresto del senatore Caridi, perché non sono state fatte valere quindici anni fa, quando essendo stato informato di indagini nei suoi confronti per così gravi capi d'accusa lo stesso Caridi avrebbe potuto inquinare le prove o sottrarsi alle indagini con la fuga?». Nessuna grinza ma... Per Caridi si spalancarono le porte della cella. Per tanto, tantissimo tempo. Ottantacinque settimane di galera da presunto colluso con la 'ndrangheta. Ottantacinque settimane in gattabuia in custodia cautelare. A liberarlo, nel 2018, una sentenza del Tribunale del riesame di Reggio Calabria. E per ben due volte la Corte di Cassazione si espresse dicendo che, lette e rilette le carte, non era saltato fuori neppure un indizio piccolo piccolo che suffragasse l'ipotesi di Caridi mafioso. Già da quei pareri della Cassazione si poteva evincere l'insussistenza delle accuse. Quindi, dopo venti mesi di galera, ingiusta, Caridi è tornato a casa. Ma con sempre un processo da affrontare perché nonostante i supremi giudici avessero detto che l'impianto accusatorio era traballante, il Tribunale del riesame derubricò l'accusa a «concorso esterno». Come a dire: «Sì, ok, Caridi non è mafioso ma, almeno un pochino la mafia l'ha aiutata». Invece no: assolto perché il fatto non sussiste.
Passò 20 mesi in carcere, ma per i giudici è innocente: assolto l’ex senatore Antonio Caridi. Nel 2016 il Senato aveva votato il suo arresto. Per la Dda era membro di una cupola massomafiosa, per il Riesame concorrente esterno. Ieri l'assoluzione: l'accusa aveva chiesto per lui 20 anni. Il Dubbio 31 luglio 2021. Il Tribunale di Reggio Calabria, dopo cinque anni di dibattimento, ha assolto dall’accusa di associazione mafiosa l’ex senatore del Pdl Antonio Caridi. L’accusa del processo “Gotha” aveva chiesto per lui una condanna a 20 anni di carcere. Il politico era stato indagato dalla Dda con l’accusa di fare parte di una associazione segreta, capeggiata dall’ex parlamentare del Psdi, Paolo Romeo, condannato invece a 25 anni, con l’obiettivo di condizionare la politica cittadina e per avere agevolato le cosche De Stefano e Gullace, in cambio di sostegno elettorale. Con Caridi, sono state assolte altre tredici persone: l’ex presidente della Provincia Giuseppe Raffa (Fi), Antonio Remo, il primario ospedaliero Vincenzo Amodeo, Antonio Aricò, l’ex assessore comunale di centrodestra Amedeo Canale, Antonio Cara, Francesco Cutrupi, la giornalista Teresa Munari, Saverio Pietropaolo, Giovanni Pontari, Andrea Scordo e l’ex direttore del dipartimento di Psichiatria dell’Università di Messina, Rocco Zoccali. Sono stati invece condannati l’ex parlamentare Paolo Romeo (25 anni), indicato come capo e promotore dell’ associazione segreta; l’avvocato Antonio Marra; Marcello Cammera (2 anni); il sacerdote Giuseppe Strangio (9 anni e 4 mesi); Giovanni Zumbo (3 anni e 6 mesi); Antonio Barbieri (3 anni e 4 mesi); Domenico Cartisano (20 anni); Francesco Chirico (16 anni), cognato del boss Paolo De Stefano; Vincenzo Delfino (5 anni); Antonino Gioè (16 anni e 6 mesi); Domenico Giustra (2 anni); Francesco Minniti (2 anni e 8 mesi) e Paolo Richichi (3 anni e 6 mesi). L’arresto di Caridi era stato votato dal Senato nel 2016. Una decisione presa col voto segreto e appoggiata da 154 senatori favorevoli alla richiesta avanzata dalla Dda di Reggio Calabria, contro i 110 contrari e i 12 astenuti. Caridi era stato indicato come strumento della cupola di invisibili guidata dall’ex deputato reggino Romeo e dall’avvocato Giorgio De Stefano, dominus della zona grigia che controlla la città. Un voto preceduto da ampie polemiche e scontri, nonché dalla dichiarazione d’innocenza dello stesso Caridi, che ha condensato su due pagine il proprio pensiero. «Io sono e mi dichiaro innocente e sono sicuro che questo mi verrà riconosciuto in sede giudiziaria», aveva affermato in aula. Negando di aver mai avuto rapporti «o stipulato patti con la ‘ndrangheta», né di aver mai partecipato ad associazioni segrete. «Non c’è un fatto – aveva evidenziato – che dimostri questa infamante accusa. Mi si accusa di aver avuto da sempre l’appoggio delle cosche eppure si dimenticano le tornate elettorali in cui non sono stato eletto oppure ho raccolto un numero di voti inferiore ad altri». L’ex senatore era tornato in libertà dopo 20 mesi in cella, dopo la decisione del tribunale del Riesame di Reggio Calabria di annullare la custodia cautelare, riqualificando l’accusa di associazione mafiosa in concorso esterno. La vicenda era tornata al tribunale della libertà dopo due annullamenti da parte della Cassazione, che aveva censurato le motivazioni con le quali era stato confermato il carcere per il politico, coinvolto nell’inchiesta “Mammasantissima”, poi unificata assieme ad altri procedimenti nel maxi processo “Gotha”.
Il caso Caridi insegna che con questi pm perderemo la guerra contro le mafie…Non possiamo liquidare questa storia come uno dei tanti e insignificanti errori giudiziari. Abbiamo il dovere di capire come si sia arrivati a questo arresto e come si stato possibile strappare un parlamentare eletto dai cittadini dal suo scranno e richiuderlo in galera. Davide Varì su Il Dubbio 31 luglio 2021. Prima l’accusa, gravissima, di associazione mafiosa; poi l’indegno lasciapassare da parte della giunta per le immunità del Senato e infine venti mesi di galera preventiva, gran parte dei quali passati in isolamento e in preda a una disperazione buia e senza fine. Ma alla fine di questo calvario i giudici hanno stabilito che il senatore Antonio Caridi è innocente, non aveva nulla a che vedere con la mafia e che il teorema politico criminale della procura di Reggio Calabria era del tutto infondato. A un certo punto abbiamo sperato che il senatore Caridi fosse colpevole, che quelle accuse fossero vere perché era troppo grave la decisione di privare della libertà un parlamentare della Repubblica. E invece no, i nostri sospetti erano fondati: Caridi era innocente e quell’arresto, sparato dai giornali che lo dipingevano come il politico al servizio del clan della ‘ndrangheta, era del tutto ingiustificato. Ma a questo punto non possiamo liquidare questa storia come uno dei tanti e insignificanti errori giudiziari. Abbiamo il dovere di capire come si sia arrivati a questo arresto e come si stato possibile strappare un parlamentare eletto dai cittadini dal suo scranno e richiuderlo in galera. Dobbiamo seguire la catena delle responsabilità, a cominciare da quelle della politica. E allora dobbiamo partire dalla decisione dell’allora presidente Grasso, l’ex magistrato Piero Grasso, di forzare la decisione di anticipare l’esame della vicenda Caridi da parte del Senato. E dobbiamo ricordare che il Pd decise di schierarsi con i 5Stelle. E poi dobbiamo segnare sul “quaderno delle memorie” le parole dell’allora capogruppo dem Luigi Zanda che schierò il Partito democratico per la “linea della fermezza” spiegando: «Nulla, ma proprio nulla, è emerso nel dibattito e nelle carte di cui abbiamo avuto legittima conoscenza che faccia ritenere che nella vicenda che riguarda il senatore Antonio Stefano Caridi sia ravvisabile quel fumus persecutionis che, ove sussistesse, sarebbe l’unica ragione per la quale il Parlamento può negare l’autorizzazione all’esecuzione di una misura legittima dell’Autorità giudiziaria». «Chi ha sperato in imboscate, ora sarà deluso». E poi le lacrime di coccodrillo dell’allora renziano Andrea Marcucci: «Sono comunque decisioni difficili, che il gruppo dem affronta sempre a viso aperto, con rigorosità, senza pregiudizi e caso per caso».
E infine dobbiamo ricordare le parole di Caridi, parole cadute nel vuoto di aula sorda e terrorizzata dalla campagna stampa che affiancò il lavoro della procura: «Mi si accusa di aver fatto parte di una sorta di componente apicale e segreta della ‘ndrangheta, pur senza indicare un fatto, uno, che dimostrerebbe questa infamante accusa». La sua ultima immagine da uomo libero è quella di uno sconfitto che si congeda dai colleghi parlamentari col volto solcato dalle lacrime. Poi la galera: venti mesi di buio sui quali oggi si fa finalmente luce. E qui abbiamo il dovere di ricordare l’altra catena delle responsabilità, quelle di una procura che, secondo i giudici, ha agito con avventatezza e confidato nel terrore compiacente della politica. E avanza il sospetto che con questa antimafia, la ‘ndrangheta vivrà ancora a lungo…
Pd e M5S lo vollero in manette alla vigilia di ferragosto. Perché fu arrestato Antonio Caridi, il senatore “boss della ‘ndrangheta” che non lo era. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Gli unici a ricordare quella macchia del Senato di cinque anni fa, quando con un voto fortemente voluto da Pd e M5S nonché dal presidente Pietro Grasso, fu spedito in galera Antonio Caridi, sono stati due ex colleghi. Riccardo Mazzoni sul Tempo e Carlo Giovanardi su Libero ne hanno memoria perché il caso fu clamoroso, in quanto fu decisa all’improvviso, mentre le Camere stavano per chiudere i battenti per le ferie estive e al Senato era l’ultima seduta, un’inversione dell’ordine del giorno molto voluta dallo stesso Grasso. Tirava aria di manette quel giorno, nel ricordo dei due ex senatori, come se non si potesse andare in vacanza senza la soddisfazione di aver stretto le manette ai polsi di un esponente politico avversario. Che Antonio Caridi non sia un mafioso ce lo dice oggi anche la magistratura che lo ha assolto, ma lo si poteva, se non sapere almeno intuire anche ieri, come ci raccontano i due ex colleghi che avevano votato contro il suo arresto, insieme al gruppo di Forza Italia. Lo poteva intuire, annusando un po’ meglio le carte in cerca del famoso “fumus persecutionis” per esempio il capogruppo del Pd Andrea Marcucci, da sempre legato al suo leader Matteo Renzi, che allora era il presidente del consiglio, e che non batté ciglio nel vedere il Senato privato di un suo componente per mano non degli elettori ma di un pubblico ministero. Chissà se Renzi è in grado, almeno oggi con qualche nervo scoperto in più, di valutare con precisione il peso e il senso di quella ferita inferta dal suo gruppo a una persona e allo Stato di diritto in quel 4 agosto del 2016. L’inchiesta denominata “Gotha” era un insieme probabilmente arbitrario di quattro o cinque diverse inchieste congiunte da una sorta di copia e incolla dal procuratore capo di Reggio Calabria Cafiero De Raho. Un po’ quello che oggi è lo stile Gratteri, insomma: mescoli insieme un po’ di criminali, un po’ di veri o falsi mafiosi e condisci con qualche nome di politico o amministratore locale, ai quali contesti il solo reato associativo. Poi fai una conferenza stampa e annunci la sconfitta di una famosa cosca mafiosa. Che importa se il famoso politico, indicato nella richiesta di arresto come uno dei capi della ‘ndrangheta, e al quale sono stati fatti scontare 20 mesi di carcere preventivo sarà assolto cinque anni dopo? Intanto hai ottenuto che un Senato presieduto da un ex procuratore nazionale “antimafia” ti abbia consentito di arrestarlo. Alla faccia di quel brandello di immunità rimasta dopo la sciagurata controriforma dell’articolo 68 della Costituzione votata da un Parlamento annientato dalle inchieste di tangentopoli nel 1993. In ogni caso, quando arriva una richiesta di custodia cautelare quasi nessuno ha la curiosità di sfogliare le carte dell’inchiesta, e soprattutto pochi capiscono che il famoso “fumus persecutionis”, cioè il sospetto che la richiesta di carcerazione sia infondata, non si riferisce al contenuto dell’inchiesta, ma ai presupposti degli articoli 274 e 275 del codice di procedura sul pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Se qualcuno ci ragionasse un po’, capirebbe che usare le denunce, i processi e il carcere contro gli avversari politici quanto meno prima o poi ti si ritorce contro. Sarebbe ora che quelli come Matteo Renzi prendessero atto una volta per tutte che non è il sole a girare intorno alla terra. E ponessero fine al totalitarismo giudiziario rivendicando con onore l’autonomia della politica. Matteo Renzi è convinto di essere un garantista. Pensiamo sia sincero. Ma ogni tanto crede ancora che il sole giri intorno alla terra. E non sappiamo se qualche nome di esponenti politici messi alla gogna, anche con la sua complicità, negli anni in cui lui era segretario del Pd o presidente del consiglio, lo fa un po’ arrossire. O gli fa venir voglia magari di un piccolo gesto come quello di Luigi Di Maio nei confronti di Simone Uggetti, l’ex sindaco di Lodi da lui e dal suo partito esposto alla gogna dopo l’arresto e poi assolto. Facciamo qualche nome: Gianni Alemanno, Roberto Bertolaso, Roberto Cota (irriso per le inesistenti mutande verdi nel giorno dell’assoluzione), Filippo Penati (cancellato dall’elenco degli iscritti), Ignazio Marino, eccetera. E vogliamo parlare di “Lupi e i suoi fratelli”, cioè dei ministri accompagnati alle dimissioni? Sarebbe bastata una parola di solidarietà nei confronti di Nunzia De Girolamo, per esempio. A proposito, le hai mai chiesto scusa, almeno dopo l’assoluzione? Pugno di ferro in guanto di velluto, invece, pur passati i tempi in cui il Pds scaraventò fuori dal ministero il guardasigilli Filippo Mancuso con una sfiducia individuale perché aveva osato mandare gli ispettori agli eroi milanesi di Mani Pulite. C’è tutto un mondo dell’immoralità, quella vera, quella di chi fa le liste di proscrizione, quella di chi parla di indagati come se dicesse appestati. Quella di chi usa lo strumento giudiziario e la denuncia quando perde le elezioni, come fece il Pd a Parma dopo l’elezione di Federico Pizzarotti e a Milano contro la sindaca Letizia Moratti e a Roma contro Virginia Raggi. Un Pd più immorale dello stesso Movimento cinque stelle, che naviga inconsapevole del proprio nulla. Quello del “sono garantista però”, “lasciamo che la giustizia faccia il suo corso”, “premesso che sono per l’autonomia della magistratura”. Ora basta con le premesse e i però. Non sappiamo se, almeno privatamente, Matteo Renzi abbia mai chiesto scusa a Silvio Berlusconi per quel “game over” pronunciato mentre lo faceva cacciare dal Senato. Ma il caso di Antonio Caridi potrebbe essere una buona occasione per cominciare a far girare la terra intorno al sole. Lasci che il nipotino Letta si trastulli con i suoi amici tagliagole dei cinque stelle, e inizi un percorso diverso, quello che una volta Luigi Manconi, che aveva preso le distanze dal suo gruppo e aveva votato contro l’arresto del collega quel 4 agosto del 2016, aveva definito, nel contesto dl Pd, come quello degli “smarriti apolidi”. Vedrà che non sarà così solo.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Linciato dalla stampa che ora ignora la sua innocenza...Scandalo Caridi: innocente è stato calunniato dal Senato e il Pm ha chiesto 20 anni! Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Agosto 2021. I giornali sorvolano. E la politica più che mai. Cosa volete che sia? Un senatore della repubblica, bravo, esperto ed onesto, scambiato dai magistrati per un capomafia, abbandonato dai suoi colleghi e spedito in carcere per un anno e mezzo. Distrutto politicamente e umanamente. Scarcerato con due ordini dalla Cassazione (il primo non eseguito) perché non ci sono indizi. Assolto dal tribunale con formula pienissima l’altra sera, nonostante il Pm avesse chiesto 20 anni (vent’anni! Quasi l’ergastolo). Cosa volete che sia? Titoli di prima pagina quando lo presero. Certezza della colpevolezza. Silenzi oggi, e nuovi inchini a una Procura che ha preso in faccia uno schiaffo di dimensioni epocali. Si chiama Antonio Caridi, la vittima, sequestrato dai Pm. È un ex Forza Italia. Contro di lui non c’era niente: zero. Ma i senatori chiamati a convalidare l’arresto non lessero nemmeno le carte. Il Presidente Grasso impose una inversione dell’ordine del giorno per spedirlo a Rebibbia in tempi record. Pd e 5 Stelle, tranne pochi senatori per bene, col pollice all’ingiù. E oggi, zitti, rintanati. Chissà se si vergognano un po’. Chissà se la rifaranno una carognata così..
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La forza delle toghe. La violenza della magistratura, cosa ci insegna il caso Caridi. Piero Sansonetti su il Riformista il 4 Agosto 2021. Quando ero un giovane cronista dell’Unità, ogni settimana contavamo i morti. Erano gli anni settanta, e poi gli anni ottanta: l’Italia era un luogo molto pericoloso. La lotta armata e il terrorismo nero, o di stato, in meno di un decennio uccisero circa 2.000 persone, e lasciarono migliaia di feriti. La mafia alternava periodi di lotta interna, sanguinosissima, con le offensive contro lo Stato. I caduti erano soprattutto poliziotti, magistrati, politici, giornalisti. Nelle stragi dinamitarde invece moriva la gente comune. La violenza era uno degli elementi costanti nella vita civile. Le fonti della violenza erano le più diverse, ma soprattutto erano due: la malavita e la politica. La malavita usava la violenza, il delitto, l’uccisione, il sequestro di persona, come strumenti basilari della propria attività. Lo faceva anche la politica, soprattutto nelle sue frange giovanili ma anche oltre. Non abbiamo mai saputo bene in quali e quanti delitti fossero implicati in qualche modo i partiti (un po’ tutti i partiti, tranne forse il partito socialista) dai giorni immediatamente successivi alla Liberazione (la strage di Portella della Ginestra è del 1947) fino alla fine della prima Repubblica. Però sappiamo che l’uso della violenza, fino all’assassinio, come strumento di battaglia, non era considerato il massimo dell’aberrazione morale. In larghe fasce del ceto politico, soprattutto, è chiaro, in quello extra parlamentare, il delitto era un mezzo come gli altri: illegale ma non immorale.
Scrivo queste cose, sulla base non di un attento studio ma semplicemente del ricordo di un testimone attivo dell’epoca. Ricordo anche personalmente le complicazioni della vita di tutti i giorni in quell’epoca, ad esempio per un giornalista politico schierato. C’erano quartieri di Roma dove non si poteva passare, cioè non poteva passare un giornalista dell’Unità. In altri quartieri, parecchi, non poteva avventurarsi un volto appena un po’ noto dell’estrema destra, o un deputato del Msi, o un giornalista del “Secolo”. A San Lorenzo, a Trastevere, a Portico d’Ottavia. E scrivo queste cose per spiegare a chi è troppo giovane per averle vissute, quanto sia cambiato il senso comune, da allora. Negli anni ottanta e alla fine dei settanta, c’erano circa 2000 morti assassinati all’anno, in Italia. Tra vittime della criminalità e della lotta politica. Oggi gli assassini sono poco più di duecento, dei quali più della metà sono donne uccise dal marito, o dall’amante, o da un parente. Nella lotta politica la violenza fisica è scomparsa. Anche nella mala si è ridotta moltissimo. Persino la mafia uccide poco. È finita anche la terribile stagione dei sequestri di persona, che negli anni ottanta aveva terrorizzato soprattutto la Calabria. E vero, c’è la politica dell’odio. Del linguaggio scurrile, aggressivo, anche violento. Spesso calunnioso. Alimentata, tra l’altro, dai social. E che ha fatto breccia nei giornali, che vent’anni fa erano il regno della sobrietà. Bisogna opporsi a questo modo incivile di affermare o difendere le proprie opinioni o la propria appartenenza. Però bisogna anche sapere che tra la violenza verbale e la violenza fisica c’è un abisso. Tra le persone che io frequentavo da ragazzo, ce ne sono almeno una decina che nel tempo sono state protagoniste di agguati, ferimenti, e anche uccisioni. Tra le persone che frequentano i miei figli, nessuna. Facevo queste riflessioni, l’altra sera, quando ho saputo che Antonio Caridi, ex senatore calabrese, era stato assolto con formula piena da accuse infamanti di mafiosità. Cosa c’entra la vicenda di Caridi con il mio ragionamento sulla violenza? Forse qualcosa c’entra. Provo a spiegarmi. Caridi è una bravissima persona, che ha fatto politica onestamente per molti anni, ha raggiunto nel 2013 il Senato dove si è comportato per qualche anno con onore, poi un bel giorno del 2016 hanno bussato alla porta di casa sua e lo hanno avvertito che i Pm sostenevano che lui fosse un membro della cupola della ‘ndrangheta: forse il capo. E gli hanno detto che avrebbero chiesto al Senato il permesso di arrestarlo. Caridi non capiva, non riusciva a rendersi conto della follia di queste accuse cervellotiche. La richiesta di arresto arrivò in Senato e fu accolta in quarantotto ore. Caridi prima del voto finale pronunciò un discorso intenso e anche commovente. Il Pd, i 5 Stelle e la Lega lo condannarono senza nemmeno aver letto le carte. Dopo il voto Caridi prese la valigetta che aveva preparato e si presentò ai cancelli di Rebibbia. Lo hanno tenuto sequestrato in prigione per diciotto mesi. Senza indizi, senza rischi di fuga, senza rischi di inquinamento delle prove (anche perché le prove non c’erano) senza il pericolo che ripetesse il delitto che non aveva commesso. la cassazione per due volte chiese che fosse scarcerato, perché verificò che non c’erano indizi di colpevolezza. i Pm insistettero. Alla fine dovettero arrendersi, perché la cassazione tenne duro. Ho sbagliato a scrivere “sequestrato”? Non mi pare. Ho visto recentemente che Salvini è stato formalmente accusato di sequestro di persona, in qualità di ministro, per avere impedito per una decina di giorni lo sbarco di alcuni migranti. Non vedo perché non dovrei parlare di sequestro di persona se dei magistrati rinchiudono in una cella un innocente (riconosciuto innocente) pur non avendo indizi contro di lui, e ce lo tengono 18 mesi. Diciamo che questa volta il sequestrato è stato un senatore, e i complici dei sequestratori sono stati la maggioranza dei senatori che non hanno interrotto il tentativo di sequestro mentre potevano farlo. Questo forse, però, rende più gravi le cose. È l’affare Caridi che mi ha suggerito questa riflessione. La violenza come strumento di realizzazione della propria attività -sparita dalle pieghe della società civile – è rimasta solo in alcune parti dello Stato. Settori della magistratura e talvolta – molto più raramente – anche della polizia (vedi il pestaggio a santa Maria Capua Vetere) sono gli unici ad esercitarla con una certa continuità…Non penso che sarebbero necessarie delle indagini su questi episodi e su ,moltissimi altri che avvengono quasi tutti i giorni. Del resto chi potrebbe indagare sulle violenze della magistratura, se non la magistratura? Penso però che sarebbe interessante se l’opinione pubblica, e gli intellettuali – quelli che ancora non sono stati fulminati dal grillismo dilagante – tentassero una riflessione su questo. Cosa succede in una società sostanzialmente non violenta nella quale esiste però un potere dello Stato (anzi: una parte circoscritta ma potentissima di un potere dello stato) che esercita con noncuranza, e anche – va detto perché è così – con spirito e senso del dovere, la violenza? Quali squilibri si creano? Quanti danni allo stato di diritto e al senso generale della Giustizia? Vi giuro, faccio queste domande con serenità. Senza eccessivo spirito polemico. Mi piacerebbe se qualche magistrato, con altrettanta serenità, rispondesse. La risposta giusta è che non c’è alternativa? Che un certo grado di sopraffazione è necessario per far funzionare la giustizia? Io non ci credo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Caridi: «Il carcere? Come un canile. La politica mi ha tradito: con lei ho chiuso». L'ex senatore calabrese parla dopo l'assoluzione dall'accusa di associazione mafiosa. «Con la 'ndrangheta io non c'entro. I miei colleghi mi hanno mandato in carcere senza nemmeno leggere perché lo stavano facendo». Simona Musco su Il Dubbio il 3 agosto 2021. Diciotto mesi in carcere e poi l’assoluzione. Antonio Caridi, ex senatore di Forza Italia, incassa la pronuncia del Tribunale di Reggio Calabria come un ritorno alla vita, dopo cinque anni in cui ogni cosa è rimasta in sospeso. Accusato di associazione mafiosa, l’ex politico respinge ogni accusa cacciando vie le ombre dal suo curriculum: con la ‘ndrangheta, assicura, non c’entra nulla. E ora che tutto è finito, insieme alla gioia non nega di provare anche amarezza, soprattutto nei confronti di quella politica dalla quale si sente tradito. Tant’è che non ne vuole più sapere nulla: «Per me la politica è finita il 4 agosto 2016. Farò il medico e basta, che poi è la cosa più bella del mondo», racconta al Dubbio.
Dottore, cos’ha provato dopo l’assoluzione?
Gioia. Mi sono riappropriato della mia vita, che mi era stata rubata. Sono sereno, perché vedo la mia famiglia finalmente tranquilla. Mio padre, ad 85 anni, non era sicuro di poter vedere la fine di questa storia. Voglio ringraziare loro e i miei avvocati, dopo un incubo durato cinque anni e 18 mesi passati in carcere in alta sicurezza. È un obbligo non soltanto morale: lo devo alla grande professionalità e umanità di Valerio Spigarelli e Carlo Morace. Ma è stato anche un momento di grande riflessione: io credevo tanto nella mia innocenza, ma i giornali, che mi hanno dipinto come il mostro da mettere dentro subito, oggi sono assenti. Solo qualche articoletto. E questo mi fa molto male.
Ce l’ha con la stampa?
Dopo la richiesta di arresto, i tg nazionali mostravano la mia foto ripetendo tutte le cose che venivano contestate. Oggi vedere che nessuno dica che una persona che cinque anni prima è stata mortificata e umiliata è stata assolta fa rabbia. Io mi sono difeso dal primo giorno e inviterei i giornalisti a riguardare il dibattito in Senato sulla mia difesa e, soprattutto, gli attacchi che ho subito dalle parti politiche che hanno votato il mio arresto senza nemmeno leggere le carte. Quella sera, prima di consegnarmi, ho guardato mia moglie e mia sorella negli occhi con la coscienza a posto, non so se i miei colleghi – e non so se posso chiamarli così – hanno potuto farlo. E non so se possono farlo tuttora.
Chi l’ha ferita di più tra i suoi colleghi?
Quelli del Pd, eccetto il senatore Luigi Manconi, che ha dichiarato in aula il suo voto contrario, perché è stato l’unico a leggere le carte. Poi i 5 Stelle. Molte persone di quella stessa parte politica, mentre io parlavo, giocavano con il telefonino o l’iPad. Qualche individuo, non lo chiamerei senatore, ha detto delle frasi che di notte mi capita ancora di risentire. Sono sempre dentro di me, perché non mi ci riconoscevo. La verità è che si è trattato di un attacco politico, ma soprattutto hanno mortificato un essere umano. Molti si professano cattolici e dovrebbero avere rispetto per le altre persone, ma se mandano in carcere la gente con questa facilità non so quale attività possano svolgere dentro le Camere di appartenenza.
Qualcuno si è fatto vivo, oggi?
Mi hanno chiamato quelle persone che mi sono sempre state vicine. Ma parlo di rapporti personali, non di politica, perché quella per me è una parentesi chiusa.
Non si ricandiderà?
No. Per me la politica è finita il 4 agosto 2016. Non la sento più mia e non la farei con lo stesso animo di prima. Ho cose più importanti a cui dedicarmi, come la mia famiglia e il mio lavoro. Devo recuperare 18 mesi di carcere, anche se non è possibile, perché è un segno che mi porterò sempre dentro e che vedrò anche in chi mi vuole bene.
Ha paura che possa ricapitarle qualcosa del genere?
Paura no. Sa come si dice? Male non fare, paura non avere. Ma non lo farei più come prima e non potrei più dare risposte ad una terra, la Calabria, che è mortificata quotidianamente. E non vado nemmeno a votare, dal 2016: la paura è che qualcuno possa sempre dire “chissà”.
Non lo farà più?
Esistono anche le vacanze nella vita.
Come sono stati quei 18 mesi in carcere?
Il carcere rappresenta la civiltà di un Paese. E siamo un Paese incivile. Vivevo con cinque persone dentro cinque metri quadrati, con il bagno turco e senza docce. Ventidue ore al giorno chiuso in cella. Subito dopo essere uscito dal Senato ed essermi consegnato mi sono ritrovato in isolamento, in una cella due metri per due, senza prendere aria e con cibo inesistente. E questo per otto giorni. La mia forza stava nella volontà di superare quel momento sapendo che ero innocente e quindi dovevo e potevo difendermi. Ho pensato a me, alla mia famiglia, alla loro sofferenza e a quella dei miei amici, quelli vicini, perché in questi momenti scappano tutti. In 18 mesi ho sentito la mia famiglia due volte al mese e l’ho incontrata quattro ore al mese. Questo è il carcere, un posto dove non hai i servizi igienici e i riscaldamenti. E fuori è uguale: quando si manda in carcere una persona senza una prova per la stampa si è subito colpevoli. Vieni trattato come un criminale. La politica deve avere il coraggio di riflettere su questo, ma ho qualche dubbio, sinceramente.
Dopo i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere qualcosa potrebbe cambiare, non crede?
Ci sarà stata un po’ di indignazione, ma tanti hanno anche pensato “hanno fatto bene, perché sono dei delinquenti”. E ciò pur senza sapere se sono colpevoli o innocenti. Per la gente si tratta di delinquenti solo perché sono in carcere. Toccherebbe alla politica far riflettere su questi temi, ma la politica oggi non c’è.
Cosa ha portato fuori dal carcere con sé?
Sofferenza. Ne provo ancora. E penso a quella che ho visto negli altri. Si può essere anche colpevoli, ma la dignità dell’uomo non può essere calpestata. Ma lì dentro si viene trattati come animali, da chiudere in un canile 22 ore al giorno. Senza potersi fare una doccia se ci si sporca, con gli orari stabiliti per andare in bagno. Costretti a rimanere chiusi in cella anche durante un terremoto, con la paura che crolli tutto e si rimanga uccisi. E tutto questo senza mai essere stato condannato e, all’epoca, con due Cassazioni favorevoli. Il Senato ha votato l’arresto prima che si pronunciasse il Tribunale della Libertà, quindi mi ha giudicato prima la politica e poi la giustizia. Ma prima di mandare in carcere qualcuno bisogna avere delle prove. Senza prove o senza necessità enormi bisognerebbe fare attenzione prima di privare qualcuno della libertà. È la cosa peggiore al mondo.
Per la Dda lei è stato sempre eletto con i voti delle cosche. Per ben tredici anni, sin dalla prima candidatura e fino al Senato. Come si difende da queste accuse?
Non voglio entrare nei particolari: il processo è durato cinque anni, mi sono difeso con i denti e soprattutto lo hanno fatto i miei avvocati. Ma la Cassazione è stata chiarissima: non c’era nessun riscontro in atti sul piano della gravità indiziaria. Con la ‘ndrangheta io non c’entro nulla. E voglio dire solo una cosa: nell’ordinanza si parla di me come di un quasi sconosciuto che è stato scelto dalla mafia. Ma io non ero uno sconosciuto: mio padre è stato vicesindaco di Reggio Calabria, su 20 familiari stretti 18 sono medici. Mia madre era direttrice dell’ufficio di collocamento. Non sono stato “portato” da nessuno, mi ha votato la gente comune, che mi ha sempre voluto bene e continua a volermene. In ogni caso, sono stato assolto perché il fatto non sussiste. Non dobbiamo spiegare niente a nessuno, non devo dare, ancora oggi, conto a nessuno. Sono innocente, come lo sono sempre stato. La sentenza parla chiaro. Quello che vorrei fare è invitare la politica a riflettere. È anche bello ammettere di aver sbagliato e io, se sbaglio, chiedo scusa. Ma non ho ricevuto nemmeno una telefonata da chi quel giorno ha votato il mio arresto.
Si aspettava che qualcuno si facesse vivo?
Non me l’aspettavo e non me l’aspetto, perché ho visto l’isolamento da parte della politica in quei 18 mesi. C’erano solo la mia famiglia e i miei avvocati e solo tre colleghi sono venuti a trovarmi: Pietro Iurlaro, Fabrizio Di Stefano e Luca D’Alessandro.
Di Maio, recentemente, ha chiesto scusa all’ex sindaco di Lodi. Qualcosa sta cambiando?
L’ex sindaco di Lodi è del Pd. La maggioranza, oggi, è quella e l’interesse di Di Maio sta tutto lì. Si difendono tra loro. Lo hanno fatto sempre e lo faranno sempre.
Quel 4 agosto è stato anticipato l’ordine del giorno per votare il suo arresto. Cos’ha pensato?
Era un modo per dimostrare al Paese di aver preso con le mani nel sacco un senatore. Ma cosa dovevano dimostrare? Ho ancora in testa quello che qualcuno dei 5 Stelle ha gridato contro di me in aula e qualche giorno dopo per strada a Reggio Calabria. La invito a fare una cosa: confrontare le presenze dei senatori in aula tra quel 4 agosto e quello degli anni precedenti, quando si parlava di provvedimenti che erano utili al Paese. Erano tutti schierati. Questo è l’interesse che la politica ha nei confronti del suo Paese.
Tecnicamente l’interesse era evitare la reiterazione del reato.
Un mese dopo la Cassazione ha sostenuto che non c’erano motivi per arrestarmi. Dal 16 luglio al 4 agosto sarei potuto scappare, invece sono andato in aula e li ho affrontati, perché il mio animo era tranquillo e sereno, ho spiegato le mie ragioni e sono rimasto al mio posto. E poi sono andato a consegnarmi, perché in quel momento ero un senatore della Repubblica e dovevo dimostrare responsabilità verso il Paese. E in quel caso i miei colleghi o chi ha disposto il mio arresto ha mortificato la democrazia in Italia, perché ha mortificato una parte di elettorato. Potevo affrontare il processo da uomo libero. E non ho mai piegato la mia azione politica all’interesse di alcuno.
Si aspettava l’assoluzione dopo una richiesta di condanna a 20 anni?
La mia innocenza l’ho sempre gridata. Io ho un grande senso dello Stato e credevo fino in fondo alle parole che ho detto quel giorno in Senato. Ma avevo paura. Una paura che mi accompagnava 24 ore al giorno, senza fare distinzione tra giorno e notte. Ho dimenticato cosa volesse dire dormire la notte e ho pensato seriamente di poter essere condannato. D’altronde nella vita ho pensato di tutto, tranne di poter finire in carcere. A quel punto ogni cosa era possibile.
Caridi: «Sono soddisfatto, ma la mia vita è stata mortificata». Parla l'ex senatore assolto ieri. La nota dei suoi avvocati: «I media hanno dimenticato l'assoluzione di Caridi dopo averlo sbattuto in prima pagina». Il Dubbio 31 luglio 2021. «Sono soddisfatto, ho sempre avuto un comportamento improntato alla massima trasparenza». Lo dice all’AdnKronos l’ex senatore del Pdl, Antonio Caridi, tra gli assolti, ieri sera a Reggio Calabria, a conclusione del processo di ‘ndrangheta “Gotha”, che ha visto emettere le sentenze di primo grado dopo cinque anni di dibattimento. Caridi, esponente di lungo corso di Fi e poi senatore, fu arrestato nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari nel 2016. «Mi voglio riprendere la mia vita, che è stata mortificata, anche da 18 mesi di carcere a Rebibbia, in alta sicurezza». Per lui il pubblico ministero aveva chiesto 20 anni di carcere, per il reato di associazione mafiosa. Il verdetto ha deciso per l’assoluzione «perché il fatto non sussiste». Nel pomeriggio, i suoi legali – Valerio Spigarelli e Carlo Morace – hanno diffuso una nota, evidenziando l’errore nel capo di imputazione. «La notizia della assoluzione del Senatore Antonio Caridi, pronunciata nella giornata di ieri dal Tribunale di Reggio Calabria – all’esito di un procedimento che nel 2016 vide l’autorizzazione del Senato all’arresto del parlamentare, rimasto in carcere per diciotto mesi – è passata in sordina, ovvero condita da vere e proprie perle di disinformazione, sui media locali e nazionali», ha evidenziato. «Al riguardo intendiamo precisare: che il senatore Caridi è stato assolto perché il fatto non sussiste; che il Tribunale, prima ancora di dichiarare insussistente il reato, ha precisato che l’esorbitante imputazione a suo tempo mossa dalla Procura di aver partecipato al Gotha della ‘Ndrangheta era erronea in punto diritto; che il principale accusatore, recte collaboratore di giustizia, del senatore Caridi era già stato ritenuto non credibile dal Tribunale di Palmi e dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, fatti mai riportati dalla stampa; che, a differenza di come riportato da alcune testate nel mal riuscito tentativo di minimizzare la smentita dell’ipotesi accusatoria, la Procura ha mantenuto sempre la medesima contestazione, oggi dimostratasi infondata, nei confronti del Senatore Caridi, chiedendo per lo stesso la pena di venti anni di reclusione; che l’arresto del Senatore Caridi venne a suo tempo autorizzato dal Senato con procedura sommaria, per i tempi imposti dalle pressioni dei settori giustizialisti dei partiti, e all’esito di un dibattito caratterizzato da toni inusitati e sprezzanti nei confronti del collega parlamentare, da parte di alcuni che ancora siedono in parlamento; che il senatore Caridi ha sofferto un anno e mezzo di custodia cautelare in carcere nonostante il doppio annullamento in Cassazione delle ordinanze del Tribunale della Libertà di Reggio Calabria; che diversi media nazionali, che a suo tempo misero in prima pagina la vicenda, stamane non hanno neppure dato conto dell’esito del processo per l’ex parlamentare», hanno concluso.
Dopo 5 anni di processo l'assoluzione per l'ex senatore Pdl. Caridi è innocente, ma è stato sbattuto in prigione per 20 mesi e cacciato dal Senato…Redazione su Il Riformista il 31 Luglio 2021. L’accusa aveva chiesto per Antonio Caridi, ex senatore del Pdl 20 anni di carcere con la pesante accusa di associazione mafiosa nell’ambito del processo “Gotha”. Il Tribunale di Reggio Calabria dopo cinque anni di dibattimento lo ha assolto da quell’accusa. Ma Caridi nel luglio 2016 fu arrestato e trascorse in carcere 20 mesi dopo che il Senato ne aveva dato il via libera. Cinque anni dopo arriva la completa assoluzione di Caridi che per la Cassazione con la ‘ndrangeta non c’entrava nulla. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti commenta così la vicenda. Il Tribunale ha assolto il Senatore Antonio Caridi. Io dico il senatore Caridi ma non è più senatore perché è stato buttato fuori dal Senato dai suoi colleghi che hanno votato accettando la richiesta dei magistrati che lo accusavano addirittura di essere uno dei capi della ‘ndrangheta, se non il capo assoluto in un’inchiesta che si chiamava “Gotha”. Loro sostenevano di aver messo le mani sul Gotha, sulla cupola della ‘ndrangheta. Probabilmente i magistrati conoscono poco la ‘ndrangheta perché chi l’ha studiata sa che non ha una “cupola”, è un’organizzazione orizzontale, a differenza di Cosa Nostra, della mafia siciliana. Ma i magistrati non sono tenuti a sapere tante cose, loro sono tenuti solo a fare avvisi di garanzia, chiedere arresti, ottenerli e buttare la gente in prigione. Così chiesero l’arresto del senatore Caridi, sostennero che era il capo della ‘ndrangheta. Il Senato non ebbe grandi obiezioni e votò per il suo arresto. Voi sapete che per arrestare un parlamentare, non per procedere contro di lui, per fortuna occorre ancora il permesso della camera a cui appartiene. Il Senato non ebbe grandi problemi, solo Forza Italia votò contro l’arresto. Non fece alcuna indagine per accertare se aveva un senso sostenere che il senatore Caridi fosse il capo della mafia. Guardò circa mille fogli di carta in 24 ore e concesse immediatamente il permesso di arrestarlo. Caridi fu buttato infondo a una cella e tenuto lì per 20 mesi. Poi la Cassazione ha detto che non ci sono le condizioni per arrestarlo. No, non ci sono, però lui li ha già fatti 20 mesi di prigione. Ma questo è il sistema che viene usato nella giustizia italiana abbastanza abitualmente. Poi è stato processato. Tutto questo è avvenuto nel luglio del 2016, ora siamo nel 2021, cinque anni fa. Venti mesi in prigione e poi aspettare il processo e finalmente nella sentenza è stato dichiarato del tutto innocente. Non era il capo della Mafia, non era il vice capo della mafia, non era un mafioso e nemmeno uno che faceva il concorso esterno, non c’entrava niente Caridi. Era un Senatore della Repubblica che faceva il suo lavoro e che è stato buttato fuori dal Senato della repubblica da un pugno, anzi da una maggioranza purtroppo, di senatori che con il garantismo non hanno nulla a che fare. E io qui voglio dirlo a tutti, anche a Renzi: Hai fatto votare il tuo partito per l’arresto di Caridi che si è fatto 20 mesi di carcere perché lo avete fatto arrestare. Per lo meno chiedetegli scusa. E poi un’altra osservazione: La ‘ndrangheta non fa più sequestri di persona. L’unica organizzazione che continua in Italia a fare i sequestri di persona è…non ve lo dico chi è, tanto penso che lo capiate da soli. Un grande abbraccio ad Antonio Caridi.
La Cassazione: «Tallini non doveva essere arrestato». L’indagine, denominata “Farma-business”, lo aveva costretto a dimettersi dalla carica di presidente del Consiglio regionale della Calabria, in quanto il gip di Catanzaro aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari. Il Dubbio 31 luglio 2021. Domenico Tallini non era consapevole che il clan guidato da Nicolino Grande Aracri avesse intenzione di fare affari nel commercio dei farmaci. È questa, in sintesi, la motivazione depositata dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la quale il relatore Massimo Ricciarelli ha dichiarato inammissibile il ricorso della Dda di Catanzaro contro il consigliere regionale di Forza Italia. Tallini, infatti, nei mesi scorsi era stato arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. L’indagine, denominata “Farma-business”, lo aveva costretto a dimettersi dalla carica di presidente del Consiglio regionale della Calabria, in quanto il gip di Catanzaro aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari, poi revocata, quindici giorni dopo, dal tribunale del Riesame di Catanzaro, per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza e insussistenza delle esigenze cautelari. Tradotto: Tallini non doveva essere arrestato perché non avrebbe commesso nessun reato. E ciò si evince dalla sentenza emessa dalla Cassazione che disarticola i motivi di ricorso esposti dall’ufficio inquirente, coordinato dal procuratore capo Nicola Gratteri. Secondo la Cassazione, quindi, «non erano emersi dopo la cessazione dell’attività del Consorzio e della Farmaeko fatti implicanti forme di coinvolgimento di Tallini in affari riconducibili agli interessi del clan Grande Aracri, non potendosi in senso contrario valorizzare una continuità di rapporti tra Tallini e Scozzafava in relazione a successive vicende elettorali». Domenico Scozzafava, all’epoca dei fatti consigliere comunale di Catanzaro, è un antennista che, secondo la procura antimafia, era in rapporti con la cosca di Cutro, ma nei vari incontri avuti con il politico forzista non era mai emerso che dietro al possibile affari dei farmaci potessero esserci i parenti del super boss, Nicolino Grande Aracri, che per poche settimane ha rivestito lo status di collaboratore di giustizia, per essere “bocciato” dopo un mese dalla Dda di Catanzaro, che non lo ha ritenuto credibile. Anche per quanto riguarda il presunto voto di scambio, la Cassazione mette una pietra (quasi) tombale. «La circostanza che esponenti del clan confidassero nel contributo di Tallini non implica di per sé che costui avesse piena contezza di rapportarsi al clan, per il tramite di Scozzafava e di altri soggetti come Paolo De Sole». «In tale quadro – si legge nelle motivazioni della sesta sezione penale – non si espone a censure la valutazione del Tribunale in ordine al carattere di per sé neutro della vicinanza di Tallini a Scozzafava, occorrendo elementi specifici, idonei a dar conto della consapevolezza e della volontà di Tallini di operare a vantaggio del clan in cambio di un ausilio di tipo elettorale». Per quanto riguarda, l’operato istituzionale di Tallini, gli ermellini scrivono che «il propiziato incontro con la dirigente Rizzo non comprovava un’effettiva interferenza dell’assessore; non risultava un’ingerenza di Tallini nella nomina del Brancati, avvenuta sulla base di una procedura regolare; non erano emersi interventi di Tallini in sede di rilascio dell’autorizzazione, essendo per contro inconferente la circostanza, valorizzata nell’atto di impugnazione, che nel corso della procedura potessero essere state usate minacce, oggetto di separato addebito a carico di altri indagati, nei confronti di due dottoresse incaricate di effettuare propedeutici controlli». Infine, la Cassazione mette un punto anche sul presunto coinvolgimento del figlio di Tallini. «Il Tribunale ha rilevato come i soggetti che avevano costituito la società non fossero in apparenza riconducibili al clan e come dunque potesse dirsi priva di rilievo indiziante la partecipazione del figlio dell’indagato, fermo restando che solo nel mese di agosto del 2015 Giuseppe Tallini aveva avuto quell’informazione, non essendovi prova che egli avesse reso di essa partecipe il padre».
Gianni Alemanno è stato assolto in Cassazione dall’accusa di corruzione. Il Secolo d'Italia il 9 luglio 2021. Imputato nell’ambito del procedimento stralcio su ‘Mafia capitale’, i giudici della Sesta sezione penale della Cassazione hanno annullato senza rinvio le accuse. “Credo che questa sentenza ridimensioni questa vicenda durata ben sette anni. Mi sono ritrovato prima mafioso e poi corrotto: adesso rimane un piccolo traffico di influenze che sarà la Corte di Appello a giudicare”. Finisce un incubo, commenta Alemanno dopo la sentenza della Cassazione, attesa da ore al Palazzaccio. Alla lettura del verdetto dei supremi giudici grande l’esultanza dei familiari e degli amici presenti in aula. “Non c’è più corruzione – ha sottolineato Alemanno – non c’è più quel fango che mi hanno tirato addosso. Finisce un incubo durato sette anni, e che obiettivamente poteva essere evitato”. Il pg Perla Lori nella requisitoria aveva chiesto di confermare la condanna a 6 anni nei confronti di Alemanno, sollecitando un nuovo processo di appello limitatamente alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici. L’ex sindaco di Roma era stato condannato in primo grado nel febbraio 2019 a sei anni. Sentenza confermata in appello lo scorso 23 ottobre. Una pena quasi doppia rispetto alla richiesta del sostituto procuratore generale Pietro Catalani che aveva sollecitato per l’ex sindaco una condanna a 3 anni e 6 mesi. Come ha sottolineato lo stesso Alemanno, i giudici hanno deciso di far svolgere un nuovo processo di appello per rideterminare la pena;, riqualificando il reato in traffico di influenze, per la vicenda dello sblocco dei pagamenti di Eur Spa. “Non possiamo che dirci soddisfatti dell’esito del ricorso che ha annullato tutte le ipotesi di corruzione”. I difensori di Gianni Alemanno, gli avvocati Cesare Placanica e Filippo Dinacci dopo la sentenza della Cassazione specificano: “La sentenza impugnata non prendeva atto di quanto già aveva statuito sulla vicenda dalla Corte di Cassazione. E soprattutto non considerava che il Sindaco Alemanno, al di là del coinvolgimento, solo tramite Panzironi, in alcune specifiche e, a nostro modo di vedere, lecite vicende, era stato giudicato completamente estraneo alle contestazioni di associazione ipotizzate dalla Procura: peraltro solo in parte riscontrate dalle sentenze che si sono occupate della intera vicenda”.
Ilaria Sacchettoni per "corriere.it" l'8 luglio 2021. I giudici della Cassazione assolvono Gianni Alemanno, ministro per le Politiche agricole tra il 2001 e il 2006 e sindaco di Roma fra il 2008 e il 2013 dalle accuse di corruzione. La vicenda era quella relativa al finanziamento — 125mila euro — delle cooperative che facevano capo a Salvatore Buzzi, patron della «Ventinove giugno» condannato a 12 anni e sei mesi per i reati del Mondo di Mezzo. Ebbene la Cassazione ha annullato la condanna a sei anni nei confronti dell’ex sindaco capitolino. Secondo l’accusa che aveva sostenuto il reato di corruzione, Alemanno sarebbe intervenuto ai vertici della controllata capitolina Eur Spa per far convergere sulle cooperative di Buzzi, conoscenza che risaliva agli anni Ottanta (i due si erano conosciuti in carcere dove Alemanno era finito per un’aggressione mentre Buzzi scontava una condanna per omicidio) una serie di pagamenti e avrebbe ricevuto dal patron della «Ventinove giugno» un finanziamento a tre zeri fra 2013 e 2014. Ora i giudici hanno stabilito che non fu corruzione, ma finanziamento illecito. I togati hanno anche rinviato gli atti alla Corte d’appello perché fissi un nuovo processo limitatamente all’episodio di Eur Spa. In principio ad Alemanno era stata contestata anche l’aggravante mafiosa, successivamente caduta. L’accusa nei suoi confronti era quella di aver ricevuto attraverso la sua fondazione Nuova Italia i finanziamenti occulti di Buzzi a sua volta amico dell’ex Nar Massimo Carminati. Alemanno si era sempre detto innocente e convinto di poterlo dimostrare. Commenta il suo avvocato Cesare Placanica assieme al codifensore Filippo Dinacci: «Dimostrato che Alemanno non fu un corrotto né un corruttore. La sentenza impugnata non prendeva atto di quanto aveva già ricostruito la Cassazione sulla vicenda nè che Alemanno era stato considerato estraneo alle accuse di associazione mafiosa ipotizzate dalla Procura. Siamo soddisfatti. Quanto all’ex sindaco dice: «E’ dimostrato a questo punto che non ho tradito il mio mandato nei confronti dei cittadini».
Processo bis solo per traffico di influenze. Alemanno assolto, crolla il teorema della Procura: “Fine di un incubo durato sette anni”. Fabio Calcagni su Il Riformista l'8 Luglio 2021. Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, è stato assolto dalla Corte di Cassazione da tutte le accuse di corruzione e ha disposto un appello bis. Alemanno, presente in aula al momento della sentenza, dovrà rispondere solo per il reato relativo ad un episodio di traffico d’influenze. I giudici della sesta sezione penale della Suprema Corte hanno quindi respinto la richiesta avanzata dalla procura generale, rappresentata dal Pg Perla Lori, che chiedeva nei confronti di Alemanno la conferma della condanna a sei anni nell’ambito del processo nato dal procedimento stralcio sul "Mondo di mezzo". In particolari i giudici del ‘Palazzaccio’ hanno fatto cadere l’accusa con la formula “per non avere commesso il fatto” nel capitolo che riguardava la gara d’appalto sulla raccolta differenziata e dichiarata prescritta l’ipotesi di corruzione nella vicenda del pagamento dei debiti Ama. Alemanno era stato condannato in primo grado nel gennaio 2019 a 6 anni di reclusione, sentenza poi confermata anche in secondo grado: la vicenda riguardava i soldi che l’ex sindaco avrebbe ricevuto dal patron della cooperativa 29 Giugno, Salvatore Buzzi, e da Massimo Carminati, circostanza che entrambi avevano smentito. L’ex sindaco della Capitale era stato inizialmente accusato anche del reato di mafia, poi archiviato, ma in caso di condanna oggi Alemanno sarebbe potuto finire in carcere. Una sentenza che “ridimensiona questa vicenda durata sette anni. Mi sono trovato mafioso, corrotto. Non c’è più quel fango che mi era stato tirato addosso. Per me finisce un incubo durato 7 anni che obiettivamente poteva essere evitato”, ha commentato l’ex sindaco dopo l’assoluzione disposta dai giudici. “Non possiamo che dirci soddisfatti dell’esito del ricorso che ha annullato tutte le ipotesi di corruzione – hanno commentano invece i difensori di Alemanno, Cesare Placanica e Filippo Dinacci – . La sentenza impugnata non prendeva atto di quanto già aveva statuito sulla vicenda la Corte di Cassazione e soprattutto non considerava che il sindaco Alemanno, al di là del coinvolgimento, solo tramite Panzironi, in alcune specifiche e a nostro modo di vedere lecite vicende”. Cassazione che ha disposto per l’ex sindaco un appello bis in cui dovrà rispondere solamente solo per il reato di un episodio di traffico d’influenze: i giudici hanno infatti intimato un nuovo processo per la rideterminazione della pena per presunto traffico di influenze in merito allo sblocco dei pagamenti Eur Spa. E’ stata invece confermata la condanna, a sei mesi, per l’accusa di finanziamento illecito. Una assoluzione che fa esultare la destra capitolina. “Questa sentenza ristabilisce una verità, ma chi risarcirà del danno subito Alemanno e la stessa Capitale d’Italia? Qualche accusatore dormirà sereno questa notte?”, si chiede il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. Per l’ex ministro “le accuse della procura sono state smantellate quasi tutte nel corso degli anni Credo che adesso debba partire un’operazione di verità. Anche alla luce di quello che ha raccontato Palamara, che offe lo spunto per presentare puntuali denunce”. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, si dice “felice” per l’assoluzione di Alemanno. “Abbiamo sempre avuto fiducia in lui ed eravamo convinti della sua estraneità”, ha commentato all’AdnKronos, mentre il vicepresidente del Senato e senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa ricorda di “non aver mai dubitato che fosse estraneo alle accuse che gli erano state mosse e oggi, dopo sette lunghissimi anni, finalmente la giustizia ha riconosciuto la sua innocenza”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Il pm che sbaglia non paga. E neppure chiede scusa. Luca Fazzo il 9 Luglio 2021 su Il Giornale. In un paese dei sogni, questa mattina il dottor Giuseppe Pignatone, magistrato in pensione, dovrebbe alzare il telefono e chiedere scusa a Gianni Alemanno: per avergli dato del mafioso, del corrotto, del colluso. In un paese dei sogni, questa mattina il dottor Giuseppe Pignatone, magistrato in pensione, dovrebbe alzare il telefono e chiedere scusa a Gianni Alemanno: per avergli dato del mafioso, del corrotto, del colluso. Per avergli rovinato la vita, i sette anni sul crinale dei sessanta che per tutti - e per un politico in special modo - indirizzano la fase finale della parabola pubblica. La parabola di Alemanno, grazie a Pignatone, è stata quella di un reietto. E bene ha fatto lui a farsi crescere la barba bianca, come a raccontare per immagini il suo invecchiamento interiore. Ma Giuseppe Pignatone quella telefonata non la farà. Perché la Procura della Repubblica di Roma, che sotto la sua guida lanciò l'offensiva battezzata «Mafia Capitale», il suo risultato lo ha raggiunto comunque. Ha dimostrato per l'ennesima volta che nessuno dei poteri costituzionalmente sanciti vale nulla di fronte allo strapotere giudiziario: a partire dal potere fondamentale, quello dei cittadini di scegliersi i propri governanti. Invece «Mafia Capitale», come tante altre indagini prima e dopo, racconta come sia agevole inventare accuse e indagati, e non pagarne mai il prezzo; e come - aldilà dei casi che pure esistono di inchieste nate fin dall'inizio come operazioni di killeraggio politico - ciò che conta è trovare un colpevole qualunque da immolare sull'altare della Giustizia («il filo di paglia in un pagliaio» di cui parlava Sciascia) per dimostrare in eterno la prevalenza del potere in toga su tutti gli altri poteri. Nella dimostrazione di questo assunto, l'innocenza o la colpevolezza dei singoli risulta, alla fine, irrilevante. D'altronde in caso contrario Pignatone - se non fosse stato nel frattempo impegnato ad attovagliarsi con Luca Palamara - le scuse ad Alemanno avrebbe dovuto presentarle già quattro anni fa, quando il primo giudice chiamato a occuparsi della vicenda archiviò l'accusa più infamante mossa all'ex sindaco, l'associazione mafiosa: sgretolata poi per gli altri imputati strada facendo, ma che per Alemanno si estinse già in udienza preliminare, evento quanto mai raro. Un ceffone alla Procura, che però insistette sulle altre accuse affossate anch'esse dalla sentenza di ieri della Cassazione. Ci sono voluti sette anni: e il dramma è che sette anni nel tariffario attuale delle sofferenze giudiziarie non sono nemmeno un record, e c'è chi l'onore perduto se lo vede riconoscere dopo vent'anni, o post mortem. La ministra Cartabia è lodevolmente impegnata a scorciare i tempi dei processi, ma cosa sarebbe cambiato per Alemanno se si fosse visto assolvere sei mesi fa? La riforma vera sarebbe far pagare chi rovina gli innocenti. Ma anche questo è da paese dei sogni.
Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Le inchieste, l’assoluzione di Alemanno e quei giudici che diffamano il Paese. Giuliano Cazzola su Il Quotidiano del Sud il 9 luglio 2021. Ai tempi della "sporca’’ Guerra del Vietnam, Joan Baez cantava Che le ferite più profonde sono quelle che ci facciamo con le nostre stesse mani. Ed è vero, soprattutto quando a ferire il nostro prestigio nazionale è la magistratura inquirente che ormai non risponde più a nessuno e che, sempre più spesso viene palesemente sconfessata in sede di giudizio. Purtroppo da noi il disfattismo indossa la toga. E non esita a sfornare teoremi che non somigliano per nulla a prove. Chiunque può rendersene conto leggendo una qualsiasi ordinanza o richiesta di rinvio a giudizio. È come leggere un romanzo giallo: viene descritta una storia con l’indicazione dei protagonisti a cui si imputano reati di ogni tipo, portando come prova un brando di una intercettazione, come se le parole raccolte dal trojan o trascritte dal carabiniere di servizio nei casi meno sofisticati a livello tecnologico, fossero di per sé probanti al di fuori dal contesto in cui vennero pronunciate. Poi si passano le carte al cronista della giudiziaria che ha fatto carriera grazie alle veline, il quale, spesso prima che arrivi all’interessato l’avviso di garanzia o il mandato di cattura, pubblica lo scoop de noantri in prima pagina. Ormai queste considerazioni non le fanno solo i commentatori malevoli, le scrivono nelle sentenze i giudici. In poche settimane abbiamo preso atto, grazie ai magistrati che hanno ancora coscienza e rispetto del proprio ruolo imparziale, che le procure più paludate si ingegnano a diffamare il Paese, le sue istituzioni, e a distruggere l’apparato produttivo con veri e propri abusi di potere. Andiamo a Milano, dove opera la ‘’madre’’ di tutte le procure, onusta di medaglie al valore per l’inchiesta ‘’Mani pulite’’ ( ci sono voluti vent’anni perché si sia cominciato a raccontare, nero su bianco, di ‘’che lacrime grondi e di che sangue’’ quella inchiesta) . Che cosa si può dire di una procura che accusa di corruzione internazionale l’Eni, la più importante holding del Paese, senza avere prove solide, ma solo testimonianze di persone inaffidabili, rivelatesi tali nell’ambito di un’indagine compiuta da un magistrato dello stesso ufficio, di cui non i "maggiori suoi’’ non tengono conto fino ad indurlo a cautelarsi consegnando le carte alla Guida Suprema del giustizialismo? Quest’ultimo si giustifica della fuga di notizie per la quale è indagata la fedele segretaria con un argomento evidentemente considerato inoppugnabile: se fosse stato lui a compiere la trasmissione, avrebbe fatto meglio. Ma se Milano piange Roma non ride. Con l’assoluzione dell’ex sindaco Gianni Alemanno va in frantumi l’inchiesta che veniva ancora chiamata ‘’Mafia Capitale’’ anche se si era già accertato che la Mafia non c’entrava e che gli imputati erano una via di mezzo tra i mazzettari e i ladri di polli. Ma che cosa passa nella testa ad un ex procuratore capo che ha diffamato – davanti all’intero pianeta – la capitale dello Stato le cui istituzioni ha giurato di difendere? Infine, scendiamo più a Sud e fermiamoci a Palermo. I pm non si rassegnano ad accettare che i giudici abbiano stabilito con diverse sentenze che la trattativa Stato-Mafia è un frutto della loro immaginazione. Anche in questo caso come si fa ad accusare le più alte magistrature dello Stato di aver negoziato con Cosa Nostra e venire smentiti? Come si pone rimedio alla diffamazione a cui si è sottoposto il proprio Paese? Certo, non esistono in una democrazia delle zone franche, al di sopra della legge. Ma non è esercizio della giustizia inventarsi i fatti e costruire le prove dando magari più credito ad un mafioso pluriomicida (pentito su misura) che ad un ufficiale dei Servizi che ha dedicato la vita alla lotta alla criminalità organizzata.
Sette mesi in cella per uno scambio di persona: «Un viaggio nel cimitero dei vivi». Sette mesi in carcere prima che una semplice perizia fonica provasse quanto Domenico Forgione ha urlato sin dal primo giorno: il presunto 'ndranghetista intercettato non era lui. Simona Musco su Il Dubbio il 4 giugno 2021. Sette mesi in carcere prima che una semplice perizia fonica provasse quanto Domenico Forgione ha urlato sin dal primo giorno: la persona intercettata non era lui. E non poteva, dunque, essere lui l’uomo da arrestare, da esporre alla pubblica gogna, da tenere in un carcere dalle condizioni disumane per così tanto tempo. Forgione, storico, giornalista e autore di diversi saggi, è stato scarcerato lo scorso 16 settembre. Si trovava agli arresti dal 25 febbraio 2020, giorno in cui in cui gli abitanti di Sant’Eufemia d’Aspromonte, poco meno di 4mila anime in provincia di Reggio Calabria, hanno visto portar via in manette il sindaco Domenico Creazzo, accusato di voto di scambio, il vicesindaco Cosimo Idà, secondo la procura capo promotore ed organizzatore di una fazione mafiosa all’interno del locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, il presidente del consiglio comunale Angelo Alati e Forgione, consigliere di minoranza, accusato di associazione a delinquere. Arresti, questi, che hanno portato allo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. Ma non solo: la Dda di Reggio Calabria ha chiesto anche l’autorizzazione per l’arresto di Marco Siclari, senatore di Forza Italia, accusato di scambio elettorale e politico mafioso. «Erano le 3.30 del 25 febbraio – racconta al Dubbio Forgione – quando siamo stati svegliati da dei colpi alla porta. Erano dei poliziotti, che ci chiedevano di aprire. Hanno tirato fuori due ordinanze, una per me e una per mio padre. Poi hanno perquisito casa e ci hanno portato via. Io non capivo, tant’è che mentre uscivo ho detto a mia madre: “ci vediamo più tardi”. Non pensavo potesse capitare una cosa del genere». Forgione afferra il suo borsone e viene trasportato a Reggio Calabria, in Questura, dove ritrova mezzo Consiglio comunale, i suoi avversari politici. Il primo pensiero è che sia successo qualcosa al Comune, «una qualche delibera, ma io non potevo c’entrare: ero un membro della minoranza, facevo una dura opposizione a quell’amministrazione». Forgione ha in mano il plico di 4mila pagine che gli altri, intorno a lui, cominciano subito a sbirciare. Lui attende e intanto inizia tutta la trafila delle formalità di rito: la schedatura, «come un delinquente e poi la gogna delle manette ai polsi all’uscita, da tenere nascoste. Ma sempre gogna è, a favore degli obiettivi dei fotografi». Alle 13.30 lo trasferiscono al carcere di Palmi, dove attende in un buco di un metro per due. «La perquisizione personale, l’umiliazione di dovermi spogliare completamente davanti a due sconosciuti che mi fanno accovacciare: non ho mai subito un’umiliazione più forte», dice. In cella ci arriva alle 18.30, dove inizia a sfogliare quelle pagine alla ricerca del suo nome. Tutto si trova in 17 pagine, dove trova trascritta un’intercettazione tra tre soggetti, uno dei quali è tale “Dominique”. Lui, nato in Australia, tra gli affetti più cari è conosciuto proprio con questo nomignolo. Ma leggendo non riesce a ritrovarsi tra quelle parole: «Pensavo: quando ho detto queste cose? Non ho mai parlato di appalti, di soffiate su possibili operazioni, di precedenti indagini. In realtà io ho sempre saltato, sui giornali, gli articoli sulle operazioni: erano al di fuori dei miei interessi». Forgione legge tre volte prima di giungere alla conclusione scontata: «La persona intercettata non ero io. Quel Dominique non ero io». La spiegazione, per lui, è una sola: hanno cercato qualcuno con quel nome, qualcuno che si occupasse di politica, essendo gli appalti l’argomento di conversazione. E si è arrivati a lui, consigliere di minoranza, famoso in paese e “colpevole” di avere quel nomignolo. «Ma c’era una illogicità evidente: non solo ero consigliere di opposizione, ma – documentate – tutte le elezioni mi hanno visto impegnato contro l’amministrazione comunale e contro Siclari, che per la Dda sarebbe stato appoggiato dalla cosca. Io mi sono esposto pubblicamente in tutte le elezioni (politiche, europee, regionali), sponsorizzando sempre il mio candidato (Pd prima, Leu dopo), che non è mai stato il loro. Al di là di altre considerazioni, ma può uno organico ad una ipotetica cosca schierarsi contro la cosca stessa?». Insieme al suo avvocato chiedono subito una perizia fonica: sarebbe bastato comparare la voce di quell’intercettazione con la sua per capire che non si trattava della persona giusta. Ma non viene concessa, causa covid: il perito non può entrare in carcere. La difesa, allora, ne produce una propria, fatta comparando l’interrogatorio di garanzia con l’audio dell’intercettazione. E il risultato è scontato: la voce non è la sua e nemmeno il dialetto parlato è quello del suo paese. Per sollecitare una perizia da parte della procura, Forgione scrive al pm, reclamando il proprio diritto alla difesa. La lettera viene spedita il 25 maggio, l’incarico al perito viene conferito il 28 maggio. Oltre alla perizia, la difesa di Forgione porta anche altri elementi: il giorno in cui “Dominique” veniva intercettato, Forgione era a giocare una partita di calcetto. E non ci sarebbe stato il tempo materiale per arrivare al ristorante dove i tre conversanti si trovavano. Ma nemmeno questo lo aiuta ad uscire. E un mese dopo quella lettera, il 26 giugno, viene trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lì le condizioni detentive peggiorano vistosamente: «Mi aspettavo di tornare a casa, invece sono stato deportato in Campania. Ritrovandomi a scendere con le manette nelle aree di servizio per andare in bagno – racconta -. L’acqua delle docce era marrone. Ho avuto prurito alla pelle per due mesi dopo la scarcerazione. E nei tre mesi che sono stato lì ci sono stati un suicidio e due tentati suicidi. Tra i comuni, non nell’alta sicurezza, dove ero io. La spazzatura arrivava alle finestre delle celle e vivevamo in mezzo ad un puzzo terribile». Per Forgione il carcere è una parentesi, consapevole che, una volta effettuata la perizia, la verità verrà a galla. «Quando sei lì dentro – continua – sei un delinquente e le guardie te lo fanno notare. Una mi disse: “si chiama Forgione, come padre Pio. Solo che lui faceva miracoli, lei fa danni”. Una cosa umiliante. Il carcere è un posto dove viene annullata la dignità: non ha idea di quante persone, per reggere la vita lì dentro, prendono tranquillanti». La perizia arriva a settembre. E il prelievo della sua voce non avviene in presenza: la comparazione viene fatta usando l’audio dell’interrogatorio di garanzia, così come aveva fatto, mesi prima, la difesa. A settembre, sette mesi dopo, Forgione esce e la sua posizione viene archiviata. Ritrova la vita, ma il suo punto di vista, ormai, è cambiato radicalmente. E ora rivendica quei giorni trascorsi ingiustamente in cella, mentre del vero “Dominique” non c’è ancora traccia. «Ora so che nessuno può sentirsi immune. Puoi ritrovarti dentro uno sporco gioco al quale non hai mai giocato e che hai sempre rifiutato – conclude -. Non sono il primo e non sarò l’ultimo caso di malagiustizia. Dovrei quasi ritenermi “fortunato”, visto che la mia posizione è stata archiviata e, pertanto, mi è stata almeno risparmiata l’ulteriore umiliazione di dovere affrontare un processo. Sono soddisfatto? No. Arrabbiato? Neanche. Sono deluso. Nessuno dovrebbe essere privato della libertà ed essere scaraventato nel “cimitero dei vivi”, prima dell’accertamento della sua colpevolezza. Sarebbe onesto che gli amanuensi delle procure che si annidano nelle redazioni giornalistiche ammettessero: “Ci siamo sbagliati perché, come sempre, abbiamo considerato dogma l’ipotesi investigativa degli inquirenti; perché, come sempre, abbiamo fatto carne di porco del principio della presunzione d’innocenza”. Non ho fiducia nella giustizia italiana. Credo invece nella verità, una forza tenace come la goccia che scava la roccia. Ora inizia il secondo tempo, che intendo come impegno per una battaglia di civiltà minoritaria e impopolare: contro la gogna del giustizialismo mediatico, contro l’aberrazione della carcerazione preventiva, contro la condizione disumana di molte carceri italiane».
Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” l'8 maggio 2021. Li hanno assolti due anni dopo, ma uno di loro, nel frattempo, si è tolto la vita in carcere. Era un detenuto in attesa di giudizio, si chiamava Giuseppe Pino Gregoraci. Come Alberto Sordi in quel famoso film, era stato sbattuto dentro ancor prima di potersi spiegare. Di poter dire che lui, Pino, non c'entrava nulla con l'accusa - pesantissima - di far parte della 'ndrina calabrese. Era un semplice panettiere, un padre di famiglia. Aveva pure una vita difficile alle spalle, un incidente automobilistico che a 18 anni gli ha tranciato di netto una gamba e gli ha "regalato" una protesi che aveva bisogno di manutenzione. Tutto sommato, quello era niente: il vero incubo inizia a luglio del 2019, quando la Dda di Reggio Calabria fa partire l'operazione "Canadian 'ndrangheta connection". Vuole capire, l'antimafia italiana, se ci sono ramificazioni mafiose riconducibili ai nostri clan pure al di là dell'oceano. Ché - evidentemente - non bastan le retate nazionali. Fatto sta che Pino finisce nel tritacarne. La Dda e la Procura sostengono che faccia parte di un 'ndrina di Siderno (piccolo Comune del Reggino), che sia a capo di un esercizio abusivo del credito finalizzato ad agevolare i conti della mala. Con lui finiscono in manette altri otto e la loro vicenda conquista buona parte della stampa. Escono i nomi sui giornali, i commenti si fanno di ora in ora più duri. Fino a bollare Pino come "boss mafioso" senza che alcun tribunale si sia ancora espresso sulla sua vicenda. Lui, all'inizio, prova a reagire: in mano ha un certificato medico con su scritto che in carcere, a Reggio Calabria, con quella gamba che in realtà è un moncone, non ci può proprio stare. Lo trasferiscono a Voghera, in Lombardia. Ma mancano le attrezzature idonee per un disabile persino lì (già, i penitenziari: quei grand hotel che qualcuno vorrebbe far credere siano il paradiso del lusso). Pino un giorno sta facendo la doccia, cade e si frattura il cranio. Allora il suo avvocato chiede i domiciliari, insiste: è una cosa seria. Ma l'istanza viene rigettata «senza disporre neanche di una perizia», come sottolinea sulle pagine del Dubbio il legale, Giuseppe Calderazzo. A quel punto Pino si arrende: a fine gennaio dell'anno scorso si impicca nella sua cella, a 51 anni, senza aspettare la decisione dei magistrati. «Suicida in carcere l'esponente di spicco delle cosche», titola qualche quotidiano locale calabrese. Giusto per ribadire il concetto. Invece, in questi giorni, arriva la svolta. Termina il primo grado del processo in cui era coinvolto anche Pino (per lui, ovviamente, l'iter si ferma con la morte): il tribunale di Locri assolve con formula piena (cioè per «non aver commesso il fatto») 6 degli altri coimputati e ne condanna 2 per trasferimento fraudolento di valori e favoreggiamento, ma specifica che l'aggravante dell'associazione mafiosa non sta in piedi per niente. Insomma, quella lunga mano della 'ndrina non c'era. Non c'era proprio l'ombra della malavita. «Sono stati assolti tutti i soggetti che avevano, nel procedimento, una posizione simile a quella di Pino», spiega Calderazzo. Vuol dire che, pressoché certamente, la stessa sorte sarebbe capitata anche lui. Ma Pino adesso non c'è più, è morto in attesa di ottenere giustizia. Quel che resta è solo il dolore - straziante - di sua moglie Rosamaria che si sfoga come può, su Facebook. «Non esiste una 'ndrina, non esiste un'associazione mafiosa» scrive, domandandosi: «Questi eclatanti arresti, con tanto di titoloni, era proprio il caso di farli?».
«Assolti in sei dopo 2 anni di galera. Il settimo si è impiccato in cella». Giuseppe Gregoraci era in carcere nonostante fosse gravemente invalido e depresso, inutili le richieste del suo avvocato. Ma ora sono due le indagini aperte sul caso. Simona Musco e Valentina Stella su Il Dubbio il 6 maggio 2021. Si era impiccato in cella nel gennaio 2020 Giuseppe Gregoraci, detto “Pino”: aveva solo 51 anni ed era detenuto nel carcere lombardo di Voghera. Era stato arrestato a luglio del 2019 nell’operazione “Canadian ‘ndrangheta connection”, scattata su impulso della Dda di Reggio Calabria per colpire la ramificazione della ‘ndrangheta calabrese in Canada. L’uomo era accusato di fare parte di una ‘ndrina di Siderno e ritenuto anche responsabile di esercizio abusivo del credito, con l’aggravante di aver agevolato la ‘ndrangheta. Pino era un marito, un padre, un pasticcere ma fu etichettato dai giornali come un boss. Se fosse ancora vivo, se avesse potuto beneficiare dei domiciliari forse oggi sarebbe stato scagionato. Proprio due giorni fa, infatti, il Tribunale di Locri ha assolto dalle accuse di associazione mafiosa «per non aver commesso il fatto» i sei co-imputati del processo che avrebbe dovuto giudicare anche Pino. «Non esiste una ‘ndrina, non esiste un’associazione mafiosa – si è sfogata la moglie Rosamaria su Facebook -, quindi mi chiedo se questi eclatanti arresti, con tanto di titoloni come “boss mafiosi”, “la nuova ndrina di Siderno” ecc. ecc. era proprio il caso di farli? Questo arresto è stato fatto per uccidere un uomo?». A spiegare il calvario di Gregoraci è il suo difensore Giuseppe Calderazzo. Gregoraci finisce in manette nonostante i gravi problemi fisici. L’uomo ha infatti perso una gamba a causa di un grave incidente stradale, all’età di 18 anni, al seguito del quale ha dovuto indossare, fino alla fine, una protesi. «Gregoraci è entrato in carcere con una patologia depressiva, derivante dalla sua condizione – spiega Calderazzo -. Immediatamente, il carcere di Reggio Calabria è risultato inadeguato, come certificato nero su bianco dai medici, che hanno ammesso di non essere in grado di prendersene cura». La cartella sanitaria, dunque, è chiara sin dall’inizio. Gregoraci viene così trasferito nel carcere di Voghera, dove non solo non ci sono le condizioni per assistere adeguatamente l’uomo, ma, mancando le attrezzature adeguate per far fronte ad una situazione del genere, cade n bagno, durante la doccia. «Questo perché non poteva utilizzare la protesi – prosegue Calderazzo -, perché senza fisioterapia ordinaria e manutenzione della protesi il risultato è il restringimento del moncone. E ciò avrebbe reso necessario un intervento fisioterapico più incisivo». Dopo le cadute, che gli provocano un trauma cranico importante, Calderazzo chiede la concessione dei domiciliari, portando come documenti le relazioni di due consulenti, una sulla protesi e una sulla sua condizione psicologica. «I due consulenti, che lo hanno visitato in carcere, hanno certificato l’assoluta incompatibilità di Gregoraci con il carcere – spiega ancora il legale -. Il moncone era ritirato e la protesi ormai inservibile. Solo quattro ospedali in Italia potevano eseguire quelle terapie, figuriamoci se ciò poteva avvenire in carcere. Il rischio era che potesse perdere l’utilizzo anche della restante parte della gamba». L’istanza viene depositata il 18 dicembre del 2019. Il gip chiede subito a Voghera una relazione sanitaria, ma non succede nulla. Il procedimento passa però lo stesso giorno ad un altro giudice, che riceve la relazione, datata il 24 dicembre, soltanto il 3 gennaio. E sulla base di quella, dopo una settimana, l’istanza viene rigettata. «Tutto ciò senza disporre alcuna perizia, ma ordinando al Dap di individuare una struttura dove fare fisioterapia. Il Dap – aggiunge -, a stretto giro, ha chiesto a Voghera di verificare se ciò fosse possibile a Busto Arsizio. Ma non è successo più niente». Otto giorni dopo il Dap riscrive a Voghera, al gip e per conoscenza al pubblico ministero, evidenziando di non aver avuto più riscontri dal carcere di Voghera. «Malgrado il gip abbia avuto conoscenza di questa nota del Dap, dunque, non ha preso provvedimenti», aggiunge Calderazzo. Il 20 gennaio 2020 Gregoraci si toglie la vita, impiccandosi nella sua cella. E ora sul caso sono aperte due inchieste: una a Pavia, contro ignoti, e uno a Salerno, dove ad essere indagati sono i due giudici che hanno seguito il caso. I pm hanno però chiesto l’archiviazione. «Per il primo giudice ho chiesto io stesso che venisse scagionato», specifica l’avvocato, che però è convinto delle responsabilità del secondo. E aggiunge un dato: l’uomo non aveva colloqui con gli psicologi, nonostante le richieste del suo legale e malgrado il suo stato depressivo, che sarebbe stato “curato” soltanto con tranquillanti. La famiglia, conclude, ora è disperata. «E oggi, con l’assoluzione verticale di tutti i soggetti con una posizione simile alla sua – conclude – ci possiamo rendere conto della disperazione che lo affliggeva e di quanto la sua depressione sia aumentata in maniera esponenziale in quella cella». Simona Musco e Valentina Stella
Due indagini aperte per la morte di Gregoraci. Dopo 2 anni di gogna tutti assolti, ma Pino si è ucciso in carcere: la ‘ndrina non esisteva. Carmine Di Niro su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Nel gennaio del 2020 Giuseppe Gregoraci, detto Pino, si è ucciso nella sua cella del carcere lombardo di Voghera, a soli 51 anni, trovato impiccato dalle guardie del penitenziario. Pino era stato arrestato nel luglio dell’anno precedente nell’ambito dell’inchiesta “Canadian ‘ndrangheta connection”, della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, volta a sgominare la presunta ‘ndrina Muià, federata alla cosca Commisso di Siderno, comune di 17mila abitanti in provincia di Reggio. Pino non ha potuto quindi assistere di persona alle assoluzioni decise del Tribunale di Locri sei dei suoi otto co-imputati, scagionati dalle accuse “per non aver commesso il fatto”. Nessuna condanna infatti per Antonio Galea, Giuseppe Macrì, Armando Muià, Giuseppe Muià, Vincenzo Muià (classe 1972) e Vincenzo Muià (classe 1978), mentre per Antonio Mamone e Marilena Gravina, accusati rispettivamente di trasferimento fraudolento di valori e favoreggiamento personale, sono arrivate condanne a 3 anni e sei mesi e un anno e sei mesi ma senza l’aggravante dell’associazione mafiosa. Insomma, la fantomatica ‘ndrina non esisteva, come ha scritto con rabbia Rosamaria, moglie di Giuseppe Gregoraci. “Non esiste una ‘ndrina, non esiste una associazione mafiosa, quindi mi chiedo se questi eclatanti arresti, con tanto di titoloni come “boss mafiosi”, “la nuova ndrina di Siderno” ecc. ecc. era proprio il caso di farli? Questo arresto è stato fatto per uccidere un uomo”. Fosse ancora vivo, e soprattutto se avesse potuto usufruire degli arresti domiciliari, probabilmente Gregoraci sarebbe stato scagionato. La storia di Pino è infatti segnata dal grave incidente stradale che lo vede protagonista a 18 anni: Gregoraci dal quel momento ha dovuto indossare una protesi alla gamba, che non ha fermato i magistrati dallo sbattere Pino in galera a Reggio Calabria, dove entra “con una patologia depressiva derivante dalla sua condizione”, spiega a Il Dubbio Giuseppe Calderazzo, il suo avvocato. Penitenziario che si rivela immediatamente non adatto alla sua condizione sanitaria, col trasferimento quindi a oltre mille chilometri di distanza, a Voghera. Anche qui la situazione non va meglio: Gregoraci, senza attrezzature adeguate per fare fronte al suo handicap, cade in bagno durante la doccia. Pino infatti “non poteva utilizzare la protesi – continua Calderazzo -, perché senza fisioterapia ordinaria e manutenzione della protesi il risultato è il restringimento del moncone. E ciò avrebbe reso necessario un intervento fisioterapico più incisivo”. Alla luce di quanto accaduto il suo legale chiede la concessione dei domiciliari il 18 dicembre 2019, istanza rigettata però il 10 gennaio. Dieci giorni dopo Pino si uccide nella sua cella. Ora sul caso ci sono due inchieste aperte: a Salerno dove sono indagati i due giudici che hanno seguito il caso, e a Pavia, contro ignoti. I pm hanno però chiesto l’archiviazione.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
I finocchi di Carolina Girasole: Storia di una Giustizia ingiusta. Da sindaca antimafia a collusa con la mafia Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 28 aprile 2021. Per il sindaco di Isola Capo Rizzuto nutrivo ammirazione. Carolina Girasole stava realizzando insoliti progetti. Gli alunni della scuola Spartitore avevano ideato una Casa della musica per ragazzi a rischio. Gli allievi della scuola media avevano pensato, invece, ad un orto botanico, erano loro a curare le piante e in quel terreno confiscato già gestivano un “giardino delle farfalle”. Poi invece arrivarono i finocchi. Che da quelle parti sono molto buoni. Ma non quelli dell’orto botanico scolastico. Quelli della cosca Arena. Non penso fosse una professionista dell’Antimafia il sindaco. Carolina Girasole è stata arrestata insieme al marito. Per 7 anni e mezzo ha subito un processo mediatico e giudiziario infinito. Martedì, la Cassazione, ha prosciolto entrambi da ogni accusa. L’ex sindaca era finita su siti e giornali per un “affaire” con la cosca locale. Votiamo Girasole e ci fate trafficare con i finocchi che in grandi quantità non penso equivalgano agli stupefacenti. Tre gradi di giudizio hanno accertato che sindaca e marito non avevano avuto nessun rapporto equivoco con gli Arena, che le intercettazioni erano equivoche e che prove l’accusa non ne aveva sui voti tramutati in finocchi. Prima provavo ammirazione per il sindaco Carolina Girasole. Ora avverto una solidarietà civile. Per essere stata una vittima dei finocchi appesa alla colonna infame della malagiustizia calabrese.
Il caso. Combatteva la ‘ndrangheta: Carolina Girasole sbattuta in galera e linciata da innocente. Ilario Ammendolia su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Martedì scorso Carolina Girasole, già sindaca di Isola Capo Rizzuto in provincia di Crotone, è stata assolta anche in Cassazione. La Girasole, pur essendo una donna delicata, dai tratti raffinati e dalla voce gentile è una persona determinata, che ha fatto il sindaco con grinta e passione e sopportato gli arresti e quasi otto anni di calvario giudiziario con estrema dignità. Una sindaca che Goffredo Buccini nel suo libro “L’Italia quaggiù” ha indicato come una “eroina” dell’antimafia e una protagonista d’un “nuovo corso” che vedeva alcune donne protagoniste sulla scena politica calabrese. Infatti l’amministrazione Girasole, dopo anni di inadempienze amministrative, aveva acquisito al Comune i terreni confiscati alla mafia e contribuito alla costituzione di ben quattro cooperative di giovani per la gestione dei beni confiscati. La sindaca aveva creduto di poter rappresentare dignitosamente lo Stato in una terra sicuramente difficile e piena di insidie ma non solo, e non tanto, per la presenza della ndrangheta. Oggi Buccini, e con lui gran parte della stampa nazionale, una qualche riflessione dovrebbero pur farla (la farà? ) per capire come è stato possibile che Carolina Girasole sia stata arrestata (insieme al marito) senza che ve ne fosse il benché minimo motivo e, cosa gravissima, sulla base di intercettazioni che i giudici hanno ritenuto manomesse, pur di incastrare la sindaca di Isola. Resta da capire perché, o per conto di chi, qualche investigatore abbia sentito il bisogno di inquinare le prove quasi che le procure si siano attribuite il compito di arrivare ad una condanna a prescindere dalla verità. Eppure nel caso della Girasole non c’erano mazzette, né fondi occulti, né estorsioni o minacce. L’unica accusa “concreta” mossa alla sindaca ed al marito, consiste nel fatto che avrebbero contattato gli Arena per ottenere un appoggio elettorale. Un falso che i giudici avevano già smontato nei precedenti gradi di giudizio. E poi in cambio di cosa la ndrangheta avrebbe dato il proprio appoggio alla sindaca? Secondo l’accusa un grave indizio a carico della Girasole sarebbe stato il fatto che persone vicine alle cosche avrebbero regalato alla madre e alla la suocera della sindaca una cassa di finocchi a testa. La stessa cosa avrebbero fatto con centinaia di famiglie e con la stessa caserma dei carabinieri anche perché ad Isola, nei periodi di raccolta, i finocchi costano non più di 3 euro a cassa. Ma veramente qualcuno potrebbe credere che si possa ipotizzare il reato di concorso in associazione mafiosa come corrispettivo ad un “regalo” dal valore di sei euro? In Calabria è possibile. Ed infatti solo in questo mese, in un’area di pochi chilometri quadrati, sono ben tre gli amministratori arrestati per concorso in associazione mafiosa ed oggi assolti. Ed in un solo mese, tre assoluzioni non mi sembran poche. Al momento del loro arresto su ”Il Garantista”, quotidiano allora diretto da Piero Sansonetti, abbiamo esposto i nostri motivati dubbi sugli arresti della persone che oggi sono state assolte ma la nostra voce è stata flebile dinanzi all’ondata forcaiola che si è scatenata allora e si scatena ancora, con tifo da stadio, dopo ogni arresto “eccellente” e dopo ogni retata tipo Plati o Rinascita Scott. Ciò non è un caso ma la scelta di degradare la Calabria a “terra criminale”. Oggi come cento anni fa. Ed infatti il governo reale è nelle mani di alcuni procuratori a cui si sono stati attribuiti poteri da vicerè. Con le commissioni antimafia al posto dei consigli comunali. Con la militarizzazione della Regione che ha visto e vede la sanità ( e non solo) gestita da generali e poliziotti in pensione. Con una “politica” sicuramente scadente anche perché selezionata e tenuta costantemente sotto schiaffo come dimostrano i tantissimi casi di rappresentanti delle Istituzioni, allontanati per via giudiziaria e successivamente prosciolti da ogni accusa. Tutto ciò è servito a sconfiggere la ndrangheta? La risposta è no. Decisamente no. È servito invece a ridurre la Calabria ad una colonia interna in cui i cittadini, oltre a dover convivere con la delinquenza mafiosa, non hanno più neanche la tutela della Legge. Ilario Ammendolia
Non fu eletta grazie al clan: otto anni per scagionare l’ex sindaca antimafia. La Cassazione assolve definitivamente Carolina Girasole: agli arresti per 168 giorni, ma era innocente. Simona Musco su Il Dubbio il 28 aprile 2021. «Ci sono voluti sette anni e mezzo per stabilire qualcosa che era chiaro sin dall’inizio. Un errore? Non credo». La voce di Carolina Girasole è carica di emozione, pochi minuti dopo la sentenza di Cassazione che, dopo quasi otto anni, ha sancito quanto lei stessa ha sostenuto per anni: la sua innocenza. L’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, oggi tira un sospiro di sollievo, dopo essere stata liberata dalla più infamante delle accuse: essere stata eletta con i voti del clan. Lo stesso che, per anni, la voleva morta, proprio per il suo impegno antimafia. Ma da icona per la Calabria e per l’Italia intera, in una notte sola, è diventata il simbolo di quanto per anni, da prima cittadina, ha tentato di combattere. Tutto per un’accusa mossa dalla Dda di Catanzaro nel 2013, quando venne arrestata assieme al marito e sbattuta come un mostro in prima pagina. Girasole è rimasta agli arresti in carcere e poi ai domiciliari per un totale di 168 giorni e solo oggi può amaramente gridare vittoria. L’ex sindaca è stata assolta nel merito sia in primo grado sia in appello. Sentenze di fronte alle quali la Procura antimafia non si è arresa, ribadendo la convinzione di avere a che fare con una finta paladina della giustizia. Ma entrambe le decisioni hanno sancito un fatto chiaro: la mancanza di elementi a conferma di quel patto scellerato. «Provo tanta amarezza, tanto sconforto, perché sono stati anni durissimi – racconta oggi al Dubbio -. Non si trattava solo di un errore giudiziario, la mia storia amministrativa era chiara. C’erano tanti atti che dimostravano quale fosse stato il mio percorso, per cui sentirmi addebitare quelle accuse è stato difficile da sopportare. Il mio pensiero, in questi anni, è sempre andato a quello che stava accadendo, alle accuse, agli atti prodotti dalla procura e alla realtà che era assolutamente diversa da quella che veniva descritta in aula». Girasole, oggi, parla dei grandi sacrifici sopportati dalla sua famiglia, «che ha sofferto tantissimo». E di quel percorso politico «distrutto», in un paese che tentava di resistere alla brutalità dei clan di ‘ ndrangheta. «Hanno distrutto gli ideali e i valori in cui credevamo – continua -. Poteva essere qualcosa di importante per la comunità, per la Calabria, e invece è stato tutto cancellato. In questo momento cerco solo di riprendere la mia vita in mano, dopo anni in cui la mia mente è stata impegnata, giorno e notte, a ripercorrere le accuse, su come potevo smontarle, come potevo dimostrare la verità. Devo solo cercare di rimettere in ordine le cose e poi vedremo il da farsi. Sicuramente racconterò tutto quello che accaduto. È una storia che appartiene a me e a tutta la comunità. È giusto che sappia la verità». La certezza, dunque, è che quella donna che si era messa in testa di combattere contro la potente cosca del suo paese era stata lasciata sola dallo Stato, che ha affidato a lei il compito di prendere decisioni rimaste colpevolmente in sospeso, anche col rischio di fare un favore ai mafiosi. Conclusioni pesanti, contenute nella sentenza pronunciata dai giudici d’appello di Catanzaro. Secondo l’accusa, per farsi eleggere, Girasole avrebbe stretto un accordo con i figli del capo storico della cosca, Nicola Arena, chiedendo voti in cambio di agevolazioni al clan. Favori che si sarebbero concretizzati soltanto due anni dopo quel voto, attraverso un’attività amministrativa «apparentemente lecita e sapientemente guidata, diretta in realtà ad assicurare alla cosca Arena non solo il mantenimento di fatto del possesso dei terreni confiscati a Nicola Arena, quanto la loro coltivazione a finocchio e la relativa raccolta dei prodotti inerenti all’annata agraria 2010, consentendo, attraverso l’omessa frangizollatura del prodotto e la predisposizione di un bando per la raccolta e quindi di commercializzare il prodotto stesso, ricavandone un significativo profitto». Ma tutto ciò, per i giudici, non è vero. L’accordo, infatti, non è mai stato provato, così come le presunte pressioni sugli elettori. Emerge, invece, l’odio del clan Arena nei confronti della sindaca, che in ogni modo tentava di destituire, ammettendo anche, in un’intercettazione, di non aver raccolto voti per quella donna. Un’accusa infondata, dunque, in un processo dal quale, semmai, emerge «l’immobilismo colpevole degli organi periferici dello Stato». Ovvero, su tutti, della Prefettura, che di quegli atti che avrebbero spodestato i clan dai terreni confiscati se ne sarebbe lavata le mani. Nella sentenza d’appello del 2018 i giudici mettono nero su bianco un vero e proprio atto d’accusa nei confronti della Procura, che «non è riuscita a provare in che termini e quanto sia stato rilevante il riferito appoggio elettorale» e a portare in aula «proprio la prova dell’accordo collusivo». «Una mera ipotesi» senza riscontro, in quanto «nessun elemento diretto a carico o dotato di adeguata concludenza è stato fornito al riguardo». Insomma: non ci sono mai state prove. Otto anni dopo è un dato di fatto.
Linciato, rovinato e assolto. Il capolavoro di Gratteri: Femìa sbattuto in carcere per 5 anni, era innocente. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Rocco Femìa è innocente. Scagionato da tutto. Proprio da tutto. Non è mafioso come sostenevano i Pm e come hanno detto i giudici di primo e secondo grado. Non ha preso tangenti, non ha corrotto, non è stato corrotto, non ha neppure trafficato influenze. Però si è fatto 5 anni di prigione. Anzi, un po’ di più: cinque anni e nove giorni. Rocco Femìa è l’ex sindaco di Marina di Gioiosa, nella Locride. Oggi ha sessantadue anni, sposato, quattro figli. Sono andati ad arrestarlo la mattina del 3 maggio del 2011. Erano le quattro. Ha fatto appena in tempo a salutare la moglie e la bambina piccola, quella di otto anni. Poi è iniziato l’inferno. Carcere di Reggio, in otto in una cella prevista per due detenuti, con i topi, gli scarafaggi, un filo d’acqua. Poi Palermo, Vibo, Locri.
I processi, le condanne. Il vetro che gli impediva di accarezzare i parenti quando andavano a trovarlo. Non poteva, perché era un mafioso pericoloso. Solo la bambina, ma dopo i dodici anni neanche lei. Le accuse basate sul nulla. Alla fine è intervenuta la Cassazione. Ha detto che il processo non stava in piedi e ha fatto ripetere l’appello, cancellando l’ipotesi di associazione mafiosa e chiedendo ai giudici di secondo grado di cercare eventuali prove di concorso esterno o di corruzione. ma spiegando che non bastava un sentito dire: occorreva almeno qualche indizio. Restava in piedi solo l’ipotesi che avesse favorito qualcuno negli appalti. Però era certo che in cambio non aveva ricevuto niente. Visto che i magistrati non trovavano prove a carico, gli avvocati si sono presi la briga di trovare le prove dell’innocenza. Hanno portato ai giudici il rendiconto di tutti gli appalti concessi dal Comune nei tre anni incriminati. Uno per uno. Tutti. È risultato che nessuno degli appalti era andato al gruppo – presunto, ma solo presunto mafioso – che era stato indicato dall’accusa, e che tutti – tutti – non erano stati assegnati direttamente dal Comune ma demandati alla Stazione unica appaltante della Provincia. Lo hanno assolto, non potevano fare altro: assolto con formula piena. Ora bisogna vedere come lo risarciranno. Che conseguenze avrà questo flop mostruoso della giustizia.
Rocco Femia aveva 52 quando è iniziato il suo inferno. Era un insegnante di educazione fisica, da sempre impegnato in politica. Lui si definisce ancora oggi “democristiano”. Se lo avverti che la Dc non c’è più, ride. Adesso sta nel centrodestra. Dagli anni ottanta, quando era ragazzo, fa parte del consiglio comunale. Nel 2008 è stato eletto sindaco. Ha quattro figli, tre grandi e una piccolina. Aveva otto anni quella notte. Oggi ne ha 18. Due anni fa ha scritto la cronaca del suo incubo, ed è quella che pubblichiamo qui. Leggetela, e provate a non commuovervi se ci riuscite. Rocco evidentemente piace poco alla Procura. E così decidono di arrestarlo perché hanno sentito una telefonata di un certo Mazzaferro, un suo coetaneo con il quale giocava a pallone da ragazzo, che parlava di lui e parlava al cellulare con lui di politica. Rocco e Mazzaferro si conoscevano da tantissimi anni, avevano le figlie che andavano alla stessa scuola. È così strano che parlassero tra loro? Dice: si, ma parlavano di politica. Già, e in genere voi se chiacchierate con un sindaco impegnato in campagna elettorale di che parlate, di Formula Uno? Agli inquirenti la telefonata è stata sufficiente. Ma Mazzaferro è un capocosca? Io non lo so: so che è incensurato. Vabbé, vabbé, dettagli. Quella mattina di maggio scatta la retata. La ordina il dottor Gratteri. Chi, scusi? Il dottor Gratteri, lo conoscete? Quarantacinque arresti. Tra i quali diversi assessori ed ex assessori. Oggi, se Dio vuole sono tutti liberi. Chi ha fatto due anni, chi tre, chi quattro. Beh, succede. Dei quarantacinque arrestati solo cinque sono stati condannati, ma per piccolo spaccio, niente a che fare con l’associazione mafiosa e col Comune di Marina di Gioiosa . Il giorno dell’arresto la premiata società procure-più-giornali festeggia. Conferenze stampa, Tv, titoli anche in prima pagina non solo sui locali, anche sulle grandi testate. Repubblica, Il Corriere. Volete sapere cosa scrisse Repubblica quel giorno? Ecco qui, lo trascrivo: «I Mazzaferro si erano presi il Comune di Marina di Gioiosa Ionica. Erano loro a governare la cittadina della costa ionica reggina. Avevano eletto il sindaco, deciso buona parte degli assessori, stabilito ogni cosa. E ora gestivano tutto in maniera diretta. Ogni scelta passava dalle stanze di Rocco Mazzaferro e del resto del clan. Ogni appalto, ogni fornitura, era cosa loro. Se l’erano “guadagnato” a suon di preferenze pilotate “in maniera militare”. Battendo persino gli Aquino, il potente clan della Locride che invece avrebbe sostenuto la lista rivale. Il sindaco Rocco Femia, detto “pichetta” (zappa, ndr) era organico alla cosca. Così come lo erano anche Vincenzo Ieraci, detto “u menzogna” (il bugiardo, ndr), assessore all’Ambiente; Rocco Agostino, detto “gemello”, assessore alla Politiche sociali, e Francesco Marrapodi, ex assessore ai Lavori pubblici ( si dimise lo scorso anno a seguito di un problema di salute). Tutti uomini della ‘ ndrangheta di Marina di Gioiosa, tutti “malacarne” dicono i magistrati della Dda di Reggio Calabria che erano entrati nella stanza dei bottoni. E per dirla con le parole del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, erano loro a “gestire il potere, e tutto quello che ne deriva per conto dei Mazzaferro” ». Capito? Avete qualche dubbio? No, nemmeno un condizionale o almeno un congiuntivo, eppure esiste il congiuntivo ed esiste il condizionale nella grammatica italiana. Il sindaco è organico alla mafia: in cella. E la sua reputazione può essere riempita di sputi. Cosa hanno scritto i grandi giornali quando poi è arrivata l’assoluzione. Davvero lo volete sapere? Non lo indovinate? Non ha scritto niente. Zero. Non solo la procura festeggiò gli arresti. Il procuratore generale antimafia, che all’epoca era Pietro Grasso – futuro leader politico di Leu – scese in Calabria per dire che era stato assestato un colpo micidiale alla ‘ndrangheta nella Locride. Anche lui senza condizionali, senza congiuntivi. Volete sapere quando Pietro Grasso (e magari anche Nicola Gratteri) hanno chiesto scusa a Femìa e agli altri trentanove? Mai. solo silenzio. P.S. Mi chiedo: chissà se qualcuno dei miei colleghi -penso a Fazio, a Formigli, a Iacona – la prossima volta che intervisteranno Gratteri (lo fanno spessissimo) gli faranno una domandina su Femìa? Tranquilli: non gliela faranno. Il giornalismo è giornalismo, non si permette mica di giudicare i giudici.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
«Nessuna prova contro Femia». Ma in cella ci è rimasto cinque anni. Le motivazioni dell’assoluzione dell’ex sindaco calabrese: a suo carico diversi indizi di un atteggiamento finalizzato alla lotta alla criminalità organizzata. Ma la sua vita è stata distrutta. Simona Musco su Il Dubbio il 30 settembre 2021. «Un quadro probatorio del tutto privo di significatività ai fini del giudizio di colpevolezza dell’imputato per una contestazione di estrema gravità, quale quella di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso». La Corte d’Appello di Reggio Calabria chiude così la vicenda di Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa, rimasto in cella per cinque anni e nove giorni da uomo innocente, da quel che dicono oggi i giudici a distanza di dieci anni dall’inizio del suo calvario giudiziario. Arrestato nel 2011 con l’operazione “Circolo Formato”, che svelò gli interessi della cosca Mazzaferro sulle elezioni amministrative del 2008, Femia fu condannato sia in primo grado sia in appello a dieci anni di reclusione, indicato dai giudici come «partecipe consapevole» di tutte le dinamiche della cosca che ne avrebbe supportato l’elezione. Una certezza prima apparsa granitica e che ha iniziato a vacillare in Cassazione, nel 2018, quando i giudici, escludendo categoricamente che l’ex sindaco potesse ritenersi un affiliato al clan che aspirava a riprendere il controllo della cittadina, rispedirono gli atti alla Corte d’Appello, invitando i colleghi a capire se fosse quantomeno un concorrente esterno a quella cosca e se, dunque, ci fosse stato un patto tra le due parti. I rapporti e le relazioni col capo clan c’erano, evidenziarono i giudici, ma «qualificare in termini di partecipazione la condotta del Femia valorizzando quale tratto unico e significativo la vicenda elettorale (…) non costituisce operazione logica corretta». L’equazione, scrivevano infatti gli ermellini, non tiene conto delle possibili spiegazioni alternative e costituisce «una sorta di scorciatoia probatoria della partecipazione non accoglibile». Il nuovo processo in appello, trascinatosi – anche a causa del covid – fino a marzo scorso, ha però cancellato anche quella infamante accusa, accogliendo la richiesta di assoluzione avanzata dagli avvocati Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino: di prova concreta, nel processo, non ne è emersa nemmeno una. E anzi sarebbero emerse prove di come l’amministrazione Femia, cancellata con un colpo di spugna da quell’operazione che fece finire in carcere anche tre assessori (poi tutti assolti), si fosse impegnata nel senso opposto a quello evidenziato dall’accusa. «Di contro – si legge infatti nelle 26 pagine che motivano la sua assoluzione – assumono rilievo ai fini della decisione una serie di attività dell’amministrazione guidata dal sindaco Femia Rocco (documentate dalla difesa e non contrastate da alcuna emergenza processuale di segno contrario), finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale». Come ad esempio la scelta, subito dopo l’insediamento della nuova giunta, di delegare alla Stazione unica appaltante provinciale tutti gli appalti pubblici, sia al di sopra dei 150mila euro sia al di sotto. Nessuno spazio, dunque, ai clan, che per mettere le mani su quegli appalti non avrebbero potuto comunque confrontarsi con la giunta, ma avrebbero dovuto bussare altrove. Ma non solo: «Sono stati acquistati mezzi idonei (un miniescavatore, un bobcat, una macchina spazzatrice) ad intervenire sul territorio per eseguire autonomamente lavori di piccoli importi, al fine di evitare di ricorrere all’affidamento ad imprese esterne, mediante la procedura della somma urgenza». Un modo, questo, per evitare ogni piccola ingerenza sui lavori – anche i più sciocchi – da eseguire sul territorio comunale. Così com’è stata revocata l’aggiudicazione provvisoria a ditte non in regola con la documentazione o sono stati sequestrati e affidati in custodia gli animali rinvenuti sui terreni di proprietà dei clan. Insomma: nessun occhio di riguardo, sembrano dire i giudici. Tant’è che nemmeno con la piaga dell’abusivismo edilizio, comune a quelle latitudini, l’amministrazione avrebbe chiuso un occhio, giungendo anche alla demolizione di una stalla costruita abusivamente da un membro del clan Mazzaferro. Inoltre, sono stati messi gratuitamente a disposizione dei Carabinieri i locali della dismessa stazione ferroviaria acquisiti dal Comune e sono stati destinati al pubblico i beni confiscati alla ‘ndrangheta, approvando un apposito regolamento per la gestione degli stessi. Scelte concrete, per i giudici di secondo grado, alle quali si sono associate anche iniziative “simboliche” contro la ‘ndrangheta, in collaborazione con associazioni come “Libera” e “Don Milani”. «L’assenza di apprezzabili possibilità di diverse acquisizioni istruttorie» idonee a concludere un accordo con i clan, dunque, hanno portato all’assoluzione di Femia «per non aver commesso il fatto». Non basta, infatti, per la sussistenza del concorso esterno, «una mera vicinanza al detto gruppo (mafioso, ndr) od ai suoi esponenti, anche di spicco, e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa», ma è necessario «un vero patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti della stessa organizzazione in un modo che, sin dall’inizio, sia idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento». Di tutto questo, scrivono ora i giudici, nella storia di Femia non c’è traccia. E anche in aula alcuni esponenti delle forze dell’ordine avevano «escluso contatti e frequentazioni illecite» dell’allora sindaco. Ciononostante, si è ritrovato per cinque anni rinchiuso in carcere, prima a Reggio Calabria, in «un cunicolo con 4 letti a castello, con cemento grezzo a terra, scarafaggi e topi che ci passavano sulla testa mentre dormivamo», poi a Palermo, dove i detenuti subivano continui controlli notturni della polizia penitenziaria, che duravano circa un’ora, «senza nessun riguardo per il nostro corredo: salivano sui letti con gli stivali, buttavano tutto giù e ci toccava rimettere tutto a posto», per chiudere la sua esperienza nel «lager» di Vibo Valentia.
«La battitura era continua – ci ha raccontato in relazione al periodo in Sicilia – ed è un rumore che mi è rimasto in testa». Ora, per Femia, è il momento del riscatto: «Per 10 lunghi anni ho “gridato” la mia innocenza – ha commentato al Dubbio -, finalmente una corte “garantista” ha messo definitivamente fine a questa tragica vicenda giudiziaria».
La storia raccontata dalla figlia dell'ex sindaco. Il racconto del blitz contro Rocco Femìa: “Dormivo con papà, vennero e lo portarono via”. Brenda Giulia Femìa su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Non vorrei cominciare con il solito inizio di una favola. Perché la nostra non lo è stata. Eravamo felici e spensierati, sotto le coperte a giocare a lupo cattivo. A fare finta di dormire mentre di dormire non ne avevamo proprio voglia. Avevo otto anni e il mio papà era proprio vicino a me, a farmi sorrisi grandi come spicchi di luna, sdraiato a un millimetro dal mio cuore. Perché io come ogni bambina avevo paura del buio e a pensarci bene anche adesso mi terrorizza. Mentre noi stavamo facendo sogni da giganti, quello che ci fece attirare l’attenzione fu un “DRIIN” del citofono. “Alle 4:00 di notte chi poteva essere?” ci chiedemmo. Vidi omoni entrare nella stanza da letto, pensai che assomigliassero a “l’uomo nero” di cui tanto si parla nelle storielle. A un tratto vidi mio padre vestirsi di fretta, con scarponi e giacca. Ricordo che mi avvicinai a lui, ma di quella sera mi rimase solo un abbraccio e un bacio sulla fronte. Chiesi a mia madre se stavamo partendo per andare a trovare mio fratello, ma lei mi rispose di tornare a dormire perché era tardi. Tornai a dormire, proprio al suo posto, proprio dove qualche minuto prima lui era sdraiato. Il mattino dopo vidi tutte le persone accanto a me piangere ma allo stesso tempo coprirsi per non farsi vedere, non avere accanto papà ci stava distruggendo. Passarono giorni, ma io non sapevo dove fosse finito, lo chiamavano “carcere”. Io cosa ne potevo sapere? Ero una bambina. Non sapevo potesse esistere un posto così penetrante e morto. Ricordo il nostro primo giorno di colloquio. Per vederlo abbiamo dovuto aspettare ben tre ore, ma vidi arcobaleni e disegni sulla parete, allora pensai che fosse un bel posto, ma poi attraversammo un cancello alto di ferro per ritrovarci sedute su delle sedie incollate al pavimento e un tavolino di marmo. Suonò un allarme al dir poco spaventoso, ma alla fine fu proprio quell’allarme che fece entrare mio padre nella nostra stessa saletta. Quando lo vidi, lo abbracciai subito e mi sedetti sulle sue gambe a ingozzarmi di dolci mentre lui teneva strette le mani di mia madre e guardandola negli occhi le disse: “Andrà tutto bene “.
Dopo un’oretta sentii di nuovo quel suono e dovetti salutarlo di nuovo, con le lacrime agli occhi e il cuore a mille.
Speravo fosse il nostro primo e ultimo colloquio, ma sfortunatamente non lo fu, dopo il primo ci fu il secondo, dopo il terzo e poi altri ancora. Andare in quel posto mi terrorizzava, vedevo sempre visi tristi e distrutti fare la solita vita.
E pensare che non adoravo stare con mio padre, strano per una femminuccia, ricordo i giorni che sceglievo mamma a papà, che volevo mi portasse mamma a scuola, che volevo mamma al mio risveglio, ma le cose sono cambiate, il tempo mi ha fatto piangere, riflettere ma anche capire che ho un padre fantastico con cui ancora ho tanto da fare.
In un attimo i miei compleanni si trasformarono in incubi e ogni giorno che passava, sembrava un film già visto. Le giornate erano tristi ed io ero me stessa ma forse un po’ più cresciuta. Non mi accorsi subito del tempo passato ma quando trascorri tante nottate rubate al cielo ti accorgi che qualcosa è cambiato.
Lo spostavano continuamente in un posto sempre più brutto, dove gli alberi erano spogli e quindi erano un po’ meno alberi e le foglie talmente secche da sbriciolarsi diventando polvere. Tante volte eravamo separati da un vetro spesso che solo io potevo scavalcare e sedermi accanto a lui e se ci abbracciavamo troppo a lungo ci richiamavano di sederci perché non era possibile. Avevo paura anche di alzarmi per buttare la carta perché non potevamo e per andare in bagno dovevamo chiamare la guardia per farci aprire. Era così brutto quel posto. Anche se quando lo guardavo, pensavo sempre a qualcosa di migliore, da poter sorridere. Magari al posto di quel cemento un prato, al posto delle mosche le farfalle, anche solo qualcosa di colorato andava bene, ma non c’era. Tante volte mi è capitato di piangere, ma no! Non davanti a tutti… Da sola, in un posto tranquillo dove immaginavo razzi spaziali e sogni giganti come lo facevo con lui, dove tutto per me aveva un senso.
Ma anche dopo aver buttato mille gocce d’acqua io non ci credevo, non ci credevo che quella grande pancia rotonda fosse lontano da me. Alla fine anche le stelle sono destinate a stare lontane una dall’altra ma forse sono anche loro legate dentro a un infinito invisibile, la loro luminosità aumenta quando la mancanza è troppa da spezzarsi e la stella magicamente diventa una stella cadente. Alcune volte ci chiamava ma sempre dopo aver aspettato che qualcuno prima di lui finisse di parlare con la propria famiglia, non potevamo stare tanto al telefono, giusto qualche minuto per dire “papà mi manchi, torna” anche se lui tornare non poteva. Tante volte mi arrivavano lettere con disegni tutti colorati, con scritte e pupazzi ma forse non li aveva fatti nemmeno lui anche perché non è proprio bravo con la matita, ma li aveva fatti fare per me. Anche essendo lontano, mi ha fatto trovare una ragione per un sorriso. Lui è così. Nei momenti brutti riesce a trovare sempre qualcosa di bello.
Il 12 maggio ero in gita con la scuola, stavamo facendo la nostra ultima visita prima di ripartire per tornare a casa, mi chiamò mia madre e mi disse: “Brenda stiamo andando a prendere papà”. Io iniziai a piangere perché è questo che succede quando una persona è così felice da scoppiare. Per tutto il tragitto non smettevo di sorridere, erano finiti i giorni dai lunghi viaggi, dalle mille lacrime nascoste, dagli abbracci mancati e delle favole mai lette… Appena ritornai a casa vidi un sacco di gente, ma a me non importava nulla di loro, io corsi subito tra le sue braccia a stringerlo forte come se ci fossimo solo noi due. A dire la verità pensavo che non arrivasse mai quel giorno, ho sentito tante volte dire “ci sono buone probabilità che papà esca” ma quelle volte non è mai uscito e quindi sono rimasta sempre con un piede sopra un filo come un’acrobata.
Ho sempre pensato che non l’avrei più rivisto, che appena sarei diventata grande non potevo più scavalcare quel vetro e mi toccava solo stringere le sue mani. Invece è tornato e per la prima volta dopo cinque anni mi sentii felice proprio come quando giocavamo sotto le coperte a lupo cattivo. Prima di andare a dormire mi disse che mi vuole bene e mi dette un bacio sulla fronte, coricandosi accanto a me fino al giorno dopo.
Ed eccomi qui, mio padre è tornato a casa da due anni, adesso non ha più la pancia rotonda che aveva una volta e non fuma più, va a correre ogni domenica e quasi sempre appena torna dal lavoro mi porta lo yogurt a casa, non giochiamo più a nascondino perché sono cresciuta ma qualche volta ci facciamo il solletico a vicenda e guardiamo serie tv fino a tardi. Non è una favola, ma una battaglia. Brenda Giulia Femìa
Da ansa.it il 21 luglio 2021. La corte d'appello di Palermo ha condannato a 6 anni l'ex senatore di Fi e sottosegretario all'Interno Antonio D'Alì imputato di concorso esterno in associazione mafiosa nel processo d'appello bis celebrato dopo che la Corte di Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza della Corte d'appello di Palermo che, a settembre del 2016, mandò assolto l'ex politico per le contestazioni successive al 1994 e dichiarato prescritti i reati a lui contestati nel periodo antecedente a quella data. D'Alì era accusato di avere "contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra, mettendo a disposizione dei boss le proprie risorse economiche, e, successivamente, il proprio ruolo istituzionale di senatore della Repubblica e di sottosegretario di Stato". Per i pm, che avevano chiesto la condanna a 7 anni e 4 mesi, l'ex senatore trapanese avrebbe avuto rapporti con le cosche e con esponenti di spicco dell'organizzazione come il superlatitante Matteo Messina Denaro, Vincenzo Virga e Francesco Pace, fin dai primi anni '90, e avrebbe cercato l'appoggio elettorale delle "famiglie". Il politico avrebbe poi svolto un ruolo fondamentale nella gestione degli appalti per importanti opere pubbliche, dal porto di Castellammare del Golfo agli interventi per l'America's Cup. Dei presunti collegamenti di D'Alì con le cosche hanno parlato vari pentiti tra cui Antonino Giuffrè, Antonio Sinacori, Francesco Campanella e da ultimo don Ninni Treppiedi e Antonino Birrittella. La corte d'appello ha anche condannato l'ex senatore a risarcire le associazioni antimafia costituite parti civili e lo ha dichiarato interdetto dai pubblici uffici per tre anni.
(ANSA il 21 luglio 2021) La Corte di Appello di Napoli ha condannato a dieci anni di carcere l'ex sottosegretario all'Economia, Nicola Cosentino, nel cosiddetto processo Eco4 in cui era imputato per concorso esterno in associazione camorristica in relazione alla gestione, ritenuta politico-mafiosa dall'accusa, di un Consorzio, l'Eco4, appunto, che nel Casertano si occupava nei primi anni duemila di raccolta dei rifiuti. In primo grado, l'ex coordinatore regionale di Forza Italia era stato condannato dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) a nove anni. Qualche mese fa la Procura Generale aveva chiesto per Cosentino una condanna a 12 anni, con una maggiorazione rispetto al primo grado vista l'entrata in vigore nel 2005 di una normativa che aumentava i minimi edittali per i reati mafiosi. "Credo che sia una sentenza profondamente sbagliata perché sono convinto che Cosentino sia assolutamente innocente". Così l'avvocato Agostino De Caro, che difende con Stefano Montone ed Elena Lepre l'ex sottosegretario del Pdl: "Aspettiamo di leggere le motivazioni per impugnarle", conclude. I magistrati d'appello hanno condiviso l'impostazione dell'accusa: in primo grado Cosentino fu riconosciuto come il "referente nazionale del clan dei Casalesi", almeno fino al 2004, così come ipotizzato dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Dopo la sentenza di primo grado, nonostante i nove anni inflitti, la Dda di Napoli ha presentato comunque appello ritenendo che l'appoggio di Cosentino al clan fosse andato avanti anche oltre il 2004, almeno fino al 2009, saldandosi con le condotte contestate in altre due indagini antimafia successive che hanno coinvolto Cosentino, ovvero il "Principe e la Ballerina" e l'inchiesta "carburanti"; nei processi scaturiti dalle due indagini, l'ex sottosegretario è stato condannato in primo grado ma poi recentemente assolto, in entrambi, al termine dell'appello. Per Eco4, il più importante dei processi affrontati da Cosentino, le cose sono andate invece diversamente e in modo peggiore, visto che la Procura generale ha tenuto conto dei nuovi minimi edittali stabiliti dalla legge chiedendo una pena maggiore. La condanna odierna si aggiunge a quella definitiva a quattro anni di carcere inflitta a Cosentino per la corruzione di un agente del carcere di Secondigliano (Napoli) e ad una seconda a dieci mesi per diffamazione e violenza privata nei confronti dell'ex governatore della Campania Stefano Caldoro.
La sentenza della Corte di Appello di Napoli. Cosentino condannato a 10 anni per concorso esterno, i legali: “Non c’è una prova”. Redazione su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Nicola Cosentino condannato a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa la decisione dei giudici della quarta sezione della Corte di Appello di Napoli nell’ambito del processo Eco 4, dal nome del consorzio che si occupava della raccolta e dallo smaltimento dei rifiuti in diversi comuni della provincia di Caserta. L’ex sottosegretario all’Economia, nonché coordinatore regionale del Popolo della Libertà in Campania, era stato condannato in primo grado dai giudici del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere a 9 anni di carcere con interdizione perpetua dai pubblici uffici. Un incremento della pena di un anno a fronte della richiesta della Procura generale di Napoli che lo scorso 8 dicembre aveva chiesto 12 anni di reclusione. In primo grado i pm ne avevano chiesti 16. Secondo la ricostruzione dei magistrati, Cosentino all’epoca dei fatti contestati sarebbe stato il referente politico nazionale del clan dei Casalesi, con il quale l’ex sottosegretario avrebbe stretto un patto di ferro per ottenere appoggio elettorale in cambio di un contributo ai camorristi. Pena aumentata di un anno perché i magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli hanno presentato ricorso, dopo la sentenza di primo grado, sostenendo che il presunto ruolo di referente nazionale del clan dei Casalesi, inizialmente ricostruito fino al 2004, sarebbe andato avanti fino al 2008. Un processo che si è basato soprattutto sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno riconosciuto Cosentino come il dominus del consorzio Ce4, all’interno del quale l’ex sottosegretario avrebbe fatto assumere molta gente nei periodi pre-elettorali, così ‘controllando’ il risultato di varie elezioni, soprattutto nei Comuni rientranti nel bacino del consorzio. Tra le accuse anche quella di aver favorito i fratelli Orsi, imprenditori ritenuti vicini al clan Bidognetti (uno dei gruppi dei Casalesi) e vincitori della gara d’appalto indetta dal consorzio. Per la difesa di Cosentino, rappresentata dagli avvocati Stefano Montone, Agostino De Caro ed Elena Lepre, non c’è un solo segno di un effettivo contributo elettorale che la camorra avrebbe fornito a Cosentino. I legali hanno inoltre rammentato che l’ex sottosegretario è stato assolto negli altri processi dove era imputato con l’aggravante mafiosa e – sostengono – nelle decine di altri processi contro il clan dei Casalesi su appalti e grandi opere non è emerso nessun ruolo di Cosentino. In attesa della Cassazione, Cosentino ad oggi è stato condannato a 4 anni per aver corrotto un agente della polizia penitenziaria per far entrare nel carcere di Secondigliano della mozzarella e un lettore Mp3 per ascoltare musica. L’ex sottosegretario è stato assolto nel processo d’appello “Il principe e la scheda ballerina” dall’accusa di tentativo di reimpiego di capitali illeciti, con l’aggravante mafiosa, in relazione alla costruzione di un centro commerciale (mai edificato) voluto dal clan dei Casalesi a Casal di Principe (in primo grado Cosentino era stato condannato a 5 anni dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere). Nel giugno del 2019, poi, COSENTINO è stato assolto dalla Cassazione (che ha rigettato il ricorso della procura generale) nell’ambito del processo “Carburanti”. In questo caso l’ex sottosegretario era alla sbarra insieme ai fratelli Giovanni e Antonio e ad altri imputati, accusati a vario titolo di estorsione e concorrenza illecita aggravati dalle modalità mafiose.
Il caso dell'ex sottosegretario. Perché Nicola Cosentino è stato condannato a 10 anni per il processo Eco4. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Dicono che per molti anni sia stato il referente nazionale del potente clan dei Casalesi, la sponda politica della camorra casertana. Eppure, nelle decine e decine di processi che negli ultimi venti anni hanno colpito la camorra e le sue collusioni con i cosiddetti colletti bianchi, nei processi per intenderci sulle grandi opere, i grandi appalti e tutto quello su cui i Casalesi avrebbero potuto mettere le mani grazie ai favori della politica, il nome di Nicola Cosentino non compare. Compare solo in due processi, “Il principe e la ballerina” e “Carburanti”, uno relativo a un presunto reimpiego di soldi in un centro commerciale che non è mai stato realizzato e l’altro relativo a un presunto riciclaggio, da cui Cosentino è uscito assolto, in un caso in via definitiva e in un altro in secondo grado. E allora come si spiega l’accusa di concorso esterno in associazione camorristica per la quale Cosentino è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione? Per capirlo bisognerà attendere il deposito delle motivazioni previsto tra novanta giorni e leggere attentamente come i giudici della quarta sezione della Corte di Appello di Napoli illustreranno le ragioni alla base del verdetto. Un verdetto più severo di quello del primo grado che si concluse dopo 140 udienze davanti ai giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. In primo grado l’ex sottosegretario all’Economia fu condannato a nove anni. Il processo è quello ribattezzato Eco4 dal nome del consorzio che si occupava della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti in più Comuni del Casertano e che secondo l’accusa avrebbe avuto una gestione condizionata da influenze politico-mafiose. In Appello la Procura generale aveva chiesto di inasprire la condanna, proponendo dodici anni. Ieri il collegio presieduto dal giudice Agnese Di Iorio e con a latere il giudice Nicola Russo, che proprio ieri ha firmato la sua ultima sentenza da consigliere di Corte d’appello per approdare all’incarico ministeriale di Capo dipartimento degli affari di giustizia, ha condannato Cosentino a dieci anni di reclusione. Il processo partiva dal 2009, cominciò con una misura cautelare non eseguita perché all’epoca Cosentino era parlamentare e la Camera non votò l’autorizzazione per l’arresto. Seguirono anni di molteplici inchieste che scavarono nella ventennale storia del clan dei Casalesi. “In nessuno delle decine di processi, che negli ultimi 25 anni hanno accertato decine di reati del clan, Cosentino risulta coinvolto – osservano i difensori dell’ex esponente di Forza Italia, gli avvocati Stefano Montone, Agostino De Caro, Elena Lepre – Ciò rende implausibile l’accusa di referente politico nazionale a disposizione del clan in mancanza di favori resi alla consorteria criminale che nei vari processi Spartacus, Normandia, Iovine ecc sarebbero dovuti emergere». I difensori di Cosentino attendono quindi di leggere le motivazioni dei giudici di Appello per impugnarle in Cassazione. Intanto la sentenza di ieri solleva anche un’altra riflessione: se fosse già entrata in vigore la Riforma Cartabia, questo processo d’Appello non si sarebbe celebrato, sarebbe morto. In primo grado la sentenza arrivò a novembre 2016. In secondo grado la requisitoria del procuratore generale fu pronunciata a dicembre scorso, poi a sorpresa la Corte decise di sentire in aula il collaboratore di giustizia Nicola Schiavone, rampollo della storica famiglia dei Casalesi. E i tempi si sono allungati nel frattempo anche per effetto dei rinvii dovuti alla pandemia. Intanto la vita personale e politica di Nicola Cosentino, da dodici anni ormai, continua a essere appesa al filo di inchieste di impatto anche mediatico, di processi a fasi alterne, di sentenze e impugnazioni. Una storia giudiziaria che resta sospesa, questa volta al particolare reato di concorso esterno: dopo la condanna di ieri ci sarà sicuramente un’altra impugnazione, un nuovo processo. Il sipario, quindi, ancora non cala.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Assolti anche gli altri imputati. E’ camorrista anzi no, assolto Fabozzi: cade la condanna a 10 anni per l’ex consigliere regionale. Carmine Di Niro su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Sono trascorsi quasi dieci anni dal giorno del suo arresto, avvenuto il 15 novembre del lontano 2011, ma oggi la lunga odissea giudiziaria di Enrico Fabozzi, ex sindaco di Villa Literno (Caserta) ed ex consigliere regionale del Pd in Regione Campania, arriva ad un punto di svolta. Fabozzi è stato infatti assolto dalla Seconda Sezione della Corte di Appello di Napoli dalle accuse di concorso esterno al clan dei Casalesi, oltre a corruzione, turbativa d’asta, riciclaggio e voto di scambio. In primo grado Fabozzi era stato condannato a dieci anni di reclusione, con il pm Antonello Ardituro che chiese 14 anni. Il fatto “non sussiste”, secondo i giudice della Seconda Sezione. Secondo l’accusa della Direzione distrettuale antimafia di Napoli Fabozzi, come ex sindaco del comune dell’Agro aversano, avrebbe stretto un patto col clan dei Casalesi ed in particolare col gruppo che faceva riferimento a Domenico Bidognetti: l’accordo riguardava l’appoggio elettorale in cambio di appalti al clan. A tirare in ballo l’ex consigliere regionale era stato Luigi Guida, detto ‘o drink’, che all’epoca dei fatti capeggiava la fazione di Bidognetti, oltre al capoclan poi pentito Antonio Iovine. Con Fabozzi sono stati assolti anche gli altri imputati: ribaltata la sentenza anche per gli imprenditori Pasquale e Giuseppe Mastrominico, già coinvolti nell’inchiesta sul G8 de L’Aquila e condannati in primo grado ad 8 anni perché ritenuti vicini al boss Antonio Iovine, così come per l’ex consigliere comunale di Villa Literno Nicola Caiazzo, condannato a 2 anni per voto di scambio. È la seconda grande inchiesta condotto dalla Dda napoletana che si "infrange" contro i giudici della Corte d’Appello: lo scorso settembre l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, ex fedelissimo di Berlusconi, era stato assolto nell’ambito del processo ‘Il Principe e la scheda Ballerina’, cancellando così la condanna a cinque anni e mezzo arrivata in primo grado. L’inchiesta su Cosentino riguardava la costruzione di un centro commerciale a Casal di Principe, appunto “Il Principe”, e presunti brogli elettorali per le Comunali.
Così è stato assolto Nicola Cosentino: sulle parole del pentito Nicola Schiavone “non ci sono riscontri”. Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Aprile 2021. La sentenza per l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, imputato a Napoli nel processo d’appello su presunti intrecci con la camorra in relazione alla gestione del consorzio che nei primi anni Duemila si occupava della raccolta dei rifiuti nel Casertano, slitta ancora. E questa volta per la decisione, a sorpresa, dei giudici della quarta sezione di sentire in aula il collaboratore di giustizia Nicola Schiavone, nipote dello storico capoclan dei Casalesi. Una decisione che ha spiazzato tutti. Del collaboratore Schiavone si era già deciso, mesi fa su richiesta del pg, di acquisire i verbali e le ultime quattro udienze erano state dedicate alle conclusioni dell’accusa (che per Cosentino ha chiesto addirittura di inasprire la pena dai 5 del primo grado a 12 anni di reclusione) e della difesa (gli avvocati Stefano Montone e Agostino De Caro, che hanno ampiamente motivato le ragioni alla base di una richiesta di assoluzione). Ieri ci si aspettava, quindi, la camera di consiglio e la sentenza. E allora come mai il rinvio a sorpresa? Forse ha pesato la coincidenza che proprio l’altro giorno una diversa sezione della Corte di appello ha depositato i motivi della sentenza con cui a settembre scorso Nicola Cosentino è stato assolto da un’altra accusa dell’Antimafia, e cioè quella di aver favorito il reimpiego di capitali illeciti attraverso l’interesse del clan dei Casalesi al progetto di un centro commerciale, “Il Principe”, che poi non si è mai realizzato. Ebbene, nelle motivazioni di quella sentenza, che ha completamente ribaltato le conclusioni in primo grado del tribunale di Santa Maria Capua Vetere e le ricostruzioni investigative dell’Antimafia, i giudici della seconda sezione della Corte di Appello di Napoli chiariscono perché sulle parole dei collaboratori di giustizia non si può costruire una condanna per l’ex deputato di Forza Italia. «Emergono plurimi profili di perplessità sull’esistenza di riscontri con riguardo alle dichiarazioni rese a carico di Cosentino» scrivono i giudici analizzando i racconti di Nicola Schiavone, e in particolare i passaggi in cui il collaboratore racconta di aver saputo che il referente politico per l’operazione del centro commerciale sarebbe stato Cosentino e che quando ci furono difficoltà con la banca per l’erogazione del finanziamento fu egli stesso, Schiavone, a far chiedere a Cosentino di intervenire presso la banca e ottenere il finanziamento. Proprio Schiavone che in un altro processo ha raccontato di aver pensato con lo zio di uccidere Cosentino perché non si piegava. «La ricostruzione dei fatti che si ricava dal compendio delle intercettazioni stride con il narrato del collaboratore» osserva la Corte di Appello. I giudici arrivano a questa conclusione analizzando tutte le trascrizioni delle conversazioni intercettate e finite agli atti. «Sin dalla fase cautelare – spiegano i difensori di Cosentino – avevamo richiamato l’attenzione sul fatto che il materiale ricavabile dalle intercettazioni documentasse in maniera inequivocabile l’estraneità di Cosentino da ogni logica di condizionamento camorristico dell’iniziativa imprenditoriale in questione. Bastava mettere le telefonate intercettate in ordine cronologico». I giudici dell’Appello lo hanno fatto e proprio le intercettazioni, che l’accusa aveva indicato a supporto delle parole dei pentiti, hanno finito per ribaltare il quadro e smentire i collaboratori stessi. Per la vicenda del centro commerciale, Nicola Cosentino è finito sotto processo per il solo fatto di aver partecipato a un incontro. Era il 7 febbraio 2007. «L’atteggiamento di Cosentino – concludono i giudici nella sentenza che ha assolto l’ex sottosegretario con formula piena – non corrisponde affatto a quello che sarebbe ragionevole e verosimile attendersi da un soggetto che ha ricevuto l’ordine di un capoclan di attivarsi per sbloccare una pratica “incagliata” o che, comunque, abbia un personale interesse alla definizione del progetto di realizzazione del centro commerciale».
Il figlio di Sandokan sarà sentito in aula.“Volevamo uccidere Cosentino”, Nicola Schiavone rivela il piano contro l’ex sottosegretario che non si piegava al clan. Fabio Calcagni su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Non mancano le sorprese nel processo in corso contro Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi che deve difendersi dall’accusa di concorso esterno in associazione camorristica. Nella prossima udienza del 14 aprile sarà infatti ascoltato Nicola Schiavone, collaboratore di giustizia figlio del boss Francesco, detto Sandokan. In un verbale del settembre 2018 Schiavone rivela infatti che il clan dei Casalesi aveva deciso di uccidere l’allora deputato del Popolo delle Libertà. “Mio zio Cicciariello (cugino e omonimo del boss Francesco, soprannominato Cicciariello, ndr) voleva uccidere Cosentino e ci volle il bello e il buono per calmarlo – si legge nel verbale – non lo ipotizzò, dette l’ordine”. Un piano che non andò a buon fine per la presunta “mediazione” di altri due esponenti del clan Giuseppe Russo e Antonio Iovine. A spingere la cosca ad una scelta così forte sarebbe stata il rifiuto di Cosentino di indicare un avvocato abile nei giudizi di Sorveglianza allo stesso Nicola Schiavone, oltre alla circostanza in cui l’ex sottosegretario non si sarebbe presentato ad un incontro convocato da Cicciariello. Per consentire la testimonianza (in videoconferenza) di Schiavone junior la Corte d’Appello ha fatto slittare al 14 aprile la prossima udienza, quando il giudizio sembrava ormai destinato alla conclusione. Il pg Musto per Cosentino ha chiesto 12 anni reclusione, rispetto ai 10 del verdetto di primo grado. Per gli avvocati di Cosentino, Stefano Montone e Agostino De Caro, il verbale di Schiavone è punto in favore dell’ex sottosegretario: se Francesco Schiavone voleva uccidere Cosentino, è evidente che l’ex deputato non potesse avere rapporti col clan dei Casalesi, dimostrata anche dal non rispondere alla "semplice" indicazione del nome di un legale. Sempre ieri sono state depositate anche le motivazioni dell’assoluzione in Appello nel processo come “Il Principe e la scheda ballerina”: l’accusa era quella di favorito il reimpiego di capitali illeciti attraverso l’interesse del clan dei Casalesi al progetto di un centro commerciale, “Il Principe”, che poi non si è mai realizzato. “Emergono plurimi profili di perplessità sull’esistenza di riscontri con riguardo alle dichiarazioni rese a carico di Cosentino”, scrivono i giudici analizzando i racconti sempre del collaboratore di giustizia Nicola Schiavone, in particolare i passaggi in cui il collaboratore racconta di aver saputo che il referente politico per l’operazione del centro commerciale sarebbe stato Cosentino e che quando ci furono difficoltà con la banca per l’erogazione del finanziamento fu egli stesso, Schiavone, a far chiedere a Cosentino di intervenire presso la banca e ottenere il finanziamento.
«L’antimafia perde credibilità perché si erge a tribunale morale». Il Dubbio il 6 gennaio 2021. Cinque anni e mezzo di inutile gogna: la storia di Lorenzo Diana, ex segretario della Commissione antimafia vittima di malagiustizia. «Sa qual è il problema? Che questa antimafia, che con quella di Falcone e Borsellino non c’entra nulla, si erge a tribunale morale. E chi fa politica ha una sorta di peccato originale da espiare, anche se non ha commesso alcun reato». Cinque anni e mezzo fa la vita di Lorenzo Diana venne stravolta. Per nulla, scopre dopo tanto tempo, ma quello che era prima ormai non c’è più. Perché dal 3 luglio 2015, giorno in cui gli vennero notificati due distinti avvisi di garanzia per concorso esterno e abuso d’ufficio, tutto il suo impegno contro la camorra è stato messo in discussione. Quelle accuse, oggi, si sono rivelate infondate. E nonostante nessun ulteriore atto di indagine sia stato compiuto da allora ad oggi, ci sono voluti comunque anni prima di mettere la parola fine ad una brutta storia di malagiustizia. Diana, ex senatore del Pds, ex segretario della Commissione antimafia, a maggio del 2019 ha visto archiviare la prima delle accuse a suo carico, quella per concorso esterno. Mentre ha dovuto attendere fino a dicembre scorso affinché il gip Marco Giordano archiviasse, su richiesta del pm Catello Maresca, lo stesso che lo ha indagato, l’ultima delle due indagini aperte sul suo conto. Si tratta di un presunto abuso d’ufficio nella nomina di un avvocato, che, da presidente del Centro agroalimentare di Napoli, Diana aveva dovuto nominare per difendere la società in giudizio contro un la Cesap, «appartenente ad un noto camorrista tuttora detenuto». Quel 3 luglio Diana viene costretto a lasciare la sua casa, a causa del divieto di dimora firmato dal gip, annullato 18 giorni dopo dallo stesso senza nemmeno passare dal Riesame. E viene pure interdetto dai pubblici uffici. «Fui mandato via come un pericoloso criminale», racconta oggi al Dubbio ripercorrendo cinque anni di battaglia, questa volta contro lo Stato che ha sempre creduto di rappresentare. I clan lo volevano morto. Ci hanno provato con una bomba, poi con le minacce, con una lettera del boss Francesco Schiavone “Sandokan” spedita direttamente dal carcere. Ma nulla è stato efficace come l’azione giudiziaria che, suo malgrado, lo ha travolto. «Partiamo dalle intercettazioni: erano inutilizzabili, perché autorizzate per accuse di 416 bis e non per il reato che veniva contestato a me spiega Diana -. Difficile capire cosa c’entrasse la Dda con il reato di abuso d’ufficio: fatto sta che i pm fecero un unico comunicato, nel quale mi definirono come una personalità trasgressiva, disposta senza remore a commettere reati, solo formalmente incensurato. Non sono ancora riuscito a capire cosa significhi, giuridicamente, “solo formalmente incensurato”». Ad un certo punto l’indagine si sposta effettivamente dalla Dda al settore pubblica amministrazione, ma assieme a Maresca, che terminato il periodo in antimafia cambia settore. E così l’indagine, di fatto, rimane sempre e solo nelle sue mani. Il fascicolo, in compenso, rimane tale e quale a com’era 5 anni e mezzo fa. Nessun’altra attività inquirente viene svolta. Ma la richiesta di archiviazione arriva soltanto nel 2020. «Perché ci sono voluti tutti questi anni, dal momento che è stato il pm a chiedere l’archiviazione?», si chiede oggi Diana. Il clamore è micidiale: per mesi e mesi viene sbattuto sui giornali, trattato come un mostro, il falso paladino dell’anticamorra connivente con i clan. «E le accuse, di tanto in tanto, venivano rilanciate da pseudo pentiti e altri detenuti che erano stati arrestati grazie alle mie denunce», spiega. Gli interrogativi sono molti. Ad esempio che fine abbia fatto la presunzione di innocenza. «Ho subito una gogna mediatica, in un processo pubblico che mi ha massacrato e ha danneggiato la mia immagine – sottolinea -. Sono stato allontanato dalla mia funzione di presidente del mercato di Napoli, che avevo portato risollevato, salvando 140 posti di lavoro: tutto perso. È una ferita che mi brucia ancora. Ho speso la vita intera a lottare contro la Camorra, con seri rischi, al punto che lo Stato mi ha scortato per 21 anni». Per cinque anni e mezzo la sua è stata una vita sospesa, da un punto di vista privato, sociale e istituzionale. Senza contare i problemi economici. «Il gip revocò il divieto di dimora dopo 18 giorni. La stessa misura che aveva firmato. Serviva giusto a sparare la notizia: mi contestavano la nomina di un avvocato senza avviso pubblico, ma per legge si tratta di un incarico fiduciario. E sa qual è la cosa buffa? Durante l’interrogatorio di garanzia il giudice mi disse candidamente: mi spieghi come si nomina un avvocato, perché io mica sono esperto. Eppure, per questo, ho dovuto subire due misure cautelari». Ma a Diana fa anche male l’uso di un linguaggio da tribunale morale. Un linguaggio che lo spinge a rivalutare l’antimafia. «C’è una presunzione di pezzi della magistratura nei confronti di una società che ritengono persa, corrotta e degenerata e tanto più nei confronti della politica, che ritengono irrimediabilmente compromessa e criminogena», aggiunge. Un anno e mezzo dopo l’avvio dell’inchiesta gli viene revocata la scorta. Lo stesso Stato che lo riteneva in pericolo, dunque, decide che può diventare un bersaglio mobile perché sospettato di aver commesso dei reati. «Non contesto mai il principio di controllo di legge esercitato dai pm, ma l’approssimazione con cui si è proceduto – continua -. Si poteva constatare subito che le accuse erano infondate, invece sono stato esposto e delegittimato nei confronti di un clan che mi ha avuto sempre nel mirino. Dall’altra parte, così facendo i pm hanno trasmesso il messaggio che non vale la pena di impegnarsi nella lotta contro la camorra, perché puoi ritrovarti contro lo stesso Stato che tu cerchi di sostenere. In quel territorio è passato per anni il principio che tutti, anche i paladini anticamorra, sono in un modo o nell’altro collusi. Per cui tutti collusi, nessun colluso». Diana parla di un vero e proprio «virus», una mentalità autoritaria «che fa ritenere a pm e polizia giudiziaria che siano essi stessi lo Stato e pertanto autorizzati a muoversi anche al di sopra della legge». A cui si associa la gogna mediatica, con una sentenza comminata ancor prima di arrivare in aula. «È come se gli stessi pm non si fidassero del processo giudiziario e pertanto si affidassero a quello mediatico per isolare e distruggere una persona – racconta -. E così diventa una condanna anticipata. Chi ripagherà i cittadini che capiteranno in una tale bolgia?». L’unica soluzione è eliminare la spettacolarizzazione, evitare i clamori non risolutivi, seguiti poi da un incredibile silenzio. «I territori vengono presentati continuamente come liberati, per poi accorgersi che così non è – conclude -. L’antimafia deve liberarsi dalla convinzione di essere tribunale morale e tenere come stella di riferimento solo lo Stato di diritto. Alcuni pm fanno cattivo servizio alla Giustizia, gettando discredito e sfiducia. Ed è per questo che oggi voglio aderire a tutte le associazioni che lottano per la riforma della giustizia e debellare il virus dell’autoritarismo».
· Antimafia: A tutela dei denuncianti?
Vania Colasanti per repubblica.it il 26 novembre 2021. La sua vita è appesa a Saturno. Ma la salvezza di Barbara Piattelli, allora 27 anni, non dipende da avverse congiunzioni astrali. Il Saturno da cui dipende è uno spietato bandito - di cui resta la voce roca registrata su un vecchio nastro - che per dodici mesi tratta al telefono la liberazione della ragazza con i familiari.
Il rapimento del 10 gennaio 1980 al quartiere Flaminio
È il 10 gennaio 1980 quando a Roma la bellissima figlia del prestigioso sarto di moda maschile e del cinema italiano, con atelier in via Condotti, viene rapita sotto gli occhi della madre, mentre rientra nel garage di casa, al quartiere Flaminio, dopo una giornata di lavoro. Aveva altri progetti per quella sera, Barbara. Con l'allora fidanzato e oggi marito Ariel Arbib sarebbe dovuta andare a vedere Senti chi parla: il debutto teatrale del giovane Carlo Verdone al Piccolo Eliseo che in quel periodo è la star televisiva di Non stop. Ariel è già davanti al teatro ma lei non si vede. Chiama più volte a casa della sua ragazza, ma il fratello Massimiliano - ignaro di cosa stesse accadendo proprio in quel momento nel garage - non sa cosa rispondergli. Anche Carlo Verdone, che ormai ha iniziato il suo spettacolo, nota quelle due poltrone vuote: "La sala era piena, c'era il tutto esaurito e quei posti liberi attirarono da subito la mia attenzione. Ancora riesco a vederli perfettamente".
Uno dei più lunghi sequestri subìto da una donna
Ma Barbara è vittima di quello che si rivelerà uno dei più lunghi sequestri a scopo di estorsione subìto da una donna. Una giovane bellissima donna: mora, i capelli ondulati sul collo, gli occhi che ridono, un sorriso hawaiano che incanta e che si spegne all'improvviso quando viene trascinata a forza su una berlina scura, mentre la madre è riversa per terra. L'angoscia di Barbara, quando viene portata via con un casco da moto infilato al contrario, è non sapere cosa sia accaduto alla madre, la cui ultima immagine è con una pistola puntata alla tempia.
Il viaggio in Aspromonte
Buio. Inizia un lugubre viaggio con gli occhi bendati, che la porterà - ma questo lo scoprirà solo mesi più tardi - in Aspromonte, in una di quelle grotte mangiate dalla montagna e che inghiottono anche lei per un tempo interminabile: 343 giorni fatti di dolore, di muscoli atrofizzati, di catene, di spostamenti da una prigione all'altra. Barbara Piattelli rientra in quel dolore: "Erano giornate senza fine, delle quali mi è rimasto ancora il freddo addosso. Mi viene chiesto spesso come sia riuscita a sopportare tutto quel dolore. Ma quando ti trovi in situazioni estreme, l'istinto di sopravvivenza ti dà il coraggio anche di resistere in condizioni disumane. Mi sono riuscita a lavare i capelli una sola volta e solo d'estate. Mi davano da mangiare cibi freddi: pane, formaggio, tonno, un po' di frutta. Non ho mai avvertito la mano di una donna dietro quei pasti. Ed ebbi anche un'infezione alimentare che mi fece venire l'ittero. "Qualche volta mi venne concessa una radio e dei giornali locali, da cui capii di trovarmi in Calabria, probabilmente non distante dal paese di Platì.
Il tentativo di fuga
"Tentai anche la fuga. Era il 1 febbraio, me lo ricordo ancora. Chiesi al carceriere di potermi appartare per andare in bagno. E con il cuore in gola e una forza inedita, risalii la montagna. Ma uno dei banditi sopraggiunse da un casale lì vicino, mi afferrò e mi spinse di nuovo giù nella grotta. Subito dopo la fuga, l'atteggiamento dei rapitori cambiò drasticamente. E Pippo, il più violento di tutti, mi mise addirittura le catene per evitare che fuggissi. Per fortuna per un breve periodo".
"Mi chiesero di scegliere un pianeta: scelsi Saturno"
Ma com'erano i suoi carcerieri con cui divise quelle interminabili giornate? "I banditi - ricorda Barbara Piattelli - erano rozzi, ignoranti e non mi aggiornavano sul corso delle trattative. Dicevano soltanto che mio padre non voleva pagare, ma io sapevo che non era così, sapevo che avrebbe fatto di tutto per riportarmi a casa. "Nei primi giorni di prigionia mi chiesero di scegliere il nome di un pianeta e io indicai Saturno, ignara del significato avverso al quale è solitamente associato: diventò il nome con cui si identificava il rapitore che telefonava a casa dei miei". Ed è Saturno contro: la voce di quel bandito riecheggia forte e chiara in "343 giorni all'inferno" il racconto della prigionia di Barbara Piattelli per i "Racconti Criminali" di RaiPlay, regia di Letizia Rossi e la collaborazione di Vincenzo Faccioli Pintozzi. È emozionante riascoltare la voce della madre Vittoria che andava a recuperare i messaggi lasciati in giro per la città: nelle cabine telefoniche, dentro buste del latte, vicino alle fermate dei bus, come fossero la ricompensa di una spietata caccia al tesoro, o il percorso di un gioco macabro. Ritorna la voce del padre Bruno che per riportare a casa la figlia indossa una corazza e risponde a Saturno con grande determinazione e coraggio. Bruno Piattelli, a 93 anni, poco prima della sua scomparsa, aveva accettato di rientrare nella drammatica vicenda davanti alle telecamere. Il suo dolore più grande? "Non siamo riusciti a ottenere giustizia, nessuna condanna, nessuno che abbia mai pagato. E la beffa più amara è che lo Stato non abbia trovato il modo di correggere il regime fiscale per evitare che sui soldi che ci furono prestati dalle banche, circa un miliardo di lire, fossimo costretti addirittura a pagare anche le tasse", si rammaricava Bruno Piattelli. Difficile, per il giudice Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro, abbattere in quegli anni il muro di omertà che rendeva invalicabile la Calabria: "Spesso anche gli abitanti dei paesi limitrofi alla zona di prigionia di un sequestrato erano al corrente di quel reato. Ricordo ad esempio un rapimento che fu pagato con banconote da 10 mila lire e ogni volta che c'era il mercato a Bovalino Marina le donne andavano a pagare al mercato proprio con quel denaro". Riaffiora, grazie al repertorio delle Teche Rai, una Roma anni Ottanta, ricordata anche da Carlo Verdone: "Quell'anno uscì il mio primo film "Un sacco bello". Ma quelli erano ancora gli Anni di Piombo. Al di là della spensieratezza legata al cinema e alla musica che erano in grande fermento, l'Italia viveva anche la pietosa stagione dei sequestri di persona a scopo di estorsione. Una piaga, praticamente un bollettino quotidiano che investiva anche il mio settore: ricordo tanti produttori e registi famosi che giravano con la macchina blindata". E quasi a voler risarcire Barbara Piattelli di quello spettacolo teatrale mancato proprio la sera del sequestro, Carlo Verdone aggiunge: "Barbara, alla prima occasione voglio regalarti una serata speciale: non ti proporrò il repertorio di "Senti chi parla" ma ti prometto che ti farò tanto ridere".
"Non è una bella storia, però finisce bene"
Oggi Barbara Piattelli e suo marito Ariel sono diventati nonni: Davide, il piccolino, e Anna di 5 anni che intravede le immagini del documentario in tv. "Nonna, che cosa stai raccontando?". Ci sarà tempo per spiegarle cosa racconta. Il tempo giusto atteso anche dalla Piattelli per rivelare la vicenda alle figlie Vittoria e Arianna, quando erano alle medie. Ricorda Barbara Piattelli: "Dopo un percorso analitico ho pensato, d'accordo con mio marito, che era arrivato il momento di parlare. Ariel disse alle bambine mentre eravamo a tavola: 'Questa sera mamma vi racconta una storia'. La più piccola mi chiese: 'Ma è bella?' E io le risposi: 'Non è una bella storia, però finisce bene'".
"343 giorni all'inferno"
E oggi quella storia ha deciso di renderla pubblica e con "343 giorni all'inferno", disponibile dal 25 novembre sulla piattaforma digitale Rai, Barbara Piattelli fa una forte denuncia: "Il mio è un sequestro messo in atto da una banda criminale legata alla 'ndrangheta e dunque alla mafia. Io non sono stata riconosciuta vittima delle mafie. Prerogativa che spetta quando ci sono delle condanne, quindi non nel mio caso perché nessuno è stato condannato. Condizione che viene riconosciuta anche a chi riporta lesioni fisiche. Ma non è forse sufficiente la ferita dell'anima?"
Mario fu scambiato per un boss e crivellato di colpi. “Papà vittima innocente della camorra, per lo Stato è come se non fosse mai esistito”, il dolore di Marianna che chiede giustizia. Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Mario Ferrillo aveva 47 anni quando nel 1986 fu crivellato di colpi per mano camorrista. Morì sul colpo nel negozio di un suo amico a Licola. Lui, impresario dello spettacolo, di Calvizzano, non c’entrava nulla con quell’ambiente, fu ucciso perché fisicamente identico a Gennaro Troise, un esponente della malavita locale, vero bersaglio di quell’agguato. Un errore, che lasciò senza padre 4 figli, tra cui Marianna oggi 40enne. “Papà è stato riconosciuto dallo Stato come vittima innocente della camorra – racconta Marianna – ma non possiamo beneficiare della legge 302/90 (per le vittime della mafia, ndr) perché abbiamo presentato la domanda anni dopo, troppo tardi, quando la morte di mio padre era stata archiviata senza responsabili, andata in prescrizione. Ma una morte può andare in prescrizione?”. Il ritardo nella consegna della domanda ha escluso la famiglia Ferrillo dal risarcimento economico e dal sostegno dello Stato per altre attività come ad esempio trovare lavoro, supporto psicologico e sociale per i membri della famiglia della vittiam. Il tutto per la decorrenza dei termini di consegna della domanda. Marianna ha scritto al Presidente della repubblica Sergio Mattarella chiedendo che quella legge venga cambiata e anche la sua e tante altre famiglie nella sua stessa condizione possano avere quel riconoscimento. “Noi non vogliamo essere abbandonati dallo Stato – continua Marianna – Lo Stato ci dice di non avere paura della camorra, se siamo tutti uniti la sconfiggeremo. Io non ho paura della camorra ma del danno che porta la camorra. Voglio che lo Stato in quelle parole che lui esprime dicendo ‘denunciate’ poi è di supporto per le famiglie. Io avevo solo 10 anni quando ho perso papà, mamma si è indebitata per fargli il funerale e ha dovuto crescere da sola 4 figli. Tutto questo ancora oggi non ci è riconosciuto”. Il 5 novembre 1986 Mario si trovava nel negozio di un amico a Licola. Sua moglie era con lui. Andò via la luce e due uomini a volto coperto chiesero a Mario “sei tu Gennaro?”. Non gli diedero il tempo di rispondere, e pochi attimi dopo si sentì il rumore dei colpi. “All’inizio si pensò a una tentata rapina – racconta Marianna – poi che mio padre non avesse pagato qualche tangente. Poi un mese dopo fu ucciso Troise nello stesso luogo. La somiglianza con mio padre era impressionante. Il caso di mio padre fu archiviato perché contro ignoti”. Marianna racconta che con la sua famiglia ha dato fondo ai risparmi per riuscire ad avere quel riconoscimento “per dare voce al dolore e giustizia alla morte di mio padre. Quando abbiamo perso la causa è stato come perdere due volte. Lui è un uomo che ha vissuto, non è un fantasma. Esiste ancora nei nostri cuori. Di porte in faccia me ne hanno già chiuse abbastanza ma io non mi arrendo. Voglio che papà abbia giustizia”.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
La figlia scrive a Mattarella. Vittima innocente di camorra ma niente risarcimento, la storia di Mario Ferrillo: “Era meglio se cadeva da un’impalcatura”. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 24 Marzo 2021. I sicari della camorra lo chiamarono “Gennaro” prima di trucidarlo nel 1986 mentre si trovava nel negozio di un suo amico a Licola sul litorale domizio. Ma il suo nome era Mario Ferrillo, impresario teatrale 41enne di Calvizzano, ed è una vittima innocente della camorra, scambiato per un’altra persona e uccisa a sangue freddo. “Chiedo giustizia per mio padre”, è l’appello di sua figlia Marianna, che all’epoca aveva 5 anni, rivolto in una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Dopo un mese – scrive la donna – nello stesso luogo fu ucciso un certo Gennaro Troise, esponente malavitoso. Era lui il bersaglio e la loro somiglianza fisica portò i killer giorni prima a sbagliare persona, ma mio padre era un uomo perbene”. La somiglianza tra i due era tale che quando i carabinieri mostrarono alla moglie di Mario le foto di Gennaro, era convinta che fosse suo marito. Il caso fu archiviato un anno dopo senza colpevoli e senza il riconoscimento da parte dello Stato di “vittima innocente della criminalità organizzata” per Mario. Nel 2007 la famiglia Ferrillo, appellandosi alla legge 302/90 per le vittime di mafia, ottenne il riconoscimento ma senza poter beneficiare, per avvenuta prescrizione, del risarcimento previsto. “L’ umiliazione per mia madre – prosegue la lettera di Marianna – fu grande quando le dissero che non le spettava niente e che sarebbe stato meglio per mio padre e per noi che fosse morto "cadendo da un’impalcatura" perché "magari così glielo pagavano". Parole che lei ha ripetuto per anni con gli occhi pieni di lacrime”. Nel suo discorso del 21 marzo, giornata della memoria delle vittime di mafia, Mattarella ha detto che ogni uomo ha diritto alla vita. “La stessa che al mio papà à stata tolta – conclude la lettera –. Mio padre nessuno me lo ridarà, ma per il dolore che è stato inflitto a mia madre e a tutta la famiglia chiedo giustizia”. La storia di Mario Ferrillo è raccontata anche in un libro, “Come nuvole nere” promosso dalla Fondazione Polis ed è ricordata nel “Dizionario enciclopedico delle Mafie in Italia, apparso per Castelvecchi nel 2013.
Massimiliano Cassano. Napoletano, Giornalista praticante, nato nel ’95. Ha collaborato con Fanpage e Avvenire. Laureato in lingue, parla molto bene in inglese e molto male in tedesco. Un master in giornalismo alla Lumsa di Roma. Ex arbitro di calcio. Ossessionato dall'ordine. Appassionato in ordine sparso di politica, Lego, arte, calcio e Simpson.
Il caso. Il dramma di Antonio Vaccarino, da collaboratore di Mori al rischio morte in carcere. Leonardo Berneri su Il Riformista l'11 Aprile 2021. Ha 76 anni, gravemente malato ed è in attesa di giudizio recluso nel carcere di Catanzaro. Ma, come se non bastasse, ha da poco contratto anche il covid 19. La stessa direzione sanitaria del carcere dice che non riesce a monitorarlo visto che, a causa del contagio, è posto in quarantena in un altro reparto. Ma nulla, per i giudici non è il caso di mandarlo ai domiciliari. Parliamo di Antonio Vaccarino, già vittima di malagiustizia, tanto da essere stato recluso ingiustamente nel supercarcere di Pianosa. Nei primi anni del 2000 ha collaborato con i servizi segreti capitanati da Mario Mori per la cattura di Matteo Messina Denaro. Operazione vanificata a causa di una fuga di notizie. Recentemente ha collaborato con la procura di Caltanissetta, tanto da essere risultato importante per fornire elementi utili che hanno contribuito a portare alla condanna recente del super latitante come uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Ma ancora una volta, la procura di Palermo l’ha inquisito e ottenuto la condanna di primo grado per aver favorito la latitanza di Matteo Messina Denaro. Vaccarino ora è in pericolo di vita: è anche a rischio infarto visto che è affetto da cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa, aritmia per fibrillazione atriale persistente. Il mancato impianto di pacemaker, consigliato dai periti, e la somministrazione del farmaco Cardior sta esponendo l’uomo ultrasettantenne a rischio blocco cardiaco e, conseguentemente, la morte. Senza contare che durante la detenzione ha già subito un ricovero urgente in ospedale, ma è stato dimesso troppo presto. Tant’è vero – così si legge in una delle innumerevoli istanze presentate dai suoi avvocati Laura Baldassarre e Giovanna Angelo – che al rientro del centro clinico interno al carcere, gli stessi medici hanno accertato che il detenuto in attesa di giudizio stava ancora male. Lo hanno sottoposto a una coronarografia presso l’ospedale Pugliese di Catanzaro e sono state diagnosticate altre patologie legate al cuore, oltre alla sindrome ansioso – depressiva. Istanze rigettate anche in quel caso, nonostante la pandemia e il rischio contagio. Poi è arrivato il covid. Un enorme focolaio all’interno del carcere di Catanzaro che ha coinvolto anche Vaccarino. Gli stessi medici scrivono testualmente nella relazione che «non sarà possibile effettuare quella assidua attività di controllo clinico prevista per la patologia». Ma per la Corte d’appello competente per ottenere i domiciliari, Vaccarino deve rimanere comunque in una struttura penitenziaria. Nell’ordinanza di rigetto, i giudici della Corte ordinano al Dap di trasferire il detenuto presso un altro carcere che possa garantire la cura del covid e l’assidua attività di controllo clinico che necessita l’uomo anziano. Sarà una impresa non facile per l’amministrazione penitenziaria individuare una struttura penitenziaria adatta: c’è il sovraffollamento con la conseguente difficoltà nel contenere i focolai.
La via crucis giudiziaria. Vaccarino è stato sindaco di Castelvetrano e apparteneva alla corrente manniniana della Democrazia Cristiana. Il suo nome compare nel famoso rapporto di Amnesty International del 1993 in cui vengono denunciate le torture che avvenivano nel supercarcere di Pianosa riaperto dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Torture pesanti, dai pestaggi all’illuminazione delle celle 24 ore su 24, raccolte anche dai magistrati di sorveglianza. Parliamo di un uomo che finì recluso per associazione mafiosa grazie alle parole di un pentito – tale Vincenzo Calcara – che in seguito sarà dichiarato inattendibile da diversi tribunali. Vaccarino verrà assolto per l’accusa di 416 bis e di recente ha ottenuto la revisione di un processo dove l’accusa si era basata sempre sulle parole di Calcara. Più volte Vaccarino viene tirato in ballo dalla procura di Palermo. L’ennesima volta risale al 16 aprile del 2019. L’accusa – poi confermata dal tribunale (primo grado) di Marsala – è di favoreggiamento aggravato alla mafia, per un’indagine che ha visto coinvolti anche un colonnello della Dia che lavorava per la Procura di Caltanissetta (il colonnello Marco Zappalà) e un appuntato in servizio a Castelvetrano (Giuseppe Barcellona), in merito a informazioni su indagini che riguardavano il boss latitante Matteo Messina Denaro. Tutti e tre sono stati accusati a vario titolo dalla Dda di Palermo di “accesso abusivo a un sistema informatico” e “rivelazione di segreti d’ufficio” e inoltre all’ex sindaco Vaccarino viene contestata l’aggravante di aver favorito Cosa nostra e la latitanza di Matteo Messina Denaro. E pensare che il Tribunale del Riesame di Palermo, al quale si era rivolto Vaccarino, aveva annullato il provvedimento di custodia cautelare, non rilevando la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Anzi per il Tribunale del Riesame, lo scopo di Antonio Vaccarino era quello di ingraziarsi il titolare di un’agenzia funebre in passato condannato per mafia, tale Vincenzo Sant’Angelo, per ottenere da lui informazioni sul contesto mafioso di Castelvetrano, da girare al colonnello della Dia Zappalà. Dopo qualche tempo, però, arriva il dietro front. La procura di Palermo è ricorsa in Cassazione che ha annullato il provvedimento, inviandolo nuovamente al Tribunale del Riesame. Questa volta il provvedimento viene ribaltato e a gennaio del 2020 Vaccarino viene rimandato in carcere. Poi il processo, e a luglio scorso arriva la condanna a sei anni di carcere. Da una parte abbiamo la procura di Palermo che considera un delinquente Vaccarino, dall’altra la procura di Caltanissetta che l’ha considerato utile per capire i misteri delle stragi del 1992 e per far condannare Matteo Messina Denaro.
I servizi segreti diretti da Mori. In realtà, a causa di una fuga di notizie, grazie proprio alla sua passata collaborazione con l’allora Sisde, diretto all’epoca da Mario Mori, l’ex sindaco Vaccarino aveva ricevuto una minaccia direttamente dal superlatitante Matteo Messina Denaro. L’operazione d’intelligence era durata dai primi di ottobre 2004 fino a una buona parte del 2006. In sostanza Vaccarino era riuscito a intraprendere dei contatti epistolari con il latitante. Poi tutta l’operazione si fermò quando ci fu una fuga di notizie e un’indagine – poi subito archiviata – della procura di Palermo proprio sul fatto che Vaccarino scrivesse i pizzini al superlatitante firmandosi “Svetonio”, pseudonimo indicato proprio da Matteo Messina Denaro. L’epistolario di “Alessio” (così invece amava firmarsi il super latitante), minuziosamente argomentato, talora orgoglioso e nello stesso tempo strategicamente vittimistico, è pubblico e si trova in un libro reperibile su Amazon. Matteo Messina Denaro cita Jorge Amado, scrive che la giustizia è marcia fin dalle fondamenta e dice di pensarla come Toni Negri. Non esita a bollare come «venditore di fumo» chi allora dirigeva il Paese, ovvero Silvio Berlusconi. Addirittura parla di questioni interiori. Il metodo di quella operazione è quello classico che Mori ha sempre adottato anche quando era ai Ros. Non solo catturare direttamente il latitante, ma anche individuare i suoi circuiti di fiancheggiamento e attività imprenditoriali illecite legate agli appalti. «Attraverso quindi i contatti che il signor Vaccarino fu sollecitato a prendere nell’ambito delle sue conoscenze dell’entourage di Messina Denaro – ha spiegato Mori durante il recente processo che ha visto come imputato Vaccarino –, verso l’ottobre del 2004 arrivò una lettera al Vaccarino tramite un circuito specifico di corrispondenza applicato dal Messina Denaro e dai sui fiancheggiatori». Da lì quindi iniziò lo scambio epistolare che è durato circa due anni. Una operazione che, nonostante poi sia in seguito saltata, ha comunque prodotto dei risultati. Si sono identificate un certo numero di persone, in particolare si riuscì ad ottenere l’individuazione di un imprenditore che era colui che rappresentava gli interessi del superlatitante. Così come l’individuazione di Vincenzo Panicola, il cognato di Matteo Messina Denaro. Ma come mai l’operazione sfumò? È sempre Mori a spiegarlo. «Mentre era in corso questo scambio epistolare – racconta il generale -, nella primavera del 2006 viene catturato Bernardo Provenzano. Nel materiale di cui fu trovato in possesso emersero alcuni pizzini. Uno scambio tra lui e Matteo Messina Denaro, nel quale quest’ultimo segnalava il suo collegamento con Vaccarino». L’attività si fermò, teoricamente solo temporaneamente, perché lo stesso Messina Denaro scrisse una lettera a Vaccarino per dirgli che non poteva al momento più scrivergli visto che avevano arrestato Provenzano. Il generale Mori spiega che si recò da Pietro Grasso, che nel frattempo era diventato capo della Procura nazionale Antimafia, e spiegò la situazione. Grasso poi lo richiamò informandolo che la Procura aveva preso atto dell’importanza della collaborazione di Vaccarino, ma che riteneva di non volerlo trattare come fonte o collaboratore. A quel punto ci fu una fuga di notizie. Il nome di Vaccarino fu pubblicato su alcuni organi di informazione, la Procura di Palermo che, ricordiamo, non era più guidata da Grasso, aprì un’inchiesta su di lui per associazione mafiosa, subito dopo archiviata da ben nove pm di Palermo. Dopo qualche tempo, esattamente il 2 novembre del 2007, giunge a Vaccarino l’ultima lettera – ma questa volta minacciosa e rabbiosa – di Matteo Messina Denaro. «Non ha neanche da sperare in una mia prematura scomparsa o nel mio arresto – scrive il super boss nella parte conclusiva della lettera – perché qualora accadesse una di queste ipotesi, per lei nulla cambierebbe, in quanto la sua illustre persona fa già parte del mio testamento, ed in mia mancanza verrà sempre qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti, comunque vada lei o chi per lei pagherà questa cambiale che ha forsennatamente firmato. Lei è un essere snaturato che non ha voluto bene neanche alla sua famiglia, si vergogni di esistere».
Torino, denunciare la 'ndrangheta e finire rovinato, senza risarcimento dallo Stato. Le Iene News il 06 aprile 2021. Mauro si è ritrovato senza saperlo o volerlo nelle mani della ’ndrangheta durante la costruzione di un complesso immobiliare a Rivoli (Torino). Ha denunciato, è arrivato un maxi blitz. Lui però, come ci racconta Luigi Pelazza, è rovinato e non ha ancora ricevuto nessuno risarcimento. Cosa fareste se scopriste di avere a che fare con un mafioso? Lo denuncereste o vi fareste i fatti vostri? Mauro ha deciso di denunciare, finendo però rovinato sul lavoro mentre aspetta da anni un risarcimento da parte dello Stato. Luigi Pelazza ci racconta la sua storia nel servizio che vedete qui sopra. Tutto inizia a Rivoli, vicino Torino. Nel 2009 Mauro con la sua società di ingegneria riceve l’incarico di realizzare un grande complesso immobiliare. Spunta però la strana figura di Nicola “il riservista”. Il riservista è chi è incaricato di varianti in corso d’opera che spesso costano di più del progetto iniziale. A Mauro non risultano giustificate le varianti per due milioni di euro. Nicola prima lo minaccia: “Qua le cose per te si stanno male, prenditi 50mila euro (invece di 400mila, ndr) e vai fuori dai co…”. Poi con un complesso giro di contestazioni generiche e fax spediti in bianco e compilati solo successivamente, riesce di fatto a far rescindere il contratto mandando in rovina l’uomo, che si trova azienda e conti pignorati. Mauro parla prima con gli uffici tecnici del Comune: “Attenzione, secondo me questi sono dei mafiosi”. Poi, dopo l’arresto di un “mediatore”, va dai carabinieri a denunciare il tutto. Mauro è rovinato, ma non può dire cosa è successo per non rovinare le indagini in corso. Il 1°luglio 2014 può vedere in televisione l’operazione che porta in carcere anche Nicola “il riservista”. Luigi Pelazza va anche a parlare con lui. Mauro chiede di poter accedere ai fondi per chi ha subito un’estorsione e ha denunciato, cercando così di salvare la sua azienda. È l’ottobre del 2017, la risposta dello Stato è prevista entro 90 giorni. Da allora Mauro non ha più saputo nulla da oltre tre anni. Luigi Pelazza va a cercare risposte per lui. Dopo il nostro intervento arrivano: non risultano motivi sufficienti per risarcirlo. Mauro non si arrende nemmeno questa volta, anche se si dice: “Probabilmente se mi fossi girato dall’altra parte anziché denunciare la ’ndrangheta sarebbe stato meglio”.
Il caso. “Devo riavere i miei soldi ma il sistema Saguto me li nega”, lo sfogo del commercialista Paolo Amato. Giorgio Mannino su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Si dice “vittima di uno stalking giudiziario”, di un “sistema” che non gli permette di affermare le proprie ragioni nelle aule dei tribunali. O meglio, in quelle “del nord Italia vinco sempre, a Palermo e a Caltanissetta invece le cose vanno diversamente”. La storia del commercialista Paolo Amato, 58 anni, è una lunga odissea giudiziaria che dura da dieci anni e che incrocia amministratori giudiziari spregiudicati, presunti truffatori e parentele sospette. «Praticamente – dice – non faccio altro che difendermi nei tribunali per fare valere i miei diritti e lottare per quello che mi spetta». Ma facciamo un passo indietro. Anno 2001. Amato inizia a lavorare per la “Servizi CGN”, un’azienda di Pordenone che si occupa di Caf e servizi telematici per commercialisti. L’azienda vuole espandersi e inizia a crescere in tutta Italia: Amato è uno dei responsabili regionali, il suo territorio di riferimento è la Sicilia. Fino al 2006 va tutto a gonfie vele. L’anno successivo le cose, invece, cambiano. Alla “Servizi CGN” arriva un nuovo direttore. Amato, insieme agli altri responsabili regionali, decide di abbandonare l’azienda e creare un’altra società. Per partire, però, servono almeno due cose: soldi e autorizzazione Caf da richiedere all’Agenzia delle Entrate. Un documento che si ottiene in un anno. «Forti dei nostri numeri – spiega il commercialista – decidiamo di appoggiarci per un solo anno, il tempo dell’autorizzazione, a un Caf di Padova (Caf Confcontribuenti srl). Terminato l’anno avremmo iniziato a lavorare autonomamente». A Venezia, Amato incontra Giancarlo Badalin, rappresentante legale del Caf padovano. «Noi facciamo la nostra proposta ma loro rilanciano. I nostri sono ottimi numeri e chiedono una collaborazione a tempo indeterminato. Con Caf Confcontribuenti srl stipuliamo un patto commerciale e con Associazione Confcontribuenti (un’altra società di cui Badalin è sempre rappresentante, ndr) creiamo una società di servizi fiscali, la “Officina Fiscale srl” di cui io sono il rappresentante legale». Officina Fiscale nasce il 9 febbraio 2011: il 51% delle quote appartengono ad Associazione Confcontribuenti, il restante 49% confluisce su Amato mediante un’altra società, Odp Servizi srl, con sede a Palermo che nasce il 27 gennaio 2011, Amato ne acquista il 40% delle quote. Il 15 aprile 2011, attraverso una scrittura privata, Officina Fiscale inizia ad operare sul territorio siciliano tramite Odp. In pochi mesi Amato, insieme ai suoi collaboratori, comincia a produrre oltre 220 mila euro di ricavi grazie al triangolo d’oro Officina Fiscale, Caf Confcontribuenti e Odp. L’idillio, però, dura solo un anno. Perché Caf Confcontribuenti non paga i compensi pattuiti: si tratta di circa 420mila euro. Inizia una lunga controversia giudiziaria tra Badalin e Amato. Secondo il ragioniere veneto, Amato avrebbe trasferito illegittimamente l’attività di Officina Fiscale a Odp. I giudici, però, danno ragione al commercialista palermitano affermando che Badalin era a conoscenza della scrittura privata siglata nel 2011 e che dunque Odp fosse la longa manus di Officina Fiscale. Caf Confcontribuenti, così, dopo una lunga serie di cause civili e penali, paga Officina Fiscale. Che, come d’accordo, avrebbe dovuto retribuire il lavoro di Odp. Per Amato sembra la fine di un incubo, in realtà è solo il secondo atto. Badalin non ci sta. Si presenta al tribunale di Palermo e con i suoi avvocati chiede lo scioglimento di Officina Fiscale per mancato funzionamento dell’assemblea. Amato si difende: «Spieghiamo ai giudici (sezione quinta civile, ndr) che la lite temeraria non è tra i soci ma tra Odp, che interviene tramite Officina Fiscale srl, e Caf Confcontribuenti srl che non è socio. Semmai l’Associazione Confcontribuenti detiene il 98% delle quote del Caf per cui sono due soggetti giuridici diversi e in conflitto d’interessi. Eppure i giudici non se ne accorgono e nonostante il clamoroso errore, Officina Fiscale viene sciolta». Gli avvocati di Amato ricorrono in appello, ma lo scioglimento viene confermato. Il commercialista non ha ancora incassato un euro del lavoro fatto e la disperazione cresce. Il 23 aprile 2015 il tribunale di Palermo nomina come liquidatore Giuseppe Sebastiano Ciardo che, sin dal 2012, fresco di abilitazione, nel giro di cinque anni, ottiene moltissimi incarichi dall’ex magistrato Silvana Saguto, uno dei simboli antimafia finiti nella polvere. Ciardo avrebbe solo un compito: incassare i crediti assegnati dal tribunale di Padova e pagare i debiti di Officina Fiscale. «Ciardo decide di non pagarmi perché su di me pendono due giudizi penali per varie denunce mosse da Badalin. Ma è pretestuoso perché in appello sono stato assolto e in un altro archiviato». Amato fa causa al liquidatore ma la perde. Nelle motivazioni il giudice scrive che «il liquidatore è una figura tranquillizzante». Stesso esito in appello. Ma perché Ciardo continua a tenere in piedi una liquidazione che si sarebbe potuta chiudere in breve tempo? Perché non paga il credito di Amato? E ancora: perché, nonostante una gestione piena di errori amministrativi, Ciardo continua a rimanere al suo posto? Avremmo voluto porgli queste domande ma il liquidatore ha ritenuto opportuno non dire nulla «perché ci sono diversi procedimenti pendenti in diverse sedi». Amato ha un sospetto: Ciardo ha una sorella magistrato e un cognato che lavorano alla procura del capoluogo. Sono vittima di un sistema. Potrei mai vincere una causa a Palermo? Nel 2017 ho perso la causa contro CGN Servizi che ha clamorosamente disconosciuto il mio rapporto di lavoro». Precisiamo: le parentele sono fatti indiscutibili che non avranno nulla a che vedere con le sentenze pronunciate dai giudici. Ma è opportuno che sia il tribunale palermitano a giudicare una controversia in cui un soggetto abbia una parentela con un magistrato che in quel foro lavora? «Secondo me dovrebbe esserci un’incompatibilità», dice il legale di Amato. «Il suo diritto di credito è sussistente ed è assurdo venga ostacolato. Amato è una vittima». Ma come finirà questa storia? «Ho impiantato – aggiunge Favara – una causa con la coscienza pulita, istruendo atti impeccabili. Non so se vinceremo perché non sempre chi ha ragione vince e chi ha torto perde. Ma ne riparleremo tra anni perché questa situazione avrà strascichi lunghissimi».
La denuncia: "Pago le denunce del sistema Saguto". Pino Maniaci nel tritacarne mediatico: folle processo senza alcun reato. Giorgio Mannino su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. “Volevano chiudere Telejato, tapparmi la bocca. In questi quattro anni ci hanno tentato in tutte le maniere. Ma non ce l’hanno fatta”. Pino Maniaci, direttore dell’emittente partinicese è sicuro: “Sarò assolto dall’accusa di estorsione. Forse mi condanneranno per diffamazione, giusto per dire che non hanno perso questi quattro anni“. Un tempo lunghissimo per il baffuto direttore arrestato nel 2016 nell’ambito di un’operazione antimafia che colpì il clan di Borgetto. Il giornalista impegnato con i suoi servizi a denunciare corruzioni e malefatte del paese è finito in un soffocante tritacarne mediatico. Che gli ha prima affibbiato l’etichetta di simbolo della lotta alla mafia per poi scaricarlo e gettarlo nella polvere. Eppure la posizione del giornalista, già nella fase preliminare, è stata stralciata e Maniaci è stato rinviato a giudizio dalla procura di Palermo per estorsione e diffamazione. Non gli è stata contestata l’aggravante di aver favorito la mafia. Il processo è ormai alle battute finali. Un mese fa il pm Amelia Luise, durante la sua requisitoria, ha chiesto al giudice Mauro Terranova una pena di 11 anni e 6 mesi e un’ammenda di 5 mila euro. Ieri si sarebbe dovuta svolgere l’arringa difensiva da parte di Antonio Ingroia e Bartolomeo Parrino, legali di Maniaci, ma l’udienza è stata rinviata al 9 febbraio. Dopo eventuali controrepliche si andrà a sentenza. Ma in cosa consisterebbe questa estorsione? Maniaci avrebbe estorto 366 euro agli ex sindaci di Borgetto e Partinico Gioacchino De Luca e Salvatore Lo Biundo. In cambio non avrebbe mandato in onda servizi televisivi contro di loro. «La verità è che 366 euro, lo capisce pure un bambino, non sono un’estorsione – dice Maniaci – ma erano soldi per la pubblicità. Mi hanno messo in mezzo e la cosa parte dal 2013 quando cominciai ad attaccare le misure di prevenzione di Palermo e il cerchio magico di Silvana Saguto». Maniaci è stato tra i primi a denunciare la rete di potere che a colpi di parentele, amicizie e incarichi offerti sempre agli stessi professionisti, gestiva “in un sistema perverso e tentacolare” i beni sequestrati ai mafiosi e agli imprenditori sospettati di essere stati favoriti dai boss. È forse per questo motivo che Maniaci deve pagare? In questa storia giudiziaria, sono tante le domande, al momento, senza risposta. La prima: dove sono le vittime? Perché i presunti estorti hanno dichiarato, durante il processo, di non essere mai stati minacciati o ricattati. Il pubblico ministero, per avvalorare la tesi accusatoria, ha riportato ampi stralci di interrogatorio e intercettazioni nei quali si legge che vengono commessi reati ma i soggetti chiamati in causa non subiscono un procedimento: come mai? Giusto qualche esempio. Nel novembre 2019, Gioacchino Polizzi, ex assessore di Borgetto a cui secondo l’accusa Maniaci avrebbe imposto di cedere 2 mila euro di magliette col logo della sua emittente e di pagargli tre mesi di affitto di alcuni locali, negò durante il processo di aver mai subito minacce, estorsioni, di aver affittato case o ceduto magliette. In un’intercettazione, però, Polizzi rivolgendosi all’allora sindaco di Borgetto Giuseppe Davì, dice: “Voi (il riferimento è anche a Maniaci, ndr) mi avete costretto e obbligato a fare queste magliette”. Perché l’attendibilità di Polizzi vale solo in riferimento all’intercettazione e non su quanto ha dichiarato in aula? E se Polizzi ha dichiarato il falso, come mai la procura non lo accusa di falsa testimonianza? E poi ancora. Stando a quanto dichiarato da Polizzi, intercettato, l’eventuale estorsione sarebbe stata fatta da Maniaci in concorso con altri soggetti (“voi”): perché alla sbarra c’è il solo direttore di Telejato? Inoltre anche la presunta vittima Salvatore Lo Biundo, in dibattimento, avrebbe negato di aver mai subito intimidazioni, minacce e estorsioni. L’ex capitano dei carabinieri di Partinico, Marco De Chirico, teste chiave dell’accusa, ha ammesso di non aver trovato nessuna prova sul cambio di linea editoriale all’interno del tg condotto da Maniaci dopo la presunta dazione di denaro. E dato che l’estorsione sarebbe servita per ammorbidire Maniaci, non è chiaro di cosa stia parlando. O l’estorsione non è avvenuta o gli estorti pagavano nonostante la linea editoriale non subisse alcuna modifica. Ipotesi, quest’ultima, che non avrebbe logica. Pagare per continuare a essere attaccati. Per i legali di Maniaci “le pene richieste dall’accusa di solito si chiedono per un capomafia. Questo è uno di quei casi in cui il pm avrebbe dovuto chiedere l’assoluzione per l’imputato tenendo conto del risultato dibattimentale. Invece sono state ribadite le acquisizioni in fase d’indagine e ignorate le risultanze processuali”. La richiesta di condanna è stata condivisa dai legali delle uniche parti civili costituite in rappresentanza del giornalista Michele Giuliano, Nunzio Quatrosi e Gaetano Porcasi. Che sarebbero stati diffamati da Maniaci.
Maniaci assolto: "Io, finito a processo per le accuse alla Saguto". Francesco Patanè su La Repubblica il 9 aprile 2021. Per il giornalista cade l’ipotesi di estorsione. Condannato invece per diffamazione. Pino Maniaci è stato assolto con formula piena dall'accusa più infamante per un uomo che ha fatto della lotta alla mafia la sua cifra professionale, quella di aver compiuto quattro estorsioni esattamente come fanno i mafiosi che da sempre combatte e denuncia. Per il giudice del tribunale monocratico Mauro Terranova il vulcanico ex direttore di Tele Jato, per quanto riguarda le quattro estorsioni contestate dalla procura, "non ha commesso il fatto " . Estorsioni nei confronti dei due ex sindaci di Borgetto e Partinico a cui, secondo l'accusa, Maniaci avrebbe chiesto denaro per non avviare una campagna mediatica ostile nei loro confronti. Il giudice invece lo ha ritenuto colpevole dei quattro casi di diffamazione e lo ha condannato ad un anno e 5 mesi. "Su di me la procura non aveva alcuna prova, è stato tutto costruito a tavolino - ha commentato Maniaci subito dopo la sentenza - Un castello fondato sul nulla che è partito dalle mie accuse a Silvana Saguto. Delle diffamazioni poco mi importa, sono medaglie". L'accusa era sostenuta in dibattimento dal pm Amelia Luise, che per Maniaci aveva chiesto la condanna ad undici anni e sei mesi. "Una richiesta indecente che vale per i capimafia" ha commentato Antonio Ingroia che difende Maniaci insieme a Bartolomeo Parrino. Alle indagini dei carabinieri, coordinate dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca, contribuirono anche Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia che sono andati a ricoprire altri incarichi, rispettivamente alla Direzione nazionale antimafia e al Dap. I difensori del giornalista hanno già annunciato che faranno appello per le quattro diffamazioni nei confronti del giornalista Michele Giuliano, di Nunzio Quatrosi, Elisabetta Liparoto e del pittore Gaetano Porcasi. Che le denunce di Pino Maniaci su quanto accadeva alla sezione misure di prevenzione durante il "regno" di Silvana Saguto gli avessero procurato più di un nemico è fuor di dubbio, soprattutto nel 2016 quando non era ancora scoppiato lo scandalo sui beni sequestrati per cui l'ex magistrata è stata condannata a fine ottobre dello scorso anno a 8 anni e 6 mesi. L'ex direttore di Tele Jato per primo denunciò che alla sezione misure di prevenzione agiva indisturbato un cerchio magico di professionisti fedeli a Silvana Saguto, denunciò la corruzione dell'allora presidente della sezione, denunciò il criterio opaco di assegnazione della gestione dei beni sequestrati. "Si presentò in procura a Caltanissetta con una montagna di carte - ricorda Bartolomeo Parrino - che dimostravano lo scandalo che poi venne scoperto anni dopo ". Maniaci venne arrestato in un'operazione antimafia dei carabinieri, venne accostato ai boss, mostrato mentre in un video chiede denaro ad un sindaco in cambio di un trattamento benevolo. "Una grande vittoria per noi perché il giudice ha accolto la nostra tesi - commentano gli avvocati difensori Bartolomeo Parrino e Antonio ingroia - Siamo molto soddisfatti, prima abbiamo ottenuto che la posizione di Pino venisse stralciata dal processo ai mafiosi con cui venne arrestato ed oggi finalmente possiamo dire di aver smontato il castello accusatorio basato su quel famoso video in cui si vede Pino Maniaci nello studio del sindaco. Un video che abbiamo dimostrato essere stato alterato, con voci montate dopo le riprese e messe ad arte oltre a persone tolte dai fotogrammi". Un successo pieno dunque quello di Pino Maniaci che però non è più il condottiero della piccola televisione antimafia di Partinico nata nel 1999 e diventata famosa in tutta Italia per le denunce degli intrecci fra mafiosi e pubblica amministrazione. Una televisione a conduzione familiare che persino la Cnn celebrò come baluardo dell'antimafia descrivendo Maniaci come " The Mafia Hunter", "Il Cacciatore di mafiosi". Ma se oltre oceano la reputazione di Maniaci è rimasta intatta anche dopo l'arresto e il divieto di dimora a Partinico che gli impediva di andare in video, a Palermo in questi quasi cinque anni ha dovuto convivere con il sospetto delle persone, ha visto il dubbio nella gente che prima lo considerava un paladino. "La procura non ci fa una bella figura di fronte alla sentenza che mi assolve per le estorsioni. Continuerò a fare il giornalista" ha commentato Pino Maniaci a caldo.
Il giornalista Maniaci assolto dall’accusa di estorsione e condannato solo per diffamazione. Nel 2016 il direttore di Telejato era stato sottoposto all’obbligo di dimora nelle province di Trapani e Palermo, perché coinvolto nel blitz antimafia in cui furono arrestate 9 persone accusate di far parte della famiglia di Borgetto: "E' evidente che sono finito nell’occhio del ciclone a causa delle nostre inchieste sul sistema Saguto e i beni confiscati, che venivano spolpati senza che nessuno se ne accorgesse". Marco Bova su Il Fatto Quotidiano l'8 aprile 2021. Il giornalista Pino Maniaci è stato assolto dall’accusa di estorsione, che nel 2016 gli era costata l’obbligo di dimora. Il giudice monocratico di Palermo lo ha invece condannato ad un anno e cinque mesi per diffamazione con un risarcimento per le parti civili da quantificare in sede civile e una provvisionale esecutiva sempre per le parti civili . “La procura ci fa una figura di m… alla sentenza che mi assolve per le estorsioni”, ha detto il direttore dell’emittente Telejato all’uscita dal palazzo di giustizia, commentando l’esito del processo. Per lui il pm Amelia Luise aveva chiesto la condanna a 11 anni e sei mesi di carcere, soprattutto per la pesante accusa di estorsione nei confronti degli ex sindaci di Borgetto e Partinico. “E’ stata ristabilita la fiducia nella giustizia seriamente messa a rischio dopo una richiesta di condanna in qualche modo indecente” ha detto l’ex pm Antonio Ingroia, oggi avvocato e difensore di Manìaci. Secondo l’accusa, in cambio di un ammorbidimento dei suoi editoriali televisivi, il giornalista aveva ottenuto una somma pari a 366 euro. “Sono stato l’unico caso al mondo a commettere un’estorsione con regolare fattura”, ha commentato il Maniaci, che durante il processo ha esibito la documentazione contabile della cifra incassata per una sponsorizzazione. Il caso di diffamazione per cui Maniaci è stato condannato vede come parti offese il giornalista Michele Giuliano e il pittore Gaetano Porcasi. Il giornalista il 4 maggio 2016 era stato sottoposto all’obbligo di dimora nelle province di Trapani e Palermo, perché coinvolto nel blitz antimafia Kelevra della Dda di Palermo, in cui furono arrestate 9 persone accusate di far parte della famiglia di Borgetto, con un video, inviato dai carabinieri a corredo della nota stampa, in cui erano presenti alcuni stralci delle sue intercettazioni. Il filmato documentava le riprese delle microspie, registrate nell’ufficio del sindaco di Borgetto, Gioacchino De Luca, durante un incontro con Maniaci, con l’audio delle presunte richieste estorsive in sottofondo. Ma anche conversazioni in cui il giornalista commentava delle intimidazioni, che secondo la stampa internazionale provenivano da Cosa nostra, tanto da inserirlo nella lista dei cento eroi mondiali dell’informazione da Reporter senza frontiere. Invece erano legate ad una vicenda privata, e Maniaci commentatava: “Persino quello stronzo di Renzi mi ha telefonato”. “Quel video è stato completamente smontato durante il processo – ha detto Maniaci – ed è emerso che per la questione dell’estorsione, era stato fatto un collage, per le intimidazioni, io in realtà non ho mai realmente saputo chi è stato l’autore, ne tantomeno i carabinieri hanno fatto indagini specifiche”. Le indagini sul giornalista erano state avviate nel periodo in cui l’emittente Telejato, nota per la peculiare attività di racconto dei fatti di mafia e dell’antimafia, si stava occupando di alcune vicende giudiziarie che riguardavano la gestione della sezione misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, che soltanto anni dopo verrà rimossa e recentemente condannata. “Leggendo le carte del processo di Caltanissetta è evidente che sono finito nell’occhio del ciclone a causa delle nostre inchieste sul sistema Saguto e i beni confiscati, che venivano spolpati senza che nessuno se ne accorgesse, doveva arrivare la televisione più piccola della Sicilia ad occuparsene, come se non ci fossero altri giornalisti, ma così è andata”. Il blitz della procura antimafia diretta da Francesco Lo Voi, in cui fu coinvolto Pino Maniaci anticipò di alcune settimane l’anniversario della morte del magistrato Giovanni Falcone, scatenando l’indignazione dell’antimafia e della magistratura. “Non avevano nessuna prova e hanno costruito un’accusa così infamante nei miei confronti – conclude Pino Maniaci – vorrei che questa storia fosse chiara, io non ho smesso ne smetterò di fare il giornalista”.
Il processo all'Antimafia, il caso Pino Maniaci e la sua assoluzione. Le iene News il 04 maggio 2021. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli tornano a parlarci della storia della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e di Silvana Saguto, l’ex giudice che la guidava. C’è una vicenda giudiziaria collegata a questo scandalo, ed è quella del direttore di Telejato Pino Maniaci, assolto in primo grado dall’accusa di estorsione: ripercorriamo la sua storia e, adesso che la tempesta si è placata, il suo progetti per il futuro. “E’ brutta la vendetta. Di questo si tratta, si sono vendicati”. Torniamo a parlarvi di una vicenda che negli ultimi anni abbiamo seguito da vicino, che ha scoperchiato uno degli scandali più clamorosi nella storia dell’Antimafia siciliana. Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, è stata condannata in primo grado a 8 anni e 6 mesi di carcere per presunti affari illeciti nella gestione dei beni confiscati alle cosche mafiose. Le condanne di primo grado stabilite dal tribunale di Caltanissetta sono solo l’ultimo tassello di una imponente inchiesta che nel 2016 aveva ipotizzato l’esistenza del cosiddetto “cerchio magico” di Silvana Saguto. “E’ crollato un sistema”, ci aveva spiegato la giornalista Elvira Terranova. Se da una parte molti dei capi di imputazione sono stati smontati dalla difesa, dall’altra oltre a quella dell’ex giudice sono arrivate varie condanne importanti. “Uno spettacolo veramente indegno”, ci ha detto Claudia Rosini, magistrato ed ex collega di Silvana Saguto. “Indegno della magistratura, delle istituzioni che rappresento e di tutti noi magistrati che lavoriamo. Uno spettacolo che la magistratura non si merita”. C’è però un’altra vicenda giudiziaria collegata a questo scandalo, che inizialmente ha fatto molto clamore per poi scomparire nel nulla. “C’era tutto un disegno, che era il disegno di chiudere questa emittente”: Pino Maniaci è il direttore di Telejato, con il quale nel 2015 avevamo iniziato a parlare proprio della presunta malagestione dei beni sequestrati dalle Misure di prevenzione di Palermo. “I beni tolti ai presunti mafiosi vengono amministrati da amministratori giudiziari che riescono a svuotare un patrimonio di miliardi di euro, che deve tornare alla collettività e che invece diventa quella che noi abbiamo definito ‘la mafia dell’antimafia’”. Quell’intervista del 2015 è stata probabilmente la sua condanna, tanto che l’ultimo volta che siamo andati a trovarlo non era per parlare della giudice Saguto ma della bufera che lo aveva travolto, infangandolo nel peggiore dei modi. Pino Maniaci era stato improvvisamente coinvolto in una operazione dei Carabinieri: “Al momento dell’arresto e della conferenza stampa, fatta da 5 pubblici ministeri, io ero in mezzo ad altri mafiosi. Gli stessi che ho sempre attaccato”, ci ricorda Pino. L’accusa a suo carico è pesante, estorsione: “La richiesta era 11 anni e mezzo, manco a Torò Riina! E’ stato terribile”. Qualche settimana fa però anche per lui è arrivata la sentenza di primo grado: “Assolto per non aver commesso il fatto. Una assoluzione piena”. A questo punto Matteo Viviani e Pino Maniaci parlano della sua emittente, Telejato: “Nasce 22 anni fa come una televisione di quartiere”. Da una piccola stanza la sua tv macina un’inchiesta dopo l’altra, sempre con lo stesso obiettivo: “Rompere il culo alla mafia e ai mafiosi. Non ci siamo mai fermati”. La sua lotta fa il giro del mondo: anni fa la sua tv era diventata il punto di riferimento di una comunità, fatta da persone che lo stimavano e giovani che vedevano in lui un esempio da seguire. Alla sua scuola di giornalismo si sono formati in molti, tra cui anche i nostri Ismaele La Vardera e Gaetano Pecoraro. In tutte le belle storie però, a un certo punto succede qualcosa: e per Pino Maniaci e Telejato quel momento coincide con l’inizio delle sue inchieste giornalistiche riguardanti la sezione del tribunale gestita da Silvana Saguto. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli, nel servizio che vedete in testa a questo articolo, ripercorrono la storia di Pino Maniaci e le sue inchieste sulla sezione del tribunale gestita da Silvana Saguto. Prima di lasciarvi alla visione del servizio, vi dobbiamo ancora raccontare dei progetti di Pino adesso che - almeno per il momento - la tempesta intorno a lui si è placata: “Io vorrei riaprire la scuola di giornalismo. Tornate, vi aspettiamo. Anche perché oggi Telejato è a diffusione regionale. Al 273 troverete l’emittente Telejato!”.
La rivincita di Maniaci: «Trattato come un boss dall’antimafia spettacolo». L'ex direttore di Telejato assolto dall'accusa di estorsione. «Ho passato cinque anni sotto una cappa». Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 10 aprile 2021. «Ora sappiamo che c’è un giudice anche a Palermo. Sono sollevato, ma è stata dura. L’accusa aveva chiesto una condanna che di solito si richiede per un boss mafioso. Mi hanno trattato come un Dell’Utri qualsiasi». Il giorno dopo la sentenza che lo assolve dalla tremenda accusa di estorsione, Pino Maniaci, giornalista impertinente e cuore e testa della piccola e agguerrita Telejato, può tirare un sospiro di sollievo. Il suo calvario giudiziario che rischiava di costargli undici anni e mezzo di reclusione ( questa la richiesta avanzata dal sostituto procuratore Amelia Luise in sede di requisitoria) è finito dopo una camera di consiglio durata quasi otto ore che si è conclusa in primo grado con l’assoluzione dall’accusa di estorsione e con una condanna piuttosto pesante a un anno e mezzo di carcere per l’ipotesi di diffamazione. Protagonista “rumoroso” del giornalismo siciliano, alla guida di una piccola tv privata di Partinico, Pino Maniaci è uno di quei giornalisti abituati a raccontare la realtà che li circonda. Un metodo di lavoro che gli ha provocato un’enormità di problemi con esponenti della criminalità organizzata e non solo: non si contano infatti le intimidazioni, le minacce e le aggressioni collezionate negli anni a causa dei suoi servizi e che hanno dato al giornalista palermitano una certa visibilità a livello nazionale. Poi, nel 2015, l’indagine dei carabinieri che, indagando sui presunti intrecci tra Cosa Nostra e alcuni pezzi della politica locale, lo accusano, in seguito ad una controversa intercettazione ambientale, di avere utilizzato la sua tv per estorcere denaro e benefits ad alcuni amministratori dei comuni di Partinico e Borghetto. Un’accusa gravissima che ( due anni dopo la retata della procura che lo aveva visto coinvolto) viene stralciata dal procedimento principale per mafia e reindirizzata davanti al giudice monocratico che ieri ha emesso la sentenza di primo grado. «Dopo cinque anni passati sotto una cappa, posso dire di sentirmi liberato. Anche se non è possibile che tocchi aspettare così a lungo per arrivare ad una sentenza di primo grado. L’accusa di estorsione per un giornalista poi racconta a Il Dubbio Maniaci – è una delle più gravi che ci possa essere, devo dire grazie ai miei avvocati Antonio Ingroia e Bartolomeo Parrino e a tutto lo staff che durante il procedimento hanno demolito l’impianto accusatorio della procura facendomi uscire da questo incubo a occhi aperti. Certo la Procura non ci ha fatto per niente una bella figura». Tante le inchieste giornalistiche portate avanti negli anni dai redattori della piccola tv corsara, una delle quali, ne è convinto lo stesso Maniaci, avrebbe fatto da detonatore per l’inizio dell’indagine nei suoi confronti. «Nel processo abbiamo dimostrato che tutto è partito in seguito ai nostri servizi sul comportamento di un pezzo del Tribunale di Palermo, quello per intenderci del sistema Saguto ( l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale palermitano, ndr), che a differenza della mia vicenda è finito con sentenze di condanne molto pesanti, a dimostrazione che avevamo ragione noi». Per anni inneggiato come icona dell’antimafia militante, Maniaci è passato, in pochi attimi, da “santino” antimafia da portare in processione a presunto estorsore capace di piegare il proprio lavoro per interesse personale. «Le etichette restano etichette e non te le dai tu – racconta ancora il direttore di Telejato – ma te le affibbiano altri e poi ti restano appiccicate addosso che tu lo voglia o no. Siamo parlando di un periodo in cui l’antimafia di professione va molto di moda e un giornalista che dice che la mafia fa schifo è considerato bravo e coraggioso. Per come la vedo io, tutti i giornalisti che fanno veramente i giornalisti sono contro il malaffare e contro le mafie, aldilà delle etichette che restano solo etichette e appena succede qualcosa, con la stessa velocità con cui te le hanno messe, te le tolgono. L’essere contro la mafia dovrebbe essere di tutti i giornalisti. Noi a Telejato non avevamo fatto altro che il nostro lavoro. Noi seguiamo la via tracciata da Pippo Fava e la nostra redazione si è distinta in questo. Però devo constatare che tanti giornalisti si sono divertiti a massacrarmi». E il trattamento che parte dei giornalisti e dell’antimafia militante gli ha riservato, Maniaci ne è convinto, è frutto anche dell’impostazione con cui attualmente vengono spiegati in conferenza stampa i motivi degli arresti. «È il sistema che è profondamente sbagliato. Uno dei miei prossimi obiettivi è di portare avanti una battaglia parlamentare in questo senso: se veramente in Italia vige la presunzione d’innocenza come recita la nostra Costituzione, le Procure non si possono permettere di fare le conferenze stampa con quelle modalità, con le loro verità granitiche che possono essere stritolanti per gli indagati, mentre in quel momento le stesse persone oggetto della conferenza stampa vengono fuori sempre “mascariate”, sempre “scunzate”. Non può funzionare così. È un sistema sbagliato. Bisogna prima aspettare una sentenza». Accusato di avere venduto il suo lavoro in cambio di denaro, Maniaci non ha perso la fiducia nella giustizia che vive di uomini e donne diversi e serve sempre fare dei distinguo. «Sia nella magistratura che nelle forze dell’ordine – racconta – ci sono persone estremamente preparate e altre persone che sono indegne e dovrebbero farsi da parte. Alcune di queste persone potrebbero entrare nel mondo dello spettacolo, visto con quanto entusiasmo si presentano davanti alle telecamere. Certo in questa occasione il sistema giustizia ne esce con le ossa rotte e con una grossa figura di merda sulle spalle. Anche un ragazzino si sarebbe messo a ridere davanti all’ipotesi di un’estorsione di 366 euro. Se lo immagina? Una mazzetta comprensiva di Iva, davvero difficile da credere. Ma per fortuna non tutti la pensavano così. Ora bisognerà correggere il tiro perché tra il sistema Palamara e il sistema Saguto le persone hanno perso fiducia nella giustizia e bisogna lavorare per restituire dignità all’intero settore della giustizia».
Non ci fu estorsione, assolto il giornalista Maniaci: «Su di me sei anni di fango». Esulta anche l’avvocato ed ex pm Ingroia: «Dopo una inaudita richiesta di pena per undici anni e mezzo, finalmente giustizia è fatta. Ora qualcuno dovrà risarcirlo». Monica Musso su Il Dubbio il 9 aprile 2021. Non ci fu alcuna estorsione. Ed è per questo che dopo sei ore di camera di consiglio il Tribunale di Palermo ha assolto dall’accusa di estorsione il giornalista Pino Maniaci, ex direttore di Tele Jato. Il giornalista è stato però condannato ad un anno e cinque mesi per diffamazione, condanna contro la quale la difesa ha già annunciato appello. La sentenza è arrivata ieri pomeriggio: il giudice monocratico Mauro Terranovaha ha ritenuto innocente uno dei giornalisti antimafia più conosciuti in Sicilia. Secondo l’accusa, che aveva chiesto la condanna ad undici anni e sei mesi, Maniaci avrebbe preteso favori e denaro dagli ex sindaci di Borgetto Gioacchino De Luca e di Partinico Salvatore Lo Biundo minacciandoli in caso di rifiuto di avviare campagne mediatiche negative nei loro confronti se non avessero accettato. Maniaci, difeso dall’ex pm Antonio Ingroia e da Bartolomeo Parrino, ha sempre respinto ogni accusa. «La Procura di Palermo ci fa una figura di m… Io in questi anni sono stato distrutto, volevano distruggere la mia televisione ma non ci sono riusciti. E continuerò a fare il giornalista», ha detto Maniaci uscendo dal tribunale di Palermo. «Sono stati cinque anni difficili ma ora il castello di accuse si è disgregato – dice – L’accusa di estorsione per un giornalista è molto pesante. La richiesta a 11 anni e mezzo come un Marcello Dell’Utri era molto pesante. Per Uno che ha la coscienza a posto e sa di non avere mai fatto alcuna estorsione – ha aggiunto è stato pesante, ha macchiato l’immagine di una tv». Maniaci era considerato un simbolo dell’antimafia. «Ma io non mi ci sono mai sentito, era una etichetta che mi avevano appioppato – ha spiegato – credo che tutti i giornalisti siano contro la mafia. Certo quella immagine perduta non la riprenderemo più. Noi facevamo venire giovani a fare esperienza nella Nostra tv, una cosa meravigliosa». Esulta anche l’avvocato ed ex pm Ingroia. «Dopo una inaudita richiesta di pena per undici anni e mezzo, richiesta che solitamente si riserva ai delinquenti più spregevoli, finalmente giustizia è fatta. Dopo sei anni di un indecente linciaggio mediatico finalmente è arrivata la sentenza che ha assolto Pino Maniaci da tutte le accuse di estorsione che lo avevano ingiustamente inchiodato e distrutto in questi sei anni. L’accusa era campata in aria, io ho fatto pure il pm e una cosa del genere non l’avrei mai fatta», ha commentato. «Adesso si ristabilisce la fiducia nella giustizia del tribunale di Palermo. A me la parola persecuzione giudiziaria non piace ma sicuramente c’è stata una esagerazione è una enfatizzazione dell’accusa», ha aggiunto. «I guai di Pino Maniaci sono iniziati con le sue inchieste su Silvana Saguto – ha sottolineato -. Pino Maniaci ha diritto non solo a che gli venga risarcito il danno subito, ma che gli vengano restituiti sei anni di vita distrutta, l’onore e la reputazione professionale indegnamente cancellata. Quella di oggi è una sentenza che riconcilia i cittadini con la Giustizia del Tribunale di Palermo, ma sei anni di gogna mediatica restano e sono troppi e costituiscono un atto di accusa contro chi lo ha accusato, alcuni con leggerezza, altri con strumentalità, altri ancora in malafede. Ne è una dimostrazione – ha concluso – il fatto che il Tribunale, assolvendo oggi Pino Maniaci, ha anche ordinato la trasmissione alla Procura di un verbale dibattimentale di uno dei suoi accusatori che si era costituto parte civile contro di lui».
Innocente dopo 6 anni di processi. Assolto Pino Maniaci, primo successo da avvocato per Ingroia: “Linciato per aver denunciato il sistema Saguto”. Giorgio Mannino su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Il primo pensiero è andato alla sua Telejato: «Questo processo ha distrutto l’immagine di una piccola televisione, ha infangato me. La procura di Palermo ha costruito un’accusa sul niente facendo una figura di m…». Il vulcanico giornalista Pino Maniaci ieri pomeriggio è stato assolto dall’accusa più grave, quella di estorsione, nei confronti degli ex sindaci di Borgetto e Partinico, Gioacchino De Luca e Salvo Lo Biundo. E condannato, invece, a 1 anno e 5 mesi per aver diffamato il giornalista Michele Giuliano, il pittore Gaetano Porcasi, Nunzio Quatrosi ed Elisabetta Liparoto. La sentenza, emessa dal giudice monocratico Mauro Terranova, è stata pronunciata dopo diverse ore di camera di consiglio. Così finisce – almeno per il momento – l’odissea giudiziaria vissuta dal direttore di Telejato alla sbarra da sei anni in un processo nel quale «Maniaci è stato distrutto per estorsioni inventate», ha sottolineato l’avvocato Antonio Ingroia che insieme a Bartolomeo Parrino difende il cronista. Maniaci è finito sotto accusa nel 2016 nell’ambito di un’operazione antimafia che colpì il clan di Borgetto. Il giornalista impegnato con i suoi servizi a denunciare corruzioni e malaffare del paese è stato inghiottito in un soffocante tritacarne mediatico. Che gli ha prima affibbiato l’etichetta di simbolo della lotta alla mafia per poi scaricarlo e gettarlo nella polvere. Eppure la posizione del giornalista, già nella fase preliminare, è stata stralciata e Maniaci è stato rinviato a giudizio dalla procura di Palermo per estorsione e diffamazione. Secondo l’accusa avrebbe estorto 366 euro agli ex sindaci di Borgetto e Partinico. In cambio avrebbe adottato, nei loro confronti, una linea morbida nel suo telegiornale. «La verità è che 366 euro, lo capisce pure un bambino, non sono un’estorsione – aveva detto Maniaci – ma erano soldi per la pubblicità. Mi hanno messo in mezzo e la cosa parte dal 2013 quando cominciai ad attaccare le misure di prevenzione di Palermo e il cerchio magico di Silvana Saguto». Maniaci è stato tra i primi a denunciare la rete di potere che a colpi di parentele, amicizie e incarichi offerti sempre agli stessi professionisti, gestiva «in un sistema perverso e tentacolare» i beni sequestrati ai mafiosi e agli imprenditori sospettati di essere stati favoriti dai boss. «Una cosa è certa – ha detto ieri Ingroia – i guai di Pino Maniaci sono iniziati dal momento in cui ha cominciato ad indagare sulle distorsioni del Tribunale Misure di Prevenzione di Palermo, quando questo era presieduto da Silvana Saguto che è stata condannata in primo grado dal Tribunale di Caltanissetta per reati gravissimi. Maniaci, invece, è stato assolto dai reati gravissimi per i quali era stato accusato. Dopo un’inaudita richiesta di pena per undici e mezzo, richiesta solitamente ai delinquenti più spregevoli». Insomma l’obiettivo sarebbe stato «quello di denigrare Telejato – aggiunge Parrino – dare un’immagine di Maniaci come professionista dell’antimafia e allontanare lo sguardo dell’emittente dalla gestione dei beni confiscati di Silvana Saguto. Lascia perplessi il fatto che un semplice giornalista si accorga di certi meccanismi e tutta la procura, invece, no». Saranno le motivazioni a chiarire ulteriormente i contorni di una vicenda giudiziaria gravida di contraddizioni e che, nella sua lentezza, sembra aver distrutto l’immagine del cronista. Ingroia ha parlato di “linciaggio mediatico”, “di gogna mediatica” e del «diritto da parte di Maniaci di aver risarcito il danno subito, che gli vengano restituiti sei anni di vita distrutta, l’onore e la reputazione professionale indegnamente cancellata». Il direttore di Telejato sembra non aver perso l’entusiasmo: «Sicuramente continuerò a fare il giornalista. È una sentenza che ristabilisce verità e giustizia, ma su di me hanno gettato fango e costruito un castello di menzogne», ha dichiarato Maniaci.
Smascherato il clan dell’antimafia, 8 anni a Saguto perché gestiva “sistema tentacolare”. Giorgio Mannino su Il Riformista il 29 Ottobre 2020. È stata definita la “mafia dell’antimafia”. Ieri pomeriggio si è concluso – davanti alla corte del tribunale di Caltanissetta presieduta dal presidente Andrea Catalano, a latere Valentina Balbo e Salvatore Palmeri – il primo atto del terremoto giudiziario che ha sconvolto l’ufficio misure di prevenzione del tribunale di Palermo e il mondo dell’antimafia. Una rete di potere che a colpi di parentele, amicizie e incarichi offerti sempre agli stessi professionisti, gestiva «in un sistema perverso e tentacolare» i beni sequestrati ai mafiosi e agli imprenditori sospettati di essere stati favoriti dai boss. A tirare le fila di un meccanismo ben oleato c’era la presidente dell’ufficio Silvana Saguto, condannata ieri pomeriggio in primo grado – dopo diverse ore di camera di consiglio – a otto anni e sei mesi per avere gestito in modo clientelare, in cambio di denaro e favori, le nomine degli amministratori giudiziari dei patrimoni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. È venuto meno, invece, il reato di associazione a delinquere. Saguto, inoltre dovrà risarcire, per 500 mila euro, la presidenza del Consiglio dei ministri. Durante il processo, durato tre anni, era stata radiata dalla magistratura. La condanna è arrivata anche per il marito dell’ex magistrato, Lorenzo Caramma (sei anni e due mesi), e per il figlio Emanuele (sei mesi). Sette anni e sei mesi per il cosiddetto ‘re’ degli amministratori giudiziari Gaetano Cappellano Seminara. L’ex prefetta di Palermo, Francesca Cannizzo, è stata condannata a tre anni nell’ambito del processo per corruzione nei confronti dell’ex giudice. Le altre condanne hanno riguardato il docente della Kore di Enna, Carmelo Provenzano (sei anni e dieci mesi), Roberto Nicola Santangelo, amministratore giudiziario (sei anni e due mesi), Walter Virga, avvocato ed ex amministratore giudiziario (un anno e dieci mesi) del patrimonio milionario degli imprenditori Rappa, Roberto Di Maria, preside della facoltà di giurisprudenza di Enna (due anni e otto mesi), Maria Ingrao, moglie di Provenzano (quattro anni e due mesi), Calogera Manta, cognata di Provenzano (quattro anni e due mesi) e infine il colonnello della Dia Rosolino Nasca (quattro anni). Ha retto, dunque, l’impianto accusatorio – rappresentato dai pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti – della procura nissena ora diretta da Gabriele Paci dopo il pensionamento di Amedeo Bertone. Anche nelle richieste di assoluzione confermate dai giudici per Vittorio Pietro Saguto, padre dell’ex magistrato accusato di riciclaggio Aulo Gabriele Gigante, un altro amministratore giudiziario e Lorenzo Chiaramonte, ex giudice della sezione misure di prevenzione che rispondeva di abuso d’ufficio. Il caso Saguto è deflagrato cinque anni fa mettendo in ginocchio tantissimi imprenditori contro i quali il “cerchio magico” si è scagliato etichettandoli come mafiosi. Un escamotage per sequestrare i loro beni e le loro aziende per un ammontare di milioni di euro che venivano gestiti dai membri del sistema Saguto. Dopo la sua destituzione dall’incarico sono stati molti gli imprenditori che si sono visti riconsegnare i loro beni ormai svuotati di ogni cosa. Famiglie distrutte in nome di un’antimafia affaristica e di facciata. “Non c’è nulla da esultare per questa condanna”, fanno sapere Sergio d’Elia, segretario di ‘Nessuno tocchi Caino’ e Pietro Cavallotti, membro del Consiglio direttivo della associazione e vittima delle misure di prevenzione adottate dalla sezione di misure di prevenzione gestita dalla Saguto. «La condanna – aggiungono – non restituirà il patrimonio alle persone alle quali è stato ingiustamente confiscato. Né le persone che hanno ottenute le proprie aziende otterranno un giusto indennizzo. La condanna non allevierà le sofferenze di tutte le persone che la Saguto ha rovinato. Il suo dolore, la sua sofferenza non possono essere motivi di gioia e neppure di soddisfazione. Il processo Saguto sarà una grande occasione persa – proseguono – se lo Stato non metterà mano al sistema delle misure di prevenzione. Il problema delle misure di prevenzione non era e non è la Saguto ma il regime normativo inquisitorio delle stesse misure di prevenzione dettato da logiche emergenziali che elevano il sospetto a prova e sono contrarie ai principi del giusto processo. Se riforme in questo senso non vi saranno continueremo a perseguire le vie dei ricorsi alle Alte Giurisdizioni, dalla Corte Costituzionale italiana alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo».
Il caso. “Saguto ci ha perseguitato per 22 anni, la condanna non ci risarcisce”, parla Pietro Cavallotti. Giorgio Mannino su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. «Per noi questa non è giustizia. Potremo parlare di giustizia quando ci verranno restituiti i nostri beni». Mentre la corte di Caltanissetta condannava il cerchio magico dall’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto per aver messo in piedi un sistema clientelare nella gestione dei beni sequestrati ai mafiosi e agli imprenditori sospettati di essere stati favoriti dai boss, Pietro Cavallotti – membro del Consiglio direttivo della associazione “Nessuno tocchi Caino” e vittima delle misure di prevenzione del sistema Saguto – stava lavorando col consulente alla stesura della perizia per la revoca della confisca. «Il mio appartamento è stato confiscato. A me, alla mia famiglia, quale senso di giustizia darebbe la condanna se non dovesse essere restituito quello che ingiustamente ci è stato tolto?». Una lunga storia, quella della famiglia di Belmonte Mezzagno, che inizia nel 1998 quando i fratelli Cavallotti – padre e zio di Pietro – vengono arrestati nell’ambito dell’operazione Grande Oriente, accusati di associazione mafiosa. Dopo un lungo calvario giudiziario, nonostante la sentenza definitiva di assoluzione, agli imprenditori viene confiscato tutto il patrimonio. Le aziende e le loro vite vengono distrutte. Dietro c’era il sistema Saguto.
Qual è stata la prima cosa che ha pensato quando la corte ha pronunciato la sentenza?
«Ho rivissuto un pezzo di vita lungo 22 anni. Abbiamo incontrato la Saguto nel 1999. Da un lato ho subito pensato alla fine della giudice che per anni ci ha perseguitati. Dall’altro lato mi sono chiesto: e ora che succede? La condanna risolve il problema di una legge, quella delle misure di prevenzione, che fa acqua da tutte le parti?»
E cosa si è risposto?
«La risposta è stata negativa. Perché i problemi rimangono per la mia famiglia e per tutti quegli imprenditori vittime di un ingiusto sequestro preventivo».
Quali problemi?
«Parlo di famiglie distrutte. Di intere famiglie che non riescono a immettersi, nuovamente, nel mondo del lavoro perché dopo essere stati colpiti da una misura di prevenzione attorno si crea terra bruciata. Se crei un’altra impresa ti viene sequestrata, se riesci ad avere la fortuna del dissequestro ti ritrovi a gestire un’azienda completamente distrutta. Debiti per milioni di euro, bilanci non depositati durante gli anni dell’amministratore giudiziaria, fornitori non pagati. Tutte queste cose non si risolvono perché Saguto è stata condannata».
Quindi quale sarebbe la situazione?
«La politica dovrebbe rivedere il sistema di prevenzione. Ma non credo voglia farlo. Faccio un esempio. Quando il legislatore doveva capire come modificare il Codice antimafia, si rivolgeva alla Saguto in Parlamento. Se questa sentenza fosse spunto per rivedere le misure di prevenzione, allora sarebbe un bene. Ma non è così che viene presentata. Piuttosto Saguto viene etichettata come la mela marcia in un sistema perfetto. Non viene messa in discussione la legittimità dei sequestri e delle confische. Si dirà che il sistema ha gli anticorpi ma non si mette in discussione l’operato di Saguto sui sequestri e sulle confische che faceva».
Cioè?
«Ho letto tutte le intercettazioni ambientali e telefoniche acquisite nel processo di Caltanissetta. Si vuole fare passare l’ex giudice come colei che non pagava la spesa, che comprava la laurea per il figlio, che faceva favori ai colleghi. Questo è solo un contorno. Saguto sequestrava patrimoni senza sapere cosa stesse sequestrando. Questo è l’elemento che ritengo più grave. Ci sono intercettazioni in cui i giudici si mettevano d’accordo con i pubblici ministeri sulle prove da fare entrare nei processi per fare le confische».
Prove per dimostrare accuse false in partenza. La sua famiglia, ad esempio, è stata accusata di associazione mafiosa.
«È un dato di fatto che con questa accusa, spesso ingiusta, si sia azzerata molta dell’economia siciliana. All’interno dell’amministrazione giudiziaria ci lavoravano parenti di giudici, figli di giudici, amici. Era diventato un ufficio di collocamento per magistrati. Col pretesto della mafia si è generato un sistema in grado di trarre profitto».
Questa sentenza, secondo lei, può essere un punto di partenza o no?
«Secondo me è già un’occasione persa proprio perché si parla di “sistema Saguto”. Parliamo piuttosto di misure di prevenzione, di aziende in amministrazione giudiziaria, di imprenditori che hanno subito il sequestro nonostante le assoluzioni. Questa condanna non modificherà di una virgola un sistema fallimentare».
Cosa le ha lasciato dentro questa vicenda?
«Tanta amarezza. Mi ha ferito quando l’ex giudice nelle intercettazioni aveva deciso di confiscare il nostro patrimonio senza neanche avere letto la perizia. Mi ha fatto male sentire che voleva mettersi d’accordo con il pm sui documenti da far entrare nel processo per confiscare i beni. La legge dev’essere modificata. E dev’essere chiara per evitare che si rovinino altre famiglie».
Se il magistrato sbaglia, paga l'imputato. Ha perseguitato Bassolino: premiato da Orlando (quando era guardasigilli) il Pm Sirleo. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 19 Novembre 2020. Andrea Orlando è stato tra i primi a commentare la diciannovesima assoluzione collezionata da Antonio Bassolino, l’ex sindaco di Napoli e governatore campano finito nel mirino della magistratura per presunte irregolarità nella gestione del ciclo dei rifiuti. «Adesso che i processi si sono conclusi, adesso che nessuno potrà dire che si vuole fare pressione sui magistrati, ci si può chiedere che cosa non ha funzionato?», ha domandato il vicesegretario del Partito democratico ed ex ministro della Giustizia. Orlando ha ragione, ma probabilmente ha la memoria corta. Già, perché nel 2015 fu proprio lui a chiedere che nella squadra degli ispettori di via Arenula entrasse Paolo Sirleo, uno dei due sostituti della Procura di Napoli che 12 anni prima avevano messo sotto inchiesta “don Antonio”. Il tutto mentre Giuseppe Noviello, l’altro pm autore dell’indagine che frenò l’ascesa di Bassolino e stravolse la storia della sinistra italiana, veniva nominato consigliere di Cassazione dal Csm. Noviello e Sirleo sono stati per anni il simbolo delle inchieste sui rifiuti in Campania. Porta la loro firma l’indagine sfociata non in uno, ma in 19 processi a carico di Bassolino per un totale di 140 udienze e 150mila pagine di atti processuali riversati in 15 cd. Da quelle vicende l’ex governatore campano, oltre che commissario per l’emergenza rifiuti, è uscito senza macchia. Restano lo strazio giudiziario e la gogna mediatica, l’isolamento all’interno del Pd e lo stop alla carriera politica che Bassolino ha dovuto sopportare. Ma i magistrati che lo misero sotto inchiesta che fine hanno fatto? Figlio di Ciccio, stimato dirigente dei servizi segreti, il 48enne Paolo Sirleo ha visto la sua carriera intrecciarsi con quella di un magistrato abituato a occupare le prime pagine dei giornali e le poltrone dei salotti televisivi: Nicola Gratteri. Fu quest’ultimo, nel 2011 procuratore aggiunto di Reggio Calabria, a spingere perché un giovane e brillante magistrato come Sirleo venisse trasferito dal Tribunale di Cassino alla Procura del capoluogo calabrese. Ed è stato sempre Gratteri lo sponsor di Sirleo quando, nel 2018, quest’ultimo è diventato sostituto procuratore di Catanzaro. «Ho lavorato con lui e ne ho conosciuto il valore, è una persona incorruttibile e di grandissimo valore», ha riferito Gratteri all’atto dell’insediamento di Sirleo. Tra il trasferimento a Reggio Calabria e quello a Catanzaro, però, il pm che mise sotto inchiesta Bassolino ha vissuto un’esperienza professionale: quella di ispettore del Ministero della Giustizia. A sceglierlo per quel ruolo, nel 2015, fu Andrea Orlando, all’epoca ministro della Giustizia del governo Renzi. Proprio così: lo stesso Orlando che oggi si straccia le vesti davanti all’odissea giudiziaria affrontata da Bassolino fece in modo che dell’ispettorato generale di via Arenula entrasse a far parte uno dei pm che nei confronti dell’ex governatore campano avevano costruito un castello accusatorio poi puntualmente crollato. Qui le vicende giudiziarie s’intrecciano con una serie di curiose coincidenze politiche. Orlando, infatti, è notoriamente tra le persone più vicine all’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E Napolitano è stato per decenni l’alfiere della corrente cosiddetta “migliorista” del Partito comunista che si contrapponeva a quella di cui faceva parte Bassolino. Nessuno può dire che ci sia stata una regia politica dietro i 19 processi che “don Antonio” ha dovuto affrontare. E nessuno può adombrare una sorta di regolamento di conti all’interno della sinistra campana e italiana attraverso vicende giudiziarie rivelatesi clamorosi flop. Fatto sta che le mosse dei pm napoletani hanno probabilmente indirizzato la carriera politica di Bassolino e la storia della sinistra su un binario diverso rispetto a quello sul quale sembravano avviate. A fare carriera è stato non solo Sirleo, ma anche Noviello, ritenuto il magistrato più inflessibile della coppia. Oggi è consigliere della Cassazione, nel settore penale. I beninformati raccontano di un interrogatorio durante il quale Bassolino, contestando l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio formulata dai pm napoletani, sottolineava come il suo ruolo di commissario per l’emergenza rifiuti fosse sostanzialmente politico. Fu Noviello, con gli stessi toni decisi che era solito sfoderare in udienza, a chiarire all’indagato il carattere amministrativo del suo ruolo. Ne nacque un braccio di ferro come quelli ai quali il pm napoletano e gli avvocati della difesa ci hanno abituato nel corso degli anni. Negli ambienti del Palazzo di Giustizia, Noviello era considerato un magistrato particolarmente risoluto e preparato. E molto cocciuto. Prova della cocciutaggine fu l’abuso edilizio contestato sempre a Bassolino. La Procura era a caccia del denaro che la famiglia Romiti avrebbe versato all’ex governatore campano. Quei soldi, secondo Noviello e Sirleo, avevano la forma di un casolare in Toscana, a Cortona, di cui Bassolino non risultava nemmeno unico proprietario. Della vicenda si sarebbe dovuta occupare la Procura di Arezzo, competente per territorio, ma i pm di Napoli vollero avocare l’indagine collegando i presunti abusi commessi nel casale toscano alle ecoballe che una società della Impregilo avrebbe stoccato in quegli stessi territori. Risultato? Assoluzione piena: una delle 19 che Bassolino ha dovuto inanellare per mettersi alle spalle un incredibile calvario giudiziario.
La lettera dell'ex ministro della giustizia sul caso Bassolino. Orlando si difende: “Nomina Sirleo per aver fatto emergere il caso Saguto”. Redazione su Il Riformista il 20 Novembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo questa lettera (piuttosto adirata) del vicesegretario del Pd ed ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Egregio Direttore, con estrema franchezza in riferimento all’articolo “Premiato dal PD il PM che mise sotto accusa Bassolino” voglio dirle che fare risalire alla lotta tra amendoliani ed ingraiani nella federazione del Pci di Napoli la nomina al ministero (non la promozione) di un magistrato è semplicemente ridicolo. Quando morì Giorgio Amendola avevo 11 anni. Far ricadere su un solo magistrato l’inizio di 19 procedimenti ed altrettanti processi lo è quasi altrettanto. Io so che, questo magistrato, che chiamai all’ispettorato su proposta del mio Capo di Gabinetto quando l’iter di questi 19 procedimenti era tutt’altro che definito, è stato l’autore dell’ispezione che fece emergere il cosiddetto caso Saguto presso la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. A meno che non si voglia sostenere che avrei dovuto rifiutare la proposta di incarico, poiché il sostituto aveva partecipato ad inchieste su un mio compagno di partito, regola di condotta che per la verità, e forse questo è il rimprovero, non ho mai seguito. Andrea Orlando"
· Sergio De Caprio: Capitano Ultimo.
Antonello Piroso per “La Verità”, pubblicato da blitzquotidiano.it il 16 novembre 2021. No vax e diritto di parola delle Forze dell’Ordine. Parla il capitano Ultimo, quello che catturò Totò Riina. “Mala tempora currunt, amico mio. C’è troppo autoritarismo in giro. Lo dico non dimenticando mai di essere stato, e di sentirmi ancora, un fedele servitore dello Stato. Un uomo delle istituzioni come carabiniere per più di quattro decenni. E anche dopo, nella mia esperienza di assessore all’ambiente in Calabria, ora conclusasi”. Sergio De Caprio, da sempre e per sempre il Capitano Ultimo, l’uomo che nel 1992 ha catturato il Capo dei Capi della mafia, Totò Riina, è a Roma. Nella sede dell’Associazione dei volontari che si richiamano al suo nome. Ogni giorno alle 13 vi si servono un pasto a chi non se ne può permettere uno. In uno spazio che comprende una casa Famiglia. Dove sono accolti minori segnalati dai Servizi sociali o figli di persone in carcere. Con accanto una Chiesa dei poveri dove ogni domenica si celebra la Messa “in un cammino cristiano fatto di semplicità nell’uguaglianza e nella fratellanza”.
“Corrono tempi bui”, la frase attribuita a Cicerone, però continua con sed peiora parantur, ma se ne preparano di peggiori. Questo pessimismo le deriva dalla sua recente esperienza in terra calabra?
Tutt’altro, anzi. La Calabria è e resta nel mio cuore, con la sua splendida gente. I 404 sindaci con cui abbiamo lavorato con entusiasmo. Rispettando quanto avevo annunciato al momento della nomina, voluta dal presidente Jole Santelli. Tutelare l’autodeterminazione delle comunità calabresi senza l’interferenza delle mafie di ogni tipo.
C’è chi sostiene che la sua sia stata una presenza quasi impalpabile, senza un’evidente discontinuità.
Non è che se non si lavora sotto la luce dei riflettori non si stia facendo nulla. Tra i miei difetti non c’è certo quello dell’esibizionismo mediatico. Ho capito l’abbandono della Calabria, toccando con mano la distanza siderale che c’è tra Roma e la periferia dell’impero. Insieme alla Giunta e ai sindaci, abbiamo individuato criticità e proposto al Governo un’agenda di priorità.
Tipo?
Il rilancio di una multiutility, la Sorical, togliendola dalla liquidazione, per gestire, con nuovi piani di intervento, rifiuti, acqua, energia rinnovabili.
Abbiamo avviato le procedure per creare un’agenzia del turismo naturalistico e speleoarcheologico.
La trasformazione di tutti i comuni in comunità energetiche rinnovabili. Visto che l’Italia deve installare 70 gigawatt di rinnovabili entro 2030, il necessario per rispettare gli impegni europei di decarbonizzazione. Noi abbiamo chiesto 10 megawatt a comune, 4 giga, con milioni di euro risparmiati e da investire nel territorio per ridare ad esso dignità e sviluppo. Se non è discontinuità questa…Semmai il tema dovrebbe essere un altro, quello dell’autoritarismo.
Si spieghi.
Ho potuto verificare che lo Stato centrale non cerca la collaborazione con gli enti e le persone del posto. Piuttosto pare averne una visione, come dire, feudale, in cui si danno ordini e diktat da eseguire. Procedendo con commissariamenti a raffica che mortificano le tante persone capaci e perbene che pure non mancano. A cominciare da quella per la sanità (con lo spettacolo indecoroso dell’autunno 2020, candidati che saltavano come tappi).
Che ci faceva in prima fila al comizio di Giorgia Meloni a Catanzaro durante la recente campagna elettorale?
Una semplice testimonianza di amicizia e stima, in un rapporto che risale a tanti anni fa. Per essere chiari: non nasce ora che i sondaggi le sono ampiamente favorevoli. È l’unica donna che fa politica in prima fila.
Per questo, a prescindere da come la si pensi, bisognerebbe riconoscerle il merito di aver infranto il soffitto di cristallo. E di essere una protagonista in un mondo maschile. Strano che almeno tale merito non le venga riconosciuto. Evidentemente pesa nei suoi confronti il pregiudizio verso le sue radici di destra. Ammiro lei, come ammiravo per gli stessi motivi Jole Santelli, che per me è sempre presente.
Starà mica pensando a un’entrata in politica…
Chi, io? Intanto dovrebbero propormelo, ma mi chiedo perchè dovrebbe offrirla proprio a me, una candidatura. Entrare in Parlamento non rientra tra le mie massime aspirazioni, ho tanto da fare con la mia Onlus. E poi, guardi, in 42 anni di servizio nell’Arma, non ho mai preteso nulla. E ora? Come allora posso dare quello che mi viene chiesto, ma di certo non sono uno che chiede che qualcosa gli venga dato.
Sarà tale simpatia per i no vax e per donne di centrodestra ad averle attirato gli strali di Ilda Boccassini? Sa cosa sostiene nel suo libro?
Francamente non l’ho letto, nemmeno ce l’ho.
Scrive che non ha mai conosciuto nella sua lunga carriera una persona che sentisse così profondamente l’essere carabiniere come lei. Che era bravissimo, “acuto conoscitore del fenomeno mafioso, un fan sfegatato di Falcone, tanto da ottenere di essere nuovamente trasferito in Sicilia quando Giovanni fu ucciso”.
Be’, gentile…
Aspetti, adesso arriva la stoccata: “Non lo vedo da molto, preferisco ricordarlo com’era ai tempi della nostra collaborazione”.
“Da anni non condivido le sue prese di posizione, i contenuti delle sue interviste. Per non parlare – anche se si è dimesso dall’Arma – della sua decisione di entrare nella Giunta regionale calabrese”.
Sono sue opinioni, ne prendo atto rispettandole, ma, senza offesa, non è un mio problema.
Non le creano problemi neanche le prese di posizione no vax su twitter, dove lei si firma “carabiniere straccione”. Nell’account campeggia una frase: “La lotta è del popolo e deve rimanere al popolo”? Non la tocca sempre piano…
E qui veniamo all’altra faccia dell’autoritarismo anti no vax con cui ci stiamo abituando a convivere. Sarà possibile per gli uomini e le donne che indossano una divisa avere opinioni come cittadini. Oppure il principio di uguaglianza e quello di libertà di espressione, articoli 3 e 21 della nostra Costituzione, anche riguardo ai no vax, valgono per tutti tranne che per loro?
Veramente il motto degli appartenenti alla Benemerita sarebbe “usi ad obbedir tacendo”…
Sì, e “tacendo morir”, ma in battaglia, non nella vita di tutti i giorni in cui, quando non hanno la divisa addosso, non possono essere considerati italiani di serie B. Si è leali nei confronti dello Stato, ci si adegua e si fanno rispettare le disposizioni. Ma non si può abrogare per loro il diritto di critica, non si può criminalizzare il dissenso sul tema no vax.
Le piazze sono occupate da no vax e da nogreenpass, categorie che vengono considerate interscambiabili.
Sì, ma non si può dire. Li si vuole considerare un’unica entità. Quindi, da un lato si vuole sciogliere Forza Nuova per l’assalto no vax alla Cgil (e a me va benissimo, la violenza è l’antitesi della democrazia). Dall’altro si esercita una forma sottile e subdola di coercizione verso chi magari trova singolari le affermazioni del ministro dell’interno sugli scontri e sui no vax. E il ruolo di agenti preposti alla verifica della forza ondulatoria di una jeep.
“Ci sono ministri che parlano di no vax e di forza ondulatoria come delle scie chimiche”. “Con gerarchi e kapò che distribuiscono punizioni, sospensioni e processi nei confronti di militari, carabinieri e poliziotti. Perchè civilmente esprimono le proprie opinioni sui no vax”. Parole sue. Pesanti.
Mi dispiace che chi ha scritto quel passaggio del discorso al ministro Lamorgese sui no vax non si sia reso conto di esporla a inevitabili sarcasmi, non solo in Parlamento. Però ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere.
Qui si accusa di oscurantismo il regime dei talebani, ma davanti a certe iniziative anti no vax mi chiedo chi voglia davvero tornare al Medioevo. Lei sa che è stata emanata una circolare-bavaglio in cui ai carabinieri si inibisce, con ferrei paletti, l’uso dei social anche per quanto riguarda foto o messaggi di natura affettiva, amicale, familiare?
No vax a parte, ci sono carabinieri “giacche blu”, come li chiama lei, i burocrati e i carrieristi che non le sono mai piaciuti, e che hanno sempre vissuto lei come un’anomalia. E poi ci sono i carabinieri per cui ha appena gioito: gli assolti in Appello, in testa il generale Mario Mori, nell’infinita e dolorosa telenovela della cosiddetta trattativa Stato-mafia.
Un processo dietro l’altro, in cui si è fatto passare un messaggio devastante. Si è sminuito, quasi oscurato, la strategia stragista di Cosa Nostra. Per trasferire il disegno di tradire lo Stato in capo ai carabinieri, di cui conosco la probità. A cominciare dal generale Mori che ha sempre condotto una sobria esistenza in mezzo e in difesa dei suoi uomini.
Lei stesso è finito sul banco degli imputati (e assolto) dopo aver arrestato Riina, per favoreggiamento di Cosa nostra…
Sì, avevo interrotto l’inutile sorveglianza a un cancello. Le confesserò un particolare inedito. Dopo la cattura di Riina noi, il generale Mori e il sottoscritto, volevamo seguire i fratelli Sansone, che erano i sorveglianti del “covo” di Riina. Perchè eravamo convinti che tramite loro avremmo tagliato tutta la testa della Piovra.
I magistrati, inizialmente d’accordo, improvvisamente ci dissero di lasciar stare, i Sansone erano irrilevanti ai fini delle indagini.
Così ininfluenti che nel 2013, quando ero al Noe, il nucleo operativo ecologico dei carabinieri, incrociando alcune intercettazioni appresi che il figlio di uno dei Sansone si era fidanzato con una giovane della famiglia Guttadauro, nipote di Mattia Messina Denaro.
Tanto che poi i due sono convolati a nozze. E dunque, ora mi dica lei: chi ha fatto bene e chi si è sbagliato nella lotta alla Mafia?
Alessia Candito per "la Repubblica - Edizione Roma" il 15 ottobre 2021. Panino " Dandy" o pasta ai caduti di mafia? Piadina " Libanese" o crostone ai morti in servizio? Nella Capitale, la cultura della legalità rischia di passare per un derby gastronomico fra locali nati e pensati in ambienti diametralmente opposti. A pochi giorni dall'apertura della birreria di Salvatore Buzzi - uomo chiave dell'inchiesta "Mondo di mezzo" che oggi attende a piede libero la rideterminazione della pena dopo una condanna a più di 18 anni - a far irruzione nel settore food è Sergio De Caprio, meglio noto come il " capitano Ultimo" che ha personalmente ammanettato Totò Riina. Terminata l'esperienza da assessore all'Ambiente in Calabria, De Caprio non sembra aver voglia di rassegnarsi a una vita da pensionato dell'Arma e ha annunciato l'apertura del suo "pub della legalità". Nel nuovo locale, con sede presso l'Associazione Volontari Capitano Ultimo, «non celebreremo i criminali della ' terra di mezzo', ma ricorderemo i nostri caduti, i nostri esempi, i nostri combattenti. Per non dimenticarli» fa sapere l'ufficiale. Come? Anche con «piatti che portano il nome dei caduti. Forze dell'Ordine, magistrati, giudici, uomini comuni, in ricordo delle vittime, perché noi non dimentichiamo chi ha lottato per le nostre vite ed è caduto in battaglia». In più, fra un panino evocativo e un piatto in memoria - progetta Ultimo - ci sarà spazio per incontri e dibattiti. A lavorarci, i ragazzi della casa famiglia fondata dall'ufficiale a Tor Bella Monaca, quasi tutti - spiega - in regime di " messa alla prova" dopo qualche guaio con la giustizia. E a breve messi a servire ai tavoli. Ma questa non è l'unica iniziativa progettata da De Caprio, uomo dalle mille vite e dai mille volti, eroe celebrato da fiction per aver messo le manette ai polsi al capo della Cupola, ma anche finito nei guai (giudiziari) per non averne perquisito il covo, in passato comandante del Ros e del Noe ma anche fondatore di una casa famiglia, carabiniere prestato ai Servizi divenuto assessore regionale. Un percorso complesso, a tratti contraddittorio, spesso burrascoso, che oggi si arricchisce di due nuove tappe. La ristorazione, certo. Ma anche una nuova avventura da patron di un'emittente televisiva. Nome? Ultimo tv, ovviamente. Contenuti? Tutti incentrati sulla legalità. A gestirla sarà il regista televisivo Ambrogio Crespi, travolto da un'inchiesta sui rapporti fra 'Ndrangheta e politica a Milano, condannato a sei anni per aver comprato voti anche in ambienti vicini ai clan per l'assessore regionale lombardo Domenico Zambetti, poi graziato nel settembre scorso dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Tutto merito di un impegno, anche cinematografico, per la legalità, sempre sottolineato dal comitato a sostegno della domanda di grazia, costituito dal fratello Luigi Crespi, il sondaggista preferito di Silvio Berlusconi. A supportare quella campagna, anche il Capitano Ultimo, celebrato da Crespi nel documentario " Le ali del Falco", raccontato fra rapaci e ragazzi in regime di messa alla prova nella sua comunità. Un lavoro che a De Caprio deve essere piaciuto se con Crespi ha deciso di lanciarsi nell'avventura televisiva. Ma a dettare la linea sarà, ovviamente, solo lui. « Daremo spazio agli ultimi, a chi voce non ne ha, per far sì che l'uguaglianza e i diritti siano di tutti, nessuno escluso. Vogliamo traferire un messaggio forte e chiaro verso le nuove generazioni». Insomma, spiega «parlerà della povera gente, di legalità nel senso di equità». Certo toccherà trovare chi la porti avanti. I ragazzi della casa famiglia ci sono, ma si cercano volontari, vip alla Raoul Bova, volto di Ultimo in film e fiction, inclusi. k Il soprannome Sergio De Caprio è il vero nome del carabiniere che arrestò Totò Riina, conosciuto come Capitano Ultimo.
"Ecco come ho trattato Riina. La mia verità sull'antimafia". Il colonnello Sergio De Caprio, meglio noto come Capitano Ultimo, si racconta in un'intervista alla nostra redazione: "Sognavo sin da piccolo di fare il carabiniere e l'ho fatto". Rosa Scognamiglio - Mar, 06/04/2021 - su Il Giornale. Eroe antimafia, Robin Hood dei "deboli" ma soprattutto "Servitore del popolo". Il colonnello Sergio De Caprio non è solo un militare di lungo e glorioso servizio ma il Capitano Ultimo. Passato agli onori delle cronache per aver arrestato il boss di Cosa nostra Totò Riina (15 gennaio del 1993), l'ex comandante dei Ros vanta il merito di aver fondato i Crimor (Unità Militari Combattente) e di aver speso un'intera esistenza combattendo le ingiustizie. "Essere combattente vuol dire considerare, su tutto, il valore e l'importanza dell'azione rispetto alla celebrazione. È una scelta chiara e nitida, dove non sono ammesse falsità. Un combattente non mente mai", spiega a ilGiornale.it. Una vita vissuta sotto scorta, nel mirino delle mafie da sempre: "Con la paura ci vivo da quando ero piccolo, ho imparato a conoscerla, ci ho fatto amicizia e ora sono felice di averla sempre accanto a me. Mi dà consigli su come muovermi", racconta alla nostra redazione.
Capitano Ultimo, lei nasce come Sergio De Caprio. Cosa sognava da piccolo?
"Sognavo di fare il carabiniere dei poveri. Intendo dire il carabiniere che difende i più fragili, che impedisce l'abuso e la violenza sugli altri. E questo l'ho visto fare ai carabinieri di basso grado, che operano in piccoli paesi. Questo era il mio sogno, ci sono riuscito. E sono felice di averlo fatto".
Quando e perché decide di chiamarsi Ultimo?
"Mi chiamo Utimo perché nel momento in cui venni trasferito alla Sezione Anticrimine di Milano, cioè i reparti che ora si chiamano Ros e che sono stati costituiti dal generale Dalla Chiesa, era obbligatorio avere un nome di battaglia. Era una difesa da possibili intercettazioni delle comunicazioni radio e quindi un modo per nascondere la propria identità. Quando fu il mio momento scelsi Ultimo perché ho vissuto in un mondo fatto di 'primi'. E questi meccanismi di voler essere il più bello, il più intelligente e il più visibile di tutti – meccanismi che c'erano anche nel corpo dei carabinieri, purtroppo – a me non piacevano. Dunque scelsi di chiamarmi con questo nome, così loro (i primi) erano felici e io non avevo competitori. Tutti scoppiarono a ridere quando lo dissi, ora non ridono più. Non contano gli abiti o i nomi delle persone, sono le azioni che danno la misura della grandezza o piccolezza di qualcuno".
Perché si copre il volto con una bandana?
"Mi copro il volto perché sono costretto, non ho altre alternative. È la mia difesa, significa scomparire, non essere niente, diventare l'incubo del nemico e rendere difficile la certezza dell'individuazione a chi vuole colpire. Queste cose ce le ha insegnate il generale Dalla Chiesa e sono fiero di averlo fatto seguendo i suoi insegnamenti".
Quando è stata la prima volta che ha arrestato un malvivente?
"Il primo arresto l'ho fatto insieme al mio babbo, da sottotenente. Il mio papà era un maresciallo comandante della stazione dei carabinieri. Un giorno, mentre stavamo camminando, abbiamo beccato un ladro che rubava benzina da una macchina. E quello è stato il mio primo arresto, il più importante di tutti perché ero insieme al mio babbo e non c'è niente che regga il paragone. Ricordo ancora tutto chiaramente, anche le sensazioni che ho provato. L'abbiamo portato in carcere con la nostra macchina privata, perché noi abbiamo sempre trattato con rispetto anche i criminali. Io sono nato da questi episodi marginali, quelli che però raccolgono i valori più grandi e importanti di tutta la mia storia da combattente".
All'inizio degli anni '90 fonda i Crimor (Unità Militari Combattenti). Quella di diventare un "Militare Combattente" è stata una scelta o una vocazione?
"È una scelta e, al contempo, una vocazione. I combattenti non sono solo nei militari. Li riconosci dagli occhi, dal modo in cui affrontano la vita, le missioni e gli incarichi. Il combattente lo riconosci dal modo in cui raggiunge gli obiettivi che il lavoro o la vita gli assegna. Essere combattente vuol dire considerare, su tutto, il valore e l'importanza dell'azione rispetto alla celebrazione. È una scelta chiara e nitida, dove non sono ammesse falsità. Un combattente non mente mai".
Il 15 gennaio 1993 arresta Totò Riina. Ci racconta come è riuscito a stanarlo?
"Sono arrivato all'arresto di Riina attraverso un lavoro svolto dalla mia unità militare, dal gruppo di carabinieri con cui abbiamo svolto una ricerca informativa nascosta a Palermo. Abbiamo seguito la famiglia Ganci, del quartiere Noce di Palermo, e recepito le dichiarazioni del pentito Balduccio Di Maggio. Così siamo riusciti a metterci sulle tracce di Riina e a catturarlo".
Cosa ha provato quando gli ha messo le manette ai polsi?
"Abbiamo catturato Riina allo stesso modo in cui abbiamo preso anche altri latitanti prima e dopo di lui, cioè, seguendo la tecnica del generale Dalla Chiesa. E quando lo abbiamo arrestato ho provato la stessa cosa che si prova quando si cattura chiunque altro. È stata una enorme soddisfazione, sia perché avevamo centrato l'obiettivo sia perché tutti i carabinieri che avevano collaborato all'azione potevano tornare sani e salvi alle loro case, nessun civile si era fatto male".
Com'è stato guardarlo dritto negli occhi?
"Considerando il prigioniero un perdente, uno che è stato sconfitto, l'ho trattato con il rispetto che si deve a chi ha perso".
Dopo l'arresto di Riina arriva l'accusa più infamante: quella di favoreggiamento a Cosa Nostra insieme al generale dei Ros Mario Mori. Come si è sentito?
"Ho capito che nelle battaglie c'è chi combatte a viso aperto e chi, invece, combatte alle spalle, in maniera vile. Ho combattuto anche questo attacco vile in maniera adeguata, cioè, nell'unico posto possibile: davanti ai giudici. Ho vinto questa battaglia e sono fiero di averlo fatto insieme al generale Mori. Provo massimo disprezzo per quelli che hanno cercato di colpirci alle spalle".
Lei ha vissuto, e vive ancora, sotto scorta. Ci spiega cosa vuol dire doversi guardare le spalle per una vita intera?
"In realtà, quando sono stato in reparti combattenti, la scorta ce la facevamo reciprocamente io e i carabinieri che erano con me. L'associazione Cosa Nostra, la mafia siciliana, aveva stabilito di uccidermi e quindi aveva lanciato questo conto aperto. Non abbiamo chiesto nulla e in autotutela ci siamo guardati le spalle a vicenda. Il problema si è posto nel momento in cui mi è stata tolta la possibilità di svolgere qualsiasi attività di combattimento. Mi sono ritrovato negli uffici con due/tre collaboratori a svolgere le attività per il glorioso, disciolto, corpo della Forestale – e aggiungo, ingiustamente disciolto – e a quel punto la scorta è diventata una necessità per fornire sicurezza a me e alla mia famiglia soprattuto".
Nel 2019 le hanno revocato la scorta. Secondo lei, chi lo ha deciso e perché?
"Il problema non è nascondersi ma essere in grado di verificare se sei sotto osservazione da parte di qualcuno. Per gli uffici del comandante generale Nistri non c'era nessun pericolo. Ma secondo me, e secondo il buon senso, ci sono molti pericoli. Quindi ho fatto ricorso al Tar per far valere le mie ragioni. Il Tar mi ha dato ragione e ora ho una scorta che mi è consentita – ribadisco, solo grazie al Tar - contro il volere sia del Ministero degli Interni che del Comando generale dell'Arma dei Carabinieri".
Ha mai avuto paura?
"La paura è tutto. Senza paura saremmo solo degli insensibili e scellerati. La paurà dà consapevolezza e lucidità alle persone, dà coraggio. Con la paura ci vivo da quando ero piccolo, ho imparato a conoscerla, ci ho fatto amicizia e ora sono felice di averla sempre accanto a me. Mi dà consigli su come muovermi".
Cos'è la "Karriera", quella che lei ha sempre rifiutato?
"È il successo conseguito sulla pelle degli altri, disprezzando gli altri e non avendo rispetto della dignità altrui. È qualcosa di molto spregevole, qualcosa che io non avrei mai potuto fare e non ho fatto".
Cosa ne pensa dell'attuale gestione Antimafia?
"Vorrei solo che chi ha l'autorità e la responsabilità di fare la lotta antimafia spiegasse quali sono gli obiettivi e le modalità con cui intende raggiungerli. E ne rispondesse poi al popolo. Tutto il resto sono solo chiacchere e celebrazione del nulla".
Nel 2020, Iole Santelli l'ha nominato assessore all'Ambiente della la Regione Calabria. Come mai ha accettato l'incarico e com'è stato lavorare con la governatrice?
"Io sono fiero ed è stato per me un grandissimo onore servire il popolo della Calabria. L'ho fatto proprio perché me lo ha chiesto Iole Santelli, al di fuori di ogni logica di partito. Gli ho dato la mia collaborazione totale, a lei e a tutto il popolo calabrese. Sono fiero di essermi donato con tutte le forze che avevo, con tutta l'intensità che mi ha dato il mio cuore. È stata ed è un'esperienza bellissima. Credo che la Calabria meriti di essere aiutata e valorizzata, non denigrata, offesa e sfruttata come accade".
Come pensa sia stata gestita sinora l'emergenza sanitaria?
"Penso che bisogna dialogare con le persone, chieder loro di cosa hanno bisogno e poi aiutarle facendo fede alle loro richieste. Al di fuori di questa logica c'è solo autoritarismo, dominio e commissariamenti. Bisogna praticare mutuo soccorso anche a livello istituzionale altrimenti diventa solo propaganda politica. E a me fa schifo".
Cosa suggerirebbe a un ragazzo giovane che vuole entrare nell'Arma?
"Non gli darei nessun suggerimento. La cosa più importante è donarsi per gli altri senza volere nulla in cambio. Ogni volta che un ragazzo fa questo, qualunque sia l'incarico e l'abito che indossa, per me è un combattente".
Quando toglie la divisa di Capitano Ultimo, chi è?
"Ultimo è un combattente, un ragazzo di 15 anni che vuole la battaglia e viene dal nulla. Fa la battaglia insieme a ragazzi umili e semplici come lui. Dopodiché, finita la battaglia, svanisce e torna ad ssere il nulla da cui fieramente è venuto. Tutto qua".
Antonello Piroso per “la Verità” il 19 marzo 2021. Anche gli eroi vanno in pensione. Sì, è vero: la qualifica è abusata, spesso usata a sproposito, ma come altro si può definire l'uomo che ha catturato l'allora nemico pubblico numero 1, il capo dei capi, il mammasantissima di Cosa Nostra, l' artefice della strategia stragista mafiosa che stava facendo tremare l'Italia tutta intera, ovvero Totò Riina? Ha compiuto 60 anni il 21 febbraio scorso, il capitano Ultimo, che io continuo a chiamare così anche se nel frattempo il suo nome e cognome sono diventati di dominio pubblico (Sergio De Caprio, nda) e il suo grado nell'arma dei carabinieri è diventato quello di colonnello. Ma non sparisce dalla vita pubblica: è assessore all' Ambiente della regione Calabria, voluto in quel ruolo dalla scomparsa presidente Jole Santelli, che «si è battuta fino alla fine come una leonessa contro la sua malattia, con spirito di sacrificio e di amore per la sua terra: onore a lei». Però il suo appendere virtualmente la divisa al chiodo (molto virtualmente: il suo non indossarla sempre - come i vertici, le «giacche blu» come li chiama lui, avrebbero voluto - è uno dei tanti motivi per cui Ultimo o lo si ama o lo si contesta) è l'occasione per fare un piccolo bilancio, professionale ma anche esistenziale.
Capitano, prendiamo subito il toro per le corna. Lei e i suoi uomini, dopo mesi di appostamenti, tirate giù dalla macchina e catturate Riina, lo portate in caserma, gli fate le necessarie foto di rito, e già per quello fioccano le polemiche: lo scatto del boss sotto la foto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (una sua vittima, tra l'altro) viene giudicata una provocazione.
«Una situazione incredibile: un procuratore ha detto che era rimasto colpito da quella immagine, perché avevamo "umiliato" Riina. Naturalmente massimo rispetto per quel magistrato come per tutti i magistrati, però diciamo che siamo rimasti, come dire?, spiazzati».
Certo, ovviamente deferenza anche per quelli che l'hanno mandata a processo, dopo aver posto fine alla latitanza di Riina, per aver smesso di fare la guardia al suo covo. Accusandola di favoreggiamento. Risultato? Lei viene assolto, senza che poi la stessa Procura di Palermo faccia appello.
«La Procura ha sostenuto non li avessimo avvertiti, invece avevamo condiviso tutte le scelte. Un altro passaggio paradossale, che segna il declino di un modo di fare la guerra alla mafia, che poi era quello di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ma anche della dottoressa Carla Del Ponte, l'Antimafia dei combattenti costruita con il sangue delle vittime, l'Antimafia seria, di servizio e non quella che si trasforma in manipolazione e contropotere».
Una vicenda comunque grottesca, quella del suo processo, in America l'avrebbero portata alla Casa Bianca per una foto con il Presidente.
«Con il risultato di indebolire l'immagine e la forza di uno Stato unito come un sol uomo nella guerra alla criminalità, quasi legittimando in maniera implicita la sottovalutazione, la minimizzazione del ruolo di Cosa Nostra nelle stragi, perché non funzionale a una certa narrazione».
Si sta riferendo alla cosiddetta trattativa Stato-mafia?
«Non mi permetto di entrare nelle dinamiche processuali, o di giudicarle. Faccio una riflessione di ordine generale, al di là delle inchieste. Una trattativa postula l'esistenza di due parti (che nel caso specifico sarebbero emissari di Riina e funzionari dello Stato, i quali spontaneamente o "spintaneamente" l'avrebbero avviata o recepita) e di un oggetto che possiamo definire "accordo", le cose cioè su cui le medesime parti convengono. Ma qui cosa succede?».
Che quasi tutti i killer e i capi mafiosi (in libertà è rimasto il solo Matteo Messina Denaro) o hanno iniziato a collaborare con la giustizia, penso a Giovanni Brusca, o sono finiti in carcere e, come Riina, ci sono morti.
«Bene, seguo il suo ragionamento: significa che una delle due parti non avrebbe mantenuto fede agli accordi. Ma questa "violazione" contrattuale, chiamiamola così, viene forse impugnata, fatta valere dai boss detenuti o dai loro avvocati? No: se ne fa carico una parte terza, alcuni pm che appunto hanno ritenuto sussistano elementi a suffragio di tale ricostruzione. Fatto strano, incomprensibile, gravissimo perché ha contribuito a minare quell' impegno che è stato profuso con lutti e dolore nella guerra alla mafia, a spezzare il fronte».
Come se si volesse o dovesse dimostrare un teorema. Tanto più che poi i magistrati (penso per esempio ad Antonio Ingroia, che nel frattempo si è perso nel «labirinto degli dei») si sono ritrovati con il cerino in mano, affidandosi a un personaggio come Massimo Ciancimino, la cui credibilità è stata demolita dalle condanne per riciclaggio, calunnia, detenzione di esplosivi. Lasciamo la Sicilia per la Calabria, terra di 'ndrangheta, una delle più potenti organizzazioni criminali al mondo, dove tutela dell' ambiente vuol dire occuparsi di traffico di rifiuti, cementificazione selvaggia, acque, depuratori e reti fognarie.
«È un onore essere qui. La gente di Calabria è splendida. Sono stato accolto con affetto e rispetto, ma non posso negare che a livello organizzativo scontiamo lacune, inefficienze, ritardi. Partiamo da una situazione di assenza della capacità operativa della struttura deputata a occuparsene, l'Arpa Calabria, l'agenzia per il monitoraggio ambientale, anche per la scarsità di risorse a disposizione».
Pochi soldi?
«Be', tenga conto che l'ente ha a disposizione un budget di 15 milioni di euro, quando ne servirebbero altrettanti per arrivare a quei 30 milioni che sono poi il bilancio dell' Arpa dell' Umbria. Ora, le pare possibile che l'attuale stanziamento sia la metà, in una regione che ha, tanto per dirne una, 800 chilometri di coste? Abbiamo chiesto al commissario straordinario, reitereremo la richiesta anche al ministro della Salute Roberto Speranza, perché in tutto questo i calabresi non hanno da anni l'autodeterminazione, ma sono controllati "da remoto". Speriamo che ci rispondano, altrimenti faremo sentire la nostra voce insieme a quella dei sindaci di questa regione, spesso dimenticata e trattata come l'ultima delle province dell' impero».
Senza dimenticare che se è vero che non tutti i calabresi (uno per tutti: mio padre) sono 'ndranghetisti, tutti gli 'ndranghetisti sono calabresi: le cosche sono vive e vegete.
«Solo pochi giorni fa sono andato a Cetraro, un comune in provincia di Cosenza, dove c'è stato un grave atto di intimidazione ai danni del maresciallo a capo della locale stazione dei carabinieri, cui è stata mitragliata l'auto. Ho chiesto anche a nome loro di poter parlare con il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, ho lasciato un messaggio alla sua segreteria, anche per vedere di aprire un tavolo tecnico insieme al ministro dell'Interno per capire come si sta impostando la lotta alla 'ndrangheta, ma non ho ancora avuto risposta, evidentemente deve essere alle prese con tante altre priorità».
Non ultima forse il rilancio del suo partito, il Pd, ma non voglio maramaldeggiare. La Calabria è alle prese con la gestione dei vaccini anti-Covid, campagna che sta andando a rilento (i medici di base dicono che su 130.000 ultraottantenni, ne sono stati vaccinati solo 30.000). So che non è di sua competenza e non è materia sua, ma le chiedo se le risulta questo stallo, aggiungendo che, come testimoniato da più parti, a fine giornata le dosi inutilizzate vengono buttate e non utilizzate per altri soggetti.
«Non mi sono ancora vaccinato, aspetto il mio turno quando sarà, perché ci sono persone - gli anziani, i malati, i fragili - che ne hanno bisogno prima di me e prima dei politici. Quanto al problema, io non sono calabrese ma difendo la Calabria perché la sanità è stata commissariata e si sono deresponsabilizzate le persone del settore. Vengono commissariati i comuni, dove viene mandato un impiegato per la gestione degli affari correnti, il quale lavora 18 ore la settimana. Ma come si fa a parlare di task force a Roma o a Bruxelles, quando poi sul territorio siamo messi così? Senza pianificazione, senza uomini, senza mezzi».
La trovo battagliero come sempre, ma non avevo dubbi. So anche che la casa famiglia da lei fondata a Roma, i «Volontari del Capitano Ultimo», dove vengono portati avanti progetti di solidarietà a sostegno degli ultimi, lavora come e più di prima. Soprattutto in tempi di pandemia. Un' esperienza anche spirituale. Crede in Dio, Capitano?
«Con molti dubbi e errori, non sono perfetto. Cerco di applicare gli insegnamenti di Nostro Signore, ho fede nell' atto del dono, perché in ogni gesto di aiuto e generosità nei confronti degli umili, dei deboli, dei dimenticati, c' è Gesù. Credo nella Chiesa dei poveri, perché se siamo tutti in mezzo alla stessa tempesta, non siamo tutti sulla stessa barca. Dobbiamo impedire al virus di allargare ancora di più il divario e le disuguaglianze».
In conclusione, Capitano: ha dato di più l' Arma dei Carabinieri a Ultimo, o lei all'Arma?
«L'Arma mi ha dato tutto, e io ho restituito pochissimo rispetto a quello che ho ricevuto. Mi hanno insegnato a essere, ancora prima che un combattente, un uomo, e che prima vengono il bene comune e la sicurezza dei cittadini e poi le esigenze personali. L’ho imparato da tutti i carabinieri che ho incontrato, rispetto al quale io sono niente. Io sono Ultimo».
Romina Marceca per “la Repubblica” il 22 febbraio 2021. Fu il capitano dei carabinieri che arrestò il capo dei capi, Totò Riina. Era il 15 gennaio 1993 e Sergio De Caprio, nome in codice Ultimo, divenne il capitano, dal volto coperto dal mephisto, che diede il via alla riscossa dello Stato dopo le stragi del '92. Una data impressa nella lotta alla mafia ma anche l' inizio di uno dei più grandi misteri italiani: la mancata perquisizione del covo del capo di Cosa nostra. Adesso il colonnello dal volto celato va in pensione e, nell' era dei social, l' annuncia proprio lui con un tweet nel giorno del suo sessantesimo compleanno: «Oggi pensione e fine servizio. Nell' ultimo giorno le mie lacrime e il mio sorriso alla bandiera di guerra dell' Arma dei carabinieri. Al popolo italiano tutta la mia vita». Dall' anno scorso De Caprio è assessore regionale della Calabria con delega all' Ambiente. La sua vita da carabiniere non è stata sempre semplice. È arrivata una fiction dedicata a lui con protagonista Raoul Bova, ma sono arrivati anche gli anni in cui ha dovuto sostenere la sua innocenza in un' aula di tribunale per la mancata perquisizione del covo di Riina. L' Arma, secondo l' accusa, attese 16 giorni prima di entrare nella villa di via Bernini a Palermo. E gli uomini di Cosa nostra fecero trovare vuota quella casa. De Caprio, imputato per favoreggiamento, venne assolto. Negli ultimi anni ha dovuto rivolgersi al tribunale amministrativo per la scorta che gli era stata revocata e poi riassegnata. Il Capitano Ultimo ha anche registrato un video, ieri, in cui si rivolge al Crimor del Ros, l'unita da lui fondata e di cui è stato capo: «Vado in pensione, abbiamo combattuto, rivendico tutte le azioni passate presenti e future, torniamo ad essere il nulla da cui veniamo».
Capitano Ultimo, l'uomo che ha arrestato Riina va in pensione. Le Iene News il 22 febbraio 2021. Sergio De Caprio, che avevamo incontrato con Giulio Golia annuncia che dopo anni di onorata carriera andrà in pensione. Nel 1993 aveva messo le manette al capo dei capi Totò Riina. Su Twitter il Capitano Ultimo scrive: “21 febbraio 2021 pensione e fine servizio. Nell'ultimo giorno, le mie lacrime e il mio sorriso alla Bandiera di Guerra dell'Arma dei Carabinieri. Al Popolo italiano tutta la mia vita. Ultimo”. Con queste parole Sergio De Caprio, meglio conosciuto come Capitano Ultimo, annuncia il suo ritiro dopo una lunga e onorata carriera. Nel 1993 Ultimo ha messo le manette ai polsi di Totò Riina, il capo dei capi. A Giulio Golia aveva raccontato gli attimi incredibili di quell’arresto. “Avevamo due macchine davanti e due dietro. Avevamo stabilito che Riina lo prendevo io. Non hai nessuna paura, vedi la partita e la giochi. Non fai vedere le armi, perché se fai vedere le armi crei una reazione, devi sembrare un coglione. Perché la pistola? Per fare paura? La paura è per i ricchi. Quando ho preso Riina aveva la paura della vittima. Perché non sapeva chi eravamo”. Da quello storico giorno Ultimo sa che potrebbe subire la vendetta della mafia: “Ogni giorno penso che qualcuno potrebbe venirmi ad ammazzare. Mi guardo intorno e sto attento”. Nell’intervista a Giulio Golia, Ultimo svela anche l’origine del suo nome in codice: “Sceglievamo un nome di battaglia, perché così via radio nessuno ci poteva riconoscere. Mi sono scelto Ultimo perché tutti volevano essere primi, volevano mettersi in mostra”.
IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.
"Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c'è solo mafia". Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l'esplosione: "Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi", scrive Raffaella Fanelli su “La Repubblica”. "Sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un'enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri...". Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L'ex uomo d'onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. "Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato... Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l'aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza del bar Johnnie Walker... Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari... Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera... amuninni a mangiari 'na pizza".
Una donna avrebbe raccontato di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell'autostrada. E, stando ad altre testimonianze, ci sarebbe stato un misterioso aereo a sorvolare quel tratto della Palermo-Punta Raisi...
"Degli uomini in mimetica non so niente... Ma vidi un elicottero, forse della protezione civile o dei carabinieri".
Durante la strage di Capaci, o durante la preparazione, notò qualcuno estraneo a Cosa Nostra?
"C'era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri... Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l'infiltrato".
Potrebbe essere lo stesso uomo che tradì Emanuele Piazza, quindi un uomo dei servizi?
"In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l'ho mai riconosciuto... Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate".
Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del '93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Gioè si suicidò o fu ucciso?
"Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l'unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all'Asinara".
Il boss Francesco Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2.
"So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi... che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità".
La famiglia di Bernardo Provenzano rientrò a Corleone per lo stesso motivo?
"Anche Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso... Ma è una mia deduzione".
L'omicidio Lima: Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato il delitto. Ma furono davvero loro a uccidere?
"Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C'erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino".
L'omicidio Mattarella?
"Per quel che ne so io, fu voluto da politici".
Ci sono delle intercettazioni in casa Guttadauro fra il medico di Altofonte Salvatore Aragona e il boss Giuseppe Guttadauro sulla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alla domanda su chi commissionò l'omicidio, il boss risponde: estranei a Cosa Nostra...
"Discorsi da ufficio, non avrebbero potuto sapere. Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove".
La strage di via D'Amelio. Lei sapeva delle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino?
"Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all'inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l'avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c'è traccia: sono spariti verbali e registrazioni".
Si parla sempre di liste di nomi, di archivi spariti dalla villa di Totò Riina... Ma esistono questi documenti? Perché non sono mai state trovate carte importanti nei covi di Nitto Santapaola o di altri capi mandamento? Solo Riina aveva archivi?
"Riina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra... Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l'estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un'auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L'auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti".
Ha conosciuto il Capitano Ultimo?
"Mai visto. So che Bagarella ha messo una taglia sulla sua testa dopo l'arresto del cognato. Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori".
Capitano Ultimo: "La trattativa Stato-mafia? Una pagliacciata". In un'intervista a Panorama parla l'uomo che arrestò 20 anni fa Totò Riina. «L’antimafia? Un business. La trattativa Stato-mafia? Una pagliacciata. Delegittimare lo Stato? Un’azione criminale». Parola del Capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, 52 anni, che nel frattempo è diventato colonnello dei carabinieri e vicecomandante del Noe, Nucleo Operativo Ecologico. In un’intervista esclusiva pubblicata da Panorama in edicola da giovedì 24 ottobre l’uomo che il 15 gennaio di 20 anni fa arrestò Totò Riina non risparmia critiche a chi, in nome della lotta alla mafia, ha voluto costruirsi una carriera. L’ufficiale dell’Arma sostiene pure che «l’ipotesi di una trattativa tra Stato e mafia è una pagliacciata e che chi rompe il fronte della lotta alla criminalità organizzata fa soltanto il gioco dei boss». Per questo non esita a schierarsi insieme ai suoi uomini a fianco del presidente della Repubblica. E a difendere il suo ex capo Mario Mori dalle accuse di essere complice della mafia: «A Mori va tutta la mia solidarietà. Anche perché la lotta alla mafia non la fanno Giovanni Brusca e i collaboratori di giustizia, ma le persone oneste, i carabinieri, i poliziotti che ogni giorno stanno sulla strada e collaborano con i bravi magistrati». E aggiunge: «La giustizia la fanno le persone e mi sembra che parecchie persone da diversi anni facciano carriera agitando il suo nome (Mori) e usando la loro funzione pubblica per fare politica, scrivere libri, partecipare a convegni, organizzare spettacoli: tutto ciò è gravissimo e non è persecuzione, ma eversione». Ultimo ricorda anche Giovanni Falcone che «negli anni Ottanta, in solitudine e tra mille ostacoli, portava avanti una bella battaglia di civiltà, di dignità e di giustizia». Ma le cose poi sono cambiate: «Tanti suoi colleghi lo odiavano e lo hanno distrutto come uomo e come magistrato. Lo hanno sovraesposto. Lo hanno indicato come bersaglio alla mafia. E Totò Riina ha saputo colpire. In questo senso, si possono considerare i mandanti morali della strage di Capaci» conclude Ultimo.
Il capitano Ultimo: state in guardia da una certa antimafia. Sergio De Caprio, il mitico ufficiale dei carabinieri che 20 anni fa arrestò̀ Totò Riina, è certo: la tesi che lo Stato abbia trattato con Cosa nostra «è una pagliacciata», così dice in una intervista rilasciata a Giorgio Mulè su “Panorama”. Intervistare Sergio De Caprio non è facile per me. Ero un ragazzino quando ci conoscemmo, anzi quando io lo conobbi, perché lui neanche sapeva chi fossi. Era il 1987, eravamo a Bagheria in provincia di Palermo. Io, diciannovenne, ero un «biondino», cioè̀ un cronista in erba al Giornale di Sicilia. Sergio De Caprio aveva due stellette sulle spalline della divisa, che già̀ all’epoca indossava assai di rado. Era un tenente e comandava la compagnia del paese, un avamposto di Cosa nostra. I carabinieri, i «suoi» carabinieri, avevano catturato un latitante e io andai a Bagheria per sentire le notizie dell’arresto. Seppi solo più̀ avanti che De Caprio era arrivato al latitante stando ossessivamente alle calcagna di un sorvegliato speciale: per la Festa della mamma, il compare del mafioso aveva acquistato più̀ cannoli di ricotta del solito. Non so perché, ma da questo particolare il tenente intuì che si sarebbe incontrato con il latitante. Aveva ragione. Ci ritrovammo 6 anni dopo, a Palermo, la mattina del 15 gennaio 1993 alla caserma Bonsignore. L’uomo che avevo davanti non si chiamava più̀ Sergio De Caprio. Era il capitano Ultimo, l’ufficiale dei carabinieri che quella mattina aveva arrestato Totò Riina. Era già̀ all’epoca una leggenda per i suoi uomini e per l’Arma, lo divenne anche per gli italiani grazie pure alle fiction con Raoul Bova nei suoi panni. Ma a Palermo, in quella procura capace d’infangare gli eroi, alcuni pubblici ministeri lo trattarono di lì a poco come un amico dei mafiosi. E così hanno fatto (e continuano a fare) con alcuni suoi colleghi e perfino con il suo capo e maestro, l’ex colonnello Mario Mori, tornato di prepotenza al centro delle cronache il 15 ottobre scorso a causa delle motivazioni della sentenza con cui in luglio era stato assolto a Palermo dall’accusa di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. In quelle motivazioni i giudici demoliscono i pregiudizi della procura, scrivono che Mori è del tutto innocente, ma anche che l’ipotesi della trattativa fra Stato e Cosa nostra non sta in piedi. Siamo diventati amici io e Ultimo. Oggi lui è colonnello, io dirigo un settimanale. Ci incontriamo nella riserva che ha creato a Roma, un’oasi di altruismo e beneficenza. Per tutta la durata dell’intervista tiene un’enorme aquila reale sul braccio, l’ultima arrivata. Sono passati vent’anni dall’arresto di Riina, oggi Ultimo ha 52 anni.
Vent’anni dopo, la lotta alla mafia, e quindi l’azione dell’antimafia, ha fatto passi avanti? O sono state perse delle occasioni?
«Ti ricordi Bagheria? Quando ho iniziato io, combattere Cosa nostra era una cosa bella ed entusiasmante. Era una lotta fatta da gente semplice che si voleva bene, che amava la giustizia. Gente lontana dal potere, dallo spettacolo, dalle invidie... C’era un clima sano e per questo si lavorava bene».
Stai parlando della Sicilia degli anni Ottanta.
«Io vado in trincea, cioè sulla strada, nel 1987. Il clima di cui parlavo era quello costruito soprattutto da Giovanni Falcone. Era lui che in solitudine e tra mille ostacoli portava avanti questa bella battaglia di civiltà̀, di amicizia, di dignità̀, di giustizia. Poi le cose sono andate male, perché hanno iniziato a odiare lui».
L’antimafia dei veleni.
«Lo odiavano tanti suoi colleghi e lo hanno distrutto come uomo e come magistrato. Lo hanno sovraesposto. Lo hanno indicato come bersaglio alla mafia. E Totò Riina ha saputo colpire. In questo senso, si possono considerare i mandanti morali della strage di Capaci».
Accusa indimostrabile.
«Non lo dico io, lo dicono i fatti. È la storia».
Ma Falcone era un bersaglio e un nemico giurato di Cosa nostra...
«Certo, ma quelle persone l’hanno obbligato ad andare via da Palermo, lo hanno delegittimato, lo hanno lasciato solo e Riina ha colpito. Da quel momento in poi il clima è diventato diverso».
Che cosa è cambiato?
«È saltato tutto, l’antimafia non è stata più̀ una lotta di popolo ma di fazioni, è stata e viene ancora oggi usata per costruire carriere politiche, per assumere potere all’interno delle diverse strutture che si occupano di mafia».
Descrivi l’antimafia come un treno sul quale saltare per interessi personali?
«L’antimafia è diventata spettacolo, un gran bel business per alcuni. Ci sono giornalisti che hanno fatto carriera all’interno del proprio giornale, gente che ci ha fatto proprio i soldi, altri ci fanno perfino teatro: una vergogna, mangiano sulla memoria di chi è morto».
Proviamo a fare degli esempi. Accennavi al teatro e non è un mistero che Marco Travaglio da tempo fa uno spettacolo, si chiama «È stato la mafia». In questo modo pensi che venga calpestata la memoria di Falcone, spettacolarizzando le vicende avvenute dopo la sua morte?
«È antipatico parlare di Travaglio e non citare tantissimi altri. Io parlo di fatti e non di persone. Mi riferisco a quelli che invece di fare lotta alla mafia fanno business, spettacolo, politica. Sono come capi delle tifoserie, mentre invece dovrebbe esserci un fronte unico che si chiama Stato. Secondo me ci sono persone che hanno rotto questo fronte per interessi personali e questo è un reato morale gravissimo. Pensa alla felicità̀ di Riina a sentire chi delegittima lo Stato, chi insinua il dubbio fino a sporcare i massimi livelli istituzionali, fino alla presidenza della Repubblica. Te la faccio io una domanda: questo è o non è oggettivamente un favore alla mafia?»
Certamente sì, soprattutto per l’uso distorto che è stato fatto di notizie come quelle che riguardavano la presidenza della Repubblica.
«Questa non è antimafia, è qualcos’altro. Non è necessario fare nomi».
Direi che è superfluo, basta guardarsi intorno.
«Appunto. I giovani vedono tutti questi soloni che parlano, che scrivono che la mafia è tutto e dovunque, e sono confusi. Ecco, questi cattivi maestri devono stare lontani dalla lotta alla mafia, non devono dividere il fronte antimafia come hanno fatto e continuano a fare. Ai ragazzi dobbiamo dire: «Attenti a questi cattivi maestri», tutto qua. La lotta alla mafia deve essere una materia che unisce, non che divide».
Che cosa dice oggi Sergio De Caprio di Ultimo? Come lo vede dopo tutti questi anni e dopo tutto quello che gli è successo?
«Ultimo mi sembra sempre un bravo ragazzo che cammina sul filo senza rete sotto come fanno i funamboli. Ha ancora voglia di parlare di libertà̀, di dignità̀, di umiltà̀, di povertà̀... Non vuole diventare né generale né conduttore televisivo, né capo di un partito: non vuole essere niente, vuole sparire e lasciare il suo posto a ragazzi semplici che ragionino con la loro testa, che non si facciano plagiare dai cattivi maestri, che non diventino schiavi dell’ambizione e della superbia, che abbiano la voglia di ribellarsi ai pagliacci e alle regole quando diventano oppressione della povera gente. Direi che Ultimo mi sta ancora simpatico».
Proviamo a semplificare: Ultimo è stato un folle o ha solo svolto correttamente il suo lavoro?
«Ultimo è stato un ribelle, pur non volendo essere un ribelle. È stato un ribelle contro se stesso prima di tutto e poi contro l’ipocrisia e contro l’ingiustizia. Lo conosci: è una persona che parla con te come parla con i poveri. Non vuole dimostrare niente, tranne il fatto che esiste una cultura militare colma di valori che vanno al di là del contratto e delle logiche del lavoro. Sono valori che consentono a noi soldati di dividere le cose che abbiamo in parti uguali, che ci danno il coraggio di affrontare il pericolo e la morte con gioia, sentendoci una cosa sola col popolo di cui siamo figli».
Il capo di Ultimo, l’ex colonnello Mario Mori, è stato ed è ancora accusato di essere un complice della mafia. Che effetto ti fa, ancora oggi dopo vent’anni, vedere Mori additato come un traditore dello Stato?
«Se non ci fosse da piangere, direi che mi viene da ridere. È uno di quei fatti che distorcono la realtà̀ e su cui molte persone hanno impostato le proprie carriere. Dobbiamo dare solidarietà̀ al mio comandante e semplicemente ricordarci che, per noi soldati straccioni, rimane un esempio di coraggio e di semplicità̀, un esempio raro e prezioso di capacità̀ tecniche nella lotta alla mafia. Dobbiamo contrapporre a tante menzogne la verità̀. Bisogna spiegare alla gente che la lotta alla mafia non la fanno Giovanni Brusca e i collaboratori di giustizia, e neppure i figli dei mafiosi. La lotta alla mafia la fanno le persone oneste, i carabinieri, i poliziotti che ogni giorno stanno sulla strada e che collaborano con dei bravi magistrati. Niente a che vedere con le star delle televisioni e con gli adulatori delle folle, ma autentici servitori dello Stato».
I giudici nelle pagine di motivazione della sentenza che ha assolto Mori hanno sbriciolato l’impianto accusatorio della Procura di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia...
«Ho già̀ detto che questa della trattativa è una pagliacciata».
La Corte d’assise di Palermo sentirà̀ il capo dello Stato come teste sui colloqui tra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio, morto d’infarto nel 2012, dopo una campagna denigratoria e infamante. Il pm Antonio Di Matteo ha ribadito in aula: «Se lo Stato vuole essere credibile, deve saper processare se stesso». Lo Stato sta processando se stesso o si mina la sua credibilità̀?
«Io e i miei carabinieri saremo sempre a fianco del presidente della Repubblica. Onore e massimo rispetto per il dottor D’Ambrosio, per la sua storia e per quello che ha fatto a favore della giustizia e del popolo italiano».
Tornando a Mori: è un perseguitato della giustizia?
«La giustizia la fanno le persone. E mi sembra che parecchie persone da diversi anni facciano carriera agitando il suo nome e usando la loro funzione pubblica per fare politica, scrivere libri, partecipare a convegni, organizzare spettacoli: tutto ciò è gravissimo e non è persecuzione, ma eversione».
In che senso?
«Nel senso di distorsione della funzione pubblica e della verità̀. È giusto e doveroso ricercare la verità̀ e le prove, diverso è screditare le istituzioni e le persone».
Quando finirà̀ questa persecuzione?
«Non finirà̀ mai, perché purtroppo molti su queste trame hanno costruito la loro fortuna e i propri patrimoni economici. Poi cosa si rischia ad attaccare un carabiniere? Niente! Questa potrebbe essere una tecnica della mafia, un modo nuovo di infiltrarsi nelle istituzioni per distruggere la verità̀. Una cosa squallida».
Ma davvero un gruppo di poche persone, perché alla fine parliamo di poche persone, sono state in grado di condizionare così pesantemente un Paese al punto di far crocifiggere i suoi eroi?
«Venti persone hanno creato il mito delle Brigate rosse e hanno messo in ginocchio l’Italia. Riina con pochi mafiosi ignoranti ha messo in ginocchio il Paese. Non c’è da meravigliarsi. Il problema è che quattro o cinque persone abili e scaltre, andando continuamente in televisione, scrivendo sui giornali, sfornando libri, hanno trasformato insinuazioni e dubbi in false verità̀. E su queste hanno costruito un grande business. Dobbiamo ribellarci a queste manipolazioni delle menti e delle coscienze. Le persone devono aprire gli occhi».
Dopo la cattura di Riina e le disavventure giudiziarie sei passato a occuparti di reati ambientali, che costituiscono uno dei business più redditizi della mafia. Se il fronte antimafia non si fosse frantumato, e se ci fosse stata maggiore unità̀, si sarebbero potuti avere risultati diversi anche nella caccia ai grandi latitanti?
«Ti dico semplicemente che io ho imparato a parlare di quello che faccio. Io svolgo un’azione che mi è stata insegnata da grandissimi maestri. Ricordo ancora il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che rimane un esempio di vita e di tecnica, il generale Mori, il giudice Falcone; ma ho imparato molto anche da magistrati come Ilda Boccassini e tanti altri di cui non faccio il nome ma che porto sempre nel cuore. Queste persone rappresentano un patrimonio dello Stato e del popolo italiano e devono essere messe in condizioni di portare avanti in maniera omogenea, seria e serena la lotta antimafia e non di lottare per la sopravvivenza».
Eppure tu da una parte di chi rappresenta questo Stato sei ritenuto non una risorsa ma un ostacolo. Che senso ha?
«Non mi interessa, perché non dipende da me. Io sono a disposizione del mio Paese. Io amo la Sicilia, amo il popolo siciliano, amo la lotta alla mafia e odio la mafia in tutte le sue forme».
Se fossi stato all’estero, magari se fossi stato in America, come sarebbe andata la tua storia?
«Credo che in America sarei finito in una riserva indiana accanto ai miei fratelli apache. E comunque preferisco l’Italia all’America».
Torniamo allora da noi: come vivono questa situazione i «tuoi» carabinieri?
«Noi nel nostro cuore apparteniamo all’Esercito italiano perché siamo soldati. Vogliamo andare fuori dalle logiche del lavoro, noi non siamo lavoratori, siamo combattenti e vogliamo avere il privilegio di amare e servire il nostro popolo senza limiti, per questo promuoviamo il volontariato militare sulla strada, accanto ai poveri».
Che cosa vuol dire concretamente «volontariato militare»?
«Fare i volontari a favore della gente povera. Servire a tavola insieme ai detenuti, tenere per mano i non vedenti e i nostri fratelli diversamente abili. Vogliamo sognare un mondo migliore e lo facciamo stando sulla strada».
Ma il colonnello De Caprio ha mai detto a Ultimo: «Vabbè, basta, ritiriamoci con le aquile perché non ne vale più la pena»?
«Ultimo ha sempre vissuto con le aquile, con gli animali, con i poveri, con gli ultimi. Quindi sta bene dove sta. È Ultimo che guarda il colonnello e gli dice: «Vieni con me»».
E Ultimo ora che fa?
«Insieme ai volontari porta avanti una casa famiglia con otto minori, che ospita sei detenuti minorenni che lavorano ogni giorno insieme a persone disagiate e con loro ha ritrovato i valori della stazione dei carabinieri».
Sembri un chierico di Papa Francesco, non un carabiniere.
«Io sono un carabiniere. Padre Francesco è un’altra cosa».
Papa Francesco, non padre Francesco.
«Per come lo vedo io, il suo nome è padre Francesco e sono certo che gli piacerebbe essere chiamato così. E siccome l’ho chiamato padre, ogni altra parola su di lui sarebbe sprecata e fuori luogo».
Passiamo all’autocritica. Guardati indietro. Puoi dire: «Guarda, forse ho sbagliato, ho sbagliato in quel momento, quello che ho fatto forse si prestava a essere giudicato come un errore»?
«I miei errori li devono giudicare gli altri, perché ovviamente quando tu fai una cosa la fai perché credi sia giusta».
Era legittimo processarti per il covo di Riina?
«La questione non è se fosse legittimo o meno. Io questo non lo so. Quello che posso dire è che, poiché sono stato assolto, evidentemente le ipotesi dei pubblici ministeri erano sbagliate. Certamente io ho sofferto molto per questo e, altrettanto certamente, di questo spettacolo pietoso si sono divertiti Riina, Provenzano e i loro amici. È la realtà».
Dal tuo punto di vista è stato regalato tempo prezioso a Cosa nostra creando questo processo contro Ultimo e contro il prefetto Mori per il covo di Riina?
«Letta la sentenza di assoluzione, il tempo perso per il processo ha favorito l’associazione Cosa nostra».
Dopo oltre vent’anni non sappiamo ancora la verità̀ sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Tu ci credi all’entità esterna che ha compartecipato alle stragi?
«Io credo che dietro Riina ci sia stato Riina, e parlo di quello che risulta a me che ho lavorato sempre sulla strada. Ritengo che minimizzare il ruolo di Cosa nostra nelle stragi sia un’azione criminale e sia di interesse strategico da parte di Riina e dei corleonesi. Credo che delegittimare lo Stato e i suoi servitori sia un’azione ugualmente criminale e sia sempre un interesse strategico di Riina e dei corleonesi. Se dietro Riina c’è qualcuno, ovviamente dev’essere individuato e condannato. Però posso dirti che dietro di me e i miei carabinieri, quando lo abbiamo arrestato, c’era solo la purezza dei sentimenti di giovani carabinieri. C’era solo il profumo dolce e amaro della terra di Sicilia. C’era solo la rabbia di un popolo che ha cercato e trovato giustizia».
Non bisogna dimenticare i casi esemplari e noti come quello di Daniele Barillà, protagonista di un clamoroso caso di errore giudiziario per il quale ha scontato sette anni di carcere e affrontato tre gradi di giudizio prima che venisse riconosciuta la sua innocenza.
Barillà, nei lunghi anni passati in prigione è venuto a conoscenza di altri casi simili al suo? “Tanti, e potrei fare anche i nomi ma sarebbe una mancanza di rispetto. Il vero male è questo maledetto patteggiamento. Molti, anche se innocenti, accettano pur di tornare alle loro case e poter riabbracciare i propri cari. Io potevo uscire dopo 6 mesi ma non ho patteggiato perché ero sicuro di poter dimostrare la mia innocenza. La ‘mitica squadra’….."Già! Di loro faceva parte anche il capitano Ultimo. Seguì la macchina sbagliata, al processo fu uno dei miei accusatori e la sua testimonianza risultò determinante, chi poteva credere che un tale eroe avesse commesso un così grave errore?” Sette anni di carcere, 24 prigioni diverse. Come si può sopravvivere a tanto sapendosi innocente? “Giravo con in mano i verbali dei miei processi e dicevo a tutti che ero innocente. Qui siamo tutti innocenti – mi rispondevano – mica solo tu. Ho capito che ognuno ha i suoi guai.
Il cortocircuito del Fatto su Ultimo. Da fiancheggiatore di Riina a giustiziere contro Renzi. Il quotidiano di Travaglio cambia idea: il Capitano dei Carabinieri, prima vituperato e radiato per la vicenda del covo del boss mafioso, diventa ora l'arma per "scardinare il Palazzo" con le intercettazioni tra il premier e Adinolfi, scrive Luciano Capone l'1 settembre 2015 su "Il Foglio". Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, è tra i pochi eroi viventi del nostro paese. Reso immortale dalla fiction con Raoul Bova, è l’investigatore che si è conquistato l’immensa stima e riconoscenza degli italiani per aver condotto con i suoi metodi innovativi le indagini che hanno portato, dopo la stagione delle stragi, all’arresto di Totò Riina, il Capo dei capi. Questo per la gran parte degli italiani. Per un’altra parte, minoritaria, è considerato una specie di mafioso, una pedina fondamentale della trattativa stato-mafia, il braccio operativo del generale Mario Mori (suo capo al Ros): i due sono stati processati su iniziativa di Antonio Ingroia con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra per non aver perquisito il covo di Totò Riina (una strategia investigativa concordata con l’allora procuratore Giancarlo Caselli), accusa da cui sono stati poi assolti. L’assoluzione definitiva non è servita a Ultimo (e a Mori) a evitare che il suo nome venisse accostato a uno scambio di favori con Cosa nostra e alla Trattativa stato-mafia (una teoria, quella della trattativa, che Ultimo ha definito una “pagliacciata”). Tra quelli che a più riprese hanno accusato De Caprio e il suo ruolo definito ambiguo più che eroico c’è sempre stato Marco Travaglio, che ha sempre creduto più alle parole del pentito Massimo Ciancimino che a quelle del carabiniere. Travaglio si è occupato del tema, e in particolare della mancata perquisizione del “covo” di Riina, in tantissimi articoli, libri, programmi televisivi, monologhi e spettacoli teatrali. “Oggi, con tutto quello che è emerso sulla trattativa e sui mandanti esterni alle stragi, è naturale collegare la mancata perquisizione del covo agli accordi fra i trattativisti e Provenzano. Che aiutò i carabinieri a rintracciare Riina e a eliminare l’‘ala stragista’ di Cosa nostra, ma certo non lo fece gratis”, scriveva il direttore del Fatto quotidiano. E ancora, in un altro articolo: “I due ufficiali (Mori e Ultimo, ndr) non perquisirono il covo, lasciandolo svuotare dalla mafia e ingannando la Procura”. È stato quindi sorprendente pochi giorni fa, il 21 agosto 2015, leggere sul giornale diretto da Travaglio un articolo in cui si prendono le parti del colonnello Sergio De Caprio, esautorato dei suoi compiti operativi al Noe (Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri). Ultimo ha condotto diverse indagini delicate, tra le quali quelle in cui compaiono le intercettazioni tra il premier Matteo Renzi e il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, e proprio questo secondo il Fatto sarebbe il motivo della “purga”: “Colpa del suo spirito indipendente, della sua velocità all’iniziativa individuale – scrive il Fatto - di quella permanente difesa dei suoi uomini e dei suoi metodi di indagine da entrare in collisione con i doveri dell’obbedienza e della disciplina. Già in altre occasioni hanno provato a trasformarlo in un ingranaggio che gira a vuoto”. Ma come, non erano la sua indipendenza e i suoi metodi un punto cruciale della “Trattativa”? “Fin dai tempi remoti dell’arresto di Totò Riina – gennaio 1993 – che gli valse non una medaglia, ma la condanna a morte di Cosa nostra, poi un ordine di servizio che lo estrometteva dai Reparti operativi, poi un processo per “la mancata perquisizione del covo” da cui uscì assolto insieme con il suo comandante di allora, il generale Mario Mori”, scrive Pino Corrias, cancellando in 4 righe anni di teorie sulla Trattativa del suo direttore. Per Travaglio, Ultimo, insieme al suo amico e capo Mori, ha proprio le caratteristiche del delinquente, del fiancheggiatore della mafia, è uno degli uomini chiave degli indicibili accordi tra politica, mafia, terzi livelli e servizi (deviati, ovviamente): "È chiaro che il Ros ha mentito e ha ingannato la Procura. Ora, delle due l’una: o Mori e Ultimo sono due dilettanti allo sbaraglio; oppure hanno agito di proposito per favorire la mafia, o se stessi, o altri uomini dello Stato", scriveva Travaglio. Insomma, Ultimo avrebbe servito Bernardo Provenzano più che lo Stato, si tratta di un traditore, un delinquente che meriterebbe l’ergastolo, altro che la rimozione della “guida operativa” del Noe! Ma il Fatto non si è occupato del colonnello De Caprio solo in quell’articolo, lunedì gli ha fatto una lunga intervista. Quale migliore occasione per mettere alle strette questo personaggio da sempre visto dal direttore come un criminale? Ecco invece come viene descritto: “È il carabiniere che ha arrestato Riina, inquisito Orsi e Bisignani, aperto il fascicolo sulle Coop e intercettato Renzi col generale Adinolfi. Senza troppa reverenza nei confronti del Palazzo. E l’hanno punito”. E ancora: “È stato il protagonista di una lunga serie di indagini. Quelle scomode, soprattutto, portano la sua firma: lui è il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, conosciuto da tutti come il Capitano Ultimo”. E questo è solo l’inizio, ora arrivano le bordate: “Un uomo costretto a non mostrare mai il suo volto, Ultimo ama più la strada che i palazzi del potere. Semplice, pratico ed irrequieto. Pensa ai risultati, non alla burocrazia: per lui il fine è solo l’utile, i mezzi tutti quelli possibili”. Ma come? E la Trattativa? Provenzano, Mori, il favoreggiamento? E il covo? Ah sì, del covo se ne parla: “Il Colonnello Sergio De Caprio ha iniziato questa intervista in quello che ormai è ritenuto il suo “covo”: la casa famiglia Capitano Ultimo "creata per l’esigenza di aiutare chi è in difficoltà". Ma non aiutava la mafia? Non è che nel suo covo ospita il latitante Messina Denaro? Ma è solo l’inizio, ecco che arrivano le domande scomode, quelle che nessuno gli ha mai fatto: “Quale sensazione ha provato quando ha arrestato Totò Riina, per lei era la fine o l’inizio di qualcosa?”, “Quali attività vengono svolte nella Casa Famiglia Ultimo?”, “All’interno della struttura c’è l’allevamento dei falchi da lei personalmente curato. Perché proprio i falchi?”, “Quanto le è costato trascurare la sua vita privata per il lavoro. È riuscito a conciliare tutto?”. Il paginone dedicato a Ultimo è finito, non c’è spazio per le domande sul covo, sull’accordo con Provenzano per arrestare Riina, sul papello, la trattativa, Ciancimino. Niente. Quello che veniva trattato da mafioso quando arrestava Totò Riina diventa un eroe per aver intercettato Renzi, da fiancheggiatore della mafia a uomo “semplice, pratico ed irrequieto” che “ama più la strada che i palazzi del potere”. In realtà Ultimo è sempre lo stesso, è al Fatto che hanno una lingua per i magistrati di Palermo e una per De Caprio. Nella prossima edizione del suo libro “Slurp”, quello sulla leccaculagine dei giornalisti italiani, il direttore del Fatto potrebbe aggiungere un capitolo su una nuova pratica estrema che pare conoscere bene, il bilinguismo.
Giustizia. È incandidabile, anzi no: il caso assurdo di Franco Metta ex sindaco di Cerignola. Marco Magri su Il Riformista il 6 Agosto 2021. Il caso dell’avvocato Franco Metta, ex sindaco di Cerignola, comune sciolto per infiltrazioni mafiose, può essere d’esempio per riflettere su una disposizione di legge molto contraddittoria, alla quale forse politica e magistratura dovrebbero iniziare a guardare con atteggiamento più dubitativo. Stando alle notizie circolate, Metta è stato dichiarato incandidabile dalla Corte d’appello di Bari ai sensi dell’articolo 143 comma 11 del Testo Unico sugli Enti Locali. Disposizione nella quale si prevede che, se il consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, gli amministratori locali «responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento» non possono ricandidarsi, per i due turni successivi, alle elezioni per il Parlamento nazionale, a quelle per il Parlamento europeo e alle elezioni amministrative in tutto il territorio nazionale (non solo per i singoli enti interessati dallo scioglimento). Per farli dichiarare incandidabili, il Ministro dell’interno ha l’onere di provocare un apposito processo, trasmettendo al tribunale civile del luogo la stessa proposta di scioglimento inoltrata al Consiglio dei Ministri. L’avvocato Metta, comunque, alle prossime elezioni ci sarà: si vota in autunno e l’ex sindaco ha tutto il tempo di impugnare in Cassazione la pronuncia della Corte d’appello. L’incandidabilità, per l’articolo 143, ha effetto soltanto dopo che è stata dichiarata dal giudice «con provvedimento definitivo». Ciò significa che, visti i tempi processuali, la decisione della Cassazione non arriverà prima delle nuove elezioni e, se confermerà la decisione della Corte d’appello, con Metta di nuovo Sindaco, si porrà un problema di decadenza anticipata dal mandato (questione delicata, perché la legge non è chiara neppure su questo). Nel merito, la tesi accusatoria del Ministro, condivisa dalla Corte d’appello, è che Metta, quando era in carica, abbia generato, nella pubblica opinione locale, l’impressione di mantenere uno stile di vita inopportuno, perché apparentemente contiguo o non sufficientemente impermeabile alla criminalità organizzata. Ora non interessa se il fatto sia vero e correttamente riportato. Non importa neppure interrogarsi su Metta, sul suo livello di etica e di capacità politica e amministrativa. Il problema, qui, è la legge. Dal 2012, l’art. 143 comma 11 TUEL “convive” con la legge Severino, che nega il diritto di candidarsi alle elezioni soltanto all’amministratore locale condannato con sentenza, per reati specifici (tra cui l’associazione mafiosa), o che abbia subito l’applicazione di una misura di sicurezza. Dunque Metta, per la legge Severino, è perfettamente candidabile. Non è mai stato rinviato a giudizio per uno dei reati ostativi alla carica di sindaco. Eppure rischia di essere dichiarato incandidabile, in forza dell’art. 143 comma 11 TUEL, per aver “provocato” il sospetto del Ministro. Finora la Cassazione ha rifiutato di mettere sotto i riflettori questa macroscopica contraddizione, convinta che l’incandidabilità prevista dall’art. 143 comma 11 TUEL sia una misura di “prevenzione”. Ma molte sono le domande che la situazione normativa attuale solleva. Non è forse preventiva anche l’incandidabilità “per mafia” contemplata dalla legge Severino, che pure dispone esattamente il contrario? E che grado di coerenza c’è in un ordinamento che qualifica un amministratore locale, al tempo stesso, “candidabile”, per non aver mai riportato sentenze di condanna, e “incandidabile” perché il Ministro dell’Interno sospetta che la sua carica agevoli le infiltrazioni mafiose? Non si avverte, questa grave contraddizione, nel vedere la Cassazione decidere che un sindaco, ai sensi dell’art. 143 comma 11 TUEL, resta incandidabile persino se il giudice penale lo ha prosciolto dall’imputazione di concorso in associazione mafiosa? Il caso dell’avvocato Metta non è il primo, e non sarà l’ultimo. C’è solo da augurarsi che lui o altri nella sua stessa situazione facciano valere, magari riportandole in Cassazione, le ragioni dell’incostituzionalità dell’art. 143 comma 11 del TUEL, forse anche del suo contrasto con la CEDU. Meglio ancora sarebbe, se il Parlamento abrogasse l’art. 143 comma 11 del TUEL. Non sarebbe, certo, la grande riforma che molti auspicano, ma, a volte, la cosa migliore è tornare a un buon punto di partenza. Marco Magri
· Il Business delle le Misure di Prevenzione: Esproprio Proletario.
Quella strana prevenzione che esiste solo in Italia. Vincenzo Vitale su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Il verbo “prevenire” indica qualcuno o qualcosa che giunge prima del tempo previsto, allo scopo di evitare che un esito negativo si possa verificare. Un esempio. Siamo in un momento storico in cui la medicina “preventiva” mostra le sue prerogative positive rispetto a quella “terapeutica”. Qui davvero prevenire è meglio di curare, dal momento che la prevenzione praticata attraverso una alimentazione sana ed equilibrata, l’esercizio fisico, regolari ore di sonno ecc. garantisce comportamenti tali da scongiurare un esito patologico, il quale, se avverato, si presenterebbe poi di difficile soluzione. In questo caso prevenire è meglio che curare. Che dire allora delle misure di prevenzione disciplinate nell’ordinamento giuridico italiano? Prevengono? E che cosa prevengono? E come?
In realtà, va subito denunciato un caso emblematico di autentica ipocrisia semantica a sfondo sociale, consumata proprio dalle istituzioni. Prova ne sia la circostanza che vede la Cassazione inciampare su una questione lessicale, la quale invece travalica i confini del lessico per farsi cogliere quale questione eminentemente giuridica. È la Cassazione infatti a dirci che le misure di prevenzione non sono “sanzioni”, rivelandoci tuttavia come esse abbiano comunque una natura “afflittiva”. Avete mai visto misure di carattere afflittivo che non siano sanzioni? Io mai. Infatti, la caratteristica propria della afflittività sta nel suo carattere sanzionatorio, sicché se certamente esistono sanzioni non afflittive (per esempio, quelle dei verbali dei vigili urbani), ogni afflittività non può non avere carattere sanzionatorio. In questo strano e singolare gioco di parole – quello per cui la Cassazione ci dice più volte che le misure di prevenzione sono afflittive, ma non sono sanzioni – si manifesta l’ipocrisia semantica sopra accennata, destinata evidentemente a far sì che l’opinione pubblica possa accettare ciò che invece è inaccettabile: che cioè vere e proprie sanzioni afflittive vengano irrogate senza un processo penale. Per questo, l’intero sistema delle misure di prevenzione rimane inaccettabile, in quanto contrario ai principi fondamentali dello Stato di diritto.
Al di là di ogni ipocrisia, le misure di prevenzione si lasciano cogliere come autocontraddittorie. Infatti, se esse vanno applicate prima della commissione del reato – proprio in quanto sono destinate a prevenirne la consumazione – allora non debbono e non possono essere afflittive, come invece di fatto sono e come sono riconosciute essere dalla stessa Cassazione; se invece sono afflittive – come in effetti sono – allora andrebbero applicate, come sanzioni, dopo la consumazione del reato: ma in tal modo finirebbero col sovrapporsi alle misure di sicurezza, dissolvendosi in queste ultime. Non se ne esce: tali misure non possono sussistere così come sono e, se sussistono, sono chiaramente assurde, contrarie alla logica e ai più elementari principi giuridici. A riprova della insostenibilità di tale assurda situazione e dei suoi effetti, basti leggere alcune sentenze della Corte di Cassazione – non solo una – ove si afferma, in relazione al giudizio di pericolosità, che delle misure rappresenta il presupposto giuridico, che Tizio nel 2006 divenne pericoloso, cessò di esserlo nel 2010, ma lo diventò di nuovo nel 2015 e così via di questo passo.
E ciò si annota in tutta serietà, come nulla fosse, senza avvertire come si sia in tal modo già superata la soglia del ridicolo, configurando un soggetto che diventa pericoloso – tanto da esigere l’applicazione di una misura di sicurezza – “a intermittenza”, a volte sì e a volte no, a seconda del sospetto che gravi su di lui per aver frequentato una certa persona o aver consumato una birra presso un certo esercizio commerciale. Il tanto celebrato requisito della pericolosità non può ridursi a una sorta di soprabito che sia possibile indossare o riporre nell’armadio quando occorra, il che fa soltanto sorridere; la pericolosità di un soggetto delinea invece un tratto caratteriale indefettibile, il quale, proprio per questo, o c’è o non c’è, non potendosi ravvisare in alcun modo pause o intermezzi di inspiegabile assenza fra due momenti reputati invece come contrassegnati dalla pericolosità della persona. Il fatto è che questo tanto favoleggiato giudizio di pericolosità è null’altro che un giudizio impossibile se funzionalizzato all’applicazione delle misure di prevenzione, in quanto si riduce necessariamente a un giudizio sul modo d’essere dell’uomo, sulla sua natura profonda, precluso a ogni giudice umano e riservato a un giudice che abita altri e più nobili luoghi.
Sulla scorta soltanto di queste osservazioni critiche, la sola possibilità di dare un senso giuridico alle misure di prevenzione non sta in una riforma: sta nel procedere alla loro totale abrogazione. Infatti, a differenza della vera ed efficace prevenzione cui ho accennato al principio di queste righe – quella medica – le misure di prevenzione non solo non prevengono per endemica impossibilità di farlo, ma vanno viste come misure di “autocontraddizione” (dell’ordinamento giuridico con se stesso). Non a caso, esse esistono in Europa soltanto in Italia: nel resto d’Europa e nell’intero mondo occidentale, non ne conoscono neppure il nome. E tanto basti.
Vincenzo Vitale
Speciale Le Iene: scandalo nell'Antimafia. Le Iene il 10 dicembre 2021. Con Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli ripercorriamo la nostra lunga inchiesta, dopo la sentenza di primo grado e poco prima che l'Appello entri nel vivo, sul cosiddetto "cerchio magico" nella gestione temporanea di alcuni beni confiscati alla mafia a Palermo. A capo della sezione del Tribunale che se ne occupa c'era Silvana Saguto, condannata con altre 11 persone. Testimonianze, indagini, retroscena, intercettazioni e ricostruzioni: ecco come si è arrivati alla sentenza
DA UN’IDEA DI ATTILIO BOLZONI, CON L’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA. La “zarina” di Palermo e il grande affare dei beni confiscati alle mafie. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA il 20 novembre 2021 su editorialedomani.it. Lo scandalo che ha travolto l'Antimafia siciliana, che ha scoperchiato una grande vergogna. La giudice Saguto, insieme ad avvocati, amministratori giudiziari, prefetti, consulenti, ufficiali della Guardia di Finanza, aveva messo su un'infernale macchina che divorava denaro e spolpava gli stessi beni sottratti ai boss
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.
Amministrava il più grande patrimonio da Roma in giù, era chiamata “la zarina di Palermo”. Ricchezze di mafia che passavano dalle sue mani, che venivano gestite come un affare di famiglia. Finita al centro di un'indagine, prima è stata radiata dalla magistratura e poi condannata a otto anni e mezzo di reclusione. È la storia di Silvana Saguto, presidente della speciale sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, quella che sequestra e confisca i beni di Cosa Nostra.
Uno scandalo che ha travolto l’Antimafia siciliana, che ha scoperchiato una grande vergogna. Perché la giudice Saguto, insieme ad avvocati, amministratori giudiziari, prefetti, consulenti, ufficiali della Guardia di Finanza, aveva messo su un’infernale macchina che divorava denaro e spolpava gli stessi beni sottratti ai boss.
Si legge nelle 1314 pagine delle motivazioni della sentenza che l’ha condannata: «Ciò che è emerso dalla pletora di fatti delittuosi contestati è il totale mercimonio della gestione dei beni sequestrati e l’approfittamento, a vari livelli, del ruolo istituzionale ricoperto, che ha portato alla commissione di una serie eterogenea di reati, posti in essere mediante una così grave distorsione - per tempi, modalità e protrazione delle condotte - delle funzioni giudiziarie da avere arrecato, oltre che danni patrimoniali ingentissimi all'erario e alle amministrazioni giudiziarie, anche un discredito gravissimo all'amministrazione della giustizia..».
L’inchiesta su Silvana Saguto è partita nel 2015 da Caltanissetta (procuratore aggiunto Gabriele Paci, sostituti procuratori Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti) e il processo di primo grado si è chiuso un anno fa. Da qualche giorno è cominciato quello d’Appello.
Le indagini hanno accertato scambi di favori e di soldi. Soprattutto tra Silvana Saguto e l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il “re” degli amministratori giudiziari. Il caso dei beni sequestrati alle mafie è stato sollevato per la prima volta dai servizi giornalistici di Pino Maniaci, il direttore di “Telejato” che ha condotto una vera e propria campagna contro il “metodo Saguto”.
Negli stessi mesi in cui denunciava le opacità della magistrata, il giornalista è stato accusato di tentata estorsione dai pubblici ministeri di Palermo, accusa dalla quale Maniaci è stato totalmente scagionato.
In questa serie del Blog Mafie ricostruiamo - attraverso ampi stralci degli atti del processo - quello che è stato definito «il lato oscuro dell'Antimafia».
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA
Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.
LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto, i beni confiscati e “il lato oscuro dell’antimafia”. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA il 20 novembre 2021 su editorialedomani.it. Il 14 maggio 2015 andava in onda il servizio televisivo "il lato oscuro dell'antimafia " de “Le Iene”, che segnalava una concentrazione di incarichi di amministratore giudiziario affidati all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara da parte della Sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta dalla dottoressa Silvana Saguto.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.
Il presente procedimento riguarda fatti di una certa complessità, verificatisi in un periodo temporale piuttosto esteso ed il cui accertamento ha richiesto una articolata istruttoria dibattimentale.
Prima di passare all'analisi, nel dettaglio, delle accuse che vengono mosse agli odierni inputati, pare opportuno ripercorrere l'incipit delle indagini, al fine di evidenziare gli elementi che hanno determinato gli inquirenti ad esercitare l'azione penale.
I testimoni sentiti nel corso dell'istruttoria dibattimentale, in particolare Gioacchino Natoli, Salvatore Di Vitale e Claudia Rosini, hanno consentito di ricostruire il contesto in cui è maturata l'indagine che ha condotto al presente processo.
Il 14 maggio 2015 andava in onda un servizio della trasmissione televisiva "Le Iene", intitolato "il lato oscuro dell'antimafia ", che descriveva il mondo delle misure di prevenzione disciplinato dal d.lgs. 159/2011, c.d. codice antimafia e, in particolare, segnalava una concentrazione di incarichi di amministratore giudiziario affidati all'Avv. Gaetano Cappellano Seminara da parte della Sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta dalla dott.ssa Silvana Saguto.
LA CAMPAGNA MEDIATICA
La trasmissione televisiva, inoltre, indicava alcune circostanze sospette: l'esistenza di incarichi di coadiutore dell'amministratore giudiziario conferiti da Gaetano Cappellano Seminara a favore di Lorenzo Curamma, marito di Silvana Saguto, ed una situazione di conflitto di interessi di Gaetano Cappellano Seminara, proprietario di un hotel a Palermo e contestualmente amministratore giudiziario di un compendio aziendale comprendente anche un hotel della medesima città.
Gioacchino Natoli, insediatosi il 15 maggio 2015 quale nuovo presidente della Corte di Appello di Palermo, ha riferito che lo stesso giorno del suo insediamento era stato contattato dal Procuratore Generale della Corte di Cassazione, che lo aveva informato del servizio giornalistico delle "Iene" del giorno precedente e gli aveva formalmente richiesto degli approfondimenti del caso, anche attraverso l'intervento del Presidente del Tribunale di Palermo.
Il Presidente del Tribunale di Palermo, dott. Salvatore Di Vitale, ricevuta la sollecitazione da parte del capo della Corte, aveva a sua volta richiesto notizie a Silvana Saguto, quale presidente della sezione delle Misure di Prevenzione, in merito ai fatti rappresentati dagli organi di stampa e concernenti l'affidamento degli incarichi di amministratore giudiziario.
Alla superiore richiesta i magistrati della Sezione delle Misure di Prevenzione di Palermo (Silvana Saguto, Fabio Licata, Lorenzo Chiaramonte e Claudia Rosini) avevano risposto con una nota, nella quale denunciavano l'esistenza, fin dal 2013, di una campagna stampa denigratoria avviata da Pino Maniaci, direttore della testata giornalistica Telejato, nell'ambito della quale veniva descritta una gestione superficiale ed illecita dei beni sottoposti a sequestro di prevenzione da parte di
pochi amministratori giudiziari con la compiacenza dei magistrati della sezione.
Il serrato attacco giornalistico di Pino Maniaci - secondo i giudici della sezione - aveva, in particolare, ad oggetto Gaetano Cappellano Seminara, indicato quale soggetto titolare di un numero spropositato di incarichi, che riceveva consistenti liquidazioni in cambio di favori alla presidente Saguto e ai suoi familiari.
I magistrati firmatari della nota dell’1 giugno 2015 prendendo atto della circostanza che la tesi di Pino Maniaci era stata ripresa anche dal programma “Le lene” del 14 maggio 2015 e dal giornale il “Fatto Quotidiano” del 31 maggio 2015 - rappresentavano al Presidente del Tribunale che, negli anni, il numero degli amministratori giudiziari coinvolti all'interno della sezione era cresciuto fino ad arrivare a 111 (rispetto a 302 amministrazioni giudiziarie in corso) e che veniva seguito nelle nomine il criterio della rotazione degli incarichi, temperato dalla necessità di affidare le procedure più complesse agli amministratori più attrezzati ed esperti.
GLI AMMINISTRATORI E GLI INCARICHI
Gli amministratori che avevano un maggior numero di incarichi erano: Alessandro Scirneca (13); Giuseppe Glorioso (10); Roberto Surdi (10); Antonino Galatolo (10); Andrea Aiello (9); Gaetano Cappellano Seminara (9); Luigi Turchio (8).
Il Presidente del Tribunale di Palermo trasmetteva la relazione dei magistrati della Sezione delle Misure di Prevenzione al Consiglio Superiore della Magistratura e chiedeva ulteriori notizie a
Silvana Saguto su quanto descritto dai giornalisti del Fatto Quotidiano (in particolare sulla misura di prevenzione denominata Buttitta, e sui rapporti professionali tra Gaetano Cappellano Seminara e Lorenzo Caramma).
Silvana Saguto, con nota del 9 giugno 2015 rivolta al Presidente del Tribunale, chiariva che il marito Lorenzo Caramma non ricopriva alcuna carica nei procedimenti di prevenzione pendenti
nella sezione, ad eccezione della procedura Buttitta, che però era stata avviata nel 2007, periodo in cui ella era giudice componente dell'ufficio GIP.
Il 24 giugno 2015 il Presidente Di Vitale indirizzava una nota riservata a Silvana Saguto, invitandola a riflettere sulla prosecuzione dell'incarico del marito nella procedura Buttitta, gestita da Gaetano Cappellano Seminara.
Il 22 luglio 2015 Silvana Saguto scriveva al Presidente del Tribunale, comunicandogli che, a seguito della riorganizzazione della struttura delle cave gestite dall'amministrazione giudiziaria, era cessato l'incarico del marito all'interno della procedura Buttitta.
Nel corso del procedimento veniva escussa quale teste anche Claudia Rosini, magistrato all’epoca delle contestazioni in servizio presso la sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo.
Si tratta di una testimonianza particolarmente significativa, poiché proveniente da un giudice “interno” alla sezione coinvolta nell'indagine poi sfociata nel presente processo, ma non coinvolto personalmente nell'indagine.
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LA ZARINA DI PALERMO. La Presidente delle misure di prevenzione e il suo cerchio magico. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA il 21 novembre 2021 su editorialedomani.it. Ecco la testimonianza del magistrato Claudia Rosini. Ha riferito che era stata in servizio presso la sezione delle Misure di Prevenzione dal maggio 2012 al 13 settembre 2015; a giugno aveva presentato domanda di trasferimento ad altra sezione, perché avvertiva un senso di disagio e di isolamento.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.
Le dichiarazioni di Claudia Rosini appaiono, quindi, in grado di descrivere efficacemente e, si ribadisce, dall’interno, il contesto venuto alla luce con le intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte nel presente procedimento.
Claudia Rosini ha riferito che: era stata in servizio presso la sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo dal maggio 2012 al 13 settembre 2015; a giugno del 2015 aveva presentato domanda di trasferimento ad altra sezione, perché avvertiva un senso di disagio e di isolamento all'interno della sezione delle Misure di Prevenzione; con riferimento all'organizzazione interna della sezione, la testimone ha chiarito che non vi era un sistema automatico per l’assegnazione delle procedure ai magistrati o per la composizione dei collegi; nel tempo si era accorta che non veniva coinvolta nelle procedure di prevenzione più complesse, che venivano gestite dal collegio composto da Silvana Saguto, Fabio Licata e Lorenzo Chiaramonte, che erano magistrati assegnati in via esclusiva alla sezione delle Misure di Prevenzione.
SEMPRE GLI STESSI AMMINISTRATORI
Dal 2013 era iniziata una campagna mediatica molto pressante da parte di Pino Maniaci, direttore dell'emittente Telejato, nella quale si parlava di metodo mafioso nella gestione delle misure di prevenzione e della concentrazione degli incarichi più importanti nelle mani degli stessi amministratori giudiziari, con particolare riferimento a Gaetano Cappellano Seminara.
L’attacco mediatico aveva portato i giudici della sezione a parlare tra loro delle questioni sollevate da Pino Maniaci; nel momento in cui doveva essere nominato un amministratore giudiziario in una procedura di prevenzione, era il giudice delegato che solitamente proponeva un nome al collegio che, di norma, accoglieva la proposta; gli amministratori giudiziari venivano scelti in base alla tipologia di misura di prevenzione: nel caso di procedure consistenti o complesse si sceglievano soggetti che avevano maggiore esperienza nelle amministrazioni giudiziarie; la presidente Saguto proponeva per le procedure più complesse Gaetano Cappellano Seminara; Fabio Licata, invece, l'avvocato Andrea Aiello; per le procedure più semplici, invece, si nominavano anche gli amministratori meno esperti, seguendo un criterio di rotazione; sulla base dei criteri che si erano seguiti in sezione, le era sembrata una vistosa eccezione alla regola la nomina di Walter Virga, figlio del magistrato Tommaso Virga, nella procedura Rappa, che era di enorme complessità; Claudia Rosini aveva anche avanzato qualche perplessità parlando con Fabio Licata, questi tuttavia le aveva risposto che Walter Virga si era dimostrato capace nella procedura Giardina, quindi era stato nominato anche nella procedura Rappa.
LA LETTERA AL CSM
Nel gennaio 2014 aveva espresso dei dubbi sulla nomina di Cappellano Seminara quale amministratore giudiziario nella procedura Sbeglia, poiché vi era in atto la campagna mediatica contro la sezione, ma la presidente Saguto e i colleghi avevano ritenuto di nominare Cappellano Seminara, perché si trattava di un "seguito", cioè di una procedura collegata ad una precedente già gestita da Cappellano Seminara; aveva saputo dopo qualche mese dalla stampa che l'amministratore giudiziario si trovava, per la procedura Sbeglia, in conflitto di interessi poiché Cappellano Seminara era proprietario dell'hotel Brunaccini e la procedura Sbeglia aveva all'interno un hotel; aveva quindi rappresentato ai colleghi che lei non sapeva che Cappellano Seminara avesse un hotel e le era stato risposto che era una circostanza nota a tutti e, comunque, ciò avrebbe garantito una maggiore professionalità dell'amministratore giudiziario nella gestione dell'albergo in sequestro; ad ottobre del 2013 aveva aderito ad una richiesta di pratica a tutela avanzata dalla sezione al CSM per rispondere agli attacchi mediatici che provenivano soprattutto da Telejato; dopo la trasmissione delle lene, di maggio 2015, in cui si metteva sotto accusa l'operato della sezione e del suo Presidente, Claudia Rosini aveva trovato i colleghi riuniti in ufficio intenti a preparare una lettera per difendersi dalle accuse rivolte dalla trasmissione televisiva; aveva sottoscritto la lettera, ritenendola una sorta di commiato dalla sezione, dalla quale aveva ormai deciso di allontanarsi, non aveva invece firmato la nota predisposta dai colleghi in risposta a quella del presidente Di Vitale, il quale aveva chiesto dei chiarimenti in ordine ai fatti rappresentati dal servizio delle lene. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA ZARINA DI PALERMO. Saguto, l’inizio dell’indagine che ha svelato interessi, legami e amici di amici. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA il 22 novembre 2021 su editorialedomani.it . Nei primi mesi del 2015 veniva avviata dagli inquirenti un'attività di intercettazione telefonica ed ambientale, prima nei confronti di Walter Virga (amministratore giudiziario della procedura Rappa) e successivamente a carico di Silvana Saguto, Gaetano Cappellano Seminara, Carmelo Provenzano, Lorenzo Caramma, Rosolino Nasca ed altri ancora.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.
Nei primi mesi del 2015 veniva avviata dagli inquirenti un'attività di intercettazione telefonica ed ambientale, dapprima nei confronti di Walter Virga (amministratore giudiziario della procedura Rappa) e dei suoi collaboratori, successivamente a carico di Silvana Saguto (cellulare e ufficio), Gaetano Cappellano Seminara, Carmelo Provenzano, Lorenzo Caramma, Rosolino Nasca ed altri soggetti ancora.
Gli esiti delle attività tecnica di intercettazione hanno fornito, come di seguito ci si accinge ad esporre, una rappresentazione nitida dei rapporti esistenti fra gli odierni imputati, delle loro cointeressenze e dei loro legami.
Silvana Saguto, che nei primi mesi del 2015 stava attraversando un periodo di grande difficoltà economica, è apparsa, sin da subito, estremamente legata a Gaetano Cappellano Seminara, soggetto al quale faceva riferimento anche nei discorsi con i familiari per la risoluzione dei suoi problemi economici.
Evidente è apparso, sin da subito, il nesso esistente tra Silvana Saguto e Cappellano Seminara, per il tramite del marito del giudice, Lorenzo Caramrna, il quale rivestiva il ruolo di coadiutore in diverse amministrazioni giudiziarie gestite da Cappellano Seminara.
Come si vedrà nel prosieguo, molteplici sono le interlocuzioni di Silvana Saguto con Cappellano Seminara per ottenere il prima possibile i pagamenti per l'attività professionale del marito Lorenzo Caramma svolta a favore di Cappellano Seminara.
LE PRIME INTERCETTAZIONI
Le intercettazioni consentivano contestualmente di fare emergere un'altra figura, quella di Carmelo Provenzano, che progressivamente assumeva una maggiore centralità nei rapporti con Silvana Saguto, ponendosi come alternativa a Gaetano Cappellano Seminara nella risoluzione di problematiche di natura familiare (redazione della tesi di laurea del figlio della Saguto, Emanuele Caramma) ed economico (pagamento del rinfresco di laurea di Emanuele Caramma, dazione di 15.000 euro nei confronti Silvana Saguto).
Gli esiti dell'attività tecnica di intercettazione facevano, inoltre, emergere subito le prime reazioni degli odierni imputati alle indiscrezioni sulla gestione della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che stavano cominciando a trapelare.
Alquanto significative appaiono, al riguardo, le conversazione in cui la dott.ssa Saguto e l' Avv.Cappellano Seminara, commentando a caldo la trasmissione delle Iene, mostravano tutta la loro preoccupazione in relazione ai fatti, denunciati dai giornalisti, riguardanti, da un lato, l'eccessivo numero di nomine ricevute da Cappellano Seminara e, dall'altro lato, gli incarichi conferiti all'ing. Lorenzo Caramma, marito della Saguto, dallo stesso Cappellano Seminara.
Questo lo stralcio della conversazione captata il 15.05.20 I 5 alle ore 8,49 del mattino:
TANINO – Silvana!
SILVANA – Ehi, Tanino!
TANINO – Ehi! Come va?
SILVANA – L’hai visto il servizio ieri sera?
TANINO – Sì.
SILVANA – lo no.
TANINO – Sì, sì! È un ... , niente. Tutto completamente tagliato, non e niente di trascendentale ma aver fatto la solita ... la solita "burinata"...
SILVANA – Lo stavo vedendo adesso, me l'ha mandato Provenzano.
TANINO – Eh!
SILVANA – Ma ...
TANINO – La solita “burinata”, che hanno tagliato tutto, non hanno detto tutti i dati scientifici e tecnici che io gli ho riferito..., praticamente è come se non parlassi ...
SILVANA – Sì.
TANINO – Mi fa delle domande, mi taglia tulle le risposte! Infatti, ora ho telefonato a Patrick Tranco per farmi mandare tutta la regi ..., per vedere se mi danno tutta la registrazione. E ... , avermi accostato con Pino .Maniaci che è stato sentito prima ...
SILVANA – Sì.
TANINO – ... questo cretino di avvocato che ...
SILVANA – Completamente ...
TANINO – ... dice sempre le stesse cose. un decelebrato preciso, dice sempre le stesse cose! Eh! lo ora andrò a parlare con Petralia oggi.,.
SILVANA – Ah!
TANINO – Ehi Perché ... , sì, sì, sì, andrò a parlare con Petralia perché francamente io mi sono stancato di essere ... , si sta usando la ... , proprio la tensione nei miei confronti. Hanno dato un pezzettino di registrazione di, di quell'altro, di Caruso, dove dice: "ah, la parcella ... , sì, io ho sentito di parcelle di sette milioni. Guadagnava X ... ». altre ... , che sono il supereroe, i supereroi possono mai esistere? Questo fatto delle aziende dove dice ... , prima dice che ho 93 aziende, poi dice che gli ho mandato un documento, loro l'hanno esaminato e invece ... , ti fa dire ... , furbacchioni, "ha otto misure ma sono venti le aziende". e poi alla fine ...
SILVANA – Ma dove sono?!
TANINO – fa vedere il certificato .... Che poi sono venti aziende ... , sono ... , che ti posso dire? Come quelle che ho con Fabio, di D'Anna, sono sei società ma in realtà è un unico patrimonio immobiliare.
SILVANA – Sì, lo so. Ma io queste le so, queste cose.
TANINO – Sono sei società, capito? Quindi, dico, ci sono ... , ci sono tutte queste cose qua. Poi: "che rapporti ha lei con il presidente?" ... , no, dice: "ma lei lo conosce il presidente?", "certo che lo conosco il presidente, è il mio presidente ... , poi uno dei giudici delegati", dice ... , e ... , "e che rapporti ha?", no ... , "la incontra?" e io dico ... , nella mia intervista, quella originale dico: "la incontro quotidianamente perché quotidianamente mi confronto con il giudice delegato e non solo con lei dei ... , dei provvedimenti che devono essere emanati in quanto noi abbiamo ordinaria amministrazione e ogni atto lo ... , lo facciamo autorizzare" Tutto questo non c'è! Ed è palesemente tagliato perché si vede ... , sai il fermo immagine? L'espressione che cambia. Che lui mi chiede ... , che ... , che ti vedo quotidianamente ... , "e che rapporti avete?".
SILVANA – Si ferma ...
TANINO – Allora ho detto ''cordiali", che dovevo dire? "Che rapporti avete?" "cordiali! (n.d.r.: ride) Che rapporti possiamo avere? Professionali e cordiali!", ed esce "quotidianamente" e "cordiali". E .. ,, poi che ti posso dire? Non dice ovviamente il nome di Lorenzo, dice: "ma il ... , il .... il ... il marito è nel suo consiglio.... è nel consiglio di amministrazione", _E. io confuto....e glielo spiego... , infatti c'è il mio dito che spiega che lui ha .. ,", anzi questo me lq fa dire...che è una competenza in un 'area tecnica. e tra le altre cose si capisce, ma non va tutta la.... tutta la registrazione, che io dico: "ma guardate che è un incarico del 2004 quando allora la dottoressa Saguto non era nemmeno nell'area delle 'Misure di Prevenzione', quindi. assolutamente estranea. Lo conosco da diverso tempo e quindi abbiamo avuto di .... modo di ..".
SILVANA – Anzi poco dicono
TANINO – Eh? No ...
SILVANA – Anzi poco dicono!
IL RUOLO DEL PROFESSORE PROVENZANO
Sempre il 15 maggio 2015, qualche minuto prima, la Saguto aveva commentato a telefono il servizio andato in onda la sera precedente alle lene anche con Carmelo Provenzano, il quale per nulla contento delle notizie diffuse dai giornalisti (... dimmi come è andata? .... Eh malissimo ...), segnalava alla Saguto che era pure emersa la questione dell'incarico conferito da Cappellano Serninara al marito (... gli dicono: ma lei perché ha dato questo incarico al marito...).
Provenzano manifestava alla Saguto la sua intenzione, al fine di contrastare l'eco mediatico delle lene, di organizzare un convegno con tanti giovani per la difesa dei magistrati, presentandola come una strategia per ridare credito ai giudici della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo dai quali lui riceveva incarichi. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA ZARINA DI PALERMO. La giudice, il marito, la prefetta e l’avvocato acchiappatutto. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su editorialedomani.it il 23 novembre 2021. Nel corso della conversazione telefonica Cappellano Seminara informava Silvana Saguto che era stata approvata la legge sui compensi agli amministratori giudiziari, da lui ritenuta un “fallimento”. Silvana Saguto assecondava e condivideva il disappunto espresso dal suo interlocutore ma lo rassicurava prospettando un escamotage per aggirare la legge
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.
È sintomatico come i dubbi fino a quel momento insinuati dalla stampa sull'intreccio dei rapporti e sulle cointeressenze economiche tra la Saguto e Cappellano Seminara, con il coinvolgimento diretto di Lorenzo Caramma, abbiano trovato esatta conferma già sin dalle prime captazioni del mese di maggio 2015.
Ciò fa comprendere come tali rapporti e cointeressenze sicuramente preesistessero all'inizio delle operazioni tecniche di ascolto cd anzi fossero già da tempo consolidati e ben strutturati.
Nel corso della conversazione telefonica del 9 maggio 2015 Cappellano Seminara informava Silvana Saguto che era stata approvata la legge sui compensi agli amministratori giudiziari, da lui ritenuta un "fallimento” («niente, un fallimento, considera come amministratori giudiziari ci danno il 50 per cento in meno della tabella dei curatori fallimentari sostenendo che il nostro lavoro non è complesso»).
Cappellano Seminara si riferiva allo schema di regolamento, approvato in esame preliminare dal Consiglio dei Ministri, recante disposizioni in materia di modalità di calcolo e liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari iscritti all'albo.
AGGIRARE LA NUOVE LEGGE
Lo schema di decreto assumeva come modello di riferimento la disciplina regolamentare in materia di determinazione del compenso spettante al curatore fallimentare e al commissario giudiziale nella procedura di concordato preventivo, adattando i parametri di liquidazione previsti in sede fallimentare alle specificità proprie della disciplina in materia di misure di prevenzione.
Silvana Saguto assecondava e condivideva il disappunto espresso dal suo interlocutore in relazione alla riduzione dei compensi spettanti in sede di liquidazione agli amministratori giudiziari (“... ma sono pazzi...”) e rassicurava il suo interlocutore prospettando un escamotage per aggirare il nuovo limite (“ .. va beh, noi cercheremo il più possibile di compensare con le società chiaramente ...”), alludendo chiaramente alla possibilità di incrementare i compensi di amministratore giudiziario con quelli previsti per la carica di amministratore delle singole società sottoposte a sequestro.
I due interlocutori chiudevano la conversazione augurandosi che «la cosa di Francesca vada a buon fine».
Come si spiegherà meglio oltre "la cosa di Francesca" non era altro che l'interessamento del Prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, amica della Saguto, per "avvicinare" – mediante l'organizzazione di una cena presso l'Hotel Brunaccini di Cappellano Seminara - Giuseppe Barone, consigliere del Cga e membro del collegio che avrebbe dovuto decidere la controversia in appello riguardante la parcella di più di cinque milioni di curo liquidata dalla stessa Saguto a Cappellano Seminara nell'ambito della procedura di prevenzione "Sansone", parcella che Cappellano Seminara aveva difficoltà a riscuotere.
Si tratta indubbiamente di una conversazione fortemente indicativa dell'esistenza di cointeressenze tra i due imputati.
Non convince, in senso contrario, la spiegazione che Silvana Saguto ha cercato di dare al contenuto di questa conversazione, laddove, nel corso del suo esame, ha spiegato che temeva che la contrazione dei compensi degli amministratori giudiziari avrebbe portato alla difficoltà di reperire professionisti disponibili a svolgere detta funzione.
Anzi, la Saguto e Cappellano Seminara erano ben consapevoli che non mancavano amministratori giudiziari che svolgessero tale funzione per compensi più contenuti, come emerge dalla stessa conversazione, laddove i due interlocutori così si esprimevano:
Cappellano: sì, sì. Poi trovi uno come Piero che ti dà 1,000 euro ...
Saguto: Va beh, Piero è cosi comunque, difatti qua non è questione di masse e non masse.
Cappellano: Sì. Seniti ...
Saguto: Quello è ridicolo!
Cappellano: Si, si, assolutamente ridicolo, assolutamente ridicolo!
Saguto: Va beh, noi cercheremo il più possibile di compensare con le società chiaramente.
LE “SCARSE” PARCELLE TRAPANESI
In questa conversazione, Cappellano Seminara faceva riferimento a Piero Grillo, Presidente della sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, che evidentemente era solito liquidare parcelle di molto inferiori a quelle cui lui era abituato.
Il 10 luglio 2015, poi, la Saguto aveva occasione di parlare in ufficio con Cappellano Seminara della questione relativa all'incarico del marito presso la procedura Butitta del Tribunale di Palermo, in relazione alla quale era stata sollecitata da Natoli e da Di Vitale, e gli suggeriva di trovare "un modo elegante" per risolvere il problema, ovvero quello di dire "che l'incarico finisce perché non
serve più questa figura professionale".
Cappellano Seminara conveniva con questa soluzione e rassicurava la Saguto che non avrebbe mai sostituito Lorenzo Caramma nell'incarico presso la procedura Buttitta, in maniera tale da rendere verosimile la soluzione prospettata dalla Saguto.
Questo lo stralcio della conversazione ambientale captata:
SILVANA - e allora ...
GAETANO - io ho mandato la lettera
S!L VANA - Intanto devi ... ieri abbiamo parlato con Natoli.
GAETANO - eh!
SILVANA - Lorenzo deve uscire dall'incarico.
GAETANO - sì?!
SILVANA - si, dobbiamo trovare un modo elegante, nel senso che bisognerà dire che l'incarico finisce perché non serve più questa figura professionale
GAETANO - è un casino
S!L VANA - quindi tu non lo sostituisci subito
GAETANO - non lo sostituisco completamente
SILVANA - lui ha finito, non serve più!
GAETANO - e nelle altre?
SILVANA - le altre non c'entra, p.s. Palermo non ne abbiamo neanche parlato e non si avvalla! Palermo ... , fuori Palermo ... , Pignatone stesso non c'entra niente... lo so pure io! A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA
LA ZARINA DI PALERMO. L’avvocato nominato “re” degli amministratori giudiziari. A CURA DI ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su editorialedomani.it il 24 novembre 2021. I rapporti personali tra la presidente Saguto e Gaetano Cappellano Seminara sono stati ben descritti dal teste Achille De Martino, assistente capo coordinatore della Polizia di Stato e componente del Reparto scorte della Questura di Palermo che si è occupato della protezione della dottoressa Saguto dall'ottobre 2004 al settembre 2016.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.
I rapporti personali tra la presidente Saguto e Gaetano Cappellano Seminara sono stati ben descritti dal teste Achille De Martino, assistente capo coordinatore della Polizia di Stato e componente del Reparto scorte della Questura di Palermo che si è occupato della protezione della dottoressa Saguto dall'ottobre 2004 al settembre 2016.
All'udienza del 7.3.2018 il teste ha riferito che: «Da quando la dottoressa è ritornata alle misure di prevenzione, chiaramente veniva più spesso di mattina [Cappellano Seminara n.d.r.], perché per motivi di servizio veniva quasi ... almeno una volta a settimana era sicuro, se non di più. E poi diciamo che piano piano sono iniziati anche i rapporti diciamo al di fuori dell'ufficio, soprattutto quando la dottoressa andava presso l'albergo dell'avvocato al palazzo Brunaccini, dietro Ballarò. In questo ... andava o diciamo li con le amiche a prendere: un aperitivo, a serate, ad eventi, e poi ci sono state le cene di Elio che ha organizzato li a Palazzo Brunaccini».
LA VERGOGNA DEL POLIZIOTTO
Alla domanda del pubblico ministero tesa a chiarire se vi fosse una frequentazione maggiore di Silvana Saguto con Gaetano Cappellimo Seminara rispetto agli altri amministratori giudiziari il testimone ha risposto così: «lo a volte facevo fatica ad alzare gli occhi da terra perché alcune volte mi vergognavo. C 'erano avvocati, amministratori e tanta geme che si metteva a turno accanto a me, io seduto nella mia sediolina che aspettavo, a volte facevo finta di giocare con l'ipad, ma io non giocavo con l'ipad, io vedevo e sentivo tutto. Infatti qualcuno faceva la battuta "Stai con l'ipad", ma io ascoltavo tutto, soprattutto i commenti in particolar modo. C'erano persone in attesa da due ore pure, perché la dottoressa due volte a settimana faceva le udienze, e gli altri giorni li dedicava all'accoglienza degli amministratori, avvocati e quant'altro. Persone che stavano li due ore ad aspettare, arrivava l'avvocato Cappellano e puntualmente doveva entrare, la dottoressa usciva e dice "No, abbiamo una cosa urgente con l'avvocato Cappellano". Per l'amor di Dio, è una cosa urgente, e io non sto qui a giudicare o dare giudizi su quello che avveniva, ma sto dicendo, sto riferendo quello che dicevano gli altri. C'erano le battutine, c'erano le insinuazioni».
Ha aggiunto poi il teste che «[...] Tanti avvocati anche diciamo tra i presenti spesso si lamentavano del fatto che c 'era questa corsia preferenziale. Addirittura qualche volta l'avvocato Cappellano quando c'era proprio tanta gente, ma non perché lo diceva lui, cioè non era lui, perché a volte lui magari voleva fare il turno, ''No, no... non c'è bisogno", e praticamente, lei non so se conosce il nuovo Tribunale di Palermo, quello ... ha dei corridoi, i corridoi sono praticamente uniti da una sorta di cortiletto interno, l'avvocato Cappellano entrava nell'altro corridoio dove c'era la cancelleria della dottoressa e lo facevano entrare, uscire in questo cortiletto e la dottoressa apriva la porta vetraia del cortiletto ed entrava. Poi giustamente gli avvocati che erano li o gli amministratori giudiziari che erano lì presenti con me seduti sulla sediolina ad aspettare, quando lo vedevano uscire dice "E questo da dove è entralo?", questo, chiedo scusa all'Avvocato, era un modo ... era il loro modo di dire. C'era una lamentela spesso generale da parte di tutti su questa corsia preferenziale anche in questa in particolare che c'era, che l'avvocato Cappellano arrivava ed entrava».
Achille De Martino, inoltre, ha confermato di avere sentito Silvana Saguto lamentarsi dei propri problemi economici con Cappellano Seminara, mentre non era solita fare questi discorsi con gli altri amministratori giudiziari.
UN RAPPORTO MOLTO INTIMO
In conclusione della sua deposizione, il teste De Martino, per esprimere meglio il genere di legame tra la Saguto e Cappellano Seminara, cosi come lo aveva personalmente visto evolversi, ha utilizzato un esempio molto esplicito, paragonandolo al rapporto gerarchico intercorrente tra un maresciallo (Silvana Saguto) ed un colonnello (Gaetano Cappellano Seminara).
Cosi si è espresso testualmente il teste De Martino:
TESTIMONE, DE MARTINO A - Ho ricordato, ricordo di avere detto che, trovandomi di fronte a due tenenti colonnelli della Guardia di Finanza, gli dissi «Il rapporto che c'è tra la dottoressa e il dottore Cappellano e la dottoressa e il professore Provenzano è il rapporto che ci può essere tra lei e un colonnello e lei e un maresciallo». Cioè tra lei quindi e un suo superiore e ... perché io poi dopo ...
PUBBLICO MINISTERO - Il superiore chi sarebbe in questo caso?
TESTIMONE, DE MARTINO A - Cappellano. Io ... però era una mia... ripeto, io non so se posso rispondere, perché era una mia ... avevo questa impressione a volte.
PUBBLICO MINISTERO - Basata più cosa però? Basata su un fatto, su qualcosa che lei aveva riscontrato
TESTIMONE, DE MARTINO A - ... Si, sul fatto che la dottoressa a volte quando usciva dal Tribunale la prima cosa che faceva quando si metteva in macchina era chiamare l'avvocato Cappellano. Era la prima cosa che faceva certe volte. Sembrava che stesse riflettendo, non lo so, anche su fatti di altre amministrazioni, di altri amministratori.
PUBBLICO MINISTERO - Cioè gli faceva il resoconto della sua giornata?
TESTIMONE, DE MARTINO A - Non chiamiamolo proprio resoconto, ma gli raccontava fatti che lei ... Però devo dire anche una cosa. Io poi queste sono cose … A volte lo faceva anche con noi, cioè ci raccontava ... era proprio il sua modo di essere. Però all'avvocato Cappellano spesso la dottoressa gli raccontava ... Ripeto, un esempio è stato quello del dottore Scimeca, che quello si era andato a confidare che aveva paura perché aveva ricevuto una minaccia e la dottoressa l'aveva sbeffeggiato col dottore Cappellano. Quello è il... Dico, a volte lei usciva e chiamava «Ho fatto questo. È successo questo. Abbiamo fatto questo. È venuto quello. È venuto Tizio. Abbiamo parlato con Caio. Mi ha chiamato Tizio. Mi ha chiamato Caio...».
Con riferimento alla testimonianza di De Martino, va rilevato, sin da adesso, che non colgono nel segno le censure difensive sulla sua attendibilità, fondate sull'errore in cui lo stesso sarebbe incorso in relazione alla partecipazione di Cappellano Seminara ad uno dei compleanni di Silvana Saguto, circostanza che, invece, non ha trovato riscontro in dibattimento. Si tratta, invero, ad avviso del Tribunale, di un errore risibile in relazione alla coerenza complessiva del narrato del teste, che è apparso ricordare adeguatamente i fatti e la loro scansione temporale. Qualche imperfezione nei ricordi, peraltro comprensibile a distanza di qualche anno dei fatti, non inficia certamente il nucleo essenziale della testimonianza, in particolare a proposito di quanto da lui riferito sul rapporto privilegiato che Silvana Saguto aveva instaurato ormai con Cappellano Seminara.
E ciò tanto più che non sono emerse ragioni di astio dei teste nei confronti dell'imputata Saguto che potrebbero far pensare ad una qualche ricostruzione artificiosa del narrato da parte del De Martino. A CURA DI ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA ZARINA DI PALERMO. I conti in rosso della famiglia Saguto e un giro di versamenti sospetti. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su editorialedomani.it il 25 novembre 2021. Dall'indagine patrimoniale è emersa la grave carenza di liquidità in cui si trovava Silvana Saguto e il suo nucleo familiare e anche che la principale fonte di reddito di Lorenzo Caramma, suo marito, era costituita dai compensi percepiti da Gaetano Cappellano Seminara come libero professionista e come amministratore giudiziario.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.
Dalla testimonianza di Roberto Sorino (maresciallo della Guardia di Finanza di Palermo) è emerso che il nucleo di Polizia Tributaria che ha eseguito le indagini, per verificare l'ipotesi accusatoria, ha, in primo luogo, compiuto degli accertamenti penetranti sui conti correnti bancari della famiglia Caramma-Saguto.
L'esito dell'indagine patrimoniale deve essere qui riportata poiché dimostra, da un lato, la grave carenza di liquidità in cui si trovava Silvana Saguto e il suo nucleo familiare nel periodo in contestazione e, dall'altro lato, come la principale fonte di reddito di Lorenzo Caramma risultava costituita dai compensi percepiti da Gaetano Cappellano Seminara come libero professionista e come amministratore giudiziario.
Gli accertamenti bancari hanno riguardato il periodo dal 1.1.2006 al 17.11.2015 ed hanno avuto ad oggetto i conti correnti dei coniugi Lorenzo Caramma e Silvana Saguto, dei loro tre figli e dei genitori di entrambi i coniugi.
L’INDAGINE DELLA GUARDIA DI FINANZA
[…] Nel complesso, secondo la ricostruzione compiuta dalla Guardia di Finanza, nel periodo preso in considerazione vi sono state entrate pari ad € 3.117.598,98 ed uscite pari ad€ 3.154.156, 17, con un saldo negativo pari ad € 36.557,19.
Dagli accertamenti di natura bancaria svolti è emerso, dunque, un costante differenziale negativo, derivante da tutta una serie di spese di varia natura non adeguatamente supportate dalle entrate.
Peraltro, come precisato dal maresciallo Sorino all'udienza del 17.10.2018, tra le entrate sono stati inseriti anche i finanziamenti contratti con gli istituti di credito: il 24 aprile 2007 è stato stipulato, con Banca Nuova, un mutuo di 15 anni dell'importo di 110 mila euro; nel 2009 è stato erogato dall'Unicredit un altro finanziamento per un importo di euro 29.619,65; nel 2010 un ulteriore finanziamento, erogato alla famiglia Saguto-Caramma da Prestinuova S.p.a., di euro 79.251,94; nel 2011 un ulteriore finanziamento, ancora da Prestinuova, dell'importo di euro 88.296, 67, nel 2012 è stato contratto un mutuo ipotecario di 20 anni, con Banca Nuova, dell'importo di 150 mila euro, in parte utilizzati per estinguere il mutuo contratto con Banca Nuova nel 2007, e infine, nel 2014, è stato erogato un altro finanziamento da Banca Nuova, dell'importo di 83 mila euro.
Nel medesimo periodo temporale sono pervenute sui conti correnti dei coniugi Caramma Saguto delle somme di denaro provenienti dai genitori di quest'ultimi (Vittorio Saguto, padre di Silvana, La Marca Maria, madre di Silvana Saguto e da Fortunata Lucchese, madre di Lorenzo Caramma), per un totale di 43.800 euro.
Sono stati accertati, inoltre, dei versamenti in contanti dal 2006 al 2015 (il primo versamento del 10 marzo 2006, l'ultimo del 5 agosto 2015) per un totale di 140.180 euro.
Segnatamente, il maresciallo Roberto Sorino ha precisato che nel 2006 sono stati versati in contanti sui conti correnti della famiglia Caramma-Saguto complessivamente euro 26.270 euro.
Dal 2007 al 2012 i versamenti in contanti si sono interrotti (solo tre operazioni nel 2009), per poi riprendere nel 2013, anno in cui sono stati versati in contanti 9.750 euro, mentre nel 2014 sono stati versati euro 57.800 e nel 2015, fino al mese di agosto, euro 38.600.
E' stato accertato, altresì, che Lorenzo Carnmma, ingegnere meccanico, nel periodo in contestazione, ha svolto l'attività di insegnante in un istituto scolastico di Palermo, ha effettuato consulenze per le autorità giudiziarie ed ha svolto l'attività di coadiutore in diverse amministrazioni giudiziarie gestite dall'avvocato Gaetano Cappellano Seminara.
I VERSAMENTI A FAVORE DEL MARITO
[…] Il maresciallo Sorino ha segnalato, inoltre, alcuni versamenti disposti dall'avvocato Cappellano Seminara nei confronti di Lorenzo Caramma e dei quali non erano state trovate le fatture corrispondenti. In particolare:
- il 4 marzo 2008, sul conto corrente numero *********, intestato a Caramma Lorenzo e a Saguto Silvana presso la Banca Nuova, è stato versato l'assegno bancario numero ***********, di euro 10 mila, emesso da Cappellano Seminara e tratto sul conto corrente acceso presso la Banca Monte dei Paschi di Siena.
- in data 20 agosto 2007, sul conto corrente numero **********, intestato a Caramma Lorenzo e a Saguto Silvana, presso l'Unicredit, è stato accreditato un bonifico bancario di euro 3 mila, disposto da Cappellano Scminara Gaetano, e avente come causale "acconto liquidazione Lombardoz".
Gli inquirenti collegavano il termine Lobardoz al procedimento penale a carico di Lombardozzi Cesare più altri in cui l'amministratore era Cappellano Seminara e, tra i coadiutori, vi era Caramma Lorenzo.
In quel procedimento penale il giudice aveva autorizzato la liquidazione per l'importo di 5.000 euro oltre IVA e contributi previdenziali e il 5.2.2011 Lorenzo Caramma aveva emesso la fattura n. 12 nei confronti di Cappellano Seminara per l'importo di euro 5.240 che veniva pagata mediante accredito sul conto corrente n. 300544582, intestato a Caramma Lorenzo e Saguto Silvana presso l'Unicredit il 9.2.20 l l. Nel pagamento non si era tenuto conto dell'acconto di 3.000 euro già corrisposto il 20.8.2007.
Le risultanze dell'attività di indagine bancaria della Gm1rdia di Finanza in ordine alla costante carenza di liquidità sui conti correnti dei coniugi Caramma Saguto hanno trovato sicuro riscontro negli esiti dell'attività di ascolto.
Le conversazioni telefoniche ed ambientali captate hanno, invero, offerto prove inequivocabili della situazione di crisi economica in cui versava il nucleo familiare Saguto/Caramma e del ruolo di Cappellano Seminara come fonte di approvvigionamento di denaro per far fronte alla crescente situazione di indebitamento.
In particolare, i colloqui intercettati, come meglio si esporrà in seguito, hanno consentito di ricostruire nel dettaglio l'episodio della consegna di denaro in contanti alla Saguto da parte di Cappellano Seminara il 30 giugno 2015, episodio che è indicativo del livello di confidenza che nel corso degli unni aveva raggiunto il rapporto tra i due imputati ed è, quindi, idoneo a fornire una chiave di lettura di tutti i fatti in contestazione […]. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto e quel bazar di incarichi e favori in nome della legge. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su editorialedomani.it il 26 novembre 2021. Walter Virga, se non avesse inserito Mariangela Pantò, fidanzata del figlio della Saguto, nello studio legale Pro.de.a, assicurandole il coinvolgimento nelle attività professionali e l'uso di una stanza (senza dover pagare affitto o partecipare alle spese), non avrebbe ottenuto più incarichi di amministrazione giudiziaria per sé e per i propri colleghi
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.
Le risultanze delle verifiche dibattimentali - che verranno poi riprese nel dettaglio allorché si passerà all'esame delle singole contestazioni - hanno consentito di accertare come gli odierni imputati, avvalendosi delle rispettive qualifiche soggettive e dei ruoli istituzionali ricoperti nell'ambito di procedure di prevenzione e facendo perno sul sistema della gestione dei patrimoni in sequestro, abbiano posto in essere plurime condotte illecite, finalizzate, a vario titolo, allo scambio di utilità.
Ciò che in sintesi è emerso dalla pletora di fatti delittuosi contestati è il totale mercimonio della gestione dei beni sequestrati e l'approfittamento, a vari livelli, del ruolo istituzionale ricoperto, che ha portato alla commissione di una serie eterogenea di reati, posti in essere mediante una così grave distorsione - per tempi, modalità e protrazione delle condotte - delle funzioni giudiziarie da avere arrecato, oltre che danni patrimoniali ingentissimi all'erario ed alle amministrazioni giudiziarie, anche un discredito gravissimo all'amministrazione della giustizia, per di più in un settore delicatissimo, quale è quello della gestione dei beni sequestrati alla criminalità mafiosa.
La compiuta istruttoria dibattimentale ha consegnato un quadro di desolante strumentalizzazione della funzione giurisdizionale a favore di una gestione privatistica, caratterizzata da un intreccio di rapporti personali e di condotte fondate sul dato costante dell'assoluta marginalizzazione dell'interesse pubblico connesso alle funzioni giurisdizionali.
I fatti accertati in questo giudizio hanno dimostrato che la dott.ssa Saguto, considerando lo svolgimento del suo ruolo quale presupposto oggettivo per il conseguimento di utilità disparate, poteva contare sistematicamente sulla disponibilità di Cappellano Seminara prima e di Carmelo Provenzano poi, soggetti comprensibilmente inclini ad assecondarne le pretese, per conseguire vantaggi che non le sarebbero spettati.
IL CASO DI WALTER WIRGA
[…] Ritiene il Tribunale che la sussistenza della condotta induttiva di Silvana Saguto, sub specie di imposizione e di pressione morale su Walter Virga - il quale, se non avesse inserito Mariangela Pantò [fidanzata del figlio della Saguto, n.d.r.] nello studio legale Pro.de.a, assicurandole il coinvolgimento nelle attività professionali e l'uso di una stanza (senza la necessità di pagare un affitto o di partecipare altrimenti alle spese), non avrebbe ottenuto più incarichi di amministrazione giudiziaria per sé e per i propri colleghi - sia stata comprovata in giudizio, al di là di ogni ragionevole dubbio, proprio dalle affermazioni di Walter Virga, oggetto di captazione, che di seguito vengono nuovamente sottolineate [...] e sulla cui genuinità non vi è motivo di dubitare.
E' lo stesso Walter Virga, infatti, a commentare con Alessio Cordova che «così come [era] stata imposta» a loro dalla Saguto, cosi Mariangela Pantò sarebbe stata «imposta da qualche altra parte», utilizzando, quindi, delle parole che rendevano inconfutabile la circostanza che il coinvolgimento di Mariangela Pantò nel suo studio legale fosse stato determinato esclusivamente da un'imposizione della Saguto. Ed ancora, Virga aggiunge - così rendendo impossibile ogni diversa alternativa ricostruzione dei fatti - che «...mm è che lei è venuta da noi perché ci siamo trovati bene e le abbiamo affittato una stanza...».
Univoco significato va, altresì, attribuito ai commenti di Walter Virga, dapprima con Alessio Cordova e Marianne Sommatino e, in seguito, con Alessio Cordova e Dario Majuri, nella parte in cui lo stesso affermava che avere coinvolto Mariangela Pantò nello studio costituiva il "pizzo" che era stato "costretto a pagare" alla Saguto per potere lavorare, dato che, com'è noto, il "pizzo", sebbene Virga si esprimesse ovviamente con una metafora, è comunque ciò che si è costretti a concedere a seguito di una condotta costrittiva o quantomeno induttiva.
E' sempre Walter Virga, nel corso delle sue esternazioni, a legare la presenza di Mariangela all'interno dello studio alla figura della "suocera" Silvana Saguto quando affermava che avrebbe «mandato a fanculo a lei e alla suocera pure», o quando si sfogava dicendo che Mariangela gli «[stava] sulla minchia e appena la suocera se ne fosse andata, l'avrebbe presa a calci in culo», così legando la permanenza di Mariangela all'interno dello studio legale all'incarico di Presidente della sezione misure di prevenzione rivestito dalla Saguto.
Ed ancora, l'imposizione subita da Virga per ottenere incarichi dalla Saguto emerge chiaramente da altri dialoghi del Virga intercettati all'interno del suo studio legale, come quando egli affermava che avrebbero anche potuto «revocarlo domani», riferendosi al fatto che, se avesse rimproverato la Pantò per le sue mancanze, la Saguto avrebbe potuto risentirsi, sino a revocargli l'incarico di amministratore giudiziario o come quando dice alla moglie Giuliana Pipi di non avere buone notizie, dal momento che, per avere «trattato malissimo» Mariangela, rischiavano di restare «disoccupati», anche in questo caso riferendosi al fatto che avere «trattato malissimo» Mariangela avrebbe potuto indisporre la Saguto, che avrebbe potuto determinarsi a revocargli l'incarico o a non conferirgliene ulteriori.
D'altro canto, sono proprio le reazioni della Saguto, [...], ed i suoi propositi di non fare lavorare più Walter Virga in conseguenza della sua scelta di allontanare la Pantò a confermare l'ipotesi accusatoria secondo la quale il coinvolgimento di quest'ultima nello studio legale fosse stato il frutto di una imposizione, violata la quale venivano meno i presupposti per continuare la collaborazione con Walter Virga. L'attività tecnica di intercettazione e la deposizione testimoniale di Achille De Martino sopra richiamata hanno, infatti, permesso di accertare come la Saguto si sia ripromessa di «farla pagare» a Virga, nel senso che non avrebbe fatto più lavorare né lui né i suoi colleghi. Infine, è risultato dimostrato in giudizio, sempre sulla base delle conversazioni captate, come Walter Virga, pur disponendo di ampi margini decisori, abbia accettato di aderire alla richiesta della prestazione non dovuta nella prospettiva utilitaristica di perseguire un tornaconto personale, rappresentato dall'ottenimento di ulteriori incarichi di amministrazione giudiziaria per sé e per i propri colleghi, […].
E' sufficiente, al riguardo, ricordare le conversazioni durante le quali:
- Virga diceva al padre di avere speso mille euro per il pavimento della stanza di Mariangela Pantò nello studio di via Principe di Belmonte e, ridendo, gli diceva che però «era importante farlo», lasciando intendere che compiacere la ragazza avrebbe avuto un riverbero positivo sulla Saguto;
- Virga commentava con Cordova di non avere mai «stretto alcun tipo di rapporto» con la ragazza, «se non quello utilitaristico»;
- Virga si interrogava con Cordova e con la Sommatino sul perché Mariangela non si fosse mai chiesta il motivo per cui non avesse mai pagato l'affitto della stanza o le spese dello studio («...quindi questo lei non lo arriva a capire, è più forte ... poi indubbiamente, dal suo punto di vista, mi rendo conio che lei paga colpe non sue, da un altro punto di vista però, se noi la dobbiamo dire tutta è una persona non si chiede come sia possibile che qualcun altro se la mette in studio, l'assume, fa delle spese, gli dà del lavoro, gli gira dei soldi, e .... perché? Non li chiedi perché? Perché io penso che per nessun amico lo si farebbe ...»).
In conclusione, dunque, deve ritenersi provato che Walter Virga, nell'ambito di una dinamica intersoggettiva (sia pure asimmetrica, perché caratterizzata dalla posizione dominante della Saguto) di natura sostanzialmente negoziale, si sia determinato a coinvolgere Mariangela Puntò nell'attività professionale dello studio e nel metterle a disposizione una stanza dello studio senza furia contribuire alle spese solo in quanto indotto a farlo dalla Saguto e nella prospettiva di trarre un indebito vantaggio per sé.
Del resto, a ben vedere, la condotta dei due imputati delineata dalle conversazioni intercettate si inquadra perfettamente nel contesto più generale già descritto all'inizio di questa parte di motivazione.
Non sorprende, infatti, l'atteggiamento della Saguto, volto, anche in questa occasione, ad abusare della sua posizione di forza e di preminenza e ad approfittare della situazione di inferiorità psicologica nei suoi confronti di Walter Virga, il quale, pure essendo figlio di Tommaso Virga, era comunque per la Saguto «un ragazzino da niente», che aveva ricevuto un incarico (l'amministrazione giudiziaria Rappa) assolutamente al di sopra delle sue potenzialità professionali.
E, peraltro, proprio la presenza di Tommaso Virga alle spalle di Walter giustifica come quest'ultimo, seppure indotto dalla Saguto a coinvolgere nello studio la Pantò, poi, una volta divenuto per lui insopportabile il peso dell'esposizione mediatica, abbia comunque trovato la forza per determinarsi ad allontanare dal suo studio la Pantò.
LE “PRESSIONI” E I VANTAGGI DA CONSEGUIRE
D'altra parte, appare del tutto coerente - dal suo punto di vista – anche l'atteggiamento di Walter Virga, il quale, pur di fronte ad una pressione non irresistibile, ha accettato di aderire alla richiesta di prestazione non dovuta non perché coartato e vittima del malus nella sua espressione più forte, ma perché, pienamente consapevole di dover essere riconoscente per gli incarichi ricevuti, si è lasciato convincere nella prospettiva di trarre un indebito vantaggio per sé, salvo poi pentirsi successivamente di avere "risolto" il problema alla Saguto («l'errore strategico» [...]),
Le condotte dei due imputati sono state, quindi, correttamente assunte nella fattispecie di cui all'art.319 quater c.p. Non colgono nel segno, viceversa, le difese degli imputati, le cui argomentazioni non appaiono idonee a scalfire il quadro probatorio delineato, né ad incidere sull'inquadramento giuridico della fattispecie. […].
Ed invero, la tesi accusatoria, che ha trovato riscontro in dibattimento, non è quella secondo cui Virga ha ottenuto gli incarichi perché ha accolto la Pantò nel suo studio, ma quella secondo cui, dopo il conferimento degli incarichi di amministratore giudiziario, la Saguto ha indotto, mediante pressioni morali, Virga a coinvolgere la Pantò nella sua attività professionale e Virga si è determinato ad aderire alla richiesta nella prospettiva di un tornaconto personale, sicchè non vi è chi non veda come sia del tutto ininfluente il momento storico e l'occasione della conoscenza tra Walter Virga e Mariangela Pantò.
[…] La data del commesso delitto, così come correttamente individuato nel capo di imputazione, va collocata nel periodo che va dalla fine del 2013, data dell'inserimento di Mariangela Puntò nello studio legale Virga (come risulta dalle dichiarazioni di Filippo Lo Franco) al 5 giugno 2015 (data dell'allontanamento della Pantò dallo studio), ovvero nel periodo intermedio tra la prima e la seconda nomina ad amministratore giudiziario di Walter Virga. Le utilità prestate da quest'ultimo (e consistite nel coinvolgimento retribuito nelle attività dello studio e nella messa a disposizione di una stanza nello studio, seppure in via non esclusiva, senza contribuzione alle spese) assumono carattere continuativo, ma il reato non può considerarsi continuato, trattandosi piuttosto di una ipotesi di reato a consumazione prolungata, in cui le esecuzioni delle dazioni di utilità indebita alla Saguto sono tutte riconducibili all'unica condotta di induzione posta in essere da quest'ultima. […]. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto, i beni confiscati e il “pizzo” da pagare per sistemare i parenti. A CURA ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su editorialedomani.it il 27 novembre 2021.
Intercettato, Walter Virga, figlio del giudice Tommaso, parlava di come funzionasse il sistema della Saguto: «...Noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla, abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell'incarico...».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.
Silvana Saguto esprimeva giudizi non certo lusinghieri nei confronti di Walter Virga.
[…] La conversazione intercorreva tra Silvana Saguto e Rosolino Nasca e riguardava l'allontanamento della nuora Mariangela Pantò dallo studio di Walter Virga dopo le polemiche giornalistiche.
SILVANA - L'ha buttata fuori!
N. - Ma quant'è stronzo, guarda!
SILVANA - Lei si sta facendo sistemare lo studio.
N. - Mii poverina!
SILVANA - Guarda, distrutta Anche perché si trovava bene con Alessio e Walter. [...].
N. - Silvana, non ti preoccupare. Poi... Vediamo cosa posso fare.
SILVANA - No, va beh, ma può stare anche dov'è. Non ti preoccupare.
N. - Va beh, io te l'ho detto.
SILVANA - Non è questione di... era un modo per ... ormai aveva un altro tipo di rapporto.
N. - Ma guarda che stronzo! Guarda ...
SILVANA - Si spaventa se "Le lene" gli fanno un agguato per Mariangela.
N. - Ma per favore!
SILVANA - Ma se l'hanno attaccato per suo padre!
N. - Ma infatti!
SILVANA - Non l'hanno attaccato per Mariangela! Non l'hanno attaccato .... tieni che ti do un tovagliolino.
N. - No, non ti preoccupare. Mi sono pulito. Mi sono pulito. Ma quant'è stronzo, guarda
SILVANA - Pavido.
N. - Ma quanto ...
SILVANA - Dopo quello che abbiamo fatto per lui!
N.- Ma infatti! Ma 'sta mezza sega, guarda! lo ... io l'ho sempre detto, guarda
[...]
Silvana Saguto (S.) e Gaetano Cappellano Seminara (C.) discutevano dell'allontanamento della nuora Mariangela Pantò dallo studio di Walter Virga dopo le polemiche giornalistiche.
[...]
S. - Non l'avevano appiccicato a Walter. Ma Walter lo hanno attaccato per il padre ed è ovvio che lo attaccano per il padre, perché il padre .... I miei figli lavorano a Palermo? Non lavoravano a Palermo. Perché? Perché qualsiasi cosa viene data viene data per me. E lo stesso è Walter Virga con suo padre, che ha avuto due misure qua. Però Walter Virga, un ragazzino da niente, ha avuto quello che ha avuto, e questo è il ringraziamento! Mariangela ci ha ..., si sia sistemando lo studio a casa. Ma puoi capire comprensibilmente che significa per quella ragazza, che non è neanche mia nuora peraltro. Terra bruciata, secondo Walter, bisogna farle intorno, perché altrimenti la attribuiscono a me qualunque cosa pendeva su lei. Ci sono rimasta .[...].
[…] Intercettazione ambientale. La conversazione intercorreva tra Walter Virga (W) e Alessio Cordova (A.) e l'argomento era l'allontanamento di Mariangela Pantò dallo studio.
W.: quindi questo lei non lo arriva a capire, è più forte ... poi indubbiamente, dal suo punto di vista, mi rendo conto che lei paga colpe non sue. da un altro punto di vista però, se noi la dobbiamo dire tutta è ma una persona non si chiede come sia possibile che qualcun altro se la mette in studio, l'assume, fa delle spese, gli dà del lavoro, gli gira dei soldi, e
A.: si, vabbè
W: perché? Non ti chiedi perché? Perché io penso che per nessun amico lo si farebbe
A: no, si vabbè, è chiaro, è chiaro, no
W: quindi, in questo lei non è ingenua, lei non è ingenua, lei sa bene, lei fa parte di un sistema per cui da Acanto.. lavora l'archeologo, amico di Angelo (inc.) disoccupato, eh, io sono stato nominato in un periodo tale dove, è vero che non c'era il (inc.) ma parliamoci chiaro, ma secondo te io lavoro là e vi dico? Altra cosa, noi abbiamo avuto, ora ci vuole (inc) la nuora qua, perché era Provenzano a prendere gli incarichi? Perché era Provenzano a prendere gli incarichi per il figlio, per il problema delle materie che si doveva passare, noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla, abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell'incarico, diverso sarebbe stato avere un motivo per ……].
LEGAMI ED AMICIZIE
Conversazione ambientale. La conversazione intercorreva tra Walter Virga (W) e Alessio Cordova (A.) e Dario Majuri (D) dall'altra e riguardava i rapporti tra Walter Virga e Silvana Saguto.
[ ...]
W: Ale, Ale, hai una visione troppo, consideri troppo scema la Saguto. La Saguto non ascolta né la troietta della nuora, e neppure...
A:no lo so
w. la Saguto è ancora là dov'è da delinquente
A: vabèh lo so
W: (inc.) ascolta solo le persone che deve ascoltare, e se oggi io ci vado, oggi e le dico «Silvana ho bisogno di un altro incarico» io domani esco con un incarico per me, nonostante tutto e Telejato. Perché lei oggi non può mettersi contro mio padre, non lo può fare, io fino a ieri ne ho parlato con mio padre ho detto «(inc.) in studio non arriverà più niente» la risposta di mio padre è stata «se vuoi glielo chiedo (inc.)» cioè lei non lo può fare, è troppo sola, è disperata.
L'errore, no l'errore che noi abbiamo fatto, la cosa che a me sta dando più fastidio in assoluto di tutto, dell'atteggiamento (inc) che a me mai mi ha dato fastidio dal punto di vista umano... e che secondo me lei è convinta di essere importante
[…] Orbene, il processo ha provato, in effetti, l'esistenza di stretti rapporti intercorrenti
tra Silvana Saguto e Tommaso Virga. Diverse sono, infatti, le fonti di prova che hanno dimostrato tale legame. […] Nella medesima conversazione ambientale del 17 luglio 2015 Silvana Saguto e Tommaso Virga parlavano di Walter Virga e della volontà di quest'ultimo di dimettersi dagli incarichi dell'amministrazione giudiziaria. Tommaso Virga spiegava all'imputata che il figlio era distrutto dagli attacchi mediatici e avrebbe voluto dedicarsi all'università. La Saguto gli rappresentava che occorreva pensare ad un disimpegno non immediato, poiché altrimenti le dimissioni sarebbero state collegate alle inchieste giornalistiche.
Achille De Martino, agente di scorta di Silvana Saguto, nel corso del suo esame testimoniale, reso all'udienza del 7.3.2018, ha dichiarato che: vi erano ottimi rapporti tra l'imputata e Tommaso Virga, con il quale Silvana Saguto parlava spesso al telefono; in occasione della procedura di nomina a Presidente di sezione del Tribunale di Palermo, il testimone aveva udito diverse volte Silvana Saguto affermare che Tommaso Virga si stava adoperando per sponsorizzare, all'interno del CSM, la sua nomina; Walter Virga, figlio di Tommaso, veniva spesso in tribunale, poiché era stato nominato amministratore giudiziario; dopo l'inizio degli attacchi mediatici dell'emittente televisiva Telejato, diretta dal giornalista Pino Maniaci, Silvana Saguto aveva cominciato a parlare in termini non lusinghieri di Walter Virga, dicendo che non era in grado di gestire il compendio aziendale del gruppo Rappa, che si pentiva di averlo nominato e che stava valutando la possibilità di sostituirlo; le lamentele nei confronti di Virga erano divenute più frequenti dal mese di marzo del 2015.
Appare evidente al collegio, dunque, che vi fossero legami consolidati tra Tommaso Virga e Silvana Saguto e che il primo, inoltre, fosse interessato alle vicende interne alla sezione delle misure di prevenzione per gli incarichi che il figlio Walter aveva ricevuto nelle misure Giardina e Rappa.
Tommaso Virga, infatti, nel momento di fibrillazione collocato nell'estate del 2015, in cui Silvana Saguto e la sua sezione erano sottoposti ad una critica serrata da parte di diverse testate giornalistiche (Telejato, Le lene, La Repubblica), costituiva un elemento di conforto e sostegno per Silvana Saguto e per i giudici della sezione [...].
Risulta provato, quindi, che vi fosse un particolare rapporto tra Silvana Saguto e Tommaso Virga, connotato anche da uno scambio reciproco di favori (garanzia di protezione assicurata da Virga e incarichi al figlio prima dello scandalo, uscita concordata e senza traumi del figlio dopo lo scandalo).
Che questi siano stati i rapporti tra i due magistrati lo si comprende anche dall'assenza di qualsiasi riferimento da parte di Silvana Saguto all'incapacità o inidoneità di Walter Virga nella gestione delle misure di prevenzione nei discorsi che intratteneva con Tommaso Virga.
E' emersa pertanto in maniera evidente la necessità della Saguto di mantenere buoni rapporti con il collega magistrato, che si stava attivando, o mostrava di farlo, sia presso il Ministero della Giustizia (incontro con Cosimo Ferri presso il Ministero) che presso il CSM (interlocuzione con Galoppi, riferita dalla Saguto, ma smentita dal teste Galoppi). [...] A CURA ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
Beni confiscati, il grande spreco. Più della metà sono inutilizzati. Tullio Filippone, Salvo Palazzolo su La Repubblica il 12 ottobre 2021. La denuncia delle associazioni: "Immobili in cattivo stato, mancano risorse e personale per gestirli". L'indagine della Regione: tanti Comuni impreparati, e i finanziamenti per le ristrutturazioni restano nel cassetto. C'è un numero che indica lo stato di salute dell'antimafia in Sicilia, è la percentuale dei beni confiscati che tornano alla collettività: solo il 45 per cento. Un dato preoccupante, che emerge dall'ultimo rapporto consegnato dall'ufficio della Regione siciliana che tiene sotto controllo il tesoro più grande dell'Isola, quello sottratto ai padrini di Cosa nostra. Da Palermo a Catania, da Trapani ad Agrigento, da Messina a Ragusa, ci sono 997 fabbricati e 278 terreni che ospitano attività sociali e istituzionali, ma ci sono anche 802 fabbricati e 768 terreni inutilizzati: 1570 beni che sono ancora nelle mani di mafiosi e abusivi. Per capire il perché di questa sconfitta per l'antimafia bisogna partire dal pesante atto d'accusa dell'ufficio della Regione - il Servizio Quinto dello staff del direttore generale - diretto da Emanuela Giuliano, la figlia di Boris, il capo della squadra mobile ucciso il 21 luglio 1979: "Il 55 per cento dei beni è rimasto inutilizzato per i seguenti motivi: mancanza delle risorse necessarie alla ristrutturazione e alla riconversione (36,11 per cento), mancato avvio o ultimazione delle relative procedure di assegnazione (30,57 per cento), occupazioni da parte di terzi con o senza titolo (6,82 per cento), avvisi pubblici per l'assegnazione andati deserti (3,06 per cento), strutture in quota indivisa (5,67 per cento)".
La grande incompiuta
Eccola, la mappa siciliana della sconfitta, che ogni mese si allarga sempre più. Perché le forze dell'ordine e la magistratura continuano ad sequestrare beni a cosche in continua riorganizzazione. Intanto, lo Stato non riesce ancora a mettere a punto una macchina efficiente per la gestione dei beni sottratti ai padrini. A partire dalla prima esigenza: un monitoraggio dei dati. È quanto denuncia l'Istat, in una recente pubblicazione ("L'uso dei beni confiscati alla criminalità organizzata"): "L'ambito di policy delle politiche antimafia è caratterizzato da un approccio burocratico centrato sul processo, piuttosto che sul contenuto degli interventi e sui soggetti coinvolti: (...) sono disponibili dati elementari sui beni confiscati e destinati, ma non sul loro effettivo utilizzo". Insomma, l'Agenzia nazionale beni confiscati non ha ancora il controllo effettivo di tutto il patrimonio. La Regione ha chiesto informazioni ai 205 Comuni siciliani che risultano assegnatari dei tesori di mafia, solo 161 hanno risposto. Disinteresse? Incapacità di gestire immobili così importanti? Di sicuro, c'è tanta impreparazione nei Comuni. Ancora il report della Regione ci dice che solo 45 enti locali hanno chiesto finanziamenti per la sistemazione di 80 immobili. E i progetti presentati non devono essere stati neanche di qualità, perché sono stati concessi solo 23 milioni di euro sui 40 richiesti. Le cause di esclusione sono così sintetizzabili: "Mancanza dei requisiti, punteggio insufficiente, progetti presentati fuori termine". Sul tema dei fondi, i funzionari regionali hanno voluto approfondire, chiedendo ai diretti interessati. È emerso un altro dato preoccupante: "C'è una scarsa disponibilità di risorse da destinare alla redazione dei progetti". Non è più rinviabile una riforma del sistema di gestione dei beni confiscati. La commissione regionale antimafia ha messo in risalto un altro dato allarmante nell'ultima relazione: su 780 imprese definitivamente confiscate solo 39 sono attive. Per quanto riguarda quelle destinate, solo 11 su 459 non sono state poste in liquidazione. Ha scritto il presidente Claudio Fava: "La disciplina sul sequestro e la confisca dei beni alle mafie pretende subito un investimento di volontà politica e di determinazione istituzionale che fino a ora non c'è stato. Insomma, un sistema da ripensare". Parole che più chiare non potrebbero essere: "Il rischio è che lo Stato, e con lui l'intera comunità nazionale, perda la sfida lanciata alla mafia da Pio La Torre e Virginio Rognoni con la legge che porta il loro nome". Che fare? La commissione nazionale antimafia ha provato a cercare le cause del disastro. E ha stilato un'interessante mappa della ripartenza a partire dai problemi, che sono questi: "La distanza temporale eccessiva tra confisca definitiva e destinazione, le condizioni dei beni da destinare, spesso frattanto vandalizzati o comunque danneggiati dall'incuria, le problematiche degli abusi edilizi, la carenza di personale che consenta di seguire i beni confiscati o redigere il regolamento comunale, i bandi chiusi senza richieste da parte delle associazioni". Ma il problema dei problemi è uno: "La mancanza di fondi" per valorizzare il tesoro inutilizzato.
Palermo capitale
Se quasi quattro beni confiscati su 10 (il 38,7 per cento e circa seimila su 15.500) si trovano in Sicilia, a Palermo sono il 12,1 per cento: da solo il capoluogo siciliano ha ricevuto il 10 per cento di tutti i beni destinati ai comuni italiani. Un onore e un onere non semplice da gestire. Lo studio dell'Istat, curato da Ludovica Ioppolo e Fabrizio Consentino, offre uno spaccato. Erano quasi duemila i beni per il territorio palermitano al 31 dicembre 2019. Tra questi, 1281 sono destinati al Comune; gli altri 700 sono di pertinenza di altre istituzioni, come i Carabinieri (202) la Guardia di finanza (171) e la Regione (68). Ma qui sorge il problema. Dei 1281, soltanto 1050 sono acquisiti al patrimonio, 248 si trovano in una sorta di limbo, ovvero è stato emesso il decreto di destinazione, ma solo sulla carta. Tra i 1050 del patrimonio, 414 beni (il 39,4 per cento) non sono utilizzati.
Beni fatiscenti o occupati
Ma perché 4 beni su 10 non sono assegnati? "Prendere in gestione un bene confiscato non sempre conviene, perché gli immobili sono in cattive condizioni e si può spendere fino a 100mila euro", conferma Marco Farina, direttore dell'Ong palermitana Hryo. A volte passano molti anni tra l'assegnazione e la presa di possesso. "Nel 2017 abbiamo preso 100 punti, il massimo, per gestire un terreno a Ciaculli, ma siamo arrivati alla pari con un'altra associazione che è stata sorteggiata vincitrice - racconta Farina - così siamo rimasti due anni in graduatoria e a gennaio del 2019 ci è stato assegnato un terreno confiscato in via Trabucco a Cruillas per un progetto di inclusione sociale". Ma negli ultimi due anni l'associazione ha trovato mille ostacoli: tra cui i rifiuti speciali da bonificare, con un assegno da 10mila euro. "Può capitare anche di perdere migliaia di euro di fondi per riqualificare un bene, perché non arriva in tempo l'ok degli uffici comunali", aggiunge Farina. C'è una montagna di carte nell'ufficio del servizio Beni confiscati, demanio e inventario del Comune, che ha un organico di 19 persone, tra cui tre funzionari e un dirigente, per gestire il più grande patrimonio d'Italia. "Molti beni non sono in condizioni ottimali e i comuni avrebbero bisogno di fondi per gestirli - dice l'assessore al Patrimonio Tony Sala - In passato, per ragioni storiche, sono stati acquisiti troppi beni, ma oggi la ragioneria generale è molto rigida, basti vedere l'ultima pratica sull'acquisizione di immobile per il settore scuola a Borgo Nuovo".
Svolta sull'uso abitativo
L'altro grande nodo è rappresentato dalle occupazioni dei senzatetto. A Palermo, 81 immobili risultano occupati abusivamente, quasi l'8 per cento. Basta scorrere l'ultimo elenco sul sito del Comune per trovare la voce: "Occupato abusivamente da nucleo familiare, procedure di sgombero in corso". Un caso recente è quello di Mandarinarte, mandarineto delle legalità di Ciaculli, trasformato con 240mila euro in uno spazio sociale, che a fine 2017 è stato occupato e devastato da due famiglie prima di essere sgomberato e restituito alle associazioni. A maggio scorso, il consiglio comunale ha approvato un nuovo regolamento comunale sui beni confiscati che definisce la prevalenza dell'uso abitativo. E sono in corso di valutazione le proposte per la concessione ad uso sociale di alcuni beni inseriti in un avviso pubblico di aprile del 2020.
Secondo lo studio Istat pubblicato di recente, a Palermo sono 181 i beni con uso abitativo: 140 gestiti da associazioni, 21 da enti ecclesiastici, 17 da cooperative e 2 da fondazioni. "Nella città dell'emergenza abitativa l'utilizzo del patrimonio confiscato per dare una casa a chi non ce l'ha è necessario - dice il consigliere di Sinistra Comune Fausto Melluso, che ha seguito l'iter del regolamento - ora si potranno invece sperimentare anche l'autorecupero o il co-housing e questo consentirà di utilizzare molte più abitazioni".
Sicilia prima per il riuso sociale
L'altra faccia della medaglia è l'uso sociale dei beni per cui la Sicilia, secondo un censimento di Libera, è la prima regione in Italia con 204 soggetti gestori. E Palermo i beni a uso sociale sono 180. Storie di riscatto come la Sartoria Sociale della cooperativa Al Reves, che dal 2017 gestisce un immobile confiscato all'immobiliare Raffaello, gestita dal mafioso Antonino Buscemi, e dà lavoro a ex detenuti, vittime di tratta, disabili e migranti. O ancora la "Volpe Astuta" di Fondo Micciulla, al Altarello, confiscato alla famiglia Piraino per farne un campo base scout. Quello che le associazioni - da Libera ad Arci e Addiopizzo- non sono riuscite a ottenere è un osservatorio comunale sui beni confiscati: "A 25 anni dalla legge del '96 sul riuso sociale occorre rilanciare la visione cittadina sui beni confiscati - dice Chiara Natoli di Libera - non esiste una mappa e per superare ostacoli burocratici servirebbe uno sportello unico e uno spazio di confronto tra istituzioni e società civile come un osservatorio".
"Basta con i sequestri dei beni anche se assolti. Così si rovinano troppi imprenditori innocenti". Fabrizio De Feo il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. La proposta della senatrice Fi: "Eliminare le storture presenti nel codice Antimafia". È uno dei paradossi meno conosciuti della giustizia italiana, quello dei beni confiscati agli imprenditori finiti in un'inchiesta antimafia e poi assolti. Un labirinto kafkiano in cui si rischia, dopo un lungo processo, di non tornare in possesso dei propri beni e su cui Gabriella Giammanco ha presentato un disegno di legge.
Senatrice, qual è l'obiettivo della sua proposta?
«Rivedere il Codice Antimafia che, così com'è, può produrre storture paradossali. Può accadere, infatti, che un imprenditore indagato per mafia e assolto in via definitiva si veda comunque confiscare l'azienda».
Com'è possibile un tale paradosso giuridico?
«Il procedimento di prevenzione è slegato dal processo penale e non tiene conto di quanto stabilito in quella sede. In Sicilia, terra in cui è difficile fare impresa e dove si è più esposti al rischio di contatti con realtà mafiose, sono molti gli imprenditori assolti che a causa delle misure di prevenzione vengono messi letteralmente in ginocchio. Penso alla famiglia Cavallotti di Euroimpianti, che ha vissuto un travaglio giudiziario durato 22 anni subendo la confisca dell'impresa. Tra l'altro il procedimento di prevenzione è sommario, concede meno garanzie rispetto al processo penale, si basa su meri indizi e sulla presunzione di colpevolezza».
Qual è l'impatto del sequestro sulle aziende?
«Il più delle volte le aziende passano direttamente dall'amministratore giudiziario al curatore fallimentare, si accumulano debiti su debiti e tutto va in rovina. Il destinatario di un sequestro resta macchiato a vita, anche nei rapporti con le banche. Nessuna gli concederà prestiti o gli aprirà un conto. La vita di imprenditori, lavoratori, famiglie intere, viene spezzata. E se c'è stata l'assoluzione nel processo penale sa di vera e propria beffa».
Cosa fare per porre rimedio a questa situazione?
«Innanzitutto il procedimento di prevenzione dovrebbe basarsi su indizi gravi, precisi e concordanti. Inoltre, bisogna creare un ponte con il processo penale. Una confisca non deve poter avvenire sulla base di un reato che non esiste. Bisogna prevedere il risarcimento del danno, se un imprenditore è costretto a raccogliere le macerie lasciate dall'amministratore giudiziario dev'essere messo nelle condizioni di ricominciare. E poi, serve istituire un periodo minimo di controllo giudiziario e di affiancamento per garantire la continuità aziendale. La sostituzione immediata dell'imprenditore con un amministratore giudiziario è inconcepibile, quest'ultimo non ha il know-how per portare avanti l'azienda. Inoltre, bisogna estendere la responsabilità civile degli amministratori giudiziari».
Politicamente oggi ci sono le condizioni per approvare una proposta di questo tipo?
«Viviamo un periodo storico in cui tra referendum e riforma della giustizia si sta muovendo qualcosa. Mi auguro ci sia la volontà di far valere la sacralità delle garanzie costituzionali. La giustizia non può essere una questione di fortuna. Non è concepibile subire provvedimenti così afflittivi pur non avendo commesso alcun reato. Si tratta di sanzioni che non sono penali ma che distruggono la vita di chi, direttamente e indirettamente, ne viene coinvolto».
C'è qualcosa che il governo potrebbe fare nell'immediato?
«Istituire fin dalla prossima legge di Bilancio un fondo di solidarietà per risarcire gli imprenditori che si sono visti sequestrare e dissequestrare dopo lunghi anni l'azienda, sarebbe un segnale importante». Fabrizio De Feo
Opacità e fallimenti: l’agonia senza fine dei beni confiscati. La polemica sui beni confiscati ha ripreso dopo la scoperta di ulteriori criticità proprio nel mondo dei sequestri antimafia e per giunta proprio in Sicilia. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 14 settembre 2021. E’ un fiume carsico che si inabissa e riemerge in modo inaspettato, sorprendente. Un flusso di corruzione o, comunque, di malgoverno talvolta accertato, ma spesso solo sussurrato, sembra accompagnare la gestione dei patrimoni che le leggi dello Stato mettono nelle mani della magistratura e per i più svariati motivi: dai sequestri antimafia alle procedure fallimentari fino alle vendite immobiliari. Non esiste alcuna statistica ufficiale, né può far di conto la giurisprudenza disciplinare del Csm perché i più, presi con il dito nella marmellata o anche con il barattolo in tasca, si dimettono ed evitano la gogna della radiazione. Tuttavia, a spanne e senza tema di smentita, sono stati parecchi negli anni addietro i casi di toghe delle misure di prevenzione, delle sezioni fallimentari o delle procedure esecutive che sono incappati in rilievi pesanti, se non in qualche vicenda finanche nelle manette. E’ un punto delicato. Ogni volta si dice che non succederà più e ogni volta il sistema in modo imprevisto entra in crisi. In silenzio, con discrezione, con qualche trasferimento e qualche pensionamento “spintaneo” i nodi peggiori vengono sciolti, ma rimane in tanti l’impressione che il circuito delle nomine dei professionisti che corre intorno alle gestioni patrimoniali rimesse alle toghe sia un mondo in parte opaco. Malgrado interventi legislativi, circolari, disposizioni di servizio non si riesce a impedire del tutto che si creino relazioni sospette e poco trasparenti soprattutto tra coloro che partecipano al mercato delle nomine come amministratori, curatori, gestori e via seguitando e una selva di collaboratori e coadiutori indispensabili per le ricchezze più ingenti. La polemica ha ripreso vigore dopo recenti arresti e dopo la scoperta di ulteriori criticità proprio nel mondo dei sequestri antimafia e per giunta proprio in Sicilia che, con il sangue del generale Dalla Chiesa, ha dato il via alla legislazione patrimoniale più severa che si conosca al mondo. Basterebbe aver memoria del passato, degli anni bui del secolo scorso, quando era quasi impossibile trovare amministratori e custodi che avessero il coraggio di gestire i beni tolti ai mafiosi. O, prima ancora, bisognerebbe volgere lo sguardo alla morte dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata italiana di Michele Sindona, per comprendere, come mai, da almeno un paio di decenni, si sia scatenata una lotta spasmodica all’incarico, alla nomina, con frotte di postulanti per i corridoi dei tribunali alla ricerca di prebende da parte dei giudici o dei grand commis professionali. Se ci cercassero, al di là delle chiacchiere e della propaganda, indici oggettivi con cui misurare la pericolosità delle mafie o, meglio, la percezione della loro pericolosità in questo tempo, ecco questo sarebbe un campo di studio di cui occuparsi con una certa attenzione. Nessuno teme vendette o ritorsioni. Tutti premono per conseguire un incarico che, in tempi di vacche magre per molte professioni, non saranno redditizi, ma comunque aiutano a tirare a campare. Certo, sia chiaro, ci sono eccezioni, eccome. Tante volte la nomina per gestire beni delle cosche riguarda professionisti specchiati, di alto profilo, capaci e fedeli servitori della giustizia. Ma non si tratta di esprimere giudizi morali o professionali su categorie che – come tutte – conoscono al proprio interno le inevitabili mele marce. Quel che preme cogliere è che nessuno, o quasi, ha paura di occuparsi dei patrimoni della mafia e che gli stessi mafiosi, a fronte del pericolo di sanzioni enormi, si tengono ben lontano dal minacciare chicchessia. Poi c’è a latere, non troppo distante, il tema angoscioso ed endemico ormai del fallimento delle imprese sequestrate, della dispersione degli immobili confiscati, del loro inutilizzo. Malgrado un nugolo di modifiche legislative, mille convegni e mille riflessioni poco è mutato a mitigare un quadro desolante. Uno slancio avrebbe dovuto darlo nel 2010 l’Agenzia nazionale dei patrimoni di mafia che, nello schema originario, avrebbe dovuto occuparsi dei beni e delle imprese sin dal sequestro, curando subito la nomina di amministratori e custodi. Ma quel progetto è naufragato a fronte della sollevazione di settori consistenti e, come scoperto in seguito, non sempre disinteressati al mercato degli incarichi. Così l’ANBSC è stata tagliata fuori dai giochi e ne è mancato l’impulso nel momento strategico e cruciale del passaggio dei beni dalle mani dei mafiosi a quelle dello Stato. Non sarebbe stato tutto rose e fiori, ma lo sconforto attuale avrebbe meritato una chance coraggiosa e innovativa.
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 3 settembre 2021. Come viatico all'imminente utilizzo dei soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) fa impressione l'impietosa radiografia che, nella «Relazione sulle procedure di gestione dei beni sequestrati e confiscati», il IX Comitato della Commissione bicamerale Antimafia fa del paradossale spreco dei fondi europei che in teoria negli ultimi sei anni sarebbero stati usabili: appena 61 milioni erogati sui 509 a disposizione di 5 Regioni del Sud. L'Agenzia per la coesione territoriale (Act) aveva infatti sottoscritto protocolli d'intesa per la «realizzazione di azioni nei settori della legalità e sicurezza» con Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia e Puglia, con l'Agenzia nazionale beni sequestrati e confiscati (Anbsc), il Dipartimento per le politiche di coesione e il Ministero dell'Interno appunto per la gestione di 509,1 milioni del Piano operativo nazionale (Pon) Legalità 2014-2020. Ma «attualmente - conteggia la relazione - il Pon Legalità ha finanziato le azioni previste dai 5 protocolli per un importo molto inferiore rispetto alle sue potenzialità», visto che «i 61 milioni ad oggi erogati rappresentano solo l'11,6% degli impegni programmati e addirittura il 4,7% se si fa riferimento al rapporto dei pagamenti sugli impegni». La Puglia, con 36,8 milioni, si attesta sul 71% nel rapporto impegni su programmato, ma sul 15,8% nel rapporto pagamenti su impegni. La Campania, con 14,9 milioni, sta rispettivamente sul 48,2% e sul 52,2%. La Sicilia, con 2,2 milioni, è al 33% nel rapporto impegni su programmato, «e appena al 4% nel rapporto pagamenti su impegni. Ancora più insoddisfacente è il quadro relativo alla Calabria», che ha finanziato tre convenzioni per 9,1 milioni ma «ha comunicato che non risultano avviati gli interventi inseriti in queste convenzioni». Tutto ciò impone di «tenerne conto non solo per le opportune correzioni di tiro alle procedure vigenti, ma anche nell'erogazione dei futuri fondi previsti dal Pnrr», di cui una delle sei missioni, la n. 5 «inclusione e coesione» da 27,6 miliardi, annovera un capitolo da 300 milioni specifico per la «valorizzazione economica e sociale» di almeno 200 beni confiscati «per il potenziamento del social housing, la rigenerazione urbana e il rafforzamento dei servizi pubblici di prossimità». E in concreto soccorso agli enti locali, per non sprecare il tesoro dei beni confiscati, dal IX Comitato della Commissione Antimafia arriva una didascalica guida pratica. Già solo anche per imparare a conoscere i beni sequestrati nel proprio territorio, che 63 Comuni su 100 ignorano perché neppure hanno le credenziali per la relativa banca dati "Open regio".
La Consulta: una truffa aggravata non vale una “interdittiva”. La Consulta ha deciso che la condanna per “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” non può determinare automaticamente “l’incapacità ad avere rapporti con le pubbliche amministrazioni”. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'1 agosto 2021. La condanna per il reato di “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” non può determinare automaticamente “l’incapacità ad avere rapporti con le pubbliche amministrazioni”. Lo ha deciso ieri la Corte costituzionale con la sentenza 178, relatore il vicepresidente Giuliano Amato, dichiarando illegittimo un articolo del dl numero 113 del 2018. Il reato in questione non è “di per sé, indice di appartenenza a un’organizzazione criminale”. E questo in quanto, a differenza di altre fattispecie penalmente rilevanti, “non ha natura associativa, non richiede la presenza di un’organizzazione ed è punito con pene più lievi”. Il divieto di avere rapporti con le pubbliche amministrazioni era una misura “sproporzionata” rispetto al contrasto all’attività mafiosa e avrebbe provocato danni elevati alla libertà di iniziativa economica. La disposizione era contenuta nel “decreto sicurezza”, fortemente voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il testo, su cui era stata posta la fiducia, era stato molto dibattuto e aveva attirato le critiche anche di diversi esponenti della maggioranza appartenenti al Movimento 5 Stelle. Immigrazione, sicurezza pubblica, organizzazione del Ministero dell’interno e dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati o confiscati alla criminalità organizzata erano gli elementi principali del provvedimento. E sempre la Corte Costituzionale ha stabilito ieri che non è fondata la questione di legittimità costituzionale la norma che non consente di valutare, ai fini della ricostruzione di carriera e della mobilità, l’insegnamento prestato presso le scuole paritarie, prima dell’immissione nei ruoli della scuola statale. La legge, scrive ancora Amato, "ha voluto garantire agli alunni delle scuole paritarie i medesimi standard qualitativi di quelle statali, sia quanto all’offerta didattica sia quanto al valore dei titoli di studio". Ciò non ha però portato alla completa equiparazione del rapporto di lavoro dei docenti di tali scuole a quello dei docenti della scuola statale in regime di pubblico impiego privatizzato. Infatti, la mancanza di selezioni concorsuali nelle scuole private non consente di tenere conto dei principi che, in base all’articolo 97 della Costituzione, devono informare l’attività delle amministrazioni pubbliche. D’altra parte, sottolinea la Corte costituzionale "il margine di discrezionalità delle scuole paritarie nella selezione dei propri insegnanti garantisce la loro autonomia e libertà nel dotarsi di personale connotato da un’impostazione culturale, didattica ed educativa coerente con il loro progetto formativo".
Così Gratteri e l’antimafia hanno distrutto la mia azienda e la mia vita. Roberto Corbo su Il Riformista il 16 Luglio 2021. Mi chiamo Roberto Corbo. Oggi ho 45 anni. Sono un imprenditore edile. Forse. Certo, prima lo ero. Nel gennaio 2018, sono arrestato nell’ambito dell’operazione Stige della Procura di Catanzaro. Il capo di imputazione dice: concorso esterno in associazione mafiosa. Si racconta che avrei avuto contatti con un noto esponente della ndrina calabrese, e di avergli messo a disposizione la mia azienda, una Società per Azioni. Procediamo con ordine. Sono casertano e le mie attività si sviluppavano, principalmente, nel centro nord Italia. A fine 2012/2013 mi reco alla Banca MPS di Siena per richiedere un mutuo edile per la costruzione di un complesso immobiliare a Monteriggioni, Siena. La banca per prassi nomina un perito di fiducia per le necessarie verifiche. Il perito di fiducia era il noto affiliato alla ndrina, residente e con studio a Siena. Il mutuo non viene erogato. Qualche tempo dopo il perito mi contatta per presentarmi un cugino che avrebbe mostrato interesse ad acquistare la mia operazione. Non si conclude nulla e i rapporti cessano a metà 2014. Dopo quattro anni, nel 2018, vengo tratto in arresto insieme ai due, al noto perito e a suo cugino. Trascorsi venti giorni di carcere, il Tribunale del Riesame annulla l’ordinanza cautelare per carenza di gravi indizi. Il tribunale, in particolare, affermava che dal contenuto delle intercettazioni telefoniche non emergessero elementi sufficienti per sostenere una agevolazione alle attività del clan coinvolto. È finita. Pensavo. E invece la mia storia doveva ancora iniziare. Sempre nel 2018, la Prefettura di Caserta emette, facendo suo l’impianto accusatorio di Catanzaro, una informativa antimafia (interdittiva). Di conseguenza mi vengono revocati tutti gli appalti e le concessioni. Sono costretto a licenziare tutti i dipendenti. Il giudice della cautela espressamente afferma che non vi è stata attività di agevolazione e nessun tentativo di infiltrazione. Il Prefetto, al contrario, sulla base degli stessi fatti, ritiene che vi sia stata agevolazione e infiltrazione mafiosa nella Corbo Group S.p.A. Non mi arrendo e decido di chiedere al tribunale delle misure di prevenzione che la mia società sia sottoposta alla misura del controllo giudiziario di cui all’articolo 34 bis del Decreto Legislativo n. 159/2011, chiedendo la “bonifica” dell’azienda per poter tornare a lavorare. Nel frattempo, la mia vicenda cautelare ha un sussulto: la procura appella la sentenza del Tribunale del Riesame in Cassazione. Si è trattato di un sussulto. A Roma quel ricorso è dichiarato inammissibile. Nel settembre 2019, sono assolto dal Gup di Catanzaro perché il fatto non sussiste. Dopo poco, arriva il decreto del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che dichiara conclusa positivamente la procedura del controllo giudiziario. I Giudici scrivono che bisogna prendere atto del fatto che per la società non sia emerso… alcun dato significativo sintomatico di fatti estranei alla normale gestione aziendale. La white list mi viene allora concessa. Sembra tutto finito: inizio a lavorare e a contrattualizzare con la pubblica amministrazione. Ancora una volta non è così. Le cose precipitano di nuovo. Nel giugno 2020, la Procura di Catanzaro propone appello contro la sentenza di assoluzione. A gennaio 2021, il Consiglio di Stato rigetta il ricorso contro l’interdittiva. I giudici di Palazzo Spada ritengono che quei fatti (ma quali? Una teorica messa a disposizione agevolatrice deducibile da una telefonata!) pur non essendo idonei a sostenere una condanna in sede penale sono, però, idonei a sostenere l’interdittiva antimafia. Il controllo giudiziario è come se non ci fosse mai stato. Né conta quanto detto dal Tribunale del Riesame che ha escluso del tutto la contiguità compiacente dell’impresa Corbo Group ritenendo che la stessa non abbia mai svolto attività di agevolazione a beneficio del sodalizio criminoso. Lo ripeto, perché a me appare incredibile: sia il Tribunale del Riesame sia il controllo giudiziario sia il GUP hanno escluso qualunque contiguità. Il decreto che dichiara la chiusura del controllo giudiziario riporta espressamente che le accuse rispetto ai tentativi di infiltrazione mafiosa si sono rivelate “del tutto infondate”. Ma per il Consiglio di Stato nulla di questo ha valore. È l’autonomia dei giudicati, mi spiega il mio avvocato. Autonomia dei giudicati che mi rende un imprenditore dimezzato: estraneo e bonificato per taluni, marcato per sempre per altri. La Prefettura, notizia da poco giunta, sembra decisa a emettere una nuova informativa. Alla mia istanza di ammissione alle white list ha risposto: ci sono ostacoli. Quali? Quelli soliti. Da lì non si passa. Lì sono incatenato. Roberto Corbo
La candidatura Ventura nata sventurata e deragliata per l'antimafia. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 2 luglio 2021. Nata male e finita peggio la storia di Maria Antonietta Ventura, candidata presidente del centrosinistra alle prossime regionali. A fronte delle evidenze, stasera c’è stato il passo di lato dell’amministratrice del gruppo operante nel settore ferroviario (LEGGI) che a fronte dell’interdittiva antimafia emanata dalla prefettura di Lecce (ce ne sarebbe una seconda anche da Napoli), ha capito che non era il caso di continuare a sostenere difese con questioni di omonimie e altre pezze a colori. Un disastro da parte di chi ha gestito la partita a Roma. Ad iniziare dal segretario Enrico Letta, e poi Giuseppe Conte e Francesco Boccia, pronube del partito in Calabria come responsabile dei rapporti con i territori e da pochi giorni commissario della Federazione del Pd di Cosenza. Un dilettantismo da ragazzini ha caratterizzato i responsabili nazionali che nell’incontro romano che ha deciso di puntare sulla donna di Confindustria nonché presidente regionale dell’Unicef erano stati messi a conoscenza del problema in corso in evoluzione in Puglia per un subappalto finito ad un’azienda in odore di mafia per vicinanza ad una cosca di Isola Capo Rizzuto. La candidata sarebbe stata rassicurata che la vicenda non presentava grandi problemi e i vertici nazionali avrebbero anche avviati riscontri presso la prefettura di Roma che avrebbero dato esiti negativi rincuorando l’entourage dei Ventura. Una grande superficialità ha creato una situazione precipitata ieri. Le interdittive esistono. Accertata a Lecce ed emessa dalla prefettura il 9 aprile del 2021 e rimbalzate a quanto pare anche a Napoli. A quel punto, mentre si preparava la prima uscita pubblica per domenica a San Lucido, paese dove il marito della Ventura è sindaco, non è rimasto che chiamare la ritirata. Per il centrosinistra tutto da rifare. Il casting del candidato riprende. Per la Ventura un’avventura sventurata. Un deragliamento che si poteva evitare.
Il documento - L’interdittiva Ventura che ha provocato il ritiro. Il Quotidiano del Sud il 3 luglio 2021. Perché un candidato benedetto a Roma da Enrico Letta, Boccia, Giuseppe Conte, Spadafora a 48 ore dal suo primo comizio e con i manifesti stampati per la sua campagna elettorale decide di fare un passo a lato schiantando nel silenzio il centrosinistra nazionale e locale? Tutto ruota attorno ad una interdittiva della Prefettura di Lecce che abbiamo deciso di rendere pubblica per permettere ai nostri lettori di conoscere i motivi della clamorosa ritirata. È una materia ostica quella in questione. “L’interdittiva antimafia non va confusa con la comunicazione antimafia, infatti la comunicazione antimafia presenta una natura ricognitiva sull’esistenza di cause di revoca, decadenza o divieto tipizzate. L’informazione antimafia, invece, è il frutto di una valutazione dell’autorità prefettizia, che si basa su una serie di elementi sintomatici ed esprime un motivato giudizio, in via preventiva, sul pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa; in virtù di tale rischio, viene interdetto l’inizio o la prosecuzione di attività con l’amministrazione pubblica o l’ottenimento di sussidi, benefici o sovvenzioni, determinando la revoca di quelli già erogati. L’interdittiva antimafia è una misura preordinata alla tutela dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione. A differenza della comunicazione antimafia, l’informazione interdittiva si basa su una valutazione discrezionale, da parte dell’autorità prefettizia, in merito alla sussistenza (o meno) di tentativi di infiltrazione della criminalità. La suddetta valutazione è fondata su «fatti ed episodi i quali, seppure non assurgano al rango di prove o indizi di valenza processuale, nel loro insieme configurino un quadro indiziario univoco e concordante avente valore sintomatico del pericolo di infiltrazioni mafiose nella gestione dell’impresa esaminata» (Tar Toscana 910/2018).” I contenuti dell’interdittiva avrebbero allarmato i vertici romani nelle ultime ore, quando si è preso contezza dell’inchiesta “Passpartout” condotta da Nicola Gratteri. Pur se di fatti tutti ancora da provare, mediaticamente avere la famiglia della candidata indagata dal pm più famoso d’Italia non era sostenibile. Per questi motivi pubblichiamo integralmente questo documento (per la visualizzazione a schermo intero clicca sul quadrato in basso a destra).
La missione del Comitato sulle misure di prevenzione. Basta gridare alla mafia dove la mafia non c’è. Miriam Romeo su Il Riformista il 18 Giugno 2021. La parola è l’arma più potente del mondo. Essa può ferire e distruggere vite umane senza lasciare alcun segno visibile sul corpo ed è, al contempo, in grado di guarire l’animo umano offrendosi come dono gentile all’ascoltatore bisognoso di conforto. È potente anche perché ha il potere di plasmare ciò che ci circonda. Wittgenstein sosteneva, infatti, che i limiti del proprio linguaggio sono i limiti del proprio mondo, nel senso che la nostra stessa capacità di intendere il mondo è dettata dalle parole che utilizziamo per descriverlo. Ho passato anni a domandarmi perché la mia terra natia, la Sicilia, fosse considerata solamente come la culla della mafia, terra di Caino. Crescendo, mi sono resa conto che vi è una narrazione tipica – utilizzata specialmente nei momenti in cui si tratta di raccontare le vicende giudiziarie legate agli imprenditori del posto – che, per farla breve, è un po’ così: in Sicilia, se hai un’impresa florida, se hai superato l’asticella del reddito sufficiente ad alimentare sospetti, vuol dire che sei un mafioso o che hai fatto affari con la mafia. Tertium non datur. Io ingenua non lo sono mai stata e non ho mai pensato di negare l’esistenza di questo terribile cancro, tuttavia, sono sempre stata intimamente convinta che questa non fosse l’unica narrazione possibile e che il linguaggio utilizzato negli ultimi vent’anni sia stato causa di una gravissima mistificazione della realtà. La mia intima opinione è divenuta concreta certezza nel momento in cui mi sono ritrovata a studiare le misure di prevenzione e le assurdità di un sistema in cui il sospetto fa da padrone e il cui procedimento rinnega le garanzie fondamentali. In questo settore, infatti, il linguaggio utilizzato dagli “esperti” per descrivere le operazioni in atto è stato il peggiore possibile: “beni sequestrati alla mafia”, “maxi-sequestro ai mafiosi” … e chi più ne ha più ne metta. Nessuno che si premurava di spiegare che si trattasse soltanto di clickbaiting, che nei procedimenti di prevenzione non si svolge l’accertamento di alcun reato e che, se si vuole essere certi di aver sequestrato dei beni alla mafia, quella vera, bisogna agire tramite un processo penale. Le storie sulle misure di prevenzione vedono spesso come protagonisti soggetti assolti in un processo penale o mai rinviati a giudizio ma considerati, allo stesso tempo, “socialmente pericolosi”, con buona pace del principio di presunzione di innocenza. Eppure, queste storie sono passate troppo spesso in sordina, inabissate da un linguaggio che ha trasformato le vittime in carnefici, macchiate per sempre da parole infamanti come “mafioso” trasformatesi in lettere scarlatte, pronte a sottolineare in ogni tempo un’indefinita nube di sospetto, anche quando sentenze e decreti urlano a gran voce l’estraneità da ogni forma di criminalità. Io con le misure di prevenzione non c’entravo nulla o, quantomeno, non le ho mai conosciute personalmente. La mia storia non si aggiunge a quella delle vittime di certa antimafia ma è quella di una studentessa di Giurisprudenza che ha deciso di stare dalla loro parte. Per questo mi sono iscritta a Nessuno tocchi Caino, per aiutare i numerosi imprenditori innocenti a uscire dal cono d’ombra nel quale per molto tempo si sono rifugiati. È giunto il momento di cambiare la narrazione, di squarciare il velo di Maya e far conoscere la vera realtà ma per farlo bisogna essere in molti, unirsi in “social catena”. È per questo che è stato ufficialmente istituito il Comitato di Nessuno tocchi Caino sulle Misure di Prevenzione, di cui ho l’onore (e l’onere) di essere la Segretaria, insieme a Massimo Niceta in qualità di Presidente e Pietro Cavallotti nel ruolo di Portavoce. La costituzione è avvenuta, simbolicamente, all’Abbazia di Santa Anastasia di Castelbuono, un bene prezioso creato e custodito con amore dall’ingegnere Francesco Lena e dalla moglie Paola, all’improvviso sequestrato e, dopo un lungo calvario giudiziario, restituito ai suoi legittimi proprietari con un mare di debiti. La parola come dono, come conforto, è lo strumento che Pietro e Massimo utilizzano da tanti anni per supportare altri imprenditori come loro, ricordandogli, come nel dialogo di Plotino e di Porfirio, l’importanza del confortarsi e incoraggiarsi per “compiere nel miglior modo questa fatica della vita”. La nostra forza è la nonviolenza che non è mai protesta ma proposta, dialogo con il potere. Per affrontare questo dialogo bisogna, però, conoscere. È necessario informare per riformare, perché nessun cambiamento sarà mai possibile se prima non avremo sensibilizzato l’opinione pubblica su quest’amara realtà. Fra i nostri strumenti: la realizzazione di un docu-film sulle misure di prevenzione e di un libro dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire”, e la predisposizione di ricorsi alle alte giurisdizioni in collaborazione con l’Università di Ferrara. Ci impegneremo in tutto questo. Lo faremo avendo cura delle parole da usare, scegliendole sempre con cautela ma con la giusta dose di ribelle coraggio. Miriam Romeo
Gli distruggono le aziende con false accuse di mafia, oggi riparte dal padel. Massimo Niceta, imprenditore che vantava a Palermo una catena di accorsatissimi negozi di abbigliamento, si vide restituiti i beni esattamente tre anni fa dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Con un dettaglio: in virtù di inesistenti connivenze con le cosche, l’allora presidente dell’ufficio Silvana Saguto aveva ordinato il sequestro di tutto, e gli amministratori giudiziari da lei nominati avevano fatto fallire l’intero patrimonio. Nessun aiuto o ristoro per le ingiustizie subite. Solo grazie alla volontà, oggi pomeriggio a Palermo Niceta apre un punto vendita di attrezzature sportive per padel. Pietro Cavallotti su Il Dubbio il 12 ottobre 2021.
Ricapitoliamo. Gli tolgono la casa, le aziende e tutto ciò che possiede, finanche i soldi che ha in tasca. Si ritrova senza lavoro, con avvocati da pagare in un processo folle e con tre figli minorenni da mantenere. Sette anni dopo, con qualche capello bianco in più e con qualche ruga in più, viene scagionato completamente da tutte le accuse. Purtroppo, le sue aziende sono fallite, sono state usate come un ufficio di collocamento per amici e parenti senza alcuna esperienza. Chi le ha amministrate si è arricchito e chi le aveva fatte sequestrare è stato condannato per fatti gravissimi. Comincia il giro d’Italia per spiegare nei convegni il problema delle misure di prevenzione, per trovare una soluzione. Più di cento gli avvocati interpellati per sapere se si può ottenere una forma di risarcimento del danno. Niente: la risposta non esiste. Allora chiede aiuto alle Istituzioni, allo Stato ma lo Stato non c’è. I partiti hanno altro a cui pensare e gli “uomini delle Istituzioni” semplicemente non sono degli Uomini. Preferiscono girarsi dall’altra parte, così come i vari rappresentanti di categoria che dovrebbero fare gli interessi di imprenditori e commercianti e che, invece, fanno quelli di coloro che distruggono imprenditori e commercianti. Niente da fare, i problemi sono altri. Ci sono sempre altre priorità. Adesso c’è il fascismo da combattere e la Cgil devastata dai violenti a cui dare solidarietà. Poi se in Italia ci sono leggi fasciste che vengono difese da chi si dice contro il fascismo, se le persone e le aziende vengono saccheggiate legalmente dai “colletti bianchi non violenti”, non importa a nessuno. Le associazioni per la “legalità” vogliono solo gestire i beni “confiscati alla mafia” e se ne fregano delle persone a cui sono stati ingiustamente sequestrati i beni e distrutta la vita. Siamo carne da macello da dare in pasto a tanti lupi voraci. Siamo il combustibile umano che alimenta una macchina infernale che brucia soldi, sogni, sacrifici, vite e speranze. Si appassiona al padel, ne intuisce le potenzialità commerciali. In poco tempo diventa un esperto di questa disciplina. Non può contare sull’aiuto di nessuno. Le banche chiudono le porte. Ma decide di provarci ancora e, grazie alle dilazioni di pagamento accordate dai fornitori, apre un punto vendita che verrà inaugurato oggi pomeriggio, alle 16:30, in via Marchese di Villabianca 94, a Palermo. La morale? Io non credo più nella giustizia perché sono consapevole dell’ingiustizia della legge. Non credo nelle Istituzioni che in questa (e in tante altre storie) hanno dato una pessima immagine di sé. Credo nelle persone, nella forza creativa e nella resilienza dell’essere umano. La risposta, la soluzione al problema non è che in noi stessi. Non cerchiamola altrove.
«Imprenditori assolti ma perseguitati dallo Stato: una legge per dire basta». Il caso Cavallotti arriva alla Camera: Forza Italia propone un fondo per le vittime dell’antimafia. Simona Musco su Il Dubbio il 26 giugno 2021. Il tema delle misure di prevenzione entra in Parlamento, per la prima volta, dal punto di vista delle vittime dei sequestri ingiusti. Che “strappano” un impegno alla politica: modificare il codice antimafia e istituire un fondo per le aziende dissequestrate. Tutto è accaduto alla Camera, presso il gruppo di Forza Italia, dove, alla presenza di diversi parlamentari e del sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, Pietro Cavallotti, vittima di sequestro ingiusto da parte dello Stato, ha raccontato la sua storia. Sisto si è impegnato a rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo di prevenzione, «perché è inammissibile che nel 2021 una persona assolta con sentenza definitiva perché non ha commesso nessun reato si ritrovi, per lo stesso motivo, con i beni confiscati», ha sottolineato l’imprenditore. L’idea è quella di estendere le garanzie del contraddittorio e dell’onere della prova al processo di prevenzione. Altro punto su cui è stata manifestata disponibilità al confronto è quello di costituire un fondo per le aziende dissequestrate, proposta contenuta in un emendamento della deputata Matilde Siracusano al Decreto Ristori, che ha superato il vaglio di ammissibilità e che dovrà essere valutato dalle Commissioni, per l’istituzione di un fondo di 10 milioni di euro destinato alle aziende dissequestrate. «La storia giudiziaria della famiglia Cavallotti non è degna di un Paese civile – ha commentato Siracusano -. Un’azienda sequestrata a seguito dell’accusa di associazione mafiosa poi risultata del tutto infondata ma con un’impresa ormai destinata al fallimento per mano dello Stato. Oltre al danno la beffa: nonostante l’assoluzione questa famiglia ha continuato a subire l’accanimento giudiziario con la confisca dell’azienda». Ora, per la prima volta nella storia, c’è la possibilità che lo Stato si impegni a riconoscere il dovere di risarcire le vittime delle misure di prevenzione. Siracusano ha anche presentato un disegno di legge di revisione complessiva delle misure di prevenzione, a partire dai presupposti, dal procedimento e dal ruolo dell’amministratore giudiziario, idea che riprende molti dei punti già contenuti in una precedente proposta di legge del Partito Radicale. Cavallotti ha raccontato la sua storia, una storia che gli stessi parlamentari hanno ascoltato con stupore: l’azienda di famiglia, la Euroimpianti plus srl, è stata tenuta sotto sigilli dallo Stato per otto anni, durante i quali, sotto amministrazione giudiziaria, ha subito danni – certificati dal commercialista Giovanni Allotta – per oltre 11 milioni di euro. Nel 2011, nonostante il definitivo proscioglimento dal concorso esterno, il sequestro è tramutato in confisca da un collegio presieduto da Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, radiata dalla magistratura, condannata a 8 anni e mezzo per l’illecita gestione dei beni confiscati alle cosche. Motivo? Vengono considerati indizi di pericolosità quegli stessi elementi che i giudici penali avevano ritenuto incapaci di provare l’accusa di mafia. Lo Stato riconosce l’errore solo nel 2019, certificando la provenienza lecita di quei beni. Dopo il dissequestro dei beni, la procura si è appellata, ma nelle more dell’appello è arrivata un’istanza di fallimento da parte di Eni, che è creditrice di circa 80mila euro di carburante non pagato dall’amministratore giudiziario. «Passeremo dalla sezione misure di prevenzione alla sezione fallimentare – continua Cavallotti -, questo è l’epilogo della vicenda. Quindi, materialmente, non avremo alcunché, perché le nostre cose passeranno al curatore fallimentare che è un altro amministratore giudiziario. E questa è la storia delle aziende dissequestrate. Ma sono cose che si devono sapere: non è possibile che non ne parli nessuno. Lo Stato distrugge persone che non c’entrano nulla, sequestra, dissequestra, ma poi non aiuta le vittime, mentre nel frattempo le aziende falliscono per debiti accumulati dall’amministrazione giudiziaria. Parliamo di mancati pagamenti di Iva, fornitori, erario, banche… Peccato, però, che le aziende possono essere dissequestrate e in quel caso tocca al proprietario accollarsi i debiti maturati con gli interessi. L’amministrazione giudiziaria va fatta nell’ottica che quell’azienda possa anche essere dissequestrata. Ma ciò non avviene». Il risultato è che lievitano i compensi per gli amministratori giudiziari, mentre rimangono a bocca asciutta Stato, fornitori e dipendenti. «La verità è che la legge antimafia è stata appaltata ai magistrati e il Parlamento approva cose di cui nemmeno capisce il funzionamento. E ne ho avuto la conferma – aggiunge Cavallotti -. Ma non si possono dare deleghe in bianco ai magistrati, bisogna legiferare con equilibrio». All’incontro era presente anche la senatrice Gabriella Giammanco che, dal canto suo, si è impegnata a presentare la pdl di Siracusano al Senato. «Mai era successo, prima d’ora, che il Parlamento sentisse l’opinione di un imprenditore destinatario di un provvedimento di sequestro. Eravamo banditi dal mondo – conclude Cavallotti -. In qualche modo siamo stati “riabilitati”. Sono consapevole che le cose non cambieranno subito, ma è un passo importante, anche a livello simbolico». All’incontro era presente anche il deputato forzista dell’Ars Mario Caputo, che ha presentato un disegno di legge voto per l’istituzione di un fondo di solidarietà per le imprese sequestrate alla criminalità organizzata e in seguito dissequestrate. «Vogliamo garantire un sostegno concreto a chi ha subito procedimenti giudiziari poi risolti in un dissequestro delle attività – ha dichiarato nei giorni scorsi -. Ricordo che il 70% di tali imprese a livello nazionale, ha sede in Sicilia. Dunque si tratterebbe di una boccata d’ossigeno per il territorio, che permetta una ripresa, che a cascata coinvolgerebbe tutto l’indotto regionale. Con la discussione di tale disegno di legge voto, vogliamo sollecitare il Parlamento nazionale affinché prenda una netta e definitiva posizione in merito alla delicata vicenda».
Non chiamatela prevenzione questa è una persecuzione. Storia di Filippo: accusato e incarcerato, poi assolto e riconosciuto vittima di mafia. Pietro Cavallotti su Il Riformista il 28 Maggio 2021. La chiamano “prevenzione” della mafia. Ci dicono che in Italia abbiamo il più efficace sistema normativo per contrastare la criminalità organizzata. Un sistema così bello che ce lo invidia tutto il mondo. Mi chiedo su quali basi poggino affermazioni così lontane dalla realtà. Da molti anni mi chiedo se sia efficienza o criminalità togliere il lavoro a un uomo assolto, confiscare l’azienda a chi non è mafioso o sciogliere un comune dove non ci sono mafiosi. Mi chiedo che cosa si “prevenga” perseguitando uomini incensurati, i loro figli e intere comunità. Ma soprattutto mi chiedo come si possa pensare di fare “antimafia” senza considerare gli effetti distruttivi che certe misure provocano sulla vita delle persone. Qualche giorno fa ho ricevuto la chiamata di un uomo che ha l’età di mio padre. Il suo nome è Filippo Vasta. Un uomo distrutto, caduto in una profonda depressione che, da alcuni giorni, non vuole uscire di casa. Mi ha detto che non riesce a parlare con nessuno di quello che gli è successo e che ci riesce solo con me. Filippo è una persona semplice che ha sempre lavorato con umiltà e dedizione. Per un errore giudiziario è stato arrestato, si è fatto la galera da innocente, poi è stato assolto definitivamente ed è stato riconosciuto vittima di mafia. Nonostante tutto questo, a sua figlia è stata negata l’iscrizione nella “white list”: in poche parole non può lavorare nel settore pubblico e, per un’impresa come quella della famiglia Vasta che opera nel settore del gas e dell’acqua, significa morte certa. Il diniego viene fatto semplicemente perché è sua figlia, cioè figlia di un uomo innocente! Mi ha fatto gelare il sangue nelle vene quando mi ha detto che ha pensato di farla finita. Mi si è letteralmente attorcigliato il cuore nel petto. Non si dà pace, crede di essere la causa della rovina dei suoi figli e che, togliendosi la vita, potrebbe salvare le loro di vite. Non parliamo di una persona fragile. Parliamo di una persona che è sopravvissuta alla mafia e al carcere. Eppure, di fronte alla follia di un’interdittiva, è caduto nella disperazione più profonda. Ci si sente così quando gli avvocati non sono in grado di dare risposte, quando i giornali e i politici se ne fregano, quando nessuno ti capisce fino in fondo. Sei assalito da un senso di colpa pari solo all’umiliazione che devi sopportare giorno dopo giorno. Lo Stato ti toglie il lavoro e perseguita le persone a te più care. Questa non è lotta alla mafia. Questa è istigazione al suicidio! Lo Stato Caino che se la prende contro chi ha il diritto di vivere una vita dignitosa. Recentemente sono stato contatto da altre persone che stanno attraversando lo stesso dramma di Filippo. Hanno tutti paura di subire ritorsioni. Vi rendente conto? Quando un cittadino arriva a non gridare la propria innocenza e rinuncia a difendere i propri diritti per paura dello Stato, non siamo più in democrazia. Siamo in un regime! È a tutte queste persone che mi voglio rivolgere nella speranza che le mie parole possano essere di conforto e infondere speranza nei loro cuori. Non si può mollare. La paura di rassegnarsi, di lasciarsi morire senza lottare è più forte della paura delle ritorsioni. Il suicidio non è la soluzione! Agli uomini e alle donne cui lo Stato sta togliendo la speranza, il futuro e la voglia di vivere io dico di resistere. Vi dirò una cosa: io, da figlio, rinuncerei per sempre a fare attività d’impresa piuttosto che privarmi di un solo giorno dell’affetto di mio padre. La colpa non è vostra. La colpa è dello Stato che usa strumenti barbari per perseguitare i suoi cittadini. La migliore risposta che possiamo dare è continuare a vivere e a lottare in maniera nonviolenta e, vivendo, troveremo una soluzione. Lo stiamo già facendo. Non vi potete lasciare sopraffare, dovete reagire e reagire ancora, fino alla fine. Non ci possiamo permettere altri Rocco Greco! Costruiremo insieme la strada per uscire da questo vortice mortale delle misure di prevenzione. Andremo fino alla Corte Europea, scenderemo in piazza se sarà necessario. Ma, per fare tutto questo, bisogna essere in forze e non lasciarsi abbattere. I padri devono lottare per i figli e non lasciarsi morire per loro. E i figli la devono smettere di nascondersi o di piangersi addosso, devono uscire le palle a stare a fianco dei padri. La battaglia per la revisione del sistema delle misure di prevenzione non è una semplice battaglia per la difesa dei diritti o del Diritto. È molto di più: è una battaglia per la salvezza della vita. Non c’è battaglia più nobile di quella per la vita. Io sono sicuro che la vinceremo con Nessuno tocchi Caino. Nel frattempo resistiamo! Nel frattempo viviamo! Pietro Cavallotti
Interdittive: un napalm contro l’economia del Sud che aiuta le mafie…In Calabria e in Sicilia ormai lo chiamano “reato di parentela”. Non servono processi, non servono udienze, né serve lo straccio di una prova: basta l’altolà di un prefetto che, in quattro e quattr’otto, ha il potere di mandare in rovina un’azienda sulla base di un semplice sospetto. Davide Varì su Il Dubbio il 19 giugno 2021. In Calabria e in Sicilia ormai lo chiamano “reato di parentela”. Si tratta di una nuova e originalissima fattispecie che trasmette per via genetica il reato commesso da genitori, zii, nonni. Non servono processi, non servono udienze, né serve lo straccio di una prova: basta l’altolà di un prefetto che, in quattro e quattr’otto, ha il potere di mandare in rovina un’azienda sulla base di un semplice sospetto. Del resto sono anni che la lotta alle mafie giustifica la sospensione di qualsiasi diritto, anche quello della libera impresa, e di qualsiasi garanzia. C’è un pezzo d’Italia che è diventato una sorta di laboratorio politico-giudiziario in cui si sperimenta quotidianamente la contrazione dei diritti costituzionali. Lo scorso anno, solo in Calabria, sono state interdette più di 400 aziende come quelle di Denise che ha raccontato la sua storia sul nostro giornale; il che vuol dire migliaia di disoccupati prodotti in un solo anno e in una sola Regione. E indovinate un po’ dove va a finire questo esercito di disoccupati? Ma naturalmente finisce dritto, dritto tra le braccia delle mafie che si nutrono della disperazione e del risentimento nei confronti di uno Stato che sa solo punire e desertificare il tessuto economico del Sud Italia. Poi, dopo molti anni, capita che le interdittive si rivelino infondate ma l’azienda, guarda un po’, è fallita già da un pezzo. Insomma ricapitoliamo: il prefetto ferma un’azienda sulla base di un semplice sospetto, l’azienda fallisce, i posti di lavoro evaporano e le mafie diventano sempre più forti. Non c’è che dire: davvero un gran bel risultato da parte dello Stato…
“Lo stato mi ha sequestrato l’azienda per le colpe mai commesse da mio padre”. La lettera di una giovane imprenditrice siciliana a cui lo stato ha interdetto l'azienda a causa di una accusa mai provata al padre. su Il Dubbio il 19 giugno 2021. Egr. Sua Eccellenza Signor Prefetto, Mi chiamo Desirè Gloria Vasta, ho 27 anni e sono amministratore unico di una piccola impresa: la Divina Service s.r.l.s., un’azienda alla quale è stata insensatamente negata, dalla prefettura di Caltanissetta, l’iscrizione alla “WHITE LISTE”. Ciò che risulta veramente avvilente e mortificante è il dato argomentativo su cui si fonda il Vostro diniego, sintetizzabile in due assunti evidentemente privi di logica e, me lo permetta, di morale: a) mi si ritiene troppo giovane per svolgere attività imprenditoriale; b) sono figlia di mio padre! Si, sono figlia di mio Padre, Filippo Vasta, cioè la figlia di un uomo innocente, vessato e devastato dall’estorsione mafiosa prima e poi definitivamente annientato “dall’ingiustizia” italiana! È bene, io sono fiera di mio padre, un uomo riconosciuto “vittima di mafia” con sentenza passata in giudicato. Vede Eccellenza, Io avevo soltanto 12 anni quando, in una notte del novembre 2005, degli uomini in divisa mi privarono di mio padre per circa quattro anni. Di quella notte ricordo tutto: la casa sottosopra a causa della perquisizione, lo smarrimento e la tensione provata nel vedere degli agenti che si muovevano all’interno e all’esterno con una determinazione e padronanza degli ambienti che ci ha fatti sentire dei perfetti estranei nella nostra stessa abitazione. Insomma, un arresto degno di un capo mafia! Peccato che il destinatario del provvedimento dell’autorità giudiziaria fosse un uomo innocente, che a quei tempi subiva danneggiamenti di ogni genere ad opera della criminalità organizzata, dai furti agli incendi, e che puntualmente denunciava tutto alle autorità competenti. In quella terribile notte furono molte le cose che mi segnarono indelebilmente. Ricordo le luci dei lampeggianti che illuminavano le nostre stanze e le parole che mio padre mi disse, abbracciandomi, prima di essere portato via: <>. Quei giorni, in realtà, durarono anni. Ma soprattutto ricordo la mia corsa per raggiungerlo quando stava salendo sull’auto che lo avrebbe portato via a un certo punto mio fratello afferrandomi tra le sue braccia, mi tappa gli occhi: un gesto che tutt’oggi rimane a me incompreso ma carico di amore fraterno. All’epoca mio fratello aveva 19 anni, studiava ingegneria idraulica ed eravamo tutti fieri e fiduciosi del fatto che presto avremmo avuto in famiglia un ingegnere specializzato in quel settore che è sempre stato la passione di mio padre. Ma quella notte tutto cambiò anche per mio fratello, dovette immediatamente abbandonare gli studi per prendere il posto di mio padre in azienda. Non durò molto, e le cose continuarono ad andare di male in peggio: appena un paio di mesi dopo l’arresto, l’azienda venne sequestrata! Si, uno dei tanti casi di quell’ormai tristemente famoso “sequestro preventivo”. Ed ovviamente, come in un copione già scritto, il “caro” amministratore giudiziario trasformò un’azienda in splendida salute in un cumulo di macerie! Capimmo subito che tutto sarebbe andato in rovina, dopo i primi due mesi il nominato amministratore giudiziario smise di pagare gli stipendi, il tutto senza alcuna autorizzazione del Tribunale!! Ci trovammo quindi senza mezzi di sussistenza e fummo costretti a trasferirci a casa dei miei nonni materni (super nonni!) che in quel periodo ci sostennero economicamente e moralmente. Furono anni duri, che segnarono inevitabilmente le nostre vite – la mia e quella della mia famiglia – un percorso di dolore e disperazione che non scorderemo mai. Un pomeriggio di febbraio, mentre stavamo pranzando, sentimmo squillare il telefono, dall’altra parte del filo mio padre tra le lacrime, con la voce rotta dall’emozione, annunciava la sua libertà. Finalmente era un uomo libero, era stata accertata e dichiarata la sua indubitabile innocenza; Il 29 marzo 2010 la Corte d’ Appello di Caltanissetta assolve il Vasta filippo da tutti i reati con revoca immediata del sequestro dei suoi beni. Io avevo 16 anni, da poco ero diventata madre di una bellissima bambina che abbiamo deciso di chiamare Gloria Divina; Sembrava un meraviglioso segnale di rinascita e di speranza e, sull’onda dell’entusiasmo e felici di aver riposto la dovuta fiducia nelle istituzioni, nel luglio del 2010 mio fratello decide di costituire una nuova società: la Divina Acquedotti s.r.l. Ci siamo messi subito all’opera con l’obiettivo di recuperare il tempo perduto, senza lesinare energie e sacrifici: eravamo felici, la nostra vita sembrava poter riprendere il proprio corso. Nella realtà continuavamo a fare i conti con gli effetti devastanti della sciagurata gestione dell’amministratore giudiziario. Quest’ultimo aveva addirittura smesso di pagare il mutuo di casa nostra (che era stata precedentemente data in garanzia per un prestito aziendale), così dopo la revoca di sequestro dell’impresa, venute meno le tutele previste dalla legge, la banca la mise all’asta. Non è dato comprendere, e credo rimarrà un mistero, il modo in cui l’amministratore giudiziario possa aver gestito le sostanze di mio padre e della mia famiglia. Decidiamo comunque di farci coraggio e tornando ad indebitarci, riusciamo a venire a capo anche di quest’altro problema. Tornando alla storia dell’azienda, il lavoro sembrava andare per il meglio tanto da far registrare una costante crescita, che permetteva addirittura di assicurare stabilità a ben quindici dipendenti. Fu anche studiato un programma aziendale che si poneva l’obiettivo di partecipare a qualche bando di gara: i requisiti c’erano tutti, mancava soltanto l’iscrizione alla white list, la cui disciplina era entrata in vigore da poco. Ma, ahimè, viene subito immotivatamente negata. Infatti, la prefettura di Caltanissetta disponeva un’interdittiva a mio fratello, quindi alla società di cui era a capo. Tanto per il semplice fatto che mio padre – ossia Vasta Filippo accusato ingiustamente e poi assolto con formula piena – era il direttore tecnico dell’impresa! Faccio tutt’ora fatica a comprendere il criterio utilizzato dalla Prefettura, dato che non riesco a spiegarmi come sia possibile che un Tribunale assolve mio padre con formula piena mentre la prefettura lo considera un criminale. Appare evidente, ed assolutamente illogico, il contrasto tra la decisione giudiziale e quella della stessa Prefettura. A questo punto mio fratello, sentendosi perseguitato da un sistema vessatorio che lo ha segnato nella mente e nel fisico, decide di mollare: si dimette da amministratore. La società è nuovamente allo sbando, ma si badi: non per errori imprenditoriali o per cause di mala gestio, ma bensì a causa dell’asfissiante ed ostinata opera di persecuzione che alcuni apparati dello stato hanno posto in essere nei confronti della mia faglia. Quando mio fratello decide di abbandonare tutto e di curare le ferite che questa situazione gli hanno lasciato nell’anima, capisco che io non posso arrendermi. Costituisco una nuova società: la Divina Service s.r.l.s. e inizio a portarla avanti con coraggio e determinazione. Avviata la nuova realtà imprenditoriale, che fa registrare sin da subito ottimi risultati, provo a richiedere l’iscrizione alla white list, certa che uno Stato democratico come l’Italia, fondato sul lavoro, avrebbe premiato la volontà e la tenacia imprenditoriale di una ragazza con voglia di fare. Pare finanche superfluo specificare che avevo e ho bisogno di lavorare con gli enti pubblici, ed in questo settore la white list risulta essere fondamentale. Nelle more della decisione della prefettura in merito alla predetta istanza, mio padre riceve addirittura la notifica di sentenza del Tribunale di Caltanissetta che lo dichiara VITTIMA DI ESTORSIONI MAFIOSE. Proprio così, la giustizia ha fatto il suo corso: mio padre, inizialmente considerato presunto mafioso viene alla fine riconosciuto vittima del sodalizio criminale. Ma ciò non sembra interessare alla prefettura, ed infatti anche per me e per la mia azienda arriva puntuale, ed inesorabile, il diniego all’iscrizione alla white list. Provo a resistere e faccio subito ricorso avverso il provvedimento di diniego, ma gli organi preposti non hanno tenuto conto delle memorie difensive del mio legale. La Prefettura si limita a rispondermi semplicemente con un altro rigetto, questa volta espresso in una relazione di 18 pagine. Ecco Eccellentissimo Prefetto, quest’ulteriore cataclisma abbattutosi sulle mie speranze, sul mio impegno e sui miei sacrifici, oltre a non trovare alcuna spiegazione giuridica, rischia di annientare definitivamente il mio futuro, quello dei miei 3 bambini e quello delle famiglie dei lavoratori dell’impresa. Come detto, nel Vostro provvedimento di diniego non mi vengono imputate particolari colpe se non quella di essere la figlia di un uomo che è risultato vittima di un mastodontico errore giudiziario e che è stato poi addirittura riconosciuto, con sentenza passata in giudicato, “vittima di estorsioni mafiose”. Ed ecco il paradosso: la Prefettura di Caltanissetta non sente ragioni, e non tiene conto delle sentenze, negando a me l’iscrizione alla white list per colpe che mio padre non ha. Mio padre – un uomo che non si è mai arreso di fronte a nulla – vedendo lesa la mia persona e il mio sogno, ha patito un pesante contraccolpo psicologico. I sensi di colpa gli divorano l’anima, portandolo a pensare di compiere un gesto estremo. Fortunatamente, l’amore per i suoi nipotini, per i miei figli e per i figli di mio fratello, lo hanno fatto desistere. Oggi ho deciso di affidare a queste pagine la mia disperazione, cercando di tratteggiare i contorni del senso di vuoto e del dolore che provo nel veder morire il futuro della mia impresa. Il Vostro immotivato rifiuto potrà avere per voi il risibile rilievo di un mero e freddo adempimento burocratico, ma nel mondo reale assume un peso specifico che soffoca la speranza e distrugge le legittime aspettative di un’impresa e dei suoi dipendenti che vogliono solo lavorare. Nulla potrà restituirmi gli anni della mia vita senza mio padre, però, perlomeno, chiedo a Lei di aiutarmi a poter sperare di non dover vivere ancora incastrata in questo incubo terribile dove il mostro cattivo sembra, per assurdo, essere lo stato: che da un lato ti assolve riconoscendo la correttezza del tuo passato e dall’altro condanna i tuoi figli ad un futuro senza possibilità di salvezza. In attesa di riscontro, le invio i migliori distinti saluti Vasta Desire Gloria
Gogna per Clp, ma il Parlamento non dice niente. Amedeo Laboccetta su Il Riformista il 18 Luglio 2021. L’annosa vicenda della Clp, l’azienda di trasporti che opera con grande professionalità in Campania e in altre regioni italiane, è veramente incredibile, per non dire allucinante. Da oltre otto anni qualcuno ha pensato di affibbiarle un marchio di negatività, cioè l’interdittiva antimafia, per fiaccarla e demonizzarla, senza che ve ne fossero i presupposti, con pressioni di ogni genere, per costringerla a “mollare” le linee: un giochino antico che non incanta più nessuno. Ma la proprietà, forte del suo buon diritto, resiste e rilancia con i suoi circa 500 dipendenti, patrimonio di efficienza e professionalità non riscontrabile facilmente in altre realtà dello stesso comparto. La Regione Campania e la Prefettura di Napoli perseguono da tempo un disegno che in molti considerano opaco e sul quale il Parlamento nazionale e il governo Draghi farebbero bene ad accendere i riflettori. Sinceramente mi auguro che la delegazione parlamentare campana, prima o poi, anche in maniera bipartisan, vorrà mettere in campo una puntuale attività ispettiva. Come mai, fino a questo momento, nessuno, nonostante i numerosi interventi sui media, ha presentato un’interpellanza parlamentare urgente? Non è infatti accettabile che la vicenda possa restare circoscritta tra le stanze ovattate del Tar Campania, della Prefettura partenopea o di Palazzo Santa Lucia. Bisogna fare chiarezza. Il Consiglio regionale deve discutere una mozione già da tempo agli atti. E il Ministero degli Interni va interessato e coinvolto. Lo chiedono le famiglie dei lavoratori dipendenti, lo chiede la Clp, lo chiede il territorio. L’utenza, in questi anni, ha potuto apprezzare in un segmento spesso insoddisfacente e mal gestito la qualità di un servizio svolto con abnegazione e trasparenza. Dai lavoratori che indossano la casacca della Clp. Si tratta di un’eccellenza che va difesa e tutelata. Sicuramente in altre regioni italiane la politica sarebbe già intervenuta. Pesantemente. In Campania la delegazione parlamentare, da sinistra a destra, spesso, o non ha contezza del proprio ruolo o si distrae nelle manovre di piccolo cabotaggio o si limita alle dichiarazioni di facciata. La vicenda, a mio modo di vedere, andrebbe posta anche in ambito europeo. Ma resto convinto che spazi di libertà per interventi autorevoli e concreti ve ne siano ancora in abbondanza. Ecco perché invito tutti gli addetti ai lavori a leggere con estrema attenzione carte, documenti, dossier e normative. Il tempo per i furbetti è scaduto. I pullman di linea bisogna saperli guidare. Per la sicurezza degli utenti. Non ci si può affidare agli amici degli amici. La sicurezza non è un accessorio. Il pericolo di una desertificazione del territorio o di una possibile colonizzazione, magari per favorire l’impresuccia amica, va scongiurato con atti di merito precisi e puntuali. Anche le organizzazioni sindacali sono chiamate ad alzare l’asticella della difesa effettiva dei propri rappresentati. La politica del cedere per paura di perdere va respinta con fermezza. Così come quella della strategia della rinuncia. La bandiera della Clp non può e non dev’essere ammainata. Le sue linee le ha conquistate sul campo, alla luce del sole, con sacrifici e tanti investimenti. Amedeo Laboccetta
L'antimafia usata come clava. Clp a rischio scomparsa dopo l’interdittiva: il caso arriva al Consiglio regionale. Francesca Sabella su Il Riformista il 27 Giugno 2021. «L’azienda di traporto pubblico Clp, una delle poche aziende “in salute” rischia di essere cancellata dal mercato, per fatti avvenuti molti anni addietro e che hanno riguardato persone che da tempo sono state estromesse dalla compagine sociale. Gli uffici regionali hanno in corso le procedure finalizzate al trasferimento dell’azienda, procedure che appaiono di complessa realizzazione. Questi rilievi inducono gli scriventi a richiedere il ritorno urgente in aula per un più compiuto approfondimento della problematica». A chiederlo sono gli esponenti di centrodestra Annarita Patriarca, Stefano Caldoro, Massimo Grimaldi, Marco Nonno, Severino Nappi e Michele Schiano, attraverso una mozione appena depositata. Al centro del documento c’è il caso Clp che ormai risale a otto anni fa, quando un ex socio, lontano parente della moglie dell’amministratore unico, venne coinvolto in un procedimento penale che fece scattare l’interdittiva antimafia. Questo vuol dire che, dal 2013 a oggi, ogni documento prodotto, ogni contratto firmato e ogni decisione adottata dall’amministratore Francesco Viale è stata ratificata dai commissari nominati dalla Prefettura. In tutti questi anni i conti e i movimenti della società Clp sono stati passati ai raggi X e mai sono state rilevate anomalie o irregolarità. Anche la Guardia di finanza per mesi ha scavato tra i flussi finanziari della proprietà e dell’azienda senza riscontrare alcun illecito. Eppure dal 2013 l’azienda ha l’infamante marchio dell’interdittiva antimafia. «La legislazione vigente – scrivono i firmatari della mozione – imporrebbe una temporaneità della gestione straordinaria ma di fatto l’esperienza, in corso, della Clp dura da quasi otto anni. Ciò costituisce un nocumento alla società, a fronte dei ritardi della regione nel pagamento dei corrispettivi». Infatti, mentre tutti i contratti delle altre aziende sono stati rinnovati tranne quello della Clp, la Regione ha pagato tutte le aziende pubbliche e private per i servizi svolti tranne la Clp che vanta crediti per circa sette milioni di euro. Nella mozione, inoltre, i firmatari sottolineano come la Clp, che dispone di quattro impianti e oltre 290 autobus per 443 dipendenti, abbia svolto un ruolo rilevante in occasione delle Universiadi del 2019 e come, durante l’emergenza sanitaria da Covid, abbia organizzato un servizio navetta del tutto gratuito da e verso luoghi di cura: un’iniziativa, quest’ultima, che ha consentito a decine di medici e infermieri di raggiungere agevolmente i rispettivi posti di lavoro o di rientrare a casa, anche in orari non proprio ordinari. Tornando a oggi, nella mozione si sottolinea come, a marzo scorso, la Giunta regionale abbia ipotizzato una fusione tra le aziende Eav e Air; successivamente, Palazzo Santa Lucia ha previsto l’assorbimento, da parte proprio di Eav e Air, della Clp e della gestione Fallimento Buonotourist srl, incassando poi anche l’ok del Consiglio. Secondo i consiglieri di centrodestra, però, Air, costituita in associazione temporanea di imprese, non sarebbe in grado di far fronte al servizio di trasporto pubblico locale finora assicurato dalla Clp, a causa della sua organizzazione aziendale e della dimensione dell’autoparco. In questo contesto, l’assorbimento della Clp da parte di Air potrebbe determinare dei contenziosi: una prospettiva che ha spinto Patriarca, Caldoro, Grimaldi, Nonno, Nappi e Schiano a chiedere che il Consiglio regionale sia chiamato a esprimersi nuovamente sulla vicenda nel minor tempo possibile.
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
La macchina del fango contro Clp. Smettetela di usare l’antimafia per colpire le imprese. Amedeo Laboccetta su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Nel Sud vi sono tantissimi imprenditori capaci, brillanti, coraggiosi, di caratura nazionale ed europea. Personalità che, nonostante le miopie e l’ostruzionismo di certa politica, riescono a offrire eccezionali opportunità lavorative a una galassia sterminata di persone. E questo avviene, nonostante le diseconomie esterne di cui parlava un prefetto di Napoli alcuni anni fa, che spesso aggrediscono imprenditori di successo per costringerli a mollare. Chi, invece, resiste ed è competitivo e decide di lavorare nel comparto pubblico, offrendo un servizio di alta qualità, si può trovare a vivere una situazione paradossale e a scontrarsi con un altro tipo di diseconomia: quella della politica politicante. E veniamo al caso. In Campania, dal 2013, un giovane imprenditore, che con l’intero suo gruppo dà lavoro a oltre mille famiglie, è entrato da tempo nel mirino di certa politica di provincia. Un mondo che ha messo in campo la tattica che definirei dello “stancheggio”, dello sfinimento. Messaggi, segnali inquietanti. Roba di basso profilo. Sto parlando di un grande imprenditore, Francesco Viale, e della sua Clp. Su questo imprenditore e su questa società si sono coalizzati mondi e forze per tentare di fargli alzare bandiera bianca. La Clp effettua il trasporto pubblico per la Regione Campania da oltre otto anni, a prezzi ultraconvenienti per l’utenza e con altissima professionalità. L’azienda è sana, efficiente e trasparente. Ma fa gola a molti, soprattutto a Salerno e dintorni. In tutti questi anni la Clp non ha mai avuto una contestazione. Gli oltre 400 dipendenti sono regolarmente inquadrati. L’azienda serve 130 Comuni e si muove con la massima puntualità. Tutto il contrario di ciò che avviene nella città di Napoli, dove i trasporti sono un vero disastro. Durante l’esperienza dura del Covid, quando le condizioni erano effettivamente drammatiche, la Clp, attraverso una decisione di Francesco Viale, si è resa protagonista di un concreto gesto di solidarietà: un servizio navetta da e verso luoghi di cura, del tutto gratuito, che ha riscosso successo e gratitudine notevoli tra gli operatori medici e non che hanno potuto facilmente raggiungere, anche in orari non proprio ordinari, il proprio posto di lavoro o rientrare a casa. Un modo esemplare per contribuire alla risoluzione di alcune difficoltà che altrimenti si sarebbero aggiunte a quelle già determinate dal Covid. Ma torniamo al disegno opaco che qualcuno ha pensato di attuare ai danni di Clp. Da otto anni su quest’ultima pende un’interdittiva antimafia senza ragione e senza senso, legata al coinvolgimento di un lontano parente dell’amministratore unico in un procedimento penale. Ecco la prima mina che qualcuno ha piazzato sul percorso di Clp. In effetti sono solo petardi che disturbano e fanno rumore, anche se possono impensierire soltanto quelli che hanno scheletri negli armadi. Non certo la Clp. Chi scrive ha avuto modo di leggere tutti gli atti, i documenti, anche certi messaggi e alcuni dossier anonimi che da qualche tempo circolano nel settore e che tendono a indebolire l’immagine della società. È un vecchio giochino, si tratta di operazioni di piccolo cabotaggio che non hanno certo intimidito un imprenditore che opera alla luce del sole. L’azienda ha puntualmente reagito a tanto squallore rivolgendosi ad horas a chi di competenza e a coloro che istituzionalmente devono intervenire. E la verità verrà fuori, è questione di tempo. Il galantomismo, alla distanza, vince sempre. Purtroppo, nel Sud in particolare, molti si sentono autorizzati a gettar fango, soprattutto nei confronti di chi ha successo nella vita, nell’impresa e in politica. Un’azienda al Sud che raggiunge straordinari risultati, che fa numeri importanti, fa gola a molti. L’azienda sta in una teca. I mediocri e i furbetti pensano di poterla sporcare, lanciando accuse false con argomentazioni pretestuose: un ridicolo tentativo di criminalizzazione e di demonizzazione. Ma se la teca, come in questo caso, non ha incrostazioni, alla distanza il fango scende e l’immagine, come è giusto che sia, resta pulita. Se ne facciano una ragione, anche quelli che da qualche palazzone hanno pensato di fare il colpaccio. Il giochino lo abbiamo individuato, anche i burattinai, e adesso la verità, tutta la verità, presto verrà a galla. Amedeo Laboccetta
Quando l’antimafia soffoca le aziende: il caso della Clp, l’azienda commissariata che rischia di collassare. L’informazione antimafia interdittiva, contenuta nel decreto del 10 settembre 2013 del Prefetto di Napoli, sta provocando non pochi problemi alla Clp, società del trasporto pubblico che con i suoi autobus collega Napoli a numerose località della Campania e di altre regioni. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 22 giugno 2021. L’informazione antimafia interdittiva, contenuta nel decreto del 10 settembre 2013 del Prefetto di Napoli, sta provocando non pochi problemi alla Clp, società del trasporto pubblico che con i suoi autobus collega Napoli a numerose località della Campania e di altre regioni. Il provvedimento prefettizio in piedi da quasi dieci anni si rese necessario a causa di alcuni «tentativi di infiltrazione mafiosa da parte della criminalità organizzata e tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della stessa». La vicenda, come detto, risale al 2013, e riguardò solo un ex socio con ricadute dirette, che si ripercuotono tuttora, su tutta l’azienda. La “Clp Sviluppo Industriale Spa” (circa 500 dipendenti) ha come socio unico la “G & FRE Società per azioni”. L’amministratore unico è Francesco Viale. Dall’azienda segnalano un paradosso: gli interessi e le attività degli ex soci di Clp sono stati lasciati impregiudicati. Tanto che questi nel frattempo sono diventati titolari di altre imprese di trasporto concorrenti proprio di Clp. Per cui, è proprio il caso di dirlo, c’è chi viaggia zavorrato e chi senza il peso di alcun provvedimento. «Tutti i dipendenti Clp – dice l’avvocato Luigi De Martino – stanno vivendo un’esperienza paradossale unica nel suo genere. L’azienda nel 2012 ha ricevuto dalla Regione Campania l’intero pacchetto di autolinee, impianti e personale della fallita Acms di Caserta. Siamo condizionati in tutto e per tutto dagli impedimenti che impone la legislazione in materia di interdittive, l’impossibilità di poter esprimere tutte le potenzialità di un imprenditore e dei suoi collaboratori, che si esternano con la partecipazione a gare pubbliche, marketing di settore e protocolli d’intesa operativi con i 130 Comuni serviti dai nostri autobus». Dal 2015 la gestione societaria è riunita in un comitato esecutivo con due amministratori straordinari nominati dal Prefetto di Napoli. Lo sconforto per tale situazione non è poco e potrebbe trasformarsi in rabbia. «Qualsiasi iniziativa – prosegue De Martino è condivisa con i componenti del comitato esecutivo, professionisti prestati ad un’opera che è remunerata dalla stessa società, ma che umilia chi lavora onestamente, con dedizione e con passione, a partire dall’amministratore Viale fino ad arrivare all’ultimo dipendente». All’origine dell’interdittiva vi furono alcune intercettazioni che coinvolsero Carlo Esposito (all’epoca titolare della società), il quale ebbe contatti con personaggi poco raccomandabili. Le intercettazioni, il cui contenuto – riferiscono i legali di Clp – non è conosciuto dall’azienda, riguardavano alcuni affari conclusi in Toscana da Esposito. Su questi fatti si è tra l’altro pronunciata la Corte di Cassazione. La Suprema corte non rilevò reati legati alla camorra. Ma questo è un aspetto collaterale. Il punto principale riguarda la prolungata provvisorietà dell’interdittiva antimafia abbattutasi su Clp e qualcuno vede in questo un disegno ben preciso. Quello, cioè, di indebolire una realtà aziendale che continua a muoversi sulle proprie gambe, nonostante le traversie affrontate. La Clp ha chiesto alla Prefettura di Napoli di esprimersi di nuovo per aggiornare i suoi orientamenti. L’auspicio dei vertici dell’azienda è che la revoca dell’interdittiva arrivi quanto prima. Il management è in possesso del requisito dell’onorabilità, unitamente ad una nuova governance monitorata e ai provvedimenti assunti in difesa della legalità. Significherebbe scrollarsi di dosso un fardello pesante e riappropriarsi di una reputazione offuscata per troppo tempo.
“Clp distrutta dal pretesto dell’antimafia”, papà Francesco Viale. Viviana Lanza su Il Riformista il 23 Maggio 2021. Un ex socio, lontano parente della moglie dell’amministratore unico, viene coinvolto in un procedimento penale e scatta l’interdittiva antimafia. Da allora sono trascorsi otto anni, durante i quali l’azienda Clp, con una trentennale esperienza nel settore del trasporto pubblico, ha un presidio di legalità con due commissari prefettizi. Questo vuol dire che in tutti questi anni ogni documento firmato, ogni contratto con un dipendente, ogni decisione aziendale adottata dall’amministratore Francesco Viale è stata ratificata dai commissari nominati dalla Prefettura. In tutti questi anni i conti e i movimenti della società Clp sono stati passati ai raggi X e mai sono state rilevate anomalie o irregolarità. Anche la Guardia di finanza per mesi ha scavato tra i flussi finanziari della proprietà e dell’azienda senza riscontrare alcun illecito. Eppure dal 2013 l’azienda ha il marchio dell’interdittiva antimafia. L’interdittiva scattò all’indomani dell’appalto che l’azienda ebbe nel trasporto pubblico regionale. Figlio di un medico chirurgo e di un’insegnante, già imprenditore nel settore della lavorazione di materie plastiche, Francesco Viale decise di rilevare la proprietà della Clp appartenuta alla famiglia della moglie. Quando un lontano parente di lei finì sotto inchiesta per altri fatti, per la Clp fu disposta l’interdittiva antimafia. Il parente si dimise, ma questo non bastò. E non sono bastati finora gli anni di sinergia con i commissari prefettizi e i conti trasparenti. «Non si comprende il motivo per cui, dopo tanti anni di attività sinergica con la Prefettura, la Clp non venga valutata positivamente», spiega Viale. Sembra che la volontà della politica sia quella di non togliere l’interdittiva e nemmeno di rinnovarla, dei non rinnovare il contratto che la Clp ha con la Regione Campania: «Eppure serviamo 130 Comuni e non c’è mai stata una contestazione sull’esercito del pubblico servizio. I nostri dipendenti sono sempre pagati regolarmente e non c’è una sbavatura nella nostra capacità economica e finanziaria», precisa Viale. Inoltre, «mi risulta che tutti i contratti delle altre aziende siano stati rinnovati tranne quello della Clp e che la Regione abbia pagato tutte le aziende pubbliche e private per i servizi svolti tranne la nostra società che vanta crediti per circa 7 milioni di euro. Perché tutto questo?». L’interrogativo per il momento resta aperto.
Ma la storia è più articolata di quel che sembra. Negli ultimi mesi, infatti, sono accaduti fatti a seguito dei quali Francesco Viale, assistito dall’avvocato Esther Lettieri, ha presentato due denunce chiedendo l’intervento della Procura. Una prima denuncia riguarda l’hackeraggio del sito dell’azienda che, da quando è in atto la pandemia, rappresenta l’unica modalità che gli utenti hanno per acquistare i biglietti per poter viaggiare sugli autobus della Clp. La seconda denuncia riguarda invece una campagna di diffamazione e calunnia attuata attraverso i social e una serie di lettere anonime, con tanto di dati sensibili dei vertici e di alcuni dipendenti della Clp, che sono state diffuse con il chiaro intento di screditare l’azienda e chi la dirige. «Perché?», si domanda Viale. «Temo che sia in atto un tentativo di sciacallaggio per mettere in difficoltà l’azienda». La Clp dà lavoro a circa 500 dipendenti e garantisce il trasporto pubblico con efficienza e costi competitivi. «Riusciamo a viaggiare al costo di 2,18 euro a chilometro a fronte dei 4,20 dell’azienda pubblica» afferma Viale. Come? «I nostri costi standard sono più bassi, paghiamo meno di assicurazione perché siamo molto attenti a non fare sinistri, non abbiamo consulenti che costano centomila euro all’anno e paghiamo i nostri dirigenti duemila euro al mese». A sentire Viale, dunque, affossare la Clp peserebbe anche sui conti pubblici. «L’azienda è sana, non è sequestrata, se avessimo avuto problemi in questi otto anni sarebbero emersi, l’interdittiva antimafia ormai è un marchio che non riusciamo a toglierci di dosso», conclude Viale mostrando con sconforto l’ennesimo rinvio del suo ricorso dinanzi al Tar perché l’Avvocatura dello Stato chiede ancora tempo.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Le mani delle mafie in aziende, bar e ristoranti: nell’anno della pandemia boom di interdittive e strani passaggi societari. Il report dell’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazioni nell’economia da parte della criminalità organizzata. In calo quasi tutti i reati, tranne usura, truffe e frodi informatiche. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 20 maggio 2021. Nell’anno della pandemia, nei mesi della crisi economica più pesante dal secondo Dopoguerra per interi comparti, le mafie forti di capitali liquidi enormi a disposizione hanno aumentato il loro giro di affari e di azione soprattutto. Puntando ad entrare in aziende in difficoltà, piccole e medie, e nelle attività commerciali nei settori più colpiti dalle chiusure, bar e ristoranti soprattutto. La ‘ndrangheta guida questa classifica, seguita a ruota da Camorra e Cosa nostra. I dati del Report dell’Organismo permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio di infiltrazioni nell’economia da parte della criminalità di tipo mafioso lasciano poco spazio ai dubbi. La pandemia per le mafie è stato un affare. Il report, che mette insieme le operazioni di polizia giudiziaria fatte tra la fine del 2019 e l’inizio del 2021 da carabinieri, guardia di finanza e polizia, registra innanzitutto «un incremento del 7 per cento delle segnalazioni per operazioni sospette analizzate nel 2020 rispetto al 2019 e un aumento del 9,7 per cento del numero delle società colpite dai provvedimenti interdittivi antimafia nel periodo marzo 2020-febbraio 2021 rispetto all’analogo arco temporale precedente». Un incremento dovuto anche ad un rafforzamento dei controlli, ma non solo. I settori più interessati dalle variazioni societarie sono rappresentati dal settore immobiliare e da quello del commercio. Nel dettaglio le variazioni, indice di possibili interferenze con il cambio di componenti nei ruoli apicali, oppure con cambio di codice Ateco, si sono registrate nel settore immobiliare (più 10 per cento), commercio al dettaglio (più 9 per cento), commercio all’ingrosso (più 8,9 per cento), costruzioni (più 8 per cento) e servizi di ristorazione (più 7 per cento). La gran parte delle variazioni societarie anomale si sono registrate al Nord (645 mila), poi al Centro (319 mila) e al Sud (352 mila). Le regioni dove si è registrato, in valore assoluto, il numero maggiore delle variazioni societarie considerate sono la Lombardia, il Lazio, il Veneto, la Campania e l’Emilia Romagna in entrambi i periodi. Nello stesso arco di tempo sono cresciuti di quasi il 10 per cento le interdittive antimafia: tra marzo 2020 e febbraio 2021 sono state 902 le interdittive e tra queste 479 società avevano registrato variazioni societarie (il 53 per cento). Nel dettaglio è la ‘ndrangheta a fare la parte del leone, da sola ha portato a quasi 267 interdittive con variazioni societarie imposte dall’associazione criminale, seguita dalla Camorra con 105 interdittive, da Cosa nostra con 70 interdittive e dalla Sacra corona unità con 35 provvedimenti. Sul fronte delle variazioni societarie anomale, e segnalate dagli organi inquirenti, in testa a livello regionale c’è la Calabria (71) seguita da Lombardia (68), Campania (68), Sicilia (63) ed Emilia Romagna (42). Dati che dimostrano come nell’anno della pandemia le organizzazioni criminali abbiano rafforzato il loro potere. Non a caso mentre tutti i reati tra il 2019 e il 2020 sono in calo, per effetto dei e dei maggiori controlli sul territorio, l‘unico reato che insieme alle truffe cresce e cresce più di tutti è quello dell’usura, con un più 16 per cento. Anche qui nel mirino soprattutto piccole aziende, bar e ristoranti. «Il Viminale sta lavorando da più di un anno per rafforzare il cordone di sicurezza intorno alle aziende e alle attività economiche che – dice la ministra Luciana Lamorgese - proprio in questa fase di riaperture ma anche di persistente vulnerabilità finanziaria dovuta a una crisi senza precedenti, sono insidiate su più fronti dalla strategia di espansione delle mafie». «I report periodici dell’Organismo permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio di infiltrazioni nell’economia da parte della criminalità di tipo mafioso – che ho voluto insediare già nella primavera del 2020 - ci consentono di sfruttare al meglio una rete di sensori diffusa in tutto il Paese. In particolare, l’ultimo rapporto, il quinto, accende un faro sul fenomeno delle variazioni societarie durante la pandemia come possibili indizi di contaminazioni, fornendo un indispensabile strumento di analisi per prevenire i tentativi di alterazione del mercato, di inquinamento del tessuto economico e di condizionamento degli appalti e delle gare pubbliche», conclude Lamorgese a margine del quinto report diffuso dall’Organismo permanente, presieduto dal prefetto Vittorio Rizzi, vice direttore generale della Pubblica sicurezza.
Cavallotti all’amministratore giudiziario delle aziende sequestrate “per sbaglio”: «Credo ancora nella giustizia, e lei?». Lungo messaggio su facebook del giovane imprenditore siciliano vittima delle incredibili ingiustizie prodotte dalla “prevenzione antimafia” al tempo di Saguto. È la replica alle accuse rivolte alla famiglia Cavallotti da un amministratore giudiziario, Modica de Mohac, ora sotto procedimento penale dopo gli esposti della stessa famiglia. Il Dubbio il 30 giugno 2021. Forse sarebbe stato inimmaginabile, una decina d’anni fa, trovarsi di fronte a un giovane imprenditore, figlio di una famiglia laboriosa e un tempo protagonista della metanizzazione in Sicilia, diventare l’alfiere di una grande battaglia contro le distorsioni dell’antimafia. Oggi Pietro Cavallotti, delle cui incredibili vicende il Dubbio si è più volte occupato, svolge un’opera di divulgazione quotidiana sui guasti e le feroci ingiustizie prodotte dalle misure di prevenzione. Una prassi disfunzionale culminata nella presidenza Silvana Saguto alla sezione del Tribunale di Palermo preposta a tali attività. Al centro delle battaglie di Cavallotti, sono anche gli amministratori giudiziari che hanno gestito aziende come quelle della sua famiglia o di decine di altri imprenditori assolti eppure trattati da mafiosi, privati dei loro beni. In una lunga lettera pubblicata su facebook, il giovane imprenditore siciliano si rivolge a uno di questi amministratori “nominati” da Tribunale, Andrea Modica de Mohac. Vi proponiamo di seguito il testo del lungo messaggio.
Egregio dottore Modica, Vengo a conoscenza da Livesicilia dell’ennesimo procedimento penale (contro ignoti) che coinvolge qualche atto della sua lunga attività di amministratore giudiziario. Le auguro di uscirne pulito anche questa volta, per l’insussistenza dei reati ipotizzati o, indipendentemente dalla veridicità dei fatti, per il maturare della prescrizione, come già successo in passato. Vede, egregio dottore Modica, lei afferma che “potrebbe essere interessante ragionare” sui fini perseguiti da coloro che stanno cercando di diffamarla. Sono d’accordo con lei ma, di sicuro, a diffamarla non siamo noi. Lei deve dare conto agli altri amministratori giudiziari, all’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati e ai militari della Guardia di Finanza che hanno contestato il suo operato. Lei deve rispondere a quei giudici che l’hanno condannata a pagare circa tre milioni di euro, evidentemente scambiando per mala gestio il grandissimo lavoro che lei ha svolto nella Tosa. Sempre nell’interesse della comunità s’intende. Tutto ciò che i miei familiari hanno ritenuto opportuno contestare in merito al suo operato lo hanno rappresentato con istanze e segnalazioni al Tribunale ed esposti in Procura. In Italia succede che persone assolte subiscono la confisca del patrimonio, sulla base di semplici sospetti. Certi esposti, invece, per molti anni, rimangono incagliati in qualche cassetto delle nostre Procure in attesa della prescrizione. Si sa che la giustizia è una questione di “correnti ascensionali”: ci sono sequestri e confische che spiccano il volo e procedimenti che, invece, non riescono a librarsi nel cielo. Ma che le dico a fare? Sono certo che anche lei condividerà con me l’idea che la giustizia in Italia non funziona. Anche lei, egregio dottore Modica, è una vittima della “giustizia”. A proposito: la invito ad iscriversi al Partito Radicale e a Nessuno tocchi Caino. Io – che in tutti questi anni ho cercato di spersonalizzare il dramma vissuto dalla mia famiglia – non ho mai puntato il dito contro di lei. Ho sempre cercato di mettere in luce la criminalità di un sistema normativo che ha permesso a lei e a tanti altri illustri professionisti di arricchirsi (lo ribadisco: legalmente) sulle spalle delle persone che nella loro vita hanno sempre lavorato con umiltà e dedizione. Io le auguro le migliori fortune. La sua disfatta non è per noi una vittoria. Noi stiamo semplicemente facendo una battaglia nonviolenta contro la violenza della legge. Noi stiamo lottando non contro di lei ma per avere indietro ciò che rimane dei sacrifici di una vita di lavoro onesto. Piuttosto, non comprendo per quale motivo lei abbia citato in causa la mia famiglia rispetto ad un procedimento – quale quello pendente a Caltanissetta – con il quale la mia famiglia non c’entra nulla. Quel procedimento penale non è scaturito da nostri esposti e il riferimento alla mia famiglia non mi pare che sia di aiuto alla sua difesa rispetto ai reati contestati. Se non conoscessi le sue buone intenzioni e la sua nobiltà d’animo, potrei pensare che il suo obiettivo è solo quello di gettare ulteriore fango addosso ad una famiglia di persone laboriose che, da oltre vent’anni, lotta per la libertà e la giustizia. Il fango, però, scivolerebbe via con la stessa velocità con cui il vento porta via le parole vuote, dettate dalla rabbia e dal rancore personale. Ad ogni modo, la sua impropria citazione, mi offre l’occasione per ricordare le eroiche gesta del cavaliere Andrea Modica de Mohac. Lei, prima ancora che stimato professionista e manager di successo, è persona perbene. La stimo molto perché, con l’abilitazione di commercialista, ha imparato a gestire – per giunta contemporaneamente – aziende complesse che operano in settori diversi. Conquistando negli anni – per meriti, “impermeabilità alla mafia”, e non per raccomandazioni o titoli nobiliari – la fiducia dei magistrati che di volta in volta le hanno conferito incarichi, mettendole nelle mani la vita di tante persone. Gli stessi magistrati che – come lei stesso ricorda – hanno autorizzato, ratificato o avallato il suo operato. Gli stessi che, dopo averla avallata, hanno confiscato le aziende da lei amministrate con motivazioni che noi abbiamo sempre contestato. Ed è questo il problema, a mio avviso, non la sua gestione. Non voglio lusingarla, però lei era davvero bravo. Lo era a tal punto che riusciva a gestire le nostre aziende – con i risultati brillanti da lei rivendicati – senza mettere mai un piede in cantiere, senza sporcarsi le mani di terra e la fronte di sudore. E pensare, invece, che i miei familiari erano così poco capaci che, per portare avanti l’azienda – ovviamente con risultati neppure lontanamente paragonabili ai suoi – erano costretti tutte le mattine di tutti i santi i giorni ad andarsene in cantiere insieme agli operai. Io la voglio ringraziare a nome di tutta la mia famiglia per avere salvato le nostre aziende dal fallimento al quale azioni scellerate le avevano condannate. Lei ha realizzato il grande miracolo di produrre utili con una società che, in virtù delle convenzioni da noi stipulate, campa di rendita da quasi trent’anni. Complimenti. Ho sempre pensato che mio padre e i miei zii e, prima di loro, mio nonno si fossero spaccati la schiena di lavoro per mettere su quelle aziende. E ho sempre pensato che quelle aziende fossero state gestite con l’attenzione di un padre che vede in esse il futuro dei propri figli e non un ufficio di collocamento dal quale drenare compensi per amici, parenti, coadiutori e professionisti vari. La ringrazio per avere ceduto i nostri rami d’azienda ad altre società in amministrazione giudiziaria che le hanno a loro volta rivendute, realizzando una plusvalenza. È la Guardia di Finanza, in realtà, a mettere in dubbio che tale cessione abbia portato un vantaggio per le nostre società: “Se [la Comest] avesse mantenuto le reti cedute, – sostiene la Guardia di Finanza – avrebbe percepito compensi per il solo fatto di consentire alle aziende fornitrici, il transito del gas nelle proprie reti, verso gli utenti finali”. Ma è solo una questione di punti di vista. Cosa vuole che ne capiscano questi finanzieri delle operazioni di alta finanza? Le sinergie tra aziende in amministrazione giudiziaria, risultato raffinato di certa “ingegneria della legalità”, erano la specialità della Sezione, alla quale lei ha sempre recato lustro insieme a qualche altra brava persona che, solo per un errore giudiziario, è caduta in bassa fortuna, subendo condanne da parte del Tribunale di Caltanissetta. Ma sono certo che anche loro, come lei, otterranno giustizia. La ringrazio, infine, a nome di tutti quei nostri ex dipendenti che, durante gli anni della sua attenta gestione, hanno perso il posto di lavoro. Sa, dottore Modica, in tutti questi anni mi sono chiesto quanto lei abbia guadagnato amministrando le nostre aziende non certamente nell’interesse suo personale ma – come dicono gli esperti – “nell’interesse di chi spetta”. Magari – adesso che ha deciso di rompere il silenzio mediatico – ce lo può dire. Da quello che lei rappresenta, al momento del sequestro, le società erano praticamente fallite e lei le ha salvate. Fantastico! Sicuramente, lo avrà fatto riducendo i costi e rinunciando ai suoi compensi. E anche di questo la ringrazio. Mi chiedo lei dove abbia trovato il tempo di fare l’ispettore all’interno delle nostre aziende, di conferire incarichi a professori universitari di spessore e, nel frattempo, continuare a gestire cantieri, mezzi e persone. I miei familiari non avevano neanche il tempo di respirare e lei, mentre “amministrava”, trovava il tempo di fare indagini, investigazioni, relazioni ai giudici per segnalare altri beni da sequestrare oppure operazioni sospette. Se non è questo un caso di “dono dell’ubiquità”, deve trattarsi sicuramente della grande capacità di investigare sull’azienda e, al contempo, fare gli interessi della stessa. Lei adesso elenca una serie di criticità di natura fiscale, tributaria e contabile che lei dice di avere rappresentato a suo tempo al Tribunale. Tutte contestazioni rispetto alle quali noi non abbiamo potuto neanche difenderci perché semplicemente – secondo le regole del processo di prevenzione – non ne siamo stati messi al corrente. Le relazioni dell’amministratore giudiziario, infatti, non sono ostensibili. Ciò vuol dire che un amministratore giudiziario può dire al giudice tutto quello che vuole senza che l’incolpato abbia modo di difendersi. Ma del resto, che senso ha la difesa in un processo inquisitorio se non quello di ostacolare i giudici e i loro fedeli ausiliari nel raggiungimento di un obiettivo sacro quale la “legalità”? Eppure, rifletto: a giudicare dalla mole di lavoro che il gruppo imprenditoriale della mia famiglia ha svolto dalla data della costituzione della prima società alla data del sequestro (circa 180 miliardi di lire), pensavamo di avere creato sviluppo, posti di lavoro, un futuro solido per l’intera comunità belmontese. Centinaia di persone hanno potuto costruire il benessere della propria famiglia lavorando coi Cavallotti. Lei ha ragione: l’arresto (ingiusto) dei miei familiari ha segnato un duro colpo per le aziende. Le banche hanno bloccato i mutui, i comuni hanno revocato le concessioni che, come lei sa, furono poi affidate con un patto di legalità alla mafia che realizzò i lavori aggiudicandosi svariati miliardi di lire di finanziamenti pubblici. Molto probabilmente, se lo Stato non si fosse accanito con tale brutalità contro di noi, la mia famiglia oggi sarebbe a capo di uno dei più grandi gruppi industriali del Sud Italia. Così non è stato. Tuttavia, nella grande sfortuna, abbiamo avuto la grande fortuna di trovare un amministratore giudiziario bravo come lei che ha salvato tutta la baracca. Si ricorda quando lei convocò i miei familiari proponendogli di firmare una lettera con la quale loro avrebbero dovuto avallare il suo operato in seno alle nostre aziende? Mi sono sempre chiesto il perché di questa sua azione. Mi spiego meglio: posto che lei ha amministrato egregiamente, moltiplicando gli utili di esercizio come Qualcuno prima di lei moltiplicava i pani e i pesci, che motivo aveva di chiedere la manleva? Ma, soprattutto, mi sono sempre chiesto perché, dopo averli contattati e incassato il diniego, dopo molti mesi, lei segnalò al Tribunale l’azienda di noi figli. Se lo ricorda? Lei disse al Tribunale che la nostra azienda, l’Euro Impianti plus s.r.l. (oggi in liquidazione ma questa è un’altra storia), era in “concorrenza potenziale” con la Comest. Come ha potuto fare una simile affermazione? Lei stesso, già a partire dal 2002, aveva rinunciato all’attività conto terzi, aveva deciso di occuparsi solo delle reti di proprietà della Comest, esternalizzandone, peraltro, i lavori ad una società di nuova costituzione, la Cogetec. Se lo ricorda? Ancora oggi non comprendo che concorrenza noi figli avremmo potuto farle nel 2006 – anno in cui abbiamo costituito la nostra società – se già nel 2002 lei aveva rinunciato all’attività conto terzi, non partecipava più a gare di appalto e si occupava solo della gestione delle reti realizzate dai miei familiari prima del sequestro. Lei lamenta che l’Imet ha ceduto il ramo d’azienda ad una società di nuova costituzione (l’Eurocostruzioni), e poi, però, non dice che la stessa operazione l’ha realizzata lei, affidando i lavori della Comest alla Cogetec, di cui era amministratore unico tale Vincenzo Parisi. Si tratta dello stesso Parisi che, come riporta la Guardia di Finanza, dichiarò nell’ambito di altro procedimento penale nei suoi confronti che “l’azienda da lui amministrata era stata costituita per [sua] volontà […] senza, almeno all’inizio, un preciso scopo”. Sempre secondo la Guardia di Finanza, con quella società, furono eseguiti lavori edili in un immobile di proprietà di suo fratello e di sua cognata. È solo una coincidenza, inoltre, che nella Cogetec abbiano trovato occupazione circa venti dipendenti che provenivano dalle nostre aziende. L’altra coincidenza è che la Cogetec, dal febbraio 2005 all’ottobre 2007, aveva come depositario delle scritture contabili l’Integré Sicilia s.r.l. che – sono parole della Guardia di Finanza – “da pregressa attività di polizia giudiziaria” era a lei riconducibile. E, intanto, da quella segnalazione fantasiosa sono partite le indagini che hanno portato al sequestro della nostra società, successivamente dissequestrata dopo “appena” sette anni e mezzo. Ma anche questa è un’altra storia. La saluto facendo un’ultima riflessione. Lei ha guadagnato bene amministrando aziende sequestrate – a torto o a ragione – ad altre persone. Noi – ingiustamente – abbiamo perso tutto, però, abbiamo mantenuto la dignità, la speranza e la fiducia nei confronti della parte sana dello Stato. Pietro Cavallotti
«Ma io dico, la giustizia funziona eccome». Parla l’amministratore giudiziario del caso Cavallotti. Andrea Modica de Mohac replica alla lettera dell'imprenditore siciliano Pietro Cavallotti, la cui famiglia è stata spogliata di tutti i beni nonostante l’assoluzione dall’accusa di mafia. Il Dubbio il 25 luglio 2021. «Egregio Signor Cavallotti, la ringrazio per le lusinghiere parole che ha voluto dedicarmi e, nel contempo, anche al fine di rispondere alla Sua domanda (“Credo ancora nella Giustizia, e lei?”) provvedo a fornirle una diversa chiave di lettura della complessa vicenda giudiziaria che ha coinvolto la Sua famiglia e Lei personalmente». Comincia così la lunga lettera di replica dell’amministratore giudiziario Andrea Modica de Mohac, che risponde alle accuse dell’imprenditore siciliano Pietro Cavallotti, alfiere di una battaglia contro le ingiustizie prodotte dalle misure preventive antimafia. Del caso Cavallotti Il Dubbio si è occupato più volte in questi anni: accusata di mafia, la famiglia di Pietro si è vista portare via tutto, le imprese e le abitazioni. L’azienda di famiglia, la Euroimpianti plus srl, è stata tenuta sotto sigilli dallo Stato per otto anni, durante i quali, sotto amministrazione giudiziaria, ha subito danni per oltre 11 milioni di euro. Nel 2011, nonostante il definitivo proscioglimento dal concorso esterno, il sequestro è tramutato in confisca da un collegio presieduto da Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, radiata dalla magistratura, condannata a 8 anni e mezzo per l’illecita gestione dei beni confiscati alle cosche. Motivo? Vengono considerati indizi di pericolosità quegli stessi elementi che i giudici penali avevano ritenuto incapaci di provare l’accusa di mafia. Lo Stato riconosce l’errore solo nel 2019, certificando la provenienza lecita di quei beni. Nel 2020 il caso arriva a Strasburgo, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiara ricevibile il ricorso con cui la famiglia Cavallotti denuncia l’irragionevole durata del sequestro dell’azienda. Al centro delle battaglie di Cavallotti ci sono anche gli amministratori giudiziari che hanno gestito aziende come quelle della sua famiglia o di decine di altri imprenditori assolti eppure trattati da mafiosi, privati dei loro beni. In una lunga lettera pubblicata su facebook, il giovane imprenditore siciliano si era rivolto a uno di questi amministratori “nominati” dal Tribunale, Andrea Modica de Mohac, appunto. Che ora replica con la lettera che vi proponiamo di seguito.
Egregio Signor Cavallotti, la ringrazio per le lusinghiere parole che ha voluto dedicarmi e, nel contempo, anche al fine di rispondere alla Sua domanda (“credo ancora nella Giustizia, e lei?”) provvedo a fornirle una diversa chiave di lettura della complessa vicenda giudiziaria che ha coinvolto la Sua famiglia e Lei personalmente, quanto meno per le conseguenze che si sono su di Lei abbattute. In via preliminare devo, tuttavia, deluderla: non condivido la sua idea “che la giustizia in Italia non funziona”. Ed invero il giudizio sul funzionamento del sistema Giustizia non può dipendere dell’esito dei procedimenti che ci riguardano, cosicché la Giustizia funziona se gli esposti presentati dalla sua famiglia vengono fatti propri dalla Autorità Inquirente e non funziona se, dopo le opportune indagini, gli esposti vengono archiviati, oppure non funziona se la sua famiglia subisce – come di fatto è accaduto una confisca definitiva passata in giudicato a seguito di sentenza della Cassazione e cioè dopo avere passato tre gradi di giudizio con l’intervento di Giudici diversi. Sostenere, come fa Lei, che “certi esposti, invece, per molti anni, rimangono incagliati in qualche cassetto delle nostre Procure in attesa di prescrizione” è al contempo ingiusto nei miei confronti e lesivo della onorabilità dei Magistrati e, quindi, del sistema Giustizia, lo ho fiducia nella Giustizia e nei Magistrati e, pertanto, attendo con serenità l’esito dell’appello nel procedimento civile, peraltro non riguardante ipotetici danni causati al gruppo familiare Cavallotti, concluso con una condanna in primo grado, così come da Lei ricordato. Ho motivo di ritenere che le mie ragioni saranno valutate con la dovuta attenzione, Attendo comunque serenamente – io ripeto – l’esito del giudizio per la semplice ragione che esso si svolgerà nella sua sede competente, e cioè l’aula di un Tribunale, con le garanzie difensive previste dal nostro ordinamento e non attraverso giudizi sommari di piazza pronunciati attraverso testate giornalistiche e mass-media talvolta più interessati allo scoop che alla ricerca della verità. Ho sottolineato “procedimento civile” poiché — contrariamente a quanto Lei lascia intendere — non esiste alcun rinvio a giudizio a mio carico e nessun processo con contraddittorio a mio carico innanzi Tribunale si è chiuso cori prescrizione. Mi permetto anche dì dissentire laddove Ella giudica “criminale” il “sistemo normativa che ha permesso a lei e a tanti illustri professionisti di arricchirsi…sulle spalle delle persone che nella loro vita hanno sempre lavorato con umiltà e dedizione”. Sicuramente non mi sembra opportuno dare del criminale al sistema normativo che in realtà significa dare del criminale al nostro Parlamento che è l’artefice delle norme in questione. Ma tralasciando una difesa che non mi compete, mi lasci fare alcune riflessioni sul caso che ci riguarda. È evidente che nel parlare di “persone che nella loro vita hanno sempre lavorato con umiltà e dedizione”, Lei si riferisce ai suoi genitori; come da Lei ribadito là dove dice “famiglia di persone laboriose che, da oltre vent’anni, lotta per la libertà e la giustizia”. La sua citazione mi offre la occasione per ricordarle che la Guardia di Finanza con verbale del 27.05.1997 ha accertato imposte evase e sanzioni relative al periodo 1995-1997 (gestione Cavalletti) per € 1.506.661,09, che l’INPS ha notificato una cartella di pagamento di ben €. 1.348.638,02 per inadempimenti contributivi relativi al periodo 1995-1999 (gestione Cavallotti), che nelle società oggetto di sequestro sono state riscontrate operazioni di pagamento effettuate in violazione della “Normativa antiriciclaggio”, omesse contabilizzazioni di lavorazioni per oltre due milioni di euro (con contestuale evasione di imposte), ulteriori mancati pagamenti di imposte e contributi, pagamenti di emolumenti a suoi familiari in eccedenza al deliberato assembleare in violazione di norme civilistiche, pagamenti per contanti a soggetti deceduti, ecc. Come si inseriscono questi fatti nel quadro complessivo della capacità imprenditoriale cui Ella fa riferimento in continuazione? Forse anche il sistema impositivo/contributivo e quello sull’antiriciclaggio costituiscono il risultato di un “sistema normativo criminale”? O è piuttosto criminale il mancato adempimento di obblighi fiscali, legali e contributivi, perpetuato e reiterato nel tempo? Ma sicuramente i suoi familiari saranno stati in altre faccende affaccendati come da Lei ricordato (“erano costretti tutte le mattine di tutti i santi giorni ad andarsene in cantiere insieme agli operai). Purtroppo per gestire le aziende non servono soltanto gli operai, i capicantiere, i geometri, il personale tecnico, ma servono anche altre figure manageriali tali da potere “salvare le aziende dal fallimento al quale azioni scellerate le avevano condannate” (come Lei sardonicamente afferma). A tale proposito Le rammento che la COMESI – fiore all’occhiello del Gruppo Cavallotti – mostrava alla data della mia immissione in possesso, tutti gli indicatori economici, finanziari e patrimoniali propri delle aziende in dissesto, come potrebbe accertare anche Lei se volesse operare una analisi dei dati oggettiva, scevra da condizionamenti di natura soggettiva e affettiva nei confronti dei suoi parenti. E come, peraltro, già fatto dal geom. Salvatore Cavallotti in una nota a me trasmessa, nella quale indicava con lucidità quelli che a suo avviso costituivano elementi di crisi aziendali irreversibili senza la immissione di nuova liquidità per una decina di milioni di euro. Facile estrapolare una considerazione della GdF, in qualità di organo di P.G., (“se la COMEST avesse mantenuto le reti cedute avrebbe percepito compensi per il solo fatto di consentire alle aziende fornitrici, il transito del gas nelle proprie reti, verso gli utenti finali”), senza considerare che gli investimenti vanno coperti con fonti di finanziamento legali (mutui e/o capitale proprio) e che tali fonti devono essere legate tra di loro da rapporti fisiologici. E devono anche essere di provenienza lecita e cioè tracciabile e non devono essere comunque frutto di evasione fiscale e/o contributiva. Era evidente che il faraonico piano di investimenti della COMEST (erano state sottoscritte convenzioni con oltre una ventina di comuni con investimenti stimabili in almeno 100 milioni di euro!!!) non era sostenibile con il ricorso a provviste finanziarie coerenti con il patrimonio dei soci (come dimostrato dall’esito delle procedure di prevenzione), né con la redditività delle operazioni (soprattutto in assenza di evasione fiscale e contributiva), redditività che avrebbe dovuto sostenere un indebitamento fisiologico. Soltanto un grande lavoro di ristrutturazione finanziaria e patrimoniale, con cessione di taluni asset, avrebbe potuto riequilibrare fonti e impieghi e rendere economica la gestione della società, nel rispetto dei vincoli di natura fiscale e previdenziale. Cosa che fu fatta dal sottoscritto, senza bisogno di trascorrere le mie giornate in cantiere, ma piuttosto impiegando il mio tempo in complesse analisi, elaborate pianificazioni, estenuanti trattative, ecc. Cosa che mi ha consentito, al termine del mio mandato, di lasciare tutte le società con indebitamento bancario pari a zero a fronte di un indebitamento trovato pari a oltre € 3.480.000 e di lasciare la COMEST con un patrimonio netto di oltre 2 milioni di euro, a fronte di quello sostanzialmente negativo che mi fu consegnato al momento della nomina, con liquidità per circa € 460.000 e con un utile al netto di imposte pari a circa € 440.000 all’anno. Per concludere, in relazione al tono generale della sua lettera e delle sue non troppo velate accuse e insinuazioni, devo dirle che non comprendo come Lei possa sostenere che “in tutti questi anni ho cercato di spersonalizzare il dramma vissuto dalla mia famiglia”. Probabilmente avrà cercato, ma non c’è riuscito. E la capisco; la vicenda in questione è sostanzialmente un dramma personale e familiare. E comunque dire di “non avere mai puntato il dito contro di me” appare quantomeno contrario alla evidenza: la stessa lettera inviatami pubblicamente e sapientemente articolata per non incorrere in querele a vario titolo (oltre ad una serie di interventi su massmedia e su social), ne è la smentita ufficiale: la ironia (definirla “sottile” sarebbe ridicolo) che la impregna non è sufficiente per consentirle di affermare che Lei non mi addossa responsabilità; ciò è palesemente contrario alla realtà e Lei continua a farlo senza tenere conto del fatto che le accuse contro di me e contro il mio operato contenute negli esposti formulati dalla Sua famiglia siano state archiviate. Ma capisco anche che la Sua azione nei miei confronti tende a operare una sostanziale ritorsione per le mie azioni dirette a realizzare efficacemente la immissione in possesso nei beni oggetto di sequestro, ad ottenerne il controllo effettivo e a garantirne la conservazione e la gestione. Mi riferisco al provvedimento del 16.11.1999 del G.D pro-tempore in cui si faceva espresso divieto ai componenti dei nuclei familiari Cavallotti e Mazzola “di accedere, senza regolare permesso scritto, nei locali o negli immobili sottoposti a sequestro ed oggetto di amministrazione giudiziaria, diffidandoli al contempo dal compiere attività o porre in essere comportamenti volti ad ostacolare o delegittimare le attività dell’amministratore giudiziario e dei suoi collaboratori. Opera di delegittimazione a suo tempo iniziata e, ad evidenza, ancora in corso. E ancora: per le segnalazioni che sono stato obbligato a fare in virtù dell’art. 2-septies, 2° comma della Legge 575/65. Mi riferisco alle segnalazioni che hanno portato al sequestro dell’intero capitale sociale, dell’intera struttura aziendale nonché del patrimonio della Eurocostruzioni S.r.l. con decreto emesso il 17 settembre 1999, e al sequestro della Ditta individuale Siciliana Servizi di Cavallotti Salvatore con decreto di sequestro del 26/07/1999.Inoltre: alla segnalazione che ha avuto come oggetto la società Euroimpianti Plus S.r.l. da Lei costituita insieme ai suoi parenti nel 2006 e con inizio attività il 17.09.2007. Società che continuava a vedere – in dispregio al già citato provvedimento del 16.11.1999 (Cfr. sopra) – la partecipazione gestoria attiva dei suoi parenti soggetti a misure di prevenzione antimafia, come risulta anche dalla dichiarazione resa dal dottore Bernardo Petralia, Procuratore Aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, nel corso della audizione avvenuta nella seduta n. 60 del 31 ottobre 2014 presso la “Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere”. Infine vorrà prendere e dare atto che la Società che, secondo quanto da Lei affermato anche in una recente intervista, Le sarebbe stata restituita in condizioni fallimentari e con un indebitamento anomalo (e cioè la Euroimpianti Plus srl), NON è stata da me amministrata, ma piuttosto dall’avv. Andrea Aiello, mai da Lei citato, a conferma che l’unico Suo obiettivo è il sottoscritto e non l’accertamento della verità. Mi conforta, comunque, il fatto che nella Sua furia accusatoria coinvolga, oltre al sottoscritto, anche il Parlamento per avere emanato leggi “criminali”, il Presidente della Repubblica per averle promulgate, la Magistratura per averle applicate, i Pubblici Ministeri per “avere tenuto nel cassetto esposti; in attesa di prescrizione”, il Tribunale per avere emesso Sentenze sfavorevoli al Suo gruppo familiare. E, dimenticavo, anche il Prefetto di Palermo che, avendo sottoscritto con alcuni Sindaci un patto di legalità, avrebbe secondo quanto da Lei scritto, favorito la assegnazione alla mafia delle concessioni del gas revocate alla Comest. Con la stima e l’apprezzamento che merita, Le invio i miei migliori saluti, Modica de Mohac.
La Commissione e le polemiche. “Antimafia: critico le misure di prevenzione, perché do fastidio?”, intervista a Pietro Cavallotti. Giorgio Mannino su Il Riformista il 30 Marzo 2021. “La madre di tutti i sequestri”. Così l’ex magistrato Silvana Saguto, emblema di un’antimafia di carta finita nella polvere, definiva la pratica Cavallotti. Imprenditori di Belmonte Mezzagno arrestati nel 1998 nell’ambito dell’operazione Grande Oriente, accusati di associazione mafiosa. Dopo un lungo calvario giudiziario, nonostante la sentenza definitiva di assoluzione, ai fratelli viene confiscato tutto il patrimonio. Dietro c’è il sistema “perverso e tentacolare” messo in piedi dall’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Pietro Cavallotti, erede della famiglia finita al centro del cerchio magico di Saguto e membro del Consiglio direttivo dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, non vuole “sentire parlare di giustizia fino a quando non ci verranno restituiti i beni”. Cavallotti è stato ascoltato dalla Commissione antimafia siciliana – presieduta dal presidente Claudio Fava – che un mese fa ha presentato la relazione dedicata al tema della gestione dei beni confiscati. L’audizione di Cavallotti, che in un passaggio ha puntato il faro sui corsi di alta formazione per amministratori giudiziari tenuti dall’università, non è stata ben accolta dall’ateneo palermitano. Che con una nota ha duramente attaccato l’organo parlamentare regionale.
Cavallotti si aspettava una simile reazione alle sue dichiarazioni? Nella nota dell’università viene definito “tal Cavallotti”.
Onestamente no. Il professore Aldo Schiavello (tra gli autori della nota, ndr) si è scusato e per me è un argomento chiuso. Ma mi pongo diverse domande.
Quali?
Mi chiedo come mai l’università si interessi così tanto a me. Forse dà fastidio una persona che ha vissuto sulla propria pelle le storture delle misure di prevenzione e che ha la forza di denunciarle? Forse dà fastidio il fatto che io abbia parlato dei corsi di alta formazione per amministratori giudiziari che si svolgevano nell’abbazia Sant’Anastasia? Il mestiere di imprenditore non si può insegnare nei corsi per amministratori giudiziari. A svolgere quei corsi erano magistrati, avvocati, professori. Mancavano le competenze manageriali.
E che risposta si è dato alle sue domande?
Fino a quando parlavo attraverso Nessuno Tocchi Caino, col Partito Radicale o scrivevo post su Facebook, non c’era alcuna attenzione da parte dell’università. Quando, poi, sono stato sentito in un contesto istituzionale e le nostre proposte di legge sono state recepite da alcuni parlamentari qualcosa è cambiato. Ed ecco queste reazioni nei miei confronti tese a delegittimarmi solo perché sono figlio di una persona assolta alla quale alcuni giudici hanno tolto il patrimonio.
A “Il Riformista”, Costantino Visconti, professore di diritto penale dell’università di Palermo, ha dichiarato che, con questa relazione, “l’Antimafia siciliana ha sprecato una chance” e, parlando di lei, la Commissione ha sbagliato a qualificarla come imprenditore. Cosa risponde?
Nutro grande stima nei confronti del professore Visconti ma mi chiedo, ancora, da cosa origina quest’attenzione nei miei confronti. Che, talvolta, sconfina in dichiarazioni che mirano a squalificarmi. C’è da chiedersi come mai l’università non abbia mai attaccato l’operato delle precedenti commissioni. E stavolta, invece, sì.
Secondo lei l’Antimafia regionale ha “sprecato una chance”?
Il messaggio del presidente Fava è stato importante perché è stato sentito un imprenditore colpito dalle misure di prevenzione. Un messaggio molto potente, passato inosservato. È un passo in avanti della politica. Che sembra voler capire cosa non funziona nelle misure di prevenzione. Evidentemente questa analisi, che credo dovrebbe unire tutti per rendere più efficiente il contrasto alle mafie, a qualcuno non piace. C’è un dogmatismo dell’antimafia per cui chi non è allineato viene delegittimato.
“Saguto ci ha perseguitato per 22 anni, la condanna non ci risarcisce”, parla Pietro Cavallotti. Giorgio Mannino su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. «Per noi questa non è giustizia. Potremo parlare di giustizia quando ci verranno restituiti i nostri beni». Mentre la corte di Caltanissetta condannava il cerchio magico dall’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto per aver messo in piedi un sistema clientelare nella gestione dei beni sequestrati ai mafiosi e agli imprenditori sospettati di essere stati favoriti dai boss, Pietro Cavallotti – membro del Consiglio direttivo della associazione “Nessuno tocchi Caino” e vittima delle misure di prevenzione del sistema Saguto – stava lavorando col consulente alla stesura della perizia per la revoca della confisca. «Il mio appartamento è stato confiscato. A me, alla mia famiglia, quale senso di giustizia darebbe la condanna se non dovesse essere restituito quello che ingiustamente ci è stato tolto?». Una lunga storia, quella della famiglia di Belmonte Mezzagno, che inizia nel 1998 quando i fratelli Cavallotti – padre e zio di Pietro – vengono arrestati nell’ambito dell’operazione Grande Oriente, accusati di associazione mafiosa. Dopo un lungo calvario giudiziario, nonostante la sentenza definitiva di assoluzione, agli imprenditori viene confiscato tutto il patrimonio. Le aziende e le loro vite vengono distrutte. Dietro c’era il sistema Saguto.
Qual è stata la prima cosa che ha pensato quando la corte ha pronunciato la sentenza?
Ho rivissuto un pezzo di vita lungo 22 anni. Abbiamo incontrato la Saguto nel 1999. Da un lato ho subito pensato alla fine della giudice che per anni ci ha perseguitati. Dall’altro lato mi sono chiesto: e ora che succede? La condanna risolve il problema di una legge, quella delle misure di prevenzione, che fa acqua da tutte le parti?
E cosa si è risposto?
La risposta è stata negativa. Perché i problemi rimangono per la mia famiglia e per tutti quegli imprenditori vittime di un ingiusto sequestro preventivo.
Quali problemi?
Parlo di famiglie distrutte. Di intere famiglie che non riescono a immettersi, nuovamente, nel mondo del lavoro perché dopo essere stati colpiti da una misura di prevenzione attorno si crea terra bruciata. Se crei un’altra impresa ti viene sequestrata, se riesci ad avere la fortuna del dissequestro ti ritrovi a gestire un’azienda completamente distrutta. Debiti per milioni di euro, bilanci non depositati durante gli anni dell’amministratore giudiziaria, fornitori non pagati. Tutte queste cose non si risolvono perché Saguto è stata condannata.
Quindi quale sarebbe la situazione?
La politica dovrebbe rivedere il sistema di prevenzione. Ma non credo voglia farlo. Faccio un esempio. Quando il legislatore doveva capire come modificare il Codice antimafia, si rivolgeva alla Saguto in Parlamento. Se questa sentenza fosse spunto per rivedere le misure di prevenzione, allora sarebbe un bene. Ma non è così che viene presentata. Piuttosto Saguto viene etichettata come la mela marcia in un sistema perfetto. Non viene messa in discussione la legittimità dei sequestri e delle confische. Si dirà che il sistema ha gli anticorpi ma non si mette in discussione l’operato di Saguto sui sequestri e sulle confische che faceva.
Cioè?
Ho letto tutte le intercettazioni ambientali e telefoniche acquisite nel processo di Caltanissetta. Si vuole fare passare l’ex giudice come colei che non pagava la spesa, che comprava la laurea per il figlio, che faceva favori ai colleghi. Questo è solo un contorno. Saguto sequestrava patrimoni senza sapere cosa stesse sequestrando. Questo è l’elemento che ritengo più grave. Ci sono intercettazioni in cui i giudici si mettevano d’accordo con i pubblici ministeri sulle prove da fare entrare nei processi per fare le confische.
Prove per dimostrare accuse false in partenza. La sua famiglia, ad esempio, è stata accusata di associazione mafiosa.
È un dato di fatto che con questa accusa, spesso ingiusta, si sia azzerata molta dell’economia siciliana. All’interno dell’amministrazione giudiziaria ci lavoravano parenti di giudici, figli di giudici, amici. Era diventato un ufficio di collocamento per magistrati. Col pretesto della mafia si è generato un sistema in grado di trarre profitto.
Questa sentenza, secondo lei, può essere un punto di partenza o no?
Secondo me è già un’occasione persa proprio perché si parla di “sistema Saguto”. Parliamo piuttosto di misure di prevenzione, di aziende in amministrazione giudiziaria, di imprenditori che hanno subito il sequestro nonostante le assoluzioni. Questa condanna non modificherà di una virgola un sistema fallimentare.
Cosa le ha lasciato dentro questa vicenda?
Tanta amarezza. Mi ha ferito quando l’ex giudice nelle intercettazioni aveva deciso di confiscare il nostro patrimonio senza neanche avere letto la perizia. Mi ha fatto male sentire che voleva mettersi d’accordo con il pm sui documenti da far entrare nel processo per confiscare i beni. La legge dev’essere modificata. E dev’essere chiara per evitare che si rovinino altre famiglie.
· Il Business del Proibizionismo.
Erin Brodwin e Shayanne Gal per it.businessinsider.com l'8 marzo 2021. Come sa chiunque abbia bevuto una tazza di caffè, non tutte le droghe sono ugualmente dannose. La caffeina, la sostanza psicoattiva più consumata sulla terra, non è un pericolo per la salute umana. Per dare alle persone un’idea delle sostanze più pericolose, un team di psichiatri, chimici e farmacologi del Royal College of Psychiatrists del Regno Unito le ha sistematicamente classificate in base a tre fattori: quanti danni fisici causano, quanto creano dipendenza e quanto nel suo insieme, usando come parametri cose come i costi sostenuti dalla sanità. Hanno pubblicato i loro risultati sulla rivista medica The Lancet. La seguente classifica si concentra sulla dipendenza. I ricercatori hanno ulteriormente suddiviso questa categoria in tre fattori che determinano quanto qualcosa provochi dipendenza:
1. Piacere, l’euforia che un utente prova grazie alla droga; dipendenza psicologica
2. Il desiderio che un utilizzatore sperimenta quando la droga viene sospesa
3. Dipendenza fisica, mal di testa o altri sintomi fisici che un utilizzatore sperimenta quando la droga viene sospeso
Ecco le droghe che più provocano dipendenza:
1. L’eroina si è classificata al primo posto nell’elenco in termini di dipendenza. La droga ha ricevuto un totale di tre su tre in termini di piacere, desiderio e dipendenza fisica.
2. La cocaina ha ricevuto un tre su tre in termini di piacere. Tuttavia, è stata ritenuta leggermente meno capace di creare dipendenza psicologica rispetto all’eroina e circa la metà meno capace di provocare dipendenza dal punto di vista fisico.
3. In termini di dipendenza psicologica, la nicotina è stata classificata quasi alla pari della cocaina. La nicotina ha ricevuto 2,6 su 3 rispetto al 2,8 della cocaina. Ma è stata anche ritenuta meno piacevole e molto meno coinvolgente fisicamente.
4. I barbiturici sono farmaci sedativi che una volta erano ampiamente prescritti per l’ansia. Questa categoria include farmaci di marca come Amobarbital e Thiopental. I barbiturici hanno ottenuto due su tre per la dipendenza complessiva – sono stati classificati come meno piacevoli e meno capaci di creare dipendenza fisiologicamente e fisicamente rispetto alla nicotina, all’eroina e alla cocaina.
5. L’alcol è stato considerato meno capace del tabacco di creare dipendenza dal punto di vista psicologico. Alcol e tabacco sono stati classificati alla pari in termini di “piacere” della loro dipendenza, tuttavia, ricevendo un 2,3 su 3. Alcol e tabacco hanno anche un punteggio di dipendenza fisica simile nel complesso.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 30 settembre 2021. La cocaina fa male, non esiste una minima quantità tollerabile o l'equivalente del famoso bicchiere di vino al giorno: e ogni volta possiamo anche ripartire da quando la prendevano i gesuiti o Sigmund Freud, Pio X e gli Zar delle Russie, da quando era nella Coca Cola o la celebrava il New York Times: ma, da allora, è cambiato il progresso scientifico, gli studi, e siamo arrivati a verità non sommarie che andrebbero pacatamente spiegate e non mascherate da predica generica, da talkshow in cui invitare la modella deficiente, il giornalista reazionario contro quello capellone, addirittura politici: la solita poltiglia confusa in cui sguazzano gli assuntori finto-occasionali che in tutte le discoteche d'Italia, salotti o cessi, si raccontano che si esagera, sono balle, un po' non fa niente, magari farà anche male, però sai com' è. È in questo modo che l'ignoranza fa anche peggio della droga: perché in tv poi sfilano i Morgan, i Lapo Elkann, le Belen, l'attore Paolo Calissano, la modella Kate Moss e persino Fiorello o altri che c'erano caduti, o due politici che litigano, e noi guardiamo loro, galassie lontane, quando invece il cocainomane interagisce con noi, è il chirurgo, il pilota, l'investitore dei nostri soldi, la maestra dei nostri figli, di recente persino un tranviere, ma nessuno ce lo spiega. Spegniamo la tv e torniamo nel nostro pezzetto di società che crediamo protetta.
Da huffingtonpost.it il 30 settembre 2021. Pizza con cocaina al posto del sale, è quanto organizzato dal titolare di una pizzeria da asporto di Giussano (Monza), arrestato dai carabinieri per spaccio. L’uomo, 38 anni e cittadino egiziano, nel barattolo del sale del suo locale custodiva dosi di cocaina che consegnava ai clienti insieme alla pizza. I carabinieri lo hanno scoperto fermando per un controllo un suo cliente, appena uscito dal locale con una margherita farcita di una bustina di polvere bianca. Oltre una cinquantina le dosi sequestrate dai militari al termine della perquisizione del locale, nascoste in vari barattoli teoricamente destinati agli ingredienti per la pizza. Per i suoi clienti il pizzaiolo aveva attivato linea e codice per gli ordini “speciali”.
L’Alcool. Fabio Di Todaro per “la Stampa” il 7 febbraio 2021. Birra, vino, cocktail, superalcolici. Uno tsunami alcolico che, in apparenza, «accende» il cervello. Ma che in realtà lo colpisce. Senza pietà. L' ubriacatura coinvolge sempre più persone, a cominciare dai giovani, e ci fa ammalare. E spesso uccide. «E' l' alcol a generare i rischi per la salute, non la bevanda che lo contiene», spiega Emanuele Scafato, direttore dell' Osservatorio alcol dell' Istituto Superiore di Sanità. Sono proprio gli «under 18», assieme ad anziani e donne, il «target» più vulnerabile. Noi italiani siamo tra i maggiori bevitori d' Europa: il 42,3% delle ragazze e il 52,5% dei ragazzi (dagli 11 ai 25 anni) ha consumato almeno una bevanda alcolica in un anno. «L'alcol è una delle sostanze psicoattive più utilizzate dai nostri figli - commenta Scafato -. La maggior parte vi si avvicina troppo presto, spesso prima dei 12 anni, in genere lontano dalla famiglia».
Sos sballo. I giovani prediligono il «binge drinking», l' ubriacatura veloce, mirata allo «sballo», che li porta a consumare cinque-sei drink in successione. Eppure - ammoniscono gli specialisti - l' alcol non dovrebbe essere toccato prima dei 18 anni e con cautela prima dei 21. L' incapacità fisiologica dell' organismo di metabolizzarlo lo rende un rischio immediato: per lo sviluppo del cervello prima ancora che per il fegato. E l' invito alla prudenza dovrebbe essere ancora più esteso. «E' dimostrato un pericolo di danno cerebrale fino a 25 anni: si manifesta con deficit di memoria e orientamento», dice l' esperto. Motivo per cui «non bisognerebbe mai mettersi alla guida dopo aver bevuto».
I meccanismi del danno. A essere tossici per il cervello sono l' etanolo e il metabolita acetaldeide, in grado di provocare danni permanenti, strutturali e funzionali. Le due molecole, agendo come un detergente, possono sciogliere i grassi che danno stabilità alle membrane dei neuroni. La conseguenza è il danno irreversibile, fino alla morte, delle cellule cerebrali. Non solo. L' abuso di alcol è anche associato alla carenza di tiamina, portando alla sindrome di Wernicke-Korsakoff: è una forma di demenza che si manifesta come conseguenza del deficit di alcuni micronutrienti. Il troppo alcol, poi, è associato alla demenza vascolare, visto il legame con fattori di rischio come ipertensione, ictus cerebrale, fibrillazione atriale e scompenso cardiaco. Se si smette di bere, comunque, il processo di degenerazione è parzialmente reversibile, anche se la «ricostruzione» non si instaura subito. A svelare questo aspetto è stato uno studio sulla rivista «Jama Psychiatry», svelando come le lesioni cerebrali possano verificarsi fino a un mese e mezzo dopo aver bevuto l' ultimo bicchiere. Dal confronto tra ex bevitori e non è emerso, infatti, che le modificazioni della sostanza bianca si perpetuano dopo aver smesso di consumare alcolici. La maggiore vulnerabilità si riscontra a livello del corpo calloso e della fimbria, strutture deputate alla connessione tra aree del cervello coinvolte nella formazione dei ricordi, nel sistema di ricompensa (è qui che si innesca il meccanismo del bere compulsivo) e nella maturazione delle decisioni. Aspetti che riguardano tanto i giovani (il cui cervello è in formazione) quanto gli anziani (per età già esposti a un rischio più alto di sviluppare disturbi psichiatrici e malattie neurodegenerative).
Il problema delle soglie. Meno alcol si beve, meglio è: ecco la regola d' oro. A tutte le età. Di certo la quantità di alcol nel sangue da non superare per non influenzare lo stato di vigilanza necessario per guidare in modo sicuro cambia in funzione di fattori come sesso, peso, altezza, età, stato di salute e condizioni di riposo. Se il limite per i conducenti con meno di 21 anni, per i neopatentati (per i primi tre anni) e per chi lavora al volante è pari a zero, quello che riguarda gli adulti viene raggiunto con due «unità alcoliche» per le donne e tre per gli uomini. Ovvero ingollando circa 12 grammi di etanolo: il contenuto di un bicchiere di vino (125 millilitri, a 12 gradi) o di una lattina di birra (330 millilitri, a quattro gradi) o di una dose di superalcolico (40 millilitri, 40 gradi). Il concetto-chiave, però, è ancora più stringente: non esistono soglie di consumo sicure. Né è possibile parlare di benefici reali, determinati da un consumo moderato, come dimostra uno studio su «The Lancet»: anche cinque-sei bicchieri di vino o birra a settimana possono accorciare la vita. A questo Sos occorre aggiungere che le bevande alcoliche sono considerate il primo fattore di rischio per le demenze.
Sos tumori. E non basta. Purtroppo. L' etanolo - assieme al metabolita acetaldeide - è una sostanza cancerogena. Sono gli organi dell' apparato digerente i più vulnerabili: a partire dal colon-retto (nei consumatori moderati), fino all' esofago, allo stomaco, al fegato e al pancreas (nei forti bevitori). «Ma esiste anche una relazione tra l' incremento delle quantità di alcol e le probabilità di ammalarsi di tumore al seno - conclude Scafato -. Nelle ragazze e nelle donne il rischio che corre chi beve rispetto a chi non beve cresce del 7% per ogni bicchiere in più rispetto alla soglia di 10 grammi di etanolo al giorno e aumenta fino al 27%, se il tessuto presenta i recettori agli estrogeni». La probabilità, così come per gli altri cancerogeni, è proporzionale all' esposizione. Ma il monito vale anche per i consumatori occasionali: non esistono livelli di consumo sicuri correlati al rischio oncologico. Conclusione: l' alcol è un nemico insidioso.
Paolo Mastrolilli per "la Stampa" l'11 maggio 2021. La leggenda vuole che quando i Beatles sentirono l'urgenza di dedicare una canzone all'LSD, si nascosero dietro un disegno del piccolo Julian Lennon, che ritraeva la compagna di classe Lucy O' Donnell «in the Sky with Diamonds». Il padre John si era affannato a smentire collegamenti tra il brano e l'acido lisergico, ma tra breve la verità su quell'ispirazione diventerà irrilevante, perché quale gruppo musicale vorrà mai dedicare una canzone ad un farmaco acquistabile in farmacia con regolare ricetta medica? Uno studio appena pubblicato da Nature Medicine apre infatti la porta all'autorizzazione della Fda all'uso terapeutico degli allucinogeni. Potrebbe arrivare già nel 2023, per poi allargarsi al consumo ricreativo. La ricerca, condotta dalla University of California di San Francisco e sponsorizzata dalla Maps di Rick Doblin, dimostra che la 3,4-methylenedioxy-N-methylamphetamine (MDMA), meglio nota come Ecstasy o Molly, aiuta a curare il Post-traumatic stress disorder, accompagnata dalla terapia psicologica tradizionale. Patologie molto gravi, come quella del veterano della guerra in Iraq Scott Ostrom, coinvolto con altri 89 pazienti nei test clinici di terza fase. Scott aveva tentato il suicido, ma ha detto al New York Times che «ora sono diventato letteralmente un'altra persona». Così come il 67% dei partecipanti allo studio, che apre la strada all'uso delle sostanze psichedeliche, LSD incluso, per curare gravi problemi mentali. La dietilamide dell'acido lisergico era stata sintetizzata nel 1938, dal chimico svizzero Albert Hofmann a Basilea. Psichiatri e psicologi si erano subito interessati alle potenzialità terapeutiche, mentre negli anni Cinquanta la Cia aveva avviato il progetto MK-ULTRA, per vedere se poteva usare l'LSD allo scopo di controllare le menti. La svolta era avvenuta negli anni Sessanta, quando Timothy Leary e Richard Alpert erano arrivati ad Harvard per lavorare allo Psilocybin Project, che studiava gli effetti della psilocibina estratta dai funghi. All'inizio avevano ottenuto risultati incoraggianti con il Concord Prison Experiment, per determinare l'efficacia delle sostanze psichedeliche nel prevenire la recidiva dei detenuti nella criminalità. Il problema era che avevano sperimentato le droghe su se stessi, distribuendole tra gli studenti, e Harvard li aveva licenziati. I test però avevano attirato l'attenzione di Allen Ginsberg e i profeti della Controcultura, facendo dell'LSD la droga preferita dalla generazione della contestazione. Il presidente Nixon aveva definito Leary «l'uomo più pericoloso in America», e così era cominciato il bando degli allucinogeni. Nel 1968 il possesso di LSD era diventato illegale, e nel 1985 l'FDA aveva proibito l'MDMA. Ecstasy e Molly erano rimaste nelle discoteche, come droghe per lo sballo. Gli scienziati però non avevano perso la speranza, perché continuavano a pensare che le sostanze psichedeliche avevano potenzialità terapeutiche senza i rischi di dipendenza, se usate sotto controllo. Nel novembre del 2020 l'Oregon è diventato il primo stato a legalizzare l'LSD, e ora Nature sdogana l'Ecstasy come cura. I medici continuano a predicare prudenza, ma i Beatles non hanno più nulla da nascondere.
I 25 anni di Trainspotting e il massacro di una generazione. Venticinque anni fa usciva nelle sale la pellicola di Danny Boyle su un gruppo di tossicomani scozzesi. Diventata cult nel corso degli anni ha lasciato lunghi strascichi e danneggiato la lotta alle dipendenze. Giuseppe Giusva Ricci - Mar, 23/03/2021 - su Il Giornale. Nella baraonda mediatica e d’opinioni creata dalla serie su San Patrignano cade il 25esimo anniversario dell’uscita del film Trainspotting. Cosa c’entra? C’entra! Perché in questi 25 anni, nelle comunità non finiscono più solo gli eroinomani (che ultimamente stanno risalendo le percentuali) ma tutta quella generazione cresciuta – spesso persa – a modelli che appaiono sempre più come ingegnerizzati al fine di distruggere le gioventù. Trainspotting è un caso emblematico di prodotto cinematografico ormai cult (quanto di sistema, per quel che mi riguarda) che dalla sua uscita, nel 1996, ha impietosamente inficiato la cultura giovanile e l’immaginario sull’uso di sostanze psicotrope o droghe varie. Esagero? Vediamo! Ovviamente non sto scrivendo che chiunque abbia visto Trainspotting si sia poi drogato, ma il film ha di certo innescato una lettura normalizzante del fenomeno. Ogni cosa che si mette-in-scena normalizza quello che la scena appunto vuole rappresentare.
Il rischio della normalizzazione. Quasi nulla a che vedere con il mitico Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, tratto dal libro-diario della protagonista Christiane Vera Felscherinow) del 1981, che di fatto fa conoscere al mondo il drammatico fenomeno della tossicodipendenza, e ancora meno con il capolavoro Requiem for a dream del 2000 (tratto dall’omonimo romanzo del 1978 di Hubert Selby). Trainspotting esce appena dopo l’inizio dell’epoca che avrebbe visto l’avvento-affermazione delle droghe sintetiche e della musica techno-dance; tratto dall’omonimo bestseller (1993) di Irvine Welsh (ex tossicodipendente affermatosi come scrittore a partire da quell’opera), il film appartiene alla categoria denominata “trasgressional fiction”. Subito si afferma come un cult-movie: un pullulare di poster, t-shirt ed effigi dei volti dei protagonisti invade i locali che dedicano al film serate a tema e le camerette di universitari e non già rimbambiti da Non è la Rai, MTV e altre demenze inoculate. In maniera semplicistica e superficiale oltre che cruda e spettacolarizzata (anche grazie all’ausilio fondamentale di una colonna sonora composta di brani mitici della storia della musica rock, e da Born Slippy degli Underworld, pietra miliare a registro techno), il film narra le dis-avventure di un gruppo di ragazzi scozzesi alle prese con una quotidianità fatta di droghe, espedienti per trovarle e poterle pagare, sussidi di disoccupazione, Aids, tentativi di disintossicazione, sessualità adolescenziale e rapporti interpersonali tra individui appartenenti allo stesso contesto di degrado ormai norma sociale delle periferie post-industriali, il tutto condito da dialoghi scenicamente accattivanti e scaltramente fuori luogo per dare un tocco di arguzia ai protagonisti. Oltre che di un intreccio edulcorato che lo spettatore giovane “vivrà” vibrando di empatia per i protagonisti e cercando elementi di condivisione e soddisfazione intellettuale, il film è ricco di monologhi fuori campo del protagonista ingegnerizzati per il funzionamento commerciale tramite la fascinazione che, come sempre, passa attraverso elementi di trasgressione fasulla.
La mancanza di un messaggio sulla prevenzione. Solo con un disincantato sforzo intellettuale si può arrivare a considerare il film – al limite – uno spaccato generazionale universale, ma è comunque impossibile non comprendere l’assoluta quanto strisciante mancanza di un intento educativo finalizzato alla prevenzione e all’innesco di una consapevolezza che possa permettere al giovane spettatore di costruire una posizione intellettuale autonoma, in grado di renderlo immune dalle sottoculture a supporto dell’uso di droghe. Si prendano ad esempio alcuni monologhi: “Prendevamo morfina, diacetylmorfina, ciclozina, codeina, temazepam, nitrazepam, fenobarbitale, amobarbitale, propoxyphene, metadone, nalbufina, petedina, pentazocina, buprenorfina, destromoramide, chlormetiazolo. Le strade schiumano di droghe contro il dolore e l'infelicità: noi le prendavamo tutte. Ci saremmo sparati la vitamina C, se l'avessero dichiarata illegale.” “Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos'altro… Le ragioni? Non ci sono ragioni… Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?” “Prendete l'orgasmo più bello che avete provato. Moltiplicatelo per mille. Neanche allora ci sarete vicino.” [l’allusione è all’eroina] “Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete un maledetto televisore a schermo gigante, scegliete lavatrici, automobili, lettori CD e apriscatole elettrici; scegliete di sedervi su un divano ad annientarvi lo spirito davanti a un telequiz. E alla fine scegliete di marcire; di tirare le cuoia in un ospizio schifoso, appena un motivo d’imbarazzo per gli idioti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete il futuro. Scegliete la vita.” “Metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita! … già adesso non vedo l'ora, diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il CD e l'apriscatole elettrico...”
Il rischio della fascinazione. Da questi estratti scaturisce un approccio inequivocabilmente “creativo” e provocatorio (che comunque, nell’Arte, dovrebbe essere associato ad altri elementi quali il carattere anticipatorio, la critica sociale e l’equilibrio estetico) finalizzato a turbare lo spettatore; allo stesso tempo, tutto il film gioca su un’ambiguità liminale, usando anche la naturalità dell’effetto caleidoscopico dello schermo, che finisce per affascinare e incuriosire lo spettatore, piuttosto che “allontanarlo” da esperienze e comportamenti a rischio. È facile notare quanto il modello di vita ritenuto normale dal senso comune sia stato connotato come mediocre, privo di fascino, indice di una quotidianità noiosa che prefigura un’esistenza banale e comunque forzata da dogmi contro i quali si viene quasi messi in allerta. (Che schifo la normalità! Giusto?). L’unica alternativa proposta alla trasgressione autodistruttiva dei protagonisti è la mediocrità di quello che viene presentato come normale; non sono contemplate dinamiche di liberazione che comportino una ricerca soggettiva e costruttiva dell’individualità. L’approccio sperimentalista all’esistenza si configura solo in esperienze estreme associate all’uso di sostanze tossiche, distruttive e schiavizzanti, che però sono dipinte come basilari elementi libertari e alternativi a quella quotidianità ordinaria che va a tutti i costi rifiutata ed evitata. Siamo dunque di fronte a un accattivante (criminale, quasi) invito all’anti-conformismo di facciata, a quell’alternativismo che avrebbe poi creato mostri istituzionalizzati anche in altri aspetti sociali – uno per tutti: la politica – alternativismo che in realtà viene a sua volta ri-conformato a diverse sottoculture giovanili e giovaniliste, e assoggettato alla dipendenza gestita da poteri più malevoli organizzati a livello criminale. È nell’alternativismo sottoculturale e nella deriva nichilista in salsa pop il sottile messaggio di cui Trainspotting si fa portatore quale prodotto mediatico-culturale.
I danni della redenzione filmica. Il lieto fine è forse la menzogna più suggestiva, un epilogo in salsa borghese, una redenzione solo filmica, perché il danno – i danni – è fatto: il più sfigato è morto, il delinquente sarà arrestato, l’ingenuo sarà premiato con un pugno di sterline. La scelta borghese del finale non risolve nella sua ponderatezza salvifica perché il modello culturale è ormai impresso e il giudizio sulla normalità è espresso, al netto della fuga egoistica con il denaro derivante dallo spaccio, e in linea con la furbizia poco nobile e con l’individualismo a regime. Inoltre, in tutto questo scompare l’emancipazione dalla dipendenza che è lotta sovraumana, dolorosa, durevole – forse permanente – che, nella realtà, non si risolve nei suggestivi tempi filmici; come sappiamo, le esistenze intaccate dalla tossicodipendenza hanno altri destini, comunque fuorviati. Nel suo complesso, attraverso una rappresentazione superficiale e inverosimile della tossicodipendenza da droghe pesanti (eroina, metadone), il film avalla anche, indirettamente, sottostimandone effetti e dannosità, l’uso di sostanze più leggere (hashish, marijuana, tabacco e alcol, ma anche le droghe chimiche che conosceranno, dalla prima metà degli anni ‘90, una diffusione abnorme), che vengono percepite dai protagonisti come insignificanti, al punto da essere mostrate come succedanee, vizi minori – a confronto con l’eroina. Qual è il punto? Per capirlo serve un tuffo nella realtà, e qualche numero dalla relazione annuale della DCSA (Direzione Centrale Servizi Antidroga) stilata nel 2019 sul 2018: sequestri di cocaina +127% (8,3 tonnellate); sequestri di droghe sintetiche +95,62%; decessi per overdose di oppiacei vari +11% (trend in salita peril terzo anno consecutivo). Le ultime ricerche più dettagliate sul consumo di droga sono quelle pubblicate nel 2016 dall’istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa, che rilevavano: “rispetto al 2014, nel 2015 l’uso di eroina è raddoppiato tra gli adolescenti, […] e [l’eroina] risulta essere la droga più popolare dopo la cannabis.”
LSD al nemico, quando le droghe psichedeliche rischiavano di diventare un'arma segreta. Davide Bartoccini il 23 Dicembre 2021 su Il Giornale. Negli anni più remoti e oscuri della Guerra Fredda le odierne droghe venivano studiate come possibile "arma" da impiegare contro il nemico. Una strana esercitazione vide somministrato dell'LSD a un distaccamento di Royal Marines con esiti "esilaranti". Ad un’ora dall’inizio di una singolare quanto bizzarra esercitazione da portare a termine in una foresta dell'Inghilterra meridionale, un fante di marina appollaiato su di un albero dice di voler dare da “magiare agli uccelli”, che probabilmente lo ignoravano o avevano già preso il volo verso distanti e più placidi lidi. È solo allora che il tenente colonnello R.P. Carter, comandante della squadra di Royal Marines, uomini scelti di uno dei migliori reggimenti d’élite delle forze armate britanniche, è costretto ad annunciare la resa: non era più in grado di controllare i suoi uomini. L’esperimento di quel giorno, il Day trigger, era a tutti gli effetti riuscito. Anche l'ufficiale del resto, si arrendeva agli eventi ridendo.
È il primo dicembre del 1964. I commandos britannici selezionati per questo singolare test si trovano nelle vicinanze della segreta e controversa base di Porton Down. Il sito per le ricerche sulle armi chimiche e batteriologiche più inaccessibile del Regno. Lo stesso dove negli ultimi anni sono state effettuate ricerche sull’agente nervino Novichok, impiegato nell’attentato alla vita dell’ex spia doppiogiochista Sergei Skripal; come sul nuovo virus SARS-CoV-2 che infesta il mondo da ormai due anni. Ai diciassette volontari, tutti militari esperiti e altamente addestrati del 41° Royal Marine Commando, cui era stato detto di aver ricevuto una nuova cura per il raffreddore solubile nell’acqua, era stata somministrata a loro insaputa una dose di 200 microgrammi di LSD ciascuno. Sostanza psichedelica sintetizzato dallo scienziato svizzero Albert Hofmann nel 1938, prima nota come Lysergsäurediethylamid (acido lizergico dietilammide, ndr), poi abbreviata nella famosa sigla con cui passerà alla storia come "droga della rivoluzione culturale" degli anni ’60 e ’70.
L’obiettivo dell’esercitazione da svolgere in campo aperto, era quello di simulare una manovra militare identica a quella che era stata svolta nella giornata precedente (durante il Day Control, 31 novembre), ma sotto l’effetto di LSD. Per testarne un eventuale impiego sul campo di battaglia, e vedere come reagirebbe un ipotetico nemico a quella che i ricercatori intendono impiegare come arma “non letale” per rendere l'avversario incapace di opporre resistenza. Un approccio nuovo per un nuovo tipo di guerra: la guerra psicochimica. Un progetto, quello dell'uso di LSD e altre droghe psichedeliche e psicoattive, che viene studiato anche dall’alleato americano. Il quale attraverso il programma di massima segretezza classificato come Mk-Ultra pensava impiegarlo come “droga della verità”. Un sostituto del tiopental sodico impiegato dalla Gestapo nazista durante i suoi interrogatori. L’impiego di questa tecnica era stato considerato pari alla tortura dalla Corte penale internazionale dell’Aia.
Il piano "innocuo" degli inglesi
Nei primi anni ’50 - mentre la neonata CIA iniziava a sperimentare le prime sostanze (compresa la cannabis) come possibili sostitutivi del vecchio “siero della verità” - anche gli esperti agli ordini di Whitehall decisero di esplorare la medesima via con un progetto sviluppato nella base segreta di Porton Down; dove l'LSD era stato selezionato come papabile sostanza adatta all'impiego. Sebbene la fase iniziale dell'avvicinamento alla sostanza sia oscura, quel che è certo, è che il programma negli anni '60 virò su una seconda ipotesi d’impiego. Ossia testare l'acido lizergico come arma segreta per rendere inabile al combattimento una forza nemica che, in tal modo, sarebbe stata fatta prigioniera in breve tempo e senza dover sparare un colpo. L’obiettivo finale infatti era quello di ottenere un conflitto innocuo. Attaccare un nemico senza uccidere, e cosa ben più importante senza infliggere alcun danno collaterali ai civili che si fossero trovati sul campo. Per il generale Sir John Hackett, vice capo di stato maggiore, sarebbe stato “molto desiderabile trovare un agente inabilitante sicuro..”. Andava però testato.
Operazione Moneybags, nome in codice per LSD
Quando a Porton Down qualcuno si rese conto che le lettere dell’acronimo che indicava l’acido lizergico dietilammide, erano le stesse dei simboli pre-decimali stai per sterline, scellini e pence, i nomi in codice per le “operazioni” che contemplavano l’uso di LSD, preso i nomi in codice Moneybags, Recount e Small Change. La prima, come anticipato nei apertura, era venne condotta il 1 dicembre del 1964. E nei rapporti venne indicato che dopo appena “25 minuti” dalla somministrazione della sostanza, “..i primi effetti del farmaco erano evidenti”. “Gli uomini si rilassarono e iniziarono a ridacchiare”, sdraiati per terra sulla schiena sorridevano assorti, altri barcollavano e si sostenevano con l’ausilio dei tronchi d’albero. Dopo un’ora l’ufficiale concluse che non si poteva proseguire sotto gli effetti della sostanza. Il resto del commando sarebbe stato informato in seguito di quanto era avvenuto. “Gli esperimenti su questo tipo di guerra umano dovrebbero essere portati avanti con tutta la velocità”, concludeva rapporto annuale del 1965. Per questo altre esercitazioni doveva dare seguito per ottenere nuovi dati. Compresa una con avversari teorici che simulava ulteriori azioni di combattimento che si erano verificate contro gli insorti nella crisi di Cipro.
Nel settembre del 1966 seguì l’operazione Recount, e nel gennaio del 1968 l’operazione Small Change, alla quale presero parte volontari del 1st Battalion Staffordshire Regiment. Al termine di questa sessione, gli scienziati di Portdon coinvolti nel programma conclusero che l'LSD aveva sempre ridotto con successo l'efficienza di ognuna delle unità che aveva preso parte alle manovre. I risultati da un certo punto di vista erano assolutamente incoraggianti, ma da un altro portavano alcune non trascurabili preoccupazioni: gli effetti a lungo termine erano imprevedibili e non tutti i militari avevano reagito allo stesso modo; molti dei Marines infatti sembravano aver provato quello che viene chiamato in gergo “bad trip”, ossia un’esperienza allucinogena negativa che potrebbe ripercuotersi sull’individuo anche molto tempo dopo aver assunto la sostanza. Tuttavia le necessità di poter condurre una "guerra umana" sembravano essere, almeno secondo lo Stato maggiore, prioritarie e di maggiore importanza: meglio un brutto viaggio sotto LSD che un proiettile che ti passa da parte a parte, del resto.
Il fallimento del programma “Guerra Umana"
Se le esercitazioni avevano dato i risultati sperati, una preoccupazione sull'utilizzo reale di questa nuova arma nella pratica restava un cruccio non trascurabile per gli scienziati di Porton e per gli strateghi di Whitehall: come avrebbero “somministrato” efficacemente al nemico la sostanza in una reale azione di combattimento? Persuadere dei volontari a bere dell’acqua che sapevano potesse contenere una sostanza non meglio identificata era un conto, somministrare LSD ad una guarnigione nemica sul campo di battaglia un altro. Le ipotesi erano quelle di disperdere la sostanza nelle riserve d’acqua, ma non sempre sarebbe stato possibile, o quella di portare LSD allo stato gassoso e poi disperderlo nell’aria, ma per raggiungere l’efficacia le dosi dovevano essere altissime, e bisognava cominciare da capo con i test di dosaggio. Dopo una serie di riflessioni e tentativi tutto si concluse con in un completo fallimento del progetto. Il sogno di un agente inabilitante che rendesse la guerra più “umana” e cancellasse la morte o il ferimento degli avversari si era sgretolato. L’ironia che ne venne, fu che “l’esercito britannico sceglieva di rinunciare all’LSD”. Era il 1968. Altrove, fuori dalle schiere di coscritti, la rivoluzione dei figli dei fiori che le faceva contraltare, iniziava a fare uso e abuso. Le droghe psichedeliche erano più adatte “alla pace e all’amore, che a combattere una guerra”.
I segreti di Porton Down, dove si sperimentava il gas nervino
Sebbene le esercitazione del programma LSD ,nei suoi diversi nomi in codice, sia passato alla storia come un divertente interludio della storia militare, la base Porton Down, oggi quartier generale della lotta al Covid del Regno Unito, è rimasta per lungo tempo al centro di feroci critiche essenzialmente legate agli esperimenti protetti dal segreto di Stato che venivano condotti al suo interno.
Protetta e nascosta dai settemila acri di splendida campagna messi a disposizione dal governo, la base di Porton Down fu fondata nel 1916 divenendo più antica installazione di ricerca sulle armi chimiche del mondo. La stretta segretezza che ha circondato il sito fin dai tempi del secondo conflitto mondiale, ha sempre alimentato ogni genere di leggende e inquinanti voci sugli esperite che venivano condotti al suo interno, rendendolo agli occhi degli inglesi ”un istituto sinistro e nefasto”, come avrebbe commentato un alto funzionario della Difesa. Il tempo avrebbe dimostrato che non si trattava solo ed esclusivamente di miti: a Portdon Down, nel corso di mezzo secolo sono stati custoditi tra i più pericolosi agenti chimici e patogeni conosciuti. Come l’antrace. E sono stati condotti esperimenti inquietanti con agenti nervini letali come il sarin.
Secondo alcune dichiarazioni, ottenute solo nel 1994, venne confermato che presso la base non venivano condotti esperimenti di carattere esclusivamente difensivo rispetto alle minacce chimiche e batteriologiche; ma veniva invero portato avanti contestualmente un “programma di armi chimiche offensivo”. Questa scoperta suscitò molto critiche, e non meno ne suscitò la notizia che per portare avanti questi programmi erano state impiegate “cavie umane”. Tra il 1949 e il 1989 sarebbero state oltre 20mila gli uomini e le donne che si sarebbero prestati - si è supposto sempre volontariamente - agli esperimenti. Tra questi sono i 72 militari ai quali venne somministrato LSD tra il 1964 e il 1968, e dei 20 avieri esposti all’agente nervino Sarin. Tra questi ultimi si conta l’unica vittima accertata.
Uno scabroso caso che venne giudicato - 51 anni dopo - omicidio illegale da parte del governo britannico. Stiamo parlando dell’aviere appena ventenne Ronald Maddison, morto dopo essere stato esposto al gas nervino allo stato liquido durante alcuni test che tentavano di “capire” quale fossero le quantità letali. Unico sfortunato dei 396 uomini che presero parte all’esperimento che aveva lo scopo di "determinare il dosaggio di [tre gas nervini] che, se applicati sulla pelle vestita o nuda degli uomini, avrebbero causato incapacità o morte”. L’inchiesta, che inizialmente aveva decretato una morte accidentale per il contatto di alcune gocce di gas nervino con la pelle dell'aviere, dimostrò in seguito che sarebbero stati gli scienziati di Porton a provocare il contatto. E sebbene questo e altri esperimenti abbiano consentito lo sviluppo di alcune tra le più sofisticate difese al mondo dagli attacchi chimici, resta il fatto che un giovane soldato abbia pagato con la sua vita in tempo di pace per studiare gli effetti della guerra. Dal 1945 al 1989, il centro di ricerca britannico ha esposto per conto del governo più di 3.400 cavie umane agli agenti nervini. Il suo primato imbattuto sarebbe dunque quello di aver testato gas nervino per il periodo di tempo più lungo su più soggetti umani di qualsiasi altro istituto scientifico al mondo. Più di quanto è stato fatto da Stati Uniti, Unione Sovietica e Iraq, secondo le informazioni consultabili. Nulla di cui vantarsi.
Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con
Luca Gallesi per “il Giornale” il 19 febbraio 2020. Se è vero che, nelle democrazie parlamentari, «il potere logora chi non ce l' ha» (copyright Giulio Andreotti), questo non accade dove chi ha il potere deve comandare sul serio, come avviene nelle dittature e nelle repubbliche presidenziali. Sarà perché, come dimostra la gerontocrazia al potere in Italia, nei regimi parlamentari si tira spesso a campare, badando soprattutto a non logorarsi, la musica cambia quando, sia per senso di responsabilità sia per interessi personali, bisogna governare davvero, e allora il governante viene logorato, eccome! Questa, almeno, è la conclusione a cui si arriva leggendo l'avvincente saggio di Tania Crasnianski Il potere tossico. I drogati che hanno fatto la storia, appena pubblicato da Mimesis (pagg. 240, euro 18), che svela la smodata passione per le droghe comune a molti statisti del secolo scorso, che nutrivano, inoltre, un'incondizionata fiducia nel proprio medico personale. Scopriamo, infatti, che tutti i capi di Stato più importanti del Novecento hanno avuto al loro fianco un'ombra potente, il loro terapeuta, che aveva l'obbligo di farli resistere alle enormi pressioni imposte dal loro ruolo. Il problema è che, molto spesso, il medico oltrepassava il suo ruolo per diventare il confidente più fidato e il collaboratore più prezioso del Principe; in alcuni casi, come in quello di Adolf Hitler e soprattutto di J.F. Kennedy, lo specialista era disposto, addirittura, a diventare uno spacciatore di sostanze stupefacenti, oppure, come nel caso di Mao, si trasformava in procacciatore di giovani vergini da sacrificare all' insaziabile lussuria del grande Timoniere. Nei vari capitoli scorrono i nomi di Lord Moran, Georg Zachariae, Theo Morell, Max Jacobson, Vladimir Vinogradov, Li Zhisui, personaggi che non dicono nulla neppure al lettore colto e appassionato di storia, pur essendo coloro che hanno incoraggiato, protetto o nascosto il lato debole, anzi oscuro, di Churchill, Mussolini, Hitler, Kennedy, Stalin e Mao, che in questo libro appaiono come dei deboli dipendenti da droghe, alcol e sesso, offuscati dall' ineludibile servilismo del loro cerchio magico. Capitati per caso nelle stanze dei bottoni, quasi tutti i medici dei potenti non hanno resistito a scrivere un diario, che, sepolti i loro illustri pazienti, hanno impudicamente pubblicato. Hitler, dopo Stalingrado, sprofonda nella tossicodipendenza da anfetamine. Peggio di lui è J.F.Kennedy, tanto che il suo spacciatore pardon, medico- Max Jacobson, alla fine verrà radiato dall' albo. Di Winston Churchill viene confermata la dipendenza dall' alcol, a cui affianca spesso e volentieri abbondanti dosi di antidolorifici e sedativi che ne aumentano il disturbo bipolare. Mussolini, invece, per il suo medico, affiancatogli dal Fuehrer per controllarlo meglio, anche nei tragici giorni della disfatta rimane, «un uomo straordinario», al quale è bastato cambiare regime alimentare per tornare in forma. Stalin è l' incarnazione del dispotismo orientale, sanguinario e propenso a sbalzi di umore che l' abbondanza di vodka rende letali per chi gli si trovava intorno. Pétain è, ancora in età avanzata, dipendente dalle belle donne, mentre Franco non sa resistere ai peccati di gola, e, malato di Parkinson, eccede in dopamina. Indifferente, infine, a qualsiasi moderazione è Mao, la cui totale noncuranza verso le più elementari regole di igiene si unisce a un irrefrenabile appetito sessuale, sostenuto da un abbondante uso di afrodisiaci e sostanze psicotrope. I figli dei fiori, con la rivoluzione psichedelica, insomma, non hanno inventato nulla; l' immaginazione, o meglio, l' allucinazione, al potere c' era già stata: sesso, droga e Demerol!
Droga a Westminster, trovate tracce di cocaina in 11 bagni dei deputati: in arrivo «legge-stangata». Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 5 dicembre 2021. La politica britannica ha raggiunto livelli allucinanti: nel senso che a Westminster la cocaina scorre a fiumi, e stanno pensando di introdurre i cani anti-droga all’interno del palazzo del Parlamento. A sollevare il velo su quello che è un segreto di Pulcinella è il Sunday Times, che racconta come in un recente controllo siano state trovare tracce di stupefacenti in 11 dei 12 posti testati, alcuni dei quali accessibili solo con un pass parlamentare. La droga è bipartisan: cocaina è stata individuata nei bagni vicino all’ufficio di Boris Johnson e della ministra degli Interni, ma anche in quelli in prossimità delle stanze del governo-ombra laburista. Si racconta di un deputato che sniffava davanti a tutti a una festa, alla presenza di giornalisti; e in un altro caso un membro dello staff è entrato la sera tardi nell’ufficio di un parlamentare e lo ha sorpreso a farsi una pista sulla scrivania.
«C’è una cultura della cocaina in Parlamento – ha raccontato al Sunday Times un veterano di Westminster -. Alcuni si fanno continuamente, altri assaggiamo ogni tanto. Alcuni sono nomi noti, altri sono giovani deputati ambiziosi o funzionari: pensano di essere intoccabili». Addirittura, un ex deputato avrebbe assunto in passato il suo pusher come membro del suo staff, in modo da pagarlo regolarmente. «Ciò che è un segreto aperto a Westminster è la cultura della droga – ha raccontato un consigliere speciale -. Tutti sanno in quale ufficio andare per trovare una canna». Non è raro imbattersi in funzionari che si aggirano strafatti per i corridoi, col lo sguardo a palla: «Semplicemente ti giri dall’altra parte o guardi il soffitto», ammette il consigliere.
Va considerato che sono ben 19 mila le persone in possesso di un pass parlamentare e che possono accedere a Westminster senza controlli, anche se sono soltanto 3 mila quelli che sono entrati con regolarità dall’inizio della pandemia. Nel corso di un anno due spacciatori sono stati arrestati attorno al Parlamento, mentre 13 persone sono state fermate per possesso di droghe: in totale, 17 crimini legati agli stupefacenti sono stati investigati dentro o attorno agli edifici parlamentari.
Lo Speaker della Camera, Sir Lindsay Hoyle, ha promesso un’indagine e la prossima settimana una Commissione si occuperà del caso. «Non c’è posto nella nostra società per le droghe e certamente non nel nostro Parlamento – ha detto la ministra degli Interni, Priti Patel -. Quelli che hanno il privilegio di lavorare al cuore della nostra democrazia e che sono coinvolti nell’uso o nella distribuzione di droghe sono del tutto sconnessi dal dolore e dalla sofferenza che alimentano attraverso il traffico di stupefacenti». Johnson si prepara a lanciare una stretta contro i consumatori di droga benestanti, per cambiare la percezione che le persone privilegiate possano violare la legge senza conseguenze: e potrebbe decidere di «dare un esempio» cominciando proprio da qualche personaggio di alto profilo.
La pena massima per il possesso di cocaina, in Inghilterra, è di sette anni di prigione. Il sindacato che rappresenta lo staff parlamentare ha però provato a mettere la questione nel suo contesto: «Una cultura lavorativa fatta di orari lunghissimi e scadenze ravvicinate può creare una pressione avvertita come ingestibile: è necessario rendere disponibile un sostegno per quanti sono finiti nella droga e continuare a migliorare le condizioni di lavoro».
Trovate tracce dello stupefacente in 11 posti. Droga a fiumi a Westminster, nel Parlamento inglese una "cultura della cocaina": pusher come portaborse. Andrea Lagatta su Il Riformista il 5 Dicembre 2021. Scorrono fiumi di cocaina a Westminster, la vivace sede del parlamento inglese. A riportare l’indiscrezione che infiammerà certamente la politica britannica è il Sunday Times. Secondo il quotidiano inglese, la presenza e l’uso dello stupefacente tra i parlamentari ha sfiorato livelli altissimi, tanto da valutare l’introduzione di cani anti-droga all’interno del palazzo del Parlamento. L’allarme è scattato a seguito di un recente controllo, per cui sono stati riscontrati tracce di stupefacenti in 11 dei 12 posti testati, alcuni dei quali accessibili solo con un pass parlamentare. La cocaina è stata individuata ovunque: nei bagni vicino all’ufficio di Boris Johnson e della ministra dell’Interno, ma anche in quelli in prossimità delle stanze del partito laburista. Il Sunday Times racconta che chi fa uso di cocaina non lo nasconde: molto parlamentari sono stati sorpresi, in momenti conviviali e persino davanti ai giornalisti, oppure nel proprio ufficio, a sniffare la polvere bianca. Ma la droga arriva facilmente in parlamento. In passato, infatti, un ex deputato avrebbe assunto il suo pusher come membro dello staff, così da pagarlo regolarmente, senza far emergere alcun atto illegale. Alla testata inglese un veterano di Westminster ha raccontato dell’esistenza della cultura della cocaina in Parlamento: “Alcuni si fanno continuamente, altri assaggiamo ogni tanto. Alcuni sono nomi noti, altri sono giovani deputati ambiziosi o funzionari: pensano di essere intoccabili”. E ancora: “Ciò che è un segreto aperto a Westminster è la cultura della droga – ha raccontato un consigliere speciale -. Tutti sanno in quale ufficio andare per trovare una canna”. Lo Speaker della Camera, Sir Lindsay Hoyle, ha promesso un’indagine e la prossima settimana una Commissione si occuperà del caso. E, lanciando un monito a chiunque porti cocaina o altre sostanze illegali in Parlamento, lo speaker ha affermato di considerare la questione come una priorità e di voler vedere “la piena ed efficace applicazione della legge” con sanzioni gravi per coloro che trasgrediscono le regole. “Non c’è posto nella nostra società per le droghe e certamente non nel nostro Parlamento”, ha detto la ministra dell’Interno, Priti Patel, facendo riferimento alla massima pena detentiva di sette anni per il possesso di cocaina. “Quelli che hanno il privilegio di lavorare al cuore della nostra democrazia e che sono coinvolti nell’uso o nella distribuzione di droghe sono del tutto sconnessi dal dolore e dalla sofferenza che alimentano attraverso il traffico di stupefacenti”. Andrea Lagatta
Le vie della droga. Mauro Indelicato su Inside Over il 3 dicembre 2021. Il mercato della droga frutta ogni anno almeno 500 miliardi di Dollari. Almeno questa è la stima più accreditata dalle varie polizie e organizzazioni che seguono da vicino il traffico delle sostanze stupefacenti. Il narcotraffico non conosce crisi. La domanda non è calata, nemmeno durante le fasi più acute della pandemia. E le organizzazioni che gestiscono il mercato hanno trovato il modo di far affluire fiumi di droga nelle aree dove viene più consumata. Essenzialmente Stati Uniti, Europa e Russia.
La rotta dal sud America agli Usa
Il narcotraffico comprende una varietà importante di sostanze stupefacenti. Quelle che negli anni tengono in maggiore apprensione le organizzazioni di Polizia sono la cocaina e l’eroina. Si tratta di droghe dai gravi e importanti risvolti sociali. Oltre che redditizie per i gruppi criminali impegnate a diffonderle. L’Unodc, l’Agenzia delle Nazioni Unite sulle droghe, vede nel continente sudamericano il polo più importante delle sostanze stupefacenti. Il clima rende possibile la coltivazione di gran parte delle piante da cui derivano le droghe più esportate. Una di questa dà il nome al suo derivato più famoso: è la pianta di coca, da cui viene prodotta e raffinata la cocaina. Coltivazioni di coca sono diffuse soprattutto in tre Paese dell’America Latina: Colombia, Perù e Bolivia. É da qui che parte la filiera. La cocaina è arrivata nel mercato statunitense negli anni ’70 e ha iniziato a destare allarme sociale per il suo consumo nel decennio successivo. Il presidente Usa Donald Reagan, dopo aver notato l’aumento di omicidi negli ambienti coinvolti nello spaccio a Miami, ha iniziato la prima vera e propria lotta al narcotraffico.
La Colombia per anni, oltre a essere stata il primo produttore della pasta di coca e il primo esportatore della cocaina raffinata, è stata simbolo della crescita del narcotraffico negli Usa e in Europa. I cartelli della droga colombiani hanno preso il sopravvento e hanno accumulato una ricchezza tale da riuscire in molti casi a soppiantare lo Stato. La storia di Pablo Escobar, il più famoso signore della droga ucciso poi nel 1994, ne è una testimonianza. Oggi il Paese è ancora tra i principali produttori. Ma i cartelli colombiani degli anni ’80 e ’90 sono stati ridimensionati. L’obiettivo dei trafficanti non è certamente quello di rimanere nel mercato sudamericano. La meta è rappresentata dagli Stati Uniti. E per questo la rotta più presa di mira dalle forze antidroga è quella che risale dai Paesi latinoamericani fino al Messico. Da qui, secondo l’Fbi, arriva il 90% della cocaina consumata negli Usa. I cartelli messicani sono quelli più potenti e in grado di ricevere da Colombia, Perù e Bolivia la droga e farla poi arrivare oltre il confine statunitense.
Lungo questa rotta però a risalire non è soltanto la cocaina. Il Messico è anche il principale produttore di eroina del continente. Il Paese da questo mercato ha un vantaggio: non è soltanto un territorio di passaggio, come avviene per i derivanti della pianta di coca, ma è qui che si coltivano i papaveri da oppio, la pianta da cui si ricava l’eroina. La ricercatrice Ines Gimenez, in un’intervista su Sputnik nel 2019, ha tracciato una mappa delle coltivazioni: a essere coinvolti sono gli Stati di Sinaloa, Chihuahua, Durango, Nayarit, Jalisco, Michoacán , Guerrero e Oaxaca. Anche per questo il Messico è il vero crocevia della principale rotta della droga. Una vera e propria autostrada delle sostanze stupefacenti, capace di far risalire dal sud America la cocaina e di esportare negli Usa l’eroina. E non solo: El Chapo Guzman, uno dei capi indiscussi dei cartelli messicani, negli anni ’90 ha introdotto anche lo spaccio, sempre verso gli Stati Uniti, della metanfetamina. Sostanza importata da alcuni Paesi del sud est asiatico e in grado di fruttare sul mercato della droga miliardi di Dollari ogni anno. El Chapo è stato arrestato nel 2016, ma i gruppi criminali in Messico rimangono i più potenti e lo Stato attualmente non riesce, anche a causa della diffusa corruzione, a contrastarli.
Dall’America Latina all’Europa, passando per l’Africa
Se il Messico è il crocevia più importante delle rotte della droga verso gli Usa, in sud America i principali poli delle rotte verso l’Europa sono il Venezuela e il Brasile. La posizione di quest’ultimo Paese è poi abbastanza particolare. Nel mercato della droga nel corso degli anni ha assunto una doppia veste: da un lato è un importante consumatore di sostanze stupefacenti, dall’altro un territorio di transito per l’esportazione al di fuori del continente. Le statistiche dell’Università di San Paolo diramate nel 2012 hanno evidenziato infatti come il Brasile assorba il 18% delle quantità di cocaina consumate nel mondo, ponendosi in questa classifica dietro soltanto agli Usa. Inoltre è in testa a livello globale per il consumo di crack, altra sostanza ricavata dalle piante di coca.
Le tonnellate non consumate partono verso l’Europa. Una rotta sempre più usata e trafficata, capace di portare la droga nel Vecchio Continente in due modi: per via aerea oppure per via marittima. Nel primo caso, così come avviene in Venezuela, la cocaina viene imbarcata di nascosto nei cargo che atterrano poi nei principali aeroporti europei. Nel secondo caso invece la droga viene stipata nelle navi che partono soprattutto dal porto di Santos, il più importante dello Stato di San Paolo, e raggiungono l’Africa occidentale. Le autorità brasiliane hanno da tempo messo nel mirino le rotte che terminano nei porti di Stati africani di lingua portoghese, come Capo Verde e Guinea Bissau. Da qui poi, una volta nel continente africano, i corrieri della droga prendono la via del deserto per arrivare lungo le coste del Mediterraneo.
L’Unodc ha osservato come proprio l’Africa stia diventando, anno dopo anno, un centro di smistamento fondamentale per il traffico di droga. Dal Brasile arriva soprattutto la cocaina, dall’oriente invece l’eroina. Le confraternite nigeriane gestiscono buona parte dello spaccio, riuscendo a far arrivare le sostanze tra Mali e Niger, ultime tappe prima di giungere nel Magreb. Da qui poi la tappa finale è l’Europa. L’Italia in tal senso ha un ruolo fondamentale. A testimoniarlo l’aumento dei sequestri svolti dalla Polizia nel porto di Gioia Tauro. Il nostro Paese, oltre che per la sua posizione geografica, ha assunto una funzione importante per via del peso della ‘Ndrangheta, sempre più ramificata a livello internazionale.
L’hub mediorientale dell’eroina
L’eroina però non arriva solo dal sud America. Esistono due punti nevralgici nel traffico di questa sostanza verso Europa e Russia. Si tratta dell’Afghanistan e del cosiddetto “triangolo d’oro” formato da Birmania, Laos e Thailandia. Il caso afghano è quello che ha avuto di recente maggiore rilevanza. Qui nell’agosto scorso hanno ripreso il potere i talebani, i quali negli anni hanno continuato a finanziarsi grazie anche all’esportazione del papavero da oppio. Da solo l’Afghanistan copre più della metà del fabbisogno mondiale di questa sostanza. Le coltivazioni più importanti si trovano nella provincia di Helmand, ma lungo il confine con il Pakistan sono sorte negli anni anche vere e proprie raffinerie da dove l’eroina prende poi la via del commercio internazionale illegale. Soltanto nel 2000 si è assistito a un drastico ridimensionamento della coltivazione del papavero da oppio nel Paese. Negli anni successivi le tonnellate esportate dall’Afghanistan sono cresciute fino a toccare l’apice delle 9.000 tonnellate prodotte nel 2017. Il valore dell’eroina afghana si aggirerebbe in totale a 350 milioni di Dollari all’anno secondo l’Undoc.
Dall’Afghanistan sono due le direttrici principali della droga. Da un lato vi è la cosiddetta “rotta balcanica“. Si tratta della via che tramite l’Iran raggiunge la Turchia e, da qui, le sostanze stupefacenti vengono immesse sul mercato europeo dopo essere transitate dai Balcani. L’altra rotta invece coinvolge il Pakistan, da cui l’eroina raggiunge poi le coste del Corno d’Africa. Il continente si conferma quindi come punto di snodo fondamentale verso l’Europa. Dal Pakistan la droga riesce a raggiungere anche il sud est asiatico, punto nevralgico per far accedere le sostanze in Australia oppure, tramite il Giappone, le coste occidentali degli Stati Uniti e del Canada. Scalzati dal predominio afghano, i Paesi del triangolo d’oro negli ultimi due decenni si sono specializzati soprattutto nella produzione delle metanfetamine. Le esportazioni avvengono seguendo la rotta pacifica, in grado di far arrivare queste sostanze in Messico da dove poi vengono commercializzate negli Usa.
Le implicazioni politiche del traffico di droga
La commercializzazione delle sostanze stupefacenti ha inciso e incide anche a livello politico. E non solo per le implicazioni sociali che il consumo di droga ha in occidente. La gestione del narcotraffico ha spesso permesso a organizzazioni terroristiche o parastatali di avere gli introiti necessari per proseguire le guerre. Il caso dei talebani è emblematico. Nei vent’anni in cui gli studenti coranici sono stati fuori dal governo dell’Afghanistan il movimento si è anche finanziato grazie a una taglia del 10% imposta ai coltivatori di papavero da oppio nelle province da loro controllate. Negli anni ’80 e ’90 lo strapotere dei cartelli colombiani ha profondamente messo in difficoltà lo Stato centrale. Inoltre il traffico di droga nel Paese sudamericano ha alimentato le casse del Farc e di altri gruppi impegnati nella guerra civile in quel momento in corso. La rotta messicana del narcotraffico inoltre è stata spesso oggetto di diatribe politiche importanti tra Città del Messico e Washington, soprattutto in materia di sicurezza lungo i confini.
In anni più recenti il commercio internazionale di droga ha permesso a molti gruppi terroristici di finanziarsi. A partire dall’Isis, il cui califfato ha intercettato tra il 2014 e il 2017 una parte dei guadagni della rotta mediorientale/balcanica dell’eroina. Lo Stato Islamico inoltre sta traendo molto vantaggio dal traffico di sostanze stupefacenti che risale dalla Nigeria alle coste nordafricane, passando per il Sahel. Proprio in quest’area le cellule legate all’Isis, così come ad Al Qaeda, si stanno rafforzando e la droga è un introito diventato per loro indispensabile. In Somalia invece è Al Shabaab ad essere coinvolta, secondo l’intelligence Usa, nel traffico sia di parte dell’eroina che arriva dal Pakistan che delle droghe sintetiche diffuse nel Corno d’Africa, a partire dal Mephedrone.
Da open.online.it il 15 dicembre 2021. Il Parlamento di Malta ha approvato con 36 voti a favore e 27 contrari la proposta di legge per la legalizzazione della cannabis. Lo Stato più piccolo dell’Unione europea diventa il primo del continente a legalizzare la coltivazione e il consumo di marijuana a scopo ricreativo per tutti i maggiorenni. Sarà così consentita la coltivazione personale fino a quattro piante, la detenzione fino a sette grammi di marijuana e la nascita di club senza scopo di lucro per la coltivazione comune e la distribuzione tra soci del prodotto. La proposta è stata presentata dal governo laburista sotto la guida di Robert Abela, che attualmente ha la maggioranza assoluta. Ora la legge deve essere promulgata con la firma del presidente della Repubblica, George Vella, un medico che in passato si è detto contrario alla legalizzazione. I club che nasceranno avranno tuttavia il divieto di farsi pubblicità e l’obbligo di non esporre marchi e stare lontani dai minorenni o da zone in cui ci sono scuole o campi sportivi. Rimane invece in vigore il divieto di consumo in pubblico in zone frequentate da minorenni e a questo proposito ci saranno delle pene severe per quanto riguarda lo spaccio illegale, perché lo scopo di questa nuova legge è proprio quello di contrastare la criminalità organizzata.
Negli altri Paesi
Recentemente anche il nuovo governo tedesco ha proposto in Germania una legge simile, mentre in Lussemburgo è già avvenuta l’approvazione, anche se la legislazione non è stata ancora adeguata. Ad Amsterdam, nonostante sia consentito fumare all’interno dei coffee-shop, la coltivazione risulta essere ancora illegale, mentre il primo Paese al mondo a decriminalizzare la marijuana è stato l’Uruguay nel 2013, seguito da Canada e Marocco. Negli Stati Uniti 18 Stati, compresa la capitale Washington, hanno introdotto diversi gradi di legalizzazione, ma anche in questo caso la coltivazione rimane comunque illecita rispetto alle leggi federali americane.
Estratto dell’articolo di Tonia Mastrobuoni per "la Repubblica" il 6 dicembre 2021. […] I Verdi tedeschi spingono dal 2015, dalla proposta di un Cannabiskontrollgesetz (Legge di controllo della cannabis), per una liberalizzazione delle droghe leggere, che sul mercato nero finiscono spesso per essere mescolate a sabbia, vetro, piombo e altre sostanze poco salutari. E ora che stanno per tornare al governo dopo sedici anni di apnea all'opposizione, i Verdi hanno vinto la loro battaglia. Nel contratto di coalizione del nuovo esecutivo "semaforo" (Spd, Verdi, Liberali) c'è scritto nero su bianco che il governo di Olaf Scholz liberalizzerà la cannabis "per uso ricreativo" (dal 2017 è già decriminalizzata per uso medico). La Germania si accinge così a diventare il paradiso della marijuana libera. […] L'Università Heinrich Heine di Düsseldorf ha calcolato che garantirebbe 3,7 miliardi di euro di introiti fiscali in più, 1,3 miliardi di euro di risparmi sulla sicurezza e 27mila nuovi posti di lavoro in più. Quasi cinque miliardi di euro che il governo tedesco si ritroverà in tasca ogni anno. E poi c'è il discorso della criminalità. […] Negli Stati Uniti, dove è legale in 21 Stati, uno studio ha scoperto che in quelle aree le rapine sono diminuite del 26%, gli omicidi e le violenze dell'11%. E un'altra notizia positiva che arriva dal Rapporto sulle dipendenze 2019 (Epidemiologicher Suchtsurvey) dimostra che non c'è alcuna prova che il consumo di cannabis porti ad assaggiare l'eroina o altre droghe pesanti. L'equazione «si comincia con una canna, si finisce a farsi le pere», sventolata spesso da alcuni politici (anche italiani), non avrebbe alcun fondamento scientifico.
Da Avvocato del popolo a Jep Gambardella. Regalino Philip Morris al suocero di Conte: festa in stile Grande Bellezza al Plaza di Cesare Paladino. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Dicembre 2021. Philip Morris, la più grande multinazionale di tabacco al mondo, celebra un esclusivo party di fine anno a Roma. Invita più di duecento ospiti, tra impresa, politica e stakeholder. Si stappano bottiglie costose, si celebra l’anno che sta finendo e quello che verrà. Pur avendo centinaia di potenziali, bellissime strutture nella Capitale, dove decidono di investire per un party in stile Grande Bellezza? Nell’hotel Plaza di via del Corso. Un magnifico cinque stelle. In tutti i sensi: perché il proprietario dell’hotel Plaza, Cesare Paladino, è il padre di Olivia Paladino, attuale compagna del presidente del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte. La fidanzata del leader pentastellato avrebbe anche un incarico formale, per la struttura: “Editorial manager”.
I due abitano in una strada che dista cento metri dall’imponente portale scorrevole di accesso, dominato da cinque stelle d’oro piantate nel marmo. Quasi un sigillo imperiale – come lo stile tardo impero che domina i saloni del piano terra – di questa struttura che ha ospitato, prima di diventare la seconda casa di Giuseppe Conte e dei Cinque Stelle, storie diverse e solo in parte note. Il Plaza, dove Philip Morris ha scelto di celebrare se stessa, non è un grand hotel come gli altri. Michele Masneri sul Foglio l’ha definito “una autobiografia della Repubblica”. Ha ospitato riunioni segrete della Dc. Non di tutto il partito, della corrente andreottiana. A fine anni Sessanta era di casa Malagodi. A inizio anni Ottanta vi stabilisce lì il suo ufficio il socialista Gianni De Michelis. Riusciamo a parlare al telefono con Luigi Esposito, per sessant’anni concierge. Ci racconta un po’ di tutto: veniva Licio Gelli per celebrare gli incontri della P2, ed è sempre qui che la massoneria ufficiale tiene le sue cene aperte, le agapi bianche. Ma da quella storia ad oggi c’è stata la cesura del tempo, sono cambiati tutti i protagonisti. Ora i problemi sono altri. E sono sorti quando si è scoperto, nel 2018, che la gestione Paladino non aveva versato al Comune di Roma la tassa di soggiorno degli ospiti non residenti, come previsto.
Il suocero di Conte era stato accusato di non aver versato due milioni di euro di tassa di soggiorno al Comune di Roma tra il 2014 e il 2018 e per questo motivo aveva patteggiato una condanna a un anno e due mesi. Il governo Conte II è però intervenuto per sanare la situazione, depenalizzandola. Nel 2019 Paladino aveva restituito la somma dovuta al Comune, insieme a un risarcimento danni. Il pm Alberto Pioletti e l’aggiunto Ielo, che gli avevano contestato il reato, avevano stimato le cifre trattenute illecitamente in circa 300mila euro nel 2014, oltre 500mila nel 2015, 2016 e 2017 e infine 88mila euro nel 2018. Così nel dicembre 2020 il gup Bruno Azzolini ha accolto l’istanza d’incidente di esecuzione dell’avvocato Stefano Bortone revocando quella sentenza perché a quel punto, dopo l’intervento del governo guidato dal compagno della figlia, “il fatto non è previsto dalla legge come reato”.
In quello stesso momento Il Riformista rivelava il rapporto stretto tra Philip Morris Italia e Casaleggio Associati, pubblicando una documentata inchiesta sui due milioni di euro versati da PMI al soggetto che di fatto ha cofondato il M5S. Pagamenti regolari, in tre anni, con cadenza mensile. La magistratura ha aperto una inchiesta e sta indagando. Ma Philip Morris può serenamente celebrare i suoi successi, come ha fatto lo scorso 24 novembre a Dubai, protagonisti di una eccezionale giornata ad Expo dove il Ministro degli esteri a Cinque Stelle, Luigi Di Maio, ha tributato al Presidente e Ad di PMI, Marco Hannappel, grandi onori. Il comunicato stampa di Expo lo inquadra così: «A confermare il rinnovato fascino dell’Italia nel mondo è anche Marco Hannappel, presidente e amministratore delegato di Philip Morris Italia, la cui azienda è stata portata oggi come esempio di successo nel workshop organizzato al Padiglione Italia».
Niente di strano dunque che l’industria del tabacco decida di festeggiare i risultati dell’anno che si chiude, e che abbia scelto l’hotel Plaza per farlo. Nessun illecito, ci mancherebbe. Ma in un mondo in cui niente avviene per caso, la scelta dell’hotel del suocero di Giuseppe Conte accende i fari sul contesto parlamentare di fine anno: il party di Philip Morris non cade in una data qualsiasi. Sono le ultime giornate utili per definire fin nei dettagli le allocazioni della manovra. Quest’anno una fetta consistente, sessanta miliardi di euro tra una voce e l’altra, sono destinate al comparto agricolo. E l’industria del tabacco ricade tutta nel capitolo di spesa del Ministero ancora saldamente rimasto in mano ai Cinque Stelle. Proprio il ministro pentastellato Stefano Patuanelli ieri sera ha sottolineato la sua attenzione per la materia: «Dobbiamo impegnarci per favorire la maggior interazione possibile tra i produttori e il settore della trasformazione, così da trasferire in maniera efficace il valore aggiunto e mantenere alti i livelli di export dell’intera filiera agroalimentare», il messaggio messo nero su bianco sul profilo Facebook. «Possiamo guardare con ottimismo al 2022 – ha quindi aggiunto Patuanelli – abbiamo ingenti risorse europee, risorse nazionali come mai si erano viste, e soprattutto capacità imprenditoriali. Parlo di circa 50 miliardi dalla Politica Agricola Comune, altri 7,9 dal Pnrr, circa 2 miliardi dalla programmazione della Legge di Bilancio».
Per il ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, dunque, «non possiamo che ritenerci soddisfatti. Grazie al lavoro fatto e che si sta facendo anche in queste ore, raddoppieremo le risorse per il settore agroalimentare del Paese rispetto al passato. È il modo migliore per continuare a investire sull’agricoltura a tutto tondo, un comparto spesso lontano dai riflettori ma che costituisce la vera locomotiva del Paese, contribuendo al 17% del Pil». Non sappiamo se la locomotiva voleva essere un riferimento al fumo che sbuffa, ma chi frequenta certe feste vip, a nella Capitale, può smentire quel che Sorrentino diceva nella Grande Bellezza: «I trenini di certe feste, a Roma, girano in tondo. Non portano da nessuna parte». Qualcuno ogni tanto arriva a destinazione.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Cinquestellopoli, ecco cosa faceva Casaleggio con i soldi di Philip Morris. Nicola Biondo su Il Riformista il 5 Dicembre 2020. “La rete non dimentica” diceva sempre Gianroberto Casaleggio l’ideatore del Movimento 5 Stelle. E la storia che stiamo per raccontarvi lo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio. Per raccontarla e per addentrarci nei meandri della Rete abbiamo chiesto la consulenza di un esperto di cyber-sicurezza Fabio Pietrosanti. Perché questa è una storia di siti internet che scompaiono, di manipolazione del pubblico e di fake news. Questa è la storia segreta della consulenza che Philip Morris ha affidato alla Casaleggio Associati per l’importo di quasi 2 milioni di euro netti in tre anni. A cosa sono serviti quei due milioni di euro? Nessuna delle parti in causa vuole rivelarlo. L’“investigazione digitale” di Pietrosanti – che pubblichiamo integralmente – dimostra cosa faceva l’azienda milanese per promuovere il tabacco riscaldato targato Philip Morris, a cui come è noto, i governi Conte hanno dimezzato la tassazione. Partiamo da una data, il primo dicembre. Sui media è già esplosa la vicenda Casaleggio-Philip Morris.
La trasmissione Le Iene denuncia che ci sono alcuni siti riconducibili a Casaleggio Associati che fanno pubblicità al tabacco riscaldato. Tra questi siti se ne cita uno, I furiosi.
Cosa succede a questo punto, Pietrosanti?
La mia attenzione viene catturata da quella denuncia ma il sito I Furiosi è sparito. Da qui parte l’inchiesta e ricostruisco un archivio documentale di questo sito, i suoi collegamenti e autori. L’archivio con tutte le evidenze di indagine è liberamente consultabile e scaricabile dal mio profilo github.
Iniziamo da qui. Di cosa si occupava questo sito? Cosa c’entra con la vicenda Casaleggio Philip Morris?
Il dominio internet ifuriosi.it risulta registrato il 17-04-2018 da Matteo Blandford.
Di chi si tratta?
È un web designer. Il suo curriculum indica la realizzazione di I Furiosi dal 2017 per Casaleggio Associati. Il suo rapporto con la Casaleggio Associati pur presente nel curriculum non risulta invece menzionato negli altri profili pubblici dell’autore. Di certo lavora per alcuni grandi progetti per l’azienda milanese, tra i quali le due edizioni di SUM, il convegno dedicato a Casaleggio padre, e la campagna a favore di Moby, un cliente di Davide.
Come fa a dire che il sito scomparso era gestito per conto della Casaleggio?
Lo dice lo stesso web designer. Ed è l’indirizzo IP, una sorta di targa che identifica ogni sito, che ce lo dice: nello stesso blocco di indirizzi IP risultano presenti altri siti riconducibili a Casaleggio Associati Srl, Associazione Rousseau, Movimento 5 Stelle, Marco Travaglio, siti di altri clienti dell’azienda.
Entriamo nel dettaglio: di cosa si occupava I Furiosi?
L’homepage del sito raccoglie vari articoli sul tema del fumo, del tabacco, enfatizzando le sigarette con tabacco riscaldato, criticando il consumo di sigarette tradizionali ed elettroniche criticando la validità dei report OMS sui danni del fumo, enfatizzando aspetti del fumo quali l’emancipazione delle donne.
Insomma, un caso di manipolazione dell’opinione pubblica?
Esattamente. Ma con un’aggravante: qui si parla di salute pubblica, di pubblicità ingannevole.
Pietrosanti volta lo schermo e appaiono in sequenza una decina di pagine web provenienti dal sito scomparso. I titoli sono indicativi. Si va dalle accuse all‘OMS, ai minori danni del tabacco riscaldato rispetto alle sigarette tradizionali, al confronto tra due tipi di tabacco riscaldato (di cui uno è IQOS di Philip Morris).
La caffeina crea più dipendenza del tabacco. Dicono che l’OMS si sbaglia in merito ai rischi della salute delle sigarette elettroniche.
Cos’altro hai scoperto?
I Furiosi aveva una forte presenza sui social. Tutti i profili sono spariti o resi privati. A partire da un account YouTube da 38.000 iscritti, dal quale ho reperito una preview di tutti i titoli dei video. Un account Facebook che alla data della sospensione aveva 103.882 likes, numero significativo da cui si può ipotizzare un ingente investimento pubblicitario che qualcuno avrà pagato.
Anche l’account Twitter viene sospeso ma come si può notare dalle conversazioni c’è un peculiare intervento della Philip Morris International a seguito dei suoi post.
L’account Instagram è stato cancellato e non è stato possibile reperirne copie.
Cosa contenevano i video?
Nel sito c’era l’anteprima di un video che sembrerebbe voler dimostrare la differenza fra sigarette normali, elettroniche e riscaldate ma che non è più visibile, è stato reso privato all’indirizzo. Tale video è nella intestazione a piè di pagina del sito, in tutti i contenuti navigazionali. Ovviamente non ha nessuna validità scientifica.
Perché secondo te questo sito e tutti i suoi canali social sono stati cancellati?
Perché è vietata la pubblicità di sigarette elettroniche comprese quelle a tabacco riscaldato, secondo l’articolo 21 comma 10 del decreto legislativo 12 gennaio 2016. Sono vietate le comunicazione commerciali che abbiano anche l’effetto indiretto di promuovere le sigarette. E questo vale anche per la comunicazione “nei servizi della società dell’informazione” cioè siti web e social media. Aldilà dell’aspetto etico e morale, tale pubblicità può prevedere sanzioni da 30.000 a 150.000 euro.
Quindi essendo vietata questo tipo di pubblicità andava fatto sparire tutto, giusto?
Certo perché questo reticolo di informazioni riporta al caso Philip Morris Casaleggio. Ecco la risposta alle vostre domande. Questo era ciò che faceva Casaleggio per Philip Morris.
Cosa intendi fare di questa tua indagine?
Quello che va fatto, consegnarla all’AGCOM, all’agenzia delle Dogane e Monopoli e all’autorità giudiziaria. Che siano loro a decidere se questo tipo di comunicazione è legale. Nicola Biondo
Emendamento Lega alla finanziaria. Regalo di Natale da 200 milioni della Lega a Philip Morris: ma a pagare sono gli italiani. Nicola Biondo su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. È ripresa la guerra del tabacco in Parlamento. Dopo un anno dalle feroci polemiche scatenate dall’inchiesta del Riformista sui legami commerciali tra Philip Morris e Casaleggio e l’incredibile sconto fiscale attuato dai governi Conte alla multinazionale, oggi è la Lega a proporre un congelamento della tassazione al gigante del tabacco. L’emendamento alla finanziaria è stato presentato al Senato da quattro parlamentari leghisti (Ferrero, Testor, Tosato, Faggi) e propone di eliminare per il biennio ’22-’23 l’incremento progressivo dell’incidenza fiscale applicata al tabacco riscaldato, mercato dove Pmi ha una posizione da leader incontrastato a livello mondiale. Secondo i conti fatti dal partito di Matteo Salvini lo stop all’aumento comporterebbe un minor gettito per le casse dello Stato di “appena” 55 milioni di euro l’anno (che è esattamente la cifra risparmiata con il taglio di circa 350 parlamentari, che fu presentata praticamente da tutti i partiti come un clamoroso risparmio per l’erario). Comunque non è così, i conti fatti dalla Lega non tornano. A volumi di vendita costanti il minor gettito sarebbe pari a 75 milioni di euro nel 2022 e 150 milioni di euro nel 2023. Ma si tratta di una stima davvero prudente. Il tasso di crescita del tabacco riscaldato è pari al 60% su base annua: con un tasso di crescita di almeno il 30% il minor gettito sarebbe pari a 95 milioni di euro nel 2022 e 270 milioni di euro nel 2023. In entrambi i casi numeri assai lontani da quelli proposti dalla Lega. Le stime del Mef, a quanto risulta al Riformista, sono assai più dure per le casse dello Stato.
Ma è al Mef e in casa Lega che si gioca tutta la partita: perché l’emendamento dovrà essere “giudicato” dal sottosegretario Federico Freni, legatissimo a Salvini, che ha preso il posto del dimissionario Durigon. Accreditato di una fama da negoziatore, Freni dovrà decidere se accontentare gli appetiti lobbistici del suo partito o schierarsi dalla parte del suo ministro, Daniele Franco che non ama i buchi di bilancio, per realizzare il secondo taglio fiscale in quattro anni ad un prodotto in grande ascesa. L’iniziativa leghista riporta le lancette dell’orologio della politica indietro di un anno quando Il Riformista rivelò la concretezza della liasons Philip Morris Casaleggio – concretezza da 50 mila euro al mese – e la storia del mega sconto fiscale alla multinazionale realizzato dal governo giallo-verde di Giuseppe Conte, poi confermato nella versione giallo-rossa. Il risultato di quella rivelazione fu l’approvazione in Parlamento di un piccolo ma significativo aumento per i prodotti con tabacco riscaldato, dopo un periodo in cui i governi a trazione cinque stelle avevano dimezzato le accise e resistito ad ogni richiesta di aumento. Una vicenda ancora non chiara in tutti i suoi aspetti, politici e giudiziari. Un’inchiesta aperta sul rapporto Pmi-Casaleggio Associati a Milano e un processo in corso a Roma a carico di alcuni ex-alti dirigenti di Philip Morris potrebbero rivelare alcuni dei fuori scena di un romanzo politico-finanziario in cui ballano centinaia di milioni di euro. Con un particolare agghiacciante: in piena pandemia, primavera 2020, il governo Conte negò ad un fronte trasversale in Parlamento l’avvio di un fondo sanitario finanziato dal taglio fiscale di cui stava godendo Philip Morris. Tra fumo e malati la scelta fu chiara. Fumo. E a proposito di salute, nelle stesse ore in cui veniva presentato l’emendamento leghista l’Università Alma Mater di Bologna, città dove la multinazionale ha installato il suo quartier generale, ha reso noto che nel tabacco riscaldato made in Philip Morris sono presenti composti cancerogeni. Da anni il ministero della Salute ne era a conoscenza ma il report dell’Istituto superiore di sanità venne messo da parte, non considerato dai ministri in carica che silenti approvavano il mega sconto fiscale per Big Tobacco. Ora è ufficiale: il fronte nella guerra tabacco è di nuovo aperto. Nicola Biondo
Il grande mercato legale di ecstasy e ketamina per curare i disturbi post traumatici. Jessica Masucci su L'Espresso il 13 dicembre 2021. Nuovi studi ne accreditano l’efficacia e negli Usa già c’è chi li propone come prodotto medico. Un giro di affari che nel 2027 potrebbero arrivare a 7 miliardi di dollari e su cui startup e big pharma puntano. Nel 2024 un medico italiano potrebbe prescrivere una terapia con Mdma, meglio nota come Ecstasy, a pazienti con disturbo post traumatico da stress.
I capitali occidentali nell’ultimo anno e mezzo hanno iniziato a correre sempre più velocemente incontro alle porte della percezione per finanziare il trattamento di problemi di salute mentale, come depressione e traumi, con l’uso di sostanze psichedeliche. Secondo i dati di una società di ricerche di mercato, la Data bridge market research, nei soli Stati Uniti il valore del settore triplicherà, passando dai 2 miliardi di dollari stimati nel 2019 a quasi 7 miliardi nel 2027.
La scena psichedelica di Wall Street, e non solo, è popolata soprattutto da start-up quotate in Borsa e da venture capitalist, alcuni noti, come Peter Thiel, il co-fondatore di Paypal, pronti a scommettere un gettone sul futuro di molecole rese illegali negli anni Settanta. Il sito americano di informazione Business insider ha calcolato che le 14 principali start-up del settore nel 2020 hanno raccolto complessivamente 222 milioni di dollari e che gli 11 venture capitalist più attivi hanno investito in tutto 139,8 milioni di dollari. La cultura popolare delle serie tv, come spesso succede, aveva già intercettato questa tendenza: durante un episodio della quinta stagione di Billions, il personaggio interpretato da Damian Lewis, un machiavellico manager di hedge fund, si interessa al business degli psichedelici.
Nella vita reale, l’attrazione del mondo della finanza verso la cura di problemi di salute mentale con Mdma, ketamina e altre sostanze è emersa da una somma di fattori. La società inizia a stigmatizzare di meno queste sostanze, su giornali e libri si parla di «rinascimento psichedelico», università blasonate del Regno Unito e degli Stati Uniti hanno aperto centri di ricerca, in California e altrove si parla di legalizzazione. Ma è l’avanzamento scientifico che fa ben sperare gli investitori.
L’attenzione è concentrata su alcune molecole: la psilocibina, che in natura si trova nei funghi allucinogeni, l’Mdma, l’Lsd, e altri composti dai nomi meno noti, come l’ibogaina. L’obiettivo di chi fa ricerca è raggiungere l’approvazione degli enti regolatori, in testa l’americana Fda (Food and drug administration) e l’Ema, l’Agenzia europea del farmaco.
Può forse sorprendere, la più vicina al traguardo è una società non profit, Maps (Multidisciplinary association for psychedelic studies), che opera negli Stati Uniti da 35 anni grazie a donazioni filantropiche. È suo lo studio arrivato fino alla fase tre: secondo i risultati pubblicati, dopo solo tre sedute di terapia a base di Mdma il 67 per cento del campione di pazienti non risulterebbe avere nemmeno più i requisiti per una diagnosi di disturbo post traumatico da stress. La Fda potrebbe approvare questo trattamento nel 2023 e un anno dopo potrebbe arrivare anche l’ok dell’Ema.
Sul fronte della psilocibina per il trattamento della depressione, l’approvazione dalla Fda potrebbe arrivare intorno al 2024 o 2025. Sono infatti arrivati a un punto avanzato (la fase 2b) gli studi sia di un’altra non profit, la Usona, sia di una società quotata sul listino Nasdaq, la Compass Pathways, con sede a Londra. Questa tempistica è stata confermata anche da Marco Mohwinckel, capo dell’Ufficio commerciale di Compass Pathways, il quale ha voluto rimarcare che la loro «è una azienda che si occupa di cura della salute mentale, non è un’azienda di psichedelici». Ma siccome anche a suo dire «gli psichedelici sono l’innovazione più promettente» in questo campo, hanno sviluppato una loro formulazione sintetica della psilocibina, battezzata Comp360 destinata alla cura di depressioni resistenti agli altri farmaci, e hanno raccolto finora circa 429 milioni di dollari.
Alle prime approvazioni potrebbero seguire quelle per nuovi utilizzi di queste stesse sostanze, per esempio la cura dell’alcolismo attraverso la psilocibina, secondo uno studio della New York University. E a cascata potrebbero poi essere autorizzate altre molecole.
Discorso a parte, invece quello che riguarda un altro allucinogeno, la ketamina. Ovunque ammessa come anestetico, si usa anche in modo alternativo, in gergo “off label”, come farmaco per la cura della depressione. A dimostrazione del fatto che questo settore sta attirando investimenti su tutta la filiera, dallo sviluppo di nuovi composti alla somministrazione, sono sorte in Nord America numerose cliniche per il trattamento con la ketamina off label.
L’immagine sul sito della Field trip health, nata nel 2019 e quotata in Borsa l’anno seguente, sembra appartenere a un boutique hotel o a una casa di lusso messa su Airbnb: cuscini sui tappeti, tende in velluto, colori pastosi e perfetti per Instagram. Qui le persone che non sono riuscite a migliorare la propria condizione con i tradizionali antidepressivi possono provare con una terapia che prevede una esplorazione con la ketamina, accompagnata prima durante e dopo dalla presenza di uno specialista. «È stato confermato dalle evidenze scientifiche che il luogo dove si vive una esperienza psichedelica ha un impatto effettivo sui risultati e sui benefici che ne puoi trarre. Se la fai in un ospedale con i muri bianchi, le luci fluorescenti e molte tensioni, probabilmente ne trarrai un’esperienza meno positiva rispetto a viverla in un ambiente più accogliente», racconta a L’Espresso Ronan Levy, cofondatore e presidente esecutivo di Field trip health. La prima seduta costa 750 dollari. Levy sembra molto fiducioso sul futuro del settore e della sua compagnia. Si aspettano di raddoppiare il numero di cliniche e stanno studiando un loro composto psichedelico l’Ft104. Il suo ottimismo si riverbera anche sul problema dell’accesso alle cure per le persone meno abbienti. «Prevediamo che ci sarà una copertura assicurativa, che si tratti di una assicurazione privata, come negli Stati Uniti, o di un costo coperto dal sistema sanitario nazionale, come nella maggior parte degli altri Paesi, ritengo che la questione dei costi sarà comunque risolta».
Però è proprio la ketamina che ci offre una chiave per capire se la corsa all’oro psichedelico porterà ineguaglianze nella cura della depressione, delle dipendenze, dei traumi e quale ruolo potrebbe giocare una squadra rimasta finora sullo sfondo: le aziende farmaceutiche della cosiddetta Big pharma. L’unico farmaco per la depressione a base di un allucinogeno finora approvato e commercializzato è lo spray Spravato, della Janssen, a base di esketamina. «La ketamina non si poteva proteggere tramite dei brevetti, per cui Janssen ha creato questa versione della ketamina che è quasi la stessa cosa ma non proprio, così che ha potuto avere un brevetto e poi chiaramente far pagare penso 600 volte di più quello che la dose di ketamina generalmente costa», spiega il direttore strategico di Maps, Federico Menapace, ricordando invece che le non profit portano avanti una strategia opposta, anti-brevetti, per far arrivare i benefici della ricerca a più persone possibile, anche in quei Paesi in via di sviluppo con problemi endemici di salute mentale. Menapace ha 38 anni, viene dal Trentino e dal 2011 vive nella zona di San Francisco. Dopo un master in business administration alla Stanford university e una carriera in un altro settore, ha iniziato a lavorare per Maps, motivato dal portare un miglioramento nella vita di quante più persone possibile che soffrono a causa di traumi e altri problemi mentali.
Se finora abbiamo parlato solo di non profit e di start-up, non è perché le aziende di Big pharma dormono al passare del treno. Forse si muovono in modo cauto per una questione di reputazione, risentendo ancora degli effetti dello scandalo degli oppioidi. Forse stanno aspettando che ci siano risultati più concreti per poi fare shopping di piccole aziende.
«Generalmente uno dei modi in cui portano i nuovi medicinali è anche quello di acquisire i diritti di ricerca delle startup», sottolinea Menapace, aggiungendo che è poi «possibile che Big pharma stia sviluppando le proprie ricerche interne, magari in silenzio».
Maps, intanto, con la terapia a base di Mdma in dirittura d’arrivo, è già al lavoro sui passi successivi. «Stiamo formando migliaia di terapeuti negli Stati Uniti e non vediamo l’ora di poter venire a farlo anche in Italia in futuro», afferma il direttore strategico. Che infine ammette:«Personalmente parlando, questo lavoro lo faccio anche perché voglio portarne i risultati nel nostro Paese».
Tagikistan, Iran e Italia: gli intrecci tra droga e politica. The Brown Heart of Asia, il docufilm di Cinzia Puggioni sulle rotte dell’eroina sbarca su Chili. Redazione su Il Riformista il 13 Dicembre 2021. Si chiama “The Brown Heart of Asia” (Il cuore marrone dell’Asia, ndr) ed è disponibile dal 10 dicembre in Italia e in Gran Bretagna sulla piattaforma streaming Chili. E’ un documentario sulle rotte dell’eroina realizzato dalla regista e autrice per diverse televisioni europee Cinzia Puggioni. Un trittico di tre storie umane provenienti da tre Paesi, tre religioni differenti e una droga comune: l’eroina appunto.
La prima parte è dedicata all’Asia Centrale: il Tagikistan. Si scopre la sua geografia, la sua storia sociale e la capillarità dell’eroina nel paese. A Bam, una cittadina al sud dell’Iran, si affronta il traffico internazionale di eroina e oppio proveniente dall’Afghanistan dopo il terribile terremoto che ha distrutto la regione. La terza parte è dedicata all’Italia e all’Operazione Blue Moon, in cui l’eroina è stata venduta a prezzi estremamente bassi al fine di neutralizzare le proteste giovanili legate alla crescente influenza del Comunismo degli anni ’70. La mission di “The Brown Heart of Asia” è quella di documentare il “traffico di eroina come strumento di controllo politico” chiarisce la regista Cinzia Puggioni, 33enne originaria di Olbia. In Italia il docufilm è stato girato nel boschetto della droga di Rogoredo a Milano. All’estero tra Tagikistan e Iran, “The Brown Heart of Asia” appare più attuale che mai, soprattutto dopo il boom di esportazioni di oppio ed eroina che hanno riguardato l’Afghanistan e il recente ritorno al potere dei talebani e il ritiro delle truppe statunitensi dopo venti anni.
Il documentario, della durata di 70 minuti, è prodotto da Cinzia Puggioni in associazione con 39Films, distribuito da 102 Distribution; fotografia di Claudio Cecconi e David Becheri; montaggio Andrea Cilento; musiche di Franco Cugusi, Mai Mai Mai, Hesameddin Seraj, Mohsen Chavoshi, Prem Joshua & Band Manish Vyas, performance artistica di Marco Barbieri.
Cannabis e mafie: un paradosso all’Italiana. Pierluigi Gagliardi su Il Riformista l'11 Novembre 2021. In Italia fumare cannabis non costituisce reato, coltivarla invece sì. Questo vale per tutti: per avvocati, architetti o studenti universitari, ma anche per i pazienti che fanno uso di cannabis terapeutica e, a volte, persino per le aziende di cannabis light, che da questa pianta ne hanno creato un’impresa legale e controllata. L’effetto – speriamo indesiderato – di questa legge è quello di favorire il mercato nero, costringendo milioni di cittadini a rivolgersi a chi, ad oggi, mantiene il monopolio del mercato, le mafie. Insomma, secondo lo Stato, si può pure fumare cannabis ma l’importante è che il prodotto venga comprato nelle piazze di spaccio. Un paradosso tutta all’italiana che mette in difficoltà chi utilizza cannabis per curarsi ma anche chi prova a farne un lavoro. Ad oggi, è possibile coltivare soltanto canapa industriale, ma non senza correre alcun rischio. Infatti, la legge del 2016 regola solamente la coltivazione di cannabis light con basso contenuto di THC, “entro il limite dello 0,6%”, ed esclude le infiorescenze della pianta dall’elenco dei possibili usi della canapa nonostante i fiori e i loro estratti siano il ricavo principale per gli imprenditori che possono essere commercializzati solamente “ad uso tecnico” o per “collezionismo”. Questo vuoto legislativo viene colmato dalla libera interpretazione delle procure locali che spesso, con i loro atti, minacciano l’esistenza di centinaia di realtà del settore che finora hanno dato lavoro a circa 12mila persone con un’età media di 32 anni. Purtroppo, molte sentenze hanno considerato perseguibile la cessione delle infiorescenze di canapa, seppure contenessero livelli di THC entro il limite stabilito dalla legge e quindi prive di qualsivoglia “effetto drogante”, creando però dei pericolosi precedenti giudiziari per un settore che prova a riportare legalità nel nostro Paese. L’impresa della cannabis light, infatti, contribuisce alla lotta al mercato criminale ed è diventato ancora più evidente con i ricavi ottenuti durante la pandemia. «Abbiamo avuto un grandissimo aumento nella fase di lockdown – racconta Matteo Moretti, CEO di JustMary, il primo delivery di cbd in Italia e main sponsor del Referendum Cannabis -, questo perché è venuta a mancare tutta quella parte illegale siccome le persone non potevano uscire di casa. Quindi il business è stato influenzato molto positivamente, ma il ritorno del mercato illegale ci ha portato via una grossa fetta di mercato». Delle leggi giuste – e magari non controverse – possono promuovere legalità per un intero settore e creare opportunità per un’intera economia. «L’unico vero ostacolo al business e al pagamento delle tasse e degli stipendi – continua Matteo Moretti – è il mercato illegale». Oltre alle aziende, le leggi restrittive sulla coltivazione finiscono, troppo spesso, per colpire chi ne ha più bisogno, come i pazienti che sono costretti a cercare nel mercato illegale delle cure che dovrebbero essere fornite gratuitamente dal Servizio Sanitario Nazionale. Infatti, l’insufficiente produzione di cannabis medica da parte dello Stato e l’ingombrante burocrazia delle leggi regionali non garantiscono un equo accesso alle cure, negando così uno dei diritti fondamentali della nostra Costituzione, il diritto alla salute. Chi invece si rifiuta di recarsi nelle piazze di spaccio, per motivi etici oppure perché fisicamente impossibilitato, opta per la coltivazione domestica. Una scelta che può comportare fino a sei anni di carcere, ma è un rischio che migliaia di pazienti sono pronti a correre pur di alleviare le proprie sofferenze. Dopo anni di attesa, un rimedio a questo problema è stato recentemente avanzato dal Sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, il quale, durante una trasmissione televisiva, ha annunciato la preparazione di nuovi bandi che concederanno la possibilità ad aziende pubbliche e private di coltivare cannabis ad uso medico. La proposta, in realtà, attuerebbe semplicemente una legge in vigore dal 2017 ma che non è mai stata applicata correttamente. Sulla base delle attuali disposizioni, l’approvvigionamento della cannabis terapeutica sarebbe assicurato attraverso tre principali modalità: la produzione nazionale affidata allo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze (SCFM); l’importazione del prodotto (principalmente dall’Olanda e dal Canada); attraverso bandi per la produzione affidata a soggetti autorizzati dal Ministero della Salute (una soluzione mai utilizzata finora). Per quanto riguarda lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, nonostante la produzione nazionale sia iniziata nel 2016, ad oggi lo SCFM non è mai stato in grado di garantire nemmeno le quantità concesse dal Ministero della Salute, pari a 500 chilogrammi di cannabis terapeutica annuali. Infatti, nel 2020 lo Stabilimento ha prodotto solamente 250 kg di cannabis medica a fronte di un fabbisogno nazionale pari a 1950 kg. A causa di questa carenza, ogni anno lo Stato adotta inevitabilmente anche la seconda opzione, ovvero l’importazione di cannabis da Paesi esteri, alternativa più dispendiosa. Ma, con un continuo aumento della domanda e per mancanza di serre e risorse produttive, l’apertura a nuovi bandi, come suggerito dal Sottosegretario della Salute, potrebbe rivelarsi l’opzione più convincente e sostenibile per le casse dello Stato. La proposta del governo, però, potrebbe essere impiegata solamente in questa fase emergenziale per poi essere sostituita con una struttura solida e duratura. «L’apertura di bandi è un vantaggio indubbio – conclude Matteo Moretti -, ma va superato l’ostacolo e arrivare al modello californiano. Così da generare posti di lavoro e tasse per lo Stato». Aprendo il mercato a soggetti pubblici e privati, infatti, il commercio di cannabis medica potrebbe generare immediatamente un nuovo business, come già avvenuto in molti Paesi, e garantire una parità di accesso a tutti i pazienti a prezzi più competitivi, soprattutto rispetto ai costi offerti dal mercato criminale. Lo Stato si dimostrerebbe competente nell’affrontare l’insufficienza strutturale di cannabis medica, regolando e controllando l’intero settore, senza leggi controverse e senza più paradossi all’italiana. Pierluigi Gagliardi
Ecco le bufale più diffuse. Referendum cannabis legale, le 10 fake news: dai buchi nel cervello alla possibilità di guidare ‘strafatti’. Redazione su Il Riformista l'11 Novembre 2021. Sarà possibile guidare ‘strafatti’, si diffonderanno i ‘buchi nel cervello’ e ci sarà il via libera alla ‘cultura dello sballo’. Queste sono solo alcune delle bufale e false credenze che circolano sulla cannabis e di conseguenza sul Referendum, per cui lo scorso 28 ottobre sono state depositate 630 mila firme in Cassazione. Il Comitato promotore- costituito da Associazione Luca Coscioni, Meglio Legale, +Europa, Fuoriluogo, Società della ragione, Radicali Italiani e diversi altri partiti e associazioni- ha così deciso di stilare un decalogo delle fake news più frequenti e la loro smentita tramite studi e numeri, per rispondere in modo deciso a chi vuole bloccare la consultazione.
1) “La legalizzazione non ridurrà il mercato delle mafie”
Falso. Nella Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia 2021 viene illustrato come il mercato delle sostanze stupefacenti, gestito dalla criminalità organizzata, riesca a muovere attività economiche del valore di 16,2 miliardi di euro, di cui 6,3 miliardi ottenuti solo dalla cannabis. Il narcotraffico è “il bancomat delle mafie”. Da qui, la dimostrazione della legalità come l’unica arma per combattere le mafie e perseguire i reati più gravi e le droghe più pericolose.
2) “Non esistono droghe leggere e droghe pesanti”
Falso. La letteratura scientifica internazionale- sottolinea il Comitato promotore del Referendum per la Cannabis legale- riconosce la minore pericolosità della cannabis rispetto non solo ad altre sostanze, ma anche all’alcol o alla nicotina. Non è un caso che a dicembre 2020 le Nazioni Unite abbiano approvato una raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità che ne riconosce l’uso terapeutico e scientifico.
3) “La cannabis è una droga di passaggio”
Falso. Fare uso di cannabis non significa necessariamente passare ad altre droghe. E non lo sostiene (solo) il Comitato, bensì vari studi scientifici che hanno dimostrato come in realtà l’utilizzo di cannabis sia inversamente correlato all’utilizzo di altre sostanze stupefacenti, ad esempio cocaina ed eroina. Anzi, può essere utile per uscirne. “Sono gli spacciatori l’unico legame che unisce i cittadini alle droghe pesanti per motivi chiaramente redditizi” si legge sul sito che promuove il Referendum. Con la legalizzazione questo legame non esisterebbe più.
4) “La legalizzazione aumenterà il consumo dei giovani”
Falso. Basta prendere l’esempio del Colorado, primo stato USA a legalizzare la cannabis nel 2012. Da allora si è verificata una costante diminuzione del consumo tra i giovani. Stesso scenario in Canada, dove la cannabis è stata legalizzata nel 2018, e in Portogallo, stato europeo con la percentuale più bassa di consumatori: il 14%. Qui l’uso di ogni sostanza è stato decriminalizzato nel 2001, seguendo una politica di intervento sociale, piuttosto che di repressione. La legalizzazione, ancora una volta, si è dimostrata efficace per allontanare i ragazzi dal consumo di sostanze.
5 ) “Ci saranno molti costi sanitari”
Falso. La cannabis delle mafie è di pessima qualità e contaminata da altre sostanze nocive per la salute: ad esempio lacca, lana di vetro e piombo. Piuttosto, sapere cosa si usa e cosa contiene permetterebbero un uso più consapevole. Parlando poi di costi, il Comitato pone l’attenzione su un dato: il 40% dei detenuti è tossicodipendente, in una struttura detentiva e non di riabilitazione, con costi per i cittadini.
6) “Il referendum promuove la cultura dello sballo”
Falso. Al contrario, un controllo del fenomeno consentirebbe di poter fornire informazioni e anche illustrare i danni collaterali, sottolineano dal Comitato. Perché il consumo di cannabis esiste e non si può far finta di niente, ma va affrontato con ‘pragmatismo e responsabilità’.
7) “Si potrà guidare strafatti”
Falso. Infatti, se dovesse vincere il ‘sì’, non sarà più prevista la sospensione della patente come sanzione amministrativa per chi detiene una piccola quantità di sostanza stupefacente a uso personale. La guida in stato di alterazione psico-fisica dovuta all’uso di cannabis continuerebbe comunque ad essere sanzionata penalmente secondo l’art. 187 del Codice della Strada.
8) “La cannabis crea buchi nel cervello”
Falso. La cannabis ha effetti psico-attivi, soprattutto dovuti alla presenza del THC, ma questi ‘buchi’ non sono mai stati dimostrati scientificamente.
9) “Si legalizzano anche le droghe pesanti”
Falso. Il referendum riguarda solo la cannabis, l’unica sostanza che non richiede ulteriori passaggi prima di essere consumata, al contrario di altre sostanze stupefacenti per cui restano le sanzioni.
10) “La cannabis di oggi è 10, 15, 20 volte più potente che negli anni Sessanta”
Falso. Oggi, grazie alla coltivazione indoor e la selezione genetica, la cannabis può avere una concentrazione più alta di THC, si legge sul sito, ma non riguarda tutta quella che circola e non è di decine di volte superiore rispetto al passato. Questa teoria, già diffusa negli anni Ottanta, secondo il Comitato si basa sul paragone fatto tra pochi campioni sequestrati dalla DEA negli anni Settanta e quelli raccolti dagli anni Ottanta, più numerosi e quindi affidabili.
Guerre contro e per la droga. Solo così potrai conoscere la vera storia dell’umanità. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2021. Nella foto che ho scelto vedete un soldato americano in Vietnam che fuma oppio. L’ho selezionata perché, se una storia della guerra è possibile, lo scrittore statunitense Peter Andreas ci mostra quanto inevitabilmente debba essere raccontata attraverso alcol, caffè, tabacco, oppio, amfetamine, cocaina: attraverso le droghe. Per comprendere come funzionano le droghe nel nostro mondo - e il contrasto alle droghe - per poterne parlare con cognizione di causa, per poter divulgare informazioni su droghe e società non puoi avere un solo punto di vista, una sola prospettiva, né un solo scopo: fermarne il traffico, arrestare, curare. Per poter restituire un quadro completo dovresti essere allo stesso tempo rappresentante delle forze dell’ordine, magistrato, medico, ricercatore, storico, studioso, antropologo, finanche esperto di evoluzionismo. Ora, dato che tutte queste competenze è impossibile trovarle condensate in una sola persona, se davvero vogliamo conoscere la storia delle droghe, gli effetti dei traffici sulle economie e sui rapporti tra stati, vale la pena leggere Killer High. Storia della guerra in sei droghe dell’accademico Usa Peter Andreas, libro in Italia pubblicato dalla coraggiosa casa editrice Meltemi.
PER PETER ANDREAS «LA GRAN BRETAGNA FU IL PRIMO NARCOSTATO DEL MONDO, ADDIRITTURA UN NARCOIMPERO»
Peter Andreas è un accademico nel metodo di ricerca e nell’approccio al tema, ma non lo è affatto nello stile che è diretto, inchioda alla pagina, rende la storia della guerra alle e per le droghe una storia affascinante perché sin da subito pone il lettore al cospetto di una verità che spesso preferisce ignorare: la storia della guerra contro la droga è anche e forse soprattutto la storia della guerra per la droga. E sia nel primo che nel secondo caso è la droga a vincere, non noi. Non chi contrasta e nemmeno, in fin dei conti, chi guadagna. Peter Andreas ha scavato per arrivare alle radici più profonde della relazione tra droghe e guerra. Canton, correva l’anno 1839... scrive: «Per decenni la Compagnia Britannica delle Indie Orientali, di gran lunga la più vasta organizzazione dedita al narcotraffico nella storia del mondo, aveva orchestrato il trasporto in Cina di quantità sempre crescenti di oppio indiano, in flagrante violazione dei divieti ufficiali. E quando finalmente le autorità cinesi cominciarono a fare sul serio affinché i divieti fossero applicati, la Gran Bretagna rispose inviando truppe e cannoni per tenere aperte le porte all’oppio». Conclude Andreas: «E si scopre così che la Gran Bretagna non fu solo il primo vero “narcostato” del mondo, ma addirittura un “narcoimpero”». Che incipit potente!
Per le droghe sono state combattute guerre. E le guerre sono state gestite, pagate, controllate con le droghe. Nella foto che ho scelto vedete un soldato americano in Vietnam che fuma oppio. L’ho selezionata perché, se una storia della guerra è possibile, Peter Andreas ci mostra quanto inevitabilmente debba essere raccontata attraverso alcol, caffè, tabacco, oppio, amfetamine, cocaina: attraverso le droghe. In quella situazione il corpo ha bisogno di aiuto per reggere il dolore lacerante e l’animo, che anela a una serenità impossibile sotto una pioggia di proiettili e bombe, ha bisogno di essere annebbiato. Le altalene tra permissivismo (non legalizzazione, voglio che passi proprio il concetto di «concessione» e non di «possibilità di scegliere liberamente») e proibizionismo raccontano di una sovrastruttura politica ed economica che allunga le mani dove può, sacrificando qualsiasi possibilità di usi salutari e controllati di certe sostanze in nome di altri princìpi, gli stessi che hanno ispirato nel corso del 900 la creazione di droghe completamente sintetizzate in laboratorio per consumare i corpi in nome dell’efficienza oltre ogni limite.
UN’ANALISI FATTA CON LA LENTE DEI CONFLITTI DIMOSTRA CHE LA DISTINZIONE TRA SOSTANZE LEGALI E ILLEGALI NON ESISTE
Quella dell’autore è una vera storia dell’umanità nel fragile equilibrio che si gioca tra le guerre mosse per salvaguardare i mercati della droga e quelle per distruggerli almeno in apparenza. Mentre eserciti e popolazioni coinvolte se ne riforniscono con la stessa urgenza con cui fanno appello a scorte di viveri e munizioni. E chi più urla alla tossicodipendenza finisce per usare sottotraccia i proventi del narcotraffico per finanziare operazioni belliche o indebolire i rivali. E la sempiterna distinzione tra droghe legali e illegali? Se si analizza la storia dell’umanità con la lente delle guerre va ammesso che non esiste affatto. Perché, avverte l’autore, «droghe del tutto legali hanno avuto un ruolo persino più letale di quelle illegali», senza contare che la differenza tra legittimità e illegalità è stata costruita nel tempo, in modo arbitrario, dai giochi di potere. Con un occhio più agli interessi commerciali e politici che alla salute delle persone. Così, come spesso accade, si criminalizza e punisce solo chi può essere criminalizzato e punito, lasciando immuni, del tutto immacolati i veri mercanti di morte.
Respinto l’emendamento del Carroccio e di Fdi. Referendum cannabis va avanti, sventata “la porcata” di Lega e Fratelli d’Italia. Angela Stella su Il Riformista il 4 Novembre 2021. Fallito ieri in Commissione Affari Costituzionali della Camera il blitz della Lega per sabotare il referendum sulla cannabis. Dopo una lunga giornata di rinvii, infatti in tarda serata non è stato approvato l’emendamento soppressivo al dl proroghe presentato dal Carroccio, così come quello analogo di Fratelli d’Italia, con cui si voleva cancellare la proroga del termine per la presentazione delle firme per il referendum al 31 ottobre scorso, proroga contenuta in un decreto voluto dal Governo e sul quale i ministri della Lega non parteciparono al voto in Cdm a fine settembre. Hanno votato contro l’emendamento Pd, M5s, Leu, Iv e Azione-Più Europa, invece a favore FdI e Lega. Forza Italia si è astenuta, a dimostrazione della frattura interna tra quelli che ammiccano alla Lega e quelli leali a Draghi. Voce dissonante tra i forzisti quella dell’onorevole Elio Vito che della Lega ha detto: «Ladri di democrazia. Vergogna». Igor Iezzi aveva preannunciato invece il suo emendamento così: « Il Governo ha sbagliato a dare il via libera al referendum sulle droghe attraverso la proroga di un mese del tempo necessario per raccogliere le firme. L’esecutivo si è così schierato al fianco di un referendum truffa, che meschinamente parla di cannabis quando in realtà si occupa per la maggior parte di droghe pesanti. Se alcuni partiti della maggioranza vogliono legalizzare la cocaina lo dicano chiaramente. Noi siamo e saremo sempre contrari» e aveva concluso annunciando di ripresentare l’emendamento anche in Aula. L’iniziativa del partito di Matteo Salvini rappresenta sicuramente un ulteriore strappo con il Governo ma anche un atteggiamento incoerente in tema di democrazia diretta, come ha evidenziato prima del voto l’onorevole e Presidente di +Europa Riccardo Magi, co-promotore del referendum cannabis: «La Lega prima ha richiesto la proroga per il Referendum sulla Giustizia e poi si è opposta al fatto che ne beneficiassero anche altri. Ora, dopo avere platealmente evitato di depositare le firme sul Referendum che ha promosso, ha tentato di impedire la conversione in legge del decreto». Era stato infatti lo stesso Roberto Calderoli a presentare un ordine del giorno al dl ‘ripresa attività economiche’ in cui chiedeva al Governo di valutare la proroga per i referendum. All’esito del voto Magi aggiunge: «È stata sventata una vera porcata. Le Lega ha tentato di modificare a posteriori le regole, annullando la volontà popolare di 630 mila cittadini che hanno fatto una richiesta di referendum. In gioco c’era anche la stabilità del diritto e la credibilità del Governo che aveva emanato un decreto per evitare una discriminazione tra diverse proposte referendarie». Soddisfatto della bocciatura dell’emendamento il dem Stefano Ceccanti: «i referendum sono salvi». A nulla era valso ieri l’appello del Partito Radicale, che da giorni sta difendendo la Lega nella scelta unilaterale di non depositare le firme in Cassazione: «Riteniamo profondamente sbagliato che il Parlamento annulli la decisione che ha prorogato di un mese il deposito delle firme. Si lasci alla Cassazione e alla Corte Costituzionale di esprimersi e poi si apra il dibattito: siano i cittadini a decidere. Invitiamo Matteo Salvini a sostenere la decisione del Governo». Se l’emendamento della Lega fosse passato, hanno spiegato Marco Perduca e Antonella Soldo, rispettivamente presidente e componente del Comitato promotore del referendum cannabis legale, si sarebbe trattato «di una decisione, condotta da chi ha presentato sei quesiti sulla ‘giustizia giusta’, contro il principio di non discriminazione e contro quanto denunciato dalle Nazioni unite relativamente agli ostacoli esistenti in Italia riguardo alla partecipazione democratica popolare». Angela Stella
La legalizzazione delle droghe leggere favorisce la criminalità organizzata. Gianluigi Nuzzi il 02/10/2021 su Notizie.it. La criminalità organizzata non aspetta altro per poter mettere in commercio illegalmente droghe con principi attivi più forti. Io voterei no. Sono profondamente contrario alla legalizzazione delle droghe leggere perché penso che questo aiuterebbe la criminalità organizzata. Al contrario di quanti sostengono che con la legalizzazione entrerebbero tra i cinque e i sette miliardi di tasse nelle casse dello Stato, ci sarebbero trentacinquemila nuovi, posti di lavoro e soprattutto che la criminalità perderebbe il cinque per cento dei guadagni che attualmente arrivano proprio dalla vendita illegale delle droghe leggere. Se lo Stato dovesse legalizzare la cannabis, metterebbe in commercio una droga leggera con un principio attivo, quindi una potenza di sballo – chiamiamola così – abbastanza ridotta. La criminalità organizzata non aspetta altro che la legalizzazione di droghe leggere con principi attivi ridotti per poi vendere illegalmente droghe leggere con principi attivi più forti. E quindi tra i ragazzi cosa succederà? Andranno al tabaccaio, andranno in farmacia, proveranno la droga legale, si sballeranno un pochino, poi ci sarà quello che dirà agli altri: “Ma sei uno sfigato che prendi quella? Vieni, conosco un tizio che ha la droga più potente”. Si innesca così un principio perverso dove la legalizzazione favorisce poi il passaggio all’utilizzo della droga un po’ più pesante, un po’ più forte, con dei principi attivi che lo Stato non potrebbe permettersi. C’è tanta ipocrisia, anche perché oggi la discussione si divide soltanto tra chi teme la diffusione di questa droga – che mi sembra un po’ ridondante – e chi invece sottovaluta gli effetti che potrebbe questa provocare proprio grazie alla mano che si darebbe alla criminalità organizzata.
Marco Pivato per “Specchio-La Stampa” il 28 settembre 2021. Il danno da esposizione a Thc dipende dalla dose, dal tipo di consumatore e dalla sua età: «La cannabis è più pericolosa su un cervello in formazione, quale quello degli adolescenti, ed esiste una correlazione tra il consumo e lo sfociare di psicosi in persone vulnerabili, quindi geneticamente predisposte», precisa il consigliere della Società Italiana di Tossicologia (Sitox) Sarah Vecchio, medico, già in forze al Centro anti-veleni di Pavia e adesso al Ser.D di Biella, che aggiunge: «Altri danni sono naturalmente quelli connessi alla combustione dello spinello contenente tabacco e cannabis», che libera decine di sostanze potenzialmente cancerogene. I prodotti da spaccio, da circa una decina di anni, sono più potenti, con quantità di Thc fino al 40%, contro il 12-15% delle «canne» che circolavano fino agli anni Novanta e primi Duemila: i giovani sono avvisati, rischiate danni permanenti a queste dosi. È lecito però chiedersi se la «liberalizzazione» possa scongiurare il ricorso a questi potentissimi prodotti. Proprio come quando ci chiediamo se sigarette elettroniche e «Iqos» possano ridurre il danno, dal momento che in questi dispositivi non c'è combustione. Non ci sono ancora sufficienti dati per rispondere con puntualità, ma «in alcuni stati che hanno preso questa decisione i tassi di utilizzo sono più alti rispetto agli stati dove la marijuana è illegale», avvertono gli esperti Sitox. Cannabis, ma quale varietà? Le opzioni adesso sono più numerose, spiega la dottoressa Vecchio che riepiloga il «menu»: cannabis «light», già legale e con un contenuto di principio attivo inferiore allo 0.2-0.6%; oppure «strong», illegale e come se ne trova solo da alcuni anni, frutto di ibridazione tra specie diverse oppure addizionata di cannabinoidi sintetici, con concentrazioni di Thc tra il 30 e il 40%. Il mercato è stato in grado di innovarsi, se pensiamo che sino alla metà degli anni Duemila il contenuto di principio attivo nei prodotti da spaccio non andava oltre il 12-15%. Infine, esiste la formulazione a uso medico, al 13-20% di Thc e al 1% di Cannabidiolo (Cbd), non stupefacente. Tenere a mente questa lista è prezioso per prevenire il potenziale danno derivante dal consumo delle molte varietà del prodotto «da strada». Danno che dipende sempre dalla dose. È la dose a fare il veleno «È facile concentrarsi esclusivamente sulle caratteristiche intrinseche delle sostanze pericolose per l'uomo - spiega il presidente Sitox Corrado Galli - e dimenticarsi del concetto di "dose", già enunciato, cinque secoli fa, dal padre della tossicologia moderna Paracelso, incontrovertibile assioma che recita: «Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venum non fit» («Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto»). Per ogni sostanza è infatti possibile calcolare una «Dose giornaliera accettabile (Dga), un valore che rappresenta la quantità di una sostanza che un uomo, in base al suo peso, può assumere senza rischio, giornalmente e per tutta la vita senza effetti avversi. «Anche l'acqua - spiega Galli - l'elemento più "naturale" a cui potremmo pensare, è dannosa, se assunta in dosi massicce: non a caso può essere utilizzata come tortura, se somministrata forzatamente in "dosi" letali». Dunque, per farsi una idea dell'impatto che avrebbe la cannabis legale, bisogna riferirsi in primis alla dose alla quale si è esposti. «La cannabis con un contenuto di Thc dal 30 al 40% - specifica Vecchio - è capace di causare danni permanenti dal punto di vista neurologico e cardiologico». Mentre gli adolescenti sono soggetti a rischio per i motivi di cui sopra, potrebbero beneficiare della cannabis gli anziani, con un cervello decisamente molto meno plastico? «Nell'anziano la cannabis a uso medico - continua Vecchio - è utile per alleviare dolore e disturbi cronici associati a sclerosi multipla o a lesioni del midollo spinale. Inoltre, può essere indicata per far fronte ad alcuni effetti avversi della chemioterapia, della radioterapia e per malattie reumatiche come artriti, osteoartrosi, fibromialgia o neuropatie. Ancora, la cannabis a uso medico può essere impiegata anche per abbassare la pressione endoculare in caso di glaucoma che resiste alle terapie convenzionali». Rocco Mediati, direttore del Dipartimento di Cure palliative e terapia del dolore dell'azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze conclude l'elenco delle applicazioni della cannabis strettamente a uso terapeutico, valide per tutte le età: «Non dimentichiamo - spiega l'esperto - l'effetto stimolante dell'appetito nella cachessia, anoressia e perdita dell'appetito in pazienti malati di tumori (prevalenti in età avanzata) o affetti da Aids e nell'anoressia nervosa». «È vero che il proibizionismo ha scarso successo - sostiene Guido Mannaioni, docente all'Università di Firenze, consigliere Sitox e componente della Società Italiana di Farmacologia - ma è vero anche che esisterà, con tutta probabilità, una popolazione che cercherà ancora lo sballo del prodotto concentrato e capace di danni irreversibili». E fa un esempio: «È intuitivo che la birra analcolica o la birra light sia meno dannosa del whiskey, ma tutto dipende dalla quantità bevuta. Stessa cosa con la eventuale cannabis legale».
L’appello delle associazioni per migliorare la norma e avere certezza delle cure. Cannabis terapeutica, la legge c’è ma non funziona: “Troppa burocrazia e mancano le scorte”. Rossella Grasso su Il Riformista il 29 Settembre 2021. Sulla questione della cannabis legale il dibattito in Italia è acceso come non mai. Il tema interessa molti e non solo nelle stanze di palazzo ma anche i cittadini comuni. Lo dimostrano le 500mila firme raccolte per andare al voto con un Referendum. E interessa ancor più una porzione di cittadini per cui la cannabis è fondamentale per la salute. I consumatori di cannabis a scopo terapeutico in Italia non sono pochi, ma, sebbene si tratti di un diritto, l’approvvigionamento della materia prima è sempre un calvario. A raccontarlo in una lettera al sottosegretario alla Salute Andrea Costa sono le associazioni di settore che chiedono che il diritto al consumo di cannabis a scopo terapeutico sia davvero garantito a tutti e che si faccia qualcosa per ovviare alle infinite difficoltà che tali pazienti sono invece costretti ad affrontare. “Il Ministero della Salute, dopo gli infruttuosi incontri concessi ai Pazienti in giugno e luglio, continua a non dare risposte chiare, i Pazienti restano ancora abbandonati alle beghe dell’Ufficio Centrale Stupefacenti e continuano a chiedersi che intenzioni abbiano i vertici dello stesso”, scrivono le associazioni nella lettera. “Le forniture di cannabis medica (come di consueto), durante il periodo estivo non hanno coperto il fabbisogno dei Pazienti e, quelle a disposizione delle farmacie italiane, sono minime e non prodotte in Italia, ma acquistate a caro prezzo dall’estero in considerazione della cronica carenza quantitativa e qualitativa di quelle italiane”. A questo si aggiunge un altro problema: la burocrazia. Secondo quanto raccontano le associazioni, una nuova circolare di settembre, aggiunge nuovi problemi: il ministero “mette ancora una volta i puntini sulle i ai malati” rendendo ancora più incerta la continuità terapeutica impedendo di fatto le semplificazioni dell’utilizzo della Pec e di un sistema digitalizzato. Invio di corrieri e carte dunque rende tutto più difficile anche quando le nuove tecnologie hanno proposto e attivato facili soluzioni.
La lettera delle associazioni al sottosegretario Costa
La recente motivazione di assoluzione di Walter De Benedetto, spiega chiaramente come la giustizia deve tutelare i malati, di fronte all’assenza di un farmaco salva vita, dando una interpretazione della legge 309/90 subordinata ai diritti costituzionali di garanzia della salute. “Il ministero della salute, che dovrebbe tutelare i malati e farsi carico dei diritti fondamentali di tutela della sanità dell’individuo, nella sua sfera fisica e psichica (come per altro scritto all’ingresso del ministero), invece, li discrimina e non si sforza di comprendere quello che ora, anche la magistratura ha palesato – scrivono le associazioni nella lettera al sottosegretario – Prima viene la dignità della vita umana e l’empatia che avvicina gli uomini; la sofferenza è un limite che può essere superato dalla vicinanza umana, non dalla fredda burocrazia, congelata in un pregiudizio intriso di ignoranza, fuori dal tempo, che condiziona, da oltre dieci anni il rapporto con i malati nel campo della cannabis terapeutica”. Le associazioni spiegano che anche la politica si sta esprimendo. La liceità della coltivazione domestica, di 4 piante di cannabis, risolverebbe il problema del 2 – 3% dei Pazienti (quelli affetti da ansia, insonnia, depressione, e alcuni giovani adulti con patologie neurodegenerative), per i quali il consumo di cannabis, in forma di infiorescenze, può rappresentare un buon ausilio per alleviare le proprie difficoltà quotidiane; in questi casi è il paziente stesso che riesce a gestire i sintomi, con una terapia basata sui sintomi avvertiti, sempre seguito da un medico competente e formato per il monitoraggio della terapia.
Le difficoltà per i pazienti a cui è prescritta la cannabis terapeutica
Ben diverso è però il problema di centinaia di migliaia di Pazienti che non hanno comunque modo o competenze, per poter coltivare presso il proprio domicilio e che necessitano di terapie composte da più tipi di cannabis, in varie formule galeniche, per esempio in forma di estratti (si pensi ai bambini epilettici o agli anziani con patologie neurodegenerative) e per cui la cannabis dovrebbe essere già erogata gratuitamente secondo varie leggi regionali. Se il 2020 ha, giustamente, visto un accantonamento della produzione di cannabis dello stabilimento di Firenze, causa pandemia, per fornire supporto ad una crisi sanitaria, ha di fatto sancito la marginalità dei malati in cura con cannabis medica, la morte di un mercato in crescita esponenziale a livello internazionale e l’inadeguatezza dell’approccio tecnico del ministero, sulle politiche riguardanti la cannabis medica. Un mercato che il ministero stima in 2 tonnellate l’anno, mentre, una stima del valore del mercato della cannabis, basato sugli impieghi potenziali, si aggira attorno alle 700 tonnellate al mese per 23 milioni di potenziali fruitori ed un mercato che, da solo, vale più della spesa italiana in farmaci.
L’appello della associazioni: “La legge va migliorata”
Le associazioni incontrate dal ministero chiedono che siano formalmente riconosciute tramite decreto le associazioni dei malati come enti autorizzati alla coltivazione collettiva; siano formalmente riconosciute tramite decreto le figure dei care givers per la cannabis; siano riconosciuti formalmente tramite decreto i centri di medicina specializzati alla gestione integrata del paziente, soprattutto attraverso l’uso degli strumenti digitali e la dematerializzazione delle ricette, anche tramite PEC; Siano avviati percorsi formativi inserendo la cannabis medica già nei piani di studi universitari; Siano avviati e finanziati progetti di Ricerca clinica e preclinica in ambito di terapie con fitocannabinoidi. Questi temi devono essere inserite, anche nella nuova legge in discussione, ora, e il ministero della salute deve farsi portavoce di queste istanze o i malati torneranno a chiedere un decreto per ogni associazione di malati. Alla politica, i malati, lanciano un appello; la norma che sarà presentata alle camere, sarà una misura “moderata” e di semplice buon senso, ancorché insufficiente e che necessita di miglioramenti; apportiamo piccole ma significative modifiche. “Il ministero della salute ha una grande opportunità, oggi: prendersi cura dei propri cittadini, può diventare spunto economico per nuove attività nel terzo settore e nel sociale, oltre che nel settore medico e di ricerca scientifica”, scrivono le associazioni nella nota. Chiedendo un maggiore coinvolgimento nelle decisioni in merito. Di fatto chi più di loro può conoscere e rappresentare un problema vissuto da chi dalla cannabis trova giovamento terapeutico? Tra le associazioni che hanno sottoscritto l’appello ci sono Comitato Pazienti Cannabis Medica, Canapa Caffè, Deep Green, La piantiamo Associazione Cannabis Sociale Libera Trento, Cannabis social club bolzano, Associazione Luca Coscioni, Meglio legale, Associazione The Hemp Club Milano, Aisf, Cfu, Mi. Ma. Re e Alma star.
Ornella Muti in campo per la legalizzazione della cannabis
Tra le firme c’è anche l’Associazione Ornella Muti hemp Club, l’assocaizione fondata dalla nota attrice che insieme alla figlia Naike ha sempre dichiarato di fare uno di cannabis a scopo terapeutico (la usa contro la pressione bassa e l’insonnia). E della legalizzazione ha fatto una battaglia personale dopo aver visto le sofferenze di sua madre, malata oncologica con prescrizione per la cannabis terapeutica. Con la sua associazione cerca di aiutare chi ha difficoltà di accesso offrendo informazioni sull’uso e l’accesso alla cannabis e i suoi molteplici prodotti.
Come raccontato a vanity Fair in un’intervista per Ornella Muti quel periodo fu un calvario a causa della mancanza di accesso e dei tabù che ancora sussistono in Italia sul tema. “Non avevamo informazioni – ha raccontato – se fosse andata diversamente mia mamma avrebbe potuto avere avuto una vecchia più serena. Ma come lei sono tante le persone malate di cancro che si trovano in questa situazione”.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
Estratto dell'articolo di Elisa Berlin per thevision.com il 23 settembre 2021. Delaney è una studentessa del college convinta che essere un’universitaria modello, con voti eccellenti e un profilo Instagram impeccabile sia l’unico modo per garantirsi un futuro. Per mantenere la sua media scolastica all’altezza di quella dei compagni, ogni mattina assume l’Adderall. C’è anche Peter, un analista finanziario. La settimana lavorativa di Peter si articola in sette turni da sedici ore durante i quali, nemmeno per un momento, avrà la possibilità di sottrarsi dal confronto con i colleghi. Per non rischiare di apparire meno efficiente di loro – condizione che lo collocherebbe automaticamente fra i “perdenti” del suo settore, oltre a sgretolare la sua autostima – assume l’Adderall. Infine c’è Eben, ex giocatore professionista di football. Per anni ha conosciuto un unico obiettivo: vincere sempre. Nessun infortunio fisico, crollo nervoso o impegno familiare avrebbe rappresentato un valido motivo per saltare un allenamento o perdere una partita. La sua carriera non sarebbe potuta durare così a lungo, senza l’aiuto dell’Adderall. Delaney, Peter e Eben sono solo alcuni dei protagonisti di Take Your Pills, documentario diretto da Alison Klayman, disponibile su Netflix. I tre condividono la dipendenza da Adderall, la versione farmaceutica della metanfetamina: commercializzato a partire dagli anni Novanta dalla Ciba Pharmaceutical Company (ora Novartis) e appartenente alla classe degli psicostimolanti, oggi l’Adderall è il farmaco più diffuso negli Stati Uniti per il trattamento dell’ADHD (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder). Agisce a livello del sistema nervoso centrale, dove facilita il rilascio di serotonina e dopamina, neurotrasmettitori con un ruolo importante in funzioni quali reattività, attenzione e concentrazione. Il numero di statunitensi con una scorta di Adderall nel cassetto, però, è ben superiore a quanti ne avrebbero effettivamente bisogno e la questione non riguarda solo gli stimolanti: l’abuso di psicofarmaci rappresenta, oggi, un’emergenza che la società occidentale non può più fingere di non vedere. Fra il 1990 e il 2011, il numero di statunitensi in età scolare con una diagnosi di ADHD passò da 600mila a 3 milioni e mezzo – un aumento vertiginoso in cui il fattore economico giocò un ruolo fondamentale. Gli USA infatti rappresentano, insieme alla Nuova Zelanda, l’unico Paese in cui le case farmaceutiche sono autorizzate a proporre ai consumatori pubblicità diretta di sostanze psicotrope. […] […] Molti medici, dal canto loro, non si tirarono certo indietro quando i loro ambulatori cominciarono a riempirsi di madri alla disperata ricerca di un farmaco che consentisse ai loro figli di eccellere in ogni attività che praticavano. Così, nel 2019, circa il 9% dei minorenni statunitensi possedeva una diagnosi di ADHD e il mercato degli psicostimolanti si aggirava intorno ai tredici miliardi di dollari. […]è interessante notare la facilità con cui milioni di famiglie scelsero di sottoporre i propri figli ad un trattamento farmacologico, pur di non dover sopportare i loro eventuali insuccessi scolastici, sportivi o relazionali. Si trattò di una vera e propria medicalizzazione della vita quotidiana, in linea con una cultura che, accecata dall’individualismo e dal desiderio di prevaricare sugli altri, vede nel fallimento il peggiore dei destini possibili. Secondo la dottoressa Wendy Brown, filosofa e teorica politica presso la UC Berkeley, il fenomeno è interpretabile alla luce di un indottrinamento sociale che ha portato gli individui a concepire l’umanità come il riflesso del modello economico dominante. “Le persone pensano a sé stesse come una piccola parte di capitale umano”, afferma Brown nel documentario di Klayman. “I genitori sono preoccupati, fin da prima che i bambini nascano, da quale sarà il valore del capitale umano dei figli e cercano di aumentarlo in ogni modo. Dall’ascolto di Mozart nel grembo all’accesso a determinate pratiche sportive o programmi scolastici, quest’ansia porta quasi inesorabilmente verso l’Adderall, proposto dai genitori stessi oppure offerto dai compagni del liceo o del college”. Se il valore dell’essere umano dipende esclusivamente dalla qualità delle sue prestazioni, assumere stimolanti è quindi funzionale a garantirsi la vittoria – sia essa una medaglia sportiva o una promozione con il massimo dei voti – e preservare così la propria autostima. L’insuccesso, al contrario, è un’eventualità che nell’universo capitalista trova spazio solo nella vita dei perdenti – e nessuna madre vorrebbe che il proprio figlio appartenesse a questa categoria. […] L’idea che il successo dipenda esclusivamente dalle proprie capacità ha favorito la colpevolizzazione delle persone che, a causa di fattori contestuali indipendenti – il background economico, il luogo di nascita, la sorte – faticano a raggiungere i risultati che i loro compagni, colleghi o familiari sembrano ottenere con facilità. L’ansia da prestazione si è cronicizzata nella nostra quotidianità, alimentando un malessere che negli ultimi anni è diventato sempre più profondo e pervasivo. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, un europeo su quattro soffre di ansia o depressione […] Stando ai dati raccolti dalla London School of Economics and Political Science, fra il 1980 e il 2009 il numero di consumatori di antidepressivi è aumentato, in media, del 20% annuo. In Italia, dove a soffrire di depressione sono circa 3 milioni di persone, fra il 1995 e il 2009 le vendite di antidepressivi sono più che triplicate. […] Nel tentativo di attenuare questo disagio, sempre più persone assumono psicofarmaci anche in assenza di una diagnosi medica. […] Il ricorso alle benzodiazepine sembra rappresentare per migliaia di adolescenti l’unico modo per contrastare il proprio senso di impotenza, come se l’incapacità di corrispondere ai modelli proposti dalla società – dalle lauree in tempo record, all’estetica ritoccata delle star di Instagram – fosse sufficiente ad annientare il loro valore di esseri umani. […]
Luigi Sabino per ilmattino.it il 7 aprile 2021. Si chiama «Chapo» la nuova droga che sta spopolando tra i giovanissimi della Napoli bene. È un nuovo tipo di hashish dagli altissimi principi attivi e, per questo, particolarmente richiesto. Un aumento vertiginoso della domanda al punto che, secondo quanto riferito dalle forze dell’ordine che hanno operato i primi sequestri, lo avrebbe reso, in poco tempo, più ricercato della stessa cocaina…
Da napoli.occhionotizie.it il 7 aprile 2021. Napoli, sta spopolando tra i giovanissimi una nuova droga: si chiama “Chapo” e si tratta di un nuovo tipo di hashish dagli altissimi principi attivi. Secondo quanto riferito dalle forze dell’ordine, sarebbe più ricercato della cocaina. Come riporta Il Mattino, la nuova droga ricercatissima tra i giovani è frutto di un’attenta campagna marketing, già a partire dalla scelta del nome “Chapo”, che è il soprannome con cui è conosciuto Joaquin Guzman Loera, membro di basso livello del cartello di Guadalajara.
Il referendum sulla cannabis fa male ai clan e salva i giovani. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 17 settembre 2021. Il proibizionismo non ha funzionato: la droga leggera circola e fa ricche le mafie. I risultati ottenuti da chi ha legalizzato. È importante che l’Italia diventi capofila di un percorso di legalizzazione antimafia. Legalizzare per contrastare le mafie è la principale forma di aggressione al patrimonio mafioso e che questo avvenga nel paese con le organizzazioni criminali più antiche del pianeta fa la differenza. Sarebbe la svolta, la grande svolta. Sabato 11 settembre è partito il Referendum Cannabis, dopo che è stato depositato presso la Cassazione un quesito referendario che propone di cancellare tutte le pene detentive per le condotte legate alla cannabis e rimuovere il ritiro della patente oggi previsto per chi viene trovato in possesso di cannabis indipendentemente dal fatto che questo si trovi alla guida al momento del fermo. La raccolta, che ha raggiunto 400 mila firme in meno di quattro giorni dal lancio del Referendum, è stata proposta da un gruppo di esperti, giuristi e militanti, da sempre impegnati contro il proibizionismo, coordinati dalle associazioni Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione. Alla proposta hanno aderito anche rappresentanti dei partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani.
I danni. Chi vi scrive non ha nessun culto dell’erba, sono cresciuto circondato da persone che hanno sempre fumato marjuana e hascisc, e nella parte maggiore dei casi se la procuravano dai pusher, in casi più rari riuscivano a coltivare l’erba per uso personale da soli. Non mi piace fumare erba, così come non mi piace bere superalcolici, eppure sono un sostenitore della legalizzazione. Proprio perché non mi piace fumare le canne voglio che le canne siano legali, in questo modo tolgo soldi alle organizzazioni criminali e posso iniziare un ragionamento sui danni (come si è fatto sulle sigarette). Come rendere gli alcolici illegali ha generato immensi profitti alle mafie, allo stesso modo, rendere illegali le droghe leggere ha generato la fortuna delle organizzazioni criminali di tutto il pianeta. Un’immensa letteratura scientifica dimostra che queste sostanze non hanno effetti più devastanti dell’alcol e del tabacco. La ricerca più recente è quella del team di David Nutt (pubblicata su The Lancet) che classifica la pericolosità delle sostanze in base ai fattori del danno fisico e sociale: l’alcol è al 5° posto, il tabacco al 9°, la cannabis all’11°. In Italia, l’Istituto superiore di sanità stima che ogni anno muoiano oltre 17 mila persone a causa dell’alcol e circa 93 mila per il tabacco. E ancora, nel dicembre 2020, l’Onu ha rimosso la cannabis dalla tabella delle sostanze più pericolose, riconoscendone e favorendone l’uso medico.
Il controllo dello Stato. A chi vi racconta la stupidaggine «non voglio vivere in uno Stato in cui la droga sia libera» dovete ricordare che la droga è già libera, venduta da migliaia di pusher e controllata da camorra, ’ndrangheta e cosa nostra; con la legalizzazione la sottrai al loro controllo e la poni sotto il controllo dello Stato. E a chi dice «non mi fido dello Stato» domando: ti fidi dei criminali? Due Procuratori nazionali antimafia si sono dichiarati a favore della legalizzazione. Federico Cafiero de Raho ha dichiarato: «Legalizzare le droghe leggere toglierebbe spazio alle mafie. Le norme sono vetuste». Anche il predecessore Franco Roberti chiese al Parlamento di valutare provvedimenti di decriminalizzazione della cannabis per liberare risorse da destinare a un più efficace contrasto alla criminalità; ora tocca alla politica rispondere con l’atto più antimafia che possa fare: legalizzare.
Il quesito. Ma cosa chiede il quesito referendario? «Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, avente ad oggetto “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”, limitatamente alle seguenti parti: Articolo 73, comma 1, limitatamente all’inciso “coltiva”; Articolo 73, comma 4, limitatamente alle parole “la reclusione da due a 6 anni e”; Articolo 75, limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni»?
Gli effetti. Ecco a questi quesiti rispondo fortemente SÌ. Ma cosa comporterebbe la legalizzazione? I consumatori di cannabis sono oltre 6 milioni (dati Istat). Il mercato degli stupefacenti muove attività economiche illegali per 16,2 miliardi di euro, di cui circa il 39% attribuibile al consumo di derivati della cannabis e quasi il 32% all’uso di cocaina. La legalizzazione potrebbe portare nelle casse dello Stato fino a 7 miliardi di euro l’anno e circa 35 mila nuovi posti di lavoro. Oggi questi soldi vanno alle mafie. Il narcotraffico è l’attività criminale più redditizia: investi 1 e guadagni 10. Questo flusso di denaro è riciclato in attività legali: negozi, hotel, supermercati... E, soprattutto in un momento di fragilità economica come questo, rappresenta una grave minaccia al nostro stesso vivere democratico.
Leggi severe. L’Italia ha le leggi sulle droghe più severe d’Europa: il 35% dei detenuti è in cella per aver violato il testo unico sugli stupefacenti, contro una media europea del 18%. Nel nostro ordinamento la cessione è punita con il carcere fino a 20 anni, l’omicidio intenzionale con 21 anni di reclusione, lo stupro con 12 anni. Inoltre, sette volte su dieci, le forze dell’ordine arrestano anche in casi di lieve entità, come confermato dal Generale della Guardia di Finanza, Antonino Maggiore, in audizione alla Camera. Insomma, i reati legati alle droghe vengono puniti più spesso e più severamente.
Guerra alla droga. Nonostante questo, parlare di guerra alla droga è quantomeno fuorviante. Sarebbe più corretto parlare di guerra alla cannabis (che riguarda oltre l’80% delle operazioni di sequestro) e di una criminalizzazione che punta al basso: ai piccoli spacciatori, ai tossicodipendenti (un detenuto su quattro), agli imprenditori della cannabis light, ai ragazzini nelle scuole. E persino ai malati che della cannabis avrebbero bisogno per curarsi: come Walter De Benedetto, finito a processo davanti al tribunale di Arezzo per le piante che aveva coltivato in giardino per lenire gli spasmi della sua artrite reumatoide, visto che la Asl non riusciva a fornirgli la terapia con continuità e nella quantità necessaria. La sua vicenda giudiziaria si è conclusa con un’assoluzione piena, e con il riconoscimento — per la prima volta in una sentenza — dell’uso medico della sua auto produzione. Eppure concluse non sono le vicende di troppi altri pazienti, come Cristian Filippo: 24 anni calabrese di Paola, affetto da fibromialgia. Filippo ha fatto un mese di arresti domiciliari, due di obbligo di firma, e sta affrontando un processo per aver coltivato due piante di cannabis nel suo box doccia per alleviare i sintomi di una patologia severa. In una regione dove non c’è una legge che fornisca medicinali cannabinoidi, e dove la ’ndrangheta coltiva gran parte della cannabis destinata al mercato nero. La legalizzazione comporterebbe, dunque, meno processi inutili e più risorse per il contrasto vero dei narcotrafficanti e al lavoro dei tribunali.
Il bene dei giovani. Ma c’è anche un altro argomento che dovrebbe convincere gli scettici, e persino i proibizionisti: il bene dei giovani. Che oggi, per procurarsi qualche canna, sono a diretto contatto con la criminalità organizzata, che comprano una cannabis tagliata con sostanze tossiche (piombo, lana di vetro, lacca) e che trovano, dallo stesso spacciatore, droghe molto più pericolose senza avere alcuna consapevolezza sul consumo e sui rischi. Lo sapeva bene il premier canadese Trudeau che, nel 2018, all’avvio del processo di legalizzazione nel suo Paese disse di volerlo fare «per il bene dei nostri figli». In Canada il consumo di cannabis tra i giovani in tre anni non è aumentato, non ha inciso sugli incidenti stradali, non ha causato disordini sociali. Ha inciso, invece, sulla creazione di posti di lavoro e sulle entrate nelle casse dello Stato. Lo stesso è accaduto in Colorado, il primo stato Usa ad aver legalizzato nel 2021. In Europa la percentuale più bassa di giovani consumatori si trova in Portogallo: 14%. Paese che ha decriminalizzato l’uso di ogni sostanza nel 2001, puntando a interventi sociali invece che repressivi. In Italia il 28% degli studenti ha fatto uso di sostanze nell’ultimo anno. Il 6% dice di aver iniziato prima dei 13 anni. La legalizzazione è finora l’unica misura che ha allontanato i giovani dal consumo e il proibizionismo, sì il proibizionismo, che vi piaccia o meno, ha miseramente fallito.
Referendum cannabis, parliamo di numeri: quanti vantaggi porterebbe la legalizzazione. Rita Rapisardi su L'Espresso il 16 settembre 2021. Giustizia e forze dell’ordine alleggerite da procedimenti giudiziari di leggera entità e operazioni antidroga, sono due dei benefici dei sostenitori del quesito sulla marijuana. A cui si aggiungono maggiore prevenzione, controllo delle sostanze e lotta al narcotraffico.
I dati. Cinque giorni e 420mila firme, 4166 all’ora, 277 al minuto. La raccolta firme per il referendum sulla cannabis è un successo, complice anche l’utilizzo della firma digitale che ha permesso a molti di dare la propria adesione in tempo reale.
Ormai è chiaro che il tetto delle 500mila, sarà raggiunto in poche ore. Festeggia il comitato referendario, composto dalle Associazioni Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione e rappresentanti dei partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani. «Siamo stupiti sia per la grande partecipazione, sia per il tema: i cittadini vogliono esprimersi sulla cannabis, sono le istituzioni ad aver fatto credere il contrario, a non aver intercettato il paese», spiega Antonella Soldo, Coordinatrice di Meglio Legale e membro del Comitato Referendario. «A firmare sono cittadini consapevoli, non persone stravaganti, che vogliono creare una politica nuova». E non sono pochi, secondo l’Istat i consumatori di cannabis in Italia sono oltre sei milioni, con un mercato delle sostanze stupefacenti che muove attività economiche per 16,2 miliardi di euro, di cui circa il 39% attribuibile al consumo dei derivati della cannabis e quasi il 32% all’utilizzo di cocaina.
I numeri. Un mercato grande che da tempo chiede una regolamentazione diversa riguardo il fumare marijuana: in questo senso il quesito referendario, riferito al Testo Unico sugli stupefacenti, cambierebbe la normativa vigente sia sul piano penale, sia su quello amministrativo. Si intende depenalizzare le condotte di coltivazione e detenzione illecita di qualsiasi sostanza e di eliminare la pena detentiva per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis (con eccezione della associazione finalizzata al traffico illecito). Mentre sul piano amministrativo si propone di eliminare la sanzione della sospensione della patente di guida e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori. I temi sui quali i sostenitori del referendum puntano sono diversi: spaziano dalla salute, alla giustizia, fino alla lotta al narcotraffico. Non tralasciando i guadagni dello Stato: secondo uno studio del professor Marco Rossi, dell’Università Sapienza di Roma, la legalizzazione potrebbe portare nelle casse dello Stato fino a sette miliardi di euro all’anno e circa 35mila nuovi posti di lavoro.
Oggi questi soldi sommersi sono totalmente gestiti alle mafie che poi li investe in altri settori: secondo l’ultima relazione sulle Tossico Dipendenze riferita al 2020, degli incassi che la criminalità fa grazie allo spaccio, il 40% è frutto del mercato della cannabis. I gruppi criminali maggiormente coinvolti nei traffici della cannabis e dei suoi derivati si confermano la criminalità laziale, pugliese e siciliana, insieme a gruppi maghrebini, spagnoli e albanesi. Per la marijuana, la maggior parte delle spedizioni viaggia lungo rotte che partono dall’Albania o dalla Grecia. Dall’esame dei casi, riguardo all’hashish il mercato italiano è stato rifornito prevalentemente da Marocco, Siria, Spagna e Albania; gli ultimi due paesi risultano anche i principali per la provenienza della marijuana.
Alleggerire giustizia e forze dell’ordine. «Finalmente si recupera il senso del referendum, i padri costituenti l’hanno pensato proprio per questo, per far parlare i cittadini, che ci sono, partecipano, ma hanno l’impressione che la politica non si occupi di loro», commenta Riccardo Magi, presidente +Europa. Un tema che secondo il deputato dovrebbe invece occupare l’agenda politica, anche per i benefici che ne potrebbe trarre la giustizia, appesantita nei suoi procedimenti da una politica che in passato a equiparato droghe pesanti e leggere. «E’ grave che per il fronte progressista e riformatore, non si riesca neanche ad aprire un dibattito. C’è uno scollamento rispetto alla comprensione di quali siano gli obiettivi e le riforme che il proprio elettorato si aspetta». Secondo l’ultima relazione del Parlamento, nel 2020 alle Prefetture sono pervenute 32.879 segnalazioni per detenzione di sostanze psicotrope per uso personale (un terzo dei segnalati ha più di 40 anni e il 9,4% è minorenne), il 74% di queste ha riguardato cannabis. Mentre il 43% delle persone denunciate per reati collegati alla droga, fa riferimento alla cannabis e suoi derivati. Ai procedimenti giudiziari si aggiungono le operazioni delle forze dell’ordine: 12.066 quelle riguardanti la cannabis nel 2020, che resta lo stupefacente più sequestrato nel nostro Paese. Di tutta la droga individuata, il 50% riguarda i prodotti della cannabis, principalmente marijuana, il 23% la cocaina e poco meno dell’1% eroina e altri oppiacei; il 24% è rappresentato dalle sostanze sintetiche. Legalizzazione e regolamentazione sono sentimenti ampiamente diffusi nel continente, ma non solo. Oltreoceano negli Stati Uniti (sono dieci gli Stati ad aver legalizzato la cannabis a scopo ricreativo) e paesi dell’America del Sud, come Perù, Bolivia (depenalizzata fino a 50ge), l’Argentina (dove è legale il possesso fino a 5 grammi), hanno ridiscusso l’approccio verso questa sostanza. In Europa ci sono i Paesi Bassi, la Spagna dove è legale la coltivazione a scopo personale (anche in modo collettivo nei Cannabis Social Club) e il consumo in luoghi privati. Mentre fa scuola il Portogallo che con la sua scelta di depenalizzare qualsiasi droga ha abbattuto il consumo di eroina, un fenomeno grave nel paese.
Gli operatori: “Maggiore prevenzione e consumo moderato”. «Dal punto di vista dell’operatore sociale questo sarebbe un grande contributo: perché posso esercitare con maggiore efficacia la mia funzione preventiva, ad esempio quando faccio informazione nelle scuole - spiega Claudio Cippitelli, sociologo, ex presidente del Coordinamento Nazionale Nuove Droghe (Cnnd) e socio fondatore dell’Associazione Parsec di Roma - La cannabis resta una sostanza psicotropa, ma cambiano gli effetti con un uso ininfluente, o se si incappa nell’abuso. Togliere l’aspetto illegale favorirebbe un dibattito pubblico più onesto». Gli operatori del settore denunciano il fallimento del proibizionismo di leggi come la Fini-Giovanardi e l’aumento dei policonsumatori: uno dei pericoli maggiori, soprattutto per i giovani, resta il trovare una vasta gamma di sostanze, messe sullo stesso piano, nel momento dell’acquisto di cannabis. «Possiamo fare un vero lavoro sulla salute, controllare le sostanze, creare campagne sensibilizzazione a scuola, come si fa con alcool e tabacco, togliere il monopolio alle mafie e aumentare le entrate per lo Stato. Nel frattempo che noi discutiamo la gente firma in massa. Siamo fermi a idee di quarant’anni fa, le nuove generazioni spingono su questo, sono attente ai temi ambientali e ai diritti», commenta Giuditta Pini, deputata Pd, che evidenzia un primo passo avanti nell’aver spostato la presidenza del Dipartimento Politiche Antidroga, dal Consiglio dei Ministri, alla salute. Cippitelli ci tiene a sottolineare una delle problematiche maggiori dovute all’attuale giurisdizione restrittiva: «Sono i giovani quelli più coinvolti in operazioni della polizia per uso di cannabis e spesso rimangono in un limbo lunghissimo: a causa dei Nos (nucleo operativo speciale) che gestiscono la pratica dopo tre quattro anni, un tempo in cui la patente è bloccata ed è impedita tutta una serie di lavori, ma magari la tua vita è cambiata: questo è entrare nelle scelte di vita delle persone». E’ la cannabis la sostanza più utilizzata dagli studenti: nel 2020 circa un quinto ne ha fatto uso almeno una volta e nella maggior parte dei casi (91%), questa è stata l’unica sostanza consumata. E’ stato studiato come la coltivazione personale spingerebbe il consumatore a un uso più consapevole e moderato, perché frutto del proprio impegno: «Quattro piante ti proiettano come un contadino con la sua vigna: ne sarà orgoglioso», commenta Cippitelli. Il dibattito a destra resta ancorato ad alcuni capisaldi, come la paura che con normative meno stringenti il consumo possa aumentare: «Questa è una sciocchezza – conclude Cippitelli – basta vedere i numeri di altri paesi che hanno già scelto questa strada. Anche dire che la canna è l’esordio di una dipendenza di droghe pesanti, come l’eroina, lo è, considerando che spesso nei consumatori di cannabis c’è uno stigma pesante verso altre droghe e che moltissimi consumatori di eroina o cocaina esordiscono con quella sostanza. La dipendenza dei consumatori problematici non è la cannabis, ma nasce spesso da violenza, abusi o una vita difficile».
L'ipocrisia surreale della questione cannabis nel Palazzo. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 9 settembre 2021. Dopo l'approvazione - in commissione Giustizia alla Camera - del testo base per la coltivazione domestica della marijuana e le modifiche sulle pene legate allo spaccio, i ricordi tra aneddoti e leggende, da D'Alema a Pertini a Martelli. Va detto che l'unico politico che pagò di persona per difendere la legalizzazione fu Marco Pannella che si fece arrestare di proposito. Fra il Palazzo e la cannabis l'ipocrisia è da sempre pregiudiziale e istituzionale, ma soprattutto surreale. Nel senso che tutti sanno quanta ne gira, tutti fanno finta di non saperlo e diversi parlamentari se la fumano pure, però di nascosto. Quanto alle leggi, un po' gli vengono pessime, ma un altro po' le lasciano alla mercè della magistratura che prova a metterci una pezza regolando, tra norme fantasma e pronunciamenti che s'intrecciano nel vuoto, una situazione a tal punto e da talmente tanti anni abbandonata a se stessa da rendere obsoleta, forse addirittura superata, la tradizionale incompatibilità tra proibizionismo e antiproibizionismo.
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 10 settembre 2021. Fra il Palazzo e la cannabis l'ipocrisia è da sempre pregiudiziale e istituzionale, ma soprattutto surreale. Nel senso che tutti sanno quanta ne gira, tutti fanno finta di non saperlo e diversi parlamentari se la fumano pure, però di nascosto. Quanto alle leggi, un po' gli vengono pessime, ma un altro po' le lasciano alla mercé della magistratura che prova a metterci una pezza regolando, tra norme fantasma e pronunciamenti che s' intrecciano nel vuoto, una situazione a tal punto e da talmente tanti anni abbandonata a se stessa da rendere obsoleta, forse addirittura superata, la tradizionale incompatibilità tra proibizionismo e antiproibizionismo. L'unico politico finito dentro - cosa che gli odierni mestieranti dei partiti disdegnano - non era un consumatore abituale, ma si fece arrestare di proposito: Marco Pannella, nel luglio del 1975, ormai pura preistoria. Il leader radicale ci riprovò altre due volte, nel 1995 e nel 1997, distribuendo fumo a Piazza Navona e a Porta Portese. Sempre con le stesse motivazioni di disobbedienza civile, "regalò" due etti di hashish in diretta ad Alda D'Eusanio dando vita a un indimenticabile momento televisivo: «Marco, ma questa è merda!». In seguito, anche se al riguardo è impossibile addurre prove, sembra che nel tragitto dallo studio al tribunale il malloppetto avesse perso una ventina di grammi. Con un fondo di curioso scetticismo viene spontaneo di accogliere l'esordio della possibile legge sulla cannabis fatta in casa. Nell'autunno del 2006, a piazza Montecitorio, con subdoli pretesti, un commando di Iene televisive riuscì a strofinare 50 tamponi sulla fronte di altrettanti deputati, e per quanto quelle riprese non siano mai andate in onda, venne fuori che ben 12 si sarebbero fatti delle canne. Nel 2018, alla spasmodica ricerca di quattrini, il governo nazional-populista gialloverde calcolò, in relativo segreto, quanto avrebbe potuto fruttare una tassa sulla liberalizzazione della canapa indiana, ma poi Salvini piantò una grana accanendosi pure su quella a basso contenuto di thc, detta "la legalona". In quasi mezzo secolo, come succede spesso in Italia, tutto è cambiato per rimanere uguale a se stesso. Pannella non c'è più, il suo testimone l'ha raccolto Rita Bernardini che forse ancora adesso semina, coltiva, fotografa, raccoglie e pubblica; tutto sul balcone di casa sua, dove periodicamente le fa visita un commissario di Ps che sequestra il tutto guardandosi bene dal portarla in questura. Per cui il tema, che pure coinvolge persone malate che nel principio attivo della cannabis trovano aiuto e sollievo, resta imprigionato nella più assurda consuetudine, tra ingiustizie, incertezze e periodici sbocchi di retorica. Ci si ritrova dunque a coltivare ricordi buffi e stranianti di una piccola grande avventura che comunque ha dato colore alla vita pubblica per due generazioni. Aneddoti, leggende. Il giovane D'Alema che nel 1977 andò nella direzione del Pci a chiedere la legalizzazione della marijuana: «Della ma-rij-u-ana!» ripeteva poi tenendosi la testa al ricordo delle facce di Longo, Pajetta, Amendola e dello stesso Berlinguer. O i mattacchioni del Male che, invitati a pranzo da Pertini, si erano presentati al Quirinale con uno spinello da accendere dopo il caffè. Ma al primo accenno: «Droghe pesanti o droghe leggere - li gelò il presidente - io darei la pena di morte a tutti». E non per continuare a buttarla in caciara, ma quando alla fine degli anni '80 era in discussione il testo di quell'altro efficace capolavoro che fu la legge Vassalli-Jervolino, al gruppo radicale si presentò una vecchietta, significativamente ribattezzata "Nonna Canapa", con un vassoio di dolcetti speciali che tutti lietamente divorarono, compresi due parlamentari che una volta in Aula ebbero un malore proprio durante la discussione generale. E insomma, anche nella storia politica la cannabis ha dato e la cannabis ha tolto. Prima della caduta, Craxi ingaggiò una crociata contro gli "amici della modica quantità", ma ne aveva fin troppi attorno a lui. Uno, il delfino Martelli, fu incastrato a Malindi, generando il classico e torvo pollaio di rivelazioni, strumentalizzazioni, divagazioni. Negli anni '90 l'inesorabile ingresso nell'intrattenimento: onorevole, ha mai fumato? Sì, una volta, da giovane, all'università, in America, «però mi sono subito addormentato ». La riduzione del danno. Sui social intanto non c'è leader o presidente che non sia fotomontato per scherzo con la sua canna da rollare - e qualcosina significherà pure.
Via libera al testo base. Cannabis in casa per uso personale, cosa prevede la legge che spacca la maggioranza. Angela Stella su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Ieri pomeriggio la Commissione Giustizia della Camera ha votato sull’adozione di un testo base sulla cannabis, per cui la maggioranza si è spaccata. Infatti i sì hanno prevalso grazie ai voti del M5S, del Pd e di Leu, mentre hanno detto no Fratelli d’Italia, Coraggio Italia, Lega e Forza Italia, con il voto in dissenso di Elio Vito, astenuta invece Italia Viva. Il testo unificato mette insieme proposte diverse che riguardano lo stesso tema: in questo caso unisce quella dell’onorevole di +Europa Riccardo Magi e quella dell’onorevole grillina Caterina Licatini. Disabbinato invece su richiesta della Lega la proposta dell’onorevole Riccardo Molinari. La proposta di Testo Base approvata in Commissione Giustizia in materia di Cannabis «recepisce in buona parte la proposta a mia prima firma depositata nel 2019 – ha dichiarato in una nota Riccardo Magi – e consente finalmente di affrontare alcuni punti della normativa sugli stupefacenti su cui è urgente intervenire in chiave antiproibizionista». Il presidente di +Europa ha aggiunto: «Questo testo include una importante riduzione delle pene per i fatti di lieve entità, che attualmente in 7 casi su 10 conducono al carcere, inserendo anche una distinzione tra le sostanze, la totale depenalizzazione della coltivazione domestica per uso personale fino a 4 piante di Cannabis e l’eliminazione delle sanzioni amministrative per tutte le condotte illecite finalizzate all’uso personale di Cannabis, tra cui la sospensione della patente di guida, del passaporto e del permesso di soggiorno». Infine per il deputato radicale «il testo necessita di ulteriori modifiche affinché si possa fare un sostanziale passo in avanti, ma è urgente in questo momento che la maggioranza che oggi (ieri, ndr) si è manifestata in Commissione si impegni a portare al più presto la proposta in Aula. Va evitato che nell’affollamento dei provvedimenti di iniziativa governativa questo Testo Base non proceda». Soddisfatto il pentastellato Mario Perantoni, presidente della Commissione e relatore del testo base: «È un risultato importante, ottenuto sulla scia della giurisprudenza della Corte di Cassazione ma anche grazie alla capacità dei gruppi parlamentari di confrontarsi e trovare una sintesi ragionevole su una materia che la società ha già elaborato e codificato nei comportamenti individuali. La coltivazione in casa di canapa è fondamentale per i malati che ne devono fare uso terapeutico e che spesso non la trovano disponibile oltre che per combattere lo spaccio ed il conseguente sottobosco criminale. Il provvedimento se diminuisce le sanzioni per i fatti di lieve entità aumenta da 6 a dieci anni le pene per i reati connessi a traffico, spaccio e detenzione ai fini di spaccio della cannabis». Elio Vito su Twitter: «Ringrazio il mio gruppo Forza Italia Camera ed il capogruppo Roberto Occhiuto di avermi dato l’opportunità di manifestare il mio voto favorevole, in coerenza con la mia storia e le mie convinzioni radicali ed antiproibizioniste». Sempre dai social è arrivato il plauso di Marco Furfaro, della Direzione nazionale del Partito democratico: «Una norma di civiltà per i malati che ne devono fare uso terapeutico e fondamentale per combattere la criminalità organizzata. Ora avanti in Aula». Critiche sono arrivate da FdI con le deputate Varchi e Bellucci: «Le sinistre approvano un testo base che finirà inevitabilmente per favorire il consumo di droga oltre a promuovere comportamenti pericolosi che minacciano il diritto alla salute sancito dalla nostra Costituzione». Anche i componenti della Commissione Giustizia della Lega alla Camera hanno stigmatizzato quanto accaduto: «È stato adottato un testo base che riduce le pene per lo spaccio di lieve entità e consente la coltivazione domestica della Cannabis. La Lega boccia quello che rappresenta evidentemente il preludio alla legalizzazione: le nostre proposte, contenute nel provvedimento Droga zero, sono rimaste infatti inascoltate ma da parte nostra resta la ferrea convinzione che chi vende droga vende morte, e continueremo a battagliare per difendere questo principio. Abbiamo chiesto il disabbinamento della nostra proposta, perché in nessun modo vogliamo possa essere accostata al testo oggi approvato e per evitare che decada. Potremmo così incardinarla nuovamente e, quando il centrodestra sarà maggioranza di governo, approvarla». Sempre ieri la Commissione Giustizia della Camera ha iniziato l’esame delle norme sulla presunzione di innocenza con la relazione dell’onorevole Enrico Costa di Azione, autore dell’emendamento che aveva portato il nostro Parlamento a recepire la direttiva europea che, tra l’altro, introduce il divieto, per le autorità pubbliche, di presentare all’opinione pubblica l’indagato o l’imputato in un procedimento penale come “colpevole”, prima che sia intervenuto un provvedimento definitivo di condanna. Entro la data del 30 settembre la Commissione dovrà procedere a inviare al Governo un parere. In ultimo, l’iter della proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, promossa dall’Unione delle Camere Penali, riprenderà alla Camera a partire dalla prossima settimana grazie alla sollecitazione sempre dei deputati Magi e Costa che con una lettera nelle scorse settimane e ieri all’Ufficio di Presidenza della Commissione Affari Costituzionali hanno formulato apposita richiesta. «Il Presidente della Commissione Brescia ha comunicato che la prossima settimana il provvedimento verrà calendarizzato. Riteniamo molto importante che – dopo un anno di inerzia – questo tema venga nuovamente affrontato dal Parlamento perché rappresenta la necessaria attuazione del principio di giusto processo in cui l’accusa e la difesa siano sullo stesso piano e a decidere sia un giudice terzo e imparziale. Un ringraziamento va all’Unione delle Camere Penali e al Presidente per la continua attività e stimolo sulle forze politiche affinché non trascurino questo tema fondamentale», hanno dichiarato i due parlamentari. Angela Stella
Francesca Santolini per “Domani” il 7 aprile 2021. La decisione del premier Mario Draghi di affidare la delega per le politiche antidroga alla ministra Fabiana Dadone ha scatenato una forte polemica da parte delle forze di centrodestra. Da Fratelli d’Italia a Forza Italia alla Lega, gli oppositori giudicano inopportuno far gestire la materia a un esponente politico dichiaratamente antiproibizionista come il ministro per le Politiche giovanili. A dimostrazione di come, la canapa, o cannabis, sia ancora oggi una pianta circondata da pregiudizi, che si ripercuotono anche sul piano legislativo, con riflessi negativi sui cittadini e l’economia. “Cannabis”, “canapa”, “cannabis light”, “canapa industriale”, “canapa terapeutica” sono tante le definizioni attribuite a questa pianta, come tante sono le sue destinazioni d’uso. La canapa terapeutica, o cannabis terapeutica, viene utilizzata per il trattamento di persone affette da varie patologie come cancro, sclerosi, glaucoma: riduce il dolore causato dagli spasmi dei malati di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), stimola l’appetito di chi è sottoposto a chemioterapia, fino ad essere utilizzata come antiepilettico nei casi di epilessia farmaco-resistente. In questo caso le varietà contengono un principio attivo benefico: il Thc (tetraidrocanbinolo), la molecola antidolorifica ma anche psicotropa che talvolta viene utilizzata come sostanza d’abuso. Nel caso della cannabis terapeutica il Thc è al di sopra dello 0,2 per cento (limite previsto per la cannabis light o canapa industriale), ed è proprio per questo che in Italia la coltivazione e la produzione sono consentite solo allo stato e non ai privati. Con delle conseguenze paradossali sia dal punto di vista medico sia economico.
Comprare all’estero. In Italia l’unico ente autorizzato dal ministero della Sanità a produrre cannabis terapeutica è l’Istituto farmaceutico militare di Firenze. Pur essendo un centro di eccellenza, l’Istituto non riesce a soddisfare con la sua produzione il fabbisogno dei malati del nostro sistema sanitario nazionale. Diventa dunque inevitabile acquistare cannabis medica da compagnie estere a prezzi esorbitanti. Un caso clamoroso risale al 13 giugno 2019 con la pubblicazione da parte del ministero della Difesa di un bando il cui titolo recitava: “Gara procedura aperta accelerata per la fornitura di 400 kg di cannabis per le esigenze dello stabilimento chimico farmaceutico di Firenze”. Una gara a cui nessun produttore italiano avrebbe mai potuto partecipare, perché in Italia la cannabis terapeutica, medica e ludica non può essere coltivata da privati. A leggere il verbale, redatto il 3 luglio 2019, non solo nessuna società è riuscita ad aggiudicarsi la gara, ma tutte le società che hanno partecipato al bando erano straniere: Tilray Portugal, Medical organic cannabis Australia, Aurora Deutschland e Canopy growht Germany. Perché prevedere ingenti spese di fondi pubblici (nel caso specifico un milione e 520mila euro al netto di iva) per ottenere dall’estero quanto si potrebbe produrre facilmente nel nostro paese sotto la guida dell’Istituto chimico farmaceutico?
Domanda e offerta. L’International narcotic control board (che monitora la movimentazione della sostanza nei vari paesi) stima che il fabbisogno di cannabis terapeutica dell’Italia sia di circa due tonnellate l’anno, a fronte di una capacità produttiva di circa 150 chili da parte dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. La crescente domanda viene soddisfatta con cannabis acquistata in larga parte dall’Olanda e da Israele. Secondo l’avvocato Giacomo Bulleri, uno dei massimi esperti legali sulla cannabis industriale e terapeutica in Italia, «la soluzione non può che arrivare da una scelta politica chiara che sinora è mancata. Da un lato c’è un difetto nella catena di comunicazione dei dati circa il fabbisogno della cannabis, il che porta il ministero a sottostimare le quantità. Dall’altro occorre aprire a partnership con aziende private che ben potrebbero produrre per conto e in favore dello stato, tra l’altro condividendo un consolidato know-how in materia».
La canapa industriale. Diverso invece è il caso della canapa industriale, le cui varietà contengono una dose estremamente bassa di Thc, e quindi teoricamente potrebbero essere utilizzate senza sollevare alcun problema giuridico. E invece anche qui le regole sono di difficile interpretazione. A normare la materia in questo caso è la legge numero 242 del 2016 che consente a tutti la coltivazione della canapa industriale. Il problema è che la legge non è stata di fatto coordinata con le relative normative di settore, né tanto meno con la normativa europea. Ad esempio, nel codex alimentarius si prevede che si possa utilizzare soltanto il seme della canapa industriale e non le altre parti della pianta. Un vero peccato, perché probabilmente pochi sanno che una delle caratteristiche più interessanti della canapa è che non si butta via nulla. Le possibilità di utilizzo sono molteplici: dal fusto si possono produrre fibra, materiali edili o biocarburanti; dalle infiorescenze, oli essenziali, tisane, farmaci e cosmetici; dai semi, farina ed olio di semi. La versatilità della canapa è la base del suo basso impatto ambientale.
Una questione di lobby. E allora perché non creare una filiera agricola legale e trasparente che possa essere valorizzata nell’economia agraria italiana? «Numerose lobby temono la canapa per ragioni diverse: il suo utilizzo come biomassa per la produzione di carta o energia rinnovabile, ma soprattutto il suo impiego in medicina. Dal punto di vista farmacologico la canapa ha moltissime proprietà conosciute e meno conosciute che potrebbero essere sfruttate. La ricerca viene però spesso rallentata dalle amministrazioni e trova scarsi finanziamenti nel privato, all’apparenza per un pregiudizio duro a morire, ma in verità per le attente mosse del settore farmaceutico», racconta Marco Martinelli, ricercatore in biotecnologie vegetali alla scuola Sant’Anna di Pisa e autore del saggio Io sono la cannabis (Lupetti Editore). Un recente studio pubblicato dall’Università di Catanzaro insieme all’Università di Rotterdam e all’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, ha correlato la diffusione della cannabis light all’interno delle città italiane tra il 2017 e il 2018 con i dati relativi al consumo di farmaci nelle farmacie dei medesimi centri urbani. Il numero di vendite di farmaci è diminuito in media dell’1,6 per cento ma con dei settori specifici. Le scatole di ansiolitici prescritte dai medici e vendute dalle farmacie sono diminuite significativamente dell’11,4 per cento, mentre il numero di antipsicotici è diminuito del 4,8 per cento. «Considerando che il business degli ansiolitici in Italia porta nelle tasche delle case farmaceutiche circa 350 milioni di euro, un calo del 10 per cento delle vendite a causa della cannabis, sarebbe probabilmente una perdita troppo consistente», dice Martinelli. La vicenda paradossale della canapa – una vicenda, sinora, di miopia e di occasioni perdute – è un simbolo, quasi una metafora. Ci racconta di un paese incapace di affrontare le sfide della complessità, senza lasciarsi condizionare da lobby, da tenaci condizionamenti culturali, da pregiudizi ideologici.
Roberto Saviano per il “Corriere della Sera” il 27 luglio 2021. Accade che ci sia un rimedio efficace per mitigare i dolori lancinanti che la fibromialgia genera e che questo rimedio sia una terapia a base di cannabis. La fibromialgia ti dà un dolore lancinante quando ti muovi, è come se ogni volta i tendini stessero per spezzarsi e il tuo corpo ti diventa nemico. Per trovare pace dovresti uscire dai muscoli che vestono le tue ossa. L'insonnia e gli stati d'ansia sono continui. Prescrivere la cannabis medica in Italia è assolutamente legale da ben 14 anni, ma rintracciarla in Calabria è pressoché impossibile. Si tratta, infatti, di una delle tre Regioni (insieme a Molise e Valle d'Aosta) a non aver approvato un provvedimento per erogarla a carico del servizio sanitario regionale, per cui le due o tre farmacie che la forniscono lo fanno a costi che la gran parte dei pazienti non può affrontare. Cristian Filippo ha 24 anni e soffre di fibromialgia, vive a Paola, un comune in provincia di Cosenza, i dolori sono fortissimi, non danno tregua quando decide di coltivare due piante di cannabis per poter accedere a un consumo sicuro e non dover rivolgersi al mercato clandestino gestito dai narcos calabresi. Accade che il 6 giugno 2019 i carabinieri di Paola sentono un fortissimo odore di marijuana uscire dalla casa di Cristian, citofonano e senza nessuna forma di ostruzionismo sono stati fatti entrare. Nell'abitazione hanno trovato due piantine di canapa e strumenti rudimentali, per coltivare la cannabis, conservare le piante essiccate e pesare il prodotto per controllare le assunzioni che deve prendere (per mitigare il dolore) in preciso dosaggio. I carabinieri iniziano a ipotizzare che il ragazzo coltivasse cannabis per venderla e così arriva l'accusa di spaccio. Cristian Filippo è stato imputato di aver «illecitamente coltivato e detenuto una sostanza stupefacente per cessione a terzi o comunque per un uso non esclusivamente personale». Arrestato all'inizio di giugno 2019, Filippo è stato costretto ai domiciliari per un mese. Dopo i domiciliari, per il giovane è stato disposto l'obbligo di dimora nel Comune di Paola, lo scorso 10 giugno 2021 si è tenuta la prima udienza dibattimentale, ma il processo è stato rinviato a marzo 2022. Può davvero accadere che in una regione dove il traffico di cannabis sia una delle arterie di guadagno più prolifiche della ndrangheta un ragazzo che rifiuta di finanziare il narcotraffico e coltiva due piantine per curare la propria gravissima patologia venga arrestato e rischi sino a 6 anni di carcere? Se Cristian avesse comprato l'erba da un pusher non sarebbe finito nelle mani di una giustizia che pare proprio aver sbagliato il suo bersaglio. Difficilmente se ne sarebbero accorti. E se pure fosse accaduto - come accade a circa 50 mila persone ogni anno di essere fermato dopo aver comprato erba o hashish - avrebbe rischiato una multa, al massimo il ritiro del passaporto o della patente, avrebbe rischiato di affrontare un percorso ai servizi per le tossicodipendenze, ma non avrebbe di certo rischiato il carcere. Qui è il paradosso, accade che il mercato mafioso lo avrebbe messo al riparo dall'arresto che provando a tradurre la dinamica è come se lo Stato tutelasse il mercato mafioso, dicendo: fuma pure, l'importante è che tu ti rifornisca solo dallo spacciatore perché se coltivi finisci in carcere. Quello che è accaduto a Cristian Filippo è davvero paradossale in una narcoterra: la Calabria. Secondo l'ultima relazione della Direzione nazionale antimafia la 'ndrangheta è l'organizzazione criminale leader in Italia e in Europa nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Negli ultimi anni l'organizzazione criminale calabrese si è specializzata, anche grazie all'ottimo clima, nella coltivazione di cannabis: un terzo della cannabis «made in Italy» è prodotta proprio in Calabria. Sarebbe stato facilissimo per Cristian trovare la via illegale per procurarsi cannabis ma dopo la diagnosi del suo male e la prescrizione medica lui avrebbe diritto alla cannabis terapeutica legale, ma chiedete ai malati oncologici, chiedete a tutti coloro che soffrono di sclerosi multipla, di SLA, di dolori neuropatici, di glaucoma se, dopo 14 anni da una legge che la consente, riescono trovarla. Le difficoltà di questo stallo derivano innanzitutto dalla scarsa produzione nazionale: affidata a un unico ente, lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, raggiunge circa 240 kg annui. Una quantità irrisoria ben lontana dai 2000 kg stimati per il fabbisogno del nostro paese. Il resto viene importata, soprattutto da Canada e Olanda. Ma questo ha dei costi, richiede tempo, e se qualcosa va storto - come spesso accade - bisogna aspettare. E aspettare vuol dire tenersi i propri dolori. Così facendo lo Stato costringe i malati a due strade o rifornirsi dai pusher o coltivare in proprio. La relazione tecnica - condotta dal Lass di Vibo Valentia - ha dato prova che la sostanza rinvenuta a casa del ragazzo, ha riscontrato una media di principio attivo che varia dallo 0,32 allo 2,38, per un totale di 45,3 dosi medie ricavabili. Per la malattia che affligge il giovane, solitamente viene prescritto un grammo al giorno di cannabis medica, il quantitativo rinvenuto nella sua abitazione gli sarebbe quindi bastato per poco più di un mese di terapia. La storia di Cristian, oggi assistito dall'associazione Meglio Legale, così come la storia di Walter De Benedetto - malato di artrite reumatoide finito a processo per aver coltivato le sue piante di cannabis e infine assolto dal tribunale di Arezzo - così come le storie di troppi altri malati finiti a processo, o lasciati soffrire dimostrano che nel nostro paese la guerra alla droga punta ai deboli, ai disperati, ai malati. Non è una guerra contro il narcotraffico ma contro gli studenti nelle scuole, gli imprenditori della cannabis light, i semplici consumatori. È una guerra alle persone tossicodipendenti, che in carcere sono una su quattro e appunto, a chi ha patologie che la cannabis riuscirebbe a mitigare. Aprire un dibattito serio e responsabile sul tema della legalizzazione della cannabis serve, perciò, anche a far cadere un tabù che finora è costato a moltissimi cittadini, mentre ha fatto soltanto guadagnare soldi e potere alle mafie.
Andrea Marinelli per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2021. In principio ci fu Bill Clinton, che nella primavera del 1992, mentre era in corsa per la Casa Bianca, ammise di aver «sperimentato» la marijuana «una volta o due», quando era uno studente poco più che ventenne a Oxford. «Non ho mai infranto una legge statale», puntualizzò l' allora governatore dell' Arkansas, con un equilibrismo lessicale che avrebbe ripetuto ai tempi dell' impeachment. «Non aspirai, non mi piacque, e non l' ho mai più provata». Fino ad allora, una confessione del genere avrebbe stroncato qualsiasi ambizione politica, ma in novembre Clinton divenne il primo presidente ad aver ammesso l' uso di droghe. Probabilmente non era davvero il primo, di certo non è stato l' ultimo: quindici anni più tardi, anche Barack Obama raccontò di aver fatto uso di marijuana e cocaina al liceo e al college. «Era un modo per alleviare il dolore», scrisse nel suo libro I sogni di mio padre : si riferiva alla battaglia per definire la propria identità razziale, e si mise così al riparo da eventuali attacchi politici. L' anno dopo sarebbe diventato il 44esimo presidente. Da allora, l'uso di marijuana per fini ricreativi è diventato legale in 14 Stati e nel District of Columbia, 35 ne permettono quello terapeutico e 16 lo hanno decriminalizzato: dall' Alaska alla Florida è legale coltivare piante, acquistare marijuana in dispensari con regolare licenza, utilizzarla per cibo o cosmetici. La cannabis resta però illegale a livello federale: a inizio 2018 l' amministrazione Trump ha anche varato un regolamento per ostacolare un mercato che nel 2020 - complice la pandemia -- è arrivato a valere 17,5 miliardi di dollari. Questo contrasto fra leggi statali e federali ha creato negli anni numerosi cortocircuiti: l' ultimo, nei giorni scorsi, è stato il licenziamento di 5 neoassunti della Casa Bianca che - nel «questionario di sicurezza» - avevano ammesso di aver fumato marijuana in passato. Peccato che a febbraio l' amministrazione Biden aveva diffuso un nuovo regolamento che non ostacolava l' assunzione di coloro che avevano fatto uso di cannabis. I nuovi assunti si sono fidati del nuovo regolamento, studiato per attrarre giovani talenti anche da Stati in cui la marjuana è legale: sono stati sinceri, forse troppo, e il Daily Beast ha parlato di decine di membri dello staff licenziati o costretti a lavorare da remoto. Per placare le polemiche e le accuse di ipocrisia è dovuta intervenire la portavoce Jen Psaki, che ha chiarito l' equivoco: «Fra le centinaia di nuovi assunti, solo cinque sono stati allontanati». Tutti coloro che hanno ammesso l' uso di marijuana si dovevano impegnare a non fumare durante il periodo di impiego per il governo, sottomettendosi anche a test improvvisi, ha spiegato Psaki, aggiungendo che nel frattempo sono intervenuti altri (non meglio precisati) fattori a scoraggiare alcune assunzioni. Resta però il contrasto con il resto del Paese, e una disparità di trattamento che i media conservatori non mancano di rimarcare: se Biden è sempre stato un moderato su legalizzazione e depenalizzazione, contribuendo anche alla guerra alla droga degli anni Ottanta, la sua vice Kamala Harris ha ammesso di aver fumato erba quando era al college. «Era parecchio tempo fa», disse nel 2019 in un' intervista. «E certo, ho aspirato».
Paolo Mastrolilli per “La Stampa” il 29 marzo 2021. La Nuova Amsterdam copia quella vecchia, da cui in origine aveva preso il nome, o quasi. Lo spinello diventa libero a New York, per almeno tre ragioni: è una scelta politica popolare; genera tasse e posti di lavoro; mette fine alla «guerra contro la droga», che mandava in galera soprattutto i neri rovinando le loro esistenze. Poi magari toglierà un po' di potere ai narcotrafficanti, o comunque consentirà di riorientare le risorse verso emergenze più gravi, tipo la lotta all'epidemia di oppiacei, anche attraverso i programmi di istruzione. L'accordo è stato raggiunto sabato sera dai legislatori di Albany, che presto approveranno la legge e la manderanno a Cuomo per la firma. In origine il governatore era contrario, perché considerava la marijuana come una «porta» verso droghe più pesanti. Ora però ha cambiato idea, anche perché 14 Stati l'hanno già legalizzata negli Usa, compresi i vicini New Jersey e Massachusetts. In più i suoi guai politici legati alle molestie sessuali hanno accelerato la pratica, perché il 60% degli elettori vuole decriminalizzare lo spinello, la percentuale sale oltre il 70% tra i suoi sostenitori neri, e il provvedimento distrae l'attenzione dai suoi problemi. La legge consente coltivazione, vendita e uso della marijuana a scopo ricreativo, e allarga quello medico già lecito, da 30 a 60 giorni di forniture. Andrà in vigore appena sarà approvata, ma il mercato della cannabis non potrà cominciare prima di un anno e mezzo, perché nel frattempo bisognerà creare le strutture necessarie. Ogni individuo avrà il diritto di crescere sei piante, ma sarà consentita la coltivazione industriale. Per comprare l'erba bisognerà avere almeno 21 anni d'età, e sarà possibile farlo in locali aperti apposta, che però non potranno vendere anche alcolici. Tutti i reati per il possesso sotto le 3 once saranno cancellati, e la disposizione è retroattiva, garantendo quindi l'amnistia e la pulizia della fedina penale a chiunque fosse stato condannato in passato. Le autorità stimano che il mercato della cannabis valga 4,6 miliardi di dollari all'anno nello Stato di New York, che saliranno a 5,8 nel 2027. Sulle vendite verranno imposte tasse statali del 9% e locali del 4%. Cuomo prevede che lo Stato guadagnerà 350 milioni all'anno, e verranno creati fra 30.000 e 60.000 posti di lavoro. Un 40% dei ricavi fiscali verrà investito nelle comunità più colpite dalla «guerra alle droghe», cioè nere e ispaniche; un altro 40% andrà alle scuole pubbliche; e il restante 20% ai programmi per trattare e prevenire la tossicodipendenza. La Medical Society of the State of New York, la State Parent Teacher Association, e la Sheriff's Association si sono opposte, perché «nel mezzo della pandemia, con la crisi del vaping tra i giovani e l'epidemia di oppiacei, questa legge va contro la logica». La decisione però è presa. New York è convinta di poter gestire in sicurezza la marijuana legale, evitare il boom della dipendenza, e incassare i vantaggi economici e politici dello spinello libero.
Paolo Mastrolilli per “La Stampa” il 29 marzo 2021. «Bene, ottimo. Così la marijuana diventerà sempre meno sexy, e la gente perderà interesse. Quando eravamo adolescenti a New York, fumavamo tutti per lo stesso motivo: la trasgressione. Ma se una cosa diventa legale non c'è più trasgressione, e la gente si stanca». Parola di Erica Jong, che qualcosa deve saperne. Perché lei si era laureata negli anni Sessanta al Barnard College, quando la Columbia University, già frequentata da Allen Ginsberg e Jack Kerouac, era il cuore della contestazione americana. «Paura di Volare» poi lo aveva pubblicato nel 1973, anno degli Accordi di Parigi per mettere fine alla guerra in Vietnam, favoriti anche dalle proteste associate alla «liberalizzazione dei costumi».
Come giudica la decisione dei legislatori del suo Stato di legalizzare la marijuana?
«Va decriminalizzata, prima di tutto perché oggi è principalmente una scusa per arrestare i neri, più dei narcos. Poi come droga non fa gravi danni, se fumata in maniera moderata».
Non è preoccupata per gli effetti sulla salute, e il rischio che crei dipendenze più pericolose?
«Premetto che io non fumo marijuana regolarmente, perché è illegale, e soprattutto perché il fumo provoca il cancro. Quindi non è mai una buona idea praticarlo, per la tua salute. Detto questo, ci sono persone capaci di diventare dipendenti da qualsiasi cosa, incluso lo zucchero. Ma se viene usata in maniera moderata, e la gente è ben informata dei pericoli, può anche essere una buona droga. Penso agli usi terapeutici in crescita, ad esempio per trattare il dolore. Tutto ciò contribuisce alla normalizzazione, anche se bisogna sempre tenere presente che il fumo fa male e andrebbe evitato».
Sua figlia Molly ha descritto in un libro la propria discesa verso la dipendenza, e ha raccontato che proprio lei l'aveva accompagnata al centro per disintossicarsi. Come madre che ha vissuto questo dramma, ha qualche riflessione personale da aggiungere?
«Quando i ragazzi sono teenager vogliono sempre provare le cose illegali. Non puoi fermare questo istinto, anche se devi cercare di farlo in tutti i modi. Mia figlia ora è cresciuta, e per fortuna è completamente libera dalla droga. Non ha alcun interesse a fumare marijuana ed è in ottima salute. Spero con tutto il cuore che ogni genitore possa dire lo stesso dei suoi figli».
New York è sempre stata una città degli eccessi. Come ricorda la scena degli anni Sessanta e Settanta?
«Era tutto nuovo, e la gente voleva provare qualunque cosa. La trasgressione però era il movente principale, più dello stesso effetto delle droghe».
Le cose sono cambiate?
«La droga si usa ancora, ma adesso non è più così eccitante. Siamo passati attraverso varie fasi. Quando io ero giovane, negli anni Sessanta e Settanta, le droghe erano cool. Ora non più. Sono ancora usate per gli effetti che provocano, ma non attirano così tanto come fenomeno culturale e sociale. Se poi consenti che qualcosa diventi legale, dopo un po' la gente si stanca di farla».
Quindi la legalizzazione frena l'uso?
«Esatto. La gente smette di usare la droga perché non è più sexy. Ovviamente gli adolescenti restano ribelli e devi proteggerli, ma non sono sicura che la legge sia la maniera migliore per farlo».
Cosa suggerisce invece, come madre?
«Servono genitori intelligenti e coinvolti. Devi convincere i figli a fidarti di te. È molto difficile, ma essere genitori è difficile. Se però sei davvero coinvolto e vuoi proteggere i figli, loro lo capiscono. Devi costruire il dialogo, così quando dici qualcosa non ti vedono come il solito genitore che rompe le scatole perché è il suo ruolo».
Matteo Mion per “Libero quotidiano” il 5 febbraio 2021. Fumarsi una cannetta al volante dell'auto è attività lecita o per dirla in giuridichese "il fatto non costituisce reato": questo il nuovo orientamento della Cassazione penale Sez. IV con la sentenza n° 3900/2021 depositata il 2 febbraio. Nel caso di specie la Corte Suprema ha dichiarato non sussistere la violazione dell'art. 187 Cds a carico di un Tizio pizzicato positivo ai cannabinoidi al volante della propria autovettura. L'assoluzione deriva dal fatto che le Forze dell'Ordine non devono limitarsi ad accertare i sintomi, ma devono provare la condotta di guida alterata dell'autista. In altre parole non è sufficiente dimostrare l'assunzione della droga per configurare il reato di "guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti", ma è anche necessario che le condizioni di attenzione e reazione del conducente siano deteriorate. Pertanto, se la polizia ferma un soggetto con gli occhi rossi, non può automaticamente contestare il 187 Cds, ma deve procedere sia all'accertamento mediante dati biologici o esami sanitari (urine, sangue etc.) dell'assunzione di stupefacenti sia alla conseguente alterazione in peius della condotta di guida. La Corte ha probabilmente inteso graduare la responsabilità del guidatore sotto effetto di stupefacenti come avviene per quello in stato di ebbrezza punito ex art. 186 Cds solo sopra una certa soglia di presenza di alcool nel sangue e non per il mero consumo alcolico. La stessa Sezione aveva già ristretto il campo di applicabilità della sanzione ex art 187 Cds con sentenza 41376/2018 con cui si era passati dalla punibilità della mera assunzione alla dimostrazione per gli agenti della polizia stradale dello stato di alterazione. Ecco allora un altro piccolo scalino restrittivo compiuto dalla Cassazione: l'alterazione psico-fisica deve incidere sulla prestazione di chi si pone al volante. Giova ricordare le pene per il reato di cui al 187 Cds ammenda da 1.500 a 6.000 euro, arresto da 6 mesi a un anno e la sospensione della patente di guida da uno a due anni. Le pene sono raddoppiate se chi è alla guida in stato di alterazione da uso di stupefacenti provoca un incidente stradale, salvo ovviamente rispondere anche del reato più grave di lesioni o omicidio stradale. La giurisprudenza è solita oscillare nei mille rivoli più o meno logici del diritto ed è certamente degno di pregio il ragionamento assolutorio degli ermellini: «L'alterazione psico-fisica implica la modifica comportamentale che renda pericolosa la guida di un veicolo, diminuendo l'attenzione e la velocità di reazione dell'assuntore non è sufficiente che l'agente si sia posto alla guida del veicolo subito dopo aver assunto droghe». Bisogna, però, scendere dal piedistallo filosofico del diritto e fare i conti con la strada e le risorse economiche ed umane con cui la nostra polizia deve svolgere i propri accertamenti e talvolta purtroppo "raccogliere" i cadaveri sul manto stradale. Probabilmente un sabato sera di pattuglia in tangenziale post Covid renderebbe i magistrati meno permissivi.
Da "rainews.it" il 25 febbraio 2021. Le autorità doganali tedesche hanno scoperto oltre 16 tonnellate di cocaina in container arrivati ad Amburgo dal Paraguay, mentre altre 7,2 tonnellate della stessa sostanza sono state sequestrate in Belgio e un sospetto è stato arrestato nei Paesi Bassi. L'ufficio doganale della città tedesca ha descritto il ritrovamento nel porto come la più grande quantità di cocaina mai sequestrata in Europa e uno dei più grandi sequestri singoli al mondo. L'ufficio dei procuratori nazionali olandesi, riferendosi alla quantità complessiva, ha affermato che "mai prima d'ora è stata intercettata così tanta cocaina" in un'unica operazione. Gli agenti hanno trovato la cocaina nascosta in più di 1.700 lattine l'uomo cui erano destinate, un 28enne della città olandese di Vlaardingen, è stato arrestato, hanno fatto sapere i pubblici ministeri olandesi. Le indagini prima dell'arresto hanno portato a un'altra spedizione di container, che erano in viaggio da Panama al porto belga di Anversa. Una perquisizione vi ha scoperto 7,2 tonnellate di cocaina nascoste in un contenitore di blocchi di legno. Il trasporto totale ad Amburgo e Anversa avrebbe avuto un valore al dettaglio di "diversi miliardi di euro", secondo l'ufficio doganale di Amburgo. Rotterdam, Anversa e Amburgo sono i tre porti merci più trafficati dell'Unione europea.
Monica Serra per "La Stampa" il 24 febbraio 2021. Cocaina, eroina, pasticche già alle scuole medie. La percentuale è bassa, siamo intorno all'un per cento degli studenti (1,7 a Pavia, 1,4 a Milano che scende a 0,21 in Sicilia), ma l'età media è allarmante: 12 anni. Dati che aumentano fino al 4,68 per cento di Pavia, 2,8 di Milano e 0,74 della Sicilia quando si parla di hashish e marijuana. I numeri, per il momento parziali, vengono fuori da una ricerca sull'adolescenza condotta nel 2020 dal centro studi "Semi di melo" nato dalla collaborazione della fondazione Exodus di don Antonio Mazzi, con la Casa del giovane di Pavia, l'unica comunità del Nord Italia per minori con dipendenze certificate dal Servizio sanitario nazionale. L'indagine, denominata "Selfie" perché è «la fotografia che i giovani fanno di loro stessi», è stata eseguita su un campione di oltre 60 mila alunni di scuole medie e superiori in tutta Italia. Ma i dati non sono ancora tutti aggregati: «Ci vorrà del tempo e l'aiuto dell'Università di Pavia, con cui abbiamo iniziato a lavorare», spiega Simone Feder, psicologo che coordina l'area dipendenze della Casa del giovane e volontario sempre in prima fila al fianco dei ragazzi nella lotta ad alcol, droga e gioco d'azzardo. A oggi i risultati cristallizzati riguardano le due province lombarde (1.430 alunni milanesi, 470 pavesi) e 949 studenti di sei istituti siciliani, per quanto riguarda i ragazzi delle scuole medie, «ma ci danno comunque il polso di una situazione che abbiamo visto ripetersi ovunque», sottolinea Feder. Quel che più preoccupa è che la maggior parte dei giovanissimi che hanno già provato la droga (tra il 16 e il 17 per cento) lo hanno fatto per «affrontare momenti difficili». «Perché lo fanno tutti, l'emulazione del gruppo che in passato era la prima risposta oggi è diventata la terza», riflette Feder. «Non bisogna soffermarsi sul tipo di droga assunta ma sul perché viene assunta. Sempre più spesso lo scopo è lenitivo: ragazzi così giovani che percepiscono la fatica di vivere. E questo si associa spesso ad atti autolesionistici, come piccoli tagli sul corpo, e alla sempre maggiore difficoltà di comunicare con gli adulti, genitori ed educatori, mentre gli amici restano il loro punto di riferimento». Tutto questo accade in un Paese in cui, secondo la Relazione annuale 2020 al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze (che si riferisce al 2019), sono in aumento le overdose e i ricoveri legati all'uso di sostanze, oltre alle diagnosi tardive di Aids. Il mercato in generale si è leggermente contratto, ma è aumentata la diffusione della cocaina e delle nuove droghe sintetiche. Nel 2019 sono state, infatti, sequestrate in Italia quasi 55 tonnellate di droga in tutto e 223 mila piante di cannabis (con un decremento del 55,7 e 57,4 per cento dal 2018), oltre a 59 mila dosi o compresse di stupefacente (+74 per cento). L'82 per cento dello stupefacente sequestrato è hashish e marijuana, come negli anni precedenti, ma quel che è triplicato nel tempo è il quantitativo di cocaina finita sotto sigilli, che nel 2019 ha raggiunto le 8,3 tonnellate. Numeri in realtà parziali rispetto alla diffusione del fenomeno perché - dicono esperti e investigatori - sotto sequestro finisce soltanto il 10 per cento della droga sul mercato. Non si conoscono i dati relativi all'ultimo anno, di lockdown e pandemia, ma «di certo traffico degli stupefacenti e sequestri non si sono ridotti con la reclusione tra le mura domestiche, anzi sono proseguiti regolarmente», spiega Alessandra Dolci, capo della Dda di Milano. Dove si acquista la droga? Per la maggior parte dei ragazzini intervistati nella ricerca "Selfie", per strada, al parco (40 per cento) e su internet (30 per cento). «Quando questi giovani arrivano da noi, nelle comunità, è troppo tardi - sottolinea Feder - per questo bisogna intervenire prima, con la prevenzione, e andare a prenderli in strada, nei luoghi di ritrovo». Purtroppo, secondo Feder, questo 2020 segnato dalla reclusione in casa per molti ragazzini, lontano da scuola ed educatori, non ha migliorato la situazione: «Solo oggi alla mia comunità sono arrivate tre richieste di ingresso di giovani tra i 14 e i 16 anni, da Asti, Genova e la Lombardia. Uno dei ragazzini però è già irreperibile, fuggito all'estero e a oggi nessuno riesce a rintracciarlo».
«Legalizzare le droghe leggere toglierebbe spazio alle mafie. Le norme sono vetuste». «In questo modo si sottrae terreno al traffico internazionale e potremmo concentrarci sul livello alto delle organizzazioni criminali». Parla il Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 22 gennaio 2021. Federico Cafiero De Raho, 68 anni, Procuratore Nazionale Antimafia dal 2017, si muove da figlio di un tempo dove si diventava un modello per gli altri non nella convegnistica ma sul campo. Collegialità, equilibrio e memoria i postulati della modalità operativa e di elaborazione, forse anche per questo per superare gli strascichi di un anno orribile per la magistratura attraversata dal caso Palamara, De Raho auspica all’inizio di questo dialogo una «riforma necessaria del Csm, in grado di garantire l’imparzialità, dove le correnti sino laboratori di idee e non strumenti per un conflitto. Anche per questo servono regole chiare per le nomine dei dirigenti, valorizzando l’attività giudiziaria svolta, la professionalità e l’imparzialità del magistrato, che è specularmente manifestata dalla indipendenza dalla politica come da qualunque altro centro di potere». Da investigatore di lungo corso è affezionato alla riservatezza, valore spesso tralasciato e per questo «la riforma sulla giustizia deve, anche, poter garantire il valore costituzionale della presunzione di non colpevolezza e, al tempo stesso, l’obbligo della riservatezza delle iniziative giudiziarie, fino a sentenza definitiva. Una garanzia anche per evitare condizionamenti esterni».
L'approccio tedesco alla cannabis terapeutica: perché supera quello italiano? La Germania ricalca l'approccio italiano nella legalizzazione della cannabis terapeutica. Ma dal punto di vista esecutivo è più avanti rispetto al nostro Paese. Francesca Bernasconi, Lunedì 08/02/2021 su Il Giornale. Ad oggi, la Germania rappresenta il più grande mercato europeo di cannabis terapeutica. A stabilirlo è il rapporto del 2020, Succeeding in European cannabis, concluso da Brightfield Group e Hanway Associates, che ha indicato un "fatturato di 265 milioni nel 2020". Il rapporto prevede anche che il fatturato "aumenterà a 2,1 miliardi entro il 2025", arrivando a costituire circa i due terzi dell’intero mercato europeo. Così, la Germania si dimostra in prima linea nel mercato della marijuana medica, con un modello che ricalca quello italiano e che, dopo la legalizzazione della sostanza, ha introdotto la produzione nazionale.
La cannabis terapeutica in Germania. Il percorso di legalizzazione della marijuana usata per scopi medici è iniziato alla fine del Secolo scorso, quando sono stati approvati il nabilone e il Dranobinol. Nel 2008 erano 7 i pazienti trattati legalmente con cannabis terapeutica. Ma la vera svolta si ebbe solo nel 2017, quando la Germania approvò la Legge per modificare la legge sugli stupefacenti e altri regolamenti, legalizzando completamente la sostanza. La Legge inserisce la cannabis solamente nell'Appendice III, che contiene le sostanze "commercializzabili e soggette a prescrizione", rendendo disponibile al commercio e alla prescrizione altri medicinali a base di cannabis, tra cui "fiori essiccati ed estratti da cannabis per uso farmaceutico". Così, a partire dal 10 marzo 2017, data di entrata in vigore della legge, l'uso terapeutico della marijuana è consentito per pazienti affetti da patologie gravi, per le quali le terapie tradizionali non siano risultate efficaci. In Germania, come in Italia, la cannabis medicinale viene prescritta dal medico secondo precise indicazioni, in caso il paziente sia affetto da patologie gravi refrattarie, e viene venduta attraverso le farmacie. Nel Paese, inoltre, è previsto il rimborso da parte dell'assicurazione sanitaria legale, servizio che ha fatto ipotizzare un aumento della domanda. Per questo, precisa la legge del 2017, "occorre garantire un approvvigionamento di qualità sufficiente consentendo la coltivazione controllata in Germania": il Bundesinstitut für Arzneimittel und Medizinprodukte, BfArM, si occupa di autorizzare le importazioni e le esportazioni di stupefacenti, oltre che di concedere le licenze necessarie alla distribuzione e alla coltivazione della cannabis. La Cannabis Agency, un dipartimento di BfArM introdotta con la legge del 2017, è l'unica entità che può distribuire cannabis medica prodotta in Germania e si occupa di controllare la coltivazione, la raccolta, la lavorazione e la distribuzione della sostanza. Fino al 2019, la marijuana medica presente in Germania derivava interamente dalle importazioni. Secondo quanto sottolinea il Germany Cannabis Report, stilato nel 2019 da Prohibition Partners, tra settembre 2017 e marzo 2018, sono stati importati 2.100 chilogrammi di cannabis medicinale proveniente dai Paesi Bassi e dal Canada, mentre nella prima metà del 2019, grazie all'aumento delle quote annuee disponibili per le importazioni, sono stati acquistati 2.498 chilogrammi di fiori di cannabis. Perché la sostanza venga importata, la pianta deve poter essere ricondotta alla sua fonte originale, dove devono essere seguite procedure ben precise per la produzione. Ma a partire dal 2019, per rifornire il mercato tedesco sono state concesse le prime licenze per la coltivazione nazionale di marijuana terapeutica. Ad aprile e maggio, la BfArM ha assegnato i contratti per la coltivazione, la raccolta e la lavorazione della cannabis per scopi medici del peso totale di 10.400 chilogrammi, su un periodo di 4 anni: si tratta di 13 lotti, con un importo annuo di 200 chilogrammi ciascuno. Ad ottenere le licenze per produrre in Germania sono state due aziende canadesi e una start-up tedesca. Così ora, le importazioni verranno affiancate dalla produzione nazionale, che garantisce una maggior disponibilità della sostanza per i pazienti affetti da gravi patologie resistenti ai farmaci tradizionali.
L'approccio tedesco supera quello italiano. L'approccio tedesco ricalca il modello italiano. Ma, nonostante l'Italia si sia mossa in anticipo rispetto alla Germania nella legalizzazione della cannabis terapeutica, risulta ora in ritardo a livello esecutivo. Nel nostro Paese, la marijuana medica può essere prescritta dal medico di base per il trattamento di una serie di patologie, dal dolore cronico, a quello associato alla sclerosi multipla, fino agli effetti causati da chemioterapia, radioterapia o da terapie per HIV. L'uso della sostanza è ammesso anche per stimolare l'appetito nell'anoressia e nei pazienti oncologici e per la riduzione dei movimenti involontari legati alla sindrome di Gilles de la Tourette. La legalizzazione della cannabis terapeutica in Italia è iniziata nel 2006, quando ai medici è stato permesso di prescrivere preparazioni galeniche a base di Dronabinol o una sostanza vegetale a base di cannabis. Inizialmente la sostanza disponibile nel nostro Paese derivava unicamente dalle importazioni, fino a quando il Ministero della Salute e il Ministero della Difesa sottoscrissero un accordo di collaborazione per l'avvio di un progetto pilota per la produzione nazionale della sostanza: era il 18 settembre nel 2014. Il primo luogo scelto per la produzione fu lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze (SCFM), in cui la coltivazione viene sottoposta a rigide norme di coltivazione. Successivamente, con il decreto del 9 novembre 2015, il Ministero della Salute autorizzò in Italia "la coltivazione delle piante di cannabis da utilizzare per la produzione di medicinali di origine vegetale a base di cannabis, sostanze e preparazioni vegetali". Il decreto individua anche i requisiti specifici per i coltivatori, le aree da destinare alla produzione e le modalità di trasporto della pianta, permettendo di avviare la produzione nazionale per uso medico a partire dal 2016, garantendone la qualità e il rispetto di precise norme. Attualmente, in Italia vengono prodotte la Cannabis FM-2, che contiene tra il 5 e l'8% di THC e tra il 7,5 e il 12% di CBD, e la Cannabis FM-1, composta da THC tra il 13 e il 20% e da meno dell'1% di CBD. La normativa italiana, quindi, permette la coltivazione nazionale dal 2015, mentre quella tedesca ha introdotto questa possibilità solo nel 2017, 2 anni dopo. Nonostante questo, però, oggi in Italia solamente lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze è autorizzato a produrre cannabis terapeutica. In Germania, invece, sono oltre una decina le licenze rilasciate per la produzione nazionale. Così, nonostante si sia basata sul modello legislativo italiano, la Germania risulta in anticipo dal punto di vista esecutivo, in particolare per quanto riguarda la produzione nazionale di cannabis terapeutica.
Articolo del “New York Times” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 4 febbraio 2021. McKinsey & Company, il consulente di società e governi di tutto il mondo, ha accettato di pagare 573 milioni di dollari per risolvere le indagini sul suo ruolo nell'aiutare a "mettere il turbo" alle vendite di oppioidi, un raro caso in cui è stata ritenuta pubblicamente responsabile del suo lavoro con i clienti. L'azienda ha raggiunto l'accordo con i procuratori generali di 47 stati, il distretto di Columbia e cinque territori, secondo cinque persone che hanno familiarità con i negoziati. L'accordo arriva dopo che le cause legali hanno portato alla luce una serie di documenti che mostrano come McKinsey ha lavorato per guidare le vendite dell'antidolorifico OxyContin di Purdue Pharma, in un'epidemia di oppioidi negli Stati Uniti che ha contribuito alla morte di più di 450.000 persone negli ultimi due decenni – scrive il NYT. L'ampio lavoro di McKinsey con Purdue includeva il consiglio di concentrarsi sulla vendita delle lucrative pillole ad alto dosaggio, come mostrano i documenti, anche dopo che la casa farmaceutica si era dichiarata colpevole nel 2007 di aver ingannato medici e regolatori sui rischi dell'OxyContin. L'azienda disse anche a a Purdue che avrebbe potuto "unirsi" con altri produttori di oppioidi per evitare un "trattamento rigoroso" da parte della Food and Drug Administration. L'azienda di consulenza non ammetterà illeciti nell'accordo, che sarà depositato nei tribunali statali giovedì, ma sarà d'accordo con le restrizioni imposte dal tribunale sul suo lavoro con alcuni tipi di narcotici che creano dipendenza, secondo coloro che hanno familiarità con l'accordo. McKinsey conserverà anche le e-mail per cinque anni e rivelerà potenziali conflitti d'interesse quando farà offerte per contratti statali. E in una mossa simile agli accordi dell'industria del tabacco decenni fa, metterà decine di migliaia di pagine di documenti relativi al suo lavoro sugli oppioidi in un database disponibile al pubblico. Gli stati useranno le sanzioni civili - 478 milioni di dollari che devono essere pagati entro 60 giorni - per programmi di trattamento, prevenzione e recupero degli oppioidi. Sarà il primo denaro che gli stati vedranno dopo che Purdue Pharma in ottobre ha accettato di pagare 8,3 miliardi di dollari e si è dichiarata colpevole di accuse penali federali sulla sua commercializzazione di OxyContin. Purdue ha dichiarato bancarotta, il che significa che gli stati parte di quell'accordo dovranno allinearsi con altri creditori. Separatamente, i membri della famiglia Sackler, che possiede Purdue, hanno accettato lo scorso autunno di pagare al governo federale 225 milioni di dollari in sanzioni civili, e sono in trattative con altri contendenti per pagare 3 miliardi di dollari. Molti stati erano insoddisfatti dell'accordo di ottobre, che il Dipartimento di Giustizia dell'amministrazione Trump ha raggiunto solo pochi giorni prima che l'ex presidente fosse sconfitto nelle elezioni di novembre. L'importo che McKinsey sta pagando è sostanzialmente più di quanto ha guadagnato dal lavoro legato agli oppioidi con Purdue o Johnson & Johnson, Endo International e Mallinckrodt Pharmaceuticals, i suoi altri clienti produttori di oppioidi, ha detto una delle persone. Un ex partner ha definito l'accordo enormemente significativo perché infrange la distanza che McKinsey - che sostiene di fare solo raccomandazioni - mette tra i suoi consigli e le azioni dei suoi clienti. Per decenni, l'azienda ha evitato la responsabilità legale per i fallimenti di alto profilo di alcuni clienti, tra cui la società energetica Enron e Swissair, la defunta compagnia aerea nazionale svizzera. L'ex partner ha chiesto l'anonimato perché gli ex dipendenti McKinsey sono legati da accordi di riservatezza. A rendere McKinsey e i suoi concorrenti ancora più vulnerabili è il fatto che negli ultimi anni si sono mossi aggressivamente, non solo offrendo consigli di gestione, ma anche aiutando le aziende a implementare i loro suggerimenti. I materiali McKinsey rilasciati in contenzioso negli ultimi due anni risalgono al 2004 e arrivano fino al 2019. I documenti evidenziano la stretta relazione di McKinsey con Purdue per molti anni. Nel 2009, l'azienda ha scritto un rapporto per Purdue dicendo che le nuove tattiche di vendita avrebbero aumentato le vendite di OxyContin di ben 400 milioni di dollari all'anno, e ha suggerito "driver di vendita" basati sull'idea che gli oppioidi riducono lo stress e rendono i pazienti più ottimisti e meno isolati", secondo una causa presentata nel 2018 dal Massachusetts. McKinsey ha lavorato con i dirigenti di Purdue per trovare il modo di "contrastare i messaggi emotivi delle madri con adolescenti in overdose" del farmaco. Nel 2013, il governo federale ha raggiunto un accordo con Walgreens, la catena di farmacie, per reprimere le prescrizioni illegali di oppioidi. Le vendite a Walgreens hanno cominciato a diminuire. Secondo la causa del Massachusetts, McKinsey ha raccomandato che Purdue "faccia pressione sui leader di Walgreens per allentare la presa". E in una presentazione di diapositive del 2017, McKinsey ha esposto diverse opzioni per sostenere le vendite. Una era quella di dare ai distributori di Purdue un rimborso per ogni overdose di OxyContin attribuibile alle pillole vendute. Le diapositive sono notevoli per il loro dettaglio granulare. Per esempio, McKinsey ha stimato che 2.484 clienti di CVS sarebbero andati in overdose o avrebbero sviluppato un disturbo da uso di oppioidi nel 2019 per aver preso OxyContin. CVS ha detto che il piano non è mai stato implementato. Nel 2018, gli alti dirigenti della McKinsey stavano diventando consapevoli che avrebbero potuto affrontare la responsabilità per il loro lavoro sugli oppioidi. Dopo che il Massachusetts ha fatto causa a Purdue, Martin Elling, un leader della pratica farmaceutica dell'azienda, ha scritto a un altro partner, Arnab Ghatak: "Probabilmente ha senso avere una rapida conversazione con il comitato di rischio per vedere se dovremmo fare qualcosa" oltre a "eliminare tutti i nostri documenti ed e-mail. Sospetto di no, ma quando le cose si faranno più difficili, qualcuno potrebbe rivolgersi a noi". Entrambi gli uomini sono stati messi in congedo amministrativo in attesa dei risultati di un'indagine esterna per verificare se qualsiasi materiale è stato distrutto, il managing partner di McKinsey in Nord America, Liz Hilton Segel, ha detto in una lettera al Congresso nel mese di dicembre. Quel mese, McKinsey ha rilasciato una rara scusa pubblica per il suo lavoro sugli oppioidi. "Guardando indietro al nostro servizio clienti durante la crisi degli oppioidi, riconosciamo di non aver riconosciuto adeguatamente l'epidemia che si sta sviluppando nelle nostre comunità o il terribile impatto dell'abuso e della dipendenza da oppioidi su milioni di famiglie in tutto il paese", ha detto la società in una dichiarazione. L'azienda ha poi cambiato la dichiarazione per leggere "uso improprio" invece di "abuso". L'accordo con i 47 stati - Nevada, Washington e West Virginia non ne facevano parte - non impedisce all'amministrazione Biden di cercare azioni legali contro McKinsey. Inoltre, diverse contee e città in tutto il paese - compresa la contea di Mingo in West Virginia, uno degli stati più colpiti dalla crisi degli oppioidi - hanno citato in giudizio McKinsey negli ultimi giorni.
Fabbriche clandestine in Campania e import dall’Est e dalla Libia: è tornato il contrabbando di sigarette. Un giro di affari miliardario, nuovi sistemi per portarle in Italia e distribuzione a domicilio anche dei liquidi delle e-cigarette. Un mercato che costa all’erario 500 milioni l’anno di mancate entrate. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 29 giugno 2021. Due navi di oltre venti metri stazionano al confine con le acque territoriali italiane. È notte fonda nel Canale di Sicilia, quando ad un tratto a queste imbarcazioni si avvicinano tre gommoni partiti dalla costa di Marsala. Una soffiata avverte la Guardia di finanza, che con un elicottero e due motovedette veloci piomba a gran velocità su quel tratto di mare. L’elicottero illumina a giorno una porzione d’acqua color petrolio, i finanzieri saltano sulle due imbarcazioni. Ma qui non trovano migranti nascosti nelle stive e nemmeno carichi di droga o tonni pescati illegalmente e già tagliati e fatti sparire nelle intercapedini. Trovano invece trecento cartoni con dentro sette tonnellate di sigarette Pine blue contraffate prodotte, si scoprirà dopo le indagini, in Tunisia e negli Emirati Arabi e destinate alle piazze di Palermo, da Brancaccio allo Zen. Quasi negli stessi giorni in Emilia Romagna le Fiamme gialle scoprono le basi logistiche in due capannoni vicino Parma di uno dei più noti contrabbandieri di sigarette, Francesco Stanzione, il re della marca taroccata “Regina” che va fortissima nelle piazze di Napoli e nei bar di Roma dove sottobanco vendono di tutto: Stanzione sfugge all’arresto e per mesi si nasconderà in Grecia prima di essere fermato dai poliziotti ellenici e consegnato all’Italia. Più a Nord, a Trieste, la Guardia di finanza dopo aver aperto una decina di container arrivati con una nave dall’Est trova 37 tonnellate di tabacchi e narghilè. Da Nord a Sud sono tre scene di un fenomeno che sembrava scomparso, dopo una crescita costante dagli anni Sessanta agli Ottanta che, come raccontano il giornalista Andrea Galli e il maggiore dei Ros Giuseppe Lumia nel libro “Il Supremo”, ha fatto la fortuna dei De Stefano in Calabria, provocando la prima strage di ’ndrangheta a Locri nel ’67, e dei Badalamenti e dei Buscetta in Sicilia. Un fenomeno che invece non è mai morto. Anzi è vivo e vegeto, secondo i dati raccolti dalla Guardia di finanza per l’Espresso: si parla di un giro di affari scoperto pari a 2,5 miliardi di euro nel 2020, di accisa evasa per 500 milioni all’anno solo in Italia negli ultimi dieci anni (in pratica almeno 5 miliardi di euro di mancate entrate per lo Stato). Numeri da capogiro e di molto inferiori alla realtà sommersa, per un fenomeno che adesso coinvolge anche il traffico del liquido delle sigarette elettroniche nonostante il core business resti sempre lei: la sigaretta, la bionda. Magari non la mitica Lucky Strike, ma le oggi diffusissime Merit e Marlboro (le più copiate). Dietro a questo grande mercato nero ci sono organizzazioni internazionali e clan italiani, come dimostrano alcune operazioni della Gdf che hanno legato la famiglia camorristica Di Lauro ad alcune fabbriche di sigarette negli Emirati Arabi, mentre i meccanismi di vendita sono adeguati ai tempi: nelle piazze di Scampia o dello Zen magari ci sono ancora i banchetti; nelle grandi città la rete è quella dei bar o in alcuni casi di rivendite di tabacchi che così aumentano il numero di clienti; oppure, nell’anno del Covid, si è scoperto che attraverso il dark web non solo si possono comprare stecche di sigarette di contrabbando, ma le organizzazioni criminali le spediscono direttamente a casa sfruttando ignari corrieri di grandi società di logistica.
LE NUOVE ROTTE. Il 13 maggio scorso i finanzieri del Gico di Ancona con uno scanner controllano al porto un container che trasporta pellet destinato a una società di Ascoli Piceno. Qualcosa non quadra: si insospettiscono e decidono di aprire il container e dentro trovano 400 chili di stecche di sigarette di marca Marlboro, Winston e Glamour, custodite in bustoni di plastica. Il carico arrivava da Odessa, in Ucraina. Le sigarette, scoprono gli investigatori, erano dirette al mercato clandestino con basi in Puglia, nelle Marche e in Emilia Romagna. In quattro vengono arrestati, due ucraini e due italiani con precedenti per lo stesso tipo di reato. Semplici manovali, la testa di queste organizzazioni sta spesso altrove. In alcuni casi la Guardia di finanza è arrivata però direttamente al vertice: una delle operazioni più importanti è stata quella curata dal Gico di Napoli che lo scorso anno ha portato all’arresto di Stanzione. Il contrabbandiere napoletano, dalla Grecia, suo vero quartier generale, organizzava il traffico di contrabbando delle sigarette verso l’Italia attraverso carichi nascosti su tir. I mezzi venivano imbarcati nei porti di Patrasso e Igoumenitsa destinazione Bari e Brindisi. Dalla Puglia, con delle staffette, i carichi arrivavano a Napoli. Seguendo questa rotta, i finanzieri fermano un camion, all’altezza di Napoli, trovandovi tre tonnellate di tabacchi di marca Email, D&b, Royal Blue e American club. Stanzione sposta quindi la base logistica più a Nord, tra Parma e Bologna. I finanzieri seguono un furgone Iveco che entra e poi esce da un capannone a Sala Bolognese. Dalle intercettazioni si scopre il prezzo di queste sigarette: «620 euro cassa, 12 euro a stecca», dice Stanzione ad un acquirente pugliese. Il grosso del carico però era diretto a Napoli. In quali quartieri? Lo dice un collaboratore di Stanzione parlando delle sigarette Regina: «Quelle le ha tutta Napoli (le rosse e blu…) puoi andare anche vicino ad una bancarella che vende pacchetti e per 10 stecche di regine chiede 160 euro…dove andate andate, le ha Secondigliano, Casavatore, Arzano, Casoria…». La Guardia di finanza di Palermo invece ha scoperto la rotta del Nord Africa quando ha fermato un peschereccio che stazionava al confine con le acque italiane. A guidarlo c’era un libico, Dinbaou Houssine, con sette tonnellate di sigarette a bordo. Tagliata la fornitura dal Nord Africa, il mercato siciliano è stato rimpinguato da Napoli: in soli 7 mesi sono state trasportate almeno 5 tonnellate di sigarette dalla Campania a Palermo per rifornire i quartieri Oreto, Settecannoli, Borgo Vecchio, Brancaccio e Zen per un giro di affari di 2,4 milioni di euro. Proprio i finanzieri di Palermo hanno scoperto poi una nova rotta se così si può definire, nata a causa delle restrizioni per il Covid: da Napoli le sigarette arrivavano nel capoluogo siciliano con normali ditte di spedizione ignare del contenuto reale dei pacchi. Resta poi un altro canale di contrabbando: quello che coinvolge le navi da crociera. Sulle grandi navi non si pagano accise e spesso i contrabbandieri hanno bolle di consegna con destinazione proprio le navi turistiche, anche se in realtà poi vendono le sigarette al mercato nero.
BASI E GIRO DI AFFARI. Adesso qualcosa sta cambiando, come racconta il tenente Dionigi Orfello del Gico di Napoli: «In questo momento le leggi in Italia prevedono pene severe per chi introduce tabacchi lavorati dall’estero, e molto meno pesanti per chi lavora illegalmente tabacchi nel nostro territorio. Così le organizzazioni criminali stanno aprendo fabbriche di produzione di sigarette di contrabbando in Italia. Nella zona di Nola, ad esempio, i colleghi hanno scoperto diversi capannoni con dentro macchinari per la produzione di sigarette con marchi di tutti i tipi». Un fenomeno in crescita quello delle fabbriche italiane: «In queste realtà lavorano molte persone dell’Est e il tabacco grezzo è acquistato in Italia, in questo modo il reato è minore rispetto all’importazione di tabacco lavorato dall’estero», aggiunge il colonnello Domenico Napolitano, comandante del nucleo Pef Napoli: «Inoltre, abbiamo scoperto che spesso è una singola persona ad aprire la fabbrica, facendo poi contraffazione e dando lavoro in nero: ma il soggetto è uno, così si evita l’associazione a delinquere e si spezza la filiera per dimostrare il legame con la criminalità organizzata». Altre fabbriche di sigarette taroccate sono state scoperte di recente a Sannazzaro dei Burgondi a Pavia, ad Avezzano e a Rieti. In questo caso sono stati fermati dei camion diretti verso la Romania con sigarette prodotte in Italia, insomma la rotta si è per certi versi invertita. In ogni caso i centri di produzione più grandi al momento rimangono all’estero: «In particolare in Grecia, nell’Europa dell’Est ma anche negli Emirati Arabi, dove abbiamo scoperto che acquistavano per poi importare in Italia personaggi di spicco della famiglia Di Lauro», dice Orfello. Non a caso in una operazione è stato coinvolto Vincenzo Manna, un luogotenente di Paolo Di Lauro detto “Ciruzzo u milionario”. Un segnale che questo traffico è ancora un asset importante per la Camorra e non solo. La Guardia di finanza da sempre ha avuto il polso della situazione, avendo il mandato di controllare le frontiere. E i numeri registrati negli ultimi cinque anni sono impressionanti: la Finanza ha registrato sequestri per 1,3 milioni di tonnellate di sigarette e prodotti da tabacco per una evasione delle accise pari a oltre 2,5 miliardi di euro. Lo scorso anno i sequestri si sono concentrati in particolare in Campania (99 tonnellate), Trieste (32 tonnellate), Sicilia (25 tonnellate), Calabria (10 tonnellate) e Lombardia (10 tonnellate). Sempre lo scorso anno le marche più taroccate sono state Marlboro (27 tonnellate di sequestri), Regina (16 tonnellate) e Chesterfield (16 tonnellate). Ma queste cifre riguardano i sequestri fatti dalla GdF che ha molto intensificato i controlli, dando un colpo importante al contrabbando. Il giro di affari resta enorme: solo lo scorso anno sono state evase accise per 500 milioni in Italia, che diventano 9,5 miliardi se si allarga il giro di orizzonte all’Europa. La bionda di contrabbando continua a valere oro anche negli anni Duemila.
Contrabbando di sigarette, un mercato in grande crescita. Ancora un sequestro nelle acque del Canale di Sicilia. Fermata dalla Finanza una imbarcazione con 1,5 tonnellate di “bionde” illegali guidata da un componente della Guardia costiera. Un fenomeno che vale 2,5 miliardi di euro all’anno come raccontato in una inchiesta Espresso. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 17 novembre 2021. Un blitz in mare aperto dopo aver visto gli strani movimenti di una imbarcazione in mezzo al Canale di Sicilia. Così la Guardia di finanza di Palermo e il Gico, insieme al reparto operativo aeronavale e al gruppo aeronavale di Cagliari, hanno scoperto l’ennesimo tentativo diportare dal Nord Africa quintali di sigarette di contrabbando. Un fenomeno in grande crescita, come raccontato in una recente inchiesta dell’Espresso, che solo di accise evasa vale 500 milioni di euro all’anno. Le rotte del traffico illegale di sigarette sono quelle dal Nord-Est, con le fabbriche piazzate sui Balcani e in Grecia, e dal Nord Africa, in particolare da Tunisia, Libia e Marocco. Nelle inchieste della Guardia di finanza sono salate fuori però anche depositi molto forniti nella zona di Parma e fabbriche costruite dai trafficanti di sigarette nella zona di Nola. Una partita miliardaria, come spiegato nella lunga inchiesta Espresso. Nell’imbarcazione fermata dalla Finanza a largo di Marsala sono stati sequestrati 1,5 quintali di sigarette. Nei giorni scorsi, pattuglie dei finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziario di Palermo in servizio di perlustrazione sul territorio avevano notato una imbarcazione da diporto nelle acque marsalesi, in un giorno caratterizzato da condizioni meteorologiche molto sfavorevoli alla navigazione. «Venivano pertanto attivati i Reparti aeronavali della Guardia di finanza schierati nell’area che, poche ore più tardi, individuavano la medesima imbarcazione mentre, nonostante il mare molto mosso, si dirigeva a forte velocità verso la costa, con una rotta compatibile con quella segnalata dagli specialisti del Gico del nucleo di polizia economico-finanziario di Palermo. Si procedeva così a sottoporre a controllo il natante condotto da un cittadino italiano, al cui interno venivano rinvenute 1,5 tonnellate di sigarette di contrabbando, di marca “Pine Blue” e “Royals”, che, da precedenti esperienze investigative, sono oggetto di illecita importazione dal Nord Africa. La merce illecita, destinata a rifornire il mercato siciliano, avrebbe fruttato introiti per oltre 150.000 euro». Arrestato Bartolomeo Briguglia, addetto della Guardia costiera ma che stava guidando, al momento del fermo, un piccolo yacht privato.
La nuova rotta del contrabbando di sigarette: partono dagli Emirati Arabi per arrivare in Sicilia. Il Gico della Guardia di finanza di Palermo ha scoperto le due organizzazioni criminali che in Italia e in Tunisia hanno gestito il trasporto di decine di tonnellate di “bionde” illegali. Consegnata una corposa informativa alla procura Europea. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 16 dicembre 2021. Una nuova rotta che parte dagli Emirati Arabi e arriva via Libia e Tunisia in Sicilia. E’ la nuova rotta del contrabbando di sigarette, un mercato in crescita in questi anni che sta raggiungendo livelli paragonabili ai tempi d’oro del mercato delle “bionde” tra gli anni Settanta e Ottanta. Nelle piazze delle grandi città del Sud sono tornati i banchetti con le sigarette illegali, come raccontato in una recente inchiesta dell’Espresso. Le rotte gestite da alcuni volti noti del contrabbando, come quello di Francesco Stanzione in Campania, negli ultimi anni erano soprattutto quelle che puntavano sull’Europa dell’Est e la Grecia, dove erano nate fabbriche di produzione in nero. Ma adesso si è scoperto che diverse fabbriche sono state create negli Emirati Arabi e nei Paesi del Golfo: è qui che si realizzano le sigarette che poi fanno un lungo viaggio verso l’Europa entrando dal Canale di Sicilia. I numeri della nuova rotta, e l’importanza acquisita nel mercato illegale delle “bionde”, li ha appena scoperti il Gico della Guardia di finanza di Palermo. Con una operazione per la prima volta coordinata dalla Procura europea che ha portato all’arresto di una trentina di contrabbandiere divisi tra due organizzazioni in Sicilia da una parte e in Tunisia dall’altra. Dopo tre anni di indagine con un blitz scattato a fine novembre la Fiamme gialle, coordinate dal comandante del Nucleo di polizia economico-finanziaria Gianluca Angelini, hanno chiuso una operazione che ha portato al sequestro di 23 tonnellate di sigarette (principalmente di marca Oris, Royal, Pine e Tima) e di dieci imbarcazioni, calcolando solo in questa operazione un giro di affari da 3,5 milioni di euro e un danno all’erario dell’Unione europea e dell’Italia per oltre 6 milioni di euro. In Tunisia a capo dell’organizzazione c’era “lo zio”, come lo chiamano tutti: Ahmed Zaabi, 47 anni, che da anni è un riferimento per i contrabbandieri di mezza Europa. Perché ha sempre gestito la rotta tra Libia-Tunisia e la Sicilia, e i contatti con le fabbriche d produzione delle sigarette illegali. «Vi ho mandato tutto, le patate», diceva al telefono Zaabi parlando con il suo riferimento tunisino in Sicilia, Mirghili Walid. Le “patate” in realtà erano le sigarette, almeno trecento casse a viaggio su imbarcazioni che si fermavano poi in acque internazionali. Mirghili secondo gli inquirenti era il gancio in Italia dell’organizzazione tunisina. Il trasbordo dalle acque internazionali fino alla costa siciliana veniva gestito dall’organizzazione italiana, guidata anche qui da un volto noto per aver un passato di contrabbando sin dal 1998: Antonino Lo Nardo, 46 anni, di Palermo, che a sua volta poi aveva come due suoi riferimenti a Campobello di Mazara, dove attraccavano le imbarcazioni veloci. Qui entravano infatti in gioco Vito Agnello, titolare del rimessaggio Onda Blu e Bartolomeo Bertuglia, quest’ultimo militare della Capitaneria di porto che quindi poteva offrire una doppia copertura e conoscenze di non poco conto. Tra il 2019 e il 2020 questa organizzazione ha gestito la rotta delle sigarette di contrabbando tra l’Africa e la Sicilia. Gli investigatori sono arrivati a risalire alle fabbriche di produzione negli Emirati Arabi: ma per avviare indagini in questi Paesi occorrono accordi internazionali che l’Italia non ha e quindi l’operazione della Guardia di finanza si è concentrata sulle organizzazioni in Tunisia e Sicilia. Dalle coste del Trapanese le sigarette poi, con staffette in auto e furgoni, venivano vendute nelle periferie di Palermo e di altre città siciliane dove sono tornati in grande stile i banchetti nelle piazze. Come a Bari, Napoli o Reggio Calabria. Questa rotta che dai Paesi del Golfo via Nord Africa arriva in Europa si aggiunge a quelle note dell’Europa dell’Est e della Grecia attraverso le coste pugliesi. Secondo i dati raccolti dalla Guardia di finanza per l’Espresso si parla di un giro di affari scoperto pari a 2,5 miliardi di euro nel 2020 e di accisa evasa per 500 milioni all’anno solo in Italia negli ultimi dieci anni (in pratica almeno 5 miliardi di euro di mancate entrate per lo Stato). Numeri da capogiro e di molto inferiori alla realtà sommersa, per un fenomeno che adesso coinvolge anche il traffico del liquido delle sigarette elettroniche nonostante il core business resti sempre lei: la sigaretta, la bionda. Magari non la Lucky Strike, ma le oggi diffusissime Merit e Marlboro (le più copiate).