Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2021
LA GIUSTIZIA
NONA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le condanne.
Cucchi e gli altri.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa fanno. Sabrina e Cosima: sono innocenti?
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Massimo Bossetti è innocente?
Il DNA.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Colpevoli per sempre.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Morire di TSO.
Parliamo di Bibbiano.
Nelle more di un divorzio.
La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
L’alienazione parentale.
La Pedofilia e la Pedopornografia.
Gli Stalker.
Scomparsi.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Da contributo unificato a pedaggio? Tangente o Pizzo?
La Giustizia non è di questo Mondo.
Magistratura. L’anomalia italiana…
Il Diritto di Difesa vale meno…
Figli di Trojan: Le Intercettazioni.
A proposito della Prescrizione.
La giustizia lumaca e la Legge Pinto.
A Proposito di Assoluzioni.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Verità dei Ris
Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.
Le Mie Prigioni.
I responsabili dei suicidi in carcere.
I non imputabili. I Vizi della Volontà.
Gli scherzi della memoria.
Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.
La responsabilità professionale delle toghe.
Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.
Soliti casi d’Ingiustizia.
Adolfo Meciani.
Alessandro Limaccio.
Daniela Poggiali.
Domenico Morrone.
Francesca Picilli.
Francesco Casillo.
Franco Bernardini.
Gennaro Oliviero.
Gianni Alemanno.
Giosi Ferrandino.
Giovanni Bazoli.
Giovanni Novi.
Giovanni Paolo Bernini.
Giuseppe Gulotta.
Jonella Ligresti.
Leandra D'Angelo.
Luciano Cantone.
Marcello Dell’Utri.
Mario Marino.
Mario Tirozzi.
Massimo Luca Guarischi.
Michael Giffoni.
Nunzia De Girolamo.
Pierdomenico Garrone.
Pietro Paolo Melis.
Raffaele Chiummariello.
Raffaele Fedocci.
Rocco Femia.
Sergio De Gregorio.
Simone Uggetti.
Ugo de Flaviis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’uso politico della giustizia.
Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.
Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Avvocati specializzati.
Le Toghe Candidate.
Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Le Intimidazioni.
Palamaragate.
Figli di Trojan.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cupola.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Magistratopoli.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giornalistopoli.
Le Toghe Comuniste.
Le Toghe Criminali.
I Colletti Bianchi.
INDICE NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero della Moby Prince.
Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.
L’affaire Modigliani.
L’omicidio di Milena Sutter.
La Vicenda di Sabrina Beccalli.
Il Mistero della morte di Christa Wanninger.
Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.
Il Mistero di Marta Russo.
Il Mistero di Nada Cella.
Il Mistero delle Bestie di Satana.
Il Mistero di Charles Sobhraj.
Il Mistero di Manson.
Il Caso Morrone.
Il Caso Pipitone.
Il Caso di Marco Valerio Corini.
Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.
Il Caso Claps.
Il Caso Mattei.
Il Mistero di Roberto Calvi.
Il Mistero di Paola Landini.
Il Mistero di Pietro Beggi.
Il Mistero della Uno Bianca.
Il Mistero di Novi Ligure.
Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.
Il mistero del delitto del Morrone.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Il Mistero del Mostro di Milano.
Il Mistero del Mostro di Udine.
Il Mistero del Mostro di Bolzano.
Il Mistero della morte di Luigi Tenco.
Il Giallo di Attilio Manca.
Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.
Il Mistero dell’omicidio Varani.
Il Mistero di Mario Biondo.
Il Mistero di Viviana Parisi.
Il Caso di Isabella Noventa.
Il Mistero di Lidia Macchi.
Il Mistero di Cranio Randagio.
Il Mistero di Marco Pantani.
Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.
Il Mistero di Saman Abbas.
INDICE DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.
Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.
Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.
Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.
Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.
Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.
Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.
Il Mistero di Roberto Straccia.
Il Mistero di Carlotta Benusiglio.
Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.
Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.
Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.
Il Giallo di Sebastiano Bianchi.
Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.
Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.
Il Mistero della Strage di Erba.
Il Mistero di Simona Floridia.
Il Mistero della "Signora in rosso".
Il Mistero di Polina Kochelenko.
Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.
Il Mistero di Giulia Maccaroni.
Il Mistero di Tatiana Tulissi.
Il Mistero delle sorelle Viceconte.
Il Mistero di Marco Perini.
Il Mistero di Emanuele Scieri.
Il Mistero di Massimo Manni.
Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.
Il Mistero di Bruna Bovino.
Il Mistero di Serena Fasan.
Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.
Il Mistero della morte di Vittorio Carità.
Il Mistero della morte di Massimo Melluso.
Il Mistero di Francesco Pantaleo.
Il Mistero di Laura Ziliani.
Il Mistero di Roberta Martucci.
Il Mistero di Mauro Romano.
Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Il Mistero di Wilma Montesi.
Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.
Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.
Il Mistero di Maurizio Gucci.
Il Mistero di Maria Chindamo.
Il Mistero di Dora Lagreca.
Il Mistero di Martina Rossi.
Il Mistero di Emanuela Orlandi.
Il Mistero di Gloria Rosboch.
Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".
Il Mistero del delitto di Garlasco.
Il Mistero di Tiziana Cantone.
Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.
Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.
Il giallo di Stefano Ansaldi.
Il Giallo di Mithun.
Il Mistero di Stefano Barilli.
Il Mistero di Biagio Carabellò.
Il mistero di Kasia Lenhardt, ex di Jerome Boateng.
Il Caso Imane.
Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.
Il Mistero di Denis Bergamini.
Il Mistero di Simonetta Cesaroni.
Il Mistero di Serena Mollicone.
Il Mistero di Teodosio Losito.
Il Caso di Antonio Natale.
Il Mistero di Barbara Corvi.
Il Mistero di Roberta Ragusa.
Il Mistero di Roberta Siragusa.
Il Caso di Niccolò Ciatti.
Il Caso del massacro del Circeo.
Il Caso Antonio De Marco.
Il Giallo Mattarelli.
Il Giallo di Bolzano.
Il Mistero di Luca Ventre.
Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.
Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.
Il Mistero di Federico Tedeschi.
Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.
Il Mistero di Gianmarco Pozzi.
Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero della strage di Bologna.
LA GIUSTIZIA
NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il Mistero della Moby Prince.
Moby Prince, svolta nelle indagini: recuperate le trasmissioni radio e le immagini satellitari. Verso la verità di quella notte di 30 anni fa. Clemente Pistilli su La Repubblica il 9 novembre 2021. Per la prima volta si stanno decrittando tutte le tracce audio che si svolsero nella rada livornese il 10 aprile 1991 incise su una enorme bobina di undici piste, di cui finora ne erano state ascoltate solo due. Ma c'è di più. Un altro contributo alla verità potrebbe arrivare dalla tecnologia. A trent'anni dal disastro della Moby Prince, traghetto partito da Livorno e diretto a Olbia che il 10 aprile 1991 si schiantò contro la petroliera Agip Abruzzo causando la morte di 140 persone, c'è una svolta nelle indagini. L'inchiesta potrebbe essere ora realmente vicina a svelare i troppi misteri, ad accertare le responsabilità e a dare verità e giustizia ai familiari delle vittime, che non hanno mai smesso di lottare affinché quella carneficina non venisse dimenticata. Due precedenti inchieste, una della Procura di Livorno e una della Commissione parlamentare istituita al Senato nella scorsa legislatura non sono state sufficienti a far luce sull'incidente.
Decrittate tutte le trasmissioni radio
Per la prima volta si stanno infatti decrittando tutte le trasmissioni radio che si svolsero nella rada livornese la notte del disastro incise su una enorme bobina di undici piste, di cui incredibilmente finora ne sono state decrittate e ascoltate solo due. Ma c'è di più. E un altro contributo fondamentale alla verità potrebbe arrivare dalla tecnologia.
Recuperate tutte le immagini satellitari
Sono state infatti recuperate anche tutte le immagini satellitari dell'area, grazie alla pubblicazione di tutti i materiali satellitari del servizio geologico statunitense in quegli anni.
Le immagini mostrano la situazione della rada prima dell'incidente, durante e dopo e una società di ingegneria navale sta realizzando una raffigurazione dinamica di tutta la giornata e della nottata del 10 aprile.
Elementi nuovi e che potrebbero rivelarsi decisivi nel lavoro della Commissione presieduta dal dem Andrea Romano, anche lui di Livorno, che già ha svolto diverse audizioni ed effettuato missioni alla ricerca del materiale utile a far sì che la Moby Prince non resti un altro dei tanti misteri d'Italia.
Una "strana" nebbia
La nave, di proprietà della famiglia di armatori Onorato, quella notte di 30 anni fa, finì contro la petroliera, venne avvolta dalle fiamme e si salvò solo un giovane mozzo napoletano, Alessio Bertrand. Per 140 persone non ci fu scampo da quell'inferno di fuoco.
La colpa venne data alla nebbia presente in rada. Ma la stessa Commissione presieduta dal senatore Lai ha accertato che al momento dell'incidente non c'era alcun problema di visibilità a Livorno.
“Sono numerosi – specificarono i commissari nella relazione conclusiva – i testimoni qualificati che hanno fornito l’immagine di una serata serena con ottima visibilità”.
Federico Zatti, della Rai, ha appena scritto "Una strana nebbia", avanzando inquietanti ipotesi sul possibile ruolo della stessa criminalità organizzata. Ma la Commissione presieduta da Romano, tra le registrazioni delle comunicazioni radio e le immagini satellitari, ora potrebbe essere veramente a un passo dalla troppo a lungo attesa verità.
Il mistero delle armi tra Iraq, Italia e Somalia
La Commissione ha puntato invece su una serie di scelte a dir poco discutibili fatte dalla Capitaneria di porto, in particolare per quanto riguarda i soccorsi, sulle ombre nelle indagini, tanto che venne indagato Achille Onorato al posto del vero armatore, il figlio Vincenzo, e sulla stessa Agip Abruzzo, senza contare che in un documento del Sismi del 2004 l’incidente venne inquadrato in una serie di scambi tra Iraq, Italia e Somalia relativi a una rete di traffici illegali di armi, scorie e rifiuti tossici che sarebbero avvenuti nella rada di Livorno. Un caso su cui hanno lavorato e continuano a lavorare anche diversi giornalisti.
Ritardi nei soccorsi, bugie e depistaggi
Il lavoro svolto fino al 2018 dall'organismo parlamentare presieduto dal senatore del Silvio Lai ha sottolineato invece che ci furono incredibili ritardi nei soccorsi, incongruenze sulla ricostruzione delle attività delle navi in rada e sui tempi di sopravvivenza dei passeggeri a bordo, e soprattutto una serie di bugie e depistaggi. Da questo materiale è partita una terza inchiesta della Procura di Livorno, esaminato pure dalla Procura di Roma e che ha portato a una seconda commissione d'inchiesta, questa volta istituita alla Camera.
Il primo processo finì nel 1997 con l’assoluzione di tutti gli imputati e la seconda indagine, aperta nel 2006, con un'archiviazione.
Damiano Fedeli per il "Corriere della Sera" il 15 luglio 2021. «Proviamo a rovesciare la prospettiva. Possiamo considerare quell'incidente non come il frutto di circostanze sfortunate, ma come un obiettivo deliberatamente cercato e perseguito? In altre parole: se la Moby Prince fosse stata prima sequestrata e poi dirottata contro la petroliera, alcune tessere del puzzle, forse, troverebbero la loro collocazione». Ribalta il punto di vista e avanza un'ipotesi nuova il giornalista e autore Rai Federico Zatti nel suo Una strana nebbia (Mondadori): la tragedia del Moby Prince sarebbe un tassello della strategia di allora della mafia contro lo Stato. Con Cosa nostra interessata a mettere le mani sugli affari dell'oro nero, negli anni della guerra Eni-Montedison. Secondo Zatti, poco dopo le 22 del 10 aprile 1991 il traghetto Moby Prince, appena salpato da Livorno alla volta di Olbia, sarebbe stato messo in rotta di collisione contro la petroliera Agip Abruzzo, in rada poco fuori dal porto toscano, da un gruppo di dirottatori che poi avrebbero velocemente abbandonato la nave. «Nel linguaggio mafioso, per punire il commerciante che non paga il "pizzo" si versa una tanica di benzina davanti all'ingresso del suo negozio e si lancia un cerino acceso per dare fuoco a tutto», scrive Zatti. «La Moby Prince doveva svolgere la funzione del cerino e, come tale, appiccare l'incendio sulla petroliera». Nel rogo che ne seguì morirono tutte le 140 persone a bordo del traghetto, con un unico superstite: il mozzo Alessio Bertrand. Fu il più grave disastro della marina civile italiana. Nel trentennale della sciagura, Zatti riprende le carte della vicenda processuale - nessun colpevole è stato mai individuato - e soprattutto quelle della commissione parlamentare d'inchiesta che al Senato ha lavorato fra il 2015 e il 2018 (un'analoga commissione è stata istituita alla Camera il 12 maggio scorso). Partendo dalle tante domande irrisolte - dai ritardi nei soccorsi alla presenza di esplosivo sul traghetto - Zatti intreccia l'analisi con altre vicende, come il disastro ambientale della petroliera Haven, naufragata nel golfo di Genova solo poche ore dopo la tragedia di Livorno. «Sembra incredibile pensare al dirottamento di un traghetto di linea per colpire una petroliera, ma non meno di imbottire un'autostrada con 500 chili di tritolo per uccidere un magistrato», scrive il giornalista. La strage di Capaci sarebbe avvenuta un anno dopo. «Due attentati - argomenta Zatti - con lo stesso obiettivo: colpire lo Stato con una violenza senza precedenti».
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 10 aprile 2021. Quando è già tempo di memoria senza che mai sia stata fatta giustizia, ecco che dall' armadio spuntano delle novità. Anche trent' anni dopo, anniversario tondo, che poi è la ragione dell'attuale e temporaneo fascio di luce su uno dei più misconosciuti misteri italiani. Pensiamo di sapere tutto, della tragedia della notte della Moby Prince. Dieci aprile 1991, il traghetto che si schianta contro la petroliera Agip Abruzzo all' uscita dal porto di Livorno. Centoquaranta morti. Un processo da operetta. Nessun responsabile. La ricerca della verità lasciata solo ai familiari delle vittime. Come se quella tragedia immane dovesse essere destinata a restare una questione privata. È stato così fin dall' inizio. Ancora nel 2017, la Commissione parlamentare di inchiesta, che ha svolto un lavoro importante, si dichiarava stupita del fatto che molte dichiarazioni rese durante le audizioni fossero «convergenti nel negare evidenze o nel fornire versioni inverosimili dell'accaduto». Una montagna di bugie, di omissioni e di falsità. Non importa se costruite per coprire negligenze oppure segreti internazionali, resta una pagina orrenda della nostra storia recente. Oggi sappiamo che la nebbia «tropicale, che tutto avvolgeva» fu un evento «sopravvalutatissimo» come riferì un perito di allora alla Commissione. Sappiamo che la Agip Abruzzo si trovava nel triangolo d' acqua all' uscita del porto, zona con divieto di ancoraggio per non intralciare il percorso delle altre navi. «La petroliera non doveva essere lì», titolava La Nazione il 15 aprile 1991. Quell' articolo è l'unico a non essere mai stato inserito nella vasta rassegna stampa allegata agli atti del primo processo. Ma ci sono volute due decadi abbondanti per dimostrarlo, grazie al lavoro sull' archivio satellitare svolto da Gabriele Bardazza, l'ingegnere milanese che da anni presta consulenza al Comitato delle vittime. Pensiamo di sapere, e invece non sappiamo niente, perché fino a quando non salta fuori una prova, una pezza di appoggio, anche le evidenze dei fatti rimangono allo stato di pure ipotesi. Prendiamo uno degli snodi fondamentali della vicenda. I soccorsi furono disastrosi, un tragico trionfo di lentezza, incompetenza e in seguito di opacità. Succede che la Regione Toscana istituisca un armadio della memoria, per non dimenticare le stragi della Moby Prince, di Viareggio e della Costa Concordia. Un bravo archivista cataloga ogni documento. Dalla cartelletta di un avvocato del primo processo, emergono fogli che mai erano finiti agli atti. Sono firmati dai vertici del Comando operativo dell'Aeronautica militare, che riepilogano attimo per attimo la notte del 10 aprile 1991. Loro erano pronti a intervenire. Alle 00.10 la Capitaneria di porto, che secondo la legge è responsabile dei soccorsi, dà l'allarme. Probabile collisione tra due petroliere, nessuna notizia sui dispersi. La nostra aviazione si attiva subito. Stanno per levarsi in volo mezzi dalle basi di Linate, Istrana e Ciampino, al massimo un'ora e cinquanta minuti il tempo di intervento dalla base più lontana, «comprensivo dei 30 minuti di approntamento». Ma quegli aerei ed elicotteri, nove in tutto, non partiranno mai. Alle 00.17 la Capitaneria di porto dice che non c' è bisogno, «comunicando che da quello che si sapeva i naufraghi erano morti, nella zona c' era nebbia, che la Marina stava provvedendo». Mezzanotte e 17. Mezz' ora prima, sulla tolda della Moby Prince viene ritrovato vivo quello che diventerà l'unico superstite della strage, Alessio Bertrand, il mozzo, che all' epoca aveva solo 23 anni. E da allora non ha mai smesso di ripetere la stessa versione dei fatti. «Molti dei miei compagni potevano essere salvati. Ma nessuno li andò mai a cercare. E nessuno ha mai pagato per questo». La Marina militare, che secondo la Capitaneria di Porto aveva preso il comando delle operazioni, arrivò sulla scena del disastro la mattina dopo. Quella comunicata all' Aeronautica fu una inesattezza, o forse peggio. Con un tale livello di caos, con indagini giocate in casa e al ribasso, tese a dare la colpa a un uomo solo, il comandante della Moby Prince Ugo Chessa, che tanto non poteva più parlare, una volta caduto il velo delle menzogne sono fiorite tesi di ogni genere. Già la sera del 12 aprile 1991 si sapeva che nel locale eliche di prua, proprio sotto il garage, era avvenuta una esplosione. Ancora oggi non c' è sicurezza sul fatto che fosse dovuta a una miscela di gas frutto dell'urto tra le due navi, e non già il risultato di un esplosivo ad alto potenziale, come sostenne una discussa perizia degli esperti della Procura, che nel 1992 salirono sul relitto. Il consulente della Commissione Paride Minervini scrive che «al fine di fugare i molti dubbi», sarebbe necessaria una analisi dei reperti ritrovati in tribunale, «per la ricerca delle tracce di esplosivi alla luce delle nuove tecnologie». Cosa fare, lo deciderà il procuratore di Livorno. C' è una nuova indagine per strage a carico di ignoti. Ci sarà una nuova commissione d' inchiesta, proposta da Pd, M5S e Lega, per far luce sulle cause della collisione, sul mancato coordinamento dei soccorsi. E su come sia stato possibile questa nebbia durata 30 anni. C' è da capirlo, Angelo Chessa, figlio del comandante, che ha dedicato la vita a ridare l'onore a suo padre ricostruendo quel che era davvero successo quella notte. «Ho dato tutto, e rifarei tutto. Ci è capitato di essere trattati in modo vergognoso nelle aule di tribunale, di venire liquidati con un'alzata di spalle. Ma ne è valsa la pena. Perché infine tutti hanno capito. Abbiamo una verità storica. Adesso sarebbe bello avere anche una verità giudiziaria».
Moby è sempre con te. Report Rai PUNTATA DEL 19/04/2021 di Adele Grossi, collaborazione di Norma Ferrara, immagini di Tommaso Javidi e Dario D'India, grafica di Michele Ventrone, montaggio di Orazio Danza. Centoquaranta persone muoiono su un traghetto che andava ad Olbia: prende fuoco scontrandosi con una petroliera ferma all'ancora. Accade tutto a pochi minuti dal porto di Livorno: è così vicino che dal lungomare si vede tutto. Eppure i soccorsi non arriveranno mai. A trent'anni dalla strage dimenticata del Moby Prince, Report torna sulla vicenda con documenti inediti, partendo dalla compagnia armatrice del traghetto che da allora è cresciuta a dismisura e che oggi, in cambio di oltre 72 milioni di euro annui, garantisce il trasporto marittimo pubblico da e per la Sardegna, in base a una convenzione scaduta da un anno e più volte prorogata.
MOBY È SEMPRE CON TE di Adele Grossi collaborazione di Norma Ferrara immagini di Tommaso Javidi e Dario D'India grafica di Michele Ventrone montaggio di Orazio Danza.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, torniamo a una storia di una notte di 30 anni fa. Un traghetto salpa dal porto di Livorno, direzione Sardegna, il suo nome è Moby Prince. Appartiene ad una piccola compagnia di navigazione, la Navarma, che fa riferimento all’imprenditore Vincenzo Onorato. Ecco quel traghetto da mesi sta navigando con il mozzo delle eliche difettoso, questo perché sia il controllore che il controllato avevano continuamente rinviato la sostituzione. Poco dopo aver lasciato il porto viene coinvolto in un incidente con una petroliera dello Stato, l’Agip Abruzzo, entrambe prendono fuoco solo che i soccorsi si dirigono solo sulla petroliera dello Stato. Il Moby Prince può continuare a bruciare e con lui 140 persone a bordo. La nostra Adele Grossi.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO E’ il 10 aprile del 1991. il traghetto Moby Prince parte dal porto di Livorno diretto ad Olbia. sono le 22.00.
MOBY PRINCE – REGISTRAZIONI FREQUENZE LIVORNO RADIO 10 APRILE 1991 Buonasera, Moby Prince, Moby Prince.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Dopo circa mezzora, alle 22.25.27 secondi, si schianta contro una petroliera ferma all’ancora, l’Agip Abruzzo. Scoppia un incendio.
MOBY PRINCE – REGISTRAZIONI FREQUENZE LIVORNO RADIO 10 APRILE 1991 Moby Prince, Moby Prince, May Day, May Day. Siamo incendiati. Siamo in collisione, prendiamo fuoco.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO A bordo del traghetto ci sono 140 persone, ma i mezzi di soccorso vengono dirottati solo verso la petroliera dell’Agip, il cui equipaggio viene salvato. Solo dopo più di un’ora, due ormeggiatori si accorgono che c’è anche il Moby Prince, in fiamme, e lanciano l’allarme.
ORMEGGIATORI – REGISTRAZIONI FREQUENZE LIVORNO RADIO 10 APRILE 1991 La nave è la Moby Prince, la Moby Prince, c’è un sacco di gente sopra. Abbiamo raccolto un naufrago, ci dice che ci sono ancora persone sulla nave. Capitaneria, mi stai ascoltando? Avvisatore, avvisatore?! Qualcuno mi deve rispondere, ma cos’è successo?!
ADELE GROSSI FUORI CAMPO I mezzi di soccorso sono concentrati sulla petroliera della compagnia petrolifera di Stato. Nessuno si avvicina al Moby Prince. Muoiono 140 persone. Si salva solo il mozzo dell’equipaggio.
FRANCESCO SANNA - GIORNALISTA Per 80 minuti, il Moby Prince sparisce dalla scena. Nessuno lo soccorre ed era lì, attaccato alla petroliera.
ANGELO CHESSA – FIGLIO COMANDANTE MOBY PRINCE La cosa agghiacciante è che Livorno Radio chiama il Moby Prince: “Moby Prince da Livorno, mi ricevi?”. Quindi loro sanno che c’è una collisione, chiamano il Moby Prince, il Moby Prince non risponde e non si fanno neanche una domanda?
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Sulla più grande tragedia navale del nostro Paese non sono bastati 3 processi per chiarire le responsabilità. I magistrati hanno imputato la strage a un errore umano, causato dalla scarsa visibilità per una nebbia calata improvvisamente sulla petroliera.
ANGELO CHESSA – FIGLIO COMANDANTE MOBY PRINCE Era impossibile che un banco di nebbia avesse avvolto la petroliera, dopo che il traghetto era uscito dal porto. Le pale del timone in acqua erano a 30 gradi a dritta: quindi questo vuol dire che il timoniere cercava di andare a sinistra, ha iniziato la manovra a sinistra, ma il timone non è andato… Ma si capiva perfettamente che l’intenzione era quella di dire che era stato un incidente dovuto alla nebbia.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO La stessa nebbia con cui sono rimaste avvolte alcune contraddizioni emerse dagli ultimi atti dei processi. Troppi, 30 anni, per andare a cercare nuove prove, eppure nel 2018 una Commissione parlamentare d’inchiesta scopre che quella che doveva essere la principale causa dell’incidente non c’era.
SILVIO LAI – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA MOBY PRINCE La nebbia non c’era. Quello che noi pensiamo è che possa esserci stato o un ostacolo improvviso sulla rotta del Moby Prince, o un’avaria che ha deviato la direzione di marcia del Moby Prince.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Questo video è stato registrato da uno dei passeggeri poco prima della strage: viaggiava con la moglie e le due bambine. Giocano a bordo, poi in cabina, poi un rumore sordo e la registrazione si interrompe. Il nastro della registrazione fu reciso: le indagini non riuscirono ad appurare né perché, né da chi.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Per anni, tutti i processi conclusero che i passeggeri erano morti nel giro di 30 minuti dalla collisione. La commissione ha accertato che la vita sul traghetto andò avanti per ore, in attesa dei soccorsi che non arrivarono.
ANGELO CHESSA – FIGLIO COMANDANTE MOBY PRINCE Nessuno ci ha mai contattato dalla società armatrice né nella notte, né nei giorni successivi. La mattina accesi la televisione e c’era il Moby Prince bruciato all’esterno e la prima cosa che mi colpì è che nessuno buttava acqua.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Le indagini, secondo la Commissione furono “inadeguate e lacunose”, in particolare quelle relative alla “gestione armatoriale precedente e successiva all’evento”.
SILVIO LAI – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA MOBY PRINCE Secondo diversi diciamo testimoni, il livello di manutenzione non era straordinario.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Il Moby navigava da diversi anni con il mozzo delle eliche difettoso. L’ente certificatore Rina, il Registro Italiano Navale, dal 1988 ne aveva prescritto la sostituzione “entro la successiva visita di controllo”. Lo prescrive di nuovo nel 1990 rinviandola, per la seconda volta, a marzo 1991.
FLORIO PACINI – DIRIGENTE NAVARMA Il pezzo era in magazzino, lo avevo io in magazzino: me lo ricordo come ora perché l’ho comprato io.
ADELE GROSSI Per fare questo lavoro la nave doveva essere riportata a terra.
FLORIO PACINI – DIRIGENTE NAVARMA All’asciutto, certo.
GABRIELE BARDAZZA - CONSULENTE TECNICO FAMILIARI VITTIME MOBY PRINCE Un’operazione che ovviamente nel pieno della stagione, comunque mettere il traghetto in bacino significava sospenderlo dalla navigazione per almeno un paio di settimane.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO E così il 10 aprile, al momento dell’incidente, il mozzo dell’elica difettoso non era stato ancora sostituito, come dimostrano le perizie.
GABRIELE BARDAZZA – INGEGNERE FORENSE - CONSULENTE TECNICO FAMILIARI VITTIME MOBY PRINCE Nell’elica, nel mozzo di destra, fu anche rinvenuta dell’acqua di mare e questo poteva effettivamente essere un problema per la navigazione.
ADELE GROSSI Il problema che è stato riscontrato al mozzo delle eliche potrebbe aver contribuito a causare quello è accaduto?
GABRIELE BARDAZZA – INGEGNERE FORENSE Potrebbe aver provocato una turbativa della navigazione.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO A prescindere dalle valutazioni del consulente tecnico, sulle certificazioni del Moby, noi abbiamo registrato un’anomalia: pochi mesi prima della strage, gli ispettori del Rina salgono a bordo per un controllo. Il mozzo non era stato sostituito, tuttavia gli assicuratori di Navarma scrivono che in base alle certificazioni rilasciate dal Rina, non c’era: “Nessuna nuova prescrizione”. Eppure in un riepilogo successivo redatto dallo stesso Rina, sei giorni dopo la strage, la prescrizione è presente negli atti, o meglio si legge di un ennesimo rinvio a “novembre del 1991”.
ADELE GROSSI Un difetto al mozzo delle eliche è un difetto importante?
PAOLO SALZA – DIRETTORE TECNICO REGISTRO ITALIANO NAVALE Se causa una rientrata d’acqua non è tollerabile.
ADELE GROSSI Questa è la certificazione del Rina che riguardava il Moby Prince. Nel 1988 era stata prescritta la sostituzione del mozzo delle eliche, successivamente è stata rinviata, poi è stata rinviata …
PAOLO SALZA – DIRETTORE TECNICO REGISTRO ITALIANO NAVALE Sì, è un evento molto, molto risalente: lo verifichiamo sicuramente.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Hanno verificato, ma per “obblighi di riservatezza nei confronti dei clienti”, non ci rispondono. il “cliente” è la società armatrice del Moby prince: la Navarma, in quegli anni, piccola compagnia di navigazione che fa capo al giovane Vincenzo Onorato.
VINCENZO ONORATO – AUDIZIONE IN SENATO 30/11/2017 Tutti negli anni mi hanno chiesto che cosa è accaduto sul Moby Prince. Posso dirle che per capirlo, ricorsi persino anche a una seduta spiritica.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Appena sette mesi prima della strage, gli armatori del Moby Prince, avevano stipulato un’assicurazione sul traghetto per ben 20 miliardi di lire liquidati in tempi record e con l’indagine giudiziaria in corso.
GABRIELE BARDAZZA – CONSULENTE TECNICO FAMILIARI VITTIME MOBY PRINCE Stiamo parlando di un traghetto che poteva valerne sette-sette e mezzo di miliardi di lire del tempo, che viene risarcito per 20, quindi a valore di polizza, e non di perizia: già questa è un’anomalia rilevante.
FRANCESCO SANNA – GIORNALISTA Ora, io non so il rapporto che ciascuno di voi ha avuto con le assicurazioni. Il mio è che l’assicurazione fa di tutto per non pagare, cioè tendenzialmente. Invece in questa vicenda, gli assicuratori hanno fatto di tutto per pagare oltre ogni misura.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Ma la chiave di volta di tutta la vicenda è l’accordo che avrebbe dovuto rimanere segreto fra un’azienda partecipata dallo Stato, l’allora Snam proprietaria della petroliera, e la Navarma di Vincenzo Onorato. L’assicurazione della petroliera avrebbe pagato i danni ambientali, quella degli armatori del Moby avrebbe risarcito i familiari delle vittime.
VINCENZO ONORATO – AUDIZIONE IN SENATO 30/11/2017 Presidente, il rischio guerra non è legato solo a un attentato, a una guerra… È un’assicurazione contro i danni lesivi volontari di un terzo.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Le indagini confermarono la presenza sul traghetto di “tracce di esplosivo ad uso civile”.
GABRIELE BARDAZZA – INGEGNERE FORENSE Quello che è stato accertato è che all’interno del locale eliche di prua è avvenuta un’esplosione.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Davanti alla commissione d’inchiesta, Onorato dichiara che si trattava di una copertura assicurativa attiva su tutta la flotta.
VINCENZO ONORATO – AUDIZIONE IN SENATO 30/11/2017 Tutte le navi hanno rischi ordinari e rischi di guerra. E’ una prassi assicurativa assolutamente normale.
SILVIO LAI – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA MOBY PRINCE Quello che lui ci stava rappresentando non era credibile, perché non ci risultano altre assicurazioni di altre navi e di altre compagnie che, diciamo, si assicuravano contro la guerra in quel momento. Vi ha colpito come Commissione che lui avesse mentito? Sì, ci ha colpito.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Ma la chiave di volta di tutta la vicenda è l’accordo che avrebbe dovuto rimanere segreto fra un’azienda partecipata dallo Stato, l’allora Snam proprietaria della petroliera e la Navarma di Vincenzo Onorato. L’assicurazione della petroliera avrebbe pagato i danni ambientali; quella degli armatori del Moby avrebbe risarcito i familiari delle vittime.
LORIS RISPOLI – PRESIDENTE COMITATO FAMILIARI VITTIME MOBY PRINCE “140” C’è stato un martellamento psicologico nei confronti delle famiglie, chiaramente in pieno lutto, in pieno lutto, in pieno dolore. E gran parte delle famiglie hanno accettato il risarcimento.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO La fetta di risarcimento più cospicua, 300 milioni di lire e 3 mila euro al mese, è stata riconosciuta al mozzo del traghetto, l’unico sopravvissuto che negli anni però ha reso testimonianze confuse e a volte contraddittorie.
ALESSIO BERTRAND – SOPRAVVISSUTO ALLA STRAGE DEL MOBY PRINCE No, io ho sempre detto la verità di tutto quello che ho visto là sopra. Ricordo che diciamo partimmo per la Sardegna, per Olbia, poi andai nella saletta a vedere la partita: JuveBarcellona. Poi all’improvviso, sentimmo un rumore forte e fummo scaraventati davanti alla paratia.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Alle famiglie delle vittime va un totale di circa 60 miliardi di lire e a pagare è la Standard Steamship Owners limited con sede alle Bermuda. Con la condizione che accettando il risarcimento si rinunciava al processo, liberando definitivamente Snam e la compagnia di navigazione da qualsiasi responsabilità per la strage.
GABRIELE BARDAZZA – CONSULENTE TECNICO FAMILIARI VITTIME MOBY PRINCE Questo documento sottoscritto diciamo privatamente dalle assicurazioni traccerà il solco dove la responsabilità di quello che avviene è in capo totalmente alla plancia di comando del traghetto, la nebbia, il buio, sfortuna.
FLORIO PACINI – DIRIGENTE NAVARMA Sono stati pagati valanghe di miliardi per mettere a tacere tutto. Quando nasce l’accordo, la Navarma ha un guadagno, un utile da questa storia. Perché rinunciarci? I morti son morti.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Infatti grazie all’accordo, senza attendere la fine del processo, la società di Onorato riscuote l’intera polizza da 20 miliardi.
SILVIO LAI – PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA MOBY PRINCE Non posso nascondere che siamo rimasti tutti molto colpiti dal fatto che fosse stato sottoscritto quell’accordo e che quindi ci fosse stata una velocizzazione così elevata della liquidazione: probabilmente senza quella rapida liquidazione, oggi la Navarma non ci sarebbe più; sarebbe fallita, immagino.
ADELE GROSSI E invece è la prima compagnia di navigazione italiana…
LORIS RISPOLI – – PRESIDENTE COMITATO FAMILIARI VITTIME MOBY PRINCE “140” Questi sono oggetti che mi sono stati consegnati dalla polizia marittima. Queste scatoline di plastica contengono questa spilletta che molto probabilmente vendevano a bordo e che ha una frase “Moby è sempre con te”. Noi l’abbiamo chiamata inizialmente tragedia. Non è una tragedia. E’ una strage.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Oggi la procura di Livorno ha riaperto le indagini con l’ipotesi di reato di strage. E questo dopo trent’anni, tre processi, le indagini della commissione d’inchiesta, una verità ancora non c’è. C’è voluto tanto tempo per scoprire che quella che era stata considerata la prima causa dell’incidente, la nebbia, poi non c’era. E anche quello che era stato ipotizzato, l’errore umano, non c’è. Il comandante era stato accusato di guidare in maniera distratta perché stava guardando una partita in televisione. Si è scoperto poi che non è così, anzi oggi è da considerarsi un eroe. Lui e il suo equipaggio che sono rimasti a bordo fino all’ ultimo a bruciare insieme ai passeggeri. Forse si sarebbe potuto indagare un po’ di più su quel mozzo difettoso delle eliche ma quando i magistrati nel 2009 sono andati dall’ente certificatore quello che avrebbe dovuto controllare a chiedere la documentazione, quelli del Rina hanno risposto: mi dispiace ma non l’abbiamo più conservata. Ecco e anche noi quando siamo andati a chiedere informazioni su quelle anomalie che riguardavano quelle prescrizioni, quei continui rinvii, ci hanno dato un’altra versione: “non possiamo fornirvi informazioni per tutelare la privacy del cliente”. Ecco, quel mozzo… non sapremo mai la verità, se quel mozzo ha contribuito in qualche modo all’incidente. Se è stata una concausa perché è stato rottamato con il resto della nave, e con lei è stata anche rottamata la giustizia, almeno fino ad oggi. E tombata la memoria. Grazie anche ad un accordo fra compagnie assicurative che La Navarma, la compagnia che aveva in dotazione la Moby Prince ha firmato nonostante sapesse nell’immediato dell’incidente che la petroliera dello Stato l’Agip Abruzzo aveva gettato l’ancora là dove non poteva. Noi oggi invece lo sappiamo a distanza di anni, dopo le indagini della commissione d’inchiesta. Perché è importante? perché la Navarma in quel momento avrebbe potuto costituirsi in un processo contro la società armatrice della petroliera di Stato. E invece da quella tragedia è nato un abbraccio, un legame anche fin troppo stretto, se è vero che una piccola compagnia di navigazione la Navarma che navigava con miliardi di perdite è diventata da quel momento in poi la più importante d’Italia.
FLORIO PACINI – DIRIGENTE NAVARMA Voi lo avreste fatto un biglietto con una compagnia che il giorno prima aveva ammazzato 140 persone e la stampa diceva che le avevamo ammazzate? Nel 1992 siamo ancora sotto inchiesta, ma la Compagnia ottiene un appalto dallo Stato, per fare nave albergo per le Colombiadi. Avevamo ospiti, non mi ricordo se 250-350 carabinieri. Cioè lo Stato ci stava pagando fior di quattrini e quando abbiamo preso il contratto, noi non avevamo nemmeno una nave, perché l’unica nave che aveva un po’ di cabine era la Moby Prince ed era bruciata 10 mesi prima.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Nonostante l’indagine in corso, la compagnia dell’imprenditore Onorato, riceve l’incarico di occuparsi del trasporto marittimo in occasione del G7 di Napoli del 1994.
FLORIO PACINI – DIRIGENTE NAVARMA Eravamo con lo Stato italiano, come eravamo con lo Stato italiano, a Napoli quando c’è stato il G7, pagata dal Governo italiano. Come se lo spiega lei?
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Nel 2005 Vincenzo Onorato fonde la Navarma nella Moby e nel 2012 compra anche Tirrenia, la compagnia di stato, con cui garantisce il trasporto marittimo pubblico, in cambio di un contributo annuo di oltre 72 milioni di euro. Il prezzo d’acquisto di Tirrenia ammontava a circa 380 milioni di euro. 200 milioni sono stati versati. Per i restanti 180 milioni, lo Stato accetta un pagherò in tre rate, che Onorato però non ha mai pagato.
EMANUELE GRIMALDI – AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO “GRIMALDI LINES” Le rate sono scadute ma i soldi non sono stati incassati, però nel frattempo gli hanno dato i contributi. Cioè se io devo avere da uno 200 milioni, continuo a pagargli 70 milioni all’anno, cioè continuo a pagare soldi a uno che mi deve ridare i soldi?
MAURO PILI – CAMERA DEI DEPUTATI (2015-2018) Di fatto sta utilizzando un servizio pubblico, con navi che non ha pagato. Qualsiasi libero imprenditore che deve allo Stato 1000 euro, viene sanzionato, perseguito e gli viene fatto il pignoramento.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Un’altra forma di contributo alla compagnia di Onorato arriva nel 2014: quando lo Stato approva una modifica alla convenzione, ad appena un anno dalla firma. Onorato può incassare gli stessi contributi, ma gli viene concesso di offrire meno servizi per un equivalente di 20 milioni di euro.
MAURO PILI – PARLAMENTARE CAMERA DEI DEPUTATI (2015-2018) Moltiplicati per sette anni, quindi significa che quel taglio di 20 milioni ha comportato 140 milioni di euro di vantaggi per il gruppo Onorato, a scapito dello Stato e ovviamente della Sardegna.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO La convenzione con lo Stato è scaduta a luglio, tuttavia Tirrenia ha continuato a navigare, grazie alle proroghe concesse dal Governo per garantire il trasporto marittimo pubblico. L’ennesima proroga è stata decisa due settimane fa. Questo perché i Governi che si sono succeduti, non avevano ancora finito di scrivere il nuovo bando di gara…
MAURO PILI – PARLAMENTARE CAMERA DEI DEPUTATI (2015-2018) Lo Stato sapeva da 8 anni che scadeva la convenzione e si è accorto che era in ritardo negli ultimi mesi: è evidente che stiamo parlando di complicità ad alti livelli.
VINCENZO ONORATO – LEOPOLDA 2015 Buonasera a tutti. Io sono un marinaio. Mi hanno presentato come l’armatore del gruppo dei traghetti più grande del mondo.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO NUOVO Se Onorato sia l’armatore del Gruppo più grande al mondo non lo sappiamo. Sicuramente è un ottimo marinaio. Sa navigare e conosce i porti più sicuri dove approdare: nel 2016 dona 150 mila euro alla fondazione Open.
VINCENZO ONORATO – LEOPOLDA 2015 Il Presidente Renzi ha detto: “Dillo tu!”. Con questo Governo si è realizzata la vera continuità territoriale. E il particolare grazie non lo dovete rivolgere a me, ma lo dovete rivolgere a Matteo Renzi e a questo Governo.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Per la Federazione del Partito democratico Val Di Cornia - Isola d’Elba, Moby versa 30.000 euro mentre nel 2019, 100mila euro vanno alla fondazione Change, che fa riferimento al governatore della Liguria, Giovanni Toti.
VINCENZO ONORATO – GENOVA 2018 Vorrei che faceste con me un grosso applauso al Governatore.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO 40mila li dona anche a Giorgia Meloni, mentre 5000 euro vanno a Fratelli d’Italia.
VINCENZO ONORATO – ATREJU 2018 Desidero innanzitutto ringraziare Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia e voi tutti per questa grande opportunità che mi date.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Onorato ha investito anche per la promozione. 600mila euro li spende per un contratto di promozione con la Casaleggio associati, mentre 240mila vanno al blog di Beppe grillo per finalità pubblicitarie.
VINCENZO ONORATO – VIDEO BLOG “AMICI DI BEPPE GRILLO” Ciao a tutti gli amici di Beppe Grillo. Io sono Vincenzo Onorato, il presidente della Moby.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Pur dovendo restituire centinaia di milioni di euro allo Stato e pur in crisi finanziaria, Moby investe tra acquisto e ristrutturazione oltre 4 milioni di euro per questa villa a Porto Cervo. 200 mq con spiaggia privata. L’immobile dovrebbe essere a uso rappresentanza.
INQUILINA CASA PORTO CERVO Chi sta cercando? Questa è una casa privata. Noi l’abbiamo affittata. Questa è una casa da 5.000 euro a notte. ADELE GROSSI FUORI CAMPO L’anno scorso i creditori chiedono al Tribunale di Milano il fallimento di Moby, denunciando anche operazioni immobiliari per oltre 12 milioni di euro. Come quella di Milano. Un attico da 300 mq e 160 di terrazzo: Moby lo acquista dal suo stesso manager, Vincenzo Onorato, che in cambio incassa 7,6 milioni di euro. Doveva diventare la sede della società. In realtà, stavano provando a venderlo dopo averlo affittato.
FAMILIARE DI VINCENZO ONORATO L’appartamento è all’ultimo piano, prego. Questo è un terrazzo privato. I tempi sono brevi, molto brevi. L’ultimo affitto che è stato fatto era 150.000, però qui si può chiedere anche 180, tranquillamente.
ADELE FUORI CAMPO L’affitto a Moby, per due anni, l’avrebbe pagato una azienda olandese con un capitale sociale di…2 euro. Controllando la ricevuta di bonifico presentata da Onorato in tribunale, scopriamo però che i codici iban sono sballati. Ma qualcuno se n’è accorto? Sempre a Milano, si trova un altro attico da oltre 1 milione: nel 2019, Moby investe per arredarlo 143.000 euro. A comprarlo è la società padovana di un iraniano che non parla italiano e che aveva dato anche per questo procura speciale a un commercialista padovano.
COMMERCIALISTA Non parlava italiano… gli ho fatto solo da… io non ho seguito la trattativa dell’appartamento di Milano: non so né il prezzo, né dove l’ha comprata, non so niente.
ADELE Sì, ma come mai lei fa da procuratore a…
COMMERCIALISTA Scusi, ma a lei cosa gliene frega di ste robe, scusi? Prenda e vada via, su! ADELE Se lui non parlava italiano, l’acquisto dell’attico a Milano, l’avrà curato lei…
COMMERCIALISTA Non l’ho fatto io, le ho detto, adesso mi fa incazzare!!!
ADELE E chi lo ha curato?
COMMERCIALISTA Non lo so!!! Vada fuori dai coglioni
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Il debito della società oggi è lievitato a oltre 535 milioni. Ssoldi che il gruppo deve a banche, obbligazionisti oltre che allo Stato, per l’acquisto mai saldato della Tirrenia, ex compagnia pubblica commissariata dal 2010, mentre Onorato, fra il 2016 e il 2018, incassava 9 milioni di compensi. I commissari di Tirrenia nominati dal Governo, a luglio gli sequestrano i conti, ma poi ci ripensano: sbloccano tutto e sequestrano le navi.
MAURO PILI – PARLAMENTARE CAMERA DEI DEPUTATI (2015-2018) Gli sequestrano quello che è già dello Stato ed è paradossale come abbiano coperto questa situazione. Se lo Stato deve recuperare dei soldi, non mette sotto sequestro le navi.
ADELE FUORI CAMPO Nel 2018, in appena 7 giorni, ben 85 milioni di euro, sono stati spostati dalle casse di Tirrenia-Cin, in debito con lo Stato, a quelle di Moby.
MAURO PILI – PARLAMENTARE CAMERA DEI DEPUTATI (2015-2018) Se tu avevi 85 milioni di euro disponibili, per quale motivo non hai pagato lo Stato e per quale motivo tu svuoti le casse della compagnia che doveva avere i soldi per gestire la continuità territoriale da e per la Sardegna e li sposti alla tua società privata? E’ evidente che tutto questo è avvenuto nel silenzio di tutti, della politica e delle istituzioni che dovevano vigilare.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dal 2012 detiene attraverso la Cin, Compagnia italiana navigazione, anche i traghetti della Tirrenia, che furono dello Stato. Ecco ha garantito attraverso questi traghetti le tratte da e per le isole. In convenzione, dietro l’elargizione di contributi statali. La convenzione era scaduta nel 2020, non avevano scritto il nuovo bando di gara. Ora l’hanno fatto e Onorato ha potuto beneficiare di due proroghe, una con il governo Conte, una con il governo Draghi. Ma in questi giorni la procura di Milano ha chiesto il fallimento della Cin e Onorato ha due strade: o il concordato o la ristrutturazione del debito. Ma deve far presto perché ci sono in ballo seimila marittimi. E poi parallelamente la Camera dei Deputati ha dato il primo via all’istituzione di una nuova commissione d’inchiesta sulla tragedia della Moby Prince. Nella speranza che questa non diventi l’ennesima strage impunita della storia della Repubblica italiana.
Roberta Scorranese per corriere.it il 10 aprile 2021. Quella notte del 10 aprile di trent’anni fa, sulla banchina del porto di Livorno c’erano solo lui e i Vigili del Fuoco. Non era un caso. «Lui» è Massimo Sestini, fotografo e giornalista, ma soprattutto un testimone della nostra storia recente. Sestini, un pratese di 58 anni, ha raccontato l’arresto di Licio Gelli e gli scontri del G8, per fare due esempi. E quella notte venne svegliato da un alto funzionario della Polizia che gli disse, in sostanza: c’è una nave in fiamme al porto di Livorno. «Non ci pensai due volte. Mi vestii e andai lì», racconta. Sono nate così le foto esclusive che vedete in questa pagina, foto che all’epoca dell’incidente del Moby Prince (quando un traghetto con 140 persone a bordo entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, nella rada del porto toscano) fecero il giro del mondo. «Arrivai che era notte fonda – continua il fotoreporter – e le navi erano a sei o sette miglia di distanza. Non si vedeva nulla, come avrei fatto a riprendere la scena con la mia macchina fotografica?». Così come ha fatto tante altre volte Sestini si è «imbucato». Su un gommone dei Vigili del Fuoco, con uno stratagemma. «Arrivammo vicinissimi alla nave in fiamme, una cosa che non dimenticherò mai. E sì che nella vita ho raccontato di tutto, dalle tragedie aeree al dramma dei profughi. Ma non riuscivo a smettere di pensare che su quella nave c’erano più di cento persone carbonizzate». I soccorsi fervevano al largo, mentre negli scatti di Massimo Sestini l’alba toscana si annerisce di colonne di fumo provenienti dalle navi, scure come in certi dipinti di Turner. «Riuscii per primo – continua il fotografo – a procurarmi anche le immagini a bordo della nave. La mia sensazione? Di sgomento fortissimo, perché quel rogo in mezzo al mare mi sembrava assurdo. Tutto aveva un sapore irreale. Dopo tanti anni di carriera ci si abitua, purtroppo, al dolore, però quella scena mi è rimasta dentro. E penso di sapere anche perché. Perché all’epoca non eravamo inondati di immagini come avviene oggi, ma una foto aveva un impatto diverso, un peso molto maggiore. Era un documento fortissimo che raccontava, documentava qualcosa, non era solo un’immagine che ti colpisce». E queste immagini sono testimonianze dense, dolorose. Ci sono i corpi a terra che Sestini ha sfocato (una tecnica che si chiama sfocamento radiale) per rispetto delle vittime, ci sono i getti d’acqua dei soccorsi, c’è la veduta dall’alto che sentenzia la tragedia. Nelle parole del fotoreporter però c’è un senso di annichilimento, come avviene in quelle persone che hanno visto cose sovrumane. «Che cosa ricordo maggiormente di quella notte? – conclude – Forse il grande freddo. Faceva freddo, in quell’incendio».
Moby Prince, 30 anni dopo la tragedia. Orlando Sacchelli su Arno - Il Giornale il 9 aprile 2021. Un traghetto è appena partito dal porto di Livorno, diretto a Olbia. A bordo ci sono 76 passeggeri e 64 membri dell’equipaggio. È una tranquilla serata il 10 aprile 1991. Alle 22.25 si scatena la tragedia, dopo una collisione tra il traghetto e una petroliera. Dallo squarcio che si apre sulla petroliera Agip Abruzzo esce il petrolio, poco dopo una scintilla scatena l’inferno. Nell’incendio, che divampa a bordo del traghetto Moby Prince, muoiono 140 persone. Si salva solo una persona, Alessio Bertrand, 23 anni, il mozzo del traghetto. Ancora oggi, dopo 30 anni, rivive quel dramma con un senso di colpa: “Le immagini di quella notte mi passano di continuo davanti agli occhi, non trovo pace”, raccontò al Tirreno nel 2011. Ma ripercorriamo brevemente la sua esperienza di quel maledetto 10 aprile 1991. La nave alle 22.03 salpa dal porto di Livorno e lui, dopo aver portato la cena (dei panini) ai cinque ufficiali impegnati nella plancia di comando, torna nella saletta tv, a poppa, per vedersi un pezzo di partita: quella sera giocano Juventus e Barcellona, in Coppa delle Coppe. L’impatto con la prua della petroliera è forte: le lamiere della Moby Prince penetrano come un coltello nel burro nella cisterna numero 7 della petroliera, che contiene circa 2700 tonnellate di petrolio. Drammatico l’allarme lanciato dal marconista dal proprio trasmettitore Vhf portatile alle ore 22:25: “Mayday Mayday Mayday, Moby Prince Moby Prince Moby Prince, Mayday Mayday Mayday, Moby Prince! Siamo in collisione, siamo entrati in collisione e prendiamo fuoco! Siamo entrati in collisione e prendiamo fuoco! Mayday Mayday Mayday, Moby Prince, siamo in collisione ci serve aiuto!”. Il mozzo Bertrand, dopo aver tentato disperatamente di darsi da fare, coordinando i soccorsi e aiutando chi stava peggio di lui, si mette in salvo aggrappandosi disperatamente ad una ringhiera di poppa. L’errore più grande che avrebbe potuto fare, gettarsi in acqua, fortunatamente lo evita: il petrolio già abbondante in acqua, infatti, avrebbe reso vano ogni suo sforzo. Un’ora e venti minuti dopo, arrivati i soccorsi, lo troveranno avvinghiato a quella ringhiera, disperato, solo in mezzo ai rottami fumanti, al fumo e ai morti. Nel frattempo i membri della petroliera Abruzzo, trenta persone, si erano messe in salvo tramite una lancia. A distanza di trent’anni ci sono ancora diversi lati oscuri. Perché nessuno, in Capitaneria di Porto, sentì quel Mayday? Perché si accorsero così tardi della tragedia e che la petroliera non aveva urtato una bettolina ma un traghetto di 130 metri pieno di persone? C’era o non c’era la nebbia quella sera, di cui qualcuno parlò? La cosa incredibile è che, come accertato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Silvio Lai, se i soccorsi fossero arrivati in tempo, non concentrandosi solo sulla petroliera, oltre al mozzo altre persone presenti sulla Moby Prince si sarebbero potute salvare.
Moby Prince, 30 anni dopo mancano ancora verità e colpevoli. Ecco perché. Le Iene News il 07 aprile 2021. Il 10 aprile 1991 il traghetto Moby Prince si scontra con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno. Muoiono 140 persone nella più grave tragedia della storia della marineria italiana. Trent’anni dopo restano aperte ancora troppe domande, da causa e dinamica dell’incidente fino a quell’ora di ritardo nei soccorsi. Ve ne abbiamo parlato con Gaetano Pecoraro. Alle 22.25 del 10 aprile 1991 il traghetto Moby Prince si scontra con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno. Si scatena l'inferno: muoiono in 140 tra passeggeri ed equipaggio nel rogo del Moby, si salva solo Alessio Bertrand, il mozzo del traghetto che era partito alle 22 in direzione Olbia. È la più grave tragedia della marineria italiana, che 30 anni dopo è ancora senza colpevoli e senza una verità certa su cosa è successo. Sui molti misteri e dubbi ancora aperti abbiamo indagato anche noi de Le Iene con il servizio di Gaetano Pecoraro che trovate qui sopra. Nello scontro la prua del traghetto squarcia una parte dell’Agip: il liquido altamente infiammabile si riversa sul Moby che si trasforma in un'immensa torcia. Restano varie e ancora aperte le ipotesi sul perché avvenne quell’incidente: nebbia, eccesso di velocità, un'esplosione, un guasto alle apparecchiature di bordo. Di sicuro i soccorsi arrivarono in ritardo: il traghetto fu individuato solo più di un’ora dopo, alle 23.35. Per i familiari delle vittime, che continuano a chiedere la verità, c’è stata dopo una lunga odissea di inchieste, processi e verità a volte distorte, a volte poi demolite. Ha indagato anche una commissione parlamentare. La relazione conclusiva ha escluso che la tragedia sia riconducibile "alla presenza della nebbia e alla condotta colposa avuta dal comando del traghetto" e ha ritenuto che l'allora inchiesta giudiziaria fu "carente e condizionata da diversi fattori esterni", che la petroliera si trovava "in zona di divieto di ancoraggio” e che il Moby ebbe un'alterazione nella rotta di navigazione. Quanto ai soccorsi, alcuni passeggeri potevano essere salvati ma durante le ore cruciali "la Capitaneria di porto apparve del tutto incapace di coordinare un'azione di soccorso". I familiari chiedono ora una nuova commissione bicamerale che possa proseguire i suoi lavori oltre la scadenza della legislatura. Con Gaetano Pecoraro vi abbiamo raccontato nel servizio del 2016 che vedete qui sopra i troppi misteri di questa vicenda. Ne ha parlato anche la commissione parlamentare: “Uno dei servizi della trasmissione Le Iene era dedicato alla tragedia del traghetto Moby Prince: il servizio cercava di approfondire alcune questioni ancora poco chiare agli occhi dell'opinione pubblica", ha dichiarato il presidente della Commissione, il senatore Silvio Lai. Il nostro servizio solleva dubbi in particolare su un punto: quello del carico della petroliera. Dalle registrazioni delle comunicazioni radio tra la petroliera Agip Abruzzo e i soccorritori, emergerebbe che a incendiarsi non sia stato il petrolio greggio ma della nafta, un derivato del petrolio utilizzato dai motori diesel. “Capitaneria, c'è la nafta incendiata in mare!”, dice il comandante della petroliera Agip. I soccorritori rispondono: “Cioè, che cosa è incendiato in mare? La nafta?”. “Sì, una nave ci è venuta addosso, la nafta è andata a mare e ha preso fuoco!”. La cosa è strana perché a riversarsi in mare sarebbe dovuto essere il greggio trasportato e non la nafta. Anche i soccorritori cercano di capire meglio: “Ma sta uscendo nafta da voi o dalla nave che è venuta addosso a voi?”. E il comandante della petroliera Agip risponde chiaramente: “Da noi”. Questo dato è confermato dalle condizioni del corpo dell’unico marinaio del Moby Prince morto per annegamento, a cui è stata trovata nafta nella trachea e sui vestiti. Da dove arrivava tutta quella nafta? Un'ipotesi viene sempre dalle registrazioni radio. Emerge infatti che a incendiarsi sia stato anche il locale pompe: “Sono Paoli, vedevo che dal locale pompe esce parecchio fumo”, dice il comandante della Sicurezza Agip ai soccorritori. Che rispondono: “È il locale pompe, c'eravamo proprio noi a tirarci dell'acqua sopra”. Il punto fondamentale è che, se la petroliera stava pompando fuori nafta, vuol dire che lì ci doveva essere un'altra imbarcazione che la stava ricevendo. E se lì c'era una terza nave, magari è per la sua presenza imprevista e non per la nebbia che il traghetto non è riuscito a evitare la petroliera. La Commissione parlamentare, del resto, parla in più punti di un ostacolo che avrebbe “portato il comando del traghetto a una manovra repentina per evitare l'impatto, conducendo tragicamente il Moby Prince a collidere con la petroliera”. Anche in città, a Livorno, proprio l’eventuale presenza di una terza imbarcazione nella dinamica di quella strage è una delle ipotesi di cui si parla più spesso. Ed è purtroppo, trent’anni dopo, soltanto uno dei molti dubbi e punti che restano irrisolti e che si spera un giorno potranno essere chiariti. Per quelle 140 vittime e per i loro familiari, che non hanno mai smesso di lottare chiedendo verità e giustizia. “Noi lotteremo fino in fondo per sapere la verità su questa vicenda”, dice a Gaetano Pecoraro nel servizio qui sopra Luchino Chessa, figlio di Ugo comandante del Moby Prince e presidente dell’Associazione 10 Aprile-Familiari Vittime Moby. “Se non saremo noi saranno i nostri figli e se non saranno i nostri figli saranno i nostri nipoti, ma non ci fermeremo mai”.
“Li hanno lasciati morire”. Dopo trent’anni la strage del Moby Prince è ancora senza colpevoli. I soccorsi lenti, i depistaggi, il rogo distruttivo smentito dalle fotografie di oggetti risparmiati dalle fiamme. La procura di Livorno riapre il caso su 140 morti senza giustizia. Sara Lucaroni su L'Espresso il 7 aprile 2021. Scena di una vacanza spensierata in barca a vela: una delle foto risparmiate dal rogo della Moby e ritrovata perfettamente integra. «Una buona parte erano cotti. Il ferro del traghetto ha riscaldato la carne, l’ha arrostita, ma non l’ha bruciata. Le due persone ritrovate in sala macchine, dove non è mai arrivato niente, sono state soffocate dai fumi e anche loro cotte ma dopo parecchie ore». Loris Rispoli, presidente dell’associazione “140”, non è cinico, tiene solo vivida l’enormità rivoltante di un torto. È per non alleggerire di un grammo il peso del male, gratuito per le famiglie delle vittime e ineluttabile e senza responsabili per la giustizia, fatto a 140 innocenti, tra cui sua sorella Liana, commessa della boutique di bordo. «Parlo poco di lei, mi sento di offendere tutti gli altri. Scusa ma sono molto chiaro nelle mie cose. Io sono quello che ha mandato a quel paese il comandate della Capitaneria Sergio Albanese. Disse che Livorno gli doveva essere grata perché aveva salvato la stagione turistica». Se gli dicono «sei la memoria storica del Moby» tace perché gli passano davanti le rose che muoiono piano anche loro, sull’acqua della banchina del porto di Livorno per l’anniversario. Poche ore dopo accusa un malore ed è in gravi condizioni. Sfiancato da anni di battaglie per la verità contro un muro di gomma. Giulio Borrelli in conduzione al Tg1 che parlò di equipaggio distratto perché guardava Juve-Barcellona. Le “veline” della Capitaneria. I periti, negligenze così grosse da sembrare studiate, indizi che non sono mai prove, i magistrati, le incazzature, la campagna #iosono141, la fatica della memoria in Italia. Il traghetto della flotta Navarma “Moby Pince” era diretto ad Olbia. Il 10 aprile 1991 alle 22.25, pochi minuti dopo la partenza, entra in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, squarcia la cisterna 7 e si incendia. I familiari delle vittime la chiamano da trent’anni «strage». La Procura di Livorno guidata da Ettore Squillace Greco, invece, la ipotizza solo da due anni, nella terza inchiesta sull’incidente: unico reato non prescritto. È stato dopo la pubblicazione delle 492 pagine di relazione dalla “Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause del disastro del traghetto Moby Prince”. Perizie nuove, quasi 70 audizioni, carte mai lette prima hanno smontato una verità basata sull’inchiesta sommaria svolta da chi era indagato, la Capitaneria. Ora resta da portare in tribunale l’alibi, «sono tutti morti in mezz’ora», che servì sia a chi quella sera in rada a Livorno doveva nascondere responsabilità sia a chi, semplicemente, doveva nascondere qualcosa. «Il fatto che fossero tutti morti era una deduzione logica», ha spiegato l’ammiraglio Albanese ai senatori. E poi, «com’era possibile trovare una via di accesso per andare dentro a prendere i passeggeri visto che non c’era una via di fuga dall’interno?». Francesco Sanna, autore e giornalista che sul Moby ha girato un documentario e scritto un libro, classifica le carte della vicenda per il progetto “Armadio della memoria” della Regione Toscana: «È stata una narrazione tossica. L’architrave di tutto sono i tempi di sopravvivenza a bordo. Lì nessuno è morto per un trauma cranico. Accettare il rischio morte vuol dire che io accetto che tu in quel contesto possa morire e non agisco per evitarlo, questo è già un reato». Per la commissione, la Capitaneria non coordina i soccorsi, non tenta di spegnere l’incendio a bordo. Non cerca il Moby. Tutte le imbarcazioni partite spontaneamente da Livorno andarono sulla petroliera che nulla fece per indirizzarle sul traghetto, «una bettolina». Un’ora e mezzo dopo l’incidente, «una nave in fiamme» la trovano per caso due ormeggiatori: appeso alla balaustra c’è l’unico sopravvissuto, il mozzo Alessio Bertrand. Gli attribuiscono le frasi «ci sono persone ancora vive», e «sono tutti morti», lui nega quest’ultima da sempre. L’Italia se lo ricorda bestemmiare dal predellino dell’ambulanza. Alle 3.30 un rimorchiatore fa salire in scarpe da ginnastica un marinaio per agganciare un cavo e trainare il Moby in porto. L’ammiraglio Albanese intanto parla ai media di nebbia fitta in rada, di fiamme che circondavano a corona il traghetto, di petroliera in posizione regolare. Alle sette il cameriere Antonio Rodi viene ripreso da un elicottero dei carabinieri sul ponte di poppa. È riverso, con i vestiti intatti, accanto a corpi già carbonizzati. Lo carbonizzeranno le lamiere roventi. Alle 9, in mare, venne recuperato il barista Francesco Esposito annegato non nell’Iranian light dichiarato dalla petroliera ma nella nafta e con l’orologio fermo alle 6. Al porto, col Moby coi motori ancora accessi, i vigili del fuoco ci entrano il 12 aprile. Novantuno corpi, molti col giubbetto salvagente e le valige, sono nel salone DeLuxe, l’area con le porte tagliafuoco: il personale li aveva messi in sicurezza in attesa dei soccorsi. Gerhard Baldauf e il motorista Giovanni Abbattista sono integri nella sala macchine. In uno dei garage ci sono impronte di mani sulla fuliggine. Ci sono scatole intatte nella zona bar, cabine non toccate dal fuoco, strumentazioni e bocchette antincendio integre. Le nuove perizie registrano che alcuni avevano percentuali fino al 91% di monossido di carbono nel sangue, quindi avevano vissuto molto più di mezz’ora respirando gas e fumi: i periti dei primi pm si concentrano sul loro riconoscimento e non sull’individuazione delle cause della morte. «Non sono qui per fare documentari, anch’io voglio andare fino in fondo». Francesco dall’inizio fa parte del team di sette amici e professionisti che lavora sul caso Moby e che ha il merito di «far dialogare le fonti», i documenti in possesso dei due comitati dei familiari. «Soldi non ce ne sono, ma se ti va sei con noi» gli rispose Gabriele Bardazza, il coordinatore e titolare di uno studio di ingegneria forense incaricato dai fratelli Chessa, i figli del comandate del Moby Ugo Chessa, per opporsi all’archiviazione della seconda inchiesta, nel 2010. Per i giudici non è credibile «lo scenario da battaglia navale condito da prospetti di guerra tecnologica», in merito alla presenza di navi militarizzate americane impegnate in operazioni di carico e scarico di armi ed esplosivi della Guerra del Golfo diretti verso Camp Darby e un presunto «mercato nero» notturno in rada. E suggeriscono di rassegnarsi ad una tragedia «che bisogna accettare». «Lì ho deciso che non avrei mai fatto passare liscia questa cosa. Hanno fatto passare il Moby per un banale incidente stradale», dice Angelo Chessa dell’associazione “10 aprile”. «Mio padre rimane solo nel mio cuore. So che era uno dei migliori comandanti della marineria mercantile italiana. Era alla Navarma per stare più vicino a casa, noi abitavamo a Cagliari. Venne scelto per varare ai cantieri Benetti di Viareggio il “Nabila”, il più grande yacht del mondo, nel 1979». L’unico collegamento tra ipotetici traffici illeciti e Moby lo dà l’ex Sismi in un grafico allegato ad una nota desecretata sul faccendiere Giorgio Comerio. Si intitola «Traffici illeciti internazionali: materiale bellico recuperato, scorie nucleari ed armi», ed è del 3 aprile 2003. Bardazza analizza le registrazioni radio del canale 16 Vhf utilizzato per i soccorsi e identifica grazie alla voce del capitano greco Theodossiou che la nave col nome in codice “Theresa” è la militarizzata Gallant II, fuggita dalla scena appena appreso dell’incidente. Se ne scopriranno altre due in rada, sette in totale. Sanna scova un video dei primi istanti dopo l’incidente: è girato a 11 chilometri di distanza con un’ottica telescopica. Viene identificato il punto esatto dell’incidente: la petroliera è in divieto di ancoraggio. E non era arrivata dall’Egitto partendo cinque giorni prima: la Lloyd List Intelligence la vede prima a Fiumicino e poi a Genova. L’accertamento sul suo vero carico è più complicato: le indagini al terminal egiziano Sidi el Kedir si stoppano dopo il caso Giulio Regeni. Il 18 giugno 1991 Navarma (con un’assicurazione delle Bermuda) si accorda con Eni-Snam-Agip: non si attribuiranno a vicenda responsabilità. La seconda paga i costi per l’inquinamento e otterrà il dissequestro in sette mesi. La prima si accolla subito i risarcimenti per evitare azioni di rivalsa. Il Moby dal 1990 era assicurato per «rischi guerra». Valeva 7 miliardi di lire, ma viene liquidato per l’intera polizza, 20 miliardi nel 1992, a indagini preliminari in corso e con Achille Onorato (padre di Vincenzo, il vero armatore) indagato. Lui, ma anche il comandante della petroliera Renato Superina e Albanese non finirono mai alla sbarra: i loro sottoposti sì e vennero assolti. «Ho incontrato questo tale che chiaramente è un malavitoso, ha chiesto due miliardi per parlare [ ...] ma bisogna vedere noi, ...se è il caso di farlo arrestare. [...] Mi ha detto che l’esplosivo era a bordo e ce ne era tanto, era semplicemente nascosto forse da tanto tempo, occultato, messo lì da uno della nave. [...] Avevo il dovere di dirvelo perché abbiamo mosso queste cose che io reputo essere cose sgradite e quell’esplosivo che era sul Moby faceva parte di alti quantitativi mafiosi, sicuramente.. [...]». È parte della conversazione avvenuta nel novembre 1994 registrata da Franco Lazzarini, allora presidente di un’associazione di familiari, poi sciolta, e contenuta in un fascicolo mai approdato in Commissione. Accende una luce sulle cause dell’esplosione nei locali di alloggiamento dei motori elettrici delle eliche di prua, accertata dalla Criminalpool nel 1991. Le prime perizie la attribuirono al gas sprigionato. Ci sono tracce di esplosivo «ad uso civile», scrive però il Capo del dipartimento della pubblica sicurezza Parisi in un appunto inviato all’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. Ma riaccende anche le ipotesi investigative che pongono organizzazioni criminali a conoscenza, se non con un ruolo, in traffici illeciti. Ne parlò il pentito di ’ndrangheta Francesco Fonti. Nel giugno scorso è stato ascoltato anche un altro pentito, Filippo Barreca. Oggi sul mistero Moby indaga anche la Direzione distrettuale antimafia di Firenze.
Moby Prince, 30 anni fa la tragedia: cosa accadde davvero e quali misteri restano da scoprire. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2021. La notte del 10 aprile del 1991 a 2,7 miglia al largo del porto di Livorno un traghetto e una petroliera si scontrarono. Nella più grande sciagura della marineria italiana si salvò solo un mozzo. Indagini, commissioni d’inchiesta e processi non hanno fugato i dubbi. Quella notte del 10 aprile di trent’anni fa in Piazza della Repubblica, un ponte larghissimo diventato un’agorà del centro di Livorno, accadde qualcosa di inquietante e misterioso. Una strana nuvola scura avvolse per qualche minuto il panorama. Erano da poco passate le 23.30. Un’ora prima a 2,7 miglia al largo del porto un traghetto e una petroliera erano entrati in collisione e stavano bruciando. Un’immagine, anch’essa simbolo insieme ai rottami fumanti delle navi, dell’epilogo della tragedia del Moby Prince, la più grande sciagura della marineria italiana con 140 vittime (tra questi bambini e neonati) e un solo superstite Alessio Bertrand, un giovane mozzo che ancora oggi non è riuscito a capire come è riuscito a salvarsi. Che cosa era quel manto nero che avvolse parte della città? Nebbia o il fumo dell’incendio delle due navi? Oppure un mix di nebbia e vapore acqueo provocato dalle fiamme del dopo collisione?
Gli interrogativi. Ancora oggi, a 30 anni esatti, questi interrogativi non hanno una risposta certa. Come ancora non si riesce a dare una spiegazione a quella catastrofe del mare che coinvolse un traghetto da poco salpato da Livorno per raggiungere Olbia e l’Agip Abruzzo, una petroliera ancora nella rada dello scalo marittimo toscano. La collisione avvenne alle 22.25 e sui motivi, ancora inspiegabili, si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto. Si pensò che a causarlo fosse stata la nebbia, con testimoni che giurano che ci fosse e altri che parlarono di visibilità ottima. Si lanciarono illazioni su una improbabile disattenzione dell’equipaggio del Moby perché a quell’ora andava in onda la semifinale di Coppa Uefa tra Juventus e Barcellona. S’indagò su una possibile e improbabile bomba perché furono ritrovate tracce di semtex, un esplosivo al plastico usato da mafiosi e terroristi. E ancora di guasti al timone e ai dispositivi di bordo che avrebbero condotto il traghetto su un’altra rotta.
I processi e le nuove indagini. I tre processi non hanno chiarito i dubbi e solo una commissione parlamentare d’inchiesta, decine di anni dopo, ha dato nuovi impulsi alle indagini che la procura di Livorno ha riaperto nel 2018. «È stata una strage e dunque, come ha riconosciuto la procura di Livorno, può essere ancora perseguita perché non è prevista per questo reato la prescrizione», commentò allora Carlo Alberto Melis Costa, legale dei familiari delle vittime. Che depositò un esposto nel quale s’ipotizzava non solo un dolo eventuale ma anche diretto sulle responsabilità della tragedia. Nella denuncia si parlava anche di un’esplosione di gas prima della collisione all’interno della nave accertata dalle analisi dei periti. E vi si leggeva che «resta singolare la circostanza che la Moby Prince fosse l’unica nave assicurata dall’armatore per danni da terrorismo». Le nuove indagini, ancora in corso, si concentrarono su presunte gravi omissione nei soccorsi (con una ipotizzata sottovalutazione della sciagura dell’allora comandante della capitaneria di porto) e su eventuali carenze nelle dotazioni interne della nave, tra queste un sistema antincendio disattivato, mancanza di maschere antigas. Ma ci si interessò anche di tentativi di manomissioni dopo la sciagura al timone e soprattutto di un colossale depistaggio. Che spinse i familiari delle vittime a presentare un secondo esposto, stavolta alla procura di Roma, ipotizzando un tentativo di bloccare la commissione parlamentare d’inchiesta con false testimonianze e prove a discolpa inesistenti.
La nuova commissione d’inchiesta. Adesso ci sarà una nuova commissione d’inchiesta. Non sarà bicamerale come in tanti avevano chiesto ma di Montecitorio e cercherà di svelare i misteri di quella collisione quasi impossibile. Per averla si sono battuti Luchino e Angelo Chessa, figli di Ugo, il comandante del Moby Prince morto in plancia, che guidano l’associazione 10 Aprile-Familiari vittime Moby Prince Onlus, e Nicola Rosetti, vicepresidente dell’associazione dei 140 familiari vittime Moby Prince. Restano per ora le conclusioni della prima commissione parlamentare presieduta dal senatore Silvio Lai. Nella quale si escludono colpe da parte dell’equipaggio e del comandante Ugo Chessa, che morì sulla plancia di comando e anche la presenza della nebbia. E si evidenzia la posizione in zona di divieto della petroliera Agip Abruzzo e un’alterazione della rotta del Moby Prince. Ma le conclusioni che ancora oggi fanno rabbrividire sono sulla carenza dei soccorsi. Potevano essere salvati alcuni passeggeri? La risposta, nero su bianco, è stata affermativa. Alcuni passeggeri potevano sfuggire alla morte ma «la Capitaneria di porto apparve del tutto incapace di coordinare un’azione di soccorso». Un’ora dopo la sciagura non si sapeva ancora se la collisione avesse coinvolto l’unico traghetto passeggeri partito dal porto livornese.
De Falco. Sarebbe bastato tracciare la sua rotta per capire che cosa stava accadendo. Trascorsero più di sei ore prima che si organizzasse un effettivo coordinamento di soccorsi per salvare i passeggeri e l’equipaggio del Moby Prince. Il motivo? Tutte le operazioni erano concentrate sull’Agip Abruzzo. A testimoniarlo davanti alla commissione d’inchiesta parlamentare fu Gregorio De Falco, il comandante oggi parlamentare diventato famoso per il suo «torni a bordo…» al comandante della Costa Concordia Francesco Schettino. De Falco raccontò che la sera del disastro furono disattese le più elementari regole di buonsenso nei soccorsi e da Livorno e La Spezia non partirono quei mezzi (elicotteri, squadre di avvistamento da terra, navi, ecc.) che forse avrebbero potuto salvare vite umane. E invece per alcune ore il Moby Prince, di cui non si riuscì neppure a stabilire l’identità, non venne neppure cercato e tutte le unità si diressero e furono dirette verso la petroliera. In più, senza elementi di valutazione concreti, si decise che sul traghetto non ci potevano essere superstiti e dunque non si salì neppure a bordo.
Il disastro del Moby Prince, 30 anni senza verità. Le nuove carte: «La Capitaneria fermò i soccorsi: sono tutti morti». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2021. Due nuove inchieste, una parlamentare e una in procura, per far luce su misteri e omissioni dello scontro tra il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo che fece 140 morti. Il figlio del comandante Chessa: «Trattati in modo vergognoso, ma ne è valsa la pena». Quando è già tempo di memoria senza che mai sia stata fatta giustizia, ecco che dall’armadio spuntano delle novità. Anche trent’anni dopo, anniversario tondo, che poi è la ragione dell’attuale e temporaneo fascio di luce su uno dei più misconosciuti misteri italiani. Pensiamo di sapere tutto, della tragedia della notte della Moby Prince. Dieci aprile 1991, il traghetto che si schianta contro la petroliera Agip Abruzzo all’uscita dal porto di Livorno. Centoquaranta morti. Un processo da operetta. Nessun responsabile. La ricerca della verità lasciata solo ai familiari delle vittime. Come se quella tragedia immane dovesse essere destinata a restare una questione privata. È stato così fin dall’inizio. Ancora nel 2017, la Commissione parlamentare di inchiesta, che ha svolto un lavoro importante, si dichiarava stupita del fatto che molte dichiarazioni rese durante le audizioni fossero «convergenti nel negare evidenze o nel fornire versioni inverosimili dell’accaduto».
Bugie e falsità. Una montagna di bugie, di omissioni e di falsità. Non importa se costruite per coprire negligenze oppure segreti internazionali, resta una pagina orrenda della nostra storia recente. Oggi sappiamo che la nebbia «tropicale, che tutto avvolgeva» fu un evento «sopravvalutatissimo» come riferì un perito di allora alla Commissione. Sappiamo che la Agip Abruzzo si trovava nel triangolo d’acqua all’uscita del porto, zona con divieto di ancoraggio per non intralciare il percorso delle altre navi. «La petroliera non doveva essere lì», titolava La Nazione il 15 aprile 1991. Quell’articolo è l’unico a non essere mai stato inserito nella vasta rassegna stampa allegata agli atti del primo processo. Ma ci sono volute due decadi abbondanti per dimostrarlo, grazie al lavoro sull’archivio satellitare svolto Gabriele Bardazza, l’ingegnere milanese che da anni presta consulenza al Comitato delle vittime. Pensiamo di sapere, e invece non sappiamo niente, perché fino a quando non salta fuori una prova, una pezza di appoggio, anche le evidenze dei fatti rimangono allo stato di pure ipotesi.
La tragedia e i soccorsi. Prendiamo uno degli snodi fondamentali della vicenda. I soccorsi furono disastrosi, un tragico trionfo di lentezza, incompetenza e in seguito di opacità. Succede che la Regione Toscana istituisca un armadio della memoria, per non dimenticare le stragi della Moby Prince, di Viareggio e della Costa Concordia. Un bravo archivista cataloga ogni documento. Dalla cartelletta di un avvocato del primo processo, emergono fogli che mai erano finiti agli atti. Sono firmati dai vertici del Comando operativo dell’Aeronautica militare, che riepilogano attimo per attimo la notte del 10 aprile 1991. Loro erano pronti a intervenire. Alle 00.10 la Capitaneria di porto, che secondo la legge è responsabile dei soccorsi, dà l’allarme. Probabile collisione tra due petroliere, nessuna notizia sui dispersi. La nostra aviazione si attiva subito. Stanno per levarsi in volo mezzi dalle basi di Linate, Istrana e Ciampino, al massimo un’ora e cinquanta minuti il tempo di intervento dalla base più lontana, «comprensivo dei 30 minuti di approntamento».
Alessio Bertrand: l’unico superstite del disastro della Moby Prince. Ma quegli aerei ed elicotteri, nove in tutto, non partiranno mai. Alle 00.17 la Capitaneria di porto dice che non c’è bisogno, «comunicando che da quello che si sapeva i naufraghi erano morti, nella zona c’era nebbia, che la Marina stava provvedendo». Mezzanotte e 17. Mezz’ora prima, sulla tolda della Moby Prince viene ritrovato vivo quello che diventerà l’unico superstite della strage, Alessio Bertrand, il mozzo, che all’epoca aveva solo 23 anni. E da allora non ha mai smesso di ripetere la stessa versione dei fatti. «Molti dei miei compagni potevano essere salvati. Ma nessuno li andò mai a cercare. E nessuno ha mai pagato per questo». La Marina militare, che secondo la Capitaneria di Porto aveva preso il comando delle operazioni, arrivò sulla scena del disastro la mattina dopo. Quella comunicata all’Aeronautica fu una inesattezza, o forse peggio. Con un tale livello di caos, con indagini giocate in casa e al ribasso, tese a dare la colpa a un uomo solo, il comandante della Moby Prince Ugo Chessa, che tanto non poteva più parlare, una volta caduto il velo delle menzogne sono fiorite tesi di ogni genere. Già la sera del 12 aprile 1991 si sapeva che nel locale eliche di prua, proprio sotto il garage, era avvenuta una esplosione.
L’analisi dei reperti. Ancora oggi non c’è sicurezza sul fatto che fosse dovuta a una miscela di gas frutto dell’urto tra le due navi, e non già il risultato di un esplosivo ad alto potenziale, come sostenne una discussa perizia degli esperti della procura, che nel 1992 salirono sul relitto. Il consulente della Commissione Paride Minervini scrive che «al fine di fugare i molti dubbi», sarebbe necessaria una analisi dei reperti ritrovati in tribunale, «per la ricerca delle tracce di esplosivi alla luce delle nuove tecnologie». Cosa fare, lo deciderà, il procuratore di Livorno.
La nuova indagine. C’è un nuova indagine per strage, a carico di ignoti. Ci sarà anche una nuova commissione di inchiesta, proposta da Pd, M5S e Lega, per far luce sulle cause della collisione, sul mancato coordinamento dei soccorsi. E su come sia stato possibile questa nebbia durata 30 anni. C’è da capirlo, Angelo Chessa, figlio del comandante, che ha dedicato la vita a ridare l’onore a suo padre ricostruendo quel che era davvero successo quella notte. «Ho dato tutto, e rifarei tutto. Ci è capitato di essere trattati in modo vergognoso nella aule di tribunale, di venire liquidati con una alzata di spalle. Ma ne è valsa la pena. Perché infine tutti hanno capito. Abbiamo una verità storica. Adesso sarebbe bello avere anche una verità giudiziaria».
· Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 maggio 2021. Il pilota del volo MH370 della Malaysian Airlines, scomparso nel 2014, ha pianificato attentamente la sua traiettoria di volo in modo da non lasciare indizi. È quanto scoperto da una nuova ricerca. L'8 marzo del 2014 il Boeing 777 della Malaysian Airlines scomparve dagli schermi radar mentre volava da Kuala Lumpur a Pechino. Morirono 239 persone tra passeggeri e personale di bordo. Nonostante quattro anni di ricerche internazionali, costate 200.000 dollari, su oltre 1.200 mq il relitto dell'aereo non è mai stato trovato. Il mare ha restituito alcuni detriti alle Mauritius, in Madagascar e in Tanzania. L'ultimo, una parte dello spoiler alare, è stato ritrovato ad agosto in Sudafrica e ha spinto le autorità a chiedere una nuova ricerca. La teoria più accredita è che il pilota, Zaharie Ahmad Shah, depresso, si sia deliberatamente schiantato in mare. Le nuove scoperte sembrano confermare questa versione. L'ingegnere aerospaziale Richard Godfrey ha mappato i movimenti finali del volo attraverso i dati del Weak Signal Propagation (WSPR), un sistema radio globale che traccia gli aerei. «La traiettoria di volo sembra ben pianificata ed evita rotte di volo commerciali. Il pilota sembra non preoccuparsi del consumo di carburante ma è molto attento a non lasciare tracce». «Il numero significativo di cambi di rotta e la velocità suggeriscono che ci fosse un pilota attivo durante il volo», ha detto Godfrey. «La pianificazione è molto dettagliata e mostra una mentalità che punta ad eseguire nel modo corretto il piano fino alla fine». Un rapporto pubblicato da un gruppo indipendente di esperti ha ipotizzato che i detriti siano stati spazzati via dall'aereo durante un'immersione incontrollata ad alta velocità. Con la nuova traiettoria in mano e l'analisi della deriva oceanica, gli esperti credono di aver individuato il luogo dello schianto in un'aerea a ovest di Cape Leeuwin, nell'Australia occidentale, nota per i canyon del fondale oceanico e le montagne sottomarine.
Il mistero irrisolto del volo Malaysia Airlines MH370. Cosa è successo al volo Malaysia Airlines MH370: tutte le ipotesi, dal dirottamento al cedimento strutturale fino a un possibile suicidio. Paolo Mauri - Dom, 04/04/2021 - su Il Giornale. È notte a Kuala Lumpur, capitale della Malesia. Il cielo è sereno. Un Boeing 777-200ER della Malaysia Airlines sta rullando sulla pista del Kuala Lumpur International Airport. Sono le 00:32 dell'8 marzo 2014, il volo ha il codice MH370. La radio in cabina gracchia: “... clear taxi to holding point Alfa One One runway Three Two Right via sandard route hold short of Bravo” (si tratta di gergo aeronautico del controllo di terra per guidare l'aereo verso la pista di decollo, che si possono tradurre in "autorizzato per rullaggio sino a punto di attesa Alfa Uno Uno, pista Tre Due Destra seguendo tragitto standard, attendere al punto Bravo", ndr). La torre di controllo dà le ultime indicazioni. A mezzanotte e quaranta, il Boeing 777 viene autorizzato al decollo e due minuti dopo spicca il volo dalla pista 32 destra dell'aeroporto malese diretto a Pechino, dove avrebbe dovuto arrivare alle 06:30. Fariq Hamid, il primo ufficiale, si trova ai comandi dell'aereo. Ha 27 anni. Il volo di quella notte sarebbe stato di addestramento per lui, l'ultimo: presto avrebbe ottenuto la certificazione e avrebbe potuto passare a comandante. Il pilota in comando, Zaharie Ahmad Shah, ha 53 anni ed è uno dei comandanti più anziani della Malaysia Airlines. Sposato e con tre figli adulti, possiede due case, e nella sua prima abitazione ha installato un elaborato simulatore di volo Microsoft. Lo usa spesso e spesso pubblica su forum online il suo hobby. Nella cabina di pilotaggio Fariq porta rispetto per il suo superiore, assumendo un atteggiamento oltremodo deferente nei suoi confronti, ma Zaharie non è noto per essere prepotente. Nella cabina oltre ai due piloti ci sono 10 assistenti di volo, tutti malesi. A bordo 227 passeggeri, tra cui cinque bambini. La maggior parte di essi è di nazionalità cinese, mentre tra gli altri si contano 38 malesi e, in ordine decrescente, persone provenienti da Indonesia, Australia, India, Francia, Stati Uniti, Iran, Ucraina, Canada, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Russia e Taiwan. Il decollo è senza storia. La torre di Lumpur autorizza l'MH370 a salire a 18mila piedi (5400 metri) 53 secondi dopo il decollo, indicando di seguire la rotta per il waypoint Igari. Alle 00:46:58 locali il Boeing malese viene autorizzato a salire al livello di volo 250 (FL250), ovvero a 25mila piedi (7600 metri). Alle 00:50:08, sempre la torre di Kuala Lumpur autorizza il volo a salire ulteriormente sino al livello di volo 350 (35mila piedi) mentre alle 01:01:17 il comandante riferisce che si è stabilizzato all'altitudine stabilita mantenendo la quota. Una trasmissione un po' insolita, perché superflua in uno spazio aereo controllato da diversi radar in cui si comunica quando si lascia un livello di volo, non quando lo si raggiunge. Ma nella torre di controllo nessuno ci fa caso. Alle 01:19:30 Kuala Lumpur trasmette: “Buona notte Malaysian Tre Sette Zero”. Questa è stata l'ultima trasmissione radio registrata dall'MH370. Il volo però resta visibile sui radar civili e militari. L'MH370, come si vede dai tracciati, passa per il waypoint Igari 01:20:31. Successivamente il “blip” della posizione radar del Boeing scompare alle 01:21:13, e poco dopo il radar del controllo del traffico aereo di Kuala Lumpur e quello di Bangkok registrano quella che in gergo viene chiamata “caduta del segnale” alle 01:21:13 di quell'8 marzo. In quel momento il volo MH370 è 3,2 miglia nautiche oltre il waypoint Igari. Un radar militare mostra il ritorno della traccia del Boieng mentre vira a destra, ma poco dopo, facendo una virata costante a sinistra verso una rotta di 273 gradi, vola verso sudovest, verso il radiofaro Kota Bharu. Le osservazioni dei radar militari in particolare forniscono un contesto e uno sfondo per altri eventi relativi al volo MH370 durante la “virata”: dalla perdita di contatto all'ultima osservazione radar primaria, mentre il velivolo si stava dirigendo chiaramente verso il Mare delle Andamane, a ovest della Malesia. Un “blip” ritenuto essere l'MH370 viene infatti osservato dalle 01:21:13 sino alle 02:22:12. In questo lasso di tempo il Boeing modifica alcuni parametri del suo volo: dalla rotta, che varia tra gli otto e i venti gradi, alla quota, che passa da 31mila piedi a 39mila, sino alla velocità, che aumenta da 451 nodi sino a 529. Alle 01:37:59 si trova nei pressi del radiofaro di Penang e cambia ancora direzione mettendo la prua per 255 gradi, aumentando ancora la velocità sino a 571 nodi e facendo quota sino a 47500 piedi. Alle 01:52:31 oltrepassa l'isola indonesiana di Penang continuando nel suo volo verso sudovest. Dalle 02:01:59 alle 02:03: 09 si trova vicino a Pulau Perak e il radar militare nell'area lo identifica a un'altitudine di 4800 piedi. Poi alle 02:03: 09 il “blip” dell'MH370 scompare una prima volta, per poi ricomparire tra le 02:15:25 e le 02:22:12 a circa 195 miglia nautiche da Butterworth, stavolta a una quota di 29500 piedi. In quel momento l'aereo di linea si sta dirigendo verso il waypoint Mekar sull'airway N571 quando scompare definitivamente: sono le 02:22:12 e il Boeing 777 coi colori della Malaysia Airlines si trova a 10 miglia dopo il waypoint Mekar, a nord-est della punta settentrionale di Sumatra, mentre si stava dirigendo a nordovest verso il Mare delle Andamane. Ma non è finita. Alle 03:41:00 la stazione di terra Inmarsat, attraverso l'ausilio di dati satellitari Satcom, indica che l'aereo in quel lasso di tempo stava viaggiando verso sud. Quindi a un certo punto tra le 02:22:12 e le 03:41:00 l'MH370 ha cambiato direzione e ha virato a sud. Il volo però continua. Risulta infatti che solo dopo sei ore l'aereo abbia effettuato una discesa ripida fino a cinque volte maggiore di una normale velocità di discesa, come evidenziato dai dati radar doppler. L'aereo quindi sembra essersi letteralmente “tuffato” nell'oceano, probabilmente perdendo pezzo prima dell'impatto per via dell'alta velocità di picchiata. A giudicare dalle prove elettroniche, questa manovra del Boeing non è stata un tentativo controllato di ammaraggio: l'aereo dunque si è schiantato in mare. I soccorsi si attivano con colpevole ritardo: nonostante il volo fosse sparito letteralmente dai radar intorno alle due del mattino, l'allarme viene lanciato solo alle 06:32. Le prime operazioni di ricerca e soccorso si sono concentrate sul lato orientale della Malesia peninsulare, intorno all'ultima posizione nota del velivolo. Vengono mobilitati aerei, elicotteri, navi, e avvisato persino il personale delle piattaforme petrolifere che si trovano nell'area. Ma stanno cercando l'aereo nella zona sbagliata. Il 15 marzo 2014, sulla base dei dati compilati dal Joint Investigation Team (Jit) andato formandosi nel frattempo e composto da esperti e specialisti di Malesia, Cina, Usa, Regno Unito e Francia, il primo ministro della Malesia annuncia che le operazioni di ricerca nella parte orientale e occidentale della Malesia peninsulare sono sospese. Gli esperti finalmente avevano redatto una nuova area di ricerca, comprendente i corridoi nord e sud. Dal 18 al 23 marzo la ricerca aerea si sviluppa lungo il corridoio di volo meridionale e viene coordinata da Malesia e Indonesia. Una seconda ricerca in superficie delle probabili aree di impatto lungo un arco di volo che arriva in pieno Oceano Indiano viene coordinata dall'Australian Maritime Safety Authority dal 18 marzo al 28 aprile. Uno sforzo enorme, che coinvolge molte nazioni come Cina, Giappone, Malesia, Nuova Zelanda, Repubblica di Corea, Regno Unito e Stati Uniti d'America. L'oceano viene setacciato per 42 giorni, effettuando 345 sortite di volo pari a 3177 ore, in una area vasta più di 4,7 milioni di chilometri quadrati impiegando 28 velivoli, sia civili che militari, oltre a navi mercantili e da guerra. Ma del Boeing 777 non viene ripescato nemmeno un singolo pezzo. Il volo MH370 sembra essere stato letteralmente inghiottito dalle profondità marine. Passano i mesi, anzi gli anni, e proprio il mare comincia a restituire i primi resti: un pezzo di flap, qualche giubbotto di salvataggio. Si sono sparsi in balia delle correnti su un'area vastissima arrivando a toccare l'Africa e il Madagascar, ma non aiutano a capire le motivazioni del disastro. A gennaio del 2017 ogni ulteriore ricerca viene sospesa. Per sempre. Nemmeno il risultato della commissione di inchiesta ufficiale chiarisce il perché della perdita del Boeing 777. Frattanto però si scatena una ridda di ipotesi che vanno dalle più serie, che parlano di possibile dirottamento, a quelle più fantasiose, che suggeriscono l'intervento di esseri provenienti dallo spazio, passando per un possibile abbattimento da parte di caccia statunitensi, per fermare l'esportazione in Cina di un qualche tipo di tecnologia militare segreta. La maggior parte sono fantasie generate da menti di mitomani, ma quella del dirottamento sembra non essere esclusa da subito. Però gli eventuali dirottatori, per impadronirsi dell'aereo, avrebbero dovuto aprire un portello del pavimento della piccola cucina di bordo dal basso, salire una breve scala, eludere l'equipaggio di cabina così come il video di sorveglianza ed entrare nella cabina di pilotaggio prima che uno dei piloti potesse trasmettere una chiamata di soccorso. Molto improbabile. Così come è improbabile che un assistente di volo tenuto in ostaggio possa aver utilizzato la tastiera della porta per consentire l'ingresso improvviso senza far scattare un allarme. Inoltre per quale scopo avrebbe avuto luogo il dirottamento? Soldi? Politica? Pubblicità? Un atto di guerra? Un attacco terroristico? Qualsiasi dirottatore esprime richieste (che non ci sono state) o comunque, se si tratta di un atto terroristico, esso viene rivendicato. Il governo malese con il sostegno di esperti internazionali pubblica l'esito della commissione d'inchiesta a luglio del 2018. Il risultato finale è che “la squadra di esperti non è in grado di determinare la vera causa della scomparsa di MH370”. Un buco nell'acqua quindi, anche se l'analisi minuziosa ha permesso di escludere guasti ai sistemi di bordo o un cedimento strutturale (che viene definito “difficile da attribuire”), per via della regolare manutenzione (certificata) effettuata sul velivolo prima del suo ultimo volo. La commissione stabilisce anche che non è stato possibile stabilire se l'aereo fosse pilotato da persone diverse dai piloti, ma che la virata verso sud è stata probabilmente effettuata mentre l'aereo era sotto il controllo manuale e non dell'autopilota. Sebbene non si possa escludere in modo definitivo che un cedimento dell'aeromobile o un malfunzionamento di qualche sistema di bordo possano aver causato il disastro, sulla base delle limitate prove disponibili, è più probabile che quanto accaduto sia avvenuto per “intervento umano”, anche perché dalle note di carico l'MH370 non trasportava alcuna merce pericolosa. Cosa è accaduto? La commissione di inchiesta si limita a riferire che solo il cambiamento nella traiettoria di volo è probabilmente il risultato di input manuali, ma il forte sospetto è che quanto accaduto sia imputabile a un gesto volontario del pilota anziano, il capitano Zaharie Ahmad Shah. Risulta infatti che Zaharie negli ultimi tempi fosse spesso solo e triste. Sua moglie si era trasferita, abbandonandolo, e viveva nella seconda casa della famiglia: il comandante pare avesse una relazione extraconiugale che negli ultimi tempi si era parecchio "raffreddata". Per sua stessa ammissione agli amici, trascorreva molto tempo a camminare nelle stanze vuote del suo domicilio, aspettando così che passassero i giorni tra un volo e l'altro. Un suicidio causato da depressione? Non sarebbe la prima volta nella storia del volo, ma la verità in questo caso è sepolta in fondo all'Oceano Indiano insieme al relitto del Boeing 777 e alle sue scatole nere, che non sono mai state recuperate.
L’AFFARE MODIGLIANI: TRAME, CRIMINI, MISTERI ALL’OMBRA DEL PITTORE ITALIANO. Francesca Lauri su Il Corriere del Giorno il 21 Maggio 2021. Un libro che sembra la bozza di una sceneggiatura di un film. “L’affare Modigliani” ha prodotto l’apertura di nuovi procedimenti penali e supportato indagini già in corso, come ad esempio quelle relative alla mostra di Genova, dove sono state sequestrate ventuno delle quaranta opere attribuite al pittore Amedeo Modigliani. “Segui il denaro, non gli uomini” diceva l’indimenticabile magistrato antimafia Giovanni Falcone. Ed anno dopo anno la sua lezione è sempre più che valida. Su questa strada si sono mossi la giornalista, Dania Mondini e il criminologo, Claudio Loiodice, prendendo Modigliani come paradigma per indagare il lato oscuro del mondo dell’arte: il fenomeno di falsi e riciclaggio. Quello del traffico d’arte è sicuramente un settore a basso rischio di responsabilità penale ma molto redditizio. Un libro che sembra la bozza di una sceneggiatura di un film. “L’affare Modigliani” ha prodotto l’apertura di nuovi procedimenti penali e supportato indagini già in corso, come ad esempio quelle relative alla mostra di Genova, dove sono state sequestrate ventuno delle quaranta opere attribuite al pittore Amedeo Modigliani. La Senatrice Margherita Corrado, dal libro ha tratto spunto per presentare tre interrogazioni parlamentari. “Sentivano di aver trovato la pista giusta per scavare nei misteri, in un sistema che finisce per umiliare l’arte, per sfruttare gli artisti, riciclare denaro sporco. In loro ho visto l’ansia di investigazione” dice il Senatore Pietro Grasso, già presidente del Senato della Repubblica ed Ex Procuratore Nazionale Antimafia, che li ha sempre sostenuti ed è l’autore della postfazione. Dopo la pubblicazione del libro sono seguite denunce e minacce e a distanza di due anni, continuano le intimidazioni verso gli autori. Tanto che, da ultimo sono radicati due procedimenti penali presso la procura di Trento, la provincia in cui ha sede la tipografia del libro. Ogni capitolo ha come titolo la scena del crimine e nel ricostruire i fatti gli autori non hanno risparmiato nomi di politici, istituzioni, critici e altri personaggi del mondo dell’arte. Tra questi ultimi, quello maggiormente coinvolto è Christian Parisot che, dopo essere divenuto illecitamente proprietario degli Archivi, avrebbe autenticato opere false. Di fatto, gli archivi di un artista sono fondamentali per il mercato: consentono di ricostruire la vita, di risalire alla sua produzione. Chi li possiede ha un grande potere: quello di certificare le opere. Modigliani quando morì, non lasciò un archivio. Fu la figlia Jeanne che decise ad un certo punto di raccogliere tutto e per poi donarlo, con un dubbio atto, a Christian Parisot. Perizie calligrafiche e indagini sul patrimonio mai fatte, hanno alimentato i sospetti degli autori. Allo stesso modo l’indagine sulla morte di Jeanne, di cui nel libro si fanno ipotesi che la ricollegano al ritrovamento delle tre sculture false di Modigliani in un canale di Livorno. Un caso frettolosamente archiviato, come una burla. “Gli Archivi nel 2006 erano stati ceduti al patrimonio nazionale italiano da Laure Nechtschein, nipote e unica erede di Amedeo Modigliani, come risulta da documenti che abbiamo acquisito presso la Soprintendenza. Con un accordo sospetto tra Christian Parisot e la mercante d’arte Mariastellina Marescalchi erano poi definitivamente ‘volati’ all’estero” spiegò Dania Mondini in una intervista all’ Agenzia Ansa. Dopo averli ritrovarti, gli autori hanno ricostruito le tappe della loro esportazione illegale dal nostro Paese: ora sono nel porto franco di Ginevra in Svizzera, dove la polizia cantonale li ha bloccati. Sono seguite intimidazioni, querele temerarie come quella che minacciava Parisot, e poi il suo avvocato svizzero, attraverso la stampa elvetica. Si leggerebbero delle finalità intimidatorie, a detta degli autori anche negli ultimi due procedimenti penali presso la procura di Trento. Del resto quello delle querele temerarie, non è un problema nuovo ma anzi è un fenomeno in crescita, volto ad ostacolare il diritto di cronaca e di critica. In occasione dell’ultima presentazione online, il Presidente di Federazione della Stampa Giuseppe Giulietti ha ricordato proprio che “è un tema importante di cui la Federazione della stampa ed Articolo 21 si occupano da anni – e poi a difesa dell’inchiesta, ha continuato – il libro ha uno stile di scrittura limpido, senza retorica, dialettico. C’è una sentenza della Corte di Cassazione chiamata a decalogo del buon giornalismo che recita quali sono i criteri perché sia fondata una inchiesta come un libro: continenza, verosomiglianza, raccolta delle fonti”. “Il libro documenta, si sofferma sugli elementi della conoscenza nel tempo, con citazioni di fonti e di sentenze. Cerca di liberare Modigliani dalla beffa, dal mito, dalle bugie e dalle speculazioni. Un lavoro di scrittura che si fonda sulla trasparenza. La liberazione – ha sottolineato Giulietti – è l’elemento essenziale per giustificare il lavoro dello scrittore e del giornalista. In sede di giudizio di “querele bavaglio”, il pregresso, la biografia di chi l’ha scritto, non può essere rimosso, come invece è avvenuto nel rinvio a giudizio. Le sentenze della Corte Europea dicono che, in ogni caso se il giornalista lavora su un argomento di rilevanza sociale o interesse pubblico, questo dato è prevalente sul singolo errore. Tutto questo nel libro c’è. Eppure il libro è stato querelato. E si è deciso con una rara celerità. Una celerità che non ha riscontro per le minacce rivolte verso i cronisti. Questo è preoccupante. Stanno aumentando le querele verso i libri inchiesta – ha concluso Giulietti – tutto questo per dire che questo libro risponde pienamente ai criteri dell’art 21 della Costituzione: scritto con libertà per dare informazioni aggiuntive a donne e uomini che vogliono sapere“. “L’ esperienza di Dania e Claudio ha fatto riflettere – ha aggiunto Giuseppe Antoci, Presidente della Fondazione Caponnetto – non c’è stata mai una volta in cui dopo aver gioito si è terminato con una preoccupazione per aver scoperchiato l’ennesimo calderone in cui gli autori rischiano, con pressioni e intimidazioni”. Per questo come ha detto Beppe Giulietti, presidente Federazione Nazionale Stampa Italiana “la solidarietà è importantissima in presenza di querele bavaglio, scagliate per intimorire ed è necessario rilanciare una battaglia per avere una legge”. Per Giuseppe Antoci, Presidente Onorario di Fondazione Caponnetto,si tratta certamente di “una inchiesta che deve continuare a vivere aldilà del libro”. Ad ogni modo, per lo Stato italiano, questa poteva certamente essere l’occasione di riappropriarsi e restituire la memoria di uno dei più grandi artisti della nostra storia perché come ha ribadito Dania Mondini “gli Archivi, sono una grande occasione di studio, hanno un valore storico oltre che artistico. Hanno un valore anche per il processo di Genova. Il materiale attualmente depositato presso il porto Franco di Ginevra è un materiale prezioso. Probabilmente il Ris avendo a disposizione la tavolozza di Modigliani, potrebbe decidere se le opere oggetto dell’inchiesta possono essere annoverate tra quelle dell’artista. Avrei sperato se non altro che questo libro avrebbe fatto recuperare l’archivio. Cosa che non è ancora accaduta”. Non sapremo mai se gli archivi torneranno a vivere. Non ci resta che sperare che ciò accada. Quello che è certo è che un danno all’immagine di Modigliani, porta con se un danno all’umanità intera, di riflesso a quello provocato ad un patrimonio culturale sottratto a chi pur volendo prendersene cura, si ritrova nella impossibilità di farlo. Un patrimonio culturale che dovrebbe essere motivo di vanto per noi italiani, specchio della nostra grandezza e che invece vive con il favore delle tenebre mentre chi vuol far luce viene messo sotto processo con una insolita velocità.
· L’omicidio di Milena Sutter.
È morto Lorenzo Bozano, il "biondino della spider rossa": era stato condannato per l'omicidio di Milena Sutter. Nadia Campini su La Repubblica l'1 luglio 2021. Stroncato da un malore mentre faceva un bagno in mare. Era in libertà condizionata da un anno. E' morto, per un malore mentre nuotava, Lorenzo Bozano, il 'biondino della spider rossa' che fu condannato all'ergastolo per il sequestro e l'omicidio della 13enne Milena Sutter, figlia di un industriale. Il rapimento avvenne il 6 maggio del 1971, a Genova, all'uscita della Scuola Svizzera, in centro città. Il caso scosse l'Italia. Bozano finì subito nel mirino degli investigatori per alcune testimonianze oculari. Lui disse di essere stato davanti alla scuola ma negò il rapimento. venne arrestato quando gli investigatori trovarono il corpo a Priaruggia. Assolto in appello, il verdetto fu ribaltato in appello dove venne condannato all'ergastolo, pena confermata dalla cassazione nel 1976. Recentemente, in un colloquio con Il Secolo XIX, aveva detto: "Non voglio fare dichiarazioni anche per rispetto del dolore della famiglia Sutter. Se si chiede umanità per se stessi, bisogna offrirla anche agli altri". Erano i primi del maggio scorso, a 50 anni dal rapimento di Milena Sutter. Bozano era in regime di semilibertà dal 2019. Le vite di Milena Sutter, 13 anni, e Lorenzo Bozano, 25 anni, si incrociarono il 6 maggio 1971. Quella di Milena non proseguì, interrotta proprio dalla mano dell'uomo che quel tardo pomeriggio di primavera la rapì. La ragazzina, figlia di un industriale svizzero, venne uccisa il giorno stesso del sequestro, all'incirca tra le 18 e le 18.30, in una zona compresa tra i quartieri di Quarto dei Mille e Quinto al Mare, nel levante genovese. Il suo corpo venne ritrovato il 20 maggio da due pescatori dilettanti, a circa trecento metri dalla spiaggia di Priaruggia, a Quarto dei Mille. A incastrare Bozano, una "spider rossa", ma non solo: l'allora 25enne, una volta fermato, non riuscì a fornire un alibi che lo coprisse dalle 16.15 alle 19.45 e dopo le 22 del 6 maggio; inoltre, secondo quanto ricostruirono gli inquirenti, era considerato dal padre una persona problematica, tant'è che il genitore lo aveva denunciato alla Procura dei minorenni di Genova nel 1965, dicendo che lo riteneva capace di qualsiasi delitto. Il soprannome di 'biondino della Spider rossa' nacque perchè alcuni abitanti della via dove vivevano i Sutter dissero a un giornalista che scriveva del caso di aver visto un 'biondino' sostare nella zona in cui si trovava la villa degli industriali svizzeri, seduto su una spider rossa ammaccata; alcuni, inoltre, aggiunsero di aver notato la stessa auto nelle vicinanze della scuola frequentata da Milena nei mesi precedenti all'omicidio. Bozano però era ben diverso: aveva i capelli castani, una corporatura massiccia e appariva più vecchio della sua età.
L'inchiesta. La vicenda giudiziaria fu complessa: vennero trovati ventitrè indizi, ma nessuna prova di colpevolezza nei confronti di Bozano che, nel 1973 venne assolto in primo grado per insufficienza di prove. In appello però, nel 1975, il giudizio viene ribaltato: arrivò la condanna all'ergastolo con l'imputazione di rapimento a scopo di estorsione, omicidio con azione di strozzamento e soppressione di cadavere. La sentenza venne confermata dalla Corte di cassazione nel 1976. Poco dopo Bozano fuggì in Francia, poi in Africa e poi nuovamente in Francia. Qui, il 25 gennaio 1979 venne arrestato. Le autorità francesi negarono l'estradizione in Italia, ma venne espulso in Svizzera, dove la polizia cantonale lo condusse nel carcere di Ginevra il 22 ottobre. Poco dopo, le autorità elvetiche lo estradarono in Italia e incominciò a scontare la sua pena qui. Bozano venne rinchiuso nel carcere di Porto Azzurro, nell'Isola d'Elba, e poi - nel 1989 - ottenne la semilibertà. Beneficiando di permessi premio, creò un allevamento di polli a Porto Azzurro, ma anche per questa sua attività ebbe guai giudiziari. La Guardia di Finanza infatti gli contestò una multa di sei miliardi di lire per non aver dichiarato al fisco mezzo miliardo. Nel 1996 gli sono stati sospesi i benefici di legge. L'11 giugno 1997 ha tentato di molestare una ragazza di 16 anni, a Livorno, spacciandosi per poliziotto; per questo reato è stato condannato nel 1999 ad altri due anni di reclusione, e fino al 2002 non ha potuto più richiedere permessi. Bozano è stato posto in regime di semilibertà nel febbraio 2019. Ospite di una casa di accoglienza per detenuti gestita da un'associazione di volontariato, con mansioni di custode e segretario. E' morto mentre faceva il bagno all'Isola d'Elba. Aveva 76 anni. Cinquanta anni prima, dalle acque poco distanti del mar ligure, un altro corpo veniva restituito dalle acque, ed era quello della giovane Milena.
Marco Gasperetti per il "Corriere della Sera" il 2 luglio 2021. È morto da uomo libero, anche se libero era solo a metà, Lorenzo Bozano, 76 anni, il «biondino della spider rossa» condannato all'ergastolo per l'omicidio di Milena Sutter, la figlia 13enne di un industriale svizzero trasferito a Genova. Bozano è morto mercoledì nuotando davanti alla spiaggia di Bagnaia all' isola d' Elba; ad ucciderlo probabilmente un infarto. Era uscito dal carcere, ottenendo la semilibertà nel 2019. Non aveva mai confessato l'omicidio di Milena, si era battuto inutilmente per la revisione del processo e non aveva mai chiesto perdono alla famiglia. «Sono vittima di uno dei più orribili errori giudiziari», aveva raccontato al Corriere della Sera, ma le prove, le testimonianze, hanno sempre raccontato un'altra storia. Il «biondino della spider rossa» stava scontando la pena dell'ergastolo nel carcere di Porto Azzurro, Isola d' Elba, dove tornava ogni sera. Milena, la sua vittima innocente, era scomparsa il 6 maggio del 1971 a Genova e fu ritrovata cadavere in mare due settimane dopo. Alcune testimonianze orientarono la bussola degli investigatori verso l'allora sconosciuto Lorenzo Bozano, un 26enne che amava farsi vedere su una sgangherata Alfa Romeo decappottabile. E quella spider rossa il giorno del rapimento di Milena passò ripetutamente davanti alla scuola della ragazzina e poi si fermò. Dalle perquisizioni saltò fuori un foglio con tre parole agghiaccianti: «affondare, seppellire, murare». Al processo di primo grado del 1973 il «biondino» venne assolto per insufficienza di prove. Sentenza ribaltata due anni dopo in appello e confermata nel 1976 in Cassazione. Lorenzo non finì ancora in carcere. Fuggì in Francia, in Africa e ancora in Francia. Sino a quando nel 1979 arrivò l'estradizione e Bozano finì nel penitenziario di Porto Azzurro, all' Elba. E qui la storia cambiò radicalmente. Lorenzo sembrava un altro uomo, completamente riabilitato. Giurava ancora di essere innocente, ma il ragazzo viziato e perditempo di un tempo era un ricordo. Partecipava alla vita sociale del carcere, era caporedattore della Grande Promessa, il giornale scritto dai detenuti. Ed era lui che parlava con i giornalisti, quando nel carcere si organizzavano iniziative e concerti. Era un leader che ispirava simpatia e persino fiducia. Ma le cose cambiarono ancora quando ottenne la prima semilibertà per lavorare fuori dal penitenziario. Un anno dopo il beneficio venne annullato perché l'ex «biondino» aveva infastidito una ragazzina al «parterre» di Livorno, un ex giardino zoologico. Dopo alcuni anni arrivò un nuovo beneficio e un nuovo annullamento per aver dato un passaggio sul furgone a una quindicenne. Ancora una ragazzina. Lui si sentì un perseguitato. «Ho visto quella figura sotto la pioggia: credevo fosse un ragazzo e mi sono fermato - raccontò al Corriere della Sera -. Credevo che, nonostante la semilibertà, potessi voltare pagina: lavorare in azienda con entusiasmo e non essere sempre rincorso dai fantasmi del passato». Poi nel 2019 di nuovo in semilibertà. E l'ultima nuotata nel mare trasparente dell'Elba. «Sono contento di non averlo mai incontrato in questi cinquant' anni - ha commentato Aldo Sutter, fratello di Milena -. Resta una persona che ha fatto molto male alla mia famiglia anche dopo la tragedia: gli esempi più sgradevoli sono quando si fece intervistare sotto casa nostra e le tante menzogne dette per cercare di riaprire il processo con fantomatiche prove».
Condannato all'ergastolo ma si era sempre professato innocente. È morto Lorenzo Bozano, il “biondino della Spider Rossa” condannato per il delitto di Milena Sutter. Antonio Lamorte su Il Riformista l'1 Luglio 2021. Non aveva mai confessato il delitto di Milena Sutter. Lorenzo Bozano, 76 anni, per quel rapimento e per quell’omicidio fu condannato all’ergastolo. Sutter aveva 13 anni ed era figlia di un industriale di Genova. La ragazzina sparì nel nulla e fu ritrovata nel maggio 1971 due settimane dopo in mare. Bozano – che divenne il “biondino della Spider Rossa”, l’automobile che il giorno della scomparsa passò ripetutamente davanti alla scuola di Milena – è morto, all’Isola d’Elba, dove stava scontando la pena in semilibertà. Un malore lo ha colto mentre nuotava.
“Sono vittima di uno dei più orribili errori giudiziari”, ripeteva Bozano a ogni occasione. Gli investigatori si orientarono verso di lui dopo le dichiarazioni di alcuni testimoni, tra cui numerosi compagni di scuola di Sutter che lo avevano visto nei pressi della scuola frequentata dalla ragazza. La fantomatica “Spider Rossa” era un’Alfa Romeo sgangherata. Gli investigatori in una perquisizione trovarono un foglietto con tre parole scritte: “Affondare, seppellire, murare”. Milena Sutter aveva 13 anni ed era figlia di un industriale svizzero trasferitosi a Genova e attivo nel ramo dei detersivi. Frequentava la terza media di una scuola Svizzera. Scomparve all’uscita dell’Istituto, forse il migliore della città all’epoca, in anni in cui episodi simili non erano così rari in Italia. Ai familiari arrivò una richiesta di riscatto: “Se volete rivedere Milena viva portate 50 milioni nella prima aiuola di Corso Italia”. Il corpo della bambina riaffiorò dal mare della spiaggia di Priaruggia il 20 maggio. L’autopsia stabilì che era morta per strangolamento e che prima di essere buttata in acqua, appesantita da alcuni piombi, era stata seppellita. Bozano non aveva un alibi, era considerato un ragazzo viziato, perditempo, un mezzo vitellone. Un sub dilettante imparentato con gli armatori Costa. Il padre un paio di anni prima lo aveva denunciato in Questura definendolo “uno psicopatico capace di qualsiasi delitto”. Bozano ammise di trovarsi nei pressi della scuola quel giorno ma mai di aver rapito la ragazzina. Al primo grado del processo fu assolto per insufficienza di prove. Due anni dopo, in Appello, la condanna, confermata nel 1976 in Cassazione. Lui era fuggito intanto in Francia, e poi in Africa, e poi ancora in Francia. L’estradizione arrivò nel 1979. Era stato fermato in quanto stava guidando senza le cinture di sicurezza, in Francia già obbligatorie all’epoca. Fu quindi recluso nel carcere di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba. In cella Bozano continuò a professarsi innocente, partecipava alla vita del carcere, era caporedattore de La Grande Promessa, il giornale scritto dai detenuti. Quando nell’istituto di pena arrivavano i giornalisti era lui a parlare con loro. Il beneficio della semilibertà gli fu annullato in diverse occasioni per violazioni della misura. L’ultima volta gli venne concessa nel 2019, e la sera tornava sempre in carcere. È morto nuotando davanti alla spiaggia di Bagnaia all’Isola d’Elba. Forse per un infarto. Il suo caso e quello della 13enne di Genova sconvolsero per giorni l’opinione pubblica. “Non voglio fare dichiarazioni anche per rispetto del dolore della famiglia Sutter. Se si chiede umanità per se stessi, bisogna offrirla anche agli altri”, aveva dichiarato in un’intervista lo scorso maggio al Secolo XIX.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
· La Vicenda di Sabrina Beccalli.
Sabrina scambiata per un cane e "smaltita" nell'inceneritore. Angela Leucci il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. La vicenda di Sabrina Beccalli protagonista a Chi l'ha visto?: il corpo carbonizzato della donna, scambiato per un cane, è stato smaltito nell'inceneritore. Non si dà pace la famiglia di Sabrina Beccalli, la donna trovata morta nelle campagne di Vergonzana, frazione di Crema. Se n’è parlato nella puntata di ieri di “Chi l’ha visto?”. È il giorno di Ferragosto 2020: dei residenti notano fuoco in una Panda poco distante dalla loro casa e chiamano i vigili del fuoco. Questi, dopo aver spento l’incendio, recuperano la targa e contattano i carabinieri, dicendo che all’interno della vettura c’è la carcassa di un cane. Ma non è un cane - la donna non avrebbe potuto possederne, perché a 4 anni fu colpita da un problema di salute che le impediva il contatto con animali - è Sabrina, per la cui morte è stato accusato un conoscente. Tuttavia non si può trovare riscontro nelle confessioni di quest’ultimo perché sul corpo di Sabrina, scambiato per quello di un cane e mandato all’inceneritore, non può essere eseguita un’autopsia. "L’indomani - racconta il legale della famiglia Beccalli Antonino Andronico a "Chi l’ha visto?" - il 16 di agosto, interviene l’autorità sanitaria locale, l’Ats, e interviene non il medico legale, come vorrebbe l’articolo 5 del regolamento di polizia mortuaria, ma interviene un veterinario”. E il veterinario compila una relazione, in cui si legge: "Dalle evidenze risulta che la carcassa animale ritrovata nell’auto è identificabile come animale della famiglia dei canini e del genere canis di non giovane età e non si riscontra la presenza di alcun microchip. […] Si lascia la carcassa in loco e si decide per il successivo smaltimento mediante ditta apposita”.
La vicina di Sabrina: "Urlava di aiutarla". Così i Beccalli iniziano a cercare Sabrina e si scopre che la sera prima della sua scomparsa aveva incontrato Alessandro Pasini, un conoscente. Intanto, all’alba, in città, una donna avverte delle grida d’aiuto disperate e poi dopo il silenzio: allerta i carabinieri, ma questi, non riuscendo a risalire alla provenienza delle urla udite dalla donna, se ne vanno. Le ricerche di Sabrina proseguono, con l’ausilio di carabinieri e protezione civile: viene perfino svuotata una vicina vasca di liquami agricoli. Un uomo, che vive nei pressi del luogo in cui la Panda di Sabrina è stata ritrovata, avverte che le sue telecamere hanno ripreso qualcosa di interessante. Si vede passare, di giorno, sulla strada adiacente al campo del ritrovamento, Pasini alla guida della Panda di Sabrina: viene riconosciuto dai tatuaggi sull'avambraccio. Poco dopo il conoscente ripassa, ma in monopattino. E ancora un altro passaggio, sempre in monopattino, ma di sera. Pasini confessa: in base al suo racconto Sabrina è morta a casa della sua ex ragazza, nel quartiere in cui la donna ha sentito delle urla all’alba. Pasini dice che è morta di overdose, dettaglio in contrasto con la vicina che invece sente delle urla ben precise. Pasini confessa anche di aver messo dentro la Panda Sabrina e di averle dato fuoco, ma non viene creduto, perché le autorità credono che sia stata trovata la carcassa di un cane. Ma i Ris trovano nell’auto carbonizzata resti umani che appartengono a Sabrina. “Mi sono sentita morire due volte - dice Simona Beccalli - Lui me l’ha uccisa e qui c’è stato un errore grandissimo. E qualcuno dovrà darci delle risposte perché adesso basta”. La redazione di “Chi l’ha visto?” non ottiene risposte dalla sezione Valpadana dell’ATM di Crema: il direttore dice che non può rilasciare interviste e rimanda alla direzione generale. Anche questa afferma di non poter rilasciare dichiarazioni, perché la vicenda è al vaglio dell’autorità giudiziaria. E il procuratore rimanda alla redazione il comunicato già diramato nei mesi precedenti. “Io ho solo rabbia - aggiunge il fratello di Sabrina Gregorio Beccalli - Io penso che un essere umano e un animale siano due cose diverse. E mia sorella è stata scambiata per un animale, non un essere umano”.
La vicina di Sabrina: "Urlava di aiutarla". Cristina Bassi il 23 Agosto 2020 su Il Giornale. Per il presunto killer sarebbe morta per droga. Si cerca il corpo in una cisterna. Ha urlato, chiedendo aiuto, Sabrina Beccalli all'alba del 15 agosto. Una vicina ha sentito le grida, mentre la donna poi scomparsa si trovava in compagnia di Alessandro Pasini nella casa della ex convivente di quest'ultimo. La testimone ha anche chiamato il 112, ma i carabinieri perlustrando le vie vicine non hanno riscontrato nulla di strano e si sono allontanati. Prende corpo grazie alle indagini coordinate dalla Procura di Cremona, sotto la guida del procuratore Roberto Pellicano, la ricostruzione delle ultime ore della 39enne di Crema sparita a Ferragosto e di cui ancora non si è trovato il corpo. Anche se l'arrestato, che è accusato di averla uccisa e di aver fatto sparire il cadavere, ha negato il delitto. Nell'interrogatorio di garanzia Pasini ha raccontato di aver passato la notte con Sabrina Beccalli a casa della propria ex (che era in vacanza), di cui aveva le chiavi. I due avrebbero consumato stupefacenti insieme, poi lui avrebbe tentato di avere un rapporto sessuale con l'amica senza riuscirci. Si sarebbe addormentato e risvegliato, trovando Sabrina riversa in bagno vittima di una overdose. Il 45enne, preso dal panico, nel primo pomeriggio del 15 agosto avrebbe caricato il corpo sulla Panda di lei e avrebbe deciso di bruciare tutto. Ha anche, è stato riscontrato, tagliato il tubo del gas della caldaia con l'intenzione di far saltare in aria la casa. Le telecamere di sorveglianza della zona di Vergonzaga lo hanno ripreso che si allontanava dal luogo dell'incendio con il proprio monopattino la sera stessa. Pasini ha insistito nel dichiarare che la carcassa carbonizzata trovata nell'auto è dell'amica morta accidentalmente. Ma ben due veterinari hanno concluso che si tratta dei resti di un cane. La versione dell'indagato è ritenuta «non credibile» dal gip Giulia Masci, almeno allo stato delle indagini. Le ricerche del cadavere da parte dei carabinieri continuano, in particolare in una vasca di liquami sempre a Vergonzana che è stata sequestrata e deve essere svuotata. Il giudice non ha convalidato il fermo del 45enne, per l'assenza del pericolo di fuga, ma ha disposto la custodia cautelare in carcere. Nell'ordinanza definisce l'indagato «lucido e spregiudicato», di «indole violenta» e «disposto a tutto». Nel presunto appartamento del delitto, alle 5 del mattino, Sabrina ha urlato, «con voce strozzata». La giovane donna ha gridato più volte: «Aiuto, aiuto, no». Un'invocazione, per gli inquirenti, non per chiedere soccorso all'amico a causa del malore, ma per provare a «interrompere un'azione in atto» e attirare l'attenzione di qualcuno esterno alla casa. Inoltre il gip sottolinea come sarebbe stato «molto più logico» da parte di Pasini far trovare il corpo, sul quale le analisi avrebbero potuto confermare la sua tesi sulla morte, piuttosto che farlo sparire. La soppressione, messa in atto in modo diverso da come ha raccontato l'uomo, avrebbe avuto come scopo quello di distruggere le prove di aver ucciso l'amica «con atto violento».
Gabriele Moroni e Pier Giorgio Ruggeri per “QN” il 30 ottobre 2021. Simona Beccalli esce nel cortile del Palazzo di giustizia. Sbatte la borsetta a terra. Dà sfogo a tutta la sua rabbia: «Maledetta legge italiana. Si salva, il disgraziato. L'ha uccisa, l'ha bruciata. Sei anni per avere ucciso una donna, una madre». Dal corridoio fa eco il fratello Gregorio, in compagnia dell'altra sorella, Teresa: «Legge italiana, vergognatevi». Nello stesso momento, l'uomo processato per l'omicidio della sorella di Simona, assolto con la più piena delle formule, muove i primi passi in libertà. Da qualche secondo, il giudice dell'udienza preliminare di Cremona, Elisa Mombelli, dopo una camera di consiglio durata poco più di un'ora e mezza, ha letto il dispositivo della sentenza. Alessandro Pasini è assolto dall'accusa di omicidio volontario perché il fatto non sussiste: non è stato lui, che oggi ha 46 anni, a uccidere Sabrina Beccalli, 39 anni, sua amica di antica data, all'alba del giorno di Ferragosto di un anno fa, a Crema, nell'alloggio di via Porto Franco dove abitava l'ex compagna dell'uomo. Assoluzione perché il fatto non sussiste anche per l'accusa di crollo di edificio (prima di allontanarsi dall'appartamento Pasini aveva tagliato il tubo del gas). L'uomo è stato condannato a sei anni di reclusione (nove anni, riduzione di un terzo per il rito abbreviato) per distruzione di cadavere (il corpo della donna dato alle fiamme nella sua Panda) e incendio pericoloso dell'auto. Il gup ha disposto l'immediata scarcerazione dal momento che l'ordinanza di custodia era per l'omicidio. Alessandro Pasini riassapora così la libertà dopo 14 mesi ed esce dal carcere di Monza. Il pubblico ministero Lisa Saccaro aveva chiesto una condanna a ventotto anni: trent'anni per l'omicidio, altri dodici per la continuazione con gli altri reati, sconto di un terzo per l'abbreviato. Aveva parlato di «disegno criminoso» per cancellare le tracce dopo l'omicidio, di «sconcertante assenza di scrupoli», di «fredda organizzazione». Da parte sua, Pasini ha sempre sostenuto (e dal gup è stato creduto) la tesi di avere trovato l'amica senza vita nella vasca da bagno, stroncata da un malore dopo un festino alla droga. Lui stesso era crollato in un sonno profondo dopo un mix di stupefacenti e alcol. Aveva poi sentito un forte rumore provenire dal fondo del corridoio, ma non era riuscito ad alzarsi dal letto e si era riaddormentato. Al risveglio, verso le cinque, aveva notato sul copriletto piccole macchie che aveva capito essere sangue. Si era messo alla ricerca dell'amica e l'aveva trovata riversa a testa in giù nella vasca da bagno, con il volto coperto di sangue. Sgomento, in preda al panico, aveva deciso di distruggere il cadavere col fuoco. Si inserisce qui una circostanza surreale e dolorosa che aveva segnato questo giallo dell'estate cremasca. Una volta ritrovato, nell'auto ridotta a un ammasso annerito di lamiere, il corpo carbonizzato era stato scambiato per la carcassa di un cane e distrutto in un inceneritore. Di Sabrina Beccalli e della sua vita bruciata erano rimasti soltanto minuscoli frammenti ossei.
· Il Mistero della morte di Christa Wanninger.
Le urla, l'uomo elegante: quel delitto nel cuore della Dolce Vita. Angela Leucci il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Christa Wanninger fu uccisa in via Veneto a Roma il 2 maggio 1963: il suo omicidio sconvolse il jet set dell'epoca, per via delle sue frequentazioni importanti. Una giovane donna arriva in una grande città inseguendo un sogno. Arriva nella capitale del cinema, bellissima, senza un soldo e con grandi speranze. Viene uccisa in modo brutale, e il suo è all’apparenza il delitto perfetto. No, non è la storia di Elizabeth Short a Los Angeles, la Black Dahlia che ha ispirato letteratura e cinema: il suo nome era Christa Wanninger, era una giovane tedesca che da Monaco di Baviera si era spostata nell’altra capitale del cinema, Roma, per avviare una carriera come modella e nel mondo dello spettacolo. Ma trovò la morte a 23 anni sul pianerottolo di un condominio di via Veneto. È il 2 maggio 1963 e la storia di Christa è passata alla storia come uno dei “delitti della Dolce Vita”. Dietro al mondo patinato del jet set romano, venne commesso il suo efferato omicidio che, a differenza di quello di Elizabeth Short, non rimase però insoluto. “Christa è morta senza raggiungere il successo”, racconta a IlGiornale.it Fabio Sanvitale che, con Armando Palmegiani, ha scritto il libro “Morte a via Veneto” che raccoglie la storia di Wanninger e quella dei coniugi Bebawi che nel 1964 furono accusati di aver commesso un omicidio e nel 1968 furono condannati in appello in contumacia. "La vicenda dei coniugi Bebawi e quella di Christa sono storie accadute a pochi metri di distanza - prosegue Sanvitale - Il punto di contatto è che raccontano due facce della medaglia della Dolce Vita. Siamo abituati a pensare a essa come al jet set, le copertine, il benessere. Ma non c’erano solo i personaggi ricchi come i Bebawi, c’era anche Christa, una ragazza che arriva da Monaco di Baviera in cerca di fortuna e dorme dietro un separé nel corridoio di una pensione perché le stanze erano finite. Da un lato ci sono i Bebawi, straricchi che uccidono una vittima anche questa straricca. Dall’altro lato c’è Christa che arriva a Roma, combina un po’ di disastri sentimentali, trova un fidanzato con cui a fasi alterne litiga e si riappacifica. All’epoca le donne tedesche subivano il mito del maschio italiano, vitellone e gran seduttore, ovviamente benestante. Nella vita, scriveva William Shakespeare, ci sono grandi attori e grandi comparse. Ci sono i Bebawi e c’è Christa, che pranzava con un cappuccino, sperando che qualcuno la invitasse a cena".
La dinamica del delitto. È un giovedì pomeriggio sul presto. Christa ha appuntamento con un’amica e connazionale, un’ex ballerina tedesca fidanzata con un italiano, Gerda Hodapp. Gerda vive in un condominio di via Emilia, che ha un ingresso posteriore su via Veneto. Il condominio è custodito, c’è una portiera che però in quel momento si è assentata, chiedendo a una vicina di dare un occhio alla guardiola: deve dare alcune comunicazioni a una donna che vive in uno degli appartamenti.
Il luogo del delitto. Ma in pochissimi minuti si consuma una tragedia: una donna urla, un uomo elegante scende le scale, avvistato da ben sei testimoni, la portiera sale fino al piano di Gerda e trova Christa accasciata sul pianerottolo. Crede che si sia sentita male, ma sotto il corpo di Christa, che rapidamente perde conoscenza, si allarga una pozza di sangue, causata dai colpi di coltello vibrati dal suo aggressore.
Oltre alla portiera, altri condomini accorrono. E la prima cosa che fanno è suonare al campanello di Gerda, che però non apre. Christa viene trasportata in ambulanza, ma non c’è nulla da fare: in ospedale Christa viene dichiarata deceduta.
Il ruolo di Gerda Hodapp. Il primo passo degli inquirenti è raccogliere le testimonianze dei condomini. In fondo hanno sentito la donna urlare. Ma quello che interessa loro è ricostruire l’ambiente intorno a Christa, che i giornali dell’epoca descrivevano a torto come una “peripatetica”. Christa ha avuto sicuramente avuto molti uomini: possiede diverse agende con numeri di telefono che appartengono a persone importanti. Ma nessuna di loro è coinvolta nel suo omicidio.
E allora gli inquirenti puntano il dito su Gerda. Perché non ha aperto la porta all’amica che urlava nonostante la stesse attendendo? Pare che Gerda ammettesse persone in casa sua solo su appuntamento, perfino gli operai ingaggiati dal condominio avevano avuto difficoltà nell’accedervi. E allora gli inquirenti la torchiano, ricevendo solo risposte laconiche. La mettono anche preventivamente in galera, ma la misura non sortisce nessun effetto, anche perché Gerda è estranea all’omicidio di Christa. "Gerda - racconta Sanvitale - aspettava l’amica perché le aveva telefonato. Sappiamo che Christa non ha suonato il campanello ma ha gridato quando è stata accoltellata. Per questo Gerda non può dire di non aver sentito niente. Né può aver ignorato tutto quello che è successo dopo, la gente che è accorsa sul pianerottolo. Gerda ha sentito le urla strazianti dell’amica, è arrivata alla porta, ha capito che fuori stava succedendo qualcosa di drammatico e non ha aperto per paura. Dopo di che ha finto di dormire, perché non poteva dire che non aveva fatto nulla per impedire l’omicidio dell’amica".
L’uomo in grigio (o forse in blu). La cosa più interessante che gli inquirenti scoprono è la presenza nel condominio, nei momenti dell’omicidio, di un uomo elegante, che alcuni testimoni dicono essere vestito in abito grigio, mentre altri parlano di abito blu. C’è però una descrizione univoca del suo viso, così viene realizzato un identikit dell’uomo misterioso, che però non si trova, almeno nell'immediato. L’anno dopo però, nel 1964, il quotidiano Momento Sera viene contattato da un uomo. Si chiama Guido Pierri ed è un pittore di Aversa. Dice di essere in possesso di informazioni importanti sull’omicidio, anzi di essere il fratello del responsabile. Nella sua casa gli inquirenti trovano un completo blu, un coltello compatibile con le ferite che hanno ucciso Christa e una poesia, con la data e l’ora dell’omicidio, più alcuni diari decisamente eloquenti, benché in codice. Per gli inquirenti è stato lui. "Pierri è stato condannato con sentenza definitiva in uno dei processi più lenti della storia d’Italia - illustra Sanvitale - Viene condannato perché si tradisce da solo: nell’immediatezza del delitto scrive una poesia, aggiungendo l’orario dell’omicidio, le 14.30, quasi una confessione. Questo discorso è tornato in auge con il caso di Lidia Macchi, perché anche lì c’era una poesia di un compagno di scuola che fu indagato, ma c’era solo la poesia, e infatti chi la scrisse fu assolto. Nel caso di Pierri abbiamo la poesia che è molto indicativa e poi abbiamo i suoi diari. In questi diari descriveva le sue ossessioni, tra cui pedinare ragazze in maniera anche piuttosto casuale. Lui cercò di nascondere le sue incursioni utilizzando dei nomi in codice: un commissariato diventava un fortino, una ragazza francese di piccola statura diventava una microgallica. Usò una criptoscrittura che però i carabinieri riuscirono a decifrare e trovarono una ragazza francese di piccola statura che riconobbe in Pierri un uomo che le era entrato in casa mesi prima. Pierri aveva progettato dei delitti, come emerse in sede di perizia psichiatrica".
"Ammazzata con 29 coltellate" Un delitto che non ha un killer. Tuttavia Pierri viene rilasciato. Sono degli anni difficili e le prove vengono ritenute insufficienti, perfino l’identikit del suo volto, con il quale c’è un’innegabile somiglianza. "All’inizio Pierri viene arrestato - aggiunge Sanvitale - ma c’è un enorme problema e cioè che i diari decodificati dai carabinieri non vengono ritenuti una prova dal magistrato. Iniziano a fare a Pierri una perizia psichiatrica, ma dato che è a piede libero e la cosa inizia a cadere, lui smette di andarci dallo psichiatra. E addirittura gli restituiscono i diari. L’indagine si ferma. Riprende solo anni dopo ma su iniziativa privata". Le indagini riprendono infatti solo nel 1971 e nel 1978 Pierri viene assolto per insufficienza di prove. L’uomo viene condannato solo nel 1988: secondo la Cassazione è stato lui a uccidere Christa, ma non era capace di intendere e di volere al momento dell’omicidio. Pierri resta però libero: avviatosi da tempo a una nuova vita, viene riconosciuto non pericoloso dalla giustizia italiana. Ma dai suoi diari emerge un dilemma inquietante.
L'identikit dell'assassino. Un serial killer mai scoperto? "Pierri aveva grossi problemi con la figura paterna - commenta Sanvitale in relazione al movente - Era convinto di dover riscattare la propria nullità attraverso gli omicidi: prendendosi la vita di una persona, esercitava il suo potere assoluto. Nella sua confusione mentale riteneva di poter dimostrare a se stesso di essere una persona adeguata". La giustizia ha quindi riconosciuto il pittore colpevole dell’omicidio di Christa, ma, stando ai suoi diari, Pierri aveva progettato di uccidere una misteriosa ragazza con il cappotto rosso sempre nella zona di via Veneto, ma non è Christa perché lei aveva un cappotto verde: nei diari ha scritto di essere salito con lei in ascensore, il che potrebbe rappresentare la medesima dinamica con cui avrebbe avvicinato Wanninger quel triste 2 maggio 1963. Pierri sarebbe potuto essere un potenziale serial killer? "È possibile che Pierri abbia commesso altri omicidi - dice Sanvitale - ma non ne ha parlato nei diari e quindi non abbiamo modo di ricollegarlo. I diari, che lui aveva gettato via, per fortuna erano stati ricopiati dai carabinieri e quindi si ritrovarono. Non si può escludere che abbia fatto altro e che non lo abbia scritto". I diari di Pierri, come per altri delitti, rappresentarono quindi una testimonianza fondamentale per comprendere il fatto criminoso. E al tempo stesso sono un topos: dalla Saponificatrice di Correggio ad Angelo Izzo, sono stati molti gli assassini a tenere una sorta di memoriale delle proprie “gesta”. "Per alcuni criminali, i diari rappresentano il piacere di raccontarsi, perché la scrittura è una forma di memoria e così possono rivivere il ricordo - conclude Sanvitale - Ma tutto dipende, se ad esempio c’è una patologia in atto, e quindi i diari possono essere infidi, come per la Cianciulli, che scrisse un memoriale lunghissimo e pieno di balle. Pierri ha raccontato la verità, anche se una verità nella sua testa. Altri omicidi l’hanno fatto perché richiesto dagli psichiatri, il diario è un mezzo di studio è valido a tutt’oggi. Per loro può essere a volte anche un modo per vantarsi, altre per giustificarsi, dipende anche da chi lo chiede il memoriale. A Pierri non l’aveva chiesto nessuno, quindi immaginiamo che sia stato molto onesto con se stesso". Nonostante i diari, Pierri ha sempre affermato di essere innocente e di averli scritti in un impulso letterario di ispirazione giornalistica.
· Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.
L'ombra di Messina Denaro sulla scomparsa dei Maiorana. Le Iene News l'11 giugno 2021. Ismaele La Vardera torna a parlarci della scomparsa dei Maiorana. Gli inquirenti hanno ipotizzato che siano stati uccisi e hanno indagato come mandante l'imprenditore Francesco Paolo Alamia, che sarebbe stato ricattato dallo stesso Maiorana. Secondo le dichiarazioni di un testimone, Alamia conosceva il boss Messina Denaro. Ricattando Alamia, Antonio potrebbe aver toccato gli interessi sia della mafia di Palermo che di quella di Trapani. L’inchiesta è stata però archiviata. Il nostro Ismaele La Vardera torna a occuparsi della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana. Nell’agosto del 2007 i due, padre e figlio, sono spariti nel nulla poco dopo essere andati a un importante appuntamento di lavoro. Nel primo servizio la Iena ha ricostruito la storia della loro sparizione e ha parlato con l’ex moglie di Antonio e madre di Stefano, Rossella, che ci ha confidato la sua speranza che il figlio sia ancora vivo e nascosto da qualche parte per paura. Stefano non è l’unico figlio che ha perso: un anno dopo quella scomparsa, anche il suo secondo genito Marco è morto gettandosi dal balcone di casa. Una morte che potrebbe avere a che fare con la scomparsa del fratello e del padre: prima di togliersi la vita, ha lasciato su un fumetto un’inquietante scritto. Parla di un ricatto che il padre avrebbe fatto a un importante imprenditore edile palermitano e di alcune prove che lui stesso avrebbe distrutto. Su tutta la vicenda aleggia la figura del boss mafioso Matteo Messina Denaro. In questo nuovo servizio, che potete rivedere in testa a questo articolo, Ismaele La Vardera approfondisce proprio l’ombra del boss sulla vicenda e il suo possibile ruolo in tutta questa vicenda. L’inchiesta è stata però archiviata dal gip di Palermo.
La scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana. Le Iene News l'11 maggio 2021. Il 3 agosto 2007 Antonio Maiorana, imprenditore palermitano, e il figlio Stefano di 23 anni sono spariti nel nulla. Da allora nessuno ha saputo quale sia stata la loro sorte: anche se molti propendono per il duplice omicidio, gli inquirenti non escludono un allontanamento volontario. Il nostro Ismaele La Vardera ci racconta questa storia e i molti dubbi che la circondano. Negli scorsi mesi dalle acque del Lago Garcia, in provincia di Palermo, sono riemersi i resti di due cadaveri. Rossella Accardo è una donna che a quei resti potrebbe essere legata. Nell’agosto del 2007 infatti suo figlio Stefano di 23 anni e il padre del ragazzo, Antonio Maiorana, sono spariti nel nulla poco dopo essere andati a un importante appuntamento di lavoro. Un mistero mai risolto. Da 13 anni Rossella spera che il figlio sia ancora vivo, nascosto per paura da qualche parte. Stefano non è l’unico figlio che ha perso: un anno dopo quella scomparsa, anche il suo secondo genito Marco è morto gettandosi dal balcone di casa. Una morte che potrebbe avere a che fare con la scomparsa del fratello e del padre: prima di togliersi la vita, ha lasciato su un fumetto un’inquietante scritto. Parla di un ricatto che il padre avrebbe fatto a un importante imprenditore edile palermitano e di alcune prove che lui stesso avrebbe distrutto. Su tutta la vicenda aleggia la figura del boss mafioso Matteo Messina Denaro. Per cercare di far luce su questa vicenda bisogna parlare del padre di quei due ragazzi, Antonio Maiorana. “Amava definirsi un imprenditore”, racconta Rossella Accardo al nostro Ismaele La Vardera. Dopo la maturità inizia a lavorare con lo zio, un importante costruttore palermitano. Proprio sul lavoro Rossella e Antonio si conoscono. Le cose vanno bene, finché lo zio muore. “Venendo meno lui, tutto andò in malora”, racconta Rossella. Economicamente sono anni duri e Antonio prova più volte a mettere in piedi progetti imprenditoriali che però non decollano. Con il tempo il matrimonio va in crisi e i due divorziano. “Il 3 agosto 2007 un meteorite mi è arrivato addosso”, racconta Rossella ricordando il giorno della scomparsa di Antonio e del figlio Stefano. “Si erano recati all’isola delle Femmine, presso il cantiere dove si stavano costruendo 50 unità abitative”, racconta l’avvocato della famiglia. Tra i soci della società che costruiva quegli immobili c’era Francesco Paolo Alamia, personaggio importante per questa vicenda. “È un imprenditore che ha fatto un pezzo di storia dell’edilizia palermitana”, ricorda l’avvocato. “Ha una storia notevole”. Lui e Antonio si conoscono dai tempi in cui quest’ultimo lavorava per lo zio. In vent’anni hanno spesso lavorato insieme, anche come soci. Alamia venne indagato - e ora c’è una richiesta di archiviazione - per aver ucciso Antonio e Stefano: Rossella però ha un ricordo molto positivo dell’uomo. Com’è possibile che si fosse arrivati a quell’accusa? Prima di rispondere vediamo cosa sarebbe accaduto quella mattina: “Il fratello Marco non era contento che Stefano andasse a quell’appuntamento”, sostiene l’avvocato della famiglia. “Andarono a prendere un caffè in un bar lì vicino”. Poi “rientrati in cantiere, di lì a poco Stefano e Antonio si sono congedati”, ricorda Rossella. Si allontanano insieme a bordo di una Smart bianca “e si perdono le loro tracce”. Da questo momento in poi sarebbero accadute una serie di stranezze che cercheremo di raccontare. Il primo ad accorgersi che qualcosa non andava è il fratello Marco. “Quella mattina Alamia chiama per chiedere notizie del padre”, racconta Rossella. “Marco prova a chiamarli ma non rispondevano”. Antonio e Stefano risultano introvabili. La compagna di Antonio, Karina, è la prima persona avvisata da Marco. Per comunicare la notizia della scomparsa del fratello e del padre alla mamma, il ragazzo avrebbe convocato a casa del padre e di Karina un amico di famiglia, che chiameremo Salvatore. Salvatore trova strano il luogo dell’appuntamento, perché da tempo i due fratelli vivevano in una casa per conto loro: “Appena arrivato la trovai Karina, insieme a un signore che non conoscevo, che maneggiavano la porta cercando di cambiare le serrature”. “Appena entrai Marco mi raccontò che dal giorno prima non aveva più notizie del fratello e del padre”, racconta Salvatore. “Era impaurito, alla fine del discorso mi chiese se lui e Karina avevano qualcosa da temere”. C’era qualcosa che Marco sapeva o intuiva di quella inspiegabile sparizione? Secondo il racconto di Rossella, dopo averlo invitato a casa, Marco avrebbe risposto di poter stare “solo con Karina in questo momento”. La notte tra il 4 e il 5 agosto la Smart viene trovata in un parcheggio dell’aeroporto, dei due però non ci sono tracce. Le telecamere di sorveglianza erano “spente”, ci racconta l’avvocato della famiglia. “Chi trasporta questa vettura probabilmente è a conoscenza che quelle telecamere sono spente”, dice ancora il legale. “Il capitano che mi interrogava mi disse: ‘lei lo sa, la zona, i Lo Piccolo…’”, racconta Rossella. I Lo Piccolo di cui avrebbe parlato il capitano sono Salvatore e Sandro, a quel tempo boss palermitani, il cui territorio si espandeva fino al confine della provincia di Trapani, il “regno” di Matteo Messina Denaro. “Col senno di poi ho realizzato che quella scomparsa veniva letta come un’azione criminale”, dice Rossella. A spingere in quella direzione ci sarebbe anche un messaggio anonimo che Marco avrebbe ricevuto sul suo telefono: “I Maiorana sono vittime di lupara bianca”. Nessuno sa però se quel messaggio fosse o meno attendibile. Gli inquirenti, sebbene ritengano come più probabile la pista del duplice omicidio, non escludono l’ipotesi di un allontanamento volontario. Rossella si aggrappa a quel pensiero, e giungono anche segnalazioni dall’estero che però si rivelano infondate. Ancora oggi Rossella crede che i due siano vivi. La notizia che i due corpi trovati nel Garcia non sono quelli di Antonio e Stefano da una parte tiene vive la speranza di Rossella, dall’altra allontana l’ipotesi di un processo. Ci sono ancora molte domande senza risposta: potete trovarle nel servizio di Ismaele La Vardera e Giulio La Monica qui sopra.
Quel proiettile dalla finestra: così Marta è stata uccisa a 22 anni. Francesca Bernasconi il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il 9 maggio 1997 un proiettile colpì alla testa Marta Russo, studentessa dell'Università La Sapienza di Roma. Per la sua morte vennero condannati due assistenti dell'istituto. La sorella: "Non accetto che in alcune ricostruzioni si parli ancora di mistero". Erano le 11.42 del 9 maggio 1997. Migliaia di studenti si aggiravano tra i portici e i corridoi dell'Università La Sapienza di Roma. All'improvviso un tonfo echeggiò tra i vialetti interni dell'istituto e Marta Russo cadde a terra. Un proiettile l'aveva colpita poco sotto l'orecchio sinistro. Marta, 22 anni e iscritta alla facoltà di Giurisprudenza, morirà quattro giorni dopo in ospedale e per la sua morte verranno condannati due assistenti universitari di Filosofia del Diritto: Giovanni Scattone, per omicidio colposo aggravato, e Salvatore Ferraro, per favoreggiamento. Si tratta di uno dei casi di cronaca che sconvolse l'Italia alla fine degli anni '90 e che è stato protagonista, ieri sera, della prima puntata di Crime Doc, una serie di cinque prime serate, in onda su Raidue, che ripercorre i grandi casi di cronaca italiani.
Lo sparo all'Università
Quella mattina Marta si era recata in università per trascorrere quella che avrebbe dovuto essere una giornata come tante. Ma alle 11.42, mentre camminava lungo un vialetto dell'istituto, al fianco dell'amica Iolanda Ricci, venne raggiunta da un proiettile, "proveniente da sinistra dall'altro, leggermente da dietro", come precisato dall'ultima sentenza di Cassazione, riportata da Misteri d'Italia. Il proiettile perforò l'encefalo, lasciando un piccolo buco proprio sotto l'orecchio sinistro. Marta cadde a terra vicino a un'aiuola che si trovava tra le facoltà di Scienze Statistiche e Scienze Politiche. I soccorsi trasportarono la ragazza già priva di conoscenza al vicino Policlinico Umberto I, dove arrivò in coma. Vi rimase per quattro giorni, fino al 13 maggio 1997, quando alle 22 i medici constatarono la morte cerebrale: il giorno dopo venne staccata la spina ai macchinari che la tenevano in vita e la ragazza venne dichiarata morta. I genitori Donato e Aureliana e la sorella Tiziana decisero di donare gli organi di Marta, prestando fede a un desiderio precedentemente espresso dalla ragazza. Nel frattempo gli inquirenti avevano iniziato ad analizzare la scena del crimine, per capire da quale punto fosse partito il colpo. Inizialmente venne individuato un bagno al piano terra della facoltà di Statistica e sotto la lente degli investigatori finirono i dipendenti della ditta di pulizie Pultra, dato che nel loro magazzino vennero trovati due vecchie cartucce. "Per l'individuazione della provenienza dello sparo - si legge nell'ultima sentenza della Cassazione -le indagini subito 'si appuntarono (...) sulla finestra n.7 del bagno disabili della facoltà di Statistica posto al piano terra, in prossimità del luogo del ferimento'".
L'aula 6
Poi, dopo qualche giorno, il colpo di scena: l'attenzione si spostò sull'aula numero 6 della Sala Assistenti dell'Istituto di Filosofia del Diritto, "in seguito al rinvenimento sulla finestra destra n.4 di quell'aula di una particella composta da bario e antimonio, indicativa dello sparo". L'esame effettuato col puntamento laser confermò che il colpo partì da quella stanza, una tesi che verrà contestata durante i processi. Così nel registro degli indagati finirono decine di persone legate all'ateneo. Le prime rivelazioni vennero rilasciate da un'assistente di facoltà, Maria Chiara Lipari, che era entrata nella stanza due minuti dopo lo sparo, e Gabriella Alletto, la segretaria dell'istituto, che venne ritenuta presente nell'aula al momento del ferimento di Marta. A finire nel mirino furono due assistenti di Filosofia del Diritto e l'usciere dell'istituto, rispettivamente Salvatore Ferraro, Giovanni Scattone e Francesco Liparota. Iniziò così la trafila giudiziaria, che portò alla condanna di Scattone per omicidio e di Ferraro per favoreggiamento.
I processi
Il 1°giugno del 1999 la Corte d'Assise di Roma condannò i due uomini, sostenendo che Scattone, come pure Ferraro, "si trovava all'interno della sala assistenti (stanza n. 6) dell'Istituto di Filosofia del Diritto". Una delle prove, fortemente messa in dubbio, era costituita dalla testimonianza di Alletto, che inizialmente aveva negato di essere in quell'aula, ma che "il 14 giugno 1997 aveva improvvisamente cambiato versione", affermando di essere presente al momento dello sparo e di aver sentito un "tonfo" e aver visto un "bagliore". Disse che nella stanza c'erano anche i due assistenti e ricordò di aver visto Ferraro mettersi le mani nei capelli in segno di spavento. "Poi ho visto Scattone ritrarsi dalla finestra. Aveva qualcosa in mano, una cosa che brillava. (...) Ho visto qualcosa che brillava nelle mani di Scattone", dichiarò ancora la donna. In molti contestarono la testimonianza, sostenendo che Alletto venne sottoposta a numerosi interrogatori stressanti (13 volte in pochi giorni), nei quali inizialmente affermava di non essere presente in quella stanza, come mostrano le trascrizioni dell'interrogatorio dell'11 giugno 1997. Il processo di secondo grado, con la sentenza del 7 febbraio 2001, confermò la condanna per i due assistenti e aggiunse la condanna per favoreggiamento di Liparota, ma il ricorso in Cassazione annullò la sentenza, chiedendo un nuovo processo. Il 30 novembre 2002 la Corte d'Assise d'Appello sostenne: "La colpevolezza degli imputati deve essere confermata", per il rilievo probatorio delle dichiarazioni accusatorie di Aletto, per cui venne verificata "la piena attendibilità". Inoltre "l'alibi fornito da Salvatore Ferraro è risultato sostanzialmente falso", dato che lasciava scoperto il lasso di tempo tra le 11.17 e le 12.56. Anche "l'alibi di Giovanni Scattone evidenzia l'oggettiva inconsistenza, addirittura comprendendo l'ammissione della presenza nelle vicinanze". Per questo, stabilì il processo bis, "la valutazione conclusiva (...) si risolve nella conferma della dichiarazione di responsabilità dello Scattone (assolutamente privo di alibi) per l'omicidio di Marta Russo e per gli altri reati contestati", di Ferraro per favoreggiamento e di Liparota per favoreggiamento. Infine l'ultima sentenza della Corte di Cassazione confermò in via definitiva la condanna a 5 anni e 4 mesi di reclusione per Scattone e 4 anni e 2 mesi per Ferraro. Assolto invece Liparota.
I processi furono caratterizzati da numerose contese, tra perizie che arrivarono a diverse conclusioni e dichiarazioni messe in dubbio. Numerose persone, tra cittadini, giornalisti, avvocati e politici, ancora prima della sentenza di primo grado, firmarono una petizione per un esposto a favore degli imputati e negli anni successivi si formò un comitato per la difesa di Scattone e Ferraro. La complessità del caso, che sollevò un elevato interesse mediatico, portò a definire la vicenda come uno dei misteri di cronaca nera italiana, nonostante la condanna in via definitiva di due imputati."Non accetto che in certe ricostruzioni si parli ancora di mistero - ha precisato la sorella di Marta, Tiziana, come riportato dall'Ansa - Per i giudici di cinque gradi di processo i colpevoli sono loro". Marta era una studentessa che quel giorno, come tante altre, si trovava in università per studiare e provare a realizzare i propri sogni: "Voleva laurearsi per difendere i più deboli, era determinata, una studentessa modello", ha riferito ancora la sorella, che ha ritrovato dei diari di Marta, mostrati durante la trasmissione su Rai2. "È l'occasione per far uscire l'immagine di Marta dal caso di cronaca nera e farla diventare, una figlia, una sorella, un'amica".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
Il caso del 9 maggio 1997. Chi era Marta Russo, la studentessa di 22 anni vittima del delitto della Sapienza. Vito Califano su Il Riformista il 21 Ottobre 2021. Marta Russo scriveva sul suo diario di voler “essere felice in questa vita, e non in futuro, ma nel presente, per ogni attimo che vivo. Perché non so quanto potrò vivere e cosa ci sarà dopo”. È morta, uccisa, in uno dei delitti più clamorosi e misteriosi – per la dinamica e il seguito processuale – della recente storia italiana. Il delitto dell’Università della Sapienza a Roma. Era il 9 maggio 1997, alle ore 11:42, un colpo di arma da fuoco la colpì alla testa. Era una studentessa di giurisprudenza ed ex campionessa regionale di scherma. Aveva 22 anni, compiuti il 13 aprile precedente. Il proiettile era stato esploso da una pistola calibro .22, a punta cava, camiciato e composto da solo piombo. Russo stava passeggiando con l’amica Jolanda Ricci un vialetto nella Città Universitaria, tra le facoltà di Scienze Statistiche, Scienze Politiche e Giurisprudenza. Il proiettile entrò nella nuca, dietro l’orecchio sinistro. Si spezzò in undici frammenti che le causarono danni irreversibili. Il colpo non esplose in un grande rumore, come se fosse stato sparato con un silenziatore. La ragazza fu soccorsa anche da uno zio, dipendente dell’Università, e trasportata al Policlinico Umberto I in coma. Il 13 maggio, alle 2:00, fu constatata la morte cerebrale. La famiglia – i genitori Donato Russo e Aureliana Iacoboni e la sorella Tiziana – deciso di donare gli organi: così aveva annunciato lei stessa dopo aver visto un servizio televisivo sul delitto di Nicholas Green. Il 14 maggio furono staccati i macchinari che la tenevano in vita e fu dichiarata morta. Ai funerali parteciparono circa 10mila persone, con Romano Prodi, Walter Veltroni, Luciano Violante tra gli altri. Il corpo venne seppellito al Cimitero del Verano. Le venne concessa la laurea alla memora dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e a memoria venne posta una targa commemorativa e furono intitolate alcune aule dell’università. Il caso rimase per anni sulle pagine dei giornali, nei talk show e nei tg. Le indagini e il processo che seguirono furono tra i più controversi nella recente storia italiana. Il documentario Marta – Il delitto della Sapienza, diretto da Simone Manetti, racconterà questa storia e la storia della sua protagonista su Rai2 in prima serata. Un prodotto per “raccontare al mondo la vita di Marta Russo e non più solo la sua morte” come ha raccontato la sorella della vittima Tiziana Russo. Per la prima volta si partirà dalle parole della ragazza, dai suoi diari ritrovati dopo anni dalla sorella. Un documentario, scritto da Emanuele Cava, Gianluca De Martino e Laura Allievi, con la partecipazione di Silvia D’Amico, che dà la voce a Marta e la supervisione di Fabio Mancini. Due le persone condannate, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, che continuano però a proclamarsi innocenti. Non venne mai ritrovata l’arma del delitto e la tesi del “delitto perfetto” venne accantonata. “Un racconto emozionale – ha raccontato il regista – per dire veramente chi c’era dietro la foto di Marta. Ci siamo avvicinati a tutto il materiale di repertorio e delle teche Rai, fondamentale per ricostruire anche l’aspetto sociale di quegli anni. Poi c’è il repertorio familiare più intimo, le fotografie e il cardine del progetto che sono i diari segreti di Marta: un mezzo non tanto per raccontare una persona ma cercare di avvicinarsi il più possibile a lei, come se fosse la persona stessa a raccontarsi”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Marta Russo, Roma 1997. Un colpo alle 11.42. Ripartiamo da chi c’era quella mattina. Chiara Lalli, Cecilia Sala il 21 maggio 2021 su Il Corriere della Sera. Chi ha ucciso la studentessa di Giurisprudenza nel vialetto dell’università? Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro: così ha stabilito il processo nei tre gradi di giudizio. Ci sono però dubbi su questa ricostruzione (nata come podcast e ora diventata un libro). Uno dei romanzi più belli di Ellery Queen, La porta chiusa, racconta del delitto di Karen Leith: una vittima, una porta chiusa dall’interno e le sbarre alle finestre. L’unico altro accesso è dalla camera della figlia del promesso sposo della vittima, Eva. Sembra essere lei l’unica possibile colpevole, ma la soluzione sarà molto diversa. In questo caso non c’è una porta chiusa. C’è una stanza di un dipartimento universitario dove tutti possono entrare, due finestre davanti alle quali c’è un edificio con tante altre finestre da cui si può vedere cosa succede all’interno dell’aula. Sono dettagli importanti, soprattutto se l’intento è quello di compiere un delitto perfetto. Perché questa era l’ipotesi della procura: chi ha ucciso Marta Russo lo ha fatto solo per dimostrare la propria superiorità morale e il poter ammazzare senza essere scoperto, per un sinistro delirio di onnipotenza e per una specie di superomismo nietzschiano alimentato dallo studio di filosofi con troppo ego.
Filosofia e giustizia. Non basta di certo l’incongruenza della porta lasciata aperta per dimostrare che il delitto non sia stato compiuto in quella stanza, l’aula assistenti di Filosofia del diritto, ma forse basta per sospettare di un movente così letterario e così evanescente. Impossibile da dimostrare e da confutare. Nel 2003 la Cassazione ha condannato in via definitiva Giovanni Scattone per aver sparato dalla finestra di quell’aula e Salvatore Ferraro per essere stato il suo complice. Il movente rimane sconosciuto e la condanna è per omicidio colposo. Questa storia comincia la mattina del 9 maggio 1997. Sono le 11.42 quando qualcuno spara all’interno della città universitaria di Roma colpendo Marta Russo sotto l’orecchio sinistro, in un punto dove l’osso è molto fragile. Il proiettile si frammenta e lesiona il tronco encefalico, causando un danno irreversibile. Ha ventidue anni, è una studentessa di Giurisprudenza, stava camminando con una sua amica lungo un vialetto interno della Sapienza dopo aver finito una lezione.
L’arma mai trovata. Le indagini si dimostrano particolarmente difficili fin da subito, perché la scena del delitto è un luogo aperto e sono molti i punti dai quali potrebbe essere partito il colpo. La Polizia inizialmente si concentra sui bagni del piano terra, che sono proprio davanti al punto in cui la ragazza è caduta. Le uscite della città universitaria vengono bloccate e le persone controllate, ma farlo richiede tempo e chi ha sparato potrebbe essere già scappato. Nonostante le ricerche e le perlustrazioni, la pistola e il bossolo non si trovano. Poi c’è qualcosa che fa insospettire gli inquirenti: i dipendenti della ditta delle pulizie dell’università collezionano armi e proiettili, e chiamano il loro magazzino “il deposito delle munizioni”. Il magazzino è proprio accanto al bagno del piano terra che affaccia sul punto dove Marta Russo è stata colpita, gli inquirenti lo considerano un luogo ideale da cui sparare proprio perché ci si può chiudere dentro. Eppure quella pista sarà abbandonata, perché pochi giorni dopo la Polizia scientifica consegna agli inquirenti una perizia destinata a cambiare per sempre il corso delle indagini: c’è un residuo di polvere da sparo sul davanzale di una delle finestre dell’aula 6, l’aula assistenti del dipartimento di Filosofia del diritto, al primo piano dell’edificio arancione che ospita sia la facoltà di Giurisprudenza che quella di Statistica. È un’aula frequentata principalmente dai collaboratori di cattedra, ma ci passano anche borsisti e studenti, ci può entrare chiunque.
Il telefono alza un velo. Le due finestre affacciano sul vialetto ma hanno un davanzale largo più di mezzo metro su cui è montato un condizionatore. Questo è un altro dettaglio importante perché per sparare bisogna sporgersi molto, rimanendo con le gambe a mezz’aria e rischiando di perdere l’equilibrio oltre che di essere visti da tutte le finestre di fronte, non solo da chi eventualmente fosse entrato nella stanza. La domanda cui, in questa fase delle indagini, gli inquirenti devono dare una risposta è: chi c’era in quella aula all’ora del delitto? Quando il capo della Squadra mobile entra nella stanza vede un telefono accanto alla porta. Controllando i tabulati telefonici scopre che sono state fatte due telefonate poco dopo lo sparo, una alle 11.44 diretta a casa Lipari e una alle 11.48 allo studio Lipari. È ovvio pensare che a telefonare sia stata la dottoranda Maria Chiara Lipari, figlia di Nicolò, un professore ordinario della stessa facoltà ed ex parlamentare della DC. Maria Chiara Lipari è la prima testimone. Che cosa ha visto? Che cosa ricorda di quella mattina del 9 maggio? E che cosa ha fatto nei quattro minuti tra la prima e la seconda telefonata?
Versioni e ricostruzioni diverse. Le versioni di Lipari sono molte e molto diverse tra loro: inizialmente giura che nella stanza «non c’era nessuno» poi dice che «c’erano alcune persone, tra le quali Gabriella Alletto», una segretaria dell’Istituto di Filosofia del diritto. Dopo vari interrogatori e molti giorni dopo il fatto, dopo aver detto più volte al telefono che gli inquirenti le facevano pressioni anche se «non stava né in cielo né in terra che io avessi qualcosa in più da dire», metterà a verbale di aver visto un assistente universitario all’interno della stanza e vicino alla finestra, Salvatore Ferraro. Quello che possiamo dire con certezza è che nelle sue varie ricostruzioni, frutto di ricordi che lei stessa definisce «subliminali», Lipari si è già sbagliata a collocare alcune persone nella stanza, persone che hanno un alibi che gli inquirenti hanno potuto verificare. Sappiamo anche che sbaglia quando racconta di essere uscita dall’aula 6 tra la prima e la seconda telefonata. Quelle telefonate, si scoprirà in seguito, sono infatti attaccate e lei non può aver avuto il tempo di andare in segreteria o in aula fax come dice di aver fatto.
Due date, un destino. La segretaria Gabriella Alletto, poi, conferma la versione di Lipari? No, dice di non essere mai entrata in quell’aula. Intercettata però confessa di aver paura di essere messa in mezzo. L’11 e il 14 giugno sono due date che cambieranno per sempre il destino di questa storia. L’11 è il giorno in cui Alletto viene interrogata dai pubblici ministeri. Alletto continua a dire di non essere mai entrata e in lacrime domanda «ma se io una persona la vedo, la vedo, ma se non la vedo io che faccio?». Con lei c’è il cognato, che è anche un ispettore di polizia. Perché fosse lì e che ruolo abbia avuto durante le indagini sono due dei tanti aspetti mai davvero chiariti di questa vicenda. I pubblici ministeri, più volte, le dicono che o parla oppure in galera ci va lei. «La prenderemo per omicida» le urla uno dei pm. Questo interrogatorio è interamente videoregistrato da una telecamera nascosta nella libreria; siamo abituati ad ascoltare le intercettazioni degli indagati e degli imputati, ma è la prima volta che possiamo ascoltare le domande degli inquirenti e assistiamo ai metodi di un interrogatorio. Forse uno dei momenti più inquietanti è quello in cui Alletto rimane sola con il cognato e gli dice a bassa voce «eh bisognerebbe sapere chi è quell’altro oltre a Ferraro». L’impressione, ascoltando quelle parole e il tono con cui vengono pronunciate, è che la segretaria si sia convinta a parlare e a fare dei nomi, ma non sappia quali fare. La sera dell’11, dopo aver giurato sulla testa dei propri figli di non aver mai messo piede in aula 6 quella mattina, Alletto torna a casa. Probabilmente ripensa a quello che le hanno appena detto i magistrati: se non si decide a parlare, sarà lei a essere indagata per omicidio.
Un mese passato invano. Passano tre giorni e il 14 giugno la segretaria cambia versione: «Ho visto Scattone con la pistola in mano e Ferraro mettersi le mani nei capelli in un gesto di disperazione». Perché non l’ha detto prima? Per più di un mese Gabriella Alletto ha giurato il contrario, con gli inquirenti, con le persone dell’Istituto e con gli amici. Ha mantenuto buoni rapporti con i due imputati, ha lavorato fianco a fianco con Ferraro, ha scherzato rispondendo al telefono «pronto, filosofia del delitto». Perfino il giorno in cui mette a verbale di aver visto Scattone con una pistola in mano e Ferraro al suo fianco, alla persona che la accompagna in commissariato per fare la deposizione, dice di non essere proprio entrata in quella stanza la mattina del 9 maggio.
Due arresti e una particella. Quella sera, pochi minuti dopo aver fatto i nomi di Scattone e Ferraro, i due vengono arrestati. Interrogati, entrambi non ricordano con esattezza dove fossero alle 11.42 di cinque settimane prima, ma dicono di essere innocenti, come continueranno a dire durante tutto il processo e come hanno ripetuto a noi l’anno scorso. Il processo comincia alcuni mesi più tardi, ed è proprio durante le prime udienze che emerge uno degli elementi più incredibili di tutta questa vicenda. Riguarda la particella di polvere da sparo che la Polizia scientifica ha trovato sul davanzale dell’aula assistenti di Filosofia del diritto. Si tratta della scoperta che ha rivoluzionato la direzione delle indagini, quella da cui è cominciato il percorso investigativo che ha poi portato agli arresti dei due assistenti di quell’Istituto. La stanza, il telefono, la testimonianza della dottoranda e poi quella della segretaria, l’insistenza e le pressioni degli inquirenti sicuri che qualcuno da lì avesse sparato.
Perizie e dubbi. La Corte incarica alcuni esperti per avere risposte sulla traiettoria dello sparo, sulla tipologia del proiettile e sul tipo di arma usato. Sono loro a dire in un’aula di tribunale che sulla traiettoria non si può stabilire nulla di sicuro, si possono soltanto fare delle ipotesi, ma soprattutto che l’arma utilizzata e il suo innesco non sono compatibili con la particella di polvere da sparo trovata dalla Scientifica sul davanzale. Non solo, quel granello di polvere non è neanche con certezza un residuo di uno sparo, potrebbe essere un residuo dei freni di una macchina o di una stampante. Oggi queste affermazioni sono considerate ovvie: la composizione binaria di bario e antimonio, quella della particella trovata in aula 6, non è esclusiva. Lo conferma la letteratura scientifica in materia, come i bollettini ufficiali europei, dell’FBI o di Scotland Yard. Insomma, la perizia della Polizia scientifica che è la premessa di tutta questa storia è sbagliata. E tutto quello che rimane dell’ipotesi accusatoria sono le testimonianze oculari, tardive e contraddittorie, le più fragili e inaffidabili delle prove. In generale, le testimonianze dovrebbero solo indirizzare, indicare, suggerire la strada giusta per trovare le prove scientifiche, non sostituirle. Eppure le testimonianze di Lipari e Alletto vengono considerate sufficienti per dimostrare la colpevolezza di Scattone e Ferraro. Le due testimoni sono giudicate attendibili, nonostante non solo entrambe abbiano cambiato versione nel tempo, ma le loro due versioni definitive e ufficiali della stessa scena divergano su molti dettagli importanti.
Le condanne e le domande. Scattone e Ferraro vengono condannati in primo grado e in via definitiva. La Cassazione però decide di ridurre la pena: cinque anni e quattro mesi a Scattone e quattro anni e tre mesi a Ferraro. È una condanna che sembra un compromesso e rischia di scontentare tutti. Troppo leggera per chi li crede colpevoli di aver ucciso una ragazza, forse per un errore o per un gioco crudele. E sbagliata per chi invece li crede innocenti. La pistola e il bossolo non saranno mai trovati, non sappiamo con certezza da dove si è sparato, non c’è un movente e ci sono tante altre domande alle quali non è stato possibile rispondere. Dove aveva preso Scattone la pistola? Perché se l’era portata all’università se non aveva l’intenzione di usarla, visto che secondo la condanna nessuno aveva premeditato l’omicidio? Dov’è finita? E poi c’è la domanda più spaventosa: se Scattone e Ferraro non hanno sparato, chi ha ucciso Marta Russo?
Marta Russo, e se avessero ragione Scattone e Ferraro? La stampa ne parlò come il "delitto perfetto": era il 9 maggio 1997 quando un proiettile esploso da una finestra dell'università la Sapienza di Roma mise fine alla giovanissima vita di Marta Russo. Della sua morte furono accusati due ricercatori: Scattone e Ferraro. Nicola Campagnani su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Qualcuno si affrettò a chiamarlo il “delitto perfetto”, anche se poi i due artefici che avrebbero voluto metterlo a segno sarebbero stati condannati. Ma forse, a 24 anni dall’omicidio di Marta Russo, vale la pena rispolverare quel titolo che qualche giornalista fantasioso rubò a Hitchcock, prima di farsi il suo personale film sulla vicenda: “Delitto perfetto” del resto è anche un remake in uscita in quegli stessi anni, con Michael Douglas nei panni di Steven Taylor. Poi ci sono le storie vere. Il 9 maggio 1997 la studentessa Marta Russo, 22 anni, viene colpita da un proiettile mentre cammina in un viale della città universitaria della Sapienza di Roma. Il caso viene subito affidato ai procuratori Carlo Lasperanza e Italo Ormanni, mentre la procura della Capitale brancola ancora nel buio del delitto di Via Poma e dell’Olgiata. Stavolta le indagini devono portare a un risultato, e in fretta. Le piste che sembrano aprirsi inizialmente paiono le più disparate: a pochi giorni dallo scandalo per uno sparo all’università, si scopre che la Sapienza è piena di pistole. Ma non si trova la calibro 22 compatibile con il delitto, né un testimone che racconti di aver visto qualcosa di quanto avvenuto in pieno giorno in una delle università più popolose d’Europa. Poi, il 19 maggio 1997, la polizia scientifica dice di aver trovato “tracce significative” di polvere da sparo sulla finestra di quella che diventerà la famosa aula 6 dell’Istituto di Filosofia del diritto della Facoltà di Giurisprudenza. È così che le indagini si concentrano su quella stanza e su quel dipartimento. Dai tabulati telefonici risulta che in un orario compatibile con quello dello sparo da lì stava telefonando la dottoranda Maria Chiara Lipari. Sottoposta a svariati interrogatori, cambia più volte versione, dicendosi impegnata a spremere i ricordi «dall’ano del cervello». Finché non tira fuori i nomi dell’usciere Francesco Liparota e della segretaria Gabriella Alletto, i quali tuttavia negano la loro presenza nella stanza in quel momento. Gabriella Alletto, dopo l’ennesimo interrogatorio, parla con il cognato mentre le telecamere della polizia la registrano, e arriva a giurare sulla testa dei propri figli di non essere entrata nell’aula 6. Ma il 12 giugno 1997 viene arrestato il professor Bruno Romano, direttore dell’istituto di filosofia del diritto, perché gli inquirenti sono convinti che stia ostacolando le indagini dicendo ai suoi di non parlare. L’arresto di Romano fa tremare Gabriella Alletto che cambia versione e dice che in quell’aula ci è entrata e ha visto anche Francesco Liparota, proprio come ha detto Maria Chiara Lipari. E subito dopo rilascia la deposizione che la candida a testimone chiave del processo: accusa il dottorando di filosofia del diritto Giovanni Scattone di aver sparato dalla finestra e il collega Salvatore Ferraro di aver portato via l’arma. Dopo una notte in carcere Francesco Liparota conferma la versione di Gabriella Alletto, anche se torna a smentirla il giorno successivo. Dopo settimane in cui i volti di Scattone e Ferraro continuano ad apparire costantemente in tv, la studentessa Giuliana Olzai dice di ricordarsi di averli visti passare quel giorno alla Sapienza. L’8 agosto 1997, prima di partire per un viaggio, Maria Chiara Lipari entra negli uffici della polizia aeroportuale di Fiumicino e dichiara di ricordarsi finalmente anche lei di aver visto i due nella stanza: sicuramente Salvatore Ferraro, molto probabilmente pure Giovanni Scattone. Il 20 aprile 1998 si apre il processo che porta alla condanna definitiva di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro il 15 dicembre 2003. Ma intanto, fuori e dentro il tribunale, esplodono non poche contraddizioni. L’8 settembre 1998 spunta la videoregistrazione dell’interrogatorio di Gabriella Alletto dell’11 giugno 1997 dove tutti possono sentire il procuratore Italo Ormanni tuonare con quella che qualcuno avverte come una minaccia ben poco velata: «La prenderemo per omicida!». Intanto i periti spiegano che non c’è alcuna certezza che lo sparo sia partito dall’aula 6: le particelle rinvenute sono solo bario e antimonio, manca il piombo, possono dunque essere la traccia di molte cose. Il 13 novembre del 2000, al processo d’appello, una nuova perizia chimica stabilisce che la particella trovata sulla finestra dell’aula 6 non è riconducibile all’innesco del proiettile che colpì Marta Russo. Alla fine Giovanni Scattone viene comunque condannato per omicidio colposo e porto abusivo d’arma, Salvatore Ferraro per favoreggiamento e porto abusivo d’arma. Cinque anni e quattro mesi per il primo, quattro anni e due mesi per il secondo. Una sentenza imbarazzata che scontenta tutti: troppo lieve ad avviso di chi vuole l’omicidio volontario, troppo dura per chi non accetta di sentirsi chiamare omicida e si è sempre proclamato innocente. Ma la pena travalica oltre, nelle vite private dei due, ormai bollati a vita. La stessa stampa che ha letteralmente inventato che Scattone e Ferraro avevano tenuto un seminario sul delitto perfetto, torna ancora all’attacco quando Giovanni Scattone tenta di rifarsi una vita provando a fare l’insegnante di liceo. Un nuovo bombardamento mediatico, che infine lo costringe a rinunciare. E se davvero avessero ragione Scattone e Ferraro? Se non fossero stati loro a uccidere Marta Russo? Forse allora si dimostrerebbe visionaria l’arguta immaginazione del primo cronista che tirò in ballo la teoria del delitto perfetto. Perché tale sarebbe un delitto con due condannati innocenti e un colpevole che “l’ha fatta franca”.
“Undici Frammenti – il delitto perfetto della Sapienza” – Il podcast. “Undici Frammenti – Il delitto perfetto della Sapienza” è il podcast Audible Original del collettivo Lorem Ipsum. I dieci episodi ricostruiscono le indagini e il processo, che si concluse con la condanna di Scattone e Ferraro. Un’inchiesta in forma di romanzo che raccoglie le voci dei protagonisti di una vicenda che ha dato vita al primo caso mediatico di stampo televisivo della storia italiana. Storie che si intrecciano con altre storie, dalla donazione degli organi, alla messa in discussione dell’istituzione carceraria. Frammenti che compongono un puzzle imperfetto, al ritmo di sonorità originali che prendono parola e accompagnano l’ascoltatore. E che lo invitano a mettere in discussione una verità che aveva dato per scontata.
· Il Mistero di Nada Cella.
Il massacro, l'indagata, gli audio choc: qual è la verità su Nada? Rosa Scognamiglio il 30 Novembre 2021 su Il Giornale. A 25 anni dal delitto il caso di Nada Cella è a un passo dalla svolta. Una donna, Annalucia Cecere, è indagata per omicidio aggravato. Dalle prime indagini agli ultimi risvolti: la storia del cold case di Chiavari. Dalla mattina del 6 maggio 1996, quando Nada Cella fu assassinata nell'ufficio in cui lavorava come segretaria, sono trascorsi 25 anni. Venticinque lunghi anni in cui l'ombra di un assassino senza nome è scivolato, quasi fosse un fantasma, tra le pagine del fascicolo di indagine per omicidio aggravato. Ed è proprio lì, tra le pieghe di quei faldoni stipati nell'archivio della Procura di Genova, che lo scorso maggio sono riemersi i dettagli del truce massacro. Dettagli che si sono trasformati in indizi, nuovi sospetti, possibili tracce di quel fantasma spietato. C'è un nuovo nome nel registro degli indagati: è quello di Annalucia Cecere, ex insegnante di 53 anni, sui cui adesso si concentrano le attenzioni degli inquirenti. E poi ci sono gli audio di una donna misteriosa, non ancora identificata, che potrebbe aver visto il killer in fuga da via Marsala, a Chiavari, teatro dell'aggressione fatale. La chiave di volta del giallo potrebbe celarsi in una piccola traccia ematica affidata al genetista forense Emiliano Giardina oppure nel confessionale di una chiesa. Venticinque anno dopo l'assassino di Nada potrebbe avere i giorni contati. "Ci speriamo tutti. La magistratura, i consulenti tecnici e tutti quelli che lavorano a questa inchiesta ci stanno mettendo il cuore oltre all'impegno. Si è mobilitata una grande macchina, c'è molta collaborazione tra le parti", dice al ilGiornale.it l'avvocato Sabrina Franzone, rappresentante legale di Silvana Smaniotto, la mamma di Nada.
Chi è Nada Cella
Nel 1996 Nada è una ragazza di appena 24 anni. Timida e riservata ma al contempo molto tenace e caparbia. Vive a Chiavari, in provincia di Genova, insieme a mamma Silvana che lavora come bidella in municipio. Suo padre, Bruno Cella, è un falegname: è rimasto ad Alpepiana, paesino nella Val d'Aveto di cui è originario, per comodità lavorativa. Nada lo raggiunge per il fine settimana, con anche la madre, per restarvi fino alla domenica dopo il pranzo e la messa nella chiesetta di San Pietro. Sua sorella Daniela, la maggiore delle due, invece vive a Milano con il marito. La vita di Nada si divide tra il lavoro di segretaria nell'ufficio di un commercialista di Chiavari, la famiglia e gli amici. Pochi intimi con i quali, quasi ogni settimana, va a ballare in una discoteca di Santo Stefano. Da qualche tempo si è iscritta a un corso d'inglese per perfezionare la conoscenza della lingua straniera e ampliare le sue competenze. Sogna di esplorare il mondo, di viaggiare. L'anno prima che il suo nome rimbalzasse su tutti i quotidiani era stata in Grecia. Forse ci sarebbe ritornata anche quell'estate del 1996.
Il massacro
Il 6 maggio 1996 è un lunedì come tanti. Nada si sveglia alle 6.20 per accompagnare mamma Silvana al lavoro, escono di casa qualche minuto dopo le 7. Poco più tardi si reca nell'ufficio del commercialista Marco Soracco, al civico 14 di via Marsala, nel centro di Chiavari. Successivamente un testimone anonimo riferirà alla polizia di aver visto la ventiquattrenne varcare la soglia di ingresso della palazzina attorno alle 8.35, ma in realtà non c'è alcun riscontro delle dichiarazioni rese dallo sconosciuto. Per certo quella mattina il computer di Nada risulta acceso alle 7.51 e alle 8.50 viene lanciata una stampa. Poi c'è un buco di 20 minuti in cui le tapparelle dell'ufficio rimangono abbassate e il telefono squilla a vuoto. Fino a quando, alle 9.10, Marco Soracco lancia l'allarme al 113 per "una caduta".
Il professionista ha trovato Nada riversa in una pozza di sangue sul pavimento della sua stanza, distesa tra il muro e la scrivania. I soccorritori, allertati dalle forze dell'ordine, si precipitano in via Marsala: la ragazza è agonizzante. Viene portata dapprima all'ospedale di Lavagna, poi, in fin di vita, al San Martino di Genova dove muore qualche ora più tardi. L'autopsia accerterà che non si è trattato di un malore né di una caduta accidentale: Nada è stata massacrata.
L'esito degli accertamenti autoptici condotti dal medico legale fuga ogni dubbio sull'entità dell'aggressione. La ventiquattrenne è stata colpita per 8 volte sul corpo con un oggetto contundente e poi sbattuta con violenza contro una superficie piana: l'impatto è stato tale da procurarle il fracassamento delle ossa frontoparietali del cranio, circostanza che ne ha determinato la morte.
"Sangue sul motorino": svolta nell'omicidio di Nada
La scena del crimine
L'ufficio di Nada è imbrattato di sangue. Ci sono i suoi mocassini vicino alla scrivania a cui era solita sedersi per lavorare. Forse li ha persi mentre tentava di difendersi dall'aggressore. C'è anche un bottone che gli agenti della squadra Mobile hanno trovato sul pavimento, proprio lì, dove era distesa la vittima. Il resto della stanza appare in ordine: il computer è acceso e le pratiche dei clienti sono al loro posto. Non ci sono segni di effrazione né alla porta principale dello studio né alle finestre. Ma la scena del crimine purtroppo è stata alterata. I paramedici, impegnati nelle manovre per soccorrere rapidamente Nada, hanno contaminato inconsapevolmente la stanza. E poi la mamma del commercialista, Marisa Bacchioni, si è affrettata a pulire il corridoio, le scale condominiali e l'androne ancor prima dell'arrivo degli investigatori - la donna pare sia molto attenta all'igiene. Fatto sta che le tracce del killer, le sue orme nella palazzina di via Marsala, sono state cancellate con un colpo di spugna.
Il giallo del floppy disk e del libretto di lavoro
Nessuno ha visto né sentito nulla nell'edificio dove si è consumato il massacro. Eppure in quel palazzo c'è un andirivieni continuo di persone tra residenti e visitatori. Nel lasso di tempo intercorso tra l'arrivo di Nada al lavoro e la fuga dell'assassino, quella mattina ci sarebbero state anche le donne delle pulizie: nessuna di queste avrebbe notato la presenza di un estraneo. Una vicina di casa dei Soracco, che abitano al piano superiore dell'ufficio, racconta di aver "sentito un tonfo" alle 9.01. Un'altra "l'acqua che scorreva" copiosamente in bagno. Marco Soracco, ascoltato dagli investigatori, spiega di essere arrivato al lavoro con dieci minuti di ritardo. Dopo aver risposto a una chiamata, si è diretto nella stanza della segretaria. Ha notato che le luci del corridoio erano accese e le tapparelle ancora abbassate: un'anomalia rispetto alle abitudini dell'impiegata.
Ma c'è anche un'altra stranezza. Marisa Bacchioni racconta che il sabato antecedente all'omicidio, Nada si sarebbe recata in ufficio di mattina presto sostenendo di aver bisogno di alcuni chiarimenti per una pratica che stava disbrigando. Così si è seduta alla sua scrivania e ha telefonato a Soracco. Dopodiché, precisa la mamma del commercialista agli inquirenti, avrebbe estratto un floppy disk dal computer e lo avrebbe infilato in borsa. Ma di quel floppy non è mai stata trovata traccia.
C'è poi un altro piccolo giallo, uno dei tanti di questa storia. Quando la borsa della ventiquattrenne è stata restituita ai familiari, la sorella Daniela ha notato che al suo interno c'era anche il libretto di lavoro di Nada. Perché lo aveva con sé? Forse aveva deciso di licenziarsi? "Anche questo dettaglio non è mai stato chiarito. - spiega l'avvocato Franzone - Sembrerebbe che lo abbia dato Sorraco agli inquirenti e che poi gli stessi, quando hanno restituito gli effetti personali di Nada alla famiglia, abbiano infilato nella borsa anche il libretto del lavoro della ragazza". Un altro interrogativo che resterà senza risposta per 25 anni.
I sospetti su Marco Soracco
Le indagini sul misterioso omicidio vacillano sin da subito. La vita di Nada è specchiata, limpida e cristallina. I sospetti degli inquirenti si concentrano su Marco Soracco, il datore di lavoro. Ad avvalorare quest'ipotesi sono alcune dichiarazioni rese da un collega del commercialista. I due frequentano lo stesso corso di ballo serale presso la palestra "Odeon". Qualche settimana prima del drammatico accadimento, al termine di una lezione, si sarebbero intrattenuti in un bar per bere una birra. "Stavamo quasi per lasciarci, era quasi mezzanotte - dichiara il testimone – All'improvviso, lui mi disse 'e poi ci sarà la botta', una cosa che riguardava il suo studio e che avrei appreso notizie anche dai giornali. La signorina o segretaria se ne sarebbe andata. E allora, al quel punto, siccome continuavo a non capire, gli dissi 'perché mi dici queste cose, che uso devo farne?' Lui rispose di farne l'uso che uno voleva: 'tanto quando la cosa si sarà calmata si capirà'".
Soracco smentisce tali affermazioni ma per gli inquirenti quelle parole risuonano come una minaccia terribile, il preludio di ciò che sarebbe accaduto di lì a quel giorno di maggio. Il commercialista, al tempo trentenne, diventa il principale indiziato del delitto. Mancano però elementi probanti la presunta colpevolezza o un qualsivoglia coinvolgimento nella vicenda. Il commercialista si dichiara estraneo ai fatti sostenendo di aver intrattenuto con Nada un rapporto puramente professionale. Il 18 luglio del 1997 Marco Soracco viene prosciolto e il caso archiviato.
A cavallo tra il 2003 e il 2004 la procura di Genova riapre le indagini puntando sui vicini di casa di Nada coinvolti nel maxi processo Kanun sul racket della prostituzione ma la pista si rivela infondata. Viene indagata anche una donna, affetta da disturbi psichici, che vive nell'appartamento al terzo della palazzina al civico 14 di via Marsala ma ha un alibi di ferro. Nel 2011 vengono individuate tracce di Dna sulla scena del crimine che però non trovano riscontro.
"In dieci sapevano". I segreti in chiesa e gli audio choc: come è morta Nada?
La svolta 25 anni dopo: indagata una donna
Quando la vicenda sembrava essersi arenata giunge la svolta clamorosa. A maggio del 2021 la Procura di Genova annuncia di avere in mano elementi per riaprire le indagini. In realtà si tratta di vecchi reperti che ora potranno essere esaminati con le nuove tecniche di investigazione scientifica. Capelli senza bulbo rinvenuti sul corpo della giovane Nada da cui sarà estratto il Dna mitocondriale, tracce sulla camicetta e pantaloni della vittima oltre al sangue in alcuni punti dello studio e dell'ascensore del condominio, che sono state affidate al genetista forense Emiliano Giardina. Ma non è solo questa l'unica direzione in cui si muoveranno gli investigatori.
C'è una nuova indiziata per il delitto. Si tratta di Annalucia Cecere, un'ex insegnante di 53 anni (all'epoca dei fatti ne aveva 28), su cui ora si concentra l'attenzione della procura. La donna era già stata indagata, in tempi non sospetti, per via di un bottone rinvenuto sotto il corpo di Nada e che pare appartenesse a una giacca in uso al suo fidanzato dell'epoca. Ma poi la sua posizione era stata rapidamente archiviata. A gettare ombre sulla 53enne, che ora è indagata con l'ipotesi di reato per omicidio aggravato, sono alcune tracce di sangue rinvenute sul vecchio motorino della donna, stipato nel box auto della sua abitazione di Boves, dove risiede attualmente. Ma c'è di più.
La telefonata choc su Nada Cella: "Le spacco la testa in due"
Gli audio choc: "Era sporca, ha infilato tutto nel motorino"
Due testimonianze, trascurate al tempo delle indagini preliminari, inaspriscono la posizione dell'ex insegnante. In una telefonata anonima, risalente al 9 agosto 1996, una donna riferisce di aver visto una persona allontanarsi, in sella al motorino, dal luogo del delitto la mattina del 6 maggio 1996. "L’ho vista che era sporca – afferma la sconosciuta - ha infilato tutto nel motorino. Io l’ho salutata, non m’ha guardato. Quindici giorni fa l’ho incontrata in carruggio, che andavo alla posta, non mi ha nemmeno guardata, è scivolata di là, verso sera".
La donna fa numerose altre telefonate tra cui una alla madre di Soracco nell'agosto dello stesso anno. "Si conoscono signora. È che stanno tutte zitte, perché eravamo diverse… - dice la presunta supertestimone - Io non faccio nomi, perché eravamo diverse. Io non so perché le altre non parlano, eravamo in cinque". Chi sono le "cinque" donne a cui fa riferimento la sconosciuta? Forse delle suore? "Non penso fossero suore. - spiega l'avvocato - Ho parlato con alcune persone di Chiavari e tutte mi hanno confermato che le suore non parlano in dialetto. E poi usa il termine 'ragazze' per riferirsi alle persone che erano con lei, non le chiama 'sorelle'. L'espressione 'ragazze' mi fa pensare a un contesto di volontariato. Mi vengono in mente, ad esempio, le educatrici di un tempo, le famose 'signorine'".
Il sospetto che i dettagli sull'omicida di Nada possano esser stati custoditi per anni nel confessionale di una chiesa appare più che fondato. Quattro preti sarebbero stati invitati a conferire con gli inquirenti. Un sarcedote, secondo quanto riporta il sito de La Repubblica, avrebbe cominciato a collaborare.
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A un passo dalla verità
Sui rapporti tra Marco Soracco e Annalucia Cecere aleggia ancora un alone di mistero. Il commercialista, a oggi indagato con l'ipotesi di reato per falsa testimonianza ai pm: è accusato di aver "coperto" l'assassino di Nada, tuttavia afferma di non aver né coltivato un'amicizia né di aver mai intessuto alcun tipo di relazione con la 53enne. Per contro, gli inquirenti ipotizzano il movente della gelosia alla base del delitto: l'ex insegnante si sarebbe invaghita del professionista, che invece sarebbe stato interessato alla giovane vittima, ma Soracco smentisce anche questa circostanza. In tutto questo groviglio di testimonianze, vecchi reperti e nuovi indagati, si riaccende la speranza di mamma Silvana, che da quel maledetto giorno di maggio non ha mai smesso di chiedere giustizia per sua figlia. Venticinque anni senza Nada. Ora più che mai, a un passo dalla verità. "Chi sa qualcosa o crede di sapere qualcosa perché, magari, glielo ha raccontato un parente, si faccia avanti", è l'appello dell'avvocato Sabrina Franzone.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due
"Qualcuno sa cosa è successo a Nada": tutti i buchi dell'indagine. Angela Leucci il 25 Novembre 2021 su Il Giornale. Negli anni '90, ci furono testimonianze di cui non si tenne conto allora come si tiene oggi: le ragioni della riapertura del caso di Nada Cella. Perché l’indagine su Nada Cella è stata riaperta a maggio 2021 ma a partire da vecchi indizi? È una domanda fondamentale per comprendere cosa sia andato storto nella macchina dell’inchiesta e della giustizia dopo quel tragico 6 maggio 1996, quando Nada, segretaria nello studio di un commercialista, fu assassinata. E i punti oscuri sono tanti. “Io chiedo agli abitanti di Chiavari - ha detto a ‘Chi l’ha visto?’ Daniela, sorella di Nada - ma in particolare a chi sa - perché io sono convinta che qualcuno sappia - che si faccia avanti, perché adesso si può fidare della squadra mobile di Genova, del magistrato, io li ho conosciuti, ho contatti con la squadra mobile, con una persona in particolare di cui mi fido e che in questi mesi mi ha aiutata ad andare avanti. Io so che forse potrebbe non succedere nulla, ho i piedi ben saldi a terra, però io sono convinta che a Chiavari qualcuno sappia molto di più di quello che finora è stato detto. Io voglio credere che ancora ci siano brave persone”.
Il nodo delle testimonianze
Ci sono varie testimonianze che alla fine degli anni ’90 non hanno prodotto esiti, ma che ora si rivelano in tutte le loro potenzialità. C’è una donna, con un nome e cognome, che si è rivolta alle forze dell’ordine per spiegare che l’attuale indagata, Anna Lucia Cecere, provasse sentimenti ostili verso Nada: la donna disse, tra le tante cose affermate, che Cecere era stata nello studio di Marco Soracco in cui Nada lavorava, ma il commercialista non era presente, dettaglio che tra l’altro corrisponde perfettamente alla testimonianza di Soracco.
C’è poi una testimone anonima, che ha fatto molte telefonate, tra cui anche una alla curia e una alla madre di Soracco. Silvana, mamma di Nada, aveva parlato con la signora Soracco, a suo tempo, di quella telefonata e le due donne si erano anche fatte un’idea sulla possibile identità dell’anonima: purtroppo, se quell’ipotesi dovesse essere vera, vuol dire che la testimone anonima intanto è venuta a mancare e quindi non potrebbe essere utile ai fini dell’indagine.
Nada Cella e il mistero dei fiori: "Per un invito a cena..."
Quel che è certo è che più di una persona abbia visto una donna sconvolta, con le mani sporche di sangue, allontanarsi da quei pressi con un motorino. A dirlo infatti è anche una mendicante con il figlio, grazie ai quali alla fine degli anni ’90 fu realizzato un photo fit, ossia un collage di dettagli del volto a partire da foto di altre persone. La somiglianza con Cecere è stata giudicata oggi impressionante. “Da un attento esame del photo fit - si legge in un documento degli inquirenti - redatto con l'ausilio dei testimoni oculari, nonché dalle descrizioni fisico somatiche fornite dagli stessi, emergeva una forte somiglianza con la riproduzione fotografica acquisita della Cecere, facendo quindi intuire che la donna indicata dalla mendicante dal figlio, tenuto conto anche delle circostanze di tempo e di luogo, possa identificarsi nella donna indicata dalla confidente”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Omicidio Nada Cella, un prete interrogato: “Ci sono quattro persone che non stanno parlando”. Asia Angaroni il 19/11/2021 su Notizie.it. La Procura di Genova è certa che l'ambiente ecclesiastico fosse a conoscenza di alcuni dettagli sulla morte di Nada Cella. Convocati una decina di preti. Omicidio Nada Cella, interrogato un prete e indagini in corso sulla chiamata anonima: si tratta di una suora? Resta avvolto nel mistero l’omicidio di Nada Cella. Per 25 anni qualcuno ha taciuto, pur sapendo o essendo a conoscenza di dettagli essenziali per ricostruire la dinamica dell’accaduto. La Procura di Genova, certa che l’ambiente ecclesiastico dispone di informazioni utili sul fatto, ha riaperto le indagini e convocato una decina di sacerdoti. Uno dei preti interrogati ha fornito i primi elementi utili. Era il 6 maggio 1996 quando la segretaria Nada Cella, all’epoca appena 24enne, venne uccisa nello studio del commercialista Marco Soracco. Gabriella Dotto, sostituto procuratore a capo della nuova inchiesta che vede indagata per omicidio volontario l’ex insegnante Annamaria Cecere, 53 anni, ha convocato una decina di sacerdoti. Uno di loro avrebbe iniziato a collaborare, riportando informazioni importanti per ricostruire quanto accaduto realmente quella mattina nel condominio di via Marsala 14, a Chiavari. Il sospetto è che la Chiesa conoscesse i dettagli sulla morte di Nada. Oltre all’interrogatorio di un sacerdote che starebbe fornendo informazioni utili, proseguono le indagini condotte dalla Procura di Genova. In attesa dei risultati degli esami sulle tracce di sangue trovate nel sottosella del motorino di Annalucia Cecere, gli investigatori sono al lavoro per rintracciare l’autrice della telefonata anonima effettuata a casa del commercialista tre mesi dopo il delitto. A rispondere era stata prima la madre di Marco Soracco. Dall’altra parte della cornetta la donna raccontava di aver visto l’ex insegnante allontanarsi sporca di sangue. “L’ho vista che andava via col motorino, l’ho vista tutta sporca che metteva tutto sotto la sella. L’ho salutata e manco mi ha guardata” e pare avesse informato “anche gli avvocati del Soracco e della morta, nonché la Curia di Chiavari”. In un altro audio la voce al telefono racconta che in auto erano in cinque e che le altre avevano deciso di stare zitte. “Si la conoscono signora. È che stanno tutte zitte. Le altre stanno tutte zitte, ma eravamo diverse. Io non faccio nomi, ma eravamo diverse. Io non so perché le altre non parlano. Eravamo in cinque”. L’ipotesi è che il riferimento alle altre “quattro che stanno zitte” riguardi quattro consorelle (cinque includendo la misteriosa testimone).
Nada Cella e il mistero dei fiori: "Per un invito a cena...". Angela Leucci il 20 Novembre 2021 su Il Giornale. Nada Cella aveva ricevuto dei fiori prima della sua morte, ma non si sa chi li abbia inviati: nuove ombre appaiono sulla storia dell'indagata per l'omicidio. Nada Cella ricevette un misterioso mazzo di rose poco tempo prima di morire. Fu un mazzo di rose anonimo, che recava un biglietto con la dicitura: “Per un prossimo o eventuale invito a cena”. La madre di Nada, Silvana Smaniotto, ha raccontato a “Quarto grado” che i fiori arrivarono di sabato e lei pensò fossero un regalo della figlia, perché era solita portarglieli dato che le piacevano. Silvana ha chiesto a Nada se immaginasse chi potesse essere il mittente, la risposta fu: “Può essere anche il mio capo”, ovvero Marco Soracco, il commercialista dal quale Nada lavorava come segretaria e nel cui studio fu uccisa il 6 maggio 1996. Soracco ha smentito di aver inviato lui i fiori e mamma Silvana gli crede, ma si chiede anche: “Però mia figlia come ha fatto a pensare che potesse essere stato lui?”.
I presunti rapporti tra Soracco e Anna Lucia
Un mistero sono anche i rapporti tra Soracco e Anna Lucia Cecere, attualmente indagata nel caso dell’omicidio di Nada. Una testimone anonima ha raccontato di averla conosciuta in sala da ballo e di averle prestato un abito: ha anche aggiunto che Cecere avesse incontrato Nada e di averla descritta come “ostile”, e di aver chiesto a Soracco di sposarla. Tuttavia l’istruttore di ballo del commercialista all’epoca dice di non ricordarla, e lo stesso professionista ha affermato che la loro conoscenza sia nata grazie al fidanzato di lei sul sagrato di una chiesa. Soracco ha descritto Cecere come “una persona che conoscevo in modo superficiale”, aggiungendo che si fossero visti in tutto una decina di volte, e che lei era venuta in studio ma non l’aveva trovato.
Il passato di Anna Lucia
“Quarto grado” ha intervistato un’ex dell’indagata, con cui la donna, originaria di Caserta e classe 1968, aveva avuto una relazione a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. L’uomo, molto più grande di lei, l’aveva conosciuta da bambina: lui e la sua ex moglie portavano a spasso Anna Lucia e la sorella, che erano state affidate a un istituto di suore di Chiavari.
Dopo 20 anni, Anna Lucia ha deciso di tornare al nord, quando l’uomo e la sua ex moglie erano già separati. Dopo un primo periodo in cui Anna Lucia si è interrogata sul restare al nord, i due sono andati a convivere e dalla loro relazione è nato un figlio al quale Anna Lucia pare abbia deciso di non fare da madre. “Lei è accusata di abbandono di minore”, ha spiegato l’uomo, che ha avuto in affidamento dal tribunale il figlio, che oggi ha 30 anni ed è padre a propria volta. Pare che in tribunale Anna Lucia abbia detto: “Quando sarò ricca, riprenderò il mio bambino”.
“Io lei proprio non la perdono”, ha commentato l’ex, che però ha provato comunque a giustificare Anna Lucia: “Non ha avuto una gioventù questa ragazza qua”.
La telefonata choc su Nada Cella: "Le spacco la testa in due"
Le ultime ore di Nada
La cronologia delle ultime ore di Nada non è chiarissima. La giovane segretaria si è svegliata, la mattina del 6 maggio 1996, alle 6.20, per accompagnare la madre al lavoro alle 7.05. Mamma Silvana dice che Nada è tornata a casa, ha bevuto il caffè, rassettato e perfino apparecchiato la tavola in vista del pranzo che sarebbe stato ore più tardi. Sarebbe anche stata in panetteria, ma non se ne conosce l’orario preciso, forse tra le 7.30 e le 8.
Quando giunge allo studio di Soracco, la vittima non è vista arrivare da nessuno, ma alle 9.01 una condomina sente un tonfo e poi dei passi al portone, aggiungendo: “Non ho sentito i soliti rumori”, riferendosi allo studio che ogni mattina si animava di voci di lavoratori e clienti, oltre che di suoni relativi a suppellettili da ufficio.
Una telefonata anonima al commissariato ha affermato di aver visto Nada entrare alle 8.35 dal portone dello studio, ma è un fatto che il suo computer fosse acceso alle 7.51 e che alle 8.50 viene lanciata una stampa. Chi ha acceso il computer? È stata Nada a stampare dei fogli? Quel che è certo è che alle 9.10 arriva il commercialista e chiama tempestivamente i soccorsi. E si conosce con certezza che ci sono diversi reperti da analizzare: dei capelli senza bulbo rinvenuti sul corpo della giovane, da cui sarà estratto il Dna mitocondriale, tracce su camicetta e pantaloni della vittima, oltre che sangue in alcuni punti dello studio e dell’ascensore del condominio.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Giuseppe Scarpa per “Il Messaggero” il 10 novembre 2021. Mesi di telefonate e messaggi audio, alcuni dei quali minacciosi, inviati da Annalucia Cecere - la donna indagata nella nuova inchiesta sull'omicidio di Nada Cella - alla criminologa Antonella Pesce Delfino, la donna che ha avuto un ruolo cruciale nella riapertura del cold case, rimasto senza soluzione per 25 anni. Nada Cella fu uccisa il 6 maggio 1996 a Chiavari, all'interno dello studio del commercialista Marco Soracco, dove lavorava come segretaria. Stando alla nuova ipotesi dei pm, il movente del delitto sarebbe passionale e legato a un'infatuazione per lo stesso professionista, a sua volta indagato insieme all'anziana madre per false dichiarazioni ai pubblici ministeri. Nel corso della sua indagine privata, iniziata nel 2018 dopo avere conosciuto la madre di Nada, la criminologa si era presentata a casa di Cecere, che oggi ha 53 anni e vive in provincia di Cuneo. Con uno stratagemma e senza menzionare mai direttamente il caso Nada Cella, era riuscita a parlare con lei. Ma era bastato un accenno alla riviera ligure e il nome di un uomo conosciuto a Chiavari per provocare la reazione della donna. Che prima ha allontanato l'interlocutrice e poi ha iniziato a inviare decine di messaggi. «Non fare la finta tonta st...a, come facevi a sapere che uscivo con quello e tutti i c...i miei? E di quello bassino (Marco Soracco ndr), come facevi a saperlo? Hai paura eh?» e ancora, in riferimento all'omicidio (a cui la criminologa non aveva però fatto alcun riferimento esplicito) «ora faccio riaprire il caso, stai tranquilla, anzi ho parlato ora con la polizia di Chiavari, ti ci trascino per i capelli e poi ti faccio fare le domandine: indovina indovinello, quale z... è venuta a casa», si sente nelle registrazioni, che sono in possesso della criminologa e sono agli atti dell'inchiesta. Infine una frase che suona come ulteriore minaccia: «Perché sei venuta qua ad assicurarti che io avessi solo un cane? No, non ho solo quello. Ne ho anche un altro che se ti ripresenti qua ti spappola viva». IL MOTORINO Un nuovo tassello per risolvere il giallo di Nada Cella potrebbe arrivare da uno scooter di 25 anni fa. Il motorino è stato sequestrato dalla squadra mobile di Genova questa estate alla Cecere. La scientifica effettuerà il luminol e altre analisi tecniche sul mezzo. La donna lo avrebbe portato da Chiavari a Boves, in provincia di Cuneo, e lo teneva in un box. Ma perché da un vecchio motorino potrebbe arrivare una svolta a uno dei cold case più intricati d'Italia? Una testimone, nei giorni successivi al delitto, aveva raccontato di aver visto, proprio la mattina della morte di Nada la Cecere sotto lo studio di Soracco mentre andava via sul suo motorino. Per gli investigatori sul veicolo potrebbero esserci dunque ancora possibili tracce di sangue e di Dna nel caso in cui l'ex insegnante avesse ucciso Cella. Intanto la procura ha incaricato il genetista Emiliano Giardina, il professore dell'Ignoto 1 di Yara Gambirasio, di estrarre e comparare il Dna trovato in vari reperti. Per cercare di risolvere il giallo gli inquirenti hanno risentito decine di testimoni ma anche gli investigatori dell'epoca. L'ex insegnante era stata indagata quasi subito ma nel giro di due settimane la sua posizione era stata archiviata frettolosamente.
Nada Cella, la frase del commercialista all’amico: «Lei se ne andrà, e ci sarà la botta». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 10 novembre 2021. Nelle nuove indagini per l’uccisione di Nada Cella è stato risentito il collega del commercialista Marco Soracco. Le minacce e gli insulti di Annalucia Cecere, ora indagata, alla criminologa che ha fatto riaprire il caso: «Ti faccio spappolare». «E poi ci sarà la botta». Ormai niente è più come sembrava che fosse. Neppure le testimonianze che nel lontano 1996 avevano convinto gli investigatori dell’epoca a guardare in una sola direzione, quella del commercialista Marco Soracco, ritenuto l’unico possibile assassino di Nada Cella . Come se fosse un gioco di specchi. L’ostinazione accanita con la quale il magistrato e i suoi collaboratori dell’epoca avevano ignorato ogni possibile altra pista è arrivata a deformare anche l’eventuale significato di alcune dichiarazioni. Nei giorni scorsi, è stato sentito anche Paolo Bertuccio, collega del datore di lavoro della vittima, che venticinque anni fa era stato trasformato in una specie di suo grande accusatore. Era il 23 aprile 1996, due settimane prima del delitto avvenuto nello studio di Soracco, in via Marsala a Chiavari. I due commercialisti frequentano insieme un corso serale di aggiornamento sulle nuove tipologie del contenzioso tributario. Al termine della lezione, decidono di andare a farsi una birra. Soracco racconta all’amico che sta frequentando una scuola di ballo alla palestra Odeon. «Stavamo quasi per lasciarci, ormai era circa mezzanotte» sostiene Bertuccio. «All’improvviso lui mi disse, e poi ci sarà la botta, una cosa che riguarderà il suo studio, e che avrei appreso notizie anche dai giornali. La signorina o la segretaria se ne sarebbe andata, e allora a quel punto siccome continuavo a non capire gli dissi perché mi dici queste cose, che uso devo farne?» Lui rispose di farne l’uso che riteneva. «Tanto quando la cosa si sarà calmata, si saprà». Erano frasi che lasciavano presagire una minaccia incombente. In assenza di ogni altro possibile sospetto, furono usate come possibile prova del coinvolgimento diretto di Soracco, che comunque, oggi come allora, viene ritenuto in possesso di segreti che non vuole o non può svelare. Ma adesso quelle parole possono essere lette in modo ben diverso. Gli attuali inquirenti sono convinti che Annalucia Cecere, da pochi giorni indagata per omicidio aggravato, volesse sostituirsi alla povera Nada. Per una questione di gelosia o perché era convinta di meritare un risarcimento. Il commercialista temeva uno scandalo che potesse minare il buon nome dello studio. E per questo ha sempre smentito la testimonianza dell’amico, sostenendo che aveva capito male. Manca la prova regina, ma secondo la Procura c’è abbondanza di indizi e dettagli convergenti verso la donna, oggi maestra in pensione a Cuneo, ieri collaboratrice domestica a Chiavari, che in una intercettazione telefonica dice a Soracco di «provare schifo» per lui. Ancora oggi si fatica a capire come sia stato possibile lasciar cadere due testimonianze che riferivano entrambe di aver visto la mattina del delitto l’attuale indagata «fuggire con espressione sconvolta ad alta velocità da via Marsala» in sella ad un motorino. Durante la perquisizione nella sua casa di Cuneo, ad Annalucia Cecere è stato sequestrato un vecchio motorino. La direzione e il contesto della nuova indagine sono questi. La prova del Dna sui vecchi reperti non sarà il punto di non ritorno. La Procura di Genova si sta preparando anche all’eventualità di un processo indiziario. Nella raccolta di elementi a carico di Annalucia Cecere entreranno anche i suoi messaggi scritti e vocali inviati nell’estate del 2019 ad Antonella Pesce Delfino, la studiosa di criminologia che con il suo lavoro ha fatto riaprire il caso. «Se ti ripresenti qui il mio cane ti spappola viva, hai capito?». E poi, insulti assortiti. Bastò un nome. Quello dell’ex fidanzato, presunto proprietario della giacca a cui appartenevano i cinque bottoni sequestrati a casa della donna nel 1996, identici a quello ritrovato sotto il corpo di Nada. La ricercatrice pugliese, che aveva incontrato Cecere fingendo di raccogliere interviste per uno studio sull’abbandono scolastico dei docenti, fu cacciata in malo modo. Da quel giorno cominciò la persecuzione telefonica. Ma la parte più interessante non sono le contumelie. In alcuni passaggi, la donna si dichiara al corrente del fatto che l’indagine sta per ricominciare. E qui si ritorna alle incredibili omissioni della vecchia inchiesta, e a un possibile depistaggio. Ma su questo aspetto della vicenda c’è da scommettere che ben presto verrà steso il consueto velo pietoso.
Marco Lignana per repubblica.it il 9 novembre 2021. La criminologa Antonella Pesce Delfino, nel suo immane lavoro sul caso di Nada Cella, ha ricevuto anche messaggi, telefonate e "vocali" per nulla piacevoli dalla donna oggi accusata di omicidio volontario, Annalucia Cecere. Contenuti audio che ora sono agli atti dell'indagine sul tavolo del pubblico ministero Gabriella Dotto, e dunque noti alle parti. Messaggi spediti da Cecere dopo un incontro fra le due, un faccia a faccia nel quale la criminologa, fingendosi interessata ai problemi legati alla scuola (Cecere si è licenziata anni fa dal suo ruolo di insegnante a Boves), aveva ""agganciato" la 53enne, con l'obiettivo di ottenere da lei informazioni preziose. Ma quando la conversazione era scivolata sul Tigullio e su un ex fidanzato di Cecere ai tempi della sua vita chiavarese, il clima si era fatto subito molto teso. Da allora, la reazione rabbiosa di Cecere. Così ecco un vocale in cui l'indagata sembra sostenere di avere conoscenze tra le forze dell'ordine e dice "ho parlato con la polizia di Chiavari, forse è stato già riaperto il caso. Ti ci trascino per i capelli. poi ti faccio fare le domandine. Indovina indovinello, quale zoccola è venuta a casa mia?". E ancora, un altro audio in cui Cecere si "lamenta" delle fin troppo approfondite informazioni sul suo passato da parte di Pesce Delfino: "E come facevi a sapere che uscivo con... e tutti i cazzi miei. e di quello bassino ... come facevi a saperlo? Hai paura eh?". La criminologa ovviamente non si è fermata, nonostante la pressione nei suoi confronti. Insieme alla mamma di Nada, Silvana Smaniotto, e all'avvocata Sabrina Franzone, ha continuato a studiare le 12mila pagine del fascicolo
Matteo Indice per "la Stampa" l'8 novembre 2021. Venticinque anni fa i segreti del caso Nada Cella arrivarono anche in un confessionale. E, ne è convinta oggi la procura di Genova, all'interno della Curia chiavarese c'era chi conosceva dettagli potenzialmente cruciali alla soluzione del giallo della segretaria uccisa ventiquattrenne, il 6 maggio 1996, nello studio del commercialista Marco Soracco in via Marsala numero 14. Per gli inquirenti la consapevolezza in ambienti religiosi è molto più che una mera ipotesi. Tanto che nelle scorse settimane il sostituto procuratore Gabriella Dotto, titolare del nuovo fascicolo per omicidio volontario dov' è stato iscritto il nome dell'ex insegnante Annamaria Cecere, 53 anni, ha interrogato una decina di sacerdoti. Il movente dell'omicidio a parere di chi indaga è la gelosia. «Perché - insistono gli inquirenti - Annalucia pensando di accasarsi grazie alla sua avvenenza voleva prendere il posto di Nada sia nell'ufficio di Soracco sia nel cuore di quest' ultimo, che per la sua dipendente aveva una predilezione ancorché non corrisposta». Il medesimo Soracco, ora sessantenne, ha a sua volta ricevuto un avviso di garanzia nell'ambito dei nuovi accertamenti insieme alla madre Marisa Bacchioni di 89 anni: per entrambi l'addebito è «false dichiarazioni al pubblico ministero», poiché avrebbero sviato i rilievi proprio su Cecere. L'inchiesta, ricordiamo, è ripartita grazie all'abnegazione della criminologa Antonella Pesce Delfino e dell'avvocata Sabrina Franzone, che assistono la madre di Nada Silvana Smaniotto e hanno presentato un'istanza affinché fosse rivisto tutto il materiale probatorio. Il dato più significativo emerso ieri è comunque quello sugli interrogatori dei sacerdoti, passaggio importante per i magistrati che devono rispondere a domande inquietanti: chi, a Chiavari e non solo, aveva informazioni di rilievo sull'omicidio? Perché non le condivise con le forze dell'ordine? E ancora: alla luce di alcune anomalie riscontrate nel rileggere oggi le carte, è possibile ipotizzare che l'attuale sospettata avesse un confidente, una talpa? È confermato da qualificate fonti investigative che almeno un prete ha ammesso d'aver ricevuto notizie nell'estate '96. Senza dimenticare che i poliziotti della squadra mobile stanno ristudiando alcune vecchie intercettazioni telefoniche: sembrerebbero dimostrare che Cecere era in parte a conoscenza di quel che facevano gli investigatori, essendo stata indagata pure allora. Il giorno prima della perquisizione nel suo alloggio, per esempio, contattò in maniera compulsiva una serie di avvocati e chiese ad amici nomi di legali. In precedenza si era presentata in caserma urlando «se non smentite il mio coinvolgimento prendo il mio bambino (avuto da una precedente relazione, ndr) e mi ammazzo». E negli stessi giorni aveva contattato Marco Soracco, ai tempi principale sospettato, sull'utenza di casa, per insultarlo. «Guarda che tu non mi piaci, mi fai schifo», diceva l'ex maestra secondo quanto riportato nelle annotazioni dell'Arma. Ora la Mobile vuole capire la ragione per cui Cecere inveì contro Soracco, nell'ipotesi che si stesse precostituendo una specie di alibi, immaginando che il commercialista fosse intercettato. Ad annunciare la sua estraneità ai fatti 25 anni fa, secondo quanto riportato dai giornali, fu una nota stampa del procuratore capo di Chiavari Gio Batta Coppello: basandosi sulla segnalazione del collega Filippo Gebbia, che aveva in carico gli accertamenti, comunicò «la sicura archiviazione di Annalucia Cecere». E però. qualcuno sapeva del suo possibile coinvolgimento, pure in Curia. Perciò al nono piano del palazzo di Giustizia, dove ha base la procura, per svariati giorni si sono visti sacerdoti davanti all'ufficio del pm Dotto, in attesa d'essere sentiti.
I segreti in chiesa e gli audio choc: come è morta Nada? Rosa Scognamiglio il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. A 26 anni dal delitto spunta una nuova pista d'indagine. Dieci preti, secondo i pm, sarebbero venuti a conoscenza dell'omicidio. Ci sono delitti che possono riservare risvolti inattesi anche quando tutte le piste d'indagine sembrano esaurite. Come il caso di Nada Cella, la segretaria 25enne trovata morta a Chiavari, il 6 maggio 1996, nello studio del commercialista dove lavorava. A 26 anni dalla tragedia, Annalucia Cecere, una ex insegnante destituita dall'incarico per motivi disciplinari, è finita sotto la lente d'ingrandimento dei titolari del fascicolo per omicidio aggravato. Ma c'è di più. Secondo la procura dieci sacerdoti potrebbero aver raccolto la confessione del colpevole.
L'omicidio di Nadia Cella
Nada Cella fu ritrovata agonizzante sul pavimento dell'ufficio presso cui era impiegata come segretaria, la mattina del 6 maggio 1996. A richiedere l'intervento dei soccorsi fu il suo datore di lavoro, il commercialista Marco Soracco, che trovò la 25enne riversa in una pozza di sangue. Nada fu trasportata dapprima al pronto soccorso di Lavagna poi, trasferita all'ospedale San Martino di Genova nell'ultimo, quanto vano, tentativo di salvare la vita. Gli esami cadaverici accertarono che la vittima fosse stata colpita ripetutamente alla testa con un oggetto contundente ma l'arma del delitto non fu mai ritrovata. Nel mirino degli inquirenti finì proprio Soracco che, al termine di un travagliato procedimento penale, fu scagionato e infine prosciolto. Verso la fine del 1998 il caso venne archiviato.
"Tracce di Dna". Quel delitto irrisolto che si riapre dopo 25 anni
Le nuove indagini e i sospetti sull'ex insegnante
Ventiquattro anni dopo l'archiviazione, i pm hanno deciso di riaprire il fascicolo per omicidio aggravato su spinta della criminologa Antonella Pesce Delfino che ha rispolverato quei faldoni. Tra le carte dell'inchiesta ci sarebbero alcuni dettagli trascurati al tempo delle indagini e che, oggi più di ieri, potrebbero tracciare la pista giusta perla risoluzione del giallo. I nuovi sospetti ricadono su Annaluce Cecere, un'ex insegnate di Chiavari, a cui è stato recapitato un avviso di garanzia lo scorso 5 novembre. Secondo la Mobie guidata dal primo dirigente Stefano Signoretti, coordinati dal procuratore capo facente funzioni Francesco Pinto e dal sostituto Gabriella Dotto, la donna (oggi 50enne) si sarebbe invaghita del commercialista Marco Soracco ma lui sarebbe stato innamorato della giovane Nada. Dunque, potrebbe essersi trattato di omicidio a sfondo passionale in cui Soracco potrebbe aver giocato un ruolo collaterale. Il professionista, con anche l'anziana madre Teresa Bucchioni, è indagato per false dichiarazioni al pubblico ministero. Secondo chi indaga, Soracco potrebbe aver "coperto" la presunta assassina. In estrema sintesi, avrebbe visto Annaluce Cecere allontarsi dall'ufficio quella mattina in cui Nada è stata uccisa. Ma c'è di più.
La pista religiosa
Stando a quanto si apprende dall'edizione odierna de Il Giorno, ci sarebbe anche una pista religiosa che gli inquirenti perseguirebbero con insistenza. Sì, perché la confessione del delitto potrebbe essere stata raccolta da alcuni preti del Chiavarese e il nome del colpevole taciuto per ben 26 anni. Dieci sacercedoti sono stati ascoltati in procura ma sulla natura delle dichiarazioni rese ai pm vige un riserbatissimo segreto istruttorio. Per chiarire fatti, luoghi e circostanze dell'omicidio, ci si affiderà non solo ai racconti di eventuali testimoni ma soprattutto alle ispezioni tecnico-scientifiche dei reperti. Gli accertamenti del Dna sono stati affidati al professor Emiliano Giardina, colui che rintracciò il profilo genetico di Ignoto Uno nel caso di Yara Gambirasio. E chissà che anche stavolta una sequenza ordinata di alleli possa svelare l'identità dell'assassino di Nada Cella.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2021. Nada Cella è molto più di un caso freddo. Nada Cella è un rimorso. Per tutti quelli che c' erano all' epoca, per quelli che sono venuti dopo di loro. Sono passati venticinque anni e ancora qualcuno ci prova. Non solo perché fino a quando la salute gliel' ha concesso Silvana Smaniotto, la madre, bussava alla porta di ogni nuovo magistrato della Procura di Genova per chiedere giustizia. Quella morte senza colpevoli, avvenuta in una città piccola, dove tutti si conoscono, grida ancora vendetta a Dio e agli uomini, non c' è altro modo di dirlo. Soprattutto per l'imperizia e la negligenza degli inquirenti dell'epoca, autori di una indagine che nei seminari di criminologia viene ricordata come un compendio di tutto quello che non bisogna fare sulla scena del delitto e nei giorni seguenti. La mattina del 6 maggio 1996, Nada Cella va al lavoro in bicicletta. Ha 25 anni, da pochi mesi è stata assunta come segretaria nello studio del commercialista Marco Soracco, in un palazzo della Chiavari vecchia. È figlia unica di Bruno e Silvana, lui impiegato del Comune, lei bidella. «Segni particolari: brava ragazza» titolerà il settimanale Oggi. Quel lunedì, Nada apre lo studio e accende le luci, come sempre. Alle 9 apre anche a una persona che suona al citofono. L' assassino percorre un lungo corridoio, ed entra nell' ultima stanza a destra, come se sapesse dove andare. A chiamare il 113 è il principale, sceso dall' appartamento al piano di sopra dove abita con la madre. C' è stato un incidente, dice. Quando arrivano i primi soccorsi, Nada ha il viso e il torace coperti di sangue. È stata colpita alla testa e al pube almeno 15 volte, con un oggetto pesante e aguzzo, mai più ritrovato. Muore in ospedale dopo una breve agonia. I giornali se ne occupano quasi solo per sottolineare le analogie con il delitto di Simonetta Cesaroni, uccisa a Roma nel 1990, anche lei in ufficio. Forse è anche la somiglianza con quel famoso precedente, a confinare quella vicenda nell' ambito dei delitti di provincia. Oppure la ragione di una rimozione che dura ancora oggi è il fallimento totale delle indagini, che aleggia ancora nell' aria di questure e tribunali liguri. Non è un caso che nel disporre l'ennesimo tentativo di riapertura delle indagini il procuratore capo Francesco Cozzi dica che darebbe un anno o anche più di vita per risolvere quel caso. Prima di arrivare a Genova, ha diretto il piccolo ufficio giudiziario di Chiavari. Sa cosa rappresenta quella vicenda, ne conosce la portata simbolica. La scena del delitto viene subito stravolta. I primi investigatori giunti sul posto concedono alla madre e alla zia di Soracco, preoccupate per il decoro dell'immobile, il permesso di pulire le macchie di sangue lasciate dalla ragazza sul ballatoio e in alcune parti dello studio. Non c' è accordo sull' eventualità di intercettare subito le conversazioni telefoniche degli inquilini e non se ne farà nulla per settimane. Alcuni prelievi del Dna non vengono concessi per cavilli giuridici. «La soluzione è vicina, pochi giorni e saprete tutto», aveva detto il magistrato incaricato delle indagini subito dopo il delitto. Alla fine del 1998 il caso viene archiviato, con il silenzio dovuto alle vicende gestite malissimo. Il commercialista e sua madre, unici indagati, vengono scagionati. Agli atti non resta neppure uno straccio di ipotesi sul movente. Bruno Cella muore di crepacuore nel luglio del 1999. Come ogni giorno, stava guidando verso il cimitero dove è sepolta la figlia. Da allora, ad anni alterni nasce una sterile illusione. Nel novembre 1999 vengono disposti accertamenti su un muratore della zona, reo confesso dell'omicidio di una prostituta serba. Nel 2005 si riapre il fascicolo partendo dai diari della ragazza. Nel 2006 la Procura di Genova indaga per il delitto altri due muratori coinvolti in un'inchiesta su un racket della prostituzione. Nel 2011 ennesimo tentativo con gli scarsi reperti di indagine, questa volta sono tre capelli che non appartengono alla vittima. Niente, niente e ancora niente. Proprio l'ultimo tentativo dovrebbe indurre oggi alla cautela. Anche Cozzi e il gruppo che si occupa dei cold case confidano nel supporto di tecnologie che ancora non c' erano nel lontano 1996. Per questo hanno mandato ad analizzare frammenti di Dna a Milano, Roma e negli Stati Uniti, presso l' Fbi. «A me nessuno mi ha informato» dice al telefono la signora Silvana. «E non vorrei che queste novità fossero dovute solo al fatto che sono venticinque anni tondi dalla morte di Nada. Ma anche se fosse, fino a quando non salterà fuori il colpevole sarà sempre giusto provarci». Almeno come risarcimento postumo da parte dello Stato. Almeno come un modo implicito di chiedere scusa a una povera ragazza e alla sua famiglia.
Omicidio Nada Cella, Annalucia Cecere indagata dopo 25 anni: l’ufficio, i segreti, le rivalità. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2021. «Ma se lo sanno tutti che è stato il commercialista». Nel 2018, Antonella Pesce Delfino, doppia laurea in veterinaria e psicologia, tecnica di laboratorio al dipartimento di genetica dell’università di Bari, è salita a Genova per frequentare un corso di criminologia. La ospita un giornalista del Secolo XIX. Quando lei le chiede se conosce «un caso freddo interessante» per la sua tesi conclusiva, la risposta non può che essere un nome. , la ragazza di Chiavari uccisa il 6 maggio del 1996 nello studio presso il quale lavorava come segretaria. Fu colpita dieci volte sulla testa con un oggetto pesante «scagliato con una furia tale che autorizza a pensare al gesto d’impeto di un folle», così recitava la prima autopsia. Un delitto così vistosamente imperfetto, così grossolano, che per non risolverlo subito ci è voluta tutta l’imperizia del mondo. Antonella si immerge nelle carte, sparisce per mesi, durante i quali trasforma quel caso di giustizia negata in una ossessione personale. E quando ricompare, ha una sua tesi, suffragata da un lavoro accanito su indizi e piste trascurate in precedenza. Il nostro collega alza le spalle, dicendo quella frase. La verità è che a modo suo ha ragione. Ieri, quando è diventata pubblica la notizia di una persona iscritta nel registro degli indagati per omicidio aggravato, oltre a quelli del commercialista Marco Soracco e della sua anziana madre, accusati di falsa testimonianza, tutti gli addetti ai lavori che negli anni si sono occupati della vicenda, hanno reagito allo stesso modo. «Chi è Annalucia Cecere?» Tutti, tranne lei, l’aspirante criminologa che nel 2019 si è presentata dall’allora procuratore capo di Genova Francesco Cozzi. Aveva paura di essere mandata a quel paese, e per questo si era fatta accompagnare da Silvana Smaniotto, la madre di Nada. «L’amicizia che si è creata con questa donna così provata dalla vita è stato quello che mi ha fatto andare avanti. Lo devo fare per lei, mi sono detta. Ho lavorato senza pensare al domani, senza sentirmi una detective in incognito. Ho solo provato a riannodare dei fili. Tanto, peggio di così non sarebbe potuta andare». Antonella mostra vecchi reperti che corrispondono ad altrettante ferite per qualunque magistrato. Si è sempre parlato di indagini fatte malissimo, la ragione per cui almeno cinque volte c’è stato un tentativo di riaprire il caso. Pescando qua e là, da un fascicolo sterminato: la scena del delitto stravolta proprio dai primi inquirenti arrivati nell’ufficio di via Marsala, i contrasti tra la Polizia e il magistrato Filippo Gebbia, che negò agli investigatori il permesso di intercettare le conversazioni dei condomini, ripicche reciproche, storie di prelievi Dna richiesti e negati. Adesso sappiamo che c’era anche dell’altro. Qualcosa che Antonella ha riportato a galla. Ai magistrati di Genova mostra un verbale redatto dai Carabinieri, che hanno raccolto la testimonianza di un mendicante e di una persona vicina alla famiglia Soracco. Entrambi sostengono di avere visto una donna somigliante ad Annalucia Cecere uscire dal palazzo dove è appena avvenuto il delitto. La conoscente della famiglia del commercialista racconta che la donna lo aveva incontrato a un corso di ballo e si era invaghita di lui, al punto da cercare di prendere il posto da segretaria di Nada per essergli vicino. Ma quelle due testimonianze non sono mai arrivate agli uomini della Squadra mobile. La Procura di Chiavari non le ritenne rilevanti, Gebbia indaga e poi proscioglie Cecere nell’arco di tre giorni, senza che il suo nome arrivi ai giornali. Le indagini guardano da una sola parte, al commercialista Soracco e sua madre, che spesso danno l’idea di sapere qualcosa. E non porteranno mai a nulla. Cozzi concede fiducia ad Antonella. E le affida ogni fascicolo, ogni carta sul delitto Cella tra quelle che si sono accumulate in questi anni. Ci vogliono tre mesi per mettere tutto insieme. Stiamo parlando di una mole enorme di documenti, molti dei quali danneggiati da una alluvione, altri dalle ingiurie del tempo. «Ho perso una diottria per occhio» racconta lei. Affiorano altri particolari. Il giorno prima di subire una perquisizione, non certo annunciata, Annalucia Cecere chiamò un avvocato per chiedere assistenza. A casa sua sono stati ritrovati cinque bottoni di tipo militare uguali a quello ritrovato sotto il corpo di Nada. Ma all’epoca anche questo dettaglio venne preso sottogamba, liquidato con un raffronto fotografico fatto a distanza. La Procura di Genova è convinta di avere trovato finalmente la pista giusta. Annalucia Cecere ha ogni diritto di essere considerata innocente fino a prova contraria. Oggi ha 53 anni, vive in provincia di Cuneo, dove è stata a lungo insegnante d’asilo. Due anni fa, Antonella Pesce Delfino si è finta una ricercatrice che si occupava di scuola e l’ha incontrata. L’inganno è durato poco. «Ho capito che sta nascondendo qualcosa», dice ora. E si tratta di una sua personalissima convinzione.L’ultima parola spetterà comunque alla tecnologia, intesa come nuove tecniche di investigazione. Giardina, il genetista che si occupò del caso di Yara Gambirasio è stato incaricato dell’esame dei vecchi reperti ritrovati sulla scena del crimine. Fin dall’inizio, era quello l’obiettivo di Antonella. «Voglio soltanto che Nada abbia giustizia, grazie alla competenza e alla cura nelle indagini che le sono state negate per tanto, troppo tempo».
Nada Cella: quei verbali ignorati e i sospetti su una talpa che depistò l’inchiesta. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2021. Nei primi sette anni, ci furono indagini sul muratore accusato e poi prosciolto, sui contrasti di natura condominiale tra la famiglia di Nada Cella e i vicini di pianerottolo, su un agente di commercio parmense tirato in ballo da due telefonate anonime, e sulle rivelazioni di un ex detenuto del carcere di Chiavari che incolpava un suo ex compagno di cella. Venne presa sul serio anche una presunta militante dell’inesistente Fondazione Forze Armate Anarchica convinta che la povera ragazza fosse stata uccisa per avere copiato su un dischetto la contabilità del gruppo. «In seguito ad accertamenti la giovane testimone risulta ricoverata nel reparto di Psichiatria dell’ospedale di Sestri Levante e seguita anche dai servizi di Salute mentale di altre provincie». Per tacere degli «esiti negativi» delle indagini «ampie e dettagliate» sul commercialista Marco Soracco, dal giorno del delitto e fino a venerdì il principale indiziato.
I bottoni
La richiesta d’archiviazione del 25 febbraio 2003 con la quale il pubblico ministero Filippo Gebbia sancisce il fallimento definitivo dell’ inchiesta sulla morte di Nada Cella non fa alcuna menzione di Annalucia Cecere e del verbale dei Carabinieri che il 28 maggio 1996, appena ventidue giorni dopo quel delitto senza spiegazioni, sequestrano a casa della donna cinque bottoni «di forma circolare con parte anteriore metallica che reca raffigurata una stella a cinque punte incastonata in un bordo orlato con la dicitura Great Seal of the State of Oklahoma», giudicati «pertinenti al reato per il quale si procede» in quanto uguali al reparto ritrovato sotto al corpo della vittima. Inoltre, scrivevano gli ufficiali dell’Arma, «l’interessata non forniva giustificate motivazioni circa la provenienza degli stessi, riferendo solamente che erano stati prelevati da una giacca che si era logorata».
La pista non approfondita
Ammesso e non concesso che la donna oggi indagata per omicidio aggravato sia davvero colpevole, rimane un mistero come sia stato possibile che essa sia scomparsa in modo così repentino dalle indagini. Che quel verbale di ritrovamento, assieme ad alcune intercettazioni giudicate oggi molto interessanti, addirittura non siano mai arrivati sul tavolo della squadra mobile genovese. Se lo chiedono anche i magistrati della Procura di Genova, titolari della nuova inchiesta, che nei giorni scorsi hanno sentito i dirigenti Pasquale Zazzaro, all’epoca dei fatti capo del commissariato di Chiavari, e Giuseppe Gonan, nel 1996 capo della squadra omicidi di Genova, con la volontà di capire come mai la pista che portava ad Annalucia Cecere non sia mai stata approfondita a dovere.
Caso, sciatteria o depistaggio?
Non ci sono accuse di alcun genere. Ma gli inquirenti di oggi sono convinti che questa apparente rimozione non sia dovuta soltanto al caso o a comprovata sciatteria. A farla breve, ritengono possibile che qualche poliziotto dell’epoca in servizio a Chiavari conoscesse la donna e abbia fatto opera di depistaggio. L’esistenza di una talpa spiegherebbe anche il fatto che in quel lontano maggio del 1996, Annalucia Cecere contattò un avvocato il giorno prima della perquisizione a casa sua. Come se qualcuno «da dentro» l’avesse messa sul chi va là.
Coincidenze
Magari è solo una coincidenza. Come può esserlo anche il fatto che lo scorso marzo, subito dopo la riunione in Procura dove si è deciso di unire in un solo fascicolo gli atti riguardanti l’attuale indagata, Antonella Pesce Delfino, l’aspirante criminologa che ha contribuito a riaprire il caso, abbia ricevuto da lei messaggi poco simpatici. Ma due coincidenze, a distanza di 25 anni l’una dall’altra, se non una prova fanno almeno un sospetto.
Nada Cella, la donna accusata del delitto 25 anni dopo: «Non c’entro nulla, fatemi pure il Dna». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2021. BOVES (Cuneo) - «Io con quella storia non c’entro nulla». Annalucia Cecere, 53 anni, lo ripete da giorni. Lo ha detto al marito Lorenzo Franchino. E ai pm che lo scorso luglio l’hanno convocata in Procura a Genova per sentirla come persona informata, per poi notificarle un avviso di garanzia con l’accusa di omicidio: «Fatemi pure il Dna, fate gli accertamenti che volete, non ho nulla a che vedere con quella ragazza. Non ho niente da nascondere». La ragazza di cui parla si chiamava Nada Cella e aveva 25 anni. Era il 1996 quando il suo corpo venne trovato straziato nello studio del commercialista Marco Soracco, in cui lavorava come segretaria.
Le accuse cadute dopo pochi giorni
All’epoca Annalucia di anni ne aveva 28 e viveva nella cittadina ligure. Venne sospettata e indagata. Si parlò di gelosia, ma le accuse caddero in pochi giorni. Era comunque una brutta storia da lasciarsi alle spalle. E così un anno dopo il delitto, alla guida della propria Lancia Y, Annalucia si trasferisce nel comune di Boves, in provincia di Cuneo. È un’insegnante e fa qualche supplenza nelle scuole della zona.
Il marito, il figlio
Poi conosce Lorenzo. Nel ‘99 si sposano, un anno dopo nasce il loro unico figlio. Il marito è un imprenditore, con il fratello gestisce una ditta di trasporto ed escavazione. A Mellana, frazione di Cuneo, costruiscono la loro casa a poche decine di metri da quella dei suoceri. Una villetta su due piani, mattoni rossi, giardino ben curato. Gli anni trascorrono in fretta e il passato sembra sempre più passato. Poi arriva l’estate del 2021 e Annalucia torna a essere la principale sospettata dell’omicidio di Nada. «I magistrati le hanno chiesto cose di 25 anni fa, come faceva a ricordare? E il commercialista Soracco lo conosceva di vista, come un po’ tutti a Chiavari. Poi le hanno dato l’avviso di garanzia — racconta il marito —. Da quel momento non abbiamo più saputo nulla e adesso tutto questo: il nome di mia moglie è ovunque. Ditemi se è normale? Lasciamo che la giustizia faccia il suo corso. Sono il primo a dire che se è colpevole è giusto che vada in galera. Ma lei non ha fatto nulla».
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Sotto i riflettori
Lorenzo è infastidito. Ad agosto aveva già allontanato alcuni giornalisti e adesso la sua famiglia è di nuovo sotto i riflettori. «Mi aveva parlato di questa storia qualche anno dopo il matrimonio. Me n’ero dimenticato… E ora non mi fa dormire la notte. Anche questa mattina alle 4 ero sveglio». Adesso che tutto è tornato a galla, nel dedalo di viuzze di campagna puntellate di villette serpeggia il chiacchiericcio. Qualcuno ricorda che qualche anno dopo il suo arrivo a Cuneo, la donna aveva avuto alcuni problemi nella scuola ed era stata allontanata con un provvedimento disciplinare. «Stanno circolando un sacco di bugie. Si è licenziata, dal pubblico non ti mandano mai via», insiste Lorenzo. E Annalucia? «È in casa con il suo barboncino che le fa compagnia. È turbata, ci sta male. Tutto quello di cui si parla adesso era già emerso allora, compresi i due testimoni. Che oggi, però, sono credibili. Non sappiamo che cosa sia cambiato. A chi faccia comodo tutto questo».
Delitto Nada Cella, il marito dell'accusata: "Quelle prove già scartate, non è stata mia moglie". Federica Cravero su La Repubblica il 6 novembre 2021. Mellanea (Cuneo) - "Se è colpevole è giusto che paghi e che vada in galera, ma lei non ha fatto nulla. E comunque questo si deve vedere alla fine, non all'inizio delle indagini. Invece lo sputtanamento, mi scusi l'espressione, è già partito. E noi non possiamo difenderci". Lorenzo Franchino arriva con la tuta da lavoro, imprenditore nel settore dell'autotrasporto e delle escavazioni, davanti alla villetta in mezzo ai campi di Mellana, a metà tra Boves e Cuneo, in cui vive con il figlio ventenne e la moglie.
“Fu una donna a uccidere Nada Cella”. La tesi di un master riapre il caso. Marco Lignana e Matteo Macor su La Repubblica il 5 novembre 2021. Caso Cella: la svolta 25 anni dopo grazie a un bottone e all’ostinazione di un’investigatrice. Ora c’è un’indagata. Per 25 anni la verità è rimasta sepolta. Un assassinio brutale senza un perché, un'indagine tanto complicata e pasticciata da non arrivare nemmeno a un processo. E invece mai come adesso la morte di Nada Cella, massacrata nello studio del commercialista dove lavorava a Chiavari, potrebbe essere ricostruita e svelata. Grazie soprattutto alla passione e alla competenza di una criminologa pugliese partita da una tesi scritta in un master universitario, e arrivata a un punto di svolta mai raggiunto in cinque lustri, la Procura di Genova accusa una donna di omicidio volontario: Annalucia Cecere, oggi 53enne, che oggi vive in Piemonte. E iscrive sul registro degli indagati per false informazioni al pm altre due persone: Marco Soracco, lo stesso commercialista che quella mattina del 6 maggio 1996 trovò Nada agonizzante, colpita alla testa con un oggetto mai ritrovato, e la madre del commercialista, Marisa Bacchioni, che tuttora vive con il figlio nello stesso palazzo di via Marsala. Dopo mesi di interrogatori compiuti dalla pm Gabriella Dotto e dagli agenti della squadra mobile diretta da Stefano Signoretti, oggi verrà conferito l'incarico di analizzare il Dna sulla camicetta allora indossata da Nada e su una sedia dello studio, dove sono state trovate tracce sia femminili che maschili. Analisi affidate a Emiliano Giardina, il genetista che arrivò a "Ignoto 1" nel caso di Yara Gambirasio. Lavorerà fianco a fianco con i poliziotti della Scientifica. Se negli ultimi mesi gli inquirenti hanno lavorato notte e giorno, tutto è nato dal lavoro della criminologa di Bari Antonella Pesce Delfino. È lei che nel 2017 si interessa al caso durante un master in criminologia. È lei che conosce la madre 78enne di Nada, Silvia Smaniotto, che oggi definisce la consulente "un angelo che ha frugato nel passato e che non finirò mai di ringraziare". Insieme all'avvocata Sabrina Franzone rivoltano le 12mila pagine che la Procura mette loro a disposizione. E insieme a pm e polizia, analizzando 12mila pagine agli atti, scoprono gli incredibili errori commessi allora dagli investigatori. Annalucia Cecere era stata indagata pochi giorni dopo il delitto, perché ben due testimoni avevano fatto il suo nome ai carabinieri che allora indagavano. Un mendicante, oggi deceduto, e un anonimo rintracciato dal pm. I militari avevano fatto irruzione in casa sua, repertando alcuni eleganti bottoni sfilati da una giacca da uomo. Parte di un bottone identico era stato invece trovato sulla scena del delitto. Eppure, incredibilmente, allora la Procura di Chiavati e i carabinieri fecero la comparazione attraverso foto sbiadite, e non direttamente sugli oggetti sequestrati. La posizione di Cecere, che fece anche sapere di volersi togliere la vita, fu subito archiviata. Per il pm Dotto e il procuratore Francesco Pinto, invece, bisogna tornare a lei per scoprire la verità. La donna aveva conosciuto Soracco a Chiavari a un corso di ballo, poi l'aveva incontrato qualche volta in discoteca. Secondo l'accusa, il commercialista era diventato un'ossessione per una 28enne dal passato difficile e dalla vita non facile. E Nada Cella, che con Soracco condivideva solo il lavoro, un ostacolo. Da qui il presunto delitto, sempre rinnegato dalla Cecere che oggi vive in Piemonte, nel cuneese. Soracco, invece, per anni indiziato e poi prosciolto, oggi dice che "è un passato che avrei fatto volentieri a meno di rivivere". Una angoscia che condivide con la madre: "Pretendono che ricordiamo cose di 25 anni fa, impossibile".
Omicidio Nada Cella, parla la criminologa Delfino che ha riaperto il caso: "C'erano prove sottovalutate". Marco Lignana su La Repubblica il 5 novembre 2021. L'esperta che ha lavorato all'inchiesta: "Ecco come mi sono appassionata".
L'avvocata che assiste la mamma di Nada Cella la definisce la Lisbeth Salander di una indagine per nulla ordinaria. Antonella Pesce Delfino, tecnico all'Università di Bari, con la protagonista della saga letteraria "Millennium" condivide tenacia e competenza.
Come è nato il suo coinvolgimento?
"Nel 2017 stavo frequentando un master in criminologia all'Università di Genova, dovevo fare la tesi. Un giornalista mi disse: "Perché non Nada Cella?" Ho iniziato, mi sono appassionata, ci ho lavorato quattro anni".
Da dove è partita?
"Dalla mamma di Nada, una persona straordinaria che mi ha sostenuto anche nei momenti di sconforto. Ha tirato fuori gli atti e altri siamo andati a chiederli in Procura".
Annalucia Cecere era già stata indagata nel 1996.
"Testimonianze e prove erano state clamorosamente sottovalutate, non era solo incompetenza ma un brutto clima fra Procura di Chiavari e forze dell'ordine".
Ha parlato con gli indagati?
"Ho conosciuto bene Soracco, persona che mi ha aiutato moltissimo. So che anche lui è indagato ma per quanto mi riguarda ha collaborato".
E Cecere?
"Sì, l'ho incontrata. Non è andata molto bene...".
Ora cosa farete?
"Sono strafelice che le analisi siano state affidate al miglior genetista in Italia. Per ora mi basta questo".
Svolta nel giallo della segretaria massacrata. Sotto inchiesta anche il suo ex datore di lavoro. Il Giornale il 5 Novembre 2021. Svolta nell'indagine sul delitto di Nada Cella, uccisa a 25 anni il 6 maggio 1996 nello studio di Chiavari del commercialista Marco Soracco. Secondo la Procura a straziare Nada fu una donna, Annalucia Cecere, ex insegnante destituita dal servizio nel 2017 per motivi disciplinari, allora ventottenne (oggi ha 53 anni), ora indagata per omicidio volontario. Dietro il delitto, la gelosia per la vittima, anche in campo professionale. La giovane, allora 25 enne, era stata trovata uccisa all'interno dello studio di commercialista dove lavorava. Secondo gli inquirenti Annalucia Cecere massacrò la vittima in un mix di gelosia e desiderio di rimpiazzarla nel lavoro all'interno dello studio. Avvisi di garanzia anche allo stesso Marco Soracco, oggi sessantenne, e a sua madre Marisa Bacchioni che ha 89 anni: sono entrambi accusati di false dichiarazioni al pubblico ministero. I pm hanno disposto nelle ultime ore una super-perizia affidata allo stesso consulente che si occupò del caso di Yara Gambirasio. Sono diversi gli elementi analizzati prima dalla criminologa Pesce Delfino e poi dagli investigatori della Mobile che hanno portato la procura di Genova a sospettare Annalucia Cecere per l'omicidio di Nada Cella. La donna, 53 anni, era stata indagata fin dall'inizio ma era poi stata archiviata subito. In casa gli investigatori dell'epoca avevano trovato alcuni bottoni in un cassetto uguali a quello ritrovato sotto il corpo della segretaria. Bottoni di una giacca maschile che la presunta assassina avrebbe tolto e conservato perché di valore. Due testimoni, quella mattina del sei maggio 1996, l'avrebbero vista passare dalla strada dello studio di Soracco intorno all'ora del delitto. Cecere aveva conosciuto Soracco a un corso di ballo e poi lo avrebbe rivisto in alcune serate in discoteca. Secondo gli investigatori, la donna si sarebbe invaghita del commercialista e avrebbe cercato di prendere il posto di Nada come segretaria per entrare nelle sue grazie. Dopo l'omicidio ha lasciato Chiavari per trasferirsi in Piemonte. Nel 2016 era stata assunta come maestra elementare ma era stata licenziata a inizio 2017 per un provvedimento disciplinare. A mancare è l'ultimo tassello ovvero quello del Dna. Ad eseguire gli esami sarà - come già detto - proprio il professor Emiliano Giardina, il genetista che arrivò all'Ignoto 1 nel caso di Yara Gambirasio
Chiavari, l'uomo di cui si invaghì la killer: "Così dopo 25 anni rivivo l'omicidio di Nada". Valentina Carosini il 6 Novembre 2021 su Il Giornale. Il commercialista e la vittima: "Una telefonata inquietante dopo il delitto". Genova. «La prendo come un disegno del fato, ritrovarsi catapultati in una vicenda come questa apparentemente inspiegabile. Apparentemente perché, se c'è una spiegazione a quello che è accaduto, io in questi anni non l'ho mai trovata». Marco Soracco oggi ha 58 anni: solleva il telefono dello studio di Chiavari e con la voce calma ripercorre i 25 anni che lo separano da quello che ricorda come «un incubo che riaffiora». Un incubo che ha un inizio preciso nella mattina del 6 maggio 1996, quando da giovane commercialista entrando in ufficio trovò a terra in un lago di sangue il corpo esanime della sua segretaria. Nada Cella, 25 anni, se ne andrà poche ore dopo in ospedale nonostante i tentativi di salvarle la vita, una morte alla quale non si riuscirà a dare una spiegazione, in quello che sembrava destinato a rimanere un caso irrisolto, un omicidio senza colpevole, di cui ancora oggi non si conosce con certezza neppure l'arma utilizzata. Fino ad oggi, o almeno fino a due giorni fa, con l'arrivo di 3 avvisi di garanzia che riaprono una nuova inchiesta guidata dalla procura di Genova. Il primo, per omicidio volontario, è stato notificato ad una ex insegnante, Annalucia Cecere, oggi 53enne. Gli altri due sono scattati nei confronti dello stesso Soracco e dell'anziana madre, per false dichiarazioni rese ai pm. L'indagine è ripartita mesi fa, dietro la svolta il lavoro della criminologa Antonella Pesce Delfino, che ha ripreso in mano le carte del caso ristudiando tutto dall'inizio, dedicandogli 3 anni di lavoro. «Ho collaborato con lei - racconta Soracco - cercando di fornire dati necessari. Forse all'epoca era stato tralasciato l'approfondimento di alcuni elementi acquisiti: di questo ancora oggi mi chiedo il perché». Le indagini oggi sono in mano alla Squadra mobile di Genova coordinata dal procuratore capo facente funzioni Francesco Pinto e dalla pm Gabriella Dotto. Nella nuova ipotesi degli inquirenti entra l'ex docente, che si sarebbe invaghita del commercialista e avrebbe ucciso la ragazza, mossa forse dalla gelosia. «C'era una conoscenza solo superficiale - spiega Soracco - questa donna mi era stata presentata da un conoscente come persona che lui frequentava. Mi sembrava tranquilla, la incontravo per strada ogni tanto. Da dopo il delitto non l'ho mai più vista. Solo 20 giorni dopo mi arrivò una sua telefonata, che mi lasciò interdetto, ma non ci fu nessun riferimento ai fatti». Cecere stessa, nei giorni dopo l'omicidio, fu oggetto di una perquisizione e quindi venne formalmente indagata, posizione poi archiviata perché la perquisizione non aveva portato a nulla. Valentina Carosini
Tommaso Fregatti e Matteo Indice per “La Stampa” il 5 novembre 2021. Una donna si guarda intorno appena uscita da un portone di via Marsala numero 14, cuore di Chiavari, levante genovese. È sconvolta, una conoscente la intravede dall’altra parte del marciapiede e prova a chiamarla, ma lei nemmeno la nota e tira dritta. Incrocia poi gli occhi d’una mendicante che ogni giorno si sistema lì davanti per chiedere l’elemosina: «Era trafelata, di fretta - dirà quest’ultima in seguito ai carabinieri - e aveva una mano sporca di sangue, ne sono sicura». È la mattina del 6 maggio 1996 e dentro quel palazzo, precisamente nello studio del commercialista Marco Soracco, è stata appena uccisa Nada Cella, la segretaria di 24 anni che ha aperto al killer, è stata accompagnata (seguita) fino alla sua scrivania e qui straziata con un oggetto di certo tagliente e però mai ritrovato. Sotto il corpo martoriato fu trovato un bottone, oggi una delle tracce fondamentali insieme alla testimonianza di chi squadrò la presunta assassina. E si attende una superperizia medico-legale su tracce infinitesimali affidata a Emiliano Giardina, che si è occupato a lungo di Yara Gambirasio. Oltre ventisei anni dopo il massacro e l’archiviazione dei due principali filoni d’inchiesta (uno che portava verso il titolare dello studio, l’altro più estemporaneo focalizzato su possibili ritorsioni della mala albanese), una fiammata rischiara il caso Cella all’apparenza irrisolvibile e lo trasforma in un cold case vicinissimo alla quadra. La Procura di Genova su input della criminologa Antonella Pesce Delfino, ingaggiata dalla famiglia della vittima, ha riesaminato gli atti e ora ritiene che l’assassina sia appunto una donna, Annalucia Cecere, 53 anni oggi, 28 appena compiuti all’epoca, ex insegnante che abita a Cuneo. Il procuratore Francesco Pinto, il sostituto Gabriella Dotto e la squadra mobile l’accusano di omicidio volontario, senza premeditazione, e l’hanno interrogata nelle scorse settimane notificandole un avviso di garanzia. Annalucia conosceva Nada, giovane riservata che si divideva fra la famiglia, il lavoro e poche amiche fidate. E secondo gli inquirenti l’assassina agì «per gelosia», perché voleva prendere il posto della vittima sia nello studio sia nella testa e forse nel cuore di Soracco: «Voleva accasarsi in tutti i sensi facendo leva sulla sua avvenenza - confida un investigatore che ha seguito la nuova indagine -, era ossessionata dalla figura di Nada e al contempo sapeva che non era soddisfatta delle sue giornate in ufficio, piangeva spesso e se ne voleva andare». Marco Soracco, che per anni è stato il principale sospettato e si è sempre professato innocente, a parere dei magistrati non è il colpevole, ma c’entra. Perciò lo indagano per «false dichiarazioni al pubblico ministero», poiché agli occhi degli inquirenti ha sviato i rilievi su Cecere condotti nell’ultimo anno. E il medesimo addebito viene mosso alla madre di lui Marisa Bacchioni, che oggi ha 89 anni e viveva con il figlio in un alloggio posizionato un piano sopra a quello dell’omicidio: la mattina della tragedia lavò subito i pavimenti dello studio, quando ancora si parlava di «un incidente», e pure lei è accusata d’aver mentito per annacquare gli accertamenti. Annalucia Cecere, va ricordato, era già stata indagata e frettolosamente archiviata nel 1996. In particolare, aveva ricondotto a lei il bottone d’una giacca di jeans ritrovato sulla scena del crimine. Cecere ne aveva in casa altri cinque, custoditi in una scatoletta, che prima erano sulla giacca del suo ex fidanzato A. R, usata a parere dei magistrati nel giorno del delitto, forse insieme a una parrucca. Nel ’96 la comparazione solo «fotografica» non fu ritenuta sufficiente. Il perito Giardina dovrà invece analizzare una serie di altri reperti, con l’utilizzo di nuove tecnologie. I più importanti sono alcuni capelli rinvenuti accanto a Nada: fino a pochi anni fa per estrarre il Dna sarebbe servito il bulbo, oggi no. Ci sono poi microscopiche macchie di sangue e di saliva trovate sulla camicetta della vittima, che hanno permesso d’isolare un frammento di codice genetico femminile.
La gelosia dietro il delitto di Chiavari? Omicidio Nada Cella, svolta 25 anni dopo il delitto: donna indagata per la morte dell’impiegata. Fabio Calcagni su Il Riformista il 4 Novembre 2021. A venticinque anni dalla morte potrebbe arrivare una svolta nell’indagine sull’omicidio di Nada Cella, la segretaria 25enne trovata morta a Chiavari nel 1996 nello studio del commercialista per cui lavorava. La Procura di Genova ha infatti iscritto nel registro degli indagati tre persone: ad Annalucia Cecere è contestata l’accusa di omicidio, mentre il commercialista ed ex datore di lavoro Marco Soracco e l’anziana madre Teresa Bucchioni per false dichiarazioni al pubblico ministero. L’inattesa svolta nel ‘cold case’ è arrivata grazie al lavoro della criminologa Antonella Pesce, incaricata dalla famiglia di Nada insieme all’avvocata Sabrina Franzone. Riesaminando l’intero fascicolo sarebbero emersi infatti spunti sottovalutati all’epoca, quando furono svolte le prime indagini. Oggi dunque vi sarebbe una ricostruzione che inchioderebbe il presunto killer di Nada: secondo gli investigatori della squadra mobile, coordinati dal procuratore capo facente funzioni Francesco Pinto e dal sostituto Gabriella Dotto, il movente dell’omicidio sarebbe la gelosia. Annalucia Cecere avrebbe ucciso Nada perché invaghita di Soracco, con quest’ultimo innamorato della sua segretaria. Commercialista che, secondo la procura, avrebbe "coperto" per tutti questi anni Cecere: l’uomo l’avrebbe infatti vista uscire dall’ufficio di via Marsala dopo l’omicidio. All’epoca dei fatti Soracco venne indagato e poi prosciolto, mentre Annalucia Cecere fu subito archiviata per le indagini sulla morte della 25enne uccisa il 6 maggio del 1996, colpita alla testa con un oggetto pesante che non è stato mai ritrovato. A casa della 53enne all’epoca gli investigatori trovarono alcuni bottoni in un cassetto, uguali a quello ritrovato sotto il corpo della segretaria. Bottoni, spiega l’Ansa, di una giacca maschile che la presunta assassina avrebbe tolto e conservato perché di valore. Quanto al rapporto tra Cecere e Sarocco, la prima lo aveva conosciuto a un corso di ballo e poi lo avrebbe rivisto in alcune serate in discoteca, invaghendosi di lui e tentando di prendere il posto di Nada Cella come segretaria. Dopo lo scoppiare del caso la donna aveva lasciato Chiavari e la Liguria per trasferirsi in Piemonte, dove nel 2016 era stata assunta maestra elementare fino al licenziamento l’anno seguente per un provvedimento disciplinare. Al caso però manca un tassello non di poco conto, il Dna. Gli esami saranno svolti dal professore Emiliano Giardina, il genetista che arrivò all’Ignoto 1 nel caso di Yara Gambirasio. Altri esami saranno eseguiti invece dalla scientifica.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Da “Ansa” il 12 novembre 2021. La Procura di Genova e gli investigatori della squadra mobile lanciano un appello diffondendo l'audio di una telefonata anonima di una donna che diceva di avere visto Annalucia Cecere sporca di sangue sotto lo studio di Marco Soracco la mattina dell'omicidio di Nada Cella, la segretaria massacrata a Chiavari il 6 maggio 1996. La voce è quella di una signora anziana. "L'ho vista che andava via col motorino, l'ho vista tutta sporca che metteva tutto sotto la sella. L'ho salutata e manco mi ha guardata. Le dico la verità. L'ho vista quindici giorni fa nel carruggio e non mi ha nemmeno guardata".
Nada Cella, Annalucia Cecere fu vista il giorno dell’omicidio: si cerca la supertestimone. di Redazione cronache su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2021. Gli inquirenti hanno diffuso l’audio anonimo di una donna che dopo l’omicidio avrebbe visto Annalucia Cecere, indagata dopo la riapertura dell’inchiesta. Un audio anonimo potrebbe essere un elemento chiave nell’inchiesta sull’assassinio di Nada Cella. È quello di una donna, verosimilmente di un’anziana, che avrebbe visto Annalucia Cecere, la donna indagata per il delitto dopo la riapertura delle indagini, sul luogo del delitto. L’audio è stato diffuso dalla Procura di Genova e dagli investigatori della squadra mobile affinché si possa rintracciare chi chiamò per fornire la testimonianza. «L’ho vista che andava via col motorino — dice la donna riferendosi ad Annalucia Cecere —, l’ho vista tutta sporca che metteva tutto sotto la sella. L’ho salutata e manco mi ha guardata. Le dico la verità. L’ho vista quindici giorni fa nel carruggio e non mi ha nemmeno guardata».
L’omicidio 25 anni fa
Nada Cella fu ammazzata il 6 maggio 1996 a Chiavari nello studio di un commercialista dove lavorava come segretaria. Grazie alla criminologa Antonella Pesce Delfino che ha fornito nuovi elementi, la Procura di Genova ha riaperto l’indagine indagando per omicidio Cecere, mentre il commercialista Marco Soracco e l’anziana madre Marisa Bacchioni sono stati iscritti nel registro degli indagati per false testimonianze rese al pm. Annalucia Cecere era stata già indagata 25 anni fa, ma poi la sua posizione venne archiviata. Gli inquirenti ipotizzano che la donna, ora 53enne, possa aver ucciso per gelosia perché voleva il posto della Cella come segretaria per poter conquistare il commercialista.
"Ti ci trascino per i capelli". L'audio choc dell'indagata per il caso Nada Cella. Angela Leucci l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. L'indagine sull'omicidio di Nada Cella è stata riaperta: c'è un'indagata, che ha inviato dei messaggi audio choc a una criminologa. La riapertura del caso Nada Cella presenta inediti risvolti e attese, soprattutto da parte della famiglia della vittima, che da quel 6 maggio 1996 non ha ricevuto né verità né giustizia. Cella fu infatti trovata agonizzante alla scrivania del suo posto di lavoro - era segretaria nello studio del commercialista Marco Soracco, nella loro città, Chiavari. Fu lo stesso professionista a ritrovarla appena entrato in ufficio, credendo che la giovane avesse avuto un malore: chiamò immediatamente i soccorsi, ma nonostante gli sforzi dei sanitari, Nada morì nel primo pomeriggio, uccisa da una mano ancora ignota.
La testimonianza della madre
La mamma di Nada, Silvana, ha raccontato che la figlia fosse inquieta per qualcosa che riguardava il proprio lavoro nei giorni precedenti all’omicidio. “Ultimamente non voleva andare in ufficio, quindi qualcosa c’era - ha raccontato a Chi l’ha visto? - Diceva che non voleva andare perché non le piaceva il lavoro. Per me era una scusa per venire via, ma non so il motivo, è questa la cosa che più mi attanaglia”.
Silvana ha anche spiegato che una volta Nada è scoppiata in lacrime davanti a lei. “Una sera è arrivata a casa, si è messa a mangiare, ha lavato le posate e si è messa a piangere e ha detto: ‘Non voglio più andare in quell’ufficio’ - ha proseguito la donna - Le ho chiesto se era stata ripresa, sgridata, se aveva sbagliato qualcosa. Poi è andata in bagno e le sono andata dietro e mi ha detto: ‘Non ne parliamo più e basta, piuttosto vado a fare la pulizie’”. Che cosa era successo da spingerla a piangere?
Di recente, sono state riaperte le indagini e gli inquirenti hanno puntato il dito su Anna Lucia Cecere, che all’epoca pare fosse uscita qualche volta con Soracco. Anche Soracco e sua madre sono indagati, ma non per omicidio bensì per false dichiarazioni agli inquirenti. Soracco tra l’altro ha sempre affermato di ignorare se ci fosse qualche donna che, all’epoca, fosse invaghita di lui.
“La guarderei negli occhi e le chiederei perché l’ha fatto? - ha aggiunto mamma Silvana - Lo chiederei a chiunque sia stato. Non so come ho fatto a sopravvivere all’ergastolo, perché il mio è stato un ergastolo”.
"Tracce di Dna". Quel delitto irrisolto che si riapre dopo 25 anni
L’indagata
Anna Lucia è un’ex insegnante che non vive più a Chiavari da tempo. Il suo nome era spuntato a suo tempo nelle indagini, sia perché segnalata in via anonima come presunta corteggiatrice di Soracco sia per il fatto di possedere dei bottoni simili a uno trovato sulla scena del crimine. La donna aveva spiegato che i bottoni, tra l’altro molto comuni e unisex, appartenevano alla giacca di un suo ex, tuttavia differivano per la presenza di un cerchietto di plastica intorno alla circonferenza del bottone.
Sulle sue tracce si è messa una criminologa, Antonella Pesce Delfino, che giovanissima scrisse una tesi di laurea proprio sull’omicidio di Nada Cella. La criminologa si è recata a casa di Anna Lucia, dicendo di essere un’insegnante, ma la donna l’ha saputo e le ha inviato inquietanti messaggi audio.
“Brutta s… bugiarda - si ascolta in uno di essi - Cosa sei venuta a fare oggi a casa mia, chi ti manda, su cosa stai indagando?”. E ancora: “Non fare la finta tonta, s… Ma come facevi sapere tutti i c… miei? hai paura, eh? Adesso son qua, non ti preoccupare”. Alcune parti di questi messaggi audio suonano particolarmente sibillini: “Senti, non fare la finta tonta. Eh? Hai capito con me? Ora faccio riaprire il caso, stai tranquilla. Anzi ho saputo adesso da Chiavari, ho parlato adesso con la polizia di Chiavari che forse è stato già riaperto il caso. Stai tranquilla, ti ci trascino per i capelli. Poi ti faccio fare le domandine e gli indovinelli: indovina indovinello”. Interpellata da un giornalista di Chi l’ha visto?, Anna Lucia ha minacciato di far intervenire le forze dell’ordine.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
"Era sporca": su Nada Cella spunta l'audio choc della supertestimone. Angela Leucci il 12 Novembre 2021 su Il Giornale. La polizia diffonde l'audio choc della telefonata ricevuta da una supertestimone anonima: trovarla significherebbe la svolta nel caso Nada Cella. Nel caso dell’omicidio di Nada Cella c’è stata una telefonata anonima che torna oggi a essere particolarmente significativa. L’audio con la registrazione della telefonata è stato diffuso agli organi di informazione dalla Polizia di Stato, a seguito dell’autorizzazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova. La telefonata in questione risale al 9 agosto 1996, poco più di tre mesi dopo l’assassinio di Nada. La diffusione è volta a ritrovare la supertestimone: di questa telefonata è stato accennato durante l’ultima puntata di “Chi l’ha visto?”, in cui si è parlato brevemente di una persona desiderosa di restare anonima, che avrebbe visto, poco distante dal luogo dell’omicidio, una donna con le mani sporche di sangue. “L’ho vista che era sporca - si sente nella telefonata, mentre una donna parla con una forte intonazione genovese - ha infilato tutto nel motorino. Io l’ho salutata, non m’ha guardato. Quindici giorni fa l’ho incontrata in carruggio, che andavo alla posta, non mi ha nemmeno guardata, è scivolata di là, verso sera”. Dall’audio si può supporre che la testimone conoscesse l'identità della donna che ha visto quel giorno. Nada Cella è morta il 6 maggio 1996, dopo essere stata colpita sul posto di lavoro da un ignoto assassino. Nada era impiegata come segretaria in nello studio di un commercialista a Chiavari, Marco Soracco, il quale, appena giunto al lavoro e trovata Nada agonizzante, ha allertato immediatamente i soccorsi, che tuttavia non hanno potuto salvarla nonostante gli sforzi. Le indagini sono state riaperte di recente e c’è un’indagata. Si tratta di Anna Lucia Cecere, oggi 53enne che, al tempo, aveva 28 anni, faceva l’insegnante e pare frequentasse saltuariamente il datore di lavoro di Nada. Nei giorni scorsi a Cecere è stato sequestrato il motorino: il ciclomotore, ritrovato in un garage a Boves, in provincia di Cuneo, dove la donna vive con il marito, è lo stesso che la donna usava quando viveva a Chiavari negli anni ’90. Nei giorni scorsi, Soracco ha definito “superficiale” la conoscenza con Cecere. L’uomo ha ricordato come non avesse mai pensato che Cecere avesse qualche tipo di trasporto verso di lui, come poi invece gli fu rivelato da qualcuno. "Una conoscenza solo superficiale - ha detto il professionista a LaPresse - Ricordo che mi venne presentata da un conoscente come persona che frequentava. La incrociavo solo ogni tanto per strada. Dopo il delitto non l'ho più vista solo alcuni giorni dopo i fatti arrivò una telefonata che mi lasciò interdetto, ma non faceva riferimento all’accaduto".
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Vittoria Speranza per “Giallo” il 12 novembre 2021. “Abbiamo fiducia nella giustizia e speriamo che finalmente la verità su mia figlia Nada venga a galla". Sono le prime parole che Silvana Smaniotto ha pronunciato quando ha saputo che la Procura di Genova ha indagato una donna per l'omicidio di sua figlia, Nada Cella, 25 anni. La morte della giovane segretaria avvenne a Chiavari nel 1996. Fu trovata cadavere nell'ufficio dove lavorava. Un delitto che per 25 anni è rimasto avvolto nel mistero. Ora la svolta. La donna che risulta indagata è Annalucia Cecere, 53 anni, ex insegnante che nel 2017 è stata destituita per motivi disciplinari. All'epoca dei fatti aveva 28 anni. Con lei sono indagati anche l'ex datore di lavoro della vittima, il commercialista Marco Soracco, 60 anni, nel cui studio fu uccisa Nada, e la sua anziana madre Teresa Bucchioni, 89. Figlio e madre sono accusati di false dichiarazioni al pubblico ministero. Non avrebbero cioè detto tutto quello che sapevano. I tre hanno ricevuto un avviso di garanzia. La Procura ha già affidato l'incarico di eseguire gli esami sui reperti di Dna trovati sulla scena del delitto al genetista Emiliano Giardina, lo stesso che si occupò del caso Yara. Altri accertamenti saranno eseguiti dalla polizia scientifica. Come si è arrivati a questa svolta inaspettata? Le indagini sono state riaperte grazie alla tenacia della criminologa Antonella Pesce (che ha iniziato a studiare il caso nel 2017 mentre frequentava un corso), incaricata dalla famiglia di Nada insieme l'avvocata Sabrina Franzone. La Pesce ha preso in mano il fascicolo relativo all'omicidio raccogliendo spunti investigativi che erano stati sottovalutati all'epoca dei fatti. Secondo i primi accertamenti svolti dalla squadra mobile - guidata dal primo dirigente Stefano Signoretti, coordinati dal procuratore capo facente funzioni Francesco Pinto e dal sostituto Gabriella Dotto, dietro al delitto ci sarebbe un movente passionale. Annalucia Cecere, l'indagata, si era invaghita del commercialista Marco Soracco, il quale a sua volta era innamorato della sua segretaria, Nada. Annalucia non tollerava quella relazione e questo avrebbe scatenato la sua reazione. Ma perché è indagato anche il commercialista, cioè l'oggetto amoroso del contendere? Gli inquirenti ritengono che la mattina dell'omicidio l'uomo avrebbe visto la presunta assassina uscire dal suo ufficio, ma l'avrebbe coperta non riferendo questa circostanza agli investigatori. Per la verità la Cecere era già stata indagata 15 giorni dopo il delitto. Anche se il suo presunto coinvolgimento venne tenuto nascosto alla stampa. Due testimoni riferirono di averla vista uscire dal portone negli orari in cui era avvenuto il delitto. Aveva uno «sguardo spaurito» e una mano sporca di sangue, forse addirittura fasciata. Si fece avanti una vicina di casa della Cecere. Ai carabinieri raccontò che la mattina dell'omicidio la sospettata, contrariamente alle sue abitudini, era uscita di casa molto presto. Subito dopo il delitto gli investigatori si recarono in casa della Cecere e furono colpiti da alcuni bottoni, con- servati in un cassetto. La particolarità è che quei bottoni, di una giacca femminile, erano uguali a un bottone rinvenuto sotto il corpo della segretaria. Nonostante tutto ciò, l'allora procuratore capo archiviò la posizione della donna. Oggi, seppure con 25 anni di ritardo, questa storia sembra avviarsi verso una svolta. Annalucia, che nel frattempo si è trasferita in Piemonte, aveva conosciuto il commercialista in una discoteca di Chiavari. Anche le cronache del tempo ipotizzarono che tra i due vi fosse una relazione. Negli atti compaiono alcune telefonate sospette che sembrano dimostrare come l'attuale indagata fosse in parte a conoscenza dell'attività investigativa. Il giorno prima che gli investigatori effettuassero una perquisizione a casa sua, la Cecere contattò diversi avvocati e chiese nomi di legali ai suoi amici. Sembrava quasi conoscesse in anticipo le mosse degli inquirenti. Per gli investigatori, inoltre, nella Curia di Chiavari c'era chi conosceva dettagli importanti sull'assassinio di Nada, tanto che nel corso delle nuove indagini sono stati sentiti una decina di sacerdoti. Ma per meglio capire questa vicenda raccontiamola daccapo. Nada Cella, segretaria nello studio di Marco Soracco a Chiavari, viene trovata agonizzante nell'ufficio dal suo datore di lavoro il 6 maggio 1996. Figlia unica di Bruno e Silvana, è descritta da tutti come una brava ragazza. Il commercialista Soracco l'ha assunta da tempo, ma la segretaria non ha stima di lui e non vede l'ora di andarsene. La madre e la zia di Soracco, più volte, le fanno capire che il commercialista potrebbe essere l'uomo giusto per lei. Ma Nada, come racconta ad amici e familiari, non ne vuole sapere. Quel maledetto giorno è un lunedì. Alla mattina Nada, dopo aver accompagnato la mamma, che fa la bidella, a scuola, e inforcato la sua bicicletta, va ad aprire lo studio. Apre la porta, accende le luci e sistema qualche carta. Alle 9 citofona una persona. La segretaria pensa sia un cliente. Si sbaglia: ha appena aperto la porta al suo assassino. Forse Nada lo conosce e, infastidita per la sua presenza, gli volta le spalle e va verso il telefono, probabilmente per chiamare il 112. Il killer si muove con sicurezza: percorre il corridoio e va diretto all'ultima stanza a destra. Qui Nada viene tramortita da un pugno al volto. Ma è solo l'inizio della sua agonia. Il killer impugna un oggetto massiccio e appuntito e la colpisce 15 volte alla testa e al pube. L'arma del delitto non verrà più ritrovata. Sono le 9.01 quando una condomina, che abita al piano di sotto, sente un forte tonfo. Forse era Nada che stramazzava al suolo. I soccorsi arrivano e la trovano ancora viva, ma agonizzante. C'è sangue ovunque. La polizia viene avvertita dallo stesso Soracco, che abita al piano di sopra con la madre: «La mia segretaria si è sentita male ed è caduta», dice il commercialista al centralino del 112. Ma i problemi cominciano subito. La scena del crimine viene inquinata. I soccorritori, nel tentativo di salvare la vittima, che morirà appena giunta in ospedale, toccano e spostano gli oggetti e i mobili presenti nella stanza del delitto. Poi il via vai di persone rende difficile isolare elementi utili per le indagini. Anche perché 25 anni fa le tecniche non erano avanzate come oggi. Addirittura la madre e la zia del commercialista ripuliscono l'intero appartamento dalle tracce di sangue. Viene però rinvenuto sul pavimento un bottone, forse di un cardigan femminile. Non è mai stato accertato a chi appartenesse. Probabilmente all'assassina. Una cliente riferisce, dopo l'omicidio, che alle 9 aveva telefonato allo studio. In quei momenti l'assassino stava ammazzando Nada o l'aveva appena uccisa. La cliente aveva chiamato tre volte. La prima volta aveva risposto una voce femminile che le aveva detto di aver sbagliato numero. La seconda volta la stessa voce le aveva detto che il numero era errato e, infine, aveva risposto il commercialista dicendo che la segretaria si era sentita male e invitandola a richiamare più tardi. La Procura brancola nel buio. Partono le indagini e, come detto, ci sono dei sospettati ma non vengono subito intercettati i loro telefoni. Per banali cavilli giuridici non si procede neppure al prelievo del Dna. Vengono indagati il commercialista e sua madre. Ma non ci sono elementi a loro carico e vengono scagionati. In questo caos le indagini vanno nella direzione più scontata. I sospetti ricadono su un'inquilina del palazzo, affetta da disturbi psichici. La pista non trova conferme. Bruno Cella, papà di Nada, muore di crepacuore nel '99, mentre si sta recando al cimitero dalla sua amata figlia senza ancora conoscere la verità. Nel 2005 un altro capitolo, partendo dai diari della ragazza. Le indagini ripartono e la Procura indaga due operai, già coinvolti in un giro di sfruttamento della prostituzione. Anche questa pista non porta a nulla. L'ultimo spiraglio per conoscere la verità e restituire giustizia a Nada e alla sua mamma arriva dall'isolamento di alcune tracce biologiche. Si tratta di Dna che è stato fatto analizzare nei laboratori scientifici di Milano, Roma e persino negli Stati Uniti dall'Fbi. In quel Dna, finalmente, c'è forse la chiave di questo misterioso omicidio che aspetta una risposta da 25 anni.
Nada Cella, tracce di sangue sul motorino dell’indagata Annalucia Cecere. Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera il 15 Novembre 2021. Sui reperti trovati 25 anni dopo l’omicidio, sotto la sella del motorino della donna ora indagata per l’assassinio, sarà condotto l’esame del Dna. Le tracce di sangue erano sotto la sella del motorino. Il mezzo è stato da poco sequestrato ad Annalucia Cecere, indagata per l’omicidio di Nada Cella dopo la riapertura del caso a 25 anni di distanza. Era il motorino che Cecere, allora 28enne, utilizzava nel 1996 e che portò con sé anche a Boves, in provincia di Cuneo, dove si trasferì pochi mesi dopo il delitto. Adesso quelle tracce ematiche, rilevate dalla polizia scientifica attraverso le luci forensi — fasci di ultravioletti che possono mettere in risalto impronte o residui organici — preferite al luminol che avrebbe potuto compromettere il reperto, saranno di nuove esaminate il 16 novembre. La Procura di Genova ha infatti convocato un accertamento in contraddittorio, per prelevare il campione e poi affidarlo al genetista Emiliano Giardina, incaricato dai pm, per estrarre il Dna. Solo dopo, si saprà a chi appartiene quel sangue, e qualora fosse di Nada sarebbe probabilmente la prova definita della colpevolezza dell’indagata. Non è la prima volta che nell’inchiesta sull’uccisione della venticinquenne, trovata agonizzante a Chiavari la mattina del 6 maggio 1996 nello studio del commercialista Marco Soracco dove lavorava come segretaria, entra in scena quel motorino. Pochi giorni fa la Procura ha autorizzato la diffusione di una telefonata in cui una donna, ancora anonima, il 9 agosto 1996 telefona a casa Soracco e parla di Cecere e del giorno del delitto: «Venivo giù in macchina da Carasco, l’ho vista che era sporca e ha infilato tutto nel motorino. L’ho salutata e non mi ha guardato, quindici giorni dopo l’ho incontrata nel caruggio. Non mi ha guardato ed è scivolata via». Attribuire a chi appartengono le tracce di sangue trovate nel sottosella del ciclomotore, che sembra fosse tenuto in garage in perfette condizioni, potrebbe essere la svolta in una vicenda che si è riaperta improvvisamente grazie agli elementi raccolti da Antonella Delfino Pesce che stava preparando una tesi per un master in Criminologia a Genova. Elementi poi consegnati alla Procura che ha riavviato l’indagine affidata al sostituto Gabriella Dotto e coordinata dal procuratore facente funzioni Francesco Pinto. Un’inchiesta che passo dopo passo sta svelando come già 25 anni fa gli inquirenti avessero in mano elementi per portare a un esito diverso dall’archiviazione. Cecere era già sta indagata, così come il commercialista Soracco adesso finito di nuovo nel registro assieme all’anziana madre Marisa Bacchioni per false informazioni al pm. Spera che sia fatta finalmente giustizia la famiglia di Nada Cella. La madre Silvana ha detto fiduciosa qualche giorno fa all’avvocata Sabrina Franzone: «Forse ce la faremo. Non siamo mai stati così vicini a sapere chi è stato».
Nada Cella, tracce di sangue sul motorino di Annalucia Cecere. Il Corriere della Sera il 14 novembre 2021. C'è una nuova svolta nelle indagini sull' uccisione di Nada Cella, la giovane segretaria massacrata a 25 anni il 6 maggio 1996 nello studio di Marco Soracco, il commercialista dove lavorava, a Chiavari. Secondo quanto rivelato dal Secolo XIX, gli inquirenti hanno infatti trovato tracce di sangue sotto la sella del motorino che veniva usato, all'epoca della morte di Cella, da , l'ex insegnante che ora è indagata per il delitto. Non è al momento chiaro a chi appartengano le tracce di sangue. La Procura ha convocato per martedì 16 novembre un accertamento in contraddittorio per ripetere l’esame. In caso di esito positivo, verranno prelevati campioni di sangue, che saranno affidati al genetista Emiliano Giardina, già impegnato nel caso di Yara Gambirasio. Nei giorni scorsi, la Procura di Genova e gli investigatori della Squadra Mobile avevano diffuso una traccia audio nella quale una donna — verosimilmente un'anziana — spiegava di aver visto Annalucia Cecere sul luogo del delitto. «Era tutta sporca», la si sente dire, «ha infilato tutto nel motorino». Le autorità hanno diffuso l'audio per tentare di rintracciare chi chiamò per fornire la testimonianza, 25 anni fa. Il motorino di Nada Cella è stato sequestrato la scorsa estate dagli investigatori della squadra mobile di Genova. Nei giorni scorsi era stato annunciato che la Polizia scientifica avrebbe effettuato analisi tecniche sullo scooter, ora custodito in un autosoccorso di Cuneo. La donna lo avrebbe portato da Chiavari a Boves, in provincia di Cuneo, dove vive: lo teneva in un box. L'uccisione di Nada Cella avvenne nella mattinata di lunedì 6 maggio 1996. Fu lei stessa ad aprire a chi la uccise. A chiamare il 113 fu Soracco, sceso dall’appartamento al piano di sopra dove abita con la madre. C’è stato un incidente, disse. Nada Cella era stata in realtà colpita alla testa e al pube almeno 15 volte, con un oggetto pesante e aguzzo, mai più ritrovato. Morì in ospedale dopo una breve agonia. Le indagini furono piene di errori e — come sta emergendo — di probabili depistaggi. I primi investigatori giunti sul posto concessero alla madre e alla zia di Soracco, preoccupate per il decoro dell’immobile, il permesso di pulire le macchie di sangue lasciate dalla ragazza sul ballatoio e in alcune parti dello studio. Per settimane non furono intercettate le conversazioni telefoniche degli inquilini. Il caso venne archiviato nel 1998. Il commercialista e sua madre, unici indagati, vennero scagionati. A riaprire il caso, 25 anni dopo, è stata la passione con cui la criminologa Antonella Pesce Delfino, ha studiato le carte del caso, spingendo la procura di Genova della necessità di iscrivere Annalucia Cecere al registro degli indagati.
"Sangue sul motorino": svolta nell'omicidio di Nada. Rosa Scognamiglio il 14 Novembre 2021 su Il Giornale. Gli investigatori hanno trovato tracce di sangue sul motorino di Annalucia Cecere, l'insegnante 53enne, indagata per l'omicidio di Nada Cella. Potrebbe esserci una svolta nell'omicidio di Nadia Cella, la segretaria 25enne trovata morta a Chiavari, il 6 maggio 1996, nello studio del commercialista dove lavorava. Stando a quanto riporta Tgcom24, sul motorino in uso ad Annalucia Cecere, l'ex insegnante 53enne indagata per il delitto, sono state rinvenute tracce di sangue. Ora spetterà alla polizia scientifica provare ad estrarre il dna dai residui ematici nel tentativo di recuperare informazioni utili alle indagini.
"Sangue sullo scooter"
Il motorino di Annalucia Cecere, l'ex insegnante indagata per l'omicidio di Nada Cella, è stato sequestrato circa una settimana fa. Si tratta di un vecchio che scooter che la donna, al tempo 28enne, utilizzava abitualmente per spostarsi. Lo stesso che potrebbe aver usato anche la mattina in cui la giovane segretaria fu uccisa, tra le 8.30 e le 9, mentre si trovava in ufficio. Secondo la ricostruzione degli investigatori, coordinati dal procuratore capo facente funzioni Francesco Pinto e dal sostituto Gabriella Dotto, Annalucia Cecere si sarebbe invaghita del commercialista Marco Soracco ma lui sarebbe stato innamorato della giovane Nada. Tale circostanza potrebbe aver ingenerato una situazione di rivalità sfociata poi nel sangue. A fronte della nuova pista d'indagine, lo scorso 6 novembre l'ex insegnante è stata raggiunta da un avviso di garanzia. Oggi, quelle tracce di sangue rinvenute sul mezzo in suo possesso, custodito per anni in un box di Boves (Cuneo), rischiano di inasprire ulteriormente la sua posizione nell'inchiesta per omicidio aggravato.
L'audio choc della supertestimone
A 26 anni dal delitto è spuntato anche un vecchio audio che, alla luce degli ultimi sviluppi investigativi, potrebbe segnare la svolta del giallo. Si tratta di una telefonata risalente all'agosto del 1996, circa tre mesi dopo l'assassinio di Nada, in cui una donna racconta all'interlocutore di aver visto di una persona "con le mani sporche di sangue" in un luogo poco distante dall'ufficio in cui era stata aggredita la 25enne qualche attimo prima. L'audio è stato trasmesso nel corso della puntata di "Chi l'ha Visto?" lo scorso mercoledì. "L’ho vista che era sporca - spiega la voce anonima - ha infilato tutto nel motorino. Io l’ho salutata, non m’ha guardato. Quindici giorni fa l’ho incontrata in carruggio, che andavo alla posta, non mi ha nemmeno guardata, è scivolata di là, verso sera". Di chi si tratta?
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
· Il Mistero delle Bestie di Satana.
"Altro che Diavolo...": la verità sulle "Bestie di Satana". Francesca Bernasconi l'8 Maggio 2021 su Il Giornale. C'era davvero il satanismo dietro i delitti compiuti dalle Bestie di Satana? "Ce n'era una piccola quantità", secondo Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani, autori di un nuovo libro sul tema. Satanismo, riti e delitti. Furono questi, in tribunale, gli ingredienti degli atti commessi dalle Bestie di Satana, il gruppo venuto alla luce nel 2004, responsabile di quattro delitti. A rivelarne l'esistenza fu Andrea Volpe, uno dei membri, che fece i nomi di Paolo Leoni, Nicola Sapone, Pietro Guerrieri, Mario Maccione, Marco Zampollo, Eros Monterosso e Massimiliano Magni. I primi due omicidi compiuti dalle Bestie di Satana furono quelli di Fabio Tollis e Chiara Marino, uccisi in un bosco di Somma Lombardo nel 1998. A questi seguirono il suicidio indotto di Andrea Bontade nel 1998 e l'omicidio di Mariangela Pezzotta nel 2004. Al tempo si ritenne che dietro i delitti si nascondesse il satanismo e che la setta avesse agito per compiere dei rituali. Convinzioni messe in dubbio da Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani, autori del libro "Bestie di Satana. Storie di omicidi e demoni", che hanno ricostruito gli eventi. A raccontarlo è Fabio Sanvitale, che con Giornale.it ripercorre l'indagine effettuata per mettere insieme i pezzi degli atti compiuti dal gruppo delle Bestie di Satana: "Noi lo definiamo gruppo, perché ci siamo resi conto che non aveva le caratteristiche di una setta".
Perché siete andati a ripescare la vicenda delle Bestie di Satana?
"È una faccenda che abbiamo trovato molto interessante, ci incuriosiva il fatto che al tempo fossero stati riportati molti luoghi comuni. Ma noi avevamo la sensazione che tutta la storia andasse raccontata di nuovo in maniera diversa, perché la narrazione fatta all'epoca dai mezzi di informazione era intrisa da una mezza tonnellata di luoghi comuni. Allora siamo partiti dagli atti processuali, abbiamo cercato di rimetterli insieme, perché siamo convinti che lì ci sia la base di tutto: non ci piace fare libri partendo da quelli degli altri".
Di quali luoghi comuni parla?
"Per esempio, venne esaltato il ruolo del satanismo all'interno di questa storia, che secondo noi conta molto meno come movente per i delitti. A quei tempi si era arrivati a vedere il satanismo un po' dappertutto, sulla scorta di due decenni (gli anni '70-'80) in cui negli Stati Uniti era stata fatta questa operazione. Poi questa ondata satanista è arrivata anche in Italia, negli anni '90-2000".
E c'era davvero il satanismo dietro tutti gli omicidi?
"Ce n'era una piccola quantità. Solamente i primi due delitti sembrerebbero ricollegarsi al satanismo, ma in realtà analizzandoli attentamente ci siamo resi conto conto che di satanista non c'è nulla, ma ci sono moventi diversi per ognuno dei responsabili. Quella notte non ci fu nessuna ritualità e stando alle fasi lunari non era nemmeno presente la luna nera. Noi siamo andati anche nel bosco di Somma Lombardo (quello dove vennero ritrovati i corpi di Fabio Tollis e Chiara Marino, ndr), che ora è molto cambiato, e non c'era alcun elemento riconducibile al satanismo. Inoltre abbiamo riesaminato una serie di ulteriori delitti attribuiti a questo gruppo, ma non c'è nessun collegamento. Pensiamo che si creò una vera e propria isteria sull'argomento, tanto che il pm dichiarò pubblicamente di avere un crocifisso in tasca durante la requisitoria finale. Non c'è dubbio che i condannati siano responsabili, ma pensiamo che il fenomeno venne sopradimensionato e si è visto molto di più di quello che c'era".
Quale fu quindi il vero movente dei delitti?
"Per quanto riguarda gli omicidi di Fabio Tollis e Chiara Marino ci furono moventi diversi per ogni membro del gruppo: per qualcuno si trattò del desiderio di provare un'emozione nuova, di uscire dalle regole e di offendere e dissacrare, per qualcun altro della voglia di vendetta. Quella notte ognuno di loro aveva un movente diverso. Quello di Sapone è il meno chiaro: sembra avere un conto personale con le vittime, o forse era un modo per entrare nel gruppo e dimostrare il proprio valore, facendo vedere fino a che punto era in grado di arrivare. Per quanto riguarda il secondo e il terzo delitto invece si trattò da una parte di una vendetta e dall'altra dello spunto omicida di un tossico che voleva dei soldi".
Esisteva davvero il cosiddetto terzo livello?
"Il concetto di terzo livello nacque da alcune dichiarazioni di Andrea Volpe, che vi fece riferimento sostenendo si trovasse a Torino e che avrebbe agito dando degli ordini. Sono riferimenti molto vaghi e nessuno sa dire niente di più. Devo dire che non è emerso assolutamente nulla a dimostrazione dell'esistenza di questo terzo livello e, se ci pensiamo bene, sembra sia un modo per rendere ancora più misterioso e pericoloso tutto quanto. Secondo noi, il riferimento è stato fatto da Volpe per accreditarsi con i magistrati, poi questo dettaglio ha preso piede perché era molto affascinante, ma non venne mai dimostrato. D'altronde quale gruppo di adulti potrebbe commissionare omicidi a un gruppo di tossici, con quale livello di affidabilità?".
"Le sette? Il lavaggio del cervello parte dal comunismo"
Quale tra le cose che avete scoperto vi ha colpito di più?
"Ci ha colpito molto la quantità di menzogne che alcuni di loro è stato in grado di ripetere nel corso degli anni, vendendo una visione preconfezionata dal gruppo denominato Bestie di Satana, per alcuni allo scopo di rimanere visibili, per altri di ingarbugliare la realtà per uscirne col minor danno possibile. Mario Maccione fu il meno attendibile di tutti, nel senso che le sue dichiarazioni cambiano in continuazione: furono una forma di confusione, più che una forma di chiarificazione di quello che è successo nella realtà".
C'è già un altro caso a cui sta lavorando con Armando Palmegiani?
"Sì, inizieremo a lavorare a un nuovo libro ma non diciamo mai l'argomento prima. Posso dirle che si tratterà di tre storie che per la prima volta ci porteranno fuori dall'Italia. E sarà una tematica, non un caso".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo
· Il Mistero di Charles Sobhraj.
Federico Ferrero per Sette – corriere.it il 10 maggio 2021. Crudele, spietato, maliardo, manipolatore. Abbastanza astuto da sfuggire più volte alla cattura e garantirsi una vita di agi, non tanto da non sentirsi imprendibile. La serie romanzata The Serpent, ospitata su Netflix con Tahar Rahim come attore principale, è ispirata a una storia di violenza e impunità vera, che ha per protagonista un uomo dalla vicenda concitata e contorta: Charles Sobhraj. Charles nacque nel 1944 nella Saigon occupata dai francesi, da padre indiano e mamma vietnamita, e fu un bambino triste. All’età di tre anni, subì il divorzio dei genitori; qualche tempo dopo, la madre se lo portò via a Marsiglia. Ignorato dal patrigno, trascurato dalla mamma, crebbe con la nostalgia della patria natale e una crescente volontà di rivalsa. A dieci anni, i primi furtarelli nei negozi e un’estate di abbandono in un collegio parigino, che gli fece maturare ulteriori sentimenti di disagio e rancore nei confronti del prossimo. Sobhraj fu un adolescente problematico, senza amici. Tanto che, a 16 anni, tornò dal padre per tentare una ripartenza: ma non funzionò, anzi. Intorno ai vent’anni era già tornato a Parigi, dove rimediò la prima condanna per furto. Nei tre anni di detenzione, grazie a indubbie abilità persuasive, ottenne il privilegio di poter studiare in cella e si dedicò a varie discipline, dalla psicologia alle lingue. Scontata la pena, Charles incontrò Chantal Compagnon, una ragazza rimasta incantata dai suoi modi suadenti e dall’innegabile carisma, e le propose di sposarlo. Nonostante un altro arresto per tentato furto d’auto e la contrarietà dei genitori per quella storia con un giovane discutibile, la donna gli rimase fedele e i due si sposarono: poco dopo nacque la loro unica figlia, Usha. Soprattutto, era nato un legame criminale: la moglie era consapevole delle attività illegali del marito e quando, nel 1970, la famiglia emigrò in India, a Bombay, Sobhraj entrò come professionista nel giro delle automobili ricettate, sviluppando nel contempo una forte attrazione per il gioco d’azzardo. E un’altra dote, sempre più affinata: la capacità di puntare i turisti occidentali. Di circuirli e stordirli con l’uso di narcotici.
Dall’India all’Afghanistan. L’espediente, almeno agli inizi, era utilizzato solo per rendere le vittime inoffensive e derubarle più facilmente ma per Sobhraj, complici anche le somme di denaro sempre più ingenti e una crescente pulsione a provare emozioni forti, gli assegni a vuoto e le automobili rubate non potevano più bastare. Venne arrestato per rapina in una gioielleria. Riuscì a evadere, con l’aiuto della moglie, fingendo un malore e narcotizzando un’infermiera. Nel 1972, un’altra fuga: quella volta la meta fu Kabul, Afghanistan. Nel mentre, aveva sviluppato l’ultimo filone criminale: abbordava turisti occidentali che percorrevano il cosiddetto Hippie Trail, il cammino che dall’Occidente porta all’Oriente passando per Turchia e Iran fino alla Thailandia. Grazie al fascino e alla facilità nel parlare le lingue, li avvicinava fingendosi un uomo d’affari. Come avrebbe poi raccontato, Charles odiava quei giovani privilegiati, che cercavano la spiritualità a buon mercato pur essendo nati nella ricchezza. Trovava fossero dei dissoluti, dediti alle droghe. Forse, gli ricordavano soltanto la giovinezza solitaria e mesta in Francia.
L’incontro fatale a bangkok: identità rubate. Ormai professionista delle trasformazioni e delle truffe, abituato al dentro-fuori in prigione, nel 1975 Charles Sobhraj si è appena lasciato alle spalle un’altra evasione: stavolta è scappato dal terribile carcere di Atene, dove ha addirittura dato fuoco al pulmino del suo trasferimento. Delle sue fughe così improbabili avrebbe detto che «i poliziotti hanno meno desiderio di tenermi dentro di quanto ne abbia io di uscire». Purtroppo, la sua vittoria contro i secondini è foriera di morte. Ormai fuori controllo e maturo per il salto di qualità, si divide dalla moglie che ripara in Francia e, a Bangkok, conosce Marie Andrée Leclerc, un’infermiera canadese. La convince a diventare suo partner, anche criminale; assoldano un altro complice e vanno a caccia di vittime, di cui poi assumere l’identità per sfuggire alla cattura. Incontra Teresa Knowlton, studentessa di Seattle che desidera raggiungere un monastero tibetano a Katmandu. La circuisce e non si accontenta dei suoi averi. La ragazza viene ritrovata morta, il 18 ottobre 1975, a Pattaya Beach. Per mesi, non viene riconosciuta né si sospetta un omicidio: viene rinvenuta in bikini - da qui uno dei soprannomi di Sobhraj, il Bikini killer - e la polizia pensa a un’overdose. Per giustificarsi, anni dopo, Charles sosterrà che la donna fosse una spacciatrice, una cattiva persona. Tutte falsità.
Il piacere di uccidere, senza pietà. Rotto l’argine, il Serpente - quest’altro soprannome gli era stato dato dalle forze dell’ordine, per il suo essere così sfuggente - non si ferma più. Ha capito che gli piace uccidere. Ammazza senza pietà Vitali Hakim, un giovane turista turco, bruciandolo vivo. A Hong Kong conosce una coppia di turisti olandesi, Henk Bintanja e Cornelia Hemker, li attira a casa sua in Thailandia, li rapina e fa fare loro la stessa fine di Hakim. La ragazza, in particolare, è ammaliata dai preziosi posseduti da quel fascinoso Alain Gautier, uno dei tanti nomi falsi di Charles. Dopodiché è il turno della fidanzata di Vitali, arrivata nel Paese per cercarlo, Charmayne. Viene affogata prima che possa scoprire chi ha fatto del male al suo uomo.
Il primo errore: l’avvelenamento di Delhi. Sobhraj inizia a scrivere la sua fine quando sbaglia la dose di narcotico da somministrare a studenti francesi in gita a Nuova Delhi, nel 1976. Il piano era fingersi una guida turistica e offrire delle pillole anti-dissenteria agli ignari ragazzi. Che iniziano a svenire nella hall, si accorgono dell’avvelenamento e chiedono soccorso. Viene arrestato e condannato anche per l’omicidio di un turista francese, Jean-Luc Solomon, forse l’unico che non voleva uccidere ma stordire a scopo di rapina. Anche in quel caso, aveva esagerato con le dosi. Le due complici di Charles confessano, la fidanzata Marie viene rilasciata dopo qualche anno, appena in tempo per andare a morire di cancro in Canada. Lui, nel 1986, sta per uscire da una prigione di Nuova Delhi che pare un albergo: manipolando e corrompendo il personale si è garantito un televisore, cibo di qualità, incontri, interviste a 5.000 dollari l’una, scrive i testi di un libro e una sceneggiatura sulla sua vita. Si fa chiamare Sir Charles, e se la gode quasi come quando era a piede libero. Gli anni passano, Sobhraj fa i conti e capisce che la scarcerazione gli aprirebbe le porte di un’altra gabbia, per i crimini in Thailandia. Ha ucciso almeno 12 persone. Escogita un piano: tiene una festa illegale, mette dei narcotici - cos’altro? - nei cesti di frutta e manda al tappeto alcuni secondini, appositamente per poter espiare un altro po’ di pena in quelle condizioni di assoluto privilegio ed eludere la prigione thailandese. Dieci anni dopo, è libero e le accuse sono cadute. Tutte tranne quelle maturate in Nepal, dove decide di tornare nel 2003 dopo aver vissuto da gran signore a Parigi, accumulando denaro per servizi giornalistici e fotografici a pagamento. Un reporter lo nota in un casinò di Katmandu e lo segnala alla polizia. Viene processato e mandato all’ergastolo per il doppio omicidio del 1975, grazie al lavoro del diplomatico olandese Herman Knippenberg, della moglie Angela e di due ex vicini di casa del serial killer, Nadine e Remi Gires. Tradito dalla convinzione di essere un passo avanti al resto del mondo, è chiuso per sempre in una vera cella di una vera prigione. Per quanti morti, non si sa.
· Il Mistero di Manson.
DAGOTRADUZIONE DA dailymail.co.uk l'8 maggio 2021. Juanita Wildebush, 77enne dell'Oregon, ha descritto in dettaglio il periodo trascorso con Manson e i suoi seguaci allo Spahn Ranch nella contea di Los Angeles, ammettendo di aver temuto di essere coinvolta negli omicidi Tate-LaBianca poiché la presa di Manson su di lei era potente. Assistente sociale in pensione, che ha lavorato con i sopravvissuti del culto per la loro riabilitazione, Juanita Wildebush ha rivelato che Manson era un amante incredibile, il che faceva parte del suo fascino: "Era fantastico", ha detto. “Era così tenero, ti portava al punto dell'orgasmo e poi ti riportava indietro. Come una specie di Kamasutra, sai.” Wildebush è cresciuta a Westwood, nel New Jersey. Era molto vicina a suo padre, ma aveva un rapporto controverso con la madre, che era severa e "aveva regole per tutto". Dopo il liceo, ha frequentato l'Universidad de las Americas a Città del Messico, dove si è laureata in psicologia nel 1967. Mentre era all'università, si è innamorata di uno studente di filosofia di nome Carlos ed è li che ha provato l'LSD per la prima volta. All'epoca Wildebush era un’idealista disillusa dalla politica e dai valori capitalisti degli Stati Uniti. Ha viaggiato con Carlos e un suo amico in giro per il Messico, dove incontrarono hippy che vivevano all'estero, sviluppando in lei un interesse per la vita in comune. Quando si laureò nel 1967, Manson era appena uscito di prigione dopo aver scontato sette anni per il traffico di donne a scopo di prostituzione attraverso i confini statali. L'allora piccolo criminale di 32 anni iniziò a formare la sua "Family" a San Francisco durante la “Summer of Love” del 1967, reclutando principalmente ragazze giovani, prima di trasferirsi a Los Angeles. Nel frattempo, Wildebush era tornata nel New Jersey con Carlos, dove rimasero per un breve periodo prima di tornarsene in Messico. Concordarono che lei avrebbe risparmiato abbastanza soldi per comprare un furgone e incontrarlo lì. Nell'estate del 1968, Juanita guidò il suo furgone Dodge appena acquistato verso la California in compagnia di un amico che ha accompagnato fino a San Francisco. Aveva programmato di andare a Phoenix, in Arizona, ma il suo stereo da 850 dollari fu rubato dal veicolo la notte prima che sarebbe dovuta partire. Dopo aver trovato uno stereo sostitutivo a San Jose, si è imbattuta in una donna incinta che teneva in mano un cartello che diceva "Los Angeles". Wildebush si è offerta di dare un passaggio a lei e ai due uomini che erano in sua compagnia. L'autostoppista era Susan "Sadie" Atkins, membro della famiglia Manson che in seguito sarebbe stata condannata per la sua partecipazione agli omicidi Tate-LaBianca. Wildebush ha detto che non appena Atkins è salita sul furgone, "Ha iniziato a parlarmi della “Family” "E di come sono una band che hanno cantato con i Beach Boys. Mi è piaciuta subito.” Juanita la accompagnò allo Spahn Ranch nella San Fernando Valley, dove Manson viveva con il suo comune dopo i suoi soggiorni in un dormitorio nell'area del Topanga Canyon e nella casa del Beach Boy Dennis Wilson a Pacific Palisades. Atkins ha chiesto a Wildebush di passare la notte nel ranch, dicendole che non vedeva l’ora che "Incontrasse Charlie". Quando ha visto il leader del culto per la prima volta, stava uscendo da una roulotte nudo con una delle sue amanti. Ha detto che l'hanno accolta con uno spinello e un tè. Si sentiva in contatto con loro perché condividevano gli stessi valori e non si preoccupavano della ricchezza materiale. Manson si è invitato nel suo furgone quella sera quando tutti gli altri sono andati a letto, ma lei lo ha rifiutato. "Be ', stai facendo l’egoista," le disse. "Ma lo aggiusteremo." La accolse nel suo furgone con il caffè la mattina successiva e le mostrò la proprietà del cavallo "magico", che a volte fungeva da set cinematografico. Più tempo trascorreva con la famiglia Manson, meno interessata era a lasciare e incontrare Carlos in Messico. Wildebush, che all'epoca aveva 24 anni, non ha evitato a lungo le avance di Manson. Ha raccontato di come un giorno Atkins e Steven "Clem" Grogan si accoppiarono nel suo furgone, lasciandola sola con Manson. Dopo che lui la baciò, lei gli chiese: "E Carlos?" spingendo Manson a ridacchiare: "Non devi preoccuparti per Carlos, perché io sono lui, e lui è me", ha detto prima di fare l'amore con lei nel retro del furgone. Grogan e Atkins stavano facendo sesso sopra di loro allo stesso tempo, e Manson li invitò a unirsi a lui e Wildebush. Più tardi quella notte, ha accettato di dare a Manson il suo furgone e i $ 14.000 che aveva in un conto bancario. Nel novembre 1968, la famiglia Manson fece i bagagli e si diresse al Meyers Ranch nel Goler Canyon nella Death Valley, ma finirono per restare nel vicino Barker Ranch, che era più spazioso. Manson ei suoi seguaci tornarono allo Spahn Ranch nel marzo 1969 per prepararsi alla "guerra razziale" che aveva predetto e chiamato "Helter Skelter" dopo una canzone dei Beatles. Tuttavia, Wildebush e il diciannovenne Brooks Poston furono lasciati al Barker Ranch per fare da guardia. Dopo essere rimasti lì da soli per tre mesi, hanno incontrato i cercatori d'oro Paul Crockett e Bob Berry che erano alla ricerca di un posto dove dormire. Crocket e Berry offrirono loro del cibo e rifugio nella "casetta" fuori dalla casa principale del ranch. Wildebush e Poston godevano della loro compagnia ma erano anche preoccupati di come si sarebbero sbarazzati dei loro ospiti inaspettati prima del ritorno di Manson. Cenavano insieme e cantavano canzoni mentre Poston suonava la chitarra. Crocket sapeva che avevano paura di Manson e degli "estranei" al Barker Ranch. Wildebush ha detto che per un po 'la gente ha smesso di venire al Barker Ranch. In seguito le fu detto che Manson aveva provato a presentarsi un certo numero di volte ma senza riuscirci. Il potere che Manson aveva su di loro iniziò a scemare e iniziarono ad interessarsi alle escursioni di Crocket e Berry. Wildebush alla fine ha iniziato una relazione con Berry. Quando i membri della famiglia 'Little' Paul Watkins e Barbara Hoyt sono andati al ranch per prendere Wildebush e Poston, loro gli hanno rivelato di aver deciso di lasciare la famiglia. Watkins ha cercato di mettere in guardia Crocket sull'imminente guerra razziale imminente, ma il cercatore d’oro non le ha dato retta. Come Wildebush e Poston, Watkins iniziò a pensare che Crocket avesse più poteri di Manson e anche lui iniziò a considerazione la deviazione, ma aveva promesso al leader della famiglia che sarebbe tornato. “Quando se ne andava, abbiamo detto, (Little) Paul, ci fai un favore? Una sera, quando Charlie e tutti sono insieme in soggiorno, diresti a Charlie che vogliamo che ci esoneri da tutti gli accordi impliciti o diretti? E faremo lo stesso per lui", ha detto Wildebush. "E così il Paul, immagino, è tornato da Manson e glie l'ha detto e Charlie ha risposto dicendo qualcosa del tipo:" Va bene. Non mi interessa ". Il 9 agosto 1969, i membri della famiglia Manson Tex Watson, Patricia Krenwinkel, Linda Kasabian e Atkins uccisero l'attrice incinta Sharon Tate nella casa che condivideva con suo marito, il regista Roman Polanski, su Cielo Drive, vicino a Beverly Hills. Hanno anche ucciso tre degli amici di Tate - Jay Sebring, Abigail Folger e Voytek Frykowski - e Steven Parent, un uomo di 18 anni che stava visitando il custode della tenuta. La notte successiva, lo stesso gruppo di giovani seguaci - insieme a Leslie Van Houten e Manson - ha ucciso Leno e Rosemary LaBianca nella loro casa di Los Feliz, Los Angeles. Wildebush, che aveva sposato Berry, sapeva che Manson e la famiglia erano dietro gli omicidi nel momento in cui ne aveva sentito parlare al telegiornale, mesi prima che fossero collegati al crimine. Manson, Watson, Krenwinkel, Kasabian e Atkins sono stati condannati a morte dopo essere stati puniti per gli omicidi, ma dopo che la Corte Suprema della California ha stabilito che la pena di morte era incostituzionale, le loro sentenze sono state commutate in ergastolo. Watson, Krenwinkel e Kasabian rimangono tutt’oggi in prigione dopo che gli è stata negata la libertà condizionale più di una dozzina di volte ciascuno. Sia Atkins che Manson sono morti in prigione rispettivamente nel 2009 e nel 2017. Wildebush ha continuato a condurre una vita relativamente normale come assistente sociale. È rimasta sposata con Berry fino alla sua morte, due anni fa e ora è una nonna in pensione. Ha detto di aver sofferto del fatto che avrebbe potuto essere una parte degli omicidi e ha preso in considerazione l'idea di visitare Atkins in prigione, ma il suo terapeuta l'ha convinta a non farlo. «Ecco di cosa parlava la sindrome del sopravvissuto. Non avevo dubbi che se fossi stata lì, avrei fatto (la stessa cosa) ", ha detto. Sadie (Atkins) e Leslie (Van Houten) erano le persone a cui mi sentivo più vicina ". Ha persino ammesso di aver preso in considerazione l'idea di visitare Sadie in prigione a un certo punto.
· Il Caso Morrone.
Una battaglia che dura da 31 anni. Caso Morrone, trasmessa la richiesta di ispezione ministeriale. Il figlio: “Spero in procedimenti ai pm”. Giacomo Andreoli su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Novità nel caso di Antonio Morrone, carabiniere morto nel 1989 di tumore all’intestino dopo aver lavorato per anni nella stamperia della Corte Costituzionale di Roma, a contatto con diverse sostanze cancerogene e per cui non sono mai stati riconosciuti né la causa di servizio, né il compimento di alcun reato. La famiglia del carabiniere, guidata dal figlio Walter, ha inviato al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza del ministero della Giustizia la richiesta di un’ispezione ministeriale nel Tribunale di Roma, che è stata pre-accolta e trasmessa all’ispettorato generale. Quella di Walter è una battaglia per ricostruire la verità sulla vicenda del padre lunga trent’anni, fatti di un iter complesso e doloroso tra tribunali civili e penali, con scontri tra perizie, chiusure e riaperture del caso, oltre a difficoltà di procedimento dovute all’autonomia giurisdizionale della Corte. Lo aveva raccontato a noi de Il Riformista in una lunga intervista lo scorso settembre. Quel nostro stesso articolo è stato trasmesso all’ispettorato generale del ministero, assieme a una lunga istanza già presentata alla Corte Costituzionale nel 2015. In questo fascicolo, tra le altre cose, ci sono una perizia tecnica in cui è scritto che “la malattia di Antonio Morrone è insorta per le disagevoli condizioni ambientali in cui ha operato per 13 anni” e la richiesta del giudice Otello Lupacchini di avviare un’indagine approfondita sulle misure di prevenzione e sicurezza sul lavoro nei locali della Corte. “Nel 2002 – ci spiega Walter Morrone – abbiamo avuto un’archiviazione definitiva sul lato penale senza un vero approfondimento della storia. Ora ogni possibile reato è prescritto, visto il tempo che è passato, e quindi non possiamo più presentare denunce. Ma ci rimane questo strumento: chiediamo al ministero della Giustizia che venga fatto un accertamento perché abbiamo il forte sospetto che il verdetto sia stato pilotato, o quanto meno non ci sia stata la volontà di andar contro un’istituzione come la Corte costituzionale e in particolare il superiore di mio padre, l’allora segretario generale. Insomma per vedere se ci sono state delle irregolarità nel Tribunale di Roma”. La speranza della famiglia è ancora quella di poter restituire giustizia al carabiniere, anche con effetti per chi è ancora punibile. “Volendo – aggiunge Walter – gli ispettori, se accertassero che i fatti sono veri, potrebbero fare una richiesta di provvedimento disciplinare nei confronti di quei magistrati che hanno trattato questo procedimento a Roma: Nicola Maiorano, Claudio Tortora e Margherita Girunda“. Il figlio dell’ex lavoratore nella stamperia della Corte è consapevole di quanto questa opzione sia “difficile”, ma non si arrende. “L’attuale ministra Marta Cartabia – conclude – è stata per anni presidente della Corte Costituzionale e non ha fatto nulla per aiutarci. Ora parla di necessari processi brevi e giusti, bene: speriamo che il suo ministero intervenga nel nostro caso per riparare a quanto avvenuto”.
Morto dopo 13 anni di fumi tossici nella stamperia. La battaglia di Walter Morrone: “Da 31 anni lotto per mio padre avvelenato alla Consulta”. Giacomo Andreoli e Chiara Viti su Il Riformista il 19 Settembre 2020. Dopo 31 anni dalla morte del padre, Walter Morrone ancora non si arrende. «Mio padre, il carabiniere Antonio Morrone, è stato ucciso dai fumi tossici delle macchine alla stamperia della Corte Costituzionale a Roma» racconta a Il Riformista. La sua famiglia non vuole soldi dalla Consulta, ma “verità”: riconoscere finalmente la causa di servizio, per dimostrare che Morrone e i suoi colleghi sono morti di tumore per mancanza di sicurezza sul posto di lavoro. Per questo Walter si appella al nuovo presidente Mario Morelli, allora assistente di studio alla Corte. Antonio Morrone inizia a lavorare al centro stampa della Consulta nel 1976. «Quella stamperia era un inferno chimico – racconta il figlio- non c’erano cappe aspiranti e le sostanze usate per la manutenzione delle macchine erano altamente cancerogene. Lui e i suoi colleghi si andavano a lamentare perché dicevano di non riuscire a respirare». Nell’89 Antonio si ammala: neoplasia all’intestino. È inoperabile e in pochi mesi si spegne. Oggi il centro fotoriproduzione e stampa della Consulta è all’avanguardia, ma secondo Antonio Morrone: «I veri miglioramenti li hanno fatti dopo che è morto mio padre. Ora il centro andrebbe dedicato a lui». Intanto nel 1990 la famiglia Morrone presenta la domanda per il riconoscimento della causa di servizio. Lavorando in autodichia è la stessa Corte a dover rispondere e non un Tribunale ordinario del Lavoro, ma fino al 1994 non succede nulla. A quel punto Walter racconta di essere andato dall’allora segretario generale Cesare Bronzini, che gli avrebbe parlato di un parere negativo del Comitato delle pensioni privilegiate presso la Corte dei Conti.
La famiglia Morrone decide allora di far fare una perizia: se ne occupa la dottoressa Caterina Offidani. La sua relazione, in linea con quello che poco prima aveva stabilito la Commissione ospedaliera della Cecchignola, parla di locali non a norma e di una malattia insorta per “le disagevoli condizioni ambientali in cui ha operato per 13 anni Antonio Morrone”. Per la Corte, però: il tumore del carabiniere non dipendeva dalle sostanze utilizzate (un’altra perizia parla di connessione “rarissima”), venivano fatte visite di controllo (smentite da Walter) e nella stanza c’era areazione, perché venivano aperte porta e finestra. Nell’iter penale che si apre viene chiesta una prima archiviazione, ma il giudice Otello Lupacchini la respinge, chiedendo di avviare un’indagine a 360° gradi per punire gli eventuali responsabili. Nel 2002, però, arriva l’archiviazione definitiva. La famiglia prova allora la strada del diritto civile, ma anche questa via non porta a nulla. Nel frattempo tra i colleghi di Antonio sono spuntati altri tumori che li hanno portati alla morte. Nel 2015, quindi, i Morrone presentano una nuova istanza alla Corte, con decine di documenti allegati, per chiedere di riaprire il caso. Sono ancora in attesa di una risposta. «Io sono molto arrabbiato per il fatto che non si è raggiunta la verità– ci spiega Walter- Oggi riconoscere la causa di servizio per mio padre significa riconoscerla anche per i colleghi che non ce l’hanno fatta. Io vado avanti, perché un figlio deve lottare per il proprio padre».
· Il Caso Pipitone.
Emiliana Costa per leggo.it il 31 marzo 2021. Denise Pipitone, le prime parole di Olesya Rostova a Pomeriggio 5: «Mammina mia non ti ho mai dimenticato, ti ho sempre cercato». Oggi, nel programma condotto da Barbara D'Urso si è parlato del caso di Denise Pipitone, la bimba di quattro anni scomparsa 17 anni fa a Mazara del Vallo. Nelle ultime ore, si rincorre la segnalazione lanciata dal programma Chi l'ha visto? di una ragazza ventenne russa che sarebbe stata rapita da piccola ed è alla ricerca della sua mamma. Olesya Rostova - questo il nome della giovane - assomiglia molto alla mamma di Denise, Piera Maggio. La ragazza ha raccontato la sua storia in un programma russo. Barbara D'Urso ha mostrato alcuni stralci dell'intervista. Ecco le parole di Olesya Rostova: «Già quando avevo cinque anni avevo capito che ero sola. I nomadi mi dicevano che la mia mamma mi aveva portato in Ucraina con sé. Probabilmente ho 20 anni. Forse mi hanno battezzato nella chiesa dell'ospedale quando ero piccola». Poi l'appello in lacrime alla mamma naturale: «Mammina mia non ti ho mai dimenticato, ti ho sempre cercato. Sono viva, voglio sapere. Non so cos'altro dire ora». La ragazza russa, dunque, ha raccontato di esser stata rapita quando era una bambina e di non sapere chi sia sua madre. «Attendiamo i risultati di un test del Dna e siamo speranzosi», ha dichiarato il legale Giacomo Frazzitta a nome di Piera Maggio. Negli anni, infatti, sono stati molti i presunti avvistamenti e segnalazioni.
Denise Pipitone, si riaccende la speranza: "Prelevato Dna". Olesya Rostov potrebbe essere Denise Pipitone. Un campione del Dna della ragazza sarebbe stato già prelevato e presto sarà confrontato con quello di Piera Maggio. Rosa Scognamiglio - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. È stato già prelevato un campione di Dna a Olesya Rostov, la ragazza che potrebbe essere Denise Pipitone. A riferirlo sarebbe stata la redazione del programma russo пусть говорят (in italiano "Lasciali parlare") attraverso cui la giovane ha lanciato un appello, qualche giorno fa, nel tentativo di ritrovare sua madre. La notizia è stata rilanciata dalla trasmissione Chi l'ha Visto? che, nella puntata di mercoledì 31 marzo, si è occupata del caso della bimba scomparsa da Mazzaro Del Vallo l'1 settembre del 2004.
"Restiamo coi piedi per terra". Non se la sente di sbilanciarsi Piera Maggio, la mamma di Denise, sebbene non abbia mai abbandonato la speranza di riabbacciare sua figlia. In questi diciassette lunghi anni di ricerche, troppe volte ha dovuto incassare il colpo dell'ennessima segnalazione andata a vuoto. Pondera i toni e calibra l'entusiasmo nell'attesa che il Dna metta fine allo strazio di un'attesa tormentata e senza conforto. "Vogliamo rimanere con i piedi ben piantati a terra, cautamente speranzosi ma senza illuderci più di tanto anche perchè le segnalazioni passate ci hanno mostrato che l'illusione non porta a nulla", dice Piera Maggio in un messaggio audio inviato al programma condotto da Federica Sciarelli. "In questi casi - prosegue - ovviamente l'unica cosa da fare è chiedere che venga fatto il Dna ed è quello che noi chiederemo, l'unica soluzione per fugare ogni dubbio".
"Prelevato il Dna di Olesya". Soltanto la prova genetica potrà chiarire se Olesya Rostov è Denise Pipitone. Stando a quanto avrebbero riferito dalla redazione del programma russo пусть говорят, un campione del Dna della ragazza sarebbe stato già prelevato per gli accertamenti del caso e presto potrà essere messo a confronto con quello di Piera Maggio e Piero Pulizzi, padre naturale di Denise. Non sono in partenza per la Russia Piera Maggio e Giacomo Frazzitta: "Inutile la nostra presenza a Mosca - spiega l'avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio -loro dovrebbero inviare, anche privatamente, il Dna a Roma e la nostra genetista di fiducia Marina Baldi sarà sicuramente in grado di capire se c'è riscontro. Abbiamo a disposizione anche il Dna di Piero (Pulizzi, padre naturale di Denise) - ha aggiunto l'avvocato -in questo modo potremo avere un quadro completo: questa storia va chiarita con il Dna, non con le sensazioni".
Cosa sappiamo di Olesya Rostov. Tutto quello che sappiamo di Olesya Rostov, lo si apprende dal suo racconto all'emittente russa Primo Canale. Nel 2005, all'età di 5 anni (compatibile con quelli di Denise al tempo della scomparsa) è stata rapita da una rom e portata in un campo nomade in Russia. Dopo aver trascorso un periodo nella baraccopoli, è stata sottratta alla madre, o presunta tale, e trasferita in un orfanatrofio. Nel corso di un'attività di controllo, riferisce la ragazza, la polizia avrebbe accertato l'assenza di un qualsivoglia legame di parantela tra la bimba e la donna rom. Dunque, sprovvista di documenti - motivo per cui non è possibile stabilire con certezza il giorno di nascita - è stata trasferita in un istituto. Qui le avrebbero tagliato i capelli (rendendola irriconoscibile) e dato il nome di Rostov Olesya.
Quella cicatrice di Denise. La somiglianza con Piera Maggio c'è ed è innegabile, fosse anche solo una suggestione. Ma ci sono altri dettagli che non passano inosservati e meritano un ulteriore approfondimento. Anzitutto, la cicatrice che la piccola bambina di Mazzara del Vallo, al tempo, mostrava sotto l'occhio destro. Olesya ne avrebbe una, invece, al di sopra del sopracciglio sinistro. Poi, il colore dei capelli che, a ben guardare, non accomunerebbe le due ragazzine. Da ultimo, pare che la giovane non abbia memoria della lingua italiana. Tuttavia, anche questa circostanza, sarà chiarita nei prossimi giorni. La verità potrebbe essere ad un passo.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 9 aprile 2021. «L' attesa per la grande notizia alimentata da una sorta di gran circo televisivo russo s' è sciolta come neve al sole. No, Denise, la bimba sparita nel 2004 a Mazara del Vallo, non è Olesya, la ventenne rapita da piccola e in cerca dei genitori. I gruppi sanguigni non combaciano». Inizia così il racconto di Felice Cavallaro sull' epilogo della triste vicenda messa in scena dalla trasmissione russa Pust' govoryat ( Lasciali parlare ) sul Primo Canale, che da giorni si stava occupando del caso. Olesya non è Denise, come da tempo si paventava. Ovviamente anche Chi l' ha visto? si è occupata del caso, essendo uno degli argomenti più trattati dalla trasmissione nel corso degli anni (Rai3). In queste situazioni, di fronte al cinismo, al macabro gioco delle aperture delle buste da parte dei russi, ci sono due strade. A inizio trasmissione, Federica Sciarelli in pochi minuti liquida la storia, dando conto di quello che è successo e magari stigmatizzando il comportamento della tv russa: non ci si comporta così di fronte a un dramma umano. Sciarelli sceglie l'altra strada. Per più di un' ora ha ricostruito la vicenda, con dovizia di particolari. Una troupe era nello studio di Giacomo Frazzitta, l' avvocato di Piera Maggio che ha condotto le trattative, e da Mosca era collegato il corrispondente Marc Innaro che ha parlato di «una situazione indegna del dolore della mamma, dei genitori di Denise, ma anche del dolore di questa ragazza. Stritolata da un meccanismo infernale». Ecco la domanda di fondo. Scegliere di raccontare nei dettagli questo reality non significa partecipare al circo mediatico? La logica del mostrare le immagini per deprecarle non è anche un mezzo per mostrare quelle immagini? Alla fine, c' è stato persino un video del conduttore di Pust' govoryat che, in perfetto italiano, ha chiesto scusa. Per l' audience, i russi sono pronti a tutto.
Chi l'ha Visto? e Denise Pipitone, Ricky Tognazzi massacra Federica Sciarelli: accusa e sospetto terrificanti. Libero Quotidiano il 31 marzo 2021. In attesa della puntata del 31 marzo, non si fa altro che parlare di Denise Pipitone e la possibile svolta annunciata da Chi l'ha Visto?. Federica Sciarelli nelle anticipazioni ha fatto tornare la speranza a tutta Italia, parlando di una segnalazione giunta nello studio di Rai 3 e riguardante una ragazza russa che cerca sua madre. "Sarebbe troppo bello per essere vero - ha spiegato nel promo della trasmissione la conduttrice -, ma ve lo vogliamo raccontare lo stesso. Una nostra telespettatrice ci ha fatto sapere che a Mosca una giovane donna è andata in tv per dire di essere stata rapita quando era bambina. Somiglia tantissimo a Piera Maggio, lei non sa chi sia sua mamma. È stata trovata in un campo nel 2005 e oggi avrebbe l’età che dovrebbe avere Denise Pipitone". Insomma, bisogna rimanere con i piedi per terra, ma l'appello di Olesya Rostova, ragazza che ha la stessa età di Denise, non è passato inosservato neppure agli occhi di Piera Maggio. La mamma di Denise è infatti pronta a partire per la Russia, una volta "ricevuti i risultati del Dna". Fino ad ora di avvistamenti ce n'erano stati eccome, ma tutti senza un risvolto positivo. Questa volta invece sembra diverso. Le foto della giovane russa hanno scatenato i telespettatori che hanno notato una certa somiglianza tra Olesya e Piera Maggio. Più difficile notarla però negli scatti della ragazza russa da bambina: "Sto guardando la puntata di questo programma russo e non sto capendo nulla, ma comunque ritiro quello che ho detto, non è denise pipitone e penso che sia chiaro dalla seconda foto. basta con questi falsi allarmi che fanno star male solo la sua famiglia.. e io che ci speravo", scrive un utente. E ancora un altro: "Roba che se Chi l’ha visto sta cavalcando ‘sta storia di Denise Pipitone solo per fare boom di ascolti io giuro farei chiudere la trasmissione". Dello stesso parere Ricky Tognazzi che su Twitter ha lanciato una vera e propria frecciatina alla conduttrice: "Cosa non si farebbe per un punto di share in più? Mah".
"Cosa non si fa per lo share...". E ora scoppia il caso Sciarelli. Nell'ultima puntata di Chi l'ha visto si è tornati a parlare della ragazza russa rapita quando aveva 5 anni e che potrebbe essere Denise Pipitone. L'attore su Twitter ha polemizzato sulla scelta del programma di puntare tutto sul caso solo per gli ascolti. Novella Toloni - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. Un tweet (poi cancellato) e la polemica è servita. "Cosa non si farebbe per un punto di share in più". Così Ricky Tognazzi ha criticato su Twitter l'ultima puntata di Chi l'ha visto incentrata sulla scomparsa di Denise Pipitone. Un caso tornato alla ribalta della cronaca dopo l'appello di una ragazza russa rapita quando aveva solo cinque anni, che oggi vuole riabbracciare i suoi genitori. Ricky Tognazzi e Federica Sciarelli si sono contesi la prima serata di mercoledì 31 marzo. Il primo con la sua serie televisiva "Svegliati amore mio" con protagonista Sabrina Ferilli. La seconda con la puntata di Chi l'ha visto dedicata alla ragazza russa che potrebbe essere Denise Pipitone. Uno "scontro" a colpi di auditel che si è consumato anche su Twitter con alcuni cinguettii del regista e attore a punzecchiare la Sciarelli (uno dei quali rimosso dopo le polemiche). I promo pubblicitari e i video di anteprima di Chi l'ha visto avevano creato un'attesa spasmodica attorno alla nuova puntata del format di Rai Tre sulle persone scomparse. E già nel primo pomeriggio del 31 marzo gli utenti del web aveva invitato alla calma: "Basta con questi falsi allarmi che fanno star male solo la sua famiglia...", "Roba che se Chi l'ha visto sta cavalcando 'sta storia di Denise Pipitone solo per fare boom di ascolti". Linea condivisa anche dal regista milanese, che è letteralmente sbottato sotto al tweet di un utente del popolare social, che invitava il pubblico a non seguire la prima serata di Chi l'ha visto: "Non è Denise Pipitone, potete evitare di guardare #chilhavisto. Imbarazzante fare addirittura il promo ad hoc". Parole riprese e commentate da decine di altri utenti e dallo stesso Ricky Tognazzi, che sotto al tweet ha replicato: "Cosa non si farebbe per un punto di share in più". Dopo poche ore, però, l'attore e registra ha deciso di cancellare il tweet per smorzare le polemiche. Ma in tarda serata ha scelto di pubblicare un nuovo cinguettio, decisamente più morbido, ma pur sempre polemico: "Caso Denise Pipitone: Chi l'ha visto accusata di creare hype per lo share, ecco perché". Citando un articolo nel quale Chi l'ha visto veniva criticato per aver creato false aspettative sul caso della ragazza russa.
Denise Pipitone, "un affare di famiglia": il sospetto del magnate Behgjet Pacolli. Libero Quotidiano il 07 aprile 2021. Continua a far discutere il caso di Denise Pipitone, la bambina di Mazara del Vallo scomparsa nel 2004. Le dichiarazioni di una ragazza russa, Olesya Rostova, andata in tv per denunciare di essere stata rapita da piccola, hanno trasformato l’intera vicenda in un circo mediatico. Con i risultati del test del Dna addirittura comunicati in diretta televisiva. Intanto, la rivista settimanale Oggi ha ricordato un importante intervento nella vicenda del magnate albanese Behgjet Pacolli, ex marito di Anna Oxa ed ex presidente del Kosovo. Ben quindici anni fa, quindi due anni dopo la scomparsa della piccola Denise, Pacolli disse in un’intervista a Oggi: “Denise non è mai transitata in un Paese balcanico. Sono in grado di assicurarlo dopo mesi di viaggi, contatti, rapporti con i capi dei nomadi dell’Europa balcanica, emissari che hanno scandagliato quel mondo, dal Montenegro alla Macedonia, dalla Bosnia all’Ucraina alla Bulgaria fino alle Repubbliche asiatiche dell’ex Urss. E neanche in Russia. Ho avuto garanzie precise, grazie ai miei agganci con il mondo slavo e con quello dell’Asia interna”. Poi lanciò un pesante sospetto: “Bisogna cercarla altrove. Bisogna capire le cause del rapimento. Solo così si scoprirà la verità. La scomparsa di Denise è un affare di famiglia. La verità cercatela in Sicilia”. Nelle ultime ore, stando a Fanpage, l’avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta, avrebbe confermato che in realtà Olesya non è Denise. I risultati del test sarebbero stati comunicati ieri 6 aprile durante la registrazione del programma russo che si sta occupando della storia, Let Them Talk (Lasciali Parlare). Poco fa, però, lo stesso legale ha smentito all’Ansa queste sue presunte dichiarazioni: “Mi sono limitato a trasmettere alla Procura di Marsala l'esito della documentazione scientifica che mi è stata inviata ieri e non ho fatto alcun anticipazione circa l'esito degli esami sulla ragazza, che sarà reso noto nel corso della trasmissione di stasera sulla tv russa".
Chi è Behgjet Pacolli, l’ex ministro degli esteri del Kosovo entrato nel caso di Denise Pipitone. Vito Califano su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Denise Pipitone e il suo caso, la sua scomparsa nel nulla, nel 2004 a Mazara del Vallo, è tornato d’attualità dopo la puntata di Chi l’ha visto del 31 marzo 2021. E con la sua storia riemerge anche il nome di Behgjet Pacolli, esperto di rapimenti internazionali, citato durante la trasmissione. Chi l’ha visto ha infatti portato all’attenzione l’appello di una ragazza russa di 21 anni, l’età che avrebbe oggi Denise, Olesya Rostova, che ha lanciato un appello per ritrovare la sua madre biologica in un programma sul primo canale russo. L’esame del Dna potrà chiarire se la ragazza è davvero la bambina sparita nel nulla in Sicilia quasi 17 anni fa.
Piera Maggio, la madre di Denise Pipitone, ha espresso una cauta speranza. L’avvocato Giacomo Frazzitta potrebbe recarsi molto presto in Russia. Che cosa c’entra tuttavia questo personaggio misterioso ed enigmatico, Behgjet Pacolli, con il caso di Denise Pipitone? Pacolli è un imprenditore e politico kosovaro con cittadinanza svizzera. Classe 1951, è stato anche ministro degli Esteri del Kosovo dal 2017 al 2020. Ha fondato una società di costruzioni, la Mabetex Project Engineering, nel 1990, diventata Mabetex Group. Il gruppo di affari ha esteso il suo interesse al settore delle assicurazioni, dei media e ancora ad altri campi. Pacolli è presidente e amministratore delegato, è considerato l’uomo di origini albanesi più ricco al mondo. L’imprenditore è noto in Italia anche per aver sposato nel 1999 la cantante Anna Oxa. I due hanno divorziato nel 2002. Ha definito quello con la cantante, che ha vinto due volte il Festival della Canzone di Sanremo, un rapporto “totalizzante”, in un’intervista alla rivista Oggi. Il matrimonio venne definito dai giornali “in stile Kusturica”, una vistosa cerimonia, presso Villa Magni Rizzoli a Canzo. Pacolli ha tre figli e tre figlie. Ha realizzato progetti e investimenti in Russia, Italia, Kazakistan, Uzbekistan, Mongolia. Oltre a essere stato titolare degli Esteri del Kosovo è stato Presidente della Repubblica del Kosovo e Primo vice Premier. Ha fondato il partito politico Alleanza per un Nuovo Kosovo. Si ricorda in particolare, nella sua attività politica, l’impegno per la liberazione di diversi operatori delle Nazioni Unite a Kabul, in Afghanistan. Ha fondato a Lugano la Fondazione per l’Organizzazione e la Ricostruzione del Kosovo e ha costruito e ammodernato l’Università Americana di Pristina. È stato insignito del titolo di Cavaliere della Pace. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti in tutto il mondo. Pacolli anni fa si interessò anche della scomparsa di Denise Pipitone, avendola definita un “sequestro internazionale”, situazione simile a quelle delle quali lui stesso si era occupato in diverse occasioni. Aveva espresso l’intenzione di pubblicare un annuncio sui maggiori quotidiani italiani. “Dateci un segno che Denise sia viva”, con numeri di telefono e indirizzi svizzeri per intavolare la trattativa. Un appello che però non fu mai pubblicato. Il 3 dicembre 2004 un messaggio anonimo sul telefono di Piera Maggio, inviato da una cabina telefonica, annunciava il trasferimento di Denise dalla Svizzera alla Francia. “Abbiamo pensato che ci fosse stata la mediazione di Pacolli”, il commento dell’avvocato Frazzitta a Chi l’ha visto?. Il magnate però sparì nel nulla, proprio in quel momento, per diversi mesi. Irreperibile. Nessuna traccia neanche di Denise. Quando si rifece vivo il magnate escluse qualsiasi tipo di rapimento della bambina da parte di un gruppo di nomadi nei Balcani . “Avevamo pensato che quest’uomo avesse trovato effettivamente Denise viva, ma perché lo ha fatto me lo chiedo ancora oggi”, l’amaro commento dell’avvocato. Il suo ruolo e le incomprensioni che scaturirono, resero tutta la situazione ancora più enigmatica. La pista del rapimento era emersa dopo che una guardia giurata aveva visto a Milano una bambina con il volto coperto nell’ottobre del 2004. Piera Maggio, in un’intervista del 2005, disse quindi che “la pista dei rom è parsa la più convincente soprattutto quando, il 18 ottobre 2004, gli inquirenti mi mostrarono il video girato a Milano. Quella era proprio Denise. Ne sono certa. Ma quel gruppo di zingari non si è mai fatto vivo. Cosi, il 3 novembre, quando il legale del signor Pacolli ha telefonato al mio avvocato dicendo di voler collaborare nelle ricerche perché conosce bene l’ambiente dei rom, io sono rimasta molto contenta e colpita. Attendevo una soluzione. Posso solo dire che il risultato non c’è stato”.
Diciassette anni dopo la scomparsa si riaccende la speranza. Denise Pipitone, la ragazza russa farà il test del Dna. La mamma: “Restiamo cauti”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Aprile 2021. La speranza si riaccende sul caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa 17 anni fa da Mazara del Vallo. In tanti hanno seguito la puntata di Chi l’ha visto? Il programma di Federica Sciarelli che è tornata a occuparsi del caso dopo la segnalazione di una ragazza russa della stessa età di Denise che cerca sua mamma. La ragazza è Olesya Rostova e dalla tv russa ha lanciato l’appello in cerca di sua mamma. Dalla puntata è emerso che la ragazza è stata sottoposta al test del Dna. Solo i risultati potranno chiarire se si tratta di Denise. Intanto Piera Maggio, la mamma di Denise, ha fatto sapere di non essere in partenza per Mosca come si era detto in precedenza. In un audio trasmesso dal programma, Piera ha detto che “vogliamo rimanere con i piedi per terra, cautamente speranzosi ma senza illuderci più di tanto. Le segnalazioni passate ci hanno insegnato che le illusioni non portano a nulla: chiederemo l’esame del Dna, l’unica soluzione per fugare ogni dubbio. Vogliamo ringraziare chi ci sta vicino, ci fa capire quanta gente amano Denise e non l’hanno mai dimenticata”. “La somiglianza è impressionante”, ha detto l’avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta. “Nel 2005 c’era la pista cosiddetta ‘zingara’. Ricorderete quella bambina ripresa da una guardia giurata a Milano: la somiglianza era notevole”. Ma anni di segnalazioni finite in un nulla di fatto hanno scottato la famiglia che adesso resta cauta. “È una storia che va verificata, va verificato il Dna. In questi anni ne abbiamo viste tante di segnalazioni: ma questa volta vale la pena approfondire. Ho vissuto questi anni con grande rabbia – aggiunge il legale – La speranza è che sia un colpo di fortuna”. La segnalazione a Chi l’ha visto è partita da un’infermiera russa che vive in Italia, in Val Seriana da 20 anni. Conosce la storia di Denise e guardando la Tv russa aveva notato l’appello della ragazza e la somiglianza con Piera Maggio. “Mi è venuto un batticuore quando ho visto questa giovane e ho notato la somiglianza con la mamma di Denise. Mi sono venuti i brividi”, ha raccontato. La ragazza russa ha raccontato che era stata tolta a una nomade e affidata a un orfanotrofio. Ora si aspetta l’esame del Dna per capire se quella ragazza possa essere davvero Denise.
"Potrebbe essere Denise", dalla Russia una nuova pista sul caso Pipitone. Chi l'ha visto apre una nuova pista sul caso di Denise Pipitone con una segnalazione giunta al programma direttamente da Mosca: "Somiglia a Piera Maggio". Francesca Galici - Mar, 30/03/2021 - su Inside Over il 30 marzo 2021. Sono passati quasi 20 anni da quando Denise Pipitone scomparve nel nulla a Mazara del Vallo. Era la mattina del 1 settembre del 2004, la bambina si trovava in strada a giocare con i cuginetti in attesa del pranzo. È la zia a vederla per l'ultima volta, pochi minuti prima delle 12. Da quel momento nessuno ha più sue notizie, nei giorni successivi furono dispiegate migliaia di forze per ritrovarla ma di lei non c'è mai più stata traccia. Col tempo è sceso il silenzio mediatico sulla scomparsa di Denise Pipitone ma sua madre non ha mai smesso di cercarla e di sperare di poterla riabbracciare. A darle man forte in questa strenua ricerca c'è il programma Chi l'ha visto, che periodicamente ripropone la sua storia. Proprio la storica trasmissione di Rai3 tornerà su questo caso nella puntata di domani, con quella che potrebbe essere una traccia, tutta da verificare, che ora potrebbe riaccendere le speranze. Le ultime notizie su Denise Pipitone arrivano dalla Russia. A Chi l'ha visto è arrivata la segnalazione di una telespettatrice, che avrebbe seguito da Mosca la storia di una ragazza che è andata in tv per cercare i suoi genitori naturali. "Sarebbe troppo bello per essere vero, ma ve lo vogliamo raccontare lo stesso", esordisce la speaker del promo del programma di Rai3 nel presentare la storia che proviene dalla Russia. "Una nostra telespettatrice ci dice che a Mosca c'è una giovane donna che è stata rapita quando era una bimba e che somiglia tantissimo a Piera Maggio", prosegue la voce fuori campo del promo. Piera Maggio è la mamma di Denise Pipitone e nei successivi frame le immagini delle due donne vengono messe in split per avvalorare quanto raccontato dalla telespettatrice che ha effettuato la segnalazione. "La bambina viene trovata in un parco nel 2005 e oggi ha la stessa età che avrebbe Denise Pipitone. Non sa chi sia la sua mamma ed è per questo che è andata in tv a far vedere il suo volto", conclude la speaker. In questi ultimi anni le ricerche, seppure a ranghi ridotti, non sono mai state interrotte. In più occasioni le forze dell'ordine hanno diffuso le immagini ricostruite al pc che mostrano come potrebbe essere diventata la bambina, che oggi avrebbe 20 anni. Tante volte in passato erano state fatte ipotesi sulle presunte rotte dei traffici di minori con l'est Europa, sempre tramontate per mancanza di elementi concreti.
Sebastiano Cascone per tvblog.it il 30 marzo 2021. Sui social ufficiali di "Chi l’ha visto?", è apparso il promo della puntata, in onda, domani mercoledì 31 marzo 2021, in prima serata, su Rai3. La conduttrice, Federica Sciarelli, annuncia, nella clip, quella che potrebbe essere, a tutti gli effetti, una svolta ad uno dei casi che ha maggiormente appassionato i telespettatori italiani, ovvero quello della scomparsa della piccola Denise Pipitone: Sarebbe troppo bello per essere vero, ma ve lo vogliamo raccontare lo stesso. Una nostra telespettatrice ci dice che a Mosca c’è una giovane donna che è stata rapita quando era una bimba e che somiglia tantissimo a Piera Maggio. La bambina è stata trovata in un campo nel 2005 ed oggi ha la stessa età che avrebbe Denise Pipitone. Non sa chi sia la sua mamma ed è per questo che è andata in tv a far vedere il suo volto. La bambina è scomparsa a 4 anni, l’1 settembre 2004, vicino la propria abitazione, a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani. La mamma Piera Maggio, in questi anni, non si è mai arresa, desiderosa di riabbracciare, prima o poi, la figlioletta. Si è spesa tantissimo, in tv e sui social network, per avere notizie di quella che, oggi, ha le sembianze di una donna di 21 anni. In oltre quindici anni di ricerche, non sono mancate le segnalazioni che, però, non hanno portato al ritrovamento della giovane. Sarà la volta buona?!
Il caso della piccola scomparsa in Sicilia nel 2004. Denise Pipitone è Olesya? Dubbi e somiglianza tra la giovane russa e Piera Maggio. Elisabetta Panico su Il Riformista il 31 Marzo 2021. “Siamo speranzosi ma sempre cauti perché abbiamo avuto tante delusioni. Vogliamo fare l’esame del Dna e pare che ci sia anche la disponibilità della ragazza, che ha una storia molto particolare da quello che abbiamo appreso. Vedremo. E’ una notizia su cui lavoriamo da 5-6 giorni. Domani ne sapremo di più perché è una cosa di ‘Chi l’ha visto?‘”. Sono le parole dell’avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, la mamma di Denise Pipitone, il cui caso potrebbe riaprirsi a oltre 16 anni dalla sua scomparsa avvenuta, all’età di 4 anni, il primo settembre del 2004 a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani. Sul caso della sua scomparsa è tornata la trasmissione ‘Chi l’ha visto?’ mostrando l’appello fatto a una tv russa da una ragazza che ha raccontato di essere stata rapita quando era una bimba e che somiglia alla mamma di Denise che in questi anni non ha mai smesso di cercarla e di fare appelli pubblici. Nel corso di questi 16 anni le segnalazioni su avvistamenti della bambina scomparsa davanti casa a Mazara del Vallo sono state tantissime, ma tutte senza esito positivo. Una vicenda simile a quella di Angela Celentano, la bimba di 3 anni svanita nel nulla nell’agosto 1996 sul Monte Faito, in provincia di Napoli, e ricercata fino a poco tempo va anche in Messico prima che la procura di Torre Annunziata decidesse di archiviare definitivamente le indagini a inizio 2020. La stessa Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l’ha visto?, frena ma mostra entusiasmo: “Sarebbe troppo bello, un regalo enorme”. Poi all’Ansa spiega: “Vi racconto com’è andata. La segnalazione è nata quasi per caso, da una nostra telespettatrice che ha riferito che a Mosca c’è una giovane donna che ha la stessa età di Denise e che somiglia moltissimo a Piera Maggio, la mamma della piccola scomparsa 17 anni fa. Forse è una suggestione dovuta alla somiglianza, ma la giovane donna ha la stessa età che avrebbe oggi Denise”.
La storia della ragazza russa Olesya Rostov. La ragazza russa si chiama Olesya Rostov e ha inviato una lettera alla redazione della trasmissione russa per provare a ritrovare la sua famiglia. La giovane in tenera età è stata rapita da una zingara e portata in un campo rom nel 2005 quando aveva presumibilmente 5 anni (età compatibile con quella di Denise). Dopo aver trascorso un periodo nel campo nomadi, durante il quale chiedeva l’elemosina per portare soldi alla comunità e pensava che sua madre fosse una donna del campo, poi successivamente arrestata, la piccola che non aveva documenti (e quindi tutt’oggi non conosce la data di nascita precisa) venne poi trasferita in un orfanotrofio. Qui le hanno tagliato tutti i capelli e le hanno dato il nome di Rostov Olesya. Nel corso della trasmissione, la giovane lancia l’appello: “Cara mamma non ti ho mai dimenticato, ti sto cercando e ho la possibilità di trovarti. Eccomi qui, sono viva, voglio conoscerti e trovarti.
I dubbi su Olesya. La storia di Olesya è stata segnalata alla redazione di Chi l’ha visto? che continua a mantenere un profilo basso pur annunciando di fatto importanti novità sulla scomparsa di Denise. Ma se la somiglianza, a tratti, potrebbe trovare qualche riscontro, quel che non torna è che Olesya nel corso della trasmissione russa non ha mai detto di conoscere o almeno ricordare qualcosa della lingua italiana, giusto per dare un ulteriore indizio a chi vuole aiutarla. Quando Denise sparì da Mazara del Vallo aveva 4 anni e parlava, conosceva le parole italiane, il dialetto siciliano. Possibile che in 17 anni abbia dimenticato tutto?
La scomparsa di Denise Pipitone. Il caso della scomparsa di Denise tenne banco per settimane in Italia. La piccola scomparve mentre giocava con alcuni bambini davanti l’abitazione della nonna, un rapimento di cui non vi sono mai state tracce o prove documentali. Le prime indagini sulla vicenda si focalizzarono in particolare sulla famiglia di Denise: la bambina era nata dalla relazione extraconiugale della madre Piera Maggio, all’epoca sposata con Toni Pipitone, con Piero Pulizzi, conducente di autobus, a sua volta marito di Anna Corona e padre di Jessica. Denise, secondo gli inquirenti, sarebbe quindi stata rapita dalla ‘sorellastra’ Jessica Pulizzi, anche lei minorenne, con la complicità della madre Anna Corona e dell’ex fidanzato Gaspare Ghaleb per motivi riconducibili a “vendetta e gelosia perché Denise e Jessica Pulizzi sono figlie dello stesso padre, Piero Pulizzi”. Ne nasce un processo in cui sono imputati Jessica Pulizzi, con l’imputazione di sequestro di minore, e Gaspare Ghaleb, per il reato di false informazioni al pubblico ministero. In tutti i gradi di giudizio scatterà l’assoluzione: in primo grado al Tribunale di Marsala il 27 giugno 2013, in Corte d’Appello a Palermo il 2 ottobre 2015 e in Cassazione nell’aprile 2017.
Chi è Olesya Rostova, la ragazza che somiglia a Piera Maggio? Riccardo Castrichini su Notizie.it il 31/03/2021. Olesya Rostova, chi è la ragazza che somiglia a Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, e dice di essere stata rapita. Il caso di Denise Pipitone, la bambina di quattro anni scomparsa nel 2004 da Mazara del Vallo, si è riaperto dopo che dalla televisione russa è arrivata l’immagine di una ragazza di 20 anni, Olesya Rostova, che sembrerebbe somigliare molto alla mamma della di Denise, Piera Maggio, colei che in questi anni non ha mai smesso di cercare la propria figlia. Stando a quanto riportato da Il Riformista, Olesya Rostova è una ragazza di 20 anni che si è presentata nel programma tv russo Lasciali parlare per cercare la propria famiglia. La giovane, che per età e per caratteristiche fisiche potrebbe sembrare Denise, ha raccontato di essere stata rapita da piccola e in seguito portata in un campo rom nel 2005, motivo questo che contribuirebbe ancora di più a sostenere la tesi seconda la quale Olesya Rostova e la bambina di Mazzaro del Vallo del 2004 possano essere la stessa persona. Olesya ha raccontato di aver ricevuto questo nome in orfanotrofio dove era stata condotta dopo essere stato arrestata da giovanissima. Viveva infatti in un campo nomadi e racimolava spiccioli per la comunità chiedendo le elemosina in strada. Nel corso della trasmissione, Olesya ha ammesso di ricordare perfettamente il volto della madre: “Non ti ho mai dimenticato, ti sto cercando e ho la possibilità di trovarti. Eccomi qui, sono viva, voglio conoscerti e trovarti“. In mezzo a tanti elementi che sembrerebbero far credere che si tratti della piccola Denise, ve ne sono alcuni che sembrano portare lontano rispetto alla traccia della speranza. Anzitutto Olesya Rostova ha una somiglianza con Piera Maggio, ma non con alcuni caratteri fisionomici di Denise e poi la ragazza russa ha ammesso di non sapere l’italiano e di non avere ricordi in questa lingua. La signora Maggio ha invece sottolineato che la figlia, malgrado i 4 anni, parlasse molto fluentemente l’italiano e il dialetto siciliano.
Riccardo Castrichini. Nato a Latina nel 1991, è laureato in Economia e Marketing. Dopo un Master al Sole24Ore ha collaborato con TGcom24, IlGiornaleOff e Radio Rock.
Denise Pipitone, "ecco chi è davvero Olesya Rostova e che lavoro fa". Testimonianza raccapricciante, una orrenda menzogna? Libero Quotidiano il 07 aprile 2021. Non c'è pace per Piera Maggio. Dopo la scomparsa diciassette anni fa della figlia, anche le delusioni sul possibile ritrovamento. Neppure Olesya Rostova è Denise Pipitone. L'esito del test del Dna ha confermato che la giovane russa rapita da piccola e in cerca dei genitori non sarebbe la stessa bambina sparita da Mazara del Vallo. Ma c'è di più, perché per un influencer Olesya avrebbe mentito fin dall'inizio. "Olesya è un'attrice del mio reality su YouTube, lei mente. Non si gioca con i sentimenti delle persone", si legge nella didascalia del video pubblicato da roma_bler. "Ho un sacco di video in cui mi dice che è pronta a tutto per la popolarità, non lasciatevi ingannare", continua. Lo youtuber minaccia di andare in tv e mostrare tutte le prove in suo possesso a sostegno della sua tesi. Su quale sia la verità non è dato sapersi. Certo però è che il caso sta diventando alquanto mediatico. La trasmissione russa Lasciali parlare, che per prima ha dato spazio a Olesya, ha chiesto a Piera Maggio e il suo avvocato di attendere la diretta per gli esiti del test, salvo poi fare una parziale retromarcia. Un fatto che ha a dir poco scatenato il web: "Piera Maggio non si merita tutto questo". E ancora c'è chi accusa: il programma di "speculare sul dolore di una famiglia", di aver "messo in scena una truffa", "una montatura" e "una buffonata", e di "spettacolarizzazione che supera addirittura quello di alcune trasmissioni italiane". La stessa Piera Maggio era rimasta cauta rispetto all'entusiasmo che aveva travolto l'Italia intera. "Siamo speranzosi, ma non vogliamo un circo mediatico", diceva prima dell'ufficialità del Dna che ha escluso che Olesya e Denise possano essere la stessa persona. Anche se il passato della ragazza russa, almeno inizialmente, poteva sembrare simile a quanto si ipotizza essere accaduto alla piccola Denise.
Denise Pipitone, la pista nomade: "Danas", "Dove mi porti?". Un video-choc: a Mosca ci è arrivata così? Libero Quotidiano il 02 aprile 2021. La pista nomade era stata la prima ad essere battuta, dopo la scomparsa di Denise Pipitone. Un mese dopo infatti, a Milano, un uomo, una guardia giurata, aveva filmato una bambina in compagnia di una donna nomade. Sembrava davvero la piccola, anche la mamma Piera Maggio l'aveva riconosciuta con certezza. La donna la chiamava "Danas", la bimba rispondeva in italiano, "dove mi porti?". Ecco, scrive La Repubblica, forse Denise è passata da Milano, e poi, forse ha preso un treno da Venezia che l'ha portata a Mosca. Del resto a guardare le foto di Olesya, di circa 20 anni, alla ricerca della mamma dalla quale è stata strappata quando ne aveva meno di cinque, non si può non notare una somiglianza pazzesca. Sia di fronte si di profilo, coincidono tutti i lineamenti, la forma del naso, il taglio degli occhi, la forma del viso. Olesya Rostova (è il nome che le hanno dato 15 anni fa in un orfanotrofio russo) e Piera Maggio, la mamma di Mazara del Vallo che da 17 anni non ha mai smesso di cercare la sua piccola Denise, scomparsa a 4 anni l'1 settembre 2004 mentre giocava in strada sotto casa, sono davvero identiche. Il confronto delle foto fatto da Chi l'ha visto? e condotto da Federica Sciarelli su Rai tre (oltre 6 milioni di audience la puntata di mercoledì sera 31 marzo) ha sconvolto anche Piera Maggio che in 17 anni ha imparato a proteggersi dalle centinaia di false segnalazioni e avvistamenti. "Voglio rimanere con i piedi per terra - dice - con una cauta speranza, ma senza illudermi più di tanto perché in questi anni ho imparato che illudersi non porta a nulla. Abbiamo chiesto l'esame del Dna, l'unico che può fugare ogni dubbio. E intanto ringrazio quanti ci sono vicini, quanti in questi anni non hanno dimenticato Denise".
Denise Pipitone, "evitate le fughe di notizie". Test del Dna su Olesya, pesante indiscrezione dalla Russia. Libero Quotidiano il 02 aprile 2021. Il caso di Denise Pipitone è tornato in auge dopo alcune segnalazioni provenienti dalla Russia, sulle quali Chi l’ha visto ci ha costruito una puntata andata in onda su Rai3 mercoledì 31 marzo. La bambina scomparsa nel lontano 2004 potrebbe essere proprio la giovane donna che è andata in un programma televisivo russo per raccontare la sua storia: è stata rapita da piccola e sta cercando sua madre, inoltre pare che abbia la stessa età di Denise. Si chiama Olesja Rostova e ha riacceso le speranze di Piera Maggio, che attende di sapere il risultato dei test effettuati sulla ragazza. Se il gruppo sanguigno dovesse coincidere con quello di Denise, allora si potrebbe davvero riaccendere la speranza: lo step successivo sarebbe quello dell’esame del Dna. “Siamo cautamente speranzosi, ma senza illuderci”, ha dichiarato Piera Maggio in un messaggio audio inviato a Federica Sciarelli per Chi l’ha visto. La donna vive da 17 anni il dramma della scomparsa di sua figlia, ma dovrà attendere ancora qualche giorno per sapere se quanto emerso in Russia può davvero riaccendere la sua speranza. Infatti gli autori e conduttori del programma russo hanno impedito ogni fuga di notizie sui test del sangue di Olesya, che pure sono stati effettuati a inizio settimana: i risultati non verranno svelati fino a lunedì prossimo, quando andrà in onda il programma. Al quale era stata invitata anche Piera maggio, che però è convalescente a seguito di un piccolo intervento chirurgico e quindi è impossibilitata a viaggiare fino in Russia.
Denise Pipitone, a Pomeriggio 5 lo scoop su Olesya Rostova: "Il risultato del primo test del Dna". Libero Quotidiano il 02 aprile 2021. Altri aggiornamenti sul caso di Olesya Rostova. La ragazza, in attesa del risultato di Dna per capire se si tratta di Denise Pipitone, può escludere di essere figlia di una famiglia russa. La notizia è stata diffusa da Barbara d'Urso che a Pomeriggio 5 segue il caso portato nuovamente alla luce da Chi l'ha Visto?. La conduttrice di Canale 5, dopo aver fatto il punto della situazione e mostrato l'intervista di Olesya, ha annunciato: "Ieri, abbiamo dato la notizia di una famiglia russa che ha detto che Olesya potrebbe essere la figlia. Perché è stata rapita alla stessa età della loro bambina. Invece, è stata fatta subito la comparazione del Dna e non è così. Quindi la partita rimane aperta". E ancora: "Lunedì pomeriggio il programma russo annuncerà in diretta i risultati della comparazione del gruppo sanguigno di Denise con quello di Olesya. Noi saremo in onda e vi aggiorneremo in diretta". Più cauto il consulente giudiziario Salvatore Musio, anche lui in collegamento con la D'Urso: "Ci sono delle compatibilità nella forma delle labbra - ha ammesso guardando la foto della giovane e di Piera Maggio, mamma di Denise -. Ma sono compatibilità che riguardano solo parti del volto. Manca il padiglione auricolare, che sarebbe stato ricco di particolari". La stessa Federica Sciarelli, nel promo di Chi l'ha Visto? con cui si annunciava una possibile svolta, ha invitato tutti a stare con i piedi per terra: "Sarebbe troppo bello per essere vero - ha spiegato nel promo della trasmissione la conduttrice -, ma ve lo vogliamo raccontare lo stesso. Una nostra telespettatrice ci ha fatto sapere che a Mosca una giovane donna è andata in tv per dire di essere stata rapita quando era bambina. Somiglia tantissimo a Piera Maggio, lei non sa chi sia sua mamma. È stata trovata in un campo nel 2005 e oggi avrebbe l’età che dovrebbe avere Denise Pipitone". Al momento non si sbilancia neppure Piera Maggio che attende gli esiti "speranzosa".
Da leggo.it il 4 aprile 2021. Il caso della piccola Denise Pipitone potrebbe essere a un passo dalla risoluzione. È in corso il test del DNA che potrebbe spiegare se la ragazza russa Olesya Rostova sia realmente la figlia di Piera Maggio che cerca ormai la sua Denise da 17 anni. I risultati del test verranno dati domani in diretta dalla tv russa, ma Piera Maggio si è detta non convinta delle modalità con cui vengono effettuati i test. «Non condividiamo le modalità ma comunque vada noi andremo sempre avanti», ha detto la donna che non ha mai perso la speranza e continua a non perderla. Sulla sua pagina Facebook la madre spiega: «Anche se non condivise le modalità, rimaniamo in attesa dei risultati...Cautamente speranzosi. RINGRAZIAMO di cuore tutti coloro che in questo momento ci sono vicini. Comunque vada noi andremo sempre avanti». Non fa sapere però il tipo di modalità che non vengono condivise. La famiglia Pipitone resta comunque cauta. La piccola Denise è scomparsa da Mazzara del Vallo nel 2005 quando aveva solo 5 anni. Da allora la donna sta cercando la sua bambina, dopo aver ricevuto anche molte delusioni, per questo resta con i piedi per terra e non vuole lasciarsi travolgere dalle emozioni. Intanto il legale di Piera Maggio ha fatto sapere che dopo i risultati del test, nel caso in cui dovessero essere positivi, si passerà a una fase successiva. I risultati non daranno quindi la risposta tanto attesa dalla famiglia, non almeno con questa facilità: «Siamo in attesa di avere il gruppo sanguigno ed è questo lo step preliminare all'eventuale valutazione della sequenza del Dna di Olesya per verificarne la compatibilità con quello di Denise Pipitone». Per motivi di privacy verranno dati prima alla 20enne russa i risultati e poi si procederà per step successivi: «È chiaro che qualora il gruppo sanguigno dovesse essere identico o comunque compatibile con Denise noi proseguiremo altrimenti, come è capitato tante altre volte, ci fermeremo e aspetteremo la prossima segnalazione».
La conduttrice si sfoga. Federica Sciarelli stanca di “Chi l’ha visto?”: “Penso di lasciare, l’Italia è un grande cimitero”. Vito Califano su Il Riformista il 4 Aprile 2021. Federica Sciarelli esce da una settimana in cui si è presa di nuovo il centro della scena con Chi l’ha visto?. La sua trasmissione in onda su Rai3 da quasi 32 anni, ha ripreso il caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004, per via di una ragazza russa che in televisione ha fatto un appello per ritrovare la madre. Domani l’esito del test sanguigno, intanto mercoledì 31 marzo Chi l’ha visto? ha fatto il 15,16% di share, oltre 3 milioni e 500mila telespettatori. Eppure Sciarelli comincia a essere stanca della trasmissione. Un prodotto dai temi sempre forti e quasi sempre dolorosi e tragici. Lo ha raccontato lei stessa in un’intervista al quotidiano Libero. “Sarei tentata di lasciare il programma. Ormai ai miei occhi l’Italia è diventata un grande cimitero: dovunque vada, associo le città ai nostri casi. L’anno scorso sono stata lì lì per mollare tutto ma poi mi è stato chiesto di restare. Così ho fatto e probabilmente così farò a settembre. Inoltre amo questo programma”. Sciarelli conduce dal 2004 Chi l’ha visto?. Anni che evidentemente cominciano a pesare. “A volte purtroppo non sono sparizioni ma morti. Penso ai padri di famiglia che, dopo aver perso il lavoro, si sono suicidati oppure al grande problema dei ragazzi irretiti dalle psico-sette online. Le segnalazioni sono tutt’altro che diminuite: in generale si respira un desiderio diffuso di scomparire. Anziché risolvere i problemi, si fugge”. Sempre più persone spariscono, un tendenza che non è cambiata con il lockdown e l’emergenza covid, ha aggiunto. La conduttrice e giornalista si spiega così il successo della sua trasmissione: “Raccontiamo casi dolorosi, ma l’accento non viene mai posto sulla rabbia bensì sulla solidarietà: il nostro programma è scritto insieme agli spettatori”.
Francesca d’Angelo per Libero Quotidiano il 4 aprile 2021.
Ora lei esordirà dicendomi che gli ascolti non sono importanti..
«Si sbaglia. Se un giornale non vende copie, lo chiudono: la stessa regola vale per la tv. Basti pensare che una volta in prime time c'erano molti più programmi di servizio pubblico, come Mi manda Raitre o Elisir».
Adesso in prima serata è rimasta solo lei, Federica Sciarelli: la panzer di Rai Tre che con il suo Chi l'ha visto? riesce a macinare ascolti dal 10% in su, persino in piena pandemia. Mercoledì scorso è addirittura volata al 15% di share, complice il caso di Denise Pipitone.
«Tra l'altro più abbiamo spettatori e maggiore è la possibilità di ritrovare le persone», precisa la Sciarelli.
Come spiega il largo seguito?
«Raccontiamo casi dolorosi, ma l'accento non viene mai posto sulla rabbia bensì sulla solidarietà: il nostro programma è scritto insieme agli spettatori. Prenda il caso di Pipitone: è tutto merito di una nostra telespettatrice che, guardando noi e il canale russo, si è accorta della somiglianza tra le due donne e ci ha contattato».
Lo so bene: non si parla d'altro.
«È vero, ci hanno ripreso tutti sull'onda di un sogno che, come ho detto in puntata, sembra "troppo bello per essere vero". Io per prima spero in un lieto fine, visto che la mamma di Denise fu ospite nella prima puntata di Chi l'ha visto? condotta da me. Preferisco però andarci cauta. Credo che parte del clamore sia legato al comune desiderio di ascoltare finalmente buone notizie: ne abbiamo bisogno. Pensi che persino la mia sarta mi ha cercata per dirmi: "È lei, sono sicura che è Denise!"».
Com' è possibile che la gente sparisca in pieno lockdown?
«A volte purtroppo non sono sparizioni ma morti. Penso ai padri di famiglia che, dopo aver perso il lavoro, si sono suicidati oppure al grande problema dei ragazzi irretiti dalle psico-sette online. Le segnalazioni sono tutt' altro che diminuite: in generale si respira un desiderio diffuso di scomparire. Anziché risolvere i problemi, si fugge».
Siete andati in onda anche durante Sanremo: per sua scelta?
«Ogni anno mi propongono di fermarmi, anche perché qualche punticino glielo togliamo a Rai Uno (ride, ndr). Puntualmente, però, rifiuto: pazienza se l'ascolto sarà basso, noi dobbiamo esserci per il nostro pubblico. Sempre. Pensi che, da quando ci sono io (2004, ndr), la redazione è aperta anche al sabato e alla domenica: facciamo i turni. D'altronde se qualcuno perde un proprio caro non può mica aspettare il lunedì!».
Ma lei come fa a reggere tutto questo dolore?
«È il motivo per cui sarei tentata di lasciare il programma. Ormai ai miei occhi l'Italia è diventata un grande cimitero: dovunque vada, associo le città ai nostri casi. L'anno scorso sono stata lì lì per mollare tutto ma poi mi è stato chiesto di restare. Così ho fatto e probabilmente così farò a settembre. Inoltre amo questo programma».
Le piacerebbe tornare a occuparsi di politica?
«È da sempre la mia grande passione: la mattina mi sveglio e ascolto la rassegna politica. Ero fedelissima a Stampa e regime di RadioRadicale e i programmi tv che seguo sono tutti di politica. Non saprei però fare un talk... e sicuramente non andrei su RaiTre perché c'è già la mia amica Bianca».
Grazie a Chi l'ha visto? esistono una legge sugli scomparsi e un commissario straordinario: non parlerà di politica ma lei di fatto fa politica...
«Abbiamo lottato e vinto molte battaglie e questo il cittadino ce lo riconosce. La politica si può fare in tanti modi: con le parole e con i fatti».
Denise Pipitone, un indizio pesantissimo. Faccia a faccia in tv tra Olesya e l'avvocato Frazzitta, cosa significa. Libero Quotidiano il 05 aprile 2021. Oggi dalla Russia arriveranno i risultati del test del sangue a cui si è sottoposta Olesya Rostova: se il gruppo sanguigno sarà lo stesso di Denise Pipitone, si procederà al test del Dna per scoprire se davvero la 20enne russa sia la bambina italiana sparita nel 2004 dalla sua casa di Mazara del Vallo, in circostanze mai chiarite. La mamma di Denise, Piera Maggio, pur confermando la sua "cauta speranza", ha sollevato dubbi sulle modalità dei test condotti dalle autorità russe, che comunicheranno l'esito prima a Olesya, poi alla famiglia italiana. Ma c'è un dettaglio che fa pensare a clamorosi, positivi sviluppi. La Rostova avrà un faccia a faccia martedì a Lasciali parlare, la trasmissione del Primo canale della tv russa, proprio con Giacomo Frazzitta, il legale di mamma Piera. Un momento televisivo attesissimo, a Mosca come in Italia, e che perderebbe pathos e valore (non solo televisivo) nel caso il primo test sul sangue desse esito negativo. L'avvocato e la ragazza, infatti, parleranno del passato di Olesya, e la 20enne verrà sottoposta a un piccolo interrogatorio per accertare i punti di contatto tra la sua storia e quella di Denise. Come riporta il Messaggero, verrà ricostruita l'infanzia di Olesya, i momenti antecedenti all’ingresso in orfanotrofio, si cercherà di capire se le persone che l’hanno tenuta segregata fossero dei rom o meno. Anche quest'ultimo rischia di essere un elemento cruciale: il caso di Olesya, a cui Chi l'ha visto? ha dato ampio risalto, ha riportato in auge un vecchio video girato da un agente delle forze dell'ordine a Milano (e rilanciato a sua volta da Federica Sciarelli diversi anni fa), in cui una bimba dall'accento siciliano e dalle sembianze molto simili a quelle della Pipitone chiedeva a una donna rom dove la stesse portando. La donna chiamava la piccola "Danas". La Rostova, a sua volta, ha spiegato di ricordare di aver fatto la mendicante a Mosca prima di essere trovata da alcuni poliziotti e portata in orfanotrofio.
Denise Pipitone, Olesya e la "strana coincidenza": cosa significa il nome dato in orfanotrofio alla bimba russa. Libero Quotidiano il 05 aprile 2021. Quella di Denise Pipitone e Olesya Rostova sembra una storia fatta di speranza e coincidenze. In attesa dei risultati del test del sangue, che chiariranno se il gruppo sanguigno della 20enne russa rapita da bambina sia lo stesso della bimba italiana scomparsa nel nulla a 4 anni, nel 2004, dalla sua casa di Mazara del Vallo in Sicilia, si va alla ricerca di indizi, prove, semplici appigli per confermare quello che Federica Sciarelli, la conduttrice di Chi l'ha visto? che ha rilanciato il caso, ha ammesso essere "troppo bello per essere vero". Se le analisi del sangue daranno esito positivo, allora si procederà al test del Dna. Piera Maggio, mamma di Denise che ha sempre sostenuto la tesi del rapimento della figlia e creduto nella possibilità di ritrovarla viva, si è detta "cautamente speranzosa". I tratti somatici delle foto di Olesya da bambina, pubblicate dalla tv russa, sono simili sia a quelli di Piera Maggio sia a quelli del padre naturale di Denise, Piero Pulizzi. Età a parte, un riscontro comune potrebbe essere quello del rapimento ad opera di gruppi rom, anche se siamo ancora nel campo delle supposizioni. Olesya ha raccontato di ricordare di aver mendicato per strada a Mosca prima di finire in orfanotrofio, mentre su Denise aleggia sempre il dubbio di quel vecchio video girato a Milano da un agente delle forze dell'ordine in cui una bimba a lei somigliante, con accento siciliano e chiamata "Danas", chiedeva a una donna rom dove la stesse parlando. C'è poi l'inquietante coincidenza, ma qui si sfiora il folkore, sul nome dato in orfanotrofio alla bimba russa. Olesya, come rivelato dall'avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta, nella letteratura ucraino-russa è una ragazzina che vive con la nonna e che viene perseguitata dalla comunità fino a quando scompare: "È un fatto curioso ma è solo un elemento suggestivo", mette in chiaro lo stesso legale. Ma fino ai risultati dei test, tutto pesa.
(ANSA il 5 aprile 2021) Alla vigilia della possibile svolta arriva il colpo di scena. "Non vogliamo sottoporci a un ricatto mediatico da parte della tv russa. Se prima della trasmissione non ci faranno avere la documentazione relativa al gruppo sanguigno di Olesya e dell'eventuale test del Dna non parteciperemo ad alcun collegamento televisivo". L'annuncio è dell'avvocato Giacomo Frazzitta, il legale che assiste e parla anche a nome di Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, la bimba scomparsa a Mazara del Vallo il primo settembre del 2004, che domani avrebbe dovuto partecipare alla trasmissione della tv russa Primo canale "Lasciali parlare", che ha rilanciato la vicenda di Olesya Rostov. L'emittente ha raccontato la storia della giovane che sarebbe stata rapita dai nomadi quando aveva quattro anni, proprio come Denise. Domani il legale avrebbe dovuto incontrare la ragazza, che cerca la vera madre, in collegamento tv. "Senza questa documentazione - ribadisce il legale - non parteciperemo ad alcuna trasmissione nè passerella televisiva e chiuderemo ogni rapporto con la tv russa". "Abbiamo accettato la loro proposta di un "faccia a faccia" in tv - spiega ancora l'avvocato Frazzitta - con l'obiettivo di fornire alla Procura che indaga tutta la documentazione scientifica necessaria a fare chiarezza. In mancanza di ciò chiederemo alla magistratura di svolgere direttamente tutti gli accertamenti del caso con una rogatoria internazionale, ma non siamo disposti a una strumentalizzazione mediatica della vicenda". Nell'eventuale faccia a faccia il legale dovrebbe fare a Olesya una serie di domande per ricostruire l'infanzia della giovane. Le risposte, insieme ai risultati scientifici, potrebbero svelare se Olesya in realtà sia Denise. La Rostova, che aveva raccontato in lacrime la sua storia, sarà in studio, mentre l'avvocato Frazzitta doveva essere collegato in diretta da Marsala. "Al momento non abbiamo ancora avuto la possibilità di un contatto diretto con la giovane - aveva spiegato l'avvocato Frazzitta -. A Olesya chiederò se ricorda i momenti antecedenti all'ingresso in orfanotrofio e, quindi, se le persone che l'hanno tenuta segregata fossero dei rom". Determinante in questa vicenda, che ha riacceso i riflettori sul caso di Denise Pipitone, sarà comunque la compatibilità del gruppo sanguigno di Olesya Rostova con quella di Denise e l'esame del dna. Alcune foto mostrano tratti somatici simili tra Olesya, Piera Maggio e Piero Pulizzi, padre naturale della bimba scomparsa. Numerose anche le coincidenze, a partire dall'età (4 anni) delle due bambine al momento del rapimento. "La speranza di trovare e riabbracciare Denise non è mai mancata. In questi anni l'abbiamo sempre cercata, anche in tutte quelle segnalazioni, avvistamenti, che poi sono risultate nulle. Anche in questo caso andremo cauti" ha dichiarato Piera Maggio in un audio messaggio diffuso ieri nel corso della trasmissione "Domenica live" su Canale 5.
Denise Pipitone, l'avvocato di Piera Maggio contro la tv russa: "Circo mediatico, ci ricatta e non ci dà i dati". Libero Quotidiano il 05 aprile 2021. “Se entro domani non ci faranno avere i dati del Dna e del gruppo sanguigno della ragazza mostrata in tv io e Piera Maggio non parteciperemo a nessun programma. Basta con questo circo mediatico”. Parole sacrosante, quelle spese dall’avvocato Giacomo Frazzitta, che all’Adnkronos non ha nascosto l’amarezza per il modo in cui la trasmissione russa sta trattando questo caso che è emotivamente durissimo per la sua assistita, la madre di Denise Pipitone, la bambina di 4 anni sparita il primo settembre del 2004. La ragazza che è stata mostrata in tv si chiama Olesya Rostova e secondo il programma potrebbe essere la figlia scomparsa di Piera Maggio. Domani, martedì 6 aprile, andrà in onda la puntata in cui verranno svelati i risultati degli esami del sangue. L’avvocato Frazzitta dovrebbe partecipare in collegamento remoto, ma non è sicuro: “Voglio prima avere sulla mia scrivania tutta la documentazione scientifica che ho chiesto, cioè gruppo sanguigno e Dna. Noi avevamo avviato questa procedura in via privata perché pensavamo di sbrigarci presto. Invece loro non fanno nulla, basta. Non sottostiamo a nessun ricatto”. Il legale di Piera Maggio non ha nascosto di essere molto infastidito da questi ritardi: “Dunque o domani ci fanno avere i dati o non partecipiamo. Il programma se lo fanno da soli, non parteciperemo se loro ancora tergiversano a farci avere Dna e gruppo sanguigno, dopo di che trasmetteremo tutto alla Procura. Dobbiamo uscire da questo circo mediatico - ha chiosato - noi non sottostiamo a nessun ricatto, o ci fanno avere tutti i dati o non se ne parla più”.
Denise Pipitone, ultimatum della famiglia: “Vogliamo il Dna di Olesya, non stiamo al circo”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 5 Aprile 2021. Se ne parla da oltre una settimana ma per il momento di concreto non c’è ancora nulla sul caso di Denise Pipitone, la bimba di 4 anni scomparsa oltre 16 anni, il primo settembre del 2004, a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani. La somiglianza con Olesya Rostova, evidenziata da una trasmissione russa (“Lasciali parlare“) aveva ridato qualche piccola speranza alla famiglia.
La giovane in questione, in tenera età è stata rapita da una zingara e portata in un campo rom nel 2005 quando aveva presumibilmente 5 anni (età compatibile con quella di Denise). Dopo aver trascorso un periodo nel campo nomadi, durante il quale chiedeva l’elemosina per portare soldi alla comunità e pensava che sua madre fosse una donna del campo, poi successivamente arrestata, la piccola che non aveva documenti (e quindi tutt’oggi non conosce la data di nascita precisa) venne poi trasferita in un orfanotrofio. Qui le hanno tagliato tutti i capelli e le hanno dato il nome di Rostov Olesya. Nel corso della trasmissione, la giovane lancia l’appello: “Cara mamma non ti ho mai dimenticato, ti sto cercando e ho la possibilità di trovarti. Eccomi qui, sono viva, voglio conoscerti e trovarti. Una settimana dopo, oltre all’eco mediatica della vicenda, c’è ancora poco di concreto e la famiglia di Denise lancia un ultimatum: “Se entro domani non ci faranno avere i dati del Dna e del gruppo sanguigno della ragazza mostrata in tv io e Piera Maggio non parteciperemo a nessun programma. Basta con questo circo mediatico”. Queste le parole, rilasciate all’Adnkronos, dall’avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, la madre della piccola Denise. Oggi la trasmissione russa avrebbe dovuto rendere noti i risultati degli esami di laboratorio sul prelievo di sangue da Olesya Rostova. Ma per il momento non ci sono novità e domani, martedì 6 aprile, è a rischio la partecipazione dell’avvocato in trasmissione, via streaming. “Voglio prima avere sulla mia scrivania tutta la documentazione scientifica che ho chiesto, cioè gruppo sanguigno e Dna – dice – dopo di che basta. Noi avevamo avviato questa procedura in via privata perché pensavamo di sbrigarci presto. Invece loro non fanno nulla, basta. Non sottostiamo a nessun ricatto”. “Al momento non c’è nulla e siamo infastiditi da questi ritardi, dunque o domani ci fanno avere i dati al programma o non partecipiamo. Dobbiamo uscire da questo circo mediatico – prosegue ancora Frazzitta – Loro (i russi ndr) ciurlano, quindi basta, non sottostiamo a nessun ricatto, o ci fanno avere tutti i dati o non se ne parla più”. L’avvocato vorrebbe un confronto con Olesya per chiederle se ricorda i momenti antecedenti all’ingresso in orfanotrofio e, quindi, capire se le persone che l’hanno tenuta segregata fossero dei rom.
I dubbi su Olesya. La storia di Olesya è stata segnalata alla redazione di Chi l’ha visto? che continua a mantenere un profilo basso pur annunciando di fatto importanti novità sulla scomparsa di Denise. Ma se la somiglianza, a tratti, potrebbe trovare qualche riscontro, quel che non torna è che Olesya nel corso della trasmissione russa non ha mai detto di conoscere o almeno ricordare qualcosa della lingua italiana, giusto per dare un ulteriore indizio a chi vuole aiutarla. Quando Denise sparì da Mazara del Vallo aveva 4 anni e parlava, conosceva le parole italiane, il dialetto siciliano. Possibile che in 17 anni abbia dimenticato tutto?
Denise, da Mosca l’esame del sangue ma niente Dna. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 7 aprile 2021. La famiglia aspetta la prova di Olesya. Si muove l’Interpol. Il legale: non posso rivelare nulla. La nonna: basta clamore. "Basta con tutto questo clamore", sussurra la nonna di Denise quando l'ultima troupe televisiva ha tolto l'assedio da via Domenico La Bruna. Sono le otto di sera. E neanche oggi è arrivato il Dna della ragazza russa che la principale emittente pubblica di Mosca ha trasformato in una star nel programma sulle persone scomparse. Durante la registrazione della trasmissione, è stato fornito solo il dato del gruppo sanguigno all'avvocato della famiglia Pipitone, Giacomo Frazzitta. Che adesso dice: "A questo punto, ci spogliamo della vicenda e rimettiamo ogni successivo accertamento alla Procura di Marsala". Ma è il gruppo sanguigno di Denise? L'avvocato Frazzitta taglia corto: "Questo non posso dirlo. L'accordo è di non rivelarlo fino a quando non verrà messa in onda la trasmissione in Russia". Ovvero, oggi. Ancora un annuncio. Il segreto televisivo che diventa anche più forte del segreto istruttorio. La nonna di Denise, Francesca Randazzo, sussurra davanti casa: "Questa vicenda è già durata abbastanza. Ma cosa ci voleva a fare subito il Dna per fugare ogni dubbio? Invece questa tv russa va avanti da tanti, troppi giorni. E per noi è una sofferenza continua. Piera, come tutti noi, è amareggiata, delusa". Ecco, dunque, il nodo per chiarire al più presto tutta questa vicenda: il Dna di Olesya Rostova. Già da qualche giorno, si stanno muovendo (in silenzio) la procura di Marsala e l'Interpol. Il procuratore Vincenzo Pantaleo mantiene il più stretto riserbo sulle attività che ha delegato alla sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri, e si limita a dire: "Comprendo il disagio dei familiari di Denise per il can can mediatico". I magistrati attendono indicazioni dall'Interpol, per capire esattamente cosa stia accadendo in Russia. Si spera soprattutto che la giovane Olesya sia disponibile a sottoporsi a un esame del Dna. Naturalmente, nessuno può obbligarla. Ma, di certo, adesso, la procura e l'Interpol provano a mettere fine al più presto a questo stillicidio di annunci Tv. È stato un pomeriggio intenso in questa stradina alla periferia di Mazara. Le dirette televisive si susseguono una dopo l'altra in attesa della nuova puntata della trasmissione russa. L'avvocato Frazzitta annuncia dal suo studio: "Se entro le 16,30 non arriveranno degli esami scientifici non parteciperò al programma". Passa l'orario dell'ultimatum e non accade nulla. Poi, all'improvviso, un'altra dichiarazione del legale: "Ho ricevuto una mail dell'avvocato di Olesya Rostova, che conferma la disponibilità di cooperazione e accetta di fornirci i risultati degli esami". Intanto, fra una diretta e l'altra, davanti alla casa di Denise arriva pure la notizia che in Russia stanno registrando tre puntate. E che hanno visto la giovane con tre abiti diversi. Un grande set. Arriva un signore che chiede se può lasciare un suo quadro per Barbara D'Urso. Arriva pure Paolo, 12 anni, che ha pedalato tanto per arrivare fin qui. "Volevo vedere cosa c'è dietro la tv - sorride - io spero ancora che la televisione possa aiutare a trovare Denise. Abbiamo bisogno tutti di sperare".
(ANSA il 6 aprile 2021) "Ho appena ricevuto una mail dall'avvocato di Olesya Rostova che conferma la volontà di cooperazione con noi e accetta la richiesta di fornirci i risultati degli esami scientifici sulla ragazza prima del collegamento di oggi. A questo punto parteciperemo alla registrazione del programma con la Tv russa che sarà mandato in onda domani". Lo dice all'ANSA l'avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, la mamma di Denise Pipitone. Il legale aggiunge che l'esito degli esami verrà "subito comunicato alla Procura di Marsala" che indaga sul caso e che sulla vicenda verrà mantenuto un comprensibile riserbo fino a domani.
Da liberoquotidiano.it il 6 aprile 2021. Ormai da diversi giorni non si fa altro che parlare di Denise Pipitone e di Olesya Rostova, la ragazza russa che potrebbe essere la bambina scomparsa all’età di 4 anni a Mazara del Vallo il primo settembre del 2004. A La vita in diretta, la trasmissione condotta da Alberto Matano e in onda su Rai1, è intervenuta sul caso anche Giovanna Botteri, che si è espressa in termini molto duri sulle modalità scelte dalla televisione russa di trattare questa storia delicatissima. “Stanno giocando sulla pelle di una donna che da diciassette anni soffre in modo terribile perché le hanno tolto la figlia”, ha tuonato la Botteri riferendosi a Piera Maggio, che assieme al suo avvocato è stata incredibilmente lasciata all’oscuro di tutto. “Ho seguito questa vicenda dall’inizio, sono un’amica di Federica Sciarelli”, ha aggiunto la giornalista della Rai1, che ha difeso la collega dalle critiche dei giorni scorsi: “Chi l’ha visto è un programma che aiuta le persone, fa servizio pubblico. La logica tra Chi l’ha visto e la trasmissione russa è totalmente opposta”. Il perché è presto spiegato, anche se è sotto gli occhi di tutti: “Quel programma sta giocando sul dolore e sulla pelle di Piera Maggio. Questa scelta cinica di non svelarle la verità se non in diretta, per avere la sua gioia o la sua delusione, è una cosa disgustosa”. Impossibile non essere d’accordo con la Botteri.
Denise Pipitone, l'avvocato: "Abbiamo i risultati del test del sangue di Olesya Rostova". La svolta: "Comunicati in Procura a Mazara". Libero Quotidiano il 06 aprile 2021. Possibile svolta nel caso di Denise Pipitone. "Abbiamo i risultati del test del sangue su Olesya Rostova": è l'avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, a comunicare che gli autori del programma russo Lasciali parlare hanno condiviso con lui l'esit del test a cui si è sottoposta la 20enne russa che è alla ricerca della sua madre biologica e che potrebbe essere proprio la piccola Denise, scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004, a soli 4 anni. La trasmissione andrà in onda mercoledì sera, 7 aprile (e non più, come previsto il 6 aprile) e solo allora si saprà se il grupp sanguigno di Olesya è lo stesso di Denise. Se così sarà. servirà il test del Dna per sapere se le due identità coincidono o meno. "Ho appena ricevuto la comunicazione, via mail, dall'avvocato di Olesya, a questo punto parteciperò al programma russo - spiega Frazzitta all'agenzia AdnKronos -. Ma non posso dire nulla nel merito". Alle 17 il legale parteciperà via Skype alla trasmissione della tv Primo Canale della Russia. "Ho l'embargo sul contenuto - spiega ancora l'avvocato - posso solo dire che trasmetteremo tutto in Procura a Marsala e i magistrati sanno cosa fare". "Acquisiremo il dato dopo che la tv russa avrà trasmesso la trasmissione - prosegue il legale -. Abbiamo ricevuto da parte dell'avvocato una mail di cooperation e di collaborazione, quello che ci aspettavamo e quindi parteciperò. Altro non posso dire". Nelle scorse ore si era accesa la polemica sul programma russo, accusato di voler "strumentalizzare la vicenda" e rinviare il confronto per aumentare attesa e share, a costo di tenere sulle spine non solo Piera Maggio, ma anche le altre madri alla ricerca della loro figlia scomparsa che parteciperanno allo show, sperando che Olesya sia la loro bambina. Anche per questo l'avvocato della mamma di Denise aveva minacciato di non partecipare se gli autori di Lasciali parlare non gli avessero comunicato gli esiti del test del sangue entro la giornata, spiegando di essere pronto a fare richiesta di rogatoria internazionale. Secondo il criminologo Carmelo Lavorino, intervistato sempre dall'Adnkronos, la colpa della situazione è però da attribuire anche ai legali della famiglia di Piera Maggio: "Ogni volta che ci sta il sospetto che qualche ragazza possa essere Denise immediatamente viene montato un circo mediatico che strumentalizza soprattutto il dolore dei familiari della persona scomparsa. Circo mediatico? Chi è causa del suo mal pianga sé stesso. È come vedere il Papa che si lamenta del Giubileo, si poteva fare tutto in maniera riservata, prima di tutto si poteva chiedere il gruppo sanguigno della ragazza e poi, magari con il supporto dell'intelligence, prendere il Dna della ragazza russa. Purtroppo il circo mediatico lo hanno costruito sin dall'inizio gli avvocati, i consulenti e le persone che erano intorno alla famiglia e a tutt'oggi non si è arrivati a nessuna soluzione".
Denise Pipitone, l'esclusiva di Barbara d'Urso: "Il conduttore russo ha appena scritto il vero nome di Olesya". Libero Quotidiano il 06 aprile 2021. Barbara d’Urso sta continuano a occuparsi del caso di Denise Pipitone, con tanto di inviato in Russia, davanti alla sede del programma russo che sta tenendo tutti in apprensione, facendo un gioco vergognoso sulla pelle e sul dolore di Piera Maggio. Ad un certo punto è arrivata in diretta a Pomeriggio 5 una notizia che ha lasciato tutti interdetti, a partire proprio dalla d’Urso: “Il conduttore del programma russo ha scritto: "quale sarà il vero nome di Olesya: Angela, Lidia o Denise?". No vabbè, lo ha scritto davvero…”. Mentre questi personaggi di dubbia moralità si divertono, Piera Maggio e l’avvocato non hanno ancora ricevuto notizie e soprattutto l’esito degli esami del sangue, fondamentali per confrontare il gruppo sanguigno di Olesya con quello di Denise, che tra l’altro è particolare e quindi rappresenterebbe un indizio fondamentale. Ad un certo punto l’inviato di Pomeriggio 5 ha avanzato l’ipotesi che la puntata sia stata già registrata: per provarlo ha mandato delle foto inedite in cui Olesya appare in trasmissione con la sua mamma adottiva. “Questa è una super esclusiva”; ha esclamato la d’Urso che è apparsa però un po’ confusa da tutte queste notizie discordanti. Le ultim’ora italiane riportavano infatti che la registrazione della puntata era ancora in corso e sarebbe andata in onda alle 19.45, orario della Russia. E invece pare che la registrazione sia già avvenuta: “Scusate, non riesco a capire”, ha ammesso la conduttrice. Ormai neanche noi, non resta che attendere.
Denise Pipitone, Myrta Merlino e le parole drammatiche a L'aria che tira: "Bruttissima storia". In Russia...Libero Quotidiano il 06 aprile 2021. Myrta Merlino è tornata alla conduzione dell'Aria che tira su La7. Dopo un periodo di stop a causa di un problema di salute, la giornalista ha ripreso le redini del programma mattutino, che in queste settimane era stato presentato da Francesco Magnani. Ecco perché dopo aver fatto l'ingresso in studio, la Merlino ha detto: "Sono felice di essere tornata e sono super carica. Voglio ringraziare la mia squadra, per la prima volta vi vedevo da fuori, perché io vivo qua dentro. Che belle novità, un nuovo tavolo e uno studio che mi riempie di gioia". Parlando dell'attualità, invece, la conduttrice ha spiegato che non c'è alcuna novità. "È tutto sempre un derby, aperturisti contro chiusuristi, scienza contro ideologia, quelli che vogliono accelerare e quelli che vogliono aspettare. Una litania monotona e neanche tanto allegra", ha aggiunto la Merlino. Che non ha esitato a criticare la campagna vaccinale: "Negli ultimi giorni abbiamo fatto pochi vaccini. Non si capisce se dipende dai vaccini che non arrivano, dalle Regioni che non si organizzano o, chissà, magari dall’illusione che anche il Covid volesse santificare la Pasqua, magari per risorgere". Alla giornalista, poi, non è sfuggito l'arrivo di una nuova variante del Covid, quella giapponese: "La chiamano olimpica perché potrebbe far saltare addirittura le Olimpiadi, speriamo di no". Mentre dal punto di vista della politica, Myrta Merlino ha notato il ritorno di Giuseppe Conte, ma anche i numerosi incontri di Enrico Letta, impegnato a costruire un nuovo centrosinistra. "Incontri con tutti, ma non con Renzi", ha fatto notare la conduttrice. Infine, la storia che tiene tutti col fiato sospeso: "Stasera scopriremo se Olesya Rostova è davvero Denise Pipitone. Spero che Piera ritrovi sua figlia Denise e spero anche che Denise ritrovi sua madre, sempre che questa ragazza sia Denise. Però lo spero un po’ anche per noi, perché questa è una bruttissima storia e così avrebbe un finale da favola. E di questi tempi, di favole abbiamo un disperato bisogno”.
Il giallo della bambina scomparsa nel 2004. Denise Pipitone, il post del conduttore della trasmissione russa: “Conosciamo il vero nome di Olesya”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Aprile 2021. Un’altra bomba, presunta svolta, scoop a metà sul caso di Denise Pipitone. Il conduttore della trasmissione russa alla quale una ragazza, Olesya Rostova, si è rivolta per conoscere la sua identità e ritrovare i genitori, ha praticamente dichiarato di conoscere il nome di questa ragazza, il cui caso è stato legato a quello di Denise Pipitone. “Quale sarà il vero nome di Olesya: Angela, Lidia o Denise?”, questo ha scritto sui suoi social il conduttore del talk show Lasciali Parlare. La frase è stata ripresa e riportata in diretta da Barbara D’Urso nella sua trasmissione Pomeriggio 5, che ha quindi aggiunto che il conduttore conosce il vero nome. Una trovata pubblicitaria o l’indizio di qualche passo in avanti? Proprio la settimana scorsa, con l’anticipazione e la puntata di Chi l’ha visto? del 31 marzo il caso della bambina scomparsa da Mazara del Vallo nel settembre 2004 è tornato al centro dell’attenzione. L’età è compatibile. La storia di Olesya Rostova, che proprio alla trasmissione sul primo canale ha lanciato un appello per ritrovare la sua famiglia, è a tratti oscura. In questi giorni si sono sprecati confronti tra foto e immagini disponibili della piccola Olesya, della piccola Denise, di Olesya adulta con la madre di Denise Piera Maggio e con il padre di Denise Piero Pulizzi. Piera Maggio ha detto di seguire con cauta speranza questa nuova svolta. In tutti questi anni avvistamenti o altri ritrovamenti non si sono mai rivelati veritieri. La donna non parla, non ha partecipato a Chi l’ha visto?, se non con un messaggio registrato, per problemi di salute. A parlare è soprattutto l’avvocato Giacomo Frazzitta che ha detto di aver ricevuto una mail dal legale di Olesya, ma di non poter rivelare nulla e rispettare l’embargo fino a domani. “Ho appena ricevuto una mail dall’avvocato di Olesya Rostova che conferma la volontà di cooperazione con noi e accetta la richiesta di fornirci i risultati degli esami scientifici sulla ragazza prima del collegamento di oggi. A questo punto parteciperemo alla registrazione del programma con la Tv russa che sarà mandato in onda domani”. Il legale ha aggiunto che l’esito degli esami verrà “subito comunicato alla Procura di Marsala” che indaga sul caso e che “verrà mantenuto il riserbo fino a domani”. Ieri il legale aveva lamentato come non fosse adeguato e possibile accettare ricatti dall’emittente.
(ANSA il 7 aprile 2021) "Ieri preservando la privacy sul gruppo sanguigno di Denise e Olesya, durante il programma russo, è stato rivelato che il gruppo sanguigno di Olesya è diverso da quello di Denise. Oggi abbiamo, in ogni caso ritenuto corretto trasmettere nota alla Procura della Repubblica di Marsala che valuterà se procedere ad ulteriori accertamenti". Lo dice all'ANSA l'avvocato Giacomo Frazzitta che parla anche a nome di Piera Maggio, la mamma di Denise Pipitone. "Si è preferito accelerare i tempi di verifica - prosegue l'avvocato Frazzitta - seguendo i contatti in via privata con l'avvocato di Olesya, poiché una eventuale rogatoria con la Russia avrebbe comportato tempi più lunghi ed, invece, si reputava necessario conoscere almeno il dato preliminare del gruppo sanguigno, prima possibile, per poi meglio approfondire la vicenda".
(ANSA il 7 aprile 2021) "Leggo sui social ricostruzioni fantasiose e mie presunte dichiarazioni. Ribadisco di essermi limitato a trasmettere alla Procura di Marsala l'esito della documentazione scientifica che mi è stata inviata ieri e di non avere fatto alcun anticipazione circa l'esito degli esami sulla ragazza che sarà reso noto nel corso della trasmissione di stasera sulla tv russa". Lo afferma l'avvocato Giacomo Frazzitta, che assiste i genitori di Denise Pipitone, commentando indiscrezioni secondo le quali il legale avrebbe dichiarato che gli esami su Olesya, la ragazza russa protagonista di un talk show della tv russa, escluderebbero con certezza che si tratti della bimba scomparsa a Mazara del Vallo.
Da oggi.it il 7 aprile 2021. Mentre continua a far discutere e non si chiarisce l’identità della ragazza russa sospettata di essere Denise Pipitone, OGGI, in edicola da domani, rievoca l’intervento nella vicenda e le decise conclusioni del magnate albanese Behgjet Pacolli, ex marito di Anna Oxa ed ex presidente del Kosovo. Quindici anni fa disse a OGGI: «Denise non è mai transitata in un Paese balcanico. Sono in grado di assicurarlo dopo mesi di viaggi, contatti, rapporti con i capi dei nomadi dell’Europa balcanica, emissari che hanno scandagliato quel mondo, dal Montenegro alla Macedonia, dalla Bosnia all’Ucraina alla Bulgaria fino alle Repubbliche asiatiche dell’ex Urss. E neanche in Russia. Ho avuto garanzie precise, grazie ai miei agganci con il mondo slavo e con quello dell’Asia interna. Bisogna cercarla altrove. Bisogna capire le cause del rapimento. Solo così si scoprirà la verità. La scomparsa di Denise è un affare di famiglia. La verità cercatela in Sicilia».
Da fanpage.it il 7 aprile 2021. L’avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta, conferma a Fanpage.it che Olesya Rostova non è Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara Del Vallo il 1° settembre 2004. Registrata martedì 6 aprile 2021 la puntata di Let Them Talk alla quale ha partecipato in collegamento il legale della donna, che durante la registrazione ha dato voce allo sgomento per come questa storia è stata gestita dalla televisione russa. Olesya Rostova non è Denise Pipitone. Lo conferma a Fanpage.it Giacomo Frazzitta, avvocato di Piera Maggio, la madre della bambina scomparsa da Mazara Del Vallo l’1 settembre 2004. Una storia, quella arrivata dalla Russia, che aveva tenuto l’Italia con il fiato sospeso, divisa tra la speranza che mamma Piera potesse finalmente riabbracciare la sua Denise e lo sgomento per la gestione che la televisione russa ha avuto della vicenda. Una sorta di reality show consumatosi sulla pelle di una madre che da 17 anni aspetta di riabbracciare sua figlia. L’avvocato Frazzitta specifica di avere ceduto alla richiesta della produzione di Let Them Talk, lo show russo che sta trattando la storia della giovane Olesya, per poter mettere velocemente un punto alla vicenda. Una vicenda che ha assunto contorni grotteschi, in una specie di thriller a puntate allestito dall’estero con lo scopo nemmeno troppo nascosto di cavalcare un caso fortemente sentito dall’opinione pubblica italiana. Avviare una rogatoria internazionale, che avrebbe obbligato la produzione di Let Them Talk a condividere in privato l’esito dell’esame del DNA cui si è sottoposta Olesya, avrebbe richiesto almeno quattro mesi, spiega Frazzitta a Fanpage.it. È per evitare che il caso diventasse ancor più mediatico che l’avvocato di Piera Maggio ha accettato di partecipare in collegamento alla registrazione di Let Them Talk di ieri 6 aprile, una puntata che ha chiarito che Olesya non è Denise. Una puntata che farà cessare le speculazioni su questa storia dolorosa. Ma in collegamento con lo show russo Frazzitta non è riuscito a contenere lo sgomento. Ha dato voce alla rabbia per come questa storia è stata gestita dalla televisione russa. Come se fosse un reality show. Ha ribadito di essere felice di essere italiano. In Italia, ha detto, qualcosa del genere non sarebbe mai accaduto. Non in questi termini. Mai con questa modalità. A ricostruire la vicenda e la vergognosa gestione di un caso diventato un’epopea costruita sulla pelle di una bambina scomparsa sarà la puntata di Chi l’ha visto in onda questa sera su Rai3.
Felice Cavallaro per il "Corriere della Sera" il 7 aprile 2021. Non ci sono ancora certezze sulla possibilità che la storia di Olesya Rostova, la ragazza di Mosca rapita da piccola e in cerca dei genitori, si incroci davvero con il dramma di Piera Maggio, la mamma di Mazara del Vallo che s' è vista rapire la sua Denise il primo settembre del 2004, quando sparì a due passi da casa. Ma ieri pomeriggio l' avvocato della famiglia, Giacomo Frazzitta, ha accettato di partecipare alla registrazione di «una finta diretta» che andrà in onda stasera sul primo canale tv russo. La stessa popolare emittente che centellina da quasi due settimane briciole di notizie ritardando il semplicissimo confronto fra i due gruppi sanguigni. «Adesso il raffronto s' è fatto», si è limitato a dire, ermetico, l' avvocato Frazzitta ieri sera alle 22 dopo un collegamento di tre ore e un passaggio alla Procura della Repubblica di Marsala. Un faccia a faccia top secret con il procuratore Vincenzo Pantaleo: «Adesso che sappiamo segua lei la vicenda, anche con una rogatoria nazionale». Quanto basta per fare pensare che i due gruppi sanguigni coincidano e che a questo punto bisognerà passare all' esame del DNA. Ma Frazzitta s' è chiuso a riccio, mentre in Procura si spegnevano le luci. Una conferma? No, l' avvocato, dopo avere criticato i sistemi della Tv russa, si trincera dietro il «no comment»: «Sono costretto a farlo perché ho dato la mia parola d' onore su un embargo che si scioglierà solo al momento dell' emissione della registrazione». Si resta quindi tutti legati al palinsesto dopo lo scoop sulla ragazza che non ricorda nulla dei suoi primi quattro anni di vita. Tutti incatenati alle pubblicità che anche ieri trasformavano questa pena infinita in una sorta di spettacolo da stiracchiare al massimo. Perché il giovane conduttore che pubblica i suoi selfie con Olesya ha alimentato l' attesa con un promo annunciando di far convergere in studio tre diverse storie di donne, tutte «candidate» ad essere la mamma della giovane abbandonata e finita in orfanotrofio. Un' operazione vissuta con sconcerto da Piera Maggio e dal marito Piero Pulizzi, chiusi nella loro casa di Mazara del Vallo, decisi a lasciare ampio raggio di manovra a Frazzitta che s' è lasciato convincere in serata a partecipare alla registrazione della puntata. Seppure con disappunto. Erano quasi le 18 quando si è collegato dal computer del suo studio di Marsala, via Skype, con Mosca. Poi lo sfogo che non tradisce l' impegno del silenzio, pur svelando un attacco al conduttore: «Questa è l' ultima volta. Adesso ci sarà chi continuerà con la rogatoria. Sono fortunato perché vivo in Italia dove una trasmissione del genere non si sarebbe mai fatta. Una vergogna trasformare tutto in uno spettacolo indecoroso». L' ha ripetuto anche alla giovane interprete, confuso perché le sue quattro interlocutrici hanno tutte lo stesso nome: «Elena è l' interprete, ma si chiamano così pure l' infermiera di Bergamo che ha intercettato per prima la trasmissione con Olesya e due addette del programma Tv. Troppe Elene...». E a tutte ripete: «State complicando una vicenda semplicissima. Non si può andare avanti così. Abbiamo cominciato a discutere venerdì l' altro, dal 26 marzo. Erano le ore 22 e quella notte restammo incollati via Skype fra interpreti e conduttore fino alle due di notte. Poi ogni giorno un pezzetto di storia, di racconti inutili, di mezze frasi, di rinvii per creare attesa, per guadagnare pubblicità e audience. E io non ci sto. Come non ci stanno la mamma di Denise e papà Piero». Quest' ultimo sempre più travagliato anche perché campeggia sulla vicenda una ingarbugliata storia familiare culminata nella separazione di Piera Maggio dal primo marito. Uscito di scena quando ha capito che Denise non era sua figlia.
Dal "Corriere della Sera" il 7 aprile 2021. L' esame del gruppo sanguigno, senza quello del Dna, per stabilire se Olesya Rostova sia invece Denise Pipitone non convince il genetista forense Giorgio Portera. L' esperto che si è occupato di rompicapi come quelli di Elisa Claps e di Yara Gambirasio è chiaro: «Mi lascia perplesso che, nel 2021, si perda tempo a ricercare il gruppo sanguigno perché può escludere che sia Denise ma in caso positivo non direbbe se Olesya sia la ragazza trapanese».
Quale test servirebbe per conoscere la verità?
«L' unico attendibile è l' esame del Dna».
Come si esegue?
«Il Dna è uguale in tutte le parti del corpo. In un caso simile, io andrei di persona a prelevarlo perché vorrei essere sicuro che si tratti realmente di quello di Olesya. Poi prenderei un campione di saliva perché si trasporta facilmente e non c' è paura che deperisca. Infine, lo confronterei con quello della mamma di Denise e avrei il responso in poche ore di laboratorio».
Quale percentuale di certezza ha il test del Dna?
«Ben superiore al 99,9 per cento».
Laura Anello per "la Stampa" il 7 aprile 2021. (…) Di sicuro c' è che la tv russa ha fornito alcune immagini di Olesya bambina (ammesso che sia davvero lei) che niente ha a che fare con Denise. Un' altra bambina, completamente diversa. Così come, a guardarla bene anche da grande, la somiglianza con Piera Maggio - che sembra evidente in alcune fotografie - svanisce del tutto in altre immagini. Diverso il naso, diverso il taglio degli occhi. A questo punto si dubita di tutto. Su chi sia davvero questa ragazza venuta fuori dal nulla, sul perché sia venuta fuori adesso, sul perché stia raccontando la sua storia, quella di una bambina - ha detto - sottratta a una nomade a cinque anni e poi finita in orfanotrofio. «Solo una buffonata mediatica», dice Alberto Di Pisa, l' ex procuratore di Marsala che indagò sul caso.
Giuseppe D' Amato per "il Messaggero" il 7 aprile 2021. «Sulla pancia, dalla parte sinistra, ho una voglia fin dalla nascita e forse qualcuno può averla vista». Disperata negli studi televisivi pochi secondi dopo aver appreso l' esito negativo del test del Dna con la possibile mamma di Arcangelo - Olesya Rostova si è lasciata scappare questo particolare di estrema importanza. La ragazza, però, è stata immediatamente interrotta dal presentatore del programma Che Parlino! del Primo canale federale, il quale ha affermato con forza: «Noi siamo contrari a qualsiasi suggerimento! Queste sono cose che si chiariscono nel corso del procedimento di riconoscimento. Per questo fino ad adesso non l' abbiamo detto». Il giallo su chi sia realmente Olesya Rostova si infittisce così ancora di più, ma ora vi è un dettaglio che potrebbe essere decisivo. Da quando, una decina di giorni fa, questa ventenne biondina, dal sorriso nostalgico e di esile struttura fisica è comparsa alla televisione federale, lanciando il suo appello disperato con la speranza di poter ritrovare la sua mamma naturale, è l' intera Russia ad essersi messa alla ricerca. Ma non solo. Tantissimi sono anche all' estero i russofoni che guardano i canali nella lingua di Pushkin. Tra loro anche Svetlana Khokhlova - ieri in trasmissione in collegamento dall' Italia - a cui è venuta in mente la storia di Denise Pipitone, scomparsa a 4 anni il primo settembre 2004 a Mazara del Vallo nel Trapanese, mentre giocava in strada davanti a casa con altri bambini. La donna ha dato l' allarme dopo aver notato non solo la somiglianza tra la bionda Olesya e le foto della piccola Denise (che non avrebbe avuto segni particolari) ma anche altri elementi comuni, come ad esempio l' età. (...)
Denise Pipitone, Chi l'ha visto? e la pista dei nomadi: "Le telefonate degli Ivanovic" e un video sconvolgente. Libero Quotidiano l'08 aprile 2021. Cade la pista russa, non quella dei nomadi. A Chi l'ha visto? Federica Sciarelli riprende in mano il cado di Denise Pipitone, nel giorno del tanto atteso verdetto su Olesya Rostova. La 20enne russa in cerca della madre biologica non è la piccola di 4 anni sparita a Mazara del Vallo nel 2004, il gruppo sanguigno è differente. Denise, dunque, non è stata portata a Mosca e poi finita in un orfanotrofio. Ma la Sciarelli rimanda in onda un vecchio servizio, un documento sconvolgente che riaccende le polemiche sulle mancate ricerche e gli eventuali passi falsi in 16 anni di indagini. Un anziano audioleso, steso a letto, riconosce la foto della piccola Denise e spiega a gesti a una traduttrice di averla vista, in canottiera, infreddolita e coperta da una maglia. L'uomo vede la foto della bimba su un telefonino e si sbraccia, indicandola. Riconobbe la bambina dopo il rapimento, ricorda la Sciarelli, ma la testimonianza dell'uomo audioleso, oggi deceduto, non fu ammessa al processo. Ed è rimasto un mistero anche un altro fatto emerso dall'inchiesta siciliana, seguita dalla Procura di Mazara: le telefonate al cellulare del padre da una utenza della famiglia Iovanovic. Le perquisizioni nel campo nomadi, però erano andate a vuoto. Proprio la tesi del rapimento della bimba ad opera di nomadi sembrava dare dei punti di contatto con la vicenda di Olesya, che sosteneva di avere ricordi di quando, bambina, era costretta a chiedere l'elemosina a Mosca con una mendicante nomade, prima di venire soccorsa da agenti delle forze dell'ordine e venire portata in un orfanotrofio della capitale russa.
Denise Pipitone, il corrispondente Rai Marc Innaro sbotta alla trasmissione russa. "Facciamola finita". Libero Quotidiano l'08 aprile 2021. Ci vuole l'intervento di Marc Innaro, corrispondente Rai a Mosca, per svelare la farsa del caso Olesya Rostova. Il giornalista è ospite in studio a Lasciali parlare, trasmissione del Primo canale russo a cui la 20enne si era rivolta per trovare la sua mamma biologica. In collegamento dall'Italia c'è Giacomo Frazzitta, il legale di Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone che spera che la ragazza russa sia davvero la figlia sparita a 4 anni a Mazara del Vallo nel 2004. Gli autori della trasmissione, travolti dalle contestazioni negli ultimi giorni, hanno in mano i risultati del test del sangue a cui si è sottoposta Olesya, ma non li consegnano. Un giochino scoperto: tv del dolore alla ricerca del maggiore share possibile, perché in fondo tutto il mondo è paese. L'avvocato Frazzitta minaccia di lasciare il collegamento, il conduttore e Olesya nicchiano. "A un certo punto - spiega Innaro aFederica Sciarelli, che ripercorre il caso aChi l'ha visto?su Rai3 - ho preso il cellulare e ho detto mandate il gruppo sanguigno all’avvocato della mamma efacciamola finita". Accade tutto in diretta. L'avvocato riceve il messaggio di Innaro, lo legge, e annuncia: "Non è il gruppo sanguigno di Denise". Poi, per stemperare la delusione: "Ma spero comunque che Olesya voglia venire ancora in vacanza in Sicilia". Qualche minuto prima, i toni erano tesissimi. "Olesya intervieni anche tu!", l'aveva invitata il legale, per accelerare sulla comunicazione degli esiti del test sanguigno. "Abbiamo fatto un giro all’Inferno e ritorno", è l'amara riflessione di Frazzitta in collegamento con la Sciarelli. Ora tutte le carte sono in mano alla Procura di Mazara del Vallo. "Era importante verificare subito la segnalazione - ammette il legale -, i tempi di una rogatoria internazionale (minacciata dallo stesso Frazzitta qualche giorno fa, ndr) sarebbero stati troppo lunghi".
Denise Pipitone e Olesya Rostova, messinscena russa. La foto dietro le quinte dello show, chi è questa donna. Libero Quotidiano l'08 aprile 2021. La "svolta russa" nel caso di Denise Pipitone non c'è stata e ora spunta pure la sorella biologica di Olesya Rostova. Sulla 20enne che cercava la mamma e che molti credevano (anzi, speravano) potesse essere la bimba di 4 anni sparita a Mazara del Vallo nel 2004, aleggia forte il sospetto della montatura mediatica. D'altronde, il programma Lasciali parlare, della tv russa Primo canale, poco o nulla ha fatto per tutelare la mamma di Denise, Piera Maggio, sottoponendo lei e altre mamme in cerca delle loro figlie scomparse coinvolte nel programma a un agghiacciante show del dolore, con le buste delle analisi del sangue di Olesya lette in diretta. La stessa 20enne però poco ha fatto per gestire in maniera più pudica un dramma che avrebbe travolto lei e le altre famiglie. Il giornalista Matteo Grimaldi ha ricevuto diverse segnalazioni e prima dell'annuncio in diretta, con tanto di polemica tra il conduttore e l'avvocato della Maggio Giacomo Frazzitta ("Avete fatto lo show, vi saluto", ha tuonato davanti all'ennesima manfrina sui risultati del test), e sui social annunciava. "Mi piange il cuore a dover comunicare che andrà in onda lo stesso copione con l’avvocato di Piera Maggio ospite del programma. Mettiamo fine a questa propaganda di sentimenti e dolore che la tv russa pensa di portare avanti prendendo in giro milioni di persone che speravano di vedere Piera sorridere con la sua ritrovata Denise. Non sarà così". Il sospetto di messinscena è forte, perché sui social è spuntata anche una foto significativa: negli studi dello show Olesya avrebbe infatti incontrato la sorella biologica, Anastasia. Alle due ragazze la tv russa avrebbe chiesto di mantenere il silenzio, ma proprio Anastasia, originiaria dell'Oblast di Mosca, sposata e con un bimbo, ha condiviso lo scatto con Olesya e il conduttore di Lasciali parlare, con questa didascalia: "Quanta gioia nei miei occhi". Frase poi cancellata e sostituita solo con uno smile, forse per non lasciare indizi. Troppo tardi.
Il gruppo sanguigno non coincide. Denise Pipitone, la scoperta del gruppo sanguigno in diretta: “Avete voluto fare lo show, è assurdo”. Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Dopo tanti dubbi, adesso c’è una certezza. Il gruppo sanguigno di Olesya Rostova non coincide con quello di Denise Pipitone. É sfumata la speranza che la ventenne russa – che si è rivolta al programma ‘Lasciateli parlare’ dell’emittente russa Tv1 per trovare la sua famiglia – sia in realtà la bambina scomparsa misteriosamente da Marzara del Vallo nel 2004. A dirlo è stato l’avvocato Giacomo Frazzitta, legale della mamma della piccola, Piera Maggio, che non ha partecipato alla trasmissione perché è “in convalescenza” dopo aver subito un intervento chirurgico. “Ci dispiace molto ma il gruppo sanguigno non coincide con quello di Denise”, ha annunciato il legale nel corso della puntata del talk show, registrata ieri pomeriggio. I risultati degli esami del sangue della giovane russa sono arrivati via whatsapp all’avvocato Frazzitta, che aveva posto come condizione per partecipare al programma proprio il fatto di conoscere gli esiti dei test prima del suo intervento. Dopo un lungo tira e molla tra l’avvocato e il conduttore russo arrivano in diretta i risultati del test. E con la comunicazione dell’avvocato di Oleysa è arrivata l’ennesima delusione per Piera Maggio che da 17 anni cerca la figlia scomparsa senza mai darsi per vinta. “La Procura di Marsala valuterà ulteriori accertamenti. Era necessario conoscere il gruppo sanguigno prima possibile per approfondire”, ha aggiunto il legale con una nota, pubblicata sul profilo Twitter di ‘Chi l’ha visto’. La trasmissione di Rai3 ha seguito fin da subito il caso di Denise percorrendo con tenacia diverse piste che nel corso degli anni sono emerse. Meno rispettoso e attento, per il legale di Piera Maggio, l’approccio del programma di Tv1. “Avete voluto fare lo show, questo a me sembra assurdo”, ha detto l’avvocato Frazzitta durante la trasmissione sul caso di Olesya andata in onda in Russia. Il dibattito si è trasformato poi in un’animata discussione e il legale ha accusato il conduttore di avergli teso “una trappola” invitandolo in studio e definendo una “beffa” – la dichiarazione del presentatore, arrivata solo a fina puntata quasi si trattasse di un reality show – che il gruppo sanguigno di Olesya fosse diverso da quello di Denise Pipitone. A inorridire l’avvocato è stato soprattutto l’apertura delle buste contenenti i risultati delle analisi in diretta tv. “L’urgenza vera era intanto un’immediatezza per poter buttare acqua sul fuoco o comunque chiarire questa situazione perchè si era creata veramente una questione complicata a livello nazionale e internazionale. Attendere le rogatorie sarebbe stato complicato a questo punto della situazione, abbiamo pensato di contattare direttamente l’avvocato di Olesya per arrivare ad un accordo”. Lo ha detto Giacomo Frazzitta, avvocato di Piera Maggio, madre di Denise Pipitone, ospite alla trasmissione “Chi l’ha visto” su Rai3. “Abbiamo fatto un giro all’inferno e siamo tornati: mettere in uno show bambini rapiti e genitori di bambini rapiti come se fosse una specie di reality o di gioco su uno dei crimini più terribili, quelli contro i bambini”, ha continuato l’avvocato.
La svolta nel caso. “Il gruppo sanguigno di Olesya è diverso da quello di Denise Pipitone”, parla l’avvocato Frazzitta. Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Aprile 2021. “Ieri preservando la privacy sul gruppo sanguigno di Denise e Olesya, durante il programma russo, è stato rivelato che il gruppo sanguigno di Olesya è diverso da quello di Denise”. Così in una nota l’avvocato Giacomo Frazzitta e Piera Maggio, madre di Denise rivelano l’informazione che in tanti stavano aspettando con il fiato sospeso. “Oggi abbiamo, in ogni caso ritenuto corretto trasmettere nota alla Procura della Repubblica di Marsala che valuterà se procedere ad ulteriori accertamenti – continua la nota – Si è preferito accelerare i tempi di verifica seguendo i contatti in via privata con l’avvocato di Olesya, poiché una eventuale rogatoria con la Russia avrebbe comportato tempi più lunghi ed, invece, si reputava necessario conoscere almeno il dato preliminare del gruppo sanguigno, prima possibile, per poi meglio approfondire la vicenda”. L’avvocato ieri ha registrato la puntata della trasmissione ‘Lasciateli parlare’ in onda adesso. “Non è il gruppo sanguigno di Denise Pipitone e siamo veramente dispiaciuti di questo”, ha detto il legale che ha ringraziato il programma tv “per tutto l’impegno impiegato”. “Abbiamo consegnato i risultati relativi al gruppo sanguigno” della giovane Olesya Rostova “alla procura di Marsala come aveva detto ieri”. Lo ha detto a LaPresse l’avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, la mamma di Denise Pipitone, la bambina scomparsa nel 2004 da Marzara del Vallo (Trapani). La giovane russa si è fatta avanti e ha chiesto al celebre programma "Lasciateli parlare" dell’emittente russa Tv1 di aiutarla a trovare la sua vera famiglia. La 20enne, che presenta una notevole somiglianza con Piera Maggio, è stata allevata in un orfanotrofio in Russia e ha pochi ricordi della sua infanzia. L’avvocato Frazzitta, dopo aver ricevuto in anteprima i risultati degli esami come aveva richiesto, parteciperà alla puntata del programma con un contributo video registrato ieri pomeriggio. Nel corso della puntata di ieri di "Lasciateli parlare", invece, è stata esclusa grazie all’esame del Dna l’ipotesi che Olesya sia la figlia di una famiglia russa che si era fatta avanti nei giorni scorsi. L’avvocato ha anche annunciato che alla trasmissione russa ha partecipato da solo. “Piera Maggio non può partecipare al programma perchè ha subito un intervento chirurgico ed è in convalescenza”. Lo ha detto l’avvocato Giacome Frazzitta, legale della mamma della piccola Denise Pipitone, partecipando al programma ‘Lasciateli parlare’ dell’emittente russa Tv1.
Denise Pipitone, Chi l'ha visto? e la pista dei nomadi: "Le telefonate degli Ivanovic" e un video sconvolgente. Libero Quotidiano l'08 aprile 2021. Cade la pista russa, non quella dei nomadi. A Chi l'ha visto? Federica Sciarelli riprende in mano il cado di Denise Pipitone, nel giorno del tanto atteso verdetto su Olesya Rostova. La 20enne russa in cerca della madre biologica non è la piccola di 4 anni sparita a Mazara del Vallo nel 2004, il gruppo sanguigno è differente. Denise, dunque, non è stata portata a Mosca e poi finita in un orfanotrofio. Ma la Sciarelli rimanda in onda un vecchio servizio, un documento sconvolgente che riaccende le polemiche sulle mancate ricerche e gli eventuali passi falsi in 16 anni di indagini. Un anziano audioleso, steso a letto, riconosce la foto della piccola Denise e spiega a gesti a una traduttrice di averla vista, in canottiera, infreddolita e coperta da una maglia. L'uomo vede la foto della bimba su un telefonino e si sbraccia, indicandola. Riconobbe la bambina dopo il rapimento, ricorda la Sciarelli, ma la testimonianza dell'uomo audioleso, oggi deceduto, non fu ammessa al processo. Ed è rimasto un mistero anche un altro fatto emerso dall'inchiesta siciliana, seguita dalla Procura di Mazara: le telefonate al cellulare del padre da una utenza della famiglia Iovanovic. Le perquisizioni nel campo nomadi, però erano andate a vuoto. Proprio la tesi del rapimento della bimba ad opera di nomadi sembrava dare dei punti di contatto con la vicenda di Olesya, che sosteneva di avere ricordi di quando, bambina, era costretta a chiedere l'elemosina a Mosca con una mendicante nomade, prima di venire soccorsa da agenti delle forze dell'ordine e venire portata in un orfanotrofio della capitale russa.
Pipitone, il caso alla tv russa: "Abbiamo fatto un giro all'inferno". L'avvocato di Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone commenta a Chi l'ha visto? il programma televisiovo russo che ha rivelato la differenza tra il gruppo sanguigno della bimba scomparsa nel 2004 e quello di una ragazza russa. Francesca Bernasconi - Gio, 08/04/2021 - su Il Giornale. "Abbiamo fatto un giro all'inferno e siamo tornati". Così Giacomo Frazzitta, avvocato di Piera Maggio, la mamma di Denise Pipitone, ha commentato la sua partecipazione alla trasmissione russa пусть говорят (in italiano "Lasciali parlare"), durante la quale oggi è stata reso noto l'esito dell'esame sul gruppo sanguigno fatto a Olesya Rostov. La ragazza russa non è la bimba scomparsa nel 2004 da Mazara del Vallo: "Il gruppo sanguigno è diverso", ha annunciato il legale, dopo un tira e molla durato parecchio tempo con il conduttore della trasmissione, che insisteva per conoscere il gruppo di Denise. E a Chi l'ha visto?, Frazzitta rivela i retroscena, spiegando di aver acconsentito a partecipare al programma russo perché "attendere le rogatorie sarebbe stato complicato a questo punto della situazione". Per questo, precisa, "abbiamo pensato di contattare direttamente l'avvocato di Olesya per arrivare ad un accordo". Infatti, poco prima della registrazione di пусть говорят, avvenuta martedì, il legale di Piera Maggio aveva ricevuto la mail che lo aveva convinto a partecipare alla trasmissione. Una scelta dettata dall'urgenza di "poter buttare acqua sul fuoco o comunque chiarire questa situazione, perché si era creata veramente una questione complicata a livello nazionale e internazionale". Poi, sono stati ricostruiti i momenti salienti della registrazione del programma, compresa la rabbia di Frazzitta che ad un certo punto ha minacciato il conduttore di andarsene, se non gli avessero fornito il gruppo sanguigno della ragazza. L'esito dell'esame è stato inviato con un sms al legale, che non ha trovato corrispondenza con quello di Densie: "È diverso", ha annunciato, sottolineando il dispiacere nell'apprendere questa notizia. Frazzitta ha commentato anche le modalità con cui è stato costruito il programma russo, che ha svelato i risultati dei test eseguiti dalle possibili madri di Olesya come se si trattasse di un reality, con tanto di busta contenente il "verdetto": "Abbiamo fatto un giro all'inferno e siamo tornati- ha detto l'avvocato- mettere in uno show bambini rapiti e genitori di bambini rapiti come se fosse una specie di reality o di gioco su uno dei crimini più terribili, quelli contro i bambini". Il conduttore del programma russo si è poi scusato con i genitori di Denise: "Non volevamo ferire i sentimenti di nessuno". Così, la scomparsa di Denise Pipitone resta ancora senza una soluzione e numerosi sono ancora i punti oscuri nella vicenda. Chi l'ha visto? ne sottolinea due. Il primo è una chiamata ricevuta da Piero Pulizzi, padre biologico di Denise, il 14 gennaio 2005: al telefono sentì la voce di una donna straniera e di una bambina che piangeva. Gli inquirenti risalirono all'intestatario dell'utenza, un memrbo di una famiglia nomade che viveva a Marsala, e si recarono sul posto. Lì scoprirono che in realtà il cellulare veniva usato da una figlia dell'uomo, che sostenne di non conoscere Pulizzi, nonostante il suo numero fosse salvato come "Piero Fra". Il secondo punto in sospeso riguarda un possibile testimone, che disse di aver visto una bambina in braccio a suo nipote Giuseppe. Successivamente, l'uomo riconobbe quella bimba in Denise Pipitone, grazie ad una foto mostratagli dall'avvocato Frazzitta. Il testimone, che si esprimeva attraverso il linguaggio dei segni, non venne però ascoltato durante il processo di primo grado e non venne ammesso in appello.
Quello sceneggiato mediatico sul caso di Denis Pitone condito di fake news. Il Dubbio l'8 aprile 2021. Nel pomeriggio sono circolate ricostruzioni fantasiose sull'esito del test che dovrebbe confermare se Olesya Rostova è davvero Denise. Ricostruzioni avvalorate da tanto di dichiarazioni del legale di famiglia. Che però smentisce: "Non ho mai parlato con nessuno sull’esito dell’esame del sangue". «Al momento non posso dire nulla, parleremo dopo la trasmissione che andrà in onda sulla tv russa. Leggo sui siti delle ricostruzioni che non corrispondono al vero. Non ho mai parlato con nessuno sull’esito dell’esame del sangue». A parlare è l’avvocato Giacomo Frazzitta, legale della madre di Denise Pipitone, la bambina di 4 anni scomparsa il primo settembre 2004 da Mazara del Vallo, dopo “il circo mediatico” andato in scena in questi giorni. Nel pomeriggio si era sparsa la voce di una sua dichiarazione in cui avrebbe detto che la giovane Olesya, la ragazza russa che lanciato un appello in Tv, non sarebbe Denise Pipitone. La (finta) notizia ha fatto subito il giro dei social, e lo stesso legale ha postato sul suo profilo Instagram una smentita rispetto ai risultati del dna. «Impossibile – spiega Frazzitta – io non ho parlato con nessuno. Stiamo aspettando la messa in onda su Primo Canale in Russia. Ho solo portato in Procura la documentazione ricevuta dall’avvocato russo». Il caso era esploso un paio di giorni fa, con la dura reazione della famiglia che aveva denunciato il «ricatto mediatico» da parte dell’emittente russa: «Se non ci faranno avere i dati del gruppo sanguigno della ragazza mostrata in tv io e Piera Maggio non parteciperemo a nessun programma. Basta con questo circo mediatico», aveva chiarito il legale. E i risultati infine sono arrivati. «Abbiamo ricevuto prima della trasmissione, come avevamo chiesto, gli esiti degli esami sulla ragazza e abbiamo trasmesso tutta la documentazione alla procura di Marsala», ha spiegato oggi Frazzitta. Il talkshow della tv russa andrà in onda oggi pomeriggio, alle 18.45, e si conoscerà l’esito sull’esame del sangue di Olesya Rostova. «Ho preso l’impegno con i legali russi a non rivelare nulla prima di oggi pomeriggio sull’esito degli esami del sangue che potrebbero dimostrare la compatibilità con quelli di Denise», ha fatto sapere il legame. Solo dopo si potrà fare l’esame del Dna e avere la certezza sulla identità di Olesya.
È vergognoso che la mamma di Denise debba aspettare un programma TV per conoscere la verità. Gianluigi Nuzzi su Notizie.it il 06/04/2021. La magistratura dov'è? La giustizia dov'è? I giudici russi cosa stanno facendo? Sono tutti spettatori di questo programma televisivo? Su Denise Pipitone si sta assistendo a qualcosa che sta superando le colonne non solo della fantasia ma dell’orrore. Trovo francamente vergognoso che una mamma che da 17 anni sta aspettando la verità sulla figlia debba attendere l’esito e la pronuncia di un programma televisivo. Trovo sorprendente che in Russia, dove Vladimir Putin controlla ogni respiro, non sia stata attivata la magistratura per verificare se la signora Rostova è Denise Pipitone. Trovo imbarazzante che il nostro Ministero degli Esteri non si sia attivato tramite canali diplomatici per fare pressione su Mosca in questa direzione. Trovo sorprendente che la magistratura italiana, a tutela non solo della mamma di Denise e di tutti noi, ma anche della verità processuale – dal momento che c’è stata un’inchiesta – non riapra il fascicolo pretendendo verità su quanto accaduto. Su questo piano dovrebbe situarsi la relazione tra le magistrature e gli Stati, una relazione fatta di collaborazione e confronto. E invece la magistratura dov’è? La giustizia dov’è? I giudici russi dove sono, cosa stanno facendo? Sono tutti spettatori di questo programma televisivo? In quanto giornalista, so bene che i giornalisti russi stanno facendo il loro mestiere, ma qui c’è un grande assente e questa assenza fa male alla verità.
Gianluigi Nuzzi. Giornalista, ha iniziato a scrivere a 12 anni per il settimanale per ragazzi Topolino. Ha, poi, collaborato per diversi quotidiani e riviste italiane tra cui Espansione, CorrierEconomia, L'Europeo, Gente Money, il Corriere della Sera. Ha lavorato per Il Giornale, Panorama e poi come inviato per Libero. Attualmente conduce Quarto Grado su Rete4 ed è vicedirettore della testata Videonews. È autore dei libri inchiesta "Vaticano S.p.A." (best seller nel 2009, tradotto in quattordici lingue), "Metastasi", "Sua Santità" (tradotto anche in inglese) e "Il libro nero del Vaticano".
Denise e il mistero delle intercettazioni dimenticate. Angela Leucci il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. Il caso Denise Pipitone ancora una volta al centro di "Chi l'ha visto?": sono spuntate intercettazioni e narrazioni relative ad Anna Corona e Jessica Pulizzi nei giorni della scomparsa. “Lo sai cosa sta succedendo a Mazara, che è scomparsa una bambina”. È mattina presto, è il 2 settembre 2004, Denise Pipitone non è scomparsa da neppure un giorno. Queste sono le parole che Anna Corona scambia con un certo Salvatore. “Io è da ieri mattina… ieri, da quando ho finito di lavorare fino a sera, che sono stata al comando dei carabinieri […] - continua la donna - Segui il telegiornale e per favore lasciamo stare. […] Salvatore per ora non voglio sapere più niente. La posso chiudere questa telefonata con te o no?”. Chi è Salvatore? Perché dovrebbe guardare il telegiornale? Sono interrogativi senza risposta. Anna Corona è la ex moglie di Pietro Pulizzi, padre naturale della piccola scomparsa. Questa intercettazione rappresenta uno dei dettagli che ancora non hanno ricevuto una spiegazione in merito alle indagini relative alla scomparsa di Denise. Se n’è parlato ieri nella puntata di “Chi l’ha visto”, in cui Federica Sciarelli ha ospitato in collegamento mamma Piera Maggio e il suo legale Giacomo Frazzitta. Sono state riepilogate le presunte minacce formulate da Anna Corona alla famiglia di Piera, smentite dalla stessa Corona - “Te la farò vedere io cos’è la cattiveria”, avrebbe detto a Giacoma, la sorella di Piera, e al loro padre Vito Maggio invece avrebbe promesso, riferendosi alla stessa Piera: “Gliela faccio pagare”. Molte delle informazioni fornite in trasmissione sono espressione di un ritorno di interesse per la vicenda di Denise, sollevata come ha sottolineato in maniera positiva la stessa Sciarelli dal caso di Olesya Rostova, che si è creduto per alcuni giorni potesse essere la bimba siciliana. Si è parlato soprattutto delle intercettazioni ambientali nei confronti di Anna Corona, la figlia Jessica Pulizzi e il fidanzato Gaspare. L’11 settembre 2004 i tre si sono recati, convocati, al commissariato di polizia, dove sono state registrate alcune conversazioni in dialetto da una microspia, conversazioni in cui Anna appare in confidenza con un militare di nome Peppe. “Ci vogliamo guardare negli occhi - dice Anna alla figlia - perché io sono stanca… perché le indagini sono ferme a noi…”. Dopo di che Anna fa ricostruire a Jessica la giornata dell’1 settembre, quando cioè Denise è scomparsa. E Jessica sottolinea in dialetto: “Mamma potrebbe esserci una cimice in una stanza”. Un’altra intercettazione ambientale ha a che fare con un dialogo tra Jessica e Gaspare, anche se i periti sono in disaccordo, per via del forte inquinamento acustico nella registrazione. Gaspare sembra dire: “Che cosa hai fatto alla piccola?”, mentre Jessica risponde: “L’ho messa dentro”. L'interpretazione non è stata però ritenuta univoca. Senza contare che alle 12.17 del 1 settembre, nei momenti in cui Denise potrebbe essere scomparsa, la madre di Anna Corona riceve una telefonata in cui la figlia le chiede di andare dalle nipoti Jessica e Alice, ma non c’è corrispondenza tra le utenze delle due donne o dei loro più stretti famigliari: la telefonata parte infatti da un magazzino di via Rieti. “Tutta questa vicenda è caratterizzata da un mucchio di bugie”, ha commentato Piera Maggio.
Nuova svolta sulle indagini. Intercettazioni inedite su Denise Pipitone, la denuncia: “Perchè non furono studiate dagli inquirenti?” Rossella Grasso su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Nuovi dettagli emergono sul caso di Denise Pipitone, la bambina di 4 anni scomparsa da Mazara del Vallo il 1 settembre 2004. Sarebbero infatti emerse alcune intercettazioni inedite di due telefonate che potrebbero essere una chiave o almeno un indizio per capire cosa sia successo in quelle ore. Il programma Chi l’Ha Visto su Rai tre ne tratta in una nuova puntata dopo che il caso di Olesya Rostova, aveva riacceso gli animi e le speranze sul ritrovamento della piccola Denise. Purtroppo si era trattato dell’ennesimo falso allarme: la Tv russa da cui era partito l’appello di Olesya, che ha la stessa età che avrebbe oggi Denise e somiglia molto alla mamma, Piera Maggio, ha rivelato in diretta il risultato delle analisi della ragazza e verificato che non si tratta di Denise. Ma la faccenda ha riacceso i riflettori sulla vicenda e adesso le intercettazioni potrebbero riaprire un nuovo percorso per le indagini. Denise scomparve nel nulla il 1 settembre 2001 mentre stava giocando con la cuginetta davanti alla sua casa a Mazara del Vallo tra le 11.35 e le 11.45. Al vaglio ci sono due telefonate. La prima avvenuta alle 12.10 dall’utenza di Anna Corona, all’epoca moglie di Piero Pulizzi, papà naturale di Denise a quella di Loredana, amica stretta di Anna, fidanzata di Giuseppe, nipote di Battista Della Chiave che abita in via Rieti. Questa ebbe la durata di 18 secondi. Una seconda telefonata è poi partita alle 12.17 dal magazzino di via Rieti dove lavora Battista della Chiave verso l’utenza della mamma di Anna Corona. Una telefonata della durata di appena 72 secondi . Due brevissime conversazioni che destano il sospetto: in così poco tempo cosa si possono essere dette? Potrebbe essersi trattato di uno scambio rapido per accertarsi di qualcosa. “Com’è possibile che queste telefonate non siano state studiate dagli inquirenti?”, ha commentato Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l’ha visto. La Pm Maria Angioni, che si era occupata del caso della scomparsa di Denise Pipitone nel 2004, qualche settimana fa ha raccontato che il contesto in cui si sono svolti per anni le indagini è stato molto complicato. E ha pronunciato parole dure sul contesto ambientale in cui si svolgevano le indagini e sulla popolazione che non ha collaborato e sugli investigatori che l’hanno affiancata durante le indagini. “Abbiamo avuto grossi problemi. Abbiamo capito che dopo tre giorni tutte le persone sottoposte a intercettazioni già sapevano di essere sotto controllo – ha detto la pm intervenuta al programma di Milo Infante ‘Ore 14’ in onda su Rai 2 -. A un certo punto, quando ho avuto la direzione delle indagini, ho fatto finta di smettere di intercettare e poi ho ripreso da capo con forze di polizia diverse, nel disperato tentativo di salvare il salvabile”.
I dubbi su Anna Corona e Jessica Pulizzi. Quando Piera Maggio denunciò ai carabinieri la scomparsa di Denise, spiegò che la bambina non era figlia biologica di suo marito ma di una relazione extraconiugale avuta con Piero Pulizzi. Quest’ultimo era sposato con Anna Corona e aveva due figlie, Jessica e Alice. Piera Maggio spiegò la diatriba in atto e le grandi gelosie che pervadevano la famiglia di Pulizzi nei confronti de Denise. Furono messe spie nella loro casa e fu intercettata una frase che Jessica disse a sua madre: “Io a casa ci ‘a purtai”, disse alla madre che le chiedeva dov’era il primo settembre, quando scomparve Denise. Interrogata in merito, il racconto della ragazza non convinse gli investigatori perché il tabulato telefonico segnalava che Jessica nelle stesse ore in cui Denise scompariva si trovava nella zona del sequestro. L’ipotesi che dunque prese campo fu quella che Jessica avesse materialmente rapito Denise per poi consegnarla a un gruppo di nomadi che magari conosceva. Per lei furono richiesti 15 anni di carcere. Ma dopo anni di indagini e processi Jessica fu assolta per mancanza di prove e per non aver commesso il fatto. Ora spuntano queste altre intercettazioni che all’epoca sfuggirono alle indagini. Protagonista è Anna Corona e la sua cara amica e vicina di casa Loredana. Nel giorno della scomparsa di Denise furono tante le chiamate tra le due.
Chi è Battista Della Chiave, lo zio sordomuto. Una testimonianza che per anni è stata forse sottovalutata è quella di Battista Della Chiave, all’epoca 74enne, che lavorava al magazzino di via Rieti da cui partirono le telefonate. Battista Della Chiave è sordomuto ma ha più volte affermato di aver visto Denise in braccio a suo nipote Giuseppe, fidanzato di Loredana. L’anziano testimoniò di aver visto il nipote portar via la bambina in scooter. La sua testimonianza fu depositata anche davanti ai giudici di Trapani. Il nipote Giuseppe si è giustificato affermando che lo zio, sordomuto, non era in grado di comprendere e trasmettere un messaggio del genere poiché non conosce il linguaggio dei segni. Tuttavia, quando la troupe di Chi l’ha visto si recò da Battista la moglie cominciò infastidita a gridare “mi stai mettendo nei guai”. Quella scena portò molti a pensare che forse lo zio sordomuto ma non cieco qualcosa aveva visto.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
Da liberoquotidiano.it il 22 aprile 2021. Intercettazioni inedite che complicano il caso Denise Pipitone, la bambina di Mazara Del Vallo scomparsa a 4 anni nel 2004. Ospite di Federica Sciarelli a Chi l'ha visto? su Rai 3, la mamma della piccola, Piera Maggio, ha cercato di ricostruire quanto successo dal giorno della scomparsa in poi, tra conversazioni telefoniche ambigue, microspie e depistaggi nelle indagini. Il primo errore risalirebbe al 2 settembre 2004, giorno successivo alla scomparsa di Denise, quando venne redatto un verbale dalla Questura di Trapani. A quanto pare, infatti, le forze dell'ordine erano convinte di aver ispezionato la casa di Anna Corona, la prima moglie di Pietro Pulizzi, il papà naturale di Denise. In realtà erano stati in un altro appartamento. “In tutta questa storia ci sono state solo lacune e depistaggi, che col tempo non sono state chiarite ma sono addirittura diventate più oscure. Ho saputo della scomparsa di Denise alle 12.30 e sono arrivata a casa poco dopo, trovando già le forze dell'ordine sotto casa", ha spiegato la signora Maggio. Resta ancora un mistero, per esempio, la telefonata a casa della mamma di Anna Corona. La telefonata sarebbe partita poco dopo la scomparsa della bimba. "La signora Lo Cicero, madre di Anna Corona, ha spiegato di aver ricevuto una telefonata dalla figlia che le diceva di tornare a casa perché era successo qualcosa. Abbiamo seguito i tabulati telefonici, c'è una sola telefonata che viene ricevuta da quell'utenza e abbiamo individuato via Rieti", è intervenuto il legale di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta. Poi il giallo delle intercettazioni: in commissariato, una microspia registrò le conversazioni tra Anna Corona, la figlia Jessica Pulizzi e Gaspare, l'ex fidanzato di quest'ultima. Particolarmente ambigua è la conversazione tra Gaspare e Jessica. L'audio è disturbato ma sembra che, parlando di Denise, Gaspare chieda a Jessica: "Che cosa le hai fatto?". "L'ho messa dentro", avrebbe risposto la donna bisbigliando. Ma questa versione non convince i legali di Jessica Pulizzi. Ci sarebbero state poi anche delle conversazioni tra Anna Corona e la figlia, nelle quali le due sospettarono della presenza di cimici. Il mistero attorno alla figura di Anna Corona si infittisce ancora di più quando Piera Maggio dice: "Ora dirò una cosa forte: Anna Corona aveva un atteggiamento molto ambiguo nei miei confronti. I suoi comportamenti erano fortemente provocatori. Era arrabbiata con me perché credeva che avessi distrutto la sua famiglia, ma il suo matrimonio era già naufragato. Non solo: credo che Anna Corona si fosse in qualche modo infatuata di me".
"Ce l'ammazzasti chidda". Il mistero di Denise e della gallina. Angela Leucci il 24 Aprile 2021 su Il Giornale. La scomparsa di Denise Pipitone viene esplorata e analizzata a 17 anni dalla scomparsa: a "Quarto Grado" si è parlato delle intercettazioni su Jessica Pulizzi e della bimba Danàs. Nonostante la posizione di Jessica Pulizzi sia chiara per la giustizia italiana, il suo ruolo, mediaticamente parlando, ritorna ciclicamente a interessare quando si parla della scomparsa di Denise Pipitone. Se ne è parlato nella puntata di ieri di “Quarto Grado”, in cui è stato evidenziato come le intercettazioni su Jessica potrebbero essere approfondite. Alcune di queste intercettazioni sono diventate ormai celeberrime: c’è quella frase “A casa c’ha purtai” (“L’ho portata a casa”), in cui alcuni credono che Jessica si riferisse alla piccola Denise, ma anche delle domande poste alla ragazza dalla mamma Anna Corona, che chiese alla figlia di ricostruire quel tragico mercoledì di mercato a Mazara del Vallo di 17 anni fa, quando Denise scomparve nel nulla. “Quarto Grado” ha trattato a lungo anche un filmato risalente al processo in cui Jessica fu coinvolta e come Giacomo Frazzitta, il legale della mamma di Denise Piera Maggio, incalzò la giovane che non seppe dare al giudice una spiegazione esauriente. L’intercettazione relativa a quel momento del processo è un’intercettazione ambientale dell’11 settembre 2004. Secondo i verbali, Jessica è in motorino con un’altra persona, che si sente dire “Ce l’ammazzasti chidda” (cioè "L'hai ammazzata quella"). Jessica ha affermato che la frase si riferiva a una gallina e non a Denise: Jessica Pulizzi e la persona con lei quel giorno avrebbero dovuto scavalcare un muretto e accedere a un cortile con delle galline, e la ragazza ha detto di aver temuto di schiacciare uno dei pennuti. Frazzitta ha evidenziato come i tempi verbali e il rumore del motorino sottolineato nei verbali entrino in diretta contraddizione con lo scenario ricostruito da Jessica, che solo successivamente chiede alla persona con lei: “Aiutami a scavalcare”. Jessica è figlia di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise. Nelle ultime settimane si è tornato spesso a parlare del presunto rancore che Jessica avrebbe nutrito per il padre, ma anche e soprattutto per la stessa Denise e per la madre Piera Maggio, a cui papà Pulizzi avrebbe regalato dei vestiti, scatenando in Jessica una reazione: Jessica avrebbe successivamente forato le ruote dell’auto di Piera. Frazzitta ha inoltre rivolto ad Anna Corona, madre di Jessica ed ex moglie di Piero Pulizzi, di aiutare a far luce su cosa possa essere accaduto a Denise, perché nonostante Jessica sia stata assolta, ci sarà sempre una persecuzione mediatica nei suoi confronti. Il conduttore Gianluigi Nuzzi ha spiegato che tutto questo succede perché “Denise è la figlia d’Italia”. La posizione di Anna non è comunque facile, per via di quella traccia audio breve in cui si sente la voce di una bimba, mentre lei le dice: “Stai zitta”. Quella traccia non è stata portata al processo, perché troppo breve per essere analizzata tecnicamente. A “Quarto Grado” si è tornati anche a parlare di Danàs, la bimba somigliante a Denise ripresa, in compagnia di un gruppo di rom, a Milano dalla guardia giurata Felice Grieco, tra l’altro ospite in studio. Secondo Luciano Romito, linguista dell’Università della Calabria, in base a un nuovo video fornito da Piera Maggio, le curve dell’intonazione di Denise e Danàs sono sovrapponibili. “Danàs con grandissima probabilità viene dalla stessa zona”, ha detto l’esperto, spiegando che la bimba potrebbe essere originaria della stessa comunità linguistica di Mazara. Inoltre i volti di Denise e Danàs sono stati comparati con un software americano di riconoscimento facciale ed è stata trovata una grande compatibilità tra le immagini delle due bimbe. La verità su Denise però sembra essere ancora lontana.
Denise Pipitone, la strana telefonata di Anna Corona e il ricordo di un anziano: "Era in braccio a mio nipote". Libero Quotidiano il 28 aprile 2021. Il giallo della scomparsa di Denise Pipitone è sempre più intricato. Sono passati 17 anni da quando la bambina è sparita da Mazara del Vallo, e in questi ultimi giorni emergono nuovi personaggi e nuovi elementi che forse piano piano potrebbero sciogliere i nodi di questa misteriosa sparizione dopo che le prime attenzioni si sono da subito concentrare su Anna Corona, ex moglie del padre della piccola Denise, Piero Pulizzi. La vicenda di Denise è stata al centro della puntata di oggi 28 aprile di Mattino 5, condotto da Federica Panicucci. La conduttrice ha ricordato come il giorno della scomparsa di Denise, Anna avrebbe chiamato la madre da un capannone di una falegnameria. Nel corso della telefonata avrebbe detto all'anziana signora di mettere in allerta le figlie, Jessica e Alice, perché stava succedendo qualcosa di molto grave. La mamma di Anna ha detto di aver sentito per telefono la figlia e che per quello che ne sapeva lei la donna sarebbe rimasta nell'albergo dove lavorava fino alle 15,30. Ma non finisce qui. Perché alle parole della Corona si aggiungono quelle di un anziano signore, che però è morto, di nome Battista dalla Chiave, una persona sordomuta che lavorava nella falegnameria da cui sarebbe partita la chiamata. L'uomo avrebbe raccontato che suo nipote, di nome Peppe, aveva in braccio una bambina che era sullo scooter insieme a lui e che era avvolta da una coperta. Secondo questa testimonianza si sarebbe trattato proprio di Denise Pipitone, ma purtroppo quella pista non è stata presa troppo sul serio e adesso si cerca di capire se invece non fosse il caso di batterla. Il nipote dell'anziano signore, peraltro, sarebbe stato il marito di una cara amica di Anna Corona.
Denise Pipitone, perché non porta il cognome del padre: svelato l'ultimo inquietante mistero. Libero Quotidiano il 15 maggio 2021. Sulla scomparsa di Denise Pipitone ci sono ancora troppi misteri. L'ultimo, quello legato al cognome, è stato svelato da poco grazie alle recenti vicende giudiziarie. La piccola scomparsa diciassette anni fa da Mazara Del Vallo non ha né il cognome del padre, Piero Pulizzi, né quello della mamma Piera Maggio. Il motivo è legato al passato di Piera Maggio. La donna infatti era sposata con Toni Pipitone, suo primo marito. Durante il matrimonio - racconta Il Messaggero - Piera ha avuto una relazione extraconiugale con Piero Pulizzi, amante della donna e da cui ha avuto Denise. Inizialmente la storia era privata, così la piccola a ricevuto il nome del marito di Piera, Toni Pipitone. Quando si è scoperto che la bambina era in realtà biologicamente figlia di Pulizzi Denise era già scomparsa: tutti la conoscevano con quel cognome, anche la piccola si sarebbe riconosciuta con Pipitone. La relazione extraconiugale con l'attuale marito ha portato gli inquirenti a sospettare dell'ex moglie, Anna Corona, con cui Piero Pulizzi ha avuto precedentemente due figlie. Intanto l'avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, ha spiegato che sono emerse nuove intercettazioni che potrebbero rivelarsi utili nella risoluzione della scomparsa della piccola oggi ventenne. "Stiamo lavorando su nuove intercettazioni che riteniamo estremamente importanti, mai entrate nel precedente dibattimento. Quello che stanno facendo i nostri consulenti è un lavoro complementare a quello che la Procura sta svolgendo nella segretezza dell'inchiesta", ha detto in collegamento con Italia Sì. Infine il legale ha commentato quanto dichiarato da Anna Corona a Quarto Grado, su Rete4: "Processo mediatico nei suoi confronti? Non mi risulta che sia in corso un processo. I giornalisti possono svolgere liberamente il loro lavoro approfondendo un caso irrisolto e sollecitando la Procura a riaprire le indagini". Molte infatti le intercettazioni che riguardano la Corona e le figlie di quest'ultima.
Perché Denise Pipitone non ha il cognome del padre né della madre: il motivo che non tutti conoscono. Leggo il 28 aprile 2021. La scomparsa di Denise Pipitone resta avvolta nel mistero. Uno dei dati poco chiari è però quello sul cognome della bambina. Denise infatti non ha come cognome né quello del padre, Piero Pulizzi, né quello della mamma Piera Maggio. Molti si chiedono il motivo che è stato svelato solo di recente, nelle varie vicende giudiziarie e che per diverso tempo è rimasto privato data la delicatezza del motivo. Piera Maggio era sposata con Toni Pipitone, il suo primo marito. Nel corso del matrimonio Piera è rimasta incinta di Denise, ma in realtà il padre della bambina era Piero Pulizzi, amante della donna diventato poi suo marito. I due avevano da tempo una relazione extraconiugale, che è stato uno dei motivi per cui da subito i sospetti della scomparsa della bimba sono ricaduti sull'ex moglie di Pulizzi, da cui l'uomo aveva avuto altre due figlie. Inizialmente la storia era privata, ed ecco il motivo del cognome Pipitone. Quando si è scoperto che la bambina era in realtà biologicamente figlia di Pulizzi Denise era già scomparsa. Così Pipitone si è tirato fuori dalla vicenda, mentre non è stato fatto il cambio di cognome perché la bambina ormai era sparita nel nulla e le ricerche erano cominciate con quel cognome, lo stesso che la bambina avrebbe riconosciuto come il proprio.
CHI L'HA VISTO". Denise Pipitone, giallo sui contatti fra Anna Corona e una donna che aveva relazione col commissario. Da trapani.gds.it il 29 Aprile 2021. Nuove rivelazioni sulla scomparsa di Denise Pipitone sono emerse ieri durante la puntata di "Chi l'ha visto?", che ha dedicato un nuovo approfondimento sulle indagini sul caso della bimba scomparsa da Mazara del Vallo nel settembre 2004. In collegamento con Federica Sciarelli, Piera Maggio e l'avvocato Giacomo Frazzitta. Nel corso della trasmissione in onda su Raitre, riflettori puntati sui tabulati telefonici delle utenze Anna Corona, ex moglie di Pietro Pulizzi (padre biologico di Denise), che registrerebbero un rilevante traffico telefonico (più di mille contatti in un anno) con la dipendente di un'agenzia di viaggi, Stefania, che all'epoca aveva una relazione (poi sfociata in matrimonio) con un commissario di polizia di Mazara del Vallo. Lo stesso consulente aggiorna subito gli inquirenti. Nel corso del processo di primo grado, Anna Corona spiega che con Stefania ha un rapporto di amicizia. Cosa che però Stefania non sembra confermare, affermando sempre in tribunale che Anna è semplicemente una cliente, la quale dopo la morte del padre le ha dato sostegno morale. Ma i contatti tra le due si interrompono l'1 settembre 2004, giorno della scomparsa di Denise: da allora niente più conversazioni ma solo squilli. Il 22 settembre 2004 il consulente Genchi chiede al magistrato che si occupa del caso se una utenza poteva essere di un appartenente alle forze dell’ordine. Da quel giorno Stefania non risponde più a messaggi e chiamate di Anna Corona. Nel corso della trasmissione vengono inoltre trasmesse alcune intercettazioni fatte dai carabinieri e poi in tribunale tra Anna Corona e la figlia Jessica Pulizzi, di dubbia, addirittura doppia, interpretazione. Piera Maggio lancia un appello affinché le intercettazioni fatte al commissariato tra Anna Corona e Jessica possano "essere ripulite con le nuove tecnologie. Magari ascoltate oggi – ha aggiunto – dimostrano una versione diversa, più chiara. Spero che venga fatto, perché lì si parla di Denise, è l'oggetto della discussione".
NUOVI RETROSCENA. Caso Pipitone, Anna Corona vicina al Commissario di Mazara: l'appello di Piera Maggio a 'Chi l'ha visto?' Emergono ulteriori dettagli sulla scomparsa di Denise. La mamma chiede che vengano analizzate le intercettazioni con le nuove tecnologie. Roberta Marchetti Giornalista Today il 29 aprile 2021. “Chi l'ha visto?” continua a indagare a spron battuto sul caso Pipitone. Nella puntata di ieri sera ulteriori dettagli sulla scomparsa di Denise, tra intercettazioni e retroscena che ruotano intorno ad Anna Corona, ex moglie di Pietro Pulizzi - papà della bambina rapita - e sua figlia Jessica. In una delle telefonate, non è chiaro se la primogenita di Pulizzi racconta alla madre di aver visto il papà oppure la sorellina, ma il contenuto è comunque sospetto. In collegamento, Piera Maggio chiede di analizzare l'audio con le nuove tecnologie, non disponibili all'epoca del processo: "Questo è quello che chiedo e che spero venga fatto, perché lì si parla di Denise, è quello l'oggetto del contendere". Denise Pipitone: La sorella disse di aver visto lei o il padre? La doppia interpretazione di una intercettazione ambientale. “Analizzare l’audio con le nuove tecnologie, non disponibili all’epoca del processo”. Gli orari di Anna Corona e l'amicizia con la compagna del Commissario di Mazara. Sotto la lente d'ingrandimento anche gli orari di Anna Corona il giorno della scomparsa di Denise. Quel 1 settembre del 2004, la donna sarebbe andata al lavoro alle 7.15 e i colleghi hanno fatto sapere di aver pranzato con lei tra le 11.30 e le 12, momento in cui la bambina veniva rapita. Dopo mezzogiorno l'unica ad averla vista è stata la sua collega Francesca, che ha dichiarato di aver lavorato con lei fino alle 15.30, ammettendo poi di aver firmato al posto suo in uscita. Dunque, a che ora andò via dal posto di lavoro Anna Corona? Non solo. Dai tabulati è emerso un fitto rapporto tra l'ex moglie di Pulizzi e Stefania, operatrice di un'agenzia di viaggi. 1233 telefonate in un anno e dopo il 1 settembre 2004 solo squilli tra Anna e l'amica, che aveva una relazione con il Commissario Capo di Mazara del Vallo. Dettagli che hanno il loro peso in questa vicenda ancora poco chiara, in cui certamente qualcuno conosce la verità. Da qui il nuovo appello di Piera maggio: "Fatevi avanti, non abbiate paura. Dopo 17 anni dite la verità, aprite il cuore, non tenetevi niente dentro. Credo che ci siano persone che possono dire cose molto importanti. Vorremmo che tutto finisca presto. Speriamo che coloro che sanno o che hanno saputo si facciano avanti, ve lo chiediamo col cuore".
Mattino 5, Denise Pipitone: "La botola mai ispezionata". Scoop dalla Panicucci, un drammatico elemento: cosa c'è lì sotto? Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. “C’è una novità importante sulla scomparsa di Denise Pipitone, un elemento in più”. Lo ha dichiarato Federica Panicucci in apertura della seconda parte di Mattino 5, quella dedicata ai casi di cronaca. La conduttrice di Mediaset si è occupata principalmente del delitto di Avellino, con Elena che ha ucciso a coltellate il padre Aldo con la complicità del fidanzato Giovanni, che era malvisto (e a ragione) dalla famiglia della ragazza. Ma la Panicucci ha dedicato un passaggio anche al caso della bambina di Mazara del Vallo, le cui indagini “hanno mostrato tante lacune”. In particolare a Mattino 5 sono state sottolineate una serie di incongruenze e di elementi contraddittori su alcuni punti delle indagini e sulle intercettazioni. Secondo l’inviata del programma in onda su Canale 5 a far discutere è soprattutto il fatto che “una botola, che porta a uno scantinato nella casa della mamma di Anna Corona, non è mai stata ispezionata”. La Panicucci ha ricordato anche la telefonata di un uomo, che lavorava in falegnameria, che avrebbe visto il nipote con una bambina in braccio, vestita proprio come Denise il giorno della scomparsa. “È una suggestione, una coincidenza incredibile”, ha ammesso la Panicucci che poi ha giustamente ricordato ai suoi telespettatori che non si ha alcuna certezza su questi elementi, ma è comunque giusto discuterne. A proposito della Panicucci, tralasciando per un attimo i fatti di cronaca di cui si è occupata anche oggi, negli ultimi giorni sono circolate delle indiscrezioni secondo cui la conduttrice di Mediaset sarà ancora alla guida di Mattino 5 insieme a Francesco Vecchi anche nella prossima edizione.
Quell'inferno in casa dopo la scomparsa di Denise. Angela Leucci l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. A Quarto Grado si torna a parlare di Denise Pipitone: al centro gli interrogativi sul processo ad Anna Corona, che tuttavia è stata assolta. “Il primo settembre l’inferno è entrato in casa della signora Piera Maggio e l’inferno è entrato in casa mia”. Si apre con le parole di Anna Corona la puntata di ieri di Quarto Grado, ancora una volta con un lungo approfondimento dedicato a Denise Pipitone. Durante la trasmissione, che ha rilevato i presunti interrogativi sospesi sulla scomparsa della bimba, è stata letta una lettera da parte dei legali di Corona e della figlia Jessica Pulizzi. Gli avvocati hanno ricordato che le due donne hanno affrontato tre gradi di giudizio e sono state assolte, per cui continuare a parlare del passato rappresenta un “processo mediatico inaccettabile”. Tra le questioni sollevate ci sono state la perquisizione della casa sbagliata da parte dei carabinieri, ossia quella della vicina e non quella di Anna Corona, dettaglio che è emerso solo dopo 8 anni dalla scomparsa, durante il processo. Si è accennato ai contatti frequenti tra Anna e la sua conoscente Stefania, che si interrompono il 1 settembre diventando solo squilli. E si è parlato anche della telefonata di Anna con un certo Salvatore, al quale, come sottolineato durante il processo all’avvocato di mamma Piera Maggio Giacomo Frazzitta, Anna disse di combattere dalla mattina precedente per la vicenda di una bambina scomparsa, ma Denise è scomparsa solo intorno a mezzogiorno. La chiamata è preceduta da un’altra telefonata di 75 secondi tra i due, della quale Anna affermò di non ricordare il contenuto. “Sicuramente c’è qualcuno che sa”, ha detto alle telecamere di “Quarto Grado” l’ex procuratore di Marsala Alberto Di Pisa, che ha sottolineato i propri dubbi circa la mancata perquisizione della casa di Anna Corona. “Mi fa arrabbiare e fa arrabbiare Piera essere lasciati soli - ha commentato Frazzitta - ed essere maltrattati. Ci sono stati tanti comportamenti che non hanno aiutato. In un primo momento Piera è stata sospettata, poi siamo arrivati a un processo. Mi sarebbe piaciuto sentire Di Pisa parlare alla stessa maniera durante il processo. Disse che era molto difficile e che sarebbe stata giusta una richiesta di archiviazione. Oggi sento che ci credeva e mi spiace sentirlo così in ritardo”. A “Quarto Grado” si è tornati anche sul giallo della donna insieme a Danàs nel video girato a Milano dalla guardia giurata Felice Grieco. Questi fu accompagnato nei diversi campi rom in provincia di Milano, ma non trovò nessuno somigliante alla donna e alla bambina che aveva incontrato e ripreso con il telefonino. L’esperta Dijana Pavlovic ha smentito che la donna potesse essere stata di etnia rom. “Non mi sembra una rom - ha chiosato - mi sembra asiatica”.
Denise Pipitone, la rivelazione a Quarto grado di Dijana Pavlovic: "Altroché rom, chi era la donna che stava con Danas". Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. Si parla del caso di Denise Pipitone nella puntata di Quarto Grado andata in onda il 30 aprile su Rete 4. E fra gli altri aspetti del giallo si è tornati sulla donna che era insieme a Danas nel video girato a Milano dalla guardia giurata Felice Grieco. L'uomo fu accompagnato nei diversi campi rom in provincia di Milano, ma non trovò nessuno che assomigliasse alla rom e alla bambina che aveva incontrato e ripreso con il telefonino. In studio, Dijana Pavlovic ha smentito che la donna potesse essere stata di etnia rom. "Non mi sembra una rom, mi sembra asiatica”. Tant'è. Gli aspetti da chiarire sono ancora molti. Uno tocca anche Anna Corona. “Il primo settembre l’inferno è entrato in casa della signora Piera Maggio (mamma di Denise, ndr) e l’inferno è entrato in casa mia”. Durante la trasmissione, riporta il Giornale, è stata letta una lettera da parte dei legali di Corona e della figlia Jessica Pulizzi nella quale sottolineano che le due donne hanno affrontato tre gradi di giudizio e sono state assolte quindi continuare a parlare del passato rappresenta un “processo mediatico inaccettabile”. Eppure sono emerse nuove questioni in questi ultimi anni tra le quali la perquisizione della casa sbagliata da parte dei carabinieri, ossia quella della vicina e non quella di Anna Corona, dettaglio emerso solo dopo 8 anni dalla scomparsa durante il processo. Nella trasmissione si è parlato dei contatti frequenti tra Anna e la sua conoscente Stefania, che si interrompono il 1 settembre diventando solo squilli. E si è parlato anche della telefonata di Anna con un certo Salvatore, al quale, come sottolineato durante il processo all’avvocato di mamma Piera Maggio Giacomo Frazzitta, Anna disse di combattere dalla mattina precedente per la vicenda di una bambina scomparsa, ma Denise è scomparsa solo intorno a mezzogiorno. La chiamata è preceduta da un’altra telefonata di 75 secondi tra i due, della quale Anna affermò di non ricordare il contenuto. “Sicuramente c’è qualcuno che sa”, ha detto a Quarto Grado l’ex procuratore di Marsala Alberto Di Pisa, che ha specificato di avere dubbi sulla mancata perquisizione della casa di Anna Corona: “Mi fa arrabbiare e fa arrabbiare Piera essere lasciati soli - ha commentato Frazzitta - ed essere maltrattati. Ci sono stati tanti comportamenti che non hanno aiutato. In un primo momento Piera è stata sospettata, poi siamo arrivati a un processo. Mi sarebbe piaciuto sentire Di Pisa parlare alla stessa maniera durante il processo. Disse che era molto difficile e che sarebbe stata giusta una richiesta di archiviazione. Oggi sento che ci credeva e mi spiace sentirlo così in ritardo”.
Denise Pipitone, la Procura riapre l'indagine: "Depistaggi ed errori", spuntano nuovi dettagli. Libero Quotidiano il 03 maggio 2021. La Procura di Marsala è tornata a indagare sul caso di Denise Pipitone, la figlia di Piera Maggio scomparsa da Mazara del Vallo il primo settembre 2004, all’età di soli quattro anni. I magistrati stanno cercando di capire se ci siano stati depistaggi o errori nell’inchiesta: per questo è stata sentita come persona informata sui fatti Maria Angioni, ex pm che all’epoca indagò sul caso che è diventato a tutti gli effetti una questione nazionale. Nei giorni scorsi la magistrata ha dichiarato il televisione di aver avuto il sospetto che siano avvenute delle fughe di notizie sull’inchiesta: non solo, la sua impressione è che alle persone intercettate fosse stato riferito che i loro telefoni erano sotto controllo. A distanza di 17 anni emergono quindi nuovi elementi su una vicenda che non sembra trovare conclusione, anzi è stata riaperta e ha suscitato enorme clamore mediatico per quanto accaduto in una trasmissione russa, dove una ragazza della stessa età di Denise sembrava poter essere proprio la bambina scomparsa a Mazara del Vallo. E invece nulla da fare, gli esami del sangue hanno escluso con certezza che possa essere lei. Inoltre a infittire il caso è spuntata una botola che si trova nella casa della madre di Anna Corona, ex moglie del papà di Denise: nel corso di questi anni la botola non sarebbe mai stata analizzata. Una incongruenza investigativa che fa il paio con i sospetti che fin dall’inizio dell’inchiesta si sono concentrati proprio sulla ex moglie e sulla figlia Jessica.
Tiziana Lapelosa per "Libero quotidiano" il 4 maggio 2021. «Cercate vicino», andava ripetendo Piera Maggio. «Cercato vicino». E vicino si cercò, ma poco e male nelle ore e nei giorni che seguirono quel primo settembre del 2004, quando di sua figlia, quattro anni, si persero le tracce da Mazara del Vallo, Trapani. Ora, a diciassette anni di distanza, dopo speranze più volte riaccese e altrettante spente di riabbracciare una bimba ormai donna, il caso Denis Pipitone si riapre. E le indagini del nuovo fascicolo della procura di Marsala riguardano eventuali depistaggi e fughe di notizie che avrebbero condizionato le ricerche e di conseguenza, il mancato ritrovamento della bambina. Ad occuparsi per prima della vicenda fu la pm Maria Angioni, oggi giudice a Sassari. All' indomani della "messa in scena" alla televisione russa, quasi un mese fa, su tale Olesya Rostova che si sperava essere Denise Pipitone ma che poi si è rivelato essere una montatura, la Angioni aveva confidato di «aver avuto grosse difficoltà» nel corso delle indagini sulla scomparsa di Denise, che «dopo tre giorni tutte le persone sottoposte a intercettazioni già sapevano di essere sotto controllo». Ed è da qui che, sotto la supervisione del procuratore capo Vincenzo Pantaleo e dei sostituti procuratori Roberto Piscitello e Giuliana Rana, la procura siciliana è ripartita per aprire un nuovo fascicolo. Come primo atto ha chiamato a testimoniare proprio la Angioni, che all' epoca coordinò le indagini, misti a fatti "strani". Non sappiamo se ieri mattina abbia detto qualcosa in più rispetto a quel che già si sapeva e che è emerso al processo che ha visto imputata Jessica Pulizzi, sorellastra di Denise. Quando venne lasciata in una stanza insieme alla madre Anna Corona (contro di lei era stato aperto un fascicolo per omicidio chiuso poi con un' archiviazione) i dialoghi tra le due donne risultano "stranamente" sporcati dal rumore del condizionatore sotto il quale era stata messa la cimice, lasciando la finestra aperta. Coincidenza? Errore? Jessica Pulizzi viene assolta e pure il suo fidanzato Gaspare Ghaleb accusato di false dichiarazioni, nulla avrà a che fare con la giustizia. Jessica, lo ricordiamo, è la sorellastra di Denise, e all' epoca dei fatti aveva 17 anni. Insieme alla madre e alla sorella Alice nutriva un odio profondo nei confronti di Piera, mamma di Denise, che le avrebbe portato via il padre, Piero Pulizzi. Quest' ultimo, infatti, quando il marito di Piera Maggio era in Germania per lavoro, si innamorò di Piera e dalla loro relazione nacque Denise, che però verrà riconosciuta dal marito di DENISEFPU che di cognome fa Pipitone. Entrambi lasceranno poi i rispettivi partner. Gli elementi per una vendetta ci sarebbero stati tutti, ma non le prove. È possibile - e questa è l' ipotesi sulla quale si lavora dopo 17 anni - che qualora fossero esistite, sarebbero state viziate. Inoltre, all' epoca dei fatti, voci di paese parlavano di una relazione tra un esponente delle forze dell' ordine e un' amica della Corona. Da qui la possibile fuga di notizie. Ma sono tutte ipotesi. Il timore è che il nuovo filone di indagini possa essere un ulteriore buco nell' acqua. Almeno stando alle parole dell'ex procuratore di Marsala, Alberto Di Pisa. Dice: «Una nuova inchiesta sul caso Denise può avere un senso se c' è un fatto rilevante, cioè se qualcuno dice una cosa che all' epoca non fu detta, ma se la situazione resta immutata a cosa serve una nuova indagine della Procura? Per accertare eventuali negligenze della Polizia o della Procura? A cosa approda?». E su eventuali depistaggi dice: «Ammesso che si accerti che sia stato fatto un depistaggio, con dolo, qui sembra invece si tratti di casi di negligenza, forse della Polizia, dopo 17 anni è tutto prescritto. Non c' è il reato di depistaggio ma di abuso d' ufficio o calunnia, che si prescrive dopo sei anni». «L' indagine che andava fatta», conclude il magistrato, «era quella di Milano, su quel video girato da un metronotte in cui si vedeva una bimba. Era sicuramente Denise, al 99 per cento, ci metto la mano sul fuoco». Intanto il sindaco di Mazara, Salvatore Quinci, fa sapere che l' intera giornata di domani sarà dedicata a Denise, con appuntamenti televisivi e manifestazioni. Presenti i genitori, Piera Maggio e Piero Pulizzi. Ancora una volta messi a dura prova.
Denise, spunta una taglia: "Vi pago 50mila dollari". Federico Garau il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. La proposta dell'imprenditore italoamericano Tony Di Piazza: 50mila dollari a chi fornisce informazioni su Denise. I ringraziamenti di Piera Maggio a Mattino Cinque: "È sicuramente una persona molto sensibile". Una ricompensa di 50mila dollari per chiunque sia in grado di fornire informazioni utili sul caso di Denise Pipitone, la bimba scomparsa a Mazara del Vallo nell'ormai lontano primo settembre del 2004. Questa la personale iniziativa di Antonino (Tony) Di Piazza, imprenditore italoamericano e consigliere del Palermo calcio. Intervenuta nel corso di Mattino Cinque, Piera Maggio, madre di Denise, ha espresso tutta la propria gratitudine nei confronti dell'uomo. La vicenda di Denise, mai dimenticata, era nuovamente balzata alla cronaca in seguito alle dichiarazioni di Olesya Rostova, la giovane russa che durante una trasmissione televisiva aveva raccontato di essere stata rapita da bambina, lanciando un appello per ritrovare i propri genitori biologici. Scoperta la verità, ossia che la piccola Denise e la ragazza straniera non sono la stessa persona, la procura di Marsala ha deciso di riaprire le indagini. Lo scopo, soprattutto dopo aver udito le recenti affermazioni dell’ex pubblico ministero Maria Angioni, all'epoca incaricata di condurre il caso, è quello di verificare che non vi siano stati depistaggi od errori nel corso dell'attività investigativa. Toccato dalla storia della bambina scomparsa e della sua famiglia, l'ex vicepresidente del Palermo ha deciso di dare il proprio contributo, offrendo una ricompesa di 50mila dollari a chiunque sia in grado di fornire notizie utili su Denise. "Un tifoso del Palermo mi ha contattato l’altro giorno per chiedermi se avessi potuto mettere nella mia bacheca Facebook un annuncio in merito alla scomparsa della piccola Denise Pipitone", ha dichiarato Tony Di Piazza, come riportato dal portale Mediagol.it."Naturalmente è un caso che io seguo dalle origini. L’idea è quella di avere da persone informazioni utili, per mettere la parola fine a questa storia. La ricompensa sarebbe di 50mila dollari – equivalenti a circa 40 mila euro – magari questo potrebbe aiutare a chi sa, ed il compenso economico potrebbe sbloccare la coscienza delle persone. Spero che funzioni”. Raggiunta telefonicamente da Mattino Cinque, Piera Maggio ha commentato la proposta dell'imprenditore italoamericano. "È sicuramente una persona molto sensibile", ha dichiarato la donna."Questa situazione l'avrà toccato così tanto da rendersi disponibile. Sicuramente non è indifferente, anche nei primi anni dopo la scomparsa di Denise ci sono stati dei benefattori che hanno messo a disposizione qualche somma per fare si che qualcuno parlasse e dicesse la verità. Non chiamiamola taglia, diciamo più una ricompensa", ha aggiunto. Adesso è stato Di Piazza a mettersi a disposizione. Piera Maggio ha ringraziato in diretta televisiva l'imprenditore: "Con questa proposta, chi lo sa, magari chi ha avuto un tentennamento si può rafforzare ancora di più, e con questa ricompensa può fornire maggiori dettagli su cose che sa". Importante anche la decisione della procura di Marsala di riaprire le indagini. La donna si augura che la verità venga finalmente a galla: "Quello che chiedo in tutta questa vicenda è verità e giustizia per Denise, perché non si può far sparire una bambina così e farla franca".
Il personaggio. Chi è Tony Di Piazza, l’imprenditore italo-americano che offre 50mila dollari sul caso Denise Pipitone. Vito Califano su Il Riformista il 5 Maggio 2021. È aperto come non era mai stato negli ultimi anni il caso di Denise Pipitone. Un imprenditore italoamericano, Tony Di Piazza, ha perfino offerto 50mila dollari a chi fornirà informazioni utili alla vicenda della bambina scomparsa a Mazara del Vallo, nel 2004, e mai più ritrovata. La Procura di Marsala ha riaperto caso per chiarire eventuali depistaggi o errori nell’inchiesta. La vicenda è tornata al centro dell’attenzione mediatica il mese scorso, dopo tutta la telenovela e quindi l’attenzione attirata da una trasmissione in Russia su Olesya Rostova, una ragazza della stessa età di Denise, abbandonata alla nascita, che cercava i genitori. Il suo appello era stato accostato alla vicenda di Pipitone. Nulla di fatto. Solo tanto clamore mediatico. Maria Angioni, pm, ora giudice a Sassari, è stata invece ascoltata come persona informata sui fatti, in quanto indagò sul caso. Aveva dichiarato in televisione di sospettare fughe di notizie sull’inchiesta e che le persone intercettate all’epoca fossero informate. Nella puntata di stasera di Chi l’ha visto? sarà in collegamento Piera Maggio, madre di Denise Pipitone. “Adesso mi aspetto che la verità emerga forte e prepotente – ha commentato Piera Maggio, madre di Denise, sulla riapertura delle indagini – Quello che chiedo in tutta questa vicenda è verità e giustizia per Denise, perché non si può far sparire una bambina così e farla franca”. E quindi la madre della bimba a proposito di Tony Di Piazza ha osserva che “si tratta di una persona sensibile” condividendo sui social l’offerta dell’imprenditore spiegando che non è la prima volta che qualcuno contribuisce alle indagini e alla ricerca della verità con iniziative simili. “Chi lo sa, forse con questa offerta, chi ha avuto un tentennamento magari potrà fornire maggiori dettagli su cose che conosce”, ha aggiunto Maggio. Lo stesso Di Piazza ha spiegato il suo coinvolgimento: “Un tifoso del Palermo, mi ha contattato l’altro giorno, per chiedermi se avessi potuto mettere nella mia bacheca Facebook un annuncio in merito alla scomparsa della piccola Denise Pipitone. Naturalmente è un caso che io seguo dalle origini. L’idea, naturalmente, è quella di avere da persone informazioni utili, per mettere la parola fine a questa storia. La ricompensa sarebbe di 50mila dollari – equivalenti a circa 40 mila euro – magari questo potrebbe aiutare a chi sa, ed il compenso economico potrebbe sbloccare la coscienza delle persone. Spero che funzioni”, ha detto Di Piazza a Pomeriggio Cinque.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
E.C. per leggo.it il 5 maggio 2021. Denise Pipitone, l'intercettazione choc a Pomeriggio 5: «Anna Corona è in casa con una bambina e le dice di stare zitta...». Oggi, nel corso del programma di Canale 5, si è tornati a parlare del caso di Denise Pipitone. Le telecamere di Barbara D'Urso sono fuori alla ex casa di Anna Corona, mentre è in corso l'ispezione delle forze dell'ordine. La conduttrice spiega cosa sta succedendo: «I vigili del fuoco e i carabinieri stanno ispezionando un pozzo nel box dell'ex casa di Anna Corona, dopo una segnalazione alla Procura. L'avvocato Frazzitta ha affermato che la segnalazione non è anonima». Poi, Barbara D'Urso lancia un'intercettazione ambientale: «Vi faccio ascoltare un audio in cui una bambina risponde al telefono a casa di Anna Corona e lei la zittisce. 'Pronto' dice la voce di una bambina o di un bambino e lei le dice 'Stai zitta'». Poi, la giornalista in collegamento legge le prime parole di Piera Maggio, la mamma di Denise, dopo aver appreso dell'ispezione nella casa di Mazara del Vallo: «Sono scioccata, non nego che ho pianto. Mi aspettavo almeno una telefonata, non sapevo che si stesse cercando il cadavere di Denise». In collegamento, il generale Luciano Garofalo, ex comandante dei Ris di Parma, commenta così: «L'intercettazione ambientale era già stata ascoltata dagli investigatori, è troppo breve e non è chiara. Perché l'ispezione ora? È molto probabile che ora sia arrivata una segnalazione in Procura. La Procura non può permettersi di fare ulteriori errori come in passato e per fare una prima verifica ha mandato gli specialisti. Perché la segnalazione è arrivata ora? Gli animi, le coscienze sono stati scossi dagli ultimi avvenimenti».
Denise Pipitone, l'audio choc a Pomeriggio 5: "Anna Corona è in casa con una bambina e le dice di stare zitta". Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Un'intercettazione choc sul caso di Denise Pipitone, la bambina di Mazara Del Vallo scomparsa a 4 anni nel 2004. Lo scoop è avvenuto nello studio di Pomeriggio Cinque, il programma condotto da Barbara D'Urso. Le telecamere della trasmissione si sono posizionate fuori dalla ex casa di Anna Corona, ex del papà di Denise, mentre è in corso l'ispezione delle forze dell'ordine. Nel frattempo la conduttrice ha spiegato: "I vigili del fuoco e i carabinieri stanno ispezionando un pozzo nel box dell'ex casa di Anna Corona, dopo una segnalazione alla Procura. L'avvocato Frazzitta ha affermato che la segnalazione non è anonima". La padrona di casa, poi, ha fatto ascoltare un audio choc. Un'intercettazione ambientale per la precisione. "Vi faccio ascoltare un audio in cui una bambina risponde al telefono a casa di Anna Corona e lei la zittisce. 'Pronto' dice la voce di una bambina o di un bambino e lei le dice 'Stai zitta'". Il giornalista in collegamento con la D'Urso, poi, ha letto le prime parole di Piera Maggio, la mamma della piccola Denise, dopo aver saputo dell'ispezione nella casa di Mazara Del Vallo: "Sono scioccata, non nego che ho pianto. Mi aspettavo almeno una telefonata, non sapevo che si stesse cercando il cadavere di Denise". Intanto a commentare l'intercettazione choc fatta sentire dalla D'Urso è stato il generale Luciano Garofalo, ex comandante dei Ris di Parma, in collegamento con Pomeriggio Cinque: "L'intercettazione ambientale era già stata ascoltata dagli investigatori, è troppo breve e non è chiara". E ancora: "Perché l'ispezione ora? È molto probabile che ora sia arrivata una segnalazione in Procura. La Procura non può permettersi di fare ulteriori errori come in passato e per fare una prima verifica ha mandato gli specialisti. Perché la segnalazione è arrivata ora? Gli animi, le coscienze sono stati scossi dagli ultimi avvenimenti".
Annalisa Grandi per "corriere.it" il 5 maggio 2021. Nuove indagini sulla scomparsa di Denise Pipitone, la bambina sparita il 1 settembre del 2004 a Mazara del Vallo: i carabinieri della Scientifica stanno effettuando una ispezione nella casa di Mazara che era abitata da Anna Corona, ex moglie di Pietro Pulizzi, padre biologico di Denise, e madre di Jessica, la sorellastra di Denise che era stata accusata di averla rapita ma è stata assolta in tutti i gradi di giudizio. Il sopralluogo viene effettuato per verificare se siano stati effettuati dei lavori edili nella casa ed è stato disposto dalla Procura di Marsala che ha recentemente riaperto le indagini sulla scomparsa della piccola. La casa da tempo non è più di proprietà di Anna Corona, i carabinieri stanno effettuando il sopralluogo a seguito di una segnalazione secondo la quale il corpo di Denise potrebbe trovarsi nascosto in casa, celato da un muro costruito appositamente. I militari dell'Arma indagano anche sulla possibile presenza di una botola all’interno di uno dei due garage che porterebbe a uno scantinato e che negli anni non sarebbe mai stata ispezionata. Fonti investigative smentiscono al momento però che siano in atto ricerche del corpo della bimba. L’avvocato di Piera Maggio, la mamma di Denise, Giacomo Frazzitta ha fatto sapere che l’ispezione sarebbe scaturita da una segnalazione «non anonima». La custode dello stabile ha spiegato ai giornalisti che «gli attuali proprietari della casa sono in Svizzera» e la palazzina sarebbe disabitata da circa un anno. L’ispezione è stata disposta dal procuratore capo Vincenzo Pantaleo e dai sostituti Roberto Piscitello e Giuliana Rana, che nei giorni scorsi hanno ascoltato l’ex pm Maria Angioni, titolare delle prime indagini sulla scomparsa della bimba e adesso in servizio a Sassari. Denise Pipitone era sparita da Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004, quando aveva solo quattro anni: nel corso del tempo le indagini si erano concentrate sulla sorellastra Jessica Pulizzi poi indagata per sequestro di minore e assolta da tutte le accuse con sentenza definitiva della Cassazione del 2017.
Della vicenda di Denise Pipitone si era tornati a parlare settimane fa dopo la segnalazione di una giovane donna russa che si sperava potesse essere proprio Denise, ipotesi poi smentita dai test genetici.
Denise Pipitone, accertamenti a casa di Anna Corona: la scoperta di un pozzo segreto. Ilaria Minucci su Notizie.it il 05/05/2021. Caso Denise Pipitone, accertamenti a casa di Anna Corona: le forze dell’ordine hanno trovato un pozzo segreto, ispezionato dai vigili del fuoco. In relazione a quanto disposto dalla Procura di Marsala e alla riapertura delle indagini relative al caso della scomparsa di Denise Pipitone, sono in atto ispezioni e accertamenti presso l’abitazione di Mazara del Vallo abitata all’epoca dei fatti da Anna Corona, ex moglie di Pietro Pulizzi, padre biologico della bimba scomparsa il 1° settembre 2004. Nella giornata di mercoledì 5 maggio, i carabinieri e i vigili del fuoco hanno iniziato ad effettuare controlli presso l’appartamento occupato da Anna Corona al momento della sparizione della piccola Denise Pipitone. In seguito alla registrazione di alcune nuove testimonianze che hanno sottolineato la presenza di una botola afferente alla casa di Anna Corona, madre di Jessica Pulizzi (già accusata del rapimento della sorellastra e, di conseguenza, processata e assolta) i magistrati hanno reputato indispensabile procedere alla riapertura delle indagini. Gli accertamenti, quindi, sono divenuti necessari e si stanno concentrando non solo sull’abitazione della donna ma anche e soprattutto sulla botola nel garage annesso alla casa e sul pozzo che essa ricopre. Le indagini sono state affidate ai carabinieri della Scientifica che, tuttavia, per procedere alla ricerca del pozzo hanno deciso di avvalersi della cooperazione dei vigili del fuoco che si sono subito attivati al fine di verificare la botola, situata all’interno del garage. In questo contesto, i pompieri si sono prontamente muniti di una pompa idrovora, opportunamente montata, poiché appaiono essere certi che la botola porti a un pozzo molto verosimilmente ricolmo d’acqua. Pertanto, gli uomini in servizio dovranno procedere allo svuotamento del pozzo prima di poter proseguire con gli accertamenti del caso e continuare a cercare Denise. Una simile decisione è scaturita dopo l’intervento sul posto del gruppo Saf dei Vigili del Fuoco che hanno condotto un’ispezione preliminare del pozzo. Inoltre, per eseguire tutte le operazioni di accertamento necessarie, i pompieri si sono equipaggiati con svariate bombole d’ossigeno, torce e scale, fondamentali per avere la possibilità di perlustrare in modo completo e accurato il pozzo. Le forze dell’ordine, poi, hanno raccolto una particolare testimonianza relativa al pozzo da controllare rilasciata da una ex vicina di casa di Anna Corona. La donna, infatti, ha spiegato: “Ognuna delle case che sono state costruite in questa zona sono dotate di un pozzo perché, quando abbiamo costruito le abitazioni, la zona non era servita dalla rete idrica di acqua potabile”. Intanto, le indagini e le verifiche procedono anche se, a questo proposito, fonti investigative hanno recentemente smentito che le forze dell’ordine siano alla ricerca del cadavere di Denise.
La scomparsa di Denise: i vigili ispezionano sino a sera un pozzo a casa di Anna Corona. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 5 maggio 2021. E' stata la procura di Marsala a disporre nuovi accertamenti interrotti alle 20,30. Al lavoro la Scientifica. Stasera una fiaccolata a Mazara. La procura di Marsala ha inviato questa mattina i carabinieri nell'abitazione di Anna Corona, la madre di Jessica Pulizzi, la sorellastra di Denise Pipitone, la bambina scomparsa l'1 settembre 2004 a Mazara del Vallo. E' stata disposta un'ispezione, per "accertare lo stato dei luoghi". Nei giorni scorsi, i magistrati hanno riaperto il caso, ascoltando alcune persone, stanno anche vagliando una segnalazione che sarebbe arrivata al palazzo di giustizia: un anonimo ha parlato di una misteriosa botola e di alcuni "strani" lavori di ristrutturazione che potrebbero essere stati fatti per eliminare le tracce di una stanza segreta. Nel pomeriggio, sono arrivati pure i vigili del fuoco, per ispezionare un pozzo trovato in garage, è profondo dieci metri. I vigili hanno montato una pompa idrovora. Intanto, i carabinieri di Mazara del Vallo hanno ispezionato la casa confrontando lo stato dei luoghi con una pianta del catasto. Intorno alle 20.30, l'attività è stata sospesa. In quella casa, dove Anna Corona non vive più da un anno, gli investigatori erano già stati tante volte nel 2004. All'epoca, il sospetto era che la donna (ex moglie di Pietro Pulizzi, il padre naturale di Denise) avesse aiutato la figlia nel suo piano di vendetta. Ipotesi caduta con l'assoluzione di Jessica, in tutti e tre gradi di giudizio. Ma in quella casa di via Pirandello, a Mazara, gli inquirenti sono adesso tornati. Qualcuno ha fornito nuove indicazioni agli investigatori? C'è una nuova pista sulla scomparsa di Denise? In realtà, questa è la pista principale seguita dagli inquirenti, quella familiare. Il procuratore Vincenzo Pantaleo e i sostituti Roberto Piscitello e Giuliana Rana stanno riesaminando la vecchia indagine, nei giorni scorsi hanno anche ascoltato l'ex pm Maria Angioni, ora giudice a Sassari. Obiettivo, quello di cogliere eventuali depistaggi avvenuti nei primi giorni dell'inchiesta. La magistrata, intervenuta in alcune trasmissioni Tv, ha parlato di scarsa collaborazione di alcuni testimoni, ma ha anche fatto una denuncia pesante: "Ci rendemmo presto conto che alcune persone sapevano di essere intercettate. Allora smisi di intercettare, e poi ripresi le indagini con una forza di polizia diversa, nel disperato tentativo di salvare il salvabile". Cosa accadde davvero in quei giorni? Stasera, a Mazara, è prevista una fiaccolata per Denise. Dice il sindaco Salvatore Quinci: "Abbiamo chiamato a raccolta scuole, associazioni e cittadinanza con l'obiettivo di testimoniare la nostra solidarietà a Piera e Piero e per chiedere con forza verità".
"Denise è caduta in un pozzo", quella voce all'inizio delle indagini. Angela Leucci il 6 Maggio 2021 su Il Giornale. Manifestazione di solidarietà per Denise Pipitone a poche ore dai sopralluoghi nella vecchia casa di Anna Corona: ecco cos'è accaduto a "Chi l'ha visto?". La puntata di ieri di “Chi l’ha visto?” si è aperta con il collegamento dal centro siciliano insieme con i genitori di Denise Piera Maggio e Piero Pulizzi, il legale Giacomo Frazzitta, il sindaco e il vescovo di Mazara che hanno lanciato appelli per il ritrovamento della bimba a quasi 17 anni dalla sparizione. L’attenzione della giornata era però rivolta soprattutto ai sopralluoghi che si sono tenuti ieri nell’ex abitazione di Anna Corona, dove è stata trovata una botola in garage, che consente l’accesso alle cisterne con le riserve d’acqua, un’usanza necessaria in alcuni periodi dell'anno e quindi presente in molti paesi della Sicilia e del Sud Italia. E, in maniera insolita, si parla di un pozzo in una citazione di Maria Angioni, oggi giudice del lavoro a Sassari, che da magistrato si occupò a suo tempo della scomparsa di Denise. La donna ha infatti affermato che qualcuno della polizia giudiziaria la accusò di cercare le luci della ribalta, ma invece “la bambina era caduta in un pozzo”. Angioni ha anche raccontato alcuni dettagli delle indagini: i bambini della zona parlarono di un’automobile, che nei giorni precedenti alla scomparsa di Denise si palesò più volte nel quartiere in cui la piccola abitava. Angioni è inoltre fiduciosa che Denise sarà ritrovata e spiega che l’errore degli inquirenti nel non perquisire la casa di Anna Corona nel giorno della scomparsa è stato un “peccato veniale”, per usare le parole di Federica Sciarelli: Anna Corona aveva in effetti abitato al piano terra in precedenza e si potrebbe essere generata confusione. Ma al tempo stesso il magistrato solleva un interrogativo: perché la donna non ha detto che non era casa sua? Per quanto riguarda i sopralluoghi di ieri, Piera Maggio ha affermato di aver appreso tutto solo dalle notizie emerse mentre si stava recando all’avvocato in preparazione della manifestazione di ieri sera. “Mi ha devastato sapere che si cercava un corpo - ha detto mamma Piera - Mi aspettavo un po’ più di delicatezza”. Il garage della vecchia casa di Anna Corona non è stato posto sotto sequestro e Piero Pulizzi, che in quello stabile ha abitato, ha raccontato di non ricordare nessuna botola, ma anche che il garage era molto grande e vi erano parcheggiate sempre diverse automobili. “Mi auguro che le indagini proseguano - ha commentato l’avvocato Giacomo Frazzitta - e che siano più riservate di quanto avvenuto oggi. Credo che sia stato un intervento mirato e che il muro di omertà inizi a sgretolarsi”.
Denise Pipitone, trovato un pozzo sotto la botola: "Lo stanno svuotando", è il momento della verità? Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Nel giorno in cui è prevista una fiaccolata nel nome di Denise Pipitone, Mazara del Vallo è stata scossa dalla notizia della riapertura delle indagini e soprattutto sull’ispezione in corso nella casa che fu abitata da Anna Corona, la madre dell’ex moglie del padre della bambina scomparsa il primo settembre 2004. L’attenzione dei Vigili del Fuoco, che da ore operano in quell’abitazione, è puntata su un pozzo che si trova sotto una botola nel garage di via Pirandello. È arrivata anche una squadra del San, il gruppo Speleo Alpino Fluviale provinciale. Quest’ultimo ha montato una pompa idrovora per svuotare il pozzo: non è ancora chiaro che cosa si sta cercando, ma a giudicare dagli specialisti messi in campo si intuisce che stanno portando avanti una ricerca molto precisa. In precedenza all’interno dell’abitazione i Ris hanno cercato delle tracce di intonaco recente, o di lavori strutturali: l’ispezione è in corso da mezzogiorno e pare sia partita da una segnalazione anonima, arrivata a 17 anni dalla scomparsa di Denise Pipitone. Inoltre l’inviata de La Vita in Diretta - la trasmissione di Rai1 condotta da Alberto Matano - ha aggiunto ulteriori dettagli importanti. “L’informazione diceva di venire qui a fare un sopralluogo su due cose: lavori in muratura che potessero risultare freschi, mi parlavano di una macchia, e poi un’altra cosa che non ci hanno voluto dire”, ha dichiarato l’inviata di Rai1. Più avanti è emerso chiaramente che “l’altra cosa” era la botola, sotto alla quale c’è un pozzo che adesso deve essere svuotato.
Ecco cosa hanno trovato nella casa dove cercano Denise. Angela Leucci il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Terminati i sopralluoghi nella casa in cui vissero Anna Corona e Jessica Pulizzi: Denise Pipitone risulta ancora scomparsa dal 2004. I vigili del fuoco hanno lasciato da poco la ex casa di Anna Corona, dove oggi si sono svolti dei sopralluoghi. La struttura è stata da sempre ritenuta importante per le ricerche di Denise Pipitone, la bambina di 4 anni scomparsa da oltre 16 senza lasciare traccia a Mazara del Vallo in provincia di Trapani.
Le ricerche. La giornata di ricerche è iniziata oggi con i carabinieri nella vecchia casa di Anna Corona. A essi si sono aggiunti i vigili del fuoco e i rilevamenti dei Sis. Pare siano state cercate tracce di intonaco recente o di modifiche strutturali o forse di una "stanza segreta" dice Adnkronos, dato che gli inquirenti erano muniti di mappe catastali. In garage pare sia stata rinvenuta una botola con accesso a un pozzo, che i vigli del fuoco hanno provveduto a svuotare. La Procura di Marsala ha tuttavia smentito che si stessero cercando resti umani.
La riapertura delle indagini. Da quando una trasmissione russa ha acceso i riflettori sulla possibilità che una giovane alla ricerca della sua famiglia naturale, Olesya Rostova, potesse essere Denise, i media sono tornati a trattare diffusamente della scomparsa della bambina che il primo settembre 2004 svanì dai pressi della sua casa a Mazara del Vallo. Trasmissioni come “Chi l’ha visto?” e “Quarto Grado” hanno riportato in auge questioni importanti che emersero durante le indagini verso Jessica Pulizzi, figlia di Piero Pulizzi, il padre naturale di Denise. Jessica è stata ritenuta innocente e non coinvolta nella vicenda in tre gradi di giudizio, come prevede la giustizia italiana. Ma il mistero di Denise resta ancora aperto. Così nei giorni scorsi la Procura di Marsala ha aperto un nuovo fascicolo di indagine per controllare che non ci siano stati eventuali depistaggi e fughe di notizie che potrebbero aver compromesso un eventuale ritrovamento della piccola. È stata raccolta la testimonianza del magistrato Maria Angioni che a suo tempo coordinò le indagini. Proprio lei, che ora è giudice a Sassari, aveva parlato di presunte fughe di notizie che avrebbero influito sulla riservatezza che è d’obbligo nelle indagini. "Abbiamo avuto grossi problemi - ha detto Angioni - Abbiamo capito che dopo tre giorni tutte le persone sottoposte a intercettazioni già sapevano di essere sotto controllo. A un certo punto, quando ho avuto la direzione delle indagini, ho fatto finta di smettere di intercettare e poi ho ripreso da capo con forze di polizia diverse, nel disperato tentativo di salvare il salvabile".
Perché si cerca nella vecchia casa di Anna Corona. Anna Corona è la madre di Jessica Pulizzi e la ex moglie di Piero. Sebbene Denise sia figlia naturale di Piero e nata dalla sua relazione con Piera Maggio, il cognome di Denise è Pipitone, dall’ex marito di mamma Piera. Attualmente Anna e Jessica non abitano più da tempo in questa casa, che è di proprietà di un’altra famiglia e disabitata da un anno. L’abitazione pare non sia stata perquisita nell'immediato dagli inquirenti: il pomeriggio dopo la scomparsa di Denise, le forze dell’ordine si recarono nella casa, ma vennero fatti accomodare nei locali al piano terra, abitati da un’altra famiglia. Questo fu un dettaglio emerso durante l’indagine verso Jessica ma sembra non essere direttamente connesso con le novità del caso Pipitone. Angioni ha spiegato infatti che all'epoca il garage e lo scantinato della palazzina furono ispezionati, ma, come riporta Adnkronos, il magistrato ha anche aggiunto di non ricordare nulla di un pozzo. Le ricerche di oggi sono state motivate in virtù di una presunta segnalazione anonima. Il legale di Piera Maggio Giacomo Frazzitta ha smentito però che si sia trattato di una segnalazione anonima.
Denise Pipitone, ispezionata la casa di Anna Corona: "Segnalato un cadavere nascosto dietro un muro". Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Il caso di Denise Pipitone è tornato d’attualità qualche settimana fa, quando una ragazza russa che era stata rapita alla stessa età della figlia di Piera Maggio è andata in televisione a cercare la sua vera famiglia. Purtroppo gli esami del sangue hanno escluso con certezza che quella ragazza fosse la bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004. Il caso però è stato riaperto, al punto che la procura di Marsala ha disposto nuovi accertamenti sulla scomparsa di Denise per verificare alcuni nuovi dettagli emersi negli ultimi giorni. In queste ore i carabinieri della stazione di Mazara del Vallo e del reparto operativo di Trapani hanno eseguito un accertamento all’interno della casa in cui abitava Anna Corona, madre della sorellastra Jessica Pulizzi ed ex moglie del padre di Denise. In particolare si ricercano eventuali lavori in muratura sospetti per verificare una segnalazione macabra, secondo cui il cadavere della bambina scomparsa potrebbe essere stato nascosto dietro un muro costruito appositamente. Inoltre l’obiettivo della perlustrazione è verificare l’esistenza di una botola che condurrebbe a uno scantinato nella casa della mamma di Anna Corona: tale botola non sarebbe mai stata ispezionata, stando ai dettagli emersi ultimamente sui media. L’abitazione di via Piranello non rientra più nella disponibilità della donna, ma è stata acquistata da una famiglia che vive all’estero. Si attende di conoscere l’esito dell’accertamento, che è stato disposto dal procuratore capo Vincenzo Pantaleo e dai sostituti Roberto Piscitello e Giuliana Rana.
Denise Pipitone, la madre Piera Maggio: “Non sapevo stessero cercando un cadavere”. Ilaria Minucci su Notizie.it il 05/05/2021. Nel corso della puntata “Ore 14” in onda su Rai2, la mamma di Denise Pipitone, Piera Maggio, ha commentato gli accertamenti condotti dalle forze dell’ordine. Nel corso del programma Ore 14 in onda su Rai2, Piera Maggio è intervenuta per manifestare la propria opinione e i propri sentimenti in merito ai recenti accertamenti condotti per ritrovare sua figlia Denise, scomparsa da Mazzara del Vallo il 1° settembre 2004. Le forze dell’ordine stanno effettuando alcuni importanti accertamenti presso l’appartamento in cui, all’epoca della scomparsa di Denise Pipitone, viveva Anna Corona, ex moglie di Piero Pulizzi, padre naturale della bambina e attuale compagno di Piera Maggio. A proposito delle verifiche condotte da carabinieri e vigili del fuoco, si è espressa la madre stessa di Denise che, partecipando al programma Ore 14 trasmesso su Rai 2, ha dichiarato quanto segue: “Sono scioccata: ho saputo questa notizia dai giornali. Non sapevo nulla di questo accertamento: so che gli accertamenti devono essere fatti ma non immaginavo che si parlasse di un cadavere di Denise. Avrei voluto un minimo di delicatezza e avrei voluto che mi fosse stata data notizia di questo accertamento attraverso il mio legale”. Intanto, i vigili del fuoco si stanno occupando di eseguire perlustrazioni e controlli non soltanto all’interno della vecchia abitazione di Anna Corona ma stanno passando al vaglio il palazzo nel suo complesso, il garage e anche un pozzo situato nella zona antistante l’appartamento. La singolare vicenda denunciata da Piera Maggio è stata commentata anche dal legale della donna, Giacomo Frattizza, che ha precisato: “Tutto questo non è giusto. Qual è la delicatezza nei confronti di una madre? Cosa mi hanno dimostrato? Che parlano con me attraverso i giornalisti?”. Nel corso della sua ultima apparizione televisiva a Ora 14, inoltre, Piera Maggio, accompagnata e sostenuta dall’avvocato Frattizza, ha voluto lanciare un significativo appello volto a ribadire la necessità di preservare la riservatezza di indagini come quelle che caratterizzano le ricerche per il ritrovamento di Denise. La donna, infatti, ha annunciato: “Ho sempre detto che fino a prova contraria Denise va cercata: se mi dimostrano il contrario, mi fermo ma devono dimostrarmelo e non devono dirmelo attraverso i giornali”. Infine, prima di lasciare lo studio del programma televisivo targato Rai insieme a Piera Maggio, l’avvocato Giacomo Frattizza ha deciso di rivolgere pesanti critiche e accuse in relazione all’attuale svolgimento delle indagini che accompagnano il caso di Denis Pipitone, sottolineando: “Ho grande stima nei confronti del procuratore Pantaleo, capo della procura di Marsala, che è persona riservatissima e che ha grande attenzione per le indagini ma qualcuno ha traditola riservatezza del procuratore”.
Denise Pipitone, Piera Maggio crolla: "Perché?". Sotto choc, lascia la trasmissione "Ore 14" in diretta. Tiziana Lapelosa su Libero Quotidiano il 06 maggio 2021. Torna, prepotente, il caso di Denise Pipitone. Nel giorno in cui Mazara del Vallo ricorda con diverse iniziative la bambina scomparsa il primo settembre del 2004, e quando la madre, Piera Maggio, è ospite su Rai 2 nella trasmissione Ore 14 proprio per non spegnere i riflettori sulla figlia, arriva la notizia che i carabinieri stanno ispezionando la casa all'epoca abitata da Anna Corona, ex moglie di Piero Pulizzi, che è il papà di Denise. Di più: trapela il particolare che si è a caccia di un corpo. Facile immaginare quale. Piera Maggio non regge alla notizia. Pallida in viso, provata, lascia la trasmissione. Perché non è stata avvertita? si chiede. E così il suo avvocato, Giacomo Frazzitta, che ha ricevuto il link con l'indiscrezione durante la trasmissione condotta da Milo Infante. Ma la notizia non viene confermata dalla procura di Marsala, il cui procuratore capo, Vincenzo Pantaleo, e i sostituti Roberto Piscitello e Giuliana Rana, hanno sì disposto accertamenti, ma sui lavori di ristrutturazione in quella casa abitata all'epoca dalla Corona e da sua figlia Jessica Pulizzi, sorellastra di Denise, principale sospettata per la scomparsa della bambina e uscita sempre pulita dai processi. Ieri, in quella casa che ha nuovi proprietari che vivono in Svizzera, disabitata da un anno, i militari della sezione investigazioni scientifiche del comando provinciale di Trapani e della stazione di Mazara del Vallo, sono entrati ufficialmente «per verificare lo stato dei luoghi e se sono stati effettuati lavori edili all'interno». Ma pare che l'ispezione sia il frutto di una "macabra segnalazione", anonima, che però è stata smentita dal legale della Maggio. Ma tutto resta avvolto nel mistero. Quel che si sa, per ora, è che i militari sono a caccia di eventuali doppie pareti, murature sospette all'interno di quell'abitazione al civico 55 di via Pirandello le cui chiavi sono state consegnate da un custode alle forze dell'ordine. È nella strada nei pressi di quel civico, case basse e tutte simili, che la piccola era stata vista per l'ultima volta prima di essere inghiottita dal nulla. Nel mirino dei militari, inoltre, c'è anche una botola che condurrebbe ad uno scantinato nella casa della mamma di Anna Corona e che all'epoca dei fatti non fu ispezionata. Qui, per tutto il pomeriggio, ha lavorato una squadra dei vigili del Fuoco con l'obiettivo di svuotare il pozzo. Carte del catasto alla mano, non è stata trovata nessuna traccia della piccola Denise. L'ispezione arriva dopo 17 anni. E di indagini "viziate", del resto aveva parlato Maria Angioni, la pm che 17 anni fa si trovò ad affrontare il caso e che incontrò non poche difficoltà nel condurre le indagini. Non a caso, il magistrato, che oggi esercita a Sassari, quattro giorni fa è stata ascoltata dai colleghi della procura di Marsala, che ha aperto un nuovo fascicolo per depistaggio. Questo nuovo capitolo che non si ancora dove condurrà, di certo sta mettendo a dura prova la mamma di Denise, che ieri sera ha preso parte alla fiaccolata organizzata a Mazara del vallo, e con lei il legale e il papà di Denise, Piero Pulizzi. «Vedere tanta gente che ci dà calore e umanità, è una cosa che ci dà forza in una situazione angosciante», ha detto al termine della fiaccolata in piazza della Repubblica a Mazara, dove il sindaco si è fatto promotore dell'iniziativa "Insieme per Denise". «Siamo qui per chiedere verità», ha detto Piera, accanto al Piero Pulizzi. E sugli accertamenti di ieri ha precisato: «Qualcuno, forse, sta rispondendo delle non verità dette in questi anni», tesi da lei sempre sostenuta.
La madre: "La pacchia è finita, chi ha sbagliato deve pagare". Ricerche Denise Pipitone, dalla botola al pozzo: nessuna traccia nella palazzina. Giovanni Pisano su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Nessuna traccia di Denise Pipitone nella palazzina abbandonata di via Pirandello a Mazara del Vallo, nel Trapanese. E’ quanto apprende l’agenzia Adnkronos al termine di una giornata convulsa, segnata dalla lunga ispezione eseguita a partire dal primo pomeriggio da parte dei carabinieri del Ris e della sezione scientifica oltre che dai vigili del fuoco nell’edificio dove viveva fino a pochi anni fa Anna Corona, madre della sorellastra di Denise, scomparsa il primo settembre del 2004, ed ex moglie di Piero Pulizzi, padre biologico della bimba sparita all’età di 4 anni. I Vigili del fuoco e i Carabinieri del Ris sono stati al lavoro fino alle 20.15 nella palazzina, cercando anche con le carte del catasto alla mano, eventuali tracce di lavori di muratura fatti negli ultimi anni. Controlli anche nel garage e in una botola, al di sotto della quale c’era un pozzo. Nessuna traccia della piccola scomparsa quasi 17 anni fa. A far scattare l’ispezione, disposta dalla procura di Marsala, che pochi giorni fa ha riaperto il caso, era stata una segnalazione non anonima che ha indicato agli investigatori alcune notizie ritenute “molto interessanti”. I vigili del fuoco hanno attivato una pompa idrovora per svuotare il pozzo dal quale non sarebbero emersi particolari utili alle indagini.
La segnalazione sospetta. Stando a quanto apprende l’agenzia Agi, l’oggetto dell’accertamento, disposto dal procuratore capo di Marsala Vincenzo Pantaleo e dai sostituti Roberto Piscitello e Giuliana Rana, riguarda l’esistenza di lavori in muratura sospetti all’interno dell’abitazione di Mazara del Vallo in cui abitava la donna. Alla base ci sarebbe una macabra segnalazione, rispetto alla presenza del cadavere della piccola Denise, celata da un muro costruito appositamente. I militari starebbero cercando una botola che porterebbe a uno scantinato nella casa della mamma di Anna Corona, che non sarebbe mai stata ispezionata, così come riferito da alcuni media.
La manifestazione per Denise. Intanto in serata a Mazara del Vallo c’è stata una manifestazione organizzata dal Comune e denominata “Insieme per Denise2”. “Ci auguriamo verità e giustizia per Denise: chi ha sbagliato deve pagare, nonostante siano passati 17 anni. Adesso la pacchia è finita” ha dichiarato la madre Piera Maggio. Alla manifestazione sono presenti anche il sindaco di Mazara del Vallo, Salvatore Quinci, il vescovo, monsignor Domenico Mogavero, e l’avvocato Giacomo Frazzitta, storico legale di Piera Maggio. Sempre Piera Maggio, nel corso della trasmissione “Ore 14” andato in onda oggi, mercoledì 5 maggio, su Rai 2, si era detta “choccata” quando “ho saputo questa notizia dai giornali. Non sapevo nulla di questo accertamento: so che gli accertamenti devono essere fatti ma non immaginavo che si parlasse di un ‘cadavere’ di Denise. Avrei voluto un minimo di delicatezza e avrei voluto che mi fosse stata data notizia di questo accertamento attraverso il mio legale”.
La nuova inchiesta. Nei giorni scorsi la procura di Marsala ha aperto un fascicolo con le ipotesi di reato di depistaggio e fuga di notizie. Fra i primi atti del nuovo fascicolo c’è stata ieri l’audizione dell’ex pm Maria Angioni che indagò sulla scomparsa della piccola Denise. Nei giorni scorsi l’ex pm ha dichiarato di avere avuto il sospetto di fughe di notizie sull’inchiesta e in particolare che le persone intercettate sapessero di avere i telefoni intercettati. I magistrati siciliani stanno cercando di capire se ci sono stati depistaggi o errori nell’inchiesta.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
Lo sfogo dopo le ispezioni. Denise Pipitone, l’appello della madre Piera Maggio: “Adesso basta, chi sa parli”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Il caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo a settembre 2004, è tornato al centro dell’attenzione mediatica. Prima per l’appello della ragazza russa Olesya Rostova poi per la riapertura delle indagini e quindi per le perquisizioni di ieri. “In questa città c’è chi ha visto e sa come è scomparsa Denise ed è a queste persone che mi rivolgo: adesso basta, fatevi coraggio e l’ora di parlare, non potete tenervi sulla coscienza questo peso – l’appello lanciato con un’intervista all’Ansa da Piera Maggio, madre di Denise Pipitone – Denise è figlia di questa città e dobbiamo proteggerla. La mia piccola merita verità e giustizia”. Sospesa ieri sera l’ispezione dei Carabinieri della Scientifica e dei vigili del fuoco nella casa di via Pirandello 55 a Mazara del Vallo che fu in uso ad Anna Corona, l’ex moglie di Pietro Pulizzi, papà biologico della piccola Denise Pipitone. La donna è la mamma di Jessica Pulizzi (sorellastra della piccola scomparsa l’1 settembre 2004), finita sotto processo e assolta nei tre gradi di giudizio. Era trapelato da alcuni media la notizia sui resti di Denise, subito smentita. L’ispezione, nella casa oggi di proprietari che risiedono all’estero, è stata disposta dalla Procura di Marsala “per verificare lo stato dei luoghi e se sono stati effettuati lavori edili” dopo la riapertura delle indagini sulla scomparsa di Denise. Gli inquirenti, sulla base di alcune segnalazioni, hanno cercato una stanza segreta dove potrebbe essere stata nascosta Denise subito dopo il rapimento e hanno anche fatto ispezionare un garage con una botola e un pozzo sottostante. Le ricerche fino ad ora non hanno dato alcun esito. L’edificio non è stato posto sotto sigilli. Ieri sera in piazza della Repubblica l’abbraccio dei mazaresi a Piera Maggio che da quasi 17 anni non ha mai smesso di cercare la figlia. “Apprendere in tv che cercavano i resti di Denise nell’ex casa di Anna Corona mi ha fatto molto male, è stato un colpo inaspettato. Chi ha avuto il cattivo gusto di dire queste falsità? – s’interroga la mamma di Denise. “Finché non saprò la verità su mia figlia non mi fermerò di lottare. Chi sa parli ora. Questi 17 anni sono stati un tempo lunghissimo che abbiamo vissuto con Piero sperando di poter riabbracciare Denise e, dall’altro lato, vivendo i processi in cui abbiamo scoperto cose clamorose che oggi, grazie ai media, sono diventate di dominio pubblico”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Salvo Toscano per il "Corriere della Sera" il 6 maggio 2021. Una nuova puntata nella triste storia infinita della scomparsa della piccola Denise Pipitone. Ieri a Mazara del Vallo i carabinieri della Scientifica di Trapani hanno condotto un'ispezione nell'abitazione di via Pirandello dove viveva Anna Corona, l'ex moglie di Pietro Pulizzi, padre biologico della bambina scomparsa il primo settembre del 2004. Si è trattato di una verifica dello stato dei luoghi nell'ambito dell'indagine riaperta dalla Procura di Marsala. La donna un tempo abitava nell'abitazione di via Pirandello assieme alla figlia Jessica Pulizzi, sorellastra di Denise, finita sotto processo per la scomparsa della bambina e assolta nei tre gradi di giudizio. Anche Anna Corona finì sotto inchiesta, ma la sua posizione fu archiviata nel dicembre 2013 su richiesta degli stessi pubblici ministeri. Erano circolate nel pomeriggio indiscrezioni che i militari stessero addirittura cercando i resti della bambina. Indiscrezioni smentite da fonti investigative di Marsala, che nel frattempo però avevano raggiunto Piera Maggio, la mamma di Denise che da anni si batte per conoscere la verità sulla sparizione della figlia. In quel momento Piera Maggio era collegata con Rai due e ha abbandonato la trasmissione visibilmente provata. Nell'appartamento di Mazara sono andati a dar man forte ai carabinieri anche i Vigili del fuoco. La strada è stata transennata. L'attenzione degli inquirenti sarebbe concentrata su una botola, che collega un garage a uno scantinato e a un pozzo profondo diversi metri, un'area comunque già ispezionata in passato. Si vuole verificare inoltre se siano stati eseguiti negli anni lavori edili sulla struttura, in particolare l'attenzione sarebbe stata rivolta alla possibilità che nell'immobile sia stato eretto un muro, come avrebbero appreso gli inquirenti da segnalazioni giunte in Procura. Nella casa non vive più da tempo Anna Corona. La custode dello stabile ha spiegato ai giornalisti che «gli attuali proprietari della casa sono in Svizzera» e la palazzina sarebbe disabitata da circa un anno. Una vicina ha poi spiegato che «tutte le case costruite in questa zona sono dotate di un pozzo». Gli inquirenti hanno smentito che si cerchino i resti della piccola, trapela piuttosto l'ipotesi di un tentativo di trovare eventuali tracce di un passaggio della bambina svanita nel nulla la mattina di quel primo settembre mentre giocava vicino a casa. L'ispezione che si è protratta per ore non avrebbe dato alcun esito. Il tutto nel bel mezzo della giornata che Mazara ha dedicato alla bambina misteriosamente scomparsa a soli quattro anni, che nel tempo è stata oggetto di una lunga serie di avvistamenti purtroppo sempre infondati, fino alla recente vicenda della ragazza russa sua coetanea portata alla ribalta da una trasmissione tv. La giornata dedicata a Denise è un'iniziativa del Comune con una serie di appuntamenti programmati con emittenti nazionali e una manifestazione serale, con Piera Maggio, Piero Pulizzi e l'avvocato Giacomo Frazzitta in piazza della Repubblica. «Abbiamo chiamato a raccolta scuole, associazioni e cittadinanza con l'obiettivo di testimoniare la nostra solidarietà a Piera e Piero e per chiedere con forza verità per Denise», ha spiegato il sindaco Salvatore Quinci. «È stata una giornata pesata - afferma Piera Maggio -, oggi mi appello a quanti non ci sono vicini, soprattutto a chi sa». La notizia della riapertura delle indagini sul caso Pipitone si era appresa solo pochi giorni fa. L'inchiesta è coordinata dal procuratore capo Vincenzo Pantaleo e dai sostituti Roberto Piscitello e Giuliana Rana, che nei giorni scorsi hanno ascoltato l'ex pm Maria Angioni, titolare delle prime indagini sulla scomparsa della bimba, ora in servizio a Sassari. Angioni aveva tra l'altro dichiarato in tv che all'epoca ebbe il sospetto che le persone sottoposte a intercettazioni sapessero di essere sotto controllo. Fughe di notizie e possibili depistaggi. Altro pezzo di un mistero doloroso che dura da 17 anni.
L'ispezione. Perché la casa di Anna Corona e Jessica Pulizzi è stata perquisita: le novità nel caso di Denise Pipitone. Vito Califano su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Altra giornata di notizie e sconvolgimenti nel caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara del Vallo, provincia di Trapani, nel settembre 2004. I carabinieri della Scientifica di Trapani hanno effettuato un’ispezione nell’abitazione di via Pirandello, in passato in uso ad Anna Corona, l’ex moglie di Pietro Pulizzi, papà biologico della piccola Denise Pipitone. La donna è la mamma di Jessica Pulizzi. Il sopralluogo, disposto dalla Procura di Marsala, sta avvenendo “per verificare lo stato dei luoghi e se sono stati effettuati lavori edili”. Da alcuni giorni la Procura di Marsala ha riaperto le indagini sulla scomparsa di Denise. Fonti investigative di Marsala smentiscono che siano in atto ricerche del corpo di Denise. L’unica nota ufficiale sulla perquisizione dice che il sopralluogo è stato disposto dalla Procura di Marsala “per verificare lo stato dei luoghi e se sono stati effettuati lavori edili”.
LA VICENDA – Primo settembre 2004. Denise Pipitone ha quasi quattro anni. Figlia di Piera Maggio, casalinga, e Toni Pipitone, 40enne. Ha un fratello, Kevin, di 11 anni. La famiglia vive a Mazara del Vallo. Maggio, la madre, la mattina si era recata a un corso di informatica. Quando viene informata della sparizione torna immediatamente a casa. L’ultima volta che la bambina è stata vista erano le 11:35, giocava nel garage-cucina mentre la nonna preparava il pranzo. Si affaccia al cancello che separa la strada da casa della zia e da quel momento niente più. Nessuna traccia.
Negli anni sono state numerosi le segnalazioni: dal gruppo di nomadi a Milano – una segnalazione che sembra più attendibile delle altre, ma i nomadi spariranno nel nulla anche loro – fino all’avvistamento sull’isola di Kos in Grecia fino all’appello della ragazza russa Olesya Rostova, nel marzo 2021, che ha suscitato tanto clamore senza portare a nessuna conclusione. Il movente più accreditato resta quello privato: Denise Pipitone sarebbe figlia infatti di una relazione extraconiugale tra Piera Maggio e Pietro Pulizzi, sposato con Anna Corona e padre di Jessica. Proprio quest’ultima viene indagata per concorso in sequestro di persona, movente di “gelosia e astio”. Un rapimento compiuto con la complicità della madre e dell’ex fidanzato Gaspare Ghaleb.
LE INDAGINI E IL PROCESSO – “Io a casa c’è purtaj”, l’intercettazione ambientale sulla quale si basa il processo. Lungo e tortuoso il primo grado: 44 udienze e una richiesta di condanna a quindici anni avanzata dai pm. Il 27 giugno 2014 Pulizzi è assolta da ogni accusa di concorso nel sequestro per non aver sommesso il fatto. Sentenza confermata dalla Corte d’Appello di Palermo e quindi in Cassazione nell’aprile 2017. Non c’è nessuna prova, le intercettazioni vengono giudicate incomprensibili. L’11 ottobre 2017 la Procura di Marsala ha riaperto il caso disponendo che tutte le impronte rilevate in vari luoghi e su diverse auto siano sottoposte a un esame per la ricerca del Dna. Una possibilità grazie all’utilizzo di nuovi strumenti. La Procura ha anche accertato che quando i Carabinieri si recarono a casa di Anna Corona, madre di Jessica Pulizzi, per la perquisizione, la donna accolse i militari nell’abitazione di una vicina. Il sopralluogo, a cui hanno partecipato anche i colleghi di Mazzara del Vallo, è stato disposto dalla Procura di Marsala per verificare alcuni lavori di ristrutturazione edile effettuati dopo il rapimento. La famiglia di Corona e Pulizzi non vive più lì. Il caso è stato riaperto lunedì 3 maggio per capire se ci siano stati depistaggi o errori nell’inchiesta. Al vaglio degli inquirenti le rivelazioni della ex pm Maria Angioini, che all’epoca indagò sul caso: “Abbiamo capito che dopo tre giorni tutte le persone sottoposte a intercettazioni già sapevano di essere sotto controllo. A un certo punto, quando ho avuto la direzione delle indagini, ho fatto finta di smettere di intercettare, e poi ho ripreso da capo con forze di polizia diverse, nel disperato tentativo di salvare il salvabile”.
LA RIVELAZIONE – Sul rapporto con Anna Corona, in una recente puntata la trasmissione su Rai 3 Chi l’ha visto?, le dichiarazioni di Piera Maggio: “Dico una cosa che in tutto questo tempo non ho mai raccontato pubblicamente ma questa sera la racconterò perché è tutto verbalizzato e messo agli atti. Io raccontai fin da subito gli atteggiamenti ambigui di Anna Corona nei miei confronti. Deve essere ben chiaro che io non ho portato il marito via a nessuno. Quando conobbi la loro famiglia il loro era un matrimonio già finito: era una coppia ‘scoppiata’ – ha aggiunto Maggio – ognuno può vivere la sua sessualità come vuole ma si deve essere chiari. Non si è mai capito cosa volesse da me la signora Corona, non sono mai stata amica di questa persona. Io penso che lei fosse gelosa di me come persona, ma non solo per il suo matrimonio finito male. Ho sempre sostenuto che si fosse infatuata di me. È tutto scritto agli atti”. LA PERQUISIZIONE – “Sono choccata: ho saputo questa notizia dai giornali. Non sapevo nulla di questo accertamento: so che gli accertamenti devono essere fatti ma non immaginavo che si parlasse di un ‘cadavere’ di Denise. Avrei voluto un minimo di delicatezza e avrei voluto che mi fosse stata data notizia di questo accertamento attraverso il mio legale- lo sfogo di Piera Maggio nel corso della trasmissione Ore 14, su Rai 2, a seguito delle indiscrezioni, poi smentite, riguardanti l’accesso dei carabinieri nell’appartamento in cui aveva vissuto Anna Corona- Tutto questo non è giusto. Qual è la delicatezza nei confronti di una madre? Cosa mi hanno dimostrato? Che parlano con me attraverso i giornalisti?”. Fonti investigative, si ribadisce, hanno intanto smentito che siano in atto ricerche del corpo. La casa è stata acquistata da una famiglia che vive all’estero.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Denise, parla la donna nel mirino: "Perché hanno perquisito la casa sbagliata". Angela Leucci l'8 Maggio 2021 su Il Giornale. A "Quarto Grado" è stata intervistata Anna Corona, che ha ribadito la sua estraneità al caso di Denise Pipitone: ecco che cosa ha detto in televisione. “La nostra vita è stravolta”. Gli occhi azzurri di Anna Corona sono dispiaciuti e rabbiosi. Fissano la giornalista di “Quarto Grado” Ilaria Mura, alla quale la donna ha rilasciato una lunga intervista andata in onda ieri sera. I sopralluoghi nella sua ex abitazione rientrano nel caso Denise Pipitone. La donna, nonostante la sua posizione sia stata archiviata mentre la figlia Jessica Pulizzi è stata assolta in tre gradi di giudizio, è ancora al centro delle polemiche per la scomparsa di Denise. “Non so perché ci ritroviamo a rivivere una situazione mediatica di non vivibilità - ha detto la donna - Sto vivendo uno stato d’animo pessimo. A suo tempo è stato molto faticoso riprendere una vita normale, quando il processo si è chiuso. La nostra vita è stata stravolta e non lo ritengo giusto nei nostri confronti. Jessica ha una bambina che cerca di tutelare in tutti i modi e stiamo ricevendo delle minacce contro la piccola. Io desidero la verità quanto Piera Maggio perché anche io ho le mie figlie. La verità rende le persone libere e noi siamo persone libere”. Le parole di Corona arrivano dopo i sopralluoghi che pare abbiano seguito una segnalazione mirata alla Procura di Marsala, ma pare non sia stata una segnalazione di natura anonima. La donna ha affermato che spesso in quello stabile sono stati fatti dei lavori di muratura, perché c’erano problemi di infiltrazioni. E ricorda di aver risposto per tutto in tribunale. “Da quella casa non può emergere niente - ha rincarato Corona - Sono accusata ingiustamente. Ho chiesto agli inquirenti di salire, non li ho fatti accomodare in modo ingannevole in casa della vicina. Loro si sono rifiutati di salire, sapevano di non entrare in casa mia ma di un’altra persona”. Corona si riferisce al fatto che gli inquirenti non perquisirono la sua casa nel pomeriggio del 1 settembre 2004, subito dopo la scomparsa di Denise, ma si accomodarono in casa della vicina al piano di sotto: in queste settimane il dettaglio, già noto al processo, è tornato in auge a rinverdire il caso della scomparsa della bimba di Mazara del Vallo. Anna Corona ha anche aggiunto che avrebbe voluto essere presente alla fiaccolata dei giorni scorsi per mostrare la solidarietà alla mamma di Denise Piera Maggio, ma dice di essere perseguitata e che molte persone la vogliono morta, così come vogliono altrettanto per i suoi famigliari. “Io non so niente di questa storia - ha ricordato Corona, facendo riferimento al fatto che il suo ex marito Piero Pulizzi è il padre naturale di Denise - non c’era nessuna ruggine: io sono mamma tanto quanto Piera e i figli valgono molto più di un tradimento, come vale Denise che manca. Dalla mia separazione alla scomparsa sono passati 4 anni: la mia famiglia è stata martoriata, è da troppo tempo che siamo schiacciati”. Corona ha affermato anche di non aver fatto nulla e di essere solidale con mamma Piera, di volere la verità quanto lei. Restano tuttavia delle zone d’ombra nel caso, come è stato ricordato a “Quarto Grado”. Si è parlato di intercettazioni poco comprensibili, perché nel commissariato la microspia fu piazzata nei pressi di un rumoroso condizionatore. Si è accennato a un’intercettazione vicina al motorino di Jessica che sembrava far riferimento a qualcuno di nome Denise. Ma la pm Maria Angioni che lavorò all’epoca sul caso ha ricordato che non c’erano sufficienti elementi per ritenere Jessica implicata nel caso. Angioni ha invece parlato di come sia fondante il video della piccola Danàs, ripresa a Milano in compagnia di una presunta donna rom. Anche l’avvocato della famiglia Corona-Pulizzi Gioacchino Sbacchi ha ricordato che, il giorno della sparizione di Denise, il campo rom più vicino a Mazara era stato smobilitato. Quando si troverà la verità su Denise, scomparsa da 17 anni? L'appello alle persone che potrebbero aver visto viene rammentato con forza da più parti, mentre stridenti suonano le parole di una donna di Mazara, che alle telecamere di “Quarto Grado” dice: “Qui è una zona in cui ognuno si fai fatti suoi”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Chi l'ha visto, documento inedito su Denise Pipitone: "Strani contatti con Anna Corona e relazione col commissario". Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Federica Sciarelli ha aperto la puntata di Chi l’ha visto con il caso di Denise Pipitone. E non potrebbe essere altrimenti, dato che quella di oggi - mercoledì 5 maggio - è stata una giornata particolarmente importante: la procura di Marsala ha riaperto le indagini ed è stato eseguito un sopralluogo approfondito nella casa che fu abitata da Anna Corona e che non era mai stata davvero ispezionata. In particolare è stata trovata una botola in garage che conduce a un pozzo, ma i dettagli per ora non sono noti. Nel frattempo Chi l’ha visto è tornato a occuparsi del caso e lo ha fatto tenendo un filo diretto con Mazara del Vallo, dove si stava svolgendo una manifestazione a supporto di Piera Maggio: “Non ho nulla da dire - ha dichiarato la madre di Denise Pipitone - è giusto che si facciano dei lavori, però mi aspettavo un po’ di delicatezza nei miei confronti, mi ha devastato sapere dai giornali che si cercava un corpo”. Dopo aver ascoltato anche la testimonianza dell’ex pm Angioni, che ha denunciato fatti gravi (non si fidava delle persone che dovevano cercare la bambina), la Sciarelli ha mandato un servizio in cui è stato mostrato un documento inedito. Documento che testimonia l’esistenza di 1175 contatti tra una donna di nome Stefania e Anna Corona, interrottisi del tutto il 22 settembre. Data non casuale, secondo la Sciarelli, perché sarebbe quando tale Stefania - che aveva una relazione con il commissario di Polizia - è stata sentita come persona informata dei fatti: a occuparsi di raccogliere le sue dichiarazioni sarebbe stato proprio quel commissario.
Da leggo.it il 10 maggio 2021. Nuove intercettazioni inquietanti sul caso di Denise Pipitone. Nel corso della trasmissione Storie Italiane, condotta su Rai 1 da Eleonora Daniele, sono state analizzate delle nuove intercettazioni emerse solo negli ultimi giorni, quindi ben 17 anni dopo la scomparsa della bimba avvenuta nel 2004 da Mazara del Vallo. Al centro delle telefonate appare Anna Corona, da subito considerata uno dei possibili rapitori di Denise. L'ex moglie di Piero Polizzi, papà biologico di Denise, sembra essere sempre più coinvolta nel caso e dopo la perquisizione nella casa in cui abitava ai tempi del rapimento vengono ora a galla delle telefonate sospette. La prima intercettazione che viene fuori è il dialogo tra Jessica e Alice, le figlie di Anna Corona in cui l’una dice all’altra: «Eravamo a casa, la mamma l’ha uccisa a Denise» e poi: «L’ha uccisa a Denise la mamma, tu dici queste cose boh» e Jessica risponde: «Tu non devi parlare». E Alice: «Logico». La seconda intercettazione è un dialogo tra Gaspare fidanzato di Jessica e Anna. «La tendina…che gli ho detto là in cucina? Vedi qua e là? È da tre/quattro anni che mi vanno le cose sempre più male» afferma il ragazzo e poi Anna: «Mi vuoi bene? Mi stimi? Non ti scordare certi momenti che sono solo nostri». La comunicazione fu poi occultata da parte dell’ex moglie di Piero Pulizzi. Questo scambio di battute non fu preso in considerazione dagli inquirenti, anche se sembrano esserci parole molto chiare e dichiarazioni forti sul caso della piccola. Il verbale fu chiuso senza nessuna spiegazione, molte furono le opposizioni e i tentativi di depistare le indagini, emersi tutti negli ultimi mesi.
Storie Italiane, caso Denise Pipitone: "Mamma la ha uccisa". Intercettazioni horror "mai visionate prima", l'ultima clamorosa pista. Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. Il caso Denise Pipitone, dopo il fallimento della pista russa, sta prendendo un'altra piega. Gli inquirenti si stanno ora focalizzando su Anna Corona, l'ex moglie del padre della piccola scomparsa diciassette anni fa da Mazara Del Vallo. Inutili i tentativi di trovare qualcosa nell'abitazione della Corona, ma qualcosa sembra comunque procedere. A Storie Italiane, programma di Rai1 condotto da Eleonora Daniele, sono state infatti analizzate delle nuove intercettazioni emerse solo negli ultimi giorni. I dialoghi risalgono comunque ai giorni in cui la figlia di Piera Maggio è scomparsa. Al centro delle telefonate c'è sempre lei, Anna Corona, da subito considerata uno dei possibili rapitori di Denise. La prima intercettazione che viene fuori è il dialogo tra Jessica e Alice, le figlie di Anna Corona in cui l’una dice all’altra: "Eravamo a casa, la mamma l’ha uccisa a Denise" e poi: "L’ha uccisa a Denise la mamma, tu dici queste cose boh" e Jessica risponde: "Tu non devi parlare". E Alice: "Logico". Nella seconda intercettazione invece spunta Gaspare, fidanzato di Jessica, che parla con Anna: "La tendina…che gli ho detto là in cucina? Vedi qua e là? È da tre/quattro anni che mi vanno le cose sempre più male" spiega il ragazzo mentre Anna gli chiede: "Mi vuoi bene? Mi stimi? Non ti scordare certi momenti che sono solo nostri". Al momento della scomparsa gli inquirenti non presero in considerazione questi audio. Ma oggi le cose potrebbero cambiare. Lo spera il legale di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta: "Stiamo lavorando su nuove intercettazioni che riteniamo estremamente importanti, mai entrate nel precedente dibattimento. Quello che stanno facendo i nostri consulenti è un lavoro complementare a quello che la Procura sta svolgendo nella segretezza dell’inchiesta". E ancora: "Le piste sono state battute tutte fin dall’inizio, ma ci sono tanti punti ancora opachi, come la bambina avvistata a Milano il 18 ottobre 2004".
Denise Pipitone, le telecamere di Chi l'ha visto entrano nel palazzo di Anna Corona: "Dettagli e documenti inediti". Libero Quotidiano l' 11 maggio 2021. Chi l’ha visto continuerà a occuparsi del caso di Denise Pipitone anche nella puntata di mercoledì 12 maggio, che andrà in onda su Rai3 a partire dalle 21.20. Stavolta le telecamere del programma condotto da Federica Sciarelli entreranno nel palazzo in cui abitava Anna Corona e che è stata al centro di un approfondito sopralluogo la scorsa settimana. L’ex moglie del padre della bambina scomparsa a Mazara del Vallo il primo settembre 2004 è una figura centrale in questo caso. Chi l’ha visto ha raccolto la testimonianza della vicina di casa. “Gli uomini delle forze dell’ordine sono entrati nell’androne che era aperto – sono le dichiarazioni emerse dalle anticipazioni – è sopraggiunta Anna Corona, poi si sono girati e mi hanno chiesto se potevano accomodarsi a casa mia. Io stavo al piano terra e Anna Corona al secondo piano. Loro sapevano che era casa mia perché hanno anche commentato le foto dei miei parenti appese al muro”. Inoltre la trasmissione condotta da Federica Sciarelli mostrerà anche alcuni documenti inediti su Denise Pipitone, per poi spostare l’attenzione su altri casi, come quello del ritrovamento di una donna scomparsa, Paola Landini. Nel frattempo proseguono i controlli da parte dei carabinieri di Scalea su una ragazza di origine romena: secondo la segnalazione di un cittadino, potrebbe trattarsi di Denise. Non solo per la somiglianza fisica ma anche per la genesi di questa ragazza: la Procura di Marsala è stata messa al corrente di tutto e dovrà decidere se procedere o meno con la comparazione del Dna.
Angela Leucci per “Il Giornale” l'11 maggio 2021. Nel caso Denise Pipitone, le intercettazioni continuano a tenere banco, a 17 anni dalla scomparsa della bambina di Mazara del Vallo. In questi mesi, si è tornati sulle intercettazioni che sono state non ritenute fondamentali nelle indagini che coinvolsero Anna Corona e Jessica Pulizzi, ex moglie e figlia del padre naturale di Denise Piero Pulizzi, e che furono rispettivamente archiviate o portarono a un’assoluzione in tre gradi di giudizio. Le intercettazioni che non contarono ai fini dell’inchiesta erano infatti o “troppo sporche” e quindi indecifrabili, oppure troppo brevi per essere analizzate efficacemente. Tra queste ci sono alcune ormai molto celebri: per esempio Jessica che dice “L’ho portata a casa” e Anna che, al telefono, ribatte “Stai zitta” a una bambina non meglio identificata. Ma risulta più interessante di tutti lo scambio tra Jessica e Alice Pulizzi. La prima sembra dire: “Eravamo a casa. La mamma l’ha uccisa Denise”, mentre la seconda sembra chiedere “L’ha uccisa… a Denise la mamma?”. Si tratta di un’intercettazione resa disponibile solo di recente, per via della sua difficoltosa interpretazione. Se n’è parlato nella puntata di ieri de “La vita in diretta”, che ha analizzato le ultime novità del caso Denise. Intanto anche la pista rom ha trovato nuovo vigore. In questi giorni si stanno indagando diverse giovani donne che potrebbero essere Denise e che potrebbero trovarsi ancora in Italia. Tra queste, come riporta l’Agi, c’è una 19enne che è stata identificata dai carabinieri di Scalea, in provincia di Cosenza. Su questa donna, che vive in un paese della costa tirrenica in provincia di Cosenza, aleggia un vero e proprio dubbio: si tratta di Denise? La ragazza viene dalla Romania, ma vive in Calabria da molto tempo. È possibile che le venga richiesto un esame del Dna se la procura dovesse ritenerlo necessario. Tuttavia la giovane, che si chiama proprio Denise, è stata molto collaborativa: ha fornito alle autorità italiane anche le generalità dei propri genitori per un’eventuale indagine. La pista rom, che è stata definita a “La vita in diretta” dalla criminologa Roberta Bruzzone “una pista robusta”, è forse una delle teorie più interessanti sul caso Denise. Dall’analisi della registrazione effettuata dalla guardia giurata Felice Grieco a Milano, la bambina nel video, in compagnia di una presunta donna rom, potrebbe appartenere non solo a una comunità linguistica siciliana, ma proprio alla comunità linguistica di Mazara del Vallo.
Denise Pipitone, spunta una nuova foto della nomade avvistata a Milano: "Rintracciamola, può toglierci il dubbio". Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. Il caso di Denise Pipitone continua a tenere banco. Nel corso della puntata di lunedì 10 maggio di Mattino 5, la trasmissione condotta da Federica Panicucci, sono infatti emersi dei nuovi dettagli. L’avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, ha fatto sapere in diretta di essere sulle tracce della nomade ripresa a Milano in compagnia di una bambina che assomiglia a quella scomparsa da Mazara del Vallo il primo settembre 2004. “Non sappiamo se la bimba ripresa a Milano fosse Denise, ma è importante trovare la nomade che era con lei”, ha dichiarato il legale, che ha poi segnalato l’importanza che la ricerca attualmente concentrata su quella donna dia i suoi frutti: “Se la trovassimo almeno potremmo toglierci questo dubbio. Questa foto ha delle somiglianze importanti con la donna che accompagnava la piccola ripresa a Milano”. Un confronto fotografico avvenuto anche stamattina durante la diretta di Mattino 5 potrebbe infatti essere decisivo per rintracciare la nomade avvistata all’epoca con una bambina dalla guardia giurata Felice Grieco. Quella bambina con l’accento siciliano segnalata a Milano non è mai stata rintracciata. Difficile che possa avvenire a distanza di quasi 17 anni, però sarebbe molto importante risalire almeno alla donna che era con lei e che la chiamava “Danas”. In ogni caso la ricerca di Denise Pipitone continua incessantemente, anche perché come dichiarato più volte da Piera Maggio sua figlia è ancora viva fino a prova contraria.
Caso Denise Pipitone, accertamenti su una ventunenne di Scalea. La Repubblica l'11 maggio 2021. Un cittadino sostiene che la storia della ragazza avrebbe analogie con quella della bambina scomaprsa nel 2004 da Mazara del Vallo. Ora la procura di Marsala dovrà decidere se confrontare i dna. I carabinieri di Scalea, in provincia di Cosenza, stanno eseguendo dei controlli su una ragazza di 21 anni, di origini romene, che vive nella cittadina calabrese perché secondo la segnalazione di un cittadino si tratterebbe di Denise Pipitone, la bambina scomparsa nel settembre del 2004 da Mazara del Vallo. Secondo quanto si apprende, chi ha segnalato la somiglianza pare abbia riferito diverse circostanze che potrebbero fare ipotizzare la verosimiglianza di quanto riferito. Per questo i carabinieri stanno procedendo ai controlli. La ragazza non si è sottratta alle verifiche e ha fornito i nomi dei genitori e altre informazioni utili a ricostruire il suo passato. Di tutto è stata informata la Procura della Repubblica di Marsala che dovrà decidere se procedere o meno a eseguire la comparazione del dna.
Da "tgcom24.mediaset.it" l'11 maggio 2021. Si chiama Denisa, ma non sarebbe lei Denise Pipitone. Si tratta della 19enne di origine romena segnalata alle forze dell'ordine da una parrucchiera di Scalea, in Calabria, secondo la quale la giovane potrebbe essere la bambina scomparsa nel 2004 a Mazara del Vallo. "Non sono io", dichiara invece la ragazza ai microfoni di "Pomeriggio Cinque". "Sono cresciuta con i miei nonni in Romania, in Italia sono arrivata nel 2009, avevo sei anni e mezzo", precisa la 19enne che però non esclude la possibilità di sottoporsi al test del Dna se "servirà a dimostrare" che non è lei Denise Pipitone. In comune, la ragazza che vive a Cosenza e la bambina scomparsa, avrebbero una cicatrice e l'età simile. Denisa ha 19 anni, mentre Denise Pipitone oggi ne avrebbe 21. "A Piera Maggio dico di non perdere la speranza - dichiara la giovane - io sono un falso allarme, però potrebbero esserci altre segnalazioni e lei potrebbe ritrovare sua figlia, perché una mamma - conclude Denisa - non può mai accettare la perdita di un figlio".
Il caso riaperto. Denise Pipitone, parla la 19enne di Scalea: “Non sono io, ma farò test Dna”. Fabio Calcagni su Il Riformista l'11 Maggio 2021. “Non sono io Denise”. Rischia di essere un nuovo buco nell’acqua la "pista" scoperta nelle scorse ore su Denise Pipitone, la bambina di 4 anni scomparsa nel 2004 da Mazara del Vallo. Questa mattina era infatti circolata la notizia di accertamenti su una ragazza di 19 anni di origini romene, a Scalea, in provincia di Cosenza, per una forte somiglianza con la bambina scomparsa 17 anni fa. “Non sono io la bambina – ha detto alla TgR della Calabria la ragazza, che si chiama Denise – mi spiace per la famiglia. Sarebbe stata una bella notizia se fossi stata io e mi avessero trovato dopo tanto tempo ma non sono io, non sono io e basta. Ho avuto una vita abbastanza travagliata ma per fatti miei non perché mi ricollega alla vita dell’altra ragazza scomparsa. Mio padre è morto, mia madre invece no ma con lei non parlo da tanto tempo. Sono nata in Romani, mi dispiace ma non sono io”. Una "ricostruzione" confermata intervenendo in diretta alla trasmissione Pomeriggio 5, dove la 19enne ha spiegato di essere nata in Romania da genitori romeni e di essere in Italia dal 2009, e di essersi recata a Scalea per trovare un’amica ma di vivere a Cosenza. La 19enne ha comunque mostrato grande disponibilità, dicendosi pronta ad effettuare il test del Dna “se serve per potere confermare ulteriormente che non sono la ragazza che cercano”. Una nuova pista nata dalla segnalazione, riporta l’Ansa, da parte di una parrucchiera di Scalea, che appena vista la 19enne ha subito pensato a Denise. Importante infatti la somiglianza e "curiosa" anche la circostanza dell’identico nome. IL CASO – La vicenda di Denise Pipitone è tornata al centro dell’attenzione mediatica nell’ultimo mese. Prima per l’appello della ragazza russa Olesya Rostova poi per la riapertura delle indagini e quindi per le perquisizioni nella casa che fu di Anna Corona. “In questa città c’è chi ha visto e sa come è scomparsa Denise ed è a queste persone che mi rivolgo: adesso basta, fatevi coraggio, è l’ora di parlare, non potete tenervi sulla coscienza questo peso. Denise è figlia di questa città e dobbiamo proteggerla. La mia piccola merita verità e giustizia”, ha detto la madre Piera Maggio all’Ansa dopo la perquisizione ella casa di via Pirandello 55 a Mazara del Vallo che fu in uso ad Anna Corona, l’ex moglie di Pietro Pulizzi, papà biologico della piccola Denise Pipitone. La donna è la madre di Jessica Pulizzi (sorellastra della piccola scomparsa l’1 settembre 2004), finita sotto processo e assolta nei tre gradi di giudizio. Era trapelata nel pomeriggio da alcuni media una notizia sulla ricerca resti di Denise, subito smentita. L’ispezione, nella casa oggi di proprietari che risiedono all’estero, è stata disposta dalla Procura di Marsala “per verificare lo stato dei luoghi e se sono stati effettuati lavori edili” dopo la riapertura delle indagini sulla scomparsa di Denise.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Denise Pipitone, chi è la ragazza di Scalea che somiglia alla bimba di Mazara del Vallo. Ilaria Minucci l'11/05/2021 su Notizie.it. Una ragazza romena molto somigliante a Denise Pipitone è stata avvistata a Scalea: chi è la giovane che potrebbe essere la bimba di Mazara del Vallo. Un nuovo avvistamento di una ragazza somigliante a Denise Pipitone ha condotto le forze dell’ordine a effettuare alcuni accertamenti a Scalea, in Calabria. Nella giornata di lunedì 10 maggio, infatti, una donna residente nel comune calabrese ha contattato i carabinieri asserendo di aver visto una ragazza dai lineamenti molto simili a quelli che dovrebbe avere la figlia di Piera Maggio da adulta. In seguito alla riapertura del caso relativo alla scomparsa di Denise Pipitone da parte della procura di Marsala, proseguono le indagini finalizzate al ritrovamento della bambina rapita da Mazara del Vallo nel 2004. I magistrati stanno lavorando assiduamente per riesaminare la prima inchiesta e per comprendere se siano stati commessi depistaggio o errori nel corso dei primi giorni di ricerche. In questo contesto, si inserisce la nuova segnalazione ricevuta dai carabinieri inerente all’avvistamento di una giovane molto simile alla piccola Denise Pipitone. La segnalazione è stata indicata da una donna di Scalea, in provincia di Cosenza, che ha casualmente incontrato una ragazza di origine romena, estremamente somigliante alla figlia di Piera Maggio, e che ha dichiarato di chiamarsi Denise. Questa ed altre coincidenze, quindi, hanno spinto la donna a rivolgersi alle forze dell’ordine. In seguito all’avvistamento, i carabinieri hanno rapidamente provveduto a rintracciare la ragazza di origine rom e a contattarla per sottoporle alcune domante preliminari. La giovane è stata accolta e ascoltata per la prima volta, in caserma, nella giornata di lunedì 10 maggio. In relazione alle informazioni sinora rilasciate, è stato comunicato che la ragazza, attualmente residente a Scalea, ha trascorso la sua adolescenza presso un istituto religioso situato in provincia di Cosenza mentre avrebbe un’età dichiarata pari a 19 anni. Qualora il dato anagrafico dovesse essere confermato, un tale elemento sarebbe sufficiente a scartare l’ipotesi che la giovane sia Denise Pipitone in quanto la piccola svanita a Mazara del Vallo dovrebbe avere compiuto ormai i 21 anni. Nonostante entrambe le ragazze condividano il medesimo nome, quindi, appaiono scarse le possibilità che possano essere la stessa persona. La 19enne, inoltre, ha fornito alle forze dell’ordine i riferimenti per rintracciare i suoi genitori che, attualmente, non vivono con lei. Intanto, gli inquirenti stanno valutando l’ipotesi di sottoporre la giovane all’esame del DNA mentre le indagini proseguono seppur nel massimo riserbo. A questo proposito, infatti, l’avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta, ha spiegato: “La procura con noi non parla, è un muro”. Intanto, la 19enne Denise, contattata da Chi l’ha visto?, ha negato di poter essere la figlia di Piera Maggio e Pietro Pulizzi, asserendo: “Non sono io Denise Pipitone”. Intervistata, poi, anche da Barbara d’Urso nel corso della puntata di Pomeriggio Cinque, la ragazza ha nuovamente affermato di non poter essere lei la bambina di Mazara del Vallo, raccontando: “Fino all’età di sei anni e mezzo ho vissuto in Romania, dove sono nata da genitori romeni – e ha aggiunto – vivo in Italia dal 2009”. Infine, quando le è stato chiesto se fosse disponibile a sottoporsi al test del DNA, la 19enne ha risposto: “Sì, se serve per poter confermare ulteriormente che non sono la ragazza che cercano”.
Denise Pipitone, l'ex pm ammette: "Pozzo? Non ricordo niente", il sospetto sul dettaglio sfuggito. Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Le notizie che arrivano sul caso di Denise Pipitone sono tante e ancora confuse: di certo c’è che per tutta la giornata di oggi, mercoledì 5 maggio, sono state condotte delle ricerche approfondite nella casa che fu abitata da Anna Corona, la mamma della sorellastra della bambina scomparsa a Mazara del Vallo il primo settembre 2004. Personale specializzato è stato impegnato nelle ricerche di una eventuale “stanza segreta” e soprattutto di una botola, sotto la quale è emerso esserci un pozzo di circa dieci metri. Qui finiscono le certezze e si entra nel campo delle ipotesi: difficile sbilanciarsi su un caso così delicato, bisogna aspettare comunicazioni ufficiali da parte della procura di Marsala, che ha fatto sapere di non cercare alcun corpo, come invece era emerso sulla stampa nel corso della giornata. Nel frattempo l’Adnkronos ha sentito Maria Angioni, la pm che si è occupata per anni dell’inchiesta sulla scomparsa di Denise e che adesso è giudice del lavoro a Sassari. “Il garage e lo scantinano di quella palazzina all’epoca furono ispezionati, ma non ricordo niente sul dettaglio di un pozzo”, ha dichiarato. Di recente la giudice Angioni aveva denunciato l’ambiente difficile che all’epoca trovò nel corso delle indagini: “Abbiamo avuto grossi problemi. Abbiamo capito che dopo tre giorni tutte le persone sottoposte a intercettazioni già sapevano di essere sotto controllo. A un certo punto, quando ho avuto la direzione delle indagini, ho fatto finta di smettere di intercettare e poi ho ripreso da capo con forze di polizia diverse, nel disperato tentativo di salvare il salvabile”.
Denise Pipitone, la pm: «Sarà possibile ritrovarla quando qualcuno darà una mano a collegare un paio di indizi». L'intervista a Maria Angioni su Rai 3 a «Chi l'ha visto?». Ansa / CorriereTv il 6/5/2021. "All'epoca, noi come procura, abbiamo mandato a giudizio delle persone che poi sono state assolte", così la pm che si occupò del caso di Denise Pipitone, Maria Angioni, in onda su Rai 3 a "Chi l'ha visto?". "Durante le indagini a Claudio Corona erano state fatte due domande messe in croce a cui lui aveva risposto in modo generico e così avevo deciso di risentirlo. Penso ci sia stato molto rispetto verso la famiglia Corona. Secondo me, se qualcuno darà una mano nel collegare una serie d'indizi, Denise potrà essere ritrovata", ha dichiarato Maria Angioni.
Da vigilanzatv.it il 6 maggio 2021. Ci arriva una segnalazione da Viale Mazzini, secondo la quale Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l'ha visto su Rai3 che al momento si sta occupando approfonditamente del caso Denise Pipitone, si sarebbe lamentata duramente con l'Ad Rai Fabrizio Salini riguardo a La vita in diretta. Le rimostranze della Sciarelli - che ieri, mercoledì 5 maggio 2021 in prima serata, ha addirittura battuto negli ascolti Ulisse - Il piacere della scoperta su Rai1 - riguarderebbero il trattamento del caso Pipitone da parte del programma pomeridiano condotto da Alberto Matano sulla Rete Ammiraglia. Sciarelli avrebbe rivendicato duramente con Salini il proprio approccio giornalistico asettico e privo di scandalismi, a differenza di quello di Matano che mira invece alla spettacolarizzazione del caso, forse perché in competizione con Barbara D'Urso nella stessa fascia oraria. Tali rimostranze da parte della giornalista scalfiranno Matano, che con l'Ad Salini condivide una grande amicizia con l'ex Ministro Vincenzo Spadafora, ancora influente in Rai? Staremo a vedere. La vita in diretta profitta intanto del preziosissimo traino del Paradiso delle Signore che va a gonfie vele il pomeriggio superando il 20% di share, mentre il povero Alberto Angela, collocato in uno slot poco fortunato su Rai1, soccombe non soltanto a Buongiorno mamma su Canale5 ma perfino a Rai3.
Denise Pipitone, il tribunale mediatico vuole rifare il processo. Il Dubbio il 24 aprile 2021. La lettera dell'avvocato Paolo Di Fresco, legale di Jessica Pulizzi, la sorellastra della piccola Denise accusata di sequestro di persona e poi assolta. Egregio Direttore, Da qualche settimana la tv ha deciso di riaprire il caso di Denise Pipitone, la bambina rapita a Mazara del Vallo più di quindici anni fa. A suo tempo, ampio spazio era stato dedicato dai media al processo che ne era scaturito e che vedeva imputata di sequestro la sorellastra, Jessica Pulizzi. Quel processo – a cui, giovanissimo avvocato, partecipai anch’io – si concluse con la assoluzione della Pulizzi, mandata libera da giudici coraggiosi che ebbero il coraggio di resistere alle pressioni di tv e giornali che avevano già issato la croce a cui appenderla. Quella sentenza fu confermata dalla Corte d’appello di Palermo e, infine, dalla Cassazione. A riprova che le accuse – alimentate dal dolore della madre e dall’attivismo a portata di telecamere del patrono di parte civile – non reggevano alla prova dei fatti ed erano tanto suggestive quanto illogiche. Oggi, sull’onda del rinnovato interesse mediatico per l’amaro destino di Denise, quelle sentenze sono contestate da giornalisti e conduttori tv, che non esitano ad attaccare i giudici che le hanno emesse, accusandoli senza mezzi termini di incapacità e inadeguatezza al compito. Le testimonianze, ritenute attendibili in ben tre gradi di giudizio, vengono ora giudicate false da curiosi tribunali televisivi allestiti allo scopo e presieduti proprio da chi quei processi ha perduto. Con sprezzo del ridicolo (e del diritto), si parla persino di riaprire il caso e processare nuovamente Jessica Pulizzi ma stavolta allargando lo spettro delle accuse anche alla madre, Anna Corona, la cui brutta faccia, a ben vedere, dice più di mille sentenze…Eccole, dunque, queste due povere donne: di nuovo alla gogna, esposte alla furia cieca della folla. Speravano forse di tornare a una vita normale, nascosta. Ma l’inflessibile tribunale televisivo le ha scovate e ora ne reclama il sangue. Guardatele bene: sono brutte, grasse, cattive, persino sessualmente ambigue. Non possono che essere colpevoli. Poco importa che la pur disastrata Giustizia italiana ne abbia sancito una volta per tutte la non colpevolezza. La tv, oscena piazza vociante, non conosce nulla di definitivo, al di fuori della sua spaventosa vocazione al patibolo.
Paolo Di Fresco, avvocato
Chi l'ha visto e Denise Pipitone, Piera Maggio e il pesantissimo sospetto sulle indagini: nomi e cognomi. Libero Quotidiano il 15 aprile 2021. Dei "buchi" sospetti nelle indagini su Denise Pipitone. Lo ribadisce Piera Maggio, mamma della bimba di 4 anni sparita nel nulla da Mazara del Vallo nel 2004. La donna, ospite di Federica Sciarelli a Chi l'ha visto? su Rai3, è tornata sul ruolo di Jessica Pulizzi, Anna Corona e degli inquirenti dell'epoca, sostenendo che coinvolte in quell'inchiesta ci furono persone "non competenti" e altre che "non dovevano starci" perché dichiaratamente ostili alla stessa Maggio. "Voglio precisare questo perché non si dica che tutti sono stati coloro che hanno depistato o non hanno aiutato", ha spiegato la mamma di Denise. Il sospetto di Piera e del suo legale Giacomo Frazzitta è che qualcuno degli inquirenti per motivi personali avesse avvisato le persone intercettate all'epoca, che dunque avrebbero fornito una falsa ricostruzione dei fatti nei loro colloqui privati al solo scopo di sviare le indagini. "Perché qualcuno delle forze dell’ordine di quell’epoca non ci racconta come sono andati i fatti visto che un pubblico ministero e chi curava le indagini sono stati traditi nell’esercizio delle loro funzioni?", è la pesante accusa dell'avvocato Frazzitta. All'epoca i sospetti di Piera Maggio si erano concentrati su Jessica Pulizzi, figlia dell'attuale marito della donna Pietro Pulizzi, e su Anna Corona, precedente compagna dello stesso Pietro. La Maggio ha denunciato di essere stata stalkerizzata in quel periodo dalla Pulizzi, "“quotidianamente, ogni giorno, tutti giorni". "Jessica mi ha squartato tutte e quattro le ruote della macchina. C’è stato un incendio a una erboristeria di mia sorella. Ci sono state una serie di vessazioni. Quando è stata sequestrata Denise io lo dissi ai due marescialli indirizzandoli ad andare a casa di Anna Corona. Per me, nell’immediatezza, non potevano essere che loro".
I retroscena delle indagini. Denise Pipitone, la pm che si occupò del caso: “Grossi problemi nelle indagini, cambiati gli investigatori”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Per la Pm Maria Angioni, che si era occupata del caso della scomparsa di Denise Pipitone nel 2004, il contesto in cui si sono svolti per anni le indagini è stato molto complicato. Dure le parole del magistrato sul contesto ambientale in cui si svolgevano le indagini e sulla popolazione che non ha collaborato, ma ancora più dure le parole sugli investigatori che l’hanno affiancata durante le indagini. “Abbiamo avuto grossi problemi. Abbiamo capito che dopo tre giorni tutte le persone sottoposte a intercettazioni già sapevano di essere sotto controllo – ha detto la pm intervenuta al programma di Milo Infante ‘Ore 14’ in onda su Rai 2 -. A un certo punto, quando ho avuto la direzione delle indagini, ho fatto finta di smettere di intercettare e poi ho ripreso da capo con forze di polizia diverse, nel disperato tentativo di salvare il salvabile”. Dura la replica di Klaus Davi alle parole del pm Angioni nel corso del popolare talk di Rai 2. “Sono parole estremamente gravi quelle del magistrato Angioni – ha detto Davi – . Trovo significativo che un magistrato accusi la Polizia Giudiziaria di aver fatto trapelare le notizie coperte da segreto. Se questo è vero, dovrebbe partire immediatamente un’indagine. In altre procure simili episodi sono stati oggetto di indagini, processi e condanne, quindi invito la dottoressa Angioni o chi di dovere a fare altrettanto”. Intanto dopo la scoperta che il gruppo sanguigno di Denise non corrisponde a quello di Olesya Rostova, la ragazza russa che cerca la mamma la cui somiglianza con Piera Maggio aveva acceso le speranze del ritrovamento, continuano le indagini per trovare la bambina. “Adesso sarà la Procura di Marsala ad occuparsene”. Il legale ha già portato la documentazione ai magistrati con le ultime novità sul caso.
Ex procuratore “Rapimento Denise Pipitone? Fu Jessica Pulizzi”. Piera Maggio “basita”. Emanuela Longo su ilsussidiario.net il 16.04.2021. Il giallo di Denise Pipitone al centro di Ore 14. Intervista all’ex procuratore capo di Marsala, Di Pisa, che si dice certo del coinvolgimento di Jessica e della madre.
Caso Denise Pipitone, Ore 14. La trasmissione di Rai2, Ore 14, non spegne i riflettori sul caso di Denise Pipitone accogliendo l’appello di mamma Piera Maggio. Il programma ha trasmesso un’intervista realizzata all’allora procuratore capo di Marsala, Alberto Di Pisa, che ha raccontato dei particolari importanti sul caso della sparizione di Denise Pipitone. Chi l’ha portata via dalla sua famiglia? “Jessica, perché coincidono gli orari”, ha replicato. “Nello stesso orario la madre si allontana dal posto di lavoro, quindi c’è tutta una coincidenza in quel periodo”, ha aggiunto. La Pulizzi è poi stata assolta anche in Cassazione. “Io resto convinto malgrado l’assoluzione che il fatto sia maturato nell’ambito familiare e nasce da un vero e proprio odio che Jessica Pulizzi nutriva nei confronti di Piera Maggio e della bambina perchè il padre era andato a convivere con la Maggio lasciando la madre Anna Corona”, ha proseguito. L’ex procuratore non avrebbe alcun dubbio sul coinvolgimento delle due donne: “Non vedo altre causali”, dice. Dopo le parole dell’ex procuratore, l’avvocato Giacomo Frazzitta, in collegamento con il programma ha commentato: “Questa era la linea della procura. Loro hanno ereditato una indagine”, ha precisato il legale di Piera Maggio, che ha sottolineato una inesattezza del dottor Di Pisa in quanto il presunto livore era dovuto ad altre ragioni. Una convinzione, quella emersa ora dall’ex procuratore, che però secondo le parole dell’avvocato non era emersa invece nel corso del processo quando lo vedeva “dubitativo su tutto”.
CASO DENISE PIPITONE: INTERVIENE PIERA MAGGIO A ORE 14. In collegamento telefonico con la trasmissione Ore 14 anche la madre di Denise Pipitone, Piera Maggio, reduce da un piccolo intervento, che ha ringraziato per l’attenzione riservata al caso. “Tutto quello che c’era da fare l’abbiamo fatto con le nostre forze”, ha spiegato la donna, “è un lavoraccio perchè Denise non si è cercata”. Tra la ricerca iniziale e quella nel tempo secondo la signora Maggio, c’è una grande differenza. “Sono un po’ basita da quello che ho ascoltato”, ha commentato Piera Maggio rispetto alle parole dell’ex procuratore di Marsala, perchè “rispetto a quello che ho visto e che ho potuto sentire ai tempi in cui faceva parte come magistrato principale la sua opinione era tutt’altra”. La donna ha ricordato che quando Di Pisa divenne procuratore, nel loro primo incontro “rimasi sconcertata perchè avevo davanti un procuratore che non credeva che potesse essere Jessica Pulizzi la colpevole, mi era quasi sembrato di avere di fronte l’avvocato della Pulizzi e non il procuratore capo della Repubblica”. Maggio ha ammesso di non aver avuto alcun sostegno neppure morale da parte dell’ex procuratore capo. “Mi trovo disorientata”, ha aggiunto la donna rispetto alle parole di Di Pisa. L’avvocato Giacomo Frazzitta ha spiegato come inizialmente lo Stato fu vicino a Piera Maggio ma dopo il cambio dei magistrati la sensazione è stata di abbandono totale.
EX PROCURATORE SUL TESTIMONE SORDOMUTO. L’intervista all’ex procuratore Di Pisa prosegue arrivando al test chiave, Battista Della Chiave, l’uomo sordomuto mai creduto. “L’abbiamo sentito con l’interprete dei sordomuti ma cadde in una serie di contraddizioni e non lo ritenemmo più attendibile”, ha spiegato l’ex procuratore capo. Di Pisa ha svelato che fu piazzata una microspia in un condizionatore nella stanza in cui si trovava il teste ma fu scoperta dopo un giorno e l’indagine si chiuse lì. Roberta Bruzzone è intervenuta su questo aspetto commentando: “Credo che se qualcuno non ha indicato precisamente in luogo in cui si trovava la microspia, difficilmente poteva essere trovata”. Questo andrebbe a richiamare, a suo dire, quanto detto dalla dottoressa Angioni. “Che ci sia stata una condotta inquietante da parte di alcuni soggetti è chiaro che ci sia qualcosa che non quadra”, ha aggiunto. L’avvocato Frazzitta ha invece avanzato un’altra ipotesi: “Oppure quelle microspie vennero messe alla presenza di qualcuno che doveva essere in quel momento interrogato nel letto e vide queste cose…”. In questo l’avvocato ha parlato di “negligenza”. Piera Maggio in merito è intervenuta asserendo: “Le microspie che avevo in casa io le ho scoperte dopo 10 anni, perchè non avevo alcun problema”. La donna ha spiegato che le fu montata la videosorveglianza anche ambientale, mentre Anna Corona “non le fu mai montato nulla”.
INDAGINI SONO STATE RIAPERTE? Le indagini sulla scomparsa di Denise Pipitone potrebbero addirittura essere state già riaperte, come spiegato dall’avvocato Frazzitta. Piera Maggio è tornata sulle microspie trovate nella sua casa solo dopo 10 anni ed ha aggiunto: “Purtroppo non ci siamo scelti nè la procura nè il comune di appartenenza dove nasce una tragedia. La sfortuna principale, oltre io a perdere una figlia in questo modo crudele, è stata avere una provincia dove non c’erano persone preparate”. La donna ha sottolineato tutte le lacune e ciò che non è andato nel lavoro dei magistrati. Le dichiarazioni dell’ex procuratore Di Pisa sono state definite “gravissime” anche da Monica Leofreddi. “Sicuramente non ha fatto abbastanza”, ha aggiunto. Rispetto a tutto ciò che è stato detto in questi giorni, Piera Maggio ha spiegato cosa le hanno lasciato: “Una amarezza in bocca. Intanto grazie a quello che si è aperto con il caso Olesya si è aperta una voragine, nulla che già non sapevamo”, ha aggiunto. E si augura che altri magistrati che hanno lavorato al caso possano parlare in futuro.
“Odiava Piera Maggio”. Denise Pipitone, l’ex procuratore rompe il silenzio. Caffemagazin.it il 17/5/2021. Barbara D’Urso è tornata a parlare del caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa il 1 settembre 2004 quando aveva quattro anni. Un mistero che dura da 17 anni, che si consuma in pochi minuti. La nonna entra in casa e quando esce di Denise non c’è traccia. Parte subito la denuncia ai carabinieri e le ricerche. La pista privilegiata è quella della vendetta privata, maturata nell’ambito familiare, tra la nuova e la vecchia famiglia del padre di Denise, Pietro Pulizzi, ex marito di Anna Corona e padre di Jessica Pulizzi, assolta dall’accusa di rapimento. Per tutto il mese Mazara del Vallo è passata al setaccio. Polizia, carabinieri, reparti speciali e unità cinofile, percorrono strade, fiumi, grotte, pozzi, anfratti, ma di Denise non c’è traccia. Alla pista privata se ne affiancano altre, come l’ipotesi legata a riti occulti, traffici di organi e la pista rom, ripresa recentemente dopo nuovi studi sul video filmato a Milano in cui una bambina molto somigliante a Denise era in compagnia di una donna rom. Sin dal giorno della scomparsa la mamma Piera Maggio non si è mai data per vinta e ha continuato a cercare la sua bambina, anche quando sembrava non ci fossero più speranze. Ospite di Domenica Live, l’ex procuratore di Marsala, il dottor Alberto di Pisa, ha espresso la sua opinione sulla scomparsa di Denise Pipitone dopo essersi occupato per anni del caso. “Io premetto che il sequestro della bambina avviene nel 2004 e io inizio a lavorarci nel 2008. Ci sono già quattro anni di indagini”, ha detto il dottor Pisa alle telecamere di Barbara D’Urso. “Jessica Pulizzi è stata assolta in tre gradi quindi per la legge è innocente. La mia idea è che la vicenda nasce in ambito famigliare, nasce dal rancore e dall’odio che Anna Corona aveva verso Piera Maggio”, ha spiegato ancora. “La mia opinione nasce anche da un’intercettazione telefonica del 1 settembre tra Corona e la figlia Jessica Pulizzi che disse A casa gliel’ho portata. Questa persona avrebbe potuto portare Denise a qualcuno che poi l’avrebbe lasciata in un campo rom”, ha aggiunto l’ex procuratore. Mercoledì 12 maggio 2021 è arrivata una una lettera anonima allo studio dell’avvocato Giacomo Frazzitta, il legale della mamma di Denise Pipitone, con nuovi elementi attendibili sulla scomparsa della figlia di Piera Maggio. “È chiaro che dal contenuto di quella lettera anonima posso affermare che ci sono diverse persone a Mazara che sanno di questo fatto, sono testimoni oculari, e questo mi fa molta rabbia, perché vuol dire che sono 17 anni che queste persone sono state in silenzio. Questa persona ci fa una descrizione precisa di una fase. Hanno paura? Ma di che cosa? Di chi? – ha spiegato Giacomo Frazzitta a Domenica In – Se il signore anonimo mi sta sentendo, ribadisco noi lo stiamo aspettando, stiamo aspettando il suo segnale e stiamo dicendo delle cose per tranquillizzarlo, mantenendo la massima riservatezza noi ti attendiamo caro anonimo sarai tutelato senza rischi per nessuno”.
Denise Pipitone, Piera Maggio a Quarto Grado: "Errori di proposito nelle indagini, chi l'ha rapita sapeva cosa faceva". Libero Quotidiano il 17 aprile 2021. Piera Maggio ne è certa "i rom non hanno rapito mia figlia". La mamma di Denise Pipitone, scomparsa da Mazara del Vallo nel 2004, è certa che "chi ha preso mia figlia sotto casa sapeva quello che faceva". A Quarto Grado su Rete Quattro la donna crede che la piccola sia stata data ai rom solo successivamente. "Denise - ha spiegato in collegamento con Gianluigi Nuzzi - non era solita dare confidenza agli estranei. Probabilmente aveva già visto le persone che l'hanno portata via". Tutto questo ha portato a delle gravi conseguenze: "Ci sono stati degli errori nelle indagini che purtroppo non si possono più recuperare". Da qui l'accusa: "Alcuni errori sono stati commessi per negligenza, altri di proposito e altri ancora per incompetenza. Tutto è accaduto in una provincia dove nessuno si aspettava che rapissero una bambina". Un racconto, quello di Piera, che non stride affatto con quello fatto da Felice Grieco. Fu lui, guardia giurata di fronte a una banca, a riprendere una bambina parecchio somigliante alla piccola Denise solo qualche mese dopo la sua sparizione. La bambina misteriosa si chiamava proprio "Danas". "Il 19 consegnai il CD con i filmati, vennero sul posto. Poi basta… Mesi dopo si è tornati a parlare. Mi fu sequestrato cellulare, pc, ebbi un mandato di perquisizione in casa, forse pensavano nascondessi qualcosa", ha spiegato l'uomo alle telecamere di Telelombardia. Per poi aggiungere che fu chiamato sui posti a identificare delle persone, direttamente nei campi rom. "Davanti ai carabinieri - ha ammesso - sono stato minacciato da alcuni rom, mi dissero che mi avrebbero tagliato la testa". La pista dei nomadi è ancora la più convincente. "Alle 13.30 di quel giorno - ha spiegato anche il legale Giacomo Frazzitta sul giorno della tragedia - ci sono contatti con nomadi dell’est europeo con soggetti vicini alla storia, per cui che ci possa essere stato un contatto – ma parliamo di ipotesi – ci dà l’idea che potrebbe esserci stato un coinvolgimento".
Caso Pipitone: non si placano le polemiche sulle incongruenze della trasmissione russa. Denise Ragusa l'08/04/2021. Numerosi polemiche si sono susseguite oggi, 8 aprile, sul caso Pipitone-Rostova, in seguito alla puntata di ieri di "Lasciali Parlare" dell'emittente russa. Ha acceso numerose polemiche la trasmissione “Lasciali parlare”, andata in onda nel primo canale russo, nella serata di ieri, 7 aprile. L’Italia intera discute sulle numerose incongruenze che hanno caratterizzato il programma e si infervora per le modalità di gestione dei rapporti con la famiglia di Denise Pipitone e con il loro legale Frazzitta. A essere messo sotto la lente di ingrandimento da parte degli italiani è principalmente il conduttore Dmitry Borisov, che di fatto viene accusato di aver strumentalizzato il dolore di Piera Maggio, per raccogliere ascolti e di aver usato la storia di Denise Pipitone e la sua somiglianza con Olesya per accrescere la popolarità del programma. L’aspetto che più ha scandalizzato l’opinione pubblica è sicuramente stato il trattamento riservato dal conduttore al rappresentate legale della famiglia di Denise; il conduttore infatti, ha fortemente esitato a concedere rapidamente il risultato dell’esame sul gruppo sanguigno di Olesya, all’avvocato Frazzitta, generando uno scontro in studio, che non è affatto passato inosservato. “Pomeriggio 5”, nella puntata di oggi, 8 aprile, si è occupata di mettere in luce le principali incongruenze che hanno caratterizzato la puntata di ieri trasmessa dalla tv russa. La prima stranezza e incongruenza sarebbe rappresentata dal curioso fatto che Olesya, durante la trasmissione si è più volte rivolta a Piera Maggio, con l’appelativo di “Mammina”, azione ripetuta dalla ragazza più volte, anche con le altre ipotetiche mamme, che poi si sono rivelate non compatibili col test del DNA di Olesya. La seconda incongruenza sarebbe rappresentata dal sorriso che Olesya ha rivolto al conduttore, in seguito alla rivelazione dell’incompatibilità del suo gruppo sanguigno con quello di Denise Pipitone. Fatti molto strani, che hanno fatto molto discutere e di fatto hanno messo in dubbio la credibilità del programma e del conduttore stesso, che nella serata di ieri, 7 aprile, tramite un post su Instagram si è scusato con Piera Maggio.
Da "liberoquotidiano.it" l'8 aprile 2021. Cade la pista russa, non quella dei nomadi. A Chi l'ha visto? Federica Sciarelli riprende in mano il caso di Denise Pipitone, nel giorno del tanto atteso verdetto su Olesya Rostova. La 20enne russa in cerca della madre biologica non è la piccola di 4 anni sparita a Mazara del Vallo nel 2004, il gruppo sanguigno è differente. Denise, dunque, non è stata portata a Mosca e poi finita in un orfanotrofio. Ma la Sciarelli rimanda in onda un vecchio servizio, un documento sconvolgente che riaccende le polemiche sulle mancate ricerche e gli eventuali passi falsi in 16 anni di indagini. Un anziano audioleso, steso a letto, riconosce la foto della piccola Denise e spiega a gesti a una traduttrice di averla vista, in canottiera, infreddolita e coperta da una maglia. L'uomo vede la foto della bimba su un telefonino e si sbraccia, indicandola. Riconobbe la bambina dopo il rapimento, ricorda la Sciarelli, ma la testimonianza dell'uomo audioleso, oggi deceduto, non fu ammessa al processo. Ed è rimasto un mistero anche un altro fatto emerso dall'inchiesta siciliana, seguita dalla Procura di Mazara: le telefonate al cellulare del padre da una utenza della famiglia Iovanovic. Le perquisizioni nel campo nomadi, però erano andate a vuoto. Proprio la tesi del rapimento della bimba ad opera di nomadi sembrava dare dei punti di contatto con la vicenda di Olesya, che sosteneva di avere ricordi di quando, bambina, era costretta a chiedere l'elemosina a Mosca con una mendicante nomade, prima di venire soccorsa da agenti delle forze dell'ordine e venire portata in un orfanotrofio della capitale russa.
“Ha mentito, vi racconto tutto”. Denise Pipitone, la rivelazione su Olesya Rostova da Barbara D’Urso. Caffemagazine.it il 12/4/2021. Sono pesanti le accuse a Olesya Rostova, la ragazza russa che per una settimana ha tenuto l’Italia con il fiato sospeso per capire se potesse essere Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Maraza Del Vallo, in Sicilia, quando aveva 4 anni. In questi anni le segnalazioni su possibili ritrovamenti di Denise Pipitone sono state tantissime, ma non c’era mai stata una pista così importante come questa che porta in Russia, con tanto di storia analoga e foto che mostra una somiglianza davvero impressionante con Piera Maggio. Ma la verità è venuta a galla quando, durante la puntata di ‘Lasciali parlare’ andata in onda mercoledì 7 aprile l’avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta, ha ricevuto la notizia del gruppo sanguigno di Olesya, che non combacia con quello di Denise Pipitone. “Siamo veramente dispiaciuti che il gruppo sanguigno di Olesya non sia quello di Denise. Era un passaggio fondamentale da fare”, ha affermato ancora Frazzitta aggiungendo: “Adesso sarà la Procura di Marsala ad occuparsene”. A Domenica Live Roman, conduttore e produttore di un web-reality russo a cui partecipò Olesya, ha lanciato accuse pesanti alla 21enne. “Non mi interessa di Olesya – dice Roman in collegamento con Barbara D’Urso – ma quando ho visto che stava inventando tutta questa storia, ho deciso che dovevo parlare”. I video del reality, spiega Barbara D’Urso, non possono essere trasmessi, perché in fascia protetta. “Lei diceva sempre che voleva avere fama, visibilità. È un’attrice“, dice Roman, spiegando anche che Olesya più volte aveva detto di voler arrivare anche a “Lasciami parlare”, la trasmissione russa che poi ha raccontato la sua storia. Secondo il racconto di Roman, Olesya “ha dei genitori. Quando nella trasmissione ha detto che non si ricordava se parlava in italiano e via dicendo, io ho capito che dovevo parlare. Sono sicuro che lei stia recitando un copione”. Incalzato, poi, specifica: “Ho dei video, degli audio in cui lei dice di conoscere i suoi genitori e di avere una famiglia vera. Mi scuso per la Russia. Credo che Olesya conosca la sua famiglia di origine, mi ha sempre parlato della sua infanzia, della sua “sorellona”. Ma di quale rapimento parliamo? Non capisco perché raccontare queste balle”. Sulla trasmissione che però, secondo quanto detto da Roman, non avrebbe verificato la reale storia di Olesya, il conduttore del web-reality non è netto: “Conniventi? Non riesco a rispondere. Hanno fatto una trasmissione, senza prove, hanno messo in mezzo tante persone, sulla base di una probabilità”. Certo delle sue affermazioni, poi, l’ospite di Barbara D’Urso promette altre prove: “Nel reality potrebbe aver parlato con noi della famiglia adottiva, certo, ma è strano che non abbia detto nulla del rapimento”. Roman, Roma Bler (nome su Instagram), streamer russo e vecchio amico di Olesya, sui social aveva pubblicato dei video che ritraevano la ragazza russa partecipare a un suo reality. “Olesya Rostov partecipante al Mio spettacolo. Lo sta facendo per fare pubbliche relazioni. Ho tutte le prove video. Non essere ingannato”. “Olesya Rostova era un’attrice del mio reality Show su YouTube. – aveva scritto ancora lo youtuber russo – Non giocare con i sentimenti delle persone in TV, lei mente. Ho un sacco di video in cui mi dice che è pronta a fare qualsiasi cosa per la popolarità e oltre. Per lei, questa è la cosa più importante. Non ti lascerò ‘ ingannare! Seguiteci, andrò in TV e vi mostrerò tutto. Mostra questo video a tutti!”.
Le accuse rivolte a Olesya Rostova da un conduttore russo. Un conduttore russo, ospite a Domenica Live, ha rivolto pesanti accuse contro Olesya Rostova, la ragazza che avrebbe potuto essere Denise Pipitone. Ilaria Minucci su Notizie.it l'11/4/2021. Si moltiplicano i dubbi sull’autenticità della storia raccontata da Olesya Rostova, la ragazza russa in cerca della sua famiglia dopo essere stata rapita da bambina. A questo proposito, si è espresso il conduttore e produttore di web-reality russo Roman, durante la sua partecipazione a Domenica Live, il programma domenicale in onda su Canale 5 e condotto da Barbara d’Urso. Olesya Rostova è diventata famosa in Italia, attirando su di sé l’attenzione mediatica del Paese, per la sua estrema somiglianza con Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone scomparsa nel 2004. La speranza che la giovane russa potesse essere la piccola Denise ha riacceso l’attenzione sul caso e in molti hanno creduto che Piera Maggio fosse in procinto di riabbracciare la sua bambina. La vicenda, tuttavia, non si è conclusa con un lieto fine e, mentre la ragazza persiste nella ricerca della sua vera famiglia, le sono state rivolte pesanti accuse che minano la credibilità dei suoi racconti. Nel pomeriggio di domenica 11 aprile, il conduttore russo Roman ha partecipato in collegamento video al programma Domenica Live, condotto da Barbara d’Urso. In questa circostanza l’uomo si è scagliato contro Olesya Rostova. Il conduttore, infatti, ha prodotto un web-reality in Russia al quale ha partecipato, fino a novembre 2020, anche la giovane Olesya. Sulla base delle informazioni rilasciate, la ragazza avrebbe inscenato una farsa a favore di telecamere “solo per diventare famosa”. In particolare, rispondendo alle domande della d’Urso, Roman ha dichiarato: “Non mi interessa di Olesya ma, quando ho visto che stava inventando tutta questa storia, ho deciso che dovevo parlare”. Il conduttore, poi, ha spiegato la natura del format di cui è produttore e che, per un periodo, ha coinvolto anche Olesya Rostova. Il web-reality era animato da ragazze e ragazzi che dovevano affrontare svariate sfide “facendo vedere la loro personalità”. I video, seppur disponibili, non possono però essere trasmessi in quanto rientrano in fascia protetta. In relazione alla figura di Olesya Rostova, il conduttore russo ha spiegato: “Lei diceva sempre che voleva avere fama, visibilità. È un’attrice”. Proprio a questo proposito, la ragazza aveva spesso affermato di voler arrivare a partecipare proprio alla nota trasmissione russa in onda sul Primo Canale “Lasciatemi parlare”, della quale è diventata il volto di punta, nel corso delle ultime settimane. Rispetto alla famiglia di origine di Olesya, inoltre, Roman ha raccontato: “Ha dei genitori. Quando nella trasmissione ha detto che non si ricordava se parlasse in italiano e via dicendo, io ho capito che dovevo parlare. Sono sicuro che lei stia recitando un copione. Ho dei video, degli audio in cui lei dice di conoscere i suoi genitori e di avere una famiglia vera. Mi scuso per la Russia. Credo che Olesya conosca la sua famiglia di origine, mi ha sempre parlato della sua infanzia, della sua "sorellona". Ma di quale rapimento parliamo? Non capisco perché raccontare queste balle”. Interrogato sulla presunta connivenza della trasmissione “Lasciatemi parlare”, poi, il conduttore russo non ha manifestato una posizione chiara: “Conniventi? Non riesco a rispondere. Hanno fatto una trasmissione, senza prove, hanno messo in mezzo tante persone, sulla base di una probabilità”. Infine, prima di chiudere il collegamento con Barbara d’Urso, Roman ha promesso di fornire ulteriori prove a sostegno delle dichiarazioni da lui rilasciate: “Nel reality potrebbe aver parlato con noi della famiglia adottiva, certo, ma è strano che non abbia detto nulla del rapimento”.
La genetista e il retroscena su Denise: "Cos'è successo con Olesya". La dottoressa Marina Baldi svela il retroscena della vicenda di Olesya Rostova, la ragazza russa che ha riacceso la speranza sulla vicenda di Denise Pipitone. Rosa Scognamiglio - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Nelle ultime due settimane, il caso di Olesya Rostova ha riacceso i riflettori sulla vicenda di Denise Pipitone, la bimba di 4 anni scomparsa da Mazara del Vallo 17 anni fa. Per giorni l'Italia intera ha cullato la speranza che quella ragazza russa, così somigliante a Piera Maggio nelle fattezze del volto, fosse proprio la piccola Denise. Ma le risultanze del gruppo sanguigno hanno smentito questa possibilità. Tra i consulenti nominati dall'avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, vi è la dottoressa Marina Baldi, medico genetista forense, che da anni si occupa di profilare il Dna dei familiari di bambini scomparsi per l'Associazione Penelope. "Eravamo pronti. Il Dna di Denise già lo avevamo perché i Ris, all'epoca dei fatti, lo avevano ricavato dagli oggetti della bambina e dei genitori. Purtroppo non è servito più", racconta alla redazione de IlGiornale.it.
Di cosa si occupa un genetista forense?
"Il genetista forense si occupa di tutto ciò che riguarda l'aspetto giuridico della genetica. Nello specifico sono tre i campi di applicazione di sua competenza. In primo luogo provvede alla individuazione del Dna derivante da tracce biologiche presenti sulla scena del crimine e, attraverso la comparazione col profilo genetico di un eventuale indagato, stabilisce se c'è corrispondenza tra il sospetto reo di una vicenda e le tracce repertate sul luogo del delitto. In secondo luogo un genetista forense si occupa del riconoscimento delle persone scomparse. Ad esempio se viene trovata una salma, un corpo o dei resti umani da qualche parte, il genetista riesce a stabilire l'identità di quella persona in base alle informazioni contenute nel suo profilo genetico. L'ultima applicazione riguarda gli accertamenti di Dna in ambito giudiziario quali, ad esempio, i casi di riconoscimento della paternità biologica".
Che informazioni racconta il Dna di una persona in ambito forense?
"Le sequenze di Dna che vengono scelte in ambito giudiziario non hanno alcuna attinenza con lo stato di salute delle persone ma sono dei parametri – 23 numeri per l'esattezza – che consentono di accertare l'identità esatta di una persona. Per semplificare il concetto, basta immaginare il Dna come fosse una sorta di codice fiscale. Così come il codice fiscale contiene dei 'campi' che sono uguali per tutti – nome, cognome e data di nascita - sul Dna ci sono dei 'loci', ovvero delle 'caselline' che vengono Identificate con delle sigle convenzionali. Ciò che c'è scritto dentro ciascun locus – una quadrupletta numerica - varia da persona a persona. Ed è ciò che rende unico, e quindi diverso, il Dna di un individuo da un altro, proprio come accade per il codice fiscale".
Lei è stata interpellata come consulente in moltissimi casi di cronaca nera, dall'omicidio di Melania Rea al delitto di Meredith Kercher. Qual è stato quello di più facile risoluzione?
"Mi sono occupata di vari da casi, da delitto di Perugia a quello della Mastropietro, Ma il delitto dell Olgiata è stato quello che mi ha dato sicuramente più soddisfazione perché è uno dei pochi cold case risolti agevolmente con la prova del Dna".
Da qualche anno collabora come genetista con l'Associazione Penelope che si occupa, tra l'altro, della ricerca di persone scomparse. Di cosa si occupa nello specifico?
"Un po' di anni fa, su idea dell'avvocato La Scala, che all'epoca era presidente di Penolepe Nazionale, lanciammo una sorta di provocazione. Proponemmo a chiunque ne avesse intenzione la possibilità di tracciare il proprio profilo genetico senza costi economici. E devo dire che, nel corso del tempo, moltissime famiglie hanno aderito all'iniziativa. In questo modo si può avere sempre a disposizione il Dna per un eventuale accertamento".
Quanto è importante conservare il profilo genetico dei genitori nel caso dei bambini scomparsi?
"Nel caso dei bambini scomparsi è molto importante conservare un profilo genetico dei genitori poiché, anche se il ritrovamento dovesse avvenire anni dopo la morte di un familiare, è possibile fare un match genetico e stabilire con assoluta certezza l'identità di una persona".
Quale è la procedura da seguire per averne uno?
"La prima cosa è fornire un consenso in forma scritta in cui si autorizza al trattamento dei propri dati personali, in questo caso specifico del proprio profilo genetico, per un'eventuale comparazione. Dopodiché la persona viene sottoposta a un tampone salivare e dalle cellule della mucosa orale si ricava il Dna. Il tampone viene quindi inserito in una provetta e inviato in laboratorio".
Lei è stata nominata dall'avvocato Frazzitta, legale di Piera Maggio, come consulente per il caso di Olesya Rostova. Ci racconta un po' cosa è successo?
"L'avvocato Frazzitta mi ha nominato come consulente per una ragione ben precisa. Perché all'inizio della segnalazione sembrava fosse necessario che andassimo noi in Russia per fare il tampone salivare alla ragazza e procedere con la comparazione. Poi, come si è visto, non è stato necessario".
Già avevate a disposizione il Dna di Denise?
"Qui era tutto pronto. Il Dna di Denise già lo avevamo perché i Ris, all'epoca dei fatti, lo aveva ricavato dagli oggetti della bambina e dei genitori".
Quando è arrivata la segnalazione, qual è la prima richiesta che avete fatto?
"La prima cosa che è stata chiesta era il gruppo sanguigno di Olesya poiché è una informazione che consente di fare una prima scrematura. Se ci fosse stata corrispondenza, poi avremmo proceduto col test del Dna".
Differenza tra gruppo sanguigno e Dna?
"I gruppi sanguigni sono solo quattro. Per cui se non c'è corrispondenza, è inutile procedere con l'identificazione. Diciamo che le informazioni relative al gruppo sanguigno sono perfette in esclusione, ma per l'identificazione serve il dna".
Quanto tempo occorre per una comparazione del gruppo sanguigno?
"È praticamente istantaneo perché il gruppo sanguigno viene registrato già alla nascita, basta un banale esame del sangue per sapere qual è. Il Dna è un po' più complicato perché, come dicevamo prima, ci sono 23 parametri da controllare. Ma se uno ha 'la tabellina' non ci si impiega nulla. Al massimo serviranno dieci minuti".
Allora perché, nel caso di Olesya, l'attesa si è protratta per più di una settimana?
"Probabilmente per motivi che riguardano l'organizzazione del programma ma, ovviamente, non posso saperlo con certezza. Poi può darsi che non avessero a disposizione il Dna di Olesya e quindi hanno dovuto farlo per compararlo con quello di altre donne che hanno risposto all'appello della ragazza. So per certo che l'intenzione dell'avvocato Frazzitta fosse quella di proteggere Piera Maggio. Questa donna si è ritrovata con addosso una pressione mediatica enorme, con una segnalazione e quindi andava tutelata. E lui lo ha fatto".
Alla luce delle risultanze negative come spiega la somiglianza tra Piera Maggio e Olesya?
"Le somiglianze ci sono, è verissimo. Ma la prima cosa che impara un genetista è che quando bisogna fare un accertamento le somiglianze fisiche contano relativamente poco, perché possono essere fuorvianti. Poi in realtà le foto da bambina di Olesya messe a confronto con quelle di Denise erano molto differenti".
Quindi lei hai capito subito che non si trattasse di Denise?
"La verità è che ce ne siamo accorti tutti. Non tanto per le somiglianze della ragazza con Piera Maggio - perché è chiaro che ve ne siano - ma con Denise bambina no. Fatto sta che solo con la comparazione del gruppo sanguigno si poteva stabilire con certezza che Olesya non fosse Denise".
Il Dna può mai sbagliare?
"Tutto è possibile ma si tratta di un test molto accurato che viene ripetuto più volte. Quindi direi di no".
Possiamo ancora sperare di riabbracciare Denise e tutti gli altri bambini scomparsi?
"Quello che posso dirle è che finché non si trova il corpo di uno scomparso la speranza non muore mai. La speranza non deve mai essere abbandonata. La razionalità suggerisce le soluzioni più ovvie ma il cuore è un'altra cosa".
Denise Pipitone, i genitori: “Ci abbiamo sperato, è la figlia di tutta Italia e va cercata”. Chiara Nava su Notizie.it l'08/04/2021. Le parole di Piera Maggio e Pietro Pulizzi, dopo la certezza che Olesya Rostova non è la loro figlia Denise Pipitone. La famiglia della piccola Denise Pipitone, scomparsa a Mazara del Vallo 17 anni fa, ha dovuto affrontare una nuova forte delusione, dopo un momento di speranza. I genitori della bambina, Piera Maggio e Pietro Pulizzi, hanno voluto ringraziare tutti. Olesya Rostova, la ragazza russa che cercava i suoi genitori naturali, non è Denise Pipitone. Una nuova speranza è crollata per la famiglia della bambina scomparsa. Le analisi del gruppo sanguigno hanno svelato che la ragazza non è Denise, come è stato annunciato nella trasmissione russa. Dopo qualche ora da questa notizia sulla pagina “Missing Denise Pipitone Mp” è stato condiviso un messaggio firmato Piera Maggio e Pietro Pulizzi, genitori di Denise Pipitone. Un messaggio molto intenso, per ringraziare tutta l’Italia che ancora una volta è stata accanto a loro e si è riempita prima di speranza e poi di delusione. La famiglia si è trovata nuovamente a dover superare un altro ostacolo, ma la ricerca della piccola Denise non si fermerà, soprattutto perché potrebbe essere in qualsiasi parte del mondo. Proprio per questo motivo, ogni segnalazione viene valutata e accertata con grande precisione. Denise Pipitone è nel cuore di tutti gli italiani che hanno seguito la sua storia e le indagini dietro la sua scomparsa. Tutti speravano che Olesya fosse davvero Denise, ma purtroppo la risposta è stata negativa e di conseguenza la bambina risulta ancora scomparsa. “Ci abbiamo sperato senza mai perdere quella sana lucidità che dall’inizio della segnalazione abbiamo avuto, l’esser cauti. Sono stati giorni difficili, pieni di tensione. Adesso continueremo nella nostra battaglia come abbiamo sempre fatto. Denise è diventata la figlia di tutta Italia e va cercata. Ringraziamo di cuore tutti per l’affetto e la vicinanza” hanno scritto i genitori di Denise Pipitone, Piera Maggio e Pietro Pulizzi. Un messaggio di ringraziamento, dopo giorni particolarmente difficili e delicati.
Chiara Nava. Nata a Genova, classe 1990, mamma con una grande passione per la scrittura e la lettura. Lavora nel mondo dell’editoria digitale da quasi dieci anni. Ha collaborato con Zenazone, con l’azienda Sorgente e con altri blog e testate giornalistiche. Attualmente scrive per MeteoWeek e per Notizie.it
Denise Pipitone, appelli in tutto il mondo per continuare le ricerche e ritrovarla. Chiara Nava su Notizie.it il 09/04/2021. Ci sono appelli in tutto il mondo e in tutte le lingue per riuscire a trovare Denise Pipitone, bambina scomparsa nel 2004. In questi giorni è partita una vera gara di solidarietà sui social network, che coinvolge tutto il mondo, per riuscire a ritrovare Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara del Vallo nel settembre del 2004. All’epoca aveva solo 4 anni e non è mai stata ritrovata. Dopo che è tornata l’attenzione sulla vicenda, in seguito alla segnalazione della ragazza russa Olesya Rostova, si sono moltiplicati gli appelli per riuscire a trovare Denise e farla tornare a casa. A renderlo noto la mamma della piccola, Piera Maggio, con un post scritto sui social network. “Dopo l’esito negativo di quest’ultima segnalazione, sta accadendo a partire dai giovani qualcosa di meraviglioso. Stanno diffondendo in varie lingue, la locandina con hashtag #Denisepipitone. Non ci sono parole semplicemente grazie di esserci” ha scritto Piera Maggio. Si tratta del secondo messaggio scritto dalla donna in questi giorni. La speranza che Olesya potesse essere davvero Denise era grande, ma purtroppo è stata l’ennesima delusione. Piera Maggio ha scritto in precedenza di averci sperato fortemente, ma senza mai perdere la lucidità. “Sono stati giorni difficili, pieni di tensione. Adesso continueremo nella nostra battaglia come abbiamo sempre fatto. Denise è diventata la figlia di tutta Italia e va cercata. Ringraziamo di cuore tutti per l’affetto e vicinanza ricevuta” ha aggiunto la mamma di Denise, insieme al padre Pietro Pulizzi. Il messaggio è arrivato poche ore dopo la scoperta che la ragazza russa, Olesya Rostova non è Denise Pipitone. A confermarlo è stato l’avvocato Giacomo Frazzitta, dopo la comparazione del gruppo sanguigno della ragazza con quello della bambina scomparsa nel 2004 a Mazara del Vallo. Gli appelli per ritrovare la bambina stanno facendo il giro del mondo e sono stati tradotti in moltissime lingue, nella speranza di poterla finalmente riportare a casa dai suoi genitori dopo ben 17 anni.
Chiara Nava. Nata a Genova, classe 1990, mamma con una grande passione per la scrittura e la lettura. Lavora nel mondo dell’editoria digitale da quasi dieci anni. Ha collaborato con Zenazone, con l’azienda Sorgente e con altri blog e testate giornalistiche. Attualmente scrive per MeteoWeek e per Notizie.it
Pomeriggio 5, Denise Pipitone: "La foto dal campo nomadi". L'ultima clamorosa pista, ecco lo scatto: due gocce d'acqua. Libero Quotidiano il 13 aprile 2021. Su Denise Pipitone spunta una nuova foto di una bambina in un campo nomadi rom che assomiglia tanto alla piccola scomparsa nel 2004 a Mazara del Vallo in Sicilia. La foto è stata mostrata a Pomeriggio 5 lunedì 12 aprile da Barbara d'Urso e, come ha detto in diretta la conduttrice, è stata pubblicata in un tweet dell'avvocato della mamma Piera Maggio, Giacomo Frazzitta. Insomma sembra ci sia di nuovo un caso che riguarda Denise dopo quello farlocco di Olesya in Russia. La foto sarebbe stata scattata in un campo nomadi in Slovacchia e la somiglianza con la piccola Denise sembrerebbe davvero impressionante. Della foto si sa poco però. Durante la trasmissione Barbara d'Urso l'ha fatta vedere, ricordando che è stato l'avvocato della mamma a diffonderla via social. Piera Maggio, madre di Denise, intanto è tornata in tv. "Ringrazio la guardia giurata, non voglio che abbia assolutamente rimorsi di coscienza, ha detto la signora riferendosi a Felice Grieco, nel corso della trasmissione Mattino 5 condotta da Federica Panicucci in onda su Canale 5. La Maggio faceva riferimento alla guardia giurata che nel 2004 segnalò e fece il video alla bambina che probabilmente era la piccola Denise, a poche settimane dalla scomparsa. “Ho incontrato Piera. Inizialmente fu dura nei miei confronti, ma le venne spiegato che non avrei potuto fare altro che chiamare la Polizia. Poi ci siamo parlati e chiariti”, aveva detto Grieco, domenica scorsa negli studi di Domenica Live, ospite di Barbara d'Urso.
Denise Pipitone, la guardia giurata che girà il video di Danas rompe il silenzio: "I rom minacciarono di tagliarmi la testa". Libero Quotidiano il 16 aprile 2021. Dopo Chi l'ha Visto? è TeleLombardia a occuparsi della scomparsa di Denise Pipitone. Ad Iceberg è stato infatti accolto l’appello di Piera Maggio affinché non si spengano i riflettori sul caso che ha tenuto gli italiani con il fiato sospeso. L’ultimo avvistamento credibile risale a circa un mese dopo (era il 2004) la sparizione della piccola siciliana, a Milano, da parte di una guardia giurata, Felice Grieco. "In quel video ci abbiamo creduto un po’ tutti, sin da subito avevamo avuto l’idea che Denise non fosse stata soppressa, non ci sono mai stati indizi in tal senso", ha commentato l'avvocato di Piera, Giacomo Frazzitta, in collegamento. E ancora sulla tesi che la piccola oggi ventenne possa essere in mano ai nomadi: "Denise data in mano a un gruppo di rom poteva essere un modo per occultarla, nasconderla, per farle fare una vita diversa e farla allontanare definitivamente dalla mamma". Nel video diffuso dalla trasmissione di Federica Sciarelli e inviato dalla guardia giurata, una bambina molto somigliante a Denise è in compagnia di una rom che addirittura la chiama "Danas". Eppure per quel filmato Grieco ha ricevuto parecchi rimproveri, compreso dai suoi colleghi che lo invitavano "ad attenersi solo ed esclusivamente al nostro lavoro". L’allora ispettore di polizia, Celeste Bruno, ha invece fornito un’altra versione asserendo: "Non vi fu alcuna restrizione" ma "fu necessario un filtro ad essere più attenti a cosa segnalavano". Ma Grieco è intenzionato a proseguire, ricordando quanto accaduto i giorni successivi a quella segnalazione. "Il 19 consegnai il CD con i filmati, vennero sul posto. Poi basta… Mesi dopo si è tornati a parlare. Mi fu sequestrato cellulare, pc, ebbi un mandato di perquisizione in casa, forse pensavano nascondessi qualcosa". I ricordi della guardia giurata sono ancora nitidi: nei mesi successivi l'uomo fu poi chiamato sui posti a identificare delle persone, direttamente nei campi rom. "Davanti ai carabinieri sono stato minacciato da alcuni rom, mi dissero che mi avrebbero tagliato la testa". La pista rom rimane tutt'ora la più battuta. "Alle 13.30 di quel giorno - ha spiegato anche il legale sul giorno della tragedia - ci sono contatti con nomadi dell’est europeo con soggetti vicini alla storia, per cui che ci possa essere stato un contatto – ma parliamo di ipotesi – ci dà l’idea che potrebbe esserci stato un coinvolgimento". Nulla di certo, ma la mamma della piccola Denise e il suo avvocato non rinunceranno neanche a questa pista pur di trovare la verità.
"Sono io Denise...". Il giallo della ragazza su Instagram. Angela Leucci il 15 Aprile 2021 su Il Giornale. Su Instagram spunta un falso profilo di Denise Pipitone: Piera Maggio segnala alla Polizia Postale, ma forse si tratta di un vero e proprio fenomeno. Spuntano non proprio come i funghi, ma potrebbero danneggiare le ricerche. Si tratta delle false Denise Pipitone che si palesano sui social network, e che vengono segnalate puntualmente alla Polizia Postale dalla famiglia della bimba scomparsa. Se n’è parlato nella puntata di ieri di “Chi l’ha visto?”, a conclusione di un lungo approfondimento sul caso di Denise, con collegamenti in studio insieme alla mamma Piera Maggio e all’avvocato Giacomo Frazzitta. La conduttrice Federica Sciarelli l’ha presentato come un vero e proprio fenomeno, lanciando poi il servizio di Marina Borromini. Ma cos’è accaduto? Mentre l’Italia e il resto del mondo scopriva che Olesya Rostova - la giovane russa alla ricerca della madre in un programma televisivo - non è Denise, scomparsa a 4 anni nel 2004 a Mazara del Vallo, su Instagram faceva proseliti un profilo dal nome denise_pipitone_official. Inquietante il suo messaggio di presentazione. “Ragazzi sono la vera Denise e quello che stanno facendo vedere in televisione non è assolutamente vero, quella non sono io, non preoccupatevi sto bene”. Chi l’ha visto? ha analizzato la foto del profilo social, mostrando come si tratti di un invecchiamento realizzato in passato dai carabinieri del Ris, per ipotizzare come sarebbe oggi la piccola Denise. Lo scatto è rintracciabile con una comunissima ricerca su Google, ma Piera Maggio non lo diffonde mai attraverso i propri canali social. Mentre la trasmissione Rai prosegue con il resoconto del fenomeno, Frazzitta non può fare a meno di scuotere la testa: un fenomeno del genere potrebbe effettivamente ostacolare le ricerche della bimba scomparsa. La falsa Denise ha anche pubblicato delle Storie, in cui racconta di vivere a Milano e che viene chiamata Danàs - lo stesso nome della bimba immortalata anni fa in un video insieme ad alcuni rom, che poi si è stabilito non essere la figlia di Piera. Inoltre la persona dietro il falso profilo afferma di essere segregata in casa senza la tv, e che non dovrebbe avere neppure un cellulare. Va da sé che la famiglia di Denise ha allertato la Polizia Postale, che ha compilato un’informativa per l’autorità giudiziaria: Piera Maggio chiede da sempre di non creare questo tipo di profili. “Se c’è anche una sola possibilità dietro una segnalazione va approfondita - ha concluso Borromini nel suo servizio - ma se si tratta di gente senza scrupoli che non ha alcun rispetto del dolore di una madre allora è giusto che si prendano provvedimenti e anche seri”. Intanto però, nel pomeriggio di ieri, è spuntato un nuovo profilo Instagram, denise_pipitone_official2, con il messaggio di presentazione “L'altro profilo me lo hanno bloccato, comunque sono la vera Denise” e la stessa foto profilo. Tra le Storie spuntano una sequela di dichiarazioni: “Mi hanno segnalato e bloccato il profilo, quanta cattiveria nelle persone. Invece di segnalare provate a crederci per una volta sono vera, farò anche i test del Dna nessun problema così risolviamo tutto, poi vi spiegherò tutto con calma, comprendete la situazione. Se non ci credete non importa, io mi mostro per quella che sono e poi non avrei motivo di scherzare su un argomento così serio ragazzi”.
Da leggo.it il 15 aprile 2021. La mamma di Denise Pipitone, Piera Maggio, si è collegata con la trasmissione Chi l’ha visto nella puntata in onda questa sera. Una presenza attesa, a una settimana dal caso di Olesya Rostova, la giovane russa che aveva raccontato ad un programma tv di essere stata rapita da piccola, e di cui si era pensato potesse essere proprio Denise, per via di una forte somiglianza con la stessa mamma della bambina scomparsa nel 2004. «Noi non molliamo, vogliamo la verità, vogliamo giustizia», ha detto Piera. «Io non ho mai perso la speranza di riabbracciare Denise - ha aggiunto la donna, in collegamento mentre l'avvocato era in studio - In questi giorni sono rincuorata perché sono emerse quelle incongruenze e anomalie che in questi anni ho sempre gridato. Finalmente c’è qualcuno che spiega che quelle anomalie c’erano». «Sicuramente in questa indagine ci sono state persone che ci hanno messo anima e cuore, altre che non erano competenti, e altre che non dovevano starci, perché anziché aiutare non favorivano le indagini. Qualcuno ha passato le nottate per far sì che Denise tornasse a casa, qualcun altro no», ha aggiunto la mamma di Denise. Quanto al caso di Olesya, Piera ha aggiunto che «su questa storia vorrei mettere un punto. Al di là di qualche polemica, questa verifica andava fatta senza remore: ci sono state segnalazioni in questi anni su cui le verifiche erano meno importanti di questa. Ovviamente il metodo che pretendevano i russi, non lo avrei accettato: loro avevano il Dna di Olesya, ma volevano che andassi in quella trasmissione a fare quel teatrino, una cosa che io non avrei mai fatto. A quel punto l'unico modo era chiedere il gruppo sanguigno: su questo ci siamo battuti, l'avvocato Frazzitta è stato molto bravo in questo. Quel format di trasmissione richiedeva tutt'altro. Se avessimo aspettato le autorità e le rogatorie, sarebbero passati mesi». Infine sulla stessa Olesya: «Se sta usando la visibilità per altri scopi, non sono problemi nostri. A noi interessava solo sapere se quella ragazza era mia figlia».
Tutte le volte che è stata avvistata Denise Pipitone, dalla rom al milionario albanese. Giada Lo Porto su La Repubblica il 2 aprile 2021. Prima della pista russa c’era stato l’avvistamento a Milano. E l’intervento di Pacolli. Il 18 ottobre 2004, un mese dopo la scomparsa di Denise Pipitone da Mazara del Vallo, una guardia giurata filmò a Milano una bambina molto somigliante a lei. Mamma Piera riconobbe sua figlia: "È lei la mia Denise". Nel video si vedeva la bambina assieme a una zingara, le chiedeva: "Dove mi porti?". La bimba ha un accento siciliano. La donna la chiama "Danas", uno storpiamento del nome Denise, forse. La guardia giurata telefonò alla polizia. Mentre gli investigatori passarono al setaccio la zona, i nomadi sparirono. Non si seppe più nulla. "Vidi che aveva un segno sulla guancia - ricorda Felice Grieco, la guardia giurata - non so se era sporco o una piccola cicatrice sotto l'occhio (Denise aveva una cicatrice su una guancia ndr.)". Adesso quel filmino potrebbe essere collegato alla pista russa che tanto sta facendo discutere. E sperare. Procediamo per gradi. C'è una ragazza russa che è andata in un programma tv del suo paese a cercare sua madre. Olesya Rostova, questo il nome della giovane, ha raccontato di essere stata rapita e poi ritrovata, in un campo rom della Russia. Nel suo racconto parla di una rom che lei credeva fosse sua madre che la porta a chiedere l'elemosina, poi la polizia scoprirà che non era la vera madre e la bimba va in orfanotrofio. L'ultima notizia è il prelievo del Dna dalla ragazza russa. "Faremo una verifica preliminare sul gruppo sanguigno - conferma l'avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta - e se dovesse essere compatibile con quello di Denise, andremo avanti anche ad analizzare il Dna. Dovremmo avere il gruppo sanguigno della giovane nel fine settimana". La sua storia ha dei tratti molto simili a quella della bimba siciliana mai trovata. E torna il famoso filmino. "Quella bimba aveva un chiaro accento siciliano - ribadisce l'avvocato - Oggi questa forte somiglianza e la storia di questa ragazza che non conosce nulla del suo passato ci fa saltare in aria". Possibile che fosse Denise e che da Milano fosse poi finita in Russia? Di certo in questo giallo lungo 17 anni tanti sono stati i falsi allarmi, altrettante le delusioni. Tanto da portare mamma Piera, a dosare le parole: "Siamo cautamente speranzosi", dice. Ma, oltre alla pista rom, ce n'è un'altra che potrebbe arrivare fino in Russia. Si tratta di un retroscena raccontato dall'avvocato durante la puntata di "Chi l'ha visto?" del 31 marzo. Viene fuori la figura di Behgjet Pacolli, esperto di rapimenti internazionali, imprenditore di origine kosovara. L'uomo nel 2004 si interessò alla vicenda parlando di un "sequestro internazionale" e dando la sua disponibilità - anche economica - per le ricerche. "Poco dopo il suo interessamento - rivela l'avvocato Frazzitta - ci arriva un messaggio da una cabina telefonica con scritto: "Denise Pipitone sta entrando al confine franco-svizzero". Allertiamo quindi l'interpol". Da quel momento il contatto salta. Come era apparso Pacolli scompare per poi riapparire: "Ho fatto ricerche nei campi nomadi ho trovato Denise", pare abbia detto nuovamente alla famiglia. Salvo poi smentire. Pacolli è considerato l'uomo di origini albanesi più ricco del mondo. Come mai si era interessato alla vicenda di Denise? "Me lo chiedo ancora oggi", dice l'avvocato. Nel 2007 altri fotogrammi di una bambina di sei anni che somiglia a Denise: quella bambina viene ritrovata cinque mesi dopo in un supermercato di Molfetta, si chiama Denise ma non è la Pipitone. Nel 2008 una segnalazione dal Marocco: Piera corre a Marrakech. Ma quella bimba che alla fine ha incontrato non era la sua Denise. Le segnalazioni si susseguono: la bimba è vista a Cremona, a Verona, a Bologna. Ma gli accertamenti danno ogni volta esito negativo. Spesso si è trattato di mitomani, come nel caso del messaggio inviato da una ragazzina della provincia di Potenza che scrive a Piera: "sono Denise mamma". Il test del Dna ha poi sconfessato tutto. A intervenire anche la madre della ragazzina. "Voleva fare uno scherzo". Adesso la pista russa, la nuova speranza.
La lettera anonima, la casa, il pozzo: i nuovi misteri su Denise. Angela Leucci il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. L'avvocato della mamma di Denise Pipitone ha ricevuto un'interessante lettera anonima: ecco gli scenari mai chiariti nella sparizione della bimba. Non si placano i dubbi sulla scomparsa di Denise Pipitone, ma c’è una testimonianza importante contenuta in una lettera anonima, com’è stato raccontato nella puntata di ieri di “Chi l’ha visto?”. All’avvocato Giacomo Frazzitta, legale di mamma Piera Maggio, è infatti arrivata nel pomeriggio di ieri una missiva: il professionista si è rivolto al suo autore con un appello. “È arrivata una lettera anonima come ne sono arrivate tante in questi anni - ha chiarito Frazzitta - Ringrazio la persona che l’ha scritta: ha avuto un grande senso civico. Nella missiva stiamo riscontrando diversi elementi mai mediaticamente rivelati, quelle parole hanno un’interessante credibilità. Ma noi abbiamo bisogno ora di un altro passo, e assicuriamo al suo autore la massima riservatezza”. Si è tornati a parlare anche della vecchia casa di Anna Corona, ex moglie del padre naturale di Denise Piero Pulizzi: il garage dell’abitazione è stato oggetto di una perquisizione la settimana scorsa, dalla quale pare non essere emerso nulla. In particolare, si è analizzato nella puntata di ieri il racconto della visita degli inquirenti nel pomeriggio del 1 settembre 2004, giorno in cui Denise è sparita. Gli inquirenti visitarono però la "casa sbagliata", quella della vicina, non quella della ex moglie di Pulizzi. Durante l’udienza in tribunale, Anna Corona disse a suo tempo di aver riferito ai carabinieri di dover salire al secondo piano per la sua casa e chiesto alla vicina di potersi accomodare nella sua abitazione al piano terra, dove la stessa Corona aveva vissuto ai tempi del suo matrimonio con Pulizzi. Il maresciallo Francesco Di Girolamo invece, presente quel giorno, disse in udienza che Anna Corona lì guidò per i vari ambienti della casa al piano terra, benché i carabinieri non fossero lì per una perquisizione, aggiungendo: “Qua a casa mia non c’è niente”. La vicina fornisce a “Chi l’ha visto?” una terza versione: dice che gli inquirenti sapevano benissimo che quella non era la casa di Anna Corona, dato che si sono messi a parlare di un parente scomparso della vicina, la cui foto era appesa alle pareti. A “Chi l’ha visto?” c’è stata anche la testimonianza di due altri inquirenti. Uno è Raffaele Bertoncello, che si recò da Pulizzi immediatamente dopo la scomparsa: il padre di Denise fece entrare i carabinieri nelle varie stanze ma in primis andò a controllare il pozzo, perché “manifestava dei timori che fosse accaduto qualcosa di terribile”. L’ex maresciallo Francesco Lombardo ha raccontato di aver ricevuto insieme ad altri colleghi diverse minacce, tanto che furono messe delle macchine civetta per tutelare i loro congiunti. “A ottobre 2004 sul parabrezza di un appuntato fu trovato un biglietto minatorio - ha raccontato - ho pensato che eravamo vicini, che stavamo dando fastidio a qualcuno”. Nel biglietto era contenuto il consiglio di “pensare a campare” e veniva specificato che la sparizione di Denise fosse un modo per “colpire la famiglia”, mentre non c’entravano pedofili o traffico di organi.
"Ho visto Denise, piangeva...". L'ipotesi della fuga in barca. Angela Leucci il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Nel mistero della scomparsa di Denise Pipitone ritorna in auge la testimonianza di un uomo audioleso dalla nascita che dice di averla vista: quale fu il suo ruolo? Sono ancora tanti i dettagli sconosciuti o poco chiari nella vicenda di Denise Pipitone. Nella puntata di ieri sera di Chi l’ha visto? è stata analizzata la testimonianza di Battista Della Chiave, uomo di Mazara del Vallo audioleso dalla nascita che fu ascoltato nel corso di un’audizione della Procura di Marsala alla presenza di un’esperta Lis. L’audizione di Battista Delle Chiave si è svolta il 5 marzo del 2013 e Chi l’ha visto? ha ipotizzato che ci possa essere stata una comunicazione limitata tra l’uomo e l’interprete Lis, così ha ascoltato il parere di due esperti, tra cui un interprete audioleso dalla nascita e specializzato in Lis su 10 dialetti diversi. L’ipotesi degli esperti che che non ci fosse adeguamento dialettale tra i gesti di Delle Chiave e l’interprete. Delle Chiave è un teste fondamentale nella vicenda del rapimento di Denise, perché all’epoca lavorava nel magazzino di via Rieti dal quale, nei minuti della sparizione, partì una telefonata alla madre di Anna Corona - ex moglie di Piero Pulizzi, il padre naturale della bimba - nella quale si chiedeva alla donna di andare a casa per stare con le nipoti Jessica e Alice perché era successo qualcosa. Secondo la traduzione Lis dei gesti di Battista Delle Chiave, l’uomo avrebbe raccontato che al magazzino sono arrivati inizialmente un uomo e una donna. In seguito parla di due uomini, tra cui un individuo misterioso di 25 anni con baffi pizzetto e capelli ricci. Delle Chiave dice di aver visto tutto e riconosce una foto di Denise: dice che piangeva, perché non c’era niente da mangiare, così le è stato dato da mangiare e si è addormentata accoccolata a qualcuno. La bambina è stata poi portata via in motocicletta lungo un cavalcavia: la motocicletta è stata buttata in mare e la bambina è stata condotta su una barca a remi nascosta sotto una coperta. Chi l'ha visto? ha ipotizzato che il cavalcavia possa essere il ponte sul fiume Delia, dalla grande arcata che corrisponde al gesto mimato da Delle Chiave. A Mazara ci soni diversi ponti, tra cui quello sul fiume Mazaro, dove sono ormeggiate diverse barche. Il racconto solleva diversi dubbi, oltre a quello più ovvio: chi era l’uomo misterioso? Inoltre dove è stata tenuta Denise prima di essere portata sulla barca? E qual è stato il ruolo di Delle Chiave, è stato il “carceriere” di Denise, le ha dato da mangiare imboccandola? Una piccola parentesi di Chi l’ha visto? è stata dedicata anche a Denisa, la giovane rumena residente in Calabria segnalata da alcune persone a Scalea. Una parrucchiera lunedì pomeriggio ha anche contattato il programma, alle cui telecamere Denisa ha smentito di essere la bimba scomparsa 17 anni fa.
Denise Pipitone, particolari inediti nella lettera anonima: "Scritta da un testimone oculare, riguarda persone non indagate". Libero Quotidiano il 13 maggio 2021. “Un testimone ha visto Denise Pipitone: novità nelle indagini”. Titola così livesicilia.it, che nella sua inchiesta sul giallo di Mazara del Vallo è riuscita a scoprire il contenuto della lettera anonima che è arrivata nello studio dell’avvocato Giacomo Frazzitta, il legale di Piera Maggio che dopo diciassette anni è ancora alla ricerca della verità sulla figlia rapita il primo settembre del 2004. Chi ha scritto la missiva sarebbe un “anonimo bene informato”, un testimone oculare che racconta di aver visto la bambina in un momento successivo al rapimento. “Ho ricevuto questo pomeriggio una lettera anonima - ha dichiarato a Chi l’ha visto l’avvocato Frazzitta - come tante altre in passato. Questa però conteneva alcuni elementi di novità che non erano stati riferiti mediaticamente”. Per questo aveva poi lanciato un appello, chiedendo a questa persona, “che ringrazio per il suo senso civico”, di fare un ulteriore passo in avanti e di “mettersi in contatto con me, assicurando la massima riservatezza”. livesicilia.it è riuscita a sapere che si tratterebbe di un testimone oculare. Qualcuno che potrebbe aver deciso di togliersi un grosso peso dopo diciassette anni: d’altronde il caso di Denise Pipitone è nuovamente esploso nelle ultime settimane, gli appelli e le ricerche sono riprese a ritmo incessante. Pare che l’anonimo abbia scritto di aver visto la piccola dopo la sua scomparsa, ma nell’immediatezza dei fatti, assieme a persone su cui finora non si è indagato: “Ci sono particolari inediti - si legge su livesicilia.it - uno di essi sarebbe già stato riscontrato”. Non resta che attendere che le indagini della procura di Marsala facciano il loro corso.
Denise, spunta un testimone: cosa c'è nella lettera anonima. Francesca Bernasconi il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Il legale della famiglia ha rivelato un nuovo documento che può far luce sulla vicenda di Denise Pipitone, scomparsa il primo settembre del 2004. Da 17 anni di Denise Pipitone, la bambina scomparsa il primo settembre 2004 da Mazara Del Vallo quando aveva solo 4 anni, non c'è più nessuna traccia. Da poco, però, il fascicolo è stato riaperto e così la caccia continua. E ora spunta un nuovo testimone oculare, che avrebbe raccontato, stando a quanto riporta LiveSicilia, di aver visto la piccola nell'immediatezza della scomparsa. Il presunto testimone, che ha raccontato di aver visto Denise in una lettera inviata all'avvocato di Piera Maggio, è un anonimo. Di lettere anonime, Giacomo Frazzitta ne ha ricevuta diverse in tutti questi anni. Ma questa volta, sembra esserci qualcosa di diverso. Nella lettera, ricevuta ieri dall'avvocato e consegnata alla procura di Marsala, che ha riaperto la caccia, non si racconta di un avvistamento in una città. Di segnalazioni simili, negli anni, ce ne sono state parecchie. L'ultima risale a circa un mese fa, quando dalla Russia era arrivata la storia di Olesya, che aveva fatto sperare. L'anonimo, invece, sostiene di aver visto la piccola nell'immediatezza dei fatti, insieme a persone su cui fino ad oggi non si era indagato. La lettera conterrebbe particolari inediti, che potrebbero meritare un approfondimento. Se davvero l'autore della lettera avesse assistito al rapimento della piccola Denise, si tratterebbe di un testimone oculare, che potrebbe aver deciso di parlare solamente adesso, dopo 17 anni. Una testimonianza, la sua, che potrebbe finalmente far luce su un caso che ha sconvolto l'Italia e che da qualche mese è tornato al centro dell'attenzione, grazie alle ultime segnalazioni. "Ho ricevuto questo pomeriggio una lettera anonima - ha detto ieri a Chi l'ha visto? l'avvocato Frazzitta - come tante altre in passato, che conteneva però alcuni elementi di novità che non erano stati riferiti mediaticamente". E ha lanciato un appello, prima ringraziando l'anonimo che ha inviato la lettera al suo studio e poi chiedendogli "di potersi mettere in contatto con me, assicurando la massima riservatezza". Per capire se la persona che si è rivolta all'avvocato sia davvero decisiva per la risoluzione del caso, bisognerà aspettare, per capire se quel primo settembre 2004 fosse davvero nei pressi della casa della mamma di Piera Maggio a Mazara Del Vallo intorno a mezzogiorno e se possa aver visto qualcosa. La piccola, infatti, scomparve mentre giocava col cuginetto fuori dalla casa della nonna materna. Nonostante le ricerche immediate, Denise Pipitone scomparve nel nulla e a niente valsero le indagini successive.
Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" il 13 maggio 2021. Denise è appena arrivata dalla Romania a Scalea in Calabria, dimora a casa di amici, sta bene: la soluzione del giallo, dopo 17 anni di silenzi e depistaggi, sembra proprio qui, a portata della mano di Piera Maggio, che cerca la figlia sparita il 1° settembre 2004 a soli quattro anni da Mazara del Vallo. I carabinieri hanno identificato questa ragazza, segnalata da una parrucchiera, l'hanno sentita e lei ha negato d'essere Denise Pipitone: «Siamo solo omonime e coetanee». Solo la prova del Dna ora dirà con certezza se siamo di fronte all'ennesimo avvistamento farlocco, al miraggio o se, al contrario, la giovane dai lunghi capelli sulle sfumature del viola, del rosa e del blu, è quella figlia che una nazione intera attende. Sempre che la procura di Marsala ritenga necessario quest' ulteriore esame tra markers, cromosomi e alleli perché gli elementi ad ora raccolti dall'Arma potrebbero già far archiviare il caso spedendo il relativo incartamento ad aggiungersi al mezzo milione tra fogli e atti giudiziari che ormai compongono questo tormento. Infatti, come un fiume carsico da 17 anni questa storia colma l'immaginario collettivo, empatizza con la gente, al pari di altri drammi che coinvolgono bambini e che hanno lasciato i più con il fiato sospeso. Da casi ormai lontani come Alfredino Rampi perito a sei anni nel pozzo di Vermicino, dov' era caduto, al mistero di Angela Celentano, la bambina di soli tre anni, quindi quasi coetanea di Denise, svanita nel nulla nell'agosto 1996. Qui però la storia è di rara complessità, con le ultime cronache sempre più incalzanti tra perquisizioni, avvistamenti e una mediatizzazione che arriva persino sulla tv russa con algidi format al contrario, ovvero orfane che sperano d'essere Denise, per ritrovare una madre mai conosciuta. Da parte sua, Piera Maggio studia e ristudia i fascicoli che compongono le indagini, e ormai anche la sua vita, per ripartire sempre da quel mercoledì di mercato a Mazara del Vallo, quando verso mezzogiorno Denise gioca con la nonna e il cuginetto nell'androne di casa, segue il bimbo e sparisce. Nessuno vede niente, nessuno coglie un urlo, niente di niente. Di certo, oggi possiamo affermare che chi ha progettato il sequestro di Denise non ha colto un'occasione improvvisa ma deve aver elaborato un piano, contando su complicità e connivenze che hanno permesso finora l'assoluta impunità. Lo si era capito già dai primi momenti. «Intervento esterno», sibilò greve nel giorno uno dell'incubo, dopo le prime otto ore di vane ricerche, Antonio Gasparro, comandante dei carabinieri di Trapani. Un intervento esterno che ha intrecciato la peggiore trama criminale, sottraendo una bambina all'amore della propria madre, e ha assunto plurime identità, tra sospetti, indagati, presunti e potenziali, testimoni claudicanti in un circo di responsabilità, ipotesi, suggestioni a rapida o lenta, ma sempre inesorabile e spesso indotta, evaporazione. Perché ogni passo avanti nelle indagini ne vedeva due indietro, un gioco dell'oca dettato da imprecisioni, superficialità, sciatteria investigativa a pensarla bene o, come dubita mamma Piera, un almanacco di perfide complicità ed errori telecomandati che hanno permesso agli aguzzini di farla franca. E così - per dirne alcune - la cimice piazzata vicina a un condizionatore da impedire cosa dicono i sospettati, le presunte soffiate dell'avvio delle intercettazioni a chi aveva i telefoni sotto controllo e, ancora, la perquisizione nella casa sbagliata. Da una parte la pista legata ai nomadi, ai rom, a una bambina portata via e passata di mano in mano per finire chissà dove - venduta, costretta a mendicare? - dall'altra, il contesto familiare allargato in una cornice di odi e vendette. Con la sorellastra Jessica Pulizzi che rapisce la bimba, contando sulla complicità della madre Anna Corona e dell'allora fidanzato Gaspare Ghaleb. Un'ipotesi percorsa dalla procura che porta la ragazza a processo per sequestro di minore. Ma la Pulizzi viene sempre assolta per insufficienza di prove fino ai giudici della Cassazione, pur ritenendo presente un ingombrante movente. Jessica aveva infatti scoperto che Denise era figlia dello stesso padre, Piero Pulizzi, tanto da prelevarla quella mattina per accompagnarla a casa del comune papà per poi consegnarla a persone mai identificate. Mentre la madre Anna Corona era già uscita dalle indagini con la posizione archiviata nel 2013. Ma proprio su di lei i dubbi pesantissimi e circostanziati della Maggio e il venticello degli anonimi hanno portato le tute bianche degli esperti nel palazzo dove proprio Anna Corona viveva all'epoca della scomparsa. In via Luigi Pirandello, ovviamente, lo scrittore siciliano che sembra aver scritto la sceneggiatura di questo dramma: «ogni realtà è un inganno» e, ancora, «Come ci sono i figli illegittimi, ci sono anche i pensieri bastardi».
"Denise, papà ti porterà a prendere un gelato". Angela Leucci il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. Denise Pipitone protagonista della puntata di ieri di "Quarto Grado": i giornalisti della trasmissione hanno parlato con Tony Pipitone e sono entrati in casa di Anna Corona. Nella vicenda della scomparsa di Denise Pipitone, c’è una voce che non era stata ancora ascoltata. È quella di Tony Pipitone, marito di Piera Maggio ma non padre naturale della bimba, che è stato protagonista di una telefonata ieri sera a “Quarto Grado”. “È figlia mia, la dobbiamo riportare indietro - ha detto all’intervistatrice della trasmissione di Rete4 - La bambina per me stravedeva, abbiamo vissuto dei momenti bellissimi. Mi diceva: ‘Papà ti voglio bene’. Era sempre allegra, come me si divertiva”. L’uomo ha ricordato i giorni spensierati in cui la portava in giro per Mazara del Vallo su una macchina scoperta e di come Denise non si avvicinasse mai agli estranei ma interagisse solo con i famigliari. Pipitone ha ripercorso anche quel triste 1 settembre 2004. Lui tornò a casa alle 12,10, scoprendo che l’ultima volta che qualcuno aveva visto Denise risaliva a circa 40 minuti prima. “Nell’immediato ho preso la macchina e ho iniziato a girare - ha raccontato - Non sapevo cosa pensare, non si era mai allontanata da casa, ho girato strade a casaccio”. Tony Pipitone recita ogni sera una preghiera e promette alla sua bambina: “Denise, quando sarà finito, papà ti porterà a mangiare un gelato. Il mio cuore batte per te, non farlo fermare amore mio”. Nella puntata di “Quarto Grado” di ieri sono stati analizzati molti dettagli relative alle nuove e alle vecchie indagini sulla scomparsa di Denise. È stata ripercorsa, ad esempio, la mattinata di Jessica Pulizzi, figlia del padre naturale di Denise Piero Pulizzi, assolta in tre gradi di giudizio. È stato ascoltato il legale di Jessica Fabrizio Torre che ha rimarcato come le intercettazioni choc, in cui sembrava che Jessica dicesse che sua mamma Anna Corona avesse ucciso Denise, fossero tutt’altro che sconosciute alla giustizia: “È escluso alla radice - ha detto l’avvocato citando la sentenza - che questa frase sia presente nel segnale audio”. Si è anche appurato come Denisa, la giovane rumena segnalata a Scalea con l'ipotesi che si trattasse di Denise, abbia i documenti in regola e questo può escludere definitivamente che si tratti di Denise. Infine si è tornati nella vecchia casa di Anna Corona, guidati in un sopralluogo da Gaspare Morello, legale dei proprietari dell’immobile. Lo spettatore è stato portato nel pozzo luce dell’appartamento, nel garage con la cisterna, nell'atrio di ingresso, ha potuto vedere il nuovo intonaco di una parete e di come gli inquirenti in visita la scorsa settimana abbiano rimosso alcune listarelle in legno del controsoffitto. Resta un dubbio: cosa stavano cercando?
Denise Pipitone, "metta fine al mio dolore". La lettera anonima e la disperazione di Piera Maggio: un ultimo dramma. Libero Quotidiano il 14 maggio 2021. Continuano a emergere dettagli sulla lettera anonima recapitata all'avvocato Giacomo Frazzitta, il legale di Piera Maggio. Si parla ovviamente della sparizione di Denise Pipitone, scomparsa il 1 settembre del 2004. Nella lettera scritta a mano, un testimone oculare racconta di aver visto la bambina successivamente al suo rapimento. Il particolare interessante contenuto nella lettera è la menzione di persone mai indagate per la scomparsa della piccola Denise, avvenuta ormai 17 anni fa a Mazara del Vallo. Presto è arrivato anche un post sui social di Piera Maggio, in cui la madre ha chiesto aiuto al "popolo di internet". "Per favore, dopo 17 anni, date voce ai tanti silenzi. Mi rivolgo alla persona della lettera anonima inviata al mio legale. Le chiedo di farsi sentire, nei modi che lei ritenga opportuno, faccia in modo di mettere fine a tutto questo dolore. Non solo... Altro...". Questo il grido d'aiuto di una madre che ormai da troppi anni cerca la verità sulla sparizione della sua bambina. Il messaggio è stato anche ripreso da Alberto Matano, che durante la sua trasmissione La Vita in Diretta, ha letto ad alta voce la richiesta d'aiuto di Piera Maggio. La lettera anonima contiene dettagli che fino a questo momento non erano ancora emersi, ma soprattutto cita fatti e persone che potrebbero gettare una nuova luce sulla complicata vicenda. "Ho ricevuto questo pomeriggio una lettera anonima - ha detto ieri a Chi l'ha visto? il legale di Piera Maggio, Frazzitta - come tante altre in passato, che conteneva però alcuni elementi di novità che non erano stati riferiti mediaticamente". Dopo la vicenda di Oleysa, le speranze per i genitori della bambina sembravano ormai spegnersi definitivamente. La lettera potrebbe però riaprire una vicenda, rimasta sinora irrisolta e senza alcuna traccia importante da seguire.
"Abbiamo due nomi": l'avvocato e le novità sul caso Denise. Rosa Scognamiglio il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. L'avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, è tornato a parlare della lettera anonima: "Ci sono 2 testimoni", rivela. Si torna a parlare di Denise Pipitone. E stavolta, lo si fa ben oltre il puro e semplice sensazionalismo. L'avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, sostiene di avere in mano degli elementi che, dopo 17 lunghi anni di silenzi e bugie, potrebbero segnare la svolta definitiva del caso. "Le persone che potrebbero conoscere la verità sono due", afferma nel corso di un intervento al programma televisivo "Storie italiane", in onda su Rai Due. Tutto è cominciato nel tardo pomeriggio di mercoledì 12 maggio quando all'avvocato Frazzitta è pervenuta una lettera anonima contenente dichiarazioni ritenute "fortemente attendibili" sul caso della bambina scomparsa da Mazara Del Vallo il 1°settembre del 2004. Da qui, l'appello al mittente sconosciuto della missiva: "Ti invitiamo a fare un altro passo, nella massima riservatezza, fatti sentire", aveva sollecitato il legale di Piera Maggio ospite nel salotto di Barbara D'Urso su Canale 5. "Ci sono persone che hanno un pezzo di verità dentro, - aveva poi continuato -e questo pezzo di verità non l’hanno tirato fuori. Quello che invito a dire è: volete blindare ulteriormente la vostra tutela? Andate direttamente in Procura, venite a Mazara, contattate noi". Oggi, la rosa dei presunti testimoni del rapimento di Denise si restringe a due nomi: "Ho fatto riferimento a quattro persone subito dopo il caso di Olesya. - rivela l'avvocato - Ora possono diventare due, persone che potrebbero conoscere la verità, persone che si sono trovate al posto giusto nel momento sbagliato e potrebbero aiutare". Tra i vari elementi al vaglio del pool di investigatori nella nuova tornata di indagini, vi sarebbero anche alcune intercettazioni inedite. "Le stiamo analizzando tutte, - dice Frazzitta - c’è una squadra di gran lavoro. Abbiamo un fuoriclasse, che è il maresciallo Lombardo, che ha voluto dare un aiuto spontaneamente. Queste intercettazioni potrebbero dare delle risposte importanti, perché cambia il focus: dalla persona che era stata imputata passiamo ad altri soggetti". Infine il legale di Piera Maggio torna a parlare della pista rom e, nello specifico, del video girato dalla guardia giurata a Milano pochi giorni dopo la scomparsa della bambina: "Noi non sappiamo se quella bambina è Denise. C’è una forte somiglianza. Noi abbiamo fatto un determinato lavoro, da aprile abbiamo trasmesso gli atti in Procura. Noi avremmo trovato un’interessante somiglianza. Noi non accusiamo nessuno, mi spiace che sul web ci siano atteggiamenti nei confronti di persone che non sono neanche indagate. - conclude - Noi siamo alla ricerca della verità. Oggi non c’è nessun processo, né tanto meno un processo fatto da noi".
"Denise è passata di mano": c'erano le "sentinelle" a Mazara? Angela Leucci il 17 Maggio 2021 su Il Giornale. A Mattino Cinque, l'ex pm del caso Denise Pipitone Maria Angioni ha chiarito molti dettagli dell'oscura vicenda, avanzando un'ipotesi finora inedita. Il caso di Denise Pipitone oggetto questa mattina di una lunga intervista all’ex pm Maria Angioni che se ne occupò in passato. La giudice, che oggi esercita in Sardegna, ha raccontato a Mattino Cinque come Battista Della Chiave fosse “un testimone molto attendibile perché non poteva prepararsi” e che ha fornito un “racconto dettagliato e preciso”, oggi oggetto di una nuova e interessante interpretazione da parte di esperti Lis. Secondo Angioni, oggi si cominciano a capire un po’ meglio molte cose, ma il testimone all’epoca andava tutelato. Si è parlato anche del nipote Giuseppe, che sembrava essere inizialmente nominato dallo zio Battista, e con il quale era stata riscontrato secondo l’ex pm una “generica contiguità” con Anna Corona, ex moglie di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise. Incalzata da Federica Panicucci, Angioni si è anche soffermata sulla telefonata partita dal magazzino di via Rieti, una telefonata “strettamente connessa al rapimento della bambina”. “Secondo la mia ipotesi - ha aggiunto - più persone hanno collaborato a questo sequestro e ci sono stati più passaggi di mano della bambina”. Nel caso Pipitone, Angioni ha sospettato di tutti: per lei tutti erano sulla scena del crimine e molti hanno fatto cose strane. La sua attenzione non si è focalizzata su Jessica Pulizzi, figlia di Anna Corona, perché non era convinta di una sua presunta responsabilità totale, ma era sua intenzione allargare le indagini il più possibile, com’è corretto fare in questi casi. Ha anche aggiunto che le trasmissioni di approfondimento, come in questo caso Mattino Cinque, sono utili, perché consentono il brainstorming su una vicenda complicatissima. “Qui abbiamo una bambina che potrebbe essere viva, abbiamo il dovere giuridico e morale di cercarla”, ha chiosato. Particolarmente interessante è stata la risposta con cui Angioni ha avanzato una sua teoria sulla sparizione di Denise. L’idea che ho maturato è che nel rapimento della bambina ci siano stati due gruppi di persone: quelle “cattive” e quelle “buone”. Faccio una premessa: quando ho lavorato a Marsala, c’erano sempre diverse persone sulla strada che sembravano lì a far niente, ma dopo un po’ ho capito che erano sentinelle, non sentinelle necessariamente della mafia, ma sentinelle di qualcosa che non è lo Stato… mi sono detta che ci saranno state anche a Mazara del Vallo e che qualcuno non può che aver visto alcune scene del rapimento di Denise. Dunque, se questa bambina è stata presa da persone mosse da passione, da rabbia, da odio, è possibile che ci siano state sentinelle che hanno mandato il messaggio ad altre persone: persone che volevano bene alla bambina e che sono intervenute in un secondo momento, prelevandola e portandola via, perché la bambina era in pericolo, perché la bambina, così com’era stata presa quel giorno, poteva anche essere presa in un momento successivo. In questo modo si spiega perché c’era tanta gente sospetta. Tutti naturalmente hanno agito cercando probabilmente di prendere in giro gli inquirenti, sia quelli che l’hanno rapita per farle del male, sia quelli che li hanno bloccati e l’hanno presa e portata lontano, in modo che nessuno potesse farle del male. Ecco, solo così, con una ricostruzione complessa, si spiega perché ci fosse tanta gente che ha tenuto comportamenti che fanno pensare un inquirente: non erano comportamenti cristallini.
Denise Pipitone, la cannonata di Aldo Grasso: "Una sola speranza per lei, ecco chi non dice la verità". Libero Quotidiano il 17 maggio 2021. Per Aldo Grasso c'è solo una cosa positiva di tutto questo dibattere in tv sul caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa diciassette anni fa da Mazara del Vallo: "Che il cinismo dei media possa portare almeno ad avvicinarsi alla verità". Perché non si fa che parlare di Denise: "Venerdì sera Quarto Grado ha dato ampio spazio alla vicenda, Chi l'ha visto? ha registrato ascolti record occupandosi del caso", spiega il critico televisivo nella sua rubrica sul Corriere della Sera. Premette: "I media (e la tv in particolare) svolgono un importante ruolo nel mantenere alta l'attenzione sulla sparizione, stimolando la ricerca di una verità che dopo quasi vent'anni deve essere ricostruita, soprattutto per rispetto della sofferenza della madre Piera Maggio". Ma, continua, "non si può fare però a meno di notare come il caso Denise stia portando a un nuovo livello alcune dinamiche già osservate in passato in occasione di casi di cronaca e giudiziari fortemente mediatizzati. Lo spartiacque è stato il caso Cogne, trasformato in un appuntamento serializzato nei talk show, riversato sulla scena mediatica come fosse un reality, in un tripudio di opinioni e voci sul tema". E la stessa cosa, appunto, osserva Grasso, sta succedendo per Denise, tutti ne parlano, "meno chi forse avrebbe qualcosa da dire per portare finalmente la vicenda a una decisiva svolta: avvocati, sospettati, testimoni chiave, vicini di casa, criminologi, compagnia di giro di opinionisti schierati pro o contro quella o questa teoria, addirittura ex inquirenti che lamentano una mala gestione delle indagini". Insomma, conclude Grasso, "il circo di comprimari si allarga settimana dopo settimana, a colpi di esclusive tv, con elementi narrativi dalle venature da feuilleton" addirittura, ricorda, "l'inquietante siparietto della tv russa che ha rivelato con un test del Dna quasi in diretta l'identità di una ragazza sospettata di poter essere Denise". Ora almeno cerchiamo di fare luce sul caso.
Denise Pipitone, a Pomeriggio 5 la telefonata dell'ex pm: "Farsi giustizia da soli", una fine atroce per la bimba? Libero Quotidiano il 19 maggio 2021. Continuano a emergere nuovi dettagli sul caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa all'età di 4 anni nel lontano settembre del 2004 a Mazaro del Vallo. L'attenzione mediatica è tornata molto forte in seguito ad una serie di indizi che erano emersi sulla sparizione della bambina. Nella puntata di Pomeriggio 5 di ieri, martedì 18 maggio 2021, Barbara D'Urso ha mandato in onda una telefonata con l'ex pm, Maria Angioni. Nella registrazione, Angioni ricostruisce la sua ipotesi dell'intricata vicenda: "Un nucleo familiare voleva farle del male, qualcuno l'ha salvata" si sente dire l'ex pm. "Essendo emersi più indizi, anche una pluralità di indizi nei confronti di altre persone, sempre dei due nuclei familiari, il nucleo Corona e il nucleo Pulizzi, l'unica ipotesi investigativa che ne tenga conto in maniera ragionevole è questa" ha detto la donna che ha seguito il caso fino al 2005. "Ci sarebbe stato un primo intervento di persone che volevano fare male alla bambina. Il primo gruppo sarebbe stato mosso da risentimento con l'intenzione di fare del male alla bambina. Invece il secondo, immediatamente avvisato sarebbe corso a individuare dov'era la bambina, poi l'avrebbe presa e l'avrebbe portata via per proteggerla dal male fisico". La complessità della vicenda e tutti gli intrecci che vi sono al suo interno, non si fermerebbero però soltanto qui: "Chiaramente anche questo secondo gruppo non avrebbe avuto intenzione di denunciare il primo, e si sarebbe fatto giustizia da solo" prosegue l'ex capo delle investigazioni del caso. "Tanta gente avrebbe messo lo zampino in questa vicenda. Battista Della Chiave è una teste attendibile dal punto di vista processuale. Ha visto qualcosa? Credo purtroppo di sì..." Sarà la pista giusta per fare finalmente luce su una vicenda che risale ormai a 17 anni fa? I genitori chiedono soltanto una cosa: la verità.
"La dovevo fermare". Denise Pipitone, lo strazio della guardia giurata: si è fatto sfuggire la bambina scomparsa? Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 17 maggio 2021. I fotogrammi di quella bambina con una donna rom, all'uscita di una banca milanese, hanno fatto il giro della rete. Potrebbe essere proprio Denise Pipitone, ma resta un tremendo interrogativo. Che a distanza di quasi 17 anni sconvolge ancora tutti. Adesso a Storie Italiane su Rai 1 parla Felice Grieco, la guardia giurata che cerco di intrattenere quella donna rom avendo notato una somiglianza tra la bambina e Denise. Ma non riuscì. La donna scappò via con la bambina. Secondo Felice Grieco, il rapimento di Denise Pipitone non può essere stato commesso solo da Anna Corona e Jessica. “È ovvio – dice a Storie Italiane di Eleonora Daniele - che non hanno fatto tutte da sole, ci deve essere stata una regia. Per poter fare quello che hanno fatto hanno dovuto avere l’appoggio di qualcuno, a meno che quel giorno la bambina si è trovata smarrita nel vicolo e un passante se l'è presa e l’ha portata via". Grieco dalla Daniele spiega quel grande senso di colpa per non aver bloccato quella donna. “La dovevo fermare, mi sarei tolto ogni dubbio. Chiesi di inventare una scusa per poterlo fare, mi dissero di no. Ero nervoso, non sapevo come agire. Se l’avessi bloccata e non era lei sarei finito nei guai”, racconta. L'uomo, quella mattina, chiamò la polizia. Ma la donna riuscì ad andare via e iniziarono sin da subito le ricerche di quella bambina. "Quando è arrivata la pattuglia chiedendomi dove di trovasse la bambina gli ho fatto presente che, dato il tempo passato, il gruppo era andato via. Chiesi alla poliziotta se le potevano interessare i filmati che avevo fatto e glieli ho mostrati. Lei è sbiancata e ha invitato per radio i colleghi a fare controlli a tappeto, ma tutto il gruppo era sparito senza lasciare traccia”, ha aggiunto la guardia giurata. Felice Grieco ha filmato quella scena e la bambina, che si chiamerebbe Danas, è stata più volte accostata alla figlia di Piera Maggio, che continua nella sua battaglia per ottenere giustizia per sua figlia. “Per il video ho subito perquisizioni a casa, il sequestro di tutto il materiale informatico...", conclude Grieco.
Denise Pipitone, scoop a Storie Italiane: "La cimice mai attivata". Il dettaglio che può risolvere il caso: la stessa "manina"? Libero Quotidiano il 18 maggio 2021. Emergono nuovi dettagli sul caso Denise Pipitone. A Storie Italiane, il programma di Rai1 condotto da Eleonora Daniele, si va verso una nuova pista. Il motivo è racchiuso all'interno delle rivelazioni dell'ex pm Angione che ha fatto capire come nella vicenda potrebbero essere coinvolte due famiglie. A quel punto è stata la conduttrice a soffermarsi sulla cimice messa a Giuseppe D'Assaro ex marito della sorella di Piero Pulizzi, padre biologico della bimba scomparsa da Mazara del Vallo diciassette anni fa. L'uomo, collaboratore di giustizia, fu incaricato di andare in famiglia e fare delle domande a moglie e madre. Eppure nel corso del colloquio con la moglie la cimice non fu mai attivata. Da qui il più banale dei sospetti: ad oggi infatti si teme che quel gesto fu fatto apposta per nascondere qualcosa. Non solo, durante le indagini D'Assaro fu considerato un teste inattendibile perché in un primo momento accusò la ex moglie e la figlia, poi parlò della morte di Denise e poi ancora ritrattò. Il fatto che fosse un collaboratore di giustizia ha anche fatto pensare che dietro tutte le due versioni si nascondesse in realtà un messaggio rivolto a qualcuno. A sua volta la moglie di D'Assaro negò di aver conosciuto Denise. Anzi, la donna non sapeva neppure che il fratello fosse il vero padre della bambina. L'accusa, a suo dire, sarebbe arrivata ingiustamente dal marito che voleva solo punirla per non aver accettato di tornare insieme. A questo punto - è il ragionamento di Storie Italiane - viene da credere che oltre alla famiglia Corona "sia coinvolta anche la Pulizzi". La pm spiega che nella registrazione in cui si sente Jessica parlare del rapimento con altre persone mentre è sul motorino, una di quelle è al 60 per cento un familiare della bambina (Peppe) su cui poi non si è indagato. Ad avvalorare questa tesi anche le registrazioni di Chi L'ha Visto. Il programma di Rai3 condotto da Federica Sciarelli ha mandato in onda una conversazione tra Battista della Chiave, zio di Giuseppe D'Assaro, e la moglie che a sua volta si morde le mani e gli grida di tacere visto che sta mettendo tutti nei guai. Della Chiave aveva infatti raccontato di aver visto il nipote portare via Denise.
Da leggo.it il 18 maggio 2021. «Sono 17 anni che so, non ho parlato prima per paura...». Dopo la lettera inviata all'avvocato Giacomo Frazzitta l'anonimo scrive anche a «Chi l'ha visto?». La vicenda è quella relativa alla scomparsa di Denise Pipitone, la bimba di quattro anni rapita il primo settembre del 2004 a Mazara del Vallo. Una settimana fa il legale della famiglia, Giacomo Frazzitta, aveva rivelato di avere ricevuto una lettera anonima al suo studio contenente «elementi nuovi che abbiamo in parte riscontrato». Adesso una copia di quella lettera è stata recapitata anche alla redazione della trasmissione di Rai 3 condotta da Federica Sciarelli, che in questi anni non ha mai smesso di occuparsi del caso. L'anonimo, che parla delle fasi successive al sequestro e fa riferimento anche ad alcuni testimoni oculari, dice di essere «sicurissimo al cento per cento di quello che ho visto». Nei giorni scorsi l'avvocato Frazzitta, dagli schermi televisivi, aveva invitato il testimone a farsi nuovamente vivo. «Ti attendiamo, nella massima riservatezza, abbiamo bisogno di fare un passo avanti, vieni fuori in qualche modo, ma aiutaci ancora». Un appello ribadito in modo accorato anche dalla mamma di Denise, Piera Maggio: «Le chiedo di farsi sentire, nei modi che lei ritenga opportuno, faccia in modo di mettere fine a tutto questo dolore. Non solo noi, è l'Italia intera che glielo chiede».
"Sicurissimo al 100% di quello che ho visto". Chi è l’anonimo del caso Denise Pipitone: “So da 17 anni, non ho parlato per paura”. Vito Califano su Il Riformista il 19 Maggio 2021. Un anonimo ha detto di conoscere la verità sul caso Denise Pipitone. “Sono 17 anni che so, non ho parlato prima per paura …”, le sue dichiarazioni. Una settimana fa le rivelazioni alla famiglia, quindi le stesse dichiarazioni inviate alla trasmissione Chi l’ha visto?, la trasmissione di Federica Sciarelli su Rai3 che continua a seguire il caso della bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004, quando aveva solo quattro anni. Il caso è tornato alla ribalta mediatica da un mese a questa parte, a causa di una trasmissione russa, con l’appello rivelatosi infondato della 21enne Olesya Rostova, e per la riapertura delle indagini. Giacomo Frazzitta, legale della famiglia di Denise Pipitone, la settimana scorsa aveva dichiarato di aver ricevuto una lettera anonima al suo studio contenente elementi nuovi “che non erano conosciuti mediaticamente e che sono stati in parte riscontrati”. Che cosa riguardano queste dichiarazioni? L’anonimo avrebbe raccontato di fasi successive al sequestro e avrebbe fatto riferimento anche ad alcuni testimoni oculari. Si è detto “sicurissimo al cento per cento di quello che ho visto”. Frazzitta ha quindi nei giorni scorsi invitato il testimone a farsi vivo. “Ti attendiamo, nella massima riservatezza, abbiamo bisogno di fare un passo avanti, vieni fuori in qualche modo, ma aiutaci ancora”. L’avvocato si era detto fiducioso di proseguire il “dialogo a distanza” per acquisire altri elementi. “È come se stessimo componendo un enorme puzzle, abbiamo qualche tessera in più ma non è ancora sufficiente per disporre del quadro d’insieme”. Piera Maggio, madre della piccola Denise, ha ribadito anche lei l’appello: “Mi rivolgo alla persona della lettera anonima inviata al mio legale. Le chiedo di farsi sentire, nei modi che lei ritenga opportuno, faccia in modo di mettere fine a tutto questo dolore. Non solo noi, è l’Italia intera che glielo chiede”. Nelle parole dell’anonimo non ci sarebbero riferimenti ad Anna Corona, ex moglie di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise, indagata per sequestro di persona e omicidio, la cui posizione è stata archiviata, e alla figlia Jessica Pulizzi, sorellastra di Denise, processata e assolta con sentenza definitiva. La casa dove vivevano le due donne è stata oggetto di un’ispezione un paio di settimane fa. Per chi fornisce informazioni utili al chiarimento del caso di Denise Pipitone, l’imprenditore italo-americano Tony Di Piazza ha offerto una ricompensa economica di 50mila euro. Un’iniziativa simile è stata intrapresa da un’associazione di volontariato di Mazara del Vallo che ha messo a disposizione 5mila euro.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Denise Pipitone, a Mattino 5 la bomba 17 anni dopo: "Incidente d'auto sospetto, la macchina che la ha rapita". Perché solo ora? Libero Quotidiano il 19 maggio 2021. Un incidente d'auto sospetto che porta alla scomparsa di Denise Pipitone. È questo su cui chiede di fare chiarezza l'ex pm Maria Angioni, impegnata nella ricerca della bimba scomparsa nel 2004 da Mazara Del Vallo. "Questa macchina che scappa e l`incidente che ha avuto è molto importante per le indagini - ha detto a Mattino Cinque davanti a Federica Panicucci - A lungo ho ritenuto fosse la macchina con cui è stata portata via la bambina. Ricordo che oltre al meccanico, c`era anche una coppia. E ricordo che questa coppia aveva indicato un orario in cui aveva visto la macchina. Queste due persone erano state avvicinate da un componente della "famiglia allargata" della bambina, dopodiché avevano cambiato un po' l'orario. Per questo motivo li avevo ascoltati più volte". Da qui la spiegazione dell'accaduto che l'ha insospettita: "Nel complesso dalle dichiarazioni di questi testimoni, e dalla dichiarazione del meccanico, era emerso che l`auto, correndo alla disperata, era andata a sbattere contro un paracarro di pietra - ha proseguito su Canale 5 - I testimoni avevano riferito anche la direzione, compatibile con una fuga dal luogo dove la bambina era scomparsa". La stessa Angioni, una volta riaperte le indagini, ha puntato il dito contro alcune persone appartenenti al nucleo famigliare allargato di Denise. In particolare sono alcune intercettazioni a sollevare qualche dubbio. Una di queste sarebbe stata registrata proprio nelle immediate vicinanze del motorino di Jessica Pulizzi, la sorellastra della piccola scomparsa. "Vai a prendere Denise" si sente ordinare nell'audio, e ancora "Dove la devo portare?", "Fuori", risponde l'interlocutore. Per l'ex pm non ci sono dubbi: "Una di queste voci corrispondeva al 60% a un altro familiare". E ancora: "Ci sarebbe stato un primo intervento di persone che volevano fare del male alla bambina e che essendo emersi più indizi, anche una pluralità di indizi nei confronti di altre persone, sempre dei due nuclei familiari, il nucleo Corona e il nucleo Pulizzi, l'unica ipotesi investigativa che ne tenga conto in maniera ragionevole è questa".
"Così Denise fu rapita". Il cavalcavia, la barca a remi e il faro. Angela Leucci il 20 Maggio 2021 su Il Giornale. Quale fu il percorso effettuato da Denise Pipitone con i suoi rapitori: ecco le corrispondenze con lo scenario descritto da Battista Della Chiave. Battista Della Chiave potrebbe aver fornito lo scenario esatto del percorso effettuato dai rapitori di Denise Pipitone. È quanto è emerso nella puntata di ieri di “Chi l’ha visto?”, che ha ospitato degli esperti di Lingua Internazionale dei Segni (Lis). Gli esperti Lis, che avevano già analizzato le audizioni di Della Chiave, hanno spiegato che l’uomo non parlava quel linguaggio, ma si avvaleva di una mimica personale per comunicare. Grazie a quella mimica, Della Chiave ha raccontato in tre audizioni agli inquirenti di aver visto Denise, ha accennato a una telefonata, e a un uomo di circa 25 anni, con i capelli ricci, il pizzetto e i baffi che l’ha portata via. La bambina è stata condotta con una moto lungo un cavalcavia e poi nascosta su una barca a remi e portata fino a un faro. Federica Sciarelli ha mostrato i luoghi di Mazara del Vallo, dove la piccola scomparve il 1 settembre 2004, che corrispondono perfettamente alla descrizione dell’uomo sordomuto: un ponte con un grande arco e un cavalcavia sul fiume Mazaro, le barche a remi sotto il cavalcavia e un piccolo faro con un porticciolo, che si intravede sulla distanza dal cavalcavia. Di fronte agli interpreti allibiti per queste corrispondenze, lo spettatore si è potuto rendere conto di come Della Chiave avrebbe potuto fornire esattamente la dinamica del rapimento. In trasmissione si è tornati inoltre a parlare della lettera anonima: in 3 pagine, un testimone dice di aver visto Denise trasportata su un’auto con cui ha avuto un piccolo incidente. La missiva sarà a disposizione anche della Procura di Marsala, ma intanto mamma Piera Maggio, come il suo legale Giacomo Frazzitta aveva già fatto, ha invitato l’autore o l’autrice della lettera a fare un passo avanti: in mancanza di altri elementi, le lettere anonime non risultano utili infatti nelle indagini. Infine “Chi l’ha visto?” è tornato a parlare di alcune situazioni che riguardano Anna Corona e Jessica Pulizzi, rispettivamente ex moglie e figlia di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise, rispettivamente oggetto di un’archiviazione e un’assoluzione in tre gradi di giudizio nelle passate indagini sulla scomparsa della bimba. Si è parlato di come le intercettazioni possano essere ampiamente interpretabili - un frate, che vede la trasmissione di Rai 3 in un convento di Venezia, si sta occupando di ripulire gli audio. Si è raccontato come nel 2005 Jessica sia stata accusata di favoreggiamento, perché portò a casa il coltello con cui un conoscente aveva compiuto un’aggressione. E infine si è accennato anche alla figura di Claudio Corona, fratello di Anna con cui pare non corressero buoni rapporti nel 2004: un testimone ha ventilato che l’uomo, che sembra avesse frequentazioni malavitose, fosse sotto protezione da parte delle forze dell’ordine. “Chi l’ha visto?” ha intervistato l’ex procuratore di Marsala Alberto Di Pisa, che ha testimoniato come si sia cercato di seminare zizzania nei confronti di Frazzitta e Maggio: qualcuno riportò al procuratore che il legale fosse stipendiato dalla trasmissione e che la mamma di Denise “non fosse una donna specchiata”. Pare infatti che anche ai carabinieri giunsero degli esposti che cercavano di gettare discredito sulla moralità di Piera Maggio e della sua famiglia, tanto che la donna fu accusata di aver girato dei film porno, elemento che tra l’altro, anche fosse stato verificato, non avrebbe costituito nessun reato. I carabinieri ipotizzarono che chi aveva preso Denise forse aveva interesse a spostare l’asse delle indagini. A Di Pisa giunse addirittura una lettera con un’indicazione: gli inquirenti scavarono in un campo e trovarono una piccola bara bianca vuota. Secondo l’ex procuratore, si trattò di un segnale per dire che Denise era morta, oppure fu solo un caso e il segnalatore era un mitomane. “La nostra tesi è che la vicenda nasce in ambito famigliare - ha spiegato l’uomo - La bambina viene prelevata da Jessica e consegnata a qualcuno che poi la porta agli zingari in un campo intorno a Mazara, zingari che si allontanano subito dopo. La tesi trova riscontro del video della guardia giurata: per me la bambina è al 90% Denise e ritengo sia ancora viva. Mamma e figlia (Anna Corona e Jessica Pulizzi, ndr) sono terribili. Sono due donne capaci di tutto, secondo me”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise vista insieme ad altre tre persone già citate nelle indagini: "Possiamo parlare di famiglia allargata" in esclusiva a #Mattino5 parla l'ex maresciallo di Marsala — Mattino5 (@mattino5) May 20, 2021.
Da "ilmessaggero.it" il 20 maggio 2021. Continuano a emergere dettagli sulla lettera anonima arrivata all'avvocato della famiglia di Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara del Vallo nel 2004. È l'ex maresciallo della Polizia Giudiziaria di Marsala, Francesco Lombardo, a confermare a Mattino Cinque alcune indiscrezioni circolate nelle ultime ore: «La persona che ha scritto la lettera ha riconosciuto le tre persone che avrebbero portato via Denise in macchina, circa 45 minuti/un'ora dopo la scomparsa». Non si tratterebbe però della Ford Fiesta descritta da altre testimonianze, ma di «un altro tipo di vettura». I dettagli - Il maresciallo ha aggiunto: «Si tratta di tre persone già all'interno delle indagini. Possiamo parlare di membri della famiglia allargata». Interrogato dalla conduttrice Federica Panicucci, Lombardo preferisce non sbottonarsi: «Non voglio dare troppe indicazioni, aspettiamo che l'anonimo si faccia risentire». Le indagini proseguono, il caso della della bambina scomparsa il 1° settembre 2004 si arricchisce di nuovi, inattesi, dettagli.
Denise, spunta il giallo della sim: "Siamo a una svolta". Francesca Galici il 20 Maggio 2021 su Il Giornale. Gli inquirenti indagano su sospetti passaggi di sim tra diversi telefoni di persone attenzionate per il caso di Denise Pipitone. Il caso di Denise Pipitone potrebbe essere a una svolta, almeno stando a quanto dichiarato a Mattino5 da Francesco Lombardo, l’ex maresciallo della Polizia giudiziaria di Marsala che ha indagato sulla scomparsa della bambina. L'uomo, in collegamento con il programma di Canale5 condotto da Federica Panicucci e Francesco Vecchi, è ripartito dalla lettera anonima giunta all'avvocato Frazzitta, finora considerata attendibile. In quelle poche righe ci sarebbero dettagli importanti sulla scomparsa di Denise Pipitone, come la presenza a bordo di un'auto di tre persone e della bambina poco dopo il suo rapimento. Tuttavia nelle ultime ore è emerso anche i dettagli di una sim che sarebbe stata spostata di telefono in telefono in quelle frenetiche ore. In quella lettera, l'ex maresciallo dichiara che il suo autore indicherebbe anche i nomi delle tre persone, che risultano già "all'interno delle indagini". Il militare ha parlato di persone facenti parte della "famiglia allargata" ma ha evitato di andare oltre nella sua ricostruzione in diretta, per non dare troppi dettagli e preservare le indagini. Nelle indagini è diventato centrale anche il tracciamento delle utenze telefoniche dei soggetti attenzionati dagli investigatori per fare luce sulla scomparsa di Denise. In particolare, l'avvocato Frazzitta ha raccontato che uno dei telefoni in uso ad Anna Corona e ad alcuni familiari, oltre che a una sua amica, non erano rintracciabili. Pare che non potessero essere messi sotto controllo perché erano intestati a terzi. Per l'avvocato di Piera Maggio, infatti, ci sarebbero alcune sim che ai tempi erano in uso a diverse persone interessate dalle indagini. Queste sim potrebbero essere state utilizzate per fare telefonate che non venivano rintracciate dagli investigatori. Ma a proposito delle celle telefoniche che sono state agganciate all’epoca della scomparsa nei pressi del magazzino dove si pensava fosse tenuta in ostaggio la bambina, Francesco Lombardi ha dichiarato: "Il telefono era spento. Arriva un messaggio che dev'essere recapitato a quell'utenza telefonica ma aveva cambiato cellulare, quindi l'IMEI era diversa. Pertanto il sistema non riusciva a consegnare il messaggio. Continuava a cercare in rete il cellulare, che nel frattempo anche se spento viene segnalato nei movimenti, e non viene consegnato. Ci sono quindi quelle celle agganciate durante la notte. ". Il dubbio sull'utenza telefonica è ora al centro dell'inchiesta e il dubbio è che Anna Corona possa aver dato il suo telefono a un'altra persona, che si sarebbe spostata nel frattempo: "O un’altra persona o lei stessa ha messo la sua scheda su un altro cellulare". In queste settimane le indagini hanno fatto notevoli passi in avanti e l'ex maresciallo Francesco Lombardo è speranzoso sulla possibilità che si possa essere a una svolta: "Sì. Ce lo auguriamo".
La ragazza di Scalea non è Denise Pipitone: il test del dna ha dato esito negativo. Debora Faravelli il 21/05/2021 su Notizie.it. Il test del Dna effettuato sulla ragazza di Scalea somigliante a Denise Pipitone ha dato esito negativo: proseguono le indagini su altre piste. La ragazza di Scalea somigliante a Denise Pipitone non è la bimba scomparsa nel 2004 a Mazara del Vallo: a confermarlo l’esito negativo del test del DNA annunciato durante Pomeriggio Cinque.
Ragazza di Scalea: test dna negativo. A dare la notizia è stata l’inviata del programma in collegamento dal palazzo di Giustizia. Un esito atteso dato che la stessa ragazza, interrogata dai Carabinieri del centro calabrese, aveva ammesso di non essere Denise. Ma la Procura di Marsala aveva comunque disposto la comparazione del DNA dopo la riapertura delle indagini sulla scomparsa della bimba siciliana. Diversi gli elementi che avevano escluso che Denisa, la ragazza in questione, potesse essere Denise: la giovane aveva infatti affermato di essere venuta in Italia dalla Romania all’età di 7 anni e mostrato i documenti la cui data di nascita non corrispondeva con quella della figlia di Piera Maggio. Inoltre Denise ha 19 mentre Denise ne avrebbe 21.
Ragazza di Scalea, test dna negativo: chi è. La giovane è stata segnalata da una donna che l’ha casualmente incontrata e, avendo notato una somiglianza con la figlia di Piera Maggio, si è rivolta alle forze dell’ordine che l’hanno interrogata. La ragazza ha raccontato di essere nata in Romania nel 2002 e di essere arrivata in Italia all’età di sei anni e mezzo, di avere una cicatrice simile a quella di Denise ma di non essere lei. “Io sono dispiaciuta per Piera Maggio: è brutto dare una speranza ad una persona che cerca la figlia da tanto tempo. Se fossi veramente io andrei a braccia aperte, ma non sono io, non so come dirvelo”, aveva aggiunto ai microfoni di Pomeriggio Cinque mostrando il suo certificato di nascita.
Ragazza di Scalea, test dna negativo: proseguono le indagini. Nell’attesa che la Procura dia ufficialmente la notizia dell’esito negativo, ancora ufficiosa, Barbara d’Urso ha specificato che “Lei aveva detto subito di non essere Denise Pipitone, ma aveva anche detto di non volersi sottrarre al test se ritenuto necessario e così è stato”. Ora che è giunto il risultato, le indagini proseguiranno sulle altre piste tra cui l’analisi della lettera anonima ricevuta dall’avvocato Frazzitta, la testimonianza di Battista della Chiave nonché del carrozziere che ha affermato di aver visto una macchina sfrecciare pochi minuti dopo la sparizione della piccola.
Pomeriggio 5, Denise Pipitone e l'ultima ora da Mazara: "Trovata un'auto bruciata". Rapimento, la D'Urso sconvolta. Libero Quotidiano il 21 maggio 2021. Clamorosa ultima ora su Denise Pipitone a Pomeriggio Cinque. Barbara D'Urso ha fatto sapere in diretta che sono in corso degli accertamenti su un'auto bruciata e abbandonata da anni a pochi metri da uno dei luoghi simbolo della scomparsa della bambina di Mazara Del Vallo. Anche se non si sa ancora se si tratti della macchina effettivamente usata per rapire la bimba, pare ci sia una certa compatibilità con quella descritta dal testimone della lettera anonima indirizzata all'avvocato Giacomo Frazzitta. Secondo quanto raccontato dall'anonimo, infatti, la bambina sarebbe stata rapita con un'auto blu metallizzata. La persona avrebbe anche guardato all’interno dell’abitacolo e avrebbe visto la piccola Denise con altre tre persone. L’autore della lettera avrebbe fatto pure i nomi, dicendo di essere assolutamente sicuro delle sue parole: “La bambina piangeva e chiamava mamma”. Intanto è arrivato anche l'esito del test del dna su Denisa di Scalea, la ragazza di origini Rom che si pensava potesse essere Denise per via dell'incredibile somiglianza fisica con la piccola. Ma, comparando il suo dna a quello di Piera Maggio - la mamma della Pipitone -, si è scoperto che Denisa non è Denise. Nel frattempo, nonostante la chiusura di Ore 14 su Rai 2, il conduttore Milo Infante continua a essere al fianco della signora Maggio. Poco fa su Facebook ha dichiarato che ci vorrà tempo ma alla fine i colpevoli saranno smascherati.
Denise Pipitone, Quarto grado: "Anna Corona e Beppe Della Chiave indagati". Svolta clamorosa dopo 17 anni: chi è l'uomo. Libero Quotidiano il 22 maggio 2021. Clamorosa nuova svolta sul caso di Denise Pipitone. Venerdì sera a Quarto grado su Rete 4 Gianluigi Nuzzi annuncia che "Anna Corona e Beppe Della Chiave sono indagati", a 16 anni e mezzo dalla misteriosa scomparsa della bimba da Mazara del Vallo. La Corona è l'ex moglie di Piero Pulizzi, padre biologico di Denise e nuovo compagno di Piera Maggio, mamma della bimba. Della Chiave è invece il nipote di Battista Della Chiave, il presunto testimone oculare sordomuto le cui rivelazioni sono tornate d'attualità in queste ultime settimane. Secondo la trasmissione di Nuzzi, la Procura di Marsala che sta continuando a indagare farà rianalizzare alcune intercettazioni ambientali. "Si indaga per sequestro di persona - spiega la giornalista Ilaria Mura -. Al momento sono indagati Anna Corona e Giuseppe Della Chiave, ma ci potrebbero essere nuovi indagati". L'ipotesi, rilanciata con forza dall'avvocato della Maggio Giacomo Frazzitta e dall'ex procuratore Maria Angioni che si occupò del caso nei primi mesi, è quella di un rapimento organizzato dalla "famiglia allargata" che orbitava intorno alla piccola Denise. Battista Della Chiave, oggi non più in vita, aveva confessato di aver visto un uomo con la bimba in un magazzino di via Rieti poco dopo il rapimento. Uomo che poi l'avrebbe imbarcata su un peschereccio. La stessa pm Angioni parlava di un rapimento "in barca a remi", operato da due o più uomini, che avrebbero poi trasferito Denise su una imbarcazione più grande. Intanto nel pomeriggio di venerdì a Pomeriggio 5 Barbara D'Urso ha lanciato la notizia del ritrovamento di un’auto bruciata e abbandonata a Mazara, misteriosamente mai rinvenuta prima, e che potrebbe essere stata utilizzata dai rapitori l'1 settembre 2004. Nessuna conferma al riguardo, ma il sospetto di un altro tassello in questa storia fatta anche di omissioni, depistaggi e buchi nelle indagini.
(ANSA il 22 maggio 2021) Ci sarebbe una svolta nelle indagini che riguardano il caso Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara Del Vallo il primo settembre del 2004. Nel corso della trasmissione Quarto Grado, andata in onda ieri sera su Rete 4, è stata data la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati di Anna Corona e Giuseppe Della Chiave. L'indiscrezione non ha ancora trovato conferme dalla Procura di Marsala, che nei giorni scorsi aveva riaperto l'inchiesta sul rapimento della bimba e che sta nuovamente analizzando alcune intercettazioni. Anna Corona è l'ex moglie di Pietro Pulizzi, attuale marito di Piera Maggio e padre naturale di Denise Pipitone, ed è anche la madre di Jessica Pulizzi, sorellastra della bimba, processata e assolta in via definitiva dall'accusa di sequestro di persona. Anche Anna Corona era stata inizialmente indagata, ma la sua posizione era stata poi archiviata. Giuseppe Della Chiave è nipote di Battista Della Chiave, il testimone sordomuto, oggi deceduto, che aveva rivelato di aver visto la piccola Denise in un capannone di Mazara del Vallo in braccio al giovane intento a fare una telefonata. Secondo il racconto di Battista Della Chiave, la bimba dopo essere stata rapita sarebbe stata portata con un motorino verso un molo, avvolta in una coperta, prima di essere caricata su una barca. La testimonianza di Della Chiave, raccolta dall'avvocato Giacomo Frazzitta, legale della famiglia di Denise, era stata contestata dai suoi familiari che avevano sostenuto come l'uomo non conoscesse il linguaggio dei segni. Davanti ai magistrati, con l'ausilio di un consulente, il testimone si era avvalso della facoltà di non rispondere. Nei giorni scorsi l'avvocato Giacomo Frazzitta ha ricevuto una lettera anonima, consegnata alla Procura di Marsala, nella quale un testimone oculare riferirebbe di avere visto Denise in auto con altre persone, poco dopo il rapimento, mentre piangeva e chiedeva aiuto. (ANSA).
Denise Pipitone, la rabbia di Piera Maggio: "Aberrante, anche per gli indagati. Sempre la stessa direzione". Libero Quotidiano il 22 maggio 2021. “Ho appreso la notizia da una trasmissione televisiva, lo trovo aberrante, anche per gli stessi indagati”. Lo ha dichiarato all’Adnkronos Piera Maggio, madre di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo a settembre del 2004. “L’asciamo che la Procura di Marsala faccia il suo lavoro”, ha aggiunto la donna, che dopo diciassette anni non ha ancora perso le speranze di conoscere la verità su sua figlia. Il caso si è improvvisamente riaperto negli scorsi mesi e adesso la Procura, che ha riaperto le indagini, avrebbe raccolto nuovi elementi molto importanti. A lasciare di stucco Piera Maggio è l’indiscrezione arrivata da Quarto Grado: secondo la trasmissione di Rete 4, la Procura avrebbe iscritto al registro degli indagati Anna Corona, ex moglie del padre biologico di Denise, e Giuseppe Della Chiave, nipote di Battista, il testimone sordomuto che nel 2013 disse di averlo visto in compagnia della bambina proprio il primo settembre del 2004. “Se fosse confermata - ha dichiarato Piera Maggio all’Adnkronos - ancora una volta, dopo 17 anni si tornerebbe a indagare sulle stesse persone coinvolte in un primo momento nella vicenda. Insomma, sempre la stessa direzione”. “Quello che noi ci auguriamo - ha aggiunto - è di ritrovare Denise, che si faccia finalmente luce su questa storia e si possa arrivare alla verità. La speranza di riabbracciare la mia bambina che oggi è una bellissima ragazza di quasi 21 anni non è mai venuta meno. Continuerò a lottare per questo. Siamo qui - ha chiosato Piera Maggio - ad attendere che Denise venga ritrovata e riportata a casa”.
Denise Pipitone, "chi è Giuseppe Della Chiave": tra motorino e telefono, lo scoop di Quarto Grado. Libero Quotidiano il 22 maggio 2021. La scomparsa di Denise Pipitone è arrivata ad una svolta. Dopo 17 anni da quel primo settembre 2004 ci sarebbero due nuovi indagati da parte della Procura di Mazara del Vallo. Secondo Quarto Grado si tratterebbe di Anna Corona, ex moglie di Pietro Pulizzi, papà biologico di Denise, e mamma di Jessica, la sorellastra già processata e assolta in via definitiva dall'accusa di sequestro di persona, e Giuseppe Della Chiave, nipote di Battista Della Chiave, il testimone sordomuto, oggi deceduto, che aveva rivelato di aver visto la piccola in un capannone di Mazara del Vallo in braccio al giovane intento a fare una telefonata. Giuseppe Della Chiave è il nuovo indagato. Suo zio Battista Della Chiave, testimone sordomuto e oggi deceduto, in una ricostruzione di Chi l’ha visto?, aveva mimato il rapimento dei Denise, attribuendolo allo stesso nipote che avrebbe portato via la bimba su un motorino verso il mare. L'uomo aveva rivelato anni fa di aver visto la bambina in un capannone di Mazara del Vallo in braccio al giovane intento a fare una telefonata. Secondo il suo racconto, la bimba, dopo essere stata rapita, sarebbe stata portata con un motorino verso un molo, avvolta in una coperta, prima di essere caricata su una barca. La testimonianza di Della Chiave, raccolta dall’avvocato Giacomo Frazzitta, era stata contestata dai suoi familiari che avevano sostenuto come l’uomo non conoscesse il linguaggio dei segni. Davanti ai magistrati, con l'ausilio di un consulente, il testimone si era avvalso della facoltà di non rispondere. "L’accusa echeggiata in tv come una vera e propria fuga di notizie trasforma una indagine seria in un processo televisivo fatto al di fuori di ogni regola", è stato il commento di Gioacchino Sbacchi, il legale di Anna Corona.
Denise Pipitone, il messaggio della madre: “Verranno a chiedere scusa per quello che abbiamo subito”. Jacopo Bongini il 23/05/2021 su Notizie.it. Nuovo messaggio della madre di Denise Pipitone. La signora Piera Maggio se l'è presa con chi in questi anni ha diffuso illazioni sulla sua famiglia. Nuovo messaggio social per Piera Maggio, la madre di Denise Pipitone che da quasi 17 anni è in cerca della figlia scomparsa. Nella giornata di sabato 22 maggio la donna ha infatti pubblicato sui propri account poche righe in cui si scaglia contro coloro che in tutti questi anni non hanno fatto altro che lanciare illazioni e insinuazioni contro la famiglia della piccola Denise, il cui caso è stato recentemente riaperto dalla procura di Marsala. Nel breve post apparso sui social si può infatti leggere: “Denise amore puro. Ci sarà il giorno in cui alcuni Verranno a chiederci scusa, forse sarà troppo tardi! Scusa, per tutto quello che abbiamo subito in questi anni, illazioni, allusioni, soprusi, angherie, bugie, mancanza di rispetto e tanto altro”. Il messaggio della donna arriva poche ore dopo le notizie dell’inserimento di due nuovi indagati nell’inchiesta della procura di Marsala: l’ex moglie di Pietro Pulizzi, Anna Corona, e Giuseppe Della Chiave, nipote del testimone oculare sordomuto Battista Della Chiave. In precedenza la signora Piera Maggio aveva commentato con durezza la diffusione della notizia dei due nuovi indagati: “Ho appreso la notizia da una trasmissione televisiva, lo trovo aberrante, anche per gli stessi indagati. Lasciamo che la Procura di Marsala faccia il suo lavoro. Se fosse confermata, ancora una volta, dopo 17 anni si tornerebbe a indagare sulle stesse persone coinvolte in un primo momento nella vicenda. Insomma, sempre la stessa direzione. Quello che noi ci auguriamo è di ritrovare Denise, che si faccia luce finalmente su questa storia e si possa arrivare alla verità”. Simili parole anche da parte dell’avvocato Giacomo Frazzitta, che ai microfoni dell’AdnKronos ha dichiarato: “Abbiamo appreso la notizia dalla tv. Mi dispiace che possano esserci simili violazioni del segreto istruttorio non solo per noi, ma anche per gli stessi indagati, sempre che sia vero”. Una fuga di notizia che ha lasciato basito l’avvocato: “Conosco la riservatezza e la serietà del procuratore Pantaleo. È un’eccellenza della magistratura italiana, una persona illuminata, di grande serietà e compostezza, con grande rispetto per le parti. Mi dispiaccio per lui che sono sicuro essere assolutamente estraneo a una simile violazione del segreto istruttorio”.
Denise Pipitone, due mesi di sospetti e segnalazioni. Cosa è successo dal caso Olesya Rostova ad oggi. La falsa pista russa ha riacceso un mistero lungo 17 anni. Da marzo molte novità: la riapertura dell’inchiesta, le delazioni, fino all’ultima lettera anonima. Tutto quello che c’è da sapere sulla bimba scomparsa il primo settembre 2004 a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani. Salvo Toscano il 21 maggio 2021 su Il Corriere della Sera.
La sparizione di Denise Pipitone. Piera Maggio all’epoca 35 enne, il giorno dopo la scomparsa di Denise Pipitone. Le ultime novità riguardano un supertestimone. Un anonimo che, lo scorso 12 maggio, si è fatto vivo diciassette anni dopo raccontando dettagli inediti sulla sparizione di Denise Pipitone. Racconti al vaglio degli investigatori, tutti da verificare. Di certo c’è che almeno dai primi di maggio, la procura di Marsala ha riaperto le indagini sulla scomparsa della bambina, sparita da Mazara del Vallo il primo settembre del 2004. L’attenzione mediatica per il caso della piccola siciliana era d’altronde tornata altissima. Una ribalta cominciata proprio tra marzo e aprile scorsi con il caso di Olesya Rostova, la ragazza orfana trovata dalla tv russa (e molto somigliante a Denise) che si pensava potesse essere la bambina scomparsa. Così non era, si è trattato solo dell’ennesimo caso di questo tipo. Ma l’effetto è stato quello di una diga crollata. Tanto da muovere il fronte investigativo con la riapertura del caso che fin qui, malgrado indagini e processi, è rimasto per diciassette anni senza un responsabile.
«In auto, gridava aiuto». Le prime ricerche nel settembre 2004. Ma partiamo proprio dall’ultima segnalazione, in ordine di tempo. La lettera anonima recapitata lo scorso 12 maggio a Giacomo Frazzitta, avvocato della madre di Denise Piera Maggio, racconta che la bambina sarebbe stata vista in un’auto dopo essere stata rapita davanti alla sua abitazione di Mazara. «Piangeva, gridava ‘aiuto mamma’». Questo scrive l’anonimo, nella ricostruzione del quotidiano Livesicilia, indiscrezione che Frazzitta non ha voluto commentare. La lettera è stata consegnata dal legale alla Procura di Marsala, che di recente ha riaperto l’inchiesta sul sequestro della bimba. Una missiva (forse una copia della stessa lettera) è stata spedita dall’anonimo anche al programma televisivo “Chi l’ha visto?” che ne ha mostrato alcuni stralci.
«So da 17 anni». Una delle cave di Tufo dove si cercò all’inizio Denise. «Sono 17 anni che so, non ho parlato prima per paura...». scrive il testimone oculare che aggiunge di essere «sicurissimo al cento per cento di quello che ho visto». Parole di un mitomane o testimonianza affidabile? Le due lettere riportano a una testimonianza di fatti molto vicini alla scomparsa della bambina. Nei giorni scorsi l’avvocato Frazzitta aveva invitato il testimone a farsi nuovamente vivo. «Ti attendiamo, nella massima riservatezza, abbiamo bisogno di fare un passo avanti, vieni fuori in qualche modo, ma aiutaci ancora».
Tutto parte dalla Russia. La fiamma si riaccende lo scorso marzo. A soffiare sulle braci un programma televisivo russo che si occupa di rintracciare i genitori di ragazzi orfani e che sostiene di aver individuato in una 20enne di Mosca, chiamata Olesya Rostova, la possibile Denise. Le somiglianze tra le due sono molte e il fascino del miracolo inaspettato, immediatamente prende piede. A far rimbalzare lo scoop in Italia è la trasmissione di Rai Tre «Chi l’ha visto?», con la conduttrice Federica Sciarelli. «Sarebbe troppo bello, un regalo enorme — dice subito la giornalista —. Forse è una suggestione dovuta alla somiglianza, ma la giovane donna ha la stessa età che avrebbe oggi Denise». Si sa, però, come andò a finire: un indegno balletto, trascinato per circa dieci giorni dalla redazione del programma russo, fino alla prova del gruppo sanguigno che evidenzia l’incompatibilità tra le due giovani. Siamo ai primi di aprile, intanto la madre Piera Maggio accumula altra sofferenza.
L’indagine e l’ispezione. I vigili del fuoco a Mazara del Vallo per le ultime ricerche. Non passa nemmeno un mese ed ecco che si viene a sapere che sulla scomparsa di Denise torna ad indagare la magistratura. Il 5 maggio la procura di Marsala, dopo aver riaperto le indagini sulla scomparsa della bambina, invia i carabinieri nell’abitazione che fu di Anna Corona, la madre di Jessica Pulizzi, la sorellastra di Denise Pipitone. Pulizzi fu processata ma assolta in tutti i gradi di giudizio per la scomparsa della bambina, che era figlia naturale del padre di lei, Piero, e di Piera Maggio. L’ispezione in un garage e in un pozzo, alla ricerca di una botola, non dà esiti. La madre, Piera Maggio, viene a sapere della ricerca mentre è ospite in televisione: sotto choc, abbandona il programma. Lo stesso giorno 500 cittadini di Mazara del Vallo riempiono la piazza principale della cittadina chiedendo verità e giustizia per Denise. Intanto però l’ex procuratore di Marsala Alberto Di Pisa, in un’intervista a Chi L’Ha Visto, riferendosi proprio ad Anna Corona e alla figlia Jessica dice: «Quelle due donne sarebbero state capaci di tutto. La tesi che io ho sempre sostenuto e che continuo a sostenere è che questa vicenda nasce in ambito famigliare. Jessica, figlia del papà biologico di Denise, riteneva la piccola la causa della distruzione della sua famiglia. Secondo noi è stata lei a prelevare la bambina quel giorno, per poi darla ad altre persone che a loro volta l’hanno affidata agli zingari».
Dalla Calabria. Le due Denise. Ecco che improvvisamente si ridestano voci, delazioni, sospetti. L’11 maggio le segnalazioni di due donne di Scalea, cittadina in provincia di Cosenza, spostano in Calabria l’attenzione della procura di Marsala che indaga sulla sparizione di Denise. Francesca Sbaglia, che ha un negozio di compro oro, e Grazia Bonanno, parrucchiera, riferiscono ai carabinieri di aver riscontrato delle somiglianze fisiche con la figlia di Piera Maggio in una 19enne di madre rumena residente in zona. La ragazza indicata, che si chiama anche lei Denise, viene individuata dai militari e portata in caserma per ascoltarla: ha una madre rumena che vive in un’altra località del Cosentino con la quale non è in buoni rapporti. Ma subito afferma: «Non sono io la Denise che cercate». Le viene fatto il test del Dna.
L’ex magistrato: «Più persone». Folla davanti casa Pipitone nel settembre 2004. «Se questa bambina è stata presa da persone mosse da passione, da rabbia, da odio è possibile — dice a Mattino 5 Maria Angioni, ex pm che lavorò a Marsala alle prime indagini sulla sparizione di Denise — che ci siano state sentinelle che hanno mandato il messaggio ad altre persone che volevano bene alla bambina e che sono intervenute in un secondo momento, prelevandola e portandola via, perché la bambina era in pericolo, perché così com’era stata presa quel giorno, poteva anche essere presa in un momento successivo». «Più persone hanno collaborato al sequestro di Denise Pipitone», ha detto nella stessa trasmissione Angioni. Secondo il magistrato, «ci sono stati più passaggi di mano della bambina» e l’attenzione degli inquirenti doveva cadere sul luogo della sparizione: «Nei pressi c’erano più persone appartenenti alla cerchia della famiglia allargata, e in molti hanno fatto qualcosa di sospetto».
Ombre sulle indagini. La conferenza stampa del procuratore Silvio Sciuto (a sinistra) e del sostituto Luigi Boccia sulle indagini per la scomparsa della piccola Denise Pipitone nel 2004. Ma sulle prime indagini gli stessi inquirenti dell’epoca hanno parlato di ombre. «Abbiamo avuto grossi problemi. Abbiamo capito che dopo tre giorni tutte le persone sottoposte a intercettazioni già sapevano di essere sotto controllo», ha detto in tv la Angioni. «A un certo punto, quando ho avuto la direzione delle indagini, ho fatto finta di smettere di intercettare e poi ho ripreso da capo con forze di polizia diverse, nel disperato tentativo di salvare il salvabile».
L’ex maresciallo. Sulle indagini torna a parlare anche un ex maresciallo dei carabinieri, Francesco Lombardo, che sempre in televisione ha parlato delle celle telefoniche che sono state agganciate all’epoca della scomparsa, vicino al magazzino dove si pensava fosse tenuta in ostaggio la bambina. «Il telefono era spento ma sull’utenza telefonica è arrivato lo stesso un messaggio. La Sim però, nel frattempo era stata tolta. Quindi il sistema non riusciva a consegnare il messaggio, che continuava a cercare la rete, anche se il telefono era spento. Per questo, durante la notte ci sono le celle agganciate».
Quella prima segnalazione. Piera Maggio nel 2008. Intanto, in questi 17 anni, la madre di Denise, Piera Maggio, non ha mai smesso di cercare la figlia e la verità sulla sua scomparsa. Centinaia i casi di avvistamenti e riconoscimenti che poi non si sono rivelati fondati. Il primo arrivò il 18 ottobre, un mese dopo la scomparsa della bimba: una guardia giurata sostenne di averla vista «davanti a una banca a Milano insieme a un gruppo di rom».
Felice Cavallaro per corriere.it il 23 maggio 2021. Dopo lo show a puntate della Tv russa sulla falsa Denise, come in un continuo reality, si susseguono da settimane voci e notizie su una nuova indagine aperta dalla Procura di Marsala per la scomparsa della piccola Denise Pipitone rapita 17 anni fa a Mazara del Vallo. L’ultimo scoop è della trasmissione «Quarto Grado» con il conduttore Gianluigi Nuzzi che venerdì sera ha annunciato in diretta i nomi di due indagati di una nuova inchiesta: Anna Corona, la ex moglie del padre biologico di Denise, e Giuseppe Della Chiave, il nipote di Battista Della Chiave, il testimone sordomuto ormai deceduto che, in una ricostruzione di «Chi l’ha visto?», mima il rapimento. Attribuendolo allo stesso nipote che avrebbe portato via la bimba su un motorino verso il mare. Per poi consegnarla a un gruppo di zingari.
Una istanza contro il processo in tv. Questo il quadro che avrebbe portato alla nuova incriminazione della donna, tradita dal marito Pietro Pulizzi, appunto il padre di Denise, oggi coniuge di Piera Maggio, la mamma della bimba da sempre in cerca della verità, certa che sua figlia sia comunque viva. Un quadro contestato dall’avvocato Gioacchino Sbacchi, il legale di Anna Corona: «L’accusa echeggiata in tv come una vera e propria fuga di notizie trasforma una indagine seria in un processo televisivo fatto al di fuori di ogni regola». Sconcertato il penalista di lungo corso che difese Giulio Andreotti, affidando negli anni Novanta il caso alla sua più giovane collaboratrice, Giulia Bongiorno: «Ormai questo processo lo fanno le televisioni e noi dobbiamo apprendere tutto dal pomeriggio alla sera, passando da un canale all’altro...». Non ci sono repliche da parte della Procura diretta da Carmelo Pantaleo al quale Sbacchi si rivolge direttamente: «Presenteremo una istanza per sapere se ci sono iscrizioni. Ma lo faremo ad uffici aperti, secondo le regole, lunedì mattina, senza tempi televisivi, senza associarci alla vergogna di indagini fatte in tv».
Intercettazioni e «investigatori inaffidabili». Sull’ipotesi di una vendetta nata in ambito familiare come movente della sparizione si indaga dal primo momento. E si sono fatti dei processi. Quello con Anna Corona concluso con una archiviazione. Quello contro sua figlia Jessica, altra principale sospettata del ratto e della scomparsa, proseguito fino in Cassazione, sempre assolta. Per questo Jessica non può essere sottoposta a nuove indagini. A differenza della madre che, stando allo scoop di Quarto Grado, sarebbe al centro dei nuovi accertamenti. L’apertura di un fascicolo a Marsala viene data per certa. Anche perché Pantaleo e i suoi sostituti non possono ignorare le accuse echeggiate sempre in Tv da parte di una ex pm di Marsala oggi in servizio in Sardegna, Maria Angioni, intervenuta il mese scorso a «Ore 14» su Raidue: «Dopo tre giorni tutte le persone sottoposte a intercettazioni sapevano di essere sotto controllo. A un certo punto, quando ho avuto la direzione delle indagini, ho fatto finta di smettere di intercettare e poi ho ripreso da capo con forze di polizia diverse, nel disperato tentativo di salvare il salvabile....
Accuse e scontri fra magistrati. Un’accusa esplicita alla polizia, al commissariato di Mazara del Vallo e al dirigente che avrebbe avuto allora una storia d’amore con l’amica del cuore di Anna Corona. Una storia complicata e contorta nella quale è intervenuto anche il predecessore di Pantaleo, l’ex procuratore Alberto Di Pisa, bacchettando Angioni: «Dichiarazioni un po’ fantastiche, del tutto prive di fondamento. Bisogna attenersi ai fatti concreti, alla realtà». Ma è proprio Di Pisa, nonostante l’andamento delle vecchie indagini, a riferirsi ad Anna Corona e alla figlia Jessica senza credere ad archiviazione e assoluzioni: «Quelle due donne sarebbero state capaci di tutto». Affermazione registrata con sgomento da Sbacchi: «Magistrati in attività e in pensione si sono quindi ridotti a inseguire i talk show per esprimere giudizi fuori dalle regole del loro ufficio?». Un quesito che amplia le polemiche su un caso dove compare infine la lettera anonima di un testimone che il giorno della sparizione avrebbe visto Denise a bordo di una macchina: «Con lei c’erano tre uomini. La bambina piangeva e chiamava la mamma». Su una macchina, non un motorino.
Denise Pipitone e il depistaggio, il sospetto del pm sull'ex poliziotto innamorato dell'amica del cuore di Anna Corona. Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. Dietro i depistaggi sul caso di Denise Pipitone, ci sarebbe il rapporto d'amore tra un poliziotto e l'amica del cuore di Anna Corona, come spiega il Corriere della Sera interpretando le parole dell'ex pm di Marsala Maria Angioni, che anche in tv ha lanciato accuse e sospetti specifici e circostanziati: "Allora tutte le persone sottoposte a intercettazioni sapevano di essere sotto controllo. A un certo punto ho fatto finta di smettere di intercettare e poi ho ripreso da capo con forze di polizia diverse". Tradotto: c'era qualcuno che remava contro, contro la verità. Secondo l'ex procuratore Alberto Di Pisa, "dichiarazioni un po' fantastiche, del tutto prive di fondamento". Uno dei tanti elementi che stanno tornando a galla a 17 anni dalla misteriosa scomparsa della bimba di 4 anni a Mazara del Vallo. Nelle stesse ore, a Quarto grado su Rete 4, Gianluigi Nuzzi ha sganciato la bomba: Anna Corona e un altro uomo sarebbero indagati a Marsala. Una notizia che ancora non trova conferme e che è stata accolta male da tutte le parti in causa. "Lo trovo aberrante, anche per gli stessi indagati. Restiamo qui ad attendere che Denise venga riportata a casa", ha commentato mamma Piera Maggio. La Corona parla di "un processo mediatico" dopo quello subito dalla figlia maggiore Jessica Pulizzi, già assolta in ogni grado, Anna Corona invece era stata archiviata a suo tempo e dunque, sulla carta, ancora indagabile. "Non presenta nessuno qui, non una carta, non un avviso di garanzia, solo del fango lanciato in diretta tv", si è sfogata con il suo legale, Gioacchino Sbacchi, che sbotta: "Inseguiamo le notizie col telecomando. Un atto certamente collegato alla mia assistita è l'ispezione compiuta nella casa in cui abitava 17 anni fa, alla ricerca di non so cosa. In un garage i carabinieri sollevavano una botola davanti alle telecamere, senza che noi ne sapessimo niente. O meglio apprendendo tutto anche in diretta tv. No, la giustizia non può funzionare così".
Denise Pipitone "è in Ecuador", diluvio di segnalazioni al legale: ecco la foto, somiglianza impressionante. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Altro giro, altro giorno di speranza, altra segnalazione. Il caso è sempre quello di Denise Pipitone, tornato prepotentemente di attualità nelle ultime settimane, in primis per il caso della russa Olesya, che puntualmente non si è rivelata essere la bimba scomparsa a Mazara del Vallo ormai 14 anni fa, poi per le ultime evidenze emerse dall'inchiesta, che è tornata a puntare sull'ambito familiare. Dunque, largo all'ultima segnalazione. Tutto è partito sui social, Facebook e Tik Tok, dove hanno preso a circolare le immagini di una ragazza dell'Ecuador che ha una vaga somiglianza con la madre di Denise, Piera Maggio. Tanto è bastato perché moltissimi utenti avvisassero Pier Maggio e il suo avvocato, Frazzitta, inviando immagini della piccola. Di quest'ultima segnalazione se ne è occupato anche Storie Italiane, il programma di Eleonora Daniele in onda su Rai 1, dove si è parlato della vicenda di questa giovane ecuadoregna. Alla Daniele, un telespettatore ha segnalato la stessa bimba che vive in Ecuador. Certo, la somiglianza tra Denise e Piera Maggio è tangibile. E la notizia è rimbalzata anche su alcuni media sudamericani. Come accennato, la pressione mediatica ha portato alla riapertura delle indagini: lo scorso 22 maggio, infatti, sono state formalmente indagate Anna Corona e Giuseppe della Chiave. L'ultima speranza, però, ora arriva dall'Ecuador. Anche se mamma Piera Maggio, dopo quasi tre lustri di avvistamenti e falsi allarmi, prende con le pinze ognuno di questi nuovi singoli casi.
Denise Pipitone, la pista-Ecuador prende piede: "Stesso nome, stessa età. E se la chiami per nome...", nuove pesantissime evidenze. Libero Quotidiano il 26 maggio 2021. Una nuova segnalazione porta Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004, in Ecuador. Pomeriggio 5, nella puntata del 25 febbraio ha infatti mandato in un un servizio che ha parlato di questa incredibile somiglianza con una ragazza che vive nel Paese dell'America Latina e che si chiamerebbe proprio Denise, oltre ad avere la stessa età, rivela Fanpage. Di questa ultima segnalazione è stata avvisata anche la mamma della piccola, Piera Maggio, oltre all'avvocato Giacomo Frazzitta. Ai due sarebbero state infatti inviate numerose foto della ragazza sudamericana della quale però si conosce davvero poco. Al momento non sembra che la segnalazione sia stata comunicata dal legale alla Procura che sta indagando sulla sparizione di Denise in seguito alla riapertura delle indagini avvenute dopo il caso della ragazza russa Olesya. Anche in questo caso la vicenda era emersa grazie alla segnalazione di una cittadina che dopo aver notato la somiglianza aveva allertato Chi l'ha visto?. Purtroppo i test del Dna ha evidenziato che quella non era Denise ma questa vicenda ha permesso che i riflettori venissero nuovamente accesi su una vicenda che ha ancora tanti punti oscuri, troppi. L'ultima svolta nel caso riguarda proprio l'iscrizione nel registro degli indagati di Anna Corona, l'ex moglie di Pietro Pulizzi, padre biologico di Denise, ma il legale della donna non conferma: "Ho appreso la notizia della presunta iscrizione nel registro degli indagati della mia assistita dalle televisioni. A noi non risulta. Chiederemo ufficialmente alla Procura di Marsala se effettivamente sono state riaperte le indagini”. Risulterebbe indagato pure Giuseppe Della Chiave, il nipote di Battista, il testimone sordomuto che nel 2013 disse di averlo visto in compagnia della bambina scomparsa da Mazara del Vallo. Una testimonianza all'epoca non ritenuta attendibile e non entrata nel processo. A Chi l’ha visto? però aveva mimato il rapimento dei Denise, attribuendolo allo stesso nipote che avrebbe portato via la bimba. Secondo il suo racconto Denise dopo essere stata rapita, sarebbe stata portata con un motorino verso un molo, nascosta con una coperta e poi caricata su una barca.
"Mi chiamo Maria Grazia", parla la "Denise ecuadoregna”. Angela Leucci il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. La giovane segnalata sui social network come Denise Pipitone non è la bambina scomparsa: la giovane si chiama Maria Grazia e ha 29 anni. “Chi l’ha visto?” scioglie il caso della “Denise ecuadoregna”. In questi giorni, alla trasmissione di Rai 3 condotta da Federica Sciarelli, sono giunte moltissime segnalazioni da social network relative a una giovane del Sud America la cui somiglianza con la bambina scomparsa Denise Pipitone e sua madre Piera Maggio è a dir poco impressionante. Ma non si tratta della piccola Denise. La presunta “Denise ecuadoregna” ha fatto infatti una chiamata WhatsApp con la trasmissione di Rai3, affermando di chiamarsi Maria Grazia, di avere 29 anni e di non essere mai uscita dal Brasile. “Non sono Denise, mi chiamo Maria Grazia, ho 29 anni e vivo in Brasile, sono sempre stata qua, non mi sono mai allontanata, in Italia non ci sono mai stata”, ha detto durante il collegamento. Quindi la giovane, che ha smentito seccamente di essere Denise, ha perfino negato di assomigliarle se non vagamente, e non è neppure ecuadoregna ma brasiliana. Sciarelli ha ricordato che le segnalazioni sono fondamentali, ma che in effetti c’è necessità di controllare come in effetti stiano le cose. Tanto più che con la diffusione di fotomontaggi delle foto di Denise sui social, si rischia di inquinare le ricerche della bambina. Il caso della “Denise ecuadoregna” rientra in un fenomeno di ritorno dell’attenzione al caso Pipitone sollevato negli ultimi mesi. Tutto è partito da Olesya Rostova, una giovane russa adottata da piccola che in una trasmissione televisiva si è messa a cercare i genitori naturali. Ma il suo gruppo sanguigno non corrispondeva a quello di Denise. C’è stata poi la “Denise calabrese”, ossia Denisa, una giovane di origini rumene che vive in Calabria fin da quando era piccola, e che durante un soggiorno a Scalea per la ricerca di lavoro è stata segnalata da più persone: a contatto con le forze dell’ordine, Denisa ha subito chiarito di non essere la Pipitone, ma si è messa a disposizione degli inquirenti per effettuare l’esame del Dna e dare così un piccolo aiuto a Piera Maggio che non ha mai smesso di cercare la sua piccola, scomparsa da Mazara del Vallo in un giorno di mercato il 1 settembre 2004. Si sa che Denisa ha effettuato l’esame nei giorni scorsi, ma ancora non se ne conoscono gli esiti. Queste segnalazioni rinverdiscono un’ipotesi che dà speranza a mamma Piera: Denise può essere stata rapita e passata di mano e ora potrebbe essere viva, in qualche remoto posto del mondo.
Denise Pipitone, "ecco il cavalcavia": la ricostruzione choc di Chi l'ha visto, chi sapeva tutto sul rapimento. Libero Quotidiano il 25 maggio 2021. “È questo il cavalcavia”. Lo ha mostrato Federica Sciarelli nella scorsa puntata di Chi l’ha visto, che ha aggiunto diversi elementi nuovi al caso di Denise Pipitone, la bambina rapita a Mazara del Vallo il 4 settembre del 2004 e scomparsa nel nulla. A distanza di 17 anni finalmente si sta provando a fare per davvero luce su questa vicenda, anche grazie alla lotta incessante di Piera Maggio e del suo avvocato Giacomo Frazzitta. Ormai è chiaro che all’epoca le indagini furono inquinate o comunque non condotte in maniera del tutto consona, per pressioni esterne. Basandosi sulla testimonianza di Battista Della Chiave, che allora non venne ritenuta attendibile e non fu considerata nel processo, Chi l’ha visto ha potuto ricostruire quanto accaduto immediatamente dopo il rapimento: Battista aveva raccontato di aver visto Denise, ha accennato a una telefonata e a un uomo di circa 25 anni con capelli ricci, pizzetto e baffi che l’ha portata via. La bambina sarebbe stata portata con una moto lungo un cavalcavia e poi nascosta su una barca a remi e portata fino a un faro. Federica Sciarelli ha mostrato i luoghi di Mazara del Vallo che corrispondono perfettamente alla descrizione dell’uomo, che in quanto sordomuto non venne compreso bene, o almeno questa è la spiegazione ufficiale (che fa acqua da tutte le parti). In pratica Della Chiave aveva fornito l’esatta dinamica del rapimento, a a processo la sua testimonianza non è mai entrata. Ennesima stranezza di un caso che però inizia a sembrare un po’ più vicino alla verità di quanto lo fosse 17 anni fa.
Chi l'ha visto, Federica Sciarelli su Denise Pipitone: "Occhio a questo foglio e alla firma di Anna Corona". Libero Quotidiano il 26 maggio 2021. “Questo foglio è importante, c’è la firma di Anna Corona ma l’orario non è stato appuntato da lei, bensì da una sua amica. A che ora è uscita realmente dall’albergo?”. Lo ha dichiarato Federica Sciarelli, che in apertura di Chi l’ha visto si è occupata del caso di Denise Pipitone e ha mostrato il documento in possesso della sua redazione che prova il fatto che l’ex moglie del padre naturale della bambina scomparsa a Mazara del Vallo, proprio quel primo settembre, ha chiesto un favore al una collega. “Gli inquirenti continuano a lavorare sui documenti e anche sulle intercettazioni, ripulendole con strumenti aggiornati rispetto a diciassette anni fa”, ha sottolineato Sciarelli. In particolare Chi l’ha visto ha soffermato la sua attenzione su due intercettazioni ambientali: la prima in cui si sentono le figlie di Anna Corona, Jessica e Alice, bisbigliare in casa. Era l’11 ottobre 2004, 40 giorni dopo la scomparsa: si sente Alice domandare “l’ha uccisa a Denise la mamma?”. La seconda invece riguarda una gita in campagna di Jessica con il fidanzato Fabrizio, con quest’ultimo che chiede “l’ammazzasti a chidda?”. E poi Chi l’ha visto si è soffermato sui tanti punti oscuri delle indagini e del processo: quell’intercettazione riguardante le due sorelle venne stralciata e non considerata, però forse oggi le cose potrebbero cambiare. Anche perché la mole delle intercettazioni è enorme e potrebbero emergere altre frasi importanti con i nuovi strumenti a disposizione per pulire l’audio.
Denise Pipitone, "firma e orari di uscita falsificati": la collega inchioda Anna Corona, svolta devastante. Libero Quotidiano il 26 maggio 2021. A distanza di quasi 17 anni, una testimonianza su Anna Corona rischia di riscrivere la storia della scomparsa di Denise Pipitone, la bimba di 4 anni di Mazara del Vallo di cui non si hanno più notizie dall'1 settembre 2004. Intervistata dalla Vita in diretta, una collega di lavoro della ex moglie di Pietro Pulizzi (l'allora nuovo compagno e oggi secondo marito di Piera Maggio, mamma di Denise) ha confessato di aver falsificato il registro delle presenze e gli orari di entrata e uscita la stessa mattina della sparizione della piccola. A mandare in onda il servizio è Eleonora Daniele a Storie italiane. "Io lavoravo in lavanderia e lei scese perché erano venute le sue figlie - ha spiegato Francesca -. Non ricordo se prima o dopo pranzo. Avevano un sacchetto con delle giacche, si sono trattenute dieci minuti. Non l'avevo raccontato prima perché lì i giorni sono tutti uguali", "Io non ho visto uscire Anna Corona - spiega la collega -. Per quanto ne sappia io, ho messo la firma al posto suo, non l'orario di uscita. Me lo ha chiesto solo quella volta e io ho fatto solo una cortesia a una collega. Non sono una complice se lei c'entra". "La firma è della signora Anna Corona - sottolinea ora Giacomo Frazzitta, avvocato di Piera Maggio -, l'orario che c'è affianco è stato messo da un'altra persona. Ci siamo resi conto che era un orario identico a quello della collega e abbiamo fatto fare una consulenza grafologica". L'ex procuratore Fabio Di Pisa parla di firma falsificata e di un arco temporale che andrebbe "dalle 12.30 alle 15.30" in cui la Corona "non era sul posto di lavoro". "Diverse volte ho sentito i colleghi della Corona dire che non riuscivano a ricordarla dopo pranzo", conferma l'ex pm Maria Angioni, che seguì per prima l'inchiesta e che negli ultimi mesi è tornata a sostenere con forza la tesi del rapimento della bambina ad opera di due o più persone, tutte appartenenti alla "famiglia allargata" che gravitava intorno a Piera Maggio e Pietro Pulizzi.
"La gallina? Parlavo di Denise". Le accuse a Jessica e la strana firma. Angela Leucci il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. I nuovi risvolti del caso Denise Pipitone: dalla segnalazione social di un’automobile misteriosa alle intercettazioni fino alle vecchie indagini. Denise Pipitone oggetto di nuovi approfondimenti nella puntata di ieri di “Chi l’ha visto?”: si è parlato delle nuove segnalazioni social, di un’automobile misteriosa, degli interrogativi ancora aperti in relazione agli indagati Anna Corona e Giuseppe Della Chiave. Inoltre gli interpreti Lis sono tornati a Mazara, riconoscendo con i propri occhi tutti i luoghi mimati da Battista Della Chiave: secondo i due esperti, l’anziano sordomuto ha descritto esattamente una storia a lui contemporanea con luoghi ben definiti e precisi.
L’automobile misteriosa. La conduttrice Federica Sciarelli ha anche mostrato delle immagini tratte da Google Street View che ritraggono un’auto abbandonata a Mazara del Vallo, che secondo qualcuno potrebbe essere la vettura usata per rapire Denise, coerentemente con alcune segnalazioni ricevute a ridosso di quel tragico 1 settembre 2004. Tuttavia l’automobile abbandonata è in quel punto di Mazara solo dal 2017.
Anna Corona e Giuseppe Della Chiave. “Chi l’ha visto?” ha ripercorso quindi alcuni dettagli delle vecchie indagini in cui ebbero un ruolo la famiglia Corona e la famiglia Della Chiave. Giuseppe Della Chiave, nipote di Battista, il defunto testimone sordomuto che affermò di aver visto Denise, era stato già ascoltato da un giornalista della trasmissione e aveva smentito qualunque legame con Anna Corona, anche da parte di sua moglie, conosciuta solo un anno dopo la scomparsa di Denise. Viene evidenziato come la testimonianza di Battista non potesse riguardare Giuseppe, che viene chiamato Pino in famiglia e non Peppe come il testimone aveva lasciato intendere. Tuttavia Battista in tribunale si avvalse della facoltà di non rispondere e nel tempo sono spuntate alcune testimonianze, che sembravano legare Giuseppe ad Anna Corona in quella “generica contiguità” cui ha fatto riferimento l’ex pm del caso Pipitone Maria Angioni. Si è anche tornati a parlare dell’alibi di Anna Corona al momento della scomparsa di Denise: la donna si trovava sicuramente a pranzo nell’albergo in cui lavorava. Tuttavia il mistero è relativo all’orario di uscita di Corona dal lavoro nel giorno della sparizione della bimba: l’amica Francesca Adamo, che in un primo momento smentì di aver inserito per lei l’orario di uscita alle 15.30, al processo disse di averlo scritto invece proprio lei. L’ex maresciallo dei carabinieri Francesco Lombardo ha fatto notare come Corona sarebbe potuta uscire indisturbata dalla lavanderia dell’albergo, tanto più che la telecamera collegata a quella zona della struttura non registra.
Jessica e la gallina. E si è tornati infine sulle intercettazioni ambientali di Jessica Pulizzi, figlia di Anna Corona e Piero Pulizzi, padre naturale di Denise. In particolare, ci si è concentrati sulla testimonianza di Fabrizio, ex ragazzo di Jessica che pronunciò la frase “L’ammazzasti a chidda?”, che Jessica ha sempre sostenuto si riferisse a una gallina. Fabrizio e Jessica si stavano appartando in una casa di campagna il giorno dell’intercettazione: i due avrebbero scavalcato un muro di cinta e Jessica avrebbe involontariamente schiacciato e ucciso una gallina. La versione di Fabrizio è stata diversa: il giovane non solo non ricordava di riferirsi a una gallina, ma non avrebbe più voluto avere a che fare con Jessica da quel giorno. “Quella mattina - ha raccontato Fabrizio, stando alla ricostruzione verbale operata nel corso della trasmissione - sono arrivato a chiederle, mentre eravamo a bordo del ciclomotore, cosa lei ne sapesse sulla sparizione della piccola Denise. Infatti mi sono venute in mente tutte quelle volte che Jessica mi diceva che doveva fargliela pagare alla Piera Maggio, perché ‘aveva rovinato la sua famiglia’. […] In sostanza mi chiedeva che se l’amavo dovevo aiutarla, anche a trovare persone di malaffare di Mazara del Vallo per compiere questo ‘danno’. […] Ho avuto la sensazione netta che era stata lei a commettere quel gesto criminoso”. Jessica Pulizzi è stata già assolta in tre gradi di processo, mentre la madre Anna ha ricevuto all'epoca l'archiviazione, così come Giuseppe. Anna e Giuseppe sono oggi nuovamente iscritti nel registro degli indagati.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, l'ex pm dalla d'Urso: "Anna Corona protetta? Dove si trovava al momento della sparizione". Libero Quotidiano il 26 maggio 2021. Si è tornati a parlare del caso di Denise Pipitone a Pomeriggio Cinque. Barbara D'Urso ha ospitato in collegamento l'ex procuratore Alberto Di Pisa, che si è occupato per un periodo del caso, a partire dal 2008. La piccola di Mazara Del Vallo è scomparsa nel 2004 a soli 4 anni e da allora se ne sono perse le tracce. Ma la madre, la signora Piera Maggio, continua a sperare e lottare per ritrovarla. Parlando con la conduttrice del talk di Canale 5, Di Pisa ha fornito una sua ricostruzione dei fatti, focalizzandosi soprattutto su Anna Corona, l'ex del papà naturale di Denise: "Intorno alle ore 12 la Corona riceve sul posto di lavoro una telefonata, non ricordo se dalla figlia o dalla madre. Lascia il posto di lavoro e non vi fa più rientro fino alle 15 e 30. La sua firma viene apposta dalla collega. Molti dei dipendenti sentiti allora hanno detto che Anna Corona non era in hotel in quel momento". L'ex procuratore, poi, ha parlato anche di alcuni sospetti: "Prima che mi insediassi, ci sono state negligenze, errori, veri e propri depistaggi. Mi riferisco alla perquisizione nella casa della vicina". Quando gli è stato chiesto se qualcuno abbia mai fatto da scudo alla Corona in questi anni, Di Pisa ha risposto: "Se Anna Corona è stata protetta? In quel periodo si interrompono le comunicazioni tra lei e l'amica fidanzata del commissario". "Il procuratore si prende la responsabilità delle cose che dice. Conosce bene le carte", ha detto infine la D'Urso.
Denise Pipitone, la bomba di Piera Maggio: "Dopo 17 anni, le stesse persone". Forse, in procura...Libero Quotidiano il 26 maggio 2021. "Il nostro obiettivo principale è trovare Denise, tutto il resto è marginale. Quello che facciamo è una ricerca personale della nostra bambina". Queste le parole di Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, la bimba di Mazara del Vallo scomparsa nel 2004. Piera Maggio ha parlato a margine di una fiaccolata organizzata per celebrare la Giornata internazionale dei bambini scomparsi. "Oggi c'è un movimento molto più grande, anche sui social, ed è qualcosa che ci rincuora tantissimo", ha aggiunto. E ancora: "Dopo 17 anni forse si sta riavvolgendo di nuovo il nastro sulle stesse persone che erano già dentro questa inchiesta. Facciamo lavorare la procura e attendiamo novità", ha concluse. Come è noto, la vicenda di Denise Pipitone, è tornata di prepotente attualità nelle ultime settimane, prima per il grottesco caso russo di Olesya, poi per la riapertura delle indagini, che sono tornate a puntare in ambito familiare, proprio come 14 anni fa. E la sensazione è che la soluzione di questo terribile mistero non sia mai stata così vicina.
Chi l'ha visto, Federica Sciarelli "agitata e infastidita per le intrusioni dei colleghi su Denise Pipitone": tensione in Rai. Libero Quotidiano il 25 maggio 2021. Giuseppe Candela nella sua rubrica su Dagospia ha rivelato un retroscena riguardante Federica Sciarelli, che dalle parti di Rai3 molti definiscono “agitata, quasi infastidita da quelle che considera ‘intrusioni’ su alcuni casi di cronaca”. E in particolare su quello riguardante Denise Pipitone, che nelle ultime settimane si è riaperto e sta avendo un enorme impatto a livello mediatico. Chi l’ha visto se ne è sempre occupato e ultimamente ha raggiunto ascolti molto alti grazie ai nuovi sviluppi che ci sono stati nel giallo di Mazara del Vallo. “Il problema? Arrivare al mercoledì con molta carne al fuoco già vista altrove - si legge nella rubrica di Candela su Dagospia in merito al presunto nervosismo della Sciarelli - atteggiamento che avrebbe fatto fare un salto dalla sedia ad alcuni dirigenti del servizio pubblico. Se è vero che Chi l’ha visto rappresenta il titolo di punta nel genere, è anche vero che non possono esistere esclusive su morti e scomparsi, argomenti che Rai1 e Rai2 possono trattare per fini di cronaca sia nei tg che nei contenitori. Nessuno deve chiederle il permesso”. Insomma, le acque in Rai sarebbero un po’ agitate, anche perché come praticamente ogni anno stanno già circolando le voci secondo cui questo potrebbe essere l’ultimo anno della Sciarelli alla guida di Chi l’ha visto. La conduttrice, legata alla trasmissione ormai da 17 anni, potrebbe essere impegnata in altro, sempre su Rai3, ma il “rischio” è che come ogni anno tali indiscrezioni non trovino conferme.
Denise Pipitone, l’ex pm Angioni a Mattino5: “Jessica Pulizzi aveva 30 telefoni con 16 sim”. Riccardo Castrichini il 28/05/2021 su Notizie.it. Sul caso di Denise Pipitone riferisce a Mattino5 l'ex pm incaricata Maria Angioni che parla di strani ostacoli nello svolgimento delle indagini. Da quando alcune settimane fa una ragazza russa, forse facendo leva sulla sua sola voglia di apparire, aveva detto di poter essere Denise Pipitone, la questione mediatica legata alla scomparsa della bambina di Mazara del Vallo sembra essersi di nuovo accesa. Da tempo, infatti, non si avevano così tante segnalazioni provenienti un po’ da tutto il mondo, con alcune ragazze oggi ventenni che potrebbero avere dei punti di contatto con la bambina scomparsa tanti anni fa. C’è poi naturalmente anche tutto il filone giudiziario legato alla figura di Anna Corona e al suo possibile ruolo nella scomparsa di Denise. L’ultimo tassello in tal senso viene fornito dall’ex pm del caso, Maria Angioni, che a Mattino 5 ha fornito una serie di dettagli su episodi avrebbero ostacolato lo svolgimento regolare delle indagini. Nello specifico Jessicca Pulizzi, la figlia di Anna Corona, avrebbe avuto a disposizione 30 telefoni cellulare e ben 12 sim. “Poteva fare da prestanome per l’acquisto delle sim e poi darle alla cerchia intorno – ha detto Maria Angioni – È una cerchia un po’ particolare…”. La Angioni nello specifico si riferisce a particolari intoppi riscontrati nel momento in cui si svolgevano le indagini per la scomparsa della bambina. Un po’ incalzata dagli ospiti in studio, l’ex pm del caso di Denise Pipitone ha così detto: “Una volta il maresciallo Di Girolamo – che era entrato a casa di Anna Corona, ma non da solo, perché c’erano anche altri ispettori e sarebbe opportuno fare una chiacchierata con loro – aveva cercato, su mia disposizione, di mettere una cimice nella casa nel quartiere storico di Mazara del Vallo, per cercare di ascoltare le conversazioni della cerchia di amici di Jessica”. Dunque i sospetti c’erano già, ma qualcosa era andato storto nell’attività investigativa. “Doveva essere un’attività segreta – ha precisato la Angioni – ma il maresciallo ha dovuto desistere perché era pedinato da altri inquirenti. Una situazione particolare. Anche quando abbiamo cercato di mettere la cimice a Giuseppe Tassaro – ha aggiunto l’ex pm – io stessa ho avuto la sensazione di essere seguita”.
Denise Pipitone, l’autore della lettera anonima incontra l’avvocato Giacomo Frazzitta. Debora Faravelli il 28/05/2021 su Notizie.it. Identificato l'autore della lettera anonima con elementi sul caso di Denise Pipitone: il legale Frazzitta lo avrebbe già incontrato. Secondo quanto riportato da Live Sicilia, l’avvocato di Piera Maggio Giacomo Frazzitta avrebbe incontrato l’autore della lettera anonima che asserisce di aver visto Denise Pipitone il giorno della sua scomparsa. Il mittente aveva scritto al legale e a Chi l’ha visto fornendo nuovi particolari su quell’1 settembre 2004, ora sotto la lente degli inquirenti. L’autore della missiva ha accolto i numerosi appelli dell’avvocato e della madre della bimba e ha deciso di uscire allo scoperto per incontrare Frazzitta. Stando a quanto emerso i due si sarebbero incontrati in gran segreto nello studio del legale. Si tratterebbe di un uomo, oggi residente in un paese del trapanese, che all’epoca della scomparsa di Denise abitava a Mazara Del Vallo. La sua decisione di metterci la faccia e darsi un nome e un volto è un enorme passo in avanti, perché le sue parole contengono dettagli importanti di cui gli investigatori stanno verificando la veridicità. L’uomo ha infatti sostenuto di “sapere tutta la verità” da diciassette anni ma di non aver mai parlato per paura. Secondo quanto scritto nella lettera avrebbe infatti assistito alla scena successiva al rapimento, con la bimba in macchina con tre persone mentre piangeva e urlava “aiuto mamma”. A bordo della sua macchina avrebbe infatti quella su cui viaggiava Denise e, tenendo il finestrino abbassato, ha sentito tutto. In tutti questi anni, si deduce, potrebbe aver avuto paura forse perché conosceva una o più persone presenti all’interno della vettura, che secondo gli inquirenti potrebbero essere riconducibili al contesto familiare su cui si è finora indagato. Si tratta di particolari ritenuti credibili già contenuti nel vecchio fascicolo dell’inchiesta, passati però in secondo piano e fuori dal circuito mediatico. Il prossimo passo sarà ora quello di testimoniare tutto ciò che ha visto alla Procura di Marsala, che dopo anni ha riaperto le indagini sul caso.
Da "liberoquotidiano.it" il 28 maggio 2021. E' uscito allo scoperto e avrebbe rivelato la sua identità il testimone anonimo che in una lettera aveva detto di aver visto Denise Pipitone dopo la sua scomparsa. L’uomo, secondo quanto riporta oggi 28 maggio LiveSicilia in un articolo ripreso anche dalla trasmissione Mattino Cinque su Canale 5, avrebbe anche avuto un incontro segreto con il legale Giacomo Frazzitta, nello studio dello stesso avvocato. Pochi giorni fa Frazzitta, legale di Piera Maggio, la mamma della bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004, ha ricevuto una lettera il cui autore ha dichiarato di aver visto Denise in un momento successivo al rapimento. In particolare, l’uomo che ha messo nero su bianco la sua testimonianza, ha raccontato di aver notato la piccola Pipitone all’interno di una macchina. L'autore della lettera anonima vivrebbe in un paese del trapanese. Il primo settembre di 17 anni fa, però, risiedeva a Mazara del Vallo, il paese in cui è sparita in circostanze misteriose la piccola Denise. Secondo quanto trapelato non ci sarebbe alcun dubbio sul fatto che l’uomo che ha spedito la missiva con la segnalazione sia lo stesso che ha incontrato Frazzitta nelle scorse ore. Per ora il legale non ha né confermato né smentito la notizia. Secondo l’ex pm Maria Angioni, che in passato si è impegnata ampiamente sul caso della bimba scomparsa, siamo a una svolta e quella lettera ma soprattutto la sua testimonianza potrebbe persino portare a degli arresti a breve. Intanto, si continua a indagare su Anna Corona, l’ex moglie dell’uomo che è il padre biologico di Denise. La Corona è stata iscritta nel registro degli indagati nei giorni scorsi. “Sono serena”, ha commentato la donna ai microfoni de La Vita in Diretta. Ora la svolta?
"Non è degna di avere una figlia". Quei sospetti sulla famiglia di Denise. Angela Leucci il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. Denise Pipitone al centro del nuovo episodio di "Quarto grado": fari puntati sulla famiglia allargata della bambina e le ipotesi di Piero Pulizzi. L’ombra della famiglia allargata torna ciclicamente tra i dettagli del caso della scomparsa di Denise Pipitone. Nella puntata di ieri di “Quarto grado”, si è parlato dei primi sospetti da parte di Piero Pulizzi, padre naturale della bambina. In trasmissione è stata mostrata la trascrizione di una conversazione tra l’uomo e la sorella di Piera Maggio, Giacoma. Pulizzi ha espresso la sua rabbia e la sua preoccupazione per quello che nei primi giorni concitati veniva descritto dai media come un rapimento il cui movente era oscuro - prima che si venissero a conoscere tutte le diverse piste seguite dagli inquirenti. Così Pulizzi ha fatto tre nomi: Tony, Anna e Matteo. Tony è Tony Pipitone, ex marito di Piera Maggio, che per lungo tempo ha creduto di essere il padre naturale della bambina e che ancora oggi la considera sua figlia. Nella conversazione Giacoma fa notare a Pulizzi come Tony sia una possibilità da escludere, anche per evitare di mettere in piazza una storia intima e famigliare. Anna è invece Anna Corona, ex moglie di Pulizzi, cui l’uomo ha sempre negato di essere padre di Denise, e che oggi è nuovamente indagata, dopo che anni fa la sua posizione fu archiviata. Matteo è infine Matteo Marino, ex marito di Giacoma, che pare abbia imputato a mamma Piera Maggio la fine del proprio matrimonio. Pare che Matteo abbia detto, all’indomani di quel drammatico 1 settembre 2004, riferendosi all’ex cognata: “Le sta bene, perché non è degna di avere una figlia”. La famiglia allargata di Denise torna quindi sotto la lente d’ingrandimento mediatica. Va ricordato che un membro della famiglia allargata non meglio definito è stato citato in queste settimane dall’ex pm del caso Maria Angioni - tra l’altro ospite in collegamento in trasmissione - in relazione con la testimonianza di un’auto che sfrecciava all’ora del rapimento per le strade di Mazara del Vallo. Angioni, che è stata criticata su vari punti dagli ospiti in studio, ha ripercorso alcuni dei punti chiave del caso Denise spiegati da Gianluigi Nuzzi e dai suoi collaboratori. Nuzzi si è concentrato sull’archiviazione passata di Anna Corona, le perlustrazioni nella sua vecchia casa di via Pirandello, i legami tra lei e Loredana, compagna dell’altro attuale indagato Giuseppe Della Chiave e i tre video di Danas, la bambina ripresa a Milano con un telefonino dalla guardia giurata Felice Grieco. Nuzzi ha espresso anche il suo sdegno nei confronti delle minacce di morte attualmente ricevute da Anna Corona, dalla figlia Jessica Pulizzi e dai loro congiunti. E, al netto delle critiche dei suoi ospiti, ha chiesto ad Angioni se avesse dei rimpianti rispetto alla sua azione passata. “Mi dispiace non essere arrivata prima a Battista Della Chiave” è stata la risposta di Angioni, attualmente giudice del lavoro in Sardegna, che si riferiva al testimone sordomuto, che spiegò a gesti di aver visto Denise.
"Ho visto io Denise, chiedeva aiuto": il supertestimone si rivela. Angela Leucci il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Il supertestimone del caso Denise Pipitone si è fatto avanti e ha incontrato il legale Giacomo Frazzitta: parlerà di fronte alla Procura di Marsala? Ha un volto e un nome il supertestimone del caso Denise Pipitone. Questa persona, si parla di un uomo che oggi vive in un comune della provincia di Trapani ma all’epoca della scomparsa risiedeva a Mazara del Vallo, aveva spedito nelle scorse settimane una lettera anonima all’avvocato Giacomo Frazzitta, che segue le istanze di mamma Piera Maggio. Il legale aveva chiesto all’autore della missiva di fare un passo avanti e palesarsi, in modo da agevolare le indagini. Come riporta Live Sicilia questo passo avanti c’è stato eccome. E l’uomo ha incontrato Frazzitta, a quanto pare nel suo studio e lontano da occhi indiscreti. L’avvocato ha raccontato a poche ore dal ricevimento della lettera come in essa fossero contenuti degli elementi importanti che la rendevano assolutamente credibile: questi elementi non sono mai stati rivelati ai media e quindi solo chi ha effettivamente visto qualcosa avrebbe potuto conoscerli. L’autore della missiva ha raccontato di aver affiancato un’automobile su cui era stata rapita Denise. Sulla vettura c’erano tre persone oltre la bimba, che piangeva e chiamava la mamma chiedendo aiuto. L’uomo ha affermato di aver visto tutto con certezza, tanto più che la macchina su cui era la piccola aveva il finestrino abbassato. Era il 1 settembre 2004, quasi 17 anni fa: non si sa perché l’uomo non abbia parlato finora, ma è possibile che avesse paura o che conoscesse uno o più dei soggetti coinvolti. L’uomo ora potrebbe testimoniare alla Procura di Marsala, ma ancora non si sa se abbia accettato. E a questo punto ci si chiede se l’auto in questione non sia la vettura azzurra che nell’ultima puntata di “Chi l’ha visto?” è stata mostrata in immagini satellitari tratte da Google Street View, e che giace abbandonata almeno dal 2017 in una stradina sterrata e periferica di Mazara del Vallo. La percezione comune è che il caso Pipitone, ora che l’attenzione è altissima, potrebbe giungere a una svolta e al tanto agognato ritrovamento. Ma è ancora troppo presto per dirlo con certezza. E mentre le segnalazioni si moltiplicano - l’ultima giunge dal profilo social di una 29enne brasiliana - è possibile che le indagini riprendano. Ci sono due persone iscritte nel registro degli indagati, ossia Anna Corona, ex moglie del padre naturale di Denise Piero Pulizzi, e Giuseppe Della Chiave, nipote di Battista, l’uomo sordomuto che affermò di aver visto la piccola e di conoscere il tragitto effettuato dai rapitori, almeno stando alle recenti interpretazioni degli esperti Lis. Le posizioni di entrambi gli attuali indagati sono state in passato archiviate.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Quarto Grado, l'ex pm su Denise Pipitone: "Vuole mandarmi una bomba?", scontro durissimo con Gianluigi Nuzzi. Libero Quotidiano il 29 maggio 2021. Alta tensione a Quarto Grado, la trasmissione di Rete 4 condotta da Gianluigi Nuzzi e Alessandra Viero che si è occupata approfonditamente del caso di Denise Pipitone, la bambina rapita a Mazara del Vallo il primo settembre 2004. A diciassette anni di distanza la vicenda tiene banco più che mai, dopo la riapertura delle indagini da parte della Procura di Marsala e tutti gli elementi emersi nelle ultime settimane. A Quarto Grado è intervenuto l’ex pm Maria Angioni, che si è occupata delle indagini da ottobre 2004 a luglio 2005: negli ultimi tempi ha denunciato con insistenza rallentamenti nelle indagini, che sarebbero state inquinate e depistate. Dallo studio sono piovute diverse critiche nei confronti di Angioni, in primis quella di Sabina Scampini, che ha ricordato la sentenza di secondo grado e le indagini svolte nei primi mesi: “Ma un po’ di senso critico, non dico di vergogna, ma qualcosa se l’è chiesto? È sempre sicura delle sue opinioni ma è anche la persona che all’inizio avrebbe dovuto indagare e invece ha reso l’indagine impossibile”. “Se volete mi vergogno pure. E allora?”, è stata la risposta dell’ex pm, che però non ha soddisfatto lo studio: “Viene qua dopo 17 anni a dire che non va bene niente e ha la verità in tasca. Ma quella verità l’avrebbe dovuta trovare lei”. Nuzzi ha provato a placare gli animi, salvo poi scontrarsi pesantemente con l’ex pm, che ha risposto stizzita alla domanda sulla sua attuale occupazione. “Perché lo devo dire, vuole mandarmi una bomba?”: seppur fatta col sorriso, questa affermazione ha risentito il conduttore di Quarto Grado. “Spero che stia scherzando, al massimo alle donne mando fiori o cioccolatini”, ha replicato.
Denise Pipitone, Piera Maggio rompe il silenzio: "Perseveranza ripagata nel migliore dei modi". La svolta è vicina? Libero Quotidiano il 29 maggio 2021. Dopo diversi giorni di silenzio, Piera Maggio si fa sentire sui social con un post che sa di speranza e fiducia. La mamma della piccola Denise Pipitone, scomparsa da Mazara Del Vallo a soli 4 anni nel 2004, ha scritto: “La pazienza… Vogliamo arrivare fino alla fine di tutta questa dolorosa vicenda. Spero tanto che la perseveranza e la tantissima pazienza ci venga ripagata nel migliore dei modi, su tutto”. La signora Maggio, infatti, non ha mai perso la speranza di poter ritrovare sua figlia. “Al di là delle sterili parole, dietro c’è tanto serio lavoro. Carissimi un abbraccio a voi, che sempre ci siete”, ha scritto infine la mamma di Denise su Facebook. Intanto vanno avanti le indagini sulla scomparsa della piccola. Al momento i principali indiziati sarebbero Anna Corona, l’ex del papà naturale di Denise, e Giuseppe Della Chiave, il nipote di Battista Della Chiave, l’anziano sordomuto – oggi deceduto - che avrebbe dichiarato con la lingua dei segni di aver visto la Pipitone subito dopo la sua scomparsa. Nei giorni scorsi, inoltre, sembrerebbe esserci stata la svolta con l’arrivo di un supertestimone, che avrebbe incontrato il legale di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta, per dirgli di essere a conoscenza delle dinamiche dell’intera vicenda. L’uomo avrebbe rivelato di sapere tutto da tempo: questa persona avrebbe visto Denise Pipitone, il giorno della sua scomparsa, mentre piangeva e chiedeva della madre a bordo di un’auto con tre uomini.
Emiliana Costa per ilmessaggero.it il 31 maggio 2021. Nuzzi mostra due video inediti girati da Felice Grieco, la guardia giurata 50enne che il 18 ottobre 2004 vide a Milano una bimba con un gruppo rom molto somigliante a Denise. Finora, infatti, era stato mostrato su tv e siti d'informazione il filmato ormai noto in cui una bimba con giubbotto blu e cappuccio viene chiamata Danase. Nella trasmissione di Rete 4 vanno in onda due frammenti inediti girati lo stesso giorno. Nel primo video, la bambina è seduta accanto alla signora misteriosa, il suo sguardo è girato verso sinistra. La bambina è molto coperta per le temperature miti del periodo. In un altro frammento, guardando dritta nell'obiettivo del cellulare, sembra fare una smorfia con la bocca, gli angoli delle labbra sono piegati verso il basso. Gli occhi sembrano stupiti, forse si è accorta di essere ripresa. Commenta Grieco: «Era evidente che volessero nasconderla perché faceva caldo, era troppo incappucciata. C'è un cartello sotto alla signora, ma non si legge. Potrebbe essere un elemento per ritrovarle». Secondo gli esperti dei Ris «esiste un'elevata compatibilità morfoscopica» tra Denise e la bimba dei video. L'ex pm Maria Angioni, in collegamento, conclude: «Con alta probabilità è lei».
Denise Pipitone, la guardia giurata: “Ho riconosciuto in foto la donna di Milano”. Debora Faravelli il 05/06/2021 su Notizie.it. La guardia giurata che sostiene di aver avvistato nel 2004 una bimba simile a Denise Pipitone avrebbe riconosciuto in foto la donna che era con lei. La guardia giurata Felice Grieco, in servizio a Milano all’epoca della scomparsa di Denise Pipitone e convinto di aver avvistato una bambina simile a quella sparita a Mazara del Vallo in compagnia di una donna, ha affermato di aver riconosciuto quest’ultima in un video recentemente inviatogli.
Denise Pipitone: parla Felice Grieco. La dichiarazione è giunta a Quarto Grado, trasmissione nel corso della quale si è tornati a parlare della segnalazione della guardia giurata da Milano arrivata poco dopo il rapimento della figlia di Piera Maggio. Si tratta di un video realizzato il18 ottobre del 2004, data in cui l’uomo aveva visto davanti ad una banca “una bambina somigliante a Denise Pipitone in compagnia di un gruppo di rom” e aveva chiamato la Polizia. La donna che era con lei la chiamava Danàs, un nome molto simile a quello della bambina sparita un mese e mezzo prima. La donna non è mai stata rintracciata. L’uomo, intervenuto su Rete Quattro, ha fornito ulteriori recenti sviluppi sulla vicenda. Qualche giorno fa una donna che vuole rimanere anonima gli ha inviato un link di un articolo che parla di rom. “C’erano delle persone e io tra queste ho riconosciuto la donna di Milano, quella che accompagnava la piccola Danàs a Milano. È inconfondibile, io ricordo le facce”, ha sottolineato. Si è dunque recato dai Carabinieri formalizzando il riconoscimento nella speranza di riuscire a risalire a quella donna del video.
"È inconfondibile". Riconosciuta la rom con Danas. Angela Leucci il 5 Giugno 2021 su Il Giornale. Formalizzato il riconoscimento di una donna che potrebbe essere colei che compare nel video di Danas: svolta nel caso di Denise Pipitone? C’è un piccolo aggiornamento, che potrebbe rivelarsi un grande aggiornamento nel caso di Denise Pipitone. La guardia giurata Felice Grieco ha formalizzato dai carabinieri il riconoscimento di una donna. Grieco, un mese dopo la scomparsa di Denise, riprese col telefonino a Milano una bimba di nome Danas come una donna, che si presume fosse di etnia rom. La donna riconosciuta ora da Grieco è la stessa del video? L’uomo, ospite ieri sera a “Quarto grado” ha raccontato di aver ricevuto da una persona una foto segnaletica nella quale avrebbe riconosciuto la donna incontrata quasi 17 anni fa. “È inconfondibile - ha spiegato Grieco - Fa parte del mio lavoro ricordarmi le facce”. A Felice Grieco è stato riferito che la presunta rom era già stata controllata, ma non era mai stato fatto un confronto alla presenza della guardia giurata. La foto segnaletica che l'uomo ha visto risale al 2019: la donna è un po’ cambiata, ma gli inquirenti hanno a disposizione tutti gli elementi per risalire a lei ora, sebbene non ci sia la certezza di ritrovarla. Grieco ha ricordato che con Danas e la donna, quel giorno a Milano, c’erano anche un uomo e un bambino con la fisarmonica, ma di loro non è mai stato realizzato un identikit. “Quarto grado” è tornato a parlare della scomparsa di Denise ripercorrendo inoltre alcuni dettagli salienti delle indagini, come l’intervento delle medium e l’avvicendamento nella Procura di Marsala. La corrispondente da Mazara del Vallo Ilaria Mura è poi tornata a visitare la vecchia casa di Anna Corona - al momento iscritta nel registro degli indagati - insieme con il legale dei proprietari dello stabile Gaspare Morello. I due, Mura e Morello, hanno mostrato agli spettatori come le modifiche esterne allo stabile risalgano al 2013, ma ci sono delle modifiche interne di difficile datazione. Tra queste c'è un soffitto ribassato, di altezza variabile tra 2,08 metri e 2,38 metri, che invece sulla pianta catastale risulta essere di 4 metri. Lì è stato posizionato un controsoffitto in legno che suona vuoto quando Mura lo percuote con un bastone. Pare che la perquisizione dello stabile nelle scorse settimane sia nata su impulso dell’avvocato di Piera Maggio Giacomo Frazzitta: al legale è stato segnalato, da un aspirante acquirente, come già nel 2005 questi avesse notato delle modifiche a livello catastale. Si è parlato inoltre delle intercettazioni e di come chi le ha analizzate ha ammesso la poca esperienza in tribunale e di come Tony Pipitone, ex marito di mamma Piera che crebbe Denise, nutrisse dei sospetti verso l’ex cognato. Si tratta di Matteo Marino, ex marito di Giacoma Maggio, che pare fosse vicino ad ambienti esoterici. Marino nutriva rancore nei confronti delle sorelle Maggio secondo Tony. Viene riportato anche che mamma Piera avrebbe detto all’ex cognato la frase: “Tu lo sai dov’è la bambina, me la devi riportare”.
"Stai calma", "Eri in casa?". L'accordo nelle intercettazioni su Denise. Angela Leucci l'1 Giugno 2021 su Il Giornale. A "Mattino Cinque" si parla delle intercettazioni tra Jessica Pulizzi e Anna Corona, all'interno delle passate indagini nel caso Denise Pipitone. Dov’è stata Jessica Pulizzi la mattina in cui fu rapita Denise Pipitone? Se n’è tornato a parlare durante la puntata di “Mattino Cinque” di oggi. Al vaglio della trasmissione le intercettazioni ambientali all’interno del commissariato l’11 settembre 2004, dieci giorni dopo la scomparsa della bambina.
Le intercettazioni
Le protagoniste di queste intercettazioni sono Jessica e Anna Corona, rispettivamente figlia ed ex moglie di Piero Pulizzi, il padre naturale di Denise. Questo è stato il loro dialogo, così come trascritto e drammatizzato dalla voce di due attrici durante “Mattino Cinque”.
Anna: “Sei rimasta tutta la mattinata dentro quel giorno?”
Jessica: “No.”
Anna: “Di mattina?”
Jessica: “No.”
Anna: “No? E intanto dice così. Non glielo hai detto che tu sei uscita e che eri con Alice?”
Jessica: “Sì.”
Anna: “Perché dice che qua tutti dicono, che tu hai dichiarato che sei stata tutta…”
Jessica: “Da nessuna parte c’è scritto, non sono capaci a leggere?”
Anna: “Tu hai dichiarato che sei rimasta tutta la mattinata dentro?”
Jessica: “No.”
Anna: “Dici che… devi rispondere sulu alle mie domande… È giusto?”
Jessica: “Sì.”
Anna: “Dice che tu dichiarasti per ben due volte, sia al comando del carabinieri, sia comando dei… Dice che c’è scritto e firmato una nota. Quale nota firmasti?”
Jessica: “…”
Anna: “Eh! Che tu hai dichiarato che tutta la mattinata sei stata a casa, e dice che è scritto ‘sta cosa…”
Jessica: “Ma’… Leggiri ma’!”
Anna: “Va be’. Quando io parlo tu non devi perdere le staffe.”
Jessica: “Uh!”
Anna: “Picchì io un sogno l’appuntato dei carabinieri, io sugna to ma’.”
Jessica: “Un lu capivo se io…”
Anna: “Io ho la testa ad andare nella casa di tua sorella, tu devi stare calma, mi devi guardare solo negli occhi e rispondere. Dicono loro, allora, loro dicono che tu hai dichiarato questo ed è scritto. Io ho chiesto di leggere il foglio e mi hanno detto che non lu posso leggere.”
Jessica: “Certo!”
"È lei, Denise": spunta un nuovo video
Dov'era Jessica?
Jessica ha davvero firmato una nota in cui affermava di essere rimasta a casa? Questa intercettazione si trova tra le tante che vedono protagoniste Jessica e Anna. La posizione della madre fu archiviata nel corso della prima indagine, ma ora la donna è stata nuovamente iscritta nel registro degli indagati per una nuova indagine partita nelle scorse settimane. Jessica invece fu assolta in tre gradi di giudizio. Si sa per certo che Jessica quella mattina non fu in casa: lo ha dichiarato la stessa giovane durante il processo, raccontando di essere stata al mercato settimanale con la sorella Alice, di aver consumato con lei un panino con le panelle. Inoltre si sa che le figlie di Anna Corona andarono a trovarla in albergo per farle vedere gli acquisti della mattinata. La visita, anche se solo in un secondo momento, fu confermata anche da Francesca, la collega-amica di Anna in albergo.
In altre intercettazioni sembra che Jessica si riferisca a Denise, ma questi dettagli non sono mai stati provati in occasione del processo. Alcune intercettazioni dell’epoca sono infatti “sporche” o incomprensibili: saranno rese maggiormente intellegibili in queste nuove indagini grazie all’aiuto delle tecnologie contemporanee?
Denise Pipitone, ex esponente delle forze dell’ordine: “Poteva essere merce di scambio”. Debora Faravelli il 02/06/2021 su Notizie.it. Denise Pipitone merce di scambio: è l'ipotesi paventata da un ex esponente delle forze dell'ordine al corrente delle indagini sulla scomparsa. Emergono nuovi elementi sul caso di Denise Pipitone, recentemente riaperto dopo la chiusura delle indagini: tra questi la possibilità, espressa da un ex esponente delle forze dell’ordine, che la bambina potesse essere una merce di scambio. La dichiarazione è giunta nel corso della trasmissione Mattino 5 in onda su Canale Cinque. L’uomo, al corrente delle indagini sulla sparizione della bimba, ha preferito rimanere anonimo ma ha fornito una sua interpretazione dei fatti. “Più che di depistaggi, direi che c’è stata una mancanza di piste. Al commissariato c’erano teste cercanti, ma non teste pensanti. C’era proprio una mancanza di idee, di dove andare a battere la pista”, ha affermato. Secondo lui Denise non è stata cercata bene e nei posti giusti, che sono da individuare in mezzo alle carte che già ci sono: “Perché chiunque commetta un reato, lascia qualcosa di sé sulla scena del crimine. Bisogna solo individuarlo”. Ha poi dichiarato che a sua detta il sequestro della piccola avrebbe potuto essere utile a qualcosa paventando dunque l’ipotesi che quest’ultima potesse essere merce di scambio. “Quindi è probabile sia viva e magari in qualche parte del mondo, dove nemmeno conoscono la televisione italiana”, ha concluso. La stessa ex pm Maria Angioini aveva poco prima evidenziato come a suo dire Denise fosse viva e ignara del suo passato.
Denise Pipitone, l'avvocato Frazzitta a La vita in diretta: "Sette persone sanno tutto". Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. "Ci sono 7 persone che sanno tutto": si torna a parlare del caso Denise Pipitone a La Vita in Diretta su Rai 1 e tra gli ospiti c'è anche Giacomo Frazzitta, il legale della bambina di 4 anni scomparsa da Mazara del Vallo nel 2004. Commentando gli ultimi sviluppi sulle indagini, riaperte dopo ben 17 anni, l'avvocato ha detto: "Noi siamo convinti che ci sia un numero di persone che è a conoscenza di questo fatto e non parla. È inconcepibile, il reato di favoreggiamento è prescritto dal 2004". Entrando nel dettaglio, poi, Frazzitta ha spiegato al conduttore Alberto Matano quale sia il suo sospetto: "Pensiamo che siano sette le persone che sono a conoscenza dei fatti, ci siamo resi conto che le persone sono aumentate. Perché stare zitti, se possono aiutare senza avere conseguenze?". In un secondo momento, poi, il presentatore ha chiesto al legale come si è arrivati a sapere che sono aumentate le persone a conoscenza dei fatti. Ma lui non ha voluto dire di più: "Questo non lo racconto". Nonostante questo, però, l'avvocato ha voluto ringraziare l'attenzione dei media su questo caso: "La sensibilizzazione dei media sul cold case è importante. Noi cerchiamo Denise Pipitone, non cerchiamo colpevoli. L'indagine giornalistica è diversa da quella della Procura. Ma grazie a questa finestra qualcosa si è mosso e noi vi dobbiamo ringraziare". Del caso si continuerà a parlare questa sera a Chi l'ha visto?, il programma di Federica Sciarelli su Rai 3.
Denise Pipitone, fidanzato di Jessica Pulizzi: “Lei la odiava, voleva farla pagare a Piera Maggio”. Debora Faravelli il 03/06/2021 su Notizie.it. Il fidanzato di Jessica Pulizzi, la sorellastra di Denise Pipitone, ha affermato che la ragazza odiava tanto la bambina quanto Piera Maggio. Il fidanzato di Jessica Pulizzi ha fornito una testimonianza sul caso di Denise Pipitone raccontando che la ragazza odiava tanto la bambina quanto Piera Maggio in quanto ha sempre imputato la rottura dei suoi genitori alla relazione extraconiugale del padre con quest’ultima: “Per questo odiava con tutte le sue forze la Maggio e anche il frutto del loro amore, Denise“. Il servizio mandato in onda da Chi l’ha visto? inizia da un’intercettazione in cui il ragazzo, in campagna insieme a Jessica, le dice: “Ce l’ammazzasti a chidda?“. La ragazza ha sempre detto di riferirsi a delle galline: per accedere al casolare bisogna infatti scavalcare un muretto saltando il quale si finisce tra le galline col pericolo di schiacciarne qualcuna. Ma nelle sue prime dichiarazioni agli inquirenti lo stesso Fabrizio aveva escluso la presenza di galline e, come notato dall’avvocato Frazzitta, l’ex di Jessica le fa la domanda prima che la ragazza scavalchi il cancello: “chidda” non poteva quindi essere riferito ad una gallina. In una testimonianza di anni Fabrizio aveva affermato che “notavo che lei era pronta a compiere atti contro Piera Maggio perché le aveva rovinato la famiglia. La chiamava troia, puttana, zoccola“. Ma nel processo aveva cambiato versione dicendo che la ragazza non nominava mai Piera Maggio e di non ricordare la frase pronunciata in campagna.
L'hai ammazzata", le lacrime: cos'è successo a Denise. Angela Leucci il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Il caso di Denise Pipitone ancora una volta al centro di "Chi l'ha visto?": stavolta sotto la lente d'ingrandimento c'è la famiglia Corona. Denise Pipitone in lacrime nel giorno in cui venne rapita. È questa l’immagine inedita della bimba mostrata nella puntata di ieri di “Chi l’ha visto?”. Chiaramente si tratta di una casualità, ma lo scatto è di grande impatto e così la trasmissione riprende ad analizzare nel dettaglio il caso della scomparsa della piccola, avvenuto il 1 settembre 2004 da Mazara Del Vallo. Tra i punti toccati da “Chi l’ha visto?” c’è stato in particolare il ruolo della famiglia Corona. Si è parlato del giorno della nascita di Denise, in cui Jessica Pulizzi, figlia di Piero, il padre naturale di Denise, disse di essere presente in ospedale per accompagnare un’amica a fare una visita ginecologica. Il ginecologo ribatté di non averla mai effettuata, tanto più, che come ha spiegato mamma Piera Maggio, le due ragazze avevano 13 anni e quindi non avrebbero potuto incontrare quello specialista in assenza di un genitore. “Jessica- ha raccontato Gaspare, un ex della giovane - attribuiva la rottura del matrimonio dei suoi genitori proprio alla relazione sentimentale che il padre aveva intrattenuto con la Piera Maggio. Questi sospetti divennero certezza quando, nel periodo in cui Jessica è andata a vivere con il padre (avendo litigato con la madre) nel febbraio 2004, Jessica stessa aveva curiosato sul telefono di Piero Pulizzi e aveva rinvenuto la fotografia di Piera con i capelli sciolti e un messaggio del tipo ‘come sta la mia piccolina… gli ho comprato l’occorrente, dagli un bacio da parte mia’. Quando Jessica mi raccontò quest’episodio era furiosa con Piera Maggio. Da questo momento in poi ha cominciato a parlare con maggiore odio e rabbia nei confronti della bambina Denise e di Piera Maggio”. A proposito di ex di Jessica, “Chi l’ha visto?” ha vagliato anche le diverse dichiarazioni rese da Fabrizio, un altro giovane che ebbe una relazione con lei e che più volte ha cambiato versione, passando dal dichiarare di non aver visto Jessica dopo la scomparsa di Denise all’essersi appartato con lei per avere un rapporto che poi non ci fu. Inoltre Fabrizio dichiarò che la madre si opponeva alla loro relazione, mentre poi lui e la donna hanno definito proprio a una troupe di “Chi l’ha visto?” Jessica come una brava ragazza. Fabrizio parlò anche lui dell’odio di Jessica verso Piera Maggio e del sospetto che Piero Pulizzi fosse il padre di Denise. Il 14 gennaio 2006 Fabrizio spiegò agli inquirenti del loro incontro nel dicembre 2004: “Mentre eravamo a bordo dello scooter le ho chiesto cosa lei sapesse sulla sparizione della piccola Denise, infatti mi sono venute in mente tutte quelle volte che Jessica mi diceva che doveva fargliela pagare alla Piera Maggio”. Ma se nel 2006 Fabrizio dice che Jessica gli abbia chiesto di aiutarla a procurare un danno a mamma Piera, nel 2012, a processo, si è trincerato dietro ai “non ricordo”, anche in merito a una precedente affermazione sulla “sensazione netta che era stata lei a commettere quel gesto criminoso”. Fabrizio è lo stesso ragazzo che in una delle intercettazioni su Jessica dice: “Anchi d’errore l’ammazzasti a chidda”, che Jessica ha sempre affermato sia riferito a una gallina. La storia della gallina fu però smentita da Fabrizio, che disse agli inquirenti: “Non ho notato galline nel posto dove siamo andati ad appartarci nell’occasione io e Jessica”. “Chi l’ha visto?” è tornato quindi a ripercorrere la questione relativa all’orario di uscita di Anna Corona dall’albergo in cui lavorava il 1 settembre 2004 e alla visita ricevuta dalle figlie che erano state al mercato. La domanda che ancora rimane è: come sono entrate le ragazze nella lavanderia senza essere viste? Inoltre si è parlato anche del fratello di Anna, Claudio Corona, che secondo un testimone anonimo possedeva un device che gli consentiva di individuare eventuali cimici. L’anonimo ha anche aggiunto dei Corona che “quasi tutte le persone li temono, avendo traffici illeciti, si difendono tra loro”. Infine “Chi l’ha visto?” ha provato a intervistare Anna Corona, attualmente sotto indagine mentre la figlia Jessica fu assolta in tre gradi di giudizio, che però ha rifiutato. Sotto casa della donna i giornalisti della trasmissione di Rai 3 vengono minacciati: “Prima o poi fate una brutta fine” è la frase pronunciata da alcuni giovani nelle vicinanze.
Angela Leucci per ilgiornale.it il 3 giugno 2021. Dov’è stata Jessica Pulizzi la mattina in cui fu rapita Denise Pipitone? Se n’è tornato a parlare durante la puntata di “Mattino Cinque” di oggi. Al vaglio della trasmissione le intercettazioni ambientali all’interno del commissariato l’11 settembre 2004, dieci giorni dopo la scomparsa della bambina.
Le intercettazioni. Le protagoniste di queste intercettazioni sono Jessica e Anna Corona, rispettivamente figlia ed ex moglie di Piero Pulizzi, il padre naturale di Denise. Questo è stato il loro dialogo, così come trascritto e drammatizzato dalla voce di due attrici durante “Mattino Cinque”.
Anna: “Sei rimasta tutta la mattinata dentro quel giorno?”
Jessica: “No.”
Anna: “Di mattina?”
ANNA CORONA
Jessica: “No.”
Anna: “No? E intanto dice così. Non glielo hai detto che tu sei uscita e che eri con Alice?”
Jessica: “Sì.”
Anna: “Perché dice che qua tutti dicono, che tu hai dichiarato che sei stata tutta…”
Jessica: “Da nessuna parte c’è scritto, non sono capaci a leggere?”
Anna: “Tu hai dichiarato che sei rimasta tutta la mattinata dentro?”
ANNA CORONA
Jessica: “No.”
Anna: “Dici che… devi rispondere sulu alle mie domande… È giusto?”
Jessica: “Sì.”
Anna: “Dice che tu dichiarasti per ben due volte, sia al comando dei carabinieri, sia comando dei… Dice che c’è scritto e firmato una nota. Quale nota firmasti?”
Jessica: “…”
Anna: “Eh! Che tu hai dichiarato che tutta la mattinata sei stata a casa, e dice che è scritto ‘sta cosa…”
Jessica: “Ma’… Leggiri ma’!”
Anna: “Va be’. Quando io parlo tu non devi perdere le staffe.”
Jessica: “Uh!”
Anna: “Picchì io un sogno l’appuntato dei carabinieri, io sugna to ma’.”
Jessica: “Un lu capivo se io…”
Anna: “Io ho la testa ad andare nella casa di tua sorella, tu devi stare calma, mi devi guardare solo negli occhi e rispondere. Dicono loro, allora, loro dicono che tu hai dichiarato questo ed è scritto. Io ho chiesto di leggere il foglio e mi hanno detto che non lu posso leggere.”
Jessica: “Certo!”
Dov'era Jessica? Jessica ha davvero firmato una nota in cui affermava di essere rimasta a casa? Questa intercettazione si trova tra le tante che vedono protagoniste Jessica e Anna. La posizione della madre fu archiviata nel corso della prima indagine, ma ora la donna è stata nuovamente iscritta nel registro degli indagati per una nuova indagine partita nelle scorse settimane. Jessica invece fu assolta in tre gradi di giudizio. Si sa per certo che Jessica quella mattina non fu in casa: lo ha dichiarato la stessa giovane durante il processo, raccontando di essere stata al mercato settimanale con la sorella Alice, di aver consumato con lei un panino con le panelle. Inoltre si sa che le figlie di Anna Corona andarono a trovarla in albergo per farle vedere gli acquisti della mattinata. La visita, anche se solo in un secondo momento, fu confermata anche da Francesca, la collega-amica di Anna in albergo. In altre intercettazioni sembra che Jessica si riferisca a Denise, ma questi dettagli non sono mai stati provati in occasione del processo. Alcune intercettazioni dell’epoca sono infatti “sporche” o incomprensibili: saranno rese maggiormente intellegibili in queste nuove indagini grazie all’aiuto delle tecnologie contemporanee?
Denise Piptione, l'intercettazione mai sentita prima: "Sono tua madre, non un carabiniere". Il mistero è risolto? Libero Quotidiano l'1 giugno 2021. Dopo 17 anni dalla sua scomparsa, forse non si è mai stati così vicini alla soluzione del giallo: che fine ha fatto Denise Pipitone? Un nuovo tassello, decisivo, è arrivato da Mattino 5, la trasmissione del mattino in onda su Canale 5, dove sono state trasmesse alcune intercettazioni inedite tra Jessica Pulizzi e Anna Corona. Intercettazioni che risalgono all'11 settembre 2004, dieci giorni dopo la scomparsa da Mazara del Vallo della piccolina, che non è mai più stata trovata. Agli investigatori, Jessica aveva detto di essere rimasta in casa per tutta la giornata. Ma era falso. E proprio per questo Anna Corona, la madre, nell'intercettazione la incalza: "Dicono che sei stata a casa la mattina, non hai detto che sei uscita con Alice?", le chiede. E ancora: "Quando parlo non perdere le staffe, io sono tua madre, non l'appuntato dei carabinieri". Il punto è che Jessica anche con la madre sostiene di non essere uscita di casa e di non aver mentito agli inquirenti. E ancora, riprende Anna Corona: "Io ho la testa di andare a casa di tua sorella. Tu mi devi solo guardare negli occhi e rispondere. Loro dicono che tu hai dichiarato che sei stata in casa, ho chiesto anche di farmi leggere il foglio della deposizione ma mi hanno detto che non posso leggerlo", la incalza. Parole da interpretare, un ulteriore tassello. Il tutto nel giorno in cui, in un'intervista a La Nuova Sardegna, l'ex pm Maria Angioni - la prima ad indagare sulla scomparsa di Denise Pipitone, afferma che "è viva e presto si saprà la verità". Nell'intervista, la pm spiega che a distanza di 17 anni sta crollando il muro di omertà e che chi ha sempre taciuto ha finalmente iniziato a parlare. E come detto, ora più che mai, Piera Maggio spera di scoprire che fine abbia fatto sua figlia.
Denise Pipitone, altra bomba dell'ex pm: "Qual è la sua nuova famiglia, come le hanno fatto il lavaggio di cervello". Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. "Denise Pipitone è viva e quasi certamente ignara del suo passato": a parlare è Maria Angioni, l'ex pm che seguì nel 2004 le prime fasi dell’inchiesta dopo la scomparsa da Mazara Del Vallo della bimba di 4 anni. Secondo lei, ci sarebbe una pista privilegiata che porta al mondo dei rom: "Un mese e mezzo dopo la sparizione della bambina, il 18 ottobre 2004, la piccola fu avvistata a Milano assieme a delle donne di etnia rom. Una guardia giurata, Felice Grieco, notò la grande somiglianza e fece un video da cui si intuisce il nome: Danas. L’uomo le rivolse la parola chiedendole se aveva fame e la bimba rispose "voglio la pizza" con una inconfondibile cadenza siciliana. Io inviai ai Ris il video per la comparazione dei tratti somatici". I tratti compatibili risultarono essere 7: la forma delle sopracciglia, gli occhi, la forma tonda del viso, le guance paffute, il naso, il mento e le labbra. Dunque secondo i Ris c’era una probabilità alta che Denise e Danas fossero la stessa persona. "Credo che la bimba sia stata inserita in un nuovo contesto familiare al quale sia convinta di appartenere da sempre perché non ha memoria della sua vita precedente - ha spiegato l'ex pm a La Nuova Sardegna -. E ignora che la sua vera mamma non ha mai smesso di cercarla: perché si possano riabbracciare è necessario che qualcuno ci porti da Denise. È il famoso anello, il tassello che manca per chiudere il cerchio". Secondo l'Angioni, inoltre, ci sarebbero stati molti depistaggi nelle indagini su Denise. In particolare, la polizia avrebbe eretto un muro di protezione nei confronti della famiglia di Anna Corona, l'ex moglie del papà naturale della piccola Pipitone. Lei e sua figlia Jessica Pulizzi furono le principali sospettate 17 anni fa. Inoltre, l'Angioni ha spiegato che sarebbe stato siglato un patto tra due gruppi di persone "all’interno della grande famiglia allargata Corona-Pulizzi. Il gruppo dei 'cattivi' che odiava la madre di Denise e voleva fargliela pagare nel peggiore dei modi, anche uccidendo la bambina. E il gruppo dei 'buoni' che ha evitato la morte della piccola facendola sparire. Come? Consegnandola a qualcuno, dando la garanzia ai cattivi che la madre non l’avrebbe in ogni caso mai più rivista".
"L'hai ammazzata", le lacrime: cos'è successo a Denise. Angela Leucci il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Il caso di Denise Pipitone ancora una volta al centro di "Chi l'ha visto?": stavolta sotto la lente d'ingrandimento c'è la famiglia Corona. Denise Pipitone in lacrime nel giorno in cui venne rapita. È questa l’immagine inedita della bimba mostrata nella puntata di ieri di “Chi l’ha visto?”. Chiaramente si tratta di una casualità, ma lo scatto è di grande impatto e così la trasmissione riprende ad analizzare nel dettaglio il caso della scomparsa della piccola, avvenuto il 1 settembre 2004 da Mazara Del Vallo. Tra i punti toccati da “Chi l’ha visto?” c’è stato in particolare il ruolo della famiglia Corona. Si è parlato del giorno della nascita di Denise, in cui Jessica Pulizzi, figlia di Piero, il padre naturale di Denise, disse di essere presente in ospedale per accompagnare un’amica a fare una visita ginecologica. Il ginecologo ribatté di non averla mai effettuata, tanto più, che come ha spiegato mamma Piera Maggio, le due ragazze avevano 13 anni e quindi non avrebbero potuto incontrare quello specialista in assenza di un genitore. “Jessica- ha raccontato Gaspare, un ex della giovane - attribuiva la rottura del matrimonio dei suoi genitori proprio alla relazione sentimentale che il padre aveva intrattenuto con la Piera Maggio. Questi sospetti divennero certezza quando, nel periodo in cui Jessica è andata a vivere con il padre (avendo litigato con la madre) nel febbraio 2004, Jessica stessa aveva curiosato sul telefono di Piero Pulizzi e aveva rinvenuto la fotografia di Piera con i capelli sciolti e un messaggio del tipo ‘come sta la mia piccolina… gli ho comprato l’occorrente, dagli un bacio da parte mia’. Quando Jessica mi raccontò quest’episodio era furiosa con Piera Maggio. Da questo momento in poi ha cominciato a parlare con maggiore odio e rabbia nei confronti della bambina Denise e di Piera Maggio”. A proposito di ex di Jessica, “Chi l’ha visto?” ha vagliato anche le diverse dichiarazioni rese da Fabrizio, un altro giovane che ebbe una relazione con lei e che più volte ha cambiato versione, passando dal dichiarare di non aver visto Jessica dopo la scomparsa di Denise all’essersi appartato con lei per avere un rapporto che poi non ci fu. Inoltre Fabrizio dichiarò che la madre si opponeva alla loro relazione, mentre poi lui e la donna hanno definito proprio a una troupe di “Chi l’ha visto?” Jessica come una brava ragazza. Fabrizio parlò anche lui dell’odio di Jessica verso Piera Maggio e del sospetto che Piero Pulizzi fosse il padre di Denise. Il 14 gennaio 2006 Fabrizio spiegò agli inquirenti del loro incontro nel dicembre 2004: “Mentre eravamo a bordo dello scooter le ho chiesto cosa lei sapesse sulla sparizione della piccola Denise, infatti mi sono venute in mente tutte quelle volte che Jessica mi diceva che doveva fargliela pagare alla Piera Maggio”. Ma se nel 2006 Fabrizio dice che Jessica gli abbia chiesto di aiutarla a procurare un danno a mamma Piera, nel 2012, a processo, si è trincerato dietro ai “non ricordo”, anche in merito a una precedente affermazione sulla “sensazione netta che era stata lei a commettere quel gesto criminoso”. Fabrizio è lo stesso ragazzo che in una delle intercettazioni su Jessica dice: “Anchi d’errore l’ammazzasti a chidda”, che Jessica ha sempre affermato sia riferito a una gallina. La storia della gallina fu però smentita da Fabrizio, che disse agli inquirenti: “Non ho notato galline nel posto dove siamo andati ad appartarci nell’occasione io e Jessica”. “Chi l’ha visto?” è tornato quindi a ripercorrere la questione relativa all’orario di uscita di Anna Corona dall’albergo in cui lavorava il 1 settembre 2004 e alla visita ricevuta dalle figlie che erano state al mercato. La domanda che ancora rimane è: come sono entrate le ragazze nella lavanderia senza essere viste? Inoltre si è parlato anche del fratello di Anna, Claudio Corona, che secondo un testimone anonimo possedeva un device che gli consentiva di individuare eventuali cimici. L’anonimo ha anche aggiunto dei Corona che “quasi tutte le persone li temono, avendo traffici illeciti, si difendono tra loro”. Infine “Chi l’ha visto?” ha provato a intervistare Anna Corona, attualmente sotto indagine mentre la figlia Jessica fu assolta in tre gradi di giudizio, che però ha rifiutato. Sotto casa della donna i giornalisti della trasmissione di Rai 3 vengono minacciati: “Prima o poi fate una brutta fine” è la frase pronunciata da alcuni giovani nelle vicinanze.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, spunta testimone a La vita in diretta: "Ho visto Anna Corona quel giorno", il grosso vuoto in albergo. Libero Quotidiano il 03 giugno 2021. “Quel giorno ho visto Anna Corona”: una nuova testimonianza sul caso di Denise Pipitone nello studio di Alberto Matano a La Vita in Diretta su Rai 1. Vanno avanti, infatti, le indagini sulla bambina di Mazara Del Vallo scomparsa nel 2004. Uno dei principali indiziati è la Corona, ex moglie del papà naturale della piccola. Ed è proprio su di lei che sono state rilasciate alcune informazioni inedite. Dal comune del trapanese, l'inviata Lucilla Masucci ha intervistato il signor Vito, proprietario dell'hotel Ruggero in cui lavorava Anna Corona all’epoca della scomparsa della bimba. “Quel giorno l’ho vista, è stata in albergo fino a mezzogiorno. Il personale mangiava a quell'ora. Lo ricordo perché a pranzo lei prese una frutta buona che era per i clienti, io l'ho richiamata e gliel'ho fatto notare. Mangiò un uovo in padella. Fino a mezzogiorno sono certo che fosse lì, dopo non posso mettere le mani sul fuoco”, ha fatto sapere l’uomo. Sulla possibilità che le figlie di Anna, Jessica Pulizzi e la sorella, siano passate in hotel il giorno della sparizione di Denise, invece, il signor Vito ha dichiarato: “Io non ho visto arrivare le ragazze, non so se qualcuno le ha viste. Era possibile accedere alla lavanderia dal garage, ma dalla reception si vedeva chi entrava e chi usciva. Se Anna Corona è uscita prima quel giorno, qualcuno l'ha vista”. “Qualche occhio potrebbe aver visto qualcosa e non lo sta raccontando”, ha detto infine Matano.
Denise Pipitone, spunta l’ipotesi di una stanza segreta: cosa risulta dai dati catastali. Debora Faravelli il 07/06/2021 su Notizie.it. Nella casa di Anna Corona potrebbe esserci stata una stanza segreta alta un metro e mezzo: è la nuova ipotesi sul caso di Denise Pipitone. Mentre continuano le indagini sul caso di Denise Pipitone, spunta l’ipotesi di una stanza segreta in cui la bimba potrebbe essere rimasta per diversi giorni: a suggerirlo sono i dati catastali della casa incriminata di Anna Corona, recentemente perquisita. La camera in questione, di cui si è parlato sul Giornale di Sicilia dopo qualche indiscrezione trapelata nel corso della puntata di Quarto Grado, sarebbe una delle camere della casa della madre di Jessica Pulizzi. Una stanza che sarebbe stata alta circa 4 metri come risulterebbe da documenti catastali ma che oggi misura circa la metà. Il sospetto è che sia stata creata una stanza segreta alta più o meno un metro e mezzo. A far emergere il dettaglio sarebbe stato un problema nato dopo il tentato acquisto dell’immobile nel 2005. All’epoca un uomo, interessato all’acquisto dell’appartamento, dovette infatti rinunciarvi per via di alcune difformità tra lo stato dei luoghi e quanto risultava da piantine e catasto. L’avvocato Gaspare Morello, che rappresenta i proprietari dell’immobile, ha però bocciato l’ipotesi in questione perchè nel soffitto lavorato in legno non sembrano esserci tracce di una ipotetica botola che porterebbe ad una stanza segreta.
"C'è una sola pista". Lo sfogo della mamma di Denise. Rosa Scognamiglio il 6 Giugno 2021 su il Giornale. Piera Maggio, la mamma di Denise Pipitone, si è lasciata andare a uno sfogo social in cui ha ribadito l'importanza della pista rom nelle indagini sulla scomparsa della figlioletta. "Abbiamo sempre cercato la verità". Comincia così il breve sfogo social di Piera Maggio che, per l'ennesima volta in questi lunghissimi 17 anni di ipotesi e sospetti, ha dovuto arginare il pressing mediatico sui presunti indagati per la scomparsa della piccola Denise. "Sappiate che durante il processo di primo grado, - scrive su Facebook - l'unica pista alternativa evidenziata dai legali dell'imputata è stata solo e soltanto la pista ROM, NON ALTRI". CHIARIMENTO: Abbiamo sempre cercato la verità sul rapimento di Denise, anche adoperandoci per fare in modo che questa...La battaglia per "la verità" sulla misteriosa scomparsa di Denise è cominciata quel maledetto 1° settembre 2004. E, da allora, non ha mai avuto un attimo di tregua. Non un giorno, neanche mezzo. Oggi che i riflettori sono puntati di nuovo sulla piccola cittadina di Mazara del Vallo, e sugli imputati del processo di primo grado, Piera Maggio rompe il silenzio con un "chiarimento" pubblicato sul suo profilo Facebook. "Abbiamo sempre cercato la verità sul rapimento di Denise, - precisa in un post - anche adoperandoci per fare in modo che questa emergesse. Raccontare parzialmente fatti già verificati, facendo allusioni che non hanno portano a nulla, di certo servono solo a creare illazioni e diffamazione". Poi, una precisazione sibillina - forse - sulla posizione di Anna Corona, madre di Jessica Pulizzi e moglie di Piero Pulizzi, che pare sia stata iscritta nel registro degli indagati dalla Procura di Marsala (l'indiscrezione è stata diffusa dal programma televisivo Quarto Grado). "Sappiate che durante il processo di primo grado, - continua Piera - l'unica pista alternativa evidenziata dai legali dell'imputata è stata solo e soltanto la pista ROM, NON ALTRI. Questo per far comprendere a tutti, che nonostante alcuni dissidi, non esistevano i presupposti per accusare altri appartenenti alla cerchia ristretta dei familiari di Denise, poiché hanno collaborato, le loro posizioni furono vagliate, chiarite ed escluse dall'inchiesta". Nell'attesa di conoscere eventuali, altri risvolti delle indagini, si è riaccesa la cosiddetta "pista rom". Felice Grieco, la guardia giurata che riprese col telefonino una bimba fortemente rassomigliante a Denise in compagnia di una nomade, a Milano, circa un mese dopo l'avvio delle ricerche, ha formalizzato dai carabinieri il riconoscimento di una donna. Grieco, ospite al programma Quarto Grado nella serata di venerdì 4 giugno, ha raccontato di aver ricevuto da una persona una foto segnaletica nella quale avrebbe riconosciuto la rom incontrata quasi 17 anni fa. "È inconfondibile - ha spiegato Grieco -Fa parte del mio lavoro ricordarmi le facce". Si tratta della stessa del video? Ma, soprattutto, era davvero in compagnia di Denise? Domande a cui, prima o poi, bisognerà dare una risposta.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
La rivelazione su Denise che cambia tutto: "La donna con Danas..." Angela Leucci il 10 Giugno 2021 su Il Giornale. Una giovane rumeno-italiana ha riconosciuto la donna che si ritiene possa essere la stessa del video con Danas: Denise Pipitone è viva? Si stringe il cerchio intorno alla donna che potrebbe essere quella ritratta nel video con Danas girato da Felice Grieco a Milano. Nell’ottobre 2004, la guardia giurata riprese un gruppetto di rom, tra cui una bambina nella quale sembrò ravvisare il volto di Denise Pipitone, che era scomparsa da Mazara del Vallo il 1 settembre di quell’anno. Nei giorni scorsi si è parlato moltissimo di chi potesse essere la presunta donna con Danas. Nella puntata di ieri sera di “Chi l’ha visto?” la rom è stata riconosciuta da una ragazza rumeno-italiana di nome Mariana, che era stata adottata. Qualche anno fa, Mariana si mise alla ricerca della famiglia naturale, incontrando la madre e il fratello in un campo rom nei dintorni di Parigi nel 2018. In questo campo rom c’era una donna di nome Florina: anche Florina, che parlava italiano, aveva una figlia adottata, la quale non conosceva la famiglia d’origine e non sapeva quanti anni avesse. Mariana ha riconosciuto in Florina la donna della foto segnaletica che in questi giorni sta girando in rete: ma è davvero Florina la donna nel video con Danas? E inoltre: Danas è Denise? Se questo dovesse essere provato, dov’è Denise ora? A “Chi l’ha visto?” si è tornati inoltre a ripercorrere alcuni luoghi chiave di Mazara che potrebbero far parte della narrazione resa da Battista Della Chiave. L’uomo, sordomuto, è stato di recente interpretato da due esperti Lis: Battista non conosceva il linguaggio dei segni, per cui si è reso necessario per gli esperti visitare Mazara per capire se esistono i luoghi descritti dall’anziano che fece capire di aver visto Denise. I due esperti Lis hanno notato come, in lontananza, dal magazzino in cui Della Chiave lavorava, si vede il mare: è un dettaglio che è stato sempre chiaro nella narrazione a gesti dell’uomo. Inoltre Battista ha mimato delle strutture arrotondate, che potrebbero corrispondere a un ponte ma anche a un canale di scolo. Nei pressi del magazzino dove Battista lavorava è stata osservata inoltre un’inferriata che parrebbe corrispondere a un altro dei gesti dell’uomo durante la sua audizione. L’ipotesi che quindi Denise sia passata di mano, spesso citata dall’ex pm del caso Denise Maria Angioni, continua a prendere corpo quasi 17 anni dopo dalla scomparsa. Questo significa che si fa sempre più concreta la possibilità che la piccola sia oggi viva, cosa che potrebbe rappresentare una speranza per i genitori Piera Maggio e Piero Pulizzi e per chi in questi anni non ha mai gettato la spugna.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, una nuova lettera: "Ho tante cose da dire". Accuse pesantissime, trema il fratello di Anna Corona. Libero Quotidiano il 07 giugno 2021. Spuntano un nuovo testimone e una nuova lettera sul caso della piccola scomparsa nel 2004, Denise Pipitone. Da quando sono state riaperte le indagini sulla bambina di Mazara Del Vallo, sembra che molte più persone siano propense a parlare e a portare a galla fatti molto lontani nel tempo ma comunque utili a ricostruire la tragica vicenda. L'ultima persona a farsi avanti ha inviato una lettera firmata in cui afferma di avere delle informazioni che possono chiarire il mistero sulla scomparsa della bimba. Questa persona, poi, chiama in causa un membro della famiglia che finora mai era entrato nelle indagini e tuttora risulta estraneo ai fatti: Claudio Corona, fratello di Anna, l'ex moglie del papà biologico di Denise. “Io voglio la verità su Denise”, ha scritto il nuovo testimone nella lettera resa pubblica in esclusiva dalla trasmissione Ore 14 di Milo infante su Rai2 e ora al vaglio degli inquirenti della Procura di Marsala. Questa volta non si tratta di un anonimo, com'era successo invece nel caso della lettera spedita a Giacomo Frazzitta, il legale della famiglia di Denise. La persona in questione anzi ha chiesto di essere ascoltata dagli inquirenti per raccontare tutto quello che sa sulla scomparsa. In particolare, avrebbe detto di voler parlare proprio di Claudio Corona: "Non sono un collaboratore di giustizia e mai lo sarò. Ho frequentato molto Claudio Corona, ma ripeto non sarò mai un collaboratore di giustizia". "Ho tante cose da dire per tutelare me e la mia famiglia e forse finalmente scoprire la verità su qualche informazione su Denise - ha continuato il testimone nella lettera -. Io voglio la verità su Denise. Donne e bambini non si toccano”. Il clima particolare dietro la sparizione della bambina era venuto fuori anche a Chi l'ha visto? qualche giorno fa, quando un testimone aveva raccontato: "I Corona io li ho conosciuti da vicino, ho avuto modo di conoscerli per un lungo periodo, ho lavorato con loro, parlo di lavoro sporco non lavoro pulito, a Mazara quasi tutti temono queste persone perché hanno traffici illeciti". Accuse che Claudio Corona ha già respinto al mittente.
Denise Pipitone, scoop a La vita in diretta: "Quella non era la sua auto", Anna Corona suda freddissimo. Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Alberto Matano è tornato a occuparsi del caso di Denise Pipitone a La Vita in Diretta su Rai1. In particolare le inviate della trasmissione stanno cercando di far luce su quanto accaduto nell’albergo in cui lavorava Anna Corona. Appurato che una sua collega ha firmato l’orario di uscita al posto suo, sono tanti i misteri che avvolgono l’ex moglie di Pietro Pulizzi, padre biologico della bambina rapita a Mazara del Vallo il primo settembre 2004. “Com’è possibile che nessuno la veda dopo mezzogiorno? E com’è possibile che nessuno l’ha vista uscire da quell’albergo?”, sono gli interrogativi posti dall’invita de La Vita in Diretta, che ha sentito il proprietario e diversi lavoratori dell’epoca. A partire dall’unica testimone, Francesca Adamo (la collega che ha coperto Anna Corona sul foglio delle presenze), che ha visto arrivare le figlie Jessica e Alice: “Sono venute tutte e due ma non ricordo se prima o dopo pranzo”. Poi non si sa se, quando e come Anna Corona ha lasciato l’albergo. Verosimilmente poteva non essere vista passando dal garage, come spiegato dalla receptionist dell’epoca: “Se qualcuno entrava o usciva da lì potevo perderlo perché il monitor era posizionato a terra, quindi mi dovevo piegare per vedere se fosse chiuso o aperto il garage”. Un altro elemento viene poi aggiunto da un’altra inviata di Rai: “Ricordo che alle 13 del primo settembre Pulizzi venne qui, toccò l’auto di Anna che era fredda, quindi se si è allontanata non l’ha fatto con la sua auto. Allora come?”.
Denise Pipitone, la testimone a Storie Italiane: "Sono la nipote della rom, mia zia potrebbe averla rapita. Quando l'ho incontrata..."Libero Quotidiano il 10 giugno 2021. Eleonora Daniele con Storie Italiane si è tornata a occupare del caso di Denise Pipitone su Rai1. E lo ha fatto raccogliendo una testimonianza che potrebbe risultare preziosa: in diretta con lei si è collegata una ragazza di origini rom che si chiama Mariana Trotta. Quest’ultima è stata adottata e vive in Italia da anni, ma in passato ha avuto modo di conoscere la sua famiglia biologica, che si trova in Francia. E in quella circostanza avrebbe incontrato la donna che appare nel video girato a Milano con una bambina che potrebbe essere la stessa rapita a Mazara del Vallo il primo settembre 2004. “Questa donna nel campo era una figura importante, mi rimase impressa perché era una persona che era un punto di riferimento. Che poi sarebbe anche mia zia”, ha raccontato la ragazza, secondo cui quella donna sarebbe la compagna del fratello del padre biologico. “Non so il nome - ha aggiunto - dicono che si chiamava Silvana ma da me si faceva chiamare Florina. Io con lei ci ho parlato poco, parlava italiano ma con me non ha parlato molto”. La ragazza è apparsa impaurita: “C’è da pensare che questa è gente pericolosa. Io non so se stanno ancora insieme con mio zio, ho chiesto a mia sorella ma lei è vaga e non mi dà notizie. Io ammetto di avere paura, ci ho messo la faccia, ma queste persone hanno dei giri particolari”. In merito alla ragazza presentata come la figlia dello zio e della donna avvistata a Milano, Mariana Trotta ricorda quanto segue: “Non ho mai sentito chiamarla Danas, ma questa ragazza non sapeva la sua età, avrà avuto tra i 17 e i 18 anni all’epoca. Era molto traumatizzata, non parlava quasi mai e si faceva capire a gesti. Era messa male, ricordo che non aveva i denti, spesso le tremavano le mani. Ricordo che era molto controllata e che non le veniva mai permesso di uscire nel campo rom. Una volta mi disse che non sapeva chi fosse la sua famiglia biologica e quale fosse la sua identità”.
Denise Pipitone, a La Vita in Diretta un colpo di scena: "È in Francia? Aspettiamo riscontri". Libero Quotidiano il 10 giugno 2021. Novità sul caso di Denise Pipitone. Una ragazza, Mariana, avrebbe riconosciuto la donna in compagnia di Danase, la bimba ripresa a Milano dalla guardia giurata Felice Grieco, qualche settimana dopo la scomparsa della figlia di Piera Maggio da Mazara del Vallo. "Io sono una ragazza adottiva di origini rom e circa 3 anni fa ho avuto il desiderio di trovare la mia famiglia e nel 2018 sono riuscita a risalire ai miei genitori biologici e sono andata a trovarli a Parigi - ha spiegato la testimone a Chi l'ha Visto, il programma di Rai3 condotto da Federica Sciarelli - -. Questa donna nel campo era una figura importante, la mattina tutti andavano a chiedere l'elemosina e lei cucinava per tutti, mi rimase impressa perché era una persona che era un punto di riferimento. Che poi quella donna sarebbe anche mia zia. Non so il nome, dicono che si chiamava Silvana me da me si faceva chiamare Florina. Io con lei ci ho parlato poco, parlava italiano ma con me non ha parlato molto. C'era una ragazza. Io non ho mai sentito chiamarla Danas, ma non sapeva la sua età, avrà avuto tra i 17 e i 18 anni. Era molto traumatizzata, parlava pochissimo francese, parlava poco italiano, parlava sinti, ma non parlava quasi mai in realtà e si faceva capire a gesti. Era messa male, ricordo che non aveva i denti, spesso le tremavano le mani. Ricordo che era molto controllata e che non le veniva mai permesso di uscire nel campo rom". E così a commentare le ultime rivelazioni che fanno nuovamente ben sperare è Piera Maggio: "Siamo cauti - ha messo le mani avanti a La Vita in Diretta su Rai1 -, ho bisogno di riscontri". La donna, assieme all'avvocato Giacomo Frazzitta, preferisce andarci con i piedi di piombo. A maggior ragione dopo la pista russa, dimostratasi poi un buco nell'acqua. "Piera è cauta - ha confermato anche l'inviata di Alberto Matano - è un momento di grande esposizione mediatica del caso di Denise. Ha detto 'ho bisogno di riscontri, della verità oggettiva'. Vuole capire che tipo di segnalazione è".
Denise Pipitone, testimonianza-choc a Storie Italiane: "Era senza denti, le tremavano le mani, prigioniera". Ridotta così dai rom? Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Si infittisce di nuovi dettagli la scomparsa tutt'ora misteriosa di Denise Pipitone. A Storie Italiane su Rai 1, nella puntata dell'11 giugno, è Mariana Trotta - la 27enne di origine rom adottata a dieci mesi da una famiglia italiana e che avrebbe riconosciuto la donna della foto postata dalla guardia giurata Felice Grieco. Un filmato girato sei mesi dopo che la piccola era sparita da Mazara Del Vallo e che oggi più che mai può volerci dire qualcosa. Nel 2018, infatti, Mariana si era recata in un campo rom a Parigi per conoscere i suoi genitori biologici. Lì avrebbe conosciuto questa donna: "Era una figura importante - aveva spiegato sempre ai microfoni di Eleonora Daniele - la mattina tutti andavano a chiedere l'elemosina e lei cucinava per tutti, mi rimase impressa perché era un punto di riferimento. Quella donna sarebbe la moglie di mio zio biologico. Non so il nome, dicono che si chiamasse Silvana me da me si faceva chiamare Florina. Io con lei ci ho parlato poco, parlava italiano ma con me non ha parlato molto". Floriana però non era sola, con lei c'era un'altra ragazza su cui Mariana ha sollevato qualche sospetto: "Era la presunta figlia di Florina. Io non ho mai sentito chiamarla Danas, ma non sapeva la sua età, avrà avuto tra i 17 e i 18 anni. Era molto traumatizzata, parlava pochissimo francese, parlava poco italiano, parlava sinti, ma non parlava quasi mai in realtà e si faceva capire a gesti". Sul suo aspetto fisico la ragazza non si è tirata indietro e ha ammesso: "Era messa male, ricordo che non aveva i denti, spesso le tremavano le mani. Ricordo che era molto controllata e che non le veniva mai permesso di uscire nel campo rom". Dai racconti sembra che la ragazza si chiami Antonia e che adesso sarebbe in Romania. Fu proprio lei - è stato il racconto di Mariana - a rivelarle qualcosa di inaspettato: "Antonia nella stanza d'hotel mi disse 'lei non è mia madre, non conosco la mia famiglia biologica. Non conosco la mia età'". Piera Maggio, mamma di Denise, preferisce non illudersi come già successo con la cosiddetta "pista russa". "Sappiamo - è stato l'aggiornamento dell'inviata della Daniele - che gli inquirenti stanno facendo delle indagini per capire se in quel campo rom di Parigi ci sia ancora la zia e in Romania ci sia ancora Antonia, l'ipotetica Denise".
La rivelazione su Denise che cambia tutto: "La donna con Danas..." Angela Leucci il 10 Giugno 2021 su Il Giornale. Una giovane rumeno-italiana ha riconosciuto la donna che si ritiene possa essere la stessa del video con Danas: Denise Pipitone è viva? Si stringe il cerchio intorno alla donna che potrebbe essere quella ritratta nel video con Danas girato da Felice Grieco a Milano. Nell’ottobre 2004, la guardia giurata riprese un gruppetto di rom, tra cui una bambina nella quale sembrò ravvisare il volto di Denise Pipitone, che era scomparsa da Mazara del Vallo il 1 settembre di quell’anno. Nei giorni scorsi si è parlato moltissimo di chi potesse essere la presunta donna con Danas. Nella puntata di ieri sera di “Chi l’ha visto?” la rom è stata riconosciuta da una ragazza rumeno-italiana di nome Mariana, che era stata adottata. Qualche anno fa, Mariana si mise alla ricerca della famiglia naturale, incontrando la madre e il fratello in un campo rom nei dintorni di Parigi nel 2018. In questo campo rom c’era una donna di nome Florina: anche Florina, che parlava italiano, aveva una figlia adottata, la quale non conosceva la famiglia d’origine e non sapeva quanti anni avesse. Mariana ha riconosciuto in Florina la donna della foto segnaletica che in questi giorni sta girando in rete: ma è davvero Florina la donna nel video con Danas? E inoltre: Danas è Denise? Se questo dovesse essere provato, dov’è Denise ora? A “Chi l’ha visto?” si è tornati inoltre a ripercorrere alcuni luoghi chiave di Mazara che potrebbero far parte della narrazione resa da Battista Della Chiave. L’uomo, sordomuto, è stato di recente interpretato da due esperti Lis: Battista non conosceva il linguaggio dei segni, per cui si è reso necessario per gli esperti visitare Mazara per capire se esistono i luoghi descritti dall’anziano che fece capire di aver visto Denise. I due esperti Lis hanno notato come, in lontananza, dal magazzino in cui Della Chiave lavorava, si vede il mare: è un dettaglio che è stato sempre chiaro nella narrazione a gesti dell’uomo. Inoltre Battista ha mimato delle strutture arrotondate, che potrebbero corrispondere a un ponte ma anche a un canale di scolo. Nei pressi del magazzino dove Battista lavorava è stata osservata inoltre un’inferriata che parrebbe corrispondere a un altro dei gesti dell’uomo durante la sua audizione. L’ipotesi che quindi Denise sia passata di mano, spesso citata dall’ex pm del caso Denise Maria Angioni, continua a prendere corpo quasi 17 anni dopo dalla scomparsa. Questo significa che si fa sempre più concreta la possibilità che la piccola sia oggi viva, cosa che potrebbe rappresentare una speranza per i genitori Piera Maggio e Piero Pulizzi e per chi in questi anni non ha mai gettato la spugna.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denis Pipitone, Giacoma Maggio all’ex marito: “Tu sai dov’è”. Debora Faravelli il 12/06/2021 su Notizie.it. La zia di Denise Pipitone Giacoma Maggio avrebbe detto all'ex marito di essere a conoscenza del fatto che lui sapesse dove fosse la bambina. In una telefonata tra Giacoma Maggio, zia di Denise Pipitone, e l’ex marito Matteo Marino, la donna dice che l’uomo sa dov’è la bambina. Stando ad una sensitiva coinvolta nel caso, la sorella di Piera Maggio avrebbe tirato in ballo l’uomo a sua volta avvezzo a pratiche esoteriche. “Tu sai dov’è la bambina. Tu sai dov’è!“. Sarebbero queste le parole pronunciate da Giacoma nel corso di un’intercettazione ricostruita da Quarto Grado. La donna, che sperava di ottenere risposte in merito alla sparizione della nipote, ha chiesto all’ex marito se si ricordasse di un sogno fatto nell’anno precedente, “quello dove ho visto un altare e una donna incappucciata e tu mi avevi detto che si sarebbe realizzato se io non fossi tornata con te“. Di qui l’invito ad entrare in trance “come hai già fatto più volte“, a tirare fuori la doppia personalità, buona e cattiva, e a ricordarsi “dell’entità da cui sei posseduto“. Infine la conclusione: “Io sono a conoscenza di cose che gli altri non sanno“. Tra queste, stando al contenuto della telefonata, il fatto che lui sapesse dove fosse finita la bambina scomparsa il primo settembre 2004 da Mazara del Vallo.
Le storie di Quarto Grado 11 giugno 2021, il caso di Saman Abbas, le ultime su Denise Pipitone. Lorenzo Mango l'11 Giugno 2021 su maridacaterini.it. Rete 4 trasmette alle 21.25 circa di questa sera, venerdì 11 giugno 2021, Le storie di quarto grado, condotto da Gianluigi Nuzzi e Alessandra Viero.
Le storie di Quarto Grado 11 giugno, il caso di Denise Pipitone. In seguito al polverone mediatico degli ultimi mesi sul caso di Denise Pipitone, scomparsa nel 2004 da Mazara del Vallo, le indagini sono state riaperte. Anna Corona, l’allora principale indiziata per la scomparsa della piccola Denise, torna ad essere indagata. Così come la sua abitazione dell’epoca, nella quale i Carabinieri hanno riscontrato modifiche particolari. Tra cui, l’abbassamento di alcuni solai, per ricavare spazi nascosti il cui uso è ancora avvolto dal mistero. In questo periodo, ai Carabinieri giungono centinaia di segnalazioni e testimonianze. Molte delle quali scritte da mitomani, ma in virtù delle quali non si esclude nessuna pista.
La testimonianza di un investigatore: Enrico Marinaro. Espedito Marinaro, un investigatore privato, è ospite questa sera in studio a Le storie di Quarto Grado. E’ stato uno dei pochi a seguire la cosiddetta “pista delle sensitive”. Infatti, alcune sensitive, nel 2004, avevano fornito dettagli specifici riguardo la possibile ubicazione di Denise Pipitone. “Ho avuto contatti con due sensitivi. Prima con un certo Miro, il quale aveva a disposizione un dispositivo particolare, un’antenna. Il quale individuò la posizione della sorella di Pietro Pulizzi, il papà di Denise.” racconta Marinaro. Marinaro ha inoltre contribuito alle indagini in altre occasioni. “Frazitta mi disse che un benefattore aveva messo 100.000 Euro di premio a chiunque aiutasse a trovare la bambina. Un pregiudicato che conoscevo mi disse di avere notizie importanti, ma poi mi diede buca.” racconta. Dopo un’interruzione pubblicitaria è trasmessa la testimonianza di Mariana; una giovane che avrebbe identificato la donna di origini Rom presente nel video girato a Milano nel 2004. Si chiamerebbe Florina, e sua figlia, presumibilmente adottiva, somiglierebbe, secondo Mariana, a Denise.La guardia giurata che ha girato il famoso video a Milano è ospite questa sera, e afferma di non credere a Mariana.
Un nuovo testimone, l’impronta sulla Ford Fiesta. Segue l’intervista a un nuovo testimone che potrebbe avere dettagli ulteriori sulla scomparsa di Denise. E’ a quest’uomo, di origini Rom, che Piero Pulizzi, il padre di Denise, si rivolse nei giorni successivi alla scomparsa della figlia. Quindi, l’investigatore privato Espedito Marinaro afferma che: “la donna nel video con Denise non sta storpiando il nome della bambina. Le sta dicendo, in un dialetto Rom, di scappare. Danas significa -scappa-“.
Poi, è raccontata la storia del ritrovamento, all’epoca della scomparsa, di un’impronta che sarebbe potuta appartenere a Denise su un’autovettura Ford Fiesta. La stessa Ford Fiesta, forse, che alcuni testimoni affermano di aver visto nelle vicinanze della casa di Denise un anno prima della scomparsa della bambina. La pista, tuttavia, non fu seguita. Luigi Simonetto, perito della procura, ha sempre affermato, e ribadisce oggi, che “quell’auto andava analizzata attentamente”.
Lorenzo Mango. Appassionato di Cinema e Serie TV, di libri e di fumetti, di video e di videogiochi. Di avventure, si può dire riassumendo. Non ama molto dormire, ma a volte lo costringono. Del resto, gli servirebbero delle "vite extra" per seguire tutti i suoi hobby e interessi. Intanto, fa quel che può con quella che ha: scrive, disegna, registra video, ogni tanto mangia. A tal proposito, potrebbe sopravvivere mangiando solo pizza. Se serve, anche pizza estera, quando viaggia. Sì, anche quella con sopra l'ananas.
Silvia M. C. Senette per "corriere.it" il 13 giugno 2021. «Buongiorno, sono un sensitivo tedesco e ho collaborato con successo nel ritrovamento di diverse persone disperse in Germania e in Italia. Non chiedo mai soldi per il mio aiuto. Vi scrivo perché mi è stato chiesto di pronunciarmi sul caso di Saman Abbas, la ragazza pakistana scomparsa a Novellara. Secondo le mie percezioni, il corpo della povera Saman si trova in questa zona». Con queste poche righe, accompagnate da un link di geolocalizzazione che individua un punto preciso della zona agricola al di là del canale della bonifica parmigiana Moglia, di fronte alla pista di autocross di Novellara, mercoledì 9 giugno Michael Schneider contattava via e-mail i carabinieri di Reggio Emilia, impegnati nelle ricerche della 18enne scomparsa lo scorso 29 aprile. Il chiaroveggente di Siegburg, una cittadina tedesca poco distante da Bonn, è un ex giornalista laureato in scienze politiche di 50 anni che, da quindici, affianca nell’ombra e a titolo gratuito gli inquirenti di tutta Europa per la risoluzione dei casi di cronaca più complessi.
Dai Maddie ai coniugi Neumair. Decisivo, nei mesi scorsi, il suo contributo nel ritrovamento dei corpi di Laura Perselli e Peter Neumair, i coniugi di Bolzano scomparsi la notte tra il 4 e il 5 gennaio — uccisi dal figlio Benno — e ritrovati cadavere nelle acque dell’Adige a distanza di due mesi l’una dall’altro a breve distanza dai punti indicati dal sensitivo tedesco. Ma i casi che vedono un intervento spontaneo di Schneider sono molti. «Ho aiutato a risolvere i casi di Yam Levy, la 23enne israeliana scomparsa in Germania, e Iushra Gazi, l’adolescente bengalese ritrovata a Serla, Larissa Biber, assassinata dal fidanzato, e Gloria Albrecht, la 26enne del Vorarlberg svanita nel nulla dopo essere uscita per fare shopping», racconta il medium che si era messo a disposizione delle autorità internazionali per comunicare le sue percezioni anche sul caso di Madeleine McCann, la bimba inglese scomparsa nel 2007 a Praia da Luz, in Portogallo. «Dalla Germania avevo identificato un tratto di costa con un’insenatura in Algarve. Purtroppo le forze dell’ordine locali non hanno mai cercato Maddie in quella gola, ma successivamente alcuni escursionisti hanno trovato proprio lì un materasso, in una riserva naturale non accessibile in auto».
Saman e il boschetto. Qualche giorno fa, rivela il chiaroveggente, dall’Italia gli è giunta richiesta di offrire il suo aiuto gratuito per risolvere il caso di Saman e Michael Schneider ha agito come di consueto. «Mi basta guardare una foto per sentire se quella persona è viva o morta — racconta —. Raramente vedo immagini. Se voglio trovare uno scomparso prendo una mappa e lascio che i miei occhi e le mie dita vaghino sulla cartina sempre più nel dettaglio finché si fermano su un punto preciso. Non mi occorre sapere molto del caso: solo il nome della persona, il luogo di residenza e l’ultimo di avvistamento». Nel caso di Saman, le sue percezioni sono piuttosto nette, gli inquirenti stanno cercando il corpo mentre uno dei cugini, indagato e arrestato, Ikram Ijaz, dice di non c’entrare nulla. «La mia intuizione è che Saman sia morta e si trova a nord di Novellara, intorno a un boschetto, a quello che sembra un piccolo stadio di calcio», rivela mostrando sulla cartina il punto esatto che catalizza le sue energie. Non sempre le sue sensazioni sono infallibili, ammette Schneider, ma «se la mente è sgombra da pensieri, le indicazioni che mi arrivano sono chiare e capisco subito se posso risolvere senza incertezze un caso. La sensitività è un dono divino: non si può imparare, ma si può perdere se si utilizza in modo improprio. Io stesso ho sperimentato l’assenza di percezioni in un periodo in cui sono stato troppo accecato dall’ego».
«Un dono, prego per conservarlo». Il medium, che si considera «solo un “trasmettitore”, come un ricevitore radio che veicola informazioni dal mondo spirituale a quello terreno», ha iniziato ad avere visioni già da bambino: «Fino ai 19 anni non riuscivo a interpretarle. Poi, dopo una grave malattia, è diventato tutto molto più chiaro e negli ultimi anni il dono è aumentato. Per conservarlo devo pregare, meditare molto e comportarmi in modo corretto». Nonostante critiche e scetticismo, Michael Schneider continua a mettere a disposizione il suo tempo e le sue percezioni sovrannaturali in modo gratuito, sperando che le forze dell’ordine si dimostrino aperte alla possibilità di verificare quanto da lui segnalato. «Qualche giorno fa mi è stato chiesto aiuto per il caso di Roberta Ragusa (scomparsa da Gello San Giuliano Terme il 13 gennaio 2012, ndr) e ieri, nonostante una forte emicrania, ho “sentito” una posizione esatta». Sulla mappa indica una zona boschiva compresa in uno stretto tornante tra Borgo degli Aranci, in località Le Capanne, e l’agriturismo La Grotta di Monticelli, nella località pisana di San Giuliano Terme. «Secondo le mie percezioni Roberta è stata spinta giù per il pendio dalla strada. Non è stata seppellita ma semplicemente scaricata su una collina molto boscosa».
«Mi giudicano eroe o ciarlatano». Dall’Italia gli è stato chiesto aiuto anche per risolvere i casi di Angela Celentano, la bimba di tre anni scomparsa nel 1996 durante una gita con la famiglia sul Monte Faito, e di Denise Pipitone. «Su Angela ho avuto subito la percezione di non poter essere utile, mentre ho la chiara percezione che, purtroppo, Denise non sarà trovata e il caso non sarà risolto. Ricevo chiari segnali rispetto al fatto che sarà meglio per i familiari cercare pace e chiudere il caso, anche se so che le mie parole sarebbero inaccettabili per una madre. Sento che si potrà cercare Denise per altri 17 anni e oltre senza trovarla mai». Raggiunto da continue segnalazioni, Michael Schneider ammette di non sentirsi subissato di richieste di aiuto. «C’è chi pensa che io sia un eroe e chi mi dà del pazzo o del ciarlatano — spiega —. Ma io voglio essere utile, per quanto possibile, a chi ha perso i suoi cari dimostrando che c’è più energia e amore tra cielo e terra di quanto possiamo vedere e cogliere ogni giorno».
"Prima o poi fate una brutta fine". A Mazara esplode l'ira contro i giornalisti. Francesca Galici il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Clima di tensione a Mazara del Vallo: le indagini stringono il cerchio sul caso di Denise Pipitone e i giornalisti vengono minacciati. Una falsa pista proveniente dalla Russia lo scorso aprile ha di fatto riacceso i riflettori sul caso della sparizione di Denise Pipitone. Olesya Rostova non è la bambina scomparsa da Mazara del Vallo il 1 settembre 2004 ma l'interesse dei media attorno alla figura di questa giovane ragazza russa ha dato il via a una nuova tornata di indagini che, a distanza di 17 anni, sembrano poter mettere un punto definitivo in questo mistero. Giornalisti da tutto il Paese sono tornati nella cittadina in provincia di Trapani ma questo rinnovato interesse non sembra far piacere ad alcuni abitanti, come dimostrano le minacce ricevute da una troupe di Chi l'ha visto impegnata nella registrazione di un servizio. Il programma condotto da Federica Sciarelli è uno di quelli che in questo finale di stagione si è maggiormente occupato del caso di Denise Pipitone. È alla redazione di Chi l'ha visto che è arrivata la segnalazione della somiglianza tra Olesya, che in Russia cercava la sua famiglia, e la bambina siciliana. I giornalisti del programma di Rai3, fin dallo scorso aprile, sono tornati con costanza a Mazara del Vallo per indagare e cercare di scoprire qualcosa di nuovo sulla sparizione della bambina. Negli ultimi giorni, però, forse anche perché le indagini sembra stiano arrivando a una svolta, il clima nella cittadina del trapanese si è surriscaldato e alcuni giornalisti di Chi l'ha visto sono stati minacciati verbalmente da alcuni abitanti del luogo. "Andatevene pezzi di merda, bastardi, schifosi, siete solo dei pezzi di merda, via da qui", ha urlato un uomo all'indirizzo della troupe di Chi l'ha visto, costretta a scappare per evitare conseguenze più serie. Ma non è stato l'unico episodio di minacce documentato dalle telecamere della trasmissione e successivamente mandato in onda durante l'ultima puntata della stagione del programma di Federica Sciarelli. Quando la giornalista si è recata sotto a casa di Anna Corona, ex moglie del padre naturale di Denise Pipitone, un uomo è uscito da un portone e l'ha minacciata: "Vi stiamo guardando perché prima o dopo fate una brutta fine". A Mazara del Vallo si respira un clima di fortissima tensione ma sono fortunatamente pochi gli episodi come questi. Federica Sciarelli, infatti, a margine delle immagini trasmesse ha commentato: "Non è bello, perché i giornalisti stanno facendo il loro lavoro. Ma bisogna dire che sono poche persone. La maggior parte degli abitanti partecipa alla ricerca di Denise, abbiamo visto anche tante fiaccolate".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Denise Pipitone, Lucilla Masucci della Vita in diretta aggredita a Mazara del Vallo: "Aiutami a non farti ammazzare". Libero Quotidiano il 15 giugno 2021. Dopo l'inviato di Ore 14, anche Lucilla Masucci della Vita in diretta minacciata e aggredita a Mazara del Vallo. La giornalista di Alberto Matano da mesi sta affrontando il tema della scomparsa di Denise Pipitone e nel paese siciliano la tensione è altissima. "Siamo solidali con i colleghi di Ore 14, a Fadi che era lì a fare il suo lavoro di cronista. A fare le domande, cercando le persone - ha spiegato Matano in studio su Rai1 -. Nessuno invade il campo di nessuno. Il lancio del casco e le minacce che avete sentito sono inaccettabili. Tutto questo è accaduto anche a Lucilla Masucci nei giorni scorsi". Quindi i dettagli, sconvolgenti, su quanto accaduto. La Masucci aveva fatto visita a una donna di Mazara per scoprire qualche dettaglio in più su quanto è accaduto l'1 settembre 2004, giorno della scomparsa della piccola Denise. "Spacco la telecamera", alza la voce la donna. Poi interviene un uomo: "Con me neanche 50 poliziotti ce la fanno, mi volete fare diventare pazzo? Fuori, fuori da casa mia". La giornalista prova a mediare: "Mi devi aiutare a capire perché reagite così". "Tu - è la sua agghiacciante risposta - mi devi aiutare a non farti ammazzare quando esci fuori". "Sia io che il collega stavamo cercando di parlare con Gaspare Ghaleb - rivela la Masucci a Matano -. È l'unico ad essersi beccato due anni per falsa testimonianza in questa storia. Dopo 17 anni, è possibile porgli delle domande e avere delle risposte?". Matano ha poi smentito, come Milo Infante, la versione della ex pm Maria Angioni, secondo cui Denise sarebbe ancora viva e avrebbe una figlia. "Ho ricevuto un sms sulla presunta Denise. Sarebbe molto seccata dalle affermazioni dell’ex pm Angioni e potrebbe sporgere denuncia. Abbiamo fatto delle verifiche e molti elementi portano a pensare che non sia effettivamente Denise. Anche l’età non corrisponderebbe". Secondo indiscrezioni, la donna della foto sarebbe in realtà la cugina dell'ex compagno di Jessica Pulizzi, sorella maggiore di Denise Pipitone.
"Andatevene o vi uccido", troupe Rai aggredita a Mazara del Vallo. Francesca Galici il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Ancora un'aggressione ai danni dei giornalisti a Mazara del Vallo per il caso Pipitone: una troupe Rai è stata colpita con un casco e minacciata. Ancora un'aggressione per una troupe giornalistica impegnata nella narrazione del caso di Denise Pipitone da Mazara del Vallo. Dopo le minacce verbali a un giornalista poche settimane fa, nelle ultime ore si è passati ai fatti nei confronti di un inviato della trasmissione Ore 14 condotta da Milo Infante su Rai2. A denunciarlo con una nota sono stati i sindacati Usigrai e Fnsi, che esprimono vicinanza al giornalista Fadi El Hnoud e al suo operatore, anche lui coinvolto nell'aggressione a colpi di casco da parte di un abitante di Mazara del Vallo, di cui non sono state rese note le generalità. "Minacciata la troupe del programma di Rai2 Ore14. Giornalista e operatore sono stati minacciati a Mazara Del Vallo, dove erano per seguire la storia di Denise Pipitone", si legge nella nota dei sindacati, che sottolineano la costituzione in parte civile contro chi ha compiuto il gesto violento. Netto anche l'intervento del Comitato di redazione Rai a fronte dell'ennesima aggressione subita in Sicilia per il caso della scomparsa di Denise Pipitone: "A Mazara del Vallo le telecamere della Rai danno fastidio a chi non vuole che i cittadini siano informati. Vale per la ricerca di verità per Denise Pipitone, così come per le piazze di spaccio disturbate dalle telecamere". Il Cdr, quindi, prosegue: "Dopo l’aggressione verbale delle scorse settimane ai colleghi di 'Chi l’ha visto?' Filomena Rorro e Francesco Paolo Del Re, oggi (ieri, ndr) si è passati alla violenza fisica ai danni dell’inviato di Ore 14 Fadi El Hnoud, anche lui lì per realizzare alcune interviste sul caso di Denise Pipitone". È poi arrivato l'intervento del conduttore Milo Infante, che con un post pubblicato sulla sua pagina pubblica di Facebook ha fornito alcuni dettagli ulteriori sulla vicenda: "Cercare la verità su Denise a Mazara può essere pericoloso. Ore 14 è vicina al nostro Fadi: tanta solidarietà e affetto per lui. La nostra trasmissione è anche questo: cercare in strada le notizie e ottenere botte e minacce. Questo signore sarà denunciato, anche se dice di non avere nulla da perdere. Ringraziamo invece gli abitanti di Mazara del Vallo che ci hanno sempre accolto con affetto e disponibilità". Le parole dell'uomo nei confronti dell'inviato e del suo operatore sono state inequivocabili: "Andatevene, dovete andarvene perché altrimenti io vi uccido. Mi avete stancato, dovete andare via da qui. Non mi importa nulla. Capite? Perché io vi uccido. Via da qui, ci avete stancato. Cavoli vostri. Io non ho nulla da perdere, vi avviso".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Denise Pipitone, il cugino di Gaspare Ghaleb aggredisce la troupe di Ore 14: "Vattene, ti ammazzo". Libero Quotidiano il 22 giugno 2021. Nello speciale di Ore 14, il programma di Rai 2 condotto da Milo Infante, è andata in scena l'aggressione ai danni della troupe che stava indagando sul caso di Denise Pipitone. A spiegare l'accaduto è stato lo stesso conduttore che ha aperto la puntata del 21 giugno leggendo un esposto dei mazaresi contro i giornalisti: "Spesso a seguito dei servizi mandati in onda dai programmi televisivi Rai e Mediaset, che citano i nostri nomi o dati identificativi, riceviamo commenti negativi ed offensivi sui profili Facebook, o commenti sotto il link della notizia o video che vengono pubblicati senza il nostro consenso, che ha ricevuto diverse minacce nei commenti da parte di soggetti che commentano la notizia che qui si allegano". Quanto scritto però non basta a Infante per gettare la spugna. Di più, il conduttore ha espresso "vergogna e disdoro" per quanto avvenuto in rete ma tiene a mostrare comunque il video dell’aggressione al giornalista Fadi El Hnoud che "ha rischiato di farsi picchiare ed è stato minacciato di morte". Nel filmato si vede l'inviato aggredito da Michele Giacalone, figlio di Giovanna Provenzano, zia di Ghaleb (l'ex fidanzato di Jessica Pulizzi): "Vattene, sennò ti ammazzo" – urla l’uomo, minacciando l’inviato con un casco da moto. "Chi sono? Sono il figlio della signora Provenzano, vattene! Non ci credi che se vengo lì ti faccio mangiare la telecamera? Se mi vedo sulla Rai o da qualche altra parte… Io vengo… ca***i vostri sono. Io non ho nulla da perdere, vi avviso". L'aggressore in men che non si dica passa dalle parole ai fatti e scaglia il casco addosso al giornalista, colpendolo su una gamba. A quel punto è stato Infante a prendere la parola e mettere le cose in chiaro a Giacalone: "Non abbiamo paura di te, ti abbiamo denunciato ai carabinieri. Se non hai niente di perdere, sarà l’ennesima occasione in cui lo dimostrerai. Ma minacciare di morte chi sta facendo il proprio lavoro non è edificante. Quindi, se vuoi fare il duro, continua a farlo, ma poi non vai da un avvocato a dire che i giornalisti ti disturbano, perché li hai aggrediti. Quel casco poteva arrivare anche in testa al nostro Fadi e gli avrebbe potuto far male. Le minacce di morte non sono accettabili". E infine lo sfogo: "Fatevi un’idea di come si lavora in certi ambienti a Mazara del Vallo, non tutta la città, ma in un cerchio ristretto di persone".
"Ti ammazzo...", minacce ai giornalisti sul caso Pipitone. Francesca Galici il 22 Giugno 2021 su Il Giornale. Minacce e intimidazioni contro i giornalisti denunciate da Milo Infante su Rai2 nei confronti degli inviati a Mazara del Vallo sul caso Denise Pipitone. Sul caso di Denise Pipitone la sensazione è che a breve ci potrebbero essere sviluppi interessanti per la risoluzione di un mistero che dura ormai da 17 anni. Giornalisti e trasmissioni televisive se ne occupano con frequenza, con servizi da Mazara del Vallo, per fornire quante più informazioni possibili. Tra questi c'è Ore 14, la trasmissione del pomeriggio di Rai2 condotta da Milo Infante, che nonostante abbia chiuso la stagione regolare per la pausa estiva, per alcune settimane continuerà ad andare in onda il lunedì con degli speciali approfondimento su Denise Pipitone. Il clima è teso nella cittadina siciliana, dove alcuni mazaresi si mostrano intolleranti alla presenza della stampa, tanto da aver fatto un esposto contro i giornalisti. "A seguito dei comportamenti tenuti dai giornalisti nei nostri confronti, abbiamo modificato le nostre abitudini di vita in quanto non possiamo più uscire liberamente dalle nostre case o recarci a lavoro senza timore di essere seguiti, alcuni di noi hanno anche smesso di andare a lavorare temendo la presenza dei giornalisti sul posto di lavoro", si legge nella nota. Come riporta il sito di cronaca locale Tp24, tra i firmatari della nota pare ci siano anche alcuni parenti di Anna Corona. Milo Infante ha letto una parte del comunicato nel corso dell'ultima puntata: "Spesso a seguito dei servizi mandati in onda dai programmi televisivi Rai e Mediaset, che citano i nostri nomi o dati identificativi, riceviamo commenti negativi ed offensivi sui profili Facebook, o commenti sotto il link della notizia o video che vengono pubblicati senza il nostro consenso (da ultimo si veda il video che ritrae il Giacalone Michele, figlio di Provenzano Giovanna, zia di Ghaleb), che ha ricevuto diverse minacce nei commenti da parte di soggetti che commentano la notizia che qui si allegano". Il conduttore si è giustamente dissociato da quanto avviene in rete ma ha mostrato l'aggressione subita dal giornalista Fadi El Hnoud qualche giorno fa. "Vattene, sennò ti ammazzo", urla un uomo al suo indirizzo brandendo un casco. L'uomo, poi, ha spiegato chi fosse: "Chi sono? Sono il figlio della signora Provenzano, vattene! Non ci credi che se vengo lì ti faccio mangiare la telecamera? Se mi vedo sulla Rai o da qualche altra parte, io vengo… Cazzi vostri sono. Io non ho nulla da perdere, vi avviso". La discussione è proseguita per qualche minuto, finché l'uomo non ha definitivamente perso le staffe e ha lanciato il casco all'indirizzo del giornalista che indaga sulla morte di Denise Pipitone, colpendolo di rimbalzo sulla gamba. Immagini molto forti e dal tono minatorio, che Milo Infante ha commentato in studio rivolgendosi direttamente all'uomo: "Non abbiamo paura di te, ti abbiamo denunciato ai carabinieri. Se non hai niente da perdere, sarà l’ennesima occasione in cui lo dimostrerai. Ma minacciare di morte chi sta facendo il proprio lavoro non è edificante. Quindi, se vuoi fare il duro, continua a farlo, ma poi non vai da un avvocato a dire che i giornalisti ti disturbano, perché li hai aggrediti. Quel casco poteva arrivare anche in testa al nostro Fadi e gli avrebbe potuto far male. Le minacce di morte non sono accettabili". Ma non è finita così, perché Milo Infante ha mostrato anche un altro tentativo di intimidazione nei confronti dei giornalisti impegnati sul caso Pipitone. "Se ti vedo di nuovo qui tu avrai un problema, io no", dice un uomo non identificato a Fadi Hnud. Il commento di Milo Infante è lapidario: "Fatevi un’idea di come si lavora in certi ambienti a Mazara del Vallo, non tutta la città, ma in un cerchio ristretto di persone".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Da "adnkronos.com" il 14 giugno 2021. Denise Pipitone sarebbe viva, "sistemata" in una famiglia che avrebbe legami con i rapitori e addirittura avrebbe una figlia. Questo quanto detto dall'ex pm Maria Angioni nel corso della trasmissione di Rai 1 "Storie Italiane". "La mia idea - ha infatti spiegato la pm - è che Denise sia viva ed è sistemata in qualche famiglia che ha legami con i rapitori o con alcuni componenti della quale che hanno avuto legami con i rapitori. Non è detto che sia in una famiglia rom, va cercata in ambienti che siano da noi difficilmente ispezionabili. La pista rom è collegabile al video di quella signora di Milano, ma non sappiamo neanche se sia una rom. Diciamo che era un gruppo che forse chiedeva l'elemosina. Io - ha poi ribadito Angioni - sono sicura che sia viva, nei giorni scorsi ho mandato in procura una serie di foto e documenti che mi danno la personale certezza che sia viva, ha una famiglia, ha anche una figlia. Ovviamente - spiega ancora - sono documenti che ho trasmesso solo alla procura della Repubblica e all'avvocato Frazzitta perché sono molto delicati. Poi sarà la procura a valutare se la mia valutazione è vera oppure no. Prima era una probabilità, ma ormai ho la personale certezza che sia così", conclude l'ex pm Angioni.
"Ecco la foto di Denise Pipitone e sua figlia". Dopo la bomba dell'ex pm, uno scoop clamoroso: lo scatto è impressionante. Libero Quotidiano il 14 giugno 2021. Dopo le rivelazioni dell’ex pm Maria Angioni a Storie Italiane, dalla Rai arriva un altro scoop sul caso di Denise Pipitone, la bambina rapita a Mazara del Vallo il primo settembre del 2004. Milo Infante a Ore 14 ha mostrato la foto della presunta Denise con la figlia: i volti ovviamente sono nascosti per motivi di privacy, ma il conduttore ha assicurato che la piccola è molto somigliante alla figlia di Piera Maggio al momento della sua scomparsa. Ovviamente questo non vuol dire nulla, però riaccende le speranze di trovare Denise ancora in vita. “Non possiamo mostrarvi i volti di questa famiglia - ha spiegato Infante - questa a destra secondo la fonte mia e di Frazzitta (il legale di Piera Maggio, ndr) sarebbe proprio Denise. Abbiamo fatto degli accertamenti per capire chi c’è dietro alle segnalazioni che ci sono arrivate. Abbiamo verificato la foto che ci ha dato una fonte, che è arrivata in procura grazie alla segnalazione di un magistrato. Vi assicuro che la bambina è molto somigliante”. Il magistrato a cui si fa riferimento è Maria Angioni, che poco prima a Storie Italiane aveva reso delle dichiarazioni importanti: “La mia idea è che Denise sia viva e sistemata in qualche famiglia che ha legami con i rapitori o con alcuni componenti che hanno avuto legami con i rapitori. Io sono sicura che sia viva, nei giorni scorsi ho mandato in procura una serie di foto e documenti che mi danno la personale certezza che sia viva, ha una famiglia e anche una figlia. Prima era una probabilità, ma ormai ho la personale certezza che sia così”.
“Questa è Denise Pipitone con sua figlia e il marito”, la foto a Ore 14. “Somiglianza incredibile”. Biagio Chiariello il 15/6/2021 su Fanpage.it. La bambina scomparsa da Mazara del Vallo nel settembre 2004 potrebbe essere viva. Ad annunciarlo era stata l’ex pm Maria Angioni. Ma nella puntata di Ore 14, la trasmissione condotta da Milo Infante e andata in onda oggi su Rai 2, è stata mostrata anche la foto di una bimba che ha una “somiglianza incredibile” con Denise. Con lei i genitori…Quella di ieri è stata una giornata piena di colpi di scena sul caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara del Vallo nel settembre 2004. Prima le dichiarazioni a Storie Italiane dell'ex pm Maria Angioni che aveva coordinato l'inchiesta sulla vicenda, poi la mezza smentita dell'avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frattizza, quindi nel corso della trasmissione Ore 14, la foto di una donna, col marito e la figlia, e l'annuncio del conduttore: Milo Infante: "Abbiamo fatto delle verifiche… non so se possiamo mostrare l’immagine molto suggestiva e che rappresenta una famiglia: madre, padre e bambina piccola; l’immagine, poi, viene diffusa ma con i volti oscurati: "Devo dire che questa bambina ha una somiglianza straordinaria con la piccola Denise. Questa a destra, secondo la fonte, sarebbe Denise e quello il marito", ha spiegato il conduttore.
Le parole dell'avvocato Frattizza. In precedenza Infante aveva fatto riferimento proprio alle parole della Angioni, secondo cui Denise Pipitone sarebbe viva e avrebbe anche una figlia: "L’annuncio della dottoressa Angioni, noi lo conoscevamo da mercoledì scorso, quando ci ha inoltrato questi messaggi rivolti al sottoscritto e all’avvocato Frazzitta". Quest'ultimo, come accennato, aveva provato a gettare acqua sul fuoco in giornata: "Non vediamo tuttavia la necessità – aggiunge l'avvocato- di fornire informazioni particolarmente dettagliate, frutto o meno delle indicazioni di un mitomane o che dovessero anche risultare fondate, perché ancora al vaglio della magistratura. Si tratta di dettagli non utili ai fini dell'inchiesta". Quindi l'invito a giornalisti, magistrati o avvocati "alla massima cautela nel momento in cui si diffondono notizie che possono essere infondate o contenenti elementi non riscontrati o non riscontrabili e che possono costituire un ostacolo al lavoro della Procura di Marsala".
“Denise Pipitone è viva e ha una figlia”, le dichiarazioni dell’ex pm fanno infuriare Piera Maggio. Vito Califano su Il Riformista il 14 Giugno 2021. Denise Pipitone sarebbe viva, “sistemata” in una famiglia che avrebbe legami con i rapitori e avrebbe anche una figlia. Questo almeno secondo quanto detto da Maria Angioini, ex pm, che indagò sul caso della scomparsa della bambina nel 2004 a Mazara del Vallo. L’ex magistrata ha raccontato questa versione sconvolgente alla trasmissione di Rai1 Storie Italiane. Parole da prendere con le pinze per i telespettatori e da stigmatizzare per la famiglia della bimba che da 17 anni cerca risposte a un mistero irrisolto. Angioini durante la trasmissione Rai ha detto la sua, facendo riferimento al video del 2004, realizzato dopo pochi mesi dalla scomparsa, da una guardia giurata a Milano, che riprendeva una bimba somigliante a Denise con una famiglia nomade: “La mia idea è che Denise sia viva ed è sistemata in qualche famiglia che ha legami con i rapitori o con alcuni componenti che hanno avuto legami con i rapitori. Non è detto che sia in una famiglia rom, va cercata in ambienti che siano da noi difficilmente ispezionabili. La pista rom è collegabile al video di quella signora di Milano, ma non sappiamo neanche se sia una rom. Diciamo che era un gruppo che forse chiedeva l’elemosina – ha aggiunto – sono sicura che sia viva, nei giorni scorsi ho mandato in procura una serie di foto e documenti che mi danno la personale certezza che sia viva, ha una famiglia, ha anche una figlia. Ovviamente sono documenti che ho trasmesso solo alla procura della Repubblica e all’avvocato Frazzitta perché sono molto delicati. Poi sarà la procura a valutare se la mia valutazione è vera oppure no. Prima era una probabilità, ma ormai ho la personale certezza che sia così”. Il caso di Denise è tornato prepotentemente all’ordine del giorno in questi primi mesi del 2021. Inizialmente per il caso di una ragazza russa, Olesya Rostova, che ha cercato tramite una trasmissione i genitori. Una vicenda dai contorni grotteschi che per settimane è stata seguita con assiduità da programmi e media italiani. Nulla di fatto. Anzi, un teatrino triste per lo più. Quindi le ispezioni a casa di Jessica Pulizzi e Anna Corona, già indagate sul caso ma assolte, a Mazara del Vallo, l’ipotesi di una ragazza che vive in Calabria e le dichiarazioni di un anonimo. L’avvocato della famiglia di Denise ha detto di non aver ricevuto segnalazioni sul contenuto delle parole di Angioini. “Invitiamo tutti — giornalisti, magistrati o avvocati — alla massima cautela nel momento in cui si diffondono notizie che possono essere infondate o contenenti elementi non riscontrati o non riscontrabili e che possono costituire un ostacolo al lavoro della Procura di Marsala”, ha detto l’avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta, dopo le parole di Angioni. “Non vediamo tuttavia la necessità di fornire informazioni particolarmente dettagliate, frutto o meno delle indicazioni di un mitomane o che dovessero anche risultare fondate, perché ancora al vaglio della magistratura – ha detto a Sicilia 24 – Se si tratta di qualcosa che ha a che vedere con un ex detenuto di origine maghrebina, devo dire che si tratta di un mitomane che conosciamo da anni. Si tratta di qualcosa che fu controllata da noi. Quindi massima cautela. Si crea una bolla che fa solamente del male”. Non è la prima volta che Angioini si esprime con dichiarazioni sorprendenti sul caso, sia sui gruppi di persone, “cattive” e “buone”, coinvolti nel caso; o dei problemi degli investigatori nel corso delle indagini e del fatto che dopo tre giorni tutte le persone sottoposte a intercettazioni ne erano al corrente. Attualmente l’ex pm è giudice del lavoro.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
"Denise è viva e ha una figlia". Angela Leucci il 14 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ex pm Maria Angioni accenna a una nuova pista su Denise Pipitone: sarebbe felice in famiglia e ha anche una bambina. Una nuova pista nel caso Denise Pipitone potrebbe aprire ben altri scenari. È quella suggerita dall’ex pm del caso Maria Angioni, che ha già provveduto a contattare la procura di Marsala e l’avvocato di Piera Maggio Giacomo Frazzitta: Angioni, ospite nella puntata di stamattina di “Storie italiane”, ha raccontato di essere giunta a una conclusione personale. Secondo la pm, oggi giudice del lavoro, Denise è viva ed è sistemata in qualche famiglia che ha legami con i rapitori, una famiglia benestante e felice. Per questa ragione non fornisce nessun dettaglio specifico ma solo qualcuno generico, "bisogna andare coi piedi di piombo”. "Io sono sicura che sia viva - ha detto Angioni riferendosi a Denise -. Fra l’altro, nei giorni scorsi, ho mandato in procura una serie di documenti e di foto, che a me danno la personale certezza che Denise sia viva, ha una famiglia e ha anche una figlia”. Angioni ha aggiunto in trasmissione di aver agito in qualità di cittadina, per restituire la propria identità a Denise, e di averne parlato per indurre chi sa, a Mazara del Vallo, ad agevolare il lavoro degli inquirenti. Secondo Angioni, a Mazara qualcuno può e deve raccontare, “è un grosso imbroglio ai danni di Piera Maggio”. La famiglia di Denise però invita alla cautela. "Invitiamo tutti - giornalisti, magistrati o avvocati - alla massima cautela nel momento in cui si diffondono notizie che possono essere infondate o contenenti elementi non riscontrati o non riscontrabili e che possono costituire un ostacolo al lavoro della Procura di Marsala", ha detto Frazzitta all'Ansa. L'avvocato ha inoltre smentito segnalazioni e ricordato come Angioni sia un magistrato "che nella sua funzione potrebbe avere un canale privilegiato con i suoi colleghi". "Non vediamo tuttavia la necessità - ha spiegato il legale di Piera Maggio - di fornire informazioni particolarmente dettagliate, frutto o meno delle indicazioni di un mitomane o che dovessero anche risultare fondate, perchè ancora al vaglio della magistratura". Angioni ha inoltre spiegato che continua a credere all’ipotesi da sempre sostenuta, cioè che ci sia stato un passaggio di mano della bambina, soprattutto attraverso ambienti non ispezionabili, non necessariamente rom. Sicuramente, secondo l’ex pm, uno dei passaggi è quello di Milano, ossia quel nucleo di nomadi ripreso nei video della guardia giurata Felice Grieco insieme alla piccola Danas. La testimonianza di Angioni giunge a pochi giorni da quella di Mariana, una giovane rom che sostiene di aver riconosciuto la donna su una foto pubblicata da Grieco sui social. Mariana ha contattato Angioni, che le ha suggerito che, nel momento in cui fosse sicura di ciò che sosteneva, avrebbe dovuto contattare solo i carabinieri e l’avvocato Frazzitta. “La vita delle famiglie rom è ora permeabile, ci sono persone che hanno il coraggio di raccontare”, ha chiosato Angioni, specificando come però la propria teoria sia ben diversa da quella di Mariana. Sempre a “Storie italiane”, Mariana aveva detto: “Io ho identificato questa persona. Era mia zia, ovvero la compagna o moglie del fratello di mio padre. Florina si faceva chiamare da noi”. Mariana ha raccontato di aver avuto contatti con la figlia adottiva di Florina - cioè colei che secondo Mariana potrebbe essere Denise - attraverso Facebook: la giovane, che prima era in Francia e ora potrebbe essere in Romania, utilizzava più profili social e alla fine pare abbia bloccato la cugina.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
“Abbiamo scoperto chi è quella ragazza”. Denise Pipitone, svolta sul caso della ragazza sposata. Da caffeinamagazine.it il 16/6/2021. Ancora una volta la voglia di fare lo scoop supera ogni limite. Dopo la vicenda della Denise Pipitone russa, che nulla aveva a che vedere con la ragazzina scomparsa a Mazara del Vallo, ora si torna a cercare in maniera quasi compulsiva la stessa, ovunque. Alberto Matano ha dichiarato nella puntata in onda su Rai Uno martedì 15 giugno che la sua inviata, Lucilla Masucci, è stata aggredita a Mazara del Vallo. La giornalista stava cercando di parlare con Gaspare Ghaleb, l’ex fidanzato di Jessica Pulizzi, quando è stata minacciata e insultata. Stessa sorte è toccata a Fadi, inviato di Ore 14, il programma di Milo Infante in onda su Rai Due. Come abbiamo già raccontato, il giornalista è stato aggredito a colpi di casco mentre svolgeva il suo lavoro. Alberto Matano ha espresso solidarietà e vicinanza al suo collega. Il padrone di casa de La vita in diretta ha poi svelato le ultime novità sulla presunta Denise Pipitone raccontata dall’ex pm Maria Angioni. Queste le dichiarazioni di Alberto Matano: “Ho ricevuto un sms sulla presunta Denise. Sarebbe molto seccata dalle affermazioni dell’ex pm Angioni e potrebbe sporgere denuncia”. E continua il conduttore de La vita in diretta: “Abbiamo fatto delle verifiche e molti elementi portano a pensare che non sia effettivamente Denise. Anche l’età non corrisponderebbe”. Stando a quanto trapelato nelle ultime ore la ragazza, originaria della Tunisia, sarebbe la cugina dell’ex compagno di Jessica Pulizzi, sorella maggiore di Denise Pipitone. Su Instagram, nel profilo della giovane, ci sarebbe addirittura un commento di Jessica. Non è finita, perché della stessa vicenda ha dato simil versione anche Milo Infante a Ore 14. Il presentatore ha assicurato che la persona indicata dall’ex pm Maria Angioni come Denise Pipitone non è altro che una ragazza tunisina di 26 anni, nata a Mazara del Vallo, cugina dell’ex compagno di Jessica Pulizzi. Oggi la donna vivrebbe a Nizza col marito e la figlia. Insomma, ancora una volta un buco nell’acqua decisamente vergognoso. Il legale Giacomo Frazzitta ha però invitato tutti – giornalisti, magistrati e avvocati – alla massima cautela nel momento in cui si diffondono notizie che possono essere infondate o contenenti elementi non riscontrati o non riscontrabili e che possono costituire un ostacolo al lavoro della Procura di Marsala.
"Io, la donna con Denise? Vi dico la verità". Angela Leucci il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Ascoltata a "Chi l'ha visto?" una rom che in questi giorni è stata accusata di un coinvolgimento nel rapimento di Denise Pipitone: la donna ha smentito. Completamente smentita la nuova segnalazione relativa alla scomparsa di Denise Pipitone. Nella puntata di ieri di Chi l’ha visto? è intervenuta Silvana, una donna rom che è stata segnalata nei giorni scorsi da una giovane. Una ragazza di origine rom, Mariana, aveva infatti affermato che nel 2018, sulle tracce della propria famiglia naturale, aveva visitato Parigi, incontrando una donna che si faceva chiamare Florina e riconoscendo in realtà Silvana in una foto segnaletica. Secondo Mariana, Silvana/Florina era la donna che compare nel video di Danas girato da Felice Grieco nell’ottobre 2004, e in cui c'è una bimba che da sempre in molti credono essere la piccola Denise. Silvana ha smentito seccamente di essere associata in qualche modo con il rapimento della bimba di Mazara del Vallo, mostrando anche una propria foto del 2004, in cui appare per nulla somigliante alla donna del video. “Devono avere vergogna, anche per questa mamma e questa figlia che è scomparsa - ha detto Silvana a chi l’ha accusata - Mi hanno fatto star male, mi hanno fatta andare in depressione, non dormo da 8 giorni”. Il suo avvocato ha rimarcato come tra l’altro Silvana sia stata anche accusata di reati che ha commesso quando era minorenne, non certo di recente. “Non sono mai stata a Parigi in un campo rom - ha aggiunto Silvana - Nel 2018 ero a Monza. Mi hanno anche fermata i vigili con una macchina senza patente”. Silvana ha mostrato i documenti del fermo che risalgono proprio ai giorni della visita di Mariana a Parigi. Ha anche mostrato dei pagamenti, in quei giorni, di bollette della luce a lei intestate. La donna ha promesso denunce se si continuerà a parlare di lei in questi termini, perché si sente umiliata. Ospite in collegamento mamma Piera Maggio, che ha affermato di credere alla buona fede di tutti, ma ha invitato ancora una volta alla cautela, rimarcando come in questi anni abbia visto moltissime foto di presunte Denise, che però in alcune angolazioni delle foto inviate non assomigliavano in nessun modo alla sua bimba. Piera ha colto l’occasione per raccontare che alcune intercettazioni ambientali che hanno visto protagonista la sua famiglia sono servite a incalzare qualcuno a parlare, ricordando come i colpevoli vadano cercati fuori dai componenti, attuali o ex, della sua famiglia. “Tutti coloro che erano all’interno della mia famiglia sono stati rivoltati come un calzino - ha chiosato - le vittime non devono diventare carnefici”. Un video è giunto anche dalla Sardegna, in cui si trova l’ex pm Maria Angioni, che nei giorni scorsi aveva segnalato l’immagine di una ragazza e che si è scoperto non essere Denise. “Io non ho sicurezze sulle foto - si è giustificato il magistrato - Ho ritenuto che potesse essere utile comunicare il mio personale convincimento su alcune situazioni”. Infine a “Chi l’ha visto?” sono stati mostrati i video di Grieco. In particolare, è stato sottolineato che il momento in cui la bimba sembra dire “Dove mi porti?” non si vede l’immagine, e quindi non si può essere certi che sia lei a pronunciare quelle parole in italiano e con un’intonazione che potrebbe provenire dall’enclave linguistica di Mazara.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, il dramma di Piera Maggio dalla Sciarelli: "Ho scoperto di essere nonna dalla tv. Libero Quotidiano il 17 giugno 2021. Uno sfogo comprensibile, giusto, quello di Piera Maggio a Chi l'ha visto?, il programma di Federica Sciarelli in onda su Rai 3. Si parla ovviamente del caso di Denise Pipitone e delle recentissime testimonianze secondo cui sarebbe viva e avrebbe addirittura una figlia, tesi sostenuta dall'ex pm che indagava sul caso e che, però, non sembrano trovare riscontri. "Io capisco la buona fede di tutti però invito alla cautela, alla calma. Cerchiamo di non fare confusione in rete, di fare allarmismi", si è sfogata la Maggio dalla Siarelli. Per poi aggiungere: "Non è bello sentirmi dire in tv che Denise è mamma e io sarei nonna. Chiedo rispetto per noi genitori, non è possibile andare incontro a questo", rimarca. E ancora: "Non significa che gli avvistamenti non debbano essere segnalati, chiediamo però che prima ci fossero degli accertamenti, di valutare prima se siamo sulla strada giusta. Così creiamo solo confusione. Meno male che abbiamo intrapreso la strada della cautela e della riservatezza, vorrei che questo fosse rispettato anche da altri", conclude Piera Maggio. A Chi l'ha visto?, inoltre, è stata intervistata Silvana, la donna indicata da Marianna nella descrizione: si tratta di una macedone che vive da molti anni in Italia e che però ha negato qualsiasi tipo di coinvolgimento nella vicenda di Denise Pipitone.
Denise Pipitone, gli "sgarri" tra Matano e Sciarelli in Rai? "Come stanno davvero le cose", la verità sul loro rapporto. Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. Alberto Matano ha ottenuto grande successo con la prima stagione de La Vita in Diretta che lo ha visto impegnato alla conduzione in solitaria. Dopo l’addio tra le polemiche di Lorella Cuccarini, il conduttore di Rai1 ha portato il contenitore pomeridiano a ottimi livelli in termini di ascolti, vincendo praticamente sempre il duello televisivo con Pomeriggio 5 di Barbara d’Urso. Nelle scorse settimane era però emersa una polemica interna alla Rai riguardante il caso di Denise Pipitone, la bambina rapita a Mazara del Vallo il primo settembre del 2004. Secondo alcune indiscrezioni, Matano sarebbe ai ferri corti con Federica Sciarelli: la conduttrice di Chi l’ha visto si sarebbe lamentata di presunti “sgarri” da parte dei colleghi di viale Mazzini sul giallo di Mazara del Vallo. Matano ha però smentito qualsiasi tipo di voce, affermando in un’intervista rilasciata a Chi Magazine che con la Sciarelli ci parla spesso e che condivide con lei un “rapporto di profonda stima e affetto”. Poi il conduttore de La Vita in Diretta ha parlato anche della sfida televisiva con Barbara d’Urso. E lo ha fatto in maniera abbastanza diplomatica: “Andando in onda nello stesso orario non ho mai modo di seguirla, ma le riconosco un rapporto molto interattivo con il pubblico. Unico in tv. Ha un’impronta e una matrice diversa. Barbara ha una cifra stilistica unica, brillante. Ma senza alcun dubbio distante dalla mia”.
Denise Pipitone, le ultime clamorose rivelazioni a Chi l'ha visto: testimonianza-chiave, bomba della Sciarelli. Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. A Chi l'ha visto? di Federica Sciarelli su Rai 3 nella puntata in onda stasera 16 giugno si parlerà approfonditamente del caso di Denise Pipitone, alla luce delle nuove clamorose rivelazioni rilasciate dalla ex pm che si occupò della bambina sparita a Mazara del Vallo nel 2004, Maria Angioni, secondo la quale la piccola sarebbe ancora viva e sarebbe anche mamma di una bambina. La Angioni, che all'epoca era a capo della Procura di Marsala, è stata la prima ad indagare sulla scomparsa della figlia di Piera Maggio e ai microfoni di Storie Italiane si è detta certa di aver individuato una giovane che sarebbe appunto Denise. E ancora sul caso Pipitone ci sono le sconvolgenti testimonianze di Mariana Trotta, la ragazza di origini rom che avrebbe riconosciuto la nomade che nell’ottobre del 2004 è stata avvistata a Milano in compagnia di una bambina che chiamava Danas: secondo Mariana, la donna in questione si chiama Florina e aveva una figlia adottiva che potrebbe essere Denise Pipitone. Il video mandato in onda in esclusiva a Storie Italiane nella puntata di oggi 16 giugno è inquietante. Quella ragazza che si vede è Denise? Il programma di Rai Uno è andato a indagare su questa giovane e ha scoperto questo filmato: "Potrebbe essere un video molto interessante", osserva l'inviata Maria Grazia Sanrocco, "perché si vede una ragazza che stando a quanto ricostruito sarebbe proprio la stessa a cui fa riferimento Marianna”. "Questa ragazza fa una videochiamata", prosegue l'inviata, "e in quel momento si sente una voce maschile, e la cosa che ci ha colpito e che questa voce la chiama in un modo completamente diverso, la chiama Denisa". "Di fronte a questo nome abbiamo fatto un salto, ci siamo chiesti come sia possibile visto che sappiamo che questa ragazza è sempre stata chiamata diversamente. Ci ha fatto riflettere e abbiamo continuato a vedere la conversazione". Il video, sottolinea la giornalista, "è ora nelle mani degli investigatori, che dovranno accertare le autenticità del tutto e l’identità di questa ragazza”.
Giorgia Peretti per "iltempo.it" il 17 giugno 2021. Denise Pipitone, bomba di Chi l’ha visto parla la rom associata al video di Milano “non sono lei, ora basta” Nuova intervista esclusiva sul caso di Denise Pipitone a parlare è la donna rom associata al video di Milano. Nella puntata di mercoledì 16 giugno, “Chi l’ha visto?” il programma condotto da Federica Sciarelli su Rai 3, torna a parlare della bambina scomparsa a Mazara Del Vallo nel 2004. Dopo le numerose segnalazioni emerse nelle ultime settimane la pista dei rom sembra tornare a far discutere, la bambina un mese dopo il suo rapimento fu avvistata a Milano da Felice Grieco. L’ex guardia giurata nell’ottobre del 2004 riprese con il suo telefonino la scena di una donna nomade assieme ad una bambina chiamata dalla stessa “Danàs”. Un profilo, quello della rom, che ha sollevato numerosi interrogativi sul caso della piccola Denise, soprattutto dopo l’ultima segnalazione di Mariana, la ragazza che ha affermato con certezza di aver riconosciuto la donna misteriosa in un campo rom. La produzione di “Chi l’ha visto?” è riuscita a mettersi in contatto con lei e ai microfoni della trasmissione dice la sua verità. Anche questa segnalazione sembra sfumare nel nulla, la donna indicata da Mariana in realtà non sarebbe la nomade del video. Si chiama Silvana è macedone e dice di non credere a tutto ciò che viene detto sul suo conto: “io non sono la signora non c’entro niente con questa vicenda. Mi vergogno a uscire di fuori adesso perché la gente chissà che pensa, io non sono questa persona qui. Devono vergognarsi di quello che dicono e lo devono fare anche per la mamma. Mi hanno fatto stare male, sto in depressione non dormo da 8 giorni.” Nel corso della diretta vengono mostrate delle foto della stessa donna negli anni precedenti, in uno scatto risalente al 2004 la rom appare visibilmente diversa rispetto alla nomade di Milano. Inoltre, Silvana avrebbe un segno molto evidente sulla fronte, tratto distintivo che non viene notato sul volto dell’altra donna. Nel corso della trasmissione vengono smentiti anche i riferimenti cronologici suggeriti dal racconto di Mariana, la donna dimostra attraverso multe e fatture di non essere mai stata in Francia: “Io nel 2018 non sono mai stata a Parigi, sono stata qui a Rovato. Mi hanno fermato i vigili mi hanno fatto il verbale perché non avevo la patente.” Infine, avverte: “Chi si mette a dire delle menzogne, e pubblica di nuovo le mie foto io li denuncio.” In collegamento anche la mamma di Denise, Piera Maggio la quale esorta alla cautela: “capisco la buona volontà e la buona fede ma un po’ di rispetto per la famiglia”. Poi continua riferendosi alla segnalazione dell’ex pm Maria Angioni anch’essa rivelatasi errata: “Io non posso sentire che Denise è viva e io sari anche nonna. Va bene fare delle segnalazioni ma prima bisogna fare dei controlli, soprattutto se a parlare è una persona con la Angioni. Io credo nella sua buona fede ma non è facile sentire queste cose per noi.”- conclude la Maggio.
Denise Pipitone, Alberto Matano a La Vita in Diretta: "Alibi smontati". Gaspare Ghaleb, sospetto pesantissimo. Libero Quotidiano il 17 giugno 2021. Crollano sempre più le ricostruzioni date da Jessica Pulizzi e il fidanzato dell'epoca, Gaspare Ghaleb. Sono loro, la figlia del padre di Denise Pitone e l'ex compagno, al centro delle nuove indagini sul caso della bambina scomparsa diciassette anni fa da Mazara del Vallo. A parlarne anche La Vita in Diretta con Alberto Matano che apre la puntata del 17 giugno affermando: "Gli alibi vengono smontati". Poi su Rai1 il conduttore scende nel dettaglio: "Aveva dichiarato - dice Matano in riferimento a Gapsare - di aver saputo della sparizione di Denise da Jessica che lo aveva chiamato per dirgli di guardare il Tg Vallo. Ma quella telefonata non risulta da nessuna parte". A fargli eco l'inviata Lucilla Masucci: "Ghaleb aveva detto che stava guardando i cartoni animati e che Jessica gli aveva telefonato. Peccato che quella telefonata non esiste. L'ultima telefonata è alle 13.10. Ma come ha fatto Ghaleb ad aver saputo della sparizione se il tg è andato in onda alle 13.39. Vuol dire che lo sapeva prima che la notizia fosse pubblica". Ma è il maresciallo, che già si era occupato delle indagini, Francesco Lombardo ad aggiungere che aggiunge un altro dettaglio che ribalta le testimonianze rilasciate dai due: "Ghaleb disse che stava guardando Dragon Ball e i Simpson, ma quella programmazione era ancora sospesa per l'estate. Quando Denise sparisce il cellulare di Jessica avrebbe agganciato celle vicino al luogo della sparizione". Per il momento gli inquirenti seguono la pista rom. Anche questa irta di ostacoli. La troupe di Chi l'ha Visto è riuscita a raggiungere la rom che molti credevano essere la donna accanto a Danas, la bambina filmata dalla guardia giurata e somigliante a Denise. La donna, Silvana Jankovic, respinge però ogni accusa: "Io non sono la signora non c’entro niente con questa vicenda. Mi vergogno a uscire di fuori adesso perché la gente chissà che pensa, io non sono questa persona qui. Devono vergognarsi di quello che dicono e lo devono fare anche per la mamma. Mi hanno fatto stare male, sto in depressione non dormo da 8 giorni". E anche questa pista sembra un buco nell'acqua.
Chi è davvero l'ex pm che ora rivela i segreti di Denise. Angela Leucci il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Il caso di Denise Pipitone fu costellato di errori: nella lente di ingrandimento dell'opinione pubblica è finita di recente l'ex pm Maria Angioni. Sono quasi 17 anni che Denise Pipitone è scomparsa, ma oggi più che mai ci si interroga sui presunti errori accaduti all’inizio dell’indagine e poi in sede processuale. Da alcune settimane le indagini sono riprese, ma ci si chiede se ciò che si fece nel 2004 abbia inficiato per sempre la ricerca della verità sul rapimento della bimba e la possibilità di ritrovarla. Ce lo si chiede sui social network, ma anche e soprattutto nei salotti televisivi, in cui l’ex pm Maria Angioni è stata spesso ospite in collegamento in queste settimane, da “Chi l’ha visto?” a “Quarto grado”, passando per “Storie italiane”.
Cosa mancò all’inizio delle indagini. Angioni fu pm del caso Denise tra il 2004 e il 2005, anche se fu messa al lavoro su questo non nei giorni immediatamente successivi al rapimento. Tra i problemi che la stessa Angioni ha lamentato ci sono quelli relativi alle intercettazioni e ad alcune cimici che furono disattivate senza che lei ne fosse informata. Addetto alle intercettazioni fu tra l'altro un militare che, al processo dichiarò di non avere esperienza pregressa. Ci fu poi la diffusione televisiva del video di Felice Grieco, girato nel 2004, che non sarebbe dovuto trapelare nel 2005: il video ritrae una bimba con una donna rom e la bimba viene chiamata Danas. Angioni fu molto critica sulla diffusione. E ancora l’audizione di Battista Della Chiave, operaio audioleso di Mazara del Vallo che riconobbe Denise in uno scatto. Di recente l’ex procuratore di Marsala Alberto Di Pisa, che fu uno dei protagonisti del processo, essendo in procura in quella zona dal 2008, ha sottolineato a “Storie italiane” come Della Chiave non sia stato attendibile: per un riconoscimento deve essere mostrata più di una foto, non una sola. “Sicuramente è stato un errore”, ha detto l’ex magistrato in trasmissione. Mamma Piera Maggio ha lamentato a volte come lei è la sua famiglia siano state “rivoltate come un calzino”. A un certo punto si parlò, naturalmente a torto, di presunta sindrome di Munchuausen per procura, un disturbo mentale per cui le madri fanno del male ai figli per ottenere crediti da parte della società. “Ho avuto un approccio totalmente brutale - ha detto Piera nel 2020 in un’intervista col foro di giurisprudenza di Palermo, pubblicata oggi sul suo profilo Facebook - Vi dico una cosa, ma non perché voglio puntualizzare questo punto su quei magistrati di preciso. Addirittura sono arrivati a dirmi, nel momento in cui mi interrogavano, massacrandomi proprio con una violenza inaudita, perché secondo loro in questo modo avrebbero potuto avere una verità dalla mia bocca, ma vi posso assicurare che avevo detto tutto, e sta agli atti, quindi non ho nessun problema su questo, loro mi hanno talmente massacrata, per dirvi che io non potevo neanche parlare col mio avvocato. Ora ditemi: mi avevano detto, e io ci ho creduto, non conoscendo come funzionavano questi ambienti, mi avevano detto perfino che non potevo colloquiare col mio legale su quanto interferivano con me in quei colloqui”. Nel maggio 2005 fu indagata per il rapimento Jessica Pulizzi, poi assolta in tre gradi di giudizio. Angioni, quello stesso anno, andò a occuparsi dapprima di giustizia in un tribunale per i minori e oggi è giudice del lavoro in Sardegna.
Le nuove rivelazioni. Durante le ospitate televisive di queste settimane, Maria Angioni ha rivelato molti dettagli in parte inediti - è difficile stabilirlo con certezza dall’esterno, essendo trascorsi molti anni. Angioni ha affermato che Denise è viva e che si trova in una famiglia benestante legata in qualche modo con i rapitori. Ma le foto della persona da lei inviate in procura sono state verificate: la ragazza di cui parlava non era Denise, ma aveva un rapporto di parentela con l’ex di Jessica. L’ex pm ha spiegato spesso che il rapimento sia avvenuto attraverso un passaggio di mano e che a un certo punto siano intervenute delle forze benevole che hanno sottratto Denise per portarla lontano ma al sicuro da chi avrebbe voluto farle del male.
Le critiche oggi. Molti commenti social si schierano contro l’ex pm Angioni, accusata di voler tornare alla ribalta con queste nuove rivelazioni in tv. Particolarmente critico è stato nelle scorse settimane Gianluigi Nuzzi, conduttore di “Quarto grado”, che ha interrotto bruscamente il collegamento con Angioni a causa di un fraintendimento. Angioni, che non vedeva in video l’interlocutore, aveva posto a Nuzzi una battuta ironica, dopo che molti degli ospiti della trasmissione le avevano chiesto ripetutamente il perché degli errori iniziali senza ricevere risposte che loro trovassero soddisfacenti. Contro Angioni si è schierato anche Di Pisa a “Storie italiane”, per via della nuova segnalazione relativa alla presunta Denise, segnalazione che si è rivelata appunto fallace. “Amo discutere sui fatti concreti non sulle fantasie - ha chiarito Di Pisa - A Mazara Del Vallo è noto un magrebino. Ogni volta che si aprono le indagini su fatti analoghi a quelli di Denise si inserisce con segnalazioni fasulle. Spero davvero che la pm Angioni non abbia fatto riferimento a lui. […] Voglio sperare che la dottoressa Angioni abbia trasmesso alla procura elementi precisi, che abbia riferito bene da chi arriva l’informazione. Anche perché una volta detto in televisione la notizia è di dominio pubblico”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Cala il gelo in studio: "Denise? Sì, questo è stato un errore..." Valentina Dardari il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Di Pisa ammette: "Non abbiamo fatto il riconoscimento con più foto ed è stata una leggerezza". Delle parole, quelle pronunciate dall’ex procuratore Alberto Di Pisa, che potrebbero riaccendere le polemiche sul caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara Del Vallo il 1° settembre del 2004. Durante il suo intervento alla trasmissione di Rai1 “Storie italiane” condotta da Eleonora Daniele, il magistrato che per molti mesi indagò sulla scomparsa della piccola Denise ha lasciato tutti di stucco: “Non abbiamo fatto il riconoscimento con più foto ed è stata una leggerezza”. Ricordiamo che le indagini sono continuate per molti anni. L’ex pubblico ministero ha parlato anche di Battista Della Chiave, il testimone oculare, sordo fin dalla nascita che nel 2004 lavorava nel magazzino da dove è partita una telefonata il giorno della scomparsa della bimba. L'uomo, deceduto recentemente, non era mai arrivato al dibattimento.
Il caso di Denise e quel testimone inattendibile. Ai tempi, Di Pisa aveva giudicato quella testimonianza inattendibile, nonostante quell’uomo avesse riconosciuto Denise. Se fosse andata diversamente forse qualcosa sarebbe cambiato e le indagini avrebbero preso un’altra piega. In quella occasione però la procura aveva deciso di sottoporre una sola foto al testimone, e si trattava di quella di Denise. Di solito invece durante le indagini vengono proposte diverse persone o immagini di più soggetti. Ma questo non avvenne. L’ammissione di Di Pisa: “Sicuramente è stato un errore”, ha fatto calare il silenzio in studio. Naturalmente Piera Di Maggio, la mamma di Denise, adesso vuole vederci chiaro. Per l’ex pubblico ministero la pista dei rom sarebbe quella più realistica. Al momento sarebbero due gli indagati nel caso della bambina scomparsa, ma nessuno di loro avrebbe comunque ricevuto avvisi di garanzia. Vero è che la storia di Denise continua a tenere banco nella trasmissione di approfondimento mattutino di Rai1.
Un altro buco nell'acqua. Qualche giorno fa era toccato all’ex pm Maria Angioini riaccendere i riflettori assicurando davanti alle telecamere: “Ho la certezza personale che Denise sia viva, si trova in Europa, ha un marito e una figlia”. Salvo venire smentita poco dopo dalla stessa interessata, tra l’altro più vecchia di Denise di 6 anni, e notevolmente irritata per essere finita sulle prime pagine internazionali. Un avvocato ospite in studio aveva tenuto a dire: “Voglio sperare che la dottoressa Angioni abbia trasmesso alla procura elementi precisi, che abbia riferito bene da chi arriva l’informazione. Anche perché una volta detto in televisione la notizia è di dominio pubblico”. E dopo quel buco nell’acqua è tornata quindi in auge la pista dei rom, che secondo Di Pisa sarebbe “la pista più concreta, il resto sono soltanto chiacchiere. Chi l’ha rapita deve averla consegnata ai nomadi. Quella bambina avvistata a Milano, nel video, per me è al 90% Denise Pipitone”.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Denise Pipitone "sistemata bene". Quarto grado, le parole più inquietanti: cosa ne è stato di lei. Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. "Sistemata bene". Denise Pipitone è al centro dell'ultima puntata di Quarto grado su Rete 4 e Gianluigi Nuzzi intervista Maria Angioni, l'ex pm che per prima si occupò della sparizione della bimba di 4 anni da Mazara del Vallo, l'1 settembre 2004. Nelle ultime settimane, il magistrato ha sostenuto con forza la sua tesi, sconvolgente: Denise è viva, sta bene, ha una figlia. Parole controverse, smentite da Milo Infante e Alberto Matano in Rai, ma che la Angioni sostiene con forza anche da Nuzzi: "La mia idea è che Denise sia viva perché non ci sono elementi che provino che è morta. Secondo la mia idea qualcuno l'ha sistemata affinché stia bene". "Penso che sia sia stata collocata in qualche famiglia, ma in un contesto internazionale", ha ripetuto l'ex pm, convinta di aver identificato Denise in una ragazza che vive a Nizza con marito e figlia piccola. La Angioni parla di "sasso gettato nello stagno, affinché le acque si muovano". Sui social assicura che la possibile Denise è "molto simile a lei, ma naturalmente non è detto che lo sia. Potrebbe trattarsi di una ‘gemella non gemella', ma credo di aver fatto il mio dovere di cittadina segnalando agli inquirenti quella persona". Parole in ogni caso inquietanti, anche perché pronunciata da una donna di legge, rappresentante delle istituzioni nonché parte in causa, per alcuni mesi, di una delle inchieste più discusse e tormentate degli ultimi 20 anni. "Ho individuato una persona che potrebbe essere Denise e ho scoperto che ha una figlia - aveva detto la Angioni a Storie italiane su Rai1, scatenando un putiferio -. Ho mandato tutto alla Procura e all’avvocato di Piera Maggio, Frazzitta. Io ho fatto da battitore in questi mesi, ora servono i cacciatori ma senza recare danno a nessuno". "Quella persona non sa di essere una bambina rapita e non lo sa il marito. L’unica cosa di cui ho paura è la perdita di serenità di un nucleo familiare". Parole quanto mai profetiche.
Denise Pipitone, a Storie italiane il carabiniere Francesco Lombardo: "Il giorno dopo la sparizione, un'anomalia". Incastra Anna Corona? Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. Denise Pipitone è scomparsa da 17 anni e di lei non c'è traccia: ora il giallo s'infittisce. Intanto, a Storie italiane arrivano le contraddizioni di Gaspare Ghaleb, l'ex fidanzato di Jessica Pulizzi. Tanta carne a cuocere, come si dice in gergo. Durante il programma condotto da Eleonora Daniele parla Francesco Lombardo, il carabiniere che indagò sulla scomparsa di Denise. Ma andiamo per gradi. Si torna a parla di Silvana, la donna indicata dalla guardia giurata Felice Grieco, che aveva immortalato in un video nel 2004 una bimba dal nome "Danas". Ora parla l'avvocato Monica Gnesi, legale della signora Silvana, che dice: "Silvana ha detto che non c'entra niente con Denise Pipitone, non è la donna del video. Ha indicato anche un tratto somatico che ha sul viso che la donna del video non ha. Dice di non essere stata a Milano in quel periodo e di non essere mai stata in un campo rom a Parigi. Silvana non è latitante, non è irreperibile ed è a disposizione degli inquirenti per ulteriori chiarimenti. La signora nel 2018 è stata fermata per guida senza patente. Questa è la prova documentale che la signora fosse in Italia e non a Parigi. Nel 2004 si trovava presso un ospedale di Monza perché aveva in cura una delle figlie e non a Milano. A causa di questa situazione, la signora è depressa, si vergogna e non esce più di casa. Sta vivendo le cose male. Non c'entra niente", racconta l'avvocato. È questa la prima pista, legata al racconto di una ragazza di origini rom poi adottata da una famiglia campana: qualche settimana fa aveva raccontato di aver riconosciuto la donna del video girato dalla guardia giurata. Poi arriva anche Francesco Lombardo, il carabiniere che indagò su Denise. E la sua è una rivelazione bomba: "Partiamo con la mia squadra il 3 settembre. Al terzo giorno decidiamo di intervenire e di fare un'indagine diversa. A ottobre un mio collaboratore ha trovato un foglietto sul parabrezza in cui veniva minacciato, in cui gli veniva chiesto se non si fosse stancato di girare per Mazara del Vallo. C'era scritto che era un fatto grosso per colpire la famiglia Maggio, non c'entrava la pedofilia o il traffico d'organi. Questo ha creato all'interno delle nostre famiglie un certo malessere, abbiamo trincerato i bambini in casa. La sera del 2 settembre (il giorno dopo la sparizione, ndr) gli spostamenti di Anna Corona sarebbero anomali, le celle del cellulare agganciano Carini, Trapani, Mazara del Vallo, Partinico. Verrà detto che c'era un problema di rete". Chiosa Eleonora Daniele: "Come faceva a stare al lavoro e in tutti questi posti? Il cellulare sarebbe stato spento ogni volta che usciva da Mazara del Vallo. Solo che ogni volta che veniva riacceso agganciava l'ultima cella in cui il cellulare sarebbe stato".
"Denise sequestrata. Perché reagiscono così..." Angela Leucci il 19 Giugno 2021 su Il Giornale. Maria Angioni ha chiarito la sua posizione sulle recenti dichiarazioni relative alla scomparsa di Denise Pipitone: arriva un invito a pensare differente. Un diverso modo di pensare può aiutare a risolvere il caso di Denise Pipitone? È quello che pensa l’ex pm Maria Angioni, che nella puntata di ieri di “Quarto grado” è stata intervistata telefonicamente per chiarire la sua posizione. Angioni, che nei giorni scorsi è stata oggetto di forti critiche, ha spiegato di aver trasmesso alla procura una foto da un profilo Facebook: quella foto però non si riferisce, come si è pensato, alla cugina dell’ex di Jessica Pulizzi. L’ex pm ha affermato che le sue sono “ipotesi criminologiche” e che “se continuiamo a pensare nei modi standard, non riusciremo a trovare mai Denise, chi sta nell’ombra e ha deciso il sequestro non parlerà mai perché mai messo in crisi”. Angioni ha citato un’usanza arcaica della Sardegna, regione in cui oggi si trova in qualità di giudice del lavoro: anticamente, quando una donna si comportava male secondo le regole del patriarcato, le veniva portato via il figlio. Per questo l’ex pm ha invitato a ragionare in modo differente. Angioni, che si è detta aperta al confronto, ha ribadito che, a suo avviso, Denise sia stata “collocata in qualche famiglia” e ora si trova “in un contesto internazionale”. Le critiche le hanno dato da pensare. “La reazione è stata molto pesante, bisogna chiedersi il perché - ha commentato ancora Angioni - ho detto quello che penso. Se nessuno getta le pietre nello stagno, lo stagno ristagna”. Le segnalazioni su presunti avvistamenti di Denise sono stati davvero tantissimi da quel triste 1 settembre 2004, da quando la bimba sparì da Mazara del Vallo. L’investigatore privato Espedito Marinaro, ospite in trasmissione, ha raccontato di aver, per esempio, verificato lui stesso una bambina nomade trovata a Bergamo, il cui Dna però non corrispondeva a quello di Denise: il detective tuttavia crede che ora Denise si trovi in Spagna. A “Quarto grado” si sono ripercorsi anche gli esiti negativi di una presunta pista pedofila. Poco prima che Denise scomparisse, la zia aveva avvistato un uomo scattarle delle fotografie: mamma Piera Maggio dichiarò che lo stesso uomo, definito dalla zia “stravagante”, l’avesse inseguita. Ma non solo l’uomo in questione ha negato tutto, ma anche la procura l’ha ritenuto estraneo ai fatti. Intanto le indagini proseguono a Mazara del Vallo. In questi giorni ci sono state le audizioni di 6 persone, 4 delle quali completamente nuove rispetto alle indagini dell’epoca. Inoltre ci sono state delle ispezioni nell’albergo dove lavorava Anna Corona: sono state infatti ispezionate le vie di accesso e di uscita.
Dal "Corriere della Sera" il 23 giugno 2021. L'ex pm Maria Angioni, che per prima indagò sulla scomparsa di Denise Pipitone, avvenuta l'1 settembre del 2004 a Mazara del Vallo, è indagata per false dichiarazioni al pubblico ministero di Marsala. Angioni, ora giudice del lavoro a Sassari, ha ricevuto un invito a comparire e l' informazione di garanzia, e oggi è stata interrogata. L'ex pm di recente è stata protagonista di clamorose dichiarazioni ai media. Tra l'altro, aveva rilevato sospetti di depistaggio e anomalie nell' inchiesta che lei condusse 17 anni fa. Su alcune circostanze riferite non si sarebbero trovati riscontri, da qui l'iscrizione nel registro degli indagati.
Denise Pipitone, l'ex pm indagata dopo l'interrogatorio: una svolta clamorosa nel caso della bimba scomparsa. Libero Quotidiano il 22 giugno 2021. Maria Angioni è indagata per false dichiarazioni a pubblico ministero dalla Procura di Marsala. La donna, che all’epoca della scomparsa di Denise Pipitone si era occupata del caso, ora è giudice del lavoro a Sassari: ha ricevuto un invito a comparire e l’informazione di garanzia. Oggi è stata interrogata, molto probabilmente sulle recenti dichiarazioni rilasciate a Storie Italiane - la trasmissione di Rai1 condotta da Eleonora Daniele - che hanno fatto decisamente scalpore. “Ho la certezza che Denise Pipitone sia viva e l’ho individuata. Ha un marito e una figlia - aveva dichiarato tra lo stupore generale - grazie a due persone ho individuato una persona che potrebbe essere lei. Ho mandato tutto alla Procura e all’avvocato di Piera Maggio. Io sono sicura che sia viva, negli scorsi giorni ho mandato delle segnalazioni, documenti e foto, circa una ragazza che potrebbe essere Denise. Io ho la certezza personale che sia viva”. Dichiarazioni molto forti nonché sorprendenti. Tra l’altro arrivate dopo che per settimane l’ex pm Angioni ha imperversato nelle trasmissioni televisive, denunciando depistaggi, connivenze e errori gravissimi nell’inchiesta che aveva condotto diciassette anni fa sulla scomparsa della bambina di Mazara del Vallo. Le accuse lanciate in tv sarebbero state confermate anche davanti ai magistrati della Procura di Marsala, che però non avrebbero trovato riscontro: da qui l’incriminazione per false dichiarazioni ai pm.
Denise Pipitone, drammatica accusa dell'ex pm indagata: "A chi ho dato fastidio", chi copre i rapitori? Libero Quotidiano il 22 giugno 2021. Ora, è l'ex pm ad essere indagata per false dichiarazioni a pubblico ministero. Il caso è quello della scomparsa di Denise Pipitone, mentre l'inchiesta riguarda l'ex pm di Marsala che indagò sul caso, Maria Angioni, che per lunghe settimane ha spopolato in tv tra ricostruzioni, rivelazioni, accuse di depistaggio e fino ad affermare che "Denise è viva". Insomma, ha raccontato le sue verità, 17 anni dopo la scomparsa della piccola da Mazara del Vallo. E ora, come detto, è indagata. La procura di Marsala, dopo quanto visto e sentito in tv, ha infatti convocato la Angioni come testimone per accertare se, davvero, nell'inchiesta del 2004 sulla scomparsa, in cui l'ex pm ebbe un ruolo di punta, ci furono falle e depistaggi. Ma i riscontri non sono stati trovati proprio per questa ragione la Angioni si è ritrovata indagata. Il tutto dopo un interrogatorio durato tre ore e che si è tenuto oggi, martedì 22 giugno, al termine del quale la Angioni non ha cambiato posizione. "Non sono sorpresa ma seccata", ha spiegato alla AdnKronos, che la ha interpellata dopo la notizia dell'indagine. "Quando ho parlato ho dato fastidio a qualcuno. Me lo aspettavo perfettamente. Quando la gente si chiedeva perché io non avessi parlato nei 17 anni prima. Perché è chiaro che una volta che ho parlato qualcuno si è infastidito e che ci sarebbe stata una reazione", ha rimarcato.
E ancora, ha aggiunto: "Non so se questo ha portato all'avviso di garanzia, ma so che dopo avere reso sommarie informazioni, lo scorso 3 maggio mi aspettavo di essere indagata". Proprio per questo, ha presentato un esposto contro i pm, "il primo esposto". E ha aggiunto: "Io ho reso dichiarazioni tecniche, solo oggi mi hanno dato copia degli atti, e la procura mi ha dato copia parziale degli atti", ha concluso la Angioni.
Caso Denise, indagata l'ex pm: "Ho dato fastidio a qualcuno". Angela Leucci il 22 Giugno 2021 su Il Giornale. Avviso di garanzia per l'ex pm Maria Angioni che indagò sul caso di Denise Pipitone: "Ho presentato diversi esposti". C’è una nuova indagata nel caso di Denise Pipitone, ma stavolta l’accusa non è sequestro di persona, ma false dichiarazioni ai pm: si tratta dell’ex pubblico ministero Maria Angioni, che tra il 2004 e il 2005 lavorò alla risoluzione del rapimento della piccola Denise, scomparsa da Mazara del Vallo l’1 settembre 2004 e mai più ritrovata. "Non sono sorpresa, ma sono molto seccata - ha commentato Angioni ad Adnkronos - mi aspettavo di ricevere l'avviso di garanzia. Tanto è vero che prima di riceverlo ho presentato un esposto contro i pm. Quando ho parlato ho dato fastidio a qualcuno. Me lo aspettavo perfettamente. Quando la gente si chiedeva perché io non avessi parlato nei 17 anni prima. Perché è chiaro che una volta che ho parlato qualcuno si è infastidito e che ci sarebbe stata una reazione. Non so se questo ha portato all'avviso di garanzia, ma so che dopo avere reso sommarie informazioni, lo scorso 3 maggio mi aspettavo di essere indagata”. Angioni ha chiesto l’archiviazione: a suo avviso non avrebbe neppure dovuta essere iscritta nel registro degli indagati “per motivi tecnici”. Naturalmente, come lei stessa ha precisato, saranno i pm a decidere. L’ex pm, che intanto è diventata giudice del lavoro in Sardegna, è appunto accusata di aver reso false dichiarazioni a un pubblico ministero della Procura di Marsala e oggi è stata interrogata. Quel suo sospetto l’ha spinta a presentare un primo esposto, ma non si sa se Angioni ne abbia presentato altri, come si potrebbe supporre. “Il 14 maggio - ha continuato Angioni - ho depositato il primo esposto contro i pm. Il 4 giugno ho poi saputo informalmente dell'avviso di garanzia e il 18 giugno me lo hanno notificato e mi hanno anche notificato l’interrogatorio. Sono un po’ seccata, tutto questo è un po’ faticoso. Ma il vantaggio è che ho potuto fare domanda per avere la copia degli atti del processo Denise che è passato in giudicato, perché non li avevo quegli atti”. Il ruolo di Angioni nelle indagini sul caso Denise Pipitone è stato molto criticato all’opinione pubblica nell’ultimo periodo. In particolare le diverse dichiarazioni rese in approfondimenti televisivi hanno sollevato molti interrogativi. Angioni ha raccontato di essere convinta che Denise sia viva, ha parlato di depistaggi, di pedinamenti e minacce. "In realtà mi hanno invitato nelle trasmissioni solo dopo che ero andata in Procura, non ha influito per niente - ha concluso - Sono stata sentita per le sommarie informazioni il 3 maggio e io sono andata in tv solo dopo”.
Denise Pipitone, l’ex pm Maria Angioni denuncia i colleghi di Marsala al Csm. Debora Faravelli il 24/06/2021 su Notizie.it. L'ex pm Maria Angioni, che da tempo si occupa del caso di Denise Pipitone, ha sporto denuncia al Csm nei confronti di alcuni colleghi. Indagata per false dichiarazioni a Pubblico Ministero, l’ex pm Maria Angioini ha denunciato alcuni suoi colleghi al Consiglio superiore della magistratura: la donna, che per anni si è occupata del caso di Denise Pipitone, lo ha annunciato direttamente sui suoi canali social. “Poiché, come avevo previsto, la notizia del mio interrogatorio di garanzia è uscita immediatamente dopo l’attività svolta presso la Procura della Repubblica di Marsala, per tranquillizzare gli amici spiego”. Inizia così il post pubblicato dall’ex pm sulla sua pagina Facebook in ci ha chiarito che dei diversi episodi di depistaggio e fastidio alle indagini di cui ha parlato in tv tra la fine di aprile 2021 e gli inizi di maggio, e che ha confermato in Procura, la magistratura le ha contestato che di due di essi mancherebbe la prova documentale. Ha dunque svolto col suo avvocato, l’onorevole Stefano Pellegrino, una difesa tecnica. Nel frattempo, già il 13 maggio e poi il 19 giugno ha inviato due esposti al Csm denunciando i colleghi. Dopo aver parlato per giorni di depistaggi nelle indagini sul caso della bimba scomparsa a Mazara, la Procura aveva deciso di convocarla come testimone per accertare se davvero nell’inchiesta del 2004 ci furono delle falle. Ai colleghi la donna ha ribadito quanto detto in tv ma, non avendo trovato riscontri su alcune dichiarazioni, si è trovata indagata per false dichiarazioni a pubblico ministero.
Denise Pipitone, lo scoop de La Vita in Diretta sull'ex pm Angioni: "Perché è indagata", c'entra una telecamera (e non solo). Libero quotidiano il 24 giugno 2021. La Vita in Diretta, la trasmissione in onda su Rai1 e condotta da Alberto Matano, è tornata a occuparsi del caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo il primo settembre del 2004. A tenere banco è la notizia riguardante Maria Angioni, ex pm che si era occupata delle indagini nei primi tempi, che è stata indagata dalla Procura di Marsala per false dichiarazioni a pubblico ministero. La Vita in Diretta ha provato a intervistare la diretta interessata, che però ha preferito non rispondere sulle due cose che hanno spinto la Procura a indagarla: ha già detto abbastanza in un post pubblicato su Facebook. Ad aggiungere ulteriori dettagli è stata allora l’inviata di Matano: “Il primo punto riguarda la telecamera posta fuori dalla casa di Anna Corona, poi tolta, tema sul quale Angioni ha ammesso un errore di memoria. Il secondo riguarda l’interrogatorio del dirigente del commissariato che l’ex pm aveva detto di aver sentito all’epoca: lo avrebbe fatto in maniera informale”. Intervenuta telefonicamente, la Angioni si è limitata a dire che non ha mentito sui malfunzionamenti e che il problema era la polizia. Dichiarazioni coerenti con quelle rese qualche giorno fa all’Adnkronos: “Ho dato fastidio a qualcuno, me lo aspettavo perfettamente, qualcuno si è infastidito e c’è stata una reazione”.
L'ipotesi choc: "Denise usata come una banca...". Gelo in studio. Francesca Galici il 19 Giugno 2021 su Il Giornale. Il caso di Denise Pipitone è ancora al centro della cronaca: le recenti rivelazioni a Quarto Grado aprono un nuovo scenario. A 17 anni dal rapimento, il caso di Denise Pipitone è tornato di stretta attualità. Tutto è ripartito dalla segnalazione di una ragazza che in Russia cercava i suoi genitori naturali e dalla sua somiglianza con la bambina scomparsa da Mazara del Vallo. Da quel momento la macchina investigativa è tornata ad accelerare, supportata dai media che hanno riacceso i riflettori su un caso che nel 2004 sconvolse l'opinione pubblica. Gli investigatori sono tornati ad analizzare anche le vecchie testimonianze alle quali non era stato molto credito in passato, così come le piste che erano state vagliate e poi abbandonate. L'obiettivo è quello di arrivare finalmente alla verità, anche grazie alle nuove rivelazioni che in queste settimane i carabinieri stanno raccogliendo da parte di chi in questi anni ha preferito il silenzio. Quarto grado si sta occupando attivamente, insieme a Chi l'ha visto e ad altri programmi, del rapimento di Denise Pipitone e nella puntata andata in onda ieri è stato ospitato in studio Espedito Marinaro. Questo nome ai più non dice nulla ma lui è un investigatore che fu ingaggiato da Piera Maggio all'epoca dei fatti per fare luce sulla scomparsa della bambina. Le sue dichiarazioni nello studio del programma di Rete4 hanno ammutolito i presenti. "Il sequestro di Denise Pipitone è stato premeditato. Non è stato fatto con una macchina che casualmente passa di là e si prende la bambina. Chi se l’è presa ha studiato sopra", ha dichiarato l'investigatore. Un'ipotesi già avanzata dagli investigatori ma Marinaro ha poi aggiunto: "Dov’è finita la bambina? Sicuramente l’hanno regalata agli zingari, che siano sinti o rom". Parole, queste ultime, che rimbombano nello studio di Quarto grado richiedendo l'intervento di Gianluigi Nuzzi: "È clamoroso quello che sta dicendo, lei usa un verbo specifico. Lei dice che è stata regalata, un termine impegnativo soprattutto se parliamo di una bambina". Espedito Marinaro, quindi, conferma la sua tesi: "Purtroppo ho ascoltato alcuni sinti che dicevano questo. Mi hanno detto 'noi non andiamo a sequestrare i bambini ma se ci viene regalata o data ce la teniamo'. Anche perché per loro è un frutto, è una banca avere una bambina per chiedere l’elemosina…". Sconcerto anche nelle parole del generale Garofalo, tra gli ospiti: "Espedito ma lei è uno di noi, uno dell’arma è una cosa grave quella che sta dicendo. Che significa regalare? Regalare un bambino? Non si possono dire queste cose". L'uomo, però, non è arretrato di un passo: "Capisco, ma purtroppo a me è stato detto proprio così". Ma davanti allo sconcerto dei presenti, Espedito Marinario ha ridimensionato le sue affermazioni: "Di fatti non ce ne sono, allora si brancolava nel buio. Non c’erano le piste e quando sono andato in un campo rom mi hanno detto: 'Eh se ce la danno la teniamo'. Siamo nel campo delle ipotesi".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Denise Pipitone, l'intercettazione choc a Mattino 5: "Jessica, la bambina dov'è? Cosa le hai fatto?". Libero Quotidiano il 21 giugno 2021. Spunta una inquietante domanda in una intercettazione di una conversazione tra Jessica Pulizzi e quello che allora era il suo fidanzato, mostrata in diretta a Mattino Cinque nella puntata di oggi 21 giugno. “La bambina dov’è? Cosa le hai fatto?", chiede quindi Gaspare Ghaleb alla sorellastra di Denise Pipitone. Frasi che appartengono a una nuova intercettazione fra due protagonisti del caso della bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004. “Sono dialoghi emersi dopo giorni di pulitura dei file audio. Me ne sono occupato insieme alla mia squadra per dieci giorni in studio di registrazione, in Calabria", spiega il maresciallo Francesco Lombardo ospite in studio. “Quando si dice che le indagini sono state condotte in modo raffazzonato ci si sbaglia - spiega Lombardo -. Qualcosa è rimasto insoluto, ma grazie a questo lavoro approfondito siamo riusciti a estrapolare queste informazioni da quelli che erano semplici sussurri. La nostra idea è che Jessica possa aver chiamato Gaspare per ricevere aiuto”. Venerdì 18 giugno Lombardo a Storie Italiane su rai uno aveva fatto una rivelazione pazzesca: "Partiamo con la mia squadra il 3 settembre. Al terzo giorno decidiamo di intervenire e di fare un'indagine diversa. A ottobre un mio collaboratore ha trovato un foglietto sul parabrezza in cui veniva minacciato, in cui gli veniva chiesto se non si fosse stancato di girare per Mazara del Vallo. C'era scritto che era un fatto grosso per colpire la famiglia Maggio, non c'entrava la pedofilia o il traffico d'organi. Questo ha creato all'interno delle nostre famiglie un certo malessere, abbiamo trincerato i bambini in casa. La sera del 2 settembre (il giorno dopo la sparizione, ndr) gli spostamenti di Anna Corona sarebbero anomali, le celle del cellulare agganciano Carini, Trapani, Mazara del Vallo, Partinico. Verrà detto che c'era un problema di rete". Chiosa Eleonora Daniele: "Come faceva a stare al lavoro e in tutti questi posti? Il cellulare sarebbe stato spento ogni volta che usciva da Mazara del Vallo. Solo che ogni volta che veniva riacceso agganciava l'ultima cella in cui il cellulare sarebbe stato".
Denise, l'intercettazione choc: "Cosa le hai fatto..." Rosa Scognamiglio il 21 Giugno 2021 su Il Giornale. Spunta una nuova intercettazione audio tra Jessica Pulizzi, la sorellastra di Denise, e il suo fidanzato dell'epoca Gaspare Ghaleb. "La bambina dov'è? Cosa le hai fatto?". Sarebbe questo il contenuto di una conversazione intercorsa tra Jessica Pulizzi, sorellastra di Denise Pipitone, e Gaspare Ghaleb, il fidanzato dell'epoca. Il breve estratto audio è stato rilanciato dal programma televisivo "Mattino Cinque" che, da circa qualche settimana, si sta occupando degli ultimi sviluppi relativi alla misteriosa scomparsa della bimba mazarese. Si riaccendono i riflettori su Jessica Pulizzi, figlia di Piero Pulizzi, il padre naturale di Denise, e Anna Corona. Dai reperti dell'inchiesta emerge una nuova intercettazione che, al netto di ogni possibile ipotesi, potrebbe segnare una svolta definitiva nelle indagini. Per certo, al momento, rappresenta un tassello importantissimo nello scenario investigativo che si sta profilando. Si tratta di una conversazione telefonica tra Jessica e il fidanzato Gaspare Ghaleb. "La bambina dov'è?", chiede il ragazzo. Poi, ancora: "Dove l'hai portata?". E infine, una frase sibillina: "Quando avevi bisogno di me...". Jessica tace limitandosi a rispondere con un'esclamazione: "Eh...", nulla di più. Chi è "la bambina" a cui si fa riferimento nella chiamata? Ma, soprattutto, c'è qualcosa di rilevante che Gaspare ha taciuto? "Sono dialoghi emersi dopo giorni di pulitura dei file audio. Me ne sono occupato insieme alla mia squadra per dieci giorni in studio di registrazione, in Calabria", racconta l'ex maresciallo Francesco Lombardo ospite di Mattino5. "Quando si dice che le indagini sono state condotte in modo raffazzonato ci si sbaglia - spiega Lombardo -. Qualcosa è rimasto insoluto, ma grazie a questo lavoro approfondito siamo riusciti a estrapolare queste informazioni da quelli che erano semplici sussurri. Abbiamo cercato di rimediare agli errori iniziali. La nostra idea è che Jessica possa aver chiamato Gaspare per ricevere aiuto in quell'intercettazione poco dopo le 12. Lui ha detto che stava guardando Dragonball e i Simpson, ma in quel periodo non erano nella programmazione televisiva. E soprattutto l'annuncio pubblico è successivo all'ora che dice lui. È molto evidente cosa è successo, basterebbe ascoltare le due ore e mezza di intercettazioni dentro al commissariato. Uno non avrebbe più dubbi".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Denise Pipitone, la scoperta: “Investigatore ha detto cose che ci hanno fatto saltare dalla sedia”. Debora Faravelli il 22/06/2021 su Notizie.it. Un investigatore avrebbe rivelato cose della madre di Denise Pipitone "che ci hanno fatto saltare dalla sedia": la rivelazione. Emergono nuovi elementi sul caso di Denise Pipitone: il conduttore della trasmissione Ore 14 Milo Infante, dopo aver parlato dei giornalisti denunciati per violenza privata da alcuni cittadini mazaresi, ha affermato che un investigatore “dirà delle cose di Piera Maggio che quando le abbiamo sentite abbiamo fatto un salto sulla sedia”. Sempre in relazione a Piera, Infante ha poi preso le sue difese parlando di una campagna denigratoria che l’ha designata come pessima madre facendo riferimento alla commissione d’inchiesta parlamentare. Alessia Morani, parlamentare del Pd in videocollegamento che ha promosso l’iter per la sua istituzione, ha spiegato che le formalità si sono esaurite ieri e “ora chiederemo al presidente della commissione Giustizia della Camera un provvedimento d’urgenza”. La commissione servirà a fare chiarezza su come sono state fattele indagini. La Morani si è infine espressa sul lungo e duro sfogo di Piera Maggio che ha deciso di diffidare Quarto Grado riservandosi di querelare autori e trasmissione. “Nessuno di noi può neanche lontanamente immaginare cosa prova questa mamma da 17 anni. Ci sono limiti invalicabili, nel suo caso sono stati oltrepassati molto”.
Denise Pipitone: giornalisti denunciati per violenza privata da dieci mazaresi. Debora Faravelli il 21/06/2021 su Notizie.it. Alcuni giornalisti che si occupano del caso di Denise Pipitone sono stati denunciati da dieci mazaresi: l'accusa è di violenza privata. Dieci cittadini di Mazara del Vallo hanno denunciato i giornalisti di Ore14, aggrediti mentre stavano realizzando un servizio sul caso di Denise Pipitone, per violenza privata. Ad annunciarlo è stato il conduttore Milo Infante che sul suo profilo Instagram ha affermato che nella puntata di lunedì 21 Piera Maggio, la madre della bimba scomparsa nel 2004, approfondirà insieme a lui le figure di Gaspare Ghaleb e Francesca Adamo, rispettivamente il compagno di Jessica Pulizzi e la collega di Anna Corona che ha messo l’orario falso di uscita dal lavoro della stessa Anna. “Parleremo poi dei 10 mazaresi che hanno denunciato i giornalisti per violenza privata. Tra questi c’è anche l’aggressore del nostro inviato”, ha aggiunto. Il riferimento è all’aggressione subita da Fadi El Hnoud, sul posto per realizzare interviste sul caso. Un uomo lo ha minacciato (“Vi uccido”) per poi aggredirlo fisicamente. Quest’ultimo ha denunciato subito l’accaduto alla locale caserma dei Carabinieri che hanno identificato l’aggressore, ripreso in volto dalle telecamere. A rendere noto l’episodio era stata una nota di Unisgrai in cui, esprimendo solidarietà ai colleghi aggrediti, gli autori si erano detti pronti ad essere parte civile contro chi li ha minacciati. “A Mazara del Vallo le telecamere della Rai danno fastidio a chi non vuole che i cittadini siano informati”, aveva poi aggiunto un comunicato di Fnsi.
Ida Artiaco per "fanpage.it" il 21 giugno 2021. Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, la bimba scomparsa da Mazara del Vallo 17 anni fa, è tornata a tuonare contro la trasmissione di Rete 4 Quarto Grado. "Si diffida il programma Quarto Grado a non trattare più il caso di mia figlia, né a citare il mio nome o quello di mia figlia a causa delle continue, reiterate frasi offensive nei miei confronti affermate con veemenza inopportuna, senza contegno, da parte di Carmelo Abbate e senza nessuna presa di distanza da parte di Nuzzi, dimostrando al contrario, un plateale atteggiamento di parte e non certamente garantista. Ci si riserva di querelare il programma e gli autori che consentono questo scempio delle vittime di un reato", è quanto si legge in un post pubblicato qualche minuto fa sulla pagina Facebook ufficiale della donna. Tutto è cominciato sabato scorso, quando la stessa Piera Maggio aveva pubblicato un post sui propri canali social di indignazione per quanto andato in onda il venerdì precedente durante il programma di approfondimento condotto da Gianluigi Nuzzi e che aveva creato una serie di polemiche su Twitter, con gli utenti che hanno preso le parti della mamma di Denise. "Ho scritto adesso al signor Gianluigi Nuzzi – aveva detto condividendo anche uno screen del messaggio inviato a Nuzzi -. Vergognoso. Signor Nuzzi, ma a lei le pare onesto il comportamento schifoso usato nei miei confronti dal suo collega Abbate? E lei che lo fa parlare con tutta tranquillità. Ma come vi sentite a far denigrare una madre a cui le è stata rapita una bambina, cercando di giustificare la violenza. Ma cosa ne sapete di me, ma come vi permettete a giudicarmi e a farmi giudicare pubblicamente senza sapere. Ma secondo il suo parere di padre e di genitore, se questo venisse fatto ad una persona a lei cara, lei lo accetterebbe? Tutto questo è di uno squallore vergognoso. Non sapete nulla realmente della mia vita e mi fate passare per una donna frivola, leggera e senza sentimenti. Vergogna no?".
Denise Pipitone, la chat di Piera Maggio con Gianluigi Nuzzi. Accusa Quarto grado: "Comportamento schifoso". Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. Si è parlato ancora del caso di Denise Pipitone a Quarto Grado nella puntata del 18 giugno andata in onda su Rete 4. E Piera Maggio ha attaccato duramente il conduttore Gianluigi Nuzzi per i toni e i modi con cui è stato trattato il caso di sua figlia, scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004. In studio era presente anche Carmelo Abbate, che ha detto di non credere all’ipotesi di rapimento da parte di Anna Corona e Jessica Pulizzi. Abbate ha infatti difeso le due maggiori sospettate del rapimento della bambina, è "materialmente impossibile", ha detto. Secondo lui le forze dell’ordine non dovrebbero più recarsi nell’abitazione della Corona: "E poi quale movente dovrebbe avere Jessica? Mettetevi nei suoi panni, era una bambina di 12 anni. Vedono il padre infrattato con un’altra donna, il paese mormora e l’uomo alle figlie giura di non avere un’amante. Poi questa donna (Piera Maggio, ndr) resta incinta e Jessica cosa doveva pensare della signora che le aveva portato via il padre?”. Parole che hanno fatto infuriare la Maggio. Che ha scritto un messaggio su Facebook contro Quarto Grado e ha anche pubblicato lo screenshot di un messaggio inviato a Nuzzi su Whatsapp. Per lei è stato tutto "vergognoso, comportamento schifoso” usato nei suoi confronti da parte di Abbate. Ha anche puntato il dito contro il conduttore che non è intervenuto: "Ma come vi sentite a far denigrare una madre a cui le è stata rapita una bambina, cercando di giustificare la violenza”, ha scritto. Piera Maggio ha definito l’intervento di ieri sera “di uno squallore vergognoso, non sapete niente della mia vita e mi fate passare per una donna frivola, leggera e senza sentimenti”.
Denise Pipitone, Piera Maggio in lacrime a Mattino 5: "Il giorno dopo la sua scomparsa". Straziante confessione, fuori tutta la verità. Libero Quotidiano il 22 giugno 2021. Dopo la diffida inviata a Quarto Grado, la trasmissione di Rete4 condotta da Gianluigi Nuzzi, Piera Maggio è stata ospite di Federica Panicucci a Mattino 5. E qui ha vissuto un momento molto toccante, dato che è scoppiata a piangere: comprensibile, dopo tutte le pressioni e le sofferenze degli ultimi mesi, che si sommano a quelle degli ultimi 17 anni, ovvero da quando sua figlia Denise Pipitone è stata rapita ed è scomparsa nel nulla. Nella seconda parte della puntata di Mattino 5 di martedì 22 giugno, la Panicucci ha fatto una lunga chiacchierata con Piera Maggio, che ha respinto la definizione di ‘Wonder Woman’: “Ci sono momenti in cui sono giù e non mi va di vedere nessuno. Momenti difficili”. A quel punto anche la conduttrice di Canale 5 si è commossa, intuendo lo stato d’animo dell’altra donna essendo anch’essa una madre: “Sei una mamma a cui è stata tolta la figlia, è molto difficile…”. Visibilmente turbata, Piera Maggio ha comunque voluto partecipare alla trasmissione: “Sono qua per ringraziarvi per ciò che avete fatto. Volevo farvi un saluto in questo finale di stagione, avete fatto un ottimo lavoro”. Poi ha voluto commentare le ricerche infruttuose svolte nelle ore immediatamente successive al rapimento: "Ovviamente puntiamo tanto sul lavoro che stanno facendo in Procura, noi vogliamo arrivare a una verità. Diciassette anni sono tanti e sono stati fatti tanti errori, c'è da riflettere. Magari Denise il giorno dopo la sua scomparsa poteva essere a casa, chi lo sa, abbiamo perso del tempo prezioso. Per questi errori e negligenze nessuno mai pagherà le spese".
Denise Pipitone, Piera Maggio: “Poteva essere trovata il giorno dopo, perso tempo prezioso”. Debora Faravelli il 23/06/2021 su Notizie.it. La madre di Denise Pipitone Piera Maggio torna a parlare degli errori e del tempo perso durante le ricerche della figlia. Piera Maggio è tornata a parlare degli errori e delle negligenze nelle ricerche della figlia Denise Pipitone che, se non si fosse perso tempo prezioso, “magari poteva essere trovata il giorno dopo”. Intervenuta durante la trasmissione Mattino Cinque in onda su Canale 5, la donna ha affermato che fino a prova contraria Denise si cerca viva e quindi “non molleremo fino all’ultimo”. Per arrivare alla verità, ha continuato, punta molto sul lavoro che stanno facendo in Procura. Piera Maggio non ha poi mancato di ammettere che diciassette anni dalla scomparsa sono tanti e sono stati fatti tanti errori. “Magari Denise il giorno dopo la sua scomparsa poteva essere a casa, chi lo sa, abbiamo perso del tempo prezioso. Per questi errori e negligenze nessuno mai pagherà le spese”, ha aggiunto. Di qui il suo accorato appello a chiunque sappia qualcosa sul caso. Le sue parole lasciano dunque intendere che a suo dire ci sarebbero persone che in questi anni non hanno mai parlato e che potrebbero farlo nella nuova indagine riaperta dalla procura di Marsala. Allo stesso tempo che dopo la sparizione di Denise sia successo qualcosa e si sia perso del tempo prezioso nelle ricerche.
Denise Pipitone, Piera Maggio diffida Gianluigi Nuzzi: "Quarto grado offensivo, non tratti più il caso di mia figlia". Libero Quotidiano il 21 giugno 2021. E' furibonda Piera Maggio, la mamma di Denise Pipitone, la bimba scomparsa da Mazara del Vallo nel 2004, per come il il caso di sua figlia viente trattato dalla trasmissione Quarto Grado condotta da Gianluigi Nuzzi su Rete 4. Per questo, come lei stessa ha comunicato sui propri canali social, diffiderà il programma. Non vuole che Nuzzi tratti più la vicenda, che faccia i loro nomi. Una reazione durissima quella di Piera Maggio scatenata dopo "le continue, reiterate frasi offensive nei miei confronti" espresse da "Carmelo Abbate e senza nessuna presa di distanza da parte di Nuzzi dimostrando al contrario, un plateale atteggiamento di parte e non certamente garantista". Di più. La mamma di Denise ha inoltre fatto sapere che "si riserva di querelare il programma e gli autori che consentono questo scempio delle vittime di un reato". Tutto è cominciato dopo l'ultima puntata di Quarto Grado, quando la stessa Piera Maggio aveva pubblicato un post sui propri canali social di indignazione per quanto andato in onda durante il programma di approfondimento condotto da Gianluigi Nuzzi e che aveva creato una serie di polemiche su Twitter, con gli utenti che avevano preso le parti della mamma di Denise. "Ho scritto adesso al signor Gianluigi Nuzzi", aveva detto su Facebook condividendo anche uno screenshot del messaggio inviato a Nuzzi. "Vergognoso. Signor Nuzzi, ma a lei le pare onesto il comportamento schifoso usato nei miei confronti dal suo collega Abbate? E lei che lo fa parlare con tutta tranquillità. Ma come vi sentite a far denigrare una madre a cui le è stata rapita una bambina, cercando di giustificare la violenza. Ma cosa ne sapete di me, ma come vi permettete a giudicarmi e a farmi giudicare pubblicamente senza sapere", aveva attaccato. "Ma secondo il suo parere di padre e di genitore, se questo venisse fatto a una persona a lei cara, lei lo accetterebbe? Tutto questo è di uno squallore vergognoso. Non sapete nulla realmente della mia vita e mi fate passare per una donna frivola, leggera e senza sentimenti". Ora la diffida, e probabilmente la querela.
Denise Pipitone, Piera Maggio contro Quarto Grado: “Non autorizzato a ricevere segnalazioni”. Debora Faravelli il 29/06/2021 su Notizie.it. Piera Maggio ha accusato Quarto Grado di non essere autorizzato a ricevere segnalazioni sul caso della figlia Denise Pipitone. Continua lo scontro tra la madre di Denise Pipitone e Quarto Grado, già diffidata dalla donna a non parlare più del caso e ora accusata di non essere autorizzata a farlo. Dal canto suo il conduttore della trasmissione aveva rivendicato la libertà dei giornalisti di “non farsi dettare scalette da nessuno se non dalla cronaca”. L’attacco è giunto sui propri canali social, dove Piera Maggio ha comunicato che le eventuali segnalazioni sul caso della figlia, scomparsa da 17 anni da Mazara del Vallo, vanno fatte alle autorità del posto dell’avvistamento, Polizia e Carabinieri, alle autorità preposte che vi lavorano, al legale Giacomo Frazzitta, alla famiglia stessa e Chi l’ha visto. “Non ad altri che non sono autorizzati a ricevere segnalazioni”, con un implicito riferimento alla trasmissione condotta da Gianluigi Nuzzi che pur avendo ricevuto una diffida a non occuparsi più del caso ha continuato a parlarne. Per il momento non è ancora arrivata alcuna replica da parte del giornalista, che probabilmente come già rivendicato tornerà ad occuparsi dei nuovi elementi emersi su Denise anche nella prossima puntata del programma. Queste le parole con cui aveva commentato l’invito formale a non parlare più della bimba scomparsa da parte della madre: “Abbiamo un patto con voi, che è quello di dare le notizie. Se Piera Maggio vuole delle scuse da noi io le faccio. Ma per noi il patto significa raccontare tutto per incontrare il nostro interesse. Per questo continueremo, perchè nessuno può decidere di cosa si occupano i giornalisti”.
"Non sono Wonder Woman". Le lacrime dopo la diffida a parlare di Denise. Angela Leucci il 22 Giugno 2021 su Il Giornale. Piera Maggio scoppia in lacrime mentre si parla della scomparsa di Denise Pipitone a Mattino Cinque: intanto c'è un appello di monsignor Mogavero. Il caso di Denise Pipitone torna a tenere banco a Mattino Cinque con un’intervista molto speciale: Federica Panicucci ha ascoltato, da madre a madre, Piera Maggio. In questo dialogo a cuore aperto, mamma Piera è scoppiata in lacrime a un certo punto, seguita da Panicucci che è riuscita a trattenere professionalmente l’emozione, che comunque era tanta. “Diciamo che il leone è un po’ abbattuto”, ha detto la mamma di Denise a quasi 17 anni da quel tragico 1 settembre 2004, il giorno in cui la piccola sparì da Mazara del Vallo. “Non sono sempre così forte - ha rivelato Piera alla fine di un lungo approfondimento su Denise - ci sono momenti in cui non mi va di alzarmi dal letto, momenti in cui mando tutti a quel paese. Non sono Wonder Woman, sono un essere umano in carne e ossa, ho bisogno da parte di alcuni un po’ di rispetto. Ho voluto partecipare a questa trasmissione oggi per un saluto di fine stagione, per ringraziare per tutto quello che avete fatto, al di là delle polemiche, ci vuole sempre un equilibrio da una parte e dall’altra. Chi lo fa con il cuore avrà le porte sempre aperte”.
Ci si chiede se mamma Piera, parlando di polemiche, non abbia voluto riferirsi alla diffida contro “Quarto grado” dei giorni scorsi, e in particolare contro l’ospite fisso Carmelo Abbate. “Si diffida il programma Quarto grado a non trattare più il caso di mia figlia, né a citare il mio nome o quello di mia figlia - ha scritto Piera Maggio su Facebook - a causa delle continue, reiterate frasi offensive nei miei confronti affermate con veemenza inopportuna, senza contegno, da parte di Carmelo Abbate e senza nessuna presa di distanza da parte di Nuzzi, dimostrando al contrario, un plateale atteggiamento di parte e non certamente garantista. Ci si riserva di querelare il programma e gli autori che consentono questo scempio delle vittime di un reato”. Piera Maggio ha aperto uno squarcio sulla sua quotidianità. Ha spiegato che non è facile vivere in questo modo per lei, che ci si aspetta che reagisca in un certo modo, ma non sempre è possibile. Piera ha ricordato Denise e ha affermato di immaginarla ancora come una bimba di 4 anni, anche se forse oggi è una donna adulta. È stata ascoltata in trasmissione una lettera del fratello Kevin, scritta in occasione di quello che sarebbe stato il diciottesimo compleanno di Denise. “Kevin ha sofferto tanto questa situazione - ha commentato Piera Maggio - ho cercato di proteggerlo e in parte ci sono riuscita. Ha avuto una madre che ha dovuto lottare tanto e ho tolto qualcosa a lui. È un ragazzo meraviglioso, ha capito quello che è successo e quello che cerco di fare ogni giorno”. A "Mattino Cinque" ci si è soffermati anche su Piero Pulizzi, quel “papà che sta sempre un passo indietro” e che è “doppiamente ferito”. “Si parla tanto di indagine ma poi si perde il senso dei nostri sentimenti”, ha chiosato mamma Piera, che ha raccontato come in Grecia il volto di Denise sia stato mostrato nei monitor delle stazioni. Tra i protagonisti delle ricerche di Denise è stato ascoltato anche l’avvocato di Piera, Giacomo Frazzitta, che ha detto di pensare molto alla bambina ogni volta che si trova in un certo punto di un viadotto situato sulla Trapani-Palermo. E ha preso parola in un collegamento anche il vescovo di Mazara Domenico Mogavero. “Siamo in un momento cruciale - ha chiosato il religioso - Io mi rivolgo a voi, Anna e Jessica, io sono pronto a incontrarvi, io ci sono, mi piacerebbe tanto parlarvi e incontrarvi per confermarci delle reciproche certezze”. Anna e Jessica sono naturalmente Anna Corona e Jessica Pulizzi, ex moglie e figlia di Piero, padre naturale di Denise: Jessica è stata messa sotto processo ma è stata assolta dall’accusa del sequestro di Denise, mentre Anna è attualmente iscritta nel registro degli indagati.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, Piera Maggio in lacrime a Mattino 5: "Il giorno dopo la sua scomparsa". Straziante confessione, fuori tutta la verità. Libero Quotidiano il 22 giugno 2021. Dopo la diffida inviata a Quarto Grado, la trasmissione di Rete4 condotta da Gianluigi Nuzzi, Piera Maggio è stata ospite di Federica Panicucci a Mattino 5. E qui ha vissuto un momento molto toccante, dato che è scoppiata a piangere: comprensibile, dopo tutte le pressioni e le sofferenze degli ultimi mesi, che si sommano a quelle degli ultimi 17 anni, ovvero da quando sua figlia Denise Pipitone è stata rapita ed è scomparsa nel nulla. Nella seconda parte della puntata di Mattino 5 di martedì 22 giugno, la Panicucci ha fatto una lunga chiacchierata con Piera Maggio, che ha respinto la definizione di ‘Wonder Woman’: “Ci sono momenti in cui sono giù e non mi va di vedere nessuno. Momenti difficili”. A quel punto anche la conduttrice di Canale 5 si è commossa, intuendo lo stato d’animo dell’altra donna essendo anch’essa una madre: “Sei una mamma a cui è stata tolta la figlia, è molto difficile…”. Visibilmente turbata, Piera Maggio ha comunque voluto partecipare alla trasmissione: “Sono qua per ringraziarvi per ciò che avete fatto. Volevo farvi un saluto in questo finale di stagione, avete fatto un ottimo lavoro”. Poi ha voluto commentare le ricerche infruttuose svolte nelle ore immediatamente successive al rapimento: "Ovviamente puntiamo tanto sul lavoro che stanno facendo in Procura, noi vogliamo arrivare a una verità. Diciassette anni sono tanti e sono stati fatti tanti errori, c'è da riflettere. Magari Denise il giorno dopo la sua scomparsa poteva essere a casa, chi lo sa, abbiamo perso del tempo prezioso. Per questi errori e negligenze nessuno mai pagherà le spese".
Denise Pipitone, il dramma di Piera Maggio a Storie Italiane: "Buchi di memoria", come è ridotta da quel giorno. Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Il dramma di Piera Maggio dura da diciassette anni, da quando sua figlia Denise Pipitone, è scomparsa a Mazara del Vallo. Il caso è tornato sulle pagine dei giornali e nei programmi televisivi dopo le ultime clamorose testimonianze. Anche oggi, 23 maggio, è intervenuta a Storie Italiane la madre della piccola, la quale, in collegamento con Eleonora Daniele ha ribadito che non si arrenderà fino a quando non si arriverà alla verità. "Il trauma è stato talmente forte - spiega Piera Maggio riferendosi alla scomparsa della figlia - che ho vuoti nella mia memoria, mi mancano dei pezzi di vita. Siamo mamme e la mia forza è stata dimostrata in tutti questi anni, ma ci sono momenti in cui cedo. È difficile portare avanti questa battaglia. Vado avanti fino alla verità". E ancora: "Ho sentito la notizia del bambino ritrovato (Nicola Tartuli, scomparso lunedì sera 21 giugno, ndr) e ho avuto una gioia immensa... Oggi Denise è la figlia di tutta Italia, ho cercato di far entrare il suo viso nelle case di tutti per fare in modo che la ricerca non si fermasse. Se vengo in tv è solo per lei". Il giorno del diciottesimo compleanno di Denise, il fratello Kevin le scrisse una lettera molto commovente e Piera Maggio ne ha parlato durante la trasmissione: "Qui si capisce la sofferenza di un fratello. Denise era quella bambina che lui descrive: chiacchierona e coccolona. Risentire la lettera mi commuove...". Poi sul dramma vissuto dalla sua famiglia aggiunge: "A Denise e ai suoi genitori il male è stato fatto. Ci auguriamo che ovunque si trovi stia bene e che venga amata dalla famiglia che ha con sé. Speriamo di mettere fine a tutta questa storia e grazie all'affetto di chi ci è vicino". Infine, Piera Maggio fa un altro accorato appello a chi ha rapito sua figlia: "Forse è arrivato il momento che diciate la verità, chi sa parli. Noi cercheremo Denise e invito tutti a farlo con le dovute cautele e i dovuti modi senza esagerare... Noi andiamo fino in fondo, speriamo bene". Tutta l'Italia spera.
La rivelazione in tv: "So chi ha preso Denise e dove..." Ignazio Riccio il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Il misterioso investigatore, che si è occupato della bambina fin dal momento della sparizione, è stato intervistato dall’inviata della trasmissione "La vita in diretta". Nella puntata andata in onda ieri, in cui si parlava del caso di Denise Pipitone, un uomo ha affermato di sapere che ha rapito la bambina scomparsa a Mazara del Vallo, in Sicilia, nel 2004. Il misterioso investigatore, che si è occupato di Denise fin dal momento della sparizione, è stato intervistato dall’inviata della trasmissione. Il testimone ha fatto una rivelazione clamorosa: ha detto che Denise sarebbe stata presa, spiegando come Jessica Pulizzi, figlia del padre naturale della bimba scomparsa, dopo essere andata al mercato, avrebbe portato con sé Denise. Quindi l’avrebbe prelevata dall’abitazione della nonna, dove era stata vista per l’ultima volta. La bambina conosceva Jessica ed ecco spiegato il motivo per cui nessuno si è accorto di nulla. Questa testimonianza, adesso, va chiaramente verificata. Anche se si tratta di una ricostruzione verosimile, suffragata da alcune intercettazioni, non ci sono riscontri ufficiali. Intanto, sempre in televisione, nell’ultima puntata della trasmissione Chi l’ha visto?, l’ex pubblico ministero Maria Angioni, recentemente iscritta nel registro degli indagati con l’accusa di false dichiarazioni, ha raccontato al telefono con l’inviata della trasmissione cosa è accaduto. “Mi hanno contestato - ha spiegato Angioni, che ha chiesto l’archiviazione immediata per queste accuse - che quando mi hanno sentita il 3 maggio, senza darmi i documenti che avevano, infatti io l’ho lamentato, avrei detto delle cose un po’ discordanti da come risulterebbero dalle carte. Quindi io oggi sono riuscita, grazie al fatto di essere indagata, a poter depositare richiesta di copia di tutti i documenti”. Sarebbero due le discordanze riscontrate sulle affermazioni di Angioni che ha spiegato di aver tuttavia parlato di mille fatti. “Cioè - ha chiarito l’ex pm, oggi giudice del lavoro in Sardegna - io ho detto che era stata installata una telecamera e che poi non funzionava più e che ne ho dovuto attivare un’altra. Loro mi hanno fatto vedere i documenti relativi alla seconda telecamera. Anche un’altra cosa che io avrei detto, che avevamo sentito a sommarie informazioni. E loro invece mi hanno trovato dei documenti che non contengono quelle dichiarazioni. Anche lì devo verificare. Comunque tagliamo la testa al toro. Io il 14 maggio ho presentato un esposto, quindi prima che venisse firmata l’informazione di garanzia. Il punto è questo. Quando mi si è rimproverato: 'Ma lei parla soltanto dopo 17 anni', chiaramente io forse adesso penso di potermelo permette di parlare, però ci possono essere dei momenti in cui un magistrato è più giovane, in cui certe reazioni possono essere molto più pesanti”. L'ex pm ha subito personalmente delle minacce tra il 2004 e il 2005, quando era sul caso.
Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere
Denise Pipitone, l'ex poliziotto: "Il Peppe di cui parlano sono io". Svolta clamorosa, incastrate Anna e Jessica? Libero Quotidiano il 26 giugno 2021. Nuovi dettagli emergono sul caso di Denise Pipitone, la bimba di Mazara Del Vallo scomparsa 17 anni fa. A farsi avanti è stato un ex poliziotto, che non era mai stato ascoltato prima e che ha rivelato dei retroscena importanti sulla famiglia di Anna Corona, l'ex moglie del papà biologico della piccola. Lo ha rivelato la trasmissione di Gianluigi Nuzzi su Rete 4, Quarto Grado. L'uomo ha rivelato cosa successe quando lui e un suo collega interrogarono Anna e sua figlia Jessica: "Installiamo un ambientale nel mio ufficio, un altro nell'ufficio dell'altro ispettore. Facciamo questo esperimento, Jessica messa nella stanza di quell'ispettore e io chiamo Anna Corona. La incalzo, cerco di farle capire che se Jessica non ci dice come vanno le cose, messa così andiamo a indagarla... L'accompagno nella stanza dov'è Jessica, la faccio entrare e chiudo. E lì esce “a casa ce la purtai (a casa l'ho portata)”". L'ex ispettore di polizia giudiziaria interrogò poi Gaspare Ghaleb, l'ex fidanzato di Jessica Pulizzi, e a lui fu assegnato anche il compito di ascoltare le intercettazioni. "'Tu mi devi dire cos'è successo! Tu mi devi dire cos'è successo!' dice Anna. Jessica, che non ha capito più niente, dice “mia madre vuole sapere cos'è successo e io glielo dico”, perché fino a quel momento lì loro non avevano mai parlato in maniera così aperta. Anna capisce che stava mettendo nei guai sua figlia. Quando Jessica dice “a casa ce la purtai”, lei interrompe subito. 'Guardami negli occhi' e sento che dice 'problemi con Dio ne hai?'", ha raccontato l'ex poliziotto. Poi ha rivelato che in quell'occasione le due donne fecero il nome di Peppe e a tal riguardo ha precisato: "Il Peppe amico di Anna sono io, che poi non sono amico di Anna. Non quello del motorino, del motorino sono altri".
Denise Pipitone, l'ex poliziotto a Quarto Grado confessa: "Guardami negli occhi. Dio...". Per Anna e Jessica si mette malissimo. Libero Quotidiano il 26 giugno 2021. "Installiamo un ambientale nel mio ufficio, un altro nell'ufficio dell'altro ispettore. Facciamo questo esperimento, Jessica messa nella stanza di quell'ispettore e io chiamo Anna Corona. La incalzo, cerco di farle capire che se Jessica non ci dice come vanno le cose, messa così andiamo a indagarla... L'accompagno nella stanza dov'è Jessica, la faccio entrare e chiudo. E lì esce 'a casa ce la purtai' ". Queste le rivelazioni del testimone chiave della nuova inchiesta aperta dalla Procura di Marsala sul caso della scomparsa di Denise Pipitone. Quarto Grado ha ricostruito le dichiarazioni dell'uomo, un ex poliziotto, che è stato convocato per la prima volta. E' il primo dei sei testimoni della nuova indagine: ex ispettore della polizia giudiziaria che nel 2004 interrogò Gaspare Ghaleb, ex fidanzato di Jessica Pulizzi, e a lui fu assegnato il compito di controllare le intercettazioni. "Sono riuscito a rompere il muro di Anna con quella conversazione mettendola a suo agio - rivela -. 'Tu mi devi dire cos'è successo! Tu mi devi dire cos'è successo!' dice Anna. Jessica, che non ha capito più niente, dice 'mia madre vuole sapere cos'è successo e io glielo dico', perché fino a quel momento lì loro non avevano mai parlato in maniera così aperta. Anna capisce che stava mettendo nei guai sua figlia. Quando Jessica dice “a casa ce la purtai”, lei interrompe subito. 'Guardami negli occhi' e sento che dice 'problemi con Dio ne hai?'". Si parla poi di certo Peppe. Quel Peppe, sarebbe proprio l'ex poliziotto: "Si dice sempre questo Peppe, che Anna chiama questo poliziotto Peppe - dice -. Il Peppe amico di Anna sono io, che poi non sono amico di Anna. Non quello del motorino, del motorino sono altri". Infatti, in questa storia ci sono due Peppe: quello che Anna Corona nomina in commissariato e quello che bisbiglia a un altro uomo intercettato dal motorino di Jessica. Infine, l'ex poliziotto, conclude ammettendo: "Eravamo in troppi, troppe forze dell'ordine".
Denise Pipitone, testimone chiave aggredita e picchiata sotto casa da tre persone. Debora Faravelli il 30/06/2021 su Notizie.it. Una testimone chiave per le indagini sulla scomparsa di Denise Pipitone è stata aggredita sotto la sua casa da tre persone. L’avvocato di Piera Maggio Giacomo Frazzitta ha affermato che una testimone chiave nell’ambito delle nuove indagini aperte dalla Procura di Marsala sul caso di Denise Pipitone, è stata aggredita e picchiata sotto la sua abitazione a Mazara del Vallo. La rivelazione è giunta durante la trasmissione Ore 14 in onda su Rai Due. Il legale ha spiegato di aver ricevuto la notizia poche ore prima e consigliato di avvisare immediatamente la Procura. Stando a quanto appreso, la donna sarebbe stata aggredita da tre persone. “Potrebbe essere stata anche un’aggressione dovuta ad altri motivi, sta di fatto che tutto ció è molto strano e la cosa mi ha preoccupato”, ha aggiunto Frazzitta. L’episodio giunge a pochi giorni di distanza dall’aggressione subita, sempre nella cittadina del trapanese, dalla troupe di giornalisti Rai che si era recata sul posto per svolgere alcune interviste sul caso. Non è noto chi sia la testimone aggredita né il ruolo che abbia nelle indagini. Sempre durante la trasmissione sono emersi nuovi elementi sul caso della bimba scomparsa nel 2004. Un super testimone avrebbe raccontato di aver visto la piccola Denise, nel giorno del rapimento, all’interno dell’Hotel Ruggero II, vale a dire la struttura ricettiva presso cui lavorava Anna Corona.
Denise Pipitone, la super testimone: "Quella bambina dietro il bancone dell'hotel dove lavorava Anna Corona". Libero Quotidiano il 30 giugno 2021. Sono clamorose le rivelazioni di due supertestimoni che forniscono dettagli eclatanti sul caso di Denise Pipitone la bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004. Le loro dichiarazioni sono emerse dalle indagini della Procura di Marsala, e Milo Infante ne ha dato notizia nello speciale di Ore 14, su Rai due. La prima testimone oculare è una signora di Roma che il primo settembre del 2004, giorno della sparizione della bambina, si trovava nella cittadina siciliana e alloggiava all’hotel Ruggero II, dove lavorava Anna Corona. La donna ha raccontato in Procura di essere andata alla reception dell’albergo per richiedere degli asciugamani e di aver notato una strana situazione di caos. Si sentivano delle urla e ad un certo punto ha udito con chiarezza una frase: "Proprio qua dovevi portarla?". La donna ha rivelato anche un altro inquietante dettaglio: in quella circostanza, si aprì una porta e al di là di essa vide una bambina. In quello stesso frangente, la donna riconobbe anche una delle persone attualmente indagate, proprio la stessa che alla reception le chiese con modi particolarmente concitati di cosa avesse bisogno. La seconda testimonianza accolta in Procura è di una donna di Mazara del Vallo alla quale una figura nota alle indagini avrebbe rivelato in una chat di aver fatto fuori la bambina. Una testimonianza pesantissima sulla quale la Procura sta effettuando le dovute verifiche. Peraltro la stessa testimone ha raccontato di essere stata aggredita e picchiata da tre sconosciuti sotto casa dopo essere stata ascoltata in Procura. Durante la puntata poi Piera Maggio si è rivolta all’ex marito Toni Pipitone: “Il mio unico obiettivo è la ricerca di Denise, non voglio che si parli più della mia vita privata”. E ancora: "Forse dimentica che non ha mai contribuito con un euro alla ricerca di Denise, forse dimentica che non è mai stato presente personalmente in nessuna udienza di primo, secondo e terzo grado, forse dimentica di non aver avuto un rapporto affettivo con suo figlio. Ha dimenticato forse che dopo due anni è scomparso completamente dalla vita di Kevin".
Quel "segno rosso", il dettaglio che può far trovare Denise. Angela Leucci il 2 Luglio 2021 su Il Giornale. Le cicatrici possono rappresentare un tratto distintivo nel caso di persona scomparsa: quelle di Denise Pipitone e Mauro Romano non possono essere sparite. Una cicatrice può essere un segno tanto distintivo da permettere il riconoscimento di una persona anche a distanza di anni? È una domanda che è giusto porsi: nelle narrazioni di questi mesi relative alle persone scomparse, nel ripercorrere casi di presunti rapimenti mai chiusi e mai risolti, come quelli di Denise Pipitone e Mauro Romano, si è parlato spesso di cicatrici. C’è un segno rosso, per esempio, sul volto di Denise, scomparsa il 1 settembre 2004 da Mazara del Vallo, in alcuni scatti della sua infanzia rubata agli abbracci di mamma Piera Maggio, si nota più che in altri. Un mese dopo una guardia giurata, Felice Grieco, riprese col telefonino a Milano una bimba molto somigliante a Denise, con quello stesso segno sul volto, come lo stesso testimone rimarcò. Una cicatrice sulla mano sembra invece il tratto distintivo di Mauro Romano, scomparso da Racale il 20 giugno 1977. La madre del bambino Bianca Colaianni affermò di averla riconosciuta in alcuni scatti di cronaca rosa, che coinvolgevano un giovane molto benestante di origine libanese - la cui famiglia ha smentito, spiegando più volte di ritenere offensive le accuse e di non voler essere coinvolta in alcun modo. Ma cercare gli scomparsi attraverso un tratto come una cicatrice può rivelarsi davvero funzionale alle indagini? “Una cicatrice non può sparire”, ha detto a IlGiornale.it il dottor Massimo Corso, medico chirurgo, specialista in chirurgia plastica ed estetica.
Da Denise Pipitone a Mauro Romano, spesso i genitori dei bimbi scomparsi fanno riferimento alle cicatrici per identificarli. Dottor Corso, quanto senso ha dopo anni?
“Direi di sì. Magari a parte qualche zona del viso come le palpebre, dove la guarigione è veramente ottima e può portare quasi a un’invisibilità delle cicatrici negli anni. Però nelle altre parti del corpo è un parametro effettivamente utile, magari non unico, però quale ulteriore conferma certamente sì”.
Una cicatrice è un carattere distintivo per identificare davvero una persona?
“Secondo me sì, perché, per quanto due persone possano avere la stessa cicatrice nello stesso punto, se si conosce bene la cicatrice della persona che cerchiamo, quella avrà dei caratteri di unicità e di univocità”.
"Ho visto io Denise, chiedeva aiuto": il supertestimone si rivela
Mettiamo il caso che sia trascorso tempo, anche molti anni: una cicatrice può modificarsi?
“Può modificarsi, sì. Nei primi 3-6 mesi tenderà a essere rossa o arrossata e un pochino rigida qualche volta in rilievo, mentre nei successivi 6-12 mesi il fenomeno andrà a evolversi e a migliorare, infine in un ulteriore anno ci sarà un cambiamento ancora più marcato e negli anni successivi tenderà a sbiancare e schiarirsi, fino a rendersi quasi invisibile, come dicevo prima, in alcune zone del corpo, ma una cicatrice non può sparire”.
Ci sono cicatrici che si modificano di più di altre?
“Il viso e le mani hanno una guarigione veramente eccezionale in termini di qualità, di rapidità e di evoluzione nel tempo. Qualche volta le cicatrici su viso e mani possono diventare quasi invisibili, a meno che non siano cicatrici veramente importanti, veramente profonde, veramente lunghe. Tante volte possono essere aree in cui le incisioni si modificano molto”.
Le cicatrici possono essere modificate chirurgicamente? Quanto e come?
“Sì, per esempio le cicatrici larghe possono essere ristrette, le cicatrici tonde possono essere fatte diventare lineari, però un segno resta sempre. Inoltre le cicatrici tese possono essere allungate, però di fatto, là dove c’era una cicatrice, non potrà mai non esserci più una cicatrice: questa è una verità assoluta”.
Ha mai ricevuto richieste per la modifica chirurgica delle cicatrici?
“Certamente sì e ci sono casi in cui ne vale assolutamente la pena, come per le cicatrici molto larghe o le cicatrici con una brutta forma, un brutto colore, una brutta consistenza, però di fatto la modifica è possibile, l’eliminazione no”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, la turista romana che era nell'hotel di Anna Corona quel giorno: "Cos'ho sentito dire". Pesantissima conferma. Libero Quotidiano il 02 luglio 2021. Nel fascicolo d'inchiesta sul caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo nel 2004, si procede come diciassette anni fa e vengono rivalutate le vecchie intercettazione e le posizioni di varie persone già sentite all'epoca. Alcune di questa, rivelano alcune fonti investigative al sito Fanpage.it, sono state solo ascoltate di nuovo. Pare che la Procura di Marsala abbia scelto la strada del silenzio dopo la fuga di notizie che vedrebbe indagati Giuseppe della Chiave e Anna Corona, ex moglie di Pietro Pulizzi, papà biologico di Denise, e mamma di Jessica, così come comunicato dalla trasmissione di Rete 4 Quarto Grado. Il reato per il quale si indaga è sempre sequestro di persona quindi Jessica Pulizzi non risulterebbe al momento attenzionata, essendo stata assolta in via definitiva per quel tipo di reato. Come ha spiegato la criminologa Anna Vagli a Fanpage.it, "negli ultimi giorni gli inquirenti si siano concentrati sull’Hotel Ruggero II, dove all’epoca dei fatti lavorava Anna Corona. In particolare, avrebbero compiuto delle ispezioni sulle vie d’uscita della struttura ricettiva". Una turista romana, infatti avrebbe testimoniato che 17 anni fa, il primo settembre, giorno della scomparsa di Denise, era scesa alla reception dell'albergo, dove alloggiava insieme alla famiglia, per chiedere un asciugamano e ha detto di aver notato qualcosa di strano. In quel momento avrebbe visto poi dietro la tenda della reception una bambina che sarebbe, a suo dire, proprio Denise e avrebbe sentito pronunciare la frase: "Proprio qui dovevi portarla?". Il suo racconto è al momento al vaglio degli inquirenti. "Sicuramente la notizia di questo super testimone ha acceso un nuovo faro sull’inchiesta", ha proseguito la Vagli. "Si tratterebbe di una persona, una donna sempre secondo indiscrezioni, estranea alle indagini, che avrebbe soggiornato all’hotel Ruggero II con la famiglia alcuni giorni nel settembre del 2004, compreso il giorno della scomparsa di Denise. Da quello che emerge dalle indiscrezioni, però, mancherebbero riscontri certi di quel soggiorno. Non ne sarebbero infatti state conservate ricevute o fatture e non emergerebbero né riscontri dal registro delle presenze dell’albergo né dalle comunicazioni che da procedura devono farsi alla polizia. Mancherebbero riscontri anche sulle carte di credito, dal momento che le banche conservano le rendicontazioni solo per 10 anni".
Denise Pipitone, parla Gaspare Ghaleb: “Dubbi su Jessica, anche la mia famiglia aveva paura di lei”. Debora Faravelli il 03/07/2021 su Notizie.it. Gaspare Ghaleb afferma di avere dei dubbi su Jessica Pulizzi e si esprime sulle telefonate ricevute il giorno della scomparsa di Denise Pipitone. Nonostante la diffida di Piera Maggio a parlare del caso della figlia, Quarto Grado è tornato a fornire nuovi elementi sulla scomparsa di Denise Pipitone: tra questi un’intervista esclusiva a Gaspare Ghaleb, l’allora fidanzato di Jessica Pulizzi. L’ex ragazzo della sorellastra di Denise ha affermato di aver aiutato nelle indagini e di non aver puntato il dito contro nessuno all’epoca. “Ma oggi ho i miei dubbi su Jessica, ha aggiunto. Per quanto riguarda le telefonate sospette ricevute da quest’ultima, l’uomo ha dichiarato di non aver mai risposto a quelle chiamate anche se i tabulati confermerebbero l’opposto: “Non fui io a rispondere al telefono, fu mia zia o mio cugino. Terminato il filmato, si propone poi nuovamente la pista della criminalità organizzata. Il conduttore si è infatti chiesto come sia possibile che in un territorio come Mazara del Vallo, sparisca una bambina e nessun Boss attivi le sue sentinelle per ritrovarla. Oltre alla testimonianza dell’ex di Jessica, la trasmissione ha mostrato un’intervista e una lettera scritta e letta da Toni Pipitone, il padre (non naturale) di Denise. “La scomparsa di mia figlia mi ha devastato la vita e spezzato il cuore. Amavo la mia famiglia e i miei figli”, ha iniziato. Per rendere la vita della sua famiglia più agiata, ha continuato, nel 1998 si trasferì in Toscana per lavorare come muratore e l’estate successiva chiese a Piera di raggiungerlo ma lei non accettò. “Li amavo troppo, profondamente. Ero felice al pensiero di ritrovarli ogni volta che tornavo”, ha aggiunto. Nel 2002 è poi tornato in Sicilia e dal 2004, con la scomparsa di Denise, “ho perso mia figlia, e la mia famiglia e sopportato un dolore che non auguro a nessuno”.
Denise Pipitone, a Quarto Grado Nuzzi sfida la diffida di mamma Piera Maggio. "Verso la Tunisia", la bomba dell'ex pm Angioni. Libero Quotidiano il 06 settembre 2021. Si riapre nel segno di Denise Pipitone. Nonostante la diffida di Piera Maggio, mamma della bimba sparita da Mazara del Vallo l'1 settembre del 2004, a Quarto Grado su Rete 4 si parlerà ancora del caso tornato prepotentemente alla ribalta in questo 2021. Venerdì prossimo i conduttori Gianluigi Nuzzi e Alessandra Viero darà nuovamente spazio ad Anna Corona, madre di Jessica Pulizzi (sorellastra di Denise), tra le figure-chiave di una inchiesta che sembra essere partita subito con il piede sbagliato. "Avremo i nostri grandi gialli, come la scomparsa di Denise Pipitone - annuncia lo stesso Nuzzi a TelePiù -. Poi tratteremo il caso dell’estate, quello della vigilessa Laura Ziliani trovata morta di recente a Temù dopo mesi di ricerche". Oltre alla tematica dei femminicidi, che molto appassiona Nuzzi, torneranno alla ribalta interviste e testimonianze delle persone coinvolte nelle indagini della Procura di Marsala. Sicuramente si parlerà ancora di Maria Angioni, la contestata pm che per prima si è occupata del caso nei primissimi mesi e che da tempo sostiene l'ipotesi del rapimento nato nell'ambito della famiglia allargata di Pulizzi e Maggio, tra veleni, rivalità amorose e sete di vendetta. Secondo il magistrato, che in questi ultimi mesi si è spesso espressa in tal senso in tv e sui social sollevando veri polveroni, Denise sarebbe viva, vivrebbe all'estero e sarebbe sposata e madre di una bambina. Ignara del suo passato, sarebbe stata accolta da una famiglia molto facoltosa. La Angoni ha fatto riferimento anche a un documento che attesterebbe il mancato controllo delle frontiere da parte delle forze dell’ordine il giorno seguente alla sparizione della piccola Denise davanti a casa a Mazara. In particolare, si parla del transito di una minore da un porto siciliano verso la Tunisia. Dichiarazioni accolte nuovamente da commenti indignati.
"Picchiato e incastrato, vi racconto cosa non torna sul caso Denise”. Angela Leucci il 3 Luglio 2021 su Il Giornale. Gaspare Ghaleb racconta il suo punto di vista sul caso di Denise Pipitone e spara a zero contro gli inquirenti: ecco cosa ha detto a "Quarto grado". Per la prima volta dopo molto tempo torna a parlare una persona coinvolta nel processo per il rapimento di Denise Pipitone. Si tratta dell’unica persona condannata, e poi prescritta, per false dichiarazioni ai pm: Gaspare Ghaleb, l’ex ragazzo di Jessica Pulizzi, figlia del padre naturale di Denise Piero Pulizzi. Ghaleb, raggiunto da “Quarto grado”, ha raccontato come sia stato inizialmente contento nell’apprendere della riapertura delle indagini, affinché la verità venga a galla. Ma la sua felicità è durata ben poco: minacce sono piovute sui suoi account social, Ghaleb ha poi perso il lavoro e la sorella lo ha chiamato in lacrime dopo aver sentito in tv che diceva: “Lo devono arrestare”. Ghaleb ha confermato la sua estraneità, anche in linea filosofica, nel rapimento di Denise: “Io morirei, non avrei più forze se un giorno… mi scompare, si dissolve nel nulla mio nipote io morirei. Mi sentirei una persona vuota, spenta, senz’anima”. Tornando all’epoca delle prime indagini e poi del processo, il giovane ha spiegato che gli inquirenti gli avrebbero chiesto di spingere Jessica Pulizzi a confessare il rapimento. “Ho aiutato la polizia - ha raccontato Ghaleb - mi sono prestato a fare l’interrogatorio lì, a fare delle domande dirette in commissariato, sapendo e cosciente, dopo che mi avevano pure picchiato in commissariato. Inutile che l’Angioni dice che era vicino alla verità e il fatto che non mi hanno picchiato”. Ci sono però due questioni ancora avvolte nel mistero. La prima è relativa alle celle agganciate dal telefono di Ghaleb il 1 settembre 2004, il giorno in cui scomparve Denise. Ghaleb dice di non aver parlato con Jessica di mattina, ma di aver ricevuto una telefonata in cui la ex gli dava la notizia del rapimento da parte di TeleVallo. Secondo Ghaleb, la mattina una sua parente avrebbe risposto al telefono, ma Jessica avrebbe nascosto il dettaglio agli inquirenti per ripicca, perché i due si erano lasciati. C’è inoltre però un’intercettazione telefonica in cui Jessica e Ghaleb sembrano parlare in codice. Intanto sono stati ascoltati dalla procura i turisti romani, che hanno affermato di aver visto una bambina dietro una tenda dell’Hotel Ruggero II il giorno della scomparsa di Denise. La coppia però non si trovava a Mazara del Vallo quel giorno, non era neppure in Sicilia, ma a Roma. Si tratta di “un ricordo assolutamente non corretto”, ha commentato il loro legale Stefano Pellegrino, forse sotto la suggestione del clamore mediatico. Infine a “Quarto grado” sono state esaminate le discrepanze tra quanto dichiarato a suo tempo agli inquirenti da Alice Pulizzi e ciò che invece sosteneva la sorella Jessica. Pare che le due si fossero confrontate prima su cosa dire: “Non ho mai visto la piccola Denise - ha spiegato Alice agli inquirenti - Solo dopo ho visto la sua foto in televisione”. Nelle narrazioni delle due sorelle ci sono due incongruenze importanti. La prima: Jessica afferma di aver ricevuto una telefonata dal padre dopo essere stata nell’Hotel Ruggero II dove lavorava la madre Anna Corona, Alice che invece la telefonata sia avvenuta prima. Inoltre, secondo Jessica, quella notte entrambe sono andate a dormire dalla nonna materna, secondo Alice è stata la nonna ad andare a dormire a casa loro.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, la rivelazione di Quarto grado: "Ci sono nuovi indagati per falsa testimonianza". Libero Quotidiano il 03 luglio 2021. Ci sono nuovi indagati sul caso di Denise Pipitone, annuncia Gianluigi Nuzzi a Quarto Grado, nella puntata del 2 luglio in onda su Rete 4. Nell'inchiesta della Procura di Marsala sono venute fuori anche alcune false testimonianze. È il caso dell’ex pm Maria Angioni, il magistrato incaricato all’epoca dei fatti, che nelle scorse settimane aveva dichiarato in diretta tv di aver trovato Denise viva e con una figlia, ed è il caso più recente dei coniugi romani. La turista romana aveva raccontato di aver visto il 1° settembre 2004 nella hall dell'hotel Ruggero II una signora con fare sospetto in compagnia di una bambina e di aver sentito una voce che diceva: "Proprio qui la dovevi portare?". Ma dalle indagini emerge invece che la coppia quel giorno non si trovava a Mazara del Vallo ma a Roma. L’avvocato della coppia, Stefano Pellegrino, è lo stesso legale della magistrata Maria Angioni, anche lei indagata per falsa testimonianza.
Spiega Pellegrino: "La moglie in pratica aveva realizzato un ricordo assolutamente non corretto. Aveva visto una signora ma ovviamente non si sa in quale in quale albergo, hanno riscontrato e verificato che in effetti la signora non si trovava quel giorno a Mazara del Vallo e neanche in Sicilia. Queste sono state le parole della mia assistita: “C’è stato questo martellamento mediatico e quindi mi sono lasciata suggestionare…”.
L'avvocato nega però che ci sia un legame tra la Angioni e la coppia: "Non c’è nessun rapporto di conoscenza né tantomeno un rapporto amicale solamente una conoscenza mediatica. Hanno seguito le trasmissioni e quindi magari si sono lasciati suggestionare”. Si tratterebbe, ancora una volta, solo di suggestioni.
Denise Pipitone, "mi ha devastato la vita": le drammatiche accuse del padre biologico a Piera Maggio, l'ultimo fronte. Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. Ora la vicenda di Denise Pipitone, la bimba scomparsa da Mazara Del Vallo nel 2004, si arricchisce di un ultimo, spiazzante, capitolo. Si tratta delle accuse rivolte dal padre della bimba, Toni Pipitone, alla madre di Denise, Piera Maggio. Il tutto in una lettera aperta spedita a Quarto Grado, il programma di Gianluigi Nuzzi in onda su Rete 4 e con cui proprio Piera Maggio ha un conto aperto. "La scomparsa di mia figlia Denise mi ha devastato la vita, mi ha spezzato il cuore. Amavo tantissimo la mia famiglia e i miei figli", ha spiegato l'ex di Piera Maggio, smentendo con toni durissimi il disinteresse per la vicenda. L'uomo, che aveva scoperto solo dopo la scomparsa della bimba di non essere il padre biologico di Denise, si era trasferito in Toscana per lavoro e regolarmente inviava soldi alla famiglia perché potesse provvedere a tutto quello di cui c'era bisogno. E nella lettera aggiunge: "Nell’estate del 1999 chiesi a mia moglie di trasferirsi in Toscana, volevo vivere la quotidianità, ma Piera non voleva lasciare la sua casa e non volle trasferirsi", ha puntualizzato. Dunque i due hanno continuato una relazione a distanza fino a che, nel 2002, lui tornò in Sicilia. Due anni dopo, la tragedia e la scomparsa di Denise. In quegli anni, Toni Pipitone perse anche il lavoro. E prosegue nella missiva: "Ho perso mia figlia, tutto. Non guadagnavo più. Ero lacerato e disperato, mi sono sentito solo e abbandonato. Ero proprio distrutto. Sono rimasto in silenzio, ma mai assente in questa storia. Ho partecipato ai tre gradi di giudizio grazie al mio avvocato che per 17 anni mi ha sempre rappresentato e informato dei fatti e di tutto. Ho mantenuto sempre continui contatti". Infine, nella lettera, Toni Pipitone aggiunge di essere ancora in attesa di scoprire la verità sulla scomparsa di quella che considera in tutto e per tutto sua figlia.
Denise, chiuse le indagini: l'ex pm rischia il processo. Angela Leucci il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Sono chiuse le indagini relative a Maria Angioni, ex pm del caso Denise Pipitone, che era stata accusata di false dichiarazioni ai pm. Indagini chiuse per l’ex pm del rapimento di Denise Pipitone, che era stata accusata di false dichiarazioni al pm. Come riporta La Stampa, la Procura di Marsala ha notificato a Maria Angioni un avviso di conclusione delle indagini. Cosa succederà adesso? L’ex pm avrà la facoltà di essere ascoltata oppure di produrre documentazione a proprio sostegno. Uno dei rischi è che si arriverà a rinvio a giudizio e quindi al processo, mentre Angioni aveva richiesto l’immediata archiviazione.
Perché era sotto indagine Maria Angioni. L’ex pm ha lavorato al caso Denise Pipitone tra il 2004, pochi giorni dopo la scomparsa della bimba, avvenuta a Mazara del Vallo il 1 settembre 2004, fino alla metà del 2005 all’incirca. Successivamente, ha raccontato, è andata a lavorare in un tribunale per i minori, mossa dall’esigenza di occuparsi dei più piccoli dopo il rapimento di Denise. Oggi è giudice del lavoro in Sardegna. La figura di Angioni è tornata in auge dopo l’uragano mediatico provocato da Olesya Rostova, una ragazza russa per la quale era stato ventilato che si trattasse di Denise. Dallo scorso marzo si è tornati a parlare molto spesso della bimba di Mazara e in televisione, nelle settimane e nei mesi successivi, è apparsa anche Angioni, fornendo talvolta dichiarazioni abbastanza scioccanti. L’ex pm è stata ascoltata a maggio dalla Procura di Marsala, su molti argomenti diversi. I pm le hanno però contestato due dettagli. “Io ho detto che era stata installata una telecamera e che poi non funzionava più e che ne ho dovuto attivare un’altra - aveva dichiarato Angioni nei giorni scorsi a ‘Chi l’ha visto?’ - Loro mi hanno fatto vedere i documenti relativi alla seconda telecamera. […] Anche un’altra cosa che io avrei detto, che avevamo sentito a sommarie informazioni uno. […] E loro invece mi hanno trovato dei documenti che non contengono quelle dichiarazioni. Anche lì devo verificare”. Intanto Angioni già a maggio aveva presentato anche un esposto contro i pm, in previsione dell’indagine nei suoi confronti. Tuttavia l’indagine è apparsa fin dall’inizio slegata dalle apparizioni televisive dell’ex pm.
L’opinione pubblica contro Angioni. Sono tante le critiche che sono state mosse all’ex pm. Dai social alla trasmissione “Quarto grado” sono state sollevate diverse obiezioni alle sue parole, una in primis: perché parlare solo oggi a quasi 17 anni dalla scomparsa di Denise? Angioni ha sempre affermato che gli approfondimenti televisivi fossero utili, perché permettevano di fare brainstorming sul caso. Di recente, contro le dichiarazioni di uomini e donne di legge in tv si è pronunciato Roberto Piscitello, sostituto procuratore a Marsala e tra i titolari delle nuove indagini sul caso Denise. “Penso - ha dichiarato Piscitello all’Agi durante un incontro sulla figura di Rosario Livatino - che non sia corretto andare in televisione a sostenere ragioni che non hanno retto ai gradi di giudizio o intavolare contrasti con il giudice che non ti ha accettato la misura cautelare”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, l'ex pm Maria Angioni rischia il processo: un drammatico scossone nell'inchiesta. Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. Nuovo scossone nel caso di Denise Pipitone: l'ex pm Maria Angioni, magistrato che da mesi ribadisce di avere ragione di credere che la bimba sparita da Mazara del Vallo l'1 settembre 2004 sia ancora viva, all'estero e con una sua famiglia, rischia il processo. "Ho la certezza che Denise Pipitone sia viva e l’ho individuata. Ha una figlia", aveva detto in tv scatenando un putiferio la Angioni, che era stata la prima a indagare a fine 2004 sul giallo di Denise. Ora la Procura di Marsala, dove aveva lavorato, le ha notificato l'avviso di conclusione delle indagini. "Ho la certezza che Denise Pipitone sia viva e l’ho individuata. Ha un e una figlia", aveva spiegato lo stesso 14 giugno la Angioni, ospite di Storie italiane di Eleonora Daniele su Rai1. "Non è bello sentirmi dire davanti alla tv 'Denise è mamma'", era stata la dura replica di Piera Maggio, mamma di Denise, a Chi l'ha visto?. Ma l'ex pm aveva rincarato parlando di un "rapimento" che avrebbe coinvolto "due gruppi, i buoni e i cattivi". Le accuse rivolte dalla ex pm, oggi giudice del lavoro a Sassari, erano state durissime: aveva parlato di tentativi di depistaggio e connivenze nel corso delle indagini, puntando il dito direttamente sugli inquirenti coinvolti nelle prime fasi delle ricerche della bimba, che non diedero esito. Sentita dalla Procura di Marsala, la Angioni avrebbe ribadito le accuse lanciate più volte in tv, accuse che però non avrebbero trovato riscontro. Ecco perché la ex pm rischia il processo per false dichiarazioni a pubblico ministero. Di contro, l'indagata alla stampa ha rivelato di aver fatto un esposto al Csm contro i colleghi di Marsala.
Denise Pipitone, parla l’ex pm di Marsala: “Processatemi”. Giampiero Casoni il 12/07/2021 su Notizie.it. Denise Pipitone, parla l’ex pm di Marsala: “Se ritrattassi il procedimento penale a mio carico si chiuderebbe, ma io non lo voglio, perciò processatemi”. Denise Pipitone, l’ex pm di Marsala Mara Angioni non ci sta a passare per seminatrice di false notizie sulla bimba scomparsa e periò dice: “Processatemi pure”. Nella interminabile vicenda della bambina scomparsa nel 2004 da Mazara del Vallo e dei numerosi personaggi che ormai orbitano stabilmente intorno ad essa entra a pieno titolo anche la figura di Mara Angioni. Oggi giudice del Lavoro a Sassari, la Angioni all’epoca era sostituto procuratore di Marsala, l’epicentro delle indagini, e oggi rischia di essere processata per alcune sue dichiarazioni in ordine al caso di cui agli esordi si era occupata. Quali? Qualche tempo fa e in più occasioni la Angioni aveva sostenuto che Denise Pipitone è viva, poi che non sa di essere esattamente la bimba rapita a Mazara, infine che nell’ambito delle indagini sulla sua scomparsa c’erano stati dei tentativi di depistaggio, delle vere connivenze e degli errori gravissimi che della farraginosità storica dell’inchiesta avrebbero costituito il presupposto essenziale. E la giudice Angioni ha scritto chiaro e tondo quel che pensa su facebook: “Se ritrattassi e, abiurando, dichiarassi che quanto ho detto al pm non è vero, il procedimento penale a mio carico si chiuderebbe subito ma io voglio il processo”. Poi spiega: “È una cosa che devo, a me e a tante altre persone che hanno diritto a giustizia e verità”. Poi a Angioni entra nel merito tecnico: “Sto studiando e valuterò tutti gli atti, anche quelli contenuti nei numerosi stralci a modello 44 (cioè le notizie di reato a carico di ignoti – ndr) e modello 45 (vale a dire il registro degli atti che non costituiscono notizie di reato) che disposi all’epoca per esigenze di particolare segretezza”. Poi l’annuncio della sua personale controffensiva in punto di diritto: “Ho già depositato una denuncia penale per falsità materiale in atto pubblico”. Da un punto di vista procedurale la Angioni è stata recentemente fatta oggetto di notifica del 415/bis Cpp, l’atto che in punto di Codice di Procedura Penale chiuse le indagini, avvisa le parti e di solito prelude alla richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura.
Denise Pipitone, l’ex pm Angioni a processo per falsa testimonianza. Fabio Calcagni su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Giudizio immediato per l’ex pm Maria Angioni, accusata di false dichiarazioni al pubblico ministero sull’indagine sulla scomparsa della piccola Denise Pipitone. Lo ha disposto la procura di Marsala nei confronti del magistrato, che ha avuto un ruolo chiave nelle indagini relative alla scomparsa della bambina di 3 anni svanita nel nulla da Mazara del Vallo il 1 settembre 2004. Il processo comincerà il 23 dicembre davanti al giudice monocratico del Tribunale di Marsala. Angioni, attualmente giudice del lavoro a Sassari, è accusata di false dichiarazioni a pubblico ministero. A causa di continue dichiarazioni ai media in merito alla scomparsa di Denise, l’ex pm era stata sentita dalla Procura di Marsala dopo aver parlato in tv di presunti tentativi di depistaggio nelle indagini sulla scomparsa della bambina, oltre che di connivenze di forze dell’ordine con i rapitori e gravi falle negli accertamenti svolti a seguito della scomparsa della bambina dalla cittadina siciliana. In Procura, sentita come testimone, la Angioni aveva quindi confermato quanto dichiarato: per i magistrati però quelle circostanze non avevano trovato alcun riscontro e da qui è partita l’indagine per false dichiarazioni a pubblico ministero a cui è seguita una nuova convocazione in Procura, questa volta in veste di indagata. Anche in questa occasione l’ex pm che si occupò del caso Pipitone aveva confermato quanto ribadito, mentre alla stampa aveva rivelato anche di aver presentato un esposto al Csm contro i colleghi di Marsala. Le dichiarazioni rese in tv, nel corso delle quali aveva anche affermato di avere certezza che Denise fosse ancora viva, furono oggetto di grandi critiche da parte della famiglia di Denise, tramite l’avvocato della mamma Piera Maggio, Giacomo Frazzitta. Quest’ultimo aveva invitato tutti “alla massima cautela nel momento in cui si diffondono notizie che possono essere infondate o contenenti elementi non riscontrati o non riscontrabili e che possono costituire un ostacolo al lavoro della Procura di Marsala”, rivolgendosi in particolare all’ex pm Angioni, nella parte in cui si riferiva a “un magistrato che dovrebbe conoscere bene l’importanza del segreto investigativo”. Nelle scorse settimane Angioni aveva commentato così l’apertura di un’inchiesta nei suoi confronti: “Se ritrattassi e, abiurando, dichiarassi che quanto ho detto al Pm non è vero, il procedimento penale a mio carico si chiuderebbe subito” , ma “io voglio il processo: è una cosa che devo, a me e a tante altre persone che hanno diritto a giustizia e verità“.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
La rivelazione: "Denise gridava, guidava Ghaleb". Angela Leucci l8 Luglio 2021 su Il Giornale. Nella lettera anonima che dice cosa sarebbe accaduto a Denise Pipitone il giorno della scomparsa appare il nome di Gaspare Ghaleb: ma la testimonianza non regge. Nuove audizioni alla Procura di Marsala per il caso della scomparsa di Denise Pipitone. L’ultimo, in ordine di tempo, a essere ascoltato è Gaspare Ghaleb, che è stato sentito in quanto persona informata sui fatti. Se n’è parlato nella puntata di ieri sera di “Chi l’ha visto?”, dove è stato sottolineato che Ghaleb è un testimone assistito, cioè nelle audizioni c’è con lui il legale Walter Marino. La misura è dovuta al fatto che il giovane di origini tunisine fu condannato e poi prescritto per false testimonianze ai pm, e fu l’unico condannato nel processo per il rapimento di Denise. In questo periodo ci sono state molte audizioni, in particolare relative agli inquirenti dell’epoca, come l’ex pm Maria Angioni, per cui le indagini relative a presunte false testimonianze ai pm si sono concluse in questi giorni, e l’ex maresciallo Francesco Lombardo. Eppure il nome di Ghaleb appare nella lettera anonima, molto dettagliata, inviata al legale Giacomo Frazzitta e alla stessa redazione di “Chi l’ha visto?”. La testimonianza contenuta nella lettera parla di un’automobile lanciata a tutta velocità per le strade di Mazara del Vallo il 1 settembre 2004, il giorno in cui Denise scomparve. Nella missiva viene detto che Denise era in quell’auto e con lei ci sarebbero state tre persone ben specifiche. “Guardo dal visore dello specchietto - si legge nella lettera - e vedo e sento una bambina gridare. Aiuto mamma, aiuto, aiuto! […] A lato guida c’era il tunisino, il ragazzo di Jessica Pulizzi”. Accanto alla bambina, stando al contenuto della missiva, ci sarebbe stata una donna, che avrebbe tenuto la bambina per i piedi e le avrebbe messo una mano sulla bocca per non farla urlare. L’autore della lettera anonima si dice sicuro al cento per cento che a rapire Denise siano state tre persone tra cui Gaspare Ghaleb - i nomi delle altre due persone sono state oscurate in trasmissione - ma di non aver parlato per paura di ripercussioni su di sé e la sua famiglia, in particolare sui propri figli. La testimonianza contenuta nella lettera cozza però con quella del carrozziere, che registrò la presenza a Mazara di un’auto che si spostava a tutta velocità proprio quel giorno. Ma in quell’auto c’era solo una donna bionda con una sfumatura rossa e in più nessuna bambina. In questi quasi 17 anni ci sono state però tantissime presunte testimonianze, racconti che sono risultati quasi sempre fantasiosi o addirittura fuorvianti: la missiva inviata a Frazzitta e al programma di Rai 3 è da derubricare in questa categoria?
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, la terrificante lettera anonima: "Gridava chiusa nell'auto. E al suo fianco...". Nomi e cognomi, svolta decisiva? Libero Quotidiano il 09 luglio 2021. Si arricchisce di dettagli la scomparsa di Denise Pipitone. Proprio mentre Gaspare Ghaleb, ex fidanzato di Jessica Pulizzi (sorellastra della bambina sparita da Mazara del Vallo diciassette anni fa) veniva ascoltato in Procura, alla redazione di Chi l'ha Visto? è arrivata una lettera anonima. La trasmissione di Rai 1 condotta da Federica Sciarelli, dopo aver rilanciato gli appelli dell’avvocato Giacomo Frazzitta e della mamma Piera Maggio al testimone anonimo, ha voluto svelare il contenuto della missiva anonima. "Il mese di settembre 17 anni fa io abitavo in quei contorni - si legge -, orario più orario meno erano le 12.30-13, ho finito di lavorare, mi recavo a casa per andare a mangiare". La lettera prosegue scendendo nel dettaglio: "Mi trovo in via della Pace, a quei tempi c’era il mercato, è stato di mercoledì, c’era una fila indiana di auto, a un certo punto io venivo dalla zona ospedale, via Salemi, salendo da via Pace. Mi esce una auto ad alta velocità dalla via Mongiolisi, sorpassando le auto in corsia, io venivo dalla Via Pace, lui gira a destra, c’erano auto in fila, si mette correndo nella mia carreggiata, mi tocca specchio, auto, io in quel momento faceva caldo, avevo il finestrino aperto, mi sono accostato perché mi ha toccato lo specchietto dell’auto. Guardo dallo specchietto e vedo e sento una bambina gridare: “Aiuto mamma, aiuto”". Quanto letto dalla conduttrice è però solo una porzione della lettera. Ciò però che dà da pensare sono i tre nomi scritti al suo interno, uno dei quali è proprio quello di Gaspare Ghaleb. Con la piccola, è quanto sostiene la missiva, ci sarebbe stata una donna che teneva la bambina per i piedi e le avrebbe messo una mano sulla bocca per non farla urlare. L’autore della lettera si dice sicuro poi che a rapire Denise Pipitone siano state tre persone, tra cui il giovane di origine tunisine. Chi l'ha Visto ha invece deciso di oscurare gli altri due nomi, in attesa che le indagini facciano il loro corso.
Denise Pipitone, nella lettera anonima compare il nome di Gaspare Ghaleb: “Sono stati loro”. Debora Faravelli l08/07/2021 su Notizie.it. L'autore della lettera anonima che dice di conoscere particolari sul caso di Denise Pipitone ha fatto il nome di Gaspare Ghaleb. Nella lettera ricevuta dal legale di Piera Maggio Giacomo Frazzitta e inviata da un anonimo che asseriva di sapere dei dettagli sul caso di Denise Pipitone compaiono tre nomi tra cui quello di Gaspare Ghaleb, l’ex fidanzato di Jessica Pulizzi che mercoledì 7 luglio 2021 la Procura di Marsala ha interrogato per sei ore come persona informata sui fatti. A rivelarlo è stata la trasmissione “Chi L’ha visto?” in onda su Rai Tre. La missiva, il cui autore non si è ancora palesato nonostante i diversi appelli della madre e dell’avvocato, contiene alcuni particolari molto precisi sul giorno della scomparsa della bimba. Il mittente parla di due donne e del ragazzo di Jessica Pulizzi spiegando che mentre tornava da lavoro, intorno alle 12.30-13, ha visto un’auto ad alta velocità sorpassare le vetture ferme in coda. “Si mette correndo nella mia carreggiata e mi tocca specchio e auto, faceva caldo e avevo i finestrini aperti, mi sono accostato e ho guardato dal visore e vedo e sento una bambina gridare ‘Aiuto mamma aiuto”, ha raccontato l’anonimo. Era un’auto blu scuro, ha continuato, con al lato guida “il tunisino il ragazzo di Gessica Polizzi”. Ha dunque sottolineato che la bambina gridava forte e piangeva chiedendo aiuto: “Come ho immaginato io era buttata dietro dalla signora che la teneva con i piedi oppure a fianco messa bassa perché l’altra donna si è girata e le ha messo le mani sulla bocca per non farla urlare”, ha aggiunto. Infine la sicurezza che Denise sia stata rapita proprio da queste tre persone che ha visto tra cui Gaspare: “Ho paura di parlare, ho famiglia e figli ma andate al sicuro, sono loro tre. Sono stati loro al cento per cento”.
Denise Pipitone, lo scoop di Milo Infante: "Sei ore in Procura", chi hanno interrogato. Libero Quotidiano il 07 luglio 2021. “Gaspare Ghaleb da tre ore in Procura a Marsala”. È la notizia data da Milo Infante in diretta su Rai2: l’uomo è l’ex fidanzato di Jessica Pulizzi, la figlia di Anna Corona processata e poi assolta per concorso nel sequestro di Denise Pipitone, la bambina sparita a Mazara del Vallo il primo settembre del 2004. “Starà raccontando la sua verità - ha aggiunto il giornalista in un post su Facebook - i giudici di primo e secondo grado non gli hanno creduto. Vedremo se oggi la Procura prende atto per l’ennesima volta delle sue menzogne oppure se deciderà di procedere diversamente”. Alla fine l’interrogatorio è durato ben sei ore e si è concluso attorno alle 17. Gaspare Ghaleb era entrato in Procura per essere ascoltato come testimone ‘assistito’ all’interno della nuova inchiesta aperta sul caso di Denise. Tra il 2004 e il 2006, l’ex fidanzato di Jessica Pulizzi era stato ascoltato per ben sei volte dagli inquirenti: tante le contraddizioni che erano emerse, soprattutto riguardo agli orari delle telefonate che c’erano state con Jessica nel giorno della scomparsa di Denise. Nel frattempo la Procura di Marsala ha notificato all’ex pm Maria Angioni un avviso di conclusione delle indagini: potrebbe essere rinviata a giudizio la donna che per prima indagò sulla scomparsa di Denise e che ultimamente è stata spesso ospite in tv per denuncia depistaggi ed errori nelle indagini.
Ghaleb fu condannato (e prescritto) per false informazioni. Denise Pipitone, l’ex fidanzato della sorellastra Jessica interrogato per ore in Procura. Fabio Calcagni su Il Riformista il 7 Luglio 2021. Importante novità nel caso di Denise Pipitone, la bambina di 3 anni sparita l’1 settembre del 2004 a Mazara del Vallo. Oggi Gaspare Ghaleb, ex fidanzato di Jessica Pulizzi, sorellastra di Denise processata e assolta per concorso nel sequestro della bambina, è stato interrogato in Procura a Marsala. Interrogatorio durato circa sei ore e terminato intorno alle 17, fa sapere l’Ansa, con Gaspare Ghaleb convocato negli uffici della Procura marsalese in qualità di testimone “assistito” nell’ambito della nuova indagine aperta per il sequestro di Denise. Anche Gaspare Ghaleb venne processato assieme all’ex fidanzata Jessica, ma per false dichiarazioni: il giovane fu condannato in primo grado dal tribunale di Marsala a due anni di carcere, in Appello intervenne però la prescrizione. Con lui in procura non c’era l’avvocato che lo aveva assistito ai tempi del processo, Salvatore Chiofalo, ma Walter Marino. L’ex fidanzato della sorellastra di Denise era già stato ascoltato diverse volte tra il 2004 e il 2006, quando Gaspare aveva 18 anni: dichiarazioni che secondo gli inquirenti erano state contraddittorie in merito agli orari delle telefonate avute con Jessica nel giorno del rapimento di Denise. Oggi 35enne, Gaspare recentemente era tornato a parlare intervistato dalla trasmissione Quarto Grado: “Mi stanno facendo passare per un mostro — aveva dichiarato —. Io con la sparizione di Denise non c’entro nulla. Ho aiutato la polizia, mi sono prestato a fare delle domande dirette a Jessica in commissariato”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
"Picchiata per un paio di corna...". Un'altra versione su Denise. Angela Leucci il 17 Luglio 2021 su Il Giornale. Anna Corona punta il dito sui rom: sarebbero stati loro a rapire Denise Pipitone il prima settembre 2004, la sua famiglia sarebbe completamente estranea. Chi ha preso Denise Pipitone? Secondo Anna Corona, attualmente presunta indagata dalla Procura di Marsala, sono stati i nomadi. La pista rom è stata in effetti una delle ipotesi al vaglio degli inquirenti, dopo che Denise scomparve da Mazara del Vallo il primo settembre 2004. Tuttavia gran parte delle indagini si sono concentrate e si concentrano sulla famiglia di Anna Corona: la figlia Jessica Pulizzi è stata infatti in passato accusata del rapimento ma poi assolta in tre gradi di giudizio. “Hanno lavorato tutti benissimo, su questa pista qua non c’è altro - Anna Corona si è sfogata in un bar con Ilaria Mura, inviata di “Quarto grado” - Mi sembra un paradosso ancora insistere su Anna Corona, Jessica e Alice”. Su Jessica, a suo tempo, fu stabilita solo la possibilità di un movente: la giovane nutriva sentimenti negativi nei confronti di Piera Maggio e la sua bimba Denise. Denise è infatti figlia naturale del padre di Jessica, Piero Pulizzi. Tanto che al processo Jessica ammise di aver bucato le ruote dell’automobile a mamma Piera, mentre suoi conoscenti testimoniarono che la ragazza si riferisse a Piera con determinati epiteti. Ma l’ipotesi di movente da sola non basta ad attestare l’avvenimento di un reato e quindi Jessica è stata assolta. La madre tuttavia ha rivelato che la ragazza fu “picchiata”: “da uno dei tanti poliziotti” ricevette “un ceffone che non dimenticherà mai”. Sua madre Anna però è tornata nel mirino degli inquirenti: pare sia stata iscritta nel registro degli indagati insieme a Giuseppe Della Chiave ma non ci sono state conferme da parte della procura e non si sa con quale accusa. “Sembra che in famiglia le corna le ho avute solo io - ha continuato la donna nel bar - il movente è Anna Corona e finiamo prima, ma che bella ‘sta storia. Avete fatto troppi giochetti di prestigio sulla mia pelle e sulla pelle dei miei figli e i traumi dei miei figli sono traumi, traumi! […] Intanto Jessica era una ragazzina. Si è distrutta una famiglia, i matrimoni finiscono. Noi sappiamo benissimo, se siamo persone intelligenti, che quando finiscono i matrimoni, i traumi li provano i figli. Alla loro età, andare a dire: ‘Ah, quella…’, guarda che è un gergo, un pensiero umano di tutte le ragazzine, non esclusivamente di Jessica, è questo che si deve capire”. Corona ha rivelato che non voleva che la figlia si avvicinasse alla famiglia di Piera Maggio, tanto che Ilaria Mura le ha fatto notare che agli atti risulta che abbia detto a Giacoma Maggio, sorella di Piera, di non salutare Jessica. “Negli atti ci può essere quello che vuoi - ha commentato Corona - Però dimmi una cosa, tra due galline e quattro polli, si va poi a disturbare un’ex cornuta che sarei io, che mi rifaccio una vita, che guadagno bene, che i miei figli stanno bene, ho le mie amicizie. Un bel giorno mi alzo e mi ritrovo che qualcuno mi ha fatto cornuta, rinuncio a questo tesoro per andare a toccare un altro tesoro. Cioè dobbiamo andare per logica se parliamo di corna. E a me le corna già non facevano più male”. Anna Corona ribadisce la propria estraneità e punta il dito sui rom. In più occasioni, all’epoca delle prime indagini e in tempi più recenti, la comunità rom è stata chiamata in causa: diverse personalità della comunità si sono anche messe a disposizione degli inquirenti per le ricerche di Denise. “Ma tu per un paio di corna vai a toccare una bambina e perché l’avrei dovuto fare io? - ha concluso Corona - Non c’erano altre corna, non c’erano altre amanti. C’erano gli zingari, e non è andato nessuno a controllare gli zingari e gli zingari se ne sono andati”. La donna si riferisce al fatto che i rom nomadi lasciarono Mazara poco dopo il rapimento, ma non è mai stato possibile stabilire un nesso di causalità tra i due eventi.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, intercettazione delle figlie di Anna Corona: “Eravamo a casa, mamma l’ha uccisa”. Chiara Nava il 31/05/2021 su Notizie.it. Ascoltate vecchie intercettazioni della famiglia Corona. Sono emerse dopo 17 anni dalla scomparsa di Denise Pipitone: potrebbero arrivare a breve mandati di arresto. Il caso della scomparsa di Denise Pipitone è di nuovo al centro della cronaca. A Storie Italiane sono emerse, dopo ben 17 anni dalla scomparsa, nuove inquietanti intercettazioni che coinvolgono i membri della famiglia di Anna Corona. Nel corso della trasmissione Storie Italiane, condotta da Eleonora Daniele su Rai1, sono state analizzate delle nuove inquietanti intercettazioni della famiglia Corona. Sarebbero emerse solo ora, a distanza di 17 anni dalla scomparsa di Denise Pipitone, avvenuta nel 2004 da Mazara del Vallo. Si riaccendono i riflettori su questo caso e si torna a parlare di Anna Corona e delle sue figlie. Jessica Pulizzi è stata assolta da ogni accusa, ma ci sono diversi dubbi e diverse ombre sul presunto ruolo della madre. Al centro delle intercettazioni ci sono le sue parole. Anna Corona è la ex moglie di Pietro Pulizzi, papà biologico di Denise. La donna sembra essere coinvolta nel caso e nei giorni scorsi è stata effettuata una perquisizione nella casa in cui viveva ai tempi del rapimento della bambina. La prima intercettazione riguarda un dialogo tra Jessica e Alice, le figlie di Anna Corona. “Eravamo a casa, la mamma l’ha uccisa a Denise” dice una delle due. “L’ha uccisa a Denise la mamma, tu dici queste cose boh” viene detto in seguito. “Tu non devi parlare” dice Jessica Pulizzi alla sorella Alice, che le risponde “Logico“. La seconda intercettazione riguarda un dialogo tra Gaspare, fidanzato di Jessica, e Anna Corona. “La tendina… che gli ho detto là in cucina? Vedi qua e là? È da tre/quattro anni che mi vanno le cose sempre più male” ha detto il ragazzo. “Mi vuoi bene ? Mi stimi? Non ti scordare certi momenti che sono solo nostri” ha detto Anna Corona, che ha subito occultato la comunicazione, probabilmente perché sapeva di essere intercettata. Queste intercettazioni non erano state prese in considerazione dagli inquirenti, nonostante ci siano anche dichiarazioni molto forti sulla piccola Denise Pipitone. Il verbale è stato chiuso senza alcuna spiegazione e ci sono stati moltissimi tentativi di depistare le indagini, che sono purtroppo emersi solo a distanza di così tanti anni. Le indagini, intanto, continuano senza sosta e ora le forze dell’ordine stanno sentendo una ragazza rom in Calabria, che si chiama Denise e che, secondo una commerciante, somiglierebbe molto alla piccola scomparsa da Mazara del Vallo.
Rino Giacalone per “La Stampa” il 30 luglio 2021. Andò in tv a dire che c'era la possibilità di dare una svolta alle indagini delle quali lei da pm a Marsala si era anche occupata, riguardanti la scomparsa da Mazara, nel settembre 2004, della piccola Denise Pipitone, di tre anni. E questo affrontando anche alcuni "gialli" di quei mesi. Ma quando i pm di Marsala l'hanno convocata per sentirla addirittura su certe circostanze, intenzionati a riaprire il caso sulla scomparsa di Denise, ha talvolta opposto il silenzio, mentre in tv si presentava come un fiume in piena. Adesso l'attuale giudice del lavoro presso il Tribunale di Sassari, Maria Angioni, dovrà comparire il prossimo 23 dicembre dinanzi al giudice di Marsala con l'accusa di false dichiarazioni al pm. L'ex pm Angioni in particolare attirò l'attenzione dei suoi colleghi della Procura di Marsala per tutta una serie di racconti, fatti sempre in tv, su possibili depistaggi e fughe di notizie delle quali disse di avere avuto contezza durante il periodo in cui era lei a condurre l'indagine sulla sparizione di Denise. Circostanze che a suo dire coprirono volutamente il raggiungimento dela verità sul caso di Denise. Ma gli approfondimenti investigativi condotti adesso dai magistrati marsalesi sono risultati di opposto tenore. Interrogatori che i pm hanno tenuto e tengono ancora ben riservati, ma in quei verbali, oltre a racconti infondati, così valutati dalla Procura di Marsala, vi sarebbero anche rivelazioni da definirsi anche incredibili. L'ex pm Angioni, che poi da indagata ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere su alcune circostanze, è difesa da Stefano Pellegrino. Nei mesi scorsi pare dovesse essere sentita su sua richiesta, ma poi avrebbe disertato la convocazione. Ieri è stato il legale a commentare la notizia. Si è detto certo che «il processo servirà ad ancorare meglio i ricordi di quei primi mesi indagini con quello che è pure emerso nell'unico processo celebrato per la scomparsa della bambina e sono sicuro che potranno essere giustificate tutte le discrasie».
Denise Pipitone, "la ho vista in hotel". Clamoroso, non solo l'ex pm: chi finisce a processo (17 anni dopo). Libero Quotidiano il 30 luglio 2021. Non si fermano le indagini della procura di Marsala sul caso di Denise Pipitone. La bambina scomparsa nel 2004 a Mazara Del Vallo in circostanze ancora oggi misteriose. Una storia che la televisione ha cavalcato, ma che ha anche aiutato a scoprire depistaggi, false testimonianze e le tante incongruenze nelle indagini. dopo il rinvio a giudizio di Maria Angioni, indagata dalla procura per false dichiarazioni al pubblico ministero per aver detto di aver trovato Denise viva con marito e figli, è stata rinviata a giudizio anche la consorte della coppia romana che avrebbe visto la bambina scomparsa all’Hotel Ruggero II di Mazara del Vallo, mentre la posizione del marito sembrerebbe archiviata. Anche per la donna l'accusa è di false dichiarazioni ai pm. Tanti comunque i punti oscuri dopo 17 anni. A restare in ballo è la pista legata ai rom. "Il video girato dalla guardia giurata, Felice Grieco, a Milano, un mese dopo la scomparsa di Denise sembrerebbe l’unica strada ancora non dichiarata definitivamente chiusa. L’analisi dell’accento e del tono della voce nel filmato di “Danàs” non sembrerebbero coincidere con quello di un gruppo di nomadi, situazione ancora oggi non definitivamente chiarita", rivela il Tempo. L'altra pista battuta dagli inquirenti è stata quella del rapimento da parte dalla primogenita del padre naturale di Denise, Jessica Pulizzi, che è stata assolta in tre gradi di giudizio, nonostante i giudici avessero riconosciuto la potenzialità di un suo movente. Denise Pipitone è scomparsa il 1 luglio 2004 da Mazara del Vallo. Sotto indagine, ma si aspettano ancora conferme anche la madre di Jessica Anna Corona e Giuseppe Della Chiave, il nipote di un testimone audioleso della prima indagine.
Denise Pipitone, "perché tutto quello zelo contro l'ex pm?". Il più grave dei sospetti sulla magistratura. Libero Quotidiano il 04 agosto 2021. Sono sempre molti, troppi i punti oscuri che riguardano le indagini sul caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa il primo settembre 2004 a Mazara del Vallo. A diciassette anni di distanza ancora non si è arrivati alla verità, ma negli ultimi casi l’interesse sulla vicenda di è riaccesa di colpo, così come sono scattate nuovamente le indagini da parte della Procura di Marsala, che quasi certamente era stata depistata ai tempi del rapimento. A fare notizia ultimamente è stata l’ex pm Maria Angioni, che per prima si era occupata dell’inchiesta tra il 2004 e il 2005: è stata rinviata a giudizio con l’accusa di aver dichiarato il falso davanti ai pm. La donna, oggi giudice del lavoro a Sassari, ha denunciato in diverse dirette televisive la rete di protezione attorno alla famiglia Pulizzi-Corona, la principale indiziata sul rapimento di Denise, e ha riferito di alcuni sospettati che sapevano di essere intercettati grazie alla connivenza di esponenti della polizia giudiziaria. Che quella di Mazara del Vallo sia una storiaccia che va ben oltre la bambina rapita ormai è chiaro a tutti. Eppure giungere alla verità continua a essere difficilissimo: Morena Zapparoli nel suo blog sul Fatto si chiede come mai per la Procura è stato così facile e veloce mandare a processo l’ex pm Angioni sulla base di ricordi imprecisi, mentre la stessa solerzia non esiste nei confronti di numerosi testimoni e sospettati che nel corso degli anni hanno fornito notizie false, evitato perquisizioni, dichiarato di trovarsi in luoghi diversi da quelli in cui effettivamente erano. “Se la procura - scrive la Zapparoli - sta giustamente cercando di mantenere il massimo riserbo sull’indagine che si è riaperta dopo 17 anni, come mai le “talpe” si premurano di fornire ai giornali atti coperti da segreto soltanto per quel che riguarda alcuni verbali degli interrogatori all’ex pm Angioni e non si sa nulla, solo per fare un esempio, delle sei ore di interrogatorio a cui è stato sottoposto Gaspare Ghaleb, ex fidanzato di Jessica Pulizzi?”. Denise, la domanda a cui l'ex pm non ha risposto: in aula la svolta decisiva sul caso?
Denise 17 anni dopo la scomparsa: tutto quello che sappiamo. Angela Leucci l'1 Settembre 2021 su Il Giornale. È scomparsa 17 anni fa Denise Pipitone: dopo il processo chiuso nel 2013 sono riprese le indagini sulla bimba rapita a Mazara del Vallo. Una candela per far luce sul caso Denise Pipitone. Su iniziativa del sacerdote don Davide Chirico e in accordo con la famiglia della bambina ieri Mazara del Vallo ha raccolto l’invito di Piera Maggio a ricordare la bambina scomparsa il 1 settembre 2004. Lo scopo non è solo quello di “accendere una luce di speranza”, ma anche di mantenere alta l’attenzione su un caso che non è mai stato risolto, un caso su una bambina di 4 anni che 17 anni fa fu sottratta all’affetto dei suoi genitori e del fratello. La scomparsa di Denise ha da sempre colpito l’opinione pubblica in Italia e ha portato al cosiddetto “emendamento Denise”, che ora prevede da 3 a 15 anni di reclusione per il sequestro di un minore. L’emendamento, sostenuto all’epoca dalla deputata Barbara Mannucci del Pdl nacque su impulso della stessa mamma Piera e del suo avvocato Giacomo Frazzitta. Ciononostante Denise non è ancora stata ritrovata, così come i responsabili del suo rapimento non sono stati individuati. Nella primavera 2021 è stato riaperto il caso relativo alla scomparsa di Denise. Nel 2013 si era concluso il processo contro Jessica Pulizzi, accusata del reato: nonostante il tribunale abbia trovato un possibile movente in Jessica - che è la primogenita del padre naturale di Denise e nel periodo precedente alla scomparsa aveva mostrato segnali di ostilità nei confronti di Piera Maggio e della figlia - la giovane fu assolta in tre gradi di giudizio. Nuova attenzione sulla vicenda è sorta dopo che a una giovane russa adottata, Olesya Rostova, fu ventilata la possibilità di essere Denise durante un reality in patria. Ma il suo gruppo sanguigno era diverso da quello della bimba, rendendo vano l’esame del Dna. Da quella segnalazione ne sono partite altre: gli utenti social si sono scatenati a cercare - invano - in tutto il mondo somiglianze con Piera Maggio o con la piccola. La più importante fu quella di una giovane rom, che disse di aver riconosciuto la donna che appare nel video girato a Milano nell’ottobre 2004 dalla guardia giurata Felice Grieco e che ritrae una bambina italiana molto somigliante a Denise. Ma la donna riconosciuta ha affermato di essere completamente estranea ai fatti e di sentirsi offesa per essere stata associata a un crimine tanto turpe. Nel 2013 la giustizia italiana assolse Jessica Pulizzi. In quell’occasione ci fu un solo condannato, ma solo per false dichiarazioni ai pm: si tratta di Gaspare Ghaleb, ex di Jessica. Un’accusa tornata in auge di recente e che ha colpito l’ex pm Maria Angioni, che fu sul caso all’ottobre 2004 al luglio 2005. Angioni, oggi giudice del lavoro in Sardegna, è stata ascoltata a maggio dai pm che le hanno contestato alcuni dettagli delle sue dichiarazioni e rinviata a giudizio. La stessa sorte potrebbe toccare a un’altra indagata, una turista romana che ha affermato di aver visto Denise il giorno della scomparsa nell’hotel Ruggiero II, dove all’epoca lavorava Anna Corona, madre di Jessica ed ex moglie del padre di Denise. La turista aveva probabilmente generato un falso ricordo. Sebbene non ci siano conferme ufficiali, “Quarto grado” ha dato a maggio la notizia relativa ad altre due persone poste sotto indagine: una è Anna Corona e l’altro è Giuseppe Della Chiave, nipote di Battista, anziano audioleso oggi scomparso che in passato testimoniò di aver visto Denise ma le cui dichiarazioni gestuali furono probabilmente non comprese fino in fondo nel corso delle prime indagini. Non si conoscono tuttavia le ragioni per cui queste persone sarebbero state poste sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti. In un quadro di ricordi che hanno costellato la stampa negli ultimi mesi, e in cui si è parlato di depistaggi ed errori degli inquirenti, le forze dell’ordine sono tornate a perquisire la casa in cui abitavano Anna e Jessica. In particolare gli inquirenti si sono concentrati su una cisterna situata in garage. Nel frattempo è spuntata anche una lettera anonima secondo cui Denise era in un'auto che ha percorso ad alta velocità le strade di Mazara proprio il 1 settembre 2004. Ma il presunto testimone non si è mai palesato. “Siamo fiduciosi - ha dichiarato recentemente l’avvocato Frazzitta - nella nuova inchiesta della Procura di Marsala e nell’operato di inquirenti molto capaci, anche se siamo consapevoli che la strada sarà ancora lunga e che dovrà essere raggiunta una soglia probatoria importante. Speriamo che ci siano i presupposti per arrivare a una sentenza di colpevolezza che sveli la verità”. Oltre alle accuse contro Jessica Pulizzi, fu ritenuta ed è ritenuta ancora oggi importante la testimonianza di Felice Grieco. Si ipotizzò, ed è ancora oggi ritenuta un’ipotesi plausibile, che ci sia stato un passaggio di mani: Denise sarebbe stata rapita e poi affidata in qualche modo a qualcuno, forse a una famiglia nomade, crescendo così ignara della sua identità. Molte segnalazioni poi rivelatesi false suggerirono agli inquirenti che la bambina fosse stata uccisa: in un appezzamento in campagna fu anche fatta trovare una piccola bara bianca vuota. Ma non è stato suggerito niente che poi sia stato effettivamente verificato come vero. C’è infine la testimonianza di Battista Della Chiave, tornata in auge grazie a due esperti di Lis che collaborano con “Chi l’ha visto?”. Questi esperti, tra cui uno specializzato in dialetti, sono riusciti a risalire al racconto dell’anziano (che tra l’altro non conosceva la lingua internazionale dei segni): Battista raccontò che gli fu portata una bambina, che indicò essere Denise in foto, e che poi questa bambina fu portata via prima in motorino e poi in barca. Un sopralluogo a Mazara ha fatto ricostruire agli esperti i papabili luoghi che coinciderebbero con la narrazione: la somiglianza con i gesti dell’anziano è impressionante, ma i parenti dell’uomo asseriscono da sempre che si tratti solo di ricordi di infanzia.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise, spunta un'altra pista: "Bimba sulla barca per la Tunisia”. Angela Leucci l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. L'ex pm del caso Maria Angioni avrebbe scoperto di una bambina portata da Trapani a Tunisi con false generalità: era Denise Pipitone? Una bambina misteriosa, con un codice fiscale falso, sarebbe stata portata da Mazara del Vallo in Tunisia il giorno dopo la scomparsa di Denise Pipitone. È questa la nuova pista che troverebbe riscontro in vecchie narrazioni sul caso. Denise fu rapita il 1 settembre 2004 da Mazara del Vallo. La nuova pista infatti non rappresenta esattamente una novità. Se ne è parlato a “Quarto Grado”, che ha riportato le nuove teorie sul rapimento di Denise formulate dall’ex pm Maria Angioni, che il 23 dicembre andrà a processo con l’accusa di false informazioni ai pm. Angioni ha raccontato di recente che il 2 settembre 2004, il giorno successivo alla scomparsa della piccola Denise, due persone residenti a Mazara, con iniziali FK e AZ, si sono imbarcate per Tunisi con la motonave D’Abundio con una bambina, nata a Ragusa, con iniziali SS. Ma questa bambina non esiste. “Grazie anche a questo grande interesse mediatico - ha commentato Angioni - le persone mi hanno indicato degli spunti e ricordato, indicato, fatto avere dei documenti. Con quelle generalità non esiste nessuna bambina. Però, cribbio, il giorno prima ti scompare Denise Pipitone e tu la bambina del ’97 nata a Ragusa controlli se esiste veramente. Poi magari si scopre che esiste ma dai piccoli controlli che ho fatto io non esiste”. Stefano Pellegrini, avvocato di Angioni, ha spiegato che la sua assistita ha “estrapolato il codice fiscale e a esso non corrisponde nessuna persona fisica”. Il mare e il passaggio di mano sono inoltre due elementi che sono ricorsi nelle dichiarazioni di Angioni dalla scorsa primavera a oggi. Il mare è stato parzialmente controllato dagli inquirenti all’epoca: le ricerche si sono concentrate sui grossi pescherecci, ma non sui barchini, che avrebbero potuto passare inosservati.
Denise, i Diavoli e Aldo Moro: quando il falso ricordo sembra vero. Un barchino è in effetti stato descritto a gesti, a suo tempo, da Battista Della Chiave, testimone audioleso che venne ritenuto inattendibile. L’uomo aveva, secondo le nuove ricostruzioni degli esperti Lis, descritto il percorso di una bambina, indicata essere Denise, che fu trasportata prima in motorino e poi su una barchetta situata sotto un ponte.
Denise, a che punto sono le indagini. La speranza dell’opinione pubblica è che la nuova indagine riesca a risolvere il giallo e a scoprire dove sia Denise, che cosa le sia accaduto. L’indagine è partita la scorsa primavera, sulla base di un esposto anonimo, per il quale la procura sta cercando riscontri, a partire dai dati originali della vecchia indagine, che stanno venendo riveduti e analizzati ulteriormente.
Ci sono due persone indagate: una è Giuseppe Della Chiave, nipote del defunto Battista, e l’altra è Anna Corona. Quest’ultima è l’ex moglie di Piero Pulizzi, il padre naturale di Denise, ed è anche la madre di Jessica Pulizzi, che fu processata per il rapimento della piccola e assolta in tre gradi di giudizio. C’è però un nuovo testimone, che avrebbe rilasciato alla difesa di mamma Piera Maggio un racconto audio con quattro elementi inediti. Ma dopo quella prima registrazione, il testimone avrebbe smesso di parlare. Perché, a 17 anni di distanza, una paura diffusa sembra continuare ad aleggiare su questo caso?
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, Chi l’ha visto torna sul caso e svela uno scoop della tv Russa. Valentina Mericio il 15/09/2021 su Notizie.it. Cosa lega Denise Pipitone e Olesya Rostova? Chi l'ha visto torna sul caso e promette di svelare importanti dettagli. Tutti ricorderanno che la scorsa primavera la storia della piccola Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara del Vallo nel 2004, si era incontrata con quella di Olesya Rostova, una giovane Russa anche lei in ricerca della sua vera famiglia. Una storia questa che tenne in sospeso l’Italia che, per qualche giorno, sperò che Olesya e Denise potessero essere la stessa persona. Ciò com’è noto non accadde. Eppure nonostante tutto le speranze per il ritrovamento della bambina non si spensero, tanto che non passa giorno senza che si aggiungano al caso dettagli importanti. Ora la trasmissione di Rai3 “Chi l’ha visto” condotta da Federica Sciarelli potrebbe svelare nuovi tasselli di questo intricato puzzle. Cosa lega Denise a Olesya e perché la nota trasmissione ha deciso di tornare sul caso? La nota trasmissione di Rai 3, precisa una nota della redazione del Programma diramata sui canali ufficiali, ha fatto sapere che durante la puntata di mercoledì 15 settembre intorno alle ore 21.20, verrà nuovamente portata in superficie la storia di Olesya Rostova, giovane il cui vissuto e aspetto fisico combaciavano con quelli di Denise. Durante una puntata del programma “Lasciateli parlare”, trasmesso sul primo canale russo emerse che il vero nome di Olesya era Angela e che nulla aveva quindi a che fare con il destino di Denise. I sospetti tuttavia si fecero più insistenti già nelle ore precedenti alla trasmissione della diretta quando Olesya “Angela” entrò in contatto sui social con la sorella biologica Anastasia Nikulina Zhuchkova. Mentre la ricerca di Denise Pipitone è ritornata nuovamente al punto di partenza, quella sulle sorti di Olesya Rostova ha perso di interesse una volta che la giovane ha rivelato di non essere Denise Pipitone. Ed è proprio da qui che ripartirà Chi l’ha visto. L’obiettivo della trasmissione sarà dunque cercare di capire se OIesya è riuscita nel frattempo a riabbracciare la sua famiglia. Dalla televisione Russa, precisa “Chi l’ha visto” è emersa infatti un’importante rivelazione. Ci si chiede ad ogni modo perché tornare a parlarne proprio adesso e se tra le due giovani possa esserci un legame. Nel frattempo Giuseppe D’Assaro, pluriomicida ed ex marito di Rosalba Pulizzi, sorella di Piero Pulizzi, rispondendo alle domande del legale Giacomo Frazzitta al Tribunale di Marsala, ha affermato di aver dichiarato nel 2007 una serie di falsità e di non avere idea di dove si trovi la bambina: “Non so dov’è Denise, quello che ho detto oggi è la verità, come quello che ho detto fino al 2005. Quello che invece ho detto nel 2007 sono tutte fesserie. Non è vero niente. Ho detto che la bambina era morta perché mi volevo accattivare gli inquirenti. Chiedo perdono alla signora Piera Maggio per quello che ho detto. Mia moglie Rosalba Pulizzi mi ha detto che è stata lei a portare la bambina a Palermo assieme a Jessica”.
Denise Pipitone, rintracciata la nomade con cui fu trovata Olesya Rostova: “Ma non è mia figlia”. Debora Faravelli il 16/09/2021 su Notizie.it. La nomade con cui era stata vista Olesya Rostova, la ragazza russa somigliante a Denise Pipitone, ha confermato di non essere la madre della giovane. Chi l’ha visto?è tornato a parlare del caso di Denise Pipitone e di Olesya Rostova, la ragazza russa in cerca della sua famiglia finita al centro della cronaca per una sua presunta somiglianza con Piera Maggio, la mamma della bimba di Mazara scomparsa nel 2004: la trasmissione russa che si era occupata della vicenda ha rintracciato la nomade che era stata trovata con la giovane quando era ancora bambina. A distanza di cinque mesi dal test del Dna che aveva accertato che Olesya non era Denise Pipitone, il programma ha dunque intervistato Valentina Rota, che ha confermato di conoscere la ragazz russa ma di non essere sua madre. “Non l’ho rapita: era la figlia della mia ex nuora e l’ho presa con me“. La donna ha spiegato che che suo figlio si era separato dalla sua ex moglie la quale aveva una bimba piccola a(vuta da un altro uomo). Così Valentina, una volta morto suo figlio, ha accolto la nuora e sua figlia in casa sua e si è presa cura di loro fino a quando la donna “è andata via e mi ha lasciato sua figlia“. Purtroppo nn ci sono fotografie e la nomade non ricorda il nome né il cognome della nuora. La cosa certa è che non è lei la mamma di Olesya: sottoposta al test del Dna, l’esito non ha individuato alcuna comparazione. La situazione si è complicata quando in trasmissione sono intervenuti i figli e i nipoti della nomade: tutti hanno fatto gli esami e gli esperti hanno trovato una compatibilità, anche se Olesya e la ragazza con cui alla fine scambia un abbraccio davanti alle telecamere non sanno che grado di parentela abbiano.
Denise Pipitone, "la scoperta della tv russa su Olesya": la svolta? Bomba da Federica Sciarelli. Libero Quotidiano il 15 settembre 2021. Chi l'ha Visto torna a parlare di Olesya "Angela" Rostova, la ragazza russa che si è pensato potesse essere Denise Pipitone. Il caso ha tenuto con il fiato sospeso tutta l'Italia per settimane fino a quando i test del Dna hanno mostrato che tra le due non c'era alcuna familiarità. Da allora però non si è più parlato della giovane russa. La ragazza aveva lanciato un appello perché aveva scoperto di essere stata rapita e portata lontano dalla sua famiglia, quindi sperava di lenire un po' del suo dolore ritrovando i suoi genitori naturali e sapere come erano andate le cose. La trasmissione di Rai 3 tornerà quindi sulla storia di Olesya che ha dichiarato di essere ancora sulle tracce della sua famiglia, infatti dopo il programma russo, nessuno dei possibili genitori della ragazza s’è rivelato essere tale. Olesya Rostova, il cui vero nome sarebbe Angela, è riuscita a incontrare la sua vera sorella biologica, Anastasia Nikulina Zhuchkova. Le due si erano aggiunte su Instagram e si sono sentite attraverso i social. Pare però che la stessa trasmissione russa sia a un passo dalla verità e abbia trovato la vera madre di Olesya, verità che andrà in onda proprio nella giornata di oggi, mercoledì 15 settembre, sulla tv russa e di cui si occuperò anche la trasmissione italiana.
Denise Pipitone, l'ultimo mistero: "Bimba a bordo della nave". Dopo le voci, una bomba dalla procura. Libero Quotidiano il 15 settembre 2021. Non ci sono indagini in corso sulla scomparsa di Denise Pipitone. La smentita alla notizia diffusa dal programma di Rai 2, Ore 14, è arrivata più puntuale che mai direttamente dalla Procura di Trapani. La trasmissione condotta da Milo Infante aveva parlato di indagini in merito alla pista del rapimento via nave avanzata dall'ex pm Maria Angioni. Secondo il programma i magistrati avrebbero chiesto delle informazioni sulla compagnia Medmar, proprietaria della nave D'abundio. Da qui, infatti, secondo una segnalazione della Angioni, sarebbe partita una minore proprio il giorno dopo la scomparsa da Mazara del Vallo di Denise. La compagnia di navigazione avrebbe sì confermato che la nave nel 2004 esisteva e percorreva la tratta Trapani-Tunisi, ma che ora l'imbarcazione è stata demolita ed è impossibile recuperare i dati degli imbarcati. Non solo, perché il procuratore capo di Trapani, Gabriele Paci, ha ricordato che a indagare da sempre è la Procura di Marsala, competente per territorio. E non, dunque, quella trapanese. Le parole dell'ex pm sembrano infondate. La stessa Angioni era già stata indagata per false dichiarazioni a pubblico ministero. Era stata sempre lei a sostenere che Denise fosse ancora viva: "Ho la certezza che sia viva e l'ho individuata", erano state le sue parole.
"C'è un procedimento per omicidio...": la frase dell'ex pm sul caso Denise. Angela Leucci il 16 Settembre 2021 su Il Giornale. Al centro del caso di Denise Pipitone ci sono le nuove rivelazioni choc dell'ex pm Maria Angioni: si tratta però di un caso di omonimia. L’ex pm del caso Denise Pipitone continua a fornire dichiarazioni inedite sulla vicenda. Ma non lo fa più dalla televisione come in passato, bensì dal web, attraverso un blog in cui continua a fornire dettagli e circostanze non note. Le parole di Maria Angioni, attualmente rinviata a giudizio per false testimonianze ai pm, sono bombe. “Dal punto di vista processuale c’è un procedimento aperto anche per omicidio”, ha detto l’ex pm del caso in una diretta. Non si sa se l’ex pm faccia riferimento alla vecchia inchiesta o a quella attualmente in corso. Il pensiero però va ad alcune intercettazioni che videro protagonista Jessica Pulizzi, già rinviata a giudizio per il rapimento e assolta. In una delle intercettazioni, mai rivisitata da una seconda perizia, si sente, sebbene in maniera abbastanza vaga, qualcosa che suona come: “La mamma l’ha ammazzata Denise”. La mamma in questione è Anna Corona, ex moglie di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise.
La discoteca e la casa di Anna Corona. L’ex pm Maria Angioni, che ha seguito il caso del rapimento di Denise da ottobre 2004 a luglio 2005, ha inoltre fornito la presunta identità di uno dei militari che nel giorno della scomparsa della bambina, il 1 settembre 2004, visitò la casa della vicina anziché quella in cui vivevano Anna e Jessica. Ma nel fornire questa identità Angioni ha commesso una serie di imprecisioni, come è stato evidenziato nella puntata di “Chi l’ha visto?”. Angioni è tra l'altro accusata di alcune imprecisioni pronunciate a maggio durante la sua udienza con i pm della nuova indagine su Denise. Angioni, che oggi è giudice del lavoro in Sardegna, ha parlato in una diretta social della vicenda giudiziaria di una discoteca di Mazara del Vallo, “Planet Sound”, chiusa da una ventina di anni e al centro in passato di un’accusa per la presenza di prostitute al suo interno. Per questa accusa, il militare Vincenzo Tumbiolo fu a processo e fu assolto in tre gradi di giudizio. Tumbiolo è stato citato da Angioni per essere uno di quei tre militari che non entrò in casa di Corona dopo il sequestro di Denise: l’ex pm ha anche aggiunto che non c’è un verbale che riporti i nomi di quei militari. Ma il verbale c’è, riporta i tre nomi con le firme e in effetti una è di un certo Tumbiolo, che però nulla ha a che fare con l’omonimo collega, neppure in termini di parentela. “Il buonsenso - ha chiosato l’avvocato Giacomo Frazzitta, che segue la lotta per la verità di mamma Piera Maggio - deve essere sempre il lume in tutto ciò che facciamo, in tutto ciò che diciamo soprattutto in una storia così sovraesposta mediaticamente”.
Olesya ancora senza madre. Intanto continua la ricerca della madre naturale di Olesya Rostova, la giovane russa che si è rivolta a un reality per ritrovare le sue radici famigliari. Olesya, che da piccola era stata sottratta dalla giustizia russa a una nomade con cui non condivideva parentela, si era pensato fosse Denise, ma il gruppo sanguigno non era il medesimo della bambina di Mazara.
Tuttavia è stata trovata la nomade che Olesya credeva che fosse sua madre: si chiama Valentina Rota e ha spiegato che Olesya è figlia di una sua ex nuora, che l’aveva avuta da una successiva relazione. La mamma di Olesya pare abbia vissuto alcuni mesi con la sua bimba e Valentina, per poi svanire nel nulla.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
"Io Denise? Farò il test del Dna". Parla la "bimba senza nome". Angela Leucci il 16 Settembre 2021 su Il Giornale. Parla la bambina che nel 2004 lasciò la Sicilia per la Tunisia: si chiama Sabrina, dice di non essere Denise Pipitone ma farà il test del Dna. La bambina che il 2 settembre 2004 è partita da Trapani per Tunisi non era Denise Pipitone. Dopo tanti interrogativi sollevati dalle recenti dichiarazioni dell’ex pm del caso Maria Angioni, ha parlato per la prima volta pubblicamente Sabrina, ovvero la presunta SS, la ragazzina che il giorno dopo il rapimento di Denise ha lasciato Mazara del Vallo alla volta della Tunisia sulla motonave D'Abundo. Intervistata telefonicamente a “Ore 14”, la giovane ha affermato di aver sporto querela nei confronti di Angioni, mentre i suoi genitori la sporgeranno. Sabrina ha spiegato inoltre di essere andata periodicamente in Tunisia a settembre e di essere in possesso di una certificazione scolastica che attesta che nel 2004 era una bimba che andava a scuola elementare, e quindi non aveva certo 4 anni come Denise all’epoca della scomparsa. “Ogni anno - ha illustrato Sabrina - da quando sono nata, ogni anno vado a Tunisi, quando ero piccola coi miei fratelli. Io farò il test del Dna con l’avvocato. Lo farò tranquillamente perché non sono Denise”.
Angioni e i presunti depistaggi. Tra le recenti dichiarazioni di Angioni sul caso Denise, ci sono quelle relative a Vincenzo Tumbiolo, un carabiniere che secondo l’ex pm era tra quelli che avevano perquisito la casa della vicina di Anna Corona. In realtà si è trattato di un caso di omonimia, tanto più che il carabiniere all’epoca non era operativo. “Lui e la sua famiglia non uscivano più da casa - ha raccontato Giuseppe De Luca avvocato di Vincenzo Tumbiolo, in relazione a un altro caso giudiziario dei primi anni 2000 dal quale il carabiniere fu assolto - perché non riuscivano più a vivere a Mazara del Vallo per il fango che avevano avuto addosso. Nessuno si aspettava che dopo 10 anni tornasse questo fango verso Vincenzo Tumbiolo”. Di recente le voci di paese sono tornate a fare capolino. “Gli era stato comunicato da conoscenti e amici: ‘Sei nuovamente indagato per la vicenda di Denise Pipitone?’ - ha chiarito De Luca - Lui non c’entra niente con la vicenda”. La dottoressa Angioni conosce benissimo l’indagine di Vincenzo Tumbiolo perché l’ha portata a termine lei, conosce benissimo la posizione di Vincenzo Tumbiolo. Dire che Vincenzo Tumbiolo è stato assolto e poi me lo sono trovato lì alle indagini è un’informazione destituita da qualsiasi fondamento”. Tumbiolo in effetti era stato sospeso dal 2002 all’inizio del 2006, quindi nel 2004 non avrebbe mai potuto eseguire la perquisizione dalla vicina di Corona.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
"Archiviateli". E scoppia la rivolta delle mamme su Anna Corona. Angela Leucci il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. Novità sul caso Denise Pipitone: per i due indagati Anna Corona e Giuseppe Della Chiave è stata richiesta archiviazione, ma potrebbe esserci opposizione. Le nuove indagini sul rapimento di Denise Pipitone giungono a un punto importante: è stata chiesta l’archiviazione per i due indagati Giuseppe Della Chiave e Anna Corona. Non si conoscono però le ragioni per cui queste persone sono state indagate, né se l’archiviazione verrà accolta. La notizia è stata data durante la diretta di “Ore 14”. “Dopo questa richiesta di archiviazione, dobbiamo capire se Piera Maggio vuole fare opposizione e che tipo di indicazioni ci sono in questa nuova inchiesta”, ha precisato la criminologa Roberta Bruzzone. Quel che è certo è che la difesa di mamma Piera analizzerà il fascicolo della procura di Marsala. “Andremo a fare copie degli atti non prima di lunedì - ha spiegato l’avvocato Giacomo Frazzitta - Avremo 30 giorni per studiare questa mole di documenti, oltre 4000 pagine prodotte in questi 4 mesi. Hanno fatto tanta attività i magistrati, questo per certi versi è un segnale di attenzione su questo caso. Non ho dubbi, non ne ho mai avuti, sul procuratore capo e sui sostituti che collaborano a questa indagine”. Frazzitta ha spiegato che la loro difesa può fare opposizione in “rispetto del contraddittorio” e ha annunciato che in questi mesi ha provveduto a proprie “indagini difensive”. Anche Piera Maggio ha tenuto a precisare la questione sulla sua pagina Facebook. “Sulla scelta della Procura della Repubblica di Marsala di avanzare richiesta di archiviazione non abbiamo nessun commento da fare - ha scritto la mamma di Denise - attenderemo di acquisire l'intero fascicolo per analizzarlo e prendere le decisioni che il codice di procedura prevede”. Intanto Anna Corona ha iniziato a lavorare come collaboratrice scolastica in un istituto primario siciliano, ma le mamme sono in rivolta: non la vogliono accanto ai loro figli, nonostante la donna non sia mai stata rinviata a giudizio e naturalmente abbia una fedina penale pulita. Alcune madri di bambini che erano in prima hanno spostato i figli in altro istituto, altre, tra quelle i cui figli sono rimasti, hanno spiegato di non volere Corona vicino ai figli piccoli anche per una questione di vicinanza emotiva a Piera Maggio. “Abbiamo paura per i nostri figli”, ha affermato una di loro, precisando di farlo probabilmente “per ignoranza”. Anna Corona è la madre di Jessica Pulizzi, già assolta in tre gradi di giudizio nel vecchio processo per sequestro di persona. Corona è inoltre l’ex moglie di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Denise Pipitone, intercettata la madre di Anna Corona: “Asparino l’ha presa?” Asia Angaroni il 23/09/2021 su Notizie.it. "Asparino l'ha presa?": così domandava la madre di Anna Corona alla figlia. È quanto emerso da nuove intercettazioni raccolte sul caso di Denise Pipitone. Proseguono le indagini sul rapimento di Denise Pipitone: sono emerse nuove intercettazioni che riguardano la madre di Anna Corona. La donna chiedeva alla figlia informazioni sulla scomparsa della bambina: “Asparino l’ha presa?”, dice nel corso della conversazione. Dopo la richiesta di archiviazione per Anna Corona e Giuseppe Della Chiave, non si fermano le indagini per fare chiarezza su quanto accaduto alla piccola Denise. Così Chi l’ha visto, nella puntata di mercoledì 22 settembre 2021, è tornato sul caso Pipitone, in particolare su alcune intercettazioni tra Jessica Corona, la nonna e sua madre Anna. In particolare, la mamma di Anna Corona, nonna della sorellastra di Denise, chiedeva alla figlia se anche “Asparino” fosse coinvolto nella scomparsa della bambina. “L’ha presa anche lui?”, si sente nell’intercettazione nella quale è coinvolta la nonna di Jessica, sebbene poi non sia stata confermata dal Ris. Secondo gli inquirenti, Asparino corrisponderebbe a Gaspare Ghaleb, ex fidanzato di Jessica Pulizzi, a sua volta interrogato riguardo la scomparsa della piccola Denise. Dopo la conversazione intercettata tra le tre donne della famiglia Corona, Gaspare Ghaleb ha risposto ai microfoni del programma. Commentando l’espressione pronunciata dalla nonna della sua ex fidanzata, Ghaleb ha dichiarato: “Asperino non sono io”. La Procura di Marsala avrebbe chiesto l’archiviazione dei fascicoli aperti lo scorso maggio a carico di Anna Corona e Giuseppe Della Chiave. A tal proposito, l’avvocato di Piera Maggio, Giacomo Frazzitta, pochi giorni fa ha commentato: “Se la scelta fosse quella dell’archiviazione, noi l’accetteremmo. Indipendentemente da ciò, vorremmo che continuassero le ricerche”.
Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 22 settembre 2021. Uno strano spettro s' aggira per i palinsesti televisivi: è un magistrato fuori parte che, in una prospettiva onirica, denuncia in ogni luogo, faccia e persona la presenza di Denise Pipitone, la ragazzina di Mazara del Vallo misteriosamente scomparsa nel 2004. La piccola Denise è al centro dell'ossessione di Maria Angioni, l'ex pm che nel 2005 si occupò del caso; e che ora, trasferita a Sassari come giudice del lavoro, rilascia dichiarazioni ai limiti dell'umano. L'ultima sua uscita è stata denunciata da Milo Infante a Ore 14 su Raidue: la magistrata ha dato in pasto ai social la foto (non pixellata con la didascalia "torna a casa Denise dalla tua mamma che ti ama") di una bimba sorridente con i codini, indicata come la figlia di Sabrina Kamoun, sempre di Mazara, quasi coetanea di Denise e vivente in Tunisia. Sabrina è stata indicata dalla Angioni in diretta a Storie italiane su Raiuno, davanti a una Eleonora Daniele attonita, come «la vera Denise Pipitone», adesso cresciuta, sposata, con figlia. Ovviamente Sabrina non è Denise, ha tre anni in più di lei e genitori e amici a iosa che lo testimoniano (in una bizzarra inversione dell'onere della prova), anche se la rete sociale sicula dei sei gradi di separazione aveva affastellato più di una conoscenza in comune tra le due. Sabrina non è Denise, ma lo è per la folla vorace dei social che la sta insultando, la sta stalkerando e ne sta chiedendo la prova del dna soltanto perché «l'ha detto l'Angioni». Un'imperlata di fesserie che sfocia nell'esasperazione e nella querela della ragazza nei confronti della giudice. Angioni, tra l'altro, è stata proprio rinviata in giudizio per false dichiarazioni ai pm: «mi hanno contestato due fattuncoli», risponde piccata la toga. Ma i "fattuncoli", per forza d'inerzia, stanno diventando una valangata di menzogne. E lei eccola che si rimette al lavoro nelle dichiarazioni creative, che siano espresse davanti alle telecamere di Quarto grado, odi Pomeriggio Cinque, La vita in diretta, Chi l'ha visto? Prima ancora Angioni era stata denunciata da Vincenzo Tumbiolo, il poliziotto addetto alla perquisizione della casa di Anna Corona -moglie di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise-, per averlo accusato, sempre in tv, di essere coinvolto in un giro di prostituzione e spaccio. Non era vero. L'altro giorno, sempre Ore 14, aveva indicato la magistrata come suggeritrice della tesi di un'improbabile teste che era certa di aver riconosciuto Giuseppe Della Chiave, zio di Battista il teste audioleso, con una «bambina in braccio» mentre saliva «su un treno a Pescara»; peccato che il Della Chiave, in quel momento, risultasse a Mazara. E c'è sempre la creativa dottoressa Angioni dietro l'accreditamento come teste di tal Ahamed Salem che dalla Tunisia giurava di essere stato presente «sulla scena del sequestro con Toni Pipitone» il primo marito di Piera Maggio mamma di Denise. Ovviamente ci è voluto un nanosecondo per accertare che si trattasse di pazzo furioso. E si staglia ancora il profilo dell'ex pm nella freschissima «pista tunisina», tesi che vorrebbe il 2 settembre 2004, cioè il giorno dopo la scomparsa di Denise, «un gruppo di adulti (tra cui, pare, i genitori della suddetta Sabrina Kamoun) che salpavano in nave verso la Tunisia con in «in braccio la bambina S.S.», ovviamente -è sottinteso- pericolosamente somigliante alla piccola scomparsa. Angioni è un infaticabile macinatrice di storie. Un tempo le sue dichiarazioni sul depistaggio dell'inchiesta sembravano il sasso nello stagno di una giustizia ingiusta. Adesso, invece, la signora fa e disfà, appicca l'incendio e subito va di estintore prima che il fuoco divampi; è la Penelope di una tela di racconti mendaci attraverso i quali si chiudono e si aprono più e più indagini giudiziarie, pagate da contribuenti. Angioni, solo ieri, riguardo alla foto della bimba coi codini di cui sopra, aveva risposto a un suo seguace «sì, non è Denise, ma volevo vedere le reazioni...». Volevo vedere la reazione. Per dire il tipo. Ora, molti dubbi avvolgono su questa sorta di Salgari del crimine. Il primo dubbio attiene alla sua tenuta psicologica: con quale serenità un magistrato così attraversato da un'ossessione, può esercitare serenamente il ruolo? Il secondo riguarda i danni che la dottoressa sta provocando nella sua spasmodica ricerca della "verità": non solo nei confronti della folla che le sporge querela, ma anche verso la madre stessa di Denise. Piera Maggio, attraverso dichiarazioni amplificate dalla tv vede ogni giorno riaprirsi una ferita che non si rimargina. Eppoi c'è l'oggettiva responsabilità dei mass media: «C'è un altissimo rischio di "inquinamento" indotto dalle modalità con cui in modo martellante e asfissiante le trasmissioni tv e i siti si occupano del caso della piccola Denise», affermano i pm di Marsala, nel provvedimento con cui chiedono l'archiviazione dell'inchiesta. In tutto ciò, che fine ha fatto il Csm?...
Denise, la tv che fabbrica depistaggi e falsi testimoni. L'atto d'accusa della procura di Marsala. Salvo Palazzolo La Repubblica il 29 settembre 2021. Nella richiesta di archiviazione per Anna Corona e Giuseppe della Chiave ci sono pesanti considerazioni sui talk che si sono occupati della vicenda. Più che una richiesta di archiviazione, sembra una requisitoria. L’ultimo capitolo dell’inchiesta sulla scomparsa di Denise Pipitone è un duro atto d’accusa contro il circo mediatico, che negli ultimi tempi sembra volersi sostituire a forze dell’ordine e magistrati. Con testimoni e piste, le più diverse, che spaziano nel tempo e nei luoghi. Anche lontano da Mazara del Vallo.
“Ora basta con il circo mediatico”. Il J’accuse dei pm sul caso Denise. La richiesta di archiviazione della procura di Marsala per Anna Corona e Giuseppe Della Chiave nell’inchiesta sulla scomparsa di Denise Pipitone ha il sapore di una vera e propria requisitoria contro giornali e Tv. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 29 settembre 2021. La richiesta di archiviazione per Anna Corona e Giuseppe Della Chiave nell’inchiesta sulla scomparsa di Denise Pipitone apre uno squarcio sulla morbosità con cui media e talk show hanno alimentato per anni e alimentano tuttora accuse e sospetti sulla vicenda. Nell’atto, la Procura di Marsala ha sottolineato infatti che «l’influenza dei media è a tale punto che essi non si limitano a raccontare gli eventi piuttosto, spesso, in una gara a chi arriva prima tra diverse testate giornalistiche, a provocarli. E tali eventi hanno pure una sgradevole referenza sulle indagini in corso». Una strigliata, per usare un eufemismo, nei confronti dei salotti televisivi protagonisti di un certo modo di fare informazione e intrattenimento, quell’infotainment tante volte citato nella quotidiana requisitoria contro la cattiva informazione ma mai davvero contrastato nel mondo dei media. Fino a che, come in questo caso, arriva una Procura a denunciarne l’abuso. Anna Corona è la madre di Jessica Pulizzi, processata e poi assolta per concorso nel sequestro della bambina, ed è la ex moglie del padre naturale di Denise. All’epoca era dipendente di un hotel, era stata accusata da una turista di averle vista mentre qualcuno le urlava «perché l’hai portata qui?», con il pianto di una bambina in sottofondo. Tutto falso, mentre è vero che la turista quel primo settembre 2004 non era a Mazara, come testimonia un prelievo bancomat. «Sono stata martellata da trasmissioni televisive che non fanno altro che parlare del sequestro di Denise e ho ritenuto che fosse giusto fare quello che ho fatto», ha ammesso la sedicente turista. Anche la richiesta di archiviazione per Giuseppe Della Chiave si basa su un contesto simile. Lo zio Battista, sordomuto, aveva testimoniato di averlo visto con Denise su uno scooter lo stesso giorno della scomparsa. Successivamente è arrivata una mail in cui in cui una donna diceva di averlo visto a Pescara, in compagnia di Denise. Illazioni che la Procura ha bollato come false ma che rendono l’idea, una volta di più, di quanta morbosità ci sia nella ricerca di un colpevole, nel tentativo di far luce laddove, dopo diciassette anni, di luce non se n’è vista ancora.
La morbosità mediatica che crea false piste. Denise Pipitone, la procura di Marsala punta il dito contro la TV: crea depistaggi e falsi testimoni. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Settembre 2021. L’ultimo capitolo dell’inchiesta sulla scomparsa di Denise Pipitone è la richiesta di archiviazione per Anna Corona e Giuseppe della Chiave. Ma non si tratterebbe solo di un atto giudiziario ma anche di una vera e propria requisitoria che punta il dito contro la morbosità con cui in TV i talk show hanno seguito e seguono la vicenda generando una quantità di testimonianze e piste che poi si sono rivelate infondate. È come se i media si fossero sostituiti a investigatori e magistrati generando un calderone che per la Procura di Marsala ha solo reso più difficile il lavoro.
Hanno scritto i pubblici ministeri: “L’influenza dei media è a tale punto che essi non si limitano a raccontare gli eventi piuttosto, spesso, in una gara a chi arriva prima tra diverse testate giornalistiche, a provocarli. E tali eventi hanno pure una sgradevole referenza sulle indagini in corso”. Un circo mediatico che dunque ha generato mostri. Le testimonianze frutto di una certa suggestione mediatica sono le più disparate, come ricostruito da Repubblica. Un uomo ha raccontato di avere visitato anni addietro la casa dove abitava la madre della sorellastra di Denise, Anna Corona: ha detto di avere notato su una parete del garage una sorta di rattoppo, come se fosse stata chiusa una vecchia apertura. Un’altra donna ha inviato una mail per dire di avere visto Giuseppe Della Chiave insieme a Denise, a Pescara. Un’altra testimone ha sostenuto di aver ricevuto delle confidenze da Anna Corona. Una turista all’improvviso ricordava di avere visto Anna Corona, all’epoca dipendente di un albergo, nella hall: “Qualcuno le urlava, perché l’hai portata qui? E in sottofondo il pianto di una bambina. Dietro la tenda c’era Denise”. Tutte storie che poi la Procura di Marsala ha smontato una per una rivelandosi false. Non c’è nessuna parete nascosta nella casa di Anna Corona e non ci sono riscontri nelle dichiarazioni degli altri testimoni che poi finiscono per contraddirsi. Addirittura la turista, dopo che dalle indagini è emerso che quel giorno non era in Sicilia grazie a un prelievo al bancomat, ha ammesso di essersi inventata tutto: “Non riesco a trovare una motivazione per cui l’ho fatto; sarò stata suggestionata, non volevo fare del male a nessuno”, avrebbe detto come riportato da Repubblica. E ancora: “Ho maturato un grosso dispiacere per il sequestro della bambina e ne ho fatto un caso personale. Sono stata martellata da trasmissioni televisive che non fanno altro che parlare del sequestro di Denise e ho ritenuto che fosse giusto fare quello che ho fatto”. Una confessione pesante ma che la dice lunga sul clima che la TV ha generato sul caso della bambina scomparsa. Resta che la piccola non può essere svanita nel nulla da quando quel primo settembre 2004 non fu trovata più nel giardino di casa a Mazara del Vallo. La mamma Piera Maggio e l’avvocato Giacomo Frazzitta non si arrendono e continuano a cercare la verità con i magistrati e le forze dell’ordine. Concludono i pm: “Allo stato non sembrano percorribili utili spazi investigativi oltre alla notevole mole degli accertamenti disposti da aprile ad oggi. Soltanto se e quando chi ha commesso l’inumana azione di privare della libertà e dell’affetto dei suoi cari una bambina di quattro anni (ovvero chi di tale gesto è stato effettivo testimone) deciderà di rivolgersi alla procura della Repubblica o ad una forza di polizia, potrà questa vicenda trovare un colpevole che, allo stato, purtroppo non è possibile individuare”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Giuseppe Candela per Dagospia l'1 ottobre 2021. Depistaggi, finti testimoni, intercettazioni, invenzioni di mitomani, bufale. Il circo mediatico travolge il caso Denise Pipitone, la bambina scomparsa misteriosamente a Mazara del Vallo diciassette anni fa. La Procura di Marsala ha chiesto l'archiviazione per i quattro indagati: Anna Corona, Giuseppe Della Chiave, Antonella Allegrini e Paolo Erba. Sei mesi fa la storia era tornata nuovamente al centro della scena dopo che una ragazza di nome Olesya Rostova si era rivolta alla tv russa per un appello: cercava sua madre, era somigliante a Denise. Si scoprirà, dopo un lungo ed evitabile teatrino degli orrori, che quella ragazza non è la figlia di Piera Maggio. L'attenzione sul caso Pipitone però non si spegne: letteralmente esplode. Ipotesi su ipotesi, racconti su racconti, ore e ore di programmazione sulle reti Rai e Mediaset. Saranno i media, di fatto, a innescare questo fascicolo. Così nella richiesta di archiviazione i Pm parlano di "insano rapporto indissolubile tra le parti processuali e i giornalisti” e di “cortocircuito mediatico-giudiziario potenzialmente idoneo a ingenerare false piste e inutili speranze", spiegano che c'è "un altissimo rischio di inquinamento delle indagini indotto dalle modalità con le quali, ormai in modo martellante e quasi asfissiante, numerose trasmissioni televisive, social permanentemente attivi, siti internet dedicati, si occupano della scomparsa della piccola Denise". Allegrini ed Erba, moglie e marito, renderanno false dichiarazioni al pubblico ministero. Lei racconta di aver visto Denise nell'hotel in cui lavorava Anna Corona, ex moglie di Piero Pulizzi, padre naturale della bambina. Spiega di averla intravista, di averla sentita piangere. Tutto inventato di sana pianta, gli inquirenti hanno accertato che non poteva essere in Sicilia in quei giorni. Confesserà qualche tempo dopo: "Mi sono inventata tutto, ma non riesco a trovare una motivazione per cui ho fatto tutto questo. (...) La televisione mi ha suggestionata molto. Sono dispiaciuta per quello che è successo e andrò da uno psicologo per verificare le cause di quanto accaduto." Il caso Denise scrivono i Pm è descritto con minuzia ovunque, tutti sanno tutto. Se ne occupano i programmi più seguiti: da Chi l'ha visto? con Federica Sciarelli a Quarto Grado di Nuzzi, dal Pomeriggio 5 di Barbara D'Urso a Mattino 5 con la coppia Vecchi-Panicucci. Non mancano all'appello Storie Italiane di Eleonora Daniele, La Vita in Diretta con Alberto Matano e Ore 14 condotto da Milo Infante. Non tutti sono citati, non tutti finiscono nel mirino ma contribuiscono di fatto, magari in buona fede o magari per ragioni di share, a "gonfiare" mediaticamente il caso. Attenzione concentrata spesso su Anna Corona, la cui posizione già in passato era stata archiviata, sua figlia Jessica Pulizzi, assolta dalla Cassazione, e sull'altra figlia Alice Pulizzi. Non solo Anna Corona anche Giuseppe Della Chiave risulterà tra gli indagati, entrambi per lo stesso reato, sequestro di persona. Il testimone audioleso Battista Della Chiave aveva detto di aver visto la figlia di Piera Maggio su uno scooter con il nipote Giuseppe il giorno stesso della scomparsa. L'ex pm Maria Angioni fa il giro dei programmi tv ("Ho la certezza che Denise Pipitone sia viva e l’ho individuata. Ha un marito e una figlia" aveva detto a Storie Italiane) e finisce a sua volta imputata per false informazioni, dovrà comparire dinanzi il Giudice monocratico di Marsala il 23 dicembre prossimo. È la pressione dei media a spingere al riascolto di alcune conversazioni dell'epoca ma non si arriverà a nulla di nuovo. Piovono segnalazioni e di conseguenza i controlli: si ispezionano un garage e un pozzo. Per mesi si fanno verifiche a vuoto. Più i media se ne occupano più le segnalazioni aumentano. Una cittadina di origine marocchine, volontaria di una associazione animalista, rivela di aver conosciuto Anna Corona per un gattino e durante l'incontro a domanda precisa sulla piccola Denise, la Corona “improvvisamente, cambiando l’espressione del viso e divenendo con occhi cattivi, si alzava in piedi e poggiando i gomiti sul tavolo si avvicinava al volto della donna proferendo le seguenti parole. "A picciridda morse picchi io a Piera Maggio ci mangio u core“. Il giorno dopo l'aggiunta: la bimba sarebbe stato nascosta in un magazzino. La donna agli inquirenti fornirà una versione dei fatti differente. Nella richiesta di archiviazione i Pm non risparmiamo l'avvocato Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, che intercettato durante un colloquio con la Allegrini, definisce i giudici "puerili", "i magistrati fanno schifo", mostra una rabbia ritenuta immotivata. Così quando la Allegrini esprime dubbi sulla reale volontà degli inquirenti di arrivare alla verità, Frazzitta sbotta: “Anche io ho incominciato a pensare questo." Le intercettazioni telefoniche e ambientali danno conto di una vischiosa commistione tra protagonisti della vicenda, giornalisti e parti processuali. Come riporta il sito del Fatto Quotidiano il caso su cui puntano gli inquirenti è quello di Antonella Allegrini, la sua storia viene anticipata da diverse testate giornalistiche televisive ancora prima che prendesse realmente forma. Il 21 giugno Francesco Lombardo, ex maresciallo dei Carabinieri che indagò sul caso Pipitone, viene intervistato da Mattino 5 dove si parla di una nuova intercettazione: “La bambina dov’è? Cosa le hai fatto?”, avrebbe detto Gaspare Ghaleb, ai tempi fidanzato con Jessica Pulizzi. “Sono dialoghi emersi dopo giorni di pulitura dei file audio. Me ne sono occupato insieme alla mia squadra per dieci giorni in studio di registrazione, in Calabria”, racconterà l'ex maresciallo. In realtà la squadra è formata da sole due persone, una oltre lui. Lombardo, è collaboratore/consulente dello studio legale di Giacomo Frazzitta, si mostrerà particolarmente attivo. L'influenza dei media agita Frazzitta che per ben due volte fa istanza, chiede accertamenti e verifiche perché potrebbe esserci una fuga di notizie interna alla Procura che potrebbe pregiudicare l'indagine in corso. Viene ascoltato ma non si acquisisce alcunché di utile. Una ricostruzione successiva, grazie alle intercettazioni, spiega come fosse in atto un monitoraggio delle indagini in corso con una triangolazione pericolosa veicolata da Lombardo "che attingeva notizie di prima mano dallo studio legale Frazzitta con il quale collaborava e dal quale spesso sono partiti input delle attuali indagini e, immediatamente, le riferiva al giornalista di turno, ponendo in essere un comportamento prima di tutto lesivo della instancabile attività di quello studio legale, ignaro della infedeltà del suo collaboratore." Dagospia può svelare che l'ex maresciallo Lombardo era in contatto con i giornalisti Chiara Cazzaniga (Chi l'ha visto?), Lucilla Masucci (La Vita in Diretta), Fadi El Hnoud (Ore 14) e spunta anche un conduttore: Milo Infante, padrone di casa di Ore 14 e vicedirettore di Rai2. Le conversazioni sono intercettate. I giornalisti parlano con le fonti e con le persone coinvolte in un caso discusso. È parte integrante del loro lavoro. Nel suo programma del pomeriggio Infante svela di essere stato intercettato, accenna a una sua intervista telefonica, realizzata a giugno scorso, a Giacoma Pisciotta. Nell'appartamento della signora ebbe luogo in quel famoso 1° settembre 2004 quella che per anni è stata definita "la perquisizione nella casa sbagliata". L'intervista non sarà mai trasmessa, non si trattava di uno scoop e la donna sarà intervistata qualche giorno dopo da un suo inviato. A mezzanotte Anna Corona aveva lasciato il palazzo? Aveva sentito un rumore? Era l' 1 o il 2 settembre? Tanti "non ricordo", comprensibili ad anni di distanza, poco utili e poco rilevanti. Il conduttore risponde a quanto scritto nella richiesta di archiviazione in diretta, parole rilanciate da Libero, in particolare sull'attacco ai media: "Innanzitutto ci sono decine di programmi tv che hanno brillantemente riaperto e perfino risolto grandi casi che le Procure avevano frettolosamente archiviato. Poi, prima di parlare di cattivi giornalisti, parliamo di cattivi investigatori che riaprono inchieste solo per nuovi fatti scoperti dalle tv. E poi: da dove arrivano i documenti, le fughe di notizie e le violazioni del segreto istruttorio? Si dovrebbe indagare meglio sul ruolo ipocrita che certe istituzioni hanno con l'informazione stessa. Ci accusano di fare il nostro mestiere. Ma dov'è il reato?". Il reato non c'è. In realtà possiamo aggiungere che il vicedirettore di Rai2 viene chiamato in causa non solo in quella occasione, ma anche in una conversazione della Allegrini mentre parla con l'avvocato Frazzitta. L'addetto alla trascrizione riferisce di aver ascoltato anche un'altra voce, quella di Milo Infante. "II giornalista - nientemeno - unitamente all'avv. Frazzitta, ad adiuvandum rispetto al da farsi, interloquisce nel merito degli accertamenti che sarebbe possibile fare o non fare per risalire ai conti correnti della Allegrini, al fine di scoprire se costei fosse stata o meno a Mazara del Vallo il 1° settembre 2004. Tutto questo, naturalmente, prima che Allegrini venisse sentita e nel pieno dei delicati accertamenti in corso." Il 27 giugno Infante viene intercettato nuovamente, questa volta parla con l'ex maresciallo Francesco Lombardo: ha la necessità di divulgare le notizie apprese da Frazzitta sui testimoni romani, con lui deve coordinarsi ed è in attesa di un ok che tarda arrivare ma non può permettersi di essere scavalcato e di prendere un buco. I rapporti tra il vicedirettore di Rai2 e il legale di Piera Maggio sono ottimi, appare anche nel suo studio dietro una scrivania in uno scatto postato sui social. La situazione venutasi a creare e la diffusione mediatica della notizia dei falsi testimoni romani non viene presa bene nemmeno da Piera Maggio che non nasconde la rabbia durante una conversazione con Piero Pulizzi, spiegando che l'avvocato si sarebbe arrabbiato con Infante. Non è finita qui, secondo Libero sarebbe stato aperto intanto un fascicolo a carico della giornalista di "Quarto Grado" Ilaria Mura rea di aver informato un indagato di essere sotto intercettazione. Non tutti i giornalisti, non tutti i programmi possono essere messi sullo stesso piano. Se la tv pompa il nulla, gli inquirenti inseguono fin troppo la tv? La Procura il 4 settembre ha chiesto per i quattro indagati l'archiviazione, firmata dai pm Calogero Roberto Piscitello e Giuliana Rana e dal procuratore capo Vincenzo Pantaleo. Al momento non è possibile individuare un colpevole, non si sa dov'è Denise e se qualcuno continuerà a cercarla.
Se la Procura vuole il bavaglio per la cronaca nera in tv. I magistrati di Marsala definiscono "morbosi" e dediti al depistaggio i programmi sul caso della bimba scomparsa. Ma la fuga di notizie viene da loro.. E c'è talk show e talk show... Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2021
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
C’è richiesta d’archiviazione e richiesta d’archiviazione. Con l’una si chiude un caso, con l’altra si può apre un mondo. La richiesta d’archiviazione della Procura di Marsala sull’eterno caso Denise Pipitone, per esempio, si affaccia su un mondo di strali e feroci polemiche, in cui la magistratura allaccia una cintura di tritolo alla tv della cronaca nera. Le toghe, a coté dell’archiviazione per Anna Corona e Giuseppe della Chiave, ribadendo un concetto già espresso la scorsa settimana, si producono in una vera e propria requisitoria scritta contro la “morbosità” con cui i talk show televisivi hanno seguito la vicenda Pipitone, “generando una quantità di testimonianze e piste che poi si sono rivelate infondate”. L’ira funesta dei pubblici ministeri condanna l’essenza stessa dei talk show fatti di delitazzi, costruiti su lacrime e sangue: “L’influenza dei media è a tale punto che essi non si limitano a raccontare gli eventi piuttosto, spesso, in una gara a chi arriva prima tra diverse testate giornalistiche, a provocarli. E tali eventi hanno pure una sgradevole referenza sulle indagini in corso”. Si parla di circo mediatico che genera mostri. Nel rilievo esasperato dato alla sarabanda delle testimonianze di mitomani sta l’accusa principale: una volta c’è l’uomo che racconta di avere visitato anni addietro la casa dove abitava la madre della sorellastra di Denise, Anna Corona e intravede nel muro il rattoppo di un muro, come nel pertugio fosse schiacciato un piccolo cadavere. Un’altra si staglia la donna che invia la mail dove si vanta di avere visto Giuseppe Della Chiave insieme a Denise, a Pescara (quando, contemporaneamente erano a Marsala). Un’altra ancora si fa vivo il turista di passaggio, sicuro di aver riconosciuto Anna Corona nella hall di un albergo con solito spettro della bimba in braccio. E così via, in un crescendo tambureggiante di bufale, depistaggi, testi allucinati che più che Sherlock Holmes evocano Freud. I magistrati, nelle 58 e passa pagine del documento, articolano aguzzi j’accuse nei confronti di specifiche trasmissioni, Chi l’ha visto, Ore 14, La vita in diretta,. “Sono osservazioni che non riguardano noi, chiedete agli altri talk show”, commenta tranchant Gianluigi Nuzzi, che col suo Quarto grado ha registrato gli scoop di Corona e Della Chiave indagati, non scivola nella polemica e –soprattutto, dicono i suoi- non si fa dettare la scaletta da Piera Maggio. E qui ritorna il concetto che alcuni dirigenti Mediaset fanno notare: dalle note documentali dei magistrati, la figura dell’avvocato Giacomo Frazzitta legale della madre di Denise riverbera nella narrazione come una sorta di burattinaio che danzerebbe sotto la luna delle investigazioni sbagliate e dei sospetti incrociati; e che muoverebbe le fila degli ospiti e dei copioni televisivi sui quali riluce la grande sceneggiatura di questo delitto imperfetto. Tra i più tirati in causa Milo Infante –che con il suo Ore 14 ha fatto riaprire il caso Pipitone- ribatte rigo per rigo, in diretta, alla Procura di Marsala: “Innanzitutto ci sono decine di programmi tv che hanno brillantemente riaperto e perfino risolto grandi casi che le Procure avevano frettolosamente archiviato. Poi, prima di parlare di cattivi giornalisti, parliamo di cattivi investigatori che riaprono inchieste solo per nuovi fatti scoperti dalle tv. E poi: da dove arrivano i documenti, le fughe di notizie e le violazioni del segreto istruttorio? Si dovrebbe indagare meglio sul ruolo ipocrita che certe istituzioni hanno con l’informazione. Ci accusano di fare il nostro mestiere. Ma dov’è il reato…?” . Viene anche fatto notare nota che molti dei suddetti depistaggi provengono da segnalazioni dell’ex pubblico ministero ora giudice del lavoro Maria Angioni, la donna più ossessionata al mondo dal caso Pipitone e non per nulla a processo per falsa testimonianza. Infante, tra l’altro, è l’unico in Rai che si svincola dall’omertà che stringe i conduttori di viale Mazzini (secondo le disposizioni dell’ ad Fuortes ogni dichiarazione deve essere autorizzata e protocollata ai piani alti, come tra i carabinieri, o i burocrati della Corea del nord…). Ma non è l’unico a notare che quasi tutti i programmi additati dai piemme sono targati Rai. Ma il punto è un altro. Può davvero la magistratura, al netto delle –molte, toppe- testimonianze tarocche che rischiano in un ciclo ipnotico d’inquinare l’inchiesta, permettersi di marchiare d’infamia interi programmi spesso costruiti su grandi professionalità? Meglio ancora: nei talk dove sta il confine tra servizio pubblico e cialtroneria? Probabilmente la risposta migliore l’ha data Monica Setta: ci sono talk di cronaca che grufolano su notizie già acquisite e talk che aggiungono ogni volta, senza commentare, nuovi tasselli all’architettura della verità processuale. Come per le archiviazioni, c’è talk e talk…
L'avvocato di Piera Maggio nel mirino del "fuoco amico"? Angela Leucci il 6 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'avvocato della mamma di Denise Pipitone è oggetto di una richiesta di provvedimento disciplinare da parte dell'Anm: "È fuoco amico". “Continuerò a dar voce a Denise Pipitone”. Sono le parole di Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, madre di Denise Pipitone che scomparve da Mazara del Vallo il 1 settembre 2004. Come riporta Adnkronos, l’Associazione Nazionale Magistrati di Palermo ha inviato al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Marsala una richiesta di procedimento disciplinare di Frazzitta. Che, tra l’altro, ne era all’oscuro. “Ho appreso - ha spiegato l’avvocato - la notizia stamani dalla stampa. Solo alle 13.21 mi è arrivata la Pec del Consiglio dell'Ordine con la richiesta dell'Anm. A loro era stata trasmessa alle 11.07, poco dopo, alle 11.20, è uscita sulla stampa... Voglio solo ricordare che le richieste di procedimenti disciplinari sono atti riservati, personali che non vanno neppure all'ordine del giorno del Consiglio dell'Ordine degli avvocati essendo di competenza del solo presidente che in maniera riservata lo comunica all’interessato". Pare che al centro della richiesta di procedimento disciplinare ci sia un’intercettazione, che il legale ha tuttavia definito parziale. “In quella stessa intercettazione - racconta Frazzitta - cito i singoli magistrati che si stavano occupando del caso, faccio nomi e cognomi attribuendo loro solo aggettivi positivi. Non ho commesso nessun reato, sto cercando Denise Pipitone e sto tentando di fare giustizia in questa storia. Non sono contro la Procura, ho piena fiducia nei magistrati che sono il nostro unico interlocutore". Negli ultimi mesi, il lavoro di Frazzitta è stato spesso evidenziato dai media: dapprima per via di Olesya Rostova, una giovane orfana russa al centro di un reality, che si disse poter essere Denise, successivamente per la nuova indagine sulla bimba scomparsa condotta dalla Procura di Marsala. “Io ho dato voce a Denise Pipitone in questi 17 anni e continuerò a farlo - ha sottolineato Frazzitta - L'ho fatto onestamente, nel rispetto delle regole. Sempre. E di questo possono essermi testimoni tutti i magistrati che si sono succeduti in questa vicenda, che per me sono stati sempre il faro e il punto di riferimento”. A seguito delle indagini della procura, sono state archiviate le posizioni delle persone sotto indagine, tra cui quella di Anna Corona, già indagata e archiviata in passato, ex moglie di Piero Pulizzi, padre naturale di Denise. La famiglia della bimba si opporrà alla richiesta di archiviazione dell’indagine della procura. “Non è uno sgarbo ma è previsto dal Codice se ci sono gli estremi. Lo faremo nei confronti non di tutti, ma di coloro su cui riterremo sia necessario un approfondimento - ha aggiunto il legale, tornando poi a riferirsi alla richiesta di provvedimento disciplinare - Noi vogliamo la verità ed è la magistratura l'unica che può darcela. Questo fuoco amico mi amareggia e mi disorienta”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
"Perché tutto quello zelo contro l'ex pm?". Denise Pipitone, il più grave dei sospetti sulla magistratura. Libero Quotidiano il 6 ottobre 2021. Giacomo Frazzitta, l’avvocato che da anni segue la famiglia di Denise Pipitone potrebbe subire un provvedimento disciplinare. Il legale, da 17 anni accando a Piera Maggio nel tentativo di venire a capo della scomparsa della piccola scomparsa a Mazara del Vallo, avrebbe detto che i magistrati fanno schifo nel corso di una telefonata con una presunta testimone. Nel corso della telefonata Frazzitta avrebbe detto: "Sono puerili. Perché i magistrati fanno schifo cara signora. I magistrati fanno schifo in Italia lo dobbiamo dire e sta succedendo anche nel caso Denise. Se ne stanno andando a indagare la collega. Quale è l'urgenza?"riferendosi probabilmente all'inchiesta che ha coinvolto Maria Angioni. Una coppia di romani, che si è scoperto poi aver dichiarato il falso su dei presunti avvistamenti di Denise, sono stati convocati dai pm. La coppia si è così rivolta al legale che avrebbe usato la precedente terminologia. A tali affermazioni i pm hanno replicato: "L'avvocato anziché assumere un atteggiamento neutro e di prudenziale attesa, non potendo essere a conoscenza della falsità delle dichiarazioni della donna reagiva con rabbia esprimendo giudizi pesanti sui magistrati". Poi aggiungono: "Frazzitta la invitava ad addurre fantomatiche urgenze di lavoro» e lo stesso legale avrebbe detto: «Hanno un'arroganza che sono capaci di arrestarmi loro sono i padroni del mondo".
Caso Denise, l’Anm chiede procedimento disciplinare contro il legale della mamma. All'avvocato Frazzitta, difensore della madre di Denise Pipitone, Piera Maggio, sarebbero contestate alcune frasi contro i magistrati emerse da un'intercettazione telefonica. Lui: «Non ho commesso nessun reato». Il Dubbio il 6 ottobre 2021. «Ho appreso la notizia stamani dalla stampa. Solo alle 13.21 mi è arrivata la Pec del Consiglio dell’Ordine con la richiesta dell’Anm. A loro era stata trasmessa alle 11.07, poco dopo, alle 11.20, è uscita sulla stampa… Voglio solo ricordare che le richieste di procedimenti disciplinari sono atti riservati, personali che non vanno neppure all’ordine del giorno del Consiglio dell’Ordine degli avvocati essendo di competenza del solo presidente che in maniera riservata lo comunica all’interessato». A dirlo all’Adnkronos è Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, la mamma della piccola Denise, scomparsa l’1 settembre 2004 da Mazara del Vallo (Trapani), dopo la notizia della richiesta, inviata al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Marsala, da parte dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo di una nota in cui chiede di valutare l’apertura di un procedimento disciplinare a carico del penalista. «Io ho dato voce a Denise Pipitone in questi 17 anni e continuerò a farlo – ha aggiunto Frazzitta -. L’ho fatto onestamente, nel rispetto delle regole. Sempre. E di questo possono essermi testimoni tutti i magistrati che si sono succeduti in questa vicenda, che per me sono stati sempre il faro e il punto di riferimento». L’intercettazione che lo riguarda e finita al centro dei riflettori, secondo il legale, è parziale. Dall’audio emergerebbero alcune frasi contro i magistrati pronunciate al telefono con una sedicente testimone del caso Denise. «In quella stessa intercettazione cito i singoli magistrati che si stavano occupando del caso, faccio nomi e cognomi attribuendo loro solo aggettivi positivi – assicura il legale -. Non ho commesso nessun reato, sto cercando Denise Pipitone e sto tentando di fare giustizia in questa storia. Non sono contro la Procura, ho piena fiducia nei magistrati che sono il nostro unico interlocutore». Alla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura d Marsala la famiglia di Denise Pipitone si opporrà. «Non è uno sgarbo ma è previsto dal Codice se ci sono gli estremi. Lo faremo nei confronti non di tutti, ma di coloro su cui riterremo sia necessario un approfondimento. Noi vogliamo la verità ed è la magistratura l’unica che può darcela. Questo fuoco amico mi amareggia e mi disorienta», conclude il legale.
Denise Pipitone, madre e Frazzitta si oppongono ad archiviazione. Quotidiano di Sicilia mercoledì 13 Ottobre 2021. La nuova indagine ha visto tra gli altri coinvolta Anna Corona - madre di Jessica Pulizzi, sorellastra della piccola scomparsa, processata e assolta in tutti i gradi di giudizio dall'accusa. I legali di parte civile, Giacomo Frazzitta per Piera Maggio e Piero Marino per Piero Pulizzi, hanno depositato richiesta opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Marsala al Gip per la nuova indagine avviata alcuni mesi fa sul sequestro di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo (Tp) il primo settembre 2004, quando aveva poco meno di quattro anni. La nuova indagine ha visto coinvolti Anna Corona – madre di Jessica Pulizzi, sorellastra della piccola scomparsa, processata e assolta in tutti i gradi di giudizio dall’accusa di concorso in sequestro di minore -, nonché Giuseppe Della Chiave e due coniugi romani accusati di false dichiarazioni al pm. Il nome di Giuseppe Della Chiave si legava, invece, alla testimonianza dello zio Battista Della Chiave, il sordomuto che avrebbe detto di aver visto suo nipote su uno scooter con la piccola Denise in braccio. A seguito dell’opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura, adesso il Gip di Marsala dovrà fissare un’udienza per decidere sulle richieste delle due parti.
Denise Pipitone, Anna Corona intercettata: «Sono stata io con Giuseppe». Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2021. Una frase detta dalla madre di Jessica Pulizzi, sorellastra della bambina scomparsa nel 2004, e ascoltata dai carabinieri lo scorso 25 maggio durante le indagini riaperte a Marsala. «Lo vuoi sapere cu fu tanno? Io cu Giuseppe» (Vuoi sapere chi è stato quella volta? Io e Giuseppe). È la frase detta da Anna Corona alla figlia minore, Alice, e intercettata dai carabinieri di Trapani lo scorso 25 maggio nell’ambito delle indagini, riaperte in primavera dalla Procura di Marsala (a settembre la stessa procura ha chiesto l’archiviazione), sul sequestro della piccola Denise Pipitone, la bambina scomparsa da Mazara del Vallo (Trapani) il primo settembre 2004. Parole pronunciate abbassando la voce. Per le parti civili è possibile che si riferisse al sequestro della bimba. Il «Giuseppe» di cui parla Corona non è stato identificato. Su questa intercettazione, ma anche su altre, punta l’opposizione delle parti civili (Piera Maggio e Piero Pulizzi, genitori di Denise, rispettivamente rappresentati dagli avvocati Giacomo Frazzitta e Piero Marino) alla richiesta di archiviazione dell’inchiesta avanzata dalla Procura di Marsala. L’inchiesta vede coinvolti, oltre ad Anna Corona, 58 anni, madre di Jessica Pulizzi, sorellastra della piccola scomparsa, processata per sequestro di minore e assolta in tutti i gradi di giudizio, anche altre tre persone. E cioè il 53enne mazarese Giuseppe Della Chiave e i coniugi romani Antonella Allegrini, di 63 anni, e Paolo Erba, di 71. Gli ultimi due sono indagati solo per false dichiarazioni al pm. L’opposizione alla richiesta di archiviazione, su cui il gip di Marsala sarà chiamato a decidere il prossimo 23 novembre, è stata formulata soltanto per Anna Corona. Quest’ultima, per altro, racconta una testimone, avrebbe detto: «A picciriddra morse» («la bambina è morta», ndr), aggiungendo: «A Piera le si deve bruciare il cuore». Sulla base di questi ed altri elementi, le parti civili chiedono la prosecuzione delle indagini preliminari sulla scomparsa di Denise.
Caso Denise, l’intercettazione di Anna Corona: “Siamo stati io e Giuseppe”. La Repubblica il 27 ottobre 2021. La madre di Jessica Pulizzi parlava con la figlia lo scorso maggio. Per i legali della famiglia potrebbe riferirsi alla scomparsa della piccola: "No all'archiviazione". "Lo vuoi sapere cu fu tanno? Io cu Giuseppe" (Vuoi sapere chi è stato quella volta? Io e Giuseppe). E' una frase di Anna Corona intercettata dai carabinieri di Trapani lo scorso 25 maggio nell'ambito delle indagini, riaperte in primavera dalla Procura di Marsala (a settembre la stessa procura ha chiesto l'archiviazione), sul sequestro della piccola Denise Pipitone, scomparsa da Mazara del Vallo (Tp) il primo settembre 2004, parlando con la figlia Alice. Parole pronunciate abbassando la voce. Per le parti civili è possibile che si riferisse al sequestro della bimba. Il "Giuseppe" di cui parla la Corona non è stato identificato. Su questa intercettazione, ma anche su altre, punta l'opposizione delle parti civili (Piera Maggio e Piero Pulizzi, genitori di Denise, rispettivamente rappresentati dagli avvocati Giacomo Frazzitta e Piero Marino) alla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Marsala dell'inchiesta che vede coinvolti, oltre ad Anna Corona, 58 anni, madre di Jessica Pulizzi, sorellastra della piccola scomparsa, processata per sequestro di minore e assolta in tutti i gradi di giudizio, anche altre tre persone. E cioè il 53enne mazarese Giuseppe Della Chiave e i coniugi romani Antonella Allegrini, di 63 anni, e Paolo Erba, di 71. Gli ultimi due indagati solo per false dichiarazioni al pm. L'opposizione alla richiesta di archiviazione, su cui il gip di Marsala sarà chiamato a decidere il prossimo 23 novembre, è stata formulata soltanto per Anna Corona. Quest'ultima, per altro, racconta una testimone, avrebbe detto: "A picciriddra morse" ("la bambina è morta", ndr), aggiungendo: "A Piera le si deve bruciare il cuore". Sulla base di questi ed altri elementi, le parti civili chiedono la prosecuzione delle indagini preliminari sulla scomparsa di Denise.
Da tgcom24.mediaset.it il 30 ottobre 2021. "Nel 2017 Anna Corona è venuta a casa mia e mi ha detto una cosa sola: a piccidirra morse, la piccolina morì". A "Quarto Grado" parla una testimone della nuova inchiesta sulla scomparsa di Denise Pipitone, facendo riferimento a un aperitivo avvenuto anche alla presenza del proprio marito. "Non ci credevo nemmeno che mi avesse detto una cosa del genere, così ho chiesto anche a lui, che ha confermato di aver sentito la stessa frase". Il 28 aprile scorso l'avvocato della famiglia della bambina ha consegnato la testimonianza di questa donna alla Procura di Marsala, ma, dopo essere stata convocata per due volte dai magistrati, la signora è stata giudicata inattendibile a causa delle affermazioni prive di riscontro.
Denise Pipitone, spunta un nuovo nome. L’intercettazione mai sentita di Anna Corona. Da caffeinamagazine.it il 22 novembre 2021. È ancora molto alta l’attenzione su Denise Pipitone, la bimba scomparsa quando aveva quasi 4 anni il 1° settembre del 2004 a Mazara del Vallo. La madre Piera Maggio ha sempre cercato di mantenere accesi i riflettori sulla vicenda e ormai da diciassette anni cerca la verità. “Denise va cercata – ha detto di recente Piera Maggio -. Non è giusto che la verità non emerga e che colpevoli siano liberi di girare tranquillamente”. Il 23 novembre davanti al gip del Tribunale di Marsala è stata fissata l’udienza per decidere sulla richiesta di archiviazione delle nuove indagini sulla scomparsa avanzata dalla Procura di Marsala. Sui social Piera ha reso pubblico il nuovo age progression di Denise, l’immagine che ricostruisce come potrebbe essere oggi la 21enne è stata realizzata su commissione da Paloma Joana Galzi, Forensic Imaging Specialist, attraverso le foto originali di Denise, dei genitori e del fratello. Secondo Piera Maggio la pista privilegiata è quella della vendetta privata, maturata nell’ambito familiare, tra la nuova e la vecchia famiglia del padre di Denise, Pietro Pulizzi, ex marito di Anna Corona e padre di Jessica Pulizzi, sorellastra della piccola scomparsa, processata per sequestro di minore e assolta in tutti i gradi di giudizio. E a questo proposito durante la puntata di Storie Italiane sono state rese note alcune intercettazioni tra la Anna Corona e un’altra donna in cui spuntano nuovi nomi mai emersi in questi anni e di cui i legali della famiglia di Denise chiedono di indagare. “Io ero per non parlare, per cercare la verità”, dice l’ex moglie di Piero Pulizzi e la donna con cui parla risponde, forse riferendosi a Denise Pipitone: “Luigi l’è andata a cercare”. Oggi si deciderà sull’opposizione alla richiesta di archiviazione per Anna Corona. La nuova inchiesta ha visto coinvolti la madre di Jessica Pulizzi, Giuseppe Della Chiave, 53 anni, e due coniugi romani accusati di false dichiarazioni al pm.
Denise Pipitone: il vecchio, Luigi, Giuseppe, Asparino, chi sono i 4 uomini delle intercettazioni. Le ultime notizie sul caso di Denise Pipitone: nella puntata di “Chi l’ha visto?” le intercettazioni di Anna Corona e il nuovo appello di mamma Piera. A cura di Susanna Picone su Fanpage.it il 18 Novembre 2021. Il caso di Denise Pipitone con gli ultimi aggiornamenti sulla storia della bambina scomparsa il primo settembre 2004 da Mazara del Vallo al centro dell’ultima puntata di “Chi l’ha visto?”. Dopo la manifestazione di Roma di domenica scorsa, la mamma di Denise Piera Maggio torna a chiedere di non archiviare il caso ma di continuare a cercare sua figlia.
Caso Denise, il 23 novembre si decide sull'archiviazione
La Procura di Marsala lo scorso settembre ha chiesto l'archiviazione delle nuove indagini e il prossimo 23 novembre è attesa la decisione del gip. I legali della famiglia hanno depositato richiesta di opposizione. Intanto spuntano nuove intercettazioni: nella puntata di mercoledì sera, “Chi l’ha visto?” in particolare ha fatto riferimento ai quattro uomini che vengono nominati durante alcune conversazioni intercettate di Anna Corona, l’ex moglie di Piero Pulizzi finita al centro delle ultime indagini, con sua madre e le sue figlie.
Le nuove intercettazioni
Chi sono questi quattro uomini e c’entrano qualcosa con il sequestro di Denise Pipitone? Si parla di un “vecchio innominabile”, di un tale Luigi, di un altro chiamato Giuseppe e di un certo Asparino. Del “vecchio” parlano Anna Corona con la madre Antonietta Lo Cicero. “Il vecchio cosa ti ha detto” chiede Antonietta, e Anna la zittisce: “Lui non esiste, non deve esistere”. E ancora: “Innominabile lui deve essere, lo devono lasciare in pace”. La mamma sembra chiedere di lui ma “non per il fatto di Denise”. In altre intercettazioni si parla di un Luigi: “A li voti pensu ca Luigi s’ha purtau” dice Antonietta lo Cicero, ovvero “se l’è portata”. Parlano della piccola Denise sparita a 4 anni? E ancora, torna nelle intercettazioni un uomo chiamato Giuseppe di cui Anna Corona parla con la figlia Alice, e anche un tale Asparino. “Teniamolo verso di noi” si sente dire Anna Corona. Gaspare Ghaleb, ex fidanzato di Jessica Pulizzi, convocato dai carabinieri ha smentito potesse essere lui “Asparino” anche se, a quanto emerso, dei suoi amici lo chiamano in quel modo. Anche in un’altra intercettazione Anna Corona parlava di un tale Giuseppe mai identificato: “Lo vuoi sapere cu fu tanno? Io cu Giuseppe" (Vuoi sapere chi è stato quella volta? Io e Giuseppe), una frase catturata lo scorso 25 maggio nell'ambito delle indagini sul sequestro di Denise. Anna Corona parlava a bassa voce con la figlia Alice. Per le parti civili è possibile che si riferisse al sequestro della bimba. Su questa intercettazione e su altre punta l'opposizione delle parti civili alla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Marsala.
L'ultima inchiesta sul caso Denise Pipitone
L’ultima inchiesta sul caso Denise Pipitone vede coinvolti, oltre ad Anna Corona, madre di Jessica Pulizzi, sorellastra della piccola scomparsa processata per sequestro di minore e assolta in tutti i gradi di giudizio, anche altre tre persone. Sono Giuseppe Della Chiave e i coniugi Antonella Allegrini e Paolo Erba, questi due indagati solo per false dichiarazioni al pm. L'opposizione alla richiesta di archiviazione è stata formulata soltanto per Anna Corona.
L'appello di Piera Maggio a Denise
Nel corso dell’ultima puntata di “Chi l’ha visto?” Piera Maggio ha parlato proprio alla sua bambina scomparsa ormai 17 anni fa. “Denise, se riesci a ricordare qualcosa della tua infanzia sappi che noi siamo la tua vera famiglia…”, il suo appello alla figlia sequestrata. “Denise è stata rapita deliberatamente – ha detto ancora la mamma davanti alle telecamere -. Immagino che chi ha commesso questo reato vigliacco si starà dicendo ‘ce l'abbiamo fatta, siamo impuniti’".
Denise Pipitone, archiviato procedimento disciplinare contro Frazzitta. Il consiglio di disciplina archivia il procedimento disciplinare contro l'avvocato Frazzitta, legale della mamma di Denise Pipitone. Ecco le motivazioni.
Il Dubbio il 23 novembre 2021.
È stato archiviato «per insussistenza di condotte di rilievo deontologico» il procedimento del consiglio di disciplina dell’Ordine di Caltanissetta nei confronti dell’avvocato Giacomo Frazzitta, legale della mamma di Denise Pipitone, la bimba rapita il primo settembre del 2004 a Mazara del Vallo. Il procedimento era stato avviato su segnalazione dell’Anm, dopo che il legale, nel corso di una conversazione telefonica con una testimone, poi rivelatasi mendace, aveva affermato tra l’altro: «Sono puerili! Perché i magistrati fanno schifo cara signora. I magistrati fanno schifo in Italia lo dobbiamo dire e sta succedendo anche nel caso Denise. Se ne stanno andando ad indagare la collega. Quale è l’urgenza?».
Il consiglio rileva che l’avvocato Frazzitta era stato contattato già diverso tempo prima dalla testimone e dal marito, che si dicevano essere a conoscenza di elementi utili per le indagini sulla scomparsa della piccola Denise, e che il penalista il aveva immediatamente indirizzati all’autorità giudiziaria per valutare la loro attendibilità.
Caso Denise Pipitone, le motivazioni del consiglio di disciplina su Frazzitta
«Il legale che venga nuovamente contattato dalla possibile fonte testimoniale da cui, in precedenza, era già stato – addirittura per primo- contattato – scrive il consiglio – non ha motivo per astenersi dal colloquio con quella fonte che peraltro lui stesso aveva indirizzato all’autorità giudiziaria, fermo ovviamente il divieto di suggestionarla in qualsivoglia modo. L’avv. Frazzitta non ha quindi violato alcuna norma deontologica nel momento in cui, dopo essere stato chiamato al telefono dalla teste , si sia con questa intrattenuto né ha »forzato« o »suggestionato« la volontà dell’interlocutore verso questa o quella deposizione».
Tutelare l’espressione del proprio pensiero
Riguardo poi all’espressione di pesante critica riferita alla magistratura italiana («fa schifo») il consiglio rileva che «l’unico limite alla libertà di espressione, di manifestazione del pensiero, è quello della lesione al bene giuridico della altrui reputazione che non può certo essere arrecata attraverso una comunicazione verbale, ed assolutamente riservata». «Se si dovesse scivolare sulla pericolosa china di considerare illecita, anche solo di natura deontologica, l’espressione del proprio pensiero, qualunque esso sia, manifestata, in modo assolutamente privato, ad un solo interlocutore, – conclude il consiglio – il passo verso la repressione del “pensiero” di per se stesso, rimarrebbe persino agevole. È una deriva da cui bisogna rimanere lontani».
Denise Pipitone, oggi la decisione su Anna Corona
«Oggi vado davanti al Gip a dare voce e rappresentare la Figlia di tutti gli Italiani, Denise Pipitone, certamente più sereno«. Così l’avvocato Giacomo Frazzitta, legale della mamma della bimba rapita a Mazara del Vallo il primo settembre del 2004, commenta l’archiviazione del procedimento disciplinare nei suoi confronti. «Rimane il rammarico – osserva Frazzitta – di essere stato ingiustamente attaccato dall’Anm distrettuale di Palermo e di aver subìto la gogna mediatica e il “fuoco amico“, poiché rammento a tutti che siamo parti di un delicato sistema che ha il compito specifico di dare risposte ai cittadini e di non creare polveroni facendo esondare conversazioni private di avvocati o magistrati che possono mettere a repentaglio la loro incolumità».
Oggi il gip di Marsala Sara Quittino dovrà decidere sull’opposizione alla richiesta di archiviazione per Anna Corona presentata da Piera Maggio e Piero Pulizzi, genitori di Denise Pipitone. A chiedere l’archiviazione è stata la Procura di Marsala, che la scorsa primavera ha avviato una nuova indagine sul sequestro. L’opposizione è stata depositata dai legali di parte civile: Giacomo Frazzitta e Piero Marino.
Dory D’Anzeo per lanazione.it il 16 novembre 2021. Piera Maggio contro lo Sgargabonzi, alias Alessandro Gori. La madre di Denise Pipitone, la bambina scomparsa nel 2004 a Mazara del Vallo, era ieri ad Arezzo per l’inizio del processo che vede imputato lo scrittore comico aretino, accusato di diffamazione. I fatti risalgono al 2014 quando Gori, per presentare lo spettacolo che avrebbe dovuto portare in scena al Circolo Aurora, ha pubblicato su Facebook frasi come «Piera Maggio, madre di Denise Pipitone, nuovo volto del spot Lerdammer» oppure «Stasera al supermercato ho visto la signora Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, la bambina scomparsa qualche anno fa. Così sono andato a riempirmi il carrello con un sacco di roba e gliel’ho portato, dicendole: ...E non voglio più vedere quel faccino triste», per citare alcune delle parole incriminate. A Gori viene imputato anche di aver pubblicizzato il suo spettacolo con una locandina dove c’era scritto «Curiosità pruriginose su Denise Pipitone con diapositiva e Simmenthal e Giovanni Falcone il Renato Rascel dell’antimafia». Frasi che hanno fatto sobbalzare Piera Maggio, difesa in aula dall’avvocato Cristian Rosa, delegato dal legale Giacomo Frazzitta: ieri durante l’udienza ha raccontato davanti alla giudice Isa Salerno di aver percepito un’offesa diretta a lei e alla figlia, leggendo quei post. Il procedimento è stato rinviato al 19 novembre per sentire il testimone dell’accusa, tra l’altro un volto noto ad Arezzo perché si tratta di Sergio Nenci, meglio noto come Cico, in qualità di legale rappresentante del Circolo Aurora. A Nenci sarà chiesto perché ha ritenuto di non ospitare più lo spettacolo previsto nel noto circolo Arci di piazza Sant’Agostino. La rappresentazione, infatti, non si è mai tenuta perché la signora Maggio, attraverso il legale Giacomo Frazzitta che ne ha assunto la rappresentanza anche in questo procedimento, era intervenuta subito con una diffida. «L’intento di Gori – spiega il suo legale Niki Rappuoli – non era affatto quello di diffamare né la signora Piera Maggio né la figlia Denise. Il messaggio era tutt’altro, voleva essere una critica nei confronti del sistema televisivo che strumentalizza il dolore di una madre per la scomparsa di sua figlia». Una critica, fa notare Rappuoli, già espressa da altri osservatori: «Stamattina (ieri per chi legge) in udienza ho prodotto un articolo di Aldo Grasso in cui si parla appunto del circo mediatico scatenato attorno al caso, auspicando almeno che il cinismo dei media possa portare almeno ad avvicinarsi alla verità. Il senso delle frasi del mio assistito è lo stesso, solo che Aldo Grasso è un giornalista, mentre Gori è uno scrittore comico con il gusto del paradossale e del black humor, perciò si è espresso secondo il registro che gli è più congeniale». A dimostrazione della tesi difensiva, Rappuoli ieri mattina ha depositato il libro «Jocelyn uccide ancora», scritto proprio da Gori, per inquadrare meglio il filone al quale appartengono le frasi scritte dallo Sgargabonzi. Un passaggio sul quale ha insistito anche Alessandro Gori davanti al pubblico ministero Bernardo Albergotti nell’interrogatorio di due anni fa. Su tutto il procedimento pende la scure della prescrizione, che scatterà a gennaio. Se, invece, il processo sarà celebrato, Rappuoli annuncia come testi a difesa: «Alcuni professori universitari ed esperti in materia letteraria, di diversa provenienza, che hanno letto e percepito il contenuto del post incriminato, fanno parte di quella ‘intelligenza’ di natura letteraria e culturale del nostro Paese e potranno riferire la continenza di queste espressioni nell’ambito di una certa cifra letteraria». Un altro capitolo dell’eterna diatriba sui confini tra satira e diffamazione.
Denise Pipitone, la nuova Age Progression diffusa dalla famiglia: come potrebbe essere ora. Debora Faravelli il 25/10/2021 su Notizie.it. Una nuova Age Progression commissionata dalla famiglia svela come potrebbe essere oggi Denise Pipitone, scomparsa da Mazara 17 anni fa. La famiglia di Denise Pipitone ha diffuso una nuova Age Progression che mostra come potrebbe essere l’ormai ragazza di 21 anni scomparsa nel 2004 a Mazara del Vallo. L’immagine con il presunto invecchiamento di Denise è stata commissionata dai suoi familiari ed è stata realizzata da esperti attraverso le foto originali della bimba scattate prima della scomparsa e analizzando quelle dei genitori e del fratello. Il nuovo invecchiamento è stato commissionato dalla dott.ssa Paloma Joana GALZI, Forensic Imaging Specialis. Nel post condiviso dalla madre Piera Maggio, che ha ringraziato per il lavoro svolto, è visibile l’immagine con la Age Progression affiancata a quella della stessa Denise bimba in braccio alla madre. Il cartello rilancia anche la data di nascita e quella di scomparsa della bimba, sia in italiano che in inglese, con l’hashtag #missingDenise. La famiglia di Denise aveva richiesto un nuovo invecchiamento dopo essersi mostrata in disaccordo con quello realizzato nell’estate 2020 in cui faticava a riconoscere Denise. Si trattava a loro detta di “un’immagine che riteniamo non coerente con quelle precedenti, due nel 2008 e una nel 2014: quella che oggi dovrebbe essere una ragazza di 20 anni, a noi ci è sembrata una bambina di 8 anni”.
Denise Pipitone, colpo di grazia all'inchiesta? Lo sfogo di Piera Maggio: chi l'ha rapita non può restare impunito. Il Tempo il 27 novembre 2021. Mentre la Commissione affari istituzionali inizia l’esame sull'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa di Denise Pipitone, l'indagine aperta a Marsala sulla scomparsa della piccola, sparita da Mazara del Vallo nel 2014, potrebbe essere archiviata. La madre Piera Maggio ha affidato a Facebook un duro sfogo sulla possibile chiusura del fascicolo. "Noi vorremmo che si faccia chiarezza su tutta la vicenda che ci coinvolge. Vorremmo che ogni operatore di giustizia intento a lavorare sul nostro caso, non perdi il focus dell'obbiettivo principale, spogliandosi da quello che ricopre la propria veste privata che nulla ha a che fare con la giustizia. In tutti questi anni, nonostante l'immenso dolore, siamo stati sempre corretti, il nostro legale ha lavorato sempre con onestà e professionalità con il solo obbiettivo di dar voce a Denise" scrive la madre secondo cui ci sono ancora pagine non scritte sulla vicenda. "Vogliamo la vera verità, quella che per qualche ragione fatica ad emergere nonostante ci siano elementi importanti, gravi e incontrovertibili. Oggi, alla luce dei fatti, ci sentiamo di dire che abbiamo paura per quello che potrebbe accadere in futuro al nostro caso, l'oblio totale. Non ci sentiamo tutelati. Abbiamo bisogno dell'aiuto di persone rispettose, con il senso di coscienza, umanità e giustizia. Denise, non è scomparsa, non è andata via da sola ma è stata vigliaccamente rapita, privata dell'amore della sua famiglia e della sua identità. In uno Stato civile, i colpevoli del rapimento di una bambina, non possono rimanere impuniti, liberi. Non chiediamo giustizialismo ma vogliamo la vera verità. Rimaniamo rispettosi in attesa della decisione da parte del Gip", si legge nel duro sfogo. La vicenda è a un punto di svolta. La gip di Marsala (Trapani) Sara Quittino si è riservata sulla decisione sulla opposizione alla richiesta di archiviazione per Anna Corona proposta da Piera Maggio e Piero Pulizzi, i genitori di Denise. È stata la stessa Procura a richiedere nei mesi scorsi l’archiviazione per la donna. La nuova inchiesta della Procura vede coinvolti Anna Corona, 58 anni, madre di Jessica Pulizzi, sorellastra della piccola scomparsa, processata e assolta in tutti i gradi di giudizio dall’accusa di concorso in sequestro di minore, nonché Giuseppe Della Chiave, 53 anni, e due coniugi romani accusati di false dichiarazioni al pm. La coppia di coniugi, Antonella Allegrini e il marito Paolo Erba, sono stati indagati per false informazioni al pubblico ministero. Sono stati gli stessi ad ammettere di aver mentito agli inquirenti.
Denise Pipitone? "Vigliacchi, chi la ha rapita": accusa clamorosa, la madre si gioca l'ultima carta. Libero Quotidiano il 27 novembre 2021. L'inchiesta sulla scomparsa di Denise Pipitone va verso l'archiviazione e il terrore della mamma Piera Maggio è che una volta chiusa si spegnerà anche la speranza di arrivare alla verità. "Oggi, alla luce dei fatti, ci sentiamo di dire che abbiamo paura per quello che potrebbe accadere in futuro al nostro caso, l'oblio totale. Non ci sentiamo tutelati. Abbiamo bisogno dell'aiuto di persone rispettose, con il senso di coscienza, umanità e giustizia", dice disperata la madre di Denise insieme a Pietro Pulizzi, padre della bambina sparita il 1 settembre del 2004 a Mazara del Vallo, nel Trapanese, quando non aveva ancora 4 anni. Nei giorni scorsi il gip di Marsala si è riservato di decidere sulla richiesta di archiviazione della nuova inchiesta avanzata dalla Procura. Il legale della famiglia, Giacomo Frazzitta, infatti, aveva presentato opposizione rispetto a una dei quattro indagati, chiedendo ulteriori indagini per Anna Corona, ex moglie di Pietro Pulizzi. "Denise non è scomparsa", ribadisce Piera Maggio, "non è andata via da sola, ma è stata vigliaccamente rapita, privata dell'amore della sua famiglia e della sua identità. In uno Stato civile i colpevoli del rapimento di una bambina non possono rimanere impuniti, liberi. Non chiediamo giustizialismo, ma vogliamo la verità. Rimaniamo rispettosi in attesa della decisione da parte del gip". La richiesta dei genitori di Denise, che oggi ha 21 anni, è di fare "chiarezza su tutta la vicenda che ci coinvolge". "Vorremmo che ogni operatore di giustizia intento a lavorare sul nostro caso non perda il focus dell'obiettivo principale, spogliandosi da quello che ricopre la propria veste privata che nulla ha a che fare con la giustizia", proseguono Piera Maggio e Pietro Pulizzi. "In tutti questi anni, nonostante l'immenso dolore, siamo stati sempre corretti, il nostro legale ha lavorato sempre con onestà e professionalità con il solo obbiettivo di dar voce a Denise. Vogliamo la vera verità, quella che per qualche ragione fatica a emergere nonostante ci siano elementi importanti, gravi e incontrovertibili".
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 29 ottobre 2021. Denise Pipitone è uno dei capitoli più «vitali» di Chi l'ha visto? e ogni volta si arricchisce di novità, di attese, di speranze, secondo la grammatica del feuilleton poliziesco. Con tutto il rispetto per i genitori (tutti ci comporteremmo come loro), sono anni che la scomparsa di Denise (ha compiuto 21 anni il 26 ottobre) infiamma l'interesse mediatico e gli ascolti. Federica Sciarelli, che si vive come una sorta di presidio etico permanente (una forza vicaria delle forze dell'ordine), ha diffuso mercoledì sera una fotografia di come sarebbe oggi la ragazza. L'immagine è stata creata al computer da Paloma Galzi (un'americana che si definisce «artista forense») con quella che tecnicamente si chiama «age progression», cioè un invecchiamento attraverso le foto originali di Denise, dei genitori, del fratello: un collage dei tratti somatici. Come ha scritto Matteo Marchesini, «oggi quasi tutti siamo delle tricoteuses della nera, che ci raggiunge con una potenza e capillarità inaudite. Non per caso è dilagata a partire dagli anni 90, col crollo delle grandi narrazioni ideologiche e la drastica diminuzione della vita attiva, militante: le semplificazioni del giallo, che non finisce mai di complicare paradossalmente le cose per aggiungere una puntata in più, sono diventate la nostra Weltanschauung (e alcuni magistrati ne hanno preso atto)». La scomparsa di Denise si è trasformata in questi anni in un appuntamento serializzato e, secondo le logiche televisive, i comprimari sono aumentati di puntata in puntata: vicini di casa, sospettati, testimoni chiave e testimoni «chiavica» che non c'entrano nulla, ex magistrati, gli immancabili criminologi. Naturalmente non mancano i colpi di scena, dalle lettere anonime alle intercettazioni telefoniche, dai testi del Dna in diretta all'artista forense. Si va avanti, in attesa dell'agnizione, del momento catartico, di una purificazione che i media non possono darci.
Il caso Denise Pipitone: il rischio dei processi mediatici in tv. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2021. «Ore 14» ha organizzato tre appuntamenti speciali sul caso: a seguire la trasmissione di Milo Infante il torto è della procura di Marsala che ha chiesto l’archiviazione. Avevo appena finito di scrivere sulla serializzazione degli episodi di cronaca nera, ovvero su come convertire l’angoscia in un format e trasformare un materiale estremamente delicato in un facile horror show, che «Ore 14» organizza tre appuntamenti speciali sul caso Denise Pipitone (Rai2). Sia chiaro, tutti vorremmo che Denise, scomparsa 17 anni fa a Mazara del Vallo, tornasse a casa, che finisse il tormento dei suoi genitori, che giustizia venisse fatta. Se dopo 17 anni il caso è ancora aperto (un caso cui la tv ha dedicato un’infinità di ore, a partire da «Chi l’ha visto?»), la colpa è solo di inquirenti incapaci, di depistaggi, di eventuali menzogne, di indagini fatte male, di intercettazioni trascritte male? A che pro tutto questo? Eppure, a seguire la trasmissione condotta da Milo Infante (con lo stesso stile con cui conduceva programmi analoghi sulle tv locali), il torto ora è della procura di Marsala che ha chiesto l’archiviazione sull’ultima inchiesta (quella che vede coinvolta Anna Corona). Fra gli ospiti in studio qualcuno ha parlato, per la serie «se la suonano e se la cantano», di «fulgido esempio di servizio pubblico», ma è davvero così? È servizio pubblico avere soltanto ospiti di parte civile che contestano il lavoro della procura e dei suoi consulenti, senza che questi possano difendersi? È servizio pubblico invitare la solita compagnia di giro per istruire un «processo parallelo», quando il gip di Marsala Sara Quittino deve ancora decidere sulla richiesta di archiviazione? È servizio pubblico invocare una Commissione d’inchiesta parlamentare come ci trovassimo di fronte a misteriose coperture politiche? Per carità, il caso della povera Denise sta a cuore a tutti ed è necessario tenere accesa la fiamma che lo illumina, ma i processi mediatici non vanno confusi con quelli reali, altrimenti è la fine dello Stato di diritto.
Milo Infante, la magnifica ossessione per Denise Pipitone. Il conduttore ha una spropositata passione per i delittazzi. E, a forza di indagare, è arrivato a fare partire una commissione parlamentare d'inchiesta in Senato sul caso della bambina scomparsa. Francesco Specchia Libero Quotidiano il 07 dicembre 2021.
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
Miilo Infante, a volte, sembra uscito da un film di Alfred Hitchcock di quelli con Jimmy Stewart protagonista che inciampa nelle ossessioni e cade nei labirinti della memoria. Infante, milanese, classe ’68, vicedirettore Rai, è il conduttore di Ore 14, il programma di Raidue che viviseziona -con dettaglio investigativo e senza beceraggine- la cronaca nera. E, da secoli, da giovanissimo cronista vive nell’ossessione di ritrovare, possibilmente viva, Denise Pipitone, la ragazzina scomparsa nel 2004 a Mazara del Vallo, uno dei casi mediatici più oscuri della storia della Repubblica. Me lo ricordo, l’Infante, con qualche ruga in meno sulla faccia da educatissimo vicino di casa, quando nei pomeriggi televisivi si faceva largo tra la politica, la cronaca bianca e le paillettes rosa shocking dei fotogrammi dell’Isola dei famosi, alla ricerca della verità sulla ragazzina affogata in un abisso assurdo. Sono passati sette anni, per lui, di gioie e disgrazie: dai riconoscimenti di pubblico e di critica (culminati con un Ambrogino d’oro, la massima onorificenza milanese) alla causa vinta alla Rai per demansionamento; ma ora è tornato fiero e vendicativo proprio nel ricordo di Denise. E, a furia di trovare nuovi documenti, di sfruculiare su nuove testimonianze, di ravanare sui depistaggi e sui fatti “che non tornano”, non solo ha fatto riaprire il caso, “ a causa della pressione mediatica”, come sentenzia bizzarramente la Procura di Marsala. Ma è riuscito, l’Infante, attraverso la Commissione Affari Costituzionali del Senato, a spingere per avviare una Commissione d’inchiesta sul “Caso Pipitone” presentata dagli onorevoli Alessia Morani e Carmelo Miceli. Dice lui, visibilmente commosso davanti alle telecamere: “La commissione serve per dare giustizia ai genitori della piccola e per mettere il dito sulla piaga dei minori scomparsi”. Che, per inciso, in Italia sono 40mila. Da che mi ricordo è la prima volta che un programma del pomeriggio nato dal nulla –ma che cresce d’ascolti ogni giorno- riesce a smuovere una commissione interparlamentare. Naturalmente hanno subito fatto al conduttore l’inopportunità del gesto; e non solo in Rai, ma pure parte della stampa, tra cui il critico Aldo Grasso sul Corrierone che non vedeva l’utilità di un cold case riaperto via tv. Milo è talmente educato che ha risposto abbozzando un sorriso. Lo conosco bene. Per questo che non mi capacito perché, pur vantando una carriera solidissima e costruita sulla gavetta delle tv locali per sfociare in programmi nazionali di successo, Infante, da sempre in quota Carroccio (ha sposato la prima miss Padania), è misteriosamente trattato dalla politica come il figlio della serva. Personalmente questo lo ritengo questo un atout. Ma continuo a non spiegarmi perché la Rai -che oramai ha programmi serali dal 2% di share- non abbia mai pensato a lui come risorsa per il prime time. Anche quando faceva l’unico programma di servizio pubblico per ragazzi, Generazione Giovani lo piazzavano ad ore antelucane. Infante, per me, nutre un’inesplicabile passione per i delittazzi; conosce le sentenze e i casi a memoria; gode quasi fisicamente nella frequentazione di criminologi come la Bruzzone o il colonnello Garofano. Inoltre, l’uomo ha fatto della battaglia contro i femminicidi e la violenza alle donne un punto d’onore; quando la rete gli ha chiesto quante ore dedicasse alle donne, lui ha risposto, sempre con garbo, “faccio prima a dire quanti minuti non gli dedico..”. Mi correggo. Infante mi ricorda sì un film di Hitchcock, dove però il protagonista non è Stewart, ma Luciano Rispoli…
Da adnkronos.com il 21 dicembre 2021. Archiviata l'indagine sulla scomparsa di Denise Pipitone, la bimba sparita nel nulla il primo settembre del 2004 da Mazara del Vallo, nel Trapanese, quando non aveva neppure quattro anni. Il gip di Marsala, che nelle scorse settimane si era riservata, ha accolto la richiesta avanzata dalla Procura. La nuova indagine aveva visto coinvolti Anna Corona, Giuseppe Della Chiave e due coniugi accusati di false dichiarazioni al pm. L'opposizione alla richiesta di archiviazione era stata presentata da Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, mamma di Denise, solo per Anna Corona, ex moglie del padre naturale della bambina.
Giu.Sca. per "il Messaggero" il 21 dicembre 2021. Il mistero dura da 17 anni. Nessuna indagine è riuscita a fare luce, a scoprire i responsabili del suo sequestro. E anche l'ultima inchiesta, ieri, è stata archiviata. Dal primo settembre del 2004 di Denise Pipitone non si sa nulla. Sparita. Della bambina di Mazara del Vallo, che non aveva ancora 4 anni quando è stata rapita, non si è riusciti a scoprire la verità. Le forze dell'ordine non sono state in grado di trovarla e restituirla ai genitori. Denise viveva con la mamma, Piera Maggio, e con Tony Pipitone, il padre che l'ha riconosciuta. In quel paese sperduto in provincia di Trapani, la cercarono ovunque. Si parlò del padre biologico di Denise, Piero Pulizzi, delle gelosie di Jessica, che di Denise è sorellastra. E fin da subito gli inquirenti si concentrarono sulla pista familiare. Jessica Pulizzi, anche lei minorenne, venne indagata per concorso in sequestro di persona insieme all'ex fidanzato Gaspare Ghaleb, processata ma infine venne assolta per insufficienza di prove.
L'ULTIMA INCHIESTA Un colpevole a tutti i costi, a prescindere dalla verità non serve a nessuno. Al sistema giudiziario, ai familiari della piccola Denise, all'opinione pubblica, «che da sempre segue con estremo interesse la drammatica vicenda di cronaca». È netto il gip di Marsala che in un provvedimento di 30 pagine spiega perché, accogliendo la richiesta della Procura, ha deciso di archiviare l'indagine sulla scomparsa della piccola Denise. Dopo l'assoluzione ormai definitiva della sorellastra erano stati iscritti nel registro degli indagati, in una nuova inchiesta avviata a maggio, la madre della ragazza Anna Corona, ex moglie del padre naturale della bambina, un ex testimone nel frattempo deceduto, Giuseppe Della Chiave, Paolo Erba e Antonella Allegrini che si erano inventati di sana pianta di essere a conoscenza di alcuni particolari sulla scomparsa di Denise. Dalle «indagini lunghe e incredibilmente vaste» della procura non sono emersi elementi sufficienti a sostenere un'accusa in giudizio, dice il gip che va oltre scrivendo «che non è dato neppure immaginare come potrebbe essere formulato dal pubblico ministero, anche sommariamente, un capo di imputazione nei confronti della Corona». «Ogni ipotesi accusatoria a suo carico - spiega - appare al momento assolutamente insuscettibile di essere vagliata in giudizio e, ancor meno, di condurre a una affermazione di responsabilità. Il caso è tornato all'attenzione dei media dopo la notizia data da una tv russa del ritrovamento della bambina, poi smentito dall'esame del dna».
FINTI TESTIMONI Da allora si sono susseguite false segnalazioni al legale della madre di Denise, testimoni inattendibili e le dichiarazioni di una ex pm, che indagò su Denise nel 2004, che avrebbe raccolto novità sulla vicenda e che ora si trova indagata per false informazioni al pm. Nell'archiviazione il giudice parla di «condizionamento e inquinamento probatorio che può derivare ed è derivato dalla trattazione mediatica del caso di cronaca e dei suoi risvolti giudiziari». Il riferimento è ai due falsi testimoni che hanno inventato di essere a conoscenza diretta di particolari sulla scomparsa della bambina che incastravano l'ex moglie del padre naturale e che invece, hanno dimostrato i pm, li avevano appresi dalla televisione. «Con tali considerazioni - prosegue il giudice - non si intende certo incoraggiare il silenzio o la reticenza di chi - anche col privilegio del dubbio - possa fornire informazioni di qualsiasi tipo potenzialmente utili alle indagini; al contrario: si ritiene fermamente che sia compito della magistratura vagliare con scrupolo qualsivoglia pista percorribile nella ricerca della verità, anche e soprattutto a distanza di così lungo tempo dai fatti, quando ogni appiglio investigativo appare meritevole di approfondimento». «Ma se nell'incoraggiare chi sa a parlare è un notevole contributo può derivare (laddove non sia sufficiente il senso civico), ed è nella specie derivato, proprio dalla diffusività dei media, deve tuttavia sottolinearsi come purtroppo, nel caso di specie, quello che la Procura ha definito il corto circuito mediatico/giudiziario che si è venuto a creare abbia anche ingenerato, molto pericolosamente, false piste e inutili speranze». L'archiviazione, però, ci tiene a sottolinearlo il gip «non significa abbandonare ogni speranza o concreta possibilità di far luce sull'andamento dei fatti. Anzi, come sottolineato dal pm è interesse della Procura, è interesse della magistratura nel suo insieme perseguire la verità e continuare a indagare laddove auspicabilmente emergano ulteriori elementi suscettibili di approfondimento per comprendere cosa sia accaduto Denise e perseguire penalmente i responsabili del suo sequestro».
Denise Pipitone, il gip di Marsala archivia l’indagine. Il Dubbio il 21 dicembre 2021. Il gip del tribunale di Marsala ha archiviato l'indagine sulla scomparsa di Denise Pipitone. La mamma Piera Maggio si era opposta alla richiesta della procura. Archiviata l’indagine sulla scomparsa di Denise Pipitone, la bimba sparita nel nulla il primo settembre del 2004 da Mazara del Vallo, nel Trapanese, quando non aveva neppure quattro anni. Il gip di Marsala, che nelle scorse settimane si era riservata, ha accolto la richiesta avanzata dalla Procura.
La nuova indagine aveva visto coinvolti Anna Corona, Giuseppe Della Chiave e due coniugi accusati di false dichiarazioni al pm. L’opposizione alla richiesta di archiviazione era stata presentata da Giacomo Frazzitta, legale di Piera Maggio, mamma di Denise, solo per Anna Corona, ex moglie del padre naturale della bambina.
«Compito del sistema giudiziario non è quello di trovare a tutti i costi un colpevole, a prescindere dalla verità degli accadimenti e dalla sostenibilità di un’accusa in giudizio, onde “attutire” in qualche misura l’immenso dolore delle persone offese e/o soddisfare il desiderio di giustizia e verità per Denise non solo insito naturalmente nelle persone offese, ma ormai “fatto proprio” dalla generalità dell’opinione pubblica, che da sempre segue con estremo interesse ed empatia la drammatica vicenda di cronaca». Lo scrive il gip di Marsala, Sara Quittino, che accogliendo la richiesta della Procura ha archiviato le nuove indagini sulla scomparsa di Denise Pipitone, sparita nel nulla, quando non aveva neppure quattro anni, da Mazara del Vallo il primo settembre del 2004.
Denise Pipitone, al via il processo alla ex pm Maria Angioni. Chiara Nava il 23/12/2021 su Notizie.it. Nella giornata di oggi si terrà a Marsala il processo che vede imputata l'ex pm Maria Angioni, con l'accusa di false informazioni a pubblico ministero.
Nella giornata di oggi si terrà a Marsala il processo che vede imputata l’ex pm Maria Angioni, con l’accusa di false informazioni a pubblico ministero, per quanto riguarda il caso di Denise Pipitone.
Inizia oggi, giovedì 23 dicembre, al tribunale di Marsala, la prima udienza del processo che vede imputata l’ex pm Maria Angioni, con l’accusa di false informazioni al pubblico ministero. Un caso che si inserisce nell’ambito dell’inchiesta bis per il sequestro della piccola Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo il primo settembre 2004. A quei tempi, Maria Angioni, che ora è giudice del lavoro a Sassari, era pm a Marsala e insieme al procuratore capo di Marsala, Antonino Silvio Sciuto, e al collega Luigi Boccia, era stata uno dei primi magistrati a coordinare le indagini sulla scomparsa della piccola.
Lo scorso 3 maggio, la dottoressa Angioni aveva parlato di tentativi di depistaggio e intralcio delle indagini, per questo è stata convocata dalla Procura di Marsala come “persona informata dei fatti“. Ai pm ha parlato di una rete di protezione intorno alla famiglia Pulizzi-Corona. Alcune sue dichiarazione non sono state riscontrate negli atti dell’inchiesta, per questo il 4 giugno è scattato un avviso di garanzia nei suoi confronti.
Denise Pipitone, processo ex pm Angioni: gli episodi contestati
In modo particolare, alla Angioni, sono stati contestati tre episodi. Il suo legale, Stefano Pellegrino, ha dichiarato che si tratta di “cattivi ricordi in buon fede“, dovuti semplicemente alla confusione dovuta alla complessità del caso e alla distanza di 17 anni dai fatti. Il 14 giugno scorso, in occasione di una puntata di Storie Italiane, l’ex pm aveva dichiarato di aver trovato Denise Pipitone. “Ho la certezza che Denise Pipitone sia viva e l’ho individuata.
Ha una figlia” aveva dichiarato. “Non è bello sentirmi dire davanti alla tv che Denise è mamma” aveva commentato Piera Maggio, ospite di Chi l’ha visto. L’ex pm aveva parlato di un “rapimento” in cui sarebbero coinvolti “due gruppi, i buoni e i cattivi“. Le sue dichiarazioni non avevano trovato un riscontro concreto.
“Non ho iniziato e portato avanti tutta questa cosa per perdere tempo, e sprecare importanti occasioni per ristabilire verità utili. Non ho certo paura. I PM di Marsala saranno sicuramente convinti delle buone ragioni dell’accusa, io d’altra parte ho il diritto non solo di difendermi, ma anche di portare ogni situazione problematica, nell’ambito dei fatti che mi sono stati contestati, davanti al giudice, in un processo pubblico. All’epoca delle indagini per il sequestro di Denise Pipitone ho incontrato tanti problemi, e ritengo che sia inutile e dannoso andare avanti nel tentativo di capire cosa avvenne alla bambina, se prima non si viene a capo di quei problemi” ha dichiarato Maria Angioni su Facebook.
"Denise Pipitone? Errori come per Davide Rossi, serve commissione". Francesco Curridori il 21 Dicembre 2021 su Il Giornale. Approvati in commissione Affari Costituzionali gli emendamenti che consentiranno la nascita di una commissione d'inchiesta sul caso di Denise Pipitone. Primi passi positivi verso la nascita di una commissione d'inchiesta sul caso di Denise Pipitone, la bambina siciliana scomparsa nel 2004. Per far luce sulla vicenda si è mobilitato un fronte trasversale che ha approvato i primi emendamenti in commissione Affari Costituzionali.
"L’obiettivo è stabilire se il lavoro fatto dagli inquirenti abbia considerato tutti gli elementi utili per riuscire a individuare coloro che hanno fatto sparire questa bambina. Non vogliamo sostituirci alla magistratura, ma valutare se ci sono stati atti fatti male o se alcune prove sono state considerate per il valore che avevano oppure no", ha detto a ilGiornale.it la deputata dem Alessia Morani, prima firmataria dell'iniziativa, fermamente convinta che la commissione potrà svolgere "un lavoro che avrà dei risvolti importanti". Annagrazia Calabria crede che "questa commissione può essere una porta attraverso cui iniziare ad affrontare seriamente questo dramma che, purtroppo, ha investito migliaia di famiglie italiane". La deputata forzista, infatti, si è posta il problema se, a fronte di 7mila minori scomparsi, uno ogni anno, non fosse il caso di estendere questa commissione a tutti i minori scomparsi nel nostro Paese. "Da genitore, me lo sono chiesto pensando anche ai tanti genitori di figli scomparsi che non hanno avuto l’onore delle cronache e che hanno vissuto il loro dolore nel silenzio", ha detto la Calabria. Il deputato leghista Igor Iezzi, ha spiegato che "visto e considerato che manca un anno alla scadenza della legislatura, aprire un’inchiesta sul fenomeno dei bimbi scomparsi rischiava di essere dispersivo e così ci siamo concentrati su Denise Pipitone che è un caso simbolo", molto simile a quello del capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena. "Per David Rossi è stata fatta una commissione che ha accertato che alcune testimonianze non erano state sentite e che c’erano state alcune interferenze sulla scena del crimine. La Commissione ha così avuto modo di mettere dei nuovi elementi a disposizione dei magistrati. Qui l’obiettivo è il medesimo", ha sottolineato il leghista Iezzi, intenzionato a far luce sulla vicenda di Denise, sopratutto dopo la recente archiviazione del caso. D'altronde anche i genitori della piccola, Piera Maggio e Pietro Pulizzi, sembrano non voler demordere: "Noi staremo ad attendere come sentinelle - hanno dichiarato all'Agi - cosa farà adesso la procura della Repubblica a cui gli atti sono ritornati anche perchè a me e Pietro il pm ha detto che non finirà di cercare la verità. Noi siamo qui ad attendere la loro promessa. Non molliamo".
Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono
· Il Caso di Marco Valerio Corini.
Tiziano Ivani per ilsecoloxix.it il 17 maggio 2021. Quindici anni di condanna a Marzia Corini e 4 anni a Giuliana Feliciani. Confiscati un milione e 200 mila euro. È la sentenza emessa dalla Corte d'Assise della Spezia nel processo sulla morte di Marco Valerio Corini, avvocato di vip e calciatori deceduto il 25 settembre 2015 nella sua casa di Ameglia. Il tribunale di primo grado ha stabilito che il legale, malato terminale di cancro, fu ucciso dalla sorella Marzia attraverso un dosaggio letale di un potente sedativo, il Midazolam. Movente: Procura e carabinieri hanno sempre sostenuto che la donna temesse di essere in qualche modo danneggiata nella spartizione dell'eredità. Il 25 settembre 2015 infatti non è una data qualunque: proprio quel giorno l'avvocato Corini aveva appuntamento con un notaio per ridiscutere il testamento. Marzia Corini, medico anestesista al servizio di diverse associazioni umanitarie in numerosi scenari di guerra, rispondeva di omicidio volontario, furto di medicinali (presi all'ospedale di Pisa e utilizzati per la sedazione) e uso di testamento falso. Al centro della vicenda c'è un ricco testamento (3 milioni di euro) ed è qui che entra in scena la figura di Giuliana Feliciani, avvocato del foro della Spezia, ed ex collega di studio di Marco Corini con il quale aveva avuto anche una relazione sentimentale. Rivendicava parte del denaro incassato dal collega per le difese patrocinate nel processo sul G8 di Genova. È stata condannata dalla Corte d'Assise (presidente Gianfranco Petralia, giudice a latere Fabrizio Garofalo) per circonvenzione d'incapace e uso di testamento falso: dal lascito spacciato per olografo, che non è stato scritto da Marco Corini ma dalla sorella Marzia e che è stato pure modificato dopo la morte del legale, ha incassato 200 mila euro. Per quanto riguarda l'omicidio, la tesi del pm Luca Monteverde si fondava su una intercettazione telefonica, del 21 gennaio 2016, in cui Marzia Corini confida a un'amica di aver anticipato la morte del fratello di uno o due mesi.
Tiziano Ivani per "La Stampa" il 18 maggio 2021. Quindici anni di carcere per aver anticipato la morte del fratello, gravemente malato, con una dose letale di un potente sedativo e averne pure falsificato il testamento, assegnandosi un milione di euro. La pena, nonostante fosse contestato un omicidio volontario pluriaggravato, è però relativamente contenuta perché i giudici hanno ritenuto un'attenuante il passato familiare di enorme sofferenza di Marzia Corini che nel 1985, mentre frequentava il secondo anno di Medicina, fu mandata via di casa perché omosessuale e il fratello fu complice di quella violenza. Ma non è tutto: è stata condannata a quattro anni di carcere anche Giuliana Feliciani, avvocato, ex collega di studio della vittima, che rispondeva di circonvenzione d'incapace e uso di testamento falso. La sentenza, emessa ieri dalla Corte d'Assise della Spezia, chiarisce uno dei gialli più complessi degli ultimi anni, quello della morte di Marco Valerio Corini, legale spezzino di vip, calciatori (tra i suoi clienti anche il portiere della Juventus Gianluigi Buffon) e dei vertici della polizia al processo G8, deceduto nella sua casa di Ameglia il 25 settembre 2015. In un primo momento tutti erano convinti che fosse morto a causa di un aggravamento improvviso della sua malattia, ma dopo mesi il pm Luca Monteverde e i carabinieri della sezione in Procura scoprirono che poteva trattarsi di un omicidio nato in un contesto di grande conflittualità familiare: prima della malattia, fratello e sorella non si erano parlati per quattordici anni. La Corte d'Assise (presidente Gianfranco Petralia, giudice a latere Fabrizio Garofalo) ha accolto in pieno la tesi del pubblico ministero: Marzia Corini, medico anestesista per alcune associazioni umanitarie impegnate in scenari di guerra, uccise il fratello con una dose letale di un potente sedativo, il Midazolam, che lei stessa ha confessato di aver rubato nell'ospedale di Pisa, per timore di essere in qualche modo danneggiata nella spartizione dell'eredità. Non è un caso che Corini morì proprio il 25 settembre 2015: quel giorno aveva fissato un appuntamento con un notaio per ridiscutere il testamento, ma non ci fu tempo. Il pm ha sempre sostenuto che Marzia - che aveva già falsificato il lascito del fratello, in tutto 3 milioni di euro, indicando tra i beneficiari anche Feliciani che s'era riavvicinata a Corini in modo sospetto - non volesse correre ulteriori rischi. Oltre al movente economico, però, è stato individuato pure quello umanitario: Marzia non ce la faceva più a vedere il fratello soffrire. La tesi dell'accusa si fonda su un'intercettazione telefonica, del 21 gennaio 2016, in cui Marzia, che non sapeva di essere indagata per sospetta falsificazione del testamento, confidò a un'amica di aver anticipato la morte del fratello: «Tu hai capito che se io non avessi sedato Marco quel giorno lui non sarebbe mai morto? Andava avanti forse un mese, due».
· Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.
Un libro fantasma svela le trame intuite da Pasolini. Luigi Mascheroni il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. Pochi lo conoscono e ancor meno lo hanno letto: è il libro-inchiesta "L'uragano Cefis". Ecco cosa c'è scritto. Dietro le trame politico-finanziarie che avvolgono gli anni '70, dietro l'affaire Mattei, dietro il romanzo-inchiesta Petrolio che Pier Paolo Pasolini iniziò a scrivere nel 1972 e ancora stava scrivendo quando fu ucciso nel novembre del '75 sul litorale di Ostia, così come dietro molte ricostruzioni giornalistiche e inchieste giudiziarie di quell'epoca vischiosa e ancora oggi a tratti oscura, c'è un libro misterioso. Inseguito da giornali e da pistaroli, citato da magistrati, ricordato dai critici e dai biografi di Pasolini, cercato da collezionisti e bibliofili. S'intitola L'uragano Cefis, fu scritto da un fantomatico Fabrizio De Masi (uno pseudonimo), con un'introduzione di un altro alias, tale Pier Crescenti, e fu pubblicato da una sigla editoriale sconosciuta, Egr, senza data, ma molto probabilmente agli inizi del '75. Si tratta di una biografia per nulla ufficiale di Eugenio Cefis, il protagonista della finanza italiana negli anni '60-70, Signore e padrone del petrolio, del gas e della chimica, una vita di potere e intrighi, a lungo al timone dell'Eni, poi alla testa di Montedison, uscito di scena nel '77, ritiratosi a vita privata in Svizzera e morto nel 2004 - non si conosce neppure il giorno esatto - senza che di lui si ricordi, né prima né durante né dopo la grande stagione del potere, una sola intervista o un'apparizione pubblica di rilievo. Bene. Quel libro, uno spietato capo d'accusa contro il grande burattinaio d'Italia, era una «storia dal vero» che svelava vita e misfatti di un «industriale privato allergico a scrupoli e remore: il maneggione irruente e villano, il padre naturale d'immobiliari e holding finanziarie pro domo sua, il meschino accomandante di società da casella postale nel Liechtenstein e nel Canton Ticino; l'evasore fiscale e lo spallone di valuta; il rivenditore al minuto e all'ingrosso del metano della fabbrica, il dinamico ma distratto manipolatore d'interesse privato in atti d'ufficio», come scrive l'ignoto autore della prefazione. In quel momento - metà anni '70 - un libro del genere poteva essere una bomba. Ma fu bloccato prima dell'uscita in libreria. Da chi e perché, è facile intuirlo. Probabilmente fu scritto solo per ricattare Cefis e, una volta ottenuto lo scopo, fatto sparire. Non si sa in quante copie fu stampato. L'uragano Cefis non è presente in alcuna biblioteca pubblica italiana. Pochissime le persone che lo hanno letto. Tra cui Riccardo Antoniani, italianista e studioso di Pasolini; il magistrato Vincenzo Calia, che come pm ha condotto la terza inchiesta sulla morte di Enrico Mattei; il giornalista Paolo Morando, autore del nuovo saggio Eugenio Cefis: Una storia italiana di potere e misteri (Laterza); il film maker Salvatore Diodato, che sta lavorando a un docufilm sulle morti intrecciate di Mattei, De Mauro e Pasolini; e l'editore Giovanni Giovannetti, il quale da una vita studia la materia e con la sua casa editrice di Pavia, Effigie, ha deciso di pubblicare finalmente, entro l'anno, questo libro fantasma. L'aspetto curioso della vicenda, uno dei tanti, è che tutti loro lo hanno letto su fotocopie (o fotografie) dell'unica copia superstite di cui si è a conoscenza. E cioè l'esemplare posseduto da Marcello Dell'Utri, uomo forse non a caso sia politico sia bibliofilo, conservata nella sua Biblioteca di Via Senato, a Milano. Ci siamo andati e abbiamo chiesto il libro. Eccolo finalmente, l'enigmatico e rarissimo L'uragano Cefis. Ottime condizioni, di fatto intonso. La cosa che più colpisce è che la sigla dell'editore (Egr) compare solo sulla costa: sia al piede della copertina sia all'interno è sbianchettata. E poi l'ultima pagina, il colophon: tagliata con cura, con un taglierino. Impossibile sapere da chi e quando è stato stampato. Finora L'uragano Cefis - che Dell'Utri possiede da una ventina d'anni, «ma a essere sinceri non mi ricordo da chi l'acquistai, mi sembra che me lo propose un giornalista d'Imperia...» - è uscito dal Palazzo di Via Senato una sola volta, nel marzo 2010, quando lo stesso Dell'Utri organizzò all'interno della «Mostra del libro antico» di quell'anno, alla Permanente di Milano, una piccola esposizione di fotografie e libri di Pasolini. L'uragano Cefis era esposto in una bacheca (sopra un'errata didascalia che ne attribuiva la curatela a Giovanni Raboni, Laura Betti e Francesca Sanvitale) ed era accanto a un altro volume misterioso, sebbene non così raro: Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente di Giorgio Steimetz (pseudonimo di Corrado Ragozzino, collaboratore di Graziano Verzotto, senatore democristiano e uomo di Mattei nonché tra le fonti di Mauro De Mauro) edito nel 1972 dalla Ami, cioè l'Agenzia Milano Informazioni finanziata dallo stesso Verzotto. Un pamphlet che svela il ruolo oscuro di Eugenio Cefis nella politica italiana e gli ambigui rapporti tra Stato e potenze occulte. Da notare che mentre L'uragano Cefis probabilmente non arrivò mai nelle mani di Pasolini, Questo è Cefis (ripubblicato proprio dalla Effigie di Giovanni Giovannetti nel 2010) fu a lungo sul tavolo da lavoro dello scrittore, il quale ne aveva avuto una copia dall'amico psicoanalista Elvio Fachinelli, direttore della rivista L'erba voglio che all'epoca promosse una violenta campagna contro Cefis... Comunque. Prima domanda, fra le tante. Dietro i due libri c'è la stessa mano? Probabilmente no (però curiosamente la grafica delle due copertine è simile). Rispetto a Questo è Cefis, più ironico e «narrativo», L'uragano Cefis è puntuale e ricco di informazioni: dati, cifre, nomi. Chi lo ha scritto ha spulciato con l'abilità di un commercialista tra documenti della Camera di commercio, bilanci, statuti, registri societari... Un lavoro - da questo punto di vista - eccellente. Che poi sia stato usato come arma di ricatto per estorcere soldi o altro a Cefis, è un dettaglio. Seconda domanda. Chi ha venduto i due libri a Dell'Utri è la stessa persona che, proprio nel 2010, gli mostrò il famoso capitolo fantasma di Petrolio «Lampi su Eni» (l'«Appunto 21») su cui eredi e parenti di Pasolini, critici, curatori e studiosi si accapigliano da anni? Sembra di no. Però la visita alla Biblioteca di via Senato ci ha permesso di chiedere a Marcello Dell'Utri - per tutti «il Dottore» - come andarono le cose. Ecco la risposta: «Una mattina, era il 2010, stavo per inaugurare un evento alla Biblioteca di via Senato. Io ero nel cortile del palazzo. Dentro c'erano i giornalisti e gli invitati, quando una persona mi saluta e mi dice che ha una cosa per me. Le carte originali di un capitolo mancante di Petrolio, Lampi su Eni. Mi mostra un fascicolo, lo sfoglia e io, più che vedere, intravedo dei fogli e la carta carbone... Gli dico che in quel momento non posso fermarmi con lui, di richiamarmi il giorno dopo, che sono curioso e la cosa mi interessa. Poi commetto l'ingenuità, subito dopo, di parlare di quei fogli in conferenza stampa, e di dire che li avrei esposti alla Mostra del Libro antico che ci sarebbe stata di lì a poco... A quel punto esplode il caso sui giornali e quella persona, spaventata, scompare... Oggi non saprei neppure dire se le carte erano vere o false». Terza domanda. Ma cosa c'è «dentro», L'uragano Cefis? Risposta: «La storia mediocre di un uomo mediocre», come strilla la quarta di copertina: «Un personaggio, il tutto, un bric-à-brac d'avventura e coraggio, d'iniziativa e profitto, di ambiguità e malafede. Un'indagine spietata del Sistema-Cefis. Un detector per chi crede ancora alla giustizia. Un signore o un ciarlatano? L'uno o l'altro? Questo libro non lascia adito a interrogativi inevasi. Per un giudizio quasi definitivo, in un processo a porte quasi spalancate, il dossier è completo». Il libro - che pure deve essere preso con le pinze, perché scritto a scopo ricattatorio - svela la storia, senza censure, del «Maxicefis», il «Montedisonman», il «Gran Maestro della Loggia petrolchimica». Si ricostruisce biografia, patrimonio, legami politici e finanziari di Cefis, «l'uomo più potente d'Italia, il tamburino (friulano) di Foro Bonaparte, il nocchiero finanziario della livida palude italica» raccontando - fra cifre, allusioni e piccoli squallori (un'amante) - la postazione dominante da cui Cefis «può razziare giornali, infestare partiti, condizionare opinioni, golpeggiare governi, insabbiare inchieste, addomesticare storici compromessi, ipotecare finanza e industria». Si dà conto dell'immensa fortuna che gli porta in dote la moglie, Marcella Righi, e delle successive speculazioni edilizie a Milano. Si narra l'incredibile scalata alla Montedison. E si fa la conta (nel capitolo «Il dumping della stampa e dell'editoria») dei soldi passati ai giornali attraverso prestiti o pubblicità per tenerseli buoni. Quello che colpisce l'anonimo autore del libro, e incuriosisce il lettore, è come Cefis abbia potuto fare tutto ciò, a tali livelli, tanto a lungo, e sempre restando impunito. Forse è vero: perché siamo in Italia. Mentre negli Usa e in Urss, pur su opposti versanti rispetto all'idea di democrazia, si conducono indagini, legali o meno, su chiunque sia designato ad alte cariche, «In Italia - si legge in L'uragano Cefis - si schedano le peripatetiche (forse) e gli scolari sottoposti all'immunizzazione con vaccini. Per questo oggi abbiamo il fenomeno da baraccone Cefis, goffo e allampanato manager, insospettabile e insospettato: perché nessuno a tempo debito ha osato avvicinarlo da presso».
Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 9 maggio 2021. Prima di cominciare qualche data per orientarsi in questa e nelle pagine seguenti. Enrico Mattei, ex capo partigiano, viene nominato liquidatore dell'Agip da Cesare Merzagora il 28 aprile 1945. L' Agip era l'ente statale per la produzione, lavorazione e distribuzione dei petroli. Mattei capisce le potenzialità dell'azienda, che diventa Eni. Il presidente è convinto che l'indipendenza nel campo dell'energia sia fondamentale per la rinascita dell'Italia. Inizia a muoversi molto: stringe affari con l'Unione Sovietica, spiazza le multinazionali offrendo contratti vantaggiosi ai fornitori mediorientali, prende accordi con le forze anticolonialiste in Algeria, pesta i piedi un po' a tutti, rompendo equilibri industriali che avevano resistito anche al Fascismo. Mattei ama la disciplina militare e si circonda di ex partigiani. In particolare chiama Eugenio Cefis, abile imprenditore. Mattei è dappertutto, Cefis lavora nel riserbo più totale. Dopo la morte di Mattei, e il regno di passaggio di Raffaele Girotti, Cefis diventa il successore di Mattei. Poi, il colpo di scena. Cefis si dimette e scala, con i soldi pubblici, la più grande azienda privata italiana: nasce Montedison. Altro colpo di scena: Cefis si ritira giovane e ricco, senza motivo apparente, nel 1977. Il caso Mattei finisce nel mirino di giornalisti e giudici: non incidente aereo ma omicidio. L' aereo caduto a Bascapè era stato manomesso. A chi giova la morte di Mattei? A Cefis, dicono in molti. E qui inizia la leggenda nera di Cefis. La vicenda è insabbiata, Mattei aveva troppi nemici. E chiunque provi a tirarla fuori finisce molto male: tocca morire prima a Mauro De Mauro e poi a Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo (uscito postumo) Petrolio non si accontentava di dire io so. Questa volta voleva tirare fuori anche i nomi. Il primo della lista, avrete capito, è Eugenio Cefis. Intorno alla scrivania di Pasolini ci sono giri di carte tutti da chiarire. Fatto sta che lo scrittore vorrebbe inserire a metà romanzo gli interventi pubblici di Cefis, a suo dire eversivi. In particolare, Pasolini è colpito dal discorso tenuto all' Accademia militare di Modena, dove Cefis profetizza la fine dello Stato tradizionale, superato dal potere delle multinazionali. Anche l' esercito dovrà cambiare, in vista di questa trasformazione in senso globale dell' economia e della politica. Cefis è sospettato di tutto: aver fondato la loggia P2, aver designato come successore Licio Gelli, aver complottato contro lo Stato, essere il mandante occulto dell' omicidio Mattei, aver avallato il sistema delle tangenti, aver fatto l' imprenditore privato con i soldi pubblici, aver deviato i servizi per essere sempre al corrente di cosa accade, aver foraggiato la stampa, tutta quanta o quasi, compreso il giornale che stringete tra le mani, essersi arricchito personalmente in modi poco chiari. Secondo i complottisti, chi indaga su Cefis, come il giornalista Mauro De Mauro e lo scrittore Pier Paolo Pasolini, muore. Forse i nemici provano a ricattare Cefis con libri-calunnia come Questo è Cefis di Steimetz e Uragano Cefis: saggi diffamatori, scritti da autori fantasma, stampati in poche copie, forse ritirate dal commercio da Cefis stesso. Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (Laterza) di Paolo Morando ridimensiona la leggenda nera e lancia spunti o tracce da seguire.
Primo. La misteriosa origine delle ricchezze non è misteriosa: Cefis è diventato imprenditore con i soldi della ricchissima moglie.
Secondo. Le misteriose vicende del Cefis partigiano non sono misteriose: sono state raccontate sia nella memorialistica sia da Cefis in piccole pubblicazioni. Non era un doppiogiochista e nemmeno un agente, anche se era il terminale di molti informatori, visto il suo ruolo di capo.
Terzo. Un appunto dei servizi indica in Cefis il fondatore della P2. Si tratta dell'allegato a un appunto da vagliare al fine di vergare la vera e propria nota informativa. Ovvero: siamo al fondo del pozzo delle informazioni riservate. Attendibilità scarsa.
Quarto. Il rapporto con Mattei. Era ottimo, di reciproca ammirazione. Difficile dire se alla fine, quando Cefis si ritirò per qualche tempo prima di rientrare in Eni da presidente, i due avessero litigato.
Quinto. Il discorso di Modena, lungi dall' essere eversivo, è una previsione esatta della globalizzazione. Il testo non fu scritto da Cefis. L' ispiratore e forse in parte estensore fu Gianfranco Miglio. Sesto. Cefis si ritirò perché era stufo delle ingerenze della politica nei suoi piani industriali. Temeva che il conto del sistema delle mazzette, al quale non poteva sottrarsi, sarebbe arrivato a lui. Per questo trattò una uscita senza clamori in cambio di protezione dalle inchieste. Il finale del saggio, davvero ben fatto, rilancia la pista francese ma lasciamo al lettore scoprire in che modo.
C' è un'ultima cosa da segnalare. Tra i vari brandelli di complottismo più o meno smontati da Morando, è incredibile la storia sulla morte del cantautore Rino Gaetano, che nasce da un libro dell'avvocato Bruno Mautone, Chi ha ucciso Rino Gaetano? Sotto esame il brano Berta filava. Eccone alcuni versi: «E Berta filava / E filava con Mario / E filava con Gino / E nasceva il bambino che non era di Mario / E non era di Gino». Berta sarebbe il generale Robert E. Gross, fondatore della Lockheed, azienda costruttrice di aerei che distribuì mazzette a politici e alti gradi militari. Mario sarebbe Mario Tanassi, Gino invece sarebbe Luigi Gui: entrambi ministri della Difesa finiti davanti ai giudici. Il bambino sono le tangenti. «Il santo vestito d' amianto» che sembra benedire l'operazione sarebbe Cefis. Non è finita qui. Nello stesso disco di Berta filava c' è un'altra canzone criptica intitolata La zappa, il tridente, il rastrello. Il testo fa riferimento a giocatori di bridge in una mansarda di via Condotti a Roma. Luogo dove si incontravano gli iscritti alla P2. Ci permettiamo (io e il collega Matteo Sacchi) di aggiungere che nella stessa canzone, uscita nel 1976 pochi mesi dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, si dice: «Giovane e bello divo e poeta / con un principio d' intossicazione aziendale». Stai a vedere che Gaetano cita Pasolini e il motivo della sua morte... Rino muore il 2 giugno 1981 alle sei di mattina, in seguito a un grave incidente stradale. Molti ospedali di Roma lo rifiutano per mancanza di letti. Quando arriva al Gemelli è troppo tardi.
Giorgio Boatti per “Domani” il 7 maggio 2021. Se scrivere una biografia è dare un ordine, e magari trovare un senso, all'accadere delle cose dentro una vita, Paolo Morando, col suo libro, ci è riuscito alla grande. Con uno scrupolo documentario e un rigore d'esattezza esemplari. Però, trattandosi di Cefis, la faccenda si complica. La sfida si alza. E di parecchio. Poiché Cefis non è stato solo uno degli uomini più potenti, più temuti, più discussi, della seconda metà del Novecento italiano. Cefis è stato, anzi, continua a essere, nel nostro paese, una leggenda inquietante. Inchieste giudiziarie e investigazioni giornalistiche, libri e libelli e saggi, voci e illazioni. Un'immensa e composita costruzione narrativa, in corso da tempo e mai interrotta, ne ha filato e tessuto la leggenda minacciosa. Morando ne espone l'accurato repertorio. Qui, tanto per ricordare, alcuni esempi. Cominciando dal bestseller del 1974 Razza padrona diventato, dirà poi Cefis, il «Manuale degli imprenditori privati spinti alla riscossa contro l'industria di stato» dagli autori, Turani e Scalfari. Uno Scalfari, aggiungerà Cefis anni dopo, che operava «non per ragioni ideali o di principio ma perché la Fiat era per lui una miniera d'oro inesauribile». Prima di Razza padrona era arrivato Questo è Cefis di Giorgio Steimetz (nome di copertura del vero autore) edito dall'agenzia giornalistica Ami esclusivamente per spillare quattrini a Cefis. Proprio quando stava in mezzo al guado, nel salto dall'Eni alla Montedison. Altro libro avvelenato L'assassinio di Enrico Mattei di Fulvio Bellini e Alessandro Previdi. Qui, ovviamente, sul delitto si fa aleggiare l'identikit di un mandante. Assai somigliante a Cefis. Anni dopo uno degli autori ammetterà che il libro nasce su input molto concreto di Giorgio Valerio, il patriarca dell'archeocapitalismo milanese messo in croce dalla scalata di Cefis. Altre volte è il giornalista neofascista Giorgio Pisanò che bussa a quattrini, facendo soffiare aria di reportage e scoop. Sedati da generosi interventi. Nello stendere coraggiosamente il catalogo di questa leggenda Morando fa emergere la patologica fisiologia di un giornalismo che, spesso, va oltre ogni spregiudicatezza deontologica. Da questa fabbrica informativa esce alla fine la leggenda. E la leggenda produce l'avatar di un Cefis incarnazione e origine di buona parte dei mali che hanno azzoppato l'Italia. Che ci hanno guastato. Guastato chi e cosa? A quanto pare hanno guastato quel paese che prima era puro e autentico. Abitato da un popolo che, senza i Cefis e quelli come lui, aveva genuinità di pensieri e freschezza di gesti quotidiani. E semplicità di luoghi. Dove, dal buio di notti serene, sarebbero spuntate ancora le lucciole. Le lucciole, appunto. Pasolini, nell'articolo sulle lucciole apparso sul Corriere della Sera nel febbraio del 1975, ha in mente proprio il Cefis, presidente della Montedison, quando evoca quel «potere reale» contro il quale si scaglia. Un articolo che si conclude così: «Sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola».
La leggenda nera. Quando Pasolini scrive l'articolo è, da tempo, alle prese con Petrolio. Lavora al canovaccio di romanzo nel quale vuole raffigurare e trafiggere il nuovo «potere reale» che a suo parere sta imponendosi sull'Italia. Al centro della sua narrazione c'è un personaggio che esplicitamente fa riferimento a Cefis. Tratteggiato attingendo alla leggenda alla quale si è appena fatto riferimento. È un Cefis che, tra l'altro, sta mettendo le mani sul Corriere sul quale scrive Pasolini. Infatti tra poco aprirà ingenti fideiussioni (per 9 miliardi di lire) alla cordata rizzoliana-piduista prossima a sbarcare in via Solferino. Un Cefis dunque quanto mai adeguato a indossare la leggenda che gli viene cucita addosso. E che gli sta attribuendo sempre più inquietanti connotazioni. Su questa narrazione incombe soprattutto il copione quasi shakespeariano, del come e perché Mattei si sia insediato al vertice dell'Eni. Dopo l'incidente aereo, nell'autunno del 1962, che ha fatto fuori Mattei, il fondatore dell'ente petrolifero di stato. Una tragica uscita di scena che vede Cefis lontano. Da pochi mesi, spiazzando tutti, ha rotto il sodalizio con Mattei. Del quale è stato il braccio destro, l'artefice delle missioni più riservate. Un sodalizio sorto sin dall'immediato dopoguerra. Dopo che lui e Mattei si sono conosciuti, e apprezzati, nel vivo della lotta partigiana. Dove Cefis, operando in Valdossola, opera in stretta sinergia con l'intelligence anglo-americana che sta a ridosso del confine italo-svizzero. L'ipotesi che la leggenda diffonde è che Cefis, formatosi all'Accademia militare e perfezionatosi in ruoli attigui al servizio informazioni dell'esercito, pur dismessa la divisa continui a essere quel che è sempre stato. Non tanto un militare di mestiere quanto un professionista dell'intelligence. Dislocato sullo scacchiere economico e politico italiano. Di certo ovunque Cefis pianti il suo bastone di comando sboccia nei dintorni la sua rete informativa. La mano felpata delle sue operazioni speciali. Delle sue guerre silenziose. Informazioni capaci di condizionare, intimidire, corrompere. Segreti pescati calando le reti dei dossieraggi e delle intercettazioni telefoniche. Mettendo all'opera gente di fiducia dentro servizi segreti e polizie parallele. Senza rinunciare ovviamente a investigatori privati, Tom Ponzi, per esempio, pagati direttamente con i fondi aziendali.
Giochi di guerra. È un flusso mai interrotto di rivelazioni sospeso sul destino degli avversari. È la continua pianificazione di giochi di guerra calati in un conflitto sommerso. In palio ha il potere. Scontri da condurre in silenzio e con la massima riservatezza. Così – nel libro di Morando non mancano certo gli esempi – Cefis cerca di sottomettere la politica. Piegare le istituzioni. Indurre alla resa chiunque pensi di resistere alle sue scalate. In questa biografia è ricostruita dunque, con molti dettagli, la disinibita attitudine di Cefis a presidiare con le spregiudicate modalità della sua formazione militar-spionistica ogni crocicchio politico-economico-affaristico cruciale per la sua ascesa. Ma il valore aggiunto del libro di Morando non sta solo qui. Consiste nella lucida analisi del sorgere, irrobustirsi e ramificarsi della leggenda nera cucita attorno a Cefis. Qui Morando dà veramente il meglio del suo lavoro perché stende ogni tassello di questa ammorbata architettura narrativa sul tavolo anatomico. Ne viviseziona le fibre, i flussi, le metabolizzazioni. Cose che ancora oggi permangono nelle ricostruzioni di pagine cruciali di storia nazionale. Questa analisi implica anche chinarsi sul lavoro di mostri sacri, come Pasolini. E dimostrare come quei testi, quei bagliori di «verità occultate», che appaiono in Petrolio, e poi vengono ripresi da ulteriori epigoni convinti di possedere la chiave interpretativa di ogni male italiano, fuoriescano da pessime fonti. Anzi, peggio. Sono spesso il prodotto di una fabbrica di disinformazioni, di ricatti, di illazioni su vicende «indicibili» e «misteri insolubili». Elaborati da quella editoria del ricatto sulla quale Morando si sofferma con coraggio e acutezza. Leggendo Morando si apprende, sorprendentemente, come Cefis, sempre parco di interviste, e assai poco loquace, in varie fasi della sua vita abbia dedicato ore e ore per ricostruire in dettaglio i passi della sua complicata biografia. Lo ha fatto rispondendo a sollecitazioni di storici magari non noti ma rigorosi nell'adesione ai fatti. Con loro è disposto, per giorni e giorni, a rievocare pagine della sua vita. A partire dalla Resistenza sino alle brucianti “guerre” petrolifere e chimiche, con annesse ripercussioni politiche, dei decenni successivi. Lo fa, quando ormai ha lasciato ogni carica, con Giuseppe Locorotondo, dell'Ufficio storico dell'Eni. E, stessa cosa avviene con Marino Viganò, appartato e puntiglioso storico di Varese, col quale, in quasi cento pagine di testimonianza, ricostruisce i suoi esordi, dall'Accademia militare alla Resistenza sino al legame con Mattei. Forse è proprio Viganò a fornire la chiave di volta per apprezzare il valore dirompente della biografia che Morando dedica a Cefis. Ci riesce con lapidaria chiarezza quando, commentando la leggenda nera sorta attorno a tante vicende, ricorda quello tutti dovremmo rammentare. I misteri non ci sono. Anzi,non dovrebbero esserci. Perché «dietro ogni mistero c'è solo una pessima ricerca».
Giuseppe Pollicelli per "la Verità" il 29 aprile 2021. «Escludo, conoscendolo, che Pasolini lo abbia minacciato o abbia voluto penetrarlo con un bastone. È probabile invece che abbia riso su quel falso pudore del ragazzo per provocare in lui una reazione e suscitare quella lotta giocosa che era la sua preferita. Proprio per farsi picchiare, come scrive con molta sincerità nel suo ultimo romanzo, Petrolio. Non certo per farsi ammazzare. Ma Pelosi non sa scherzare, Pelosi ha una idea melodrammatica della sua mascolinità (su cui evidentemente aveva dei dubbi infantili) e poi soffre di rabbie che lo stravolgono e lo lasciano spossato e incredulo. Perciò ha agito con ferocia». «Noi amici non abbiamo mai creduto alla versione di Pelosi, lo abbiamo detto e manifestato da subito». Si fa fatica a crederlo, ma le due citazioni sopra riportate appartengono alla medesima persona: Dacia Maraini, amica personale di Pier Paolo Pasolini ed ex compagna del romanziere Alberto Moravia, che di Pasolini fu intimo. Le riflessioni iniziali provengono da una nota introduttiva che la Maraini firmò nel 1995 per il libro Io, Angelo Nero, un' autobiografia-confessione che Pino Pelosi iniziò a scrivere nel 1978 (quando era in carcere poiché condannato, quale unico e volontario esecutore, per l' omicidio di Pasolini avvenuto il 2 novembre 1975 all' Idroscalo di Ostia, sentenza resa definitiva dalla Cassazione nel 1979) e che fu pubblicata da una piccola editrice romana curiosamente specializzata in titoli per ragazzi, la Sinnos. La seconda, lapidaria affermazione è invece tratta da un'intervista che la scrittrice siciliana ha concesso l'altroieri alla giornalista Maria Berlinguer del quotidiano La Stampa. Chi conosca un po' le tortuose pieghe del caso Pasolini, in realtà, sa perfettamente che Dacia Maraini fu inizialmente sicurissima, come del resto lo stesso Moravia, come Elsa Morante, come Dario Bellezza e altri intellettuali della cerchia pasoliniana, della colpevolezza di Pelosi. Di certo lo è stata almeno fino al 2005, quando Pelosi, ospite (pagato: 6.500 euro netti) di una trasmissione della Rai condotta da Franca Leosini, ritrattò la versione dei fatti che aveva sostenuto per trent' anni, ossia di avere ecceduto nella legittima difesa per respingere una violenza sessuale che Pasolini avrebbe provato a infliggergli, per proporne una nuova, peraltro arricchitasi col tempo (anche grazie al contributo di vari «pasolinologi») di dettagli sempre meno verosimili; versione che lo vede vittima a sua volta di non meglio precisati picchiatori i quali, dopo aver massacrato di botte il poeta, lo avrebbero assassinato investendolo e costringendo poi Pelosi ad accollarsi la responsabilità del delitto dietro la minaccia di rivalersi su di lui e sui suoi genitori. Questa «rivelazione», perfezionata (o meglio, ulteriormente pasticciata) da Pelosi in un successivo libro del 2011, Io so come hanno ucciso Pasolini, scritto dal regista Federico Bruno e dall' avvocato Alessandro Olivieri più che da Pino, ha evidentemente indotto Dacia Maraini a seguire le orme di Bellezza (che cambiò idea poco tempo prima di morire prematuramente nel 1996) e a rivedere le proprie convinzioni. Ma un conto è dire «Ci ho ripensato», un altro affermare, in barba a numerose dichiarazioni di segno opposto, tra cui quella da noi ripresa, di non avere «mai creduto alla versione di Pelosi». Questa stridente contraddizione, inoltre, non è l'unico problema dell'intervista pubblicata sulla Stampa, in cui Dacia ha purtroppo inanellato una discreta sfilza di sfondoni. Intanto, nel chiedere l' apertura di una nuova inchiesta, sembra ignorare che il caso Pasolini è stato già riaperto tre volte, l' ultima delle quali nel 2010 per un' indagine che si è conclusa con l' archiviazione (al pari delle precedenti due) ben sei anni dopo, nel 2015, e nel corso della quale sono tra l' altro stati messi a confronto, senza esito, i Dna di ignoti estratti da alcuni reperti del delitto con quelli di un gran numero di individui a vario titolo sospettati di un coinvolgimento, da Giuseppe Mastini alias Johnny lo Zingaro ai due fratelli Borsellino. Poi la Maraini afferma che tra le ipotesi in ballo (e non è vero, non è mai stata avanzata da nessuno) vi è che l'uccisore di Pasolini possa essere stato il padre di Pelosi, da lei definito «pregiudicato che entrava e usciva di prigione» (falsissimo: faceva il commesso in un negozio di lampadari e non risulta avesse precedenti penali). Quindi, riferendosi all' incompiuto e postumo romanzo Petrolio, parla di «capitoli di un libro» a cui Pasolini stava lavorando che sarebbero «stati rubati». Ma a parte il fatto che il capitolo sarebbe semmai uno soltanto, l'Appunto numero 21, la circostanza di questo furto non solo non ha trovato mai il benché minimo riscontro, ma è stata più volte smentita da Graziella Chiarcossi, cugina di Pasolini nonché sua erede e a lungo custode delle sue carte. Ancora, non è corretto dire, come fa la Maraini, che attraverso Petrolio Pasolini stesse svolgendo «un'indagine sullo stragismo e i possibili legami con la morte di Enrico Mattei». Non era questa la finalità del romanzo, che pure si occupa della scomparsa di Mattei e della strategia della tensione, e le fonti dello scrittore, come ha inoppugnabilmente documentato la filologa Silvia De Laude nelle accurate note all' edizione tascabile di Petrolio pubblicata da Mondadori, erano tutte pubbliche e ben identificabili (essenzialmente numeri dell'Espresso del periodo 1974-1975). Come se non bastasse, a conclusione della chiacchierata, Dacia riesce anche a confondere la trama del primo film di Pasolini, Accattone, con quella del secondo, Mamma Roma. In una corrispondenza del settembre 1975 con il terrorista nero Giovanni Ventura, Pasolini scrisse che «la verità ha un suono speciale, e non ha bisogno di essere né intelligente né sovrabbondante». Ecco, se rispetto alla tragica fine di Pasolini si procedesse un po' più in sottrazione, evitando di contribuire a inquinare acque già di per sé abbastanza torbide, forse quel «suono speciale» avrebbe qualche possibilità in più di essere udito.
Dacia Maraini: "Riaprite l'inchiesta sulla morte di Pasolini. A qualcuno fa comodo che resti un enigma". Stefania Parmeggiani su La Repubblica il 26 aprile 2021. La scrittrice, ospite del festival "La via dei librai" di Palermo, torna sull'omicidio dell'intellettuale per chiedere che si faccia chiarezza con gli strumenti oggi a disposizione. "L'inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini va riaperta. Adesso ci sono strumenti tecnologici avanzati, rispetto a 50 anni fa. Si potrebbero ingrandire segni anche molto piccoli, o macchie di sangue non viste. Perché certamente non è stato Pelosi a uccidere Pier Paolo ma un gruppo di persone, questo sembra certo. Ma chi erano non lo sappiamo. Evidentemente fa comodo che la morte di Pasolini rimanga un enigma, un enigma storico...". La scrittrice Dacia Maraini chiede la riapertura delle indagini sull'omicidio dell'intellettuale, massacrato di botte e travolto più volte dalla sua stessa auto in una squallida piazzetta dell'Idroscalo di Ostia nella notte tra l'1 e il 2 novembre 1975. Maraini, che era amica di Pasolini e ha sempre sollevato dubbi sull'inchiesta, lo ha detto durante il festival "La Via dei Librai" di Palermo, intervistata dalla giornalista dell'Adnkronos Elvira Terranova. "Si potrebbero ingrandire, ad esempio, le tracce ematiche - spiega Dacia Maraini - e ricavarne il Dna, tanto è vero che la macchia è sempre lì". E ricorda: "Non sono state distrutte le prove, ma evidentemente fa comodo che questa morte rimanga un mistero...". "Mancano alcune prove - spiega ancora - Se si fosse fatta all'epoca una vera indagine approfondita probabilmente sarebbe venuto fuori dell'altro. Ma visto che all'epoca Pino Pelosi si addossò tutta la colpa si sono fermati là". Pelosi, morto nel 2017 a 59 anni per un tumore, uno dei tanti "ragazzi di vita" consumati dalla strada, divisi tra microcriminalità e prostituzione maschile, era stato fermato la notte dell'omicidio sul lungomare mentre guidava contromano l'Alfa Giulia di Pasolini e accusato inizialmente solo di furto. Quando accanto al corpo della vittima fu ritrovato un grosso anello di Pelosi, dono di Johnny lo Zingaro, il quadro rapidamente cambiò. Pelosi parlò di un incontro a sfondo sessuale degenerato in una lite. Per difendersi avrebbe colpito l'intellettuale con l'insegna di via dell'Idroscalo e sarebbe fuggito a bordo della sua auto. Pasolini sarebbe stato quindi travolto per un incidente, la sua morte come conseguenza tragica di una nottata sordida. Sul luogo del delitto non ci sarebbe stato nessun altro. Una versione che non convinse mai del tutto: possibile che Pelosi non fosse solo? Che le ragioni fossero ben più complesse? Anni Settanta, Pasolini intellettuale scomodo. I suoi attacchi alla Dc, accusata di contiguità con il fascismo, il caso Enrico Mattei, la sua ostinazione nel credere che dietro quella morte vi fossero i servizi segreti italiani e americani, l'ombra delle "sette sorelle", le sue critiche anche alla sinistra, ai "figli di papà" del '68, la diffidenza del Partito comunista, che lo aveva anche espulso perchè omosessuale, la pila di denunce per i suoi libri e i suoi articoli. Tutto questo, da subito, spinse parte dell'opinione pubblica a parlare di omicidio politico. Lo dissero ad alta voce gli amici, come Laura Betti, giornalisti e intellettuali. Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini La Maraini andò in carcere a trovare Pelosi e incontrò un uomo travolto dalle circostanze, dall'epoca, da chi lo ricattava. Non gli credette: troppe contraddizioni nei suoi interrogatori. E poi c'erano le testimonianze di chi viveva nelle baracche di Ostia, quel corpo massacrato che sembrava gridare un'altra storia. Erano in molti a pensarla come lei, ma la verità processuale fu quella del tragico epilogo di una questione tra omosessuali, Pasolini che cercava la morte ogni sua notte di "vita", infine trovandola per mano di un diciassettenne che sembrava uscito direttamente dai suoi romanzi. Quando Pelosi tornò in libertà iniziò a parlare. Nel 2005 andò in tv e rilasciò interviste in cui si dichiarava innocente, accusò una banda dall'accento siciliano che aveva malmentato anche lui paralizzandolo di terrore. Si sollevarono nuovi interrogativi, si ritornò alla vecchia ipotesi investigativa che coinvolgeva i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, siciliani noti nel mondo della malavita con i nomignoli di "Braciola" e "Bracioletta", dediti al traffico di stupefacenti e militanti nell'Msi, poi morti negli anni Novanta. Di nuovo l'ombra degli Anni Settanta. Di nuovo Pasolini come intellettuale scomodo. Il caso fu riaperto, ma per poco. E anche quando Pelosi scrisse la sua biografia, nel 2011, in cui sosteneva di essersi fatto il carcere per timore di venire ucciso, lui o i suoi genitori, nessuno gli credette veramente. Era stato pagato per andare in televisione, accusava persone nel frattempo morte, diceva e non diceva... Per tutti ormai era solo un bugiardo. Quando morì sembrò che con lui venisse sepolta per sempre anche la speranza di sapere la verità. Ora Maraini chiede di non arrendersi, forse c'è qualcosa ancora da fare per sapere cosa sia accaduto veramente quella notte all'Idroscalo di Ostia. "Quando in un processo si dice che c'è un colpevole che si autoaccusa non si va oltre - ha detto la scrittrice - ma se fossero andati avanti qualcosa sarebbe venuto fuori. E anche adesso, se solo si approfondisse, emergerebbero altri particolari. Ne sono certa, anche se è difficile".
Da lastampa.it il 26 aprile 2021. «L'inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini va riaperta». A chiederlo è Dacia Maraini, scrittrice e grande amica dell'intellettuale trovato senza vita la notte tra l'1 e il 2 novembre del 1975 sul litorale di Ostia. Intervistata nell'ambito de «La Via dei Librai», il Festival del libro di Palermo, dice: «Oggi a disposizione delle indagini ci sono strumenti tecnologici avanzati rispetto a 50 anni fa: si potrebbero ingrandire segni anche molto piccoli, o macchie di sangue non viste. Perché certamente non è stato Pelosi a uccidere Pier Paolo, ma un gruppo di persone, e questo sembra certo». La Maraini sostiene che «evidentemente fa comodo che la morte di Pasolini rimanga un enigma, un enigma storico». Ma - ricorda – «mancano alcune prove» rispetto a quanto concluso dall’inchiesta: «Se si fosse fatta all'epoca una vera indagine approfondita probabilmente sarebbe venuto fuori dell'altro». Gli inquirenti, invece, «si sono fermati là perché Pino Pelosi si addossò tutta la colpa, e quando in un processo si dice che c'è un colpevole che si autoaccusa non si va oltre». Il corpo di Pier Paolo Pasolini fu trovato la mattina del 2 novembre di 46 anni fa da una donna che vide un uomo completamente sfigurato e maciullato nel volto e nel corpo, disteso poco lontano da una baracca. Solo dopo l'arrivo della polizia venne accertato che quel corpo martoriato apparteneva a Pier Paolo Pasolini, uno dei più importanti intellettuali italiani. Ad essere accusato, in prima istanza, fu un ragazzo di appena 17 anni, Pino Pelosi. Il giovane confessò di aver ucciso Pasolini perché, raccontò, lo scrittore sarebbe stato intenzionato a praticare un rapporto sessuale non consensuale. «Trent'anni dopo l'omicidio – dice ancora Dacia Maraini – Pelosi ritrattò tutto e accusò altre persone. Noi lo pensavamo, lo abbiamo sempre pensato, perché non era possibile che fosse stata una sola persona a ridurlo in quel modo. Ma poi Pelosi è morto e non si è più saputo altro. Io chiesi, insieme con Walter Veltroni, di riaprire l'inchiesta, ma non è stato fatto. Ma ora chiedo ancora una volta che si faccia luce su questo che rischia di restare uno di quei misteri italiani che non si riesce a chiarire». E racconta: «Pasolini non è stato ucciso con un colpo di pistola, ma a colpi di legno sulla testa, eppure Pelosi, quando fu arrestato, non aveva una sola goccia di sangue addosso. E nemmeno segni di una battaglia, di un corpo a corpo, che evidentemente c'era stato». Secondo la scrittrice, «si può immaginare che Pelosi si sia preso la colpa da solo perché era ancora minorenne e si voleva coprire qualcun altro. Qualcuno dice che c'era di mezzo il padre, altri dicono che era una cosa politica, altri ancora che era successo per via di quel processo per la questione del petrolio, del rapporto con l'Africa...». La ricostruzione di Pino Pelosi fu lacunosa fin dai primi istanti. Avrebbe prima ferito Pasolini per legittima difesa con una mazza ritrovata nell'auto, per poi investirlo fino a ucciderlo. In primo grado fu condannato per omicidio volontario in concorso con ignoti. Ma non si è mai saputo che fossero gli «ignoti». Poi, nel 2005, il colpo di scena. Pelosi ritrattò a trent'anni dalla morte di Pasolini. E disse che quella sera non era da solo. Cosa già nota dalla sentenza. Ma la novità era che con il giovane Pelosi non ci fosse una banda di ragazzini, ma uomini «dall'accento siciliano» non ben identificati, a bordo di un'auto targata Catania. Ma le sue dichiarazioni sono state ritenute fallaci. Nel 2017 Pelosi è morto nel luglio del 2017 per un tumore ad appena 59 anni. E il mistero rimane.
Maria Berlinguer per "la Stampa" il 27 aprile 2021. «Speriamo che la morte di Pasolini non resti uno dei misteri italiani come piazza Fontana o la strage di Bologna, purtroppo abbiamo una triste tradizione di colpevoli senza mandanti». Dacia Maraini, scrittrice da milioni di copie, amica intima con Alberto Moravia di Pierpaolo Pasolini, con il quale ha condiviso la casa delle vacanze a Sabaudia, i viaggi e anche una fruttuosa collaborazione artistica, torna a chiedere che vengano riaperte le indagini sull' omicidio di uno degli intellettuali maggiori del dopoguerra, barbaramente ammazzato all' Idroscalo di Ostia 46 anni fa. Il caso fu chiuso rapidamente per la confessione di Pino Pelosi, allora 17enne, ma a distanza di quasi mezzo secolo, e a 4 anni dalla sua morte, i tanti i dubbi non si sono affatto diradati. E non solo perché Pelosi, una volta scarcerato, nel 2005, aveva ritrattato.
Ha senso dopo quasi 50 anni riaprire le indagini?
«Oggi abbiamo strumenti tecnologici molto avanzati e si potrebbero ingrandire segni anche molto piccoli o macchie di sangue non viste, allora. Ci sono degli interrogativi che sono rimasti in sospeso da anni, dal giorno della morte. Noi amici non abbiamo mai creduto alla versione di Pelosi, lo abbiamo detto e manifestato da subito. Poi è stato lo stesso Pelosi a ritrattare. Non ha detto chi ha ucciso Pasolini, ma ha ammesso di non essere stato lui e soprattutto che quella notte non era da solo».
In base a che cosa avete pensato che non fosse Pelosi l' omicida?
«Intanto, quando il ragazzo è stato fermato, non aveva addosso nessuna goccia di sangue. Pier Paolo è stato picchiato con un bastone, una spranga di legno. C' è stata una lotta corpo a corpo con il suo assassino. E Pier Paolo non era un uomo debole, era fortissimo, faceva sport, era un uomo pieno di vitalità. Difficile immaginare che non si sia difeso. Poi c' è quell' impronta di una mano insanguinata trovata sulla macchina di Pasolini che non era di Pier Paolo né di Pelosi. E, ancora, un maglione ritrovato che non era di nessuno dei due. Allora, se si fosse approfondito nelle indagini, avremmo potuto scoprire la verità. Oggi, certo, è più difficile, ma qualcosa si può tentare».
Perché allora non si è fatto?
«C' era uno che si dichiarava colpevole. E la giustizia si è fermata là».
Solo negligenza o qualcosa di più? Qualcuno allora ha scritto che Pasolini se l' era andata a cercare?
«Un po' come oggi succede alle donne stuprate, per questo in tante ancora non denunciano. Ci sono stati anni di sospetti e riprovazione. Un giorno io e lui eravamo al teatro Quirino. Durante l' intervallo siamo usciti a prendere un caffè. La gente si allontanava come se fosse un appestato. Era il pubblico del teatro, la borghesia romana. Lo evitavano come se avesse i bubboni della peste. Succede sempre così, quando si lasciano le persone socialmente isolate e sole: si indicano come colpevoli e poi qualcuno tira fuori il coltello». «Non lo sappiamo. Si sono fatte tante ipotesi. Qualcuno ha sostenuto che a uccidere Pier Paolo fosse stato il padre di Pelosi, pregiudicato che entrava e usciva di prigione. Si è parlato di una punizione di tipo "moralistico". Del resto, quando Pelosi, che all' epoca aveva solo 17 anni, ha ritrattato, il padre era già morto. Ma le ipotesi e i dubbi sono tanti. Qualcuno immagina che il delitto sia in qualche modo legato al caso Mattei. Erano stati rubati dei capitoli di un libro al quale stava lavorando Pasolini (Petrolio, uscito poi postumo), nel quale si indagava sullo stragismo e i possibili legami con la morte di Enrico Mattei. Chissà. Magari qualcuno temeva che Pasolini avesse scoperto verità pericolose. I misteri sono ancora tanti. Per questo chiedo di riaprire il caso».
Lei andò in carcere a parlare con Pelosi?
«Sì, volevo capire, ma lui era chiuso come un' ostrica. Speravo che mi facesse capire, ma non ho potuto tirare fuori niente: rispondeva alle domande, ma era costruito come se avesse una corazza di ferro, era impenetrabile. Non diceva la verità. Si identificava con il suo destino. Come succede alle persone ignoranti che non riflettono sulle loro azioni».
Osteggiato per anni, Pasolini è oggi un mito. Quando ha cominciato a diventarlo?
«Dopo il '68. Pier Paolo era un ribelle, si rivoltava contro i luoghi comuni. L' Italia era molto bigotta. Ma è soprattutto oggi che è molto amato. Quando vado nelle scuole mi chiedono di raccontare di lui. È diventato un punto di riferimento per tanti ragazzi. Mi chiedono cosa avrebbe detto, come era davvero».
Glielo chiediamo: che avrebbe detto oggi Pasolini?
«Credo che sarebbe stato molto critico: era in certo senso cristiano come pensiero e avrebbe avuto attenzione verso gli umili, i più poveri e senza potere. Aveva creato il mito del sottoproletariato, in odio verso la borghesia, che lui considerava corrotta e odiosa. Basta pensare a uno dei suoi primi film, Accattone, con il ragazzo che muore sul letto di contenzione solo perché ha seguito i suoi istinti da sottoproletario senza arte né parte. Penso che oggi sarebbe dalla parte dei migranti, dei poveri, di chi soffre».
· Il Caso Claps.
Potenza, riapre la chiesa del caso Claps. Il fratello: "Offesa la memoria di Elisa". Anna Martino su La Repubblica il 16 marzo 2021. Nel 2010 nel sottotetto venne ritrovato il corpo della sedicenne uccisa. Il vescovo: "Speranza per la chiesa diocesana, per la città e per la mamma della cara Elisa con la quale ho avuto contatti assicurandole la mia vicinanza nella preghiera e informandola dell'evoluzione del progetto". La chiesa della Santissima Trinità sarà riaperta al culto. A darne notizia è il vescovo di Potenza, Salvatore Ligorio. Da alcuni giorni sono ripresi i lavori di restauro e consolidamento strutturale che si concluderanno, da previsioni, nella primavera del 2022. La spesa è di 2,4 milioni di euro, fondi in parte regionali e in parte della Conferenza Episcopale Italiana. "La posizione della famiglia Claps rimane la stessa di sempre; non è ammissibile, con un colpo di spugna, cancellare 17 anni di omissioni e di menzogne offendendo la memoria di Elisa e la sensibilità di quanti non vorrebbero mai che in quella Chiesa si tornassero a celebrare funzioni religiose": è la risposta, contenuta in una nota diffusa da Gildo Claps, fratello di Elisa, dopo l'annuncio fatto dall'arcivescovo di Potenza, monsignor Salvatore Ligorio, sui lavori nella chiesa della Santissima Trinità e sulla sua futura riapertura al culto. Gildo Claps ha criticato, definendola "di pessimo gusto", la scelta, nella nota firmata dall'arcivescovo di Potenza, di fare riferimento ai contatti con la madre, Filomena Iemma. "Su quanto accaduto dopo il 12 settembre del 1993 - ha concluso Claps - e all'alba del ritrovamento il 17 marzo 2010 non si è mai raggiunta una verità giudiziaria né tantomeno una verità storica e su questo punto la Curia potentina, prima di parlare di riapertura al culto ha l'obbligo morale di fare chiarezza". Nel centro di Potenza, la chiesa è un simbolo della città per motivi diversi. Monumento dal valore storico-artistico e luogo di culto, da undici anni è anche il luogo in cui venne ritrovato il corpo di Elisa Claps, la sedicenne scomparsa il 12 settembre del 1993 e del cui omicidio fu successivamente accusato Danilo Restivo, condannato definitivamente a 30 anni di carcere nel 2014. Una delle storie più dolorose del capoluogo lucano, una ferita profonda ancora non rimarginata. Il corpo di Elisa venne ritrovato il 17 marzo 2010 da due addette alle pulizie nel sottotetto della chiesa durante dei lavori di ristrutturazione. Le donne vennero accusate di false dichiarazioni e nel 2015 condannate a otto mesi di reclusione. La pena venne poi sospesa e in appello, nel 2018, il reato andò in prescrizione. Ma i dubbi sul ritrovamento del corpo della ragazza persistono. Ogni anno, in occasione dell'anniversario del giorno della sua scomparsa, Libera Basilicata lancia un appello affinché vengano svelati "i volti e i nomi dei protagonisti di quel giorno che ha cambiato la storia di Potenza", ha detto don Marcello Cozzi in uno dei suoi ultimi interventi. La riapertura al culto divide la città, fra favorevoli e contrari. Ligorio, nel sottolineare che la ripresa dei lavori nella chiesa della Santissima Trinità "è frutto del parere concorde dei vescovi lucani, che hanno sostenuto con convinzione la scelta di dare la precedenza a questo intervento", precisa anche di aver parlato del progetto con i familiari di Elisa: "Non mi sfugge la circostanza che questa nota viene inviata agli organi di informazione alla vigilia dell'undicesimo anniversario, il 17 marzo 2010, del ritrovamento del cadavere di Elisa Claps, che era scomparsa il 12 settembre 1993 - scrive il vescovo -. Si tratta di una coincidenza non voluta ma che tuttavia assume un certo significato, in particolare di speranza per la chiesa diocesana, per la città e per la mamma della cara Elisa con la quale ho avuto contatti assicurandole la mia vicinanza nella preghiera e informandola dell'evoluzione del progetto". Per la sconsacrazione della chiesa l'associazione e centro antiviolenza Telefono Donna anni fa ha avviato anche una petizione che ha raccolto un migliaio di firme.
Potenza, la chiesa della Trinità verrà riaperta. L'annuncio alla vigilia dell'anniversario del ritrovamento di Elisa Claps. Il vescovo Ligorio: "Si tratta di una coincidenza non voluta ma con un certo significato, di speranza". Gildo Claps, fratello di Elisa: "Non è ammissibile, con un colpo di spugna, cancellare 17 anni di omissioni e di menzogne". Il Quotidiano del Sud il 16 marzo 2021. Il vescovo di Potenza, Salvatore Ligorio, ha annunciato questa mattina che la chiesa della Trinità, nella quale sono iniziati i lavori nei giorni scorsi, verrà riaperta al culto nella primavera del 2022, quando si concluderanno i lavori di restauro e consolidamento strutturale. “Non mi sfugge la circostanza – dice il vescovo – che questa nota viene inviata agli organi di informazione alla vigilia dell’undicesimo anniversario (il 17 marzo 2010) del ritrovamento del cadavere di Elisa Claps, che era scomparsa il 12 settembre 1993. Si tratta di una coincidenza non voluta ma che tuttavia assume un certo significato, in particolare di speranza per la Chiesa diocesana, per la città e per la mamma della cara Elisa con la quale ho avuto contatti assicurandole la mia vicinanza nella preghiera e informandola dell’evoluzione del progetto”.
Una notizia accolta con indignazione dalla famiglia. “La posizione della famiglia Claps – ha spiegato Gildo – rimane la stessa di sempre; Non è ammissibile, con un colpo di spugna, cancellare 17 anni di omissioni e di menzogne offendendo la memoria di Elisa e la sensibilità di quanti non vorrebbero mai che in quella Chiesa si tornassero a celebrare funzioni religiose. Ritengo una scelta di pessimo gusto riportare la telefonata tra il vescovo Ligorio e mia madre, in cui si lascia intendere che la famiglia abbia espresso piena condivisone nella scelta di riaprire la Chiesa al culto al termine dei lavori stessi. Senza entrare nel merito del fatto che mamma ritenesse la telefonata di natura privata – conclude Gildo – mi vedo costretto a chiarire che il contenuto del colloquio ha riguardato semplicemente la notizia della necessità di intervenire nella ristrutturazione della Chiesa, nessun riferimento è stato fatto rispetto a quale sarà la destinazione futura una volta completati i lavori”.
Caso Elisa Claps: dopo i lavori chiesa Trinità riaprirà al culto. Fratello: «Un'offesa alla memoria». Il vescovo del capoluogo lucano: «Ho parlato con la madre di Elisa». La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Marzo 2021. Nella chiesa della Santissima Trinità di Potenza - nel cui sottotetto il 17 marzo 2010 fu trovato il cadavere di Elisa Claps, scomparsa a 16 anni nel 1993 - sono cominciati lavori di restauro e consolidamento strutturale che dureranno fino alla primavera 2022. Successivamente, la chiesa, che è chiusa da undici anni, sarà riaperta al culto. Lo ha annunciato l’arcivescovo di Potenza, monsignor Salvatore Ligorio. Per l’omicidio di Claps, avvenuto lo stesso giorno della scomparsa, è stato condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione Danilo Restivo, attualmente detenuto in Inghilterra per l’assassinio di un’altra donna, Heather Barnett, compiuto quando l’uomo, originario del Potentino, aveva lasciato l’Italia e si era trasferito Oltremanica. I lavori nella chiesa costeranno circa 2,4 milioni di euro: "I fondi - ha precisato monsignor Ligorio - sono di origine regionale e della Conferenza Episcopale Italiana». Una volta riaperta al culto, la chiesa parrocchiale della Trinità si inserirà «nel quadro della riorganizzazione pastorale prevista per il centro storico di Potenza», ha spiegato. «Ho avuto contatti con la mamma della cara Elisa Claps, assicurandole la mia vicinanza nella preghiera": lo ha reso noto l’arcivescovo di Potenza, monsignor Salvatore Ligorio, parlando dell’inizio dei lavori di restauro e consolidamento della chiesa della Santissima Trinità del capoluogo lucano dove - il 17 marzo 2010 - fu trovato il cadavere della studentessa sedicenne. Nei colloqui con Filomena Iemma - la madre di Elisa, scomparsa il 12 settembre 1993 - monsignor Ligorio l’ha informata dell’inizio dei lavori.
FRATELLO DI ELISA: UN'OFFESA ALLA SUA MEMORIA - «La posizione della famiglia Claps rimane la stessa di sempre; non è ammissibile, con un colpo di spugna, cancellare 17 anni di omissioni e di menzogne offendendo la memoria di Elisa e la sensibilità di quanti non vorrebbero mai che in quella Chiesa si tornassero a celebrare funzioni religiose": è la risposta, contenuta in una nota diffusa da Gildo Claps, fratello di Elisa, dopo l’annuncio fatto dall’arcivescovo di Potenza, monsignor Salvatore Ligorio, sui lavori nella chiesa della Santissima Trinità e sulla sua futura riapertura al culto. Gildo Claps ha criticato, definendola «di pessimo gusto», la scelta, nella nota firmata dall’arcivescovo di Potenza, di fare riferimento ai contatti con la madre, Filomena Iemma. «Su quanto accaduto dopo il 12 settembre del 1993 - ha concluso Claps - e all’alba del ritrovamento il 17 marzo 2010 non si è mai raggiunta una verità giudiziaria né tantomeno una verità storica e su questo punto la Curia potentina, prima di parlare di riapertura al culto ha l’obbligo morale di fare chiarezza».
· Il Caso Mattei.
L'Oas e l'omicidio Mattei. Dagospia il 9 marzo 2021.Estratto da “La spia innocente. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati”, di Giacomo Pacini (Einaudi editore) Sull'operato dell'Uar (Ufficio Affari Riservati, Viminale) nei primi anni Sessanta disponiamo di un consistente gruppo di note confidenziali inerenti le attività di quei militanti dell'Oas (Organisation de l'armée secrète) che, ricercati dai servizi segreti francesi, avevano trovato riparo in Italia, grazie anche ai loro collegamenti con esponenti politici del nostro Paese. Tra i principali elementi dell'Oas presenti sul suolo italiano l'Uar indicava soprattutto Georges Bidault, Jacques Soustelle, Jean Susini e Philip De Massey (nei cui confronti venne disposto un capillare servizio di pedinamento), mentre tra i politici più legati al movimento ultranazionalista francese erano segnalati i missini Giorgio Almirante, Tullio Abelli, Giuseppe Romualdi, Filippo Anfuso ed Egidio Sterpa. L'arrivo degli uomini dell'Oas in Italia sarebbe stato facilitato dall’esistenza a Roma dell'organizzazione: Peregrinatio Romana che mensilmente predisponeva viaggi nella Capitale per le comunità cattoliche di Beglio e Francia. Gli agenti dell'Oas, sfruttando il fatto che la Peregrinatio provvedeva in proprio al disbrigo delle pratiche doganali dei suoi fedeli, riuscivano a confondersi tra i «pacifici pellegrini cattolici» e a entrare in Italia evitando sistematicamente i controlli alla frontiera. «Non si è in grado di precisare, - si legge in una informativa, - se vi è o meno una cosciente complicità da parte della Peregrinatio Romana con l'Oas», anche se nel suo organico vi sarebbero stati dei funzionari in contatto con «elementi dell'estrema destra, sia degli ambienti cattolici, che del Movimento Sociale». In un'ulteriore nota si sosteneva che il principale centro organizzativo italiano al quale avrebbero fatto capo gli uomini dell'Oas era «l'Istituto San Pio V per la difesa ed il rafforzamento dei valori cristiani», fondato a fine dicembre 1960 dal cardinale Alfredo Ottaviani (capo della Congregazione del Sant'Uffizio) e da monsignor Gilberto Agustoni (prefetto emerito del Supremo tribunale della Segnatura apostolica). Attraverso quest'ultimo «gli agenti dell'Oas troverebbero protezione in Vaticano». Secondo le informazioni in possesso dell'Uar, i militanti dell'Oas stavano progettando un attentato contro l'allora presidente dell'Eni Enrico Mattei, nemico giurato dell'organizzazione terrorista francese a causa del supporto che stava fornendo agli indipendentisti algerini. Da una nota dell'agosto 1961, per esempio, veniamo a Roma sapere che era appena giunto a Roma il colonnello Jean Goddard, braccio destro del generale Raoul-Albin Salan (uno dei fondatori dell’Oas, in passato stretto collaboratore del generale Charles De Gaulle), il quale avrebbe incontrato «alcune delle personalità politiche e religiose maggiormente implicate nell'attività oltranzista nel nostro Paese [. .]. Non si esclude che il viaggio sia pure collegato con le minacce epistolari dirette [nei mesi precedenti] al presidente Mattei». Il colonnello Goddard «si incontrerà con il professor Luigi Gedda ed altre personalità cattoliche, tra cui certamente il proprietario dell’Istituto San Pio V, monsignor Agustoni. Una parte degli incontri avrà luogo in un appartamento sito in via Piemonte n. 39, a Roma, ove è la sede centrale dell'organizzazione tambroniana nota come Centro per l'Ordine Civile». Un successivo appunto riferiva della presenza in Italia di Bernard de La Rose, noto per le sue attività di «attentatore» per conto dei nazionalisti francesi. «Il La Rose» sarebbe giunto a Roma «col preciso incarico di predisporre un attentato contro il presidente della Fivl [Federazione italiana volontari della libertà] Enrico Mattei». «Ci rendiamo conto — scriveva l’anonimo autore del documento — della responsabilità che, indirettamente, assumiamo dando corpo a questa voce. Ci pare, tuttavia, che commetteremmo un grave errore di valutazione se la prendessimo come una diceria». Per tale ragione «raccomanderemmo, in questi giorni, un più attento servizio di vigilanza intorno alla persona del Presidente Mattei». Inquietante è un documento in cui si parlava di un attentato contro l'aereo di Mattei che sarebbe stato progettato da uomini dell'Oas. «L'aereo, — si legge, — avrebbe dovuto essere sabotato con una bomba ad orologeria, piazzata a Milano, che avrebbe dovuto scoppiare dopo la partenza da Roma, al di sopra del Mediterraneo, per impedire ogni inchiesta sulla caduta dell'apparecchio». Il 23 marzo, in un'ennesima informativa, l'Uar ribadiva che «l'Oas non ha rinunciato al proposito di far la pelle ad Enrico Mattei» e ha «addirittura esaminato la possibilità di abbatter[ne] l'apparecchio nel caso questi si recasse in Algeria». In un precedente documento, peraltro, sulla base di informazioni che sarebbero state fornite all'Uar da un familiare del militante missino Massimo Anderson (che in numerose note era descritto come figura vicina all'Oas) si sosteneva che «un attentato al presidente dell'Eni è sempre possibile» in quanto gli uomini dell'Oas «continuano a studiare le abitudini dell'uomo (il presidente Mattei)». Tuttavia, la strategia seguita da Goddard e dai suoi è «attendere che l'opinione pubblica dimentichi la notizia delle già avanzate minacce a lui [Mattei] dirette», per poi colpirlo al momento opportuno. L'autore della nota concludeva sostenendo di avere «ampi e giustificati motivi per ritenere come sostanzialmente esatte e veritiere le considerazioni espresseci dal familiare di Massimo Anderson». Come noto, Enrico Mattei perse la vita il 23 ottobre 1962 proprio in un incidente aereo, di cui è oggi accertata la natura dolosa, sui cieli di Bascapè (Pavia). Nel 1997, in un'intervista al «Corriere della Sera», Jean Susini, dopo aver rievocato gli anni passati in Italia, ha sostenuto di non poter escludere che quell'attentato l'abbia organizzato la rete italiana dell'Oas, visto che, a suo dire, Ie ragioni per far fuori Mattei c'erano tutte. Egli infatti: «forniva armi ai ribelli algerini attraverso la Tunisia, era un gioco che rientrava negli interessi petroliferi dell'Italia [...]. I veri nemici di Enrico Mattei erano i francesi d'Algeria». Poche settimane dopo la morte di Mattei, peraltro, l’Uar reclutò tra i suoi informatori il giornalista Pasquale (detto «Lino») Ronga che del presidente dell'Eni era stato uno dei più stretti collaboratori e per conto del quale aveva avuto l'incarico di monitorare proprio le attività degli uomini dell'Oas". Nei primi anni Sessanta, grazie alla mole di informazioni che era riuscito a raccogliere, l'Uar rintracciò e fece poi estradare in Francia diversi agenti dell'Oas presenti in Italia, riuscendo a riacquisire l'autorevolezza che aveva perduto dopo la caduta dei triestini. A guidare una gran parte di queste operazioni fu un funzionario da poco entrato agli Affari Riservati, ma destinato a una sfolgorante carriera: Federico Umberto D'Amato.
Quando l'Italia "rientrò" a Suez . Ecco il (vero) piano di Mattei. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di Suez. Il canale, l'Egitto e l'Italia (Historica). Marco Valle - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore Historica, un estratto del libro di Marco Valle, Suez.
"Il canale, l'Egitto e l'Italia. A partire dal 1954, grazie ai buoni uffici del già citato colonnello Younes, il gruppo Eni – con Agip Mineraria, Snam e Nuovo Pignone – s’impegnò in una serie di importanti operazioni che spaziavano dalla ricerca e perforazione alla distribuzione di benzina e Gpl a progetti per la diga di Assuan. Una collaborazione proficua a cui si aggiunsero la costruzione di un oleodotto tra Suez e la capitale e la realizzazione di una raffineria. Fu proprio nel corso dell’inaugurazione dello stabilimento, avvenuta il 24 luglio 1956 alla presenza di Enrico Mattei, che Nasser comunicò a Younes la sua decisione di nazionalizzare tre giorni dopo il Canale. Sebbene gli archivi dell’Eni relativi all’avvenimento siano stranamente (o volutamente?) lacunosi, è difficile immaginare che Mattei, quel giorno ospite d’onore, non avesse alcun sentore della burrasca in arrivo o, dato probabile, non fosse stato avvisato in via riservata. Di certo l’imprenditore marchigiano non ebbe dubbi. Scoppiata la crisi cercò di convincere Gronchi e il primo ministro Segni a promuovere una mediazione italiana tra le parti mentre Il Giorno, il quotidiano dell’Eni, rassicurava l’opinione pubblica e i circoli economici sulle intenzioni degli egiziani. Non pago, l’uomo di Matelica si mosse subito per aiutare il prezioso amico Younes catapultato da Nasser alla direzione della neo- nata Suez Canal Authority. Mattei sapeva che il principale problema degli egiziani era assicurare la navigazione lungo l’idrovia, un compito tecnicamente impegnativo sino ad allora svolto dai piloti della Compagnie. Secondo i calcoli di Eden e Mollet senza l’apporto dei 323 tecnici stranieri il traffico si sarebbe ridotto della metà causando ingorghi, rallentamenti e, infine, il caos. Un ottimo pretesto per intervenire e riprendere il controllo della via d’acqua. Per affrettare la paralisi i governi di Londra e Parigi imposero alla Compagnie di richiamare entro il 15 settembre l’intero personale non egiziano ancora presente sull’Istmo. Ma quel giorno fatidico: «Le autorità egiziane riuscirono a sopperire alla partenza di 212 operatori, tra cui 90 piloti, senza che il traffico navale ne risentisse. A questo primo successo contribuirono i venticinque piloti di nazionalità straniera che avevano risposto alla campagna di assunzioni avviata dalle autorità egiziane: quindici russi, quattro jugoslavi, tre italiani e tre tedesco-occidentali furono affiancati ai quaranta piloti greci che non avevano accolto l’invito della Compagnie. Nella ricerca di personale specializzato in grado di operare a bordo delle navi in transito, gli egiziani avevano potuto fare affidamento su una formidabile agenzia di reclutamento: dalla fine di luglio Enrico Mattei e i suoi collaboratori si erano dati molto da fare presso i porti italiani, offrendo lauti ingaggi, per trovare qualcuno disposto a fare un’esperienza di lavoro a Suez. Inoltre il presidente dell’Eni era tornato nuovamente al Cairo nei giorni dal 15 al 17 settembre, proprio nel momento in cui avveniva il temuto ritiro dei piloti stranieri». (10) Inevitabilmente la crisi egiziana si ripercosse sulla scena italiana radicalizzando lo scontro tra i “neoatlantici” Gronchi, Fanfani, Taviani e Tambroni e gli atlantici “ortodossi” come Segni, Pacciardi, il vice presidente del Consiglio Saragat e il ministro degli Esteri Gaetano Martino. A fronte dell’attivismo del presidente dell’Eni e dei suoi amici, il Consiglio dei ministri optò in un primo momento per la piena solidarietà con gli anglo-francesi ma l’intervento diretto del Quirinale impose una drastica correzione di rotta e Segni, con molte incertezze, si orientò per un atteggiamento di “comprensione” e moderazione verso le ragioni dell’Egitto nell’auspicio di una soluzione internazionale che garantisse la libertà di navigazione".
· Il Mistero di Roberto Calvi.
L'onnipotente. Report Rai PUNTATA DEL 01/04/2019 di Giorgio Mottola, collaborazione di Nicola Borzi, Alessia Cerantola e Norma Ferrara. C’è un filo nero che lega Ubi Banca, il terzo gruppo bancario del Paese, ai misteri del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, trovato impiccato a Londra nel 1982, e alle vicende di Michele Sindona, il banchiere della mafia legato alla P2, morto in carcere dopo aver bevuto un caffè avvelenato. Report ha scoperto documenti inediti sui conti e sulle società offshore di Ubi, una banca nata dalla fusione di istituti di credito bresciani e bergamaschi e che sarebbe coinvolta in operazioni di compravendita di armi, sebbene annoveri tra i suoi soci con quote minori la Diocesi di Bergamo, le suore Ancelle della Carità di Brescia e decine di altri istituti religiosi. Nel processo in corso al Tribunale di Bergamo, secondo l’accusa per anni Ubi Banca sarebbe stata segretamente gestita da un patto occulto capeggiato da Giovanni Bazoli, il potente banchiere bresciano che nel frattempo ha mantenuto anche la carica di presidente di Banca Intesa San Paolo, di cui oggi è presidente emerito. All’interno della banca, secondo la testimonianza di un ex dirigente apicale, mancavano controlli adeguati in materia di antiriciclaggio.
PRECISAZIONE DEL 08/04/2019. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO. Prima di chiudere un precisazione, avevamo citato lunedì scorso parlando di Ubi un’informativa della guardia di finanza e c’ha scritto la Progressio che dice “di essere completamente estranea alle operazioni di cartolarizzazioni di crediti Ubi e all'acquisto di obbligazioni a esse collegate”. Ecco questo dovevamo e l’abbiamo detto.
- 19/10/2020 Con riferimento alla puntata dal titolo ‘L’onnipotente’ abbiamo ricevuto la seguente lettera del prof. Giovanni Bazoli, che per completezza di informazione con piacere pubblichiamo: [LETTERA FIRMATA IN PDF]
Il contenuto del servizio “L’onnipotente”, mandato in onda da Report il 1° aprile 2019, impone di ristabilire la verità dei fatti circa il mio operato, in veste di Presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, nella soluzione della crisi del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Sono fatti che risalgono a quasi quarant’anni fa, ma tutti hanno sempre riconosciuto che, attraverso difficoltà di ogni genere, il mio operato, insieme a quello di molti altri onesti professionisti, è valso a restaurare il primato della legalità e a far sorgere da quel baratro una banca che ha scritto una pagina nobile della storia finanziaria italiana. Contrariamente a quanto affermato dal signor Carlo Calvi, figlio di Roberto Calvi, intervistato da Report, non vi è mai stata alcuna continuità, né commistione tra la gestione del Nuovo Banco Ambrosiano e quella del vecchio Banco Ambrosiano e delle sue società estere, prima tra tutte la lussemburghese Banco Ambrosiano Holding S.A. che è stata uno dei crocevia delle operazioni che avevano determinato il dissesto della banca di Roberto Calvi. Elementi oggettivi e inconfutabili dimostrano che, di fronte all’irrecuperabile insolvenza del Banco Ambrosiano, le Autorità italiane decisero di tenere distinte, in modo netto, l’azienda bancaria del Nuovo Banco Ambrosiano da alcune specifiche attività e passività del vecchio Banco Ambrosiano e dalle consociate estere di quest’ultimo (e ovviamente anche dai legami tra loro esistenti). L’atto dell’8 agosto 1982, con cui – previa autorizzazione di Banca d’Italia – il vecchio Banco Ambrosiano cedette al Nuovo Banco Ambrosiano le proprie attività e passività esistenti a tale data escludeva espressamente dalla cessione «la partecipazione al capitale del Banco Ambrosiano Holding S.A., Lussemburgo» e «[…] i rapporti nei confronti del predetto Banco Ambrosiano Holding S.A., Lussemburgo, e di altri soggetti ad esso comunque connessi». Il Signor Carlo Calvi ha inoltre insinuato l’esistenza di un legame tra il Nuovo Banco Ambrosiano e la lussemburghese Banco Ambrosiano Holding S.A. (e le altre consociate estere del vecchio Banco Ambrosiano) per il fatto che un professionista lussemburghese di nome Guy Harles – che, a dire del signor Carlo Calvi, avrebbe avuto un ruolo in una società definita nel servizio come «una delle casseforti dei conti di Michele Sindona» e avrebbe gestito parte delle attività del vecchio Banco Ambrosiano in Lussemburgo – sia stato, trent’anni dopo, amministratore non esecutivo di una ex società lussemburghese del gruppo UBI.
Il sottoscritto non conosce il signor Guy Harles e non è a conoscenza di sue attività in relazione al vecchio Banco Ambrosiano. È grave e inaccettabile che – sulla base di dichiarazioni errate e fondate su suggestivi accostamenti di elementi tra loro del tutto scollegati – l’operato dello scrivente sia stato affiancato, con seria lesione della propria onorabilità, a Roberto Calvi e Michele Sindona. Con riferimento ad altro tema, il servizio di Report ha poi raccolto le dichiarazioni di alcuni soggetti secondo i quali la nascita del gruppo UBI Banca – sorto nell’aprile 2007 dalla fusione tra Banche Popolari Unite (“BPU”) e Banca Lombarda e Piemontese (“BLP”) – sarebbe avvenuta “sotto la regia” dello scrivente al fine di far gravare su BPU asseriti debiti di BLP. Si tratta di affermazioni che anche logicamente confliggono con il fatto che l’operazione tra BPU e BLP è stata un’operazione di mercato, trasparente e illustrata in ogni dettaglio nei documenti oggetto di pubblicazione, i quali riportavano i risultati economici e patrimoniali dei due gruppi bancari riferiti agli esercizi 2004, 2005 e al primo semestre 2006, tutti assoggettati senza rilievi a revisione contabile; un’operazione che è avvenuta sotto la supervisione delle Autorità di vigilanza e previa autorizzazione di Banca d’Italia; oltretutto l’assemblea dei soci di BPU ha approvato la fusione con BLP con la maggioranza del 99,6% dei votanti; e nessun rilievo o contestazione sono mai stati sollevati in merito alla situazione economico-finanziaria di BLP. Quindi, respingo come non vera e profondamente ingiusta l’immagine del sottoscritto che è emersa dal servizio “L’onnipotente”. E rivendico con assoluta fermezza l’impegno, sempre improntato alla legalità e alla massima trasparenza, da me profuso nel contribuire, in collaborazione con la Banca d’Italia, alla difesa e alla crescita del sistema bancario italiano. Distinti saluti. Giovanni Bazoli
“L’ONNIPOTENTE” Di Giorgio Mottola Collaborazione Nicola Borzi, Alessia Cerantola, Norma Ferrara Immagini Davide Fonda, Tommaso Javidi Montaggio Giorgio Vallati.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In questo punto del Lago di Iseo si fronteggiano le sponde di Brescia e di Bergamo. Due tra le province più ricche e più cattoliche d’Italia. Dove la fede è sempre andata sotto braccio agli affari. Dalla fusione di alcune banche bresciane e bergamasche 13 anni fa è nata Ubi Banca. L’ultima banca italiana di esplicita ispirazione cattolica che tra i suoi soci fondatori annovera la Diocesi Di Bergamo, vari istituti di sostentamento per il clero, le suore ancelle della carità e un’altra decina di enti religiosi. Ma nonostante i riferimenti celesti, una banca è pur fatta da uomini e la retta via si rischia comunque di smarrirla.
GIORGIO MOTTOLA Volevo sapere come mai le suore ancelle della carità hanno azioni in Ubi Banca?
SUOR MARIA CASPANI – ECONOMA CONGREGAZIONE ANCELLE DELLA CARITA’ Posso permettermi di dire che queste son cose riservate?
GIORGIO MOTTOLA Eh ma il problema è che Ubi Banca ha avuto tutta una serie di problemi e scandali nel settore del riciclaggio…
SUOR MARIA CASPANI – ECONOMA CONGREGAZIONE ANCELLE DELLA CARITA’ Non mi dica queste cose che non voglio neanche sentirle.
GIORGIO MOTTOLA Ma invece deve sentirle… Perché voi siete azionisti.
SUOR MARIA CASPANI – ECONOMA CONGREGAZIONE ANCELLE DELLA CARITA’ No, guardi la ringrazio. La ringrazio e la saluto.
GIORGIO MOTTOLA Le sembra opportuno che una congregazione religiosa abbia le quote…
SUOR MARIA CASPANI – ECONOMA CONGREGAZIONE ANCELLE DELLA CARITA’ Buona giornata. Arrivederci.
GIORGIO MOTTOLA C’è anche un processo in corso. Anche conti offshore a Panama. Non è molto etico. Mi caccia proprio così con la mano.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E se le suore ancelle della carità possiedono circa un milione e mezzo di azioni di Ubi, la diocesi di Bergamo invece ne detiene più di tre milioni. Un pacchetto azionario che al momento della fusione valeva quasi sessanta milioni di euro.
GIORGIO MOTTOLA È normale che la diocesi di Bergamo abbia azioni in una banca che fa compravendita di armi, che ha conti offshore a Panama?
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO No. Io non ne ero a conoscenza.
GIORGIO MOTTOLA Sa che ci sarebbe addirittura un collegamento con le vicende del vecchio banco Ambrosiano e con Michele Sindona?
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO No, non so nulla.
GIORGIO MOTTOLA Negli anni in cui lei era economo il responsabile dell’antiriciclaggio di tutto il gruppo Ubi ha denunciato una serie di operazioni anomale e dopo che l’ha denunciato è stato licenziato, addirittura.
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO Non lo so.
GIORGIO MOTTOLA Neanche questo?
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO No.
GIORGIO MOTTOLA Però che azionisti eravate …
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO Azionisti…
GIORGIO MOTTOLA Azionisti dormienti..
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO Può essere… azionisti come tutti gli altri. Come tutti i risparmiatori.
GIORGIO MOTTOLA Però lei era economo, doveva forse saperlo.
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO Dite una preghiera. Visto che state qui.
GIORGIO MOTTOLA Va bene, va bene.
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO Pregate voi?
GIORGIO MOTTOLA No, non ho ecco il dono della fede.
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO Come mai?
GIORGIO MOTTOLA Forse anche sapere che la chiesa investe in banche che sono coinvolte in compravendita di armi e riciclaggio non aiuta, ecco.
MONSIGNOR LUCIO CARMINATI - EX ECONOMO DIOCESI DI BERGAMO No, quello non aiuta di sicuro.
GIORGIO MOTTOLA Le volevo fare qualche domanda su Ubi Banca. Come mai ha creato questo patto occulto?
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Io ho qualche problemuccio qui…
GIORGIO MOTTOLA Volevo farle solo questa domanda su…
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Mi han chiesto di fare… Mi lasci vedere se posso…
GIORGIO MOTTOLA Volevo solo chiederle…
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Eh?!
GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle soltanto come mai ha creato questo patto occulto per controllare Ubi Banca, professore.
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Quale patto occulto?
GIORGIO MOTTOLA Il patto occulto per il quale è rinviato a giudizio, professore.
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Eh?!
GIORGIO MOTTOLA Per il quale è rinviato a giudizio, professore.
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO 4 No, di questo non parlo!
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Oggi qualche problema ce l’ha anche lui. Lui che ne ha risolti tanti in passato. Al punto di essere definito in un’intercettazione “l’onnipotente”. È il banchiere, il professor Giovanni Bazoli. Giovanni Bazoli ha ereditato dopo il crac il Banco Ambrosiano e di fusione in fusione l’ha portato dentro Banca Intesa. La banca di sistema del nostro paese, oggi guidata da un eccellente banchiere Carlo Messina e di cui Bazoli è presidente emerito. Ma oggi è accusato di essere il regista di un patto occulto, di controllare Ubi Banca, la terza banca del nostro paese, anche questa di sistema. Ha avuto un ruolo due anni fa perché si è accollato sul groppone le banche fallite, Banca Etruria e Banca Marche, ma Ubi significa prevalentemente finanza bianca. Le province di Brescia e Bergamo hanno dato i natali a due Papi, a Papa Paolo Sesto e Papa Giovanni XXIII, e per governare gli istituti finanziari che esistono sul quel territorio bisogna essere degli abili banchieri. E Bazoli lo è. Lo è, aveva preso un impegno al momento in cui aveva ereditato il Banco Ambrosiano: garantire continuità e integrità. Forse l’impegno l’ha mantenuto anche troppo. Perché poi si è trasportato l’armadio con un fantasma annesso. Il nostro ghost buster, Giorgio Mottola, un fantasma l’ha trovato. L’ha trovato aggrovigliato a un filo che porta al banchiere Calvi ma soprattutto a Michele Sindona, il faccendiere legato alla P2 e alla mafia, morto in carcere, dopo aver bevuto un caffè avvelenato. Si scopre che la finanza bianca dopo tanti anni, non è poi così cambiata. Al centro di scandali, di misteri e alla ricerca del paradiso, non quello terrestre, ma fiscale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella nascita di Ubi Banca un ruolo centrale lo ha ricoperto uno degli uomini più potenti d’Italia: Giovanni Bazoli. Bresciano, classe 1932. Considerato da oltre trent’anni uno dei punti di riferimento della finanza cattolica italiana.
ETTORE GOTTI TEDESCHI - EX PRESIDENTE ISTITUTO OPERE RELIGIOSE (IOR) Giovanni Bazoli è sicuramente un grandissimo personaggio che ha avuto un ruolo in Italia molto importante e significativo. Ha fatto delle cose straordinarie di fronte ad una situazione molto complessa che si creò come lei sa, storicamente. Lui risolse dei problemi. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I problemi risolti si chiamavano Banco Ambrosiano, il gruppo bancario, vicino al Vaticano, che all’inizio degli anni ‘80 venne travolto da scandali, misteri, legami con la mafia e la P2. Il suo presidente, Roberto Calvi venne trovato impiccato sotto al ponte dei frati neri di Londra il 18 giugno del 1982. Due mesi dopo, Giovanni Bazoli venne nominato presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, l’istituto che nacque dalle ceneri della banca guidata da Calvi.
GIOVANNI BAZOLI - DAL TG1 07/08/1982 “Si è costituita la nuova società, la quale ha l’intento di assicurare non solo la continuità del Banco ma l’identità e l’integrità”.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A più di trent’anni di distanza, fusione dopo fusione, il Nuovo Banco Ambrosiano è diventato il secondo gruppo bancario del Paese e ha cambiato nome in Banca Intesa San Paolo. Giovanni Bazoli ne è ancora oggi il presidente onorario. Ma nel frattempo l’avvocato ha mantenuto interessi anche in un altro gruppo: la Banca Lombarda e 5 Piemontese, l’holding che raggruppava le più antiche banche bresciane fondate dal Beato della Chiesa Giuseppe Tovini. Nel 2007 la Banca Lombarda e Piemontese si è fusa con le bergamasche Banche Popolari Unite, capeggiate dalla Banca Popolare di Bergamo. Ed è così che è nata Ubi Banca. Ma a Bergamo non tutti hanno festeggiato, come ci racconta un ex numero uno del gruppo.
GIUSEPPE MASNAGA - EX DIRETTORE GENERALE BANCO POPOLARE DI BERGAMO Questa benedetta fusione tra il gruppo Banca Lombarda bresciano e il gruppo Bergamo che ancora oggi resta un enigma.
GIORGIO MOTTOLA Perché un enigma?
GIUSEPPE MASNAGA - EX DIRETTORE GENERALE BANCO POPOLARE DI BERGAMO Perché non c’erano poi delle reali opportunità per il lato Bergamo nel fare questa operazione.
GIORGIO MOTTOLA Cioè?
GIUSEPPE MASNAGA - EX DIRETTORE GENERALE BANCO POPOLARE DI BERGAMO Sono emerse centinaia di milioni di perdite dai bilanci del gruppo bresciano portato nella nuova banca. Ma queste perdite vengono accettate nell’indifferenza più totale dei bergamaschi.
GIORGIO MOTTOLA Bazoli è stato il vero regista della fusione?
GIUSEPPE MASNAGA - EX DIRETTORE GENERALE BANCO POPOLARE DI BERGAMO Sì, perché Bazoli era il presidente della Mittel che era il principale azionista del gruppo banca lombarda.
GIORGIO MOTTOLA Perché Bazoli aveva bisogno di questa fusione?
GIUSEPPE MASNAGA - EX DIRETTORE GENERALE BANCO POPOLARE DI BERGAMO Le male lingue dicono perché quello che è emerso dopo avrebbe messo in ginocchio quella banca.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi, sulla fusione di Ubi peserebbe un peccato originale, Banca Lombarda si era presentata come banca in salute, ma dopo la fusione, secondo l’ex direttore generale, sarebbero venute fuori le magagne. E a farsene carico sarebbe stato il gruppo bergamasco che fino a quel momento presentava invece conti e fatturati più alti e migliori. Lo stesso è successo anche in un altro caso. Durante la fusione Banca Lombarda ha portato in dote 800 milioni di euro di azioni di Intesa San Paolo, che sono rimaste a lungo sul groppone di Ubi causando, secondo l’ex direttore Masnaga, un’enorme perdita.
GIUSEPPE MASNAGA - EX DIRETTORE GENERALE BANCO POPOLARE DI BERGAMO Subito in assemblea si disse: “ma cosa ci facciamo di questa roba qua? Mica avremo una quota significativa del nostro patrimonio investita in titoli di un concorrente? Banca intesa, no?” E allora subito risposero: “no, ma alla prima occasione buona la vendo”. Passa un anno e questa occasione apre non si sia presentata. Ne passan tre e il titolo Intesa comincia a perdere soldi. Morale della favola, credo che il gruppo Ubi abbia perso 600 milioni partecipando al giochino di Intesa. Perché ha perso 600 milioni? Forse perché qualcuno, Bazoli, ha detto: “no non vendere perché mi servono. Non venderle lasciale lì perché rimangono buone”.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2012 il Governo dichiara incompatibile il doppio ruolo in due banche concorrenti e Giovanni Bazoli è costretto a rassegnare le dimissioni e uscire di scena da Ubi Banca.
GIORGIO JANNONE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE AZIONISTI DI UBI Solo apparentemente è uscito di scena. Nella realtà dei fatti era Bazoli che comandava e aveva in mano le redini del potere. C’erano due dinastie. Una di Bergamo e una di Brescia. Quella di Brescia era capitanata da Bazoli. Esisteva un vero e proprio patto occulto in base al quale tutti gli incarichi principali sia quello della controllante di Ubi Banca, sia quelli delle controllate della galassia societaria di Ubi Banca era in mano alla famiglia Bazoli. Per famiglia si intende la figlia, il genero, i nipoti.
GIORGIO MOTTOLA Bazoli ha continuato a prendere decisioni su Ubi Banca?
GIORGIO JANNONE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE AZIONISTI DI UBI Certamente sì. Bazoli era così considerato e temuto da essere definito negli atti a processo come l’Onnipotente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 13 marzo 2014 è un giorno importantissimo per la banca. A casa del presidente del consiglio di gestione, Franco Polotti, viene indetta una riunione riservata. C’è da decidere se la banca deve diventare unica o restare federale. Partecipano i vertici apicali e tra loro, come documentano queste foto, c’è anche Giovanni Bazoli.
GIORGIO JANNONE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE AZIONISTI DI UBI Sono presenti in una casa privata i presidenti di due banche concorrenti tra loro per decidere argomenti epocali importantissimi di almeno una delle due banche, questo non si può fare, ovviamente.
GIORGIO MOTTOLA Perché era un tema importante?
GIORGIO JANNONE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE AZIONISTI DI UBI Perché voleva dire concepire la banca divisa per territori oppure pensare a una banca più moderna e più efficiente con organigrammi più ridotti, meno società, meno incarichi, perché si parla di spartire o meno centinaia di incarichi sociali. Con la banca unica tutti questi incarichi vengono meno.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO 7 Sebbene non avesse dovuto presenziare alla riunione, in quanto presidente di una banca concorrente, Bazoli si oppone in modo deciso alla trasformazione di Ubi in banca unica: eppure tale scelta avrebbe comportato un taglio di incarichi e di cda. Al telefono con la figlia, dirigente apicale di Ubi, ecco come riassume il suo intervento alla riunione Audio intercettazione.
GIOVANNI BAZOLI – PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO «Ieri io ho fatto una parte dura che mi è costata; perché quello è partito a recitare la parte, facendo tutta una serie di considerazioni che portavano poi a dire: «Andiamo alla banca unica». E io ho reagito in modo fortissimo, ho voluto far capire che su questa strada non si va da nessuna parte».
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E dopo la riunione, il progetto di trasformare Ubi in una banca unica viene congelato per altri tre anni. All’esistenza di un patto occulto che a lungo avrebbe preso le più importanti decisioni su Ubi, ha creduto anche il tribunale di Bergamo che ha rinviato a giudizio i vertici della banca: il nipote di Bazoli, Italo Flonari, la figlia Francesca e lui, l’onnipotente.
GIORGIO MOTTOLA Le volevo fare qualche domanda su Ubi Banca. Come mai ha creato questo patto occulto?
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Io ho qualche problemuccio qui…
GIORGIO MOTTOLA Volevo farle solo questa domanda su…
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Mi han chiesto di fare… Mi lasci vedere se posso…
GIORGIO MOTTOLA Volevo solo chiederle…
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Eh?!
GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle come mai ha creato questo patto occulto per controllare Ubi Banca, professore.
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Quale patto occulto?
GIORGIO MOTTOLA Il patto occulto per il quale è rinviato a giudizio professore.
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO Eh?!
GIORGIO MOTTOLA Per il quale è rinviato a giudizio.
GIOVANNI BAZOLI - PRESIDENTE EMERITO INTESA SAN PAOLO No, di questo non parlo!
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il professor Giovanni Bazoli c’ha scritto, ci ha scritto e dice: «Rivendico che l’intero impegno da me dedicato nel momento della nascita e dell’avvio di Ubi è sempre stato improntato alla massima correttezza e trasparenza e che esso si inscrive, come un capitolo non secondario, nel contributo che ho dato alla difesa e alla crescita del nostro sistema bancario, come Banca d’Italia ha riconosciuto», ecco glielo riconosciamo anche noi. Solo che oggi il professor Giovanni Bazoli è accusato di aver costituito un patto occulto, di aver continuato a controllare la banca anche dopo che la Consob gli aveva chiesto di farsi da parte, e lo avrebbe fatto condizionando l’assemblea dei soci, condizionando le nomine attraverso uomini di fiducia all’interno dell’istituto finanziario, attraverso l’aiuto dei suoi familiari. Avrebbe anche ostacolato la vigilanza di Consob e di Banca d’Italia. Sotto la lente della magistratura è finita anche un’opera di cartolarizzazione. Ubi col controllo ancora di Giovanni Bazoli, avrebbe, ha avviato una grande cartolarizzazione, aveva bisogno di liquidi, ha ceduto 14 miliardi di crediti, – significano finanziamenti, mutui e contratti con i clienti. Affida la cessione a un professionista di fama, l’avvocato Gitti, che è anche genero di Giovanni Bazoli. Gitti presiede cinque società veicolo che fanno parte, che appartengono a due stichting olandesi, fondazioni, dai nomi suggestivi: Brixia e Romullus. Chi c’è dietro queste fondazioni? E soprattutto chi ha fatto affari attraverso le obbligazioni dei crediti di Ubi?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sebbene non risulti né indagato né imputato, un ruolo importante rispetto alla banca lo ha avuto anche il genero di Bazoli, marito di Francesca, Gregorio Gitti: avvocato ed ex parlamentare eletto con Mario Monti e poi passato al Pd. A lui viene affidata la pratica delle cartolarizzazioni dei crediti di Ubi. Gregorio Gitti, viene posto infatti alla presidenza di cinque società veicolo che acquistano oltre 14 miliardi di euro di crediti di Ubi. Tali società appartengono per il 10 per cento a Ubi e per il 90 per cento a due stichting, vale a dire fondazioni di diritto olandese.
GIORGIO MOTTOLA Cosa sono le stichting?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO ANTIRICICLAGGIO Sono delle normali fondazioni quindi delle strutture giuridiche dedicate alla beneficienza.
GIORGIO MOTTOLA Alla beneficienza?
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTIRICICLAGGIO Si, sì le fondazioni anche nel nostro ordinamento giuridico le fondazioni servono solo per fare beneficienza.
GIORGIO MOTTOLA E che c’entrano con le cartolarizzazioni?
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTIRICICLAGGIO Assolutamente niente.
GIORGIO MOTTOLA È legale usare una stichting per un’operazione di cartolarizzazione?
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTIRICICLAGGIO È legale, che abbia un senso è un altro discorso.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo un’informativa della Guardia di Finanza, sui crediti cartolarizzati le società veicolo presiedute da Gitti hanno emesso delle obbligazioni comprate da tre società: Progressio, Mire e Castello, che quindi di fatto hanno finanziato le operazioni di cartolarizzazioni, incassando interessi sicuri.
GIORGIO MOTTOLA Mire, Progressio e Castello c’hanno guadagnato dalle cartolarizzazioni di Ubi?
GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO ANTIRICICLAGGIO Sicuramente sì, perché i tassi su queste obbligazioni sono enormemente più elevati rispetto ai tassi di mercato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tutte e tre le società in questione erano partecipate all’epoca dalla Mittel, holding finanziaria a quel tempo presieduta da Giovanni Bazoli.
GIORGIO MOTTOLA Salve professore, sono Giorgio Mottola di Report. Volevo farle qualche domanda sulle stichting olandesi. Come mai i crediti di Ubi sono stati cartolarizzati attraverso le stichting olandesi?
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Sono qua a insegnare all’università.
GIORGIO MOTTOLA Vabbé, io le pongo giusto una domanda.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE È una cosa vecchia su cui ho già dato ampie risposte.
GIORGIO MOTTOLA Eh, ma stiamo parlando di 14 miliardi di euro, mi scusi professore. 14 miliardi.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Lei sa? Lei sa?
GIORGIO MOTTOLA Chi c’è dietro queste sitchting?
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Lei sa cos’è una cartolarizzazione.
GIORGIO MOTTOLA Beh si, non bene come lei… però vorrei chiederle chi c’è dietro queste stichting. Anche perché poi i titoli sono stati venduti a Mire, Progressio e Castello.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Sono state tutte smentite queste cose.
GIORGIO MOTTOLA Ma non è che c’erano gli interessi della famiglia Bazoli dietro. Le sto ponendo delle domande in modo civile.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Non riuscendo a tenere il passo di Gitti, siamo andati in Olanda a chiedere direttamente alle stichiting. Qui, ad Amsterdam infatti hanno sede Brixia e Romullus, le due fondazioni olandesi che detengono il 90 per cento del capitale delle società veicolo presiedute da Gitti. Interrogando la Camera di commercio di Amsterdam queste sono le informazioni societarie che otteniamo: niente di niente. Speriamo quindi di avere maggiore fortuna presso la sede ufficiale di Brixia.
GIORGIO MOTTOLA Sto cercando la stichting Brixia. PERSONA È il nome di una compagnia o di una persona?
GIORGIO MOTTOLA Di una società. PERSONA Ah ecco, ha affittato delle sale riunioni. Ma ha un appuntamento?
GIORGIO MOTTOLA No, vorrei parlare con qualcuno di Brixia. Ma quindi la sede della società è qui? PERSONA Non ne sono sicura.
GIORGIO MOTTOLA – FUORI CAMPO E dopo svariate telefonate, niente da fare. Nessuna informazione. Proviamo dunque all’indirizzo dell’altra stichting, la Romullus.
PERSONA Questo è solo un trust.
GIORGIO MOTTOLA Ah, è solo un trust. PERSONA Si, qui facciamo solo amministrazione, non c’è gente che lavora per la compagnia che cerca.
GIORGIO MOTTOLA Quindi qui arriva solo la posta.
PERSONA Esatto.
GIORGIO MOTTOLA – FUORI CAMPO Ma ad Amsterdam troviamo informazioni anche su un’altra fondazione che ha partecipato all’acquisto di crediti di Ubi: si chiama stichting Mara e dalla visura risulta che amministratori sono ragazzi tra i 19 e i 25 anni. Hanno anche un sito internet e presentano come oggetto sociale il sostegno agli studenti balcanici. All’indirizzo presente sulla visura italiana troviamo però solo un palazzo in costruzione. Rientriamo quindi da Amsterdam che ne sappiamo meno di prima e per questo torniamo da Gitti.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Era un’autocartolarizzazione quindi quelli sono stati crediti di Ubi, sono stati gestiti da Ubi e tutti i proventi sono rimasti all’interno della banca. Sono stato chiaro?
GIORGIO MOTTOLA No, sulle stichting no perché non sappiamo chi c’era dietro alle stichting. GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Le fondazioni sono queste.
GIORGIO MOTTOLA Ma l’azionariato di Brixia, di Romullus…
GREGORIO GITTI – AVVOCATO EX PARLAMENTARE Ubi è un’autocartolarizzazione, se lei non studia e non approfondisce…
GIORGIO MOTTOLA Ma io provo a studiare, vengo da lei che è professore
GREGORIO GITTI – AVVOCATO EX PARLAMENTARE Gliel’ho spiegato, è un’autocartolarizzazione. Dietro c’era Ubi, adesso mi lasci andare che ho un treno…
GIORGIO MOTTOLA Dietro le stichting non si riesce a capire chi è la proprietà però professore. Mi spieghi solo questo; perché questo è una cosa cruciale. Io le do la possibilità di spiegarmi il suo punto di vista. Chi c’era nell’azionariato delle stichting. C’era solo Ubi?
GREGORIO GITTI – AVVOCATO EX PARLAMENTARE Ovviamente.
GIORGIO MOTTOLA E com’era dimostrabile visto che noi abbiamo provato a visurare le stichting e ci sono dei ragazzetti dell’84.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Lei mi sta importunando. Sto andando a…
GIORGIO MOTTOLA Sto facendo delle domande.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE 12 Lei sta facendo un’intervista non autorizzata.
GIORGIO MOTTOLA Faccio il giornalista, devo fare le domande.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE No, lei non fa il giornalista.
GIORGIO MOTTOLA E che cosa faccio?
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Lei fa il giornalista d’accatto. Questo non è giornalismo.
GIORGIO MOTTOLA Beh se lei non mi vuole fare l’intervista però io le risposte devo averle perché stiamo parlando di 14 miliardi di euro.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE C’è un processo e il processo darà la verità. GIORGIO MOTTOLA Perfetto, però su questo però visto che è stato anche parlamentare anzi all’epoca lei era parlamentare, giusto? E presiedeva…
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE All’epoca non ero parlamentare.
GIORGIO MOTTOLA A non era parlamentare, ok.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Non ero parlamentare. Lei deve studiare.
GIORGIO MOTTOLA Mi dica.
GIORGIO MOTTOLA – FUORI CAMPO Ma proprio studiando le visure camerali, risulta che Gitti conserva le sue cariche nelle società in questione fino al 2016, quindi mentre era già Parlamento. Gitti era invece un semplice avvocato quando il suo studio nel 2007 ha presentato una fattura da 1 milione 440mila euro a Ubi Banca “per assistenza legale nell’operazione di fusione”. Poi ne presenta altre negli anni successivi, per un totale di oltre 2 milioni di euro.
GIORGIO MOTTOLA Queste consulenze da 1 milione 4, 370mila euro e 150mila euro con Ubi quanto dipendono dal fatto lei fosse il genero di Bazoli?
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Io ero l’avvocato di Corrado Faissola? Sa chi è Corrado Faissola?
GIORGIO MOTTOLA 13 Si, quindi non c’entra niente con il fatto che avesse un rapporto di parentela diretto con Bazoli?
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Ragazzo mio.
GIORGIO MOTTOLA Mi dica.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Sa quanti anni ho studiato per poter salire su quella cattedra?
GIORGIO MOTTOLA Ma proprio perché ha studiato così tanto forse un po’ inopportuno fare delle consulenza per una banca in cui suo suocero è nel consiglio di sorveglianza.
GREGORIO GITTI – AVVOCATO, EX PARLAMENTARE Io assistevo il patto di sindacato di Banca Lombarda, non assistevo la banca.
GIORGIO MOTTOLA No, no, ha fatto guardi… le mostro la consulenza. La consulenza per la fusione…
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Però che maratoneta l’avvocato Gitti. Complimenti per la tenuta atletica. A fine corsa però qualche dubbio rimane. Sui crediti che sono stati ceduti da una banca che i magistrati sospettano essere controllata dal professor Bazoli, sono state emesse delle obbligazioni dalle società veicolo presiedute dal genero di Bazoli e acquistate da aziende che sono possedute, legate alla Mittel di Giovanni Bazoli. Potrebbero anche aver incassato dei tassi di interesse importanti. Il professor Bazoli ci scrive di non sapere nulla «in merito all’acquisto da parte di Progressio, Castello e Mire di obbligazioni emesse dalle società veicolo presiedute dal genero. Non sappiamo nulla neppure sulle fondazioni, se hanno guadagnato, secondo le fondazioni olandesi, secondo Ubi è prassi mettere delle fondazioni in Olanda per questo tipo di operazioni. Certo che i nomi Brixia e Romullus sono suggestivi, “Brixia” è il nome dell’antica Brescia, e “Romullus” evoca il nome del primo re di Roma, Romolo. È un romano di fatto o di nome con origini nobili? Una suggestione. La realtà è che il titolo di Ubi Banca è crollato dal 2007 a oggi più di altri titoli, ci hanno rimesso anche le suorine. È stato anche scoperto ultimamente da Banca d’Italia, dagli ispettori il vaso di pandora, di Ubi Leasing. Cioè di quel ramo della banca che ha finanziato tra le altre cose gli acquisti di yacht e di jet. Ci hanno volato su Lele Mora, Leonardo di Caprio. L’ultimo scalo noto è un paradiso fiscale, quello del Delaware. È stato acquistato a 1milione e 250mila euro, svenduto a 60mila euro. Chi è il fortunato che se l’ha comprato?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È da qualche tempo che Lele Mora gira l’Italia partecipando a fiere campionarie. Fa da testimonial agli stand, portando con sé personaggi più o meno famosi della TV come la sorella di Belen Rodriguez. La gente si accalca per avere una foto accanto a lui.
VOCE MASCHILE FUORI CAMPO Su Whatsapp che la mando il famiglia. S’è fatta anche l’anno scorso, però è sempre un piacere.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per qualche istante, non sembrano poi così lontani i tempi in cui Lele Mora era uno degli uomini più potenti del mondo dello spettacolo.
GIORGIO MOTTOLA Quando lei era uno degli uomini più potenti in Italia aveva addirittura un jet privato?
LELE MORA - EX AGENTE TELEVISIVO Sì, devo dire che in quei tempi per me era proprio l’uso più veloce, più semplice. Anche perché una telefonata e il pilota c’era e si partiva.
GIORGIO MOTTOLA Chi ci è salito su quel jet?
LELE MORA - EX AGENTE TELEVISIVO Oh, il mondo.
GIORGIO MOTTOLA Ci faccia qualche nome.
LELE MORA - EX AGENTE TELEVISIVO Bah, a allora, questo non era ancora famosissimo. Mi ricordo che lui stava girando a Parigi la Maschera di ferro e un mio amico m’ha detto: «Guarda che c’è questo ragazzino che avrà un successo molto forte tra poco ma non ti posso dire cosa. Si chiama Leonardo Di Caprio se vuoi che te lo porto mandami l’aereo privato”. Ma ti faccio qualsiasi nome perché ti dico che qualsiasi nome ci è salito lì sopra.
GIORGIO MOTTOLA Ci è salito Leonardo Di Caprio sopra a quell’aereo?
LELE MORA - EX AGENTE TELEVISIVO Si, certo, certo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il Jet Privato di Lele Mora era un Cessna Citation 500, acquistato attraverso un finanziamento di 1.250.000 euro concesso da Ubi Leasing. Lele Mora lo compra ma a servirsene sono in tanti.
LELE MORA - EX AGENTE TELEVISIVO Mi chiama un mio amico. Mi dice: «C’è un ospite di Baglioni che deve venire giù a Pantelleria a fare lo spettacolo se non mi dai l’aereo privato tuo, non possiamo avere questo artista internazionale». E io gli ho detto: «Ma almeno che mi paghino l’albergo e il carburante». Neanche quello mi hanno pagato! Caro Baglioni, hai fatto Sanremo per tre volte, visto che io ti ho prestato l’aereo, ricordati che io te l’ho mandato gratuitamente. Dunque il tuo prossimo concerto, i tuoi prossimi programmi, almeno invitami per andare a pari per l’aereo che ti ho prestato.
GIORGIO MOTTOLA Anche perché oggi l’aereo non c’è più.
LELE MORA - EX AGENTE TELEVISIVO L’aereo non c’è più!
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per Lele Mora infatti arriva la banca rotta e i primi guai giudiziari e nel 2009 non riesce più pagare le rate del leasing. Così il jet torna a Ubi e viene messo in vendita.
GIORGIO MOTTOLA Sa a quanto è stato venduto poi quel jet?
LELE MORA - EX AGENTE TELEVISIVO No.
GIORGIO MOTTOLA A sessantamila euro.
LELE MORA - EX AGENTE TELEVISIVO Eh, tante cose so che sono state vendute quasi a niente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è stato acquistato da una società anonima del Delaware. Quindi non si sa chi lo ha comprato.
LELE MORA - EX AGENTE TELEVISIVO Si vede che era qualcuno, non per fare insinuazione, magari amico del curatore fallimentare.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Una prima perizia valuta il jet 300mila dollari e subito arriva un’offerta da 250mila. Offerta che viene rifiutata da Ubi. Ma qualche tempo dopo, la banca cede l’aereo alla Hnp Aviation, società anonima del Delaware, per 75mila dollari, vale a dire 61mila euro. 20 volte meno del suo valore iniziale. L’operazione insospettisce anche Banca d’Italia, che in quel periodo su Ubi Leasing avvia un’ispezione. Gli ispettori segnalano infatti «significative anomalie e comportamenti illegittimi».
EX DIRETTORE GENERALE UBI LEASING Il problema era proprio questo. Che probabilmente qualcuno era abituato a vendere per interesse proprio a valori molto bassi. Quando hanno capito che il gioco non poteva andare avanti è successo il patatrac.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il patatrac a cui si riferisce l’ex direttore generale è questo yacht di 33 metri, un Akhir 108, il Beata of Southempton. Valore al momento dell’acquisto: 10 milioni di euro, interamente finanziati da Ubi Leasing. Quando il proprietario ha smesso di pagare le rate lo yacht è tornato alla banca. Una prima perizia fissa il suo valore a sei milioni di euro. E subito si fa avanti un cliente.
GIORGIO MOTTOLA Lei aveva trovato dei clienti?
INTERMEDIARIO NAUTICO Certo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Disposti a pagare quanto?
INTERMEDIARIO NAUTICO Sei. Sei milioni di euro come da perizia di Porciani.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Cioè il prezzo che sarebbe quello congruo.
INTERMEDIARIO NAUTICO Il prezzo che gli azionisti avevano deliberato per venderlo. Però loro ci hanno sempre risposto: «È nostro, facciamo come ci pare».
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ubi Leasing rifiuta l’offerta da sei milioni di euro e affida la vendita a un altro intermediario, il comandante di navi e proprietario di cantieri Alessandro Miele. Il quale realizza una nuova perizia sullo yacht e abbassa il valore da 6 a 4,3 milioni di euro.
INTERMEDIARIO NAUTICO Hanno dato l’incarico a lui. Preleva lo yacht da dove era e lo porta presso il suo cantiere. E lì cominciano a rifiutare le varie manifestazioni di interesse che c’erano sulla barca perché ormai lo yacht secondo noi era già assegnato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla fine il Beata of Southampton viene venduto a 3 milioni e mezzo di euro, quasi la metà rispetto alla prima perizia e alla valutazione fatta dalle assicurazioni Generali. Ad acquistare lo yacht è la Tuscany Charter, intestata a Silvia Lucchini, figlia di Italo, consigliere di amministrazione di Ubi Banca.
EX DIRETTORE GENERALE UBI LEASING Sullo yacht c’è il mio no.
GIORGIO MOTTOLA Ma per quali ragioni?
EX DIRETTORE GENERALE UBI LEASING Non possiamo avere una barca che Generali ce la assicura per un valore x, abbiamo un’offerta in mano per un valore x meno 20 percento e qualcuno la compra a x meno 50 percento. Non va bene.
GIORGIO MOTTOLA Perché erano arrivate offerte più alte di 3 milioni e mezzo di euro?
EX DIRETTORE GENERALE UBI LEASING Certo che erano arrivate.
GIORGIO MOTTOLA Erano operazioni in cui Ubi Leasing ci avrebbe perso?
EX DIRIGENTE UBI LEASING Certo. Io a quella operazione mi ero opposto. Io personalmente, io e quello che le ha dato il mio numero ci siamo opposti. Guardi il caso, gli unici due che non sono più nel giro.
GIORGIO MOTTOLA 17 Siete stati licenziati.
EX DIRIGENTE UBI LEASING Abbiam dovuto riprendere da zero.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sul caso la procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta ma l’ha poi archiviata perché per il capo di imputazione contestabile, l’infedeltà patrimoniale, serviva una querela di parte di Ubi che però non è mai arrivata. Nel frattempo invece Alessandro Miele è diventato un collaboratore fisso di Ubi Banca. Ma da dove spunta fuori il comandate Miele? In una lettera che riguardava proprio il Beata of Southampton, il suo nome era stato segnalato all’allora presidente di Ubi Emilio Zanetti da Giampiero Pesenti, ex patron di Italcementi e consigliere di amministrazione della Mittel presieduta da Giovanni Bazoli.
GIORGIO MOTTOLA Salve sono Giorgio Mottola di Report, sono un giornalista di Raitre vorrei farle qualche domanda sullo yacht, Beata of Southampton.
ALESSANDRO MIELE - INTERMEDIARIO NAUTICO Beata of Southampton? E che…
GIORGIO MOTTOLA Lei si è occupato della vendita?
ALESSANDRO MIELE - INTERMEDIARIO NAUTICO Si occupava della vendita?!
GIORGIO MOTTOLA Lei, per Ubi Leasing.
ALESSANDRO MIELE - INTERMEDIARIO NAUTICO Eh, e allora?
GIORGIO MOTTOLA Ah fatto…Volevo sapere come mai è stato scelto proprio lei per occuparsi di quella vendita?
ALESSANDRO MIELE - INTERMEDIARIO NAUTICO Cioè ma lei ha idea che è una cosa che è sepolta?
GIORGIO MOTTOLA Eh, in realtà no.
ALESSANDRO MIELE - INTERMEDIARIO NAUTICO È molto sepolta.
GIORGIO MOTTOLA Beh c’è stata un’archiviazione ma perché non c’è stata una querela di parte da parte di Ubi Leasing.
ALESSANDRO MIELE - INTERMEDIARIO NAUTICO E chi se ne frega.
GIORGIO MOTTOLA Lei era il comandante della nave di Pesenti?
ALESSANDRO MIELE - INTERMEDIARIO NAUTICO Ma neanche per idea. Ma neanche per idea. Non c’avete nemmeno, non avete nemmeno le indicazioni precise.
GIORGIO MOTTOLA Appunto sono venuto a chiedergliele.
ALESSANDRO MIELE - INTERMEDIARIO NAUTICO Vedete di informarvi prima.
GIORGIO MOTTOLA Ma le voglio chiedere come mai è stato venduto a 3 milioni e mezzo.
ALESSANDRO MIELE - INTERMEDIARIO NAUTICO Lei non mi deve chiedere niente!
GIORGIO MOTTOLA Perché non le chiedo niente? Cioè, come mai è stato venduto a 3 milioni e mezzo, comandante? Mi può rispondere? GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma secondo la Guardia di Finanza è accertato che Alessandro Miele gestisce le imbarcazioni di proprietà di Pesenti. C’è dell’altro. Stando ad alcuni esposti presentati in procura, Giampiero Pesenti sarebbe il vero acquirente dello yacht Beata Of Southampton, in quanto socio occulto Tuscany Charter, la società gestita dalla figlia del consigliere di Ubi, Italo Lucchini.
GIORGIO MOTTOLA Salve dottor Lucchini, sono Giorgio Mottola di Report. Volevo farle qualche domanda.
ITALO LUCCHINI - EX CONSIGLIERE UBI BANCA La ringrazio ma preferisco che lei parli col mio avvocato.
GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle come mai sua figlia ha comprato lo yacht con la Tuscany Charter per conto di Pesenti.
ITALO LUCCHINI - EX CONSIGLIERE UBI BANCA Ma si, ma si figuri.
GIORGIO MOTTOLA Non è andata così?
ITALO LUCCHINI - EX CONSIGLIERE UBI BANCA No.
GIORGIO MOTTOLA Perché nel racconto di tutti quanti è un po’ quello.
ITALO LUCCHINI - EX CONSIGLIERE UBI BANCA Le ho detto, se ha bisogno di informazioni si rivolga al mio avvocato.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’hanno messo a dura prova il povero Giorgio. Tutti di fretta quando si tratta di dare delle spiegazioni. Quando invece un dirigente di banca dovrebbe alimentare la trasparenza a favore degli azionisti, a tutela degli azionisti della banca. Qui invece sembra che tutelino solo loro stessi. Ecco questa è la prova che lo yacht è poi finito ad una società di riferimento di Giampiero Pesenti. È il suo mandato ad una fiduciaria ad acquistare la società Tuscany charter, che aveva in pancia lo yacht svalutato e anche la figlia del membro del consiglio di amministrazione di Ubi Banca, Lucchini. Su questa vicenda poi la procura di Bergamo aveva anche aperto un’inchiesta, ma ha archiviato perché il reato contestato di infedeltà patrimoniale richiede una querela di parte, cioè di Ubi. Si vede che alla fine i dirigenti di Ubi hanno preferito essere fedeli a se stessi. Mentre invece l’ex dirigente di Ubi Leasing a suo dire è stato allontanato, è stato licenziato proprio perché si era messo di traverso difronte a queste operazioni. Chi è stato anche invitato a guardare altrove è il responsabile dell’antiriciclaggio Roberto Peroni che aveva cominciato a ficcare il naso in alcune operazioni sospette: compravendite di petrolio, di armi, su valige di denaro che uscivano da un istituto bancario ed entravano in un altro. Aveva cominciato a ficcare il naso soprattutto sull’azienda di Ferrivecchi, il cui titolare è stato anche accusato di riciclaggio. Insomma Peroni ha messo le mani nude sui fili della corrente elettrica.
GIORGIO MOTTOLA Non è pazzesco che soltanto il dieci per cento delle operazioni di una società rispondano a norme basilari di trasparenza?
ROBERTO PERONI - EX RESPONSABILE ANTIRICICLAGGIO UBI BANCA Ubi Leasing era autonoma aveva un proprio responsabile antiriciclaggio quindi aveva una sua gestione interna della materia. Quel responsabile dell’antiriciclaggio è ancora in Ubi.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E purtroppo non è la stessa sorte toccata a Roberto Peroni, responsabile dell’antiriciclaggio di tutto il gruppo Ubi Banca dal 2012 al 2016. Quando ha assunto l’incarico ha scoperto che qualcosa non quadrava e quindi ha iniziato subito a fare denunce e segnalazioni, ma i suoi capi non l’hanno presa bene.
GIORGIO MOTTOLA Dopo che ha denunciato che cos’è successo?
ROBERTO PERONI - EX RESPONSABILE ANTIRICICLAGGIO UBI BANCA Sono stato trasferito come responsabile controllo rischi in una controllata quindi nel giro di pochi mesi sono passato da avere una struttura di 45-46 persone a una struttura nella quale aveva ben un collaboratore e…
GIORGIO MOTTOLA Quindi l’hanno esplicitamente demansionata.
ROBERTO PERONI - EX RESPONSABILE ANTIRICICLAGGIO UBI BANCA Diciamo che hanno cambiato le mie attività. Quando una delle indagini che avevo alimentato è diventata di pubblico dominio sono stato licenziato.
GIORGIO MOTTOLA E adesso lei che cosa fa?
ROBERTO PERONI - EX RESPONSABILE ANTIRICICLAGGIO UBI BANCA E adesso io è due anni che per il mercato del lavoro non esisto.
GIORGIO MOTTOLA Le hanno fatto terra bruciata attorno?
ROBERTO PERONI - EX RESPONSABILE ANTIRICICLAGGIO UBI BANCA Sembrerebbe. Però non sono diventato complice di chi stava compiendo determinati atti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra le operazioni anomale autorizzate da Ubi Banca e segnalate da Peroni alla Procura ci sono partite di petrolio acquistate estero su estero da Saras, depositi giornalieri in contanti superiori ai 100mila euro e decine di altre movimentazioni sospette. Ma i veri problemi iniziano quando Peroni si imbatte in questo magazzino di ferrovecchio, in provincia di Bergamo di proprietà della Aom Rottami. Il titolare all’epoca era lui, Mariliano Mazzoleni, coinvolto in un’inchiesta per traffico di rifiuti, prescritta in cassazione, e condannato per riciclaggio dal tribunale di San Marino.
GIORGIO MOTTOLA Lei tra l’altro è stato coinvolto in un’inchiesta per riciclaggio e ha avuto anche una condanna per riciclaggio.
MARILIANO MAZZOLENI - IMPRENDITORE No, no.
GIORGIO MOTTOLA A San Marino… MARILIANO MAZZOLENI - IMPRENDITORE A San Marino. Va beh ma quelli sono...
GIORGIO MOTTOLA Ma è sempre riciclaggio, anche se è San Marino.
MARILIANO MAZZOLENI - IMPRENDITORE Autoriciclaggio.
GIORGIO MOTTOLA C’è questo problema, che in Ubi Banca i controlli su di lei e sulle attività di Aom Rottami praticamente non ci sono stati. Il responsabile dell’antiriciclaggio è stato completamente fermato, cioè gli è stato impedito di andare avanti.
VOCE FEMMINILE FUORI CAMPO Di andare avanti su che cosa?
MARILIANO MAZZOLENI - IMPRENDITORE Su che cosa?
GIORGIO MOTTOLA Le indagini interne alla banca.
MARILIANO MAZZOLENI - IMPRENDITORE Va beh ma questo non lo sappiamo eh? Lei mi sta dicendo delle cose che a me non risultano e non me ne frega proprio assolutamente niente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Peroni segnala ai vertici di Ubi che su oltre 90 milioni di euro di operazioni bancarie fatte da Mazzoleni e dall’Aom Rottami non state eseguite le adeguate verifiche antiriciclaggio. Inoltre, scopre che, nel fascicolo interno della società, gli impiegati della banca hanno omesso un’informazione fondamentale. Vale a dire che Proprietaria al 50 percento di Aom Rottami è Ori Martin, acciaieria bresciana all’epoca presieduta da Franco Polotti, che a quel tempo era anche presidente del consiglio di gestione di Ubi Banca.
GIORGIO MOTTOLA La Aom Rottami le dice qualcosa?
FRANCO POLOTTI - EX PRESIDENTE CONSIGLIO DI GESTIONE UBI BANCA Certo che mi dice qualcosa. Era un’azienda collegata con la quale avevamo fatto una società. Ma quelle che sono state le operazioni private del proprietario dell’altra quota a me non, non ne so nulla.
GIORGIO MOTTOLA Perché nessun tipo di controllo antiriciclaggio. Addirittura non era specificato che lei possedeva una quota.
FRANCO POLOTTI - EX PRESIDENTE CONSIGLIO DI GESTIONE UBI BANCA No, no assolutamente. Tutto è stato fatto nel modo più corretto possibile.
GIORGIO MOTTOLA Però nel momento in cui il responsabile dell’antiriciclaggio ha fatto domande su queste operazioni, è stato fermato e addirittura allontanato.
FRANCO POLOTTI - EX PRESIDENTE CONSIGLIO DI GESTIONE UBI BANCA Io di questo non lo so, non ne so assolutamente nulla.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma tra i vertici della banca sembra che nessuno sapesse niente nemmeno di Ubi International, la filiale lussemburghese del gruppo su cui il responsabile dell’antiriciclaggio ha provato ad avviare un’indagine interna
ROBERTO PERONI - EX RESPONSABILE ANTIRICICLAGGIO UBI BANCA Ho riscontrato delle evidenze che necessitavano approfondimenti.
GIORGIO MOTTOLA Le sono arrivati dei richiami dopo che si è occupato di Ubi International?
ROBERTO PERONI - EX RESPONSABILE ANTIRICICLAGGIO UBI BANCA Diciamo che non è stato apprezzato quello che stavo facendo. Di fatto l’invito non dando seguito a quello che stavo rilevando era di violare la legge. Perché la legge dice 22 chiaramente che chi sa sospetta o ha motivi ragionevoli di sospettare che siano state effettuate o tentate operazioni di riciclaggio deve riportarlo all’autorità di vigilanza.
GIORGIO MOTTOLA Era il suo ruolo.
ROBERTO PERONI - EX RESPONSABILE ANTIRICICLAGGIO UBI BANCA Era il mio ruolo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ubi International potrebbe essere la chiave di volta per scoprire quali inconfessabili segreti si nascondono nei conti della banca, c’è infatti un filo nero che collega Ubi a società del banchiere della mafia Michele Sindona e a vicende legate al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, ma per capire bisogna procedere per gradi. Innanzitutto che cosa avrebbe scoperto Peroni guardando nei conti di Ubi International, se non fosse stato bloccato? Grazie ai Panama e ai Paradise Papers è emerso che Ubi Banca aveva aperto infatti i conti e società in paradisi fiscali servendosi anche del famoso studio panamense Mossak Fonseca.
GIAN GAETANO BELLAVIA - CONSULENTE PROCURA DI MILANO ANTI RICICLAGGIO Eh, ragazzi, pesante questa qui. Perché questo studio di avvocati panamensi sono specializzati nelle società offshore nel dare copertura a situazioni che necessitano spostamenti di denaro, di beni di qualunque cosa in giurisdizioni che garantiscono l’anonimato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questo è l’elenco delle 54 società che Ubi banca gestiva nei paradisi fiscali. Sul rispetto delle norme antiriciclaggio da parte di Ubi avanza dubbi persino lo studio Mossak Fonseca. Come emerge da alcune mail che abbiamo trovato negli archivi dei Panama Papers, Mossak Fonseca avvia un procedura per bloccare conti e società di Ubi perché la banca italiana, nonostante ripetuti solleciti, non ha ancora inviato la copia dei passaporti degli intestatari delle società e non si decide ad adempiere agli obblighi sulla prevenzione antiriciclaggio.
GIAN GAETANO BELLAVIA - CONSULENTE PROCURA DI MILANO ANTI RICICLAGGIO È incredibile che la terza banca italiana venga redarguita da degli avvocati di Panama coinvolti nelle operazioni più incredibili di cui si è dato conto negli anni passati, si è visto di riciclaggio, di nascondimento, di qualunque cosa.
GIORGIO MOTTOLA Ubi per Mossack avrebbe…
GIAN GAETANO BELLAVIA - CONSULENTE PROCURA DI MILANO ANTI RICICLAGGIO Ha superato i suoi limiti sì, sì, Ubi ha superato i limiti di Mossack e questo francamente è imbarazzante per noi italiani. Questo è un fatto a mio parere di una rilevante gravità. Una banca di diritto italiano con la nostra legislazione antiriciclaggio non deve assolutamente dare supporto a nessuna operazione che possa essere neppure ipotizzata di sostegno al riciclaggio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In questa mail interna Mossak Fonseca lancia addirittura l’allarme su alcune delle società di Ubi Trustee indicandole come “attività sospette”.
GIORGIO MOTTOLA C’era un problema di antiriciclaggio in Ubi?
FRANCO POLOTTI - EX PRESIDENTE CONSIGLIO DI GESTIONE UBI BANCA Non credo proprio.
GIORGIO MOTTOLA Perché anche Ubi International ha fatto un bel po’ di casini.
FRANCO POLOTTI - EX PRESIDENTE CONSIGLIO DI GESTIONE UBI BANCA Non ha fatto casini come non ha mai fatto casini Ubi. Hanno gestito le cose secondo… in conformità alle policy.
GIORGIO MOTTOLA Noi abbiamo trovato addirittura delle mail in cui Mossack Fonseca redarguisce Ubi International dicendo state un po’ esagerando.
FRANCO POLOTTI - EX PRESIDENTE CONSIGLIO DI GESTIONE UBI BANCA Questo non lo so. Non sono assolutamente informato su questo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ha deciso invece di non rispondere alle nostre domande il presidente di Ubi International, Pietro Gussalli Beretta, patron della nota fabbrica bergamasca di armi. In concomitanza con la sua nomina a presidente nel 2013, Ubi Banca ha modificato la propria policy in materia di commercio di armi. Nel corso di un’assemblea di Ubi Banca del 2017, dopo ripetute domande da parte degli azionisti, il presidente del consiglio di sorveglianza di Ubi è stato costretto ad ammettere che la banca, nonostante tra i suoi soci abbia le istituzioni della Chiesa Cattolica, ha partecipato a operazioni nel settore delle armi per quasi 100 milioni di euro.
GIORGIO MOTTOLA Ubi ha finanziato anche la vendita delle armi anche della famiglia Beretta?
EX MANAGER UBI BANCA Questo non glielo so dire. Perché le operazioni fatte attraverso il Lussemburgo non venivano rese note.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Roberto Peroni è il responsabile dell’antiriciclaggio di Ubi Banca: è stato prima demansionato e poi licenziato appena si è scoperto che aveva portato le carte in procura. E questo nonostante la legge tuteli la figura del whistleblower. Secondo Ubi Banca Peroni non è attendibile. Invece proprio in queste ore Banca d’Italia ha sanzionato Ubi Banca per un milione e 200 mila euro per aver violato le normative antiriciclaggio. Il periodo preso in considerazione è proprio quello segnalato da Peroni, il quale aveva anche cercato di far luce su Ubi International, su alcune operazioni sospette, operazioni giudicate addirittura spregiudicate dal più spregiudicato di tutti: Mossak Fonseka. Questo almeno in base alle carte esclusive che ha trovato Report, Fonseka ha addirittura bacchettato Ubi International. Chi era all’epoca il direttore di Ubi International? Guy Harles. Guy Harles è un finanziere lussemburghese. Ha alle 24 spalle un curriculum ricchissimo, tante cariche societarie. Ne manca una, una che abbiamo trovato. È stata fondata nel ’79, è la Canopus e viene citata negli atti della commissione d’inchiesta sulla P2, legata al crac del Banco Ambrosiano. Legata a Calvi e legata agli interessi di Michele Sindona, il faccendiere legato alla P2 e alla mafia, morto in carcere dopo aver bevuto un caffè avvelenato. Il nostro Giorgio Mottola ha preso un last minute, è andato a chiedere spiegazioni all’unico che poteva darcele.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Voliamo dunque fino a Montreal per cercare di incontrare Carlo Calvi, figlio di Roberto Calvi, ex presidente dell’Ambrosiano. Qui in Canada, ancora oggi, Carlo Calvi custodisce l’immenso archivio della banca al centro di molti misteri italiani.
CARLO CALVI - FIGLIO DI ROBERTO CALVI Che c’è una connessione di Canopus a Sindona questo non c’è dubbio. Quando a un certo punto Sindona ha cominciato la sua reputazione estera ha cominciato a deteriorarsi. Tanto Marcinkus che mio padre hanno dato un taglio con quelli che erano i rapporti diretti intorno al ‘74 e li hanno in qualche modo occultati. La Canopus è cento per cento Sindona.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Canopus sarebbe dunque lo schermo con cui Roberto Calvi e il Cardinal Marcinkus direttore dello Ior nascondono i loro rapporti diretti con la Edil Centro Cayman di Michele Sindona, il banchiere che ha riciclato i soldi della mafia italiana e di quella italo-americana. Secondo Calvi la Canopus sarebbe una delle casseforti dei conti segreti di Sindona.
GIOVANNI MINOLI Lei quanto ci ha rimesso nel crollo dell’Ambrosiana di Calvi?
MICHELE SINDONA – da MIXER del 2/1/1983 Neanche una lira con l’Ambrosiana, io ho rimesso un amico e ho rimesso un amico che avrebbe continuato ad aiutarmi anche perché aveva il dovere morale di farlo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella Canopus è finito parte del patrimonio immobiliare di Michele Sindona, le sue società a Washington hanno costruito il Watergate e a Montreal hanno edificato due dei grattacieli più alti della città. Il Palazzo della Borsa e questo edificio che svetta al centro di Montreal, il Port Royal. Ed è proprio il Port Royal a finire poi dentro Canopus, la società amministrata dall’ex direttore di Ubi International Guy Harles.
CARLO CALVI - FIGLIO DI ROBERTO CALVI Guy Harles è un professionista del Lussemburgo che già prima della morte di mio padre aveva dei rapporti molto stretti con la Kredit Bank del Lussemburgo presso cui erano domiciliate le società, alcune delle società panamensi del Vaticano.
GIORGIO MOTTOLA Quindi nella ragnatela offshore dell’Ambrosiano Guy Harles aveva un ruolo?
CARLO CALVI - FIGLIO DI ROBERTO CALVI Gestiva effettivamente una parte delle attività estere dell’ambrosiano in Lussemburgo.
GIORGIO MOTTOLA Quindi tutti i soldi sporchi dell’Ambrosiano sono passati in Lussemburgo in quella fase?
CARLO CALVI - FIGLIO DI ROBERTO CALVI A seguito del processo valutario l’Ambrosiano fu costretto a trasferire tutte le posizioni delle società panamensi in Lussemburgo. Quindi sono state gestite nel periodo più critico, negli ultimi due anni, attraverso la Kredit Banque del Lussemburgo e attraverso Guy Harles.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo la morte di Calvi, Guy Harles dal Lussemburgo rimane il custode di una parte dei conti off-shore dell’Ambrosiano. Un ruolo che Harles conserva anche con la liquidazione del vecchio Ambrosiano e l’apertura del nuovo quando cioè si insedia Giovanni Bazoli.
GIORGIO MOTTOLA Dal momento che Bazoli era presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, sapeva all’epoca chi fosse Guy Harles?
CARLO CALVI - FIGLIO DI ROBERTO CALVI Non potevano non saperlo perché ci sono stati contatti diretti fra il nuovo banco e la liquidazione del Banco Ambrosiano Holding nel senso che il Nuovo Banco e il Vecchio Banco non volevano abbandonare completamente gli attivi esteri.
GIORGIO MOTTOLA Mi può spiegare meglio che cosa significa che il Nuovo Banco Ambrosiano ha provato a recuperare attivi del vecchio Ambrosiano di suo padre?
CARLO CALVI - FIGLIO DI ROBERTO CALVI In alcuni casi, alcuni clienti del Nuovo Banco erano anche debitori del Banco Ambrosiano Holding.
GIORGIO MOTTOLA Parliamo anche di fondi offshore?
CARLO CALVI - FIGLIO DI ROBERTO CALVI Parliamo anche di fondi offshore, certo. Parliamo degli stessi personaggi, entità che hanno causato il dissesto dell’Ambrosiano.
GIORGIO MOTTOLA Quindi i soldi di quegli stessi soggetti sono confluiti nel Nuovo Banco Ambrosiano.
CARLO CALVI - FIGLIO DI ROBERTO CALVI Si, certo.
GIORGIO MOTTOLA Si rende conto che abbastanza grave quello che sta dicendo?
CARLO CALVI - FIGLIO DI ROBERTO CALVI Si, ma intendiamoci. Questo non è sorprendente, il Vaticano ha immediatamente chiuso le operazioni debitorie, ha continuato a operare in questi conti, li ha riattivati, li ha continuati a gestire per un periodo di vent’anni con le varie sedi dell’ambrosiano non solo ma la persona che la gestiva all’epoca di mio padre, è la stessa che l’ha gestita con Bazoli fino al pensionamento. 26
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ex direttore di Ubi International Guy harles, era stato l’amministratore di quella società che aveva schermato gli interessi di Michele Sindona, di Marcinkus, di Calvi. Avrebbe anche gestito quella ragnatela di conti off shore del Vaticano, questo secondo il figlio di Calvi. È sempre secondo il figlio di Calvi sarebbe stato anche l’interlocutore di Giovanni Bazoli quando c’era da trasportare dal vecchio Banco Ambrosiano al nuovo gli attivi. E li avrebbe trasportati con quelle entità che erano le stesse che avevano causato il crac del Banco Ambrosiano. Di quali entità si tratta? Del Vaticano, dei fondi della mafia o della P2? Noi non siamo in grado di dare questa risposta. Ma Guy Harles è lì e se qualcuno è interessato può andare a chiedere conto. Anche perché Giovanni Bazoli dice di non conoscere direttamente, personalmente Guy Harles. E Ubi Banca che cosa sta facendo? Sta attraversando invece con disinvoltura la tempesta giudiziaria. Ecco tra pochi giorni rinnoverà le cariche. È confermata presidente Letizia Moratti, presidente della banca, la società di famiglia, la Saras, è al centro di un’operazione sospetta, una compravendita di petrolio estero su estero. È stato anche confermato l’amministratore delegato Victor Massiah. Massiah rinviato a giudizio con Giovanni Bazoli nell’ambito del procedimento sul patto occulto. Ritorna anche nel consiglio di amministrazione Pietro Beretta. Beretta è stato a capo della controversa Ubi International. Chi invece non è più al suo posto sono gli investigatori della Guardia di Finanza che hanno fatto le indagini e quei magistrati che hanno condotto fino adesso il rinvio a giudizio. Ce n’è uno che fa avanti e indietro part-time da Pisa.
· Il Mistero di Paola Landini.
Le armi, lo stalker, la telefonata al figlio: le ultime ore di Paola. Francesca Bernasconi il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. Il 15 maggio 2012 la Fiat Punto della donna venne trovata vicino al poligono di tiro a Sassuolo, ma di lei nessuna traccia. A nulla servirono le ricerche e le indagini di un detective. Ma ora le ossa ritrovate a Sassuolo potrebbero nascondere la chiave del giallo. Era il 15 ottobre del 2012. Quella mattina Paola Landini fu vista per l'ultima volta, poi scomparve nel nulla. Vane le ricerche della polizia e le indagini di un investigatore privato che si era occupato del caso. E ora il ritrovamento di alcune ossa umane ha riacceso l'interesse su un caso irrisolto da 9 anni.
La scomparsa. La madre della donna, che all'epoca aveva 44 anni, e il figlio Luca, avuto da Paola nel corso di una precedente relazione, la sentirono per l'ultima volta il 14 maggio. Quella notte avrebbe dormito dall'attuale compagno Roberto, presidente del poligono di tiro di Rometta Alta, una frazione di Sassuolo, dove Paola lavorava svolgendo alcune mansioni di pulizia e giardinaggio. L'uomo l'aveva salutata la mattina del 15 maggio 2012, poco prima che uscisse di casa. Fu l'ultimo a vederla viva, prima che di Paola si perdessero le tracce. L'unico indizio fu la Fiat Punto della donna, chiusa e parcheggiata proprio nei posti riservati ai frequentatori del poligono di tiro, ma in un luogo diverso da quello in cui era solita posteggiare. All'interno vi erano effetti personali, tra cui il portafogli, due telefoni, alcuni trucchi e un diario. Si trattò di allontanamento volontario o forzato? Attorno a questo dilemma ruota il giallo della scomparsa di Paola Landini. Il figlio e la madre non credettero alla possibilità che la donna fosse scappata e incaricarono un investigatore privato di risolvere il caso.
Le indagini. Nel frattempo la procura dispose il sequestro di alcune armi presenti al poligono e nell'abitazione dove Paola viveva con Roberto: sembrava infatti che mancassero alcune pistole di piccolo calibro. Si pensò che la donna potesse averle prese proprio il giorno della sua scomparsa. Ma per quale motivo? Al tempo emerse la figura di uno stalker che, come ricorda la Gazzetta di Modena, avrebbe infastidito Paola con alcune telefonate. La donna, si pensò, potrebbe aver preso le armi proprio per difendersi. In realtà non emerse alcun riscontro a favore di questa ipotesi e le armi non vennero mai trovate. L'investigatore privato a cui vennero affidate le indagini si recò anche fuori dal territorio italiano, per cercare tracce di Paola, ma della donna non si seppe più nulla. E del caso non si parlò più.
Il ritrovamento delle ossa. Questo almeno fino a ieri, quando alcune ossa umane sono state trovate dal soccorso alpino, proprio vicino a quel poligono di tiro di Sassuolo attorno al quale scomparve Paola. A scoprire i resti sono state le squadre dei Sear (Soccorso alpino e speleologico) impegnate nelle ricerche di Alessandro Venturelli, il 21enne di cui non si hanno notizie dallo scorso dicembre. Secondo il medico legale, le ossa sarebbero state trascinate in un calanco vicino al poligono da alcuni animali ed è escluso che si tratti di un uomo. Per questo si è aperta l'ipotesi secondo cui i resti potrebbero appartenere proprio a Paola Landini. Un giallo che potrebbe arrivare a un punto dopo 9 anni di incertezze e di punti di domanda. Saranno ora gli esami a chiarire se i resti siano davvero quelli della donna.
Alessandro Fulloni per corriere.it il 7 maggio 2021. Un omicidio efferato motivato da una rapina, con la vittima ferocemente torturata perché rivelasse il nascondiglio di un incasso da 30 milioni di lire. E un cold case che trova un colpevole. Dopo 21 anni l’omicidio di Pietro Beggi, noto chef del ristorante Ciabot del Grignolin di Calliano, nell’Astigiano, ha un responsabile. La Corte d’Assise d’Appello di Torino ha riformato il proscioglimento di Giampaolo Nuara, oggi quarantenne, deciso in primo grado con rito abbreviato, condannando l’imputato a 14 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. Lo rende noto l’avvocato Maurizio La Matina, difensore dell’imputato.
Trovato agonizzante nella cantina. Nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 2000, lo chef, allora 68enne, venne trovato agonizzante dal socio Livio Vallarin nella cantina del ristorante, colpito alla testa in un tentativo di rapina. Morì poche ore dopo in ospedale. Nuara era stato accusato di far parte della banda che assalì lo chef e lo torturò perché rivelasse il nascondiglio dell’incasso, oltre 30 milioni di lire. Tracce di dna dell’imputato erano state trovate a distanza di 19 anni su una calza che i rapinatori indossarono per nascondere il loro volto, nel corso di un’altra indagine, su un furto avvenuto a Pavia. Parliamo della banda — composta da italiani, tra cui lo stesso Nuara, e albanesi — di finti carabinieri che per alcuni anni, tra il 2015 e il 2016, imperversò in tutta la Lombardia, da Lodi a Brescia e Bergamo, mettendo a segno un’ottantina di furti. I banditi indossavano false divise dell’Arma e presentandosi a casa della gente, inscenando delle pantomime truffaldine, approfittavano per darsi a ruberie. I veri carabinieri del comando di Pavia, in collaborazione con i Reparti investigativi di altre città, arrestarono i componenti della gang nel 2019.
L’incasso nascosto in cucina. L’incasso era nascosto dentro il mobiletto della cucina del ristorante. Era frutto degli incassi di Capodanno. Il ristorante, che lo chef conduceva da una trentina d’anni puntava sui grandi numeri, aveva circa 400 posti ma la cucina era di qualità, tanto che tra gli ospiti capitava anche l’ex presidente del Consiglio Giovanni Goria, piemontese. Beggi, che cercò di resistere alle torture, si spense nel reparto di rianimazione del Cto di Torino — ricostruì anni dopo «il Monferrato» — dove era stato ricoverato ormai in coma. Picchiato a sangue e con il cranio fracassato, era rimasto in fin di vita in un lago di sangue per tutta la notte di domenica nello scantinato dove i suoi assassini lo avevano trascinato a forza.
Il sangue nelle calze e la comparazione. All’epoca, nonostante le indagini serrate, gli investigatori non arrivarono ad alcun sospettato ma repertarono tutto quanto trovato nel locale e nei dintorni, comprese tre calze da donna opportunamente modificate per fungere da passamontagna. Su tutte vennero rilevate tracce biologiche e vennero catalogate. Una di queste, molti anni dopo, trovò riscontro nel nome di Gianpaolo Nuara che, nel frattempo, era stato indagato dai carabinieri di Lodi nell’ambito di una serie di furti in villette. Una traccia di sangue lasciata su un vetro frantumato per introdursi in casa di notte e la saliva rilevata dai mozziconi di sigaretta presenti sulla scena di un altro furto erano di Nuara e, una volta immessi nel database, hanno incrociato quella ricerca latente dall’epoca dell’omicidio di Calliano.
· Il Mistero della Uno Bianca.
24 le vittime e almeno 100 i feriti. La storia della Uno Bianca, la Banda dei poliziotti criminali che terrorizzò l’Italia. Vito Califano su Il Riformista il 29 Novembre 2021. La Banda della Uno bianca tra il 1987 e il 1994 ha seminato il terrore tra Emilia-Romagna e Marche. 24 le vittime, almeno 100 i feriti. La Banda per cinque sesti composta da poliziotti è stata al centro di uno dei casi più efferati e clamorosi di cronaca nera nella storia recente. “Questo documentario è dedicato a vittime, feriti, parenti. Questo spargere terrore a volte in modo gratuito ha fatto sollevare tanti dubbi anche sulle finalità della banda. Facevano rapine o avevano un piano eversivo?”, dicono i realizzatori di La vera storia della Uno Bianca, una coproduzione Rai Documentari e Verve Media Company, diretta da Alessandro Galluzzi con Flavia Triggiani e Marina Loi, una Docuserie originale in onda in prima serata su Rai Due e in streaming sulla piattaforma Raiplay. Sette anni di rapine, morti, agguati di matrice razzista come quello al campo rom di Bologna, rapine a banche e uffici postali, supermercati e benzinai. Le prime azioni nel 1987: nel giro di due mesi 12 rapine ai caselli autostradali dell’A14. Il primo morto il sovrintendente Antonio Mosca: un autorivenditore aveva avvisato la polizia di un tentativo di estorsione. Mosca rimase ferito nel conflitto a fuoco e morì nel 1989. Il 4 gennaio 1991 l’assalto a una pattuglia dei carabinieri al quartiere Pilastro di Bologna: una strage in cui muoiono i militari Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini. Il 28 agosto 1991, a San Mauro Mare, uccisero due operai senegalesi e ne ferirono un terzo: non per rapina ma per razzismo. A inizio 1993 il ritrovamento del corpo di Massimiliano Valenti, 21 anni, che aveva assistito a un cambio automobile della banda dopo una rapina in banca. Il giovane fu sequestrato e ucciso in una sorta di esecuzione. In una rapina nel 1994 a essere ucciso, mentre apriva la filiale della Cassa di Risparmio di Pesaro, il direttore Ubaldo Paci. Per le sue azioni la banda usava delle Uno Bianche, spesso le bruciava a missione compiuta. Dopo sette anni di omicidi e crimini vennero istituiti due pool di indagini, prima dalla Procura di Rimini e poi a Roma. Due poliziotti, l’ispettore Baglioni e il sovrintendente Costanza, cominciarono a sospettare di uomini in divisa all’interno della banda. La svolta: una Fiat Tipo bianca dalla targa irriconoscibile fa un sopralluogo nei pressi di una banca a Rimini, a inizio novembre 1994. A bordo dell’automobile c’era Fabio Savi. Il 22 novembre del 1994 si arrivò così all’arresto di Roberto Savi. I componenti della banda erano i fratelli Savi, Roberto e Fabio. Il primo è agente di polizia alla Questura di Bologna. Il secondo scartato dalla Polizia per un difetto alla vista. C’era poi Alberto Savi, agente al Commissariato di Rimini, e Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Giuliano Savi, padre dei fratelli Savi, a marzo del 1998 si tolse la vita ingoiando sette scatole di Tavor dentro una Uno Bianca. Anche lui era indagato nell’inchiesta. I tre fratelli Savi vennero condannati all’ergastolo. Occhipinti, condannato all’ergastolo, ha ottenuto nel 2012 la semilibertà. A Gugliotta una condanna a 28 anni, poi diminuiti a 18 – in libertà per effetto dell’indulto e della legge Gozzini –, a Luca Vallicelli tre anni e otto mesi con patteggiamento. A incastrare la banda anche la testimonianza di Eva Mikula, fidanzata di Fabio Savi. L’unico a non essere in polizia era Fabio Savi: era proprio grazie alle conoscenze degli agenti e alla loro dimestichezza con le armi e con i sistemi di sicurezza che la banda compiva i suoi colpi. Il film segue il racconto dei cronisti che hanno scritto della vicenda come Giampiero Moscato dell’Ansa, quello dei due ispettori cui è andato il merito di avere risolto il caso, Luciano Baglioni e Pietro Costanza, dello stesso Paci e soprattutto dei familiari delle vittime o dei sopravvissuti agli attacchi della banda, tra cui Ada Di Campi, la giovane poliziotta che fu vittima di un agguato di fuoco insieme ad Antonio Mosca, morto dopo atroci sofferenze. “Convivo quotidianamente con rimorsi per il passato, una famiglia distrutta e tanto dolore causato, al quale non vi è purtroppo rimedio, ma non cerco sconti e non ne ho mai cercati, così come mai farò qualcosa che possa essere interpretato come strumentale, sebbene consapevole di quale beneficio possa portare una lettera di scuse contenuta nel mio fascicolo, che questa sia accolta o pure no, le parole di Fabio Savi, in una lettera inedita, scritta dal carcere di Bollate e letta dal suo avvocato nella docuserie realizzata dalla Rai.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Da huffingtonpost.it il 24 giugno 2021. “Ricordo un fortissimo fischio all’orecchio e la voce di mia madre che grida il mio nome a ripetizione. Poi ho in mente la scena successiva: le cassiere che con tantissimi rotoli di carta mi tamponano le ferite e l’immagine del mio riflesso nella vetrina della Coop. Avevo il viso tutto ricoperto di sangue. Quel fischio era uno dei proiettili che mi è entrato dall’orecchio e si è fermato sotto l’occhio sinistro, è ancora lì. Io sono stata colpita da 7 proiettili e me ne hanno tolto soltanto uno, quello nella schiena”. Francesca Gengotti aveva 9 anni quel 30 gennaio 1988 e al Corriere della sera racconta il suo incontro con la banda della Uno Bianca, di cui porta ancora i segni sul corpo: 6 pallini sparati con fucili a pompa calibro le sono rimasti conficcati nel cranio, ma lei è sopravvissuta a quell’attacco. L’assalto armato in cui è rimasta coinvolta Francesca - diretto in realtà alla guardia giurata Giampiero Picello - era il 19esimo a firma del gruppo composto dai fratelli Savi, i poliziotti Roberto e Alberto più Fabio, che non indossa la divisa perché non è riuscito a entrare in polizia: 103 azioni criminali in sette anni, con 24 vittime e 102 feriti. Si legge sul Corriere della sera: “Ero andata a fare la spesa con mio padre, mia madre e mia sorella di 3 anni, tutti insieme. Sentimmo degli scoppi alle nostre spalle e mia madre disse: “Ma sparano ancora i petardi?!? Mi sa che uno mi ha preso al collo. Mio padre era a pochi centimetri dalla guardia giurata che venne assassinata, ma la sua fortuna fu quella di indossare un montone di quelli che si usavano negli anni Ottanta: tutti i pallini rimasero intrappolati nello spesso giaccone”. In un letto d’ospedale, dopo ciò a cui aveva assistito, Francesca decise che da grande avrebbe “studiato la mente delle persone cattive”. Oggi è una psicologa. Negli anni la data della sparatoria ha completamente cambiato senso per lei: “Mia figlia è nata proprio il 30 gennaio, a 24 anni dall’agguato in cui sono stata gravemente ferita. Oggi per me quello è solo il giorno del suo compleanno”.
Cristiana Mangani per “Il Messaggero” il 9 agosto 2021. Da 27 anni Eva Mikula si sente vittima: vittima di discriminazioni, vittima di uno Stato che l'ha dimenticata e non le ha reso giustizia, ma soprattutto vittima di Fabio Savi, uno dei killer della banda, quello che era il suo uomo. Eppure per tutti è sempre la ragazzina venuta dall'Est, smaliziata, amante delle belle cose, complice nelle rapine, rimasta a fianco del killer, compiacendosene. In questi anni Mikula ha provato a contattare i familiari delle vittime, quei 24 innocenti uccisi a sangue freddo dai componenti della gang, composta perlopiù da poliziotti. «Ma sono stata scacciata come un cane randagio», si sfoga. Così, alla fine, davanti a richieste di attenzione che non hanno avuto risposta, oggi a più di quarant'anni, ha deciso di scrivere un libro, Vuoto a perdere, dove sulla copertina si immagina una sorta di Cappuccetto rosso in preda al lupo.
Signora Mikula, ma lei si vede veramente così?
«Ho subìto sette processi, dai quali sono stata sempre assolta per non aver commesso il fatto. Ho aiutato la giustizia nelle indagini, ed è grazie alle mie dichiarazioni se la banda è stata arrestata. Ma per gli inquirenti era difficile dire che una ragazzina dell'Est, clandestina, li aveva aiutati a catturare quelli della Uno bianca. La verità non è stata raccontata fino in fondo. E ogni giorno emergono nuovi elementi».
Lo Stato, però, non ha ritenuto di doverle dare una protezione, l'ha sempre considerata complice?
«Sono stata sotto regime di protezione del ministero dell'Interno per quattro mesi, tempo di catturare i componenti della banda, poi niente più. Ho faticato tantissimo per andare avanti, ero totalmente sola, ma alla fine sono riuscita a costruire una vita normale e onesta».
Non sembra aver fatto completamente pace con quegli anni: non appena ha pubblicato il libro ne ha mandato una copia a Fabio Savi in carcere, perché?
«Quando è circolata la notizia che stavo scrivendo un'autobiografia lui ha inviato una lettera aperta a un quotidiano, nella quale mi diceva che si sarebbe rivolto ai magistrati se andavo avanti nel mio progetto, che dovevamo parlare e che non dovevo fare questa cosa. Voleva ancora una volta condizionare la mia vita, come ha fatto in quegli anni. E quindi gli ho inviato quello che avevo scritto. È stato un modo per dirgli che non mi faceva più paura».
L'ha denunciata per calunnia e diffamazione.
«Dice che non sono vere le botte, le violenze, le minacce subìte durante la nostra relazione. A lui parlare e raccontare la vita privata in pubblico crea disturbo e rabbia più dei 24 omicidi commessi. Avevo 16 anni quando l'ho conosciuto, lui ne aveva 32, non avevo famiglia, ero una clandestina venuta dall'Est: cosa volete che capisca una ragazzina di omicidi, di bande? Lui per me faceva il camionista, dopo un anno e mezzo ho scoperto che era un assassino».
E perché non è fuggita?
«Avevo paura. Dove potevo nascondermi senza aiuti né amici?».
Durante i processi è emerso che aveva molta dimestichezza con le armi, che le conosceva bene, dove ha imparato?
«Savi era un appassionato di armi, le sue erano tutte regolarmente dichiarate. Gliele ho viste maneggiare di continuo: all'età che avevo si è come una spugna, si assorbe tutto. Ho imparato a conoscerle senza volere, vivendoci insieme».
Le accuse nei suoi confronti sono state anche quelle di avere investito del denaro della banda in Ungheria.
«Sono state fatte le indagini e sono stata assolta da tutti i reati».
In che modo è stata l'artefice della cattura dei fratelli Savi?
«Gli investigatori sono arrivati sulle tracce della banda per una informativa Interpol attraverso una segnalazione che era partita dall'Ungheria. Sono stata io ad allertare un mio amico giornalista ungherese. Gli ho telefonato per chiedergli aiuto, gli ho detto che i Savi facevano scomparire delle ragazze che non volevano prostituirsi e che avrebbero fatto la stessa cosa con me. Era il modo per avvertirlo che c'erano delle persone morte. Ha capito che ero in pericolo».
Ha avuto un ruolo nella banda?
«Io sono stata psicologicamente assoggettata e condizionata da Fabio Savi, così come sta tentando di fare ancora oggi con le sue lettere e le sue denunce».
Era molto giovane non sarà rimasta affascinata da quel tipo di vita, dai soldi che circolavano?
«Quando ho capito quello che stava succedendo era troppo tardi. Era gelosissimo, violento, per lui ero una mina vagante, sapevo troppe cose, non mi avrebbe mai lasciata andare, mi avrebbe cercata ovunque. Ho pensato che l'unica soluzione fosse rimanere neutra ai suoi occhi».
Durante i processi il principale accusatore nei suoi confronti è stato proprio lui: ha raccontato che era stata complice nelle rapine e negli omicidi.
«Forse perché l'ho fatto arrestare, lo avevo tradito».
Cosa era la Uno bianca, perché uccidevano così?
«Io credo che tutto abbia avuto origine da una serie di profonde ingiustizie che hanno subìto i fratelli Savi, alle quali le istituzioni non hanno dato risposte. Da qui sono nati la voglia di farsi giustizia da soli, il senso di onnipotenza e il disprezzo per la vita umana».
Se tutte le persone insoddisfatte si facessero giustizia da sole, sarebbe una strage continua. Che vita è stata quella di Eva Mikula dopo gli arresti nel 94?
«Sono stati tanti i pregiudizi nei miei confronti. Non è stato facile risollevarmi».
E oggi?
«Oggi ho una bellissima famiglia, dei figli, lavoro nel settore immobiliare, mi sono perfettamente integrata nella società italiana, ho tante amicizie. E poi mi sto dedicando a una cosa alla quale tengo molto: faccio volontariato in un'associazione che contrasta la violenza sulle donne. Porto la mia esperienza, di una persona che è riuscita a uscire dall'inferno».
"La mia vita con il capo banda". Ecco i segreti sulla Uno bianca. Il libro autobiografico di Eva Mikula curato dal giornalista Marco Gregoretti: la ex di Fabio Savi racconta tutto, pubblico e privato, dei trentatré mesi accanto al capo della banda. Eva Mikula e Marco Gregoretti - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. “Vuoto a perdere, verità nascoste sulla Banda della Uno Bianca” è il titolo del libro autobiografico di Eva Mikula curato dal giornalista Marco Gregoretti. Già disponibile online e nella versione cartacea. Duecentocinquanta pagine, quattordici capitoli con foto e documenti, dove la ex di Fabio Savi racconta tutto, pubblico e privato, dei trentatré mesi accanto al capo della banda accusata di aver ucciso ventiquattro persone e di averne ferite centodue, della sua vita da ragazza, delle settimane sotto scorta e delle assoluzioni nei tre gradi di giudizio. E, soprattutto rivela la vera storia della cattura dei criminali. Ecco, in anteprima per IlGiornale.it gli stralci di due capitoli di Vuoto a perdere dove Eva Mikula spiega il suo ex, nonché capo della Banda della Uno bianca, visto da vicino. “Guardavo Fabio ammirando ogni suo gesto, tutto era nuovo ed emozionante per me: la mattina mentre si faceva la barba, come si vestiva, quello che raccontava e come lo raccontava. Era un’emozione reciproca, perché anche lui era incuriosito da me, dalla mia gestualità, dal mio piccolo mondo di ragazza che cresceva e che diventava donna. Mi scrutava con la coda dell’occhio quando mi mettevo il rossetto. Sorrideva perché vedeva che me lo passavo anche sulle guance e lo spalmavo con le dita. Facevo lo stesso sulle palpebre. Prima di andare a dormire mi lavavo i calzini e la mutandina. Lui non capiva, poi si accorse che ne avevo solo un paio di entrambe. L’unico make-up era il rossetto. Ancora non so se lui era affascinato da questa mia dimensione, oppure se gli facevo pena, fatto sta che cominciò a fare avanti e indietro dall’Italia, con cadenza quasi settimanale. Mi chiedeva se mi sarebbe piaciuto andare a vivere con lui. Voleva sapere dettagli sulla mia famiglia: ma a 16 anni avevo ben poco da raccontare. Per lui era importante sapere che io fossi sola, che nulla potesse intralciarlo, ma questo lo scoprii solo molto tempo dopo. Diedi poco peso alla sua insistente richiesta di informazioni sui legami familiari. Lui per me, rappresentava la certezza. Tutti i giorni, a un orario convenuto da una cabina telefonica lo chiamavo al telefono di casa, dove viveva con la moglie e con un figlio. Se finivano le monetine, lui mi ritelefonava. Andò avanti così per un mese e mezzo, finché un giorno dall’altra parte del filo mi rispose una voce di donna infuriata che mi insultava. Fabio le tolse di mano la cornetta e le disse di non intromettersi. Ho riagganciato sbattendo la cornetta del telefono e me ne andai via piangendo e con la fastidiosa sensazione di essere stata presa in giro: il matrimonio non era ancora finito, come invece mi aveva fatto credere Fabio. Mi disturbava l’idea che litigassero e si separassero a causa mia, anche perché avevano un bambino piccolo. Decisi quindi di non chiamarlo più. Non me lo aspettavo, eppure accadde; erano passate due settimane dall’ultima telefonata con Fabio e io poco a poco cercavo di ritrovare serenità dentro di me. Una sera, tornando a casa dal lavoro, notai la sua auto sotto la palazzina dove abitavo. Sì, era proprio la Lancia Thema nera sulla quale ero già salita altre volte. Controllai la targa, era italiana”…“Per me il problema diventò molto serio, avevo veramente sbagliato le parole. Fabio temeva che se mi avesse lasciato andare, io non avrei taciuto sui segreti della banda della Uno bianca, almeno quelli che conoscevo direttamente, decretando così la loro fine. Mi guardò pieno di rabbia e di veleno e mi sfidò: “Fallo adesso! Dai chiama il 113, coraggio fammi vedere di cosa sei capace!”. Con violenza mi prese per un braccio, stringendomelo, e mi trascinò con forza davanti al telefono pubblico dell’autogrill, il mio vantaggio del fattore campo si era improvvisamente azzerato. Il suo sguardo terrorizzante era fisso sui miei occhi, quasi come stesse cercando di leggermi nei pensieri, con una mano mi teneva stretta sotto l’ascella, con l’altra mi puntava la pistola al fianco destro. Avevo paura, pensavo di essere giunta al capolinea della mia vita, ma non lo feci vedere perché ero pronta a morire, pur di non proseguire con lui. Con la mano libera presi la cornetta del telefono, la alzai e composi il numero 113. Rimase di stucco, non ci voleva credere, e quando sentì che una voce aveva risposto, schiacciò il gancio per riattaccare e mi spinse fuori dall’autogrill, al buio, nel parcheggio in mezzo ai camion. “Ok” pensai, “per me è finita qui”, vidi la morte in faccia. “Che cosa vuoi fare?” gli chiesi con voce tremante. Lui restava in silenzio e continuava a spingermi verso il buio, sul retro dell’autogrill. Cercavo di calmarlo “Non ti agitare, non serve, parliamone”. Per accendersi una sigaretta allentò la presa sul mio braccio. Mi divincolai con uno scatto e cominciai a correre a perdifiato. Correvo verso la luce dell’autogrill e aspettavo il rumore dello sparo e l’arrivo veloce e violento del proiettile nella carne. Correvo muovendomi a zig, zag. Riuscii a entrare all’interno del bar dell’autogrill, rallentando il passo e trattenendo il fiatone, mi rimisi seduta al tavolo. Appoggiavo per terra la punta dei piedi e fissavo il cameriere, gli stavo gridando aiuto con lo sguardo. Ero esausta, disperata, stravolta e piangevo. Il barista capì, si accorse che qualche cosa non andava per il verso giusto. Arrivò anche Fabio che, stranamente, si sedette con le spalle rivolte all’ingresso. Stavolta ero io di fronte a lui che potevo osservare chi entrava e chi usciva. Era stato proprio Fabio a spiegarmi, quando facevamo i viaggi in Ungheria, che a quell’ora c’era il cambio di turno delle volanti della Polizia stradale, e che, quando avveniva, i poliziotti, per consuetudine, entravano nei bar degli autogrill a prendere il caffè”…
I servizi, la spia, la Uno Bianca: "Ecco tutta la verità sulla banda". Alle stampe il libro Vuoto a perdere di Eva Mikula curato da Marco Gregoretti: "La mia vita con i Savi". Marco Gregoretti, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Si presenta così Eva Mikula a chi le chiede: scusi, era proprio il caso di scrivere un libro su quei tragici fatti, dopo 25 anni? "Io ho sempre sottaciuto alle ingiurie e alle cattiverie di chi ha tratto vantaggi e benefici dal 'fenomeno' Banda della Uno bianca. Poi ho deciso che era giunto il momento di dire basta e di ristabilire certe verità, scomode per il sistema". Sono tutti agitati a Bologna e non solo. Forse anche a Roma, in qualche ufficio ministeriale, su su in alto. In procura, in alcune redazioni locali e nazionali, tra gli investigatori, nei sussurri dei servizi segreti. E pure in cella, come ricostruito dal Giornale.it. Mancano pochi giorni a domenica 14 febbraio, data prevista per l’uscita, nelle due versioni e-book e cartacea, di Vuoto a perdere. Verità nascoste sulla Banda della Uno bianca (Edizioni Il Ciuffo), l’autobiografia con cui Eva Mikula, che fu per 33 mesi la compagna di Fabio Savi, ritenuto il capo della gang, racconta se stessa e gli eventi nascosti tra le carte, occultati, insabbiati, di una storia sanguinosa. "Scriverlo - dice ancora Eva Mikula al Giornale.it - È stato per me un momento di riscatto, non più procrastinabile date le continue menzogne sulla cattura della banda, gettate in pasto all’opinione pubblica, creandomi negli anni moltissimi inconvenienti". I sei componenti (Fabio, Roberto e Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli), di cui cinque poliziotti, tra il 1987 e il 1994, secondo gli atti processuali, uccisero 24 persone e ne ferirono 102 durante assalti e rapine. Tra le vittime anche tre giovani carabinieri uccisi la sera del quattro gennaio 1991 nel quartiere bolognese del Pilastro. Se una ragazza appena diventata maggiorenne, una terribile notte tra il 23 e il 24 novembre 1994, non avesse, a proprio rischio e pericolo, raccontato tutto ciò che sapeva, rilasciando una drammatica testimonianza ai poliziotti del commissariato di Rimini, davanti a tre magistrati, chissà quanto ancora lunga sarebbe stata la scia di sangue. Il punto è proprio questo. I quattordici capitoli, le fotografie, i documenti e le 250 pagine di Vuoto a Perdere spiattellano in maniera incontrovertibile chi furono i veri eroi che consentirono agli investigatori e agli inquirenti, dopo sette anni e mezzo di nulla assoluto, di venirne a capo: Eva Mikula e il suo amico giornalista ungherese László Posztobányi (leggi qui). Ma questa semplice verità, contenuta fin dal primo verbale, per ragioni probabilmente inconfessabili, è stata dimenticata, "insabbiata" a favore di riflettori e di giochi politici. I fratelli Savi e i loro complici dovevano a tutti i costi, secondo un’ipotesi giudiziaria cercata e mai trovata, essere pericolosi terroristi al servizio di apparati deviati ed Eva Mikula una adolescente spia venuta dall’est. Un teorema nel paese dei teoremi che contribuì a regalare gloria e fama (e forse non solo) a miti immaginari. E allora il libro di Eva Mikula costituisce un vero pericolo per chi ha mentito o per chi ha taciuto. Ed ecco che è bastato l’annuncio che era stato scritto davvero, per assistere a pressioni e a reazioni non sempre composte e sobrie. La più clamorosa è stata quella di Fabio Savi, condannato per i delitti della banda che, dal carcere, attraverso il suo avvocato Fortunata Copelli, ha fatto pervenire ai giornali e alle agenzie una lettera rivolta alla sua ex: "Ti piacevano i gioielli e i vestiti. Smettila di cercare visibilità". Due capitoli interi di Vuoto a perdere sono dedicati alla storia prima d’amore e poi di terrore tra una ragazzina e un uomo che rapinava e uccideva. Un “amore perverso”, lo definisce la stessa Mikula, iniziato in un ristorante di Budapest quando aveva 16 anni (e Fabio Savi 32), e finito 33 mesi dopo, una notte in un autogrill dell’autostrada, vicino a Tarvisio, tra i lampeggianti delle volanti della polizia. "Mi aspetto che il libro - spiega ancora Eva Mikula al Giornale.it - in particolar modo a partire dalle pagine che riguardano gli aspetti della mia vita con Fabio Savi, possano contribuire alla ricerca della verità. In molti hanno sbagliato. E gli errori furono determinati da un grave condizionamento ambientale”. La giovane protagonista subì anche alcuni processi per le dichiarazioni fatte dal carcere dai fratelli Savi che la collocavano presente durante i sopralluoghi di due rapine, finite nel sangue. Dichiarazioni poi ritrattate e che odoravano di vendetta. Anche perché fu assolta per non aver commesso il fatto in tre gradi di giudizio. ”Il Fabio Savi che avevo conosciuto a Budapest era una persona perbene, paziente e premurosa. Percorreva migliaia di chilometri per venirmi a trovare e aveva lasciato la moglie per dimostrarmi il suo amore. Nell’aprile del 1992 lo seguii in Italia. Aveva già ucciso 22 persone. Ma non ce l’aveva scritto in fronte. Non ne sapevo nulla. Dopo un anno e mezzo di convivenza era diventato geloso, pieno di ira e di malvagità. In un suo scatto violento aveva distrutto il mio amato violino, l’unico legame con il mio breve passato”. Iniziarono le botte, tante botte. E con loro la richiesta di aiuto al giornalista László Posztobányi e la decisione di Eva Mikula di mettersi in salvo e di far arrestare l’uomo che aveva tanto amato. "Fu una decisione dolorosa. Quasi come quella di una madre che deve denunciare il proprio unico figlio, con la consapevolezza di non vederlo mai più. E con la paura che l’ultimo colpo del caricatore della sua Beretta lo destinasse a me". La ragazza di 19 anni che rese possibile mettere al sicuro le strade percorse dalla Banda della Uno bianca, era in qualche modo ancora innamorata. "Almeno di quella parte di lui che avevo conosciuto all’inizio, che mi aveva mostrato con dolcezza. Non potrò mai dimenticare il momento in cui si lasciò ammanettare i polsi. Mi guardò intensamente e a lungo negli occhi, nemmeno lui ci poteva credere, nemmeno lui si rendeva conto di ciò che stava realmente accadendo in quel frangente. Le parole che gli uscirono dalla bocca le ho stampate nella testa: Eva, l'ho fatto per te. No, pensai. È giusto che tu ti sia fatto arrestare. Non per me, per tuo figlio. E per tutta l’umanità". Vuoto a perdere sarà un pieno di benzina esplosiva. “È ora che vengano rimesse a posto le cose - chiosa Eva Mikula -E che sia raccontata la verità. Io, sappiatelo, non mi fermo”.
"Qualcuno protegge i fratelli Savi...". Le ombre sulla banda della Uno Bianca. A 27 anni dall'arresto dei componenti della banda della Uno bianca, sono ancora tante le ombre. Se chi ha condotto le indagini parla di "corpo di indagine corretto", per i familiari delle vittime non tutta la verità sarebbe emersa. Elena Ricci, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale. Si dice stupito per la riapertura delle indagini, Roberto Savi, il "corto" della banda della Uno bianca e capo della stessa insieme ai fratelli Fabio e Alberto. L’ex poliziotto di Rimini sta scontando l’ergastolo presso il carcere di Bollate. Ad averlo informato sulla nuova indagine e del carteggio depositato in Procura, come riporta la stampa locale, è stato il suo avvocato per tramite del quale Roberto Savi fa sapere dal carcere che non c’è un’altra verità diversa da quella già resa ai magistrati. Eppure, secondo alcuni familiari delle vittime, i punti oscuri sulla vicenda sarebbero diversi e le versioni emerse durante i processi non sarebbero soddisfacenti. I familiari delle vittime vorrebbero vederci chiaro, poiché non tutta la verità sarebbe emersa e, soprattutto, non tutti i responsabili avrebbero pagato. Ad oggi non è ancora chiaro cosa abbia spinto i fratelli Savi a seminare terrore e morte e se ci fosse qualcuno o qualcosa a muovere i fili delle loro azioni. E se da una parte, prendendo in esempio le diverse rapine, si pensa a una questione legata ai soldi, dall’altra è ben chiaro che l’intenzione dei membri della banda, durante i vari agguati, era quella di uccidere. Il nodo "oscuro" sarebbe proprio il perché, il motivo di questo spargimento di sangue. Mentre Ludovico Militilini, fratello di uno dei carabinieri uccisi nella strage del Pilastro, preferisce non commentare le dichiarazioni di Roberto Savi, Vito Tocci, ex carabiniere, sopravvissuto a un agguato, sostiene che in questura a Bologna più di qualcuno avrebbe saputo e non avrebbe parlato. Rosanna Zecchi invece, presidente della associazione "Familiari vittime della Uno bianca", sostiene, così come dichiarato in una intervista al Tg2, che qualcuno avrebbe protetto i Savi, continuando a proteggerli ancora oggi nonostante si trovino in carcere, anche se Roberto Savi ha più volte negato altre complicità rispetto a quelle dei membri della banda, così come suo fratello Fabio che, provocatoriamente, durante i processi, ha sempre sostenuto che dietro la Uno bianca ci fossero solo targa e paraurti. Poi c’è chi, da poliziotto della squadra mobile, ha preso parte all’indagine che ha portato in cella i fratelli Savi e parla di corpo dell’indagine eccellente, senza però escludere che qualcuno, magari tra le persone più vicine ai Savi, possa aver notato un cambiamento in loro che, se intercettato per tempo, avrebbe potuto fermare prima i killer. Si tratta di Antonio Cardinali, oggi ispettore superiore della Polizia di Stato in quiescenza. Il 28 agosto 1991, Cardinali, assistente della Polizia appena trentenne, rimase ferito in un conflitto a fuoco proprio con due dei fratelli Savi, Roberto e Fabio, mentre fuggivano dopo aver messo a segno una rapina a Pesaro. Cardinali, in pattuglia con un altro collega, trovandosi a sud rispetto al luogo della rapina, per accorciare i tempi, decise di intraprendere una strada secondaria: "Notammo una prima auto, una Golf bianca targata Forlì, con una persona a bordo e la sorpassammo – racconta Cardinali al Giornale.it – subito dopo ne notammo un’altra, una Fiat Regata bianca, sempre targata Forlì e la cosa ci insospettì. Ci avvicinammo e notammo la persona sul lato passeggeri, girarsi di continuo verso di noi. Quello era Fabio Savi, ma noi non potevamo immaginare". Notati i due tipi sospetti, i due agenti pensano che si tratti dei rapinatori, ma non collegano affatto i due alla banda della Uno bianca. "Comunico la targa in centrale, alzo la paletta e decido di procedere al controllo. Impugno l’arma e, proprio quando sto per avvicinarmi, Fabio Savi inizia a sparare e con lui anche suo fratello Roberto che era alla guida". Sui due poliziotti una scarica di trenta colpi. Un proiettile passa in verticale e causa a Cardinali una bruciatura al torace. L’altro gli rompe completamente l’ulna e si ferma nel bacino. Cardinali e il collega si buttano a terra, il braccio cede, è rotto e lui sanguina. I Savi continuano a sparare e fuggono via. I due poliziotti vengono in seguito soccorsi da una coppia di passaggio e accompagnati in ospedale. Cardinali, in servizio alla Squadra Mobile, proprio per i crimini commessi a Pesaro dalla banda della Uno bianca, ha lavorato all’interno del pool investigativo del quale facevano parte i poliziotti Luciano Baglioni e Pietro Costanza, coloro i quali hanno smascherato i fratelli Savi. “Il corpo delle indagini era ottimo – racconta Cardinali – sono state condotte in modo corretto. Gli episodi sono stati tantissimi, parliamo comunque di una vicenda complessa e trent’anni fa non c’erano le tecniche investigative che conosciamo oggi. Io credo che i responsabili materiali siano stati individuati. Si vociferava, nei nostri ambienti, che potessero essere appartenenti alle forze dell’ordine, per via delle tecniche che utilizzavano nei conflitti a fuoco. Ci sono modi di impugnare l’arma e di fare fuoco, propri di chi è un appartenente o frequenta poligoni. Ma erano solo voci". Il perché i Savi avessero intrapreso questa strada e il movente resta, più che sconosciuto, incompreso. "È stato doloroso – dice Cardinali – e non solo in senso fisico. È stato doloroso sapere che a sparare siano stati dei nostri colleghi. Nonostante ciò, ho continuato a guardare con orgoglio alla mia divisa, ho continuato a lavorare nella squadra mobile, ad occuparmi di criminalità e rapine, proprio quel tipo di reati di cui si si sono macchiati i componenti della banda della Uno bianca”.
La banda della Uno bianca, l'agguato shock e quei 4 colpi ancora nella schiena. Vito Tocci, ex Carabiniere, sopravvissuto a un agguato della banda della Uno bianca riuscendo a mettere in salvo il suo equipaggio, non si dà pace: per lui ci sarebbero ancora lati oscuri nella vicenda. Elena Ricci, Mercoledì 20/01/2021 su Il Giornale. Oggi ha quasi sessant’anni e dentro di lui, oltre al ricordo delle vittime, porta ancora i segni dell’agguato a cui è sopravvissuto. Colpito da sette colpi di fucile calibro 12, quattro dei quali sono rimasti nella sua schiena da trent’anni, oggi Vito Tocci, può ancora raccontarlo. Era il 30 aprile 1991 ed erano trascorsi pochi mesi dalla strage che aveva sconvolto l’Emilia Romagna e che aveva visto cadere sotto una pioggia di 122 proiettili, nel quartiere Pilastro di Bologna, tre giovani carabinieri: Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, per mano dei killer della cosiddetta "banda della Uno bianca". Vito Tocci aveva 27 anni, prestava servizio a Rimini e quella sera iniziò il suo turno all’una di notte. Con lui nell’auto di pattuglia, c’erano altri due carabinieri di leva: Mino De Nittis alla guida e Marco Madama sul sedile posteriore. Un turno come tanti altri. Mentre Vito si accinge a raggiungere la caserma, nota vicino allo stabile una persona che si guarda intorno con fare sospetto. "Sembrava una donna - rivela Tocci - appena usciti dalla caserma abbiamo fatto un giro dell’isolato, ma questa persona non c’era più, non siamo riusciti più a vederla".
L'agguato. Dopo essersi diretti verso la statale per raggiungere un altro collega, la centrale comunica a Tocci e al suo equipaggio di recarsi alla stazione di Rimini per un intervento. La Fiat Ritmo sulla quale viaggiavano si avvia verso la stazione e, poco dopo, in località Marebello a circa 50 metri da un cavalcavia, iniziano ad arrivare i primi colpi. Un boato fortissimo, il lunotto posteriore va in frantumi, Tocci capisce subito: è un agguato e ordina immediatamente al carabiniere, che è alla guida dell'auto, di accelerare e di eseguire alcune manovre che, di fatto, li hanno portati in salvo, mettendo l’auto fuori dall’area di tiro dei criminali. Le pallottole di un fucile a canne mozze si erano conficcate ovunque. Nel poggiatesta dell’auto, scongiurando il peggio e nel corpo dei tre militari. “Appena ho lanciato l'allarme via radio alla centrale – rivela Tocci al Giornale.it – l’auto con i sicari si è dileguata. Noi ci siamo portati sul lungomare per cercare di capire chi fossero, li avrei affrontati, ma i colleghi e anche io, eravamo feriti, quindi ci siamo recati in ospedale”. Per Tocci, così come per altri famigliari delle vittime, alla base di questi agguati vi era la volontà di uccidere. Subito dopo l’agguato arriva la rivendicazione di un gruppo terroristico che si faceva chiamare "Falange Armata" ma per Tocci, si trattava di un subdolo tentativo di depistaggio, infatti le perizie balistiche hanno in seguito stabilito che si trattava delle stesse armi con le quali la banda della Uno bianca aveva già commesso altri agguati, compreso quello del Pilastro.
Emilia Romagna nel terrore. Numeri sconvolgenti quelli provenienti da bilancio dell’attività della banda criminale: 103 crimini, 102 feriti e 24 morti di cui 5 carabinieri. “Le vittime le ricordo tutte, le ho conosciute, le porterò sempre con me – dice Tocci -. Questa banda criminale ha sconvolto per anni l’Emilia Romagna. La gente aveva paura, si nascondeva nei campi Rom”. Eppure per Tocci, così come per altri famigliari delle vittime come Ludovico Mitilini, fratello del carabiniere Mauro, qualcosa non torna e ci sarebbero contorni poco chiari nella vicenda, motivo per il quale è stata chiesta la riapertura delle indagini. “Io, così come altri, sono convinto che non tutti i responsabili abbiano pagato – dice Tocci –. Il minimo dovuto alle vittime è che si cerchi la verità fino in fondo”.
I sopravvissuti. Vito Tocci, insieme ad altre vittime sopravvissute come la poliziotta Ada Di Campi, è stato fondatore e presidente dell’associazione “Vittime della Uno bianca”, oggi presieduta da Rosanna Zecchi. Vito Tocci, dopo quell’agguato, è rimasto nell’Arma altri otto anni, poi è stato riformato in seguito alle invalidanti conseguenze dei quattro proiettili ancora presenti nella sua schiena, ma continua, come può, a portare ovunque la sua storia e la sua testimonianza.
Lo status di vittima. Riconosciuto lo status di vittima del terrorismo, Tocci ha ricevuto dallo Stato quanto previsto in questi casi, lamenta però un abbandono da parte della giustizia, nel momento in cui vengono riconosciuti permessi premio, come nel caso di quello ottenuto a Natale da Alberto Savi, ex agente di polizia e fratello minore dei leader della banda. “Non si sono mai pentiti. Non hanno mai chiesto scusa. Non mi sembra giusto – dice Tocci – che vengano concessi loro permessi premio su richiesta, mentre io, vittima se chiedo qualcosa al Ministero mi tocca aspettare non so quanto”. Vito Tocci soffre ancora oggi di un dolore non solo fisico, ma soprattutto psicologico: “Da quel giorno la mia vita è cambiata – ha detto – non ho potuto più fare nulla. Sono distrutto fisicamente e psicologicamente perché l’agguato non mi è stato teso da un capo cosca o da un pusher. L’agguato mi è stato teso da colleghi e questo mi ha ferito due volte”.
Uno bianca, parla il testimone : "Così venne catturata la banda". László Posztobányi conobbe Eva Mikula: "Non ho paura dei Savi". Oggi è l'anniversario della strage del Pilastro ad opera della banda della Uno bianca. Marco Gregoretti, Lunedì 04/01/2021 su Il Giornale. Oggi, a quasi settant’anni, fa il poeta e il musicista. Ma è stato a lungo un cronista d’assalto che si guadagnava da vivere a suon di scoop. Nelle migliaia e migliaia di pagine di atti sulla banda della Uno bianca, (I fratelli Savi: Fabio, camionista, Alberto e Roberto, poliziotti come Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli), decine di rapine, 24 morti e un centinaio di feriti tra il 1987 e il 1994, c’è anche il suo nome. E figura fin dal primo interrogatorio di Eva Mikula, all’epoca giovanissima fidanzata di Fabio Savi. Si chiama László Posztobányi, è nato, vive e lavora in Ungheria, a Budapest e conobbe Mikula nel gennaio 1992, quando era una ragazzina appena scappata dalla Romania, che lavorava in un bar ristorante di Budapest. Il suo ruolo per capire gli ultimi passaggi, sarebbe stato determinante se gli inquirenti avessero preso in considerazione quel che avevano a verbale. Così, nel giorno dell’anniversario della strage del Pilastro (4 gennaio 1991) che costò la vita ai tre Carabinieri Mauro Militini, Andrea Moneta e Otella Stefanini, mentre da più parti si chiede la riapertura delle indagini, ed è in arrivo Vuoto a perdere, il libro verità di Eva Mikula, Posztobányi ha deciso di sfatare alcuni miti e di raccontare per la prima volta, a Il Giornale.it, un pezzo di verità tenuta nascosta per 25 anni.
Posztobányi è sicuro di quanto sostiene? Che Eva Mikula parlò di lei subito dopo la cattura di Fabio Savi, quando stava per diventare testimone sotto protezione?
"Certo. Lo fece quando fu interrogata per la prima volta. È agli atti. Spiegò che io ero a conoscenza della sua situazione. Quindi, collega giornalista, non pensi che gli investigatori avrebbero dovuto cercarmi subito? Hanno interrogato pure le donne delle pulizie che sistemavano i bagni utilizzati dai Savi. Ma io non ero importante. E non lo sono neanche oggi. Se vogliono mi sottopongo alla macchina della verità, in qualsiasi momento. C’è un detto in Ungheria: l’uomo bugiardo viene raggiunto prima del cane zoppo. E il cane zoppo sono io, in questo caso."
Scusi, ma a quale situazione di Eva Mikula fa riferimento?
"A quando Eva si rese conto di che cosa facevano questi criminali e voleva scappare. I Savi volevano disfarsi di lei".
Rischiava di essere uccisa?
"Faccia lei. Mi diede il numero di telefono di casa, dove abitava con Fabio Savi. Lo informò che se io l’avessi cercata senza trovarla, avrei agito di conseguenza. Così feci. Per questo è viva…".
Quindi è vero che Eva Mikula le chiese aiuto e che lei si rivolse ai servizi segreti ungheresi per aiutarla?
"Proprio così. Esatto. E quella è stata la prima chiave per la scoperta della banda, dei componenti di quel gruppo. Diedi il recapito di Eva ai due capi del Servizio Centrale Operativo Contro la Criminalità Organizzata (SZBO ungherese) spiegando che stavano trattenendo una ragazza contro la sua volontà. La notizia arrivò all’Interpol che la girò ai colleghi italiani. Da lì in poi tutto accelerò. Soltanto che i poliziotti italiani pensavano di aver messo le mani su una organizzazione che faceva sparire ragazze dell’Est. Fu Eva a raccontare, invece, in che cosa si fossero imbattuti".
Che notizie arrivavano in Ungheria su questa vicenda?
"Potevo conoscere soltanto le corrispondenze che provenivano da Roma, diffuse dall’Ufficio telegrafico ungherese. Ne sentii e ne lessi di tutti i colori. Perfino che Eva fosse una spia e che era stata sottoposta a un esame genetico delle ossa perché non credevano all’età che dichiarava. Pensavo che nei vostri Tribunali avessero qualche problema con la testa. Lo dico seriamente…".
Ci racconti, allora, che cosa sa lei di Eva Mikula. Quando e come l’ha conosciuta?
"Eva era una ragazza sfortunata. Quando la conobbi, a Budapest nel 1992, mi raccontò di lei e delle sue ferite. Io stavo lavorando a un’investigazione giornalistica. C’erano tante ragazze sparite da salvare. Eva non era l’unica finita tra le grinfie di bande straniere. Ma i dettagli li troverete nel libro che sta scrivendo".
Lo so bene. È un libro verità.
"Sì, un libro verità. Si intitola Vuoto a perdere".
C’è ancora un dettaglio investigativo importante che la riguarda. Durante uno dei processi per i fatti della banda della Uno Bianca, Tamas Somogy, dall’Ungheria, chiese spontaneamente di essere sentito su un presunto traffico di armi. Il giudice acconsentì. Lei avrebbe dovuto accompagnarlo in Italia. Ma, poche ore prima di partire la informarono che la trasferta era stata annullata. Somogy fu così condannato in contumacia nel 1996, anche se, poi, il 18 maggio 2004 la Corte europea dei diritti umani si è pronunciata a suo favore. Come mai saltò quel viaggio, secondo lei? Chi lo fece annullare?
"Ritengo improbabile che sia stato un giudice a prendere quella decisione. Penso piuttosto che ci sia lo zampino di pubblici ministeri che non volevano saltasse fuori, con la mia presenza, la verità sulla cattura. E cioè che era stata Eva a metterli sulla pista giusta. Se avessi potuto accompagnare Somogy e avere l’opportunità di incontrare i giornalisti italiani…".
Come ha ricordato lei, però, le bugie hanno le gambe corte. E prima o poi la verità viene a galla. Anche lei quest’estate ha scritto una lettera alle autorità italiane su quanto successe 25 anni fa. Ha ricevuto risposta?
"Negli ultimi quattro mesi ho inviato messaggi a diverse autorità competenti italiane. Si sono ben guardate dal rispondermi. Ho scritto anche a vostri organi di stampa. Silenzio. Inaccettabile per me, come giornalista e come cittadino ungherese".
Che idea si è fatto di questo mutismo mediatico e istituzionale?
"Sono sicuro che la gestione sia ancora nelle mani di chi decide quali notizie possono essere date e pubblicate. Ma sono altresì certo che un giorno arriveranno le scuse da parte di costoro".
È vero che anche lei ha scritto un libro su questa brutta storia criminale italiana?
"Si intitola Hungaritalia ed è praticamente finito. È un viaggio lungo alcuni aspetti giudiziari legati ai crimini della banda della Una bianca. Il punto di vista che uso è quello dei diritti umani violati e di leggi non applicate in maniera giusta ed equa. Tornerò in Ungheria lasciando qui la mia verità. Dobbiamo rendere eroi quelli che davvero lo meritano e non coloro che raccontano al pubblico favolette per la propria busta paga".
E allora, chi sono i veri eroi della cattura dei fratelli Savi e degli altri componenti della banda?
"In primis Eva. La incoraggio ad andare avanti. Ha diritto alla verità. E poi io. Non ho paura dei Savi. Sono loro, forse, che hanno qualche cosa da temere".
· Il Mistero di Novi Ligure.
Erika e Omar, il delitto che ci ha cambiato. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2021. L’omicidio senza movente di una mamma e di un bambino, a Novi Ligure, per mano di due adolescenti, scatenò incubi e sgomento. Intatti anche oggi, a distanza di vent’anni. Fu la prima e unica volta che li vedemmo insieme. Non era il giorno della sentenza, che poi è la ragione di questo articolo, anniversario tondo, vent’anni fa la condanna di Erika e Omar, gli autori del delitto più atroce della storia recente e anche meno recente. «Una cosa del genere accade al massimo ogni secolo, per fortuna» disse l’allora presidentessa del Tribunale dei minori, Graziana Calcagno, che fino all’ultimo ha continuato a pensarci, a quel fatto di cronaca ormai lontano, eppure ancora così aguzzo e presente nella memoria di tutti, anche di chi scrive. Per la sua enormità, per le domande che obbligava qualunque madre o padre di famiglia a porsi, sui propri figli, che dopo l’infanzia non sappiamo più chi sono, quasi estranei che si muovono silenziosi nella stessa casa, sul ruolo di un genitore. Per l’assenza di qualunque spiegazione e di un movente plausibile, che rimase come un monito, a futura memoria.
L’ultimo fotogramma
«Abbiamo perso la sicurezza degli affetti» scrisse Giuseppe De Rita sull’onda di una emozione collettiva. A distanza di così tanto tempo, il caso di Novi Ligure resta una verità troppo nuda e un mistero senza parole che neppure le condanne, e le nuove vite dei protagonisti e le indiscrezioni pettegole sul loro conto possono chiudere. Anche perché da questo grumo originato dall’indicibile, dalla rottura di ogni tabù, uccidere la propria madre e il proprio fratello dodicenne che nel suo ultimo tema aveva scritto «Il mio miglior amico è mia sorella Erika» ben presto nacque un altro mistero che ancora oggi turba, suscita curiosità anche morbose, e riguarda solo e soltanto il rapporto tra un padre e una figlia. Tra un padre che non aveva più nulla se non la figlia che gli aveva preso tutto, ed era tutto quel che gli rimaneva. Così è giusto tornare all’unico fotogramma che almeno nella memoria li ritrae entrambi, perché in realtà a parte qualche sguardo rubato dal pertugio di una porta, quell’incontro ce lo raccontarono gli avvocati e gli uscieri del tribunale.
Il massimo della pena
Era l’udienza dell’11 dicembre 2001, mattina di sole ghiacciato, una folla di cronisti e telecamere a battere i piedi per il freddo, come al solito in attesa davanti al palazzo basso e squadrato di corso Unione Sovietica, dove si teneva il processo. Il pubblico ministero aveva appena formulato la richiesta di condanna. Il massimo della pena, venti anni per lei, 16 per il suo complice Omar Favaro. Al quale è sempre stata assegnata la parte del paggio, del fidanzato sottomesso, quasi fosse una nota a margine, quando invece nel suo stato apparente di imperturbabilità rappresentava un personaggio ancora più inquietante. Due giorni dopo il delitto, il mondo intero stava ancora cercando gli albanesi accusati da Erika. Ben presto si scoprirà che uno era una celebrità del bowling di Novi Ligure, e la sera del delitto stava facendo strike in compagnia di altre trenta persone, mentre l’altro era così reale che quando i carabinieri le avevano mostrato sia l’identikit di Michele Profeta, il serial killer di Padova, che una foto di Michele Placido, lei aveva risposto sicura che «era lui», in entrambi i casi.
La Lega e il ragazzo sul muretto di Novi
Intanto la Lega Nord faceva fiaccolate di protesta contro l’immigrazione clandestina «che porta gli assassini in casa nostra». Un bravo e rimpianto cronista del Messaggero, Mario Menghetti, si era messo in testa di fare un reportage sui ragazzi del muretto di Novi ligure, cosa ne pensavano di quel delitto così tremendo avvenuto a pochi metri dal loro luogo di ritrovo abituale. Era rimasto colpito da un adolescente che fumava e rideva, fumava e rideva, e intanto prendeva in giro i giornalisti, dicendo «minchia speriamo che li prendono», che l’unica legge è quella del taglione, e che «ai criminali che avevano fatto quel macello bisognerebbe tagliarci le balle».
La verità
Quel ragazzo si chiamava Omar Favaro. E da lì a poche ore sarebbe stato convocato in caserma con un pretesto insieme a Erika, rimanendo solo con lei in una stanza per qualche ora, senza sapere di essere ascoltato. E qui sarebbe facile ricopiare le intercettazioni, il dialogo tra due ragazzi che si rendono conto di aver colmato la misura dell’orrore con la tortura inflitta al povero Gianluca, che aveva 12 anni e idolatrava sua sorella e mentre si dibatteva nella vasca da bagno aveva strappato il coltello ai suoi carnefici e fu convinto con un sotterfugio dalla sorella a restituirlo, perché ancora si fidava di lei. «Io penso a tuo fratello...» «Eh, minchia aveva solo dieci anni vissuti, mio fratello. Poi ha urlato, quando uno lotta per...» «È un bambino, cazzo».
Mesi dopo il delitto e la sentenza, un criminologo oggi volto noto della televisione che cominciò la sua ascesa mediatica proprio con il delitto di Novi Ligure, volle far sfoggio della sua conoscenza del caso gettando sulla sua scrivania le foto della scena del crimine, per mostrarle al giornalista che lo stava intervistando. Sono passati molti anni, e molte altre storie, piccole e grandi. Ma ancora oggi, mi capita di sognare quelle immagini in bianco e nero. Gli occhi spalancati di Susy Cassini, la madre di Erika. Erano gli occhi di chi stava provando non solo lo strazio del proprio corpo, ma anche l’orrore di quel che stava accadendo. Quella donna morì sapendo che anche suo figlio stava per morire. E poi, il corpo martoriato di quel bambino.
L’abbraccio paterno
Una volta ogni secolo, davvero. Ma anche quel giorno, alla vigilia della sentenza, nessuno chiese di Omar. I suoi avvocati uscirono dall’aula pressoché indisturbati. Contavano solo Erika, e quel padre, l’ingegner Francesco De Nardo, che si trovava in una situazione incredibile, tanto paradossale quanto tragica. Non volle entrare in aula. Attese in corridoio, seduto su una panca. Lui non se la sentì di ascoltare la requisitoria, di risentire la storia di un massacro che era anche la sua storia. L’udienza precedente, quando il giudice gli aveva chiesto se voleva dire qualcosa sul futuro della figlia, aveva detto che preferiva non parlare, non se la sentiva. Poi aveva iniziato a piangere in modo sommesso. Nessuno aveva osato avvicinarsi a lui, neppure l’avvocato Mauro Boccassi di Alessandria, un galantuomo che in quei mesi di tempesta e di dolore fu per lui molto più di un semplice legale. Dopo aver sentito le richieste dei pubblici ministeri, fu invece Erika a scoppiare in lacrime e singhiozzi. Si spalancò la porta, e lei - la intravedemmo per un attimo soltanto, indossava un piumino con il collo di pelliccia, aveva una espressione stravolta, stava urlando qualcosa che non riuscimmo a udire - si buttò tra le sue braccia.
«Che cosa avreste fatto al posto del padre?»
Sui giornali dei giorni seguenti, molti si chiesero cosa avrebbero fatto al posto di quel padre. Mollarla? Lasciarla cadere? Darle una sberla? Francesco De Nardo invece la abbracciò. E le disse di farsi coraggio, ripetendo a sua figlia che non bisognava arrendersi. La tenne stretta, come aveva cominciato a fare subito dopo la scoperta che era stata lei, e come avrebbe continuato a fare negli anni, con una risolutezza che non hanno mai avuto deroghe o concessioni. Come se salvare quella figlia considerata da tutti un mostro per quel che gli aveva fatto fosse diventato per lui l’ultima ragione di vita, una missione da compiere per redimere, per espiare, forse l’unico modo per salvare entrambi. Quell’incontro e quei gesti rappresentarono un sigillo. Non importa se fu per stanchezza, per paura e per vero dolore, ma il pianto di Erika, per quanto giudicato con severità dai media, che avevano ancora negli occhi il racconto delle atrocità nella villetta di Novi Ligure, fu il primo segno di una consapevolezza, il primo passo di un percorso. Da quel momento, da quando fu pronunciata la sentenza di condanna, la figlia uscì di scena, come era giusto che fosse. Ogni tanto il suo nome riaffiorava sulle cronache, qualche foto rubata, qualche dettaglio sulla sua nuova vita. Nel 2011, quando finì di scontare la sua pena e tornò libera, sui social dell’epoca apparvero commenti sdegnati, gruppi Facebook contrari alla scarcerazione raccolsero in poche ore migliaia di iscritti. L’unico che in qualche modo non è mai andato via è l’autore di quell’abbraccio. Il vero mistero, così semplice nella sua nobiltà d’animo da apparire di difficile comprensione per chiunque altro non abbia avuto la sventura di vestire i suoi panni, è proprio lui, il padre.
Un uomo salvo per caso
Quel 21 febbraio 2001, l’ingegner De Nardo era uscito per il calcetto del mercoledì. Fece un po’ tardi, e questo lo salvò. Dirigeva lo stabilimento dolciario della Pernigotti, viveva con la famiglia in una villetta di proprietà nella zona residenziale di Novi ligure. Aveva una buona posizione economica, era sposato con Susy, la compagna di sempre dai tempi della scuola. Una coppia che aveva una figlia adolescente e un po’ complicata, nulla che facesse presagire quel che poi accadde, e un bambino, Gianluca, al quale il padre aveva trasferito la sua passione per l’Inter. La domenica seguente, sarebbero andati insieme a vedere la sfida con la Juventus. Una famiglia normale, uguale a tante, magari anche alla nostra. Forse per questo, la voglia di sapere e di guardare del pubblico e dei media fu per una volta meno riconducibile a una curiosità morbosa e più a uno sgomento collettivo. E lo stesso sentimento che ha reso questo delitto un evento a parte, separato dagli altri celebri casi di cronaca nera del nuovo secolo. Perché guardare nell’abisso, non è mai facile. Francesco De Nardo lo ha fatto. E forse, non ha mai avuto altra scelta che questa. Quando dopo una attesa interminabile il maresciallo della caserma si affacciò al cancello per dire «li hanno arrestati, sono stati loro», la folla di trecento persone che si era assiepata sul prato di fronte si spense all’improvviso. Andarono via tutti, in un silenzio dove galleggiavano stupore, smarrimento, paura. In un angolo del cortile, stretto nel suo Loden blu, l’ingegnere osservò quella ritirata con una espressione spaesata in volto. La mattina seguente ci sarebbero stati i funerali di sua moglie e del piccolo Gianluca. Quella notte, conclusi il mio articolo sostenendo che dal momento in cui lo avevano convocato per dirgli, a lui per primo, che era stata sua figlia, era diventato l’uomo più solo e triste del mondo.
«Non è vero che sono solo»
Mesi dopo, erano passate da poco le 23, ero al giornale, feci un tentativo. Entrai in un ufficio vuoto, era quello di Mario Luzzatto Fegiz, il nostro critico musicale. Composi il numero. De Nardo rispose. La prima cosa che disse fu che non avrebbe mai parlato, che non avrebbe mai rilasciato una intervista in vita sua. Ma andò avanti, con uno sfogo. E cominciò proprio contestando la mia affermazione finale contenuta in quell’articolo. «La mia vita è stata spazzata via da un tornado» disse. «Ma non è vero che sono solo e disperato. Voi giornalisti vi ostinate a non capire che io ho ancora lei, ho Erika. E farò di tutto per proteggerla, finché rimarrò al mondo». Sono le cose che poi gli sono state messe in bocca tante volte per interposta persona, ma è tutto quel che c’è da sapere, per capire le ragioni di quell’abbraccio, della scelta di Francesco De Nardo, per avere rispetto e non giudicare i suoi comportamenti. Quell’uomo voleva sparire, come poi fece, ma leggeva tutto, si informava. Sapeva che noi, e l’Italia, lo stava guardando, e lo giudicava, in gran parte senza comprenderlo.
Chiese ogni dettaglio della strage
Fecero discutere le intercettazioni durante il primo colloquio in carcere dove chiede alla figlia in che modo avesse colpito le sue vittime, in cui le chiede di raccontargli ogni minimo dettaglio di quella strage. Un attimo dopo il dissequestro, tornò a dormire in quella casa. La Pernigotti gli offrì con discrezione la propria impresa di pulizie per lavare la villetta della strage. Lui rifiutò, e fece da solo. Ci mise quasi due giorni, per scrostare il sangue di sua moglie di suo figlio dai pavimenti e dalle pareti della villetta. Nel maggio del 2001 invitò a cena i tre consulenti di parte scelti per la perizia psichiatrica su Erika. Preparò la carne alla brace sul barbecue, come faceva nei giorni felici con la sua famiglia. Sullo stesso prato, proprio accanto al vialetto dal quale fuggirono i due assassini. Quando uno degli ospiti chiese se poteva avere un bicchiere d’acqua, indicò la cucina, il posto dove era stata massacrata sua moglie. Lo psicologo disse che non se la sentiva di entrare lì dentro. Lui annuì. Si alzò, e ritornò con una caraffa d’acqua.
La scelta: non curarsi di quel che pensa la gente
La verità è che a Francesco De Nardo non è mai interessato quel che pensava la gente di lui. Divenne un personaggio per contrasto, con il suo silenzio, con la sua integrità quasi fuori dal tempo. A chi vent’anni fa gli consigliava di aspettare, di riflettere prima di prendere decisioni, ha sempre risposto che aveva già deciso quella notte in caserma, quando gli dissero chi era la persona che gli aveva portato vie le cose più preziose che un uomo può avere, quando si affacciò sull’abisso. Avrebbe potuto rinnegare sua figlia, vendere tutto, andarsene via. Ma nelle sue condizioni, l’unica cosa che poteva davvero fare un uomo così ferito, pieno di dignità, di dubbi, forse di sensi di colpa, era continuare a essere un padre. E per farlo doveva andare a ritroso, seguendo una sua strada solitaria, non risparmiarsi nulla, incamerare dentro di sé tutto quel dolore e quell’orrore, per esorcizzarlo per dedicarsi con tutto sé stesso a Erika.
Si è battuto per il silenzio stampa
Si è battuto come un leone, per imporre il silenzio stampa, per spegnere il rumore di fondo ogni volta che tornava a farsi sentire, convincendo sua figlia a seguirlo su questo terreno, far sparire ogni traccia, scomparire come unica condizione per poter ricominciare. Non tutti hanno approvato questa scelta di vita quasi monastica, centrata su una figlia il cui nome per molti è ancora oggi sinonimo di un diavolo moderno. Ancora di recente, durante un talk show venne accusato di aver praticato la rimozione come medicina di per sé stesso, ammesso e non concesso che questa fosse una colpa. «Io non devo per forza capire perché lo ha fatto» disse durante quella telefonata. «Nelle mie condizioni, capire è un lusso», usò questa espressione, aggiungendo che sarebbe venuto il momento di affrontare quella sua battaglia privata, ma dopo. Non c’era alcun mistero, disse. «In fondo è semplice: io sono suo padre, sono tutto quel che le rimane, lei è tutto quel che mi resta». Anche questa rievocazione gli procurerà un fastidio profondo, come ogni refolo di notorietà che si solleva sul delitto di Novi ligure. Ma se dovesse mai arrivare in fondo a queste righe, sappia l’ingegner De Nardo che in questi lunghi anni lo abbiamo pensato spesso, augurandogli una vita finalmente serena, per quanto possibile. Perché poche persone lo meritano più di lui.
Da ilmessaggero.it il 22 febbraio 2021. Sono ormai passati 20 anni dal delitto di Novi Ligure: era il 21 febbraio 2001 quando il 12enne Gianluca De Nardo e la madre, Susy, furono uccisi in casa con 97 coltellate complessive. Ad ucciderli erano stati la figlia maggiore della donna, Erika De Nardo, ed il suo fidanzato di allora, Mauro Favaro detto Omar. Erika e Omar, che all'epoca avevano rispettivamente 16 e 17 anni, lanciarono l'allarme parlando di una rapina finita male ad opera di una banda di albanesi. Una tesi subito smentita dalle indagini dei carabinieri, che poi portarono i due fidanzatini sul banco degli imputati: alla fine, la sentenza definitiva condannò Erika De Nardo a 16 anni di reclusione e Omar a 14 anni. Dopo aver scontato la pena, i due ex fidanzatini si sono rifatti una vita. Omar è libero dal 2010 e vive in Toscana, Erika invece si è laureata durante la detenzione, è stata ospite della Comunità Exodus di don Mazzi e si è anche sposata. Il papà, Francesco De Nardo, secondo la testimonianza di Omar avrebbe dovuto essere la terza vittima di quel massacro; nonostante ciò, l'uomo ha sempre scelto il silenzio e non ha mai mancato di stare vicino alla figlia, sostenendola sempre. A Novi Ligure, in tanti, vorrebbero dimenticare quella tragica storia che fece conoscere a tutta Italia la cittadina in provincia di Alessandria. E tra i residenti ci si divide, tra chi sostiene di non riuscire a perdonare Erika per l'atroce delitto commesso e chi invece plaude alla grandissima dignità del papà.
"Quante gliene hai date?": così si consumò il massacro di Novi Ligure. A vent'anni dal delitto di Novi Ligure, la vicenda di Erika e Omar divide ancora l'opinione pubblica. Quale fu il reale movente del delitto? Rosa Scognamiglio - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. Sono passati vent'anni dal massacro di Novi Ligure. Vent'anni da una delle stragi familiari più efferate di tutti i tempi tra quelle di cronaca nera. Novantasette furono le coltellate che Erika De Nardo e il fidanzato Mauro Favaro, detto Omar, al tempo minorenni, inflissero a Susy Cassini e Gianluca De Nardo, la mamma e il fratello minore della giovane. A seguito di un processo segnato da scontri tra periti di parte e dal rimpallo di responsabilità tra i due protagonisti della vicenda, il 14 dicembre 2001, il Tribunale di Torino condannò Erika e Omar rispettivamente a 16 e 14 anni di reclusione per omicidio plurimo premeditato. La condanna fu confermata in via definitiva dalla Cassazione nell'aprile del 2003: gli Ermellini attribuirono a entrambi un ruolo paritetico nel contesto della dinamica omicidiaria. A due decadi dal quel tragico 21 febbraio il movente del delitto sfida ancora il buon senso e la ragione comune: un conflitto familiare. Abbastanza da spiegare un bagno di sangue? "Erika e Omar, davanti di fronte a un amore osteggiato dai genitori, di fronte a un desiderio insoddisfatto di libertà e indipendenza, scelgono la strage. Stiamo parlando di due adolescenti immaturi, senza una personalità ancora strutturata, incapaci di tollerare delle frustrazioni personali rispetto alle regole imposte dalla famiglia. Non hanno tempo per aspettare di vivere la loro libertà e quindi decidono di 'eliminare' tutto ciò che è di ostacolo al soddisfacimento immediato del loro desiderio", spiega a ilGiornale.it il neuropsichiatra Renato Ariatti.
Una famiglia apparentemente perfetta. Una famiglia perbene di estrazione medio-borghese, che vive in una graziosa villetta al civico di 12 di via Don Beniamino Dacrata nel quartiere Lodolino di Novi Ligure. Marito, moglie e due bellissimi figli, rispettivamente di 16 e 11 anni. Il papà, Francesco De Nardo, è dirigente in una nota industria dolciaria mentre la mamma, Susanna Cassini detta Susy, lavora come impiegata contabile in una ditta. Poi c'è Gianluca, di 11 anni, che frequenta il primo anno di scuola media e nel tempo libero gioca alla pallacanestro. Infine c'è Erika, di 16 anni, un'adolescente un po' ribelle che, a dispetto del fratello, dà qualche preoccupazione in più ai genitori. La giovane De Nardo, seppur molto intelligente, non è una studentessa particolarmente diligente. Si iscrive al liceo scientifico ma poi decide di studiare da geometra e passa all'Istituto San Giorgio di Novi Ligure. Mamma Susy e papà Francesco sono sovente in apprensione per la figlia maggiore che pare frequenti amicizie poco raccomandabili. Per questo motivo le impongono regole abbastanza rigide: niente uscite serali né ritardi. Tuttavia può vedere Omar, il suo fidanzato 17enne, con il quale trascorre gran parte della sua giornata. Nonostante l'indole indomita, Erika si adegua alle richieste dei genitori: rincasa prima di cena e prova a impegnarsi a scuola. Tra alti e bassi, nelle dinamiche di una famiglia "apparentemente normale" in cui non mancano conflitti e incomprensioni, tutto sembra andare bene. Fino a quando un tragico lunedì di febbraio non accade l'irreparabile.
Novantasette coltellate. È il 21 febbraio del 2011. Susy Cassini rientra a casa pressappoco alle ore 19.30, non prima di aver recuperato Gianluca da un allenamento di pallacanestro. Varca la soglia della villetta e si dirige verso la cucina per preparare la cena. Il ragazzino invece corre al piano superiore per farsi un bagno. Una serata come tante, di routine, se non fosse che Erika è intenzionata a dare seguito al suo piano criminale. La ragazza attende la madre, verosimilmente nel disimpegno che conduce in cucina, impugnando un coltello. Ma non è sola, con lei c'è Omar. Il ragazzo si è nascosto in bagno nell'attesa di partecipare al delitto. Susy viene raggiunta da una prima coltellata infertale dalla figlia. Prova a rifugiarsi in soggiorno nel tentativo di pararsi dal tentativo da un altro affondo ma Erika non sembra intenzionata ad arrendersi: infierisce ancora sul corpo della madre coadiuvata dal fidanzato, che intanto ha indossato un paio di guanti e afferrato un'altra arma da taglio. Colpiscono una, due, tre volte: 40 alla fine del massacro. Gianluca, attirato dal lamento straziante della madre, accorre al piano di sotto. "Continua tu", dice la giovane al fidanzato sorpresa dall'arrivo del fratello. A quel punto anche il ragazzino viene ferito alla mano. Spaventato, il piccolo scappa al piano superiore della villetta. Erika dice di volergli medicare la ferita ma Gianluca è in preda al panico e si avvia verso la camera della sorella. La coppia sembra sopraffatta da un delirio omicida incontrollato e il ragazzino, per quanto provi strenuamente a difendersi, non può che soccombere ai suoi assassini. I due provano dapprima ad avvelenare il bambino con un topicida, poi provano a soffocarlo nella vasca da bagno ricolma di acqua. Alla fine scelgono di finirlo con uno dei due coltelli con cui hanno già ammazzato Susy. Lo trafiggono per ben 57 volte al corpo fino a quando Gianluca smette di respirare. A quel punto resta solo Francesco De Nardo da eliminare ma Omar dice di essere "troppo stanco per continuare". Con i jeans completamente insanguinati, il ragazzo monta in sella al suo motorino e lascia la villetta dei De Nardo. Erika desiste all'idea di completare il massacro da sola e corre in strada a lanciare l'allarme. Dietro di sé lascia la scia sanguinaria di 97 coltellate. "È probabile che il numero delle coltellate e dell'efferatezza sia il segnale di una rabbia covata in maniera molta profonda, che in quel momento è rappresentata dal bisogno dello scempio per essere quietata", spiega il professor Ariatti. Poi chiarisce: "Nel caso specifico di Erika, a fronte del disturbo di personalità riconosciuto dai periti, non è altro che il trasferimento della ferita narcisistica subita su un'altra persona. Una ferita inferta con modalità evidentemente eclatanti e clamorose".
La versione di Erika: "È stato un bandito albanese". Dopo aver commesso il delitto la ragazza corre in strada a lanciare l'allarme: comincia la messinscena. Ai carabinieri intervenuti sulla scena del crimine Erika racconta che un bandito si sarebbe introdotto nell'abitazione e avrebbe cominciato a infierire contro la madre e il fratellino, a seguito di una tentato furto finito male. Del presunto aggressore fornisce persino l'identikit: "extracomunitario, forse albanese", racconta la ragazza ai militari dell'Arma. Per rendere ancor più credibile la sua versione dell'accaduto, e nel tentativo maldestro di giustificare i vestiti macchiati di sangue che ancora indossa, sostiene di aver colpito il carnefice con una "bottiglia sulla testa" salvo poi mettersi in fuga su suggerimento della madre. "Mettiti in salvo", le avrebbe detto Susy prima di morire. Ma si tratta di una farsa destinata a durare solo poche ore: 24 ore dopo Erika e Omar saranno smentiti.
"Quante gliene hai date?" A poche ore dalla tragedia, la procura apre un'inchiesta per duplice omicidio. La svolta nelle indagini condotta dai carabinieri di Alessandria arriva nel tardo pomeriggio del 22 febbraio quando il procuratore capo Carlo Carlesi visiona i filmati dei due ragazzi, Erika e Omar, che a loro insaputa sono stati lasciati soli in una stanza della caserma dei carabinieri. Ignari di essere osservati, i fidanzatini si parlano. Il dialogo tra i due è a dir poco sconcertante. "Quante gliene hai date?", chiede Erika a Omar mimando il gesto di una coltellata. "Assassina", ribatte lui. "No, assassino sarai tu", risponde la giovane. Poi un tentativo di rassicurarsi a vicenda. "Tranquillo - dice Erika - mi credono. Non andrai prigione". Uno scambio breve di frasi che inchiodano: quanto basta agli inquirenti per capire che i colpevoli della mattanza sono due ragazzini di appena 16 e 17 anni.
Bugie e accuse reciproche. Stanati dagli investigatori e senza alcun appiglio a cui aggrapparsi, i due si rimpallano le responsabilità dell'accaduto. Erika sostiene che sia stato Omar a infierire sui corpi della mamma e del fratellino: "Ha preso guanti e coltello, poi mi ha chiusa in bagno", racconta ai magistrati. Il ragazzo respinge le accuse sebbene, dopo un iniziale proclamazione d'innocenza, abbia ammesso di aver partecipato al massacro: "Erika mi ha soggiogato", dice. Il 20 agosto 2001, Omar fornisce agli inquirenti la sua versione dei fatti. A detta del 17enne, sarebbe stata Erika a progettare al dettaglio il piano criminale: "Appena si apriva la porta dovevamo colpirli (Susy e Gianluca) - spiega Omar - Lei ha tirato furi i guanti giallini da cucina e io le ho chiesto: 'Ma perché tu non metti i guanti?' Ha detto: 'Perché io ci abito qui e posso toccare tutto'. Da come me lo aveva spiegato sembrava una cosa semplice". E poi ancora: "Sua madre si dibatteva, però lei l'ha colpita, poi l'ha spinta nell'angolo della cucina, e sua madre è riuscita a prendere il coltello. Erika gridava aiuto, anche se sua madre non riusciva a colpirla: 'Aiutami, intervieni'. Io sono intervenuto, ho tolto il coltello a sua madre e lei mi ha morsicato il pollice. Quando l'ho staccata l'ho colpita con due, tre colpi. La madre gridava: 'Erika cosa fai?, Erika ti perdono', ma Erika continuava a colpirla gridando: 'Muori, muori...' Le coltellate che mi ricordo saranno state venti, venticinque. Io ne ho date due o tre. Nel fianco, dalla pancia della signora usciva molto sangue". Per quanto la versione fornita da Omar collimi con la ricostruzione della procura, per i magistrati i due ragazzi hanno avuto un ruolo paritetico nella dinamica omicidiaria: non resta che provarlo. La chiave di volta del caso è nelle mani dei Ris di Parma.
Due coltelli e un piano criminale: la "prova regina" del Dna. A fugare ogni dubbio sulla colpevolezza dei due indagati è la prova del Dna. I campionamenti eseguiti all'interno della villetta dalla squadra dei Ris di Parma, coordinata dal comandante Luciano Garofano, comprovano la presenza e partecipazione di entrambi i ragazzi al delitto. Hanno ucciso insieme, con due coltelli e un piano criminale premeditato. Una lama è stata abbandonata sul pavimento della cucina, al termine della strage. L'altro coltello è stato chiuso in un sacchetto dell'immondizia e gettato in un campo poco distante da via Don Beniamino Dacatra. Inoltre le impronte rilasciate da Erika e Omar sulla scena del crimine e la scia di sangue appartenente a Gianluca sulle pareti delle scale che conducono al piano superiore dell'abitazione consentono di ricostruire l'esatta dinamica del duplice omicidio. L'aggressione si è consumata dapprima in cucina, al piano inferiore, poi di sopra, tra il bagno e la camera da letto di Erika. Ora resta solo da chiarire il movente.
Perché hanno ucciso? Un delitto di coppia maturato nel contesto di "un rapporto passionale, morboso e onnipotente", scrivono agli atti i magistrati. Ma quale è stata, se vi è stata, la scintilla che ha scatenato la furia omicida? "Erika e Omar, di fronte a un amore osteggiato dai genitori, di fronte a un desiderio insoddisfatto di libertà e indipendenza, scelgono la strage. - spiega lo psichiatra Renato Ariatti - Stiamo parlando di due adolescenti immaturi, senza una personalità ancora strutturata, incapaci di tollerare delle frustrazioni personali rispetto alle regole imposte dalla famiglia. Non hanno tempo per aspettare di vivere la loro libertà e quindi decidono di 'eliminare' tutto ciò che è di ostacolo al soddisfacimento immediato del loro desiderio. Agiscono in coppia perché, così come accade nelle dinamiche di gruppo delle aggressioni, ci si dà man forte. Intendo dire che in due, o in gruppo, è più facile dare seguito a un'azione che da soli sarebbe più difficile da realizzare. In questo caso specifico si tratta di un'azione terribile. Perché talvolta nell'animo umano albergano sentimenti terribili".
"Disturbo narcisistico di personalità". Gli specialisti che periziano Erika e Omar non riscontrano alcun tipo di patologia psichiatrica agli imputati. "Capaci di intendere e volere", chiariranno i magistrati nella motivazione della sentenza che li condanna per duplice omicidio premeditato. Tuttavia a Erika viene riconosciuto un "disturbo narcisistico della personalità", che in qualche misura avrebbe inciso sulla sua condotta gravemente antisociale. Ma di cosa si tratta? "Riguarda trasversalmente tutti - spiega il professor Ariatti - Quando parliamo di 'disturbo narcisistico della personalità' ci riferiamo a una persona che tende a porre se stessa al centro del mondo e che crede tutto le sia dovuto, è affascinata dalla propria immagine, dagli ideali di bellezza, di successo e di potenza. Ma questi ideali si scontrano col perimetro delle regole, che la famiglia prima e la società poi impongono. A quel punto in una personalità che non è ancora strutturata ma che si sta formando possono degenerare in azioni tragicamente clamorose".
Il processo e la condanna. Il 14 dicembre 2001 Erika De Nardo e Omar Favaro vengono condannati in primo grado dal tribunale per i minorenni di Torino, coordinato dal magistrato Graziana Calcagno, rispettivamente a 16 e 14 anni di carcere. In seguito le condanne sono state confermate, prima dalla Corte di Appello di Torino il 30 maggio 2002, e poi in via definitiva dalla Corte di Cassazione il 9 aprile 2003. Durante i tre gradi di giudizio Erika è stata difesa dagli avvocati Mario Boccassi e Cesare Zaccone e Omar dagli avvocati Vittorio Gatti e Lorenzo Repetti. La difesa ha puntato sul riconoscimento della seminfermità mentale, entrambi i ragazzi però sono stati dichiarati capaci d'intendere e di volere. Il pubblico ministero Livia Locci aveva chiesto pene più severe per entrambi, ovvero 20 anni di reclusione per Erika e 16 per Omar. Secondo le sentenze di condanna, pur nell'apparente assenza di un movente comprensibile, l'ideazione del delitto è da ascrivere a Erika, fermo restando il ruolo di Omar che acquisì progressivamente importanza, nell'ambito della dinamica omicidiaria, fino a risultare paritario. I giudici hanno descritto il delitto come "uno degli episodi più drammaticamente inquietanti della storia giudiziaria italiana, lucida e utilitaristica, realizzato in piena capacità d'intendere e di volere".
Una nuova vita: la riabilitazione sociale è possibile? Il 3 marzo 2010 Omar è stato scarcerato, a seguito dei benefici dell'indulto e di sconti riconosciutigli per la buona condotta. Il giovane si è stabilito in Toscana e ha incominciato a lavorare come barista, dichiarando di voler formare una famiglia con la sua nuova fidanzata e di non voler più pensare a Erika, verso la quale – ha ribadito nel corso di alcune interviste – non serba alcun rancore. Il 5 dicembre 2011 è stata disposta anche la scarcerazione di Erika. Stando a quanto avrebbe riferito Don Antonio Mazzi, che ha seguito la giovane nel percorso di riabilitazione sociale nel centro di accoglienza per ragazzi problematici Exodus di Lonate, Erika avrebbe conseguito una laurea a pieni voti in Filosofia e si sarebbe sposata col proprietario di un negozio di strumenti musicali. La notizia del matrimonio ha diviso l'opinione pubblica, che continua a ritenere insufficiente la pena inflitta alla giovane per il reato commesso. L'ultima riserva da sciogliere sulla vicenda di Novi Ligure riguarda proprio il ravvedimento di Erika: è sincera? "Il pentimento e il ravvedimento possono essere operazioni di facciata ma è vero anche il contrario - chiarisce lo psichiatra - Intendo dire che può esserci, a un certo punto del percorso di formazione, una revisione critica della coscienza di ciò che si è commesso. Erika De Nardo oggi è una donna sposata, adulta, che si è ricreata una vita. Durante l'adolescenza può succedere un disastro, poi però nulla vieta il recupero. E forse oggi possiamo anche pensare che una buona quota di questa nuova vita che si è costruita Erika sia una cosa sincera, che è maturata nel tempo. I percorsi della vita non sono mai definiti a priori e questo ci dà la possibilità di capire che le variabili dell'essere umano sono tantissime e permettono dei percorsi molti diversi". Forse alla fine di questa storia buia resta qualcosa da salvare: l'amore di Francesco De Nardo per la figlia Erika. Un padre encomiabile che ha saputo lanciare il cuore oltre l'ostacolo pur di assicurare una seconda possibilità di vita alla sua primogenita e salvare l'unico segmento di famiglia rimastogli. "Un comportamento di tolleranza e amore di livello eccezionale. Questo ci dà la possibilità di capire che le variabili dell'essere umano sono infinite - conclude il professor Renato Ariatti - Per fortuna, non siamo dei robot".
· Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.
Il caso irrisolto dal 1986. Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel scomparsa nel nulla. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Marzo 2021. Non è solo per la sua hit Noi, ragazzi di oggi se Luis Miguel è ricordato in Italia, a oltre 30 anni da quell’esibizione al Festival di Sanremo. È anche per il mistero di Marcella Basteri, sua madre, italiana, nata a Massa nel 1946 e scomparsa nel nulla nel 1986. Una storia torbida e ancora irrisolta: la carriera del figlio, il rapporto burrascoso con il marito, un viaggio in aereo verso la Spagna e nessuna traccia più. A tornare sul caso è Chi l’ha visto? che ha incontrato una nipote della donna, cugina di Luis Miguel. “El sol de México”, com’è stato soprannominato, è considerato da tanti come il cantante di maggior successo dell’America latina. Ha cominciato la sua attività nel 1981: oltre 100 milioni di dischi venduti in tutto il mondo. Era nato a Porto Rico dall’unione tra Basteri e Luisito Rey, chitarrista e cantante spagnolo. Aveva solo 14 anni quando partecipò al Festival di Sanremo. La canzone firmata da Toto Cutugno, Noi, ragazzi di oggi, si classificò seconda. Solo un passo in una carriera che è stata un profluvio di premi e record tra dischi e tour. Ha duettato con Frank Sinatra. È stato raccontato che quando venne catturato, nel 2003, il dittatore iracheno Saddam Hussein, aveva tra le sue cose un disco di Miguel, Segundo Romance. Luis Miguel nel 1987 dedicò una canzone alla madre: la intitolò Marcela, il suo nome in spagnolo. Basteri era scomparsa nel nulla un anno prima. Era partita da Pisa per la Spagna. La donna si era trasferita in Italia dopo la burrascosa separazione dal marito. Luisito l’aspettava a Madrid: dovevano ufficializzare la fine del loro rapporto. Basteri si imbarcò e arrivò nella capitale spagnola. Da allora si sono perse le sue tracce. Il caso non è stato mai risolto. L’uomo è morto nel 1993. Aveva fatto da manager al figlio fino a quando lo stesso Luis Miguel lo licenziò decidendo di proseguire senza il padre la sua carriera. Nel 1993 è stata la famiglia di Marcella a chiedere supporto a Chi l’ha visto?, all’epoca condotto da Giovanna Milella. Le ricerche non hanno mai portato a risultati. Adesso è Federica Sciarelli a raccogliere il testimone: una nipote di Marcella Basteri si è rivolta al programma per segnalare alcune novità sul caso. Al centro dell’intervento una fotografia scattata in Argentina. L’immagine riprende una senza tetto che vaga in strada e che assomiglierebbe alla donna scomparsa. La nipote ha raccontato al programma su Rai3 questo e altri dettagli e delle ultime ore di Basteri in Italia prima di quel viaggio per la Spagna. Luis Miguel, cui è stata dedicata anche una serie in 13 episodi sulla sua vita, uscita nel 2018, nella quale ha parlato anche della madre, da anni non rilascia dichiarazioni sul caso.
· Il mistero del delitto del Morrone.
L'assalto sul "sentiero delle Signore": Alì e la mattanza di Diana e Tamara. Rosa Scognamiglio il 24 Agosto 2021 su Il Giornale. A 24 anni dal delitto del Morrone, in cui persero la vita Diana Olivetti e Tamara Gobbo, restano ancora molti dubbi sul pluriomicidio. "Ci sono aspetti mai chiariti", spiega la giornalista Maria Trozzi. Sono passati 24 anni esatti dal delitto del Morrone, la terribile mattanza consumatasi il 20 agosto 1997 in località Mandra Castrata, sull'omonimo monte abruzzese che dà il nome alla tragedia. Autore della strage fu Alivebi Hasani - meglio noto come Alì - il pastore macedone che uccise due giovani escursioniste padovane, Diana Olivetti e Tamara Gobbo. L'unica sopravvissuta alla strage fu Silvia Olivetti, sorella di Diana, scampata alla furia omicida dell'aggressore, che aveva tentato di violentare una di loro, per essersi finta morta. "Il delitto del Morrone scosse profondamente noi abruzzesi. E ancora oggi, nonostante la vicenda giudiziaria sia conclusa da tempo, la ricordiamo con profondo dolore", dice a IlGiornale.it il procuratore di Sulmona Giuseppe Bellelli. Il caso si risolse nel giro di pochissime ore, a seguito della confessione di Hasani che nel 1999 fu condannato dalla Corte d'Assise dell'Aquila all'ergastolo per il pluriomicidio. "Nonostante la condanna di Hasani, ci sono ancora dei punti oscuri sulla dinamica dell'accaduto. Purtroppo, per i mezzi investigativi di cui si disponeva al tempo, non fu possibile fare ulteriori accertamenti", spiega alla nostra redazione la giornalista di LaPresse Maria Trozzi, autrice del libro-inchiesta "Il sentiero delle Signore".
L'escursione sul monte e l'incontro col pastore. È l'estate del 1997. Tre giovanissime ragazze di Albignasego (Padova), Silvia, Diana e Tamara, decidono di trascorrere le vacanze in Abruzzo. Sono appassionate di escursionismo e si organizzano per esplorare in lungo e in largo il Parco Nazionale della Majella. La mattina del 20 agosto pianificano un'escursione sul monte Morrone. Dalla località di Sant'Eufemia a Maiella, dove si sono accampate per la notte, intraprendono il cosiddetto "sentiero delle Signore", uno sterrato che conduce agevolmente alla vetta della montagna. Pressappoco alle ore 10, dopo circa due ore di cammino, giungono al rifugio Campotosto. Lungo la strada incrociano un pastore a cui domandano informazioni per una scorciatoia. Lo sconosciuto, uno straniero dall'aspetto trasandato ma garbato, indica loro la via offrendosi di scortarle in prossimità di una piccola area boschiva. Le ragazze, entusiaste dell'aiuto, decidono di seguirlo.
La furia del pastore su Silvia, Diana e Tamara. Arrivati in prossimità del bosco di Mandra Castrata il pastore estrae una pistola dalla tasca dei pantaloni intimando alle giovani di seguirlo tra la folta vegetazione. Silvia, che ha poco più di 21 anni, prova a reagire implorando lo sconosciuto di lasciarle andare. Di tutta risposta, lo straniero esplode un colpo d'arma da fuoco che le trafigge l'addome. Gravemente ferita, la 21enne si accascia al suolo e, nel tentativo estremo di salvarsi, si finge morta. Tamara grida, si dispera: il pastore non la risparmia e apre di nuovo il fuoco. Neanche per Diana c'è scampo. Lo straniero obbliga la ragazza ad appartarsi con lui tra gli alberi, tenta di violentarla decidendo poi di ucciderla a colpi di pistola. Intanto Silvia rinviene e, seppur sanguinante, riesce a guadagnare la fuga dall'assassino. Dopo ben 5 ore di cammino la 21enne, unica sopravvissuta alla strage, giunge in località Marane, una frazione di Sulmona. "Ha ucciso mia sorella e la mia amica!", è il suo grido d'aiuto disperato prima di perdere i sensi.
La cattura del pastore e la confessione. Mentre Silvia viene soccorsa e trasportata all'ospedale di Sulmona, i carabinieri passano al setaccio il monte Morrone. Dopo ore di ricerche, la mattina del 21 agosto, i militari rinvengono i cadaveri di Diana e Tamara all'interno del bosco dove si è consumata la mattanza. Poco distante dalla scena del crimine, in uno stazzo a circa 1700 metri di altitudine, c'è Alivebi Hasani che dorme serenamente. Il pastore, un clandestino macedone di 24 anni, non oppone resistenza né nega di aver ucciso le due giovani escursioniste. "Sono stato io a uccidere le ragazze", confessa. A notte fonda per lo straniero si spalancano le porte del carcere di Sulmona.
Le indagini e il giallo delle pistole. Le indagini del caso vengono affidate alla polizia e coordinate dal pm del Tribunale di Sulmona Laura Scarsella. A inchiodare Hasani c'è il racconto della giovane Silvia, unica superstite della mattanza, che riconosce il volto dell'assassino in foto. Ci sono poi tre pistole, rinvenute sul monte della Majella nei giorni successivi al delitto, ad aggravare la posizione del sospettato. A fare ritrovare le armi è Mario Iacobucci, datore di lavoro di Hasani, che ammette di aver fornito le semi automatiche al giovane macedone - ignaro dell'utilizzo che ne avrebbe fatto - e di averle poi nascoste temendo di essere coinvolto nella vicenda. Iacobucci patteggia una condanna a un anno per porto e detenzione di armi clandestine. Ci sarebbe anche una quarta pistola, forse l'arma del delitto, che però non sarà ritrovata. La famosa "pistola fantasma", così come passerà in rassegna alle cronache.
La condanna. A 17 anni dal delitto, dopo solo 2 ore di camera di consiglio, la Corte d'Assise dell'Aquila condanna Alivebi Hasani all'ergastolo per i reati di omicidio volontario plurimo pluriaggravato, tentativo di omicidio, violenza sessuale, porto e detenzione abusivo d'armi. "Per il delitto raccapricciante che ha commesso non merita di incontrare più i familiari delle vittime – spiega la pm alla lettura della sentenza - come non merita le attenuanti generiche poiché, di fronte alla possibilità di confermare in aula la confessione resa alla Polizia ed il pentimento allora espresso ha invece preferito ritrattare ogni cosa". Alì, che dopo l'arresto aveva confessato il delitto, in aula prova a ritrattare affermando di essere stato costretto "con minacce di morte" ad assumersi la responsabilità del dei fatti. Hasani, detenuto per anni nelle carceri italiane, nel 2016 è stato trasferito in Macedonia dove sta scontando il resto della pena.
Luci e ombre della mattanza. Per quanto la vicenda giudiziaria sia conclusa, il delitto del Morrone resta ancora un caso intricato e fitto di interrogativi. Secondo la giornalista di LaPresse Maria Trozzi, autrice de "Il sentiero delle Signore", il libro-inchiesta sulla drammatica mattanza, ci sono ancora molti punti da chiarire. "Il mistero della quarta pistola è sicuramente uno dei maggiori irrisolti del caso - spiega Maria Trozzi alla nostra redazione - Senza contare che un bossolo dei proiettili esplosi furono ritrovati dagli investigatori a primavera dell'anno successivo, nel 1998, riuscendo a sfuggire persino ai metal detector della scientifica nelle indagini condotte subito dopo tragedia. Sfogliando i faldoni dell'inchiesta, ad esempio, mi sono accorta che manca lo Stub (un'analisi dei residui di sparo, ndr) sebbene la polizia abbia confermato di aver eseguito un'analisi col guanto di paraffina. Ci sono ancora molti aspetti di questa vicenda che non sono chiari. Bisogna però considerare che al tempo non si avevano a disposizione gli strumenti che ci sono oggi per un'analisi accurata della scena del crimine". Tra i molteplici interrogativi del delitto vi è l'ipotesi secondo cui insieme al pastore-assassino, la mattina del 20 agosto 1997, vi fosse anche un'altra persona che sarebbe stata testimone della mattanza. "Dopo aver fatto un attento sopralluogo sul Morrone, escludo che ci possa essere una pista alternativa a quella già definita - dice il procuratore di Sulmona Giuseppe Bellelli - Purtroppo resta la crudeltà di una tragedia umanamente inspiegabile in cui hanno perso la vita delle ragazze giovanissime".
Il delitto Morrone oggi. Sul luogo dove si consumò la mattanza è stato apposto un cippo in memoria di Diana Olivetti e Tamara Gobbo. Ogni anno, in occasione della triste ricorrenza, i genitori delle due vittime si raccolgono in preghiera davanti all'inscrizione funebre. Silvia Olivetti, sopravvissuta alla strage, si è gettata il passato alle spalle. Oggi è sposata e vive proprio lì, su quel monte dove ha perso sua sorella e la sua più cara amica. Il 26 agosto 1997, Silvia scrisse una lettera aperta, pubblicata da Famiglia Cristiana: "Vorrei dire ai giovani, come me, di vivere la vita e non lasciarla là, andare o sfuggire, e di stare attenti al mondo: il mondo porta via dei valori, dei sentimenti umani. Parlo ai genitori: state vicini ai vostri figli e insegnate loro i valori della vita, della famiglia e del rispetto degli altri. "Padre Nostro [...] rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori": è una grande cosa, troppo grande. Riesco anche a perdonare, ma il problema è più profondo, tocca il cuore. Nonostante il perdono, resta una realtà dura da accettare, e convivere con essa non sarà facile. Per questo vorrei crescere nella fede e nella preghiera. Il mio cuore è aperto a Dio perché voglio seguire l’esempio che Diana e Tamara mi hanno dato, fino ad ora, del loro credere. Non odio nessuno, non sarei capace di odiare, però sento dentro tanta rabbia e tanta tristezza per una realtà troppo bella che è andata in frantumi, come un vaso di cristallo, senza una spiegazione, non dico giusta ma almeno sufficiente da lenire in parte il dolore. Sopra i monti vedo una croce, ma sullo sfondo vedo il tutto sormontato dai raggi del sole: nulla resterà inutile e senza senso".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera. Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso.
· Il Mistero del Mostro di Firenze.
L'ultimo mistero del mostro di Firenze. Felice Manti e Edoardo Montolli il 14 Dicembre 2021 su Il Giornale. Lo stesso Dna su tre buste inviate agli inquirenti, il furto di cinque pistole e l'identikit di un uomo dai capelli rossicci. L'indagine sul serial killer che terrorizzò la Toscana sembra pronta per un nuovo capitolo. C'è lo stesso Dna su tre buste inviate con un proiettile serie H nell'ottobre 1985 ad altrettanti magistrati che indagavano sui delitti del mostro di Firenze. C'è un misterioso dossier dei carabinieri su un furto di cinque Beretta calibro 22 in un'armeria nel 1965. E c'è un uomo castano-rossiccio di un metro e ottanta visto da alcuni testimoni prima degli omicidi di Claudio Stefanacci e Pia Rontini del 1984. Sono le tessere dell'intricato puzzle cui lavora da tempo Paolo Cochi per dare un volto al serial killer che terrorizzò la Toscana per 17 anni.
Tre documentari dedicati al mostro, un monumentale libro di oltre 500 pagine sul caso, vent'anni trascorsi nello studio della vicenda, dal 2020 Cochi è anche consulente dell'avvocato Antonio Mazzeo, legale di Rosanna De Nuccio: «Si tratta della sorella di Carmela, assassinata dal mostro insieme al fidanzato Giovanni Foggi nel 1981». Così ha potuto consultare anche i recenti atti, finché ha potuto, su piste trascurate e documenti dimenticati. Perché sugli omicidi delle coppiette ammazzate dal 1968 al 1985 nelle campagne toscane usando sempre la stessa Beretta calibro 22 e sparando proiettili Winchester serie H, il sipario non è mai calato: non dopo la fine di Pietro Pacciani, morto in attesa di giudizio; non dopo le condanne definitive dei compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti. E certamente non è mai calato sull'omicidio di Carmela e Giovanni: «Uno dei tre duplici delitti del mostro rimasti irrisolti». Non è un caso che le indagini non si siano mai fermate. La versione ufficiale che ha retto i processi sui guardoni poggia sulle confessioni del «pentito» Lotti. Ma il suo sgangherato racconto sull'ultimo duplice delitto è oggi smentito da prove scientifiche: «Non solo le larve di mosca sui cadaveri dimostrano che gli omicidi sarebbero avvenuti almeno un giorno prima di quanto confessato da Lotti, ma cinque medici legali cui ho fatto analizzare foto e consulenze autoptiche hanno dato per certo che le condizioni delle vittime erano incompatibili con una morte recente».
C'è infine un dettaglio degli ultimi anni: una perizia balistica firmata da Paride Minervini avrebbe acclarato che il proiettile trovato nell'orto di Pacciani, unica vera prova che lo collegava alla scia di sangue, è un falso, costruito ad hoc in laboratorio. I protagonisti sono morti, nessuno può chiedere la revisione. Ma il giallo resta. Chi era allora davvero il mostro di Firenze?
IL DOSSIER PROIBITO
Quando Cochi, come consulente dell'avvocato Mazzeo, chiede l'accesso agli atti del processo Pacciani, vi trova un dossier dei carabinieri di 50 pagine che parte dagli anni '60 e arriva al 1985. Al centro c'è il furto in un'armeria di cinque pistole Beretta nel 1965: «Quattro furono ritrovate, mentre una Beretta 22 serie 70 no. Perquisirono vari soggetti vicini al mondo della criminalità organizzata e a uno di loro trovarono in casa due bossoli Winchester serie H». Arma e munizioni come quelle del mostro. «Quest'uomo risultò negli anni essere stato denunciato per reati contro la libertà sessuale, poi finì dentro per truffa e resistenza. I carabinieri lo ritenevano il possibile serial killer, ma inspiegabilmente quando nacque la Squadra Anti Mostro, la Sam, il suo nome non venne inserito tra le centinaia di nomi da cui spuntò quello di Pacciani. Cercarono allora i due bossoli sequestrati, ma in cancelleria risultarono non reperibili». Dossier alla mano, l'avvocato Mazzeo chiede a quel punto alla Procura un approfondimento su vari punti della questione «anche perché tale persona sembrerebbe aver lavorato in ambienti giudiziari e più specificatamente, in Procura con un noto magistrato. Questo dopo la fine dei delitti, secondo quanto riferito da alcuni suoi stretti parenti. Ovviamente ciò può essere documentato precisa Cochi - per quanto sembri surreale dato il suo curriculum». Di fatto, poco dopo gli viene revocato ogni accesso agli atti con la motivazione che «erano inerenti ad altri fatti reato». Una decisione spiazzante perché «i delitti delle coppiette sono stati sempre trattati sia nelle investigazioni che giudiziariamente come unico fascicolo e quindi legati tutti tra loro». Inutili risulteranno due interrogazioni parlamentari al ministro della Giustizia Cartabia.
Eppure questa e altre piste investigative potrebbero legarsi al Dna trovato sulle buste di tre lettere di minacce inviate ai magistrati che indagavano sul caso: Canessa, Vigna e Fleury. Lo ha scovato il genetista della procura Ugo Ricci: «Le lettere a Canessa e Fleury furono recapitate quasi certamente a mano in Procura il primo ottobre 1985, venti giorni dopo l'ultimo duplice delitto dei francesi, quella di Vigna arrivò qualche giorno più tardi: recava il timbro postale, ma non il francobollo. Dentro erano tutte uguali: c'era un proiettile infilato nel dito di un guanto chirurgico e un foglio scritto a macchina con la frase: Poveri fessi, uno a testa vi basta?». E chi, naturalmente, meglio di uno che lavorava in ambienti giudiziari avrebbe potuto portare a mano quelle lettere di minaccia? «Sulle buste non c'erano impronte digitali e sono le uniche tre, tra migliaia, su cui la procura abbia mai focalizzato l'attenzione a parte quella certamente scritta dal mostro e inviata con un lembo di seno di Nadine Mauriot al magistrato Silvia Della Monica. Il Dna arrivava dalla saliva, è lo stesso per tutte e tre le lettere e secondo la genetista che ho consultato, Marina Baldi, sarebbe oggi possibile ricostruire colore degli occhi, dei capelli e l'etnia della persona cui appartiene quel codice genetico».
Già, perché di chi fosse quel Dna non si è mai saputo: è stato confrontato con tutti gli indagati dell'inchiesta, da Salvatore Vinci nell'abbandonata pista sarda a Pacciani, ai compagni di merende, dal medico perugino Francesco Narducci agli ultimi due entrati e usciti dall'indagine, l'ex legionario Giampiero Vigilanti e il medico Francesco Caccamo. Non appartiene a nessuno di loro. Di chi è, dunque?
L'UOMO DAI CAPELLI ROSSI
L'ultima tessera del puzzle che Cochi sta allestendo riguarda un uomo coi capelli castano-rossicci, robusto e di circa un metro e ottanta: «Quando chiedemmo l'approfondimento sul dossier dei carabinieri, aggiunsi, tra le altre richieste, quella di un Vhs giunto in Procura riguardante una trasmissione Rai cui aveva partecipato Vigna con lo sfondo musicale di Anna, di Lucio Battisti». Il motivo? «Anna è il nome della testimone che ho ritrovato e a cui fu dato un passaggio da un uomo rossiccio, robusto e alto un metro e ottanta circa. Era passato poco dall'ultimo duplice delitto dei francesi Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili agli Scopeti, e l'uomo le chiese se non avesse paura del mostro. Le disse anche che il serial killer aveva inviato un pezzo di seno della donna e una lettera a Silvia Della Monica. Solo che in quel momento non lo sapeva ufficialmente nessuno, a parte quelli che indagavano, la notizia uscì sui quotidiani il giorno dopo l'autostop». Chi è l'uomo rossiccio e robusto che diede il passaggio ad Anna? «Ecco, questo è il punto. Visto che la Procura ci negava gli atti, ho cercato e rinvenuto un photo-fit dell'epoca realizzato dai carabinieri su un uomo visto sulla piazzola degli Scopeti qualche giorno prima dell'omicidio dei francesi. L'ho mostrato ad Anna, la quale ha notato una certa somiglianza con quello dell'autostop». Non solo. «L'anno precedente, dopo gli omicidi di Pia Rontini e Claudio Stefanacci a Vicchio, era stato stilato lo schizzo di un identikit sulla base delle affermazioni di un barista, Baldo Bardazzi. Questi aveva raccontato che poco prima di essere uccise le vittime si trovavano nel suo locale. E alle loro spalle c'era un uomo grosso, alto e rossiccio con i capelli rasati. Anche Bardazzi e pure una collega di Pia hanno notato come Anna una certa somiglianza dell'uomo che ricordavano con il photo-fit. Se si tratti dello stesso uomo del dossier dei carabinieri e della medesima persona che inviò le lettere di minaccia ai magistrati non posso saperlo. Indagare spetterà alla Procura, visto che le parti civili non possono più accedere agli atti». Felice Manti e Edoardo Montolli
Maurizio De Giovanni per il "Corriere della Sera" il 9 agosto 2021. Non ci fosse stato Natalino, le cose avrebbero avuto un significato diverso. Perchè alla fine con Natalino e tutta un’altra storia. Rappresenta un simbolo, Natalino: e lui stesso un racconto a parte, l’emblema della fine dell’innocenza di un intero mondo. E una vittima, Natalino: una vittima che rimane viva, ma con ferite cosi profonde da mettere tutto, proprio tutto in discussione. A pensarci, lo stesso momento in cui accade tutto e altamente significativo, anche se nessuno ancora può saperlo: la fine di agosto del 1968. Anno topico del cambiamento mondiale, lo spartiacque tra le epoche, l’inizio della rivoluzione della consapevolezza e dei costumi. L’Italia si sarebbe spaccata, di nuovo; e di nuovo ci sarebbero stati conflitti, e bombe, e morti per strada come un quarto di secolo prima. Ma quello era l’ultimo dei pensieri per Barbara e Antonio, la sera del ventuno di agosto. E appena passata la mezzanotte, sono stati a cinema a vedere l’ultimo di Sordi, Il Diavolo, guarda un po’. La Giulietta e una bella macchina, ampia e spaziosa, se si ribaltano i sedili meglio di un letto. Tutti e due i sedili pero non si possono stendere, perchè da un lato c’è appunto Natalino che dorme. I due sono sposati, ma non tra loro: si vedono spesso e si divertono un mondo, purtroppo pero Antonio non ha l’esclusiva, perchè oltre al marito, Stefano, un manovale di origine sarda che lascia alla moglie molto campo libero, ci sono almeno un altro paio di assidui frequentatori della bella Barbara, la mamma di quel Natalino che dorme sul sedile posteriore, dietro al guidatore. Natalino che e nato il giorno di Natale di sette anni prima, meno quattro mesi, ovvio. Natalino che si appresta a subire nel sonno l’evento che renderà la sua vita profondamente diversa, e di certo assai peggiore. Natalino che sta per diventare il simbolo della perdita dell’ingenuità. Non e il massimo dell’attenzione a quello che può vedere o sentire un bambino, e vero: ma non e la prima volta, e poi che male c’è a fare l’amore? Possiamo perciò immaginare Antonio che ferma l’auto nel buio della notte, Barbara che con un sorriso malizioso abbassa lo schienale, lui che armeggia con la propria cintura. E Natalino che sogna i suoi sogni ancora di angelo. Dobbiamo pero fare un breve, brevissimo salto temporale e trovare Natalino sveglio che bussa alla porta di una casa a due chilometri e cento metri dall’auto parcheggiata. Non un sentiero agevole: rovi, suolo impervio, sterrato. E il buio e totale, niente lampioni, niente finestre, niente luna. Natalino non ha nemmeno le scarpe, perchè quando si e addormentato la mamma gliele ha tolte, forse l’ultimo gesto di delicatezza di Barbara per suo figlio. Eppure Natalino e la, gli occhi pieni di sonno, i calzini bianchi puliti. E solo, Natalino, quando bussa alla porta. Spiega che il suo papa e a letto malato, che lui ha sonno e molta fame, e che purtroppo lo zio e la mamma sono morti, quindi per favore può avere un passaggio a casa? E davvero difficile che il bambino, che pure sembra un angelo, abbia volato. Ma e ancora più difficile pensare che abbia percorso due chilometri e cento metri da solo, attraverso rovi e bosco, senza stancarsi, ferirsi e nemmeno sporcarsi i calzini. Ma il piccolo insiste nel dire che nessuno lo ha portato fin la, o che almeno non si ricorda. In una delle versioni che racconterà in seguito, in bilico tra possibile realtà e infantile immaginazione, dira che qualcuno lo ha portato a cavalluccio, canticchiandogli per tranquillizzarlo La tramontana di Antoine, un successo dell’ultimo Sanremo. I carabinieri, chiamati dal proprietario della casa alla cui porta aveva bussato l’assonnato Natalino, ci misero un po’ a fare quella strada difficile: ma alla fine trovarono la Giulietta, e trovarono anche i corpi di Antonio e Barbara, interrotti prima di fare l’amore da quattro colpi di pistola a testa, distribuiti con ammirevole equità. Al termine di estenuanti interrogatori Stefano, il papa di Natalino, confesso il delitto e fu sbattuto in galera, mentre il bambino cresceva in un istituto; peccato che l’arma, una Beretta calibro 22, non fu trovata dalla Polizia e invece chi la trovo ne fece un largo uso, firmando quelli che divennero i delitti del Mostro di Firenze. A meno che, ovviamente, Stefano non c’entrasse nulla e che la sua debole mente avesse semplicemente ceduto alla pressione: diventando una vittima, come Barbara e Antonio che nemmeno riuscirono a fare l’amore, in quella bella Giulietta nuova. Vittime, si. Eppure, a raccontarlo oggi che sono morti tutti, la vittima più terribilmente colpita ci sembra Natalino, che ha sessant’anni e guarda indietro alla propria vita come una lunga, ininterrotta conseguenza della notte in cui il mondo stava cambiando, e il suo ancora di più.
Dagospia il 23 aprile 2021. IL SERIAL KILLER “ZODIAC” E IL MOSTRO DI FIRENZE SONO LA STESSA PERSONA? LA PISTA CHE PORTA ALL'EX DIRETTORE DEL CIMITERO AMERICANO A SAN CASCIANO IN VAL DI PESA, JOE BEVILACQUA, EX SOLDATO E TESTIMONE AL PROCESSO PACCIANI - IL SUO DNA E’ STATO ACQUISITO DALLA PROCURA DI FIRENZE - IL CONFRONTO CALLIGRAFICO, LA DENUNCIA DI FRANCESCO AMICONE E LE STRANE COINCIDENZE…Francesco Amicone per “Libero quotidiano” il 23 aprile 2021. "Al settimo piano del Palazzo di Giustizia di Firenze, sezione Procura della Repubblica, in un faldone forse etichettato "Joe Bevilacqua", forse "Zodiac", si conserva da più di tre anni un verbale di denuncia sulle ammissioni di colpevolezza di un ex testimone del processo a Pietro Pacciani relative ai duplici omicidi del Mostro di Firenze. Il PM titolare del caso è Luca Turco, il magistrato che indaga Matteo Renzi. Bevilacqua, per le agenzie statunitensi Joseph, all'anagrafe italiana Giuseppe, è un ex soldato italoamericano. Dopo aver lasciato l'esercito, dal luglio 1974 alla fine del 1988, lavorò presso il cimitero americano di Firenze, a San Casciano in Val di Pesa. A verbale si riporta che con un "non volevo mettere nei guai gli altri" e un "lo sapevano" ammise spontaneamente al sottoscritto di essere il responsabile degli omicidi del serial killer fiorentino e del "californiano" Zodiac.
DNA E CONFRONTO CALLIGRAFICO. La Procura di Firenze ha da poco acquisito il DNA di Bevilacqua. Alcuni mesi fa, l'ex direttore del cimitero americano di Firenze si era sottoposto a un test su richiesta della Procura della Repubblica di Siena, nell' ambito dell' indagine sull' omicidio della taxista Alessandra Vanni, uccisa nel 1997 a Castellina in Chianti. L'esito del test è stato negativo. Attualmente non si sa se è arrivata una richiesta di acquisizione del DNA di Bevilacqua anche dagli Stati Uniti o se l'ex sergente italoamericano sia stato sottoposto anche a un esame comparativo della calligrafia. Zodiac ha infatti lasciato un vasto repertorio di campioni della sua grafia consistente in varie lettere recapitate a polizia e stampa americana, prevalentemente scritte in stampatello minuscolo.
DEVO PORTARE LA PISTOLA? Il 19 giugno 2018, a seguito della denuncia su Bevilacqua che avevo sporto a marzo a Lecco, venne fatto alla polizia giudiziaria fiorentina un nuovo, lungo resoconto su ciò che era avvenuto nell'estate precedente. La confessione parziale di "Joe", raccontai agli inquirenti, avvenne nel corso di una telefonata di alcuni minuti, al termine di una serie di colloqui a casa sua, un paese in provincia di Firenze dove risiede stabilmente dal 2010. «Non parliamo al telefono di queste cose», mi aveva chiesto, per nulla tranquillo, mentre gli dicevo che c'era il suo nome nelle lettere di Zodiac. Seguirono le ammissioni. Bevilacqua sostenne che, dopo tanti anni, gli inquirenti non avrebbero potuto dimostrare che fosse il colpevole, perlomeno non negli Stati Uniti. All'epoca dei delitti di Zodiac, a cavallo degli anni '60-'70, "Joe" lavorava per la Criminal Investigation Division, acquartierata tra Washington D.C. e Falls Church, Virginia. Non ci sarebbero state tracce della sua presenza in California nei record militari. Alla fine, però, desistette. Era senza speranza. Gli consigliai di costituirsi. «Cosa devo portare ai carabinieri? La pistola?», chiese. «Sì, porta tutto». Ricordo un gemito di dolore della moglie, Meri. Bevilacqua, frustrato da un'insolita interferenza iniziata alla parola "avvocato", le aveva passato il telefono per prendere il numero di cellulare del consulente legale Francesco Moramarco, da me suggeritogli. Questi i fatti messi a verbale da me denunciati. Ai Carabinieri dissi anche, e ne resto convinto, che la conversazione telefonica fra me e Bevilacqua fosse stata intercettata. Da chi? Non ne ho idea. La denuncia Bevilacqua avrebbe dovuto costituirsi a Borgo Ognissanti, sede del comando provinciale dei Carabinieri di Firenze, ma due giorni dopo le ammissioni, quando mi presentai in città per accompagnarlo, lui aveva cambiato idea. Litigammo al telefono e non ci parlammo più da allora. Nelle 24 ore successive, feci due distinte segnalazioni a polizia e carabinieri da un indirizzo di posta certificata. Pensavo che avrebbero indagato. Agli investigatori, successivamente, dissi che non avevo registrato i colloqui con Bevilacqua e non disponevo di campioni della sua scrittura, a parte una firma. Non avevo nemmeno scattato una fotografia alla croce celtica, simbolo del serial killer americano, disegnata sulla prima pagina dell' album che conteneva sue foto di cinquant' anni fa. Non accadde niente per mesi, perciò decisi di denunciare. Era il marzo 2018. A maggio, scrissi alcuni articoli e la storia esplose sui media. Ci fu una smentita con minacce di querela da parte di Bevilacqua. Una fonte mi disse che uno degli avvocati delle vittime, Vieri Adriani, aveva presentato un esposto su di me per depistaggio. Negli ultimi mesi, però, qualcosa si è mosso, e potrebbe arrivare una svolta nel caso.
LA DECIFRAZIONE CONSEGNATA AI CARABINIERI. Lo scorso dicembre è stato decriptato il testo cifrato più celebre inviato da Zodiac alla stampa americana. Ieri, è stata consegnata ai carabinieri di Borgo Ognissanti, a Firenze, la decifrazione completa del nome di Bevilacqua nei 13 simboli che il serial killer Zodiac inviò al San Francisco Chronicle più di mezzo secolo fa. Nella decifrazione compare in modo evidente la parola chiave "BEKIM". Un dettaglio che si ricollega alle vicende del Mostro. Il giorno in cui la lettera veniva affrancata a San Francisco, il 20 aprile 1970, in sei sale cinematografiche e drive in della città e della baia, zona dei misfatti del serial killer, era in proiezione "The adventurers", primo dei pochissimi film di Hollywood che vide come protagonista Bekim Fehmiu. L' attore jugoslavo è noto al pubblico italiano di quegli anni per l' interpretazione che lo rese famoso: Ulisse. La prima replica della serie "Odissea" con Fehmiu protagonista venne trasmessa prima serata sul canale 1 della RAI nel luglio 1974, quando Bevilacqua si trasferì al cimitero americano di Firenze, due mesi prima del primo delitto ufficialmente attribuito al Mostro. Quarant' anni dopo, intercettato nel carcere di Pisa, Mario Vanni, postino di San Casciano condannato per correità per quattro dei sette duplici omicidi attribuiti al Mostro dal 1974 al 1985, accusò dei delitti un americano che si faceva chiamare "Ulisse". Pacciani, l'imputato più noto del caso Mostro, avrebbe raccontato a Vanni di averlo incontrato in un "bosco". Ulisse, forse senza essere inizialmente creduto, gli avrebbe confessato di essere il maniaco delle coppie. Per qualche ragione, Pacciani lo avrebbe definito "nero". È possibile che non si riferisse al colore della pelle, ma alla croce celtica con cui il serial killer si firmava e che aveva ricamato sulla sua veste nera con il cappuccio, indossata in occasione di un' aggressione a una coppia nel 1969. Pacciani, insomma, potrebbe avere scambiato Zodiac per un neofascista, un "nero".
ULISSE Gli investigatori non avevano mai sentito parlare di Ulisse, prima del 2003. All'epoca, credettero che potesse identificarsi in Mario Robert Parker, stilista gay statunitense che nel 1983 abitava vicino a una scena del crimine. L'identificazione fu un fallimento. La famiglia non aveva mai sentito parlare di "Ulisse". La testimone Gabriella Ghiribelli, che lo avrebbe identificato in Parker, aveva dichiarato che "Uli" non fosse di colore, a differenza del sospettato. La questione venne lasciata in sospeso dal 2008, quando il filone di indagini in cui rientrava la ricerca di Ulisse si concluse con l' assoluzione del farmacista Francesco Calamandrei, uno dei presunti "mandanti" degli omicidi del Mostro. Nel 2018, raccontai alla polizia giudiziaria che avevo mostrato a Bevilacqua l'intercettazione di Vanni. Lui era rimasto in silenzio qualche secondo e poi aveva esclamato furibondo: «Penso che lo uccideranno. Penso che uccideranno Vanni». Mi diede una pacca sullo stomaco. «Grazie di avermelo detto». Non sapeva che Vanni era già morto. All'indomani della deposizione che Bevilacqua aveva reso al processo Pacciani, il 6 giugno 1994, La Repubblica titolò il pezzo di cronaca a firma di Franca Selvatici in: "Pacciani era nel bosco". L'ex direttore del cimitero americano di Firenze aveva sostenuto di aver visto l'imputato al margine del bosco di Scopeti pochi giorni prima degli omicidi avvenuti in quella zona nel 1985. Né Bevilacqua né Pacciani dissero di conoscersi, al processo, ma, riferii agli investigatori, l'americano mi disse che si erano incontrati più volte, prima della sua deposizione. Pacciani frequentava abitualmente il bosco di Scopeti e avrebbe anche cercato di farsi assumere al cimitero americano, senza successo. È comprensibile che Pacciani, per evitare di collocarsi nella zona del crimine, facesse finta di non conoscere Bevilacqua, ma come si spiegherebbe la reticenza dell' americano?
LE INDAGINI DELLA CRIMINAL INVESTIGATION DIVISION A SAN FRANCISCO. Bevilacqua non andò al processo Pacciani dicendo di essere un ex sergente dell'esercito degli Stati Uniti con 20 anni di carriera e un turno di servizio in Vietnam. Si presentò semplicemente come ex direttore del cimitero americano e, sollecitato dagli avvocati, come ex "poliziotto criminale". Per dieci anni, a partire dal 1964, Joe fu al servizio della Criminal Investigation Division come investigatore e agente sotto copertura. Per questa ragione, nei suoi record militari pubblici sono assenti alcune assegnazioni, tra cui quelle in California, quando indagò sul caso "Khaki Mafia". Nel 2017, Bevilacqua conservava ancora il libro su questa inchiesta scritto da June Collins e Robin Moore. La vicenda esplose sulla stampa americana l'1 ottobre 1969, in concomitanza con il caso Zodiac. L'indagato di rango più elevato di una sorta di "mafia militare" era il Sergente Maggiore dell' Esercito William O. Wooldridge. I rapporti investigativi della Criminal Investigation Division riportano che le indagini si focalizzarono in Vietnam e California, dove aveva sede Maredem, la società con cui i soldati indagati, fra cui Wooldridge, facevano affari con club e mense militari amministrati da personale corrotto. Nell' inchiesta furono coinvolti decine di agenti CID in tutto il mondo, fra cui Bevilacqua. Almeno tre indagini si svolsero a San Francisco, a partire dal 1 luglio 1969 fino alla fine del 1970, nell'epoca in cui Zodiac colpì o inviò lettere. Una testimonianza risalente al gennaio 2019 al vaglio degli investigatori conferma che Bevilacqua abbia svolto attività d'indagine sotto copertura mentre era nell' esercito. Altre testimonianze potrebbero aggiungersi a breve, se le autorità statunitensi, che finora hanno negato l' esistenza di un dossier investigativo su Bevilacqua nel caso Zodiac, decidessero di verificare la sua presenza a San Francisco tra il 1968 e il 1971. Bevilacqua, nel 1968, era in turno di servizio in Vietnam. Questo però non gli impedì di volare con un'autorizzazione a San Francisco nel dicembre di quell' anno, quando nella vicina Vallejo una coppia di teenager appartati in auto venne uccisa da Zodiac con una pistola calibro 22. Un dettaglio che si aggiunge al fatto che uno dei colleghi di Bevilacqua abbia messo su casa a Santa Rosa, California, fra il 1973 e il 1974, quando Zodiac spedì una lettera dopo un' assenza di diversi anni, citando un delitto avvenuto proprio a Santa Rosa. Inoltre, la madre del genero di Bevilacqua (di San Francisco) abitava a 15 minuti d' auto da dove venne ucciso da Zodiac il taxista Paul Stine, nel 1969. Sul fronte Mostro, non c'è solo il fatto che, nel periodo degli omicidi a Firenze, Bevilacqua abitasse a 10 minuti di cammino dall' ultima scena del crimine del maniaco e a meno di mezz' ora dalla maggior parte degli altri delitti. Ci sarebbe una prova che frequentasse il quartiere dove risiedeva Susanna Cambi, una delle vittime del Mostro, nei giorni in cui venne uccisa a Calenzano. Per qualcuno, Bevilacqua è un uomo vessato da molte coincidenze sfortunate. A breve, però, rischiano di diventare troppe".
"Il mostro di Firenze non è Zodiac. Cercate un piquerista". Matteo Calì il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Nelle ultime settimane si è tornati a parlare di un possibile collegamento tra Zodiac e il Mostro di Firenze. Sull’argomento abbiamo chiesto un’opinione a Mike Rodelli, scrittore Usa, esperto del caso del serial killer Zodiac a cui ha dedicato un libro che sul web sta spopolando. Tra il 1968 e il 1985, 8 duplici omicidi sconvolsero la campagna di Firenze. È il mostro. Il più feroce ed efferato serial killer italiano autore di atroci delitti nell’arco temporale di 17 anni, anche se negli anni ci furono due momenti di "pausa", tra il 1968 e il 1974 e tra il 1974 e il 1981. Uccise 16 persone. Otto coppie vennero sorprese dal Mostro mentre erano appartate nelle campagne toscane. Il mostro per i suoi delitti usò in tutti i casi le stesse armi: una pistola Beretta semiautomatica della serie 70, calibro 22 di tipo Long Rifle, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera H sul fondo, e un'arma bianca, probabilmente un coltello. Dal terzo duplice omicidio del 1981, inoltre, il killer asportò parte del pube e poi anche della mammella sinistra, accanendosi sulle vittime femminili. In tutti gli omicidi quindi il mostro usò lo stesso modus operandi. Ma soltanto nel 1989 le indagini sembrano avvicinarsi alla svolta. Un pool di investigatori passa giorno e notte a rileggere verbali, controllare archivi, vecchie annotazioni, e nuove testimonianze. Il colpo di scena arriva tra il 25 aprile e l'8 maggio 1992 quando durante una maxi perquisizione a casa di Pietro Pacciani vennero trovati una cartuccia calibro 22, di tipo Long Rifle, con una H incisa sul fondo, e alcuni oggetti presumibilmente appartenuti alle due vittime tedesche. Sull’uomo pesava la sua condotta violenta e le testimonianze che lo descrivevano come "guardone", che spiava le “coppiette”. Così nel settembre del 1994, la Corte d'Assise di Firenze condannò all'ergastolo Pacciani, considerandolo colpevole di 7 degli 8 duplici omicidi (tutti tranne il primo), ma il 13 febbraio del 1996 l'uomo venne assolto dalla Corte d'Appello. Qualche mese dopo, la Corte di Cassazione annullò la sentenza dell'Appello, ordinando un nuovo processo d’appello per il contadino di Mercatale. Ma alla vigilia dell'apertura del processo, il 22 febbraio 1998, Pietro Pacciani venne ritrovato morto nel suo appartamento.
Tutti i misteri irrisolti del Mostro di Firenze. Nel frattempo però le indagini erano proseguite seguendo il filone dei compagni di merende che vedeva implicati Mario Vanni, postino di San Casciano e Giancarlo Lotti, discusso personaggio della campagna fiorentina. Nel febbraio del 1996, Vanni venne arrestato per concorso in duplice omicidio insieme a Pietro Pacciani, che negli stessi giorni venne assolto senza che il giudice ammettesse in processo i testimoni che resero le dichiarazioni decisive contro Vanni. Successivamente Lotti ammise di aver partecipato a quattro omicidi e finì a processo, nell'ambito dell'inchiesta sui "compagni di merende". Nel marzo del ’98 la Corte d'Assise di Firenze condannò Vanni e Lotti per quattro duplici omicidi. Vanni fu condannato all’ergastolo mentre Lotti a 30 anni, ridotti a 26 anni in appello. Nel 2000 la sentenza è diventata definitiva. Vanni è morto nel 2009, Lotti nel 2002. Ma, a distanza di oltre 50 anni, i dubbi su questa storia sono ancora tanti e i delitti sono rimasti senza un colpevole. Anche l’ultima inchiesta della Procura di Firenze sull’ex legionario Giampiero Vigilanti e sul medico Francesco Caccamo si è chiusa con un’archiviazione. Le ipotesi più suggestive continuano a rincorrersi e nelle ultime settimane alcuni quotidiani hanno pubblicato la notizia di un ulteriore possibile collegamento tra un ex militare Usa Joe Bevilacqua, ex direttore del cimitero americano dei Falciani e testimone ‘chiave’ nel processo contro Pietro Pacciani, il serial killer americano Zodiac e il Mostro di Firenze. Bevilacqua, ora pensionato, avrebbe ammesso ad un giornalista “di essere il responsabile degli omicidi del serial killer fiorentino e del "californiano" Zodiac”. Un’ipotesi da film, che non meraviglia visto che sulle vicende del Mostro di Firenze si continua a parlare da anni. Sull’argomento abbiamo chiesto un’opinione a Mike Rodelli, scrittore Usa, esperto del caso del serial killer Zodiac a cui ha dedicato un libro che sul web sta spopolando. Rodelli ha acquisito notorietà Oltreoceano per aver individuato in un imprenditore di origine norvegese, che viveva in California, il serial killer Zodiac, tesi contrastata però dall’Fbi. Zodiac e il Mostro di Firenze sono la stessa persona, gli chiediamo nel corso di una videochiamata con gli Usa. “Mi rifiuto di pensare che Joe Bevilacqua possa essere sia Zodiac che il Mostro di Firenze”, taglia corto Rodelli. “Zodiac uccideva per sopraffare le vittime e non era un predatore sessuale, mentre il mostro commetteva omicidi di rabbia a sfondo sessuale”, spiega ancora. “L’ipotesi che un assassino con le caratteristiche di Zodiac fosse coinvolto in omicidi di questo tipo è altamente improbabile”, chiosa l’esperto Usa. Secondo Rodelli, Bevilacqua “è automaticamente escluso dal profilo di Zodiac”, ma anche Pacciani “non è il mostro di Firenze”. E proprio sull’identità del serial killer delle coppiette, Rodelli sviluppa una sua teoria ben precisa. “È un piquerista”. Per lo scrittore Usa “il Mostro è, ovviamente, noto per i suoi crimini successivi, del 1981-85, quando commise le mutilazioni delle vittime femminili”, “ma è il delitto del 1974 di Borgo San Lorenzo quello che credo ci dica di più di lui” sotto questa forma maniacale legata all’uso di lame. “Entrambe le vittime, Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, sono state inizialmente uccise mentre sedevano in auto, poi la donna è stata pugnalata per una cifra astronomica di volte”, spiega Rodelli. Nel delitto del Mostro del 1974, prosegue lo scrittore Usa, “solo alcune coltellate sono state considerate fatali”, mentre invece “la maggior parte sono state descritte come ‘punture’ nel suo corpo. Ecco, per chiunque sia esposto alla creazione di profili, questo è un caso da manuale di piquerismo”. “Il piquerismo è una parafilia in base alla quale il maniaco trae piacere sessuale dal pugnalare, penetrare, affettare o tagliuzzare la carne” con lame quindi “il ‘pungere’ il corpo di una persona più di 90 volte è come se dicesse di essere un piquerista”.
Ma perché il Mostro spara e uccide ma poi rimane sul luogo del delitto a maneggiare una lama sui cadaveri rischiando di essere scoperto? “Proprio perché come piquerista gli piaceva la sensazione di agire sui corpi con il coltello”, suggerisce lo scrittore secondo il quale peraltro c’è una certa “ironia del caso”: “Per anni si parla della pistola e apparentemente il Mostro ha usato la stessa Beretta per una lunga serie di crimini e pure gli stessi proiettili, invece – afferma – ciò di cui la gente avrebbe dovuto parlare è la sua ossessione per il coltello. Questo è ciò che alla fine potrebbe identificare l’assassino dopo così tanti lunghi anni”. Traduzione dialoghi di Camilla Castiglioni
Mostro di Firenze, Pietro Pacciani incastrato? "Il depistaggio decisivo, chi c'è dietro": la svolta. su Libero Quotidiano il 04 maggio 2021. Settimana scorsa, sono stati consegnati ai carabinieri di Firenze alcuni documenti sulla connessione fra il serial killer californiano Zodiac e il Mostro di Firenze, scaturita dalle ammissioni riportate in una mia denuncia a carico dell'ex direttore del cimitero americano di San Casciano, lo statunitense Joe Bevilacqua. Fra questi documenti, c'è una relazione che mette in dubbio una delle "certezze" investigative sugli omicidi delle coppie perpetrati nei dintorni del capoluogo toscano negli anni '70-'80. Si tratta del collegamento fra i sette delitti firmati dalla pistola del Mostro e un duplice omicidio risalente al 1968, attribuito dalla giustizia italiana al marito reo confesso di una delle vittime, Stefano Mele. Questa è una delle tre novità che potrebbero agevolare la conclusione dell'inchiesta sul Mostro, un cold case su sette duplici omicidi di giovani coppie appartate nelle campagne fiorentine risalenti agli anni '70 e '80, per i quali esiste soltanto un'incompleta e contrasta verità processuale. Quella che ha visto nel 2000 la condanna definitiva per alcuni dei delitti del postino Mario Vanni e del "compagno di merende" Giancarlo Lotti, presunti complici di un Mostro morto prima del secondo processo d'appello, il contadino Pietro Pacciani. Le altre novità sono la rivista utilizzata dal cosiddetto "Mostro" per comporre l'unica lettera a lui attribuita, individuata l'anno scorso, e la scoperta di un clamoroso errore della polizia scientifica sulla scena del suo "ultimo" crimine.
UN "CITTADINO AMICO". Il collegamento con il delitto del '68 nasce nell'estate del 1982. All'epoca, il maniaco delle coppie è in piena attività. Il 20 luglio, nello stesso giorno in cui viene pubblicato su La Nazione un appello dei carabinieri a un anonimo che ha aiutato le indagini sul serial killer, firmandosi in una lettera "un cittadino amico", gli inquirenti si imbattono nella scoperta che instraderà le indagini per i successivi sette anni. Probabilmente è stato il "cittadino amico" a indirizzarli. Nessuno di loro sa che "a friend" e "a citizen", "un amico" e "un cittadino", sono le ultime possibili firme utilizzate dal serial killer americano Zodiac nel febbraio e maggio del 1974, prima della sua scomparsa. I carabinieri aprono uno dei faldoni del fascicolo Mele e, a sorpresa, nel mare di carte, affiora un sacchetto con cinque bossoli e cinque proiettili. I reperti si trovano in un luogo inappropriato, accessibile alle parti e a chiunque autorizzato dal giudice competente. Risulteranno sparati dalla pistola del Mostro, probabilmente una Beretta. Per imprudenza, non viene effettuato un confronto approfondito. Si scoprirebbe che bossoli e proiettili trovati non sono identici a quelli del '68. Come le prove originali, appartengono a cartucce di marca Winchester superspeed sparate da una pistola calibro .22 con un percussore a forma di sbarretta, ma questi dettagli generici non bastano a provare che siano gli stessi di 14 anni prima. Nella recente analisi che ha visto la partecipazione di una ventina di consulenti balistici emergono tre gravi discrepanze relative alle prove trovate nel fascicolo Mele e quelle degli omicidi di sua moglie e del suo amante per i quali è stato condannato. Le incongruenze più rilevanti attengono alle impronte dell'espulsore e dell'estrattore della pistola sui bossoli, descritte nel 1968 come «quasi irrilevabili», mentre sono ben visibili su quelli allegati al fascicolo. L'esperto, pur sapendo dove si sarebbero dovute individuare queste tracce, non le cita nemmeno per escludere che la pistola sia un revolver (non ha estrattore ed espulsore). La loro "invisibilità" spiega perché non riesca a individuare la marca dell'arma, nonostante il sospetto che sia una Beretta e 35 prove di sparo. Al contrario, proprio perché i segni lasciati dall'arma del Mostro sono «chiaramente impressi», lo stesso esperto, chiamato a esaminare i reperti del Mostro nel 1974, riuscirà facilmente a individuare il possibile modello e la marca dell'arma, una Beretta della serie 70. La terza incongruenza si riferisce a un proiettile che nel 1968 presentava «una sbavatura di metallo rivolta a destra» che non corrisponde a nessuno dei cinque proiettili rinvenuti nel fascicolo. Le prove sono state sostituite per far collegare con l'inganno i crimini del Mostro al delitto del 1968 e l'autore del depistaggio non può che essere il detentore dell'arma o un suo complice.
LA SCIENTIFICA SBAGLIA. Le speranze su una prossima soluzione del caso Mostro sono riposte anche nella recente scoperta di un errore degli inquirenti. Il 9 settembre 1985, a San Casciano in Val di Pesa, la polizia scientifica sta conducendo ricerche approfondite in una piazzola ai margini del bosco degli Scopeti. C'è una tenda vicino a una siepe naturale formata da cespugli, una Golf parcheggiata a breve distanza con il tetto macchiato di sangue. È l'ultima scena del crimine del Mostro e si trova lungo la strada che, tra vigne, cipressi e borghi antichi, dal capoluogo toscano conduce alla costa tirrenica. «Il giorno in cui un ricercatore di funghi scopre i corpi delle ultime vittime, una coppia di francesi», mi dice l'esperto balistico Enrico Manieri, «intervengono anche gli agenti della polizia scientifica, che però non notano i bossoli di fronte alla tenda. Gli stessi saranno individuati l'indomani in altre posizioni». Manieri con il nickname "Henry62" gestisce un seguito blog dedicato al serial killer fiorentino dove entra nello specifico di delicate questioni tecnico-balistiche. «È un errore gravissimo commesso da chi indaga», osserva, «cambia la ricostruzione del delitto e, quindi, la verità processuale esistente mai revisionata dall'autorità giudiziaria». La presenza dei bossoli sulla scena del crimine in una posizione diversa da quella agli atti è inequivocabile nelle foto scattate dalla scientifica. «Si notano sei piccoli cilindri davanti alla tenda, nelle immagini di lunedì 9 settembre», spiega Manieri. «Sono chiaramente gli stessi bossoli che il giorno successivo saranno rinvenuti in posti diversi, spostati probabilmente dagli stessi agenti o da altre persone che hanno inquinato la scena del crimine». La posizione dei bossoli è un dettaglio fondamentale per capire dove lo sparatore era posizionato e, conseguentemente, per verificare l'attendibilità già ridotta al minimo dei testimoni Giancarlo Lotti e Fernando Pucci, pilastri delle accuse contro Pacciani e Vanni. Con varie discrepanze, alcune notevoli, le testimonianze di Lotti e Pucci si combinano con la ricostruzione degli inquirenti che, alla luce di questa scoperta, è certamente sbagliata. «Le pistole calibro .22, compresa quella del Mostro, solitamente espellono il bossolo almeno a un metro di distanza, verso destra e all'indietro. Per questo, è scientificamente molto improbabile che i bossoli finiti davanti all'ingresso della tenda appartengano ai primi colpi che attinsero i francesi, come erroneamente verrà dedotto, dopo il loro spostamento», spiega Manieri. Chi ha mosso inavvertitamente i bossoli prima che fossero individuati ha alterato la scena del crimine, inducendo chi avrebbe ricostruito gli eventi in vari errori, tra cui attribuire una posizione sbagliata allo sparatore nelle prime fasi del delitto. «A differenza di quanto riporta la ricostruzione ufficiale, basata sulle posizioni errate dei bossoli, i primi colpi vengono sparati a poca altezza dal terreno. Si deduce quindi che il serial killer iniziò a sparare con i piedi a un livello più basso, cioè nella scarpata che divide la piazzola dalla strada». Dopo i primi colpi, l'uomo riesce a sfuggire. L'assassino esce dai cespugli e spara sei volte verso di lui, cercando di fermarlo. Appartengono a queste cartucce i bossoli finiti davanti all'ingresso della tenda e poi spostati. Ma i bossoli dei primi colpi sparati alle vittime dove sono finiti? «Probabilmente nella scarpata, ma nessuno li ha cercati in quel punto», spiega Manieri. Forse sono ancora lì a Scopeti, nascosti nel terriccio fra la piazzola e la strada, da trentasei anni alla mercé delle intemperie e di cacciatori di "tesori" che, ancora oggi, con un metal detector potrebbero individuarli e portarli a casa come macabri souvenirs.
PIERO CHIARA E L'ORRORE. Il delitto di Scopeti è anche l'unico conosciuto a cui ha fatto seguito una lettera del Mostro. "Dott. Della Monica Silvia, Procura della Republi- (a capo ndr) ca, 50I00, Firenze" è il recapito composto da ritagli di giornale incollati sulla busta spedita da San Piero a Sieve, nel Mugello, subito dopo gli omicidi. Della Monica è una dei PM che per primi si occuparono delle indagini sui delitti seriali agli inizi degli anni '80. La busta conteneva un cartoncino, un sacchetto di cellophane sigillato con UHU Extra all'interno del quale c'era un frammento di seno della sua ultima vittima grande circa quanto un francobollo. Per 35 anni, è stato un mistero quale rivista avesse utilizzato il serial killer per la sua lettera di sfida. La polizia scientifica suggerì che dovesse trattarsi di un settimanale economico. Valeria Vecchione è la ricercatrice milanese che l'ha individuato, alla biblioteca "Sormani" di Milano. È il numero 51 di Gente in edicola dal 14 al 20 dicembre 1984. La rivista è stata scoperta nel febbraio 2020 e dovrebbe far parte delle più recenti acquisizioni della Procura di Firenze. «L'ho individuata grazie al "della" di Della Monica», ricorda Vecchione, «era l'unica parola che l'assassino aveva ritagliato per intero. Sul retro, si leggeva un frammento che poteva essere un titolo o uno slogan pubblicitario: "molte se"». La ricercatrice custodiva una copia di "della" nel portafogli come un santino, mentre vagava di biblioteca in biblioteca in cerca di una pagina che corrispondesse a quel ritaglio. Il giorno della scoperta, in biblioteca, Vecchione sfoglia velocemente le pagine di molti settimanali, cercando le parole 'molte se'. A tarda sera, arriva a pagina 36 e 37 di Gente numero 51 del 1984. Legge il titolo dell'articolo: "Care dolci acque non vi riconosco più: qui è finito il sogno della mia infanzia". L'immagine su due pagine ritrae lo scrittore Piero Chiara sulla sua imbarcazione nelle acque del lago Maggiore. Punta il dito su "della", come molte altre volte, e volta pagina. C'è una pubblicità della Zenit orologi. «Le parole "molte serate" corrispondevano al frammento del ritaglio. Mi è saltato il cuore in gola», dice Vecchione, «l'avevo trovata». Riverside, Lake Herman Road, Lake Berryessa, Blue Rock Springs, persino Washington Street vicino a Lake Street, scene del crimine di Zodiac, osserva Robert Graysmith nel bestseller "Zodiac" da cui è stato tratto l'omonimo film di David Fincher, contengono riferimenti all'acqua. Lo aveva già notato lo psichiatra Leonti Thompson, nel 1969. Per Zodiac, l'acqua sembrava rappresentare un'ossessione tanto quanto quel "paradiso" dove, secondo lui, lo avrebbero servito le vittime che uccideva. Dallo stesso titolo dell'articolo di Chiara, il Mostro ritagliò le ultime due lettere della busta, la E di "acque" e la Z, che è anche l'iniziale di Zodiac. «Normalmente le lettere anonime sono fatte da lettere di diverse forme che alla fine hanno un risultato molto disordinato», constata Vecchione. «In questo caso, invece, i ritagli sono stati selezionati con meticolosità e provengono tutti da titoli, fatta eccezione per i numeri e tre lettere di diverso font, il "ca" di republi-ca e la prima "e" di Firenze, ritagliate da una pubblicità all'interno dell'articolo di Chiara». Perché questa anomalia in "Ca" e "Firenze"? Non sarà un modo per rafforzare l'allusione a "California e Firenze", i luoghi dove Zodiac e il Mostro hanno colpito? Sulla pagina sul retro dei ritagli della pubblicità destano all'occhio due parole: "acque" e "paradiso". Le due ossessioni del maniaco americano. «È un po' più di qualche suggestione», ammette Vecchione.
Zodiac e l’investigatore italiano che gli diede la caccia: «Dopo 52 anni possiamo ancora risolvere il caso». Monica Zornetta su Il Corriere della Sera il 22 agosto 2021. Gianrico Pierucci, emigrato con la famiglia negli Usa all’età di 4 anni, ha indagato sul caso del killer dello Zodiaco dal 2014, 45 anni dopo il primo delitto.
Gianrico Pierucci. Quando il tenente lo aveva convocato in ufficio e gli aveva detto: «Hai superato il colloquio, ti affido il caso Zodiac, mi fido di te», l’ispettore capo Pierucci, pur felice della bella notizia, sapeva che non sarebbe stata una passeggiata. Era il 2014, l’ultimo omicidio attribuito all’imprendibile serial killer della California occidentale risaliva a quarantacinque anni prima, l’Unità Omicidi Cold Case del Dipartimento della Polizia di San Francisco era da tempo a corto di uomini, lui stesso aveva appena superato il colloquio con le più alte cariche del Dipartimento e ad attenderlo, negli archivi, c’erano 26 scatoloni zeppi di documenti, di foto, di rapporti, di perizie, memorandum e verbali. E, con loro, la promessa di un discreto numero di notti da passare insonni. Da un po’ molti dei suoi colleghi più anziani erano andati in pensione o erano stati promossi o, per qualche ragione, non avevano più potuto o voluto rimanere nell’Unità; nel giro di un solo anno il numero di ispettori della Omicidi era passato da 27 a 16: la strada da fare, per la nuova squadra investigativa, era tutta in salita. Ma da tanto Gianrico Pierucci desiderava quell’incarico.
Il tassista freddato con un colpo alla testa. Aveva subito voluto dare un’occhiata al contenuto degli scatoloni. La gran parte delle carte si riferiva all’unico delitto firmato da Zodiac a San Francisco, l’ultimo di una lista di 5 che i detective di tutta la California erano riusciti ad attribuirgli. In questo caso la vittima era un giovane tassista, Paul Lee Stine, ucciso con un colpo di pistola alla testa da uno sconosciuto passeggero e derubato di portafogli e chiavi. Il fatto era successo verso le 10 di sera dell’11 ottobre 1969 nell’agiato sobborgo di Presidio Heights, a una manciata di chilometri da downtown. Ventinove anni, sposato con una ragazza del Wisconsin, studiava per ottenere il PhD in Lingua e Letteratura Inglese alla San Francisco State University e quella notte non avrebbe dovuto essere in servizio. Prima di scappare, abbandonandolo riverso sui sedili anteriori del taxi, l’omicida gli aveva strappato un brandello di camicia insanguinata che nei giorni seguenti aveva diviso minuziosamente in tre parti e allegato, come elemento di prova, a tre diverse lettere di rivendicazione. Le prime due, spedite tra l’ottobre e il novembre 1969 alla redazione del San Francisco Chronicle, la terza, il mese dopo, al celebre avvocato della Bay Area, Melvin Belli.
A 14 anni nel programma reclute. Mentre sfogliava i documenti, da uno degli scatoloni era spuntato l’identikit di Zodiac e l’investigatore, a quel punto, si era fermato ad osservarlo. Era stato realizzato pochi giorni dopo l’omicidio di Stine grazie alle descrizioni dei tre giovani testimoni che quella sera si trovavano nella zona di Presidio Heights; il fatto curioso è che quell’individuo era stato notato anche dai due agenti di pattuglia della San Francisco Police Department i quali, per un inspiegabile errore nella comunicazione via radio dalla centrale, stavano cercando il sospetto responsabile in un uomo di colore. All’ispettore era chiaro che quei documenti avrebbe dovuto studiarli uno ad uno e che poi avrebbe dovuto ascoltare i racconti dei testimoni, ispezionare con i suoi collaboratori i luoghi del crimine, riesaminare le connessioni con gli altri omicidi, richiedere nuovi esami forensi e collaborare con gli inquirenti e gli analisti del suo e di altri dipartimenti di Polizia della California, dell’Fbi e di altre agenzie. Pierucci a quel tempo aveva 51 anni, una buona metà dei quali trascorsa in polizia, e viveva in città con la moglie Cindy e i due figli. «Ero bambino quando ho capito che volevo diventare un poliziotto dell’Unità Omicidi», racconta oggi dalla casa di San Francisco dove abita con Cindy e dove si gode la meritata pensione. «A 14 anni ero già nel Programma Reclute dello Sceriffo, al college ero un Ufficiale studente di Polizia e all’Università collaboravo con la Polizia di San Francisco per garantire la sicurezza pubblica nel campus».
Il primo delitto quando lui aveva 5 anni. Capelli e baffi scuri, occhi nerissimi e acuti, Gianrico Pierucci si esprime in inglese ma è italiano: è nato infatti nel 1963 in una minuscola località del Comune di Frontone, nelle Marche, e in California ci è arrivato con i genitori quando aveva da poco compiuto 4 anni. Era il novembre 1967. «L’anno seguente Zodiac cominciò a seminare il terrore ovunque», ricorda, «voleva instillare in ogni persona l’angoscia e la paura». Il killer aveva colpito la prima volta nel 1968 nella periferia di Benicia, nella California settentrionale, dove, pochi giorni prima di Natale, sparò e uccise con una 9 mm. Luger due fidanzati di nemmeno 18 anni. Sparì per un po’ e riapparve nel luglio ‘69 quando, in un parco della città di Vallejo, fece fuoco contro un’altra giovane coppia. La ragazza morì, il compagno sopravvisse; a settembre, poi, scambiò un paio di parole con due studenti che si trovavano al lago Berryessa per un pic-nic - raccontò loro di essere un detenuto evaso dal carcere, di essere in cerca di denaro e di una macchina per fuggire in Messico -, li costrinse a legarsi l’un l’altra con una corda e li pugnalò varie volte alla schiena prima di fuggire e di incidere sulla portiera dell’auto una serie di date corrispondenti ai tre attentati.
«Solo io e la polizia sappiamo». In quest’occasione il ragazzo, pur gravemente ferito, era riuscito a scampare alla morte (l’amica, purtroppo, non ce l’aveva fatta) e a fornire agli investigatori una descrizione dell’assassino. Insieme al sangue, nell’enigma Zodiac ci sono anche quattro crittogrammi e una ventina di lettere. Le prime, contenenti particolari sui primi tre omicidi «che solo io + la polizia conosciamo», avevano cominciato ad arrivare alle redazioni di alcuni quotidiani locali l’ultimo giorno di luglio 1969: erano tre e ciascuna di esse conteneva una parte di un unico macabro messaggio in codice lungo 408 caratteri/simboli (archiviato dalla polizia come Z-408), che una coppia di insegnanti di Salinas, a 30 minuti d’auto da Monterey, aveva decrittato otto giorni dopo. «Mi piace uccidere la gente perché è divertente», comunicava nel delirante testo, «ed è perfino meglio dell’uccidere selvaggina nella foresta perché l’essere umano è l’animale più pericoloso di tutti. Uccidere qualcosa è l’esperienza più emozionante [...] è ancora meglio che farsi la tua ragazza. La parte migliore di questo è che quando morirò rinascerò in Paradiso ( Paradice anziché Paradise nel testo originale) e tutti quelli che ho ucciso diventeranno i miei schiavi».
Il nome nella quarta lettera. Tuttavia, era nei tre fogli che compongono la quarta lettera, curiosamente consegnata a mano il 4 agosto al San Francisco Examiner, che Zodiac, fino ad allora sui media l’assassino del codice cifrato, aveva scelto di presentarsi ufficialmente al mondo - «Caro direttore, è Zodiac che parla...» - e di gettare un guanto di sfida a coloro che gli stavano dando la caccia: «La Polizia se la sta spassando con il codice? Se così non è, dì loro di rallegrarsi. Quando lo decifreranno, mi cattureranno». In effetti, gli investigatori speravano che il suo vero nome emergesse proprio dai quattro crittogrammi da lui spediti tra il 1969 e il 1970, ma né il primo, lo Z-408, né il secondo, lo Z-340, decifrato lo scorso dicembre da un gruppo intercontinentale di “privati cittadini” (come li ha definiti l’Fbi) e da uno speciale software, lo hanno rivelato. «In quest’ultimo messaggio Zodiac scrive di non aver paura della morte, nemmeno della camera a gas, ma ai fini delle indagini tutto questo è poco rilevante. C’è bisogno di un nome, di un luogo, un indirizzo, una certa persona, un lavoro», aveva commentato Pierucci con una nota di delusione sul San Francisco Chronicle.
Il software dell’ingegnere francese. All’appello, dunque, ne mancano ancora due: lo Z-13, il più corto, e lo Z -32, spedito nel giugno 1970 insieme ad un’oscura mappa della Bay Area con tanto di simbolo tracciato dallo stesso criminale in corrispondenza del Monte Diablo. Per la verità, lo scorso giugno un ingegnere francese ha comunicato in Rete di averli decrittati entrambi grazie ad un software di sua invenzione, impiegandoci rispettivamente un’ora e una settimana, ma le sue conclusioni (il refuso di un nome già sottoposto ad indagini) sono state aspramente criticate dalla comunità di appassionati. Sebbene da qualche anno l’ispettore italiano abbia riposto la divisa blu con lo stemma della fenice, non pensatelo impegnato a tosare l’erba del prato o a portare fuori il cagnolino: quando non insegna Investigazione criminale al City College di San Francisco, impeccabilmente vestito con il suo gessato, in testa uno dei suoi iconici Borsalino Fedora, capita che dia una mano a qualche giovane collega dell’Unità Omicidi a raccapezzarsi con i cold case, le “piste fredde”, considerato che nella sua carriera ne ha gestiti quasi 200.
«Il caso Zodiac è ancora aperto». «Il caso Zodiac è ancora aperto e non posso dire nulla che non sia già di pubblico dominio per non interferire con le indagini: ciò che posso dire, invece, è che riavviare un cold case non è affatto semplice, soprattutto se si è costretti a concentrarsi anche su altri, ugualmente importanti. Prendiamo, per esempio, l’ “episodio” Stine, di cui mi sono occupato. Molti investigatori del tempo, penso al mio amico Dave Toschi (il primo ispettore di San Francisco a condurre l’inchiesta, immortalato con il collega William “Bill” Armstrong e il loro capo, Marty Lee, nel film Zodiac di David Fincher; ndr ), ma anche molti testimoni e possibili sospetti oggi non ci sono più, mentre altri, con il trascorrere del tempo, hanno finito per dimenticare molti particolari. Anche i luoghi dei delitti si sono trasformati, e allora succede che le foto che li ritraggono diventano la sola scena del crimine su cui lavorare. Quanto al Dna», continua il detective-docente, «tutto dipende da come è stato conservato e, ovviamente, da dove è stato prelevato e a chi appartiene».
Il Dna sulle lettere e sui francobolli. Nel caso del “Killer dello Zodiaco” è quello rinvenuto anche sulle lettere e sui francobolli che qualche anno fa il Dipartimento di Polizia di Vallejo aveva fatto esaminare per ottenere il suo profilo genetico. «Grazie alle informazioni fornite dal Dna, in passato la mia Unità è riuscita a dare volti e nomi ad alcuni serial killer: in un caso particolare ci ha permesso anche di collegare l’individuo ai tanti omicidi da lui commessi nell’arco di decenni in buona parte degli Usa. Tornando invece alle indagini su Zodiac, negli anni scorsi io e i miei collaboratori abbiamo trascorso giorni e notti al telefono e attraversato l’intera California per raccogliere le informazioni, i sospetti e le testimonianze, a volte davvero inverosimili, di tante persone. C’è stato chi era convinto che l’assassino fosse il padre naturale, chi il patrigno, chi il migliore amico, chi il collega, e c’è stato persino chi aveva preparato un puntiglioso fascicolo con le conclusioni a cui erano giunte le proprie indagini. Arthur Leigh Allen è stato a lungo il sospettato numero uno per via di certi fatti e circostanze, ma anche Earl Van Best jr e tanti altri hanno attirato le nostre attenzioni investigative», conferma.
Il San Francisco Chapter dei carabinieri. «Questa vicenda è stata indagata per 52 anni dalla Polizia di San Francisco e per molto tempo anche da quelle di Napa, Benicia, Vallejo oltre che dai colleghi di Riverside, entrati in scena per l’omicidio della 18enne Cherie Jo Bates, nel 1966. Ci sono ancora tante strade da percorrere e sono convinto che se ogni delitto fosse rivisto a fondo, e tutte le strade fossero esplorate di nuovo, il caso potrebbe essere risolto. È vero che il tempo non è dalla nostra parte, ma credo che se una squadra di investigatori di ogni Dipartimento, la task force dell’Fbi e altre agenzie statali lavorassero insieme e condividessero tutte le informazioni, senza distrazioni, riuscirebbero ad unire tutti i punti e a portare alla luce la verità», afferma convinto Pierucci. In tempi recenti ha partecipato alla parata per il Columbus Day vestendo la Grande Uniforme Speciale dei Carabinieri. «Mi onoro di essere tra i fondatori del San Francisco Chapter dell’Associazione Nazionale Carabinieri e sono orgoglioso dei miei fratelli e delle mie sorelle che in Italia proteggono le nostre famiglie. Amo tantissimo l’Italia e Frontone, dove ho ancora amici e parenti: se le piace la buona cucina marchigiana, le consiglio un ristorantino dalle mie parti...». Non di solo Zodiac vive un poliziotto.
I misteri del Mostro di Firenze: "Se ne parlerà per sempre". Francesca Bernasconi il 15 Dicembre 2020 su Il Giornale. Tra il 1968 e il 1985, 8 duplici omicidi sconvolsero la campagna di Firenze. Ma, a distanza di oltre 50 anni, i dubbi intorno alla vicenda sono ancora tanti e alcuni delitti sono rimasti senza un colpevole. Il 9 settembre del 1985 due giovani francesi, Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, vennero ritrovati morti in una piazzola di Scopeti, una frazione di San Casciano in Val di Pesa. Fu l'ultimo di 8 duplici omicidi avvenuti nelle campagne fiorentine tra il 1968 e il 1985 attribuiti a uno dei più temuti serial killer della storia italiana, noto come il Mostro di Firenze. Ma ancora oggi, a distanza di oltre 50 anni dal primo duplice omicidio, sono tanti i misteri, i dubbi e le incongruenze che aleggiano attorno a una storia che non è mai stata del tutto chiarita. In tutta la vicenda vi è un solo punto fermo: "L'unica cosa certa sono i 16 ragazzi morti", spiega Francesco Cappelletti, che al Mostro di Firenze ha dedicato il blog Insufficienza di Prove al quale lavora da anni.
Gli 8 duplici omicidi. Nel corso di 17 anni (dal 1968, data del primo assassino, al 1985 data dell'ultimo) le vittime furono 16 in totale: 8 coppie vennero sorprese dal killer mentre erano appartate in autovetture (tranne l'ultima, in tenda) parcheggiate nelle campagne toscane. I delitti vennero commessi usando in tutti i casi le stesse armi: una pistola Beretta semiautomatica della serie 70, calibro 22 di tipo Long Rifle, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera H sul fondo, e un'arma bianca, probabilmente un coltello. Il primo duplice delitto avvenne la notte del 21 agosto 1968 a Lastra a Signa: Antonio Lo Bianco, muratore 29enne originario di Palermo, e Barbara Locci, casalinga 32enne sarda, vennero uccisi entrambi con quattro colpi di pistola mentre si trovavano appartati all'interno dell'automobile. Secondo quanto emerso successivamente, i due erano amanti e la donna era sposata con Stefano Mele con cui aveva avuto un figlio, Natalino, che quella notte dormiva sul sedile posteriore dell'auto. Intorno alle due della mattina del 22 agosto, il bambino suonò alla porta di un casolare, dicendo che la mamma e "lo zio" erano morti in macchina. Sei anni dopo l'omicidio di Signa, il 14 settembre 1974. Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, di 19 e 18 anni, persero la vita in una strada sterrata di Rabatta, Borgo San Lorenzo. Il ragazzo venne raggiunto da 5 colpi di pistola esplosi dalla stessa arma del primo omicidio, che lo lasciarono senza vita, mentre la ragazza venne colpita per tre volte, poi venne trascinata fuori dall'auto e uccisa con diverse coltellate. Su entrambi i corpi vennero individuate diverse ferite inferte post mortem con un'arma bianca: sul corpo di Stefania, la perizia ne individuerà ben 96, "sparse per tutto il tronco ma raggruppate a livello addominale nella regione pubica". Il terzo duplice omicidio risale al 6 giugno 1981, dopo altri sette anni. Questa volta a perdere la vita furono Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio, di 30 e 21 anni, mentre erano appartati in macchina in una stradina sterrata di Mosciano di Scandicci. Giovanni venne raggiunto da alcuni colpi di pistola e in seguito da tre colpi di arma bianca, mentre Carmela, dopo essere stata colpita con la Beretta calibro 22, venne trascinata fuori dalla macchina e trasportata nel campo vicino, dove l'assassino le asportò interamente la zona pubica. Il 22 ottobre 1981 il Mostro tornò a colpire: i corpi di Stefano Baldi, 26 anni, e Susanna Cambi, 24 anni, vennero trovati a Travalle di Calenzano, vicino a Prato. Una delle sentenze relativa alla vicenda ricorda che entrambi i cadaveri vennero "rinvenuti fuori dell’auto, una VW Golf di proprietà del Baldi, parcheggiata su una stradina sterrata senza sfondo". Stefano e Susanna vennero raggiunti da diversi colpi di arma da fuoco e successivamente colpiti da colpi di arma bianca, "parte inferti in limine vitae, parte post mortem". Anche in questo caso alla donna venne praticata l'escissione del pube. Il quinto duplice omicidio risale al 19 giugno 1982, quando a finire nel mirino del killer furono due fidanzati di 22 e 19 anni, Paolo Mainardi e Antonella Migliorini. I giovani si erano appartati in macchina in una piazzola sterrata di Baccaiano di Montespertoli, quando vennero raggiunti dai proiettili della Beretta calibro 22. Secondo una prima ricostruzione con cui non tutti concordano, durante l'esecuzione del delitto si sarebbe verificato un imprevisto: "Il ragazzo, forse già ferito, ma non mortalmente, dai colpi di arma da fuoco, era riuscito a rimettere in moto l’auto e ad inserire la retromarcia, abbandonando la piazzola sterrata, cercando di immettersi sulla strada provinciale - si legge in una delle sentenze - Non vi era purtroppo riuscito perché l’omicida lo aveva inseguito esplodendo contro lui e la ragazza una serie di colpi che avevano ucciso quest’ultima, trovata seduta nella parte posteriore dell’auto, e ferito mortalmente lui. A macchina ferma l’omicida aveva sparato due colpi contro i fari anteriori; aveva poi danneggiato con un oggetto metallico e a punta i fanalini di posizione anteriori, sfilando anche le chiavi dal cruscotto". I corpi dei due fidanzati entrambi vestiti vennero trovati quella stessa notte da alcuni ragazzi: Paolo, ancora vivo, venne trasportato in ospedale dove morì il mattino dopo senza aver mai ripreso conoscenza. Il 9 settembre 1983 sulla via di Giogoli, a Galluzzo, vennero assassinati due ragazzi tedeschi, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, due studenti di 24 anni. Al momento dell'aggressione i due ragazzi si trovavano all'interno di un furgone Volkswagen con l'autoradio accesa. Il killer li uccise con 7 proiettili provenienti dalla stessa arma usata per tutti i delitti precedenti, senza utilizzare l'arma bianca né deturpare il corpo. La scia di sangue del Mostro di Firenze proseguì con il settimo delitto, che si consumò la sera del 29 luglio 1984 in località Boschetta a Vicchio di Mugello. A perdere la vita furono i fidanzati Pia Gilda Rontini e Claudio Stefanacci di 18 e 22 anni, che si erano appartati in auto su una strada sterrata. Entrambe le vittime vennero raggiunte da alcuni colpi di pistola e successivamente da "numerose coltellate, almeno dieci per il ragazzo e due per la ragazza, inferte in limine vitae o post mortem". La ragazza venne ritrovata fuori dall'auto completamente nuda: il killer le aveva completamente asportato il pube e la mammella sinistra. L'ultimo duplice omicidio fatto risalite al Mostro avvenne nella notte tra il 7 e l'8 settembre 1985 in una piazzola nella frazione di Scopeti nel comune di San Casciano Val di Pesa. Lì due giovani francesi, il 25enne Jean-Michel Kraveichvili e la 36enne Nadine Mauriot, si erano accampati in una tenda. Quella notte il killer sorprese le sue vittime con diversi colpi di pistola, uccidendo la ragazza. Jean-Michel invece, ferito non mortalmente, sarebbe riuscito a uscire dalla tenda, cercando di scappare, ma l'assassino lo avrebbe raggiunto, uccidendolo con l'arma bianca. Poi l'omicida trascinò la ragazza parzialmente fuori dalla tenda per asportare il pube e la mammella sinistra, dopo di che riportò il corpo all'interno della tenda. Per gli omicidi il Mostro di Firenze prese di mira coppie che si erano appartate in autoveicoli o, solo nell'ultimo caso, in una tenda, uccidendole a colpi di pistola e arma bianca (fa eccezione il caso dei due ragazzi tedeschi). Dal terzo delitto, inoltre, il killer praticò anche le escissioni, prima solo del pube poi anche della mammella sinistra, accanendosi sulle vittime femminili, la maggior parte delle quali venne ritrovata nuda e fuori dalla macchina. In tutti gli omicidi quindi il killer adottò lo stesso modus operandi, che però andò evolvendosi nel corso del tempo: nei primi delitti l'assassino usava pistola e coltello per uccidere le donne, ma dal 1981 iniziò a praticare le asportazioni. Nell'ultimo crimine poi, un lembo di pelle appartenente a Nadine Mauriot venne spedito al sostituto procuratore Silvia Della Monica.
Dalla "pista sarda" ai "compagni di merenda". "Il primo duplice omicidio del 1968 era legato a persone sarde e gli inquirenti ritennero di cercare l'assassino in quella cerchia", spiega Francesco Cappelletti. A finire nel mirino degli inquirenti fu infatti Stefano Mele, marito di Barbara Locci, che in un primo momento confessò di essere l'autore del crimine, accusando Salvatore Vinci, uno degli amanti della donna, di avergli fornito la pistola. Successivamente, dopo ulteriori ritrattazioni e ammissioni, il marito di Barbara Locci accusò anche Francesco Vinci e Carmelo Cutrono, entrambi amanti della donna. Nel 1970 Stefano Mele venne condannato dalla Corte d'Assise d'Appello di Perugia per il duplice omicidio e scontò la pena fino all'aprile del 1981. La "pista sarda" si ripresentò dopo il duplice omicidio di Montespertoli avvenuto nel giugno 1982, il quinto della serie dei delitti del Mostro di Firenze. Grazie ai ricordi di un maresciallo dei carabinieri, gli investigatori ripresero in mano i fascicoli dell'omicidio Locci-Lo Bianco, accertando l'identità della pistola usata nel 1968 e nel 1982. Così gli inquirenti misero nuovamente sotto la lente di ingrandimento Stefano Mele, che tornò ad accusare Francesco Vinci, proclamandosi innocente. Nel 1984 inoltre Stefano Mele chiamò in causa anche il fratello Giovanni Mele e il cognato Piero Mucciarini, che vennero arrestati e processati anche per i duplici omicidi successivi al 1968: "Venendo inquisiti per il primo dei duplici omicidi consumato con quell'arma - si legge nella sentenza istruttoria - era un dovere di garanzia processuale dar loro avviso che si procedeva anche per quelli successivi". Ma a sostegno della "pista sarda" non vennero trovate prove sufficienti e convincenti e il 13 dicembre 1986 il giudice chiuse le indagini, con un'ordinanza in cui dichiarò che non si doveva procedere contro gli imputati "per non aver commesso il fatto". Nel 1989, le indagini sembrarono arrivare a una svolta, tramite un'operazione messa a punto dalla Squadra Anti Mostro (Sam), già creata nel 1984, per indagare sui duplici omicidi commessi dal serial killer. Gli inquirenti infatti notarono che la scia di sangue si era improvvisamente arrestata nel settembre 1985, dopo il delitto dei due turisti francesi: per questo si ipotizzò che il killer "fosse morto o impossibilitato a commettere nuovi crimini perché malato, detenuto in carcere o ristretto in manicomio, ovvero perché la polizia gli era giunta vicino", stando a quanto viene ricostruito in una delle sentenze. Quindi gli inquirenti selezionarono 82 persone che dopo l'omicidio di Scopeti erano state sfiorate dalle indagini, circostanza che avrebbe spinto l'assassino a sospettare di essere controllato, "interrompendo dunque l’attività omicidiaria". Tra gli 82 nominativi, emerse quello di Pietro Pacciani, in passato già autore di un omicidio e condannato per maltrattamenti domestici e violenza sessuale alle figlie. L'uomo nel settembre del 1985 aveva subito una perquisizione, dopo che una lettera anonima lo aveva indicato come possibile sospettato, spingendo gli inquirenti a indagare su di lui. La procura eseguì un ulteriore accertamento su persone, di età compresa tra i 30 e i 60 anni, che fossero state arrestate dopo il duplice omicidio dei ragazzi francesi e fossero ancora detenute e che avessero avuto, una settimana prima e una dopo gli omicidi, la possibilità di muoversi: tra questi figurava ancora una volta Pacciani, l'unico già presente tra le persone selezionate anche in precedenza. A seguito di queste indagini, tra il 25 aprile e l'8 maggio 1992 venne effettuata una maxi perquisizione a casa di Pietro Pacciani: qui vennero trovati una cartuccia calibro 22, di tipo Long Rifle, con una H incisa sul fondo, e alcuni oggetti presumibilmente appartenuti alle due vittime tedesche. I testimoni inoltre lo identificarono come "guardone", spesso intento a spiare le coppiette, e nel portafoglio venne ritrovata un'annotazione con il numero della targa di una macchina appartenuta a un ragazzo che più volte vi si era appartato con la fidanzata. Il 1 settembre 1994, la Corte d'Assise di Firenze condannò all'ergastolo Pacciani, considerandolo colpevole di 7 degli 8 duplici omicidi (tutti tranne il primo), ma il 13 febbraio del 1996 l'uomo venne assolto dalla Corte d'Appello. Nel processo di secondo grado non era stata concessa al procuratore generale l'acquisizione del provvedimento cautelare a carico di un nuovo imputato, arrestato il 12 febbraio 1996, in cui emergeva la presenza di un testimone oculare. Per questo venne presentato ricorso alla Corte di Cassazione che il 12 dicembre dello stesso anno annullò la sentenza dell'Appello, chiedendo un processo bis. Ma alla vigilia dell'apertura del processo, il 22 febbraio 1998, Pietro Pacciani venne ritrovato morto. Due anni prima, Giancarlo Lotti e Fernando Pucci testimoniano contro Mario Vanni, accusandolo di aver partecipato ai delitti insieme a Pietro Pacciani. Si aprì così l'inchiesta che coinvolse i "compagni di merende" di Pacciani. Pucci dichiarò di aver visto due uomini vicino alla tenda dei due francesi nel 1985. Più tardi il testimone sostenne di aver riconosciuto uno dei due assassini, accusando Vanni, mentre Lotti sostenne di aver riconosciuto Pacciani. Nel febbraio del 1996, Vanni venne arrestato per concorso in duplice omicidio e vilipendio di cadavere, reati compiuti insieme a Pietro Pacciani, che negli stessi giorni venne assolto senza che il giudice ammettesse in processo i testimoni che resero le dichiarazioni decisive contro Vanni. Successivamente Lotti ammise di aver partecipato a quattro omicidi e finì a processo, nell'ambito dell'inchiesta sui "compagni di merende". Il 24 marzo 1998 la Corte d'Assise di Firenze condannò i due uomini per 4 duplici omicidi: a Vanni venne dato l'ergastolo, mentre a Lotti 30 anni. I successivi gradi di giudizio confermarono la sentenza, riducendo la pena di Lotti a 26 anni. Così nel 2000 i due uomini vennero condannati in via definitiva per 4 degli 8 duplici omicidi. Nel 2009, Vanni morì. Quello del 1985 fu l'ultimo duplice omicidio attribuito al Mostro di Firenze. Poi il killer delle coppiette si fermò. I suoi delitti si susseguirono in un arco di 17 anni, a partire dal 1968, ma negli anni ci furono due momenti di "pausa", tra il 1968 e il 1974 e tra il 1974 e il 1981. "Le pause sono abbastanza frequenti - ha spiegato al Giornale.it l'esperto Francesco Cappelletti - Questo caso è particolare perché gli omicidi durarono tanti anni, solitamente si parla di mesi. Forse l'assassino aveva raggiunto una sorta di calma interiore: una compagna o una professione appagante, che lo hanno distolto dai propositi omicidiari".
I dubbi sull'identità del Mostro. Le sentenze sui duplici omicidi attribuiti al Mostro di Firenze non convincono fino in fondo. Francesco Cappelletti parla di "una sentenza monca": "Gli omicidi sono legati dalla pistola - spiega - anche le ultime perizie hanno confermato che i bossoli appartengono alla stessa calibro 22. Non si possono trovare responsabili solo di alcuni omicidi, solo che Lotti aveva lasciato dichiarazioni solo per gli ultimi quattro". Cappelletti ammette di avere delle "perplessità" sul coinvolgimento di Pietro Pacciani: "Era una personalità particolare, un mentitore seriale. Su di lui ho un giudizio sospeso". Per quanto riguarda i "compagni di merende" invece, Cappelletti ha dichiarato di essere "assolutamente convinto dell'estraneità di Lotti e Vanni agli omicidi: a San Casciano tutti raccontano di due persone molto limitate, borderline. Vanni aveva seri problemi di alcolismo, Lotti in una vita non è riuscito a costruire niente che valesse la pena di essere chiamato per nome. Sosteneva di aver partecipato a 4 duplici omicidi, ma i suoi racconti sono contraddittori, inverosimili, talvolta conditi di illogicità non spiegabili. Mi riesce davvero difficile vederli coinvolti in questi omicidi". Sull'identità del Mostro di Firenze, Cappelletti aggiunge: "Penso che l'assassino fosse uno e uno solo, perché penso sia davvero complicato trovare qualcuno che condivida abomini del genere con altri per così tanti anni. Probabilmente l'assassino fu sfiorato dalle indagini, ma la sua posizione non è mai stata approfondita a dovere". La vicenda del Mostro di Firenze è costellata da dubbi, incertezze e incongruenze, che hanno reso il caso uno dei più discussi e controversi della storia italiana. E oggi, a distanza di oltre 50 anni dal primo duplice omicidio, il responsabile di 16 morti resta ancora incerto. "Tuttora si continua a cercare, perché non c'è un colpevole convincente - conclude Cappelletti - Credo che di questa storia si parlerà per sempre".
Gli scienziati vogliono studiare i resti del «mostro» Pacciani. Redazione il 31 Agosto 2014 su Il Giornale. I familiari nel 2013 rifiutarono la sua salma. Ma ora Comune e Tribunale dicono no agli studiosi italiani e tedeschi che vorrebbero esaminare le ossa. Un incubo da vivo, un caso ancora aperto da defunto. Tanto da suscitare morbose curiosità dal sapor lombrosiano. La faccia da cattivo in effetti ce l'aveva e ora qualcuno vorrebbe processarlo post mortem . Come? Be' visto che del de cuius Pietro Pacciani, presunto mostro di Firenze, ormai passato a miglior vita da sedici anni, non restano che delle spoglie mai reclamate, naturalmente non in tribunale. Lì la verità, un po' per colpa un po' per sfortuna, non si è mai trovata. Dunque perché non tentare empiricamente con la famosa «craniologia»? Esaminandone teschio e ossa, chissà se in ossequio alle discutibili teorie ottocentesche del dottor Lombroso. Secondo cui «bastava misurare la testa con un apposito strumento per verificare se un criminale fosse davvero tale». Altro che giudici. Un giochetto da ragazzi scoprire -grazie alla morfologia del viso- devianze e deviati. Sarà per questo- si scopre ora- che al comune di Comune di San Casciano Val di Pesa (ove al momento giacciano i resti del contadino di Mercatale) è giunta una bizzarra richiesta: poter ritirare i resti del «mostro» a scopo di studio. Da quando la salma venne riesumata, il 17 luglio 2013, sembrava che nessuno si sarebbe mai fatto avanti per dare una sepoltura all'ingombrante defunto. Le figlie Rosanna e Graziella, oggi 48 e 46 anni, fin dai tempi del processo l'avevano «scomunicato». «Ci violentava e ci picchiava col bastone», accusarono davanti ai giudici. La moglie Angiolina, tagliente come una ghigliottina, lo liquidò seppellendolo da vivo: «Io la moglie? Ma che moglie?. Le ragazze non dicono babbo o papà. Dicono sempre lui». Insomma un funerale anticipato. Nessuno dei famigliari si è mai preoccupato di portare un fiore sulla tomba dell'odiato parente. Anche perchè una tomba non c'è. Pacciani morì nella sua casa di Mercatale Val di Pesa il 22 febbraio 1998. Il 17 luglio 2013, all'alba, i resti vennero riesumati, come accade a 15 anni dalla morte. Le figlie non li hanno mai richiesti e da allora giacciono in una cassetta di zinco nel deposito del cimitero comunale di San Casciano. Trascorsi i termini di legge, ciò che resta, è destinato a finire nell'ossario comune. Sull'identità di chi ha fatto domanda, in via formale, per ottenere le spoglie mortali del «compagno di merende» vige il massimo riserbo. Sembra si tratti di ricercatori riuniti in un centro studi italiano di livello universitario. Loro avrebbero voluto vagliare il materiale in laboratorio. Ma la pratica, finita prima in Comune e poi in procura a Firenze si è chiusa con un nulla di fatto. «Gli studiosi - il parere stilato dal pm Paolo Canessa - non avevano titolo per ritirare i resti di Pacciani, né c'erano fondati motivi per esaminare le ossa dopo la riesumazione del 2013». Secondo quanto emerge, anche altri avrebbero sondato, nei tempi scorsi e in modo informale, la possibilità di avere le «preziose» spoglie, sempre motivando la richiesta per «fini di scientifici». Tra questi, si parla addirittura di un gruppo di ricercatori tedeschi. Macabra fama che ha valicato i confini. E che a oltre vent'anni dal suo arresto alimenta ancora le fantasie. Del resto la verità giudiziaria sui crimini del mostro di Firenze, complici annessi, non mai convinto del tutto. Il contadino di Mercatale fu ammanettato il 16 gennaio 1993, venne condannato all'ergastolo nel 1994, ma in appello fu assolto. E morì da presunto innocente mentre attendeva un nuovo processo di appello dopo un annullamento della Cassazione deciso a seguito delle nuove indagini sui «compagni di merende»: Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Loro condannati e pure defunti.
· Il Mistero del Mostro di Milano.
Il delitto perfetto in Cattolica: l’orrore dove non lo aspetti. Maurizio de Giovanni su Il Corriere della Sera il 21 agosto 2021. Simonetta Ferrero, uccisa con 33 coltellate nei bagni delle donne. Il killer non si trovò mai. La vittima era volontaria della Croce Rossa e aveva una vita riservata. Ci sono dei luoghi nei quali la morte è proprio fuori posto. Per carità, non è che un cadavere straziato, immerso in un lago di sangue in fase di veloce coagulazione, sia uno spettacolo facile da omologare a un contesto. Soprattutto se è quello di una ragazza di ventisei anni, di nome Simonetta, una laureata con lode in biologia, bell’impiego in Montedison che in quel luglio del ’71 è qualcosa di più che rispettabile. Soprattutto se nella vita di Munny, così la chiamano con affetto in famiglia, non c’è niente che lasci pensare a una simile violenza, volontaria della Croce Rossa e dama di San Vincenzo com’è. Soprattutto se è stata brutalmente assassinata con trentatré coltellate, una dozzina sicuramente mortali, rabbia e furore e voglia di cancellarla dalla faccia della terra, un pollice della mano, inutilmente alzata a ripararsi, praticamente reciso. Soprattutto se la biancheria sotto il vestito leggero e azzurro con gli arabeschi è intatta, e non ci sono segni di violenza sessuale o di rapporti recenti, e Simonetta ha una vita tranquilla e riservata, una famiglia borghese, due sorelle e genitori laureati come lei. Soprattutto, sì: ma quello che impressiona è il luogo. Perché fosse uno dei parchi di una Milano che approda al decennio nuovo con la forza della locomotiva economica del Paese, con tanto di anfratti dove una violenza così se non ci si passa vicino è veramente difficile da sentire. Fosse una camera d’albergo, magari a ore, dove le urla si confondono e ognuno si fa i fatti suoi. Fosse una strada poco frequentata di una periferia degradata, dove se giri soprattutto a ora tarda hai voglia di strepitare ma nessuno ti sente. Questi sono luoghi più consoni alla morte, spazi in qualche modo plausibili per ospitare tutte quelle coltellate e quella rabbia, non deputati ma certamente più compatibili. Simonetta invece giace sotto la fila dei lavandini del bagno delle donne in una pressoché deserta Università Cattolica, quella mattina del giorno di Sant’Anna, madre di Maria, del primo anno del decennio che segue i turbolenti anni Sessanta. E a godersi, si fa per dire, lo spettacolo per primo è Mario, uno studente di teologia di ventuno anni al quale sembra strano lo scorrere di un rubinetto aperto, e siccome è uno attento e ordinato bussa, chiede permesso (rispetto alle donne, chiaro) ed entra per chiuderlo, quel flusso d’acqua. Ora, se c’è qualcosa che non ti aspetti all’Università Cattolica è un cadavere. Soprattutto se è stato straziato in quel modo, e la vittima ha disperatamente cercato di difendersi. Possibile che nessuno abbia sentito? Possibile che in quei corridoi privi di studenti e di insegnanti, vuoti del rumore che in genere c’è, un assassino abbia avuto voglia, tempo e modo di infierire dopo aver vinto una colluttazione, 20 colpi all’addome profondi e definitivi, senza che nessuno sentisse, nessuno capisse? Munny era uscita dicendo che nella sua giornata, nella quale avrebbe incontrato anche la Signora con la falce, c’erano commercialista ed estetista. Un’amica raccontò di questo passaggio all’università, alla quale la ragazza era rimasta legata. Ma nulla emerse, nulla restò nel setaccio di polizia, carabinieri, magistrati. Nulla venne fuori da Mario, che sarebbe diventato un sacerdote molto stimato alla fine dei suoi studi di teologia, né dai due custodi, che caddero dalle nuvole, non avendo visto entrare o uscire nessuno, tantomeno uno armato e grondante sangue. Nulla di nulla. Certo, poi venne fuori che l’ovattato ambiente della Cattolica qualcosa di sporco l’ospitava, per carità. Molestatori, professori e preti un po’ inclini ad allungare le mani; come spesso accade, dove ci sono tanti giovani a contatto con uomini maturi. E, come spesso è accaduto in quell’epoca in cui i riscontri scientifici erano piuttosto limitati, si fecero avanti perfino dei sensitivi, che disegnarono identikit improbabili, e mitomani che facevano riferimento all’esoterismo per spiegare il fatto di sangue. Ma l’unica cosa notevole fu una lettera anonima che arrivò al questore di Milano nel ’94, oltre vent’anni dopo, che riferiva di un religioso allontanato troppo in fretta dall’università, un padre spirituale di cui si diceva tutto il male possibile. Nessun riscontro, però; nessun incartamento, nessuna ammissione. Naturalmente. Perché se qualcosa di orribile accade nel luogo sbagliato, è difficile capire il come e il perché. E soprattutto chi. E non c’è dubbio che Simonetta Ferrero detta Munny, dottoressa e dama di carità, volontaria della Croce Rossa e giovane funzionaria della Montedison, per farsi brutalmente assassinare aveva scelto il luogo sbagliato.
Donne uccise a Milano, isolato dopo mezzo secolo il Dna del presunto serial killer. Le otto donne uccise a Milano e la svolta in laboratorio. Sangue e frammenti: Emiliano Giardina, il genetista forense di Ignoto 1 (l’inchiesta sull’uccisione di Yara Gambirasio, ha isolato un profilo genetico del loro assassino. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 27 marzo 2021. Il valore investigativo della scoperta potrebbe pareggiare, e forse anche superare, quello scientifico, comunque raro nella genesi, nell’evoluzione e soprattutto nei tempi. Al lavoro sugli otto cold case di donne avvenuti a Milano negli anni Sessanta e Settanta, il professor Emiliano Giardina, il genetista forense di Ignoto 1 — l’inchiesta sull’uccisione di Yara Gambirasio —, ha isolato un profilo genetico. L’estrapolazione di un Dna da pochi frammenti relativi a una presunta scena del crimine — frammenti conservati dai famigliari di una vittima che si sono affidati all’avvocatoValter Biscotti —, è perfettamente riuscita nonostante la distanza siderale da allora, con gli inevitabili rischi di una contaminazione e di un deterioramento. Non era scontato, al contrario. Invece su quei frammenti, forse parte di un oggetto d’arredo afferrato da una delle donne nell’inutile tentativo di difendersi, i residui di sangue si sono conservati permettendo a Giardina il confronto, insieme forse a ulteriori elementi che potrebbero agevolare nuove rivelazioni. Si tratta di capelli, pare. Ancora presto per certificare «verità», a partire dalla conferma di un Dna maschile oppure femminile, ma lo scenario allestito dopo tre mesi di «contro-inchiesta» non toglie, sui delitti irrisolti raccontati fin dall’inizio dal Corriere, l’introduzione di un ulteriore elemento dopo l’ultimo acquisito: i collegamenti emersi nella «rilettura» dei referti autoptici da parte del criminologo Franco Posa, il quale ha altresì mappato un triangolo geografico milanese nel quale il serial killer avrebbe vissuto e/o lavorato (una geografia centralissima, tra via Filzi, piazza Cordusio e via Pace). Dal primo cold case in ordine cronologico (Olimpia Drusin nel 1963) all’ultimo (Tiziana Moscadelli nel 1976), le perizie dei medici legali e in nostro possesso, se esaminate non singolarmente cristallizzano quattro legami. Primo, il modus operandi del serial killer, che attaccò le vittime in posizione frontale. Secondo, il rapporto di conoscenza tra lui e le donne, colte di sorpresa e incapaci di reagire. Terzo legame, l’arma: difficile una casualità nelle lesioni provocate a Olimpia da una lama larga tre centimetri e lunga quindici, e altri omicidi per i quali si ipotizzò un’arma larga tra i due e i tre centimetri, e lunga tra i dodici e i quindici. Quarto e ultimo, la coincidenza di una ferita sotto il mento in almeno tre delitti, forse una «firma» del killer. Elisa Casarotto (assassinata nel 1964) vantava una profonda amicizia con Adele Margherita Dossena, massacrata sei anni più tardi, mentre oltre a quest’ultima donna, anche la stilista Valentina Masneri e la commessa Salvina Rota furono uccise nella zona tra Porta Venezia e la stazione Centrale, un’area molto frequentata sia da Olimpia, che lì si vendeva, sia dalla vittima del caso più mediatico, quello della Cattolica. Simonetta Ferrero aveva l’abitudine di trascorrere pomeriggi e serate in un cineforum di via Vitruvio. Detto di Olimpia, anche Elisa e Tiziana (aveva vent’anni, la vittima più giovane) erano prostitute, così come, a un livello non «ufficiale» ma confermato da poliziotti di quegli anni, lo erano Salvina e Alba Trosti, di origini borghesi, precipitata in disgrazia dopo rovinose storie sentimentali, e uccisa in una pensione di via Soncino, non lontano dal Duomo. La struttura affittava stanze economiche a studenti e operai, dunque era identica a quella gestita da Adele Margherita. Un ex agente della Criminalpol operativo a Milano ha suggerito il tema dei bicchierini e del liquore: Adele Margherita e Valentina offrirono entrambe da bere, invitandolo a sedersi in soggiorno, all’uomo che le avrebbe trucidate, poi scappando senza lasciare testimoni. La facilità di ingresso negli appartamenti evidenzia la teoria di una persona già nota alle vittime oppure, se invece non appartenente alle loro vite, capace di ispirare fiducia. Forse grazie al proprio mestiere; forse in conseguenza degli abiti indossati, di quelli che inducono i cittadini a non temere, e sotto i quali nascondeva la lama, forse un pugnale. Indipendentemente dai mesi, visto che uccise in ogni stagione, preferendo le ore del giorno anziché il buio.
Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 3 gennaio 2021. Il tempo non aiuta. Oppure sì e anzi diverrà decisivo, amalgamando i raffinati progressi dell'investigazione e sovvertendo la fin qui fantomatica figura di un «mostro di Milano», fonte ispiratrice di romanzieri, pensiero ricorrente di sbirri in pensione, pagina studiata dagli storici. Fantomatica figura forse soltanto in conseguenza del fatto che lui, l'assassino, è (stato) irreperibile. Cinquant' anni dal primo di cinque omicidi, tutti di donne e tutti irrisolti, più altri due antecedenti a metà dei Sessanta e forse connessi proprio a uno dei cinque. Casi eclatanti, mediatici fin dall'inizio, e casi meno noti avvenuti in stagioni di terrorismo, quotidianità aggressive, sequestri di persona, guerre dei clan criminali: le uccisioni di Simonetta Ferrero, dell'affittacamere Adele Margherita Dossena, della commessa Salvina Rota, della stilista Valentina Masneri, della prostituta Tiziana Moscadelli la cui fine ha spinto il dottor Franco Posa, criminologo, a esplorare anche le uccisioni di Olimpia Drusin ed Elisa Casarotto, ugualmente prostitute, trucidate nel 1963 e nel 1964. Professionista schivo, difensore di una scienza spesso banalizzata, al lavoro insieme a uno staff di giovanissimi collaboratori, per intima curiosità, stanziando da sé i fondi, Posa ha avviato una ricerca sui delitti ipotizzando come fondamento una mano comune. Mai finora avevamo assistito alla formazione di un progetto investigativo, certamente embrionale, ora necessario dell'appoggio di magistrati e forze dell'ordine per l'esame dei singoli fascicoli con l'obiettivo, per cominciare, di restringere la mappa.
Un'area triangolare. Entro questa porzione di Milano avrebbe vissuto/lavorato l'assassino. La geo-localizzazione è frutto di un complicato, assai costoso software americano, in dotazione alla polizia di New York e utilizzato nei dibattimenti. Il software, per il quale serve un anno intero prima di ottenere l'abilitazione, ha elaborato tramite algoritmi una massa infinita di dati: numero e tipologia dei reati, profilo di criminali e vittime, luoghi e orari dei crimini, incidenti stradali, linee e fermate dei mezzi pubblici...Il risultato inquadra una parte ampia di Milano densamente abitata, d'accordo, eppure indicativa per non spostare suggestioni di una convergenza verso la stazione Centrale, in considerazione della prossimità di tre delitti. Al civico 18 di via Copernico, Adele Margherita Dossena gestiva una pensione. Otto camere, prezzi accessibili, frequente ricambio di ospiti, per lo più impiegati e universitari, in una struttura di ordine, pulizia, pagamenti puntuali. A 55 anni, separata, Adele Margherita era mamma di due figlie, Ermide che avrebbe aperto un negozio di parrucchiera al quartiere Lorenteggio e l'altra, Agostina Maria, in famiglia detta «Mariuccia:» la futura attrice della commedia all'italiana Agostina Belli, che invano investì i guadagni dei film assumendo investigatori privati. Delitto senza colpevole. Donna esperta, Adele Margherita non custodiva nel piccolo appartamento dal quale governava la pensione somme di denaro. Chi la uccise, il 16 febbraio 1970 colpendola con un coltello alle spalle, proseguendo sul resto del corpo, infine sgozzandola, rovistò nell'alloggio o finse di farlo volendo inscenare una rapina.
L'assenza di testimoni non orientò le indagini. L'evidente difficoltà della caccia evocò un'insondabile doppia vita. Adele Margherita non l'aveva. E non l'aveva Valentina Masneri, stilista, sposata senza figli, trucidata di nuovo a coltellate e sempre inferte alle spalle, nell'elegante abitazione di via Settala 57. Alle 17.55 del 18 marzo 1975, Valentina sarebbe dovuta salire a Linate su un volo per Francoforte.
La aspettavano clienti ai quali mostrare bozzetti di vestiti. Il cadavere giaceva in salotto, sul tappeto, in mezzo a due poltrone. Il quartiere era una casbah di ladri e biscazzieri; la densità di bettole garantiva rifugi. Dai quattro locali e mezzo di via Settala scomparve un orologio d'oro della 25enne Valentina la quale, in ciabatte, aveva aperto la porta all'aggressore. Il marito, un grafico, che l'aveva salutata poco prima tornando al lavoro, attaccò le forze dell'ordine colpevoli, a suo dire, di trascuratezza. La scientifica isolò un bottone da cappotto maschile e il tacco di una scarpa più un capello biondo, non appartenente a Valentina, e forse caduto dalla chioma di un'amica. L'ipotesi di una donna killer tenne fino alla mancanza totale e definitiva di riscontri. La risultanza del software «manovrato» dalla squadra di Posa, che comprende un'ex fuciliere dell'Esercito impegnata nei teatri balcanici, prevede la presenza stanziale dell'ipotetico serial killer (per non meno di otto ore al giorno) in un punto del triangolo geografico. Luoghi si presume attraversati dalle vittime che avrebbero incrociato lo sguardo e le attenzioni dell'omicida il quale avrebbe attivato un pedinamento, se residente, oppure intrapreso una conoscenza se per esempio in quell'area lui aveva un'attività. Un commerciante. Oppure un artigiano in proprio privo di un flusso continuo di clienti che in virtù del differente orario dei delitti, gli permetteva di muoversi in libertà, uscendo ed entrando dal negozio senza destare sospetti.
A meno di non farlo in una cronologia posteriore alla chiusura. Salvina Rota morì il 16 giugno 1971 intorno a mezzanotte, seviziata con una lima e strangolata. Viveva in via Tonale al 4, dov' era tornata dopo il turno di lavoro da cassiera in un supermercato di largo Alpini. La sera di quel giorno, la 22enne Salvina aveva incontrato un'amica, Teresa, cameriera, che era rincasata in taxi (resoconto mai provato, un disperato appello della Procura affinché quel conducente si presentasse cadde nel vuoto). Si vociferò di un'assassina, «esplorando» proprio Teresa con cui la vittima nei mesi precedenti aveva condiviso l'amante, un ferroviere sospettato ma lontano da via Tonale e con un alibi considerato solido nel momento dell'omicidio. Anche il fascicolo di Salvina Rota fu chiuso senza colpevole. Un serial killer può colpire vicino alla propria abitazione, in una zona da lui intesa alla guisa di esclusivo territorio di caccia di un predatore, oppure lontano dalla residenza per diminuire le possibilità di un'immediata collocazione. Lo scenario rappresentato coincide con il secondo volendo includere il delitto della Cattolica, delitto di cui sono ancora in vita protagonisti come l'allora seminarista, adesso vescovo, che scoprì nel bagno il corpo di Simonetta, devastata il 24 luglio 1971 da 33 pugnalate. L'incarico del padre, dirigente della Montedison, allargò le indagini su ipotetiche trame e segreti professional-istituzionali, una pista infeconda al pari delle suggestioni a posteriori correlate alla longeva amicizia tra Valentina Masneri e il figlio di Michele Sindona. Caso più agevole quello di Tiziana Moscadelli. In apparenza. Da maggiorenne Tiziana aveva lasciato la casa di famiglia, in via Voghera, trasferendosi in due stanze senza bagno al 58 di via Tertulliano condivise con «Lola», all'anagrafe Salvatore De Natale. Come il travestito, la 20enne Tiziana si prostituiva nella cosiddetta «fossa dei leoni» tra la stazione Cadorna e il parco Sempione, dove in tanti solevano aggirarsi per importunare e spiare, compreso tale «Federico il pazzo». Conosciutissimo dagli sbirri, era stato fermato con l'accusa d'aver ucciso lui la ragazza, il 12 febbraio 1976. Tiziana, che rifiutava gli sfruttatori, assassinata con un coltello e l'aggiunta di un cacciavite, non si vendeva in casa e mai si sarebbe portata a domicilio il «pazzo». Preferiva stare lontano, come la 45enne Olimpia Drusin, pugnalata nel quartiere di Greco nel 1963 e residente a ridosso del parco Sempione, e come la 29enne Elisabetta Casarotto, massacrata l'anno dopo sempre a pugnalate a Lacchiarella, a sud di Milano, che abitava in via Sercognani, quartiere di Villapizzone. La prossima mossa di Posa, previo l'accoglimento del progetto da parte della Procura e nel caso degli investigatori, sarà la rilettura delle autopsie, partendo dal raffronto tra Simonetta e gli altri omicidi. I serial killer hanno nell'azione delittuosa un marchio, impresso anche variando numero e segni delle coltellate: somigliano alle caratteristiche comuni in una calligrafia pur modificando forma, inclinazione delle lettere e cambiando perfino mano. Se mai ci sarà una nuova narrazione poliziesca, quest' azione del criminologo, ed eventuali scoperte, ne formeranno l'incipit.
Milano anni ‘70, un solo killer per almeno 5 delle donne uccise: la svolta dai referti delle autopsie. Il criminologo Posa ha riletto le autopsie delle donne assassinate a Milano negli Anni 60 e 70: il modus operandi e l’arma sono sempre gli stessi. E tutte le vittime conoscevano l’assassino. Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 15 marzo 2021. Le vittime del presunto serial killer. Nei cerchi rossi, dall’alto: Adele Margherita Dossena, Simonetta Ferrero, Salvina Rota, Valentina Masneri e Tiziana Moscadeli. La «lettura» di cinque referti autoptici in possesso del Corriere riscrive le coordinate di singoli delitti (non 33 bensì 49 i fendenti contro Simonetta Ferrero) e offre ulteriore validazione all’ipotesi di omicidi commessi dallo stesso assassino. L’analisi comparativa dei referti compiuta dal criminologo Franco Posa, che a gennaio ha concluso la prima fase di studio sugli otto cold case di donne uccise negli anni Sessanta e Settanta a Milano, individua tre punti in comune sulle scene del crimine, con l’ipotesi di altre connessioni, al momento sotto esame.
IL «TRIANGOLO» DELL’IPOTETICO SERIAL KILLER. Modus operandi, rapporto tra killer e vittime, e arma utilizzata si ripropongono nei delitti di Simonetta Ferrero, Salvina Rota, Valentina Masneri, Tiziana Moscadelli e Adele Margherita Dossena, disegnando uno scenario che in quella città dilaniata da terrorismo, sequestri di persona e guerre tra gang restò confinato alle riflessioni di poliziotti e carabinieri — certo si parlò di un serial killer — mai però approdando a un livello di ufficialità. Ogni volta l’assassino iniziò il massacro frontalmente rispetto alle donne, sempre sorprese dall’azione e infatti, come nei referti documentano le ferite causate dai comportamenti difensivi, tardive nel reagire. Per esempio, sia Adele Margherita che Valentina aprirono la porta al killer portando in tavola due bicchierini e una bottiglia di liquore, a conferma di un livello di conoscenza, mentre Salvina fu rinvenuta cadavere in camera da letto e indossava una sottoveste. L’uccisione proprio della 22enne presenta una difformità poiché il killer tentò di bruciare il corpo dopo aver ucciso (incendiando volto e torace), una differenza forse spiegabile con la volontà di coprire alcuni «errori». Di sicuro, chi ammazzò impugnò la medesima arma. Gli elementi scientifici cristallizzati da Posa, lavorando sulla tipologia e le dimensioni delle lesioni, evidenziano una lama che taglia su un unico versante, larga tra i 2 e i 3 centimetri, e lunga tra i 12 e i 15 centimetri. Nei tre casi di Simonetta, Valentina e Tiziana, l’omicida ha inferto un colpo in un punto preciso sotto il mento. Presto per affermare che si tratti di una «firma» o di un «marchio», così come presto — ma sono previste novità assai a breve — individuare un uomo destrorso oppure sinistrorso. Assieme all’aggiornamento della contro-inchiesta, nella quale il professor Emiliano Giardina, il genetista di «Ignoto 1», sta cercando di individuare un profilo di Dna da frammenti di una scena del crimine, rimangono le donne, assassinate senza mai un colpevole. La distanza temporale dei delitti (nel 1970 Adele Margherita, nel 1971 Salvina e Simonetta, nel 1975 Valentina e l’anno dopo Tiziana) non può legittimare il mancato tentativo, a maggior ragione grazie alla tecnologia contemporanea, di cercare giustizia. Nell’esame autoptico di Salvina, il medico legale isolò 18 lesioni per spiegare le quali avrebbe riempito di annotazioni due pagine battute fitte a macchina; nonostante quell’inverno gelido Adele Margherita portasse più strati di vestiti che terminavano in una spessa gonna e un maglione di lana, gli abiti erano «abbondantemente e irregolarmente intrisi di sangue»; sul corpo di Tiziana, il medico legale individuò 28 lesioni... Una ferocia ossessiva anche nel colpire donne già decedute. Il 72enne Fabio Miller Dondi, ex Criminalpol, investigatore privato e unico a farsi avanti rievocando quelli che comunque furono insuccessi investigativi, «vede» un uomo forse impotente, fulmineo nell’esplodere dinanzi a un rifiuto sessuale o a una frase qualunque. Dice Dondi: «Ogni detective si porta dietro fino alla morte il fantasma di un caso irrisolto. Io e la mia generazione ne abbiamo otto. Se i giovani colleghi di oggi provassero a indagare, credo che rispetterebbero le vittime e anche noi vecchi sbirri».
Serial killer: otto donne uccise, il mistero di Milano. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 14/2/2021. Le vittime avevano storie molto diverse ma vivevano dentro un triangolo chiuso tra via Filzi, piazza Cordusio, via Pace. Molte aprirono la porta all’assassino. Un criminologo e un avvocato indagano sulla catena di delitti che insanguinarono la città negli Anni 60 e 70. Il sospetto: la mano era la stessa. E dunque, se è stato un sol uomo, ha aspettato l’allontanamento a bordo di un taxi dell’amica di Salvina prima di salire da lei, si è seduto con Adele Margherita davanti a due bicchierini di liquore e un vassoio di caramelle Sperlari, ha seguito Alba in un umido sottoscala, ha osservato Olimpia posare le mani sulla sottana marrone… Anche Milano ha (avrebbe avuto) il suo serial killer. Nascosto negli anni Sessanta e soprattutto nei Settanta. In una città terrorizzata da brigatisti, guerre tra clan criminali, sequestri di persona, rapine a mano rigorosamente armata e colpo in canna, e una rabbia di popolo istantanea, ferale: delitti per strada, sui ballatoi delle case di ringhiera, nelle fabbriche, nei negozi; bastava un’occhiata oppure una parola e scorreva il sangue. Una rabbia che in certe stagioni innescò una media di un omicidio a settimana.
Giustizia ritardata per i «delitti comuni». Forse non è vero che dinanzi alla morte – quantomeno la morte per assassinio – siamo tutti uguali. In conseguenza non magari di una scelta: semmai, di un residuale tempo per gli investigatori, dell’assenza di risorse e uomini altrove dirottati, di oggettive ancorché ingiuste limitazioni. Forse, all’epoca, la ricerca della verità del cosiddetto delitto politico sopravanzava il cosiddetto delitto comune. Quale però non dovrebbe esser stato nel caso di almeno otto donne, ragionando sui recenti studi del criminologo Franco Posa che ha avviato questa contro-inchiesta a sue spese e ipotizzato una mano comune. Un uomo, innescato da un’ira spropositata, dal 1963 al 1976 avrebbe assassinato preferendo un coltello la commessa Salvina Rota, l’affittacamere Adele Margherita Dossena, la venditrice ambulante Alba Trosti, le prostitute Olimpia Drusin, Elisa Casarotto e Tiziana Moscadelli, la stilista Valentina Masneri e la dirigente della Montedison Simonetta Ferrero, vittima del caso più mediatico, il delitto della Cattolica.
Otto assassinate, senza colpevoli. Morti senza giustizia. Le premesse sopra menzionate, relative a un vortice di atroci reati in quel tragico periodo che tolsero spazio e tempo a qualsiasi altra inchiesta, rappresentano una spiegazione parziale sull’assenza di un colpevole in ognuno di questi casi. Precisazione che peraltro non deve sembrare irrispettosa nei confronti dei prodigiosi magistrati, alcuni dei quali trucidati dai terroristi, e degli altrettanti poliziotti e carabinieri che diedero la caccia agli assassini, mai ipotizzando in via ufficiale un unico uomo in azione. Eppure, non fosse per gli accertamenti di Posa, rivelati a inizio gennaio dal Corriere e rafforzati dall’intervista alla figlia di Dossena, l’attrice Agostina Belli, l’inseguimento di una soluzione ai delitti sarebbe stata ancora procrastinata. Il futuro non sarà comunque semplice.
I fascicoli richiesti da un noto penalista. La richiesta in procura dei fascicoli da parte dell’avvocato Valter Biscotti, uno dei massimi penalisti italiani ed esperto di cold case, al di là dell’effettiva opera di rintraccio dei faldoni non germoglierà per forza risultati immediati. Gli scantinati del palazzo di giustizia sono stati flagellati dalle infiltrazioni e dall’umidità, ed è da vedere lo stato di conservazione dei documenti, per tacere dei reperti delle scene del crimine, nella speranza stiano dove devono stare anziché esser spariti oppure rovinati. Le donne erano in maggioranza nubili. Delle due sposate, anzi che lo erano state fino alla separazione (Adele Margherita Dossena e Olimpia Drusin), abbiamo trovato una delle figlie e il figlio, ed entrambi hanno rivelato elementi utili.
La pista dei ferrovieri. In particolar modo Agostina Belli, a cominciare da una fotografia che la ritraeva insieme in riva al lago con la mamma ed Elisa Casarotto, proprio lei, che si vendeva ai camionisti in un bosco di pioppi a Lacchiarella, hinterland di Milano. Quando morì, nel 1964, massacrata a pugnalate, Elisa aveva 29 anni, venti in meno della stessa Dossena, uccisa a coltellate nel 1970. Una, la più giovane, immigrata friulana, dapprima parrucchiera quindi prostituta, due sorelle che lavoravano come stiratrice e portinaia allo Stadera e a Porta Romana; l’altra, Adele Margherita, milanese della periferia del Lorenteggio, due figlie ventenni, una pensione da tirare avanti nella zona tra Porta Venezia e la stazione Centrale. Allora, come accaduto nella genetica dell’area Garibaldi, oggi orizzonte di grattacieli, il quartiere era un postaccio, tanto che si parlava della casbah di via Panfilo Castaldi e dei suoi disgraziati dintorni: bische, rifugi di banditi e ladri, aggressioni, le prostitute in attesa sul marciapiede come Olimpia e un labirinto di locande dai prezzi bassi come appunto la struttura di Dossena, accessibili per studenti universitari del sud e ferrovieri. Era ferroviere l’amante di Salvina Rota, nata in provincia di Caserta, un 40enne che lei, 22 anni, aveva condiviso con una o forse più conoscenti. Fu un ferroviere, anche su altri delitti, la categoria professionale che gli sbirri esplorarono imbeccati da qualche dritta, però illusoria. Così come lo scandagliare l’ambiente dei tassisti.
Le porte aperte dalle vittime. Escludendo Olimpia ed Elisa, assassinate dall’uomo salito sulle loro macchine per consumare un rapporto sessuale, escludendo anche Simonetta, uccisa in un bagno dell’ateneo, le altre cinque donne aprirono portoni e porte al killer. Lo fece Alba Trosti, origini borghesi, infanzia tranquilla, poi scelte sbagliate di vita pagate duro. Vero che di giorno si arrangiava come venditrice ambulante, ma la sera camminava intorno al Duomo (la pensione dove dormiva era in via Soncino) augurandosi che gli uomini si avvicinassero domandando prezzo e luogo; soltanto gli inquilini potevano aprire il portone d’ingresso. Tiziana, 20 anni, si vendeva al parco Sempione ma rifiutava, forse per non incorrere nelle malelingue dei vicini di casa, di accogliere estranei nell’alloggio in via Tertulliano, dove invece fu uccisa da una persona che fece accomodare nel modesto salotto. Adele Margherita invitò l’ospite perfino a mettersi comodo.
Valentina, che era in ciabatte e grembiule. Non si fosse fidata, Valentina, che era in ciabatte, grembiule e guanti (stava lavando i piatti prima di partire in aereo per la Germania, destinazione un incontro con clienti), non avrebbe ricevuto l’uomo poi suo assassino. Avesse temuto la persona che di lì a poco si sarebbe presentata per uccidere, forse Salvina non avrebbe congedato l’amica Teresa, cameriera in una villa di baroni, lasciandola andar via in taxi. Il suo omicida tentò di bruciare il cadavere, riuscendoci in parte: forse voleva nascondere errori commessi, delle tracce, che invece non avrebbe lasciato – meglio dire non ha, poiché nulla è stato rinvenuto – sull’assai caotica scena del crimine. Il disordine rimase una delle costanti cristallizzate nei delitti degli appartamenti. La frenesia di voler mettere a soqquadro l’abitazioneufficio, al secondo piano della pensione di Dossena, fu un bluff per simulare una rapina in quanto, ha ricordato la figlia Agostina, un orologio d’oro venne lasciato lì dov’era, in mostra su un mobile. Allo stesso modo, nessun ammanco riguardò i beni di Valentina e non può apparire una casualità il fatto che i soldi nelle borse di Olimpia ed Elisa non vennero toccati, e lo stesso avvenne, ha detto il figlio, per un portachiavi di valore sul cruscotto della macchina della stessa Drusin.
Il killer è tra noi? In base a una mappa elaborata da un sofisticato e costoso software americano, e fatta propria da Posa e il suo staff, esiste una rigorosa area di Milano dalla forma triangolare, compresa fra via Filzi, piazza Cordusio e via Pace. All’interno della mappa, in quegli anni l’assassino ha sostato per almeno otto ore al giorno. Forse possedeva un’abitazione, forse il posto d’impiego. Le elaborazioni del software non spostano le coordinate di partenza nemmeno aggiungendo ulteriori delitti di donne avvenuti all’epoca, in città e in provincia, e forse, in seguito a riscontri, a breve inseriti nell’elenco del criminologo. In periodi diversi, le vittime avrebbero incontrato l’assassino stabilendo una relazione. Si ignora di quale tipo e quale durata. Forse le donne erano le clienti di un medesimo ciabattino, fruttivendolo, sarto, uno che aveva confidenza a presentarsi a domicilio e tutto poteva portare tranne che la morte.
Torna "Il mostro di Milano", viaggio in una città dimenticata per mezzo secolo. Lucia Esposito su Libero Quotidiano il 21 gennaio 2021.
Lucia Esposito. Da grande volevo fare la giornalista e così, diversi anni fa, da Napoli sono arrivata a Milano per uno stage di due mesi. Non sono più tornata. Responsabile Cultura di Libero, accumulatrice seriale e compulsiva di libri e pensieri. Profondamente inquieta, alla ricerca costante di orizzonti in cui ritrovarmi (o perdermi).
Il Mostro di Milano era solo il giallo bestseller di Fabrizio Carcano pubblicato nel 2017. Ma da qualche settimana anche i giornali stanno parlando di un'unica mano dietro numerosi omicidi di donne nella Milano degli anni Settanta. Il libro aveva anticipato Proprio per la stringente attualità del caso, arriva la nuova ristampa, la settima, del noir edito da Ugo Mursia Editore. Il giallo metropolitano di Fabrizio Carcano - che oltre ad essere un raffinato scrittore è anche un giornalista di razza - è già andato in ristampa sei volte in passato per via del grande successo ottenuto (nelle librerie e nei Bookstore online) nei primi anni di vendita, e ora torna nuovamente in libreria, con una nuova edizione. “L’inchiesta di questi giorni del Corriere della Sera e l’attenzione delle trasmissioni televisive hanno riportato sotto i riflettori questa oscura vicenda che attende una verità storica e giudiziaria da quasi mezzo secolo” dice Carcano che aggiunge: “Ho scritto questo libro proprio per raccontare questa storia passata per troppi decenni sotto silenzio, per restituire dignità e giustizia a queste povere donne massacrate. Sono contento che tre anni e mezzo dopo l’uscita del mio libro oggi in tanti abbiano deciso di scavare sui delitti del Mostro di Milano.” Il noir Il Mostro di Milano (Mursia, pagg. 472, Euro 17,00) racconta della caccia all’assassino seriale condotta dal commissario Vittorio Maspero, capo della sezione Omicidi, partendo dall’attentato di piazza Fontana e dalla successiva morte dell’anarchico Pinelli. “Il clima politico di quegli anni contribuì a detonare l’eco di questi delitti, li silenzio’: l’opinione pubblica era distratta dalle bombe, dalle tensioni di piazza, e non si accorgeva della mattanza femminile che avveniva nelle strade intorno alla stazione Centrale. Chi leggerà il mio noir farà un viaggio in quella Milano ormai lontana mezzo secolo”, conclude Carcano. Una Milano su cui per cinquant'anni è caduto un velo di dimenticanza ma su cui già nel 2017 Carcano ha acceso una luce che - speriamo - porti presto alla verità.
Valentina e il serial killer: «Qualcuno iniziò a spiare la nostra contro-inchiesta». Parla il marito della stilista uccisa nella loro casa di via Settala, una delle otto donne uccise tra gli anni Sessanta e Settanta e senza mai giustizia. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2021. «Io ero sempre in procura, del caso si occupava il dottor Alessandrini, poi assassinato dai terroristi. Ero sempre in questura. Ero sempre nelle sedi dei giornali, a cominciare dalla vostra, in via Solferino. Per settimane, per mesi. Per anni... Con qualche inquirente, si stabilì un legame forte... Mi venne data l’inusuale possibilità di leggere tutte le testimonianze, casomai ci pescassi delle cose che non andavano...». Siccome non bastava, l’uomo all’epoca marito di Valentina Masneri, una delle otto donne uccise tra gli anni Sessanta e i Settanta e senza mai giustizia, avviò una contro-inchiesta. «Non ero da solo, mi aiutavano degli amici. Dopo poco, ci accorgemmo di venire spiati». Da chi, non lo dice. In linea con questo colloquio, che non avrebbe voluto cominciare e che invece ha portato avanti per quasi tre quarti d’ora. Si è ritirato a vita propria, lontano non soltanto geograficamente (cinque ore di macchina) da Milano, dove il pomeriggio del 18 marzo 1975, un killer accoltellò a ripetizione alla schiena Valentina, una stilista di 25 anni. Alle 17.55, all’aeroporto di Linate, la aspettava un aereo per Francoforte, doveva mostrare alcuni bozzetti a dei clienti. La scena del crimine fu l’ampio ed elegante appartamento al civico 57 di via Settala. Un omicidio irrisolto che, secondo lo studio del criminologo Franco Posa e del quale stiamo dando conto da inizio anno, potrebbe avere avuto l’identica mano degli altri delitti, configurando dunque un serial killer.
I delitti a Milano negli anni 60-70: il «triangolo» dell’ipotetico serial killer. La siderale distanza cronologica rispetto ai fatti, ha ripetuto l’avvocato Valter Biscotti, uno dei massimi penalisti italiani ed esperto di cold case, potrebbe non essere un ostacolo insuperabile in considerazione della potenza delle odierne tecnologie, iniziando dall’esame delle tracce di Dna. A patto, e il legale si sta muovendo in tal senso su delega dei famigliari, che arrivino i fascicoli e nella speranza che i reperti siano ben conservati. Il marito di Valentina preferisce restare anonimo, caratteristica non rara in questa rilettura degli omicidi (anche l’unico figlio di Olimpia Drusin ha fatto la medesima scelta). L’impressione, nella conversazione avvenuta al telefono — incedere lento, grande attenzione e riflessione prima di parlare — è che abbia o abbia avuto una chiara idea, che però non vuole condividere. Del resto, dice, il caso non è chiuso e se qualcuno sa e ne intende parlare, dev’essere cercato a palazzo di giustizia e in questura. Suggerisce, ma anche qui senza dar seguito all’indicazione, di «spostarsi qualche chilometro rispetto a Milano». Ritiene infondata l’eventualità di un collegamento tra la fine di Valentina e Nino Sindona, il figlio del criminale. Vero che anni prima erano stati amici, ma un’amicizia come altre. La volgarità di una domanda, legittimata dalle congetture secondo le quali Valentina avesse una seconda vita, incontra immediata replica negativa. Scontata, al netto delle voci di popolo che, quando non si configura un assassino, attaccano morbosamente a fantasticare sulla vittima, volendo in essa individuare per forza una spiegazione se non addirittura una colpa originale. Mamma e papà Masneri abitavano a ridosso dalla stazione Centrale, a un isolato da via Settala; i rapporti tra figlia e genitori (e quelli di loro due col marito, e così, estendendo, quelli di Valentina con colleghi, vicini di casa e conoscenti) erano ottimi, privi di strascichi. Donna assai moderna anche nelle scelte estetiche dall’arredamento agli abiti indossati, viaggiatrice, di cultura, anima creativa e gioiosa, secondo quanto raccontato nel 1975 dalla madre, Valentina aveva una naturale vocazione a non girare lo sguardo dinanzi ai più sfortunati, a chi invocava aiuto, e non tanto o non soltanto perché sposa anche delle cause perse. L’uomo che fu suo marito, lui pure con un’avviata e solida carriera professionale, e che il Corriere ha rintracciato dopo giorni dall’ultimo indirizzo in città (nella zona della vecchia Fiera) abbandonato trent’anni fa, dice che Valentina «aprì la porta alla persona sbagliata». Quale eventualmente, di nuovo nulla aggiunge. E non dà spiegazioni sulla seguente frase: «Nel corso della contro-inchiesta, capitammo a Padova. In un palazzo dove, proprio in quei giorni, morì una persona». Né dall’uomo vi sono rimandi a una circostanza della quale si parlò, ovvero che lui avesse confessato che un poliziotto amico, a un certo punto, l’avesse consigliato di lasciar stare, «poiché su questo omicidio non possiamo più indagare». Forse un falso storico. Forse, nel baratro della disperazione, una verità abiurata.
La morte di Paola Del Bono nel 1959 all’Idroscalo. Fu omicidio o incidente? Lorenzo Viganò su Il Corriere della Sera il 18/1/2021. Il corpo è nudo, a parte un golfino rosa infilato in testa come un cappuccio. Sul capo ha tre ematomi, causati da pugni o da colpi inferti con un corpo contundente. A trovarlo, nelle acque della roggia Remartino, nei pressi dell’Idroscalo, è un’operaia che sta andando al lavoro in bicicletta. È l’alba di un giorno di marzo del 1959. Quel corpo, si scoprirà, appartiene a Paola Del Bono, 28 anni, professione prostituta. E il delitto, se di delitto si tratta, si è presumibilmente consumato nella zona intorno a Longhignano, frazione di Peschiera Borromeo, a sudest della città, meta notturna di coppiette clandestine e degli incontri tra le mondane che battono in zona Monforte e i loro clienti. Inizia così uno dei casi più indecifrabili della cronaca nera degli anni del boom economico, «L’ultima passeggiata di una “camminatrice”», titolò il «Corriere d’informazione»; un giallo torbido, alla Simenon, che se da un lato costrinse la borghesia milanese a guardarsi dietro la facciata di rispettabilità, dall’altro creò smarrimento nelle indagini, che non riuscirono a fare luce sulla vicenda e sul suo principale protagonista. Ma partiamo dall’inizio. La vittima viene identificata grazie al suo protettore, che viveva con lei in largo Richini. La sera della scomparsa erano stati al cinema, dopodiché lui l’aveva portata al lavoro in viale Maino, «il viale del vizio», e da allora non l’aveva più vista. Allarmato, la mattina dopo aveva chiesto a una «collega» di Paola di informarsi presso la Buon Costume se non fosse stata presa in una retata; da qui la tragica scoperta, destinata a non rimanere l’unica. La ragazza, infatti, già madre di una bimba di sei anni affidata a un istituto di suore, era incinta; e, se non fosse morta per annegamento (come stabilisce l’autopsia) non sarebbe vissuta a lungo a causa di una grave forma di tubercolosi di cui soffriva da anni. A parte gli accertamenti di routine, le indagini condotte dal commissario Mario Nardone della Squadra Omicidi, rimangono per giorni a un punto morto. Finché una settimana dopo il ritrovamento, un distinto signore in evidente stato di agitazione non si presenta di sera in Questura chiedendo di parlare con chi sta seguendo il caso. Si chiama Roberto Dalla Verde, è un ingegnere di 39 anni, uomo stimato e padre di famiglia premuroso. Racconta che la sera della scomparsa, Paola Del Bono era con lui; l’aveva caricata in vale Maino e poi erano andati fuori Milano. Ma di ciò che era successo dopo, non ricordava nulla. Ammette di avere «qualche amichetta» tra le ragazze del viale, ma più Nardone gli chiede di quella sera, più le amnesie aumentano e la sua agitazione cresce, tanto da richiedere l’intervento dei medici. Nei giorni seguenti la situazione peggiora: discorsi sconnessi, ritrattazioni, domande («Ditemi se sono stato io!»), aggressioni agli agenti. Il sospetto è che Dalla Verde, temendo di essere raggiunto dalle indagini, si era presentato in via Fatebenefratelli per saperne di più, e poi, visto che le sue dichiarazioni lo stavano incastrando, si era finto pazzo. Quel che è certo è che dalla sua esistenza irreprensibile emergono particolari inaspettati: indumenti femminili in un armadio di casa e nella sua auto (nessuno della vittima), feticismo, manie sessuali. Doppia vita. Fino a quando, a sorpresa, confessa. Giunti sul posto, racconta, Paola si era spogliata, ma si era rifiutata di togliersi il reggiseno come lui voleva insistentemente, al punto che, spaventata, aveva preso i vestiti ed era scappata. L’ingegnere aveva provato a fermarla, poi aveva sentito qualcosa cadere nell’acqua, ma non vedendo nulla se ne era andato. Omicidio colposo o omissione di soccorso? Mitomane o assassino? O semplicemente, come scrive Alberto Cavallari, un «apparente mostro» che i colpi di scena avevano ridotto «in un piccolo uomo» alla deriva, dalla vita normale e triste? Dalla Verde ritratterà tutto, dicendo di aver confessato per «un morboso senso di espiazione». Nel 1967, dopo processi, ricorsi e annullamenti, sarà amnistiato. Trasferitosi in Argentina, morirà, a Caracas, due anni dopo. Sulla fine di Paola Del Bono calerà il silenzio senza sapere se si trattò di omicidio o di una disgrazia. Ma qualcosa, oltre al giallo, quella vicenda, lasciò nelle coscienze degli italiani. «Forse questo fatto di cronaca», scriverà ancora Cavallari, «è stato il più squallido degli ultimi anni. La gente l’ha seguito ora con triste pietà, ora con moralismo, ora con riprovazione e disprezzo. Mai, però, con l’orrore che avvampa intorno alle storie tragiche dove entra la morte».
Esiste un mostro di Milano? "Vi spiego chi uccise Simonetta". Il criminologo Alberto Miatello che si occupò del delitto della Cattolica smentisce l'ipotesi di un serial killer che uccise almeno 7 donne tra gli anni Sessanta e Settanta: "Non c'è nessun serial killer". Francesca Bernasconi, sabato 16/01/2021 su Il Giornale. Da Simonetta Ferrero ad Adele Margherita Dossena, passando dagli omicidi di Elisa Casarotto, Tiziana Moscadelli e Olimpia Drusi. Sono molti i casi rimasti irrisolti nella Milano degli anni Sessanta e Settanta. Una scia di sangue che, secondo Franco Posa, potrebbero essere ricondotti a un'unica mano. Un'ipotesi non condivisa dal criminologo Alberto Miatello, che si è occupato per anni del delitto della Cattolica e al Giornale.it rivela: "Sono convinto che non ci sia nessun serial killer".
Quando ha iniziato a studiare il delitto della Cattolica?
"Ho iniziato a seguire il caso dal 1998 e ho continuato per almeno 3 anni. C'era una cosa che mi aveva colpito di quel delitto: la presenza di una squadra di operai che lavorava proprio vicino a dove fu uccisa Simonetta e che disse non essersi accorta di niente. Ricostruendo la dinamica poi, mi ero chiesto come avesse fatto l'assassino a scappare, dato che non aveva lasciato lì i vestiti ma doveva essersi macchiato di sangue. Non mi quadrava che l'assassino fosse riuscito a scappare senza essere visto in pieno giorno. Così ho iniziato a studiare il caso".
Cosa fece Simonetta Ferrero il 24 luglio 1971, giorno in cui venne uccisa?
"Quella mattina Simonetta uscì di casa alle 10.30 e con l'autobus impiegò circa 20-25 minuti per arrivare in Sant'Ambrogio e andò in galleria Borella a comprare un vocabolario di francese: il commerciante se la ricordava, erano le 11.10. Subito dopo entrò in una profumeria per comprare un balsamo e uno shampoo, e verso 11.15 entrò all'Università Cattolica probabilmente per usufruire del bagno. Non è così assurdo che si diresse proprio verso quello della scala G, perché forse lei era abituata a usarlo quando frequentava l'Università. Inoltre in quell'area c'erano le bacheche con le tesi di laurea e visto che lei per lavoro selezionava i laureati per la Montedison, potrebbe essere andata a controllare la bacheca in caso ci fosse qualcosa di utile. Dopo la sosta in Cattolica, la ragazza avrebbe dovuto consegnare un campione di stoffa a un tappezziere e andare dall'estetista, dove aveva appuntamento alle 12".
Ma venne uccisa nel bagno della scala G.
"L'aggressione avvenne tra le 11.25 e le 11.30. Probabilmente Simonetta reagì a un tentativo di molestia. Prima l'omicida avvicinò la ragazza nel bagno tentando un approccio, ma lei lo respinse. Poi probabilmente provò una seconda volta e lei reagì in modo deciso, innescando una reazione di rabbia nell'uomo, che iniziò ad accoltellarla, mentre lei cercava di sottrarsi ai suoi colpi e di scappare da quel bagno. L'assassino si era imbrattato di sangue: nel bagno in centro vennero trovate tracce che indicavano come il killer si fosse sfilato la maglia verso l'alto, cambiandosi gli abiti. Purtroppo questi scoppi di rabbia cieca sono tipici di molti delitti 'casuali' che avvengono in varie situazioni: per un diverbio tra automobilisti, per un litigio tra amici o conoscenti per motivi futili, e ovviamente per approcci respinti. L'errore di allora fu pensare che si trattasse di uno squilibrato, ma sono frequenti anche casi di reazioni abnormi a offese e provocazioni".
Chi c'era quel giorno in Università?
"Sono riuscito a rintracciare una studentessa di Economia che era presente quel giorno. Lei ha riferito che quella mattina in Università c'era poca gente, circa 50 persone in totale, di cui una ventina in sala lettura, alcune nei chiostri e altre proprio davanti alla scala G. Non erano molte, ma c'era un numero persone sufficienti a vedere un assassino macchiato di sangue. E poi c'erano i 4 operai. Loro avevano mentito".
Perché è convinto che abbiano mentito?
"Perché è impossibile che ben 4 operai, di cui solo due lavoravano col martello pneumatico, non si siano accorti di nulla. Il rubinetto del bagno era stato lasciato aperto e i carpentieri non potevano non sentire l'acqua che scendeva nei locali vicino a dove lavoravano. Avrebbero potuto pensare di aver rotto le tubature. Nella stanza di fronte al bagno poi lasciavano anche i vestiti e dovrebbero essersi accorti del rubinetto aperto. Quasi sicuramente entrarono in quel bagno, tra le ore 11.30 e le 17 di sabato 24 luglio 1971, e videro il corpo di Simonetta, ma fecero finta di nulla, fino a che lunedì il seminarista non diede l’allarme. Potrebbero essere estranei al delitto e non aver parlato per paura di essere coinvolti, ma c'è un altro elemento sospetto: il fatto che l'assassino si fosse cambiato. Io ho visto le foto del delitto e l’assassino doveva essersi imbrattato di sangue dalla testa ai piedi, dopo avere inferto oltre 40 coltellate alla ragazza: dopo il delitto l’assassino deve essersi ripulito e cambiato in uno dei gabinetti, dove lasciò macchie strusciate dei vestiti. Ma se fosse stata una persona di passaggio come avrebbe fatto? Gli operai, invece, avevano a disposizione abiti di ricambio, tute e borse in cui poter occultare i vestiti insanguinati".
È un caso che potrebbe essere riaperto?
"Riprendere un cold case dopo così tanti anni si può fare solo se si ha in mano qualcosa di concreto. Già nel 1998 quando ho parlato dei miei dubbi col dottor Ugo Paolillo, il magistrato che aveva diretto le indagini all’epoca, due degli operai erano già morti e non c'erano reperti biologici, nuovi documenti o confessioni da cui poter partire per la riapertura del caso. E forse è meglio così, perché dopo 30 o 50 anni o si hanno in mano reperti biologici non analizzati oppure è meglio evitare di giocare con la vita di persone innocenti, a carico delle quali non vi sono prove certe".
Lei non crede nell'ipotesi del serial killer di Milano?
"Assolutamente no, sono totalmente in disaccordo con questa ipotesi, non sta in piedi. Sono convinto che non ci sia nessun serial killer. Gli assassini seriali hanno lo stesso modus operandi e colpiscono persone in modo 'casuale' senza entrare in casa loro. Se scaviamo nei sei delitti presi in considerazione per delineare l'ipotesi del serial killer scopriamo che ogni caso è molto diverso rispetto agli altri: vittime che non avevano nulla a che fare tra loro, uccise con modalità diverse, in tempi diversi. L'arma bianca allora era il modo più comune per molti delitti. Inoltre bisogna tener conto di un altro aspetto: Milano allora molto più popolosa di adesso, il fatto che in centro ci fossero stati 6-7 delitti di quel tipo non è così assurdo. Non c'è nessun serial killer. L'unico legame forse potrebbe esserci tra il caso la morte di Adele Margherita Dossena e quella di Elisa Cesarotto".
Cioè?
"Adele Margherita Dossena era stata uccisa nella pensione che gestiva e che era frequentata da studenti e ferrovieri, nella zona della Stazione Centrale. Era un'attività che funzionava. Aveva fatto entrare il suo assassino in casa e gli aveva offerto da bere: sul tavolino c'erano due bicchieri e un cofanetto di caramelle Sperlari. In seguito la figlia Agostina Belli, provò a indagare sulla morte della madre e venne minacciata più volte, tanto che le uccisero anche il cane: sono i tipici comportamenti del racket. Un serial killer, invece, non si comporta così, non minaccia la famiglia della vittima, ma sparisce e non si fa più vivo. Tutto lascia supporre che la Dossena fu uccisa da qualcuno che era interessato alla sua attività o che la stesse taglieggiando. Ai tempi, infatti, il racket era già ben radicato a Milano. E la Cesarotto potrebbe essere stata uccisa dalla stessa persona o da qualcuno dello stesso ambiente".
E gli altri casi di donne accoltellate?
"Alcune delle altre vittime si prostituivano e bisogna tenere presente che in Italia venivano uccise tantissime prostitute e in generale gli omicidi erano molto più frequenti di oggi. Inoltre Tiziana Moscardelli rifiutava i protettori: un comportamento molto pericoloso. Moscardelli, Drusin e Casarotto potrebbero essere state vittime del racket, ma non di un serial killer. Poi ci sono le altre due donne uccise nella propria casa: Salvina Rota e Valentina Masnieri. La prima, commessa di 22 anni, venne seviziata con una lima e poi strangolata: il modus operandi è diverso rispetto agli altri omicidi e le modalità del delitto farebbero pensare a una donna. Tutto poi fa pensare che la Rota avesse fatto entrare in casa il suo assassino e che ci sia stato un litigio. A Valentina Masnieri invece fu rubato l'orologio d'oro: per questo il suo potrebbe essere stato un omicidio a scopo di rapina. L'ipotesi del serial killer non sta in piedi, tanto meno per la Ferrero. Ma di lei mi lasci dire un'ultima cosa".
Dica.
"Era una ragazza straordinaria, esemplare. Ed è vergognoso che alla Cattolica non le abbiamo mai dedicato nessuna targa. Spero che quest'anno si decidano a collocare una targa. Mi sembra doveroso".
Ora spunta il "mostro di Milano": "Un serial killer mai incriminato". Il delitto di Simonetta Ferrero potrebbe legarsi a quello di altre donne, tutti avvenuti a Milano tra gli anni '60 e '70. E l'autore potrebbe essere un serial killer. Così, a distanza di 50 anni, spunta una nuova ipotesi. Francesca Bernasconi, Martedì 12/01/2021 su Il Giornale. Sono passati quasi 50 anni da quando il corpo di Simonetta Ferrero venne trovato in un bagno dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, massacrato da decine di coltellate. Dopo diversi sospettati e oltre 300 interrogatori effettuati nel giro di due settimane, le indagini arrivarono a un punto morto e ancora oggi il delitto è rimasto senza un colpevole. Ma ora una nuova ipotesi potrebbe portare a una svolta: un serial killer potrebbe aver assassinato, nella zona di Milano, almeno 7 donne. È quanto sostiene il criminologo di Varese Franco Posa, che ha ipotizzato un collegamento tra diversi omicidi commessi tra il 1960 e il 1975. Prima di lui ad accendere un faro su queste vicende era stata la penna di Fabrizio Carcano, che nel libro Il Mostro di Milano aveva connesso tra loro 11 delitti avvenuti nel capoluogo lombardo negli anni Settanta.
Il delitto della Cattolica. Il più celebre tra gli omicidi degli anni '60 e '70 è quello di Simonetta Ferrero. Sabato 24 luglio 1971, la 25enne uscì dalla sua casa in via Osoppo verso le 10 del mattino, per sbrigare alcune commissioni prima della partenza prevista la sera stessa per le vacanze in Corsica con la famiglia. Il suo rientro era previsto per l'ora di pranzo, ma Simonetta scomparve nel nulla. Ci vollero due giorni prima che il suo corpo fosse ritrovato in uno dei bagni dell'Università Cattolica di Milano, dove Simonetta si era laureata due anni prima. Intorno alle 9 di lunedì 26 agosto il seminarista Mario Toso, 23 anni, essendosi accorto del continuo scorrere dell'acqua dei lavandini, entrò in uno dei bagni femminili dell'Università, per chiudere il rubinetto, e si trovò di fronte il corpo martoriato della 25enne. Gli inquirenti esclusero subito il movente dell'aggressione a scopo di rapina, dato che nella borsetta della Ferrero vennero trovati alcuni contanti e nessuno dei gioielli che indossava le fu sottratto. L'omicidio, si ipotizzò, poteva essere legato a qualche mancata assunzione alla Montedison, dove Simonetta lavorava alla direzione del personale, ma la pista venne poi scartata. Il 28 luglio l'autopsia confermò che non vi era stata violenza sessuale. A partire dal primo agosto le indagini passarono nelle mani del commissario Antonino Orlando, che decise di raccontare gli sviluppi in prima persona su un diario raccolto da Enzo Magri e pubblicato sull'Europeo. A distanza di una settimana dal ritrovamento del corpo erano solamente tre i punti fermi. Il primo è che "Simonetta Ferrero, 25 anni, laureata in Scienze politiche e funzionaria della Montedison, è stata trovata uccisa con 42 coltellate, lunedì 26 luglio, in una toilette dell'Università Cattolica". Il secondo elemento certo è che "a scoprire la Ferrero, la cui morte è stata fatta risalire a due giorni prima, tra le 11 e mezzogiorno di sabato 24 luglio, è stato un giovane seminarista, Mario Toso, 23 anni, che, dopo avere avvertito uno dei custodi dell'università, se ne è tornato nell'istituto salesiano di Mirabella Monferrato dove studia". Infine, stando alle testimonianze e dopo aver ricostruito il via vai della Cattolica nel giorno di sabato 24 luglio, il commissario sa che in Università "c'erano una cinquantina di persone, compreso il Toso, sei operai, quattro dei quali lavoravano con un martello pneumatico a venticinque metri di istanza, in linea d'aria, dal posto del delitto e i due custodi dell'Università". Inizialmente, stando al diario del commissario Orlando, i dubbi degli inquirenti si diressero verso il seminarista che aveva trovato il corpo di Simonetta. Perché un seminarista avrebbe dovuto entrare nel bagno delle ragazze? Bastava lo scroscio dell'acqua per fargli aprire la porta, senza remore? Probabile, dato che Mario Toso era anche il precettore di un istituto salesiano: "Questa sua funzione - spiega Orlando - ne ha fatto un maniaco dell'ordine. Se passando per un corridoio vede una lampada accesa la spegne, se c'è una sedia fuori posto la sistema d'istinto, se c'è un rubinetto aperto lo sente a distanza e non resiste alla necessità di andarlo a chiudere. Il disordine, insomma, fa scattare nella sua mente centinaia di campanelli che si spengono quando i suoi occhi riposano nell'ordine assoluto". Il commissario Orlando e il maresciallo Nino Giannattasio, anche lui impegnato sul caso, cercarono di capire il motivo che aveva spinto la ragazza a entrare nell'ateneo. In un primo momento, si pensò che Ferrero avesse dovuto ritirare o consegnare degli appunti da un'amica, ipotesi poi smentita. Un'altra possibilità era che Simonetta cercasse un bagno. Ma anche in questo caso qualcosa non torna: perché recarsi nel servizio più scomodo rispetto all'ingresso di Largo Gemelli? Domande che non ottennero mai una risposta precisa. Il 15 agosto, dopo oltre 300 interrogatori, Orlando scrive: "Siamo al punto di prima. Ormai so per certo che dagli interrogatori non verrà nulla di buono".
Il criminologo Franco Posa. Nel 1994 poi una lettera anonima fece pensare a una possibile svolta verso la risoluzione del caso. Una donna sosteneva che una sua amica fosse stata molestata da un religioso della Cattolica. Le indagini portarono gli inquirenti a seguire anche la pista del maniaco sessuale, ma alla fine anche questa si rivelò senza via d'uscita. Così, a distanza di quasi 50 anni, il delitto di Simonetta Ferrero rimane un caso irrisolto.
Le altre vittime. Simonetta non fu l'unica donna a morire sotto i colpi di un coltello. In quegli stessi anni infatti ci furono altri assassinii, tutti di donne, tutte uccise con un'arma bianca. "Io ne ho contate 11 negli anni Settanta - ha spiegato Fabrizio Carcano al Giornale.it - Tre donne dalla vita ordinaria e otto prostitute. Sapevo che prima c'erano stati altri casi, ma non li ho inseriti nel libro per esigenze narrative". Anche il criminologo Franco Posa ha preso in considerazione altri omicidi, oltre a quello della Ferrero: per il momento sono sette. Quello che potrebbe essere il primo delitto di una lunga scia di sangue risalirebbe al 1963: Olimpia Drusi, 44 anni, madre di un figlio, venne pugnalata mentre si trovava a bordo della sua auto nel quartiere Greco di Milano. Anche in questo caso non si trattò di una rapina, dato che nella borsetta aveva ancora i soldi. A un simile destino andarono incontro anche Elisa Casarotto, 29enne uccisa con diverse coltellate nel 1964, in un bosco di Lacchiarella, alla periferia di Milano, e Tiziana Moscadelli, 20 anni, ammazzata con un coltello e un cacciavite nel 1976 in via Tertulliano.
"Ho fatto la 007 per scoprire chi ha ucciso mia madre". Il 16 febbraio del 1970 un'altra donna venne trovata morta, uccisa con un'arma da taglio. Questa volta non si trattava di una prostituta. Adele Margherita Dossena, 55 anni, gestiva una pensione vicino alla Stazione Centrale di Milano. La donna era madre di due figlie: Ermide, che avrebbe aperto un negozio di parrucchiera, e Maria, che divenne la famosa attrice della commedia all’italiana Agostina Belli, che per scoprire la verità su sua madre ingaggiò anche un detective privato. Quando tolsero i sigilli all'appartamento Maria e il padre video la scena del delitto: "Abbiamo trovato tutto come lo avevano lasciato - aveva riferito la donna al Giornale.it -C'era ancora il suo sangue rappreso sul pavimento. E la cosa brutta, e lo dico per la prima volta, è che sul tavolo in cucina c'erano ancora due bicchieri, un cofanetto di caramelle Sperlari e una bottiglia di liquore. E nessuna di queste cose aveva sopra la polverina per le impronte digitali". L'ipotesi della figlia della vittima è che la madre conoscesse il suo assassino. Ma anche questo caso si concluse senza un colpevole. La successiva vittima del presunto serial killer potrebbe essere stata Salvina Rota, commessa in un supermercato, che venne seviziata con una lima e poi strangolata nella sua casa in via Tonale, il 16 giugno 1971. Si pensò a un assassino legato a un'amica con cui la vittima aveva condiviso l'amante, un ferroviere. Ma anche in questo caso le indagini si conclusero con un nulla di fatto. L'ultimo caso che potrebbe essere attribuito al mostro di Milano è quello di Valentina Masneri, stilista 25enne, sposata e senza figli. La donna venne uccisa da una serie di coltellate inferte alle spalle, nella sua abitazione di via Settala: era il 18 marzo del 1975. Da quel momento, i delitti si fermarono. "Fino a Lidia Macchi", la 21enne uccisa a coltellate e ritrovata in un bosco vicino all'ospedale di Cittiglio (Varese) che, secondo Fabrizio Carcano, potrebbe essere legata ai delitti degli anni Settanta. "In ogni caso - spiega lo scrittore - nel '75 i delitti si interrompono. L'impressione è che di colpo l'assassino sia sparito".
Una sola mano per diversi omicidi? Vari delitti, tutti commessi con un'arma da taglio, a Milano, in un periodo di tempo compreso tra il 1963 e il 1976. E la mano che accomuna tutte queste morti potrebbe essere la stessa. È questa l'ipotesi del dottor Franco Posa, criminologo di Varese, che al Giornale.it ha spiegato i passi della sua indagine: "L'ipotesi è partita dal caso della Cattolica, di Simonetta Ferrero - racconta - poi io e i miei collaboratori abbiamo cercato quali altri casi con arma bianca fossero stati documentati più o meno in quegli anni". È così che Posa ha scoperto dettagli simili in altri omicidi commessi nello stesso periodo del delitto della Cattolica e nella stessa zona: in questo modo, "siamo risaliti a più o meno 7 delitti". Per il momento, ad accomunare questi omicidi ci sono "l'arma bianca e la geolocalizzazione di un'area geografica molto ben limitata, mentre per il resto ci stiamo lavorando". I 7 delitti, però, sono simili anche nel genere delle vittime prese di mira: tutte donne, di età compresa tra i 20 e i 50 anni circa. Secondo Fabrizio Carcano gli omicidi sarebbero stati 11, con in più un altro elemento in comune, cioè il numero di coltellate sferrate contro le vittime: "Sempre una trentina, a volte anche di più, solitamente inferte nella zona addominale e toracica". Inoltre, "c'erano sempre collegamenti con la ferrovia, sia con la Stazione Centrale che con la Stazione Cadorna e anche l'affittacamere ospitava spesso ferrovieri e postali". Infine una terza caratteristica che accomuna questi delitti è la "presenza di elementi di istituti religiosi".
Lo scrittore Fabrizio Carcano. Che dietro alle morti di queste donne ci fosse un unico autore in realtà era stata anche una delle ipotesi del tempo, ma non venne approfondita: "Credo sia stata considerata in modo superficiale e poi tralasciata", spiega il criminologo Posa, che aggiunge come "l'idea della possibile presenza di un solo criminale autore almeno di alcuni dei delitti nasce da un'attenta osservazione preliminare eseguita dal nostro gruppo di lavoro". Per arrivare all'ipotesi di un unico assassino per 7 vittime, il team del criminologo ha usato diversi software molto avanzati di geo-localizzazione: "Ci hanno permesso di delimitare un'area abbastanza limitata. È possibile che chi ha commesso almeno parte di questi omicidi sia stato residente o frequentante abituale dell'area geografica che abbiamo evidenziato". Si tratta di un triangolo compreso tra il Castello Sforzesco, la Stazione Centrale e via Pace. Dietro la morte di Simonetta Ferrero potrebbe quindi nascondersi il mostro di Milano, che prima di lei avrebbe ucciso altre donne, utilizzando la stessa arma. Ma per confermare l'ipotesi avanzata da Posa servirà tempo: "Adesso stiamo applicando dei sistemi innovativi di autopsia psicologica su persone che ancora ci possono dare notizie in modo verbale e diretto e stiamo iniziando a valutare le immagini fotografiche ad altissima definizione per ricostruire eventuali impronte dell'arma". Solo in seguito potranno emergere "elementi per suggerire la riapertura dei casi", rimasti irrisolti fino a oggi.
Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 3 gennaio 2021. Il tempo non aiuta. Oppure sì e anzi diverrà decisivo, amalgamando i raffinati progressi dell'investigazione e sovvertendo la fin qui fantomatica figura di un «mostro di Milano», fonte ispiratrice di romanzieri, pensiero ricorrente di sbirri in pensione, pagina studiata dagli storici. Fantomatica figura forse soltanto in conseguenza del fatto che lui, l'assassino, è (stato) irreperibile. Cinquant' anni dal primo di cinque omicidi, tutti di donne e tutti irrisolti, più altri due antecedenti a metà dei Sessanta e forse connessi proprio a uno dei cinque. Casi eclatanti, mediatici fin dall'inizio, e casi meno noti avvenuti in stagioni di terrorismo, quotidianità aggressive, sequestri di persona, guerre dei clan criminali: le uccisioni di Simonetta Ferrero, dell'affittacamere Adele Margherita Dossena, della commessa Salvina Rota, della stilista Valentina Masneri, della prostituta Tiziana Moscadelli la cui fine ha spinto il dottor Franco Posa, criminologo, a esplorare anche le uccisioni di Olimpia Drusin ed Elisa Casarotto, ugualmente prostitute, trucidate nel 1963 e nel 1964. Professionista schivo, difensore di una scienza spesso banalizzata, al lavoro insieme a uno staff di giovanissimi collaboratori, per intima curiosità, stanziando da sé i fondi, Posa ha avviato una ricerca sui delitti ipotizzando come fondamento una mano comune. Mai finora avevamo assistito alla formazione di un progetto investigativo, certamente embrionale, ora necessario dell'appoggio di magistrati e forze dell'ordine per l'esame dei singoli fascicoli con l'obiettivo, per cominciare, di restringere la mappa. Un'area triangolare. Entro questa porzione di Milano avrebbe vissuto/lavorato l'assassino. La geo-localizzazione è frutto di un complicato, assai costoso software americano, in dotazione alla polizia di New York e utilizzato nei dibattimenti. Il software, per il quale serve un anno intero prima di ottenere l'abilitazione, ha elaborato tramite algoritmi una massa infinita di dati: numero e tipologia dei reati, profilo di criminali e vittime, luoghi e orari dei crimini, incidenti stradali, linee e fermate dei mezzi pubblici...Il risultato inquadra una parte ampia di Milano densamente abitata, d'accordo, eppure indicativa per non spostare suggestioni di una convergenza verso la stazione Centrale, in considerazione della prossimità di tre delitti. Al civico 18 di via Copernico, Adele Margherita Dossena gestiva una pensione. Otto camere, prezzi accessibili, frequente ricambio di ospiti, per lo più impiegati e universitari, in una struttura di ordine, pulizia, pagamenti puntuali. A 55 anni, separata, Adele Margherita era mamma di due figlie, Ermide che avrebbe aperto un negozio di parrucchiera al quartiere Lorenteggio e l'altra, Agostina Maria, in famiglia detta «Mariuccia:» la futura attrice della commedia all'italiana Agostina Belli, che invano investì i guadagni dei film assumendo investigatori privati. Delitto senza colpevole. Donna esperta, Adele Margherita non custodiva nel piccolo appartamento dal quale governava la pensione somme di denaro. Chi la uccise, il 16 febbraio 1970 colpendola con un coltello alle spalle, proseguendo sul resto del corpo, infine sgozzandola, rovistò nell'alloggio o finse di farlo volendo inscenare una rapina. L'assenza di testimoni non orientò le indagini. L'evidente difficoltà della caccia evocò un'insondabile doppia vita. Adele Margherita non l'aveva. E non l'aveva Valentina Masneri, stilista, sposata senza figli, trucidata di nuovo a coltellate e sempre inferte alle spalle, nell'elegante abitazione di via Settala 57. Alle 17.55 del 18 marzo 1975, Valentina sarebbe dovuta salire a Linate su un volo per Francoforte. La aspettavano clienti ai quali mostrare bozzetti di vestiti. Il cadavere giaceva in salotto, sul tappeto, in mezzo a due poltrone. Il quartiere era una casbah di ladri e biscazzieri; la densità di bettole garantiva rifugi. Dai quattro locali e mezzo di via Settala scomparve un orologio d'oro della 25enne Valentina la quale, in ciabatte, aveva aperto la porta all'aggressore. Il marito, un grafico, che l'aveva salutata poco prima tornando al lavoro, attaccò le forze dell'ordine colpevoli, a suo dire, di trascuratezza. La scientifica isolò un bottone da cappotto maschile e il tacco di una scarpa più un capello biondo, non appartenente a Valentina, e forse caduto dalla chioma di un'amica. L'ipotesi di una donna killer tenne fino alla mancanza totale e definitiva di riscontri. La risultanza del software «manovrato» dalla squadra di Posa, che comprende un'ex fuciliere dell'Esercito impegnata nei teatri balcanici, prevede la presenza stanziale dell'ipotetico serial killer (per non meno di otto ore al giorno) in un punto del triangolo geografico. Luoghi si presume attraversati dalle vittime che avrebbero incrociato lo sguardo e le attenzioni dell'omicida il quale avrebbe attivato un pedinamento, se residente, oppure intrapreso una conoscenza se per esempio in quell'area lui aveva un'attività. Un commerciante. Oppure un artigiano in proprio privo di un flusso continuo di clienti che in virtù del differente orario dei delitti, gli permetteva di muoversi in libertà, uscendo ed entrando dal negozio senza destare sospetti. A meno di non farlo in una cronologia posteriore alla chiusura. Salvina Rota morì il 16 giugno 1971 intorno a mezzanotte, seviziata con una lima e strangolata. Viveva in via Tonale al 4, dov' era tornata dopo il turno di lavoro da cassiera in un supermercato di largo Alpini. La sera di quel giorno, la 22enne Salvina aveva incontrato un'amica, Teresa, cameriera, che era rincasata in taxi (resoconto mai provato, un disperato appello della Procura affinché quel conducente si presentasse cadde nel vuoto). Si vociferò di un'assassina, «esplorando» proprio Teresa con cui la vittima nei mesi precedenti aveva condiviso l'amante, un ferroviere sospettato ma lontano da via Tonale e con un alibi considerato solido nel momento dell'omicidio. Anche il fascicolo di Salvina Rota fu chiuso senza colpevole. Un serial killer può colpire vicino alla propria abitazione, in una zona da lui intesa alla guisa di esclusivo territorio di caccia di un predatore, oppure lontano dalla residenza per diminuire le possibilità di un'immediata collocazione. Lo scenario rappresentato coincide con il secondo volendo includere il delitto della Cattolica, delitto di cui sono ancora in vita protagonisti come l'allora seminarista, adesso vescovo, che scoprì nel bagno il corpo di Simonetta, devastata il 24 luglio 1971 da 33 pugnalate. L'incarico del padre, dirigente della Montedison, allargò le indagini su ipotetiche trame e segreti professional-istituzionali, una pista infeconda al pari delle suggestioni a posteriori correlate alla longeva amicizia tra Valentina Masneri e il figlio di Michele Sindona. Caso più agevole quello di Tiziana Moscadelli. In apparenza. Da maggiorenne Tiziana aveva lasciato la casa di famiglia, in via Voghera, trasferendosi in due stanze senza bagno al 58 di via Tertulliano condivise con «Lola», all'anagrafe Salvatore De Natale. Come il travestito, la 20enne Tiziana si prostituiva nella cosiddetta «fossa dei leoni» tra la stazione Cadorna e il parco Sempione, dove in tanti solevano aggirarsi per importunare e spiare, compreso tale «Federico il pazzo». Conosciutissimo dagli sbirri, era stato fermato con l'accusa d'aver ucciso lui la ragazza, il 12 febbraio 1976. Tiziana, che rifiutava gli sfruttatori, assassinata con un coltello e l'aggiunta di un cacciavite, non si vendeva in casa e mai si sarebbe portata a domicilio il «pazzo». Preferiva stare lontano, come la 45enne Olimpia Drusin, pugnalata nel quartiere di Greco nel 1963 e residente a ridosso del parco Sempione, e come la 29enne Elisabetta Casarotto, massacrata l'anno dopo sempre a pugnalate a Lacchiarella, a sud di Milano, che abitava in via Sercognani, quartiere di Villapizzone. La prossima mossa di Posa, previo l'accoglimento del progetto da parte della Procura e nel caso degli investigatori, sarà la rilettura delle autopsie, partendo dal raffronto tra Simonetta e gli altri omicidi. I serial killer hanno nell'azione delittuosa un marchio, impresso anche variando numero e segni delle coltellate: somigliano alle caratteristiche comuni in una calligrafia pur modificando forma, inclinazione delle lettere e cambiando perfino mano. Se mai ci sarà una nuova narrazione poliziesca, quest' azione del criminologo, ed eventuali scoperte, ne formeranno l'incipit.
Da "corriere.it" il 5 gennaio 2021. Due bicchierini da liquore, un vassoio di caramelle Sperlari, un orologio d’oro e un anello: unici elementi in ordine cristallizzati all’interno di un appartamento «nella più totale confusione per inscenare una rapina». Poi due fotografie, comparse, associandole, sulle pagine del Corriere di sabato, a tracciare un presunto serial killer. I volti erano quelli di sue vittime: Elisa Casarotto, nel 1964 uccisa a coltellate come successe nel 1970 ad Adele Margherita Dossena, che lasciò due figlie. Una è Agostina Belli.
Anomalie. L’attrice 71enne rivela la profonda anomalia dello scenario visto, un anno dopo l’omicidio quando la polizia tolse i sigilli, tornando nell’alloggio di via Copernico 18, sorta di ufficio-abitazione dove la mamma gestiva una pensione. Ma insieme, parimenti allo studio del criminologo Franco Posa che sta lavorando sull’ipotesi di un «mostro di Milano» colpevole della morte di (almeno) sette donne, tutti casi irrisolti compreso quello più mediatico, l’assassinio di Simonetta Ferrero in un bagno dell’università Cattolica, l’ammissione dell’attrice assume una portata non trascurabile: «Mia madre ed Elisa erano amiche. Molto amiche. Per quanto riguarda quegli elementi nell’appartamento, parvero strane delle cose. I bicchieri e il vassoio di caramelle posizionati sul tavolo confermavano che l’assassino fosse un uomo conosciuto. Mamma lo fece entrare e accomodare. Dopodiché, la presenza di orologio e anello, peraltro in bella mostra sopra di un comodino, esclusero l’eventualità di un predatore in cerca di gioielli e denaro, eppure... Eppure, tempo soli dodici mesi e le indagini vennero chiuse. Perché? Me lo chiedo da mezzo secolo».
La locanda. Nonostante i 20 anni di differenza, la provenienza (il quartiere Giambellino per Adele Margherita, la provincia mantovana per Elisa, poi residente nella periferia cittadina di Villapizzone) e le antitetiche strade percorse, Dossena con famiglia e un’avviata locanda non lontano dalla stazione Centrale e Casarotto ex parrucchiera e nel 1964 prostituta in un bosco di pioppi nell’hinterland, le due donne si frequentavano. «Ho ricordi di loro gite». Distante dal clamore mediatico, ritiratasi nelle campagne laziali, Agostina Belli non lancia proclami né pretende trattamenti di favore. Nell’attesa di segnali dalla Procura, «quantomeno per spegnere ogni dubbio o, al contrario, partire dagli elementi scoperti e analizzarli nel rispetto delle vittime e dei loro famigliari», l’attrice ripensa a un anno, il 1974. L’anno del film «Profumo di donne», regia di Dino Risi, protagonisti Vittorio Gassman e la stessa Belli. «Decisi di investire risorse per compiere ulteriori indagini. Abitavo fuori città, in una località isolata. Dapprima mi avvelenarono il cane, poi rubarono la macchina, quindi iniziarono le telefonate anonime. Voci camuffate che ripetevano: “Smettila o farai la fine di tua mamma”. Avevo paura, come detto stavo da sola, indifesa. Ne parlai con la polizia che mi suggerì subito di lasciar perdere — lasciar perdere, esattamente così — e di tenere addosso una pistola. Io allora presi il porto d’armi. Ma spaventata da quelle chiamate, ecco, la smisi con la ricerca della verità».
L’archiviazione. Al netto, in considerazione dell’assenza di un solo sospettato, della celere archiviazione del fascicolo di Adele Margherita Dossena, colpita dai primi fendenti alle spalle come altre vittime, il grosso degli sforzi investigativi si concentrò sui clienti della pensione. Dice l’attrice, non nascondendo la personale convinzione di aver poco creduto alla pista: «Erano in maggioranza universitari e ferrovieri che si fermavano a riposare perché impegnati sulle lunghe tratte». Già ai tempi, della gestione di Adele Margherita erano notori l’ordine, la pulizia, l’attenzione nella selezione degli ospiti, il far rispettare le regole. L’evocazione, proprio in conseguenza della mancata individuazione dell’assassino, di una seconda vita della donna, separata, 55 anni, fu fumo diffuso non si sa da chi per quale fine. Mai nessuno, precisa l’attrice, «ha paventato l’ipotesi di una mano comune, sulla quale invece ragiona il dottor Posa». Il cui pool di criminologi ha finora mappato, basandosi su costosi e complicati software americani, un triangolo geografico compreso nel centro di Milano tra via Filzi, piazza Cordusio e via Pace. Qui vive o ha vissuto l’ipotetico serial killer.
· Il Mistero del Mostro di Udine.
Quel taglio a "s" sulle vittime: il Mostro senza volto "incastrato" dalla fiction. Rosa Scognamiglio il 10 Agosto 2021 su Il Giornale. Il "mostro di Udine" è stato uno dei più prolifici assassini seriali italiani. Almeno 14 le vittime attribuite al killer, 4 quelle accertate. Quarantaquattro anni dopo l'ultimo omicidio, i Ris di Parma hanno individuato il Dna del sospettato. Quattordici vittime di cui 4 accertate e 10 sospette. È il numero delle donne uccise nella provincia di Udine tra il 21 settembre del 1971 e il 26 febbraio del 1989 da uno spietato serial killer: il Mostro di Udine. Noto alle cronache anche come "killer delle prostitute", il sanguinario criminale non è mai stato identificato né è mai stata mai ritrovata l'arma del delitto con cui era solito praticare una incisione "a esse" sul corpo senza vita delle malcapitate. Una sorta di sigla autoriale del delitto riconducibile verosimilmente all'operato di un medico chirurgo. Nel 2019, durante le riprese della miniserie documentaristica targata Sky sul Mostro di Udine, sono stati rinvenuti nuovi elementi indiziari sulla identità, ancora oggi incerta, del killer. I reperti sono stati analizzati dai Ris di Parma e le risultanze delle indagini tecnico-scientifiche consegnate alla procura del capoluogo friulano a luglio del 2021. Quarantaquattro anni dopo, l'assassino ha un volto? Se sì, di chi si tratta? "Se i sospetti del tempo erano fondati, credo che sia deceduto", dice a IlGiornale.it l'ex carabiniere ed esperto di scena del crimine Edi Sanson, che intervenne sul luogo del delitto di Marina Lepre, l'ultima vittima finita nel mirino dell'omicida seriale.
Il primo omicidio. È il 19 settembre del 1979 quando una giovane donna viene ritrovata cadavere a bordo della propria auto, nei pressi della stazione ferroviaria di Udine. Si tratta di Irene Belletti, prostituta 35enne originaria di Trevi, trafitta al corpo con 7 coltellate. L'omicidio, per quanto truce ed efferato, non suscita particolare attenzione mediatica né suggerisce agli inquirenti una dinamica delittuosa atipica. Forse Irene è stata uccisa da un cliente con cui si è appartata quella sera. Per certo l'eventualità di un predatore seriale che, nelle notti di pioggia, va a caccia di prostitute, non viene neanche lontanamente ipotizzata. Soltanto decine di anni dopo il nome di Irene Belletti finirà in cima alla lista delle vittime attribuite al Mostro di Udine.
Le 14 vittime "attribuite" al Mostro. Nella notte tra il 15 e il 16 febbraio del 1980 Maria Carla Bellone, una prostituta di 19 anni, viene barbaramente trucidata. La ragazza fa uso di eroina e occasionalmente si prostituisce per procurarsi la droga. Un agente di polizia ritrova il cadavere sotto un filare di gelsi nella campagna alla periferia di Pradamano, vicino al torrente Torre. Il collo della giovane è trinciato da un orecchio all'altro. Ma il dettaglio più rilevante è la ferita a "S" che corre lungo il torace della vittima, dallo sterno fino al pube, escludendo l'ombelico. Il 24 gennaio del 1983 viene uccisa un'altra prostituta, Luana Giamporcaro: lo scempio al corpo e la dinamica omicidiaria si ripetono con le stesse modalità rilevate nell'omicidio di Maria Carla Bellone. La sera del 3 marzo 1985 è il turno della 42enne Aurelia Januschewitz, anche lei è una squillo e il suo addome riporta un solco profondo che culmina nel basso ventre. Alla luce delle evidenze raccolte, e dalle osservazioni post-mortem sui cadaveri, gli inquirenti cominciano a sospettare che i tre omicidi, avvenuti nell'arco temporale di un quinquennio, siano riconducibili a unico autore. Ma l'ipotesi di un serial killer prenderà forma con un'informativa inviata dai carabinieri alla magistratura nel 1994, quando il Mostro avrà messo a segno già 14 vittime. "La storia del 'Mostro di Udine' è molto complessa perché disponiamo di pochi elementi per poter accertare una dinamica omicidiaria seriale per tutte le donne coinvolte nella vicenda - spiega l'esperto Edi Sanson - Le vittime sono 14, quattro delle quali presentano delle caratteristiche evidenti riconducibili verosimilmente a uno stesso autore. Negli altri casi invece si tratta di un'ipotesi perseguibile ma non scontata. Intendo dire che dall’analisi degli elementi in nostro possesso è possibile si tratti dello stesso assassino ma potrebbe anche non esserlo".
Il caso di Marina Lepre. L'ultima vittima finita nel mirino del serial killer di Udine è Marina Lepre, un'insegnate di scuola elementare residente a Cividale del Friuli, totalmente estranea al mondo della prostituzione. Quando finisce nelle grinfie del Mostro, Marina sta attraversando un periodo buio della sua esistenza: ha cominciato a frequentare locali notturni, beve ed è solita rincasare in autostop. Il corpo senza vita della donna, madre di una ragazzina 13enne di nome Fedra, viene ritrovato sul greto del fiume Torre, alla periferia nord del capoluogo friulano. A imbattersi nel cadavere, straziato dai fendenti e con uno squarcio longitudinale sull'addome, è il carabiniere Edi Sanson insieme ad alcuni colleghi. "Quando vidi la gola squarciata in quel modo pensai solo una cosa: "il killer è tornato" - racconta Edi Sanson nel corso del suo intervento nella docuserie di Crime Investigation - Sul corpo della vittima era molto evidente la 'triplice firma' dell'assassino: lo strangolamento, lo scannamento e infine 'l'incisione a esse', che in questo caso era solo accennata e che consisteva nella profonda incisione che correva dallo sterno fino al pube evitando la zona dell'ombelico, inferta presumibilmente con un bisturi". Con l'omicidio di Marina Lepre si apre un nuovo scenario criminale: a Udine c'è un predatore notturno che massacra con una lama affilata le donne incontrate sul ciglio della strada.
I sospetti sul ginecologo. La precisione del "taglio longitudinale" sull'addome delle vittime fuga ogni dubbio sull'identikit dell'aggressore:sa armeggiare sapientemente con il bisturi. I sospetti ricadono dunque su un ginecologo di mezza età che non avrebbe mai esercitato la professione medica. Forse lo stessa persona in cui si imbatte Edi Sanson l'indomani dell'omicidio di Marina Lepre. "Con un collega tornai nella stradina di campagna in cui quella mattina avevamo visto il corpo di Marina Lepre e nel buio c’era una macchina ferma esattamente in quel punto. Pensammo che fossero dei colleghi e ci avvicinammo a fari spenti per fare uno scherzo, senza alcuna precauzione. Invece nell’auto c’era solo un vecchio: mi sentii indifeso, come entrato nella gabbia del leone - racconta l'ex carabiniere nel corso del suo intervento nella miniserie "Il Mostro di Udine" di Matteo Lena - Gli chiedemmo un documento e facemmo finta di andare via mentre in realtà ci appostammo per pedinarlo – e così vedemmo che si dirigeva verso una chiesetta abbandonata e lì si inginocchiava per terra mormorando delle strane litanie. Fu una scena molto inquietante tanto che chiedemmo l'intervento di una altra pattuglia". L'uomo intercettato dal giovane brigadiere vive in un appartamento di periferia insieme al fratello. Quando Sanson e il suo collega gli fanno visita, nelle ore successive all'assassinio dell'insegnante, non dispongono di un mandato di perquisizione per poter ispezionare la casa. Quindi sono costretti a battere in ritirata. Sia il sospettato che il fratello vengono interrogati il giorno seguente al delitto ma dalle loro deposizioni non emerge nulla di particolarmente rilevante. Soltanto molto tempo dopo, indagando sui trascorsi di entrambi, alcune dichiarazioni rese agli inquirenti saranno smentite dai fatti. Nel corso di una perquisizione a casa dei due fratelli, Sanson e i suoi colleghi trovano una cassetta di ferri chirurgici mancante di un bisturi. Per la magistratura, però, la pista del chirurgo è "basata su semplici sospetti" motivo per cui le indagini non procederanno. "Era difficilissimo anche solo ricostruire le ultime ore di vita delle vittime - spiega alla nostra redazione l'ex carabiniere - Tra l'altro in quegli anni non c'erano le telecamere, né intercettazioni o celle telefoniche. Nell'indagine abbiamo fatto quello che potevamo coi mezzi di allora. Certo è che, se una circostanza del genere si fosse verificata adesso, avremmo avuto buone probabilità di stanare l'assassino".
Profilo criminologico del Mostro. Forse un chirurgo, verosimilmente qualcuno con competenze in ambito ginecologico, sembrerebbe rispondere all'identikit del serial killer. Ma qual è il profilo criminale del Mostro di Udine? Per quale motivo si accaniva sulle prostitute? "Si tratta di un misogino, un uomo mosso da un odio contro le donne: il numero delle coltellate inferte nonché la presenza di over killing comunicano il piacere sadico di infliggere loro sofferenza - spiega alla nostra redazione la criminologa Rosa Francesca Capozza - si tratta di un narcisista patologico ovvero disposto a uccidere pur di nutrire i bisogni grandiosi e del suo 'sé di compensazione' rispetto a esperienze materne o con il femminile disfunzionali, con deliri pseudo-mistici legati alla missione di voler ripulire il mondo dagli impuri. Le vittime sono estranee, afferiscono a una categoria specifica di donne, in prevalenza prostitute, ma anche sole ed emarginate, la selezione è casuale. Decide consapevolmente di portare a termine gli omicidi, quindi non è uno psicotico. Si tratta di un killer 'locale' e stabile che compie i suoi delitti in un’area geografica delimitata e in cui si riconosce perché vi risiede. È altresì un killer "organizzato" che pianifica le sue azioni criminose, scegliendo con cura luogo (in questo caso antri bui della periferia) e vittima (una categoria specifica), senza lasciare traccia né arma del delitto".
Il taglio a "S" e la pista del chirurgo. Un taglio a "S" che corre lungo l'addome, dallo sterno fino al pub escludendo la zona ombelicale, è "la firma" dell'assassino. "È proprio quel tipo di incisione, un taglio netto, preciso ed eseguito quasi certamente con uno strumento chirurgico, avvalora l'ipotesi che si tratti di un praticante medico o di una persona con competenze mediche", spiega a IlGiornale.it il medico legale Maurizio Saliva che ha avuto accesso agli atti dell'indagine. Ma non è tutto. "Il taglio veniva inferto alle vittime post-mortem, per giunta, senza luce adeguata - aggiunge l'esperto - Senza contare che si tratta di una tecnica per l'intervento di taglio cesareo molto diffusa nel secolo scorso. Per questo motivo, la possibilità che dietro questa sequenza di omicidi vi sia un 'professionista' appare più che fondata".
La riapertura delle indagini: "Ecco il Dna del mostro". Nel 2019 l'avvocato Federica Tosel, rappresentante legale dei parenti di Maria Carla Bellone e Maria Luisa Bernardo, ha chiesto e ottenuto la riapertura delle indagini. Durante le registrazioni della miniserie a firma del regista Matteo Lena - "Il Mostro di Udine" - sono stati rinvenuti alcuni elementi mai repertati prima. "Si tratta di un profilattico scartocciato contenente semiliquido biancastro rinvenuto all'interno dell'auto della Bernardo, alcuni capelli di colore bruno e uno biondo sul maglioncino riposto sopra il ripiano del sedile posteriore e infine di uno spinello recuperato dal fascicolo della Bellone", chiarisce a IlGiornale.it l'avvocato Tosel. I reperti sono stati analizzati dai Ris di Parma e il report sarebbe già nelle mani della magistratura friulana. Fonti investigative vicine al IlGiornale.it riferiscono che "i profili genetici riscontrati dal Ris di Parma sono 4, due femminili e due maschili. Sono stati riscontrati su più reperti riconducibili a oggetti rilevati all’epoca dei fatti e custoditi per oltre 40 anni negli archivi del Tribunale di Udine". L'identità del Mostro è a un passo dalla rivelazione? "Le indagini da parte del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Udine sono tutt’ora in corso e sono ovviamente riservatissime", conclude Edi Sanson che, nel 2019, ha fondato l’associazione "I nostri diritti Aps" per dare supporto tecnico immediato e gratuito alle vittime di reato.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
· Il Mistero del Mostro di Bolzano.
Il mostro "come Dracula" che voleva "vedere il sangue". Francesca Bernasconi il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Tra il 1985 e il 1992 cinque donne vennero uccise a coltellate. Per i loro omicidi Marco Bergamo venne condannato a quattro ergastoli e 30 anni di carcere. Era lui il "mostro" di Bolzano. "È come Dracula: vuole vedere il sangue". E Marco Bergamo aveva visto parecchio sangue. Era quello appartenente alle cinque vittime per cui è stato condannato a quattro ergastoli e 30 anni di carcere nel 1994. Fu infatti ritenuto colpevole di una serie di omicidi, tutti di donne, la maggior parte molto giovani, accomunati da un identico modus operandi: "Numerose coltellate inferte con contatto proveniente dalle spalle, in luoghi appartati", ha spiegato a IlGiornale.it la criminologa Rosa Francesca Capozza. Così, nella zona di Bolzano, un serial killer seminò il panico dal 1985 al 1992, fino a quando non venne fermato dalle forze dell'ordine.
L'omicidio Zorzi. Era il 6 agosto del 1992. Era passata da qualche decina di minuti la mezzanotte quando alla croce bianca arrivò una telefonata. Una ragazza era stata vista agonizzante sul ciglio della strada che da Bolzano porta al Monte Pozza, forse investita da un'auto. Quando giunsero sul posto i soccorritori individuarono il corpo di una giovane donna riverso in una pozza di sangue. Addosso aveva solo una maglietta bianca e una scarpa. E non era stata investita. Il medico che condusse l'autopsia infatti riscontrò 26 ferite da arma da taglio, principalmente al tronco: la ragazza era stata accoltellata ed era morta per dissanguamento. Il suo assassino, dopo averla colpita in un altro luogo, l'aveva abbandonata lungo la strada. Nella borsa trovata vicino al corpo non c'erano i documenti, ma la donna venne identificata quasi subito: si trattava di Marika Zorzi, 18 anni, che all'epoca si alluse facesse la prostituta, ma i genitori negarono sempre quest'eventualità. La caccia al killer scattò immediatamente. Due testimoni riferirono di essere passate quella notte lungo la strada in cui venne ritrovata la ragazza e di aver incrociato un'altra macchina, una Seat Ibiza rossa. Non solo. Riferirono anche di essere riuscite a prendere alcuni caratteri della targa dell'auto. In più gli investigatori erano riusciti a risalire al luogo dell'omicidio, dove trovarono un paravento di plastica, staccatosi da una macchina, che risultò perfettamente applicabile a una Seat Ibiza. Così polizia e carabinieri si organizzarono in diversi posti di blocco nella speranza di intercettare la macchina del killer. Mancavano pochi minuti alle sette di mattina quando una pattuglia incrociò una vettura. Si trattava proprio di una Seat Ibiza rossa. La targa poteva corrispondere a quella vista dalle testimoni, dal sedile anteriore destro mancava l'imbottitura e il parabrezza era ammaccato. Alla guida c'era Marco Bergamo, un ragazzo coi baffi poco più che ventenne, che non fece alcuna resistenza e, su richiesta, aprì il bagagliaio: dentro c'erano abiti con macchie di sangue. Bergamo venne condotto in questura e alcuni agenti si recarono a casa sua per la perquisizione. Lì vennero individuati diversi coltelli. "Nella sua camera - raccontò al Corriere dell'Alto Adige l'allora capopattuglia Alessandro Arervo - fu rinvenuta una piantina di Bolzano, sulla quale era indicato il percorso da casa di Marcella Casagrande alla scuola evidenziato con un evidenziatore. Ebbi un sussulto: ricordavo il fatto perché intervenni come agente della Volante e fino ad allora era un omicidio mai chiarito. Non avevamo mai identificato l'autore". Gli inquirenti raccolsero le prove della colpevolezza di Bergamo, che poco dopo confessò di aver compiuto il delitto del 6 agosto 1992: "Intorno alle 24 ho fatto salire nella zona della concessionaria Renault di via Renon in Bolzano una prostituta di nome Marika Zorzi - si legge nei verbali riportati dal giornalista Paolo Cagnan nel libro 'Marco Bergamo. Tutta la verità sui delitti di Bolzano' - Giunti sul posto abbiamo dapprima parlato un po' del più e del meno e quindi io mi sono spogliato per consumare con lei il rapporto che avevamo pattuito". A Bergamo mancava un testicolo, asportatogli poco tempo prima a causa di una malattia. Stando al racconto dell'uomo, Marika avrebbe reagito deridendo: "Mi ha detto che ero un mezzo uomo". A quel punto sarebbe scoppiata una lite. "Mi era esplosa fuori una rabbia interiore ed ho preso da dietro il mio posto macchina un coltello - rivelò il killer - ed ho iniziato a colpirla". Ma non ricordava altro.
Il "mostro" di Bolzano. Da omicida a serial killer. In poco tempo Marco Bergamo venne sospettato di aver compiuto altri delitti, simili a quello della Zorzi: quattro omicidi in particolare vennero richiamati alla memoria degli inquirenti dal modus operandi usato dal killer e dal genere delle vittime, tutte donne, anche giovanissime, molte delle quali si prostituivano o conducevano un vita sregolata. "Nel caso del mostro di Bolzano - ha spiegato a IlGiornale.it la criminologa Capozza - è evidente e chiaramente individuabile il modus operandi che lo contraddistingue, ovvero le modalità esecutive prevalentemente impiegate dal criminale per realizzare il reato: numerose coltellate inferte con contatto proveniente dalle spalle, in luoghi appartati". Pochi mesi prima della morte di Marika, erano state uccise a coltellate Renate Rauch e Renate Troger, la prima colpita nel parcheggio di un'area di servizio e la seconda abbandonata sul ciglio della strada. Renate Rauch aveva 24 anni. A 16, come ricorda Paolo Cagnan nel suo libro, la ragazza si era invaghita di un uomo più grande di lei, con il quale era andata a vivere. Lui si bucava e lei lo avrebbe seguito lungo questa strada, tanto da iniziare a prostituirsi per procurarsi i soldi necessari ad acquistare la droga. Erano circa le 23 del 7 gennaio del 1992 quando il corpo di Renate venne ritrovato, abbandonato nel parcheggio di un'area di sosta di Bolzano dove le prostitute erano solite appartarsi coi propri clienti. L'assassino aveva colpito la ragazza con 24 coltellate, la prima sferrata mentre la vittima si trovava di spalle, in macchina. Nessuna traccia di violenza sessuale. Qualche giorno dopo sulla tomba della Rauch era comparso un biglietto, che recitava: "Mi dispiace, ma quello che ho fatto doveva essere fatto e tu lo sapevi. Ciao Renate. M.M". Non appena Bergamo venne arrestato per l'omicidio Zorzi, quel pezzo di carta venne preso nuovamente in considerazione, per confrontarne la grafia con quella dell'assassino di Marika: venne accertata la corrispondenza. Così Guido Rispoli, il sostituto procuratore a cui era stata affidata l'inchiesta, si presentò da Bergamo per interrogarlo, mostrandogli il biglietto scritto da lui e ricordandogli di avere anche altre prove che lo collegano alla morte della Rauch: una giacca sporca di sangue, la testimonianza di una donna che sosteneva di aver visto un'auto rossa e il sospetto che un uomo biondo coi baffi (come Bergamo) importunasse la vittima. Fu a quel punto che il killer confessò: "Sono stato io a scrivere tale biglietto e sono io il responsabile dell'omicidio di Renate Rauch", si legge nel verbale riportato nel libro di Cagnan. Bergamo però dichiarò di non ricordare cosa fosse successo al momento del delitto. Renate Troger aveva solo 18 anni quando venne ritrovata, il 21 marzo 1992, sul ciglio della strada che porta al Brennero. L'assassino l'aveva sgozzata, dopo aver cercato di strangolarla, poi l'aveva colpita con 15 coltellate, tutte al torace e all'addome, e l'aveva abbandonata a bordo strada. La vittima era completamente vestita e sul suo corpo non venne riscontrato nessun segno di violenza, né di difesa. Nella zona tutti conoscevano Renate, che si aggirava tra bar e discoteche, spesso alla ricerca di sigarette: una vita sregolata, ma niente a che vedere con droga e prostituzione. Nella Seat Ibiza di Bergamo vennero ritrovate delle corde con delle tracce di sangue, forse usate per strangolare la ragazza. In più, le modalità dell'omicidio erano identiche a quelle dei delitti Zorzi e Rauch. Nonostante gli elementi a carico dell'indagato, l'uomo non confessò mai di aver ucciso Renate Troger. In pochi mesi tre omicidi si erano succeduti e avevano portato gli inquirenti a sospettare dell'esistenza del "mostro" di Bolzano. Ma non era finita. Sette anni prima infatti altri due delitti erano stati compiuti con modalità simili. Il primo risale al 3 gennaio 1985, quando il corpo della 15enne Marcella Casagrande venne ritrovato in casa, in un lago di sangue. Quel giorno, Marcella era andata dai nonni a pranzo dopo la scuola ed era poi rientrata a casa nel pomeriggio, dopo le 15. La madre sarebbe tornata dal lavoro meno di un'ora dopo. Fu proprio lei a trovarla, non appena aprì la porta dell'appartamento. L'assassino l'aveva uccisa a coltellate: ne vennero individuate 21, prevalentemente alla testa e all'addome. Le mutandine della ragazza erano state tagliuzzate, ma non c'era stata violenza. Accanto al corpo, c'era un teleobiettivo di una macchina fotografica, dettaglio che si rivelò fondamentale per collegare Marcella al "mostro". Bergamo infatti era appassionato di macchine fotografiche e si recava spesso al negozio vicino a casa della ragazza. Fu ancora Rispoli che, interrogando Bergamo, raccolse la sua confessione per l'omicidio della 15enne: "Ammetto di essere responsabile dell'omicidio di Casagrande Marcella", disse Marco Bergamo. E raccontò di essersi recato a casa di Marcella intorno alle 14.30 di quel 3 gennaio. Parlando di fotografia, la ragazza avrebbe fatto vedere al suo assassino un obiettivo fotografico. Poi, dopo una telefonata con un'amica, Marcella aveva chiesto a Marco di andare via, spingendolo verso la porta: "Ho perso il controllo - si legge nel verbale riportato da Cagnan - ed ho tirato fuori dalla tasca dei pantaloni il coltello a scatto". Fu a quel punto che Bergamo inizio a colpire la ragazza. Il secondo delitto attribuito al "mostro" di Bolzano risale al 26 giugno 1985. Annamaria Cipolletti, ex insegnante 41enne era stata ritrovata morta in un appartamento dove si recava per ricevere i clienti. Annamaria infatti aveva una doppia identità: era anche Mirella, una prostituta che riceveva su appuntamento proprio in quell'appartamento. Venne trovata sdraiata sul letto in un lago di sangue. Anche lei uccisa a coltellate, 19 questa volta, tutte all'altezza del torace a esclusione di una alle spalle, forse la prima. Nonostante i punti in comune con gli altri omicidi, il procuratore non riuscì a far confessare Bergamo, che si professò sempre innocente in relazione al delitto Cipolletti. Tra i primi due delitti e quelli successivi ci fu una pausa di sette anni: "Si tratta del cosiddetto cooling off - ha spiegato l'esperta - ovvero di un periodo di raffreddamento o scarico emozionale, in cui il serial killer si astiene dalla commissione di altri delitti. Può essere un periodo di durata variabile a cui fa seguito il nuovo imporsi di un’altra fantasia sadica, di una fase di progettazione, di identificazione della vittima, di appostamento, di pedinamento, cattura, morte". Nel caso del "mostro" di Bergamo, la pausa potrebbe essere stata dovuta da fattori esterni: "Pare che i genitori, assaliti da dubbi e sensi di colpa, avessero sottoposto il figlio a un serrato controllo in casa".
La paura delle donne. Gli inquirenti indagarono a lungo anche sulla personalità di Marco Bergamo, che fin da ragazzo aveva dovuto fare i conti con diversi problemi di salute, dall'obesità a una malattia della pelle, fino all'asportazione di un testicolo. Nessuna fidanzata, nessun amico. Una collezione di riviste pornografiche e una di coltelli. Alcuni testimoni lo avevano visto masturbarsi alla finestra e, in qualche caso, era sparita della biancheria intima femminile dagli stendini del palazzo in cui Bergamo abitava. Una prostituta aveva dichiarato di conoscere l'uomo come suo cliente: "Bergamo mi chiedeva solo di spogliarmi - disse, come riportato in 'Marco Bergamo. Tutta la verità sui delitti di Bolzano' - Gli bastava osservare la biancheria intima che indossavo. Mentre mi spogliavo, lui si toccava i genitali e restava lì a guardarmi". Dalle perizie emerse un timore e un odio profondo verso le donne, vittime privilegiate del "mostro" di Bolzano, su cui riversava i suoi sentimenti. "La specificità delle vittime, ovvero donne e prevalentemente prostitute, parla di un odio profondo del Bergamo nei confronti delle donne - ha spiegato la criminologa Capozza - sentimento criminologicamente correlato con un rapporto disfunzionale in primis con la propria madre, che rappresenta il prototipo della figura femminile. La cronaca ricostruisce un'infanzia difficile di Bergamo, condita da ritardo nell’apprendimento del linguaggio, disturbi alimentari e un progressivo senso di introversione, solitudine ed estraneità dal mondo. Il disagio psichico vissuto alimenta una rabbia devastante, che prende la forma di pseudo-risoluzione in una modalità fortemente sadica di relazione con la donna. Le possibili esperienze sessuali o sentimentali fallimentari acuiscono il senso di inadeguatezza e impotenza esperiti, aggravati dall’asportazione di un testicolo a causa di un tumore che segna negativamente l’immagine che Bergamo ha di se stesso e della propria virilità. Il rifiuto o lo scherno, reale o immaginario, sperimentato nelle sue esperienze pregresse e nei contatti con le vittime, rappresentano la goccia che fa traboccare il vaso del disagio, trasformando Marco Bergamo in un assassino seriale". Ma, nonostante questo sentimento nei confronti delle donne, il "mostro" non violentò mai le sue vittime. La donna infatti oltre a suscitare in lui odio, rappresentava anche "la paura di non essere all'altezza, come diceva lo stesso". Inoltre, come spiega la criminologa Capozza, "non violentare le sue vittime rappresentava un modo per proteggersi dalla paura o dalla reale constatazione di non riuscire a completare l’atto sessuale, rischio che avrebbe ancor più acuito il senso di disagio, impotenza, frustrazione e rabbia, poiché ritenuto altamente lesivo dell’immagine di sé come uomo. Ucciderle invece rappresentava la modalità più forte, totalizzante, sicura e definitiva di possedere la donna".
La "battaglia" delle perizie. Una volta individuato il serial killer, si pose il problema di stabilire la presenza o meno della capacità di intendere e di volere al momento dei delitti. Venne chiamato Francesco Introna, direttore dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Padova, che a fine febbraio del 1993 consegnò la sua perizia, nel quale evidenziava l'incapacità di intendere e di volere di Bergamo, riconoscendo anche un disturbo sessuale e un odio verso le donne. Al contrario, Enzo Conciatore, nominato dall'accusa per un'ulteriore perizia, considerava il killer capace di intendere e di volere e quindi pienamente imputabile. Secondo il perito, i delitti compiuti dal "mostro" sarebbero stati una forma di "sadismo sessuale", che avrebbero rappresentato una forma di "omicidi per libidine". Sarebbero state false anche le amnesie legate ad alcuni omicidi. Il black out, ha chiarito la criminologa Capozza, è una "rimozione, ovvero un preciso meccanismo intrapsichico di difesa, volto a tutelare il soggetto dalla consapevolezza di esperienze inaccettabili altamente dolorose e traumatiche". Ma in un caso come quello del "mostro" di Bolzano, "vista la serialità e brutalità degli omicidi che si perpetuano con il medesimo modus operandi, appare poco probabile l’attivazione di tale meccanismo". Nel giugno del 1993 il sostituto procuratore Guido Rispoli chiese il rinvio a giudizio di Bergamo per i cinque omicidi di Marika Zorzi, Renate Rauch, Renate Troger, Marcella Casagrande e Annamaria Cipolletti. Tre i casi per i quali c'era la confessione dell'assassino, diversi gli elementi che accomunavano i delitti e le prove a carico di Bergamo, dalle perizie alle modalità degli assassinii, fino alle macchie di sangue e alle incongruenze nei racconti. Così il giudice accolse la richiesta e il 27 settembre 1993 iniziò il processo con la prima udienza, riportata dall'Unità del tempo, durante la quale vennero esposte le due perizie contenenti due tesi completamente discordi. Venne quindi chiesto un terzo parere, che il giudice affidò a tre esperti: Francesco Bruno, Ugo Fornari e Gianluigi Ponti. Al termine delle proprie considerazioni, i tre esperti conclusero che Bergamo non aveva "nessuna infermità mentale" e per questo era consapevole delle proprie azioni, anche al momento degli omicidi. "Bergamo è giunto alla perversione estrema: l'omicidio per godimento - si legge nel testo del documento, riportato da Cagnan - Dopo il primo assassinio ha scoperto che uccidendo appagava il suo piacere e nello stesso tempo distruggeva l'oggetto temuto e odiato: la donna". Così l'8 marzo 1994, nel giorno della festa della donna, la Corte d'Assise di Bolzano dichiarò Marco Bergamo colpevole per tutti e cinque i delitti a lui attribuiti, e venne condannato all'ergastolo, con un isolamento diurno di 3 anni. Esclusa la premeditazione per il delitto Casagrande. Per questo Bergamo venne condannato a quattro ergastoli e 30 anni di carcere. Successivamente, nel 2014, il tribunale respinse la sua richiesta di essere giudicato con il rito abbreviato, possibilità non permessa all'epoca dei delitti. Ma, secondo la Corte, Bergamo non aveva diritto al rito abbreviato dato che questa modalità di giudizio non era prevista per reati che avessero come pena l'ergastolo. L'impossibilità della riduzione della pena venne confermata anche dalla Cassazione. Bergamo tentò anche la strada della revisione del processo, come rese noto l'Ansa, annunciando di voler ritrattare una delle confessioni rilasciate agli inquirenti all'epoca dell'arresto. Qualche anno dopo, nel 2017, il "mostro" di Bolzano morì, dopo essere stato ricoverato qualche giorno in ospedale a causa di una malattia polmonare. Dal giorno del suo arresto rimase sempre in carcere. Mai un segno di pentimento. Sarebbe stata possibile, allora, una riabilitazione? "La rieducazione di un serial killer rappresenta l’esito di un percorso di riabilitazione psicosociale impegnativo e lungo, in cui il riconoscimento del disvalore etico e sociale delle azioni devianti, la resipiscenza, la revisione critica del proprio operato criminoso risultano centrali e basarsi su una motivazione intrinseca al cambiamento - ha rivelato la criminologa Capozza - In Bergamo non vi era traccia di questi elementi, neanche di un pentimento, sino al giorno del decesso".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
· Il Mistero della morte di Luigi Tenco.
Orietta Berti, ciò che non aveva mai rivelato su Luigi Tenco: "Non si è suicidato. Poche ore prima di morire...", un terremoto. Libero Quotidiano il 23 aprile 2021. "Tenco non si è suicidato. Sarà sempre una parte nera della mia carriera": Orietta Berti, intervistata su TV8 a Permesso Maisano, ha ripercorso l’edizione del 1967 del Festival di Sanremo, edizione travolta dalla morte del cantautore piemontese. Nel biglietto di addio, Luigi Tenco fece riferimento proprio alla canzone di Orietta “Io, tu e le rose”, che il pubblico aveva mandato in finale, escludendo di fatto la sua. La Berti, però, ha spiegato che nelle ore precedenti alla morte, Tenco non criticò mai la sua canzone: "Nel pomeriggio dopo aver fatto le prove, non mi sembrava turbato, siamo andati anche a mangiare. Il maestro Pataccini era con noi e mi ha detto "che bella questa canzone così semplice", ma lui era lì e non ha detto niente". Orietta Berti ha ammesso che quel periodo della sua vita l'ha segnata in maniera particolare: "Per me è stata una tragedia che non ho più rimosso. Questo rimorso io ce l’avrò per tutta la vita. Quel periodo lì non lo dimenticherò mai, sarà sempre una parte nera della mia carriera finché non verrà fuori la verità, se verrà fuori". Il caso Tenco, infatti, all'epoca venne archiviato come suicidio. Ma la cantante ha qualche dubbio a riguardo. "Io non ho mai creduto al suicidio. Mi ha chiamata il fratello dicendomi 'Signora immagino in che stato sia, ma quella non è la calligrafia di mio fratello'", ha rivelato Orietta. Stando al racconto della Berti, non solo il fratello di Tenco sostenne quella teoria, anche un amico del cantautore - Sandro Ciotti - le disse: "Orietta, non ha scritto Luigi quel biglietto, ci sono tre errori di ortografia che lui non avrebbe mai fatto".
Il poeta dalle mille parole. Luigi Tenco ha rivoluzionato il linguaggio della musica italiana. Carlo Massarini Il Quotidiano del Sud il 13 novembre 2021. L’artista cresciuto a Genova (ma nato in Piemonte) è stato un cantante tenebroso, malinconico, introverso, solitario, ma in un periodo di transizione per la canzone del nostro paese si è imposto come una delle voci più iconiche della sua generazione. Read&Listen. La storia di Luigi Tenco è inevitabilmente, ma anche ingannevolmente, legata all’episodio che pone fine alla sua vita la notte dell’ultima serata del Festival di Saremo, il 27 gennaio 1967. Un suicidio di cui molto è stato detto e investigato, che pone brutalmente fine anche a un percorso artistico brevissimo, sette anni appena, e che sicuramente molto avrebbe potuto dare. Ma la tragedia purtroppo monopolizza l’attenzione, e altera anche la percezione del suo talento, della sua carica innovativa, non aiuta a chiarire la sua complessa personalità.
In una scena italiana in transizione, dove la più trita musica leggera non ha ancora ceduto definitivamente il passo alla rivoluzione della canzone d’autore che maturerà alla fine del decennio, Tenco è una parte di quella pattuglia di autori e cantanti – la parola-sintesi cantautore è ancora poco usata – che da Genova e Milano sta rivoluzionando il linguaggio della musica italiana.
Genova in particolare, porto di mare, luogo di transito di culture e informazioni, riceve input molto diversi, che nel giovane Luigi si ritrovano tutti: da una parte il jazz e il r’n’r americano, la poesia beat, dall’altra la chanson francese, e con essa anche l’esistenzialismo e i poeti maudit Rimbaud e Verlaine, ma anche Cesare Pavese e la musica brasiliana.
La città sembra il melting pot nel quale si sta reinventando – più ancora della musica in sé, ancora abbastanza tradizionale – la poetica espressiva. All’inizio degli anni ‘60 Umberto Bindi, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Fabrizio De André, stanno usando parole e proponendo atteggiamenti di rottura rispetto a quello che c’è ancora nell’aria, alla radio, alla neonata televisione.
Ci sono anche i due fratelli Reverberi, Gian Piero e Gianfranco, che mette in musica o arrangia la maggior parte dei brani, e quando si trasferisce a Milano, il gruppo lo segue compatto: vivono nella stessa pensione, pesto e cima nell’abituale ristorante genovese, stesse frequentazioni, presenti l’uno nei primi dischi degli altri.
Stessi locali, dove si integrano con il gruppo dei “milanesi” Gaber e Jannacci, Ricky Gianco, ci sono anche l’istriano Sergio Endrigo e il toscano Piero Ciampi. Talento in sovrabbondanza.
Paoli dice che «Genova ha una personalità così forte da influenzare tutto quello che viene da lì. Quello che ci ha accomunato veramente è stato il linguaggio. Ognuno aveva i suoi temi da sviluppare e ci teneva alla sua identità, anche se ci influenzavamo reciprocamente. Però se tu prendi una canzone di Luigi e la metti in bocca a me o viceversa ci sta benissimo, perché il linguaggio espressivo è lo stesso. Quello che è strano è che in un gruppo di amici è raro trovare ben quattro o cinque persone con una individualità così precisa».
Se ascolti “Tra Tanta Gente”, musica di Ennio Morricone, sembra davvero una canzone di Paoli cantata da Tenco.
Luigi Tenco non è genovese purosangue, sul mare c’è arrivato a dieci anni al seguito della madre e del fratello partendo da Ricaldone, nel Monferrato. Non è nato guardando il mare e il blu, ma il verde e il marrone della collina, quella che in una canzone definirà «la mia valle», le radici a cui si augura di tornare, dove la gente è genuina, «lavora i campi dalla mattina alla sera/senza problemi per il vestire e con la barba sempre da fare».
La madre Teresa, donna forte e d’azione, si è trasferita con Luigi e il fratello maggiore Valentino alla Foce, dove ha aperto un’enoteca forse anche per allontanarsi dai pettegolezzi che vogliono il ragazzo figlio non del marito Giuseppe Tenco, da cui lei si era già separata e morto prima della nascita di Luigi, ma dal figlio sedicenne della famiglia presso la quale lavorava.
Lo shock per il ragazzo, che lo è venuto a sapere dopo diversi anni, non dev’esser stato leggero. Ma gli artisti con cui fa gruppo a Genova non lo descrivono necessariamente come il ritratto che sarebbe fuoriuscito in seguito, condizionato appunto dalla sua tragica fine. Anzi. Bruno Lauzi “In una città abbastanza conservatrice” lo definisce «una boccata d’aria fresca, curioso, simpatico e ridente, voglioso di apprendere, innamorato dei musical americani».
Gino Paoli, in una chiacchierata pubblica raccolta in un volume indispensabile per andare a fondo sull’uomo e sull’artista Tenco, “Il Mio Posto Nel Mondo” (curato da Enrico de Angelis, Enrico Deregibus e Sergio Secondiniano Sacchi, ed. BUR), lo dice apertamente: «La peggiore cosa che può succedere a un uomo è diventare un mito. Perché diventa equivoco tutto quello che si dice su di te. Non solo, cambia anche la tua personalità a man mano che se ne parla. La tua identità diventa qualcosa che chi ti ha conosciuto e frequentato per anni stenta a riconoscere. Luigi non era assolutamente una persona cupa, triste, introversa, non è vero niente. Era una persona allegra, con voglia di scherzare, di far casino, e credo che se un giovane di adesso si riconosce ancora in lui è proprio perché era un giovane qualunque. L’unico tratto diverso dagli altri giovani era il suo essere ribelle, come può esserlo qualsiasi ragazzo di vent’anni un po’ sveglio…un ragazzo ribelle, un po’ matto, con la voglia di piantare beghe da tutte le parti».
È un ritratto un po’ diverso dal luogo comune di Tenco come cantante tenebroso, malinconico, introverso, solitario. Certo, come lui amava dire «se sono di buon umore non scrivo canzoni, vado a farmi un giro», e questo è altrettanto vero della buona parte dei cantautori a cui la mia generazione si è affezionata, da Jackson a Cohen, soprattutto nei loro anni giovanili.
Gli struggimenti sentimentali, le asperità della vita, soprattutto da giovani, evidentemente lasciano il segno ancora di più, sono materia migliore per una canzone. Fatto sta che i classici di Tenco sono quasi tutti su questa falsariga, ma se si scorre lungo tutta la sua produzione, peraltro parecchio discontinua, fatta di alti e bassi non da poco, si scopre che di Tenco non c’è solo il cantore dello spleen esistenziale: ci sono canzoni che con un termine di allora si potrebbero definire di protesta, ci sono canzoni sociali e politiche, come anche canzoni ironiche, per esempio la “Ballata Sulla Moda”, una delle canzoni che la Rai – riammettendolo nel ’64 dopo due anni di censura – gli chiede per le otto puntate de “La Comare”, satira di costume e sul consumismo.
Ci sono quelle in cui definisce il (suo) ruolo dell’artista nella società, come “Io Sono Uno” e “Ballata dell’Arte”. E, al di là dei brani un po’ in stile della chanson, ci sono sonorità beat e jazzate, filastrocche e ballate folk. Molte di queste ora suonano – nei testi e nella musica – ingenue, acerbe, incomplete, ma nel suo canzoniere c’è una varietà che fa pensare alla voglia di aprire strade nuove, diverse, e di farlo dal nulla, come a creare un genere nuovo.
Questo un po’ per le tante influenze che in quel periodo circolavano nel suo gruppo di amici e di arrangiatori – valga per tutti Giampiero Boneschi che veniva dal jazz – ma anche perché Tenco è uno a cui piace cercare, sperimentare, usare stili diversi per raccontarsi: per cercare una sua identità, per capire cosa funzioni e cosa no per il pubblico, e molto anche per le sue origini.
Non nasce come “cantautore”, i suoi primi passi li fa come suonatore di clarinetto e sax in gruppi di vaga impronta jazzistica – nei Modern Jazz Group suonava anche il giovane De André alla chitarra elettrica (!) – lo strumento per comporre non è la chitarra ma il pianoforte, insomma non è un cantastorie, non ha quello stile a ballata che condizionerà tanti, De André e Guccini in testa, ma piuttosto e addirittura un crooner, un Nat King Cole all’italiana, ascoltate “Averti Fra le Braccia”.
Bisogna anche ricordarsi che lo stile musicale degli anni ‘50 da cui si sta uscendo è la cosiddetta musica leggera, con arrangiamenti molto tradizionali, orchestra dietro, cori femminili e sezioni d’archi, la rivoluzione dell’ecletticità del rock è ancora lontana. Anzi, il rimorso di non averne visto lo sviluppo negli anni ‘70 è proprio una crescita interrotta prima che lui si possa affacciare su qualcosa di diverso.
Tenco poi è un grande cantante, la sua maniera di arrotare le sillabe, di scandire le parole molto simile a quella dell’amico appena più giovane De André, una voce profonda da far vibrare i woofer – ascoltate “Quando” – sempre perfettamente intonata, capace di toccare corde emotive fuori del comune; oppure capace, come su “Io sono Uno” di usare con naturalezza un registro alto, potente e trascinante.
In quella chiacchierata a più voci del 2007 su “Il Mio Posto Nel Mondo”, Gianfranco Reverberi ricorda che «stiamo parliamo di uno che è stato veramente grande. Me ne sono reso conto anche recentemente, ascoltando uno di quei dischi di allora, di quelli che allora ci facevano ridere, che facevamo perché a noi piaceva cosi, anche se non vendevano, e quella a ben pensarci è stata la nostra forza. In quel disco ho sentito delle cose cantate da Luigi che bastano a farlo considerare un grandissimo cantante. Lui cantava come suonava il sax, con le inflessioni giuste, con il crescendo nel punto giusto, con una musicalità unica. Sono anni che non sento un cantante cantare così».
Ma la cosa forse più interessante di Tenco, guardando il suo percorso e rileggendo i racconti di chi c’era allora, è la dualità mai risolta – anche qui chissà come sarebbe andata, perché è chiaro che il successo prima o poi sarebbe arrivato, e grande – fra la sua natura e le sue aspirazioni. Fra arte e successo.
Da una parte c’è una grande fedeltà a sé stesso, alla propria sensibilità, a quello in cui credeva, e una distanza sospettosa nei confronti dell’industria e dei meccanismi – primordiali, allora, ma c’erano – dello show business.
Sempre Reverberi: «Luigi, fondamentalmente, era uno molto pulito, era uno che si commuoveva se succedeva qualcosa di grave anche a tremila chilometri di distanza. Secondo lui il mondo doveva essere fatto in una certa maniera e poiché questa maniera, in un certo periodo, coincideva con quello che diceva Marx, lui era vicino a Marx. Scriveva delle cose in un momento in cui non andava a vantaggio suo scriverle, perché significava mettersi dall’altra parte e, tanto per cominciare, essere bocciato in Rai. Però lui queste cose le faceva lo stesso perché ci credeva».
Ci voleva onestà intellettuale e coraggio per arrivare a essere censurato in Rai, allora l’unica fonte di visibilità. La morale di allora era bacchettona, non accettava trasgressioni e censurava cose che ora sembrano innocue, pratica poi continuata negli anni 70 con i cantautori tutti. Essere contro non era ancora popolare come è stato dopo, o com’è adesso con tante vie di comunicazione alternative. Ma Tenco se voleva dire una cosa, la diceva, non c’erano tanti spazi di mediazione. Era un ragazzo, a detta di tutti, con una grande sensibilità, perfino esagerata, uno per cui le cose negative erano terribili e quelle positive entusiasmanti.
Dall’altra parte non era uno che viveva nella sua torre d’avorio, non era il poeta che si accontenta di sé stesso e dei pochi che lo vogliono ascoltare. Era uno che al grande pubblico voleva arrivare, uno che il successo – magari alle sue condizioni – però lo inseguiva, forse anche perché era quello che vendeva meno dischi di tutta la nidiata di amici con i quali aveva condiviso il percorso. E questa è una bella motivazione. Da cui poi l’arrivo al Festival di Sanremo.
Sapeva che sarebbe stato funzionale a questo, anche se forse ne aveva sottovalutato i rischi, come gli aveva detto il patron della sua seconda Casa discografica, la Saar, quando Tenco gli aveva chiesto di sciogliere il contratto per andare alla grande RCA, con tutte le garanzie di crescita professionale e soprattutto promozionale.
Ma questo sarebbe successo alla fine del racconto. Gli inizi sono molto più incerti, anche se le idee ce le ha chiare da subito. Si iscrive a Ingegneria Elettronica per compiacere mamma Teresa, ma molla dopo due esami, vuole fare musica. I primi dischi chiede di pubblicarli con uno pseudonimo perché non vuol rovinarsi la nomea a Scienze Politiche e al Partito Socialista, da cui l’essere – come molti contestatori di sinistra – schedato dal SIFAR.
In quei primi 45 giri c’è un po’ di tutto, dal r’n’r di “Vorrei Sapere perché” al foxtrot di “Mi Chiedi Solo Amore” a “Mai” coi suoi coretti doo wop. Poi nel 1960 esce “Quando” e, come racconta Reverberi, a modo suo è un successo per tanti, tranne che per lui: «Aveva scritto una canzone stupenda, a casa mia, che si chiamava “Quando”. La canzone uscì e non sortì assolutamente niente. A quei tempi però gli editori sapevano lavorare, così la canzone fu stampata e mandata a tutte le orchestrine italiane, e tutte le orchestrine la adottarono perché era una canzone che funzionava, specie nel night. Nel giro di due tre mesi tutta l’Italia cantava “Quando”. Luigi era incazzato come una bestia, perché tutti conoscevano “Quando” ma nessuno sapeva chi era lui».
Nel 1962 viene chiamato da Luciano Salce per la parte di protagonista ne “La Cuccagna”, in cui canta “La Ballata dell’Eroe”, canzone anti-militarista dell’amico De André, una prima prova forse acerba su un tema che entrambi toccheranno in maniera più matura successivamente. Nel 1962 esce “Luigi Tenco”, il suo primo album per la Ricordi, inevitabilmente visto che Nanni Ricordi era stato il riferimento di tutto il gruppo dei genovesi.
Ci sono almeno tre canzoni importanti, che fanno anche capire la direzione presa, fatta di rottura degli schemi. La prima ha una musica meravigliosa (il clip è preso da “La Cuccagna”, Luigi al fianco di Donatella Turri):
«Mi sono innamorato di te
Perché non avevo niente da fare
Il giorno volevo qualcuno da incontrare
La notte volevo qualcosa da sognare
Mi sono innamorato di te
Perché non potevo più stare solo
Il giorno volevo parlare dei miei sogni
La notte parlare d’amore
Ed ora che avrei mille cose da fare
Io sento i miei sogni svanire
Ma non so più pensare
A nient’altro che a te
Mi sono innamorato di te
E adesso non so neppur io cosa fare
Il giorno mi pento d’averti incontrata
La notte ti vengo a cercare».
Forse 60 anni dopo potrà sembrare poca cosa, magari anche un trapper oggi potrebbe cantare con l’autotune che si è innamorato perché non c’aveva nulla di meglio da postare sui social, ma nel ’62 un testo così rompe lo schema della canzone d’amore, della rima baciata manieristica che convoglia l’illusione romantica. E’ anche un testo di un’onestà disarmante. Riporta sulla terra il rapporto di coppia. L’ho fatto per noia, e ora sono prigioniero, guarda la vita.
“Mi sono innamorato di te / perché non avevo niente da fare” per me è uno dei versi più belli del Novecento: l’amore come attività hobbistica per flâneurs”, gli oziosi gentiluomini di Baudelaire, ha scritto un altro genovese famoso e tagliente, Antonio Ricci: «Nella stessa situazione, anni dopo, Gaber si sarebbe fatto uno shampoo».
Ornella Vanoni ne farà una cover famosa, lei era l’interprete perfetta per Luigi, entrambi così veri, così sofferti e sfrontati, e la sua versione al femminile dell’innamorarsi «perché non avevo niente da fare» è per certi versi ancor più di rottura.
Lo stesso desiderio di parità, segnale che la donna cominciava a diventare autonoma almeno nella penna degli autori più moderni, si trova anche in altre canzoni del 33: in “Una Brava Ragazza” e “Io Sì”, entrambe censurate in Rai, parla di una ragazza ideale come addirittura quella che un uomo “dabbene” non sposerebbe mai.
Poi c’è “Angela”, un’altra iniezione di quotidianità, di sentimenti vissuti, non idealizzati, raccontati in modo crudo, doloroso, quasi disperato: qui si parla di una ragazza (reale, corteggiamento condiviso con Paoli, ognuno a dedicarle una canzone) capace di mollare lei, senza subire l’iniziativa maschile. Di ribellarsi, e vendicarsi, in un power play assolutamente irrituale per il tempo.
«Angela, Angela, angelo mio
Quando t’ho detto che voglio andarmene
Volevo solo vederti piangere
Perché mi piace farti soffrire
Volevo farti piangere
Vedere le tue lacrime
Sentire che il tuo cuore
È nelle mie mani
Ma tu stasera invece di piangere
Guardi il mio viso in un modo strano
Come se fosse ormai lontano
Ti prego, Angela, no, non andartene
Non puoi lasciarmi quaggiù da solo
Non è possibile che tutto a un tratto
Io possa perderti, perdere tutto».
E poi c’è “Cara Maestra”, che a modo suo è davvero una canzone rivoluzionaria, anche se dal suo incedere a marcetta non si direbbe. C’è un ribaltamento totale: l’autorità scolastica, ecclesiastica, politica messe in discussione. Una critica, che anticipa quel ’68 che Tenco non riuscirà a vivere, di quel senso dell’autorità che Bennato dieci anni dopo, in un’epoca già molto diversa, con meno indignazione e più sarcasmo riprenderà su accenti rossiniani con “In Fila Per Tre”:
«Cara maestra
Un giorno m’insegnavi
Che a questo mondo noi
Noi siamo tutti uguali
Ma quando entrava in classe il direttore
Tu ci facevi alzare tutti in piedi
E quando entrava in classe il bidello
Ci permettevi di restar seduti
Mio buon curato
Dicevi che la chiesa
È la casa dei poveri
Della povera gente
Però hai rivestito la tua chiesa
Di tende d’oro e marmi colorati
Come può adesso un povero che entra
Sentirsi come fosse a casa sua
Egregio sindaco
Mi hanno detto che un giorno
Tu gridavi alla gente
Vincere o morire
Ora vorrei sapere come mai
Vinto non hai, eppure non sei morto
E al posto tuo è morta tanta gente
Che non voleva né vincere né morire».
È il Tenco che cerca la giustizia, che si offende nel vedere l’ingiustizia sociale, spirituale, politica rovesciata ogni giorno sui poveri cristi. Gli varrà una bella sospensione dalla Rai per ben due anni. De André ha detto: «Il dato più certo che emergeva dalle canzoni di Luigi, soprattutto da quelle a sfondo sociale e, per chi lo conosceva bene, anche dal suo comportamento e dai suoi discorsi, era una sorta di orrore per l’ingiustizia: di solito però questo disgusto per l’ingiustizia, soprattutto sociale, era accompagnato da una ferma volontà di cambiare le cose e questo secondo dato, sicuramente positivo, era quello che lo faceva agire, scrivere canzoni, lo sollevava da un certo pessimismo di fondo, lo confortava di un certo ottimismo».
È anche una canzone che faceva parte del repertorio live dei Rokes, insieme a una cover di “Masters of War” di Dylan. Shel ricorda: «Sono molto orgoglioso di questa scelta perché, a differenza di praticamente tutti allora, noi con il successo immenso che avevamo in quel momento guardavamo non alle canzoni che arrivavano dall’estero ma piuttosto alla qualità poetica e in qualche modo rivoluzionaria di un cantautore ancora poco conosciuto ma italianissimo e innovativo! Negli anni Sessanta, secondo me, Luigi e Fabrizio De André sono stati i primi veri cantautori italiani, a rappresentare davvero la beat generation, un punto di rottura narrativa, ma anche – ed è forse più importante – concettuale. Paoli, Endrigo, Lauzi e gli altri erano importanti, ma in loro si sentiva ancora la musica del decennio precedente, la cultura pre-beat generation».
Nel ‘65 per la Jolly/Saar esce il secondo album, “Luigi Tenco” (stesso titolo del primo, che fantasia), che si apre con la dolcissima “Ho Capito Che Ti Amo”, fulminante per sintesi nella sua semplicità testuale, e l’unica di cui esiste una sorta di videoclip:
«Ho capito che ti amo
quando ho visto che bastava
un tuo ritardo per sentir
svanire in me l’indifferenza
per temere che tu non venissi più
Ho capito che ti amo
quando ho visto che
bastava una tua frase
per far sì che una serata come un’altra
cominciasse per incanto a illuminarsi».
L’album contiene anche una delle sue canzoni più conosciute, e più toccanti: è un figlio che parla alla madre, cerca di rincuorarla, di condividere con lei la speranza di un cambiamento nella propria vita. È la storia di Luigi e di mamma Teresa a cui era legatissimo, lei che si preoccupa di quell’ambiente di buffoni, lui che la rassicura che un giorno arriverà una svolta.
È stato detto anche che potrebbe essere scritta per il fratello Valentino, uomo a cui la vita professionale non sembrava sorridere mai e la cui moglie lo accoglieva sempre con comprensione. In entrambi i casi è famiglia, e vale come segno di orgoglio, tenacia, e condivisione della speranza:
«Quando la sera me ne torno a casa
Non ho neanche voglia di parlare
Tu non guardarmi con quella tenerezza
Come fossi un bambino che ritorna deluso
Sì, lo so che questa non è certo la vita
Che ho sognato un giorno per noi
Vedrai, vedrai
Vedrai che cambierà
Forse non sarà domani
Ma un bel giorno cambierà
Vedrai, vedrai
Non son finito, sai
Non so dirti come e quando
Ma vedrai che cambierà
Preferirei sapere che piangi
Che mi rimproveri di averti delusa
E non vederti sempre così dolce
Accettare da me tutto quello che viene
Mi fa disperare il pensiero di te
E di me che non so darti di più
Vedrai, vedrai
Vedrai che cambierà
Forse non sarà domani
Ma un bel giorno cambierà».
Nel 1966 Luigi pubblica il terzo e ultimo album, “Tenco”. Ha scelto di trasferirsi a Roma, alla RCA, in quel momento la potente casa di quasi tutta la musica leggera italiana, da Gianni Morandi e Rita Pavone ai Rokes e Patty Pravo. Ha voglia di affermarsi, ha scritto e cantato canzoni stupende, ma alle vendite e al successo di pubblico non è ancora arrivato.
Ma ha capito che per arrivare a più persone bisogna comprendere e assecondare i meccanismi della comunicazione industriale.
In un dibattito pre-sessantottino al Beat ’72 nel novembre del ’66 Tenco è incalzato da Oreste Scalzone e un pubblico di aggressivi suoi contestatori che gli rinfacciano di fare canzoni di finta protesta con lo scopo di arricchirsi (servo del potere, insomma), a cui replica con una lucidità e una visione straordinaria: «Se dentro le canzoni ci metto delle idee, queste si trasmettono con le canzoni, ed è necessario che io trovi la maniera per farlo con gli stessi strumenti della società a cui mi rivolgo. Altrimenti è inutile. Da noi la protesta contro la guerra non prende nessuno, non abbiamo il Vietnam. Ma possiamo protestare contro il clericalismo, l’affarismo, la corruzione, la mancanza di una legge sul divorzio, il qualunquismo, la burocrazia. E questa protesta non viene mai fatta. Preferiamo scimmiottare le proteste americane, cosa facilissima perché non c’è nessuno che si senta pizzicato quando gli dici che è sbagliato morire, viva la pace eccetera. Parlagli del divorzio, della mafia e di altre faccende che scottano, e allora vedrai la gente che si arrabbia e ti dà addosso. Io ho preso una strada che mi sembra buona e non la mollo. Vorrei avere un pubblico sempre più grande, immenso, tutto quello che con i mezzi industriali di oggi è possibile raggiungere. Esprimere certi stati d’animo, di disagio, di insofferenza, di insoddisfazione è già anche questa una forma di protesta. Io faccio delle canzoni parlando di determinate cose alle quali credo. Per i soldi… un po’ ne ho già fatti e spero di farne, ancora di più, capisci, perché uno coi soldi si sente più tranquillo, più libero».
Paolo Dossena, il suo nuovo produttore alla RCA: «Certo, era un artista “sfigato” che aveva voglia di affermarsi. Voleva cambiare, voleva popolarità, voleva fare prodotti di un certo tipo. La prima cosa che fece con la RCA era la sigla televisiva del programma col commissario Maigret, “Un Giorno Dopo l’Altro”, però anche quell’operazione deluse sia Tenco che la RCA, perché non ebbe nessun riscontro commerciale».
La sigla iniziale di Maigret, un enorme successo tv nell’interpretazione del grande Gino Cervi, con il suo finale fischiettato partiva subito dopo Carosello, quando si era già in pigiama pronti per il letto. Incredibile come quelli che ora sono superclassici allora non sortissero il successo sperato.
Giorgio Calabrese, paroliere sopraffino, anche lui parte del gruppo dei genovesi, sottolinea un dettaglio: «Era una canzone che mi aveva colpito molto, soprattutto “La nave ha già lasciato il porto e dalla riva sembra un punto lontano/ Qualcuno anche questa sera torna deluso a casa piano piano. C’era dentro tutta la malinconia del mare guardato dalla Foce. Un mare che non è il tuo, ti rendi conto che è una realtà sulla quale altri viaggiano, vagano, ma di cui non fai parte. È il tuo paesaggio, il tuo panorama ma non è ancora la tua vita».
È un album, al di là del rifacimento di “Vedrai Vedrai”, pieno di altre canzoni significative, ognuna delle quali, modo suo, contro le convenzioni. “Uno Di Questi Giorni Ti Sposerò”, ironia dolceamara sul vincolo borghese del matrimonio di apparenza:
«Un giorno di questi ti sposerò, stai tranquilla
Così la smetterai di darmi il tuo amore col contagocce
Un giorno di questi ti sposerò, stai tranquilla
Così la smetterai di rinfacciarmi quello che dice il mondo
Un giorno di questi ti giurerò d’amarti sino all’ultimo giorno
Ma tu sai già benissimo che non si può sapere cosa sarà domani
Un giorno di questi ti sposerò, stai tranquilla
Così tu avrai diritto di avere quelle cose
Che adesso io ti do soltanto perché t’amo, anche l’amore…».
“Se Sapessi Come Fai” che ribalta la prospettiva di “Angela” e a soffrire adesso è lui:
«Se sapessi come fai
A fregartene così di me
Se potessi farlo anch’io
Ogni volta che tu giochi col nostro addio
Se sapessi come fai
A esser sempre così certa che io
Dico, dico ma alla fine
Vengo poi sempre a pregarti
Non andar via
Vorrei che per un giorno solo
Le parti si potessero invertire
Quel giorno ti farei soffrire
Come adesso soffro io».
“E Se Ci Diranno”, perfetto esempio di canzone beat di protesta, di quella che vale anche 50 anni dopo:
«E se ci diranno
Che per rifare il mondo
C’è un mucchio di gente
Da mandare a fondo
Noi che abbiamo troppe volte visto ammazzare
Per poi dire troppo tardi che è stato un errore
Noi risponderemo
No no no no no no no
E se ci diranno
Che nel mondo la gente
O la pensa in un modo
O non vale niente
Noi che non abbiam finito ancora di contare
Quelli che il fanatismo ha fatto eliminare
Noi risponderemo
No no no no no no no
E se ci diranno
Che è un gran traditore
Chi difende la gente
Di un altro colore
Noi che abbiamo visto gente con la pelle chiara
Fare cose di cui ci dovremmo vergognare
Noi risponderemo
No no no no no no no…».
“Lontano Lontano”, eulogia della nostalgia, del desiderio di rimanere vivi nella memoria:
«…E lontano, lontano nel mondo
Una sera sarai con un altro
E ad un tratto, chissà come e perché
Ti troverai a parlargli di me
Di un amore ormai troppo lontano».
Soprattutto il suono dell’album è una novità. Gli arrangiamenti affidati al maestro Ruggero Cini sono diversi da prima, meno da musica leggera, i suoni più robusti, guardano al mercato americano, in quel momento all’avanguardia nelle tecniche di registrazione.
Tenco fra l’altro immagina una sintesi che non avrà mai il tempo di esplorare e di cui “Ciao Amore Ciao” è quasi un prototipo: un disco di musiche popolari del nostro paese, ma inciso con suoni moderni, americani. «Bisognerebbe prendere melodie tipiche italiane e inserirle in un sound moderno, come fanno i negri con i rhythm and blues o come hanno fatto i Beatles che hanno dato un suono di oggi alle marcette scozzesi, invece di suonare con la zampogna. In Italia si è vittime del provincialismo perché sanno apprezzare solamente quello che viene dall’estero».
Uno dei produttori presi a modello è Phil Spector, l’inventore del wall of sound che aveva già sperimentato con le sue protette, le Ronettes, con i Righteous Brothers di “You’ve Lost That Lovin’ Feelin”, con Ike & Tina Turner in “River Deep, Mountain High”.
È il tipo di produzione che viene applicata a quel brano che Luigi ha scritto, “Li Vidi Tornare”, una canzone contro la guerra, in cui immagina una ragazza che vede i soldati sfilare per il fronte.
È una canzone troppo forte per Sanremo, Tenco si convince o viene convinto a cambiarne il testo. Pensa allora, in stile pasoliniano, di parlare dello spaesamento dell’uomo del Sud di fronte al progresso e all’emigrazione, tema forte dell’Italia degli anni ‘60, sintetizzata in una frase fra le più geniali della nostra canzone d’autore, «Saltare cent’anni in un giorno solo/Dai carri dei campi agli aerei nel cielo».
Del resto Tenco il dono della sintesi e del visuale ce l’ha, fortissimo. La sera prima di partire per Sanremo, con Sergio Bardotti – paroliere anche lui di altissimo lignaggio, poi anche artefice della traduzione dei classici brasiliani – mette giù due righe di testo per la cover scelta per una delle nuove band inglesi d’importazione, Mal & the Primitives, “Yeeeh”: «I tuoi occhi sono fari abbaglianti/ e io ci sono davanti», un flash spettacolare. Partirà per il Festival senza neanche il tempo di firmare il bollettino SIAE.
A differenza di quello che pensan molti, Dossena incluso, “Ciao Amore Ciao” per me è una canzone sensazionale, ha tutto: un testo bellissimo, un ritornello indimenticabile, un’interpretazione densa ed emotiva, una produzione “alla Spector” gonfia di suono e potentissima:
«La solita strada, bianca come il sale
Il grano da crescere, I campi da arare
Guardare ogni giorno
Se piove o c’è il sole
Per saper se domani
Si vive o si muore
E un bel giorno dire basta e andare via
Andare via lontano
A cercare un altro mondo
Dire addio al cortile
Andarsene sognando
E poi mille strade grigie come il fumo
In un mondo di luci sentirsi nessuno
Saltare cent’anni in un giorno solo
Dai carri dei campi
Agli aerei nel cielo
E non capirci niente e aver voglia di tornare da te
Ciao amore
Ciao amore, ciao amore ciao
Ciao amore
Ciao amore, ciao amore ciao
Non saper fare niente in un mondo che sa tutto
E non avere un soldo nemmeno per tornare
Ciao amore
Ciao amore, ciao amore ciao
Ciao amore
Ciao amore, ciao amore ciao».
Non ci sono le immagini televisive della sua esibizione, censura o quel che sia son sparite. 50 anni dopo è ricomparsa la registrazione radiofonica dell’Eurovisione.
Dicono che ha bevuto e preso psicofarmaci, che lo sguardo – quel poco di sguardo, perché la canta quasi tutta ad occhi chiusi, pugni serrati, il ritmo del canto ritardato – è lontano, assente. Il giorno dopo, Luigi Tenco non c’è più.
Certo, aveva ragione lui, maledette giurie che per decenni non han capito nulla a Sanremo, forse combinate, come molti sostenevano. Sicuramente allineate e impermeabili al cambiamento. Ma il vero delitto artistico è stato che oltre alla sua vita, quel ragazzo bello e dal volto adulto, «con qualcosa di enigmatico nello sguardo e nel sorriso» come diceva Shel, talentuosissimo e convinto del suo valore ma non temprato abbastanza da avere abbastanza pazienza, o almeno indifferenza, ha sottratto a sé e a tutti un pezzo di futuro dalla musica italiana.
Il suo amico fraterno Fabrizio al ritorno dal funerale gli dedica una instant song commovente che, come sarà tante volte dopo, ha una angolazione diversa da tutti. “Preghiera in Gennaio”, ispirata alla poesia di Francis Jammes “Prière pour aller au Paradis avec les ânes”, come sarà anche ne “La Buona Novella” con i Dieci Comandamenti, ribalta il senso religioso comune del suicidio, trasformando il peccato in pietà, il gesto estremo in metafora delle nostre mortali incomprensioni:
«Lascia che sia fiorito
Signore, il suo sentiero
Quando a te la sua anima
E al mondo la sua pelle
Dovrà riconsegnare
Quando verrà al tuo cielo
Là dove in pieno giorno
Risplendono le stelle
Quando attraverserà
L’ultimo vecchio ponte
Ai suicidi dirà
Baciandoli alla fronte
Venite in Paradiso
Là dove vado anch’io
Perché non c’è l’inferno
Nel mondo del buon Dio
Fate che giunga a Voi
Con le sue ossa stanche
Seguito da migliaia
Di quelle facce bianche
Fate che a voi ritorni
Fra i morti per oltraggio
Che al cielo ed alla terra
Mostrarono il coraggio
Signori benpensanti
Spero non vi dispiaccia
Se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
Soffocherà il singhiozzo
Di quelle labbra smorte
Che all’odio e all’ignoranza
Preferirono la morte
Dio di misericordia
Il tuo bel Paradiso
L’hai fatto soprattutto
Per chi non ha sorriso
Per quelli che han vissuto
Con la coscienza pura
L’inferno esiste solo
Per chi ne ha paura
Meglio di lui nessuno
Mai ti potrà indicare
Gli errori di noi tutti
Che puoi e vuoi salvare
Ascolta la sua voce
Che ormai canta nel vento
Dio di misericordia
Vedrai, sarai contento
Dio di misericordia
Vedrai, sarai contento».
È la prima canzone del primo album di inediti di De André. Un inizio simbolico, un passaggio di testimone, di compito, di scopo, per innalzare la canzone al ruolo di canzone d’autore. Luigi, “il poeta dalle mille parole”, non potrà partecipare fino in fondo a questo rinnovamento. Ha mostrato la strada, e di questo non possiamo che essergliene infinitamente grati, sempre e per sempre.
· Il Giallo di Attilio Manca.
Da "Oggi" il 19 maggio 2021. In un’intervista esclusiva al settimanale OGGI, in edicola da domani, la signora Angela, madre di Attilio Manca, il medico siciliano morto per overdose il 10 febbraio del 2004, spiega perché è sempre più convinta che suo figlio sia stato ucciso dalla mafia: «La pretesa pusher di Attilio è stata scagionata perché il fatto non sussiste. Quindi mio figlio non ha acquistato l’eroina da nessuno. Si tratta semmai di scoprire chi gliel’ha iniettata brutalmente… un dato è certo: ora il caso si riapre». Manca era un urologo all’avanguardia, fu costretto a operare in Francia il boss Provenzano, durante la sua latitanza. Era un testimone scomodo. «È stato un omicidio mascherato, non l’hanno saputa neppure architettare bene la loro messinscena», racconta Angela, che da 17 anni lotta per conoscere la verità sulla fine di Attilio. Sono tanti i particolari che non quadrano: «Mio figlio non si drogava. Inoltre i segni delle punture di eroina nel braccio sinistro sono incompatibili con il fatto che era mancino. Ho fiducia nella giustizia. Finché avrò vita combatterò».
Attilio Manca avrebbe operato il boss Bernardo Provenzano e per questo doveva morire. L’urologo, 34 anni, di Barcellona Pozzo di Gotto fu trovato morto l’11 febbraio 2004 nella sua casa di Viterbo. Luciana De Luca su Il Quotidiano del Sud il 12 aprile 2021. Depistaggi, insabbiamenti, pentiti non ritenuti attendibili o morti dopo aver parlato. La storia di Attilio Manca, il giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, trovato senza vita il 11 febbraio del 2004 nel suo appartamento di Viterbo, apparentemente ucciso da una overdose, è un vero e proprio mistero che, probabilmente, non si vuole risolvere. Ma la sua famiglia, con la madre Angela Gentile in testa, vuole capire cosa è successo veramente ad Attilio, ucciso due volte dice, perché oltre ad avergli rubato la vita, hanno anche tentato di macchiare la sua immagine. Dietro la tragica morte del brillante medico c’è l’ombra del boss Bernardo Provenzano e di un intervento chirurgico alla prostata eseguito nella clinica “La Ciotat” di Marsiglia al quale, probabilmente, avrebbe partecipato. «Attilio era come si vede nelle foto: gioioso, solare, allegro, molto intelligente ed ironico – spiega Angela -. Quando veniva a casa e ci intratteneva con qualche barzelletta, iniziava a ridere già prima di finire di raccontarla. Mio figlio era un ragazzo profondamente sensibile e i suoi occhi rivelavano tutti i suoi sentimenti, erano di un’espressività unica oltre che essere bellissimi, cangianti: andavano dall’azzurro al verde e qualche volta diventavano persino grigi. Io sono sempre stata il suo punto di riferimento fin da piccolino, mi raccontava tutto, avevamo una grande complicità: gioivo dei suoi successi e mi rattristavo quando gli capitava qualcosa di negativo. Anche da adulto, quando tornava da Roma, la mattina diceva al padre di preparare il caffè mentre lui si metteva con me nel letto per poter chiacchierare. Attilio mi telefonava anche due volte al giorno e addirittura lo faceva anche durante l’intervallo tra un paziente e l’altro». Angela ricorda di quando andava a parlare con gli insegnanti di Attilio e si trovava in fila con gli altri genitori. Lei si sentiva sempre in imbarazzo per ciò che si sentiva dire: il suo ragazzo, da alcuni professori, veniva indicato come il miglior studente avuto nella loro intera carriera scolastica e una di loro, con grande franchezza, ammise di avere quasi timore delle domande di Attilio. “Lui aveva una grande sete di conoscenza e coltivava molti interessi – continua Angela -. La sua cultura spaziava dalla letteratura alla chimica, era bravo in tutto. A 18 anni entrò all’università Cattolica di Roma e dopo essersi laureato in medicina entro al Policlinico Gemelli di Roma per specializzarsi in Urologia e l’ultimo anno lo fece a Parigi dove apprese quella maledetta tecnica chirurgica della laparoscopia”. Attilio, dopo la licenza liceale, era indeciso se frequentare la facoltà di ingegneria informatica o quella di medicina. Se non fosse riuscito ad entrare alla Cattolica, nei suoi piani c’era già l’idea di iscriversi all’università di Pisa. Ma, senza alcuna raccomandazione, fu preso al Sacro Cuore. Anche l’Urologia non era mai stata nei suoi pensieri, lui avrebbe voluto fare il neurochirurgo, ma quando presentò la domanda per la specializzazione, c’erano già molti colleghi in lista di attesa e avrebbe dovuto aspettare almeno tre anni per entrare. In Urologia, invece, c’era subito la disponibilità sia a Padova che a Roma, e Attilio scelse la sede più vicina a casa. “Quando Attilio fece il primo intervento con la nuova tecnica chirurgica acquisita a Parigi – continua Angela – aveva appena trent’anni. Lui era felicissimo del fatto che aveva portato la laparoscopia in Italia. E lavorò al Gemelli fino a due anni prima di essere ucciso. Mio marito e io andavamo a trovarlo spesso a Roma e un pomeriggio mi disse che c’erano dei concorsi per entrare in ospedale sia a Viterbo che a Collegno, in provincia di Torino, e che li avrebbe fatti entrambi. Anche questa volta risultò vincitore nelle due sedi e dovendo scegliere, purtroppo, decise per quella di Viterbo”. Angela parla di un tragico destino, di tanti pezzi che compongono un puzzle e che lentamente, sia per scelte fatte che per decisioni apparentemente banali, portano Attilio ad incrociare il destino di altre persone. Come quello di Bernardo Provenzano. “Nessuno di noi aveva mai saputo niente di Provenzano – spiega Angela -ma ricordo perfettamente che nel mese di ottobre del 2003 Attilio ci chiamò da Marsiglia e a mio marito disse che doveva assistere a un intervento chirurgico. Il padre, allora, visto che si trovava in Francia, lo invitò a visitare la Costa Azzurra ma lui rispose che era stato impegnato a lungo e che stava già tornando a casa. Attilio in quel periodo veniva chiamato da molti ospedali d’Italia per interventi chirurgici e la notizia che si trovasse in Francia, in noi non destò nessuna sorpresa. Quella telefonata, però, dopo la sua morte, sparì dai tabulati telefonici. Un altro elemento importante è questo: Attilio per la ricorrenza dei morti, scendeva sempre in Sicilia. Quell’anno non lo fece perché ci riferì che era tornato da poco da Marsiglia ed era ancora stanco. Infatti, venne da noi soltanto il 5 novembre. Su questo passaggio, di cui siamo certi, è stato detto il falso da parte di chi avrebbe dovuto indagare. Mio figlio in quei giorni risultava assente dall’ospedale e non il contrario, come è stato affermato”.
Le verità dei pentiti: Giuseppe Setola. Il primo che parlò dell’omicidio di Attilio Manca fu il casalese Giuseppe Setola. “Setola – si legge nella relazione della Commissione Antimafia – “riferì ai magistrati di aver appreso in carcere dal boss barcellonese Giuseppe Gullotti che il medico era stato assassinato dalla mafia dopo che era stato coinvolto nelle cure all’allora latitante Bernardo Provenzano”. Quando Attilio ritornò in Sicilia per le vacanze di Natale, ad Angela apparve strano, non usciva più di casa e preferiva passare le giornate a leggere nella sua stanza. Quando la madre gli chiese come mai non trascorreva del tempo con i suoi amici abituali, lui le rispose che con quelle persone non si trovava più bene e che non vedeva l’ora di ritornare a Viterbo per stare con i suoi colleghi. Angela vide del disagio in suo figlio ma lui non andò mai oltre queste affermazioni. Nella tragica fine di Attilio Manca, secondo quanto riferito da alcuni pentiti, gioca un ruolo importante anche un parente del giovane medico in odore di mafia, che nonostante si sia dichiarato sempre estraneo ai fatti, sembra, invece, abbia giocato un ruolo determinante nel creare un contatto con il boss dei boss. Attilio potrebbe essere stato ammazzato nel timore che rivelasse dettagli sulla latitanza di Provenzano che sarà arrestato due anni dopo. Le palesi contraddizioni in questo caso di presunto suicidio sono molte. Il primo riguarda un elemento mai preso in considerazione dagli investigatori ma che per i colleghi di Attilio e i suoi genitori Angela e Gioacchino è determinante: Attilio era mancino eppure i buchi degli aghi si trovavano sul polso e nel gomito sinistri. Il medico non usava mai la destra, come avrebbe, dunque, potuto iniettarsi l’eroina? Inoltre, sulla siringa non fu mai trovata nessuna impronta e l’immagine post mortem del giovane chirurgo, evidenzia con grande chiarezza che fu sottoposto a un pesante pestaggio che gli procurò persino la deviazione del setto nasale. “Io ed Attilio eravamo molto amici e ci frequentavamo anche fuori dall’ambiente ospedaliero – confermò il collega Massimo Fattorini – lui era mancino e nel suo lavoro utilizzava solo la sinistra, sia per scrivere che per svolgere ogni altra attività. A differenza di altri dottori mancini, che riescono ad utilizzare anche la destra, lui non poteva farlo perché era un mancino puro e quindi con la destra escludo che potesse fare dei movimenti precisi come quelli di farsi un’iniezione”.
Le verità dei pentiti: Lo Verso e D’Amico. Il pentito bagherese Stefano Lo Verso e il collaboratore di giustizia barcellonese Carmelo D’Amico che sentito sul conto di Rosario Pio Cattafi, ha dichiarato che Attilio Manca è stato assassinato dopo che, per interessamento di Cattafi e di un generale legato al circolo barcellonese Corda Fratres, era stato coinvolto nelle cure dell’allora latitante Provenzano. Manca era stato poi assassinato, con la subdola messinscena della morte per overdose, da esponenti dei servizi segreti e in particolare da un killer operante per conto di apparati deviati, le cui caratteristiche erano la mostruosità dell’aspetto e la provenienza calabrese. “I primi ad essere avvisati della morte di nostro figlio furono Ugo Manca e suo padre – spiega Angela -. Ugo, in particolare, riferì di aver avuto la notizia dal dottor Rizzotto, il primario di mio figlio. È lecito chiedersi come faceva Rizzotto ad avere il numero di Ugo Manca. E come mai non chiamò noi che eravamo i suoi genitori? Quando vennero a dirci che Attilio era morto si presentarono già con le prenotazioni aeree fatte. Io ero stata finanche estromessa dal viaggio. Il giorno dopo riuscirono anche a convincerci a non vedere il corpo di Attilio perché era meglio ricordarlo da vivo. E io da 17 anni vivo con il rimorso di non aver fatto l’ultima carezza a mio figlio. Io da madre avrei capito tante cose guardando il suo corpo”. Nella casa di Attilio Manca venne trovata una sola impronta, in bagno, ed era del cugino di Attilio, Ugo Manca, ospite pochi mesi prima. Alla famiglia venne detto che il medico era morto per un aneurisma e che la deviazione del setto nasale era stata determinata dalla caduta improvvisa di Attilio sul telecomando che si trovava sul letto. L’autopsia sul corpo di Attilio fu eseguita dalla dottoressa Ranalletta, moglie del primario dell’ospedale dove lavorava il giovane urologo e secondo la Commissione antimafia presieduta di Rosi Bindi, oltre ad essere lacunosa non avrebbe neanche verbalizzato i presenti. Le indagini imboccarono immediatamente la pista del suicidio per overdose perseguita in tre richieste di archiviazione e magistrati non si allontanarono da quell’ipotesi neanche dopo le dichiarazioni di sei pentiti di mafia che rivelarono il viaggio a Marsiglia di Provenzano e di un urologo siciliano che lo avrebbe operato. Un altro indizio strano riguarda il giorno prima della morte di Attilio. Il medico telefonò a sua madre per chiederle con urgenza, di far revisionare la sua motocicletta che si trovava a Barcellona, nella villa del mare. Angela si stupì di questa richiesta visto che ancora mancavano molti mesi per le vacanze estive e solo a posteriori si chiese se il figlio avesse voluto darle qualche messaggio. In effetti, tempo dopo si parlò di una presunta permanenza post operatoria di Provenzano a Tonnarella.
Le verità dei pentiti: Antonino Lo Giudice. Nella relazione Antimafia si legge: “Il collaboratore di giustizia calabrese Antonino Lo Giudice, il quale ha spiegato ai magistrati di aver appreso dall’ex poliziotto Giovanni Aiello che costui si era occupato, insieme ad altri delitti, anche dell’uccisione dell’urologo barcellonese Attilio Manca su incarico di tale “avvocato Potaffio” identificabile in Rosario Pio Cattafi”. Anche questa telefonata pare sia scomparsa dai tabulati telefonici. “Nell’ultimo giorno di vita di mio figlio c’è un vuoto di 28 ore – conclude Angela -. L’ultima telefonata l’avrebbe fatta alle 8 del 10 febbraio e poi di lui non si è più saputo nulla. Cosa ha fatto? Lo hanno portato in Sicilia per visitare Provenzano come qualcuno dice? Chissà se sapremo mai la verità. Ma finché sarò in vita non smetterò di cercarla”. Nel febbraio scorso è stata assolta Monica Mileti, l’infermiera amica di Attilio Manca accusata di aver ceduto la dose fatale di eroina all’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto. Cade così, definitivamente, la falsa pista della droga e della menzogna. La famiglia Manca da molti anni si batte per sapere la verità sulla morte del figlio. Accanto a loro gli avvocati Antonio Ingroia, Fabio Repici e tante associazioni e movimenti che chiedono venga fatta luce su questa pagina nera di storia italiana.
Le verità dei pentiti: chi è Faccia da mostro. L’ex poliziotto Giovanni Aiello, in servizio alla squadra mobile di Palermo fino al 1977, fu in seguito messo a riposo per motivi fisici. Molti collaboratori di giustizia lo accusarono di essere stato un vero e proprio killer di Stato, al servizio di apparati deviati e di organizzazioni mafiose palermitane, catanesi e calabresi. Sulla sua appartenenza al mondo dei servizi segreti, è stato lo stesso Aiello a fornire conferma nel corso di alcune conversazioni intercettate dall’autorità giudiziaria. Aiello è deceduto per un improvviso infarto sulla spiaggia di Montauro, nei pressi di Catanzaro, il 21 agosto 2017, mentre era indagato dalla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nel procedimento “’ndrangheta stragista”.
Attilio Manca, un'assoluzione rafforza la pista mafiosa: “Overdose indotta perché operò Provenzano”. Le iene News il 18 febbraio 2021. Assolta dopo la condanna in primo grado l’amica che gli avrebbe dato la dose fatale. Si rafforza 17 anni dopo l’ipotesi del delitto di mafia e dell’“overdose indotta” per la morte di Attilio Manca nel 2004. Il giovane e affermato medico avrebbe operato il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano durante la sua latitanza e sarebbe stato ucciso perché sapeva troppe cose. L’assoluzione di una donna, condannata in primo grado per la cessione della droga che l’avrebbe ucciso, rafforza la pista dell’omicidio di mafia per la morte di Attilio Manca. Parliamo del giovane e affermato medico che avrebbe operato il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano durante la sua latitanza e che è stato trovato morto misteriosamente nella sua casa a Viterbo nel 2004 per overdose di eroina. Noi de Le Iene ci siamo occupati di questo caso con Gaetano Pecoraro nel servizio che vedete qui sopra concentrandoci proprio sull’ipotesi di un’“overdose indotta” per coprire l’omicidio di mafia di un uomo che avrebbe saputo troppe cose sulla latitanza del boss. A Roma ora è stata appena assolta in Appello, perché “il fatto non sussiste”, Monica Mileti, la donna accusata della cessione dell’eroina che l’avrebbe ucciso. Si tratta di un’amica infermiera che era stata condannata in primo grado a 5 anni e 4 mesi. “Sono soddisfatto. La mia assistita era rimasta schiacciata in una storia in cui non c’entrava nulla”, ha dichiarato il suo avvocato Cesare Placanica. E il ribaltamento della sentenza, assieme al fatto che non è stato mai dimostrato che il medico si drogasse, rafforza, 17 anni dopo, l’ipotesi dell’omicidio per cui si sono battuti da sempre la famiglia di Manca e importanti esponenti della società civile che avevano portato il caso nel 2018 anche in commissione antimafia. Torniamo allora al febbraio 2004: Attilio Manca, noto urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), viene ritrovato morto a 34 anni in casa sua a Viterbo. Finora le inchieste hanno parlato di overdose di eroina unita a un mix di alcool e farmaci e il caso è stato archiviato come suicidio. “È stata un’overdose indotta, mio figlio è morto perché è stato ammazzato”, dice la madre Angelina a Gaetano Pecoraro. Secondo la versione della famiglia, Attilio è il medico italiano che nell’ottobre 2003 ha curato mentre era latitante il capo della Cupola Bernardo Provenzano (arrestato nel 2006 e morto nel 2016), quando si sarebbe operato alla prostata in un ospedale di Marsiglia. “Mio figlio in una telefonata mi disse che era a Marsiglia per un intervento”, racconta la madre alla Iena. Manca potrebbe anche aver operato Provenzano senza sapere che fosse il capo dei capi. Comunque sia, sarebbe stato un testimone scomodo di cui liberarsi. A legare la morte di Manca a quell’operazione sono state le testimonianze di alcuni pentiti ritenuti credibili, come quella di Giuseppe Campo: “A fine febbraio mi dissero che il medico era già stato ucciso e perciò non era più necessario il mio aiuto. Lo avevano eseguito ‘senza fare rumore’”. “Carmelo D’Amico ha detto che quello di Attilio Manca fu un omicidio”, ci ha spiegato il legale della famiglia. “Perché si era occupato delle cure a Bernardo Provenzano”. Secondo Giuseppe Campo, della morte di Manca si erano occupati il cugino Ugo Manca, a cui appartiene l’unica impronta palmare trovata in casa del medico, il mafioso Carmelo De Pasquale e una terza persona di cui diceva di non ricordare il nome. Ugo Manca ha detto di essere stato a casa del cugino qualche mese prima per essere curato dichiarando e allo stesso tempo di sapere che il cugino fosse eroinomane. Perché allora sarebbe andato a farsi curare da lui? Ci sono poi numerosi dubbi che avvolgono la scena in cui è stato trovato morto l’urologo siciliano, già molto noto nonostante la sua giovane età. Lo trovano una collega e una vicina di casa, disteso sul letto a pancia in giù con indosso la sola maglietta. Gli operatori del 118 intervenuti si accorgono anche che un testicolo era esageratamente gonfio e di lividi sul volto. I buchi attraverso cui Attilio si sarebbe iniettato la droga sono entrambi sul braccio sinistro. Sia i familiari che i colleghi però sostengono che Attilio fosse un mancino puro, che si sarebbe iniettato la droga dunque nell’altro braccio, nel caso. Inoltre, nella casa non c'erano gli strumenti usati di solito dai tossicodipendenti. “Non ho mai visto un’overdose così”, ci ha detto l’esperto tossicologo Salvatore Giancane. “Vogliamo verità e giustizia per la memoria di mio figlio”, chiede da 17 anni, e oggi con ancora più forza, mamma Angelina.
Fabrizio Peronaci per il "Corriere della Sera - Edizione Roma" il 17 febbraio 2021. Un medico affermato già a 34 anni, destinato a un luminoso avvenire nel campo dell'urologia, ma diventato tragicamente famoso per la sua fine: una morte avvolta nel mistero, con due aghi conficcati nel polso e nel gomito, il viso tumefatto e l'atroce sospetto di essere rimasto vittima di un'esecuzione di mafia. Il giallo di Attilio Manca, l'urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) trovato morto 17 anni fa a Viterbo, torna in primo piano: il Tribunale di Roma ha assolto in appello, perché «il fatto non sussiste», la donna accusata della cessione di eroina, Monica Mileti, che in primo grado era stata condannata a 5 anni e 4 mesi dai giudici del capoluogo della Tuscia. Un verdetto ribaltato, che rafforza lo scenario più agghiacciante, al quale hanno sempre creduto non solo la famiglia ma pezzi importanti della società civile, tanto che il caso Manca nel 2018 è stato affrontato dalla commissione Antimafia. Cosa accadde quella maledetta mattina dell'11 febbraio 2004 nell'abitazione viterbese del medico, che viveva da solo? L'ipotesi è quella di un omicidio compiuto tramite un'«overdose indotta», seguita da una messinscena, perché pochi mesi prima, come rivelato da alcuni pentiti, il dottore era stato segretamente in Francia per operare per un tumore alla prostata il boss Bernardo Provenzano, «Binnu 'u Tratturi». Una trasferta nata in seguito a contatti nella sua terra d'origine: in base a tale scenario, il dottor Manca (noto in Italia nonostante la giovane età per aver eseguito il primo intervento per via laparoscopica) potrebbe essere ammazzato nel timore che rivelasse dettagli sulla latitanza del boss (che sarà arrestato due anni più tardi). La più classica delle «tacitazioni testimoniali». Adesso, con l'assoluzione della donna accusata di aver procurato l'eroina, un'amica infermiera della vittima, il giallo riprende quindi quota, anche perché non è mai stato dimostrato che il chirurgo si drogasse. I suoi colleghi non avevano notato ematomi sulle braccia né lui aveva evidenziato segni di squilibrio. «Sono soddisfatto. La mia assistita era rimasta schiacciata in una storia in cui non c'entrava nulla», ha commentato l'avvocato Cesare Placanica, difensore dell'imputata. «La decisione di oggi ha sconfessato l'ipotesi della procura di Viterbo», ha sottolineato l'avvocato Fabio Repici, che rappresenta la famiglia, non ammessa come parte civile. I punti oscuri di questo inquietante cold case italiano sono numerosi, ma tre in particolare hanno suscitato perplessità. Il primo riguarda un elemento ritenuto ininfluente dagli investigatori, fin dall'inizio propensi per l'overdose solitaria in casa, e al contrario considerato centrale sia dai genitori Angela e Gioacchino sia dagli amici dell'urologo: Attilio era mancino ma i buchi degli aghi si trovavano sul polso e nel gomito sinistri. Possibile? Lo sventurato urologo come aveva potuto iniettarsi, con la mano destra che non utilizzava né per scrivere né per qualsiasi altra attività, le dosi mortali di eroina? Altro elemento alquanto enigmatico, la mancanza di impronte sulle siringhe repertate, una delle quali presentava persino il tappo «salta-stantuffo». E ancora, qualche settimana fa, hanno fatto discutere le rivelazioni all'Agi dell'avvocato Placanica, che ha difeso con passione la donna ora assolta: «La procura di Viterbo mi aveva detto: Falla confessare perché noi poi lo qualifichiamo quinto comma ed il quinto comma si prescrive a breve. Senonché io l'ho spiegato alla mia assistita e lei ha detto: Ma io posso confessare una cosa che non ho fatto?». Un quadro mai controverso, insomma. Sul quale si erano già a suo tempo innestate le dichiarazioni di almeno cinque pentiti, ascoltati in vari contesti giudiziari, tutti concordi, secondo quanto riportato nella relazione dell'Antimafia del febbraio 2018, nel dire che «Attilio Manca era stato assassinato dopo essere stato coinvolto nelle cure del latitante Provenzano in Francia». Giulia Sarti, deputata M5S della commissione Giustizia della Camera, ha così commentato la sentenza: «Cade la falsa pista della droga. Attilio Manca non si è mai drogato e non si è suicidato: è una vittima di mafia». E barlumi di sorrisi, finalmente, anche in famiglia. «Vogliamo verità e giustizia, non possiamo consentire che la memoria di mio figlio venga infangata in modo così indecente», va dicendo da oltre tre lustri la mamma dell'urologo, che da ieri è tornata a sperare.
· Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.
Anni di dolore alla ricerca dei loro cari. Luigi e Alessandro, il dolore della famiglia: “Per 7 anni non abbiamo potuto piangerli, chi sa parli”. Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Marzo 2021. “Vivere con il rimorso e stare per tanti anni senza i nostri cari è stato dolorosissimo. Adesso vogliamo sapere cosa gli è successo, dargli una dignitosa sepoltura, avere un luogo dove portargli un fiore e piangerli”. Nicola e Eleonora Sabatino sono straziati da 7 anni in cerca del loro fratello Alessandro, scomparso nel 2014 insieme al suo compagno Luigi Cerreto. Tanto c’è voluto per far riaprire le indagini e finalmente trovare i corpi di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto. “Ci ripetevano tutti: "se non si trovano i corpi non può esserci un colpevole". E noi continuavamo a cercare e sperare di trovarli”, dice Nicola. I due ragazzi, entrambi della provincia di Caserta, scomparvero nel nulla subito dopo una telefonata di auguri per la festa della mamma. All’epoca avevano 40 e 23 anni e si erano trasferiti a Siracusa per lavorare come badanti per un anziano. Di loro si erano completamente perse le tracce finchè a febbraio 2021 dopo che la Procura di Catania ha avocato a sé le indagini le ha ricominciate letteralmente da zero. Gli investigatori sono tornati nella villa dove lavoravano Alessandro e Luigi e con i georadar hanno trovato due corpi in un pozzo. Erano avvolti in un lenzuolo e gettati in un sacco di plastica, in un pessimo stato. Le analisi del DNA ancora non hanno dato riscontro certo che quei due corpi siano dei due scomparsi ma dalla dimensione delle ossa e dal fatto che fossero proprio lì dove erano scomparsi lasciano pochi dubbi. “Avevamo capito che gli era successo qualcosa e io pregavo il Signore che non avessero avuto dolore”, dice tra le lacrime Eleonora, la sorella di Alessandro. Poi la drammatica scoperta dopo i risultati dell’autopsia: i due sono stati uccisi entrambi con un solo colpo alla nuca. “Si è trattata di una vera e propria esecuzione. Una modalità che denota una netta volontà ad uccidere”, spiega Daniele Scrofani, che da 7 anni assiste le famiglie Cerreto e Sabatino. Per 7 anni i corpi non si trovavano, tanto che c’erano state ben due richieste di archiviazione. “La zona è impervia e ci sono centinaia di pozzi artesiani – continua l’avvocato – e questo probabilmente ha scoraggiato le indagini. Probabilmente soprattutto all’inizio non c’è stato il massimo dell’impegno da parte degli agenti sul territorio, ma non per una cattiva volontà. A quel punto siamo stati noi a fornire la mappatura dei pozzi artesiani della zona, lo stesso Nicola Sabatino ha fornito la mappa alla Questura di Ragusa”. Poi qualche giorno fa la drammatica scoperta dei resti umani in quella villa, mentre Nicola Sabatino era con Giuseppe Cerreto, padre di Luigi in diretta a Chi l’ha Visto. “Per me è stata una notizia agghiacciante – racconta Nicola – Stavo talmente male che non riuscivo nemmeno a parlare con la mia famiglia per annunciargli quella cruenta novità”. Ora le due famiglie attendono il rilascio delle due salme per poter dare ai due ragazzi una degna sepoltura. “Almeno ora possiamo piangere e portare un fiore, avere un luogo dove poterlo fare, dove sappiamo che ci sono i loro corpi”, continua Eleonora. Intanto continuano le indagini. Attualmente Giampiero Riccioli, figlio dell’anziano che Alessandro e Luigi assistevano è l’unico indagato per il duplice omicidio. È attualmente in stato di fermo dopo aver tentato al fuga proprio negli attimi in cui venivano trovati i corpi nella sua villa. Eleonora con il dolore nel cuore lancia un ‘appello: “Non escludiamo il coinvolgimento di altre persone. Per questo motivo vi prego, chi sa parli”.
Le famiglie li cercano da 6 anni, riaperte le indagini. La storia della scomparsa di Luigi Cerreto e Alessandro Sabatino, cosa è successo ai due badanti casertani. Rossella Grasso su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Sono passati 6 anni da quando Alessandro Sabatino, 40 anni e Luigi Cerreto, 23 anni, entrambi casertani, scomparvero nel nulla a Siracusa. Era il 12 maggio 2014 e da allora non sono mai più stati trovati, né vivi né morti. I due si erano trasferiti in Sicilia dove avevano trovato lavoro come badanti a casa di un anziano. Ma le famiglie dei non si danno pace e chiedono di far continuare le ricerche. Si scava nella villetta abbandonata vicina a quella dove lavoravano e si scandagliano ancora i pozzi artesiani dei dintorni. L’ultima ipotesi è infatti quella che Alessandro e Luigi possano essere stati uccisi e i loro corpi gettati in un pozzo. L’inchiesta è stata avocata a ottobre 2020 dalla Procura Generale di Catania, dopo la seconda opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dal legale dei familiari, avvocato Daniele Scrofani. I familiari di Alessandro e Luigi avevano lanciato a “Chi l’ha visto?” appelli per far ripartire le indagini e controllare gli edifici abbandonati adiacenti alla villa dove erano stati visti l’ultima volta. Nel registro degli indagati per il duplice omicidio c’è il loro datore di lavoro, Giampiero Riccioli, figlio dell’anziano che Alessandro e Luigi assistevano. Secondo le ipotesi investigative ci sarebbero stati forti dissapori tra i due badanti e il loro datore di lavoro. I due casertani avrebbero discusso più volte animatamente con Riccioli perché avrebbero notato vari maltrattamenti a danno dell’anziano che sarebbe stato lasciato senza farmaci pur avendo una cospicua pensione che gestiva il figlio. Negli anni delle indagini non è emerso nulla di nuovo tanto che si era giunti alla richiesta di archiviazione. Ma i legali delle famiglie Sabatino e Cerreto, avevano presentato opposizione, ritenendo che il quadro indiziario a carico dell’unico indagato, sia da supportare con delle indagini ancora più approfondite per ricercare i due uomini, o pensando pure al peggio, affinché vengano ritrovati i loro corpi. A spingere verso la riapertura delle indagini sono stati i numerosi pozzi, non tutti scandagliati e raggiungibili con un’autovettura che si troverebbero nelle vicinanze dell’abitazione dell’anziano presso cui prestavano servizio. Nell’opposizione alla richiesta di archiviazione erano sottolineate anche diverse incongruenze emerse nelle varie occasioni in cui l’indagato è stato sentito e le testimonianze di alcune persone che riferirono di una violenta colluttazione che avrebbe avuto per protagonista l’indagato, un’altra persona e Alessandro Sabatino e che avrebbe avuto come epilogo la morte di Sabatino e la successiva uccisione di Cerreto, forse scomodo testimone.
Il giallo degli assistenti scomparsi nel 2014. Resti seppelliti in villa: svolta nel caso di Luigi Cerreto e Alessandro Sabatino, i badanti scomparsi. Vito Califano su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Possibile svolta nel caso di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto, i due badanti che lavoravano per un anziano a Siracusa e scomparsi, senza lasciare alcuna traccia, il 12 maggio del 2014. Sul mistero erano state avanzate diverse ipotesi. Oggi il colpo di scena: gli agenti della squadra mobile avrebbero trovato resti umani all’interno di una villa in contrada Tivoli, a una decina di chilometri dal capoluogo. Il ritrovamento nella villa di Giampiero Riccioli, figlio dell’uomo che i due accudivano. Al lavoro presso la tenuta gli agenti della polizia scientifica e l’unità cinofila e diversi mezzi escavatori. L’attività ha interessato dapprima un terreno nei pressi della residenza e poi l’interno della stessa casa dove i due badanti vivevano con l’anziano. Proprio Giampiero Riccioli, 50 anni, ristoratore, è l’unico indagato per duplice omicidio. Le indagini inizialmente avevano coinvolto anche un’altra persona per via di un’utenza telefonica dalla quale sarebbe partito un tentativo di telefonata nei giorni della scomparsa. Una circostanza poi chiarita e quindi esclusa. Sabatino, 40 anni, e Cerreto, 23 anni, avevano risposto all’annuncio del figlio, un’offerta di lavoro per prendersi cura del padre. Saranno condotti gli esami del Dna sui due corpi per scoprire se quei resti appartengono effettivamente ai due uomini scomparsi. Riccioli sarebbe stato l’ultimo, secondo le indagini della Mobile di Siracura, a vedere i due. Tra questi e i due badanti c’erano dei contrasti. La procura aveva avanzato l’ipotesi degli assistenti uccisi e gettati in un pozzo. L’inchiesta è stata avocata a ottobre 2020 dalla procura generale di Catania, dopo la seconda opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dal legale dei familiari.
Dopo il ritrovamento dei resti nella Villa si attende l'esame del Dna. Badanti scomparsi, l’autopsia: Luigi e Alessandro uccisi con due colpi di pistola. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Febbraio 2021. Luigi Cerreto e Alessandro Sabatino sono stati uccisi con due colpi di pistola. È questa la nuova agghiacciante verità emersa sul caso dei due badanti casertani scomparsi a Siracusa nel 2014. I corpi dei due sono stati ritrovati pochi giorni fa nella stessa villa dove lavoravano. Dall’autopsia emerge anche che i due sono stati colpiti forse mentre si trovavano sdraiati o in ginocchio. Si attende l’esito delle analisi sul Dna per capire se quei resti sono di Alessandro Sabatino, 40 anni, e Luigi Cerreto, 23. I due, compagni anche nella vita, assistevano un anziano in quella villa a 40 chilometri da Siracusa. Gli agenti della Squadra mobile avevano fermato Gianpiero Riccioli, 50 anni, con l’accusa di omicidio e occultamento di cadavere. È il figlio dell’anziano che i due casertani assistevano. La Procura generale di Catania, nel settembre scorso, ha avocato l’inchiesta dei pm di Siracusa che avevano indagato a lungo: l’ipotesi più accreditata è che Alessandro e Luigi non abbiano mai lasciato la villetta di contrada Tivoli, che si trova in una zona isolata, non facilmente raggiungibile; ma siano stati uccisi e i loro corpi gettati in un pozzo. Per questo motivo, più volte gli investigatori si sono recati nella villa dell’anziano e nelle vicinanze, dove le ruspe hanno scavato nei terreni e perlustrato alcuni pozzi artesiani, senza però trovare nulla. L’inchiesta è finita a Catania dopo la seconda opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dal legale dei familiari delle vittime, Daniele Scrofani. Gli agenti della Mobile, supportati dagli agenti della Scientifica di Roma, dai cani molecolari e grazie al supporto dei vigili del fuoco hanno scavato nel terreno accanto alla villa e poi all’interno dell’edificio, in diversi punti, prima di allargare le ricerche in quella sorta di pozzo. E proprio lì, il 18 febbraio scorso, sono stati trovati i resti e degli indumenti avvolti in una busta di plastica. Secondo le ipotesi investigative ci sarebbero stati forti dissapori tra i due badanti e il loro datore di lavoro. I due casertani avrebbero discusso più volte con Riccioli perchè nella loro attività avrebbero notato maltrattamenti ai danni dell’anziano da parte del figlio. Si attendono anche gli esami tossicologici che dovranno chiarire se prima di essere uccisi i due siano stati storditi coi sonniferi. La difesa del ristoratore siracusano, rappresentata dagli avvocati Antonio Meduri e Dario Lombardo, ha presentato ricorso al Tribunale del riesame, sostenendo “la mancanza di gravi indizi di colpevolezza” e giovedì ci sarà l’udienza. Secondo i difensori dell’indagato ci sarebbe stata certamente una diatriba per motivi di lavoro, ma nulla di più. Solo con l’aiuto del georadar sono stati trovati i corpi dei due scomparsi sette anni prima.
Un'indagine lunga 7 anni che rischiava di essere archiviata. “Così abbiamo trovato i corpi di Alessandro e Luigi”, la verità dei familiari. Rossella Grasso su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. È stato arrestato nella notte Giampiero Riccioli, quello che per 7 anni è stato l’unico indagato per l’omicidio di Luigi Cerreto, 23 anni e Alessandro Sabatino, 40 anni. I due, entrambi casertani erano scomparsi nel nulla il 14 maggio 2014 a Siracusa, dove lavoravano come badanti per il padre di Riccioli. Poi l’agghiacciante scoperta dei resti di due uomini che potrebbero essere compatibili con quelli dei due badanti all’interno della villa dove lavoravano. “Ci sono voluti 7 anni per trovare i corpi nello stesso posto dove erano scomparsi. Noi avevamo più volte sollecitato a cercare nei pozzi artesiani della zona. Ce ne sono centinaia. Addirittura avevamo portato noi la mappatura ma non siamo stati ascoltati”, racconta al Riformista l’avvocato Daniele Scrofani, che da 7 anni assiste le due famiglie straziate dal dolore. L’avvocato ha tenuto il pugno duro e non ha accettato che il caso fosse archiviato come richiesto per ben due volte. Bisognava cercare ancora e capire chi avesse ucciso Luigi e Alessandro. E così a ottobre 2020 la Procura Generale di Catania ha avocato a se l’indagine e le ricerche sono riprese con maggiore accuratezza. “Qualche anno fa erano già stati fatti i sopralluoghi nella villa – continua Scrofani – L’attenzione si era concentrata su una piscina artigianale ricoperta di detriti. Ma lì avevano fatto solo dei saggi al terreno e avevano stabilito che i corpi non c’erano. Solo ieri quella piscina è stata svuotata completamente”. Eppure l’avvocato e le famiglie di Luigi e Alessandro per 7 lunghi anni hanno insistito nel voler far continuare le ricerche nella zona. “Ero certo che l’assassino non sarebbe potuto arrivare troppo lontano con due cadaveri, era chiaro che fossero nascosti in un luogo molto vicino – dice l’avvocato – E così sono stati trovati in un pozzo nella villa stessa, gettati in un sacco e avvolti in un lenzuolo. Adesso l’autopsia e l’esame del dna dovranno confermare che quei resti di corpo umano sono di Luigi e Alessandro. Non sarà un esame facile: sono passati 7 anni e quei corpi erano in un pessimo stato”. L’avvocato racconta che i familiari hanno seguito in diretta dal programma “Chi l’ha visto?”. “Non si aspettavano quell’agghiacciante ritrovamento così velocemente e ne sono rimasti molto scossi – dice Scrofani – C’era anche Riccioli che assisteva sereno alle ricerche. Vedeva gli investigatori scavare nella piscina, ma forse sapeva che lì non c’era nulla. Poi hanno tirato fuori il georadar e hanno trovato i corpi sepolti a un metro e mezzo, nemmeno troppo in profondità”. È a quel punto che le cose per Riccioli si sono complicate. Così, mentre proseguivano gli scavi, ha lasciato improvvisamente la villa tentando di far perdere le sue tracce. Così è partita la caccia all’uomo da parte della polizia. Riccioli è stato fermato nella notte nella sua casa al mare nella zona di Pachino. Dopo la cattura è stato trasferito negli uffici della Mobile a Siracusa per essere interrogato. Si trova in stato di fermo con le accuse di duplice omicidio e occultamento di cadavere. Ma sarà il processo a fare chiarezza sulle sue responsabilità e su come siano andati i fatti. Dalle dimensioni delle ossa ritrovate il medico legale ha sostenuto che potrebbero essere comparabili con quelle dei due giovani badanti. Secondo le ipotesi investigative ci sarebbero stati forti dissapori tra i due e il loro datore di lavoro. I casertani avrebbero discusso più volte con Riccioli perché avrebbero notato vari maltrattamenti nei confronti dell’anziano. La Procura di Siracusa aveva però deciso di chiedere l’archiviazione del caso, ma il gup accogliendo l’opposizione del legale della famiglia aveva rigettato la richiesta e disposto nuove indagini. Una triste vicenda dunque che rischiava di essere archiviata e il mistero sui due uomini scomparsi sarebbe rimasto tale. Ci sono voluti 7 anni per semplicemente cercare meglio in un luogo già ispezionato ma evidentemente con superficialità. Quei corpi si sarebbero potuti trovare prima. “Forse qualcuno che sapeva ha dato lo spunto a cercare meglio in un luogo specifico”, conclude l’avvocato Scrofani. Adesso bisogna attendere il risultato delle analisi e che le indagini facciano il loro corso. Ci vuole ancora un po’ di tempo prima che le famiglie possano trovare pace per quelle morti così atroci.
· Il Mistero dell’omicidio Varani.
"Così si trasformò in animale": la confessione di Foffo sull'omicidio Varani. Emergono particolari agghiaccianti sulle prime dichiarazioni rese da Manuel Foffo ai carabinieri subito dopo aver commesso l'omicidio di Luca Varani assieme a Marco Prato. Sofia Dinolfo - Sab, 06/03/2021 - su Il Giornale. Sono passati cinque anni da quando la notte tra il 3 e il 4 marzo del 2016 Luca Varani è stato brutalmente ucciso dal 29enne Marco Prato e dal 28enne Manuel Foffo. Invitato a una festa a base di alcol e droga, il 22enne romano ignorava quello che il destino gli avrebbe riservato nell’appartamento di Colli Aniene. Secondo quando emergerà infatti più in avanti dalle ricostruzioni della magistratura, “i due assassini avevano il desiderio di fare del male a qualcuno”. Da lì l’idea di Prato di chiamare Luca Varani. All’arrivo del giovane, i due gli hanno offerto un mix di alcol e Alcover. Quest’ultimo è un farmaco usato dietro prescrizione medica per curare la dipendenza da alcol, se assunto in casi differenti da quelli terapeutici e senza la supervisione medica, viene considerato tra le droghe da stupro. Da quel momento sono iniziate per la vittima due ore di sevizie per mano degli aguzzini: sono state circa cento le coltellate e le martellate inflitte sul giovane, il collo fu segato con una lama e strozzato con un laccio per impedirgli di urlare. Le torture e non un colpo fatale, secondo i medici legali dell’Università La Sapienza, hanno causato la morte di Varani. I due assassini erano capaci di intendere e di volere. Secondo quanto scritto nella Sentenza della Suprema Corte, Prato e Foffo hanno ucciso Luca per “dare sfogo a delle pulsioni sadiche”. Per Manuel Foffo è arrivata la condanna definitiva a 30 anni di carcere nel 2019 da parte della prima sezione penale della Cassazione, mentre Prato si è suicidato nel carcere di Velletri il 19 giugno del 2017. A raccontare a IlGiornale.it i particolari agghiaccianti del luogo del delitto è il luogotenente del Corpo Speciale Mauro Fioravanti, attualmente comandante della Stazione Carabinieri di Roma San Lorenzo. Quando è stato commesso il crimine, Fioravanti era in servizio presso il Nucleo Operativo della Compagnia Carabinieri di Roma Piazza Dante e ha assistito all’interrogatorio di Manuel Foffo.
Com’è apparsa la scena del delitto?
"La scena del crimine che si è palesata agli occhi dei militari era sicuramente terrificante. Appena entrati in camera da letto, a terra sul pavimento, sono stati trovati un coltello di grosse dimensioni e un martello intrisi di sostanza ematica, poco più avanti un secchio con carta intrisa di sostanza ematica, il comodino imbrattato anch'esso di sostanza ematica e sul letto, avvolto in una coperta, il cadavere di Luca che presentava numerose ferite da punta e taglio in diverse parti del corpo e un coltello conficcato nel torace".
Come si è comportato Manuel Foffo durante l’interrogatorio?
"Nel corso dell’interrogatorio Manuel Foffo era un fiume in piena, impaziente di raccontare quello che era accaduto, stupito di se stesso e di come si fosse trasformato in un animale, come si è definito in sede di interrogatorio".
Quali sono state le dichiarazioni più forti?
"L’interrogatorio di Foffo è stato un susseguirsi di racconti, che sembravano al di fuori di ogni controllo esercitato dalla ragione, fuori da ogni preoccupazione morale, e a tratti potevano apparire come frutto di immaginazione. Tra i vari racconti Foffo ha dichiarato che prima di uccidere Luca, che tra l’altro non conosceva, era uscito in macchina con Marco Prato perché avevano entrambi il desiderio di fare del male a una persona qualsiasi. Foffo ci ha detto di aver ucciso Luca Varani insieme a Prato utilizzando due coltelli e un martello, e che la morte di Luca era sopravvenuta dopo molto tempo e tanta sofferenza. Ci ha detto che avevano davvero torturato Luca".
Foffo si è mai contraddetto oppure ha conservato sempre lucidità nel suo racconto?
"L’uso prolungato e smodato di cocaina e alcol dei giorni precedenti ha sicuramente offuscato dei ricordi nella mente di Foffo, ma ha comunque reso un interrogatorio ricco di dettagli".
Durante le sue dichiarazioni emergevano le pulsioni sadiche di cui parla la Suprema Corte?
"Lui stesso ha dichiarato che in passato aveva avuto un momento in cui voleva far del male a qualcuno e non pensava potesse concretizzarsi".
· Il Mistero di Mario Biondo.
Valentina Errante per "il Messaggero" il 19 maggio 2021. Un primo nome è già agli atti della nuova inchiesta sulla morte di Mario Biondo, il cameraman che viveva a Madrid ed era sposato con la nota conduttrice televisiva Raquel Sánchez Silva. È un uomo spagnolo di 50 anni, che la notte del decesso del cameraman palermitano, trovato impiccato alla libreria di casa con un foulard, ha utilizzato gli account dei social di Biondo. Il nome è stato comunicato dai consulenti italo-americani della Emme Team, che svolgono indagini difensive per la famiglia di Mario, alla procura generale, che ha avocato l'indagine dopo una richiesta di archiviazione respinta dal gip. Una vicenda poco chiara, che le contraddizioni e le bugie della moglie di Biondo, interrogata anche dai pm di Palermo, non hanno aiutato a ricostruire. Il lavoro dei consulenti, che adesso saranno convocati e sentiti alla procura generale, però, non è ancora concluso. Nei prossimi giorni sarà consegnato, attraverso l'avvocato della familia, Carmelita Morreale, una relazione con un altro nome, quello corrispondente all' Ip che sia la notte del decesso, il 29 maggio, sia il giorno successivo, quando era già stato scoperto il corpo e la polizia si trovava nell' appartamento di Madrid, si è collegato al wifi di casa. L' ipotesi è dunque che Mario non fosse solo nell' appartamento, come sostenuto dalla polizia spagnola che aveva archiviato il caso come suicidio.
GLI ACCESSI AI SOCIAL I consulenti, attraverso gli indirizzi Ip, sono riusciti a individuare negli Stati Uniti, due Iphone che accedono ai profili Twitter e Facebook di Mario la notte del decesso e nelle ore successive. Il primo, quello riconducibile all' uomo di 50 anni, già in qualche modo comparso durante gli accertamenti, accede all' account Twitter. L' altro entra nel profilo Facebook e, soprattutto, si aggancia al wifi dell'appartamento. Secondo le verifiche i due cellulari, però, sono nella stessa zona. Coperti dalla medesima cella. Il prossimo passo sarà svelare l'identità della persona che è entrata nella pagina Facebook di Mario utilizzando la rete domestica. La notte della morte, Mario avrebbe usato Facebook per comunicare con i fratelli. Alle 00:48 uno dei due dispositivi scoperti dalla consulenza avrebbe agganciato il wifi e sarebbe dunque stato usato nell' appartamento, mentre il secondo smartphone sarebbe stato utilizzato nei dintorni dell'abitazione. Entrambi invece erano in casa di Biondo alle 19 del 30 maggio, durante i rilievi della polizia. Un altro punto oscuro riguarda la carta di credito di Mario, utilizzata la notte del decesso in un nightclub, tra le 2,08 e le 2,53 e mai ritrovata. La famiglia Biondo è da sempre convinta che il ragazzo sia stato ucciso e non si sia suicidato come in un primo momento hanno ritenuto gli inquirenti.
LE CONTRADDIZIONI Ad acuire i sospetti sono state anche le bugie e le contraddizioni di Raquel, la moglie di Biondo, avvertita, durante una lunga e stentata audizione per rogatoria, dai pm palermitani: «Se lei continua a dire che non ricorda potrebbe essere indagata per omicidio in Italia». Il tema erano proprio le intrusioni nei computer di Biondo. I due pc di Mario non sono mai stati sequestrati dalle autorità locali, è stata proprio la donna a restituirli alla famiglia alcune settimane dopo il decesso. Sosteneva di avere cancellato personalmente solo alcune foto e il video della luna di miele, ma, quando i magistrati la sentono come testimone, hanno in mano una perizia: il computer, dal quale sono spariti 996 gigabite di memoria, ha agganciato il wifi di un'azienda informatica e, 15 giorni dopo la morte di Biondo, sul portatile è stato installato un software di controllo da remoto. A questo punto, davanti ai pm la conduttrice televisiva sostiene di avere cancellato i dati con il cugino, che è un tecnico informatico. L' altro nodo e riguarda il luogo in cui si trovasse la donna la notte del 29 maggio 2013. La sua versione è che fosse da uno zio a Plasencia. Altri sostengono che quella notte Raquel fosse invece a casa del suo amico Kike Sarasola, attore e proprietario di una catena di alberghi. E la prima foto della donna, che arriva sotto la casa dove abitava con Mario, la ritrae accanto a Sarasola. Anche in questo caso, alla domanda dei pm italiani, Raquel ha risposto: «Non ricordo dove fossi».
Valentina Errante per "il Messaggero" il 7 aprile 2021. Nella notte, tra il 29 e il 30 maggio 2013, quando Mario Biondo è morto, nel suo appartamento di Madrid c' era qualcun altro. Un cellulare si era collegato alla rete wifi. È l' ultimo capitolo del giallo sul cameraman palermitano, sposato con il volto noto della Tv spagnola Raquel Sanchez Silva e trovato impiccato a una libreria con un foulard. Dopo le indagini lacunose della autorità spagnole, che avevano chiuso il caso come un suicidio, le bugie della moglie interrogata dai pm di Palermo, i problemi di giurisdizione e una richiesta di archiviazione respinta dal gip, il fascicolo, adesso, è nelle mani della procura generale siciliana, che lo ha avocato. E la Emme team, il pool di consulenti italo-americani che ha effettuato ancora accertamenti per conto della famiglia di Biondo, ha fornito agli inquirenti nuovi elementi che potrebbero essere decisivi.
IL WIFI. Dallo studio dei profili social di Biondo e grazie ai sistemi di identificazioni degli indirizzi IP e delle attività internet, possibili negli Stati Uniti, i consulenti della famiglia hanno accertato che due smartphone avevano accesso alle pagine Facebook e Twitter della vittima e proprio tra il 29 ed il 30 Maggio 2013, sera della morte, controllavano le attività social del cameraman. Uno dei due cellulari inoltre sarebbe stato connesso al wifi dell' appartamento. La notte della morte Mario avrebbe usato Facebook per comunicare con i fratelli. Alle 00:48 uno dei due dispositivi scoperti dalla consulenza avrebbe agganciato il wifi e sarebbe dunque stato usato nell' appartamento, mentre il secondo smartphone sarebbe stato utilizzato nei dintorni dell' abitazione. Entrambi i dispositivi sarebbero stati nuovamente utilizzati in casa di Biondo alle 19 del 30 maggio, quando all' interno erano presenti le forze dell' ordine. Emme Team, su incarico della famiglia della vittima, assistita dall' avvocato Carmelita Morreale, sta lavorando per tracciare una mappa degli spostamenti fatti, tra il 29 ed il 30 maggio 2013, dai due dispositivi. Dalle verifiche è anche emerso che qualcuno, quella notte, ha usato la carta di credito del cameraman in un night, tra le 2:08 e le 2:53. La procura di Palermo aveva tentato di fare luce su un caso che, sin dall' inizio, era apparso molto oscuro, se non altro per le tante contraddizioni della moglie di Biondo. «Se lei continua a dire che non ricorda potrebbe essere indagata per omicidio in Italia» aveva detto il pm alla donna, durante un interrogatorio per rogatoria, invitando Raquel a dire la verità sulle intrusioni nel computer del marito e sul luogo in cui si trovasse quella notte. E invece la conduttrice dell' Isola dei famosi spagnola aveva continuato a contraddirsi. I due computer di Mario non sono mai stati sequestrati dalle autorità locali, è stata proprio la donna a restituirli alla famiglia alcune settimane dopo il decesso. Sosteneva di avere cancellato personalmente solo alcune sue foto e il video della luna di miele, ma quando viene ascoltata come testimone, i magistrati italiani hanno in mano una perizia: il computer, dal quale sono spariti 996 gigabite di memoria, ha agganciato il wifi di un' azienda informatica e, 15 giorni dopo la morte di Biondo, sul portatile è stato installato un software di controllo da remoto. A questo punto, davanti ai magistrati Raquel sostiene di avere cancellato i dati con il cugino, che è un tecnico informatico. Ma c' è un altro nodo e riguarda il luogo in cui si trovasse la donna la notte del 29 maggio 2013. La sua versione è che fosse da uno zio a Plasencia. Altri sostengono che quella notte Raquel fosse invece a casa del suo amico Kike Sarasola, attore e proprietario di una catena di alberghi. E la prima foto di Raquel che arriva sotto la casa dove abitava con Mario la ritrae accanto a Sarasola. Anche in questo caso, alla domanda dei pm italiani, Raquel ha risposto: «Non ricordo».
· Il Mistero di Viviana Parisi.
Biagio Chiariello per fanpage.it il 5 luglio 2021. Sono trascorsi 11 mesi dal giorno della scomparsa di Viviana Parisi e del piccolo Gioele, da Venetico nel Messinese. Mamma e figli non sono ancora stati sepolti perché, come denunciato dai legali della famiglia della donna, non è stata depositata la consulenza sulle cause della morte. "Stiamo ancora aspettando che la procura si pronunci – racconta Daniele Mondello, marito di Viviana e papà del piccolo Gioele – spero solo che tutto questo tempo serva per far luce su ciò che è successo". In tutto questo tempo il dj non si mai rassegnato ed è più che mai deciso a scoprire la verità sulla loro sorte. Il mistero della morte della donna e del figlioletto di quattro anni continua a tenere quindi tutti col fiato sospeso dopo quasi un anno. L'analisi del deposito delle risultanze autoptiche farà finalmente chiarezza su cosa sia realmente accaduto a Viviana e al suo bambino, ritrovati nelle campagne di Caronia dopo che il 3 luglio del 2020 si erano allontanati da casa. La famiglia e i consulenti di parte, insieme ai legali respingono con forza la tesi dell’omicidio suicidio. Al di là dei misteri su quanto accaduto in quei giorni, non sono mancate le polemiche prima per i ritardi nelle ricerche nei giorni successivi alla scomparsa di Viviana e Gioele. La procura aveva nominato un team di consulenti, formata da medici, ingegneri, antropologici e psicologici, per chiarire la dinamica del decesso di entrambi. "Era stato chiesto un termine di 90 giorni per una consulenza e ne sono passati 330", accusa l'avvocato Antonio Cozza, auspicando per la famiglia "la possibilità di celebrare un funerale".
Da leggo.it l'8 marzo 2021. Il corpo di Viviana Parisi sarebbe stato trasportato nel luogo del ritrovamento. Sul caso della donna scomparsa e trovata morta a Caronia, nel messinese e del piccolo Gioele ucciso anche lui, spunta una nuova ipotesi. Il consulente della famiglia crede che Veronica sia stata uccisa prima e poi sia stata trasportata nella campagna. «Da quanto precedentemente acquisito e valutato e da quello che abbiamo constatato, appare evidente che tutto si oppone allo scenario "omicidio-suicidio" e ci fa ritenere che ci sia stata una duplice opera di depistaggio da parte di una combinazione criminale: 1) il trasporto del corpo di Viviana sotto il traliccio per inscenare un suicidio; 2) l'occultamento del corpicino di Gioele per poi dare il via alla macabra messinscena col trasporto postumo». Ne è convinto il consulente della famiglia della dj. Ieri c'è stato un nuovo sopralluogo nella zona del ritrovamento. Hanno partecipato anche il medico legale Antonio Della Valle, le dottoresse Angelica Zenato e Nicolina Palamone. "Ovviamente erano presenti i due medici legali consulenti della Procura di Patti dottoresse Sapienza e Ventura ed esperti della Polizia Scientifica", dice Lavorino.
Nuova svolta per le indagini sul giallo di Caronia. Viviana e Gioele, l’ipotesi del suicidio inscenato: “Fu uccisa, il corpo trasportato sotto al traliccio”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'8 Marzo 2021. L’incidente in auto sull’autostrada Messina-Palermo, la fuga nel bosco di Caronia, le disperate ricerche e poi il drammatico ritrovamento dei corpi di Viviana Parisi, 40 anni e del figlioletto Gioele, di 2 anni. Sono queste le tappe di quei drammatici momenti di cui 7 mesi dopo ancora non si ha certezza. Cosa sia successo a Viviana e Giole ancora non si sa. Una nuova perizia sui corpi fa emergere una nuova ipotesi: “Viviana non si è uccisa, ma sia stata ammazzata da qualcuno che poi ha messo in atto una messinscena, spostando il suo corpo sotto il traliccio per creare un depistaggio”. È questa la convinzione di Carmelo Lavorino, criminologo e consulente dei legali di Daniele Mondello, il marito di Viviana e papà del piccolo Gioele che da 7 mesi non si dà pace. Per il consulente Viviana non si è suicidata gettandosi dal traliccio sotto cui è stato rinvenuto il corpo. “Non ci sono prove o impronte di Viviana sul traliccio”, ha spiegato Lavorino, il corpo poi “è posizionato non in modo conforme con una caduta dall’alto e inoltre ad una distanza inusuale”. Daniele Mondello e i familiari della donna da subito hanno sposato questa tesi, sostenendo che Viviana non avrebbe avuto nessun motivo per suicidarsi e mai, avrebbe fatto del male a Gioele. A supportare questa tesi c’è anche il fatto che d’estate, ad agosto, quando è scomparsa Viviana, il traliccio è rovente e sarebbe stato impossibile per Viviana arrampicarsi senza scottarsi le mani. C’è poi l’interrogativo del luogo fitto di rovi e di vegetazione, “raggiungibile solo in auto e non a piedi per mancanza di sentieri agibili”. Per Lavorino un posto sicuro per una messinscena messa in atto da qualcuno che ha prima ucciso altrove la donna e poi l’ha “sistemata ai piedi del traliccio, per allontanare i sospetti e simulare un suicidio”. Nelle prossime settimane altre perizie arriveranno nelle mani del procuratore Angelo Cavallo che ha risposto a distanza alle ipotesi di Lavorino: “Per noi, fermo restando che le consulenze devono essere ancora depositate, e prevediamo quella di Viviana a fine marzo, tutto conduce ad un evento compatibile con un suicidio, con precipitazione dal traliccio”, ha detto all’Adnkronos il Procuratore di Patti (Messina), Angelo Vittorio Cavallo, che coordina l’inchiesta sulla morte di Viviana Parisi. “In ogni caso – spiega Cavallo – al di là delle risultanze oggettive delle consulenze, abbiamo vagliato tutte le ipotesi alternative, confrontando ed incrociando dichiarazioni, risultati di tabulati telefonici, indagini tecniche, accertamenti genetici eccetera e per tale motivo non condividiamo le conclusioni dei consulenti di parte, che riteniamo quanto meno ardite”. “Gli esami sul piccolo Gioele richiederanno ancora qualche tempo alla luce delle condizioni in cui è stato ritrovato”, aggiunge il magistrato. “Anche questo esame ad opera dei consulenti di parte è stato fatto, nel rispetto del codice, per mero spirito di collaborazione ed esclusivamente perché siamo alla ricerca della verità e non abbiamo nulla da nascondere – dice – tutto ciò al pari degli altri esami da noi già svolti in passato e che le parti ci hanno chiesto di ripetere (vedi esami all’interno della vettura o sul traliccio). Ovviamente senza apportare alcun elemento di novità alle indagini”. “In ogni caso, ribadisco che, al di là delle mere dichiarazioni ad effetto, ci confronteremo serenamente con le perizie e tutte le altre carte alla mano… carte che ovviamente le altre parti, nel rispetto del segreto istruttorio, hanno solo in minima parte. Anche per questo non capisco come si possano fare affermazioni del genere”. I legali della famiglia Parisi sono dunque pronti a dare battaglia per scoprire cosa sia successo in quelle torride ore di agosto.
I loro corpi ancora sotto sequestro in due obitori diversi. Viviana e Gioele, a 4 mesi dalla morte ancora nessuna sepoltura. Il papà: “I loro corpi lontani, mi vergogno di essere italiano”. Rossella Grasso su Il Riformista il 6 Dicembre 2020. “Sono giorni proprio tanto difficili questi. L’arrivo delle feste, in cui la famiglia è al centro di tutto, e trovarsi, nella mia situazione, a pregare per un aiuto nella speranza di alleviare le sofferenze che, da agosto, mi opprimono. L’unica cosa che so della mia famiglia è che non esiste più. In un attimo ho perso tutto ciò per cui vivevo e che mi dava lo stimolo ad andare avanti. Sempre”. Sono dure e drammatiche le parole di Daniele Mondello su Facebook. Sono passati 4 mesi da quando il 3 agosto ha visto scomparire nel nulla tra le campagne di Caronia sua moglie Viviana Parisi, 41 anni e suo figlio Gioele, 3 anni. Da allora non si è dato pace e il mistero su cosa sia accaduto quel giorno ancora non è stato svelato. Dopo 4 mesi c’è solo la certezza che il Dna estratto dai due cadaveri appartengono a Viviana e Gioele. La lente d’ingrandimento resta puntata sui segni evidenziati su avambraccio e caviglia di Viviana Parisi e su quel calzino mancante oltre alle frasche che coprivano parzialmente il corpo della donna al momento del ritrovamento. Intanto Claudio Mondello e Pietro Venuti, avvocati della famiglia Mondello, continuano a respingere con forza l’ipotesi che Viviana possa aver ucciso il figlio prima di suicidarsi. Ma il dolore è ancora enorme per Daniele che non si dà pace per non essere ancora riuscito nemmeno a dare degna sepoltura a moglie e figlio. Nemmeno un funerale, un ultimo saluto, è stato dato alla sua famiglia. “Quello che so – continua nel post su Facebook – è che mio figlio Gioele si trova al Policlinico di Messina e mia moglie Viviana all’ospedale Papardo. Mi fa stare molto male sapere che anche in questo momento non sono insieme”. “Non ho mai chiesto nulla a nessuno se non quella giornata nella disperata ricerca di Gioele (cosa di cui vi sarò sempre grato) – continua Daniele nel post – Ma adesso inizio a domandarmi come mai nessuna istituzione, visti anche gli sbagli commessi, abbia pensato ad un sostegno morale, a chiedersi come potesse stare un uomo che ha perso tutto, a porgere delle semplici, rituali condoglianze. Qualche volta mi capita di pensare che mi vergogno di essere italiano”. “Mi sono ritrovato vittima di congetture buttate lì (ovviamente fallaci) e, nonostante tutto, nessuno si è preoccupato di sapere come potessi stare io. Voi in tutto questo tempo avete dimostrato un grande affetto nei confronti miei e dei miei amori e di questo vi sarò grato ma c’e’ chi vive questa situazione come un mero adempimento di ufficio. Ho perso ogni cosa da un momento all’altro. So che non è utile fare così ma concedetemi questo angolo per potermi sfogare con tutti voi che, ciascuno a suo modo, mi avete sempre dimostrato vicinanza. Lo giuro: lotterò fino alla fine. Ormai non ho più nulla da perdere e vivrò per questo”.
Viviana Parisi, il marito Daniele denuncia: “Troppi errori nelle indagini, una vergogna totale”. Redazione su Il Riformista il 16 Settembre 2020. Daniele Mondello dopo più di un mese torna sul luogo dell’incidente da cui è iniziata la tragedia di sua moglie Viviana Parisi e del figlio, Gioele. “Il furgone degli operai che hanno fatto l’incidente con mia moglie è stato sequestrato dopo due settimane. Una vergogna totale – ha detto – L’hanno portato in carrozzeria e hanno smontato lo sportello e due gomme. Sono qui per assistere ai rilievi, il perito mi ha detto che nella galleria non c’è nemmeno una luce. Che vergogna, continuano a fare sbagli ogni giorno dal 3 agosto. Vergognatevi”. Daniele non si da pace e non crede nemmeno al fatto che si possa essere trattato di omicidio-suicidio.”Escludo l’omicidio-suicidio, Viviana era una mamma stupenda e meravigliosa. In 4 anni non ha mai toccato con un dito mio figlio”, racconta in un’intervista a “Porta a Porta”. Continua a chiedere verità e a cercarla disperatamente. “Non mi fermerò mai per la verità, anche se sono stanco”, ha detto. Poi ha ricostruito gli ultimi istanti in cui ha parlato con Viviana: “Dopo la colazione, mi ha detto che voleva andare a Milazzo per comprare le scarpe – ha ricordato l’uomo – Ero in studio quando mi ha chiamato la polizia dicendomi di un piccolo incidente, fino alle 11.30 sono stato interrogato in caserma e non ho avuto nemmeno la possibilità di cercare mia moglie e mio figlio. Speravo con tutto il mio cuore che Gioele fosse vivo, ringrazio il signore che lo ha trovato altrimenti per tutta la vita avrei pensato mille cose. Così sono sicuro di poter portare almeno un fiore. Se fosse successo qualcosa al bambino, Viviana si sarebbe suicidata? Può darsi perché il dolore della madre è forte ma ci sono troppe ipotesi aperte come l’aggressione di animali”. Non crede affatto che la moglie sarebbe stata capace di fare del male a Gioele: “Nel periodo del Covid Viviana era un po’ stanca come tutte le mamme italiane, Gioele era molto movimentato – sono le parole di Daniele Mondello – Aveva paura che succedesse qualcosa a me e al bambino, così si è avvicinata al Signore e ha iniziato a leggere la Bibbia. Non era tranquilla, l’abbiamo portata in ospedale sia a maggio che a giugno, ci siamo fidati di ospedali e medici”. “È emerso un aspetto molto grave che mi è stato riferito dal nostro consulente e cioè che mentre giustamente l’auto di Viviana è stata sequestrata lo stesso 3 agosto, il camion dove si trovavano a bordo i tecnici che si occupavano di manutenzione delle autostrade con il quale ha avuto l’incidente è stato sequestrato solo il 10 settembre e sembra già avessero cominciato delle riparazioni”, ha detto Pietro Venuti, legale di Daniele che poi ha aggiunto: “Dagli esami svolti sulla macchina di Viviana e sul furgone non possiamo ancora escludere che Gioele sia morto per un colpo avvenuto durante l’incidente che gli avrebbe potuto causare una emorragia celebrale e lo avrebbe fatto morire dopo nelle campagne di Caronia. È emerso – prosegue – anche che la galleria non era completamente illuminata, un aspetto increscioso. Aspettiamo ulteriori esami sul Gps del furgone degli operai per capire a che velocità andavano loro e l’auto di Viviana e se siano stati loro ad essere andati a sbattere contro l’auto della donna cambiando corsia”. Questi gli ultimi dettagli emersi che hanno portato allo sfogo di Daniele.
Fabio Albanese per “La Stampa” il 25 luglio 2021. I corpi di Viviana e Gioele sono ancora nelle celle-frigo di due obitori di Messina: lei all'ospedale Papardo, il bimbo al Policlinico. Per restituirli alla famiglia occorre che il pm acquisisca la corposa relazione degli 11 periti che lavorano da 11 mesi, e che dopo un anno arrivi finalmente un po' di verità. Poi, solo poi, per Viviana Parisi, 43 anni, e Gioele Mondello, appena 4, ci sarà finalmente un funerale. Almeno, così ha assicurato agli avvocati della famiglia il procuratore di Patti, Angelo Cavallo. Il 3 agosto sarà un anno dall'inizio di quel drammatico giallo che si consumò tra Venetico, il paese dove la famiglia Mondello vive, e le arse campagne tra l'autostrada Messina-Palermo e la Statale sottostante, in territorio di Caronia, 100 km più a Ovest. Ma cosa sia accaduto quel giorno, da quando Viviana si allontana da casa, ferma l'auto all'uscita di una galleria e con il figlio scavalca il guard rail, è ancora un mistero. Nelle carte della procura elementi ormai ce ne sono tanti e il procuratore ha assicurato che entro il mese si potrà mettere un punto fisso e sgomberare il campo da ipotesi, suggestioni e indiscrezioni. Ma c'è voluto un intero anno. I genitori di Viviana e il marito hanno nominato avvocati diversi che leggono diversamente gli sviluppi di questi 356 giorni di interrogativi e di dolore. Dice Antonio Cozza, legale dei Parisi: «Stiamo aspettando la chiusura delle indagini per potere finalmente accedere al fascicolo. Da quel poco che sappiamo, la procura sembra propendere ancora per l'ipotesi omicidio-suicidio. I nostri consulenti hanno chiesto di riesaminare i corpi e aspettiamo che vengano riconsegnati alla famiglia perché riposino in pace». Dice Pietro Venuti, uno degli avvocati che assiste Daniele Mondello, marito di Viviana e papà di Gioele: «In questi mesi abbiamo presentato 17 istanze, 3 mesi fa l'ultima per chiedere il deposito della perizia della procura. Ma finora non abbiamo avuto alcuna risposta». I legali di Mondello hanno depositato una loro perizia che scarta l'ipotesi omicidio-suicidio e secondo cui madre e figlio sarebbero precipitati per 50 metri in un invaso nei boschi di contrada Sorba, morti quasi sul colpo; poi però qualcuno avrebbe recuperato quei corpi e li avrebbe portati dove furono trovati: 5 giorni dopo quello di Viviana, sotto un traliccio, 17 giorni dopo quello di Gioele, smembrato e ridotto a un mucchio di ossa dagli animali selvatici. Insomma, una disgrazia che però un «soggetto ignoto» avrebbe voluto mascherare per evitare guai. «Abbiamo chiesto che vengano approfonditi dei punti - dice Venuti - perché il corpo di Viviana presenta lesività che abbiamo riscontrato anche sul cranio di Gioele». Per questo, Daniele Mondello, a differenza dei suoceri, non ha alcuna fretta di avere restituite le salme: «Non ci interessa seppellire dei corpi - ha detto l'altro suo avvocato, il cugino Claudio Mondello - se con essi seppelliamo ogni anelito di verità».
Laura Anello per “La Stampa” il 25 luglio 2021. Un anno senza Viviana e Gioele, inghiottiti nel buio il 3 agosto dopo un incidente in una galleria dell'autostrada Messina-Palermo e ritrovati morti troppi giorni dopo: lei, Viviana, dj torinese bella e fragile, l'8 agosto, ai piedi di un traliccio vicino al guardrail; lui, il figlioletto amatissimo di quattro anni, il 19 agosto, in un boschetto distante, smembrato dagli animali, dopo un crescendo di pathos e di polemiche che ha coinvolto e commosso tutta Italia, diventando «Il giallo di Caronia», dal nome del paese siciliano dove sono stati ritrovati i corpi. Mentre i corpi sono ancora sequestrati e insepolti alla ricerca di una ricostruzione di fatti e responsabilità che appare irraggiungibile, nonostante il lavoro degli undici consulenti nominati dalla procura, di sicuro c'è il dolore granitico di Daniele Mondello, marito di Viviana e padre di Gioele, che mai ha creduto alla tesi dell'omicidio-suicidio e che si batte come un leone per chiedere giustizia e verità. «È solo una messinscena, i due corpi sono stati spostati nel luogo dove sono stati ritrovati, e questo lo dice la scienza, non lo dico io», dice.
Ci spieghi meglio
«I corpi di mia moglie e di mio figlio erano distanti mille metri l'uno dall'altro, hanno le stesse ferite da caduta nonostante non ci fosse alcun traliccio e nessuna altura nel luogo in cui è stato trovato Gioele, e la stessa sostanza rosacea nei denti, una colorazione che indica la condizione di asfissia mentre si muore. Distanti un chilometro l'uno dall'altro, l'uno sul cocuzzolo di una collina, l'altro su una distesa scoscesa, hanno avuto la stessa morte. Come si spiega? Chi e perché ha spostato i corpi di mia moglie e di mio figlio? La scienza ha parlato e lo ha fatto con le parole dei nostri consulenti: il criminologo Carmelo Lavorino, il medico legale Antonio Della Valle e lo psicologo Enrico Delli Compagni, che il 30 marzo hanno inviato una relazione alla procura».
Ha fiducia nello Stato?
«Su questo mi piacerebbe che a esprimere la propria opinione fossero proprio i giornalisti. Io sono un semplice cittadino. Un padre che ha perso l'amore di suo figlio. Un vedovo che vive all'ombra di ricordi. Perché non aprite un'inchiesta autonoma su quanto è successo?».
La stanza di Gioele è ancora lì com' era? E lo studio di registrazione? Pensa di poter ricominciare a suonare e a comporre?
«Non ho cambiato nulla nella sua stanza. Nella stanza da letto ho lasciato la culla del mio cucciolo ai piedi del nostro lettone. Sono già rientrato in sala registrazione. Non sono bravo con le parole e, forse, l'unico finale corretto in questa storia sarebbe stato sparire, per sempre, come i miei amori. Ma la musica ci ha sempre legato e dalla musica sto cercando di ripartire».
Il 3 agosto, giorno dell'anniversario, lei ha organizzato una fiaccolata in memoria di Viviana e Gioele. Per dire che cosa?
«Una fiaccolata per ricordare i miei angeli ma anche per dire che non c'è, non può esserci, alcuna giustizia senza verità. Dobbiamo capire cosa è successo quel maledetto giorno di agosto altrimenti non potrò avere pace. E questa storia sarà per sempre terreno fertile per pettegolezzi e sentito dire».
Che cosa è successo, quindi, secondo lei?
«Viviana e il mio bambino sono precipitati - caduti o lanciati, chissà - nel bosco di Caronia all'interno di un invaso con circa 50 centimetri d'acqua sul fondo: un pozzo, una cisterna, un contenitore. Sono precipitati contemporaneamente, Viviana si è fratturata varie parti del corpo, soprattutto a sinistra, le sono esplose due vertebre, ha perso coscienza e sensibilità, è morta per asfissia. Gioele ha impattato con la testa ed è morto per asfissia. Poi i due corpi, in tempi diversi, sono stati estratti dal fondo del pozzo: Viviana tirata fuori la tarda sera del 3 agosto o la mattina del 4 agosto e trasportata in modo tale che le sono stati strappati i capelli. Gioele tirato fuori successivamente e depositato nella zona, forse conservato in un contenitore di plastica e posizionato successivamente sul luogo del rinvenimento, dove è stato poi aggredito dagli animali. Una messinscena criminale per inscenare il suicidio, depistare le indagini e allontanare le responsabilità dai colpevoli».
Ma ci sono undici consulenti della procura al lavoro sulle due salme da un anno, perfino entomologi che studiano il comportamento degli insetti sui corpi. Tutti gli invasi della zona sono stati ispezionati, sono stati perfino fatti i test del Dna a tutti gli animali. Che cosa dovrebbe essere fatto che ancora non è stato fatto?
«Non ci hanno mai concesso di fare esami radiologici sui corpi. Lo abbiamo chiesto mille volte e ci è stato sempre rifiutato. Perché? Vogliamo usare apparecchiature laser 3d per registrare le lesioni dei corpi e compararle con le lesioni sui vestiti di Gioele e di Viviana. Tutto qui, perché non ce lo consentono?».
Sua moglie aveva manie di persecuzione, deliri mistici. Certamente è atroce da padre e da marito, ma perché escludere che abbia ucciso se stessa e Gioele mentre era fuori di sé?
«Lo escludono lo stato dei corpi, le fratture, i segni sul corpo e sui vestiti di Viviana, l'assenza di ogni traccia che unisca Viviana al traliccio ai piedi del quale è stata trovata, l'impossibilità che Viviana abbia percorso il tragitto dalla piazzola al traliccio, che si sia arrampicata sul traliccio e buttata, che abbia potuto strangolare Gioele facendolo morire per asfissia, che Gioele si sia fratturato il cranio nell'incidente. Questo lo dice la scienza. Io aggiungo, con il cuore e con la testa, che Viviana non avrebbe mai e poi mai potuto fare del male a Gioele».
Riesce a sentirli ancora vicini?
«Siamo, e resteremo sempre, una famiglia».
"Una messinscena": Viviana e Gioele, dopo un anno è ancora giallo. Rosa Scognamiglio il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Un anno dopo, il "giallo di Caronia" resta ancora il mistero sulle circostanze della morte di Viviana e Gioele. "Non si tratta di omicidio-suicidio", afferma Daniele Mondello. È trascorso quasi un anno da quando il corpo di Viviana Parisi, passata alle cronache come la "mamma deejay" di Venetico, e quello del figlioletto Gioele, di soli quattro anni, sono stati ritrovati nei boschi di Caronia, nel Messinese. Secondo gli inquirenti che lavorano al caso, si sarebbe trattato di un omicidio-suicidio: Viviana avrebbe ucciso il bimbo - forse, in preda a una sorta di "delirio mistico" - e poi si sarebbe tolta la vitta gettandosi giù da un traliccio dell'alta tensione. Non crede all'ipotesi formulata dalla Procura siciliana, invece, Daniele Mondello, marito della vittima e padre di Gioele. "È solo una messinscena, - afferma nel corso di un'intervista rilasciata al quotidiano La Stampa -i due corpi sono stati spostati nel luogo dove sono stati ritrovati, e questo lo dice la scienza, non lo dico io".
L'ipotesi di un omicidio-suicidio. I corpi delle due vittime sono ancora sequestrati e insepolti. Da circa un anno, la famiglia Mondello si batte nel tentativo di stabilire la verità in una vicenda che, ancora oggi, riserva ancora moltissimi punti oscuri. Il cadavere di Viviana fu ritrovato l'8 agosto 2020, cinque giorni dopo la scomparsa, ai piedi di un traliccio dell'alta tensione nella fitta vegetazione di Caronia. Quello di Gioele, invece, fu rinvenuto 10 giorni dopo - sbranato dagli animali - in un boschetto poco distante. "I corpi di mia moglie e di mio figlio erano distanti mille metri l'uno dall'altro, hanno le stesse ferite da caduta nonostante non ci fosse alcun traliccio e nessuna altura nel luogo in cui è stato trovato Gioele, e la stessa sostanza rosacea nei denti, una colorazione che indica la condizione di asfissia mentre si muore. - dice Daniele Mondello - Distanti un chilometro l'uno dall'altro, l'uno sul cocuzzolo di una collina, l'altro su una distesa scoscesa, hanno avuto la stessa morte. Come si spiega? Chi e perché ha spostato i corpi di mia moglie e di mio figlio? La scienza ha parlato e lo ha fatto con le parole dei nostri consulenti: il criminologo Carmelo Lavorino, il medico legale Antonio Della Valle e lo psicologo Enrico Delli Compagni, che il 30 marzo hanno inviato una relazione alla procura".
"Una messainscena criminale". Non ha dubbi Daniele Mondello sulle circostanze del decesso, ben lontane - a suo dire - da quelle ipotizzate dalla Procura. Stando a quanto avrebbero appurato i periti di parte, Viviana e Gioele sarebbero precipitati in un invaso con circa 50 centimetri d'acqua sul fondo "Sono precipitati contemporaneamente, - spiega il marito della donna -Viviana si è fratturata varie parti del corpo, soprattutto a sinistra, le sono esplose due vertebre, ha perso coscienza e sensibilità, è morta per asfissia. Gioele ha impattato con la testa ed è morto per asfissia. Poi i due corpi, in tempi diversi, sono stati estratti dal fondo del pozzo: Viviana tirata fuori la tarda sera del 3 agosto o la mattina del 4 agosto e trasportata in modo tale che le sono stati strappati i capelli. Gioele tirato fuori successivamente e depositato nella zona, forse conservato in un contenitore di plastica e posizionato successivamente sul luogo del rinvenimento, dove è stato poi aggredito dagli animali. Una messinscena criminale per inscenare il suicidio, depistare le indagini e allontanare le responsabilità dai colpevoli".
Quello che non torna del giallo. I familiari delle due vittime hanno più volte sollecitato il prosieguo delle indagini ma con insuccesso. "Non ci hanno mai concesso di fare esami radiologici sui corpi. - afferma Daniele - Lo abbiamo chiesto mille volte e ci è stato sempre rifiutato. Perché? Vogliamo usare apparecchiature laser 3d per registrare le lesioni dei corpi e compararle con le lesioni sui vestiti di Gioele e di Viviana. Tutto qui, perché non ce lo consentono?". Nel corso delle indagini, al tempo, era emerso che Viviana fosse fuori di sé e assumesse psicofarmarci. Da qui, l'ipotesi di un omicidio-suicidio. "Lo escludono lo stato dei corpi, le fratture, i segni sul corpo e sui vestiti di Viviana, l'assenza di ogni traccia che unisca Viviana al traliccio ai piedi del quale è stata trovata, l'impossibilità che Viviana abbia percorso il tragitto dalla piazzola al traliccio, che si sia arrampicata sul traliccio e buttata, che abbia potuto strangolare Gioele facendolo morire per asfissia, che Gioele si sia fratturato il cranio nell'incidente. - conclude il marito della vittima - Questo lo dice la scienza. Io aggiungo, con il cuore e con la testa, che Viviana non avrebbe mai e poi mai potuto fare del male a Gioele». Riesce a sentirli ancora vicini? «Siamo, e resteremo sempre, una famiglia".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Viviana e Gioele, dettagli sconvolgenti: "Il colore rosa nei denti e le vertebre esplose". La teoria un anno dopo la morte. Libero Quotidiano il 25 luglio 2021. Non si dà pace Daniele Mondello, che da un anno vive senza la moglie Viviana e il figlio Gioele, trovati morti dopo un incidente – risalente al 3 agosto - in una galleria dell’autostrada Messina-Palermo. Lei fu ritrovata ai piedi di un traliccio vicino al guardrail l’8 agosto, mentre lui – il piccolo di quattro anni – venne trovato il 19 agosto in un boschetto distante, sbranato dagli animali. Una storia che poi è stata battezzata “il giallo di Caronia”, dal nome del paese siciliano dove sono stati ritrovati i corpi. Intanto gli inquirenti stanno cercando di ricostruire i fatti. Daniele Mondello non crede si sia trattato di omicidio-suicidio e si batte perché venga fatta giustizia. “È solo una messinscena, i due corpi sono stati spostati nel luogo dove sono stati ritrovati, e questo lo dice la scienza, non lo dico io”, ha spiegato in un’intervista a La Stampa. Per poi aggiungere: “I corpi di mia moglie e di mio figlio erano distanti mille metri l’uno dall’altro, hanno le stesse ferite da caduta nonostante non ci fosse alcun traliccio e nessuna altura nel luogo in cui è stato trovato Gioele, e la stessa sostanza rosacea nei denti, una colorazione che indica la condizione di asfissia mentre si muore”. Il signor Mondello crede che qualcuno abbia spostato intenzionalmente i corpi: “Viviana e il mio bambino sono precipitati – caduti o lanciati, chissà – nel bosco di Caronia all’interno di un invaso con circa 50 centimetri di acqua sul fondo: un pozzo, una cisterna, un contenitore. Sono precipitati contemporaneamente, Viviana si è fratturata varie parti del corpo, soprattutto a sinistra, le sono esplose due vertebre, ha perso coscienza e sensibilità, è morta per asfissia. Gioele ha impattato con la testa ed è morto per asfissia. Poi i due corpi, in tempi diversi, sono stati estratti dal fondo del pozzo: Viviana tirata fuori la tarda sera del 3 agosto o la mattina del 4 agosto e trasportata in modo tale che le sono stati strappati i capelli. Gioele tirato fuori successivamente e depositato nella zona, forse conservato in un contenitore di plastica e posizionato successivamente sul luogo del rinvenimento, dove è stato poi aggredito dagli animali”. Poi denuncia: “Non ci hanno mai concesso di fare esami radiologici sui corpi. Lo abbiamo chiesto mille volte e ci è stato sempre rifiutato. Perché?”.
È ancora giallo, dopo un anno nessuna certezza e nemmeno un funerale per mamma e figlio. Viviana e Gioele, a un anno dalla scomparsa parla Daniele Mondello: “Messinscena criminale, non un suicidio”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 25 Luglio 2021. Il 3 agosto sarà passato precisamente un anno da quando Viviana Parisi, 40 anni, è scomparsa insieme a Gioele, il figlioletto di appena 3 anni. Furono giorni terribili: prima l’incidente sulla Messina-Palermo, poi il ritrovamento dei loro corpi straziati a distanza di giorni nel bosco di Caronia, ai margini di quella strada. Un anno dopo è ancora giallo: i corpi di Viviana e Gioele, o meglio il mucchio di ossa e carni che gli animali lasciarono a chi li cercava, sono ancora sotto sequestro, distanti, lei all’ospedale Papardo, il bimbo al Policlinico. Non è stato ancora celebrato nemmeno un funerale per i due, nessuna sepoltura, nessun luogo per Daniele Mondello, marito di Viviana e padre di Gioele, dove andare a piangere la sua famiglia, scomparsa nel nulla quel 3 agosto. Da un anno ripete che non è possibile che Viviana abbia ucciso Gioele per poi suicidarsi. Non ha mai creduto a questa tesi e aspetta che venga fuori la verità. “È solo una messinscena, i due corpi sono stati spostati nel luogo dove sono stati ritrovati, e questo lo dice la scienza, non lo dico io”, ha detto intervistato da La Stampa. Mondello ricostruisce così i fatti e non trova pace nel capire cosa sia successo: “I corpi di mia moglie e di mio figlio erano distanti mille metri l’uno dall’altro, hanno le stesse ferite da caduta nonostante non ci fosse alcun traliccio e nessuna altura nel luogo in cui è stato trovato Gioele, e la stessa sostanza rosacea nei denti, una colorazione che indica la condizione di asfissia mentre si muore”, ha detto. “Distanti un chilometro l’uno dall’altro – ha continuato Mondello – l’uno sul cocuzzolo di una collina, l’altro su una distesa scoscesa, hanno avuto la stessa morte. Come si spiega? Chi e perché ha spostato i corpi di mia moglie e di mio figlio? La scienza ha parlato e lo ha fatto con le parole dei nostri consulenti: il criminologo Carmelo Lavorino, il medico legale Antonio Della Valle e lo psicologo Enrico Delli Compagni, che il 30 marzo hanno inviato una relazione alla procura”. Si è fatto un’idea ben precisa: “Viviana e il mio bambino sono precipitati – caduti o lanciati, chissà – nel bosco di Caronia all’interno di un invaso con circa 50 centimetri d’acqua sul fondo: un pozzo, una cisterna, un contenitore – ha detto – Sono precipitati contemporaneamente, Viviana si è fratturata varie parti del corpo, soprattutto a sinistra, le sono esplose due vertebre, ha perso coscienza e sensibilità, è morta per asfissia. Gioele ha impattato con la testa ed è morto per asfissia”. Ma non finisce qui: “Poi i due corpi, in tempi diversi, sono stati estratti dal fondo del pozzo: Viviana tirata fuori la tarda sera del 3 agosto o la mattina del 4 agosto e trasportata in modo tale che le sono stati strappati i capelli. Gioele tirato fuori successivamente e depositato nella zona, forse conservato in un contenitore di plastica e posizionato successivamente sul luogo del rinvenimento, dove è stato poi aggredito dagli animali. Una messinscena criminale per inscenare il suicidio, depistare le indagini e allontanare le responsabilità dai colpevoli”. Per Mondello non è stato fatto ancora tutto quello che si poteva fare. Da un anno è critico con le indagini e non ha mai perso occasione per denunciarlo. “Non ci hanno mai concesso di fare esami radiologici sui corpi – ha detto – Lo abbiamo chiesto mille volte e ci è stato sempre rifiutato. Perché? Vogliamo usare apparecchiature laser 3d per registrare le lesioni dei corpi e compararle con le lesioni sui vestiti di Gioele e di Viviana. Tutto qui, perché non ce lo consentono?”
E intanto Daniele Mondello continua a ricordare giorno dopo giorno sua moglie e suo figlio. Ricorda Viviana suonando la loro musica. “Non ho cambiato nulla nella sua stanza – ha continuato – Nella stanza da letto ho lasciato la culla del mio cucciolo ai piedi del nostro lettone. Sono già rientrato in sala registrazione. Non sono bravo con le parole e, forse, l’unico finale corretto in questa storia sarebbe stato sparire, per sempre, come i miei amori. Ma la musica ci ha sempre legato e dalla musica sto cercando di ripartire”. Il 3 agosto ha organizzato una fiaccolata in memoria di Viviana e Gioele per ricordare la sua famiglia e anche per chiedere che sia fatta luce sul caso e si scopra la verità.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
"Annegati e spostati". Spunta una nuova verità su Viviana e Gioele. Rosa Scognamiglio il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. "Vi spiego perché Viviana non ha ucciso il suo Gioele. I corpi di Viviana e Gioele sono stati spostati sotto il traliccio", spiega a IlGiornale.it il criminologo Carmelo Lavorino. È trascorso quasi un anno da quando i corpi senza vita di Viviana Parisi, passata alle cronache come la "mamma deejay" di Venetico, e del figlioletto Gioele di soli 4 anni, sono stati ritrovati nei boschi di Caronia, nel Messinese. Secondo la Procura di Patti, si tratta di un omicidio-suicidio: Viviana avrebbe ucciso il bimbo - forse in preda a una sorta di "delirio psicotico" - e poi si sarebbe tolta la vitta gettandosi giù da un traliccio dell'alta tensione. I familiari della vittima sostengono invece che la verità sia ben altra da quella emersa sinora dalle carte dell'inchiesta ritenendo altamente improbabile l'ipotesi di un figlicidio, culminato con il suicidio della donna, formulata dagli inquirenti. "Viviana non ha ucciso il figlio e non si è suicidata. I corpi delle vittime sono stati traslati da qualcuno e lasciati poi nel luogo in cui sono stati ritrovati. Abbiamo delle prove scientifiche", spiega alla nostra redazione il criminologo Carmelo Lavorino, consulente della famiglia Mondello, precisando che le due salme non sono ancora state dissequestrate per consentire ulteriori accertamenti tecnico-scientifici.
A che punto sono le indagini sul "giallo di Caronia"?
"Noi periti di parte siamo ancora in attesa dei risultati delle attività info-investigative, delle consulenze e delle relazioni della procura, dei filmati, delle foto e di tutto il materiale nel fascicolo, di ulteriori esami dei corpi da parte loro tramite la strumentazione laser 3D".
Cosa non torna sulla morte di Viviana e Giole?
"Tutto. Purtroppo alcuni inquirenti che lavorano al caso si sono abbarbicati all'ipotesi, completamente infondata, dell'omicidio-suicidio".
Perché non è credibile l'ipotesi di un omicidio-suicidio?
"Perché ci sono delle evidenze scientifiche che provano l'esatto contrario dell'ipotesi formulata dalla procura. Non vi è stato alcun atto aggressivo di Viviana nei confronti di Gioele, non si è verificato nessun crollo psicotico della donna".
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Di Viviana si era detto che soffrisse di depressione. Cosa ha rivelato l'autopsia psicologica?
"Nulla di vero. Viviana era sicuramente preoccupata per il Covid, come tutti. Ma da qui a dire che abbia ucciso il figlio, ce ne passa".
Quali sono le "evidenze scientifiche" che, a suo dire, smentiscono la tesi della procura?
"Anzitutto l'impossibilità di arrampicamento da parte di Viviana sul traliccio. La donna avrebbe incontrato moltissime difficoltà per arrampicarsi con le scarpe ginniche (o con una sola scarpa) a 'suola non prensile' su un traliccio di metallo rovente, scivoloso, con rovi spinosi e pungenti. Poi è altamente improbabile - e congetturalmente illogico - che non ci siano tracce digitali (biologiche e Dna) di Viviana sul traliccio né che la vittima abbia riportato ferite (graffi o escoriazioni) al corpo mentre avrebbe tentato di arrampicarsi".
Dunque come sarebbe morta Viviana?
"Viviana è morta per asfissia in acqua".
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Dove sarebbe annegata?
"All'interno di un invaso nel bosco di Caronia, con le caratteristiche simili a quelle di un pozzo quali, ovvero con profondità di circa 5 metri e contenente al massimo mezzo metro di acqua".
E il figlioletto Gioele?
"La morte di entrambi si è verificata in seguito a precipitazione e successiva asfissia all'interno dell'invaso. Purtroppo del bambino abbiamo pochi elementi da analizzare dal momento che è stato assaltato dagli animali selvatici".
Come siete giunti a questa conclusione?
"A Viviana sono esplose due vertebre che le hanno causato la rottura del midollo: è morta subito dopo la caduta. E poi c'è un altro importantissimo dettaglio da non trascurare".
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Quale dettaglio?
"Entrambe le vittime avevano una colorazione rosacea dei denti. Una circostanza che si verifica quando un corpo resta per svariati giorni in acqua".
Posto che siano caduti nell'invaso, come sono stati recuperati i corpi?
"Tutto depone per il fatto che i corpi precipitati (con tempi, modi, dinamiche e motivi da individuare e definire) nell'invaso siano stati estratti tramite l’utilizzo di uno strumento, verosimilmente un estrattore a forcipe o a uncino per maiali, sollevati dal fondo del pozzo e tirati su. Ovviamente il corpo di Viviana – persona adulta – è stato trazionato per i capelli. E questo spiega anche le tracce sul vestiario di Viviana verosimilmente compatibili con alcune tracce sul corpo e la mancanza della ciocca di capelli strappata, rilevata in sede autoptica".
Quindi sono stati spostati da un posto all'altro?
"Sì, sono stati traslati dal luogo in cui sono precipitati al di sotto del traliccio".
Chi e per quale motivo avrebbe "traslato" i cadaveri?
"Ci sono svariate ipotesi che abbiamo formulato e che attendiamo di verificare una volta che avremo accesso alle relazioni della procura".
Tra le ipotesi che seguitate c'è anche la pista delittuosa?
"È stata messa in essere da parte di una 'combinazione criminale' un'attività di depistaggio e messinscena, tramite una facile traslazione del corpo di Viviana sotto il traliccio con mezzi adeguati e in totale sicurezza. Tale 'combinazione criminale' è logicamente composta da soggetti con caratteristiche di profonda conoscenza del territorio, dei sentieri, dell'orografia e degli eventi: soggetti che si muovono con sicurezza, conoscenza, padronanza e certezza dell'impunità".
La verità sul "giallo di Caronia" è vicina?
"Vicina o lontana, noi non ci fermeremo finché non l'avremo dimostrata".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di crona...
(ANSA il 29 luglio 2021) - Gioele sarebbe morto per "un evento accidentale" o per un "gesto volontario" della madre che ha poi "deposto il suo corpo e si è allontanata alla ricerca del primo luogo 'utile' che le permettesse, in qualche modo, di porre fine alla sua vita". E' la ricostruzione della Procura di Patti sulla tragedia di Caronia. "In ogni caso ed in definitiva - aggiunge la procura - l'ipotesi dell'infanticidio commesso da Viviana, alla luce dell'indubbio carattere residuale dell'altro scenario (morte di Gioele causata da una lesione interna, da un colpo di calore, per sete, etc.), continua a rimanere la tesi più probabile e fondata"
Vicenda Viviana, ipotesi omicidio-suicidio: la procura ha chiesto l'archiviazione. Secondo gli inquirenti la deejay si sarebbe suicidata lanciandosi dal traliccio e con ogni probabilità prima avrebbe strangolato il figlio Gioele. La Repubblica il 29 luglio 2021. Viviana Parisi, la deejay di 41 anni trovata morta l'8 agosto del 2020 nei boschi di Caronia "si è uccisa lanciandosi dal traliccio" ai piedi del quale è stata trovata senza vita. E, con ogni probabilità, prima di uccidersi avrebbe strangolato il figlio Gioele di 4 anni, poi ritrovato nel bosco il 19 agosto. Dunque, nessun duplice omicidio. Ecco perché la procura di Patti in provincia di Messina, che coordina l'inchiesta sulla morte della donna e del figlio, a un anno dai fatti ha chiesto al gip l'archiviazione. La Procura di Patti ha autorizzato la restituzione dei corpi di Viviana Parisi e del figlio Gioele Mondello, i cui resti erano stati ritrovati lo scorso agosto, alcuni giorni dopo la scomparsa, avvenuta il 3 agosto 2020. A questo punto i familiari della deejay di 41 anni e del piccolo Gioele potranno celebrare i funerali. La richiesta di archiviazione della procura si fonda sulla consulenza dei medici legali, che Repubblica aveva anticipato nei giorni scorsi. Nella richiesta di archiviazione il procuratore capo di Patti, Angelo Vittorio Cavallo, elenca una serie di accertamenti e alcune intercettazioni da cui emergerebbe tutto il malessere psichico della donna. "Le indagini hanno permesso di accertare in modo incontrovertibile le precarie condizioni di salute mentale di Viviana", dice il procuratore in un comunicato. La nota della procura ricorda il trasporto di Viviana al pronto soccorso, il 18 marzo 2020, in pieno lockdown, all'ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto. "Il medico intervenuto ha ricordato di aver visto Viviana sdraiata per terra, che ripeteva la frase: 'Abbiamo consegnato i nostri figli al demonio'. Circa tre mesi dopo, a fine giugno, la donna era stata nuovamente condotta presso il pronto soccorso del Policlinico di Messina, per avere ingerito, volontariamente, come dicono i medici, dei farmaci "con chiaro intento autolesivo". Episodi "non isolati", come scrive lo stesso magistrato. "Tutti i familiari, gli amici ed i vicini di casa di Viviana Parisi hanno dichiarato come" la donna, nel corso del tempo, "avesse dato luogo a numerosi episodi di instabilità psicologica, adottando comportamenti singolari", come la lettura della Bibbia sul balcone di casa o nel sagrato della chiesa, in pieno lockdown, "nonché accusando manie di persecuzione e timori di vario genere, come quello di essere controllata da sconosciuti, anche attraverso la televisione ed il telefono cellulare, oppure ritenendo di essere pedinata da macchine di grossa cilindrata".
L'urlo di Viviana: "I nostri figli al demonio". I pm sicuri: "Suicidio, ecco perché". Rosa Scognamiglio il 29 Luglio 2021 su Il Giornale. La procura di Patti ha chiesto l'archiviazione del "giallo di Caronia". Per gli inquirenti Viviana "si è lanciata volontariamente dal traliccio". Viviana Parisi, la mamma deejay ritrovata senza vita nei boschi di Caronia lo scorso 3 agosto "si è uccisa lanciandosi dal traliccio". A riferirlo sono fonti giudiziarie vicine all'Adnkronos secondo cui la procura di Patti, titolare del fascicolo d'indagine per omicidio-suicido, ha chiesto l'archiviazione del caso disponendo la restituzione dei corpi ai familiari delle vittime. Agli atti dell'inchiesta ci sarebbero alcune frasi che la donna avrebbe gridato al marito nei giorni antecedenti alla tragica vicenda. "Abbiamo consegnato i nostri figli al demonio!", reciterebbe una di queste.
La richiesta di archiviazione. A circa un anno dall'inizio del "Giallo di Caronia", in cui hanno perso la vita la "mamma deeay" di Venetico e il figlioletto Gioele, la procura di Patti (Messina) ha chiesto l'archiviazione del caso. Sin dall'inizio delle indagini, gli inquirenti hanno ritenuto verosimile l'ipotesi di un omicidio-suicidio: Viviana avrebbe ucciso il bimbo - forse in preda a una sorta di "delirio psicotico" - e poi si sarebbe tolta la vita gettandosi giù da un traliccio dell'alta tensione nei boschi di Caronia.
I familiari della vittima sostengono, invece, che la verità sia ben altra da quella emersa sinora dalle carte dell'inchiesta ritenendo altamente improbabile l'ipotesi di un figlicidio, culminato con il suicidio della donna, formulata dai periti della procura. "Viviana non ha ucciso il figlio e non si è suicidata. I corpi delle vittime sono stati traslati da qualcuno e lasciati poi nel luogo in cui sono stati ritrovati. Abbiamo delle prove scientifiche", aveva spiegato qualche giorno fa alla nostra redazione il criminologo Carmelo Lavorino, consulente della famiglia Mondello.
"Nessuno estraneo ha avuto un ruolo nella vicenda". "Nessun estraneo ha avuto un ruolo, neanche marginale, mediato o indiretto", precisa la Procura di Patti. Ecco perché il Procuratore Angelo Vittorio Cavallo, a capo dell'inchiesta sulla morte della donna e del figlio, ha chiesto al gip l'archiviazione del caso. "Tutte le indagini tecniche svolte hanno permesso di accertare come Viviana, senza ombra di alcun dubbio, si sia volontariamente lanciata dal traliccio dell’alta tensione, con chiaro ed innegabile intento suicidario", spiega Cavallo. La Procura esclude anche "la presenza di lesioni" sia prima della morte che post mortem "causate da animali". Ed esclude, inoltre, "lesioni o comunque segni riconducibili all’azione violenta di soggetti terzi". L’epoca della morte della donna "deve essere collocata all’interno di un arco temporale compreso, al massimo, tra le ore 12 e le ore 20 del giorno stesso della sua scomparsa, cioè il 3 agosto 2020, dunque a ridosso e nell’immediatezza dei fatti", scrive nella richiesta di archiviazione rilanciata dall'agenzia stampa Adnkronos. Il corpo della donna è stato ritrovato sotto un traliccio cinque giorni dopo la sua scomparsa.
Gli accertamenti medico-legali su Gioele. Più complessa e articolata la sequenza di accertamenti medico-legali relativa al decesso di Gioele. "In ogni caso sono stati raggiunti dei sicuri punti fermi", spiega il Procuratore. I consulenti della procura hanno accertato come la morte del bimbo "sia comunque compatibile con la data della sua scomparsa, ossia il 3 agosto 2020, dunque in piena coincidenza temporale con la morte della madre Viviana, verificatasi in un arco temporale massimo compreso fra le ore 12 e le ore 20 dello stesso 3 agosto 2020". C'è poi un altro punto fermo: Gioele non è stato ucciso dai morsi di animali, come si era pensato in un primo momento. "Gli accertamenti sui reperti biologici di origine animale e di tipo veterinario-forense hanno permesso di rilevare, in primo luogo, come Gioele non abbia subito, mentre era ancora in vita, alcuna aggressione da parte di animale (canidi, suidi o altro tipo ancora) - scrive ancora il Procuratore - E’ stato invece accertato come la specie animale 'Vulpes vulpes' abbia svolto un ruolo di necrofago, abbia cioè consumato il corpo di Gioele, ma soltanto dopo la sua morte".
"Abbiamo consegnato i nostri figli al demonio!". Un giallo ancora irrisolto e che s'infittisce di dettagli tutt'altro che trascurabili. Agli atti dell'inchiesta ci sarebbero alcune frasi che Viviana avrebbe gridato al marito nei giorni antecedenti alla drammatica vicenda. "Abbiamo consegnato i nostri figli al demonio!", reciterebbe una di queste. Ma non è tutto. Stando a quanto si apprende da fonti a vario titolo, nel fascicolo di indagine per omicidio-suicidio ci sono, inoltre, gli sms che Daniele Mondello, papà del piccolo Gioele e marito della donna, avrebbe inviato alla moglie: "Fatti curare, - le avrebbe scritto - hai rovinato la famiglia". Il professor Massimo Picozzi, incarito dalla procura di Patti per la perizia psichiatrica della vittima, ha sempre sostenuto che Viviana fosse affetta da una "patologia psicotica" con anche "manie di persecuzione".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Viviana Parisi "ha strangolato Gioele e poi si è lanciata nel vuoto": la prova decisiva un anno dopo, caso chiuso. Libero Quotidiano il 29 luglio 2021. Il caso di Viviana Parisi potrebbe essere giunto a una conclusione. Stando a quanto riportato dall’Adnkronos la Procura di Patti - che coordina l’inchiesta sulla morte della donna e del figlio Gioele avvenuta nei boschi siciliani di Caronia - ha chiesto al gip l’archiviazione. Era l’8 agosto 2020 quando la 41enne è stata trovata prima di vita: si sarebbe uccisa lanciandosi da un traliccio, subito dopo aver ucciso il figlio di 4 anni, probabilmente strangolandolo. Nella richiesta di archiviazione emergono una serie di consulenze e alcune intercettazioni che evidenzierebbero chiaramente il malessere psichico della donna. “Le indagini - ha dichiarato il procuratore capo di Patti, Angelo Vittorio Cavallo - hanno perso di accertare in modo incontrovertibile le precarie condizioni di salute mentale di Viviana”. A marzo 2020 la donna era stata portata all’ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto, dove aveva impressionato il medico intervenuto in suo soccorso: sdraiata a terra, ripeteva continuamente “abbiamo consegnato i nostri figli al demonio”. Tre mesi più tardi, a fine giugno, Viviana era stata di nuovo in ospedale, stavolta a Messina, per aver ingerito volontariamente dei farmaci con “chiaro intento autolesivo”, come testimoniato dai medici. E quindi ci sarebbe proprio l’instabilità mentale della donna dietro l’omicidio-suicidio verificatosi nei boschi di Caronia ad agosto di un anno fa.
Valeria Arnaldi per "il Messaggero" il 30 luglio 2021. Viviana Parisi si sarebbe «uccisa lanciandosi dal traliccio», ai cui piedi, è stata ritrovata senza vita l'8 agosto 2020. E la morte del figlio Gioele, 4 anni, il cui corpo è stato rinvenuto il 19 agosto, potrebbe essere legata a un gesto drammatico della mamma, anche se non c'è certezza assoluta in tal senso. A un anno di distanza dai fatti, la Procura di Patti, nel messinese, che coordina l'inchiesta sul caso della deejay quarantunenne trovata morta nei boschi di Caronia insieme al figlio, ha escluso il duplice omicidio e chiesto al gip l'archiviazione.
LE MOTIVAZIONI. «Tutte le indagini tecniche svolte (indagini cinematiche, medico - legali, genetiche, veterinarie, etc.) hanno permesso di accertare come Viviana, senza ombra di dubbio, si sia volontariamente lanciata dal traliccio dell'alta tensione, con chiaro ed innegabile intento suicidario», sostiene il procuratore Angelo Cavallo. Nella ricostruzione del magistrato, «l'intera vicenda, in realtà, è ascrivibile in modo esclusivo alle circostanze di tempo e di luogo, al comportamento ed alle condotte poste in essere da Viviana Parisi e al suo precario stato di salute, purtroppo non compreso sino in fondo, in primo luogo da parte dei suoi familiari più stretti». La famiglia però non ci sta e chiede che le indagini vadano avanti. Daniele Mondello, marito di Viviana e papà di Gioele, nell'annuncio della fiaccolata in memoria dei suoi cari che si terrà il 3 agosto a Venetico Marina, pubblicato sui social, afferma: «Lo dico chiaramente: non vogliamo che le indagini siano chiuse o i corpi dissequestrati. Sappiamo che quello della verità è un percorso lungo e difficile e siamo disposti ad attendere i tempi della giustizia terrena».
GLI ESPERTI. Secondo il team di esperti della famiglia Mondello, che ha steso una relazione di circa quaranta pagine, il suicidio di Viviana Parisi è ipotesi da escludere. «I due sono morti per asfissia dopo essere precipitati all'interno di un invaso, una pozza, un pozzo una buca, profonda 3/4/5 metri che conteneva nel fondo dell'acqua, altezza di circa cinquanta centimetri - dichiara il criminologo Carmelo Lavorino - Viviana, nel cadere, si è fratturata due vertebre che le hanno tranciato il midollo spinale ed è morta per asfissia. Stessa cosa il bambino». Poi, «una combinazione criminale ha preso i corpi dei due deceduti e li ha sistemati con una logica criminale». Il team sottolinea che chiede l'accesso ai corpi da dicembre 2020, ma senza esito.
IL TEOREMA. «Il teorema Viviana era pazza - commenta l'avvocato Claudio Mondello che rappresenta la famiglia insieme all'avvocato Pietro Venuti - è il teorema di una radicata cultura maschilista che scarica ogni responsabilità sulle spalle delle donne per, poi, giudicarle, ghettizzarle, chiuderle nell'angolo cieco della diffamazione e della calunnia». La famiglia Mondello «non l'ha mai lasciata sola. I medici che l'hanno visitata non hanno mai disposto limitazioni o costrizioni, eppure potevano farlo», per Viviana. Per i legali sono vari i punti da chiarire: «I due cadaveri, pur essendo distanti mille metri l'uno dall'altra presentano le stesse identiche lesività da precipitazione cioè da caduta - non c'era alcun traliccio ed alcuna altura lì dove viene rinvenuto Gioele - e la stessa sostanza rosacea nei denti. I corpi erano uno sul cucuzzolo di una collina, l'altro ai piedi di una baia, due luoghi completamente diversi, ma presentano le stesse identiche lesività. Come si spiega? Chi e perché ha traslato i corpi di Viviana e di Gioele?». Domande che, per la famiglia, rimangono in sospeso. Così le istanze sull'«uso di apparecchiature Laser 3d sui resti» e di «esami radiologici». Intanto, Daniele Mondello mantiene viva la memoria, tra fiaccolate, video, un nuovo brano dedicato ai suoi affetti.
Delitto di Caronia, l’avvocato del marito: “Procura non sa dove è morto Gioele, ma chiede archiviazione”. Ilaria Minucci il 04/08/2021 su Notizie.it. L’avvocato di Daniele Mondello si è espresso sull’archiviazione delle indagini del delitto di Caronia sulla morte di Viviana Parisi e del figlio Gioele. L’avvocato e cugino di Daniele Mondello, Claudio Mondello, si è espresso in merito all’archiviazione delle indagini relative alla morte di Viviana Parisi e del figlio Gioele disposta dalla Procura di Patti. A circa un anno di distanza dalla morte della deejay Viviana Parise e di suo figlio Gioele, la Procura di Patti ha annunciato l’archiviazione delle indagini relative alla drammatica e misteriosa vicenda. La decisione della Procura è stata commentata da uno dei legali, nonché cugino, di Daniele Mondello, marito di Viviana Parise. L’uomo, infatti, è rappresentato da Claudio Mondello e da Pietro Venuti. Nel corso della sua partecipazione a una manifestazione organizzata a Venetico, in provincia di Messina, per rendere omaggio alla memoria della deejay e del figlio, l’avvocato Claudio Mondello ha dichiarato: “Per ora ci riserviamo sulla opposizione alla richiesta di archiviazione dell’indagine ovviamente ci sono elementi per farla, ricordo che la procura nel momento in cui formula la richiesta di archiviazione prospetta per Gioele otto differenti scenari per cui la causa della morte del bambino”. In questa circostanza, inoltre, il legale ha anche precisato quanto segue: “Certamente la Procura non sa come, dove, quando e perché è morto Gioele – e ha aggiunto –. Abbiamo chiesto al gip di fare un esame 3D per realizzare un modello 3D del corpo di Viviana così laddove venisse dissequestrato in via definitiva e si facessero i funerali la prova rimane tutelata e poi al fine di individuare lesività e micro-lesività sul corpo di Viviana che verrebbero individuate e registrate in modo tale da salvare dall’oblio ogni elemento di prova possibile”. Infine, l’avvocato Claudio Mondello ha anche criticato la posizione espressa dalla Procura circa la chiusura del caso, asserendo: “La Procura si esprime in termini di probabilità quando dice di privilegiare l’ipotesi dell’infanticidio ma non dice quanto sia probabile e dà pari dignità a tutte queste alternative se io chiedo un’archiviazione vuol dire che ho capito cosa è successo non posso farlo se non ho capito e soprattutto, se non lo mettono nero su bianco. Dopo un anno di indagine ci sono ancora aspetti da scandagliare.
Valentina Errante per “Il Messaggero” il 4 settembre 2021. Il delirio religioso, la malattia nascosta, due ricoveri e il rifiuto delle cure. Emergono dettagli drammatici dalla lunga richiesta di archiviazione della procura di Patti, che scrive la parola fine nella triste storia del piccolo Gioele Mondello e della sua mamma, la dj Viviana Parisi, trovati morti a Caronia, in provincia di Messina, lo scorso agosto dopo aver lasciato l'auto in una galleria. La famiglia annuncia l'opposizione, anche se, leggendo le oltre 500 pagine di intercettazioni e testimonianze, rimangono pochi dubbi sul tragico epilogo e sulla morte di Viviana e Gioele. Dagli atti, che ricostruiscono come la donna, ormai da anni in preda ad allucinazioni religiose, abbia ucciso il suo bambino per poi suicidarsi, emerge anche il contesto familiare nel quale il dramma si è consumato. Con Roberto Mondello, papà e marito delle vittime, pronto ad andare in tv a parlare del dramma che aveva distrutto la sua famiglia, ma solo per molti soldi. E la sorella di Viviana che non rivela agli inquirenti che la donna aveva già tentato il suicidio. IN TV PER SOLDI «Ma quale mille euro Roberto. Sì mille euro, ma non esiste. Almeno il più scarso dev' essere cinquemila euro. Se no non ci vado, non mi interessa, non mi sbatto. Ma tu lo sai quanto vengono pagate le persone là? Tu non hai idea». Così Daniele Mondello parlava al telefono con il cognato Roberto Parisi il 10 ottobre 2020, circa due mesi dopo la scomparsa della moglie e del figlioletto, dell'ipotesi di andare in tv. Daniele annuncia di avere incaricato l'avvocato di scrivere una lettera e aggiunge: «Io cerco loro molti soldi. Non mi interessa. Se mi vogliono... altrimenti non ci vado». È il 18 marzo 2020 quando Daniele Mondello chiama il 118: «Mi serve un'ambulanza mia moglie sta malissimo, non lo so, le è venuta una crisi, dice cose allucinanti è fuori di testa ormai, è fuori di testa». Quel giorno, al pronto soccorso dell'ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto, il medico scrive che la paziente è «in preda a un delirio mistico con manie di persecuzione. Il marito riferisce che la paziente si sente perseguitata da circa due anni», ma dal giorno prima ha avuto un peggioramento. A Viviana viene somministrato un calmante. Ma torna a casa, nonostante la richiesta di trattamento sanitario obbligatorio. Fino all'altro episodio, questa volta a fine giugno, quando manda giù otto pillole di psicofarmaci, tutte insieme. Lo dirà lei stessa al medico psichiatra a Messina. Ma sia lei che il marito Daniele chiederanno le dimissioni.
DELIRIO RELIGIOSO A marzo all'ospedale arriva anche il parroco, padre Cleto, chiamato da Daniele. «In quel momento Viviana era sconvolta e pronunciava frasi senza senso del tipo: Padre Cleto è arrivato il tempo dell'Apocalisse», racconterà poi il sacerdote ai magistrati. Ma anche in ambulanza la donna ha mostrato il suo disagio, come emerge ancora dagli atti. «Viviana - ha riferito la dottoressa che si trovava sul mezzo di soccorso - aveva visto il simbolo medico del serpente all'interno dell'ambulanza e ne era rimasta molto colpita, evidentemente collegandolo alla figura di Satana, più volte evocata», scrive il procuratore Angelo Cavallo nella richiesta di archiviazione. «Durante il viaggio, la donna era abbastanza tranquilla. A un certo punto, la Parisi ha detto: Anche voi avete il serpente. Pure il serpente avete, con riferimento al simbolo riportato sul portellone posteriore dell'ambulanza. Ricordo - ha testimoniato il medico - che ha pronunciato questa frase parecchie volte, durante tutto il tragitto fino a Barcellona. Ripeteva questa frase continuamente con lo sguardo assente e le rispondevo che quello era semplicemente il nostro simbolo».
"Ha ucciso Gioele", "Si è ca... sotto": le intercettazioni choc sulla morte di Viviana. Rosa Scognamiglio il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. Secondo la Procura, Viviana uccise il figlioletto Gioele e poi si tolse la vita. A supporto dell'ipotesi di omicidio-suicidio ci sarebbero alcune intercettazioni del marito e della cognata. "A mio nipote me lo ha ammazzato lei". E ancora: "Dice cose allucinanti". Si tratta di uno stralcio delle intercettazioni telefoniche raccolte dalla Procura di Patti nel fascicolo per la richiesta di archivizione del caso di Viviana Parisi, la mamma-deejay ritrovata senza vita - assieme al figlioletto Gioele - ai piedi di un traliccio dell'alta tensione nei boschi di Caronia (Messina). Secondo il procuratore di Patti, Angelo Cavallo, si sarebbe trattato di un omicidio-suicidio consumatosi sulla scia di un "delirio psicotico" della donna. Un'ipotesi che Daniele Mondello, il marito della vittima, ha sempre respinto sostenendo che fosse invece "una messinscena" per depistare le indagini. Tuttavia, dalla documentazione acquisita da Adnkronos, emergono retroscena che suffragano la tesi della Procura.
Le intercettazioni del marito di Viviana. Daniele Mondello, marito di Viviana e padre del piccolo Gioele, non ha mai ritenuto plausibile l'ipotesi di un omicidio-suicidio avallata dagli inquirenti. "Sono precipitati contemporaneamente, Viviana si è fratturata varie parti del corpo, soprattutto a sinistra, le sono esplose due vertebre, ha perso coscienza e sensibilità, è morta per asfissia. Gioele ha impattato con la testa ed è morto per asfissia. Poi i due corpi, in tempi diversi, sono stati estratti dal fondo del pozzo: Viviana tirata fuori la tarda sera del 3 agosto o la mattina del 4 agosto e trasportata in modo tale che le sono stati strappati i capelli. Gioele tirato fuori successivamente e depositato nella zona", spiegava il marito della mamma-deejay in una intervista rilasciata alle pagine del quotidiano La Stampa lo scorso luglio. Eppure, agli atti del fascicolo giudiziario risulta che Daniele temesse l'instabilità emotiva della moglie esprimendo preoccupazione per il suo comportamento. Lo avrebbe fatto in una circostanza specifica, ovvero, nel corso di una conversazione telefonica con l'amico Tonino a cui avrebbe manifestato le sue perplessità dopo il ritrovamento del cadavere. "Diceva cose allucinanti - rivela nella telefonata - Era fissata che le togliessero il bambino". Poi, allude in maniera esplicita alle "manie di persecuzione" di Viviana che, a suo dire, spiegherebbero l'incidente stradale a pochi metri dal tunnel Pizzo Turda. "Con l'incidente (avvenuto prima della fuga nel bosco - ndr), là si è cacata di sotto, - continua nella telefonata - chissà cosa gli è sembrato, ha pensato chissà ora cosa succede, o magari le sembrava di essere inseguita. Perché lei mi diceva così, il fatto di essere seguita... che la seguivano con le macchine grosse... Sì, manie di persecuzione, si fissava".
Le intercettazioni della cognata. Non solo Daniele Mondello ma anche sua sorella, Mariella Mondello, avrebbe gettato ombre sull'equilibrio psichico di Viviana. "Sono arrabbiata con Viviana - confida Mariella a un'amica ignorando di essere intercettata al telefono - io sono arrabbiata perché lei, va... a mio nipote me lo ha ammazzato lei. Per la sua testa, per le sue cose, noi ci abbiamo messo tutto il nostro impegno, ma lei non si è voluta curare".
In una intercettazione successiva, come ricostruisce ancora l'agenzia stampa Adnkronos, la stessa si sarebbe espressa con tono severo nei confronti della cognata. L'interlocutrice dice: "Sempre con il senno del poi... questo bambino non doveva essere lasciato solo con sua madre". E Mariella Mondello risponde: "Quella un bastarda era, mio fratello, quella mattina, gli aveva detto: 'Vengo anche io'". E l'amica: "Perché era una pazza, era una pazza".
Le paure della madre di Viviana. Anche Carmela Trusso Cafarello, madre di Viviana, era preoccupata per la figlia. Nel corso di una conversazione telefonica con il nipote Agostino, la donna racconta i momenti di depressione e i due ricoveri in pronto soccorso della figlia. Poi, accenna alla "mania" di leggere la Bibbia ad alta voce sul balcone di casa. "È andata proprio fuori di testa; - afferma mamma Carmela - Poi, quando ha avuto questa crisi qua che è stata all'ospedale... anche se ha avuto un'altra ricaduta ed è finita di nuovo all'ospedale, perché poi pensava che magari il marito non le volesse bene, che la tradisse... ogni tanto cadeva... Daniele gli aveva proibito pure di leggere la Bibbia, gli ha detto guai a te... io te la tolgo, te la brucio, non leggere più la Bibbia".
"Faremo opposizione all'archiviazione delle indagini". Per il procuratore di Patti, Angelo Cavallo, le intercettazioni avvalorerebbero l'ipotesi di un omicidio-suicidio: Viviana avrebbe ucciso Gioele e poi si sarebbe tolta la vita lanciandosi da un traliccio dell'alta tensione nei boschi di Caronia. Una ricostruzione che, invece, la famiglia Mondello contesta con fermezza. "Al momento stiamo studiando le carte - dice l'avvocato Pietro Venuti, legale del marito, all'Adnkronos - ma è certo che faremo opposizione". "Il fascicolo è composto da migliaia di pagine - spiega il legale - e non le abbiamo ancora lette tutte. Ci sono tante stranezze in questa vicenda che vengono riportate anche dai consulenti del pm. Ad esempio, il luogo in cui è stato trovato il corpo della signora Viviana è una zona boschiva abbastanza silenziosa. Perché sono stati fatti sopralluoghi, sia di giorno che di notte, ed era possibile udire il rumore di persone e animali che stavano a distanza anche di 100 metri. Siccome in quel contesto c'erano operai di sugheri che stavano lavorando, hanno udito qualcosa? Se avesse compiuto un gesto estremo si sarebbero sentite delle grida. Invece non è stato sentito nulla".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...
Viviana Parisi e Gioele, il marito Daniele Mondello al telefono: "È fuori di testa", l'intercettazione che cambia tutto. Libero Quotidiano il 03 settembre 2021. Continuano ad emergere dettagli inquietanti su Viviana Parisi, la donna ritrovata morta con il figlio Gioele di 4 anni nell'agosto 2020 a Caronia, in Sicilia, dopo che di loro si erano perse le tracce per giorni. La Procura di Patti ha chiesto l'archiviazione del caso, mentre il marito Daniele Mondello continua a sostenere che non si sia trattato di un caso di omicidio e suicidio ma di duplice omicidio. Tuttavia, dalle carte gli inquirenti hanno evidenziato come proprio la famiglia di Viviana abbia cercato di nascondere nelle settimane precedenti alla tragedia le notizie sulle reali condizioni psichiche della donna. Il marito stesso ha sempre minimizzato le turbe di cui era affetta la 44enne, vittima di una grave forma di crisi depressiva. Ma nella richiesta di archiviazione della Procura emergono dettagli che vanno in tutt'altra direzione. "Mi serve un'ambulanza, mia moglie sta malissimo, non lo so, le è venuta una crisi, dice cose allucinanti è fuori di testa", spiegava lo stesso Mondello in una telefonata al 112 del 18 marzo 2020. Una presa d'atto che cozza con le versioni fornite dal dj nei giorni successivi al ritrovamento dei corpi di moglie e figlioletto. A conferma delle condizioni di Viviana ci sarebbe il referto del medico del pronto soccorso di Barcellona Pozzo di Gotto che l'ha visitata quel giorno: la paziente era "in preda a un delirio mistico con manie di persecuzione. Il marito riferisce che la paziente si sente perseguitata da circa due anni". Per questo il medico chiese per lei l'assistenza sanitaria obbligatoria. Secondo gli inquirenti, diversi amici di Viviana hanno confermato la grave instabilità psicologica di una mamma preoccupata che gli assistenti sociali potessero portarle via il figlio. Viviana avrebbe chiesto a una conoscente il numero di telefono di un sacerdote, Padre Cleto, per farsi esorcizzare credendosi indemoniata. Le crisi psicotiche sarebbero peggiorate durante la fase del lockdown, nella primavera del 2020. Anche la sorella della Parisi, Denise, avrebbe tenuto segreto agli inquirenti che la interrogarono il 5 agosto dello scorso anno un precedente tentativo di suicidio. Nonostante questo materiale, i legali di Mondello annunciano richiesta di opposizione all'archiviazione. "Non siamo convinti - spiega l'avvocato Pietro Venuti - dopo l'analisi degli elementi presentati anche dai consulenti che Viviana si sia suicidata e lo stesso vale per quanto riferito sulla morte di Gioele. Noi avevano chiesto altre analisi e altri esami. Non ci fermeremo qui cercheremo di andare fino in fondo per conoscere la verità".
Viviana Parisi, il marito Daniele Mondello intercettato: "Molti soldi per andare in tv". Libero Quotidiano il 03 settembre 2021. "Molti soldi, almeno cinquemila euro": Daniele Mondello, il marito di Viviana Parisi, la deejay trovata morta nei boschi di Caronia insieme al figlio Gioele di 4 anni ad agosto dell'anno scorso, avrebbe chiesto una cifra enorme per una presenza "esclusiva" in tv. Un'ospitata nella quale avrebbe potuto parlare del giallo in cui è rimasta coinvolta la sua famiglia. È quanto emerge da una intercettazione del 10 ottobre 2020 tra Daniele e il cognato, Roberto Parisi. Nella conversazione intercettata, in particolare, il cognato avrebbe chiesto al signor Mondello se gli andasse di andare in una trasmissione non precisata. E a quel punto il marito della Parisi avrebbe risposto: "No, ma io... io cerco loro molti soldi. Non mi interessa. Se mi vogliono...altrimenti non ci vado". Roberto allora: "Mi ha detto... ti danno qualcosa". E Daniele: "Vediamo Roberto, quanto mi danno, perché sennò non mi muovo. Non mi interessa. Perché non mi interessa". La replica del cognato: "Io, fosse anche mille euro, ci andrei di corsa". Poi Daniele seccato: "Ma quale mille euro, Roberto! Sì, mille euro! Ma non esiste! Almeno... ma... il più scarso deve essere cinquemila euro!". In un'altra intercettazione risalente al 9 agosto 2020, il giorno dopo il ritrovamento del corpo di Viviana, il signor Mondello parla con un suo amico, Tonino, confessando che la moglie soffriva di manie di persecuzione: "Non me l'aspettavo una cosa così, che andava a finire così. Pensavo che lei se ne era scappata, perché si spaventava che gli prendevano il bambino, aveva la fissazione che gli prendevano questo bambino". E ancora: "Lei era malata, diceva sempre che mi sarebbe successo qualcosa a me e al bambino. A me e al bambino. Aveva sempre queste paure allucinanti, delle paure pazzesche - dice Daniele nelle intercettazioni visionate dall'Adnkronos -. Secondo me gli è scoppiato il cuore, gli è venuto un attacco cardiaco... troppo caldo, troppo".
"Perché non ha ucciso Gioele": le nuove foto scagionano Viviana? Rosa Scognamiglio il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. Da un'indagine tecnica e investigativa, condotta dal criminologo Carmelo Lavorino e il medico legale Antonio Della Valle, emerge che Viviana Parisi non si è lanciata dal traliccio dell'alta tensione. "Non è stato omicidio-suicidio". "Viviana non ha ucciso Gioele e non si è lanciata dal traliccio dell'alta tensione. I corpi sono stati traslati". Ne sono fermamente convinti il criminologo Carmelo Lavorino e il medico legale Antonio Della Valle, consulenti di parte nelle indagini relative al Giallo di Caronia. In una relazione tecnica e d'indagine criminalistica di ben 50 pagine, i due esperti smontano i 144 punti di conclusione della richiesta di archiviazione del caso formulata dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di Patti, il dottor Angelo Cavallo, e dai sostituti procuratori Alessandro Lia e Federica Urban.
"La richiesta di archiviazione del caso dà apoditticamente per assodato che la colpa l'incidente sia stata causata dallo stato di 'alterazione psichica' di Viviana - spiega il professor Lavorino a ilGiornale.it - Sicuramente non vi è stato suicidio e sicuramente non vi è stato alcun atto aggressivo della donna nei confronti del figlio".
"Annegati e spostati". Spunta una nuova verità su Viviana e Gioele
Il giallo di Caronia: dalla scomparsa al ritrovamento dei corpi
Quella di Caronia è un giallo che si è consumato a colpi di perizie tra i consulenti della Procura e quelli di parte. Ma andiamo con ordine, provando a mettere in fila gli eventi dell'intera vicenda.
La scomparsa
Pressappoco alle ore 11 di lunedì 3 agosto 2020, in prossimità della galleria di Pizzo Turda, sull'autostrada Palermo-Messina, all'altezza di Caronia, viene ritrovata un'Opel grigia incidentata. La vettura appartiene a Viviana Parisi, 43 anni, di professione deejay e vocalist, scomparsa da Venetico insieme al figlioletto di 4 anni, Gioele. Quella mattina la 43enne sarebbe uscita per andare ad acquistare un paio di scarpe per il bimbo, muovendosi in direzione Sant'Agata Militello, senza più farvi ritorno.
L'incidente
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Viviana avrebbe impattato al chilometro 104 dell'autostrada Palermo-Messina contro un furgoncino. La vettura, ritrovata all'esterno della galleria Pizzo Turda, presenta una foratura a uno pneumatico. Diversi automobilisti riferiscono di aver visto la donna fermarsi in un'area di sosta, scendere dall'auto e scavalcare il guard rail per inoltrarsi nella boscaglia.
Le ricerche
Il pomeriggio del 3 agosto cominciano le ricerche nell'area boschiva di Caronia. Decine di esperti e unità cinofile vengono impiegati nell'attività di perlustrazione palmo a palmo della zona. Ma né il corpo della donna né quello del bimbo vengono avvistati.
Il ritrovamento del corpo di Viviana
Attorno alle ore 15 di sabato 8 agosto, i cani molecolari fiutano il cadavere della 43enne: si trova a circa un chilometro dal luogo dell'incidente, nella fitta vegetazione di Caronia, adagiato al di sotto di un traliccio dell'alta tensione. Poco distante dal corpo ci sono le scarpe da tennis che la donna calzava la mattina della scomparsa e la fede nuziale. L'autopsia, eseguita in data 11 agosto, parla di "ferite compatibili con una caduta dall'alto".
Il cadavere di Gioele
I resti di Gioele vengono rinvenuti in data 19 agosto durante una perlustrazione organizzata da Daniele Mondello, marito della vittima e padre del bimbo, con alcuni volontari. Gli esami autoptici rivelano che il corpo "è compromesso da morsi di animali".
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L'archiviazione del caso: "omicidio-suicidio"
Per più di un anno la vicenda del giallo di Caronia è stata dibattuta a colpi di perizie e accertamenti info-investigativi in Tribunale. Terreno di scontro tra i consulenti della procura di Patti e quelli di parte la dinamica del tragico evento. Secondo gli inquirenti, Viviana avrebbe ucciso Gioele e poi si sarebbe tolta la vita lanciandosi da un traliccio dell'alta tensione nei boschi di Caronia. La 43enne, scossa dall'incidente avvenuto all'esterno della galleria Pizzo Turda, già provata da una fragilità psichica, si sarebbe tolta la vita trascinando con sé anche il figlioletto. Una versione che non ha mai convinto il marito di Viviana, rappresentato dai legali Claudio Mondello e Piero Venuti, fermamente convinto che la moglie non avrebbe mai fatto del male al bambino.
Fatto sta che lo scorso 30 luglio, il procuratore del tribunale di Patti ha chiesto l'archiviazione del caso confermando, in estrema sintesi, lo scenario prospettato durante le indagini: "Tutte le indagini tecniche svolte (indagini cinematiche, medico-legali, genetiche, veterinarie, etc.) hanno permesso di accertare come Viviana - si legge in un passaggio delle 526 pagine della richiesta di archiviazione - senza ombra di alcun dubbio, si sia volontariamente lanciata dal traliccio dell'alta tensione, con chiaro ed innegabile intento suicidario". Quanto a Gioele invece potrebbe essere morto per "cause accidentali" finendo per essere divorato dagli animali selvatici.
"Ha ucciso Gioele", "Si è ca... sotto": le intercettazioni choc sulla morte di Viviana
La relazione tecnica che "smonta" la richiesta di archiviazione
Nonostante le conclusioni della procura, il criminologo Carmelo Lavorino e il medico legale Antonio Della Valle, sono certi che la vicenda non si esaurisca come caso di omicidio-suicidio, escludendo sia la possibilità che Viviana si sia lanciata dal traliccio dell'alta tensione sia che abbia commesso un atto aggressivo nei confronti del figlio. A dir loro la morte di entrambe le vittime sarebbe avvenuta per annegamento a seguito di precipitazione in un invaso nella fitta vegetazione Caronia. Parlano di "combinazione criminale" ritenendo che i cadaveri siano stati "traslati" nel luogo del rinvenimento.
In una relazione tecnica e d'indagine criminalistica, i due esperti – coadiuvati dallo psicologo forense Enrico Delli Compagni e dalle antropologhe Nicolina Palamone ed Angelica Zenato – smontano i 144 punti di conclusione contenuti nella richiesta di archiviazione della sentenza.
"Impossibile arrampicarsi su quel traliccio"
Secondo gli inquirenti, la 43enne si sarebbe arrampicata, senza scarpe, sul traliccio Enel D59 e da lì si sarebbe lanciata nel vuoto. "Se Viviana si fosse buttata dal traliccio - osservano i consulenti Lavorino e Della Valle - l'altezza di caduta dovrebbe essere di almeno 8 metri. Ma questo è impossibile perché Viviana non poteva arrampicarsi, senza scarpe, a quell'altezza" e perché le fratture riscontrate sul corpo della vittima "sono da precipitazione di 2-3 metri".
"Le foto del traliccio - continuano gli esperti -mostrano con assoluta chiarezza che la salita sarebbe stata difficoltosissima se non impossibile" per i seguenti motivi:
l'inclinazione dei profili d'acciaio, inclinati di 45 gradi;
sulle piante dei piedi di Viviana non vi sono tracce delle di lesioni causate dalla costa penetrante dei profili in metallo e dall'azione di arrampicamento per 8 metri;
sul calzino non vi sono segni/tracce di usura, di lacerazione e di strappo dovute "all'azione pressoria e di trascinamento sui profili in metallo";
arrivata al punto di lancio, Viviana avrebbe dovuto girarsi e quindi "dare le terga al profilo del traliccio (...) e da qui lanciarsi a volo d'angelo".
La posizione delle scarpe
La scarpa destra è stata rinvenuta al di sopra di un cespuglio in "stato di tensione e rigidità". "La posizione è inconciliabile – chiariscono i consulenti nel testo dell'indagine tecnica e investigativa – con la precipitazione di Viviana dal traliccio. Non si capisce come Viviana, dopo essersi incredibilmente arrampicata per 8 metri, nonostante i numerosi limiti enunciati, abbia potuto lanciarsi, perdere la scarpa destra che va a impattare e posizionarsi sul cespuglio alla sua sinistra".
La scarpa sinistra è stata ritrovata invece in equilibrio sopra un sasso "a forma grossolanamente sferica" all'interno della base del traliccio. "Sulla stessa insistono e sono presenti dei rami. – precisano gli esperti – Tale situazione indica che entrambe le scarpe sono state posizionate a un soggetto ignoto con chiaro intento di depistaggio, per far credere che Viviana sia precipitata dal traliccio e che nella caduta abbia perso la scarpa (slacciata)".
Le mani di Viviana
La mano destra di Viviana, già cadavere, era posizionata "ad artiglio" tra le sterpaglie. Secondo gli inquirenti, la 43enne avrebbe "artigliato alcuni rami e arbusti presenti al suolo assumendo la posizione di quiete nella quale poi è stata rinvenuta". Per contro, i consulenti Lavorino e Della Valle ritengono che "la mano destra di Viviana che stringe gli arbusti ad artiglio (in realtà appoggiata), e che le passano attraverso il quarto e il quinto dito della mano, deve essere interpretata come facente parte dell'abilissima, fine e perversa attività manipolatoria del soggetto ignoto che sta componendo la scena e mettendo in posa il cadavere".
Le conclusioni della perizia
A fronte dell'ampia disamina tecnica, gli esperti deducono che la morte di Viviana e Gioele sia avvenuta per annegamento all'interno di un invaso nei boschi di Caronia e che i corpi siano stati successivamente traslati dal luogo del decesso a quello del rinvenimento. "Vi è stata l'azione combinata e complessa di una 'combinazione criminale' – conclude il criminologo Lavorino - che ha depistato, composto la scena, messo in posa i corpi e le scarpe delle due vittime. Sicuramente Viviana non si è buttata dal traliccio e sicuramente non ha ucciso Gioele".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Giallo Caronia, Daniele Mondello pubblica foto dei pantaloni del figlio Gioele: “Crivellati di buchi”. Chiara Nava il 14/10/2021 su Notizie.it. Novità sul giallo di Caronia. Daniele Mondello ha pubblicato le foto dei pantaloni del figlio Gioele, crivellati di buchi. Daniele Mondello, marito di Viviana Parisi e papà del piccolo Gioele, scomparsi ad agosto dello scorso anno e trovati morti nelle campagne di Caronia, ha pubblicato una foto su Facebook in cui si vedono i pantaloncini del piccolo “crivellati” di buchi. In tutto sono 14. “Oggi siamo andati al tribunale di Patti per ritirare – a pagamento- l’ennesimo CD. Nell’immagine: pantaloncino di Gioele, crivellato di buchi (ne ho contati 14). Sul suo corpo: un ciuffo di peli di cane (non identificato). A voi le conclusioni” ha scritto il padre del piccolo Gioele. La foto mostra i pantaloncini del figlio Gioele, indossati quando è stato ritrovato. I buchi che si notano sui pantaloncini indicherebbero una conclusione diversa rispetto a quella della Procura, secondo cui si è trattato di omicidio-suicidio. Angelo Vittorio Cavallo, procuratore di Patti, ha presentato la richiesta di archiviazione. “Mia moglie Viviana Parisi non ha ucciso Gioele” ha dichiarato Daniele Mondello, che si è opposto a questa richiesta. La famiglia contesta la tesi dell’accusa secondo cui Viviana, dopo l’incidente in galleria, sarebbe scappata nei boschi per uccidere il figlio di 4 anni e suicidarsi. “Ci sono tante stranezze in questa vicenda che vengono riportate anche dai consulenti del pm, ad esempio, il luogo in cui è stato trovato il corpo della signora Viviana è una zona boschiva abbastanza silenziosa. Perché sono stati fatti sopralluoghi, sia di giorno che di notte, ed era possibile udire il rumore di persone e animali che stavano a distanza anche di 100 metri” ha dichiarato l’avvocato di Daniele Mondello. Il legale ha puntato il dito contro le cause della morte del piccolo Gioele, per cui la Procura non ha dato risposte. “Hanno deciso di chiudere le indagini e di fermare tutto, dando a questa terribile storia un finale sbagliato. Ma non mi fermo, non riesco ad accettare nulla di tutto questo” si è opposto il padre del piccolo.
Riccardo Lo Verso per "corriere.it" il 23 ottobre 2021. L’ultima parola spetta al giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Patti. Deve decidere se archiviare l’inchiesta oppure ordinare nuove indagini sulla morte di Viviana Parisi e Gioele Mondello, madre e figlio, ritrovati nell’agosto del 2020, senza vita, nei boschi di Caronia, in provincia di Messina. Lei aveva 41 anni, il piccolo appena 4. Secondo la Procura di Patti, l’inchiesta va archiviata perché Viviana si sarebbe suicidata. E con tutta probabilità, prima di togliersi la vita, la giovane dj avrebbe strangolato il figlio. Gli avvocati della famiglia Mondello si sono opposti alla richiesta di archiviazione. Sostengono che Viviana non sarebbe mai salita sul traliccio ai piedi del quale fu trovato il suo cadavere. Non aveva alcun motivo per fare del male al figlio e qualcuno avrebbe addirittura depistato le indagini.
Il giudice si riserva la decisione
Dall’esame dei filmati dei droni dei vigili del fuoco «non si vede il bambino» e «ciò significa che è stato portato dopo da qualcuno nel luogo in cui è stato ritrovato il 19 agosto». Il giudice Maria Eugenia Aliquò si è riservata la decisione che comunicherà nei prossimi giorni. Ci vuole tempo per studiare gli undici faldoni dell’inchiesta. Si parte dalla richiesta di archiviazione avanzata d al procuratore Angelo Vittorio Cavallo e dai sostituti Federica Urban e Alessandro Lio. Secondo i pubblici ministeri, nessun estraneo ha avuto un ruolo, «neanche marginale, mediato o indiretto», nella tragedia di Caronia. «Abbiamo letto con molta attenzione tutte le argomentazioni contenute nella prima opposizione alla Richiesta di archiviazione e nella seconda richiesta con l’integrazione — ha riferito il procuratore Cavallo —. E a parte l’inesattezza e la non corrispondenza di molti dati riportati nelle due opposizioni della difesa, non esiste una ricostruzione alternativa che risponda a un minimo di logica e coerenza e ritengo le argomentazioni esposte dai loro difensori e consulenti semplicemente grottesche».
La presunta depressione
Viviana si sarebbe tolta la vita, intrappolata nei problemi psicologici accertati dal consulente psichiatrico della Procura Massimo Picozzi. Dalle intercettazioni è emerso che i parenti avevano valutato la possibilità di portarla da un esorcista. Parenti che erano al corrente della depressione di Viviana, ma avrebbero nascosto un suo precedente tentativo di suicidio. Diverso il caso del bambino. Seppure non ci sia certezza sulle case del decesso — ucciso dalla mamma o vittima di un incidente o di un malore? — i consulenti della Procura hanno escluso «la presenza di lesioni», sia prima della morte che post mortem «causate da animali» o «segni riconducibili all’azione violenta di soggetti terzi». Una ricostruzione che mai ha convinto i legali della famiglia Mondello, Pietro Venuti e Claudio Mondello. Si sono affidati ad un gruppo di consulenti. A capo c’è il criminologo Carmelo Lavorino. Ritengono che Viviana non sia salita sul traliccio e nel bosco di Caronia qualcuno, dopo avere fatto del male a madre e figlio, ha organizzato una messinscena, un clamoroso depistaggio.
Il post del padre
Qualche giorno fa Daniele Mondello, marito e padre delle vittime, ha scritto un post sui social: «Ecco cosa è rimasto della maglietta del mio bambino, io non mi fermo finché non trovo la verità». Ha lanciato un nuovo appello affinché «qualcuno si faccia avanti per raccontare se abbia visto qualcosa nelle campagne di Caronia». A più di un anno dall’inizio delle indagini si attende la decisione del giudice. Nel frattempo il corpo di Viviana e i resti del piccolo Gioele si trovano ancora all’obitorio. La Procura di Patti ha autorizzato la restituzione, ma familiari attendono di conoscere le sorti dell’inchiesta prima di celebrare i funerali. Qualora non venisse archiviata potrebbe essere necessario eseguire nuovi accertamenti. «Stiamo aspettando di fare delle analisi in 3D sui due corpi — ha detto l’avvocato Venuti — ma il gip come detto si è riservato sulla decisione, nel momento in cui viene dissequestrato il corpo non è possibile fare questo tipo di analisi».
Gioele e Viviana, "l'abile messinscena" sui cadaveri e le "tesi grottesche" della famiglia: il caso sarà archiviato?. Il giallo di Caronia di Violetto Gorrasi, Giornalista, 22 ottobre 2021 su Today. Scontro in udienza preliminare tra la procura di Patti e i legali della famiglia. Il giudice era chiamato ad esprimersi sulla richiesta di archiviare le indagini: lo farà nei prossimi giorni. Tra pochi giorni sapremo con certezza se sulla tragica morte di Viviana Parisi e del piccolo Gioele Mondello la giustizia metterà una parola fine o se saranno necessarie indagini ulteriori. Il giudice per le indagini preliminari Maria Eugenia Aliquò si è infatti riservata sulla decisione di archiviazione dell'inchiesta, come chiesto dalla procura, sulla morte della deejay torinese di 41 anni e del figlioletto di 4 anni, trovati morti nell'agosto del 2020 nelle campagne di Caronia, in provincia di Messina. Nel corso dell'udienza svoltasi in camera di consiglio al tribunale di Patti, i legali della famiglia di Viviana Parisi hanno presentato opposizione alla richiesta di archiviazione. La decisione del gip sarà comunicata nei prossimi giorni.
Viviana Parisi e Gioele Mondello: oggi l'udienza sull'archiviazione
In aula si è consumato lo scontro interpretativo che va avanti da mesi tra procura e legali della famiglia Mondello. Presenti i sostituti procuratori Alessandro Lia e Federica Urban che hanno spiegato i motivi per i quali la procura ha chiesto l'archiviazione, sottolineando che dai rilievi e dalle prove in loro possesso la donna si sarebbe suicidata gettandosi dal traliccio e, con ogni probabilità, avrebbe strangolato il figlio Gioele. Per gli inquirenti l'ipotesi omicidio-suicidio resta la più probabile, con l'esclusione di un qualsiasi coinvolgimento di terzi.
Le "tesi grottesche" secondo la procura
Angelo Vittorio Cavallo, procuratore di Patti titolare dell'inchiesta, ha definito illogiche e incoerenti le tesi espresse dai legali della famiglia che si sono fin dall'inizio opposti all'ipotesi che Viviana possa aver ucciso il bimbo per poi suicidarsi gettandosi dal traliccio. "Abbiamo letto con molta attenzione tutte le argomentazioni contenute nella prima opposizione alla richiesta di archiviazione e nella seconda richiesta con l'integrazione - ha detto il procuratore che oggi non ha partecipato all'udienza preliminare -. A parte l'inesattezza e la non corrispondenza di molti dati riportati nelle due opposizioni della difesa, non esiste una ricostruzione alternativa che risponda a un minimo di logica e coerenza e ritengo le argomentazioni esposte dai loro difensori e consulenti semplicemente grottesche", ha aggiunto Cavallo, dicendosi, in attesa della decisione del gip sull'archiviazione del caso, "ancora più convinto di quello che abbiamo già scritto nelle 500 pagine della richiesta di archiviazione".
"L'abile messinscena" secondo i consulenti della famiglia
Versione che contrasta con quella dei Mondello. In aula erano presenti anche gli avvocati della famiglia - Pietro Venuti e Claudio Mondello - che hanno esposto la tesi dei loro esperti per i quali Viviana non si sarebbe buttata dal traliccio e non avrebbe ucciso Gioele. "Speriamo - ha spiegato il legale Venuti - che emerga la verità, noi siamo certi che Viviana non si è mai arrampicata sul traliccio e non avrebbe mai toccato Gioele, siamo sicuri che il giudice valuterà in modo imparziale quanto da noi presentato in udienza. Vogliamo arrivare ad una verità perché la famiglia, che è stata molto provata in questi mesi, ha diritto ad avere una ricostruzione dei fatti corretta e a sapere come sono veramente morti Viviana e Gioele".
Mesi di controanalisi e richieste, quelle della famiglia, sfociate nella ricostruzione finale a cui sono giunti i consulenti di parte ad inizio anno. Secondo il team di esperti, coordinato dal criminologo Carmelo Lavorino e dal medico legale Antonio Della Valle, Viviana e Gioele sarebbero precipitati (caduti o lanciati, ancora non si sa) dentro un invaso (un pozzo o una cisterna) con mezzo metro di acqua sul fondo e sarebbero morti per asfissia. Nessuna uccisione del piccolo Gioele da parte di Viviana, nessun suicidio e/o lancio dal famoso traliccio di Viviana, è la ricostruzione dei consulenti nominati dalla famiglia.
"In realtà si tratta di un'abile messinscena organizzata da una combinazione criminale motivata e coinvolta tramite la traslazione dei cadaveri in zone sensibili proprio per inscenare il suicidio o la disgrazia ed allontanare da sé ogni responsabilità - scrivevano i consulenti nella loro relazione depositata in procura -. Viviana e il piccolo sono precipitati (caduti o lanciati, ancora non si sa) nel bosco di Caronia all'interno di un invaso con circa 50 centimetri d'acqua sul fondo: un pozzo, una cisterna, un contenitore profondo 3-4-5 metri. I due sono precipitati contemporaneamente: Viviana si è fratturata diverse parti del corpo, specialmente la zona sinistra, le sono esplose due vertebre col tranciamento del midollo spinale, ha perso coscienza e sensibilità, è morta per asfissia. Gioele ha impattato col cranio zona temporale sinistra ed è morto per asfissia".
"Poi i due corpi, in tempi diversi - continua la ricostruzione dei consulenti della famiglia - sono stati estratti dal fondo del pozzo con le mani e con appositi strumenti da parte di qualche soggetto ignoto: Viviana tirata fuori la tarda sera del 3 agosto o la mattina del 4 agosto e trasportata con apposito mezzo per la messinscena e il depistaggio e, nel trazionamento, le vengono strappati i capelli; Gioele tirato fuori successivamente (anche la mattina del 4 agosto) e depositato nel tragitto fra la zona piazzola e la zona traliccio, senza escludere che sia stato conservato in un contenitore di plastica e posizionato successivamente sul luogo del rinvenimento, dove il corpicino è stato oggetto di scempio da parte della fauna selvatica. I corpi dei due sono stati tirati su e fuori per essere oggetto di macabra messinscena al fine di un meditato depistaggio per autosicurezza e presa distanza dall'evento mortale", concludevano i consulenti nella loro ricostruzione.
Le foto dei pantaloni di Gioele pubblicate dal papà
Nei giorni scorsi Daniele Mondello, il papà del piccolo Gioele, ha pubblicato sul suo profilo Facebook alcune foto dei pantaloncini indossati dal figlio il giorno in cui è stato ritrovato nelle campagne di Caronia. "Vedere questi pantaloncini, vedere la maglietta a brandelli mi fa venire la pelle d'oca, mi fa stare malissimo. Se c'è veramente un Dio... allora ti chiedo di farmi trovare la verità per favore", scriveva Mondello. I segni sui pantaloncini del bimbo, secondo il genitore, indicherebbero una conclusione diversa rispetto a quella alla quale è giunta invece la procura. "Mia moglie Viviana Parisi non ha ucciso Gioele": l'uomo si è sempre rifiutato di credere alle ipotesi degli investigatori.
La tragedia di Viviana e Gioele
Il 3 agosto 2020, Viviana Parisi esce di casa da Venetico (Messina) col figlio Gioele, imbocca l'autostrada A20 Messina-Palermo, si scontra con un furgone a Caronia e, lasciata l'auto, si avvia nei campi. I cadaveri di madre e figlio saranno ritrovati alcuni giorni dopo: quello di Viviana l'8 agosto; quello del bambino il 19 agosto, in una boscaglia a circa settecento metri di distanza e ridotto a resti ossei, compromesso dai morsi di animali. Il 29 luglio scorso, la procura di Patti ha chiesto l'archiviazione del caso: Viviana avrebbe strangolato Gioele, poi si sarebbe gettata da un traliccio della rete elettrica, ai piedi del quale è stata trovata senza vita. Il gip deciderà nei prossimi giorni se archiviare la tragedia di Caronia.
Da "il Messaggero" l'11 novembre 2021. «La morte di Viviana Parisi suicida come conseguenza del lancio dal traliccio è l'unica compatibile con i risultati delle indagini» e «c'è la certezza che la morte del piccolo Gioele non possa essere collegata all'azione umana». Lo scrive il Gip di Patti, nell'ordinanza con cui ha disposto l'archiviazione dell'inchiesta sulla morte, avvenuta nell'agosto 2020 nelle campagne messinesi, della 41enne dj e del figlio di 4 anni. Il giudice «condivide pienamente la ricostruzione» della Procura sottolineando «l'onestà intellettuale» dei pm nel riconoscere di «non avere potuto dare risposte certe sulle cause della morte» del bambino che, ipotizzano, sarebbe stato ucciso dalla madre o sarebbe deceduto per cause non chiarite.
"Gioelino vuole una sorellina". Viviana e Gioele, Daniele Mondello non si arrende: “Ecco le chat, mia moglie voleva una sorellina per nostro figlio”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. “Gioelino vuole una sorellina, gli ho detto che anche io lo desidero da tempo ma deve decidere il papino”. A rivelarlo pubblicando uno screen di una chat WhatsApp è Daniele Mondello, marito di Viviana Parisi, 41 anni, e padre di Gioele, 4 anni, scomparsi il 3 agosto 2020 a Caronia, in provincia di Messina, per poi essere ritrovati entrambi senza vita nel giro di una ventina di giorni. L’uomo non si arrende e continua a chiedere verità e giustizia nonostante il gip del Tribunale di Patti, Eugenio Aliquò, ha accolto lo scorso novembre la richiesta della procura di archiviare il caso. Secondo la ricostruzione dei pm, che definiscono fantasiose le tesi della famiglia e dei legali, Viviana avrebbe prima ucciso il figlio per poi lanciarsi nel vuoto da un traliccio. Una versione che non ha mai convinto il marito che nelle scorse ore ha voluto aggiungere un ulteriore tassello a una vicenda dai contorni tutt’altro che chiari.
“Dopo il dissequestro del telefonino di Viviana – scrive sui social – ho potuto ripristinare WhatsApp e leggere i messaggi della nostra chat… questo è lo screenshot del 18 Maggio 2020. Vi sembra in linea con un individuo che voglia suicidarsi? Mia moglie amava la vita e pianificava una gravidanza. Altro che suicidio!” conclude Mondello. Il 13 novembre scorso, in occasione dei funerali di Viviana e Gioele, arrivati 15 mesi dopo la scomparsa, l’uomo attaccò duramente gli investigatori: “Non ho mai visto in tutta la mia vita un caso chiuso così con otto ipotesi diverse. Senza impronte e senza niente di concreto. L’ho detto e lo faccio: non mi fermerò mai. Ormai ho perso tutto e quindi non mi interessa niente, vado avanti fino alla fine. Lo dico anche al Procuratore Cavallo che continuerò fino alla mia morte. Mi hanno tolto tutto. Farò di tutto – aggiunge – per scoprire la verità”.
Secondo il procuratore di Patti Angelo Cavallo l’accoglimento da parte del Gip della richiesta di archiviazione ha “sostanzialmente confermato quanto da noi affermato nella richiesta di archiviazione e in particolare ha sottolineato che il quadro complessivo che è emerso: quello di una donna fragile che aveva più volte dato segnali pericolosi sottovalutati dai familiari, in particolare dal marito Daniele Mondello”.
Lo stesso Cavallo ha poi rivolto un appello a Daniele Mondello: “Spero che ora si metta la parola fine a questa vicenda dopo che anche il Gip ha rilevato come effettivamente fossero fantasiose le tesi della famiglia e dei legali di questa. E questo lo dice un giudice terzo come richiesto da loro e spero che quindi agiscano di conseguenza“.
Secondo il gip Aliquò la richiesta di archiviazione è frutto di “corpose risultate investigative” frutto di “un poderoso lavoro della Procura“. Il gip ha anche dato parere negativo a nuovi esami, con tecniche 3D, sui corpi di Viviana Parisi e del piccolo Gioele: a chiederli era stata la famiglia della donna tramite i legali.
Fantasiose per la Procura sono le seguenti tesi avanzate dalla famiglia Mondello. “Chiunque dica che con l’archiviazione qualcosa finisce, discute di cose che non conosce. Questo caso non può essere chiuso con una archiviazione perché non è un provvedimento idoneo ad assumere valore di cosa giudicata”, ha detto Claudio Mondello legale di Daniele Mondello. “L’archiviazione è un provvedimento inidoneo a mettere la parola fine su qualsiasi evento giuridico – aggiunge il penalista – questo in via preliminare, e in secondo luogo il giorno successivo alla discussione, quindi non rientra in questo decreto di archiviazione, Daniele ha presentato una nuova autonoma querela che riguarda i vigili del fuoco e la condotta degli stessi pompieri, che avevano il cadavere di Viviana sotto gli occhi già dal 4 agosto. Perchè le immagini del drone – chiede l’avvocato non sono mai state trasmesse in Procura? Se n’è accorta solo dopo uno dei consulenti dei magistrati, la dottoressa Somma, istituzione estranea ai vigili del fuoco. Il cadavere era lì sotto il traliccio. Ebbene – osserva il legale – dopo l’8 agosto 2020 tutta Italia sapeva che il cadavere era sotto il traliccio: quindi ci siamo sentiti dire, come scritto nell’archiviazione, che i vigili del fuoco non hanno dato comunicazione alla procura e alle autorità, ritardando così le indagini, perchè erano stanchi. Vi chiedo – chiosa Claudio Mondello – se fosse vostro figlio e scrivessero qualcosa del genere voi come vi sentireste?”.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
· Il Caso di Isabella Noventa.
Gianluigi Nuzzi per “Specchio - la Stampa” l'8 febbraio 2021. Paolo che entra nella villetta, si avvia lentamente verso l'ampia cucina ben accessoriata, si volta, lo sguardo insiste sul capotavola. Proprio lì, in quel metro quadrato, è stata ammazzata sua sorella Isabella Noventa, segretaria irreprensibile, la notte del 15 gennaio 2016. Aveva trascorso la serata in compagnia del fidanzato, il camionista Freddy Sorgato, una pizza all'"Est est est" di Albignasego per poi tornare a casa dell'uomo e finire vittima di quello che è stato additato come il "trio diabolico di Noventa Padovana", formato appunto da Freddy, dalla sorella Debora e dalla tabaccaia Manuela Cacco. Sono passati quattro anni e il fratello Paolo andrà dunque sulla scena del crimine, non per chissà quale macabro spirito voyeristico ma semplicemente perché quella casa adesso è diventata sua. «Al solo pensiero di entrarci - confida - mi viene male». Ma dopo le condanne definitive per i fratelli Sorgato a trent'anni, e a 16 anni e dieci mesi per la complice Cacco, la giustizia, in un'inesorabile legge del contrappasso, gli ha assegnato a risarcimento dell'omicidio della sorella, proprio la villa dove si è consumato il delitto. E così dai 900 mila euro di provvisionale, stabilita dai giudici per il ristoro economico all'assassinio, Paolo e la moglie hanno ricevuto questa ordinata proprietà con giardino, protetta da un'alta siepe, dal valore stimato dal perito in 341 mila euro. Così non è difficile immaginare questa situazione agghiacciante che si avvererà tra qualche giorno, appena ottenute le chiavi. Al fratello tornerà alla memoria l'abrasivo racconto che la Cacco aveva fatto il 25 febbraio 2016 dell'assassinio: «... è stata Debora che in modo tranquillo, quasi come se stesse raccontando una cosa di cui si vantasse, a dirmi che quella sera lei si era nascosta in casa, al piano superiore, in attesa che Freddy facesse ritorno a casa con Isabella. Quando i due si trovavano già in cucina era scesa e aveva subito affrontato a muso duro Isabella. ... Mi ha detto che dopo avere visto un sorriso ironico sul volto di Isabella l'ha colpita sulla fronte con una mazzetta (questa la parola usata da Debora relativamente allo strumento utilizzato) che aveva in mano. Il primo colpo mi sembra di ricordare che lo avrebbe dato mentre la Noventa era seduta su una delle sedie della cucina... A quel punto la Noventa ha piegato la testa portandosi le mani sulla fronte, alzandosi in piedi e la Debora ha detto di averla colpita una seconda volta sulla testa (...) e di avere preso subito un sacco nero del tipo di quelli per immondizie infilandoglielo in testa per poi strozzarla con una corda...». Subito dopo, il corpo della povera donna è stato caricato per essere abbandonato forse nel fiume, al fine di renderlo, ad oggi, introvabile. La tragedia nella tragedia Infatti, i tre assassini si sono sempre sottratti alla pietà di fare ritrovare le spoglie di Isabella, di permettere ai parenti di raccogliersi e pregare la defunta davanti alla tomba. La scelta ha contribuito a creare altro dolore e altri morti. A nulla sono valsi gli appelli disperati a Quartogrado di Ofelia Rampazzo, 87 anni, mamma di Isabella, sfiancata dalla disperazione e stroncata da un tumore nel gennaio 2020. «È mancato - osserva Stefania Lazzaro, difensore dei parenti di Isabella - un briciolo di umanità, gli assassini hanno eretto un muro di silenzio di fronte a un danno immane». A nulla sono valse le lacrime e la rabbia dei familiari del valoroso poliziotto Rosario Sanarico, sub in forza al centro nautico sommozzatori di La Spezia, rimasto incastrato e morto sott'acqua proprio durante le ricerche di Isabella alle chiuse di Stra, vicino a Venezia nel febbraio del 2016. Era stato Freddy il 18 febbraio 2016 a indicare «con una certa approssimazione - scrivono i giudici d'Appello - il tratto d'argine del fiume Brenta in cui avrebbe gettato, dopo averlo caricato sulla Fiat Punto, il corpo di Isabella, individuato nell'ultimo tratto del fiume, prima dell'intersezione con il fiume Piovegro». Durante il sopralluogo il pubblico ministero Giorgio Falcone lo incalza per trovare Isabella con questo dialogo tratto dall'audio originale:
Pm: «Cosa ha messo come zavorra?»
Sorgato: «Mi sembra di ricordarmi pietre...»
Pm: «Cosa pietre?».
Sorgato: «Mi sembra di ricordarmi pietre, qualcosa...».
Pm: «Ma dove l'ha trovata qua la pietra?».
Sorgato: «Non ricordo se l'avessi a casa... se l'avevo a casa e o se l'ho trovata qua... già era buio... l'agitazione...».
Un piano per depistare In realtà, la notte dell'omicidio il trio diabolico agisce in modo freddo, geometrico, e ai loro stessi occhi perfetto con una serie di alibi reciproci. Freddy racconterà agli inquirenti di esser tornato a casa sua con Isabella dopo la pizzeria, di aver fatto sesso per poi accompagnare la vittima in centro a Padova. Da quel momento non l'avrebbe più vista. Sarebbe quindi rientrato nella propria abitazione per essere raggiunto dall'amica Manuela Cacco con la quale andarono a ballare al Relax club di Padova fino a notte fonda. Le telecamere in centro a Padova inquadrano una donna con un giubbotto bianco che cammina sotto i portici. Sembra la conferma dell'alibi di Sorgato. Peccato che la polizia non si ferma alle apparenze. Verifica che il giubbotto sia sì proprio quello che indossava Isabella Noventa quella sera, ma a portarlo non è lei. È Manuela Cacco. «Mi sono prestata - confessa - per fare un favore ad un amico con la A maiuscola. Quindi ho indossato il giubbotto bianco...», dopo esser stata accompagnata dall'uomo in centro e di lì riportata a casa dalla sorella Debora Sorgato. Una sceneggiata per depistare gli inquirenti. Quando lo scudo difensivo si incrina, Freddy Sorgato gioca il tutto per tutto. E spara una balla che si porterà dietro per sempre: sostiene che è deceduta per soffocamento, durante un rapporto sessuale estremo. Insomma, un incidente durante un gioco erotico. Peccato che nella villetta non è stato mai ritrovato nulla che poteva solo far immaginare la passione per questo tipo di pratiche. Freddy giura di avere gettato il corpo di Isabella nel Brenta e di aver agito da solo, senza l'aiuto di nessuno. Freddy spera così di trasformare l'assassinio nel più leggero omicidio colposo, come in modo sprovveduto si lascia scappare in diverse conversazioni intercettate: «Sto cercando di portare tutto quanto da omicidio premeditato a omicidio colposo... perché ti cambia tutto... risarcimento... anni di galera, tutto... ti cambia tutto...! Cambia da così a così, da così a così...». E con gli amici in visita in carcere: «Guarda che non ho mica accoppato nessuno, si è arrangiata tutto da sola... Io l'ho solo buttata via (ride)... eh ho preso paura ragazzi... è facile... adesso appunto mi viene da ridere perché no... guarda che... mi stavo facendo una trombata... e tutto quanto eccetera (ride)». Ma nessun inquirente abbocca. Anzi, i giudici chiosano: «È molto singolare il fatto che dopo il decesso della donna, descritto come accidentale, Sorgato abbia deciso di trascorrere la notte a ballare al Relax senza alcun patema d'animo per la tragica perdita della donna con cui intratteneva una relazione sentimentale». Più che accidentale, è anche questo semplicemente agghiacciante.
LE RADICI DELL'ODIO. E il motivo di tanta violenza, durezza, è l'odio immenso, coltivato giorno dopo giorno per mesi, anni dal trio diabolico contro Isabella. Quest'ultima era l'intralcio per raggiungere la felicità sentimentale della Cacco che provava un sentimento assorbente, quasi patologico, nei confronti di Freddy, amante conteso. Tanto che la Cacco scriveva a Sorgato: «È meglio che tu decida o me o lei...Io non ce la faccio più. Sto crollando. Tieniti lei è auguri figli maschi... La odio con tutta me stessa...Quella presa per il culo sono io. Io non ho mai contato più di tanto. Sei ritornato da lei... il suo zerbino è tornato...Caduto nella rete cornuto e mazziato deriso e felice e contento... Ti va di stare con lei... Lei è donna (...) ha fascino (...) Tutte qualità che io purtroppo come lei non le ho. Mi spiace. Tienitela pure stretta...». E agli inquirenti: «Lei con lui era cattiva come il colera e lo trattava come uno zerbino. Lui è persona che a letto è dolce e passionale. Quanto alla possibilità che lui si sentisse sfruttato dal punto di vista sessuale, cioè usato tipo toy boy, posso dire che questo è successo in una certa fase del loro rapporto e che di questo lui si era lamentato in passato». Tanto da costituire il movente di Freddy, mosso sia dalla frustrazione di sentirsi usato dalla donna come gioco sessuale, sia dalla gelosia che lo porta a ingaggiare più volte un investigatore privato. Infine, Debora che vede nella Noventa una pericolosa ipoteca ai beni di famiglia, tale da poter compromettere l'avvenire del proprio figlio. Insomma, una centrifuga omicida progressiva, tre moventi che mai avrebbero spinto «il singolo alla pianificazione e alla realizzazione di una tale delitto efferato - osservano i magistrati d'Appello - se non come pura elaborazione di fantasia». Invece, si ha «l'ulteriore passaggio della condivisione di quel sentimento di avversione e insofferenza verso la Noventa, finendo per tramutarsi in un movente in qualche modo collettivo. In tal senso, si spiega anche l'emersione di un desiderio di soppressione della donna come momento di condivisione del gruppo, di collante che li accomunava e insieme di prefigurazione egoistica del senso di liberazione che ne sarebbe derivato, con un crescendo di pathos e complicità».
· Il Mistero di Lidia Macchi.
Lidia Macchi, dopo 34 anni senza un colpevole: "Potevano arrivare al killer". Lidia Macchi venne uccisa il 5 gennaio del 1987 con 29 coltellate. Dopo 34 anni il suo presunto assassino è stato assolto dalla Corte di Cassazione. E il caso è rimasto senza un colpevole. Francesca Bernasconi, Martedì 09/02/2021 su Il Giornale. "Una ragazza intelligente, solare, sportiva, con un credo religioso profondo". Lidia Macchi era tutto questo. Quella sera di inizio gennaio del 1987 la studentessa di Giurisprudenza, impegnata nel movimento scout e parte del gruppo di Comunione e Liberazione, si era recata all'ospedale di Cittiglio (Varese) per far visita a una sua amica. Ma, una volta uscita dalla stanza, intorno alle 20.10, scomparve. Due giorni dopo, il 7 gennaio, Lidia venne ritrovata senza vita in località Sass Pinin, nella zona boschiva vicino alla ferrovia di Cittiglio. Lidia Macchi aveva solo 21 anni. Il suo è il nome di un'altra vittima senza giustizia: un colpevole per la sua morte non è mai stato trovato. Pochi giorni fa la Cassazione ha assolto Stefano Binda, l'ultimo indagato per l'omicidio. E il delitto della studentessa resta ancora oggi un mistero.
I fatti. Era il 5 gennaio 1987. Il giorno prima Lidia era tornata da un itinerario spirituale ad Assisi durato 4 giorni: quello era il primo anno in cui trascorreva le vacanze di Natale separata dalla famiglia, che era in montagna. Quel giorno Lidia avrebbe voluto andare all'ospedale di Cittiglio per far visita alla sua amica Paola, ma non aveva la macchina. Qualcuno sostenne di averla avvistata quel pomeriggio alla stazione di Casbeno, forse per controllare gli orari dei treni, senza però trovare una soluzione adatta alle sue esigenze. La sera, poco prima delle 19, i genitori fecero ritorno a casa, anticipando il rientro di un giorno, e Lidia ne approfittò per chiedere la macchina, una Fiat Panda, per recarsi all'ospedale, promettendo che sarebbe tornata per cena intorno alle 20-20.30. Secondo quanto riferito successivamente dall'amica, Lidia arrivò all'ospedale e si intrattenne nella sua stanza per circa mezz'ora: intorno alle 20.10, la studentessa uscì dalla camera e scomparve nel nulla. Una testimone dirà di aver notato, affacciata a una finestra dell'ospedale, in attesa che il marito andasse a prenderla, un'auto bianca di grossa cilindrata avvicinarsi alla Fiat Panda. I genitori, non vedendola ritornare per cena iniziarono a cercarla. La madre telefonò ad amici e ospedali e il padre uscì con l'auto ma, rivelò a Blu Notte, "era lontanissima da me l'idea che potesse essere successo quello che è accaduto". Di Lidia non c'era traccia. Così le forze dell'ordine iniziarono le ricerche, affiancati da pattuglie di amici, che si erano offerti di aiutare a setacciare la zona, nella speranza di ritrovare la ragazza. Fu uno di questi equipaggi di amici a fare la scoperta: alle 10.25 del 7 gennaio, Roberto, Maria Pia e Teresa avvistarono la Panda in una zona boschiva vicino alla ferrovia di Cittiglio, in località Sass Pinin. A fianco all'auto giaceva il corpo senza vita di Lidia, coperto da un cartone. La relazione dell'autopsia, depositata il 6 marzo 1987 rivelò la causa della morte: Lidia Macchi venne colpita da 29 coltellate e morì per "un'anemia acuta, unitamente ad un’asfissia acuta". L'esame autoptico rivelò anche che poco prima di morire la ragazza ebbe il suo primo rapporto sessuale. Il medico legale sostenne che Lidia non venne uccisa nel luogo in cui venne ritrovata, "considerando il limitato quantitativo di sangue rinvenuto all'interno della Panda e sul terreno circostante".
Il killer di Lidia Macchi arrestato trent'anni dopo. Successivamente quest'ultima considerazione relativa al luogo del delitto venne messa in dubbio dal consulente del procuratore generale, il dottor Franco Posa, e dal perito medico-legale del Gip, la dottoressa Cristina Cattaneo. Secondo la dottoressa, come riportato nella sentenza del 21 luglio 2018 (nell'ambito del processo a Stefano Binda), Lidia venne uccisa nel luogo in cui venne ritrovata: "Le tracce di sangue minime sulla Panda vengono spiegate dal perito con il fatto che i colpi più aggressivi sono stati sferrati all’esterno, mentre sull’automobile Lidia sarebbe stata attinta da sole due coltellate alla mano e al gluteo, compatibili con la macchia sul sedile e con la strisciata sulla portiera". Dello stesso avviso anche il dottor Franco Posa, che attribuì la scarsa quantità di sangue all'interno della vettura all'assorbimento da parte dei vestiti. "Ho quantificato la massa ematica interposta tra un indumento e l’altro considerando inoltre la dinamica e le condizioni come temperatura ambientale e altre caratteristiche, ottenendo una massa ematica trattenuta compatibile con il drammatico evento sul luogo del ritrovamento", ha dichiarato il dottor Posa al Giornale.it.
I primi sospetti. La prima ipotesi investigativa presa in considerazione dagli inquirenti fu quella del maniaco sessuale o del balordo. Lidia, ipotizzarono gli inquirenti, poteva aver dato un passaggio a qualcuno che l'aveva aggredita. Inoltre alcuni testimoni riferirono la presenza di una persona sospetta che lo stesso giorno in quel parcheggio si era aggrappata ai vetri dell'auto di un'altra ragazza. Ma questa pista non convinse la famiglia, che escluse la possibilità che Lidia avesse fatto salire in auto uno sconosciuto. I sospetti a quel punto vennero indirizzati verso don Antonio, a quei tempi responsabile spirituale del gruppo scout frequentato dalla studentessa 21enne: il 17 giugno il sacerdote venne convocato in pretura e trattenuto per un interrogatorio. Inizialmente il prete dichiarò che la sera del 5 gennaio 1987 si trovava in oratorio a preparare l'omelia per la messa dell'Epifania e di essere successivamente andato a letto. Due settimane dopo però, rettificò parzialmente la sua versione: "Dopo aver consultato l'agenda, si era avveduto che la sera del 5 gennaio non si trovava in oratorio, bensì era impegnato in una riunione religiosa in San Vittore insieme ad altri 3 sacerdoti ed un laico". In novembre fu la televisione a scuotere l'indagine: Enzo Tortora lanciò una sfida alla città di Varese, dopo che qualche giorno prima in Inghilterra era stato analizzato il Dna di un intero villaggio per risolvere un caso di stupro. Così il giudice istruttore autorizzò il prelievo del sangue di Don Antonio e di altre tre persone, ma l'esame non riuscì a stabilire nulla, né la colpevolezza né l'innocenza di nessuno di quegli uomini. Solo successivamente tutti i primi sospetti caddero.
La pista Piccolomo. Dopo anni di silenzio, nel 2013 la procura generale di Milano avocò a sé le indagini. I sospetti vennero indirizzati verso Giuseppe Piccolomo, un imbianchino 64enne già condannato all'ergastolo per il "delitto delle mani mozzate" e sotto processo anche per l'omicidio della moglie, avvenuto nel 2003. Le figlie dell'uomo avevano rilasciato alcune dichiarazioni a carico del padre. In particolare una delle figlie aveva dichiarato che Piccolomo "per minacciarla, le aveva detto che le avrebbe fatto fare la fine di Macchi Lidia e che era stato lui ad averla uccisa". "In realtà - ha spiegato al Giornale.it il criminologo Alberto Miatello - Piccolomo si era autoaccusato dell'omicidio di Lidia Macchi con le figlie: aveva mimato il gesto del coltello, vantandosi". Ma ci sono altri indizi a carico di Giuseppe Piccolomo, che potrebbero indicarlo come il killer di Lidia Macchi. Innanzitutto c'è l'identikit fatto da tre donne che, poco tempo prima dell'omicidio, ricordarono di essere state molestate da un uomo con i baffi molto somigliante a Piccolomo, che in un caso venne notato a bordo di un'auto bianca. L'uomo inoltre "abitava a Caravate, a soli 500 metri dal luogo in cui venne trovato il corpo". Altri tre elementi potrebbero essere interpretati come indizi contro Piccolomo. Miatello ricorda che il corpo di Lidia venne coperto con un cartone delle camerette dei bambini: "Piccolomo aveva un bambino e l'anno prima aveva comprato una cameretta, in più faceva l'imbianchino e le figlie confermarono che usava molti cartoni". Non solo. "L'assassino di Lidia l'aveva rivestita, perdendo tempo e rischiando di essere visto. Piccolomo in quel periodo era padre di un bambino e la moglie lavorava in ospedale facendo i turni di notte, così era lui che si occupava di mettere a letto i figli". Probabilmente il gesto di rivestire Lidia è stato "istintivo": "Non di rado chi commette un delitto si tradisce in questo modo e fa delle cose che è abituato a fare in certi orari". Nel 2017, quando venne riesumato il corpo di Lidia Macchi, vennero trovate 4 formazioni pilifere in zona pubica e ne venne analizzato il Dna, senza che venne individuato quello di Piccolomo. "Ma quell'esame del 'combing' - ha precisato Miatello - è del tutto irrilevante, perché quelle 4 formazioni pilifere non sembrano affatto peli pubici, ma sono molto probabilmente un solo capello poi spezzatosi in 4 parti per l'azione dei batteri dopo 30 anni nella bara. Il capello potrebbe appartenere a una delle tante persone che ebbero contatto col cadavere della ragazza nel gennaio 1987: poliziotti, operatori dell'obitorio e operatori del servizio di onoranze funebre che rivestirono la salma". Le indagini a carico di Piccolomo durarono per diversi anni, durante i quali venne chiesto di esaminare il Dna sui reperti e di compararlo con quello dell'uomo. Ma gli esperti non trovarono alcuna corrispondenza: "Non vuol dire nulla - spiega Alberto Miatello - buona parte dei reperti erano spariti". Ma l'assenza del Dna e le rivelazioni di Patrizia Bianchi fecero scemare l'attenzione della pista Piccolomo, che si concentrò invece su Stefano Binda.
Il processo a Stefano Binda. La mattina del 12 gennaio 1987 Giorgio Macchi, il papà di Lidia, consegnò agli inquirenti una lettera anonima ricevuta dalla famiglia il giorno del funerale della ragazza, avvenuto il 10 gennaio. La lettera, scritta in stampatello su un foglio di quaderno e priva di firma, conteneva una poesia intitolata "In morte di un'amica", in cui sembravano essere contenuti riferimenti all'omicidio di Lidia. Per questo la lettera venne attribuita all'assassino. Fu proprio questa poesia che nel 2016, a distanza di 30 anni, portò all'arresto di Stefano Binda, ex compagno di liceo della vittima. Dopo aver visto la lettera anonima pubblicata su La Prealpina infatti, un'amica di Binda, Patrizia Bianchi, aveva riconosciuto la grafia dell'uomo e aveva fornito agli inquirenti alcune cartoline scritte da Binda: la perizia calligrafica aveva evidenziato l'identità della grafia. Nella borsa di Lidia venne ritrovata all'epoca anche la poesia di Cesare Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi che, a detta della donna, rappresentava il "cavallo di battaglia di Stefano Binda all'epoca del liceo". Inoltre nel 1987 Binda guidava una macchina bianca simile a quella vista da una testimone nei pressi del polo ospedaliero. Il 24 aprile del 2018, Stefano Binda venne condannato all'ergastolo per l'omicidio di Lidia Macchi, aggravato dalla crudeltà. Secondo i giudici, il 5 gennaio del 1987 l'uomo "dopo aver incontrato Lidia Macchi nel parcheggio dell’Ospedale di Cittiglio ed essersi accompagnato all’amica nella sua auto, raggiungeva con lei la zona boscosa Sass Pinin ove, dopo la consumazione di un rapporto sessuale ottenuto con minaccia e costrizione, la aggrediva colpendola reiteratamente alla gola, al collo e al torace e, successivamente, mentre la ragazza tentava la fuga, alla coscia sinistra e alia zona dorsale, con una serie di coltellate (29) tali da cagionare alla vittima numerose lesioni che ne determinavano la morte per anemia e asfissia dopo penosa agonia". Secondo i consulenti, la lettera "In morte di un'amica" e i caratteri scritti sulla busta "appartengono alla stessa matrice redattiva e sono da giudicarsi opera appositiva di Stefano Binda". La lettera, "per il forte simbolismo che contiene" non venne considerata "una semplice poesia", ma contiene "certe descrizioni e il riferimento a particolari che soltanto l’assassino poteva conoscere". La Corte concluse che l'insieme degli indizi e delle prove indicava Stefano Binda come autore dell'omicidio della studentessa 21enne. "L'attività è durata 4 anni e mezzo - ricorda il criminologo Franco Posa - Ogni tipo di attività tecnica e scientifica è stata fatta con eccellenza. La procura generale ha usato in modo professionale e proficuo ogni metodo disponibile. Io ero stato chiamato per ricostruire la criminodinamica". Nel 2019 la sentenza d'appello ribaltò le carte. Il 24 luglio la Corte d'Assise d'Appello di Milano assolse Binda dall'accusa di omicidio e ne ordinò l'immediata scarcerazione. L'assoluzione è stata confermata pochi giorni da dalla Corte di Cassazione. "Tutte le attività sono state fatte con eccellente e grande competenza - ha dichiarato in merito il criminologo Posa - accetto e mi inchino di fronte alle sentenze degli altri giudici". Così, a distanza di 34 anni, la morte di Lidia Macchi rimane ancora un mistero, pieno di punti oscuri e dubbi. "Una delle cose più tristi di quel caso era che Piccolomo si sarebbe potuto rintracciare in tempi brevi - ha spiegato Miatello - c'era materiale più che sufficiente per arrivare in fretta a lui". Quello che è certo e che la storia di Lidia Macchi è la storia di un'altra vittima ancora senza giustizia.
Dopo 33 anni nessuna giustizia per la famiglia: "Comprendiamo assoluzione". Omicidio Lidia Macchi, finisce l’incubo di Stefano Binda perseguitato dai pm: “Vero e proprio deserto probatorio”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 28 Gennaio 2021. “Comprendiamo la sua completa assoluzione”. Questo il commento della famiglia di Lidia Macchi, la giovane 21enne uccisa con 29 coltellate in un boschetto a Cittiglio (Varese) nel gennaio del 1987 , in merito alla conferma della Corte di Cassazione dell’assoluzione di Stefano Binda, 53 anni, dall’accusa di omicidio per la morte della ex compagna di scuola. E’ la fine di un incubo iniziato 30 anni dopo la morte di Lidia e che ha visto prima la procura di Varese, poi quella di Milano accanirsi contro Binda, condannato all’ergastolo in primo grado, nonostante nelle motivazioni della sentenza di assoluzione stabilita dai giudici della Corte d’Assiste d’Appello meneghina si faceva riferimento a un “vero e proprio deserto probatorio“. “Stefano era già abbastanza tranquillo dopo aver saputo che il sostituto Pg della Corte di Cassazione aveva chiesto l’inammissibilità dei ricorsi” della Procura generale di Milano e della famiglia di Lidia, ha detto l’avvocato Patrizia Esposito, che lo ha difeso con l’avvocato Sergio Martelli. “Dopo la sentenza, Stefano Binda era veramente felicissimo”, ha aggiunto il legale. “Sono molto felice e sereno, mi aspettavo questa sentenza perché sono sempre stato sicuro della mia innocenza” ha dichiarato Binda, come riferito dai suoi avvocati. I familiari di Lidia Macchi, invece, hanno inviato tramite i loro legali un lungo comunicato per spiegare che “dopo aver attentamente letto le sentenze precedenti e aver appena appreso il risultato della Cassazione, vogliamo chiarire alcuni punti. Crediamo che durante il corso delle indagini e soprattutto dei processi non siano emerse prove a sufficienza per ritenere che Stefano Binda sia stato l’assassinio di Lidia e pertanto comprendiamo la sua completa assoluzione”, hanno fatto sapere Paola, Stefania e Alberto Macchi. “In noi – sottolineano – rimarrà per sempre la ferita di non aver trovato il colpevole della morte di Lidia, anche alla luce della dolorosa scoperta della distruzione e sparizione di alcuni reperti che con le tecniche moderne avrebbero potuto portare un apporto decisivo in questo percorso giudiziario”.
LA VICENDA – L’unica traccia per trovare il suo assassino, per anni, è stata solo una lettera anonima scritta a mano recapitata a mano il giorno del funerale della giovane, il 10 gennaio, a casa dei genitori. Il testo era una inquietante poesia dal titolo ‘In morte di un’amica’, che riportava dettagli noti solamente al suo assassino. Proprio da un confronto calligrafico con cui era stata tracciata la lettera e di una cartolina inviata da Stefano Binda ad un’amica era stato individuato nell’ex compagno di scuola di Lidia il presunto assassino. A riaprire le indagini a distanza di anni era stata il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda. Il 15 gennaio 2016 Binda viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario aggravato. Binda respinge ogni accusa e si proclama innocente ma in primo grado, il 24 aprile del 2018 la Corte d’Assise di Varese ha condannato Binda all’ergastolo. Secondo i giudici, si legge nelle 197 pagine di sentenza, l’imputato uccise Lidia Macchi “per procurarsi l’impunità dal reato di violenza sessuale su di lei commesso”. Sentenza poi ribaltata in appello l’anno successivo, il 24 luglio 2019, in Corte d’Assise d’Appello di Milano che ha assolto l’uomo, poi scarcerato. I giudici di secondo grado, nelle motivazioni della sentenza, parlano di “vero e proprio deserto probatorio. L’alibi non è stato smentito, non c’è il movente, non è suo il Dna trovato sul corpo della vittima e nessuno ha individuato contatti tra Binda e Macchi la sera della scomparsa della vittima” e inoltre “non è lui ad avere lasciato tracce biologiche sulla busta spedita a casa Macchi”. Contro questa pronuncia, hanno presentato ricorso in Cassazione sia la procura generale di Milano che la famiglia Macchi, parte civile nel processo. Ricorsi che già nella mattinata del 27 gennaio 2021 il procuratore generale della Cassazione Marco Dall’Olio ha chiesto di dichiarare inammissibili.
«Mi hanno cucito addosso il ruolo di mostro, ora voglio tornare a vivere». Simona Musco su Il Dubbio il 29 gennaio 2021. Dal 2016 a mercoledì scorso, mezza Italia è stata convinta che fosse Stefano Binda l’assassino di Lidia Macchi, uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987. Ma l’assassino non era lui .«È un incubo che ho vissuto ad occhi aperti. Altri forse hanno dormito, quel sonno della ragione che produce mostri». Stefano Binda ha attraversato l’inferno. E ne è uscito, cinque anni dopo un arresto che più ingiusto non si può. Dal 2016 a mercoledì scorso, mezza Italia è stata convinta che fosse lui l’assassino di Lidia Macchi, la giovane studentessa impegnata con Comunione e Liberazione uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987 e ritrovata morta in un bosco a Cittiglio, nel varesotto, un delitto rimasto senza colpevole. In primo grado Binda – anche lui di Cl – era stato condannato all’ergastolo dalla Corte di assise di Varese e poi prosciolto in appello dalla Corte di Assise di appello di Milano il 24 luglio 2019, dopo tre anni e mezzo di custodia in carcere. Ora la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Pg di Milano e dei familiari di Lidia. Il suo nome era stato tirato in ballo con un colpo di scena degno di un crime movie: una lettera anonima contenente una poesia – “In morte di un’amica” – con dettagli che solo l’assassino poteva conoscere e recapitata alla famiglia il giorno del funerale della ragazza. Poesia che, secondo la ricostruzione dell’accusa, fu scritta proprio da Binda. Ma l’assassino non era lui. «Esperienze come questa – racconta Binda al Dubbio – lasciano macerie».
Si aspettava che finisse in questo modo?
«Confidavo molto in questa decisione. Poi il fatto che lo stesso procuratore generale della Cassazione – e quindi non un avvocato dell’accusa, come molti magistrati intendono il loro ruolo, ma un pubblico ministero – abbia chiesto lui stesso l’assoluzione, francamente, ha incrementato le mie speranze: non c’era più un’accusa, in senso sostanziale».
Crede che questo voglia dire che il sistema giustizia, al di là delle sue storture, funziona?
«Io ho attraversato gli estremi del codice, dalla pena massima all’assoluzione con la formula piena. Sono stato sfortunato nel primo grado o sono stato fortunato oggi? Credo che bisogna interrogarsi su quanto il sistema sia affidato alle scelte dei singoli, di quali garanzie dia. Francamente, come cittadino, non mi sembra responsabile dire che il sistema funziona sulla base della logica “tutto è bene quel che finisce bene”. È una sciocchezza. Ho passato tre anni e mezzo in carcere, il che vuole dire essere stato messo in pericolo. Il sistema giustizia non può non farsi carico di queste cose. È importante e delicatissimo. Ma a questo livello il dibattito pubblico è insufficiente e l’impostazione culturale non è all’altezza».
La famiglia della vittima ha affermato che non c’erano elementi per una sua condanna. Cosa ne pensa?
«È importante che questa possa essere l’occasione di far tornare, anche nei miei riguardi, quella famiglia come la famiglia Macchi e non come la parte civile, cioè la privata accusa. Mi compiaccio che dica di comprendere l’assoluzione piena. D’altronde in primo grado è stato montato un processo indiziario contro di me, ne è risultato un processo di prove positive a mio favore eppure mi è stato dato l’ergastolo.
L’unico elemento era solo quella famosa lettera anonima. C’era una consulenza di parte che me l’attribuiva e la mia consulente che lo negava decisamente. A fronte di ciò, la mia consulente è stata querelata per diffamazione e addirittura la procura generale ha chiesto che venisse depennata dall’albo dei consulenti, alla quale peraltro l’esperta della procura non è mai stata iscritta. Fortunatamente il consiglio dell’ordine dei consulenti tecnici ha manifestato la massima fiducia in lei».
Qual era il suo alibi?
«Mi trovavo in vacanza a Pragelato, dall’ 1 al 6 gennaio. La stessa Patrizia Bianchi ( la superteste che ha affermato di aver riconosciuto la grafia di Binda, ndr) mi ha sentito fino al 31 per farmi gli auguri e poi il 7. Nessuno mi ha visto da nessun’altra parte, men che meno a Cittiglio, e tre testimoni ricordavano di avermi visto a Pragelato. Ci sono prove documentali, ovvero una mia agenda che riportava i nomi delle quattro persone che erano in stanza con me e le indagini hanno portato a evidenziare che in quell’albergo c’era un unico piano con una stanza da cinque persone. Quindi io avrei dovuto inventarmi il numero di una stanza che era l’unica per cinque persone, scrivere il nome di quattro persone che davvero c’erano e che si sono ricordate di essere in stanza insieme, toglierne una che non si è mai fatta avanti e sostituirmi a lei. Un’assurdità. E sto citando i verbali».
Perché è stato arrestato?
«Mentre la lettera è stata mandata alla grafologa, la busta è stata spedita a Parma, ai Ris. La grafologa dichiarò di trovare una corrispondenza, mentre i Ris comunicarono di aver trovato un dna valido sulla busta. Non attesero gli esiti: certissimi che fossi io, mi fecero arrestare. Poco dopo i Ris dissero che non c’era corrispondenza con il mio dna. Ma ormai il treno era partito. E chi lo ferma, a quel punto?»
C’era del dna anche sul corpo.
«Riesumarono la salma riuscendo a trovare quattro formazioni pilifere sul pube, tutte e quattro della stessa persona, ma non mie. E ho comunque preso l’ergastolo. In Corte d’Appello è stata la scienza a farmi assolvere».
In primo grado come era stata giustificata la sua condanna?
«Le prove del dna sono state ritenute neutre. Il dna è stato comparato con quello dell’addetto delle pompe funebri di allora, per verificare un’eventuale contaminazione, ma non con quello degli altri che erano stati sospettati prima di me. Alcune donne avevano denunciato di essere state molestate nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio, ne è stato fatto un identikit che corrisponde perfettamente ad uno dei sospettati, scagionato perché non poteva aver scritto l’anonimo, in quanto “non ne aveva la cultura”. La sentenza d’appello parla di deserto probatorio. Dice chiaramente che, consapevoli di non avere in mano niente, in violazione di legge, hanno approvato l’idea che l’autore del delitto dovesse avere un certo profilo per cucirmelo addosso».
Come sono stati l’arresto e il periodo che ha vissuto in carcere?
«È stata una cosa sinceramente devastante. Si dice sempre: se non hai fatto niente quando suonano al campanello stai sicuro che non è la polizia. E invece era proprio la polizia. Non capivo. I primi sette giorni e sette notti sono stati i più duri della mia vita, ho fatto uno sforzo enorme per rimanere lucido e ciò mi ha aiutato molto. Sono stato l’unico ad andare in galera dopo 30 anni dal fatto, da incensurato, sotto gli occhi di tutta Italia. Il pericolo di fuga è stato documentato perché conosco un prete che è nunzio apostolico in Burkina Faso: una roba assurda. Il pericolo di inquinamento delle prove, invece, dopo 30 anni dal fatto e 19 ore di perquisizione che avevano prodotto nulla, era motivato con il rischio di subornazione dei testimoni. Su questo chiesero l’incidente probatorio testimoniale, per bloccare le testimonianze. Ma risultò totalmente a mio favore. Per spiegare il livello delle indagini, si disse che a rendere possibile l’ipotesi che io avessi un coltello era il fatto di dover tagliare l’eroina! O anche che io mi trovassi dove è stata uccisa perché stavo andando al Sert. Peccato che il Sert sia stato istituito per legge nel 1990 e a Cittiglio il primo risale al 1995. Questi non sono spunti investigativi, questi sono motivi di un ergastolo».
Chiederà un risarcimento?
«Quello che è finito è finito, ma lascia una devastazione economica totale e parlo delle cose materiali, che sono le ultime. Ci sono ben altre ferite, altri pesi. Parlando del parzialmente rimediabile, questa assoluzione con formula piena rende ufficialmente la mia un’ingiusta detenzione. Dovrò fare causa allo Stato, che resisterà».
Cosa farà adesso?
«Mi piacerebbe molto se la mia esperienza servisse a qualcosa. Non ho perso i contatti con il carcere, un mondo davvero dimenticato, di cui a nessuno importa. La giustizia va davvero ripensata, ma dall’inizio, dal concetto di polizia giudiziaria. Una persona può disporre, senza limiti di budget, della vita degli altri. Io sono sempre stato libero, ma adesso, a fronte della assoluzione, voglio riconquistare appieno la mia libertà, che non dipendeva certo dallo Stato, così come la mia innocenza. Vorrei guadagnarmi una vita davvero libera, a partire dal guadagnarsi da vivere, nel senso più concreto del termine. Ho 53 anni, con un titolo di studio in filosofia preso due vite fa: non è facile. Voglio aiutare quelli che hanno a che fare con la giustizia, ma dalla parte sbagliata».
· Il Mistero di Cranio Randagio.
Adelaide Pierucci per "il Messaggero" il 14 gennaio 2021. Non sono bastate le bugie e l' omertà di squadra per seppellire il caso sulla morte di Cranio Randagio, all' anagrafe Vittorio Boris Andrei, il rapper romano ucciso a 22 anni da un mix di droghe il 12 novembre 2016 durante un party alla Balduina in casa di amici. Tre partecipanti alla festa, chiusa il giorno successivo con Cranio agonizzante in un letto, saranno processati. Uno è Francesco Manente, 26 anni, accusato di detenzione e spaccio di stupefacenti, e di morte come conseguenza di altro delitto: avrebbe fornito il crack, una delle sostanze che avrebbero ucciso il rapper. Gli altri due sono Pierfrancesco Bonolis, il videomaker che quella notte festeggiava il compleanno, e Jaime Garcia De Vincentiis, oggi 25enne. Sono entrambi accusati di favoreggiamento. Finora nemmeno l' appello della mamma di Vittorio Bos Andrei, Carlotta Mattiello, che ha parlato di «immorale omertà di chi era con lui», è servito a scuotere la comitiva, tanto che ci sono ancora giovani da identificare. La ricostruzione del pm Maria Rosaria Guglielmi è partita dall' autopsia che ha accertato la morte per «intossicazione acuta letale di ossicodone, ecstasy, ketamina, codeina e morfina», e dall' analisi degli smartphone e di alcuni filmati . A inchiodare il pusher, un messaggio su Facebook: «Io porto il crack». Un'ulteriore perizia, chiesta dal gip, ha però portato a escludere che siano stati il crack o la cocaina a scatenare l'overdose, perché assunti la sera prima della festa. «Abbiamo fumato qualche canna e bevuto birra», la prima ammissione. Con le foto in un telefonino è crollata la bugia. In un filmato è Cranio a informare gli amici dello stato di confusione in cui si trovava. Mentre nell' ultimo video lo si vede sul letto del padrone di casa, sotto una coperta, forse già morto. In altri fotogrammi c' è Jaime Garcia De Vincentiis che dice: «Ci sono cose brutte da vedere». E poi: «Cranio ciao, ciao Cranio». Dal suo telefono sono emersi contatti notturni con un altro pusher. Ha spiegato che le chiamate le aveva fatte Vittorio e di averlo accompagnato a comprare probabilmente droga, negando di conoscere il venditore. «Non ci speravo più - si consola la madre del rapper, assistita dall' avvocato Marco Macchia - Il processo è un atto di civiltà. Mi batto coi ragazzi nelle scuole. È importante non rimanere vigliacchi o omertosi. Non che Vittorio sia immune nell' errore, ma i veri amici una telefonata per dirmi che stava male me la dovevano fare».
· Il Mistero di Marco Pantani.
(ANSA il 22 novembre 2021) - È stata riaperta per la terza volta l'inchiesta sulla morte di Marco Pantani, il campione di ciclismo trovato cadavere il 14 febbraio 2004 nel residence Le Rose di Rimini. Si tratta di un fascicolo per omicidio, contro ignoti, aperto dopo l'invio dell'informativa della commissione parlamentare antimafia alla Procura riminese, nel 2019. Lo riportano quotidiani locali e la notizia è confermata all'ANSA dall'avvocato Fiorenzo Alessi, difensore della famiglia Pantani. Nel 2016 l'inchiesta bis fu archiviata e l'omicidio escluso. Recentemente la madre del Pirata, Tonina Belletti, è stata sentita in Procura.
Marco Pantani, caso riaperto sulla morte del ciclista. La mamma in Procura. Giada Oricchio su Il Tempo il 22 novembre 2021. Si riapre il caso di Marco Pantani. La Procura di Rimini torna a indagare sulla morte del campione di ciclismo trovato senza vita il 14 febbraio 2004 in una stanza del residence Le Rose di Rimini. E’ la terza volta che l’inchiesta riprende vigore e questa volta il fascicolo ipotizza il reato di omicidio contro ignoti a seguito dell'invio dell'informativa della commissione parlamentare antimafia alla Procura riminese, nel 2019. L’avvocato Fiorenzo Alessi, difensore della famiglia Pantani, ha confermato la notizia all’Ansa dopo le indiscrezioni riportate da diverse testate locali. Le circostanze della morte del vincitore del Tour de France e del Giro d’Italia sono state oggetto di indagine subito nel 2004 e successivamente nel 2016. In questo caso, il gip Vinicio Cantarini archiviò escludendo che l’atleta fosse morto assassinato. Per il giudice, la morte di Pantani fu causata da “un’assunzione, certamente volontaria, di dosi massicce di cocaina e farmaci antidepressivi”, mentre l’omicidio “è una mera congettura fantasiosa”. La Cassazione confermò l’archiviazione. Ma nel 2019 le deposizioni di Fabio Miradossa, spacciatore del ciclista e del generale Umberto Rapetto gettarono più di un’ombra sulla verità della tragica fine. Le affermazioni furono secretate, ma poi sono arrivare in Procura che su questa base e su nuovi elementi ha deciso di aprire il terzo fascicolo. La domanda è sempre la stessa: Marco Pantani si è suicidato o il cocktail letale è stato indotto da terzi? Al momento i magistrati non hanno rilasciato alcun commento, è trapelato solo che Tonina Belletti, la madre del “Pirata”, questo il soprannome dello sportivo, è stata sentita dai giudici ai quali ha consegnato un memoriale di 51 pagine sugli ultimi tre giorni di vita del figlio.
Caso Pantani, la Commissione Antimafia consegna ai pm nuovi atti, si riapre l’inchiesta per omicidio. Marco Bonarrigo su Il Corriere della sera il 22 novembre 2021. La forma è quella di fascicolo contro ignoti per il reato di omicidio aperto alla Procura di Rimini che ha potuto finalmente leggere l’interrogatorio di Miradossa, il pusher del «Pirata». Il «caso Marco Pantani», ovvero l’insieme dei fatti che hanno portato alla morte del fuoriclasse romagnolo del ciclismo il 14 febbraio del 2004, è stato riaperto per l’ennesima volta, probabilmente l’ultima. La forma è quella di fascicolo contro ignoti per il reato di omicidio aperto alla Procura di Rimini. Marco Pantani, la morte 17 anni fa: fra la tesi omicidio e le (troppe) fake news, ecco che cosa sappiamo davvero. L’impulso alla riapertura è arrivato da una relazione della Commissione Parlamentare Antimafia che ha ascoltato nel 2020 - tra gli altri - Fabio Miradossa, il pusher che riforniva di cocaina il Pirata. L’audizione di Miradossa all’epoca venne secretata. «Non abbiamo nessuna verità precostituita o tesi da dimostrare - spiega al Corriere Fiorenzo Alessi, il nuovo avvocato di Tonina Pantani, la mamma di Marco - ma la famiglia vuole finalmente mettere la parola fine alla vicenda e sapere se Marco è morto di overdose o è stato ucciso. La Procura ha già sentito a lungo mamma Tonina e sta lavorando con grande serietà grazie al coordinamento della procuratrice generale Elisabetta Melotti. Tonina e il marito - dopo anni di battaglie - hanno bisogno di mettersi il cuore in pace e l’unico modo di farlo è rileggere tutte le carte, dissecretare le testimonianze chiave e chiudere una vicenda che si trascina da 17 anni: qualunque verità emerga, la accetteremo».
Il fascicolo per omicidio a carico di ignoti. Marco Pantani, mistero infinito: aperta terza inchiesta sulla morte del ‘Pirata’. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Novembre 2021. È un mistero ‘infinito’ quello che circonda la morte di Marco Pantani, il ‘Pirata’ trovato senza vita il 14 febbraio 2004 nel residence Le Rose di Rimini. Arriva questa mattina l’ennesima svolta sulla travagliata scomparsa dell’ex campione di ciclismo: la procura di Rimini, dopo aver recentemente sentito per oltre due ore la madre di Marco, Tonina Belletti, ha aperto un terzo fascicolo sulla morte del ‘Pirata’. Una inchiesta per omicidio contro ignoti aperta dopo l’invio dell’informativa della commissione parlamentare antimafia alla Procura riminese, nel 2019. La terza indagine sulla morte di Pantani prenderebbe spunto tra l’altro dall’audizione alla commissione parlamentare antimafia di Fabio Miradossa, che nel 2005 patteggiò una pena per spaccio legato alla morte dell’ex campione di ciclismo. Miradossa ai parlamentari disse, nel gennaio 2020, che Marco era stato “ucciso, l’ho conosciuto 5-6 mesi prima che morisse e di certo non mi è sembrata una persona che si voleva uccidere. Era perennemente alla ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, ha sempre detto che non si era dopato”, rivelò Miradossa in commissione, audizione che poi è stata parzialmente secretata. Quelle parole vennero poi segnalate ai pm dei parlamentari antimafia. “La commissione parlamentare antimafia non ha fatto altro che fare il proprio lavoro, cioè ha trasmesso gli esiti di queste audizioni alla procura di Rimini, invitandola a valutare il da farsi – spiega il legale Fiorenzo Alessi, avvocato della famiglia, a LaPresse -. La procura ha opportunamente iscritto un nuovo procedimento a carico di ignoti per l’ipotesi di omicidio, la vecchia ipotesi che era già stata formulata nei precedenti procedimenti archiviati“. L’obiettivo di Tonina Belletti, aggiunge Alessi, è di “mettersi il cuore in pace, avere una risposta che sia definitiva e poi quel che sarà sarà”. “Dopo che almeno 40 giudici hanno ritenuto priva di fondamento l’ipotesi dell’omicidio, confidare che a distanza di quasi 18 anni dalla morte di Pantani si possa configurare adesso è abbastanza difficile da credere, ma se la procura di Rimini sta indagando, noi collaboreremo per quanto possibile“, ha aggiunto l’avvocato della famiglia. Mamma Tonina “chiede di capire una volta per tutte se il figlio è morto per un mix di antidepressivi con la cocaina assunta precedentemente oppure se ci sono altri motivi“, ribadisce l’avvocato.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
"So che è stato ucciso", torna in gioco l'ex pusher di Marco Pantani. E sull'omicidio si indaga già da due anni. Il Tempo il 23 novembre 2021. Nella nuova inchiesta sul presunto omicidio di Marco Pantani torna in gioco uno dei protagonisti del primo e unico processo per la morte del Pirata il 14 febbraio 2004 al Residence delle Rose di Rimini, dove il campione di ciclismo fu stroncato da un cocktail di cocaina e antidepressivi. È Fabio Miradossa, l'ex spacciatore condannato per aver venduto la dose mortale a Pantani. Nel gennaio 2020 è stato sentito dalla commissione parlamentare Antimafia e le sue parole sono finite in un fascicolo aperto nel 2019 a Rimini dove i magistrati avevano già messo sotto la lente le zone oscure lasciate dalle precedenti inchieste. Quelle sul presunto omicidio del campione, ma anche per possibile ruolo della criminalità organizzata per i fatti di Madonna di Campiglio, il 5 giugno 1999, quando il Pirata fu sospeso dal Giro d'Italia per ematocrito sopra i limiti (allora non si parlava di doping, ma di sospensione per tutelare la salute dell'atleta). Il legale dei Pantani, Fiorenzo Alessi, dice al Corriere della sera che la madre del campione, Tonina, "è già stata ascoltata e la Procura sta vagliando il materiale con grande serietà. Se prima la famiglia era sempre partita da una caccia al colpevole, ora l'obbiettivo è la verità. Vogliamo sapere se Marco è morto di overdose (e se è così accetteremo la realtà dei fatti), se è stato ucciso o se qualcuno presente in quella stanza quando lui si è sentito male è fuggito senza soccorrerlo. Quello che è successo dopo la sua morte non ci interessa più: anche se la raccolta delle prove sul luogo del delitto non fosse stata impeccabile, come molti sostengono, non è più tempo di ragionare su questo". Le altre inchieste sono finite in un nulla di fatto, ma numerose ipotesi sui giorni tragici del campione sono state avanzate, come l'assunzione forzata di droga per provocarne la morte. Pantani dava soldi a tutti, soprattutto ai suoi spacciatori, che non avrebbero avuto interesse a ucciderlo. Miradossa - che patteggiò 4 anni e 10 mesi di reclusione, mentre a 3 anni e 10 mesi venne condannato Ciro Veneruso, entrambi per spaccio e morte come conseguenza di altro reato - oggi sottolinea lo stato psicologico del campione in quel periodo: "Pantani era perennemente alla ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio e ha sempre detto che non si era dopato".
Claudia Guasco per "il Messaggero" il 23 novembre 2021. Stanza D5 del residence Le Rose di Rimini. È qui che, alle 12,45 del 14 febbraio 2004 muore Marco Pantani. Era rintanato in camera da giorni, solo, con scatole di medicinali sparse ovunque. Secondo l'autopsia il suo cuore si è fermato per un edema polmonare e cerebrale, dovuto a un'overdose di cocaina e psicofarmaci. «L'ho sentito subito che me lo avevano ucciso e ogni giorno che passava ho cresciuto questa determinazione», ha detto la mamma Tonina Belletti. Diciassette anni dopo, si intravede uno spiraglio: la terza inchiesta sulla morte del Pirata. LE ULTIME ORE Il fascicolo per omicidio, a carico di ignoti, è stato aperto dalla Procura di Rimini nel 2019, sulla scorta dei documenti inviati dalla Commissione parlamentare antimafia. «Queste carte non costituiscono notizia di reato ma i magistrati, con grande correttezza, hanno avviato l'inchiesta. Marco Pantani risulta parte offesa», spiega l'avvocato Fiorenzo Alessi, legale della famiglia, noto nel mondo del ciclismo per aver difeso per questioni di doping Riccardo Riccò. Poi è arrivata l'accelerazione, con la deposizione della madre di Pantani ascoltata per due ore dal pm Luca Bertuzzi il 7 gennaio 2020. «Mamma Tonina chiede di capire una volta per tutte se il figlio è morto per un mix di antidepressivi con la cocaina assunta precedentemente, oppure se ci sono altri motivi». Ha depositato una memoria di 51 pagine in cui racconta tutto ciò che sa e ricostruisce ciò che è accaduto nelle ore precedenti la morte del figlio: è su questo lasso di tempo, infatti, che si concentrano le indagini, mettendo da parte altri elementi scandagliati in passato come l'alterazione della scena del crimine o le indagini incomplete. «Non voglio vendetta ma soltanto verità e giustizia. La verità non è ancora emersa», ha detto Tonina ai magistrati. Al vaglio c'è in particolare l'audizione, in parte secretata, di Fabio Miradossa, che patteggiò nel 2005 una pena per spaccio legato alla morte di Pantani. «Marco è stato ucciso, l'ho conosciuto cinque, sei mesi prima che morisse e di certo non mi è sembrata una persona che si voleva uccidere. Era perennemente alla ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, ha sempre detto che non si era dopato», le parole di Miradossa, ascoltato dall'Abtimafia lo stesso giorno in cui Tonina deponeva in Procura.
SCOMMESSE E c'è anche ciò che ha riferito il 16 aprile 2019 l'ex ufficiale della finanza Umberto Rapetto sui collegamenti tra la morte del Pirata e la criminalità organizzata. «Un ciclista ricorda nitidamente: stavano festeggiando la vittoria di Pantani con due tappe di anticipo al Giro del 99 e a un certo punto è cambiata l'atmosfera. Qualcuno ha detto: Domani Pantani è fuori. Già si sapeva anche per quale motivo: sarebbe stato trovato positivo agli accertamenti fatti a seguito di prelievi, che però non erano ancora avvenuti. Questo è il primo segnale». Un altro arriva dall'ex boss della malavita milanese Renato Vallanzasca: «Mi dissero di scommettere contro Pantani, perché non avrebbe finito il Giro d'Italia».
Marco Bonarrigo per il "Corriere della Sera" il 23 novembre 2021. Per diciassette anni Tonina Pantani si è svegliata ogni mattina nella sua casa di Cesenatico con un solo pensiero in testa: dare un nome all'assassino (o agli assassini) di suo figlio Marco, trovato cadavere alle 20,45 del 14 febbraio 2004 nella stanza 5D del Residence «Le Rose» di Rimini. Adesso invece la madre dell'eroe più tragico della storia dello sport italiano vuole la verità, qualunque essa sia, per «dare finalmente pace al mio cuore». Alla ricerca di questa verità lavora per la terza volta la Procura di Rimini che ha aperto un fascicolo contro ignoti con l'ipotesi di omicidio: se n'è avuta notizia ieri, pochi giorni dopo l'audizione della madre. La nuova indagine L'indagine - coordinata dalla procuratrice Elisabetta Melotti - non parte da suppliche o esposti della famiglia della vittima, come nel 2014, ma da una segnalazione della Commissione Parlamentare Antimafia che nel 2018/2019 si occupò del caso ascoltando, tra gli altri, Fabio Miradossa, l'uomo che fornì a Pantani la dose letale. Alla richiesta del presidente di spiegare perché a sua opinione Pantani sarebbe stato ucciso e da chi, Miradossa chiese di secretare l'audizione: nei 46 minuti complessivi coperti da segreto - in possesso dei pm di Rimini - potrebbe esserci la nuova pista investigativa. Il legale dei Pantani, Fiorenzo Alessi, è il primo dei tanti avvocati della famiglia ad avere profonda conoscenza dell'ambiente ciclistico. «Tonina Pantani è già stata ascoltata - spiega - e la Procura sta vagliando il materiale con grande serietà. Se prima la famiglia era sempre partita da una caccia al colpevole, ora l'obbiettivo è la verità. Vogliamo sapere se Marco è morto di overdose (e se è così accetteremo la realtà dei fatti), se è stato ucciso o se qualcuno presente in quella stanza quando lui si è sentito male è fuggito senza soccorrerlo. Quello che è successo dopo la sua morte non ci interessa più: anche se la raccolta delle prove sul luogo del delitto non fosse stata impeccabile, come molti sostengono, non è più tempo di ragionare su questo». Le altre inchieste La prima inchiesta giudiziaria si concluse nel 2005 con due condanne (una sarebbe poi caduta in Cassazione) e un patteggiamento nei confronti degli spacciatori che procurarono le dosi letali di cocaina. La verità giudiziaria appariva lineare: nella smisurata piazza di spaccio romagnola, Pantani era soltanto un tossicodipendente all'ultimo stadio, con grande disponibilità economica, morto di overdose dopo aver consumato una dose spropositata. Un tragico ma ordinario caso di cronaca. La famiglia Pantani non si rassegnò e nel 2014 ottenne la riapertura del caso evidenziando nuove prove che erano soprattutto incongruenze nelle prime fasi di indagini. Non era chiaro, però, chi avrebbe voluto la morte del campione (che costituiva un bancomat per i suoi pusher) e come sarebbe avvenuto l'omicidio. L'ipotesi avanzata dai legali - l'ingestione forzata di cocaina sciolta in acqua - non ha precedenti giudiziari: continuavano a mancare movente e arma del delitto. La Procura di Rimini indagò per due anni e poi chiese e ottenne una seconda archiviazione, inutilmente contestata in Cassazione. Perentoria la conclusione: «L'ipotesi di omicidio è una mera e fantasiosa congettura», la morte è stata causata da «assunzione certamente volontaria di dosi massicce di cocaina e antidepressivi». Il pusher in Antimafia Poi, quando tutto pareva concluso, sono arrivate le dichiarazioni di Miradossa in Antimafia. «La Procura non voleva ascoltare la mia verità - raccontò - e io sono stato costretto a patteggiare. Marco non ha consumato droga in quella camera, non era il suo modus operandi. Marco non è morto per droga. Nella stanza c'erano tanti soldi e sono scomparsi: chi li ha presi?». Una risposta può arrivare solo dall'inchiesta. Ascoltata nel 2019 dall'Antimafia la procuratrice Melotti aveva escluso la presenza di nuovi elementi e di collegamenti tra i fatti di Madonna di Campiglio del 1999 (l'esclusione dal Giro d'Italia per ematocrito alto) e la morte di cui si occupò senza risultati la Dda di Napoli nel 2016. Se i nuovi elementi non faranno cambiare idea al capo della Procura si potrebbe prospettare una terza e definitiva archiviazione.
Dagospia il 21 ottobre 2021. “A Campiglio la Madonna non c’era. Mi hanno fregato”. Dentro Pantani quella ferita è rimasta sempre aperta. Lo ha scritto a chiare lettere protestando la sua innocenza. Tutto precipita il 5 giugno 1999, a Madonna di Campiglio, quando gli sfilano dalle mani la maglia rosa e un Giro già vinto (sarebbe stato il secondo di fila). Lo trovano con l’ematocrito a 52%. Il limite massimo era 51% (ma sia la sera prima che poche ore dopo il controllo era sotto il 50%). Lo fermano “per tutelarne la salute”, non viene squalificato. Il presidente del Pantani fan club sente puzza di bruciato e minaccia di guidare una rivolta. Da “eroe del ciclismo” il Pirata diventa un traditore, il capro espiatorio perfetto di un sistema marcio. L’allora direttore della Gazzetta, Candido Cannavò, che la sera prima del controllo di Campiglio era stato a tavola con lui fino a tardi a lusingarlo, si trasforma in uno dei suoi principali accusatori. In un editoriale di inusitata ferocia giustizialista invita il Pirata a confessare il doping (mai assunto) e a ripartire. "Riguardo a quello che è successo a Campiglio, lo hanno capito anche i sassi...", evidenzia mamma Tonina che a proposito del film "Il migliore" di Paolo Santolini, aggiunge: "Fa vedere chiaramente chi era Marco". Un "patacca" di Romagna che amava la caccia, la pesca, i motori, le donne e cazzeggiare con gli amici. Le immagini restituiscono discese e risalite ardite, il cielo e le nuvole del Carpegna, la montagna di Marco, la spiaggia di Cesenatico. Piadine, parrucche, facce colorate, Romagna sua. E poi i silenzi, le accuse, i misteri di una fine triste e solitaria davanti al mare d'inverno. Una incredibile avventura umana e sportiva che va a incrociare vizi, miserie e problemi irrisolti del nostro disgraziatissimo Paese. C’è l’invidia dei mediocri nei confronti del “migliore di tutti”. Nella tappa di Oropa, in quel magnifico e tragico Giro del ’99, i rivali lo attaccano quando il Pirata è costretto a mettere il piede a terra per un salto della catena. “Pantadattilo” risponde da cannibale. Riprende Gotti, Savoldelli, Jalabert, li guarda in faccia, se li lascia alle spalle e va a vincere. Fu detto che avrebbe dovuto essere più magnanimo, fare come Armstrong o Indurain che lasciavano le vittorie di tappa agli altri. Ma lui era diverso. Era il campione che appena la strada si impennava, scattava scatenando l’entusiasmo dei tifosi che a casa, nei bar e negli stabilimenti di Cesenatico “facevano volare” le tv. Audience da mondiali di calcio, sponsor, show televisivi. “I suoi colleghi non avevano capito che Pantani faceva sì che aumentassero gli stipendi di tutti”, spiega un suo amico. Dall’altare alla polvere (bianca). La discesa agli inferi viene sezionata da una stampa avida di sbranare il mito e divorarne i pezzi. Anche se non è stato mai trovato positivo a un controllo antidoping, fu additato come il grande dopato. Cosa abbia determinato quell’ingiusta accusa in un ragazzo che diceva di “credere nei valori” e per cui “essere ferito nei sentimenti faceva più male che nel fisico” è agli atti di un colossale cortocircuito giudiziario. Sette procure diverse lo misero sotto indagine per frode sportiva. E le falle nei controlli di Campiglio? Le rivelazioni di Renato Vallanzasca che in carcere venne a sapere giorni prima che “il pelatino non sarebbe arrivato a fine Giro”? Il giro di scommesse clandestine sul ciclismo? Lettera morta. Si sottolinea come Pantani sia finito tre volte a giudizio ma si dimentica di ricordare che in due occasioni è stato assolto. E Il terzo processo è decaduto per la sua morte avvenuta il 14 febbraio del 2004 per intossicazione da cocaina (anche se la sua famiglia sostiene che sia stato ucciso da una overdose). A Cesenatico ricordano quei giorni gloriosi al Giro e al Tour. “Qua non passava una macchina, sembrava ci fosse solo lui”. L'ultimo dei magnifici 7 ad aver vinto Giro e Tour nello stesso anno. Lui, Marco Pantani. Il migliore di tutti.
Dagospia il 22 aprile 2021. Una canzone di Marco Baccini scritta insieme a Enrico Nascimbeni, un amico scomparso troppo presto, in onore di Marco Pantani, che suona così: "È proprio lui, guardalo lì / sembra che dorma è fermo lì / respira o no? che brutta fine ha fatto... / Guardalo lì, tiralo su, muovilo un po' / non serve a niente. non c' è più / chissà dov' è... è proprio andato via / Vai, vai, vai, pirata sei tutti noi / oh oh oh mai, mai, mai e poi mai la pioggia ti fermerà. / Vai, vai, vai, in fuga da tutti noi / oh oh oh mai, mai, mai e poi mai / la notte ti prenderà". La notte, quel 14 febbraio del 2004, ha portato via un grande campione, Marco Pantani. Distrutto, lapidato quattro anni prima, quando stava vincendo a mani basse il Giro d' Italia. I valori dell' ematocrito erano di poco più alti della media, così scatto la squalifica. E poi il buio. Quel buio che ancora avvolge una vicenda umana e giudiziaria che pare non possa dare giustizia a un nostro campione. La mamma Tonina cerca la verità, combatte contro tutti e tutte le forze in gioco. Il ciclismo è un luogo dove girano interessi importanti e, forse, Marco non era omologo a loro. Ma la verità, per la mamma di Pantani, è già chiara ed è diversa da quella giudiziaria. Dalla squalifica di Madonna di Campiglio fino alla morte a Rimini, il racconto di una mamma coraggiosa capace di combattere per ridare dignità al proprio figlio.
Marco Pantani, la drammatica verità della madre a Libero: "Non era solo la notte in cui fu ucciso, perché non è suicidio". Giovanni Terzi per Libero Quotidiano il 20 aprile 2021. «Sono stato un po’lontano dal mondo della bicicletta, perché come ben tutti sapete hanno fatto in modo che fosse così. E non ho ancora voglia di smettere di correre perché mi sento di potere e volere decidere del mio futuro senza che lo faccia qualcuno per me, e ad oggi ci sono diverse possibilità. Però, andando a vedere quali sono le mie aspirazioni, mi piacerebbe andare in un gruppo che faccia i grandi giri e le corse di Coppa del Mondo importanti. In questo momento c’è qualcosa che sta maturando». Queste le parole di Marco Pantani a fine novembre del 2004, sei mesi dopo aver corso l’ultimo suo giro d’Italia e tre mesi prima di essere trovato morto a Rimini nel residence “Le Rose” all’interno della sua stanza, la 115. Nella stessa intervista Pantani dichiarava, in piena forma fisica e psichica: «Non ho ancora voglia di smettere perché sento ancora l’entusiasmo, la voglia», per poi terminare dicendo: «La cosa che mi rimane da fare è quella di non arrendermi, o comunque di non uscire di scena come vogliono i miei nemici». Possono essere queste le dichiarazioni di una persona che solo tre mesi dopo verrà trovato morto per intossicazione acuta da cocaina e psicofarmaci con conseguente edema polmonare e cerebrale, così come accertato dall’autopsia? «Marco è stato ucciso»: sicura e combattiva da sempre, di questo è convinta Tonina Belletti, la mamma di Marco Pantani, che da quel 14 febbraio del 2004 ricerca caparbiamente la verità su ciò che è accaduto a suo figlio. Sono passati diciassette anni e questa verità pare emersa nel sentimento collettivo, ma non ancora suo piano giudiziario.
Tonina, perché secondo lei suo figlio è stato ucciso?
«Perché lui voleva parlare e far emergere ciò che esisteva dietro al ciclismo in quegli anni».
Mi può spiegare meglio?
«Marco fu squalificato dal giro d’Italia del 1999 per valori alti di ematocrito. Prima di tutto, è stata una squalifica su cui esistono ancora controversie incredibili in quanto Marco, sia la sera che il giorno dopo, aveva valori regolari. Inoltre, e nessuno lo sa, fu proprio Marco, insieme a qualche altro corridore, a proporre e ottenere che ci fosse un limite massimo consentito di ematocrito nel sangue».
Dunque fu lui a costringere di fatto la Federazione a mettere quei limiti?
«Certamente. Fu messo il limite in quanto, prima, si poteva avere qualsiasi tipo di valore senza problemi. Marco lo fece perché vedeva che c’erano dei problemi di salute nei ciclisti dovuti al doping, e si batté affinché questo venisse regolamentato e controllato. E sa una cosa? Dopo sei mesi dalla squalifica di Marco, il limite a 50 di ematocrito fu tolto!».
Lei ha sempre dichiarato che quel giorno a Madonna di Campiglio, il giorno in cui Marco fu trovato positivo al controllo anti-doping, fu costruito tutto a tavolino. Perché?
«Innanzitutto perché fu Marco stesso, arrivato a casa dopo la squalifica, a dirmelo. Era sconvolto. Inoltre tutti si controllavano la sera prima il valore di ematocrito, e così fece mio figlio, risultando nella norma. Marco è sempre stato un uomo corretto che si assumeva, da campione, le proprie responsabilità. A Madonna di Campiglio qualcuno volle farlo squalificare. E ci riuscì! Inoltre, le indagini seguenti fecero comprendere come fosse vantaggioso, per qualcuno, distruggere mio figlio».
Lei, Tonina, si riferisce alla lettera a lei inviata da Renato Vallanzasca?
«Anche quello fu un momento importante per far comprendere che ci fu una cospirazione voluta da qualcuno nei confronti di mio figlio. Mi venne detto che il tema era quello delle scommesse clandestine». Ricordiamo che l’8 novembre del 2007 Renato Vallanzasca inviò per l’appunto una lettera a Tonina, in cui il famoso boss della mala milanese sostenne come un suo amico, habitué delle scommesse clandestine (peraltro intercettato al telefono da successive indagini), lo avesse avvicinato cinque giorni prima dei fatti di Madonna di Campiglio, consigliandogli di scommettere sulla sconfitta di Pantani per la classifica finale e assicurandogli che «il Giro non lo vincerà sicuramente lui».
Ci fu altro, Tonina?
«Mi venne riferito di persone alla partenza del Giro in un ristorante e vestite di scuro che già parlavano della possibile squalifica di mio figlio. Il mondo del ciclismo in quegli anni era spietato, e sono convinta che Marco pagò anche il rifiuto di passare a un’altra importante squadra».
Marco era un grande campione, sarà stato cercato da tante squadre...
«A una in particolare disse di no. E penso che quel diniego fu pesante per la carriera e per la vita stessa di mio figlio».
Marco era innamorato del ciclismo: che cosa diceva prima di quel maledetto giorno della squalifica a Campiglio?
«Ho il ricordo netto e forte di una frase che dice tutto: “Vado a correre con la paura di vincere“. Penso che questa frase sia di una tristezza assoluta. Marco a volte fu sgridato per le sue vittorie».
Da chi?
«Preferisco non rispondere».
La verità sull’ematocrito alto di suo figlio verrà a galla?
«Credo che sia già emersa nei fatti. Ma lei deve sapere che il ciclismo è uno sport che si autotutela, e sino a quando dei protagonisti di quegli anni, a conoscenza della verità, non parleranno, sarà difficile far emergere ciò che successe davvero».
Tonina, l’altra data tragica è quella del 14 febbraio del 2004, quando suo figlio venne trovato morto.
«L’ho detto in partenza: Marco è stato ucciso. Gli hanno tappato la bocca perché voleva raccontare i retroscena nel ciclismo».
Ci sono dei fatti oggettivi in base ai quali dice questo?
«Innanzitutto è impressionante la testimonianza del volontario del 118, il quale ha dichiarato che quando lui arrivò, per primo e insieme ad altre due persone, nella stanza di Marco e vi rimase 45minuti, non c’era cocaina in giro e tutto era pulito. Inoltre, non vide nemmeno il sangue per terra e sul corpo di Marco. Le pare poco? Io sono convinta che non fu ucciso in quel residence, ma altrove. E poi portato lì».
Che cosa non le torna?
«Innanzitutto il modo in cui hanno dipinto mio figlio, un pazzo cocainomane. Marco sicuramente quando cadde in depressione fece uso di sostanze stupefacenti, ma non ai livelli di cui si parlò quando morì. Inoltre, il suo corpo era pieno di botte ed ematomi come se fosse stato picchiato. Per concludere con la reticenza di tante persone a voler parlare per chiarire l’accaduto».
Lei vuole dire il personale dell’albergo?
«Dal proprietario fino alla persona della reception, tutti si sono trincerati dietro un silenzio che nonaiuta a scoprire la verità, ma fa capire come qualcosa di strano sia accaduto. Poi le devo dire una cosa...».
Mi dica, Tonina...
«Un giorno mi venne riferito che una persona, morta poi in uno strano incidente stradale, aveva visto salire gente conosciuta da Marco in quel residence. Insomma, Marco non era solo quella notte».
Che fine hanno fattole persone vicine a suo figlio, come la manager Manuela Ronchi?
«Scomparsa dalla nostra vista. Posso solo raccontare qualche fatto. Appena morto mio figlio, lei mi disse di aprire una Fondazione. Lo feci versando dei soldi ma poi, visto un andazzo che non mi piaceva, dovetti chiuderla, perdendoci denaro. Inoltre, non apprezzai che pochi mesi dopo la morte di Marco fece uscire subito il suo libro, “Un uomo in fuga“».
La compagna di Marco invece la sente?
«Nemmeno lei, purtroppo. L’ho cercata, ma non vuole parlarmi».
È come se tutti avessero paura dell’ombra di Marco?
«Forse è così. Io so solo che mio figlio non mi vuole accanto a lui in cielo, perché devo combattere per lui sulla terra. Marco voleva la verità e io la cercherò per lui, affinché una volta individuati i responsabili io e il mondo li si possa guardare negli occhi».
Marco Pantani, la morte 17 anni fa: fra la tesi omicidio e le (troppe) fake news, ecco che cosa sappiamo davvero. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 14/2/2021. Il ciclista morì il 14 febbraio 2004 a Rimini: campione amatissimo ma anche divisivo, ha sempre spaccato l’opinione pubblica. Fuoriclasse o no? Dopato o no? E anche sulla sua morte si inseguono le varie teorie. Molte delle quali totalmente infondate. Ecco 10 domande e risposte che provano a ristabilire la verità storica.
Un campione amato e divisivo. A 17 anni dalla morte (Rimini, 14 febbraio 2004) Marco Pantani resta una figura amatissima ma anche divisiva dello sport e della cronaca italiana. Chi ne ricorda le gesta e la figura appartiene a due grandi partiti. Il primo — senza dubbio maggioritario — sposa senza esitazione la tesi che Marco abbia cominciato a morire psicologicamente nel 1999 quando venne incastrato da un controllo antidoping farlocco al Giro d’Italia e sia poi stato fisicamente eliminato cinque anni dopo in una stanza del Residence Le Rose. Il secondo crede fermamente che Marco sia stato trovato col sangue fuori norma a Madonna di Campiglio perché aveva esagerato con le sostanze dopanti e sia morto di overdose dopo un lungo e devastante percorso di tossicodipendenza. Ristabilire un minimo di verità storica dei fatti può essere utile a entrambi gli schieramenti.
Pantani era davvero un grande talento? Difficile valutare a posteriori chi era davvero fuoriclasse e chi invece ronzino truccato da cavallo da corsa in un’epoca (1990-2005) in cui il ciclismo è stato stravolto dall’uso di prodotti e metodi dopanti che hanno alterato completamente i valori in campo: tutti i vincitori del Tour de France dal 1996 al 2005 compreso, tranne Pantani, hanno avuto formalmente a che fare col doping. Che Marco Pantani fosse un fuoriclasse lo dimostrano però i test accuratissimi eseguiti su di lui nel settembre 1989 (Marco aveva 19 anni e non era certo «trattato») da Giuseppe Roncucci, uno dei più stimati tecnici a livello dilettantistico. Roncucci lo testò prima di avviarlo verso la Giacobazzi, squadra importante del settore dilettantistico. «Lo feci pedalare su una cyclette speciale per misurarne la “cilindrata”. Dicevano che era un talento, considerati età (19 anni) e peso piuma (56 chili), immaginavo arrivasse poco oltre 300 watt. Mollò a 410: un dato pazzesco. Ripetemmo il test altre sei volte in due anni: stessi risultati. Un fenomeno assoluto». Di valutazioni su atleti di alto livello Roncucci ne fece centinaia: nessuno si avvicinò mai a quei valori.
Pantani è mai stato trovato positivo a un controllo antidoping? Mai, con un’importante eccezione, però. Premesso che nel periodo in cui Marco era in attività non esistevano test per smascherare l’Epo e le trasfusioni (che all’epoca dilagavano) e i controlli a sorpresa si facevano solo in gara, Pantani non è mai stato trovato positivo a un controllo antidoping ufficiale a nessuna sostanza all’epoca proibita, come del resto Lance Armstrong. Nel 2013, però, le rianalisi dei campioni di urina scongelati del Tour 1998 vinto dal Pirata, rilevò la presenza di Epo nelle sue urine dopo l’undicesima tappa che vinse, dopo la quindicesima e la sedicesima in cui finì secondo.
Pantani è mai stato trovato con parametri anomali? Sì, molte volte. Il sangue di Pantani è stato un mistero fisiologico e farmacologico per tutta la sua carriera. Tra il 1992 e il 1996, Marco (che gareggiava con la Carrera) frequentava regolarmente assieme a decine di altri atleti lo studio del professor Francesco Conconi, all’Università di Ferrara. Conservati a suo nome o con vari pseudonimi (Panzani, Panti, Ponti, Padovani...) i parametri ematici del romagnolo mostrano oscillazioni impressionanti, fisiologicamente inspiegabili: l’ematocrito passava dal 41-42% al 52-56% con una coincidenza perfetta tra qualità dei risultati ottenuti e valori alti. Quando Pantani viene ricoverato all’Ospedale delle Molinette dopo lo spaventoso incidente alla Milano-Torino 1995, il suo 60,1%, fisiologicamente inspiegabile per i periti, costringe i medici a somministrargli litri di diluente per scongiurare una trombosi e poi due sacche di sangue. Quell’incidente portò Pantani a processo penale anni dopo davanti al tribunale di Forlì per «frode sportiva», con una condanna a tre mesi di reclusione poi annullata in appello. Nella loro perizia Gianmartino Benzi e Adriana Ceci spiegarono che «... globuli rossi, emoglobina e ferritinemia sono assolutamente anomali sia per una persona normale, sia per un atleta di alto livello, sia per lo stesso Pantani». Altre anomalie riguardano ovviamente il controllo di Madonna di Campiglio e il fatto che l’atleta si muovesse sempre con una centrifuga portatile per il controllo dell’ematocrito.
Pantani è mai stato coinvolto in inchieste giudiziarie? Sì. A cominciare dal celebre «processo Conconi» in cui i dati dei suoi parametri sanguigni conservati nei file dell’università di Ferrara erano tra i più anomali in assoluto e passando poi per il processo di Forlì (incidente alla Milano-Torino) approdando a quello di Trento successivo alla sua espulsione dal Giro d’Italia del 1999 a Madonna di Campiglio. Il possesso di sostanze proibite gli venne attribuito (ma mai provato in via giudiziaria) dopo il blitz dei Nas alla tappa di Sanremo (la 17ma) del Giro d’Italia del 2001: a processo penale per uso di insulina andò il suo massaggiatore, lui rimediò una sospensione sportiva di alcuni mesi.
Pantani è mai stato «coperto» dalle autorità sportive? Sì, in un caso anche dalle massime autorità sportive. Accadde nella primavera del 2000, quando, benché Pantani fosse devastato fisicamente e psicologicamente dall’episodio di Madonna di Campiglio, la federazione volle a tutti i costi portarlo ai Giochi di Sidney, su un tracciato per nulla adatto alle sue caratteristiche. Come tutti i candidati ai Giochi, Pantani venne visitato al centro di preparazione olimpica del Coni di Roma. Visti i risultati degli esami del sangue effettuati nel ritiro della nazionale, il professor Pasquale Bellotti, all’epoca membro della Commissione Scientifica del Coni, scrive alla federazione ciclistica e ai suoi superiori comunicando che «il quadro ematologico di Pantani, verificato ieri a Salice Terme, è estremamente preoccupante. Il regolamento attuale non ci consente di bloccarlo, ma tre dei cinque parametri sono fortemente alterati e pongono a rischio la sua salute». Pantani aveva ematocrito al 49% e ferritina da malato: 1.019 ng/mL. La federazione rispose affermando che l’atleta aveva superato tutti i controlli antidoping. Il Coni, risentito, invitò con decisione Bellotti a occuparsi di altro. E Pantani andò a Sidney tornando più depresso di prima.
Qualcuno l’ha davvero incastrato a Madonna di Campiglio? Due ore dopo il «fatale controllo» che fece espellere Pantani dal Giro del 1999 per ematocrito alto, a Madonna di Campiglio piombarono i Nas e la Guardia di Finanza. Tutto il materiale utilizzato per i test venne sequestrato ed analizzato con cura e costituì elemento probante nel processo sul caso che si aprì a Trento: parlare di controlli non professionali e caotici è profondamente scorretto. Interrogato dagli inquirenti, il medico di Pantani (incredibilmente assente durante il controllo), Roberto Rempi, ammise che l’atleta si controllava da solo il sangue, che l’ematocrito la sera prima era altissimo (tra 48 e 49) e Marco fuori controllo dal punto di vista sanitario. Sui campioni di Campiglio ci fu un’accurata e documentata perizia dell’Università di Parma: il Dna del sangue era di Pantani, il diluente nella provetta non ebbe effetto sul risultato mentre «l’assunzione esogena di eritropoietina artificiale» spiegava «virtualmente i parametri modificati nel campione di sangue 11.440». I medici responsabili del controllo erano professionisti ospedalieri che — a dispetto di accuse infamanti durate anni — non avevano alcun legame con Pantani o soggetti esterni. Il processo (dove Pantani fu assolto come sempre perchè il doping fino al 2001 non era reato) arrivò a una conclusione lineare: Pantani venne espulso per ematocrito alto perché aveva l’ematocrito alto a causa di un uso massiccio di Epo. Nessuno ha mai dimostrato il contrario.
Qualcuno ha davvero ucciso Marco Pantani? Decine di udienze, migliaia di pagine di atti investigativi non hanno portato a nessuna prova concreta su un possibile omicidio di Marco Pantani la sera 14 febbraio 2004 al Residence Le Rose di Rimini. Mancano prima di tutto il movente e poi gli elementi fattuali per affermare che Marco sia stato assassinato e non morto di overdose. Pantani era in uno stato di dipendenza dalla cocaina avanzatissimo e, grazie alla sua disponibilità economica, rappresentava il cliente perfetto per qualunque spacciatore: ucciderlo non avrebbe avuto senso. L’idea che questo possa essere stato tramite ingestione forzata di cocaina non ha riscontri giudiziari nella storia del crimine mentre il corpo non presentava nessun tipo di ferita o trauma alternativo all’overdose.
Qualcuno ha inquinato le prove della scena del crimine? Possibile. Possibile che Pantani non fosse solo nella stanza del residence, anche se è probabile che un eventuale spacciatore abbia lasciato la struttura diverse ore prima della morte, visto che la stanza è stata trovata bloccata dall’interno. Evidente dalle immagini girate dalla polizia giudiziaria che sulla scena c’erano troppe persone che non avevano nulla a che fare col caso, ma dalla stanza non mancava nessun oggetto personale. Possibile poi che il «caso Pantani» sia stato trattato con una certa superficialità investigativa, come la morte, di routine, di un povero tossico: indagini più accurate avrebbero sgombrato il campo da equivoci.
Le numerose controinchieste hanno svelato dettagli inediti? Gli elementi di chi non crede alla tesi dell’overdose/suicidio sono da anni sempre gli stessi e riportati in centinaia di documenti: l’estremo stato di disordine della stanza che farebbe pensare a una colluttazione, generici ricatti del mondo dello spaccio o della prostituzione, la presenza al residence di persone che Pantani non avrebbe dovuto vedere. Molte delle tesi sono smontabili facilmente: in diversi libri si sostiene ad esempio che la struttura del residence sarebbe stata rapidamente demolita e ricostruita per cancellare le prove dell’omicidio. Il residence fu semplicemente rinnovato e la stanza dov’è morto Pantani mantiene tuttora la sua struttura originale.
Esiste una documentazione «imparziale» sul caso Pantani? Non semplice trovare tra decine di libri appassionatamente «partigiani» dei racconti obbiettivi sulla tragedia di Marco Pantani. Due vanno segnalati. L’eccellente, accuratissimo «The Death of Marco Pantani» del cronista inglese Matt Rendell (tradotto in numerose lingue, non in italiano) e «Delitto Pantani» del giornalista romagnolo di giudiziaria Andrea Rossini, attualmente edito da Nda.
Marco Pantani oggi avrebbe compiuto 51 anni. I misteri sulla morte e l'augurio di Cipollini. Le Iene News il 13 gennaio 2021. Oggi Marco Pantani avrebbe compiuto 51 anni. Uno dei suoi più grandi amici, Mario Cipollini, gli ha dedicato un messaggio su Facebook. Da quel 14 febbraio 2004, sua mamma Tonina si batte per avere giustizia e chiarire le tante contraddizioni attorno alla sua morte. Con Alessandro De Giuseppe vi abbiamo raccontato i tanti punti che non tornano. "Buon compleanno amico mio... La porto un po’ io la gialla e poi te la prendi tu, ok?". Mario Cipollini dedica questo messaggio a Marco Pantani. Oggi il Pirata avrebbe compiuto 51 anni. Anche uno dei suoi più grandi amici lo ha voluto ricordare così sul suo profilo Facebook con la foto in cui Pantani e Cipollini sono fianco a fianco durante una tappa del Tour de France. Tra chi oggi si ricorda di questo compleanno c’è anche mamma Tonina. Da quel maledetto 14 febbraio 2004 non si dà pace per ottenere la verità sulla morte di suo figlio e chiarire le tante contraddizioni che ancora oggi restano senza riposta. Con i tanti servizi di Alessandro De Giuseppe abbiamo provato a ricostruire i fatti: si è davvero suicidato morendo di overdose come hanno detto gli inquirenti? Abbiamo evidenziato le ombre che ancora avvolgono la morte di uno dei ciclisti più forti di sempre. Una su tutte è la pallina di droga trovata in mezzo al sangue del cadavere che appare dai filmati della polizia, che i sanitari del 118 presenti quando fu trovato il corpo affermano di non aver visto. Per questa e tante altre contraddizioni, la mamma di Pantani non ha mai creduto alla versione ufficiale data dalle autorità e crede che il figlio sia stato ucciso. “Marco è stato ucciso. Mi sono ripromessa una cosa da quel giorno: non mi devo ammalare perché voglio arrivare alla verità”, dice mamma Tonina. “A lui ho fatto questa promessa: non voglio vendetta, ma giustizia. A me è morto un figlio e come l’hanno fatto passare dopo è una cosa vergognosa”.
Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2021. «Nel 1999 quando Marco Pantani fu fermato al Giro d' Italia a Madonna di Campiglio per la eccessiva presenza di globuli rossi nel sangue, verosimilmente dovuta al famigerato Epo, quasi tutti i primi dieci in classifica facevano uso di sostanze dopanti per migliorare l' ossigenazione del sangue ed avere prestazioni sportive più competitive». Esordisce così Angelo Zomegnan, giornalista e direttore unico del giro d' Italia dal 2004 al 2011, appassionato di sport e di ciclismo da quando, ragazzino, seguiva un suo amico nelle gare regionali e ne faceva sia l' accompagnatore che l' ufficio stampa.
«Erano anni bui quelli della fine del secolo dove gli atleti cercavano di migliorare in tutti i modi le loro prestazioni, nulla era vietato ma semplicemente governato».
Cosa intende dire Zomegnan?
«Che non si contrastava fattivamente l' uso dell' eritropoietina ma semplicemente i globuli rossi prodotti artificialmente dovevano rimanere entro il cinquanta per cento di percentuale nel sangue. Ossia il quarantanove e nove di percentuale era consentito più l' 1 per cento di tolleranza. Il cinquantuno per cento era fuorilegge».
Lei vuole dire che era una pratica consolidata a quasi tutti i ciclisti?
«Assolutamente sì. Non si vietava l' uso dell' eritropoietina ma si cercava di gestirne l' uso, non una cosa eticamente bella. Le voglio fare un esempio: è come se il furto fosse di soldi fosse consentito e non punito sotto i mille euro ma a mille ed un euro si andasse in prigione».
Ben diverso dal sogno del ciclismo con cui lei è cresciuto nella provincia lombarda...
«Il ciclismo e la metafora della vita. È uno sport che richiede sacrificio, sudore ed una meta da raggiungere. Mi creda che quando una persona inizia a seguire le gare ciclistiche su strada non riesce più a farne a meno e fu così che iniziai a scrivere anche per dei giornali locali. Ero un "abusivo", cosi ci chiamavano quelli senza contratto in modo poco politically-correct, oggi in modo più gentile li chiamano free-lance. Piano piano iniziai a scrivere fino a diventare vice direttore nel 2003 della Gazzetta dello Sport con la direzione di Pietro Calabrese che prese il posto del mitico Candido Cannavò fatto fuori per colpa di Crozza».
Scusi in che senso Cannavò fu fatto fuori per colpa di Crozza?
«Cannavò diresse la Gazzetta per diciannove anni e il giornale divenne "la Gazzetta di Cannavò". A questo si aggiunse l' imitazione di Crozza che, a mio parere, non piaceva alla proprietà».
Torniamo a Pantani. Quella della test dell' eritropoietina a Madonna di Campiglio fu una tragedia umana e sportiva senza precedenti. Cosa sa di quel momento?
«Premetto che ho un affetto enorme per la mamma di Marco, la signora Tonina, che si batte come un leone per, legittimamente, arrivare ad una verità giuridica dell' accaduto. Sicuramente, come ho già detto, tutti cercavano di migliorare le prestazioni attraverso una maggiore ossigenazione del sangue e questo è molto importante da dire perché hanno cercato di fare passare Pantani come il delinquente nel convento di benedettine e così non era. C' era chi si faceva di epo, chi si faceva rinchiudere in una camera ipobarica, come Gotti, e chi addirittura si rimpinzava di viagra».
Addirittura il viagra?
«Mi creda possiamo dire che era evidente! C' erano alcune Miss che rimanevano stupite che, dopo duecento chilometri di fatiche estenuanti i corridori mostravano la loro parte intima pronta per un atto sessuale».
L' eritropoietina era la sostanza più usata dai ciclisti?
«Certamente. Sostanzialmente si dopava il sangue facendo aumentare i globuli rossi che sono il mezzo con il quale viene apportato ossigeno dai polmoni ai muscoli e la maggiore concentrazione di questi può migliorare la capacità aerobica di un atleta e di conseguenza anche la sua resistenza». Da sempre Pantani si è difeso dicendo che la sera prima la sua percentuale di eritropoietiina era sotto il cinquanta per cento e che fosse impossibile una crescita percentuale nella notte.
Cosa ne pensa?
«Si sapeva a Madonna di Campiglio che l' UCI avrebbe fatto i controlli così che ogni squadra aveva al seguito un macchinario funzionale al controllo indiretto di Epo nel sangue. Secondo me sta qui l' errore. C' erano squadre che investivano pesantemente nelle pratiche vietate e nei controlli preventivi ed altre che si affidavano ad un semplice massaggiatore».
Un atto d' accusa forte Zomegnan non crede?
«È la verità. Pantani era un perfezionista assoluto e forse chi stava accanto a lui non era all' altezza».
Parla del massaggiatore del campione di Cesenatico?
«A me chi ha dichiarato "mi porterò i segreti nella tomba" non piace. Qui c' è una famiglia, mamma Tonina e papà Ferdinando, che aspettano notizie e vogliono conoscere la verità. Tutti si deve collaborare affinché emerga».
Pantani si sentì tradito da un sistema, aveva ragione?
«Secondo me sì. Il team del Pirata ha commesso errori e lui è diventato il capro espiatorio di un sistema marcio».
Si è parlato di scommesse clandestine ed addirittura di Vallanzasca che raccontò di essere stato messo a conoscenza di giri loschi che volevano non far vincere Pantani. È vero? A chi poteva dar fastidio il campione romagnolo?
«Ho saputo anche io delle scommesse clandestine; certo che un fenomeno come lui e con il suo carattere non era a tutti simpatico».
Mi può spiegare meglio?
«Marco era un ragazzo semplice ed aveva scelto di stare nella sua squadra, la Mercatone Uno, non accettando altre offerte. Questo non ti rende simpatico agli occhi di chi vuole farti cambiare squadra. Poi ricordiamoci l' epica rimonta il 30 maggio del 1999, a pochi giorni da Madonna di Campiglio. Ai piedi della salita finale che portava al Santuario di Oropa, Pantani dovette fermarsi e mettere i piedi a terra. La catena era saltata, così come pareva fosse saltata la possibilità di vincere una gara che avrebbe messo al sicuro la sua maglia rosa conquistata il giorno prima. Il Pirata si improvvisò meccanico e perdette contatto con il gruppo di testa quando si era appena a dieci chilometri dalla fine; fu lì che diede avvio a una delle più entusiasmanti rimonte della storia del ciclismo a tappe. In pochi chilometri superò complessivamente quarantanove corridori e andò a riprendere Gotti, Jalabert e gli altri rivali di classifica che comandavano corsa».
Dimostrò anche in quella occasione di essere un grande campione...
«Marco era un ragazzo generoso in tutto, nella vita come nello sport. Ricordo Charly Gaul, uno dei più grandi scalatori della storia chiamato "l' Angelo della montagna", che lo aspettava fuori dalla roulotte per salutarlo (un po' come se Mozart volesse l' autografo da Morandi) e, mi creda, questo gesto fa capire quanto Marco fosse considerato un campione straordinario».
Lei racconta di un campione generoso e perfezionista ma quali altre caratteristiche aveva Pantani?
«Era sicuramente fragile umanamente e per questo la vicenda di Madonna di Campiglio gli distrusse la vita, ed era l' uomo degli eccessi. Ricordo che mi raccontava che quando andava sotto sforzo si mordeva la lingua per sentire il sapore del sangue».
Poi incontrò brutte compagnie...
«Si allontanò dal mondo sportivo e si spense prima di tutto la sua anima. Lo vidi una notte a Milano nella sua macchina, non era più lui».
Si poteva salvare secondo lei Marco Pantani?
«Questo non lo so, i campioni sono i primi della classe e se sbagliano non lo fanno con la punteggiatura ma con la sintassi».
· Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.
Elena Marisol Brandolini per “il Messaggero” il 4 giugno 2021. Sono le 4 e mezza del mattino di ieri quando la polizia locale di Ibiza riceve la telefonata dallo 091, numero di attenzione telefonica della Policía Nacional, con richiesta di assistenza per due persone precipitate dal quarto piano di un hotel di Platja d' en Bossa, ubicato in Carrer Carles Roman Ferrer. Quando la polizia locale giunge sul posto, «le due persone precipitate, una donna di 21 anni e un uomo di 26 anni, erano già senza vita», si legge nel comunicato emesso nelle prime ore del mattino dal comune di Ibiza. «I due erano alloggiati nella stessa stanza dell'hotel». I servizi sanitari che si erano mossi per raggiungere il luogo dell'incidente, non hanno potuto fare nulla se non constatarne il decesso come conseguenza dell'impatto sulla strada. Ora è la Policía Nacional a farsi carico delle indagini e la pista principale su cui si stanno concentrando gli accertamenti, come ha annunciato la Delegazione del governo spagnolo nelle Baleari e come confermano il governo e la stampa locali, è quella di un femminicidio ai danni della donna, seguito dal suicidio del suo aggressore. Lei si chiama Elena, e ha il doppio passaporto, spagnolo e italiano. Della sua vita finora si è saputo poco: nata nel 99, era giunta sull' isola per turismo, in compagna dell'uomo (il suo compagno, si presume) che invece è di nazionalità marocchina. La famiglia di Elena risiederebbe in Italia, ma non si è ancora messa in contatto col Consolato italiano a Barcellona. In un primo momento si era pensato che potesse trattarsi di una caduta accidentale dovuta a un nuovo caso di balconing, fenomeno tristemente noto d' estate nelle Isole Baleari. E, inizialmente, il ministero di Pari Opportunità del governo spagnolo era stato informato dall' Unità di violenza di genere della polizia che il femminicidio era solo una delle ipotesi prese in considerazione e neppure la principale. Ma, con il passare delle ore, le dichiarazioni dei testimoni sembrerebbero avere orientato le indagini verso l'eventualità della morte per violenza di genere. Sarebbe stato l'uomo, nel pieno di una discussione violenta, a spingere la donna fuori del balcone fino a farla precipitare, per poi togliersi la vita buttandosi di sotto. Tanto che il governo delle Baleari, nella serata di ieri, emetteva un comunicato di condanna per il femminicidio occorso, la seconda donna uccisa quest' anno nelle isole dal suo compagno. Se l'ipotesi del femminicidio verrà definitivamente confermata, la giovane donna a Ibiza rappresenterà la sedicesima vittima per violenza di genere in Spagna dall' inizio del 2021. Il tema è molto discusso nel Paese, c'era chi aveva previsto un aumento degli omicidi di donne con la fine dello Stato di emergenza, dopo oltre un anno di pandemia, per la perdita di controllo degli aggressori sulle loro compagne. Ma l'alta concentrazione di femminicidi nelle ultime settimane suggerisce che ci sia qualcosa nel sistema di protezione a non funzionare bene. La legislazione spagnola sulla violenza di genere è tra le più avanzate in Europa, ma non è stata applicata per quanto riguarda la prevenzione, l'educazione scolastica e la formazione del personale sanitario e della giustizia. La violenza sessuale è ancora molto nascosta, si stima che le denunce per maltrattamento rappresentano appena un quarto di quelle effettive, la grandissima maggioranza dei casi non viene segnalato alle autorità. E manca un controllo efficace sull' aggressore. Il governo si è detto pronto a intervenire per aggiornare i protocolli d' intervento delle autorità in queste situazioni. «Non si può far finta di nulla mentre nel nostro Paese si susseguono femminicidi», ha scritto martedì su Twitter il premier Pedro Sánchez.
Ragazza morta a Ibiza, le amiche: “L’ha uccisa il fidanzato”. Valentina Mericio il 06/06/2021 su Notizie.it. Proseguono le indagini della ragazza deceduta a Ibiza. Secondo alcune amiche della ragazza non si sarebbe trattato di suicidio. Proseguono le indagini da parte della polizia spagnola che sarebbero all’opera al fine di fare luce sulle cause che avrebbero portato alla morte di Elena Livigni Gimenez, la giovane italo – spagnola di 21 anni morta dopo essere precipitata giù dal balcone dell’Hotel Torre del Mar di Ibiza. Tra le ipotesi sulla quale si starebbe indagando sarebbe quella di un possibile suicidio della giovane che si sarebbe gettata dal balcone della camera dell’Hotel al fine di sfuggire dall’ira del fidanzato, una strada sulla quale le amiche interpellate dal Corriere della Sera non sarebbero convinte. Secondo queste ultime potrebbe essere stato il 26enne di origini marocchine a uccidere Elena. “Tutti devono sapere la verità, basta bugie, basta. È stato lui”, a dirlo le amiche della giovane 21enne di origini italo-spagnole che non supporterebbero l’ipotesi secondo la quale la giovane si sia tolta la vita. Stando a quanto scrive “il Corriere della Sera”, la giovane avrebbe avuto uno sguardo positivo e fiducioso verso il futuro tanto che la 21enne stava studiando catalano e arabo. Con la passione per le discipline giuridiche, le amiche raccontano che nel futuro di Elena classe 99 avrebbe potuto esserci una laurea, poi magari un master. Non solo perché stando a quanto riportano fonti vicine all’Interpol, quella tragica sera il personale dell’albergo spagnolo avrebbe sentito una lite alla quale sarebbe seguita la morte della giovane forse spinta appunto dal 26enne. Classe 1999, Elena Livigni Gimenez possedeva doppia cittadinanza. Da parte di padre era infatti italiana, mentre per parte di madre era spagnola, con la madre era spagnola, mentre la 21enne è nata a Cartagena. La giovane era inoltre studente della Esade – Escola Superior d’Adiminstració i Direcció d’Empreses di Barcellona dove si era appunto trasferita per motivi di studio. Elena ha inoltre trascorso buona parte della sua vita a Milano dove ha frequentato il liceo Setti – Carraro. Nel frattempo a Ibiza sono stati osservati 5 minuti di silenzio. La nota diffusa dal comune spagnolo ha fatto sapere che durante la cerimonia sono stati letti delle “19 vittime di violenza di genere uccise”, mentre in tutta l’ìsola è stata indetta la giornata di lutto con le bandiere erette a mezz’asta. Ferma condanna dal sindaco di Ibiza che si è espresso molto duramente circa la vicenda dichiarando: “la mascolinità e gli atteggiamenti sessisti vanno combattuti sia dalle istituzioni che dal punto di vista personale. È responsabilità di tutte le istituzioni continuare a lavorare instancabilmente e con pieno impegno per porre fine alla violenza di genere”.
Elisabetta Andreis e Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 7 giugno 2021. Le parole delle amiche di Elena Livigni Gimenez che abbiamo raccolto tra sabato e ieri, respingono l'ipotesi non di un suicidio, anzi ritenuto assai improbabile parlando di una ragazza solare e responsabile, bensì, eventualmente, «suggeriscono» l'omicidio commesso dal fidanzato Kamil. Ma nessuna delle due piste viene spinta con nettezza dal Cuerpo nacional de Policia che indaga sulla morte della 21enne con doppia cittadinanza italiana e spagnola, precipitata dal quarto piano dell'hotel «Torre del mar» di Ibiza nella notte tra mercoledì e giovedì, alle 4.30, poi seguita dallo stesso ragazzo. E adesso il Corriere, dopo aver dialogato con la mamma, la docente universitaria Maria del Carmen Gimenez Roman, introduce un terzo scenario: quello dell'incidente, con Elena caduta dal balcone per motivi ignoti e il fidanzato, di cinque anni maggiore, colto dalla disperazione, che si è lanciato nel vuoto. La madre parla sulla base della ricostruzione relativa agli ultimi mesi e agli ultimi minuti di Elena. «Nel primo pomeriggio di mercoledì, mi arriva sul cellulare un messaggio: "Siamo atterrati!". Ed è un messaggio di gioia, carico di felici aspettative, dello splendido entusiasmo della gioventù». Verso le 16, un secondo messaggio, con la localizzazione di «Google maps», comunica l'indirizzo dell'albergo sull'isola spagnola. Alle 21, su Instagram, la mamma invia a Elena un saluto. La ragazza lo visualizza ma non rimanda una risposta. Una non-reazione per niente anomala, priva di avvisaglie: insomma sta festeggiando, chiamerà l'indomani mattina. Intorno alle 3, sempre al telefono, un'amica comunica con Elena. «Le ha raccontato che erano in terrazzo a chiacchierare e rilassarsi... Che si stava benissimo, con un bicchiere, un po' di vento e la musica di sottofondo». Ibiza non era una geografia casuale: «Avrebbe dovuto andarci l'anno scorso con le amiche, ma era saltato tutto per la pandemia. Invece, adesso che aveva terminato la prima sessione di esami, con il fidanzato si era concessa tre giorni di regalo e un po' di riposo... Mi ripeteva via Skype che con Kamil era felice, voleva assolutamente che andassi a Barcellona per presentarmelo. Si erano fidanzati a febbraio. Grazie a lui, alla sua presenza, la cupezza dei lockdown era ormai un lontano ricordo». A fine maggio, Elena aveva inviato alla mamma due fotografie del ragazzo. Con una didascalia: «Il migliore che mi potesse mai capitare, mi vuole moltissimo bene». Nei piani, dopo Ibiza, sarebbe tornata a Milano: l'ultima volta era stata in città a gennaio. Viveva a Barcellona, iscritta al rinomato ateneo Esade. Gli studi, la lontananza. «Grazie a videochiamate e messaggi, questi figli all'estero ti sembrano vicinissimi. Negli ultimi tempi, comunicava anche di più, perché era contenta. Contenta di tutto... Ora... Ora quello che è successo ti inchioda a riconsiderare le distanze... Se non li vedi direttamente non sono mai vicini... Il dubbio che possano aver avuto bisogno di aiuto è un'ulteriore devastazione...». Con Maria del Carmen, ci sono il marito e il secondogenito di 17 anni. Si abbracciano in silenzio. L'uomo, Massimiliano Livigni, è dirigente d'azienda. La famiglia aveva trascorso un anno e mezzo a Liverpool, quando Elena aveva pochi mesi, quindi quattro anni nel New Jersey. Nata a Cartagena, in Spagna, la ragazza aveva frequentato le scuole inglesi in America, poi il liceo Setti Carraro a Milano; nel 2018 si era spostata a Barcellona per un corso di «double degree» (laurea doppia, Giurisprudenza e Relazioni internazionali Global governance): «Voleva diventare un avvocato di diritto internazionale e viaggiare anche per lavoro. Uno spirito libero, curioso, intelligente; le piaceva ballare, aveva lo straordinario dono della sintesi e una calligrafia perfetta. Prendeva gli appunti e i compagni di università glieli chiedevano sempre, quei testi facevano il giro dell'ateneo...». Elena parlava quattro lingue: italiano, inglese, spagnolo e francese. Kamil, nato a Casablanca, aveva studiato Business administration in Canada, Letteratura francese a Parigi e si era trasferito a Barcellona, entrando in un'università privata con una delle migliori amiche di Elena: «Così si sono conosciuti e piaciuti subito». Risulta insostenibile sopravvivere ai propri figli. E attendere. Attendere l'iter. Attendere l'autopsia. Attendere. Fonti incrociate ribadiscono le verifiche del Cuerpo nacional de Policia sull'ipotesi dell'omicidio/suicidio; un dato di cronaca, da registrare nel massimo rispetto dei genitori, i quali hanno chiesto a lungo ad amiche e amici: «No, Kamil non era un violento. Lui l'amava. Profondamente. Se hanno litigato? Fatichiamo a capire cosa sia successo». Nell'immediato futuro di Elena, c'era l'arredo della nuova casa. «Una parete doveva avere una scritta, il titolo di una canzone, in colore verde: "Drip or drown", gocciolare o annegare».
· Il Mistero di Saman Abbas.
A.Full. per il "Corriere della Sera" il 27 maggio 2021. È scomparsa da quasi un mese. In passato si era opposta a un matrimonio combinato voluto dai genitori. Lei li aveva denunciati. È un mistero fitto la sorte di Saman Habbas, 18enne pachistana residente a Reggio Emilia. Gli inquirenti mantengono il riserbo ma adesso l'inchiesta è per omicidio ed è possibile che vi siano già alcuni indagati tra i familiari della giovane. Le indagini sono seguite dai carabinieri del comando provinciale reggiano, coordinati dalla Procura. I genitori di Saman sarebbero tornati da poco tempo in Pakistan. Una sparizione assai sospetta. Saman, dopo la denuncia, era stata collocata in una struttura protetta, poi una volta maggiorenne aveva deciso di tornare a Novellara, nella Bassa reggiana. La giovane, all'epoca ancora minorenne e che non ha un profilo social, si era rivolta ai servizi sociali e i genitori, marito e moglie di 43 e 46 anni, erano stati denunciati a gennaio con l'accusa di costrizione o induzione al matrimonio, dopo aver tentato di combinare le nozze islamiche della figlia con un cugino suo connazionale. Un evento che era già stato fissato per il 22 dicembre, con biglietti aerei acquistati il 17 dicembre. Ma la ragazza non ha condiviso questo progetto e aveva raccontato tutto agli assistenti sociali del Comune, che hanno poi segnalato la vicenda agli inquirenti. Da quando era tornata a casa, Saman si era già allontanata per qualche settimana in Nord Europa, per poi fare ritorno. Ma questa volta la sua sparizione è diventata sempre più preoccupante. Stando alle testimonianze raccolte dagli investigatori, i genitori sarebbero tornati recentemente e in fretta in patria, per un presunto problema familiare. Ma la ragazza, da accertamenti fatti anche con gli aeroporti, non è partita con loro. Per questo è stata avviata la macchina delle ricerche, con elicotteri e cani. E fin da subito non si è esclusa alcuna ipotesi. A destare allarme era stata la mancanza di una denuncia della scomparsa e il contestuale allontanamento improvviso della famiglia. Ecco perché le forze dell'ordine - che nelle ultime ore, nella speranza di poter raccogliere elementi utili all'indagine, hanno diffuso una fototessera col suo volto sorridente - vogliono fare luce sull'accaduto e fugare ogni dubbio. Ora non si esclude che per rintracciare i sospetti si debba ricorrere a rogatorie internazionali. Le ricerche di Saman continuano nel frattempo senza sosta, non solo nel Reggiano ma anche nelle altre province dell'Emilia-Romagna.
Da bologna.repubblica.it il 30 maggio 2021. "Mia figlia è viva, l'ho sentita l'altro ieri". Parla il padre di Saman Abbas, la 18enne pachistana scomparsa nel nulla a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, dopo aver rifiutato un matrimonio combinato. L'uomo, Shabbar Abbas, che è indagato, in questo momento si trova in Pakistan insieme alla moglie a quanto pare per un improvviso lutto in famiglia, questo almeno avrebbe raccontato al suo datore di lavoro prima di partire improvvisamente. Contattato dal Qn-Quotidiano nazionale, l'uomo sostiene di aver sentito la figlia su Instagram e che si trova in Belgio, ma poi aggiunge che la ragazza non ha un cellulare con sè. "il 10 giugno torno in Italia atterrando a Malpensa - dice il capofamiglia - e spiego tutto ai Carabinieri, mia figlia è preoccupata dopo aver visto le notizie su Facebook, le ho detto di rientrare anche lei in Italia per raccontare tutto". Una ricostruzione che lascia però intatti i dubbi degli inquirenti sulla sorte della ragazza. Intanto i Carabinieri sono tornati nei campi dove sospettano possa trovarsi il corpo di Saman.
Franco Giubilei per “la Stampa” il 28 maggio 2021. Saman non ci voleva stare alle regole ultradizionalista di una famiglia che la voleva sposata a un cugino, aveva anche denunciato i genitori ai carabinieri e passato quattro mesi in comunità, al riparo da un padre e una madre che avevano già acquistato i biglietti aerei per il Pakistan, per il più classico dei matrimoni combinati. Non è bastato: tornata a casa dalla struttura che l'aveva protetta, è semplicemente scomparsa nel nulla, finché non sono iniziate ricerche che, dall'obiettivo iniziale di riuscire a ritrovarla viva, si sono trasformate nel tentativo di riportare alla luce un cadavere, con i cani molecolari all'opera nei dintorni della casa della diciottenne, a Novellara, nel Reggiano. Gli indizi raccolti dagli inquirenti fanno pensare a un omicidio, probabilmente preceduto dal sequestro della ragazza e quasi certamente seguito dall'occultamento del corpo, a cominciare dalle immagini riprese da un impianto di videosorveglianza vicino la casa della giovane lo scorso 29 aprile che mostrano tre uomini, tre parenti di Saman con due pale, un sacchetto, un piede di porco e altri strumenti di lavoro fra cui un secchio. Che siano stati costoro a far sparire il cadavere di Saman andrà dimostrato, ma è un fatto che i suoi genitori e uno zio che viveva con loro sono volate in Pakistan e che la ragazza non si trovava su quel volo. Novellara, centro di tredicimila abitanti della Bassa reggiana dove gli immigrati sono oltre il 15% della popolazione (ma prima del Covid erano arrivati al 18%) e i pakistani sono l'etnia più numerosa con 419 persone dopo gli indiani, 500, si risveglia sconvolta da un dramma senza precedenti, da queste parti: «Eravamo in contatto con la famiglia di Saman da un anno, da quando si allontanò per qualche giorno da casa sua - dice la sindaca, Elena Carletti, figlia del fondatore dei Nomadi, Beppe -. La ragazza si trovava in Italia dal 2016, ha anche un fratello sedicenne, mentre il padre lavorava da almeno dieci anni come contadino nella più grande azienda agricola di meloni e cocomeri della zona. Era diventato l'uomo di fiducia nell'organico della ditta». Erano noti ai servizi sociali i rapporti problematici fra una giovane donna che malsopportava certi costumi medievali mentre la famiglia, socialmente molto isolata, non aveva contatti neanche col centro islamico. La scoperta che i genitori avevano acquistato i biglietti per il Pakistan, ma soprattutto che era promessa in sposa a un cugino, l'ha spinta ad agire: Saman Habbas, attiva sui social con un proprio profilo Instagram, ha informato i servizi e il 18 dicembre, giorno del suo diciottesimo compleanno è stata affidata a una struttura protetta del Bolognese da cui l'11 aprile se n'è andata, pare, volontariamente. Da allora al 5 maggio, quando i carabinieri sono andati a casa sua per trovare una collocazione in un'altra comunità, c'è un buco di tre settimane, ma intanto i genitori hanno fatto in tempo a scappare in Pakistan dopo essersi probabilmente sbarazzati della figlia, se i sospetti peggiori troveranno conferma. Intanto Novellara si muove per testimoniare la vicinanza dei cittadini alla giovanissima: domani sera ci sarà una fiaccolata che vuole essere un segnale di coesione in un momento in cui l'idea stessa di integrazione sembra sbriciolarsi, malgrado l'attività di formazione e incontro rivolta alle donne straniere svolta dal centro La rosa dei venti. «Siamo stati contattati dal consolato pakistano, che ci ha chiesto di tenerli aggiornati - aggiunge Carletti - c'è un filo diretto con loro e le forze dell'ordine. Saman nutriva una forma di ribellione comprensibile e naturale, lo conferma il fatto che quando contattò i nostri servizi chiese di essere salvata quando le cose stavano precipitando».
Alessandro Fulloni per corriere.it il 2 giugno 2021. Il viottolo sterrato lungo il quale Saman Abbas, diciottenne pakistana con il sogno di diventare italiana, sarebbe stata accompagnata verso la morte dai genitori — Shabbar, 46 anni, e Nazia Shaheen, 47 — corre parallelo alla strada provinciale che va verso Guastalla e il Po. «Vai dallo zio», le avrebbero detto. L’uomo, Danish Hasnain, 33, l’attendeva al termine della stradina. L’avrebbe uccisa nelle vicinanze. E poi il cadavere della giovane sarebbe stato nascosto da qualche parte, forse sotterrato, gettato in una porcilaia o in un pozzo. È la sera tardi del 30 aprile. E lo scenario sconvolgente emerge da un secondo video in possesso dai carabinieri. Il filmato riprende la ragazza che s’incammina con padre e madre che più tardi rientrano senza di lei nel casolare in cui abitano. Il resto lo si legge nella richiesta, da parte della pm reggiana Laura Galli, di fissare l’incidente probatorio per ascoltare il fratello sedicenne di Saman. Che ora sta in un centro protetto nel Bolognese. E che sentito dagli investigatori avrebbe raccontato da subito che la sorella è stata uccisa. Le carte dicono che «nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio ci sarebbe stata una lite» tra Saman e i genitori. Questo perché la ragazza si «rifiutava di sposare il cugino in Pakistan» e padre e madre volevano «impedire l’allontanamento» come aveva già fatto nell’estate 2020, quando aveva raggiunto il Belgio. Lo zio Danish — difeso dall’avvocato Lalla Gherpelli, che però non ha voluto rilasciare dichiarazioni — sarebbe «l’esecutore materiale» del delitto commesso in concorso «materiale e morale» con Nazia e Shabbar Abbas, il quale, intervistato dal Resto del Carlino sabato, aveva detto che «la figlia sta in Belgio» e che lui, nel rientrare in Italia «il 10 giugno», avrebbe «chiarito tutto con i carabinieri». Terribile, l’ipotesi che gli investigatori fanno riguardo al primo filmato visionato, quello che la sera del 29 aprile vedeva tre persone dirigersi verso la campagna con delle pale: avrebbero scavato la buca per seppellire Saman in vista del delitto premeditato. Degli Abbas, il minorenne era stato l’unico a restare a Novellara, tanto che ai primi di maggio era stato lui a dire «sono tutti via, qui non c’è più nessuno» ai carabinieri e ai Servizi sociali che avevano bussato a casa per chiedere dove fosse Saman, rientrata dal centro protetto dove era stata trasferita per avere rifiutato il matrimonio combinato. Tutto vero. I genitori erano rimpatriati in aereo. Mentre lo zio e due cugini - uno dei quali, il 28enne Ikram Ijaz, è stato però fermato in Francia mentre cercava di raggiungere la Spagna - erano spariti lasciando addirittura la chiave nella toppa. Dal Reparto operativo diretto da Stefano Bove e dalla Procura dei Minori di Bologna non filtra nulla. Del fratello di Saman si sa che è stato sottoposto al divieto d’espatrio. E che è indagato per violenza privata in un altro procedimento penale, che risale a ottobre ed è pendente davanti al Tribunale dei Minori. Riguarda il primo allontanamento di Saman da casa, quello seguito alla richiesta d’aiuto della ragazza ai Servizi sociali.
Caso Saman, ora spunta un super teste sotto protezione. Ignazio Riccio il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Si tratta di un minore che per adesso non risulta indagato, un passaggio che però potrebbe scattare formalmente nel momento in cui ci fosse la volontà di raccogliere la sua testimonianza. Continuano le ricerche di Saman Abbas, la 18enne di origini pakistane residente a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, di cui non si hanno più notizie da giorni. In base a quanto ricostruito dai carabinieri, l'ultimo avvistamento della giovane risale al 30 aprile, in un video registrato da una videocamera di sorveglianza, in cui si vede la ragazza spostarsi con i genitori. Le immagini risalgono al giorno seguente quelle registrate in un altro video in cui compaiono tre uomini (due dei quali sono i cugini). Al momento, le persone iscritte nel registro degli indagati sono cinque: uno zio, due cugini e i genitori, partiti per il Pakistan da Malpensa il primo maggio senza la figlia. Uno dei cugini della ragazza è stato fermato nei giorni scorsi a Nimes, in Francia: per lui è stata emessa un'ordinanza di custodia cautelare in carcere perché ritenuto coinvolto nell'omicidio. Nelle ultime ore sono proseguite le attività di ricerca della giovane: oggi le indagini si svolgeranno con la ricognizione delle serre e attraverso il carotaggio puntiforme di un'area, per agevolare il lavoro dei cani molecolari. La ragazza, a novembre 2020, dopo aver chiesto aiuto agli assistenti sociali, era stata allontanata dalla casa familiare dopo essersi opposta a un matrimonio combinato. Intanto, come riporta la Nazione, è spuntato anche un teste, supportato da uno psicologo in un luogo protetto. Si tratta di un minore che per adesso non risulta indagato, un passaggio che però potrebbe scattare formalmente nel momento in cui ci fosse la volontà di raccogliere la sua testimonianza. Questo, quasi sicuramente, accadrà nei prossimi giorni, quando sarà fissato un incidente probatorio. La storia di Saman è davvero particolare, l’anno scorso era scappata di casa per le continue insofferenze verso le tradizioni familiari e culturali del suo Paese d’origine. La 18enne era passata dal velo ai jeans e non frequentava neppure la moschea. Nessuna l’ha vista, però, negli ultimi tempi, la donna non è più tracciabile. Dopo la fuga erano entrati in campo i servizi sociali. Poi la denuncia del matrimonio combinato, i protocolli, il tribunale, la comunità protetta nel Bolognese. Fino alla decisione di tornare a casa, era aprile. Anche il sindaco di Novellara, Elena Carletti, non sa dare spiegazioni per questa misteriosa sparizione. “Abbiamo passato queste settimane a ricostruire la storia di Saman, La cosa più preoccupante è che è riemersa solo nel momento dell'emergenza. Questo dimostra che se una persona esce dal contesto sociale, dalla scuola o dalla frequentazione di un corso d'italiano, diventa irreperibile”, dice il primo cittadino. "Il caso della giovane Saman, ragazza pakistana, ci ha sin dall'inizio amareggiati e preoccupati”. Lo scrive in una nota l'Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche d'Italia. “Fortunatamente sono episodi che non hanno, per quanto a nostra conoscenza – prosegue l’associazione –un'estensione e una frequenza importanti ma sappiamo che all'interno di alcune comunità etniche persistono ancora situazioni e comportamenti lesivi dei diritti delle persone”. L'Ucoii, dunque, “respinge con forza questo tipo di concezione della condizione femminile e in generale della vita delle persone: sono comportamenti che non possono trovare alcuna giustificazione religiosa, quindi assolutamente da condannare, e ancor di più da prevenire - si legge nel comunicato -. A tal proposito, e per rafforzare la sensibilizzazione e aumentare la prevenzione, l'Ucoii emetterà, in concerto con l'associazione islamica degli Imam e delle guide religiose, una fatwa contro i matrimoni combinati forzati e l'altrettanto tribale usanza dell'infibulazione femminile”.
Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere
"Vai dallo zio". I pm: "E lui ha ucciso Saman". Rosa Scognamiglio il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Il fratello sedicenne di Saman Abbas avrebbe dichiarato agli inquirenti che la 18enne pakistana sarebbe stata uccisa dallo zio. C'è un nuovo, agghiacciante capitolo sulla presunta scomparsa di Saman Abbas, la 18enne pakistana residente a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, di cui non si hanno più notizie dallo scorso aprile. Le dichiarazioni rese dal fratello minore della ragazza alla pm Laura Galli rafforzano l'ipotesi di omicidio e occultamento di cadavere. Ma c'è di più. Stando a quanto riferisce il Corriere della Sera, la giovane sarebbe stata consegnata dai genitori allo zio paterno, verosimilmente l'esecutore materiale del delitto.
"Uccisa dallo zio". "Vai dallo zio", le avrebbero detto i genitori, Shabbar Abbas, 46 anni, e Nazia Shasheen di 43. Ignara che da quel viottolo sterrato di Novellara non avrebbe mai più fatto ritorno, Saman ha obbedito agli ordini. Dunque, si sarebbe avviata lungo la strada provinciale che corre verso Guastalla per andare incontro alla morte. Lo zio 33enne, Danish Hasnain, l'attendeva al fondo del sentiero: l'avrebbe uccisa e poi sotterrata in qualche luogo nascosto. Forse, gettata in una porcilaia o giù da un pozzo. Uno scenario a dir poco inquietante quello che emerge dalle carte dell'inchiesta relativa alla scomparsa della 18enne pakistana. A supporto della nuova ricostruzione ci sarebbe un altro video - oltre a quello già trasmesso alla Procura di Reggio - in cui si vedrebbo i genitori di Saman allontanarsi dall'appartamento di Novellara assieme alla loro primogenita. Pochi minuti più tardi, la coppia avrebbe rincasato senza la figlia. "È in quel breve lasso di tempo - ipotizzano gli inquirenti - che Saman sarebbe stata uccisa dallo zio". Le altre tre persone coinvolte nei fatti si sarebbero premurate di scavare la fossa dove avrebbero seppellito il cadavere della ragazza.
"Aveva litigato con mamma e papà". A supporto della nuova ricostruzione ci sarebbe la testimonianza del fratello minore di Saman, anch'egli affidato a una struttura protetta per Minori del Reggiano. Ascoltato dagli investigatori, il ragazzino avrebbe confermato le ipotesi degli inquirenti sostenendo che, la sera della presunta scomparsa, la 18enne avrebbe discusso animatamente con i genitori per via del matrimonio combinato col cugino pakistano. Un'opposizione che, stando ai recenti sviluppi dell'inchiesta, la giovane avrebbe pagato a caro a prezzo. Lo confermano le carte: "Nella notte tra il 30 aprile il 1°maggio ci sarebbe stata una lite coi genitori. Questo perché la ragazza si rifiutava di sposare il cugino in Pakistan e padre e madre volevano impedire l’allontanamento", come aveva già fatto nell’estate 2020, quando aveva raggiunto il Belgio. Lo zio Danish — difeso dall’avvocato Lalla Gherpelli - sarebbe "l’esecutore materiale" del delitto commesso in concorso "materiale e morale" con Nazia e Shabbar Abbas, il quale, intervistato dal Resto del Carlino sabato, aveva detto che "la figlia sta in Belgio" e che lui, nel rientrare in Italia "il 10 giugno", avrebbe "chiarito tutto con i carabinieri". Ma così non è stato. Ora, non resta altro che trovare il cadavere di Saman: una ragazzina musulmana col sogno proibito della libertà.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Serenella Bettin per ilgiornale.it il 29 maggio 2021. È l'Islam. Quello più violento. Quello che non concede sconti. Quello che fa vivere le donne segregate. E quando iniziano a ragionare le rinchiude. Le fa stare in casa. Coperte. Con quel velo che dietro nasconde un palcoscenico dell'orrore. Queste donne non devono imparare la lingua. Non è ammesso vivere secondo libera scelta. La scelta è quella che dicono loro. Altrimenti si muore. Saman Abbas, diciotto anni, capelli neri, occhi neri, quel viso dolce avvolto da un velo, è scomparsa un mese fa da Novellara, nella bassa Reggiana e si era opposta alle nozze combinate dalla madre e dal padre con un cugino. Nell'inchiesta aperta per omicidio dalla procura di Reggio Emilia ora i genitori e lo zio della giovane ragazza sarebbero indagati. Saman aveva trovato il coraggio di dire no, di opporsi, aveva avuto il coraggio di chiedere aiuto, di provare a cambiare la sua condizione, era stata messa sotto protezione per alcuni mesi, ospitata in una comunità protetta a Bologna, aveva avuto l'audacia di denunciare il padre e la madre di 46 e 43 anni, accusati di costrizione o induzione al matrimonio (reato introdotto nel 2019) ma questo non è bastato. L'11 aprile Saman, divenuta maggiorenne a dicembre, decide di tornare a casa, forse per riprendere alcuni documenti. Dal 5 maggio la ragazza è scomparsa. I carabinieri sono andati a casa con i servizi sociali e non hanno trovato nessuno. Né Saman, né i familiari, partiti già per il Pakistan come dimostrano i biglietti aerei. Aerei dove la diciottenne non è mai salita. Nelle liste d'imbarco degli aeroporti non è presente il nome della ragazza. Che fine ha fatto Saman? L'ipotesi è che potrebbe essere stata uccisa e seppellita nei campi dietro casa a Novellara, ora setacciati a palmo anche con i cani molecolari. Dalle telecamere di video sorveglianza vagliate dai carabinieri del Nucleo investigativo di Reggio Emilia e della Compagnia di Guastalla si vedono tre personaggi che trascinano due pale, un secchio con un sacchetto azzurro, un piede di porco e un altro arnese di lavoro. Poi i tre si allontanano nei campi dietro casa. Il video è del 29 aprile. Questo rafforza l'ipotesi investigativa che Saman possa essere stata uccisa. E ora i genitori e lo zio di lei sarebbero indagati nell'inchiesta per omicidio aperta dalla Procura di Reggio Emilia. Per i familiari già tornati in Pakistan sono stati attivati i canali di cooperazione internazionale per cercarla anche all'estero. Saman era giunta in Italia a Novellara quattro anni fa, aveva frequentato la scuola, ma non oltre la terza media. Accade così a queste donne. Quando cominciano diventare adulte, vengono rinchiuse. Il comune di Novellara ha organizzato una fiaccolata ieri sera. Per Saman ma anche per tutte quelle donne che provano a ribellarsi a questo teatro dell'orrore. Nel silenzio di buonisti e femministe.
Saman aveva un segreto: l'ira del padre quando lo ha scoperto. Valentina Dardari il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Secondo il fratello della 18enne sarebbe stato lo zio a ucciderla. Il cugino è stato arrestato in Francia e verrà estradato in Italia. Adesso spunta un fidanzato segreto. Sembra infatti che Saman Abbas, la 18enne pachistana scomparsa più di un mese fa, avesse una relazione da tempo e fosse innamorata. Non era però l’uomo scelto dalla sua famiglia e, forse per questo motivo, la giovane di Novellara è stata uccisa e il suo corpo nascosto.
Saman era innamorata. Come riportato da QuotidianoNazionale, Saman era scappata da lui durante la sua permanenza nella comunità protetta bolognese. La loro era una relazione mal vista dalla famiglia della 18enne che voleva invece vederla sposata con un connazionale, pare un cugino. I parenti avevano quindi rifiutato quell’amore e anzi, avevano deciso di rinchiudere Saman in una casa famiglia, ben lontana da quel ragazzo. Il fidanzato di Saman, anche lui pachistano, vive a centinaia di chilometri di distanza, ma sembra fossero mesi che si frequentavano. Sul profilo Instagram, la giovane innamorata aveva scritto: “I am not alone but I am lonely without you”, come a dire, non sono sola ma mi sento abbandonata senza te, affidando al web le sue pene d'amore.
Saman e quel video choc in rete: il funerale senza salma. La 18enne era fuggita almeno un paio di volte dalla comunità per raggiungere il suo fidanzato, per vederlo, anche se solo per poco tempo. Ma quei brevi momenti sembravano bastarle. Finché decise però di stravolgere una volta per tutte la sua vita, in nome di quell’amore ostacolato dalla sua famiglia. Aveva tolto il velo, indossato un paio di jeans e le scarpe da ginnastica e si era presentata dai suoi genitori, per riavere i suoi documenti, necessari per andare all’estero con il suo ragazzo. Ma forse, davanti a quel gesto estremo, a quella volontà di 18enne innamorata, gli indagati hanno reagito nel peggiore dei modi. Sono accusati di averla portata in campagna con l’inganno e di averla uccisa, per poi nasconderne il corpo.
Quel video choc. Nel video choc ripreso dalle telecamere di sicurezza si vedono tre persone, con due pale e un secchio, oltre a un sacchetto azzurro e un piede di porco, dirigersi verso i campi. La data della registrazione è quella dello scorso 29 aprile, alle 19. Nel video, in altre immagini successive si vedono sempre le stesse figure rientrare dopo circa 2 ore e mezza. Sono lo zio e i due cugini di Saman. La sera seguente le stesse telecamere riprendono Saman uscire di casa con i genitori e andare in campagna. Quando tornano, una decina di minuti dopo, Saman non c’è. Il fratello minore della 18enne ha raccontato che sarebbe stato lo zio Danish Hasnain a uccidere la sorella.
"Tre persone con le pale", il video choc sulla pakistana sparita. Nella giornata di ieri uno dei cugini di Saman, Ikram Ijaz, è stato arrestato in Francia, e tra circa 10 giorni verrà estradato in Italia. Per il momento ha negato tutte le accuse, sia quella di omicidio che di occultamento di cadavere, e ha accettato di tornare nel nostro Paese per essere giudicato. Continuano intanto le ricerche per ritrovare il corpo di Saman, ricorrendo anche ai cani molecolari e ai droni.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Saman e quel video choc in rete: il funerale senza salma. Angela Leucci il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Il caso di Saman Abbas si infittisce: il padre ha pubblicato e poi cancellato la foto di un funerale senza salma che si è svolto in Pakistan. Il mistero della scomparsa di Saman Abbas assume risvolti sempre più macabri, anche se si tratta solo di un sospetto. Su Facebook è infatti apparso per poche ore un filmato di una cerimonia funeraria senza la salma. Se n’è parlato ieri a Chi l’ha visto? dove è stato mostrata una diretta social di Shabbar Abbas, padre di Saman, che il 4 maggio ha pubblicato su Facebook un video con una celebrazione particolare. Una mediatrice culturale pakistana, che vuole restare anonima per paura di ripercussioni, ha confermato alla trasmissione che si tratta di una sorta di funerale. Nel filmato si vede un gruppo di soli uomini e un telo solitamente utilizzato per coprire il corpo di un defunto. Ma il defunto non c’è e il dubbio del programma è che quello possa essere il funerale di Saman e che il padre abbia voluto dimostrare alla sua comunità d’appartenenza in Pakistan di aver punito la figlia ribelle con la morte. Il video è stato cancellato il giorno dopo, il 5 maggio, lo stesso giorno in cui i carabinieri bussano alla porta dell’alloggio della famiglia a Novellara, scoprendo che non c’è nessuno e in seguito iniziano a indagare per omicidio. Saman si era rivolta il 10 dicembre 2020 ai servizi sociali di Novellara, che avevano provveduto a darle rifugio in una casa protetta e dove è rimasta alcuni mesi. Il 30 aprile le telecamere di sorveglianza dell’azienda agricola dove il padre lavorava la inquadrano dirigersi in campagna insieme ai genitori. Il giorno prima avevano inquadrato una scena preoccupante: tre uomini - uno zio e due cugini di Saman - effettuavano lo stesso percorso muniti di pale, un secchio e un sacco di plastica. Stavano organizzando l’omicidio e l’occultamento del cadavere della giovane? Shabbar nega tutte le accuse e annuncia che il 10 giugno sarà in Italia e spiegherà tutto ai carabinieri, compreso il fatto che la figlia si trova in Belgio com'era già accaduto in passato. Eppure il 1 maggio, quando padre e madre sono partiti alla volta del Pakistan, il nome di Saman non è stato inserito nella lista dei passeggeri da Malpensa. In Italia è rimasto il fratello 16enne, dal quale si spera di ricevere una svolta per le indagini. Uno dei cugini è stato fermato in Francia, mentre cercava di raggiungere dei parenti in Spagna, mentre lo zio e l’altro cugino sono introvabili. Saman era giunta in Italia all’età di 13 anni. Frequentò la terza media in maniera brillante: l’ex preside della scuola dice infatti che apprendeva velocemente sia la lingua che le altre materie. Gli studi però per lei non proseguirono, come accade a molte ragazze pakistane, nonostante Saman volesse andare a scuola: il padre diceva che la causa era logistica, Saman avrebbe dovuto prendere dei mezzi pubblici perché non ci sono scuole superiori a Novellara. Tuttavia le donne si vedevano raramente fuori da casa. Durante la sua permanenza in dimora protetta, Saman ha realizzato alcuni video e pubblicato foto sui suoi profilo social, come una diretta TikTok dalle vie di Bologna. Ebla Ahmed di "Senza veli" sulla lingua si chiede però se siano state messe in campo tutte le precauzioni nel caso della giovane pakistana: non avrebbe dovuto e potuto usare il cellulare perché poteva essere rintracciata.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2021. Il suo fidanzato «segreto», un connazionale ventunenne conosciuto sui social e che vive in Italia, sarebbe già stato ascoltato dai carabinieri, fornendo elementi importanti all'inchiesta sull'uccisione di Saman Abbas, la diciottenne pakistana sparita a Novellara, nel Reggiano. Avrebbe detto di minacce dal padre, non è chiaro se giuntegli direttamente o con parole raccolte dalla stessa Saman, «terrorizzata». Quel che il giovane ha chiarito a verbale avrebbe dunque rafforzato la pista del delitto maturato in famiglia, come sospetta la Procura che ha indagato cinque persone. Due sono i genitori, Shabbar e e Nazia Shaheen, 46 e 47 anni, scappati in Pakistan. Irrintracciabile è anche il terzo, lo zio Danish Hasnain, 33, l'uomo che l'avrebbe materialmente uccisa nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio facendo sparire il cadavere chissà dove, tra serre, pozzi e porcilaie abbandonate dell'azienda agricola per la quale lavoravano tutti gli uomini della famiglia Abbas. Gli altri indagati sono due cugini di Saman, uno dei quali arrestato in Francia, a Nîmes. Per lui, il ventottenne Ikram Ijaz, è stata concessa l'estradizione. Assistito dall'avvocata d'uffcio Julie-Gaëlle Bruyère ha fatto sapere di voler tornare in Italia per chiarire «di essere innocente». Ai carabinieri però dovrà spiegare cosa ci facesse con le pale in mano nel video che lo riprende con suo fratello e con Hasnain, la sera del 29 aprile. Il sospetto degli investigatori è che avessero già scavato la buca in cui nascondere Saman, premeditando così l'omicidio. Quanto al fratello sedicenne della ragazza - che ora si trova in un centro protetto- sarebbe stato fermato ai primi di maggio nei pressi della frontiera con la Francia, mentre anche lui cercava di scappare. Dal suo interrogatorio in incidente probatorio gli investigatori si aspettano la conferma di quel che disse appena rintracciato, parlando di omicidio. Che Saman avesse un fidanzato, conosciuto mentre stava nel centro protetto nel Bolognese per essersi opposta al matrimonio combinato - il motivo per cui è stata uccisa - gli Abbas lo sapevano. Lo ha raccontato un connazionale di Saman intervistato dal Tg2. Con questo coetaneo la ragazza si era confidata in una chat online, dicendogli del padre che l'aveva «minacciata di morte» per essersi opposta al matrimonio.
Parla il fidanzato segreto di Saman: "Ho paura". Ignazio Riccio il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. È stato lui a raccontare ai carabinieri del rapporto tormentato della giovane pakistana con i familiari e ora teme che qualcuno possa vendicarsi. Ha paura di subire ritorsioni il fidanzato segreto di Saman Shabbar, la ragazza 18enne scomparsa da un mese da Novellara, città in provincia di Reggio Emilia, e per questo motivo si è nascosto in un luogo lontano e sicuro. È stato lui a raccontare ai carabinieri del rapporto tormentato della giovane pakistana con i familiari e ora teme che qualcuno possa vendicarsi. Il fidanzamento tra i due ragazzi non era tollerato dai genitori di Saman, i quali avevano promesso la 18enne in sposa a un cugino in Pakistan. La donna aveva denunciato i familiari, non voleva rispettare le tradizioni del suo Paese, ed era finita per cinque mesi in una comunità del Bolognese. Ad aprile Saman era ritornata a casa, terminato il regime di protezione, proprio per comunicare ai genitori che sarebbe andata via, con l’amore della sua vita.
Saman aveva un segreto: l'ira del padre quando lo ha scoperto. Quel proposito, però, non è andato in porto. Si presume, e per questo i familiari sono indagati, che la giovane sia stata uccisa, per evitare la vergogna del rifiuto delle nozze con il cugino. Gli inquirenti seguono questa pista, anche se il cadavere di Saman non è stato ritrovato, nonostante i cani molecolari stiano setacciando l’intero territorio. Le forze dell’ordine ritengono che sarebbero stati proprio i genitori a consegnare la ragazza a uno zio, affinché la uccidesse. A insospettire chi sta indagando anche il comportamento dei congiunti della 18enne, i quali nei primi giorni di maggio si sono dileguati, ritornando in Pakistan con un volo da Malpensa. A confessare agli inquirenti il macabro piano dei genitori di Samar, come riporta il quotidiano Il Giorno, è stato il fratellino minorenne della ragazza, che ora è sotto protezione in una località in provincia di Bologna, con il divieto di espatrio. Il 16enne sarà interrogato nell'udienza di incidente probatorio ancora da fissare. I genitori sono fuggiti lasciandolo a casa ed è stato lui a ricevere i carabinieri il 5 maggio scorso, i quali si sono recati nell’abitazione degli Shabbar alla ricerca della 18enne. Anche lo zio presunto assassino di Samar è scomparso, probabilmente sarà ritornato, come i familiari, in Pakistan.
Saman e quel video choc in rete: il funerale senza salma. Questa persona, insieme a due cugini della ragazza, sono stati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza nei pressi dell’edificio dove abitava Samar. I tre sono ritratti mentre con due pale, un secchio contenente un sacchetto azzurro e un piede di porco, si allontanano nei campi per poi fare ritorno due ore dopo. Un altro filmato, successivo, ritrae la giovane con i genitori, forse al momento della consegna allo zio. A fare luce sulla misteriosa vicenda potrebbe intervenire uno dei cugini, arrestato domenica scorsa in Francia, dalla quale verrà estradato nei prossimi giorni dopo l'ok concesso dalle autorità giudiziarie transalpine.
Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore.
Dalla scomparsa all’accusa del fratello sullo zio: cosa sappiamo su Saman. Valentina Dardari il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. Tanti i punti raccolti dagli inquirenti che stanno cercando di risolvere il caso della 18enne pakistana scomparsa da più di un mese. Di Saman Abbas, 18enne pakistana, non si hanno più notizie da oltre un mese. Ci sarebbe adesso un altro video, dopo quello in cui si vedono lo zio e due cugini della ragazza dirigersi in campagna con pale e piede di porco. Secondo quanto riportato dal Corriere, al centro del nuovo filmato acquisito dai carabinieri del Reparto operativo diretto da Stefano Bove, ci sarebbe lo zaino di Saman. Lo stesso zainetto che la giovane aveva con sé quando, accompagnata dai genitori, aveva raggiunto lo zio 33enne, Danish Hasnain, accusato dal fratello 16enne di aver ucciso la sorella. L’uomo, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, avrebbe atteso la ragazza alla fine del viottolo di campagna che costeggia delle serre. Secondo quanto raccontato da SkyTg24, che ne ha dato l’anteprima, Saman quella sera era uscita dall’abitazione con madre e padre, indossava un vestito islamico e aveva sulle spalle lo zaino. Dopo circa una decina di minuti i genitori hanno fatto ritorno ma la 18enne non era con loro. Dopo un po’ il padre, Shabbar, è uscito ancora una volta di casa, da solo. Quando ritorna ha lo zainetto di Saman in mano. Gli investigatori pensano che in quel momento la figlia fosse già stata uccisa. Proviamo a ripercorre le tappe e gli indizi in mano agli inquirenti.
La scomparsa di Saman punto per punto.
Il 26 maggio, in cronaca si inizia a vedere il volto di Saman Abbas, 18enne pakistana, scomparsa a Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Di lei si sa inizialmente poco ma, con il passare delle ore, si viene a conoscere la sua storia: si è opposta al matrimonio combinato dalla sua famiglia con un cugino, perché innamorata di un fidanzato segreto. Il rifiuto della ragazza ha fatto imbestialire i suoi familiari che già avevano programmato tutto per le nozze, fissate per il 22 dicembre in Pakistan, con partenza il 17. Alla fine di ottobre la ragazza era andata dai Servizi sociali di Novellara per chiedere di essere aiutata. Da lì il suo trasferimento in un centro protetto nel Bolognese.
Subito dopo la sua scomparsa nel nulla partono le ricerche della 18enne nell’azienda agricola dove lavorano alcuni suoi familiari e il padre 46enne, Shabbar. I carabinieri diretti da Stefano Bove, comandante del Reparto operativo di Reggio, scoprono che Saman ha lasciato il centro protetto l’11 aprile per fare ritorno a casa. Si scoprirà in seguito che l’obiettivo della giovane era riprendere i documenti, tra i quali la carta d’identità, per poter andare all’estero con il suo ragazzo 21enne e iniziare una vita normale, da ragazza della sua età, come per esempio prendere la patente e iscriversi al liceo. Non era la prima volta che si allontanava dal centro, ma era sempre ritornata. Forse era già stata in Belgio con il 21enne conosciuto in chat e ascoltato dai militari e dalla pm Laura Galli.
I due video. In mano agli inquirenti arrivano due video registrati dalle telecamere di sicurezza. Nel primo, risalente al 29 aprile, si vedono tre uomini uscire dall’abitazione degli Abbas verso le 19 e dirigersi in campagna con pale e piede di porco. Dopo circa due ore e mezza le stesse figure fanno ritorno. Possibile che in quel tempo abbiano scavato una buca in cui gettare il corpo di Saman, una volta uccisa. La notte seguente, tra il 30 aprile e il 1° maggio ecco nel secondo video la 18enne uscire di casa con i genitori e incamminarsi in un viottolo di campagna, in fondo al quale la aspettava probabilmente lo zio. Da quella notte della ragazza non si hanno più notizie, sembra scomparsa nel nulla. Shabbar e la moglie 47enne, Nazia Shaheen, il 1° maggio prendono un aereo per tornare in Pakistan, ma il nome della figlia non compare tra i passeggeri del volo. Anche i due cugini spariscono nel nulla.
A Novellara rimangono solo lo zio e il fratello minore di Saman. Saranno proprio loro a dire ai carabinieri che sono tutti partiti per tornare in Patria, avvisati della grave malattia di una sorella di Shabbar. Un modo forse per depistare le indagini e prendere tempo. Da quel momento scompaiono tutti i familiari e partono le ricerche anche oltre confine. E proprio in Francia, a Nimes, viene fermato dalla gendarmerie uno dei cugini di Saman, il 28enne Ikra Ijaz. Il fuggiasco stava cercando di raggiungere la Spagna, dove si trovano altri familiari, a bordo di un Flexibus. Nei giorni scorsi le autorità francesi hanno concesso l’estradizione dell’arrestato. Il 28enne ha fatto sapere tramite il suo avvocato d’ufficio francese di voler tornare in Italia ed essere giudicato nel nostro Paese, proclamandosi innocente. Anche lui però compare nel primo filmato con una pala in mano e dovrà spiegarne il motivo agli investigatori. Viene poi fermato anche il fratello 16enne di Saman, ed è lui ad accusare lo zio di aver ucciso la sorella. Ripeterà tutto in incidente probatorio, in data ancora da definire.
Il racconto del padre. Tramite WhatsApp, Il Resto del Carlino riesce a raggiungere Shabbar. L’uomo racconta al giornale che la figlia è viva e che si trova in Belgio da un conoscente. Racconta inoltre che la ragazza è preoccupata perché ha letto sul web articoli che la riguardano. Informa in ultimo dii aver consigliato Saman di fare ritorno in Italia per chiarire tutto e che anche lui tornerà il 10 giugno. Qualche dubbio dell’uomo alla domanda del cronista su come abbia fatto a contattare la figlia. Tramite Instagram e non con il cellulare. Durante un servizio di Chi l’ha visto, viene mandata in onda una diretta che l’uomo ha messo sul suo profilo Facebook il 4 maggio: si tratta di un funerale senza il morto, ma con una bara vuota. Tra le foto del capo famiglia non compaiono mai né la moglie né la figlia, a detta dei datori di lavoro, sempre recluse in casa.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 5 giugno 2021. «Già due anni fa Saman si era opposta a un primo matrimonio combinato dal padre» con un parente in Pakistan. Voleva «denunciarlo allora» ma poi non lo fece, forse troppo giovane per fronteggiare in modo così lacerante la volontà dell'uomo. Ma il suo no al padre Shabbar, 46 anni, era stato comunque tassativo. Come tassativo era stato, successivamente, «il rifiuto delle nozze con il cugino» previste lo scorso 22 dicembre e per le quali l'intera famiglia Abbas - un gruppo numeroso, con gli uomini tutti impegnati nel lavoro in campagna, nel Reggiano - aveva già acquistato i biglietti aerei. A raccontarlo ai carabinieri è stato il fidanzato della stessa diciottenne pachistana sparita nel nulla a Novellara, dove viveva. Si tratta di un suo connazionale ventunenne, residente in Italia ma lontano dall' Emilia, conosciuto sui social nel 2019. Una storia d' amore portata avanti dai due ragazzi soprattutto restando in contatto costante sui social. Ma a partire dall' estate scorsa il sentimento, sempre più importante, li aveva spinti a vedersi più volte. Questo anche quando Saman era stata portata al centro protetto nel Bolognese dopo essersi rivolta, nello scorso ottobre, ai Servizi sociali del Comune di Novellara raccontando tutto quello che non era più disposta a sopportare in casa sua. Dove viveva praticamente da reclusa «senza nemmeno poter uscire per andare a fare la spesa». «Lei mi diceva che aveva paura» ha spiegato nei giorni scorsi il giovane agli investigatori del Reparto operativo reggiano diretto da Stefano Bove che lo hanno messo sotto protezione, a casa sua. Anche il ragazzo, infatti, è stato minacciato da Shabbar, sebbene non direttamente, ma con parole riferite dalla figlia, «terrorizzata» per le frasi del padre che, in qualche modo, le aveva fatto sapere che di quel ragazzo proprio non voleva saperne. Non solo. Saman temeva anche «lo zio e i cugini» che sapeva la «stavano cercando» ovunque. A dirlo al Tg2 è stato un altro giovane pakistano - che sarà anche lui ascoltato dagli investigatori - conosciuto dalla giovane sui social. «Mi aveva raccontato del suo fidanzamento osteggiato in famiglia e del suo sogno» semplice: quello di «fare la barista, aveva anche chiesto agli assistenti sociali se poteva frequentare dei corsi». «Voleva bene solo al fratello - ha proseguito il ragazzo, di nome Amjad -, l'unico della famiglia che le mancasse». E che presto, in incidente probatorio, sarà chiamato a confermare quel che ha detto appena fermato mentre stava cercando di raggiungere la Francia: ovvero che sua sorella era stata uccisa. L' 11 aprile Saman, oramai maggiorenne, ha deciso di lasciare volontariamente il centro per tornare a casa e questo «nonostante gli assistenti sociali l'avessero avvertita - spiega la sindaca di Novellara Elena Carletti - di quali rischi avrebbe corso, anche allontanandosi senza dare comunicazioni» come aveva già fatto altre volte. Ma perché davvero Saman sia tornata dai genitori non è chiaro. È assai probabile che sperasse in una riconciliazione, come ipotizza uno degli investigatori. E forse voleva convincere il padre a restituirle la sua carta d' identità, rimasta nelle mani di lui. Un documento che le avrebbe consentito magari di varcare frontiere, viaggiare, progettare il futuro assieme al suo compagno con il quale era rimasta in contatto anche in quelle due settimane trascorse in famiglia, prima di essere ripresa l'ultima volta in un video, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, mentre esce di casa, con indosso un abito tradizionale pakistano e uno zainetto verde sulle spalle. È assieme al padre e alla madre, Nazia Shaheen, 47 anni. Le immagini mostrano Saman mentre con i genitori s' incammina lungo un viottolo sterrato, circa cento metri, che delimita l'azienda agricola in cui lavorava il padre. Qui sarebbe scattata la trappola mortale per la ragazza, convinta chissà con quale scusa a uscire a quell' ora, con il buio. La telecamera riprende Abbas mentre si ferma, apparentemente armeggiando con il cellulare. Chissà con quale stato d' animo dentro, è Nazia ad accompagnare per qualche metro ancora la figlia. Poi il nulla. I genitori rientrano, ma di Saman non c' è più traccia, a quel punto presa in consegna dallo zio Danish Hasnain, 33 anni - stando al racconto del fratello - che l'attendeva più avanti e accusato materialmente del delitto. Un quadro investigativo confermato anche dalla localizzazione delle «celle» dei telefonini. Ma è terribile quel che hanno visto poi i carabinieri, e raccontato da Sky TG24, in un terzo video di poco successivo al precedente. Abbas viene inquadrato mentre esce nuovamente di casa, ripercorre il viottolo e ricompare circa un quarto d' ora dopo. Ha con sé lo zainetto verde della figlia. Che a quel punto sarebbe stata già uccisa e sotterrata chissà dove nelle vicinanze. E anche di quello zainetto, che forse conteneva tutte le speranze che Saman coltivava per il suo futuro, non c' è più traccia.
"Zio mi fa paura". Quei sospetti del fratellino di Saman. Francesca Galici il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. Pare che il giovane fratello di Saman, ancora minorenne, temesse l'uomo che lui stesso ha indicato come esecutore dell'omicidio di sua sorella. Il quadro della scomparsa di Saman Abbas si fa sempre più definito. Le attenzioni degli inquirenti ora si concentrano su Danish Hasnain, 33 anni, zio della ragazza. Sarebbe stato lui, secondo la procura, a uccidere materialmente la giovane pakistana che si era ribellata al matrimonio combinato dalla famiglia. Dalle ultime indiscrezioni riportate dal Corriere della sera, pare che anche il fratello 16enne di Samas, fermato al confine con la Francia insieme allo zio, temesse quell'uomo e per questo motivo il giovane è stato portato in un centro protetto dove si trova tutt'ora. Le ricerche degli investigatori proseguono senza sosta nelle campagne di Novellara perché si presuppone che il corpo di Saman sia stato nascosto lì dopo l'omicidio che sarebbe stato compiuto tra la notte del 30 aprile e il 1 maggio. Danish Hasnain e il nipote minorenne erano rimasti qualche giorno a Novellara prima di avviarsi verso il confine francese, dove poi sono stati fermati, mentre i genitori di Saman pochi giorni dopo la data presunta dell'omicidio hanno preso un aereo verso il Pakistan. Quando i carabinieri, allertati dai servizi social che da giorni non avevano più notizie della ragazza, bussano alla porta di casa della famiglia Abbas, sono proprio lo zio e il nipote a informarli che lì non c'era più nessuno. La motivazione ufficiale addotta dai due è stata la necessità da parte dei genitori di Saman di raggiungere il Pakistan per far visita a una sorella del padre della ragazza, che avrebbe versato in condizioni critiche. Pochi giorni dopo sono spariti anche Danish Hasnain e il minorenne. Il 33enne avrebbe voluto raggiungere la Francia, dove si trovano alcuni loro familiari, ma è stato fermato prima che potesse superare il confine. Sia lui che il fratello di Saman non avevano con sé i documenti. Questo accadeva il 9 maggio ed è la molla che fa scattare le ricerche di Saman. L'allontanamento di tutta la famiglia ha insospettito i carabinieri. L'11 aprile la ragazza aveva lasciato il centro protetto nel quale viveva da quando aveva informato i servizi social della volontà dei suoi genitori di darla sposa a un cugino di suo padre in Pakistan con un matrimonio combinato. Danish Hasnain viene, quindi, invitato in Questura il giorno successivo al suo fermo a Imperia ma l'uomo non si presenta e sparisce. A quel punto i carabinieri, informati della presenza del minore in una casa famiglia, vanno a prendere il ragazzo e lo portano in una struttura protetta. A loro il giovane racconta che la sorella è stata uccisa e fa il nome dello zio. La Gazzetta di Reggio riferisce che il minorebbe "teme" quello zio al quale è stata consegnata sua sorella dai genitori con l'intento di ucciderla. Danish Hasnain è ricercato in tutta Europa ma gli investigatori hanno il sospetto che possa trovarsi in Spagna o in Francia. Sarà necessario far tornare in Italia i genitori di Saman, per i quali l'Italia sta già espletando le pratiche della rogatoria internazionale. Non sarà semplice, quando la rogatoria verrà formalizzata dovranno intervenire gli uffici diplomatici. Le operazioni di estradizione non potevano cominciare prima perché, in questo caso, "è stato prima necessario accertarne la latitanza". Ormai, il cerchio si è stretto e sarà solo questione di tempo.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
"Possono fargli male". Fidanzato di Saman sotto protezione. Tiziana Paolocci il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. Timori per il 21enne che ha collaborato con le forze dell'ordine. Saman temeva il padre. E ora anche il suo fidanzato è terrorizzato. Il ventunenne ha trovato la forza di denunciare, di raccontare ai carabinieri il travaglio interiore di quella connazionale pakistana conosciuta in chat due anni prima, che aveva sfidato tutta la famiglia per vivere il loro amore, cresciuto giorno dopo giorno, nonostante la distanza. Lei aveva detto «no» a due matrimoni combinati dai genitori, l'ultimo con un cugino, che si sarebbe dovuto celebrare lo scorso 22 dicembre in Pakistan, lui le era rimasto accanto anche se spesso virtualmente, perché vivevano in regioni distanti. Ma si vedevano, appena possibile, e sognavano un futuro insieme, anche se sapevano che la famiglia Abbas l'avrebbe osteggiato. Shabbar Abbas, il padre 46enne di Saman, più volte aveva minacciato la figlia che avrebbe ucciso il fidanzato se non avesse interrotto quella storia, accettando il marito che lui aveva scelto. Ma, come trapela da ambienti investigativi, quelle parole erano rimaste semplici minacce, perché la famiglia non sapeva come arrivare al giovane e forse a malapena conosceva il suo nome. Ma ora che Saman è presumibilmente morta per mano dei genitori, dello zio e dei cugini, c'è il timore che la rete della famiglia della diciottenne di Novellara, possa arrivare fino al suo fidanzato, un connazionale che vive però nel Lazio. Proprio per questo i carabinieri del Reparto operativo di Reggio, diretti dal comandante Stefano Bove, mantengono il massimo riserbo sull'identità del ventunenne, già sentito nei giorni scorsi. Ai militari ha raccontato il terrore di Saman, che si fidava solo del fratello sedicenne, lo stesso che verrà ascoltato in incidente probatorio nei prossimi giorni. Ora è stato affidato a una comunità protetta nel Reggiano e sarà chiamato a confermare che la sorella è stata uccisa dallo zio a cui l'hanno consegnata i genitori la sera della presunta scomparsa, dopo l'ultima lite furibonda scatenata dall'ennesimo rifiuto per il matrimonio combinato. Le celle telefoniche dei cellulari e tre video, in mano agli inquirenti, confermano il macabro sospetto. Il primo filmato risale alla notte tra il 30 aprile e primo maggio e si vede Saman, in abito tradizionale pakistano, che esce di casa con la madre Nazia e il padre Shabbar e si incammina verso un sentiero sterrato che costeggia l'azienda agricola. Nel secondo si vedono i genitori rientrare senza di lei, che è caduta nella trappola ed è stata affidata allo zio assassino. Le immagini mostrano ancora il padre che esce di nuovo e al rientro ha lo zaino verde di Saman, ma di lei nessuna traccia. Ieri i tecnici hanno proseguito la ricerca del cadavere sondando il terreno con carotaggi in preparazione del successivo intervento delle unità cinofile. Settimana prossima verrà impiegata anche la tecnologia dell'elettromagnetometro, per una più approfondita scansione del sottosuolo, data la composizione chimica del terreno. Sul fronte investigativo, invece, continuano le ricerche degli indagati e si attende che il cugino ventottenne Ikram Ijaz, fermato nei giorni scorsi in Francia, a Nimes, su un pullman diretto in Spagna, venga estradato in Italia.
La ragazza pachistana scriveva al fidanzato: “Vogliono uccidermi”. Saman Abbas, lo zio in chat: “Un lavoro fatto bene”. La mamma: è l’unica “soluzione”. Elena Del Mastro su Il Dubbio il 6 giugno 2021. “Abbiamo fatto un lavoro fatto bene”. È la frase che Danish Hasnain, lo zio 33enne di Saman Abbas, avrebbe scritto in una chat a una persona molto vicina a lui, parlando della giovane pachistana di cui si sono perse le tracce dal primo maggio scorso. Lo riporta oggi la Gazzetta di Reggio Emilia. Di Saman Abbas, diciottenne pachistana che viveva a Novellara nella Bassa Reggiana, non si hanno notizie da ormai più di un mese. Il timore è che sia stata uccisa dalla famiglia per essersi opposta a un matrimonio combinato in Pakistan. La Procura reggiana indaga per omicidio con, al momento, cinque indagati: i genitori, due cugini e lo zio. La diciottenne avrebbe avuto un “fidanzato segreto”, un connazionale della ragazza, conosciuto sui social, che vive in Italia e che la sua famiglia non aveva mai accettato. Il giovane avrebbe riferito ai carabinieri che Saman in una chat gli aveva raccontato delle terribili parole della madre che indicava l’uccisione come unica “soluzione” per una donna che non si attiene alle regole di vita pachistane. “Stavano parlando proprio di me”, avrebbe detto al fidanzato Saman. La ragazza avrebbe anche affrontato direttamente la madre chiedendo spiegazioni ma la donna avrebbe negato. Il vocale risalirebbe al 30 aprile, la sera in cui – secondo ipotesi investigative – sarebbe avvenuto l’omicidio.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Il fidanzato di Saman rivela: "Perché era terrorizzata dal padre". Valentina Dardari il 5 Giugno 2021 su Il Giornale. Secondo quanto raccontato dal ragazzo, la 18enne aveva già in passato rifiutato un matrimonio combinato. Secondo quanto raccontato ai carabinieri dal fidanzato segreto di Saman, la ragazza si era già opposta due anni fa a un matrimonio combinato dal padre con un parente in Pakistan. Avrebbe voluto anche denunciare il genitore ma alla fine rinunciò all’idea. Forse era troppo giovane per opporsi in modo così deciso alla sua famiglia. Anche in seguito rifiutò di sposare il cugino con nozze già programmate per lo scorso 22 dicembre e biglietti aerei per tornare in patria già acquistati.
Il fidanzato: "Saman aveva paura". Il fidanzato di Saman, un 21enne pakistano, anche lui residente in Italia, ma non in Emilia, aveva conosciuto la 18enne sui social. Una conoscenza che li aveva portati a incontrarsi più volte, nonostante la lontananza. Anche quando Saman era finita in un centro protetto nel Bolognese dopo aver chiesto aiuto ai servizi sociali, ai quali aveva raccontato la sua vita da reclusa in casa. “Lei mi diceva che aveva paura” ha spiegato il giovane agli investigatori del Reparto operativo reggiano diretto da Stefano Bove che lo hanno messo sotto protezione, nella sua abitazione. Anche il 21enne è stato infatti minacciato da Shabbar, il padre di Saman, anche se non in modo diretto, ma tramite la figlia. Saman aveva paura anche dello zio e dei cugini, e sapeva che loro la “stavano cercando”. A raccontare questi ultimi particolari al Tg2 è stato un altro ragazzo pakistano, Amjad, che verrà ascoltato dai carabinieri, anche lui conosciuto sui social. “Mi aveva raccontato del suo fidanzamento osteggiato in famiglia e del suo sogno, fare la barista, aveva anche chiesto agli assistenti sociali se poteva frequentare dei corsi”. Saman “voleva bene solo al fratello, l’unico della famiglia che le mancasse” ha proseguito Amjad. Il fratello 16enne è lo stesso che ha accusato lo zio di aver ucciso la sorella, e questo dovrà ripeterlo anche in incidente probatorio.
Perché era tornata a casa. Era lo scorso 11 aprile quando Saman, raggiunta la maggiore età, decise volontariamente di andare via dal centro protetto e fare ritorno a casa. Prese la decisione “nonostante gli assistenti sociali l’avessero avvertita di quali rischi avrebbe corso, anche allontanandosi senza dare comunicazioni” ha spiegato il sindaco di Novellara, Elena Carletti. Sembra che la ragazza sia tornata alla sua abitazione per poter riavere i suoi documenti, tra i quali la carta di identità che aveva tenuto il padre. Grazie a quella avrebbe potuto viaggiare anche all’estero e cominciare una nuova vita insieme al suo fidanzato. O forse, come ipotizzato da un investigatore, sarebbe tornata a casa per tentare di riavvicinarsi alla sua famiglia. Le sue ultime immagini sono quelle riprese da una telecamera di sicurezza che la notte tra il 30 aprile e il 1° maggio l’ha immortalata mentre esce di casa con i suoi genitori, vestita con un abito tradizionale pakistano e il suo zainetto verde in spalla. Da quel momento di Saman non si è saputo più nulla. In quel video i tre, padre madre e figlia, si incamminano in un viottolo di campagna, alla fine del quale, ad attenderla, c’era forse lo zio 33enne, Danish Hasnain, pronto a ucciderla. Quando nel video si vedono i genitori tornare verso casa, Saman non c’è. Come riportato dal Corriere, anche le celle dei telefonini confermerebbero quanto ipotizzato dagli investigatori. In un altro video choc si vede il padre che esce ancora una volta da casa, solo, e ripercorre lo stesso viottolo. Poco dopo l’uomo ricompare nelle immagini e ha in mano lo zainetto verde di Saman. Dello zaino non c’è più traccia, così come della 18enne, che a quel punto era forse già morta e il suo corpo seppellito chissà dove.
Autore. Valentina Dardari
Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Gli ultimi sms di Saman: così è caduta nella trappola. Francesca Galici il 6 Giugno 2021 su il Giornale. Saman cercava di vivere all'occidentale e voleva stare accanto al suo fidanzato: c'era ottimismo negli ultimi sms della ragazza pakistana scomparsa. Le ultime immagini riprendono Saman Abbas che esce di casa con in spalla uno zainetto insieme ai genitori. Era la sera del 30 aprile e la ragazza aveva indosso gli abiti tradizionali del suo Paese e non quelli occidentali con i quali si era mostrata di recente sui suoi profili social. In quei pochi frammenti video, tutto lascia intendere che Saman pensasse di partire per un viaggio. Alcuni amici rivelano che Saman ultimamente sembrava più ottimista, credeva che i suoi genitori avessero capito il suo desiderio di vivere all'occidentale, di proseguire nella storia d'amore con il connazionale di cui era innamorata. Sicuramente non pensava che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe rivisto la sua casa. Il timore degli inquirenti, che da giorni analizzano quei pochi frammenti di video, è che Saman sia stata condotta fuori casa con l'inganno e che, invece, sia stata poi consegnata allo zio Danish Hasnain, che è attualmente considerato dagli investigatori come l'autore materiale della sua uccisione. Non ci sono ancora prove, il corpo di Saman non è stato ritrovato, ma c'è la testimonianza di suo fratello, ancora minorenne. È stato lui a indicare l'uomo come colui che l'avrebbe uccisa. Il ragazzo e lo zio sono stati fermati, senza documenti, ai primi di maggio prima che potessero varcare il confine con la Francia in Liguria ma il giorno dopo, quando Danish Hasnain si sarebbe dovuto presentare in Questura per regolarizzare la sua posizione, ha fatto perdere le sue tracce. "Si diceva convinta che i familiari avessero compreso i suoi desideri, promettendole il consenso a una vita diversa. Si capiva che era felice perché era certa di poter raggiungere il fidanzato, un connazionale conosciuto di recente, con il quale aveva allacciato una relazione", dice oggi un suo amico di chat a Il Giorno. Saman non poteva trascorrere troppo tempo a chiacchierare con gli amici, ma in quei pochi minuti che riuscita a entrare nelle chat di gruppo il suo umore era positivo. "Faceva capire il suo stato d'animo: inviava faccine sorridenti. Mesi prima, invece, all'epoca del matrimonio combinato, i simboli erano ben più tristi e preoccupati", prosegue l'amico, che l'ha conosciuta ai tempi della scuola. Quel gruppo di amici con i quali ogni tanto scambiava qualche parola raccontano di una Saman serena nell'ultimo periodo, che sognava di poter finalmente condurre un'esistenza libera accanto al ragazzo che da poco aveva iniziato ad amare.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Dopo le pale, le chat: "Un lavoro fatto bene". Valentina Dardari il 6 Giugno 2021 su il Giornale. La madre della 18enne pakistana avrebbe detto poco prima dell’omicidio che era l’unica soluzione. Emergono altri particolari riguardanti la scomparsa da oltre un mese dalla sua casa di Novellara, nel Reggiano, di Saman Abbas, la 18enne di cui non si hanno più notizie. Dopo i due video choc in mano agli inquirenti dove nel primo si vedono lo zio e i cugini della ragazza dirigersi verso la campagna con delle pale, e nel secondo Saman scortata dai genitori incamminarsi in un viottolo, per poi non farne più ritorno, adesso spunta una chat.
Lo zio: "Un lavoro fatto bene". L’uccisione di Saman? “Un lavoro fatto bene" avrebbe detto lo zio 33enne, Danish Hasnai, parlando con alcuni conoscenti. Lo stesso uomo accusato dal fratello 16enne della giovane di aver ucciso la sorella, e che secondo la Procura sarebbe l’esecutore materiale dell’omicidio. La notte tra il 30 aprile e il 1° maggio il padre e la madre di Saman avrebbero consegnato al parente la figlia, affinché se ne liberasse. La mamma, Nazia Shaheen, 47 anni, avrebbe avuto un ruolo nel delitto. Secondo quanto riportato dalla Gazzetta di Reggio, ci sarebbero delle indiscrezioni giudiziarie relative a quella tragica notte. Saman avrebbe sentito la madre parlare con qualcuno della sua morte.
L’audio di Saman al fidanzato. Sconvolta per quanto udito un attimo prima dalla bocca di Nazia, Saman avrebbe immediatamente inviato un messaggio vocale al suo fidanzato che ha in seguito informato gli investigatori. Secondo quanto emerso, la 18enne avrebbe udito la madre parlare della sua uccisione definendola l’unica cosa da fare, la “soluzione” per punire quella figlia che si era opposta al matrimonio combinato dai suoi familiari per sposare un cugino residente in Pakistan. Ma la giovane aveva altri progetti per il suo futuro: voleva viaggiare, conoscere il mondo e vivere libera con il suo ragazzo. Non è chiaro se la donna stesse parlando proprio della figlia, ma di certo Saman lo ha pensato. Come scrive infatti la Gazzetta: “È quello che la 18enne ha pensato”. Tanto da portarla a confrontarsi con la genitrice subito dopo e chiedendole delle spiegazioni. La donna naturalmente ha negato tutto, asserendo che si trattava di un discorso riguardante una vecchia faccenda avvenuta in patria. “L’ho sentito con le mie orecchie, ti giuro che stavano parlando di me...”, ha detto invece Saman al suo ragazzo, confidando di non avere creduto a una sola parola delle giustificazioni avanzate dalla madre beccata in flagrante.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Saman Abbas, "un lavoro fatto bene, unica soluzione". Il messaggio audio la notte della scomparsa: una pista agghiacciante. Libero Quotidiano il 06 giugno 2021. Drammatica accelerazione nell'inchiesta sulla sparizione di Saman Abbas, la 18enne di origine pakistana scomparsa a fine aprile dalla sua casa di Novellara, Reggio Emilia. Sarebbe stata la stessa giovane a parlare di un piano per ucciderla architettato dallo zio Danish Hasnain, 33 anni. A riferirlo, la Gazzetta di Reggio riportando indiscrezioni giudiziarie pesantissime. Da giorni gli inquirenti privilegiano alla pista della fuga volontaria quella, terribile, dell'omicidio "d'onore" ordinato dalla famiglia della ragazza, che aveva rifiutato per due volte un matrimonio combinato con un cugino in Pakistan, volendo vivere una vita libera e troppo "all'occidentale", secondo il giudizio del padre-padrone. Saman negli anni scorsi si era anche rivolta a una casa famiglia, che l'aveva ospitata per diverso tempo, salvo poi voler far ritorno a casa una volta maggiorenne, confidando nella maggior comprensione dei genitori. Una illusione. "Un lavoro fatto bene", avrebbe definito suo zio Danish il piano per ucciderla. Lo rivelava Saman, terrorizzata, in un messaggio audio spedito al fidanzato la notte stessa dell'esecuzione. All'uomo l'hanno affidata il padre Shabbar, 46 anni, e la madre Nazia Shaheen, 47, al termine di un "ragionamento", se così si può dire, molto articolato. Non un colpo di testa, insomma, o un raptus, ma un progetto omicida ancor più agghiacciante, perché rivolto alla loro stessa figlia. Nel messaggio vocale mandato al fidanzato (ascoltato a sua volta dagli investigatori), Saman avrebbe sentito dire che quella sarebbe stata "l'unica soluzione" per punirla per il rifiuto, o almeno è quello che la 18enne è convinta di aver intuito, anche se la madre poi con lei ha negato con forza. "L'ho sentito con le mie orecchie - ribadisce la ragazza nel messaggio al fidanzato -, ti giuro che stavano parlando di me...". Nell'ultimo video in mano gli inquirenti, Saman si avvia in abito tradizionale pakistano nella notte, in compagnia di mamma e papà, con uno zainetto in spalla. Sembra la stiano accompagnando alla partenza di un viaggio. Ma pochi minuti dopo, i genitori tornano senza Saman, ma con il suo zaino. Alla luce di quel messaggio vocale, quasi un video-testamento.
Da ansa.it il 7 giugno 2021. "Secondo me l'ha uccisa strangolandola, anche perché quando è venuto a casa non aveva nulla in mano". E' in una testimonianza del fratello minorenne della ragazza la possibile modalità dell'uccisione di Saman Abbas, ad opera dello zio Hasnain Danish, attualmente ricercato dai carabinieri e dalla Procura di Reggio Emilia. Danish avrebbe "pianto molto" e minacciato il fratello "di non dire nulla ai carabinieri, con conseguenza la mia uccisione". Non avrebbe detto invece nulla su dove è stato nascosto il corpo. La notte tra il 30 aprile e l'1 maggio, sempre secondo la testimonianza, lo zio avrebbe detto ai genitori: "Ora andate in casa. ora ci penso io". Hasnain Danish, lo zio di Saman Abbas, ha confessato al fratello minorenne di lei di averla uccisa, ma non gli ha voluto dire dove ha nascosto il corpo. La testimonianza è ritenuta dal Gip "piena prova indiziaria" della responsabilità dello zio nell'omicidio e il giovane, ora in una comunità protetta, "particolarmente credibile". Del corpo "io gliel'ho chiesto - ha raccontato - in quanto volevo abbracciarla un'ultima volta. Lui mi ha risposto di non potermelo dire". Sempre il giovane ha raccontato della reazione del padre, al rientro dello zio: "Si è sentito male e ha iniziato a piangere, stava quasi per svenire per mia sorella". La sera del 30 aprile Saman aveva tentato di fuggire e ha avuto una violenta lite con i genitori. È quanto emerge dall'ordinanza di custodia in carcere del Gip di Reggio Emilia per cinque indagati, padre, madre, zio e due cugini della ragazza. Saman e i genitori, è stato ricostruito, hanno urlato, lei li ha insultati: "Dammi i documenti", ha detto la ragazza al padre. Lui le ha chiesto se voleva sposare qualcuno e lei ha detto che voleva solo andare via e non sposare qualcuno. Poi ha preso le sue cose ed è fuggita. Il padre allora ha chiamato lo zio perché la riportasse a casa. Lo zio poi è tornato, dicendo che tutto era sistemato. La Procura di Reggio Emilia contesta la premeditazione ai cinque indagati per l'omicidio di Saman Abbas, la ragazza 18enne di origine pakistana scomparsa dopo essersi rifiutata di sposare in matrimonio combinato un connazionale in patria. Lo ha confermato la procuratrice Isabella Chiesi. Indagati sono i genitori, due cugini e uno zio. Quanto al fatto che quest'ultimo sia ritenuto l'esecutore materiale del delitto, Chiesi si è limitata a dire: "Difficile sapere adesso chi è l'esecutore materiale, non sappiamo neppure la modalità". La Procura è ottimista sulla possibilità di trovare il corpo di Saman, nei campi di Novellara. Lo ha spiegato la procuratrice di Reggio Emilia Isabella Chiesi. Condizioni meteo permettendo, da domani si partirà con l'utilizzo di un elettromagnetometro. "Io penso - ha detto Chiesi - che un mese sia un periodo che consente di trovare" i resti con "strumenti che danno conto della discontinuità del terreno". Tre persone vestite con abiti scuri che camminano, distanti l'una dall'altra, una imbracciando una pala, un'altra un secchio con un sacchetto e un altro un attrezzo. E' quanto si vede nel frame, diffuso dagli inquirenti, del filmato girato intorno alle 19.30 del 29 aprile vicino alla casa di Saman Abbas. Secondo gli investigatori i tre uomini ripresi sarebbero lo zio della ragazza pachistana scomparsa e due cugini, che stavano andando a scavare la fossa per la giovane, scomparsa il giorno successivo da Novellara (Reggio Emilia), dopo essersi opposta a un matrimonio combinato. Con l'accusa di aver ucciso la 18enne sono indagati i tre parenti e i due genitori, che sono rientrati in Pakistan. Uno dei cugini è stato fermato in Francia nei giorni scorsi e si attende che venga consegnato alle autorità italiane. "Proseguono le ricerche dei resti della persona offesa, che purtroppo riteniamo sia deceduta. Non darei nessun riscontro positivo a quello che ha detto il padre, abbiamo appurato che in Belgio non c'è la ragazza". Lo ha detto la procuratrice di Reggio Emilia Isabella Chiesi, parlando di Saman Abbas, la 18enne scomparsa da Novellara. Il padre della giovane, dal Pakistan, aveva detto a un giornalista che Saman è viva, che si trova in Belgio, e di averla sentita.
I genitori pakistani, lo zio con la pala: la famiglia sotto accusa. Rosa Scognamiglio il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. Sono cinque gli indagati per concorso in omicidio premeditato e occultamento di cadavere di Saman Abbas. Si tratta dei genitori, uno zio e due cugini. Sono cinque le persone iscritte nel registro degli indagati per omicidio premeditato e occultamento di cadavere della 18enne Saman Abbas, la giovane di origini pachistane, residente a Novellara, di cui si sono perse le tracce dallo scorso 30 aprile. Si tratta di Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, rispettivamente il padre e la mamma della ragazza; lo zio Danish Hasnain e due cugini, uno dei quali risponderebbe al nome di Ikram Ljaz. Dell'altro, invece, non sono ancora state diffuse le generalità. Shabar Abbas, 47 anni, e Nazia Shaheen, 46 anni, sono indagati per "concorso morale e materiale" nel presunto omicidio della giovane Saman. A gettare ombra sulla coppia è un video risalente alla sera del 30 aprile, l'ultimo giorno in cui - verosimilmente - la 18enne sarebbe stata ancora in vita. Il filmato, recuperato dalle telecamere di sorveglianza dell'azienda agricola di Novellara presso cui erano impiegati gli Abbas, si vede Saman uscire di casa - con uno zaino di colore chiaro in spalla - insieme ai genitori per dirigersi nei campi dietro casa. Qui, secondo gli investigatori, sarebbe stata consegnata allo zio, Danish Hasnain, ritenuto l'esecutore materiale dell'omicidio. Dopo dieci minuti, infatti, i coniugi Abbas rientrano in casa comparendo davanti alle telecamere senza Saman. Poco dopo, Shabbar esce ancora di casa, si dirige per una seconda volta nei campi e poi, ritorna nuovamente nell'abitazione. Ma stavolta con lo zainetto che indossava la figlia poco prima. In quel lasso di tempo, ipotizzano i carabinieri, la giovane sarebbe stata ammazzata. Danish Hasnain, 33 anni, è ritenuto "l'esecutore materiale" del delitto. Si tratta di una delle tre persone, munite di pale secchi, che compaiono nel video del 29 aprile, il giorno precedente al presunto omicidio. Stando a quanto riferisce la Gazzetta di Reggio, la sera dell'esecuzione, Hasnain si sarebbe mosso con freddezza. "Ora andate a casa, ora ci penso io", avrebbe detto ai genitori della diciottenne, Shabbar e Nazia Shaheen. A rivelarlo sarebbe stato il fratello minore di Saman, ascoltato dal gip Laura Galli. Secondo il racconto del 16enne, il papà si sarebbe "sentito male" dopo aver lasciato andare la ragazza. Tuttavia, avrebbe avuto timore di ritrarsi ritenendo Danish capace di sterminare la famiglia. Del resto, proprio a lui si erano affidati per risolvere "il problema della figlia" che aveva trasgredito i dettami pachistani. Quando Danish rientra in casa, non ha nulla in mano e da questo il sedicenne deduce che la sorella sia stata uccisa con lo strangolamento. Sono quelli che, insieme allo zio di Saman, avrebbero "scavato la fossa" in cui seppellire la cugina il giorno dopo. Uno dei due si chiama Ikram Ijaz; dell'altro, invece, non sono ancora state fornite le generalità. Ikram Ijaz è stato intercettato a Nimes, dalla polizia francese, il 21 maggio scorso, dopo che su di lui era spiccato un mandato di arresto europeo. Il 28enne era stato fermato mentre tentava la fuga verso la Spagna a bordo di un autobus Flexibus partito da Parigi e diretto a Barcellona. Il 29 maggio, il fermo si era poi tramutato in arresto mentre si trovava in un centro di identificazione per cittadini stranieri. Lo scorso 3 giugno, la Procura di Reggio Emilia ha ottenuto l'okay per l'estradizione. Ijaz è ritenuto responsabile, in concorso, dell’omicidio e dell’occultamento di cadavere della giovane Saman.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
"Non è in Belgio. Così Saman è stata strangolata". Francesca Bernasconi il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. Nessuna traccia di Saman in Belgio. Il procuratore: "Reputiamo sia deceduta". La testimonianza del fratello minore: "Secondo me l'ha strangolata". "Abbiamo appurato che in Belgio non c'è la ragazza". Parla chiaro il procuratore capo di Reggio Emilia, Isabella Chiesi, che si occupa del caso di Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa più di un mese fa da Novellara, dopo essersi opposta al matrimonio combinato dai genitori. Non solo la ragazza non si trova in Belgio, ma diventa sempre più probabile che Saman sia stata uccisa: "Proseguono le ricerche dei resti della persona offesa- ha aggiunto il il procuratore- che purtroppo reputiamo sia deceduta". Ipotesi che troverebbe riscontro nelle immagini di un video risalente allo scorso 29 aprile, il giorno prima della scomparsa, in cui si vedono lo zio Danish e due cugini che camminano imbracciando delle vanghe, forse servite proprio a scavare la fossa in cui seppellire la 18enne. Ma oltre al video, ci sarebbe anche il racconto fatto dal fratello 16enne della ragazza, che avrebbe detto, stando a quanto riportato da Agi: "Secondo me l'ha uccisa strangolandola, perché quando è venuto a casa non aveva nulla in mano": Ad ucciderla sarebbe stato lo zio Hasnain Danish, attualmente ricercato. "Ora andate a casa, ora ci penso io", avrebbe detto l'uomo ai genitori di Saman, Shabbar e Nazia Shaheen. A riportare le parole del fratello, riprese anche dal Corriere della Sera, è stata la Gazzetta di Reggio, secondo cui "tutto avviene sotto gli occhi del minore". In quel momento, il padre di Saman si sarebbe sentito male, ma non avrebbe avuto la forza di opporsi allo zio, al quale si sarebbero rivolti per risolvere la situazione. A quel punto, i genitori sarebbero tornati in Pakistan, lasciando il 16enne insieme allo zio a Novellara: qui, Danish avrebbe mostrato segni di cedimento, tra pianti e parole di conforto, senza però risparmiare le minacce al ragazzo, in caso avesse detto qualcosa alle forze dell'ordine. Dal 30 aprile non si ha più alcuna notizia di Saman, che nel novembre 2020 aveva chiesto aiuto ai servizi sociali, dopo essersi opposta a un matrimonio combinato. Ma dopo un periodo trascorso in una comunità, la 18enne era tornata a casa. Fino a un mese fa. Qualcosa, però, aveva già messo nuovamente in allarme la ragazza, che al fidanzato avrebbe rivelato di sospettare di essere al centro di un piano di omicidio, dopo aver sentito una telefonata della madre: "L'ho sentito con le mie orecchie, ti giuro che stavano parlando di me. Se non mi faccio sentire per più di 48 ore chiama le forze dell'ordine", aveva detto Saman al fidanzato. Poi la scomparsa. Qualche giorno fa, il padre aveva rivelato che la figlia si era trasferita in Belgio: "Il 10 giugno sono a Malpensa. Torno e spiego tutto ai carabinieri- aveva detto l'uomo al Resto del Carlino- Mia figlia è viva, l'ho sentita l'altro ieri". Parole smentite oggi dal procuratore capo di Reggio Emilia, convinta che la ragazza sia deceduta: "Credo si possa pensare che l'abbiano, per così dire, abbindolata facendole credere che avevano il biglietto per loro stessi e non per lei e che fosse certa di non dover andare in Pakistan. Questo, forse, l'ha rassicurata per tornare", ha aggiunto Isabella Chiesi. Da settimane ormai si cerca il corpo di Saman, ma individuarne i resti non sarebbe impossibile: "Un mese sotto terra è un periodo che consente di ritrovarli- ha precisato Chiesi- Gli strumenti utilizzati danno anche conto della discontinuità del terreno". Al momento sono cinque gli indagati. Si tratta dei genitori di Saman, dello zio e di due cugini, uno dei quali è stato individuato e fermato in Francia, a Nimes. Per lui è stata emessa un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Ancora nessuna traccia, invece, dello zio, anche se si pensa che sia in Europa. I cinque sono indagati per omicidio per il quale, secondo il procuratore, "c'è la premeditazione".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
Saman Abbas, il fratello confessa: "Strangolata dallo zio". Il video che incastra la famiglia. Libero Quotidiano il Il fratello di Saman Abbas crolla davanti ai carabinieri e racconta l'omicidio nei minimi dettagli. La ragazza di origine pakistana è stata uccisa perché si opponeva al matrimonio combinato con un cugino. E' stata strangolata dallo zio Danish e il padre dopo che ha saputo che la figlia Saman era stata ammazzata quasi sviene e scoppia a piangere. Un racconto sconvolgente quello del fratello sedicenne della ragazza sparita nel nulla a Novellara pubblicato su la Gazzetta di Reggio e ripresa dal Corriere che mostra anche un frame del video che incastra tutta la famiglia. Danish Hasnain, 33 anni, è accusato dalla Procura di avere ucciso Saman nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio. Dalle immagini riprese dalle telecamere si vede che si muove con freddezza e lucidità, facendo attenzione a non farsi riprendere. "Ora andate a casa, ora ci penso io", dice ai genitori della diciottenne, Shabbar, 46 anni, e Nazia Shaheen, 47. "Tutto avviene sotto gli occhi del minorenne", scrive Tiziano Soresina. Il padre si sente male, ma al tempo stesso non può permettersi pentimenti, perché teme che Danish possa sterminare tutta la sua famiglia. Per quello si erano rivolti a lui, per "risolvere" il problema di quella figlia ribelle "cocciuta e grintosa", secondo le assistenti sociali, determinata a opporsi alle nozze forzate Quando Danish torna a casa, il fratello capisce che l'ha strangolata perché non ha nulla in mano. Dopodiché i genitori scappano in Pakistan mentre il sedicenne resta qualche giorno solo con lo zio a Novellara. Anche Hasnain avrebbe mostrato segni di cedimento, piange per l'uccisione di Saman ma minaccia il giovane di non dire nulla ai carabinieri altrimenti ammazza pure lui. E non gli dice nemmeno dove sia seppellita sua sorella.
L'indagine sulla 18enne "scomparsa" a Novellara. Saman Abbas, il racconto del fratello: “Strangolata, papà in lacrime”. Spuntano le foto di zio e cugini con le pale. Fabio Calcagni su Il Riformista il 7 Giugno 2021. Un quadro indiziario che si va compendo e che lascia sempre meno dubbi sulla morte di Saman Abbas, la 18enne pachistana scomparsa da Novellara, nella Bassa Reggiana, da ormai più di un mese. Per la Procura, come noto, la ragazza è stata uccisa perché si era rifiutata di convolare a nozze islamiche combinate dai genitori, Shabbar e Nazia Shaheen, 43 e 46 anni, già denunciati lo scorso gennaio dai dai carabinieri per costrizione o induzione al matrimonio. I due avevano tentato di far sposare la figlia, all’epoca minorenne, con un cugino connazionale. L’ultima riguarda i tre fotogrammi diffusi dai carabinieri tratti dal video in cui si notano tre persone, munite di pale e secchio, dirette verso i campi sul retro della casa di Novellara la sera del 29 aprile scorso, quando di Saman non si hanno avuto più notizie, per rientrare quindi dopo oltre due ore. Sono queste immagini ad aver spinto gli inquirenti ad indagare per omicidio e non solo per sequestro di persona, reato per il quale era stato inizialmente aperto il fascicolo, scrive la Gazzetta di Reggio Emilia. Attualmente il padre Shabbar è tornato in Pakistan: nei giorni scorsi intervistato dal Resto del Carlino aveva riferito che la figlia “sta in Belgio” e che una volta rientrato in Italia avrebbe chiarito tutto con i carabinieri. Ipotesi questa smentita dalla procura di Reggio Emilia che, tramite la ‘reggente’ Isabella Chiesi, ha spiegato che la ragazza non si trova all’estero. Tramite il servizio di Cooperazione internazionale, istituito dal ministero dell’Interno, infatti, la polizia belga ha svolto alcune verifiche e a seguito di indagini e accertamenti ha confermato l’assenza della ragazza sul territorio. Inoltre, in base a quanto confermato da alcune fonti investigative, un conoscente della 18enne, residente in Belgio, sentito dalle autorità locali, ha confermato di non vederla da tanto tempo. Secondo Chiesi potrebbe essere stata abbindolata dai familiari, che ora risultano indagati per la sua sparizione: “Credo si possa pensare che l’abbiano, per così dire, abbindolata facendole credere che avevano il biglietto per loro stessi e non per lei e che fosse certa di non dover andare in Pakistan. Questo, forse, l’ha rassicurata per tornare”, ha spiegato il procuratore. Attualmente sono quindi cinque gli indagati: i genitori, due cugini e uno zio. A tutti è contesta la premeditazione per l’omicidio di Saman.
IL VERBALE DEL FRATELLO – Proprio il quotidiano locale pubblica oggi il riassunto del verbale del fratello 16enne di Saman, il racconto che fece ai carabinieri il giorno dopo essere fermato ad Imperia. Un racconto dal quale emerge il ruolo fondamentale dello zio di Saman, Danish Hasnain, l’uomo di 33 anni accusato dalla Procura di avere ucciso la nipote. Il tutto “avviene sotto gli occhi del minorenne”, riferisce la Gazzetta di Reggio: ma anche il padre di Saman si sente male dopo l’omicidio, non potendo però manifestare pentimenti perché ritiene Danish capace di sterminare la famiglia. Il verbale del 16enne evidenzia anche un secondo punto chiave per la Procura: quando lo rientra in casa non ha più nulla in mano, da questo il ragazzo immagina che la sorella sia stata uccisa con lo strangolamento.
LE MINACCE – Quando i genitori di Saman ‘scappano’ in Pakistan, il sedicenne resta nella casa di Novellara con lo zio. In quei giorni anche Danish mostra, secondo il racconto del fratello di Saman, segni di pentimento arrivando anche a piangere e a rincuorare il ragazzo. Ma al pentimento Danish aggiunge anche le minacce: lo zio ricorda al 16enne che non dovrà dire nulla ai carabinieri o ucciderà anche lui.
L’ESTRADIZIONE DEL CUGINO – Si attente invece l’estradizione di Ikram Ijaz, il cugino di Saman arrestato dalla polizia francese a Nimes, su indicazioni dei carabinieri. La Procura vuole chiarimenti sulla sua posizione e sul suo ruolo nelle vicenda: il fratello di Saman aveva infatti spiegato che il giorno precedente la scomparsa-delitto, anche Ikram affiancò lo zio Danish Hasnain nei preparativi dell’omicidio.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Claudia Guasco per "il Messaggero" il 7 giugno 2021. Saman sapeva di essere una vittima designata. Perché a casa, un giorno, sente parlare di omicidio considerato l'unica «soluzione» per le donne che non si attengono alle regole di vita del Pakistan. Il presentimento sorge nitido: «Parlano di me», rivela al fidanzato. La fine, terribile, è rivelata da una frase dello zio in un messaggio a un amico: «Il lavoro è stato fatto bene». Il quadro della scomparsa nel reggiano della diciottenne pachistana Saman Abbas lascia sempre meno spazio alla speranza di ritrovarla in vita: dopo le immagini di una videocamera di sorveglianza, è dai dettagli di alcune chat che arrivano nuovi tasselli che rafforzano l'ipotesi di omicidio. Un messaggio è quello dello zio Danish Hasnain, 33 anni, che si lascia sfuggire la confidenza di un «lavoro ben fatto», l'altro è un audio della stessa Saman riferito dal fidanzato ai carabinieri. La ragazza gli avrebbe confidato di aver sentito la madre parlare dell'omicidio come unica «soluzione» per una donna che non si adegua alle abitudini pachistane: «L'ho sentito con le mie orecchie, ti giuro che stavano parlando di me», racconta terrorizzata. Saman avrebbe anche affrontato direttamente la madre chiedendo spiegazioni, ma la donna ha negato. È il 30 aprile e Saman, stando a quanto trapela dalle dichiarazioni del suo ragazzo, è sconvolta e ha paura. Non è una data qualunque perché secondo ipotesi investigative sarebbe stata uccisa proprio quella sera. I genitori di Saman, lo zio Danish e due cugini sono indagati dalla Procura di Reggio Emilia per omicidio. Sono tutti irreperibili tranne un cugino, Ikram Ijaz, fermato nei giorni scorsi a Nimes, in Francia, e del quale si attende l'estradizione. I coniugi Abbas sono volati in Pakistan a inizio maggio. Lo zio e l'altro cugino della ragazza sono in fuga, si presume in Europa. Datato 30 aprile è uno dei video al vaglio degli inquirenti estrapolati dalla telecamera di videosorveglianza nei pressi dell'abitazione della famiglia Abbas. I filmati decisivi sono due: uno in cui si vede Saman uscire di casa con uno zaino insieme ai familiari, senza fare ritorno. A oggi è l'ultimo suo avvistamento. Poi ci sono altre due immagini in cui il padre rientra a casa e con sé ha lo zaino che prima era in spalla alla figlia. Un altro filmato chiave risale alla sera del giorno prima, il 29 aprile: tre persone, poi identificate in zio e cugini indagati, si dirigono nei campi sul retro della casa con due pale, un secchio con un sacco azzurro e un piede di porco. Fanno rientro dopo due ore. I carabinieri pensano che i tre abbiano preparato la fossa per l'occultamento del cadavere. Il giorno dopo Saman sarebbe stata accompagnata con una scusa o false rassicurazioni dallo zio, che poi l'avrebbe ammazzata. Decisive saranno la testimonianza del cugino fermato in Francia e l'audizione di un minore informato dei fatti, attualmente in una comunità protetta. È lui che avrebbe puntato il dito contro lo zio di Saman come esecutore materiale del delitto. I carabinieri del Nucleo investigativo e dei colleghi della stazione di Novellara stanno cercando ormai da giorni, senza sosta, il corpo di Saman nelle campagne della bassa reggiana. Stanno passando al setaccio i campi dietro la casa e l'azienda agricola dove lavorava la famiglia Abbas. Una zona di pozzi e canali vasta e difficile, presto gli strumenti tecnologici sostituiranno i cani molecolari.
Alessandro Fulloni per corriere.it il 7 giugno 2021. L’ipotesi assai concreta dello strangolamento, il padre che dopo che viene a sapere che la figlia Saman è stata uccisa quasi sviene e scoppia a piangere, la spietatezza dello zio Danish che pianifica il feroce delitto ma che poi anche lui ha un cedimento, e piange nei giorni successivi. Il racconto che il fratello sedicenne della ragazza sparita nel nulla a Novellara fece ai carabinieri il giorno dopo essere fermato ad Imperia è sconvolgente. Parole che fanno quasi sembrare di assistere in presa diretta all’omicidio. È la Gazzetta di Reggio a pubblicare nell’edizione odierna il riassunto del verbale.
La freddezza spietata di Hasnain. Danish Hasnain, l’uomo di 33 anni accusato dalla Procura di avere ammazzato Saman, in quella terribile notte tra il 30 aprile e il 1° maggio si muove con freddezza, facendo attenzione a non farsi riprendere dalle telecamere. «Ora andate a casa, ora ci penso io» dice a un tratto ai genitori della diciottenne, Shabbar, 46 anni, e Nazia Shaheen, 47. «Tutto avviene sotto gli occhi del minorenne» scrive il cronista Tiziano Soresina. Il padre si sente male, ma al tempo stesso non può permettersi pentimenti, perché ritiene Danish capace di sterminare la famiglia. Del resto proprio a lui si erano affidati per risolvere il problema della figlia — «cocciuta e grintosa» secondo le assistenti sociali —, determinata a opporsi al matrimonio combinato da Shabbar in famiglia. Quando Danish rientra in casa, non ha nulla in mano, da questo il sedicenne deduce che la sorella sia stata uccisa con lo strangolamento.
Anche lo zio piange, ma non rivela dove sia seppellita. Dopo che i genitori spariscono, rientrando in Pakistan, il sedicenne resta per qualche giorno solo con lo zio a Novellara. Anche Hasnain avrebbe mostrato segni di cedimento, arrivano a piangere e cercando — scrive sempre la Gazzetta — di rincuorare il ragazzo disperato per l’uccisione della sorella. Ma Danish sfodera anche la minaccia. E gli ricorda che non deve dire nulla ai carabinieri sennò ammazza pure lui. E non gli dice nulla nemmeno quando il ragazzino gli chiede dove sia seppellita Saman, perché vorrebbe andare a trovarla un’ultima volta prima di fuggire.
Le minacce anche. Ma poi c’è anche l’altro racconto, quello che fa il fidanzato di Saman agli investigatori del Reparto operativo diretto da Stefano Bove. Si è già detto che poco prima che la ragazza venga uccisa lei messaggia con lui con il cellulare della madre, preso a sua insaputa. Saman la ascolta mentre parlano di lei, della sua uccisione. Esce allora della sua cameretta, chiede spiegazioni direttamente a Nazia, che ovviamente nega, replica di essersi riferita a un episodio simile avvenuto in Pakistan tempo prima. La ragazza non ci crede. «L’ho sentito con le mie orecchie, ti giuro che stavano parlando di me», prosegue con il fidanzato. Al quale aggiunge: «Non sono fiduciosa», «se non mi senti per 48 ore avverti le forze dell’ordine». Dalle carte si scopre anche che il ragazzo era stato minacciato dal clan Abbas. Addirittura l’atteggiamento intimidatorio era rimbalzato anche ai suoi familiari in Pakistan. E anche il fratello sedicenne si era scatenato a parole contro di lui.
L’estradizione del cugino. Sul fronte giudiziario, è attesa l’estradizione di Ikram Ijaz, preso a Nimes dalla polizia francese su indicazione dei carabinieri. Sa dov’è il cadavere della povera Saman? Dovrà chiarirlo, dato che il fratello della 18enne dice che il giorno precedente alla terribile notte affiancarono Hasnain nei preparativi del delitto, quelli ripresi dalle telecamere di sorveglianza mentre si dirigevano in campagna con degli attrezzi. Servivano per scavare la buca dove seppellire Saman.
A. Full. Per il "Corriere della Sera" l'8 giugno 2021. Un uomo violento, capace di terrorizzare l'intera famiglia Abbas. E soprattutto determinato a occuparsi della punizione per Saman, «colpevole», ai suoi occhi, di essersi allontanata dai precetti dell'Islam. Ecco chi è Danish Hasnain, il 33enne pachistano ricercato in tutta Europa per l'omicidio della nipote. Con ogni probabilità si trova in Francia, più difficile che sia arrivato in Svizzera o in Spagna. «Ma è soltanto questione di tempo, non ha scampo» dicono gli investigatori. Braccato, Hasnain non ha la possibilità di usare un cellulare ed è senza automobile. Del resto, nessuno ne possedeva una nella folta famiglia pachistana stabilitasi a Novellara, nel Reggiano, per lavorare in campagna. «È complicato per lui cercare aiuti» osserva un carabiniere del Reparto operativo diretto da Stefano Bove che gli sta dando la caccia in collaborazione, soprattutto, con la polizia francese che già ha arrestato un altro dei cugini fuggitivi, Ikram Ijaz, per il quale è stata concessa l'estradizione. Danish Hasnain non aveva precedenti, di lui si sa solo che «era un bravo lavoratore», a detta dei diversi titolari delle aziende agricole che qui nel Reggiano lo avevano avuto alle loro dipendenze senza mai doversi lamentare. Le carte dell'ordinanza però restituiscono la figura di un uomo violento. Secondo quello che ha raccontato il fratello sedicenne di Saman ai carabinieri, in famiglia contestavano alla ragazza la sua «ostinazione» che la portava a scontrarsi con i genitori e soprattutto con lo zio, musulmani osservanti. Pare che Hasnain avesse insistito più volte sul fatto che la nipote «non rispettava gli obblighi religiosi del Ramadan». Poi c'era quel no alle nozze organizzate in Pakistan con un cugino che per gli adulti di casa era inaccettabile. Dall' ordinanza si intuisce che la sorte prevista dai familiari per la 18enne fosse quella del ritorno in Pakistan. «Un sequestro», si legge nel documento. Perché se fosse rimasta qui la volontà della giovane era chiara: sognava una vita con il fidanzato, voleva studiare, diplomarsi a scuola e viaggiare. Ma, con il tempo, questa prima ipotesi del «rientro» forzato in Pakistan è rientrata. Hasnain aveva deciso diversamente: voleva «punire» la nipote con la morte. Volontà di cui il padre Shabbar deve aver preso consapevolezza lentamente, senza però essere in grado di opporsi, soprattutto negli ultimi terribili giorni che hanno preceduto l'omicidio della figlia. Che Hasnain stesse premeditando il delitto lo sapevano anche altri familiari in Pakistan. Lo conferma la telefonata in cui, a una donna con cui è in grande intimità, l'uomo parla di «un lavoro ben fatto». Subito dopo il pachistano la chiama «dolce mia». E lei a questo punto gli suggerisce di cominciare a orchestrare il castello di menzogne che serviranno a metterlo al riparo dai sospetti quando sarà chiaro che Saman a Novellara non c' è più. «Tu dirai che lei è partita per il Pakistan?» dice la voce femminile. E l'uomo risponde: «Sì». Poi si lascia un po' andare: «Ho tanta paura». Dalle carte emerge anche che dall' 11 aprile, giorno in cui Saman ha fatto rientro a casa forse per cercare un'impossibile riconciliazione con i genitori, la ragazza ha vissuto sostanzialmente come una reclusa. Trovando però ancora il coraggio (dopo che a ottobre si era rivolta ai Servizi sociali per opporsi al matrimonio combinato) di denunciare il padre, il 22 aprile, presso la stazione dei carabinieri di Novellara, perché non voleva restituirle la carta d' identità. Non solo. Si scopre che Shabbar «spesso la chiudeva fuori casa obbligandola a dormire sul marciapiede». Come ha spiegato agli inquirenti il titolare dell'azienda agricola di Novellara dove lavoravano gli Abbas, dal ritorno a casa Saman non era stata più vista in giro e anzi, «stava sempre dentro, non parlava con nessuno e usciva solo per fare qualche passo, accompagnata sempre dalla madre». Quanto a Shabbar e a sua moglie, ieri la procuratrice Isabella Chiesi ha detto che sta per essere perfezionata la rogatoria. La coppia qui in Italia ha un avvocato d' ufficio, il reggiano Simone Servillo. Il legale ha scritto a Shabbar un messaggio su WhatsApp. «Gli ho detto di chiamarmi. So che lo ha letto, c' è la spunta verde sul telefonino».
Alessandro Fulloni per il "Corriere della Sera" l'8 giugno 2021. Di questo omicidio premeditato «ora vi dico tutta la verità. Mio zio Danish ha ucciso Saman. Ho paura di lui, perché mi ha detto che se io avessi rivelato ai carabinieri quanto successo, mi avrebbe ammazzato. Ho pensato anche di ucciderlo mentre dormiva, visto ciò che ha fatto. Ma poi ho pensato che sarei finito in prigione. Ed era meglio che intervenissero i carabinieri». Siamo in un giorno di metà maggio e il fratello sedicenne di Saman Abbas, davanti alla Procura minorile di Bologna, agli assistenti sociali e ai carabinieri reggiani, spiega come è stata uccisa sua sorella. Qualche giorno prima, il 9, era stato fermato durante un controllo in provincia di Imperia. Tentava di scappare verso la Francia. Sprovvisto di documenti, era stato portato in una struttura d' accoglienza minorile. Dopo l'identificazione, le prime mezze ammissioni che hanno dato il via all' indagine per omicidio, «e notti agitatissime», è stato trasferito in un centro protetto. Il racconto agli investigatori di quanto accaduto nella campagna di Novellara, dove viveva tutto il folto clan degli Abbas, è sconvolgente. La mezzanotte del 1° maggio è passata da nove minuti. Questa è l'ora in cui Saman esce di casa, anzi scappa. Prima c' è stata una furibonda lite con il padre Shabbar, 46 anni, e la madre Nazia Shaheen, 47. La ragazza ha preteso i documenti rimasti in loro possesso dopo che, per essersi opposta al matrimonio combinato in Pakistan, i servizi sociali di Novellara l'hanno trasferita in un centro protetto. La carta d' identità le servirebbe per viaggiare, progettare una vita, magari proprio con il fidanzato, un connazionale ventunenne residente in Italia, con il quale in quegli istanti sta chattando, raccontandogli tutto - urla, parolacce - in «presa diretta». È in quel momento che compare lo zio, Danish Hasnain. «È arrivato da dietro le telecamere - racconta il fratello di Saman - perché lui sapeva dov'erano posizionate». Per non farsi vedere l'uomo arriva «dalle serre». E il ragazzo lo sente gridare ai genitori queste parole: «Andate in casa! Ora ci penso io». Il sedicenne è in cucina, al pianterreno: «Mio padre - dice - è rientrato a casa con lo zaino di Saman, quello di colore avorio che lei aveva sulle spalle quando è uscita. Lo zio ha detto a papà di portarlo in casa e di nasconderlo senza farlo vedere alle telecamere». Una volta rientrato, Shabbar «si è sentito male e ha pianto». Ma è impossibile opporsi alla ferocia dello zio, temuto da tutti gli Abbas: «Se mio papà avesse detto ai carabinieri quanto avvenuto, lui ci avrebbe uccisi». Come sia stata ammazzata Saman non è ancora chiaro. «Lo zio a me non l'ha detto - prosegue il sedicenne -, non l' ha detto nemmeno quando è arrivato a casa. Se lo avesse fatto mio padre si sarebbe tolto la vita. Secondo me l'ha ammazzata strangolandola, perché quando è entrato non aveva nulla in mano». Allora il ragazzo chiede allo zio dove è seppellita la sorella «perché avrei voluto abbracciarla un'ultima volta». Ma anche questo gli è negato, Hasnain gli risponde: «Non te lo posso dire». Ieri la procuratrice Isabella Chiesi che coordina l'indagine ha parlato di «omicidio premeditato» forse da prima del 26 aprile, la data in cui lo zio ha acquistato i biglietti aerei ai genitori di Saman, assicurando loro la fuga in Pakistan avvenuta ai primi di maggio con un volo da Malpensa. A confermarlo è lo stesso fratello della ragazza: «Lui aveva pensato a tutto, approfittando del fatto che mia zia non sta bene e c'era da andare a trovarla». Poi c' è il video in cui Hasnain e i due cugini Ikram Ijaz, 28, e Nomanulhaq Nomanulhaq, 33, vengono ripresi la sera del 29 aprile mentre escono di casa con le pale servite forse per scavare la fossa in cui seppellire la giovane. Il sedicenne - che aveva notato lo «strano comportamento» dei tre - prova a seguirli ma, si legge nei verbali, «viene respinto e rimandato a casa». Ma perché è stata uccisa Saman, che nei social usava l'account «italiangirl»? Nell' ordinanza con cui chiede l'arresto per omicidio volontario dei cinque componenti del clan Abbas, il gip Luca Ramponi parla di uccisione «per punirla dell'allontanamento dai precetti dell' Islam e per la ribellione alla volontà familiare, nonché per le continue fughe di casa».
E la madre? Dalle carte emerge un particolare agghiacciante: dal Pakistan, invia messaggi al figlio minore rimasto a Novellara. Ecco la sua preoccupazione: «Se ti chiedono qualcosa tu devi dire che Saman è partita».
Saman Abbas, le intercettazioni-choc: "Smette di essere musulmana? Sepolta viva fino alla testa e uccisa a sassate". Libero Quotidiano l'8 giugno 2021. La vicenda della sparizione di Saman Abbas, la ragazza 18enne originaria dal Pakistan, scomparsa da oltre un mese a Novellara in provincia di Reggio Emilia, assume sempre più nettamente i contorni di un brutale omicidio. Nelle intercettazioni dei familiari emerse dall'ordinanza di applicazione coercitiva nei confronti dello zio, dei genitori e dei cugini della ragazza e pubblicate dalla Nazione, emergono infatti nuovi dettagli che spingono sempre di più gli inquirenti a pensare che dietro alla scomparsa ci siano i familiari. E comunque di "scomparsa" si è ancora costretti a parlare, perché il corpo della giovane Saman non è ancora stato ritrovato. Ma le frasi pronunciate dai familiari lasciano intendere purtroppo una tragica fine della giovane Saman. "Quando una ragazza smette di essere musulmana viene uccisa tramite lapidazione": questa solo una delle frasi emerse dall'ordinanza. A novembre del 2020, la ragazza era scappata da casa per trovare rifugio in una comunità. Alla base di questa decisione ci sarebbe stato il rifiuto di voler sposare suo cugino, in un matrimonio combinato dai suoi genitori. Arrivata in Italia, Saman ha iniziato a sentirsi sempre più vicina alla cultura occidentale, piuttosto che quella musulmana. I familiari non sopportavano il fatto che la figlia non rispettasse il Ramadan, avesse iniziato a truccarsi e a comportarsi come qualsiasi altra ragazza della sua età. Poi il matrimonio combinato alle spalle della ragazza e la fuga di Saman che era diventata persino "vittima di violenze e coercizioni da parte del padre". Lo stile di vita poco "ortodosso" della ragazza era visto di cattivo occhio da parte dei familiari, in particolare del padre: "Indubbiamente che nella famiglia della giovane, la irrequietezza e inosservanza dei precetti tradizionali e religiosi fosse vissuta come estremamente problematica e offensiva dell'onore famigliare", recita un estratto dell'ordinanza. A confermare le ipotesi degli inquirenti anche la posizione del fratello minore (16 anni) di Saman che, intercettato, afferma: "Nella nostra cultura, va bene quando una ragazza scappa di casa, ma quando smette di essere musulmana lei viene uccisa". E ancora: "Lei era musulmana, ma non si comportava come tale". Il 16 enne ha poi raccontato un episodio che fa accapponare la pelle e che porta gli investigatori a pensare che Saman non sia purtroppo più in vita: "Nel nostro Corano c'è scritto che se uno smette di essere musulmano, deve essere sepolta viva con la testa fuori dalla terra e poi uccisa con lancio di sassi contro la testa. In Pakistan viene fatto - sostiene il ragazzo -. Nel Corano è scritto così, ma io non l'ho mai visto. Tutti i miei parenti mi raccontano queste cose". Le tracce portano tutte allo zio di Saman. Danish Hasnain, ricercato in tutta Europa. La ragazza non sarebbe stata lapidata, ma strangolata, secondo quanto emerge dalle dichiarazioni del fratello: "Secondo me l'ha uccisa strangolandola, perché quando è venuto a casa non aveva nulla in mano". Oltre allo zio, sono al centro delle indagini anche i genitori di Saman, Sahabbar Abbas e Nazia Shaheen, e i suoi due cugini.
Saman Abbas, "violento" e "temuto da tutti": chi è Danish Hasnain, ricercato in tutta Europa per l'omicidio della nipote. Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. E' un uomo violento Danish Hasnain, il 33enne pachistano ricercato in tutta Europa per l'omicidio della nipote, Saman Abbas, che si era opposta in famiglia a un matrimonio combinato. A quanto pare l'avrebbe uccisa perché "colpevole", secondo lui, di essersi allontanata dagli insegnamenti della sua religione, l'Islam. La famiglia della ragazza, residente a Reggio Emilia, si sarebbe rivolta allo zio per dare "una punizione" alla giovane ribelle. "Solo questione di tempo, non ha scampo": gli investigatori che si stanno occupando del caso non hanno dubbi. Probabilmente, come scrive il Corriere della Sera, l'uomo si trova in Francia. Ma chi è Danish Hasnain? Non aveva precedenti ed "era un bravo lavoratore", stando alle parole di diversi titolari delle aziende agricole che nel Reggiano lo avevano avuto alle loro dipendenze. Le carte dell'inchiesta, invece, dipingono un uomo completamente diverso. Molto violento. A confessare quanto accaduto in famiglia è stato il fratello più piccolo di Saman: il 16enne ha spiegato che l'ostinazione della sorella la portava spesso a scontrarsi con i genitori e con lo zio, tutti musulmani osservanti. E che lo zio fosse temuto da tutti. Pare che Hasnain avesse insistito più volte sul fatto che la nipote "non rispettava gli obblighi religiosi del Ramadan". Per non parlare poi del rifiuto delle nozze organizzate in Pakistan con un cugino. Inizialmente si era pensato a una sorta di "sequestro", un "rientro forzato" in Pakistan. Poi si è arrivati al tragico epilogo. Saman, infatti, non voleva sposarsi, voleva stare col proprio fidanzato, studiare, diplomarsi e viaggiare. A quanto pare, inoltre, il delitto dello zio sarebbe stato premeditato, come dimostra una telefonata a una donna in Pakistan, con cui ha parlato di un "lavoro ben fatto". "Tu dirai che lei è partita per il Pakistan?", avrebbe detto la voce femminile. E l'uomo avrebbe risposto "Sì", per poi lasciarsi andare e confessare: "Ho tanta paura".
Saman Abbas, il fratello confessa: "Strangolata dallo zio". Il video che incastra la famiglia. Libero Quotidiano il 07 giugno 2021. Il fratello di Saman Abbas crolla davanti ai carabinieri e racconta l'omicidio nei minimi dettagli. La ragazza di origine pakistana è stata uccisa perché si opponeva al matrimonio combinato con un cugino. E' stata strangolata dallo zio Danish e il padre dopo che ha saputo che la figlia Saman era stata ammazzata quasi sviene e scoppia a piangere. Un racconto sconvolgente quello del fratello sedicenne della ragazza sparita nel nulla a Novellara pubblicato su la Gazzetta di Reggio e ripresa dal Corriere che mostra anche un frame del video che incastra tutta la famiglia. Danish Hasnain, 33 anni, è accusato dalla Procura di avere ucciso Saman nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio. Dalle immagini riprese dalle telecamere si vede che si muove con freddezza e lucidità, facendo attenzione a non farsi riprendere. "Ora andate a casa, ora ci penso io", dice ai genitori della diciottenne, Shabbar, 46 anni, e Nazia Shaheen, 47. "Tutto avviene sotto gli occhi del minorenne", scrive Tiziano Soresina. Il padre si sente male, ma al tempo stesso non può permettersi pentimenti, perché teme che Danish possa sterminare tutta la sua famiglia. Per quello si erano rivolti a lui, per "risolvere" il problema di quella figlia ribelle "cocciuta e grintosa", secondo le assistenti sociali, determinata a opporsi alle nozze forzate Quando Danish torna a casa, il fratello capisce che l'ha strangolata perché non ha nulla in mano. Dopodiché i genitori scappano in Pakistan mentre il sedicenne resta qualche giorno solo con lo zio a Novellara. Anche Hasnain avrebbe mostrato segni di cedimento, piange per l'uccisione di Saman ma minaccia il giovane di non dire nulla ai carabinieri altrimenti ammazza pure lui. E non gli dice nemmeno dove sia seppellita sua sorella.
"Da noi quelle così vengono lapidate". Cosa c'è dietro la morte di Saman. Francesca Bernasconi l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. Il racconto agghiacciante del fratello di Saman negli stralci dell'ordinanza: "Se una ragazza smette di essere musulmana viene uccisa". "Quando una ragazza smette di essere musulmana viene uccisa", tramite lapidazione. Parole agghiaccianti, che emergono dall'ordinanza di applicazione coercitiva, pubblicata dalla Nazione, emessa nei confronti dei genitori, dello zio e dei cugini di Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa da Novellara (Reggio Emilia) più di un mese fa. A novembre del 2020 la ragazza, su sua richiesta, era stata accolta in una comunità, per sfuggire alla famiglia. Saman, dicevano, non rispettava il Ramadan, aveva iniziato a truccarsi, a vivere all'occidentale e si rifiutava di sposare il cugino con cui i genitori avevano già combinato il matrimonio. Anche per questo, la ragazza era "vittima di violenze e coercizioni da parte del padre", tanto da decidere di andarsene. I comportamenti della ragazza non erano visti di buon occhio dai familiari: "Indubbiamente che nella famiglia della giovane, la irrequietezza e inosservanza dei precetti tradizionali e religiosi fosse vissuta come estremamente problematica e offensiva dell’onore famigliare", si legge in uno stralcio dell'ordinanza pubblicata dalla Nazione. A confermarlo è stato il fratello 16enne di Saman che, per primo, ha aperto uno squarcio nel velo che copriva i segreti della famiglia Abbas: "Nella nostra cultura, va bene quando una ragazza scappa di casa, ma quando smette di essere musulmana lei viene uccisa", ha spiegato rispondendo a specifiche domande postegli dagli inquirenti. Ma la 18enne non voleva smettere di seguire la fede musulmana: "Lei era musulmana- continua il fratello- ma non si comportava come tale". Uno sgarbo, questo, punito con una condanna a morte, che prevede un rituale agghiacciante: "Nel nostro Corano c’è scritto che se uno smette di essere musulmano, deve essere sepolta viva con la testa fuori dalla terra e poi uccisa con lancio di sassi contro la testa- ha spiegato il 16enne- In Pakistan viene fatto. Nel Corano è scritto così, ma io non l’ho mai visto. Tutti i miei parenti mi raccontano queste cose". Parole che rendono ancora più concreto il sospetto degli inquirenti, convinti che Saman sia stata uccisa dallo zio Danish Hasnain. Non lapidata, ma strangolata, stando al racconto del fratello della giovane: "Secondo me l’ha uccisa strangolandola, perché quando è venuto a casa non aveva nulla in mano". Insieme allo zio, ricercato in Europa, sono indagati i genitori della ragazza, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, e due cugini.
"Non rispetta il Ramadan". Chi è lo zio-orco di Saman. Ignazio Riccio l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. L’uomo, secondo gli inquirenti, avrebbe punito la giovane donna che, a detta della famiglia, si era allontanata dai dettami dell’Islam. È ricercato in tutta Europa il 33enne pakistano Danish Hasnain, sospettato di aver assassinato la nipote 18enne Saman Abbas. L’uomo, secondo gli inquirenti, avrebbe punito la giovane donna che, a detta della famiglia, si era allontanata dai dettami dell’Islam. Probabile, come riporta il Corriere della Sera, che si trovi in Francia, ma oramai il presunto assassino è braccato dalle forze dell’ordine e presto verrà acciuffato. Appiedato e senza il telefonino è difficile per lui chiedere aiuti, oltretutto uno dei cugini fuggiti, considerati complici, è stato già arrestato ed estradato. Ma chi è Danish Hasnain? Qual è il suo profilo? A Novellara, nel basso Reggiano, era considerato da tutti un ottimo lavoratore; non aveva precedenti di polizia, eppure l’immagine di questi ultimi giorni è quella di un uomo violento e senza scrupoli. Ad aprire uno squarcio nella famiglia di Saman è stato il fratello 16enne della ragazza, il quale ha raccontato ai carabinieri delle continue liti tra la sorella e i familiari. Questi ultimi accusavano la giovane di essere troppo lontana dalle loro tradizioni, di non osservare il Ramadan e di essersi occidentalizzata, una colpa da pagare con il sangue. Poi c’era stato l’incidente più grave: il rifiuto di Saman a sposare il cugino in Pakistan, un affronto imperdonabile per goli Abbas e per lo zio Danish. La 18enne sognava di vivere la sua vita con il fidanzato conosciuto in Italia, di studiare, diplomarsi e viaggiare come una ragazza normale. Ciò, però, non andava bene ai familiari, soprattutto allo zio, il quale avrebbe pensato di punirla in maniera esemplare. L’intenzione di uccidere Saman era arrivata fino in Pakistan, come conferma la telefonata a una donna in cui Danish Hasnain parla di un “lavoro ben fatto”. Dalle carte processuali emergono anche gli ultimi giorni trascorsi a casa dalla 18enne, come una reclusa, seppure aveva avuto il coraggio di denunciare il padre alle forze dell’ordine perché non voleva darle la carta d’identità. Il genitore, a volte, la costringeva a dormire per strada; questa era la punizione per la sua ribellione. Ma questo evidentemente non è più bastato ed ecco perché poi si è giunti all’epilogo tragico della storia.
Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (testo di narrativa per gli istituti secondari di primo grado), edito da Li
Le ultime ore di Saman: "Costretta a dormire sul marciapiede". Mariangela Garofano l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. Dalle ultime rivelazioni delle autorità emergono particolari sempre più scioccanti sull'omicidio della giovane Saman Abbas, uccisa dai familiari, che la costringevano a dormire sul marciapiede fuori casa per punirla, poco prima della sua morte. Diventa sempre più reale l’ipotesi che Saman Abbas sia stata uccisa dai suoi familiari. Come si legge su La Stampa, grazie ai carabinieri di Novellara sono state diffuse delle immagini a dir poco sciocccanti, che mostrano lo zio e i cugini della giovane pakistana la notte tra il 30 aprile e il 1 maggio armati di badile e pala, come fossero in procinto di disfarsi di un corpo. Di Saman si sono perse le tracce proprio quella sera, e ora il video ripreso dalle telecamere di sorveglianza mostrano la ragazza uscire di casa con i genitori alle 00.09. Le stesse telecamere hanno ripreso i genitori della ragazza rientrare in casa alle 00.22, senza la ragazza, ma con il suo zaino. Un omicidio a cui avrebbe preso parte tutta la famiglia di Saman, ma commesso materialmente dallo zio. Ad accusare l’uomo è il fratello di Saman, che si trova ora in una comunità protetta. Il sedicenne si dice certo che a spezzare la vita della sorella sia stato lo zio: "Secondo me l’ha uccisa strangolandola, anche perché quando è venuto a casa non aveva nulla in mano”, ha raccontato tra le lacrime il ragazzo agli inquirenti. Il giovane ha rivelato che quella notte lo zio era in uno stato di profonda agitazione, che aveva “pianto molto” e che avrebbe anche minacciato di morte il nipote se si fosse rivolto alle autorità. Saman era andata via da casa a novembre dello scorso anno per sfuggire ad un matrimonio combinato, ma aveva deciso di tornare dalla sua famiglia l'11 aprile, per recuperare dei documenti. Dalle indagini emerge inoltre la violenza inaudita che la ragazza era obbligata a subìre nei giorni prima della sua morte. Le liti con i familiari erano sempre più accese e da quanto è emerso il padre di Saman "spesso la chiudeva fuori casa, obbligandola a dormire sul marciapiede", lasciando immaginare l'agghiacciante realtà nella quale era costretta a vivere la ragazza. A seguito dei nuovi rilevamenti, sono cinque gli indagati per l'omicidio di Saman: entrambi i genitori della ragazza, fuggiti in Pakistan dopo il delitto, due cugini e infine lo zio, indicato come l'esecutore materiale del terribile omicidio. Il gip di Reggio Emilia, che ha emesso l'ordine di custodia cautelare nei confronti degli indagati, ha affermato che poco prima della sua scomparsa c'era stata una violenta lite tra Saman e i genitori, per via dei documenti che servivano alla giovane per scappare dal suo inferno. Poi la chiamata allo zio: "Saman è andata via di nuovo". "Adesso arrivo", ha risposto l'uomo al padre di Saman lapidario. Una volta tornato a casa, lo zio avrebbe riferito che tutto era stato sistemato e di Saman non si è saputo più nulla. Ciò che si legge nell'ordinanza emessa dal gip Luca Ramponi non lascia dubbi: "é certo che costoro avessero programmato anche di ucciderla per punirla dall'allontanamento dai precetti ell'islam, per la ribellione alla volontà della famiglia, nonchè per le continue fughe di casa".
Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna.
Niccolò Zancan per "la Stampa" il 9 giugno 2021. «Da quando si era fatta donna, non la vedevamo più». Davanti all' azienda agricola di famiglia specializzata in meloni e cocomeri, le parole di Rosanna Bartali sembrano adesso il riassunto esatto di questa tragedia. Da quando si era fatta donna Saman Abbas, 18 anni, non usciva più di casa, non saliva più in bicicletta, nemmeno veniva a salutare i datori di lavoro di suo padre e i loro figli, con cui era cresciuta giocando nello stesso cortile fra le serre e la strada provinciale. Le avevano vietato il telefono, le impedivano di vedere chiunque. Se usciva per fare qualche passo, era sempre accompagnata dalla madre. «Il fratello andava a fare la spesa, scambiava qualche parola. Ma lei no: era come scomparsa». Quando Saman Abbas ha provato a vivere come voleva, ha contemporaneamente decretato la sua condanna a morte. È stato il fratello Ali Haider a spiegarlo ai carabinieri. «Nella nostra cultura, va bene quando una ragazza scappa di casa, ma quando smette di essere musulmana lei viene uccisa. Lei era musulmana, ma non si comportava come tale. Nel nostro corano c' è scritto che se una smette di essere musulmana, deve essere sepolta viva con la faccia fuori dalla terra e poi uccisa con lancio di sassi contro la testa. Nel corano c' è scritto così, ma io non l' ho mai visto. Tutti i parenti mi raccontano questa cosa». Per la sua famiglia, Saman Abbas era stata prima una bambina che poteva giocare con gli altri, poi una donna da segregare in casa, infine un'infedele da lapidare e uccidere. Non voleva andare in Pakistan per il matrimonio combinato. La sera prima della sua scomparsa, era tornata a casa per cercare di riprendersi i suoi documenti. Il fratello Ali Haider ha assistito all' ultimo litigio: «Ho visto che tutti e tre urlavano fra loro. Mia sorella diceva parolacce ai miei genitori. Diceva a mio padre: "Dammi i miei documenti!". Mio padre le diceva di sedersi, di parlare con calma. Ha chiesto a Saman se voleva sposare qualcuno. Lei ha risposto che voleva solo andare via». Ecco cosa è successo, a quel punto, la sera del 30 aprile: «Mio papà, piangendo, ha chiamato lo zio Danish: "Saman è andata via di nuovo". Lo zio ha risposto: "Adesso arrivo!". Quando è arrivato, ha detto così: "Ora andate a casa, ci penso io. Tutti abbiamo paura di zio Danish"». Danish Hasnain è ricercato nel mondo, i genitori di Saman Abbas sono scappati in Pakistan. Anche i due cugini minorenni, secondo il giudice per le indagini preliminari, avrebbero partecipato all' assassinio: «Si sono messi a disposizione per sopprimere Saman Abbas, rea di aver trasgredito i precetti religiosi e disonorato il nucleo famigliare. Dopo averla evidentemente strangolata, ne hanno occultato con estrema perizia il cadavere, dopo aver predisposto tutto quanto la sera precedente». Un femminicidio di famiglia. Un femminicidio premeditato. Ecco cosa stanno facendo, proprio adesso, i carabinieri, fra le serre dei cocomeri e i canali di irrigazioni, ottanta ettari di campagna: predispongono tutto il necessario per il nuovo tentativo che verrà fatto oggi. Stanno ancora cercando il cadavere di Saman Abbas. Lo cercheranno anche con l' aiuto di un «elettromagnetografo», uno strumento in grado di scandagliare il terreno fino a sei metri di profondità. Sarà montato su un drone, che a sua volta verrà fatto volare sopra ai campi coltivati. Saman Abbas aveva denunciato la sua condizione di segregata. Era stata al riparo in una comunità alloggio. Cercava di riappropriarsi del suo passaporto. E adesso, leggendo le carte dell' inchiesta, si sa anche che Saman Abbas aveva capito tutto quello che stava per succedere. Lo aveva sentito dalla bocca di sua madre. Scrive il gip: «La sera fra il 30 aprile e il primo maggio aveva ascoltato la madre che interloquiva con un' altra persona circa le modalità da adottare al fine di obbligarla a attenersi alle regole di vita pakistane, ovvero ucciderla». Quella sera stessa lei si era confidata con il fidanzato Saqib: «Ho chiesto alla mamma: "Cos' è questo?". Lei dice niente, non stiamo parlando di te. Ma ti giuro che ho sentito con le mie orecchie, stavano parlando di me Non sono fiduciosa. Ohi amore, un' altra cosa, a casa non sospettano di te». Oggi lungo la strada provinciale fra Novellara e Reggiolo, trafficata dai camion carichi di frutta e verdura, verranno a cercare il corpo di Saman Abbas, una donna di 18 anni.
Dritto e Rovescio, ira di Paolo Del Debbio per gli ultimi fotogrammi di Saman Abbas: "Sono inca***" Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. "In esclusiva le ultime immagini di Saman Abbas". Paolo Del Debbio apre così la puntata del 10 giugno di Dritto e Rovescio, il programma da lui condotto su Rete Quattro. Un frame che mostra la 18enne pakistana, su la cui morte stanno indagando la famiglia, camminare vestita con la classica veste islamica. Così come avrebbero voluto i genitori. Non lei, però. Proprio la sua ribellione - è la tesi degli inquirenti - avrebbe scatenato l'ira del padre al punto da chiedere al cugino di farla fuori. Una teoria sconvolgente anche per il conduttore che si lascia andare a un lungo e disperato sfogo: "La vedete vestita così Saman, come lei non voleva vestirsi. La giovane pakistana ma residente a Reggio Emilia voleva occidentalizzarsi, al punto che avrebbe voluto farsi chiamare Laila. Io sono molto inc*** perché Saman aveva il diritto dell'autodeterminazione". Eppure non ne ha fatto in tempo. Saman si ipotizza sia stata uccisa dalla famiglia dopo essersi opposta a un matrimonio combinato con un cugino. Saman si era addirittura rivolta agli assistenti social del suo comune, ma è caduta in quella trappola presumibilmente pensata da cugino e padre. Proprio il cugino è stato immortalato assieme a due uomini in un video che lascia ben poco sperare: nelle immagini si vedono i cugini della 18enne muniti di due pale e un secchio, oltre a un sacchetto azzurro e un piede di porco. Le immagini risalgono alla sera del 29 aprile scorso e i tre uomini, secondo gli inquirenti sono diretti verso i campi sul retro della casa di Novellara alla ricerca di quello che sarà il luogo dove seppellire il corpo di Saman.
Da liberoquotidiano.it l'11 giugno 2021. "In esclusiva le ultime immagini di Saman Abbas". Paolo Del Debbio apre così la puntata del 10 giugno di Dritto e Rovescio, il programma da lui condotto su Rete Quattro. Un frame che mostra la 18enne pakistana, su la cui morte stanno indagando la famiglia, camminare vestita con la classica veste islamica. Così come avrebbero voluto i genitori. Non lei, però. Proprio la sua ribellione - è la tesi degli inquirenti - avrebbe scatenato l'ira del padre al punto da chiedere al cugino di farla fuori. Una teoria sconvolgente anche per il conduttore che si lascia andare a un lungo e disperato sfogo: "La vedete vestita così Saman, come lei non voleva vestirsi. La giovane pakistana ma residente a Reggio Emilia voleva occidentalizzarsi, al punto che avrebbe voluto farsi chiamare Laila. Io sono molto inc*** perché Saman aveva il diritto dell'autodeterminazione". Eppure non ne ha fatto in tempo. Saman si ipotizza sia stata uccisa dalla famiglia dopo essersi opposta a un matrimonio combinato con un cugino. Saman si era addirittura rivolta agli assistenti social del suo comune, ma è caduta in quella trappola presumibilmente pensata da cugino e padre. Proprio il cugino è stato immortalato assieme a due uomini in un video che lascia ben poco sperare: nelle immagini si vedono i cugini della 18enne muniti di due pale e un secchio, oltre a un sacchetto azzurro e un piede di porco. Le immagini risalgono alla sera del 29 aprile scorso e i tre uomini, secondo gli inquirenti sono diretti verso i campi sul retro della casa di Novellara alla ricerca di quello che sarà il luogo dove seppellire il corpo di Saman.
Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” l'11 giugno 2021. «Cercheremo di accertare dove e come ha fallito la rete di protezione, e a questo scopo faremo tutte le audizioni necessarie e acquisiremo gli atti». Lo ha detto ieri Valeria Valente, la presidente della Commissione sul Femminicidio e la violenza di genere del Senato, annunciando il via libera dato a un'inchiesta conoscitiva sul caso Saman. La parlamentare del Pd si è detta «sgomenta» per il fatto che «una giovane donna possa rischiare la fine che temiamo» abbia fatto la diciottenne di Novellara, «soprattutto dopo aver cercato di salvarsi, chiedendo ripetutamente aiuto alle istituzioni del nostro Paese». Secondo Valente «in questa Italia, dove Saman aveva scelto di vivere libera, le leggi devono essere applicate fino in fondo e garantire la sicurezza a tutte le donne, di qualunque nazionalità o provenienza». Ecco perché «non bastano dolore e indignazione, e sono inammissibili le strumentalizzazioni politiche. Il legislatore deve interrogarsi e verificare se esista o meno un vuoto normativo». In una nota il gruppo al Senato del Movimento 5 Stelle interviene sul caso di Novellara: «Potremmo essere di fronte a un ennesimo caso di femminicidio che arriva dopo inaudite violenze psicologiche. Pratiche inaccettabili come i matrimoni forzati devono essere combattute sul piano normativo e su quello educativo». Stamane, intanto, Ikram Ijaz, uno dei cinque familiari di Saman indagato per omicidio e occultamento di cadavere, sarà interrogato dal gip Luca Ramponi nel corso dell'interrogatorio di garanzia. Estradato mercoledì dalla Francia, dove era stato fermato il 21 aprile su un Flixbus diretto a Barcellona, ieri il ventottenne ha avuto un lungo colloquio con il suo difensore d' ufficio, l'avvocato Luigi Scarcella. Un incontro in cui è stata definita la strategia difensiva sulla quale il legale ancora non si è pronunciato. Proseguono intanto con il georadar le ricerche del cadavere seppellito, secondo i carabinieri, tra gli 80 ettari dell'azienda agricola per cui lavorava Shabbar Abbas, il padre della ragazza, fuggito in Pakistan assieme alla moglie Nazia con un volo da Malpensa il 1° maggio. Dunque poche ore dopo che Saman sarebbe stata uccisa - secondo la testimonianza del fratello sedicenne - dallo zio Danish Hasnain, ricercato, assieme all' altro cugino della giovane, Nomanulhaq Nomanulahq, pure lui ancora in fuga. L' Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) ha fatto sapere, per bocca della presidente Yassine Lafram, che, «come in altri processi, anche per il caso Saman ci costituiremo come parte civile».
"Senza velo": le ultime immagini di Saman viva. Francesca Galici l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Senza velo, con il telefono in mano e una spalla scoperta: sono queste le ultime immagini di Saman Abbas viva, riprese il 27 aprile e mostrate in esclusiva a Diritto e Rovescio. In esclusiva a Dritto e Rovescio le ultime immagini di Saman Abbas viva, registrate lo scorso 27 aprile da una telecamera di sorveglianza. La giovane pakistana si trovava in compagnia di suo fratello e si stava recando nel casolare dello zio e dei cugini. Il tipico abito del suo Paese che, però, le lasciava la spalla scoperta, telefono in mano e, soprattutto, nessun velo sulla testa, Saman anche in queste immagini dimostra di voler rompere con la cultura del suo Paese per vivere all'occidentale, una voglia di libertà che l'ha però portata alla morte per mano della sua famiglia. Paolo Del Debbio ha deciso di aprire con la sua storia l'ultima puntata di Dritto e rovescio. Ha i capelli raccolti Saman e non sa che quelle saranno le sue ultime ore. Proprio il suo desiderio di integrazione nel nostro Paese, che lei amava, è alla base della decisione dei sipo familiari di toglierle la vita. La giovane pakistana si era ribellata al matrimonio combinato nel suo Paese e voleva vivere un amore libero con il suo fidanzato, suo connazionale. Paolo Del Debbio, davanti alla tragedia di Saman, ha alzato la voce: "La vedete vestita così Saman, come lei non voleva vestirsi. La giovane pakistana ma residente a Reggio Emilia voleva occidentalizzarsi, al punto che avrebbe voluto farsi chiamare Laila. Io sono molto incazzato perché Saman aveva il diritto dell'autodeterminazione". La giovane si sentiva positiva negli ultimi mesi, lo aveva confidato ai suoi amici. Pensava che la sua famiglia avesse finalmente capito la sua voglia di emanciparsi da una cultura che non riconosceva in modo così radicale. Voleva vivere all'occidentale e la sua trasformazione, testimoniata sui social tramite le foto, ne era un esempio. Esprimeva ottimismo con le faccine sorridenti che inviava nelle chat con i suoi amici e stava vivendo un amore vero, non combinato, anche se clandestino contrariamente a quanto per lei deciso dalla sua famiglia con il matrimonio combinato. È uscita di casa per l'ultima con lo zainetto sulle spalle in compagnia dei genitori. Pensava forse di essere condotta alla stazione e, invece, verrà consegnata dai suoi genitori a chi le ha poi tolto la vita. Gli investigatori stanno continuando a scavare nei campi intorno alle abitazioni di famiglia a Novellara per cercare il corpo. Nelle ultime ore sono state individuate alcune anomalie nel terreno e intanto Ikram Ijaz, il cugino di Saman estradato dalla Francia, ha avuto un colloquio di sei ore con il suo avvocato.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Saman, il padre minacciò i genitori del fidanzato: “Sterminiamo tutta la famiglia se non la lasci”. Susanna Picone su Fanpage il 16/6/2021. “Chi l’ha visto?” gli ultimi messaggi tra Saman Abbas, la diciottenne pachistana scomparsa da Novellara, e il fidanzato, un 21enne che vive in un’altra regione. I familiari della ragazza avevano minacciato quelli del giovane: “Se tuo figlio non lascia Saman sterminiamo tutta la famiglia”, la denuncia. Il caso di Saman Abbas torna a "Chi l’ha visto?". Nella puntata di questa sera la trasmissione di Rai3 affronta la vicenda della scomparsa della diciottenne pachistana residente a Novellara (Reggio Emilia) che sarebbe stata uccisa dalla sua stessa famiglia dopo aver detto no a un matrimonio combinato. È emerso un nuovo dettaglio sul fidanzato di Saman, un 21enne pachistano come lei, che il 9 febbraio scorso presentò una denuncia dicendo che il padre della ragazza con altre persone si era presentato a casa dei suoi genitori dicendo: "Se tuo figlio non lascia Saman sterminiamo tutta la famiglia". "Chi l’ha visto?" pubblica anche tanti altri messaggi scambiati tra il giovane, che vive in un'altra regione, e Saman. "Ma perché Dio ha deciso che la mia vita deve essere così? Non so cosa fare, mi scoppia il cervello", diceva la diciottenne scomparsa al fidanzato. "Tu lo sai quanto può essere pericoloso qui per te. Amore, vai dai carabinieri ora", le scriveva lui. "Sì, l'ho pensato", la risposta della ragazza, poco prima di sparire nel nulla.
Saman e il fidanzato parlavano di un futuro insieme
I due ragazzi parlavano di documenti, di sim e cellulari, si promettevano di incontrarsi a Roma per stare insieme, progettavano un futuro insieme. "Lunedì i documenti saranno in mio possesso", diceva lei, "oggi è 30 aprile", risponde lui. Ma poi Saman è sparita nel nulla. Per l'omicidio della ragazza, mentre si cerca ancora il corpo a Novellara, sono indagati padre, madre, zio e due cugini. Saman aveva confidato al fidanzato di aver sentito la famiglia parlare di un omicidio: "Ho sentito che dicono uccidiamola, una cosa del genere. Mia madre mi ha detto ‘Non parliamo di te ma di una ragazza che è scappata in Pakistan'. Non so cosa succederà…". Il fidanzato di Saman, nel momento in cui non ha più avuto sue notizie, si è recato dai carabinieri.
I messaggi della mamma di Saman per farla tornare a casa
Saman Abbas si era opposta a un matrimonio combinato con un parente in Pakistan a fine 2020, e per questo era stata protetta in una comunità, quando era ancora minorenne. Poi però, diventata maggiorenne, era tornata a casa. "Fatti sentire, torna a casa. Faremo come vuoi tu. Ti prego”, i messaggi che la mamma di Saman Abbas le avrebbe scritto per farla cadere in una trappola. La madre avrebbe cercato di far tornare a casa la figlia per mettere in atto il piano stabilito con il resto della famiglia.
"Mi faccio tua madre", minacce choc al fidanzato di Saman. Angela Leucci il 10 Giugno 2021 su Il Giornale. Il fidanzato di Saman dice di aver ricevuto e di continuare a ricevere minacce dal padre della giovane: intanto si attende il ritorno di Shabbar dal Pakistan. La vicenda della scomparsa di Saman Abbas continua ad assumere contorni inquietanti. Mentre gli inquirenti sono alla ricerca del corpo della ragazza, che il fratello dice essere stata uccisa dallo zio, giunge la testimonianza del fidanzato della 18enne pakistana. Nella puntata di ieri sera di “Chi l’ha visto?”, il fidanzato ha raccontato tutto ciò che sta vivendo, oltre ai momenti di dolore per la scomparsa di Saman. Il ragazzo ha raccontato che Saman si stava opponendo al matrimonio combinato con un cugino di 27-28 anni e aveva comunicato alla famiglia di essere innamorata appunto di un coetaneo. La sera del 30 aprile, Saman ha riferito al fidanzatino di aver sentito la famiglia discutere di un’uccisione e gli ha chiesto di avvisare i carabinieri se non si fosse fatta sentire nei due giorni successivi, chiudendo la comunicazione con la frase “Lasciamo fare al destino”. Il 4 maggio il fidanzatino, che vive in un’altra regione, ha contattato i locali carabinieri, che hanno risposto al ragazzo: “Saman sta bene, Saman è a casa sua”. Così il giovane si è rivolto all’avvocato della comunità che ospitava Saman e il giorno dopo i carabinieri di Novellara si sono recati a casa della 18enne, cercando lei e i suoi famigliari e dando inizio alle indagini. Saman intanto era scomparsa da 4 giorni: il padre Shabbar ha affermato che oggi rientrerà in Italia, mentre la figlia si trova a Bruxelles. Ma le telecamere hanno inquadrato immagini inquietanti, delle quali si è parlato molto in questi giorni, e nelle quali si vede anche il passaggio di mano di uno zainetto, che a “Chi l’ha visto?” hanno supposto potesse contenere i documenti che Saman era andata a riprendersi dalla famiglia. La giustificazione di Shabbar è che, nel video in cui si vedono tre uomini con le pale - lo zio e i cugini di Saman - i tre si stavano recando a risolvere un problema di tubi in un fosso a causa della pioggia. Ma il fratello di Saman ha dichiarato agli inquirenti che crede che lo zio la abbia uccisa e che l’uomo l’ha minacciato di morte se avesse parlato. Al ritorno quel 30 aprile, lo zio e il padre di Saman pare abbiano pianto. Shabbar afferma che è in contatto con la figlia attraverso Instagram, ma il profilo di Saman, che utilizzava i social sullo smartphone della madre di nascosto, è fermo da molto tempo. Il fidanzato ha spiegato che Shabbar lo minaccia da mesi attraverso un profilo anonimo su Instagram, scrivendogli: “Mi faccio tua madre”. Il giovane tuttavia ha paura anche perché a febbraio ha dovuto sporgere denuncia: in Pakistan, i suoi famigliari hanno ricevuto una visita intimidatoria, in cui è stato richiesto sotto minaccia che il giovane interrompesse la relazione sentimentale con Saman.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Alessandro Fulloni per corriere.it il 9 giugno 2021. Ikram Ijaz, uno dei due cugini di Saman Abbas arrestato il 29 maggio scorso a Nimes in Francia, è stato consegnato dalla polizia francese ai carabinieri di Reggio Emilia al posto di frontiera di Ventimiglia. L’operazione di estradizione è stata agevolata, spiegano i carabinieri, grazie alla costante collaborazione del Servizio di cooperazione internazionale della polizia criminale del ministero dell’Interno. Ikram Ijaz, 28 anni, era stato catturato dalle autorità di polizia d’Oltralpe dopo un mandato di arresto europeo emesso dal tribunale di Reggio Emilia su richiesta della procura: è indagato nell’inchiesta per omicidio aperta dopo la scomparsa di Saman Abbas, la 18enne pachistana che si oppose a un matrimonio combinato in patria dal padre e dalla madre. Secondo il quadro accusatorio, Ijaz è uno dei tre uomini — assieme allo zio e a un altro cugino di Saman — che la sera del 29 aprile sono stati ripresi dalle telecamere dell’azienda agricola dove lavorava il padre della giovane: avevano due pale, un sacco e un piede di porco. Per gli investigatori questi strumenti sono serviti a preparare una fossa nel terreno per nascondere il corpo della ragazza la cui morte, ipotizzano gli inquirenti, è avvenuta la notte successiva. Ijaz, insieme all’altro cugino Nomanulhaq Nomanulahq, 33, secondo il fratello sedicenne di Saman avrebbe anche aiutato materialmente lo zio Danash Hasnain nell’omicidio. «Dunque, stando a quest’ultima integrativa narrazione — scrive il giudice per le indagini preliminari Luca Ramponi — i due indagati per i quali è oggi richiesta misura cautelare non solo hanno cooperato nella precedente attività di scavo della fossa ma hanno anche aiutato Hasnain nel bloccarla e poi ucciderla». L’arrestato sarà detenuto nel carcere di Reggio e entro 5 giorni è previsto il suo interrogatorio. Dopo la consegna a Ventimiglia di Ikram Ijaz si cercano gli altri latitanti. «I genitori sono in Pakistan e sono ricercati. Rogatoria internazionale? Stiamo attendendo i processi autorizzativi per la richiesta che prima deve seguire un percorso di validazione», ha detto il colonnello del comando provinciale dei carabinieri di Reggio Emilia, Cristiano Desideri. «Continuano a essere ricercati anche lo zio e l’altro cugino attivando i servizi di cooperazione di polizia europea», ha continuato il colonnello. I due latitanti - lo zio Danish Hasnain (ritenuto l’esecutore materiale del delitto) e l’altro cugino Nomanulhaq Nomanhulaq - entrambi protagonisti del video dove disporrebbero la buca per occultare il cadavere il giorno prima del presunto omicidio premeditato - si pensa siano nascosti in Europa. Danish era stato fermato a un controllo ad Imperia il 10 maggio.
Val. Err. per "Il Messaggero" il 10 giugno 2021. Davanti alle autorità francesi ha negato di essere coinvolto nella scomparsa della cugina e non si è opposto all'estradizione, ma adesso Ikram Ijaz, accusato in concorso dell'omicidio di Saman Abbas e dell'occultamento del suo cadavere, è in Italia e dovrà ricostruire davanti ai pm di Reggio Emilia, quelle che i carabinieri e la procura ritengono essere state le ultime ore di vita della ragazza scomparsa nella Bassa Reggiana. Ieri mattina Ijaz è stato consegnato a Ventimiglia, alle autorità italiane. La polizia francese lo aveva fermato il 29 maggio scorso a Nimes, mentre stava cercando di raggiungere alcuni parenti in Spagna a bordo di un Flixbus. In serata è arrivato in carcere a Reggio Emilia, a disposizione della magistratura che nelle prossime ore lo interrogherà. Forse anche oggi. La linea difensiva è quella di negare di essere coinvolto nell'omicidio. Ma anche se la confessione che il pm Laura Galli e i carabinieri sperano di ottenere non arrivasse, Ikram potrebbe dare indicazioni sul punto nel quale, la sera del 29 aprile, il giorno prima della scomparsa della diciottenne, è stata scavata la buca dove sarebbe stata seppellita Saman. L'uomo infatti compare nei fotogrammi delle telecamere di sorveglianza vicina all'abitazione della famiglia Abbas, a Novellara. Assieme allo zio Danish Hasnain, 33 anni, ritenuto l'esecutore materiale dell'omicidio premeditato, e a un altro cugino, il 34enne Nomanulhaq Nomanulhaq, è stato ritratto mentre con pale, piede di porco e un secchio si dirigeva verso i campi. Per prendere le distanze dall'omicidio e difendersi, potrebbe anche sostenere di avere obbedito a un ordine dello zio e di non avere idea del fatto che quella buca sarebbe diventata la tomba della cugina, punita perché rifiutava il matrimonio imposto. Ma anche un'indicazione sul luogo sarebbe un grande passo avanti nelle indagini. Del resto, all'avvocato francese che lo ha difeso davanti alle Corte d'Appello di Nimes, Ikram ha raccontato di avere saputo del lutto solo quando era in Francia. Intanto, lo zio e l'altro cugino sono latitanti e ricercati in tutta Europa, dalla Spagna al Belgio e soprattutto in Francia. Il 10 maggio infatti Danish era stato controllato dalla questura di Imperia, verso il confine transalpino, assieme al fratello sedicenne di Saman. Il ragazzo è stato portato poi in una comunità protetta e ha svelato agli inquirenti che ad uccidere la sorella sarebbe stato lo zio Danish. Ricercati sono anche i genitori - il padre Shabbar, 46 anni, e Nazia Shaheen, 47 anni - rientrati improvvisamente i primi di maggio in Pakistan (come risulta dalle liste d'imbarco a Malpensa, dove invece non figurava Saman) e finiti anche loro indagati per sequestro di persona e omicidio premeditato. Nei loro confronti presto sarà depositata ufficialmente una rogatoria internazionale. Ieri il comandante provinciale dell'Arma Cristiano Desideri ha effettuato un sopralluogo, assieme alla pm, nella zona delle ricerche del corpo a Novellara, attorno alla cascina dove Shabbar, il padre di Saman, lavorava come custode. I cani molecolari delle unità cinofile e un elicottero dei carabinieri hanno continuato a battere le campagne. Gli inquirenti si sono concentrati soprattutto in un punto esatto, tra alcune serre dell'azienda. «Stiamo lavorando su un'area che riteniamo verosimile per poter individuare il corpo della ragazza. Le ricerche sono in corso e auspichiamo un esito risolutivo anche grazie a strumentazioni tecniche come l'elettromagnetometro che mappa in profondità il terreno per poi andare a ricercare le anomalie non conformi ai parametri inseriti nel software di gestione. In base anche alle immagini acquisite della videosorveglianza abbiamo studiato il comportamento degli indagati», ha spiegato il colonnello Desideri.
Alessandro Fulloni per “Il Corriere della Sera” il 12 giugno 2021. Pomeriggio del 22 aprile. Il maresciallo Pasqualino Lufrano, 50 anni, comandante della stazione dei carabinieri di Novellara, è qui, nel cortile davanti alla cascina in cui vive la famiglia pachistana degli Abbas. Davanti ha i genitori di Saman, Shabbar e Nazia, 44 e 48 anni. La ragazza 18enne è un passo indietro. Il padre dice che sua figlia «non vuole parlare con i carabinieri» e aggiunge che in famiglia sono felici di «riaverla a casa. Mia moglie piangeva sempre nel saperla lontana, nel centro protetto. Il matrimonio combinato? Una storia finita, non ci pensiamo più». Lufrano, investigatore di poche parole, attento, nota che sulla ragazza si posano spesso gli occhi di Nazia, troppo spesso. Siccome «non ho visto le condizioni di serenità per parlarle, decido di portarla in caserma, in un contesto più accogliente» racconta ora il militare nel suo ufficio, sotto la foto del capo dello Stato. Conosce Saman dall'estate, da quando scappò da Novellara per andare in Belgio e il padre ne denunciò la scomparsa. Poi l'ha seguita nella denuncia del matrimonio combinato da Shabbar in Pakistan per il 22 dicembre. «Vieni con noi, devi firmare qualche carta» dice con un pretesto il maresciallo a Saman che l'11 aprile ha lasciato volontariamente il centro protetto nel Bolognese dove i Servizi sociali l'avevano trasferita. Lufrano viene a sapere di questo rientro il 20 aprile sera quando i Servizi sociali, diretti dal sindaco Elena Carletti, lo avvertono dicendogli che la giovane forse è a casa. «Appena posso vado a controllare» risponde il maresciallo che intanto ha organizzato il blitz per la cattura di Fernando Russo, un poco di buono che in un bar ha sparato a un uomo che era lì con sua moglie e che poi è fuggito. In caserma, Saman spiega di avere lasciato volontariamente il centro e chiarisce di voler stare a casa. Si sente al sicuro e vuole anche recuperare il suo passaporto che, lei dice, è rimasto in possesso del padre. «Ma io le chiarisco che non mi sentivo tranquillo», racconta il maresciallo. Non che sino a quel momento Saman fosse stata mai in pericolo di vita, questo no, «ma, per come si era comportato in precedenza, con la storia delle nozze, quell'uomo proprio non mi piaceva». La ragazza - «cocciuta e grintosa», nelle dettagliate carte degli assistenti sociali - ribadisce che vuole riprendersi il documento che per Shabbar era andato perduto. Ma perché questa volontà? «Voleva essere libera. E quel documento avrebbe potuto consentirle, lei sperava, di lavorare» dice asciutto il militare, palermitano, nell'Arma «da quando ero 17enne», padre di un figlio di 22 anni e una di 21. Lufrano strappa a Saman la promessa di rientrare nel centro «se avessi accertato che il documento era in possesso dei genitori per appropriazione indebita». Al suo sì, il sottufficiale la riporta a casa e le chiede se può «avvertire anche i servizi sociali». Lei acconsente. L'indomani, il 23 aprile, il maresciallo chiede al pm un decreto di perquisizione a casa degli Abbas. Lo stesso giorno chiama i Servizi sociali, domandando di trovare un posto in una struttura protetta per la ragazza. Gli rispondono che ci vuole tempo, bisogna individuarne una nuova. Sono le regole nel caso sia stata abbandonata quella in cui si era ospiti in precedenza. Il 28 la Procura trasmette il decreto di perquisizione. Il giorno dopo l'assistente sociale che segue Saman comunica a Lufrano di aver trovato un posto: «Ma se ne parla per il 3 maggio». «È possibile prima?» insiste il militare. «No». I servizi sociali dicono di voler «avvertire la famiglia il 3», quando andranno a prendere la ragazza, «per non alterare gli equilibri» tra gli Abbas, sottolineano. E quando, contestualmente, sarà effettuata la perquisizione. Se il passaporto non fosse trovato, c'è la possibilità di duplicarlo, verrà detto a Saman. Che a quel punto potrà scegliere liberamente se tornare nel centro. Ma il 3 in casa gli assistenti sociali trovano soltanto lo zio e il fratello di Saman. I due raccontano che lei è tornata in Pakistan volontariamente. Lufrano non perde un attimo. E avvia le ricerche ipotizzando il sequestro. I giorni passano, ora si cerca un cadavere. Maresciallo, si poteva fare di più? Un sospiro, poi la risposta: «Io so che ho fatto tutto il possibile».
Saman, ora parla il cugino arrestato: "Perché non c'entro nulla". Rosa Scognamiglio l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Il cugino di Saman Abbas si professa innocente: "Non c'entra nulla ed è disposto a collaborare con gli investigatori", spiega il suo legale. "Non c'entra nulla con la sparizione di Saman". Sono le parole di Luigi Scarcella, l'avvocato di Ikram ljaz, uno dei due cugini di Saman Abbas indagati per omicidio premeditato in concorso e occultamento di cadavere. Approdato a Reggio Emilia dalla Francia, a seguito dell'estradizione, il 28enne pakistano ha dichiarato, tramite il suo legale, di essere estraneo alla vicenda pur esprimendo la ferma intenzione di voler collaborare con gli investigatori. La speranza che Ikram, incalzato di mestiere dagli inquirenti, confessasse di aver partecipato al presunto omicidio di Saman fornendo indicazioni utili al ritrovamento del cadavere, sembra destinata a sfumare. Il 28enne, anch'egli di origini pakistane, si professa innocente. "Si è avvalso della facoltà di non rispondere ma ha reso spontanee dichiarazioni, ha detto che non c’entra nulla con la sparizione ma collaborerà con il pm per spiegare i suoi movimenti", ha spiegato l'avvocato Luigi Scarcella, difensore del ragazzo, alle pagine del Corriere della Sera.
Chi è Ikram. Ikram Ijaz è uno dei due ragazzi di Saman che compare nel video della sera antecedente al presunto delitto. Insieme allo zio della 18enne, Danish Hasnain, e all'altro cugino, avrebbe "scavato la fossa" che - verosimilmente - sarebbe servita per seppellire la ragazza il giorno successivo. Ikram Ijaz è stato intercettato a Nimes, dalla polizia francese, il 21 maggio scorso, dopo che su di lui era spiccato un mandato di arresto europeo. Il 28enne era stato fermato mentre tentava la fuga verso la Spagna a bordo di un autobus Flexibus partito da Parigi e diretto a Barcellona. Il 29 maggio, il fermo si era poi tramutato in arresto mentre si trovava in un centro di identificazione per cittadini stranieri. Lo scorso 3 giugno, la Procura di Reggio Emilia ha ottenuto l'okay per l'estradizione e, nella giornata di giovedì 10 giugno, è stato consegnato alle autorità italiane a Ventimiglia. Al fianco di Ijaz nella casa circondariale c’è l’avvocato Scarcella, appunto, al quale ieri il pakistano ha conferito l’incarico di fiducia assieme all’altro legale Domenico Noris Bucchi, che invece si trova al palazzo di giustizia. Ci sarà anche un interprete di lingua “punjabi”. Ijaz era comparso nel video delle telecamere di sorveglianza che lo riprendeva - assieme allo zio e all’altro cugino - mentre con le pale si dirigevano verso i campi, presumibilmente per scavare la buca dove seppellire il corpo, stando a quanto ricostruito dagli inquirenti. In attesa di nuovi risvolti, il prossimo lunedì 14 giugno, sotto il portico di via Saragozza a Bologna, nei pressi del civico 85, si terrà una nuova fiaccolata per Saman. Ad annunciarlo è Arianna Giordano, responsabile per Bologna e provincia dell'associazione culturale Forza civica, vicina alla Lega. "Una fiaccolata per la povera Saman e per tutte le donne la cui libertà, in un modo o nell'altro, viene violata. Non è possibile - spiega Arianna Giordano - integrarsi con chi viola i diritti fondamentali delle persone".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi.
"L'hanno fatto di nascosto", Saman vittima del clan? Angela Leucci il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Saman Abbas ancora non si trova: ecco le ipotesi sulla sua situazione famigliare e le indagini di cui si è parlato ieri sera a "Quarto grado". Si faceva chiamare Laila, voleva essere italiana e sui social il suo nickname era appunto “italian girl”, ragazza italiana. È il ritratto di Saman Abbas che le sue amiche hanno fatto nella puntata di ieri di “Quarto grado”, in cui è stata ospite la giornalista Karima Moual. Gianluigi Nuzzi e i suoi ospiti hanno puntato l’attenzione sul clima famigliare vissuto da Saman, in particolare sul ruolo dello zio, descritto quasi come un capo clan cui tutti, a partire dal fratello Shabbar Abbas, obbedivano. Il giorno prima della scomparsa, Saman è stata vista recarsi a casa dello zio, e l’interrogativo senza risposta di “Quarto grado” è stato: la giovane stava cercando una soluzione pacifica con la sua famiglia? Moual ha parlato di un “contesto in cui c’è una radicale interpretazione dell’Islam”, dato che la religione musulmana non prevede il femminicidio come punizione per le donne che disobbediscono. Ciononostante si continua a parlare per Saman di un presunto delitto d’onore. “L’onore è una gabbia non solo per la famiglia ma anche per la comunità”, ha aggiunto la giornalista, secondo la quale lo zio godeva di un certo rispetto all’interno della famiglia, probabilmente per via di una superiorità economica o culturale rispetto agli altri parenti. Lo zio non è ancora stato trovato, ma di lui ha parlato un conoscente, che nella propria testimonianza ha quasi dato per scontato che Saman, descritta come una brava ragazza che avrebbe voluto studiare, sia stata uccisa dai famigliari: “Quelle cose lì le fanno di nascosto”, ha aggiunto l’uomo, la cui identità è stata celata per tutelarlo. Intanto le ricerche di Saman proseguono. Gli inquirenti stanno valutando anche la possibilità che la ragazza sia stata sepolta nei pressi di un corso d’acqua, il che potrebbe rendere meno efficace il fiuto dei cani molecolari. E mentre è escluso che i presunti responsabili possano averne distrutto il cadavere, si procede anche con l’ausilio di squadre speciali capaci di calarsi nei pozzi. Ma non solo la zona da vagliare è molto vasta, misura svariati ettari, ma ci si chiede se ci siano altri siti in cui cercare il corpo della ragazza. Dalla pagina social di “Quarto grado” un’utente racconta che il nome Saman significa gelsomino: che la 18enne sia stata seppellita sotto una pianta con questo delicatissimo fiore? Ci si augura che uno dei cugini di Saman, che ora è in custodia in Italia, fornisca degli elementi importanti per le ricerche.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Le storie di Quarto Grado 11 giugno 2021, il caso di Saman Abbas, le ultime su Denise Pipitone. Lorenzo Mango l'11 Giugno 2021 su maridacaterini.it. Rete 4 trasmette alle 21.25 circa di questa sera, venerdì 11 giugno 2021, Le storie di quarto grado, condotto da Gianluigi Nuzzi e Alessandra Viero. Il programma di informazione tratta in ogni puntata i più attuali casi di cronaca di rilevanza nazionale. Su tutti, quello della scomparsa e presunta morte di Saman Abbas, giovane di origini pakistane. Non si sa più nulla della ragazza dal 30 aprile scorso; tuttavia le indagini degli inquirenti hanno condotto alla conclusione che, probabilmente, Saman sia stata uccisa da suo zio, con la complicità dei genitori. Saman, infatti, era intenzionata a vivere il più lontano possibile dalla famiglia ultraconservatrice.
Le storie di Quarto Grado 11 giugno, la diretta. Il programma apre sul caso di Saman, giovane pakistana che si ritiene sia stata uccisa dai familiari. E’ ripercorsa la vicenda dall’inizio, quando si pensava la ragazza fosse solo scomparsa, ad oggi, in seguito all’arresto di un cugino di Saman. Che potrebbe aver partecipato all’occultamento del suo cadavere. La famiglia di Saman desiderava che la giovane vivesse in modo estremamente conservatore. Le avevano persino organizzato un matrimonio combinato, che Saman, però, rifiuta. Al che, Saman scappa e trova asilo in una comunità. Poi, torna a casa dai genitori per chiedere loro i documenti che le hanno sottratto. Poi, nessuno sa più niente di lei. Il fidanzato di Saman non riesce a contattarla sui social, nonostante suo padre, ora in Pakistan, affermi che Saman sia in Belgio. E dal Pakistan, i genitori hanno pubblicato, e poi cancellato, un video che riprendeva le immagini di un funerale senza bara.
Potrebbe trattarsi di un caso di Honor Killing, omicidio d’onore, che in Pakistan miete ancora oggi numerose vittime ogni anno. In studio sono presenti ospiti per commentare la vicenda. Fra cui la giornalista Karima Moual. “Bisogna puntare il dito sul contesto in cui quella famiglia vive, non sull’Islam in sè. Questi uomini vivono una cultura Islamica diversa, molto più misogina e patriarcale.” afferma. “In queste famiglie l’onore è importantissimo. Non solo per la famiglia, ma per l’intera comunità.” continua.
Le storie di Quarto Grado 11 giugno, dove si trova il corpo?
Nonostante sia passato molto tempo, e la polizia abbia ricostruito gli ultimi movimenti di Saman e dei suoi parenti, il corpo della giovane ancora non si trova. Tutte le serre nei pressi di casa di Saman sono state setacciate di persona, con cani e droni; inoltre, la polizia ha sondato il terreno con un’apparecchiatura apposita che avrebbe dovuto rilevare la posizione del corpo. Un elettro-magnetometro, spiega la conduttrice Alessandra Viero. Si pensa che i parenti di Saman, consci della telecamera di sicurezza che li riprendeva, abbiano messo in atto un depistaggio per impedire alla polizia di trovare Saman. Solo la testimonianza diretta di un cugino che ha partecipato al fatto potrebbe portare a un’individuazione univoca del luogo della sepoltura. Subito dopo è trasmessa la registrazione della telefonata tra un giornalista de Il Resto del Carlino, e il padre di Saman. Il quale afferma che la figlia è in Belgio, e non ha con sè un numero di telefono, ma solo un account Instagram. Del quale, però, non condivide gli estremi. Intanto si sta predisponendo un mandato di arresto europeo per l’estradizione dei genitori di Saman in Pakistan.
Si approfondisce poi la figura dello Zio di Saman. Che, evidentemente, era una sorta di Capo-Clan, a cui affidarsi in situazioni ritenute delicate, come “il disonore” di Saman.
In studio, intanto, gli ospiti dibattono sulla possibilità di prevedere strumenti integrativi più stringenti per le famiglie di cultura radicale ed estremista. Per scoraggiare episodi simili e il formarsi di Clan Familiari come quello della famiglia di Saman.
Lorenzo Mango. Appassionato di Cinema e Serie TV, di libri e di fumetti, di video e di videogiochi. Di avventure, si può dire riassumendo. Non ama molto dormire, ma a volte lo costringono. Del resto, gli servirebbero delle "vite extra" per seguire tutti i suoi hobby e interessi. Intanto, fa quel che può con quella che ha: scrive, disegna, registra video, ogni tanto mangia. A tal proposito, potrebbe sopravvivere mangiando solo pizza. Se serve, anche pizza estera, quando viaggia. Sì, anche quella con sopra l'ananas.
Gli ultimi giorni di Saman: "Perché è tornata a casa". Valentina Dardari il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Il maresciallo aveva provato a salvare la 18enne. La conosceva dalla sua fuga per andare in Belgio. Il maresciallo Pasquale Lufrano non sembra darsi pace per quanto è probabilmente accaduto a Saman, la 18enne pakistana scomparsa da oltre un mese dalla sua casa di Novellara, nella Bassa reggina. Intervistato dal Corriere, il carabiniere ha ricordato quel pomeriggio del 22 aprile, quando era andato a casa della famiglia Abbas per controllare la situazione. E ha spiegato perché la ragazza aveva voluto tornare in quella casa.
Si conoscevano dall'estate. Si era trovato davanti i genitori della ragazza, il padre 44enne Shabbar e la madre Nazia di 48 anni. Saman era dietro e continuava a guardare la mamma. Shabbar asserisce che la figlia non vuole parlare con i carabinieri e che la famiglia è felice di “riaverla a casa. Mia moglie piangeva sempre nel saperla lontana, nel centro protetto. Il matrimonio combinato? Una storia finita, non ci pensiamo più”. Lufrano si era accorto subito che la ragazza non era tranquilla: “non ho visto le condizioni di serenità per parlarle, decido di portarla in caserma, in un contesto più accogliente” ha raccontato. Il maresciallo conosce la giovane dall’estate, da quando era fuggita da Novellara per andare in Belgio e il padre ne aveva denunciato la scomparsa. L’aveva aiutata anche in seguito, quando aveva deciso di denunciare i genitori per il matrimonio combinato che a sua insaputa avevano organizzato per il 22 dicembre in Pakistan con un cugino. Usando il pretesto di firmare alcune carte, il militare aveva detto a Saman di andare con loro. L’11 aprile la ragazza aveva lasciato in modo volontario il centro protetto in provincia di Bologna, dove i servizi sociali l’avevano mandata. Ad avvertire Lufrano il 20 aprile sono proprio i servizi sociali, diretti dal sindaco Elena Carletti, informandolo che forse la 18enne è tornata a casa dai genitori. Il maresciallo aveva quindi promesso di andare a controllare appena possibile. E così è stato.
Ecco perchè Saman era tornata a casa. Quel pomeriggio del 22 aprile Lufrano era riuscito a portare Saman in caserma, dove la ragazza aveva però detto di aver lasciato di sua volontà il centro protetto e di voler restare a casa. Un modo per recuperare i suoi documenti, tra i quali il passaporto, che aveva tenuto il padre. “Ma io le chiarisco che non mi sentivo tranquillo”, ha raccontato il carabiniere. Non c’era stata violenza in precedenza, “ma, per come si era comportato in precedenza, con la storia delle nozze, quell'uomo proprio non mi piaceva”. Niente riuscì però a convincere Saman, voleva a tutti i costi tornare in quella casa e riprendersi il suo passaporto, perché “voleva essere libera. E quel documento avrebbe potuto consentirle, lei sperava, di lavorare”. Lufrano è di origini palermitane ed è nell’Arma dall’età di 17 anni, ha due figli, uno di 22 anni e una di 21. Saman, poco più giovane dei suoi ragazzi, ha ispirato forse un senso di protezione a quel padre in divisa. Il militare quel giorno riuscì a strappare una promessa alla 18enne: se fosse riuscito ad accertare che il documento era in possesso dei genitori per appropriazione indebita, lei sarebbe tornate nel centro. La giovane è stata quindi riaccompagnata nella sua abitazione, sapendo che sarebbero stati informati anche i servizi sociali. Il giorno dopo, il 23 aprile, Lufrano è andato dal pubblico ministero per chiedere un decreto di perquisizione a casa degli Abbas. Quello stesso giorno aveva anche avvertito i servizi sociali chiedendo che trovassero un posto protetto dove ospitare Saman. Ne serve uno nuovo perché queste sono le regole dopo che l’ospite ha abbandonato volontariamente la struttura precedente.
Ma lei non c'era più. Il decreto di perquisizione viene trasmesso dalla Procura il 28 aprile e il giorno seguente l’assistente sociale avverte il maresciallo di aver trovato un posto dove ospitare la 18enne. Non prima del 3 maggio però. Quel giorno gli operatori si sarebbero presentati a casa degli Abbas, avrebbero prelevato Saman e avvertito i genitori, un modo “per non alterare gli equilibri”. Se durante la perquisizione non fosse saltato fuori il passaporto, avrebbero potuto farne una duplicazione. Il 3 maggio gli assistenti sociali si sono presentati come da programma dagli Abbas, ma in casa c’erano solo il fratello maggiore di 16 anni e lo zio 33enne. La coppia racconta che Saman ha fatto ritorno in Pakistan con i suoi genitori, volontariamente. Da quel momento il maresciallo Lufrano avvia le ricerche con l’ipotesi di sequestro di persona. Purtroppo però, come sappiamo adesso si cerca un cadavere. “Lo so che ho fatto tutto il possibile” asserisce il militare.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
"Non finirà come con Yara...": il destino di Saman. Valentina Dardari l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Il comandante che coordina le ricerche: “Ce la stiamo mettendo tutta”. Un gran dispiegamento di forze, tutti in campo per riuscire a trovare Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa ai primi di maggio. Il comandante della compagnia di Guastalla, Luigi Regni, si sta occupando di coordinare le ricerche, utilizzando tutto il possibile: elettromagnetometro, droni, complesse operazioni di ingegneria, cani molecolari, escavatori e tanta precisione e attenzione anche nello smuovere il terreno. Qualsiasi cosa pur di ritrovare Saman, o quel che ne rimane. Intervistato dal Corriere, il militare ha spiegato la funzione dell’elettromagnetometro, uno strumento che solitamente i carabinieri non hanno disposizione, “ma ci siamo rivolti a una ditta di Reggio Emilia che ci ha messo a disposizione un team di ingegneri. Utilizziamo anche droni di rilevamento altimetrico in grado di indicare dove la terra è stata smossa di recente”. Come spiegato dal comandante, il drone scansiona la terra dall’alto e arriva a 4-5 metri di profondità, indica quindi se nel terreno vi sono presenti delle anomalie. Fino a questo momento sono però stati segnalati solo falsi allarmi: “Ieri un sasso, un’altra volta una nutria sotterrata. Una volta fatte le scansioni, i dati vengono analizzati e dopo 24- 48 ore arrivano gli esiti”. Poi, ogni anomalia segnalata dal drone deve essere verificata in modo molto accurato e preciso, evitando il rischio di compromettere la scena qualora venga ritrovato il corpo della ragazza. Regni ha proseguito precisando che a quel punto vengono tolti “i primi 30-40 centimetri di terra, poi facciamo dei minicarotaggi, intervengono le unità cinofile del comando di Bologna e l’elettomagnetometro. Se il cane avverte qualcosa si siede e a quel punto scaviamo con un piccolo escavatore. Nel frattempo con l’elettromagnetometro a mano le serre vengono battute palmo a palmo, non possiamo utilizzare il drone con elettromagnetometro perché i telai in ferro interferiscono. Solo ieri abbiamo verificato 10 anomalie”. L’area da esaminare è vastissima, si è parlato inizialmente di 80-90 ettari e, come sottolineato dal carabiniere, non ci si può permettere un altro caso Gambirasio. Il corpo della piccola Yara venne infatti ritrovato dopo ben tre mesi di ricerche. Intanto, “un altro team si occupava delle indagini, di analizzare le telecamere. A quel punto abbiamo circoscritto un’area più ristretta a ridosso dell’azienda agricola, su cui stiamo lavorando ora: il tempo impiegato dagli indagati ci dice che non possono essersi allontanati molto. Ma se non troveremo nulla ci allargheremo ancora, torneremo nella porcilaia e nei fossi. Tutto quello che si può fare lo faremo”. Tanti gli uomini impiegati nelle operazioni, almeno una ventina per ogni turno. Da ieri è arrivato anche il personale di rinforzo del Quinto Reggimento carabinieri di Bologna. Una forza in più, tutti uniti da un unico obiettivo: ritrovare il più presto possibile il corpo della povera Saman.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Saman e la mamma erano rinchiuse in casa. "Poi il papà è impazzito..." Luca Sablone il 14 Giugno 2021 su Il Giornale. Parla il datore di lavoro del padre: "Era riuscito a non far andare Saman a scuola. Aveva le chiavi, non aveva problemi per prendere le pale". Cosa è accaduto realmente a Saman Abbas? Cosa si nasconde dietro il caso che purtroppo vede protagonista la 18enne pachistana che aveva deciso di opporsi a un matrimonio combinato in patria dal padre e dalla madre? In questi giorni hanno fatto molto discutere le immagini delle telecamere che ritraggono tre uomini con tanto di pale, sacco e piede di porco che sarebbero serviti per creare una fossa nel terreno in cui nascondere il corpo della giovane Saman. Intanto è spuntato un video mostrato per la prima volta dal Tg1 Rai, in cui sono identificati Shabbar Abbas e sua moglie Nazia Shaheen all'aeroporto di Milano Malpensa prima di imbarcarsi sul volo che li avrebbe portati in Pakistan. A parlare proprio del padre è stato il datore di lavoro dell'uomo, che ai microfoni di Non è l'arena ha fatto luce su determinati aspetti di importante rilevanza: "Le pale sono sempre nell'angolo del deposito. Le abbiamo usate mille volte dopo il primo maggio. Potrebbe essere che le hanno utilizzate per...". Per Shabbar sarebbe stato difficile procurarsi le pale? Il datore di lavoro non ha dubbi e ritiene anzi che sarebbe stato piuttosto facile: "Aveva tutte le chiavi, quindi non aveva nessun problema ad approvigionarsi con l'attrezzatura qua dell'azienda". Sostiene che si fosse integrato molto bene al lavoro fin da subito, ma ha notato un particolare non indifferente: vedevano spesso il figlio, mentre le donne non si sarebbero viste praticamente mai. Ed è proprio sull'aspetto della vita personale che ha posto l'attenzione: "Trovavo strano che una ragazza giovane fosse sempre chiusa in casa con la madre". Il padre di Saman si sarebbe sempre vantato del buon andamento scolastico di sua figlia, giustificando la presenza in casa per seguire una serie di corsi online in pachistano. Più volte si sarebbe insistito per mandare la giovane in presenza a scuola, ma comunque alla fine "è riuscito a non farcela andare" per diverse scuse di logistica riscontrate per raggiungere il plesso. "Ci siamo accorti che c'era un problema. Scappando, Shabbar è impazzito, non è stato più lo stesso dall'anno scorso", ha denunciato il datore di lavoro. Anche se in realtà il padre di Saman non avrebbe mai parlato di un matrimonio combinato: "Diceva che lei poteva fare ciò che voleva, ha sempre negato i problemi". Infine ha aggiunto un dettaglio di non poco conto: "Ha raccontato anche un sacco di bugie. Noi ci fidavamo, ma ci siamo accorti di tante cose che non ci ha raccontato".
Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatt..
Saman, madre choc: "Mia figlia è un disonore per la nostra famiglia". Libero Quotidiano il 14 giugno 2021. Di tutti i sentimenti che una madre può provare per una figlia, la vergogna è forse il più crudele e innaturale. Eppure Nazia Shaheen, la madre di Saman Abbas, la 18enne scomparsa da Novellara, in provincia di Reggio Emilia, si espresse proprio così con gli assistenti sociali che le comunicavano che la figlia sarebbe entrata in una comunità protetta per sfuggire al matrimonio combinato con un cugino: “E' una vergogna per la nostra famiglia. Come faremo a spiegarlo in Pakistan?”. Già, la vergogna non di una nefandezza commessa, bensì del diritto a non piegarsi a una legge tribale in cui non ci si riconosce. Intanto, mentre si cerca ancora il corpo della figlia, la madre è in fuga con il marito, questa volta sì per nascondere un delitto. Ma si vede che di questo non prova vergogna.
La madre di Saman: «Il suo no alle nozze è un vero disonore». I biglietti per la fuga comprati giorni prima della scomparsa. Alessandro Fulloni, inviato a Novellara, il 14/6/2021 su Il Corriere della Sera. «E ora? Come faremo a spiegarlo in Pakistan? Questo è un disonore per tutti noi». Poi Nazia Shaheen, 48 anni, la mamma di Saman, scoppia in lacrime. La scena avviene in una data che precede di pochi giorni l’ingresso nel centro protetto, alla fine di ottobre, della giovane sparita la sera del 30 aprile a Novellara, nel Reggiano. La ragazza — che avrebbe compiuto i diciotto anni il 18 dicembre — aveva trovato la forza di opporsi al matrimonio che il padre Shabbar Abbas, 44, in Italia da un quindicennio — aveva combinato in Pakistan con un cugino. Nozze accuratamente programmate: dalla data, il 22 dicembre, all’acquisto dei biglietti, il 7. Ma il «no» di Saman — «cocciuta e grintosa» nelle fitte relazioni degli assistenti sociali — fa saltare tutto. Shabbar e Nazia vengono denunciati. Quando gli operatori vanno a prendere la figlia per condurla al centro protetto nel Bolognese i genitori non la prendono bene, anche se vengono avvisati con tutte le cautele prima che Saman li saluti. A Corriere, Tg2 e Rai News, un testimone racconta quei momenti. Nazia è la più angosciata e sorpresa. Chiarirle quanto sta accadendo non è facile «visto che conosce pochissimo l’italiano» pur essendo arrivata nel Reggiano nel 2015. Si accalora, parla di «vergogna per la nostra famiglia». Ma l’impressione di chi sta in quella saletta è che il suo pianto si motivi soprattutto per il fatto che non saprà come spiegare in Pakistan quel rifiuto inaspettato. Mentre sembra meno importante che tra poco non potrà più neanche telefonare alla figlia. Shabbar intanto scuote la testa, dice che Saman «fa tutto il contrario di quel che le diciamo e non sappiamo più cosa fare con lei». E chissà se si riferisce a quel che poi si leggerà sulle carte dell’inchiesta per omicidio firmate dal gip Luca Ramponi nelle quali si racconta che la ragazza «non osservava i precetti islamici, tra cui il Ramadan». Dal centro protetto Saman si è allontanata più volte, almeno due, all’insaputa dei coordinatori. Un comportamento che era divenuto «un problema: quelle ingenue fughe mettevano a repentaglio la sicurezza sua e degli altri ospiti, tutti da mettere al riparo da questioni gravi» spiega la sindaca di Novellara Elena Carletti. Ed ecco perché, dopo che l’11 aprile la giovane è tornata a casa volontariamente lasciando il centro, è stato necessario (come prevedono le linee operative in questo tipo di interventi) trovarne uno nuovo, attendendo il primo posto disponibile per il 3 maggio. Dunque circa quarantotto ore dopo il delitto. Scuote la testa ora la sindaca di questo borgo di 13.000 abitanti di cui oltre 2.000 stranieri. I pakistani sono più o meno 400, «quasi tutti impiegati nell’agricoltura, brava gente, integrata». Ma almeno un paio di dossier per matrimoni combinati sono passati su tavolo di Carletti che con quelle parole — «disonore e vergogna per la famigli» — ha già avuto a che fare. Ieri intanto il TGR Emilia-Romagna ha mostrato il video di Shabbar e Nazia in fuga da Malpensa. Un filmato chiesto dai carabinieri alla Polaria già il 3 maggio quando sono cominciati gli accertamenti sulla scomparsa. I coniugi Abbas avevano i biglietti pronti, acquistati il 26 aprile da Danish Hasnain, l’uomo che avrebbe materialmente strozzato Saman. Da chiarire come Shabbar e la moglie abbiano raggiunto lo scalo lombardo. Forse in aiuto, accompagnati da qualcuno. È l’ipotesi di cui scrive la Gazzetta di Reggio. Il fratello sedicenne di Saman sarebbe stato a bordo con alcuni adulti e «ha fatto di tutto per non farsi vedere mentre piangeva».
Saman Abbas, le immagini dei genitori a Malpensa in fuga verso il Pakistan. Al Tg1 il momento della partenza dall’aeroporto milanese, il 1° maggio. La donna riconosciuta per la camminata. Ansa / CorriereTv il 13 giugno 2021. I genitori di Saman Abbas (il padre Shabbar Abbas, 44 anni, e la moglie Nazia Shaheen, 48 anni), sono stati registrati all’aeroporto di Malpensa poco prima di imbarcarsi, il 1° maggio, per il Pakistan. La figlia Saman è stata uccisa poche ore prima e loro hanno organizzato la fuga, con i biglietti aerei acquistati il 26 aprile dallo zio Danish Hasnain, l’uomo accusato di avere materialmente ucciso la ragazza. In questo video si vede il padre mentre abbassa la mascherina per farsi riconoscere, seguito dalla moglie. Si riconoscono poi i due al controllo dei passaporti, prima di imbarcarsi sul volo diretto in Pakistan. I carabinieri hanno acquisito queste immagini il 3 maggio, chiedendole alla Polaria di Malpensa che le ha inviate poco dopo la richiesta degli investigatori di Novellara (Reggio Emilia). Inizialmente si pensava che la donna fosse Saman, ma chi conosce la famiglia pachistana ha confermato ai carabinieri che, per la postura della camminata, la donna dovrebbe essere Nazia. Il video è andato in onda in anteprima dal Tg3 regionale Emilia-Romagna e poi sul Tg1. Qui l’articolo completo.
Fuga in aeroporto: il video che incastra i genitori di Saman. Francesca Galici il 13 Giugno 2021 su Il Giornale. Sono state diffuse le immagini dei genitori di Saman Abbas in partenza dall'Italia per il Pakistan lo scorso 1 maggio. Continuano le indagini sulla scomparsa di Saman Abbas, la giovane pakistana di cui gli investigatori cercano il corpo nelle campagne di Novellara in provincia di Reggio Emilia. Pare sia stata uccisa dai familiari perché non voleva piegarsi al matrimonio combinato dal padre in Pakistan ma voleva vivere all'occidentale, amando un suo connazionale qui in Italia. Mentre il cugino di Saman, Ikram Ijaz, è stato estradato dalla Francia e consegnato ai carabinieri, per i genitori della ragazza è in corso la richiesta di rogatoria internazionale. I due, infatti, hanno lasciato l'Italia pochi giorni dopo la data del presunto omicidio della figlia. Dalle immagini allegate agli atti dell'inchiesta si evince che i due sono partiti dall'aeroporto di Milano Malpensa lo scorso 1 maggio. Il video è stato mostrato per la prima volta dal Tg1 Rai. Shabbar Abbas, 44 anni, e sua moglie Nazia Shaheen, 48 anni, sono stati identificati nelle immagini delle telecamere di sicurezza dell'aeroporto lombardo prima di imbarcarsi sul volo che li avrebbe portati in Pakistan. I biglietti sono stati acquistati dallo zio di Saman, Danish Hasnain, il 26 aprile. Ufficialmente il motivo per il quale la coppia ha lasciato l'Italia è per raggiungere il loro Paese natio dove una loro familiare versava in gravissime condizioni di salute. Danish Hasnain è l'uomo accusato di aver compiuto materialmente l'omicidio di Saman. I carabinieri hanno acquisito le immagini delle telecamere di videosorveglianza di Malpensa già lo scorso 3 maggio, appena appurata la scomparsa di Saman Abbas. La Polaria ha fornito ai colleghi dell'Arma tutte le registrazioni dei giorni precedenti. Stando a quanto riporta il Corriere, in un primo momento i carabinieri dell'Arma hanno anche avuto il sospetto che la donna che si vede nelle immagini fosse proprio Saman, magari costretta a partire per mettere in atto il progetto del matrimonio combinato in Pakistan contro la sua volontà. La svolta è avvenuta quando le forze dell'ordine hanno mostrato i frame video a persone vicine alla famiglia Abbas, che in quella donna hanno riconosciuto senza esitazione Nazia Shaheen. A dare la certezza dell'identificazione è stata la particolare postura della camminata della donna, molto diversa rispetto a quella di Saman. È in quel momento che le indagini hanno avuto un'altra svolta ed è partita l'indagine per sequestro di persona. Tuttavia, da quel momento lo scenario è ulteriormente cambiato e la piega presa dalle indagini è quella di un omicidio, ipotesi che trova conferma anche nelle parole del fratello minore di Saman, ora al sicuro in una struttura protetta.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
C. Man. per "Il Messaggero" il 15 giugno 2021. A raccontarlo agli investigatori è stato un testimone. Non soltanto il padre e i maschi della famiglia cercavano una punizione esemplare per Saman Abbas, la diciottenne pakistana che rifiutava il matrimonio combinato e che è scomparsa da Novellara (Reggio Emilia) dallo scorso 30 aprile. Anche la madre Nazia Shaheen aveva mostrato risentimento verso questa figlia che «non rispettava le regole». «È un disonore, una vergogna per la nostra famiglia», aveva dichiarato la donna nell'ottobre del 2020. Nel giorno in cui gli assistenti sociali le comunicavano che la figlia sarebbe entrata in una comunità protetta, dopo la denuncia presentata per sfuggire al matrimonio combinato con un cugino che si sarebbe dovuto celebrare nel paese di origine. «Come facciamo a dirlo in Pakistan? È un disonore», è scoppiata in lacrime Nazia Shaheen. Mentre si aggiungono nuovi elementi alle accuse nei confronti dei familiari, continuano anche le ricerche del corpo di Saman. A Novellara è rimasto un cugino della giovane, ed è, probabilmente, l'ultimo parente stretto della famiglia ancora presente nella bassa reggiana: i genitori, lo zio e un altro cugino sono latitanti e indagati per omicidio, un cugino è in carcere, dopo essere stato preso in Francia. Sarebbe stato proprio il cugino rimasto a Novellara, di 38 anni, a comprare i biglietti dell'aereo per i genitori della ragazza. È stato sentito dai carabinieri come persona informata sui fatti, perquisito senza esito. È stato lui stesso a dire di aver comprato i biglietti in un'agenzia di viaggi indiana di Novellara, il 26 aprile. «Lì ho dei debiti e ci devi andare tu -, gli avrebbe detto il padre di Saman, Shabbar Abbas - Ma io non c'entro nulla con questa vicenda e non ho aiutato nessuno a fuggire», ha dichiarato l'uomo. Nazia Shaheen e il marito sono poi partiti il primo maggio, da Malpensa, come confermano le immagini delle telecamere. «Che qualcosa sia successo secondo me è vero - aggiunge il cugino che ha chiesto l'anonimato -. Altrimenti perché i genitori sono scappati?». E ancora: «Saman era una brava ragazza, simpatica e allegra. Spesso ridevamo insieme, poi quel che succedeva in casa tra di loro non lo so. A me sembrava tutto ok». Infine, sul matrimonio combinato conclude: «Un anno fa mi risulta che lei fosse andata in Pakistan e avesse accettato di sposare quel cugino. Poi quando è tornata, forse ha cambiato idea, oppure ha trovato un altro ragazzo. Quando lei era in comunità, la mamma piangeva perché era lontana». Nel registro degli indagati sono stati iscritti anche lo zio Danish Hasnain, il 33enne ritenuto l'esecutore materiale del delitto, il cugino 35enne Nomanhulaq Nomanhulaq - entrambi ricercati dai servizi di cooperazione internazionale in Europa dove si ritiene si nascondano - e l'altro cugino Ikram Ijaz, il 28enne unico arrestato della vicenda e che ora si trova in carcere a Reggio Emilia. Si attende la testimonianza del fratello minorenne di Saman atteso all'incidente probatorio fissato per venerdì in tribunale. Il ragazzino, che era stato fermato il 10 maggio a Imperia insieme allo zio Danish (all'epoca ancora non era stato spiccato il mandato di cattura) si trova ora sotto protezione in una struttura del bolognese. È stato il primo a raccontare agli investigatori che ad ammazzare (strangolandola) la sorella sarebbe stato lo zio.
Da "Ansa" il 16 giugno 2021. "Ti prego fatti sentire, torna a casa. Stiamo morendo. Torna, faremo come ci dirai tu". Sarebbe il testo di un sms 'trappola' che Nazia Shaheen avrebbe scritto alla figlia Saman Abbas quando quest'ultima era in comunità protetta per indurla a tornare a casa. Lo riporta oggi la Gazzetta di Reggio. Il messaggio, secondo il quotidiano locale, risale al periodo in cui la ragazza si trovava nella comunità protetta dopo aver denunciato i genitori che volevano obbligarla a un matrimonio combinato. L'sms avrebbe tratto in inganno la diciottenne, scomparsa da oltre un mese da Novellara (Reggio Emilia) e che si presume sia stata uccisa dalla famiglia, tornata a casa dalla comunità protetta il 22 aprile. La madre della ragazza è indagata assieme al padre Shabbar - entrambi latitanti, si troverebbero in Pakistan - per omicidio premeditato in concorso insieme allo zio Danish Hasnain, ritenuto l'esecutore materiale del delitto, e ai cugini Nomanulhaq (latitante, si presume in Europa, con lo zio) e Ikram Ijaz, ora in carcere a Reggio Emilia, unico arrestato dopo essere stato fermato in Francia il 28 maggio scorso mentre tentava di raggiungere la Spagna.
Saman Abbas, l’sms che le inviò la madre quando era in comunità: “Ti prego torna, stiamo morendo. Faremo come ci dirai tu”. Il Fatto Quotidiano il 16 giugno 2021. Secondo quanto rivelato dalla Gazzetta di Reggio, il tentativo di comunicazione risale al periodo in cui la 18enne era in protezione dopo aver denunciato i genitori per il tentativo di nozze forzate. “Ti prego fatti sentire, torna a casa. Stiamo morendo. Torna, faremo come ci dirai tu”. E’ questo il testo di un sms che Nazia Shaheen avrebbe scritto alla figlia Saman Abbas nei giorni in cui la ragazza pakistana era in comunità. A rivelarlo è La Gazzetta di Reggio: il messaggio, secondo il quotidiano locale, risale al periodo in cui la 18enne, sparita da oltre un mese, aveva denunciato i genitori che volevano obbligarla a un matrimonio forzato. Saman Abbas l’11 aprile scorso ha lasciato il centro per ritornare a casa e secondo gli inquirenti è stata uccisa. La madre della ragazza è indagata assieme al padre Shabbar – entrambi latitanti, si troverebbero in Pakistan – per omicidio premeditato in concorso insieme allo zio Danish Hasnain, ritenuto l’esecutore materiale del delitto, e ai cugini Nomanulhaq (latitante, si presume in Europa, con lo zio) e Ikram Ijaz, ora in carcere a Reggio Emilia, unico arrestato dopo essere stato fermato in Francia il 28 maggio scorso mentre tentava di raggiungere la Spagna. Intanto continuano le ricerche nelle campagne di Novellara (Reggio Emilia), fra le serre e i campi di cocomeri che circondano la cascina dove viveva e lavorava la famiglia di Saman Abbas. Anche nelle ultime ore sono stati fatti dei carotaggi metro per metro in alcune serre, poi verificati dai cani. Domani si riprende, anche perché il lavoro da fare, vista la grandezza del terreno, è ancora molto e non è semplice cercare il corpo senza un’indicazione precisa, che si sperava che arrivasse dall’unico degli accusati attualmente in carcere, ma interrogato, si è avvalso della facoltà di non rispondere.
“Stiamo morendo”. L’sms-trappola della madre di Saman. Angela Leucci il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Perché Saman Abbas aveva fatto ritorno a casa? Spunta un sms inviato da sua madre: potrebbe essere la trappola che l'ha condannata a morte. Non si trova ancora il corpo di Saman Abbas, sulla cui vicenda pesa la presunzione di omicidio e occultamento di cadavere da parte della famiglia. Ma intanto si aggiungono nuovi tasselli alla vicenda, tasselli che rispondono a un interrogativo fondamentale: perché Saman era tornata a casa? La risposta è in una trappola ordita proprio dalla madre della giovane, che le aveva inviato un sms, come riporta La Gazzetta di Reggio. I genitori, pakistani che vivevano e lavoravano a Novellara, volevano costringere Saman, che aveva intrecciato una relazione in Italia con un coetaneo, a un matrimonio combinato in Pakistan, con un parente di 10 anni più vecchio. La 18enne si era opposta, chiedendo aiuto ai servizi sociali, che l’avevano collocata in una comunità protetta. Accadeva a dicembre 2020, quando ancora Saman era minorenne: i genitori avevano anche acquistato i biglietti aerei alla volta del Paese natale. Ma alla fine di aprile Saman si era allontanata volontariamente dalla comunità e aveva fatto ritorno a casa, si è detto per recuperare dei documenti che i genitori le avrebbero sequestrato, e che le avrebbero consentito di continuare gli studi come desiderava. Ma c’è anche dell’altro. La GdR spiega infatti che Saman sarebbe stata raggiunta da un sms della madre Nazia Shaheen, che recitava: “Ti prego fatti sentire, torna a casa. Stiamo morendo. Torna, faremo come ci dirai tu”. Saman risulta scomparsa dal 4 maggio, giorno in cui il fidanzato avrebbe allertato l’avvocato della comunità in cui era la giovane. Tuttavia l’ultimo avvistamento risale al 30 aprile, quando delle telecamere di sicurezza l’hanno inquadrata mentre viene scortata in campagna dai genitori. Il fratello ha raccontato che Saman sia stata uccisa dallo zio proprio perché aveva rifiutato di obbedire e acconsentire alle nozze combinate. Attualmente, come riporta LaPresse, la procura ha scritto 5 persone nel registro degli indagati con l’ipotesi di omicidio. Gli indagati sono i genitori della giovane, Nizia e Shamar Abbas, lo zio (e quindi fratello del padre) Danish Hasnain, i cugini Nomanulhaq e Ikram Ijaz. Quest’ultimo è stato fermato e arrestato in Francia mentre cercava di riparare in Spagna insieme al fratello di Saman. Ijaz è nel carcere di Reggio Emilia e ha chiesto di parlare con il pubblico ministero per spiegare perché aveva lasciato l’Italia. Ha anche ribadito la propria estraneità alla vicenda che vede come protagonista la giovane Saman, per la quale da subito si è temuto il peggio.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Il fratello di Saman ha tentato la fuga dalla comunità. Francesca Galici il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Il minorenne avrebbe provato a scappare dal centro protetto in cui si trova: per lui è stato disposto il divieto di espatrio per paura che raggiunga il Pakistan. Il caso di Saman Abbas è più complesso di quanto non possa apparire all'esterno. Mentre i carabinieri sono ancora impegnati con le ricerche del corpo della ragazza nelle campagne di Novellara, le indagini per accertare le colpe di quello che appare, quasi senza dubbi, un omicidio. La svolta alle indagini l'ha data il fratello di Saman, minorenne. È lui ad aver raccontato i dettagli che settimane fa hanno permesso agli investigatori di battere la strada che, al momento, sembra l'unica possibile. La collaborazione con le forze dell'ordine, però, ha messo in pericolo la vita del minore, che da quando è stato fermato alla frontiera con la Francia insieme allo zio, vive in una struttura protetta non indentificata. È da qui che qualche settimana fa il ragazzo ha provato a scappare. Una fuga durata poche ore grazie all'immediata segnalazione, che ha permesso ai carabinieri di individuarlo poche ore dopo e di riportarlo all'interno della struttura. Lui è il testimone chiave dell'intera vicenda e per la sua sicurezza in questo momento è necessario che rimanga all'interno della struttura protetta. Comprensibile il suo stato d'animo, tanto più ora che si è trovato ad affrontare l'incidente probatorio al tribunale di Reggio Emilia. Il minore vive lontano da ogni suo affetto, con sulle spalle il peso di una sorella probabilmente ammazzata per mano della sua famiglia e con la paura che possa subire ripercussioni da parte delle stesse persone che avrebbero ucciso Saman. I suoi genitori sono scappati in Pakistan presumibilmente poche ore dopo l'omicidio della ragazza ed è lì che si trovano. L'Italia ha avviato le pratiche della rogatoria internazionale ma l'iter è complesso e lungo. Non stupisce che il ragazzo stia vivendo "notti agitatissime" e che sia stato messo sotto stretta vigilanza, con conseguente divieto di espatrio. Potrebbe voler raggiungere i suoi genitori in Pakistan, nel piccolo paese al confine con l'India in cui pare siano tornati. Una supposizione che potrebbe nascondersi dietro la fuga dalla casa protetta, che potrebbe essere stata sollecitata da una telefonata ricevuta dal ragazzo. Il dubbio negli inquirenti sorge anche alla luce di un messaggio vocale di Whatsapp che il ragazzo ha ricevuto la sera del 1 maggio. "Figlio mio, se ti chiedono qualcosa di lei tu non devi dire niente", recitava la nota audio. Era una voce femminile, che visto il contenuto e le tempistiche potrebbe essere quella di sua madre. È evidente che l'incidente probatorio si renda necessario per cristallizzare le dichiarazioni del giovane in modo tale che queste possano essere utilizzate in sede processuale. È stato lui, dopo essere stato fermato a Imperia, a dichiarare che a uccidere la sorella fosse stato lo zio Danish Hasnain, probabilmente per strangolamento. Questo il contenuto che è stato chiamato a ripetere nell'incidente probatorio. La storia familiare della famiglia Abbas è molto complicata. Come riferisce il Corriere della sera, infatti, quando Saman rifiutò il matrimonio combinato in Pakistan e si rivolse agli assistenti social, suo fratello venne indagato per violenza privata perché, a quanto pare, avrebbe minacciato la sorella. Ma nonostante questo, il loro era un rapporto fortissimo, come dimostra ciò che Saman disse al suo fidanzato: "Mio fratello è l’unico della mia famiglia di cui m’importa".
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Saman, l'ombra del mandante dell'omicidio: ecco dove si trova. Angela Leucci il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Spunta un'altra persona nel puzzle sulla sparizione di Saman Abbas: si tratta dello zio materno che minacciò la famiglia del fidanzato di lei. L’ultima giornata nota di Saman Abbas è stata un’altalena di emozioni. A Chi l’ha visto? sono stati tradotti i messaggi che la 18enne pakistana scomparsa da Novellara il 30 aprile ha scambiato con il fidanzato, ed è stata ascoltata la voce della ragazza in alcuni messaggi vocali. In trasmissione è stata anche mostrata una foto di Saman con una misteriosa presunta lesione sul volto. I due, Saman e il suo ragazzo, stavano progettando una fuga d’amore: volevano vivere il loro sentimento lontano dalle minacce della famiglia di Saman. Il fidanzato aveva infatti ricevuto la visita di uno zio di Saman che aveva promesso morte a tutti i suoi cari se lui non avesse lasciato Saman. Così la 18enne aveva fatto credere ai genitori che la loro relazione fosse finita. Il loro sentimento però era reale e forte: lui le scrive spesso “mia vita, mio amore”, si è dotato di un gran coraggio per sfidare la famiglia di lei. Ma a un certo punto, quel 30 aprile, il tenore dei messaggi di Saman cambia radicalmente. “Ho sentito che dicevano di ammazzare qualcuno - dice lei nel vocale tradotto - E quando ho chiesto a mamma mi ha detto: ‘No, no. Non stiamo parlando di te. Ma io l’ho sentito con le mie orecchie. Per questo da quel momento ho paura. Ho sentito con le mie orecchie mio zio materno, quello che era andato a casa della tua famiglia in Pakistan. Lui ha mandato un WhatsApp a mamma in cui dice: "Uccidiamola, perché questa può fare cose strane un’altra volta o può scappare". Ho sentito che dicevano: "Uccidiamola". Una cosa del genere. Mia madre mi ha detto: "Non parliamo di te ma di una ragazza che è scappata in Pakistan"”. Quindi oltre ai 5 indagati per il presunto omicidio e occultamento di cadavere della giovane pakistana che voleva vivere da italiana, ce ne potrebbe essere presto un sesto, uno zio da parte materna, “quello che indossa lo scialle grande che sta nel video insieme a papà”, spiega Saman al fidanzato. E aggiunge: “Vedremo quello che è scritto nel destino e quello che non è scritto. Sono chiacchiere sì, ma sono capaci di farlo”. Gli iscritti nel registro degli indagati sono oggi i genitori di Saman, il fratello di suo padre e due cugini, uno dei quali è in carcere in Italia. Intanto il muro di bugie di Shamar Abbas, padre di Saman, continua a sgretolarsi. Non solo non è tornato in Italia come aveva affermato già in due occasioni, ma il suo ex datore di lavoro ha smentito che gli uomini con le pale che si vedono in un video delle telecamere di sicurezza stessero effettuando dei lavori: quei lavori non si effettuano di notte ma, se davvero così fosse stato, avrebbero dovuto segnare le ore di straordinario, cosa che non è accaduta. “Ma perché Dio ha deciso che la mia vita deve essere così”, recita così uno degli ultimi messaggi di Saman prima di svanire nel nulla. Ma Dio non c’entra affatto con la sua scomparsa, si presume c’entrino gli uomini, anche se al momento non si sa per certo chi, come e dove.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Val.Err. per "il Messaggero" il 18 giugno 2021. Per l'inchiesta sulla morte di Saman Abbas è un passaggio centrale: questa mattina, il fratello sedicenne della ragazza pakistana scomparsa il 30 aprile dovrà ripetere, davanti al giudice, quanto ha già riferito ai carabinieri. Ossia che la sorella è stata uccisa dallo zio Danish Hasnain e che i suoi genitori sapevano. Un incidente probatorio che cristallizzerà la testimonianza per utilizzarla come prova processuale. Ma non sarà un passaggio facile. Saman, che aveva rifiutato le nozze organizzate e denunciato i genitori, sarebbe stata uccisa perché si opponeva alle regole della famiglia.
L' INCIDENTE PROBATORIO Il ragazzo, fermato lo scorso 10 maggio proprio con lo zio e un cugino, mentre cercava di attraversare il confine con la Francia, è da allora ospite in una comunità protetta. È lì che ha iniziato a parlare. Ma nei giorni scorsi, come riporta la Gazzetta di Reggio Emilia, avrebbe tentato la fuga. Le difficoltà del sedicenne erano chiare ai pm e nell' ordinanza di custodia cautelare a carico dello zio, dei genitori e di due cugini, il gip sottolineava che il ragazzo aveva rivelato i fatti in due fasi, con alcune omissioni dovute allo choc e, secondo la procura, al fatto che stava elaborando il lutto per la sorella, l' abbandono dei genitori (volati in Pakistan il primo maggio) e in generale una vicenda «che lo sta portando a prendere le distanze dal contesto e dalla cultura in cui è vissuto fino ad ora». Lo zio lo aveva minacciato di morte se avesse parlato e nei giorni successivi aveva ricevuto un messaggio da una donna pakistana non ancora identificata: «Mamma stava male e il papà l'ha portata in Pakistan, ok? Non devi dire nient' altro». La prova di oggi non sarà dunque facile. Le parole del minorenne sono il cardine delle accuse ai familiari e dell'ordinanza per sequestro di persona, omicidio volontario e occultamento di cadavere. Soprattutto in assenza del corpo della ragazza, che i carabinieri continuano a cercare nelle campagne di Novellara. All' incidente probatorio assisterà in collegamento dal carcere anche il cugino Ikram Ijaz, 28 anni, arrestato il 28 maggio scorso a Nimes, in Francia, mentre tentava di raggiungere alcuni parenti dai quali rifugiarsi in Spagna, con un Flixbus diretto a Barcellona. Davanti al gip di Reggio Emilia ha preferito avvalersi della facoltà di non rispondere, limitandosi a dire di essere estraneo alla scomparsa della cugina. Il giovane aveva confidato agli inquirenti che a uccidere la sorella - «penso l'abbia strangolata» - era stato lo zio Danish, 33 anni. «Mi ha detto che l'aveva uccisa, gli ho chiesto dove fosse il corpo, perché volevo riabbracciare mia sorella per l'ultima volta, ma non ha voluto dirlo». A finire sotto accusa anche Ijaz e l'altro cugino, Nomanhulaq, entrambi immortalati con Hasnain dalle telecamere di sicurezza della tenuta agricola, dove vivevano e lavoravano gli Abbas, mentre con pale, piede di porco e secchio si dirigono, il 29 aprile scorso, nei campi. «Sotto l'egida e il coordinamento di Hasnain, lo zio si legge sempre nell' ordinanza i cugini si sono prontamente messi a disposizione». Avrebbero scavato la buca per occultare il cadavere il giorno prima dell'omicidio, che si sarebbe consumato nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio.
LE MINACCE AL FIDANZATO Intanto emerge dalle pieghe dell'inchiesta che il fidanzato di Saman, un 21enne pachistano, il 9 febbraio aveva presentato una denuncia dicendo che il padre della ragazza, con altre persone, si era presentato a casa dei suoi genitori dicendo: «Se tuo figlio non lascia Saman sterminiamo tutta la famiglia». Il dettaglio è stato raccontato da Chi l'ha visto. La trasmissione ha anche diffuso alcuni messaggi che la diciottenne si era scambiata con il ragazzo: «Ma perché Dio ha deciso che la mia vita deve essere così? Non so cosa fare, mi scoppia il cervello», diceva Saman. «Tu lo sai quanto può essere pericoloso qui per te. Amore, vai dai carabinieri ora», le scriveva il fidanzato. «Sì, l'ho pensato», la risposta della ragazza, poco prima di sparire.
Saman Abbas, il fratello 16enne davanti al giudice: "L'ha uccisa lui", ma lo zio è ancora latitante. Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. Il fratello 16enne di Saman Abbas ha raccontato la sua versione davanti al giudice delle indagini preliminari: il ragazzino è apparso molto preparato e ha confermato che sarebbe stato lo zio Danish Hasnain a uccidere la sorella. L’uomo 33enne è tuttora irreperibile: già nei giorni scorsi il fratellino di Saman aveva dichiarato agli inquirenti di ritenerlo colpevole dell’uccisione, avvenuta forse tramite strangolamento. Per far luce sulle modalità serve necessariamente ritrovare il corpo: le ricerche proseguono senza sosta nelle campagne di Novellara. La ragazza di origini pachistane è scomparsa da quasi un mese e mezzo: la testimonianza del fratello 16enne è stata cristallizzata, confermando quanto già aveva detto a chi conduce l’inchiesta. Per il momento gli indagati per omicidio sono i genitori della 18enne, lo zio e due cugini, uno dei quali è stato arrestato e ha assistito in collegamento dal carcere all’audizione. Si tratta di Ikram Ijaz, 28enne cugino di Saman, che finora è stato l’unico dei cinque latitanti che è stato rintracciato: bloccato in Francia dopo l’uscita del video con le pale dietro la casa di Novellara, è stato estradato e ora si trova in custodia cautelare nel carcere di Reggio. Nessuna traccia, invece, dei genitori di Saman e dello zio, che avrebbero organizzato l’omicidio perché contrari al matrimonio combinato che volevano proporre alla 18enne: nella sua testimonianza, però, il fratello 16enne ha cercato di escludere i genitori e far ricadere tutte le colpe sullo zio.
Saman Abbas, il fratello minorenne conferma: “Uccisa dallo zio Danish Hasnain”. Chiara Nava il 18/06/2021 su Notizie.it. Il fratello minorenne di Saman Abbas, nella giornata di oggi 18 giugno, ha parlato in tribunale confermando quanto già detto agli inquirenti. Il fratello minorenne di Saman Abbas, nella giornata di oggi 18 giugno, ha parlato in tribunale e ha fornito nuovi importanti dettagli sul caso. L’incidente probatorio è avvenuto alle ore 9.15 nel tribunale di Reggio Emilia. Secondo quanto si apprende dalle prime indiscrezioni, il ragazzo avrebbe confermato che a uccidere Saman “è stato lo zio Danish Hasnain“. Nella giornata di oggi si è tenuto l’incidente probatorio del fratello minore di Saman Abbas, ragazza di 18 anni scomparsa da un mese e mezzo, che probabilmente è stata uccisa a Novellara dallo zio, per aver rifiutato un matrimonio combinato in Pakistan ed essersi fidanzata con un connazionale senza l’approvazione della famiglia. L’audizione davanti al gip serve ad approfondire le dichiarazioni del fratello, per usarle come prove processuali. Il giovane è ritenuto molto attendibile dalla Procura. Aveva dichiarato agli inquirenti che a strangolare la sorella era stato lo zio Danish Hasnain, di 33 anni. Il 16enne era stato trovato insieme allo zio, che è stato lasciato andare, a Imperia, durante un controllo della polizia effettuato il 10 maggio, e in seguito è stato accompagnato in una struttura protetta per paura di eventuali ritorsioni. Il giovane ha cercato di scappare, per motivi ancora da chiarire. All’incidente probatorio assisterà anche il cugino Ikram Ijaz, 28 anni, dal carcere. L’uomo ha dichiarato di essere estraneo alla vicenda. Ikram Ijaz è l’unico ad essere stato arrestato, ma in realtà gli indagati in totale sono cinque. Sono iscritti nel registro del pm Laura Galli anche lo zio Danish Hasnain, considerato l’esecutore materiale dell’omicidio, Nomanhulaq Nomanhulaq, cugino di 35 anni, e i genitori della ragazza, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen. Lo zio e i due cugini sono stati immortalati in un video in cui camminavano con pale, piede di porco, secchio e sacchetti, verso i campi. Secondo i carabinieri stavano scavando la buca per occultare il cadavere di Saman, che non è ancora stato trovato. Il padre e la madre della ragazza sono scappati in Pakistan, con un biglietto di sola andata. Saman si era rivolta ai servizi sociali, che l’avevano portata in una casa famiglia. L’11 aprile, però, ha deciso di tornare a casa, probabilmente per recuperare i documenti necessari per poter andare via con il suo fidanzato. Una decisione che ha poi messo in pratica solo 11 giorni dopo, ovvero il 22 aprile. “Perché i servizi sociali avvertono i carabinieri solo il 23? Pubblichino il fascicolo sul caso Saman. Per trasparenza vogliamo capire se sia stato fatto tutto il possibile” hanno dichiarato i consiglieri comunali delle liste civiche di centrodestra e della Lega in una conferenza stampa.
R. I. per “il Messaggero” il 18 giugno 2021. Una testimonianza che diventa prova. «A uccidere Saman è stato lo zio Danish». Questo è quanto ha dichiarato ieri mattina il fratello della diciottenne d' origine pachistana scomparsa da un mese e mezzo nel Reggiano. L' ipotesi è che sia stata uccisa per il rifiuto di un matrimonio combinato con un cugino in patria, nonché per il fidanzamento con un connazionale inviso alla famiglia. Il fratello sedicenne ha confermato, nell' incidente probatorio in tribunale a Reggio Emilia, quanto aveva già rivelato agli inquirenti. Una testimonianza che a tutti gli effetti è ora «cristallizzata», utilizzabile al processo come possibile prova schiacciante nei confronti dei presunti colpevoli del delitto premeditato della sorella. Il minore nell' audizione protetta - coperto da un paravento - ha risposto a tutte le domande del gip Luca Ramponi, della pm Laura Galli titolare del fascicolo d' inchiesta, della procuratrice capo reggente Isabella Chiesi e degli avvocati della difesa. Il ragazzino è stato descritto come «preparato e tranquillo» dalla legale dello zio, la quale ha ribadito che ha «confermato le accuse». Nell'interrogatorio il fratello di Saman avrebbe difeso anche i genitori, dai quali vorrebbe tornare. Ma sarà il tutore affidatogli dalla Procura dei Minori a decidere le sue sorti, valutando il modo migliore in cui proteggerlo. Tuttora si trova in una struttura segreta. Gli indagati sono cinque. Lo zio Danish Hasnain, 33 anni, ritenuto l'esecutore materiale dell'omicidio, ricercato in mezza Europa assieme al 35enne Nomanhulaq Nomanhulaq, cugino di Saman. I due avrebbero scavato la fossa dove nascondere il corpo di Saman, la sera del 29 aprile quando sono stati ripresi con pale, piede di porco e un secchio, mentre si dirigevano verso i campi dietro l'azienda agricola di Novellara dove vivevano e lavoravano. Con loro due c'era anche l'altro cugino della vittima, Ikram Ijaz, 28 anni, unico arrestato che ora si trova in carcere a Reggio Emilia dopo essere stato fermato il 28 maggio scorso a Nimes, in Francia, mentre tentava di raggiungere alcuni parenti in Spagna a bordo di un bus diretto a Barcellona. Il 9 giugno è stato poi consegnato alle autorità italiane a Ventimiglia. Nell'interrogatorio di garanzia del 12 giugno si è detto «estraneo alla vicenda», ma ieri i suoi legali hanno ribadito che è disposto «a collaborare, rilasciando presto dichiarazioni spontanee alla magistratura». E poi indagati sono i genitori di Saman. Shabbar Abbas, 46 anni, e Nazia Shaheen, 47 anni, latitanti in Pakistan almeno dal primo maggio, quando sono rientrati nel Paese d' origine, come dimostrano i biglietti d' imbarco a Milano Malpensa e le telecamere del gate aeroportuale che li ha immortalati. La rogatoria internazionale nei loro confronti ancora non ha terminato l'iter d'attivazione. «Non mi risultano richieste ufficiali da parte delle autorità italiane, ma quando ciò avverrà metteremo in campo la massima collaborazione», ha detto il console generale del Pakistan Manzoor Ahmad Chaudhry in visita alla sindaca Elena Carletti. Il diplomatico ha anche condannato «senza se e senza ma il delitto» che sarebbe avvenuto la notte tra il 30 aprile e il primo maggio.
"Avevo chiesto del corpo, poi mio cugino..." Angela Leucci il 19 Giugno 2021 su Il Giornale. Saman Abbas è stata uccisa per aver avuto dei rapporti sessuali fuori dal matrimonio? Le rivelazioni del fratello e le foto della famiglia sono agghiaccianti. Saman Abbas è stata uccisa perché si era opposta al matrimonio concordato e invece voleva stare con un’altro ragazzo di cui era innamorata? È l’ipotesi di cui si è parlato spesso fin da quando è stato reso noto che la 18enne pakistana era scomparsa da Novellara lo scorso 30 aprile. Ma forse c’è dell’altro. Diversi approfondimenti in tv e sulla stampa hanno sottolineato in queste settimane come non esista un’opinione univoca su ciò che l’Islam preveda per una donna che si oppone al matrimonio combinato - provocando a volte una reazione dei genitori che lo fanno quindi diventare matrimonio forzato. Se il Corano non dice che una donna disobbediente debba essere uccisa, è anche vero che in alcune comunità persistono delle posizioni estremiste e fortemente patriarcali: la famiglia di Saman potrebbe far parte di una di queste comunità? È l’interrogativo che ci si è posti nella puntata di ieri sera di “Quarto grado”, dove sono stati ripercorsi gli ultimi giorni noti della giovane pakistana. Saman aveva lasciato la comunità l’11 aprile, mentre dal 20 fece ritorno nella casa abitata dai genitori e dal fratello a Novellara. Dall’11 al 20 aprile pare invece che sia stata con il fidanzato che amava, prima a Roma e poi nel frusinate, dove questi lavorava. Le domande sollevate in trasmissione sono fondamentali per immaginare cosa possa essere accaduto: Saman ha raccontato ai genitori con chi era stata in quei giorni, dato che i parenti osteggiavano quella relazione? E soprattutto: tra i due ragazzi ci sono stati rapporti sessuali, che sono effettivamente haram, proibiti? Il fratello di Saman ha confermato oggi l’assassinio della sorella per mano dello zio. Ha detto che, dopo il ritorno dello zio la notte del 30 aprile, i genitori “si colpivano con i pugni in testa”. Attualmente i genitori hanno detto al ragazzo di restare in comunità finché loro rimangono in Pakistan, ma un cugino gli aveva proposto di fuggire. “Ho mandato un messaggio a mio cugino - ha raccontato il fratellino della 18enne - per chiedere dov’era il corpo di Saman, ma mi ha bloccato”. L’inviato di “Quarto grado” ha ascoltato telefonicamente un amico del padre Shamar Abbas, che dice di averlo incontrato una ventina di giorni fa ma poi non più. Ha anche intervistato degli uomini in strada in Pakistan, che hanno affermato come una donna disobbediente debba essere uccisa. Intanto, dai profili social della famiglia Abbas, spuntano delle foto inquietanti di uomini armati di tutto punto. E un interrogativo resta senza risposta: perché non viene spiccato un mandato d’arresto internazionale nei confronti dei genitori di Saman?
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
“L’ha ammazzata lui…”. Il fratello di Saman ora rivela tutto. Rosa Scognamiglio il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. Il fratello di Saman Abbas avrebbe confermato le accuse nei confronti della famiglia. La 18enne sarebbe stata vittima di una congiura. Il fratello minore di Saman Abbas, la 18enne di origini pakistane scomparsa da Novellara tra il 29 e il 30 aprile scorso, ha confermato le accuse mosse dalla Procura di Reggio Emilia nei confronti dei suoi famigliari. Secondo la versione fornita dal ragazzino agli inquirenti, la giovane sarebbe stata uccisa dallo zio 33enne, Danish Hasnain.
L'interrogatorio. Prende sempre più corpo l'ipotesi di un "delitto d'onore" avanzata dal pm Laura Galli, a capo del fascicolo per omicidio premeditato e occultamento di cadavere presso la Procura di Reggio Emilia. A suffragio della pista delittuosa, adesso, vi è anche la testimonianza del fratello minore di Saman che avrebbe confermato lo scenario criminoso profilato in queste settimane dagli inquirenti. Interrogato per quasi tre ore, il sedicenne - assistito dal legale, una psicologa e dall'interprete - ha ribadito le accuse nei confronti della sua famiglia. A quanto emerso dall'incidente probatorio, Saman sarebbe stata vittima di una vera e propria congiura familiare, ordita dai genitori in correità con altri parenti, perché avrebbe rifiutato di andare in sposa al cugino. Stando a quanto si apprende dal sito de laRepubblica.it, il sedicenne avrebbe altresì confermato che sua sorella è stata strangolata dallo zio, Danish Hasnain, e poi sepolta chissà dove.
Il ruolo degli altri indagati. Sono 5 le persone indagate per il delitto di Saman. Oltre ai genitori della ragazza, Shabbar Abbas, 47 anni, e Nazia Shaheen, di 43, vi sono anche due cugini e lo zio. Il primo è Ikram Ijaz è uno dei due ragazzi di Saman che compare nel video della sera antecedente al presunto delitto. Insieme allo zio della 18enne, Danish Hasnain, e all'altro cugino, Nomanhulaq Nomanhulaq, avrebbe "scavato la fossa" che - verosimilmente - sarebbe servita per seppellire la ragazza il giorno successivo. Ikram Ijaz è stato intercettato a Nimes, dalla polizia francese, il 21 maggio scorso, dopo che su di lui era spiccato un mandato di arresto europeo. Il 28enne era stato fermato mentre tentava la fuga verso la Spagna a bordo di un autobus Flexibus partito da Parigi e diretto a Barcellona. Il 29 maggio, il fermo si era poi tramutato in arresto mentre si trovava in un centro di identificazione per cittadini stranieri. Lo scorso 3 giugno, la Procura di Reggio Emilia ha ottenuto l'okay per l'estradizione e, nella giornata di giovedì 10 giugno, è stato consegnato alle autorità italiane a Ventimiglia. Sono latitanti, invece, lo zio di Saman, Danish Hasnain e il cugino 35enne Nomanhulaq Nomanhulaq. Entrambi sono ricercati in tutta Europa.
Le ricerche del corpo di Saman. Non c'è ancora nessuna traccia del corpo di Saman. Gli inquirenti battono le campagne di Novellara concentrandosi in particolare su pozzi, serre e canali. Ma la circostanza che il cadavere della ragazza sia tuttora introvabile suggerisce che, forse, i resti di Saman possano trovarsi nell’acqua, al riparo dal fiuto dei cani molecolari. Per favorire l'attività dei carabinieri, nei giorni scorsi, sono stati eseguiti carotaggi del terreno e oggi saranno controllati alcuni punti segnalati dall'elettromagnetometro, attraverso escavazioni. A perlustrare i campi ci sarà anche personale di rinforzo del quinto Reggimento Carabinieri di Bologna. Le unità cinofile sono entrate in azione da ieri e anche oggi saranno sguinzagliate nei campi, agevolate dai carotaggi che saranno praticati anche oggi. Si faranno degli scavi dove lo strumento ha individuato alcune anomalie nel terreno, ancora tutte da verificare.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Saman Abbas, "orrore di gruppo". I dettagli sconvolgenti sugli ultimi secondi di vita. Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. Un orrore di gruppo. Nel terrificante omicidio di Saman Abbas potrebbero essere coinvolte altre persone che potrebbero aver condiviso il progetto criminoso dell'uccisione della ragazza di 18 anni. Sulla scorta degli elementi finora raccolti, riporta il sito dell'Ansa, gli investigatori starebbero valutando la sussistenza di profili di responsabilità in capo ad altri soggetti. Al momento gli indagati per omicidio premeditato sono e restano cinque. Si tratta dei genitori di Saman - Shabbar Abbas e Nazia Shaheen - fuggiti e irreperibili in Pakistan; dello zio Danish Hasnain - che il fratello minorenne della presunta vittima ha accusato in sede di incidente probatorio di essere l'esecutore materiale del delitto - fuggito in Europa; e di due cugini. Uno dei due - Nomanhulaq Nomanhulaq - è in fuga, si presume in Europa; l'altro - Ikram Ijaz - è l'unico arrestato e si trova in carcere a Reggio Emilia dopo essere stato fermato in Francia nel tentativo di scappare in Spagna. Quest'ultimo ieri in video-collegamento ha assistito all'audizione protetta del testimone minorenne e i suoi legali hanno ribadito che presto renderà dichiarazioni spontanee ai magistrati. Il fratello 16enne di Saman Abbas ha raccontato la sua versione davanti al giudice delle indagini preliminari: il ragazzino è apparso molto preparato e ha confermato che sarebbe stato lo zio Danish Hasnain a uccidere la sorella. L’uomo 33enne è tuttora irreperibile: già nei giorni scorsi il fratellino di Saman aveva dichiarato agli inquirenti di ritenerlo colpevole dell’uccisione, avvenuta forse tramite strangolamento. Per far luce sulle modalità serve necessariamente ritrovare il corpo: le ricerche proseguono senza sosta nelle campagne di Novellara.
Saman Abbas, il fratello tenta la fuga dopo l'interrogatorio. Rosa Scognamiglio il 19 Giugno 2021 su Il Giornale. Dopo l'incidente probatorio, il fratello di Saman avrebbe tentato la fuga. Intanto, potrebbero esserci nuovi indagati nell'inchiesta per omicidio. Poco dopo l'incidente probatorio, il fratello di Saman Abbas ha tentato la fuga dalla struttura protetta in cui si trova. A rivelarlo sono "fonti giudiziarie" vicine al Corriere della Sera, secondo cui il sedicenne avrebbe tentato di allontanarsi con modalità "analoghe a quelle dell'altra volta" (aveva già provato a scappare qualche settimana fa). Intanto, si allarga l'inchiesta per omicidio premeditato e occultamento di cadavere. Altre persone potrebbero finire nel registro degli indagati con l'ipotesi del reato di favoreggiamento: qualcuno, sospettano gli investigatori, che potrebbe aver avuto un "ruolo collaterale" nel delitto. Ha collaborato con gli inquirenti confermando i sospetti della pm Laura Galli, a capo dell'inchiesta, che Saman potrebbe essere stata vittima di una congiura famigliare. "Mio zio Danish Hasnain ha ucciso mia sorella", avrebbe rivelato il fratello minore della ragazza nel corso dell'interrogatorio di venerdì mattina. Ma poi, ha anche ribadito di voler tornare in Pakistan: "Dico tutta la verità ma poi voglio andare dai miei genitori". Ed è forse questo il motivo per cui avrebbe tentanto la fuga "analoga a quella dell'altra volta" dal centro protetto in cui si trova da due settimane. Stando agli avvocati che hanno partecipato all'incidente probatorio, il ragazzino si esprime in un italiano "egregio" e ha risposto con "linearità" alle domande degli inquirenti. Tuttavia, Lalla Ghemandi, il legale di Danish Hasnain - presunto esecutore materiale del delitto - ritiene che il sedicenne abbia tentato di "alleggerire" la posizione giudiziaria dei genitori riversando le eventuali responsabilità dell'omicidio sullo zio. Mentre i genitori programmavano la fuga da Novellara, il fratello di Saman è rimasto con lo zio Danish. Subito dopo i fatti, i due erano saltati a bordo di un treno diretto da Guastalla in Liguria. Verosimilmente, l'idea sarebbe stata quella di raggiungere la Francia ma poi, il 21 maggio, zio e nipote sono stati intercettati dai carabinieri in prossimità di Imperia. Così, il ragazzino è stato condotto in una struttura protetta mentre Danish Hasnain, che avrebbe dovuto presentarsi in questura il giorno successivo per formalizzare la sua posizione, si è dato alla fuga. Adesso è ricercato in tutta Europa. Ieri, la Procura minorile di Reggio Emilia ha nominato un tutore legale per il sedicenne: sarà lui a decidere se assecondare la volontà del ragazzo di tornare in Pakistan. Per ora, resta sotto stretta sorveglianza onde evitare possibili ritorsioni da parte del clan Abbas su di lui a seguito della collaborazione offerta agli inquirenti durante l'interrogatorio. Ma il pericolo di fuga c'è ed è reale, per questo gli è stato imposto "temporaneamente" il divieto di espatrio. Intanto, l'inchiesta per omicidio premeditato si allarga e nuovi nomi potrebbero finire nel registro degli indagati. Stando a quanto avrebbe rivelato una "fonte giudiziaria" vicina al Corriere della Sera, si tratta di persone che avrebbero avuto un ruolo collaterale nel delitto. Verosimilmente coloro che avrebbero aiutato i genitori di Saman, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, a ritornare in Pakistan dopo il misfatto. Pertanto, l'ipotesi di reato nei confronti dei possibili sospettati sarebbe di favoreggiamento.
Nell'attesa di fare luce anche su questo aspetto della vicenda, si rafforza l'ipotesi della premeditazione. Nei giorni precedenti al presunto delitto, i genitori di Saman si sarebbero sottoposti al tampone per accertare di non aver contratto il covid. Un dettaglio tutt'altro che trascurabile dal momento che la compagnia aerea Qatar Airways, con cui hanno prenotato i biglietti per il Pakistan tra il 27 e il 29 aprile, prevede l'obbligo di tampone 48 ore prima dell'imbarco. Sono 5 le persone indagate per il delitto di Saman. Oltre ai genitori della ragazza, Shabbar Abbas, 47 anni, e Nazia Shaheen, di 43, vi sono anche due cugini e lo zio. Il primo è Ikram Ijaz è uno dei due ragazzi di Saman che compare nel video della sera antecedente al presunto delitto. Insieme allo zio della 18enne, Danish Hasnain, e all'altro cugino, Nomanhulaq Nomanhulaq, avrebbe "scavato la fossa" che - verosimilmente - sarebbe servita per seppellire la ragazza il giorno successivo. Ikram Ijaz è stato intercettato a Nimes, dalla polizia francese, il 21 maggio scorso, dopo che su di lui era spiccato un mandato di arresto europeo. Il 28enne era stato fermato mentre tentava la fuga verso la Spagna a bordo di un autobus Flexibus partito da Parigi e diretto a Barcellona. Il 29 maggio, il fermo si era poi tramutato in arresto mentre si trovava in un centro di identificazione per cittadini stranieri. Lo scorso 3 giugno, la Procura di Reggio Emilia ha ottenuto l'okay per l'estradizione e, nella giornata di giovedì 10 giugno, è stato consegnato alle autorità italiane a Ventimiglia. Sono latitanti, invece, lo zio di Saman, Danish Hasnain e il cugino 35enne Nomanhulaq Nomanhulaq. Entrambi sono ricercati in tutta Europa. Intanto, secondo quanto emerso da "Le Storie di Quarto Grado" nella puntata andata in onda venerdì sera su Rete 4, Saman e il fidanzato, un connazionale che la famiglia non gradiva, avrebbero trascorso qualche giorno di vacanza a Roma tra l’11 e il 20 aprile, nel periodo in cui la diciottenne ha lasciato la comunità protetta in cui viveva dopo la denuncia ai genitori e la data del rientro a casa a Novellara. Due giorni dopo,il 22, la ragazza, tornata in famiglia, ha incontrato i carabinieri che le hanno palesato i loro dubbi sull’opportunità di stare a casa. Consigliandole di tornare in un centro protetto. Ma Saman ha rifiutato, spiegando di "sentirsi tranquilla".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi.
La rivelazione su Saman: "So il punto esatto dove è sparita..." Rosa Scognamiglioil 20 Giugno 2021 su Il Giornale. Il fratello di Saman Abbas avrebbe indicato agli inquirenti il punto in cui sua madre avrebbe affidato la sorella allo zio. L'inchiesta per omicidio premeditato e occultamento di cadavere di Saman Abbas potrebbe essere giunta ad un punto di svolta. Stando a una indiscrezione raccolta dal Corriere della Sera, il fratello della 18enne avrebbe rivelato agli inquirenti il punto esatto in cui sarebbe sua madre, Nazia Shaheen, avrebbe affidato la sorella allo zio Danish (che poi l'avrebbe strangolata) la sera del presunto delitto. Quando all'incidente probatorio di venerdì, il pm e gli altri inquirenti, avrebbero chiesto al ragazzino se sapesse indicare il luogo esatto in cui è stata verosimilmente seppellita Saman, lui ha risposto così: "Posso dirvi il punto esatto in cui mia madre ha affidato mia sorella allo zio Danish". A rivelare il non trascurabile dettaglio del lungo interrogatorio a cui è stato sottoposto il fratello della 18enne è il Corriere della Sera che, inoltre, ha riportato alcuni passaggi cruciali agli atti del fascicolo aperto presso la Procura di Reggio Emilia. Tutto ruota attorno alle ore precedenti al presunto delitto e ai pochi frammenti video recuperati dalle telecamere di sorveglianza dell'azienda agricola presso cui lavorano i membri del clan Abbas. La sera del 30 aprile, Saman ha una discussione accesa coi genitori, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, per via del matrimonio combinato in Pakistan a cui si è opposta (c'è una denuncia per induzione al matrimonio che lo prova). Il padre tenta di ricondurla alla calma: "Siediti, parliamo", dice alla figlia. Ma Saman non vuole saperne, così recupera il passaporto e prova a dileguarsi. A quel punto, Shabbar chiama Danish Hasnain: "È scappata un'altra volta". "Ci penso io", assicura Hasnain. Dunque si arriva al momento immortalato nel video, quello in cui Saman s'incammina sulla carrabile che costeggia la strada verso Guastalla. Dietro di lei ci sono la mamma e il padre che "armeggia" con il telefonino. Qualche minuto più tardi, le telecamere riprendono Shabbar di ritorno verso casa. Ha con sé lo zainetto della figlia. Di Saman, invece, neanhe l'ombra. Intanto, l'inchiesta per omicidio premeditato si allarga e nuovi nomi potrebbero finire nel registro degli indagati. Stando a quanto avrebbe rivelato una "fonte giudiziaria" vicina al Corriere della Sera, si tratta di persone che avrebbero avuto un ruolo collaterale nel delitto. Verosimilmente coloro che avrebbero aiutato i genitori di Saman, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, a ritornare in Pakistan dopo il misfatto. Pertanto, l'ipotesi di reato nei confronti dei possibili sospettati sarebbe di favoreggiamento.
Alessandro Fulloni per il "Corriere della Sera" il 21 giugno 2021. Un dettaglio che potrebbe essere decisivo emerge nel racconto che il fratello di Saman, sedicenne, ha fatto venerdì mentre veniva ascoltato come testimone in tribunale. Quando qualcuno - tra gip, procuratrice, pm e avvocati - gli chiede se conosce il posto in cui Saman è stata seppellita, lui scuote la testa per dire di no. Però poi aggiunge: «Posso indicarvi il punto esatto, vicino a una serra, in cui mia madre ha affidato Saman a mio zio Danish Hasnain», l'uomo che poi, qualche minuto più tardi, l'avrebbe uccisa «forse strangolandola». La mezzanotte del 30 aprile è passata da nove minuti esatti e i filmati delle telecamere di sorveglianza dell'azienda agricola di Novellara, in provincia di Reggio Emilia, dove lavorano gli Abbas, confermano le parole del ragazzo. Dentro la cascina, «dalla cucina del piano terra», lui sta «guardando tutto». Prima assiste alla lite tra Saman e i genitori, Shabbar, 44 anni, e Nazia, 48. Volano insulti ma il padre la rabbonisce. «Siediti - le dice - parliamo con calma». Saman convince il genitore a farsi dare il passaporto. È questo il motivo per cui è tornata a casa, lasciando l'11 aprile il centro protetto a cui l'avevano affidata i servizi sociali del Comune dopo il suo rifiuto alle nozze combinate in Pakistan. Recuperato il documento in possesso del padre, lei lo mette nello zaino ed esce in un lampo. Ma a questo punto la situazione precipita. Shabbar chiama per telefono Hasnain. «È scappata di nuovo» lo avverte. «Ci penso io» risponde l'altro. Uno scambio di frasi che suona come una condanna a morte, come se tutto fosse stato già pianificato. Magari in Pakistan. Anche perché poco prima - si legge nelle carte firmate dal giudice delle indagini preliminari Luca Ramponi - la ragazza armeggiando con il cellulare della madre ascolta una frase sconcertante contenuta in un messaggio audio diretto proprio a Nazia. Una voce femminile dice - evidentemente riferendosi a Saman - che forse è l'ora di «ammazzarla, lei ha già fatto così con voi, scapperà via...». La diciottenne, sconvolta, chiede alla madre se stiano parlando proprio di lei. Ma Nazia risponde di no: si stavano riferendo a un'altra ragazza che vive in Pakistan. Saman non è convinta. «Giuro, l'ho sentito con le mie orecchie» prosegue spaventata sfogandosi con il fidanzato, già minacciato di morte mesi prima da Shabbar che gli aveva fatto sapere di voler «sterminare la sua famiglia» se avesse continuato a vedere la figlia. Anche il ragazzo ora è preoccupato e chiede a Saman «se questa cosa venga dallo zio materno che sta in polizia». Ma la ragazza risponde che non è chiaro: della sua morte avrebbero parlato più persone, qualcuno addirittura in un video con Shabbar. Questo dialogo tra i due fidanzati è agli atti dell'inchiesta. La voce esile di Saman nell' audio, si affievolisce. E termina così: «Vediamo cosa c' è scritto nel destino e cosa no...». Un'ora dopo le telecamere riprendono Shabbar e Nazia che stanno qualche passo indietro a Saman mentre si allontana lungo la carrabile sterrata. Il padre si ferma per guardare il telefonino. Proseguono solo madre e figlia. Il video termina qui. Il resto lo rivela il fratello della vittima: «Zio Danish le aspettava vicino a una serra...». Al termine dell'incidente probatorio - chiesto dal gip per usare quelle parole come prova - il ragazzo, riportato al centro protetto, ha tentato la fuga. Come già avvenuto due settimane fa, è stato ritrovato dai carabinieri. Chi gli ha parlato, riferisce che il sedicenne, sottoposto «per ora» al divieto d' espatrio, sta vivendo «notti agitatissime» e ha ribadito di voler tornare in Pakistan. Possibile? «Deciderà il tutore affidatogli dalla Procura dei Minori di Bologna» ha detto la sua legale Valeria Miari. Intanto potrebbero esserci nuovi avvisi di garanzia. C' è da chiarire chi abbia favorito la fuga degli Abbas in Pakistan.
Da "il Messaggero" il 23 giugno 2021. Si allarga il raggio d' inchiesta del caso Saman Abbas, la 18enne d'origine pachistana scomparsa da un mese e mezzo e che si presume essere stata ammazzata per aver rifiutato un matrimonio islamico forzato con un cugino in patria. La Procura di Reggio Emilia ha ottenuto, infatti, un «ordine europeo di indagine» e presto gli indagati potrebbero salire a sette. Ai cinque già iscritti nel fascicolo - per omicidio premeditato, occultamento di cadavere e sequestro di persona, queste le accuse di reato ipotizzate - potrebbero aggiungersi altre due persone. Sarebbero due zie. Una che vive presumibilmente nel Regno Unito, la quale il primo maggio - all' indomani della data del presunto delitto - ha inviato un messaggio audio su Whatsapp al fratello minorenne di Saman, da un'utenza inglese, intimandogli di non raccontare nulla. Un' altra zia invece, dalla Francia, avrebbe fatto analoghe pressioni al 16enne, dandogli istruzioni su come comportarsi. Le indagini sulle due donne potrebbero focalizzarsi anche sull' acquisizione del telefonino.
Dritto e Rovescio, il video-choc su Saman Abbas: "Perché va ammazzata", poi gli spari. Bestialità dei familiari contro la ragazza. Libero quotidiano il 25 giugno 2021. Continua a tenere banco il caso di Saman Abbas, la ragazza pakistana di 18 anni scomparsa a Novellara, nelle vicinanze di Reggio Emilia. Le circostanze della sua sparizione lasciano intendere che la ragazza sia stata uccisa, una morte tragica in cui sarebbero coinvolti direttamente i familiari della ragazza. Nella serata di ieri, giovedì 24 giugno 2021, a Dritto e Rovescio è stato trasmesso un documento esclusivo che incrimina ulteriormente i familiari della povera Saman. Durante la trasmissione condotta da Paolo Del Debbio e in onda su Rete 4, viene infatti mostrato un video che ritrae alcuni membri della famiglia di Saman Abbas minacciare di morte il fratello del suo fidanzato in Pakistan. Il video mostra tre uomini in abiti tradizionali pakistani discutere a toni accesi. Un video di pochi secondi, che mette ulteriore luce sulla contorta vicenda e spiega perché, secondo la Procura di Reggio Emilia, Saman sarebbe stata uccisa dalla sua famiglia. Nel video, risalente alla fine di gennaio 2021, si vedono Shabbar Abbas (il padre di Saman), lo zio di Saman (con indosso una grande sciarpa marrone) e il fratello del fidanzato di Saman. Il padre e lo zio di Saman, capo clan del villaggio, si erano recati in Pakistan per parlare con il fratello del ragazzo pakistano che Saman aveva conosciuto in Italia. Innamorato di lui, aveva rifiutato di sposare il cugino in un matrimonio combinato, suscitando l'ira della famiglia. La conversazione tra i tre è stata denunciata da Saman direttamente ai carabinieri di Novellara il 22 aprile scorso, pochi giorni prima di morire. "Mio padre il 26 gennaio è andato in Pakistan dalla famiglia del mio fidanzato - racconta Saman -. E hanno parlato con suo fratello. Gli ha detto: 'Tu dì a tuo fratello di lasciare Saman'. Lo hanno minacciato dicendo: 'Se tuo fratello non lascia Saman, noi uccidiamo lui e tutta la vostra famiglia". In quella circostanza, Saman racconta che i suoi familiari erano accompagnati anche da altre persone, armate di pistola e che hanno sparato in aria per intimorire il ragazzo. La sera del 30 aprile 2021, lo aveva capito anche Saman che in Pakistan era stata emessa una sentenza di morte nei suoi confronti. Piangendo, lo aveva rivelato al suo fidanzato in un tragico scambio di messaggi, pochi minuti prima di morire. "Ho sentito con le mie orecchie mio zio materno, quello che era andato a casa della tua famiglia in Pakistan. Lui ha mandato un Whatsapp a mamma in cui dice: "Uccidiamola, perché questa può fare cose strane un'altra volta o può scappare".
(ANSA il 25 giugno 2021) Pochi secondi che mostrano il padre di Saman Abbas con la giacca blu e lo zio materno con uno scialle marrone, a gennaio in Pakistan, incontrare il fratello del fidanzato della 18enne scomparsa da Novellara (Reggio Emilia). Sono le immagini mostrate in esclusiva ieri sera nel corso della puntata di “Dritto e Rovescio” su Rete4 che mostrano questo incontro ripreso dal fratello stesso, incontro di cui aveva parlato la ragazza ai carabinieri il 22 aprile, pochi giorni prima di sparire. Saman aveva infatti raccontato del viaggio del padre e dello zio in Pakistan per incontrare il fratello del suo ragazzo e delle minacce che avrebbero fatto, ossia di uccidere il suo fidanzato e tutta la sua famiglia se non l'avesse lasciata.
(ANSA il 25 giugno 2021) Si concentrano in particolare su una serra le ricerche del corpo di Saman Abbas, a Novellara, nel Reggiano. L'elettromagnetometro ha dato riscontri su un'area specifica, suffragati dai cani addestrati, impiegati in questi giorni per fiutare l'eventuale presenza di un cadavere. I carabinieri sono impegnati a scavare, e si sta utilizzando anche un bobcat. La ragazza diciottenne di origine pachistana è scomparsa da 55 giorni e si pensa sia stata uccisa dai familiari per essersi opposta a un matrimonio combinato.
Da corriere.it il 25 giugno 2021. Prima di scomparire, tra i tanti video e messaggi inviati da Saman Abbas al suo fidanzato c’è anche una sua foto, un selfie scattato molto da vicino per mostrare un grande livido sulla guancia. L’ha fatta vedere per la prima volta la trasmissione Chi l’ha Visto nella puntata del 23 giugno. La 18enne pakistana di Novellara, in provincia di Reggio Emilia, scomparsa dopo essersi opposta al matrimonio combinato dalla famiglia, nella chat con il suo ragazzo fa anche il nome di chi le avrebbe provocato quel livido, con un pugno o uno schiaffo: il cugino Irfan. Secondo la denuncia presentata dal fidanzato di Saman Abbass, Irfan l’avrebbe picchiata dopo aver saputo che la cugina aveva ancora rapporti con lui. E che «se continuava a vederlo poteva accaderle ancora peggio» si legge nella denuncia. Irfan non è uno dei cinque parenti della ragazza indagati dalla Procura per omicidio (i genitori, lo zio, un cugino), non fa parte del gruppo di uomini armati di pala che si vedono nel filmato in bianco e nero acquisto dalla Procura e ha sempre smentito ogni coinvolgimento nella vicenda. Insomma, sembrava estraneo al cerchio di parenti che, secondo gli inquirenti, sono responsabili dell’omicidio della ragazza o che ne sono, in modi diversi, complici (il numero degli indagati è destinato ad aumentare). Irfan infatti aveva detto all’inviato di Chi l’Ha visto di aver solo aiutato i genitori di Saman a procurarsi un biglietto per il Pakistan in un’agenzia: «Ho fatto un favore al padre che mi chiedeva di acquistare un biglietto per la moglie». Poi, dopo la partenza, ha detto non averli più sentiti e di «avere vergogna» a parlare con loro per «la cosa grave che hanno commesso». Ma dopo la denuncia fatta dal fidanzato di Saman nei cui atti figura la foto con l’ecchimosi «provocata dal cugino Irfan» l’inviato di Chi l’ha visto ha raggiunto nuovamente Irfan che ha reagito dicendo di non saperne niente: «Non sono stato io, non so perché ha fatto il mio nome non so nulla, lasciatemi in pace». Forse uno scambio di nome? In verità Saman nel messaggio al fidanzato in cui accusava il cugino gli manda anche il suo numero di telefono, e dai riscontri fatti dall’inviato della trasmissione il numero corrisponde a quello del giovane intervistato che si dichiara estraneo a ogni fatto. Ma non è tutto. Sempre nella denuncia presentata dal ragazzo di Saman si legge che questo cugino, assieme ad altri parenti connazionali, si sarebbero presentati a casa della famiglia Abbas il 26 aprile e sarebbero rimasti lì fino al 4 maggio. Saman sarebbe stata uccisa, secondo gli inquirenti, il 30 aprire, quindi questi parenti sarebbero stati presenti proprio nei giorni in cui si decideva e poi si eseguiva la «condanna» della ragazza. Perché erano lì? Forse per controllare che lei non uscisse di casa? E dopo il delitto? Ma Irfan nega anche di essere stato a casa Abbas in quei giorni. Quel che è certo è che il cerchio di parenti (soprattutto uomini) che ha circondato Saman per piegarla a fare qualcosa che non voleva e poi a ucciderla sembra allargarsi ogni giorno.
Saman Abbas, lo scatto-choc nelle foto di famiglia: pugni in faccia, ecco come l'avevano ridotta. Libero Quotidiano il 25 giugno 2021. Una foto choc di Saman Abbas è stata mostrata in esclusiva a Chi l'ha visto su Rai 3. La 18enne di origine pakistana è scomparsa da Novellara dopo essersi opposta a un matrimonio combinato, motivo per cui sarebbe anche stata uccisa dai familiari che non sopportavano il suo progressivo allontanamento dai precetti dell'Islam. Lo scatto in questione lo aveva inviato lei stessa al fidanzato prima di sparire nel nulla. Nell'immagine c'è il suo volto in primo piano con un grande livido sulla guancia. Nella chat col fidanzato, Saman fa anche il nome di chi l'avrebbe ridotta in quello stato, con un pugno o uno schiaffo: il cugino Irfan. Secondo la denuncia presentata dal compagno della 18enne, Irfan l’avrebbe picchiata dopo aver saputo che la cugina aveva ancora rapporti con lui. E che "se continuava a vederlo poteva accaderle qualcosa di peggio", si legge nella denuncia. In ogni caso, Irfan non è uno dei cinque parenti della ragazza indagati dalla Procura per omicidio e ha sempre smentito ogni coinvolgimento nella vicenda. Dopo lo scatto choc, Irfan - raggiunto da un inviato di Chi l'ha visto - ha detto: "Non sono stato io, non so perché ha fatto il mio nome, non so nulla, lasciatemi in pace". E non è tutto: nella denuncia presentata dal ragazzo di Saman si legge anche che questo cugino, assieme ad altri parenti connazionali, si sarebbe presentato a casa della famiglia Abbas il 26 aprile e sarebbe rimasto lì fino al 4 maggio. Saman sarebbe stata uccisa, secondo gli inquirenti, il 30 aprile, quindi questi parenti sarebbero stati presenti proprio nei giorni in cui si decideva e poi si eseguiva la "condanna" della ragazza. Che ci facevano lì?
"Morirei per te...". Il presagio di Saman dopo l'abito da sposa. Angela Leucci il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Saman Abbas aveva progettato di sposarsi con il fidanzatino e di fuggire in Pakistan: aveva persino acquistato il suo abito tradizionale da sposa. Saman Abbas stava per sposarsi. Non con il cugino 29enne con cui avrebbero voluto accasarla i genitori, e contro i quali la giovane pakistana si è opposta al matrimonio combinato. Saman stava per sposarsi con il fidanzato, un connazionale conosciuto in chat, che come lei viveva in Italia, ma nel Frusinate. Nella puntata di ieri sera di Quarto grado si è parlato dei preparativi del matrimonio, quello desiderato, di Saman, che aveva scritto al coetaneo: “Io morirei per te”. Come sottolineato in trasmissione, queste parole sembrano quasi un triste, terribile presagio: la 18enne è scomparsa da Novellara la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio scorso, e si ritiene che i parenti l’abbiano uccisa per aver disobbedito ai genitori e rifiutato il matrimonio forzato. Saman e il fidanzato, più volte minacciato dai parenti della giovane insieme alla propria famiglia, avevano fatto una vacanza insieme a Roma e lui le aveva chiesto di sposarlo. La coppia aveva addirittura ordinato un abito da sposa in Pakistan, bianco, come la tradizione vuole. Un vestito che Saman purtroppo non indosserà mai. A Quarto grado ci si è chiesti se qualcuno abbia tradito la giovane coppia o se Saman avrebbe potuto essere tutelata maggiormente in Italia. Il presunto omicidio potrebbe avere - e questo è un dato quasi assodato in molti approfondimenti televisivi - una matrice culturale, che affonda le proprie radici nelle comunità rurali pakistane, reazionarie e misogine anche in contrasto ai dettami del Corano. “E ora come faremo a dirlo in Pakistan? Questo è un disonore per tutti noi”, pare abbia detto Nazia, la madre di Saman, colei che in un certo senso sembra aver mosso i fili dell’intera faccenda. Anche se poi l’esecutore del presunto omicidio potrebbe essere stato lo zio Danish, che disse agli Abbas: “Ora andate a casa, ora ci penso io”. Ma c’è poi anche la testimonianza del fratello di Saman, con molte cose che non tornano: il ragazzino avrebbe mentito su alcuni messaggi della sorella ma anche all’inizio, quando disse che la sorella era andata in Belgio come aveva fatto in passato. Una troupe di “Quarto grado” si è recata ancora una volta in Pakistan, ascoltando i pareri delle persone che sembrano confermare l’omicidio in risposta alla ribellione verso un matrimonio combinato. La troupe ha incontrato anche una zia di Saman, che ha affermato di provare un grande dolore e di aver appreso tutto dalla tv. Ma un uomo, nascosto dietro un cancello alle sue spalle, le dice: “Stai zitta, non parlare”. Che sia stato Shabbar Abbas, il padre di Saman, al momento atteso dalle autorità italiane?
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Saman si era comprata un vestito da sposa per le nozze con il suo fidanzato comprata un vestito da sposa per le nozze con il suo fidanzato. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 26/6/2021. La 18enne scomparsa quasi due mesi fa pensava alle nozze con il fidanzato conosciuto in chat, ma osteggiato dalla sua famiglia. Il padre Shabbar si cancella dai social dopo la valanga di insulti. Saman voleva sposare il fidanzato conosciuto in chat, quello tanto osteggiato dalla famiglia e «inviso» al padre Shabbar. La diciottenne aveva già ordinato un abito per il matrimonio, direttamente in Pakistan. Aveva trascorso una settimana a Roma col ragazzo, a partire dall’11 aprile, dopo aver lasciato il centro protetto nel quale era stata trasferita dai servizi sociali di Novellara per il no alle nozze imposte con un cugino materno di dieci anni più grande. Proprio durante il soggiorno nella Capitale — racconta Quarto Grado — il giovane le avrebbe chiesto di sposarlo e i due avrebbero rivelato le intenzioni anche ad alcuni amici stretti.
«Shabbar appartiene alla mafia pakistana». Ma facciamo un passo indietro. La relazione tra Saman e il suo connazionale ventunenne sta scombinando ulteriormente i progetti che Shabbar e Nazia, la madre, hanno in mente per la figlia. Che, denunciandoli, ha fatto saltare le nozze previste il 22 dicembre scorso, con tanto di biglietti aerei già acquistati dal clan Abbas. Shabbar è deciso a tutto pur di allontanare quel giovane che gli è «inviso», come si legge nelle carte giudiziarie firmate dal gip Luca Ramponi. Addirittura, a gennaio, scortato da sei auto che irrompono sgommando, si presenta lui stesso davanti alla casa in Pakistan dei familiari del ragazzo e li minaccia apertamente: «Ditegli di lasciare in pace mia figlia, sennò vi stermino tutti». Il fidanzato è terrorizzato, lo si capisce da quel che racconterà poi il 5 maggio, quando, rintracciato dai carabinieri, spiegherà di aver ricevuto da Saman la foto — mandata in onda da Chi l’ha visto — che la ritrae con un livido. A picchiarla è stato il cugino Amjad Arfan, 34 anni, e altri due familiari, non ancora identificati, comparso in casa Abbas il 26 aprile con il solo scopo di evitare che lei scappi come ha già fatto in precedenza.
«Smetti di vederlo o ti può accadere di peggio». Ascoltato dai carabinieri, è ancora il fidanzato a spiegare che «quando il cugino si è accorto che stava ancora in contatto con me l’ha percossa, aggiungendo che se non finiva la storia, poteva accaderle di peggio». Saman allora — «cocciuta e determinata» nelle relazioni degli assistenti sociali — poco dopo si fa un selfie che invia al compagno chiarendogli che a picchiarla è stato Arfan. Più avanti però, ecco un altro messaggio, ancora più angosciante: «Se non mi senti per 48 ore è perché mi è successo qualcosa di brutto».
Arfan ha acquistato il biglietto alla madre. Quanto ad Arfan, si sarebbe presentato a casa degli Abbas — nel cortile dell’azienda agricola presso la quale lavoravano tutti gli uomini — il 26 aprile, determinato a «starci sino al 4 maggio» per evitare che Saman scappasse ancora. Il compagno della diciottenne, sparita uscendo di casa nella notte del 30 aprile, dice a verbale di «avere molta paura», anche perché Shabbar fa parte «della mafia pakistana». Arfan lavora ancora nelle serre dove sono in corso le ricerche del corpo e finora non è indagato. È stato proprio lui a comperare il biglietto aereo a Nazia, il 27 aprile, consentendole di rimpatriare con il marito il mattino del 1° maggio con un volo da Malpensa.
La «morte digitale» di Shabbar. Una fuga dunque di poche ore successiva alla sparizione della ragazza. Interrogato una prima volta dai carabinieri il 21 maggio, Arfan si è limitato a confermare il ruolo di preminenza, tra gli Abbas, di Danish Hasnain, lo zio che avrebbe strangolato Saman. Ma non saprebbe nulla dell’uccisione. Shabbar intanto, dal Pakistan, ha dato luogo alla sua «morte digitale»: si è infatti cancellato da Facebook, dove, sotto a ogni sua foto, veniva ricoperto con raffiche di insulti provenienti da tutto il mondo.
Michela Allegri per il Messaggero il 26 giugno 2021. Un livido che le copre una guancia intera: la prima punizione per avere deciso di frequentare un ragazzo diverso da quello scelto per lei dalla famiglia. L' incipit di una storia di violenza: quella stessa famiglia ora è accusata di avere ucciso e fatto sparire Saman Abbas, 18 anni, colpevole di avere rifiutato un matrimonio combinato in patria, in Pakistan. A consegnare ai carabinieri una fotografia che ritrae la ragazza con il volto gonfio e pesto è il fidanzato, pure lui pachistano. Allegati all' immagine, i messaggi di Saman che raccontava di essere stata colpita da uno dei cugini dopo avere confessato la sua relazione. Ma il giovane, ascoltato, ha negato.
IL VIDEO Lo scatto ora è agli atti dell'inchiesta sull' omicidio della ragazza insieme a un video - mostrato dalla trasmissione Dritto e Rovescio - dove si vede il padre di Saman a gennaio in Pakistan, mentre discute con il fratello del fidanzato della ragazza. Di questo incontro aveva parlato anche la diciottenne ai carabinieri il 22 aprile, pochi giorni prima di sparire: il padre e lo zio erano andati in Pakistan per incontrare il fratello del suo fidanzato, minacciando di morte l'intera famiglia se i due giovani non si fossero lasciati. Il cadavere di Saman non è ancora stato trovato: si continua a cercare nelle campagne di Novellara, in provincia di Reggio Emilia, dove viveva la famiglia della diciottenne. La ragazza si era trasferita da un po' di tempo in una comunità, ma era tornata a casa, probabilmente attirata con l'inganno dalla madre. Era il 29 aprile. Ieri, verso le 11.30, l'elettromagnetometro, utilizzato per verificare eventuali irregolarità nel terreno, ha dato riscontri in un punto tra due serre. I cani addestrati arrivati dalla Svizzera sembravano aver trovato una traccia. Ma si trattava di un falso allarme, l'ennesimo. Le operazioni proseguono senza sosta. L'area di ricerca nelle campagne di Novellara è stata circoscritta ulteriormente e sono una ventina i punti che nelle prossime ore saranno verificati uno a uno, sulla base delle indicazioni strumentali.
I PARENTI Anche gli indagati mancano all' appello. Lo zio della ragazza, Danish Hasnain e il cugino Nomanulhaq Nomanulhaq, fuggiti il 10 maggio, sarebbero in Europa. Mentre i genitori della diciottenne, Shabbar Abbas e Nazia Shahenn, scappati il primo maggio, sarebbero in Pakistan. In carcere a Reggio Emilia c' è un altro cugino, l'unico arrestato: Ikram Ijaz. I sospetti sui familiari sono iniziati dopo la visione di un video del circuito di sorveglianza, datato 29 aprile: nei fotogrammi si vedono tre persone con due pale, un piede di porco, un secchio con all' interno un sacco. Le telecamere inquadrano il gruppetto alle 19.15 mentre si dirige verso i campi alle spalle l'azienda agricola di Novellara dove Shabbar Abbas, padre di Saman, lavorava. I tre tornano alle 21.50, due ore e mezza dopo. Il primo maggio, due giorni dopo il video, i genitori di Saman partono per il Pakistan. La ragazza non ha viaggiato con loro: nessun biglietto era intestato a lei.
La proposta di nozze e l'abito: i sogni infranti di Saman. Gabriele Laganà il 27 Giugno 2021 su Il Giornale. Ad aprile Saman aveva ricevuto la proposta di matrimonio dal fidanzato "segreto". La coppia aveva ordinato su internet un abito da sposa in Pakistan. Di coraggio ne aveva Saman Abbas. Voleva vivere una vita normale e libera tanto da opporsi ai voleri della sua famiglia. E sognava di sposarsi con la persona che amava davvero e non con il cugino 29enne con cui avrebbero voluto accasarla i genitori. Un desiderio che era ad un passo dall’essere realizzato. La giovane, infatti, stava per convolare a nozze con il fidanzato, un connazionale conosciuto in chat, che come lei viveva in Italia. Un progetto concreto. Tanto che la coppia aveva ordinato l’abito da sposa in Pakistan, dopo aver ricevuto la proposta di nozze a inizio aprile. Un vestito bianco, come tradizione vuole. È quanto emerge dal materiale esclusivo pubblicato dalla trasmissione "Quarto Grado" che ha raccontato l'ultimo mese della 18enne di Novellara e dei preparativi del matrimonio. Quella proposta di matrimonio doveva essere l’inizio felice di una nuova vita per Saman ed invece era solo il principio della sua fine. "Io morirei per te", aveva scritto la giovane al suo amato. Purtroppo quelle parole sono state un triste presagio. La 18enne è scomparsa da Novellara la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio scorso. Non si sa che fine abbia fatto: si ritiene che i parenti l’abbiano uccisa per aver rifiutato il matrimonio combinato dalla famiglia. Il presunto omicidio potrebbe avere una matrice culturale che affonda le proprie radici nelle comunità rurali pakistane, quelle più fondamentaliste. Anche il fidanzato non ha trascorso un bel periodo: il giovane era stato più volte minacciato dai parenti di Saman insieme alla propria famiglia. Ma l’amore era più forte della paura. E così i due hanno continuato a frequentarsi, nonostante tutte le avversità, tanto da trascorrere una vacanza insieme a Roma. In quell’occasione lui le aveva chiesto di sposarlo. Sogni infranti. Non è arretrata di un passo Saman. Cosa può esserci di più puro, sincero e coraggioso che amare una persona sapendo di rischiare la propria vita? La libertà non si può barattare. Un messaggio che anche a 18 anni può essere insegnato. Saman e il suo amato si erano conosciuti nel 2019 attraverso alcune chat. Prima i messaggi e poi l’incontro ed infine la frequentazione, ovviamente senza far sapere nulla a nessuno, mentre la famiglia della 18enne progettava il matrimonio combinato. Ma il segreto non può durare a lungo. Saman rifiuta le nozze organizzate dalla famiglia e fissate in dicembre. Ma non può restare a casa. E così si rifugia in una struttura protetta a Bologna. L’incubo sembra finito. Dinnanzi a Saman si spalancano nuovi orizzonti. Ad aprile, come ricorda la Nazione, la 18enne si allontana da Bologna per raggiungere Roma: nella Capitale dall’11 dello stesso mese trascorre una settimana insieme al fidanzato. In quei giorni il suo amato le fa la proposta di matrimonio. Saman torna a Novellara per riprendersi i documenti. Forse, chissà, un passo falso. Qui trova una brutta sorpresa. Il padre Shabbar stava organizzando delle nuove nozze combinate, questa volta per giugno. L’incubo riaffiora. Il 22 Saman va dai carabinieri: "Voglio denunciare i miei genitori perché trattengono i miei documenti". E poi scrive al fidanzato: "Morirei per te". Una frase profonda che forse la giovane ha usato senza pensarci troppo. Un modo per ribadire il suo amore incondizionato per il suo fidanzato. Un pensiero che, però, alla luce dei fatti potrebbe essersi rivelato essere premonitore. Pochi giorni dopo Saman scompare. Il fidanzato, quello non gradito dai genitori e dai parenti di Saman, ai microfoni di "Quarto Grado" si è sfogato: "Più di quello che abbiamo fatto, come dovevamo comportarci? Abbiamo segnalato, abbiamo denunciato. Ci aspettavamo di essere più protetti". "Mi rendo conto che Saman è stata uccisa- ha continuato-. Ma mi auguro che non sia realmente morta. Le penso da qualche parte, ancora in vita". Un augurio, questo, sicuramente condiviso da tutti. Nel frattempo le indagini proseguono.
Gabriele Laganà. Sono nato nell'ormai lontano 2 aprile del 1981 a Napoli, città ricca di fascino e di contraddizioni. Del Sud, sì, ma da sempre amante dei Paesi del Nord Europa. Seguo gli eventi di politica e cronaca dall'Italia e dal mondo. Amo il calcio, ma tifo in modo appassionato solo per la Nazionale azzurra. Senza musica non potrei vivere. In tv non perdo i programmi che parlano di misteri e i film horror, specialmente del genere zombie. Perdono molte cose. Solo una no: il tradimento
Da corrieredellumbria.corr.it il 2 luglio 2021. "Volevo sposarmi con lei perché la mia vita è di Saman". Sono le parole di Saqib, il fidanzato di Saman Abbas, la diciottenne di origine pachistana, scomparsa da Novellara (Reggio Emilia) lo scorso 30 aprile e di cui si sospetta l'omicidio da parte di componenti della sua famiglia. Il ragazzo è stato intervistato nella puntata di oggi, giovedì 1 luglio 2021, di Dritto e Rovescio, programma di approfondimento di Rete4 condotto da Paolo Del Debbio. Sono tanti i passaggi dell'intervista in cui Saqib racconta il suo amore per Saman. "Mi manca troppo, dalla sera alla mattina, era il mio primo amore. Il 30 aprile l’ho sentita per l’ultima volta e mi ha detto che aveva troppo paura, paura per la sua vita. Se lei pensasse che potessero ucciderla? Era un rischio grande che potessero ucciderla" racconta il giovane ragazzo che aggiunge: "Io oggi non ho paura di niente, della mia vita non me ne frega niente". Saqib poi racconta di quando i suoi familiari, lo scorso 27 gennaio in Pakistan, sono stati minacciati da quelli di Saman. "Il padre di Saman ha detto che la mia famiglia doveva parlare con me e se non avessi lasciato Saman tutta la famiglia e io saremmo morti. La mia famiglia aveva tanta paura. Se Saman avesse paura della sua vita tornando a casa? Sì, il 27 aprile sente che lo zio dice che quando sarebbe arrivata a casa l’avrebbe uccisa. Io le ho detto vai subito dai carabinieri, le ho detto di non andare a casa perché lo sai che la tua famiglia è fatta così ma lei aveva bisogno dei documenti. Se fossi andato a casa con lei? Sarei morto anche io" racconta Saqib. Nel frattempo il cugino di Saman ha richiesto di essere sentito dal Sostituto procuratore di Reggio Emilia, Laura Galli, e dai carabinieri domani pomeriggio. Dalla prossima settimana, alle ricerche si uniranno ai militari altre quattro unità cinofile della polizia tedesca specializzate nella ricerca di cadavere.
Lecce, «impediscono alla figlia di vivere all’occidentale». I Servizi sociali seguiranno fino ai 18 anni una ragazzina cingalese. Si era già ribellata al matrimonio combinato dal padre. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Giugno 2021. Costretta dai genitori a stare lontana da ogni possibile «contaminazione della cultura occidentale». Causando nella giovane una grave e irrimediabile chiusura verso gli altri, impedendole di fatto di proseguire serenamente il suo percorso di crescita all’interno del contesto sociale. Vivendo, di fatto, un’altra realtà rispetto ai suoi coetanei italiani. È per questo che il Tribunale per i minorenni di Lecce ha deciso di proseguire fino alla maggiore età il monitoraggio da parte dei servizi sociali di una 16enne originaria dello Sri Lanka, nata e cresciuta nel capoluogo salentino. Una vicenda che ricorda, con esiti meno tragici, la storia di Saman, giovane pakistana scomparsa nel nord Italia dopo un conflitto famigliare sullo stile di vita. L’autorità giudiziaria e le istituzioni continueranno dunque a vigilare, finché possibile, sulle sorti di questa ragazza. Almeno fino a quando, compiuti i 18 anni, sarà lei stessa a scegliere il suo futuro. La storia di Leyla (la chiameremo così) è già nota. Il primo intervento del Tribunale dei minorenni risale a quando ha appena 14enne: il padre, che aveva scoperto un’amicizia affettuosa con un compagno di scuola, le toglie il cellulare. E come se non bastasse decide di prometterla in sposa ad un coetaneo della giovane, anche lui cingalese. Un matrimonio combinato, come si faceva nei tempi arcaici. Atti autolesionistici e propositi di suicidio fanno emergere uno spaccato familiare fatto di vessazioni, imposizioni e violenze fisiche. Tant’è che la ragazza, in un primo momento insieme alla madre, viene trasferita in una comunità. I genitori promettono ai giudici che il fidanzamento con il ragazzino connazionale non si sarebbe più celebrato, e viste le continue richieste della minore di voler tornare dalla famiglia il Tribunale lo scorso anno decide di farla tornare a casa, prescrivendo però la frequentazione di un centro diurno e ordinando ai genitori di avviare un percorso di maggiore integrazione con la comunità italiana. Ma sembra che tutto questo non sia avvenuto. Leyla non ha frequentazioni extrascolastiche con i suoi compagni, mentre i genitori non hanno collaborato con i servizi nel percorso di integrazione, anche alla luce di «rilevanti limiti culturali». «Appare necessario - si legge nel provvedimento - assicurare sino alla maggiore età una costante azione di monitoraggio della condizione della minore e, nei limiti in cui sarà possibile, di sostegno da parte dei servizi territoriali già officiati, in considerazione dei perduranti limiti nello svolgimento delle funzioni genitoriali e della carenza di integrazione e di abilità sociali della minore, tuttora ermeticamente chiusa al dialogo più profondo e alla manifestazione dei propri stati emotivi e costretta dai genitori ad uno stile di vita non corrispondente a quello dei suoi coetanei occidentali, poiché i genitori continuano ad essere arroccati rigidamente alla propria cultura d’origine fino al punto da sacrificare ogni libera espressione della figlia minore e da compromettere le possibilità di integrazione sociale». Il padre della giovane (difeso dall’avvocato Paolo Spalluto) è a processo con l’accusa di maltrattamenti in famiglia: la prossima udienza è fissata l’11 novembre davanti al giudice Stefano Sernia.
IL COMMENTO DI LAURA RAVETTO - «Una minorenne di origine cingalese è sotto la protezione dei servizi sociali, a Lecce, dopo essersi ribellata al matrimonio combinato dal padre. Non è accettabile che in Italia la libertà della donna sia messa in discussione». Lo dichiara la deputata della Lega, Laura Ravetto, capo del dipartimento Pari opportunità del partito. Ravetto si riferisce alla storia di una 16enne per la quale il Tribunale era già intervenuto quando aveva 14 anni: il padre, dopo aver scoperto un’amicizia con un compagno di scuola, le tolse il cellulare e la promise in sposa ad un coetaneo cingalese. La ragazza si ribellò ed emerse una storia familiare fatta di sottomissione e violenze fisiche. Oggi la ragazza ha 16 anni e il Tribunale per i minorenni di Lecce ha deciso di far proseguire fino alla maggiore età il monitoraggio da parte dei servizi sociali. «In Francia, dove siamo alla terza generazione di immigrati - prosegue Ravetto - ben 200mila giovani donne musulmane sono state costrette ad accettare negli ultimi 20 anni unioni non volute. È ora di interrogarsi non soltanto sui percorsi di integrazione, ma anche sull'opportunità di allontanare chi non rispetta le donne nel nostro Paese». «Un primo passo - conclude - è stato fatto grazie al Codice Rosso, ora dobbiamo vigilare su chi cerca di impedire alle giovani di vivere all’occidentale. Mai più casi Saman».
Quella libertà negata: quando l'islam radicale uccide. Francesca Bernasconi e Rosa Scognamiglio il 30 Giugno 2021 su Il Giornale. Hina, Sanaa, Sana e infine Saman. Nomi di ragazze che hanno incontrato la furia dei propri familiari e sono state uccise. La loro colpa? Andare contro l'Islam radicale. L'esperta: "Si tratta di omicidi familiari in difesa dell'onore". Hina Saleem, Sana Cheema, Sanaa Dafani. E infine Saman Abbas. Sono solo alcune delle ragazze musulmane, giunte in Italia, che hanno pagato con la vita il diritto alla libertà di vivere secondo gli usi e costumi occidentali. Storie di giovani donne che si sono opposte all'imposizione del velo e ai matrimoni combinati vendendo cara la pelle. Uccise per mano dei genitori, vittime di famiglie che si sono rivelate clan sanguinari, seppellite nel fiore dei loro anni, senza pietà e senza rimorso. "Queste vicende sono accomunata da un tragico destino. Si tratta di giovani punite con la morte per mano dei propri familiari perché non volevano sottostare agli usi tradizionali della cultura d'origine. Questo tipo di omicidio afferisce alla categoria dei reati culturalmente motivati, ovvero un delitto tipico in cui si manifesta la matrice culturale, come prodotto dello scontro tra 2 culture", spiega al IlGiornale.it la criminologa, psicologa e psicoterapeuta Francesca Capozza.
I delitti "culturalmente motivati". La vicenda di Saman Abbas, 18enne pakistana scomparsa da Novellara, nel Reggiano, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, sulla quale la procura di Reggio Emilia indaga per omicidio premeditato e occultamento di cadavere, ha riacceso i riflettori su quelli che vengono definiti "delitti culturalmente motivati". "Si tratta di un delitto di matrice culturale che presenta tre elementi costitutivi – spiega la criminologa Capozza – Il primo è il motivo culturale: la causa psichica soggettiva della condotta è riconducibile al bagaglio culturale, ovvero usi e costumi, di cui il reo è portatore. Il secondo riguarda la coincidenza di reazione: convergenza tra la motivazione individuale e una regola culturalmente diffusa e osservata nel gruppo etnico di appartenenza. Il terzo, invece, è il divario tra culture: consente che uno stesso comportamento sia socialmente e moralmente accettato in una cultura e non nell’altra". Esecuzioni efferate, delitti orditi per vendicare "l'onorabilità lesa" lavando l'onta con il sangue. In cosa differiscono dai femminicidi? "Rispetto al femminicidio notiamo molte assonanze, in quanto, ricordandoci che anche in Italia fino a 40 anni fa era presente il delitto d'onore - continua l'esperta - si tratta di una concezione culturale dell'uomo padrone che stabilisce il destino della propria donna, moglie o figlia che sia, e ripudia la possibilità che la stessa possa essere libera di pensare, comportarsi, scegliere e quindi vivere".
Hina Saleem. Si tratta del primo "delitto d'onore", avvenuto nell'agosto del 2006, di cui fu vittima una giovane ragazza pakistana in Italia. Hina Saleem nasce a Gujrat, in Pakistan, da genitori musulmani. All'età di 14 anni raggiunge la famiglia a Sarrezzo, una tranquilla cittadina del Bresciano dove i suoi si erano trasferiti qualche anno prima nel tentativo di fare fortuna. Adolescente entusiasta e vivace, Hina si integra agevolmente nella comunità locale maturando, nonostante la giovane età, la convinzione che i rigidi dettami familiari e le pratiche ancestrali della sua cultura d'origine fossero di ostacolo alla sua libertà. All'età di 17 anni, dopo l'ennesima fuga da casa, Hina denuncia per la prima volta i maltrattamenti subiti in famiglia. "Si accaniscono su di me - mette a verbale presso la caserma dei carabinieri di Villa Carcina – mi accusano di assumere atteggiamenti da cristiana e non da musulmana. Mi impediscono di andare a scuola e di vivere come qualsiasi ragazza occidentale". Allontanandosi dai genitori, Hina non solo fugge dal presente ma anche dal futuro. "Io sono promessa sposa a un mio cugino - continua -figlio della sorella di mia madre, che neanche conosco e che vive in Pakistan". Alla prima denuncia, smentita poi a denti stretti, ne seguono altre due contro il "padre-padrone". Ritirerà pure quelle segnando la sua condanna a morte definitiva. All'età di 19 anni, la giovane non vive già più sotto il tetto familiare: ha trovato lavoro in una pizzeria di Brescia ed è fidanzata con un 30enne italiano, un muratore non musulmano. I due convivono felicemente fino a quando, l'11 agosto del 2006, il loro sogno d'amore s'interrompe tragicamente: Hina finisce ammazzata dalla sua famiglia. Il delitto si svolge nella casa paterna, dove la ragazza viene attirata con un pretesto mendace. Ad attenderla, ci sono il padre ed alcuni parenti uomini. La madre, Bushra Begun, di 46 anni, e i fratelli sono in vacanza in Pakistan. La 19enne si è rifiutata di seguirli temendo, una volta approdata a Gujrat, di non potersi sottrarre al matrimonio combinato col cugino: una decisione che le costerà la vita. Sulla dinamica omicidiaria e sui ruoli delle persone coinvolte vi sono tutt'oggi versioni discordanti. Certo è che Hina fu uccisa con 20 coltellate: sgozzata. Il suo cadavere venne seppellito nell'orto di casa, con la testa rivolta verso La Mecca. A ritrovarlo, subito dopo la truce esecuzione, fu il fidanzato della giovane che denunciò immediatamente i fatti ai carabinieri. Le persone coinvolte nell'omicidio furono quattro: il padre Mohammed Saleem, lo zio Muhammad Tariq (sposato con la sorella della madre di Hina) e i due cognati di Hina, Zahid Mahmood e Khalid Mahmood. Il processo, svoltosi con la formula del rito abbreviato, si concluse con la condanna del padre e dei due cognati a trent'anni di carcere per "omicidio volontario (aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti) e distruzione di cadavere", mentre lo zio, che ammise di aver partecipato alla sepoltura ma non al delitto, incassò una condanna a due anni e otto mesi di carcere. Cinque anni dopo aver ucciso sua figlia, Mohammed Saleem, rinchiuso nel carcere di Ivrea, rilasciò la sua prima intervista ai giornalisti Giommaria Monti e Marco Ventura, autori del libro "Hina. Questa è la mia vita". "In Pakistan sarei stato condannato ma non a trent'anni – dichiarò il padre della giovane – A trenta non è giusto. Ho ucciso mia figlia, ma è 'mia' figlia". Nessun rimorso, nessun pentimento.
Sana Cheema. Era il 18 aprile del 2018. Sana Cheema, una 25enne di origini pakistane, si trovava nel suo Paese di origine da qualche mese. Il giorno dopo sarebbe dovuta rientrare a Brescia, dove viveva da sempre, ma non salì mai sull'aereo che avrebbe dovuto riportarla in Italia. Morì prima di poterlo fare, uccisa, secondo l’accusa, dagli uomini della sua famiglia. Sana voleva sposare il suo compagno italiano e quel viaggio in Pakistan sarebbe stato fatto anche per ribadire il suo rifiuto al matrimonio combinato col cugino. L'autopsia sul corpo della ragazza, che venne riesumato, rivelò che Sana era stata strangolata e le erano state rotte alcune vertebre cervicali: una "asfissia meccanica violenta mediante strangolamento", come si legge dalle carte dell’inchiesta italiana. Il 24 aprile 2018 la procura generale di Kunjah, in Pakistan, fermò il padre, il fratello e lo zio di Sana, accusati di omicidio e di sepoltura senza autorizzazione. L’ipotesi era che la 25enne fosse stata uccisa in quello che venne definito "delitto d’onore". "Siamo dinanzi a un omicidio familiare in difesa dell’onore - ha spiegato la criminologa, psicologa e psicoterapeuta Francesca Capozza, parlando di casi simili - Centrale è la difesa dell’onore familiare da parte dell’omicida nei confronti dell’intera comunità etnica di appartenenza". Solitamente, in casi come questo, "è il capofamiglia a uccidere un membro del gruppo familiare a causa della sua violazione del codice etico e delle regole culturali osservati dalla comunità". Sana non voleva rispettare il matrimonio combinato, una scelta che, in situazioni come questa, potrebbe rendere "intollerabile la sopravvivenza di colui che non ha osservato regole e principi della famiglia. Costui - spiega la criminologa - 'deve' essere ucciso per ripristinare l’ordine violato e l’onore leso. L’onore è inteso quindi come bene giuridico superiore a quello della vita". Per la morte di Sana Cheema vennero indagati anche altri parenti della ragazza, tra cui il cugino e promesso sposo. Ma nel febbraio del 2019 una Corte distrettuale del Pakistan ha assolto per mancanza di prove e testimoni tutti gli imputati per l’omicidio della ragazza, nonostante le dichiarazioni iniziali del padre. "Le ho messo le mani al collo, l’ho strangolata e uccisa, avrebbe detto nel maggio 2018 il padre di Sana, come riportato al tempo da LaPresse, salvo poi cambiare versione: "Non è vero che abbiamo confessato", aveva ritrattato l’uomo in un’intervista a Repubblica. "Se il referto dei medici legali dice che Sana aveva l’osso del collo rotto - aveva dichiarato il padre, sostenendo che la figlia fosse morta per un malore - è perché deve aver battuto contro il bordo del letto o del divano". E aveva poi aggiunto: "È stato solo per un disegno di Allah". Ora il padre e il fratello di Sana sono in attesa del processo in Italia, che dovrebbe tenersi a ottobre, dopo due rinvii per irreperibilità degli imputati.
Sanaa Dafani. "Forse lei ha sbagliato". Così la madre di Sanaa Dafani giustificava l’omicidio della figlia da parte del marito, dicendosi "disposta a perdonare" il padre dei suoi figli. L'errore di Sanaa è quello che la accomuna a Saman, Sana e Hina: voler vivere in modo diverso rispetto a quello imposto loro dalle famiglie. Sanaa aveva solo 18 anni quando, una sera di metà settembre del 2009, venne uccisa a coltellate dal padre, mentre era insieme al fidanzato italiano di 31 anni. È successo a Grizzo, una piccola frazione di Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone. La ragazza marocchina era stata raggiunta dal padre mentre si stava recando in auto nel ristorante dove lavorava come cameriera. Sanaa, che era in compagnia del fidanzato 31enne, socio del locale, era stata intercettata dal padre, che li aveva aggrediti non appena scesi dalla macchina. A nulla era servita la fuga della ragazza verso un vicino boschetto, nel tentativo di evitare la furia del padre: l’uomo l’aveva raggiunta e colpita alla gola con un coltello. Ferito ripetutamente anche il fidanzato, che però era riuscito a salvarsi. Il padre di Sanaa, accusato di omicidio aggravato dal vincolo di parentela e di lesioni, era stato condannato in primo grado all’ergastolo con rito abbreviato, ma la Corte d’Assise d’Appello di Trieste aveva ridotto la pena a 30 anni di carcere. Successivamente, nell’aprile del 2012, la Cassazione confermò la condanna ai 30 anni di reclusione. Sanaa è un’altra figlia uccisa dal padre. Ma cosa può spingere un padre a fare tutto questo? "Si tratta - commenta la criminologa Capozza - di padri migranti che non consentono ai figli una totale integrazione. Non hanno accolto pienamente i principi e i costumi della cultura occidentale e non accettano che costoro possano esprimere libere scelte non sancite dal pater familias". Per questo, in casi come quello di Sanaa, Hina, Sana e Saman, "sono accettate e spesso incoraggiate forme di giustizia privata, a cui partecipa tutto il nucleo familiare (anche una madre che non si oppone), caratterizzate da efferatezza ed esaltazione della condotta da parte degli altri componenti". Sono scelte che appaiono "praticabili o 'doverose' - continua l’esperta - per riabilitare l’onore leso da una giovane vita che desiderava semplicemente di poter essere se stessa e decidere come e chi amare".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
Rapite, violentate, uccise: l’incubo delle donne kirghize costrette a sposarsi con la forza. La scomparsa di Saman Abbas ha rivelato la presenza in Italia dei matrimoni forzati. Nel Paese asiatico, il sequestro della sposa, l’Ala Kachuu, è ufficialmente vietato. Ma sono almeno 12mila l’anno le mogli contro la loro volontà. Mauro Mondello da Bishkek, Kirghizistan, su L'Espresso/La Repubblica il 30 giugno 2021. Nurijian Malekabova, 19 anni, dietro la porta di casa nel villaggio di Karool Dobo. È una delle ragazze che rifiutano di essere rapite e sposate. Aisuluu tornava a casa dopo aver trascorso il pomeriggio con la zia nel villaggio di At-Bashy, 10mila abitanti a 150 chilometri dal valico di Torugart, uno dei due posti di confine che collegano per via terrestre il Kirghizistan alla Cina. «Mi ricordo che erano le cinque del pomeriggio di sabato, avevo fra le braccia un sacchetto di carta pieno di samsa, un fagottino di pasta ripiena con carne d’agnello, prezzemolo e cipolla: mia zia li faceva sempre nel fine settimana», racconta oggi Aisuluu. «Vedo una macchina con quattro uomini dentro che viene in direzione contraria alla mia. All’improvviso si butta dentro una via laterale, fa inversione e, nel giro di pochi secondi, mi affianca. Uno dei ragazzi seduti dietro scende, mi strattona e mi spinge dentro. Io lascio cadere tutti i samsa lì, sul marciapiede, urlo, mi dimeno, piango, ma non c’è niente da fare». L’uomo che la spinge a forza dentro l’automobile diventerà di lì a breve suo marito. Non era lei la donna che cercavano, scoprirà Aisuluu soltanto a matrimonio celebrato, ma nell’urgenza di dover tornare a casa con una sposa e dopo aver cercato a vuoto per tutto il pomeriggio, l’uomo decide di rapire la prima ragazza carina che incontra. Era il 1996, Aisuluu allora era un’adolescente e oggi, quattro figli e venticinque anni dopo, è ancora insieme a colui che l’ha sequestrata. «Un matrimonio felice inizia piangendo», dice un vecchio proverbio kirghizo. E lacrime, di rabbia e terrore, scendono dagli occhi delle spose in Kirghizistan, vittime inermi di rapimenti e violenze. È una pratica antica, quella del cosiddetto Ala Kachuu («prendi e scappa»), il sequestro della sposa che risale al dodicesimo secolo e affonda le radici nelle battaglie fra tribù di predoni nomadi, che si rubavano donne e cavalli in lotte e saccheggi. L’Ala Kachuu viene praticato in tutti i paesi dell’Asia Centrale, ma è soprattutto sui duri territori montuosi del Kirghizistan, fra i villaggi rurali dell’ultima e più dimenticata fra le periferie post-sovietiche, che è particolarmente frequente: i dati raccolti dal Women Support Center, un’organizzazione che si batte per la parità di genere nel Paese, parlano di almeno 12mila matrimoni celebrati ogni anno contro la volontà della sposa. Gli uomini rapiscono le donne, dicono, per dimostrare la loro virilità, evitare il corteggiamento (considerato una noiosa perdita di tempo) e risparmiare il pagamento del “kalym”, una delle più antiche tradizioni sociali di queste latitudini, secondo cui lo sposo deve corrispondere ai genitori della futura moglie una sorta di risarcimento, di solito una combinazione di contanti, fino a 3mila euro, e animali da cortile, soprattutto mucche e cavalli, ma anche pecore, capre e maiali, dai costi più abbordabili. Dopo il rapimento, che può anche essere preparato e consensuale, fra una coppia che si frequenta ma vuole accelerare i tempi e onorare la tradizione, si viene portate nella casa del futuro sposo. I suoceri accolgono la donna forzandola a indossare il “jooluk”, lo scialle bianco che certifica la sottomissione alla nuova famiglia: di lì a qualche giorno il matrimonio viene celebrato. Ci si può ribellare, certo, ma gran parte delle ragazze rapite, intorno all’80 per cento, decide di accettare il proprio destino, spesso anche su consiglio dei propri genitori. Rifiutare il matrimonio, dopo aver passato la notte in casa di un uomo sconosciuto, equivale a uno stigma sociale difficile da cancellare, una vergogna con cui la ragazza e tutta la sua famiglia dovrebbero convivere per sempre. Troppo spesso, inoltre, il futuro sposo violenta la ragazza poco dopo averla rapita (sono oltre duemila l’anno gli stupri che precedono il matrimonio) condannandola per sempre: a quel punto rientrare in famiglia diventa semplicemente impossibile. E poi, soprattutto, la ribellione può costare la vita. Sono centinaia i casi di donne rapite e ritrovate uccise a distanza di poco tempo. L’ultima vittima, Aizada Kanatbekova, 26 anni, l’hanno abbandonata in un campo, strangolata, all’inizio dell’aprile scorso, due giorni dopo essere stata caricata a forza su un’auto con l’aiuto di due passanti, nel centro della capitale Bishkek. Un segnale chiaro di come questa pratica non sia limitata alle aree più arretrate del Paese. «El emne deit», si dice in kirghizo: «Che cosa dirà la gente?». È una frase ricorrente, fondamentale nelle dinamiche di accettazione del rapimento da parte delle donne kirghize. Aigul, cinque figli, 55 anni trentacinque dei quali passati al fianco dell’uomo che la rapì nel 1986, ricorda sua madre ripetergliela costantemente. «Da bambina mi diceva sempre che essere rapite era una buona cosa, di non fare la schizzinosa perché rischiavo di rimanere zitella. Ha insegnato a me e alle mie sorelle a non tornare a casa qualora fossimo state rapite, perché sarebbe stata una vergogna. E così abbiamo fatto, tutte e cinque. Mia sorella più piccola, Asel, ci ha provato a scappare, ma i miei l’hanno rimandata indietro, dall’uomo che l’aveva violentata, e due giorni dopo si sono sposati: ormai sono insieme da dieci anni». Aigul non era vergine quando venne rapita e racconta che la prima notte di nozze il marito, per evitare la vergogna, si tagliò un dito e sporcò di sangue le lenzuola, un trofeo da esibire alla famiglia e agli amici che aspettavano fuori dalla stanza. L’Ala Kachuu è vietato in Kirghizistan da decenni, ma l’esistenza stessa della legge, che nel 2013 è stata inasprita con pene fino a dieci anni di reclusione per chi rapisce una donna con l’intenzione di forzarla al matrimonio (prima era prevista una multa da duemila soms, 25 dollari), è praticamente ignorata da gran parte della popolazione, in un contesto che vede le donne sottoposte a un regime quotidiano di violenze domestiche e abusi, senza alcuna protezione da parte delle autorità. Per Altyn Kapalova, ricercatrice all’università centroasiatica di Bishkek, scrittrice, artista e attivista, «una stazione di polizia non è un luogo sicuro per una donna alla ricerca di aiuto. Non esiste una storia, una soltanto, di una ragazza salvata dall’intervento delle forze dell’ordine. Se una donna va in una centrale a denunciare un rapimento le ridono in faccia, le dicono che non sono fatti loro, di tornare a casa e risolversela con la sua famiglia». Nel 2018 fece il giro del mondo il caso di Burulai Turdaaly Kyzy, una studentessa di medicina di 20 anni che venne uccisa in una stazione di polizia dall’uomo che l’aveva rapita, mente gli agenti li avevano lasciati da soli in una stanza in attesa di trascrivere la denuncia. «Il problema è di cultura, di educazione, e non di leggi», continua Kapalova, che dal 2019 riceve minacce costanti dopo aver organizzato la prima mostra femminista nella storia del Kirghizistan, la “Feminnale”, nel Museo delle Belle Arti di Bishkek. «Per gran parte delle donne kirghize il matrimonio avviene durante l’adolescenza e questo è un elemento fondamentale dell’Ala Kachuu e della violenza domestica. Le ragazze restano per sempre in un contesto educativo basso, il loro mondo è quello in cui l’uomo può tutto e la violenza diventa parte quotidiana della loro vita, qualcosa da accettare senza proteste e ubbidendo in silenzio», conclude la ricercatrice, che sottolinea come tuttora il Kirghizistan sia pieno di ragazze chiamate Zhanyl o Burul, che in kirghizo significano rispettivamente “ho fatto un errore”, “ho peccato”. «Sono centinaia i nomi dettati dalla superstizione che i genitori decidono di mettere alle povere creature, la cui unica colpa è nascere femmine invece che maschi. Si tratta di una consuetudine molto frequente nel nostro Paese». Secondo i dati dell’ufficio Unicef operativo a Bishkek, la percentuale di ragazze tra i 15 e i 19 anni che rimane incinta in Kirghizistan è fra le più alte al mondo, mentre il 13 per cento dei matrimoni avviene prima dei 18 anni (addirittura l’8 per cento entro i 15 anni), nonostante sia proibito dalle normative vigenti. Non esistono piani specifici del governo kirghizo per combattere la violenza contro le donne e il fenomeno dell’Ala Kachuu. Il nuovo presidente nazionalista Japarov ha anzi ribadito più volte, dopo il suo insediamento, di voler includere nella costituzione del Paese un nuovo passaggio che richiami ai valori della morale e della tradizione. Le uniche voci di resistenza si alzano così dalle isolate iniziative di attivismo, come quella di Tatyana Zelenskaya, un’artista che, in collaborazione con l’Ong Open Line Foundation, ha realizzato i disegni e la parte grafica di “Primavera a Bishkek”, un gioco per smartphone che ha come obiettivo quello di convincere le ragazze che il rapimento non è una tradizione, ma un crimine. In poco più di sei mesi la app ha già registrato oltre 130mila download, un successo straordinario se si pensa che gli sviluppatori avevano fissato come obiettivo quota 25mila. Nel gioco l’utente assiste al rapimento della sua migliore amica e deve liberarla, mentre sullo schermo compaiono messaggi con suggerimenti preparati da psicologi, giornalisti e attivisti, oltre che numeri di telefono reali cui è possibile rivolgersi in caso di emergenza. «L’idea alla base del gioco è far capire alle ragazze che sono padrone del proprio destino», spiega Zelenskaya. «Per questo le trasformiamo in eroine capaci di ribellarsi e cambiare il corso delle cose. Sembra poco, ma per una generazione di donne cresciute con l’idea che nulla sia possibile senza l’approvazione di un uomo, scardinare questo concetto è difficile», conclude l’artista. «Anche un gioco, all’apparenza stupido, può fare la differenza. Le ragazze kirghize meritano di meglio che un matrimonio forzato con un ragazzo che le tratterà male a prescindere. E che talvolta non hanno mai visto. Noi stiamo solo cercando di spiegarlo».
Quando il matrimonio è reato: "Così negano alle donne di scegliere". Francesca Bernasconi il 29 Giugno 2021 su Il Giornale. La legge italiana punisce il matrimonio forzato, a cui si è ribellata anche Saman Abbas, la 18enne pachistana scomparsa oltre un mese fa. L'avvocato ed esperto di Diritto musulmano: "Non viene disciplinato nemmeno dal Corano". Da quasi due mesi non si hanno notizie di Saman Abbas. Prima di scomparire, la 18enne pachistana si era ribellata alle nozze combinate e forzate dai genitori. Una pratica che in Italia è illegale, ma che non viene contemplata nemmeno dal Diritto musulmano. "Anche lì la legge specifica esplicitamente che nessun matrimonio valido può essere contratto senza il consenso dei coniugi, ma la pratica effettiva è diversa", spiega a ilGiornale.it Paolo Iafrate, avvocato, professore aggiunto di Regolamentazione Nazionale ed Europea in materia di immigrazione dell'Università degli Studi di Roma Tor Vergata' ed esperto di Diritto musulmano e Paesi islamici.
Che cos'è il matrimonio forzato?
"Il matrimonio forzato è quello che viene concluso senza il libero consenso degli interessati. La costrizione al consenso rappresenta l'elemento di differenza dalle altre forme, cioè il matrimonio combinato e il matrimonio precoce, e costituisce una grave violazione dei diritti umani. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo stabilisce, infatti, che 'il matrimonio può essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi'. I matrimoni forzati costituiscono una violazione inammissibile dei diritti fondamentali e dei principi contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, e infatti l'Ue combatte questo fenomeno nei limiti delle competenze che le sono conferite dai trattati".
In Italia quando si verifica il reato di costrizione al matrimonio?
"In Italia il reato è regolato dall'articolo 558-bis del Codice Penale, che punisce 'chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona contrarre matrimonio o unione civile'. Per violenza si intende l’energia fisica sulle persone, esercitata direttamente o mediante uno strumento. Viene denominata minaccia invece la prospettazione di un male ingiusto e notevole, eventualmente proveniente dal soggetto minacciante. Le modalità coattive non comprendono solo la violenza o la minaccia in senso stretto, ma anche forme di abusi psicologici. Questo articolo ha il fine di tutelare l’unione matrimoniale come libero consenso delle parti, contro un matrimonio forzato o indotto mediante pressioni che possono essere sia fisiche sia psicologiche".
Qual è la pena prevista per il reato? E ci sono delle aggravanti?
"Il Codice Penale precisa che chi compie il reato di costrizione al matrimonio viene 'punito con la reclusione da uno a cinque anni'. Inoltre 'la stessa pena si applica a chiunque, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile'. Le aggravanti sono legate all'età, infatti la pena è aumentata quando si tratta di un minore di 18 anni e di un minore di 14 anni: in quest'ultimo caso sono previsti dai due ai sette anni di carcere. Il fenomeno assume carattere internazionale, infatti la norma trova fondamento anche quando il fatto viene commesso all’estero da cittadino italiano, in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. Tutti gli ordinamenti europei che hanno introdotto il reato di matrimonio forzato hanno sanzionato autonomamente anche l’ipotesi del trasferimento all’estero con tale finalità".
È una pratica frequente in Italia?
"Il dato sulla diffusione dei matrimoni forzati in Italia e in Europa è esiguo. Dal Rapporto Un anno di Codice Rosso a cura del Dipartimento Affari di giustizia, con il contributo della Direzione generale statistica e analisi organizzativa del Dipartimento organizzazione giudiziaria personale e servizi e delle dottoresse Rizzato e Cardona Albini, addette al Gabinetto del Ministro, risultava che per il reato di costrizione o induzione al matrimonio, al 31 luglio 2020, non vi erano procedimenti penali conclusi con sentenza di fronte alla sezione gip/gup. Nel medesimo periodo erano stati definiti dinanzi al Tribunale, in sede dibattimentale, due procedimenti penali per costrizione o induzione al matrimonio".
C'è differenza tra matrimonio forzato e combinato?
"Sì, il matrimonio forzato si distingue dai matrimoni combinati, nei quali, nonostante le famiglie assumano un ruolo decisivo nell’organizzazione e anche nella scelta del partner, la decisione finale spetta comunque ai due sposi, che restano liberi di esprimere o meno il proprio consenso. Il confine tra le due forme però può risultare labile dal momento che le possibili modalità di coercizione a un matrimonio forzato si concretizzano in una vasta gamma di minacce e violenze, non soltanto fisiche, ma spesso psicologiche. Tra queste ci sono, per esempio, il peso dell'autorità genitoriale, le richieste economiche o affettive e la colpevolizzazione della vittima per accettare il matrimonio".
Nel Diritto musulmano classico, la costrizione al matrimonio è un reato?
"Il matrimonio forzato non è disciplinato dal Corano e non sussiste il diritto del padre di obbligare il figlio a contrarre matrimonio in assenza della sua volontà, così come non sono previste pene nei confronti dei figli che non obbediscono al padre in queste situazioni. Sussiste però la wilayah, cioè una potestà che pone i figli in una situazione di subordinazione e permette al padre il diritto a esercitare la coazione matrimoniale. Le responsabilità decisionali inerenti ai figli fanno capo al solo padre, rappresentante legale del minore. Secondo la maggior parte dei giuristi classici, la donna, anche se perfettamente matura, deve comunque essere rappresentata, non potendo concludere personalmente il contratto di matrimonio. Solo i giuristi di scuola hanafita ammettono la validità del matrimonio concluso dalla donna, ma nemmeno loro impongono che sia la donna a esprimere il consenso. Per quanto riguarda il Diritto dei singoli Paesi, è bene ricordare che il Marocco ha abrogato nel 1993 l'ultimo riferimento alla legalità, in particolari circostanze, di un matrimonio forzato, e sempre più spesso i codici affrontano esplicitamente la questione del consenso, proibiscono la coercizione e prevedono rimedi nel caso in cui la moglie sia costretta a sposarsi. L'emendamento del 1978 dell'Iraq alla sua legge del 1959 è uno dei più chiari e dettagliati a questo riguardo, specificando in tre clausole separate il divieto di costringere una persona a sposarsi e le sanzioni penali a cui sono soggetti coloro che lo fanno. Anche la legge algerina del 1984 vieta esplicitamente al wali (tutore) di costringere il suo protetto a sposarsi o di sposarlo senza il consenso di quest'ultimo. Nel 2005 il Mufti dell'Arabia Saudita, dove non esiste una codificazione nazionale, ha dichiarato che è illegale per i padri costringere le proprie figlie a un matrimonio indesiderato. Infine anche in Pakistan una serie di leggi affronta la questione dei matrimoni forzati".
“Stiamo morendo”. L’sms-trappola della madre di Saman
Saman, la ragazza scomparsa lo scorso mese, si era rifiutata di accettare un matrimonio combinato. Questo comportamento, nel Diritto musulmano, può essere fonte di punizione?
"Nel matrimonio organizzato, non vi è l’obbligo della figlia a contrarre a matrimonio. Tuttavia, se il padre la costringe e quest'ultima non accetta, è difficile provare il mancato consenso della donna. Come già enunciato in precedenza, nel Diritto musulmano classico non vi è il diritto del padre all'obbligare le figlie al matrimonio e non vi sono sanzioni nei confronti di quest'ultime che si ribellano al padre. In Pakistan però ci sono stati casi di matrimoni forzati, stante la forte presenza del patriarcato e di una wilayah del padre sui figli più forte e decisa, legata soprattutto al contesto sociale. Quindi, anche se la legge specifica esplicitamente che nessun matrimonio valido può essere contratto senza il consenso dei coniugi, la pratica effettiva è diversa: il consenso della donna non viene preso in considerazione o è una mera formalità a causa dei vincoli sociali, in particolare nei casi in cui sarebbe impensabile o inaccettabile per lei rifiutare il matrimonio. Al riguardo, si è espresso anche l’Ucoi (Unione Comunità Islamiche d’Italia) che nella 'fatwa' contro i matrimoni forzati nell’Islam del 3 giugno 2021 ha ribadito che nessun tipo di imposizione può essere usata in fatto di matrimonio e che i contratti di matrimonio forzati non hanno alcuna validità. Questo è anche il parere del Consiglio Europeo della Fatwa e della Ricerca, riportato nella decisione n.14/4. Ciò non toglie il diritto dei genitori di esprimere pareri e consigli non vincolanti nelle decisioni di matrimonio dei loro figli e figlie, al fine di rendere le relazioni delle famiglie più stabili e durature. È raccomandabile attenersi agli insegnamenti religiosi e non confonderli con le usanze e tradizioni tribali e locali di certe popolazioni".
È possibile prevenire il fenomeno?
"Ai fini di un’adeguata prevenzione è opportuno pensare a interventi di sensibilizzazione e di formazione, che permettano di intercettare subito situazioni a rischio e costruire una rete di protezione che coinvolga sia le associazioni a tutela delle vittime presenti sul territorio nazionale, che quelle dei Paesi di origine, i servizi sociali e assistenziali, gli istituti scolastici, i centri antiviolenza e/o case-rifugio, le autorità di polizia e l’autorità giudiziaria".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
L'islam e i "doveri" della donna: l'integrazione impossibile. Rosa Scognamiglio il 28 Giugno 2021 su Il Giornale. Saman Abbas sarebbe stata uccisa perché si sarebbe opposta al matrimonio forzato con il cugino ma "il Corano non lo prevede", dice l'esperto a ilGiornale.it. Saman Abbas, la 18enne di origini pakistane scomparsa da Novellara tra il 29 e il 30 aprile scorso, potrebbe essere stata strangolata e poi seppellita nelle campagne del Reggiano, stando al racconto del fratello. Probabilmente, è stata vittima di una congiura familiare ordita dai suoi genitori in concorso "morale e materiale" - scrive la procura - con lo zio e due cugini. Omicidio premeditato e occultamento di cadavere sono i reati contestati ai cinque indagati. Il movente sottendente il presunto delitto fa capo al rifiuto delle nozze combinate tra Saman e il cugino, a quanto pare anch'egli originario del Pakistan. "Il matrimonio forzato non è contemplato nel Corano", spiega alla nostra redazione il professor Claudio Lo Jacono, islamologo ed esperto arabista.
Professor Lo Jacono, cosa ne pensa della vicenda di Saman Abbas?
"Un triste caso di cronaca, quasi certamente nera, che vari media hanno cavalcato per dimostrare la ferocia dell’Islam, non solo in Pakistan".
Qual è la differenza tra matrimonio forzato e combinato?
"La differenza sta da un canto nella decisione, assunta concordemente dai padri dei nubendi - non di rado in età prepuberale - che giovani coinvolti subiscono, per la forza quasi insuperabile di una tradizione plurisecolare tipica delle società patriarcali, e dall’altro canto nella decisione imposta dal padre, o dal tutore matrimoniale in sua mancanza, alla vittima (per lo più la donna, ma anche l’uomo, evidentemente)".
Il matrimonio forzato è contemplato nel Corano?
"Il Corano non prevede il matrimonio forzato".
Tutti i complici del caso Saman
E allora perché una donna è "costretta" a sposarsi?
"Le società islamiche in cui è presente il fenomeno del matrimonio concordato fanno prevalere la tradizione plurisecolare che trova 'disonorevole' non seguire quanto deciso dalla potestà paterna, esercitata legittimamente sulle figlie vergini e sui figli minorenni (la maggiore età è data dalla maturità sessuale). Per gli sposi maggiorenni è però essenziale il consenso degli interessati. Il matrimonio forzato è invece perseguibile da tempo dalla legge statale dei Paesi islamici".
Cosa accade in caso di rifiuto?
"In base alla legge islamica la donna era vincolata dall’accordo matrimoniale sottoscritto per lei dal padre (o dal tutore matrimoniale). In caso di forte contrasto il marito non poteva comunque infliggere alla moglie riottosa pene corporali pesanti, tali da lasciarle cioè segni visibili. In questo caso interveniva il giudice a decretare lo scioglimento coatto del matrimonio ex officio iudicis. La moglie aveva pur sempre la possibilità tuttavia di comportarsi in modo tale da creare imbarazzi nel marito, logicamente".
Vale anche per l'obbligo del velo?
"Sul velo si discute molto in ambito islamico. Una parte dei musulmani, da una lettura testuale dei riferimenti coranici, considera il velo non obbligatorio, mentre un’altra parte lo considera doveroso".
Fuga in aeroporto: il video che incastra i genitori di Saman
Cosa rappresenta la donna nella cultura islamica?
"La donna è l’anello debole della società. Onoratissima nella veste di madre e di moglie fedele, e amatissima nella veste di figlia. Ma socialmente pressoché esclusa dalle dinamiche culturali e del vertice politico ed economico della società, pur con alcune eccezioni".
Conferma che nel Corano c'è un verso in cui si fa riferimento ai "doveri "della donna nei confronti dell'uomo?
"Certamente. La donna ha il dovere di ubbidienza nei confronti del padre in primo luogo e, poi, del marito, che ha il diritto di imporre sanzioni corporali addirittura (ta‘zìr). Ma in questo non c’è alcuna differenza rispetto all’Ebraismo e al Cristianesimo classico. Cosa non più riscontrabile nei fatti nelle società urbane dell’età contemporanea".
Cos'è la Sharia e quando si applica?
"La sharì‘a è costituita dall’insieme della normativa coranica (che ha precedenza su tutto come fonte del diritto) e della Sunna del profeta Muhammad (il nostro Maometto). La Sunna (lett. Costume) è l’insieme dei detti e dei silenzi, delle azioni o delle non-azioni del profeta ultimo dell’Islam, che interviene nell’apparente assenza di un idoneo precetto coranico".
Perché le famiglie islamiche non riescono a integrarsi nel tessuto sociale occidentale?
"Difficile rispondere in modo generalizzato. In genere c’è una forte prevenzione nei Paesi di accoglienza nei confronti di una cultura religiosa, linguistica e alimentare troppo distante, e dall’abbigliamento che appare troppo distante dal nostro contesto. Ma c’è anche un certo autoisolamento di molte comunità islamiche, o induiste, o buddiste, provocate dalla consapevolezza di essere considerate un corpo estraneo sotto troppi aspetti, a torto viste come pericolose. Lo stesso fenomeno fu tipico a lungo delle comunità israelitiche in contesto cristiano (o islamico, prima della nascita d’Israele)".
Vicende come quella di Saman si ripeteranno ancora?
"Non sono ottimista nei tempi brevi. Solo l’innalzamento economico e culturale delle comunità emigrate (certo non ricche né particolarmente colte) potrà portare a una certa quale integrazione. Ovviamente non religiosa".
"La donna non ha valore": tutte le pratiche illegali legate all'islamismo. Francesca Bernasconi e Rosa Scognamiglio il 27 Giugno 2021 su Il Giornale. Non solo Saman Abbas: le donne sottoposte a pratiche illegali. L'antropologo della violenza: "Una cultura convinta che la donna non abbia valore". Saman Abbas, Sana Cheema, Hina Saleem. Tutte donne, di origini pakistane, che vivevano in famiglie dove i valori culturali erano ben radicati, ma che avevano deciso di dire no ad alcune imposizioni. Saman è scomparsa e probabilmente uccisa lo scorso 30 aprile da Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Sana è stata strangolata nel 2018 e Hina uccisa dal padre e alcuni parenti nel 2006. Tutte e tre rifiutavano le nozze combinate dalla famiglia. Non solo. Adnkronos ricorda che nel 2017 a Bologna la madre di una 14enne originaria del Bangladesh le aveva rasato la testa perché non voleva portare il velo, mentre qualche anno prima, un pakistano aveva massacrato la moglie con una pietra, perché la donna aveva difeso la figlia, che non voleva sposare l'uomo scelto per lei dal padre. Dal matrimonio combinato e l'obbligo di portare il velo, fino all'infibulazione e lo sfregio con l'acido. Sono i crimini legati all'Islam, che in alcune culture vengono riservati alle donne: "Questa tipologia di condotte violente e illegali spesso non hanno una matrice religiosa bensì culturale - spiega IlGiornale.it Simone Borile, antropologo della violenza, criminologo e direttore del Campus Ciels di Padova, Brescia e Roma - Sono processi culturali che si sono adattati nel tempo, consolidati e spesso evoluti in modo distorto".
L'obbligo del velo. "Giù le mani dal mio velo", recita il recente slogan di protesta lanciato dalle donne musulmane contro una proposta del senato francese che impone il divieto di indossare l'hijab (uno dei tradizionali copricapi islamici) per le ragazze di età inferiore ai 18 anni, nei luoghi pubblici. Promotrice della contestazione, trasformatasi in una sorta di crociata social, è stata la modella somalo-norvegese Rawdah Mohamed, che su Instagram ha detto di voler combattere "stereotipi profondamente radicati contro le donne musulmane". Una causa indubbiamente lodevole ma che, per certo, non riflette la totalità della condizione vessatoria a cui sono costrette centinaia di donne tra Afaghistan, Iran e Pakistan. E per avere piena contezza del fenomeno, non occorre fare un balzo indietro nei secoli. Lo scorso marzo il primo ministro pakistano Imran Khan ha dichiarato che l'incremento dei casi di abusi sessuali è il risultato di una "crescente oscenità" condannando la svolta "libertina" delle donne. Intervenuto in diretta in una trasmissione sulla rete nazionale pakistana - riferisce un articolo della Bbc - Khan ha suggerito alle proprie connazionali di indossare il velo. "Se la nostra religione impone di indossare il velo, c'è un motivo. E il motivo è salvaguardare la famiglia e proteggere la società. Non tutti hanno forza di volontà per non cedere alle tentazioni", ha affermato il leader di Movimento per la Giustizia del Pakistan. "Molte culture prevedono che il ruolo sociale della donna sia subordinato al potere e al dominio dell'uomo su di essa - spiega l'antropologo Simone Borile - Trattandosi quindi di una proprietà esclusiva all’interno di contesti culturali fortemente patriarcalizzati in cui socialmente, culturalmente e giuridicamente la posizione della donna è fortemente compromessa, l’obbligo del velo sancisce l’esclusiva proprietà del marito su quel corpo e soprattutto la obbliga a una condizione oscurantista e invisibile all’interno della società". Da simbolo di ossequio e devozione nei confronti del profeta Maometto a contrassegno della condizione di subalternità della donna nei confronti dell'uomo. "Il velo rappresenta un ossequio al profeta Maometto - continua l'esperto – la donna che lo indossa è portatrice di valori di rispetto e dedizione nei confronti della tradizione islamica. Un sacrificio che ricompenserà in futuro. Non portarlo significa violare codici culturali e comportamentali. In tal caso l'uomo potrà essere legittimato a esercitare forme correttive e violente sulla donna che decida di non indossarlo". "Un sacrificio che ricompenserà in futuro": posto che ve ne sia uno. L'11 agosto del 2006 Hina Saleem, una ragazza di origini pakistane residente a Zanano di Sarezzo nel Bresciano, è stata uccisa dai suoi parenti "perché rifiutava di indossare il velo". Lo stesso drammatico destino che potrebbe aver travolto Saman Abbas, colpevole senza peccato di aver inseguito la libertà.
Il matrimonio combinato. "Chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile è punito con la reclusione da 1 a 5 anni". Recita così la legge introdotta in Italia nel 2019 e denominata Codice Rosso, che specifica l'illegalità dei matrimoni forzati. L'intervento legislativo, spiega il Ministero dell'Interno in un recente rapporto, si è reso necessario per "scongiurare pratiche che, sebbene apparentemente anacronistiche, hanno invece dimostrato di avere una certa diffusione. Per questo il legislatore ha voluto creare una tutela particolarmente rafforzata in favore dei soggetti vulnerabili coinvolti". In Italia, i dati del Ministero dell'Interno, indicano 32 procedimenti aperti per il reato di costrizione o induzione al matrimonio tra il 1° agosto 2010 e il 31 luglio 2020. Tra questi solamente in 3 casi è stata esercitata l'azione penale. Ma la costrizione alle nozze è un fenomeno diffuso in tutto il mondo e riguarda spesso anche spose bambine. Secondo il rapporto stilato nel 2020 dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), sarebbero 33mila i matrimoni precoci celebrati ogni giorno nel mondo e sono 650 milioni le donne e le ragazze obbligate a sposarsi da bambine. "Di tutte le pratiche dannose che Unfpa si impegna a far cessare - si legge nel rapporto -il matrimonio precoce è la più diffusa, ogni anno mette a rischio i diritti e il futuro di 12 milioni di bambine e ragazze". "Purtroppo è un retaggio di una cultura patriarcale fortemente diffusa - ha spiegato Simone Borile - È impensabile che una donna possa sottrarsi al volere delle famiglia poiché, in queste culture, essa non gode né di diritti né di autonomia decisionale". Le ragazze quindi non possono scegliere in autonomia chi sposare, ma devono sottostare alle decisioni della famiglia. Non solo: "Combinare un matrimonio in giovane età produce conseguenze psico–sociali e fisiche drammatiche sulla bambina: abbandono dagli affetti famigliari, interruzione del percorso scolastico, gravidanze plurime e precoci, percosse e violenze intrafamiliari. La giovane donna non può sottrarsi né al volere del padre né a quello di suo marito". Negli ultimi anni sono diverse le storie di ragazze che hanno rifiutato di sposare gli uomini scelti per loro dalla famiglia. Le conseguenze in questi casi, spiega l'esperto, "sarebbero drammatiche". Le ragazze possono venire lapidate. La lapidazione è infatti una delle punizioni per chi va contro i valori imposti dalla famiglia: "Nel nostro Corano c’è scritto che se una smette di essere musulmano, deve essere sepolta viva con la testa fuori dalla terra e poi uccisa con lancio di sassi contro la testa", ha rivelato il fratello di Saman Abbas. Ma non ci sono solo nozze forzate e obbligo di portare il velo tra le imposizioni di alcune famiglie: "Matrimoni combinati in giovane età e infibulazioni sono di sicuro le pratiche più frequenti e in Italia sono considerate condotte penalmente rilevabili", ha specificato Borile.
L'infibulazione. "Nel solo 2020 sono ancora 4,1 milioni le donne e le bambine che rischiano" di subire le mutilazioni genitali (MGF). A rivelarlo è il rapporto di Unfpa, che affronta le pratiche dannose che "rappresentano una violazione dei diritti umani" e che sono diffuse in tutto il mondo. I dati del report rivelano che sono "circa 200 milioni" le donne e le ragazze che sono state sottoposte a forme di mutilazione genitale. Tra queste c'è l'infibulazione. "È una pratica ritualistica che prevede l'asportazione totale o parziale dell'organo genitale femminile", prosegue Simone Borile. Ma perché si ricorre a questa pratica? "Per alcune culture - aggiunge l'esperto - diventa un obbligo per le giovani bambine sottoporsi a tali sofferenze poiché è diffusa la credenza che il corpo della donna sia imperfetto e che l'infibulazione rappresenti un passaggio obbligatorio per abbellire, perfezionare il corpo femminile. Una modificazione corporea necessaria per favorire poi una integrazione all'interno della comunità contraendo matrimonio e onorando il nucleo familiare". L'idea di base di alcune culture, spiega l'esperto, è che "donna non si nasce, ma si diventa attraverso l'infibulazione". Borile, inoltre, spiega che secondo alcune credenze locali che supportano la pratica di asportazione del clitoride, "se un bambino dovesse nascere toccando il clitoride con la testa, sarà destinato a una morte veloce per decapitazione", mentre altre "ritengono che se il pene maschile dovesse entrare in contatto con il clitoride della donna, questo potrebbe provocare all’infertilità". Alcune culture inoltre, specifica ancora l'antropologo, "conservano e attuano le proprie pratiche attestando in tal modo l'onore e l'appartenenza alla cultura di origine. Rappresenta un rituale irrinunciabile e obbligato". Le mutazioni genitali femminili possono portare a danni fisici e psicologici importanti. Tra queste, spiega il rapporto Unfpa, ci sono "rapporti sessuali dolorosi, infezioni, cisti e sterilità", oltre al maggiore rischio di contrarre Hiv e di avere complicazioni durante il parto. "Inoltre - si legge nel testo - possono portare a depressione, incubi ricorrenti, attacchi di panico e stress post-traumatico". L'infibulazione, così come altre pratiche, è "illegale, quindi realizzata clandestinamente". Per questo motivo, continua Borile, "vi è un numero oscuro elevatissimo e determinarne le statistiche è assai complesso". In molti casi, spiega l'esperto, queste pratiche "sono di natura violenta (la memoria del dolore è fondamentale nei riti di passaggio e di inclusione) e prevedono una modificazione corporea". Si tratta, anche in questo caso, di atti illegali: "Il nostro codice penale sanziona chiaramente chiunque arrechi danno fisico e leda l'integrità fisica ad altro soggetto".
Lo sfregio con l'acido. Mutilate, abusate, vessate: sfregiate con l'acido. Sono migliaia, e forse anche di più, le donne islamiche che ogni giorno sono vittime di quello che viene definito "vitriolage" (letteralmente "trattamento con vetriolo"). Una pratica ancestrale, ampiamente diffusa nelle regioni islamiche del Medio Oriente, che attenta non solo al corpo femminile, deturpando in modo irreversibile il volto e gli arti, ma che strazia l'anima nel profondo. Secondo una statistica diffusa dall'associazione Acid Sourvivor Foundation (Asf), tra il 2007 e il 2018 in Pakistan ben 1485 donne sono state aggredite con sostanze corrosive. Nel 2020, anno dell'ultima rilevazione, sono stati registrati 80 casi di attacchi con l'acido, circa il 50% in più rispetto a quello precedente. La pena per questo genere di reato, introdotta soltanto nel 2011, prevede dai 14 ai 30 anni reclusione oltre a una multa di 1 milione di rupie. Ciononostante questo scempio aberrante continua a perpetuarsi. "Bisogna centrare il punto - spiega l'antropologo - Chi e cosa rappresenta la donna in queste culture? Arrivare a compromettere irrimediabilmente l'immagine e il corpo di una donna, provocandone indicibili sofferenze perpetue, è segno di una cultura convinta che la donna non abbia valore e qualsiasi sofferenze le venga inflitta sia giustificata e legittimata. Pensiamo alla pratica del 'breast ironing' molto diffusa nelle regioni centrali e occidentali dell’Africa. Giovani adolescenti vengono sottoposte alla tradizione dell’appiattimento al seno attraverso bracieri ardenti, lame incandescenti e pietre roventi nella convinzione che questa pratica rallenti la crescita del seno, conservando in tal modo l'immagine della donna come figura prepuberale, lontana da attenzioni e facili adescamenti, che potrebbero condurre a matrimoni precoci, gravidanze indesiderate, interruzione degli studi e disonore alla famiglia". A marzo del 2012 Fakhra Younas, una danzatrice pakistana residente a Roma, si è tolta la vita dopo che il marito l'aveva sfregiata con l'acido nel 2002. "Sfregiare una donna con l’acido sottintende una precisa volontà distruttiva e diffamatoria - conclude l'esperto - Significa segnare un marchio visibile e indelebile di vergogna sul volto e comprometterne la sua futura esistenza sociale per sempre".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Saman Abbas, Garofano: "Vi spiego perché non si trova il suo corpo". Da domani squadra dalla Svizzera per le ricerche. L'ex capo dei Ris: "Territorio ampio e vario, ricerche difficili". Daniele Petrone il 24 giugno 2021 su ilrestodelcarlino.it.
Dottor Luciano Garofano – ex generale dei Ris di Parma (oggi in congedo), ora consulente tecnico di casi giudiziari – una provocazione: com’è possibile che coi mezzi tecnologici di oggi non si riesca a trovare il corpo di Saman dopo 50 giorni di ricerche?
"Intanto va fatta una una considerazione generale: se l’omicidio è premeditato, la scelta del luogo dove nascondere il cadavere è stata studiata bene. Il territorio inoltre è così vario e ampio che può portare ad esiti negativi nelle ricerche. Non sarebbe il primo caso analogo...".
Quali casi specifici le ricordano queste difficoltà?
"La mente corre subito al caso di Roberta Ragusa, il cui corpo non è ancora stato rinvenuto. O il ‘delitto di Avetrana’. Se lo zio Michele Misseri non avesse rivelato dove fosse stata occultata Sarah Scazzi, ossìa in un pozzo lontano dall’abitazione, non l’avremmo mai trovata. Ecco, se non ci sono indicazioni precise o immagini delle telecamere diventa un’impresa ardua. Finora, tornando a Saman, ci sono solo i video di zio e cugini con le pale. E le indicazioni del fratello riguardo al luogo in cui i genitori avrebbero consegnato la ragazza al suo killer. Oltre questo non si può andare per adesso".
Uno dei cugini, Ikram Ijaz, l’unico arrestato della vicenda, avrebbe preparato la buca. Se vero, lui sa il luogo...
"Ovvio che la strategia difensiva degli avvocati, nella quale non entro, è quella di lasciare il dubbio...".
Tornando alle ricerche, che tipo di strumenti possono essere utili?
"Si stanno utilizzando l’elettromagnetometro e il georadar. Il primo è il più facile da usare perché restituisce immagini più nitide da interpretare. Ma subisce troppe inferenze dai campi elettromagnetici e dalla presenza dei metalli. Ecco perché si procede a smontare le strutture e le serre in modo da risolvere uno dei limiti che possono influire nelle ricerche con questo strumento".
E poi ci sono i cani molecolari al lavoro.
"I cani da cadavere sono un grande ausilio. Ci ho lavorato diverse volte e li ho visti all’opera, sono in grado di fare scoperte incredibili. Col passare delle settimane, i corpi in avanzato stato di deposizione emanano una serie di sostanze che, anche se sepolti sotto metri di terra, possono risultare sensibili anche all’uomo. Figuriamoci a un cane. Diciamo che il passare del tempo in realtà può giovare ai cani su quest’aspetto".
Lei pensa che il cadavere sia tra le serre oppure potrebbe essere stato fatto sparire in pasto ai maiali in qualche porcilaia vicina?
"Il maiale elimina tutto con grande rapidità. Ma può lasciare sempre delle tracce. È molto più un rischio di esposizione in realtà quest’operazione. Credo che se chi occulta conosce bene il luogo ha meno difficoltà. Inoltre per il punto in cui scompare Saman, credo anche io che sia sotto qualche serra".
Saman, il cugino rivela: "Perché sono scappato in Francia". Rosa Scognamiglio il 4 Luglio 2021 su Il Giornale. Il cugino di Saman Abbas, Ikram Ljaz, avrebbe ribadito la sua estraneità ai fatti e negato l'esistenza di un piano criminale.
Ikram Ijaz, 28 anni. "Avevo paura". Non ha fatto che ripeterlo decine di volte Ikram Ljaz, il cugino di Saman Abbas, durante l'interrogatorio di venerdì pomeriggio in Procura a Reggio Emilia. Il 28enne, accusato di concorso in omicidio e occultamento di cadavere delle 18enne pakistana, ha ribadito la sua totale estraneità ai fatti.
L'interrogatorio. Un interrogatorio fiume, dicono, durato ben 9 ore. Eppure, dalle dichiarazioni del cugino di Saman non sembrano essere emersi dettagli rilevanti sull'eventuale luogo di sepoltura della giovane. Del resto, come avevamo già preannunciato ieri, c'era da aspettarselo che Ikram Ljaz fosse ancora abbottonatissimo data l'ipotesi di reato che gli viene contestato dalla Procura di Reggio Emilia: concorso in omicidio e occultamento di cadavere, sostengono gli inquirenti. Secondo quando si apprende dall'edizione cartaceo de Il Resto del Carlino, il giovane avrebbe continuato a protestarsi innocente - lo aveva già fatto durante l'interrogatorio di convalida del fermo dopo l'arresto - negando la premeditazione di un piano criminale ai danni della 18enne pakistana. "Ho avuto paura", ha ripetuto incalzato dalle domande del sostituto procuratore Laura Galli, a capo delle indagini. Ma non avrebbe fatto menzione ad alcuna circostanza specifica né chiarito la sua posizione di indagato.
"Ha risposto alle domande". Sono stati abbottonatissimi anche gli avvocati di Ljaz, Domenico Noris Bucchi e Luigi Scarcella, che non hanno rivelato alcun dettaglio relativo all'interrogatorio del loro assistito. "Ljaz ha risposto a tutte le domande poste in queste lunghe ore e ha chiarito la sua posizione. Non possiamo dichiarare il contenuto delle sue dichiarazioni", hanno riferito ai giornalisti assiepati all'esterno della Procura. Su quanto riferito da Ijaz, ora gli inquirenti valuteranno se fare verifiche. Questo interrogatorio, chiesto dallo stesso Ikram, si è svolto dopo giorni di approfondimenti della difesa sui video e sul materiale finora raccolto dagli investigatori. Anche sull'indiscrezione trapelata di un ricorso al tribunale del Riesame per ottenere la scarcerazione del cugino di Saman, con udienza fissata nei prossimi giorni, i legali hanno mantenuto strettissimo riserbo: "Preferiamo non rispondere".
"Saman si poteva salvare". Sulla vicenda di Saman è intervenuta anche l'Associazione Telefono Rosa. "Saman poteva essere salvata", ha dichiarato la vicepresidente dell'Associazione, avvocata Antonella Faieta, alle pagine de Il Resto del Carlino. "Lavorando tutti i giorni su questi casi mi sono resa conto di una grave lacuna - ha spiegato il legale - all'interno dell'articolo 18 bis sull'immigrazione nato proprio per contrastare la violenza. Non è stato infatti inserito il matrimonio forzato, fenomeno che riguarda soprattutto le giovani donne. Sono proprio loro che dobbiamo tutelare, dandogli la possibilità di emanciparsi dalla famiglia e dalla situazione in cui vertono". "Non avere i documenti - ha proseguito la vicepresidente, riferendosi proprio all'esigenza di Saman di tornare a Novellara per recuperare il passaporto - è un doppio colpo per queste donne: da una parte si sentono abbandonate dallo stato in cui vivono e dall'altra hanno il timore si essere rimandate nel loro Paese, ritrovandosi così sottomesse e senza via di fuga. La giustizia deve invece dimostrare di essere al loro fianco".
"Così Saman si poteva salvare". Cosa non torna nella vicenda. Rosa Scognamiglio il 4 Luglio 2021 su Il Giornale. "Saman poteva essere salvata. Se la legge fosse stata applicata, oggi sarebbe ancora viva", dice alla nostra redazione Ebla Ahmed, presidente dell'Associazione Senza Veli Sulla Lingua. Diventa sempre più fitta e intricata la vicenda di Saman Abbas, la 18enne di origini pakistane di cui non si hanno più notizie dallo scorso aprile. La Procura di Reggio Emilia ritiene che la ragazza sia stata vittima di una congiura familiare per aver rifiutato il matrimonio forzato col cugino in patria. Un vero e proprio piano criminale che, giorno dopo giorno, rafforza l'ipotesi di reato per omicidio premeditato e occultamento di cadavere formulata dagli inquirenti. Restano, però, ancora molti punti oscuri da chiarire: se davvero è stata uccisa, dov'è stato seppellito il cadavere? Ma, soprattutto, Saman poteva essere salvata? "Era palesemente vittima di violenza domestica e quindi rientrante nella categoria di vittima di violenza dell’articolo 18 bis. Poteva essere salvata", dichiara a ilGiornale.it Ebla Ahmed, presidente dell'Associazione Nazionale APS Senza Veli Sulla Lingua, a tutela delle donne vittime di violenza domestica e di genere.
Dottoressa Ahmed, secondo lei, Saman poteva essere salvata?
"Sì, si poteva salvare".
In che modo?
"Si poteva applicare l’articolo18 bis del testo unico di immigrazione (ex 558 bis c.p). Se fosse stato applicato il suddetto articolo, la ragazza sarebbe viva oggi".
Quando avrebbe dovuto scattare l'allerta?
"Saman aveva cominciato a denunciare la sua situazione ben sette mesi fa. Aveva denunciato che veniva tenuta segregata in casa dal padre: non le veniva data la possibilità di studiare, non aveva la libertà di frequentare amici, non poteva vestire a suo piacimento, le venivano trattenuti con la forza i suoi documenti. E per di più riceveva percosse in famiglia. Disagi incredibili da sopportare a cui si è aggiunta anche la volontà paterna di imporre alla giovane un matrimonio forzato".
Quindi era vittima di violenza domestica?
"Saman era, purtroppo, palesemente vittima di violenza domestica e quindi rientrante nella categoria di vittima di violenza dell’ articolo 18 bis".
Quali errori sono stati commessi?
"Una serie di 'sviste'. Un errore di valutazione a cui è stato aggiunto un altro altrettanto grave e che riguarda principalmente la protezione di Saman".
Cosa avrebbero dovuto fare per preservare la sua incolumità?
"Anzitutto, la giovane avrebbe dovuto stare in una struttura protetta, non in una casa famiglia. Poi, le doveva essere tolto il cellulare affinché nessuno la rintracciasse. Sarebbe stato auspicabile anche che Saman avesse potuto essere seguita da uno psicologo insieme ad un mediatore culturale".
Perché Saman è tornata a casa?
"Saman si è sentita costretta a ritornare a casa per prendere i suoi documenti che il padre le negava. Un ritorno non dovuto che le è stato fatale e che dimostra una rete di protezione fallimentare".
Quindi, c'è stata una 'falla' nella risposta alla richiesta d'aiuto?
"Tutti coloro che fanno parte della rete di protezione, quando una vittima di violenza (donna o uomo che sia) denuncia, devono sapere come agire. Il caso Saman dimostra che la legge c’era ma che non è stata applicata. Quindi per questo è importantissimo che ci sia un continuo aggiornamento, informazione e formazione per coloro che operano all’Interno dei percorsi di aiuto di chi subisce violenza".
Ritiene che il matrimonio forzato debba essere integrato nell'articolo 18 bis?
"Certo. Ritengo che il matrimonio forzato debba essere integrato nell'articolo 18 bis, proprio per non incorrere in future 'sviste/errori di valutazione'. Bisogna fare tutto il possibile per evitare che ci siano altre Saman".
Crede che Saman possa essere ancora viva?
"Si dice che la speranza sia l'ultima a morire. Ma faccio fatica a credere che sia ancora viva".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Saman, il fidanzato pensa al rapimento in Francia o Spagna. Giampiero Casoni l'11/07/2021 su Notizie.it. Saman, il fidanzato e il rapimento in Francia: "Danish e Nomanhulaq sono irreperibili non perché l'hanno ammazzata, Sono scomparsi perché sono con lei". Saman Abbas non sarebbe morta e il fidanzato Ajub Saquib pensa piuttosto ad un rapimento con destinazione Francia o Spagna, dove la famiglia e i sodali della 18enne scomparsa da Novellara hanno agganci solidi e coperture. Saman sarebbe dunque segregata fuori dall’Italia e non sepolta sotto il suo suolo, e il 21enne pakistano punjabi Ajub ne è convinto, tanto convinto da esternare questa sua tesi in una intervista al Giorno. Ajub punta molto sull’irreperibilità non solo della sua ragazza, ma anche di coloro che nella sua scomparsa sono più direttamente coinvolti: “Secondo me è viva, tenuta segregata da qualche parte dallo zio Danish e dal cugino Nomanhullaq. Che, non a caso, sono irreperibili esattamente come i genitori”. A dire il vero le motivazioni del 21enne non sono sempre così empiriche, a volte risentono di fattori emotivi comprensibili ma poco utili all’accertamento della verità: “Potrei ricordare che la sogno ogni notte, prigioniera dietro delle sbarre o in una piccola stanza. Piange, piange sempre, e mi dice: amore, aiutami”. Poi, tornando al concreto, Ajub, spiega e mette in tacca di mira la figura a suo dire ambigua del fratello della sua fidanzata: “Non mi fido del fratello di Saman, che prima ha detto che è andata via poi che era stata uccisa. Secondo me il suo è un depistaggio per nascondere il fatto che lei è stata sequestrata. Per questo non è fuggito con i genitori. Gli hanno detto di recitare una parte per sviare le indagini e lui lo sta facendo”. Poi rincara la dose: “Suo zio Danish Hasnain e suo cugino Nomanhulaq sono irreperibili non perché l’hanno ammazzata. Sono scomparsi perché sono con lei. E secondo me del rapimento è responsabile anche l’altro cugino Irfan, che oggi nega ogni responsabilità. E magari altre persone che non so”. La domanda sorge spontanea: perché proprio Francia o Spagna? “In Francia la famiglia di Saman ha dei parenti. Ricordo che suo cugino Ikram Ijyaz è stato fermato il 21 maggio dalla polizia francese a Nimes, su un pullman diretto a Barcellona. E il 10 maggio la polizia italiana fermò casualmente per un controllo suo zio Danish proprio a Imperia, mentre era con il fratellino di Saman”. Poi la chiosa: “Probabilmente stavano andando pure loro in Francia, o in Spagna. Mi paiono indizi importanti, bisogna fare più pressione sul cugino Irfan e sul fratello di Saman. Loro sanno. Perché Saman una volta mi disse: ‘Qualsiasi cosa fanno in famiglia, tutti lo sanno, sono come una cosa sola’”.
Lo zio di Saman: "Sono venuti a prenderla..." Angela Leucci il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. Non si trova ancora il corpo di Saman Abbas: dal racconto dello zio Danish, presunto omicida, a quello del fidanzato Saqib che voleva sposare. Saman Abbas è ancora viva? E, se non lo è, dov’è il suo corpo? Sono questi gli interrogativi fondamentali che hanno percorso la puntata di ieri sera di “Quarto grado”, dove si è tornato a parlare del ruolo dei famigliari della 18enne in questa scomparsa, attualmente ricercati dall'Interpol. Tra questi famigliari c’è lo zio paterno, Danish, che prima di allontanarsi da Novellara e risultare introvabile, ha fornito una testimonianza della quale però è impossibile in questo momento stabilire la veridicità. Danish ha affermato che Saman scappava spesso di casa e al suo ultimo rientro i genitori le abbiano trattenuto i documenti affinché non fuggisse ancora. Danish ha riportato che Saman sarebbe andata in Belgio da un amico, com’era accaduto in passato. I genitori le avrebbero ridato i documenti, quando la giovane avrebbe manifestato la volontà di tornare in Pakistan con loro a trovare la presunta zia malata. Ma nell’atto di riottenere i documenti, Saman sarebbe andata di nuovo via, il 30 aprile intorno alle 17. “Qualcuno è venuto a prenderla in auto, non ho neanche provato a fermarla”, ha detto Danish. I tabulati telefonici mostrano che sono state effettuate varie telefonate in tarda serata dal padre Shabbar Abbas allo zio Danish. Ci sono poi gli ormai celebri filmati del passaggio degli uomini con le pale e il racconto del fratello di Saman, secondo cui la sorella sarebbe stata “consegnata” allo zio Danish, che l’avrebbe punita per la sua insubordinazione, per la sua opposizione al matrimonio combinato dai genitori in Pakistan. Però il presunto corpo di Saman ancora non si trova e a “Quarto grado” ci si è chiesti se il corpo non sia stato portato via, lontano da quelle campagne nella zona di Novellara. Intanto, nella narrazione dello zio Danish, anche il rifugio di Saman in comunità viene liquidato come una fuga da casa. Tuttavia il fidanzato della giovane, Saqib che vive e lavora nel frusinate e che Saman doveva sposare a Roma, ha raccontato che lei “non stava bene in comunità”: secondo il ragazzo, le avevano suggerito di lasciare Saqib e mettersi con un italiano. “Ogni giorno io penso che ritorni a casa”, ha concluso il giovane pakistano che appare sempre inconsolabile e, nonostante abbia ricevuto minacce per sé e la sua famiglia, ha di recente deciso di parlare e cercare la verità sulla sorte di Saman.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Gettano la spugna: sospese le ricerche di Saman. Rosa Scognamiglio il 12 Luglio 2021 su Il Giornale. Dopo 67 giorni della ragazza non c'è traccia. Intanto proseguono le indagini sul fronte investigativo: 5 i nomi nella lista degli indagati. E il cugino resta in carcere. Dopo 67 giorni, i carabinieri di Reggio Emilia hanno deciso di sospendere le ricerche di Saman Abbas, la 18enne di nazionalità pakistana, residente a Novellara, di cui sono perse le tracce dallo scorso aprile. Intanto, proseguono le indagini sul fronte investigativo: la Procura è alla ricerca di elementi utili alla ricostruzione del presunto caso di omicidio premeditato e occultamento di cadavere. Per settimane i militari dell'Arma, coadiuvati da pool di esperti e unità cinofile, hanno battuto palmo a palmo le campagne di Novellara, piccola cittadina del Reggiano dove la ragazza viveva insieme alla sua famiglia. Ma nonostante il lavoro proficuo degli investigatori, non è stata rilevata traccia alcune del cadavere né nei terreni adiacenti all'abitazione degli Abbas né altrove. Per questo motivo, i carabinieri di Reggio Emilia hanno deciso di sospendere le attività. Nei 67 giorni di ricerche sono stati impiegati complessivamente 500 carabinieri, unità cinofile, eliportuale e la componente forestale dell'Arma, vigili del fuoco con natanti, polizia provinciale, unità cinofile, specializzate nelle ricerche di cadaveri della polizia tedesca e di un'associazione di volontari svizzera. Sono stati utilizzati strumentazioni specifiche, come i geoscanner, elettromagnetometri e droni. Le ricerche sono state condotte anche attraverso l'analisi delle informazioni satellitari e delle telecamere presenti nella zona. Proseguono invece le indagini della Procura. In base a quanto riferito dai militari, le attività investigative sia per trovare elementi utili al rinvenimento del corpo della giovane, sia per trovare i latitanti ritenuti responsabili del presunto omicidio e dell'occultamento del cadavere della ragazza. Per la sparizione di Saman, al momento, ci sono cinque persone iscritte nel registro degli indagati: i genitori della 18enne, per cui è stata presentata la rotatoria internazionale per il loro fermo, uno zio e due cugini. Intanto, due giorni fa, il Tribunale del Riesame di Bologna ha rigettato il ricorso presentato dai legali di Ikram Ljaz, gli avvocati Domenico Noris Bucchi e Luigi Scarcella. Secondo i giudici, il cugino della 18enne deve restare in carcere. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, ha commentato la notizia della sospensione delle attività di ricerca in una intervista rilasciata alle pagini di QN. "A casa nostra combattiamo i diritti delle donne poi su Saman tutti muti - ha affermato il presidente FDI - Non ho sentito nessuno a sinistra" parlare di questa "storia atroce"".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini.
Dopo 67 giorni lo stop. Saman, si fermano le ricerche del corpo della ragazza: ora si cercano i familiari latitanti. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Luglio 2021. Da quella notte del 30 aprile di Saman Abbas non c’è stata più traccia. Dopo 67 giorni di ricerche la procura di Reggio Emilia ha ordinato lo stop alle ricerche del corpo della ragazza scomparsa presumibilmente nell’area dell’azienda agricola di Novellara dove si ritiene che lo zio, con il placet della famiglia, l’abbia uccisa per essersi opposta a un matrimonio combinato. Le indagini si concentrano ora per la cattura della famiglia. I carabinieri del nucleo investigativo di Reggio Emilia e della compagnia di Guastalla. coordinati dalla Procura proseguiranno le attività investigative sia per arrivare a elementi che possano portare comunque al rinvenimento del corpo di Saman e alla cattura dei latitanti (il padre Shabbar, la madre Nazia Shaheen, lo zio Danish Hasnain e un cugino Nomanulhaq Nomanulhaq) ritenuti responsabili a vario titolo dell’omicidio e dell’occultamento del cadavere della ragazza. Poche ore dopo il delitto i genitori della ragazza sono rientrati in Pakistan e c’è una rogatoria internazionale per rintracciarli. Si zio e cugino invece pende un mandato di cattura internazionale, convinti che si trovino ancora in Europa. Alcune settimane fa in Francia venne fermato un secondo cugino di Saman, Ijaz Ikram, attualmente in carcere a Reggio Emilia con l’accusa di aver partecipato al delitto. Le ricerche di Saman sono continuate per giorni con cinquecento carabinieri, cani, vigili del fuoco con natanti, polizia, unità cinofile specializzate nella ricerca di cadaveri e anche un’associazione di volontari svizzeri. Sono stati inoltre utilizzati strumentazioni specifiche quali geo scanner in Hd, elettro magnetometri, droni. Le ricerche sono state condotte anche attraverso l’analisi delle informazioni satellitari e delle telecamere presenti nella zona. Tutto è però risultato inutile.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 15 luglio 2021. «Certo, siamo sicuri che il corpo di Saman sia seppellito lì, tra quelle serre. Le ricerche interrotte? Attendiamo un fatto che dia luogo a nuove evidenze investigative. Poi ripartiremo». Il carabiniere che parla lo sa bene: in certe indagini serve solo pazienza e aspettare. Nel caso della ragazza pachistana sparita a Novellara nella notte del 30 aprile, l'attesa riguarda ciò che può emergere da un'inchiesta giudiziaria che vede la fattiva collaborazione dell'Interpol e che è estesa in tutta Europa. «Soprattutto in Francia e Spagna, dove potrebbero essersi rifugiati due dei ricercati per l'uccisione della ragazza, lo zio Danish Hasnain e il cugino Nomanulhaq Nomanulhaq» osserva l'investigatore del gruppo di Reggio Emilia diretto da Cristiano Desideri e Stefano Bove. Non semplice, la decisione di sospendere le ricerche dopo 67 giorni: «Non avremmo fatto altro che tornare a setacciare gli stessi luoghi già controllati. Un dispendio di risorse senza risultati» scandisce l'investigatore. Le ricerche sono state poderose. Con droni, georadar e cani molecolari, le serre dei circa 100 ettari dell'azienda Bartoli - quella dove lavoravano tutti gli uomini del clan Abbas - sono state battute da circa 500 militari. «Saman è seppellita qui», è la convinzione dell'investigatore che scuote la testa all'ipotesi che la diciottenne sia stata rapita e portata in Pakistan. A parlarne, più nella speranza di immaginarla viva che non per una certezza, è stato nei giorni scorsi il fidanzato di Saman, il connazionale ventunenne Saqib Ayub che, assistito dall'avvocato Claudio Falleti, sarà ascoltato il 23 luglio in incidente probatorio. In Procura, il giovane riferirà delle minacce che il padre di Saman, Shabbar (fuggito in Pakistan con la moglie all'indomani del delitto) aveva indirizzato alla sua famiglia a febbraio, presentandosi, in un villaggio del Punjab, scortato da sei auto e con un kalashnikov. Minacce delle quali la giovane aveva detto agli operatori della struttura d'accoglienza in cui, da novembre, era ospite nel Bolognese dopo essersi opposta al matrimonio combinato con un cugino. «Anche per questo, in considerazione di ulteriori possibili pericoli, con i Servizi sociali di Novellara avevamo ipotizzato il trasferimento di Saman in un'altra parte d'Italia, in un centro ancor più protetto e segreto». A raccontarlo al Corriere è il presidente della cooperativa che, a stretto contatto con la Regione Emilia-Romagna, si occupa dell'assistenza a minori vittime di violenze e fuori famiglia. Saman «aveva già avuto un primo colloquio nella nuova struttura», spiega l'educatore professionale e pedagogista, 57 anni. Convincerla però non era semplice. La diciottenne «prevedeva solo un suo futuro di vita con il compagno». Per questo l'11 aprile lasciò il centro dal quale «era già scappata quattro volte» sempre per stare con Saqib a Bologna. Se si sia trattato di «una fuga o di allontanamento volontario poco cambia: era maggiorenne, poteva decidere liberamente». Anche se gli operatori «le avevano palesato i rischi della sua scelta e dei quali lei era consapevole, forse, solo in parte». Dal centro, in quelle stesse ore dell'11 aprile, tramite Pec partì la segnalazione di scomparsa alle forze dell'ordine e ai Servizi sociali di Novellara, responsabili del dossier Saman e informati di ogni passo. Furono questi ultimi, il 20 aprile, a dire ai carabinieri che lei forse era tornata a casa. Il 22 il maresciallo Lufrano, comandante della stazione, se ne accertò andando proprio dagli Abbas. Quando la vide, per parlarle lontano dai genitori, con un pretesto la portò in caserma. Qui le propose di rientrare nel centro protetto se lui avesse recuperato il suo passaporto in possesso del padre. La giovane acconsentì, ma sorse un problema: per i Servizi sociali, spiegò il maresciallo al Corriere , non poteva tornare nella stessa struttura nel Bolognese, la cui sicurezza adesso era a repentaglio per quei continui allontanamenti. Della nuova sistemazione se ne sarebbe riparlato il 3 maggio. Intanto Saman è sparita.
Il fidanzato di Saman in lacrime in tribunale: "Cercatela". Rosa Scognamiglio il 23 Luglio 2021 su Il Giornale. Il fidanzato di Saman Abbas è stato sentito in Procura. Il ragazzo ha confermato di esser stato minacciato dalla famiglia della 18enne pakistana. "Continuate a cercare Saman". Non si dà per vinto Saqib Ayud, il fidanzato di Saman Abbas, che questa mattina è stato ascoltato in Procura a Reggio Emilia in qualità di teste. Il ragazzo, originario del Pakistan ma residente a Frusinate, è apparso agitato e commosso prima di sottoporsi all'incidente probatorio. Al suo fianco c'era l'avvocato Claudio Falleti: "Questo silenzio - ha detto il legale rivolgendosi ai giornalisti - è comprensibile anche per la situazione mediatica ma soprattutto per il dolore che si porta dentro il ragazzo. Oggi è un giorno importante, verrà cristallizzato in udienza quello già noto. Lui è tranquillo e sereno anche se è chiaro che entrare in un'aula di tribunale porta sempre un po' di agitazione". Se dovesse esserci un processo per il caso di presunto omicidio, Saqib ha assicurato che si costituirà parte civile: "Sì, è mia intenzione farlo". Ascoltato per 3 ore dagli inquirenti, il fidanzato della 18enne pakistana scomparsa ha confermato le dichiarazioni rese in varie occasioni sul clan Abbas (le presunte intimidazioni ricevute dal padre di Saman e che la ragazza vivesse in un clima familiare ostile) aggiungendo elementi anche contro gli altri indagati, i cugini e lo zio della ragazza, quest’ultimo considerato esecutore materiale dell'ipotetico delitto. L'udienza è stata "infuocata - ha detto Noris Bucchi, avvocato di uno dei cugini della ragazza indagati per omicidio - per le tante contestazioni che gli abbiamo fatto". Una sfilza di contestazioni, quelle che sarebbero state mosse a Saqib, nel tentativo di trovare la quadra di una vicenda ancora ingarbugliata e complessa. Il ragazzo ha risposto a tutte le domande degli inquirenti ma, secondo quanto riporta il Corriere della Sera, sarabbe caduto più volte in contraddizione. Ad esempio, avrebbe smentito le dichiarazioni del fratello minore di Saman, che aveva detto di non avere buoni rapporti col 24enne. Ayub ha anche aggiunto di non essere stato preso in considerazione dai carabinieri quando a febbraio denunciò le minacce. "L’idea che mi ero fatta dalle trasmissioni di cui il ragazzo è stato ospite era di una storia molto romantica - ha commentato Lalla Gherpelli, legale dello zio di Saman, ancora latitante - ho cambiato visione. Era molto preparato". L'avvocato Claudio Falleti ha ribadito, invece, la necessità di una cooperazione internazionale per portare in Italia i genitori del 24enne che, a suo dire, sarebbero minacciati dalla famiglia di Saman in Pakistan.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Daniele Petrone per l’ANSA il 24 luglio 2021. "Per me è ancora viva. È sequestrata da qualche parte...". Dopo lo stop alle ricerche del corpo di Saman Abbas dopo 67 giorni di scavi da parte dei carabinieri, il fidanzato di Saman Abbas riaccende le luci sul caso della 18enne pachistana scomparsa da quasi tre mesi da Novellara, nella Bassa Reggiana, e che si presume sia stata uccisa dalla famiglia per un rifiuto a un matrimonio combinato in patria con un cugino. Ma anche per essersi innamorata del "pachistano sbagliato". Lui, 21 anni, residente in un'altra regione, è l'unico a tener viva la speranza e in qualche modo a difenderla. Stamattina (ieri, ndR) si è sottoposto all'incidente probatorio in tribunale a Reggio Emilia. Si è presentato mezzora prima dell'inizio, assieme al suo avvocato Claudio Falleti e al suo miglior amico, un connazionale che lo sta aiutando a gestire la pressione di questi giorni. Teso ed emozionato, ha trattenuto le lacrime a stento, aiutandosi con la mascherina: "Non averla ancora trovata significa che forse potrebbe trovarsi da qualche parte. Nessuno può distruggere questa sua speranza", ha detto il legale. Tre ore. Tanto è durato l'esame del testimone. Il ragazzo ha raccontato - davanti al gip Luca Ramponi e alla pm Laura Galli - della sua storia d'amore, del loro progetto di sposarsi, ma anche del rapporto burrascoso coi genitori. Sia nei suoi confronti sia rispetto a Saman. E soprattutto delle minacce ricevute dagli Abbas affinché lasciasse la loro figlia. Concetti che lo stesso ragazzo ribadisce una volta fuori dall'aula: "Ho ricevuto messaggi anche alcuni giorni fa e ho fatto denuncia per questo. Cosa c'era scritto? Tante parolacce e di scappare il più lontano possibile". L'avvocato puntualizza: "Non abbiamo le prove che sia il padre di Saman o qualcuno della famiglia a minacciarlo. Potrebbe essere anche qualche mitomane. Noi abbiamo consegnato tutti i messaggi agli inquirenti ai quali abbiamo chiesto di investigare". Una giornata densa di emozioni per il fidanzato, il quale ha intenzione di costituirsi parte civile al processo e che non esclude di "tornare prossimamente a Reggio Emilia, in particolare a Novellara, davanti alla casa di Saman", dove tutto sarebbe successo. "Mi sento bene. Mi sono liberato di un peso. Paura? Senza Saman della mia vita non m'importa nulla", ha detto il ragazzo, confidando poi di "voler portare i genitori in Italia per stare più tranquillo", tant'è che l'avvocato ha lanciato un appello al Pakistan affinché "la famiglia venga protetta". Il giovane è dovuto anche passare sotto "il pressing e il fuoco incrociato della difesa volto a minare la credibilità del ragazzo" come l'ha definito il suo legale. È stata bagarre. Gli avvocati difensori degli indagati hanno sollevato diverse contestazioni durante l'esame. In particolare su uno scambio di messaggi e di minacce col fratello minore di Saman, negato oggi dal ragazzo. "Sono emerse diverse contraddizioni e diverse discrepanze tra i due racconti in sede di incidente probatorio di uno e dell'altro - ha detto l'avvocato dei genitori di Saman, Simone Servillo - Non c'è nulla di solido ad ora nell'impianto accusatorio e non si può parlare di colpevoli. L'unica certezza al momento è l'incertezza". Ma il legale del giovane alza lo scudo: "Siamo di fronte a un ragazzo che ha subìto un trauma, che conosce 100 vocaboli d'italiano e con una pressione costante. Sfido tutti ad avere la fidanzata che sparisce da un giorno all'altro e forse per mano della sua stessa famiglia". L'unica cosa certa è che Saman non si trova così come lo zio Danish Hasnain, ritenuto l'esecutore materiale del delitto che sarebbe avvenuto secondo gli inquirenti tra il 30 aprile e il primo maggio, latitante - si pensa in Europa - come il cugino Nomanhulaq Nomanhulaq. Ricercati anche i genitori Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, andati in Pakistan. Mentre l'altro cugino Ikram Ijaz, unico in carcere della vicenda, ha sempre negato di essere coinvolto nella sparizione di Saman. Tutti sono accusati dalla Procura Reggiana di omicidio premeditato, sequestro di persona e occultamento di cadavere in concorso.
Saman, parla il sensitivo: «Il corpo è nel boschetto». Gazzetta di Reggio il 14/7/2021. «Sento che Saman purtroppo non è più tra noi. Ho scritto ai carabinieri più di una mail con le coordinate su dove si trova: non dovete cercare il suo corpo nelle serre, ma in un boschetto che si trova nella zona a nord di Novellara». Michael Schneider è un noto sensitivo tedesco, che vive non lontano da Bonn. Ex giornalista – il prozio è uno dei fondatori di Der Spiegel – negli ultimi anni si è occupato di numerosi casi di cronaca in giro per l’Europa: di persone scomparse, come Maddie, la bambina inglese svanita nel nulla nel 2007 durante una vacanza in Portogallo. In Italia, ha detto la sua su Denise Pipitone, Angela Celentano, Roberta Ragusa. Più recentemente, sui coniugi di Bolzano Peter Neumar e Laura Perselli uccisi dal figlio. Ha dato indicazioni su dove si trovassero i corpi, che sono stati cercati per mesi: in effetti, sono stati trovati dove lui aveva detto. E si occupa anche di cose meno tragiche, perchè sono tanti coloro che si mettono in contatto con lui. Come una persona, in Germania, che non trovava più il suo cane. Era dove il sensitivo gli ha detto di cercare. Ora, parla del caso di Saman Abbas: la 18enne di origine pakistana scomparsa da Novellara nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio scorsi. Due mesi di ricerche – per la precisione 67 giorni, durante i quali hanno lavorato sul campo qualcosa come 500 carabinieri – purtroppo non sono bastati per trovare il corpo della giovane che, secondo le indagini della procura è stata uccisa e il suo cadavere è stato occultato per mano dei suoi famigliari. La sua colpa: non aver accettato un matrimonio combinato, essere determinata nel voler vivere come diceva lei, lontano da dogmi religiosi e da tradizioni famigliari che invece le volevano imporre. Michael Schneider in queste settimane è entrato in contatto con una signora reggiana che ha preso a cuore il caso di Saman e lo ha contattato. E che crede che ci sia qualcosa tra cielo e terra, che persone particolarmente sensibili e credenti come Schneider possano davvero essere in grado di sentire e vedere ciò che altri non vedono e non sentono. Questo resta un terreno di contesa tra opinioni e convinzioni, tra chi crede e chi no. Di fatto, comunque, c’è che il sensitivo tedesco una indicazione precisa di dove potrebbe essere il corpo di Saman l’ha data. E questa donna, che ci fa da interprete con Schneider, quel luogo è andato a vederlo e spera che i carabinieri possano fare ancora un tentativo, benché da questa settimana le ricerche siano state ufficialmente sospese. E vadano almeno a verificare in quel piccolo appezzamento boschivo, che non si trova nella zona dell’azienda agricola di via Cristoforo Colombo dove la famiglia di Saman viveva, ma che attraversando alcune stradine di campagna non è poi così lontano dal luogo in cui la giovane è stata vista l’ultima volta, ripresa dalle telecamere di sorveglianza dell’azienda Le Valli.
Michael Schneider, come è venuto a conoscenza del caso di Saman?
«Me lo ha segnalato il 7 giugno scorso Veronica, una signora con cui ero già in contatto per un altro caso in Italia: la scomparsa di una bambina autistica di 13 anni nel Bresciano, i cui resti sono stati poi trovati dove ho indicato. Dopo che ho guardato la foto di Saman, ho sentito che i carabinieri la stavano cercando nel posto sbagliato. Non è nelle serre, non è nei campi vicini, è in un boschetto a Nord di Novellara».
Da quanto tempo lei ha questa sensibilità e come funziona?
«È un dono che ho ereditato da mio nonno. Se mi poteste vedere – dice in collegamento audio – vedrebbe accanto a me una statua della Madonna. Da piccolo ero “strano”, poi mi sono ammalato. Questo dono si è manifestato quando avevo 19 anni. Non è come ci si può immaginare. Non ho visioni. Ho un senso sviluppato, sento. Davanti alla foto di una persona sento se è viva o no. Per Saman ho sentito che purtroppo non è più tra noi e che le forze dell’ordine stavano cercando nel posto sbagliato. Sono una persona molto credente, chiedo a nostro Signore perchè solo lui sa le cose. Io sono solo la “radio” che riceve i segnali dall’alto. Il mio dito gira sulla cartina e poi si ferma. Le indicazioni possono essere via via sempre più precise».
Ha avuto modo di mettersi in contatto con i carabinieri?
«Ho mandato mail, ho comunicato le coordinate, ho detto che non devono cercare nelle serre. Non ho mai ricevuto alcun riscontro, nemmeno una risposta automatica. Ma c’è una cosa che voglio che venga sottolineata...».
Quale?
«Io non dico mai chi è o chi non è l’assassino, queste sono cose che riguardano la polizia, i carabinieri, chi indaga sui casi. Sulle colpe io non ho niente da dire. Saranno le indagini a portare i frutti, per ogni situazione e anche per Saman. E non lo faccio per soldi. Lo faccio per aiutare. Quando lavoravo come giornalista seguendo i casi della polizia ho visto l’angoscia nei famigliari che cercavano i loro cari. È per loro che voglio portare il mio aiuto. Vorrei far capire alla gente che c’è qualcosa tra il cielo e la terra, che non finisce lì».
"Ha già ucciso in Italia e in Pakistan". Accuse al padre di Saman. Angela Leucci il 17 Luglio 2021 su Il Giornale. Spuntano nuove indiscrezioni sul padre di Saman Abbas: secondo il fidanzato Saqib, l'uomo sarebbe affiliato alla mafia e avrebbe già ucciso. Il padre di Saman Abbas è un assassino seriale affiliato alla mafia pakistana? A sostenerlo davanti agli inquirenti è Il fidanzato Saqib, quello che lei aveva scelto opponendosi al matrimonio combinato dai genitori.
Le accuse al padre di Saman. “Il 25 gennaio, alle 12.30 circa - ha raccontato Saqib, come ricostruito da Quarto Grado - ricevevo sul mio cellulare una telefonata da mio fratello Thair, che abita in Pakistan. Mi riferiva che poco prima il padre della mia fidanzata si era recato presso la sua abitazione”. Saqib ha raccontato spesso di aver ricevuto minacce per sé e i propri cari da Shabbar Abbas, ma da alcune settimane ha deciso di uscire allo scoperto e parlare nonostante si tema per la sua vita. Dopo le minacce ricevute, Saqib disse a Saman cosa era accaduto. “Lei si preoccupava - ha aggiunto - e diceva di stare attento, perché il padre avrebbe potuto farmi male”. La coppia si è sentita per l’ultima volta intorno alle 23.11 del 30 aprile: durante la notte Saman, è scomparsa dalla sua casa a Novellara e non è stata ancora ritrovata. Nei giorni precedenti, Saman sarebbe stata percossa dal cugino Irfan, che l’avrebbe minacciata nel caso non avesse obbedito e lasciato Saqib. Ma la vera domanda è: Shabbar Abbas è davvero un uomo pericoloso? “Ho molta paura, in quanto il padre, che si chiama Shabbar Abbas, è legato alla mafia pakistana - ha detto ancora Saqib - È una persona pericolosa e ho paura anche per i miei genitori che sono in Pakistan. Saman in alcune chiamate mi ha fatto chiaramente capire che suo padre ha già ucciso altre persone sia in Italia che in Pakistan”.
Dove si trova Saman? Saman è stata promessa sposa all’età di 8 anni a un cugino oggi quasi trentenne. Nella primavera 2020, lei e la sua famiglia sono stati in Pakistan per il fidanzamento che però la 18enne rifiutava, tanto da aver dato l’anello a una zia materna e aver tentato successivamente il suicidio. In seguito è scappata in Belgio, dove si è rifugiata da amici e infine ha denunciato i suoi genitori e si è rifugiata in una comunità protetta.
Lo zio di Saman: "Sono venuti a prenderla..." Gli inquirenti, dopo 67 giorni, hanno attualmente interrotto le ricerche: è stato ipotizzato che la famiglia, soprattutto lo zio Danish, ritenuto l’esecutore materiale del presunto omicidio, l’abbia uccisa e ne abbia occultato il cadavere. Il movente: Saman si opponeva al matrimonio con il cugino e voleva sposare invece Saqib, conosciuto su Internet e poi incontrato a Roma. Quando Saqib ha dato l’allarme sulla scomparsa di Saman, lo zio Danish ha riferito che la giovane si trovasse in Belgio, com’era accaduto in altre occasioni. “Non so dove sia - ha detto Danish - però secondo me lei è uscita per andare in Belgio a trovare un suo amico”. Anche Saqib ha riferito che Saman volesse andare in Belgio. Tuttavia potrebbe trattarsi del suo ultimo appiglio per sperare che Saman sia ancora viva.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
"Atti gravi...". Ecco tutti gli errori nel caso Saman. Sofia Dinolfo il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. In un'intervista rilasciata a IlGiornale.it l'avvocato Elisabetta Aldrovandi spiega come fosse già ravvisabile un pericolo per l'incolumità della giovane. Emergono particolari sempre più raccapriccianti nell’ambito delle indagini avviate per far luce sull’omicidio (sempre più certo) di Saman Abbas. Della 18enne pachistana che si era ribellata alle tradizioni culturali della famiglia integrandosi sempre di più alla cultura italiana, non si hanno più tracce dalla fine dello scorso mese di aprile. Gli inquirenti continuano a lavorare costantemente per ritrovare il corpo della giovane che sarebbe stata strangolata dallo zio con la complicità dei genitori proprio perché sempre più lontana dall’educazione arcaica che l’aveva spinta anche ad opporsi ad un matrimonio combinato in Pakistan. A questo punto la domanda sorge spontanea. La tragedia poteva essere evitata? È possibile che non si sia potuto far nulla per evitare quello che ormai appare come un epilogo certo? Ne abbiamo parlato su IlGiornale.it con l’avvocato Elisabetta Aldrovandi, presidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime.
La ragazza aveva denunciato i genitori, nel gennaio scorso. Perché continuare a permetterle di avere contatti con loro?
"Saman era stata allontanata, dopo la denuncia, e portata in una comunità nel bolognese. Non è dato sapere se durante la permanenza in quella comunità a prima del compimento del diciottesimo anno di età abbia avuto contatto coi familiari. Certo è che, diventata maggiorenne, ha deciso di fare ritorno nel paese in cui abitava con i genitori, pare, in base alle informazioni desunte, per cercare di riavere i propri documenti.
Perché vista la precaria situazione familiare è stata Saman a tornare in casa a prendere i documenti e non altri soggetti? Il nostro ordinamento giuridico in tal senso presenta delle lacune o c’è stata della superficialità da parte di chi aveva il dovere di intervenire?
"Essendo diventata maggiorenne, Saman poteva spostarsi autonomamente e senza obbligo di rendere conto dei suoi movimenti. Certo è che vista la situazione di chiaro pericolo per la ragazza, anche in considerazione della denuncia sporta contro i genitori, forse sarebbe stato opportuno che altri si occupassero di recuperare i suoi documenti, magari attraverso un’apposita richiesta al magistrato che ne ordinasse ai genitori la restituzione, nel caso anche attraverso un provvedimento di sequestro".
I genitori della ragazza erano stati denunciati per costrizione e induzione al matrimonio. Visto il loro tipo di cultura, era ravvisabile un pericolo per l’incolumità della giovane?
"Questo reato è stato introdotto nel 2019 dalla legge 69, quella del famoso 'codice rosso', e prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni per chi costringe una persona a contrarre matrimonio, usando violenza o minaccia. Il comportamento dei familiari di Saman, che volevano costringerla a un matrimonio combinato, certamente poteva rappresentare un elemento indicatore di pericolo per l’incolumità della giovane, e per questo sarebbe importante capire se, quando Saman è uscita dalla comunità, le autorità competenti siano state avvertite dei suoi spostamenti, allo scopo di tutelarne al massimo l’incolumità. Infatti, se è vero che una persona maggiorenne può fare ciò che vuole, è altrettanto vero che vi sono situazioni di sudditanza e dipendenza anche psicologica che possono indurre una persona, soprattutto così giovane, ad adottare comportamenti che la mettono in pericolo. Lasciare che una diciottenne, che ha vissuto tutta la vita in una situazione di evidente emarginazione e scarsa integrazione, come è stato testimoniato da chi conosceva la famiglia, del tutto libera di agire e decidere senza un controllo esterno che miri a tutelarla dopo che ha denunciato i genitori, può rappresentare un elemento di rischio per la sua incolumità".
Tutti i complici del caso Saman
Cosa, a suo avviso, doveva esser fatto? Che errori sono stati commessi?
"Non conosco a sufficienza la questione per rispondere con certezza. Certo è che, come ho già detto, in certe situazioni non basta una denuncia a salvare la vittima, soprattutto se la stessa ha vissuto in contesti familiari di sottomissione e non riesce a comprendere i rischi cui può andare incontro, laddove una mentalità e una cultura arcaica prendono il sopravvento anche sull’affetto e l’amore che dovrebbe legare un genitore al proprio figlio".
"In alcune occasioni lei è intervenuta dicendo che dopo la denuncia sarebbe stato opportuno sequestrare i documenti ai genitori per impedire che espatriassero. Da cosa si poteva intuire il pericolo di fuga?
"Il sequestro dei documenti, a mio parere, poteva rappresentare un elemento deterrente al compimento di atti gravi e irreversibili, perché avrebbe impedito la possibilità di tornare nel Paese natio facendo perdere le tracce, cosa che ha reso assai più difficoltoso l’accertamento della verità e soprattutto renderà molto più complicato risalire alle responsabilità gravissime che stanno dietro la scomparsa di Saman".
Il caso Saman, per quanto grave sia, non ha visto in Italia una coesione da parte dei movimenti a difesa delle donne. Come mai secondo lei questo silenzio da parte di alcune associazioni?
"Purtroppo in Italia esistono barriere ideologiche che impediscono di considerare le vittime tutte uguali. Ci si accapiglia per la desinenza finale di una parola, come se il riconoscimento del valore della donna risiedesse nel fatto di essere chiamata “avvocato” o “avvocata”, ma si tace si fronte a gravissimi delitti che, non mi stancherò mai di dirlo, fanno parte di una cultura e mentalità che non possono trovare nessun genere di accoglimento, tolleranza o giustificazione in uno Stato di diritto e in una società civile".
Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurisprudenza. Appena laureata, non ho pensato di fare l’avvocato ma di andare avanti con il settore del giornalismo che nel frattempo non avevo mai accantonato coltivandolo come hobby.
"La donna non ha valore": tutte le pratiche illegali legate all'islamismo. Francesca Bernasconi e Rosa Scognamiglio il 27 Giugno 2021 su Il Giornale. Non solo Saman Abbas: le donne sottoposte a pratiche illegali. L'antropologo della violenza: "Una cultura convinta che la donna non abbia valore". Saman Abbas, Sana Cheema, Hina Saleem. Tutte donne, di origini pakistane, che vivevano in famiglie dove i valori culturali erano ben radicati, ma che avevano deciso di dire no ad alcune imposizioni. Saman è scomparsa e probabilmente uccisa lo scorso 30 aprile da Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Sana è stata strangolata nel 2018 e Hina uccisa dal padre e alcuni parenti nel 2006. Tutte e tre rifiutavano le nozze combinate dalla famiglia. Non solo. Adnkronos ricorda che nel 2017 a Bologna la madre di una 14enne originaria del Bangladesh le aveva rasato la testa perché non voleva portare il velo, mentre qualche anno prima, un pakistano aveva massacrato la moglie con una pietra, perché la donna aveva difeso la figlia, che non voleva sposare l'uomo scelto per lei dal padre. Dal matrimonio combinato e l'obbligo di portare il velo, fino all'infibulazione e lo sfregio con l'acido. Sono i crimini legati all'Islam, che in alcune culture vengono riservati alle donne: "Questa tipologia di condotte violente e illegali spesso non hanno una matrice religiosa bensì culturale - spiega IlGiornale.it Simone Borile, antropologo della violenza, criminologo e direttore del Campus Ciels di Padova, Brescia e Roma - Sono processi culturali che si sono adattati nel tempo, consolidati e spesso evoluti in modo distorto".
L'obbligo del velo. "Giù le mani dal mio velo", recita il recente slogan di protesta lanciato dalle donne musulmane contro una proposta del senato francese che impone il divieto di indossare l'hijab (uno dei tradizionali copricapi islamici) per le ragazze di età inferiore ai 18 anni, nei luoghi pubblici. Promotrice della contestazione, trasformatasi in una sorta di crociata social, è stata la modella somalo-norvegese Rawdah Mohamed, che su Instagram ha detto di voler combattere "stereotipi profondamente radicati contro le donne musulmane". Una causa indubbiamente lodevole ma che, per certo, non riflette la totalità della condizione vessatoria a cui sono costrette centinaia di donne tra Afaghistan, Iran e Pakistan. E per avere piena contezza del fenomeno, non occorre fare un balzo indietro nei secoli. Lo scorso marzo il primo ministro pakistano Imran Khan ha dichiarato che l'incremento dei casi di abusi sessuali è il risultato di una "crescente oscenità" condannando la svolta "libertina" delle donne. Intervenuto in diretta in una trasmissione sulla rete nazionale pakistana - riferisce un articolo della Bbc - Khan ha suggerito alle proprie connazionali di indossare il velo. "Se la nostra religione impone di indossare il velo, c'è un motivo. E il motivo è salvaguardare la famiglia e proteggere la società. Non tutti hanno forza di volontà per non cedere alle tentazioni", ha affermato il leader di Movimento per la Giustizia del Pakistan. "Molte culture prevedono che il ruolo sociale della donna sia subordinato al potere e al dominio dell'uomo su di essa - spiega l'antropologo Simone Borile - Trattandosi quindi di una proprietà esclusiva all’interno di contesti culturali fortemente patriarcalizzati in cui socialmente, culturalmente e giuridicamente la posizione della donna è fortemente compromessa, l’obbligo del velo sancisce l’esclusiva proprietà del marito su quel corpo e soprattutto la obbliga a una condizione oscurantista e invisibile all’interno della società". Da simbolo di ossequio e devozione nei confronti del profeta Maometto a contrassegno della condizione di subalternità della donna nei confronti dell'uomo. "Il velo rappresenta un ossequio al profeta Maometto - continua l'esperto – la donna che lo indossa è portatrice di valori di rispetto e dedizione nei confronti della tradizione islamica. Un sacrificio che ricompenserà in futuro. Non portarlo significa violare codici culturali e comportamentali. In tal caso l'uomo potrà essere legittimato a esercitare forme correttive e violente sulla donna che decida di non indossarlo". "Un sacrificio che ricompenserà in futuro": posto che ve ne sia uno. L'11 agosto del 2006 Hina Saleem, una ragazza di origini pakistane residente a Zanano di Sarezzo nel Bresciano, è stata uccisa dai suoi parenti "perché rifiutava di indossare il velo". Lo stesso drammatico destino che potrebbe aver travolto Saman Abbas, colpevole senza peccato di aver inseguito la libertà.
Il matrimonio combinato. "Chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile è punito con la reclusione da 1 a 5 anni". Recita così la legge introdotta in Italia nel 2019 e denominata Codice Rosso, che specifica l'illegalità dei matrimoni forzati. L'intervento legislativo, spiega il Ministero dell'Interno in un recente rapporto, si è reso necessario per "scongiurare pratiche che, sebbene apparentemente anacronistiche, hanno invece dimostrato di avere una certa diffusione. Per questo il legislatore ha voluto creare una tutela particolarmente rafforzata in favore dei soggetti vulnerabili coinvolti". In Italia, i dati del Ministero dell'Interno, indicano 32 procedimenti aperti per il reato di costrizione o induzione al matrimonio tra il 1° agosto 2010 e il 31 luglio 2020. Tra questi solamente in 3 casi è stata esercitata l'azione penale. Ma la costrizione alle nozze è un fenomeno diffuso in tutto il mondo e riguarda spesso anche spose bambine. Secondo il rapporto stilato nel 2020 dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), sarebbero 33mila i matrimoni precoci celebrati ogni giorno nel mondo e sono 650 milioni le donne e le ragazze obbligate a sposarsi da bambine. "Di tutte le pratiche dannose che Unfpa si impegna a far cessare - si legge nel rapporto -il matrimonio precoce è la più diffusa, ogni anno mette a rischio i diritti e il futuro di 12 milioni di bambine e ragazze". "Purtroppo è un retaggio di una cultura patriarcale fortemente diffusa - ha spiegato Simone Borile - È impensabile che una donna possa sottrarsi al volere delle famiglia poiché, in queste culture, essa non gode né di diritti né di autonomia decisionale". Le ragazze quindi non possono scegliere in autonomia chi sposare, ma devono sottostare alle decisioni della famiglia. Non solo: "Combinare un matrimonio in giovane età produce conseguenze psico–sociali e fisiche drammatiche sulla bambina: abbandono dagli affetti famigliari, interruzione del percorso scolastico, gravidanze plurime e precoci, percosse e violenze intrafamiliari. La giovane donna non può sottrarsi né al volere del padre né a quello di suo marito". Negli ultimi anni sono diverse le storie di ragazze che hanno rifiutato di sposare gli uomini scelti per loro dalla famiglia. Le conseguenze in questi casi, spiega l'esperto, "sarebbero drammatiche". Le ragazze possono venire lapidate. La lapidazione è infatti una delle punizioni per chi va contro i valori imposti dalla famiglia: "Nel nostro Corano c’è scritto che se una smette di essere musulmano, deve essere sepolta viva con la testa fuori dalla terra e poi uccisa con lancio di sassi contro la testa", ha rivelato il fratello di Saman Abbas. Ma non ci sono solo nozze forzate e obbligo di portare il velo tra le imposizioni di alcune famiglie: "Matrimoni combinati in giovane età e infibulazioni sono di sicuro le pratiche più frequenti e in Italia sono considerate condotte penalmente rilevabili", ha specificato Borile.
L'infibulazione. "Nel solo 2020 sono ancora 4,1 milioni le donne e le bambine che rischiano" di subire le mutilazioni genitali (MGF). A rivelarlo è il rapporto di Unfpa, che affronta le pratiche dannose che "rappresentano una violazione dei diritti umani" e che sono diffuse in tutto il mondo. I dati del report rivelano che sono "circa 200 milioni" le donne e le ragazze che sono state sottoposte a forme di mutilazione genitale. Tra queste c'è l'infibulazione. "È una pratica ritualistica che prevede l'asportazione totale o parziale dell'organo genitale femminile", prosegue Simone Borile. Ma perché si ricorre a questa pratica? "Per alcune culture - aggiunge l'esperto - diventa un obbligo per le giovani bambine sottoporsi a tali sofferenze poiché è diffusa la credenza che il corpo della donna sia imperfetto e che l'infibulazione rappresenti un passaggio obbligatorio per abbellire, perfezionare il corpo femminile. Una modificazione corporea necessaria per favorire poi una integrazione all'interno della comunità contraendo matrimonio e onorando il nucleo familiare". L'idea di base di alcune culture, spiega l'esperto, è che "donna non si nasce, ma si diventa attraverso l'infibulazione". Borile, inoltre, spiega che secondo alcune credenze locali che supportano la pratica di asportazione del clitoride, "se un bambino dovesse nascere toccando il clitoride con la testa, sarà destinato a una morte veloce per decapitazione", mentre altre "ritengono che se il pene maschile dovesse entrare in contatto con il clitoride della donna, questo potrebbe provocare all’infertilità". Alcune culture inoltre, specifica ancora l'antropologo, "conservano e attuano le proprie pratiche attestando in tal modo l'onore e l'appartenenza alla cultura di origine. Rappresenta un rituale irrinunciabile e obbligato". Le mutazioni genitali femminili possono portare a danni fisici e psicologici importanti. Tra queste, spiega il rapporto Unfpa, ci sono "rapporti sessuali dolorosi, infezioni, cisti e sterilità", oltre al maggiore rischio di contrarre Hiv e di avere complicazioni durante il parto. "Inoltre - si legge nel testo - possono portare a depressione, incubi ricorrenti, attacchi di panico e stress post-traumatico". L'infibulazione, così come altre pratiche, è "illegale, quindi realizzata clandestinamente". Per questo motivo, continua Borile, "vi è un numero oscuro elevatissimo e determinarne le statistiche è assai complesso". In molti casi, spiega l'esperto, queste pratiche "sono di natura violenta (la memoria del dolore è fondamentale nei riti di passaggio e di inclusione) e prevedono una modificazione corporea". Si tratta, anche in questo caso, di atti illegali: "Il nostro codice penale sanziona chiaramente chiunque arrechi danno fisico e leda l'integrità fisica ad altro soggetto".
Lo sfregio con l'acido. Mutilate, abusate, vessate: sfregiate con l'acido. Sono migliaia, e forse anche di più, le donne islamiche che ogni giorno sono vittime di quello che viene definito "vitriolage" (letteralmente "trattamento con vetriolo"). Una pratica ancestrale, ampiamente diffusa nelle regioni islamiche del Medio Oriente, che attenta non solo al corpo femminile, deturpando in modo irreversibile il volto e gli arti, ma che strazia l'anima nel profondo. Secondo una statistica diffusa dall'associazione Acid Sourvivor Foundation (Asf), tra il 2007 e il 2018 in Pakistan ben 1485 donne sono state aggredite con sostanze corrosive. Nel 2020, anno dell'ultima rilevazione, sono stati registrati 80 casi di attacchi con l'acido, circa il 50% in più rispetto a quello precedente. La pena per questo genere di reato, introdotta soltanto nel 2011, prevede dai 14 ai 30 anni reclusione oltre a una multa di 1 milione di rupie. Ciononostante questo scempio aberrante continua a perpetuarsi. "Bisogna centrare il punto - spiega l'antropologo - Chi e cosa rappresenta la donna in queste culture? Arrivare a compromettere irrimediabilmente l'immagine e il corpo di una donna, provocandone indicibili sofferenze perpetue, è segno di una cultura convinta che la donna non abbia valore e qualsiasi sofferenze le venga inflitta sia giustificata e legittimata. Pensiamo alla pratica del 'breast ironing' molto diffusa nella regioni centrali e occidentali dell’Africa. Giovani adolescenti vengono sottoposte alla tradizione dell’appiattimento al seno attraverso bracieri ardenti, lame incandescenti e pietre roventi nella convinzione che questa pratica rallenti la crescita del seno, conservando in tal modo l'immagine della donna come figura prepuberale, lontana da attenzioni e facili adescamenti, che potrebbero condurre a matrimoni precoci, gravidanze indesiderate, interruzione degli studi e disonore alla famiglia". A marzo del 2012 Fakhra Younas, una danzatrice pakistana residente a Roma, si è tolta la vita dopo che il marito l'aveva sfregiata con l'acido nel 2002. "Sfregiare una donna con l’acido sottintende una precisa volontà distruttiva e diffamatoria - conclude l'esperto - Significa segnare un marchio visibile e indelebile di vergogna sul volto e comprometterne la sua futura esistenza sociale per sempre".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Dagotraduzione dal The Guardian il 25 giugno 2021. Il primo ministro pakistano, Imran Khan, è in mezzo a una bufera dopo aver accusato le vittime di stupro di indossare «pochissimi vestiti». Intervistato dal giornalista Jonathan Swan di Axios sui numerosi stupri in corso in Pakistan, Khan ha risposto così: «Una donna che indossa pochissimi vestiti ha un impatto sull’uomo, a meno che non sia un robot. Si tratta di buon senso». Il presidente non è andato oltre. Non ha spiegato, per esempio, cosa intendesse per «pochissimi vestiti» in un paese in cui la maggioranza delle donne indossa abiti nazionali conservatori. La reazione è stata immediata: una dozzina di associazioni per i diritti delle donne, compresa la Commissione per i diritti umani del Pakistan, hanno chiesto al presidente di scusarsi. «Queste dichiarazioni rafforzano la percezione pubblica che le donne siano vittime “coscienti” e gli uomini aggressori “indifesi”» hanno detto in Commissione. Secondo Maryam Nawaz, vicepresidente della Lega musulmana pakista-Nawaz e figlia dell’ex primo ministro, l’attuale presidente è un «apologista dello stupro». Kanwal Ahmed, attivista per le donne, ha twittato: «Mi fa rabbrividire il pensiero di quanti stupratori si sentano convalidati oggi che il primo ministro che sostiene il loro crimine». Proteste sono state organizzate nel fine settimana a Karachi e Lahore. All’inizio di quest’anno il primo ministro è stato accusato di una «sconcertante ignoranza» dalle associazioni per aver consigliato alle donne di coprirsi per prevenire gli stupri. Il suo portavoce ha poi smentito la dichiarazione, attribuendo il passo falso a un errore di traduzione dalla lingua urdu. Interrogato da Swan, Khan ha spiegato che lui intendeva riferirsi al «concetto di purdah» dell’Islam, cioè «evitare la tentazione» coprendosi. In Pakistan le vittime di abusi sessuali sono spesso guardate con sospetto ed è raro che la polizia dia seguito alle poche denunce. Gran parte del paese vive rispondendo a una specie di codice d’onore che punisce le donne dalla “vergogna” con violenze e omicidi. Il paese è tra i peggiori al mondo per l’uguaglianza di genere. Proteste a livello nazionale sono scoppiate l’anno scorso quando il capo della polizia ha ammonito la vittima di uno stupro per aver guidato di notte sola, senza un compagno. La donna, franco-pakistana, è stata aggredita sul ciglio di un’autostrada davanti ai suoi figli dopo essersi fermata per un guasto all’auto.
"Saman come Astrazeneca...": la frase choc dell'ambasciatore in tv. Ignazio Riccio l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Lo scivolone del diplomatico pakistano Saleem arriva nel bel mezzo della discussione sul caso della diciottenne a Porta a Porta. E Vespa reagisce...“C’è una ragazza, ne stavate parlando prima, che sarebbe stata uccisa da un’iniezione di AstraZeneca. Possiamo mai dire che il vaccino è un assassino? Dobbiamo stare attenti agli stereotipi”. Lo scivolone dell’ambasciatore pakistano Jouhar Saleem arriva nel bel mezzo della discussione sul caso di Saman Abbas, nel corso della puntata dell'altra sera della trasmissione di Rai 1 Porta a Porta. Il paragone dell’ambasciatore ha creato un attimo di gelo nello studio, dove c’era in collegamento anche il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati Francesco Lollobrigida. A rompere gli indugi ci ha pensato il conduttore Bruno Vespa. “Ambasciatore, la prego – ha detto il giornalista – questa l’è proprio scappata. Non confonda quello che è successo in tanti Paesi con il vaccino AstraZeneca con l’assassinio di una ragazza”. La gaffe del diplomatico pakistano è arrivata dopo che il deputato di Fdi lo ha incalzato sulla vicenda della ragazza 18enne di Novellara, nel basso Reggiano. “In Italia vige la Costituzione italiana – ha spiegato Lollobrigida – e vigono le leggi italiane, non la legge Coranica. I 131mila pakistani presenti sul territorio devono seguire le leggi del nostro Stato che prevedono il rispetto delle donne e l’impossibilità di considerarle subordinate all’uomo. Chiediamo rassicurazioni su questo e vorremo sapere, qualora la magistratura italiana dovesse chiedere l’estradizione del padre di Saman, se il Pakistan è pronto a collaborare e a concederla”. L’ambasciatore ha mostrato tutto il suo imbarazzo nel farfugliare lo strano paragone tra il caso di Saman e il vaccino AstraZeneca, anche se ha affermato che i pakistani che vivono in Italia rispettano le leggi e che si tratterebbe di un crimine non legato alla religione e alle tradizioni. Sulla possibile estradizione il diplomatico del Pakistan è stato incalzato da Vespa, il quale ha chiesto una risposta precisa. “Noi abbiamo un trattato di estradizione tra Pakistan e Italia – ha concluso l’ambasciatore –e in passato ci sono state già richieste di estradizione. Tutte le volte che le abbiamo avute c’è stato un esito positivo”, facendo intendere che qualora lo Stato italiano lo volesse, il padre di Saman verrebbe processato in Italia.
Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (test…
Saman, parla l'ambasciatore Jauhar Saleem. Andrea Indini il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ambasciatore Jauhar Saleem: "Le mie parole? Fraintese". L'intervista su islam, matrimoni forzati e comunità pakistana in Italia.
Sua eccellenza, ambasciatore Jauhar Saleem, le Sue parole sul caso Saman hanno creato parecchio scalpore. Cosa intendeva dire realmente?
Mi spiace che una delle mie dichiarazioni fatte durante la trasmissione televisiva Porta a Porta sia stata fraintesa e decontestualizzata. Ricorderete che avevo espresso profondo dolore e angoscia per il tragico caso di Saman Abbas per il quale l’indagine in corso lascia presupporre un crimine terribile. Dato che pochi minuti prima si era discusso della morte di una ragazza per la somministrazione del vaccino anti-Covid, ho fatto riferimento a quell’episodio come esempio per dire che, anche se si è trattato di uno spiacevole e raro incidente, esso non dovrebbe portare alla generalizzazione secondo la quale quel particolare vaccino uccide le persone. Allo stesso modo, non dovremmo dare una connotazione negativa ad un'intera comunità per un crimine commesso da uno o due individui. Era chiaro che non stavo paragonando le due morti.
In Pakistan, come in Italia, i matrimoni forzati sono fuori legge. Rimangono però quelli combinati e non è sempre facile comprendere dove finiscano i primi e dove inizino i secondi. Come si comporta lo Stato pakistano di fronte a questi tipi di unioni?
I matrimoni forzati sono illegali in Pakistan come in Italia. Per quanto riguarda invece i matrimoni combinati, in cui le famiglie possono suggerire un possibile coniuge al figlio o alla figlia, è la donna ad avere l’ultima parola senza alcun elemento di coercizione. Nella stessa cerimonia di matrimonio, al cospetto di centinaia di persone, alla sposa viene chiesto, per ben tre volte, se intende sposarsi. In Pakistan, le leggi così come le norme sociali e culturali, proibiscono severamente i matrimoni forzati. Se, nonostante tutto, una cosa del genere avviene, si tratta di un crimine e come tale viene trattato.
Secondo i dati raccolti nel 2020 da Terre des hommes, sono state oltre mille le vittime causate dai cosiddetti delitti d'onore (reati che il suo paese punisce per leggere). Questi numeri, però, sono ancora molto alti, seppur in calo rispetto al passato. Cosa deve cambiare nella società pakistana affinché siano prossimi allo zero?
Le cifre citate sono decisamente esagerate. I numeri reali sono molto più bassi, meno della metà su un paese di 220 milioni di persone, e mostrano che il trend sta chiaramente decrescendo. Per esempio, dal 2013 i numeri sono quasi dimezzati. Sfortunatamente, i cosiddetti delitti d’onore avvengono ancora oggi in diverse società in un modo o nell’altro. È possibile osservare una diminuzione dei casi laddove i paesi progrediscono economicamente ed accrescono il proprio tasso di alfabetizzazione. L’Italia e molti altri Paesi Europei ne sono un chiaro esempio. In Pakistan abbiamo adottato una strategia su più fronti per contrastare questo fenomeno. Promuovere la scolarizzazione, la consapevolezza e rafforzare il sistema legale contro questi crimini- come ha fatto anche l’Italia- e i numeri stanno calando. È perciò una sfida comune a tutti i Paesi.
Molto probabilmente, i genitori di Saman sono fuggiti in Pakistan. Il Suo Stato sarebbe pronto ad estradarli? L’Italia si può aspettare una collaborazione da parte del Pakistan?
Senza dubbio il Pakistan coopererà con le autorità italiane per le indagini su questo caso. Vogliamo che la verità venga fuori e ci auguriamo che sia fatta giustizia. Se la giovane Saman è stata vittima di una folle trama, come gli eventi suggeriscono, gli autori del crimine devono essere consegnati alla giustizia. Non appena ci arriverà una richiesta ufficiale delle Autorità Italiane competenti, agiremo immediatamente. Se sarà necessaria un'estradizione e il Governo Italiano ne farà richiesta, daremo certamente una risposta rapida e positiva.
C'è chi sostiene che dietro la fine di Saman ci siano fattori culturali. Altri ritengono che ci siano motivazioni religiose. Per altri invece si tratta solamente della follia umana. Lei cosa crede?
Non si possono spiegare o giustificare efferati crimini contro le donne attraverso fattori culturali. Sfortunatamente in tutte le società e in tutti i paesi possiamo trovare autori di crimini contro le donne, incluso il femminicidio. In realtà definirei tutti i crimini che riguardano la violenza contro le donne come la peggiore delle follie, uno svilimento dell'umanità.
A un certo punto, è comparso persino il video di un presunto funerale senza salma per Saman. In realtà si trattava di una celebrazione per commemorare la morte dell'imam Ali. Com'è stato possibile un errore simile?
Non ritengo che alcun video come quello postato abbia rilevanza su questo caso. Purtroppo, la triste realtà è che ci sono tentativi di screditare intere comunità o culture. Per molto tempo, il singolo atto di terrorismo da parte di qualsiasi musulmano veniva deliberatamente descritto come il riflesso di una civiltà non integrata nella contemporaneità, mentre atti simili da parte di non musulmani venivano semplicemente definiti come "un atto individuale di una mente disturbata", anche quando persino decine di persone erano state uccise da quella persona. Oppure veniva definito come uno scatto d’ira o una violenza con armi da fuoco. Solo gradualmente si è iniziato ad accettare che tali crimini, compiuti da qualunque comunità, rappresentano un atto terroristico.
Lei è in Italia da più di un anno. Come ha trovato la comunità pakistana nel nostro Paese? Crede si stia integrando bene o che ci siano ancora dei passi in avanti da fare?
Questo è un punto molto rilevante. Penso che quella pakistana in Italia sia una comunità di lavoratori, rispettosi della legge e che stia contribuendo attivamente all'economia di quella che è diventata la loro nuova casa. Credo che i miei concittadini pakistani si stiano integrando bene nel complesso, anche se ovviamente non è un percorso privo di sfide. Non ho dubbi che la nostra comunità riuscirà ad integrarsi in questa società con lo stesso successo con cui gli italiani si integrarono negli Usa a fine Ottocento, ma durante il percorso potrebbero esserci delle sfide. Possiamo facilitare molto l'integrazione facendo dei passi per promuovere l’intesa e l’armonia reciproca piuttosto che creare una percezione sbagliata generalizzando e creando stereotipi. L'istruzione, la conciliazione e avere una mente aperta sono la chiave per promuovere l'armonia e l'integrazione.
Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile.
Ancona, denuncia nel tema il suo matrimonio combinato: “Ho 16 anni, non voglio sposarlo”. Giampiero Casoni il 21/06/2021 su Notizie.it. Ancona, denuncia nel tema il suo matrimonio combinato, il componimento viene letto dagli insegnanti che allertano Servizi Sociali e Procura minorile. Ad Ancona una ragazzina denuncia in un tema scolastico il suo matrimonio combinato: “Ho 16 anni, non voglio sposarlo”. L’adolescente è riuscita così ad evitare la barbarie che le avevano “apparecchiato” i genitori e a mettere in moto la macchina della protezione per cui da un mese vive al sicuro in una località sconosciuta. La vicenda occhieggia troppo a quella, tristissima, della giovane Saman, per non indurre ad una seria riflessione sui matrimoni combinati e sulla loro incidenza nella società italiana, che è multietnica da decenni e che da decenni deve affrontare nuovi problemi e protocolli legali. Lo storico della vicenda è abbastanza stringato ma terribile: fino ad un mese fa la ragazzina in questione, di origine nordafricana, viveva in un paese dell’Anconetano con i genitori di fede islamica, genitori che avevano stabilito di darla in sposa ad uno sconosciuto scelto d’imperio dalla famiglia. L’adolescente si era perciò ritrovata fidanzata con un connazionale più grande senza alcuna possibilità di opporsi a quella decisione. Ma i genitori non avevano fatto i conti con due fattori: la caparbietà attiva della loro figlia e il potere di una buona pubblicità ad un fatto negativo. La 16enne aveva parlato, anzi, scritto della sua situazione in un tema fatto a scuola. Quando gli insegnanti avevano letto quel componimento in cui la ragazzina diceva di non volersi sposare a soli 16 anni con una persona che neanche conosceva era scattato l’allarme. Erano intervenuti i Servizi sociali e sulla scorta della illegalità di fondo del matrimonio forzato per una minore con cittadinanza italiana e con suggello procedurale della Procura dei Minori, avevano sottratto la 16enne alla famiglia. La ragazzina è al sicuro da circa un mese in una località protetta; il caso di Saman, la giovane pachistana attirata verso la sua stessa morte da genitori e congiunti orchi che erano riusciti a rintracciarla, purtroppo fa tristissima scuola. E per la ragazzina di Ancona il finale è stato diverso da quello della sua omologa di Novellara: sta bene e non potrà tornare nelle grinfie di chi, avendole dato la vita, ritiene di possedere il diritto di togliergliela se andasse in deroga da regole barbare. Se solo Saman avesse scritto di sé e di quello che i suoi volevano che facesse, forse oggi non cercheremmo un cadavere sotto i meloni delle serre emiliane.
Perché nessuno si inginocchia per la morte di #Saman? Serena Pizzi il 21 Giugno 2021 su Il Giornale. Da mesi i vip promuovono il ddl Zan con assurde scritte sulle mani. Ora ci vogliono tutti in ginocchio in nome dell'anti razzismo. Ma nessuno si mobilita per Saman. Per settimane abbiamo assistito a primi piani di mani con scritto ddl Zan. Soggetti sconosciuti, semi-conosciuti, noti, falliti e resuscitati si dilettavano nell'arte di colorarsi i palmi. Ddl Zan. Sei lettere diventate una moda per qualcuno, un disegno di legge per altri, un'imitazione o una battaglia esistenziale per altri ancora. Pochi, effettivamente, conoscono gli articoli che compongono il ddl nato su iniziativa del deputato piddino Alessandro Zan. Pochi sanno quanto il ddl sia scivoloso per la libertà d'espressione, che verrà così legata alla discrezionalità del giudice. Pochi ne hanno realmente capito il senso per rendersi conto della infida strumentalizzazione da parte di una determinata parte della società. Il motivo? In Italia, secondo le disposizioni del codice penale, chiunque commetta violenza ai danni di un'altra persona per motivi abietti è punito con una pena aggravata fino a 1/3 in più della pena prevista. La legge c'è, mancano le aggravanti. Non serve introdurre termini quali identità di genere o sesso biologico o anagrafico. Ai ragazzi non serve sapere che "la Repubblica riconosce il giorno 17 maggio quale Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la biofobia e la trasfobia al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell'inclusione". Fatte queste premesse, viene da pensare che quelle manone sfoggiate con orgoglio non siano una presa di posizione netta contro la violenza che da sempre viene condannata. Piuttosto, quelle manone colorate sono soltanto la moda dell'ultimo momento. Fa figo (ed è inclusivo) scattarsi un selfie con la mano segnata. E così tutti si sono accodati al pensiero unico, a quello che politicamente è più corretto. Ma è così che si lotta per le proprie idee? È così che si pensa di riscattare la comunità Lgbt? Qualcuno pensa di sì. Ecco perché vogliamo rivolgerci proprio a quel "qualcuno" parlando di Saman Abbas. Il corpo della 18enne pachistana, che voleva vivere all'occidentale, non è ancora stato trovato. Sono passati quasi due mesi e di Saman Abbas non c'è traccia. La sua triste storia è partita un po' sottotraccia: sembrava un allontanamento momentaneo di una adolescente in "guerra" con la famiglia. Piano piano le fragili scuse dei genitori hanno iniziato a scricchiolare, finché si è arrivati alla confessione del fratello: "Lo zio l'ha strangolata". Una famiglia di complici che decide di far fuori una ragazzina perché rifiuta un matrimonio combinato perché sarebbe "un disonore, come lo spieghiamo in Pakistan". Perché Saman - nata musulmana - non poteva essere libera di scegliere cosa diventare da grande. Su Saman si è detto e visto di tutto. E ancora una volta, quella determinata parte della società (quel "qualcuno") non riesce ad ammettere che la Abbas è stata ammazzata perché il fondamentalismo islamico porta anche a questo. Abbiamo sentito donne e uomini di sinistra dire che quello di Saman è stato un femminicidio. No, non è stato così. La 18enne non è stata uccisa dal suo compagno o da suo padre. Saman è stata ammazzata da tutta la famiglia. Dall'esecutore materiale alla "mente" dell'omicidio: tutti hanno voluto uccidere Saman. Pure la madre, che pochi giorni prima le aveva mandato un messaggio per chiederle di tornare a casa. Il caso di Saman è solo l'ultimo di una lunga serie (in questi anni - purtroppo - la sinistra avrebbe dovuto scarabocchiarsi il corpo più e più volte. Inginocchiarsi come ha fatto in parlamento per la morte di George Floyd o come hanno fatto alcuni calciatori della Nazionale ieri sera per il movimento Black Lives Matter). Ma perché non è stato fatto? Perché non abbiamo scritto sui nostri palmi "Saman" o "verità per Saman"? Se ragionassimo seguendo il politicamente corretto o le logiche conformiste, avremmo dovuto riempire i social di foto per Saman per sensibilizzare l'opinione pubblica. Perché così non è stato? La sua morte non è una causa abbastanza mediatica da diventare di moda? Forse Saman è un morto scomodo. Ucciso prima dai familiari, poi dall'indifferenza.
Serena Pizzi. Nasco e cresco a Stradella, un piccolo paese che mi ha insegnato a stare al mondo. Milano, invece, mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno più grande: fare la giornalista. Amo conoscere, osservare e domandare. Mi perdo nei dettagli delle cose e delle persone.
"Islamiche lasciate sole. La sinistra ora si svegli: basta altri casi Saman". Gian Micalessin il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ex consigliera Pd in piazza a Milano: "La fatwa dell'Ucoii pericolosa e fuorilegge". «Dobbiamo uscire dalla contrapposizione destra e sinistra e cercare insieme una soluzione ai problemi che hanno portato alla tragedia di Saman Abbas. La politica si occupi delle giovani donne islamiche fin qui abbandonate a se stesse». Con queste parole d'ordine Maryan Ismail musulmana italiana di origini somale, fuoriuscita dal Pd e firmataria del patto nazionale tra stato e comunità islamiche ha guidato ieri il presidio organizzato a Milano da varie associazioni di donne islamiche «decise - come spiega a Il Giornale - ad alzare la voce per impedire che si ripetano casi come quello di Saman Abbas eliminata dalla famiglia per aver rifiutato un matrimonio combinato».
Fin qui l'unica associazione musulmana ascoltata è sempre l'Ucoii (Unione comunità islamiche italiane). Perché rivendicate il diritto a visioni alternative?
«L'Ucoii e altre associazioni simili si guardano bene dall'esercitare interventi capaci d'innescare cambiamenti di prospettiva. Questo permette una coesistenza fra religione e tradizioni più negative. In questi anni - mentre noi ci battevamo per il caso di Hiina Salem chiedendo agli imam di intervenire - nelle comunità non veniva fatto nulla. Anche nella vicenda Samaan l'Ucoii è intervenuto solo quando la tragedia è diventata caso mediatico».
Utilizzando una «fatwa» ossia uno strumento tipico dell'ordinamento religioso...
«Una fatwa priva di senso non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello islamico visto che l'Ucoii è un'associazione sunnita mentre la famiglia di Saman è sciita. Ma c'è di peggio. Quella fatwa non interveniva solo sui matrimoni forzati, ma anche sulle mutilazioni genitali trasformandole di fatto in una questione islamica. Ma se non sono dettami religiosi perché farci una fatwa? Così finiscono con l'attribuire all'islam e alle sue autorità una sfera di competenza per reati e tradizioni che nulla hanno a che vedere con la religione».
Ma usare una fatwa, ossia un parere religioso, significa anche disconoscere lo Stato...
«Sì è stato un doppio errore. Oltre a disconoscere la giurisdizione dello Stato hanno anche ribaltato la procedura giuridica islamica che parte sempre da una richiesta rivolta da un giudice agli ulema e ai muftì».
E comunque inaccettabile perché demanda a una sorta di diritto islamico alternativo questioni che spettano all'ordinamento giuridico.
«Certamente sì. È quanto abbiamo accettato e sottoscritto firmando il patto tra Stato e comunità islamiche. Il primo punto è la laicità dello Stato, qui è stata disattesa».
Il Pd ed Enrico Letta hanno preferito glissare sul caso Saman. Come lo spiega?
«Perché fin qui il Pd ha sempre sostenuto che l'islam non va criticato. E va accettato sempre e comunque. Con questo atteggiamento ha sottoscritto un relativismo culturale assolutamente inappropriato».
Ma come mai un partito che si dice progressista e paladino dei diritti delle donne resta al traino dell'islamismo oscurantista?
«È la conseguenza del relativismo culturale. Si interviene con durezza se una cittadina italiana viene importunata verbalmente, ma non si interviene sui fatti di sangue subiti da donne musulmane all'interno di famiglie e comunità qui in Italia. Di fatto la sinistra ci ha reso cittadine di serie B. Il nostro corpo non è centrale per le lotte femministe della sinistra».
Voi criticate anche lo stereotipo dell'hijab ovvero la tendenza dei media a rivolgersi a opinioniste musulmane velate.
«È una realtà emersa anche nel caso Saman. I media preferiscono interloquire con donne agghindate secondo il canone dell'hijab mente sono poco ascoltate valorizzate e riconosciute le fedeli che non portano il velo. Questa è discriminazione. Mentre si condanna la cosiddetta islamofobia, si discriminano le musulmane non allineate con lo stereotipo della donna velata».
Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla…
È una martire. Ma la sinistra fa dietrofront. Karen Rubin il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Sulla dolorosa storia di Saman Abbas era necessario esprimersi con il tormentone che piace tanto alla sinistra italiana, senza se e senza ma. Non è accettabile che in Italia accada che una ragazzina svanisca nel nulla per mano dei suoi stessi genitori perché ha provato a integrarsi. Saman non voleva un fidanzato italiano, ne aveva uno pakistano come lei ma non era quello scelto dalla sua famiglia. Un peccato minore, che disonora gli accordi presi tra i clan e si paga con la condanna a morte di una diciassettenne. Saman, trattata come una mucca da macello, per cui gli animalisti conducono lotte ben più vistose di quelle combattute per queste giovani costrette a una condizione di sottomissione totale incompatibile con i diritti civili, universali, di cui la sinistra si sente unica paladina. Dopo un primo momento in cui accennando un passo al di là del politicamente corretto anche le protagoniste della sinistra hanno riconosciuto il peso del fanatismo islamico nell'uccisione di questa povera ragazza, c'è stato un immediato dietrofront, e il ritorno alla solita comunicazione ipocrita: la fine di Saman non può diventare il motivo per contrapporsi a una sottocultura violenta e misogina perché rientra nella prospettiva di quel relativismo culturale per cui l'occidente non può ritenersi migliore neanche nel campo delle pari opportunità tra uomini e donne, per cui le italiane hanno duramente battagliato. Con giustificazioni che fanno appello a ingannevoli ideali più alti come l'uguaglianza tra i popoli si giustificano azioni francamente mostruose scaricando su altro la responsabilità di questo abominio. Il giudizio sul comportamento degli Abbas diventa relativamente migliore se posto in paragone con una azione ancora più riprovevole. Si ripescano vecchie e amare storie come quella di Lea Garofalo, costretta dal padre al matrimonio con un membro della 'ndrangheta che la uccise perché lei, eroina calabrese, si ribellò e denunciò la criminalità in cui vivevano i suoi parenti.
La grande differenza tra Lea e Saman sta nel modo in cui saranno ricordate. In Italia alla Garofalo si sono intitolati parchi pubblici e biblioteche, in memoria del suo coraggio sono stati scritti libri e girati film. A Lea Garofalo è stata data una medaglia d'oro al merito civile, alla povera Saman, martire anche lei, neanche un vero funerale e degna sepoltura. Karen Rubin
"Italia accogliente?". La giornalista pakistana gela lo studio. Federico Garau il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. L'uscita mentre a Zona Bianca si stava parlando del caso Saman: "Non abbiamo mai avuto una visione a lungo termine. Il nostro ruolo non può limitarsi a questo". Dichiarazioni sconcertanti quelle rilasciate nel corso della puntata di mercoledì di Zona Bianca, talk show in onda su Rete 4 condotto da Giuseppe Brindisi: commentando la situazione italiana dal punto di vista dell'immigrazione, una degli ospiti ha infatti espresso dei dubbi circa l'ospitalità dimostrata dal nostro Paese.
"L'Italia accogliente? Nì"
Tutto è nato quando in studio si è tornati a parlare della vicenda di Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa da Novellara tra il 29 e il 30 aprile scorso. Un fatto che ha portato la procura di Reggio Emilia a sospettare dei familiari della giovane, aprendo un fascicolo per omicidio premeditato ed occultamento di cadavere. Sta prendendo sempre più piede, infatti, l'ipotesi che la ragazza sia stata uccisa dopo aver rifiutato di andare in sposa al cugino.
"È una cosa brutta però in Pakistan succede", ha confidato uno dei membri della comunità straniera ad una inviata de la Zona Bianca. Cosa che ha fatto sorgere in studio la spontanea domanda: "Ma non riescono ad integrarsi o non vogliono integrarsi?".
Ospite del talk show Sabika Shah Povia, giornalista di origini pachistane, che ha così replicato: "Credo che la verità stia nel mezzo".
"Il papà di Saman era qui da 15 anni, la mamma da 5. Tanto tempo", ha quindi precisato Giuseppe Brindisi.
"Sì, sì", ha confermato la giornalista, che poi però ha aggiunto: "Ma il papà dove stava? E come viveva? Il punto è questo. Noi l'immigrazione la trattiamo sempre come un'emergenza. Sempre questa parola. Usavamo il termine emergenza ed invasione quando erano 150mila gli arrivi ogni anno, e la usiamo adesso che sono 20mila. Il problema è che una volta che le persone arrivano, hanno un permesso di soggiorno... e noi ce ne laviamo le mani. 'Basta, abbiamo fatto il nostro'. E invece no, è a questo punto che vanno inserite. Devono fare dei corsi per le donne, non solo per gli uomini".
Dichiarazioni, quelle della italo-pakistana, che hanno fatto letteralmente trasalire il giornalista Roberto Poletti, anch'egli presente in studio: "Ma un Paese come questo, accogliente...". Inequivocabile l'espressione sul viso della giovane giornalista: "Accogliente...". "Ah, non è accogliente l'Italia? Un Paese che eroga sussidi..." ha quindi commentato Poletti. "Nì, nì", è stata la risposta dell'altra ospite.
Gelo in studio. Vista la situazione, il conduttore Giuseppe Brindisi ha deciso di inserirsi nel dibattito: "Ma perché dice che non è accogliente il nostro Paese?". "Noi ci siamo ritrovati a dover gestire un fenomeno, quello dell'immigrazione e degli arrivi, e ci siamo un po' adeguati", ha spiegato Sabika Shah Povia. "Ogni volta abbaimo messo un po' delle pezze, ma non abbiamo mai avuto una visione a lungo termine per integrare le persone".
"Però scusami, dire che il nostro Paese non sia accogliente credo che sia in qualche modo un offesa nei confronti di milioni di italiani..." ha insistito Brindisi. "Ho detto nì. Non ho detto sì, e non ho detto no", si è affrettata a precisare l'ospite, che però è rimasta convinta delle proprie affermazioni: "Io sono molto fortunata, i miei sono arrivati qui negli anni '70 e sono cresciuta qui a Roma ed ho vissuto in un contesto molto diverso da quello di oggi".
"No però scusi, lei ha fatto delle affermazioni che la pregherei di chiarie. Le voglio dire che noi siamo talmente accoglienti che garantiamo, giustamente, a tutti quelli che hanno bisogno giusti sussidi, contributi per far studiare i figli, i soldi se uno non arriva a fine mese...", ha sbottato Poletti. "Sì", ha concesso di nuovo Shah Povia, "però il nostro ruolo non può limitarsi a questo".
Il commento di Salvini. Le dichiarazioni della giornalista hanno naturalmente provocato la reazione del leader della Lega Matteo Salvini, che ha riproposto il dibattito sulla propria pagina Facebook. "Pazzesco", è stato il commento dell'ex ministro dell'Interno. "Secondo questa giornalista di origine pachistana l'ITALIA NON È UN PAESE ACCOGLIENTE. Nel frattempo arriva purtroppo la conferma dal fratellino di Saman: "Mia sorella è stata uccisa dallo zio Danesh". Sarà colpa degli italiani che "non integrano abbastanza"?".
Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.
Dritto e Rovescio, la giovane islamica scappata dalla famiglia di fondamentalisti: "Abusi da mio fratello". Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. Ha lasciato tutti senza parole la storia di una ragazza musulmana, Masuma, che ieri sera era in collegamento da Ferrara con Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio su Rete 4. La giovane ha raccontato di essere arrivata in Italia dal Bangladesh con la famiglia a a 6 anni: "All'inizio eravamo una famiglia felice come tutti, il declino è iniziato quando i miei genitori sono venuti a sapere che mia sorella aveva una relazione con un ragazzo italiano. Non l'hanno accettato, l'hanno presa a botte e mia sorella poi è scappata di casa". Una vicenda molto simile a quella di Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa e forse uccisa dai familiari per essersi opposta a un matrimonio combinato. "Da quell'episodio lì ci sono state varie violenze in casa, anche abusi, che ho subito io dai miei fratelli. Nel 2011 ho chiamato i carabinieri perché per l'ennesima volta mio fratello stava picchiando mia mamma e quindi non ho retto - ha continuato Masuma ai microfoni di Dritto e Rovescio -. Per quella chiamata però poi mio fratello mi ha accoltellato alla schiena e alla testa". La ragazza ha spiegato comunque di essere stata fortunata perché dopo poco tempo è intervenuta l'assistente sociale che l'ha portata via. "Per due anni sono stata in una comunità e poi ho iniziato un percorso di affido con una famiglia, che è quella attuale", ha raccontato Masuma, per la quale però l'ultimo periodo non è stato per niente facile: "Ho avuto varie crisi, perché non riuscivo a capire se avevo fatto la scelta giusta. Poi sono venuta a sapere che a 18 anni avrei avuto il rientro in famiglia e il mondo mi è crollato addosso perché non volevo ritornare lì dove avrei risubito violenze e abusi e anche un matrimonio forzato deciso dai miei genitori. Quindi ho tentato il suicidio e poi ho iniziato un percorso di cura da una psicanalista che mi ha salvato la vita".
PER I SINISTRI LA COLPA E’ DELL’ITALIA!
Saman Abbas, da cittadina italiana si sarebbe potuta salvare. Rita Rapisardi su L'Espresso il 10 giugno 2021. La denuncia di associazioni e Casa delle donne: cittadinanza e permesso di soggiorno sono l’ennesimo ricatto di genere per le straniere. Alloggio, vincolo del reddito e legame familiare diventano un ostacolo anche per chi vuole uscire da situazioni di violenza. «È ora di cambiare la legge». La vita di Saman Abbas è stata spezzata da un gruppo di uomini che ha scelto per lei. Strozzata nella sua libertà, perché nessuna decisione presa poteva discostarsi dal volere dei patriarchi. Per le donne straniere le catene fanno il doppio giro, meno indipendenti, più soggette al ricatto dei capi famiglia. E l’oggetto del potere è racchiuso anche nei fogli di carta, quelli del permesso di soggiorno o della cittadinanza. Saman era in pericolo, lo sapeva, «Ho sentito “uccidiamola”, se non mi senti per 48 ore rivolgiti alle forze dell’ordine», aveva detto al fidanzato la sera del 30 aprile. Scompare quella sera. Saman aveva cercato aiuto, ha 17 anni quando a ottobre denuncia i genitori: vogliono costringerla a sposare un cugino in Pakistan e impedire di andare a scuola. Secondo lo zio, accusato di essere l’autore dell’omicidio, di non essere “una buona mussulmana”. Una disposizione d’urgenza dei servizi sociali e del Tribunale dei Minori fa in modo che sia ospitata lontano dalla casa familiare. Ma la giovane a dicembre diventa maggiorenne, non è più possibile trattenerla, la chiave per la libertà sta nei propri documenti. Li custodisce il padre Shabbar. Tornata a casa il 15 aprile, li pretende, ma non li ottiene, per questo Saman si rivolge alle forze dell’ordine, che arrivano però solo il 5 maggio, quando ormai è tardi. «La cittadinanza è una questione di genere», denuncia la Casa delle donne Lucha y Siesta, impegnata nel fornire spazi fisici e di dialogo a Roma. «Tante ragazze e tante donne vengono private, ancora oggi, della possibilità di acquisire la cittadinanza dai propri padri o mariti», si legge nel dossier “La cittadinanza a 18 anni”, a cura di Black Lives Matter Roma e Rete G2 - Seconde Generazioni, presentato il 2 giugno scorso, incentrato proprio sull’art. 4 della legge n. 91 del 1992 (che fornisce la possibilità a tanti giovani di essere riconosciuti de iure cittadini italiani solo al compimento del diciottesimo anno). Rinnovo dei permessi e acquisizione della cittadinanza sono legati al reddito che spesso si trova nelle mani del maschio di famiglia, intestatario di busta paga, requisito necessario per presentare la domanda. Ma anche all’intestazione dell’alloggio di residenza. «L’origine del processo dell’esperienza migratoria è spesso economica e l’uomo condiziona tutti i passaggi successivi. Dovrebbe essere un diritto soggettivo e non più un interesse legittimo. Se la cittadinanza è un diritto andrebbe tutelato almeno nelle procedure burocratiche», commenta Mohamed Taimoun, di Rete G2. I permessi di soggiorno di padri e mariti, vincolano di fatto, quelli di figlie e mogli. Quegli stessi padri e mariti che spesso impongono violenza e prevaricazione, come nel caso di Saman. E talvolta l’unico modo per sfuggire del padre è passare sotto il controllo di un marito. «Il mancato accesso alla cittadinanza è di impedimento nei percorsi di autonomia delle donne. Per quanto riguarda l’accesso al permesso di soggiorno per motivi familiari, rende il percorso molto più difficile, spesso le donne lavorano informalmente e non possono dimostrare il loro guadagno. I permessi sono negati fino ai 18 anni, anche per chi è nato in Italia. E sono oltre un milione di ragazzi e ragazze si trova in questa situazione», spiega Enrica Rigo, Clinica del diritto dell’Immigrazione e della cittadinanza dell’Università Roma Tre. «Quando le donne scelgono di fuoriuscire da situazioni di violenza e di emanciparsi, i criteri per la cittadinanza decadono e il procedimento si interrompe: le donne inoltre vivono una marginalizzazione nel mondo del lavoro, hanno una situazione reddituale minore degli uomini. Spesso lavorano in nero o in grigio, non arrivando ai criteri di accesso alla cittadinanza», racconta Simona Ammarata, operatrice di Lucha y Siesta e spiega che nel caso di donne straniere lo sviluppo dei documenti si ferma anche con procedimenti penali aperti e in caso di separazione dal marito. «Il lavoro di cura all'interno delle mura domestiche non è riconosciuto. Per questo abbiamo aiutato le donne a cercare lavoro, ma i tempi delle procedure rimangono comunque troppo lunghi». Con i decreti Salvini la situazione è persino peggiorata, di fatto i tempi si sono allungati e in questi casi a pagare le spese più alte sono sempre le donne: «Quando una donna entra in un percorso antiviolenza, il permesso di soggiorno è una problematica in più. E una volta acquisiti i requisiti per la cittadinanza, passano dai due ai quattro anni - aggiunge Rigo - Sono tempi lunghissimi in confronto ad altri paesi: vuol dire estromettere gran parte della popolazione dalla vita civile e politica». Anche la riforma della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese non ha ripristinato la situazione precedente, ma ha trovato un compromesso al ribasso. Come molte associazioni di italiani di seconda generazione hanno denunciato, è necessaria una riforma della legge sulla cittadinanza, vecchia di trent'anni e inapplicata in molte sue parti. E che non prevedere i cosiddetti ius soli, per nascita, e lo ius culturae, nel caso in cui si sia arrivati in Italia da piccoli. Una riforma che riguarderebbe oltre 1 milione e 316 mila minori, di cui oltre 990 mila nati in Italia, l’11% della popolazione 0-18 anni. «Chiediamoci cosa sarebbe successo se Saman avesse avuto la cittadinanza, o l’opportunità di acquisirla lontano da casa, riuscendo così a slegarsi da quel subordine familiare nella quale viveva», dichiara Marwa Mohmoud, consigliera comunale Pd di Reggio-Emilia. «Bisogna capire cosa non ha funzionato a capire a livello di tutela della vittima. E valutare un iter normativo specifico rivolto alle vittime di violenza o di matrimoni forzati, come avviene in altri ordinamenti europei. Si deve superare questo legame patriarcale tra vittime e carnefici. Invece di convivere con una pressione mentale identitaria, in cui di fatto sei cittadina del Pakistan e lo Stato in cui vivi ti riconosce come figlia illegittima».
Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” l'11 giugno 2021. I sorrisi di circostanza da immortalare in una foto ricordo di un giorno che non si vorrebbe ricordare. Altro che il più bello della vita... I sorrisi di circostanza dettati da una tradizione che fa indossare vestiti a festa e lascia il cuore a lutto. Di autentico in quegli sguardi obbligati a guardare al futuro non c' è nulla se non l' apparenza. Gli "amori" sono combinati. E di "non amore" si può anche morire. Come è successo a Saman Abbas, la 18enne pakistana che, a meno di clamorose sorprese, sarebbe stata uccisa dallo zio per il suo no a darsi in sposa ad un parente lontano e per quella dannata colpa di voler vivere all' occidentale. Che, detta così, sembra chissà che cosa e invece è solo la naturalezza di sentirsi liberi di scegliere cosa fare, con chi addormentarsi la sera, con chi svegliarsi al mattino. E invece in certe culture il "problema" di innamorarsi, magari troppo, seguire un istinto che raramente tradisce, dare retta al cuore, proprio non esiste. Gli altri, i grandi, genitori, zii o fratelli, lo eliminano alla radice. Come ha fatto pure Mohammad Ibrahim, il lavapiatti che nella notte tra martedì e mercoledì è stato decapitato nell' appartamento che in Corso Francia 95, a Torino, divideva con un connazionale, anche lui lavapiatti. Aveva 25 anni, una moglie in Bangladesh e un figlio in arrivo. Mohammad Ibrahim lavava sì i piatti, ma "combinava" pure matrimoni, stando alle prime tiepide testimonianze che esponenti della comunità bengalese hanno reso agli uomini della squadra mobile guidata da Luigi Mitola, e che man mano si sono fatte realtà. Ieri, infatti, la svolta è arrivata con il fermo di un connazionale, Mostafa Mohamed, 24 anni. Sarebbe stato lui ad uccidere e poi decapitare il 25enne. Motivo? Un prestito tra i 1200 euro e i 4mila euro che la vittima aveva intascato per organizzare e pagare le spese di un matrimonio combinato con una sua parente. Soltanto che le nozze sono saltate (la mamma della sposa alla fine ha detto no) e lui non ha restituito la somma. Anzi, quei soldi la vittima li ha spesi per altro senza più restituirli al pro messo sposo. Che, a quel punto, ha strangolato l' intermediario con un cordino di nylon e poi gli ha tagliato la testa. Problema risolto. In un certo senso, si può dire che anche lui sia stato vittima di una tradizione indigesta che, almeno in Italia e all' interno di queste comunità si fa fatica ad intercettare e a reprimere. E se succede è perché qualcuno da dentro si ribella. Come ha provato a fare Saman, come aveva provato a fare, nel 2006, Hina Saleem, pakistana uccisa da padre e zii e sepolta nell' orto di casa perché fidanzata con un italiano di fede non musulmana e per aver rifiutato il marito designato dalla famiglia. E chissà di quante Saman e Hina non ci sono notizie mentre una bella notizia, tre anni fa, l' aveva data la mamma di una bambina di dieci anni strappando il passaporto suo e di sua figlia che il marito violento da una moderna Milano aveva promesso in sposa ad un 32enne in Bangladesh. La teneva segregata, la piccolina, la faceva crescere a pane e Corano. Si è salvata grazie al coraggio della mamma. Pratiche crudeli, selvagge, che includono spose bambine e infibulazione, matrimoni forzati e combinati (che solo i parenti possono disdire), usanze che arrivano a noi come una eco da Paesi come Bangladesh, Pakistan, India, ma che all' improvviso ritroviamo dentro i palazzi che abitiamo e ogni volta sconvolgono e ogni volta riaccendono il dibattito che si placa e si dimentica nel giro di pochi tramonti. Ahmad Ejaz, pakistano in Italia da 30 anni, e che da 30 anni si batte per l' integrazione, a Libero ha detto che «molte le persone che le praticano non sanno nemmeno che è un reato in Italia», che «le comunità spesso si chiudono in se stesse, si auto -ghettizzano e fanno subentrare la cultura del Paese di origine». E organizzano matrimoni, tra giovani che già sono sul territorio, o tra persone che vivono lontane. Racconta sempre Ejaz che i pakistani, ma anche bengalesi e indiani, una volta arrivati in Italia chiamano la mamma per trovare moglie. Ritornano in patria, si sposano, ritornano in Italia, mandano i soldi. E le donne non sono donne, ma solo «mogli, mamme, figlie», il cui destino è deciso dagli altri. E guai a con tradirli.
Tutti i complici del caso Saman. Andrea Indini il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. Sinistra, buonisti e femministe in silenzio. Perché non denunciano i crimini dell'integralismo islamico? Se non lo fanno, non riusciremo mai a fermarli e loro ne saranno complici. Che fine ha fatto la sinistra progressista? E i radical chic buonisti dove sono andati a finire? E che dire delle femministe e delle paladine del #metoo? Tutti muti. Nemmeno davanti alle trascrizioni degli audio, in cui Saman Abbas svela al fidanzato di aver sentito la madre, Nazia Shaheen, parlare di omicidio come "unica soluzione" per punirla e purificarla, hanno rotto quel silenzio assordante. Nemmeno davanti ai frame del video delle telecamere di sicurezza che immortalano lo zio e i cugini mentre lo scorso 29 aprile camminano verso i campi con in mano le pale con cui hanno scavato la buca per sotterrare il cadavere della 18enne, hanno rotto quel silenzio colpevole. Nemmeno davanti alla drammatica testimonianza del fratello minore che ha raccontato come lo zio Danish Hasnain l'ha barbaramente ammazzata e, una volta tornato dai genitori della giovane, li abbia rassicurati spiegando che era "tutto sistemato", hanno rotto quel silenzio complice. Da giorni gli inquirenti non mollano il caso per un secondo. La speranza di ritrovare viva la ragazza pachistana, che sognava un futuro libero con il suo fidanzato, si è sgretolata quasi subito. Le prove hanno presto portato a credere che la famiglia Abbas abbia tolto di mezzo con la violenza quella giovane ribelle. Il cadavere, però, non è stato ancora trovato. E così, dopo oltre un mese, si va avanti a cercarlo senza sosta. A Novellara, nella Bassa Reggiana, i carabinieri scandagliano metro per metro la zona di campagna che si perde attorno al casolare dove abitava la giovane. Poco lontano c'è l'azienda agricola dove lavorava il padre. Nelle prossime ore dovranno passare alla tecnologia dell'elettromagnetometro per ottenere una scansione più approfondita del sottosuolo. Nel frattempo la Procura di Reggio Emilia cerca di stringere sulla famiglia Abbas che avrebbe giustiziato Saman a sangue freddo. La sua "colpa"? Essersi opposta al matrimonio che i genitori le avevano combinato in Pakistan. Perché su questa drammatica vicenda, sin dall'inizio, è calato un disarmante velo di omertà da parte della sinistra? Solo i leader di centrodestra sono scesi in campo non solo per chiedere agli inquirenti di far luce sul triste destino di Saman ma anche per accendere un faro sul radicalismo islamico che, nell'indifferenza generale, continua a prolificare all'interno delle comunità musulmane in Italia. La settimana scorsa, in una coraggiosa intervista alla Nazione, Luca Ricolfi spiegava che le ragioni di questo silenzio (colpevole) vanno ricercate nell'"occhio di riguardo" che i progressisti continuano a riservare all'islam. "La sinistra teme che i lati più imbarazzanti di quella cultura, e in particolare il suo modo di trattare la donna, compromettano il progetto politico di diventare i rappresentanti elettorali di quel mondo, grazie all'allargamento del diritto di voto agli immigrati". Prima ancora che le indagini della Procura di Reggio Emilia svelassero tutti i contorni del presunto omicidio, il sociologo preconizzava che, "anche se vi fosse la certezza che è stata uccisa dai familiari, un velo pietoso verrebbe steso sulla vicenda" in nome di un politicamente corretto meschino che spinge la sinistra a garantire "una protezione speciale" a minoranze come i musulmani. Oggi abbiamo avuto la prova di quanto siano vere queste parole. Dal quartier generale del Partito democratico si sono alzate pochissime dichiarazioni di condanna. E soltanto Emanuele Fiano ha avuto il "coraggio" di parlare di islam. Tutti gli altri se ne sono tenuti alla larga. E se questa è già una colpa grave, ancora più grave è quella commessa da chi in questi giorni continua a voltare il proprio sguardo da un'altra parte per non vedere il male che c'è in alcune comunità. Non bisogna nascondersi dietro alle parole. Né bisogna averne paura. I matrimoni combinati e le violenze sulle donne sono alcuni tra i tanti frutti marci dell'integralismo islamico. È importante denunciarlo per fare in modo che non prolifichi. Chi per biechi calcoli politici se ne chiama fuori è complice e colpevole.
Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore). Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.
Elisa Calessi per “Libero Quotidiano” il 9 giugno 2021. «La donna, in Pakistan, esiste solo in quanto madre, moglie, figlia. Non esiste in quanto donna». Non ha diritti, né può scegliere il proprio destino lavorativo o affettivo. Così come «non c'è la cultura dell'individuo». Sostituita da quella del «gruppo, della famiglia, dell'onore». Ahmad Ejaz, giornalista e mediatore interculturale, nato in Pakistan, vive in Italia da trent'anni. E da trent'anni si batte per l'integrazione. Eppure non fa sconti su quanto accaduto a Saman Abbas, la ragazza pakistana probabilmente uccisa dallo zio perché non voleva sposare il cugino che le era stato assegnato. Un caso che, per Ahmad, non è nuovo. «In questi anni mi sono occupato di centinaia di vicende simili. Tante sono morte».
Cosa pensa del matrimonio combinato?
«Se è forzato, è una pratica che non rispetta i diritti umani e nemmeno la Costituzione italiana. E va combattuta. È un gravissimo errore non fare nulla, pensare che sia una diversità culturale da rispettare».
Molti italiani sono timidi nel condannarla perché temono di passare per razzisti.
«Io ho fondato una associazione che si chiama "Le nuove diversità". Le differenze fanno arricchire. Anche la lingua italiana sarebbe incompleta senza l'apporto dell'arabo. Ma dobbiamo sempre condannare, noi immigrati per primi, le pratiche che non rispettano i diritti umani e la Costituzione: la poligamia, l'infibulazione, i matrimoni combinati forzati. Pratiche crudeli e sbagliate. Molte volte le persone che le praticano non sanno nemmeno che è un reato in Italia».
Come non lo sanno? Ma per avere un permesso di soggiorno non si è obbligati a conoscere almeno le leggi italiane?
«Quando ottieni il permesso di soggiorno, ti viene data una carta in cui sono scritte le leggi, i diritti che valgono in Italia, ma spesso un immigrato non sa nemmeno l'italiano... È vero che quando uno fa la carta di soggiorno deve fare un esame di lingua italiana, ma non basta. Le comunità spesso si chiudono in se stesse, si auto-ghettizzano e fanno subentrare la cultura del Paese di origine».
Le seconde generazioni, però, si ribellano. Perché?
«Perché vanno nelle scuole italiane e quindi si costruiscono una identità culturale individuale che i loro genitori non hanno».
Perché dice "individuale"?
«L'identità culturale pakistana è centrata sul gruppo, non sull'individuo. Quando un bengalese viene in Italia e apre un negozio, poi chiama la mamma e le chiede di trovargli una moglie. Torna in patria, si sposa e ritorna in Italia. Anche quello che guadagna lo manda in Bangladesh e la mamma lo divide tra i dieci fratelli. È un'identità di gruppo. Si pensa e si vive in gruppo per tutta la vita. Questo è il fulcro del matrimonio combinato».
Quindi non è un comando del Corano?
«No, non è legato alla religione. È una tradizione del Pakistan».
Però ai figli non sta bene.
«Perché la seconda generazione impara l'importanza dell'individuo. Non accetta che il gruppo scelga al suo posto».
La vicenda di Saman è un caso isolato o diffuso?
«Sono tantissimi i casi come questo. E diventeranno ancora di più, perché ogni anno i pakistani fanno 7mila figli, se poi aggiungi indiani e bengalesi siamo a mezzo milione. Tante ragazze ci chiedono aiuto».
Cercano aiuto, ma non sempre lo trovano. Saman si era rivolta ai servizi sociali. Cosa non ha funzionato?
«È molto difficile per una ragazza lasciare la famiglia perché, una volta entrate nei centri antiviolenza, sentono la nostalgia di casa. Io credo vada messa in discussione la formazione degli assistenti sociali, degli psicologi, che devono saper aiutare queste ragazze, una volta che si rivolgono a loro».
A volte c'è timidezza a intervenire, in nome del relativismo culturale.
«Se una cultura non rispetta i diritti umani, bisogna intervenire. Saman e tantissime ragazze morte come lei sognavano di diventare italiane. Il fidanzato, peraltro, non era italiano, ma pakistano. Eppure non bastava alla famiglia. Perché doveva sposarsi un cugino».
Nella cultura pakistana che idea c'è della donna?
«In Pakistan la donna ha tre ruoli: moglie, figlia, madre. Non esiste in quanto donna. Piano piano le ragazze stanno cercando di acquisire i diritti che esistono qui, ma c'è un lungo cammino da fare».
Una donna può decidere di se stessa?
«Il concetto di autodeterminazione è visto malissimo. Il padre lavora, la madre guarda i figli, la sorella più grande deve fare le veci della madre, e il fratello più grande quelle del padre. La famiglia è molto gerarchica».
La donna in Pakistan è libera?
«No, non c'è la libertà della donna. Anche nelle eredità, maschi e femmine non sono uguali. Se il padre muore, il fratello prende il 75% dell'eredità. Il resto va alle sorelle, non importa quante sono».
Come si può aiutarle?
«Ci vogliono progetti mirati. Quando si parla di immigrato, si pensa subito a un maschio, giovane. Invece il 52% sono donne».
Di fronte al rifiuto di Saman, lo zio l'ha uccisa. E i genitori non si sono ribellati. C'è anche un problema culturale di violenza?
«È il frutto della cultura del villaggio, che non è la cultura del Pakistan o dell'Islam. Queste persone hanno ucciso Saman perché per loro l'onore della famiglia veniva prima. Non la considerano violenza, ma rispetto dell'onore. A uccidere le nostre ragazze sono sempre padri, fratelli e cognati, mentre nei femminicidi italiani sono mariti, ex mariti e amanti».
Perché?
«Perché per voi è più importante la coppia, quindi interviene la gelosia. Mentre nel nostro caso conta la famiglia, l'onore».
Cosa si può fare?
«Ci vuole un grande lavoro. Le moschee devono diventare moschee vere e non associazioni culturali. E poi fare integrazione vera. Oggi la società italiana è multiculturale, ma non è interculturale».
Sono gli italiani a ghettizzare gli immigrati o sono gli immigrati che si autoghettizzano?
«Entrambe le cose. La società italiana punta a ghettizzare e le comunità non si fidano degli italiani».
Cosa ne pensa del silenzio di tante femministe italiane su Saman?
«Il femminismo deve portare con sé anche le donne immigrate: sono tre milioni. Vengono da culture diverse, hanno subìto il patriarcato, ma sono nuove cittadine. E vanno integrate».
Dritto e Rovescio, l'Islam e le donne in Italia: "Bisogna picchiarle con bastoni come questo". Libero Quotidiano il 04 giugno 2021. A Dritto e Rovescio programma condotto da Paolo Del Debbio e in onda su Rete 4 si parla di Islam. In particolare, in relazione alla scomparsa della ragazza 18enne Saman Abbas, sparita a Reggio Emilia dopo essersi opposta a un matrimonio combinato deciso dai genitori. Durante la trasmissione, viene mandato in onda un servizio che riporta le testimonianze di alcuni musulmani. "La donna deve essere picchiata con un bastoncino come questo" si sente dire un uomo subito all'inizio del servizio, mostrando al contempo un piccolo bacco alle telecamere. Segue un altro musulmano che spiega che la donna possa essere picchiata solo con determinati bastoni. "Secondo me non la dovresti picchiare e basta", interviene l'inviato. "La donna fa tanti sbagli con il marito, quando ti arriva un pugno è come se fosse un cartellino giallo, così capisce di essere arrivata al limite" afferma un altro uomo ancora. "Se i genitori dicono che devi sposare un uomo, tu devi sposare quello?" chiede la reporter a un commesso musulmano di un negozio di alimentari. "Sì. I genitori vanno sempre rispettati" risponde lui senza fronzoli. "E quindi la donna è sottomessa all'uomo?" chiede l'inviata. "Sì, giusto" replica il commesso, aggiungendo che la "donna deve essere più piccola. Se è più piccola ti rispetta sempre". La giornalista spiega poi la triste vicenda di Saman Abbas a un altro intervistato, raccontando di come Saman abbia denunciato i propri genitori, per evitare di sposare l'uomo che loro avevano per lei designato come marito. "Questo è un peccato" risponde l'interlocutore "Questo non va bene". Le affermazioni dell'ultimo uomo intervistato fanno venire i brividi: "La donna deve stare in casa e pregare con il bambino. Quando ha bisogno di uscire, deve farlo con il marito. Non deve mai uscire sola. Libertà sì, però senza uscire" afferma l'uomo dal volto oscurato. "Lei ha il coraggio di dire che l'Islam non c'entra niente?" prende subito la parola Giuseppe Cruciani una volta terminato il servizio. "Noi naturalmente dobbiamo combattere l'ignoranza" risponde in leggera difficoltà Sami Salem, Imam della Moschea della Magliana a Roma. "C'è una differenza se noi siamo contro i casi individuali, oppure se siamo contro l'Islam" dice Salem. "L'Islam è un metodo, un messaggio di dio. Come il Corano è il libro dei musulmani" conclude l'Imam di Roma.
Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2021. Saman ha lasciato un fidanzato che ha condiviso con lei via chat gli ultimi momenti di terrore. Ma quante sono le altre Saman, vittime di violenza perché non volevano abbassare la testa? La polizia ne ha contate 22 negli ultimi tre anni, di nazionalità diverse, ma con storie drammaticamente simili. E sono solo la punta di un iceberg.
Zayn (i nomi sono di fantasia), 22 anni, il 27 agosto del 2019 non ce la fa più e alla squadra mobile di Brescia racconta violenze subite, assieme alle sorelle di 19, 14 e 13 anni dal padre, dalla madre e dal fratello maggiore, che la volevano costringere a sposare un pachistano a lei sconosciuto. Denunciati per induzione al matrimonio, ai genitori è stata sospesa la responsabilità genitoriale e vietato di avvicinarle. Le ragazze sono state portate in una località protetta. Incubo finito.
Il 15 settembre 2020 è una madre, Awais, 36 anni nata in Pakistan, a ribellarsi al marito per le violenze nei confronti suoi e delle figlie di 15 e 8 anni. A lei vietava di lavorare, a loro di andare a scuola e frequentare amici. Le violenze erano scattate quando per la più grande aveva individuato un marito in Pakistan. Lei l' aveva difesa. E giù botte e abusi sessuali anche in presenza delle ragazze. L' uomo è stato denunciato per maltrattamenti, violenza sessuale, lesioni personali, minaccia e costrizione o induzione al matrimonio.
Cornelia viveva in un campo nomadi a Roma, il 27 gennaio ha denunciato il padre. Era stata portata in Romania più volte, per essere offerta in sposa a un connazionale. Lei insisteva a dire no. Erano percosse e insulti da parte anche di altri familiari. Aleksandrina e Branislava, sorelle di 20 e 17 anni, a Brescia il 5 aprile 2021 si sono rivolte alla Mobile contro i genitori croati che volevano costringerle con la forza alle nozze.
Shaila stava per essere rapita. L' 1 giugno 2021 una pattuglia di polizia di Reggio Emilia l' ha salvata con un blitz, intervenendo a casa di una donna indiana dove, di lì a poco, sarebbe dovuto arrivare il fratello che l'avrebbe portata via contro la sua volontà. Era già stato deciso tutto con un accordo tra due famiglie. In India l' aspettava il futuro sposo, che aveva anche deciso la data del matrimonio. Ora vive in una struttura protetta. Non fossero intervenuti gli agenti sarebbe stata portata via come un pacco.
Sono solo alcune delle agghiaccianti storie emerse dalle acque melmose di complicità che coprono le violenze familiari - anche con le mutilazioni dei genitali - subite dalle bambine che, nate o cresciute qui, hanno la sola colpa di volersi sentire, come Saman, «italian girls».
Secondo il rapporto sul Codice rosso, tra il 2019 e il 2020 sono stati 11 i casi di denuncia per costrizione o induzione al matrimonio. Reati che si accompagnano spesso allo sfregio del volto subito da chi si ribella: 65 casi. E purtroppo anche alla sfida delle prescrizioni fissate dalla legge a tutela delle donne. Sono state 1.741 le violazioni dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento dei luoghi frequentati dalla persona offesa. Reati che fanno scattare campanelli di allarme perché spesso precedono la decisione definitiva: uccidere chi non si piega.
C'è chi è più fortunata e sfugge a un copione di sangue. Zenab Muhammad, 29 anni, nata a Napoli da padre pachistano e madre italiana, ha rifiutato il suo matrimonio combinato. E all' Adnkronos ha spiegato che «in Pakistan per le famiglie, povere o benestanti, combinare i matrimoni è normale. Quello che non è normale è uccidere una figlia perché lo rifiuta, non siamo in una fattoria dove occorre arrivare all' accoppiamento». Sua cugina ha detto sì a un veterinario che l'aveva chiesta in sposa. Lui la picchiava. Le hanno concesso di separarsi. Lei stessa ha avuto proposte: «Per fortuna mio padre ha detto no, deve decidere lei». Secondo il dossier 2020 di Terre des Hommes «Indifesa» la pratica dei matrimoni forzati produce ogni anno nel mondo milioni di spose bambine, nel 2018 ne sono state calcolate 70,9 milioni. E il Covid ha aggravato la situazione. La chiusura delle scuole in India e lo stop ai pasti scolastici per 320 milioni di famiglie ha significato la necessità di sfamare le figlie. Cercare loro un marito continuerà a sembrare a tanti l'opzione migliore.
Giordano Stabile per "la Stampa" il 9 giugno 2021. Con il piercing al labbro inferiore, i capelli schiariti e gli occhi color malva non è un esempio di donna tradizionale yemenita. Per lo meno di come la vorrebbero i conservatori islamici nella nazione più povera del Medio Oriente, da sei anni massacrata da una guerra civile che ha fatto centomila morti. Intisar Al-Hammadi, padre yemenita, madre etiope, vent' anni e il sogno di diventare una modella internazionale, è finita da quattro mesi in una macchina infernale. Per i ribelli sciiti Houthi che dal 2015 governano la capitale Sanaa e il Nord del Paese, Al-Hammadi «ha violato il codice di abbigliamento tradizionale» e dev' essere punita. Lo scorso 20 febbraio è stata arrestata, prelevata da un gruppo di militanti per strada. «Senza un mandato e senza un'accusa precisa», come ha denunciato il suo avvocato, Khaled Mohammed al-Kamal. Intisar ha cominciato uno sciopero della fame, una campagna sui social ha cercato di attirare l'attenzione internazionale. Finora senza risultati. Irritati dall' intensa copertura mediatica, gli Houthi hanno licenziato il pubblico ministero che aveva ordinato il rilascio di Al-Hammadi dopo i primi interrogatori. Poi hanno messo la modella in isolamento. Ieri a Sanaa è cominciato il processo. Senza l'avvocato Al-Kamal, sospeso dal suo impiego al Segretariato generale della capitale. Un modo per fare pressione e costringerlo a lasciare il caso. Il legale continua a seguire la sua assistita ma senza fare nuove dichiarazioni, per evitare guai peggiori. Secondo l'attivista per i diritti umani Abdul Wahab Qatran il tribunale si è rifiutato di fornire ai difensori i documenti del caso. Mentre i media affiliati ai ribelli sciiti hanno cominciato una campagna di disinformazione e alluso a un «coinvolgimento in un giro di droga e prostituzione». Quando è stata arrestata Al-Hammadi si trovava nella centrale Hadda Street assieme a due attrici locali. Dovevano girare una scena per una serie televisiva. Si era esposta troppo. Le sue foto su Instagram, senza velo e senza l'abito tradizionale. Poi un'intervista in tv dove denunciava la regola del controllo maschile sulle donne e annunciava la sua volontà di «viaggiare all' estero da sola» per cominciare una carriera di indossatrice e influencer. «Voglio avere le mie opportunità, lontano da qui», aveva annunciato. Ma dopo sei anni di guerra e di blocco imposto dalla coalizione sunnita guidata da Riad, il movimento Houthi è diventato sempre più oppressivo. Il consenso che godeva all'inizio, quando si era opposto al potere del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi e alla discriminazione della componente sciita della popolazione, si è eroso. Gli Houthi cominciano a mostrare il loro volto peggiore. Arresti arbitrari di critici e oppositori, e adesso anche di donne accusate di non rispettare le regole islamiche. L' Associazione delle madri dei sequestrati, vicina ai sauditi, ha denunciato le persecuzioni sempre più frequenti subite da «modelle e attrici». Molte finiscono «nelle prigioni segrete» dei militanti e «spariscono per mesi e mesi». Lo Yemen affonda nella carestia, la fame e le malattie infettive fanno strage di bambini. Una guerra che non ha più senso, se mai le guerre hanno senso, e che assieme ai sogni di Al-Hammadi ha distrutto quelli di trenta milioni di innocenti.
Costanza Cavalli per “Libero quotidiano” il 9 giugno 2021. Cosa che fino a qualche anno fa probabilmente non avrebbe fatto, Natalia Aspesi ha ammesso che l'Islam con lo schifoso destino di Saman Abbas c'entra. È una straordinaria giornalista e a novant'anni è più scatenata che in passato, come succede a certi vecchi intelligentissimi che a un certo punto mandano tutti al diavolo e dicono quel che vogliono. Ieri su Repubblica Aspesi ha messo nero su bianco l'oscurantismo in Pakistan, l'irriducibilità della tradizione patriarcale musulmana. È vero che non ha potuto resistere a postillare che pure in Italia fino a cent' anni fa il padre era padrone e che anche da noi in passato qualcuno ha ammazzato la figlia disobbediente. Ma le femministe, soprattutto quelle odierne, si guardano i piedi, e così non si sono accorte che l'unica lucetta di speranza in questa storia terrificante l'ha accesa un uomo di sedici anni. Il fratello di Saman, che pure aveva assistito a molto, era protetto dai parenti, i quali pensavano che lui non li avrebbe mai traditi, piccolo maschio musulmano fra grandi maschi musulmani, tanto che quando è stato fermato era alla frontiera italo -francese con lo zio. Il ragazzo invece era inorridito, disperato per la sorte della sorella e ha vuotato il sacco, ha inchiodato il parentado, e poi ha anche detto che avrebbe voluto uccidere lo zio ma uccidere non si può. Da questa parte del mondo forse ci è sfuggito perché ci è sembrato normale, ma è lì che si è aperta la crepa da dove passa la luce. I giovani sono meglio dei vecchi, e spesso sanno capire da soli il giusto e l'ingiusto. Nessuna legge ha mai fermato i violenti, neppure la pena di morte. Alla micidiale commistione fra culto e tradizione, Aspesi ha girato attorno morbidamente, facendo domande di cui conosce bene la risposta: perché queste «famiglie che arrivano in Europa non si rendono conto che qui il mondo è altro?». E ha chiesto ai nostri amministratori: «Forse imporre una diversità di regole, se no via». Ma queste domande sono un artificio, perché al tempo di alcune conquiste sociali lei c'era, il divorzio, l'aborto. Per cui sa che le leggi che funzionano vengono promulgate quando la società è pronta, non il contrario, nessuna norma fa crescere una comunità non matura. Tante giovani musulmane andranno a scuola, frequenteranno altri giovani, e dato che quasi tutti i genitori non ammazzano i figli, in questa generazione qualcosa di nuovo passerà, qualcosa le entusiasmerà, qualche insegnante le sveglierà al mondo, discutere con i coetanei le renderà critiche. Forse molte non parleranno finché non saranno uscite di casa, ma incontreranno altri ragazzi, musulmani e no, e questi giovani si ameranno, e ai loro figli insegneranno cose diverse da queste. Allora vinceranno anche le leggi.
Da "il Venerdì - la Repubblica" il 22 giugno 2021.
ANCHE LE MAMME UCCIDONO
Il guaio è che lei, su Repubblica, scrive una serie di sciocchezze a proposito della tragedia di Saman Abbas (la ragazza pachistana fatta scomparire dalla famiglia in Emilia per aver rifiutato un matrimonio combinato, ndr).
1) Fa un parallelo tra vecchie tradizioni italiane di 100 anni fa per sottolineare che «anche noi eravamo così». Ci ha risparmiato solo la banalità detta dagli idioti «anche le nostre nonne portavano il velo», trascurando che qui persino allora nessuno le sgozzava se non lo facevano.
2) Poi ripete più volte «io non ne so niente, mi faccio domande a cui non so rispondere» ecc. Verrebbe da chiederle perché scrive di un argomento di cui confessa di non avere la più pallida idea.
3) Fa sorridere quando dice che in passato i padri uccidevano le figlie... per la minigonna. A parte che sta inventando, ma se anche fosse successo, lei non distingue tra il caso crudele di cronaca e una visione tribale del mondo e della vita che porta una madre a «ordinare di ammazzare la figlia».
4) Concludo con una domanda. Ma quando capirete che ragionare solo per ideologia, pensare che tutto il male stia da una parte, e che solo i sedicenti "republicones", i sedicenti "migliori", i politicamente corretti che in realtà hanno una visione orwelliana del mondo sono sempre nel giusto, ma puntualmente sulla realtà arrivano toujours en retard come diceva Napoleone agli austriaci.
Dovrebbe chiedere scusa ai lettori di Repubblica per l'articolo tardivo, disinformato e inconcludente che ha scritto. E non è vero che «siete tutti Saman», un po' di serietà per favore. Questa non è una kermesse tardofemminista con gonne a fiori e zoccoli olandesi. D.Dante
Risposta di Natalia Aspesi.
Perché mi aggredisce? Perché mi insulta? Perché non ha scritto: «Gentile signora, ho letto quello che lei pensa della tragedia di Saman e non sono d'accordo con lei, le spiego il perché...». Poi, scusi, perché "lei" diventa "voi"? Anche lei, allora è "voi". Il mio giornale non era in ritardo visto che ne parlava da due giorni e ha continuato a farlo. La mia idea è solo mia e non vedo perché lapidarmi se non generalizzo, se cerco di capire, se non isolo un fatto facendone un evento universale: non tutti i padri tra i 150 mila pachistani né tra il milione e 200 mila musulmani di vari Paesi in Italia ammazzano le figlie, come non tutti i maschi italiani uccidono la compagna disubbidiente. Il mondo è un intreccio tra passato e presente, certo bisognerebbe aver la voglia di sapere, di informarsi, di capire. Questo nuovo attacco alla baionetta che si è stabilito tra le persone pone un pericoloso divario tra chi sa e chi non sa e impedisce ogni dialogo, ogni comprensione reciproca, ogni venirne a capo. Lei mi definisce bugiarda idiota, banale sciocca, inconcludente. Non le sembra eccessivo? Comunque è lei a pensare che tutto il male sia da una parte e mi perdoni il sospetto: a lei di Saman non importa nulla, ciò che le serve è esprimere il suo malumore e il suo bisogno di nemici, di colpevoli, per sentirsi il meglio.
VORREI STRAPPARE IL VELO ALLE DONNE CHE LO PORTANO
Basta, basta con la cecità pericolosa della nostra generosità, basta pensare che siamo tutti uguali e che chi viene da lontano ha il diritto di non adeguarsi, di continuare a vivere dentro i propri costumi e religioni, intaccando la nostra cultura millenaria in cui i padri non hanno il diritto di imporre alle figlie i loro voleri e poi, se disubbidiscono, ammazzarle come un pollo nel pollaio. Saman è morta perché noi non abbiamo fermato la mano assassina, non l'abbiamo protetta, siamo stati indifferenti al suo desiderio di libertà, l'abbiamo lasciata sola, in preda a riti efferati. Difendiamo queste giovani donne, insegniamo loro a cambiare le loro vite, a crearsi il loro avvenire. Io quando vedo una donna velata vorrei strapparglielo, si nasconde al mondo per mostrarsi solo al padre padrone, al marito padrone, al cugino che dovrà diventare il suo nuovo padrone? Se i loro uomini sono così fragili da non riuscire a sfuggire le tentazioni, si curino, ma anche si coprano loro ammesso che possano costituire una tentazione. Se ne tornino al loro Paese, o ne impediscano l'ingresso in Italia...Edgarda Musi
Risposta di Natalia Aspesi. Certo suscitano orrore e dolore queste tragedie nate da usanze tribali che puniscono la disubbidienza femminile con la morte. Secondo il signor Dante l'assassinio di Saman non può essere paragonato a uno dei troppi nostri fatti di cronaca nera: giusto, però forse bisognerebbe sapere dagli assassinati se pensano, meno male che mi ha ammazzato perché era nervoso, o depresso, o per vendetta verso la sposa cattiva, e non perché lo dice la tradizione. Così, a caso: luglio 2020, Mario Bressi, 45 anni, impiegato, soffoca i figli gemelli Elena e Diego di 12 anni; settembre 2020, Claudio Baima Poma uccide Andrea, 11 anni; quanto alle madri, indimenticabile la fine di Samuele a Cogne e Loris in provincia di Ragusa, fatti fuori dalla mamma, senza contare quella che a Cosenza ha ucciso il figlio 11enne con la forbice. So che questo paragone mi condanna alla morte, spero solo virtuale, che viene giornalmente comminata a chi ha pensieri devianti dall'ovvio. E mi accuseranno non solo di essere di sinistra, anzi comunista (sarei la sola rimasta, ma pure sostenitrice del terrorismo islamico e odiatrice di donne (delle sceme un po' sì). Pazienza, sino a quando la dittatura dei siti non mi zittirà materialmente, continuerò a dire quello che penso, che è poi quello che sino a qualche anno fa pensavamo quasi tutti. Noi reazionari.
"Potevo finire come Saman ma sono fuggita in tempo". Manila Alfano il 9 Giugno 2021 su Il Giornale. La giovane del Bangladesh ha denunciato i suoi. "Ribellatevi, la rivoluzione spetta a noi ragazze". Masum ha 21 anni e poteva fare la fine di Saman. Poi, il coraggio di denunciare le ha concesso un destino diverso. «Potevo esserci io al suo posto». Masum è viva ma i compromessi ci sono stati: in fuga dai suoi genitori da oltre dieci anni, accolta e amata da una famiglia affidataria. Una scommessa finita bene. «Mio padre e i miei fratelli mi picchiavano per niente. Mio fratello picchiava mia mamma di continuo. Bastava che qualcosa non andasse per il verso giusto, e partivano le mani. Nella mia famiglia si sopravviveva con la paura addosso ogni giorno. Poi ho preso coraggio, mi sono fatta forza e ho chiamato i carabinieri. Ci avevo provato già quattro volte ma non ci riuscivo. È stata dura». Li ha denunciati quando aveva solo 11 anni, eppure la senti parlare e non riesci a immaginartela bambina perchè è come se fosse sempre stata grande e il suo racconto è lucido anche quando parla del peggio. La fortuna per lei è stata anche di incontrare le persone giuste, l'assistente sociale capace, il presidente del Tribunale dei minori, gli avvocati. Una rete insomma che ha funzionato e l'ha portata in salvo, lontana dai suoi parenti. Due anni in una comunità protetta poi una famiglia affidataria che le ha voluto bene. Sembra facile, dovrebbe funzionare sempre così eppure spesso non succede. Per una che ce la fa chissà quante rimangono schiacciate. E non in Bangladesh o in Pakistan ma qui, in Italia, tra l'indifferenza e il razzismo di un Occidente che le abbraccia e poi le abbandona. La storia si ripete uguale a se stessa sempre. C'è una famiglia che è un clan in cui i maschi possono tutto mentre le donne niente; al massimo sono complici dei mariti o dei figli maschi. Anche a casa di Masum lo schema funzionava allo stesso modo. Il padre era arrivato in Italia e con grande fatica ha messo in piedi due bazar. Quando decide di portarsi la famiglia, Masum, la più piccola di quattro fratelli, ha solo sei anni «In Bangladesh stavamo bene, mio padre era lontano e non c'erano litigi e non c'era violenza». Arrivati qui le cose cambiano presto e a peggiorare la situazione ci sono anche le difficoltà economiche. «In casa non avevo nessun alleato, solo mia sorella ma poi, quando hanno scoperto che aveva un ragazzo italiano le hanno vietato di uscire, e l'hanno costretta a sposarsi con un nostro connazionale, un ragazzo del Bangladesh. Lei non voleva ma non ha avuto scelta. Opporsi non era neppure pensabile. Non l'ho più vista e lei ha smesso di cercarmi. Se fossi rimasta con loro sarebbe toccato anche a me». Sembra una vita fa. Oggi Masum è serena, «sto bene, sono amata e lavoro nell'azienda della mia mamma adottiva, ho una vita fatta di cose belle anche se non mi sento mai completamente al sicuro, e i miei parenti non sanno dove abito per motivi di sicurezza». Il suo ultimo incontro con la famiglia risale al 2012 in comunità, «incontri protetti, non vedevo l'ora che finissero, mia mamma sapeva solo dirmi: perchè non chiedi mai di tuo fratello?». Non ci sono carezze o abbracci e i sentimenti sono schiacciati dai ruoli, regole a cui obbedire. È difficile scegliere di raccontare la propria storia, lo è ancora di più se rischi di essere rintracciata dai tuoi che te l'hanno giurata. «Ma io parlo perchè le ragazze come me si ribellino a questo sistema. Non abbiate vergogna. La rivoluzione la dobbiamo fare noi. Trovate il coraggio di denunciare, non siete sole». E viene da crederle.
Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 4 giugno 2021. Ragazze apparentemente come tante, che, improvvisamente costrette a matrimoni combinati, si ribellano e, spesso, scompaiono nel nulla. Il caso di Saman Abbas, diciottenne pachistana sparita ormai da un mese da Novellara e secondo gli investigatori uccisa per aver rifiutato le nozze forzate, accende dolorosamente i riflettori sul fenomeno dei matrimoni combinati, che tocca pure l'Italia. Fortunatamente, alcune storie hanno un lieto fine. «Avevo sedici anni, frequentavo il primo anno di scuola superiore e avevo un fidanzatino, Andrea - racconta Amani El Nasif, 31 anni, nata in Siria ma residente a Bassano del Grappa dall'età di tre anni, cittadina italiana dal 2016 - un giorno mia madre ha detto che dovevamo tornare in Siria per un errore nel passaporto: il mio cognome era scritto male Al Nasif invece di El Nasif. Per una lettera, tutta la mia vita è cambiata». Amani è partita felice. «Per me la Siria era quella delle storie da Mille e una notte. All'inizio ero affascinata dai paesaggi. Appena arrivata nel villaggio rurale di mio padre, mi hanno dato più vestiti da indossare uno sopra all'altro. Li ho messi. Anche il velo. Pensavo fosse giusto rispettare una cultura diversa dalla mia. Poi le cose sono cambiate». Un giorno, ha sentito gli zii parlare di un matrimonio: il suo con il cugino. «Non ci credevo. Mia madre era rassegnata. Era stata lei a portarmi lì, pensando di garantirmi una vita più sicura della sua, abbandonata con sei figli, dal marito, in terra straniera. Ho chiamato Andrea, piangendo. Poi ho sentito uno schiaffo. Mio zio mi aveva scoperta. È stata la prima volta che sono stata picchiata». Non l'ultima. Amani è rimasta 399 giorni in Siria. «Per le percosse, sono finita in ospedale, ma solo quando era questione di vita o di morte. Mio cugino non accettava che non lo volessi sposare. Ogni volta che mi trovava da sola, mi picchiava. A casa di mia cugina, mi ha calpestata, letteralmente. Sono arrivata a tentare il suicidio. La mamma del mio fidanzato ha mandato anche dei soldi a mio padre, che ha promesso di rimandarmi in Italia, ma poi non lo ha fatto. Alla fine mi ha aiutato un cugino paterno. Ha convinto mio padre a trasferirsi in Italia, lui aveva bisogno di mia madre per il ricongiungimento familiare e lei ha imposto che partissi anche io». Compiuti 18 anni, Amani si è lasciata la famiglia alle spalle ed è andata a vivere con il fidanzato. Dopo due anni, la storia è finita. Qualche anno fa, si è raccontata in un libro, con Cristina Obber, Siria mon amour (Piemme). Oggi, è mamma di Vittoria, 8 anni. «La relazione è finita perché Andrea temeva sempre che mi potessero portare via. Era una situazione insostenibile. Ciò che mi è accaduto ci ha cambiato entrambi. Ancora oggi sento di non aver metabolizzato ciò che è successo. Mi sembra avvenuto ieri. A volte, la notte sogno di essere portata via». Amani El Nasif non è l'unica ad essersi salvata. Manema, 35 anni, fuggita dall'Africa nel 2016 per evitare un matrimonio combinato, tramite Oxfam Italia ha trovato rifugio ad Arezzo. Latifa, marocchina classe 1981, è stata promessa sposa a otto anni a un amico del fratello, è giunta in Italia a 24 e qui ha incontrato per la prima volta il marito. Dopo dieci anni di violenze, ha trovato la forza per ribellarsi e crearsi una nuova vita a Noli. A Palermo, Le Onde onlus, al matrimonio combinato in Italia ha dedicato il report Matrifor, raccogliendo anche storie e punti di vista. Sopna, del Bangladesh, a proposito delle nozze forzate, commenta: «È una nostra cultura. Quando io dico di no allora mia madre dice: per me è stato così, per mia madre è stato così e sarà così pure per te. Se una dice di no o si rifiuta tutta la vita è rovinata. Però alcune volte viene bene e altre viene male». Nandhini, nata nel 2003 a Kalavai, in India, grazie all'intervento di Terres des Hommes, ha evitato un matrimonio combinato, ad appena 14 anni. Nel 2019, ha raccontato la sua storia in Italia. Dopo la morte della madre, è stata accolta con le sorelle dalla zia. «Mia zia decide di darmi in sposa a un uomo che ha il doppio dei miei anni, io 14, lui 28, supplico, piango, niente. La zia risponde che non riesce più a mantenermi, le amiche mi dicono che non abbiamo scelta». Nandhini, però, il giorno prima delle nozze, trova il coraggio di alzare il telefono e chiamare Childline 1098, numero verde per denunciare abusi sui minori attivato da Terre des Hommes in Tamil Nadu. Le rispondono che andranno a salvarla. Così è stato.
Flavia Amabile per "la Stampa" il 3 giugno 2021. «Pratiche tribali» è la definizione scelta da Yassine Lafram, presidente dell' Ucoii, l' Unione delle comunità islamiche italiane, per riferirsi ai matrimoni combinati. E su queste pratiche tribali che l' Unione in concerto con l' Associazione islamica degli imam e delle Guide religiose ha deciso di lanciare una fatwa, una condanna religiosa per prendere la distanze da tragedie come quella che si sospetta sia accaduta a Saman Abbas, 18 anni, scomparsa un mese fa da Novellara, un paese in provincia di Reggio Emilia. Da giorni le forze dell' ordine seguono l' ipotesi dell' omicidio deciso dai genitori per il rifiuto della ragazza di accettare un matrimonio combinato e setacciano serre e canali delle terre agricole con i cani molecolari per cercare il suo cadavere. I matrimoni combinati «non possono trovare alcuna giustificazione religiosa, quindi sono da condannare, e ancor di più da prevenire», sostiene Yassine Lafram. Nella fatwa si preciserà che «la donna è uguale all' uomo nella scelta del partner e che il suo consenso della donna è essenziale», aggiunge il presidente dell' Ucooi. «Fortunatamente - spiega - sono episodi che non hanno, per quanto a nostra conoscenza, un' estensione e una frequenza importanti ma sappiamo che all' interno di alcune comunità etniche persistono ancora situazioni e comportamenti lesivi dei diritti delle persone che l' Ucoii respinge con forza». E annuncia una fatwa al massimo entro oggi contro i matrimoni combinati, una seconda fatwa nei prossimi giorni contro l' infibulazione e progetti per la tutela dei diritti delle donne. La fatwa non ha alcuna conseguenza pratica ma «ha delle conseguenze teologiche. Sapere che un comportamento viene considerato illecito aiuta gli eventuali scettici a ritrovarsi nell' usanza in linea con la tradizione», sostiene Yassine Lafram. Secondo Souad Sbai, ex parlamentare del Pd, invece, si tratta di un «precedente pericoloso», si corre il rischio di «portare in Occidente le regole di un modello di vita che non ci appartiene. Nel frattempo proseguono le indagini. Secondo l'ultima ipotesi Saman Abbas potrebbe essere stata uccisa da uno zio. La ragazza, infatti, a novembre 2020, aveva chiesto aiuto agli assistenti sociali ed era stata allontanata dalla famiglia. Era rimasta fino all' 11 aprile in una comunità educativa. In base alle prime ricostruzioni, la situazione familiare si sarebbe aggravata tra la fine di aprile e l'inizio di maggio quando, dopo un litigio, la 18enne avrebbe seguito i familiari in un campo, luogo nel quale si ipotizza sia stata uccisa. A rivelare come sarebbero andate le cose, un fratello minorenne di Saman. Attualmente le persone iscritte nel registro degli indagati sarebbero cinque: i due genitori, uno zio e due cugini, uno dei quali è stato fermato a Nimes, in Francia, perché ritenuto responsabile, in concorso, dell'omicidio della ragazza e dell' occultamento del suo cadavere.
La fatwa su mutilazioni e matrimoni combinati fa litigare l'islam italiano. Alberto Giannoni il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. La scelta di Ucoii dopo il caso Saman. Ma i moderati: basta la legge. Sbai: "Scioccante". Una «fatwa» contro i matrimoni combinati e le mutilazioni genitali femminili. L'Unione delle Comunità islamiche d'Italia reagisce così al drammatico caso di Novellara (Reggio Emilia), dove da quasi un mese non si hanno notizie della giovanissima pakistana Saman Abbas, sulla cui sorte ormai ci sono purtroppo poche ben speranze. La diciottenne è scomparsa dalla casa di famiglia dopo aver rifiutato - anche con una denuncia ai servizi sociali - le nozze che il suo «clan» aveva combinato per lei con un cugino in Pakistan. Le ricerche della ragazza continuano incessanti e mentre la Procura ha aperto un'inchiesta per omicidio e occultamento di cadavere, gli indagati - tutti parenti - sarebbero già sei. Il caso della povera Saman non è il primo del genere nel nostro Paese. I precedenti più noti sono quelli di altre due giovani di origini pakistane che vivevano nel Bresciano: Hina Salem, uccisa dai familiari per il rifiuto delle imposizioni patriarcali e Sana Cheema, punita con la morte per la sua intenzione di vivere «all'occidentale», libera dai condizionamenti pseudo-religiosi del «clan» che la voleva sposata a un parente. Ma altre vicende simili sono state denunciate o scoperte, e tutte facevano riferimento a contesti familiari con logiche ferree di tipo etnico o pseudoreligioso, di matrice islamica. Così, per dare un segnale (a musulmani e non) e per prendere pubblicamente le distanze da certe pratiche tribali innestate su una subcultura integralista molto diffusa anche in Europa - e come si è visto anche in Italia - l'Ucoii ha diffuso questo comunicato stampa, annunciando l'intenzione di emettere una sorta di verdetto giuridico-religioso, di concerto con l'Associazione islamica degli Imam e delle Guide religiose. «Fortunatamente - dice l'Ucoii - sono episodi che non hanno, per quanto a nostra conoscenza, un'estensione e una frequenza importanti ma sappiamo che all'interno di alcune comunità etniche persistono ancora situazioni e comportamenti lesivi dei diritti delle persone». L'Ucoii afferma di «respingere con forza questo tipo di concezione della condizione femminile e in generale della vita delle persone: sono comportamenti che non possono trovare alcuna giustificazione religiosa, quindi assolutamente da condannare, e ancor di più da prevenire». Quindi «per rafforzare la sensibilizzazione e aumentare la prevenzione» annuncia che emetterà «una fatwa contro i matrimoni combinati forzati e l'altrettanto tribale usanza dell'infibulazione femminile» e al tempo stesso rigetta «qualsiasi speculazione politica di questa triste vicenda che mira ad infangare l'intera comunità islamica italiana». Apparentemente, la decisione dell'Ucoii è un passo che va nella direzione giusta, ma lo strumento prescelto è controverso. Una «fatwa», infatti, sembra aprire le porte a una sorta di ordinamento speciale che vige per i fedeli musulmani, confondendo il piano civile e il piano religioso, nel quale oltretutto non esiste un'unica autorità: l'Ucoii è solo una delle sigle esistenti, e non pare neanche maggioritaria, per quanto sia molto visibile. «In Italia i musulmani devono seguire l'ordinamento giuridico - commenta Yahya Pallavicini, leader della Coreis e imam della piccola moschea di via Meda a Milano - non sfruttare fatti di cronaca e tribalismo per costruirne uno parallelo». «La notizia dell'emissione di una fatwa da parte dell'Ucoii è a dir poco scioccante - commenta anche Souad Sbai, già parlamentare Pdl e presidente del Centro studi Averroè - Nel 2021, in Italia, culla della civiltà e del diritto, un atto del genere è inammissibile».
Saman Abbas, perché la tragica vicenda della ragazza "scomparsa" dimostra che la nostra cultura è più evoluta. Giuseppe Valditara su Libero Quotidiano il 7 giugno 2021. Il caso di Saman Abbas ha riproposto nel dibattito una questione più generale: il confronto fra civiltà. Prendo come esempio le parole di Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 6 giugno: «Questa storia è dunque l'occasione per guardarci in faccia. Senza assurde pretese di superiorità in un Paese che per tre secoli ha bruciato le streghe». Torna l'idea che non esistano differenze fra culture, che in fondo tutte le civiltà hanno del buono e del cattivo. E che l'unica cosa buona alla fine è la nostra costituzione. Non a caso nel pezzo viene citato l'articolo 3 sull'uguaglianza di tutti gli esseri umani. Ritengo invece sbagliata questa prospettiva, perché non favorisce il radicarsi di una piena consapevolezza proprio del significato dei nostri valori costituzionali che non nascono per caso. Nel nostro passato ci sono le streghe bruciate, ma ci sono anche la tratta degli schiavi, le teorie razziste di vari antropologi, il colonialismo, l'olocausto, e - perché no? - il comunismo. In verità sono fenomeni che si ritrovano in ogni civiltà. Rituali di morte verso persone "negative" e persino sacrifici umani esistono nelle culture africane, amerinde, asiatiche. La tratta degli schiavi è stata praticata innanzitutto dagli arabi; trafficanti e complici erano pure i notabili dei vari regni africani che offrivano la "merce". Non vi è poi civiltà antica che non abbia conosciuto la schiavitù, non foss' altro perché era necessaria nell'economia del tempo. Il razzismo scientifico si ritrova in Occidente solo perché in Occidente si è affermata la scienza moderna e l'evoluzionismo, teoria credibile, ma che nell'Ottocento e nella prima metà del Novecento è stata strumentalizzata portandola a conseguenze moralmente inaccettabili. L'odio o il timore verso lo straniero cosi come la volontà di dominazione e di conquista sono sempre esistiti presso ogni popolo. L'espansionismo turco o giapponese, ola conquista islamica non sono per molti tratti paragonabili al colonialismo europeo? Infine il nazismo rivendicava il rifiuto del cristianesimo, del diritto romano, dell'illuminismo, in nome del ritorno al paganesimo e alle usanze dei popoli germanici. I genocidi sono purtroppo assai frequenti nella storia dell'umanità, di qualche decennio precedente a quello degli ebrei ci fu quello degli armeni attuato dagli Ottomani. Quanto al comunismo, odio di classe e violenza si ritrovano presso ogni passaggio della storia umana. Se dunque la civiltà Occidentale non ha nel suo passato colpe "che solo essa ha", è tuttavia l'unica civiltà che quel passato ha messo sotto accusa in un processo collettivo che dura ormai da decenni e che ha portato a carte dei diritti e a costituzioni che mirano apre venire quelle tragedie. Ciò non è avvenuto a caso. A differenza di molte altre culture e civiltà, vi sono alcuni momenti chiave nella nostra storia che mancano altrove e di cui occorre invece esserne ben consapevoli. Il concetto di persona, della sua sacralità e della sua centralità giuridica nasce a Roma, riceve un contributo fondamentale nel suo evolversi dal pensiero stoico di origine greca, viene esaltato dal cristianesimo. Il concetto di humanitas è uno dei frutti più importanti del pensiero filosofico romano, prende le mosse nel circolo degli Scipioni, ispirata dalle dottrine di Panezio, trova nelle pagine di Cicerone passaggi fondamentali. La buona fede era per i Romani non solo un comportamento diffuso, ma il tratto stesso dell'intero ordinamento giuridico. E la fides veniva considerata un tratto identitario di Roma persino dal popolo ebraico. La libertà è concetto greco e romano pressoché sconosciuto nel resto del mondo antico. Nei Vangeli viene predicato l'amore fra tutti gli uomini come pilastro di una nuova società, e il perdono anche del nemico è lo strumento per affermare quell'amore assoluto. Di fronte alla dimenticanza di questi principi dovuta alla naturale presenza del male nella natura umana, il liberalismo anglosassone e l'illuminismo hanno ribadito la centralità dei valori della vita e della libertà, l'importanza della ragione contro le superstizioni, i presupposti dello stato di diritto contro l'arbitrio e la sopraffazione, la laicità delle istituzioni. Il socialismo ha ripreso tendenze umanitarie, solidaristiche, ha sviluppato ideali pacifisti. Tutto questo ha formato la cultura che si definisce, pur in vario modo, come "occidentale" perché è nata e si è sviluppata in quella parte dell'emisfero considerata Occidente. C'è un equivoco, tuttavia. Togliamoci dalla mente l'idea falsa, che un certo becero rivendicazionismo terzomondista afferma, della identificazione della civiltà occidentale con la "razza" bianca. Non è una civiltà "bianca" e tantomeno è una civiltà europea. È una civiltà universale. Cristo nasce in una famiglia semita, e gli evangelisti sono culturalmente ben radicati nel mondo giudaico, santi e pensatori "occidentali" sono stati africani e asiatici. Penso a sant' Agostino, solo per citarne uno. Se tuttavia non avessimo la consapevolezza di queste fondamenta culturali, della loro unicità e importanza, se pensassimo che possiamo dimenticarle in nome di un banale politicamente corretto che vuole eguali tutte le culture, e che può pretendere di cancellare lo studio dei classici e della tradizione cristiana dalle nostre scuole, rischieremmo di buttare a mare millenni di sforzi che pur con tutte le contraddizioni e gli errori hanno prodotto la consapevolezza della sacralità della persona umana e della intangibilità dei suoi diritti fondamentali.
Dritto e rovescio, Giuseppe Cruciani contro l'imam: "Saman Abbas? Questo è un vostro problema, è l'Islam". Libero Quotidiano il 04 giugno 2021. Il caso Saman Abbas tiene banco anche a Dritto e rovescio su Rete 4. Paolo Del Debbio mostra il video choc del presunto "funerale senza salma" condiviso dal padre della ragazza di origine pachistana scomparsa da Novellara, Reggio Emilia, e che secondo gli inquirenti potrebbe essere stata uccisa dai parenti per aver rifiutato un matrimonio combinato con il cugino. "La vicenda drammatica sottolinea Giuseppe Cruciani, in studio - è stata vissuta nel silenzio totale delle esponenti del femminismo italiano, non è il caso di Karima Moual (la giornalista italo-marocchina anche lei ospite di Del Debbio, ndr), dalle persone che tendono sempre a difendere i diritti delle donne non mi sembra che si siano sentite grandi cose". Poi rivolgendosi a un imam seduto di fronte a lui, il conduttore de La Zanzara su Radio 24 va dritto al punto. "La seconda cosa: io credo assolutamente alla maniera in cui lei vive l'Islam, ma non bisogna negare una cosa. Quello che è avvenuto è roba vostra, è accaduto dentro le vostre comunità, riguarda l'Islam e la religione islamica. Lei lo sa benissimo: non bisogna negarla, non avverrà nella sua comunità e nella sua famiglia, ma è roba che viene dalla vostra religione. Oggi il problema in Italia non riguarda altre religioni, ma l'Islam, e non lo dico perché sono islamofobo. Non si possono fare paragoni con il patriarcato o la religione cattolica". "Questi crimini avvengono dentro la società - prova a ribattere Sami Salem, imam della Moschea della Magliana di Roma -, anche con cattolici, ebrei...". "No - replica secco Cruciani -, questi crimini si riferiscono alla religione islamica, il problema della sottomissione della donna è un problema dell'Islam". "Sono problemi delle usanze, non dell'Islam", è il distinguo di Sami Salem. "Ma come si fa a negare che riguardi l'Islam?", domanda un Cruciani sconcertato.
Il pentimento di Vauro: finalmente bacchetta la sinistra. Daniele Dell'Orco l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. Il vignettista attacca la sua fazione politica per la superficialità con cui cavalca i drammi come quello di Saman Abbas ma senza proporre soluzioni concrete. Ne ha per tutti Vauro Senesi, a cominciare dalla "sua" sinistra, che sulla tragica vicenda di Saman Abbas, la 18enne pakistana uccisa dai familiari nei campi di Novellara, altro non riesce a fare che indignarsi in modo sterile. "La cosiddetta sinistra è insufficiente in tutto - dice all'AdnKronos -. Ma non guardo con simpatia alle gare di indignazione, indecenti, pelose ed ipocrite. Credo più nelle soluzioni strutturali, nelle denunce e nella organizzazione sociale. Questa ragazza ha chiesto soccorso. E probabilmente con maggiore efficienza ed attenzione poteva essere salvata". Invece, solo una volta che i drammi sono compiuti, spesso accostati gli uni agli altri, comincia la solita escalation di indignazione e di discorsi triti che per la sinistra si concludono tutti con la necessità di più integrazione, più tolleranza, più educazione civica. Senza soluzioni reali. "Visto questo macabro gioco a mettere cadaveri sulle bilance - prosegue Vauro - di educazione civica ne avrebbero bisogno non solo alcuni immigrati pachistani ma anche diversi opinionisti e politici italiani. È la politica che deve creare la consapevolezza, i luoghi, le occasioni, le strutture. La gara all'indignazione è quella alle code di paglia e parlo di tutti". Insomma, la politica in generale, e la sinistra in particolare, staziona lontanissima dai temi di cui prova a parlare quando qualcuno finisce sulle pagine di cronaca nera. Ma, oltre a dover avere la maturità giusta per non mettere nel calderone storie diversissime tra loro quando non a strumentalizzarle del tutto per i propri scopi (come accaduto per Seid Visin), la politica dovrebbe analizzare il retroterra culturale e sociale che produce certi drammi e proporre programmi che possano cambiare le cose. "Occorre un impegno sociale e politico, nella direzione di un'educazione civica finalizzata ad integrare, non a ghettizzare o a consentire l'auto-ghettizzazione. Non credo che il dramma di tante Saman si risolva a chi manifesta meglio la propria indignazione. Ma intervenendo. Chi d'altronde non disapproverebbe una tragedia simile?". Lo ha capito persino Vauro.
Luca Ricolfi sul caso di Saman Abbas: "Se ne parla poco? La sinistra ha sempre un occhio di riguardo per l'islam. Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Non sembra sollecitare troppo interesse la triste storia di Saman Abbas, la ragazza sparita a Novellara, a una ventina di chilometri da Reggio Emilia. Il silenzio della sinistra e delle associazioni che si occupano dei diritti delle donne si fa sempre più assordante, ma qual è il motivo di questo silenzio? C'è "una ragione buona e una cattiva" suppone il sociologo Luca Ricolfi, intervistato da Il Giorno. "La ragione buona è che, al momento, non si sa come siano andate effettivamente le cose, e neppure se la ragazza pachistana sia viva o morta. La ragione cattiva è che la sinistra ha un occhio di riguardo per l'Islam, e teme che i lati più imbarazzanti di quella cultura, e in particolare il suo modo di trattare la donna, compromettano il progetto politico di diventare i rappresentanti elettorali di quel mondo, grazie all'allargamento del diritto di voto agli immigrati". "Temo che anche se vi fosse la certezza che Saman è stata uccisa dai familiari, un velo pietoso verrebbe steso sulla vicenda, meno interessante di quella di qualche aspirante attrice molestata da registi o produttori". Il sociologo spiega poi il ruolo del "politicamente corretto" all'interno della questione: "È paradossale, ma il politicamente corretto - nato per combattere le discriminazioni - sta diventando, oggi, uno dei meccanismi attraverso cui passano nuove e meno visibili forme di discriminazione". "Concedendo una protezione speciale a una serie di presunte minoranze (l'Islam è solo una di esse)" spiega l'accademico "si finisce per attenuare le garanzie e indebolire le tutele nei confronti di quanti hanno la sola colpa di non far parte di alcuna categoria protetta". "Non solo" sottolinea Ricolfi "ma si viene a instaurare una sorta di presunzione di innocenza, o di responsabilità attenuata, per chiunque commetta reati ma abbia il vantaggio di far parte di una categoria protetta. Con tanti saluti al principio per cui dovremmo essere giudicati per quel che facciamo, non per quello che siamo". L'integrazione dovrebbe contemplare l'obbligo di rispettare i diritti umani. "Altrimenti non è integrazione, ma mera concessione (agli stranieri) di spazi di impunità cui nessuna comunità nazionale può aspirare (salvo forse alcune sette religiose semi-clandestine). Bisogna ammettere però, che da oltre mezzo secolo (più o meno dall'era delle decolonizzazioni), questo è un nodo irrisolto della cultura occidentale, e di quella europea in particolare" sostiene Ricolfi. "Se da bravo antropologo, aperto e non eurocentrico, dici che ogni cultura va giudicata con i suoi metri e non con quelli di un'altra, se continui a proclamare che 'loro' non sono primitivi ma solo diversi da noi, e che ogni usanza, rito o costume ha la sua dignità e la sua ragion d'essere, esercizio in cui la civiltà occidentale si è prodigata per decenni e decenni, se fai tutto questo, beh, allora è un po' difficilino pretendere che loro rispettino i diritti umani, che in fondo non sono verità rivelate, ma un costrutto contingente e "storicamente determinato" (così avrebbe detto Marx) della nostra civiltà occidentale" spiega il sociologo. E per quanto riguarda alcune tradizioni islamiche, come l'infibulazione delle ragazze e l'obbligo di sposare giovani scelti dalle famiglie? "Il problema è che noi non abbiamo il coraggio di dirgli la verità, ovvero quel che davvero la maggior parte di noi pensa: e cioè che, per noi, certi loro costumi sono barbari. E che se vogliono vivere con noi possono mangiare quel che vogliono, pregare il Dio che gli pare, vestirsi come gli aggrada, ma non può esserci alcun comportamento che sia proibito a un italiano e permesso a loro" conclude Luca Ricolfi.
"La sinistra tace sull'Islam...". Ora nel Pd è tutti contro tutti. Alessandro Imperiali il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Finalmente il silenzio della sinistra sulla scomparsa di Saman Abbas si interrompe. Parla Marwa Mahmoud, consigliere Pd a Reggio Emilia, e conferma la teoria del sociologo Luca Ricolfi. La sinistra resta colpevolmente in silenzio di fronte alla scomparsa di Saman Abbas. Un'interrogazione in commissione esteri al ministro Luigi Di Maio riguardo "quali urgenti iniziative politiche intende assumere" e nulla più. O quasi. L'unica ad uscire pubblicamente sulla questione e squarciare il silenzio nelle fila dem è Marwa Mahmoud, donna musulmana, nata ad Alessandria d'Egitto e trasferitasi da molto piccola prima a Modena e poi a Reggio Emilia. Dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana, è stata eletta come consigliere comunale tra le fila del Partito Democratico a Reggio Emilia, la provincia dove, tra l'altro, da più di un mese è ricercata Saman, la giovane pachistana. È proprio Marwa a parlare di quest'ultima questione, su La Nazione. Quando le viene chiesto il perché la sinistra tacesse sui diritti negati alle donne islamiche, risponde: "Da parte nostra c'è timore a intervenire su questi temi. Negli ultimi vent'anni c'è stata sottovalutazione. Parliamone. Mettiamoci la faccia. Io, da musulmana e da consigliera Pd, per prima". Sostanzialmente conferma la teoria del sociologo Luca Ricolfi il quale sostiene: "La sinistra teme che i lati più imbarazzanti di quella cultura, e in particolare il suo modo di trattare la donna, compromettano il progetto politico di diventare i rappresentanti elettorali di quel mondo, grazie all'allargamento del diritto di voto agli immigrati". Così facendo, sempre secondo Ricolfi, in nome del politicamente corretto "si viene a instaurare una sorta di presunzione di innocenza, o di responsabilità attenuata, per chiunque commetta reati ma abbia il vantaggio di far parte di una categoria "protetta"". Un "occhio di riguardo" sulla questione che imbarazza e non poco proprio Marwa: "Sono temi delicati e complessi se non si hanno basi antropologiche solide. C'è paura di essere strumentalizzati e additati come razzisti. Si è tergiversato troppo preferendo agire con paternalismo, assistenzialismo e accoglienza. Che, sia chiaro, va bene. Ma non basta. Tutto il resto è diventato tabù, come la mutilazione ai genitali femminili per esempio". Marwa è molto critica anche sui matrimoni forzati che fanno parte di "un mondo sommerso che va scardinato". L'unico modo per poterlo fare è appellarsi "ai diritti umani". Dal suo punto di vista: "In Italia il tema non è mai stato trattato in modo sistemico, ma solo a livello politico ideologico come nel caso di Hina Saleem. Non è sufficiente aver inserito il reato nel codice penale". E aggiunge: "Occorre una risposta integrata che passa dall'educazione ai servizi territoriali, alle forze dell'ordine. Non si risolve tutto allontanando la vittima in una comunità protetta. E il caso Saman insegna: è tornata a casa. I figli cercano sempre di recuperare i rapporti con la famiglia". È necessario, dunque, "andare nelle comunità e nei luoghi di culto, spiegando che nessuno può essere costretto a sposarsi e che non deve essere visto come un disonore ricevere un "no"". L'unica soluzione possibile, quindi, secondo lei, è "muoversi entro la cornice dei diritti umani e della Costituzione".
Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che riguarda il terzo settore. Collaboro con ilGiornale.it da gennaio 2021 e con Rivista Contrasti. Ho tre credo nella vita: Dio, l’Italia e la…
Mattia Cialini per arezzonotizie.it l'11 giugno 2021. "Mi sono dimessa dalla commissione Pari Opportunità, sono uno spirito libero e l'uso di una terminologia soft non è nelle mie corde. Ho usato parole incompatibili con un incarico istituzionale". Dalle frequenze di Radio Effe Rossella Angiolini annuncia le proprie dimissioni dopo le polemiche nate a seguito del suo post facebook, in cui aveva scritto: "Delitto di Saman, ma quelle zoccole femministe di sinistra dove sono?". Intervistata dal collega Massimo Pucci, Angiolini ha detto: "La presidente della Provincia Silvia Chiassai non ha chiesto le mie dimissioni, sono io che ho insistito. Non volevo metterla in difficoltà. Era giusto e corretto fare così, lei era dispiaciuta della mia scelta". Anche se poi in un post di questa mattina, la presidente della Provincia e sindaca di Montevarchi ha scritto: "Le ho chiesto io, responsabilmente, di dare le dimissioni dal ruolo che occupa".
Il post facebook sulle "zoccole femministe di sinistra". Tutto è nato da una pubblicazione sul proprio profilo facebook di un giorno e mezzo fa. Rossella Angiolini, avvocata e insegnante che corse nel 2006 per il centrodestra come sindaca di Arezzo in contrapposizione a Giuseppe Fanfani, da un paio di anni ricopre il ruolo di presidente della commissione Pari Opportunità della Provincia di Arezzo, scelta dalla presidente dell'ente Silvia Chiassai. Nel post si richiama la tragedia di Saman, la ragazza di origine pakistana e residente a Novellara (Reggio Emilia), che è scomparsa dopo aver rifiutato un matrimonio combinato. Gli inquirenti sospettano che siano stati parenti a ucciderla, proprio per aver rifiutato le nozze imposte. Secondo Angiolini si sarebbero viste poche prese di posizione sul caso nell'alveo politico di sinistra e per lamentarsi della cosa ha usato parole sessiste: "ma quelle zoccole di femministe di sinistra dove sono?". Proprio lei che era, fino a quel momento, presidente della commissione Pari Opportunità. Il post ha raccolto peraltro numerosi commenti di sostegno, ma parallelamente è sorta l'indignazione e la conseguente richiesta di dimissioni.
La bufera social. Sul caso, in breve esondato dall'ambito provinciale, è intervenuta ieri anche la giornalista Selvaggia Lucarelli, riportando il post originale ha scritto: "Rossella Angiolini, presidente della commissione per le pari opportunità della Provincia di Arezzo, avvocata, candidata sindaca di Arezzo nel 2006 per il centrodestra. Anche duchessa, a quanto pare". Tra le prime dichiarazioni di denuncia quella del segretario della federazione del Pd di Arezzo Francesco Ruscelli: "Mi chiedo se questo linguaggio, gravemente sessista, possa essere utilizzato dalla presidente della commissione provinciale pari opportunità e soprattutto se una persona che utilizza questo linguaggio possa continuare a rivestire quel ruolo". A stretto giro di posta è arrivata la presa di posizione di Silvia Russo, segretaria Cisl di Arezzo: "Sono consigliera di parità da 4 anni e segretaria generale della Cisl di Arezzo. Non posso essere annoverata come femminista di sinistra, né come femminista di destra. Sono fortemente "femminilista", schieratissima contro ogni forma di violenza sulle donne, che purtroppo non ha pregiudizi politici di nessun colore. Stasera però mi sento più triste perché la presidente provinciale del comitato pari opportunità certi epiteti non può permetterseli. Mai! #Siamotuttezoccole". E anche la sindaca di Talla Eleonora Ducci è intervenuta: "Da consigliera provinciale e componente della commissione non posso che chiedere le dimissioni di Rossella Angiolini o la sua rimozione da parte della residente della Provincia che l'ha nominata in questo importante ruolo. Il fatto è intollerabile. Provvederò domani stesso a inviare una lettera a Chiassai".
Mugnai (Cgil): "Sdoganato il sessismo. Ora si potrà dare della zoccola?" C'è poi il commento di Alessandro Mugnai, segretario Cgil: "Avvocata, insegnante, presidente della Commissione pari opportunità. Non una qualsiasi militante di destra. Non una qualsiasi leonessa della tastiera. E’ una donna che può aprire strade e sdoganare linguaggi e comportanti. Perché un giovane non potrà dare della zoccola ad una coetanea visto che questa parola viene usata dalla presidente della Commissione pari opportunità? Perché uno studente non potrà definire zoccola un’insegnante che gli ha dato un brutto voto, visto che un’insegnante ha pubblicamente usato questa parola? E non mi permetto di entrare nei riflessi penali che può avere il dare della zoccola ad una donna che ha un pensiero divergente dal suo". Quindi l'appello alla presidente della Provincia, Silvia Chiassai: "Se condivide quanto detto da Angiolini, la tenga al suo posto e condivida con lei tutte le responsabilità. In caso contrario, le revochi il mandato. A lei la scelta. Infine un’ammissione personale di angoscia: tutto questo nasce in seguito all’omicidio di una giovane donna che voleva semplicemente vivere libera. Forse chi l’ha uccisa, nella sua mente ha usato la stessa parola di cui parliamo oggi rivolgendosi alla vittima. Dovremmo pensare a Saman e alle ragazze come lei ma stiamo facendo altro. Strano e preoccupante paese, il nostro".
La formale richiesta di dimissioni. Una slavina, tanto che ieri sera la conferenza provinciale delle donne democratiche ha inviato alla presidente della Provincia di Arezzo, Silvia Chiassai Martini, una lettera con la quale veniva chiesta la revoca dell’incarico a Rossella Angiolini. "Abbiamo letto le sue parole nel post che ha pubblicato su Fb - hanno scritto Donella Mattesini e Alessandra Nocciolini - parole di una violenza inaudita, non solo scritte nel post, ma ribadite dalla stessa Angiolini nelle risposte al post stesso , altrettanto violente, che sono rivolte alle “zoccole femministe di sinistra” come ci ha definito, ma che in realtà offendono tutte le donne e disegnano una deriva pericolosa in cui la libertà di pensiero lascia il posto all’arroganza, al buio dell’inciviltà e della becera strumentalizzazione politica. Per non parlare del livello degli oltre 240 commenti sottostanti, che usano lo stesso livello di violenza e sessismo. Ci domandiamo come può la Presidente di una Commissione provinciale per le pari opportunità svolgere tale ruolo essendo essa stessa protagonista di linguaggi e contenuti discriminatori e sessisti. Come può una avvocata che dovrebbe osservare dignità, decoro per salvaguardare l’immagine della professione forense, scrivere un post così? Come può una insegnante svolgere un ruolo educativo quando scrive frasi così violente? Come può una persona “usare” la tragedia di Saman per puri scopi politici? Una politica becera, violenta che uccide Saman una altra volta. Una politica che non si ferma neanche di fronte al dolore della morte di una ragazza che voleva scegliere la propria vita. Una caduta di stile? No, questo è il vero volto di una certa destra, non di tutta. È per questo che ci aspettiamo prese di distanza dalle parole di Angiolini e anche la remissione del suo incarico".
Azione rincara la dose. Nella notte, anche Azione Arezzo è intervenuta con un comunicato parlando di violenza verbale "inaudita". "Non ha alcun senso - si legge nella nota inviata alla stampa - avallare un messaggio politico apparentemente a tutela di una donna, Saman, attraverso l’uso di stereotipi femminili ad alto contenuto denigratorio contro altre donne. La comunicazione politica finalizzata alla contestazione della cultura dell’accoglienza e della gestione dell’immigrazione, come quella espressa attraverso il post, ha quale fine quello di consolidare una politica di odio e di scontro. A fronte del gravissimo messaggio relativo ad un contesto femminile dove si mettono a contrasto per scopi di propaganda elettorale donne vittime di violenza con donne che hanno sempre lottato per contrastare questa violenza, Arezzo in Azione chiede che Rossella Angiolini di dimetta immediatamente dal suo ruolo pubblico di presidente della commissione pari opportunità della Provincia di Arezzo e che tale esito, difettando l’iniziativa personale della Angiolini, sia comunque immediatamente preteso dalla presidente della Provincia che l’ha nominata Silvia Chiassai Martini".
L'annuncio del passo indietro. E stamani, infine, è arrivato il passo indietro di Rossella Angiolini. "Le dirò che io sono molto dispiaciuta di essermi fatta prendere dalla rabbia - ha detto a Massimo Pucci su Radio Effe - chiedo scusa a tutte le donne che si sono sentite offese, è montata la rabbia per un omicidio per cui non ho visto alcuna manifestazione, rispetto a quelle per il Ddl Zan o quelle fatte in ginocchio nei mesi scorsi". Il riferimento è alle manifestazioni a seguito della morte di George Floyd in America. "La stampa ha avuto una grande attenzione, ma non chiedo scusa alle femministe di sinistra. Per Saman ci sono state prese di posizione molto fredde e molto contenute a sinistra. Sollevazione popolare non c'è stata".
Chiassai: "Ho chiesto ad Angiolini di dare le dimissioni". Questa mattina è arrivato un lungo post facebook di Silvia Chiassai Martini sull'episodio, pubblicato sul suo profilo istituzionale di sindaco di Montevarchi. E ha parlato in qualità di presidente della Provincia spiegando che "il comportamento" di Rossella Angiolini nella circostanza è "inaccettabile ed è per questo motivo che le ho chiesto responsabilmente di dare le dimissioni dal ruolo che occupa". Si tratta però della conclusione di un lungo intervento, che dedica poche righe alla questione del linguaggio sessista, per concentrarsi sul delitto Saman, ribadendo, in sostanza, quanto detto da Angiolini, con altre parole. "Non ho sentito nessuno in questi giorni indignarsi per Saman, una ragazza 18enne pakistana sparita nel nulla da oltre un mese, sulla cui scomparsa gli inquirenti sono ormai certi che si tratti di omicidio premeditato. Una giovane donna, vittima della sua famiglia, dell'integralismo, della assenza di libertà, di matrimoni combinati. Una vicenda raccapricciante di una ragazza sola contro una cultura che considera le donne come merce di scambio senza dignità. Una cultura che può arrivare perfino ad uccidere se non si rispettano quelle regole, con l'incapacità di integrarsi. Il silenzio su questa vicenda da parte della politica è stato evidente perché non possono esserci casi dove indignarsi e altri dove indignarsi di meno per non dare 'ragione' a chi sostiene la necessità di condannare e di non tollerare 'culture' della violenza". E poi la chiosa: "Su Rossella Angiolini - ha concluso Chiassai - il linguaggio da lei utilizzato è inaccettabile, ma non ho sentito nessuno di quelli che oggi pubblicamente si indignano, indignarsi per Saman che resta una vittima. Non ci si può indignare ad orologeria. Su le offese a Giorgia Meloni la politica non si è espressa a sostegno, anzi, oggi invece vedo attivarsi e tornare a parlare contro Angiolini, il cui comportamento resta inaccettabile ed è per questo motivo che le ho chiesto responsabilmente di dare le dimissioni dal ruolo che occupa". Successivamente, attraverso una nota stampa diffusa dalla Provincia, Chiassai ha aggiunto: "Mi preme anche precisare che appena diventata presidente della Provincia ho voluto fortemente ricostituire la commissione Pari Opportunità che per anni era stata soppressa, tanta era l’attenzione dei miei predecessori verso le donne”. Infine l'epilogo, come spiegato dalla Provincia: "Le dimissioni da parte di Rosella Angiolini dall’incarico di presidente della commissione Pari Opportunità sono già pervenute questa mattina alla presidente della Provincia Silvia Chiassai Martini".
La condanna delle Acli: In giornata si è aggiunto il commento delle Acli di Arezzo: "Il linguaggio istituzionale deve ritrovare dignità ed etica: questa urgenza è evidenziata dalle Acli provinciali di Arezzo in seguito all’agghiacciante dichiarazione di Rossella Angiolini relativa al delitto di Saman. L’associazione, preso atto delle dimissioni della stessa Angiolini dal proprio ruolo alla guida della Commissione Pari Opportunità, da tempo evidenzia il degrado della comunicazione da parte di soggetti con ruoli politici e istituzionali aggravato ancor di più dall’utilizzo dei social network su cui spesso i pensieri vengono condivisi senza filtro. La dimostrazione più recente e più grave arriva proprio dal linguaggio e dai concetti espressi sul caso Saman da parte dell’avvocato Angiolini che sono caratterizzati da sessismo e che risultano fortemente lesivi della dignità delle donne, con messaggi diametralmente opposti a quello che dovrebbe essere lo scopo della commissione Pari Opportunità di rimozione di comportamenti discriminatori e sessisti. Le Acli ribadiscono la necessità delle istituzioni di ogni grado (politiche, sociali, sindacali ed economiche) di tornare ad essere un punto di riferimento anche etico e morale del territorio a partire dalla comunicazione, acquisendo credibilità e recuperando il ruolo di esempio per le giovani generazioni".
"Troppo silenzio sul caso. Razzismo delle femministe". Manila Alfano l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. Il "mea culpa" della giornalista: "Fosse stata una ragazza italiana ne avremmo parlato molto di più". Ha puntato il dito perché attorno alla storia di Saman ha sentito troppo silenzio. Ma prima lo ha puntato contro se stessa. «Niente giustifica noi femministe» ha scritto in un lungo post su Facebook. Delusa e scandalizzata, così si è sentita Ritanna Armeni, classe 1947, giornalista e scrittrice, che di battaglie femministe ne ha fatte tante e che continua a interrogarsi sul movimento di liberazione della donna, lo ha fatto anche con il suo ultimo libro, Per strada è la felicità (Ponte alle Grazie).
Cosa le ha dato fastidio nella storia di Saman?
«Il non trovare il dramma. Che la storia di una ragazza di diciotto anni scomparsa, probabilmente uccisa dalla sua stessa famiglia, sia passata così, senza clamore, come una notizia normale. Ma incolpo anche me stessa, e lo dico con grande umiltà. Sento ancora il rimorso per non aver detto nulla».
Perché questo silenzio?
«Razzismo. Un sottile razzismo è scattato in me come in molte di noi».
Non mi dica che lei è razzista...
«Credo che inconsciamente lo siamo un po' tutti. Certo, se me lo domandassero risponderei di no, ovvio che non sono razzista. Eppure esistono dei condizionamenti sociali che entrano in gioco quando meno ce lo aspettiamo. Quando ho letto della sua storia, dentro di me non è scattato nulla. Come se non mi riguardasse. Come se fosse altro dalla mia vita. Come se avesse a che fare solo e soltanto con il modo di vivere di questa famiglia di immigrati».
Se fosse stata italiana non sarebbe successo?
«Credo proprio di no. Anzi, avremmo parlato di femminicidio. Con lei no. Come se per lei la parola non dovesse essere scomodata. Terribile».
Eppure non che il femminicidio non sia una piaga nel nostro Paese...
«Eppure qualcosa sta cambiando. Culturalmente intendo. Le donne continuano a essere uccise ma nessuno osa più dire che lui l'ha fatto per amore. Le parole cambiano la cultura, cambiano l'essere umano. E noi femministe serviamo anche a questo. A squarciare il velo. A far riflettere su cose che ci sembrano normali, ma che di normale non hanno niente».
Perché una femminista si dovrebbe sentire più in colpa?
«Questa ragazza voleva quella libertà che il nostro mondo occidentale le aveva mostrato e offerto. Poi l'abbiamo lasciata sola. Eppure in Italia abbiamo dovuto attendere fino al 1981 per buttare nel cestino il delitto d'onore. Se le femministe, e le donne in generale, non riescono a vedere uno stretto collegamento tra la battaglia per i loro diritti e la morte di una ragazza che voleva difendere la sua libertà, allora abbiamo perso qualcosa di fondamentale per strada».
Cosa è successo alle femministe?
«Purtroppo credo che la battaglia delle donne si sia ristretta alle proprie ragioni».
Le femministe di oggi sono più egoiste di ieri?
«Rinchiuse nella difesa delle nostre libertà abbiamo perso di vista il resto. Noi lottiamo per temi sacrosanti e terribilmente seri: le molestie, la parità di genere, il divario salariale. Ma in questo dibattito occorre trovare uno spazio anche per storie così drammatiche come quelle di Saman. Perché invece nessuna ne ha parlato? Perché si racconta il fatto senza scavare come se fosse un quadretto da lasciare così, senza scavare a fondo?».
Abbiamo forse perso la speranza di integrazione?
«Ci sono stati altri casi purtroppo in Italia. La storia di Hina Saleem ad esempio, uccisa nel 2006 dal padre che non la accettava perché voleva vivere da occidentale, ma allora c'era stata una attenzione diversa. Noi dobbiamo tornare a farci domande».
"Saman? A sinistra femministe a giorni alterni", "E per la destra son tutti cattivi". Francesco Curridori il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. Per la rubrica Il bianco e il nero, sul caso di Saman Abbas, abbiamo intervistato la deputata dem Lia Quartapelle e la forzista Gabriella Giammanco. Fa ancora discutere caso di Saman Abbas, la 18enne d'origine pachistana scomparsa da un mese dopo essersi rifiutata di accettare un matrimonio combinato. Per la rubrica Il bianco e il nero, su questo tema, abbiamo intervistato la deputata dem Lia Quartapelle e la forzista Gabriella Giammanco.
Cosa pensa del caso Saman?
Giammanco: "Una tragedia, una storia terribile ma più comune di quanto si immagini. Sono tante le giovani donne vittime di violenza di matrice islamica, costrette a sposarsi dalla famiglia che sceglie per loro il futuro marito. Se si ribellano a un matrimonio combinato vengono rapite o, addirittura, uccise. Ricordo il caso di Hina, a cui il padre tolse brutalmente la vita perché voleva vivere da occidentale, o la terribile fine di Sanaa, uccisa perché voleva sposare un italiano. C’è da chiedersi quante siano in realtà le storie di costrizioni e soprusi sommerse...L’Italia dovrebbe aprire una seria indagine su questo fenomeno, per capirne la portata e mettere a punto misure efficaci per contrastarlo".
Quartapelle: "Continuo a sperare, anche contro l’accumularsi di notizie, che Saman sia ancora viva. È un crimine orrendo, contro natura, quello che porta dei genitori a uccidere la figlia per tutelare il proprio onore. Spero che la storia di Saman finisca in modo diverso dalla storia di Hina Saleem, la ragazza di origine pachistana uccisa in provincia di Brescia nel 2006 dai parenti per essersi sottratta a un matrimonio combinato, o di Sana Cheema, la ragazza italo-pachistana uccisa nel 2018 in Pakistan dopo aver rifiutato un matrimonio combinato".
Perché le femministe si stracciano le vesti sul sessismo, sulla Rai e altro, ma tacciono su questo tema?
Giammanco: "Evidentemente sono femministe a giorni alterni. C’è molta ipocrisia, si glissa su eventi così gravi ma si grida allo scandalo per questioni insignificanti. Il testo di una canzone o un complimento suscitano indignazione ma sarebbe bene guardare alla sostanza più che alla forma. La difesa dei diritti non dovrebbe avere colore politico né etichette. Femministe o meno, dovremmo difendere le donne oppresse dall’estremismo islamico. In nome di questa religione si diventa ciechi. Si commettono attacchi terroristici, si uccidono persone innocenti, si considerano le donne schiave degli uomini e se ne calpesta la volontà. Alcune donne, ho notato con sconforto, sono arrivate a fare apologia del burqa perché lo considerano espressione di libertà quando, al contrario, è simbolo dell’oppressione per eccellenza. Oriana Fallaci ha raccontato bene cosa fosse questo indumento nel suo primo reportage sull’Islam: 'Vi sono donne nel mondo che ancora oggi vivono dietro la nebbia fitta di un velo come attraverso le sbarre di una prigione'”.
Quartapelle: "Perché i giornali non danno spazio a quanto femministe e persone di buona volontà stanno dicendo e facendo sul caso Saman? C’è stata una grandissima mobilitazione civile e politica sul caso. Venerdì 28 maggio nel comune di Novellara, il comune di Saman, è stata organizzata dalla sindaca una fiaccolata di solidarietà. Ci sono state dichiarazioni di tante e tanti, tra cui il collega Andrea Rossi, a sostegno di Saman. Non ne ho visto traccia né sul vostro giornale, né su tanti altri mezzi di informazione. Non è abbastanza tragica la vicenda in sé? Che senso ha strumentalizzare politicamente la scomparsa di una giovane donna?".
Perché una parte della sinistra sembra sempre voler proteggere l'islam a prescindere?
Giammanco: "È una difesa meramente ideologica. Si difende il multiculturalismo a prescindere, dimenticando che una società multiculturale funziona se tutti ne accettano i valori e i principi fondanti altrimenti si rischia il caos. Una certa sinistra ha nei confronti del tema 'donne e Islam' lo stesso approccio che ha con gli omosessuali: in Italia spinge per dare loro, giustamente, maggiori tutele ma poi fa finta di non vedere che in alcuni Paesi islamici vengono perseguitati e lapidati. Dobbiamo smetterla di avere paura di rivendicare la nostra cultura occidentale, la nostra identità, il nostro stile di vita. Mi viene in mente il paradosso della tolleranza di Popper, non possiamo tollerare gli intolleranti perché corriamo un grande rischio: una collettività caratterizzata da tolleranza indiscriminata è destinata ad essere dominata dalle frange più intolleranti presenti al suo interno".
Quaratapelle: "La lotta contro il terrorismo di matrice islamista, contro i matrimoni forzati, i delitti d’onore, contro ogni forma di oscurantismo, estremismo religioso e fanatismo, devono vedere unita la politica. In questi anni ho partecipato a varie manifestazioni di ragazze musulmane che si ribellavano a imam che avevano proibito l’uso della bicicletta alle musulmane, a iniziative di associazioni di donne musulmane contro la violenza sulle donne. Non ho mai visto esponenti della destra. Come mai? Forse perché per una certa destra è più semplice dire che tutti i musulmani sono cattivi, e così si occultano e dimenticano le giuste battaglie di donne musulmane che lottano per essere libere?".
Può esistere un islam moderato?
Giammanco: "Sono molto scettica su questo...".
Quartapelle: "Esistono gli imam che ieri in Italia emesso una fatwa contro i matrimoni combinati forzati e l'altrettanto tribale usanza dell'infibulazione femminile. Più che le etichette mi interessano i fatti, e questi sono fatti importanti".
Come si possono prevenire altre situazioni di questo tipo?
Giammanco: "L’Italia con il PNRR sta affrontando seriamente la questione di genere, c’è grande attenzione alla parità salariale, al gender gap, alle quote rosa, alle misure a sostegno della natalità, alla conciliazione dei tempi di vita familiare coi tempi del lavoro. Le istituzioni possono fare molto così come la scuola. Nel 2021 ci sono donne che nel nome di un credo religioso vengono ancora sottoposte a coercizione fisica e morale. Ecco, credo che la politica dovrebbe iniziare ad accendere un faro su di loro, lasciando da parte ogni ideologia per mettere in campo ogni strumento possibile per prevenire certi abusi".
Quartapelle: "Quello che colpisce del delitto di Hina, e quello che colpisce della storia di Saman, è che in entrambi i casi le ragazze, dopo un periodo di lontananza, sono tornate a casa. Ed è in quel frangente che Hina è stata uccisa e Saman è scomparso. Sono ragazze che si sono rese conto del pericolo, che hanno cercato aiuto, e che poi però hanno risposto alla chiamata della famiglia. È su questo che si deve lavorare. Sulla prevenzione, sulle misure di sostegno, e sul non lasciare mai sole queste ragazze, che vivono un dramma esistenziale che fatichiamo a capire. Queste ragazze sono ragazze che vivono divise tra la propria voglia di libertà e l’affetto che provano per la propria famiglia, per quanto questa possa essere soffocante e pericolosa. Vanno aiutate, sostenute, liberate. È a loro che dobbiamo pensare, non a fare una polemica politica basata sul nulla che non serve davvero a evitare altre morti".
Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”.
Cosa insegna alla sinistra la tragedia di Saman Abbas. Sofia Ventura su La Repubblica il 15 giugno 2021. Il relativismo culturale ha finito per indebolire la difesa dei principi universali. E questa terribile vicenda potrebbe essere l’occasione per riscoprirla. La società nella quale i singoli sono chiamati a prendere decisioni personali, scriveva Karl Popper, (è chiamata) società aperta». La giovane Saman Abbas, probabilmente uccisa nel contesto familiare, una famiglia immigrata pakistana, voleva essere libera di assumere proprio quelle decisioni personali. Voleva uscire dalla «società chiusa» di provenienza per vivere con le libertà offerte dalle società aperte occidentali, non sottostare a un matrimonio combinato, essere una «Italian girl», come aveva scritto su Facebook. La tragica vicenda di Saman, scomparsa, e probabilmente uccisa, alla fine di aprile, sta diventando un caso. Anche perché, a fronte delle scarse reazioni iniziali, donne di sinistra, come Ritanna Armeni e Giuliana Sgrena, si sono fatte sentire, denunciando la difficoltà della loro parte a trattare quel tipo di eventi; difficoltà che rischia di assumere la forma di un più o meno velato razzismo. Da destra, come già in analoghi casi, sono invece subito provenute accuse di colpevole silenzio. Quelle accuse sono fondate, anche se troppo spesso viziate non solo dal desiderio di stigmatizzare gli immigrati e la loro religione, l’Islam, ma da un errore non troppo diverso da quello che si compie sovente a sinistra: ipostatizzare la diversità. A sinistra, proprio il timore che illuminare le violenze che originano nei contesti di immigrazione, soprattutto islamici, dia spazio al razzismo, è proposto come giustificazione della «prudenza». Questa assomiglia però a un alibi, più o meno consapevole, che cela una ragione più profonda: un relativismo culturale che nel momento in cui porta a valorizzare tradizioni altre, spesso perché viste come vittime di un Occidente imperialista, conduce a tollerare comportamenti che non sono invece tollerati nella società in generale. Come se gli immigrati avessero meno diritti. Vi è una via di uscita? Sì, anche se nulla è facile. La via di uscita è nelle potenzialità della società aperta, in quei valori universali sui quali poggia. E che non possono essere distrutti dalla pluralità delle visioni. I cittadini (e i residenti) condividono doveri e diritti. Il dovere di rispettare la legge e il diritto di essere tutelato dalle autorità pubbliche. Non vi possono essere recinti entro i quali immaginare altri diritti e doveri. Non sono dunque necessarie misure diverse, più o meno tolleranti, verso chicchessia. E non sono tollerabili arretramenti verso la tutela dei diritti di chiunque. Nei fatti questo, certo, porta a conseguenze diverse quando si affrontano casi collocati in contesti diversi: laddove l’individuo è inserito in ambiti più chiusi, la lacerazione necessaria, così come lo sforzo di educazione e socializzazione, sono inevitabilmente maggiori. Per intenderci: il diritto di una giovane a non essere forzata a un matrimonio o a uno stile di vita va tutelato in nome di principi universali e in prima battuta con gli strumenti che si adottano per ogni cittadino; la realtà dell’immigrazione va affrontata con uno sforzo di socializzazione ed educazione (che sino ad oggi non appare soddisfacente) che prenda in considerazione lo iato tra culture. Questo comporterebbe una politica che per integrare in parte «assimila»? Sì, ed è inevitabile che una integrazione non conflittuale e che estenda agli immigrati i diritti liberali richieda un certo grado di assimilazione, quella ai valori e comportamenti fondamentali della società aperta occidentale. La sempre più illiberale destra italiana sfrutta tragedie come quelle di Saman per stigmatizzare (e far apparire come immodificabile) la diversità altrui, ma ha gioco facile nel denunciare le contraddizioni di una sinistra che si perde nei particolarismi. L’una e l’altra hanno perso di vista la dimensione universale alla base del nostro vivere civile. La tragica vicenda di Saman Abbas potrebbe essere l’occasione per riscoprirla.
Se credi che il femminismo islamico non esista fai un salto virtuale a Glasgow. Attiviste e scrittrici. Per dieci giorni di dibattiti sui diritti delle donne musulmane. Che non sono affatto zitte e sottomesse come crede l’Occidente. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso/La Repubblica il 15 giugno 2021. Si parla molto di femminismo islamico in questi giorni in Italia: è un effetto delle discussioni – accese e non sempre condivisibili ma comunque positive – che hanno accompagnato la scoperta del tragico destino di Saman Abbas, la diciottenne italo- pachistana di Novellara fatta uccidere dai genitori perché non accettava che fossero loro a decidere chi farle sposare. O meglio, si ripete sempre lo stesso concetto: il femminismo islamico non esiste, sono due termini che non possono stare nella stessa frase. È innegabile che la via dell'emancipazione femminile sia particolarmente difficile nei Paesi islamici, e anche nelle comunità islamiche sparse nel resto del mondo. Ma non è un buon motivo per negare gli sforzi delle donne – attiviste, avvocate, mediche, scrittrici – che lavorano in questo senso, nei paesi arabi e nel resto del mondo. Per rendersi conto di quanto lavoro è stato fatto non bisogna andare lontano. Basta aprire “Femminismo interrotto” dell'afrodiscendente inglese Lola Olufemi (Giulio Perrone Editore). Un saggio che fa il punto sulle lotte per i diritti delle donne, che in un capitolo particolarmente denso chiarisce punto per punto le difficoltà che le femministe di origine araba incontrano perché combattono su due fronti: il patriarcato islamico e il paternalismo “bianco”, che le vede sempre bisognose di un salvatore europeo capace di liberarle da pregiudizi più forti di loro. Arriva dalla Gran Bretagna un'altra occasione per rendersi conto di quanto sia effervescente il campo di quel femminismo islamico che tanti e tante occidentali considerano morto in culla. Inizia venerdì 18, e andrà avanti per dieci giorni, la nuova edizione del Dardishi Festival, evento annuale di una no-profit di Glasgow dedicata alla produzione culturale di donne arabe e nordafricane. Quest'anno il festival sarà su zoom, quindi a disposizione di una platea virtualmente infinita. In programma, incontri e conferenze centrati su ogni aspetto dei diritti delle donne e delle minoranze di genere e tenuti da persone arabe o nordafricane. Molti sono centrati sulla letteratura: “Nawal El Saadawi: Fierce, Fearless, Feminist!” è un omaggio alla scrittrice, psichiatra e attivista egiziana scomparsa nel marzo scorso. Lo terrà Ebtihal Mahadeen, che cura anche un focus su “Leggere voci femministe dal Medio Oriente e dal Nordafrica”, dedicato ad autrici e testi impegnati su temi di sessualità, identità di genere e vita quotidiana nei Paesi della zona. Politica, guerra e vita quotidiana si mescolano anche in “Palestine is a Feminist Issue” con Jennifer Mogannam e Nesreen Hassan, mentre “Mainstream Subaltern Writing” incrocia le esperienze di quattro scrittrici provenienti da Gran Beratgna, Canada, Egitto e Sudan per tracciare una via di espressione per donne che vivono in un contesto di profonda inferiorità sociale. Film e documentari racconteranno gli sforzi delle comunità che combattono «sorveglianza e censura» nei paesi arabi e nella diaspora. “Jasad and the Queen of Contradictions” racconta le controversie nate intorno alla rivista “Jasad” (il corpo) fondata dalla scrittrice e giornalista libanese Joumama Haddad, conosciuta in Italia per saggi come “Ho ucciso Shahrazad. Confessioni di una donna araba arrabbiata” e Superman è arabo. Su Dio, il matrimonio, il machismo e altre invenzioni disastrose". L'organizzazione segnala gli incontri che non sono consigliati a un pubblico di minorenni, e propone al pubblico abbonamenti a prezzi diversi, da zero a 10 sterline, da decidere in base ai propri interessi e alle possibilità economiche: «Non ci sarà nessun controllo, ma vi chiediamo solo di essere onesti perché tutti possano godere di questi eventi». In programma, anche appuntamenti più leggeri. Come un documentario sulla rappresentazione dell'harem nei film di Hollywood, lezioni di yoga e di “terapia somatica”. Per finire, una passeggiata in podcast, una colonna sonora da ascoltare mentre si cammina in qualsiasi posto sentendosi immersi in un paesaggio ancestrale. L'accompagnamento è fatto da suggestioni auditive scelte da Layla Feghali, libanese cresciuta in California che studia culture e medicina ancestrale della zona d'origine della sua famiglia e delle comunità nativo-americane dell'ambiente in cui è cresciuta: un mix di cultura araba e degli indiani d'America che può dare risultati sorprendenti.
Quelle Saman uccise in nome della sharia. Serenella Bettin il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Quante Saman ancora? In Italia e in Europa l'elenco delle donne vittime della Sharia o dell'immigrazione incontrollata è lungo. Quante Saman ancora ci dovranno essere prima che una certa parte politica arrivi a chiamare le cose con il loro nome senza ricorrere a espedienti ridicoli, ingannevoli, persuasivi, che non tengono conto della realtà. Saman Abbas è sparita, o è stata fatta fuori, non perché vittima di femminicidio come ha esordito qualcuno dopo giorni di imbarazzante silenzio, ma è sparita perché Saman Abbas negli occhi aveva la voglia di vivere, voleva vivere all’occidentale, ma era stata promessa in sposa. E si è ribellata. Saman Abbas non è l’unica. Sono vittime di mariti padroni, schiave di estremisti islamici. Figlie di padri padroni, mogli di uomini con altrettante mogli. Sono madri di quelle figlie che a loro volta diventeranno vittime. Dietro l’universo femminile concepito dall’Islam violento c’è tutto un palcoscenico dell’orrore. Ci sono donne in Afghanistan costrette a vivere dentro a sacchi di stoffa, dove il niqab, che molti in Italia hanno sbandierato come simbolo dell’integrazione e del rispetto verso le altre culture, lascia scoperti soltanto gli occhi. Ci sono donne anche in Italia che preferiscono farla finita anziché finire condannate a spose di chi è stato loro destinato. E ci sono donne in Italia morte ammazzate seviziate e stuprate da mani e occhi che le vedevano troppo occidentalizzate. O prese e ammazzate da riti tribali ancestrali, messi in pratica da chi ha abusato di loro e poi le ha lasciate lì agonizzanti a morire. Le ha tagliate a pezzi. Le ha fatte fuori. Ha squarciato loro il ventre come si squarciano gli animali. Pamela Mastropiero è stata ammazzata da un nigeriano il 30 gennaio 2018, il suo corpo venne ritrovato mutilato in due valigie. Desirée Mariottini, 16 anni, drogata, stuprata, violentata a turno. Si erano messi in fila per dilaniarle il corpo. Poi quando hanno visto che non dava più cenni di vita l’hanno lasciata lì agonizzante a morire. Due ragazze vittime della stessa mano: l'immigrazione incontrollata. Rachida Radi invece, 35 anni, egiziana, rientra nei delitti d’onore. Voleva integrarsi, avvicinarsi al Cristianesimo ma è stata uccisa a martellate dal marito nel 2011 perché viveva all’occidentale. Lui le ha sfondato il cranio. Hina Saleem, classe 1985, pachistana, è stata ammazzata dai parenti a coltellate l’11 agosto 2006 perché non voleva adeguarsi agli usi tradizionali della cultura d'origine. Venne sgozzata e sepolta nell'orto di casa a Brescia. Quando la trovarono aveva la testa rivolta verso la Mecca e il corpo avvolto in un sudario. Sanaa Dafani, di origini marocchine, a Pordenone è stata ammazzata dal padre a coltellate in un bosco, mentre era in compagnia del fidanzato italiano. La tradizione non consente di vivere con un uomo senza sposarsi. Souad Alloumi invece è scomparsa nel 2018. E ce ne sono tante altre. Sono ragazze belle, solari, radiose, con quegli occhi luminosi e raggianti. Le loro colpe: rifiutarsi di indossare il velo islamico, vestire all'occidentale, fumare qualche sigaretta, farsi qualche selfie, indossare jeans, frequentare amici cristiani, avere amici non musulmani, studiare o leggere libri “impuri”, ascoltare musica o suonare, voler divorziare, essere troppo indipendenti emancipate. Portare disonore alla famiglia. Accade in Italia e anche nel resto d’Europa. Sohane Benziane è stata torturata e bruciata viva il 4 ottobre del 2002 in Francia. Le hanno dato fuoco con un accendino. La gente in diretta assisteva alla sua morte. Aveva 17 anni. In Svezia Fadime Sahindal è stata uccisa a colpi di pistola perché si era avvicinata alla cultura occidentale. È stata uccisa dal padre dopo essersi segretamente incontrata con la madre e le due sorelle più piccole, alle quali era stato vietato di vederla. Morì tra le braccia della madre. Era stata espulsa dalla famiglia quattro anni prima per una sua relazione con un giovane svedese-iraniano. Ci hanno fatto un libro. Il The Guardian riporta come Sahindal, 26 anni, abbia “pagato il prezzo più alto per essersi innamorata dell'uomo sbagliato e aver sfidato i valori patriarcali della sua cultura. Suo padre era un contadino curdo analfabeta che si trasferì in Svezia nel 1980. La sua famiglia arrivò quattro anni dopo, quando Fadime aveva sette anni. I suoi genitori la scoraggiarono dal parlare ai bambini svedesi a scuola. Invece, le è stato detto che l'importante era tornare in Turchia e sposarsi. È cresciuta sotto il controllo di suo padre e del fratello minore”. Anche a Heshu Yones, curda irachena, molto bella, hanno tagliato la gola perché aveva un fidanzato cristiano. Aveva 16 anni. La figlia secondo il padre era diventata troppo “occidentalizzata” e aveva intrattenuto una relazione contro i suoi ordini. Rukhsana Naz a Londra, addirittura ancora nel lontano 1998, è stata uccisa perché aveva rifiutato un matrimonio combinato. Aveva 19 anni. Per non parlare dei padri padroni che tengono segregate in casa le mogli, le picchiano, le violentano, non accettano che le figlie possano diplomarsi. Questo fenomeno che per i sordi viene derubricato come violenza domestica, si chiama Sharia. Quello che la sinistra si ostina a chiamare femminicidio. Serenella Bettin
"Una "cultura" che punisce le donne", Samira sparì come Saman. Rosa Scognamiglio il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. La procura di Ivrea ha archiviato il caso di scomparsa di Samira Sbiaa. Il marito della 32enne era stato indagato per omicidio 17 anni dopo. Nessuna verità per Samira Sbiaa, la 32enne di origini marocchine residente a Settimo Torinese di cui si sono perse le tracce dal 7 aprile del 2002. Lo scorso 8 giugno la Procura della Repubblica di Ivrea ha deciso di archiviare il fascicolo per le indagini di scomparsa dopo che, appena tre anni fa, il caso sembrava fosse giunto a una svolta decisiva. Nel 2017 il marito della donna, Salvatore Caruso, ex guardia giurata convertita all'Islam con il doppio degli anni di Samira, era finito nel registro degli indagati con l'ipotesi di reato per omicidio volontario. Ma la pista delittuosa, nel contesto della relazione coniugale, è scemata a fronte di un carico probatorio inconsistente. "Le indagini sono state tardive e Caruso non è stato correttamente interrogato sui fatti", spiega alla nostra redazione la criminologa Ursula Franco, esperta in Statement Analyst, una tecnica di analisi del linguaggio che permette di ricostruire i fatti relativi a un caso giudiziario attraverso lo studio di ogni parola presente nelle dichiarazioni di sospettati, indagati e testimoni. Resta il dubbio e il "giallo" di una scomparsa misteriosa. Dov'è finita Samira? "Dato che Samira è scomparsa improvvisamente senza lasciare traccia, l’accusa dovrà dimostrare che sia stato il marito a essere l'autore di un presunto reato. E non sarà facile poiché non abbiamo una vittima, né una scena del crimine. In questi anni non vi è stata alcuna traccia della sua esistenza: un bancomat, una carta di credito, nulla. Scomparsa", spiega a ilGiornale.it il professor Simone Borile, antropologo della violenza, criminologo e docente di antropologia della violenza presso il corso di studio triennale in Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale del Campus Ciels di Padova Brescia e Roma.
La scomparsa. Samira Sbiaa è scomparsa da Settimo Torinese il 7 aprile del 2002. Era approdata in Italia a seguito del matrimonio con Salvatore Caruso, una ex guardia giurata col doppio dei suoi anni, convertito all'Islam. Lui e Samira si erano conosciuti in Marocco tramite un parente della donna e, dopo le nozze in Africa, si erano stabiliti nell'hinterland torinese. Lei, appena 32enne, usciva pochissimo di casa e mai da sola. Era stato Caruso, nel 2002, pochi giorni dopo la sua scomparsa, a segnalare l'allontanamento denunciando la moglie per appropriazione indebita di denaro. A suo dire, Samira avrebbe abbandonato volontariamente il tetto coniugale portando via con sé via poco più di un milione di vecchie lire. Poi però, qualche mese dopo, aveva ritirato la denuncia e chiesto il divorzio. "Io sono stato bidonato. Sono io la vittima", rispondeva Caruso ai cronisti che lo incalzavano con le domande quando, tre anni fa, finì sotto la lente d'ingrandimento degli investigatori. Ma la sua versione dei fatti, spesso contraddittoria, non ha mai convinto fino in fondo nessuno.
Le indagini 17 anni dopo. Dopo 17 anni di silenzi, il giallo della scomparsa di Samira sembrava fosse giunto a un punto di svolta. La procura di Ivrea aveva deciso di aprire un fascicolo per omicidio volontario in cui risultava indagato Salvatore Caruso. Era stato il padre della 32enne a chiedere di indagare sull'ex guardia giurata tramite un'amica della figlia. "Samira raccontava alla sorella di essere stata segregata, di mangiare cibi scaduti – spiegò al tempo, Touria Bouksibi, dell'associazione 'Donne e bambini in difficoltà' – Per questo la famiglia si era rivolta a me. Vogliono sapere che fine abbia fatto la figlia". Così nella primavera del 2017 i carabinieri avevano eseguito un primo sopralluogo nell'appartamento coniugale, sequestrando 4 pistole, una carabina e diversi proiettili, tutti detenuti regolarmente. Agli inizi di marzo, i militari dell'arma, guidati dal capitano Luca Giacolla, assieme alla polizia locale, erano tornati nella palazzina a due piani al civico 12 di via Petrarca, a Settimo Torinese, nella speranza di trovare qualche traccia della donna. Dapprima avevano svuotato la fossa settica poi, avevano perlustrato il garage della proprietà: il sospetto era che Samira fosse stata uccisa e sepolta in casa. Alcuni vicini, anni prima, avevano raccontato di aver sentito dei rumori provenire dalle mura di una delle rimesse. E Caruso, accumulatore seriale, da tempo non le utilizzava più lasciando il suo Doblò sempre in cortile. Raggiungere i box, strapieni di oggetti accatastati l'uno sopra l'altro, non era stato facile. All'interno erano accatastate finestre rotte, secchi sporchi, televisori inutilizzabili, persino stracci e vecchi vestiti. Per non parlare dei sacchi della spazzatura maleodoranti, comodo rifugio per topi e altri animali.
Le ricerche coi cani molecolari. Il 21 marzo del 2017 la verità sembrava fosse a un passo. In casa di Caruso intervennero nuovamente i carabinieri, stavolta in compagnia dei cani molecolari del nucleo cinofilo dell'Arma di Bologna e degli esperti Sis (Sezione investigazioni scientifiche). Dopo circa 8 ore di attività, Aska e Simba, due pastori tedeschi in grado di segnalare la presenza di cadaveri in stato di decomposizione nel sottosuolo, fiutarono tracce sospette nel giardino e al piano terra dell'abitazione. A quel punto gli investigatori decisero di rivangare la superficie circostante la palazzina di via Petrarca nella speranza di ritrovare il corpo di Samira. Sul luogo arrivò anche una squadra di operai, muniti di picconi e martelli, un escavatore e un camion per lo spurgo delle acque nere. Dal cortile furono recuperate una scarpa da donna e una serie di "ossa piatte", verosimilmente uno sterno e una testa d'omero. I reperti furono analizzati dalla genetista Monica Omodei del laboratorio di analisi di Orbassano che accertò trattarsi di frammenti ossei di animali. Da quel momento le indagini subirono una battuta di arresto. Lo scorso 8 giugno il procuratore di Ivrea Giuseppe Ferrando, a capo dell'inchiesta, ha annunciato l'archiviazione del caso. "Ad oggi non abbiamo elementi per sostenere in giudizio che Samira sia stata uccisa dall'ex marito", ha riferito alla stampa. Eppure troppe cose ancora non tornano.
Le dichiarazioni di Caruso. Durante gli scavi nell'appartamento di via Petrarca, Caruso spiava i lavori degli uomini con le tute bianche da dietro le imposte chiuse. Quando gli dissero che era indagato per omicidio, si sfogò coi cronisti dicendo che erano "soltanto balle" che "Samira era fuggita" e lo aveva pure derubato. "Scappata dove, signor Caruso?" gli domandarono. E lui spiegò che era tornata in Marocco: "L'ho accompagnata io stesso a Torino a prendere il bus per tonare giù. Voleva raggiungere la famiglia per il Ramadan". "Guardate che sono io la vittima di questa storia", si difendeva. Poi, raccontò di averla cercata dopo qualche mese che era partita. Di aver chiamato i parenti e gli amici. Disse di averla denunciata per i "beni spariti" – a suo dire, circa 1 milione di vecchie lire - e per "abbandono del tetto coniugale". Le sue dichiarazioni furono spesso contraddittorie, a tratti confuse e approssimative. Mentiva? "Caruso non ha mai negato in modo credibile di aver ucciso sua moglie Samira e ha preso le distanze da lei - spiega la criminologa Ursula Franco - Si è riferito a lei con 'questa persona', gender neutral, un modo per prenderne le distanze. È poi inaspettato che il Caruso abbia detto 'Dovevo impiccarmi pure io. Dovevo impiccarmi?' e 'non si è fatta più viva' e 'non s’è fatta viva', viene da chiedersi a cosa stesse pensando. Servirebbe un interrogatorio ben condotto sui suoi movimenti del giorno della scomparsa di Samira".
Analogie con la vicenda di Saman Abbas. La storia di Samira Sbiaa suggerisce delle analogie - seppur marginali - con la scomparsa di Saman Abbas, la 18enne di origini pakistane residente a Novellara di cui non si hanno più notizie dallo scorso 30 aprile. La procura di Reggio Emilia ha aperto un fascicolo per omicidio premeditato e occultamento di cadavere in cui sono indagati il padre, la madre, lo zio e due cugini della giovane. "Ciò che è avvenuto a Saman è definito reato culturalmente orientato. Donne che vengono punite, e uccise poiché infrangono codici e riferimenti della cultura di origine - spiega il professor Simone Borile - Una vergogna cui solo la stessa famiglia, per evitare il propagarsi dell’onta ricevuta, può porvi rimedio. Sono reati commessi con chiara predeterminazione, in modalità collegiale, posti in essere dagli stessi membri della famiglia, obbligati culturalmente a ripristinare un disonore derivante da una condotta ritenuta immorale e inadeguata. Questi episodi di maltrattamenti e di violenze intradomestiche sono, ahimè, frequentissimi e provengono da un conflitto culturale scatenato tra aderenza ai valori della cultura di origine e apertura e verso patrimoni culturali nuovi, in cui non sempre però i processi di inclusione e di incorporazione valoriale hanno dato esiti positivi". Resta il mistero e il dramma di due giovani donne che potrebbero aver pagato a caro prezzo il sogno della libertà negata. "Scomparse".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini.
Cosa è cambiato per le donne in Afghanistan dopo vent’anni di presenza militare della Nato e dell’Italia. La guerra, almeno nelle dichiarazioni, è stata combattuta anche in nome dei diritti femminili. Ma oggi resta il Paese più maschilista del mondo. E con il ritiro degli occidentali torna la paura, non solo dei talebani. Giulia Ferri su L'Espresso il 15 giugno 2021. Vent’anni dopo, la missione in Afghanistan è finita. Ma ora c’è da capire cosa resterà davvero di questa guerra. Il ritiro dei contingenti Nato sarà completato entro luglio 2021 e lo scorso 8 giugno anche la bandiera italiana è stata ammainata. Se in questi anni i militari italiani hanno contribuito alla costruzione di strade, ospedali e scuole, restano non pochi interrogativi sul raggiungimento degli obiettivi della missione, quelli più volte ripetuti da tutte le forze politiche in campo: portare stabilità, garantire i diritti umani e liberare le donne dalla condizione di sottomissione in cui versavano sotto il regime talebano. Sì perché, almeno a parole, la ventennale guerra d’Afghanistan è stata combattuta anche per le donne. «Sono intervenuti per cacciare i talebani e difendere i diritti delle donne. Dopo vent’anni vanno via con un accordo con i talebani e certamente le donne saranno abbandonate al loro destino». L’amaro bilancio lo traccia la principessa Soraya d’Afghanistan, nipote di re Amanullah e della regina Soraya, di cui orgogliosamente porta il nome, sovrani di Afghanistan dal 1919 al 1929, prima di dover lasciare il Paese e venire in esilio in Italia. «I miei nonni furono i primi a tentare di modernizzare il Paese e garantire i diritti delle donne», racconta, «emanando la prima Costituzione afghana, e di tutta l’Asia, puntando sull’istruzione e sull’associazionismo femminile». La regina Soraya è stata considerata una delle prime femministe, tanto influente che il Time Magazine le dedicò la sua copertina nel 1927. Ma quel progresso fu bloccato allora, come nei decenni a seguire. Perché la storia si ripete sempre, spiega la principessa Soraya, e questo vale ancor di più per le donne afghane, che più volte hanno acquisito e poi visto svanire le loro libertà nel corso del tempo. Oggi la nipote della regina porta avanti quel processo, sostenendo l’artigianato femminile afgano e le cooperative come “Azezana”, dove lavorano oltre 400 donne per produrre foulard di seta o “Kandahar Treasure”, che produce i pregiati ricami di Kandahar, e promuovendoli in Italia e in Europa. Ci tiene però a sottolineare che quei pochi diritti conquistati finora dalle donne in Afghanistan, si devono agli sforzi delle associazioni femminili locali. Proprio con operatrici afghane lavora Pangea, una delle associazioni italiane presenti sul territorio da più tempo. A Kabul dal 2003, porta avanti il programma “Jamila”, implementato grazie a più di trenta ragazze e donne afghane, che oggi lavorano in una decina di distretti per l’empowerment femminile. Nella capitale Pangea ha anche aperto la prima scuola per bambini e bambine sordi del Paese, che accoglie circa 600 ragazzi, con classi miste e una squadra di calcio femminile. Le ragazze che si diplomeranno quest’anno saranno le prime donne sorde afghane a poter accedere all’università. «La chiave è l’economia, fare in modo che le donne possano essere indipendenti e autonome, per questo i nostri interventi sono di microcredito e cerchiamo di fare in modo che tutte abbiano un conto corrente in banca» spiega Luca Lo Presti, presidente e fondatore dell’associazione. Il processo di auto emancipazione per migliaia di donne che Pangea ha assistito, è passato anche da una serie di altri servizi, come l’educazione ai diritti umani, igienico sanitaria, sessuale, o il supporto ginecologico. Ma passa anche dall’istruzione maschile. «Le ragazze che sono state nostre beneficiarie, quando sono diventate mamme, non hanno forzato le figlie al matrimonio, questo perché abbiamo iniziato con le donne ma abbiamo lavorato poi anche con i mariti e i figli maschi, altrimenti si sarebbe creato un percorso di consapevolezza sbilanciato e ulteriore conflitto tra i generi», sottolinea Lo Presti. «In questi anni abbiamo visto un cambiamento ma solo nelle città, e neanche in tutti i distretti: al centro di Kabul si vedono donne truccate o sedute al ristorante. Quello però non è lo specchio dell’Afghanistan: già nelle cittadine ai margini della capitale non c’è una donna senza velo», spiega ancora il presidente di Pangea. Che racconta poi come le donne afghane oggi siano più forti, ma anche che tra le operatrici a Kabul, ci sono diverse paure per il futuro. Il più comune è che con il ritiro degli occidentali scoppi una guerra civile e che il ritorno dei talebani possa cancellare i diritti acquisiti. Perché quei diritti sulla carta ci sono. Dal 2004 l’Afghanistan ha una Costituzione avanzata anche sul fronte dei diritti: sancisce l’uguaglianza tra i sessi, la parità di trattamento davanti alla legge, stabilisce una quota minima di deputate. Nel 2008 è stata approvata una legge nazionale contro la violenza e nel 2018 è stato rinnovato il codice penale con un’intera sezione dedicata alla protezione delle donne. È vietato il matrimonio tra minori di 16 anni, proibito quello forzato o compensatorio e i delitti d’onore, in cui gli uomini uccidono mogli, donne o sorelle, devono essere puniti come qualsiasi altro omicidio. Tutto cambia però se si sposta lo sguardo dalla forma alla sostanza. Lo dicono i dati e i rapporti internazionali. Il Gender Inequality Index 2020 del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, posiziona l’Afghanistan al 157esimo posto su 162 Paesi, con solo il 13,2% delle donne che ha accesso a un’educazione secondaria e solo il 21,6% che lavora o cerca lavoro. Ultimo addirittura su 156 Stati secondo le stime del Global Gender Gap Report 2021. E critico sull’effettiva applicazione della legge è anche il report di dicembre 2020 dell’Unama, la Missione Onu in Afghanistan, che ha segnalato come i delitti d’onore continuino, così come gli stupri, e che molte donne ricorrono all'auto-immolazione o al suicidio per fuggire alla violenza, ritenendo che il sistema giudiziario non offra loro reali garanzie. Ma lo conferma anche la cronaca quotidiana. Il video diffuso lo scorso aprile di una donna condannata da un tribunale talebano a 40 frustate in una zona rurale alle porte di Herat, così come l’uccisione di almeno 55 giovani ragazze lo scorso 8 maggio all’uscita di una scuola nella capitale, sono solo l’ultima parte di un racconto di violenza estrema nei confronti delle donne che purtroppo resta la norma. «L’Afghanistan è il Paese più maschilista del mondo». Ne è convinta la principessa Soraya, che spiega come il problema non siano solo i talebani, ma una cultura spesso ancora basata su codici tribali, fondati sul possesso e la difesa delle tre zeta: zan, zard e zamin, rispettivamente donna, oro e terra. C’è molta violenza, di cui le donne pagano il prezzo più alto, anche in termini di vite perse: tra il 2010 e il 2020 secondo l’Unama, sono state uccise 3.219 donne, 390 solo nel 2020. Secondo Soraya l’obiettivo è alimentare questa violenza negando l’accesso alla cultura: «Per questo si continua a far esplodere le scuole, a non volere l’istruzione femminile e molti uomini continuano ad avere maggior interesse a vendere o far sposare le proprie figlie piuttosto che mandarle a scuola». Al tempo stesso però è convinta che un miglioramento ci sia stato: «Qualcosa è cambiato se oggi oltre 3 milioni di bambine possono andare a scuola, se le donne possono essere giornaliste, speaker radiofoniche o televisive, parlamentari. Non credo invece che i talebani siano cambiati», conclude. Una delle cose che preoccupa maggiormente le donne afgane è proprio l’avanzata dei talebani, le cui dichiarazioni sulla volontà di continuare a garantire i diritti delle donne, ma “sulla base della sharia”, hanno suscitato più di qualche timore. Non è però l’unica preoccupazione, come spiega Emanuele Giordana, presidente dell’associazione “Afgana”, giornalista e scrittore che in Afganistan ha vissuto a lungo e che ha approfondito le dinamiche del Paese anche nel suo ultimo libro, “La grande illusione”. «C’è la possibilità che i talebani decidano di dare una spallata perché non riconoscono il governo di Kabul» spiega, «ma preoccupa anche la debolezza del governo, per di più delegittimato con l’esclusione dai colloqui di Doha, condotti tra americani e talebani. Così come la presenza di gruppi regionali guidati da vecchi signori della guerra, che stanno organizzando la “seconda resistenza” per contrastare i talebani, ma in realtà per occupare il vuoto di potere. E infine le schegge di Daesh, ciò che resta dell’ex stato islamico». Per la società civile e le donne afghane sono state spese troppe parole e pochi soldi. «Dopo 20 anni l’Italia ha speso in cooperazione civile circa 320 milioni di euro e in operazioni militari 8 miliardi e mezzo: l’impegno nei confronti della società è stato pari a meno del 5% di quello militare. Cosa può restare di quel misero 5%?» si domanda Giordana. Secondo l’esperto sarebbe stato meglio investire sull’economia reale del Paese, mentre i soldi sono stati usati prevalentemente per le armi e proprio la presenza di troppe armi oggi è uno dei problemi principali di un Paese in guerra da 40 anni. Sul futuro dell’Afghanistan c’è incertezza, e la direttiva dell’ambasciata italiana, che consiglia anche ai civili di lasciare il Paese, non è certo un segnale positivo. «Ciò che servirebbe è un progetto politico internazionale. Ma per ora non ci sono notizie su questo fronte», afferma ancora Giordana. Per questo con l’Atlante delle guerre sta organizzando per l’autunno una conferenza a Trento, con associazioni, esperti e diplomatici, per discutere su cosa si può e si vuole fare, se non altro a livello italiano: «Siamo un Paese piccolo ma che può giocare un ruolo importante», e conclude: «I movimenti femminili in Afghanistan oggi sono molto forti, si tratta di vedere se continueremo a sostenerli oppure no».
Storie di spose bambine nella Sicilia senza diritti. Eugenia Nicolosi su La Repubblica il 17 giugno 2021. Giovanna, sposa a 15 anni. Sembrava avesse sessant'anni quando è arrivata in consultorio invece ne aveva trenta: sul volto i segni della solitudine e di una decina di figli, con il più grande si toglie meno di 15 anni. Quando ebbe il primo ciclo è stata data in sposa a un amico del padre, un uomo di vent'anni più vecchio, perché così funziona, e si è trovata bambina e madre.
Sono anch'io Pakistano!
Il Caso di Saman Abbas e la criminalizzazione di un popolo.
Saman Abbas come Sarah Scazzi. I media ignoranti ed in malafede influenzano il popolino.
Nel caso di Saman o di Sarah non si sta dalla parte della vittima, ma da odiatori e razzisti seriali si sta contro un popolo. Milioni di pakistani equiparati a singoli personaggi ignoranti e retrogradi, che nulla hanno a che fare con la religione o la civiltà del loro paese. Un nucleo familiare non è un popolo. Ogni individuo è diverso da un altro, così ogni famiglia è diversa dall’altra. La differenza la fa l’ignoranza.
I Pakistani come gli avetranesi. Per i media si è tutti assassini e ignoranti…a prescindere.
Antonio Giangrande, avetranese doc
LA TRAGEDIA DI NOVELLARA. Il caso di Saman. Saman, il caso sulla stampa pakistana, boom di post: «Noi non siamo così». La notizia della sparizione della ragazza sul Dawn. I lettori commentano in massa. Silvia Maria Dubois su Il Corriere della Sera/di Bologna l'8 giugno 2021. «Si teme sia morta una ragazza pakistana, in Italia, dopo il rifiuto delle nozze combinate con il cugino». Titolava già così il 29 maggio il Dawn, uno dei giornali più popolari del Pakistan, dove è tornata la famiglia di Saman Abbas, dopo la sua “sparizione”. «La polizia sta cercando il corpo della diciottenne” prosegue l’articolo, che elenca, passo dopo passo, quello che sta succedendo a Novellara City: la fiaccolata per Saman, le ricerche nei canali, le novità del comando. Non solo: la stampa pakistana sembra non censurare nulla, parlando anche del rientro affrettato della famiglia in patria. A questo articolo, uno fra i più lunghi sul caso, seguono i commenti dei lettori pakistani.
«Questa non è la nostra cultura». «Purtroppo un’altra regolare storia di donna pakistana” scrive un utente. “Un’altra giovane donna vittima di tutto questo: ma gli assassini saranno puniti qui in Pakistan?”. C’è chi mette in chiaro: “Che un caso isolato di tragico delitto non rifletta la cultura di un intero Paese».. «Stessa storia di pakistane, in qualsiasi posto siano». «Lei era italo-pakistana» gli fa eco un altro lettore. «Probabilmente voleva sposare un ragazzo bianco italiano del posto - è la cinica osservazione di un lettore del Dawn -. Visto e residenza accettabili ma non matrimonio». Frasi che vanno in rotta di collisione: «Ascoltiamo i tuoi pensieri illuminanti!» è la risposta piccata. «Questo concetto dell’età della pietra dell’onore al di sopra della vita dovrebbe essere bandito - è la risposta - e tutti coloro che credono in questa ideologia malata devono essere cacciati dalla nostra società». La discussione si fa sempre più accesa, fra rabbia e orgoglio: «Perchè permettono ai pakistani di entrare in Europa?».
«Devono pagare». L’immagine di un Pakistan che non va bene ai giovani lettori del quotidiano torna a farsi sentire, in decine di post: «Matrimonio forzato per una ragazza di 18 anni in terra straniera e fuga dalla criminalità?!! Queste persone danneggiano l’orgoglio di tutta la nazione. Devono essere punite». Il botta e risposta prosegue sulla «cultura da rifiutare», «una mentalità vergognosa» e sulla speranza che gli «Abbas vengano rispediti in Italia per pagare». «Io chiedo ai genitori dove trovano negli insegnamenti islamici (ammesso che siano cosiddetti musulmani) per costringere una ragazza a sposarsi contro la sua volontà. L’Islam non consente e un Imam non può eseguire Nikah (ordine religioso) senza ottenere il consenso di entrambi». E i post in queste ore salgono ancora di numero. «Preghiamo per lei».
L’omicidio di Saman sulla stampa pakistana, i commenti contro la famiglia della ragazza: «Questo non è l’Islam, sono ignoranti… l’Italia li punisca». Redazione l'8 giugno 2021 su open.online. «Assolutamente nauseante». Pioggia di commenti sul quotidiano «Dawn» dopo la pubblicazione della notizia del presunto omicidio della 18enne. Il quotidiano online Dawn, il giornale più diffuso e antico del Paese, fondato da Muhammad Ali Jinnah, padre fondatore del Pakistan, ha pubblicato il 29 maggio la notizia del caso della 18enne di Novellara, Saman Abbas, scomparsa nelle scorse settimane, e su cui la Procura sta indagando i due cugini e lo zio. Le pagine del giornale hanno riportato anche l’episodio dello scorso anno, quando Saman Abbas si ribellò alla famiglia che voleva farla sposare attraverso un matrimonio combinato. I commenti sotto l’articolo chiedono di non credere che la cultura e la tradizione del Paese sia uniforme: «Spero che un singolo caso di delitto d’onore non sia proiettato come riflesso della cultura di un paese», scrive un utente. «Matrimonio forzato per una ragazza di 18 anni in terra straniera e fuga dalla criminalità? Queste persone danneggiano l’orgoglio di tutta la nazione. Deve essere punito».
«Spero e prego che venga ritrovata illesa. Non molliamo. Ma se è stata vittima di un delitto d’onore – scrive un altro lettore – allora il governo italiano dovrebbe fare di tutto per portare davanti alla giustizia tutti coloro che erano coinvolti. Vorrei anche chiedere ai genitori dove trovano negli insegnamenti islamici (ammesso che siano veri musulmani) indicazioni per costringere una ragazza a sposarsi contro la sua volontà». Dopo aver saputo che i genitori si sono rifugiati in Pakistan alcuni chiedono che venga «negato loro l’ingresso nel Paese e che vengano rimandati in Italia fino al completamento delle indagini. Assolutamente nauseante».
E sui genitori, e sul presunto omicidio, alcuni scrivono: «È uno strano mistero come possano avere il coraggio di uccidere le proprie figlie e poi scappare per proteggere il loro onore già morto con le loro figlie?». Sulla cultura pakistana e quella occidentale un utente osserva che: «L’assimilazione non significa rinunciare alla tua religione e cultura. Molti Paesi occidentali si stanno sviluppando come società multiculturali. Questo omicidio, tuttavia, è probabilmente basato su pratiche ignoranti che spingono le persone a imporre la loro volontà ai figli e vedono le donne come proprietà».
“I matrimoni forzati sono crimini, in Italia come in Pakistan”. Chiara Tassi e Jessica Bianchi l'11 Giugno 2021 su temponews.it. Un aiuto, quello offerto a Saman Abbas dalle istituzioni, evidentemente non del tutto adeguato: “credo - spiega Hasnain Harif, componente della Consulta per l’Integrazione di Carpi - che in casi delicati come questi occorra l’intervento di un mediatore culturale. Di qualcuno che conosca bene il contesto famigliare e nazionale, che sapendo quali sono le usanze del paese d’origine sia immediatamente in grado di intercettare segnali preoccupanti. Forse l’aiuto di un rappresentante pachistano avrebbe evitato la tragedia poiché consapevole di certe dinamiche”. “Il matrimonio forzato è considerato un crimine non solo in Italia ma anche in Pakistan e in quanto tale viene perseguito a livello governativo mentre a livello religioso non è ritenuto valido. Le unioni forzate rappresentano ormai delle eccezioni e resistono solo per motivi di interesse famigliare anche se questa non è certo una giustificazione, in considerazione della loro gravità. Cultura e religione comunque non c’entrano nulla”. A parlare è Hasnain Harif, pachistano arrivato nel nostro Paese nel 1999 a soli sei anni nonché componente della Consulta per l’Integrazione di Carpi.
Ma qual è il limite tra matrimoni combinati e forzati? Quando questo confine sottile viene superato, rischiando poi di sfociare in tragedia qualora la promessa sposa si opponga alle nozze?
“Quella dei matrimoni combinati – spiega Hasnain Harif – è una pratica rarissima in Italia poiché sempre più rifiutata dalle seconde generazioni e sta scomparendo anche in Pakistan. Nei casi in cui vengono celebrati c’è il consenso di entrambi gli sposi: i coniugi decidono cioè di avallare la scelta che i genitori hanno fatto per loro ma ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, sono i giovani sposi a scegliersi in autonomia”.
Ma allora a cosa sono imputabili tragedie come quella del 2010 a Novi di Modena, quando la pachistana Nosheen Butt, venne picchiata a sangue dal fratello perché si era rifiutata di sposare l’uomo scelto per lei, mentre la madre Shahnaz Begum fu assassinata dal marito e dal figlio per averla difesa? Di quale cultura arcaica e patriarcale è figlio l’omicidio e l’occultamento del corpo della giovane Saman Abbas, a Novellara?
Per Hasnain Harif tali fatti di sangue non sono riconducibili a “una matrice culturale o religiosa. Non è un fatto di nazionalità. Sono crimini e basta. Come il femminicidio, lo stupro… Frutto di deformazioni mentali. In alcuni sopravvive un presunto concetto di onore secondo cui è necessario far vivere la propria figlia in un determinato contesto, una percezione distorta che può portare a scelte terribili e ad atti criminosi come nel caso di Nosheen e Saman”.
Come Consulta per l’integrazione, spiega Hasnain Harif, “dove è presente una grande rappresentanza di donne straniere di tutte le nazioni e confessioni religiose, stiamo facendo diversi sforzi per promuovere il ruolo attivo delle donne nella vita quotidiana e aiutare chi si trova in situazioni difficili”.
Un aiuto, quello offerto a Saman dalle istituzioni, evidentemente non del tutto adeguato: “credo – sottolinea Harif – che in casi delicati come questi occorra l’intervento di un mediatore culturale. Di qualcuno che conosca bene il contesto famigliare e nazionale, che sapendo quali sono le usanze del paese d’origine sia immediatamente in grado di intercettare segnali preoccupanti. Forse l’aiuto di un rappresentante pachistano avrebbe evitato la tragedia poiché consapevole di certe dinamiche, lo abbiamo fatto presente all’Amministrazione di Novellara”.
Il processo di integrazione è ancora in corso, “io mi sento 100 percento italiano e così i miei bambini. Le seconde generazioni stanno crescendo e raggiungendo la maturità, si sentono italiane ma fanno ancora i conti con le tradizioni e la cultura del paese d’origine dei propri genitori. Le cose cambiano, seppur lentamente, e in tanti altri paesi europei questi problemi sono stati superati da anni e non si registrano più casi di violenza in famiglia. E’ un processo di cambiamento che va assistito e aiutato e che necessita di tempo per completarsi del tutto”.
Chiara Tassi e Jessica Bianchi
"Usciamo la sera e abbiamo amici italiani, così la nostra famiglia pachistana è cambiata". Karima Moual su La Repubblica il 17 giugno 2021. La famiglia Afzal a Brescia. Al centro i genitori, Muhammad e Zakia. Alla loro sinistra i figli maggiori, Hira e Noman. Alla destra le due altre figlie, Saba e Aneeqa. La storia dei fratelli Afzal, che da Brescia raccontano: "Uccidere Saman è stato un crimine. Ma è giusto scegliere un partner in accordo con i genitori. Dialogo e compromessi tra generazioni, questa è la strada per l'integrazione". La famiglia Afzal è una casa che si costruisce un giorno dopo l'altro, con cura, delicatezza, rispetto e amore. "Ma solo grazie a una dialettica, che abbiamo sempre messo al centro. Con molta pazienza, io e mia sorella, siamo riusciti a conquistarci i nostri spazi, un po' alla volta". A parlare è Noman Afzal, 21 anni, in Italia da quando ne aveva sei. Oggi va all'università ed è il primogenito. Dopo di lui tre sorelle: Hira 17 anni, Saba 16, Aneeqa 9. Una famiglia numerosa quella degli Afzal, come le tante famiglie pachistane che vivono in Italia e che si trovano di fronte a sfide e scelte importanti che la contaminazione interculturale e l'integrazione in un Paese nuovo e diverso evidentemente le porta a mettersi in gioco. Ad osservarli da vicino, ascoltandoli con attenzione, c'è tutta la forza di un processo sociologico e storico in atto dove alcuni valori si scontrano con altri, si modellano. Ma, a volte, purtroppo, si rischia di perderli di vista. Succede quando accadono fatti di cronaca come quello di Saman Abbas i cui familiari sono accusati di averla uccisa. E allora eccoci: a viaggiare al nostro fianco c'è anche un mondo in evoluzione e trasformazione come quello dentro un piccolo appartamento di una via poco distante dal centro di Brescia, dove le parole in urdu e italiano, con marcato accento bresciano, si mischiano, si accavallano entrano ed escono per spiegare, tradurre e farsi capire. "Quanto è successo a Saman è un crimine, orrore puro", spiega il papà di Noman, Muhammad, in Italia da 21 anni, oggi con la moglie Zakia grazie al ricongiungimento famigliare. "Purtroppo alcune persone provenienti da zone rurali del Pakistan, per cultura e ignoranza si comportano in questo modo, ma rischiano di travolgere tutti noi che abbiamo fatto tanti sacrifici per vivere qui, lavorare e far crescere i nostri figli. Abbiamo viaggiato, siamo qui per migliorarci e non per farci retrocedere nell'ignoranza. Tutti i nostri sforzi sono inidirizzati a far studiare i figli". Gli Afzal in Pakistan non ci vanno spesso perché ormai la loro vita è qui, a Brescia e in Italia. Ma più in là, una volta in pensione, hanno forse in mente di tornare a vivere in Pakistan? Muhammad e Zakia sono categorici: "Assolutamente no. La nostra vita è vicino ai nostri figli e loro stanno crescendo e formandosi in Italia". Spiega Noman: "Il rispetto per i genitori per la cultura pachistana è un pilastro fondante, e tutto ruota intorno alla famiglia e il suo equilibrio". "L'obiettivo - aggiunge la sorella Hira - è lavorare al meglio affinché la famiglia, con tutte le sue dinamiche, possa comunque muoversi unita nelle scelte e nelle aspettative del futuro, ma nulla può trasformarsi nella violenza verso i figli. Questa unità della famiglia che abbiamo noi pachistani viene poco capita qui, ma è importante comprenderla. Noi veniamo educati fin da piccoli all'importanza della famiglia e ne siamo molto consapevoli". È davvero incredibile come questi due fratelli, i figli più grandi degli Afsal, riescano comunque a trovare un compromesso viaggiando su due fronti. Noman spiega: "È vero che come comunità siamo chiusi, ma perché di fondo c'è un sentimento di paura verso quello che è un sistema di valori occidentali più individualista rispetto al nostro, più comunitario. Con i miei genitori, per esempio, qualche anno fa ho dovuto discutere, e non poco, per poter uscire con amici italiani e fare qualche volta tardi. La loro diventa una paura fisica che sentiamo addosso anche noi. E allora cerchiamo di attenuarla, rassicurandoli". E Hira rincara: "Mia madre è molto protettiva verso di me perché sono donna. Ha paura delle cattive compagnie, ma anche del contesto di criminalità e droga. È ossessionata dalle droghe". Noman parla proprio di questo, dell'aspetto comunitario: "È quello che misura la tua reputazione e che, di conseguenza, svolge un ruolo di controllo non indifferente". Insomma, una piccola comunità, quella pachistana, dentro una più grande, che definisce traiettorie piccole e grandi. Quella dei matrimoni combinati è una di queste. "Ci si sposa dentro la comunità etnica e religiosa, il cosiddetto matrimonio combinato fa parte della nostra cultura - spiega molto serenamente Noman -. E non ha nulla a che vedere con quello forzato. Un'iniziativa come quella delle nozze non è mai individuale, bensì condivisa con la propria famiglia". Il padre annuisce soddisfatto della spiegazione che il figlio ha dato. "La scelta del futuro marito può essere anche indicata da noi - sottolinea Hira - Poi lo si presenta ai genitori che dovranno dare il consenso". Noman puntualizza: "Quando arriverà quel momento, penso che ci consulteremo perché la mia futura moglie non vivrà solo con me, ma anche con i miei genitori. Nella nostra cultura, infatti, i genitori stanno sempre con il figlio maschio. Per questo è importante che in questa scelta ci sia accordo e unione". Ma se qualcuno dovesse innamorarsi di un partner non pachistano, cosa succederebbe? Sembra che nessuno nella famiglia Afzal ci abbia mai pensato. Hira lancia prima uno sguardo ai genitori, poi dice con onestà: "È una questione che ancora non abbiamo toccato. So però che è molto difficile e avremo bisogno di grande accortezza". Noman bolla l'argomento come bordeline per loro. Quando saranno toccati da questa evenienza sicuramente la affronteranno sempre come famiglia. Ma, per fare una scelta del genere, il primogenito degli Afzal ammette: "Dovrei essere un uomo molto indipendente, sicuro e forte perché i miei genitori mi diano fiducia in una scelta così importante". Mohammad e Zakia ascoltano e sospirano in silenzio. Sono più che consapevoli che sono ancora molte le sfide e i compromessi che li attendono. Soprattutto quando guardano le ultime due figlie minorenni, Saba e Aneeqa, nate in Italia e non in Pakistan.
Il caso di Saman Abbas non c’entra con l’islam. La scomparsa della 18enne di origini pakistane sta venendo strumentalizzata dalla destra. Ma farla passare per una questione di religione vuol dire ignorare un problema ben più presente nella nostra società: quello della cultura patriarcale, della violenza sulle donne, dei femminicidi. Viola Serena Stefanello su rollingstone.it il 9 giugno 2021. Aveva 18 anni, viveva da anni a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, e di lei da fine aprile non c’è traccia. Quello di Saman Abbas, giovane di origini pachistane che a dicembre aveva denunciato i familiari che la volevano dare in sposa in un matrimonio combinato, è ancora un caso aperto, ma tutti gli indizi per ora sembrano puntare verso una conclusione atroce: un femminicidio a sangue freddo, avvenuto con il beneplacito della famiglia della ragazza. Un delitto d’onore, come quelli che anche in Italia accettavamo con pene meno severe fino all’inizio degli anni Ottanta. Secondo le ricostruzioni, basate pesantemente sui racconti del fratello 16enne e del fidanzato di Saman, su alcune telefonate e messaggi ottenuti dagli inquirenti e su delle immagini di videosorveglianza, la ragazza sarebbe tornata nella casa di famiglia a Novellara, forse per cercare di riavere i propri documenti, lasciando la struttura gestita dai servizi sociali nel bolognese dove era ospitata dopo essere sfuggita al matrimonio combinato con un cugino. Saman è nella sua cameretta e messaggia con il fidanzato dal cellulare rubato alla madre. Gli scrive che da lì riesce a sentire la sua famiglia che parla di ucciderla: “l’ho sentito con le mie orecchie, giuro che stavano parlando di me”, gli scrive. “Se non mi senti per 48 ore avverti le forze dell’ordine”. Poi scompare. Ad occuparsi materialmente di uccidere Saman sarebbe stato lo zio Danish, che probabilmente la strangola prima di nasconderne il corpo. Il fratello gli domanda dov’è seppellita, perché vorrebbe abbracciarla un’ultima volta, ma lo zio si rifiuta di dirglielo. I genitori partono per il Pakistan poco dopo. Il fratello prova a scappare in Francia, spaventato dalle intimidazioni dello zio, che gli dice che avrebbe ammazzato anche lui se avesse detto qualcosa alle forze dell’ordine. Ma viene fermato in un controllo vicino ad Imperia, e cede. “Mio zio Danish ha ucciso Saman. Ho paura di lui, perché mi ha detto che se io avessi rivelato ai carabinieri quanto successo, mi avrebbe ammazzato”, avrebbe raccontato agli inquirenti secondo una ricostruzione del Corriere della Sera. “Ho pensato anche di ucciderlo mentre dormiva, visto ciò che ha fatto. Ma poi ho pensato che sarei finito in prigione. Ed era meglio che intervenissero i carabinieri”. Mentre le indagini si chiudono sui campi vicini alla casa degli Abbas, dove potrebbe essere stata sepolta Saman, il giudice per le indagini preliminari Luca Ramponi afferma che la ragazza sarebbe stata uccisa “per punirla dall’allontanamento dai precetti dell’islam e per la ribellione alla volontà familiare, nonché per le continue fughe di casa”. Sul caso sono balzati presto diversi esponenti politici e testate di destra, secondo cui la morte di Saman andrebbe letta in luce del fondamentalismo islamico e dell’incapacità degli immigrati di rispettare le leggi italiane. Ignorando utilmente non soltanto che anche in Pakistan sono illegali gli omicidi d’onore e i matrimoni forzati – sebbene il governo faccia fatica a far rispettare la legge nelle comunità più patriarcali, dove sistemi giuridici paralleli ed illegali hanno spesso l’ultima parola – ma anche la decisione inedita, da parte del presidente dell’Unione delle comunità islamiche in Italia, di emettere una fatwa contro i matrimoni combinati. Una decisione volta a sottolineare una “cultura del rispetto, della tutela e della sacralità della vita delle persone” da parte della schiacciante maggioranza della comunità musulmana in Italia, che conta 1,7 milioni di credenti. “Dovremmo affrontare la vicenda e discuterne principalmente come violenza sulle donne, come una terribile violazione dei diritti umani”, ha risposto Marwa Mahmoud, attivista femminista musulmana e Consigliera comunale del Comune di Reggio Emilia. “Parlare di questo crimine associandolo unicamente all’origine, alla nazionalità e alla fede della famiglia sarebbe un gravissimo errore. Una semplificazione che finirebbe per etnicizzare un reato che è quello dei matrimoni forzati”.
L'integrazione che non c'è: "I casi come Saman in aumento". Rosa Scognamiglio e Francesca Bernasconi il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dal caso di Saman Abbas alle altre ragazze straniere vittime di maltrattamenti familiari: "I matrimoni forzati sono in crescita, bisogna applicare la legge". Come denunciare e fare prevenzione. Nella notte tra il 30 aprile e il 1°maggio 2020 Saman Abbas, una 18enne pakistana, scompare da Novellara, una tranquilla cittadina in provincia di Reggio Emilia. In procura viene aperto un fascicolo per omicidio e occultamento di cadavere. Secondo gli investigatori, la ragazza sarebbe stata vittima di una congiura familiare dopo essersi opposta al matrimonio forzato col cugino in Pakistan: uccisa, "fatta a pezzi" e sepolta. Alla luce delle evidenze raccolte, i genitori di Saman con anche lo zio e due cugini sono stati iscritti nel registro degli indagati. Il caso del presunto delitto d'onore ai danni della neodiciottenne ha squarciato il velo di omertà sulla pratica dei matrimoni forzati dell'Islam radicale. Una consuetudine che sta rischiando di mietere vittime silenziose, perlopiù minorenni straniere, anche in Italia. "Negli ultimi mesi stiamo accogliendo giovani ragazze straniere, anche adolescenti, che hanno vissuto delle dinamiche familiari molto simili a quelle di Saman. È un sommerso che sta venendo alla luce solo da qualche settimana ed è un grande dramma", rivela in forma anonima alla nostra redazione la responsabile di una casa rifugio del Milanese.
Il punto sulle ricerche di Saman Abbas
Il cadavere di Saman Abbas - posto che sia confermata l'ipotesi delittuosa ventilata dagli inquirenti - non è stato ancora ritrovato. Dopo cinque mesi di ricerche tra le campagne di Novellara, con l'impiego unità cinofile specializzate e scanner georadar, si brancola nel buio. Sul fronte delle indagini però ci sono delle novità. Il prossimo 24 novembre, si deciderà in Corte d'Appello a Parigi sulla estradizione dello zio Danish Hasnain, considerato dagli inquirenti "l'esecutore materiale del delitto". Nessun aggiornamento invece circa la richiesta di estradizione dal Pakistan di Shabbar Abbas e Nazia Shasheen, i genitori di Saman. Le autorità pakistane hanno assicurato all'Italia "il massimo impegno" per accelerare i tempi. Infine resta in carcere Ikram Ijaz, uno dei due cugini indagati per il presunto omicidio mentre sull'altro sospettato, Nomahulaq Nomahulaq, spicca un mandato di arresto internazionale.
L'Articolo 18bis
"Saman si doveva e si poteva salvare". A dirlo è Ebla Ahmed presidente dell’associazione nazionale Senza Veli Sulla Lingua, che si occupa di contrastare la violenza di genere in tutte le sue forme e manifestazioni. "Colpisce il fatto che nella vicenda Saman Abbas quasi nessuno abbia utilizzato il termine femminicidio, pur solitamente legato a ogni fatto simile. Come mai? - dice Ebla Ahmed alla nostra redazione - Che differenza c’è tra la mano di un padre di uno zio e quella del marito? Che sia la mano di un marito, convivente, fidanzato o di un ex non cambia nulla. Questo delitto va classificato come femminicidio, non si può sottovalutare la situazione e ridimensionarla. Non accetto che vengano deviate le vere responsabilità sulla morte di questa ragazza. La giovane aveva avuto il coraggio di denunciare ma non ha ricevuto protezione. La si doveva isolare dalla famiglia perché è in quel contesto che è andata incontro alla morte". Saman aveva denunciato per maltrattamenti i suoi genitori già alla fine del 2019, quando era ancora minorenne. Un grido d'aiuto coraggioso, e al contempo disperato, che sembrerebbe non averla preservata dal piano diabolico ordito alle sue spalle. "Saman aveva cominciato a denunciare la sua situazione di vittima di violenza domestica ben sette mesi fa - continua Ebla Ahmed - Aveva dichiarato espressamente che veniva tenuta segregata in casa dal padre, che non le veniva data la possibilità di studiare, che non aveva la libertà di frequentare amici, che le veniva impedito di vestirsi a suo piacimento, e per di più riceveva percosse in famiglia. Vessazioni incredibili a cui si è aggiunta poi anche la volontà paterna di imporre alla giovane un matrimonio forzato dopo una lunga serie di atti persecutori perpetrate ai danni della giovane". L'articolo 18bis del Testo Unico per l'Immigrazione prevede la proroga di 6 mesi del permesso di soggiorno per le donne straniere che necessitano di protezione, laddove ne fosse a rischio l'incolumità. "L’articolo 18 bis ha dato attuazione all’articolo 59 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e lotta alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica e introduce il rilascio dello specifico permesso di soggiorno alle vittime degli atti di violenza perseguiti dalla Convenzione – precisa la presidente dell'associazione Senza Veli Sulla Lingua – Saman poteva essere salvata se solo si fosse applicato l’articolo 18 bis del testo unico di immigrazione, che tutela le donne immigrate dalla violenza e che si applica quando siano state accertate situazioni di violenza o abuso nei confronti di una straniera".
L'allarme dei matrimoni forzati
Ogni giorno decine di ragazze straniere sono vittime di maltrattamenti domestici. Una violenza che trova terreno fertile nei contesti familiari regolati da rigidi dettami comportamentali e pratiche ancestrali, come l'induzione alle nozze. In Italia il fenomeno del matrimonio forzato è in repentino aumento, nel mondo si contano ben 700milioni di casi. "Il fenomeno dei cosiddetti matrimoni forzati in Italia è in forte aumento per la presenza nel nostro paese di culture multietniche ma ancora è un fenomeno sommerso - spiega alla nostra redazione l'avvocato Adalgisa Ranucci - Infatti non abbiamo dati statistici precisi. Sono le Nazioni Unite a dirci che nel mondo sono oltre 700 milioni di donne che sono costrette a contrarre matrimonio contro la propria volontà". Non solo donne costrette al matrimonio, ma spose bambine. "In Italia solo nel 2019, con la legge 'Codice rosso' è stata prevista una disciplina specifica per contrastare questo fenomeno. Infatti è stato introdotto l'articolo 568 bis nel codice penale che prevede che chiunque costringa con violenza o con minaccia un soggetto a contrarre matrimonio venga punito con la reclusione da 1 a 5 anni. La pena aumenta da 2 a 7 anni nel caso in cui i fatti commessi siano ai danni di minore di 14 anni". La portata innovativa del Codice rosso è stata soprattutto quella "di essersi adattato alla normativa sovranazionale e agli altri ordinamenti europei – conclude l'avvocato Ranucci - un segnale di ribellione nei confronti di quella violazione dei diritti fondamentali che colpiscono le fasce più deboli, quali i minori, dando luogo a quel terribile fenomeno delle spose bambine".
Formazione e istruzione: così si può prevenire la violenza
Saman Abbas, Hina Saleem, Sana Cheema. Nomi tristemente noti, a cui se ne potrebbero aggiungere tanti altri, vittime di una violenza cieca, che non accetta un rifiuto. È la violenza che subiscono le donne uccise perché si sono opposte a un matrimonio forzato, ma anche quella che ha lasciato senza vita le compagne, le mogli o le fidanzate di uomini abituati a mantenere il controllo su tutto. Una spirale di violenze da cui non è facile uscire. "Le donne che si rivolgono a noi sono molto spaventate e attraversano un momento della loro vita difficile e ambivalente - spiega a IlGiornale.it Annalisa Cantù, counselor dell'associazione Senza Veli sulla Lingua - nel senso che da una parte c’è la violenza e dall'altra c’è una ricerca del coraggio di denunciare. Una donna che arriva da noi è una donna che è riuscita a fare questo percorso e a dire a se stessa: ‘Mi devo salvare’". Anche Saman era riuscita a fare questo percorso: "Era una vittima di violenza - ha sottolineato Ebla Ahmed - non andava a scuola, non poteva vestirsi come voleva e subiva maltrattamenti". Ma c’è un modo per prevenire queste forme di violenza? "Bisogna istruire i ragazzi e le ragazze", dice Ebla che, riferendosi in particolare alla "terribile usanza" del matrimonio forzato, aggiunge: "È un’usanza che va combattuta con l’istruzione nelle scuole dell’obbligo, nei centri di culto delle varie religioni e con la creazione di una rete di protezione che funzioni, per questo gli addetti ai lavori devono essere formati e informati". La violenza, però, non è legata solo al fenomeno del matrimonio combinato. Per questo, è importante fare prevenzione per ogni forma di violenza e non solamente alle persone direttamente interessate: "Noi come associazione lavoriamo anche con progetti che andiamo a proporre nelle scuole, non solo mandando un esperto a parlare, ma proponendo dei laboratori dove i ragazzi possono confrontarsi - racconta Annalisa Cantù - E si fa formazione anche a ragazzi e ragazze che non hanno nello specifico questo tipo di problema, ma devo essere formati culturalmente". Il fenomeno della violenza non è per forza legato a un fattore culturale: "Non sempre la violenza nasce da una mentalità religiosa e integralista - aggiunge Cantù - anche in Italia assistiamo al problema di uomini che hanno la sensazione che gli sfugga il controllo e qualche volta si arriva alla violenza". La formazione nelle scuole rappresentata un punto di partenza importante, "che non è sufficiente", ma può essere fondamentale per avviare il percorso di prevenzione.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo
Saman Abbas, la casta, l’onore e la piaga dei matrimoni combinati. “Il vero nemico è il patriarcato e la nostra società che nega diritti e sostegno”. Riccardo Bottazzo su meltingpot.org il 13 giugno 2021. Ha pianto disperatamente, il padre di Saman, quando i familiari carnefici gli hanno annunciato che sua figlia era stata macellata. Quegli stessi carnefici ai quali lui l’aveva consegnata. Ha pianto anche la madre di Saman, ripetendo che “purtroppo non c’era altro da fare”. La rispettabilità della famiglia, i doveri della casta sono stati rispettati. Il “cosa dirà la gente” andava fatto tacere. Non era concepibile agire altrimenti. Non è la prima ragazza pakistana che si era rifiutata di sottostare ad un matrimonio combinato, Saman, ad essere uccisa per l’onore e per la tradizione. Solo un paio d’anni fa, un’altra ragazza ribelle aveva anticipato la sorte di Saman. Sono in pochi oggi a ricordarsi della vicenda di Sana Cheema, di Brescia. Anche in quel caso, la madre piangeva e spiegava, disperata, che suo marito non era cattivo. Che lo aveva dovuto fare. A differenza di Saman, questa giovane era stata portata di forza in Pakistan, e là uccisa. E la giustizia di questo Paese ha assolto i suoi carnefici. Anche per i giudici pakistani si è trattato di un atto spiacevole ma che doveva essere compiuto.
Wajahat, regista ribelle. Sulla storia di Sana intervistai Wajahat Abbas Kazmi, regista ribelle di origini pakistane che mi spiegò come funzionano le caste, l’elemento centrale su cui ruota il sistema patriarcale pakistano, e quanto pesa, soprattutto per le comunità che si costituiscono all’estero, in piccoli paesi della provincia, la rispettabilità delle famiglie: “Per la comunità pakistana questi sono considerati delitti d’onore che rientrano semplicemente nei doveri di un genitore. Non parlo solo del padre ma anche della madre che, non solo lo giustifica, ma è sempre complice. Se non hanno loro il coraggio di uccidere la figlia ribelle, spetta ai cugini o agli zii eseguire. Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema, ma a pagare con la vita sono quasi sempre solo le donne. Sin da piccole viene costruita attorno a loro una gabbia dalla quale non riescono ad evadere. Come fa una bambina a pensare che la madre ed il padre a cui vuole tanto bene, da grande possano ucciderla? Tutta la famiglia diventa una trappola mortale che non lascia scampo alla vittima. Quelle che vengono mandate a frequentare le scuole superiori sanno già che dovranno sposarsi con un parente indicato dalla famiglia. Alcune vengono forzate a sposarsi già prima. Il padre dice loro che se vogliono andare a scuola prima si devono sposare. Così non scappano più. Tarpano loro le ali prima di farle uscire dal nido. Sono comportamenti difficili da spiegare agli italiani”. Per le famiglie, il matrimonio combinato è anche una questione economica. Un modo per tenere insieme i beni della famiglia, intesa in senso allargato, e aiutare coloro che sono rimasti in Pakistan che magari hanno contribuito alle spese del viaggio che non sono mai indifferenti. Non è un caso che le coppie forzate vengano quasi sempre formate tra cugini di secondo e anche di primo grado. La religione, diciamolo subito, non c’entra niente. Anzi, a volerla dire tutta, per l’islamismo il sistema della casta è una bestemmia, considerato che Maometto stesso le ha proibite. “In Pakistan non sanno una minchia di cosa sia il Corano! - mi ha spiegato ridendo Wajahat - È scritto in arabo e in arabo siamo obbligati a leggerlo ma nessuno di noi parla l’arabo! Quando studiamo il Corano ripetiamo a memoria delle frasi senza capirle! Dell’Islam sappiamo quello che ci viene raccontato e quello che ci viene raccontato è solo l’aspetto maschilista e patriarcale”. Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema ma loro viene concessa sempre una scappatoia. “I maschi possono frequentare gli italiani - mi ha spiegato Wajahat -. Se hanno una storia, nessuno li accusa di nulla. Basta che la tengano fuori dalla comunità. Anzi, viene ammirato come uno che si da da fare con le donne italiane che, si sa, non nutrono una buona reputazione. Alle ragazze tutto questo non viene concesso. E poi mi incazzo quando sento ripetere da certi personaggi italiani che si definiscono di sinistra che bisogna rispettare le culture di tutti, che bisogna evitare di dare giudizi su pratiche come i matrimoni combinato o il burka! Che idiozia! Come si fa a dire che questa è liberà? Come si fa a dire che le donne pakistane o bengalesi sono sottomesse perché amano essere sottomesse per tradizione? Su questo tema, certa sinistra non capisce un tubo proprio come la destra. Accoppare la figlia perché non si vuole sposare con chi decidi, non è cosa che si possa giustificare con la cultura! Ma donne che si ribellano, in Italia come in Pakistan ce ne sono, e sono sempre di più. Aiutiamole!”
Fidanzata con un pakistano. Laura B, studentessa di legge di Bologna, è stata per due anni fidanzata con un ragazzo di origine pakistane. “Lui viveva due vite diverse. Aveva anche due profili completamente distinti nei social. Era nato in Italia e aveva la cittadinanza, così come i suoi genitori che venivano dal nord del Pakistan e vivono in un piccolo comune emiliano. Con me e con il mio gruppo di amici faceva l’italiano e manifestava idee politiche avanzate. Quando tornava in famiglia, cambiava completamente. Non mi ha mai voluta presentare ai suoi e se, fuori da Bologna, incrociavamo pakistani faceva finta di non conoscermi. Parlavamo di sposarci, non appena fossi laureata. Poi un giorno lo hanno portato in Pakistan con la scusa di far visita alla nonna che viveva ancora là. Era tutto pronto a sua insaputa e lo hanno fatto sposare con una sua lontana cugina che neppure conosceva. Quando è tornato a Bologna mi ha cercata per dirmi che ora lui era più libero. Che con sua moglie doveva farci solo dei figli. Che noi potevamo ricominciare come prima. Ovviamente io l’ho mandato a…”
Storia di Nazia. Le caste e i matrimoni combinati, se penalizzano anche i ragazzi, rimangono comunque funzionali al mantenimento di un sistema patriarcale. La storia di Nazia, che abbiamo già raccontato su Melting Pot, è esemplare di quanto accade a tante donne pakistane. Fatta sposare “rispettando la casta e la famiglia”, Nazia è stata spedita in Italia come un pacco postale. Il marito, con cittadinanza italiana, l’ha tenuta segregata in casa come si usa, per dieci anni. Manco la spesa da sola poteva fare e io ricordo ancora la sua felicità e sorpresa quando, per la prima volta, è entrata in un supermercato. Con quell’uomo, Nazia ha avuto due figli, cittadini italiani. Poi, quando si è stufato di lei e si è trovata una nuova compagna (questo agli uomini è concesso), le ha sequestrato tutti i documenti, compresi quelli dei bambini, l’ha riportata dal fratello con la solita scusa della visita alla famiglia e l’ha abbandonata là. Il suo destino sarebbe stato quello venir sposata una seconda volta. Ma una donna che ha già contratto matrimonio è merce scaduta. Sarebbe finita in una casa con un marito anziano con almeno due o tre mogli già a carico, a far da serva. Per i suoi figli, non riconosciuti dal nuovo marito, sarebbe andata ancora peggio perché la nuova famiglia li avrebbe sbolognati il prima possibile e senza dote. E’ questo il fenomeno che sta alla base delle spose bambine. A Nazia è andata bene. Ha trovato il coraggio di ribellarsi e di scappare. Delle attiviste dell’associazione PortoAmico, l’hanno aiutata a recuperare i figli ed a tornare in Italia, grazie all’escamotage che i bimbi, pur senza documenti, erano cittadini italiani. Altrimenti non ci sarebbe stato nulla da fare. Così come è per le tante Nazie che non hanno avuto questa fortuna, donne sposate a forza e poi rispedite in Pakistan con un destino di umiliazioni e vendette trasversali. E c’è da sottolineare che leggi come quelle sulla sicurezza che hanno allungato e complicato l’ottenimento della cittadinanza non hanno fatto altro che il gioco di questo sistema patriarcale, penalizzando le vittime e aiutando i carnefici. Ma questo, chi le ha scritte lo sapeva bene, giusto?
Pakistano e gay. Ho conosciuto T. H. - giovanotto di origini pakistane e nato in Italia - qualche tempo fa ad un concorso di poesia dove si era classificato tra i primi cinque autori premiati. Due anni dopo l’ho ritrovato per puro caso in una città di cui non farò il nome. Era in fuga. “Sono riuscito a scappare da casa solo perché sono un uomo e di casta alta. Mi volevano obbligare a sposare una cugina. Ma io sono gay e ho già un ragazzo. Mi dicevano che non importava, che una volta sposato potevo fare quello che volevo ma che la famiglia mi imponeva di sposare questa mia cugina che era ancora in Pakistan. Io l’ho sentita via Skype - di nascosto perché parlare con la futura moglie è vietatissimo -. Neanche lei voleva sposarmi. Così ho deciso di scappare quando ho visto che mi avevano comperato il biglietto per Islamabad. Siccome sono un uomo, ero io gestire i miei documenti. Per le ragazze invece spetta al padre conservarli e loro non ne possono entrare in possesso. Sono un’arma di ricatto. Poi, essere di casta alta - non che la cosa a me importi, eh? - mi ha aiutato nella fuga perché quelli più in basso non possono permettersi di agire contro di me, perlomeno non immediatamente. Così sono scappato. Adesso vivo qui. La città è grande e, grazie a dio, non c’è una comunità pakistana strutturata. Ho trovato un lavoro e il mio ragazzo mi ha raggiunto. Ma ho ancora paura della vendetta della famiglia, continuo a nascondermi e se posso non uso il mio nome. Ho terrore di sapere cosa possano aver fatto a quella povera ragazza rimasta ad Islamabad. Le vendette in Pakistan sono sempre trasversali”.
Il dramma della seconda generazione. Le ragazze ed i ragazzi di seconda generazione vivono una doppia vita che causa loro grandi sofferenze: italiani in classe e pakistani in famiglia. Sono tante le ragazze che cercano di ribellarsi, che vorrebbero continuare gli studi, lavorare, essere indipendenti e scegliere da loro la loro vita. Drammi ai quali la società è indifferente. “La cosa peggiore è l’indifferenza degli italiani. Il loro non voler capire - mi ha spiegato un giovanotto pakistano di nome Hamed -. Gli basta che lavoriamo e che non nutriamo pretese, comprese quelle sindacali, e va tutto bene”. Il padre non manda più la figlia a scuola? Ho sentito presidi rispondere che spetta al genitore decidere sulla figlia, dopo gli anni dell’obbligo. Il padre ed i fratelli non permettono alla ragazza di frequentare educazione fisica perché il futuro marito potrebbe avere da ridire? Ci sono prof che si considerano progressisti che ti spiegano che bisogna rispettare le loro culture! Poi ci sono i cosiddetti mediatori culturali pakistani. Fanno comodo alle amministrazioni perché tengono sotto controllo le comunità ma a che prezzo avvenga questo controllo non gliene importa niente a nessuno.
Come Saman. Storie come quelle di Saman, sono frequenti in chi lavora all’interno della comunità pakistana. Racconta Grazia Satta, attivista di PortAmico, che ha lavorato tanti come professoressa in una superiore di Portomaggiore, in classi con alta densità di studenti di origine pakistana: “Capita che anche le mediatrici di cui ti fidi e che ritieni in gamba facciano il doppio gioco. Si è rivolta a me una ragazza che, come Saman, non voleva accettare il matrimonio combinato perché era innamorata di un ragazzo pakistano che aveva conosciuto a scuola. Il padre l’aveva chiusa in casa ed io ho chiesto aiuto alla mediatrice pakistana. Ma le cose non si muovevano. Quando sono riuscita a rimettermi in contatto con Sarah, chiamiamola così, questa mi ha detto, impaurita, che la mediatrice faceva il gioco della famiglia! Sarah, si è salvata perché ha rinunciato ai suoi progetti. Quando ho interpellato la mediatrice, questa mi spiega che la ragazzina è viziata e che il padre è un buon padre e che sa lui cosa è meglio per la figlia. O forse pretendevo di conoscere meglio io, che non sono pakistana, la situazione? La notte prima dell’inizio dell’esame di maturità Sarah mi manda un messaggio: ‘se non sarò a scuola mandate i carabinieri a casa, mio padre non vuole che io mi diplomi e mi ha chiuso in casa’. Il padre ha intercettato il messaggio, ma ha avuto paura dei carabinieri e le ha permesso di venire a scuola. Ma poi Sarah ha dovuto cedere e accettare il matrimonio”. “Sarah dopo il matrimonio è tornata in Italia e ci siamo incontrate ad una festa - continua Grazia -. Mi ha abbracciato, mi ha detto che stava bene, che ora la famiglia l’amava e che era contenta. Poi improvvisamente si è tolta la maschera e ha cominciato a piangere a dirotto. Mi ha confessato che era disperata e mi ha confessato che, prima di sposarsi, aveva proposto al suo ragazzo di fuggire assieme. "Ma lui non ha avuto il coraggio. Diceva che ci troveranno e ci ammazzeranno entrambi". Poi Sarah ha smesso di parlare e ha continuato solo a piangere”.
Società infettate dal patriarcato. All’interno della comunità e all’ombra del patriarcato si sviluppano relazioni sociali malate. E’ una costante di tutte le comunità patriarcali. Il maschio che non sa imporre la sua autorità diventa l’oggetto di chiacchiere, risate malevole, fino ad arrivare ad un vero e proprio mobbing. E anche la moglie e i figli ne subiscono le conseguenze perché sono moglie e figli di un uomo che non sa fare l’uomo. La ribellione di una giovane figlia è la cosa peggiore che possa capitare in questi contesti. tutta la famiglia sarà esclusa dalle relazioni sociali e additata con disprezzo e malevolenza. Tutto questo avrà conseguenze anche per i parenti che vivono in Pakistan. In ambienti piccoli dove le comunità ricostruiscono un Little Pakistan, l’effetto è devastante. Lo è molto meno, per fortuna, nelle città dove le relazioni interculturali hanno maggiori occasioni per svilupparsi. Ma non è un uso che gli omicidi capitino in paesi piccoli dove si registra una grande percentuale di migranti.
Dalla parte di chi si ribella. “Su queste situazioni - conclude Grazia Satta - i servizi sociali sono impreparati, il più delle volte non sanno neppure che esistono le caste e i matrimoni combinati, non capiscono queste relazioni mai codificate e sotterranee, non hanno mezzi per intervenire e hanno anche paura di essere attaccati da destra e pure da sinistra, perché, per tanti, questi discorsi non sono politicamente corretti. Una seria riflessione sulle migrazioni nel nostro Paese è difficile da fare perché il dibattito è drogato da paure immotivate e fake news cavalcate dalla destra. Se affermi che in una democrazia come la nostra una ragazza deve poter decidere chi sposare e che il sistema delle caste è semplicemente incompatibile con i valori in cui crediamo, rischi di venir accusata di essere anti islamica e di fare il gioco dei sovranisti. Ma l’Islam non c’entra niente qui. E neppure il Pakistan. Un italianissimo come Pillon plaudirebbe questo sistema. Il vero nemico è il patriarcato. Ragazze che si ribellano ce ne sono e tante. I veri colpevoli siamo noi che non sappiamo, non vogliamo dar loro un appiglio, una leva per spezzare le loro catene”.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 luglio 2021. Il video di un delitto d’onore ha scosso in questi giorni la Siria. Pubblicato dalla famiglia della giovane ragazza per annunciare «la purificazione dalla vergogna», il filmato ha ottenuto l’effetto contrario, scatenando la rabbia dei social e la denuncia delle organizzazioni umanitarie. Eida Al-Hamoudi Al-Saeedo, 18 anni, residente a Al-Hasakah, aveva rifiutato di sposare il cugino perché innamorata di un altro uomo, con il quale aveva tentato una fuga. Riacciuffata dalla famiglia, è stata prima affamata e picchiata per giorni dalla famiglia, poi trasportata dal padre e dal fratello in una casa abbandonata in un villaggio desolato, dove ad aspettarli ci sono altri familiari. Nel video si vede la ragazza urlare e chiedere aiuto, poi si sentono tre spari. Le riprese passano poi sulla ragazza, sdraiata a terra, che lotta per rialzarsi finché uno degli uomini non si avvicina e le spara. L’Osservatorio siraniano per i diritti umani ha denunciato «l’orribile delitto» e ha chiesto che gli autori siano puniti. «La famiglia si è vantata sembrava felice mentre faceva a turno per abusare della ragazza, ognuna delle 11 persone che ha partecipato al crimine ha ricevuto una parte del suo sangue». Le riprese video della sparatoria si sono presto diffuse sui social media e hanno scatenato un'ondata di rabbia. Gli attivisti hanno chiesto che i colpevoli siano perseguiti e che la violenza e l'uccisione delle donne cessino. Lo scrittore Sameh Shukri ha twittato: «Un nuovo crimine d'onore e razzismo contro le donne, uccidendo una ragazza siriana nella città di #Hasakah per averla accusata di amore e adulterio. E l'assassino questa volta non è un ISIS che applica la sharia, ma piuttosto il suo clan e i giovani estremisti che credono di essere diventati con questo crimine i padroni del paradiso, chi incita contro le donne e diffonde il loro odio è responsabile dell'uccisione deglla ragazza di Hasaka». Pochi giorni dopo che il video dell'omicidio di Eida è apparso sui social media, una ragazza di 16 anni è stata uccisa da suo padre in un altro "delitto d'onore". La ragazza, che è stata identificata come Aya Muhammad Khalifo dal Centro di documentazione sulle violazioni nel nord della Siria, è stata strangolata dal padre perché colpevole di essere stata violentata da un parente un anno fa. Centinaia di donne hanno protestato contro i "delitti d'onore" nella città di Hasakeh martedì e hanno marciato per le strade, alcune indossando una maglietta bianca con scritto "No alla violenza" in lettere rosse. "Smettila di uccidere le donne", recitava un cartello. "Non c'è onore nell'omicidio", disse un altro. I manifestanti si sono radunati davanti all'abitazione della ragazza di 16 anni che è l'ultima vittima. «Condanniamo questi crimini in nome della tradizione o della religione», ha affermato la manifestante Evin Bacho, membro del gruppo femminista curdo Kongra Star.
Il padre di Saman: "L'Italia le ha fatto il lavaggio del cervello". Rosa Scognamiglio il 20 Luglio 2021 su Il Giornale. Shabbar Abbas, il padre di Saman si proclama innocente e punta il dito contro lo Stato italiano: "Le hanno fatto il lavaggio del cervello". "Lo Stato italiano ci sta trattando male, sta provando a cambiare la religione delle nostre ragazze". Punta il dito contro "lo Stato italiano" Shabbar Abbas, il padre della giovane Saman, la 18enne pakistana della quale non si hanno più notizie dallo scorso aprile e per la cui scomparsa la procura di Reggio Emilia ha aperto un fascicolo per omicidio premeditato e occultamento di cadavere. Una fonte anonima ha rivelato in esclusiva a Quarta Repubblica la versione che l'uomo, rifugiato in Pakistan con la moglie Nazia Shaheen, starebbe raccontando ai suoi connazionali circa la drammatica vicenda per cui è indagato. Non ha dubbi il papà di Saman "è colpa dello Stato italiano" se sua figlia "non credeva più a Dio e al Profeta". A rivelarlo è una fonte anonima, vicina al clan degli Abbas, ai microfoni di Maria Chiara Carbone, l'inviata del programma condotto da Nicola Porro. Shabbar, a detta del testimone, sostiene che alla sua primogenita abbiano fatto "il lavaggio del cervello". Da qui, l'accusa anche nei confronti della polizia: "ci porta via le figlie, facendo loro il lavaggio del cervello e portandole verso il cristianesimo e le volgarità". Il 46enne nega di essere coinvolto nella vicenda: "Non posso dire le bugie, sono anziano. - dice - Chi può uccidere le proprie figlie?". In Italia "l'hanno quasi convertita", rincara poi la dose prendendosela con le autorità italiane. Mentre Shabbar proclama la propria innocenza in patria, le ricerche del cadavere di Saman- nell'ipotesi verosimile che la giovane sia stata uccisa e sopolta nelle campagne di Novellara - sono state sospese dopo circa 70 giorni di attività. Gli unici dati certi della vicenda restano il nome dell'eventuale autore dell'omicidio - Danish Hasnain, zio della vittima - e il fatto che i genitori della ragazza, il già citato Shabbar Abbas e la moglie Nazia Shaheen, siano rifugiati in Pakistan, Paese verso cui la Procura di Reggio Emilia ha inoltrato la richiesta di rogatoria internazionale. Per il momento, agli arresti vi è solo uno dei cugini della 18enne, Ikram Ijaz, fermato in Francia mentre tentava di raggiungere la Spagna e ora nel carcere di Reggio Emilia seppur neghi ogni qualsivoglia coinvolgimento nella scomparsa della ragazza. Sono ancora in fuga, invece, lo zio di Saman e l'altro cugino sospettato del presunto delitto. Per entrambi è stato emesso un mandato di cattura internazionale.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi.
Trovato il cellulare di Saman: era a casa del fidanzato. Valentina Dardari il 27 Luglio 2021 su Inside Over il 26 luglio 2021. La giovane avrebbe lasciato il telefonino nell’abitazione del ragazzo per paura che i genitori lo prendessero. Saman Abbas, la ragazza 18enne di origini Pakistane scomparsa i primi giorni dello scorso maggio, aveva lasciato il suo cellulare nella casa del fidanzato, per timore che i suoi genitori lo requisissero. Il telefonino si trova nelle mani degli inquirenti, che lo hanno sequestrato lo scorso 7 giugno nel Frusinate, nell’abitazione del fidanzato connazionale di Saman, Ayub Saqib.
Il suo telefonino a casa del fidanzato. Venerdì il 24enne è stato ascoltato in tribunale a Reggio Emilia e ha raccontato, nel corso di un incidente probatorio durato circa tre ore e richiesto dalla procura, che il 20 aprile era stata proprio la 18enne a lasciargli il cellulare in custodia. Sembra infatti che la 18enne temesse potesse venire requisito dai suoi parenti, così come era successo con i documenti, passaporto compreso. Saman è scomparsa quasi tre mesi fa dalla sua casa a Novellara, nella bassa Reggiana, e dopo settimane di ricerche continue, gli investigatori sono arrivati a presumere, grazie anche a intercettazioni telefoniche e video, che la ragazza possa essere stata ammazzata dai suoi familiari perché si era rifiutata di acconsentire a un matrimonio combinato dai suoi genitori per sposare un parente in Pakistan. Il cugino 33enne, Danish Hasnai, sarebbe stato identificato come l’esecutore materiale dell’ipotetico delitto.
Saman aveva due cellulari? Lo scorso 10 aprile Saman si era allontanata volontariamente dalla comunità protetta sita nel bolognese dove era stata portata dai servizi sociali e dai carabinieri in seguito alla sua denuncia nei confronti dei genitori. Una volta lasciata la comunità avrebbe quindi raggiunto il fidanzato per lasciargli il telefonino e fare ritorno a casa, nel tentativo di riuscire a tornare in possesso dei suoi documenti che il padre aveva requisito. Probabilmente la ragazza aveva anche un altro telefonino che utilizzava a Novellara, con cui aveva inviato messaggi al fidanzato, tra i quali anche quello del 30 aprile, in cui esprimeva le sue paure. La 18enne avrebbe infatti udito la madre parlare della sua uccisione definendola l'unica cosa da fare, la “soluzione” per punire la figlia disobbediente. Saman aveva quindi immediatamente inviato un messaggio vocale al suo fidanzato per informarlo di quanto appena sentito e giurandogli che stavano proprio parlando di lei, nonostante la madre avesse negato, affermando che si trattava invece di un discorso riguardante una vecchia faccenda avvenuta in patria. Poi di lei non si è saputo più nulla. I suoi genitori sono stati inseriti nella banca dati dell'Interpol ed equivale alla richiesta di arresto provvisorio.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Saman, spunta il sospetto: era sorvegliata da una coppia? Angela Leucci il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. Il fidanzato di Saman Abbas avrebbe rivelato che, prima della scomparsa della giovane, una coppia la sorvegliasse nella casa di Novellara. Il mistero della scomparsa di Saman Abbas potrebbe essere in una presunta coppia che pare la sorvegliasse. A dichiararlo sarebbe stato il fidanzato Saqib Ayub durante l’esame dell’incidente probatorio che si è tenuto nei giorni scorsi a Reggio Emilia. Secondo quanto riporta Il Resto del Carlino, Saqib è stato sentito lo scorso venerdì dal gip Luca Ramponi. Stando al suo racconto, nei giorni immediatamente precedenti alla scomparsa, avvenuta la notte del 30 aprile scorso, Saman sarebbe stata sorvegliata da un uomo e una donna, ospiti della sua famiglia e portati nell’azienda agricola di Novellara in cui gli Abbas vivevano e lavoravano da un cugino che ancora è impiegato lì. Dall'inizio di maggio gli inquirenti hanno cercato il presunto corpo di Saman nel campo dell'azienda agricola, senza mai trovarlo: è stato supposto che la ragazza sia stata uccisa per la sua opposizione a un matrimonio forzato.
I prodromi della scomparsa di Saman. Per capire le nuove dichiarazioni di Saqib, che comunque non si fermano qui, bisogna fare un passo indietro. La 18enne Saman aveva subito un fidanzamento forzato da parte dei suoi genitori con un cugino di oltre 10 anni più vecchio di lei, molto ricco e che vive in Pakistan. Ma la giovane non voleva essere obbligata alle nozze: a dicembre 2020, quando tutta la famiglia era pronta a partire per il matrimonio, Saman ha contattato i servizi sociali ed è stata condotta in una residenza segreta, dove è rimasta fino all’inizio di aprile. Qui ha condotto una “vita occidentale”, uniformandosi allo stile di vita delle sue coetanee italiane: sui social ha anche conosciuto Saqib, che ha incontrato di persona a gennaio e con il quale si era fidanzata. Saman e Saqib sembra avessero progettato di sposarsi e fuggire insieme: Saqib conserva ancora i vestiti e gli accessori preparati per le nozze. Quando Saman ha lasciato la residenza protetta, si è recata dai suoi genitori a Novellara. Pare che fosse spinta dal bisogno di riavere i suoi documenti, in particolare il passaporto con cui tornare in Pakistan dove avrebbe sposato Saqib. Ma i genitori della ragazza pare si opponessero a queste nozze: Saqib ha affermato di aver ricevuto minacce di morte per sé e per i suoi cari in Pakistan, e che il cugino di Saman le ha tirato uno schiaffo a causa della loro relazione. È stato mostrato più volte in tv e sulla stampa il volto di Saman arrossato da questo presunto colpo molto forte sulla guancia. Ma il cugino smentisce quanto riportato da Saqib. Saqib e Saman si sono sentiti il pomeriggio prima della sua scomparsa. La 18enne pare abbia chiesto al fidanzato di contattare le forze dell’ordine se non avesse dato sue notizie dopo due giorni. Il 30 aprile Saman è così scomparsa e Saqib ha in effetti contattato i carabinieri, dapprima in una caserma non di pertinenza del caso, poi quelli di Novellara che si sono immediatamente messi in moto.
Le rivelazioni di Saqib. Nelle ultime settimane, Saqib ha iniziato ad apparire in tv e a raccontare alcune cose che riguardano Saman e che potrebbero risultare utili per risolvere il giallo della sua scomparsa. Ha raccontato dei preparativi del matrimonio, del presunto schiaffo del cugino, di un presunto legame tra il padre di lei Shabbar Abbas e la mafia pakistana e di minacce ricevute a mezzo social.
Durante l’esame dell’incidente probatorio il giovane ha reso nuove dichiarazioni, mentre gli inquirenti sono al lavoro sui due cellulari di Saman, uno “ufficiale” che la ragazza usava nella comunità protetta e uno che era in possesso di Saqib, che vive e lavora nel Frusinate. Secondo Saqib dunque ci sarebbe stata una coppia, ospite a Novellara, chiamata per sorvegliare Saman nei giorni del ritorno dalla residenza protetta. Saqib avrebbe rivelato anche che dopo il fallimento del primo matrimonio forzato in Pakistan, un altro cugino si sarebbe offerto di sposare Saman. Si tratterebbe di Ikram Ijaz, che è stato arrestato quando gli inquirenti si sono messi al lavoro sulla scomparsa e il presunto omicidio di Saman. Pare che tuttavia Shabbar non ne fosse entusiasta. Saqib afferma di aver reso questo dettaglio solo ora perché se n’è ricordato riguardando alcuni messaggi dal computer. Ikram smentisce l'eventualità di un fidanzamento combinato con la cugina. Non è improbabile, sempre stando a Il Resto del Carlino, che i legali delle persone coinvolte nei racconti di Saqib richiederanno probabilmente che gli inquirenti mettano alla prova la credibilità del giovane. Il fratello di Saman ha affermato in passato che il fidanzato della sorella avrebbe inviato a lui e alla famiglia messaggi offensivi, ma Saqib ha sempre smentito questa circostanza.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Francesca Del Boca per "corriere.it" il 27 agosto 2021. «Ha detto: io faccio piccoli pezzi e se volete porto anch’io a Guastalla. Buttiamo là, perché così non va bene». Lo ha riportato il fratello minorenne di Saman Abbas, la diciottenne pachistana scomparsa la notte del 30 aprile a Novellara (Reggio Emilia), riferendosi a ciò che ascoltò proprio quel pomeriggio in casa. Ci sarebbe stata una riunione, a cui avrebbero partecipato lo zio Danish Hasnain e altri parenti, in cui si sarebbe parlato delle modalità con cui far sparire il cadavere di Saman, smembrandolo: la giovane si era opposta a un matrimonio combinato con un cugino di 11 anni più grande di lei, e per questo doveva essere punita. Il Tribunale del Riesame di Bologna ha respinto il ricorso del cugino Ikram Ijaz, unico indagato in carcere per l’omicidio in concorso con un altro cugino, lo zio e i genitori (tutti latitanti, probabilmente fuggiti tra Spagna e Pakistan). Secondo i giudici infatti partecipò alla fase preparatoria del delitto di Saman, scavando la fossa dove gettarne il cadavere la sera del 29 aprile (come testimonia un video che li riprende con le pale in mano). La notte tra il 30 e il primo maggio arrivò a casa degli Abbas al seguito dell’autore dell’omicidio, lo zio Danish Hasnain, con un altro cugino complice. Per questo «l’ipotesi più probabile e qualificata è che» i due cugini «abbiano anche partecipato alla materiale esecuzione dell’omicidio», dando manforte allo zio.
«Mamma, lo sposo è troppo grande per me». «Parlando con mia madre le dicevo: dai mamma, tu sei una mamma, lui è troppo grande per me, anche lui non vuole sposarsi con me. Lei mi rispondeva: non è una decisione mia». Sono le parole che Saman Abbas aveva affidato ai carabinieri il 3 febbraio mentre si trovava in una comunità protetta dopo il rifiuto del matrimonio combinato e l’allontanamento da casa. «Dal primo momento in cui ho saputo che la loro intenzione era quella di farmi sposare con mio cugino, io ho detto di non volerlo fare». Saman ha raccontato anche delle violenze subite dal padre. «Le reazioni di mio padre erano violente a livello fisico. Mi picchiava. Una volta, 5 mesi fa, ha lanciato un coltello nella mia direzione e non ha colpito me, ma mio fratello che aveva 15 anni, ferendolo a una mano». E poi: «mi picchiava perché io volevo andare a scuola, ma lui non voleva». Quando scoprì che Saman aveva un fidanzato segreto, un connazionale ventunenne conosciuto sui social, arrivò a minacciarla di morte.
La vicenda. Per quattro mesi sono andate avanti le ricerche per trovare il corpo di Saman. Quasi 70 giorni passando palmo per palmo le campagne del Reggiano, senza risultato. Una lunga vicenda che non vede ancora una fine ma che ha un inizio ben preciso: un casolare bianco, dentro un’azienda agricola di Novellara, in cui viveva la famiglia di origine pachistana degli Abbas. Qui, il 30 aprile, si è svolta la riunione tra parenti che ha condannato a morte la giovane Saman, colpevole di essersi opposta a un matrimonio combinato con un cugino molto più grande di lei e di essersi fidanzata con un altro ragazzo. Saman era uscita di casa e si era nascosta in un centro protetto, dove cercava di vivere la sua storia d’amore tra le minacce dei genitori alla coppia e ai parenti di lui. «Continuo a ricevere minacce - aveva raccontato -. I genitori di Saman mi scrivono sui social network da profili che poi vengono chiusi e mi insultano. Temo per la mia famiglia in Pakistan».
"La faccio a pezzi e la buttiamo là": i dettagli choc sulla morte di Saman. Rosa Scognamiglio il 27 Agosto 2021 su Il Giornale. La sera prima della scomparsa, i familiari di Saman si sarebbero riuniti per pianificare i dettagli del delitto. Il movente dell'omicidio, secondo il tribunale del Riesame, è da ricondurre al rifiuto delle nozze combinate. "La faccio a pezzi piccoli e se volete porto anch'io a Guastalla, buttiamo là". Sarebbe questo il contenuto choc di alcune dichiarazioni rese dal fratello di Saman Abbas, la 18enne pakistana di cui non si hanno più notizie dallo scorso aprile, nel corso dell'incidente probatorio in Procura a Reggio Emilia. Il ragazzo ha rivelato agli inquirenti che, il giorno precedente alla scomparsa, in casa Abbas si sarebbe tenuta una "riunione familiare" per pianificare i dettagli del delitto. Intanto, secondo il tribunale del Riesame di Bologna, il movente dell'omicidio sottenderebbe il rifiuto del matrimonio combinato che "affonda in una temibile sinergia - si legge nell'ordinanza - tra i precetti religiosi e i dettami della tradizione locali". S'infittisce di dettagli macabri la misteriosa scomparsa di Saman Abbas per cui è stato aperto un fascicolo in Procura a Reggio Emilia con l'ipotesi di reato per omicidio premeditato e occultamento di cadavere. La premeditazione, già avvalorata dai video che immortalerebbero alcuni membri del clan Abbas aggirarsi con fare sospetto nelle campagne di Novellara il giorno della scomparsa, troverebbe ulteriore riscontro in alcune dichiarazioni rese ai pm dal fratello minore della 18enne. Stando a quanto riporta Repubblica.it, il ragazzo avrebbe riferito di una "riunione familiare" tenutasi la sera del 30 aprile in cui sarebbero stati definiti i dettagli del piano delittuoso. All'incontro avrebbero partecipato lo zio della giovane, Danish Hasnain, i cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq. Uno dei partecipanti si sarebbe proposto di farsi carico della sepoltura del cadavere. "Ha detto: 'Io faccio piccoli pezzi e se volete porto anch'io a Guastalla, - dichiara il fratello di Saman - buttiamo là, perché così non va bene". Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Saman Abbas sarebbe stata vittima di una congiura familiare dopo aver rifiutato le nozze combinate con cugino in Pakistan. Il movente dell'omicidio "affonda in una temibile sinergia - si legge nel testo dell'ordinanza -tra i precetti religiosi e i dettami della tradizione locali (che arrivano a vincolare i membri del clan ad una rozza, cieca e assolutamente acritica osservanza pure della direttiva del femminicidio)". La 18enne, ospite in una struttura protetta dopo la denuncia di induzione al matrimonio, aveva affidato le sue preoccupazioni ai carabinieri. "Parlando con mia madre le dicevo: "Dai mamma, tu sei una mamma, lui è troppo grande per me, - aveva raccontato la ragazza ai militari dell'Arma lo scorso 3 febbraio - anche lui non vuole sposarsi con me". Lei mi rispondeva che non è una decisione mia". "Dal primo momento in cui ho saputo che la loro intenzione era quella di farmi sposare con mio cugino, io ho detto di non volerlo fare", spiegava Saman ai carabinieri. Poi, il racconto delle violenze subite dal padre Shabbar: "Le reazioni di mio padre erano violente a livello fisico. Mi picchiava. Una volta, 5 mesi fa, ha lanciato un coltello nella mia direzione e non ha colpito me, ma mio fratello che aveva 15 anni, ferendolo a una mano. Mi picchiava perché io volevo andare a scuola, ma lui non voleva". Tra i 5 indagati con l'ipotesi di reato per omicidio premeditato e occultamento di cadavere, oltre ai genitori di Saman (ancora latitanti), vi sono anche lo zio Danish Hasnain, ritenuto l'esecutore materiale del delitto, i due cugini Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz. Quest'ultimo, in carcere dallo scorso maggio, avrebbe partecipato alla fase preparatoria del piano delittuoso. Secondo gli inquirenti, il coinvolgimento di Ijaz sarebbe suffragato da "elementi di fortissima valenza indiziaria", ovvero, "la subitanea fuga all'estero" del 6 maggio. Il pakistano fu intercettato in Francia, verosimilmente in fuga con il cugino Nomanhulaq Nomanhulaq, mentre tentava di raggiungere lo zio Danish Hasnain. Per il tribunale del Riesame di Bologna la partenza improvvisa è "priva di qualsiasi spiegazione se non strettamente motivata dalla corresponsabilità nell'omicidio e dalla conseguente necessità di sottrarsi al perseguimento di tale delitto". Ma non è tutto. La spiegazione fornita da Ikram al video in cui sarebbe stato immortalato con il piede di porco e la pala la sera dell'omicidio è stata smentita dal datore di lavoro e un'altra testimone. Il cugino di Saman, interrogato dopo la cattura, aveva raccontato che l'attrezzatura gli sarebbe servita per la pulizia di una canalina. Dunque, i giudici bolognesi hanno confermato l'ordinanza del gip respingendo la richiesta di scarcerazione formulata dal legale del pakistano. "Non è emerso il benché minimo senso di commozione per la terribile sorte della povera giovane che pure è una sua parente, il benché minimo rimprovero per chi un tale gesto ha compiuto, - si legge ancora nel testo dell'ordinanza riportata da Repubblica.it - né il minimo dubbio sulla correttezza etica di quei dettami della tradizione in ossequio ai quali l'omicidio è stato commesso". Ikram Ijaz "si è posto freddamente e fedelmente al servizio di un feroce assassino mosso dalla tradizione culturale e religiosa che lui stesso condivide".
"I miei genitori...". Cosa ha raccontato il fratello di Saman. Rosa Scognamiglio il 28 Agosto 2021 su Il Giornale. Il fratello di Saman Abbas sostiene che i genitori siano estranei al delitto. Intanto, emergono altri dettagli sul padre della 18enne che sembrerebbe vicino alla mafia pakistana. La scomparsa di Saman Abbas, sulla quale la Procura di Reggio Emilia ha aperto un fascicolo per omicidio premeditato e occultamento di cadavere, diventa più un giallo a tinte sempre più fosche. La chiave di volta del caso potrebbe essere nelle mani del fratello della 18enne pakistana che, ascoltato in audizione protetta, ha arricchito di dettagli la narrazione della macabra vicenda. A detta del 16enne i genitori, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, non avrebbero né pianificato il delitto né commissionato ad altri il presunto omicidio. "Mamma e papà non hanno mai pensato di fare questa cosa". E' un fiume in piena il fratellino di Saman che, davanti ai pm emiliani, prova a mettere in fila i passaggi di una vicenda dai contorni ancora poco chiari e definiti. Così, mentre gli inquirenti avallano con fermezza l'ipotesi di una congiura familiare ai danni della 18enne, il ragazzo esclude la possibilità che i genitori possano essere stati coinvolti nell'ideazione del delitto lasciando ricadere le responsabilità su "altri parenti", scrive Tgcom.24. Verosimilmente si tratta dei due cugini di Saman e dello zio Danish Hasnain, ancora latitante: tutti e tre sono accusati di omicidio in concorso e occultamento di cadavere. Il 16enne ha altresì dichiarato che la sera precedente alla scomparsa di Saman, si sarebbe tenuta una "riunione familiare" in casa Abbas, a Novellara, durante la quale sarebbero stati definiti i dettagli del piano delittuoso. Ora spetterà agli investigatori stabilire la veridicità della versione fornita dal ragazzino, ad oggi, ospite in una struttura protetta. L'11 aprile scorso, Saman si era rivolta ai carabinieri di Novellara per denunciare nuovamente i genitori - una prima volta lo aveva fatto a novembre del 2020, quando era ancora minorenne - che le avevano sottratto i documenti personali. "Io sono rientrata in casa - mette a verbale la ragazza il 22 aprile - in quanto volevo entrare in possesso dei miei documenti". "Al mio arrivo i miei genitori non mi hanno picchiata, - continua -ma si sono arrabbiati rimproverandomi di tutto quello che avevo fatto nei mesi scorsi come scappare in Belgio e andare in comunità. Per quanto riguarda i miei documenti, io li ho visti nell'armadio di mio padre, chiusi a chiave". E' stato accertato che i genitori di Saman intendessero dare la figlia in sposa al cugino in Pakistan, un'unione combinata a cui la giovane aveva opposto resistenza fino al giorno della scomparsa. "Mia madre e mio padre hanno parlato con i genitori di mio cugino - confida ancora la 18enne ai carabinieri -e hanno deciso che a giugno andremo in Pakistan per il matrimonio con lui". Dai verbali dei militari dell'Arma emergono nuovi, inquietanti dettagli sui trascorsi personali di Shabbar Abbas, a quanto pare vicino agli ambienti della mafia pakistana. Nel corso di una telefonata, Saman aveva messo in guardia il fidanzato dal padre che, a suo dire, sarebbe stato responsabile dell'uccisione di alcune persone in Italia e in Pakistan. "Ho molta paura perché è una persona pericolosa e ho paura anche per i miei genitori che sono in Pakistan. - racconta il ragazzo di Saman, Ayub Saqib, nell'interrogatorio del 5 maggio - Infatti Saman in alcune chiamate mi ha fatto chiaramente capire che suo padre ha già ucciso altre persone sia in Italia che in Pakistan". In attesa di nuovi risvolti sulla vicenda, il legale di Ayub Saqib ha dichiarato di aver presentato ricorso all'Onu affinché le ricerche della ragazza riprendano il prima possibile. "Ho presentato un ricorso urgente al comitato delle sparizioni forzate dell'Onu a Ginevra per chiedere che si continui a ricercare 'cum vita, ovvero a prescindere dalla fine della povera Saman, non soltanto in Italia, ma che le ricerche vengano estese con più attenzione anche negli altri Pesi europei dove lo zio e l'altro cugino ancora latitanti si sono mossi, ovvero in direzione Barcellona e Francia", ha dichiarato all'Agi l'avvocato Claudio Falletti. La risposta arriverà tra 15 giorni: "Nella stessa richiesta - prosegue il legale -ho chiesto anche che venga lasciato ai genitori di Ayub Saqib (il fidanzato, ndr) un salvacondotto per rientrare in Italia dal Pakistan, visto che sono stati oggetto di minacce da parte dei familiari di Saman, provate da un video e da denunce".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
(ANSA il 28 agosto 2021) "Sono disposta a tornare in comunità, non in Pakistan". Parole messe a verbale il 22 aprile da Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa da Novellara dalla notte tra il 30 aprile e il primo maggio. L'11 aprile fu sentita, denunciò il fatto che il padre stava trattenendo indebitamente i suoi documenti e segnalò anche le minacce trasversali al suo fidanzato, attraverso parenti in Pakistan. Disse anche che i genitori persistevano nel proposito di farla sposare, contro la sua volontà, a un cugino in patria. È quanto emerge dagli atti, citati dal tribunale del Riesame di Bologna. Saman era tornata a casa da pochi giorni, dall'11 aprile, dalla comunità dove era stata collocata da minorenne, proprio per la situazione familiare. "Io sono rientrata in casa - disse la ragazza - in quanto volevo entrare in possesso dei miei documenti". "Al mio arrivo a casa i miei genitori non mi hanno picchiata, ma si sono arrabbiati rimproverandomi di tutto quello che avevo fatto nei mesi scorsi come scappare in Belgio e andare in comunità. Per quanto riguarda i miei documenti, io li ho visti nell'armadio di mio padre, chiusi a chiave". Proprio quella mattina "mia madre e mio padre hanno parlato con i genitori di mio cugino e hanno deciso che a giugno andremo in Pakistan per il matrimonio con mio cugino". Sul fidanzato, Saman ha detto che il 26 gennaio suo padre, Shabbar, "andava in Pakistan dalla famiglia del mio fidanzato e parlava con suo fratello", dicendogli che se non avesse lasciato Saman "noi uccidiamo lui e tutta la vostra famiglia". Il padre e lo zio erano accompagnati da altre persone, armate di pistola, che spararono in aria
(ANSA il 28 agosto 2021) In una delle telefonate con il fidanzato, Saman Abbas lo mise in guardia sulla pericolosità del padre Shabbar, che sarebbe collegato alla mafia pakistana e responsabile dell'uccisione di persone, in Italia e in Pakistan. "Ho molta paura in quanto il padre di mafia pakistana si chiama Shabbar Abbas Muhammad Zama, è una persona pericolosa e ho paura anche per i miei genitori che sono in Pakistan. Infatti Saman in alcune chiamate mi ha fatto chiaramente capire che suo padre ha già ucciso altre persone sia in Italia che in Pakistan", ha detto il ragazzo, sentito il 5 maggio dai carabinieri, dopo aver riferito le minacce subite dai suoi parenti in patria, a motivo della sua relazione sentimentale con la 18enne di Novellara.
(ANSA il 28 agosto 2021) Ha negato la responsabilità dei genitori, sostenendo che ideazione e esecuzione dell'omicidio della sorella, Saman Abbas, vadano attribuite allo zio Danish, a sua volta fortemente spinto da altri due cugini, non quelli già indagati per il delitto. E' la novità emersa dall'audizione del 16enne, il 18 giugno: "Mio papà e mamma no. Non hanno mai pensato di fare questa cosa, di uccidere", ha detto in italiano stentato. "E poi ci sono altri due cugini, no?" che "hanno forzato tantissimo a mio zio che scappa ancora, fa queste cose, eh... bisogna uccidere, no?". Non risulta che i due siano tra gli indagati, che restano cinque.
Franco Giubilei per “La Stampa” il 28 agosto 2021. L'anello più debole della catena omertosa della famiglia Abbas, responsabile per gli inquirenti di sequestro di persona, omicidio premeditato e occultamento di cadavere della 18 enne Saman, scomparsa a Novellara di Reggio Emilia quattro mesi fa, ha ceduto: il fratello 16 enne della ragazza, ospite di una comunità per minori, ha raccontato al magistrato di una riunione tenuta nella casa degli Abbas il pomeriggio del 30 aprile, giusto alla vigilia dell'omicidio, in cui si sarebbe parlato di come far sparire il cadavere dell'adolescente che si era ribellata al matrimonio combinato organizzato dal padre in Pakistan. Fra i presenti, ha detto il ragazzo, lo zio Danish Asnain, colui che avrebbe eseguito materialmente il delitto, e un un cugino, l'unico dei cinque indagati a essere stato arrestato. Il fratello di Saman ha riferito una frase - in un italiano stentato -, attribuita a uno degli adulti: «Io faccio piccoli pezzi e se volete porto anch' io a Guastalla, buttiamo là, perché così non va bene». Oltre a confermare le ipotesi degli inquirenti sulla probabile colpevolezza dei familiari la novità nell'inchiesta, la prima veramente significativa da parecchie settimane, sposta il campo di ricerche del corpo in una nuova zona, Guastalla appunto. E' però impensabile che - ammesso che sia stata seppellita nel paese vicino e non nel terreno attorno all'azienda agricola dove gli Abbas abitavano - la distanza di 10 chilometri fra i due paesi sia stata percorsa a piedi, col peso della ragazza in spalla per di più. Se è andata così, significa che dev' essere stato usato un mezzo a motore, dunque il dettaglio mostrato dall'impianto di videosorveglianza sulle due-tre persone che si allontanano a piedi col badile in mano potrebbe essere stato un diversivo, dal momento che i diretti interessati sapevano sicuramente di essere filmati. Quanto al movente, nell'ordinanza del tribunale del riesame che ha confermato il carcere per il cugino Ikram Ijaz si legge che «affonda in una temibile sinergia fra i precetti religiosi e i dettami della tradizione locali, che arrivano a vincolare i membri del clan a una rozza, cieca e assolutamente acritica osservanza pure della direttiva del femminicidio». Emergono poi dettagli sul ruolo di protagonisti e artefici del crimine a cominciare proprio dal cugino, il succitato Ijaz: la notte fra il 30 aprile e il primo maggio giunse a casa Abbas con Danish Asnain e con l'altro cugino indagato, Nomanhulaq, che aveva partecipato insieme a lui alla fase preparatoria del delitto. Il Riesame, respingendo il suo ricorso, ora ipotizza che «l'ipotesi più probabile e qualificata è che i due cugini abbiano preso parte anche alla materiale esecuzione dell'omicidio», fornendo allo zio, Hasnain, l'aiuto necessario. La successiva fuga all'estero di tutti i familiari poi rafforza i sospetti di colpevolezza nei confronti delle persone coinvolte, dai genitori allo zio agli stessi cugini, oltre a disegnare «una situazione di complicità fra i tre», per non parlare del fatto che Ikram ha rinunciato improvvisamente a un lavoro regolarmente retribuito, il che rende il suo allontanamento del tutto incomprensibile in caso d'innocenza. La sera del 30, come in una tragica pantomima, zio e cugini si unirono «al pianto collettivo e alla disperazione per le sorti di Saman», ha anche detto il fratello sedicenne della vittima. All'aggressione mortale, poco dopo la mezzanotte, i cugini non sarebbero stati presenti, ma in una chat è lo zio stesso a dire a un conoscente: «Abbiamo fatto un bel lavoro», parlando al plurale. Altri particolari emergono su Saman, che il 3 febbraio descrisse ai carabinieri la scena seguente: «Parlando con mia madre le dicevo: tu sei una mamma, lui è troppo grande per me, anche lui non vuole sposarsi con me. Lei mi rispondeva che non è una decisione mia». Affiorano dall'ordinanza anche le violenze subite dal padre Shabbar: «Le reazioni di mio padre erano violente a livello fisico. Mi picchiava. Una volta, cinque mesi fa, ha lanciato un coltello nella mia direzione e non ha colpito me ma mio fratello che aveva 15 anni, ferendolo a una mano. Mi picchiava perché io volevo andare a scuola, ma lui non voleva».
Saman, pochi giorni prima della scomparsa disse: "Torno in comunità, non in Pakistan". Le parole della 18enne sparita da Novellara. Al fidanzato disse: "Mio padre ha già ucciso in patria e in Italia". La Repubblica il 28 agosto 2021. "Sono disposta a tornare in comunità, non in Pakistan". Lo metteva a verbale Saman Abbas, la 18enne che viveva a Novellara, una settimana prima di sparire nel nulla, a fine aprile scorso: l'ipotesi degli inquirenti è che sia stata uccisa dalla famiglia perché si ribellava a un matrimonio combinato. L'11 aprile fu sentita, denunciò il fatto che il padre stava trattenendo indebitamente i suoi documenti e segnalò anche le minacce trasversali al suo fidanzato, attraverso parenti in Pakistan. Disse anche che i genitori persistevano nel proposito di farla sposare, contro la sua volontà, a un cugino in patria. È quanto emerge dagli atti, citati dal tribunale del Riesame di Bologna. Sono altri frammenti degli ultimi drammatici giorni di Saman, che sarebbe stata uccisa e fatta a pezzi perché il suo corpo non venisse ritrovato. Per la sua scomparsa è stato arrestato un cugino, mentre i genitori e altri parenti sono irrintracciabili. Saman era tornata a casa da pochi giorni, dall'11 aprile, dalla comunità dove era stata collocata quando era ancora minorenne, proprio per la situazione familiare. "Io sono rientrata in casa - disse la ragazza - in quanto volevo entrare in possesso dei miei documenti". "Al mio arrivo a casa i miei genitori non mi hanno picchiata, ma si sono arrabbiati rimproverandomi di tutto quello che avevo fatto nei mesi scorsi come scappare in Belgio e andare in comunità. Per quanto riguarda i miei documenti, io li ho visti nell'armadio di mio padre, chiusi a chiave". Proprio quella mattina "mia madre e mio padre hanno parlato con i genitori di mio cugino e hanno deciso che a giugno andremo in Pakistan per il matrimonio con mio cugino". Sul fidanzato, Saman ha detto che il 26 gennaio suo padre, Shabbar, "andava in Pakistan dalla famiglia del mio fidanzato e parlava con suo fratello", dicendogli che se non avesse lasciato Saman "noi uccidiamo lui e tutta la vostra famiglia". Saman aveva messo in guardia il fidanzato sulla pericolosità del padre Shabbar, che sarebbe collegato alla mafia pakistana e responsabile dell'uccisione di persone, in Italia e in Pakistan. "Ho molta paura in quanto il padre di mafia pakistana si chiama Shabbar Abbas Muhammad Zama, è una persona pericolosa e ho paura anche per i miei genitori che sono in Pakistan. Infatti Saman in alcune chiamate mi ha fatto chiaramente capire che suo padre ha già ucciso altre persone sia in Italia che in Pakistan", ha detto il ragazzo, sentito il 5 maggio dai carabinieri, dopo aver riferito le minacce subite dai suoi parenti in patria, a motivo della sua relazione sentimentale con la 18enne di Novellara. Il fratello di Saman, invece, in un'audizione a metà giugno ha negato la responsabilità dei genitori: ideazione ed esecuzione dell'omicidio della sorella sarebbero dello zio Danish, a sua volta fortemente spinto da altri due cugini, non quelli già indagati per il delitto. E' la novità emersa dall'audizione del 16enne, il 18 giugno: "Mio papà e mamma no. Non hanno mai pensato di fare questa cosa, di uccidere", ha detto in italiano stentato. "E poi ci sono altri due cugini, no?" che "hanno forzato tantissimo a mio zio che scappa ancora, fa queste cose, eh... bisogna uccidere, no?". Non risulta che i due siano tra gli indagati, che restano cinque.
Fabio Amendolara per “La Verità” il 7 settembre 2021. «Saman Abbas non è più in questo mondo. È morta ed è in Italia». La mamma della ragazza lo avrebbe confermato alla famiglia in Pakistan. E a svelarlo ora è il migliore amico della diciottenne scomparsa nel nulla la notte tra il 30 aprile e l'1 maggio scorso a Novellara, in provincia di Reggio Emilia. In un agghiacciante scambio di battute in chat con Carmen La Gatta, cronista di Fuori dal Coro, che andrà in onda stasera durante il programma di approfondimento diretto da Mario Giordano su Rete4, il ragazzo, che vive in Pakistan, conferma, senza giri di parole, di aver saputo quanto raccontato ai parenti da «sua mamma». Ma non è l'unico particolare che svela. Dice anche che a ucciderla sarebbe stato «suo zio». E quando la giornalista gli chiede perché l'ha uccisa, la risposta è quella che conferma le ipotesi degli inquirenti: «Perché non aveva voluto sposarsi qui in Pakistan». Nella ricostruzione dei magistrati, infatti, il movente è da ricercare nella volontà della famiglia di farle sposare «un cugino». Ma Saman, affermano gli investigatori, era anche «vittima di violenze e coercizioni» da parte del padre, che «le aveva impedito di andare alle scuole superiori», che spesso «la chiudeva fuori casa obbligandola a dormire sul marciapiede». «Lo zio», sostiene l'amico di Saman, «qui non ha detto nulla. Agli occhi della gente Saman è viva. Solo i parenti sanno che è morta». Lo zio, Danish Hasnain, è tornato in Pakistan in fretta e furia. Come Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, papà e mamma della scomparsa. E come Nomanulhaq Nomanulhaq, uno dei due cugini. L'altro cugino, Ikram Ijaz, invece, è stato arrestato in Francia mentre tentava di raggiungere la Spagna, ed è stato estradato in Italia. La Procura di Reggio Emilia procede per omicidio volontario aggravato dalla parentela con la vittima e dai futili motivi. Lo zio è considerato «l'esecutore materiale». E lo avrebbe confessato ad Alì, fratello sedicenne di Saman e testimone che viene ritenuto «attendibile». I genitori della ragazza, secondo l'accusa, «avrebbero programmato di ucciderla per punirla dell'allontanamento dai precetti dell'Islam e per la ribellione alla volontà familiare, nonché per le continue fughe da casa». Quindi, secondo i magistrati, «nel chiamare lo zio (che tutti i familiari sapevano essere un uomo violento) per sistemare le cose, avrebbero accettato il rischio, essendo certi della possibilità anche della sua uccisione qualora lo zio non fosse riuscito in altro modo a piegarne la volontà». La conclusione dei magistrati è questa: «Nell'istigare lo zio a risolvere la questione, i genitori hanno accettato l'esito omicidiario come un evento altamente probabile acconsentendo moralmente, in ragione delle proprie intime convinzioni etiche e religiose, anzi, approvandolo come coerente conseguenze del comportamento ribelle della figlia». Uno dei cugini, Arfan, poi, sentito dagli investigatori, ha confermato «il ruolo di supremazia assunto da Hasnanin rispetto al padre di Saman e quindi il ruolo di capo». Del quale aveva parlato anche il testimone Alì: «Mio zio ha detto, io la faccio a piccoli pezzi». Ma dove sarebbe finita Saman? Gli investigatori ritengono che il corpo sia stato sotterrato nelle campagne vicino all'azienda agricola nella quale lavorano i parenti. Da oltre un mese, però, non si scava più in quella campagna. Dopo oltre 67 giorni di ricerche, il 12 luglio è arrivato lo stop. Lì si è cercato a lungo, perché in un filmato ripreso dalle telecamere di sicurezza dell'azienda agricola sono impresse le immagini «degli atti preparatori per il successivo occultamento del corpo di Saman», scrivono negli atti giudiziari dell'inchiesta i magistrati. Lo zio e i due cugini, si legge nei documenti, erano «muniti di attrezzi agricoli», una pala, un secchio, un telo azzurro e un piede di porco, e hanno fatto la stessa strada carraia «ove si era incamminata l'ultima volta Saman». Saman, infatti, si era incamminata lì poco prima di sparire per sempre. E sulle spalle aveva uno zaino. Sei minuti dopo la telecamera riprende i genitori che rientrano in casa senza Saman, ma con il suo zainetto. I magistrati a quel punto non hanno più dubbi. Saman è stata assassinata e il suo corpo è stato occultato. Ma è ancora una volta Alì a fornire un dettaglio tanto importante quanto inquietante. Ricorda che lo zio aveva detto: «Se volete la porto anch' io a Guastalla. La buttiamo là, perché così non va bene. Lei fa troppe cose, mette i pantaloni, è fuori dalle regole musulmane». Guastalla è a pochi chilometri da Novellara. La città è costeggiata dal fiume Po. La cronista di Fuori dal coro afferma: «Secondo le regole del delitto d'onore, che è previsto ancora in alcune zone del Pakistan, le donne che rifiutano il matrimonio combinato vengono uccise e i loro corpi gettati nei fiumi». La nuova pista potrebbe portare, quindi, verso Guastalla. Il corpo potrebbe essere stato sotterrato nell'immediatezza nei terreni dell'azienda agricola e spostato poi da altre persone. Il rientro in Pakistan, nell'ottica dell'accusa, avrebbe aggravato il quadro probatorio. La casa degli Abbas, ha scoperto ancora Fuori dal coro, è chiusa da mesi con un lucchetto. Un cugino del padre sostiene ancora che Saman sia andata via di sua volontà e che i «media» dicano «solo bugie». Sostiene anche di non aver visto suo cugino. Che di certo, però, è in Pakistan, perché ha pubblicato un video mentre era in una moschea a Charanwala. Nello stesso posto in cui il cugino dice di non averlo visto. Probabilmente i familiari sanno più di qualcosa.
Confessione choc della madre: "Saman è morta, so dove si trova...". Rosa Scognamiglio il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. La trasmissione "Fuori dal Coro" ha raccolto la testimonianza dell'amico di Saman. Si cerca il corpo della 18enne pakistana nel fiume Po. "Saman è morta e si trova in Italia". A rivelarlo è il miglior amico della 18enne pakistana nel corso del programma televisivo "Fuori dal Coro", in onda da martedì 7 settembre su Rete 4. Secondo quanto dichiara il giovane sarebbe stata Nazia Shaheen, madre di Saman, a confermare la pista delittuosa spiegando che a uccidere la figlia sia stato "suo zio". Ora, si cerca il corpo della ragazza nel fiume Po.
La confessione della mamma di Saman. Saman "è morta". Lo avrebbe confidato a un amico della 18enne Nazia Shaheen che, assieme al marito Shabbar Abbas, è ritornata in Pakistan dopo che il tribunale di Reggio Emilia ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di reato per omicidio premeditato e occultamento di cadavere. Secondo gli inquirenti emiliani, infatti, entrambi i coniugi avrebbero avuto un ruolo nella pianificazione del delitto anche se, precisano nelle pagine del faldone giudiziario, a uccidere la ragazza sarebbe stato lo zio Danish Hashnain coadiuvato nelle successive operazioni di seppellitura della salma dai due cugini della ragazza, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq. In una chat con la giornalista di "Fuori dal Coro", Carmen La Gatta, l'amico di Saman avrebbe confermato la pista delittuosa sostenendo di avere raccolto la confessione di Nazia Shaheen sul drammatico esito della vicenda.
"Seppellita in Italia". L'indiscrezione raccolta dalla redazione del programma di Rete 4 avvalora anche l'ipotesi dell'occultamento di cadavere, già suffragata da numerosi elementi indiziari. In primis, il video in cui si vedono alcuni membri del clan Abbas - verosimilmente i due cugini e lo zio coinvolti nelle indagini - aggirarsi nelle campagne di Novellara, con tanto di attrezzi agricoli al seguito (una pala, un secchio, un piede di porco e un telo azzurro), la sera precedente al delitto. Poi ci sono le dichiarazioni di Alì, il fratello minore di Saman, che avrebbe confermato la dinamica omicidiaria attribuendo allo zio Danish la paternità del delitto. Il 16enne, ritenuto un teste "attendibile", ha precisato nel corso dell'interrogatorio che Hashnain si sarebbe offerto di traslare il cadavere a Guastalla e, se necessario, di farlo "a piccoli pezzi". La rivelazione dell'amico di Saman rafforza il quadro probatorio. La salma della giovane pakistana, a detta del ragazzo, si troverebbe "in Italia", motivo per cui le ricerche saranno estese anche al fiume Po. Ma c'è chi giura che la 18enne sia "ancora viva". Si tratta di un altro parente degli Abbas che punta il dito contro i media italiani: "solo bugie", dice. La verità sembra ancora molto lontana ma il movente resta certo: un delitto d'onore.
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
"Vengo lì, ti spiego". Così il padre di Saman ha nascosto tutto. Angela Leucci il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. Parla il datore di lavoro del padre di Saman Abbas: l'uomo aveva promesso di tornare e spiegarsi, ma intanto Saman potrebbe non avere giustizia. Il mistero della scomparsa di Saman Abbas è racchiuso nel mistero della sua famiglia, che ancora non è stata trovata dagli inquirenti. A “Chi l’ha visto?” è stato ascoltato William Bartoli, fondatore dell’azienda agricola di Novellara in cui lavoravano gli Abbas. Bartoli descrive il capofamiglia Shabbar come un uomo sereno e integrato, afferma di non averlo mai visto arrabbiato, che “aveva imparato a fare le pizze”, che era “bravo, affidabile” sul lavoro. Bartoli aggiunge di non aver immaginato nessun dissidio in famiglia, né il matrimonio forzato cui sarebbe stata costretta Saman o la violenza lamentata dalla ragazza alle autorità italiane. Se avesse saputo, assicura l’uomo, avrebbe cercato di riportare Shabbar a più miti consigli. Prima che Saman si rifugiasse in una dimora assegnata dai servizi sociali italiani infatti, la polizia internazionale aveva contattato Shabbar Abbas: la polizia era stata allertata a causa di presunte percosse e lancio di un coltello ai danni di Saman, e l’aveva chiamata Said, l’amico afghano dal quale Saman era precedentemente scappata in Belgio e a cui la giovane aveva raccontato tutto. William Bartoli è stato uno degli ultimi a sentire telefonicamente Shabbar. “Mi ha detto: ‘Il 10 vengo e ti spiego tutto - racconta - Poi hanno detto che Saman era andata all’estero, in Belgio”. Il fondatore dell’azienda dice inoltre che gli Abbas “sono andati via alla svelta” e che quello che Shabbar ha promesso, compresa l’idea di tornare in Italia per spiegarsi, erano “balle”. Dov’è Saman? “Io penso che qui non ci sia - chiarisce Bartoli, aggiungendo che gli inquirenti hanno cercato ovunque nell’azienda di Novellara - Secondo me l’hanno messa da un’altra parte”. L’uomo ha anche indicato una zona cieca dell’azienda, una minuscola porzione di terreno che le telecamere di sorveglianza non vedono: lì qualcuno avrebbe potuto portare un veicolo per trasportare Saman altrove. Tra le ipotesi degli inquirenti ci sono il fatto che il corpo della giovane pakistana sia stato gettato nel Po, oppure, come afferma il fratello, che sia stato fatto a pezzi e portato a Guastalla. Se tutto dovesse restare com’è ora, la giovane pakistana rischierebbe di non avere giustizia: non c’è un corpo, non ci sono i presunti colpevoli, c’è solo un indiziato, un cugino della ragazza, in custodia in Italia. “Le indagini devono proseguire finché la ragazza non sarà trovata - chiosa Claudio Falleti, legale di Saqib, il giovane pakistano residente nel Frusinate e fidanzato di Saman - Invito la comunità pakistana a rompere il velo dell’omertà”. Le autorità italiane indagano infatti per presunto omicidio: si è ipotizzato che Saman sia stata uccisa perché si opponeva al matrimonio forzato con un cugino pakistano trentenne e per i suoi "comportamenti occidentali", dalla voglia di continuare gli studi agli abiti.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
"Individuati i genitori di Saman". Il giallo a una svolta? Angela Leucci l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. La polizia pakistana potrebbe aver trovato i genitori di Saman Abbas: il corpo non è stato ancora trovato e resta aperto l'interrogativo su un piede di porco. Il caso della scomparsa e del presunto omicidio di Saman Abbas potrebbe essere giunto a una svolta. La polizia pakistana, com’è stato reso noto nel corso di Quarto Grado, potrebbe aver individuato i parenti della ragazza e avrebbe contattato le autorità italiane a questo proposito. “Siamo andati alla polizia pakistana - ha detto la giornalista Anna Boiardi - La polizia avrebbe individuato dove sono i genitori di Saman e avrebbe anche comunicato quest’informazione all’Italia, chiedendo però alla procura di andare in Pakistan e quindi di andare a prenderli. Per ora sappiamo che la procura non si è mossa”. In Pakistan, la reputazione degli Abbas sembra essere rimasta positiva: le persone vicine agli Abbas negano l’omicidio e imputano le colpe della scomparsa alla stessa Saman e al fidanzato Saqib, giovane coetaneo pakistano residente nel Frusinate. “Il corpo di Saman non è mai stato ritrovato, quindi lei è andata in qualche altro luogo, scappata - spiega Chaudhry, un cugino degli Abbas e zio di Ikram, l’unico parente in stato di fermo in Italia - Chi può dire se sia stata uccisa?”. Chaudhry aggiunge che Ikram è innocente. “È stato Saqib, quel suo fidanzato a cambiarla - dice l’amico di famiglia Riaz Hussain - Voleva solo portare tutta la sua famiglia all’estero e ha utilizzato questo caso per farlo”. Riaz afferma anche che Saqib abbia mentito a Saman, che non le abbia rivelato il suo vero nome per due anni - ma questa tempistica cozza con la cronologia della conoscenza e dell’innamoramento tra i due ragazzi, che si sarebbero incontrati per la prima volta meno di un anno fa.
Saman, una possibile ricostruzione. Alla luce delle recenti dichiarazioni del fratello di Saman agli inquirenti italiani, è possibile immaginare un possibile scenario sul presunto occultamento del cadavere della ragazza. Il fratello di Saman ha raccontato che lo zio Danish si sarebbe offerto di portare il corpo della giovane a Gustalla, dopo averlo fatto a pezzi.
"I miei genitori...". Cosa ha raccontato il fratello di Saman. Questa testimonianza apre due scenari. Il primo: il cadavere di Saman sarebbe stato gettato nel Po, e per questo non sarebbe stato ancora ritrovato. Il secondo: Danish e altri due parenti, avrebbero portato il corpo fatto a pezzi a Guastalla in bicicletta, dato che le automobili riprese dalle telecamere nella zona dell’azienda agricola di Novellara, in cui gli Abbas lavoravano, sono state tutte controllate dalle forze dell’ordine. Ma ci sono degli interrogativi legati a un piede di porco, quello che nel video delle telecamere di sorveglianza è in mano a uno dei tre parenti di Saman. Quegli stessi parenti che, poche ore prima del presunto omicidio, si vedono su uno schermo con delle vanghe in mano e appunto un piede di porco. Quest’ultimo attrezzo è stato ritrovato e su esso non ci sono tracce di sangue: non può essere quindi la presunta arma del delitto, ma resta un interrogativo: può essere stato usato per scardinare le porte di qualche casolare o la copertura di un pozzo e occultare quindi il cadavere?
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
DA liberoquotidiano.it il 18 settembre 2021. "Se volete trovare Saman Abbas dovete cercarla nella zona chiamata Bagna nelle valli tra Novellara e Guastalla. E' stata buttata in acqua, tagliata a pezzi per farla mangiare da pesci e animali", è quanto si legge nella lettera anonima indirizzata al Resto del Carlino. Si tratta di una vera e propria svolta nel caso di Saman, la 18enne di origine pakistana scomparsa dal Reggiano ad aprile dopo essersi opposta a un matrimonio combinato. Proprio per il suo rifiuto sarebbe stata uccisa dai familiari, che non sopportavano il suo progressivo allontanamento dai precetti dell'Islam. L’attendibilità del contenuto della lettera, però, è ancora da verificare e dimostrare. A tal proposito il comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Cristiano Desideri, ha fatto sapere che "le attività investigative proseguono in modo attivo al massimo livello". Poi ha aggiunto: "Abbiamo degli indicatori che ci fanno ritenere altamente probabile la presenza all'estero dei vari autori di questo delitto". Il colonnello, però, ha precisato che è importante non farsi trascinare da "suggestioni mediatiche": "Abbiamo il dovere di agire secondo la logica delle informazioni che ci arrivano e che riusciamo a reperire sul terreno". In ogni caso, parlando delle segnalazioni arrivate nel corso degli ultimi mesi, Desideri ha dichiarato: "Non ci siamo mai permessi di scartarne una. Non abbiamo trascurato nulla, né tantomeno abbiamo sottovalutato alcunché. Ma a tutt'oggi il corpo di Saman non c'è ed è per noi una sorta di imperativo morale, nei limiti delle nostre possibilità, arrivare al suo ritrovamento, perché è giusto poterle dare una degna sepoltura".
La lettera choc: "Saman fatta a pezzi, ecco dov'è..." Rosa Scognamiglio il 18 Settembre 2021 su Il Giornale. Secondo il mittente di una lettera anonima inviata al giornale Il Resto del Carlino, Saman Abbas sarebbe stata "fatta a pezzi e gettata nel fiume". Saman Abbas "è stata fatta a pezzi" e poi "gettata nel fiume". Sarebbe questo il contenuto di una lettera anonima inviata alla redazione de Il Resto del Carlino sul caso della 18enne pakistana scomparsa da Novellara lo scorso aprile. La missiva è stata consegna agli investigatori: "Abbiamo degli indicatori che ci fanno ritenere altamente probabile la presenza all'estero dei vari autori di questo delitto", ha spiegato al quotidiano reggiano il Comandante Provinciale dei Carabinieri, colonnello Cristiano Desideri. Dopo quattro mesi di ricerche ininterrotte, il corpo di Saman Abbas non è stato ancora ritrovato. Data quasi per certa l'ipotesi di un delitto d'onore - lo è, fino a prova contraria, per la procura di Reggio Emilia - resta da capire dove siano state seppellite le spoglie della giovane. L'ultima segnalazione apre a uno scenario drammatico: "Cercatala nel fiume Bagna, è stata fatta a pezzi e gettata lì", afferma il mittente di una lettera anonima pervenuta a Il Resto Carlino. Per ora sembrerebbe trattarsi solo di una macabra suggestione ma non è escluso che, tra le righe della missiva, vi sia un fondo di verità. D'altra parte anche il fratello di Saman, durante l'incidente probatorio, aveva rivelato i dettagli di una conversazione intercorsa tra i suoi genitori (Shabbar Abbas e Nazia Shaheen) e lo zio Danish Hashnain, la sera precedente al delitto. "Se volete, la faccio a piccoli pezzi e la butto là", avrebbe detto Hashnain, considerato dagli inquirenti l'esecutore materiale dell'omicidio, ai coniugi Abbas. Che la verità sia più vicina di quanto sembri? Al momento, resta agli atti del fascicolo d'indagine l'inossidabile certezza del movente delittuoso: Saman è stata uccisa per aver rifiutato le nozze combinate col cugino in Pakistan. "Le attività investigative proseguono in modo attivo al massimo livello", spiega alla redazione de Il Resto del Carlino il colonnello Cristiano Desideri, Comandante Provinciale dei Carabinieri. "Esaurita la fase investigativa maggiormente orientata alla ricerca del corpo della ragazza, ora l'attività di indagine ha assunto una natura diversa. - prosegue - Non meno importante e, soprattutto, non meno intensa anche se lontana dalle luci dei riflettori e senza quell'impatto mediatico avuto nei mesi scorsi". Nessun dubbio sulla natura delittuosa della scomparsa di Saman: "Abbiamo degli indicatori che ci fanno ritenere altamente probabile la presenza all'estero dei vari autori di questo delitto - prosegue Desideri -. Il punto è che noi non dobbiamo correre dietro a suggestioni mediatiche. Abbiamo il dovere di agire secondo la logica delle informazioni che ci arrivano e che riusciamo a reperire 'sul terreno'". Tante le segnalazioni sul possibile ed eventuale luogo di sepoltura dei resti i Saman: "Ne abbiamo ricevute di ogni tipo e di ogni sorta di contenuto. - conclude il colonnello dei carabinieri - Non ci siamo mai permessi di scartarne una. Non abbiamo trascurato nulla, né, tanto meno, abbiamo sottovalutato alcunché. Anche laddove qualcuno diceva di 'sentire' qualcosa. Ma a tutt' oggi il corpo di Saman non c'è, ed è per noi una sorta di imperativo morale, nei limiti delle nostre possibilità, arrivare al suo ritrovamento, perché è giusto poterle dare una degna sepoltura".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
(ANSA il 22 settembre 2021) - Lo zio di Saman Abbas, Danish Hasnain, è stato arrestato questa mattina in periferia di Parigi. Il pachistano è stato bloccato dalla polizia francese, in esecuzione di un mandato di arresto europeo, rintracciato in collaborazione con i carabinieri del nucleo investigativo di Reggio Emilia. Hasnain è uno dei cinque parenti della 18enne indagati per l'omicidio. La giovane si era ribellata a un matrimonio forzato in patria ed è scomparsa da Novellara dal 30 aprile.
Il bistrot e le spese: così lo zio di Saman se la spassava a Parigi. Angela Leucci il 25 Settembre 2021 su Il Giornale. Cosa faceva lo zio di Saman Abbas nella periferia di Parigi: l'uomo si sarebbe dato alla latitanza sì, ma lasciando numerose tracce di sé. Come ha fatto lo zio di Saman Abbas a restare latitante per cinque mesi a Parigi? Dopo l’arresto di Danish Hasnain, restano molti interrogativi aperti sulla scomparsa della giovane pakistana che si opponeva al matrimonio forzato cui la costringeva la famiglia. E molti altri interrogativi si sono aperti. Della quotidianità di Danish in questo tempo di latitanza si è occupato “Quarto Grado”. L’uomo, che è stato arrestato a Garges-Le-Gonesse, un quartiere alla periferia di Parigi, è stato ritrovato grazie all’ip, la “firma digitale” che è il segno di riconoscimento di ogni persona quando naviga su Internet, posta sui social, usa le chat di messaggistica istantanea. Pare che gli abitanti del quartiere non conoscessero Danish, sebbene sembra che l’uomo, ritenuto il presunto killer della nipote, si aggirasse per le strade, recandosi al centro commerciale o al bistrot liberamente. Nel quartiere poi, abitava in una casa al piano terra di un condominio insieme ad altri quattro pakistani: questi quattro uomini sapevano di cosa è accusato Danish in Italia e che era ricercato dall’Interpol?
La paura e l’assenza
Sono tanti i sentimenti provati da Saqib, il fidanzato di Saman, un giovane che vive e lavora in Italia conosciuto dalla 18enne sui social. Dopo l’arresto di Danish, il giovane ha paura ma spera che si possa scoprire che fine ha fatto la sua amata. “Due giorni fa il mio avvocato mi ha avvisato via messaggio dell’arresto - ha spiegato il ragazzo - Ho paura per la mia famiglia in Pakistan, perché il padre, la madre di Saman e i loro parenti ora sono in Pakistan. È normale per loro uccidere. Vorrei far venire i miei famigliari in Italia. Saman aveva paura di Danish, ma ora credo che parlerà e dirà dov’è Saman. Lei mi manca troppo”.
Dove sono i genitori di Saman
Intanto è stata chiesta l’estradizione per i genitori di Saman, Shabar Abbas e Nazia Shaheen, che sono stati avvistati poco distante da Charanwala, in dei campi che appartengono appunto alla loro famiglia e dove lavorano contadini che in dialetto sono chiamati “gli schiavi”. In particolare, le voci su Shabbar sono preoccupanti, anche se si tratta, appunto di voci: pare che sia stato visto aggirarsi nei campi di notte, ubriaco, e che sia anche molto violento. Sembra anche che abbia molestato alcune donne e che una notte abbia sparato dei colpi di arma da fuoco in aria. Si ritiene che molti abbiano paura: Shabbar avrebbe perfino minacciato un amico perché questi aveva rilasciato un’intervista a “Quarto grado” in questi mesi.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Alessandro Fulloni per il "Corriere della Sera" il 23 settembre 2021. Seppellita tra le serre. O forse fatta a pezzi e gettata in un fiume. Ma dove si trova il cadavere di Saman? È una delle domande, sicuramente la più importante, che gli investigatori reggiani coordinati dalla procuratrice Isabella Chiesi rivolgeranno a Danish Hasnain una volta che il pachistano, al massimo tra dieci giorni, sarà estradato in Italia da Parigi, dove è stato arrestato ieri mattina. Il luogo in cui il corpo della diciottenne è stato nascosto è il mistero decisivo da risolvere in questo delitto. La ragazza scomparve nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, allontanandosi da casa - una cascina a Novellara, nelle campagne del Reggiano - dopo aver preso i suoi documenti che il padre Shabbar aveva nascosto in un armadio. Lei aveva detto chiaro e tondo che quel cugino più grande di 11 anni, Rukisar Akmal, non l'avrebbe mai sposato. Ma rifiutando il matrimonio, Saman ha firmato la sua condanna a morte, restando vittima del «kala kali», il nome che nel Punjab, la regione del Pakistan dalla quale proviene la sua famiglia, quella degli Abbas, viene dato al «delitto d'onore», la punizione inflitta alle donne che si oppongono alle decisioni dei clan familiari. I carabinieri, utilizzando droni e cani molecolari, hanno cercato i resti di Saman tra le serre dell'azienda agricola per la quale lavoravano il padre, lo zio Danish e gli altri due cugini coinvolti nell'omicidio, Nomanulhaq Nomanulhaq, 33anni, e Ikram Ijaz (in carcere). Ma lo scorso 11 luglio, dopo 67 giorni, le ricerche sono state sospese «anche se l'indagine è sempre andata avanti» chiarisce uno degli investigatori che ha rintracciato il nascondiglio di Hasnain nella banlieue parigina di Garges les Gonesse. Ma è possibile che il cadavere non sia stato seppellito nella coltivazione di cocomeri a Novellara? Il dubbio - comunque preso in considerazione dai carabinieri - viene dalla testimonianza del fratello sedicenne di Saman - ascoltato in incidente probatorio -, riuscito a captare qualcosa da quei discorsi, una vera e propria riunione su come fare sparire il corpo, fatti nella cascina poche ore prima del delitto. A un tratto una voce maschile, forse Hasnain o un altro cugino, prorompe così: «Io faccio piccoli pezzi e se volete porto anch' io a Guastalla... buttiamo là, perché così non va bene. Lei - il riferimento è a Saman - fa troppe cose... mette pantaloni... fuori dalla mussulmana». Appunto: Guastalla, a dieci chilometri da Novellara e a tre dalle anse del Po. Proprio lo scenario del macabro rituale del «kala kali», citato nelle carte giudiziarie, riferite a dati Onu e delle Ong che operano in Pakistan, per il quale le donne ribelli devono essere annientate, seppellite in cimiteri nascosti o smembrate nei fiumi, in pasto ai pesci. L'arresto di Hasnain, per la procuratrice Chiesi, è «fondamentale perché ci consentirà di avere una versione dei fatti, sempre che la voglia rendere, delle indicazioni anche su dove si trova il corpo di Saman». Decisiva potrebbe essere la possibilità di «mettere nel caso a confronto le versioni dei fatti» dei due arrestati, Hasnain e Ijaz. Non solo. Lo zio di Saman potrebbe chiarire il sospetto del Riesame di Bologna: forse quella scena ripresa dalle telecamere con Hasnain, Ijaz e Nomanulhaq, «consapevoli della posizione delle telecamere di sorveglianza», che con pale e piede di porco si aggiravano nell'azienda agricola, sarebbe «un depistaggio per indirizzare le ricerche del corpo della povera ragazza in una zona dove mai» il cadavere «sarebbe stato trovato» .
Alessandro Fulloni per il "Corriere della Sera" il 23 settembre 2021. Sotto osservazione da giorni: quando usciva di casa per spostamenti circospetti di pochi minuti, un caffé al bistrot all'angolo, un kebab al fast food e poco altro, tipo quattro passi lungo Rue de Bastion, un susseguirsi di casermoni popolari nella banlieue a Nord di Parigi. Qui, in un anonimo e piccolo appartamento diviso con quattro connazionali, ieri mattina, durante un blitz scattato alle 10, è stato arrestato Danish Hasnain, il pachistano di 33 anni che nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio avrebbe strangolato e ucciso - a Novellara, nelle campagne del Reggiano - sua nipote Saman Abbas, la diciottenne che su Instagram aveva come account «italiangirl» e che si era opposta a un matrimonio combinato dai genitori con un cugino in Pakistan di 11 anni più grande. Per questo «no» la giovane è stata punita con la morte. Un delitto che ha visto complici il padre Shabbar, 44 anni, la madre Nazia Shaheen, 48, i cugini Nomanulhaq Nomanulhaq, 33, e I kram Ijaz, quest' ultimo fermato a metà maggio a Nîmes mentre stava scappando in Spagna. Ad ucciderla materialmente, forse «strozzandola», sarebbe stato proprio Hasnain, un uomo «violento, di cui avevo paura», secondo la descrizione del fratello sedicenne di Saman che, ascoltato più volte dai carabinieri - al centro protetto dove è stato trasferito per metterlo al riparo dalle ritorsioni da parte degli Abbas - ha raccontato tutto dell'omicidio. Pianificato per tempo dai genitori, scappati in Pakistan poche ore dopo la morte della figlia, dai due cugini e dallo stesso Hasnain. Che secondo i carabinieri di Reggio si sarebbe nascosto a Parigi subito dopo la fuga da Novellara, dove lavorava come bracciante, assieme a tutti gli uomini del clan Abbas, nella vasta azienda agricola nella quale per due mesi è stato vanamente cercato, anche con i cani molecolari, il cadavere di Saman. Da giorni gli investigatori della «Brigade criminelle» del Dipartimento di polizia a Parigi erano sulle tracce di Hasnain, individuato dai carabinieri diretti da Andrea Milani. Decisivo sarebbe stato, per localizzarne il nascondiglio, il suo incauto comportamento sui social, dove avrebbe aperto dei profili fake per restare in contatto con familiari e conoscenti in Pakistan, forse gli stessi che avevano ordinato l'uccisione della ragazza. Gli esperti di software del nucleo investigativo telematico dell'Arma hanno individuato id e device usati dallo zio di Saman, risalendo all'indirizzo in rue de Bastion. Il resto lo hanno fatto i poliziotti della Brigade, una volta che il gip reggiano, su richiesta della procuratrice Isabella Chiesi, ha firmato il mandato di arresto europeo per omicidio. Davanti agli agenti, sulle prime Hasnain, sprovvisto di documenti e che si era fatto crescere i baffi, avrebbe fornito false generalità nel tentativo di dribblare le manette. Ma è stato riconosciuto da un neo sul viso e l'identificazione definitiva è giunta grazie alla comparazione delle impronte digitali. Nell'appartamento c'erano anche altri quattro connazionali che dovranno chiarire se sapessero che Hasnain era ricercato per l'omicidio di Saman. Un delitto di cui erano a conoscenza - sono sempre le parole del fratello di Saman in incidente probatorio - diversi componenti del clan Abbas. Tra questi una zia che vive a Londra, quella che telefonando al ragazzino rimasto a Novellara gli aveva consigliato di «non dire nulla; qualunque cosa ti chiedano non devi dire nulla». Senza contare le parole pronunciate da voci maschili nel corso di telefonate provenienti dal Pakistan: dopo l'ennesimo allontanamento da casa di Saman - che «non si comportava da brava musulmana e non rispettava il Ramadan» - c'è qualcuno che intima: «A questo punto bisogna ucciderla». Hasnain - giunto in Italia anni fa da Istanbul attraversando il Mediterraneo con un barcone - è considerato, ha detto ieri la procuratrice reggiana Isabella Chiesi durante la conferenza stampa, «la mente di questo progetto criminoso pazzesco». Quella notte del 30 aprile fu lui a bloccare Saman che stava allontanandosi tra le serre. «Ora ci penso io», gridò ai genitori, fermi fuori dall'uscio. E più tardi, conversando in chat con un'amica pakistana, scrisse: «Abbiamo fatto un lavoro perfetto».
Da "il Messaggero" il 28 settembre 2021. Un altro cugino coinvolto nell'omicidio e nell'occultamento del cadavere di Saman. Il fratello sedicenne della ragazza pachistana, uccisa dai familiari per avere rifiutato un matrimonio combinato, avrebbe accusato un altro parente. Durante l'incidente probatorio, nel quale il minore, con modalità protette, è stato sentito dai pm, il ragazzo, parlando della riunione di famiglia, che avrebbe condannato a morte la sorella, ha lanciato nuove accuse, tirando in ballo, nell'ideazione dell'omicidio, un cugino, che al momento, però, non è indagato.
IL VERBALE Come riporta La Gazzetta di Reggio, il fratello di Saman ha riferito, tra le altre le parole pronunciate dal parente: «Uccidete, se no io porto cioè, ci sono ho il motorino, facciamo piccoli pezzi e buttiamo nel Guastalla, no? C'è un fiume, buttiamo là. Lei fa troppe cose, mette pantaloni, eh». Negli interrogatori, il sedicenne, che è il testimone chiave dell'accusa, ha rimarcato: «Hanno forzato tantissimo Danish e anche mio papà, perché mio papà non ha pensato mai questa cosa, di uccidere, neanche di toccare. Poi Danish (lo zio di Saman arrestato la scorsa settimana a Parigi per l'omicidio) ha fatto questa cosa, lo so io, Danish lo ha fatto». Mentre l'Italia ha chiesto l'estradizione dei genitori della ragazza, accusati di omicidio, è prevista per domani, a Parigi, l'udienza, davanti alla Corte d'Appello francese, dello zio Danish Hasnain, uno dei cinque parenti indagati per e considerato l'esecutore materiale del delitto. L'uomo, arrestato su mandato europeo, non potrà essere interrogato nel merito della vicenda fino alla consegna alle autorità italiane. Tuttavia potrà opporsi all'estradizione, allungando i tempi. Secondo il procuratore di Reggio Emilia, che coordina le indagini dei carabinieri è sicuramente lui la mente «di questo progetto criminoso pazzesco». Ieri sera alcuni militari sono partiti per Parigi, anche con l'obiettivo di acquisire elementi utili alla cattura dell'altro cugino latitante, che si pensa sia ancora in Europa, Nomanhulaq Nomanhulaq che, fuggì insieme a Danish Hasnain, il 10 maggio.
LA LETTERA Intanto l'avvocato Claudio Falletti, legale del fidanzato di Saman, con una lettera inviata al ministro degli Esteri Luigi Di Maio e all'ambasciatore italiano ad Islamabad, Andres Ferrarese, ha chiesto di concedere ai genitori del ragazzo un visto limitato per venire in Italia. Prima di sparire, e come ipotizza la procura di Reggio Emilia, di essere uccisa, Saman aveva intrapreso una relazione con Saqib, un giovane pakistano che abita in Italia, spiega l'avvocato nel documento. Relazione pesantemente osteggiata dai suoi familiari che volevano, invece, che sposasse un cugino. I genitori di Saquib si trovano in Pakistan, come pure i genitori di Saman. Hanno ricevuto minacce sia di persona, sia attraverso telefonate e messaggi sui social, sia prima, sia dopo la sparizione di Saman. L'arresto dello zio, ritenuto l'esecutore materiale dell'omicidio, ha fatto alzare il livello di preoccupazione. Il visto «a validità territoriale limitata» non può essere richiesto dall'interessato, ma può essere concesso dalla rappresentanza diplomatica per particolari ragioni d'urgenza o in caso di necessità. «La famiglia di Saqib - dice l'avvocato Feletti - versa in una condizione di grave pericolo per la propria vita ed è costretta a nascondersi per paura di ripercussioni già minacciate. Questi comportamenti non possono essere trascurati ed è importante che il ministero e le rappresentanze diplomatiche si attivino affinché null'altro di atroce possa accadere, andando ad aggiungersi a una già grave e triste vicenda».
È caccia al cugino di Saman: dove lo cercano i carabinieri. Angela Leucci il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Nomanulhaq Nomanulhaq è ancora latitante: si muove l'Interpol. Come si sospettava da giorni, i carabinieri italiani si sono recati in "trasferta" a Parigi: la loro missione ora è trovare il cugino di Saman Abbas, l’ultimo dei tre cugini ancora latitante. Come riporta Agi, i carabinieri del nucleo investigativo di Reggio Emilia stanno collaborando con la polizia francese per trovare Nomanulhaq Nomanulhaq, uno dei tre parenti di Saman ripresi, con vanghe e piede di porco in mano, dalle telecamere di sorveglianza dell’azienda agricola di Novellara in cui vivevano e lavoravano gli Abbas. Nomanulhaq, 34 anni, è l’unico dei tre ancora latitante, nonostante il mandato europeo emesso ormai da diverse settimane e nonostante sia ricercato dall’Interpol. Si pensa che l’uomo possa trovarsi ancora in Europa.
Saman Abbas: cosa hanno gli inquirenti e cosa manca. Sono attualmente cinque gli indagati per la presunta morte della 18enne pakistana che si opponeva al matrimonio forzato in patria con un cugino di 10 anni più anziano. Saman è scomparsa il 30 aprile da Novellara e non è stato ancora trovato il suo corpo, benché i suoi presunti persecutori abbiano lasciato delle tracce dietro di sé. Oltre a Nomanulhaq, sono stati arrestati Ikram Ijaz e Danish Hasnain. Entrambi si trovavano in Europa, il primo in fuga verso la Spagna con il fratellino di Saman - attualmente in una struttura protetta italiana - il secondo, presunto esecutore materiale dell’omicidio, stabile a Parigi in un appartamento con altri quattro pakistani, è arrestato nei giorni scorsi. Per questa ragione si ritiene che Nomanulhaq potrebbe essere ancora in Europa. Si cercano invece i genitori di Saman, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, che secondo le ultime indiscrezioni sarebbero stati individuati nei pressi dei terreni di famiglia. Shabbar, in particolare, sarebbe ritenuto molto pericoloso, poiché è stato descritto come armato e molesto - inoltre nelle scorse settimane, il fidanzato di Saman, Saqib, ha accennato a una sua possibile affiliazione alla mafia pakistana. Per Shabbar e Nazia è stata richiesta l'estradizione. Ma che fine ha fatto Saman? Le parole del fratellino sembrano chiare: Saman sarebbe stata punita con un omicidio a causa della sua opposizione al matrimonio forzato. Parte di ciò che sanno gli inquirenti è dovuta alla sua testimonianza, a quella di Saqib e ciò che hanno scoperto attraverso telecamere di sorveglianza e chat telefoniche. C’è il forte timore che il corpo della ragazza sia stato distrutto, sebbene non si sappia ancora come: le continue ricerche di questi mesi non hanno dato nessun esito positivo, neppure dei suoi effetti personali.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Da "tgcom24.mediaset.it" il 29 settembre 2021. Danish Hasnain, l'uomo accusato di aver ucciso la nipote Saman Abbas a Novellara (Reggio Emilia) il 30 aprile, ha negato le accuse e ha rifiutato l'estradizione in Italia. "E' tutto falso. Forse qualcuno mi ha visto? Sono forse uscito di casa?", ha detto lo zio della 18enne al giudice della Chambre de l'Instruction della Corte d'Appello di Parigi, città in cui è stato arrestato la scorsa settimana. Seconda udienza il 20 ottobre - L'organo giudiziario chiamato a decidere sulle richieste di estradizione ha fissato al 20 ottobre la seconda udienza per l'uomo. Quest'ultimo è accusato di "sequestro, lesioni e omicidio", come notificato dal giudice. La Corte ha chiesto all'Italia, nel frattempo, un complemento di informazione sul caso. Contatti tra lo zio e il cugino latitante - Intanto i carabinieri hanno scoperto che Danish Hasnain e Nomanulaq Nomanulaq, il cugino ancora latitante, erano in contatto. Analizzando i profili falsi sui social usati dallo zio di Saman in questi cinque mesi di latitanza, i militari sono riusciti a raccogliere informazioni utili per determinare la posizione anche dell'altro cugino latitante, che si troverebbe appunto a Parigi.
"I genitori di Saman spariti? Ecco cosa succede in Pakistan". Angela Leucci l’1 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il giornalista pakistano Ahmed Ejaz spiega a ilGiornale.it perché la coppia non si trova. "Ma il giallo è a una svolta: ecco perché". Potrebbe presto giungere a una conclusione il caso della scomparsa e del presunto omicidio di Saman Abbas. Dopo l’arresto del presunto esecutore materiale Danish Hasnain e la richiesta di estradizione per i genitori della giovane pakistana che si opponeva al matrimonio forzato, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, è possibile che si ritroverà il corpo della 18enne. E Saman potrebbe ricevere giustizia. Una giustizia che è rigorosamente targata Italia, perché in Pakistan le leggi in merito sono differenti. Parola di Ahmad Ejaz, giornalista pakistano, mediatore culturale, cooperante internazionale spesso apparso a “Chi l’ha visto?”. “I genitori devono venire in Italia, essere arrestati e processati, perché qui non ci sono leggi legate al diritto d’onore - ha detto a IlGiornale.it - La richiesta di estradizione della ministra Cartabia è molto positiva”. È fondamentale trovare Saman, ma anche contrastare fenomeni come il matrimonio forzato, l’infibulazione e la poligamia, che, come spiega l’esperto, sono usanze contrarie alla democrazia e ai diritti umani.
Ejaz, abbiamo speranze di ritrovare Saman?
“Io penso di sì, con l’arresto di Danish Hasnain. È l’unica persona che conosce dov’è il cadavere, anche se è stato fatto a pezzi. Lui parlerà. Danish è il fratello del padre di Saman: il cognome sembra diverso perché noi non abbiamo cognomi nell’ordinamento anagrafico. Gli altri cugini o i genitori sono coinvolti fino a un certo punto, perché una volta che hanno ‘consegnato’ Saman allo zio, sono rimasti lì, sulla strada. Poi lui ha compiuto il resto. Penso che Danish parlerà. La cosa più importante, per la prima volta nella storia dell’immigrazione pakistana in Italia, è la richiesta di estradizione che ha fatto la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Un'iniziativa molto positiva per le pakistane di seconda generazione, e non solo pakistane, ma anche bengalesi o indiane. In Italia sono state uccise più di 5 ragazze come Saman. E adesso arriverà anche la comunità afghana, che da sempre pratica i matrimoni combinati”.
Perché è così difficile localizzare e fermare i genitori di Saman?
“Un mio amico giornalista, che ha fatto il reportage per Chi l’ha visto?, è di Islamabad ed è andato nel villaggio di Saman. Ci sono 26-27 famiglie della tribù, della casta di Saman. Le tecniche che usa il dipartimento di polizia in Pakistan sono diverse da quelle italiane, non sono molto democratiche ma funzionano. Adesso che arriverà la richiesta dall’alto, sarà molto rapido l’arresto dei genitori. Ci sarà qualche critica, in particolare quando il Pakistan consegnerà la madre, perché una donna solitamente non viene considerata colpevole. Vediamo come si evolveranno le questioni diplomatiche. I genitori devono venire in Italia, essere arrestati e processati, perché qui non ci sono leggi legate al diritto d’onore. Sarà un passo positivo e quindi Saman, che ora è figlia di nessuno, avrà una sepoltura degna e un riconoscimento da parte dello Stato italiano che non abbandona nessuno di coloro che vivono in Italia, le persone con permesso di soggiorno o con la cittadinanza”.
Che pericoli ci sono attualmente per i parenti di Saqib, il fidanzato di Saman, che hanno chiesto il visto per l'Italia ma sono ancora in Pakistan?
“Sono stati minacciati perché Saqib viene da una casta bassa. È figlio di calzolai, come hanno definito nelle chiacchiere della comunità. Gli Abbas sono di casta alta. Lo zio di Saman (il fratello della madre, ndr) è un poliziotto di alto grado. In passato gli Abbas hanno minacciato i parenti di Saqib, che sono poveri e ora vivono nella paura, sono costretti a cambiare continuamente residenza per nascondersi. La famiglia allargata degli Abbas, fino al quarto-quinto grado, è famosa per essere una famiglia potente. L’arresto dei genitori farà arrabbiare ancora di più. Consiglierei a Saqib di far nascondere i suoi parenti anche in Pakistan, se non riesce a farli venire in Italia”.
La prevenzione attraverso l'inclusione è possibile?
“Credo molto nel dialogo, nell’intercultura. Bisogna conoscere le culture e integrare le persone, ma l’integrazione deve essere reciproca: io vengo, mi integro in questo Paese, ma anche il Paese deve creare nuovi spazi mentali e fisici. Così possiamo lavorare insieme. Ora sto lavorando con l’ambasciata pakistana, che ha una voce autorevole per parlare con la comunità, però ci sono delle associazioni religiose che cercano di monopolizzare il dialogo. Bisogna creare delle associazioni laiche di ragazzi pakistani di seconda generazione che possano contrastare il problema del matrimonio combinato forzato. Penso che anche la legge italiana in tal senso non sia molto severa: bisognerebbe rivederla, perché il rispetto delle culture è sacrosanto, ma quelle culture che non rispettano i diritti umani vanno contrastate. Non solo i matrimoni combinati forzati, ma anche poligamia e infibulazione: sono pratiche religiose e culturali di alcuni Paesi, che calpestano i diritti della donna e i diritti umani, oltre che i diritti del fanciullo. A volte queste ragazze spariscono in età scolare e riappaiono sposate con un cugino”.
Caso Saman, Cartabia firma l’estradizione per i genitori
Cosa si può fare in Pakistan per la condizione delle donne?
“La risposta è nell’istruzione. Lì l’istruzione manca, la media dell’analfabetismo in Pakistan è del 60%, per le donne si sale all’80%. L’istruzione è un’arma per cambiare il mondo e tutelare i diritti umani. Noi non abbiamo avuto l’Illuminismo, la Rivoluzione Industriale e la democrazia: siamo venuti qui, in un Paese democratico che ha compiuto questi passi da gigante verso la modernizzazione. Per i 5 milioni e mezzo di immigrati serve integrazione, traduzione delle leggi e delle abitudini di convivenza in vigore in Italia”.
Si è fatto promotore di un'associazione per il contrasto del fenomeno come matrimonio forzato e infibulazione.
“L’associazione si chiama ‘Trono del pavone’. Stiamo provando a unire le forze. Con noi c’è il numero 1522 del Ministero per le Pari Opportunità e alcune associazioni femministe, per creare una rete e salvare le donne. Anche l’ambasciata italiana a Islamabad deve essere istruita e pronta ad aiutare le ragazze che arrivano in Pakistan con un inganno”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Saman Abbas uccisa da "Islam e ignoranza". Parola dei giudici di Bologna. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 28 agosto 2021. Non lo diciamo noi, lo dicono i giudici del Riesame di Bologna: Saman Abbas è stata uccisa «in una terribile sinergia tra i precetti religiosi e i dettami della tradizione locale, che arrivano a vincolare i membri del clan a una rozza, cieca e assolutamente acritica osservanza pure della direttiva del femminicidio». La religione in questione, parliamoci chiaro, è quella islamica: non ci sono solo le vicende di Kabul, coi disgraziati che cercando di scappare dalla Sharia, ci sono anche i fatti di casa nostra. Quelli che abbiamo sulla coscienza, quelli sui quali non possiamo chiudere gli occhi. Di Saman non si hanno notizie da quattro mesi. Il suo corpo non è ancora stato ritrovato, la sua famiglia è scappata in Pakistan, suo cugino, Ikram Ijaz, è a tutt' oggi l'unico arrestato per il brutale omicidio di una 18enne che chiedeva solo di sposarsi per amore. Con chi voleva lei, con chi amava lei. È per confermare lo stato di fermo, in carcere, di Ijaz, che si sono riuniti i giudici bolognesi, a fine agosto, in un'estate carica di atrocità che lasciano poco spazio per i dubbi di sorta. Nell'ordinanza lo scrivono papale, i magistrati: certe regole musulmane, unite a certi usi che nulla hanno a che vedere con il mondo libero, portano alla violenza. All'abuso più infimo di tutti, quello sulle donne, quello sulle ragazzine. No, non possiamo accettarlo. Il tribunale del Riesame di Bologna fa quello che non han fatto, in settimane, le femministe nostrane, sempre pronte a sbracarsi quando la polemica è inutile e mute fino all'ipocrisia quando episodi del genere toccano la sensibilità religiosa. Però, adesso, anche basta: è arrivato il momento di parlare pane al pane, di dirlo senza mezzi termini. Per «fare a pezzi Saman» è stata indetta persino una riunione segreta: nell'aprile scorso, nell'appartamento di Novellara degli Abbas, presente lo zio della giovane donna, Danish Hasnain, considerato l'autore materiale del delitto e tuttora ricercato, e un altro parente. Un incontro di famiglia, solo che anziché di pettegolezzi sui vicini o di altre amenità, loro han parlato delle modalità con cui far sparire il cadavere della ragazza, smembrandolo. Lo ha raccontato, durante l'incidente probatorio del caso, il fratello minorenne di Saman: lui, un bambino, che a un certo punto ha sentito un partecipante dire, come se fosse la cosa più naturale del mondo «io faccio piccoli pezzi e, se volete, porto anch' io a Guastalla. Buttiamola là, perché così non va bene». L'orrore, di conradiana memoria. Secondo il Riesame, sarebbe stato proprio Ijaz (il cugino) a scavare la buca che avrebbe accolto il corpo, o quel che ne resta, di Saman. L'avrebbe fatto il 29 aprile, con un giorno di anticipo sull'omicidio. Per arrivare preparati. «L'ipotesi più probabile e qualificata- continuano i giudici, - è che i cugini (Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, anche lui presente alla riunione "organizzativa") abbiano anche partecipato alla materiale esecuzione dell'omicidio», per il quale come detto il principale sospettato resta lo zio Hasnain. Novellara, Emilia Romagna, Italia: tutto questo è successo nel giardino di casa nostra, è bene ricordarlo. E poi c'è un altro aspetto, se si vuole ancor più agghiacciante: da Ijaz, sostengono sempre i magistrati, «non è emerso il benché minimo senso di commozione per la terribile sorte della giovane» né un ripensamento «sulla correttezza etica di quei dettami della tradizione in ossequio ai quali l'omicidio è stato commesso». Va da sé che il termine "tradizione" (usato qui asetticamente, seppure in una chiave doverosamente critica), a noi sembra fin troppo "nobilitante": quella che ha subito Saman è una barbarie. A tutti gli effetti.
Neha Paswan, uccisa a bastonate dai nonni e appesa a un ponte a 17 anni: l'orrore per un paio di jeans. Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. Sognava di diventare una poliziotta e aveva soltanto 17 anni. Neha Paswan ora non c'è più. Il motivo? Il modo in cui la ragazza si vestiva e che non è mai stato accettato dai propri parenti. Jeans e maglietta, invece del sari o del completo femminile tipicamente indiano con la lunga blusa e i pantaloni larghi, atti a celare ogni tipo di forma. Le tradizioni occidentali sono arrivate anche in India, dove ora sempre più ragazze decidono di esprimere la propria personalità anche attraverso un paio di jeans e una maglietta griffata. Neha non viveva però in una metropoli, bensì a Savreji Kharg, un villaggio nel distretto di Deoria, una delle regioni più arretrate dell'Uttar Pradesh. Spesso Neha veniva rimproverata dai nonni paterni per il suo abbigliamento "succinto", con il quale spesso prendeva parte anche ai riti religiosi e alle preghiere della famiglia. Mai però, la ragazza si sarebbe aspettata che un giorno sarebbe morta, per mano dei propri famigliari, solo per il modo in cui era vestita. Qualche giorno fa la ragazza è stata ritrovata priva di vita. È stata la madre, Shakuntala Devi Paswan, a far scattare le ricerche, dopo aver denunciata alla polizia locale che il nonno paterno e alcuni zii avevano malmenato la 17enne fino a tramortirla, per poi aver promesso di condurla in ospedale. Ma in ospedale, Neha non ci è mai arrivata. Il suo corpo è stato rinvenuto appeso a un ponte a pochi chilometri da casa. Secondo quanto emerso dall'autopsia, il cranio della ragazza è stato letteralmente spaccato a bastonate. Secondo quanto invece riportato dalla Bbc, dopo la denuncia della madre di Neha, la polizia ha posto in arresto quattro persone, il nonno paterno, due zii e l'autista che ha portato via la ragazza. Inoltre, sono state incriminate altre sei persone, sospettate di avere avuto un ruolo attivo nell'omicidio della povera Neha.